Titolo: Mario Sensini. Tremonti: autostrade, poste e Iva ci dicono che la caduta ... Inserito da: Admin - Maggio 17, 2009, 12:20:13 am Tremonti: autostrade, poste e Iva ci dicono che la caduta si è arrestata
Il ministro: i manager pubblici? Chiederemo a tutti un’autoriduzione. A partire dalla Rai Il vertice di ottobre dopo la bancarotta dell’Islanda ha rappresentato la svolta con la discesa in campo dei governi ROMA - «Con la discesa in campo dei governi e della politica il rischio dell’apocalisse finanziaria globale non c’è più. La crisi continua, ma come tutte le crisi avrà un termine e molti indicatori lo anticipano». «L’Italia non ha il record del peggio, come tanti si aspettavano, ma molto dipende da noi, dalle imprese, dalle banche, dai consumatori» dice Giulio Tremonti. «A fine anno, forse, anche i numeri del prodotto interno lordo saranno migliori di quelli di oggi» aggiunge, determinato a spingere le banche a fare il «loro dovere», e a non mollare la spinta etica. Nei comportamenti delle imprese, «è giusto chiedere che la Fiat tuteli l’occupazione in Italia», e dei manager: «Nel pubblico, anche con la Rai, stiamo spingendo all’autoriduzione degli stipendi» dice il ministro dell’Economia rispondendo alle domande a tutto campo del «Corriere della Sera». Sulla salute del governo, «dove i rapporti sono straordinari», la sinistra, «ancora in tempo per abbandonare l’opposizione di principio», e la politica. «Sull’immigrazione ci vuole saggezza, equilibrio e non demagogia per evitare la xenofobia» dice Tremonti, che si ritiene il padre putativo della Bossi-Fini, «originata da una proposta di legge popolare firmata Berlusconi, Bossi, Tremonti». Ministro, qual è stata la scintilla della crisi? «Era in incubazione dall’agosto del 2007, ma esplode nell’ottobre dell’anno scorso. Come per caso, ma non è stato un caso, in un’isola remota del Nord Atlantico, a Reykjavik: la Sarajevo della crisi, almeno in Europa. Dall’Islanda si estendeva e si innervava una rete finanziaria che abbracciava tutta la dimensione nordica fino a scendere nella City di Londra. Di Reykjavik avevano iniziato a parlarci i ministri delle finanze nordici a Bruxelles, all’inizio di ottobre. C’era la prospettiva di una bancarotta nazionale ». Quale è stato il punto di svolta? «Il 9 ottobre, al Fondo Monetario a Washington, un venerdì, capiamo che il mercato di Londra il lunedì successivo non può aprire. La notte del 9 l’Islanda dichiara bancarotta. La svolta arriva il 12 ottobre, a Parigi, quando scendono in campo i governi e la politica. È un vertice atipico, non attivato nella logica europea: c’è un direttorio di governi e la presidenza forte di Nicholas Sarkozy. Non è un vertice europeo per l’Europa, ma dei governi per la City, per il sistema finanziario mondiale: Londra mobilizza enormi masse finanziarie, il giorno dopo lo fa il Giappone. È la fine del principio. Ora non dico che la crisi sia finita, ma abbiamo superato la fase della potenziale rottura del sistema, il crollo delle banche, delle industrie, dell’occupazione. Avremmo avuto l’effetto distruttivo di una guerra senza aver combattuto una guerra». Perché Parigi è una svolta? «C’è un cambiamento radicale rispetto alla politica della prima Europa, quella dove gli aiuti di Stato erano vietati. Passa la logica dell’intervento pubblico per sostenere il sistema finanziario. Poco dopo vengono i due G20, a Washington e Londra: la realtà della crisi comincia a cambiare la struttura di governo del mondo. Insieme al G8, adesso lo strumento con cui si sceglie di governare la crisi è il G20. Qui si decide di fare la stessa politica, e poi di farla insieme, usando il Fondo Monetario come una banca centrale globale». Siamo ormai fuori dalla crisi? «Superato il rischio dell’apocalisse, la crisi si è spostata dalla dimensione finanziaria al commercio internazionale, dove i volumi si sono abbattuti del 30 per cento. Una serie di indicatori, se volete aneddotici, empirici, psicologici, sembrano dirci ora che il crollo si sta fermando ». Anche in Italia? «Anche noi abbiamo indicatori di questo tipo. C’era stata per la prima volta una riduzione del traffico postale, e si è arrestata. Come si è fermato il calo del traffico autostradale e delle merci. Anche la caduta delle entrate fiscali, dell’Iva, è in rallentamento. La dinamica non dice che andiamo bene, ma molto ci dice che la caduta si sta arrestando. Il mancato maleficio, a volte, nella psicologia conta più del beneficio. L’Italia è una realtà piuttosto diversa, e meno peggio di come ci si aspettava che fosse». Quali sono i nostri punti di forza? «È bellissimo l’articolo di Giuseppe De Rita sul vostro giornale. Concordo in pieno: la geografia fa la politica, e questo è un paese di 8 mila comuni, senza grandi città e periferie cariche di tensioni sociali, c’è un welfare dove all’Inps si aggiunge la famiglia. Quattro milioni di partite Iva sono un fattore di forza, come lo è un sistema finanziario basato su un tasso di risparmio straordinario. Il nostro debito pubblico sommato a quello privato, e abbiamo visto che c’è osmosi tra i due, è pari a quello francese e tedesco. Forse per qualcuno è una sorpresa, ma da noi per la prima volta il deficit e il debito corrono meno rispetto all’Europa, la Borsa recupera più delle altre, il differenziale con i titoli di Stato tedeschi si riduce. L’impressione in giro è che che ci sia una tendenza al 'buy Italy'. Detto questo, fare previsioni sul pil è difficile. A febbraio, davanti al meno 2% che ci annunciava Bankitalia, dissi che erano congetture. Magari il 2%!». Con l’uscita dalla crisi c’è un rischio d’inflazione? «Quella può essere come dicono in America un’exit strategy dalla crisi. L’Europa, però, con la Banca centrale e il Trattato, è costruita contro l’inflazione ed è bene così, perché l’inflazione redistribuisce ricchezza al contrario». Perché solo tre banche hanno usato i Tremonti Bond per capitalizzarsi e offrire più credito alle imprese? «Chiamarli Tremonti Bond è sbagliato. Sono uno strumento europeo, non li ho inventati io. È un mezzo che allarga la base patrimoniale delle banche e dunque la possibilità di concedere credito. Ma quando le banche dicono che costa troppo sbagliano, perché ragionano come se fosse uno strumento di debito. Non è stato pensato per le banche, ma per le imprese: serve per finanziare l’economia, non i loro bilanci. C’è il ritardo delle banche, è una responsabilità delle banche, e questo è il vero costo scaricato sulle imprese». Cui farebbe bene anche l’accelerazione dei pagamenti da parte dello Stato... «Stiamo andando avanti e metteremo in campo la Sace (società pubblica di assicurazione dei crediti, ndr). Però fino a prima della crisi, con gli interessi, il pagamento ritardato quasi conveniva. La crisi ha accentuato i problemi di liquidità delle imprese, il risanamento del bilancio fatto dal governo Prodi con la scelta di bloccare i pagamenti ha inciso molto e poi c’è il commissariamento delle Regioni che non rispettano i tetti della spesa sanitaria: a partire dal 2007 il governo non dà più soldi e le Regioni non pagano. La combinazione di questi tre fattori crea il problema, ma non sono vere le cifre iperboliche che si sentono. L’arretrato dovrebbe essere di 30 miliardi, quasi tutto concentrato nella sanità. Sono somme che si scaricano sul deficit e dobbiamo essere prudenti nella gestione. Anche se dovremo risolvere il problema, perché le imprese hanno ragione». Si può immaginare un termine oltre il quale scattino sanzioni e non solo interessi legali? «È una cosa civile, ci stiamo lavorando. Molti di questi pagamenti dipendono dai governi locali e con la riforma della Finanziaria, per troppi anni ritardata e ora in arrivo, avremo finalmente un quadro unico di tutti i bilanci di enti locali e Regioni, uno schema uniforme per tutti. È un passaggio essenziale anche per la questione dei termini di pagamento». Nei frangenti della crisi si è discusso del ruolo dei manager e della possibilità di mettere un tetto ai loro stipendi. Che ne pensa? «L’etica spinge per la moderazione dei salari, ci sono stati degli eccessi che vanno corretti, ma è difficile. Anche Obama lo ha detto, ma non è riuscito fino in fondo. Noi stiamo chiedendo a tutti i manager pubblici di autoridursi gli stipendi. Lo abbiamo chiesto anche alla Rai, e sembra ci sia qualche consenso». In Germania il governo ha chiesto garanzie sull’occupazione alla Fiat, in caso di acquisizione della Opel. Il governo italiano farà lo stesso? «Quando abbiamo dato il bonus per la rottamazione abbiamo previsto che ci fosse in termini di impegno la conservazione dei livelli occupazionali in Italia. Abbiamo già posto condizioni. È giusto, ed è una strada che seguiremo ». È vero che ci sono state tensioni con Berlusconi e col ministro Brunetta? È di questi giorni lo scontro sulla class action nel pubblico amministrazione. «I rapporti nel governo sono straordinari. Brunetta sta facendo bene. È giusto dare degli standard ideali su cui parametrare lo stato reale, ma non dare l’unico potere ai consumatori. Sono discussioni normali. In passato ho avuto qualche difficoltà nella scelta di concentrare la spesa pubblica a Palazzo Chigi. Ora riconoscono tutti che era giusto concentrare e spendere in modo selettivo. Ci ha permesso tra l’altro di mettere molti soldi, insieme alle Regioni e questo è un successo dello Stato e non solo del governo, negli ammortizzatori sociali. Nove miliardi, anche se i dati dell’Inps ci dicono che rispetto alle ore di cassa integrazione richieste e autorizzate, il tiraggio reale è stato molto inferiore, 300 milioni di ore su 1,3 miliardi. Sono fatti su cui anche la sinistra, che in autunno ha puntato tutto sulla crisi, dovrebbe riflettere». Cosa doveva fare? «Non si può scioperare contro la pioggia. Nella crisi ha commesso un grosso errore politico. Pretendeva che la discussione partisse da un diktat: ammettete che non avete capito niente, che avete sbagliato tutto, e fate quello che vi diciamo noi. Non è così, noi abbiamo cercato di fare le cose giuste e questo risulta tanto nei voti, nei sondaggi, nelle sedi internazionali, dove la politica economica italiana è considerata saggia e prudente. Prendete la social card, che tutto sommato è un elemento marginale della nostra politica. Mi è dispiaciuto molto che abbiano detto che, con questa, ghettizzavamo i poveri. Le carte acquisti le hanno fatte Cofferati a Bologna, Penati a Milano, Cacciari a Venezia. Alla sinistra è mancata la capacità di lettura della realtà. E sta perdendo una gande occasione: nell’idea riformista c’è il concetto dell’utilità marginale, discutere per portare a casa qualcosa. Con la Cgil è lo stesso: la logica è quella del capitolato di resa. Finora a sinistra è stata prevalente la scelta dell’opposizione fine a sé stessa, ma se vuole è ancora in tempo per rendersi positivamente utile ai suoi elettori. Evitando che con il passare del tempo si finisca per pensarci noi». Cosa pensa della politica sull’immigrazione? «Se si vuol evitare la xenofobia, si deve evitare la formazione del partito opposto, il partito degli immigrati. Ci vuole equilibrio, proprio nell’interesse degli immigrati. Se li metti prima degli altri nelle liste per le case popolari o le prestazioni sociali, non gli fai del bene, perché li metti contro tutti gli altri. La sinistra non capisce che l’impatto dell’immigrazione è spesso regressivo, fa più paura a chi ha di meno. Ed è una paura che non va alimentata, ma ridotta, con saggezza, nell’interesse di tutti». Mario Sensini 16 maggio 2009 da corriere.it |