Titolo: CINA - Inserito da: Admin - Luglio 29, 2007, 06:38:37 pm ESTERI
Politici e super-ricchi fanno a gara a collezionare amanti: un costume che fu già degli imperatori e di Mao. Ma il regime lancia una campagna di moralizzazione Cina, il ritorno delle concubine sesso e corruzione per i nuovi potenti dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI PECHINO - La videocamera del casinò di Macao riprende l'anziano vicepresidente del Parlamento cinese, Cheng Kejie, mentre punta migliaia di dollari alla roulette. A fianco ha una vistosa bellezza di 45 anni, Li Ping, il cui ampio décolleté mette in mostra una sovrabbondanza di gioielli. Tutti quei soldi che il politico rovescia sul tappeto verde, e quelli che ha investito per decorare il corpo della sua amante, sono stati sottratti illecitamente dalle casse della Repubblica popolare. Grazie alla confessione della donna, Cheng viene condannato a morte e giustiziato poco tempo dopo. La signorina se la cava con una pena di carcere più modesta per aver collaborato con la giustizia. La sua testimonianza, prima ancora della telecamera a circuito chiuso del casinò, è stata decisiva per incastrare il politico corrotto. Dietro il "ravvedimento operoso" dell'amante c'è la scoperta che il vecchio Cheng manteneva un intero esercito di concubine, e lei non era più la favorita dell'harem. Una storia parallela ha per protagonista il viceammiraglio di Pechino di cui le cronache hanno taciuto rispettosamente nome e cognome (il prestigio delle forze armate supera perfino quello del partito comunista). Dopo anni di ruberie nelle casse dello Stato l'alto gerarca della marina militare era convinto di poter contare sull'impunità. L'anno scorso invece è stato condannato all'ergastolo. Il suo errore fatale: è "scivolato" sulla vendetta di una delle sue numerose amanti, convinta di ricevere una fetta troppo piccola del bottino. Non accade solo in Cina che gli scandali di corruzione politica abbiano anche dei risvolti sessuali. Ma a Pechino la nomenklatura di regime sembra avere riesumato integralmente l'antico costume imperiale: un Vip che si rispetti deve manifestare il suo status mantenendo un esercito di giovani amanti. L'ampiezza dell'harem di concubine è uno degli indicatori più fedeli del livello di potere politico o finanziario. Già Mao Zedong si era premurato di emulare gli imperatori: le memorie del suo medico personale narrano che alcune Guardie rosse della sua scorta avevano il compito specifico di reclutare giovani compagne sempre nuove, per sfamare l'insaziabile appetito sessuale del leader comunista. Ma ai tempi di Mao questo privilegio sovrano era riservato quasi esclusivamente al Grande Timoniere. La rivoluzione capitalistica ha diversificato i ranghi della nomenklatura e ne ha allargato le disponibilità economiche. Una vasta élite di nuovi capitalisti e manager arricchiti condivide le risorse con i politici che intascano tangenti; nella classifica dei loro consumi opulenti le giovani amanti figurano al primo posto. Il fenomeno delle "seconde mogli" iniziò con i cinesi della diaspora all'inizio degli anni Ottanta: non appena Deng Xiaoping aprì le frontiere al ritorno dei capitali che erano fuggiti all'estero durante il periodo più duro del comunismo. I ricchi imprenditori di Hong Kong e Taiwan attirati dalle riforme economiche furono i primi a investire in Cina. Facendo la spola con la terraferma mantenevano due famiglie: una nel luogo d'origine, l'altra nella seconda casa intestata a una ragazza di Canton o Shanghai. Il fenomeno della doppia vita si è esteso a tal punto che nelle ricche metropoli industriali della Cina orientale e meridionale, da Hangzhou a Shenzhen, interi quartieri di lusso sono noti oggi come "i condominii delle seconde mogli", abitati dalle giovani amanti (e dai figli) dei ricchi businessmen pendolari. Ora, con l'avvicinarsi del congresso del partito comunista che si terrà questo autunno, i vertici del regime lanciano una delle solite campagne anti-corruzione. E al primo posto figura, non a caso, la denuncia della "poligamia di fatto" che si accompagna alle ruberie dei potenti. La signora Liu Xirong, numero due della Commissione disciplina del partito (un organismo ben più temuto della magistratura), ha rivelato che "l'anno scorso nel 70% degli scandali di corruzione le tangenti sono finite nelle tasche di mogli e amanti". I mass media ricevono direttive dal dipartimento di propaganda per intensificare gli appelli alla moralità con l'avvicinarsi dell'importante scadenza congressuale. In una fase in cui molte famiglie, anche nel ceto medio, sono preoccupate per l'aumento del costo della vita e dalla dura competizione per i figli neolaureati sul mercato del lavoro, lo spettacolo degli harem di concubine dei potenti viene denunciato come "perversione e decadentismo". Con un'audacia evidentemente autorizzata dall'alto, alcuni organi di stampa hanno ripreso da un blog su Internet una "classifica nazionale dei campioni dell'adulterio", un inedito campionato ufficioso degli harem. La palma d'oro viene assegnata a un ex boss di partito del sud del paese, Su Qiyao, che con 146 amanti ufficiali ha sgominato la competizione. Yang Feng, ex segretario comunista nella provincia dello Anhui, ha vinto il premio speciale per "qualità di management". Avendo conseguito un Master in business administration all'università di Pechino, Yang ha messo in pratica la sua competenza economica nella gestione del suo harem. Alla concubina più efficiente ha affidato la contabilità per le altre sei, e ognuna riceveva regolarmente una pagella di valutazione del suo rendimento a letto. Ma l'arrivo di una nuova compagna ha scatenato un crescendo di gelosie che hanno portato alla denuncia e alla caduta del boss. Perché naturalmente in questa classifica sono finiti solo i casi che il regime ha deciso di scoperchiare e castigare, la punta dell'iceberg. Il fenomeno delle seconde, terze, quarte mogli in Cina denota una persistente diseguaglianza tra i sessi. Solo di recente, con la diffusione del benessere, si segnala anche il fenomeno inverso: ricche imprenditrici, o mogli di miliardari trascurate dai mariti, "affittano" per migliaia di euro al giorno giovanotti di bella presenza che le accompagnano a fare shopping, al ristorante, in discoteca e naturalmente nel dopo-discoteca. Ma è ancora un fenomeno minoritario. L'infedeltà maschile sembra provocare una riprovazione etica e sociale meno forte dell'infedeltà femminile. Il dilagare delle concubine è uno degli ingredienti che spiegano il crescente successo delle serie televisive sulla storia imperiale. In questo momento in testa agli indici di audience c'è un telefilm di 80 puntate dedicato al secondo imperatore della dinastia Tang. Gli episodi che hanno il massimo ascolto sono quelli che descrivono le complesse lotte di potere tra concubine e cortigiane. Dietro le elaborate scenografie d'epoca il pubblico deve aver colto un sapore di attualità. (29 luglio 2007) da repubblica.it Titolo: Pechino 2008, protesta di Amnesty: «Tibet libero» Inserito da: Admin - Agosto 08, 2007, 08:06:13 pm Pechino 2008, protesta di Amnesty: «Tibet libero»
Pechino festeggia l’arrivo delle Olimpiadi, ma arresta gli attivisti di Amnesty International. Con balli, canti e fuochi d'artificio la Cina celebra la mancanza di un anno alle Olimpiadi, cercando di ignorare le proteste. In questo periodo attivisti a favore del Tibet hanno manifestato sulla Grande Muraglia e almeno quattro autorevoli organizzazioni umanitarie internazionali hanno accusato Pechino di non aver mantenuto le promesse sulla «completa libertà di stampa» per i Giochi. Come se non bastasse la capitale è stata avvolta in una cappa grigiastra di inquinamento solo parzialmente eliminata dalla pioggia - vero incubo degli organizzatori - che è caduta copiosamente la sera, più o meno nelle ore nelle quali, tra 365 giorni, dovrebbe svolgersi la fantasmagorica cerimonia d'apertura concepita dal regista cinematografico Zhang Yimou. Indicando con chiarezza quali sono le preoccupazioni del mondo sportivo John Coates, il responsabile della squadra olimpica australiana in visita a Pechino, ha affermato che quello dell'inquinamento è «probabilmente il problema più grosso» e che agli atleti australiani verrà raccomandato di non venire a Pechino in anticipo per ridurre al minimo il pericolo di «malattie respiratorie o dello stomaco». In una conferenza stampa nella capitale, il Comitato per la Protezione del Giornalisti (Cpj) ha chiesto al Comitato Olimpico Internazionale (Cio), di insistere con la Cina perché rispetti le promesse fatte al momento dell'assegnazione dei Giochi. Il Cpj - un'organizzazione no profit di giornalisti americani - ha accusato la Cina di non aver mantenuto fede agli impegni presi. Martedì la polizia di Pechino è intervenuta pesantemente contro i giornalisti che avevano seguito una manifestazione di protesta di “Reporters sans frontiere”, organizzata per denunciare le stesse mancanze. I rappresentati del Cpj hanno fatto i nomi di 29 giornalisti in carcere, e hanno chiesto che vengano liberati, affermando che «la loro stessa detenzione contraddice le promesse fatte». Bob Dietz, responsabile del gruppo per l'Asia, si è rivolto ai circa ventimila giornalisti stranieri che verranno in Cina in occasione dei Giochi, e li ha invitati a ricordarsi delle condizioni nelle quali lavorano i loro colleghi cinesi, sottoposti agli arbitri dei potenti locali e alle restrittive leggi nazionali. La denuncia del Cpj - contenuta in un rapporto intitolato «Falling Short» (Promesse non mantenute) - è stata quasi contemporanea alla diffusione di documenti dello stesso tenore stilati da Human Rights Watch e da Amnesty International. I gruppi ricordano la repressione contro giornalisti e cyberdissidenti, contro le minoranze etniche tibetana e uighura, contro i religiosi della setta del Falun Gong e le organizzazioni cristiane non registrate presso le autorità. Lo smacco peggiore, gli organizzatori dei Giochi lo hanno subito da sei attivisti filo-tibetani, che hanno aperto sulla Grande Muraglia, non lontano da Pechino, uno striscione che, riprendendo lo slogan delle Olimpiadi diceva: «One world, one dream, Tibet libero nel 2008. «Protestando alla Grande Muraglia, il simbolo più riconoscibile della Nazione cinese, vogliamo dire con chiarezza che il sogno della Cina di essere un paese leader nel mondo non può realizzarsi fino a che prosegue la sua brutale occupazione del Tibet», ha affermato in un comunicato diffuso insieme alla notizia della clamorosa protesta Tenzin Dorjee, vice direttore del gruppo “Students for a free Tibet”. I sei attivisti (due canadesi, tre americani e un britannico) sono stati arrestati dopo la protesta e al momento se ne ignora la sorte. Pubblicato il: 08.08.07 Modificato il: 08.08.07 alle ore 9.10 © l'Unità. Titolo: Pechino, diritti umani percorso a ostacoli Inserito da: Admin - Agosto 11, 2007, 08:54:54 pm Pechino, diritti umani percorso a ostacoli
Lina Tamburrino Ogni anno a scadenza fissa c'è tra Stati Uniti e Cina uno scambio al vetriolo di libri bianchi sui rispettivi diritti umani. I primi rimproverano alla seconda l'oppressione del Tibet e dei dissidenti, eredi di Tiananmen. I secondi replicano elencando puntigliosamente i livelli di criminalità americana. Ignorano gli uni e gli altri che gli Usa affondano le radici dei loro diritti umani nel primo emendamento del Bill of Rights; mentre la Cina , come ricorda il sinologo francese Jean- Philippe Bèja- «è diretta dal Partito comunista, il che significa che è proibito opporsi alla sua direzione». Una differenza non da poco. Ma lasciamo perdere le polemiche politiche che attengono ai calcoli delle relazioni internazionali. Andiamo alla sostanza della situazione cinese. È fuori discussione che il dossier sia consistente: violazione dei diritti umani, appunto; robusto ricorso alla pena di morte; mano dura nei confronti delle minoranze etniche, a cominciare dai tibetani. Ma non è un dossier facilmente occultabile. Il Paese , anche se deve essere interpretato, preme per cambiamenti. E si dibatte tra buone intenzioni, buone decisioni ( forse) e una struttura del potere che fa da ostacolo. La Cina di oggi, anche in questo campo, non è più quella maoista, e nemmeno quella dei primi di anni del post- maoismo. Ha fatto passi in avanti, ma gli ostacoli sono ancora paralizzanti. Ha approvato nel 1998 la Convenzione internazionale sui diritti civili e politici e ha riconosciuto nella Costituzione i «diritti umani». Non più dunque i diritti civili, eredità di quando si veniva catalogati cittadini in base alla appartenenza di classe o alla varie rivoluzioni culturali. E non più nemmeno «diritti cinesi» o «diritti asiatici». Ma «diritti umani» come riconoscimento della loro universalità. Cui però fa subito da contrappeso il «socialismo con caratteristiche cinesi» e il nazionalismo spinto che, con la crescita economica, è il cemento della legittimazione della classe dirigente. Diritti umani, dunque, ma ancora non piena libertà di espressione ( la repressione religiosa) e nemmeno pieno diritto alla tutela personale. Esemplare la lunga vicenda della pena di morte, già fiorente sotto la dinastia Qing. E tutt'ora. Secondo un dato ufficiale cinese del 2004, ogni anno ci sono in Cina diecimila sentenze eseguite. Di conseguenza, l'argomento non è più un tabù. Se ne discute, anche se solo tra studiosi e nel chiuso delle università. Perché fuori, secondo un sondaggio del 2002, l'88 per cento dei cinesi è d'accordo per questo tipo di punizione finale. La prima sortita abolizionista si ebbe nella primavera del 2000, a un convegno sul tema alla Università di Pechino, per bocca del professor Qiu Xinlong. È rimasto sostanzialmente solo. I giuristi più giovani si sono detti d'accordo con lui, ma ritengono non matura e per il momento impraticabile l'abolizione (ecco, le «caratteristiche cinesi» che fanno sempre capolino). E così vari esperti hanno suggerito di diluire la abolizione della pena di morte nel tempo ( propongono cento anni), cominciando con il ridurre di quindici l'elenco dei crimini per i quali è prevista. E con il riformare radicalmente la struttura giudiziaria chiamata a giudicare: oggi con i testimoni non c'è contraddittorio, possono solo inviare testi scritti; il procedimento giudiziario è farraginoso; gli avvocati fanno di tutto per sfuggire questi processi perché senza speranza; il potere di decisione, spesso non molto competente, lasciato interamente alle corti locali. E dunque una delle modifiche cui si sta lavorando - e che è stata già introdotta in alcune province- è di portare la decisione ultima, quindi anche la possibilità della revisione del verdetto, alla Alta Corte. Questa misura, a parere degli esperti, potrebbe ridurre del 30 per cento il numero dei condannati. Si sta anche riflettendo, tra gli intellettuali cinesi, sulle ragioni del radicamento cosi profondo della pena di morte nel loro Paese. Si dice che non c'è nella loro cultura la difesa dell'individuo come nella tradizione occidentale del cristianesimo o in quella buddista. C'è il peso della luna fase imperiale e di quella maoista che alla pena di morte contro i nemici politici ha fatto massiccio ricorso. E c'è - ancora oggi non rinnegata- la pratica della commistione tra giustizia e politica come, quando anche in anni recenti, sono state lanciate campagne dirette a «colpire duro» per una opera di «pulizia», specialmente nelle zone aperte agli stranieri, contro criminali poi giustiziati. Il principale ostacolo al pieno dispiegamento della politica dei diritti umani in Cina è l'articolazione del potere, che fa da blocco potente. C'è ora in Cina, molto forte, la tendenza a dirottare verso i tribunali le insoddisfazioni crescenti nella società- specie nelle campagne-, per evitare la ripetizione di piccole o grandi Tiananmen. Sono arrivati a 200 mila giudici, quasi allo stesso numero di pubblici ministeri, a 120 avvocati e a 400 scuole di legge; anche molte ong si sono dedicate all'attività legale. Ma i giudici sono ostaggio della politica: sono assunti, pagati, promossi, licenziati, dai quadri locali; ci sono nepotismo e corruzione; i casi vengono rinviati o cancellati. La giustizia resta un miraggio: ci sono casi in cui i querelanti sono stati accusati di «litigiosità eccessiva» e ricoverati in ospedali psichiatrici. E in più: i contrasti tra centro e periferia, la mancanza di chiarezza sui conflitti di competenza e, infine, il pesante e costante intervento del partito nelle cose giudiziarie, per le quali ovviamente non c'è da parlare di indipendenza. La ragione della corruzione? È la mancanza di un sistema di contrappesi, ha risposto il 66,3% degli intervistati dalla università di Suzhou (che i cinesi amano presentare, con molto ottimismo, come la loro Venezia). Ovvero, hanno lamentato il potere senza controllo, né da parte degli uomini né da parte di apposite istituzioni. Accade anche in altri campi. Ha fatto scalpore nei giorno scorsi la notizia dei giornalisti fermati in occasione della presentazione di una delle manifestazioni per i prossimi Giochi Olimpici. Reporters sans frontières ha calcolato che a gennaio di quest'anno la Cina aveva 31 giornalisti in prigione, il numero più alto al mondo. Lo stato della stampa in Cina va ben oltre questo dato pur cosi allarmante. È grave e paradossale, stretto tra una commercializzazione sfrenata e un controllo ancora severo da parte del partito. Anche in Cina la cronaca tira, e si arriva anche a casi come questo: un anno fa il giornalista di un gruppo editoriale del Sichuan ha convinto una ragazza a farsi operare per donare il rene in modo da poter avere l'esclusiva della storia. Ma dopo ha telefonato all'ospedale minacciando di pubblicare tutto se non avesse ricevuto 10 mila dollari. È stato arrestato e condannato a sei anni. L'oppressione che viene esercitata sulla stampa, ha scritto David Bandurski sulla Far Eastern Economic Review, è «la conseguenza della politica ufficiale che combina un controllo politico paranoico, senza riforma, con la illimitata commercializzazione dei media. Bassi salari e pressione commerciale spingono a monetizzare il potere che deriva dall'estensione della pubblicità di stato, e dunque dalla subordinazione al potere autoritario». Insomma corruzione e censura. Ma c'è opposizione a questo modo di fare giornalismo e c'è anche un certo malessere. In un brillante paper per l'Ispi di Milano, il già citato sinologo francese Bèja ha raccontato quanto stia accadendo con il sistema di censura politica ancora ben in auge sulla stampa e sulle pubblicazioni in genere in Cina. Al dipartimento di propaganda del PCC, sorto dodici anni fa come risposta alla libertà del 1989, spetta il «ruolo di orientamento dell'opinione» e quindi il controllo della stampa ( che spesso viene fatto con una telefonata che non lascia tracce); questo termine- e questo ruolo- avevano avuto la loro punta massima nel 2003 in occasione della crisi della Sars. Dopo l'uso è diminuito drasticamente, scendendo del 68% nel 2006, una caduta più marcata rispetto al precedente 22%. Ciò dimostra, scrive il sinologo, che i dirigenti sono riluttanti a utilizzare un termine che rinvia troppo evidentemente a una censura governativa sempre più impopolare. Ci sono stati naturalmente ancora casi di siluramento di giornalisti e la chiusura del «Bingdian», un giornale dei giovani. Ma questa ultima mossa ha determinato reazioni: sui principali siti cinesi sono apparsi numerosi messaggi che la condannavano. Non hanno protestato solo semplici cittadini. Si sono fatti sentire anche vecchi quadri di partito come Li Rui, segretario di Mao. Insomma, gli ufficiali incaricati di mettere in opera le politiche di restrizione delle libertà continuano a farlo, ma dubitano sempre più della legittimità della loro azione;quanto alle vittime godono della simpatia della società. Pubblicato il: 11.08.07 Modificato il: 11.08.07 alle ore 13.15 © l'Unità. Titolo: L´uomo che vende la Sicilia ai cinesi Inserito da: Admin - Agosto 16, 2007, 04:57:56 pm Antonio Laspina, di Aidone, è il direttore dell´Ice a Pechino
L´uomo che vende la Sicilia ai cinesi «I cinesi riassumono la complessità culturale siciliana con una sintesi linguistica: Dao Sicily, l´isola Sicilia». A raccontarlo, con una punta di non celato compiacimento, è Antonio Laspina, 51 anni, di Aidone, da quattro anni direttore dell´Istituto per il commercio estero a Pechino. Una prestigiosa carriera internazionale che muove dalla laurea in Scienze politiche conseguita a Catania nel 1979. «Scelsi l´indirizzo internazionale, nel cui ambito operavano grandi esperti - ricorda Laspina - intellettuali come Fulvio Attinà, docente di Relazioni internazionali, ma soprattutto Giuseppe Schiavone, ordinario di Organizzazione internazionale, che considero il mio maestro. Uno studioso di spessore europeo che poi ho ritrovato a Roma, alla scuola di formazione "Alcide De Gasperi" da lui diretta». La prima esperienza sul campo ebbe come destinazione l´Egitto. «Nel 1980 ottenni una borsa di studio per l´analisi dei finanziamenti operati dalla Banca mondiale in Egitto. Al Cairo mi ritrovai a lavorare con un altro grande siciliano, l´ambasciatore Giuffrida». L´anno successivo fu quello dell´assunzione all´Ice. «Avevo 24 anni quando vinsi il concorso. A Roma ho trascorso quattro anni, impegnato nel processo di trasformazione e ammodernamento dell´istituto». La lunga parentesi orientale del funzionario siciliano si apre nel 1985 con l´assegnazione della direzione dell´Ice di Seul. «Sono rimasto in Corea per cinque anni. Un arco temporale che segnò la radicale trasformazione economica coreana, fino al grande evento delle Olimpiadi del 1988». Nel 1990 il ritorno alla sede centrale di Roma per lavorare alla nascita di un nuovo dipartimento, quello legato all´architettura e all´arredo. Progetto che troverà la sua piena applicazione a Tokyo. Nel 1991 la nuova missione, a Kuala Lumpur. «Quando arrivai in Malaysia, l´export italiano segnava un fatturato di quattrocento milioni di dollari. Quella italiana era un´attività produttiva gravata da pregiudizi. Una realtà che stentava a operare in una nazione di tradizione anglosassone. Alla fine del 1996 l´Italia poteva contare su un consolidato di duemila milioni di dollari di fatturato». Il peregrinare asiatico di Laspina lo conduce, nel 1996, all´apertura dell´Istituto per il commercio estero a Taipei. A Taiwan rimane per due anni. Nel 2003 l´arrivo alla direzione dell´ufficio Ice a Pechino. Una direzione che, nel breve volgere di qualche mese, si ritroverà a essere il principale veicolo di valorizzazione e promozione del made in Italy. «Nel corso di tutti questi anni, però, non ho mai smesso di rivolgere uno sguardo alla mia isola - sottolinea Antonio Laspina - Ho sempre lavorato per la valorizzazione dei prodotti tipici siciliani. Un lavoro di rivalutazione che muove dal nuovo concetto di glocal, la realtà locale che compete all´interno di un processo di globalizzazione. È stato così per la ceramica di Caltagirone a Tokyo. Fino al grande successo di pubblico e di critica per la mostra a Pechino di "Continente Sicilia, 5000 anni di storia" che abbiamo organizzato al National museum in piazza Tienanmen. Stiamo lavorando da qualche anno alla costruzione di un´immagine della Sicilia rivolta al sempre crescente mercato turistico cinese. L´idea - spiega Laspina - è quella di offrire una meta turistica unica sia per l´offerta culturale che per ciò che attiene la produzione agroalimentare di qualità. Periodicamente organizziamo educational che vedono coinvolti i giornalisti dei principali network cinesi. Operatori dell´informazione che visitato la Sicilia hanno raccontato l´Isola in maniera insolita. Un racconto esotico, rivolto proprio a coloro che nel nostro immaginario collettivo incarnano l´esotismo». A fare da ambasciatore per questa operazione di promozione, dopo trecento anni, è stato ancora un siciliano: Prospero Intorcetta, un gesuita nato a Piazza Armerina nel XVII secolo. Fu il primo a tradurre Confucio in latino. Una figura e un operato che sono stati al centro della grande mostra siciliana ospitata a Pechino. «Dopo tre secoli - sottolinea Laspina - lo strumento di dialogo tra la Cina e la Sicilia passa ancora attraverso il dialogo e il confronto». (14 agosto 2007) da espresso.repubblica.it Titolo: Cina e Russia: i muscoli dell'Est Inserito da: Admin - Agosto 18, 2007, 10:58:38 pm Cina e Russia: i muscoli dell'Est
Adriano Guerra Se accanto a Putin che annuncia il ripristino dei voli strategici dei suoi bombardieri fermi dal 1992, non ci fosse il presidente cinese Hu Jjin Tao, potremmo limitarci a parlare di una nuova, ennesima sparata del presidente russo. Una nuova “prova di muscoli”. Ma Hu c’è. E con lui ci sono i rappresentanti degli altri paesi del Gruppo di Shangai riunitosi a Biskek per il suo vertice annuale: il Kasakistan, l’Usbekistan, il Tagikistan, il Kirghizistan. Un poco separati, ci sono poi ad applaudire i rappresentanti dell’Iran, del Turkmenistan, dell’Afganistan e della Mongolia. E in un ampio spazio che va dall’aeroporto kirghizo di Manas, che si trova a fianco della più importante base americana nell’area, a Celjabinsk, 6.500 soldati dei sei paesi e almeno 1000 tecnici militari hanno appena concluso manovre militari congiunte. Il nome dato all’operazione è «Piano di pace 2007», e l’obiettivo indicato è quello che viene sintetizzato con le parole «neutralizzare e distruggere il terrorismo e il narcotraffico», ma per i commentatori americani si parla di sfida alla Nato e di «rinascita» di qualcosa che ricorda addirittura il Patto di Varsavia. È bene non cadere in conclusioni precipitose, ma forse siamo davvero di fronte a qualche elemento di novità alla cui base non c’è soltanto la crescente aggressività di Mosca - che appunto “mostra i muscoli”, pianta la sua bandiera nei fondali del Polo Nord, fa la voce grossa con Londra per la faccenda delle “operazioni spionaggio” svolte in territorio inglese, proclama che lo scudo spaziale progettato da Bush e che dovrebbe avere nella Polonia la sua base principale , è un atto di guerra - ma forse anche un processo ormai avviato di ricomposizione di forze e di equilibri in uno spazio - che va dall’Asia centrale alla Cina e al Sud est asiatico - ove sempre più difficile è per gli Stati uniti imporre il ruolo, ereditato da crollo del sistema bipolare, di unico protagonista della scena mondiale. Gli Stati Uniti insomma sono riusciti ad entrare negli anni passati, utilizzando la debolezza della Russia e il loro ruolo di capofila nella guerra contro il terrorismo, nell’area del Caspio e dell’Asia centrale - di eccezionale importanza e per la sua vicinanza con la Cina e per il petrolio - ma l’operazione non è mai riuscita in pieno e adesso appare fortemente compromessa. A breve potrebbe nascere - secondo alcuni - un “club energetico” comprendente tutti i i paesi del Gruppo di Shangai e altri ancora, con l’esclusione degli Stati uniti. Una minaccia seria? Si vedrà. Quel che si può dire in questo momento è che da una parte la vera protagonista di questa operazione non è forse la Russia quanto la Cina, che si prepara con calma, sostenendo solo sino ad un certo punto Putin e puntando a rafforzare le relazioni con gli Stati uniti e con l’Europa senza fare la voce grossa, a creare le migliori condizioni per il “secolo cinese”. E dall’altra che sugli Stati Uniti pesa quella che è in ogni caso possibile definire la sconfitta di storiche proporzioni che essi hanno già subito nell’Iraq. È stata quella sconfitta a mettere in crisi l’idea stessa di mondo bipolare. E forse non solo nell’area del Gruppo di Shangai. Pubblicato il: 18.08.07 Modificato il: 18.08.07 alle ore 11.18 © l'Unità. Titolo: La prosperità economica fa paura a Pechino. Inserito da: Admin - Agosto 24, 2007, 11:44:16 pm SENZA FRONTIERE
La democrazia e il paradosso cinese di Minxin Pei* La prosperità economica fa paura a Pechino. Si teme il collasso del regime come in Unione sovietica Le democrazie occidentali sostengono che grazie al dialogo politico e all'integrazione economica la Cina sarà gradualmente sospinta verso la democratizzazione. E quindi, malgrado le riserve a fronte dello scarso rispetto per i diritti umani, o la preoccupazione per i surplus commerciali in ascesa e la crescente esibizione di potenza militare, l'Occidente persevera nella sua apertura verso Pechino. Eppure, dopo tre decenni di costante e faticoso impegno, l'obiettivo occidentale di democratizzare lo Stato autocratico più grande del mondo resta inafferrabile. Se è vero che da quando ha aperto le sue porte nel 1978, la Cina ha conosciuto una straordinaria espansione delle libertà economiche e personali, continua tuttavia a essere governata con mano ferma da un regime monopartitico. Davanti alla determinazione con cui il Partito comunista si mantiene al potere, e all'efficienza nel reprimere ogni dissenso, solo un inguaribile illuso può ancora pensare che la democratizzazione sia dietro l'angolo. Per una serie di motivi, la crescente prosperità del Paese avrebbe dovuto porre la Cina in primo piano tra i candidati alla transizione verso la democrazia. Con un reddito pro capite di oltre 2 mila dollari (equivalenti a 6 mila dollari in termini di potere d'acquisto) la Cina è oggi più ricca di molti paesi democratici del Terzo mondo, con un livello di alfabetizzazione che è quasi doppio a quello dell'India. L'informazione è largamente accessibile grazie alla diffusione delle moderne tecnologie; la televisione copre il 95 per cento del Paese. Inoltre, 500 milioni di linee telefoniche fisse, 400 milioni di cellulari e 125 milioni di utenti Internet mettono la Cina ai primissimi posti tra i paesi in via di sviluppo. Ma questi segnali di ascesa economica rendono più cocente la delusione occidentale per il mancato progresso democratico, che pure è stato possibile altrove in condizioni economiche meno favorevoli. Perché non in Cina? Nei dibattiti spesso non si tiene conto del fatto che, paradossalmente, è stata proprio la crescita economica a ostacolare la democratizzazione. In base alle teorie accademiche e all'esperienza occidentale, molti erano convinti che la crescita avrebbe creato condizioni favorevoli alla democrazia, promuovendo la formazione di un ceto medio, facilitando l'accesso all'informazione e incoraggiando la società civile. Pochi si rendono conto che, sebbene nel lungo periodo la crescita economica favorisca la democratizzazione, quando è molto rapida può provocare nell'immediato effetti diametralmente opposti. Il motivo è semplice. La prosperità economica tende a indebolire le pressioni verso riforme democratiche, legittimando un regime autoritario e dotandolo dei mezzi per comprare la connivenza di alcuni gruppi chiave del tessuto sociale, quali il ceto medio urbano e gli imprenditori privati. Inoltre, uno Stato più ricco dispone di maggiori risorse per rafforzare le proprie capacità repressive. Nel caso della Cina, l'élite al potere ha fatto un serio tentativo riformista in senso democratico solo verso la metà degli anni '80, prima dello spettacolare decollo economico. Dall'inizio di questo boom, nei primi anni '90, la leadership cinese ha invece opposto una resistenza crescente alla democratizzazione. Un'altra causa di questo atteggiamento va ricercata nella lezione del collasso sovietico, che i dirigenti cinesi hanno tenuto in debito conto. Dopo averlo analizzato, hanno attribuito le principali responsabilità del tracollo al fallimento economico e alle riforme democratiche. Nelle sedi internazionali, i leader di Pechino hanno fatto più volte riferimento all'esperienza dell'Urss e dichiarato la loro ferma intenzione di non rinunciare al "ruolo guida del Partito comunista". E hanno affidato la loro sopravvivenza politica esclusivamente alla crescita economica. In termini politici, questa diffidenza verso la democrazia ha comportato l'imposizione della censura su Internet, il controllo della società civile, la limitazione della libertà di stampa e lo stallo di riforme politiche quali il rafforzamento dell'indipendenza del sistema giudiziario, o l'espansione del sistema elettorale per un maggior coinvolgimento della base. Tra prosperità e repressione, il governo di Pechino si è assicurato, dopo la crisi di Tienanmen del 1989, quasi un ventennio di pace sociale. Eppure, quella che il Partito comunista sta conducendo è una battaglia in prospettiva già persa, data l'impossibilità di assicurare per altri due decenni gli attuali, elevatissimi tassi di crescita. La corruzione diffusa ha alienato al regime le simpatie dell'opinione pubblica, tanto da far apparire più verosimile la prospettiva di una crisi. In particolare, il ceto medio, sempre più consistente, sta cominciando ad affermare i propri diritti, e chiede di avere voce sui metodi di governo. È impossibile prevedere quando l'attivismo di base dei cittadini creerà le condizioni per democratizzare il Paese; ed è difficile immaginare come una Cina pienamente coinvolta nella globalizzazione possa continuare a tempo indeterminato a contrastare la tendenza globale verso la democrazia. Alla fine, pur dopo un lungo e frustrante interludio, il sogno occidentale di democratizzare la Cina potrebbe diventare realtà. *autore di 'China's Trapped Transition' e Senior Associate del Carnegie Endowment for International Peace di Washington traduzione di Elisabetta Horvat da espressonline Titolo: Da Pechino a Shanghai i grattacieli hanno rubato il cielo alle città... Inserito da: Admin - Agosto 31, 2007, 12:07:48 am Da Pechino a Shanghai, in vent’anni i grattacieli hanno rubato il cielo alle città
Lina Tamburrino La domanda è stata sempre la stessa: quale città tra Pechino e Shanghai, è meglio visitare prima per avere subito un'idea della Cina? Ma nessuna delle due: a entrambe hanno rubato il cielo. Andate piuttosto a Bailingguan , il piccolo borgo contadino ai piedi della Grande Muraglia di Simatai; oppure a Zhouzhuang, un villaggetto con suggestioni veneziane, non lontano da Shanghai. Ma è una risposta troppo snob e allora cediamo la parola a Pamela Yatsko, che in un bel libro su Shanghai descrive bene la differenza: «Pechino è molto formale e imponente ma per niente affascinante. Shanghai gode di ottime infrastrutture e con gli investimenti esteri si è riempita di appartamenti di lusso, negozi, supermercati, ristoranti, bar ,caffè, nightsclub, campi da golf. Per uno straniero la vita è godibilissima». Ma non solo per loro. Solo un dato: negli anni ‘90 per dotarsi di infrastrutture all'avanguardia- autostrade, tre nuovi ponti , metropolitana, acqua, luce, gas -, e poi grattacieli, museo, teatro, biblioteca, ha sbancato 25 milioni di metri quadri e ha spostato quattro milioni e mezzo di persone. Le due città- ma non solo loro- le ho visto negli anni cambiare in maniera precipitosa, radicale, imprevedibile, innanzitutto inattesa, nell'aspetto architettonico e nelle facce della gente. Venti anni fa a Pechino, uscendo dal compound della zona orientale di Jianguomenwai assegnato alle abitazioni per diplomatici e giornalisti stranieri, si imboccava la superstrada numero due per arrivare, dopo un certo percorso, all’area delle università, quasi in aperta campagna. Si incontravano rari complessi abitativi, qualche palazzo del governo, molti carretti tirati da animali e molti camion. Ora da quell'incrocio si possono rapidamente imboccare ben sei raccordi anulari che accerchiano la vecchia città con enormi nuovi quartieri e hanno assediato l'antica area universitaria, innalzato centinaia e centinaia di condomini simil-grattacieli, con piano terra occupati da bar, negozi, uffici. I raccordi sono le arterie della Pechino che vi verrà costruita da qui al 2020, quando raggiungerà , tra residenti e pendolari, 18 milioni di abitanti e cinque milioni di auto. A Shanghai venti anni fa si salvava solo il lungo fiume, il Bund , sul quale affacciavano ( tutt'ora) i massicci palazzi di primo novecento delle Banche e delle compagnie di assicurazione straniere. All'interno, restavano attive le vecchie concessioni: la più elegante e meglio protetta è quella francese. Dal fiume, via Nanchino si allungava come un budello di case lerce, fatiscenti, con balconcini sui quali si vedeva di tutto: cavoli per l'inverno, gabbiette per gli uccellini, qualche utensile domestico. Ora via Nanchino, completamente distrutta e ricostruita, dunque nuova ed elegantissima, sbuca nella splendida piazza del Popolo dove, tra le altre nuove costruzioni, brilla il Museo nazionale, uno dei più belli al mondo per le sue collezioni di bronzi che risalgono all'ultima fase della dinastia Xia ( ventesimo-diciassettesimo secolo prima di Cristo), le sue giade bianche, le sue statue buddiste. Ci sono emozioni continue: può capitare di scendere alla fermata della modernissima metropolitana situata all'interno del tempo buddista di Yang'an. O può capitare di trovarsi al Museo quando è in corso l'esposizione di 27 vasi di bronzo appena arrivati dai nuovi scavi nella provincia dello Shaanxi. Shanghai è vibrante e attira gente giovane, anche molti italiani che tentano di giocare qui le carte della loro vita: alcuni resistono, altri no. Shanghai non si ferma: è sempre in pieno boom. Solo nel mese di luglio di quest'anno, le banche hanno concesso 770 milioni di dollari per l'acquisto di nuove case. Ogni tanto però qualcuno paga, in alto. È stato appena espulso dal partito, e quindi licenziato da tutti i suoi incarichi, Chen Liangyu , segretario del Pcc della città. Accusato naturalmente di corruzione e malversazioni. Ma navigare in quel mare di soldi. E poi gli avranno fatto pagare l'immagine di Shanghai cosi fuori dagli schemi urbanistici tradizionali, cosi leggera, con grattacieli esili e svettanti, sopraelevate avveniristiche, ponti che sembrano puntare verso la luna. E anche il fatto che a Shanghai non ci si nasconde se sei gay ( o tongzhi). Ma la Cina è Pechino, con quella sua atmosfera che la Yatsko definisce «imperiale, sovietica, tradizionale». Parole da condividere. Nell'enorme cintura sono nati i nuovi quartieri satelliti dove si è sistemata una classe media che negli anni novanta ha goduto di balzi in avanti salariali e si è rivelata molto prudente in politica e nei gusti. La profonda distruzione-ricostruzione che ha travolto la capitale, ha isolato e reso corpi morti la Città proibita, il parco del Popolo, il Tempio dei cielo, finanche il Tempio dei Lama, luoghi ormai solo di shopping. Nel centro storico, dove Mao aveva già fatto abbattere nel 1949 le vecchie mura perché «feudali», sono stati in questi anni rasi al suolo tutti i quartieri di case basse, dai tetti grigi, chiuse da alte mura per proteggerle dalla esperienza- terribile ma molto affascinante- delle tempeste di sabbia. Gli spazi così svuotati- ma anche laddove si sia proceduto a semplici riammodernamenti- sono stati riempiti da costruzioni massicce, che danno alla città quell'aria sovietica di cui sopra, come imbronciata, come da «ruolo guida del partito comunista». Si è discusso, naturalmente, in questi anni del dilemma: svendiamo al turismo o proteggiamo il nostro passato? Ricordo che nel 1988, Wang Meng, allora ministro della cultura e scrittore tradotto anche in Italia, chiese che si proteggesse dall'incombente sfascio la Città proibita. Invece, come è emerso da incontri ufficiali, la ristrutturazione dell'estesa area antica ha seguito criteri di efficienza, non di rispetto delle strutture tradizionali della città. Ed è scomparso anche il vicolo del pesce d'oro, fagocitato dall'ampliamento di una piazza per far fare spazio a auto e bus. E ha contato più un supermercato che uno siheyuan, la classica abitazione a cortile per famiglie un po' più abbienti. Lo scrittore Shu Yi ha denunciato, senza esito, il meccanismo perverso che ha operato dietro le quinte dell'imponentissimo cambiamento della città antica: l'alleanza tra i soldi, le società immobiliari, il potere delle strutture di governo che dispongono delle aree come vogliono, senza nessun tipo di vincolo. Non ritrovo più l'anima autentica di Pechino. Le città sono case e le case sono sapienti, parlano anche loro di cambiamenti. Era impossibile 20 anni fa essere invitati nell'abitazione di un cinese: poteva capitare solo una decina di anni dopo e solo se l'ospite disponeva di case lussuose, come la signora Lu Lu Fei, una vecchia militante del 1949, che viveva in un grande appartamento con un bel gatto bianco. Ma se ti capitava, scoprivi case mal tenute, disordinate, senza mobili tranne letti e qualche sedia e tavolino in plastica. A Chengdu, la capitale del grande Sichuan, nella casa dell'interprete per vedere il video dei disordini violenti avvenuti anche in quella città nella notte tra il 3 e il 4 giugno dell'89, non c'era niente, se non il letto con un signore dormiente, un tavolo, giornali appallottolati dovunque. Chengdu era allora la classica città-paese cinese, con incroci sghembi e case cadenti. Oggi l'ho rivista ridisegnata con larghi e lunghi viali sui quali affacciano alberi imponenti e i soliti alberghi , ristoranti, negozi. Le case di Shanghai: nel salottino-studio molto gradevole di Wang Yuanhua, autorevole e raffinato studioso di estetica, ho ascoltato il suo sconforto per una gioventù che vedeva acriticamente attratta dall'occidente. Perchè emana sempre, dalla casa di un vecchio intellettuale cinese, una presa di distanza, una sottile altezzosità nei confronti della cultura non cinese, giudicata materialista e quindi pesante e opaca, mentre la loro viene considerata l'emblema della spiritualità e del simbolo. Lo studio del famoso pittore -dal figlio bellissimo quasi un Gasmann cinese- aveva stanze imponenti, che si inseguivano l'una l'altra, in un trionfo di rosso perchè color lacca era il colore del legno delle pareti. Ma questi sono gli intellettuali che ai suoi tempi Mao aveva condannato e perseguitato come «destri» e spediti nei campi di rieducazione. Oggi, dalla metà degli anni 90 c'è stata una crescita a macchia d'olio della massa di piccola e media borghesia. Il governo ha favorito massicci programmi abitativi, con appartamenti più che decenti, venduti ai membri della nomenklatura a prezzi ridotti. Sussidi sono stati dati anche per acquistare appartamenti più preziosi nelle stesse zone residenziali degli uomini di affari. I piccoli-medi appartamenti piccolo- borghesi sono arredati in stile simil Ikea, come quello della mia interprete pechinese: nella stessa stanza, angolo salottino e angolo pranzo, ma cucina e bagno finalmente indipendenti, con tutte le attrezzature necessarie. Nelle case della media borghesia hanno fatto la loro apparizione anche i quadri, che ripetono oggi a olio i vecchi temi della tradizione cinese: i fiori, i paesaggi, le donne con le trecce. Nessuno compra o è interessato a sperimentare forme più moderne. Yin Qi, un giovane pittore astratto che vive a Parigi mi racconta che deve accontentarsi di portare i suoi lavori solo nelle esposizioni dei musei locali, dove comunque dominano immagini di militari, donne delle minoranza etniche, scene di antiche battaglie eroiche, addirittura qualche episodio della guerra contro i giapponesi o della Lunga Marcia. Salvate i bambini , ha gridato Lu Xun come battuta finale del suo: «diario di un pazzo». Oggi bisogna dire: salvate il cielo della Cina. Pubblicato il: 30.08.07 Modificato il: 30.08.07 alle ore 8.53 © l'Unità. Titolo: Aziende cinesi, evasione record Inserito da: Admin - Agosto 31, 2007, 12:09:33 am Prato. La scoperta di Finanza e Inps in 500 imprese
Aziende cinesi, evasione record Fisco beffato per quasi 10 milioni PRATO. Quasi diciotto miliardi delle vecchie lire. La bellezza di 9,3 milioni di euro di euro di evasione accertati su un bacino di 500 aziende cinesi che operano a Prato. È l’ultima operazione portata a termine dalla Guardia di finanza di Firenze in collaborazione con gli ispettori provinciali dell’Inps. Le ditte in questione pagavano un decimo dei contributi per i propri dipendenti arrivando negli ultimi cinque anni a eludere il pagamento di centinaia di migliaia di euro ciascuna. Il grosso buco contributivo è stato accertato grazie a un’indagine pilota che ha consentito di incrociare più informazioni. Le aziende messe sotto controllo sono praticamente tutte quelle del territorio con titolari cinesi, con dipendenti e operative da molti anni. Nel gruppo degli evasori ci sono le aziende tessili ma anche altre realtà manifatturiere e non mancano all’elenco gli imprenditori più conosciuti nel distretto. Insomma l’accertamento ha riguardato quelle società dalle dimensioni maggiori e con un radicamento più forte nell’area pratese. Nel Macrolotto come in altre zone della provincia. Una scelta dovuta al fatto che la Guardia di Finanza aveva, oltre all’accertamento dell’evasione, l’obiettivo di andare a colpire quelle realtà produttive che avrebbero garantito maggiori probabilità di incassare, in futuro, i verbali. E quindi ingrassare le casse dello Stato. Un’operazione che è stata possibile grazie a una nuova tecnica di indagine che sarà esportata anche in altre realtà italiane e che ora è in atto nell’area fiorentina. Il vecchio accertamento, con la Finanza che bussa alla porta e sequestra i documenti, avrebbe infatti richiesto un tempo ben maggiore. «Quando abbiamo contattato le aziende - ha spiegato il colonnello Pietro Tucci - sapevamo già tutto sulla loro situazione. Questo era stato possibile grazie a una nuova tecnica che ci permette con l’utilizzo di un nuovo software di incrociare tutti i dati disponibili nelle banche dati, dell’Inps come della Camera di commercio». Una fotografia informatica, o se si vuole un Grande fratello del Fisco, che ha consentito di elaborare un indice, chiamato di pericolosità. Ossia in parole povere di attribuire a ogni azienda una percentuale di evasione. (29 agosto 2007) da espresso.repubblica.it Titolo: Pechino, il congresso del partito-azienda Inserito da: Admin - Ottobre 16, 2007, 12:09:42 pm Pechino, il congresso del partito-azienda
Siegmund Ginzberg Non ci sono mai state, né è previsto che ci siano un giorno primarie nel Partito comunista cinese. Non c'è molta suspense sul fatto che il 17mo Congresso del Pcc, che si apre oggi a Pechino, confermerà Hu Jintao, per altri cinque anni, a capo del partito. E non ci sarà bisogno che si presentino poi di fronte all'elettorato per essere confermati lui presidente e Wen Jibao capo del governo: la Cina non vota a suffragio universale per eleggere i propri dirigenti nazionali. La suspense, concordano tutti gli esperti, riguarda semmai la successione, chi gli subentrerà dopo il 2012. Non è questione da poco. Sui successori erano scivolati anche leader del calibro di Mao Tse-tung e Deng Xiaoping. Anzi avevano addirittura portato il paese sull'orlo della catastrofe, l'uno con la rivoluzione culturale, l'altro con piazza Tiananmen. La successione in Cina si misura sull'ordine di arrivo dei nuovi entranti nei massimi organismi del partito, l'ufficio politico e il suo comitato permanente. Si dice che la grande novità sul piano della «democrazia interna di partito» potrebbe essere che stavolta ci sarà un numero di candidati maggiore di quelli che risulteranno eletti. Pare che abbiano studiato con molta attenzione il precedente dell'ultimo congresso del Partito comunista vietnamita, tenutosi lo scorso anno, in cui c'erano addirittura due candidati al posto di segretario generale. E forse applicheranno il metodo ai successori in pectore. Non si tratta di outsider o nuovi arrivati: i nomi che circolano tra i candidati in lizza sono quelli di personalità testate, già al vertice della nomenclatura di partito. C'è, tra i politologi, chi prova a classificarli e distinguerli tra «populisti», che insistono sulla «società armoniosa», cioè preoccupati di non allargare la frattura tra la Cina che corre e si arricchisce e quella che invece è rimasta povera (tra questi Li Keqiang, segretario del Liaoning, nel nord est industriale, una regione di fabbriche che hanno dovuto chiudere ed operai licenziati, che sarebbe anche il favorito di Hu) ed «elitisti», attenti soprattutto a non danneggiare la crescita economica a rotta di collo, il boom delle regioni costiere (tra questi il segretario di Shanghai, Xi Jianping). Il Pcc non è un partito a vocazione maggioritaria. È un partito a vocazione totalitaria. Non fanno neanche finta di imitare la democrazia occidentale. Non pretendono trasparenza nelle decisioni e nella scelta dei propri gruppi dirigenti. I 73 milioni di membri del Pcc sono agli occhi del restante miliardo di cinesi una «casta» da far impallidire quella di cui si parla da noi. In un paese dove si stima che ci siano 162 milioni di persone che hanno accesso a internet e 450 milioni di telefonini, tutti i mezzi di informazione, sono controllati dal partito, tutte le decisioni vengono prese a porte chiuse. Il partito ha l'emplein dei poteri forti e deboli insieme. Il partito controlla non solo le forze armate, in omaggio al principio maoista per cui «il potere nasce dalla canna del fucile», ma anche la magistratura, l'opinione pubblica, la Banca centrale, l'economia di Stato, e a quanto pare ora persino quella privata. Ho trovato diabolicamente affascinante la descrizione, letta l'altro giorno sul Financial Times, la descrizione di come un partito che continua a chiamarsi «comunista», sia riuscito a «colonizzare» persino i centri nevralgici del proprio «capitalismo» privato. «Sono riusciti a fare del Partito comunista cinese la più grande holding al mondo», è il modo in cui la mette, con una battuta, ma forse neanche tanto, Ding Xueliang, testa d'uovo della americana Carnegie Endowment a Pechino. Sono insomma riusciti a realizzare un «partito azienda», verrebbe da dire. Certo, il partito non è affatto monolitico, né in economia, né sulle scelte politiche, né sul resto. Si scontrano mille fazioni fondate su gruppi di interesse, differenze tra città e regioni, giochi di potere locali, interessi personali, come in qualsiasi altro sistema politico. C'è una corruzione diffusa e dilagante, ci sono risse a non finire, capricci c'è arroganza da parte dei potenti, ci sono scontri feroci. Eppure, pare che alla fine il sistema funzioni perché tutti alla fine dipendono dalle decisioni di «un solo padrone». Qualcosa di familiare con le vicende politiche di casa nostra? Forse. Ma con una differenza: che loro se lo sono potuti permettere perché vanno a gonfie vele. Noi no. Tutto questo è roba da età della pietra, preistoria della democrazia. Senza neanche troppi sforzi per presentarsi con un volto più moderno. In un certo senso il Congresso di Pechino si presenta come un'assise di dinosauri, destinati all'estinzione se non sapranno adeguarsi. Ma la cosa da cui non si può prescindere è che questi dinosauri sono i più dinamici, vispi che ci siano al mondo di questi tempi. La Cina corre come un treno, cambia con un ritmo mozzafiato. L'economia cinese ha un bisogno disperato di petrolio e materie prime, molto più dell'America, ma non hanno fatto guerre. Anzi, sono diventati pacificatori, gli «aggiustatutto» delle grandi crisi internazionali. «Mr. Fixit» delle crisi nucleari, li ha definiti il New York Times dopo che hanno convinto Kim Jong Il a rinunciare all'atomica, a Washington si guarda a Pechino per l'Iran. C'è da rammaricarsi che non li abbiano coinvolti in Iraq. È alla Cina che si guarda perché fermino la mano ai generali in Birmania. Da quando è diventato lui il capo del partito, cinque anni fa, Hu Jintao pare insomma non averne sbagliata una. Ha consolidato senza scosse il suo potere, ha mediato tra le mille anime del partito unico, ha promosso i suoi alleati nelle regioni, è riuscito ad evitare che si scannassero l'un l'altro. Ha saputo dosare rassicurazioni alla casta, a coloro che temono di perdere i privilegi, con rassicurazioni a coloro che stanno male, ai contadini, agli sfruttati, ai più deboli. Pubblicato il: 15.10.07 Modificato il: 15.10.07 alle ore 12.08 © l'Unità. Titolo: Dalai Lama: "Genocidio culturale" Inserito da: Admin - Gennaio 09, 2008, 11:51:49 pm Erano stati mandati ad Hubei a reprimere la protesta degli abitanti contro una discarica
Filma i poliziotti, lo uccidono a bastonate Cina, gli agenti hanno aggredito a manganellate un uomo che li stava riprendendo con il cellulare PECHINO - Un uomo è stato ucciso a bastonate dagli agenti della polizia municipale per averli filmati con il suo cellulare mentre costoro stavano reprimendo una protesta popolare contro una discarica in un villaggio nel centro della Cina. Dell'episodio, accaduto lunedì scorso, parlano oggi i media cinesi. GLI ARRESTI - L'agenzia Nuova Cina scrive che 24 persone sono state arrestate per queste nuove violenze della polizia. La vittima aveva 41 anni ed era il direttore generale di una azienda locale di lavori pubblici. L'uomo stava filmando con il suo telefono cellulare una cinquantina di poliziotti di Tianmen, città nella provincia dell'Hubei nel centro della Cina, inviati a reprimere la rivolta degli abitanti di un villaggio che tentavano di impedire ai camion di immondizia di accedere alla discarica vicino alle loro case. I poliziotti si sono scagliati contro Wei Wenhua prendendolo a bastonate. L'uomo è morto subito dopo il trasporto in ospedale. «SONO DEI BANDITI» - L'accaduto ha sollevato un'ondata di indignazione sulla stampa e su internet. «Sono dei banditi» è la frase più ricorrente sul web, mentre altri chiedono che siano definitivamente stabiliti «diritti e responsabilità di questi poliziotti incaricati di mantenere l'ordine e che invece in questi ultimi anni si sono distinti per brutalità. 09 gennaio 2008 da corriere.it Titolo: Riesplode la "polveriera" Tibet e la Cina rivive l'incubo dell'89 Inserito da: Admin - Marzo 12, 2008, 10:38:00 pm La Cina delle Olimpiadi arresta 50 monaci in marcia per il Tibet
Lhasa, bloccata manifestazione per l’indipendenza Diritti umani, gli Usa tolgono Pechino dalla lista nera Lina Tamburrino La paura a Pechino che qualcosa potesse macchiare le prossime Olimpiadi ieri ha trovato modo di esprimersi e di essere esorcizzata con una drastica reazione. In vari posti del mondo, e a Lhasa, capitale del Tibet, innanzitutto, erano ieri previste marce per la indipendenza, che avrebbero dovuto approdare a Pechino giusto il giorno della cerimonia di apertura dei giochi. La marcia doveva partire da Lhasa, appunto, arrivare a Kathmandu , nel Nepal, e quindi puntare su Pechino dopo un percorso di 4000 chilometri attraverso le vallate e i passi più belli dell'altopiano tibetano. Una scommessa non solo faticosa ma innanzitutto coraggiosa perché doveva mettere in conto il fatto che Pechino non avrebbe assistito tranquillamente all'impegnativa passeggiata, vedendola, come sempre vede le iniziative tibetane, alla stregua di una mossa politica mirante a minare l' integrità della Cina. Così il primo giorno, è stato chiesto alle autorità indiane, di bloccare il percorso dei marciatori. Poi ieri, sono scesi in campo direttamente i cinesi. È stata bloccata la manifestazione di protesta in corso a Lhasa e secondo fonti cosiddette indipendenti sarebbero stati arrestati tra i 50 e i 60 monaci, tutti appartenenti al monastero di Drepung, uno tra i più grandi e i più importanti del Tibet. A Pechino, le autorità hanno negato gli arresti e hanno fatto ricorso al solito rituale usato in questi casi: hanno detto che si è trattato di un piccolo gruppo sobillato dall'esterno e hanno ribadito , come sempre, che si continuerà a colpire con durezza «qualsiasi attività illegale».. Che l' iniziativa , anche per la sua dimensione mondiale, una piccole marcia si è tenuta il giorno 10 anche a Roma, abbia creato imbarazzo a Pechino è confermato dalla dichiarazione fatta da Hu Jintao, segretario del partito il quale ha cercato per cosi dire di dare una dimensione più strategica alla vicenda e alla reazione chiarendo che la «stabilità in Tibet è essenziale alla stabilità del Paese». Quindi la salvezza della Cina richiede che dei monaci vengano arrestati, alla faccia delle pressioni di questo momento da ogni parte del mondo perché la Cina rispetti i diritti umani. La marcia per l' indipendenza serviva a due scopi: ricordare gli avvenimenti dell'ottobre del 1950 che portarono la Cina a impadronirsi militarmente del Paese e costrinsero il Dalai Lama all'esilio in India. Fu quella una vicenda che non ebbe sostegno da nessuna parte: non dall'India, da Nehru, non dalle Nazioni Unite. Da allora quello tibetano è diventato un punto dolente della politica cinese senza che mai le parti interessate siano riuscite a trovare un modus vivendi. Pechino ha sempre accusato il Tibet ed il Dalai Lama di volere la indipendenza-parola che per i cinesi suona quasi come una bestemmia. Mentre il Dalai Lama- anche a costo di deludere i giovani suoi seguaci- ripetere che vuole per il Tibet una maggiore autonomia. Si ma che cosa, significa? La Cina è piena di regioni «autonome», ma quali siano i loro reali poteri nessuno lo sa, anche perchè la Cina è una Paese fortemente accentrato e niente viene delegato ai centri che non siano quelli vicini a Pechino. Sull'autonomia pesano poi anche i cambiamenti che si sono verificati in Tibet grazie agli investimenti che il governo centrale vi ha fatto per «tenere la situazione sotto controllo». In Contemporay Tibet, un recente libro scritto da Barry Sautman e J.T.Dreyer, si dimostra come i piccoli commercianti cinesi arrivati a Lhasa e che hanno il monopolio di qualsiasi attività, una volta arrivati, più a lungo restano, meno sono propensi ad andare via. Che cosa potrebbe significare per queste persone una maggiore autonomia? E guardiamo poi alla religione. I tibetani desiderano rivedere il Dalai Lama, ma non solo non possono vederlo nel loro Paese, non possono nemmeno andare in India a rendergli omaggio. C'è dunque anche un problema di come regolare i comportamenti religiosi. Insomma c'è molta materia per una trattativa, ove mai, come è augurabile, vi si arrivasse. Adesso si tratta solo di vedere come andrà a finire questa vicenda, se veramente questa marcia e questi giovani, cosi seccati dalla diplomazia tranquilla del Dalai Lama, avranno la possibilità di arrivare a Pechino. E sporcare i giochi olimpici. Dagli Usa ieri sono arrivate buone notizie per Pechino: nel rapporto annuale del Dipartimento di Stato la Cina non è più nella lista nera dei Paesi che compiono maggiori violazioni anche se - si afferma nel testo - Pechino continua a negare diritti umani di base e a torturare prigionieri. Pubblicato il: 12.03.08 Modificato il: 12.03.08 alle ore 8.26 © l'Unità. Titolo: La repressione su cittadini e monaci Inserito da: Admin - Marzo 15, 2008, 11:59:25 am ESTERI
E' scoppiata con una furia cieca nel centro della città dopo le proteste dei giorni scorsi intorno ai monasteri. La repressione su cittadini e monaci India, la rivolta vissuta con gli esuli "Repressione sempre più feroce" A Dharamsala gli altoparlanti rimandano le drammatiche notizie "Hanno sentito l'esercito sparare". Ecco la ricostruzione degli incidenti di RAIMONDO BULTRINI DHARAMSALA - Le notizie della rivolta e delle repressioni provenienti dal Tibet vengono diffuse dagli altoparlanti tra la comunità degli esuli a Dharamsala, in territorio indiano. Altre arrivano da Phuntsok Wangchuk, il segretario generale di Gu Chu Sum, l'associazione degli ex prigionieri politici esiliati dopo le rivolte anticinesi di vent'anni fa. Dopo giorni di proteste dei grandi centri religiosi attorno a Lhasa - come Drepung, Sera e Ganden in queste ore sigillati dalla polizia - oggi è stato il popolo laico a scendere in piazza, mentre i religiosi sono bloccati nei monasteri circondati dalla polizia e stanno effettuando un massiccio sciopero della fame. Le prime proteste al mattino sono avvenute al mercato Tromsikhang, costruito di recente nel Jockang, cuore di Lhasa e luogo più sacro della città. Una folla inferocita ha dato alle fiamme negozi e banchi, senza prendersi cura che le fiamme devastassero anche le attività commerciali dei pochi tibetani e musulmani Hui che fanno affari fianco a fianco coi cinesi, la grande maggioranza. Poi sono giunti in città a protestare i monaci del tempio di Ramoche, e a loro si sono uniti altri cittadini. "Non abbiamo notizie dirette dell'intervento della polizia - dice Puntsok -. Quello che sappiamo è ciò che ci hanno detto da Lhasa, la gente ha sentito molti colpi di arma da fuoco e qualcuno ha visto persone ferite in strada". Notizie analoghe giungono dai siti web dei tibetani in esilio. Manifestazioni sono ancora in corso non solo a Lhasa ma anche a Nyangra, un villaggio a 50 chilometri dalla capitale dove una gran parte della popolazione è scesa in strada per difendere i monaci del vicino monastero di Sera. Phuntsok riferisce anche delle proteste dei monaci del tempio di Labrang, un altro grande monastero dell'Amdo, mentre gli altri gruppi del dissenso parlano di cortei nelle strade di Sangchu Conty Kanlho, nella Prefettura autonoma tibetana. E' un susseguirsi di informazioni che lasciano i tibetani di Dharamsala col fiato sospeso. A far esplodere tutto in Tibet, dopo vent'anni dall'ultima grande manifestazione di piazza a Lhasa, non è stato un aumento dei prezzi come in Birmania nel settembre scorso. A dare il coraggio ai tibetani di manifestare tutta la propria frustrazione e rabbia è stato soprattutto il testo del discorso che il loro leader spirituale, il Dalai Lama, ha diffuso alla vigilia della ricorrenza del 10 marzo. "Da sessant'anni i tibetani continuano a vivere in un clima di paura, intimidazione e sospetto", aveva dichiarato, aggungendo che "la repressione cinese aumenta con numerose, inimmaginabili e massicce violazioni dei diritti umani". (14 marzo 2008) da repubblica.it Titolo: Riesplode la "polveriera" Tibet e la Cina rivive l'incubo dell'89 Inserito da: Admin - Marzo 15, 2008, 12:33:41 pm ESTERI
Le insicurezze del presidente Hu Jintao che 18 anni fa scatenò l'esercito Il Dalai Lama non può essere accettato: è una autorità spirituale indipendente Riesplode la "polveriera" Tibet e la Cina rivive l'incubo dell'89 dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI PECHINO - Sulla pacifica protesta dei monaci tibetani è scattata feroce la repressione cinese: dagli ospedali di Lhasa giungono notizie di numerosi morti e feriti. La capitale è in stato d'assedio e sotto coprifuoco, tutti i principali monasteri buddisti della regione sono circondati da reparti della polizia antisommossa. È la più grande rivolta popolare in Tibet dal 1989, un anno di infausta memoria: allora il plenipotenziario del partito comunista cinese a Lhasa era Hu Jintao, oggi presidente della Repubblica popolare. Hu Jintao l'8 marzo 1989 non esitò a dichiarare la legge marziale e a scatenare l'esercito contro la popolazione indifesa. Si acquistò i galloni dell'uomo forte, i suoi metodi servirono da prova generale per il massacro di Piazza Tienanmen tre mesi dopo. Sono passati quasi vent'anni ma il Tibet non ha mai smesso di essere una polveriera dove si accumulano le tensioni create dalla politica di "assimilazione forzata". La fiammata di questi giorni può sembrare improvvisa e inaspettata, in realtà da mesi si segnalavano episodi di protesta nei monasteri, arresti, deportazioni e torture dei religiosi fedeli al Dalai Lama. C'è una logica stringente dietro questa escalation. Una maggioranza dei tibetani continua a considerare illegittima l'invasione dell'armata maoista che nel 1950 ha annesso il loro territorio. Sentono che il tempo gioca contro di loro, per l'invasione continua di immigrati "han" (l'etnia maggioritaria cinese) che sconvolge gli equilibri della popolazione locale e ne snatura l'identità culturale. Il precedente della rivolta birmana nel settembre scorso è stato seguito con passione, solidarietà e sofferenza da parte dei buddisti tibetani: anche questo popolo ha un attaccamento straordinario alla propria religione, e non tollera le violenze contro i monaci. La gente di Lhasa che ha osato protestare in queste ore sogna di avere miglior sorte del popolo birmano. Si affida all'influenza del Dalai Lama, un leader spirituale che gode di un immenso prestigio nel mondo. Inoltre la Cina non è un piccolo paese arretrato e isolato come la Birmania. Mentre a Lhasa vige il terrore poliziesco, a poche ore di volo Pechino si appresta a celebrare i Giochi come una prova della sua apertura verso il resto del mondo, accogliendo milioni di turisti stranieri. Ora o mai più: è il sentimento che ha spinto molti tibetani a scendere in piazza. C'è la speranza che nell'anno delle Olimpiadi, con gli occhi del mondo puntati su Pechino, Hu Jintao avrà qualche esitazione prima di ordinare una nuova carneficina. Per gli occidentali la politica cinese in Tibet appare non solo ignobile ma anche assurda. Con realismo e moderazione, il Dalai Lama ha smesso da decenni di rivendicare l'indipendenza e chiede solo una ragionevole autonomia. Basterebbe applicare al Tibet il sistema in vigore a Hong Kong: porre dei limiti all'immigrazione dal resto della Cina, consentire forme di autogoverno per preservare la fisionomia culturale e proteggere l'ambiente naturale, pur lasciando a Pechino le competenze in materia di politica estera e difesa. Ma anche un modesto federalismo appare al regime cinese come una concessione intollerabile, destabilizzante. Pechino continua a bollare il Dalai Lama come un "secessionista" con cui è impossibile dialogare. La paura che provano i tibetani è, specularmente, la certezza di Hu Jintao: il fattore tempo gioca in favore della Cina. Con 3,8 milioni di km quadrati di superficie, quanto l'Europa occidentale, il Tibet occupa un terzo della Repubblica popolare ma i suoi sei milioni di abitanti sono appena lo 0,5% dei cinesi. Lo squilibrio demografico è immane, è difficile resistere alla "sinizzazione". Il regime può contare anche su un consenso reale fra la maggioranza dei cinesi sulla questione tibetana. Imbevuti di nazionalismo fin dalle scuole elementari, imparano sui manuali di storia solo la versione della propaganda ufficiale: il Tibet è "sempre" appartenuto alla Cina; dietro le velleità di autonomia ci sono forze che vogliono indebolire la nazione, proprio come nell'Ottocento e primo Novecento quando gli imperialismi occidentali e giapponese "amputarono" l'Impero Celeste di pezzi di territorio, da Hong Kong alla Manciuria. Nazionalismo cinese, superiorità demografica, sviluppo economico, sono i rulli compressori che lavorano ad appiattire il Tibet. Mentre la nuova ferrovia rovescia fiumane di "coloni", vasti quartieri di Lhasa già hanno subito uno stravolgimento: ipermercati, shopping mall di elettronica, banche e uffici turistici sono gestiti prevalentemente dai cinesi han, più istruiti e abili negli affari. Lo stesso turismo di massa violenta l'anima dei luoghi: il Potala Palace, ex dimora del Dalai Lama trasformato in museo, è circondato dai torpedoni, invaso da comitive cinesi volgari e arroganti. Eppure dietro la sicumera di Hu Jintao traspare il germe di un dubbio. L'incapacità di aprire un dialogo col Dalai Lama rivela un'insicurezza. Il partito comunista cinese non accetta che dentro la società civile vi siano movimenti organizzati, autorità alternative. I culti religiosi sono stati autorizzati dopo la fine del maoismo ma sono sottoposti a controlli stringenti, indottrinamenti politici, obblighi di fedeltà assoluta al governo. La figura del Dalai Lama è inaccettabile perché è un'autorità spirituale indipendente. Al di fuori del Tibet la Cina ha altri 150 milioni di buddisti praticanti: guai se dovesse insinuarsi nel resto del paese l'idea che la religione può diventare il tessuto connettivo di una società civile autonoma. Tra gli incubi della nomenklatura c'è lo scenario Solidarnosc, proiettato in versione buddista. Nonostante le sue fobie totalitarie, la classe dirigente cinese gestisce tuttavia una superpotenza fortemente integrata nelle relazioni internazionali. La Repubblica popolare è membro permanente del Consiglio di Sicurezza Onu, dell'Organizzazione del commercio mondiale; è il principale partner commerciale dell'Unione europea e degli Stati Uniti. Ha l'ambizione di essere un attore responsabile nella governance globale. E' indispensabile che l'Occidente eserciti ogni pressione per far capire a Hu Jintao i rischi che corre in Tibet: vanno ben al di là dei Giochi olimpici. Lo sviluppo con cui i dirigenti di Pechino si garantiscono un consenso reale fra una parte della popolazione, può incappare in serie turbolenze se la Cina decide di presentarci un volto odioso e minaccioso. (15 marzo 2008) da repubblica.it Titolo: Luigi Bonanate. I Giochi e i morti Inserito da: Admin - Marzo 16, 2008, 12:32:30 am I Giochi e i morti
Luigi Bonanate C’era da aspettarselo: qualche giorno fa, la polizia cinese ha eliminato alcuni terroristi uiguri prima ancora che entrassero in azione. Ieri hanno sedato nel sangue le manifestazioni popolari che in Tibet sostenevano la protesta nonviolenta dei monaci buddhisti in occasione dell’anniversario dell’occupazione cinese del 1950. Ancora una volta, a guardare la carta geografica si capisce un mucchio di cose: tanto per incominciare, che il Tibet fa parte della Cina; che lo stesso Tibet è vicinissimo alla terra degli uiguri, altra provincia che è parte integrante della Cina. Le due regioni sono poi entrambe nell’Ovest della Cina; stanno a Nord del triangolo Afghanistan, Pakistan, Nepal (al quale la protesta tibetana si sta estendendo). E guardano a Est, a dispetto dei loro desideri, verso quella Repubblica popolare cinese che avendo sconfitto la concorrenza organizza i prossimi giochi olimpici, dall’8 al 24 agosto, a Pechino. Ora, non solo riscontriamo ogni giorno di più che l'Asia centrale è ormai il centro assoluto di tensioni internazionali difficilissime da gestire, ma vi emergono di continuo nuove e sempre più incontrollabili difficoltà. Se è sufficiente la celebrazione di un anniversario (quello dell’occupazione cinese in Tibet) a scatenare la dura repressione cinese, è difficile aver fiducia che altre possibili e immaginabili contestazioni di qui al mese di agosto saranno sopite senza l’intervento violento delle forze cinesi. Ma altrettanto difficile sarebbe per il mondo assistervi muto e paziente. La Cina sta giocando una partita di estrema complessità: ha deciso di mostrare al mondo le sue capacità, di manifestare la sua superiorità nei confronti di tutti noi, pretendendo l’accesso, a suon di dollari, per così dire (anche se valgono sempre meno, le banche cinesi ne hanno un’immensità), nell’alta società. L’apparecchiatura per le Olimpiadi è mozzafiato e mirabolante; gli atleti cinesi si preparano allo spasimo con l’obbiettivo di vincere, se non tutto, quasi. E così, ancora una volta (tristemente) le Olimpiadi vengono utilizzate da un governo come l’occasione per una straordinaria affermazione di potenza e mascolinità (anche in quelle atlete che sono deformate dagli esercizi o dagli anabolizzanti). Chi ha scordato l’immaginario retorico e visionario della Berlino hitleriana durante le Olimpiadi del 1936? Chi i pugni chiusi rivoluzionari alle Olimpiadi del Messico (1968), o i giochi di Seul 1988 e di Barcellona 1992, tra gli altri, che rilanciarono sul piano internazionale le due città e i rispettivi Paesi? E al contrario, non c’è statista cinese la cui memoria non vada, nei momenti di relax, a ciò che è successo a Monaco nel 1972, con il sequestro della squadra nazionale israeliana e la successiva strage, oppure a Mosca nel 1980, quando gli Stati Uniti e molti loro alleati boicottarono i Giochi a seguito dell’invasione sovietica dell’Afghanistan (il dispetto fu reso quattro anni dopo dai russi a Los Angeles). I Giochi di Atlanta poi (1996) furono blindati per il timore di azioni terroristiche, dopo che un aereo di linea si era inabissato davanti a New York (ma anni dopo la Commissione d'inchiesta dimostrò irrefutabilmente che si era trattato di un incidente e non di un attentato). E ora, le libertà civili, il diritto di professare la propria religione, vengono calpestati per impedire che turbino la psiche di atleti portati sull’orlo del parossismo dalle esasperate tecnologie che contraddistinguono i loro allenamenti. La Cina vorrà alla fine esibire il suo medagliere, e far vedere che dopo i confronti Usa-Urss (o Germania dell’Est), ripetuti per tanti anni, ora tocca proprio a lei sfidare e probabilmente superare l’infiacchita e non più sportiva popolazione statunitense. E noi? Andremo volentieri in un Paese che ci strumentalizzerà come testimonial dei suoi successi e del suo splendore? C’è bisogno che ci diciamo che ogni volta che un popolo o un Paese hanno voluto costruire dei monumenti alla loro grandezza sono subito dopo precipitati, nella maggior parte dei casi trascinando nella caduta anche chi li circondava? Sport e affari, politica e sport: chi, in Occidente, avrà il coraggio di rinunciarvi? La farisaica politica dei diritti umani che ci ha aiutati a chiudere gli occhi di fronte alle costanti ed evidenti violazioni cinesi riuscirà ad accecarci al punto di non vedere che la Cina fomenta la guerra in Darfour (non peggio di altri; ma dalla Cina non ce lo aspettavamo), che reprime da più di mezzo secolo gli autonomismi e le libertà religiose all’interno dei suoi confini, che in diverse sue province lascia che la vita non scorra meglio che ai tempi di Mao e che a Pechino si muoia di inquinamento? La gravità simbolica del momento è immensa: non scordiamo che di fronte a ciò si staglia la figura straordinaria e semplice del Dalai Lama (il Premio Nobel per la pace 1989, con qualche difficoltà accolto in Italia qualche mese fa, ancora per non dispiacere alla Cina), un pacifista che si interpone tra i guerrafondai alla Bush e gli affaristi cinesi di Hu Jintao (qualche anno fa proconsole proprio in Tibet, e ora al vertice del Partito e dello Stato). Ma ora gli Stati Uniti hanno pensato bene di depennare la Cina dalla lista nera degli Stati-canaglia, bontà loro! A dire il vero, l’Unione Europea non ha brillato maggiormente: l’Alto rappresentante per la Politica Estera Javier Solana ci invita ad attendere pazientemente l’avvicinarsi del grande evento sportivo. Eppure, la serenità, in giro, è tanto poca che per il transito della fiamma olimpica, nel prossimo mese di maggio, il Nepal ha deciso, su suggerimento cinese, di chiudere niente meno che l’Everest! Ci sarà il timore di un’occupazione? Non potrà essere scalato per una decina di giorni, speriamo che nessuno si arrabbi... Olimpiadi e politica: nell’antichità le prime sospendevano la seconda. Né guerre né violenza: ma è realistico pensare che ci bastino tre settimane ogni quattro anni per dire che viviamo nel migliore dei mondi possibili? Pubblicato il: 15.03.08 Modificato il: 15.03.08 alle ore 8.52 © l'Unità. Titolo: L’assillo del ritorno ai confini dell’impero dietro la linea dura di Pechino Inserito da: Admin - Marzo 16, 2008, 06:27:13 pm L’assillo del ritorno ai confini dell’impero dietro la linea dura di Pechino
Lina Tamburrino Ma veramente, come sostengono i cinesi, il Tibet - il suo territorio - la sua gente da sempre appartengono alla Cina? Una risposta è difficile, nonostante su quel Paese sia stato scritto moltissimo, a cominciare dal famoso «Il collasso dello stato lamaista», di Melvyn C.Goldstein, profondo conoscitore del vecchio e dell'odierno Tibet. La storia di quel Paese è complicata dalla comparsa dei mongoli, dall'intreccio di guerre di frontiera, dei rapporti con l'India la Cina, dalla presenza e dal ruolo della burocrazia lamaista e dei templi, spesso luoghi di episodi di sollevamento contro il Dalai Lama in carica. Ma possiamo cercare un primo approccio al complicato tema servendoci di un termine «cho yon», che indica un rapporto particolare tra un 'autorità religiosa- in questo caso il buddismo di origine mongola e un'autorità temporale e cioè l'impero cinese. Il capo mongolo è Khubilay, più tardi fondatore della dinastia degli Yuan, che reggerà l’impero sino al 1368. Nel 1254 egli proporrà al capo buddista P'hagpa questo scambio: un potere di protezione temporale da parte del futuro imperatore e da parte dell'uomo di religione un potere spirituale che si estende anche alla Cina dei mongoli. Sarà ancora un capo mongolo, Altan Khan, a creare la figura del dalai lama, «grande oceano di saggezza», titolo che viene dato nel 1577 a un lama riconosciuto come reincarnazione del discepolo prediletto di Tsongkhapa, il fondatore della setta gialla, il buddismo lamaista, vincente in Tibet. Sarà sempre un capo mongolo a consegnare nel 1642 al quinto Dalai Lama il titolo di «re del Tibet». Ma questo particolare \rapporto non ha mai convinto i tibetani a dichiararsi cinesi e non è mai servito alla Cina a produrre un documento qualsiasi a sostegno della sua tesi della sovranità sul Tibet. Ma guardiamo avanti. Nel 1792 il Tibet diventa oggetto delle attenzioni interessate di Cina, Russia e Gran Bretagna; la prima è preoccupata -come oggi- di non perdere il controllo di una fascia territoriale che garantisce la integrità dell'impero. La seconda è interessata al Tibet per la sua posizione strategica, la terza, già saldamente insediata nello sfruttamento della Cina della costa, è desiderosa di conquistare degli avamposti commerciali oltre la frontiera indiana per neutralizzare quella che ritiene una minaccia cinese ai confini con l'India. Caduta la dinastia dei Qng, il contenzioso sul Tibet sembrava agli occhi dei tibetani chiuso. Non era affatto così. Nel 1945 il vincitore della guerra civile Chiang Kai-shek arriverà a ipotizzare per il Tibet, un alto grado di autonomia, se non addirittura la indipendenza. Finita la guerra, liberata l'intera Cina, proclamata il 1 ottobre la nascita della Cina socialista, c’è ancora un territorio da riportare sotto la sovranità cinese, il Tibet appunto, incarico che verrà affidato a Deng Xiaoping, un uomo che avrà negli anni seguenti un'importanza enorme per la storia e la modernizzazione della Cina. La sua avanzata in Tibet avverrà all'insegna di prepotenze e violenza, di cui rimarrà traccia nel ricordo della popolazione al momento della sollevazione dell'ottobre 1940 e della fuga del Dalai Lama in India. In quegli anni da parte della amministrazione americana, ci sono state pressioni sulla Cina per il rispetto dei diritti umani e il Congresso Usa aveva parlato a proposito del Tibet di diritto alla autodeterminazione. Una volta a Pechino, Clinton aveva incitato l'allora segretario dl partito Jiang Zemin a riaprire il dialogo con il Dalai Lama, al quale il presidente Usa aveva rivolto l'invito a riconoscere che il Tibet è parte della Cina e quindi a rinunciare, come il Dalai Lama ha fatto da tempo, alla parola d'ordine dell indipendenza. Il dialogo tra i due paesi non è mai decollato, per problemi ideologici probabilmente, riconoscere cioè qualcosa: diritti umani, autodeterminazione, che non fanno parte del codice genetico del socialismo con caratteristiche cinesi, riconoscere validità alle idee ed alle pressioni della comunità internazionale, un dimensione del tutto sconosciuta alla politica cinese , dare fiducia a un personaggio, il Dalai Lama, appunto, nei cui confronti cinesi hanno pronunciato giudizi molto sprezzanti ispirati forse alla convinzione che la religione è tutt'ora \l'oppio i popoli. È certo che il dialogo non è mai decollato perchè la Cina ha una sensibilità enorme sul tema dei confini e delle frontiere. L'obiettivo della classe dirigente cinese è quello del ritorno ai vecchi confini dell'impero. Tutta la vicenda tibetana si può facilmente leggere alla luce di questa preoccupazione. La Cina è riuscita a concordare i nuovi confini con la Russia, con il Vietnam, e mantenere truppe alla frontiera con l'India sotto la propria sovranità significa essere pronti fare fronte a qualsiasi emergenza nei rapporti con l'India. Insomma, si può dire che la mancata conclusione dalla vicenda tibetana sia segno della paura dell Cina, cha pure è cresciuta, è una potenza, proclama di avere un proprio interesse a mantenere equilibrio e pace nel mondo. Ma finora non ne ha dato la prova. E a pagarne il prezzo sono i monaci e la popolazione tibetane. Pubblicato il: 16.03.08 Modificato il: 16.03.08 alle ore 14.46 © l'Unità. Titolo: Dalai Lama: "Genocidio culturale" Inserito da: Admin - Marzo 16, 2008, 07:35:30 pm ESTERI
La capitale tibetana presidiata da migliaia di soldati cinesi Proteste in altre aree dell'altipiano, soprattutto in Amdo La rivolta si estende oltre Lhasa Dalai Lama: "Genocidio culturale" La guida spirituale: "Io non posso fermare le violenze, è un movimento di popolo" di RAIMONDO BULTRINI DHARAMSALA - Lhasa è presidiata da migliaia di soldati e solo piccoli gruppi hanno manifestato oggi nelle strade semideserte. Duecento camion con una media di 50 soldati l'uno sono affluiti nellac apitale tibetana, secondo informazioni fornite da diverse fonti e rimbalzate nella città degli esuli, Dharamsala. Ma altre manifestazioni, e altri morti, sono segnalati in altre regioni dell'altipiano, soprattutto in Amdo, area d'origine del Dalai Lama dove si parla di altre 30 vittime. Da ieri circolano inoltre diverse voci di una marcia degli abitanti di alcune province limitrofe verso Lhasa, ma senza conferme. I media cinesi, che continuano a parlare di dieci vittime han delle violenze da parte della comunità tibetana, hanno riportato una posizione, evidentemente ufficiale, che invoca una "guerra di popolo" per "battere il separatismo, denunciare e condannare gli atti malevoli di queste forze ostili e mostrare alla luce del giorno il volto odioso della cricca del Dalai Lama". Le autorità hanno anche ribadito la scadenza entro la mezzanotte di domani, lunedì, dell'ultimatum perché i manifestanti si costituiscano se vogliono evitare più gravi conseguenze. A Dharamsala intanto centinaia di persone continuano a manifestare ogni giorno nella crescente trepidazione delle autorità indiane che temono di scatenare le proteste e la rabbia dei vicini cinesi. Dopo l'arresto del primo nucleo di marciatori determinati a raggiungere il Tibet in occasione delle Olimpiadi, un'altra cinquantina di esuli hanno ripreso la stessa strada determinati a portare avanti l'impresa dei loro compagni. Ma anche nel loro caso la polizia del distretto confinante con quello di Kangra ha annunciato la determinazione di fermarli. Per sostenere la loro causa, e protestare per le vittime di Lhasa, trenta monaci e laici sono da ieri in sciopero della fame davanti al tempio del Dalai Lama. E' in questo clima che il leader spirituale dei tibetani ha deciso oggi pomeriggio di incontrare i giornalisti indiani e stranieri per chiedere ufficialmente un'indagine indipendente di un organismo internazionale. IL DALAI LAMA E LE VIOLENZE Durante l'incontro con la stampa il Dalai Lama ha risposto a una delle domande che sono sulla bocca di tutti: "Può lei fermare le violenze?", gli è stato chiesto. "Io non ho questo potere", ha risposto. "E' un movimento di popolo, e io considero me stesso un servo, un portavoce del mio popolo. Non posso domandare alla gente di fare o non fare questo e quello". Nella sua spiegazione ha poi analizzato lo stato delle cose maturate in questi ultimi 60 anni di dominio dell'etnia cinese sulla popolazione locale. GENOCIDIO CULTURALE "Intenzionalmente o no, assistiamo a una certa forma di genocidio culturale. E' un tipo di discriminazione: i tibetani, nella loro terra, molto spesso sono cittadini di seconda classe. Recentemente le autorità locali hanno addirittura peggiorato la loro attitudine verso il buddismo tibetano. E' una situazione molto negativa, ci sono restrizioni e cosiddette rieducazioni politiche nei monasteri", ha aggiunto il Dalai Lama. E ancora: "Ho notato negli anni recenti che tra i tibetani che vengono qui dal Tibet è cresciuto il risentimento, inclusi alcuni tibetani comunisti, che lavorano in diversi dipartimenti e uffici cinesi. Sebbene siano ideologicamente comunisti, siccome sono tibetani hanno a cuore la causa del loro popolo. Secondo queste persone più del 95 per cento della popolazione tibetana è molto, molto risentita. Questa è la principale ragione delle proteste, che coinvolgono monaci, monache, studenti, persone comuni". Il Dalai Lama AUTONOMIA E INDIPENDENZA Il Dalai Lama ha poi tenuto a precisare la sua posizione: "Nelle mie dichiarazioni, nel corso degli anni, ho spesso menzionato che davvero, dico davvero, vorrei supportare il presente leader Hu Jintao nel comune slogan di sostenere e creare un'armonia sociale. Voi sapete che noi non cerchiamo la separazione, il resto del mondo lo sa. Inclusi alcuni tibetani, inclusi i nostri sostenitori occidentali ed europei, o indiani che sono critici verso il nostro approccio perché secondo loro non cerchiamo l'indipendenza, la separazione. Ma sfortunatamente, i cinesi hanno trovato una scappatoia per accusare noi di quanto sta avvenendo". Dopo aver sottolineato le critiche alla sua linea, il Dalai Lama ha però detto che "un numero crescente di cinesi ci stanno manifestando solidarietà. Studiosi cinesi e ufficiali governativi privatamente appoggiano il nostro approccio della via di mezzo", ha detto. INDAGINE INDIPENDENTE E NON VIOLENZA "Allora - ha proseguito il leader spirituale tibetano - per favore indagate da soli, se possibile lo faccia qualche organizzazione rispettata a livello internazionale, indaghi su che cosa è successo, su qual è la situazione e quale la causa. All'esterno tutti vogliono sapere, me compreso. Chi ha davvero creato questi problemi adesso? In realtà credo che tutti sappiano qual è il mio approccio. Ognuno sa qual è il mio principio, completa non violenza, perché la violenza è quasi come un suicidio. Ma che il governo cinese lo ammetta o no, c'è un problema. Il problema è che l'eredità culturale nazionale è in una fase di serio pericolo. La nazione tibetana, la sua antica cultura muore. Tutti lo sanno. Pechino semplicemente si affida all'uso della forza per simulare la pace, ma è una pace creata con l'uso della forza e il governo del terrore. Un'armonia genuina deve venire dal cuore del popolo, sulla base della fiducia, non della paura". OLIMPIADI "Per questo - ha spiegato il leader tibetano in esilio - la comunità internazionale ha la responsabilità morale di ricordare alla Cina che deve essere un buon ospitante dei Giochi Olimpici. Ho già detto che ha il diritto di tenere le Olimpiadi, e che il popolo cinese ha bisogno di sentirsi orgoglioso di questo". LE PRECEDENTI TRATTATIVE Il Dalai Lama ha ricordato che ci sono state sei conferenze bilaterali tra la Cina e i suoi inviati "fin dal febbraio 2002". Ma la Cina "ha iniziato a indurire la sua posizione sul problema tibetano dal 2006", intensificando le critiche nei suoi confronti. LE VITTIME In una intervista alla Bbc il Dalai Lama ha detto di aver ricevuto dei rapporti secondo i quali le violente proteste anticinesi a Lhasa potrebbero aver causato "almeno 100 morti". Ammettendo che la cifra è impossibile da verificare, ha aggiunto di temere in ogni caso che "potrebbero esserci altri morti, a meno che Pechino non cambi la sua politica verso le regioni himalayane controllate dal regime". (16 marzo 2008) da repubblica.it Titolo: Quel sangue ci riguarda Inserito da: Admin - Marzo 17, 2008, 09:59:32 am 17/3/2008 - Quel sangue ci riguarda La politica italiana deve reagire al massacro in Tibet, uscendo finalmente dall'imbarazzo ANDREA ROMANO Nel giorno in cui scade l'ultimatum cinese ai manifestanti tibetani - premessa di una nuova Tienanmen da realizzare in tutta calma al riparo dalle televisioni occidentali - colpisce l’imbarazzo che attraversa la politica italiana dinanzi all'ennesima esibizione della capacità repressiva di Pechino. Abbondano le dichiarazioni di prammatica, le esortazioni al dialogo e gli auspici di pacificazione. Ma le uniche voci che hanno parlato con nettezza sono quelle alla destra estrema che conservano nell’anticomunismo uno strumento di identità e militanza. Tra le componenti più «rispettabili» dell'arco politico prevale invece un senso di distacco dal sangue che torna a scorrere a Lhasa, nella convinzione che quanto sta accadendo non possa influenzare più di tanto la politica estera italiana. In fondo ci occupiamo d'altro, sembra dire la gran parte del Parlamento, e non sarà certo qualche decina o centinaia di morti invisibili a farci cambiare idea sull'opportunità di intrattenere con Pechino una positiva relazione ispirata al realismo e all’apertura di credito. Lo «spirito di Monaco» In questa nuova e condivisa arrendevolezza al terrore di massa - quasi una riedizione provinciale dello «spirito di Monaco» - manca solo che qualcuno si spinga a descrivere i fatti tibetani come «una contesa in un Paese lontano tra gente di cui non sappiamo niente», per riprendere le parole d'infamia con cui Neville Chamberlain volle commentare nel 1938 l'imminente aggressione nazista alla Cecoslovacchia. Per ora ci accontentiamo di apprendere dal ministro degli Esteri D'Alema che la scelta del boicottaggio olimpico creerebbe «confusione», mentre attendiamo fiduciosi di conoscere le iniziative (ovviamente più lineari e meno confuse) che la nostra diplomazia ha in animo di realizzare verso Pechino. Certo è da escludere che una forte spinta morale in questa direzione venga dal Vaticano che, a proposito di «valori non negoziabili», ha fatto sentire ancora ieri tutto il peso del proprio silenzio. La logica padronale L’imbarazzo della politica italiana sulla tragedia tibetana colpisce ma non deve stupire. La Cina gode infatti di un duplice privilegio nella nostra discussione pubblica. Da una parte buona parte della sinistra, anche democratica, continua a mostrare i segni di quel terzomondismo che non ha ancora sgombrato il campo e che oggi saluta in Pechino la capitale di un impero economico alternativo a quello occidentale, destinato secondo i più entusiasti a sopravanzare nel giro di qualche decennio la stessa egemonia statunitense. Dall'altra parte funziona alla perfezione la logica padronale secondo la quale chi ha il timone degli affari non può essere troppo infastidito, neanche quando ha le mani sporche di sangue. È un duplice privilegio che ha già dimostrato di saper tutelare la serenità di cui gode Pechino nel nostro Paese, ad esempio tenendo ben lontano il Dalai Lama sia da Montecitorio che dalla Farnesina nel corso della sua visita di dicembre. Allora per entrare nei luoghi della democrazia italiana non bastò alla principale autorità morale e religiosa del Tibet l'essere già stato ricevuto dal cancelliere tedesco Merkel. E chissà se oggi che si spinge a parlare di «genocidio culturale», conservando peraltro un profilo di grande pacatezza, lo stesso Dalai Lama non rischierebbe di essere tenuto fuori dai nostri confini. da lastampa.i Titolo: FEDERICO RAMPINI. Se prevale la realpolitik (Cina e Tibet) Inserito da: Admin - Marzo 17, 2008, 02:38:00 pm ESTERI IL COMMENTO
Se prevale la realpolitik di FEDERICO RAMPINI L'INDIGNAZIONE internazionale per il calvario del Tibet, le manifestazioni in tutto il mondo davanti alle ambasciate cinesi non impressionano i leader di Pechino. Con la feroce repressione della rivolta, che ora si estende a tutte le zone del "Tibet etnico" amputate dopo l'invasione militare del 1950, il regime cinese corre un rischio calcolato. Il presidente Hu Jintao e il suo gruppo dirigente sono convinti che nelle relazioni con il resto del mondo pagheranno un prezzo modesto per l'orrore di questi giorni. È probabile che abbiano ragione. La Cina è un colosso che le altre nazioni trattano con i guanti. Tra i governi occidentali le logiche della realpolitik sembrano prevalere sulla solidarietà umanitaria. Perfino una potenza ultraterrena come la chiesa cattolica brilla per i suoi silenzi. Ieri il papa ha condannato le guerre nel mondo ma non ha parlato del Tibet. Il Vaticano ha in corso un negoziato per riallacciare i rapporti diplomatici con Pechino; esita a prendere una posizione sul Tibet che potrebbe compromettere questo storico obiettivo. In fatto di cautela è una bella gara. Nelle stesse ore in cui stava nascendo la protesta a Lhasa, Washington annunciava di aver tolto la Repubblica popolare dalla lista nera dei dieci paesi accusati dei peggiori abusi contro i diritti umani. Un infortunio, una coincidenza infausta ma tutt'altro che sorprendente. Anche se gli Stati Uniti considerano la Cina come il rivale strategico in grado di sfidare la loro egemonia planetaria, negli ultimi anni hanno accresciuto la loro dipendenza dal gigante asiatico. Hanno goduto dello "sconto cinese", l'invasione di prodotti a basso costo che hanno limitato l'inflazione e hanno sostenuto il potere d'acquisto dei consumatori. L'esplosione del debito americano è stata finanziata da Pechino: la banca centrale cinese "ricicla" l'immenso attivo commerciale acquistando buoni del Tesoro Usa; ha le casseforti più ricche del pianeta con 1.550 miliardi di dollari di riserve valutarie. Nella crisi che scuote il sistema bancario mondiale, gli americani sono stati i primi ad accogliere a braccia aperte gli investitori cinesi come "cavalieri bianchi" nel capitale dei loro istituti di credito, da Bear Stearns a Morgan Stanley. Non è facile ora fare la voce grossa contro chi siede nei tuoi consigli d'amministrazione. Anche la politica estera di Washington ha qualche debito. Se la Filarmonica di New York ha potuto giocare alla "diplomazia del violino" a Pyongyang, è perché la Cina ha convinto il vassallo nordcoreano a congelare (per ora) i suoi piani nucleari. Avendo due conflitti aperti, con sollievo Bush ha depennato il dittatore Kim Jong Il dall'"asse del male". Gli europei non sono da meno. Ricordiamo l'ultimo viaggio del Dalai Lama nel nostro continente. Salvo Angela Merkel, i governi europei evitarono di riceverlo. Non fece eccezione quello italiano, e neppure Benedetto XVI: tutti preoccupati di non irritare Pechino. La Repubblica popolare è diventata ormai il principale partner commerciale dell'Europa, scalzando gli Stati Uniti da un ruolo storico che avevano avuto per mezzo secolo. Al di là delle periodiche minacce protezioniste, agitate da politici demagoghi in cerca di voti, nessuno può fare seriamente a meno del made in China. Nei prodotti hi-tech come i computer e i telefonini la Cina è diventata un quasi-monopolista, indispensabile e insostituibile. Le fabbriche elettroniche e informatiche sono state in larga parte smantellate dai paesi europei e non torneranno indietro. Se smettessimo di comprare cinese tutto si fermerebbe, perché non siamo più in grado di produrre molti beni essenziali. È sintomatico che di fronte alla tragedia del Tibet l'unico dibattito in Occidente è sull'opportunità di boicottare le Olimpiadi di Pechino. È un'ammissione implicita: il solo danno che possiamo immaginare di infliggere alla Cina è sul piano simbolico. Naturalmente l'interdipendenza è reciproca. Il regime cinese sa che il formidabile sviluppo economico degli ultimi anni è stato trainato dalle esportazioni. Il presidente Hu Jintao e la nuova leva di dirigenti tecnocratici non sottovalutano l'importanza delle buone relazioni con il resto del mondo. Ma hanno una loro visione delle priorità e delle poste in gioco. Per quali ragioni la Cina tiene così tanto al Tibet, come si spiega la determinazione con cui controlla questa immensa nazione montagnosa, semidesertica e per lungo tempo inaccessibile? In primo luogo, storicamente, per il ruolo di protezione strategica in vista di un possibile conflitto con l'India o altre potenze presenti nell'Asia centrale (dalla Russia agli stessi Stati Uniti). Più di recente per la scoperta di giacimenti di energia, materie prime e metalli rari che sono risorse preziose per l'industria delle zone costiere. Una volta riscritti i manuali di storia, dopo aver indottrinato generazioni di cinesi sul fatto che il Tibet è "sempre" stato loro, come Hong Kong e Taiwan, ecco subentrare il nazionalismo, la memoria dell'onore ferito dalle aggressioni imperialiste dell'Ottocento e del primo Novecento. Infine vi è la battaglia sul controllo egemonico della religione. Ci sono 150 milioni di buddisti praticanti in Cina, incoraggiati dallo stesso regime a riscoprire nei culti antichi le radici di un'identità nazionale. Pechino intende affermare che ogni manifestazione religiosa è ammissibile solo se sottomessa alla supremazia del regime comunista; perciò un leader buddista autonomo come il Dalai Lama è il Male assoluto, l'avversario con cui non si scende a patti. Il regime cinese è disposto a subire un peggioramento temporaneo della sua immagine nel mondo, pur di affermare che il Tibet è una questione domestica, e che nel suo nuovo status di superpotenza globale Pechino non accetta lezioni di diritti umani o altre "interferenze". Certo quel che sta accadendo manda in frantumi la visione di una confuciana società armoniosa, che Hu Jintao predica come modello della convivenza interna e delle relazioni internazionali. A lungo termine la Cina dovrà accorgersi che le ambizioni neoimperiali devono reggersi anche sul "soft power", la capacità di esportare fiducia, di proiettare valori. Ma nel lungo termine chissà cosa sarà rimasto del popolo tibetano. Per ora le ragioni del cinismo, della prudenza e dell'opportunismo sono destinate a prevalere. (17 marzo 2008) da repubblica.it Titolo: Ugo Leonzio. Sangue e compassione l’illusione tibetana Inserito da: Admin - Marzo 19, 2008, 02:54:53 pm Sangue e compassione l’illusione tibetana
Ugo Leonzio Che il Tibet sia un paese immaginario inventato dagli occidentali un paio di secoli fa come rifugio dagli illuminismi e poi dalla metastasi della tecnologia dei consumi e dei viaggi «avventura» lo si può vedere dalla falsa coscienza con cui si manifesta con candeline accese e scritte Free Tibet in paesi che per cinquant’anni non hanno mai riconosciuto il Dalai Lama come capo di un governo in esilio. Il Premio Nobel per la Pace, offerto molti anni fa a Tenzin Gyatso, Oceano di Saggezza, è la prova di questa dimensione irreale in cui lo abbiamo collocato. Per chi compra un viaggio «avventura» Lhasa-Kailash-Samye, il Paese delle Nevi è popolato solo da lama persi in meditazioni profonde tra cime di cristallo traversate da mantra accompagnati dai suoni delle trombe sistemate in cima ai gompa. Chi non è lama o almeno un naljorpa itinerante abituato a meditare in «luoghi di potere», sacre caverne o cimiteri, non suscita alcun interesse nel viaggiatore sprofondato nel suo sonno mistico, motivato da un paesaggio di una bellezza profonda e struggente. Chi va a Dharamsala per ricevere insegnamenti da Sua Santità o iniziazioni di Kalachakra nelle varie parti del mondo in cui questo monaco forte, saggio e ironico cerca di tener viva l’immagine del suo paese, non si chiede che cosa sia veramente il Tibet, i suoi luoghi, la sua storia, affascinante e contraddittoria come tutte. Alimenta esclusivamente la sua ansia di spiritualità e di «compassione», dimenticando un famoso e sostanziale avvertimento del Budda Sakyamuni: «la via della spiritualità è quella che porta più velocemente all’inferno». Chogyam Trungpa, il più intenso e affascinante lama che provò per primo a spiegare il tantrismo tibetano in America, definì i suoi primi allievi, ansiosi di penetrare nei segreti insegnamenti del tantrismo Vajrayana allacciando proficui legami con divinità Pacifiche e Feroci, «pescecani spirituali». Non era un complimento. È probabile che qualcosa sia cambiato da allora, il buddismo si è diffuso ovunque e in modo imprevedibile, l’immagine di pace interiore che diffonde è un richiamo troppo forte, un antidoto contro la demoniaca avidità che trasforma la nostra mente in un cannibale afflitto da bulimia anoressica. I lama tibetani che oggi danno insegnamenti, conoscono molto meglio i loro allievi e le loro ansie di «altrove», la sete insaziabile di contemplazione & compassione. Associazioni non governative come Asia, fondata dal grande lama e insegnante dzog chen Namkhai Norbu, costruiscono in Tibet ospedali e scuole dove si insegna la lingua tibetana e mantengono viva, in centri di studio e di meditazione sparsi in tutte le parti del mondo, la tradizione spirituale e le profonde pratiche del tantrismo tibetano che nel Paese delle Nevi rischiano di scomparire. Eppure, cinquant’anni dopo la drammatica fuga in India del Dalai Lama e i tragici, sanguinosi fatti di questi giorni a Lhasa, il Tibet è rimasto com’era, un paese che continua a essere un sogno, un’utopia mistica ben radicata nelle mente dei suoi sostenitori e che per questo sembrerebbe possedere meno speranze di ritrovare la sua identità della Birmania, che non è un mito ma un territorio buddista con infinite pagode, monaci con tonache suggestive, stupa d’oro, un regime repressivo, eroina, turisti ecc. Il Tibet, bod come lo chiamano i tibetani, è diverso. Il Tibet è unico. Anche se privato non solo del suo futuro ma anche del suo passato, anche se rischia di essere inghiottito pericolosamente dal «Paese delle nevi», un sogno disegnato genialmente dal mistico pittore russo Nicholas Roerich e costruito con infinita quanto involontaria perizia dalle geniali spedizioni di Giuseppe Tucci nello Zhang Zhung e da una miriade di film, documentari, spedizioni, scalate, viaggi, libri ed estasi pacifiche e feroci, bod sopravviverà. La sua malìa incanterà anche i cinesi quando l’ansia di forza e di potenza passerà la mano perché il mutamento è la legge dell’esistenza. Questo insegnamento è probabilmente il primo che sia stato dato dal Buddha, nel Parco dei Daini di Kashi, in riva al Gange, insieme alla constatazione che la vita è dolore. Questo piccolo seme di infinita potenza, trasportato negli infiniti deserti tibetani traversati solo da cumuli di nuvole bianche, ha trasformato il Tibet più di qualsiasi altro paese in cui questo insegnamento sia giunto e abbia attecchito. Ma non sono stati i selvaggi tibetani, di cui si diceva che fossero predoni, assassini e perfino cannibali (sebbene uno dei primi re ricordati dalle cronache antiche, Podekungyal, vivesse all’epoca dell’imperatore cinese della dinastia Han Wuti, un paio di secoli prima di Cristo) a svilupparlo. È stato il paesaggio, la profondità dell’orizzonte, l’altitudine che affila l’ossigeno fino a farlo sparire, a creare le Divinità pacifiche e feroci che dominano l’immaginario delle pratiche tantriche rendendolo diverso da tutte le altre forme buddiste di «pianura». Le religioni nascono nei deserti ma, si sa, niente è più diverso dei deserti. Solo il silenzio li apparenta. Il silenzio è il luogo privilegiato delle apparizioni. Nessuna pratica mistica è più ricca di apparizione del buddismo tibetano. È un’apparizione incessante di divinità pacifiche e ostili, consolanti o persecutorie, assetate di sangue e di sciroppi di lunga vita, quasi tutte descritte scrupolosamente nel classico Oracles and Demons of Tibet da Réne De Nebesky-Wojkowitz (Tiwari’s Pilgrim Book House). Divinità che cavalcano eventi naturali, furori della natura, venti travolgenti, valanghe, instabili abissi e immobili cime, laghi parlanti e salati. Erano queste apparizioni che davano forma alle pratiche e agli insegnamenti esoterici e non il contrario. Così l’aspetto e la forma di queste apparizioni hanno finito per dividere in tre gruppi (e svariate scuole) l’insegnamento buddista, anche se la leggenda vuole che il monaco Sakyamuni fin dall’inizio desse insegnamenti semplici ad alcuni ed altri, più segreti, esoterici, occulti a quelli che erano in grado di capirli. Tutti, comunque, conducevano sul sentiero della liberazione. La differenza consisteva nel tempo e nel numero delle rinascite necessarie per il risveglio. Gli insegnamenti segreti permettevano un risveglio istantaneo, nel corso di una sola vita. Per quelli comuni, bisognava armarsi di pazienza. Decine se non centinaia di nascite e rinascite, di transiti tra vita e morte e tra morte e vita (secondo la legge del karma, cioè di causa ed effetto) erano appena sufficienti per sbirciare fuori dai confini del samsara, il regno della sofferenza in cui ci troviamo adesso (di questo, pochi credo possano dubitare e anche chi dubita, perché baciato dalla fortuna, da un lifting ben riuscito o da una fortunata avventura nel regno dei trapianti svizzeri) farebbe meglio ad aspettare le sorprese immancabili e per nulla consolanti del post mortem. Le pratiche che riguardano questo avvenimento cruciale è il cuore dell’insegnamento del tantrismo tibetano e non appartiene ad alcuna altra scuola buddista. Per i tibetani e soprattutto per il loro celebre Bardo Thos grol, meglio conosciuto come Libro dei morti tibetano, quando il nostro corpo smette di funzionare e si dissolve, noi non andiamo «a far terra per ceci», ma per la durata di sette settimane viaggiamo in un territorio incredibilmente frustrante, crudele e ingannatore. Il nostro grasso inconscio. Tutto il rimosso, il non detto, il negato ci appare interpretato dalla figure sardoniche, irridenti, affamate del coloratissimo pantheon che soggiorna nei regni oltremondani della nostra mente che scomparirà solo alla fine di questo viaggio estremo. Il libro dei morti tibetano dà a tutti le istruzioni per uscire senza danni da questa imbarazzante situazione e in modo più o meno onorevole. Se riconosciamo che quelle spaventose visioni che ci inseguono, ci minacciano e ci terrorizzano mettendo davanti ai nostri occhi la vera identità di chi siamo stati da vivi, sono il prodotto (illusorio) della nostra mente, istantaneamente l’incubo sparisce e in un raggio glorioso di arcobaleno torniamo ad essere quello che siamo sempre stati, senza mai saperlo. Saggezza, luce, onnipotente vuoto da cui ogni forma, ogni pensiero, ogni pensiero deriva in una instancabile gioco d’illusione. I tibetani, lama, monaci, gente comune hanno questa certezza che potrebbero condividere con molti dei fisici quantistici che studiano la «teoria delle stringhe». Tutta la realtà è il riflesso iridescente, ma vuoto, del nulla. Niente ha consistenza, niente è «reale». Il dolore, la sofferenza nascono quando non si riconosce questo stato che imprigiona la nostra mente, privandola della sua perfezione felice. Allora perché ribellarsi a Lhasa? Perché provocare un bagno di sangue e moltiplicare il dolore se tutto è illusione? Attaccarsi alla propria casa, al proprio paese non solo è inutile ma può essere una forma di avidità che ci proietterà, dopo morti, in uno dei Sei Loka, i regni della sofferenza che costituiscono il samsara, gravido delle nostre passioni. C’è qualcosa che divide profondamente l’insegnamento buddista e le sue scuole principali, Hinayana, Mahayana e Vajrayana. La compassione. Nell’Hinayana si persegue il risveglio da soli. La pratica è etica, morale, devozionale. Ciascuno percorre da solo il Sentiero, essenziale è liberarsi. Mahayana e Vajrayana, invece, mettono al centro degli insegnamenti la Compassione, che vuol dire non uscire dal samsara finché anche il più piccolo, il più insignificante degli insetti non sia stato liberato. Il risveglio di tutti gli esseri è il punto essenziale. È la compassione a condurre, prima delle preziose pratiche occulte, sul sentiero irreversibile del Risveglio. Irreversibile, perché anche se l’illusione ci trascina nel sangue, non ci permette mai di scordare l’irrealtà di quello che stiamo vivendo. C’è un insegnamento più prezioso di questo? Pubblicato il: 19.03.08 Modificato il: 19.03.08 alle ore 8.10 © l'Unità. Titolo: Manfredi Manera. Tra i tibetani rapati a zero per lutto Inserito da: Admin - Marzo 23, 2008, 07:07:11 pm Tra i tibetani rapati a zero per lutto
Manfredi Manera I tragici avvenimenti i questi giorni mostrano in modo evidente quanto il problema del Tibet sia una delle più grandi questioni irrisolte, che il mondo si trascina dal dopoguerra. Qui a Dharamsala nel Nord India, residenza del Dalai Lama e sede del governo in esilio i rifugiati tibetani vivono queste ore in uno stato di esaltazione continua alternato a disperanza e frustrazione di fronte a un senso sconfortante d’impotenza. La città è tappezzata delle crude immagini di una strage operata dalle autorità cinesi nella regione dell’Amdo (est Tibet) il 16 marzo scorso. Le sole che per vie rocambolesche sono riuscite a filtrare oltre la cappa di piombo imposta dal regime cinese sul Tibet. Jigmy, un giovane originario di Lhasa venuto in India a studiare: «Ho i genitori a Lhasa, temo per la loro incolumità, in queste notti la polizia opera raid notturni. La gente sparisce». Riuscite ad avere notizie?. «È molto difficile, potrei telefonare ma temo di mettere nei guai i miei genitori, tutte le linee sono controllate. Le immagini della strage che si vedono in giro per la città sono state mandate a rischio della propria vita, probabilmente inviandole attraverso paesi terzi. È molto pericoloso per i tibetani in Tibet comunicare con noi che stiamo in India». Noto che anche lui come molti altri si sono fatti rasare i capelli. «Lo abbiamo fatto in segno di lutto per i nostri fratelli che soffrono aldilà dell’Himalaya». Nella piazza in prossimità della residenza del Dalai Lama proprio davanti al cancello vi sono tre barbieri indiani che alacremente radono a zero coloro che vogliono unirsi in questo modo al lutto collettivo. In due cortili adiacenti vi sono due gruppi di una trentina di tibetani che ormai dal 15 marzo esercitano un digiuno a oltranza. Le manifestazioni di protesta si svolgono in continuazione anche tre o quattro volte al giorno. Nascono spontaneamente prendendo avvio da notizie e voci di nuove rivolte in Tibet, di nuove repressioni e stragi. Ieri mattina si parlava di altri venti morti nella città di Serta nella regione dell’Amdo, venerdì di un intero villaggio assediato dall’esercito cinese nella regione del Kham. Alcune fonti parlano di soldati cinesi con le baionette innestate e armati di ak47 pronti a intervenire contro la popolazione inerme. Durante una manifestazione incontro il signor Pema Tseringche lavora alla biblioteca tibetana: «È un momento storico, i fatti sono terribili ma ci dà speranza questo senso di unità del nostro popolo. È la prima volta dal 1959 che l’intero Tibet è insorto da Lhasa fino alle regioni orientali e anche i tibetani all’estero fanno la loro parte. È un momento fatale, non ci sono mezze misure. O riusciremo a riottenere la nostra libertà oppure sarà la fine del Tibet». Nonostante la drammaticità del momento le proteste anche se accese non sono mai violente. Al massimo vengono bruciate delle bandiere cinesi. La polizia indiana si limita ad accompagnare le manifestazioni armata solo di leggere canne di bambù. Di sera si svolgono delle processioni a lume di candela, accompagnate da litanie religiose che terminano nella piazza davanti al tempio del Dalai Lama, dove vengono pronunciati discorsi e vengono mostrati i video delle poche immagini trafugate dal Tibet o delle manifestazioni parallele in giro per il mondo. L’atmosfera è gravida di emotività e spesso il pubblico ha le lacrime agli occhi. Cercano disperatamente aiuto e sostegno presso gli stranieri presenti e i media internazionali. Durante le prime giornate di repressione in Tibet gli unici rappresentanti occidentali a dare conforto ai tibetani , erano degli italiani. I radicali Sergio d’Elia, Marco Perduca e Matteo Mecacci. Erano venuti a inaugurare il 10 marzo l’iniziativa della marcia di ritorno in Tibet organizzata dalle 5 principali ong tibetane capeggiate dalla storica Tibetan Youth Congress. Avevano avuto l’intuizione che si stava avvicinando un momento cruciale per il Tibet. La marcia continua nonostante il governo indiano, inchinandosi alla potenza cinese, abbia tentato di fermarla e il Dalai Lama stesso abbia suggerito di interromperla. In queste ore drammatiche sta cercando in tutti modi di calmare il suo popolo per tentare di mantenere un canale di dialogo con la Cina. Ma nonostante la sua moderazione da Pechino riceve solo insulti. Il governatore del Tibet in un’ultima dichiarazione lo ha definito «un mostro». E i tibetani in India di fronte a questa chiusura, ignorando l’invito alla moderazione del loro leader, hanno assaltato ieri per la terza volta l’ambasciata cinese a Delhi. «Non possiamo fermarci ora -dicono i tibetani- la marcia deve proseguire-non possiamo abbandonare in questo frangente i nostri fratelli in Tibet». Anche a costo di disobbedire al Dalai Lama? A questa domanda, Palky una giovane tibetana del TYC tentenna, abbassa lo sguardo e dopo una lunga pausa, quasi sussurrando ma con determinazione dice: «Dobbiamo andare avanti». Pubblicato il: 23.03.08 Modificato il: 23.03.08 alle ore 8.09 © l'Unità. Titolo: Siegmund Ginzberg. Una fiaccola contro Pechino Inserito da: Admin - Marzo 25, 2008, 11:50:15 pm Una fiaccola contro Pechino
Siegmund Ginzberg La torcia olimpica promette di lasciarsi dietro una scia infinita di proteste sul Tibet. È cominciata ad Atene. Continuerà probabilmente in tutte le 135 città del mondo che saranno attraversate. Abbastanza da creare un grosso problema di immagine per Pechino. Anche se i dirigenti cinesi del Comitato olimpico vanno presi in parola quando promettono che «questi eventi non altereranno in alcun modo la staffetta della torcia in Cina». Nemmeno quando andrà, in maggio, sulla cima dell´Everest, e passerà per Lhasa. Hanno i mezzi per farlo. L´hanno fatto in passato. Anche per avvenimenti e crisi molto più macroscopiche. Nessun paese ha mostrato, nel corso dei millenni della sua storia, e in particolare nella seconda metà del secolo scorso, tanta expertise nel sapersi trasformare, quando vuole, in un buco nero da cui non filtra assolutamente nulla. Eppure, qualcosa è cambiato. Grosso modo una ventina d'anni fa. C'è un prima e un dopo piazza Tiananmen. Ci sono cose che non si possono più nascondere a piacere all'esterno. E che anzi, se vengono oscurate, rischiano di assumere dimensioni ancora più gigantesche, proprio perché se ne sa poco. Che poi per periodi anche molto lunghi si tenda a dimenticare, sopravvengano amnesie planetarie, è un altro paio di maniche. Quello non è colpa della Cina, è colpa tutta nostra. "Siamo pronti", dice l'inno che Pechino ha scelto per le Olimpiadi. C'è da credergli. Sono pronti a far fronte, a modo loro, alla crisi tibetana, così come sarebbero stati pronti a far fronte anche ad una crisi potenzialmente più grave, quella su Taiwan, su cui si concentravano attenzione e timori anche più che sul Tibet. L'elezione a presidente di Ma Ying-jeou, un esponente del Kuomintang, cioè di un partito che ha nel suo Dna la stessa vocazione totalitaria del Pcc, anziché di un indipendentista, rende meno probabile che esplodano frizioni su quel fronte. Non temono molto un boicottaggio delle Olimpiadi, e a ragione: se non ci sta l'America, è difficile, anzi impossibile che su questa strada si avvii l'Europa; getti la prima pietra chi non ha una banca pericolante su cui spera nell'aiuto dei Sovereign Wealth Funds arabi, russi o cinesi; e comunque l'ultimo boicottaggio, quello delle Olimpiadi di Mosca nel 1980, per protesta contro l'invasione sovietica dell'Afghanistan, non aveva avuto nessun effetto sull'Urss di Breznev, così come è dubbio che un eventuale boicottaggio delle Olimpiadi del 1936 a Berlino avrebbe avuto qualsiasi effetto positivo sul regime di Hitler. Molto di più si ricordano e hanno avuto risonanza piccoli fatti (come la vittoria del nero americano Jesse Owens nel 1936), o piccoli gesti (come il saluto dal podio col guanto nero e il pugno chiuso del Black power da parte di Tommie Smith e John Carlos a Città del Messico nel 1968). Che di Tibet si parli all'Onu è un miraggio. Ammesso e non concesso che qualcuno voglia arrischiare uno scontro diplomatico con la Cina, in questa Onu Pechino e Mosca hanno diritto di veto. L'incubo di Pechino non è il prevedibile, ma l'imprevedibile. Non sono tanto le gradinate vuote, quanto che si ripetano episodi tipo quando la cantante islandese Bjork, recentemente in concerto a Shanghai, ha cantato una sua vecchia canzone che invitava le Isole Faroe a "dichiarare l'indipendenza", "proteggere le loro lingua" e innalzare "la propria bandiera", concludendola con un ritmato: "Tibet! Tibet!". Si tratta di cose che nell'era di Youtube è impossibile nascondere. Neppure tutta la potenza di Pechino, tutta la capacità tecnica di controllo e di censura, anche su Internet e sulle trasmissioni via satellite, possono oscurare tutto e chiudere la bocca a tutti. A Pechino in questi giorni è successo anche qualcosa di straordinario, che non ha precedenti da decenni in Cina: un gruppo di prestigiosi intellettuali ha rivolto un appello alla moderazione, rivolto alla protesta tibetana, ma soprattutto al proprio governo. Ma l'altra faccia, quella brutta, della medaglia è che all'interno della Cina lo spin control, l'indirizzamento governativo dell'interpretazione degli avvenimenti tibetani, pare al momento decisamente vincente. La posizione ufficiale è che in Tibet viene attaccata la sovranità della Cina. Che non reagire sarebbe come incitare ad una "pulizia etnica" dei tibetani contro i cinesi. "Siamo impegnati in una battaglia di sangue e di fuoco, di vita o morte (per la Cina) contro la cricca del Dalai lama", sono le parole del segretario del Pcc a Lhasa, Zhang Qinli, seguite da un invito severo ai "leader del resto del paese" a non sottovalutare la minaccia. Si erano preparati scrupolosamente ad una offensiva mediatica in questo senso. Già prima che scoppiasse il Tibet, avevo letto sul Wall Street Journal un resoconto molto accurato sul trattamento del Tibet nei corsi di giornalismo all'Università Tsinghua di Pechino. Paradossalmente, anche quel poco che filtra dal Tibet malgrado il blackout gli serve a sostegno di questa linea. Hanno fatto il giro di tutti i siti internet cinesi la foto delle "atrocità" commesse non contro i monaci tibetani ma contro "cinesi innocenti". Sul sito del New York Times ieri c'erano molte foto scattate da non identificati turisti sulle distruzioni e i saccheggi dei negozi cinesi nel centro di Lhasa. Sarei pronto a scommettere che queste foto passeranno la censura "mamma net", come chiamano i siti cinesi, sono una testimonianza di furia popolare di cui non si ricordano precedenti, nemmeno nei giorni della rivolta del 1987. Il giornale newyorchese ha anche una corrispondenza in cui si racconta che nelle prime 24 ore non si vedeva in giro neanche un poliziotto o un soldato cinesi, che insomma hanno "esitato" prima di intervenire con la forza. Anche questo può far brodo alla propaganda cinese a fini interni. Il Dalai lama viene descritto dalle autorità cinesi come "uno sciacallo vestito da monaco, uno spirito maligno con faccia umana e cuore di belva". Non importa che dal leader religioso siano sempre venute parole di moderazione. Contro di lui ora viene fatto pesare anche il fatto che non riesca più a controllare la rabbia del suo popolo, i suoi ultrà, i giovani e forse nemmeno parte di coloro che seguivano la sua "via di mezzo"; che i suoi gli rimproverino di "non aver ottenuto nulla" con 30 anni di moderazione. Non il caso di farsi illusioni: l'opinione pubblica cinese, l'armata del fenqing, della gioventù cinese arrabbiata, del nazionalismo ultrà, sta conducendo una campagna senza quartiere, anche via internet, non in difesa dei tibetani ma contro gli attentati all'onore dei figli dell'Imperatore Giallo e contro eventuali ingerenze straniere ai danni della Cina. Ogni intervento che possa essere percepito come pressione anti-cinese rischia di peggiorare la situazione. Peggio: mette in difficoltà anche Hu Jingtao e il gruppo dirigente attuale, il che rende più difficile, se non esclude del tutto, che venga da loro un intervento moderatore. Pubblicato il: 25.03.08 Modificato il: 25.03.08 alle ore 11.22 © l'Unità. Titolo: Mario Soares. Il Dalai Lama come Sakharov Inserito da: Admin - Marzo 28, 2008, 05:15:06 pm Il Dalai Lama come Sakharov
Mario Soares Negli ultimi giorni, i giornali e le televisioni di tutto il mondo hanno evidenziato, una volta di più, la figura un po’ enigmatica ma ampiamente rispettata del Dalai Lama. Leader spirituale della comunità buddista del Tibet e, contemporaneamente, Capo di Stato in esilio in India dal 1959, ha visitato in varie occasioni il mio Paese, il Portogallo, dove ho avuto l’occasione di frequentarlo. Da tempo sento una forte ammirazione per questa singolare ed affabile personalità che la comunità internazionale ha riconosciuto con il Premio Nobel per la Pace nel 1989 e che per molti tibetani ha una natura divina. Il Dalai Lama ha percorso tutto il mondo in difesa dell’identità del suo popolo. Dietro le sue genuine semplicità e modestia, proprie dei grandi uomini, c’è una volontà d’acciaio e una serena intelligenza, doti costruite in anni di lotta per il controllo di sé stesso e messa interamente al servizio della sua terra e della sua gente. In termini biblici, il suo combattere assomiglia a quello di David contro Golia. Il Dalai Lama è tornato ad occupare il centro dello scenario mondiale in virtù della ribellione disarmata dei tibetani e della brutale repressione con cui ha risposto il governo di Pechino. Un grave errore - per usare un eufemismo -, nel momento in cui la Cina si prepara ad ospitare nella sua capitale i Giochi Olimpici del 2008. Da Dharamsala, sede del suo esilio, il Dalai Lama ha risposto con la sua abituale fermezza, accusando la Cina di «genocidio culturale», un’espressione che è servita a mobilitare le coscienze di tutto il Pianeta. La retorica del governo di Pechino si è limitata a imputargli la responsabilità di aver provocato i disordini con l’intenzione di creare difficoltà per la realizzazione dei Giochi Olimpici. Tranquillamente, il Dalai Lama ha ricordato che, come pacifista, non pensa che il problema del Tibet possa risolversi con la forza, ma attraverso il dialogo, un’opzione che lo colloca in opposizione rispetto al settore estremista tibetano. Persino aggiungendo, con arguzia e ironia, che spera in un normale svolgimento dei Giochi Olimpici di Pechino per «rispetto verso il popolo cinese e per quanto questi giochi possano significare per la loro voglia di libertà». Ascoltando queste sue parole in televisione, mi sono ricordato l’esperienza avuta quando volli conoscere Andrei Sakharov, anch’egli Premio Nobel della Pace (nel 1975) durante un viaggio ufficiale come Presidente del Portogallo in quella che allora era l’Unione Sovietica ai tempi di Mijail Gorbachov e della Perestroika. Il protocollo sovietico mi oppose una enorme quantità di ostacoli per farmi desistere. Insistei, minacciando di interrompere la mia visita. Finalmente, arrivo l’autorizzazione affinché un’auto dell’ambasciata portoghese andasse a prendere Sakharov, una mattina gelida a Mosca, per prendere un caffè con me all’ambasciata. Quando arrivai all’incontro, la sede diplomatica era circondata dalla polizia sovietica, con uno spiegamento di sicurezza così sproporzionato che fece paura persino al personale dell’ambasciata, in gran parte impiegati delle pulizie e della segreteria e quasi tutti russi e incapaci di dissimulare la loro paura. Arrivarono a mettere sotto assedio l’intero quartiere e le sue vie d’accesso e d’uscita. Poco dopo arrivo l’auto che portava Sakharov e sua moglie Yelena Bronner. Lui era un uomo alto, tranquillo, con occhio azzurro chiari. Ebbi la sensazione che un raggio di luce attraversasse la nebbia di quella fredda mattina russa. Arrivato alla sala da pranzo, dove lo ricevetti, gli feci segno per avvertirmi che lì con molta probabilità ci sarebbero stati microfoni nascosti. Mi rispose con calma. «Non importa. Loro sanno tutto quel che penso. E sono già abituati». Dopo parlammo di tutto, lungamente, in piena libertà. La forza bruta dell’intimidazione nulla potè contro la coscienza civica di Sakharov. Traduzione di Leonardo Sacchetti Copyright Ips (*) Mário Soares, ex Presidente ed ex Primo Ministro del Portogallo Pubblicato il: 28.03.08 Modificato il: 28.03.08 alle ore 8.32 © l'Unità. Titolo: DOPO LA MOZZARELLA, LA CINA PROIBISCE ANCHE LA FRUTTA ITALIANA Inserito da: Admin - Marzo 31, 2008, 12:50:00 am L'IRA DI COLDIRETTI
DOPO LA MOZZARELLA, LA CINA PROIBISCE ANCHE LA FRUTTA ITALIANA La decisione delle autorita' cinesi di sottoporre qualsiasi genere di formaggio prodotto in Italia a esame di laboratorio prima di entrare nel Paese si aggiunge al divieto di inviare nel paese asiatico frutta Made in Italy mentre solo da pochi giorni e' stato possibile esportare alcuni tipi di prosciutti italiani ma esclusivamente da specifici stabilimenti. Lo afferma la Coldiretti nel sottolineare "che la "quarantena" di ventuno giorni imposta dalla autorita' doganali cinesi, che impedisce di fatto l'arrivo nel paese asiatico di mozzarella di bufala campana Dop e di tutti i formaggi freschi a pasta filata, e' solo una degli esempi delle misure protezionistiche adottate dal gigante asiatico nel confronti del Made in Italy che le ripetute missioni diplomatiche non sono riuscite a superare". Le importazioni in Italia "di prodotti agroalimentari dalla Cina - sottolinea la Coldiretti - superano di quasi sette volte in valore le esportazioni Made in Italy nel paese asiatico anche per effetto dei numerosi vincoli di carattere burocratico, sanitario ed amministrativo, che hanno sino ad ora impedito le spedizioni dei prodotti alimentari nazionali noti e consumati in tutto il mondo". Dopo cinque anni di trattative, da pochi giorni sembra che i primi prosciutti italiani siano riusciti ad arrivare sul territorio cinese che risulta pero' ancora off limits per la frutta italiana come mele e kiwi, per il presunto pericolo della diffusione di parassiti, mentre il grande paese asiatico non solo esporta quantita' sempre crescenti di prodotti ortofrutticoli verso l'Unione europea e l'Italia (mele, aglio, concentrato di pomodoro, castagne, funghi, semilavorati di ortofrutta), ma ha addirittura ha "regalato" negli ultimi anni almeno due insetti dannosi come il Cinipide del castagno che ha distrutto i boschi e l'Anoplophora chinensis che colpisce una vasta gamma di piante ornamentali e non. "Il risultato - sostiene la Coldiretti - e' un pesante deficit commerciale negli scambi tra Italia e Cina nell'agroalimentare, con la forbice tra il valore delle importazioni e quello delle esportazioni che si e' ulteriormente allargata. Nel 2007 sono quasi triplicate le importazioni di pomodoro concentrato dalla Cina (+163 per cento) per un quantitativo che di 160 milioni di chili che equivale a circa un quarto dell'intera produzione di pomodoro coltivata in Italia. E se il pomodoro in scatola rappresenta circa un terzo del valore delle importazioni nazionali, dalla Cina arrivano anche aglio, mele e funghi in scatola". Peraltro viene dalla Cina l'86 per cento degli oltre 250 milioni di articoli contraffatti sequestrati alle frontiere nell'Unione Europea in un anno che oltre all'abbigliamento, scarpe e i tecnologici di uso comune, riguardano in misura crescente falsificazioni pericolose, cioe' quelle riguardanti generi alimentari, prodotti per la cura personale e medicinali che sono aumentate del 400 per cento in Europa, sulla base delle statistiche doganali pubblicate dalla Commissione europea. Ad essere venduti come Made in Italy oltre ai derivati del pomodoro sono anche i prodotti alimentari come fagioli e aglio che arrivati in Italia vengono spacciati come prodotti tipici nostrani: dal fagiolo di Lamon all'aglio bianco del Polesine. A questo si aggiunge l'allarme mondiale nei confronti della sicurezza dei prodotti cinesi che ha riguardato ravioli, giochi per bambini, dentifrici, alimenti per cani e gatti, anguille, pesce gatto e conserve vegetali, di fronte ai quali nessuna restrizione e' stata imposta dall'Italia. "Ci sono dunque tutte le condizioni - conclude la Coldiretti - per una seria iniziativa diplomatica che possa contrastare le decisioni assunte e rivedere i rapporti commerciali tra i due Paesi nel senso di un maggior equilibrio". (AGI) - Roma, 30 mar. - Titolo: MOZZARELLA: CIA, STOP CINA ASSURDO, GOVERNO INTERVENGA... Inserito da: Admin - Marzo 31, 2008, 12:51:42 am Food
MOZZARELLA: CIA, STOP CINA ASSURDO, GOVERNO INTERVENGA (AGI) - Roma, 29 mar. - Il blocco da parte della Cina delle importazioni di mozzarelle di bufala italiane "e' incomprensibile e non ha alcuna motivazione, visto anche il via libera dell'Unione europea e il ritiro del provvedimento di "fermo" del Giappone". Lo sostiene la Cia-Confederazione italiana agricoltori per la quale la decisione di Pechino, che si aggiunge ad un'analoga decisone da parte di Singapore, "ha dell'assurdo anche perche' va ad interessare tutti gli altri formaggi "made in Italy" i quali devono essere sottoposti i a test di laboratorio prima di che sia consentito il loro ingresso in Cina. Abbiamo il sospetto - avverte la Cia - che tale misura abbia veramente poco a che fare con l'aspetto salutistico dei prodotti. E' strano che proprio la Cina adotti una misura del genere, quando proprio dal paese asiatico arrivano su tutti mercati del mondo prodotti "taroccati" che provocano pesanti conseguenze a moltissimi marchi di qualita', soprattutto nel settore dell'agroalimentare. In Italia di questi "falsi" ne arrivano tantissimi e la conferma viene dai sequestri dove il "made in China" occupa da tempo il primo posto nella graduatoria. Il provvedimento del governo cinese - avverte la Cia - rischia, quindi, di chiudere le frontiere al nostro agroalimentare e di provocare ulteriori danni che si vanno ad accumulare a quelli che in questi giorni ha subito il settore della mozzarella di bufala". La Cia chiede quindi al governo "di intervenire immediatamente a tutela delle produzioni agroalimentari italiane e di compiere i dovuti passi in sede d'Unione europea per adottare tutte le misure necessarie contro una decisione, quella cinese, che non ha alcun fondamento". (AGI) da agi.it Titolo: Maurizio Chierici. Lontani dalla Cina Inserito da: Admin - Aprile 01, 2008, 12:01:20 am Lontani dalla Cina
Maurizio Chierici «I valori dello sport aiutano la pace» parole che accompagneranno tv e giornali fino all’ultimo giorno delle olimpiadi di Pechino. «I Giochi servono a stimolare la democratizzazione e il rispetto per i diritti umani», Jacques Rogge, presidente del comitato olimpico ripassa le buone intenzioni. È d’accordo lo scrittore Alberto Bevilacqua: le Olimpiadi rappresentano la spiritualità dello sport. Eppure nessuna voce riesce a spiegare cosa sono questi valori e quale spiritualità possono aiutare mentre la Cina ripulisce le città da «teppisti e teste calde»: migliaia e migliaia in marcia verso i campi di rieducazione. Forse torneranno a casa a giochi fini. Forse. Non è una novità che lo sport prova a nascondere politica e affari con l’ipocrisia di una distensione che non c’è. Giocare nello stadio di Santiago ridotto da Pinochet a lager di prigionieri «politici» ammassati come animali e torturati negli spogliatoi, colpo alla testa e corpi uno sull’altro come pezzi di legno, in quale modo ha aiutato i cileni a liberarsi della dittatura? Per invogliare Pinochet alla democrazia, le nazionali dei paesi democratici hanno continuato a giocare nello stadio degli orrori finché le vittime si sono arrangiate da sole rimpicciolendo l’oppressore dopo 17 anni di partite internazionali. Ho ascoltato per la prima volta la favola dei «valori dello sport» nella notte bianca di martedì 5 settembre 1972, Monaco di Baviera. Olimpiadi sconvolte da un commando palestinese. Otto uomini incappucciati avevano preso in ostaggio atleti e massaggiatori israeliani per svegliare la disattenzione che avvolgeva (e avvolge) la vita amara di milioni di profughi. Non hanno risvegliato niente. Il dramma continua malgrado la buona volontà di pacifisti inascoltati: scrittori, intellettuali arabi ed ebrei, ma anche della vecchia Europa e dell’America che predica bene mentre riempie gli arsenali. I protagonisti della tragedia di Monaco sono stati uccisi 21 ore dopo. Gli infallibili cecchini della polizia tedesca non hanno fatto differenze tra aggressori e ostaggi fulminati dalla terrazza dove prendevano la mira. Avevano fretta. L’incidente andava subito chiuso: l’olimpiade non poteva fermarsi. Due giorni senza gli elastici bianchi e neri che bruciavano vecchi record sembravano insopportabili. Rinchiusi nelle sale stampa sterilizzate, feltri sintetici e ragazze-bambola ben pettinate, ben profumate, sorrisi del tutto va bene, noi che dovevamo raccontare aspettavamo notizie. Centottanta giornalisti ad ogni piano, angosciati perché le ore passavano e i giornali dovevano chiudere e i direttori si arrabbiavano: siamo sicuri che la concorrenza non sa cosa è successo? Raccoglievamo solo le prediche delle autorità. Fermare l’olimpiade diventava un sacrilegio che avrebbe stimolato nuove catastrofi. I valori dello sport riappacificano i popoli ripiegando odio e terrorismo. Guai abbassare i riflettori. Di ora in ora, un discorso dopo l’altro e i poveretti stretti tra i fucili scivolavano nell’oscurità delle comparse che in fondo davano fastidio. Sapete quanto abbiamo speso per stadio nuovo e villaggio olimpico? Miliardi da capogiro. Da riguadagnare coi palazzoni in vendita appena si spegne la fiamma. Se perdiamo i diritti delle tv la voragine del debito farà tremare la nostra economia. Questo non ci interessa, rispondevano dalle redazioni di ogni giornale. Sono morti o sono salvi? Quanti morti, quanti feriti? Insomma, la notizia. Dei palestinesi e di Israele magari parleremo appena si ricomincia a correre. Tra mezzanotte e le cinque del mattino scopro cosa c’era sotto il cerone malinconico che allungava le facce dei bavaresi. Non solidarietà umana, né pena per l’innocenza degli ostaggi, tantomeno comprensione per la follia di disperati che non avevano niente da perdere dopo il settembre nero di Amman quando re Hussein aveva rovesciato il fuoco del suo esercito sulle baracche nelle quali sopravvivevano palestinesi da mezzo secolo cittadini giordani. Il lamento non veniva solo dai politici che vedevano sfumare la grandeur del grande spettacolo, o dagli imprenditori che perdevano il grande affare. Anche bottegai, ristoranti, alberghi, spacciatori di souvenir, fabbricanti di birra e le scarpe, e le magliette, profumi e automobili, pubblicità da riversare negli spot del mondo, battevano i denti immaginando il crac. Chiudere l’olimpiade cinque giorni prima voleva dire compromettere la contabilità sognata dalla folla che giocava con la pelle degli altri come si gioca in borsa. Avevano torto o ragione? A loro modo, ragione. Ma era la ragione del tornaconto che si contrapponeva alla vita di nove persone prigioniere nel blocco 31, palazzina bassa fra le torri di calcestruzzo della nuova Monaco che doveva sfavillare. Il ministro bavarese Merk passa da un piano all’altro per distribuire ai giornalisti la sua rabbia: «Cosa sperano i terroristi? La pagheranno e la pagheranno cara... ». E cosa può sperare un giovanotto che è nato ed abita in un campo profughi, pattumiere di città che non lo vogliono e non sopportano altri ottocentomila accampati come lui? Arriva la conferma: tutti morti. Devono passare sei ore per capire chi ha sparato, ma alle nove del mattino finalmente lacrime di coccodrillo e bella notizia. L’olimpiade continua. Si ricomincia a correre e a saltare perché l’olimpiade è «la festa della gioventù». Cerco fra gli atleti un’ombra di sdegno. Sono agitati da altri pensieri. «Mi alleno da tre anni; una tragedia tanta fatica per niente... ». I Giochi riaprono coi pachistani appena usciti dall’agonia della guerra. Nella finale dell’hockey sul prato dovevano vedersela con l’India, quasi la rivincita delle battaglie perdute. Come potevano rinunciare? E gli americani del black power cosa faranno? Corrono, vincono: il gesto coraggioso dell’alzare il pugno verso la bandiera fa capire che sotto i muscoli batte un cuore generoso. Un po’ di noi scriveva così. E appena la fiamma si spegne, la retorica dolciastra unge ogni parola: valori dello sport, coraggio dell’affrontare gli ostacoli senza arrendersi ai ricatti. Con l’inno che suona, la conferma solenne: Olimpiadi simbolo di pace e di fraternità. Quattordici anni prima, olimpiade a Città del Messico, la polizia aveva sparato sugli studenti: 400 morti alla vigilia della prima gara, per fortuna telecamere non disturbate dal sangue e dai corpi trascinati nell’asfalto. Insomma, bella festa dello sport. Otto anni dopo gli Stati Uniti non vanno a correre a Mosca perché la Russia ha invaso l’Afghanistan. E la Russia si vendica nell’olimpiade che viene dopo: nessun atleta dell’arcipelago Est a Los Angeles perché Salvador e Nicaragua sono le colonie insanguinate del grande vicino. Se oggi i morti della Cecenia, Iraq, Afghanistan (un’altra volta) contassero come i morti di qualche anno fa, a Pechino salterebbero in pochi. Ma i Tg che raccontano le guerre e i giornalisti embedded hanno abituato le famiglie a non impressionarsi troppo. Vittime svalutate. E poi la Cina moderna è il paese del prodotto lordo che scavalca Wall Street. Ripiega nel suo portafoglio un terzo del debito di Washington. Quando Pechino ha il raffreddore, i nostri mercati tremano. Chi se la sente di pestare i piedi alla tigre dell’Asia, un miliardo e trecento milioni di clienti? Anche perché, diciamo la verità, il Tibet è un bel paese per fare trekking, e mettersi in posa fra i monaci buddisti, stupendi figuranti nelle foto delle vacanze, ma val la pena mettere in dubbio i valori dello sport per una piccola repressione nel piccolo tetto del mondo? Le proteste devono restare educate con qualche asprezza diplomatica a proposito delle immagini dure che sconsiderati reporter distribuiscono al mondo: «abbiamo l’impressione che state esagerando». Ma Bush brillerà in tribuna d’onore quando si aprirà il velario e quattro miliardi di sportivi saranno incollati alla tv. Un gol e uno spot, colpo di fioretto e altro spot. Ogni telecamera si incanterà davanti al ponte più lungo, all’aeroporto sterminato o allo stadio più lunare del mondo. In fondo spiace per il Dalai Lama, tanto garbato. Continui pure a pregare, prima o poi anche il Papa lo riceverà, ma più di così non si può fare: non sarebbe conveniente. mchierici2@libero.it Pubblicato il: 31.03.08 Modificato il: 31.03.08 alle ore 9.23 © l'Unità. Titolo: Dalai Lama: sono pacifista ma la Cina cessi le violenze Inserito da: Admin - Aprile 03, 2008, 05:07:15 pm Dalai Lama: sono pacifista ma la Cina cessi le violenze
Marco Dolcetta Ho avuto occasione di parlare ieri con il Dalai Lama che mi ha risposto telefonicamente dall’India. Pochi mesi fa ho fatto avere alla sua segretaria una serie di incunaboli tibetani del II e III secolo d.C. che avevo, più di tre anni fa, ricevuto in dono da Heinrich Harrer, lo scalatore austriaco che conobbe negli anni 40 e 50 il Dalai Lama. Parte della loro amicizia è stata raccontata nel romanzo e nel film «Sette anni in Tibet». Harrer è stato interpretato da Brad Pitt. Lo incontrai ultranovantenne sulle montagne austriache che ricordavano le vette tibetane avendo lui ricreato là un monastero buddista. All’interno del monastero erano conservati diversi antichi testi del tantrismo tibetano che gli furono donati dai monaci tibetani che lo avevano ospitato vicino a Lhasa in monasteri fino alla primavera del 1951, data dell’invasione cinese. Ritenendo io di non essere in grado di utilizzare al meglio questi preziosi testi, ho ritenuto opportuno farli ritornare a «casa» dal legittimo proprietario che sicuramente avrebbe saputo utilizzarli al meglio. Inizia così il nostro colloquio telefonico con le rituali frasi di ringraziamento e di saluto, dopodiché passo a fargli le domande sull’attuale situazione in Tibet. Proprio ieri infatti il Dalai Lama ha lanciato un nuovo appello alla comunità internazionale perché ponga fine al «giro di vite» messo in atto dalla Cina nel Tibet in seguito all'ondata di manifestazioni per ricordare la sollevazione anticinese del 1959. Santità, negli ultimi giorni la situazione in Tibet è peggiorata drasticamente, cosa è successo? «La violenza è iniziata con delle manifestazioni di protesta pacifiche in tante località tibetane e nella capitale Lhasa. La rabbia viene dal profondo del cuore e ha le sue radici nell’amarezza del mio popolo causata dalla occupazione cinese. Il governo centrale cinese sa che così non si può andare avanti con questa pressione, non ci sarà mai una stabilità nella mia patria, e in questo modo non arriveremo mai a una soluzione sostenibile e conveniente per tutti». Lei si è sempre definito un non violento e ha sempre contrastato la violenza. Anche in questo momento lei rimane di questa opinione? «Questa è sempre stata la mia posizione, lo è oggi e lo sarà per sempre. Io sono un pacifista. Scongiuro i miei confratelli di non rifugiarsi nella violenza, ma mi appello soprattutto al governo cinese affinché le forze dell’ordine cessino di usare la violenza e facciano dei tentativi seri per avviare un dialogo costruttivo con il mio popolo. Soltanto così può essere superata l’avversione dei tibetani nei confronti dei cinesi». In seguito ai recenti avvenimenti in Tibet e in India molte persone hanno lanciato l’appello di boicottare i Giochi olimpici che quest’anno si terranno in Cina. Lei no. Qual è la sua posizione oggi rispetto agli ultimi avvenimenti? «Mantengo la mia opinione. Ho sostenuto fin dall’inizio che la Cina merita i giochi olimpici. Si tratta di una grande nazione. Lo ammetto, all’inizio anche io ho considerato la possibilità del boicottaggio. In seguito però ho capito che aumenterebbe i problemi invece di produrre delle soluzioni». La sua decisione dipende forse dal fatto che così facendo spera di ottenere qualche concessione da parte del governo cinese? «Assolutamente no. La mia posizione rispetto ai giochi olimpici viene direttamente dal cuore. Inoltre, il governo cinese non fa nessun tipo di concessione, come può constatare. Tempo fa, ho incontrato un ragazzo tibetano che conosceva a stento la sua lingua madre. Mi spiegò che le autorità cinesi non ritenevano necessaria la sua conoscenza e lo studio della lingua tibetana poiché non gli sarebbero servite a nulla per il suo futuro». Lei una volta ha detto che il 21° secolo sarebbe stato il secolo della pace. Non sembrerebbe. Cosa è andato storto? «Attenzione, ci vada piano! Sono passati solo 8 anni, ne rimangono ancora 92. Aspettiamo che passino prima di dare un giudizio. Posso ancora avere ragione. L’aumento della spiritualità alla fine del 20° secolo ha prodotto dei semi molto potenti. Il seme sboccerà e le guerre avranno fine perché sono completamente inutili. Esistono delle avvisaglie positive che preannunciano una nuova era. Il disarmo atomico è una grande fortuna. Dobbiamo impegnarci affinché questo secolo diventi il secolo del dialogo. La pace non significa non avere problemi, i problemi ci saranno sempre. Dobbiamo semplicemente affrontarli senza violenza, perché la violenza produce altra violenza e altro dolore. Diventa un circolo vizioso e diabolico». Per Lei, la religione è un mezzo per arrivare alla pace. La stessa fede non può essere utilizzata anche come pretesto per opprimere il popolo? «La religione aiuta sempre, se si impiega in maniera giusta e seria. Un amico ebreo disse una volta ai suoi alunni in una scuola di Gerusalemme: “Se un giorno incontrerete qualcuno che detestate, ricordatevi che egli è l’immagine di Dio”. Qualche tempo dopo, un suo alunno palestinese gli raccontò che fu esattamente quello il suo pensiero quando vide un posto di blocco israeliano e lui si rese conto di non detestare più quei soldati. La religione è utile se è buona e tollerante e se insegna comprensione e perdono. Purtroppo esistono molte persone che manipolano e sfruttano la fede per altri scopi. Questo vale per qualsiasi religione ed è sempre pericoloso». Pubblicato il: 03.04.08 Modificato il: 03.04.08 alle ore 8.26 © l'Unità. Titolo: In India il Muro della vergogna le foto segrete dell'orrore in Tibet Inserito da: Admin - Aprile 06, 2008, 11:59:07 pm ESTERI
Il reportage / A McLeod Ganj, casa indiana del Dalai Lama, le istantanee della rivolta di Lhasa che hanno aggirato la censura In India il Muro della vergogna le foto segrete dell'orrore in Tibet Gli scatti provano la repressone: cadaveri e corpi deformati dalle botte dei militari dal nostro inviato DANIELE MASTROGIACOMO DHARAMSALA - Le foto sono sbiadite, i colori spenti, le figure sgranate. Le hanno immortalate con il cellulare, tra le vie, gli anfratti, le case anonime di Lhasa: scatti frettolosi, rubati, mentre i reparti speciali della polizia e l'esercito cinese davano la caccia ai feriti e portavano via i morti della rivolta. Adesso sono lì, prove crude e concrete; per un mondo che prima inorridisce, s'indigna, condanna e poi, sommessamente, chiude gli occhi e rimuove, schiacciato dagli interessi economici, deciso a non alterare gli equilibri geopolitici di un'area che resta e deve restare immutata. Corpi nudi, di uomini. Corpi deformati dai colpi, dalle percosse, le bocche chiuse in una smorfia che non sai se attribuire al dolore o all'ultimo respiro di un'agonia infinita. Cadaveri distesi pieni di sangue rattrappito, i fori dei proiettili all'altezza del viso, del petto, dei fianchi, delle gambe, della schiena, della testa. Qualcuno ha avuto la forza e il coraggio di spedirli ad altri cellulari, a siti sicuri e protetti del web in una corsa contro il tempo. Prima del black-out, dei ripetitori disattivati, del blocco delle linee telefoniche, delle tv oscurate, delle retate porta a porta, nei monasteri, nelle università, negli alberghi, negli ospedali. Prima degli arresti e del cerchio di acciaio e piombo che ha sigillato l'intero Tibet. Le foto, stampate come un manifesto, campeggiano su un filo di naylon teso sopra il cancello d'ingresso del "Tsuglakhang complex", la residenza ufficiale in esilio del Dalai Lama immersa nel cuore di McLeod Ganj, India del nord, il villaggio-simbolo del Tibet in fuga abbarbicato sul costone di una montagna che si arrampica verso la catena dell'Himalaya. Quaranta uomini e quaranta donne del villaggio, seduti in due distinti recinti, gli uni di fronte alle altre, proseguono da tre settimane lo sciopero della fame e della sete. Si danno il cambio ogni 12 ore. Cantano a voce bassa, pregano, sollevano provati le dita della mano in segno di vittoria. Le voci si affievoliscono con il passare delle ore, i corpi si distendono, qualcuno crolla tra coperte e giacche, teli, cartelli con gli slogan, incensi che bruciano. Davanti ondeggiano le foto, sospinte da folate di vento gelido che scende dalle vette innevate dell'Himalaya. Sono un pugno allo stomaco. Centinaia di persone le osservano, le fotografano, le filmano, le studiano da vicino. Chi per riconoscere un familiare, un amico, un conoscente. Chi soltanto per inorridire di fronte ad una mattanza che difficilmente troverà giustizia. Nonostante le proteste di mezzo mondo, pochissimi paesi hanno insistito per sapere la verità. Il mitico "Shangri-là", il tetto del mondo, la terra nella quale il buddismo, simbolo di pace e di tolleranza, affonda le sue radici, resta chiuso agli stranieri e ai turisti cinesi. Bisognerà attendere il primo maggio, festa dei lavoratori, data scelta da Pechino con chiara valenza politica, per capire e vedere con i propri occhi cosa sta veramente accadendo dal 10 scorso a Lhasa e nelle province vicine di Sichan, Gansu e Qinghai. Attraverso il segretario del partito comunista del Tibet, la Cina ha annunciato che da quel giorno la regione centroasiatica riaprirà i battenti al mondo. Perché l'industria turistica ha risentito del blocco e perché Pechino vuole presentarsi a testa alta all'appuntamento con le Olimpiadi di agosto. Le voci che giungono qui raccontano di carri armati schierati nei principali incroci di Lhasa, di monasteri ancora chiusi e assediati, di pattugliamenti incessanti su tutte le strade e di elicotteri che volteggiano in cielo pronti a mitragliare il primo assembramento sospetto. Non sappiamo se sia vero. Sappiamo solo ciò che raccontano le testimonianze raccolte e riproposte ogni giorno a McLeod Ganj durante il corteo che si snoda lungo le vie del villaggio per tenere accesa l'attenzione sul Tibet. Storie che si assomigliano tutte, per l'orrore che svelano e per il terrore di chi le racconta. Il tempo, però, tende a smorzare i sentimenti. Più passano i giorni più l'appuntamento delle sei del pomeriggio, un pellegrinaggio di monaci, sostenitori, turisti, ragazzi e ragazze venuti da ogni angolo del pianeta, le candele accese, bandiere tibetane, preghiere e slogan, sembra un rito stanco. Un ragazzo, armato di megafono, passa per tutte le vie del villaggio e invita la gente a radunarsi. L'appello è accolto, più per forma che per sostanza. E ogni giorno la folla dei primi momenti, quando questa fetta di Tibet in esilio si radunava in massa, chiudeva negozi, bar e ristoranti e gridava la sua rabbia mista al dolore, si assottiglia sempre di più. Resistono l'orgoglio di un popolo defraudato della sua terra, il desiderio di verità e di giustizia, una solidarietà diffusa, istintiva. Ma in giro si respira un sentimento di impotenza. Per ben quattro volte, negli ultimi dieci giorni, i vertici di India e Cina si sono sentiti al telefono: Pechino ha chiesto a New Delhi garanzie sul percorso della fiaccola olimpica che il 17 aprile passerà nella capitale e ha sollecitato una presa di posizione più decisa sul tema del Tibet. Il premier Manmohan Singh si è detto contrario al boicottaggio dei Giochi e ha sollecitato il Dalai Lama a non svolgere alcuna attività politica anticinese fino a quando sarà ospitato. Perfino il gesto di Baichung Bhutia, capitano della nazionale di calcio indiana, considerato una vera star per aver diffuso il football in un paese che vive solo per il cricket, è caduto nel vuoto. Ha respinto l'invito a portare la fiaccola quando passerà a New Delhi. Ma è rimasto solo. Nessuna delle altre 50 celebrità dello spettacolo e dello sport coinvolte nell'operazione politico-diplomatica si è tirata indietro. Ammir Khan, stella di Bollywood a cui si era appellato lo Tibetan youth congress, si è detto "orgoglioso" di alzare la fiamma olimpica. "Nessuno rifiuta", ha motivato, "non vedo perché l'India dovrebbe rinunciare a questo onore". Sorride nervoso il presidente della Tibetan youth congress, Tsewang Rigzin: "Da un punto di vista religioso rispettiamo le opinioni del Dalai Lama ma sul piano politico siamo favorevoli al boicottaggio. Far passare per Lhasa e piantare sulla cima dell'Everest la fiaccola è un gesto politico, non sportivo". Anche la gente di McLeod Ganj non si rassegna. Ma la vita deve ricominciare. Riaprono i negozi, gli alberghi, i bar, le sale da tè, i ristoranti. I turisti di sempre arrivano giorno e notte, con gli autobus carichi all'inverosimile, i taxi traballanti, i treni colmi di passeggeri. Un fiume umano di donne, uomini, spesso giovanissimi, che qui cerca la soluzione ai propri affanni. Con corsi di filosofia tibetana, di magia, di massaggi, di lingua, di astrologia, di yoga e di meditazione. Tra nobile volontariato, bonzi fuggiti da un inferno, qualche cialtrone e i soliti approfittatori. La gente segue, studia, partecipa. S'immerge fino al collo in questo ambiente, rispettando alla lettera valori e usanze. Sveglia all'alba, niente alcol, fumo e cibo solo vegetariano. C'è chi rimane un mese, chi un anno, chi il resto dei propri giorni. Vanno e vengono. La comunità tibetana vive anche su questo. Sognando, da mezzo secolo, di tornare un giorno a casa. Gruppi di ragazzi si allenano correndo sulle strade in salita del paese, altri si riscaldano con esercizi sulle terrazze dei campi coltivati a grano. Forse pensano alle Olimpiadi. Quelle vere, libere. Con la bandiera gialla, blu e rossa del Tibet che garrisce al vento. (6 aprile 2008) da repubblica.it Titolo: Luigi Bonanate. Quando il mondo si fa sentire Inserito da: Admin - Aprile 08, 2008, 05:54:44 pm Quando il mondo si fa sentire
Luigi Bonanate La fiaccola olimpica deve fare ancora 130.000 chilometri: se ogni sua tappa sarà come quelle di Londra e Parigi c’è da temere che non arriverà mai a Pechino per incendiare il braciere olimpico che deve ardere nel periodo delle gare. Rischia invece di incendiare le opinioni pubbliche di quei paesi ai quali il Comitato, scegliendo la Cina come sede olimpica, intendeva mostrare i progressi civili e sociali di quell’immenso e appetibilissimo Paese. Inizia ora una specie di calvario lungo ancora 130 giorni di viaggio: altro che il giro del mondo in 80 giorni di Jules Verne! Questo inutile circuito mediatico della fiaccola mira(va) a suscitare simpatia per lo spirito olimpico, che doveva a sua volta veicolare la benevolenza verso un grande Paese che sta rinnovando profondamente la sua pelle, che sta preparando un’accoglienza turistico-spettacolare che non ha precedenti nel mondo, e proprio nel Paese che un tempo si era costruito una Grande muraglia per starsene al sicuro al di là! Naturalmente le buone intenzioni degli organizzatori erano rivolte, nello stesso tempo, anche al tentativo di liberare la popolazione da certe strettoie. Strettoie nelle quali un governo comunista/capitalista (un bel nodo!) cerca di tenere sotto controllo uno sviluppo sociale, economico e produttivo talmente impetuoso che potrebbe rivelarsi uno tsunami per chiunque cercasse di incanalarlo e regolarne il flusso. In altri termini, la Cina oggi è di fronte all’alternativa tra repressione (anche se non siamo più ai tempo dello stalinismo, né a quelli di Pol Pot) e liberalizzazione (che potrebbe rivelarsi incontrollabile travolgendo ogni governo). La prima soluzione ha suscitato l’opposizione dell’opinione pubblica contro quei governi che vedono nella Cina uno straordinario grande magazzino nel quale tutto si può vendere e tutto si può comprare. La liberalizzazione, che è la seconda alternativa, farebbe felici tutti noi, ma creerebbe una tensione politico-sociale in Cina ingestibile dall’attuale potere, che quindi se ne tiene ben lontano. L’ha dimostrato, purtroppo, con una chiarezza che non teme smentite, con la repressione in Tibet, tanto scomposta e brutale quanto simbolica ed esemplare, avvisando tutto il mondo (ivi compresa la parte di osservanza cinese) che la Olimpiadi non potranno a nessun titolo essere trasformate in una tribuna internazionale dei diritti umani. I dirigenti cinesi forse non sanno però che lo sport è politica (ricordate quando il mito della superiorità socialista era incarnato negli anabolizzati atleti della DDR che vincevano quasi tutto, ma morivano pochi anni dopo?), ma neppure che intrecci perversi e anche violenti tra Olimpiadi e politica hanno già seminato morte e devastazione. Basta il ricordo di Monaco 1972 per farci rabbrividire; ma anche Mosca 1980, se pensiamo che quell’Olimpiade fu boicottata dai Paesi occidentali (Italia esclusa) per condannare davanti all’opinione pubblica mondiale l'invasione sovietica dell’Afghanistan. Sembra preistoria... E ora, siamo di fronte a una suggestiva novità: di fronte ai vari governi, da quello cinese a quelli di Paesi come la Francia che promettono di partecipare ai giochi ma fingono di porre delle condizioni, si erge, con una carica di pura e semplice verità, un movimento d’opinione popolare che, di capitale in capitale, ripete la sua scoperta: gli “abiti nuovi dell’imperatore” non solo non sono nuovi, anzi non li ha neppure addosso. Sta succedendo in altri termini che la contestazione, sostanzialmente pacifica (e speriamo rimanga tale), mette in mora i governi che speravano di arrivare fino ad agosto in incognito, per così dire, facendo finta di niente; gli atleti si preparano, i dirigenti prenotano i biglietti, e poi via tutti ai Giochi. I manifestanti stanno rompendo le uova nel paniere anche alla Cina, alla quale diventa ogni giorno più difficile tenere tutto nascosto. Dopo il Tibet, ora li aspetta un tragitto di più di centomila chilometri con 21 tappe, ciascuna delle quali può trasformarsi nel palcoscenico della contestazione della Cina e della volontà occidentale di andare ai Giochi: insomma, rischia di venirne fuori un’immensa frittata. Ma essa ci dice anche una cosa interessantissima: al black-out che la Cina si ostina a estendere a tutto il Paese fa riscontro una crescente apertura mediatica planetaria, che mostra quella è che la straordinaria forza comunicativa che le pubbliche opinioni, quando spontanee, sincere e non organizzate, hanno: esse sono la democrazia in cammino. Che cosa altro è la democrazia se non quella circostanza che vede in piazza (nella agorà greca) i cittadini (del mondo) che civilmente, ostinatamente, vivacemente espongono le loro critiche al proprio governo, a quello degli altri Paesi e anche a quello della Cina? Un movimento democratico come questo potrebbe venir contrastato dalla Cina e dai governi dei principali Paesi con l’argomento della sicurezza: i disordini metterebbero in difficoltà gli Stati partecipanti, priverebbero di spontaneità e di gioiosità le varie gare, che dovrebbero venire blindate, nel timore di attentati, contestazioni, manifestazioni rivolte alla società cinese e non ai suoi Giochi. Insomma, non vorrete mica che l’opinione pubblica rovini i Giochi? Ma quando è in azione, la democrazia è irrefrenabile. Potremmo scoprire un bel paradosso: quanto più la Cina cercherà di calmare le acque aiutata dai governi occidentali, tanto più l’opinione pubblica internazionale si mobiliterà e alzerà la sua voce. Fino a farla sentire anche ai cinesi... Pubblicato il: 08.04.08 Modificato il: 08.04.08 alle ore 8.31 © l'Unità. Titolo: Appello a Pechino sull'impegno "morale" a migliorare la situazione Inserito da: Admin - Aprile 10, 2008, 03:59:19 pm ESTERI
Il Comitato esecutivo: Olimpiadi in crisi ma ne usciremo Appello a Pechino sull'impegno "morale" a migliorare la situazione Dalai Lama: autonomia per il Tibet Cio: Cina rispetti impegni sui diritti Per il leader spirituale i tibetani hanno diritto a protesta non violenta PECHINO - Dopo aver superato pressoché indenne anche la tappa californiana, la fiaccola prosegue il suo viaggio verso Buenos Aires, dove sfilerà domani. Il Dalai Lama, che invece è in viaggio verso gli Stati Uniti, oggi ha fatto una breve sosta in Giappone dove ha detto che i tibetani hanno diritto a una protesta non violenta e ha chiesto nuovamente autonomia per il Tibet, pur riconoscendo che il popolo cinese merita le Olimpiadi. Intanto il Cio ammette la crisi in corso ma ribadisce che malgrado il percorso ostacolato nulla spegnerà la fiamma, e la torcia olimpica andrà avanti nel suo giro intorno al mondo. Il presidente del Cio, Jacques Rogge, ha ammesso la crisi in corso ma ha esortato gli atleti a non perdere la fiducia, e ha rivolto un appello alla Cina perché rispetti l'impegno "morale" a migliorare i diritti umani prima dell'Olimpiade. Tokyo, nuovo appello del Dalai Lama. Il leader spirituale tibetano è arrivato oggi in Giappone, per una breve sosta nel suo viaggio alla volta di Seattle, in Usa, dove ha in programma una serie di conferenze sulla spiritualità. "La mia visita negli Usa non ha alcun valore politico" ha detto il Dalai Lama durante la conferenza stampa in un albergo presso l'aeroporto Narita, a pochi chilometri da Tokyo. Il Dalai Lama ha poi lanciato un nuovo appello per l'autonomia del Tibet dichiarando che il popolo cinese merita le Olimpiadi ma che i tibetani hanno diritto di protestare in maniera non violenta. Senza incidenti la marcia a San Francisco. Si è conclusa senza incidenti ma con un significativo cambiamento di programma la tormentata tappa americana della fiaccola olimpica. Le autorità di San Francisco, che avevano deciso di modificare più volte il percorso della staffetta, hanno annullato la prevista cerimonia di chiusura organizzata nella Baia, sostituita da un'altra all'aeroporto, prima della partenza per Buenos Aires, settima tappa in programma domani. Intanto, dopo l'appello di Hillary Clinton, anche Barack Obama, candidato alla nomination democratica alla Casa Bianca e senatore dell'Illinois, ha detto che il presidente Usa, George W. Bush, dovrebbe boicottare la cerimonia d'apertura dei Giochi se la Cina non rivedesse la sua posizione sia per quanto riguarda il Tibet, sia il sostegno cinese al Sudan in relazione alla situazione in Darfur. "Olimpiadi in crisi ma ne usciremo". Il presidente del Comitato olimpico internazionale (Cio), Jacques Rogge, si è rallegrato dell'esito della staffetta a San Francisco, dove è andata meglio rispetto a Londra e Parigi, ma ha aggiunto "non è stata la gioiosa festa che speravamo di vedere". Rogge ha poi confermato che non è "assolutamente in agenda" l'ipotesi di eliminare tappe dal periplo mondiale della fiaccola olimpica. Al termine di un incontro tra l'Associazione dei comitati olimpici nazionali e il consiglio esecutivo del Cio, Rogge ha ammesso che le Olimpiadi sono "in crisi", ma ha invitato i dirigenti sportivi a rassicurare gli atleti sul successo delle prossime Olimpiadi. "Dite loro - è stato l'appello di Rogge, - che, a dispetto di quanto hanno visto e sentito, i Giochi saranno bene organizzati. Dite loro di non perdere la fiducia, ci riprenderemo da questa crisi". Cio: la Cina ha rispettato impegni sui diritti civili. La Cina ha preso solo un "impegno morale" sui progressi nel campo dei diritti umani al momento dell'assegnazione dei Giochi Olimpici del 2008 a Pechino. Il presidente del Cio, Jacques Rogge, ha ricordato che il governo cinese, quando chiese di poter ospitare le Olimpiadi, assicurò che avrebbe "migliorato la situazione sociale, compresi i diritti umani". "Direi che si tratta di un impegno morale più che giuridico" ha precisato, "ma chiediamo davvero alla Cina di rispettare questo suo impegno etico". Impegno che è stato "sostanzialmente rispettato", ha detto Rogge citando come esempio la nuova e relativamente liberale legge sulla stampa straniera varata all'inizio del 2007. Rogge ha aggiunto di "essere al corrente del fatto che oggi la legge non viene applicata e che quattro province cinesi, tra cui il Tibet, sono chiuse alla stampa e a tutti gli osservatori indipendenti. Lo abbiamo fatto presente al governo cinese", ha dichiarato, "che ha risposto che risolverà il problema il più preso possibile". Pescante chiede a Cio "parole chiare". Secondo Mario Pescante, uno dei due membri italiani del Comitato esecutivo, il Cio deve dire una parola chiara sulla situazione dei diritti umani in Cina. "Non si tratta di boicottaggio, al quale sono contrario ma se ci sono comportamenti non conformi a un evento sportivo della portata delle Olimpiadi il Cio dovrebbe dire qualcosa". L'orientamento del presidente del Cio Jacques Rogge, appare diverso. Nelle riunioni preparatorie, ha sottolineato Pescante, solo i rappresentanti dei Comitati olimpici europei hanno sollevato il problema. "Non possiamo fare molto, possiamo solo dire delle parole, ma le parole hanno un peso. E questo silenzio - ha concluso Pescante - è rumoroso". (10 aprile 2008) da repubblica.it Titolo: Tibet la Cina avverte "E' una questione interna" (anche ledere i diritti?? ndr) Inserito da: Admin - Aprile 12, 2008, 10:40:19 am 24ORE - ESTERI
Tibet, la Cina avverte "E' una questione interna" PECHINO - Mentre la fiaccola di Pechino 2008 ha lasciato indenne Buenos Aires diretta in Tanzania, il presidente cinese Hu Jintao ha affermato che la questione tibetana è un affare interno che ha a che vedere con il separatismo e non con il rispetto dei diritti umani. "Il nostro conflitto con la cricca del Dalai non è un problema etnico nè religioso nè di diritti umani", ha affermato Hu nel ricevere il primo ministro australiano, Kevin Rudd, "E' un problema di salvaguardia dell'unità nazionale o di divisione della patria". Parlando per la prima volta della questione tibetana dalla rivolta iniziata il mese scorso, Hu ha aggiunto: "Nessun governo responsabile se ne starebbe con le mani in mano di fronte a tali crimini che violano i diritti umani, turbano gravemente l'ordine pubblico e compromettono gravemente la vita e la sicurezza della proprietà delle masse". (12-04-2008) da repubblica.it Titolo: Tibet, il diritto di non essere moderni Inserito da: Admin - Aprile 13, 2008, 02:35:50 pm 13/4/2008
Tibet, il diritto di non essere moderni LORENZO MONDO E’ stato lo storico e opinionista Sergio Romano, con la consueta libertà intellettuale, a scagliare il sasso nello stagno. A proposito del Tibet e delle manifestazioni che si svolgono in tutto il mondo contro la repressione cinese. «Non è necessario essere marxisti o anticlericali - scrive - per osservare che la Cina recita in questa faccenda, sia pure con i modi intolleranti di un regime autoritario, la parte della modernità...». Di queste parole si fanno forti i «marxisti o anticlericali» nostrani per andare ben oltre le sue pacate considerazioni. Sostengono che la rivolta dei monaci fa parte di un complotto ordito dall’America per smembrare l’impero cinese, arrivano a evocare, nella deprecazione, il mito razzista, coltivato da Goebbels, dei tibetani «ariani» contrapposti ai cinesi. E denunciano oltre misura la rivolta violenta dei monaci, dopo sessant’anni di occupazione, senza sottolineare la spietatezza della macchina repressiva. Senza curarsi del fatto che la liquidazione della rivolta avvenga senza testimoni neutrali, nel silenzio della libera stampa. Si comprendono le inquietudini di Pechino, che teme rimbalzi secessionisti in altre regioni dell’impero, come il musulmano Sinkiang. Non a caso comunica, quasi in contemporanea, l’arresto di fondamentalisti uigur che progettavano attentati in occasione delle Olimpiadi. Strizzando l’occhio a Bush, non insensibile al problema, per un’alleanza planetaria contro Al Qaeda. Resta il fatto che nel Tibet c’è una minoranza oppressa, violentata nei suoi costumi e nella sua cultura, che merita la più ampia solidarietà - non i fantasiosi e sottili distinguo avanzati in casa nostra - da parte dei Paesi democratici. Non si tratta ovviamente di ricorrere alle bombe ma di premere con mezzi pacifici e tuttavia stringenti sul governo cinese perché accetti un dialogo con il Dalai Lama, il quale si limita a chiedere, nella condanna di ogni violenza, una ragionevole autonomia per la sua gente. Come questo possa darsi, è materia di non facile soluzione ma da tentare attraverso il dialogo. Escluso l’improponibile arcaismo di un governo teocratico incuneato nella Repubblica Popolare Cinese, andrebbero comunque salvaguardati certi diritti elementari, di ordine culturale e spirituale. Compreso, massì, quello di non essere moderni. da lastampa.it Titolo: GIULIETTO CHIESA. Caccia cinese al tesoro del Tibet Inserito da: Admin - Aprile 15, 2008, 10:48:08 pm 15/4/2008
Caccia cinese al tesoro del Tibet GIULIETTO CHIESA Il Tibet continua a occupare pagine dei giornali in tutto il mondo occidentale. Era da prevedere, nel clima preolimpico. Com’è da prevedere che, a Olimpiadi di Pechino concluse, i riflettori si spegneranno. È la logica del villaggio globale e del mainstream media che, più che moltiplicare diritti umani, moltiplica profitti disumani. Dietro, dentro la notizia, tuttavia, ce ne sono altre, che possono spiegare molte cose. Una di queste è la lunghissima ferrovia - circa 1250 chilometri - che Pechino ha inaugurato nel luglio 2006 e che collega Lhasa ai maggiori centri industriali della Cina del sud e a Canton. Con la già programmata estensione, da Lhasa a Shigatze, verso Ovest, prevista nell’11° piano decennale approvato dal Congresso del Popolo. Sarebbe questo il punto terminale di un grandioso progetto, iniziato nel 1999, ma non rilevato dai media occidentali che a cose compiute, consistente nella meticolosa mappatura geologico-mineraria di una grande parte del Tibet e dei contrafforti himalaiani, in un’area vastissima comprendente tutto l’altopiano tibetano del Qinghai. Secondo quanto scoperto da Abraham Lustgarten, reporter di Fortune, nel 2007, il governo cinese - precisamente il ministero dei Territori e delle Risorse - avrebbe inviato fin dal 1999 un migliaio di ricercatori, geologi, specialisti minerari, organizzati in 24 distaccamenti, alla ricerca di tutte le potenzialità di sfruttamento del territorio. In modo non dissimile, del resto, da ciò che i commessi viaggiatori del governo cinese andavano facendo in Africa e in America Latina negli stessi anni, con non minore alacrità. La differenza consistette nel fatto che lo facevano in casa propria e, come è loro costume e possibilità, su larga scala. L’investimento per l’operazione esplorativa fu attorno ai 44 milioni di dollari. E, a quanto pare, ne valse la pena. Tant’è che Pechino, subito dopo avere ricevuto i primi rapporti dei ricercatori, decise d’intensificare la costruzione (che era già stata decisa) della nuova ferrovia. Costo dell’operazione: 4 miliardi di dollari. Nulla di fronte ai vantaggi che si andavano delineando e che permettevano al governo cinese di tirare più d’un sospiro di sollievo. La crescita cinese era in piena esplosione e la fame di materie prime era già divenuta spasmodica. Improvvisamente i dirigenti cinesi scoprivano, per esempio, che non era più necessario andare in Cile a comprare giacimenti di rame, come stavano facendo, perché il rame ce lo avevano in casa. E non solo il rame, ma anche il ferro, lo zinco, il piombo e metà della tavola di Mendeleev. Gli scienziati sguinzagliati sugli altopiani tibetani riferivano e calcolavano: giacimenti per un valore complessivo di 150 miliardi di dollari. Cifre approssimative ma imponenti: un miliardo di tonnellate di ferro, 40 milioni di tonnellate di rame. La Cina aveva dovuto cercare sui mercati internazionali il ferro, indispensabile per i colossali investimenti edilizi e industriali, provocando, con la sua stessa domanda, un triplicamento del prezzo di quello come di tutti gli altri metalli. Basti ricordare la serie delle cifre di importazione cinese di ferro e acciaio, che era di 186 milioni di tonnellate nel 2002, è salita a 326 nel 2006 e a oltre 350 nel 2007. Il resto del mondo non può non tenere conto di questi che, come ben si capisce, non sono dettagli. La Cina è davvero vicina, vicinissima. In tutti i sensi. Non c’è più cosa che vi avvenga che non ci riguardi immediatamente. Sia quando invade i nostri mercati con decine di milioni di magliette o di paia di scarpe (capi che, per altro, i nostri importatori hanno ordinato o prodotto laggiù), sia quando chiede, e chiederà, molta più energia di quanta sia ormai disponibile sul mercato mondiale, sia quando scopriamo che, in piena Londra, a contrastare le centinaia di manifestanti inglesi che volevano bloccare la fiaccola olimpica, sono scesi in strada anche centinaia di cinesi, a difendere la loro patria. A Londra, non a Pechino. E ci sono due modi per affrontare il futuro: uno, quello buono, è cercare di capire. L’altro è cominciare a descrivere la Cina come il futuro nuovo nemico. Ciò che, purtroppo, molti stanno già facendo. da lastampa.it Titolo: Cominciati i colloqui Cina-Tibet Inserito da: Admin - Maggio 04, 2008, 11:26:32 am ESTERI
Le consultazioni si svolgono a Shenzhen, nel sud del Paese. Sono le prime dopo lo scoppio della rivolta a Lhasa. Presenti inviati del Dalai Lama Cominciati i colloqui Cina-Tibet E Hu Jintao si dice "fiducioso" PECHINO - Sono iniziati oggi a Shenzhen, nel sud della Cina, i primi colloqui tra inviati del Dalai Lama ed esponenti del governo di Pechino dall'inizio della rivolta tibetana, il 10 marzo scorso. In un'intervista rilasciata a mezzi d'informazione giapponesi in vista della sua prossima visita a Tokyo, il presidente cinese Hu Jintao si è dichiarato "fiducioso" che "attraverso sforzi di entrambe le parti" i colloqui "riescano ad ottenere i risultati desiderati". Il Dalai Lama, il leader tibetano che vive in esilio dal 1959, chiede per il Tibet quella che chiama "una genuina autonomia". Pechino lo accusa di non essere sincero e di puntare in realtà all' indipendenza. Colloqui tra inviati del Dalai Lama e del governo cinese si sono tenuti in sei riprese tra il 2002 ed il 2007, senza che sia stato raggiunto alcun accordo. Questa volta, da parte tibetana prendono parte ai colloqui Lodi Gyari e Kelsang Gyaltsen, rappresentanti del leader tibetano rispettivamente negli Usa e in Europa. La Cina è rappresentata da due esponenti dell'Ufficio per il Fronte Unito (l'organismo responsabile dei rapporti con i gruppi non comunisti), Zhu Weiqun e Sitar. Secondo gli esuli tibetani più di 200 persone hanno perso la vita nel corso delle proteste anticinesi, mentre Pechino afferma che le vittime sono state 22. I tibetani sostengono che gli arresti sono stati più di cinquemila, mentre la Cina non ha fornito alcuna cifra. (4 maggio 2008) da repubblica.it Titolo: CINA, COLLA NEL LATTE: 1200 BIMBI INTOSSICATI, 2 MORTI Inserito da: Admin - Settembre 16, 2008, 05:40:37 pm Trovate tracce di melamina, prodotto chimico usato per la colla
CINA, COLLA NEL LATTE: 1200 BIMBI INTOSSICATI, 2 MORTI Dopo i ravioli ai pesticidi e il dentrificio all'antigelo la Cina e' di nuovo nello scandalo per il latte alla colla. Circa 1.253 bambini intossicati, due morti e 340 ancora ricoverati in vari ospedali con 53 in gravi condizioni: e' il bilancio piu' recente dei danni della Sanlu, il gruppo produttore del latte in polvere in cui sono state trovate tracce di melamina, prodotto chimico usato per la colla. Un bilancio, diffuso dal ministero della Sanita', destinato ad aggravarsi: sono infatti 10mila i neonati che potrebbero aver bevuto il prodotto incriminato, con un aumento drastico rispetto alle previsioni. Il vice ministro, Ma Shaowei, ha confermato che due bambini sono morti (uno il 22 luglio e uno il primo maggio) per aver ingerito il prodotto, elemento che fa pensare che la contaminazione non sia recente. Interessata la regione del Gansu, area povera nel nord ovest del Paese, ma anche lo Hebei, nel nord del Paese, ed il Jiangsu, nella parte est. Secondo un altro funzionario del Ministero: i bambini si sarebbero sentiti male a causa calcoli renali dopo aver bevuto il latte in polvere della Sanlu mischiato a melamina, un prodotto chimico industriale usato nella colla e plastica, aggiunto forse allo scopo di far comparire piu' proteine di quante non fossero contenute nel latte. Secondo il China Daily, le 19 persone arrestate in tutto il Paese per lo scandalo, erano addetti ai centri di raccolta del latte, preso direttamente dagli agricoltori. Li Changjiang, capo della Amministrazione generale della supervisione e controllo della qualita', ha affermato che sembra poco probabile che gli agricoltori possano aver messo la melamina nel latte, mentre e' piu' realistico che cio' sia avvenuto nei centri di raccolta, in contrasto con quanto precedentemente affermato dal gruppo Sanlu, che aveva accusato direttamente gli agricoltori. Secondo l'agenzia Xinhua, i fratelli Geng, detenuti nello Hebei dove la Sanlu ha il suo quartier generale, sono stati arrestati per aver venduto ogni giorno tre tonnellate di latte contaminato a partire dalla fine dello scorso anno. I due, presumibilmente, hanno deciso di aggiungere melanina perche' il latte che avevano diluito con acqua era stato scartato dalla Sanlu per non aver raggiunto gli standard qualitativi richiesti. La produzione e' stata sospesa, ma cio' che non ha impedito che solamente nel Gansu 223 bambini fossero colpiti da calcoli renali, patologia piuttosto inconsueta sotto un certo limite di eta'. Ispettori cinesi stanno indagando in tutte le varie regioni produttrici di latte per cercare di porre un argine allo scandalo; nel Gansu, hanno trovato tracce di melamina in campioni raccolti dalla Haoniu Dairy Co., partner della Sanlu. La Sanlu, della quale il gigante caseario della Nuova Zelanda, la Fonterra, possiede il 43%, e' un marchio economico, preferito per questo dalle persone meno abbienti; se si aggiunge che il consumo di latte in polvere e' in costante aumento, visto che molte donne decidono di andare a lavorare in citta' e non possono allattare i propri figli, si puo' comprendere l'entita' del problema. Il capo esecutivo della Fonterra, Andrew Ferrier, sospetta che la contaminazione sia risultato di un sabotaggio del latte crudo fornito alla Sanlu. Parlando ai reporter neozelandesi da Singapore, Ferrier ha detto che la Fonterra aveva saputo della contaminazione e gia' dal 2 agosto aveva pensato di ritirare il prodotto, ma che aveva dovuto rispettare le regole cinesi. "Noi e la Sanlu abbiamo fatto il possibile per togliere il prodotto incriminato dagli scaffali" ha detto e quando gli e' stato chiesto come mai la Fonterra non abbia immediatamente reso pubblico il problema, ha affermato che sarebbe stato considerato un comportamento irresponsabile per la Sanlu non seguire le regole guida stabilite dalle autorita' cinesi. "La Sanlu ha dovuto lavorare con il governo per seguire le procedure che le erano state fornite. Inoltre sarebbe stato irresponsabile allarmare gli acquirenti senza avere tutti i dati di fatto" ha aggiunto. Gia' da marzo erano arrivate lamentale alla Sanlu perche' le urine dei bambini che avevano bevuto il loro latte erano scolorite ed alcuni erano stati ricoverati in ospedale. Taiwan ha nel frattempo fermato le importazioni di tutti i prodotti caseari del gruppo. Il Primo ministro neozelandese, Helen Clark, ha affermato che il governo ha appreso il problema solamente il 5 settembre, informando tre giorni dopo Pechino, dopo che autorita' locali avevano rifiutato di agire. Secondo quanto riportato dai media cinesi, il 10 settembre alcuni bambini si erano sentiti male dopo aver bevuto il latte ed il giorno seguente la Sanlu aveva sollecitato il ritiro del latte prodotto prima del 6 agosto. Lo scandalo rischia di macchiare l'immagine della Cina subito dopo il successo delle Olimpiadi: come ha affermato Mao Shoulong, esperto di politiche pubbliche della Renmin University, studioso di sicurezza dei prodotti, "la domanda di prodotti caseari e' in costante aumento, ma la Cina manca della capacita' di fornire sicurezza propria degli altri Paesi sviluppati". La Cina e' il secondo mercato al mondo del latte in polvere per bambini, ma non e' la prima volta che scoppia uno scandalo del genere: gia' nel 2004 almeno 13 bambini erano morti nella regione dello Anhui, zona est del paese, dopo aver bevuto il prodotto adulterato. La melamina inoltre era stata collegata lo scorso anno alla morte di molti cani e gatti negli Stati Uniti: era stata aggiunta a cibo per animali importato dalla Cina. Sebbene normalmente innocua, puo' provocare calcoli renali: se i calcoli si spostano dai reni, provocano infezioni, con tutte le conseguenze immaginabili. da (AGI) - Pechino, 15 settembre Titolo: Jean-François Julliard Latte contaminato: Pechino chiuse la bocca ai reporter Inserito da: Admin - Ottobre 16, 2008, 11:51:55 pm Latte contaminato: Pechino chiuse la bocca ai reporter
Jean-François Julliard SI ACCUMULANO le prove. La censura imposta ai media cinesi, prima dei Giochi Olimpici, sullo scandalo del latte contaminato, ha avuto conseguenze disastrose. A luglio un giornalista del settimanale di ricerca Nanfang Zhoumo ha dimostrato la veridicità di alcuni fatti legati all’ondata di ricoveri di neonati, per aver ingerito latte in polvere della società Sanlu. Ma il suo capo redattore, temendo possibili rappresaglie, ha scelto di non pubblicare l’articolo. Così si è dovuto attendere fino ai primi di settembre, e la conclusione dei Giochi Olimpici, perché un altro mezzo di informazione trovasse il coraggio di dare la notizia esplosiva. Come ha potuto il governo cinese, ancora una volta, preferire il controllo dell’informazione piuttosto che assicurare la salute dei cittadini? E come hanno potuto le imprese (alcune delle quali straniere) imporre per così tanto tempo il silenzio su uno scandalo di tali proporzioni? Alla vigilia dei Giochi Olimpici il Dipartimento di Propaganda, organo di censura alle dirette dipendenze del Politburo del Partito Comunista, ha mandato ai media cinesi una direttiva articolata in 21 punti sui temi proibiti. Il punto 8 era molto chiaro: «Tutti i temi legati alla sicurezza, come l’acqua minerale che provoca il cancro, restano al di fuori dei limiti consentiti». Di fronte al rischio di una sfiducia mondiale rispetto alla qualità dei propri prodotti il governo cinese ha scelto il silenzio. E la stampa cinese ha dovuto tacere. I responsabili di alcune redazioni liberali, e tra questi quelli di Nanfang Zhoumo, conoscevano molto bene il prezzo da pagare in caso di violazione dei decreti imperiali della censura pechinese. Tre direttori del gruppo hanno passato diversi anni in carcere per aver rivelato, nel 2003, un caso di Sars senza autorizzazione ufficiale. L’ultimo di loro è stato scarcerato nel febbraio del 2008. Il caso del latte tossico è una tragica ripetizione degli errori commessi nel 2003. L’epidemia di Sars comparve nell’inverno 2002, ma le autorità decisero di occultare la verità (fino a quando fu possibile) per evitare una fuga degli investitori esteri. Un medico militare rivelò che i quadri cinesi stavano nascondendo l’epidemia. Il governo, solo a quel punto, «autorizzò» la stampa a parlarne, ma giurò che l’errore non si sarebbe ripetuto. Nel 2004 la polizia proibì ai giornalisti stranieri di recarsi nelle province colpite da un’epidemia di aviaria. Nell’aprile del 2007, le autorità della provincia di Shandong (Est del paese) cercarono di censurare informazioni su un’epidemia di afta epizootica. Per la stampa è tuttora molto difficile accedere a quei villaggi dell’interno del paese in cui agonizzano migliaia di cinesi malati di cancro o aids. Nel 2006 il governo cinese rese ufficiale questa censura criminale: promulgò una legge sulle situazioni di crisi, punendo con multe pesanti i media che avessero pubblicato, senza autorizzazione, informazioni su incidenti nelle industrie, catastrofi naturali o sanitarie e moti sociali. In un primo momento, le autorità erano arrivate persino a prevedere pene carcerarie per i contravventori, ma in seguito fecero marcia indietro. Nel caso del latte contraffatto, i censori hanno fatto in modo che venisse ritirata da Internet la testimonianza del capo redattore che non volle pubblicare la ricerca sul latte. E ora stanno facendo pressioni su di lui. Alcuni giornalisti cinesi sono stati espulsi dalla regione in cui ha sede la Sanlu. Il gruppo neozelandese Fonterra, azionista di Sanlu, ha tardato nel consegnare i dati alle autorità. Ora lo Stato si mobilita per aiutare i neonati intossicati e individuare i responsabili della crisi. Il presidente cinese è arrivato addirittura a chiedere alle società che traggano lezione dallo scandalo. E cosa fanno i governi stranieri? Preferiscono restringere l’importazione di prodotti cinesi anziché dire chiaramente al governo di Pechino che ha un atteggiamento irresponsabile. E l’Oms (Organizzazione mondiale della sanità)? Conta le vittime. Alla Direttrice Generale, Margaret Chan, non è venuto altro in mente che consigliare alle donne cinesi di ricorrere più spesso al latte materno. La stampa cinese, su pressione di blogger sempre più inquieti, cerca di trasformarsi in un anti-potere. Ma per prima cosa dovrà ottenere la chiusura del Dipartimento di Propaganda, bastione del conservatorismo, il cui unico obiettivo è di continuare a imbavagliare l’informazione. A qualsiasi costo. Reporters sans frontières Pubblicato il: 16.10.08 Modificato il: 16.10.08 alle ore 10.26 © l'Unità. Titolo: TIBET: DALAI LAMA,CHIEDO AUTONOMIA LEGITTIMA E SIGNIFICATIVA Inserito da: Admin - Marzo 10, 2009, 12:00:51 pm 2009-03-10 09:16
TIBET: DALAI LAMA,CHIEDO AUTONOMIA LEGITTIMA E SIGNIFICATIVA DHARAMSALA (INDIA) - Il Dalai Lama ha chiesto stamani alla Cina una "autonomia legittima e significativa" per il Tibet e non l'indipendenza. Il leader spirituale tibetano si è espresso così nel corso di un discorso dalla sua sede di Dharamsala, in India, in occasione del 50/o anniversario della rivolta anti-cinese del 1959 che lo costrinse all'esilio. "Noi, i tibetani - ha detto - siamo alla ricerca di una autonomia legittima e significativa che ci permetta di vivere nel quadro della Repubblica popolare della Cina. Io non ho alcun dubbio: la giustizia prevarrà riguardo alla causa tibetana". Il Dalai Lama ha accusato la Cina di aver ucciso "centinaia di migliaia di tibetani" in questi 50 anni e di aver gettato gli abitanti del paese "in tali abissi di sofferenza e privazioni da far loro letteralmente provare l'inferno in terra".: "Questi ultimi 50 anni - ha detto il Dalai Lama - sono stati quelli della sofferenza e della distruzione per il popolo del Tibet". "Una volta che il Tibet è stato occupato - ha proseguito - il governo comunista cinese ha condotto lì una serie di campagne di violenze e di repressione... Conseguenza immediata di queste campagne: la morte di centinaia di migliaia di tibetani". Un portavoce del ministero degli esteri cinese ha affermato che le accuse rivolte a Pechino dal Dalai Lama si basano su ''voci'' e non sono dimostrate. Il portavoce, Ma Zhaoxu, ha sostenuto che la ''cricca del Dalai Lama diffonde menzogne e confonde il bianco col nero''. CINA A USA, NO A RISOLUZIONE PECHINO - La Cina ha chiesto oggi al congresso americano di non esaminare un progetto di risoluzione per manifestare il sostegno americano al Tibet in occasione del 50/o anniversario della rivolta contro la presenza cinese. "La risoluzione proposta al congresso americano da qualche parlamentare anti-cinese va contro la storia e la realtà del Tibet", ha detto il portavoce del ministero degli esteri Ma Zhaoxu chiedendo ai deputati americani "di respingere quest'iniziativa". La risoluzione, che sarà introdotta dal deputato democratico Rush Holt, prevede "il riconoscimento della disperazione del popolo tibetano in occasione del 50/o anniversario dell'esilio del Dalai Lama" e invita a "compiere uno sforzo multilaterale per trovare una soluzione duratura e pacifica alla questione del Tibet". La risoluzione, in corso d'esame al congresso, rivolge inoltre un appello al governo cinese "affinché risponda alle iniziative del Dalai Lama per trovare una soluzione alla situazione tibetana". da ansa.it Titolo: I segreti di Tiananmen, escono le memorie di Zhao Ziyang Inserito da: Admin - Maggio 15, 2009, 12:34:14 pm I segreti di Tiananmen, escono le memorie di Zhao Ziyang
di Marina Mastroluca «La notte del 3 giugno, mentre mi trovavo in cortile con la mia famiglia, ho sentito un’intensa sparatoria. Una tragedia pronta a scioccare il mondo non era stata evitata». Vent’anni dopo Tienanmen, era il 1989, le parole di Zhao Ziyang gettano sale su una ferita che ancora brucia. Trenta ore di registrazione. Nastri contrabbandati all’estero, in posti sicuri, nella più assoluta segretezza. Sono nate così le memorie del segretario riformatore del Partito comunista cinese, epurato e messo agli arresti domiciliari all’indomani della carneficina di Tienanmen e rimasto prigioniero tra le pareti di casa fino alla morte avvenuta nel 2005. Il materiale raccolto in clandestinità è finito in un libro pubblicato in questi giorni nella sua versione inglese per la Simon & Schuster e in uscita in cinese il prossimo 29 maggio. Il titolo: «Prigioniero dello Stato, diario segreto del premier Zhao Ziyang». «Quando Zhao morì, alcune persone che conoscevano l’esistenza del materiale hanno compiuto uno sforzo complesso e clandestino per raccogliere tutto il materiale in un unico posto e trascriverlo per la pubblicazione», ha spiegato Adi Ignatius, direttore dell’Harvard Business Review, che ha curato la prefazione delle memorie. Protagonista di questo lavoro pericoloso e sotterraneo è stato Bao Tong, ex segretario di Zhao, che ha passato sette anni in carcere per il coinvolgimento nei fatti di Tiananmen ed è tuttora agli arresti domiciliari a Pechino. E rischia molto, perché per Pechino Tiananmen è ancora un nervo scoperto. È di questi giorni la notizia dell’arresto, vent’anni dopo, di un ex leader studentesco arrestato a suo tempo e poi emigrato negli Stati Uniti: rientrato in patria nel settembre scorso, Zhou Yongjun da mesi è detenuto con l’accusa di «frode». Zhao non avrebbe voluto vedere i carri armati schierati contro ragazzi disarmati, che - questo è il racconto dello Zhao prigioniero - non volevano una rivoluzione ma solo riforme. Nell’imminenza della tragedia giurò che «qualunque cosa fosse accaduta» si sarebbe «rifiutato di diventare il segretario generale che mobilitò l’esercito per reprimere gli studenti». L’ala conservatrice del partito, ispirata da Deng Xiaoping, era ormai determinata ad usare la forza. La notte del 19 maggio, per porre fine alla protesta, venne approvata la legge marziale e Zhao fu l’unico dirigente a votare contro, spingendosi al punto di sfidare il Partito presentandosi tra gli studenti di Piazza Tiananmen: per convincerli a terminare l’occupazione della piazza al più presto, evitando il peggio. Non servì a nulla se non ad isolarlo definitivamente nel Partito, che lo cancellò dalla vita pubblica. Senza però riuscire a spegnerne del tutto la voce, riemersa oggi con le memorie. Nel libro, Zhao parla anche della necessità per il suo Paese di riformarsi secondo un concetto occidentale di democrazia. «Se non ci muoviamo verso questo obiettivo, sarà impossibile risolvere le anomale condizioni dell’economia di mercato in Cina». 14 maggio 2009 da unita.it Titolo: LIU XIAOBO. "Mi vietate di parlare però io non vi odio" Inserito da: Admin - Ottobre 09, 2010, 03:53:53 pm 9/10/2010
"Mi vietate di parlare però io non vi odio" LIU XIAOBO Il giugno 1989 ha segnato il punto di svolta nella mia vita. Prima, la mia carriera era stata una tranquilla cavalcata dal liceo al dottorato alla cattedra all’Università di Pechino, dov’ero popolare e ben accetto agli allievi. Contemporaneamente ero un intellettuale pubblico. Negli Anni 1980 avevo pubblicato articoli e libri di impatto, ero spesso invitato a parlare qua e là ed ero ospitato come visiting professor in Europa e negli Stati Uniti. Avevo però un impegno con me stesso: vivere con onestà, responsabilità e dignità. Di conseguenza, tornato dagli Stati Uniti per partecipare al movimento del 1989, sono stato incarcerato per «propaganda contro-rivoluzionaria e incitamento al crimine», e da quel momento non sono mai più stato autorizzato a pubblicare o parlare in Cina. Per il semplice fatto di aver espresso opinioni diverse da quelle ufficiali e aver preso parte a un movimento pacifico e democratico, un professore perde la cattedra, uno scrittore il diritto di pubblicare e un intellettuale la possibilità di parlare in pubblico, il che è ben triste, sia per me come individuo sia per la Cina dopo tre decenni di riforme e aperture. Le mie più drammatiche esperienze dopo il 4 giugno 1989 sono tutte legate ai tribunali; le due opportunità che ho avuto di parlare in pubblico mi sono state fornite dai due processi contro di me, quello del 1991 e quello attuale. Sebbene le accuse fossero diverse, nella sostanza erano identiche: reati di opinione. Vent’anni dopo, le anime innocenti del 4 giugno non riposano ancora in pace e io, spinto sulla strada della dissidenza dalle passioni di quei giorni, dopo aver lasciato nel 1991 il carcere di Qincheng, ho perso il diritto di parlare apertamente nel mio Paese e l’ho potuto fare solo sui media stranieri, controllato da vicino per anni, rieducato con i lavori forzati e adesso ancora una volta portato in tribunale dai miei nemici dentro il regime. Ma ancora una volta voglio dire a quel regime che mi priva della mia libertà, che io rimango fermo a quanto dissi vent’anni fa nella mia «Dichiarazione del 2 giugno sullo sciopero della fame»: non ho nemici e non ho odio. Nessuno dei poliziotti che mi hanno controllato, arrestato e controllato, nessuno dei giudici che mi hanno processato e condannato, sono miei nemici. Mentre non posso accettare che mi abbiate sorvegliato, arrestato, processato o condannato, rispetto le vostre professioni e le vostre personalità. L’odio corrode la coscienza di una persona; la mentalità del nemico può avvelenare lo spirito di un Paese, istigarlo a una vita brutale e a lotte mortali, distruggere la tolleranza e l’umanità di una società, bloccare il progredire di una nazione verso la libertà e la democrazia. Spero perciò di saper trascendere le mie vicissitudini personali replicando all’ostilità del regime con l’amore... Aspetto con ansia il momento in cui il mio Paese sarà terra di libera espressione, dove i discorsi di tutti i cittadini siano trattati allo stesso modo; dove valori, idee, opinioni politiche competano l’una con l’altra e coesistano pacificamente; dove le opinioni della maggioranza e della minoranza abbiano le stesse garanzie, in particolare siano pienamente rispettate e difese le idee politiche diverse da quelle di chi detiene il potere; dove tutti i cittadini possano esprimere le loro idee politiche senza paura e non siano mai perseguitati per le loro voci di dissenso. Spero di essere l’ultima vittima dell’inquisizione letteraria cinese e che dopo di me nessun altro sarà più incarcerato per aver detto quello che ha detto. Discorso pronunciato il 23 dicembre 2009 in apertura del processo per «incitamento alla sovversione del potere dello Stato» http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7935&ID_sezione=&sezione= Titolo: FANG LI-ZHI - Cina più ricca, ma non più libera Inserito da: Admin - Ottobre 16, 2010, 09:01:22 am 16/10/2010
Cina più ricca, ma non più libera FANG LI-ZHI Ho applaudito di cuore il Comitato del Nobel quando ha assegnato il premio per la Pace al detenuto Liu Xiaobo per la sua lunga battaglia nonviolenta a favore dei diritti umani fondamentali in Cina. Con questo atto il Comitato ha sfidato l’Occidente a riesaminare un’idea pericolosa, che si è sempre più radicata negli anni successivi al massacro della Tienanmen. In Cina lo sviluppo economico porterà inevitabilmente alla democrazia. Negli ultimi Anni 90 e soprattutto con il nuovo secolo, questa tesi ha guadagnato spazi. Qualcuno ci ha creduto davvero; altri forse l’hanno trovata utile ai loro interessi commerciali. Molti hanno avuto fiducia nei politici cinesi, che cercavano di convincere il mondo esterno che se avesse continuato a investire senza imbarazzanti «collegamenti» con i principi dei diritti umani, tutto sarebbe andato per il meglio, secondo il passo della Cina. Più di vent’anni sono trascorsi dai fatti della Tienanmen e la Cina è diventata ufficialmente la seconda potenza economica mondiale. Eppure Liu Xiaobo - che non è certo un radicale - e con lui migliaia di persone marciscono nelle carceri per aver semplicemente chiesto l’applicazione di quei diritti di base custoditi come una reliquia dalle Nazioni Unite e dati per scontati da tutti gli investitori occidentali nei loro Paesi. È evidente che i diritti umani non sono «inevitabilmente» migliorati nonostante l’economia alle stelle. Quanto è successo a Liu negli ultimi vent’anni dovrebbe bastare per demolire finalmente l’idea che la democrazia emergerà automaticamente come risultato di una crescente prosperità. Io ho conosciuto Liu negli Anni 80, quand’era un giovane impegnato. Nel 1989 prese parte alle proteste pacifiche nella Piazza Tienanmen e per questo fu condannato a due anni. Da allora e fino al 1999 è entrato e uscito dai campi di lavoro forzato, dalle prigioni, dai centri di detenzione, dagli arresti domiciliari. Nel 2008 fu tra i promotori della Carta 08, il manifesto che chiedeva alla Cina di attenersi alla Dichiarazione universale dell’Onu sui diritti umani. Fu nuovamente arrestato e questa volta condannato a undici anni di carcere duro per «istigazione alla sovversione dei poteri dello Stato» - nonostante la Cina sia tra i firmatari di quella Dichiarazione. Secondo le organizzazioni per i diritti umani che seguono la situazione in Cina, nelle carceri o nei campi di lavori forzati ci sono circa 1400 prigionieri politici, religiosi o «di coscienza». I loro «crimini» includono l’appartenenza a gruppi clandestini politici o religiosi o la partecipazione a scioperi e dimostrazioni, o opinioni di dissenso politico pubblicamente espresse. L’innegabile realtà dovrebbe svegliare chiunque ingenuamente creda che gli autocrati che governano la Cina modificheranno il loro disprezzo per i diritti umani solo perché il Paese è più ricco: non hanno fatto un solo passo indietro nella loro politica repressiva. Anzi, sono diventati ancora più sprezzanti. È vero che sotto la pressione internazionale, nei dieci anni successivi alla Tienanmen, il governo comunista, per migliorare la sua immagine, ha liberato cento prigionieri politici. Dal 2000 però, a mano a mano che l’economia cresceva e la pressione internazionale calava, sono tornati alla repressione più dura. La comunità internazionale dovrebbe essere preoccupata soprattutto per le violazioni degli accordi internazionali che la Cina ha firmato, come la Convenzione Onu contro la Tortura del 1988. Eppure torture, maltrattamenti e manipolazioni mentali sono ampiamente usate nelle carceri cinesi. Con il crescere della prosperità, il partito comunista si sente sempre più sicuro della sua immunità anche se viola la sua stessa Costituzione. L’articolo 35, ad esempio, dice che «i cittadini della Repubblica popolare cinese godono della libertà di parola, assemblea, associazione, dimostrazione». Eppure, si può dubitare del giro di vite del governo su questi diritti, a cominciare dai filtri per oscurare i siti Internet imbarazzanti? Il Comitato del Nobel ha assolutamente ragione nel collegare il rispetto dei diritti umani con la pace mondiale. Come aveva perfettamente capito Alfred Nobel, i diritti umani sono il pre-requisito per la «fraternità tra le nazioni». *Fisico dissidente, considerato il «Sakarov della Cina», è stato il mentore degli studenti della Piazza Tienanmen nel 1989. Espulso dalla Cina, vive in esilio negli Stati Uniti, dove insegna all’Università dell’Arkansas. http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7961&ID_sezione=&sezione= Titolo: SYED SALEEM SHAHZAD. Pechino fa da terzo incomodo tra Pakistan e Usa Inserito da: Admin - Dicembre 19, 2010, 10:54:30 am 19/12/2010
Pechino fa da terzo incomodo tra Pakistan e Usa SYED SALEEM SHAHZAD Nel nuovo grande gioco centro-asiatico la coppia di ferro Pakistan-America rischia di trasformarsi in un ménage-à-trois, con la Cina nel ruolo dell’incomodo rivale per le ambizioni statunitensi. La visita del premier cinese Wen Jiaobao in questi giorni a Islamabad è solo l’ultimo segnale di un riavvicinamento. Già con il viaggio di Asif Ali Zardari a Pechino, l’11 novembre scorso, era chiaro che il presidente pakistano cercava una sponda per potersi emancipare dalla tutela di Washington e giocare la sua partita con maggiore libertà. A questo si aggiungono due mosse che possono scompaginare i piani americani: la reticenza pakistana nel lanciare un’offensiva contro i guerriglieri di Sirajuddin Haqqani e la clamorosa denuncia di un cittadino pakistano contro il capo della Cia a Islamabad. Cominciamo da quest’ultimo episodio. La scorsa settimana Kaim Khan, un abitante della turbolenta provincia del Nord Waziristan, è arrivato nella capitale, sotto la tutela delle forze di sicurezza pakistane. Ha tenuto una conferenza stampa per spiegare il motivo del suo arrivo. Khan ha perso il figlio diciottenne e un fratello in un raid di un drone della Cia nella cittadina di Mir Ali, una delle zone più bersagliata dal cielo in questi mesi nell’offensiva americana contro i santuari terroristici al confine con l’Afghanistan. Niente di nuovo. Questa volta, però, c’è qualcuno, Khan, che ha deciso di denunciare il capo della Cia in Pakistan. E ha fatto il suo nome, Jonathan Banks. Un fatto gravissimo, tant’è che la Cia ha fatto rientrare di corsa Banks in patria. Ma il messaggio è chiaro: se oggi può essere esposto, con il consenso dell’establishment pakistano, il nome del capo della Cia, un domani potrebbe essere rivelato il suo domicilio, per la gioia degli islamisti! E’ altrettanto chiaro che il Pakistan non si limiterà più a protestare contro i continui raid aerei sul suo territorio. E qui si inserisce la seconda mossa, il dialogo di Islamabad con Haqqani, leader del più potente gruppo di guerriglieri che combattono gli americani in Afghanistan. Washington chiede che il Pakistan lanci un’offensiva militare anche contro i suoi rifugi oltre confine, senza essere ascoltata. Perché Sirajuddin Haqqani, figlio del leggendario comandante Jalaluddin, incubo dei sovietici, ha legami stretti e di lunga data con l’establishment militare e politico del Pakistan, oltre che con gli Stati arabi del Golfo e con l’Arabia Saudita. Più che combatterlo Islamabad vorrebbe usarlo come pedina in quello che si annuncia un complicatissimo dopo guerra a Kabul, per non perdere la sua influenza nel suo retroterra strategico. Anche la sequenza degli attentati islamisti mostra che qualcosa è cambiato, da settembre in poi. Se nella prima metà dell’anno c’era state 15 grandi stragi di marca jihadista, da allora ci sono stati solo due grossi attentati, ma di marca settaria, contro gli sciiti. Vuol dire che Islamabad e le reti jihadisti, quella di Haqqani in testa, stanno di nuovo dialogando, anche se bisogna fare in conti con le pressioni statunitensi, militari e non solo. All’inizio di novembre il vice direttore Middle East and Central Asia departement del Fondo monetario internazionale, Adnan Mazarie ha minacciosamente avvertito che i finanziamenti al Pakistan potrebbero essere tagliati, così come quelli della potente Asian Development Bank. A rischio soprattutto i grandi investimenti nelle infrastrutture e nelle reti energetiche. Ma qui è entrata in gioco, con tempismo impressionante, la carta cinese. Dopo pochi giorni Islamabad ha annunciato di aver annullato la gara internazionale per la costruzione di centrali elettriche nel Paese e di aver affidato a una ditta cinese, senza gara d’appalto, la costruzione di un impianto idroelettrico da 1100 megawatt in Kashmir. E senza che, presumiamo, Pechino facesse nemmeno menzione del problema delle reti islamiste attive in Pakistan. http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8215&ID_sezione=&sezione= |