LA-U dell'OLIVO

Forum Pubblico => FAMIGLIA, SOCIETA', COSTUME e MALCOSTUME. => Discussione aperta da: Admin - Febbraio 11, 2009, 03:35:53 pm



Titolo: Il dramma Eluana ha diviso, pensiamo ora al bene comune
Inserito da: Admin - Febbraio 11, 2009, 03:35:53 pm

11/2/2009
 
La religione della costituzione
 
MARCELLO PERA
 

Per decidere sul caso Eluana e sui molti altri simili se sia lecito togliere alimentazione a un individuo in coma permanente tutti si sono appellati all’art.32 della Costituzione. Ho ragione di credere che non sia stato letto con attenzione, perché quell’articolo, assieme a quelli che lo sostengono, porta a concludere esattamente nel senso opposto a ciò che è accaduto. L’art.32 fissa tre punti. Primo: esiste libertà di scelta della terapia o di rifiuto delle cure: «Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario». Secondo: la libertà terapeutica può essere regolata per legge: «... se non per disposizione di legge». Terzo: qualunque legge sulla libertà terapeutica o di rifiuto delle cure ha limiti invalicabili: «La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona». A questi limiti invalicabili la nostra Costituzione dà più di un nome, tutti con significato equipollente: all’art.32 il nome del limite è la «persona umana», all’art.41 il nome è la «dignità umana». E poi c’è l’art.2, che apparentemente nessuno legge più. È così lapidariamente bello l’inizio di questo articolo che conviene citarlo: «La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo».

Sono parole e concetti pesanti. Se la Repubblica questi diritti li «riconosce», allora essa non li crea: esistono prima della Repubblica stessa, indipendentemente dallo Stato, anteriormente allo Stato. Se sono «inviolabili», allora nessuno li può toccare né può disporne: né il malato, né i suoi congiunti, né la magistratura, né il Parlamento. E infine se sono diritti «dell’uomo», allora competono a lui in quanto uomo, sono propri della sua essenza di uomo, innati nella sua natura umana.

Il problema che i casi Eluana ci pongono è: togliere alimentazione a un malato terminale viola il diritto intoccabile alla vita e alla dignità dell’uomo? Alcuni rispondono: no, non lo viola perché quella non è più vita e non ha più dignità. Ma è un errore. Il malato terminale, quell’individuo in coma permanente che non ha più plausibili speranze di riprendersi, è ancora una persona, ha ancora la sua intrinseca dignità. Perché è soggetto dell’attenzione di chi lo cura e assiste, il quale soffre con lui e per lui. Perché emana affetto, chiede pietà, reclama solidarietà, instaura una relazione di comunità fra sé e noi. Perché è un uomo simile a noi, anche se le sue condizioni sono disperate. Ma allora, se costui è un uomo, è protetto dall’art.2 della Costituzione sui diritti dell’uomo: il suo diritto alla vita è intoccabile e non gli si può negare alimentazione.

Altri dicono: togliere alimentazione è sì provocare la morte, ma questo lo si può fare per rispetto alla sua «libertà personale». Anche questo è un errore: togliere alimentazione è togliere la vita e togliere la vita è togliere il presupposto stesso della dignità dell’uomo. Ma questo è proibito proprio dall’art.2 della Costituzione. E poi: che razza di concetto è mai questo della «libertà individuale»? Che cosa vuol dire libertà? Vuol dire arbitrio, discrezionalità sconfinata, licenza capricciosa, gratuita, illimitata? Può esserci libertà senza responsabilità e perciò senza limiti? Ancora un errore.

Ecco allora che la Costituzione ci offre gli strumenti giuridici e culturali per trattare i casi Eluana. Non occorre invocare la religione, né rivolgersi alla Chiesa, né ancor meno occorre la supponenza di insegnare alla Chiesa come essere Chiesa. Ai laici autentici è sufficiente la religione dell’art. 2: tutti gli uomini sono uguali in dignità e hanno gli stessi diritti inviolabili rispetto alla loro dignità. Certo, i laici autentici sanno qual è il nome della religione dell’art.2 della Costituzione. È il cristianesimo. E sanno che senza il cristianesimo non ci sarebbe mai stato l’art.2. I laici anticristiani si dimenticano invece sia il nome che la cosa. Perciò chiedono che sia autorizzata la morte, perciò sollecitano che sia interrotta l’alimentazione, perciò polemizzano contro la Chiesa. Altro grave errore.

Ai laici sinceri, ripeto, basta la religione dell’art.2, la sua intangibilità. Chi vuole disfarsi anche di questa pietra miliare per assecondare la «libertà individuale» non è solo fuori della pietà cristiana, è - e ciò per un Parlamento laico conta assai di più - contrario alla Costituzione italiana.
 


-------------------------


11/2/2009
 
E ora una legge
 
FRANCO GARELLI
 

E così, alla fine, Eluana Englaro ha sorpreso tutti. Se n’è andata prima che il Parlamento potesse impedirglielo, prima che si consumasse l’uso politico di un caso umano, prima che l’Italia al suo capezzale potesse verificare se e quanto soffre un povero corpo quando non viene più alimentato artificialmente. Mai come in questo caso il nome della clinica in cui Eluana ha terminato i suoi giorni è risultato più controverso: la «Quiete» di Udine ha dato pace alle sofferenze di Eluana e della sua famiglia, ma ha alimentato la battaglia, in atto da tempo su questi temi, tra i fans della vita a tutti i costi e i sostenitori a oltranza della volontà individuale. La morte sopraggiunta ha certo richiamato ai più il senso del mistero e della compassione, ma ha surriscaldato molti animi nel Parlamento e nel Paese, con le parti in causa che si sono lanciate accuse infamanti. Colpisce in questa drammatica e triste vicenda - per i molti che la vivono in modo serio e non strumentale - la passione del confronto.

Colpisce l’irriducibilità delle posizioni. Le questioni di fine vita non sono gli unici temi etici che oggi interpellano a fondo l’opinione pubblica e le coscienze, in una società alle prese con molte emergenze (presenza massiccia d’immigrati, lavori sempre più precari, crisi economica e finanziaria, ecc.) che mettono a soqquadro le nostre convinzioni di fondo e chiedono nuove regole di convivenza. Tuttavia tra i problemi scomodi che la modernità porta con sé, un posto di assoluto rilievo spetta ai temi del significato e del confine della vita, della possibilità di autodeterminare il proprio vivere e morire, di quanto sia lecito far ricorso alla tecnologia per prolungare l’esistenza. E ciò, sia perché siamo talmente pervasi da un’alta idea di qualità della vita da rabbrividire all’ipotesi di un’esistenza meno degna; sia perché siamo attorniati da casi umani (anziani «assenti», malati terminali, giovani vite spezzate) che continuamente ci ricordano la rilevanza e la «prossimità» del problema.

Qui emerge la forte divergenza di posizioni e culture di cui il caso Englaro è assurto a simbolo. Per gli uni, Eluana era un guscio vuoto, un essere privo da molto tempo delle qualità umane, tenuto in vita da un sondino nasogastrico che sa di accanimento terapeutico, non potendo più far fronte in modo autonomo alle sue funzioni vitali. Le lesioni subite nell’incidente di 17 anni fa le avrebbero atrofizzato il cervello, impedendole la possibilità del risveglio. Con la morte della «corteccia» (la parte del cervello cui è legata la coscienza), tutto finisce e la pietà umana interviene per porre fine a una vita che non è più tale.

Ma proprio questi argomenti vengono contestati dai fautori di un’altra idea della vita. Quelli che vedono in casi come questi la presenza di un principio vitale (un corpo che ancora respira autonomamente, un cuore che continua a battere) che dev’essere salvaguardato. Anche con una coscienza dormiente o assente, c’è una vita da accompagnare e da rispettare; evitando dunque che il suo commiato sia accelerato, che la sospensione del sostegno vitale assuma la forma di un’eutanasia strisciante.

L’inconciliabilità delle posizioni, dunque, è evidente. Ciò che divide non è soltanto la diversa lettura di queste situazioni limite offerta dagli esperti (biomedici, giuristi), ma anche un differente modo di pensare la vita e la sua dignità. Ciò che per alcuni sono le condizioni base per vivere (vita con coscienza, principio di autodeterminazione) per altri rappresentano requisiti non sufficienti. Per alcuni interrompere in questi casi l’alimentazione e l’idratazione artificiale è un atto di pietà, per altri è un’omissione di risorse vitali e di affetti.

Da più parti si chiede che il dramma di Eluana non sia avvenuto invano, che la sua morte serva a ridurre le polemiche per lasciar spazio a una riflessione compiuta e costruttiva. In particolare, molti auspicano che la classe dirigente del Paese non aspetti altri casi Englaro per affrontare in modo organico la questione dei trattamenti di fine vita. Di qui l’attesa che il Parlamento vari finalmente quella legge sul testamento biologico sulla cui necessità c’è ampio consenso. Persino i Vescovi qualche mese fa si sono pronunciati a favore di un intervento in questo campo, dopo che per molto tempo l’avevano osteggiato. Tuttavia, il consenso deve tradursi in soluzioni concrete. A quale testamento biologico fare riferimento? Quali criteri e clausole introdurre? Come trovare punti di convergenza su questioni che dividono le coscienze e trasversalmente anche i gruppi sociali e politici?

Tra le questioni più calde v’è certamente la possibilità di interrompere (in condizioni particolari) l’alimentazione e l’idratazione artificiale e l’interrogativo di chi abbia il diritto di decidere e dei modi in cui la decisione dev’essere assunta. Nel primo caso si tratta di valutare le situazioni in cui il fornire cibo e acqua artificialmente si presenti come un atto di accanimento terapeutico; oppure se la loro sospensione si configuri come un atto eutanasico. Nel secondo, occorre senza dubbio riconoscere l’importanza della volontà del diretto interessato, ma nel quadro di una decisione che non risulti come un ricorso all’eutanasia (esclusa dalla legislazione italiana). Di qui l’importante funzione del medico, che - come avverte la Chiesa -, «in scienza e coscienza» e in dialogo con i familiari, contribuisca alla ricerca della soluzione da adottare. La strada dunque è irta di ostacoli. Ma da più parti si spera in una convergenza di orientamenti che ci offra una legge che per lo meno porti a scegliere il «male minore». Le posizioni si possono avvicinare se ognuno riconosce le buone ragioni degli altri e gioca al meglio le proprie risorse per arricchire la cultura della nazione.
 
da lastampa.it



--------------------------------

Usa ed Europa: negli altri Paesi funziona così

di Mariella Immacolato


Cosa succede negli altri Paesi in casi analoghi? Negli Stati Uniti la sospensione delle cure, nei casi di stato vegetativo permanente, è ammessa quando la richiesta proviene dall’interessato, attraverso il testamento biologico o «living will» o dal rappresentante legale. Il caso di Terry Schiavo fece scalpore perché la richiesta del marito di sospensione dell’idratazione ed alimentazione fu avversata dai genitori della Schiavo, in conflitto giudiziario con il genero. Ma alla fine, la Corte Suprema dello stato della Florida autorizzò la sospensione delle cure.

Dall’ampia giurisprudenza statale e federale via via succedutasi si ricavano i seguenti punti fermi: la nutrizione e l’idratazione sono trattamenti sanitari e per essere attuati devono essere preceduti dal consenso informato del paziente; il paziente capace e cosciente può rifiutare il trattamento di sostegno vitale anche se dal rifiuto consegue la morte; il rifiuto di qualsiasi trattamento espresso attraverso il living will, nel caso di paziente incosciente, va rispettato; nel caso di assenza di scritti che documentano la volontà del paziente, divenuto incapace, la decisione clinica viene presa con il “fiduciario” («substituted judgement») che è di solito un familiare.

Nel Regno Unito dal 1993, anno della sentenza della Corte Suprema sul caso Bland, la sospensione dei trattamenti medici e dell’alimentazione e idratazione artificiale, nei pazienti in stato vegetativo permanente, può essere attuata quando la loro prosecuzione non risponde al «miglior interesse» dei pazienti.

In parte dei Paesi europei, la sospensione della nutrizione e idratazione artificiale, nei casi di stato vegetativo permanente, è possibile quando è richiesta dal paziente, prima di divenire incapace, attraverso le direttive anticipate. Quindi è legittima laddove la legislazione statale prevede il testamento biologico vincolante per il medico come in Danimarca, Olanda, Belgio (legge del 2002 sui «Diritti del malato»); Spagna (2003, legge sui «Diritti dei pazienti»); Germania dal 2003, epoca della sentenza della Corte Suprema federale che ha stabilito la legittimità e il carattere vincolante della «Patientverfügung» (volontà del paziente) riconducendola al diritto all’autodeterminazione della persona; Francia, (2005, legge relativa ai «Diritti del malato alla fine della vita» che prevede la legittimità delle direttive anticipate).

10 febbraio 2009
da unita.it

-------------------


Mons. Casale: «Io dico che Eluana ha finito di soffrire» di Roberto Monteforte

di Roberto Monteforte


Escludo che per Eluana si possa parlare di omicidio. Rifiuto questa lettura perché, come molti altri, ritengo che quando c’è la dichiarazione di volontà di rifiutare l’accanimento terapeutico, si rifiuta un intervento tecnico e si lascia che la natura faccia il suo corso. Come si può parlare in questo caso di eutanasia in questo caso?» È lineare il ragionamento di monsignor Giuseppe Casale, vescovo emerito di Foggia. Con serenità ribadisce il suo punto di vista sul caso Englaro. Un punto di vista molto diverso da quello di altre voci anche autorevoli della Chiesa, per le quali non vi sarebbe dubbio, quello di Eluana è stato omicidio, eutanasia.

Eppure nella Chiesa c’è chi si dice sicuro che la sospensione di alimentazione e idratazione sia eutanasia..
«Molti medici ritengono che l’idratazione e l’alimentazione forzata siano un medicamento. Non si tratta di un dar da magiare o da bere, ma di nutrire medicalmente con un sondino, con una miscela o altro che servono a tenere il corpo in vita. È alimentazione articificiale. Se uno la rifiuta, lasciando che la propria vita vada avanti secondo quello che è il pensiero di Dio, la sua volontà e la natura, allora quello che rifiuta è l’accanimento terapeuetico. Nel caso in cui non ci siano più prospettive o possibilità di una vita nuova, perchè ormai la lunga degenza esclude questa ipotesi, si tratta di affidarsi al corso della natura. Non è assolutamente eutanasia. Affermarlo è forzare le cose. È dare seguito ad interpretazioni politiche esasperate e unilaterali, forzate con questo vizio d’origine. Ci rifacciamo tanto alla natura e alle sue leggi e in questo caso ritieniamo che le sue leggi debbano essere violate? Diciamo che ci vogliono gli interventi tecnologici o biotecnici?».

Eppure la polemica monta nel paese. Non le pare che ci sia il rischio di una lacerazione profonda nella società?
«Dobbiamo lavorare perché si crei una nuova mentalità. Davanti alla morte di questa giovane creatura dobbiamo essere indotti a riflettere. A liberarci dai pregiudizi e dagli interessi di parte. Se dovessi dire il mio pensiero chiederi al Signore di tenermi in vita finché è possibile. Mi affiderei alla sua bontà. Aspettando che mi chiami. Non rinuncerei a seguire le cure che i medici mi consigliano, ma non vorrei trovarmi nella condizione di essere affidato a delle tecniche che prolungano artificiosamente la vita. Vorrei viverla ricca almeno di un rapporto con gli altri. Ho assistito molti ammalati terminali. Sino al momento in cui vi è possibilità di comunicazione con lo sguardo, con un canto, con un tocco della mano allora sì che c’è una comunicazione, che c’è la vita. Ma non è questo il caso che stiamo esaminando...».

Il mondo cattolico protesta vivacemente...
«C’è stata tutta questa mobilitazione. Io che sono uomo libero rifiuto di farmi mobilitare».

Lei è una voce fuori dal coro...
«No. Sono nel coro che è la Chiesa cattolica. Sarò forse un solista. E i solisti mettono in evidenza alcuni aspetti della partitura. In questo coro io ho voluto mettere in evidenza un’aspetto: quello della libertà della persona, quello della vita che è vita quando è fatta di relazioni, quello del rispetto della volontà anche quando non è espressa con un atto formale, come è stato per questa giovane donna che lunedì sera ha concluso il suo cammino. Rifiuto qualsiasi forma di “intruppamento”, di mobilitazione, di crociata. Perché le crociate hanno lasciato brutti segni nella storia della Chiesa».

Come costruire il “dopo Eluana”?
«Evitando di cadere nel tranello dei marpioni della politica sempre pronti a tirare l’acqua al loro mulino. Non è giusto usare strumentalmente un caso così drammatico per fini che non sono neanche politici, ma di rivincita di un gruppo sull’altro. Dobbiamo avere la dignità di uno sguardo nuovo della politica che rispetti le persone, che vada nella direzione della “polis”, la città al cui servizio noi siamo».

Come arrivare ad una legge sul testamente biologico che aiuti a definire il “fine vita”?
«Attraverso un confronto che rispetti le etiche diverse e la libertà delle opinioni. In un regime democratico la libertà va costruita nel rispetto reciproco e nell’accoglienza delle varie esperienze. Soprattutto nel rispetto delle persone che soffrono. E non credo che Bettino Englaro abbia fatto quello che ha fatto senza passare attraverso una grossa sofferenza. Abbiamo il dovere di rispettarlo e lui ha il diritto al nostro rispetto e alla nostra amicizia».

11 febbraio 2009
da unita.it


Titolo: Il dramma Eluana ha diviso, pensiamo ora al bene comune
Inserito da: Admin - Febbraio 15, 2009, 12:44:56 am
Il dramma Eluana ha diviso, pensiamo ora al bene comune

di Roberto Monteforte


II caso di Eluana Englaro, il dramma del «fine vita» fa discutere e divide. «Al dialogo non si può rinunciare». E’ un punto fermo per il professore Franco Miano, il presidente dell’Associazione cattolica, la più importante associazione del laicato cattolico. Ai toni urlati preferisce la pacatezza del confronto, condotto in modo laico, attento alle ragioni dell’altro. «Il nostro obiettivo è quello di educare, di far maturare l’attenzione di tutti al bene comune del paese» premette.

Eppure tra crisi economica, problemi legati alla sicurezza ed ora con le questioni etiche legate al caso Englaro, al bene comune pare prevalere una logica di lacerazione…
«L’obiettivo è molto difficile. Ma questo non vuol dire che si possa rinunciare alle ragioni dell’unità del paese. Questo è fondamentale per la vita dello Stato e la cultura politica. Come Azione cattolica continueremo a cercare punti di contatto, specie sulle grandi questioni...».

Sul caso Englaro, insieme al silenzio e alle preghiere si sono sentiti anche insulti. La preoccupa lo spirito di crociata che aleggia?
«L’insulto non è mai una cosa buona. Lo abbiamo detto chiaramente. Pur non condividendo le scelte di Beppino Englaro pensiamo al momento difficile, di dolore che ha vissuto. Sarebbe preferibile uno stile più dialogico, ma da tutte le parti. Per questo è necessaria una riflessione di più ampio respiro, meno legata alla congiuntura politica e al rischio di strumentalizzazione. Ribadiamo la nostra fedeltà all’incondizionatezza del valore della vita. Una fedeltà che va argomentata, proposta con fermezza, ma anche con grande spirito di dialogo. Non sono due elementi in contrapposizione. Il fatto di avere una posizione chiara, non significa che non si possa dialogare, provare a smorzare i toni, arrivando a un percorso di condivisione».

Mette in guardia da posizioni rigide?
«E’necessaria una dimensione più ampia dei problemi. Prendiamo la riflessione sulla vita: non nasce soltanto quando vi è «il caso», come con Eluana. Vi deve essere un termine di confronto costante tra le diverse parti politiche, i soggetti della società civile, le associazioni ecclesiali e non. Così anche le emergenze si affronterebbero in modo diverso. Se, invece, si è relegati al caso concreto, si scivola inevitabilmente verso il ”partito del pro o contro” e questo fa smarrire la pacatezza necessaria».

Perché chiede di allargare il discorso?
«Partiamo dalla vita. Allargare il discorso vuole dire prestare attenzione ai temi della solidarietà che ci vede impegnati in questi tempi di crisi. Mi sembra un modo ulteriore per servire la vita. Come per Eluana allo stesso modo diciamo che oggi è necessario uno scatto di solidarietà, perché le famiglie più povere non divengano sempre più povere. Perché l’immigrato, lo straniero non sia inteso come il “cattivo”. A questo va aggiunto l’impegno per la pace e per la soluzione di tutti i conflitti più o meno dimenticati che attraversano il mondo. Queste tre questioni vanno tenute assieme alla riflessione su Eluana. Difendere la vita per noi significa difendere la pace, la solidarietà, la giustizia. Su questo puntiamo a far crescere l’unità dei cattolici».

È l’obiettivo del vostro convegno?
«Cercheremo di dar voce all’anima pluralistica del mondo cattolico, a quella strettamente politico partitica e alle diverse forme dell’associazionismo cattolico con l’obiettivo di interpretare la crisi della politica, ma anche di promuovere un soprassalto etico. Oggi non si può non porre il tema del rapporto tra etica e politica. Come meridionale non vorrei tacere le tante situazioni problematiche di collusione della politica con la criminalità organizzata o i tanti problemi di moralità della politica. Vi è un deficit di cultura politica, ma anche di moralità. Entrambe le cose portano ad un pericoloso deficit di democrazia. In molti casi si rischia che se ne mantengano solo le forme esteriori e talvolta neanche quelle. È per questo che va perseguito il bene comune».
rmonteforte@unita.it


14 febbraio 2009
da unita.it