LA-U dell'OLIVO

Forum Pubblico => LA SALUTE, LA CULTURA, IL LAVORO, I GIOVANI, L'AMBIENTE, LA COMUNICAZIONE ETICA E LA SOCIETA'. => Discussione aperta da: Admin - Febbraio 14, 2009, 12:08:17 pm



Titolo: GUIDO CERONETTI
Inserito da: Admin - Febbraio 14, 2009, 12:08:17 pm
14/2/2009
 
Eluana e gli stormi di avvoltoi
 
GUIDO CERONETTI
 

Non permettiamo che si raffreddi. Il caso Englaro va riattizzato costantemente: che davanti a quel Golgotha arda un lume sempre. Tutti dobbiamo gratitudine a quella vittima sacrificale e alla sua famiglia: perché la passione civile non finisca in una cloaca e la passione etica e religiosa trovino altre e ben diverse, e superiori, vie.

Si sono visti stormi di avvoltoi, sulla breve agonia di Udine, scendere in picchiata a disputarsi i resti di una creatura disfatta e sfamarsi a beccate ignobili di qualcosa che già più non era e che altro non aveva da offrirgli, tetri pennuti ciechi, che carne di sventura.

Tale lo spettacolo, da iscrivere nel tragico delle cronache italiane che non avranno uno Stendhal per trascriverle. L’Italia, se qualcuno vorrà capirla sine ira et studio, non è un luogo pacifico, non è una penisola turistica, non è un animale da stabulario economico - l’Italia è, è stata sempre, una città di risse feroci, di brigantaggio, di vendette, di medioevi e di cattivi governi. Gli avvoltoi, che non si annidano soltanto sulle torri dei Parsi a Benares, hanno voliere, spalti, e più d’una cupola anche a Roma, e non c’è televisione o campo di calcio in grado di oscurarne la presenza e il volo. Qua, dunque, non si può vivere avendo per fine esclusivamente il far soldi e pensare alla salute. Qua si nasce perché l’Italia ci faccia male, ci ferisca, ci sia una madre crudele, inzuppata di sadismo. Vederlo o non vederlo: that is the question.

L’imbarbarimento di profondità, progressivo, non è da statistiche. Puoi vederlo chiaramente anche lì: nel pullulare di cure mediche di spavento, nell’ignorare i limiti sacri della vita, i diritti dei morenti e di «nostra sirocchia morte corporale» - cure di coma irreversibili criminalmente protratti, cure che la tecnomedicina, settorialista e antiolistica, sempre più andrà sperimentando sulla totalità del vivente.

L’Italia debole, che con strenuo sforzo - in cui va compreso il tributo di una risalita coscienza collettiva, di risorse d’anima e mentali inapparenti, antiavvoltoio, di pensieri silenziosi ma renitenti ai ricatti e alle violenze verbali dell’estremismo cattolico, materialista e anticristico - ha liberato dalle catene Eluana, è un resto di Italia dei giusti, di Italia che sa giudicare umanamente e cerca la libertà nella legge, che non accetta che l’impurità più grossolanamente sofistica prevalga sulla verità semplice e pura.

Dobbiamo un po’ tutti ri-imparare a morire: dunque a vivere e a trascendere la morte. Comprendere l’insignificanza della vita e dell’esistenza materiale è luce in tenebris.

Per chi, pensando, ritenga che la vera salvezza consista nel liberarsi dalla schiavitù delle rinascite in corpi mortali, Eluana col suo lungo martirio avrà meritato la tregua nirvanica, e non tornerà in mondi come questo a patire sondini e beccate di avvoltoi - condannati, per loro intrinseca natura, a commettere empietà.

Da cristiani autentici si sono comportate le Chiese evangeliche: schierate dalla parte di Eluana, hanno voluto ricordare che un essere umano non è soltanto un aggregato scimmiesco di funzioni e che è delitto tradirne l’anelito al padre ignoto al di là del finito.

Il combattimento spirituale è brutale. La meno ingiusta Italia, che assumerà Eluana per segno, non deve temere di accettarlo, di restare unita, respinto l’avvoltoio, per la pietà e la luce.

da lastampa.it


Titolo: GUIDO CERONETTI Nelle urne la paura dell'Islam
Inserito da: Admin - Giugno 08, 2009, 11:17:44 am
8/6/2009
 
Nelle urne la paura dell'Islam
 
 
GUIDO CERONETTI
 
Circa le future generazioni europee niente potrebbe importarmene di meno. Aver vissuto consapevolmente in buona parte del secolo XX vuol dire che di cucchiaiate amare se ne sono ingoiate abbastanza: tuttavia si può sempre immaginare che il prossimo futuro ne stia preparando, nella sua indecifrabile cucina, di più amare ancora. E chi vorrebbe che agli appena nati e ai nascituri nelle nostre vecchie nazioni fossero riservati cammini facili, offende scioccamente il destino umano.

Almeno, è possibile prevedere, con sollievo, che di guerre intraeuropee non se ne faranno più, e neppure di euroturche, senza per questo che il Pólemos, il Contrasto, si metta a ronfare - impensabilmente.

Scrivo questa nota in giornata ancora elettorale in Italia e altrove, e nel voto di tanti popoli diversi un significato, determinabile sotto la superficie dall’inconscio collettivo, si manifesterà nel suo profilo d’ombra, e «ivi trarrem gli auspici» se vorremo scrutarne i visceri.

La coincidenza: elezioni europee e discorso del Cairo di Obama è la prova che Pólemos non si addormenta mai. Il trionfo islamico di Obama cade in un riflesso di reazione di Europa extramediatica che è di paura. L’eco trionfalista-pacifista dei giornali non è lo stesso della gente che non ha voce, ma cui è data in mano una scheda elettorale, infimo barlume di un potere sovrano che i poteri veri e prevalenti calpestano. La scheda può esclusivamente valere da spia, senza influire su niente. Ma non è poco già arrivare ad intravedere qualcosa, nella danza del Dato.

La paura, sotterraneamente risentita dopo il nobile, generoso e non generico discorso del Cairo, è di essere abbandonati dall’America di fronte all’inflessibile procedere dell’islamizzazione europea. E questa sta avvenendo con l’attiva collaborazione della Chiesa cattolica (per motivi bioetici, per orrore dell’avanzata laicista, per inaudito disperato progetto di una futura spartizione religiosa, tra monoteismi, dell’influenza sulle anime umane: cave vaticanum). Se l’Europa (singole nazioni o ectoplasma di Strasburgo che potrà addirittura un giorno farsi corpo di sostanza) pensa di contrastare l’islamizzazione appoggiandosi ai partiti di obbedienza tacita o aperta alla Chiesa cattolica, è bene sappia che sono cadute da un pezzo le mura di Vienna e spento il fuoco greco di Lepanto: la cupola di San Pietro nasconde una colonna di sabbia. In-sha-allah...

Dagli ultimi due papi viene la consapevolezza che l’Islam è vincente. (Il papa Ratzinger si è arreso subito dopo il pallone-sonda di Ratisbona). Ci sono oscillazioni in questa certezza pessimistica, ma la determinazione politica mi pare segnata dal «salvare il salvabile». Si ripresenta la scelta tragica di Pio XII: meglio Hitler che Stalin. Per Benedetto XVI è: meglio l’Islam che il controllo delle nascite, che una Europa giacobina, che i matrimoni gay, che una sfrenata (siamo appena agli inizi) libertà e rivincita matriarcale delle donne. Se è messa in dubbio la patriarchìa, la Chiesa drizza muri e l’Islam fa guerra. (La loro alleanza non è innaturale).

Tolta qualche collaborazione tra polizie nazionali, l’Europa si è voluta finora spensieratamente disarmata. Per quale protezione sovranazionale la gente vota? Dappertutto il gigantesco euromollusco si presenta senza frontiere, di terra e di mare. Le sue navi da guerra, costosissime, munitissime, contro i pirati non sparano neppure un colpo da tirassegno! A tutto quel che è uso della forza l’Europa fa obiezione di coscienza: e senza questo uso triste non si fonda né uno Stato né, tanto meno, un Sovrastato. Chissà: forse aspettano di delegare ogni difesa armata ai Turchi, non obiettori.

Se, votanti o astenuti, gli euroelettori obbediscono a un riflesso di paura che non ha nulla a che vedere con le ossessioni inoculate dai poteri economici, vuol dire che sono tutt’altre le loro motivazioni profonde, e che la paura autentica - quella eterna dell’animale debole minacciato - non è addormentabile con prediche svianti.

In verità, gli eventi incalzano talmente, s’intrecciano così bizzarramente, che le anime tramortite o morte che andranno ad occupare quei seggi d’aria difficilmente avranno il tempo di trasformarsi in uomini e donne veri, di far sorgere in mezzo a loro un capitano Mac Whirr, l'antipatico di Tifone di Josef Conrad.
 
da lastampa.it


Titolo: GUIDO CERONETTI Quante bugie sui vecchi
Inserito da: Admin - Luglio 17, 2009, 06:00:01 pm
15/7/2009 (7:56) - LO STUZZICAVENTI

Quante bugie sui vecchi
 
La vita si è allungata molto, ma la solitudine non dà scampo
 
Allontanare la morte a ogni costo è un miraggio. E che la vita si sia allungata non è una fortuna


GUIDO CERONETTI

Va considerato oltraggioso un avverbio che viene inesorabilmente interposto nella ripetutissima frase, quando si tratta vecchiaia e vecchi come «problema sociale» - eccola: «La vita, fortunatamente, si è allungata molto». Al suo posto, sarebbe adeguato un purtroppo, ma il coraggio, l’energia vitale della verità manca talmente al linguaggio comune da non far sperare che si ficchi una volta tanto nell’uso. Per me, che non ho voglia di mentire, vale il purtroppo.

Si cerca di tamponare la faccenda, quanto al problema sociale, moltiplicando le attenzioni dello Stato assistenziale; quel che le vanifica in buona parte è la quantità enorme di vecchi che con poche varianti d’anni entrano a far parte dello stuolo dei predestinati ad invecchiare, ignari spesso, per altre distorsioni prodotte dal linguaggio traditore, di quel che li aspetta. Allontanare la morte ad ogni costo è il miraggio unico di questo sprofondamento nel sottosuolo della menzogna.

La demografia scientifica contiene una falsificazione basilare, oltre al fluttuare delle statistiche: non tiene conto che i vecchi consumano di più di ogni cosa, acqua specialmente, risorse alimentari (la tristezza senile rende mangioni), medicinali di ogni specie, energia di riscaldamento, trasporti, denaro pubblico. Aggiungi, incalcolabile, eco-non compatibile, il consumo di affetto, dato ai vecchi per pietà, dovere, tolleranza, avarizia, una nuvolaglia di vapori neri gravanti sulla vita associata peggio delle emissioni di anidride. L’affetto va risparmiato, perché se lo diamo a rubinetti aperti la terra ne resta asciutta: lo si lesina ai vecchi, d’istinto, perché ne resti un po’ di più ai bambini.

Nelle antiche comunità perdute (tra cui Atlantide) i vecchi si sacrificavano per la tribù e andavano incontro alla morte nelle foreste - ma l’Io non era ancora apparso, e non ci sono più abbastanza foreste, specie incantate, per assorbire tante vecchiaie. E nelle giungle d’asfalto ci ritrovano subito e ci danno del disertore. A Tolstoj riuscì il colpo, ma il filo del Telegrafo lo riacchiappò a Ostapovo. Inoltre, socialmente, una quantità di vecchi non sono ancora affatto inutili e il Mercato dell’a-buon-prezzo li spia.

È psicologicamente e individualmente che la grande Pandemia di sopravvivenza, cominciata all’incirca alla metà del XX secolo, s’impagina con inedita crudeltà nei moderni contesti del Tragico. La sua maschera dolente si scontra con una feroce inaccettabilità che la nega: sempre più zittiti, ai vecchi viene imposta un’anagrafe falsificata, un’identità non corrispondente, un volto da lifting interiore, che piace al cretino («Ma che bella faccia! Va là che stai bene! Dai dei punti ai giovani!»); i pugnali congiurati del Luogo Comune trafiggono il tuo autentico esserci di persona umana, che non può e non vuole essere Quello che si vuole lei sia, e che pretende l’inquisizione degli ottimisti, una irrealtà di costruzione medica e di finta premura sociale, un raccapricciante «diversamente giovane», ma semplicemente e umilmente un corpo vecchio, che vive arretrando, come sa, come ci riesce, e in cui il pensiero della morte non osa più dirsi, per la brutalità della repressione linguistica, liberatorio e di speranza.

La vecchiaia per antonomasia, la realtà senile che ha più parentela col Tragico è la maschile; non ci sono due condizioni uguali: le donne sono favorite dalla diversità sessuale e mentale. La donna vecchia ha ancora forze sufficienti per consolare la vecchiaia dell’uomo vecchio.

Non sono paragonabili le due solitudini. Chi ha avuto e perso una compagna amata è infelice allo stato puro. Portagli pure a casa la zuppa calda: potrebbe venire dallo Chef Premio Nobel più ispirato, non ne scalfirebbe l’infelicità neppure per un minuto. Fin che può la vecchia signora allontana la pena occupandosi della casa e di attività sociali; il vecchio gentleman mangia pane di ghiaccio solido. Se è colto, gli restano i libri; certamente non la televisione (vedi il romanzo breve di Simenon, Il Presidente, perfetta radiografia di una vecchiaia molto ricca e molto bene assistita). Osservate nelle case di riposo le facce degli uomini e quelle delle donne, quando non siano spente dalla malattia mentale: nelle donne sopravvive sempre qualcosa di ilare, di facilmente appagabile, un’onesta rassegnazione che per pudore non si manifesta; l’uomo nel suo avvilimento è senza misura, nei suoi tratti si esprime uno stato di desolazione indeterminato, senza confini. In genere socializzano poco, sono dei manichini, dei tubi digerenti orbi di digestione. L’uomo vecchio sente sempre che il suo incontro con l’esserci è stato un fallimento, che è mancato all’appuntamento con quel che è più alto. E rimane muto, davanti a tanta sciagura, mentre gli altri chiacchierano e chiacchierano, impotenti a capire.

L’essenza del Tragico maschile è la privazione di appagamento. Con molta cautela Sofocle ne fa intravedere un modo al termine dell’Edipo a Colono, Victor Hugo lo vede nella morte del Giusto che è Jean Valjean. Nelle tremende solitudini sovraffollate di vecchiaie in eccesso delle nostre giungle metropolitane, però, restano all’esterno le redenzioni trasmesse dalle nostre carte esemplari.

Anche la maialità senile è enigma e dramma maschile. Ricordo un filosofo di cui ammiravo la dottrina: seppi che, da pensionato, restò fino alla morte tuffato nell’Osceno. Alle donne niente di simile potrà mai accadere. Ma la maialità dei vecchi che perdono il controllo (così si dice) non ha spiegazioni facili. Il vecchio perde il ritegno più per disperazione che per vizio, in specie dopo una vita irreprensibile, non può far conto di corteggiamenti, sbatte nell’impotenza. La perdita totale di rapporti con gli accessi ad altri mondi e con il Dio Ignoto, fracassa le dighe frollite dal cumulo d’anni.

E la moltiplicazione dei vecchi dissemina fortemente, coperto o manifesto, maialismo senile. Le innumerevoli ipertensioni domate non fanno precipitare in una pornofilia indomabile? Il geriatra allungando (altro non può fare) la vita, prescrivendo farmaci sgattiglianti, perché non dorma «il garrulo eremita», e nello stesso tempo antidepressivi e sonniferi, non allunga anche la torturante altalena degli affanni sessuali maschili al di là del segno di un decente traguardo? Volete che le carrozzine dei centenari, davanti ai sexshop dei più disumani paesaggi urbani, facciano la fila? Non sarebbe il diavolo a sospingerle là dentro?

La némesis-natura risponde colpo su colpo a tutti, nessuno escluso, gli oltrepassamenti di limiti, che diventano, in un granello di filosofia, altrettanti modi predestinati delle oscure espiazioni metafisiche da cui si origina la vita (Volontà schopenhaueriana o qualsiasi altra forza emanata dai boccaporti dell’Essere). La politica, cieca come uno squalo, balbetta i suoi «fortunatamente» e lo strafalcione delle sue «problematiche», e un famoso pugno-di-mosche è sempre tutto quanto, alla fine, ci resta in mano.

Io, qui, non ho pensato che ad emendare al minimo, di qualche impurità e falsificazione, il linguaggio della tribù.

da lastampa.it


Titolo: GUIDO CERONETTI
Inserito da: Admin - Agosto 21, 2009, 11:21:08 am
21/8/2009
 
Oggi mi duole l'Italia
 
GUIDO CERONETTI
 

Mi duole l’Italia, certamente. Ma non si tratta di un sentimento estremo, gli manca il fuoco della giovinezza. Tuttavia sì - pensare Italia provoca una trafittura strana. Eppure non è in stato di guerra civile, come la Spagna che tanto doleva a Miguel Hernández nel 1938: e lui, il poeta della repubblica agonizzante, la chiama «Madre» - madre España.

L’Italia è, anche per noi, una madre? Può l’uomo vivere senza una Entità materna spirituale, come lo sarebbe una patria? Può restare indifferente al continuo stupro di tale Entità materna e vederla presa d’assalto da ondate successive di violente presenze d’ombra? (Non trovo una definizione meglio precisante, perché nello spirituale non valgono le categorie della nostra inaridita logica politica, invasive di tutto il campo). Però vorrei fosse oggi, questo, un articolo definibile come «politico», adatto a pagine politiche.

E la politica, togliendo di mezzo l’insulso slogan «torniamo alla politica», è un colossale imbuto dove si rovescia di tutto, meno ciò che conta, essenzialmente.

Io ci scopro grandissimi vuoti di eventi, ma l’indigestione degli insignificanti è evidente dai sintomi. Se ti domandi a chi appartenga il potere effettuale in Italia, l’elenco contiene quantità di voci da Pagine Gialle. Alle alte cariche dello Stato? Al Parlamento, disarticolato per servilità verso l’Esecutivo? Ma l’Esecutivo a sua volta è un coagulo di passività verso decine di altri poteri. Alle banche? Alla Chiesa? All’Opus Dei? Alle occulte regìe internazionali della globalizzazione? Allo spionaggio elettronico-satellitare integrale? Alla Confindustria? Ai governatori di regioni? Ai sindacati? Agli antiambientalisti? Ai partiti più votati? Ai narcotrafficanti? Alle incontrollabili multinazionali che determinano dovunque tutto quel che mangiamo? Metterei un sì in ciascuna casella, tenendo conto che il sì è riferito, per ciascuna voce, a una parte soltanto di una spropositata frammentazione. L’imbuto dei poteri si svuota in una immensa discarica attossicante, priva di consistenza purificabile. Come mettere le mani là dentro? Chi se ne incarica? Sarebbe questo il potere del popolo, garantito da una costituzione intoccabile, però spogliata di ogni funzione etica e di presa sulla realtà attuale?

Mi domando se si possa di una tale Italia fare il confronto con la Firenze della Cronica di Dino, giungletta medievale sanguinosa e accessibile da ogni uscio alla Pesta Nera... No, il confronto non regge. In quelle feroci risse civili la città non perdeva il suo sorriso né la sua vivibilità, e le fogne all’aperto dappertutto non ne imbrattavano l’anima. Le città italiane d’oggi invece sono tutte più o meno sotto il segno funesto dell’invivibilità.

Enigmatico è l’Invivibile. Se pensiamo soltanto smog, ingorghi, posteggi, o motociclette e sirene di ambulanze che non cessano mai o ladri nelle case o periferie e quartieri pericolosi, restiamo al di sotto. Queste cose le sa ogni sindaco... L’Invivibile è in realtà immidollato nelle coscienze come nell’inconscio degli abitanti, impipistrella le scale e gli ascensori dei condominii, e provoca (al 90% su per giù) frane di autentica cittadinità, senza rimedio. Il nostro specifico Invivibile è Alzheimer urbanizzato.

L’abitante - meno cittadino che residente - non torna a casa: nel suo entrarci è come un animale braccato che si rintana, un tale che rientra per farsi accogliere da cagnolini ignari e da gatti castrati: pur non dormendo solo è una scheggia sperduta di solitudine. Cosa può fargli un romanzo nero o una digitale a colori, o una famiglia ubriaca di Rete? E’ nella vivibilità dell’insieme e della coppia, è nella prossimità degli alberi, è nella vivibilità metafisica che oltrepassa le barriere immonde del finito e della morte il rubinetto dell’Aperto e della speranza!

POLITICA - sordità e cecità croniche, barili vuoti, da cui non possiamo ricavare più niente, neppure psicofarmaci overdose di parole, perché nei suoi linguaggi le parole non corrispondono a nulla. Politica, miseranda politica, che cosa ne sai di questi tuoi elettori ovviamente fatti per essere traditi, figli in angustie di una Italia disonorata? E se sono contrario a fare nomi di responsabili, è perché sento profondamente che la responsabilità è di tutti.

La fama di Paese festoso e allegro non è giustificata: da sempre questa è l’Esperia, la terra musicale della Sera. La vera Italia non è un dépliant turistico per attirare denaro. L’Italia si è arricchita senza regole e per restarlo ancora un po’ dovrà sottostare ad antiregole che verranno, sempre più, da altrove, imponendoci una dittatura eteronomica inesorabile nelle scelte politiche, economiche, culturali e perfino religiose. Lo Stato è debole e, sciaguratamente, comprabile. Per farci recuperare autonomia ci vorrebbe una classe politica armata di una spada tre volte fatata e di consenso popolare non fatto di schiene curvate e mani rivolte a frugare nei soldi - un consenso, cioè, impensabile di mezzosanti.

E la stadiolatria nazionale calcistica di tali effetti non ne produce!! Una minoranza di refrattari giovani e di adulti consapevoli non basta, ma già sarebbe da benedire.

L’Italia io la vivo, dicevo, come una Entità materna spirituale che duole a chi è in grado di provare generosità di lacerazioni per qualche cosa che valga davvero: quasi una anomala passione, disperata e sopramischia, da nuovo Risorgimento. Rileggete I Sepolcri e l’Ortis! Rileggiamo l’ultima lettera di Tito Speri!

da lastampa.it


Titolo: GUIDO CERONETTI Non da oggi l'Italia mi duole
Inserito da: Admin - Agosto 25, 2009, 07:45:44 pm
25/8/2009

Non da oggi l'Italia mi duole
   
GUIDO CERONETTI


Caro Direttore,

sarei lieto di collaborare ogni tanto a questo interessante spazioaperto del nostro giornale, avendone l’occasione. Eccone una: venerdì 21 agosto il mio articolo su l’Italia che «mi duole» esce col titolo inspiegabile «Oggi l’Italia mi duole». Chiunque lavori per i giornali lo sa: da parecchi decenni i titoli, al 99 per cento non sono dell’autore, ma della redazione o della direzione. Ormai la cosa mi è indifferente; stavolta però la modifica, con l’aggiunta Oggi, m’incuriosisce. Oggi vuol dire che ieri l’Italia non mi faceva affatto soffrire e che domani non me ne importerà più niente?

In verità a me l’Italia duole da circa il settembre 1943 (avevo sedici anni) a sì, certo, il 21 agosto, e sono certo che, trattandosi di una ferita metafisica, ben fondata su conoscenza ed esperienza pratica, l’Italia seguiterà a dolermi usque dum vivam, come un disperato amore... E non è per ideologia di destra, o baggianate simili, ma perché è così, per italianità errante, per orfanità di patria politica, per moralità in contrasto, per cuore offeso, per impossibilità di accettare l’incurabilità dei mali di una patria che non c’è (l’insoluta, forse congenita, patologia del tuttora sconosciuto «Risorgimento» del XIX secolo). Il titolo «Oggi» mi ha sottratto tutto questo retroterra e ha reso l’articolo ballerino sul Cronos, fissandolo su una odiernità artificiale, nel mio pensiero del tutto inesistente. Oggi come ieri come domani a me l’Italia duole... Permettimi, amico Direttore, di ribadirlo adesso, e grazie per l’ospitalità.

da lastampa.it


Titolo: GUIDO CERONETTI Per non fare "tutti gli spergiuri"
Inserito da: Admin - Settembre 05, 2009, 05:21:39 pm
5/9/2009

Per non fare "tutti gli spergiuri"
   
GUIDO CERONETTI


Caro Direttore,
giorni fa, da una simpatica Radio, una gentile voce voleva consigliare agli ascoltatori di «fare tutti gli scongiuri» per non so quale pericolo scongiurabile. Normale; però la poverina ha consigliato di «fare gli spergiuri», cosa per niente encomiabile.

Direi, leggendo e ascoltando dovunque stravolgimenti di ogni genere della lingua comune, che Berlusconi farebbe meglio, invece di trapiantare ad ogni costo Inglese in questo popolo di malparlanti neolatini, di ri-insegnare a tutti l’Italiano, prima che (insieme a molteplici sventure del parlato, come «i più estremi», «le parti più intime», l’attimino di luogo, «e quant’altro», «piuttosto che» nel senso di oppure, «a gratis»...), nel dilagare dell’improprio, gli scongiuri spergiuranti diventino oxiuri, idrocarburi, paguri, e altri simili atti impuri.

Leggevo l’articolo di Mimmo Cándito sulla crisi dei giornali e pensavo che - più che puntare a sostenersi con la pubblicità - bisognerebbe tentare la riconquista del lettore abituale deluso dai giornali o troppo appagato dall’invasione mediatica, e catturare giovani in caduta di alfabetizzazione, proponendogli, in lingua ripulita da anglismi e da sequele di espressioni al limite del confusionale, un ventaglio tematico più interessante, cosa ben diversa dal facile e dalla prevalenza dell’immagine, e lontana dall’attenzione ossessiva per quella triste miseria che è la politica nazionale, ormai fissa al buco della serratura o incatenata alla galera delle percentuali... E in tale ventaglio non trascurerei di comprendere un intervento quotidiano salvalingua, filologico, semantologico, di ricerca, e sempre in stretto contatto coi lettori (ce ne sono a milioni che desiderano parlare e scrivere meglio). La lingua, ritengo, è importante quanto l’ecologia, e più la perdiamo meno morde sulle cose e sulle questioni capitali, nazionali e mondiali, e senza presa di lingua non rischiari né impugni nulla, e si accrescono le angosce senza un immediato perché, oggi attanaglianti tutto e tutti.

Proporrei anche di dare da svolgere temi, di proporre concorsi a premio, di attirare pubblico in ogni modo, di far pensare e far lavorare i lettori. Ahimè, caro Direttore, io sono troppo vecchio e stanco per avanzare il mio nome e dire lo farei io stesso; ma i nomi giusti si trovano, si troverebbero. Difendere - ma subito, con urgenza - la lingua italiana autentica e vivente è difendere la sopravvivenza stessa dei quotidiani che amiamo.

da lastampa.it


Titolo: GUIDO CERONETTI Afghanistan amaro
Inserito da: Admin - Settembre 19, 2009, 10:36:36 am
19/9/2009

Afghanistan amaro
   
GUIDO CERONETTI


Dopo l’ esperienza di ambasciatore in Russia, Ottone di Bismarck si era fatto incidere in un anello: «La Russia è il Nulla». Proviamoci a dibattere appassionatamente: Afghanistan dice qualcosa? Muove emozioni collettive condivise? Volendone parlare ne stringo tanto poco da non poter premettere che questo: Afghanistan è il Nulla. Ci sono altri Nulla, nel mondo, ma isoliamo questo.

Tutti lo nominano o ne hanno sentito dire, ma l’intrepido giornalista che ancora va e viene tra Kabul e Pakistan, o il militare che conosce il terreno e quel che ci sta sopra, richiesti di definirlo, immagino risponderebbero Caos, per significare Nulla - perché il caos non è, in logica, qualcosa. Bello è geopolitizzare da Milano, da Roma, da qualche Saxa Rubra, ma l’Informazione non è Conoscenza. Qualche sensibilità di un pericolo vago, di un’America che non trova una via d’uscita, di una Nato nella gabbia di vetro celebre di Marcel Marceau... la materia del commento non ne sconfina. Si può con giustizia dire, soltanto, come il vecchio canto toscano della Maremma, che è un Afghanistan amaro, dove nessuno di noi andrebbe ad abitare. E neppure a cercarvi il combattimento perché il combattere classico é morto da un pezzo. Resta aperta la possibilità di morirci senza aver sparato un colpo. Così i militari, nel nulla afghano, si perdono nell'indistinto delle vittime civili. Mi fisso dunque un tema di cui non so dire, certo che la verità sia questa, per tutti, quando si affrontano i guazzabugli insolubili.

La situazione: cosa ci dicono le Agenzie? Oggi trenta, cento morti in attentati suicidi (ormai fuori da ogni connotazione morale). Donne che smettono il burqa o tentano di imparare a scrivere, ripudiate, torturate, massacrate «per religione». La grande America e un campionario di quelli che furono i più temuti eserciti del mondo tenuti in scacco dai fanatici che credevano di avere battuto in una rapida gesta di guerra elettronica: otto anni così. Otto, finora - e poi? Soldati che muoiono miserabilmente, senza poter combattere, su mine, per colpi di mano, cecchinaggio. L’unica offensiva di cui sono capaci «i nostri» sono le bombe dal cielo: un modo certo per andare in perdizione, il nemico sfugge acquattandosi, i civili fuggono terrorizzati e tornano per contare i loro morti, creazione dell’abbominevole Fuoco Amico.

Le scuse diplomatiche e addirittura alle famiglie degli uccisi da parte dei Fuochi Amici quando la strage maldestra è grossa sono un intollerabile obbrobrio - ma su queste sponde sicure l’effetto, generalmente, è di un delizioso farmaco contro l’insonnia. Afghanistan amaro. Anche come porto d’imbarco della Morte, che punta a Occidente. Sono le sterminate e invincibili coltivazioni del papavero dei cui derivati si vedono gli effetti sulle panchine dei giardini e nei posti di Pronto Soccorso, dentro le famiglie e nelle celle. Da parte dei coltivatori locali, è innocenza criminale, concorso inconsapevole a un abbrutimento di indifferenti. Loro ci càmpano; a noi la paura.

Obama ha capito che Afgha viene prima del resto, ma credeva di persuadere a un Iran senza finestre di rinunciare ai suoi ossessivi pruriti nucleari di potenza islamica antisraele. Obama, fortunatamente, lo può tacitamente aiutare una Russia non simpatizzante per i Talebanski, dai quali ha già ricevuto una famosa batosta. Tutto poco gradevole da rimestare.

La storia intera, forse, è il Nulla. Ma per noi che ci riteniamo missionari dovunque e, imprudenti ma umani, seguiamo lo yes, we can obamico, il Nulla è ben lontano dalle nostre ferie di massa: per esempio, il Nulla é a Kabul e dintorni, nei passi pakistani, nei nidi qaedisti, nelle supreme sovranità tribali. Là si abita in modi incompresi, si mangia e si prega secondo riti che non amiamo, la vita è troppo dura e la ferocia negli odi è illimitata. Questo si può immaginarlo, ma non avvicina.

Mi domando... se al posto di questo Karzai su cui non arrischio giudizi, ci fosse il molto più simpatico e consistente Massud, uomo di vera guerra, di giusto combattimento, probabilmente anche vera guida per quei popoli, l’Afghanistan diventerebbe forse Qualcosa? Sarebbe, per tutti, meno, molto meno, un Afgha amaro? Un’idea geniale, tempo fa, delle Poste francesi: hanno ricordato il comandante Massud con un francobollo bellissimo.

da lastampa.it


Titolo: GUIDO CERONETTI Libertà di stampa ai depressi
Inserito da: Admin - Ottobre 15, 2009, 09:51:22 am
15/10/2009

Libertà di stampa ai depressi
   
GUIDO CERONETTI


Caro Direttore, ... non m’invoglia a trattarne, il problema, che pure è avvertibile e oggetto di contesa, della libertà di stampa e di comunicazione.

Le mie antenne mentali captano molto più estesamente e profondamente le sensibilità della gente che ci legge e ascolta: perciò trovo errata buona parte della materia che contengono i nostri giornali, abbiano minima o potente tiratura. Errata... Intendo fuori centro rispetto a quanto lacera e agguanta l’animo del pubblico, insignificante per i bisogni che tormentano le folle cittadine...

Titoli e approfondimenti indicano preoccupazioni e si sforzano di proporre rimedi a mali secondari, a dubbi che si dichiarano senza persuasione intima agli sconosciuti intervistati.

E quando poi si tratta di sondaggi, quale verità nascosta può uscirne fuori? Azzeccano una risposta vera come una slot-machine il punto di caduta del denaro dalla perfida pancia!

Il lettore-compratore del giornale quotidiano non è una categoria, non è una frangia di provenienti da altrove, e neppure si tratta di famiglie. Il giornale lo comprano individui. E l’individuo oggi è una ferita aperta. Parliamo di questo, se vogliamo servirlo. Su mille che vanno all’edicola, ottocento almeno soffrono di forme varie, e una più micidiale dell’altra, di Depressioni. Mi mescolo anch’io a questa anonima radunata di vittime di un grande male dei due secoli ultimi, XX e XXI - a partire dalla seconda metà del Diciannovesimo. A chi è depresso, angosciato, preso dal panico, non gli servono cifre di economia e neppure denunce di pessime politiche governative o di crimini di mafia: abbiamo o no la mano leggera nel trattarne, per chi è depresso tutto questo è da pattumiera. Bisogna arrivare fin là, heart of Darkness e non sgattigliare, ma colpire il mostro nel cuore.

La Depressione va tolta dalle rubriche mediche o psicologiche di Routine! Va medicata, per quanto si può, a parte. Perché non la collochiamo in prima pagina? Perché non dedicarle una pagina intera di cronaca - confessionale - col titolo beckettiano «Tutti quelli che cadono»? Perché non l’anteponiamo a tutto il resto che il giornale contiene di solito?

da lastampa.it


Titolo: GUIDO CERONETTI Se a scuola ci fosse l'ora pagana
Inserito da: Admin - Ottobre 23, 2009, 10:07:31 am
23/10/2009 - LE IDEE

Se a scuola ci fosse l'ora pagana
   
GUIDO CERONETTI


Aleggerne sulle cronache, non pare che l’ora di islamismodepuratosia prossima sul quadrante della scuola italiana.

La lentezza dell’Italia ufficiale è Oriente, il suo tempo non conosceorario, tra la frenesia informatico- telematica s’intravvede il beduino che guarda le capre, la mula di mastro Don Gesualdo, la guerra di Troia... Basta pensare ai processi civili: passano generazioni... Però neppure l’Islam ha fretta. L’idea di convertire l’Europa cristiana in dissolvimento religioso,dopo lemuradi Vienna e le lance di Poitiers, e il lungo sonno prima di Lawrence e l’apparizione come dal nulla di Israele, èsognoislamico,certamente.

Ma forse nella diaspora delle moschee vecchie e nuove si pensa di arrivarci (Ramadan puntualmente osservato da almeno metà delle famiglie italiane oggi tiepidamente cattoliche) non prima del 2101.

Quel che sarà - sarà.

La prospettiva più vicina impone due verità: a) l’Islam non è assimilabile né modificabile. Quel che è avvenuto nel tremendo dogmatismo cristiano medievale rotto dalla Riforma e inoltre dopo tre secoli di miracolosa filologia critica biblica incessante non ha neppure sfiorato la grande Muraglia coranica, e adesso abbiamo anche il confronto radicale con una guerra santa senza frontiere. b) il moltiplicarsi delle moschee non è segno di integrazione né di estensione della libertà di coscienza (che subordina tutti i dogmi alla legge di ogni vera Repubblica) ma di occupazione, che per noi è politica e data per concessione, per loro si tratta invece di spazi e spazietti urbani assunti dalla fede coranica e sottratti legalmente, in senso religioso illimitato, alla sovranità della maggioranza non mussulmana.

Islam non è buddismo né chiesa evangelica o altro. Islam è Islam. E’ sciocchino chiedergli di essere diverso. All’Opus Dei puoi chiedergli di essere liberale? Bene.Aciascuno il suo.

L’ora scolastica cattolica brucia un tempo dello Stato uguale per tutte le religioni (che in Italia sono, grandi e piccole, circa settecento); l’ora scolastica islamica azzererebbe (o renderebbe relativa) la sovranità statale assoluta su tanti frammentini di territorio pubblico quante sono le aule destinate a ospitarla. Nell’idea coranica di comunità religiosa - se non erro -, la umma, il popolo dei credenti, come ogni asfalto o tappeto di preghiera, a maggior ragione ogni aula dove s’impartiscano a un pezzetto di umma lezioni di Libro Sacro (il Kitàb) diventerebbe dar-al-islam, Casa di Islam (tradotto solitamente terra d’Islam, ma nel fondo rimane sempre il senso primario di casa propria, porzione, porziuncola del popolo credente).

Esaminandola in base al diritto religioso islamico la faccenda potrà, credo, essere chiarita meglio, e suggerisco di consultarlo prima di compiere passi incauti per incantamento dell’inafferrabile fantasma dell’integrazione per tutti e concessa a tutti. Se l’ora fosse, utopisticamente, catto-mussulmana e addirittura maschile-femminile, la lezione di tolleranza sarebbe esemplare; ma dubito che la Chiesa e gli imam, giubilanti, la riceverebbero dal nostro Stato come una grazia.

La bio-diversità religiosa è una realtà umana come tutto ciò che è vivente, e ne va tenuto conto. L’esistenza delle balene (non esclusa Moby Dick) importa ai condominii della Bovisa o di Mirafiori, dei Parioli o di Firenze, ma per applicare alle religioni questa grande e povera verità non si può dare filosoficamente il mondo alle concezioni monoteiste: ci vuole una filosofia naturale, un pensiero dai monoteismi rigettato e perseguitato.

Un’ora scolastica e extrascolare diversa, allora? Di paganesimo puro e rigoroso? Di pitagorismo? Di stoicismo? Con letture virgiliane? Il sesto dell’Eneide come iniziazione ai regni per dove passerà Dante il cristiano? Dante frater templarius, amico di ebrei e di mussulmani, e grande condor in volo al di sopra di tutti?

Sarebbe una bella finestra, da cui potrebbero apparirci, forse, le luci remote dell’Amore infinito.

da lastampa.it


Titolo: GUIDO CERONETTI Terrificanti orienti nucleari
Inserito da: Admin - Novembre 03, 2009, 09:51:28 am
3/11/2009

Terrificanti orienti nucleari
   
GUIDO CERONETTI


TEMA DI CRUCCIO e cruciale (e, purtroppo, anche mondiale; notte senza fine): l’IRAN atomico.

E il rosario di fesserie emesse dai grandi e medi sanzionisti (giustamente, e frivolmente, preoccupati che quei bravi e un poco sanguinari teologi sciiti forzino la porta senza chiave dell’arsenale nucleare), francamente ci annoia, perché tra chi ne ascolta le dichiarazioni - qualche miliardo di persone, forse - di così ingenui da prenderli sul serio è difficile trovarne qualcuno.

Si può anche non sapere in quale Oriente senza luce si collochino Teheran o Qom o i famosi pozzi di petrolio iraniani - ma tutti sappiamo che:

a/quel regime vuole avere la Bomba e non pensa ad altro che a farsene una ghiotta cantina.
b/In questo non ha oppositori interni. Tutti, sembra, in Asia la vogliano, la sognino - una vera union sacrée. È stato così in India: tutti beati. Idem in Pakistan - un fierone popolare dell’Esultanza.
c/Il regime è certo si tratti di una farsa e fa un fico in faccia a tutte quelle minacce col ditino alzato. Teme soltanto Israele, perché potrebbe muoversi sul serio. (Stupisce non l’abbia, finora, fatto).
d/Nessuno dei sanzionisti (in realtà per niente sanzionatori) vuol rompere con quel regime. C’è il petrolio, c’è il commercio, c’è la pace ad ogni costo - ci sono, per non rompere, mille buone ragioni di opportunità immediata. C’è in fondo anche la speranza cieca e accecatrice che quella bomba resterà nei depositi.

C’era una volta anche la speranza che Hitler non avrebbe mai scatenato un guerrone, finito, spaventosamente, dopo cinque anni di Distruttività attiva.

Obama, avendo teso la mano ad Ahmadinejad, pur vedendosela prontamente respingere, si è guadagnato il Nobel per la pace. Congratulazioni. Ma l’Iran nucleare è là, fisso come la stella del Nord, e sogghignando premurosamente, con la mano sul cuore gli Ayatollah promettono che, in quanto a pacifismo, loro sono imbattibili.

Li inquieterebbe, forse, di più il silenzio. Un glaciale silenzio dell’America e degli altri. Del mondo.

E allora? L’impressione è che il rivolo retorico fatto di «attenti che se non ci convincerete che... se non smantellate qua e là certi impianti...», ec. ec. sia destinato a noi per far vedere che i capi potentissimi stanno sulla torre di guardia e ci proteggono dai (per carità, soltanto supposti) cattivi di turno, coi dentini da latte atomici, e la grinta trista dei loquentes mendacium sempre gentilmente disposti a trattare.

Ne diffiderebbe perfino un bambino. Ma i di tutto informati dell’Occidente si accontentano e rimandano alla prossima verifica che nulla è cambiato e che tutto procede nel senso voluto dai cattivelli da zero in condotta.

Terrificante Asia: è impotente a frenare una demografia suicida, ma guarda con perfetta apatia calcolatrice a quei suoi spazi metropolitani irrespirabili - dove una perdita di popolazione in eccesso, tra fungo bianco e pioggia nera, fosse pure la più tremenda, a malapena sarebbe risentita dai capi come una sciagura. Ricordo la celebre intervista di Mao a Edgar Snow: un miliardo di uomini sacrificati «per il trionfo del socialismo», mediante la Bomba, non era per lui un disturbo, mentre sorridente si sventagliava.

L’Asia non segue né l’Europa né l’America nel panico di fronte alla morte. Ignora il nostro male delle vecchiaie protratte oltre i limiti; il pranzo festivo di una famiglia italiana basterebbe a nutrire un villaggio del Bangladesh. La Bomba, tra gli islamici, è un dono misterioso di Dio. Per tutti è il segno di un traguardo raggiunto. Le nostre ragioni, infettate da esclusive paure di rinunce e diminuzioni d’essere, possono, al più, accoglierle ironicamente.

Ormai la Bomba, agli iraniani devoti e bramosi di far sparire da un poco di terra la stella di Davide, gliel’avete lasciata fare. Senza averne l’intenzione, ma con pessima coscienza per motivi d’interesse e di profitto. Fateli venire e poi disertate i famosi Tavoli delle trattative atomiche. Lasciateli soli con le loro immutabili bugie. Sarebbe almeno un gesto.

da lastampa.it


Titolo: GUIDO CERONETTI Obama un Messia fallibile
Inserito da: Admin - Novembre 24, 2009, 06:13:04 pm
24/11/2009

Obama un Messia fallibile
   
GUIDO CERONETTI


Siamo più soli quando al vertice di un grande potere - oggi in un mondo mondializzato - si sente mancare la personalità adeguatamente carismatica, il magnetismo che, invece di perdere, salva. Non si può restare sempre chiusi nella meschinità cronica dei fatti propri, quando si è attaccati al pensiero; perciò si guarda a quel che accade fuori della finestra, si soffre, si spera, si sogna. Obama è parso, via via che lo depuravano e lo manifestavano le primarie, l’uomo che doveva venire. Obama era l’uomo da eleggere: l’America era pronta a seguirlo. Obama è stato portato là dov’è ora da un’ondata messianica... Il messianismo è un vizio, se non si crede nell’impossibile si è morti.

Il viaggio in Asia lo ha mostrato, è crudele dirlo, Messia fallibile, fallituro, addirittura Messia that failed, che ha fallito. La sua immagine (lui solo, sullo stretto valico, nell’impassibilità beffarda della Grande Muraglia) non è quella di un vincitore. E’ andato, ha giocato, ha perso. Presunzione o ingenuità punite. Grandi muraglie dappertutto, nessun varco. Gli Stati Uniti non possono perdere, neppure quando il loro ambasciatore abbandona Saigon con la bandiera arrotolata sotto il braccio (una delle immagini del tragico del secolo); possono però non vincere, né aiutare a vincere le buone cause, che è la loro missione predestinata.

Possono tuttavia perdere le vivendi causas, i motivi etici che giustificano e illuminano il nostro, altrimenti, vivere da bruti. La creatività obamiana, divine surprise, ha srotolato la bandiera americana, chiamando a raccolta figli dei fiori e credenti dell’Età dell’Acquario, agricoltori biologici, medici olistici, terrofili oscurati, nonviolenti, batesoniani sfiduciati, eretici cristiani, musulmani nauseati dalle stragi, frequentatori in crescita di pensiero assassinato, riproponendola al mondo lavata in qualche niagara non inquinato, con impressa la leggenda stupefacente di giusto mezzo secolo fa: L’IMMAGINAZIONE AL POTERE.

Pochi passi di questo neopotere conferito addirittura all’Immaginazione (come ne sarebbe stato rallegrato nel suo pessimismo rilucente Cornelius Castoriadis!) ed ecco, dopo cento e più giorni, la testa mozza dell’Immaginazione spenzolante dalla Grande Muraglia, surrogata sollecitamente da quella della politica realistica, del soccorso agli affamati di libertà illusorio, della resa completa decorata di fiorellini di plastica da tumulo davanti alla grata conventuale spietata, implacabile, sprezzante, dei geronti totalitari cinesi.

Ahimè, Robespierre non sbagliava: «La Virtù, senza il Terrore, è impotente» (una spada a due tagli, stiamo attenti con quel che è troppo geometrico). Sempre verde anche la massima di La Fontaine: «Bisogna fare ai malvagi guerra continua». La forza non diventerà mai diritto, ammoniva Manzoni, però un diritto sventolato senza, a sostenerlo, la forza (fosse pure una dirompente forza spirituale sfondatutto, dinamite nicciana orientata bene) finisce sotto i piedi di chi i diritti ignobilmente li schiaccia.

La grande America non è uscita alla pari dal Vertice di Pechino: ci abbiamo visto specchiata, attraverso la nuvolaglia di smog perpetuo, un’America senza immaginazione, trafitta dalle sue stesse banche, tenagliata dal debito con l’impero cinese - ci abbiamo letto lo smarrimento di un Messia that failed, che si piega ai compromessi, che non è libero neppure di abbracciare l’intrepido messaggero del Tibet in sempiterno vagabondaggio d’esilio, e abbiamo ascoltato ancora una volta la forbita oratoria di un distinto signore seduto su un impressionante arsenale nucleare, che col diploma incongruo di Premio Nobel per la Pace appeso al chiodo non sa fare né la pace né la guerra, si rimette in fretta a scuola di realismo pratico, rinuncia a combattere la urgentissima crociata ambientalista, concede che il Dollaro venga sodomizzato senza fine dall’Euro (che per parte sua è in fatto di potere d’acquisto sempre più povero), non sa neppure chiudere quella galera cubana che non riusciamo più a digerire. Da due mesi esita a prendere una decisione strategica sulla guerra afghana. Se John Kennedy avesse esitato così nella tremenda crisi cubana del 1962, l’Urss avrebbe fatto dell’isola una murata Città d’Acciaio alla Jules Verne, segnale di morte per le tre Americhe.

Caro Barack, perché tanta fretta di togliere dal tuo arredo la vernice messianica, e scoprire la calce nuda della inevitabile Fregatura? Non potevi lasciarci ancora una fessura aperta sul sogno? Viene in mente un famoso titolo di romanzo del Trenta, lo scrittore era Hans Fallada: E adesso, pover’uomo?

da lastampa.it


Titolo: GUIDO CERONETTI L'estinzione del pensiero
Inserito da: Admin - Dicembre 21, 2009, 09:57:03 pm
21/12/2009

L'estinzione del pensiero
   
GUIDO CERONETTI

Da un fisico, Luigi Sertorio, viene - anche su questa superflua e nodale parata ecologica di Copenaghen - una luce. Se trovi un pensiero che vale férmati, ricordati che non sei un bruto!

Il libretto di Sertorio da cercare e da meditare, se si abbia qualche inclinazione a riflettere, s’intitola La Natura e le macchine, l’editore (SEB 27) non è certo tra i noti. L’autore è torinese e ha anche insegnato a Torino.

Ne stralcio qualche punto luminoso: «Da bambino, la notte, Torino era buia e guardavo dalla finestra le stelle e le Alpi lontane.

Ora dalla casa in collina guardo laggiù Torino tutta illuminata di lampadine, ci saranno molti megawatt di fotoni spediti nel cosmo, e non mi danno nessun senso di benessere». Quanto a me, mi domando a quale ingordo Moloch sacrifichino le città tanti inferociti megawatt e tanti torrenti di denaro per inondare di accecanti illuminazioni artificiali un flusso ormai quasi ininterrotto di partite notturne! Attenzione, quello spreco insensato di energia, non cessa di far male col fischio finale dell’arbitro: va a nutrire un oscuro cannibale che un giorno, ad un segnale, sgranocchierà i vostri figli. Come il minotauro di Creta e il lupo di Perrault - evocabili con profitto anche in un dopocena danese decembrino.

Il libretto è tutto aureo. Nella prefazione, Nanni Salio ricorda la profezia gandhiana: che se l’India (che allora contava trecento milioni: oggi, col Pakistan, tocca il miliardo e mezzo) si fosse industrializzata al modo dell’Occidente «avrebbe denudato il mondo come le locuste».

Conclude Sertorio (per forza ne limito le citazioni): «Ciò che scarseggia non è l’energia ma il pensiero, la futura vittima non è la Terra, ma è la mente umana, il consumo produce denaro, ma genera povertà (aggiungo: mentale) nelle nazioni». Sottolineo: la mente umana, con lacrime e rabbia. Nient’altro che pensiero atrofico o non-pensiero leggi nelle ceneri anche di questa eco-adunata mondiale. Ripiglio dall’India, tritagonista di questa scena tragica smisurata, insieme a Cina e America (le Americhe, bisogna dire: un unico personaggio policefalo). Ma la Russia, l’Europa, l’Iran, dove li metti? Tuttavia la demografia miliardaria è la più incosciente nel delirio industrialista, e ha uno specifico accecamento arrivistico - mostruosità psicologica che su scala di impero demografico (raggiungere-imitare-superare in potere-che-dà-potenza) oggi non culmina in traguardi stolti, ma in miserabile, scellerata distruttività del vivente, vicino e lontano, presente e futuro. La via dello Sviluppo è la via della morte.

Paradosso dei paradossi: la sovrapopolazione planetaria, che affligge gli enormi spazi del sud-est asiatico, Cina e India in testa, e anche gli Stati Uniti - le regioni più responsabili dell’Inquinamento - e che altresì affligge l’Africa e Gaza e il Cairo... neppure stavolta la si è vista nell’agenda dei lavori!! Magicamente rimossa...

Misteriosamente tenuta fuori... Perché manca il gradimento del Papa? Dei paesi islamici? Per paura dell’Insolubile? Ma se non osiamo confessare la nostra impotenza, allora perché stendere relazioni e fingere di avere a cuore un problema di essere o non essere, di vita e di morte? Perché incontrarsi e tenere discorsi su soluzioni possibili la cui caratteristica essenziale è l’impossibilità a coagularsi in una catena antincendio di severe e punibili concordanze?

Non ci sono percentuali in meno o in più che valgano. Esiste soltanto il convergere di tutte le strade verso la distruttività crescente, nella folle idea fissa del tempo lineare e della sua conseguente Crescita illimitata, col suo sterminio di risorse per contrastare le grandi povertà che vengono, le catastrofi finali che nessuna filosofia politica è in grado di fermare.

Perché la storia umana è iscritta in un ciclo sansarico, è parte di una ruota che la fa, nella luce e nell’ombra, ora essere ora non essere; perché nel Divenire in perpetuo qualsiasi vivere perde il suo stesso nome.

Come misura di Ragione Pratica puoi fare la raccolta differenziata e l’orticello biologico in Piazza Navona o alla Casa Bianca: una condotta etica è bene per chi la tenga - ma non commuoverà mai la maschera di pietra di quel che è predestinato, di quel che è, da sempre e per sempre, Destino.

E anche il Destino abbiamo visto tenuto fuori, malvisto cane sciolto, da questa conferenza di percentuali tristi e di egoismi irriducibili. Il clima out of joint può aiutare, per quanto cosa ahi molto dura, a capire. Può essere una freccia per andare, a occhi aperti almeno, incontro allo sguardo della testa inguardabile di Medusa.

da lastampa.it


Titolo: GUIDO CERONETTI 2010: ci salveranno Cechov e Tolstoj
Inserito da: Admin - Gennaio 03, 2010, 04:25:44 pm
3/1/2010 (8:4)  - RETROSCENA

2010: ci salveranno Cechov e Tolstoj

Lo scrittore e drammaturgo russo Lev Nikolaeviè Tolstoj
   
L'anno che si apre è sotto il segno dei due grandi consolatori del genere umano

GUIDO CERONETTI

Per il Duemiladieci, due date fauste. Per la vita e la strenua, da tenere per le gavigne, sopravvivenza del pensiero, introduciamoci nel ricordo di due formidabili consolatori del genere umano. La prima data, poco dopo il giro d’anno: centocinquantanni dalla nascita, il 17 gennaio 1860, di Anton Pavlovic Cechov; la seconda, cento anni dalla morte di Lev Nicolaevic Tolstoj, il 7 novembre 1910. Gloria a loro, figli della più fraterna Russie éternelle, e non perdiamo la mirabile occasione per riviverne qualcosa. Ripercorrerne la traiettoria di cometa, e nella bisettrice stregata del loro mondo interiore pensare che è a spiriti di questa apertura e forza che dobbiamo le rare tregue di riscatto dalla miseria e dal male fondamentale dell’esistenza, i rari istanti in cui ci imbattiamo come per caso grazie a una indicibile serata a teatro, alla lettura di un romanzo o di un libro di memorie.

Non per nulla raggiava sull’epoca la luce soffusa dei lampioni a gas della filosofia di Arthur Schopenhauer, che avvolse di penombra refrattaria a ogni violenza entrambi: e Schopenhauer è paralume di metafisica dolente, è tenda di rifugio di tutta l’Arte, di tutti gli artisti, degli strateghi del teatro, dei Napoleoni ad Austerlitz scoronati e battuti alla Beresina, dei saltimbanchi tristi ed eroici, dei bodhisattvas sparsi e falliti, vittime della propria generosità e compassione, dei registi del Teatro d’Arte di Mosca, dei pittori alla Böcklin e alla Roerich, dei musici che compongono le note di lutto per l’Infanta o del Pomeriggio di un fauno - e dei Cézanne, dei Zola...

Ogni messinscena cechoviana richiede di ripercorrerlo, dramma per dramma, tutto. Cechov è un bodhisattva sofferente, in incognito, che ha il successo del penare per tutti, e col suo soffio lascia dietro di sé uno stuolo di presenze e di vibrazioni nirvaniche, mentre il suo realismo, il suo aderire ai luoghi, al tempo, al vivente, all’istante transitivo, sono tributi di mera apparenza. Gli va ridato il segreto che fu suo proprio: portare in scena l’invisibile, il legame silenzioso, come di slitta sulla neve, col trascendente. Bisogna iscrivere tra i suoi personaggi anche la corda che si spezza e i colpi di scure che abbattono i ciliegi che compaiono solitari alla fine del Giardino, i singhiozzi di Maša Prozorova e il «Riposeremo, zio Vanja, riposeremo» di Sonja Aleksandrovna, il «qualcuno che sembra pianga» nel teatrino vuoto in giardino nel Gabbiano, gli accenni di balalàika - la presenza in scena di tutto quel che ne è, didascalicamente, tenuto fuori. Si possono vedere i sei drammi principali di Cechov come l’unità profonda di una esalogìa - un unico dramma in tristitia hilarus, pendolo mobile sui crateri della condizione umana. Le prossime regìe russe ed europee, invece di tendere principalmente a violentare il testo, potrebbero, chissà, tener conto di questo: l’unità musicale di tutta l’esalogia cechoviana.

Lo schopenaurismo tolstoiano è ben rappresentato, biograficamente, dalle sue fughe mentali di vecchiaia, di sempre, fino all’ultima, la finalmente compiuta, allorché il treno lo lascerà, libero di morire, alla stazione di Ostàpovo. Schopenhauer non addita nessun futuro - Tolstoj neppure. Vuole fuggire soltanto: dal desiderio, dagli attaccamenti, dalla famiglia, dalla fama, con le irresolutezze tipiche del suo segno astrologico (Vergine, 28 agosto), da tutte le sofferenze implicite nell’illusionismo della Volontà. (Sarà, immagino sfarzosamente, celebrato nel 2010: ma non sia preso Tolstoj come palina con freccia verso il futuro).

Imbarcare sia l’uno che l’altro sulla nave del 2010 può fare rinsavire - ahimè di poco - l’odierno baccanale di impazziti e di oscurati. Non sono assumibili nella sfera globalizzatrice-crescitista-ripresista dove ci vogliono incatenare, felice, come sulle galere del re cattolico. Sono dei renitenti a questa leva di morti che camminano. Sono sorrisi della bellezza e della compassione sorti a medicare le ferite dell’umanità e della terra. Schopenhauer insegna la falsità di ogni esistere e di ogni consistere reale: e per solo scampo da questa voragine, che come il sole non può essere guardata direttamente in faccia, ci confida le arti magistrali del Teatro, e gli urti immani delle grandi armate di Guerra e Pace, la passione di Anna Karenina, il canto dei deportati di Resurrezione.

da lastampa.it


Titolo: GUIDO CERONETTI Crisi, un'oscena ossessione
Inserito da: Admin - Gennaio 23, 2010, 06:07:55 pm
23/1/2010

Crisi, un'oscena ossessione
   
GUIDO CERONETTI


Eh, sì; c’è qualcosa di osceno (nel duplice senso di vergognoso-malauguroso) ingenerato per sazietà e disgusto da certe parole. Pensate a patria, tra 1914 e 1945. Nobilissima ai tempi del Foscolo, al termine della parabola non si poteva che vomitarla. Oggi è tornata nuova, ed è ricacciata indietro. Ma fino a quando durerà l’oscenità universale di crisi nel riferimento economico? (Se si trattasse di «crisi del gatto» non ci sarebbe niente di male). Quanto a «emergenza» siamo bene avviati a doverla trattare con fazzoletti igienici. Pronte, mature per il vomito - sia per la ripetizione meccanica che per il loro contenuto ideologico, vero Aids mentale - ci sono adesso ripresa, uscita dalla crisi, crescita, tornare a crescere, riprendere slancio, tornare a produrre, a consumare, a fare impresa, a essere competitivi, allo sviluppo (nazional-globale), a investire capitale - tutto secondo ragionamenti a senso unico, da nevrosi ossessiva, da incapacità cronica a vedere, ad immaginare altro.

E innanzitutto a concepire il meno, dato che il sempre di più semina danni irreparabili e svuota d’ideale la vita. Una speciale oscenità nel predicare crescita è nell’inerzia della ripetizione: perchè la verità che guarisce è impronunciabile e non risiede in una pioggia da slot machine. Famiglie pie chiedono di censurare a scuola il diario di Anna Frank nei punti dove fa l’arcana scoperta del suo corpicino di adolescente reclusa; ma una coppia ben più scandalosa, e calata in tutte le sfrenatezze, Sviluppo e Ripresa (che da sempre lo segue) si esibisce sfacciatamente davanti a tutte le folle del mondo, mandandole in estasi, tra le Autorità (i Poteri) plaudenti, purché non smettano mai. Mestiere duro mettersi di traverso, e negare con forza quel che è imposto a tutti di affermare e di credere come l’unica verità possibile, guadagnandoci le ritorsioni di sprezzo e di oscuramento da parte dell’irrefrenabile uniformità totalizzante. Non siamo in pochi su questo fronte; però possiamo pochissimo. Il margine di libertà è strettissimo: il dogma unico vigila dal panottico perché nessuno evada.

Ricordo quel che disse una volta, in una esemplificazione per dissuadere dal marxismo dilagante in Italia nel postguerra, il cardinal Siri: «Volete che sia per voi il vostro soprabito, o essere voi per il vostro soprabito?». E’ la gran questione evangelica: il Sabato in vista dell’uomo o l’uomo in vista del Sabato? Ma altro che marxisti al servizio del soprabito! Il dogma assoluto, senza smagliature, inesorabile, che fonda e sostiene questo smisurato mostro di Economia, che fin dall’alba dei telai meccanici tacitamente ambiva ad essere globale, ha trionfato di tutti i traguardi, sbaragliato tutte le renitenze. L’uomo è, dappertutto, per il Sabato della vacanza, per il Soprabito del Consumo Illimitato, della Medicina (e il virus è in vista del Vaccino, fatto per la vendita, non per necessità), e il tumore è per la chemio, la sterilità per la provetta, l’organo umano per il Trapianto. L’Università promuove conoscenza in vista della Produzione, che seleziona i suoi laureati per i propri fini. I soldi che hai guadagnato sono per la Banca, che li impiegherà domani per appesantire lo smog di Pechino o di New Delhi, e per trapiantare dopodomani in Moldavia una fabbrica lombarda, che viene chiusa dove dà lavoro per dare cattiva salute a un popolo già malsano. La vera uscita dalla crisi (del lume di ragione) comincia dalla sfiducia nel futuro. Da un esteso far riposare la mente sconvolta. Un segno autentico, invece, di ripresa della ragione, è la sfiducia nel futuro. Si potrebbero distinguere i saggi iniziati della resipiscenza mediante stole bianche templarie.

da lastampa.it


Titolo: GUIDO CERONETTI Sotto il burqa niente
Inserito da: Admin - Febbraio 09, 2010, 09:33:50 am
9/2/2010

Sotto il burqa niente
   
GUIDO CERONETTI

Non so a che punto sia la faccenda, ma se la Francia lasciasse passare il burqa non sarebbe un atto di tolleranza, ma di resa e rinnegamento dei principii. Tollerare l’intolleranza fa vacillare le istituzioni repubblicane. Portare burqa è come mostrarsi in giro con manette ai polsi e un bavaglio sulla bocca.

-Ma io lo porto volontariamente! nessuno in famiglia me lo impone.

Sono io a volerlo. Perfino Chiesa cattolica è d’accordo, vescovi, professori... E’ atto di libertà individuale: lasciami girare in burqa!-

No. Io, legge repubblicana, nego. La legge vuole che tu la faccia la porti scoperta. Ma non basta: la legge che alla fine del XVIII sfondava le porte dei conventi di clausura e diceva alle monachine implacabilmente costrette nelle Regole delle fondatrici: «Uscite, e invece di ali angeliche indossate il paracadute della Nazione» sebbene nata nel profilo sinistro della ghigliottina, sventola ancora, e nei suoi tre oggi incruenti colori ammonitori veglia a salvaguardia del diritto delle donne di disporre di se stesse e ordina - necessariamente cogente - che il loro corpo sia libero di esporsi agli sguardi nei limiti da tutti accettati del pudore e della decenza. Se è proprio volere tuo puoi ingabbiarti nel burqa tra le mura di casa, ma in qualsiasi luogo pubblico la legge ugualitaria ti obbliga a deporlo.

O legge repubblicana che libera e scopre, o burqa che copre e opprime, burqa figura di antropologia antiuomo. Vero in eterno il pensiero dell’Arthashastra indiano (III sec. a. C.), il classico sanscrito di economia: «Senza il danda, i forti arrostirebbero i deboli come pesciolini infilzati» - dove danda vale esplicitamente castigo perché senza castigo la legge svanisce. Il dono immenso che le due rivoluzioni del XVIII ci hanno portato è una legislazione che in buona parte del pianeta, con moto di risacca ai confini, contrasta senza ambiguità l’opposta libertà familiare, tribale, settaria, religiosa, etnocentrica, sadistica generalmente, di comprimere, tarpare, occultare, schiacciare, controllare, spiare interiormente il singolo essere umano in tutto il suo arco di vita, spesso arrogandosi un potere infame di condannarlo a morte. Mettiamo il secolo XVIII al Pantheon, scrisse Saint-Just.

Dove a un malfermo diritto laico si contrappone la legge ugualmente valida della sha’arìa, tutti sono esposti all’arbitrio teocratico, e c’è burqa occludente per tutti. La legge autenticamente laica (quella che ci rimprovera il Papa) è là per sbarrare il passo a chi alla sua apatìa ateologica serenatrice sostituisce il tumulto teologico, la violenza di un principio avverso che perseguiti la libertà di peccare e di propagare eresia. Israele non esisterebbe come Stato moderno, vivibile in un mare di nazioni in cui prevale violenza teocratica, se si fosse data una legislazione di tipo deuteronomico-talmudico, da ghetto preilluministico, invece di prendere il diritto dall’Europa occidentale e dalla costituzione americana.

Ateologia giuridica non è ateismo, certamente. La legge repubblicana (preferisco dirla a questo modo anziché laica, che si presta ad equivoci) non è ideologica né totalitaria: il suo albero di Giona protegge l’ateo e il neo pagano insieme al Giusto che non pone confini a Dio, il suo occhio veglia sulla moschea come sull’intangibilità di San Petronio, sulle riunioni di filosofi nel nome di Giordano Bruno come su ermetisti, rosicruciani, pentecostali, e perfino satanisti: gli concede di adorare il celebre Caprone a patto di non far male a una mosca, di non spiaccicare un ragnetto, di non sfiorare con una mala intenzione la fronte di un bambino...

La legge repubblicana non è indifferente. Si prende cura. Cancella dalle strade il burqa perché offensivo della verità umana, perché manifesta un controllo sadistico di altro sulla vita. Kemal l’Atatùrk non era un tenerino ma fu un redentore della Turchia, per aver imposto militarmente una legge repubblicana neogiacobina, liberatrice dalla legge islamica e dalle tonache dei preti, e sollevando le donne dalla tristezza luttuosa di ogni variante di velo. Adesso in Turchia c’è un regime che scende a compromessi con gli islamisti: e questo rischia di perderla, e di impedirne l’entrata in Europa.

(Ma poi, in fondo, non è «la stessa illusione mondo e mente» come canta un bel verso di Ungaretti?).

da lastampa.it


Titolo: GUIDO CERONETTI La mia domenica antismog
Inserito da: Admin - Febbraio 28, 2010, 08:23:30 pm
28/2/2010

La mia domenica antismog
   
GUIDO CERONETTI

La domenica dell’Antismog Padano non darà gran refrigerio al polmone di indigeni e trasferiti, ma essere e dichiararsi contrario è «scuoprirsi con le arme» dalla parte di chi gli è nemico.

Per dirsi d’accordo bisogna nascondersene mentalmente i limiti. Cautele, scappatoie, concessioni, penuria di orario, rifiuti di parteciparvi, sono smog di parole che offuscano l’ipotesi Salute. Un certo effetto certamente lo produrrà, benefico anche per chi dimostra di non meritarlo; ma in special modo costituirà, al di fuori della banalizzazione statistica, una prova squisita dell’essere cittadini di una democrazia moderna, in cui l’Ambiente in pericolo condiziona per tre quarti, oggi, la cittadinità di ciascun essere cosciente di come si vive e si vivrà - fatalmente. Perché il Rimedio non c’è e la volontà di applicare i parziali è profondità di assenza.

La patria ce l’hanno tolta: il suo surrogato è l’Internazionale del pallone. La globalizzazione inghiotte sistemi economici millenari e ha minato, stravolgendolo, il credito bancario; tutti investono da Paese dei Ciechi.

E l’aria dell’uomo respirante ha una nuova versione simbolica nel celebre Incubo di Füssli: un enorme Equino che schiaccia con il suo groppone una figura sdraiata: vedici tangenziali, Via Larga, Sforzesco, Tritone, Argentina, Via Po, Corso Vittorio, Francia, Cinisello Balsamo, Monza, Brescia - a scelta. E qualsiasi marciapiedi o portico urbano, o primo piano di condominii, o giardino dove giocuzzano infanzie pallide insaccate di zuccheri. Il Grande Smog è dovunque ed è inseparabile ormai dall’esistenza umana.

Cittadini, dicevo. La venerabilità di questa parola è finita in qualche splendore di stanza piastrellata dove abbiamo imparato a disimparare che il luogo più comodo della casa aveva nome cesso. Ci potremmo esaltare, cittadinamente, ancora come per un assedio cartaginese o di baliste romane quando lo scopo legittimo, l’ultima frontiera, ha nome Ambiente, e il bisogno sociale immediato e più importante è allontanare un poco il tremendo sedere dell’Incubo di Füssli da polmoni e stomaco di milioni di tassati a vuoto che ignorano l’appello alla ribellione civile che nel crudele incalzante S.O.S. ambientalista risuona?

Può coagulare energie di cittadini l’umile dovere di deporre rifiuti secondo ordini prescritti, di prendere una bici invece della makkina, di non comprarla subito al neomaggiorenne, di non clacsonare demenzialmente nei centri intasati, di rinunciare a camere riscaldate fino al trentesimo grado? O (quale scelta eroica!) rinunciare a tenere aperta ad ogni costo una fabbrica che regala tumori?

C’è da riflettere su questo emergere di un pensiero: la Città, la polis, è disposta (credo oggi ancora) a battersi se c’è un vero Annibale munito di elefanti fenici alle porte, ma inventa scuse per defilarsi se si tratta dei teneri bronchi che ne popolano i passeggini. Così, per lo smog di Buenos Aires, la plaza de Mayo rimane muta.

Da richiamare anche un pensiero del grande Cornelius Castoriadis: «Se i cittadini sono senza bussola lo si deve al logoramento, alla decomposizione, all’usura senza precedenti dei significati sociali immaginari. Nessuno sa più, oggi, che cosa sia essere cittadino; ma nessuno sa più che cosa sia essere un uomo, o una donna; nel dissolversi dei ruoli sessuali, questi sono significati perduti».

Paradossalmente, il problema ambientale investe la totalità uomo. È da branchi accecati ritenerlo marginale e di fatto destinarlo al cesso - privato e globale.

Deplorazione per i Comuni che non hanno voluto allinearsi con i sindaci di Torino e di Milano. Si tratta di sussulti di una vivibilità sociale in pericolo: disertare è brutto. Più che sul risultato pratico del gesto, il tasto da premere è il pur sempre educativo e necessario accrescimento della consapevolezza.

da lastampa.it


Titolo: GUIDO CERONETTI Ma Emma non voleva vincere
Inserito da: Admin - Aprile 02, 2010, 08:17:18 am
2/4/2010

Ma Emma non voleva vincere

GUIDO CERONETTI

Nella sgangherata normalità italiana rientrano anche queste ultime elezioni e i loro dislocamenti di persone mi toccano pochissimo. Mi attira, con la sua interessante anomalia, il caso della candidatura in Lazio di Emma Bonino. Candidata di grande, duramente acquisita caratura, le avrei dato volentieri il mio voto di astenuto per fuori sede. Ma, riflettendoci il giorno dopo, mi sono domandato se, votandola, i suoi sostenitori abbiano veramente centrato il bersaglio, secondo le sue stesse intenzioni.

La Polverini, candidata normale, voleva arrivarci davvero, a quel posto scomodo; Emma Bonino, candidata fuori della norma, no. Non perché la scomodità del posto l’attirasse poco: ma perché era determinata a farselo, come è stato, sfuggire.

Sapeva che avrebbe perso. Voleva correre senza mirare al traguardo. Questa è la follia radicale. Ai suoi vertici (Pannella per primo) è un principio dottrinale segreto.

La sua campagna elettorale era appena partita, era il momento di raccogliere tutte le proprie forze senza pensare ad altro, e la Emma si tira indietro, si apparta, dimentica Roma e Lazio, e con uno dei consueti pretesti radicali, si flagella per una settimana di santità laica con un crudele digiuno di fame e sete che ne fiacca le energie e ne mette a rischio, a detta dei medici, la vita. Due ipotesi: la leonessa ha voluto compiere una liturgia propiziatoria, oppure a disegno si è diminuita fisicamente per ridurre le sue possibilità di vincere.

Ad un certo punto entra in scena il cardinale Bagnasco, che sotto il velame di una predicazione moralistica fuori di luogo, avverte che la candidatura Bonino, e la Emma presidente a Roma, sono sommamente sgradite alla Chiesa. Il Vaticano, che non trascura nessun sintomo di pericolo, ha fiutato il nemico. La pronta defezione della Binetti e di altri (mi pare) cattolici integralisti dal partito di Bersani, è stata significativa. Un misterioso tam-tam della Gerarchia ha diffuso il messaggio: «Non far vincere Bonino, erigere barriere, mobilitare le province, favorire astensione». Così è avvenuto, infatti.

Nei commenti razionalisti questo elemento oscuro non è stato, ovviamente, tenuto in conto.

Presidente, Emma avrebbe dovuto incontrare e ossequiare, secondo un calendario Stato-Chiesa pieno di date, rappresentanti del potere ecclesiastico fino allo stesso Papa, contrastare o accettare richieste per lei imbarazzanti. Con la presidente Renata andrà tutto liscio, invece.

È impossibile, o quasi, senza manette mentali, reggere in un posto elevato di potere.

Nel profondo del partito radicale, il rifiuto di essere un partito, eccetto che nominalmente, e con denominazioni irrequiete o in fuga - di appartenere all’aborrita «partitocrazia» di Pannella (termine non adottato nel linguaggio politico comune) fa pensare ad una faccia in ombra di questo minuscolo satellite lunare nel limitato cielo della democrazia italiana.

L’opinione al suo interno appare libera, nel senso dell’esprimibilità, ma a tenerlo insieme credo ci sia una ideologia tradizionale immutabile. La loro parentela spirituale storica la vedrei nei clubs dei Giacobini di prima del Terrore (giacobini moderni, convertiti alla Nonviolenza gandhiana, che disinvoltamente rendono come «satiagrà», cadenza di digiuni al quanto impopolari nel paese degli spaghetti). Un giacobinismo riformatore, dal risvolto «martinista», «carbonaro-massonico», conscio e inconscio, tipicamente settario.

Come partito politico ogni limite nazionale (o peggio, regionale, federalista ec.) gli sta stretto; mentre come setta disciplinata appartengono alla costellazione di refrattari che rinsangua di nascosto e mantiene in vita, nell’Europa libera come nelle Asie e nelle Afriche dove si massacra l’essenza umana, i fragili spiriti della Democrazia liberale.

Lazio e Roma sono lebbroserie incurabili. Un salutare distacco nella maratona votante, domenica 28 marzo ha liberato Emma Bonino, molto più adatta a ruoli internazionali di rovente bisogno, dall’obbligo di governarle. E nei confronti della Chiesa, come dello stesso carrozzone malfermo che a malincuore la sosteneva, sarebbe rimasta drammaticamente sola. Le resterà di meglio, da fare.

da lastampa.it


Titolo: GUIDO CERONETTI Occhi aperti mister Obama
Inserito da: Admin - Maggio 09, 2010, 09:20:49 am
7/5/2010

Occhi aperti mister Obama

GUIDO CERONETTI

Questo articolo vorrebbe trattare di un’Opera Pia denominata La Base. L’originale parola araba, per cui è rinomata, suona e va trascritta in italiano: al-qàida (si può togliere il trattino). Ma per effetto di colonizzazione linguistica i lettori e ascoltatori-telespettatori ancora parlanti italiano sempre più se la vedono trascritta e la sentono pronunciare al qaèda: parola che non corrisponde a nulla - è semplicemente la traslitterazione in ortografia angloamericana per pronunciarla correttamente: al qàida.

Dopo qualche incertezza per la giusta trascrizione ho notato i giornali italiani pendere quasi tutti per la disastrosa e inesistente al qaèda. Soluzione da deplorare: vale la pena rivoltarsi contro il conformismo che ha suscitato anche questa idiozia da lingua impropria e vispamente imbastardita. (Non potendo accettarla, sorprenderò il lettore distillando qui nello spazio che mi ospita la grafia legittima: al qàida).

Obama ne ha parlato, in una radunata mondiale di Stati che sono accorsi numerosi al suo generoso richiamo, per lasciarlo alla fine con un pugno di Vuoto, tale che non potrebbe stendere K.O. nessuno. Il presidente è bravo, ha le idee giuste, è intelligente, è cosciente di ciò che richiede lo stato del Pianeta, e se ha in una mano un vistoso rampo di ulivo, ha nell’altra una potenza di fuoco vertiginosa: purtroppo, convince poco e pochi, fuori degli States. I consensi che riceve sono finti, delle sue proposte non resta niente, e di attenzioni all’italiana pullula il mondo. Un Mandela, uno Havel sono stati dei Buoni ascoltati: perché non Obama?

Perché idee così buone finiscono come sassi in un enorme stagno? Se l’America di Obama perde, il meglio dell’umanità perde, e siamo subito tra i denti delle tigri.

Per prevenire il contagio dell’AIDS basta un preservativo - ma contro il contagio nucleare misure preventive non ce ne sono. Obama ha accennato all’ipotesi «se al Qàida possedesse la Bomba»: ma l’atomica qaidista è il terrorista suicida, il messaggero di morte del castello di Alamùt, al quale basta aggiungere un pizzico di plutonio arricchito nell’attrezzatura, dicono i competenti, per compiere immolazioni urbane moltiplicate per migliaia. I grossi missili sono dinosauri di stupidità, servono alle parate, alla retorica del Deterrente: il sicario che si occulta nella giungla delle città, indifferente alle radiazioni che nasconde nel frigo, è un missile di magro, con laurea e pensione, sufficiente a ubriacare di Panico tutti questi poveri continenti geografici, oggi vulnerabili come un cristallo di Boemia.

Lo scandaglio di Fedor Dostoevskij ha mostrato quale sia la passione più forte, la passione segreta fondamentale dell’essere umano: la distruzione. Da quando il fungo bianco e la pioggia nera di Hiroshima hanno spalancato le porte, sessantacinque anni di irrefrenabile passione per il fuoco rubato al sole, dove si susseguono le esplosioni, quanta distruzione dormiente sperimentale, giustificata da un fine pacifico per bugiardi e per chi vuol crederci, si è sparpagliata nel mondo? In Iran anche l’opposizione ha bramosia della Bomba. In Pakistan il giubilo popolare per la prima esplosione ha toccato il delirio. In India, antica sapienza, altra estasi collettiva. De Gaulle, grande statista, mugolò di piacere quando il primo fungo gallico si levò dal Sahara. Soltanto Israele ha fatto tutto in silenzio, ma hanno a Dimona un’arma da Sansone, da tamburo alle proprie tempie...

Forse è umanamente saggio comportarci da indifferenti, da sarà quel che sarà, mentre intrepidi agenti segreti vanno in caccia qua e là a rischio di cancro e di vita, per stanare uranio arricchito in centinaia di depositi e di valige di scellerati.

È certo che, dopo il balletto Excelsior mistico degli ayatollàh per il dono della bomba, altri cinque o sei Stati entrerebbero in crisi di astinenza per smania di possederla. Obama avrebbe materia per nuove convocazioni mondiali di simulazioni.

Va tenuto conto di questo: l’attentato delle Torri nove anni fa, suscitò entusiasmi e consensi aperti in molte comunità islamiche - ma il suo effetto era circoscritto. L’azione sporchetta all’uranio arricchito invierebbe i suoi miasmi in ogni direzione e l’orrore dell’esito potrebbe avviare la catastrofe per la stessa Base, insieme a rappresaglie popolari incontenibili contro le comunità oggi più o meno in pace nei propri ghetti. La mano che si ispira direttamente ai demoni della distruttività umana, qualora prevalesse nell’organizzazione la follia assoluta, agirebbe. Quel che la trattiene, che l’ha finora, forse, trattenuta, resa esitante, non è l’insufficienza di mezzi, ma il disturbo, la breccia, provocati nel suo stesso odiare cieco da un residuo calcolo prudenziale. Lo stesso fenomeno che avvenne per la Mutual Destruction nella Guerra Fredda potrebbe, entro limiti però alquanto ridotti, verificarsi anche per al-Qàida. Ma un presidente degli Stati Uniti mai più potrà dormire se non con un solo occhio - o con entrambi gli occhi aperti, al modo di certi animali.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7313&ID_sezione=&sezione=


Titolo: GUIDO CERONETTI Quei libri diventati memoria d'amore
Inserito da: Admin - Maggio 17, 2010, 06:54:25 pm
17/5/2010

Quei libri diventati memoria d'amore
   
GUIDO CERONETTI

Dei libri, di certi libri, resta per sempre qualcosa. A volte, cambiano la vita, quando li hai letti: dimentichi il libro; la scintilla del cambiamento, a distanza di anni, nominandone autore e titolo, si riaccende.

Meraviglioso è attendere, fino al termine della notte, che il libro decisivo, il libro-messia-che-viene, scopra se stesso, e per oscuro travaglio ostetrico destinale ti capiti tra le mani. Io posso dire, come l’amatissimo Mallarmé, di «aver letto tutti i libri» e in questo «affaticato» la carne (Qohélet 12) - intendendo: tutti i libri eletti per governare la mia scialuppa di naufrago nel buio: e nello stesso tempo resto alla finestra in attesa di veder apparire il libro di cui poter dire a me stesso: Eccolo.

Sono un certo numero; ma un gran leggitore e consumalibri non sono mai stato; da anni, leggo pochissimo... L’attesa del libro è simile a quella della donna: l’amante del destino deve sempre venire. Il libro è donna per l’uomo che legge.

Il velo d’Iside a qualsiasi età, ad ogni punto del percorso, può squarciarsi.

Il libro segna e contrassegna le vite predestinate a questo genere di mistero eleusino d’iniziazione: di libri che hanno assecondato il mio sforzo di essere, cambiato il mio modo di esistenza, alzando il lembo della Velata, ne ho incontrati parecchi. Su innumerevoli altri lettori non avranno prodotto che effetti superficiali, ma ciascuno è monade, di fronte al libro.

Faccio un piccolo elenco di memoria grata: i canti di Maldoror, di Lautréamont, L’Eneide virgiliana, la poesia di Miguel Hernández, Tristes Tropiques di Claude Lévi-Strauss, il Trattato Breve (la piccola Etica) di Spinoza, La Linea d’Ombra e Tifone di Conrad, L’Uomo invisibile e La guerra dei mondi di Wells, il Purgatorio dantesco (la cantica adatta a chi abbia segnature zodiacali autunnali), I Démoni di Dostoevskij (in specie l’ultimo viaggio «sulla strada maestra» di Stepán Trofímovic), l’incompiuto formidabile romanzo Verità e Menzogna di Piovene, il libro biblico (superfluo dirlo) di Qohélet, le note sparse di Tocqueville sulla Rivoluzione Francese, tutto Sofocle, le Baccanti di Euripide, due o tre o più saggi sugli UFO e il contattismo ufologico con creature aliene.

Inoltre, un buon numero di fiabe di Andersen, le memorie di Ingmar Bergman in Lanterna Magica, il Macbeth scespiriano, L’Assommoir e Germinal di Zola, le Memorie dell’Ombra e del Suono (archeologia dell’Audio-Visuale) di Jacques Perriault, una vecchia (non invecchiata) biografia di Rembrandt, il Mondo, tutto, di Schopenhauer, la Lettera sull’Umanismo di Heidegger, il Voyage di Céline, Lo spazio vuoto di Peter Brook, la Bhagavad-Gita (culmine delle Scritture sacre), la Diciottesima e la Ventiquattresima sûra coranica: La Caverna e La Luce; il Jekyll di Stevenson, un pugno di lettere inimitabili di Santa Caterina, tutto Villon, il Gulliver di Swift, I Promessi Sposi (in specie il capitolo XXXIV), le Quartine di Nostradamus, Guerre politiche di Goffredo Parise... Poiché me ne vengono in mente troppi, smetto di evocarli. Ma i miei più che ottanta anagrafici hanno vorticato su quel largo amoroso Toboga.

Ti possono cambiare la vita anche i Dizionari! Oh i dizionari, meraviglia del genio umano, dono non di una ma di milioni di amanti!!! Non ho memoria di felicità paragonabili ai giorni passati alla Biblioteca del Collegio Romano, sul dizionario della Bassa Latinità del Du Cange, sul Forcellini, sul Francese Arcaico del Godefroy, sui dizionari semitici del Pontificio Istituto Biblico allora retto da Carlo Maria Martini, mio coetaneo, sui testi di Storia della Medicina e dell’Istituto Orientale della Sapienza di Roma. Ad ogni apertura di dizionario un segmento minino di esistenza mentale si univa ad altri formando un disegno, un mosaico, una trama. Di un dizionario fra tutti sono debitore di più vita (ancora oggi l’aprirlo a caso può regalarmi un’estasi della conoscenza che non può, chi non l’abbia provata, comprendere): un testo lessicale delle scuole rabbiniche di Francia del 1859, facile da percorrere in un ebraico esplicitissimo, così irresistibile che avrebbe reso perfino Wagner e Drumont filosemiti. Me l’aveva comprato, in una brancicata ricerca, in rue des Rosiers, al Marais, nel 1955, mio padre: quel dizionario biblico fece un Prima e un Dopo della mia povera vita di pellegrino a Santiago delle parole.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7358&ID_sezione=&sezione=


Titolo: GUIDO CERONETTI I cavalli non tengono un diario
Inserito da: Admin - Giugno 02, 2010, 12:17:14 pm
2/6/2010 - IDEE

I cavalli non tengono un diario
   
GUIDO CERONETTI

Caro Direttore,
avendo scrupoli di verifiche, avrei da esprimere qualche dubbio.
Ha fatto titoli pieni di prima pagina un evento storico come questo: «Berlusconi cita Mussolini». Ma, quando si tratta di Storia, è necessario verificare. Potevano negligerle Erodoto e Tacito, ma per noi le Fonti, prima di diffondere l’importante notizia, sono da richiedere perentoriamente: - Documenti, per favore! -

Il Presidente del Consiglio ha detto di aver tratto la citazione dai Diari del nostro progenitore. Non era tenuto a dire giorno-mese-anno, editore e curatore: i giornali invece, ovviamente, sì. Dico ovviamente perché una certa disciplina filologica e storiografica l’ho bevuta, se non col latte materno, almeno coi caffè giovanili. Di questa pubblicazione diaristica confesso di non saper nulla.

Ho la certezza dei diari di Ciano, di Bottai, di Speer, di Gadda, di Anna Frank, di Cesare Pavese. Di Mussolini non conosco che la smascheratura di un volgare falso avvenuta, dopo effimera eccitazione giornalistica, alquanti anni fa. Sarà quella la fonte storiografica della citazione? Né Mussolini, né Stalin, né Hitler, né Tito, né Trotzkij lasciarono diari. Non erano tipi da diario.

Neppure Silvio Berlusconi, c’è da scommetterci, lascerà diari.
La poco credibile citazione può essergli affiorata dall’inconscio in un momento di amarezza, perché quello che sta attraversando è un campo disseminato di mine amiche. (Fatto ordinario nella storia del potere politico).

La frase citata - se non me ne venga provata l’autenticità - non può neppure essere stata tolta o orecchiata da altri luoghi del parlato-scritto mussoliniano. Non mi pare rifletta l’uomo. È uno sfogo diaristico, ma senza il diario. Pensato mentre cavalca intrepido per Villa Torlonia? «Il cavallo sa - dove deve andar...» cantava allora Odoardo Spadaro: non aveva bisogno di dargli ordini. Ma, quando cavalcava, il Dux era saldo in sella, molto più del Berlusconi del 2010. La frase potrebbe averla detta a donna Rachele, ma non a Claretta, di cui era l’idolo.

A me pare non averla mai pronunciata e tanto meno lasciata scritta. Quando perdette il potere, per verticale caduta il 25 di luglio, non presagiva la trappola ormai scattata. ROMA DOMA echeggiavano le scritte sui muri: il Domatore troppo sicuro di sé era atteso da non più addomesticate fauci nella gabbia dei leoni.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7430&ID_sezione=&sezione=


Titolo: GUIDO CERONETTI Colonizzati dal patriottismo del pallone
Inserito da: Admin - Giugno 17, 2010, 09:21:23 am
17/6/2010 - LE IDEE

Colonizzati dal patriottismo del pallone
   
GUIDO CERONETTI


Mondiali di calcio: in un mondo preso a calci dalla specie antropica all’apogeo dei suoi successi, una versione di Guerra Mondiale non utilizzabile come vaccino, ma iniettata mediaticamente nell’inconscio collettivo delle nazioni per consolarci dei mali di una troppa lunga pace.

Il gioco del calcio ha questa sola legittimazione alla sua implacabile pervasività: di essere un simulacro di guerre civili nei campionati nazionali, e una finzione-video di guerre mondiali ogni quattro anni - che, ahimè! passano in fretta, troppo in fretta.

Mondiali dovunque: in tutte le case, in tutti i pianerottoli e gli ascensori, gli uffici, i mercati rionali, le scuole; impossibile non commentare le partite del giorno prima, impossibile sottrarsi ai commenti delle partite del giorno prima e alle previsioni di quelle dell’indomani. Valga, per chi voglia starne lucidamente fuori, la massima del saggio imperatore Marco Aurelio, quello della statua equestre in Campidoglio: Abstine et sustine (Astienti e sopporta).

Mi pare fosse Prezzolini, nel giornale di Gobetti, a raccomandare, squadrismo vincente, l’associarsi tra «coloro-che-non-la-bevono» (elegantemente detto alla greca àpoti). Noi non beventi, astémi e digiuni di Calcio (spesso, per età, anche decalcificati d’ossa) oggi abbiamo a disposizione i Blog, i Facebook, le poste elettroniche dove sfogare impudicamente la nostra repressa apatia di àpoti verso il mondialismo pallonista, l’occupazione da parte dei cronisti e degli specialisti commentanti di tutto il visibile, l’udibile e il leggibile - la nostra refrattarietà irriducibile ai Falli Laterali, alle Panchine Impazienti, alle mestizie delle sconfitte e alle delusioni cocenti dei Zero a Zero al dilà dell’ottantanovesimo Minuto.

Le unificazioni separano. Questa mondialità è sospetta. Più realisticamente, le partite sono scontri di nazionalismi, religioni, governi, regimi che si odiano, colluttazioni interetniche, interrazziali, interclassi sociali. Si vuole sempre vincere per qualcosa: altrimenti, perché voler vincere? Gli inni nazionali precedono ogni incontro: giustamente, l’inno pacifico non esiste. Dietro la partita ci sono gli spettatori virtuali: un intero popolo che si ricorda di essere stato foresta primordiale, di aver portato artigli e che è là per incitare a immolare simbolicamente, in undici giocatori di diverso colore di maglificio, un popolo irragionevolmente altro, i subumani dell’altro emisfero o di al di là di una catena montuosa. Ogni urlo d’incitamento è masticazione sterminatrice. Provate ad immaginare una partita Israele-Hamas: iperguerra, non guerra semplice! Ci sarà in Sudafrica Israele-Iran? Ci sarebbe da trattenere il fiato: scoppierà adesso o domani?

Nelle città italiane sono esposte molte bandiere tricolori. Quale vittoria militare celebreranno? Il centocinquantenario dell’Unità nazionale devaticanizzata? Eccone là un’altra... un’altra ancora!...E si diceva che il patriottismo è morto! Forse che i missionari della Pace Assoluta, i reparti italiani sulle ambe afghane, hanno attaccato e sbaragliato i talebanski, invece di rassegnarsi a farsi accoppare secondo regole d’ingaggio inimmaginabili in qualsiasi operazione militare dal tempo delle guerre sannitiche romane? Per niente...Tutto quell’onore di bandiere è riservato a guerre ben più veraci e tremende! A guerre contro Paraguay o Argentina, contro Svizzera, sulla linea de fuego Como-Brogeda la domenica sera, contro Spagna, contro Brasile, Irlanda, il Ghana, l’Impero del Sole... Agli ordini del Generale Lipp! Discusso, si dice, ma, in ogni caso, meglio di Cadorna, lo sconosciuto a tutti i liceali della omonima stazione della metropolitana di Milano.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7485&ID_sezione=&sezione=


Titolo: GUIDO CERONETTI Ma sì la Scala può vivere
Inserito da: Admin - Dicembre 30, 2010, 08:57:46 pm
30/12/2010

Ma sì la Scala può vivere

GUIDO CERONETTI

Sono grato a quanti, del ramo, hanno voluto replicare al mio scrittino sulla chiudibilità della Scala. In verità, l’Opera e il Cinema li ho non poco amati, giovanilmente (il cinema di più e più a lungo) e ripudiati in seguito. Ma le critiche ricevute partono da una premessa diversa, la mia concerne la caducità, l’inesorabilità dolorosa del Tempo. Il cinema e l’Opera hanno vissuto: dura invece, per motivi contingenti legittimi o discutibili, la loro sopravvivenza.

Quella del cinema è intossicante, per lo più, quella dell’Opera, come propongono gli stessi sovrintendenti, esige riforme dure, indossare i tagli e se possibile renderli più crudeli, e guadagnarci in sussulti di creatività invece di piangerci sopra. Quanto farà salire la spesa un famoso regista? Quanto pesano gli scioperi ricattatori, specie quando una prima si approssima? Qui un sovrintendente che fosse libero e sovrano (non c’è quasi più nessuno, in Italia), implacabile come il capitano Mac Whirr di Tifone, farebbe questo discorso al personale e agli artisti: «Sarete pagati tutti benissimo, ad una sola condizione: che non facciamo neppure mezz’ora di sciopero per l’intera stagione, perché il bilancio è questo, e ci stiamo appena. Prendi o lascia». Così si affronta una crisi, torcendogli il collo - esemplarmente - senza accattonaggio culturale. Spese culturali alle quali non negherei larghezza di denaro pubblico sarebbero, e con decisione e urgenza, i nostri istituti di cultura all’estero, che mi dicono languescenti. Ma dico, e lo grido, si fa qualcosa per sostenere un patrimonio linguistico mondiale come l’italiano - o nulla?

Si fa qualcosa - o si dà perdente subito, con la complicità orba e perfida dei governi che volendosi di destra dovrebbero qualche cura alla nazione-madre abbandonata al branco, in quel che ha di più luminoso - per la lingua italiana? Venderla all’inglese, con un bilinguismo che ci mutila, che ci prostituisce e avvilisce, è un crimine contro l’anima di una nazione. Difendere la lingua vorrebbe un bilancino di tipo militare, perché ne vale la pena. «Madre infelice, corro a salvarti...». Sì, questo è aver coglie per una causa arcibuona!

Per porre l’insegna integralmente nella sola lingua italiana, un premiolino al negoziante intrepido non sarebbe sprecato.

Per un balletto scaligero di pura creazione (di rottura col repertorio classico allo stremo) lo Stato non sprecherebbe i soldi. Mi resta il dubbio che possa essere introdotto del veramente nuovo nell’immensità spaziale di un palcoscenico tipo Scala, occupato sempre, anche vuoto, dai residui d’anima che l’hanno arroventato in secoli di sofferenza e di ossa curvate indelebilmente ai ruoli, nella stretta schiavizzante dei pentagrammi. Le idee sovversive non prendono, nel recinto operistico, o lo snaturano. In un certo senso l’Opera è inviolabile. Il palcoscenico materiale può modernizzarlo benissimo un grande architetto, come Botta alla Scala, senza rimuovere il blocco invisibile di voci perdute, di anime affannate, di sinfonie avvinghiate alle tavole, di gesti immutabili, di forme-pensiero, che lo caratterizza illuminato o spento. Non so quanto ne sia, di un genere statico come questo, realmente riformabile. Riformare è un po’ uccidere. Conservarlo così è minotauro da soldi; chiede vittime sempre e col tempo di più.

In generale, una cultura come insieme di realtà spirituali e specchio di una lunga storia dell’incivilimento umano (che sempre, toccato lo zenit, precipita nell’imbarbarimento: e qui ci sguazziamo, però da arcipelago), se tenga ancora perché fa turismo e commercio, è morta. Puoi puntellarla quanto ti pare, i crolli ci saranno ugualmente.

Più per motivi morali che economici, l’abito di rigore nei bilanci, in un teatro-minotauro come la Scala, va imposto: anche se lo Stato traboccasse di prosperità, il minotauro non dovrebbe essere saziato. Ma è più facile guadagnarsi da vivere, che aumentare le proprie vivendi causae, che sono la vita vera.

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Titolo: GUIDO CERONETTI Nel 2011 sogno un'Italia di cittadini
Inserito da: Admin - Dicembre 31, 2010, 05:36:58 pm
31/12/2010

Nel 2011 sogno un'Italia di cittadini

GUIDO CERONETTI

Inalterato, intero, tutto nel medesimo sacco, il pensiero dominante si trasferisce dal vecchio al nuovo anno. Per lo più il suo linguaggio è statistico; le parole e le metafore sono le stesse; le voci dei parlanti hanno aumentato nomenclatura americana; deplorazioni ed esortazioni pie non varieranno spartito. Ceffi orribili, nell’ombra, né parlano, né scrivono, né si mostrano; siedono dappertutto, si muovono sul filo dei nostri luoghi comuni.

Le cose di cui m’importa diminuiscono ogni anno. Della riforma universitaria, di cui ho inteso parlare tutto l’anno, non me ne importa niente. Della politica parlamentare m’importerebbe se mai le capitasse di scalfire in qualche cosa l’onnipotenza del luogo comune. Mi fa orrore pensare che potrebbe essere votata l’infame legge della vecchia (oggi fluttuante) maggioranza sul testamento biologico, voluta dai vescovi dopo il caso Englaro (sia sulla povera piccola vittima la pace). Vorrei veder sprofondare nel nulla progetti e cantieri della Expo milanese e sbarrata dagli angeli fiammeggianti, allo scempio dell’Alta Velocità, l’imboccatura della Valsusa.

Vorrei invece vedere l’ultimo verace tradizionale Dalai Lama vivente invitato a turno da tutti questi pavidi governi e presidenti europei nei loro palazzi, rivolgendo scongiuri danteschi alla funebre ottusa senile arroganza cinese, in secca risposta alla sedia vuota dove avrebbe dovuto ricevere il Nobel per la pace l’intellettuale dissidente in prigione a Pechino.

Vorrei vedere Obama riscuotersi come Gene Tunney dal K.O. di Jack Dempsey a Chicago nel 1927, e finalmente innalzarsi al rango di grande presidente degli States - vittorioso come Kennedy a Cuba, pacificatore sì, ma soltanto dopo aver vinto le sue guerre in corso e schiacciato l’idra atomica iraniana. (Dio sa come: ma si può non volerlo?).

Vorrei vedere - perché il sogno vuole la sua parte appena la ragione gratta l’enigma di un archetipo - il Messia stendere il suo ombrello bianco anche su questo non messianico Israele, riportarlo all’incirca all’epoca asmonea e alla grotta di Qûmran, la stessa che ci ha restituito, evento degli eventi del secolo XX, i rotoli della setta del Mar Morto. (Ancora qualche generazione nella tormenta - tormentata e tormentatrice).

Vorrei che quando, nei sondaggi che si ripetono con esiti sempre uguali, gli italiani confessano che cosa più li preoccupi, una maggioranza strenua, indubitabile, l’ottanta per cento almeno, rispondesse che è l’ambiente, il massacro d’ambiente, l’abitabilità, non i soldi, no, no, no... E subito dopo, o meglio ex aequo, l’estendersi dei poteri criminali nell’impotenza crescente della legge. Questo significherebbe essere dei cittadini, e non un gregge di pecore da macello, che si lascia rassicurare dalla vicinanza di un gigantesco Supermercato.

Disponessi di un attestato ufficiale (ma in ogni caso ne scrivo uno manualmente, non elettronico) lo darei di «donna dell’anno» ad Emma Bonino, per la sua intrepida incessante mondiale sfida contro lo schifoso, ripugnante costume delle mutilazioni genitali femminili, un pezzo di tenebra umana che qualche presagio di luce vicina lo dà.

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Titolo: GUIDO CERONETTI Un'idea dell'unità d'Italia
Inserito da: Admin - Gennaio 20, 2011, 06:23:22 pm
20/1/2011 - L'ANNIVERSARIO

Un'idea dell'unità d'Italia

GUIDO CERONETTI

C’è indifferenza verso il centocinquantenario dell’unità d’Italia, punito da tormentose cure generate dalla incompresa crisi economica e dallo stato di coma della politica. C’è addirittura chi si disonora calpestando e bruciando bandiere tricolori.

Io sono un vecchio a cui duole l’Italia, come la Spagna doleva a Miguel Hernández; ma a me l’Italia duole senza speranza. E all’Italia unita tengo, ma una sola configurazione politica per mantenerla tale mi pare possibile: la repubblica presidenziale all’americana in una struttura federativa senza frantumazione regionalista. E’, s’intende, un progetto ideale; ma anche questa Italia, che non cesserà mai di essere governata male, con larghe ipotesi di malgoverno progressivo, senza poter escludere che dalla tuba salti fuori (non invisa, anzi applaudita dai cardinali) una repubblica islamica - anche questa nazione di incoscienti ipnotizzati dalle televisioni è nata all’inizio del XIX, da un moto ideale, spirituale e messianico, il più potente in Europa dal tempo della Riforma: il 1789. Il più bel figlio della rivoluzione dell’Ottantanove è stato il risorgimento italiano, coi suoi martiri sacri, con le sue passioni tramontate.

Ma se vogliamo che una entità italiana (e italofona) abbia ancora un senso nel tempo, nella inesorabile cadenza di frenesia del Divenire, bisogna stringere fortemente i bischeri del presidenzialismo, e federare per centralizzarne confini e interdipendenze, centralizzare perché nell’ipotesi federativa libertà e diritti siano preservati dappertutto, federare per affinità etniche e spirituali (salto forte che mai ebbe attenzione durante il periodo monarchico fino alla diarchia mussoliniana da parte dei Savoia o degli Aosta) e federare limitatamente (per estesi Länder), non per regioni-pollaio dove qualsiasi volpe-Lega irromperebbe attraverso ogni smagliatura: pessima influenza la sua, né unitiva né separativa, mera anestesia in vista di chirurgie devastatrici.

Mi astengo dalle celebrazioni perché, inevitabilmente, non vedono in nessun processo, illuminabile storicamente, che tracce e intrecci piattamente materialistici, calpestando a loro volta il tricolore perché ne rinnegano l’origine e il significato scandalosamente spirituali. Manzoni, il grande illuminista-illuminatore, riconobbe perfettamente l’immensa portata delle campagne del Bonaparte. Ne vide lo stupro generatore, ma Hölderlin ne comprese meravigliosamente la sapienza sottile, la forza del sigillo puramente spirituale - estendendoli a tutta Europa ma dando fortissima connotazione emblematica all’Italia, ricordata esemplare (vedi a p. 220 tomo I, dell’edizione Adelphi, e la mia versione a p. 366 della raccolta La Distanza, BUR, riediz. 2010: «Sopiti, inerti, i popoli tacevano...»). E’ «dal Reno azzurro al Tevere» che il fatale impulso napoleonico si manifesta con più grassa e rovinante potenza. Il tricolore blu dilata ostetricamente la prescritta futura Italia nella sua letargia formicolante di passaporti interni.

Salteranno ad uno ad uno, ma l’Italia dei Sabaudi (Alpi e alpeggi smarriti, fontine e fondute cuciti insieme con la Singer, e una smisurata sequela di coste fino a minute isole che vedono l’Africa) non sarà come la Francia giacobina del suo battesimo Una e Indivisibile... In meno di un secolo la Monarchia è già alle corde e degenere...

Ma il lievito messianico, da quando il Fato (Schicksal) intraprende di giocare coi mortali «un gioco audacissimo» (Hölderlin), l’Ottantanove mirabile, guida dei Carbonari allo Spielberg, del grembiale massonico e della camicia garibaldina, dov’è finito? Perché subito naufraghi?

Quando Giulio Einaudi mi incoraggiò a imbarcarmi sul Trenino Fantasma che diventò il mio Viaggio in Italia, non avevo nessuna idea su che cosa avrei potuto osservare e scrivere. In un quadernetto inedito di note preparatorie appare l’idea di fondamento del mettere in luce, col pretesto di un’autobiografia pellegrinante, l’essenza italiana, e l’aura che - oggi incurabilmente malata - l’avvolge. Pensavo di andare alla scoperta della sostanza puramente ideale italoparlante, che dalla sponda ellenica ricevette il nome pregnante, esoterico, di Esperia.

Esperia, per cui l’Italia è la Terra della Sera, la nazione crepuscolare, e niente affatto «il Paese del sole» dello stupidario turistico; la grande rete da pesca Italia di un interminabile tramonto. Tutto si copre ben presto d’ombra, in Italia: qui in verità è la peculiarità italiana, il bisogno di abbeverarsi d’arte per restare vivi nell’incalzare della morte, il viaggio dantesco nei regni d’Oltretomba, repubbliche e signorie ossessionate dal proprio estinguersi, che Machiavelli si sforzava di far durare, con spietatezza di stile, sulle tracce della Prima Deca di Livio.

Il Machia era un sognatore: tutto il suo genio era impotente a rifare la congenita fragilità ossea dell’Italia, fino e ben oltre i suoi malgoverni repubblicani, che significativamente finiscono sempre prima, partiti che si dissolvono in passerelle d’ombre. E’ Esperia, l’ombra della Sera, che a sua volta ironicamente governa i governi italiani, ne prescrive la durata, li spinge nel vuoto. L’Essenza italiana rifiuta ciò che è pratico, è dialogo amaro con la Finitudine, partita a scacchi di perdente con l’angelo sterminatore...

Forse non sono riuscito a comunicare questo, e i libri spariscono presto; ma credo averla intravista e sperimentata questa realtà simbolica soggiacente, questo perpetuo, immancabile purgatorio di tramonti chiamato Italia, che si è unita per più soffrire di sé, per essere via via meno viva tra le presenze europee. I tre versi di Salvatore Quasimodo che culminano in «Ed è subito sera» rischiarano bene questa verità sublime che quando puntualmente si mostra nessuno vede.

All’inno trionfalista risorgimentale dovrebbe seguire il Silenzio militare, delle bare onorate che ritornano dagli incubi asiatici spaventosi. Il secondo è la verità del primo.

Qualcosa di concreto si può fare per ricordare il perduto Risorgimento... Leggere, rileggere, far leggere e commentare nelle scuole, nelle università e nei teatri le ultime lettere di condannati a morte della Resistenza, qualche testamento di caduti e martiri della Grande (troppo grande) Guerra (Giosuè Borsi, Nazario Sauro, Cesare Battisti...) e specialmente l’ultima lettera-testamento di Tito Speri, prima dell’impiccagione a Belfiore.

Vittorie amare, luci da ritrovare, sconfitte da meditare. Ed è subito sera.

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Titolo: GUIDO CERONETTI La speranza che viene dall'Egitto
Inserito da: Admin - Febbraio 06, 2011, 09:50:50 am
6/2/2011

La speranza che viene dall'Egitto

GUIDO CERONETTI

In termini di filosofia politica, nei moti tunisini e egiziani si può intravedere il sorgere di una forma nuova di associazione cittadina che anela a istituzionalizzarsi in modo autonomo secondo il modello generico delle democrazie laiche. Questi processi faticheranno certamente a concludersi: in verità è vera democrazia il mai finito. Le convulsioni della nazione più potente - scardinando necessariamente il sistema di potere religioso islamico, che reagirebbe alla minima scalfittura - potrebbero durare a lungo, e costare botte, furori, sangue.

Noi non sappiamo far altro che deplorare sempre, ogni momento, ipocritamente, la violenza. Eppure la Convenzione, in Francia, svaginò la democrazia tagliando indegnamente teste; De Gaulle la salvò tra le bombe; la creazione di una autentica democrazia nella Spagna schiacciata dalla Chiesa cominciò entre ríos de sangre nel 1936, e durò quarant’anni; l’incompiuto risorgimento italiano ebbe bisogno di un tempo analogo, interamente costellato di violenze. Quel che oggi complica tutto è una verità tra le più allarmanti, questa: «La perdita di patria sta diventando un destino mondiale» (Heidegger, Lettera sull’umanesimo; e la data è significativa: 1946). Nessuna democrazia moderna (e neppure quella ateniese) è nata senza il terreno solido di una patria, surrogato della religione perdente, in fuga dalla tolleranza.
Dovunque, globalizzazione e consumi sono perdita di patria, diaspora d’esilio; il loro esito, e lo vediamo, se vogliamo vederlo, è disperazione economica, guerra mercantile tra entità statali prive di nome.

Un trapianto d’industrie è la celebre fuga a Samarcanda del vizir che incontra la Morte nel suk di Baghdad: non sfuggirà alla fatalità.
Una crisi come quella che si è aperta al Cairo non può essere fermata con la semplice cacciata dal potere dell’uomo che si illudeva di fondare una dinastia di regime, sia pure stato a lungo quel che chiamiamo un «fattore di stabilità», per il pavido Occidente.

Se in Italia c’è chi pensa che togliendo di mezzo secondo regole da inventare Berlusconi si fa il bucato a una democrazia in condizioni di agonia (sebbene affondata nella globalità più sbandante) come questa in cui perdiamo tutti il rispetto di noi stessi - dire che è di vista corta è misericordia. Gli anni di Berlusconi hanno il merito di aver fatto emergere dalla babele delle parole l’immangiabile verità di una forma democratica in sfacelo, come la casa degli Usher di Poe. Andate a leggervi quel racconto e vedrete qualcosa di simile alla democrazia italiana di questi Tristi Duemila.

Se da noi l’illegalità-chiave sono i partiti occupatori, ridotti a fazioni ruffiane di potere - come anomalmente predicano Pannella e i radicali - la nazione ha il dovere di non più tollerarli. Se le illegalità sono milioni, una sola grossissima può purgarle tutte, come un immane clistere: una rivolta popolare che sommerga letteralmente sedi e palazzi governativi e parlamentari, una marcia su Roma non di lugubri teschi ma di tricolori-multicolori persuasi del vento che li spinge, di cittadini vedovati di identità patria, un risveglio del Colosso di Goya fatto di uno, due, tre, quattro milioni di teste - la resurrezione di Bruto!

Intorno al 1880, il marchese Cesare Alfieri di Sostegno raccomandava: «Chiudete quelle fogne amministrative di Palermo e di Napoli!»: benissimo, ottimo consiglio - via le fogne, via le infezioni mafiose, la restituzione all’aria della sua respirabilità. A cosa può servire fare un processo dopo l’altro (in verità: minacciarlo, coitus reservatus) contro persone singole, quando una intera classe dirigente è imputabile di fellonia, di tradimento, di sbranamento dell’unità patria?

A Ercole occorrerebbero milioni di braccia per ripulire le stalle d’Augìa di questa famosa Penisola!
E dopo il purgone bisognerebbe rifare tutto senza un solo batterio di quel che è stato, eleggere una Costituente repubblicana di facce nuove, senza più destra-sinistra, vuote occhiaie - una Costituente presidenziale capace di stanare un uomo giovane, incontaminato, un Kemal Ataturk libertario, figlio di qualche sobborgo disperato, e di farne un Primo Console. L’ossessione dell’economia globale, dell’investimento a oltranza, con le sue triviali predicazioni sulla crescita del prodotto e del suo forsennato consumo, spinge a capofitto nel baratro, fa crescere essenzialmente la sete di denaro, perché il Pensiero Unico è padre di crimine, alimenta cronaca criminale... Ma finalmente ridiamo un po’ di ossigeno a questo linguaggio asfissiato!

Fino a un coma tragico me l’hanno addormentata, questa parassitosa nazione di divisioni perpetue, che ha avuto dei Machiavelli ammutoliti, ma non un De Gaulle capace di dirci che ci ha capiti.

Non si vede, dappertutto stendiamo lo sguardo, che passività incurabile, torpore, inebetimento... (Così bene lo previde, nel suo romanzo postumo, Guido Piovene).
La piazza egiziana ha acceso un barlume di speranza: il suo messaggio ancora sigillato viaggerà lontano. Un Egitto che immagina qualcos’altro, per sé e per tutti, è una pietra preziosa che irradia una luce insolita di fresca aurora.

da lastampa.it/_web/cmst


Titolo: GUIDO CERONETTI Le lattughe di Cernobil
Inserito da: Admin - Marzo 22, 2011, 03:49:12 pm
22/3/2011

Le lattughe di Cernobil

GUIDO CERONETTI


Fukushima adesso, che mai vedremo: lo spettro di Cernòbil ha i suoi appuntamenti ignoti.

Chi ha ricordi ricorda. Fummo rassicurati subito.
Il prof. Colombo che dirigeva l’Ente nucleare, dichiarò subito che l’Italia, certo per i suoi meriti angelici, non sarebbe stata toccata dalla nube radioattiva. Così annunciavano le testate. Poi sì, sarebbe stata toccata, ma appena con deflorazione evangelica, qualche minima ricaduta in Veneto, guardarsi dai funghi sarebbe stato uno scrupolo sufficiente.

La fortunata penisola fu invece trattata con rudezza dalla celebre nube, che generò leucemie e tumori e provocò nella gente una violenta rivolta contro il piano perfettamente delirante del prof. Felice Ippolito, che avrebbe disseminato centrali nucleari come gustose noccioline un po’ dovunque. (L’atomo, in verità, non fu mai popolare in Italia).

Le diete subirono variazioni travolgenti. Il nostro ministero di allora della Sanità dettò regole drastiche. Comparvero sui banchi dei piccoli e grandi mercati ortofrutticoli soltanto ortaggi cresciuti sottoterra, indubitabili: non vedevi che mucchi di carote, cipolle, patate, rape. Una barba! Ma lo spettro del reattore quattro di Cernobil era là, guatava ogni nostro movimento e boccone. Il Giappone ufficiale e quello macrobiotico proposero il consumo abbondante di alghe di un certo tipo (mi pare la più venduta fosse la Kombu), che quasi non trovavi più, e il riso biologico integrale. Correva questa leggenda, nel Sol Levante: che in un ospedale nei pressi di Hiroshima dove c’erano abbondanti scorte di riso, tamari (salsa di soia) e alghe, nonostante la fortissima contaminazione radioattiva, medici e infermieri che avevano cura di quei poveri appestati, furono protetti dalla dieta a lunghezza di giorni. Da noi, scomparsi latte fresco e latticini, rimasero in commercio soltanto formaggi di pasta dura, il Parmigiano-reggiano seguitò a regnare sulla tavola italiana. Svizzera e Francia invece non osarono frenare l’industria nazionale casearia e lasciarono i loro amati cittadini deliziarsi con celebrità formaggesche su cui la Nube aveva lacrimato come un’Addolorata.

A Torino, una signora molto vicina al proprietario di allora della casa dei Gelati Pepino, mi diceva molti anni dopo, anzi neppure tanti, che i soli gelati dove non era contenuta radioattività erano i Pepino, perché il latte di base proveniva tutto da pascoli garantiti, mentre su tutti gli altri non c’era da giurarci, e i peggiori erano i provenienti dall’Est, controllati allora alla sovietica, quantunque a Mosca ci fosse il buon Gorby con le sue ali tese. Il quale, del resto, lasciò i suoi piloti immolarsi eroi sorvolando a bassa quota il reattore per soffocarlo coi sacchetti di sabbia; uno solo di quei ragazzi sopravvisse, Anatolij, e dopo anni di cure incessanti Cernobil lo disfece come Fukushima disferà i volontari di terra e d’aria, autentici kamikaze («vento divino») che si stanno provando a spegnere il drago da vicino.

Il bisogno di eroi cresce a misura che crescono, si moltiplicano, s’ingrandiscono le catastrofi d’ambiente del pianeta.

Le lattughe e tutte le verdure verdi a foglia larga ci mancavano come ai detenuti l’amore, mentre i piselli surgelati sovrabbondavano. Altra leggenda consolatrice fu la banana, le si vendeva perfino marce. Autorevoli medici proclamavano Anticernobil questo meraviglioso ma non onnipotente frutto dei tristi tropici, che forse non colpì la nube. Credo le mangiassimo perfino marcette, per un riflesso di cultura arcaica, benemerita sempre, che nella curva banana annerita, impoverita di sostanza zuccherina, ritrovava l’archetipo della strega dai poteri magici, della sciamana curandera, capace di far vivere e morire.

Temevamo la pioggia, che si dava in fragorosi diluvi primaverili e di cumuli gravidi di Cernobil, temevamo ci bagnasse la capelluta, e ricomparvero le provvide galoches, in estinzione: separavano meglio il piede dall’asfalto e dal marciapiede, messaggi in codice di gocce dell’angelo radioattivoforo. Poi, appena sulla soglia di casa, via galoche le scarpe accanto alla porta, la pantofola a rassicurarci col suo tepore di sorella. I medici raccomandavano di non far toccare alle suole i pavimenti di casa, in specie tappeti e moquettes (che io eviterei sempre, detestandoli). Sconsigliavano inoltre pollini e pappe reali, per sospette provenienze dall’Est, ogni tipo di fungo, i tartufi, nei quali tuttora si riscopre il Cesio 37.

In pochi anni l’Europa dall’Atlantico agli Urali si era ricoperta di centrali, riempiendosi di scorie da scaricare possibilmente (anche criminalmente) altrove - tra la contrarietà isolata dei movimenti verdi, che mai riuscirono ad impedirne una.

Fui tuttavia sempre dalla loro parte, fuori da ogni contenuto politico; l’indifferenza ambientalista in genere degli scrittori e degli intellettuali italiani era però famosa.

Dell’atomo-colomba-bianca, delle centrali adulate come pulite e soprattutto pacifiche, non fui mai persuaso. Ormai sono parecchie centinaia (con una Italia che maledice il suo «essere rimasta indietro») e certamente non furono fatte senza motivi di profondità che non riguardano né risparmio né convenienza, e restano dovunque un mistero da indagare e un dramma escatologico. Resta un altro mistero la quantità impressionante di centrali fatte in Giappone (più di cinquanta dove ancora fa vittime il Dopo Nagasaki-Hiroshima). Disciplinati troppo, passivi troppo, uguali troppo, questi sconosciuti giapponesi, oggi attanagliati tra Fukushima e tsunami.

Che vogliano, per la seconda volta, lanciare al mondo un avvertimento?

Quanti occhi aprirà il rogo appestato di Fukushima?


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Titolo: GUIDO CERONETTI Dal mare il pericolo senza nome
Inserito da: Admin - Aprile 05, 2011, 11:26:39 am
5/4/2011

Dal mare il pericolo senza nome

GUIDO CERONETTI

Tento di dare un’opinione-pirata.
Non ho prove provabili, ma ho il senso del pericolo, in comune con tutti gli animali. Uno di questi è la talpa di un celebre racconto di Kafka. «Si crede di essere in casa propria, in realtà si è nella loro». Esempio strategico pregnante: la linea Maginot aggirata, nel 1940; in quel momento i tedeschi erano già a Parigi. Ebbe inizio una convivenza tragica, finché la talpa si riscoprì uomo.

Un elementare senso del pericolo (territoriale, identitario, genericamente nazionale, e in questo caso anche religioso) dovrebbe suggerire la semplice idea che, quando gli sbarchi sulle coste italiane diventano di migliaia, si pone un problema di difesa militare. Quello che è strano, in questo dramma dell’assurdo, è che si invochino aiuti e scatti di alleanze per prenderne sempre di più, per predisporre modi di accoglienza e non per stabilire e proteggere - umanamente ma fermamente - un confine militarmente invarcabile. Se Israele accogliesse tre o quattromila palestinesi, Gerusalemme, il supremo esito del 1967, sarebbe subito, com’è già in parte, casa loro. Non si danno vuoti disoccupati, né occupazioni innocenti o neutre. Gli stessi Stati Uniti temono e sempre più, inesorabilmente, temeranno, l’occupazione ispanica, che ha messo l’Arizona (immensa Lampedusa) in legittima fibrillazione.

Un senso di inconscio risveglio dell’istinto difensivo mi pare di leggerlo in questa perdurante spontanea esposizione del tricolore. C’è come un grido silenzioso dell’anima profonda. Queste bandiere non celebrano un passato, ma sono talpa che non vuole diventare casa loro e grida aiuto. Ma a chi, se nessuno comprende?

L’orecchio nella pulce è che questa cadenzata partenza tunisina di una flotta da sbarco squisitamente islamica (compresi eritrei e somali), sia stata pianificata, per l’occasione prevista della rivolta tunisina, resa magnifica dalle imprevedibili rivoluzioni che scuotono il Magreb e tutta l’Arabia, e hanno schiodato Israele dal suo ruolo fisso di centro di una «questione mediorientale» stanca di essere diventata uno sgangherato luogo comune.

Pianificata: non si sa da chi, ma abbiamo, credo, dei servizi segreti con antenne riceventi mondo, in grado di saperlo, se le cose stessero così. Il mio non è che un sospetto fondato.

Il popolo che sbarca è di uomini validi, tra i diciotto e i quaranta, che pagano un esoso biglietto. Le donne sono rare ed è facilissimo metterne qualcuna per la commozione, possibilmente incinta, in Paesi dove né le donne né i bambini contano troppo. In qualità di profughi da guerre, lo scenario di guerra è da trovare. Le folle di veri profughi le conosciamo: prevalgono le donne e i bambini, ci sono immagini strazianti di vecchi che si trascinano... Qui l’anomalia è sbadigliante: di vecchi neanche l’ombra, e di aneliti a trovare lavoro non ce n’è spreco. Allora, c’è un plausibile scopo? Portare scompiglio politico e sociale in una Italia afflitta da sgoverno cronico? Saldarsi ad una comunità religiosa islamica preesistente già forte di voce, e da tempo? Azione in vista di un sogno, che potrebbe prendere corpo, di califfato europeo in cui l’europeo autoctono diventerebbe dhimmi (cristiano o ebreo tollerato, pagante tassa)? Italia come prima e più fragile preda?

Insediamenti destinati a fissarsi, di cui una o più mafie sarebbero pronte ad approfittare? Rendere incontrollabile (del resto, già lo è) la spesa assistenziale di uno Stato ad economia sbaraccante? Puoi pensarle tutte. La verità, nelle predicazioni unanimemente buoniste, è certamente impossibile trovarla.

Un pescatore di Lampedusa ha detto, all’inviata di una radio, un lapidario «siamo in guerra» (senza il come) che riassume bene la situazione. I danni alle barche e le aggressioni per rapina non invogliano la gente ad offrire il pane e il sale. E la soluzione del governo, dominato dai vantoni celoduristi della Lega, e promossa dal loro stesso ministro dell’Interno, è sconcertante: lo sparpagliamento lungo tutta la penisola della promettente piena umana in arrivo mediante una flotta di mezzi navali. L’identificazione delle singole persone essendo impossibile e scarso all’estremo il giubilo degli italiani, le isole concentrazionarie previste si possono fin da adesso configurare come disastri di una guerra senza combattimenti, inaudita finora nella storia del Centocinquantenario. Un paragone classicissimo è la faccenda del cavallo di legno che sorprese l’eccessiva credulità dei poveri Troiani, che per metterselo in casa avevano addirittura squarciato le mura.

Difficile, più che mai, capire; ma intelligere è essenziale. E una volta compreso prendere decisioni giuste è difficilissimo. Volerle giuste e umane, e insieme battere un nemico oscuro, un’armata disarmata, che ha per unica micidiale arma il numero, è una canzone di gesta.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali


Titolo: GUIDO CERONETTI La parola politica specchio del nulla
Inserito da: Admin - Maggio 29, 2011, 05:40:29 pm
29/5/2011

La parola politica specchio del nulla

GUIDO CERONETTI

Parlare non è emettere parole. Se si pensa quel che si dice, c’è da ammutolire.
Il politico, avendo perso quasi dappertutto il rapporto tradizionale con l’azione, emette parole, ed è questo il principio e la fine del suo agire. Il mondo viene modellato e organizzato a partire da enormi enfiature di parole che surrogano l’azione - che non compiamo più - e che il capo politico ha compiuto talvolta prima di esercitare un potere fatto esclusivamente di parole il cui fondamento è meramente grammaticale. Mussolini, dopo la Marcia - in verità, non avendola materialmente fatta, fin da prima, dal 1919, diventato lui stesso gigantesco silos di parole, organizza il mondo emettendo dei battaglieri, cadenzati e a loro modo efficaci reggimenti di fonemi.

Il caso Berlusconi è straordinariamente emblematico. Dietro di sé non ha mai avuto un agire: fin da subito organizza il mondo aziendale attorno a sé adoperando esclusivamente lo strumento parola, di cui non conserva neppure la superficie semantica - gli basta la pura struttura sintattica-grammaticale. Attraverso la macchina dell’industria di trasformazione televisiva, dal mondo aziendale passa, con estrema facilità, ad organizzare il mondo di una nazione come l’Italia, già resa frolla da migliaia di trasmissioni, e in brevissimo tempo, con una campagna elettorale compiuta a passo di corsa, l’Italia violentata magicamente e resa madre di nulla, madre delle stesse parole che in giudizi e pensieri saranno state emesse dai teleschermi.

Si spiega l’indifferenza berlusconiana per i significati, il contenuto magmatico delle sue parole di difesa, d’attacco e di smentita del tutto privo di sostanza e di valore morale. Semanticamente, le sue parole non vogliono significare nulla, come non vogliono significare nulla quelle di chi rimprovera a lui il nulla del suo significare. Tutti possono dire qualsiasi cosa: la forza delle parole sta tutta, terribilmente, nel loro scorrere e affluire alle menti, anche le più intelligenti (nota bene!), e persuaderle di qualche verità inesistente, in quanto mondi di parole, architetture di franamenti silenziosi.

Nella realtà inesistente delle parole che non hanno peso né significato, sebbene possano seriamente essere captate, discusse, proposte come se ne avessero, Berlusconi non è affatto un’anomalia. Giudicare che lo sia è un’obiezione simmetrica di un contrasto che patisce della stessa privazione di significato. In questo senso, Berlusconi non ha (né potrà mai avere) vera opposizione. Vivrà politicamente ben al di là del suo stesso tramonto.

Un parallelismo estremamente indicativo ce lo dà oggi lo stesso presidente degli Stati Uniti. Se misuriamo il discorso di Gettysburg di Abraham Lincoln a un qualsiasi intervento oratorio di Obama, intravediamo l’abisso tra la parola che significa e crea mondo reale, e quella che propaga messaggi che colpiscono, attraggono voti, capitali, ovazioni, commenti mondiali, analisi critiche, senza mordere realtà gravida di strati, senza organizzare il mondo come a Gettysburg, rivoltarlo de profundis, o anche, semplicemente, mantenere una promessa elettorale. Obama è il primo presidente degli Stati Uniti in cui l’azione appare completamente svincolata dal Dire ed è tutta eterodiretta rispetto a colui che parla.

Un esempio recentissimo: Obama riprende l’utopia adulatrice e triviale dei Due Stati (il Gòlem-Palestina e l’eternamente in guerra Israele) e sorprendentemente rilancia la stessa retorica dell’ultimo Arafat: il ritorno dei confini israeliani al 1967. L’avesse detto Berlusconi si sarebbe detto: va beh, è Berlusconi... Ma Berlusconi sarebbe stato meno imprudente! Non c’è parola in grado di risolvere un nodo così stregato: né patto tra le parti, né interventi di altri a cui non preme che dire senza significare: perciò abbiamo ben più da temere che da sperare. La proposta ventosa di Obama, se fosse obbedita, porterebbe drittamente al suicidio di Israele e al reimbarco sull’Exodus dei superstiti. Perché farla, buon uomo?

Una lingua senza più ormeggi, senza misura né controllo etico serrato sfocia, nell’agorà politica, giudiziaria, scolastica, in un bacino d’incontinenza verbale, in fradice sequele di dichiarazioni insensate, di propositi assurdi, di smentite e rinnegamenti a ruota di qualsiasi cosa sia detta o pronunciata pubblicamente.

L’insignificanza non è innocua; quella di cui soffre il dire non è episodica; sono colpi di scure ripetuti ai piedi dell’albero Ragione. Quando non prevale che il luogo comune e il sermone corre su binari che sembrano rassicuranti perché privi di novità, allora si affaccia il Pensiero Unico e ci manetta tutti, dai capi dello Stato e del Governo al cancelliere di Tribunale, dal padrone onnipotente della televisione al rincoglionito d’ospizio, dal sindaco al barbone, dal cardinale al famelico sbarcato.

Nei reni del Pensiero Unico si annida una violenza totalitaria metastasica, impaziente di qualsiasi ostacolo (legale, tradizionale, nazionale, ecologico), adattabile ad ogni tipo di regime, che bene o male spacciandosi per neoliberalismo economico trova il suo micidiale strumento pervasivo nel linguaggio politico e di relazione che, ripeto, non ha fondamento reale e non significa che se stesso - figlio di Beliàl, dice la parola scritturale, cioè del Nulla come entità maligna.
L’unica buona regola è diffidare sempre, non credere a nessuno, rigettare ogni predica, il consenso autorevole, l’assoluzione dissolvente...

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Titolo: GUIDO CERONETTI Per ben celebrare la festa dei morti
Inserito da: Admin - Novembre 07, 2011, 09:09:45 am
2/11/2011
 
Per ben celebrare la festa dei morti
 
GUIDO CERONETTI
 
D’istinto le folle celebrano la Festa dei Morti il primo di novembre, invece del 2 di novembre prescritto dalla Chiesa, oggi specialmente col ritorno inaspettato di Halloween, via America e New Age, la festa celtica druidica dei Morti, per tenerli legati in vista di catturarne energie benefiche, e propiziarseli tanto da impedirgli di spruzzare sui vivi le malefiche non raggirabili. La Chiesa ha dedicato a tutti i Santi (Ognissanti) il giorno della festa pagana, senza riuscire a separarla dalla data che la segue, per l’eccessiva, credo, vicinanza di giorno. Ma è alla vigilia dell’Ognissanti, che il commercio floreale destinato esclusivamente a marcire nei cimiteri raggiunge il suo acme. Io ho ricordi d’invincibile malinconia infantile delle sere di primo novembre nei Trenta, in cui ero obbligato a recitare il rosario in un latino storpiato come un cavallo zoppo insieme a sette/otto persone di famiglia e ad un cugino maleamato, mentre la città era avvolta nel nebbione. In realtà non capivo bene che cosa fossero i Defunti, salvo che i nostri, della famiglia, per lo più durante l’anno commemorati con squisite maldicenze, da farteli detestare ad uno ad uno, erano tutti finiti tra le braccia di Gesù, probabile abitatore della luna o di astri anche più vasti per contenerli tutti, i Defunti della terra tolemaica, che i migliori di terza elementare a malapena concepivano gonfiata da Copernico. Seguiva una cena, autentico banchetto funebre da bassorilievi arcaici, dove alla fine apparivano i dolci più indigesti, più devastanti, del repertorio dolciario nazionale: i Marrons Glacés. Dopo aver degustato una buona manciata di Terra dei Morti, il Marron Glacé ci indicava la strada per arrivarci prima del tempo.

I nati oggi adolescenti celebrano come uno scoppio di pura festosità Halloween, la vigilia di Ognissanti, senza capire perché sia di precetto la Messa, e poi tutta quella mestizia cimiteriale. Il milanese l’è l dì di mort, alégher! non è ironia esorcistica, ma esortazione a contagiarsi con reciprocità di allegria, come nella tradizione sudamericana, introduttiva dell’estate.

Ma bisogna liberare dalla tradizione cimiteriale il meraviglioso e annunciatore di vita fiore del crisantemo, il fiore aureo degli intelligenti (a quel tempo) Greci. Il crisantemo a corolla grande (se la corolla è piccola ne calano significato e prezzo) è ornamento delle case e calamita di felicità sui vivi e offrirlo nelle sue varianti di bellezza alle persone amate, e dono da accogliere obbligatamente con gioia e con gratitudine.

E bisogna anche ficcarsi in testa che non esistono fiori dei morti: sono fiori dei morti quelli del 6 agosto 1945 che a Hiroshima e dintorni stavano ostinatamente fiorendo, sono fiori dei morti i fiori che le nostre immani devastazioni bloccano nei terreni contaminati e desertificati.

Flores para los muertos ripete la vecchia fiorista ambulante nel Tram di Tennessee Williams: ma quella figura che passa è la Morte stessa e tutto quel che smercia ha lo stesso significato, vendesse pure conchiglie, tinche, conserve o, peggio, uova: è consigliabile da lei non comprare niente, e se cerca di vendervi crisantemi da portare ai morti è per oltraggiare le tombe che ha inventato e dappertutto sparso. Le Messe che si celebrano il 2 novembre «per i morti» le sopprimerei volentieri, fossi Papa, perché mal collocate e superflue. I Mani, come infallibile recita la quarta di Properzio, sono qualcosa , ma al di là delle sepolture i riti non li aiutano: sono già aiutati, e il troppo ricordarli gli nuoce nei loro cammini. «Io non sono qui» si è fatta iscrivere una grande voce sul suo sepolcro mantovano - l’attrice Nella Bonora: non essere più là , anzi mai stati là non equivale a non essere più.

Tuttavia, come i Mani, anche le tombe sono qualcosa. E le terragne, sgombre di monumento, Dante dice che «solo a’ pii dan ne le calcagne» e nel carme foscoliano Dei sepolcri c’è ancora di più. Le tombe hanno una vita propria e certi grandi nomi gli conferiscono più anima. Credo a loro convenga sempre, in ogni stagione una solinga rosa. Lo sfregio, l’oltraggio, la vergogna dei nostri cimiteri sono i fiori di plastica! Se i morti sputassero gli sputerebbero dentro, furiosi e ostili. Sulla tomba col nome di Baudelaire, nel cimitero di Montparnasse, una volta all’anno, io portavo una rosa.
 
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Titolo: GUIDO CERONETTI Istantanea di un mostro: spread
Inserito da: Admin - Novembre 25, 2011, 10:47:18 pm
25/11/2011

Istantanea di un mostro: spread

GUIDO CERONETTI

Più vorticoso del gorgo di Lofoden di Edgar Poe, più schiacciante dell’Incubo di Füssli: SPREAD

Questa parola di una lingua che sta a poco a poco prepotentemente scacciando la nostra (e pagheremo caro il rifiuto di difenderla dallo stupro), nel suo idioma d’origine significa innocentemente diffusione , espansione e altre cose. A stravolgerla è stato il gergo della Borsa americana: e qui il mio rifiuto di tuffarmi in questo ignoto dalla brutta grinta mi impedisce di inseguirla nei suoi significati, che inquietano e spaventano la povera e pulita gente alla quale desidero fino all’ultimo appartenere. Non mi occupo di Spread, ma di destino umano.

La vecchiaia non è una meringa. È più indigesta dell’olio di merluzzo. Ma, come l’olio di merluzzo contiene una vitamina delle più preziose e rare: ti toglie una quantità di preoccupazioni del domani, ti fa sorgere spontanea l’adesione alla massima evangelica: «Basti a ogni giorno il suo male». Il male di ogni giorno ride di quel che sarà lo Spread del giorno dopo e di quel che sarà in un inesistente domani il futuro pensionistico di figli spesso ancora in mostra sul passeggino. Sciaguratamente, l’ossessione di una Economia che non ha il minimo aggancio col significato della sua origine greca («legge della casa»), che non entra nelle case, che è una mera astrazione, una ipotesi contraddittoria e sposta capitali enormi attraverso onde improbabili immaginate al di là dell’orbita - capitali che sono vuoto su vuoto, pur facendo impazzire gli Stati, le più potenti come le più franose nazioni. Ma i calcoli sono fatti da macchine onnipotenti, che danno vita a statistiche che pochi soltanto ritengono di saper interpretare. Ma le percentuali, che ci vengono presentate inoppugnabili, che oracoli sono? Non sono povere Pizie senza il Dio, Pizie da marciapiedi?

Mi capita di ascoltare, a tavola, tra mezzogiorno e l’una, la trasmissione dell’ottima Radio Ventiquattro Salvadanaio , che mentre annaspo in un convito di solitudine, mi procura la viva felicità di sperimentare come tutto, dico tutto, senza residui, di quella trasmissione, che tratta temi economici ravvicinati all’odierno modo di esistere, mi sia meravigliosamente indifferente. La conduttrice Debora Rosciani domina le materie astruse di cui si occupa con una fantastica disinvoltura di competente che non ne lascia fuori neppure una briciola. Non l’ho mai vista, ma la sua voce m’incanta, mi calma anche quando riflette violente perturbazioni al di là degli spiccioli. Per lei Spread non ha segreti, lo srotola come un tappeto davanti a chissà quanti ascolti, e io non ci leggo che lo Havèl havalìm del mio vecchio amico biblico Qohélet: «fumo di fumi, tutto non è che fumo e vento che ha fame».

Mi appassionano le voci ansiose del pubblico telefonante e mailizzante: «Devo investire in Australia o in Uzbekistan?» - «Ho una casa a Berlino: la scambio a Milano con un garage?». Il cuore delle ansie sono le banche, ma Debora distribuisce i suoi salvagenti da tutte le sponde: viaggi a basso costo, riscaldamenti, liti di condominio (il più tristo modo di abitare: l’inferno sono gli altri: fuggite il condominio e gli amministratori - nota mia), supermercati, saldi stagionali, rimborsi, tasse. Dalle domande assente cronico è la perplessità circa pezzi della terra che ci nutre, passaggi di poderi, uso e abuso dell’agro, dove chi ci sta ignora se il successore sarà un figlio o un costruttore-distruttore della vita. Anche questo è significativo: il denaro non ha altro fine che il denaro: le ricette Rosciani, o di ogni altro esperto, si fermano lì, dove l’infinito Nulla ti agguanta.

Immune dal comprendere Spread (meglio un etologo di un filologo) devo tuttavia confessare che un certo allarme mi serpeggia per l’euro. Incoraggerei chiunque lavori per il suo mantenimento, ma non ne ignoro l’intrinseca debolezza, l’esposizione ai raggiri, alle truffe mondiali, e la sinistra inclinazione a gonfiarsi. Ricordo la prima percezione di imbroglio rassodabile nell’Italia (1999? 2000?) appena entrata nella Zona Euro, ascoltando un imbonitore che il giorno prima svendeva tutto a mille lire, battere la sua merce a un euro soltanto uno! uno! uno! e la gente cascarci, felice di spendere uno invece di mille... Già, ma un euro non corrispondeva a mille - ma a quasi duemila. Il gioco era fatto.

Oggi l’euro è forte a Babilonia e a Samarcanda, e addirittura a Washington, a Wall Street: ma quanto vale a Roma, a Parigi? Quanti ne devi tirar fuori per un kg di cavolfiore o una tariffa medica non mutuata? Nell’esistenza minuta e sminuzzabile, l’euro è debole. Con un euro fai l’elemosina minima a un suonatore benemerito di strada, ma se vuoi vederlo sorriderti torci il collo alla tirchieria e con delicatezza deponi un cinque nel cappello.

L’euro è debole nel cavolfiore perché l’Europa unionista è partita dalla fine (la moneta) e non dal principio classico, l’urgenza strategica. Dall’ano e non dalla testa. Era il buon momento quando il progetto di una comunità di difesa andò in frantumi per refrattarietà idiote nazionali: la CED sarebbe stata una buona partenza. Cesare non romanizzò le Gallie con i sesterzi ma con le legioni; né gli Stati Uniti cominciano col dollaro, né i cantoni svizzeri furono tenuti a battesimo dai banchieri ginevrini.

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Titolo: GUIDO CERONETTI Lucio Magri e il suicidio assistito
Inserito da: Admin - Dicembre 01, 2011, 05:30:31 pm
1/12/2011

Lucio Magri e il suicidio assistito

GUIDO CERONETTI

Novità, nel morire, se ne danno poche. Il suicidio che diciamo «assistito» non è per nulla nuovo, sotto il sole: per tradizione il suicida ha sempre avuto chi assistesse e prestasse aiuto. Abolita la schiavitù e l’amicizia profonda venute meno, il suicidio è diventato solitario, orbato di riti, o clandestinità e ammiccamento d’ospedale. Hanno colpito, nei tempi recenti e recentissimi (pochi giorni fa) l’inaudito gettarsi nel vuoto di Mario Monicelli, all’età di novantacinque anni, e la partenza per una località svizzera, dove il cantone autorizza l’associazione DIGNITAS a fornire, dopo accertamenti, gli strumenti di morte rapida e indolore, del fondatore del Manifesto - Lucio Magri. Si tratta di una forma di eutanasia: di fatto il paziente è lasciato solo con la sua determinazione, può fermarsi e tornare indietro, mi pare, anche all’ultimo momento.

Magri ebbe i suoi meriti nell’essere stato spina nel fianco del PCI, che in Italia espelleva gli eretici, invece di torturarli e fucilarli come nella rimpianta URSS. Nel caso di Magri, l’Assistente Invisibile è stato il male epidemico dell’Occidente tra metà del XX e l’attuale inoltrato secolo: la Depressione. Nelle sue manifestazioni estreme, spinge facilmente nel vuoto, non meno di una incurabile intollerabilità delle condizioni di vita. In una depressione di più anni, come si dice di Magri, l’Assistente Invisibile ci chiama irresistibilmente in Svizzera, o in ogni luogo dove la pratica sia pulita e perfino autorizzata. Ma qui c’è un peccato fondamentale: l’asetticità, la regolazione affidata al computer, l’assenza di nobiltà del gesto, che tradizionalmente implica violenza, brutalità verso il proprio corpo, sporcizia. Il suicidio di Bruto e Cassio è un finale tragico; nella morte volontaria di Magri, e dei molti che prendono la stessa via, il tragico non c’è.

E ancora, dopo una vita da ideologo mondano, com’è descritta, nella sua determinazione non sono neppure immaginabili scrupoli, timori dell’Oltre, tenui lucori di speranza in una trascendenza: nulla che colleghi il nostro povero esistere a un piano di realtà metafisica. Soltanto l’accompagnamento affettuoso della collega Rossana Rossanda può avere ingentilito questo suo ultimo viaggio.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9502