Titolo: GUSTAVO ZAGREBELSKY Inserito da: Admin - Febbraio 09, 2009, 04:59:19 pm LE IDEE
Il veleno nichilista che anima il regime di GUSTAVO ZAGREBELSKY Viviamo un momento politico-costituzionale certamente particolare. Questo non è in discussione, sia presso i fautori, sia presso i detrattori del regime attuale. Non sarà fuori luogo precisare che, in questo contesto, la parola regime vale semplicemente a dire - secondo il significato neutro per cui si parla di regime liberale, democratico, autoritario, parlamentare, presidenziale, eccetera - "modo di reggimento politico" e non ha alcun significato valutativo, come ha invece quando ci si chiede, con intenti denigratori espliciti o impliciti, se in Italia c'è "il regime". Ma che tipo di regime? Questa è la domanda davvero interessante. Alla certezza - viviamo in "un" regime che ha suoi caratteri particolari - non si accompagna però una definizione che dia risposta a quella domanda. Sfugge il carattere fondamentale, il "principio" o (secondo l'immagine di Montesquieu) il ressort, molla o energia spirituale che lo fa vivere secondo la sua essenza. Un concetto semplice, una definizione illuminante, una parola penetrante, sarebbero invece importanti per afferrarne l'intima natura e per prendere posizione. Le definizioni, per la verità, non mancano, spesso fantasiose e suggestive. Anzi sovrabbondano, a dimostrazione che, forse, nessuna arriva al nocciolo, ma tutte gli girano intorno: autocrazia; signoria moderna; egoarchia; governo padronale o aziendale; dominio mediatico; grande seduzione; regime dell'unto del Signore; populismo o unzione del popolo; videocrazia; plutocrazia, governo demoscopico. Si potrebbe andare avanti. Si noterà che queste espressioni, a parte genericità ed esagerazioni, colgono (se li colgono) aspetti parziali e, soprattutto, sono legate a caratteri e proprietà personali di chi il regime attuale ha incarnato e tuttora incarna. Ed è una visione riduttiva, come se si trattasse soltanto di un affare di persone; come se, cambiando le persone, potesse cambiare d'un tratto e del tutto la trama della politica. Invece, prassi, mentalità e costumi nuovi si sono introdotti partendo da lontano; sistemi di potere e metodi di governo sono stati istituiti. Un regime non nasce di colpo, va consolidandosi e forse andrà lontano. È un'illusione pensare che ciò che è stato ed è possa poi passare senza lasciare l'orma del suo piede. La questione che ci interroga è quella di cogliere con un concetto essenziale, comprensivo ed esplicativo di ciò che di oggettivo è venuto a stabilizzarsi e a sedimentare nella vita pubblica e che opera e opererà in noi, attorno a noi e, forse, contro di noi. Se, parlando di regime oggi, è inevitabile che il pensiero corra a ciò che si denomina genericamente "berlusconismo", dobbiamo tenere presente che qui non si tratta di vizi o virtù personali ma di una concezione generale del potere che si irraggia più in là. Colpisce che tutti i tentativi per arrivare a cogliere un'essenza - giusti o sbagliati che siano - si fermino comunque ai mezzi: denaro, televisione, blandizie e minacce, corruzione, seduzione, confusione del pubblico nel privato e viceversa, impunità, sondaggi, eccetera. Ma tutto ciò in vista di quale fine? Proprio il fine dovrebbe essere ciò che qualifica l'essenza di un regime politico, ciò che gli dà senso e ne rende comprensibile la natura. Se non c'è un fine, è puro potere, potere per il potere, tautologia. Ma qui il fine, distinto dai mezzi, è introvabile. A meno di credere a parole d'ordine tanto generiche da non significare nulla o da poter significare qualunque cosa - libertà, identità nazionale, difesa dell'Occidente, innovazione, sviluppo, o altre cose di questo genere - il fine non si vede affatto, forse perché non c'è. O, più precisamente, il fine c'è ma coincide con i mezzi: è proteggere e potenziare i mezzi. Una constatazione davvero sbalorditiva: un'aberrazione contro-natura, una volta che la politica sia intesa come rapporto tra mezzi e fini, rapporto necessario affinché il governo delle società sia dotato di senso e il potere e la sua pretesa d'essere riconosciuto come legittimo possano giustificarsi su qualcosa di diverso dallo stesso puro potere. A parte forse l'autore della massima "il potere logora chi non ce l'ha", nessuno, nemmeno il Principe machiavelliano, ha mai attribuito al potere un valore in sé e per sé stesso. "Il fine giustifica i mezzi" è uno dei motti del machiavellismo politico; ma che succede se "i mezzi giustificano i mezzi"? È la crisi della ragion politica, o della politica tout court. È il trionfo della "ragione strumentale" nella politica. Siamo di fronte a qualcosa di incomprensibile, inafferrabile, incontrollabile, qualcosa all'occorrenza capace di tutto, come in effetti vediamo accadere sotto i nostri occhi: un giorno dialogo, un altro scomuniche; un giorno benevolenza, un altro minacce; un giorno legalità, un altro illegalità; ciò che è detto un giorno è contraddetto il giorno dopo. La coerenza non riguarda i fini ma i mezzi, cioè i mezzi come fini: si tratta di operare, non importa come e con quale coerenza, allo scopo di incrementare risorse, influenza, consenso. Il politico adatto a questa corruzione della vita pubblica è l'uomo senza passato e senza radici, che sa spiegare le vele al vento del momento; oppure l'uomo che crede di avere un passato da dimenticare, anzi da rinnegare, per presentarsi anch'egli come uomo nuovo. È colui che proclama la fine delle distinzioni che obbligherebbero a stare o di qua o di là. Così, si può fingere di essere contemporaneamente di destra e di sinistra o di stare in un "centro" senza contorni; si può avere un'idea, ma anche un'altra contraria; ci si può presentare come imprenditori e operai; si può essere atei o agnostici ma dire che, comunque, "si è alla ricerca"; si può dare esempio pubblico della più ampia libertà nei rapporti sessuali e farsi paladini della famiglia fondata sul santo matrimonio; si può essere amico del nemico del proprio amico, eccetera, eccetera. Insomma: il "politico" di successo, in questo regime, è il profittatore, è l'uomo "di circostanza" in ogni senso dell'espressione, è colui che "crede" in tutto e nel suo contrario. Questo tipo di politico conosce un solo criterio di legittimità del suo potere, lo stare a galla ed espandere la sua influenza. Il suo fallimento non sta nella mancata realizzazione di un qualche progetto politico. Se egli vive di potere che cresce, anche una piccola battuta d'arresto può essere l'inizio della sua fine. Non sarà più creduto. Per questo ogni indecisione, obbiettivo mancato o fallimento deve essere nascosto o mascherato e propagandato come un successo. La corruzione e la mistificazione della dura realtà dei fatti e della loro verità è nell'essenza di questo regime. Il rapporto col mondo esterno corre il rischio di essere "disturbato". L'uomo di potere, di questo tipo di potere, non vede di fronte a sé alcuna natura esterna, poiché diventa ai suoi occhi egli stesso natura (naturalmente, lo si sarà compreso, si sta parlando di "tipo ideale", cioè di un modello che, nella sua perfezione, esiste solo in teoria). Abbiamo iniziato queste considerazioni col proposito di cercare una definizione che, in una parola, condensi tutto questo. L'abbiamo trovata? Forse sì. Non ci voleva tanto: nichilismo, inteso come trasformazione dei fatti e delle idee in nulla, scetticismo circa tutto ciò che supera l'ambito (sia esso pure un ambito smisurato) del proprio interesse. Chi conosce la storia di questo concetto sa di quale veleno, potenzialmente totalitario, esso abbia mostrato d'essere intriso. Ciò che, invece, si fa fatica a comprendere è come chi tuona tutti i giorni contro il famigerato "relativismo" non abbia nessun ritegno, addirittura, a tendergli la mano. (9 febbraio 2009) da repubblica.it Titolo: GUSTAVO ZAGREBELSKY Inserito da: Admin - Luglio 17, 2009, 05:14:43 pm COMMENTO
Quando il potere teme la verità di GUSTAVO ZAGREBELSKY SONO venute a galla, finalmente, due questioni che riguardano, l'una, la verità e, l'altra, la moralità nella vita pubblica. Sono questioni che oggi particolarmente toccano un uomo alle prese con l'affannosa gestione davanti alla pubblica opinione di uno sdoppiamento, tra la realtà di ciò che effettivamente egli è e fa e la rappresentazione fittizia che ne dà, a uso del suo pubblico. Siamo di fronte a una novità? Possiamo credere sia un caso isolato? Via! La menzogna e l'ipocrisia, alla fine la schizofrenia, sono sempre state compagne del potere. Questa constatazione realistica può chiudere il discorso solo per i nichilisti, i quali pensano a un eterno nudo potere, che volta a volta, si presenta in forme esteriori diverse, ma sempre e solo per coprire la sua immutabile, disgustosa, realtà. Per gli altri, quelli che credono che il potere non necessariamente sia sempre solo quella cosa lì, ma che si possa agire, oltre che per conquistarlo, anche per cambiarlo; per quelli, in breve, che credono che vi siano diversi possibili modi di concepire e gestire le relazioni politiche, verità e menzogna, moralità e ipocrisia sono dilemmi su cui si può e si deve prendere posizione. Vizi e virtù cambiano, anzi si scambiano le vesti, a seconda di quali siano le concezioni del vivere comune. I vizi possono diventare virtù e le virtù, vizi. Onde possiamo dire che da come li si concepisce capiamo che idea abbiamo della nostra convivenza. C'è qui una spia che permette di guardare nello strato profondo, magari inconscio, delle nostre concezioni politiche. Nelle Istorie fiorentine (III, 13), Machiavelli dice che i mezzi del potere sono "frode e forza" e che "quelli che per poca prudenza o per troppa sciocchezza, fuggono questi modi, nella servitù sempre e nella povertà affogano; perché i fedeli servi sempre sono servi, e gli uomini buoni sempre sono poveri; né mai escono di servitù se non gli infedeli e audaci, e di povertà se non i rapaci e fraudolenti". Buone massime di comportamento, ma per il Principe in società di servi e padroni: qui davvero le virtù diventano vizi e i vizi, virtù. La verità, il rispetto dei "bruti fatti", è la virtù di coloro che si intendono e vogliono intendersi tra loro; al contrario, quando il proposito non è l'intesa ma la sopraffazione, la virtù non è più la verità ma è la menzogna, la simulazione di quel che è e la dissimulazione di quel che non è. La verità predispone al dialogo in cui ciascuno onestamente fa valere i propri punti di vista; la menzogna prepara inganni e, in risposta, giustifica altre simulazioni e dissimulazioni (Torquato Accetto, Della dissimulazione onesta - 1641), come arma di legittima difesa. Ne vengono società di maschere, mascheramenti e mascherate che nascondono violenza, come erano le società di cortigiani, venefici e tradimenti del 5 e '600 in cui l'elogio della malafede dei governanti ha trovato il suo terreno di coltura. Gesù di Nazareth impartisce ai discepoli due comandamenti, all'apparenza contraddittori: "Sia il vostro parlare sì, sì; no, no; il di più viene dal maligno" (Mt 5, 36) e "siate avveduti (phronimòi) come serpenti" (Mt 10, 16). Da un lato, dunque, rispecchiare la verità, né più né meno; dall'altro, usare la lingua biforcuta del "più astuto tra tutti gli animali" (Gn 3, 1). Come si scioglie la contraddizione? In un modo molto interessante per la nostra questione. Il primo comandamento vale nei rapporti tra leali appartenenti alla stessa cerchia, in quel caso i credenti nella medesima parola di Dio ("avete inteso che fu detto ..., ma io vi dico"). Il secondo vale quando le pecore (i discepoli) sono inviati in mezzo ai lupi, gli uomini dai quali devono "guardarsi" con accortezza. Ecco, dunque. La verità vale tra amici; tra nemici è dissennatezza. Se riteniamo di non essere vincolati alla mutua obbligazione al vero, se riteniamo legittima la frode, la menzogna, l'inganno è perché viviamo nell'ostilità e i regimi dell'ostilità sono quelli inclini alla sopraffazione. Noi comprendiamo perciò lo scandalo che, purtroppo in altri Paesi e non nel nostro, dà l'uomo pubblico che è scoperto avere mentito, per questo solo fatto, magari su una questioncella da niente: uno scandalo non di natura morale o moralistica ma politico, che può portare alla rovina d'una carriera. Chi mente, non importa su che cosa, è un pericolo per la libertà e la democrazia. Oggi, da noi, si moltiplicano assennati appelli alla concordia e al dialogo, ma senza il parallelo, anzi preliminare, appello alla chiarezza della verità, sono parole destinate al vento. * * * Anche la questione della moralità conduce a un problema politico di democrazia. Si dice: il giudizio morale non deve influire sul giudizio politico. La politica si giudica con criteri politici; la moralità, con criteri morali. Un ottimo uomo pubblico può essere un pessimo individuo nel privato, col quale non si vorrebbe avere nulla da spartire. O viceversa: una persona dabbene può essere un pessimo politico, cui non vorremmo affidate responsabilità pubbliche. Gli ambiti sono diversi e devono essere tenuti separati. Lo Stato moderno è il prodotto della scissione dell'ufficio pubblico dalla persona fisica che lo ricopre. Il funzionario è, come tale, soggetto a particolari e stringenti doveri di moralità pubblica, della cui osservanza risponde pubblicamente. Ma la stessa persona, nel momento in cui è spogliato della sua funzione ritorna a essere uno come tutti, ha il diritto di essere lasciato in pace come un qualunque altro cittadino. La sua moralità è in questione solo di fronte alla sua coscienza, a Dio o al confessore. Tutto questo è chiaro ma troppo semplice. I punti di interferenza sono numerosi, in un senso e nell'altro. Quando c'è interferenza, non si può negare l'esigenza di verità. Può accadere che la posizione pubblica sia spesa nella vita privata, oppure che i comportamenti privati si riverberino sulla posizione pubblica. Talora queste commistioni hanno rilievo per il codice penale. Ma molto spesso no. Non per questo non hanno rilievo politico. Esempio del primo tipo: la strumentalizzazione del "fascino del potere" per ottenere vantaggi nella vita privata. I favori sessuali attengono certamente alla vita privata. Ma altrettanto certamente ciò non basta a escludere il diritto dell'opinione pubblica di sapere se questi si ottengono facendo balenare o distribuendo favori, come solo chi occupa posizioni di pubblico potere può fare. Oppure, esempio del secondo tipo, lo stile di vita personale attiene certamente all'ambito privato che chiunque ha il diritto di definire come vuole. Ma se questo stile di vita contraddice i valori sociali e politici che si professano pubblicamente e si vogliono imporre agli altri, possiamo dire che questa ipocrisia sia irrilevante per un giudizio politico da parte dell'opinione pubblica? Non è affatto questione di moralismo. Nessuno, meno che mai quella cosa che si denomina opinione pubblica, ha diritto di pronunciare sentenze morali, condannare peccati e peccatori. Chi mai gradirebbe un giudizio di questo genere sulle piazze o sui giornali? Non è questo il punto. Il punto è che in democrazia i cittadini hanno diritto di conoscere chi sono i propri rappresentanti, perché questi, senza che nessuno li obblighi, chiedono ai primi un voto e instaurano con loro un rapporto che vuol essere di fiducia. Devono poterli conoscere sotto tutti i profili rilevanti in questo rapporto. Ora, entrambe le interferenze tra pubblico e privato di cui si è detto convergono nel creare divisioni castali in cui la disponibilità del potere crea disuguaglianze, privilegi e immunità, perfino codici morali diversi, che discriminano chi sta su da chi sta giù. E questo non ha a che vedere con la democrazia? Non deve entrare nel dibattito pubblico? Così siamo ritornati al punto di partenza, il rapporto verità menzogna. Che questa immoralità tema la verità è naturale ed evidente. Anzi, proprio il rifiuto ostinato di renderla disponibile a tutti in un pubblico dibattito, motivato dalle temute ripercussioni sul rapporto di fiducia tra l'eletto e gli elettori, è la riprova che questa è materia di etica politica, non (solo) di moralità privata; è questione che tocca tutti, non (solo) famigliari, famigli, amici, clienti. (17 luglio 2009) da repubblica.it Titolo: GUSTAVO ZAGREBELSKY Il sospetto Inserito da: Admin - Gennaio 20, 2010, 05:42:18 pm L'ANALISI
Il sospetto di GUSTAVO ZAGREBELSKY C'è una gran voglia di voltare pagina e guardare avanti. Quello che è stato un Paese riconosciuto e rispettato per la sua politica, la sua cultura, la civiltà dei rapporti sociali, è ormai identificato con l'impasse in cui è caduto a causa di un conflitto di principio al quale, finora, non si è trovata soluzione. Sono quasi vent'anni che il nodo si stringe, dalla fine della cosiddetta prima repubblica a questa situazione, che rischia d'essere la fine della seconda. La terza che si preannuncia ha tratti tutt'altro che rassicuranti. Siamo probabilmente al punto di una sorta di redde rationem, il cui momento culminante si avvicina. Sarà subito dopo le prossime elezioni regionali. A meno che si trovi una soluzione condivisa, che si addivenga cioè a un compromesso. È possibile? E quale ne sarebbe il prezzo? Se consideriamo i termini del conflitto - la politica contro la legalità; un uomo politico legittimato dal voto contro i giudici legittimati dal diritto - l'impresa è ardua, quasi come la quadratura del cerchio. Per progressivi cedimenti che ora hanno fatto massa anche nell'opinione pubblica, dividendo gli elettori in opposti schieramenti, i due fattori su cui si basa lo stato di diritto democratico, il voto e la legge, sono venuti a collisione. Questa è la rappresentazione oggettiva della situazione, che deliberatamente trascura le ragioni e i torti. Trascura cioè le reciproche e opposte accuse, che ciascuna parte ritiene fondate: che la magistratura sia mossa da accanimento preconcetto, da un lato; che l'uomo politico si sia fatto strada con mezzi d'ogni genere, inclusi quelli illeciti, dall'altro. Se si guarda la situazione con distacco, questo è ciò che appare come dato di fatto e le discussioni sui torti e le ragioni, come ormai l'esperienza dovrebbe avere insegnato, sono senza costrutto. I negoziatori che sono all'opera si riconosceranno, forse, nelle indicazioni che precedono. Ma, probabilmente, non altrettanto nelle controindicazioni che seguono. Per raggiungere un accordo, si è disposti a "diluire" il problema pressante in una riforma ad ampio raggio della Costituzione. Per ora, la disponibilità dell'opposizione al dialogo o, come si dice ora, al confronto, è tenuta nel vago (no a norme ad personam, ma sì a interventi "di sistema" per "riequilibrare" i rapporti tra politica e giustizia), è coperta dalla reticenza (partire da dove s'era arrivati nella passata legislatura, ma per arrivare dove?) o è nascosta col silenzio (la separazione tra potere politico, economico e mediatico, cioè il conflitto d'interessi, è o non è questione ancora da porsi?). Vaghezza, reticenza e silenzio sono il peggior avvio d'un negoziato costituzionale onesto. La materia costituzionale ha questa proprietà: quando la si lascia tranquilla, alimenta fiducia; quando la si scuote, alimenta sospetti. Per questo, può diventare pericolosa se non la si maneggia con precauzione. Tocca convinzioni etiche e interessi materiali profondi. Non c'è bisogno di evocare gli antichi, che conoscevano il rischio di disfacimento, di discordia, di "stasi", insito già nella proposta di mutamento costituzionale. Per questo lo circondavano d'ogni precauzione. Chi si esponeva avventatamente correva il rischio della pena capitale. Per quale motivo? Prevenire il sospetto di secondi fini, di tradimento delle promesse, di combutta con l'avversario. Quando si tratta di "regole del gioco", tutti i giocatori hanno motivo di diffidare degli altri. La riforma è come un momento di sospensione e d'incertezza tra il vecchio, destinato a non valere più, e il nuovo che ancora non c'è e non si sa come sarà. In questo momento, speranze e timori si mescolano in modo tale che le speranze degli uni sono i timori degli altri. È perciò che non si gioca a carte scoperte. Ma sul sospetto, sentimento tra tutti il più corrosivo, non si costruisce nulla, anzi tutto si distrugge. Il veleno del sospetto non circola solo tra le forze politiche, ma anche tra i cittadini e i partiti che li rappresentano. Nell'opposizione, che subisce l'iniziativa della maggioranza, si fronteggiano, per ora sordamente, due atteggiamenti dalle radici profonde. L'uno è considerato troppo "politico", cioè troppo incline all'accordo, purchessia; l'altro, troppo poco, cioè pregiudizialmente contrario. Sullo sfondo c'è l'idea, per gli uni, che in materia costituzionale l'imperativo è di evitare l'isolamento, compromettendosi anche, quando è necessario; per gli altri, l'imperativo è, al contrario, difendere principi irrinunciabili senza compromessi, disposti anche a stare per conto proprio. La divisione, a dimostrazione della sua profondità, è stata spiegata ricorrendo alla storia della sinistra: da un lato la duttilità togliattiana (che permise il compromesso tra Partito Comunista e Democrazia Cristiana sui Patti Lateranensi), dall'altro l'intransigenza azionista (che condusse il Partito d'azione all'isolamento). Tali paragoni, indipendentemente dalla temerarietà, sono significativi. Corrispondono a due paradigmi politici, rispettivamente, la convenienza e la coerenza: una riedizione del perenne contrasto tra l'etica delle conseguenze e l'etica delle convinzioni. L'uomo politico degno della sua professione - colui che rifugge tanto dall'opportunismo quanto dal fanatismo e cerca di conciliare responsabilmente realtà e idealità - conosce questo conflitto e sa che esistono i momenti delle decisioni difficili. Sono i momenti della grande politica. Ma da noi ora non è così. Ciò che è nobile nei concetti, è spregevole nella realtà. La buona convenienza appare cattiva connivenza. Il sospetto è che, dietro un gioco delle parti, sia in atto la coscientemente perseguita assimilazione in un "giro" di potere unico e autoreferenziale, una sorta di nuovo blocco o "arco costituzionale", desiderando appartenere al quale si guarda ai propri elettori, che non ci stanno, come pericolo da neutralizzare e non come risorsa da mobilitare. Vaghezza, silenzi, e reticenze sono gl'ingredienti di questo rapporto sbagliato, basato sulla sfiducia reciproca. È banale dirlo, ma spesso le cose ovvie sono quelle che sfuggono agli strateghi delle battaglie perdute: in democrazia, occorrono i voti e la fiducia li fa crescere; la sfiducia, svanire. Il sospetto si dissipa in un solo modo: con la chiarezza delle posizioni e la risolutezza nel difenderle. La chiarezza si fa distinguendo, secondo un ordine logico e pratico, le cose su cui l'accordo c'è, quelle su cui potrebbe esserci a determinate condizioni e quelle su cui non c'è e non ci potrà essere. La risolutezza si dimostra nella convinzione con cui si difendono le proprie ragioni. Manca l'una e l'altra. Manca soprattutto l'idea generale che darebbe un senso al confronto costituzionale che si preannuncia. Così si procede nell'ordine sparso delle idee, preludio di sfaldamento e sconfitta. Per esempio, sulla difesa del sistema parlamentare contro i propositi presidenzialisti, la posizione è ferma? Sulle istituzioni di garanzia, magistratura e Corte costituzionale, fino a dove ci si vuol spingere? Sul ripristino dell'immunità parlamentare c'è una posizione, o ci sono ammiccamenti? Quest'ultimo è il caso che si può assumere come esemplare della confusione. Nella strategia della maggioranza, è il tassello di un disegno che richiede stabilità della coalizione e immunità di chi la tiene insieme, per procedere alla riscrittura della Costituzione su punti essenziali: l'elezione diretta del capo del governo, la riduzione del presidente della Repubblica a un ruolo di rappresentanza, la soggezione della giustizia alla politica, eccetera, eccetera. L'opposizione? Incertezze e contraddizioni che non possono che significare implicite aperture, come quando si dice che "il problema c'è", anche se non si dice come lo si risolve. Ci si accorge ora di quello che allora, nel 1993, fu un errore: invece del buon uso dell'immunità parlamentare, si preferì abolirla del tutto. Fu il cedimento d'una classe politica che non credeva più in se stessa. Ma il ripristino oggi suonerebbe non come la correzione dell'errore, ma come la presunzione d'una classe politica che non ama la legalità. Occorrerebbe spiegare le ragioni del rischio che si corre, nell'appoggiare questo ritorno; rischio doppio, perché una volta reintrodotta l'immunità con norma generale, la si dovrà poi concedere all'interessato, con provvedimento ad personam. Due forche caudine per l'opposizione. Ma allora, perché? Perché, si dice, se non ci sono aperture, il confronto non inizia nemmeno e la maggioranza andrà avanti per conto proprio. Appunto: dove non c'è il consenso, avendo i voti, vada avanti e poi, senza l'apporto dell'opposizione, ci potrà essere il referendum, dove ognuno apertamente giocherà le sue carte. Ne riparleremo. © Riproduzione riservata (20 gennaio 2010) da repubblica.it Titolo: GUSTAVO ZAGREBELSKY Inserito da: Admin - Marzo 01, 2010, 01:13:24 pm LE IDEE
La colpa di chi fa le leggi per se stesso di GUSTAVO ZAGREBELSKY "Un dio o un uomo, presso di voi, è ritenuto autore delle leggi?" chiede l'Ateniese ai suoi ospiti venuti da Creta e da Sparta. "Un dio, ospite, un Dio! - così come è perfettamente giusto". Queste parole aprono il grande trattato che Platone dedica alle Leggi, i Nòmoi. Il problema dei problemi - perché si dovrebbe obbedire alle leggi - è in tal modo risolto in partenza: per il timor degli Dei. Le leggi sono sacre. Chi le viola è sacrilego. Tra la religione e la legge non c'è divisione. I giudici sono sacerdoti e i sacerdoti sono giudici, al medesimo titolo. Oggi non è più così. Per quanto si sia suggestionati dalla parola che viene dal profondo della sapienza antica, possiamo dire: non è più così, per nostra fortuna. Abbiamo conosciuto a sufficienza l'intolleranza e la violenza insite nella legge, quando il legislatore pretende di parlare in nome di Dio. Ma, da quella scissione, nasce la difficoltà. Se la legge ha perduto il suo fondamento mistico perché non viene (più) da un Dio, ma è fatta da uomini, perché dovremmo prestarle obbedienza? Perché uomini devono obbedire ad altri uomini? Domande semplici e risposte difficili. Forse perché abbiamo paura di chi comanda con forza di legge? Paura delle pene, dei giudici, dei carabinieri, delle prigioni? Se così fosse, dovremmo concludere che gli esseri umani meritano solo di esseri guidati con la sferza e sono indegni della libertà. In parte, tuttavia, può essere così. In parte soltanto però, perché nessuno è mai abbastanza forte da essere in ogni circostanza padrone della volontà altrui, se non riesce a trasformare la propria volontà in diritto e l'ubbidienza in dovere. Ma dov'anche regnasse la pura forza, dove regna il terrore, dove il terrorismo è legge dello Stato, anche in questo caso ci dovrà pur essere qualcuno che, in ultima istanza, applica la legge senza essere costretto dalla minaccia della pena, perché è lui stesso l'amministratore delle pene. In breve, molti possono essere costretti a obbedire alla legge: molti, ma non tutti. Ci dovranno necessariamente essere dei costrittori che costringono senza essere costretti. Ci dovrà essere qualcuno, pochi o tanti a seconda del carattere più o meno chiuso della società, per il quale la legge vale per adesione e non per costrizione. In una società democratica, questo "qualcuno" dovrebbe essere il "maggior numero possibile". Che cosa è, dove sta, da che cosa dipende quest'adesione? Qui, ciascuno di noi, in una società libera, è interpellato direttamente, uno per uno. Se non sappiamo dare una risposta, allora dobbiamo ammettere che seguiamo la legge solo per forza, come degli schiavi, solo perché la forza fa paura. Ma, appena esistono le condizioni per violare la legge impunemente o appena si sia riusciti a impadronirsi e a controllare le procedure legislative e si possa fare della legge quel che ci piace e così legalizzare quel che ci pare, come Semiramìs, che "a vizio di lussuria fu sì rotta, che libito fé licito in sua legge, per tòrre il biasmo in che era condotta" (Inferno, V), allora della legge e di coloro che ancora l'invocano ci si farà beffe. Possiamo dire, allora, che la forza della legge, se non si basa - sia permesso il banale gioco di parole - sulla legge della forza, si basa sull'interesse? Quale interesse? La moralità della legge come tale, indipendentemente da ciò che prescrive, dovrebbe stare nell'uguaglianza di tutti, nel fatto che ciascuno di noi può rispecchiarvisi come uguale all'altro. "La legge è uguale per tutti" non è soltanto un ovvio imperativo, per così dire, di "giustizia distributiva del diritto". È anche la condizione prima della nostra dignità d'esseri umani. Io rispetto la legge comune perché anche tu la rispetterai e così saremo entrambi sul medesimo piano di fronte alla legge e ciascuno di noi di fronte all'altro. Ci potremo guardare reciprocamente con lealtà, diritto negli occhi, perché non ci sarà il forte e il debole, il furbo e l'ingenuo, il serpente e la colomba, ma ci saranno leali concittadini nella repubblica delle leggi. Questa risposta alla domanda circa la forza della legge è destinata, per lo più, ad apparire una pia illusione che solo le "anime belle", quelle che credono a cose come la dignità, possono coltivare. È pieno di anime che belle non sono, che si credono al di sopra della legge - basta guardarsi intorno, anche solo molto vicino a noi - e che proprio dall'esistenza di leggi che valgono per tutti (tutti gli altri), traggono motivo e strumenti supplementari per le proprie fortune, economiche e politiche. Sono questi gli approfittatori della legge, free riders, particolarmente odiosi perché approfittano (della debolezza o della virtù civica) degli altri: per loro, "le leggi sono simili alle ragnatele; se vi cade dentro qualcosa di leggero e debole, lo trattengono; ma se è più pesante, le strappa e scappa via" (parole di Solone; in versione popolare: "La legge è come la ragnatela; trattiene la mosca, ma il moscone ci fa un bucone"). Anche per loro c'è interesse alla legalità, ma la legalità degli altri. Poiché gli altri pagano le tasse, io, che posso, le evado. Poiché gli altri rispettano le procedure per gli appalti, io che ho le giuste conoscenze, vinco la gara a dispetto di chi rispetta le regole; io, che ho agganci, approfitto del fatto che gli altri devono attendere il loro turno, per passare per primo alla visita medica che, forse, salva la mia vita, ma condanna quella d'un altro; io, che posso manovrare un concorso pubblico, faccio assumere mio figlio, al posto del figlio di nessuno che, poveretto, è però più bravo del mio; io, che ho il macchinone, per far gli affari miei sulla strada, approfitto dei divieti che chi ha la macchinina rispetta; io, che posso farmi le leggi su misura, preparo la mia impunità nei casi in cui, altrui, vale la responsabilità. L'ultimo episodio della vita di Socrate, alle soglie dell'autoesecuzione (la cicuta) della sentenza dell'Areopago che l'aveva condannato a morte, è l'incontro con Le Leggi. Le Leggi gli parlano. Qual è il loro argomento? Sei nato e hai condotto la tua vita con noi, sotto la nostra protezione nella città. Noi ti abbiamo fatto nascere, ti abbiamo cresciuto, nutrito ed educato, noi ti abbiamo permesso d'avere moglie e figli che cresceranno come te con noi. Tutto questo con tua soddisfazione. Infatti, non te ne sei andato altrove, come ben avresti potuto. E ora, vorresti ucciderci, violandoci, quando non ti fa più comodo? Così romperesti il patto che ci ha unito e questo sarebbe l'inizio della rovina della città, le cui leggi sarebbero messe nel nulla proprio da coloro che ne sono stati beneficiati. Le Leggi platoniche, parlando così, chiedono ubbidienza a Socrate in nome non della paura né dell'interesse, ma per un terzo motivo, la riconoscenza. Il loro discorso, però, ha un presupposto: noi siamo state leggi benigne con te. Ma se Le Leggi fossero state maligne? Se avessero permesso o promosso l'iniquità e non avessero impedito la sopraffazione, avrebbero potuto parlare così? Il caso non poteva porsi in quel tempo, quando le leggi - l'abbiamo visto all'inizio - erano opera degli Dei. Oggi, sono opera degli uomini. Dagli uomini esse dipendono e dagli uomini dipende quindi se possano o non possano chiedere ubbidienza in nome della riconoscenza. Certo: abbiamo visto che l'esistenza delle leggi non esclude che vi sia chi le sfrutta e viola per il proprio interesse, a danno degli altri. Ma il compito della legge, per poter pretendere obbedienza, è di contrastare l'arroganza di chi le infrange impunemente e di chi, quando non gli riesce, se ne fa una per se stesso. Se la legge non contrasta quest'arroganza o, peggio, la favorisce, allora non può più pretendere né riconoscenza né ubbidienza. Il disprezzo delle leggi da parte dei potenti giustifica analogo disprezzo da parte di tutti gli altri. L'illegalità, anche se all'inizio circoscritta, è diffusiva di se stessa e distruttiva della vita della città. Tollerarla nell'interesse di qualcuno non significa metterla come in una parentesi sperando così che resti un'eccezione, ma significa farne l'inizio di un'infezione che si diffonde tra tutti. Qui è la grande responsabilità, o meglio la grande colpa, che si assumono coloro che fanno leggi solo per se stessi o che, avendo violate quelle comuni, pretendono impunità. Contrastare costoro con ogni mezzo non è persecuzione o, come si dice oggi, "giustizialismo", ma è semplicemente legittima difesa di un ordine di vita tra tutti noi, di cui non ci si debba vergognare. Questo testo sarà letto stasera da Gustavo Zagrebelsky al Teatro della Corte di Genova, nel corso del primo incontro del ciclo "Fare gli italiani - Grandi Parole alla ricerca dell'identità nazionale" © Riproduzione riservata (01 marzo 2010) da repubblica.it Titolo: GUSTAVO ZAGREBELSKY Il presidente Napolitano opera per evitare la violenza Inserito da: Admin - Marzo 07, 2010, 06:45:20 pm Il costituzionalista Zagrebelsky: così si apre la strada a nuove intimidazioni
Il presidente Napolitano opera per evitare la violenza "Una corruzione della legge che viola uguaglianza e imparzialità" di LIANA MILELLA ROMA - Non critica Napolitano, dissente da Di Pietro, benedice le proteste, boccia un decreto inconcepibile in uno Stato di diritto. Gustavo Zagrebelsky inizia citando un episodio che, "nel suo piccolo", indica lo stravolgimento dell'informazione. Al Tg1 di venerdì sera va in onda la foto di Hans Kelsen, uno dei massimi giuristi del secolo scorso. "Gli fanno dire che la sostanza deve prevalere sulla forma: a lui, che ha sempre sostenuto che, in democrazia, le forme sono sostanza. Una disonestà, tra tante. Gli uomini di cultura dovrebbero protestare per l'arroganza di chi crede di potersi permettere di tutto". Professore, che succede? "Apparentemente, un conflitto tra forma e sostanza". Apparentemente? "Se guardiamo più a fondo, è un abuso, una corruzione della forza della legge per violare insieme uguaglianza e imparzialità". Perché? Non si trattava invece proprio di permettere a tutti di partecipare alle elezioni? "Il diritto di tutti è perfettamente garantito dalla legge. Naturalmente, chi intende partecipare all'elezione deve sottostare ad alcuni ovvi adempimenti circa la presentazione delle candidature. Qualcuno non ha rispettato le regole. L'esclusione non è dovuta alla legge ma al suo mancato rispetto. È ovvio che la più ampia "offerta elettorale" è un bene per la democrazia. Ma se qualcuno, per colpa sua, non ne approfitta, con chi bisogna prendersela: con la legge o con chi ha sbagliato? Ora, il decreto del governo dice: dobbiamo prendercela con la legge e non con chi ha sbagliato". E con ciò? "Con ciò si violano l'uguaglianza e l'imparzialità, importanti sempre, importantissime in materia elettorale. L'uguaglianza. In passato, quante sono state le esclusioni dalle elezioni di candidati e liste, per gli stessi motivi di oggi? Chi ha protestato? Tantomeno: chi ha mai pensato che si dovessero rivedere le regole per ammetterle? La legge garantiva l'uguaglianza nella partecipazione. Si dice: ma qui è questione del "principale contendente". Il tarlo sta proprio in quel "principale". Nelle elezioni non ci sono "principali" a priori. Come devono sentirsi i "secondari"? L'argomento del principale contendente è preoccupante. Il fatto che sia stato preso per buono mostra il virus che è entrato nelle nostre coscienze: il numero, la forza del numero determina un plusvalore in tema di diritti". E l'imparzialità? "Il "principale contendente" è il beneficiario del decreto ch'esso stesso si è fatto. Le pare imparzialità? Forse, penseremmo diversamente se il beneficiario fosse una forza d'opposizione. Ma la politica non è il terreno dell'altruismo. Ci accontenteremmo allora dell'imparzialità". Anche lei, come l'ex presidente Onida, considera il dl una legge ad personam? "Questa vicenda è il degno risultato di un atteggiamento sbagliato che per anni è stato tollerato. Abbiamo perso il significato della legge. Vorrei dire: della Legge con la maiuscola. Le leggi sono state piegate a interessi partigiani perché chi dispone della forza dei numeri ritiene di poter piegare a fini propri, anche privati, il più pubblico di tutti gli atti: la legge, appunto. Si è troppo tollerato e la somma degli abusi ha quasi creato una mentalità: che la legge possa rendere lecito ciò che più ci piace". Torniamo al decreto. Si poteva fare? "La legge 400 dell'88 regola la decretazione d'urgenza. L'articolo 15, al comma 2, fa divieto di usare il decreto "in materia elettorale". C'è stata innanzitutto la violazione di questa norma, dettata non per capriccio, ma per ragioni sostanziali: la materia elettorale è delicatissima, è la più refrattaria agli interventi d'urgenza e, soprattutto, non è materia del governo in carica, cioè del primo potenziale interessato a modificarla a suo vantaggio. Mi pare ovvio". Quindi, nel merito, il decreto viola la Costituzione? "Se fosse stato adottato indipendentemente dalla tornata elettorale e non dal governo, le valutazioni sarebbero del tutto diverse. Dire che il termine utile è quello non della "presentazione" delle liste, ma quello della "presenza dei presentatori" nei locali a ciò adibiti, può essere addirittura ragionevole. Non è questo il punto. È che la modifica non è fatta nell'interesse di tutti, ma nell'interesse di alcuni, ben noti, e, per di più, a partita in corso. È un intervento fintamente generale, è una "norma fotografia"". Siamo di fronte a una semplice norma interpretativa? "Quando si sostituisce la presentazione delle liste con la presenza dei presentatori non possiamo parlare di interpretazione. È un'innovazione bella e buona". E la soluzione trovata per Milano? "Qui si trattava dell'autenticazione. Le formule usate per risolvere il problema milanese sono talmente generiche da permettere ai giudici, in caso di difetti nella certificazione, di fare quello che vogliono. Così, li si espone a tutte le possibili pressioni. Nell'attuale clima di tensione, questa pessima legislazione è un pericolo per tutti; è la via aperta alle intimidazioni". Lei boccia del tutto il decreto? "Primo: un decreto in questa materia non si poteva fare. Secondo: soggetti politici interessati modificano unilateralmente la legislazione elettorale a proprio favore. Terzo: si finge che sia un interpretazione, laddove è evidente l'innovazione. Quarto: l'innovazione avviene con formule del tutto generiche che espongono l'autorità giudiziaria, quale che sia la sua decisione, all'accusa di partigianeria". Di Pietro e Napolitano. È giusta la critica dell'ex pm al Colle? "Le reazioni di Di Pietro, quando accusa il Capo dello Stato di essere venuto meno ai suoi doveri, mi sembrano del tutto fuori luogo. Ciascuno di noi è libero di preferire un comportamento a un altro. Ma è facile, da fuori, pronunciare sentenze. La politica è l'arte di agire per i giusti principi nelle condizioni politiche date. Queste condizioni non sempre consentono ciò che ci aspetteremmo. Quali sono le condizioni cui alludo? Sono una sorta di violenza latente che talora viene anche minacciata. La violenza è la fine della democrazia. Il Capo dello Stato fa benissimo a operare affinché non abbia mai a scoppiare". Ma Di Pietro, nella firma del Presidente, vede un attentato. "La vita politica non si svolge nel vuoto delle tensioni, ma nel campo del possibile. Il presidente ha agito usando l'etica della responsabilità, mentre evocare iniziative come l'impeachment significa agire secondo l'etica dell'irresponsabilità". Lei è preoccupato da tutto questo? "Sì, è anche molto. Perché vedo il tentativo di far prevalere le ragioni della forza sul quelle del diritto. Bisogna dire basta alla prepotenza dei numeri e chiamare tutte le persone responsabili a riflettere sulla violenza che la mera logica dei numeri porta in sé". L'opposizione è in rivolta. Le prossime manifestazioni e le centinaia di messaggi sul web non rischiano di produrre una spirale inarrestabile? "Ogni forma di mobilitazione contro gli abusi del potere è da approvare. L'unica cautela è far sì che l'obiettivo sia difendere la Costituzione e non alimentare solo la rissa. C'è chi cerca di provocare lo scontro. Per evitarlo non si può rinunciare a difendere i principi fondamentali. Speriamo che ci si riesca. La mobilitazione dell'opposizione responsabile e di quella che si chiama la società civile può servire proprio a far aprire gli occhi ai molti che finora non vedono". © Riproduzione riservata (07 marzo 2010) da repubblica.it Titolo: GUSTAVO ZAGREBELSKY Se la norma infrange il diritto Inserito da: Admin - Giugno 11, 2010, 12:08:11 pm IL COMMENTO
Se la norma infrange il diritto di GUSTAVO ZAGREBELSKY È ADEGUATO alla serietà delle questioni sollevate dal disegno di legge del Governo sulle intercettazioni telefoniche e sulle limitazioni alla libertà di stampa il dibattito, anzi la rivolta, che ne è seguita. Siamo alle fasi finali della procedura parlamentare ma la procedura parlamentare non chiuderà la partita, anche se l'impostazione della legge è ormai definita. I poteri d'indagine penale risulteranno ridotti e, parallelamente, l'impunità della criminalità sarà allargata; i vincoli procedurali, organizzativi e disciplinari saranno moltiplicati a tal punto che i magistrati inquirenti ai quali venisse ancora in mente, pur nei casi ammessi, di ricorrere a intercettazioni saranno scoraggiati: a non fare non sbaglieranno; a fare correranno rischi a ogni piè sospinto. La libertà degli organi d'informazione d'attingere ai contenuti delle intercettazioni disposte nelle indagini penali sarà ridotta fortemente e la violazione dei divieti sarà sanzionata pesantemente. Tutto in proposito è stato ormai detto. Nulla potrebbe ancora aggiungersi e nulla potrebbe togliersi. Al di là delle valutazioni circa le singole disposizioni, è stato anche colto il significato che una legge di questo genere non può non assumere presso l'opinione pubblica avvertita, nel momento attuale della vita pubblica del nostro Paese, mai come ora intaccata dalla corruzione: l'auto-immunizzazione con forza di legge di "giri di potere" oligarchico che intendono governare i propri interessi al riparo dai controlli, siano quelli della legge o siano quelli dell'opinione pubblica. Tutto è stato detto per ora, ma la partita non si chiuderà di certo in Parlamento, nella dialettica tra la maggioranza e l'opposizione. La prima potrà sconfiggere la seconda con gli strumenti parlamentari di cui può far uso e abuso (la questione di fiducia in materia di diritti fondamentali) e così mettere per iscritto la volontà di chi comanda e fare la legge. Ma al di là della legge c'è pur sempre il diritto, e col diritto la legge deve fare i conti. Forse mai come in questo caso legge e diritto, lex e ius, queste due componenti dell'esperienza giuridica, sono apparsi così nettamente distinti, anzi, contrapposti. Quando ciò accade, la forza della legge è debole perché è avvertita come arbitrio e, prima o poi, anche se con costi e sofferenze, l'equilibrio sarà ristabilito. Che cosa sia la legge, basta guardarne il testo. Che cosa sia il diritto, è cosa meno semplice ma più profonda. Innanzitutto, la legge dovrà passare alla promulgazione del Presidente della Repubblica, il cui potere di rinvio alle Camere è un'espressione non del capriccio personale ma del diritto. Poi la legge sarà sottoposta all'interpretazione, entro le coordinate dei principi del diritto; poi sarà sottoposta al controllo della Corte costituzionale, nel nome del diritto più profondo, su cui ogni legge deve appoggiarsi; poi sarà forse sottoposta a una valutazione popolare, in nome di quel diritto legale di resistenza che è il referendum abrogativo. Questo, nell'insieme, è il diritto con il quale questa legge dovrà fare i conti e questi sono i suoi strumenti. A ciò oggi si aggiunge il diritto dell'Europa, da cui la validità della legislazione degli Stati che ne fanno parte è condizionata. * * * Alla luce di questo quadro complesso, la legge che il Parlamento s'accinge a varare non supera il vaglio del diritto, soprattutto per quanto riguarda quello che a me pare il vizio macroscopico, che macroscopicamente tradisce una mentalità illiberale, o meglio autoritaria, di chi l'ha impostata, presumibilmente senza nemmeno rendersene conto (poiché altrimenti, pronunciando ogni giorno parole di libertà, certamente avrebbe evitato...). In ogni regime libero, l'informazione è un delicatissimo sistema di diritti e di doveri, in cui l'interesse dei cittadini a essere informati e il connesso diritto-dovere dei giornalisti di fare cronaca, onesta e completa, dei fatti di rilevanza pubblica incontra i soli limiti che derivano dal rispetto dell'onore e della riservatezza delle persone. Sono le persone offese che, ricorrendo al giudice, in un rapporto per così dire, paritario con il giornalista o il giornale, possono chiedere la riparazione del loro diritto violato. Il potere politico, governo o parlamento, non c'entrano per niente. Non possono prendere provvedimenti o stabilire per legge quel che i giornali, gli organi d'informazione in genere, possono o non possono pubblicare. Possono certo stabilire casi di segretezza o di riservatezza, per proteggere l'interesse al buon andamento di funzioni pubbliche (ad esempio, trattative diplomatiche, operazioni dei servizi di sicurezza, svolgimento di indagini giudiziarie, ecc.) e, a questo fine, possono prevedere sanzioni a carico dei funzionari infedeli che violano il segreto e la riservatezza. Ma non possono estendere il divieto e la sanzione agli organi dell'informazione i quali, quale che sia stato il modo, siano venuti in possesso di informazioni rilevanti e le abbiano portate alla conoscenza della pubblica opinione. In breve: il potere politico può proteggersi, ma non può farlo imbavagliando un potere - il potere dell'informazione - che ha la sua ragion d'essere nel controllo del potere. Potrà sembrare un'anomalia che la lecita auto-tutela della politica non si estenda fino alle estreme conseguenze, non investa la stampa. Ma in ogni regime libero un'anomalia non è, perché l'informazione appartiene a un'altra sfera e non può diventare un'appendice, una funzione servente, un organo della politica e del governo (come avviene nei momenti eccezionali della guerra o del pericolo per la sicurezza nazionale). È la separazione dei poteri (e l'informazione è un potere) a richiederlo e a determinare la possibilità della contraddizione. Sono i regimi autoritari, quelli in cui non vi sono contraddizioni. Ma allora, lì, la stampa vive delle informazioni che il potere politico, caso per caso o per legge non fa differenza, l'autorizza a rendere pubbliche; vive degli ossi che il padrone le butta. Da dove traiamo questo principio d'autonomia e libertà della stampa? Innanzitutto dalla cultura e dalla civiltà costituzionale, cioè dal quadro di sfondo che dà un senso alla democrazia. Poi dall'art. 21 della Costituzione, che proclama il diritto alla libertà d'informazione senza limiti diversi dal buon costume, vietando per sovrapprezzo, e come rafforzamento, le autorizzazioni e le censure, cioè gli strumenti di asservimento della stampa conosciuti sotto il fascismo. Oggi poi è la Convenzione europea dei diritti dell'uomo, da quando, nel 2001, è assurta a livello costituzionale e al medesimo livello si collocano le interpretazioni che ne dà la Corte di Strasburgo, altra base sicura del diritto alla libertà della stampa. L'art. 10 § 2 della Convenzione ammette bensì "formalità, condizioni, restrizioni o sanzioni", ma solo quando siano "misure necessarie in una società democratica" per tutelare certe esigenze di sicurezza, ordine pubblico, ecc., che nel caso della legge italiana certamente non ricorrono in generale. La Corte europea ha precisato che le limitazioni possono derivare solo da "bisogni sociali imperativi" (non esigenze di funzionamento di pubblici poteri), che le misure prese "non devono essere di natura tale da dissuadere la stampa dal partecipare alla discussione di problemi di legittimo interesse generale" e, nel celebre caso Dupuis contro Francia (7 giugno 2007), riguardante la pubblicazione di notizie coperte dal segreto processuale, che quando c'è di mezzo il diritto all'informazione, "il potere di apprezzamento degli Stati si arresta di fronte all'interesse delle società democratiche ad assicurare e mantenere la libertà di stampa". Si trattava, per l'appunto, di giornalisti che si erano documentati attraverso fughe di notizie o documenti e conversazioni confidenziali: tutte cose che le società libere non demonizzano affatto (pur cercando di impedirle da parte dei funzionari pubblici), quando vengono nelle mani di giornalisti. * * * Il disegno di legge che sta per essere trasformato in legge non tiene conto di tutto questo, anzi lo contraddice. A carico dei giornalisti e degli editori sono stabiliti divieti tassativi di pubblicazione. Sanzioni penali, disciplinari e amministrative li collocano in una ragnatela di condizionamenti, esterni e interni alle imprese giornalistiche, certamente incompatibile con la libertà della stampa di fare il proprio dovere "in una società democratica". Questi condizionamenti, altrettanto certamente, sono tali (si pensi a che cosa rappresenta per le piccole imprese giornalistiche la sanzione in denaro che può raggiungere diverse centinaia di migliaia di euro) da "dissuadere la stampa dal partecipare alla discussione dei problemi di interesse generale" come, tanto per fare un esempio di fantasia, la pubblica corruzione. Ci sono tutte, e sono evidenti, le ragioni per le quali questa legge finirà col cozzare contro quel diritto. (11 giugno 2010) © Riproduzione riservata http://www.repubblica.it/politica/2010/06/11/news/commento_zagrebelsky-4742982/?ref=HRER1-1 Titolo: GUSTAVO ZAGREBELSKY 'L'Italia dica no' Inserito da: Admin - Giugno 19, 2010, 09:26:30 am Intervista
Zagrebelsky: 'L'Italia dica no' di Marco Damilano La mobilitazione di questi giorni dimostra che si sta muovendo qualcosa di profondo. Per fermare chi sta svuotando la democrazia dall'interno. Parla l'ex presidente della Corte costituzionale (16 giugno 2010) In Italia le leggi ad personam e gli strappi continui del governo Berlusconi sembrano svuotare di senso la Costituzione. Eppure le istituzioni non vengono formalmente toccate e gli italiani continuano a votare ogni anno. La sovranità appartiene al popolo: ma possiamo smettere di essere una democrazia senza neppure accorgercene? "Lei mi chiede se la democrazia può essere svuotata dall'interno, senza un cambiamento formale delle regole. E la mia risposta è: sì", afferma Gustavo Zagrebelsky, docente di Diritto costituzionale a Torino, già presidente della Consulta, che da anni dedica appassionati interventi a questo tema. "Gli ultimi decenni, non solo in Italia, ci consegnano un paradosso. Storicamente la democrazia è stata l'aspirazione di chi voleva essere incluso: l'obiettivo degli esclusi dal potere per accedere al potere. Oggi, invece, nessuno si proclama più democratico di chi è già al potere. E accusa gli altri, coloro che gli si oppongono, di essere anti-democratici. Chi un tempo chiedeva più democrazia oggi è disincantato e ciò si manifesta in molti modi, dall'astensionismo a quell'atteggiamento, "tanto sono tutti uguali!", che esprime un grave distacco dalla democrazia. Mentre chi è al potere rivendica per sé la democrazia". Perché questo capovolgimento? "Perché la democrazia possiede una caratteristica meravigliosa, dal punto di vista dei governanti. Prima delle rivoluzioni liberali il re non governava in nome suo ma in nome di Dio. La legittimazione del suo potere era trascendente. Con la secolarizzazione della politica, il potere è stato reso del tutto immanente e chi governa ha dovuto trovare una nuova forma di legittimazione. Chi governa, in democrazia deve giurare di farlo in nome del popolo. Una volta si sarebbe detto: "Non lo faccio per amore mio, ma per amore di Dio". Oggi la formula è stata corretta dai governanti: ciò che essi fanno, lo fanno "per amore del popolo". Anche le leggi ad personam sono proposte e sostenute in nome di interessi generali, non del proprio: la "governabilità", la privacy dei cittadini, la rapidità della giustizia, ecc. Non sono io che lo voglio. Sono i cittadini che lo chiedono. Proclamarsi democratici conviene". Come si può definire questo nuovo sistema se la regola della democrazia si è invertita? "La scienza costituzionale e politologica meno ingenua ha preso atto che le difficoltà odierne della democrazia non sono più interpretabili semplicemente alla stregua di "promesse non mantenute", secondo una celebre espressione di Norberto Bobbio: non mantenute ma che rientrano pur sempre nell'orizzonte del possibile, secondo le categorie classiche della democrazia. Bobbio, concludeva la sua analisi amara con un "ciononostante": cioè, malgrado tutto le difficoltà non contraddicono il paradigma, che resta sempre nell'ambito del possibile. Oggi stanno mutando proprio i paradigmi. C'è chi come Colin Crouch parla di post-democrazia, l'esule serbo Predrag Matvejevic ha coniato la parola "democratura", che è la contrazione di democrazia e dittatura. Sono sintomi di un fenomeno nuovo: la convivenza di forme democratiche e sostanze non democratiche. Ovunque, le democrazie sono esposte a tendenze oligarchiche: concentrazione dei poteri, insofferenza verso i controlli, nascondimento del potere reale e rappresentazione pubblica di un potere fasullo. In democrazia, il potere ha bisogno di esibirsi in pubblico, trasformandola in "teatrocrazia". Con i veri autori che, come in una rappresentazione teatrale, restano dietro le quinte". L'Italia di Berlusconi è un laboratorio? "La particolarità italiana è che questa tendenza politica si è innestata su una concentrazione di potere economico e mediatico che l'espressione "conflitto di interessi" non registra. Proporrei di cambiarla con "sommatoria di interessi" che convergono in una concentrazione personale che nessuna democrazia effettiva potrebbe tollerare. L'Italia di oggi è un sistema oligarchico accentuatamente personalizzato. Non c'è solo Berlusconi. Sarebbe un errore non considerare che attorno a lui si è formato un sistema d'interessi, di gruppi di potere che per ora lo sorreggono ma lo limitano anche. Ma tutto dietro le quinte". © Riproduzione riservata http://espresso.repubblica.it/dettaglio/zagrebelsky:-litalia-dica-no/2129205 Titolo: GUSTAVO ZAGREBELSKY La Costituzione privatizzata Inserito da: Admin - Novembre 16, 2010, 05:29:59 pm IL COMMENTO
La Costituzione privatizzata di GUSTAVO ZAGREBELSKY ALCUNI "fantasisti della Costituzione" immaginano e auspicano che, dalla situazione d'impasse politica che potrebbe nascere da un voto contraddittorio sulla fiducia al Governo espresso dalla Camera e dal Senato, si possa uscire semplicemente e immediatamente con lo scioglimento di quel ramo del Parlamento (nel nostro caso, la Camera dei Deputati) che ha votato la sfiducia. Ma la Costituzione dice tutt'altro. Purtroppo per il lettore, occorrono riferimenti tecnici. I seguenti. Secondo l'articolo 94, "il Governo deve avere la fiducia delle due Camere". Se la fiducia viene meno, anche solo in una delle due, deve dimettersi. L'obbligo è tassativo. Solo nell'immaginazione di qualche fantasista della costituzione, si può pensare che nel Governo vi sia chi ragiona così: questa Camera, in questa composizione, mi è ostile, ma forse, in un'altra composizione, non lo sarebbe: dunque non mi dimetto (o mi dimetto solo pro forma, restando per l'intanto in carica), ne chiedo lo scioglimento e mi dimetterò effettivamente, se mai, solo dopo le nuove elezioni, nel caso in cui l'esito non mi sia favorevole. Avremmo così un Governo (non dimissionario) che resta in carica con la fiducia di una sola Camera. Dopo un esplicito voto di sfiducia di una Camera (irrilevante è che l'altra abbia, prima o dopo, votato la fiducia), il Governo deve dunque "rassegnare" le dimissioni nella mani del Presidente della Repubblica: dimissioni che quest'ultimo non può respingere. Un Governo che restasse in carica contro la volontà del Parlamento (anche solo di una sola Camera), sostenuto dalla volontà del Presidente (quello che nella storia costituzionale si chiama "governo di lotta" antiparlamentare) sarebbe un sovvertimento della Costituzione e della democrazia. Nel solo caso di crisi di governo "extraparlamentare", cioè in assenza di un voto, il Presidente può (o forse deve) rinviare il Governo alle Camere perché si pronuncino sulla fiducia con un voto. Ma se vi è un voto è negativo, le dimissioni non possono essere respinte. Una volta date le dimissioni, entra in gioco il Presidente della Repubblica, il cui compito non è quello di favorire o di ostacolare i disegni di questo o di quel raggruppamento politico, ma di garantire l'integrità e la funzionalità del sistema. Qui si aprono diverse possibilità. Non c'è una strada obbligata. La scelta non è dettata dall'arbitrio o dal capriccio, ma dipende dal fine costituzionale che è - si ripete - l'integrità e la funzionalità del sistema. La prima possibilità è la formazione di un nuovo governo che disponga del sostegno della maggioranza in entrambe le Camere. "Prima possibilità" sia in senso temporale, sia in senso logico. Se esiste questa possibilità, da verificare per prima, non deve potersi passare alla seconda, lo scioglimento delle Camere. Sarebbe una prevaricazione politica anticostituzionale sciogliere Camere che siano in condizione d'esprimere maggioranze a sostegno di un governo. La legislatura ha una durata prefissata costituzionalmente, che non può essere accorciata se non quando siano le Camere stesse a darne motivo. Solo dopo avere constatato l'impossibilità per le Camere di portare a termine la legislatura tramite la formazione d'un nuovo governo, dopo quello dimissionario - constatazione che spetta al Presidente della Repubblica sulla base delle indicazioni dei gruppi politici presenti in Parlamento - si apre lo scenario dello scioglimento anticipato e delle nuove elezioni. Solo a questo punto, ove vi si arrivi e non prima, si può porre la questione dello scioglimento di entrambe le Camere o di una sola. Potrà piacere o non piacere, ma è la logica del governo parlamentare che è previsto dalla Costituzione. Lo scioglimento "anche di una sola Camera", invece che di entrambe, è espressamente previsto dall'art. 88 della Costituzione. Anche qui, dunque, si aprono possibilità, ma anche qui la scelta tra l'una e l'altra non dipende dall'arbitrio o dal desiderio di favorire o danneggiare questa o quella forza politica: deve dipendere, ancora una volta, dall'obbiettivo di garantire imparzialmente l'integrità del sistema. Ora, lo scioglimento della sola Camera che abbia espresso la sfiducia al Governo sarebbe un atto palesemente partigiano, che discrimina tra le due Camere, cioè tra le eventuali diverse maggioranze che esistano nell'una o nell'altra. Sarebbe una sorta di abnorme sanzione costituzionale contro la Camera indocile al Governo e, all'opposto, di avallo politico della Camera docile. Ma la docilità parlamentare non è un valore costituzionale. In effetti, quando tra le due Camere si manifesti un così radicale conflitto politico, non si saprebbe quale delle due sciogliere. Il fatto che vi sia un Governo sostenuto dalla fiducia di una non è un motivo per sciogliere l'altra, se questa è in condizione di sostenerne uno diverso. Una scelta del Presidente tra questa o quella sarebbe palesemente una discriminazione, in un sistema in cui il "bicameralismo" è "paritario". Inoltre, lo scioglimento di una sola Camera, nelle condizioni date, rischia di contraddire la finalità dello scioglimento, finalità che - si ripete ancora una volta - è l'integrità e la funzionalità del sistema. Che succederebbe se la Camera nella nuova composizione fosse disomogenea rispetto all'altra? Bisognerebbe ricorrere ancora alla scioglimento, ma di quale delle due? O forse di tutte due? Ci si potrebbe permettere di entrare in questo percorso da incubo? Ma, anche l'ipotesi fortunata che le elezioni ristabilissero l'omogeneità non sarebbe senza insolubili problemi. La nuova Camera dovrebbe durare cinque anni, ricreandosi quella sfasatura nel tempo rispetto all'altra, che la riforma costituzionale del 1963 ha inteso eliminare per prevenire i rischi d'instabilità politica - cioè di disintegrazione e d'inefficienza - insiti nell'elezione distanziata nel tempo. Oppure, si dovrebbe pensare che la Camera sciolta una prima volta anticipatamente nasca col destino segnato d'essere sciolta una seconda volta prima della scadenza naturale, in concomitanza con la scadenza dell'altra. Un'evidente aberrazione, contraria alla pari posizione costituzionale delle due Camere. Eppure, si dirà, la possibilità dello scioglimento d'una Camera e non dell'altra è ben prevista dalla Costituzione. Si, ma è stata pensata quando era stabilita una durata diversa delle due Camere e se ne è sempre e solo fatto uso (nel 1953, nel 1958 e nel 1963; mai dopo l'equiparazione delle durate) per rendere contemporaneo il rinnovo dei due rami del Parlamento, non per il contrario. Cioè, se ne è fatto sempre uso per equipararne, non per differenziarne le durate. Nel contesto originario, lo scioglimento "anche di una sola Camera" serviva dunque alla coerenza del sistema; oggi, servirebbe all'incoerenza. Si diceva all'inizio dei fantasisti della Costituzione. Sono coloro che fondano le loro richieste su una costituzione che, per ora, non c'è: una costituzione nella quale un capo eletto direttamente dal popolo sia autorizzato a passare sopra le prerogative degli altri organi costituzionali per assicurarsi a ogni costo la perduranza del potere. La costituzione che hanno in mente è anch'essa ad personam. La bizzarria della richiesta di scioglimento d'una sola Camera, oltretutto senza passare attraverso vere dimissioni e senza l'esplorazione delle possibilità di formare un diverso governo, si spiega con la speciale e triste condizione costituzionale materiale del nostro Paese. Siamo un Paese dove al governo c'è gente che altrove sarebbe politicamente nulla; dove il Governo è tenuto insieme da un uomo solo e dove questa persona è uno che, per ragioni di natura giudiziaria, per non perdere la protezione di cui gode non può permettersi di allontanarsene nemmeno per un pò, facendosi da parte quando le condizioni politiche generali lo richiederebbero. Come l'ostrica allo scoglio. Gran parte delle perturbazioni istituzionali di questi tempi dipende da questa semplice, abnorme e disonorevole per tutti, condizione in cui viviamo. (16 novembre 2010) © Riproduzione riservata http://www.repubblica.it/politica/2010/11/16/news/costituzione_privatizzata-9157625/?ref=HRER1-1 Titolo: GUSTAVO ZAGREBELSKY Le notti di Arcore e la notte italiana Inserito da: Admin - Febbraio 04, 2011, 06:09:04 pm L'APPELLO Le notti di Arcore e la notte italiana di GUSTAVO ZAGREBELSKY Pubblichiamo una sintesi del discorso che terrà domani alla manifestazione di Libertà e Giustizia a Milano Perché siamo qui? Che cosa abbiamo da dire, da chiedere? Niente e tutto. Niente per ciascuno di noi, tutto per tutti. Non siamo qui nemmeno come appartenenti a questo o quel partito, a questo o quel sindacato, a questa o quella associazione. Ciò che chiediamo, lo chiediamo come cittadini. Chi è qui presente non rappresenta che se stesso. Per questo, il nostro è un incontro altamente politico, come tutte le volte in cui, nei casi straordinari della vita democratica, tacciono le differenze e le appartenenze particolari e parlano le ragioni che accomunano i nudi cittadini, interessati alle sorti non mie o tue, ma comuni a tutti. Non siamo qui, perciò, per sostenere interessi di parte. Ma non siamo affatto contro i partiti. Anzi, ci rivolgiamo a loro, di maggioranza e di opposizione, affinché raccolgano il malessere che sale sempre più forte da un Paese in cui il disgusto cresce nei confronti di chi e di come governa; affinché i cittadini possano rispecchiarsi in chi li rappresenta e sia rinsaldato il rapporto di democrazia tra i primi e i secondi, un rapporto che oggi visibilmente è molto allentato. Nulla abbiamo da chiedere per noi. Non chiediamo né posti, né danaro. Non siamo sul mercato. È corruzione delle istituzioni l'elargizione di posti in cambio di fedeltà. E' corruzione delle persone l'elargizione di danaro in cambio di sottomissione e servizi. Crediamo nella politica di persone libere, non asservite, mosse dalle proprie idee e non da meschini interessi personali per i quali si sacrifica la dignità al carro del potente che distribuisce vantaggi e protezione. Anzi, chiediamo che cessi questo sistema di corruzione delle coscienze e di avvilimento della democrazia, un sistema che ha invaso la vita pubblica e l'ha squalificata agli occhi dei cittadini, come regime delle clientele. I cittadini che ne sono fuori e vogliono restarne fuori chiedono diritti e non favori, legalità e non connivenze, sicurezza e non protezione. Non accettano doversi legare a nessuno per ottenere quello che è dovuto. Vogliono, in una parola, essere cittadini, non clienti e non ne possono più di vedersi scavalcati, nella politica, negli affari, nelle professioni, nelle Università, nelle gerarchie delle burocrazie pubbliche, a ogni livello, dal dirigente all'usciere, non da chi merita di più, ma da chi gode di maggiori appoggi e tutele. Chiediamoci, in questo quadro, perché le notti di Arcore - non parlo di reati, perché per ora è un capitolo di ipotesi ancora da verificare - sono esplose come una bomba nel dibattito politico, pur in un Paese non puritano come il nostro, dove in fatto di morale sessuale si è sempre stati molto tolleranti, soprattutto rispetto ai potenti. Dicono che il moralismo deve restare fuori della politica, che ognuno a casa propria deve poter fare quel che gli aggrada (sempre che non violi il codice penale), che il pettegolezzo non deve mescolarsi con gli affari pubblici. È vero, ma non è questo il caso. Se si trattasse soltanto della forza compulsiva e irresistibile del richiamo sessuale nell'età del tramonto della vita, non avremmo nulla da dire. Forse deploreremmo, ma non giudicheremmo per non dover poi essere, eventualmente, noi stessi giudicati. Proveremmo semmai, probabilmente, compassione e magari perfino simpatia per questa prova di senile, fragile e ridicola condizione di umana solitudine. Ma non avremmo nulla da dire dal punto di vista politico. Ma la verità non si lascia dipingere in questi termini. La domanda non è se piace o no lo stile di vita di una persona ricca e potente che passa le sue notti come sappiamo. Questa potrebbe essere una domanda che mette in campo categorie morali. La domanda, molto semplicemente, è invece: ci piace o no essere governati da quella persona. E questa è una domanda politica. La risposta dipende dalla constatazione che tra le mura di residenze principesche, per quanto sappiamo, viene messo in scena, una scena in miniatura, esattamente ciò che avviene sul grande palcoscenico della politica nazionale. Le notti di Arcore assurgono a simbolo facilmente riconoscibile, in versione postribolare, di una realtà più vasta che ci riguarda tutti. È un simbolo che ci mostra in sintesi i caratteri ripugnanti di un certo modo di concepire i rapporti tra le persone, nello scambio tra chi può dare e chi può ottenere. È lo stesso modo che impera e nelle stanze d'una certa villa privata e in certi palazzi del potere. Questo, credo, è ciò che preoccupa da un lato, indigna dall'altro. Non troviamo forse qui (nella villa) e là (nel Paese), gli stessi ingredienti? Innanzitutto, un'enorme disponibilità discrezionale di mezzi - danaro e posti - per cambiare l'esistenza degli altri attraverso l'elargizione di favori: qui, buste paga in nero, bigiotteria, promozioni in impensabili ruoli politici distribuiti come se fossero proprietà privata; là, finanziamenti, commesse, protezioni, carriere nelle istituzioni costituzionali (la legge elettorale attuale sembra fatta apposta per questo), nell'amministrazione pubblica, nelle aziende controllate. Dall'altra parte, troviamo la disponibilità a offrire se stessi, sapendo che la mano che offre può in qualunque momento ritrarsi o colpirti se vieni meno ai patti. Cambia la materia che sei disposto a dare in riconoscenza al potente: qui, corpi e sesso; là, voti, delibere, pressioni, corruzione. Ma il meccanismo è lo stesso: benefici e protezione in cambio di prove di sottomissione e fedeltà, cioè di prostituzione. Ed è un meccanismo omnipervasivo che supera la distinzione tra pubblico e privato, perché funziona ogni volta che hai qualcosa da offrire che piaccia a chi ha i mezzi per acquisirlo. Qui e là questo sistema alimenta un mondo contiguo fatto di gente alla ricerca di chi "ci sta" e possa piacere a quello che è stato brillantemente definito "l'utilizzatore finale": lenoni e faccendieri, gli uni per selezionare e reclutare corpi da concorsi di bellezza e luoghi di malaffare e organizzarne il flusso, gli altri per sondare disponibilità e acquisire fedeltà nei luoghi delle istituzioni dove possono essere utili. Analogo, poi, è il rapporto che si instaura tra i partecipanti a questi giri del potere. Poiché la legge uguale per tutti sarebbe incompatibile con un tal modo di concepire il potere, i rapporti di connivenza, molto spesso, anzi quasi sempre, si basano sull'illegalità e, a loro volta, la producono. Tutti cascano così nelle mani l'uno dell'altro e il giro si avviluppa nella reciprocità dei ricatti. Così, chi se ne è messo a capo è destinato, prima o poi, a diventare succubo, a trasformarsi in una vuota maschera che parla, vuole, magari fa la faccia feroce ma in nome altrui, il suo unico interesse riducendosi progressivamente a non essere rovinato dai sodali. A quel punto, è pronto a tutto. Ritorniamo all'inizio. Non chiediamo nulla per noi ma tutto per tutti. Il "tutto per tutti" è lo stato di diritto e l'uguaglianza di fronte alla legge; il rispetto delle istituzioni e della dignità delle persone, soprattutto quelle più esposte ai soprusi dei prepotenti: le donne, i lavoratori a rischio del posto di lavoro, gli immigrati che noi bolliamo come "clandestini"; la disciplina e l'onore di chi ricopre cariche di governo; l'autonomia della politica dall'ipoteca del denaro e dell'interesse privato nell'uso dei poteri pubblici; l'indipendenza dei poteri di garanzia e controllo; l'equità sociale; la liberazione dall'oppressione delle clientele. Un elenco penoso di doglianze e un vastissimo programma di ricostruzione che è precisamente ciò che sta scritto a chiare lettere e per esteso nella Costituzione: la Costituzione che per questa ragione è diventata segno di divisione tra opposte concezioni della politica. La richiesta di dimissioni del Presidente del Consiglio non è accanimento contro una persona. Sappiamo bene che la concezione del potere ch'egli rappresenta ha, nella nostra società, radici lontane e profonde, di natura perfino antropologica, e che perciò ha buone possibilità di sopravvivergli in quelli che si preparano a raccoglierne la successione, per il momento in cui si sentiranno pronti ad abbandonarlo. Ma sappiamo anche che, per ora, quel sistema di potere è incarnato, e in modo eminente, proprio da lui. Onde è da lui che occorre incominciare, non per fermarsi a lui ma per guardare oltre, al sistema di potere che l'ha espresso e di cui egli è, finché gli sarà possibile, l'interprete più in vista. (04 febbraio 2011) © Riproduzione riservata da - repubblica.it/politica/2011/02/04/news Titolo: GUSTAVO ZAGREBELSKY ... è allora possibile che la politica si "autosospenda"... Inserito da: Admin - Novembre 28, 2011, 08:58:52 am 25 novembre 2011, 17:23
Zagrebelsky "Di fronte a catastrofi" tecnologiche, ambientali, finanziarie, può accadere "che la politica nella sua versione democratica o demagogica soccomba". Secondo il presidente emerito della Corte Costituzionale Gustavo Zabrelsky - che parla davanti al presidente Napolitano - è allora possibile che la politica si "autosospenda" e lasci il posto "ai sapienti" per "tempi brevi". Una affermazione che sembra riferirsi alla vicenda politica attuale, anche se Zagrebelsky non ha mai citato esplicitamente il governo "La prospettiva che si apre è quella di una tutela tecnocratica del potere e della politica". Parole fosche quelle di Gustavo Zagrebelsky, presidente emerito della Corte Costituzionale che oggi, in un convegno al Palazzo della Consulta sul tema 'Dallo Statuto Albertino alla Costituzione Repubblicana', ha tenuto una relazione sul costituzionalismo e il rapporto tra diritti e doveri in una società, quella moderna, che non pensa al futuro delle prossime generazioni e che sembra votata ad autofagocitarsi. Presente il capo dello Stato, Giorgio Napolitano. Siamo in una situazione in cui la politica, per vocazione più interessata a ragionare sui "tempi brevi" scanditi da "elezioni e rilevazioni demoscopiche", si "autosospende", sostiene il costituzionalista. La sua è un'analisi anche cinica sul quadro attuale: "Perchè è poco probabile che nell'interesse della politica rientri anche la preoccupazione per le generazioni future". Prevale, insomma, un "interesse momentaneo", una "miopia", la tendenza "a essere cicala, mentre invece va recuperata la virtù della presbiopia". Zagrebelsky ha usato il paragone tra la società attuale e quella dell'Isola di Pasqua, dove "ogni generazione si è comportata come se fosse l'ultima" e l'uomo ha agito "libero da ogni debito nei confronti della generazione successiva". "Il costituzionalismo - ha spiegato - non può più ignorare tutto questo" e accanto ai "diritti soggettivi" va utilizzata "la categoria dei doveri". "Il costituzionalismo - ha detto il presidente emerito della Consulta - ha prodotto la democrazia, e oggi abbiamo bisogno di elementi di tecnocrazia" e "la dimensione scientifica della decisioni politiche è l'ultima metamorfosi cui il costituzionalismo è chiamato". "Oggi abbiamo bisogno di elementi di tecnocrazia", è la tesi che ben si accompagna alla fase attuale, in particolare alla nascita del governo Monti. Certo, aggiunge Zagrebelsky, "doveri e tecnocrazia fanno paura, ma sono necessari per il costituzionalismo qualora lo si intenda senza egoismi". Nella convinzione che questa sia una fase in cui è indispensabile inculcare più una cultura dei doveri (verso l'ambiente, le future generazioni, il pianeta, ecc.) che dei diritti, Zagrebelsky conclude che "il costituzionalismo continuerà ad avere una storia se verranno incorporati nella democrazia nozioni scientifiche capaci di guardare al futuro". da - http://www.paneacqua.eu/notizia.php?id=19167 Titolo: GUSTAVO ZAGREBELSKY Scalfaro, la Costituzione come bandiera Inserito da: Admin - Gennaio 31, 2012, 11:26:16 pm Scalfaro, la Costituzione come bandiera
di Gustavo Zagrebelsky, da Repubblica, 30 gennaio 2012 Poche parole, a poche ore dalla morte del presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro: un uomo politico e un servitore della Costituzione rigoroso, roccioso e intransigente e, proprio per questo, molto amato e anche molto osteggiato. “Non c'è da temere mai di fronte alle pressioni esterne. L'unico che può temerle è chi è ricattabile”: sono parole sue, rivolte ai giudici ma valide con riguardo a qualunque magistratura e tanto più valide in quanto riferite alle più alte cariche della Repubblica. Di queste, la prima e fondamentale “prestazione” costituzionale che si ha necessità e diritto di pretendere, soprattutto nei tempi di incertezza o di crisi, è la rassicurazione che viene dalla serenità e dalla forza, cioè dalla certezza che non vi possono essere cedimenti e deviazioni. Altri, col tempo e con la riflessione necessari, scriveranno di lui e della sua opera nella storia della Repubblica, una storia che la copre dall'inizio all'altro ieri. Allora si faranno bilanci. Nella commozione del momento, vorrei ricordarlo con parole nelle quali egli probabilmente si riconoscerebbe volentieri, quasi come in un suo motto: “Sia il vostro parlare sì, sì; no, no; il di più viene dal maligno” (Mt 5, 37). Una delle cause del degrado e della corruzione della vita pubblica nel nostro Paese, egli l'imputava ai troppi sì che si dicono da parte di chi avrebbe il dovere di dire di no, in modo di stabilire il confine del lecito e dell'illecito e quindi il territorio entro il quale può legittimamente valere il gioco democratico. Quelle che seguono sono sue parole: «Il compito del Capo dello Stato non è quello di essere equidistante tra due parti politiche. Sarebbe fin troppo facile. Si dà ragione una volta all'uno e una volta all'altro e si sta a posto con la coscienza. No, il compito del Capo dello Stato è quello di garantire il rispetto della Costituzione su cui ha giurato. Di difenderla a ogni costo, senza guardare in faccia nessuno. Tra il ladro e il carabiniere non si può essere equidistanti: se qualcuno dice di esserlo vuol dire che ha già deciso di stare con il ladro». L'imparzialità di cui la Costituzione ha bisogno non è dunque un'equidistanza senza carattere, ma presuppone che si stabilisca quali sono le parti le cui pretese sono legittime e che da queste siano tenute separate quelle che non lo sono. Soprattutto nei momenti di turbolenza e di tentativi di forzatura, il Capo dello Stato non può esimersi dal compito – un compito che nell'ordinaria vita costituzionale gli è risparmiato – di stabilire i confini tra il lecito e l'illecito costituzionale. Tra questi due poli non può esservi imparzialità. In una Costituzione pluralista e inclusiva com'è la nostra, il terreno dell'inclusione costituzionale è assai ampio ma non è certo illimitato. Una Costituzione che “costituzionalizzasse” tutto e il contrario di tutto sarebbe non una costituzione ma il caos. È perfino superfluo ricordare che gli anni del settennato presidenziale di Scalfaro furono un periodo di accesissime polemiche e non infondati timori per la “tenuta” delle istituzioni costituzionali. Al centro delle tensioni si trovò proprio la Presidenza della Repubblica e la sua interpretazione della Costituzione. Non furono solo polemiche verbali ma anche attacchi personali il cui obbiettivo era trasparente. Il drammatico discorso televisivo delle 9 della sera del 3 novembre 1993, il discorso del “non ci sto”, fu al tempo stesso una denuncia e una risposta. La reazione dell'opinione pubblica non iniziata alle segrete cose fu, inizialmente, di sconcerto. Non si comprendeva che cosa stesse accadendo, anche se si avvertiva l'eccezionalità del momento e delle parole appena udite, che alludevano a manovre tanto più inquietanti quanto meno limpide. Col senno di poi, comprendiamo che quelle tre parole dicevano a chi doveva intendere: “ho compreso” e un “sappiate che cedimenti non sono alle viste”. Che cosa “ho compreso”? Si dice che fosse in atto un attacco, un ricatto al Capo dello Stato da parte di uomini della maggioranza d'allora, che non lo consideravano malleabile. La parte finale del discorso allude certamente a ciò. Ma la parte iniziale è quella che deve essere riascoltata oggi. Vi si parla non di un atto grande e conclamato, contro la Costituzione e le sue istituzioni. Si parla di degrado e corruzione attraverso piccoli cedimenti, di per sé poco evidenti, ma tali da sommarsi l'uno all'altro e di fare massa, fino al momento in cui, quando ci se ne fosse accorti e si fosse voluto reagire, sarebbe stato troppo tardi. Qui, nel “bel paese là dove il sì suona” troppo frequentemente, i “no” scalfariani sono stati una scossa salutare. Egli stesso ne era orgoglioso. Nelle sue numerose e generose interviste, conferenze, lezioni degli ultimi anni, usava ricordare agli uditori, che avevano evidentemente bisogno di parole di rigore e le salutavano con entusiasmo, i tre rotondi “no” (senza “il di più” satanico) che seguirono alla richiesta di elezioni anticipate dopo la rottura dell'alleanza Lega-Forza Italia nel 1994. Quei “no” hanno salvato la Costituzione da quella che sarebbe stata una prima interpretazione anti-parlamentare destinata a fare scuola, secondo la quale il presidente del Consiglio può pretendere nuove elezioni per essere “plebiscitato” contro un Parlamento che non sta alle sue volontà. Scalfaro è stato la prima pietra d'inciampo nella marcia verso qualcosa d'inquietante, una sorta di “democrazia d'investitura” personalistica che non sappiamo dove ci avrebbe portato. Se, oggi, il presidente della Repubblica ha potuto resistere alle pressioni per elezioni anticipate, a seguito delle dimissioni del governo Berlusconi, lo dobbiamo anche alla fermezza mostrata allora dal presidente Scalfaro. Ma altri, importantissimi “no” sono stati pronunciati. Non possiamo dimenticare con quale alto senso della laicità delle istituzioni repubblicane, egli – cattolicissimo – rivendicò davanti al Papa il suo essere presidente di tutti gli italiani, credenti e non credenti, cattolici e non cattolici, quando è tanto facile acquisire meriti e farsi belli agli occhi della gerarchia ecclesiastica, appellandosi alla tradizione cattolica, maggioritaria in Italia. Così, le questioni di fede o non fede, con lui, non erano mai motivi di divisione. Ciò che mi pare contasse davvero era l'evangelica rettitudine del sentire e dell'agire. Questo spiega l'ottimo rapporto personale – ch'egli soleva ricordare – con tanti galantuomini d'altri partiti, talora lontani politicamente dal suo e, al contrario, il pessimo rapporto con chi galantuomo non era, ancorché del suo stesso partito. Infine, il suo impegno per la difesa della Costituzione, nel quale fino all'ultimo non risparmiò le sue energie. Presiedette il comitato Salviamo la Costituzione, al quale si deve un contributo decisivo alla vittoria nel referendum del 2006, che impedì una trasformazione profonda e ambigua delle nostre istituzioni. Ecco un altro no. Alla Costituzione andavano costantemente i suoi pensieri, consapevole ch'essa rappresenta uno dei frutti più elevati della cultura e della politica del nostro Paese. E insieme alla Costituzione, la Resistenza che ne è la radice storica e morale. Nel discorso alle Camere riunite, in occasione del giuramento, il 28 maggio 1992, rese omaggio agli uomini e alle donne che parteciparono alla lotta di Liberazione. La Costituzione “io non l'ho pagata nella Resistenza […] Altri non la votarono ma la pagarono con la vita. Non dimentichiamolo mai”. Retorica, diranno coloro ai quali questa Costituzione non aggrada. Parole profonde, diranno invece coloro che hanno consapevolezza del valore storico di quel periodo della nostra storia e del suo frutto più importante. E questi ti saranno per sempre in debito di affetto e di riconoscenza, presidente Scalfaro. (30 gennaio 2012) da - http://temi.repubblica.it/micromega-online/scalfaro-la-costituzione-come-bandiera/ Titolo: GUSTAVO ZAGREBELSKY Libertà e Giustizia Dissociarsi per riconciliarci Inserito da: Admin - Marzo 07, 2012, 05:28:06 pm Dipende da noi
Dissociarsi per riconciliarci di Gustavo Zagrebelsky per tutta Libertà e Giustizia Nell’anno in corso, Libertà e Giustizia festeggerà i suoi dieci anni di vita. Faremo il bilancio del passato. Ma ora è urgente progettare l’avvenire e chiarire i nostri compiti, in continuità con l’impostazione originaria dell’Associazione. Si annunciano tempi nuovi e incerti per il nostro Paese. Speranza e preoccupazione s’intrecciano. Il nostro compito è capire le ragioni dell’una e dell’altra e agire di conseguenza, sapendo che la posta in gioco è alta. 1. Il “governo tecnico” è un segno dei tempi: tempi di debolezza della politica e d’inettitudine dei partiti politici. Tra di loro si deve distinguere ma certo, nell’insieme, in Italia il sistema politico e la sua “classe dirigente” hanno fallito, arretrando di fronte alle loro responsabilità. Il governo che oggi abbiamo è frutto dell’iniziativa del Presidente della Repubblica che ha esercitato una difficile supplenza in stato di necessità. LeG ha salutato con sollievo la svolta, anche perché non si dimentica il timore che le forzature costituzionali accumulate negli anni potessero, nel momento decisivo, fare massa e indurre qualcuno a tentare una forzatura finale. 2. Nello stallo della politica, l’ascesa della tecnica al governo è apparsa l’unica alternativa al disastro finanziario, economico e sociale. La dobbiamo accettare come pharmakon. Ma la medicina che guarisce può diventare il veleno che uccide. Dobbiamo sapere che un governo può essere tecnico nelle premesse, ma non nelle conseguenze delle sue azioni. Il nostro è tecnico-esecutivo per le decisioni rese necessarie dal malgoverno del passato e dalla pressione di eventi maturati altrove, in sedi democraticamente incontrollabili, ma è altamente politico per l’incidenza delle sue misure sulla vita dei cittadini. Dire “tecnico”, significa privare la politica della libertà. LeG, che ha in passato denunciato i pericoli del populismo, cioè della neutralizzazione e dell’occultamento della politica dietro pratiche di seduzione demagogica, non può ignorare che la tecnica esercita anch’essa una forza ideologica che può diventare anti-politica. Allora, quello che inizialmente è farmaco diventa veleno: senza politica, non ci può essere libertà e democrazia; senza democrazia, alla fine ci aspettano soluzioni basate non sul libero consenso ma sull’imposizione. 3. Che si tratti di medicina o di veleno, non sappiamo. Sappiamo invece che dipende da noi. LeG, associazione di cultura politica, ha sempre operato per la difesa della dignità della politica e, proprio per questo, ha denunciato i casi di svilimento, di corruzione e di asservimento a interessi privati, di chiusura corporativa e autodifesa di casta. Oggi, quando la distanza tra i cittadini e i partiti non è mai stata così grande, proprio oggi è urgente un’opera di riconciliazione nazionale con la politica. Forse, il maggiore tradimento perpetrato dalla nostra “classe dirigente” nei confronti della democrazia, è consistito nell’aver reso la politica un’attività non solo non attrattiva ma addirittura repulsiva e di aver respinto nell’apatia soprattutto le generazioni più giovani, proprio quelle dove si trova la riserva potenziale di moralità e impegno politico di cui il nostro stanco Paese ha bisogno. 4. Siamo persuasi che la rifondazione della politica debba partire dalla sua decontaminazione dalla corruzione che, tra tutte le cause, è quella che più ha contribuito a imbrattarne la figura. Ormai, non si fanno più differenze, in una generale chiamata in correità. Gli scandali e le ruberie in un partito si riverberano in colpe di tutti i partiti. La percezione è che nel tempo si sia creato un sistema di connivenze e omertà, rotto occasionalmente solo dall’esterno, dalle inchieste giudiziarie o giornalistiche (da qui, la diffusa insofferenza per l’indipendenza della giustizia e dell’informazione). Questo sistema, prima che con le riforme legislative, può essere incrinato solo dall’interno. La connivenza può rompersi solo con la dissociazione e la denuncia. Le tante persone che, nei partiti e nella pubblica amministrazione avvertono la nobiltà della loro attività, escano allo scoperto, ripuliscano le loro stanze, si rifiutino di avallare, anche solo col silenzio, il degrado della politica. Acquisterebbero meriti e ne sarebbero ricompensati. LeG è convinta che questa sia la premessa e la condizione d’ogni riforma credibile della politica e della grande riconciliazione di cui abbiamo parlato. La legge sui partiti è una necessità di cui si parla da troppo tempo. Oggi, gli scandali quotidiani, l’hanno resa urgente. “Subito la legge ecc.”, si è detto. Ma possiamo crederci, se prima non cambiano coloro che la legge dovrebbero farla? 5. L’anno che ci separa dalle elezioni si annuncia ricco di propositi riformatori delle istituzioni. Non è una novità, ma l’auto-riforma si è dimostrata finora un’auto-illusione. Può essere che sia la volta buona per contrastare la caduta di consenso ed evitare lo “sciopero elettorale” che da diverse parti si minaccia. Ma si vorrebbe sapere con chiarezza che cosa ci viene promesso. Chiusura o apertura? L’alternativa è nelle cose, anzi nelle azioni. Non si può nasconderla con le parole. LeG ritiene di rappresentare un’elementare esigenza democratica, chiedendo di conoscere, in pubblico dibattito, se i contatti e gli accordi preliminari che si vanno stringendo tra partiti mirano a corazzare il sistema politico esistente, chiudendolo su se stesso, oppure se finalmente si avverte l’esigenza di aprirlo alle istanze diffuse dei cittadini, d’ogni ceto e d’ogni orientamento politico; se la “società politica” ritiene di fare a meno della tanto disprezzata “società civile”, oppure se ritiene di dover mettersi in discussione; se pensa che sia legittima la sua pretesa di difendersi dai controlli, oppure se sia disposta alla trasparenza e alla responsabilità; se il governo sia un problema di mera efficienza decisionale, oppure se la questione sia come, che cosa decidere e con quale consenso; se si vuole una democrazia decidente a scapito d’una democrazia partecipativa. Sono tante le domande che, finora, restano senza risposta. 6. Sulla riforma della legge elettorale: quale che sia il meccanismo prescelto, esso non deve essere pensato come strumento dei maggiori partiti e della loro dirigenza per “dividersi le spoglie”. Se c’è una legge nell’interesse primario dei cittadini, non dei politici, questa è proprio la legge elettorale. Finora, tutte le riforme, e forse anche quella in cantiere, hanno in comune l’essere concepite nell’interesse dei partiti che la fanno. LeG chiede che si ragioni di “giustizia elettorale” e non di “interessi elettorali”: si scelga dunque una formula chiara e coerente che metta i cittadini in condizione di controllare com'è utilizzato il loro voto e di entrare in rapporto con i loro rappresentanti, senza interessate distorsioni. 7. La riforma elettorale, anzi le elezioni con la nuova legge elettorale devono precedere ogni altra riforma. Come possiamo accettare che un parlamento tanto screditato qual è quello scaturito dalla legge elettorale attuale possa mettere mano alla Costituzione? I frutti sono il prodotto dell’albero. Nessuna speranza può esserci che i frutti siano buoni se l’albero è malato. In ogni caso, LeG chiede, come elementare esigenza, che le eventuali riforme possano essere sottoposte al controllo del corpo elettorale in un referendum di particolare significato: come difesa d’una democrazia aperta contro i possibili tentativi d’ulteriore involuzione autoreferenziale dell’attuale sistema politico. 8. LeG è un’associazione di cultura politica, ma non un’associazione politica, fiancheggiatrice di questo o quel partito. Essa si rivolge ai cittadini che vorrebbero amare la politica e, per questo, la desiderano più dignitosa e rispettata. Poiché in questo momento la società italiana è ricca di energie che chiedono rinnovamento e desiderano essere rappresentate, l’invito a tutti è a non disperdersi nella sterile protesta e a non dividersi nell’infecondo protagonismo, geloso di se stesso, ma a unire le forze perché il difficile momento che vive il nostro Paese possa essere superato nel segno della democrazia, della libertà e della giustizia. da - http://download.repubblica.it/pdf/2012/politica/manifesto_2012.pdf Titolo: GUSTAVO ZAGREBELSKY Libertà e Giustizia rilancia "Partiti più aperti e ripuliti" Inserito da: Admin - Marzo 12, 2012, 04:30:06 pm L'INIZIATIVA
Libertà e Giustizia rilancia "Partiti più aperti e ripuliti" Gustavo Zagrebelsky spiega l'appello "Dipende da noi", che ha raccolto 35mila firme. Stasera la manifestazione al teatro Smeraldo di Milano. Sul palco anche Roberto Saviano. Diretta su RepubblicaTv e su Repubblica.it di ANNALISA CUZZOCREA ROMA - Una serata per spiegare che "Dipende da noi". Che la politica deve rifondarsi, e rioccupare il suo campo. Che i partiti devono decontaminarsi, da autoreferenzialità e corruzione. E poi aprirsi, finalmente: all'aria nuova, a volti nuovi. Libertà e Giustizia ci riprova stasera alle otto e mezza al teatro Smeraldo di Milano. Non sarà una manifestazione "di piazza" come quelle del Palasharp o dell'Arco della pace. L'orario non lo consente, il momento è diverso. Quello che si chiede oggi è di non perdere una possibilità. I momenti di crisi - economica, politica, sociale - servono a cambiare. Deve farlo il Paese, devono farlo coloro che aspirano a rappresentarlo. Sul palco ci saranno Gustavo Zagrebelsky e Roberto Saviano, il costituzionalista e lo scrittore. Il primo spiegherà il senso del manifesto che ha già superato le 35mila firme. Il secondo ricorderà che, per "rifondare" l'Italia, bisognerà cominciare ad affrontare in modo nuovo, e forte, la corruzione. Ad aprire l'incontro sarà la presidente di Libertà e Giustizia Sandra Bonsanti, a condurlo Concita De Gregorio. Insieme a loro, il sindaco di Milano Giuliano Pisapia, Umberto Eco, Lella Costa. Ci saranno anche collegamenti con la trasmissione di Gad Lerner L'infedele. Diretta streaming su RepubblicaTv e a Radio Popolare. "C'è stato un tentativo di spingerci nell'angolo dell'antipolitica cui vogliamo reagire - dice Sandra Bonsanti -. La nostra associazione si batte per la "buona politica", che è cosa diversa". Dissociarsi per riconciliarci è lo slogan dell'iniziativa, "ci rivolgiamo ai partiti perché pensiamo che facciano ancora in tempo a cambiare, non come dice D'Alema però. Non chiudendosi ancora, e di più". I promotori vogliono parlare a chi non trova spazio, a chi si sente ripetere sempre che il suo momento non è arrivato. "Il desiderio è che Bersani, Di Pietro, colgano l'esigenza del rinnovamento". Il manifesto parte dal momento che il Paese sta vivendo, "tempi di debolezza della politica e d'inettitudine dei partiti politici". E parla di un governo tecnico da "accettare come pharmakon", anche se "la medicina che guarisce può diventare il veleno che uccide". "La ratio - spiega Zagrebelsky - è che questo governo è benvenuto per il momento in cui è stato formato, poiché si dovevano affrontare argomenti che il sistema dei partiti non era in grado di affrontare. Non si può però immaginare che la tecnica sostituisca stabilmente la politica". Il presidente emerito della Consulta si chiede quel che tutto questo significhi "per l'avvenire della politica e della democrazia". Ed esorta: "I partiti si rendano conto che non possono - se non tradendo il loro compito - stare a balia troppo a lungo di un potere tutelare. Devono stabilire, e subito, un contatto nuovo con quel che è fuori da loro". (12 marzo 2012) © Riproduzione riservata da - http://www.repubblica.it/politica/2012/03/12/news/35mila_firme_libert_giustizia-31377809/?ref=HREC1-9 Titolo: GUSTAVO ZAGREBELSKY Saviano: fare subito la legge contro la corruzione Inserito da: Admin - Marzo 14, 2012, 11:22:26 am L'INIZIATIVA Libertà e giustizia ai partiti "Riformare la politica per salvare l'Italia" LeG ha presenta il documento "Dipende da noi" contro l'autoreferenzialità e il malcostume dei partiti che ha raccolto 35mila firme. Saviano: "Fondamentale fare subito la legge contro la corruzione". Zagrebelsky: "Le primarie una grande risorsa" MILANO - Entra nel vivo la campagna per rifondare l'Italia spingendo i partiti a decontaminarsi da autoreferenzialità e corruzione. A Milano, in un Teatro Smeraldo gremito di persone, Libertà e Giustizia 1 ha spiegato il senso di "Dipende da noi", il manifesto 2promosso dall'associazione che ha già superato le 35mila firme. Ad aprire la serata è stata l'attrice Lella Costa, leggendo il manifesto, interrotta da continui applausi, punto per punto. La parola è passata quindi a Concita De Gregorio, che ha introdotto gli interventi. I più attesi, quelli di Gustavo Zagrebelsky e Roberto Saviano, che nei giorni scorsi ha infiammato con il suo appello 3 la discussione sulla necessità di combattere la corruzione. Insieme a loro, anche Sandra Bonsanti, il sindaco di Milano Giuliano Pisapia e Umberto Eco. "La riforma della classe politica è prioritaria, insieme alle riforme istituzionali. Ma questa è un'esigenza che non sembra avvertita e anzi accantonata", ha detto Zagrebelsky. "Non siamo apolitici o antipolitici, come sostengono alcuni, siamo ultrapolitici", ha proseguito. "Identificare chi critica i partiti come nemico della politica - ha sottolineato - è una strumentalizzazione. Noi non facciamo di tutta un'erba un fascio, non siamo qualunquisti". Parlando del atteggiamento di riconoscenza verso il governo Monti, il costituzionalista ha chiarito che ciò "non deve e non può significare censura nel dibattito politico", in quanto questo governo "è chiamato a operare scelte gravose per tutti, soprattutto per i ceti deboli" e "dove ci sono scelte ci sono opinioni, non verità". Citando poi uno dei primi atti del governo Monti, il decreto "salva Italia", Zagrebelsky ha spiegato che "riformare la politica è salvare l'Italia". Quanto al rapporto tra tecnici e politici, secondo il presidente emerito della Consulta, il rischio è che alla fine "la balia piaccia più dei bambini". E poi un passaggio sulle primarie: "Nessuna riforma si fa dall'alto le primarie possono essere una grande risorsa e noi chiediamo a tutti i partiti che questo metodo trovi una disciplina, una estensione e una generalizzazione". Dopo Zagrebelsky e Pisapia, sul palco è salito Saviano. "La legge sulla corruzione è fondamentale, si è atteso fino troppo, questo governo deve farla, questo governo è prezioso perché porta via il berlusconismo e ci salva dal default, ma per questo è fondamentale che faccia la legge anti corruzione", ha esordito. "Le leggi antimafia sono declinate sulle persone più che sui capitali e quando c'è crisi le mafie vincono perché hanno liquidità", ha aggiunto Saviano ribadendo l'urgenza di rivedere la normativa contro il riciclaggio di denaro sporco. "Questo governo ha un'occasione incredibile, ma deve considereare il problema mafioso non UN problema, ma IL problema", ha proseguito. "Le mafie non si contrastano solo con i maxi blitz, l'organizzazione è molto più vasta di chi spara", ha detto ancora. "Masse di denaro date senza possibilità di controllo" e "la possibilità di infiltrare le primarie" sono stati quindi due degli aspetti citati da Saviano per ribadire la necessità di una riforma della legge sul finanziamento dei partiti. "L'Italia è una Repubblica fondata sul lavoro, non sul privilegio", ha detto lo scrittore citando il presidente Sandro Pertini. Ma Saviano ha parlato anche, più in generale, del governo Monti: "C'è una grande ansia che il governo sia sotto ricatto del Pdl e che possa fare tutto, tranne toccare giustizia e Rai". E di un eventuale ritorno in politica di Silvio Berlusconi: "Se i processi non si chiuderanno con condanne saranno trampolini per il ritorno politico". "Il paese nuovo non ha cacciato Berlusconi: deve ancora cominciare il percorso che romperà con la vecchia Repubblica per iniziare la nuova". Un percorso che, a suo giudizio, "dovrà passare per la riforma del finanziamento pubblico ai partiti". Umberto Eco, conversando con i giornalisti prima dell'inizio del dibattito, ha commentato: "I partiti imbarazzati nel fare la politica hanno chiesto la supplenza", a Monti. "La gente - ha aggiunto - si è messa in testa che gli intellettuali hanno risposte per ogni cosa mentre hanno solo domande". In platea, ad ascoltare la discussione, anche l'ingegner Carlo De Benedetti. "Nel 2013 speriamo ritorni la politica, i partiti e la democrazia che è stata messa di lato per l'emergenza", ha affermato prima dell'inizio di 'Dipende da noi'. "Credo che il presidente della Repubblica abbia fatto un capolavoro politico nel riuscire a mettere il miglior primo ministro che ci sia", ha proseguito De Benedetti che si è poi augurato che Mario Monti arrivi "fino al 2013 nonostante la destra vorrebbe fosse un ragioniere e che si occupasse solo di conti, ma si deve occupare anche di politica". La formazione del governo tecnico sarebbe poi per i partiti "un'occasione, circa 15 mesi per riaccreditarsi agli occhi dell'opinione pubblica - ha proseguito l'ingegnere - perché ora non sono più accettati da nessuno. Ora dovrebbero ridare un orizzonte a questo paese in cui si riducano le disuguaglianze e si metta al centro il lavoro". In chiusura, Sandra Bonsanti ha elencato alcune proposte concrete su cui stanno lavorando i comitati di Libertà e giustizia: liste degli elettori per le primarie; no al cumulo delle cariche per chi ha ruoli pubblici; stop al finanziamento di partiti morti. Ma la riflessione, c'è da giurarci, è appena cominciata. (12 marzo 2012) © Riproduzione riservata da - http://www.repubblica.it/politica/2012/03/12/news/manifesto_libert_e_giustizia_milano-31424229/?ref=HREA-1 Titolo: GUSTAVO ZAGREBELSKY - L'INTERVISTA di TIZIANA TESTA Inserito da: Admin - Aprile 18, 2012, 03:54:35 pm L'INTERVISTA
Zagrebelsky: "I partiti sono essenziali ma se non cambiano vincerà la demagogia" Il presidente emerito della Corte costituzionale: "I tagli servono ma, se si limiteranno a ridurre i fondi, i politici sembreranno approfittatori colti con le mani nel sacco. Serve un rinnovamento della democrazia interna, della gestione dei soldi e delle candidature. E la critica non è delegittimazione" di TIZIANA TESTA TORINO - "Un tempo, quando scoppiava uno scandalo in un partito, gli altri quasi si rallegravano. Oggi non è più così. Ora ogni scandalo, per l'opinione pubblica, riguarda l'intero sistema politico. Tutti uguali! Ciò che succede in un partito, è imputato a tutti i partiti. Una specie di responsabilità oggettiva di sistema. Nessuno è immune dal discredito". Gustavo Zagrebelsky, presidente emerito della Corte costituzionale, accetta di rispondere a qualche domanda sul finanziamento pubblico alle forze politiche. Lo fa a quasi due mesi da 'Dipende da noi' 1, il manifesto-appello di Libertà e giustizia che lanciava un allarme in nome della politica e della democrazia. E lo fa partendo dall'antipolitica. Gli ultimi sondaggi danno in grande ascesa il movimento di Grillo. E dicono che è probabile un fortissimo astensionismo. Come interpreta questi dati? "Sono molto preoccupato. Sono due sintomi di declino, di distacco, in cui, alla ragionata indignazione, possono sommarsi pulsioni e sentimenti sociali elementari e distruttivi: disprezzo, invidia, semplificazione, dileggio; il terreno ideale per la demagogia. Sa com'è nata l'idea del manifesto che lei ha ricordato? Ero stato a tenere delle lezioni in quattro licei e a tutti i ragazzi avevo rivolto la stessa domanda: dopo la maturità, quanti di voi sono disposti a dedicare un po' delle proprie energie a qualcosa che abbia a che fare con la politica? In ogni scuola avevo davanti 150-200 studenti e in tutto solo due, due eroi, hanno alzato la mano. Le cause? Sempre due: la corruzione e la mancanza di punti di riferimento ideale. Non si dovrebbe generalizzare; sempre bisognerebbe distinguere. Ma un errore, quando è diffuso fino a diventare senso comune, non è solo un errore: diventa un fatto politico. E chi deve dare motivi per distinguere, se non i partiti stessi? Il Manifesto che lei ha citato è un invito ai partiti a guardare in faccia la realtà e a prendere contromisure, prima che la situazione sfugga di mano. Chi saprà farlo si salverà e ci salverà dalla demagogia". Nei giorni scorsi, dalle colonne dell'Unità, Alfredo Reichlin si è rivolto anche a lei dicendo sostanzialmente: stiamo attenti a criticare i partiti come se fossero tutti uguali... "Ma io non ho mai detto questo. L'esperienza del governo tecnico è per sua natura temporanea. Ci sarà bisogno della ripresa di una normalità politica, della quale i partiti, in democrazia, sono condicio sine qua non. Non esiste democrazia senza strutture sociali che diano forma e sostanza alla partecipazione. Le chiamiamo partiti. Le modalità cambiano, anzi devono cambiare in accordo con le nuove forme di comunicazione e comunanza politica. Ma l'esigenza resta. C'è chi pensa a una democrazia senza partiti, per esempio alla cosiddetta democrazia telematica, che a me pare un'illusione. Il web ha due difetti: è atomistico e mobilitante. Può accendere gli animi, che poi si spengono. Può convocare le piazze - il che, qualche volta è un bene - ma non costruire politiche (vedi le rivolte in nord-Africa). La democrazia, diciamo così, è invece un fuoco lento ma costante che si alimenta di socialità e partecipazione. Ora, la critica ai partiti è antipolitica, se è indirizzata a farne a meno; è altamente politica, se è rivolta a chiedere loro, a incalzarli, a farli arrabbiare perfino, affinché si scuotano, si aprano, congedino coloro che non hanno più nulla da dire, diano un segno ideale della loro presenza, ritornino a essere attrattivi. Per non essere accusati di anti-politica dovremmo dire, mentendo, che tutto va bene? Questa sì sarebbe una pretesa anti-politica." Ora i partiti stanno provando, faticosamente, ad affrontare il problema del finanziamento della politica. C'è una proposta di legge che porta la firma di Alfano, Bersani e Casini 2. Cosa ne pensa? "Il finanziamento pubblico è il classico tema su cui è facilissimo fare demagogia. A me pare che lo si dovrebbe collocare entro una riflessione d'insieme sulla politica e sulle sue forme. Tante cose si tengono insieme. Per esempio il sistema elettorale. Il finanziamento, così com'è, è funzionale all'organizzazione oligarchica, centralizzata e priva di controlli dei partiti; a sua volta, il sistema elettorale è diventato un sistema legale di cooptazione: finanziamento ed elezioni, così come sono organizzati, convergono in un esito comune, lo svuotamento della democrazia in basso e la concentrazione del controllo politico in alto. Chi decide della gestione dei fondi e della distribuzione dei posti sta nel cuore del potere: vorremmo vederci chiaro. Se la democrazia è il sistema politico che si basa sulla diffusione del potere, allora la gestione centralizzata delle risorse e delle candidature devono essere messi in discussione. Il sistema attuale sembra fatto apposta per spegnere le energie, promuovere il conformismo, premiare l'ubbidienza. C'è da stupirsi se nei partiti si formano giri di potere per il potere? E Se il distacco, e qualche volta il disgusto nei loro confronti cresce?". Dunque no alla gestione centralizzata dei soldi. Ma c'è poi la questione dell'entità dei finanziamenti. Sono troppi? "La domanda è: che cosa si deve finanziare? Una risposta seria e non demagogica a questa domanda dipende dalla risposta a un'altra domanda: che cosa ci aspettiamo dai partiti? Certo, ci sono le attività legate alle scadenze elettorali, quelle tutto sommato che pongono minori problemi, perché sarebbero più facilmente controllabili e, in buona parte, sostenibili non con denaro pubblico, ma con servizi pubblici, messi a disposizione in condizioni di parità. Ma i partiti non sono solo macchine elettorali. Sono associazioni politiche, il che è molto di più. Il loro compito è tenere insieme la società, attraverso una presenza costante e capillare, a contatto con le tante realtà territoriali e con i tanti problemi sociali che, affrontati in solitudine, diventano drammi o tragedie e, affrontati insieme in questo genere di associazioni, possono diventare domande politiche. Inutile dire quanto questa funzione sia importante, soprattutto nel tempo della crisi sociale che è tra noi. Ma tutto questo costa. Mi par di dire cose per un verso ovvie e, per un altro, lontane mille miglia dalla realtà". Torniamo ai soldi. "Si fa un gran parlare di quest'ultima tranche di finanziamento, quasi 180 milioni di euro. Ci sono iniziative per congelarli, per devolverli. Ma se ci si limitasse a questo la reazione dei cittadini sarebbe: sono stati colti con le mani nel sacco e ora fanno un piccolo gesto. Solo perché sono stati scoperti, però. Se non lo fossero stati... Così, in futuro, saranno più accorti! Direi così: non si può far finta di niente, ma la semplice rinuncia alla riscossione significa riconoscere d'essere stati degli approfittatori. Invece, questa sarebbe l'occasione buona per farne non solo una questione di soldi, ma per mettersi in discussione, chiarire che cosa si vuol essere e che cosa si vuol fare, prendere le distanze, dissociandosi, da coloro che hanno usato denaro pubblico per fini privati, fare luce e pulizia. Non si dica che nessuno sapeva dei Lusi e dei Belsito. Chi li ha voluti lì, e perché li ha voluti? Troppo facile chiamarsi fuori. Ora i tagli sono certo necessari, se è vero che per attività istituzionali, i partiti nel loro insieme (non generalizziamo nemmeno qui) usano poco più di un quinto di quanto hanno ricevuto, e tanto più in un momento in cui i costi della politica devono essere ridotti. Ma il finanziamento è la coda, non la testa del problema". E le donazioni dei privati che ruolo possono avere? "Vanno bene quelle micro, diffuse sul territorio. Queste sono forme di partecipazione disinteressata. Ma è difficile credere che, in questo momento, possano essere abbondanti. I grandi finanziamenti, invece, che provengono da imprese e gruppi economici sono sempre dei do ut des. Quindi devono avvenire nella massima trasparenza. Qui, la veridicità dei bilanci, non solo dei partiti, ma anche delle imprese è essenziale. Ma il reato di falso in bilancio è stato svuotato". E' ottimista sul futuro? O crede che sia troppo tardi per il rinnovamento dei partiti? "Certo, il tempo stringe. Questo è sicuro. Spero che ci sia una scossa, che si levino voci autorevoli, che non ci si illuda che basti glissare, perché tutto poi passa. Ora vedo un futuro difficile, che è un impasto di crisi sociale, di insofferenza nei confronti della politica, di demagogia, di frustrazione. Ma abbiamo il dovere di credere che non sia troppo tardi. Non c'è altro". (17 aprile 2012) © Riproduzione riservata da - http://www.repubblica.it/politica/2012/04/17/news/zagrebelsky-33485829/ Titolo: GUSTAVO ZAGREBELSKY la democrazia alla prova del grillismo Inserito da: Admin - Marzo 28, 2013, 06:35:27 pm Biennale democrazia 2013
28/03/2013 - intervista Gustavo Zagrebelsky, la democrazia alla prova del grillismo Rischi e opportunità: parla il presidente della Biennale dedicata in questa edizione all’utopia realizzabile Cesare Martinetti Torino Le guerre nel mondo, i conflitti senza soluzioni, la finanza senza regole, le disuguaglianze che crescono, tra Paese e Paese, tra cittadini e cittadini. «Pare che tutto ci stia sfuggendo di mano - dice Gustavo Zagrebelsky -, sembra che non ci sia più nessuno in grado di formulare un’idea che abbraccia e sia riconoscibile da tutti». La terza edizione di Biennale Democrazia cade in un momento drammatico per l’Italia. Sarà l’occasione per riflettere sulle norme di base della nostra società. Ne parliamo con il presidente emerito della Corte Costituzionale, inventore (con Pietro Marcenaro) e anima della Biennale. Professor Zagrebelsky, la parola democrazia associata a quella di utopia, di questi tempi, sembra avere un connotato ironico: la democrazia non è più una prospettiva reale? «L’idea di fondo di Biennale è pensare all’avvenire in modo da ristrutturare una prospettiva comune. Questo deve fare la cultura politica. La parola utopia c’entra perché significa la proiezione in un futuro di aspirazioni e tentativi di trovare soluzioni alla difficoltà del presente». Ma l’utopia realizzabile è ancora un’utopia? «Ci sono utopie utopiche, idee consolatorie che permettono di rifugiarsi nell’immaginazione. Si tratta di un esercizio intellettuale sterile. Ma ogni progettazione del futuro deve avere un aspetto utopico. “Per mirare giusto nel bersaglio devi mirare più in alto”, diceva Machiavelli. Lo ricorderà Carlo Ossola parlando dell’utopia in letteratura. I condizionamenti renderanno il risultato finale inferiore al progetto. Ma il progetto bisogna averlo». Alla Biennale ascolteremo dei progetti realizzabili? «Stiamo cercando di far emergere qualcosa di nuovo che già c’è, che cova sotto la cenere, che può costituire energia feconda. Sulla base della premessa, diventata un luogo comune, che per sopravvivere bisogna cambiare. Parleremo di economia, mondializzazione della finanza, economia, produzioni, consumi, modi di produzione che non sperperano risorse ambientali. Nuovi strumenti di partecipazione». A questo proposito il tema di democrazia e Internet è diventato decisivo con il successo della lista di Grillo. Lei crede nella democrazia diretta per via elettronica? «La questione è questa: la tecnologia informatica applicata ai processi decisionali pubblici, l’idea della sovranità immediata e individuale del singolo, distruggerà la politica a favore di qualcosa che per ora non si sa che cosa sia? Oppure: questi strumenti possono essere usati per rinvigorire la democrazia, renderla più responsabile, più consapevole, in processi di sintesi comune? Il dibattito alla Biennale darà delle risposte». Intanto le prime votazioni alle Camere e la prospettiva dei voti di fiducia hanno già posto la questione della trasparenza del voto dei singoli parlamentari grillini minacciati di espulsione se usciranno dalla linea del «partito». «Questo mi ricorda molto la fase giacobina della rivoluzione francese, quando si era imposto agli elettori di votare in pubblico. È il massimo della libertà democratica o il massimo del controllo dell’esercizio della libertà?». Ed è esplosa la questione del vincolo di mandato, se cioè i parlamentari siano liberi di votare secondo coscienza o se debbano essere vincolati alla linea del partito espressa in campagna elettorale. «Nelle costituzioni liberali non c’è vincolo di mandato. Nella nostra questo è previsto dalll’articolo 67, legato all’idea che la democrazia, come diceva Hans Kelsen, è un regime mediatorio, cioè un regime in cui le ragioni plurime si devono incontrare fra di loro e trovare punti mediani. La libertà dei rappresentanti, senza vincolo di mandato, esprime questa esigenza che in parlamento - il luogo dove ci si parla - sia possibile perseguire il raggiungimento di quel punto mediano e che l’aula non sia il terreno di battaglia di eserciti schierati per ottenere o tutto o niente. I rappresentanti devono disporre di quel margine di adattabilità alle circostanze rimesso alla loro responsabilità. Ecco, in sintesi direi questo: libertà del mandato, uguale responsabilità; vincolo di mandato, uguale irresponsabilità, ignoranza totale delle qualità personali dei rappresentanti, mortificazione delle personalità». È una norma che appartiene a tutte le costituzioni liberali? «Certo, viene dalla rivoluzione francese, prima del giacobinismo. Non c’era in quella sovietica, né in quella della Comune di Parigi, che però non appartengono alla nostra tradizione costituzionale democratica». La crisi della democrazia è però innegabile, questioni come rappresentanza, partecipazione, efficacia delle decisioni sono d’attualità anche nei sistemi più giovani. «Ma almeno per ora tutti si dichiarano democratici. Non c’è ancora nessuno che si sia alzato per dire: basta con la democrazia, c’è un modello migliore. Semmai si dice: questa democrazia, la nostra, non ci piace, non funziona. Ma ciò significa che resiste l’idea di fondo che c’è una democrazia alla quale dobbiamo mirare. Per il momento democrazia resta una parola universale». Però è giustificato dire che questa nostra democrazia è in crisi e non funziona? «C’è una legge universale della politica secondo cui i regimi politici con il passare del tempo (qualcuno ha detto nel giro di una cinquantina di anni) tendono a chiudersi su se stessi, a diventare oligarchie, gruppi chiusi di potere, degenerazione della democrazia, dove la distanza tra elettori ed eletti appare incolmabile». È esattamente quello che percepiamo oggi in Italia, le elezioni ne sono state la dimostrazione. Professor Zagrebelsky, ce la farà la nostra democrazia? «Se riesce a riaprirsi, a combattere i gruppi chiusi, i “giri” nascosti del potere, e riesce a far sentire i cittadini partecipi della cosa pubblica e non espropriati. Quando si parla di rinnovamento della democrazia si intende proprio questo. I gesti simbolici come la riduzione del numero dei parlamentari, il taglio delle spese che favoriscono i parassitismi politici. Se si riuscirà a fare ciò anche utilizzando virtuosamente i nuovi strumenti della comunicazione politica potremo dare una risposta positiva alla domanda che fu di Norberto Bobbio in uno dei suoi ultimi saggi: la democrazia ha un futuro?». E se questo non succederà? «Peggio per noi e per i nostri figli». da - http://lastampa.it/2013/03/28/cultura/speciali/biennale-democrazia-2013/la-democrazia-alla-prova-del-grillismo-CRc3pbuqhDzSHV0hty8GUO/pagina.html Titolo: GUSTAVO ZAGREBELSKY. Presidenzialismo: "Lo voleva Licio Gelli" Inserito da: Admin - Giugno 05, 2013, 04:14:34 pm Gustavo Zagrebelsky presidenzialismo: "Lo voleva Licio Gelli"
Corriere della sera | Pubblicato: 05/06/2013 08:50 CEST | Aggiornato: 05/06/2013 09:15 CEST Presidenzialismo no grazie. Il giurista Gustavo Zagrebelsky, in un'intervista al Corriere della sera, boccia senza appello l'elezione diretta del presidente della Repubblica. Almeno per l'Italia. Ricordando che tale forma di governo era nei piani del maestro venerabile della P2, Licio Gelli. Così il presidente emerito della Corte costituzionale entra nel dibattito sulle riforme bacchettando l'ala presidenzialista del Pd, da Romano Prodi a Matteo Renzi. "Dal punto di vista delle riforme la danza la sta menando la destra. Il presidenzialismo è un tema tradizionale della destra autoritaria, cavallo di battaglia già del Msi, poi cavalcato dal partito di Berlusconi. Ed è uno dei punti centrali del piano di rinascita nazionale di Gelli. Queste cose non si usa dirle più. Sembrano politicamente scorrette. Ma la continuità di un'idea della politica che non è nata oggi vorrà pur dire qualcosa. Quelli che a noi paiono pericoli mortali, per loro sembrano opportunità. Invece alla visione e alla pratica della democrazia, secondo la sinistra e secondo la sociologia politica cattolica, quell'idea è stata sempre estranea. Non ricordo chi diceva: la destra propone, la sinistra segue; ma solo la destra sa quel che si fa". Zagrebelsky fa poi una panoramica dei sistemi presidenziali e della loro storia. "Sono sistemi presidenziali o semipresidenziali gli Stati Uniti come molti Stati del Sud America, che hanno avuto vicende di colonnelli che dall'esercito diventano capi di Stato. La gran parte dei paesi dell'Africa che noi consideriamo democraticamente sottosviluppati, per non dire di peggio, sono sistemi presidenziali". E sul modello francese che è anch'esso semipresidenziale, l'ex presidente della Consulta spiega: "Sì. Ma, guarda caso, pure la Russia di Putin,. In materia costituzionale è sempre sbagliato ragionare di modelli astratti; in questo caso, è sbagliatissimo. Il modello astratto dice poco. Esistono regole formali, ma il modello che si viene a realizzare dipende da una serie di circostanze di natura sociale, politica, psicologica". Sul fatto che esponenti di spicco del centrosinistra, come Romano Prodi, siano a favore del presidenzialismo, Zagrebelsky dice: "Non so che dire. Non me lo spiego. I cattolici sono sempre stati irremovibili nel difendere una concezione politica che non poteva incarnarsi nell'uomo solo al potere. Alla Costituente Calamandrei avanzò la proposta d'un sistema all'americana: presidenzialismo unito a federalismo, diritti di liberà, forti garanzie, a cominciare dall'indipendenza della magistratura e della Corte costituzionale. Ma non raccolse consensi. Riproporla ora mi pare effetto della sindrome di Stoccolma". Le riforme secondo Guglielmo Epifani. Il semipresidenzialismo? "È un sistema che va discusso", ci sono "tanti pesi e contrappesi" che possono rendere "complicato questo tragitto". Così Guglielmo Epifani ai microfoni di Radio Capital. "Abbiamo tre questioni da affrontare sul fronte delle riforme - premette il segretario del Pd -. La prima riguarda il superamento del bicameralismo. Dobbiamo fare la Camera e il Senato delle regioni con funzioni distinte, riducendo il numero dei parlamentari e questo richiede una modifica costituzionale. In secondo luogo, dobbiamo mettere un po' di ordine nel rapporto tra i poteri del governo centrale e i poteri delle autonomie regionali, perché non sempre tutto è lineare". "Infine - spiega - dobbiamo decidere la forma del governo e il sistema elettorale: qui ci possono essere non solo due strade ma altre strade. Perché, da un lato, c'è oggi la volontà chiara del cittadino di eleggere direttamente il capo dello Stato, dall'altro, è chiaro che se vai verso quella direzione, devi fare talmente tanti pesi e contrappesi e riforme costituzionali, che per un Paese che viene dalla tradizione parlamentare, rende tutto molto complicato fare questo tragitto. È un sistema che va discusso. Lo si discuterà nella commissione parlamentare e con i nostri iscritti e si arriverà a una conclusione", assicura il leader Dem. da - http://www.huffingtonpost.it/2013/06/05/gustavo-zagrebelsky-presidenzialismo-lo-voleva-licio-gelli_n_3387734.html?1370415032&utm_hp_ref=italy Titolo: GUSTAVO ZAGREBELSKY : "Ringrazio la Boschi per avermi invitato al seminario ... Inserito da: Admin - Maggio 05, 2014, 11:55:15 pm Gustavo Zagrebelsky: "Ringrazio la Boschi per avermi invitato al seminario sulle Riforme: ma i vecchi devono fare i vecchi"
Pubblicato: 02/05/2014 17:48 CEST | Aggiornato: 02/05/2014 18:31 CEST Tirate tutte le dovute somme di un dibattito che ha scatenato tanta passione e altrettanti titoli di giornali, quello che alla fine rimane nell'interesse del Professor Zagrebelsky è il rapporto fra giovani e vecchi, la dinamica generazionale “da un punto di vista costituzionale, ovviamente” precisa, mentre l’infallibile abitudine dell’insegnamento lo porta subito a verificare le competenze: “lei sapeva che Jefferson e i Giacobini volevano legare la lunghezza della Costituzione proprio alle generazioni?” Si avverte così subito, al primo contatto telefonico, che il Costituzionalista diventato simbolo insieme a un altro intellettuale, Stefano Rodotà, di una delle piu’ celebri e devastanti (per la sinistra) polemiche lanciate dal renzismo, quella contro i “professoroni “ appunto, non si è fatto scompigliare i capelli e nemmeno l’umore, da quell'attacco. O, almeno, così pare. Supremo cesellatore di ironie, il Professore tuttavia tiene ben fermo la separazione di ruoli e di opinioni rispetto all'attuale governo. Come sta Professor Zagrebelsky? O dovrei chiamarla professorone? "Beh, considerata la mia testa è difficile chiamarmi parruccone, replica subito il Costituzionalista, (notoriamente non un capellone), a meno che non mi si voglia parlare di una parrucca all'inglese, di quelle con riccioli e polvere…." Lei è stato invitato dal Pd al seminario del 5 Maggio su “Riforma del Senato e Titolo V” , cui parteciperà anche Renzi. Un vero e proprio ramoscello d’Ulivo, da parte del Governo, dopo le accuse rivolte ai professoroni dal ministro Boschi di “bloccare da trent’anni le riforme”. Lei non ha accettato. Come mai? "Io e il ministro abbiamo avuto un cordiale telefonata pochi giorni fa…" Ha telefonato direttamente il Ministro Boschi? "Si, certamente...Dicevo, una telefonata cordiale in cui le ho detto di non preoccuparsi, che le discussioni, anche gli attacchi sono parte delle normali dinamiche". Però nonostante la cordialità lei il 5 non ci sarà. "Ho deciso che riprenderò il tema il 24 maggio a Pistoia.. fanno lì questo festival sulla Filosofia, lei lo conosce? , fatto davvero molto bene a mio parere… ecco lì porterò qualche appunto in cui affronto il tema fra vecchi e giovani , il rapporto fra generazioni. Ovviamente come tema anche costituzionale". Costituzionale? "Certo, tema di rilevanza costituzionale. Lei lo sa che Jefferson e i Giacobini intendevano legare la durata della Costituzione alle generazioni? Sostenendo che le generazioni future non debbono essere schiave delle definizioni delle vecchie". Un approccio che soddisferebbe la fame di ricambio attuale. "Certo…" E come finì l’idea di Jeffeson? "Finì che Madison gli fece notare che le generazioni non si palesano sulla terra come a teatro cioè tutte insieme in entrata e in uscita, che invece la gente sceglie di fare i figli come gli piace e quando gli succede…. Insomma un po’ difficile prendere la generazione come riferimento …." Ha parlato di questo con il Ministro Boschi? "Gli ho detto, come dicevo, di non preoccuparsi, perché il conflitto fra padri e figli, fra diverse generazioni, è fisiologico. Non è strano, deve anzi esserci. Su una sola cosa sono però inflessibile – sono convinto che ognuno debba fare la propria parte, e che i vecchi debbano fare i vecchi. Non c’è nulla di più sbagliato, disorientante, repulsivo quasi, di quei vecchi che vogliono fare i giovani. Per cui le ho detto ‘attaccatemi pure, ma sappiate che questo è il mio ruolo, questo sono e questo intendo rimanere”. La discussione, come si vede, promette di infittirsi e alzarsi a nuovi livelli. Dopo lo scontro fra cultura e politica, troverà pane per i propri denti anche il giovanilismo renziano? Da - http://www.huffingtonpost.it/2014/05/02/zagrebelsky-ministro-boschi_n_5252872.html?utm_hp_ref=italy&ref=HREC1-15 Titolo: Gustavo Zagrebelsky: “La finanza comanda i governi, compreso il nostro”. Inserito da: Admin - Agosto 23, 2014, 05:36:31 pm Riforme, Zagrebelsky: “La finanza comanda i governi, compreso il nostro”
Il presidente emerito della Corte costituzionale: "Sarebbe auspicabile un intervento formale di Napolitano" che ricordi come "i principi fondamentali (della Costituzione, ndr) non si possono cancellare o calpestare". E sull'Italicum: "Mi sorprende la spudoratezza con cui i partiti trattano la legge elettorale come fosse cosa loro. Sembra che reputino gli elettori materia inerte nelle loro mani" Di Marco Travaglio | 23 agosto 2014 Sono trascorse due settimane dall’approvazione in prima lettura, a Palazzo Madama, della riforma del Senato. Ma, prima di commentarla, il professor Gustavo Zagrebelsky, presidente emerito della Corte costituzionale, si è preso il suo tempo. Ciò che ne pensa è noto. A marzo ha firmato l’appello di Libertà e Giustizia, di cui è presidente, contro la “svolta autoritaria” segnata dal Patto del Nazareno per il combinato disposto della riforma costituzionale e di quella elettorale (il cosiddetto Italicum), beccandosi del “gufo”, del “professorone” e del “solone”. In aprile ha guidato la manifestazione di L&G a Modena “Per un’Italia libera e onesta”. A maggio ha inviato un lungo testo con una serie di proposte alternative – pubblicato dal Fatto Quotidiano – alla ministra delle Riforme Maria Elena Boschi, che l’aveva invitato a un convegno di costituzionalisti a cui non aveva potuto partecipare: la ministra s’era impegnata a diffonderlo, ma poi non se n’è più saputo nulla. Ai primi di agosto, nel pieno delle votazioni al Senato, ha scritto un editoriale su Repubblica intitolato “La Costituzione e il governo stile executive”, in cui ha cercato di spiegare il senso di ciò che sta accadendo. Ora accetta di riparlarne con Il Fatto. A partire dal memorandum 2013 di JP Morgan che, come abbiamo scritto l’altro giorno, presenta straordinarie somiglianze con l’agenda Renzi. Professor Zagrebelsky, che cosa l’ha colpita di più di quel documento profetico? Prim’ancora del contenuto, del quale un po’ si è discusso, mi impressiona il fatto stesso che quel documento sia stato scritto. E che la sua esistenza non abbia suscitato reazioni. Non fa scandalo che un colosso della finanza mondiale parli di politica, istituzioni e Costituzioni come se queste dovessero rendere conto agli interessi dell’economia: rendere conto, non solo ‘tener conto’. E’ un’intimazione neppure tanto velata ai paesi del Sud, anzi della “periferia” dell’Europa, di liberarsi delle loro Costituzioni nate “dopo i fascismi” e dunque inquinate da una dose eccessiva di “socialismo”. Abbiamo già sentito questa storia, ripetuta anche da noi. I fascismi tentarono per via autoritaria di affermare il primato della politica sull’economia. ‘Tutto nello e per lo Stato’, dopo che lo Stato dell’Ottocento aveva visto i governi al servizio dell’economia capitalista. Le Costituzioni che si sono dati i popoli che hanno conosciuto il fascismo, le Costituzioni democratiche del dopoguerra, hanno cercato un equilibrio tra autonomia dell’economia e compiti della politica, aggiungendo l’elemento che i totalitarismi avevano disprezzato e deriso: la libertà della cultura, senza la quale economia e politica diventano oppressione e disgregazione. Questo è un punto importante. Una società equilibrata non vive solo di politica ed economia, ma anche di idee, ideali, progetti e speranze comuni. L’economia, da sola, tende all’accumulazione della ricchezza e produce una frattura fra ricchi e poveri. La politica, da sola, tende all’accumulazione del potere e crea una divisione fra potenti e impotenti. Economia e politica alleate moltiplicano gli effetti dell’una e dell’altra. La cultura libera invece può essere fattore aggregante, solidarizzante. L’elemento essenziale per la vita sociale è che ci sia equilibrio fra questi tre elementi. Le Costituzioni del dopoguerra, ma anche le grandi dichiarazioni dei diritti umani (Onu nel 1948, Convenzione europea nel 1950) hanno perseguito questo equilibrio. Il socialismo è un’altra cosa. Eppure la nostra Costituzione non è mai stata così impopolare non solo presso JP Morgan e i poteri finanziari internazionali, ma anche presso la nostra classe politica, che infatti ne sta stravolgendo un buon terzo. Non è un fenomeno solo italiano. Quello che accade in Italia è solo un capitolo di una vicenda mondiale. La crisi economico-finanziaria che viviamo ha portato allo scoperto la sudditanza della politica agli interessi finanziari. Una sudditanza che ormai sembra diventata un destino, perché prodotta da un ricatto al quale nessuno, pare, riesce a immaginare alternative: il ricatto del ‘fallimento dello Stato’, un concetto fino a qualche decennio fa addirittura impensabile e oggi considerato come un’ovvietà. Lo Stato si è trasformato in un’azienda commerciale che, in caso di difficoltà, prima del fallimento, può essere ‘commissariato’. I politici che rivendicano a gran voce il proprio ‘primato’ e difendono la ‘sovranità nazionale’, in realtà vogliono fare loro quello che farebbero i commissari ad acta, nominati dalla grande finanza. Non è poi una grande novità. La ‘finanziarizzazione’ su scala mondiale dell’economia è una novità. Che la sua dominanza sulla politica sia proclamata e pretesa con tanta chiarezza, anche questo mi pare una novità: il fatto, cioè, che una simile rivelazione avvenga senza scosse, reazioni, inquietudini. Sotto i nostri occhi velati avvengono cambiamenti profondissimi: eppure i segnali non sono mancati. Per esempio? Ricordo quando il premier Mario Monti spiegò (e poi corresse la formula) che ‘i governi devono educare i Parlamenti’. E i ‘governi tecnici’, e anche quelli ‘politici’ con la loro densità di banchieri e uomini di finanza nei posti-chiave, che cosa ci dicono? Quando si sente dire ‘tecnico’, bisognerebbe domandare: ‘tecnico’ di che cosa? Di idraulica, di fisica quantistica, di ingegneria elettronica? Non esiste la tecnica in sé, è sempre applicata a qualcosa. Questi governi rappresentano il mondo finanziario, con il compito di farlo funzionare indipendentemente da tutto il resto. Se è per questo, alla vigilia delle elezioni del febbraio 2013, il presidente della Bce Mario Draghi dichiarò che non era preoccupato dall’eventuale vittoria di forze anti-finanziarie come i 5Stelle o la sinistra radicale perché “l’Italia ha il pilota automatico”. Un altro elemento di riflessione. Questi nostri anni sono segnati da tanti puntini sparsi qua e là. Se li unissimo, vedremmo con una certa inquietudine delinearsi la figura d’insieme. Quali puntini? Alcuni li abbiamo detti. Nell’insieme, direi la paralisi politica che si cela dietro l’attivismo delle riforme: cioè l’arroccamento, il congelamento di un sistema di potere. Le elezioni che non cambiano nulla, e servono eventualmente solo a promuovere avvicendamenti di persone; e, quando persone da avvicendare non se ne vedono, c’è la conferma delle precedenti, come è accaduto con la rielezione del presidente della Repubblica; le ‘larghe intese’, che sono la formula dell’immobilismo; le riforme istituzionali, come quella del Senato, che hanno come finalità l’‘efficientizzazione’ (mi scuso, ma la parola non è mia) del sistema, ma non certo la sua democratizzazione; la limitazione delle occasioni elettorali; il nuovo sistema elettorale, se confermerà la decisione annunciata a favore della ‘elezione dei nominati’ dai vertici dei partiti; il silenzio totale sulla democrazia interna ai partiti. Si vedrà poi che cosa accadrà circa le misure contro la corruzione e la riforma della giustizia. Unendo questi puntini che figura viene fuori? E’ un bell’esercizio per i nostri lettori… Intanto lo faccia lei per aiutarci. L’ho già detto: il disegno è la sostituzione della politica con la tecnica dell’economia finanziarizzata. Un cambiamento epocale, che dovrebbe sollecitare un dibattito sui principi fondamentali della democrazia e una presa di posizione da parte di ciascuno, soprattutto di chi sarebbe preposto istituzionalmente a farlo. Invece niente. E badi che non sto evocando congiure o dietrologie. Sto semplicemente osservando vicende che accadono sotto i nostri occhi, magari mascherate dietro argomenti anche seri ed esigenze anche giuste – i costi della politica, la necessità di snellire, semplificare, sveltire – che però ci fanno perdere il senso generale delle cose. Non vedo persone che occupano posti di responsabilità che si pongano la domanda fondamentale: che senso ha ciò che stiamo facendo? E diano una risposta a sua volta sensata. Io trovo preoccupante anche il fatto che quel documento di JP Morgan, oltre a esistere e a dire ciò che dice, sia diventato paro paro l’agenda di Renzi e dei suoi compagni di avventura, da Napolitano a Berlusconi. Si tratta ben più di trasformazioni generali che piegano le volontà dei singoli, volenti o nolenti, consapevoli o inconsapevoli, che di buone o cattive intenzioni. C’è una metamorfosi di sistema, nella quale si collocano tante specifiche vicende, ciascuna dotata anche di ragioni sue proprie. Iniziamo dal nuovo Senato. Quando Camera e Senato sono organi pressoché identici, come i nostri padri costituenti non vollero che fossero ma come finirono poi per diventare, è naturale domandarsi che senso abbia averli entrambi. Aggiungiamo un po’ di populismo – i costi della politica – per venire incontro all’antiparlamentarismo che è una caratteristica storica dell’opinione pubblica in Italia, e il gioco è fatto. Gli abolizionisti del Senato – molti di loro almeno – abolirebbero volentieri anche la Camera dei deputati. Tutto il potere al governo: lì ci sono i ‘tecnici’ che sanno quello che fanno. Lasciamo fare a loro. Vogliamo citare Michel Foucault? Ma sì, citiamolo. Foucault parlava di ‘governa-mentalità’. Che non è la governabilità decisionista di craxiana memoria. E’ molto di più: è appunto una mentalità governatoriale. Il centro della vita politica non deve stare nella rappresentatività delle istituzioni, ma nell’agire degli esecutivi. Una visione molto aderente a ciò che sta accadendo: l’accento posto sul governo spiega l’insofferenza dei nostri politici, ma anche di molti cittadini nei confronti della legge, della legalità. Foucault parlò anche di “governo pastorale”. Il pastore provvede al bene del gregge caso per caso, di emergenza in emergenza: quando c’è un pericolo, quando una pecora scappa, quando il branco si squaglia. Il governo ‘governamentale’ è anche ‘provvedimentale’. Si fa le sue regole di volta in volta, a seconda delle necessità: le necessità sue e degli interessi per conto dei quali opera. Il principio di legalità anche costituzionale è contestato e depresso, non tanto in linea di principio, ma soprattutto nei fatti. Non vorrei che lei facesse i vari Renzi, Berlusconi & C. troppo colti: questi semplicemente non vogliono controlli indipendenti, né tantomeno un Parlamento forte che gli faccia le pulci. Può essere. Ma a me pare interessante domandarsi qual è il significato di tutto ciò. Perché è dalla consapevolezza che nascono la azioni e le reazioni dotate di senso. Poi, certo, c’è anche il fattore umano, la qualità delle persone. Quando ero giovane e insegnavo all’Università di Sassari, d’estate andavo a fare il bagno sulla spiaggia di Stintino, detta ‘La Pelosa’ per i suoi gigli selvatici. Ogni tanto ci trovavo Enrico Berlinguer con la sua famiglia. Lo ricordo quasi rattrappito nei suoi costumini lunghi e neri di lana grezza, sotto l’ombrellone, intento a leggere tabulati pieni di cifre: studiava i problemi dell’economia, i cosiddetti dossier. E non aggiungo altro… Oltre al Senato, stanno pure riformando il Titolo V della Costituzione, quello che regola le autonomie locali. Nella versione originaria del 1948, il Titolo V funzionava così così. Poi, grazie a decenni d’interventi e di decisioni della Corte costituzionale, si trovarono aggiustamenti. Ma nel 2000, per inseguire la Lega Nord sul terreno del federalismo, si decise di riformarlo. E, quando il centrodestra si defilò in extremis, il centrosinistra allora al governo decise di procedere comunque a maggioranza, con questa motivazione: dimostriamo che la Costituzione è riformabile con le procedure che essa stessa prevede, altrimenti rafforziamo l’idea della destra di un’Assemblea costituente. Col senno di poi, oggi che il Parlamento eletto con una legge elettorale incostituzionale sta cambiando a tappe forzate decine di articoli della Costituzione, viene da dire: magari si facesse un’Assemblea costituente, eletta – come tutte le Costituenti – col sistema proporzionale! Quello che 14 anni fa era una prospettiva allarmante, oggi sarebbe una garanzia di democrazia. Per dire come cambia in pochi anni la percezione delle cose… Giusto dunque riformare un’altra volta il Titolo V? La riforma della riforma ha le sue buone ragioni. Innanzitutto, la cattiva prova della riforma di 14 anni fa, che ha alimentato un contenzioso abnorme di fronte alla Corte costituzionale. Oggi si vuole ‘ricentralizzare’, dopo aver voluto, allora, decentralizzare. Schizofrenia impulsiva, francamente poco costituzionale. Colpisce il silenzio generale che avvolge questo radicale cambio di marcia: che fine han fatto tutti i tifosi del federalismo, che nell’ultimo ventennio era diventato una parola magica, una panacea per tutti i mali tanto a sinistra e al centro quanto a destra? Mi pare che neppure la Lega stia protestando contro questo ri-accentramento. Ecco, questo è un altro di quei punti che ci aiutano a tracciare il disegno generale che cancella altri spazi di democrazia. Un buon federalismo, che non moltiplichi le poltrone e i centri di spesa, ma che promuova energie dal basso, sarebbe un ottimo sistema di mobilitazione di forze sociali per uscire dalla crisi con più partecipazione, più democrazia. In fondo, la storia ci insegna che è così che si supera il crollo dei grandi sistemi di potere. Quando venne giù l’impero di Alessandro Magno, l’Ellenismo fu tutto un pullulare d’energie diffuse. Quando si sbriciolò il Sacro Romano Impero, la civiltà la trasmisero i comuni e i conventi, ancora una volta con una spinta dal basso. Ora invece si pensa di verticalizzare e accentrare. Sarà buona cosa? E, se sì, per chi? Poi c’è la legge elettorale, l’Italicum, che riproduce le liste bloccate e il mega-premio di maggioranza del Porcellum incostituzionale, e aggiunge altissime soglie di sbarramento per tener fuori dalla Camera i partiti medio-piccoli. Così, in due mosse, un pugno di capi-partito possono piazzare i loro servitori nel Senato non più elettivo e nella Camera dei nominati. Il capitolo della legge elettorale è davvero fondamentale. Lì si gioca il grosso della partita. Di tutte le leggi, la legge elettorale è quella che più appartiene ai cittadini e meno ai loro rappresentanti. Mi sorprende la leggerezza, direi addirittura la spudoratezza, con cui i partiti trattano questa materia, come se fosse cosa loro. Invece non lo è. Tutto dipende dai loro calcoli d’interesse. Ma la legge elettorale non appartiene a loro, ma a noi: perché ciò che ciascuno di noi è, come soggetto politico, dipende in gran parte dalla legge elettorale. Il modo in cui se ne discute fa pensare che essi considerino gli elettori materia inerte nelle loro mani. Altro puntino: la riforma della Giustizia. Che il memorandum JP Morgan equipara alla burocrazia, auspicandone la sudditanza alle esigenze dell’economia. Anche qui, i problemi sono molti e noti: lunghezza dei processi, tre gradi di giudizio, sacrosante garanzie che si trasformano in pretesti per impedire che si giunga mai alla fine, abuso della prescrizione in materia penale, correntismo della magistratura nel Csm, ecc. Vedremo se il governo li risolverà con soluzioni più democratiche e aperte, nel senso di confermare le garanzie d’indipendenza dei giudizi, di promuovere l’uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge, di agevolare l’accesso alla giustizia da parte dei più deboli (i tribunali dovrebbero servire soprattutto a questo). Il punto è ancora questo: vedremo se non si risolverà in una riforma non per la giustizia, ma contro la giustizia e a favore di privilegi oligarchici. Anche in materia giudiziaria si va verso una verticalizzazione del potere in poche mani: pensiamo alla lettera inviata dal capo dello Stato (e del Csm) a Palazzo dei Marescialli per chiudere il caso Bruti Liberati-Robledo e affermare il potere assoluto dei capi delle Procure sui singoli pm. Su questo punto c’è un dibattito. A me pare abbia detto cose interessanti e sagge il nuovo procuratore di Torino, Armando Spataro, nel suo discorso di insediamento, quando ha affermato con forza il ruolo del procuratore della Repubblica come coordinatore di un ufficio plurale, nel rispetto dell’autonomia funzionale dei singoli magistrati. Vedo che, anche su questo punto, lei condivide l’appello lanciato dal Fatto Quotidiano contro la svolta autoritaria. Perché non l’ha firmato? Non per questioni di merito, ma di metodo. Un po’ perché mi ha stancato l’accusa di firmaiolo. Ma soprattutto perché credo più produttivo cercare di seminare dubbi, ragionamenti e osservazioni critiche fra quei tanti parlamentari di tutti gli schieramenti che hanno votato obtorto collo la riforma del Senato. La logica degli appelli e dei manifesti crea una contrapposizione che aiuta il radicalismo ottuso di chi poi dice: facciamo le riforme costi quel che costi, anche per dimostrare che chi non ci sta non conta niente. E così si elimina ogni spazio di discussione e di confronto. Ma questa contrapposizione è nata ben prima del nostro appello: lei s’è preso del gufo, del solone e del professorone fin da marzo, quando firmò con Rodotà e altri giuristi il manifesto sulla svolta autoritaria. Lo so bene, ma in Parlamento non ci sono soltanto i ministri e i loro fedelissimi. Quelli che non hanno avuto il coraggio di prendere le distanze hanno subìto il clima di contrapposizione ‘o di qua o di là’ che si è venuto a creare. Ma non ritengono affatto chiusa la partita e dicono: stiamo facendo cose che siamo costretti a fare. Ma l’iter della riforma è appena iniziato, la gran parte è ancora da percorrere e molto può ancora succedere. In questa fase, credo più utili le critiche e le proposte alternative. Quando lei ha inviato le sue alla Boschi, questa anziché renderle note e discuterle nel merito le ha imboscate in un cassetto. Può darsi che non meritassero attenzione. In ogni caso, ormai ero già stato iscritto d’ufficio al partito dei gufi che vogliono l’immobilismo e che dovevano essere sbaragliati per evitare la sconfitta del governo. Lei sembra dimenticare che, su Senato e Italicum, Renzi e Berlusconi hanno siglato un patto d’acciaio e segreto al Nazareno il 18 gennaio, e di lì non si spostano. Sì, ma è un accordo di vertice. Nel ventre dei partiti ci sono tanti mal di pancia. In ogni caso il nostro appello serve anche a mobilitare i cittadini in vista del referendum confermativo. Questa è una storia che si aprirà successivamente, se sarà necessario. Quel che è certo è che, con questi numeri in Parlamento, la riforma non otterrà i due terzi. Dunque il referendum confermativo sarà possibile come diritto dei cittadini previsto dalla Costituzione, non come ‘chiamata a raccolta’ plebiscitaria promossa dalle forze governative. Che sarebbe un abuso, come già avvenne al tempo della riforma del Titolo V su iniziativa, quella volta, del centrosinistra. Il governo e la maggioranza che promuovono il referendum sulle proprie riforme è il mondo alla rovescia. Visto quel che è accaduto al Senato, mi sa che lei si illude. Sa, io sono un vecchio gufo che appartiene all’altro secolo, anzi all’altro millennio, al tempo delle Costituzioni democratiche del Meridione, anzi della ‘periferia’ d’Europa… E rimango legato a principi fondamentali che rappresentano conquiste del costituzionalismo. Per questo mi auguro che chi svolge la funzione di garante supremo della Costituzione sia fermo nel difenderli. Spera in un intervento del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano? Anche in vista di un rasserenamento e di un temperamento delle tensioni, dopo gli allarmi che abbiamo e avete lanciato e dopo gli scontri durissimi avvenuti in Senato, chiedo se non sarebbe auspicabile una presa di posizione formale che dica più o meno così: ‘La Costituzione non è un testo sacro: può essere sottoposta a modifiche, tant’è che essa stessa ne prevede le forme attraverso l’articolo 138. Ma, in quanto garante di questa Costituzione – quella del 1948 – ricordo che esistono dei limiti a ciò che si può fare e che determinano ciò che non si può fare: princìpi fondamentali che non possono essere cancellati o calpestati’. Quali? La rappresentanza democratica, la centralità del Parlamento, l’autonomia della funzione politica, la legalità intesa come legge uguale per tutti, l’indipendenza della magistratura e così via: i fondamenti del costituzionalismo. Non ultimo, il rispetto della cultura. Renzi & C. hanno già annunciato che tireranno diritto, “piaccia o non piaccia”. Sì. E in effetti l’espressione ‘piaccia o non piaccia’ fa sorridere, se non piangere. La democrazia, a differenza dell’autocrazia, richiede a chi è chiamato a prendere decisioni di ‘andar persuadendo’. Bella espressione: così dice Pericle in un memorabile dialogo con Alcibiade, raccontato da Senofonte. Prima si discute, e solo alla fine della discussione la decisione viene presa in base ai voti. ‘Il piaccia o non piaccia’ posto all’inizio – ripeto – non è democrazia, ma autocrazia. Sta di fatto che nessuno sembra scandalizzarsi neppure per la promozione di un pregiudicato, interdetto dai pubblici uffici e affidato ai servizi sociali, a padre costituente. Questo, come il conflitto d’interessi, è uno di quei problemi enormi che nessuno osa più sollevare. Purtroppo sono argomenti che si logorano ripetendoli. Resta l’anomalia di una riforma costituzionale fatta in fretta e furia alla vigilia di Ferragosto, con forzature regolamentari e tempi contingentati dallo stesso presidente del Senato. Guardi, questa storia è tutta un’anomalia. Il fatto che l’iniziativa di riformare la Costituzione non parta dal Parlamento, ma dal governo. Il fatto che il governo ponga una sorta di questione di fiducia, anzi, per dir così, di mega-fiducia perché accompagnata dalla minaccia non delle dimissioni per dar luogo a un altro governo, ma addirittura dello scioglimento delle Camere per fare piazza pulita e tornare a votare. Il fatto che una componente del Senato abbia scelto (dovuto scegliere, secondo il proprio punto di vista) la via estrema dell’ostruzionismo e a questo si siano opposte ‘tagliole’ e ‘canguri’. Tutta un’anomalia che è l’esatto contrario di un clima costituente. C’è il fatto, poi, che il ddl contenga una norma che impone alle Camere di votare (spero non anche di approvare!) i disegni di legge del governo entro e non oltre 60 giorni. Ecco, questi sono altri punti da congiungere, tutti elementi della ‘governa-mentalità’ di cui dicevamo. Senza contare il presidente della Repubblica, che sollecita continuamente riforme-lampo perché pare che voglia dimettersi al più presto. Ma sa, nella Costituzione c’è un solo organo a durata variabile: il governo. Tutti gli altri hanno una durata fissa, e quella del capo dello Stato è di sette anni. Ecco un altro punto. Il presidente Napolitano, al momento della rielezione, ha aderito alla supplica di chi si trovava nell’impasse e ogni altro nome plausibile, da Romano Prodi a Stefano Rodotà, era stato ‘bruciato’ (non sappiamo ancora da chi e perché). Tuttavia, egli stesso dichiarò allora che la sua permanenza al Quirinale sarebbe stata ‘a tempo’. La prima volta nella storia repubblicana. Questo fatto, avvicinandosi il momento delle più volte annunciate dimissioni, sta creando il pericolo di un ingorgo istituzionale, di una contrazione anomala dei tempi e di una generale instabilità. In un quadro, però, di immutabilità del sistema di potere. Beh, questo è il modo tutto italiano di uscire dalle crisi di sistema. Lo stesso che è alla base dell’attuale governo: il massimo dell’innovazione di facciata per non cambiare nulla nella sostanza, o ossificare quello che già c’era. da Il Fatto Quotidiano del 22 agosto 2014 Da - http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/08/23/riforme-zagrebelsky-la-finanza-comanda-i-governi-compreso-quello-di-renzi/1096613/ Titolo: GUSTAVO ZAGREBELSKY Vitalizi ai condannati: se la politica cerca l'alibi dei... Inserito da: Admin - Aprile 16, 2015, 11:31:17 am Vitalizi ai condannati: se la politica cerca l'alibi dei giuristi per non dover decidere
Il caso dei parlamentari decaduti per reati gravi che continuano a percepire la "pensione". Lo sconcerto dell'opinione pubblica: la questione sembrava chiara e ci si è rivolti al diritto per renderla confusa Di GUSTAVO ZAGREBELSKY 15 aprile 2015 UN CASO da non prendere sottogamba. Le Camere si trovano a discutere se sia ragionevole che i parlamentari decaduti in conseguenza di condanna irrevocabile per reati di particolare gravità possano continuare a percepire il cosiddetto "vitalizio"; se, dunque, sia ragionevole sostenere, vita natural durante, coloro che dal Parlamento siano stati allontanati per una ragione di indegnità. "Indegnità" è parola della Costituzione, insieme a "disciplina e onore". Quando si è saputo che ciò tranquillamente accade, ai più (forse, salvo che ai diretti interessati) non è sembrato vero. Cosa da non credere. Così, si sono messe in moto iniziative interne alle Camere per rimuovere un'anomalia che sembra fatta apposta per giustificare e alimentare il già tanto diffuso pregiudizio anti-parlamentare che circola nel nostro Paese. Pareva facile. Invece no. Sono stati chiamati in causa i costituzionalisti e i loro "pareri pro veritate", e ciò che sembrava chiaro è diventato oscuro. Il senso comune pensa che, per risolvere una questione controversa ci si possa rivolgere al diritto per ricavare la risposta che mette tutti d'accordo. Qui, succede il contrario: la questione sembrava chiara e ci si è rivolti al diritto per renderla confusa. I giuristi hanno espresso le loro verità e hanno sostenuto di tutto: che quei tali vitalizi sono intoccabili e vanno bene così come sono; che, devono o possono essere eliminati tout court; che li si deve sospendere solo per un certo numero d'anni; che li si può mantenere, ma se ne deve ridurre l'entità; che, infine, in ogni caso non sarebbe sufficiente una delibera parlamentare interna, occorrendo una legge. Come giuristi, non stiamo facendo una bella figura e nella brutta figura stiamo trascinando l'oggetto della nostra professione, il diritto e la Costituzione. Se tutto è giuridicamente sostenibile, allora i nostri argomenti sono perfettamente inutili. Se tutto è sostenibile, allora: liberi tutti. Non si alimenta, così, l'idea corrente che i giuristi siano essenzialmente dei consulenti, e che il diritto, alla fine, non sia che un mezzo e, spesso, un mezzuccio? Poiché chi scrive queste righe è anch'egli giurista e costituzionalista, gli sia lecito ricordare la reazione stizzita di Vittorio Emanuele III, al "parere pro veritate" di un famoso professore che aveva giustificato la legge che equiparava Mussolini al re, entrambi "Primi Marescialli dell'Impero": "I professori di diritto costituzionale [...] trovano sempre argomenti per giustificare le tesi più assurde: è il loro mestiere" (R. De Felice, Mussolini il duce. Lo Stato totalitario 1936-1940, Torino, Einaudi, 1981, p. 33). Questo è il rischio dei giuristi quando le loro opinioni si offrono come merci sul banco d'un mercato, a disposizione degli acquirenti. Tra i marescialli e i vitalizi c'è una certa differenza, così come tra gli interessi di un dittatore e quelli di parlamentari decaduti. Ma la fertilità dei giuristi è ugualmente all'opera. Vediamoli, alcuni di questi argomenti. Il primo: i vitalizi sarebbero pensioni; le pensioni sono "retribuzioni differite" che maturano nel corso del rapporto di lavoro e sono erogate a partire dal momento della messa a riposo; le retribuzioni non si possono toccare, in forza di diverse disposizioni costituzionali (l'art. 36, in particolare) che proteggono i diritti dei lavoratori, tra cui il diritto alla retribuzione, cioè del corrispettivo del rapporto di servizio. Il ragionamento fila, ma la premessa non regge. Per i deputati e i senatori non si può parlare di "rapporto di servizio". La loro attività come rappresentanti della Nazione non è in cambio di una "retribuzione". È prevista una "indennità", stabilita per legge (art. 69). Indennità e retribuzione sono cose diverse. Non ci si fa eleggere per guadagnarci qualcosa. È giusto, però, che chi si dedica all'attività parlamentare possa farlo senza preoccupazioni economiche. Altrimenti, avremmo un Parlamento di redditieri. Il mandato parlamentare deve essere aperto a tutti. L'indennità serve a rendere "indenni" dalle ristrettezze economiche, ma non è retribuzione. Se così fosse, dovrebbe commisurarsi alla quantità e qualità del lavoro prestato in un "rapporto di lavoro". Dunque, i principi del diritto del lavoro sono diversi da quelli del diritto parlamentare. Secondo: la revoca dei vitalizi in conseguenza di condanne sarebbe una sanzione penale e, come tale, non potrebbe avere valore retroattivo. Ma, è facile rispondere che si avrebbe retroattività se si imponesse - il che non è - la restituzione delle rate del vitalizio riscosso in passato. Ciò di cui si discute è l'eliminazione per il futuro come conseguenza di una disciplina che introduce un nuovo requisito di accesso al beneficio. Non si tratta d'una "revoca", ma d'una "cessazione" per il futuro d'un beneficio che non ha nulla in comune con una sanzione. In realtà, gli argomenti che si spendono a proposito della pretesa retroattività sono un modo mascherato per introdurre un argomento di cui si ha ritegno a parlare, in casi come questo: i "diritti quesiti". In sostanza: i parlamentari, quando hanno concorso per l'elezione, potevano fare affidamento su un particolarmente favorevole trattamento para-previdenziale. Perciò non lo potrebbe modificare in senso restrittivo. Ma, chi potrebbe sostenere, senza offendere l'onore dei nostri rappresentanti, che questa sia la ragione, o anche solo una ragione, dell'impegno politico-parlamentare? E, se anche lo fosse per qualcuno particolarmente venale, dovrebbe essere protetta dal diritto? Terzo: la disciplina della condizione giuridica dei parlamentari dovrebbe essere stabilita dalla legge, non da deliberazioni interne alle Camere. L'abitudine invalsa, quando scoppia uno scandalo (sui partiti, sugli appalti, sulla televisione, sulla prescrizione, ora sui vitalizi) è invocare "subito una legge": parole al vento. Si ricorrerà anche ora a questa formula dell'ipocrisia? Che sia necessaria una legge si potrebbe sostenere solo se la revoca del beneficio fosse - e non è - una sanzione penale. Il vitalizio è un beneficio unilateralmente deciso da ognuno dei due rami del Parlamento. Oltretutto, la loro incompetenza a togliere proverebbe troppo. Sarebbe un argomento suicida. Togliere è l'altra faccia del dare. Se le Camere non potessero togliere, non avrebbero potuto nemmeno dare, e tutto il sistema degli attuali vitalizi crollerebbe, non solo per i parlamentari condannati, ma per tutti. Riprendiamo da capo. I giuristi di mondo sanno motivare qualsiasi cosa. Ma, ci sono cose che ci si dovrebbe rifiutare di motivare. Quali? La ragionevolezza è l'àncora di salvezza del diritto, è la direttrice che serve a separare gli argomenti buoni da quelli cattivi. In assenza, il diritto perderebbe se stesso e diventerebbe fattore di disfacimento sociale. Altrimenti, dovremmo dare ragione al Bartolo delle Nozze di Figaro: "con un equivoco, con un sinonimo qualche garbuglio si troverà". Ora, è ragionevole che persone decadute per avere commesso reati e che non possono essere ricandidate per avere disonorato la carica, continuino ad appartenere alla cerchia dei protetti, alla stessa stregua di coloro che, invece, l'hanno onorata? Questa è la domanda che i cittadini comprendono, alla quale le Camere devono una risposta. Gli argomenti dei giuristi seguiranno. © Riproduzione riservata 15 aprile 2015 Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/04/15/news/vitalizi_ai_condannati_se_la_politica_cerca_l_alibi_dei_giuristi_per_non_dover_decidere-111979676/ Titolo: GUSTAVO ZAGREBELSKY Zagrebelsky e Canfora su Oligarchia e Democrazia Inserito da: Arlecchino - Marzo 03, 2016, 05:56:48 pm Sintesi Dialettica: per l'identità democratica
Zagrebelsky e Canfora su Oligarchia e Democrazia Di Luca Menichetti 28/02/2016 Luciano Canfora e Gustavo Zagrebelsky, coadiuvati da Geminello Preterossi, indagano sui concetti di democrazia e oligarchia, e sulle forme con cui le oligarchie tendono a mascherare la propria natura. Il libro di Luciano Canfora e Gustavo Zagrebelsky “La maschera democratica dell’oligarchia”, pubblicato nel 2015 da Laterza, raccoglie e approfondisce una serie di loro dialoghi avvenuti a Torino, Bologna e Roma. L'argomento è di stretta attualità, ma gli autori, coadiuvati dal curatore del volume, Geminello Preterossi, partono da lontano. Al cospetto di movimenti che tendono ad intercettare la rabbia dei cittadini e che denunciano l'involuzione del potere democratico in oligarchia, è diventato ormai necessario comprendere il significato di certe parole e prendere atto, come afferma Zagrebelsky, che l'affermazione dell'oligarchia - in un mondo caratterizzato dalla finanziarizzazione dell'economia e quindi dal denaro che non è più mezzo ma fine - non può che passare ormai per procedure democratiche svuotate di senso. Un regime che quindi non si manifesta sempre nelle forme tradizionali, ma che possiamo anche individuare nella cosiddetta oligarchia finanziaria, più nascosta, anche non ufficiale, che si fonda sul denaro che alimenta un potere fondato sulla speculazione e sul potere che, a sua volta, alimenta flussi finanziari in favore di pochi privilegiati. Un'oligarchia contemporanea del tutto peculiare e, per dirla in altri termini, che non potendosi dichiarare per quello che effettivamente è, deve mimetizzarsi, rendersi invisibile, nascondere la sua faccia» (p.10). Un regime del privilegio caratterizzato da cittadini degradati a sudditi, dall'autoconservazione attraverso la cooptazione, quindi palesemente in contrasto con le regole anche formali della democrazia. Tutto ciò, in un momento storico nel quale «i fattori di trasformazione e redistribuzione della ricchezza e potere non [sono] più nella rappresentanza politica, ma nella tutela giurisdizionale dei diritti» (p.38). Il dialogo, spesso a tre, con anche Preterossi, non è sempre caratterizzato da una perfetta sintonia tra Zagrebelsky e Canfora, ma proprio grazie a tale dialettica il tema viene approfondito anche e soprattutto nelle sue manifestazioni più recenti. Ad esempio, secondo Canfora: «oggi in Russia è venuta fuori un'altra élite (tremenda), quella dei nuovi ricchi. Gli ex capi partito che hanno fatto in tempo a cambiare l'impalcatura esteriore e a tirare fuori le ricchezze accumulate, con un ritorno al capitalismo selvaggio aperto alla mafia. I cinesi hanno avuto più accortezza nel disciplinare questo moto, imbrigliandolo dentro l'impalcatura tradizionale, ma facendo ugualmente sprigionare tutto l'egoismo feroce del capitalismo d'assalto» (p.34). L'osservazione di questo stato di cose si sposta poi sull'Italia contemporanea sulla quale, da parte di tutti, vengono fuori situazioni tutt'altro che rassicuranti. Pensiamo alla formazione, intesa come carta di tornasole dello stato di salute della nostra democrazia. Ricordando la polemica di Canfora sulle conseguenze delle riforme dell'università e della scuola, ovvero burocratizzazione, abbassamento del livello culturale dell'insegnamento, Preterossi sottolinea i danni causati dall'ossessione pedagogistica, dall'esaltazione acritica dell'autonomia, dalle pseudo-valutazioni. Argomenti polemici che non lasciano scampo alla nostra attuale classe politica, sempre molto generosa nel dispensare ottimismo e tacciare le voci critiche di disfattismo. Zagrebelsky, pur senza usare termini ormai abusati come "rottamazione" e "riciclare", ha quindi colto nel segno quando menziona gli effetti deleteri della "post-democrazia" italiana che, oltretutto, sta rivelando in pieno l'idea dell'uomo forte al comando, senza la presenza di efficaci contrappesi: «le forme della democrazia restano, ma gli effetti sulla circolazione del governo tra gruppi dirigenti e forze sociali diverse, il confronto effettivo di idee, di programmi, la competizione tra questi, non li vediamo più. Se siamo disposti a considerare fattori di novità il giovanilismo, l'inesperienza, l'improvvisazione, l'arroganza e l'ambizione, allora siamo disposti a credere a qualunque cosa» (p.91). L. Canfora, G. Zagrebelsky, La maschera democratica dell'oligarchia, a cura di G. Preterossi, Laterza, Roma 2015, pp. 144, € 9,50. Da - http://sintesidialettica.it/leggi_articolo.php?AUTH=19&ID=541 Titolo: GUSTAVO ZAGREBELSKY In vista della consultazione popolare fissata a ottobre... Inserito da: Arlecchino - Marzo 07, 2016, 04:55:13 pm Referendum Costituzionale, Gustavo Zagrebelsky spiega i 15 motivi per dire no alla riforma voluta da Renzi
In vista della consultazione popolare fissata a ottobre sulle modifiche alla Carta, il presidente emerito della Consulta elenca le ragioni per votare contro il disegno messo a punto dal premier e dal suo governo Di F. Q. | 6 marzo 2016 Pubblichiamo ampi stralci di un documento preparato per l’associazione Libertà e Giustizia dal professor Gustavo Zagrebelsky in vista del referendum. Nella campagna per il referendum costituzionale i fautori del Sì useranno alcuni slogan. Noi, i fautori del NO, risponderemo con argomenti. Loro diranno, ma noi diciamo. 1. Diranno che “gli italiani” aspettano queste riforme da vent’anni (o trenta, o anche settanta, secondo l’estro) Noi diciamo che da quando è stata approvata la Costituzione – democrazia e lavoro – c’è chi non l’ha mai accettata e, non avendola accettata, ha cercato in ogni modo, lecito e illecito, di cambiarla per imporre una qualche forma di regime autoritario. Chi ha un poco di memoria, ricorda i nomi Randolfo Pacciardi, Edgardo Sogno, Luigi Cavallo, Giovanni Di Lorenzo, Junio Valerio Borghese, Licio Gelli, per non parlare di quella corrente antidemocratica nascosta che di tanto in tanto fa sentire la sua presenza nella politica italiana. A costoro devono affiancarsi, senza confonderli, coloro che negli anni hanno cercato di modificare la Costituzione spostandone il baricentro a favore del governo o del leader: commissioni bicamerali varie, “saggi” di Lorenzago, “saggi” del presidente, eccetera. È vero: vi sono tanti che da tanti anni aspettano e pensano che questa sia finalmente “la volta buona”. Ma questi non sono certo “gli italiani”, i quali del resto, nella maggioranza che si è espressa nel referendum di dieci anni fa, hanno respinto col referendum un analogo tentativo, il tentativo che, più di tutti gli altri sembrava vicino al raggiungimento dello scopo. A coloro che vogliono parlare “per gli italiani”, diciamo: parlate per voi. 2. Diranno che “ce lo chiede l’Europa” (…) Diteci che cosa rappresenta l’Europa di oggi se non principalmente il tentativo di garantire equilibri economico-finanziari del Continente per venire incontro alla “fiducia degli investitori” e a proteggerli dalle scosse che vengono dal mercato mondiale. A questo fine, l’Europa ha bisogno d’istituzioni statali che eseguano con disciplina i Diktat ch’essa emana, come quello indirizzato il 5 agosto 2011 al “caro primo ministro”, contenente un vero e proprio programma di governo ultra-liberista, in materia economico-sociale, associato all’invito di darsi istituzioni decidenti per eseguirlo in conformità. Dite: “Ce lo chiede l’Europa” e tacete della famosa lettera Draghi-Trichet, parallela ad analoghi documenti provenienti da “analisti” di banche d’affari internazionali, che chiede riforme istituzionali limitative degli spazi di partecipazione democratica, esecutivi forti e parlamenti deboli, in perfetta consonanza con ciò che significano le “riforme” in corso nel nostro Paese. (…) A chi dice: ce lo chiede l’Europa, poniamo a nostra volta la domanda: qual è l’Europa alla quale volete dare risposte? 3. Diranno che le riforme servono alla “governabilità” (..) “Governabile” è chi si lascia docilmente governare e chiediamo: chi si deve lasciar governare e da chi? Noi pensiamo che occorra “governo”, non governabilità, e che governo, in democrazia, presupponga idee e progetti politici capaci di suscitare consenso, partecipazione, sostegno. In assenza, la democrazia degenera in linguaggio demagogico, rassicurazioni vuote, altra faccia della rassegnazione, e dell’abulia: materia passiva, irresponsabile e facile alla manipolazione. Questa è la governabilità. A chi dice “governabilità” noi rispondiamo: partecipazione e governo democratico. 4. Diranno: ma la riforma è pur stata approvata dal Parlamento, l’organo della democrazia Ma noi diciamo: quale Parlamento? Il Parlamento illegittimo, eletto con una legge elettorale obbrobriosa, dichiarata incostituzionale, per l’appunto, per essere antidemocratica (deputati e senatori nominati e non eletti; premio di maggioranza abnorme che ha scollato gli eletti dagli elettori). La Corte costituzionale ha bollato quell’elezione come una specie di golpe elettorale, per avere “rotto il rapporto di rappresentanza” (testuale). È vero che la Corte aggiunse che, per l’esigenza di continuità costituzionale, le Camere così elette non sarebbero decadute immediatamente. Ma è chiaro a tutti coloro che hanno ancora un’idea seppur minima di democrazia che da quella sentenza si sarebbe dovuto procedere tempestivamente, per mezzo d’una nuova legge elettorale conforme alla Costituzione, a nuove elezioni, per ristabilire il rapporto di rappresentanza. (…) È vero che, scandalosamente, anche da parte delle più alte autorità della Repubblica, dell’informazione e da parte di non poca “dottrina” costituzionalistica, si fa finta che non esista una questione di legittimità che getta un’ombra su tutta questa vicenda, tanto più in quanto, se non vi fosse stato l’incostituzionale premio di maggioranza, sarebbero mancati i numeri necessari per portarla a compimento. (…) 5. Parleranno di atto d’orgoglio politico dei parlamentari, finalmente capaci di “autoriformarsi” senza guardare al proprio interesse Noi parliamo, piuttosto, d’arroganza dell’esecutivo. Queste riforme sono state avviate dall’esecutivo con l’impulso di quello che, per debolezza e compiacenza, è potuto essere per diversi anni il vero capo dell’esecutivo, il presidente della Repubblica; sono state recepite nel programma di governo e tradotte in disegni di legge imposti all’approvazione del Parlamento con ogni genere di pressione (minacce di scioglimento, di epurazione, sostituzione dei dissenzienti, bollati come dissidenti), di forzature (strozzamento delle discussioni parlamentari, caducazione di emendamenti), di trasformismo parlamentare (passaggi dall’opposizione alla maggioranza in cambio di favori e posti) fino ai voti di fiducia, come se la Costituzione e le istituzioni fossero materia appartenente al governo, fino a raggiungere il colmo: la questione di fiducia posta addirittura agli elettori, sull’approvazione referendaria della riforma (o me o la riforma, sempre che voglia prendere sul serio un simile proclama da parte di uno che non eccede in coerenza ed eccede invece in spregiudicatezza). Questo non è il primato della politica, ma delle minacce e degli allettamenti. Se volete parlare di politica, noi diciamo: sì, ma sapendo che è mala politica. 6. S’inorgogliranno chiamandosi “governo costituente” Noi diciamo che il “governo costituente”, in democrazia, è un’espressione ambigua. Sono i governi dei caudillos e dei colonnelli sud-americani, quelli che, preso il potere, si danno la propria costituzione: costituzione non come patto sociale e garanzia di convivenza ma come strumento, armatura del proprio potere. Il popolo e la sua rappresentanza, in democrazia, possono essere “costituenti”. I governi, poiché sono espressione non di tutta la politica, ma solo d’una parte, devono stare sotto la Costituzione, non sopra come credono invece di stare d’essere i nostri riformatori che si fanno forti dello slogan “abbiamo i numeri”, come se avere i numeri, comunque racimolati, equivalga all’autorizzazione a fare quel che si vuole. (…) 7. Diranno che l’iniziativa del governo nelle faccende costituzionali non ha nulla d’anormale e, quelli che sanno, porteranno l’esempio della Francia, del generale De Gaulle e della sua riforma costituzionale del 1962. Noi ci limitiamo a porre queste domande: credete davvero d’essere dei nuovi De Gaulle, il capo della Resistenza repubblicana che sbarca in Normandia al momento della liberazione? E di poter paragonare l’Italia di oggi alla Francia d’allora? La riforma francese aveva alla sua base le idee costituzionali enunciate “disinteressatamente” nel 1946 a Bayeux, guardando lontano e radicandosi nel passato della storia della Repubblica francese. Noi abbiamo invece testi raffazzonati all’ultima ora, la cui approvazione si è resa possibile per equivoci compromessi concettuali e lessicali, proprio sul punto centrale della riforma del Senato. (…) 8. Diranno che, anche ad ammettere che la riforma abbia avuto una genesi non democratica e un iter parlamentare telecomandato nei tempi e nei contenuti, alla fine la democrazia trionferà nel referendum confermativo. Noi diciamo che la riforma forse sottoposta al giudizio degli elettori porta il segno della sua origine tecnocratica unilaterale e che il referendum richiesto dallo stesso governo che l’ha voluta lo trasformerà in un plebiscito. Non si tratterà di un giudizio su una Costituzione destinata a valere negli anni, ma di un voto su un governo temporaneamente in carica. (…) Avremo una campagna referendaria in cui il governo avrà una presenza battente, come se si trattasse d’una qualunque campagna elettorale a favore di una parte politica, e farà valere il “plusvalore” che assiste sempre coloro che dispongono del potere, complice anche un’informazione ormai quasi completamente allineata. 9. Diranno che non c’è da fare tante storie, perché, in fondo si tratta d’una riforma essenzialmente tecnica, rivolta a razionalizzare i percorsi decisionali e a renderli più spediti ed efficienti Noi diciamo: altro che tecnica! È la razionalizzazione d’una trasformazione essenzialmente incostituzionale, che rovescia la piramide democratica. Le decisioni politiche, da tempo, si elaborano dall’alto, in sedi riservate e poco trasparenti, e vengono imposte per linee discendenti sui cittadini e sul Parlamento, considerato un intralcio e perciò umiliato in tutte le occasioni che contano. La democrazia partecipativa è stata sostituita da un sistema opposto di oligarchia riservata. (…) Le “riforme” costituzionali sono in realtà adeguamenti della Costituzione a questa realtà oligarchica. Poiché siamo per la democrazia, e non per l’oligarchia, siamo contrari a questo adeguamento spacciato come riforma. 10. Diranno che i partiti di sinistra, già al tempo della Costituente, avevano criticato il bicameralismo (cuore della riforma) e che perfino Pietro Ingrao, ancora negli anni 80, si espresse per l’abolizione del Senato Noi diciamo: andate a leggere i resoconti di quei dibatti e vi renderete conto che si trattava, allora, di semplificare le istituzioni parlamentari per dare più forza alla rappresentanza democratica e fare del Parlamento il centro della vita politica (si parlava di “centralità del Parlamento”). La visione era quella della democrazia partecipativa o, nel linguaggio di Ingrao, della “democrazia di massa”. Oggi è tutto il contrario: si tratta di consolidare il primato dell’esecutivo emarginando la rappresentanza, in quanto portatrice di autonome istanze democratiche. (…) 11. Diranno che siamo come i ciechi conservatori che hanno paura del nuovo, anzi del “futuro-che-è-oggi”, e sono paralizzati dal timore “dell’uomo forte” Noi diciamo che a noi non interessano “riforme” che riforme non sono, ma sono “consolidazioni” dell’esistente: un esistente che non ci piace affatto perché portatore di disgregazione costituzionale e di latenti istinti autoritari. Questi istinti non si manifestano necessariamente attraverso l’uso esplicito della forza da parte di un “uomo forte”. Questo accadeva in altri, più primitivi tempi. Oggi, si tratta piuttosto dell’occupazione dei posti strategici dell’economia, della politica e della cultura che forma l’ideologia egemonica del momento. Questo è ciò che sta accadendo manifestamente e solo chi chiude gli occhi e vuole non vedere, può vivere tranquillo. Si tratta, per portare a compimento questo disegno, di eliminare o abbassare gli ostacoli (pluralismo istituzionale, organi di controllo e di garanzia) che frenano il libero dispiegarsi del potere che si coagula negli organi esecutivi. Non occorre eliminarli, ma normalizzarli, ugualizzarli, standardizzarli, il che significa l’opposto del far opera costituente. 12. Diranno che siamo per l’immobilismo, cioè che difendiamo l’indifendibile: una condizione della politica che non ha mai toccato un punto così basso in tutta la storia repubblicana, mentre loro vogliono rianimarla e rinnovarla Noi opponiamo una classica domanda alla quale i riformatori costantemente sfuggono: sono più importanti le istituzioni o coloro che operano nelle istituzioni? La risposta, che sta non solo in venerandi scritti sulla politica e sulla democrazia – che i nostri riformatori, con tranquilla e beata innocenza mostrano d’ignorare completamente – ma anche nelle lezioni della storia, è la seguente: istituzioni imperfette possono funzionare soddisfacentemente se sono in mano a una classe politica degna e consapevole del compito di governo che è loro affidato, mentre la più perfetta delle costituzioni è destinata a funzionare malissimo in mano a una classe politica incapace, corrotta, inadeguata. Per questo noi diciamo: non accollate a una Costituzione le colpe che sono vostre. (…) 13. Diranno: non ve ne va bene una; la vostra è una opposizione preconcetta. Non siete d’accordo nemmeno sull’abolizione del Cnel e la riduzione dei “costi della politica”? Noi diciamo: qualcosa c’è di ovvio, su cui voteremmo pure sì, ma è mescolato, come argomento-specchietto, per far passare il resto presso un’opinione pubblica orientata anti-politicamente. A parte il Cnel, che in effetti s’è dimostrato in questi anni una scatola quasi vuota, la riduzione dei costi della politica avrebbe potuto essere perseguito in diversi altri modi: riduzione drastica del numero dei deputati, perfino abolizione pura e semplice del Senato in un contesto di garanzie ed equilibri costituzionali efficaci. Non è stato così. Si è voluto poter disporre d’un argomento demagogico che trova alimento nella lunga tradizione antiparlamentare che ha sempre alimentato il qualunquismo nostrano. Avere unificato in un unico voto referendario tanti argomenti tanto diversi (forma di governo e autonomie regionali) è un abile trucco costituzionalmente scorretto, che impedisce di votare sì su quelle parti della riforma che, prese per sé e in sé, risultassero eventualmente condivisibili. Voi dite di voler combattere l’antipolitica, ma proprio voi ne esprimete l’essenza. (…) 14. Diranno: come è possibile disconoscere il serio lavoro fatto da numerosi esperti, a incominciare dai “saggi” del presidente della Repubblica, passando per la Commissione governativa, per le tante audizioni parlamentari di distinti costituzionalisti, fino ad approdare al Parlamento e al ministro competente per le riforme costituzionali. Tutto ciò non è per voi garanzia sufficiente d’un lavoro tecnicamente ben fatto? (…) Le questioni costituzionali non sono mai solo tecniche. A ogni modifica della collocazione delle competenze e delle procedure corrisponde una diversa allocazione del potere. Nella specie, ciò che si sta realizzando, per l’effetto congiunto della legge elettorale e della riforma costituzionale, è l’umiliazione del Parlamento elettivo davanti all’esecutivo; l’esecutivo, un organo che, non essendo “eletto”, potrà derivare dall’iniziativa del presidente della Repubblica che, dall’alto, potrà manovrare – come è avvenuto – per ottenere la fiducia della Camera. Quanto poi alla bontà del testo di riforma dal punto di vista tecnico, ci limitiamo a questo esempio, la definizione delle competenze legislative da esercitare insieme dalla Camera e dal Senato (sì, il Senato rimane, il bicameralismo anche e, se la seconda Camera non si arenerà su un binario morto, i suoi rapporti con la prima Camera daranno luogo a numerosi conflitti): “La funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere per (sic!) le leggi di revisione della Costituzione e le altre leggi costituzionali, e soltanto per le leggi di attuazione delle disposizioni costituzionali concernenti la tutela delle minoranze linguistiche, i referendum popolari, le altre forme di consultazione di cui all’art. 71, per le leggi che determinano l’ordinamento, la legislazione elettorale, gli organi di governo, le funzioni fondamentali dei Comuni e delle Città metropolitane e le disposizioni di principio sulle forme associative dei Comuni, per la legge che stabilisce le norme generali, le forme e i termini della partecipazione dell’Italia alla formazione e all’attuazione della normativa e delle politiche dell’Unione europea, per quella (?) che determina i casi di ineleggibilità e di incompatibilità con l’ufficio di senatore e di cui all’art. 65, primo comma, e per le leggi di cui agli articoli 57, sesto comma, 80, secondo periodo, 114, terzo comma, 116 terzo comma, 117, quinto e nono comma, 119, sesto comma, 120, secondo comma, 122, primo comma, e 132, secondo comma”. Se questo pasticcio è il prodotto dei “tecnici”, noi diciamo che hanno trattato la Costituzione come una legge finanziaria o, meglio, come un Decreto milleproroghe qualunque: sono infatti formulati così. Quanto ai contenuti, come possono i “tecnici” non aver colto le contraddizioni dell’art. 5, noto perché su di esso si è prodotta una differenziazione nella maggioranza, poi rientrata. Riguarda la composizione del Senato e non si capisce se i senatori rappresenteranno le Regioni in quanto enti, i gruppi consiliari oppure le popolazioni; non si capisce poi se saranno effettivamente scelti dagli elettori o dai Consigli regionali. Saranno eletti – si scrive – dai Consigli regionali “In conformità alle scelte espresse dagli elettori per i candidati consiglieri”. Ma, se queste scelte saranno vincolanti, non ci sarà elezione ma, al più ratifica; se non saranno vincolanti, come si può parlare di “conformità”. Un pasticcio dell’ultima ora che darà filo da torcere a che dovrà darne attuazione: parallele convergenti, quadratura del cerchio… Agli autorevoli fautori di norme come queste, citate qui a modo d’esempio chiediamo sommessamente: dite con parole vostre e con parole chiare che cosa avete voluto. (…) Questi tecnici non hanno dato il meglio di sé, forse perché hanno dovuto nascondere nell’oscurità l’assenza di chiarezza che ha regnato nella testa di coloro che hanno dato loro il mandato di scrivere queste norme. Loro non lo diranno, ma lo diciamo noi. Nella confusione, una cosa è chiara: l’accentramento a favore dello Stato a danno delle Regioni e, nello Stato, a favore dell’esecutivo a danno dei cittadini e della loro rappresentanza parlamentare. Orbene, noi della Costituzione abbiamo un’idea diversa: patto solenne che unisce un popolo sovrano che così sceglie come stare insieme in società. “Unisce”? Questa riforma non unisce ma divide. Non è una costituzione, ma una s-costituzione. “Popolo sovrano”? Dov’è oggi svanita la sovranità, quella sovranità che l’art. 1 della Costituzione pone nel popolo e che l’art. 11 autorizza bensì a “limitare”, ma precisando le condizioni (la pace e la giustizia tra le Nazioni) e vietando che sia dismessa e trasferita presso poteri opachi e irresponsabili? È superfluo ripetere quello che da tutte le parti si riconosce: per molte ragioni, il popolo sovrano è stato spodestato. Se manca la sovranità, cioè la libertà di decidere da noi della nostra libertà, quella che chiamiamo costituzione non più è tale. Sarà, al più, uno strumento di governo di cui chi è al potere si serve finché è utile e che si mette da parte quando non serve più. La prassi è lì a dimostrare che proprio questo è stato l’atteggiamento sfacciatamente strumentale degli ultimi anni: la Costituzione non è stata sopra, ma sotto la politica e perciò è stata forzata e disattesa innumerevoli volte nel silenzio compiacente della politica, della stampa, della scienza costituzionale. Ora, la riforma non è altro che la codificazione di questa perdita di sovranità. Apparentemente, la vicenda che stiamo vivendo è una nostra vicenda. In realtà, chi la conduce lo fa in nome nostro ma, invero, per conto d’altri che già hanno fatto il bello e il cattivo tempo nei Paesi economicamente, politicamente e socialmente più deboli e s’apprestano a continuare. Per questo, chiedono governi che non abbiano da dipendere dai parlamenti e, ove sia il caso, dispongano di strumenti per mettere i parlamenti, rappresentativi dei cittadini, nelle condizioni di non nuocere. Seguiamo questa concatenazione: la Costituzione è espressione della sovranità; se manca la sovranità, non c’è costituzione. La Costituzione e il Diritto costituzionale, con la sedicente riforma costituzionale, s’avviano a mantenere il nome, ma a perdere la cosa. L’impegno per il No al referendum ha, nel profondo, questo significato: opporsi alla perdita della nostra sovranità, difendere la nostra libertà. Post scriptum: C’è poi ancora un altro argomento che, per la sua stupidità, abbiamo esitato a inserire nella lista di quelli meritevoli d’essere presi in considerazione. È già stato usato ed è destinato a essere ripetuto in misura proporzionale alla sua insensatezza. Per questo, non lo ignoriamo semplicemente, come forse meriterebbe, ma lo collochiamo alla fine, a parte. 15. Diranno: sarà divertente vedere dalla stessa parte un Brunetta e uno Zagrebelsky Noi diciamo: non fate torto alla vostra intelligenza. Come non capire che si può essere in disaccordo, anche in disaccordo profondo, sulle politiche d’ogni giorno, ma concordare sulle regole costituzionali che devono garantire il corretto confronto tra le posizioni, cioè sulla democrazia? In verità, chi pensa di vedere in questa concordanza un motivo di divertimento, e non una seria ragione per dubitare circa il valore dei cambiamenti costituzionali in atto, non fa che confessare candidamente un suo retro-pensiero. Questo: che tra una Costituzione e una legge qualunque non c’è nessuna differenza essenziale; che, quindi, se sei in disaccordo politico con qualcuno, non puoi essere in accordo costituzionale con lui, perché tutto è politica e nulla è costituzione. A noi, questo, non sembra un modo di pensare rassicurante. Da Il Fatto Quotidiano del 6 marzo 2016 Da - http://www.ilfattoquotidiano.it/2016/03/06/referendum-costituzionale-gustavo-zagrebelsky-spiega-i-15-motivi-per-dire-no-alla-riforma-voluta-da-renzi/2522863/#_=_ Titolo: GUSTAVO ZAGREBELSKY : "Il mio No per evitare una democrazia svuotata" Inserito da: Arlecchino - Maggio 26, 2016, 10:34:47 am Referendum, Zagrebelsky: "Il mio No per evitare una democrazia svuotata"
Per l'ex presidente della Consulta la riforma del Senato sommata all'Italicum "realizza il sogno di ogni oligarchia: umiliare la politica a favore delle tecnocrazie" Di EZIO MAURO 26 maggio 2016 PROFESSOR Zagrebelsky, dunque più che a un referendum saremmo davanti a un golpe, come sostiene il fronte del "no" alla riforma che lei guida insieme a altri dieci ex presidenti della Consulta, e a molti costituzionalisti? Non lo avete mai sostenuto nemmeno davanti agli abusi di potere di Berlusconi e alle sue leggi ad personam: cos'è successo? "Nel "fronte del no" convergono preoccupazioni diverse, come è naturale. Vorrei però che si lasciassero da parte le parole a effetto. L'atmosfera è già troppo surriscaldata. Contesto la parola golpe, non l'allarme. Come si fa a non vedere che il potere va concentrandosi e allontanandosi dai cittadini comuni? Non basta per preoccuparsi?". Sono qui per sentire lei, e aiutare i lettori a capire. Dove vede questo disegno di esproprio del potere? "Non penso a una "Spectre", per intenderci. Vedo un progressivo svuotamento della democrazia a vantaggio di ristrette oligarchie. Per ora le forme della democrazia reggono, ma si svuotano. Si parla di post-democrazia e, se subentra l'autoritarismo, di "democratura". Ripeto: non c'è da preoccuparsi?". Tutto questo per il referendum sulla riforma del Senato? "Il Senato è un dettaglio, o un'esca. Meglio se lo avessero abolito del tutto. È all'insieme che bisogna guardare. Rispetto ai mali che tutti denunciamo (rappresentanti che non rappresentano, partiti asfittici e verticistici e, dall'altro lato, cittadini esclusi e impotenti) che significa la riforma costituzionale unita a quella elettorale? A me pare di vedere il sogno di ogni oligarchia: l'umiliazione della politica a favore di un misto di interessi che trovano i loro equilibri non nei Parlamenti, ma nelle tecnocrazie burocratiche. La conseguenza è che viviamo in un continuo presente. Il motto è "non ci sono alternative", e così il pensiero è messo fuori gioco". Lei ha avuto responsabilità istituzionali, è stato presidente della Consulta: non ha mai sollevato questo allarme coi vertici dello Stato? "Con "i vertici" ho poche occasioni d'incontro. Ma ne ricordo uno, al Quirinale col presidente Napolitano. Gli parlai dell'alternativa che si prospetta sempre, quando le condizioni sociali si fanno strette e il malessere aumenta, tra chiusure autoritarie e aperture democratiche: o la ricerca di nuove strade o l'insistenza su quelle vecchie che pesano sui gruppi sociali più deboli". Ad esempio? "Pensi al modo abituale di tirare avanti esponendosi ai creditori. Il debitore finisce per cadere totalmente nelle loro mani. Nel diritto antico potevi finire schiavo. Oggi puoi essere spogliato. Si canta vittoria quando la finanza internazionale rifinanzia il debito pubblico e non si vede il nodo del cappio che si stringe. Eppure c'è l'esempio della Grecia che parla chiaro. Lo stato sociale è allo stremo e si sono chiesti in garanzia spiagge, isole e porti, se non anche il Partenone". Io sono più preoccupato per questi problemi che per la riforma del Senato: il welfare state, quella che abbiamo chiamato l'economia sociale di mercato, la democrazia del lavoro fanno parte della civiltà europea, non le pare? "Anche per me questa è la vera posta in gioco. Guardi però che tutto nel nostro discorso si tiene, dal welfare al referendum. Sennò non si capirebbe, di fronte all'enormità dei problemi che abbiamo, tanto accanimento nei confronti del povero Senato. Il "sì" spianerebbe una strada; il "no" farebbe resistenza". Insomma, dalla crisi si può uscire con meno o più democrazia? "Sì. La prima strada porta alla rottura dei vincoli sociali, diciamo pure alla distruzione della società, condannando i più deboli all'impotenza e all'irrilevanza. La seconda passa per un grande discorso democratico, franco, sincero, che non nasconda le difficoltà e chiami tutti a uno sforzo di responsabilità, ciascuno secondo le proprie possibilità, mobilitando le energie civili del Paese e recuperando sovranità". Anche lei pensa che l'Europa sia un nemico, come dicono ogni giorno gli opposti populismi? "Per nulla. Ma l'Europa è una scelta, non un guinzaglio. L'articolo 11 della Costituzione prevede la possibilità che l'Italia limiti la sua sovranità a favore di organismi internazionali, ma a condizione che ciò serva alla pace e alla giustizia tra le Nazioni. Che cosa vuol dire? Che non è un'abdicazione incondizionata alla finanza, entità immateriale con conseguenze molto concrete, ma una partecipazione consapevole e paritaria a istituzioni democratiche sovranazionali. L'Europa dovrebbe significare più, non meno democrazia". Sta dicendo che l'Europa è un destino democratico da scegliere ogni giorno, non un vincolo di cui si smarrisce la legittimità? "È l'opposto della semplificazione brutale dei nazionalisti. Anzi, un recupero dello spirito di Ventotene, un "plebiscito d'ogni giorno" dei popoli, non dei mercati. Invece si è pensato che unendo i mercati la politica avrebbe seguito. Ma gli interessi economici spesso sono ostili alla politica, e la riducono a intendenza. Speriamo che non sia troppo tardi". Ma secondo lei la politica accetta consapevolmente questa diminuzione di ruolo e di peso, o decide il rapporto di forza? "C'è un pensiero unico in campo, tra l'altro responsabile della crisi. Perfino un riformista come Keynes è considerato un eretico. La politica, dicevo, si è ridotta a una dimensione puramente esecutiva, con interventi tampone, incapace di un pensiero autonomo e prospettico. L'implosione è sempre in agguato". Professore, non è troppo pessimista? "Non parlerei di pessimismo, ma di prudenza, una virtù che nel governo delle società non è mai troppa. A parte tutto, la riforma è scritta malissimo, illeggibile, talora incomprensibile". Sta facendo un problema di forma? "Di sostanza, prego, perché una costituzione democratica ha innanzitutto l'obbligo della chiarezza. Il linguaggio dei riformatori rivela due difetti: semplificazione e radicalità, brutalità e ingenuità". Si può essere brutali e ingenui al tempo stesso? "Certo. Prenda lo slogan: la sera delle elezioni si saprà chi ha vinto. Non le sembra che riveli una mentalità al tempo stesso sbrigativa e ingenua? In quel giorno ci saranno vincitori e vinti e vae victis! ". Ma lo slogan non indica anche un rimedio alla palude, all'eterna tentazione del consociativismo? "A patto di non considerare la vittoria come un'unzione sacra che permette di insultare chi non è d'accordo: sindacati, professori, magistrati, pubblici amministratori, con l'idea che siano avversari da spegnere. Un governante saggio non dovrebbe crearsi il nemico perché, appena le cose incominceranno ad andare male, sarà chiamato a pagare un conto salato". Ma nel Paese dell'eterno democristiano, non è meglio un legame diretto tra il voto e il governo? "Perché "diretto" sarebbe "non democristiano"? A me pare che proprio l'idea del vincitore e dello sconfitto alimenti una vocazione tipica da noi: il timore d'essere lasciati nel campo della sconfitta. Così, c'è stata e c'è una vocazione potente a salire sul carro del vincitore. E questa non è forse la forma peggiore del consociativismo, addirittura preventiva?". Lei teme l'abuso del vincitore? "Si è parlato della Costituzione vigente come il frutto ormai superato della "paura del tiranno". Il tiranno, nel senso del fascismo, oggi non c'è più. Ma il vento che tira in Europa e nel mondo non ci rende avvertiti di altri, nuovi pericoli? Tanto più che le istituzioni che saranno sottoposte a referendum varranno per il futuro e non sappiamo chi potrà avvalersene". Ma ci sono costituzionalisti, come il professor Cassese, che non vedono nella riforma un rafforzamento dell'esecutivo: è così? "Nessuno può essere certo delle sue previsioni, ma il gioco combinato della "velocità" nella politica e dell'elezione come investitura trasformerà chi vince in arbitro indiscusso del sistema. Già ora il Capo del governo è anche Capo del suo partito, e la minoranza interna è schiacciata sotto il ricatto permanente del voto anticipato". Anche De Mita per un breve periodo fu segretario della Dc e capo del governo: perché nessuno lo paragonò a un tiranno? "Semplice: perché c'erano i partiti e una legge elettorale proporzionale con le preferenze. Oggi i partiti sono dei monoliti, col solo compito di sostenere il Capo. E, di nuovo, tutto si tiene: con la legge elettorale vigente in Parlamento siederanno i fedelissimi". Lei ritiene Renzi capace di tutto questo? "Non voglio personalizzare. Tra l'altro oggi c'è Renzi, domani può venire chiunque. I governi passano, le istituzioni restano". Ma la società non vuole un superamento del bicameralismo perfetto? "Lo voglio anch'io, ma non in questo modo. Ridurre procedure e costi è positivo. Ma tutto ciò non va cavalcato in termini antiparlamentari, perché saremmo all'antipolitica. Di un parlamento vitale si ha sempre bisogno. Anzi avremmo bisogno che rappresentasse il meglio del Paese, come si diceva una volta: ridotto nel numero e più competente". Le ricordano sempre che Ingrao si schierò a favore di una sola Camera: cosa risponde? "L'idea di Ingrao era la "centralità del Parlamento". Voleva una Camera sola per promuovere la politica in Parlamento, non per umiliarli entrambi". E' questa la vera ragione del suo "no"? "E' fondamentalmente questa, unita a ragioni specifiche. Il Senato è ridotto, ma non abolito. Il bicameralismo rimane per una serie di materie che possono innescare seri conflitti. È previsto che siano risolti dalla trattativa tra i due presidenti. Ma è lecito patteggiare sul rispetto delle regole? Le incongruenze tecniche sono molte. Non invidio chi dovrà scrivere la nuova legge elettorale del Senato. Non si capisce da chi saranno scelti i nuovi senatori: se sono "designati" dagli elettori non possono essere "eletti" dai Consigli regionali. Sa cosa le dico? Non mi dispiace non insegnare più il diritto costituzionale il prossimo anno, perché non saprei come spiegare ai miei studenti non una materia, ma un guazzabuglio". Più facile spiegare la fiducia al governo da parte di una sola Camera, non crede? "Questo è giusto, e utile. Non sono affatto contrario a un governo che governi. Ma dentro un sistema che respiri democraticamente a pieni polmoni". Dal governo non può venire niente di buono? "Perché? Sono buone le unioni civili, l'autonomia dai vescovi, la prudenza sulla Libia, il rifiuto della politica del "a casa nostra" verso i migranti. Vede che non ho pregiudizi? Ma non mi piace che una discussione sulla Costituzione si trasformi in un plebiscito sul governo. La Costituzione non è a favore né contro qualcuno, non si vince in questa materia e non si perde. Nessuno si gioca tutto sulla Carta, tutti ci giochiamo qualcosa e forse molto". Professore, non l'ho mai sentita richiamare i grillini, come fa con il Pd, ad una responsabilità comune sul destino del sistema: come mai? "Potrei dirle che l'antipolitica è figlia della cattiva politica. Ma è giunta l'ora che i Cinque Stelle si emancipino dalle idee elitistiche e accettino la logica parlamentare. La vera arte politica sta nel creare le condizioni dello stare insieme. Il che non vuol dire rinunciare alle proprie ragioni, ma cercare di diffonderle oltre i propri confini. Dire questo non significa nostalgia del vecchio ordine, ma desiderio di buona politica". A proposito di vecchio, cosa risponde a chi usa questo termine come un insulto contro di voi? "Anche noi siamo stati giovani, senza averne merito, e anche loro diventeranno vecchi, senza colpe per questo. Ma, non era la destra che polemizzava coi vecchi?". Sì, ricorda gli attacchi a Spadolini, Rita Levi Montalcini sbeffeggiata in Senato: dunque? "C'è traccia di futurismo nella rottamazione. I giovani hanno sempre ragione, i vecchi devono tacere. Sono battute, dice qualcuno. Ma vede: così si smarrisce il sentimento del passaggio generazionale, la trasmissione dell'esperienza. Si vuole rompere la tradizione in nome di un presunto Anno Zero. Certo, l'eccesso di tradizione spegne. Ma tagliare ogni radice per il peso della memoria espone al vento. Vivi nell'oggi e improvvisa". © Riproduzione riservata 26 maggio 2016 Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/05/26/news/referendum_riforme_zagrebelsky-140616373/?ref=HREC1-2 Titolo: GUSTAVO ZAGREBELSKY risponde a Scalfari Inserito da: Arlecchino - Ottobre 15, 2016, 07:45:18 pm Referendum, tempo di oligarchie e di chiarimenti: Zagrebelsky risponde a Scalfari
“La democrazia è lotta per la democrazia e non è la classe dei privilegiati quella che può condurla. Riflessioni che hanno a che vedere con i contenuti di questa riforma? Sì, e molto da vicino" Di GUSTAVO ZAGREBELSKY 12 ottobre 2016 L’OLIGARCHIA è la sola forma di democrazia, ha sostenuto Eugenio Scalfari nei suoi due ultimi editoriali su questo giornale. Ha precisato che le democrazie, di fatto, sono sempre guidate da pochi e quindi altro non sono che oligarchie. Non ci sarebbero alternative: la democrazia diretta può valere solo per questioni circoscritte in momenti particolari, ma per governare è totalmente inadatta. O meglio: un’alternativa ci sarebbe, ed è la dittatura. Quindi — questa la conclusione che traggo io, credo non arbitrariamente, dalle proposizioni che precedono — la questione non è democrazia o oligarchia, ma oligarchia o dittatura. Poiché, però, la dittatura è anch’essa un’oligarchia, anzi ne è evidentemente la forma estrema, si dovrebbe concludere che la differenza rispetto alla democrazia non è di sostanza. Tutti i governi sono sempre e solo oligarchie più o meno ristrette e inamovibili; cambia solo la forma, democratica o dittatoriale. Nell’ultima frase del secondo editoriale, Scalfari m’invita cortesemente a riflettere sulle sue tesi, cosa da farsi comunque perché la questione posta è interessante e sommamente importante. Se fosse come detto sopra, dovremmo concludere che l’articolo 1 della Costituzione (“L’Italia è una repubblica democratica”; “la sovranità appartiene al popolo”) è frutto di un abbaglio, che i Costituenti non sapevano quel che volevano, che hanno scritto una cosa per un’altra. Ed ecco le riflessioni. Se avessimo a che fare con una questione solo numerica, Scalfari avrebbe ragione. Se distinguiamo le forme di governo a seconda del numero dei governanti (tanti, pochi, uno: democrazia, oligarchia, monarchia) è chiaro che, in fatto, la prima e la terza sono solo ipotesi astratte. Troviamo sempre e solo oligarchie del più vario tipo, più o meno ampie, strutturate, gerarchizzate e centralizzate, talora in conflitto tra loro, ma sempre e solo oligarchie. Non c’è bisogno di chissà quali citazioni o ragionamenti. Basta la storia a mostrare che la democrazia come pieno autogoverno dei popoli non è mai esistita se non in alcuni suoi “momenti di gloria”, ad esempio l’inizio degli eventi rivoluzionari della Francia di fine ‘700, finiti nella dittatura del terrore, o i due mesi della Comune parigina nel 1871, finita in un bagno di sangue. Dappertutto vediamo all’opera quella che è stata definita la “legge ferrea dell’oligarchia”: i grandi numeri della democrazia, una volta conquistata l’uguaglianza, se non vengono spenti brutalmente, evolvono rapidamente verso i piccoli numeri delle cerchie ristrette del potere, cioè verso gruppi dirigenti specializzati, burocratizzati e separati. Ogni governo realmente democratico non è che una fugace meteora. In quanto autogoverno dei molti, fatalmente si spegne molto presto. Tuttavia, la questione non è solo quantitativa. Anzi, non riguarda principalmente il numero, ma il chi e il come governa. Gli Antichi, con la brutale chiarezza che noi, nei nostri sofisticati discorsi, abbiamo perduto, dicevano semplicemente che l’oligarchia è un regime dei ricchi, contrapposto alla democrazia, il regime dei poveri: i ricchi, cioè i privilegiati, i potenti, coloro che stanno al vertice della scala sociale contro il popolo minuto. In questa visione, i numeri perdono d’importanza: è solo una circostanza normale, ma non essenziale, che “la gente” sia più numerosa dei “signori”, ma i concetti non cambierebbero (dice Aristotele) se accadesse il contrario, se cioè i ricchi fossero più numerosi dei poveri. Si può parlare di oligarchia in modo neutro: governo dei pochi. Ma, per lo più, fin dall’antichità, alla parola è collegato un giudizio negativo: gli oligarchi non solo sono pochi, ma sono anche coloro che usano il potere che hanno acquisito per i propri fini egoistici, dimenticandosi dei molti. L’oligarchia è quindi una forma di governo da sempre considerata cattiva; così cattiva che deve celarsi agli occhi dei più e nascondersi nel segreto. Questa è una sua caratteristica tipica: la dissimulazione. Anzi, questa esigenza è massima per le oligarchie che proliferano a partire dalla democrazia. Gli oligarchi devono occultare le proprie azioni e gli interessi particolari che li muovono. Non solo. Devono esibire una realtà diversa, fittizia, artefatta, costruita con discorsi propagandistici, blandizie, regalie e spettacoli. Devono promuovere quelle politiche che, oggi, chiamiamo populiste. Occorre convincere i molti che i pochi non operano alle loro spalle, ma per il loro bene. Così, l’oligarchia è il regime della menzogna, della simulazione. Se è così, se cioè non ne facciamo solo una questione di numeri ma anche di attributi dei governanti e di opacità nell’esercizio del potere, l’oligarchia, anche secondo il sentire comune, non solo è diversa dalla democrazia, ma le è radicalmente nemica. Aveva, dunque, ragione Norberto Bobbio quando denunciava tra le contraddizioni della democrazia il “persistere delle oligarchie”. Se ci guardiamo attorno, potremmo dire: non solo persistere, ma rafforzarsi, estendersi “globalizzandosi” e velarsi in reti di relazioni d’interesse politico-finanziario, non prive di connessioni malavitose protette dal segreto, sempre più complicate e sempre meno decifrabili. Se, per un momento, potessimo sollevare il velo e guardare la nuda realtà, quale spettacolo ci toccherebbe di vedere? Annodiamo i fili: abbiamo visto che la democrazia dei grandi numeri genera inevitabilmente oligarchie e che le oligarchie sono nemiche della democrazia. Dovremmo dire allora, realisticamente, che la democrazia è il regime dell’ipocrisia e del mimetismo, un regime che produce e nutre il suo nemico: il condannato che collabora all’esecuzione della sua condanna. Poveri e ingenui i democratici che in buona fede credono nelle idee che professano! C’è del vero in questa visione disincantata della democrazia come regime della disponibilità nei confronti di chi vuole approfittarne per i propri scopi. La storia insegna. Ma non ci si deve fermare qui. Una legge generale dei discorsi politici è questa: il significato di tutte le loro parole (libertà, giustizia, uguaglianza, ecc.) è ambiguo e duplice, dipende dal punto di vista. Per coloro che stanno in cima alla piramide sociale, le parole della politica significano legittimazione dell’establishment; per coloro che stanno in fondo, significa il contrario, cioè possibilità di controllo, contestazione e partecipazione. Anche per “democrazia” è così. Dal punto di vista degli esclusi dal governo, la democrazia non è una meta raggiunta, un assetto politico consolidato, una situazione statica. La democrazia è conflitto. Quando il conflitto cessa di esistere, quello è il momento delle oligarchie. In sintesi, la democrazia è lotta per la democrazia e non sono certo coloro che stanno nella cerchia dei privilegiati quelli che la conducono. Essi, anzi, sono gli antagonisti di quanti della democrazia hanno bisogno, cioè gli antagonisti degli esclusi che reclamano il diritto di essere ammessi a partecipare alle decisioni politiche, il diritto di contare almeno qualcosa. Le costituzioni democratiche sono quelle aperte a questo genere di conflitto, quelle che lo prevedono come humus della vita civile e lo regolano, riconoscendo diritti e apprestando procedimenti utili per indirizzarlo verso esiti costruttivi e per evitare quelli distruttivi. In questo senso deve interpretarsi la democrazia dell’articolo 1 della Costituzione, in connessione con molti altri, a incominciare dall’articolo 3, là dove parla di riforme finalizzate alla libertà, all’uguaglianza e alla giustizia sociale. Queste riflessioni, a commento delle convinzioni manifestate da Eugenio Scalfari, sono state occasionate da una discussione sulla riforma costituzionale che, probabilmente, sarà presto sottoposta a referendum popolare. Hanno a che vedere con i contenuti di questa riforma? Hanno a che vedere, e molto da vicino. … Qui sotto, un estratto dell'editoriale di Eugenio Scalfari, a cui risponde Gustavo Zagrebelsky In democrazia sono pochi al volante e molti i passeggeri Di EUGENIO SCALFARI SONO stato molto contento come vecchio fondatore di questo giornale che il nostro direttore Mario Calabresi abbia deciso di aprire un dibattito sulle varie tesi che riguardano il referendum costituzionale che sarà votato dai cittadini il 4 dicembre prossimo e la vigente legge elettorale che molti (e io tra questi) considerano malfatta o addirittura pessima. Il dibattito sulle nostre pagine è avvenuto anche perché Repubblica ha ricevuto una quantità di lettere e di messaggi via web su quei medesimi argomenti, esprimendo variamente il loro atteggiamento sul voto Sì o il voto No o l’astensione attiva (come l’ha definita Fabrizio Barca in un suo memorandum in circolazione nelle sezioni del partito democratico). Sono infine molto grato a Gustavo Zagrebelsky che ha dato il via a questa discussione nel suo incontro televisivo di qualche giorno fa con Matteo Renzi. © Riproduzione riservata 12 ottobre 2016 http://www.repubblica.it/politica/2016/10/12/news/zagrebelsky_risponde_a_scalfari_oggi_su_repubblica-149584896/?ref=HRER2-1 Titolo: Giuseppe Salvaggiulo. Gustavo Zagrebelsky: “Costituzione indifesa come a Weimar Inserito da: Arlecchino - Novembre 30, 2016, 08:50:50 pm Gustavo Zagrebelsky: “Costituzione indifesa come a Weimar. Fermiamo gli apprendisti stregoni”
«Parlamento illegittimo, non poteva cambiare la Carta. Ma i garanti tacciono Mourinho direbbe: riforma zero tituli. Col proporzionale torna la politica» Gustavo Zagrebelsky Presidente emerito della Corte Costituzionale, è presidente onorario dell’associazione Libertà e Giustizia Pubblicato il 29/11/2016 Giuseppe Salvaggiulo Torino Il professorone che non t’aspetti. Nel pieno di una campagna incarognita, Gustavo Zagrebelsky sfoggia autoironia. Ride della «sublime imitazione di Crozza» e fa ammenda degli eccessi accademici in tv. Ma cala anche un argomento pesante contro la riforma: la violazione del primo pilastro della Costituzione, la sovranità popolare. Tra Platone e Mourinho, Weimar e De Gregori. Che cos’è in gioco, la Costituzione più bella del mondo? «Questa è un’espressione sciocca che non ho mai usato. Le Costituzioni non si giudicano dall’estetica, ma dai valori che esprimono e dal contesto che li può far vivere». Cosa intende per contesto? «Tra il ‘46 e il ‘48 c’erano i postumi d’una guerra civile, ma la Costituzione fu lo strumento della concordia nazionale. Oggi, al contrario, la riforma divide. Siamo in balia di apprendisti stregoni che ignorano quanto la materia sia incandescente. A chi vuol metterci mano, può prendere la mano. Non si sa dove si va a finire. Questa riforma, con annesso referendum, rischia il disastro. Chiunque vinca, perderemo tutti». La riforma non tocca i principi, la prima parte della Carta. «Davvero si tratta solo di efficienza dell’esecutivo e non anche di partecipazione di coloro che a quei principi sono interessati? A proposito: a me pare che sia stato violato proprio l’articolo 1». In che modo? «La riforma è stata approvata da un Parlamento eletto con una legge incostituzionale. Fatto senza precedenti». Però la sentenza della Consulta sul Porcellum dice che il Parlamento resta in carica. «La prima parte della sentenza dice che la legge è incostituzionale perché ha rotto il rapporto di rappresentanza democratica tra elettori ed eletti. La seconda che, per il principio di continuità dello Stato, il Parlamento non decade automaticamente. Bisognava superare il più presto possibile la contraddizione. Invece il famigerato Porcellum, che tutti aborrono a parole, non è affatto estinto: vive e combatte insieme a noi perché il Parlamento che abbiamo è ancora quello lì. La riforma costituzionale è stata approvata con i voti determinanti degli eletti col premio di maggioranza dichiarato incostituzionale. Ma i garanti della Costituzione fanno finta di niente e tacciono». Chi sono i garanti? «Dal presidente della Repubblica ai singoli cittadini. La Repubblica di Weimar, nella Germania degli Anni 30, implose anche per l’assenza di un “partito della Costituzione” che la difendesse oltre gli interessi contingenti dei partiti. Oggi accade lo stesso». Perché è violato l’articolo 1? «L’articolo 1 dice che la sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione. Ebbene, questo Parlamento non è stato eletto secondo le forme ammesse dalla Costituzione. C’è stata un’usurpazione della sovranità popolare. La riforma è viziata ex defectu tituli». Professore, così diamo nuovo materiale a Crozza. «Allora citiamo Mourinho: è una riforma “zero tituli”». Ora, però, decide il popolo. «Pensare che il referendum sia una lavatrice democratica che toglie ogni macchia è puro populismo. Anche perché è stato trasformato in un Sì o No a Renzi, e la povera Costituzione è diventata pretesto per una consacrazione personale plebiscitaria. Qualcuno s’è fatto prendere la mano». Che cosa imputa a Renzi? «Nulla. Però non c’è saggezza nel legare la sorte d’un governo al cambio di Costituzione. Non appartiene alla cultura liberale e democratica. La Costituzione non deve dipendere dal governo né viceversa. Sono su piani diversi, il governo sotto». Qual è la concezione che Renzi ha del governo, del potere democratico? Perché lo contesta? «In un dialogo del suo periodo tardo, “Il Politico”, Platone distingue il governante “pastore di uomini”, che conduce il popolo come un gregge, dal governante tessitore. Un sistema in cui il popolo, come si dice con enfasi, la notte stessa delle elezioni va a letto sapendo chi è il Capo nelle cui mani s’è messo, appartiene alla prima concezione. La democrazia è cosa molto più complicata». Però questa riforma nasce dallo stallo politico del 2013, dalla rielezione di Napolitano. Renzi è venuto dopo. «Il presidente della Repubblica rappresenta l’unità nazionale. Nel suo discorso d’insediamento al momento della rielezione, davanti a tanti parlamentari commossi e grati a chi li definiva incapaci, inconcludenti, nominati, corrotti e pure ipocriti (da riascoltare quelle parole!), riprese in mano il tema della riforma, trattandolo come un terreno di unità. Ma la storia ha dimostrato che non lo era affatto». Ha ripensato al confronto in televisione con Renzi? «Non mi sono mai sentito tanto a disagio. Sono cascato, per leggerezza, dal mio mondo in un altro. Non è stato un vero confronto. La comunicazione contro il tentativo di argomentare, surclassato dal diluvio verbale. Si è parlato, non dialogato. L’indomani mi ha telefonato un amico assennato, dicendomi “sei stato te stesso”. Cos’altro avrei dovuto essere?». Lo rifarebbe? «Mah! Cercherei comunque di non essere professorale: peccato gravissimo! D’altra parte, è difficile prevedere i colpi bassi e gli argomenti a effetto lanciati nell’etere senza alcuna verosimiglianza, anzi con molto cinismo. Come quello sui malati di cancro avvantaggiati dal Sì, che ricorda analoghe promesse berlusconiane». Preparerebbe carte a sorpresa? «Certo che no. I foglietti sottobanco sono stati la cosa peggiore, una meschinità che non mi sarei aspettata da un uomo delle istituzioni. Un’abitudine da talk show della peggior specie, dove ciò che conta non è chiarire, ma colpire». C’è rimasto male per l’imitazione di Crozza? «Tutt’altro! Quando l’ho vista la seconda volta, ho riso più della prima. Gli occhiali, la stilografica, i libri, il fazzoletto, il dittongo, il munus: davvero eccellente. Gli ho telefonato per farci altre quattro risate». Che succede se vince il Sì? «Non si apre la strada a una dittatura, ma alla riduzione della democrazia e all’accentramento del potere in poche mani. Non possiamo tuttavia sapere, oggi, quali saranno le poche mani di domani». E se vince il No? «Si potrà ricominciare a “fare politica”. La responsabilità sarà dei partiti e dei movimenti. Altrimenti, si correrà il rischio dell’affacciarsi dei cosiddetti governi tecnici o istituzionali. E il salto nel vuoto evocato da Renzi? E i timori dei mercati? «Agitare queste paure può essere controproducente: il sistema finanziario che adombra sciagure non è visto come benefattore dei popoli. Il referendum è lo strumento per scuotersi dal giogo della finanza. Decidano i cittadini e, come canta De Gregori, viva l’Italia che non ha paura». Bisognerà riscrivere la legge elettorale. «Molte ragioni militano per il ritorno al sistema proporzionale, quello che meno dispiace a tutti e mi pare più conforme all’attuale sistema multipartitico. Da lì si potrà, se si saprà, ricominciare a parlare di riforme anche costituzionali». Che cosa farà il 5 dicembre? «Questa campagna è stata estenuante. Non vedo l’ora che finisca. Mi sveglierò tranquillo perché il sole sorgerà ancora, comunque vada». Licenza Creative Commons Alcuni diritti riservati. Da - http://www.lastampa.it/2016/11/29/italia/politica/gustavo-zagrebelsky-costituzione-indifesa-come-a-weimar-fermiamo-gli-apprendisti-stregoni-QmYOxUHupZCaNFAlbY5rYI/pagina.html Titolo: GIUSEPPE SALVAGGIULO Zagrebelsky: “Renzi vittima di viltà: un patto con ... Inserito da: Arlecchino - Marzo 10, 2017, 12:37:07 pm Zagrebelsky: “Renzi vittima di viltà: un patto con Berlusconi non è per forza inciucio”
Il giurista: «L’ex premier sfibrato e isolato mi fa simpatia. Il M5S si apra alle alleanze per non perdersi nella protesta» Pubblicato il 09/03/2017 GIUSEPPE SALVAGGIULO TORINO Dieci anni fa Gustavo Zagrebelsky era al Lingotto ad ascoltare Walter Veltroni. Ora, dopo la campagna per il No al referendum, il presidente emerito della Corte Costituzionale osserva da lontano mentre lavora alla quinta edizione di Biennale Democrazia, intitolata «Uscite d’emergenza». «L’emergenza è il pericolo incombente che si affronta con lo stato d’eccezione per non naufragare - dice -. Ma emergenza è anche la vita nuova che si affaccia e chiede d’essere riconosciuta. La prima è figlia della disperazione; la seconda, della speranza». L’Europa a quale emergenza appartiene: naufraga nel populismo o spera in una vita nuova? «Quando il pensiero s’inaridisce, pullulano gli slogan. Oggi trionfa il populismo. Fino a qualche tempo fa, l’antipolitica di cui si parla sempre meno, perché quelli che usavano questa parola accusatrice hanno dimostrato di avere essi stessi poco a che fare con la politica». Considera anche il populismo solo uno slogan? «Ma chi è il populista? Populisti erano i socialisti russi della seconda metà dell’800 che si battevano per l’abolizione della servitù della gleba; Simón Bolívar che lottava per il riscatto delle plebi in America Latina; Perón e suoi descamisados; ma anche Napoleone I e III con i loro plebisciti; Hitler è stato detto populista da papa Francesco e la stessa parola è stata usata per Obama, Clinton e ora Trump. Da noi Berlusconi e Renzi non sono populisti, così come Grillo, ciascuno a modo suo? Finiamola con le etichette». Davvero lei crede che la parola su cui ci si divide nel mondo sia in fondo vuota e ingannevole? «Forse un significato generico ce l’ha, ma è tale da sconsigliarne l’uso. Chi si dà l’aria di anti-populista molto spesso dichiara implicitamente di parlare a nome di qualche establishment, di qualche oligarchia; populista è chi è contro. Dunque il significato è altamente politico, attiene a un aspetto dello scontro in atto nelle nostre società». Tra le parole dell’ambiguità annovera anche il tanto evocato e temuto «sovranismo»? «La globalizzazione ha ridotto gli Stati a gestori dell’ordine pubblico e ha privato masse di individui di tutele giuridiche e sociali. Non mi pare sbagliato rivendicare qualche parte di sovranità. Il punto è che dilaga un sovranismo aggressivo e nazionalista, a scapito di uno democratico». Come si fa a distinguerli? «Tutti, a cominciare dal Pd, dovrebbero chiarirsi con se stessi invece di insistere nella retorica inconcludente del “battere i pugni sul tavolo”. Il punto di partenza deve essere la Costituzione che non prevede affatto la liquidazione della sovranità nazionale. Ne consente “limitazioni” e non senza condizioni: devono servire alla costruzione della pace e della giustizia tra le Nazioni». L’Unione Europea serve a questo? «Mi pare che sia sempre più diffusa la risposta negativa. E allora occorre ripartire dall’interesse nazionale: non per chiuderci, ma per aprirci a una fattiva politica d’integrazione per quegli scopi. Riaffermazione della sovranità ed Europa non sono incompatibili. Se manca la prima, saremo in balia dell’Europa della finanza e della burocrazia». Il Lingotto 2017 può affrontare questi temi? «Come tutti quelli che hanno a cuore politica e democrazia, lo spero. Ma temo il profluvio di slogan e di parole vuote. Wittgenstein ha scritto qualcosa del genere: di ciò di cui non si può parlare, si deve tacere. Si potrebbe aggiungere: si deve tacere anche di ciò di cui è inutile parlare. Solo delle cose che potrebbero essere diverse da ciò che diciamo merita parlare». Che c’entra Wittgenstein con il Lingotto? «Se sottoponessimo i discorsi pubblici a questo semplicissimo test, resterebbe molto poco. Il culmine si è toccato nell’esordio di un documento del Pd di qualche anno fa: “Noi, i democratici, amiamo l’Italia”. Perché, qualcuno sospettava il contrario?». E l’idea dei tavoli di ascolto? «Il rischio delle vuote parole che svaniscono nel nulla mi pare assai alto. Invece che generici giri di opinioni su temi quali “populisti e democrazia” o “il potere del sapere”, non sarebbe più congrua una discussione su proposte specifiche del partito? Un partito che dice: non ho idee, datemele voi, dichiara impotenza e superfluità». Come vede Renzi? «Sfibrato e sempre più isolato, vittima d’una certa viltà di coloro che gli sono stati intorno non senza adulazioni e connessi benefici e ora, nella difficoltà, lo stanno abbandonando. Soltanto per questo, merita simpatia». Come uscirà il Pd dalle primarie? «Corre un gran rischio. Se Renzi, malgrado ciò che sta accadendo, vince le primarie è altissimo il rischio che il partito cada nella fossa, perda definitivamente la sua identità». Come finirà la partita sulla legge elettorale? «Sebbene si dovesse approvare “subito!”, non se ne parla più. Sembra comunque che tutti, volenti o nolenti, siano rassegnati a ritornare alla proporzionale, la formula che fa meno paura in un sistema tripolare. Oltretutto, è quella più funzionale a una grande coalizione per poter arginare l’ascesa dei 5Stelle: il fantasma che turba i sonni di tanti». Si ripiomberà nella prima Repubblica? «Potrebbe essere un’uscita non voluta ma subita. Con prospettive inquietanti che spetta ai professionisti della politica scongiurare. Se la Repubblica di Weimar è in vista, spetta a loro agire per evitarla». Anche ai Cinquestelle? «Certo. Non mi piace l’ostracismo nei loro confronti. Al pari, pur apprezzando lo spirito di novità che portano nella vita politica, non mi piacciono i settarismi, i riti inquisitoriali che portano alle espulsioni e l’indisponibilità a cercare accordi, mediazioni». Come vede l’evoluzione del M5S? «In assenza di responsabilità nazionale potrà ancora gonfiarsi di voti protestatari. Ma attenzione: nella protesta possono confluire cose d’ogni genere, anche contraddittorie e pericolose. La diffidenza reciproca con coloro che potrebbero contribuire a costruire un gruppo dirigente all’altezza della situazione non è un buon viatico verso il governo». Rifiutare alleanze è il loro Dna. «Mettersi e mettere in gioco, qui è il problema della democrazia nel nostro Paese. La democrazia è il regime del compromesso. Non lo dico io, ma il grande giurista Hans Kelsen. Il punto è: compromessi con chi, con quali contenuti, in vista di che cosa. Non ogni compromesso è, come si dice, “inciucio”». Nemmeno quello con Berlusconi? «Se non è un compromesso corrotto, sugli interessi, chi l’ha detto che è inciucio per definizione? Le cose cambiano, bisogna leggere bene le carte. Se sono pulite, a costo di scandalizzare, dico che non vedo a priori lo scandalo». Licenza Creative Commons Alcuni diritti riservati. Da - http://www.lastampa.it/2017/03/09/italia/politica/zagrebelsky-renzi-vittima-di-vilt-un-patto-con-berlusconi-non-per-forza-inciucio-3vwIRNxcUfO8mwLWrrVdvK/pagina.html |