Titolo: GIANNI VATTIMO Inserito da: Admin - Luglio 26, 2007, 10:40:25 pm 26/7/2007 (8:26) - TRENT'ANNI FA IL MOVIMENTO
Nouveaux philosophes dopo Marx, Bush Erano belli, giovani e rampanti. Sono rimasti irrilevanti GIANNI VATTIMO Ecco un anniversario - trentennale - di cui pochi si sono ricordati, e che ci viene rammentato da un breve articolo su Le Monde del 23 luglio: trent’anni fa, mese più mese meno, esplodeva in Francia e poi nel resto dell’ecumene occidentale la moda dei nouveaux philosophes. Chi erano, e in certi casi ancora, un po’ stancamente, sono: André Glucksmann, Bernard-Henri Lévy, e poi Alain Finkielkraut, Pascal Bruckner, e (ma molto a parte) Christian Jambet, con altri di cui abbiamo dimenticato nomi e opere. Una scuola? Bah. Piuttosto un gruppo di giovani studiosi variamente legati al mondo dei media; soprattutto il corifeo principale - ma anche filosoficamente più irrilevante - Bernard-Henri Lévy, era già inserito nell’editoria come redattore della casa editrice Grasset. Altro fondamentale tratto comune era l’aver «fatto» il maggio ‘68, un precedente biografico di cui usavano vantarsi in modo anche esagerato, ma che fu un ingrediente decisivo della loro popolarità. Allora come oggi, infatti, essa si spiega con il loro esser divenuti portavoce di un occidentalismo senza riserve - Glucksmann è stato tra i sostenitori di Sarkozy alle recenti elezioni presidenziali francesi - fondato sulla (giusta) rivendicazione del rispetto dei diritti umani (prima nella Russia staliniana; poi nelle varie regioni del mondo dove essi continuano a essere violati, la Cecenia anzitutto; e oggi il mondo islamico; non risulta che si siano mai occupati di Guantanamo); e anche, un po’ come presso i radicali italiani, sulla convinzione che gli Stati Uniti siano un indiscutibile faro di democrazia e che il loro avamposto mediorientale, Israele, debba essere difeso e approvato qualunque cosa faccia (anche contro gli stessi diritti umani che stanno loro tanto a cuore). Insomma, più che una nuova filosofia, la ripresa di un pensiero liberale largamente fondato sui principi dell’89, sulle idee dell’illuminismo francese, su un repubblicanesimo che non metteva e non mette in discussione l’appartenenza della Francia all’Occidente centrato sugli Stati Uniti e, oggi, la lotta al «terrorismo internazionale». Di recente, Glucksmann ha pubblicato un pamphlet in cui si schiera contro il «nichilismo», e cioè l’odio per la vita, di chiunque non sia allineato con i «buoni» come li pensano Bush e Rumsfeld: di modo che i kamikaze palestinesi o iracheni che si fanno saltare in aria, presumibilmente per mancanza di altre armi efficaci contro i loro invasori, non sono solo dei criminali, ma anche dei nemici del pensiero umano e di ogni possibile convivenza civile. Del resto, prima delle ultime sparate pseudo-teoriche, Glucksmann era stato anche un partigiano della tesi sulle armi di distruzione di massa in possesso di Saddam Hussein, cioè della bugia su cui Bush e Blair fondarono la loro decisione della guerra se non infinita, certo ancora ben tragicamente in atto. La filosofia francese più seria - pensiamo a Derrida, a Deleuze, a Lyotard, a Foucault - non ha mai voluto aver niente da spartire con questi intellettuali mediaticamente rampanti e teoricamente vuoti. La loro lotta per i diritti umani, dati gli alleati che fin dall’inizio si è scelti, fa l’impressione di una retorica di pronto impiego e di facile consumo. Dovessimo trovare un parallelo - certo meno filosoficamente motivato, Glucksmann più degli altri ha le carte in regole anche come studioso di filosofia - diremmo che le loro battaglie sono un po’ come l’anticomunismo anacronistico di Berlusconi, che indubbiamente continua a funzionare, ma che non è il massimo in termini di visione del mondo e di progettualità politica. Semmai, quanto a possibili paralleli italiani, ci domandiamo come mai non si sia ancora completamente saldata una alleanza esplicita tra Glucksmann e Giuliano Ferrara; a meno che non si tratti del fatto che il primo è troppo affezionato al proprio retorico sessantottismo, che Ferrara, da sempre più «istituzionale», non ha mai avuto in simpatia. Ma perché non discutiamo i contenuti «filosofici» della scuola, o quel che è, invece di abbandonarci a queste considerazioni di polemica spicciola? Semplicemente perché di spiccioli, soltanto, si tratta. Con tutto il rispetto per la indubbia buona fede e passione anche filosofica di alcuni di loro, non troviamo nei vecchi-nuovi filosofi, né alle origini né oggi, alcuna tesi filosofica da discutere. Sono ancora oggi interessanti come esempio di quell’abbandono puramente passionale del marxismo e dell’utopia comunista che ha coinvolto anche tanti intellettuali «liberal» italiani, i quali per lo più si descrivono come ex «estremisti» (maoisti, Potere Operaio, Lotta Continua, ecc.) che a un certo punto sono cambiati perché sono «maturati». Senz’altra spiegazione che questa, riduttivamente «biologica» - nemmeno biografica , che implicherebbe già una qualche forma di motivazione razionale. Come nel caso dei nouveaux philosophes, insomma: un puro fatto «stagionale». da lastampa.it Titolo: GIANNI VATTIMO accanimento sui gay, ma io non bacio in pubblico Inserito da: Admin - Luglio 29, 2007, 06:48:26 pm Il caso degli omosessuali fermati a Roma dai carabinieri: oggi «kiss in» di protesta al Colosseo
Vattimo: accanimento sui gay, ma io non bacio in pubblico ROMA— «Io in pubblico non ho mai baciato nessuno. Però c’è dell’accanimento nell’andare a stanare le coppie con la torcia». Gianni Vattimo non è di quelli che si nascondono. Già maoista, poi diessino e comunista italiano, ha liquidato la sinistra come «una porcata» e D’Alema come un politico «da rottamare». Attivista di Azione cattolica, nel tempo ha maturato una decisa propensione a bistrattare tutto quello che odora di incenso e clero. Cresciuto eterosessuale, ha fatto il suo outing pubblico nel ’76 con il Fuori di Angelo Pezzana. Qualche anno fa ha serenamente dichiarato di avere una relazione con un ventenne cubista, nel senso della discoteca. «Battitore libero del pensiero», Vattimo ha il dono dell’anticonformismo e della sincerità, talvolta ai limiti del brutale. È uno, per dire, che si autodefinisce «frocio» e non omosessuale. E per il quale «non basta essere gay per essere intelligenti». E dunque, professore, ha visto? Gay che si baciano e carabinieri che li portano via come delinquenti. La solita Italia omofoba? «Le versioni contrastano. Si parla di bacio o di altro. Ame è venuto in mente Clinton: lui sosteneva che il sesso orale non è vero sesso». Lei crede ai ragazzi o ai carabinieri? «È tutto molto ambiguo. Certo, se tra i due giovani era in corso un rapporto orale in mezzo alla strada, forse non va proprio bene». Però? «C’è qualcosa che non quadra. Le cronache dicono che sono stati illuminati dai fari. Quindi erano al buio, non visibili». Al buio tutto è lecito? «Non si può ovviamente rivendicare il diritto di fare sesso sulla pubblica via, ma il concetto di osceno prevede che qualcuno guardi o possa guardare». E non è il caso? «Mi pare che ci sia dell’accanimento nell’andare a stanare la gente con le pile. Che male c’è a stoccacciarsi un po’ al buio? Sa quante cose si vedrebbero nelle camere da letto se si aprissero le finestre e si inquadrassero le persone con le torce?» Però quei due erano in luogo pubblico. «L’altro giorno sono passato da via Salaria. C’era una signorina, chinata, che offriva il suo sedere nudo ai passanti. Probabilmente lo fa tutte le sere assieme alle colleghe. E non mi pare che intervenga qualcuno. Il concetto di osceno va e viene». Se fosse stata una coppia etero si sarebbe chiuso un occhio? «Credo proprio di sì, c’è più indulgenza con gli etero. Detto questo, forse i due addolciscono la cosa e sono andati un po’ oltre. Mala reazione dei carabinieri mi pare eccessiva». È il frutto di una cultura omofoba? «Si sa qual è il modo di pensare delle forze dell’ordine. Basta andarsi a rileggere le cronache del G8 diGenova. E guardi che mio padre era un agente. In America sfilano i poliziotti gay. Se l’immagina da noi?». Ha mai avuto problemi con le forze dell’ordine? «Quarant’anni fa, a Torino, al parco del Valentino, noto luogo di dragaggio gay. Una sera ero in auto, era la prima volta e avevo un po’ paura. Ho visto un ragazzino, credo un marchettaro, maltrattato dalla polizia. Ho sentito il dovere cristiano di soccorrerlo — guardi un po’ dove si nasconde a volte il dovere cristiano—e sono intervenuto. Mi hanno identificato e mi hanno rimproverato: ma come, anche lei, professore... Però non stavo facendo nulla». C’è ancora omofobia in Italia? «La discriminazione si vede da tante cose. Io mi infurio sempre negli alberghi: non perché ami particolarmente il porno, ma nelle pay tv non ci sono mai film omosessuali. Al limite di lesbiche, per voyeur etero.È una discriminazione che grida vendetta. I gay non si devono vedere. E infatti neanche loro si mostrano». Invece li si accusa spesso di esibizionismo. «Non vedo gay che si baciano in pubblico da anni. Sanno che la società non lo consente. È una questione legata anche ai Dico: come non si accetta la istituzionalizzazione di un rapporto gay, così non si accetta la loro visibilità. Per questo c’è il Gay Pride, che io non amo anche per ragioni estetiche. Lì si fa dell’esibizionismo a fini di provocazione politica. Finché ci sarà un prete a scandalizzarsi avrà un senso». Qualcuno torna a rivendicare il senso del pudore. «Giusto, io preferisco una società dove non si vede tutto. Del resto non ho mai baciato in pubblico nessuno. Neanche quando credevo di essere eterosessuale ». Ci sarà oggi al bacio collettivo di protesta? «Sono all’estero. E comunque dovrei trovare qualcuno che voglia baciarmi». Il «kiss in» sarà al Colosseo. Giovanardi dice che è scandaloso che accada dove c’è la via Crucis e dove c’erano i martiri cristiani. «Giovanardi vince il premio Nobel per la trombonaggine. Al Colosseo si fa da sempre, ci andai anch’io molti anni fa, non feci nulla perché mi mancava la materia prima. Temo che vicino a quelle mura si praticasse sesso selvaggio anche allora, al tempo dei martiri». Alessandro Trocino 29 luglio 2007 da corriere.it Titolo: Vattimo, appello contro i monaci tibetani Inserito da: Admin - Aprile 10, 2008, 04:03:28 pm L'iniziativa dello storico Losurdo e del filosofo torinese
Vattimo, appello contro i monaci tibetani «Informazione scorretta: non è altro che la versione aggiornata del piano imperialista inglese contro la Cina» E se i disordini di Lhasa del 14 marzo non fossero stati altro che «un pogrom anticinese»? Una «caccia all'uomo finita con donne, bambini e vecchi dati alle fiamme?» e se la stampa internazionale «quella europea in particolare» fosse impegnata in «una campagna anti-cinese dai connotati razzisti», degna continuazione del vecchio «piano imperialista contro Pechino e della guerra dell'Oppio?». A pensarlo sono due intellettuali di sinistra: il filosofo torinese del pensiero debole Gianni Vattimo e lo storico dell'Università di Urbino Domenico Losurdo, che sulla Cina moderna ha scritto più di un libro. Nel giorno in cui Gordon Brown annuncia il proprio boicottaggio politico delle cerimonie olimpiche, Losurdo si è incollato alla sua posta elettronica per lanciare un appello agli altri intellettuali italiani affinché si riveda l'interpretazione «troppo squilibrata» a favore dei monaci di quanto sta succedendo in questi mesi pre-olimpici dentro i confini del Tibet. Finora l'unico che ha risposto con interesse alla chiamata da Urbino è stato Gianni Vattimo, che ha dato l'ok alla bozza di Losurdo: «Sì, io firmo». CACCIA ALL'UOMO - A sostegno della loro tesi, finora del tutto minoritaria, i due professori — Losurdo è considerato vicino all'area dell'Ernesto, la minoranza di Rifondazione comunista, Vattimo, già europarlamentare ds, poi passato al partito dei comunisti italiani di Diliberto è ora approdato al marxismo tout court — portano anche foto, reportage di giornalisti stranieri, testimonianze di turisti che erano a Lhasa in quei giorni e «video della tv cinese, censurati in Italia, ma che — spiega Losurdo — sono facilmente scaricabili da internet»: «La stampa europea e quella italiana in particolare hanno accettato la versione dei monaci, e solo qua e là a spizzichi e bocconi si può leggere qualche informazione corretta sulla selvaggia caccia all'uomo di quei giorni in cui la polizia cinese fu chiamata ad intervenire troppo tardi, quando il più era già avvenuto». Riportare dunque all'ordine del giorno anche la vulgata cinese è la missione che i due intellettuali si sono proposti e per la quale sono al lavoro, limando il testo dell'appello da proporre ai loro colleghi, ma anche ai parlamentari e all'opinione pubblica. Una difesa vera e propria della Cina «dall'attacco occidentale»: «Prima l'indipendenza mascherata da autonomia del Tibet — protesta Losurdo — del Grande Tibet, poi della Mongolia interna e infine della Manciuria: non è altro che la versione aggiornata del piano imperialista inglese contro la Cina». Gianna Fregonara 10 aprile 2008 da corriere.it Titolo: GIANNI VATTIMO. La politica messa fuori gioco Inserito da: Admin - Luglio 20, 2008, 08:09:12 am 19/7/2008
Meglio Sabina dei moralisti super partes GIANNI VATTIMO Ma ci saranno davvero due Italie, come suggerisce Ernesto Galli della Loggia sul Corriere della sera del 13 luglio, oppure ce n’è anche un terza che ci costringe a rifare i nostri conti? Le due Italie diverse che Galli distingue e descrive sono, come si può immaginare, quella che, a torto o a ragione, vota Berlusconi e che se ne sente rappresentata; l’altra è quella degli intellettuali di sinistra con il loro corteo di comici, attori, nani e ballerine, politici trombati e nostalgici del comunismo. Che, manco a dirlo, si sentono sempre i migliori, diversi da quella massa di persone che si lasciano abbindolare dalla propaganda berlusconesca e perdonano al cavaliere i tratti leggermente (?) furfanteschi che marcano la sua carriera, e che in fondo sono tanto «italiani», tanto espressivi delle nostre più profonde caratteristiche nazionali. I moralisti di sinistra si sono da ultimo espressi, si fa per dire, nel triste spettacolo di Piazza Navona (peraltro così unanimemente condannato; dunque non sono poi tanti...), mostrandosi per quello che sono, presuntuosi, antipatici, e fondamentalmente antidemocratici, perché disprezzano la volontà della maggioranza che oggi sostiene questo governo. Ma Galli di quale Italia fa parte? Al di là del popolo bue e degli antipatici moralisti di sinistra, che credono di parlare in nome dei veri interessi dei cittadini ma si crogiolano solo nei loro pregiudizi ideologici, non dovremo riconoscere anche una terza categoria, quella che per l’appunto, in nome di una razionalità davvero super partes, giudica e valuta le altre due posizioni e le ammonisce a vincere finalmente i propri difetti? Si badi che non è un problema da poco, anche filosofico. La democrazia sarà davvero la lotta tra parti e interessi diversi che a un certo punto si accordano per amore di pace e sopravvivenza, oppure dovrà essere sancita da una istanza superiore - Galli della Loggia e affini - che distribuisce colpe e meriti e distingue i «veri» democratici dai democratici spurii? Sembra che qui si finisca ancora una volta nel vicolo cieco della scomunica papale del relativismo, che però non può nascondere le proprie radici autoritarie. Galli, e quelli come lui, ammettono di essere solo interlocutori del (famigerato ormai) «dialogo», oppure si riservano la, moralistica, parte del giudice? Ma se è così, davvero preferiamo Sabina Guzzanti e il suo irresistibile turpiloquio. da lastampa.it Titolo: GIANNI VATTIMO. La politica messa fuori gioco Inserito da: Admin - Agosto 19, 2008, 04:44:01 pm 19/8/2008
La politica messa fuori gioco GIANNI VATTIMO Qui non si bestemmia, non si sputa per terra e non si parla di politica». Forse qualcuno dei lettori più anziani ricorda questa scritta appesa alle pareti delle osterie d’Italia durante il ventennio fascista. Non sappiamo se Famiglia Cristiana avesse in mente cose del genere quando ha parlato, di recente, del rischio di ritorno al fascismo che correrebbe la nostra repubblica. Certo, se la scomparsa della politica (non parliamo della bestemmia, poi!) dal dibattito comune è un segno di fascismo ritornante, il giornale cattolico avrebbe le sue ragioni. Si moltiplicano gli sforzi di dialogo «pacato» tra maggioranza e opposizione, e la cosiddetta «commissione Amato» inventata dal sindaco di Roma per impegnare in una lavoro bipartisan le migliori menti politiche del Paese nella «ricostruzione» di Roma sta già diventando, nella mente di molti, un modello per la politica nazionale. Chi obietta che questa ansia di mettersi tutti insieme, di «rimboccarsi le maniche» per l’impresa comune di salvare la patria rischia per l’appunto di annegare tutte le differenze, e i diversi legittimi interessi e posizioni ideali, in una marmellata che giova solo ai (al?) detentori del potere viene guardato come un pericoloso guastafeste e infine come un fanatico sovversivo. (Anche questo vocabolo è una chiara marca di fascismo, oppositori non ci sono, solo sovversivi). Eppure non è una caratteristica essenziale della società liberale (Gobetti docet) di essere un luogo di conflitti, sia pur regolati, dalla cui esplicita conciliazione negoziata soltanto deve nascere la politica nazionale? Non sembra che questo sia il caso delle varie «commissioni Attali» che oggi s’invocano da tutte le parti. Il loro limite, almeno il più evidente, sembra essere quello del voler riciclare a tutti i costi personaggi legati alle maggioranze politiche precedenti, soddisfacendo più che esigenze nazionali il bisogno di «non sparire» che prende tanti di loro (e su cui ha scritto una bella pagina Claudio Magris sul Corriere della sera di qualche giorno fa). Ma ben più grave è l’effetto che tutta questa bipartisanship produce sulla nostra già disastrata opinione pubblica. Se tutti possono collaborare con tutti, magari in nome di nebulosi progetti di riforme istituzionali (di cui l’elettorato sente un bisogno assai relativo, se solo potesse votare in maniera meno militarizzata per i candidati che preferisce), allora non vale più davvero la pena di discutere e impegnarsi in politica. La casta, anche se fosse più casta e sobria di com’è, finirà per chiudersi sempre di più su se stessa, l’avvicendamento del personale politico assomiglierà sempre di più a una rotazione di amministratori delegati che provengono sempre dallo stesso gruppo ristretto di famiglie, alla faccia degli elettori-piccoli azionisti. Il fascismo, alla fin fine, è stato anche questo. Stiamo assistendo, fascismo o no, a un gigantesco fenomeno di «neutralizzazione» della politica. Non solo in Italia, a quanto pare, e dunque probabilmente per ragioni non solo legate alle nostre vicende interne. C’entra ovviamente la sempre più netta polarizzazione in atto tra le grandi potenze mondiali; in questo gioco - che ci vede membri dell’Unione Europea, dell’Alleanza Atlantica, del Wto, e di chissà quante altre «reti» internazionali - il peso delle nostre scelte politiche è minimo, e i più realisti tra i nostri politici lo sanno e vi si conformano senza troppi rimorsi. da lastampa.it Titolo: GIANNI VATTIMO, domani ultima lezione all'Università di Torino Inserito da: Admin - Agosto 23, 2008, 11:39:16 pm 23/8/2008
Scandalosa università GIANNI VATTIMO Sarà, la vicenda del professor Tappero, un segno che l’università (di Torino, nel caso) assume finalmente un volto umano (troppo umano)? Non più le tristi lotte fra cosche accademiche a cui da troppo tempo siamo abituati, ma una franca scelta dettata da una delle passioni più forti dell’uomo come tale? Ti faccio vincere, come ha spiegato la candidata esclusa, se «chini la testa» (alle 12,30, in auto, davanti all’istituto; e non certo per piangere o dormire). Oppure, reazione forse più verosimile: era ora che il Tar intervenisse una buona volta sulle tante porcherie che si consumano nei concorsi universitari di ogni livello. E peccato che si sia mosso solo per ragioni formali, non entrando nel merito delle valutazioni su titoli ed esami, ma comunque sempre avendo sentito odore di scandalo sessuale che motiva quella «grave patologia procedimentale» di cui parla la sentenza di annullamento del concorso. Chi vive nell’università, purtroppo, non può non riconoscere che questa faccenda è solo una minima parte di ciò che andrebbe perseguito dagli organi (pardon) competenti. Ma lo sanno i non addetti ai lavori che, secondo i regolamenti più recenti, se un Dipartimento deve bandire un concorso pubblico per ricercatore, definisce i requisiti del soggetto cercato fin nei minimi particolari, ritagliandoli esattamente sul candidato che si vuole far vincere, tanto che nel bando manca solo il nome e cognome? Oppure che decide di limitare il numero dei titoli presentabili (volumi, saggi, ecc.) per non far sfigurare il candidato «destinato» a vincere? E in ogni caso, purché si rispettino le forme - verbali in ordine, firme su ogni pagina, ecc. - le commissioni possono assegnare i punteggi che vogliono, anche contro ogni logica e rispetto dei meriti: articoletti e brevi recensioni valutati come se fossero la Critica della Ragion pura di Kant, per far prevalere il pre-scelto. Certo, le commissioni sono composte da più professori, la loro neutralità dovrebbe essere garantita; ma quel che succede in un concorso condiziona e prepara ciò che accadrà in quelli futuri. Ecco perché, tra l’altro, nessun candidato ingiustamente trattato ricorre mai ai tribunali; il giudizio di merito della commissione è insindacabile; e soprattutto, se metti in piazza le magagne del concorso che ti ha visto sconfitto non avrai mai più la possibilità di partecipare a un altro con qualche speranza di successo. Sembra addirittura che ogni tentativo di migliorare la situazione si risolva in guai peggiori. Prendete la vicenda degli assegni di ricerca «cofinanziati»; che sono a carico per la metà, per esempio, della Regione o di altri enti pubblici, e per l’altra metà del Dipartimento o di altri enti privati che vogliano partecipare. I Dipartimenti di rado hanno fondi da mettere a disposizione. Bisogna cercare altri enti o privati che paghino. Chi trova questi mecenati? Nelle facoltà umanistiche - dove è difficile che un’impresa decida d’investire soldi - il giovane studioso candidato in pectore si cerca lo sponsor (potrebbe anche essere uno zio che fa un prestito), il quale si propone al Dipartimento che deve indire il pubblico concorso. Anche con tutte le cautele (vedi sopra) nel redigere il bando necessario, può darsi che il concorso lo vinca uno studioso diverso da quello pre-sponsorizzato. Lo sponsor-zio può allora decidere di non versare i soldi promessi, creando una quantità di problemi legali. Volete che una commissione, sia pure neutrale e democraticamente eletta, si esponga a questo esito? Farà vincere il candidato sponsorizzato. Eccetera. Altro che «servizi schifosi» prestati, in auto o anche in Istituto, al boss. La distruzione dell’università pubblica non passa solo, o principalmente, di qui. E non si vede chi riuscirà fermare lo sfascio. da lastampa.it Titolo: Vattimo, domani ultima lezione all'Università di Torino Inserito da: Admin - Ottobre 13, 2008, 05:01:06 pm 13/10/2008 (11:57) - FILOSOFI
Vattimo, domani ultima lezione all'Università di Torino Dopo 44 anni di insegnamento si congeda da colleghi e studenti TORINO Lezione di congedo del filosofo Gianni Vattimo, che a 72 anni chiude la sua lunga carriera di insegnamento, iniziata 44 anni fa. Vattimo, che si laureò nel 1959, dal 1964 è stato professore all’Università di Torino, dove è stato anche preside della Facoltà di Lettere e Filosofia. Domani, martedì 14 ottobre, presso l’aula magna del Rettorato, in via Po, il teorico del «pensiero debole» terrà l’ultima lezione pubblica davanti a colleghi e studenti, chiudendo così oltre un quarantennio di vita accademica che ha fatto di Vattimo uno dei filosofi italiani di maggior fama internazionale. Per due ore, Vattimo parlerà sul tema «La verità e l’evento: dal dialogo al conflitto», ripercorrendo la sua elaborazione filosofica e politica, che si è proposta il rinnovamento della società in senso pluralista e libertario pur non disdegnando l’accoglienza di quei valori storici propri della cattolicità tradizionale (soprattutto il senso della «pietas») sintentizzandoli in forza di un pensiero che si pone come debole, in contrapposizione alle distinzioni etiche intransigenti e dogmatiche. Gianni Vattimo nasce a Torino il 4 gennaio 1936 dove compie anche gran parte della sua formazione culturale. Nel 1959 si laurea in filosofia con Luigi Pareyson la cui influenza manterrà un ruolo importante nello sviluppo del pensiero di Vattimo. Durante i suoi studi passa periodi all’estero e in particolare a Heidelberg dove si specializza con Karl Loewith e Hans Georg Gadamer, di cui ha introdotto il pensiero in Italia. Dalla metà degli anni Sessanta insegna stabilmente all’università degli studi di Torino e presso numerose università straniere in qualità di visiting professor. Accanto all’attività scientifica Vattimo è stato editorialista per importanti quotidiani italiani come «La Repubblica» e «La Stampa» e negli ultimi anni ha svolto attività politica diventando parlamentare europeo dal 1999 al 2004. Le opere di Gianni Vattimo sono discusse in Italia e all’estero, in particolare per l’interpretazione originale dell’ontologia ermeneutica che il filosofo torinese ha chiamato pensiero debole. Questa impostazione teorica, che ha le sue radici nello studio di Nietzsche e Heidegger, fa di Vattimo un importante pensatore della postmodernità che suggerisce una concezione non dogmatica della verità con forti implicazioni etico-politiche. Secondo Vattimo infatti il pensiero debole è la chiave per la democratizzazione della società e la diffusione del pluralismo. Negli anni Cinquanta, insieme a Furio Colombo e Umberto Eco, ha lavorato ai programmi culturali della Rai-Tv, conducendo tra l’altro il programma settimanale politico-informativo «Orizzonte». È membro dei comitati scientifici di varie riviste italiane e straniere; è socio corrispondente dell’Accademia delle Scienze di Torino. Ha diretto la «Rivista di Estetica». Ha ricevuto lauree honoris causa da numerose università del mondo. È Grande ufficiale al merito della Repubblica italiana (1997). Attualmente è vicepresidente dell’Academìa de la Latinidade. Le opere principali di Gianni Vattimo sono: Il concetto di fare in Aristotele (1961); Essere, storia e linguaggio in Heidegger (1963); Ipotesi su Nietzsche (1967); Poesia e ontologia (1968); Schleiermacher, filosofo dell’interpretazione 1968; Introduzione a Heidegger (1971); Il soggetto e la maschera (1974); Le avventure della differenza (1980); Al di là del soggetto (1981); Il pensiero debole (1983) (scritto con A. Rovatti); La fine della modernità (1985); Introduzione a Nietzsche (1985); La società trasparente (1989); Etica dell’interpretazione (1989); Filosofia al presente (1990); Oltre l’interpretazione (1994); Credere di credere (1996). da lastampa.it Titolo: VATTIMO: LA VERITA' E' NEL CONFLITTO, NON NEL DIALOGO Inserito da: Admin - Ottobre 14, 2008, 10:18:50 am 2008-10-14 09:11
VATTIMO: LA VERITA' E' NEL CONFLITTO, NON NEL DIALOGO di Barbara Beccaria TORINO - Oggi sarà l'ultimo giorno dietro la cattedra per il filosofo Gianni Vattimo che terrà la sua ultima lezione nell'Aula Magna del Rettorato dell'Università di Torino dal titolo "La verità e l'evento: dal dialogo al conflitto". Va in pensione, dopo 44 anni di ruolo. Per l'ateneo torinese, per i suoi studenti e per i ricercatori che si sono formati con lui, ragionando dell'attualità del filosofo tedesco Heidegger, il suo pensatore di riferimento e del "pensiero debole", un concetto coniato da lui ed esportato nel mondo, quello di oggi sarà un addio non indolore. Vattimo é un'icona dell'Università di Torino che lo ha tra l'altro visto tante volte in prima fila nella battaglie più di sinistra, non ultima quella nata intorno alla decisione della Fiera del Libro di Torino dell'anno scorso di invitare ufficialmente Israele. Inutile dirsi che lui si era schierato dalla parte dei palestinesi, non certo contro gli ebrei, ma per dire, come sempre, che i più deboli, i più poveri hanno sempre ragione. E che la "ragion di stato", quella che aveva portato, secondo lui, il governo italiano, tramite la Fiera, a festeggiare i 60 anni di Israele, fa ormai sempre più acqua. Un atteggiamento che anima anche il cuore dell' intervento in Aula Magna. "Oggi si parla tanto di dialogo - ha detto Vattimo - un concetto in bocca a tutti i potenti, in realtà nessuno fa niente davvero per cercare di dialogare con l'altro, con il nemico. Anche Bush ha detto di aver attaccato l'Iraq perché voleva il dialogo". Per Vattimo "bisogna rilanciare il conflitto, in luogo di un dialogo-panacea che non serve a nessuno, bisogna avere il coraggio di stare da una parte, sperando che sia quella giusta. Ed io ora, so di stare dalla parte dei poveri e di chi non ha voce". Ancora una volta Vattimo, passato negli anni scorsi dal Pd al Pdci (poi abbandonato perché "troppo poco di sinistra") si schiera. "La lezione che ho preparato, l'ultima in questo ateneo che ho amato molto - ha aggiunto - sarà così una sorta di nuova Internazionale che finirà con il recupero di Marx. Ma un Marx molto scomodo, genuino, che i politici di oggi faticano a considerare perché troppo 'illuminato'". L'addio non sarà privo di commozione, anche per un "freddo" come lui: "Brunetta permettendo io ho passato giorni e nottate in questa Università - ha detto - e l'unica cosa che mi sento di dire, è che adesso avrò più tempo per andare in giro per il mondo, nelle università e nei posti dove mi chiamano, per esempio partirò per le Canarie, poi sarò a Baltimora a fine mese". "Sono il classico 'cervello in fuga' - ha ancora scherzato il filosofo - d'altronde in questo paese l'Università pubblica sta morendo. La vogliono trasformare in un'impresa che fa profitti, imitando le università americane che mirano al denaro e non certo al bene collettivo. Anche le loro borse di studio sono un investimento economico perché mirate a quegli studenti capaci di inventare progetti, prodotti vincenti, che fanno fare soldi. Insomma, la cultura, il senso civile di una scuola è un'altra cosa". da ansa.it Titolo: GIANNI VATTIMO «Il '68 un sogno che potrebbe rinascere» Inserito da: Admin - Ottobre 28, 2008, 07:44:24 pm Il filosofo auspica che il decreto sia ritirato e invita gli studenti a non mollare
«Il '68 un sogno che potrebbe rinascere» Vattimo: «Credevo che il mio ateneo fosse una schifezza fino a quando non ho visto ciò che propone la Gelmini» TORINO - «È un vero peccato che il '68 non sia continuato, è stato un grande sogno che adesso abbiamo la possibilità di riprendere». Mentre si prepara a tenere una lectio magistralis in Piazza Vittorio, aderendo così all'iniziativa delle lezioni universitarie all'aperto che sono diventate un po' il simbolo della protesta contro la riforma Gelmini, il filosofo torinese Gianni Vattimo ci tiene a dire la sua sulle manifestazioni che in questi giorni agitano il mondo della scuola dell'università. «Credevo che la mia università fosse una schifezza - ha ironizzato Vattimo prima del suo intervento - finchè non ho visto quella che si profila». «PROVVEDIMENTO CHE FA SPAVENTO» - In particolare il filosofo torinese, docente fino a qualche settimana fa dell'ateneo Subalpino, critica il taglio dei fondi alla ricerca e «la speranza folle di salvare l'università mettendola al servizio delle forze produttive». «Preso nel suo complesso - ha osservato - il provvedimento fa spavento solo a pensarci. Dicono che diciamo solo dei no, ma come si fa a proporre delle modifiche in meglio di qualcosa così terrificante?». Per Vattimo «c'è un atteggiamento nei confronti della scuola e dell'università spaventoso perchè puramente economico». Vattimo auspica quindi che il decreto sia ritirato o modificato e invita gli studenti a non mollare aggiungendo: «Io fondamentalmente vorrei lottare perché questo governo se ne andasse e comunque ritengo che valga veramente la pena di lottare per la scuola che è la base di un vero sviluppo sociale. Il '68 - ha concluso - è un vero peccato che non sia continuato, ora c'è la possibilità che riprenda». 28 ottobre 2008 da corriere.it Titolo: GIANNI VATTIMO - Inserito da: Admin - Dicembre 20, 2008, 12:08:06 pm 20/12/2008
Ma a me Walter piace GIANNI VATTIMO Sarà che lo stare all’opposizione fa bene a una forza politica (contrariamente al vecchio adagio andreottiano); o forse è per la «persecuzione» giudiziaria di cui è vittima in questi ultimi tempi. Fatto sta che ho seguito per gran parte della giornata, grazie a Radio Radicale, il dibattito alla direzione del Pd. E ho ricavato un’impressione di gran lunga migliore di quanto mi sarei aspettato, ho avuto persino la tentazione di pentirmi di tutto il male che ne pensavo e, in parte, ancora ne penso. Anzitutto, il livello e la densità del discorso di Veltroni, uno dei migliori che abbia mai fatto dopo il Lingotto, giustamente mirato sia alla situazione del partito sia al quadro politico generale, con indicazioni e proposte (persino qualcosa come il salario di cittadinanza, e una fiscalità più dura per chi supera certi livelli di guadagno) molto lontane dai fumi della «bella politica» e del kennedismo edificante a cui per un po’ ci aveva abituati. E dopo Veltroni, gli interventi che si sono succeduti, per lo più alla stessa altezza. Con la vera e propria commozione che si è avvertita nelle parole della (crediamo giovane) esponente siciliana che ha parlato per prima dopo il segretario: questo partito è come la mia casa, soprattutto non lasciate che si dissolva nelle liti interne o per i colpi degli avversari... Il mito del partito liquido E poi Reichlin, che con la lunga esperienza di chi ha attraversato tanti periodi bui della storia italiana ha un po’ riassunto quella che era la consapevolezza diffusa dell’incombente minaccia di possibili (ulteriori) sviluppi autoritari nella situazione del Paese. Insomma, dopo le tante chiacchiere sulla questione morale (serissima, certo, ma evocata sempre solo per dire che i partiti sono tutti uguali, par criminalis condicio) e le dispute televisive su chi vuole o no il dialogo, un susseguirsi di discorsi che hanno mostrato la sussistenza di una sorta di «zoccolo duro» di esponenti politici che continuano a prendere sul serio la loro attività e che appaiono impegnati nello sforzo di interpretare al meglio le domande del Paese. L’appello che ci pare di aver sentito di più, e che non va interpretato, crediamo, come una pura e semplice espressione di autoreferenzialità, è quello al rinnovamento della vita del partito. Veltroni ha parlato dei «circoli» (una volta si chiamavano sezioni, attenzione a non adottare troppo la terminologia di Dell’Utri), che dovrebbero funzionare in una meno evanescente vita di periferia, come luogo di formazione di coscienza e competenza politica, capace anche di scoraggiare ed espellere chi cerca solo un’opportunità di carriera e facile guadagno. Niente più mito del partito liquido, e forse questo è l’aspetto più significativo di una certa opposizione a Veltroni e al suo americanismo. Il pericolo di imitare la destra Si può sospettare addirittura che l’idea del partito liquido sia stata insufflata nella sinistra da un berlusconismo che intanto si è andato strutturando sempre più rigidamente, lasciando che gli avversari lo imitassero nei suoi tratti più effimeri (e per giunta, con meno soldi da spendere in iniziative pubblicitarie). A parte la questione della forma-partito, il pericolo di un’«imitazione» della destra, che non abbiamo sentito evocare nel dibattito odierno, è forse quello su cui il Pd dovrebbe riflettere di più, anche per venire a capo della domanda che, soprattutto dopo le elezioni abruzzesi, è diventata decisiva: il partito ha perso voti per colpa di Di Pietro, che avrebbe allontanato da Veltroni gli elettori moderati; oppure ha limitato il peso della sconfitta proprio perché Di Pietro ha fermato una altrimenti inesorabile emorragia di elettori di sinistra? Ma, si risponde, Di Pietro non è di sinistra, dunque sarebbe giusto che il Pd se ne distaccasse nettamente. E però: in nome di che, forse della propria autentica ispirazione di sinistra? Nonostante l’apprezzamento per il discorso di oggi di Veltroni, nutriamo su questo i più fieri dubbi. da lastampa.it Titolo: Re: GIANNI VATTIMO - Ancora e sempre Fidel Inserito da: Admin - Gennaio 09, 2009, 01:19:58 pm 9/1/2009
Ancora e sempre Fidel GIANNI VATTIMO Cinquant’anni dalla rivoluzione cubana. La stampa «indipendente» mi ripete che la rivoluzione è fallita, ma io non ci credo. Come molti intellettuali «vintage», anch’io ho attraversato disciplinatamente almeno le prime due fasi della parabola castrista: l’entusiasmo per la rivoluzione vittoriosa, il Che e le canzoni dei barbudos, il progetto di un allargamento del movimento fuori dai confini di Cuba; persino l’accettazione rassegnata della caduta dell’isola nella sfera d’influenza sovietica - perché non si poteva fare altro. Poi, certo anche a partire dalla dipendenza verso Mosca, la crescente delusione per le promesse non mantenute: povertà, limitazioni severe delle libertà politiche e civili; con le storie di persecuzione di scrittori e intellettuali gay, che mi vengono ancora puntualmente rinfacciate con sempre meno verosimiglianza. Oggi, a quanto pare, non «si può» decentemente professarsi castrista nel mondo della cultura predominante; è quasi una caduta grave come dubitare del diritto di Israele di affamare e poi bombardare Gaza, o porre troppe domande sull’11 settembre... Io mi trovo però nella (minoritaria) condizione di un intellettuale italiano che non ha solo percorso le prime due fasi della parabola dell’immagine del castrismo, ma che ne ha vissuto di recente una terza, che si potrebbe chiamare la sintesi dialettica delle prime due. Sono stato a Cuba, ho potuto incontrare faccia a faccia Fidel, non più solo per speculum et in aenigmate (ho raccontato l’incontro su questo giornale nell’aprile 2003, non senza suscitare un fiera, e per me molto onorevole, reazione del Miami Herald). Ma soprattutto ho visto molti cubani, certo non oppositori del regime ma nemmeno privilegiati o personaggi ufficiali. Gente che crede ancora nella rivoluzione, e sopporta i tanti disagi quotidiani, anzitutto perché ricorda, personalmente o per memorie ricevute, che cos’era Cuba ai tempi di Batista; ed è convinta che le difficoltà economiche dipendono dal fatto che l’isola è in guerra ed è soggetta a un permanente assedio statunitense (oltre che alle minacce degli attentati). Di recente, poi, è nata nei cubani una nuova fierezza: la resistenza di Castro al gigante nordamericano è diventata fonte d’ispirazione per le tante trasformazioni politiche che hanno cominciato a fiorire nel resto dell’America Latina. E, a proposito di benessere: Michael Moore ha mostrato e documentato che un cittadino cubano può contare su un’assistenza medica gratuita di un livello che negli Usa è riservato solo a un piccolo gruppo di ricchi. Ma, si dice sempre: la libertà, i gay in carcere, la stampa di regime, gli scaffali dei supermercati vuoti? Sui gay, almeno, la signora Mariela Castro, figlia di Raul, che dirige un modernissimo istituto di sessuologia, spiega che le ondate omofobiche, analoghe a quelle contro cui si rivoltarono i gay di New York con la battaglia dello Stonewall (ed era New York; ma la provincia americana, cioè tutto il resto degli Usa?) dipesero nei primi tempi della rivoluzione dalle «democratiche» decisioni dei capi locali del partito castrista, omofobi più o meno come tutta la società cubana e degli altri Paesi latino-americani (oggi peraltro molto più avanti di noi italo-vaticani). E più tardi dalla stretta securitaria e dal clima di guerra. La rivoluzione castrista, nel quadro della nuova America Latina che si è delineato negli ultimi anni - anche, ma non solo, per merito di Chavez e del suo petrolio - non è affatto una (altra) speranza fallita, a dimostrazione che ha sempre ancora ragione il nostro «democratico» capitalismo. Semmai, certo, mostra che nel mondo tardo-moderno la rivoluzione in un solo Paese, che non sia un intero continente o quasi, come la Cina, non ha probabilità di successo: non potremmo mai pensare nemmeno a una rivoluzione classica, come quella francese, nel mondo odierno delle multinazionali, economiche o politiche che siano. Ma quando parliamo di America Latina (e non di Europa, ahimè) è proprio un continente quello a cui pensiamo. da lastampa.it Titolo: GIANNI VATTIMO Il potere che spegne la carità Inserito da: Admin - Febbraio 11, 2009, 02:19:26 pm 11/2/2009
Il potere che spegne la carità GIANNI VATTIMO Ma chi ha esercitato un po’ di carità cristiana nei confronti di Eluana Englaro? I fedeli che si riunivano nelle chiese e nelle piazze per scongiurare l’«assassinio», o il padre che, sostenuto da precise pronunce giudiziarie, voleva aiutarla a interrompere la sofferenza inutile della quale era prigioniera? È vero, non c’era un documento scritto di suo pugno in cui lei esprimesse il desiderio d’esser lasciata morire. Anche perché in Italia di testamento biologico non si è mai potuto discutere davvero, per responsabilità precipua di quella Chiesa che diceva di voler difendere la sua vita. Ma in mancanza del documento, i tutori «naturali», la famiglia, meritavano d’essere ascoltati. Non avevano certo nessun interesse a lasciarla morire, a meno che non si consideri interesse il desiderio di non vederla più soffrire e di non lasciarla ridursi a una larva. (E a meno di condividere l’osceno sospetto che il padre volesse liberarsi di un ingombrante fardello). Perché tenerla in vita a tutti i costi? Il diritto alla vita non può essere puramente diritto alla sopravvivenza biologica: respiro, processi digestivi, funzioni vegetative. Scienza e coscienza dei medici che la seguivano da 17 anni concordavano che non ci fosse speranza di recupero, dunque sopravvivere non poteva avere il senso di attesa di una guarigione. Non è comunque vita vegetativa quella di cui parla la tradizione cristiana o anche il buon senso umano. Propter vitam vivendi perdere causas? Pur di sopravvivere, rinunciare alle ragioni stesse della vita? I martiri cristiani accettavano la morte per non rinnegare la fede. Peccavano contro la vita? E i grandi suicidi della tradizione classica che preferivano la morte alla schiavitù sarebbero da condannare? Anche chi crede che la vita sia «un dono di Dio» non può non pensare che si tratta di accettarlo e gestirlo in piena libertà. Ma se Eluana avesse scritto quel testamento biologico che ancora non esiste nelle nostre leggi, avremmo potuto da cristiani rispettare la sua scelta? Per quel che si è visto in questi giorni, la Chiesa non ammetterebbe mai che qualcuno possa chiedere d’esser lasciato morire, con la sospensione di cibo e idratazione - che, si è scoperto adesso in Vaticano e dintorni, non sono terapie (che il paziente può rifiutare), ma forme di assistenza elementare alla vita. Sono in gioco valori «indisponibili», questioni di principio. Proprio quelle che hanno preteso di legittimare, nei secoli, i tanti delitti ecclesiastici contro la carità: i roghi di streghe, eretici, liberi pensatori. Davvero non si può ammettere che una persona decida se la propria vita è ancora degna di essere vissuta o no? Se si pone questa semplice domanda, si vede come dietro la questione di principio (la vita è un bene indisponibile) si nasconda una pura questione di potere, e specificamente di potere ecclesiastico: nessuno di noi è in grado di conoscere il proprio «vero» bene, solo la Chiesa lo può. E il potere, la storia insegna, si conserva con la forza e il timore. Non è affatto inverosimile che la Chiesa, consapevole di non dominare più le coscienze con il timore dell’Inferno anticipa quelle pene al momento del morire. Oggi che la scienza-tecnica può prolungare la sopravvivenza vegetativa all’infinito, temiamo molto più dell’Inferno l’essere tenuti in vita in uno stato larvale, magari anche con dolore e sofferenza, almeno psicologica (il dolore è sempre «redentivo», e «nessuna lacrima va perduta», dice il Papa). È su questo terrore che la Chiesa non vuole perdere il suo dominio. Anche quelli fra noi che, come me, sono convinti della necessità dell’esistenza della Chiesa per trasmettere il Vangelo, non si sentono più di accettare per questo lo scandalo delle questioni di principio invocate per puro scopo di potere. Forse è vero che «se vuol distruggere qualcuno, Dio prima lo fa impazzire»? Cercare d’esser caritatevoli con Eluana e con tutti quelli che vogliono poter decidere sulla propria vita è anche un modo di aiutare la Chiesa a non distruggersi per delirio di onnipotenza. da lastampa.it Titolo: GIANNI VATTIMO - Due popoli e un piano Marshall Inserito da: Admin - Marzo 10, 2009, 09:32:44 am 10/3/2009
Due popoli e un piano Marshall GIANNI VATTIMO L’idea di un piano Marshall per la ricostruzione di Gaza, a cui anche l’Italia si è impegnata a contribuire con una somma non indifferente, è da salutare con estremo favore. A Gaza manca tutto, dopo l’operazione «Piombo fuso» con cui l’esercito israeliano ha prodotto i danni che tutti conosciamo attraverso impressionanti documentari. Che comprendono anche indizi piuttosto pesanti sull’uso da parte israeliana di bombe al fosforo, vietate dalle convenzioni internazionali. E non si tratta solo di ricostruire ciò che prima c’era, giacché già da mesi la Striscia di Gaza era diventata una prigione a cielo aperto dove, anche senza i bombardamenti, si moriva di morte «naturale» per la mancanza dei beni di prima necessità. Molti osservatori fuori di Israele hanno stigmatizzato per lo meno l’eccesso di legittima difesa da parte dello Stato ebraico; senza contestare il suo diritto di reagire al continuo lancio di missili sulle città al confine (missili che peraltro hanno fatto un numero di vittime assai limitato), è parso a molti, anche amici di Israele, che la rappresaglia superasse ogni limite accettabile. E sebbene durante i bombardamenti il ministro Tzipi Livni avesse negato che a Gaza ci fosse una situazione di emergenza umanitaria, oggi gli Stati «donatori» hanno riconosciuto che una tale emergenza esiste, e vi hanno risposto con l’idea benemerita del piano Marshall. Che hanno legato in qualche modo alla condizione di un rapido ristabilimento della pace nella zona. Una pace da costruire attraverso negoziati. Negoziati tra chi? Al tavolo delle trattative dovrebbero sedere, oltre forse al rappresentante piuttosto umbratile ed evanescente del famoso «quartetto», Tony Blair, i rappresentanti di Egitto, Israele e Autorità nazionale palestinese. Non però Hamas, che è il governo democraticamente eletto dai cittadini di Gaza. Se le cose andranno così, è difficile che il piano Marshall produca quegli effetti di pace che i «donatori» giustamente si propongono. Quello che accadrà sarà solo la ripetizione di uno scenario già visto: Israele, in nome del diritto all’autodifesa, distrugge case e infrastrutture dove vivono i «terroristi» palestinesi; Unione Europea, Stati Uniti e altri donatori intervengono per finanziare la ricostruzione. Fino a quando? Non solo a Israele non si chiede di partecipare alla riparazione dei danni. Lo si mette anche in posizione di condizionare l’uso delle risorse donate per la ricostruzione - merci e materiali dovranno passare per i valichi su cui vigilano Egitto e Israele -; e senza trattare con Hamas, solo governo legittimo di Gaza, che Israele non vuol riconoscere perché lo considera fatto di terroristi. Ci sentiamo ripetere che finalmente con la presidenza Obama si faranno passi avanti verso la soluzione dei «due popoli due Stati» e dunque che i soldi del piano Marshall saranno finalmente ben spesi. Ma come si può credere ancora a questa «soluzione», se la logica in cui si muove è del tutto coloniale? Si riuniscono al Cairo i soggetti interessati, salvo proprio quello con cui si dovrebbe trattare per arrivare alla pacificazione. Non è questione di riconoscere dei diritti (quelli di Hamas, nel caso), ma di domandarsi se un tale modo di procedere avrà gli effetti sperati. A giudicare da come le cose sono andate fino a oggi, pare proprio di no. I due Stati che si costituissero con questo metodo finirebbero per essere in perenne guerra tra di loro, che avrebbero bisogno di una presenza internazionale di interposizione fino alla fine dei secoli. L’unico vantaggio sarebbe forse che i combattenti palestinesi potrebbero finalmente avere una divisa, e non più considerarsi terroristi, come è stato finora in mancanza di uno Stato. Ma non sarebbe certo un grande guadagno. Almeno, non è per questo che possiamo sentirci impegnati a partecipare al piano Marshall per Gaza, pur augurandoci, contro ogni verosimiglianza, che abbia successo. da lastampa.it Titolo: GIANNI VATTIMO - Corro con Tonino Di Pietro Inserito da: Admin - Marzo 30, 2009, 09:30:38 am 30/3/2009 (8:32) - COLLOQUIO
Vattimo: viva i giustizialisti Corro con Tonino Di Pietro Gianni Vattimo ha accettato la proposta di Di Pietro "A destra moralmente repellenti, il Pd è una P-Dc". Il filosofo candidato Idv alle europee JACOPO IACOBONI Gianni Vattimo, il filosofo italiano più conosciuto nel mondo, «orgogliosamente comunista», si candida alle europee. Ma con Antonio Di Pietro. L’evento lo mette di buon umore, il professore sorride. È seduto nel salotto della sua casa torinese e sta leggendo La Stampa, la pagina a fumetti dedicata nella sezione culturale alla Tav. «Sì, ci siamo visti con Di Pietro, ci starò. Bisogna solo definire se corro nel nord ovest o anche altrove. Sa, mi candido ma mi piacerebbe anche essere eletto...». La notizia si fa pretesto, si discute del momento attuale dell’Italia, del giustizialismo, dell’età berlusconiana, della destra, della fine della sinistra, della laicità perduta. Su ognuno di questi titoli Vattimo articola riflessioni che sicuramente non possono essere tacciate di scarsa franchezza. «Diranno che vado con i giustizialisti? Ma questo è il loro lato buono! L’Italia dei Valori è l’unica opposizione verosimile che esiste oggi. Sì, io resto comunista, ho tantissimi amici nelle formazioni che si dicono comuniste, ma questa legge del quattro per cento li costringe ad alleanze innaturali, forse comunque infruttuose. Rischio di essere l’ultimo comunista al Parlamento europeo». Come si sia arrivati a tanto, lo spiega con un insieme di osservazioni. La prima è che Tonino se l’è andato a cercare. Con piglio abbastanza spregiudicato. Tra il raffinato intellettuale e il contadino in trattore e canottiera pare esser nato un feeling che può esser narrato sotto il sempiterno titolo: intellettuali e popolo. «Poi vede, lui si dice analfabeta ma non è affatto così bestia come dicono. E avevo già deciso di votarlo. Tra l’altro, in alcune formazioni che avrei potuto votare, per esempio quella di Claudio Fava, corrono uomini come Bobo Craxi...». Tra l’inventore del pensiero debole e il patrono della sintassi debole, en passant alfiere del giustizialismo, si potrebbe immaginare un qualche fossato, perlomeno nei riferimenti culturali. Ma non è detto. «Io su moltissime cose sono d’accordo con Di Pietro, per esempio è l’unico a coltivare un antiberlusconismo adamantino. Anche il cosiddetto carattere giustizialista del suo partito, in un Paese in cui il premier ha tutti i tratti dell’incompatibilità - altrove sarebbe stato persino ineleggibile - mi pare un pregio». Ci sarebbe l’ostacolo del populismo, cosa c’entra tutto questo con un comunista? «Questo rilievo lo posso anche capire, Vattimo va con l’antipolitica. Però nello stesso tempo ci è stato detto per anni che, per combattere Berlusconi, occorreva condividerne qualcuno dei tratti, o no? La verità sa qual è? Che io ho una posizione da Cln, anche nel Cln si erano messi insieme comunisti, liberali, democristiani perché avevano un compito comune: battere un fascismo; con tutte le ovvie differenze tra il fascismo e la situazione di oggi». Sul principale partito di opposizione inutile far conto, ragiona il filosofo. «Il Pd è il realtà il Pdc, una democrazia cristiana peggiore, nessuna concorrenza con il centrodestra su leggi come il testamento biologico, totale accettazione delle pretese della Chiesa». Anche il suo compagno di studi di gioventù Umberto Eco, che il loro comune amico Edoardo Sanguineti da ragazzo sfotteva col soprannome di «cardinale», mostra sempre più insofferenza per la scarsa laicità dei democratici? «Io non parlo da un po’ di queste cose con Eco, credo che lui sia ormai un ex cattolico, anche se ha scritto un libro col cardinal Martini, e se oggi è diventato anticlericale fa solo quello che deve. Io no, sono da sempre un cristiano antipapista! Rimpiango quasi che non ci siano stati i cosacchi a San Pietro, adesso è tardi». E sulla Chiesa avrebbe una ricetta severa: «L’unico modo per salvarla sarebbe sovvertirne le attuali gerarchie. Il Papa sul preservativo ha detto delle baggianate, come posso riconoscerne poi la vocazione al dialogo? Il discorso teologico sulle leggi naturali è fatto solo per imporre quelle leggi a chi non crede». La conversazione transita sugli ultimi, inattesi baluardi di laicità. Sul Fini elogiato da Eugenio Scalfari. Vattimo osserva: «Non avrei mai pensato che Fini fosse l’ultima speranza per la sinistra. Io questo congresso del Pdl l’avevo considerato una pagliacciata, probabilmente sbagliando. Mi vergogno un po’ a dirlo, ma quando vedo uomini come Gasparri mi chiedo se appartengano all’umano, anche se so che è sbagliato, poco caritatevole e poco democratico. Però non voglio rinunciare - perciò ho scelto Di Pietro - alla differenza morale tra destra e sinistra, tra quelli di qua e quelli di là, che continuo a trovare moralmente repellenti». Ci sarebbe il problema che, è considerazione diffusa a sinistra, Di Pietro è di destra. «Ma sa, la destra fascista non esiste più; magari esistono picchiatori di destra, ma ce ne sono anche nell’estrema sinistra. Quanto alla destra conservatrice, onesta, lei l’ha sentita, al congresso del Pdl? Io no. Non ho ascoltato alcun discorso onesto, per esempio, sulla crisi. L’unico che ne ha parlato, ed è infatti il migliore tra loro, è stato Giulio Tremonti, però che vuole, poi anche lui è un amico delle banche...» da lastampa.it Titolo: GIANNI VATTIMO - La verità come arma Inserito da: Admin - Maggio 17, 2009, 12:11:46 am 16/5/2009
La verità come arma GIANNI VATTIMO Ciò che ha scandalizzò gli elettori americani nell’affare Lewinski-Clinton, e prima, quel che provocò le dimissioni di Nixon per il Watergate non furono tanto le malefatte di cui i due presidenti si erano resi colpevoli. Clinton aveva tenuto una condotta «inappropriata» con la stagista (allora non si chiamavano ancora veline), ma erano fatti suoi e della sua signora; Nixon aveva «spiato» il quartier generale degli avversari democratici, ma non sembra fossero stati rubati segreti tanto decisivi per la vittoria dell’uno o dell’altro candidato. No, quel che costituiva una macchia intollerabile per l’immagine dei due presidenti era che avessero mentito ai concittadini. Merita di ricordarlo oggi, in Italia ma non solo, quando sembra che la sopravvivenza di un governo dipenda dal fatto che il suo massimo esponete si sia reso colpevole o no di comportamenti «inappropriati» nei confronti di una minorenne o appena maggiorenne. Se di questo si trattasse, avrebbero ragione coloro che si rifiutano di scendere a un così basso livello della polemica politica. Ciarpame, come è stato definito il tutto, non è solo il tema delle passioni private d’un esponente governativo, ma il fatto stesso di interessarsene, violando il limite della privacy e della decenza. Non possiamo però considerare inessenziale, e parte dello stesso ciarpame, stabilire se le notizie che abbiamo della vicenda siano esatte o manipolate nell’interesse d’una delle parti in causa. Sapere se un’alta autorità governativa ha frequentazioni non conformi alla morale dei più è assai meno importante che stabilire se ci menta o no. Non è questione da lasciare alla privacy, diventa un fatto di enorme rilevanza politica. Ma, osserverà qualche mente politica molto europea e disincantata, solo un pubblico ingenuo e di tradizioni puritane come quello americano può pensare che i politici (e i detentori di potere economico o spirituale) non debbano mentire. Andiamo, persino Kant pensava che fosse legittimo mentire in nome di una causa superiore: per salvare lo Stato, la pace, l’ordine sociale. Davvero la verità è un valore così assoluto da diventare il criterio per la stessa legittimità delle istituzioni? Nella Morte a Venezia di Mann le autorità tengono nascosta la gravità dell’epidemia che fa strage per evitare la fuga dei villeggianti e la rovina del turismo. Tutti accettiamo come una triste necessità l’esigenza di non creare panico, e danni maggiori, in caso d’imminenti catastrofi naturali che non abbiamo il potere di evitare. La famosa distinzione di Max Weber tra etica della convinzione e etica della responsabilità vale anche in casi come questi. Paradossalmente, può essere un affare di convinzione morale personale il dovere di dire in ogni caso la verità; ma è altrettanto legittima una convinzione morale che antepone il bene comune al dovere di dire il vero. Però, anche per un convinto assertore di quest’ultima posizione, e tanto più in quanto si preoccupa del bene comune, diventa un dovere prevalente quello di dire il vero se la legge dello Stato glielo impone. Ha poco senso, dunque, rimproverare a qualcuno di mentire, come se il dovere di dire la verità fosse un dovere assoluto precedente ogni legge positiva. Solo se viola qualche legge sancita e perciò necessariamente condivisa dai membri della comunità (l’ignoranza della legge non è ammessa) la menzogna esce dalla sfera della «convinzione» e entra in quella della «responsabilità», anche giudiziaria. Non valore naturale assoluto, la verità è piuttosto un’arma. Persino per il Vangelo: «La verità vi farà liberi». Ma appunto quella che serve a chi non è libero per diventarlo. Mostrare (veracemente?) che il potente è un bugiardo è un modo di prendere sul serio la verità molto più che andare tra gli scioperanti a insegnare la tavola pitagorica o le leggi di Newton. Senza questa consapevolezza, davvero solo ciarpame. da lastampa.it Titolo: GIANNI VATTIMO - Sessualità pillola e scomunica Inserito da: Admin - Agosto 06, 2009, 03:56:43 pm 5/8/2009
Sessualità pillola e scomunica GIANNI VATTIMO Ci si perdoni l’impertinenza: ma il motto «Non lo fo per piacer mio ma per dare figli a Dio», che forse qualcuno dei più anziani fra noi ha ancora visto ricamato sulle lenzuola della propria nonna conservate nel baule dei ricordi, non era forse il riassunto della morale che la Chiesa cattolica instillava alle giovinette timorate che si preparavano al matrimonio - un scelta di vita comunque sempre meno «perfetta» di chi decideva per la verginità, uomo o donna che fosse? E adesso, per rafforzare la scomunica ipso facto minacciata a chi ricorre alla pillola RU486, anche al medico che la prescriva, i rappresentanti della gerarchia cattolica ci parlano del «significato profondo della sessualità» che proprio la Chiesa avrebbe il compito di insegnare e difendere. E invitano il governo - che temiamo non insensibile a questi richiami - a porre immediato rimedio alla minaccia di un «salto nel buio» che la RU486 rappresenterebbe per l’Italia, che si accinge finalmente ad ammetterla, buona ultima tra i numerosi Paesi europei che evidentemente, avendone ammesso l’uso da anni, si rivoltano nelle tenebre dell’inciviltà. «Il governo - citiamo sempre monsignor Anfossi, dall’intervista sulla Stampa del 31 luglio - deve bloccare tutto e stanziare fondi per formare i giovani al giusto senso della sessualità», divenendo così finalmente uno Stato etico o decisamente una dépendance del Vaticano, ancor più di quanto non sia ora. E per evitare di dover ricorrere all’aborto, se si esclude il voto di castità prematrimoniale o extramatrimoniale (così poco rispettato del resto da tanti membri del clero), sarà il caso di educare i giovani all’uso del profilattico? Absit! Non sia mai, lo ha insegnato autorevolmente Giovanni Paolo secondo e lo ha confermato il suo successore: chi si azzarda a far sesso deve farlo senza il diabolico ordigno, anche a rischio di infettarsi e infettare di Aids il proprio partner. Come ricorda una delle giovani intervistate da Monica Perosino sullo stesso numero della Stampa, che dovrebbero sentirsi umiliate e aver sofferto profondi dolori fisici usando la pillola maledetta, «l’interruzione farmacologica della gravidanza è più simile a un aborto spontaneo, aiuta a far sembrare tutto meno violento». Ma proprio questo è ciò che ispira la scomunica dell’aborto chimico, dice un’altra delle giovani intervistate. «Perché non fa soffrire, perché è psicologicamente più facile da sostenere. E come si può espiare la colpa senza la penitenza?». Non molti anni fa - ma fortunatamente sembrano secoli - un cardinale di Santa Romana Chiesa (e forse non era il solo, andiamo a memoria) diceva che l’Aids è il giusto castigo di Dio per coloro che praticano il vizio «contro natura» dell’omosessualità. Se leggiamo con attenzione i due interventi affiancati - e non solo spazialmente - di monsignor Anfossi e della sottosegretaria Roccella - non riusciamo davvero a convincerci che la RU486 sia una minaccia alla salute, alla dignità della donna o addirittura alla civiltà del nostro Paese. Non difendiamo assolutamente una concezione solo edonistica o consumistica della sessualità, dunque riconosciamo che molto spesso l’etica cattolica ha avuto ragione nello stigmatizzare simili eccessi. Ma se abbiamo ereditato dal passato una cultura machista che ha cercato sempre solo di equilibrare la repressione sessuofobica con il ricorso (riservato! Nisi casti saltem cauti) ai più vari tipi di escort, non sarebbe il caso che anche la Chiesa, che nella nostra tradizione ha avuto sempre un peso così centrale, rivedesse le proprie certezze sul «giusto senso della sessualità»? da lastampa.it Titolo: GIANNI VATTIMO - A quando la bandiera rionale? Inserito da: Admin - Agosto 12, 2009, 03:18:26 pm 12/8/2009
A quando la bandiera rionale? GIANNI VATTIMO Ma fino a quando? Sono cominciate le applicazioni della legge sulla «sicurezza» imposta dalla Lega; Bossi straparla di bandiere regionali - ma perché non comunali, di quartiere, di caseggiato? E intanto è sempre più evidente a tutti che il reato di clandestinità non potrà essere seriamente perseguito se non a prezzo di un insopportabile aggravamento del lavoro di giudici, pubblici ministeri, carcerieri e carceri che già scoppiano. Non solo la vacuità e inapplicabilità di questa legge; anche un bilancio di ciò che la Lega ha preteso dal governo negli ultimi mesi, o dei provvedimenti a cui come parte attiva del governo ha collaborato, dovrebbe spingere i suoi elettori a riflettere. «Roma ladrona», lo slogan di Bossi che manda in delirio le sue piazze, si è rafforzata enormemente proprio per le complicazioni che il federalismo ha creato. Del resto, già da tempo chi ha praticato Bruxelles e le istituzioni europee sa che molte regioni italiane hanno aperto vere e proprie ambasciate presso l’Unione Europea: con spese di locali, personale, eccetera. E per coordinare la moltiplicazione dei poteri regionali sono nate nuove direzioni generali presso i ministeri romani, nuove e sempre più complesse «authorities». Per non parlare degli stipendi e dei privilegi dei consiglieri regionali, in varie regioni di gran lunga superiori a quelli - già alti - dei parlamentari nazionali. E tutto questo in nome delle autonomie locali: penso alle Province, enti della cui inutilità nessuno più dubita, compresi coloro che si sono candidati a presiederle nelle ultime elezioni (così un moderato realista come Vietti, candidato sconfitto alla Provincia di Torino), si sono moltiplicate. E avranno ovviamente diritto alle loro bandiere, magari alle loro ambasciate, a un apposito ministero che le coordini. La politica, anche e soprattutto quella ispirata dalla Lega, diventa sempre più un terreno in cui si moltiplicano le spese e le cariche inutili, mentre i problemi reali del Paese restano sullo sfondo remoto. E le leggi, sotto la pressione di forze politiche minuscole ma «determinanti» (chi si ricorda mai che la Lega, con tutti i suoi ministri e il suo potere di ricatto su Berlusconi, vale alle elezioni europee un paio di punti percentuali in più dell’Italia dei Valori?), vengono scritte (non ancora in dialetto lombardo, ma poco ci manca) in maniera frettolosa, raffazzonata, contraddittoria, e hanno bisogno di essere immediatamente corrette da decreti ad hoc che ne complicano ulteriormente l’applicazione e ne rendono spesso problematica la costituzionalità (perché sanatoria per le badanti e non per i muratori e i netturbini?). Conoscendo i suoi successi come uomo d’affari, abbiamo sempre pensato che almeno sul piano dell’efficienza Berlusconi fosse affidabile. Bossi gli fa perdere anche questa unica virtù, lo sommerge nel mare delle sue chiacchiere demagogiche, lo riduce al livello degli urli di Pontida e del ridicolo culto del dio Po. Ma davvero: fino a quando? da lastampa.it Titolo: Parliamo del cielo con il filosofo Gianni Vattimo Inserito da: Admin - Settembre 07, 2009, 10:44:39 am IL CIELO
7/9/2009 Parliamo del cielo con il filosofo Gianni Vattimo PIERO BIANUCCI Poteva essere qualcosa di rituale, l’Anno Internazionale dell’Astronomia. Bei discorsi, tante cerimonie accademiche. Non è così. Anzi, le iniziative intelligenti si moltiplicano e hanno spesso un successo popolare. I piccoli telescopi didattici da 15 dollari progettati per l’occasione si vendono a decine di migliaia e la produzione non riesce a soddisfare la domanda. Le notti di osservazione in Planetari e Osservatori pubblici attirano legioni di curiosi del cielo. Si susseguono dibattiti e conferenze affollate (il 15 settembre all’Accademia delle Scienze di Torino ci sarà il Nobel Riccardo Giacconi), numerosi i progetti didattici con le scuole e le mostre, anche interdisciplinari (“L’universo dentro” si aprirà a Milano il 15 settembre con 100 opere d’arte – vedi www.universodentro.it – , è curata da Stefano Sandrelli per l’INAF e dall’Accademia di Brera; un’altra è in programma a Venezia dal 23 al 28 settembre settembre). Si pubblicano, inoltre, molti libri concepiti apposta per questa festa delle stelle che dura un anno in tutto il mondo. Dopo la collana di sei volumetti pubblicata da Gruppo B, l’editore della rivista mensile “Orione”, tra gli ultimi libri apparsi vorrei segnalare l’accattivante “Astronomia perché?” (Editrice Compositori, Bologna) di Cesare Barbieri dell’Università di Padova, “padre” di alcuni telescopi spaziali e del nostro telescopio nazionale “Galileo” in funzione all’isola di La Palma nelle Canarie. Di grande interesse è la ristampa presso l’editore Muzzio della raccolta di saggi di Stillman Drake intitolata “Galileo Galilei, pioniere della scienza”. Qui Drake, forse il maggiore studioso e biografo dello scienziato pisano, analizza in modo penetrante e originale le leggi del pendolo e della caduta dei gravi, le osservazioni delle eclissi dei satelliti di Giove che diedero a Galileo l’unica prova inconfutabile della correttezza del sistema eliocentrico, le teorie delle comete e delle maree, sulle quali invece Galileo inciampò. E per i più piccoli c’è “Alla scoperta dello spazio”, pubblicato dalla benemerita Editoriale Scienza di Trieste (ora confluita nel Gruppo Giunti). E’ un autentico libro-laboratorio adatto agli aspiranti astronomi di sei anni, pieno di giochi da fare e costruire, perché si capisce e si impara meglio ciò che si tocca con le proprie mani. Ci sono anche stelle e pianeti fluorescenti da appiccicare alle pareti della cameretta. Una sfida lanciata dall’Unesco nel promuovere l’Anno dell’Astronomia riguardava il rapporto tra la scienza del cielo e il mondo della cultura umanistica, filosofica, letteraria, artistica. Ha raccolto questa sfida il Planetario di Torino Infini.To, accanto all’Osservatorio astronomico dell’INAF sulla collina di Pino Torinese, dove sta per iniziare un ciclo di incontri e talk show che hanno come titolo generale proprio “Il Cielo nella Cultura”. Si incomincia venerdì 11 settembre, ore 21, con “Il cielo nella filosofia”, ospite Gianni Vattimo. Che origine ha l’universo? E’ eterno o è destinato a finire, e magari a ricominciare? Quali sostanze compongono i corpi celesti? Che cosa unifica l’estremamente grande e l’estremamente piccolo? Sono domande modernissime. Le stesse che si pongono oggi astrofisici di tutto il mondo quando “ascoltano” ciò che rimane del rombo del Big Bang e scoprono che lo spazio è pervaso da materia ed energia oscure insospettabili fino a pochi anni fa. Ma sono anche le domande che si posero i primi filosofi greci tra il VII e il V secolo avanti Cristo: Talete di Mileto vide nell’acqua il Principio Universale, Democrito ipotizzò l’esistenza degli atomi, Parmenide immaginava l’universo eterno e sempre uguale a sé stesso, Eraclito come un fuoco in continua evoluzione, Pitagora vi intravedeva l’armonia dei numeri. Passando a tempi più recenti, di Immanuel Kant tutti conoscono la frase ispirata che chiude la “Critica della Ragion Pratica”: “Due cose riempiono l’animo di ammirazione e venerazione sempre nuova e crescente, quanto piú spesso e più a lungo la riflessione si occupa di esse: il cielo stellato sopra di me, e la legge morale in me. Queste due cose io non ho bisogno di cercarle e semplicemente supporle come se fossero avvolte nell’oscurità, o fossero nel trascendente fuori del mio orizzonte; io le vedo davanti a me e le connetto immediatamente con la coscienza della mia esistenza.” E oggi? Che cosa suggerisce il cielo al filosofo? E in particolare al teorico del “pensiero debole”? Gli interrogativi sulla natura dell’universo che si posero i filosofi sono stati completamente consegnati agli astronomi e ai fisici o la filosofia ha ancora qualcosa da dire in proposito? Più in generale: dove possono incontrarsi le scoperte astronomiche e la riflessione filosofica? Gianni Vattimo si è laureato nel 1959 a Torino alla scuola di Luigi Pareyson, ha completato la sua formazione a Heidelberg con Hans Georg Gadamer, maestro del pensiero ermeneutico, ed è stato dal 1969 al 2009 professore ordinario di filosofia estetica e poi teoretica all’Università di Torino, con frequenti periodi di insegnamento in atenei americani (Yale, Los Angeles, New York University, State University of New York). Studioso di Heidegger e di Nietzsche, ha elaborato la filosofia del “pensiero debole” in contrapposizione con le diverse forme del “pensiero forte” dell’Otto-Novecento: hegelismo, marxismo, fenomenologia, psicanalisi, strutturalismo. Riconoscendo il tramonto di ogni forma di conoscenza assoluta e totalitaria, il “pensiero debole” è diventato anche la chiave per interpretare la società contemporanea e aiutarla nel cammino democratico conducendola fuori dalla violenza e verso la diffusione del pluralismo e della tolleranza. Di Vattimo va ricordata con altrettanto rilievo l’attività politica e per la diffusione della cultura attraverso i mezzi di comunicazione di massa. Negli Anni 50-60 fu alla Rai tra i pionieri della neonata televisione italiana, accanto a Umberto Eco (anche lui allievo di Pareyson) e Furio Colombo. In politica è stato parlamentare europeo con il partito radicale, con i Democratici di sinistra e ora con l’Italia dei Valori. La sua “opera omnia” (una trentina di saggi) è in via di pubblicazione presso l’editore Meltemi. Tra i titoli più noti e tradotti, “Il soggetto e la maschera” (1974), “Il pensiero debole” (1983), “La fine della modernità” (1985), “Credere di credere” (1996), “Addio alla Verità” (2009). Ha curato la “Garzantina” della filosofia e collabora a giornali italiani e stranieri (La Stampa, El Paìs, Clarìn). Il secondo appuntamento del ciclo “Il cielo nella cultura” è per venerdì 30 ottobre con “Il cielo nella letteratura”, ospiti lo scrittore Dario Voltolini (direttore didattico della Scuola Holden fodata da Alessandro Baricco) e il critico letterario Giovanni Tesio (Università del Piemonte Orientale). Sarà poi la volta di Marco Piccolino (ordinario di fisiologia all’Università di Ferrara), protagonista di una serata sul legame tra osservazione astronomica e neuroscienze dal titolo “Il cielo negli occhi di Galileo”, in calendario venerdì 6 novembre. Seguirà venerdì 27 novembre “Il cielo dei matematici da Galileo a Einstein” con Piergiorgio Odifreddi. Concluderà il ciclo un dibattito sul tema “Le nove Grandi Idee che l’astronomia ha dato alla cultura” (11 dicembre), con la partecipazione di Ernesto Ferrero, scrittore e direttore della Fiera Internazionale del Libro di Torino, Stefano Sandrelli (INAF, Milano, Osservatorio di Brera) e Piero Galeotti (Università di Torino). Per informazioni e prenotazioni: www.planetarioditorino.it info@planetarioditorino.it Tel. 011- 811.8640 da lastampa.it Titolo: GIANNI VATTIMO Il destino dell'antagonista "vincitore" Inserito da: Admin - Luglio 26, 2010, 10:31:40 am 26/7/2010
Il destino dell'antagonista "vincitore" GIANNI VATTIMO Il fatto che i Ditirambi di Dioniso - l’unica raccolta poetica che Nietzsche abbia progettato di pubblicare come libro a parte, e che uscì poi postuma - siano quasi ignorati o comunque assai poco discussi dalla letteratura filosofica, e invece oggetto di attenzione da parte dei musicisti (a iniziare da Richard Strauss e dal suo Poema sinfonico su Così parlò Zarathustra), è un altro dato emblematico della contraddittoria fortuna del filosofo come «rivoluzionario della cultura». Il nome di Dioniso collega queste poesie alla prima grande opera nietzschiana, La nascita della tragedia, in cui il poco meno che trentenne professore di filologia classica annunciava il suo progetto di rinnovamento «wagneriano» della decadente civiltà europea ormai dominata dal razionalismo socratico e dalla incipiente organizzazione totale della società industriale. Quel progetto - ripresa della creatività perduta con il distacco dal mito preclassico che si celebrava nelle feste dionisiache da cui era nata la tragedia greca - accompagna in forme diverse tutta la carriera filosofica di Nietzsche, nonostante la delusione e il distacco da Wagner cominciati proprio con la nascita del Festival di Bayreuth, e culmina nel finale grande attacco al Cristianesimo riassunto nel motto «Dioniso contro il Crocifisso». Un attacco che, emblematicamente, rivive oggi, come a Bayreuth, solo in un festival. Ma il destino dell’antagonista «vincitore» è poi tanto diverso? http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7641&ID_sezione=&sezione= Titolo: GIANNI VATTIMO - Piazza, fascismo e par condicio Inserito da: Admin - Aprile 16, 2011, 04:33:33 pm Blog | di Gianni Vattimo 16 aprile 2011 Piazza, fascismo e par condicio I custodi della democrazia parlamentare (non parlo ovviamente di Giuliano Ferrara) che si sono scandalizzati dell’articolo di Asor Rosa sul Manifesto del 13 aprile hanno forse letto meno attentamente un articolo di Juergen Habermas uscito su La Repubblica dello stesso giorno. Le considerazioni di Habermas, meno esplicitamente riferite alla situazione italiana, erano però le stesse di Asor Rosa: prendevano atto (citando persino il New York Times) della crisi irreversibile del sistema democratico parlamentare in cui viviamo noi del “mondo libero”, e tematizzava la dissoluzione sempre più marcata di ogni politica degna di questo nome. Secondo Habermas, solo (forse) l’ideale dell’unità europea, praticato seriamente, potrebbe ancora fornire contenuti significativi per i quali impegnarsi come cittadini. In considerazione di questo, l’articolo concludeva con la tesi che “forse per i partiti politici sarebbe ora di rimboccarsi le maniche” (ahi, ha letto Bersani?) e “scendere in piazza per l’unificazione europea”. Ciò che colpisce, in un pensatore “moderno” e istituzionalista come Habermas, è proprio l’allusione alla piazza. Proprio un razionalista illuminista come lui, da sempre persuaso che si possa fondare una politica democratica sul dialogo e, in definitiva, le istituzioni (parlamenti, Onu, ecc.), chiamare i partiti a scendere in piazza è un segno che la speranza (o la pazienza) sta venendo meno. Non c’è da aspettarsi che la politica ritrovi un contenuto e un volto decente, capace di non defraudare i cittadini dei loro diritti, se si guarda solo ai parlamenti e alle istituzioni. Asor Rosa, nel suo articolo, è più habermasiano di lui: non invoca la piazza (forse per la semplice ragione che, come l’esperienza italiana insegna, la piazza non ce la fa; Berlusconi resiste perché ha “servi di acciaio” che occupano il parlamento), ma chiede l’intervento costituzionale delle forze dell’ordine: Carabinieri, Polizia, Guardia di Finanza. Il capo delle forze armate è il Presidente della Repubblica, che è anche il custode della Costituzione. Come ha il potere, uditi i presidenti delle Camere e del Consiglio (ma non ci sarebbe un ennesimo conflitto di interessi, nel caso del cavaliere? Lo “oda” pure, ma non gli dia retta!), di sciogliere il Parlamento e indire nuove elezioni, così (se leggiamo bene la Costituzione) può decretare lo stato di emergenza e ordinare alle forze dell’ordine di difendere, per l’appunto, l’ordine democratico. Gli esempi che Asor Rosa adduce sono dei più convincenti: sarebbe stato golpe se Vittorio Emanuele III avesse schierato l’esercito contro le milizie fasciste in marcia su Roma, e avesse rifiutato di affidare il governo a Mussolini? Possiamo allora chiedergli di aspettare che il pericolo fascista – anche solo della corruzione dilagante, del trionfo del potere mafioso su cui si regge Berlusconi – diventi più evidente e cioè, ormai, incontrastabile? Asor Rosa, nell’intervista a La Repubblica (del 14 aprile, ndr), sembra volersi limitare alla messa in luce di una questione di metodo: se la maggioranza parlamentare – di cui sappiamo come è stata reclutata, e persino a che prezzi – calpesta la Costituzione e si rifiuta di essere giudicata dalle autorità competenti, che cosa bisogna fare? Difendere l’ordine democratico con le forze dell’ordine è appunto quel che si deve fare. Se no, di grazia, che cosa? Se Hitler, sia con l’uso dei media di cui illegalmente dispone, sia comprando i voti, o semplicemente perché una maggioranza di cittadini lo preferiscono, vince le elezioni, lo stato democratico non ha mezzi per difendersi? Può una tornata elettorale ordinaria valere come base di legittimità per il cambio della Costituzione? La banda di gangster che oggi occupa il governo dispone, oltre tutto, di una maggioranza estremamente esigua, e con le leggi che approva sta di fatto stravolgendo la Costituzione. Non è ora per il Capo dello Stato di intervenire? Fermi con la forza legale di cui dispone questa inedita marcia (anche nel senso di marciume!) su Roma. Prima che sia troppo tardi. O la sua inerzia significa che, appunto, troppo tardi è già? Post-scriptum (post-post?) Forse il mio, ma anche quello di Asor Rosa e Habermas, è solo un problema di salute: s’invecchia, e si diventa insofferenti. Sta di fatto, però, che poco fa ho rifiutato l’ennesimo invito di una televisione privata in cui ho anche degli amici, che mi chiedeva di partecipare a una trasmissione in cui avrei dovuto misurarmi anche con la Santanché. E, cosa ancora più grave, ieri sera sono scappato, subito dopo l’inizio, da Annozero per vedere un film. La parte della Santanché lì era esercitata da Cota. Non faccio queste confessioni per mettere in piazza i miei stati d’animo o di stomaco, ma per chiedere ai non pochi con cui condivido orientamento politico e esili speranze di futuro se non sia il caso di mettersi in sciopero del “dialogo”, in una sorta di Aventino civico che consista nel rifiutare di scendere troppo in basso, per rispetto della dignità e della, sia pur limitata, intelligenza di cui ancora ci sembra di disporre. Se per sentire dire da Santoro alcune verità sullo stato del Paese dobbiamo ascoltare anche – democraticamente – le autentiche turpitudini di figure e figuri come la Santanché, Cota, o persino di quel brav’uomo di Paniz, allora meglio il silenzio, svegliateci quando sarà passata la nuttata, oppure quando verranno ad arrestarci per vilipendio della par condicio. Par condicio con i banditi, i bugiardi, i credenti nella relazione di parentela di Ruby con Mubarak, i venduti a un tanto al chilo (posti di sottosegretario, o anche solo mutui da pagare…)? Preferiamo riconoscere francamente che il fascismo c’è già; non possiamo sparare, per ora (come dicono Castelli e Speroni), ma almeno siamo coscienti che lì, prima o poi, ci porteranno questi affaristi e delinquenti che occupano il governo del paese in violazione di ogni elementare diritto umano. E l’Europa, che pure ha decretato sanzioni contro l’Austria quando in Carinzia aveva vinto le elezioni il “fascista” Haider, buonanima, tace sullo scempio della democrazia in Italia? Altro che aiuto sull’immigrazione, qui ci sarebbero gli estremi per un intervento armato della Nato… Paradossi, paradossi – come quelli che, secondo la timorata direttrice del Manifesto, sarebbero il vero senso dell’intervento di Asor Rosa, che così risulta solo un’ennesima chiacchiera da “dibattito” in regime di par condicio… Quando ci accorgeremo che l’Italia è (ri)diventata un paese fascista sarà troppo tardi. Magari ci verranno conservati i dibattiti televisivi con la Santanché, finché i nostri stomaci resisteranno… da - ilfattoquotidiano.it/2011/04/16/ Titolo: GIANNI VATTIMO - Dio è morto, torniamo a Dio Inserito da: Admin - Marzo 18, 2012, 03:38:47 pm Cultura
16/03/2012 - L’'Ana-teismo di Richard Kearney: così l'esperienza del vuoto ci riapre al problema della trascendenza GIANNI VATTIMO Esce oggi da Fazi il saggio di Richard Kearney Ana-teismo. Tornare a Dio dopo Dio (pp. 330, e17,50), in cui il filosofo, allievo di Ricœur e professore al Boston College, conduce il lettore in un percorso innovativo alla ricerca del sacro dopo l’ateismo. Pubblichiamo uno stralcio dell’introduzione di Vattimo. Il prefisso greco ana-, che a prima vista potrebbe essere inteso in senso negativo (come se si trattasse di negare l’a-teismo, pensate al termine an-alcolico…), significa invece, oltre che «salita», anche «ritorno». Due sensi che Kearney non sottolinea insieme, preferendo il secondo senso, il ritorno; non direi però che il primo senso, la salita, sia del tutto scomparso, giacché il ritorno implica sempre per Kearney un qualche momento di illuminazione piena, diremmo di arrivo alla cima, che coincide bensì, nella mistica, con la notte oscura di cui tanti mistici ci parlano, ma che ha comunque il carattere di un momento decisivo - una sorta di evidenza che Kearney pensa sempre in base all’eredità della fenomenologia assimilata attraverso il suo maestro Ricœur. Il senso del prefisso ana-, dunque, non è solo una questione di filologia, segna anche, pare a me, la differenza - leggera ma non insignificante - attraverso cui io mi introduco nel discorso di Kearney, e perciò la via che, solo, posso indicare ai lettori. Dunque: la cultura dentro la quale ci capita di vivere è orientata a considerarsi il punto di arrivo di uno svolgimento che, negli schemi filosofici dominanti, di origine hegeliana, ma anche genericamente illuministici e positivistici, si pensa come proveniente da fasi primitive teistiche, caratterizzate da una religiosità non di rado superstiziosa, che poi, attraverso scienza e tecnica, si evolve progressivamente verso quella che Nietzsche chiamerà la «morte di Dio» (il quale per lui si rivela una menzogna non più necessaria all’uomo tecno-scientificamente evoluto), e cioè verso un ateismo teorico-pratico sempre più generalizzato. Questo schema illuministico-storicistico è quello da cui Kearney parte per negarne la validità, alla luce non solo della propria esperienza personale, ma di quella che gli sembra, giustamente, una diffusa ripresa, o sopravvivenza, del problema di Dio al di là di ogni approdo ateistico. Non solo a causa di quelle che si potrebbero chiamare le autocontraddizioni performative del «progresso» (dalla bomba atomica all’Olocausto), ma per l’incertezza e l’esperienza di finitezza che il nostro mondo conosce e che lo richiamano, appunto, a quel senso di vuoto e di sospensione di ogni certezza che l’autore chiama anateismo. Ancora in armonia con la propria formazione fenomenologica, Kearney pensa a questo stato d’animo come all’epoché husserliana, quella sospensione dell’atteggiamento «naturale» nei confronti delle cose che permette di elevarsi alla visione delle essenze. Si va oltre l’ateismo «naturale» del nostro mondo quando facciamo esperienza di questo vuoto che è anche l’apertura a una epifania, a una illuminazione, che ci riapre all’esperienza di Dio. Qualunque Dio esso sia. Nel vuoto e nell’incertezza che ci apre all’anateismo e a un nuovo possibile incontro con Dio entra anche la consapevolezza moderna e tardo-moderna della pluralità delle religioni, dunque il problema del dialogo interreligioso e delle molteplici vie che in esso si confrontano e spesso si scontrano. L’anateista di Kearney è inoltre un uomo del dialogo con gli dèi stranieri. La religiosità ritrovata nella sospensione degli assoluti sia teistici sia ateistici è anche caratterizzata da una apertura all’altro che è sempre stata preclusa alle fedi non passate attraverso la notte oscura - non solo mistica, ma culturale - di cui noi moderni siamo figli e prodotti. Kearney, nelle non rare digressioni autobiografiche del libro, ricorda anche di aver a lungo lottato contro l’autoritarismo della sua Chiesa e poi delle Chiese e sette che ha incrociato. Di modo che l’anateismo non è solo, in definitiva, il momento di sospensione e di vuoto destinato a trovare «di nuovo» una fede «piena» più o meno affine alle fedi tradizionali, ma un atteggiamento che deve accompagnare (sembra di parlare dell’«io penso» kantiano!) ogni fede ritrovata. Di ogni fede comunque ritrovata deve far parte la preghiera che domanda di essere aiutati a credere: Signore, credo, aiuta la mia incredulità. Che era anche la preghiera persino di Madre Teresa, come ricorda Kearney. Ma potremmo pensare a Pascal, che consigliava ai non credenti di pregare per ottenere la fede. da - http://www3.lastampa.it/cultura/sezioni/articolo/lstp/446642/ Titolo: GIANNI VATTIMO Ma non è nella natura che si scopre il divino Inserito da: Admin - Luglio 06, 2012, 10:56:18 am 5/7/2012
Ma non è nella natura che si scopre il divino GIANNI VATTIMO Sarà pur vero che l’evento - solo cosi lo si può chiamare - che ha rotto la quiete uniforme del «tutto» prima della nascita delle cose ha avuto un peso decisivo nel prodursi di quella differenziazione di particelle da cui e’ cominciato, per ciò che ne sappiamo, il corso dell’evoluzione di cui, bene o male che sia, noi siamo per ora il punto di arrivo. Ma parlare del bosone di Higgs come se fosse Dio è davvero un po’ troppo. Non perché si tratti di una bestemmia («Dio bosone» è sicuramente un’espressione che fino a oggi non era venuta ancora in mente a nessun ateo blasfemo, per quanto dotto e accanito). Semmai, esprime un atteggiamento mentale che non ha più quasi alcun ascolto presso teologi, filosofi, uomini di fede. Riflette infatti la convinzione che Dio si possa in qualche modo scoprire in questo o quell’ aspetto della natura. Ma da quando Gagarin, spedito nel cosmo con la navicella, ovviamente atea, dell’Urss ha potuto esplorare il cielo senza trovare Dio, questa aspettativa «positivista» ha perso ogni senso, se mai ne ha avuto uno. Le cinque vie classiche di San Tommaso - quelle che «dimostravano» l’esistenza di Dio a partire dal mondo, di cui Dio sarebbe la causa prima o il motore ultimo - erano bensì molto più sofisticate dell’ ingenuo ateismo di Krusciov; ma anche loro hanno resistito poco all’affermarsi progressivo del convenzionalismo scientifico moderno. Ormai attribuiamo solo all’uomo primitivo - quello per il quale il tuono o il fulmine sono opera di un qualche soggetto supremo l’idea che il mondo materiale debba essere stato prodotto da una volontà originaria ritenuta onnipotente. San Tommaso stesso osservava che dal punto di vista di Aristotele sarebbe stato molto più razionale pensare al mondo come eterno. Se no come avrebbe potuto, una volontà perfetta e sottratta al divenire, e cioè immutabile, decidere, a un certo punto, di crearlo? Il racconto della creazione è un contenuto della fede, cui si crede (chi ci crede) come a un mito fondatore della nostra esistenza individuale e sociale che accettiamo perché sentiamo che senza di esso perderebbe ogni senso ciò che pensiamo e facciamo. Ma quanto a parlarne in termini di scienza fisica non ci prova ormai più nessuno. Se anche dobbiamo pensare che il bosone di Higgs non c’entra niente con Dio, è però vero che scoperte come quella di oggi hanno un potente riflesso sulla nostra vita, sulla visione del mondo, dunque anche sulla nostra religiosità. E’ una specie di effetto che possiamo solo chiamare «neutralizzante» rispetto alla nostra storia vissuta. Come confrontare i pochi millenni della storia della specie umana con gli sterminati orizzonti delle ere geologiche, del formarsi del cosmo fisico e, appunto, con i minuti seguiti al big bang. La scienza moderna, del resto, si è formata anche e soprattutto criticando il racconto della Genesi, anzitutto contestando il geocentrismo biblico (ricordate il Galileo di Brecht, che ispira a molti l’idea che tutto ormai sia permesso). E ciò non solo per la sconsiderata volontà delle autorità religiose di difendere una cosmologia «rivelata» che veniva progressivamente dissolvendosi; ma anche e soprattutto perché, effettivamente, non era e non è facile pensare alla nostra storia umana in termini di storia della salvezza o anche solo, in termini laici, come storia della civilizzazione, e insieme alla nostra posizione nel cosmo, un battito d’ali di farfalla destinato a durare un attimo e a essere inghiottito dal silenzio cosmico. L’ostinazione con cui la Chiesa ha sempre tentato di contrastare la cosmologia moderna e il suo spirito illuministico riflette la preoccupazione, non così irragionevole, di conservare un senso alla storia umana - e dunque all’etica, alla politica, alla società - di contro al senso nichilistico, leopardiano, suscitato dal sentimento dell’infinito cosmico. Non c’è un’uscita consolante e pacificante da questo dilemma. Noi siamo - storicamente - quell’umanità che ha anche scoperto, se cosi è, il bosone di Higgs; ma questa scoperta è un momento della nostra storia. Non è una constatazione risolutiva, ma è con questa condizione duplice, librata tra storia e natura che dobbiamo fare i conti. da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10296 Titolo: GIANNI VATTIMO Ingroia, Di Pietro e la rivoluzione che non può più attendere Inserito da: Admin - Gennaio 25, 2013, 03:39:14 pm Sei in: Il Fatto Quotidiano > Blog di Gianni Vattimo >
Ingroia, Di Pietro e la rivoluzione che non può più attendere di Gianni Vattimo | 24 gennaio 2013 Inutile dire che voterò per la lista Ingroia, soprattutto perché è lì che ritrovo Di Pietro e quel che resta di IdV; giustamente purificata dagli elementi di destra che ci stavano dentro fino ad ora: persone per lo più rispettabili e solo di opinioni più conservatrici delle mie; a parte ovviamente quelli che hanno ceduto alle lusinghe berlusconiane in vari momenti, o quelli che hanno deciso di scappare con la cassa. Di Pietro ha ragione: dobbiamo usare di questa emorragia di finti o scontenti militanti per rendere IdV più autenticamente quello che deve, voleva, essere: un partito di rinnovamento radicale della politica e della società italiana; non per niente, a parte l’innominabile Lega, è rimasto l’unico gruppo di opposizione al governo eurobancario Bersani-Monti-Napolitano. Proprio guardando al destino di Di Pietro e di IdV non posso evitare di pensare, come altri “ingroiani” che si sono espressi negli ultimi giorni sul “manifesto” e altrove che è stato un grave errore – forse non a breve scadenza, ma per il dopo-elezioni – non accettare semplicemente l’offerta di Di Pietro di aprire le liste di IdV a tutta la sinistra usando delle strutture organizzative e anche delle risorse finanziarie del partito. Non solo avrebbe evitato l’inutile lavoro di raccolta delle firme per la presentazione della lista, ma soprattutto avrebbe garantito una continuità organizzativa per il dopo-elezioni. Temo che De Magistris faccia troppo conto sulla militanza napoletana che certo ha mostrato di funzionare per la sua elezione; ma per il resto d’Italia, salvo casi specifici, io temo per il dopo elezioni una specie di liquefazione. Di cui sono responsabili gli ingroiani che hanno sacrificato questa possibilità sull’altare, un po’ grillino un po’decisamente tafazziano, della purezza delle candidature: niente politici già in campo, eventualmente meglio la casalinga di Voghera che Di Pietro o Ferrero ecc. Un simile rinnovamento totale della politica dalle stesse basi è pensabile solo in un momento davvero rivoluzionario, che non è propriamente il nostro. Una politica che non si affidi – come anche potrebbe, se ne avesse la forza – alle canne dei fucili, non può pretendere di cominciare da zero come per un po’ hanno pensato la lista Ingroia e molti dei suoi promotori più prestigiosi. Risultato, ripeto, il rischio – o ben più che il rischio – di disperdersi dopo le elezioni, anche nel caso, per niente probabile, che si abbia una larga affermazione alle urne. Affermazione che è minacciata anche proprio dall’immagine troppo “liquida” che stiamo dando. Sento anche qualcuno dire che la lista di Rivoluzione civile è solo un primo passo: ma quanto tempo credono di avere? La storia dei partitini di estrema sinistra in Italia è stata sempre quella di ‘primi passi’ (Estremismo malattia infantile?), sono nati così gruppi e gruppetti che polemizzano vanamente tra loro senza avere alcun rilievo politico. Allora il “voto utile” di Bersani? Utile a lui e a Monti e ai banchieri? No,naturalmente. Ma un po’ più di discernimento politico. E un augurio che Di Pietro non molli il suo lavoro di rinnovamento di IdV, che potrebbe e dovrebbe essere il partito della opposizione di domani – ricordando agli elettori che non ha mai votato i provvedimenti devastanti di Monti , come invece ha fatto il Pd . Con che faccia ora Bersani dice che vuole ridurre le spese per i caccia F35, lui che le ha votate impassibile pochi mesi fa? E che ha votato anche la distruzione dei diritti sindacali promossa dalla Fornero. Naturalmente Di Pietro può anche proseguire come ha fatto da ultimo: rinunciare al simbolo, al nome,per confluire nella lista arancione. Io credo che sarebbe più saggio per Di Pietro e per gli stessi obiettivi della lista arancione se tutta la sinistra ingroiana accettasse di confluire nel già esistente partito IdV: purificato, con le recenti defezioni e con il loro aiuto, di ogni scoria conservatrice, garantito da Di Pietro, Zipponi, anche De Magistris (che di lì viene), e sperabilmente Landini, la sua Fiom, il movimento NoTav. Insomma le forze sane,come si diceva una volta, o almeno non “insane” come certe volte tendono fanaticamente a diventare. La prossima legislatura, con il governo Bersani-Monti—Casini – Vendola (!?) durerà probabilmente un anno o anche meno. Non avremo il tempo di giocare alla rivoluzione svegliando consultando pensosamente le casalinghe di Voghera, dovremo rispondere rapidamente alle tante di loro che incontreremo nelle piazze e negli scioperi che segneranno il nostro futuro imminente. da - http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/01/24/ingroia-idv-e-la-rivoluzione-che-non-puo-piu-attendere/478886/ Titolo: Gianni VATTIMO LA FORTUNA DEL PENSIERO DEBOLE Inserito da: Admin - Giugno 30, 2013, 04:48:51 pm giu 21 LA FORTUNA DEL PENSIERO DEBOLE Gianni VATTIMO L’ANTOLOGIA Trent’anni fa, il dibattito filosofico italiano fu investito dalla svolta ermeneutica e “debolista”. “Verità e metodo” di Gadamer, uscito una prima volta nel 1972, ottenne risonanza con la ristampa dell’83 e Feltrinelli pubblicò in quell’anno l’antologia “Pensiero debole” a cura di Pier Aldo Rovatti e Gianni Vattimo, che fu anche il traduttore di Gadamer. “Avevo iniziato la traduzione di Gadamer a Heidelberg. Gadamer non è un debolista. Secondo me il suo limite è proprio quello di continuare a credere nelle Scienze della natura. Quanto all’antologia sul “Pensiero debole”, noi partivamo da un’affermazione di Gadamer traducibile come: ‘L’essere, che può essere compreso, è il linguaggio’. Per me e Richard Rorty – ricorda Vattimo – da qui si doveva partire con un pensiero d’indebolimento che emancipasse le riflessioni da ogni modello dato. L’indebolimento da ogni pretesa oggettiva e da ogni valore non negoziabile era e resta la prospettiva necessaria. Noi accediamo ai fatti attraverso paradigmi, che vanno indeboliti”. L’antologia fu tradotta in varie lingue e sollevò dibattito, inizialmente sulle pagine di “Alfabeta”. L’ermeneutica gadameriana pure andò gradatamente affermandosi nonostante alcune critiche internazionali (Albert, Betti e Hirsch) che ritenevano “Verità e metodo” privo di ogni istanza critica. Come sintetizzato nell’Introduzione a “Domandare con Gadamer”, di Carlo Gentili, Francesco Cattaneo e Stefano Marino (Mimesis, 2011, pp. 238, euro 20), il paradigma gadameriano, “incentrato sul comprendere come determinazione e disposizione fondamentale dell’essere dell’uomo nel mondo” andò sviluppando “ramificazioni nei diversi territori dell’arte e della storia, del linguaggio e della pratica etico-politica, finendo così col configurare una sorta di fenomenologia generale della cultura umanistica”. 30 ANNI DI ERMENEUTICA ITALIANA Con la crisi dello strutturalismo, e il tramonto della militanza legata all’esistenzialismo sartraino, l’ermeneutica si andò in effetti affermando in una molteplicità di discipline. Specie nel campo dell’arte a partire dalla tesi gadameriana secondo la quale l’opera d’arte è il luogo di “un incremento dell’essere”, tesi accolta in diverse riflessioni dell’estetica contemporanea (come in “L’estetica contemporanea. Il destino delle arti nella tarda modernità” a cura di Pietro Montani). Anche variamente declinate, come nella lettura della tragedia come ciò che “rende manifesta la struttura dell’opera d’arte come evento” (Carlo Gentili, Luca Garelli, “Il tragico”, Il Mulino, 2010). Il pensiero debole ebbe anni di successo, meno filosofico e più politico-mediatico. “Eravamo tutti a sinistra forse per una questione generazionale: c’eravamo formati nella cultura einaudiana”, commenta Vattimo. “Con noi c’era anche Umberto Eco, che scrisse un saggio per l’antologia dietro nostra spinta. Ma il pensiero di Eco è tomista, non si può ritenere debole o antiparadigmatico”. A sinistra erano posizionati anche gli altri. Massimo Cacciari, “ma il suo è un pensiero quasi di destra e si è messo anche con il peggio, Rutelli”, afferma Vattimo; Emanuele Severino, “lui è un parmenideo e il suo pensiero non può essere di sinistra”; la Fenomenologia, “per me l’erede di Enzo Paci è Rovatti”; Carlo Sini, “non ho contrasti, ma i suoi sono solo discorsi accademici”… Progressivamente gli “indebolimenti della realtà” hanno mostrato debolezze epistemologiche diventando, talvolta, un conformismo alla “anything goes” in stile Paul K. Feyerabend, caro solo ai media, che ha diminuito il senso di responsabilità e favorito un diffuso nichilismo cinico. Una certa stanchezza era nell’aria quando il miglior allievo di Vattimo, Maurizio Ferraris, nel 2001 pubblicò “Il mondo esterno”, che Bompiani riedita in questi giorni con una nuova postfazione. A dieci anni di distanza, Ferraris fissa la data di quella svolta nell’incombenza della morte di Derrida, il pensatore che più di ogni altro aveva sostenuto che “nulla esiste al di fuori del testo”. “Eravamo al premio Adorno a Francoforte. A un certo punto Derrida estrasse dalla cartella la copia del ‘Mondo esterno’ che gli avevo mandato e mi chiese di fargli una dedica. Mi sembrò il mondo capovolto”. IL NUOVO REALISMO Infatti si capovolgeva. Fu in Ferraris il segno di svolta dall’ermeneutica all’ontologia che si è temporaneamente affermato con il “Manifesto del Nuovo Realismo” nel2012. Adistanza di così tanti anni Vattimo ancora non si dà pace: “Ferraris sostiene che se non ci fossero i documenti non ci sarebbe interpretazione. Ma io non nego realtà o paradigmi; semplicemente non sono la verità e il fondamento”. Solo che oggi anche il Nuovo realismo sta finendo nel mirino di nuovi oppositori, come la linguista Donatella Di Cesare. Nel 2010, acinquant’anni dall’uscita di “Verità e Metodo”, si fece un punto più rasserenato dell’ermenutica con un convegno svoltosi a Bologna (a cura di Cattaneo, Gentili, Marino). Il debolismo, invece, è continuato su “Aut Aut” (22 marzo 2013, fascicolo “La diagnosi in psichiatria”) e ripreso in “Della realtà. Fini della filosofia” di Vattimo (Garzanti 2012) proprio in contrasto con il Nuovo Realismo di Ferraris, nuovamente rigettando la possibilità di una “teoria” e ribadendo il principio nietzschiano: “Non ci sono fatti. Solo interpretazioni”. Ma è chiaro che oggi le letture sociologiche della società (liquide, della decrescita, della globalizzazione e delle nuove forme di comunicazione di massa) e quelle etiche (fine vita, biologismo) stanno monopolizzando la riflessione. “Bauman, Augé e gli altri sono interessanti lettori della realtà, ma l’Ermeneutica resta il tentativo di una nuova koinè; loro non sono radicali”. E sbocciano, anche i critici dei critici. Un libro di Umberto Curi getta uno sguardo severo sul “Nuovo Realismo”. PROSPETTIVE “Ci vuole un relativismo totale che estremizzi Rorty, esattamente contrario al razionalismo neokantiano di Habermas, che crede in una razionalità universale. La razionalità universale – conclude Vattimo – è un paradigma che ha intenzioni dominanti; fondare su di esso un’etica è pericoloso. Il pensiero debole, invece, sta con i deboli”. Morale: “Ci vorrebbe ancora la lotta di classe”. da - http://fattoadarte.corriere.it/2013/06/21/la-fortuna-del-pensiero-debole/ Titolo: Vattimo: “Non considero le azioni dei NoTav come terroristiche” Inserito da: Admin - Agosto 19, 2013, 07:51:24 pm Val di Susa, Vattimo: “Non considero le azioni dei NoTav come terroristiche”
Il filosofo ed europarlamentare Idv Gianni Vattimo non fa marcia indietro rispetto alle polemiche dei giorni scorsi sull’illegalità di certe pratiche messe in atto dagli attivisti che si oppongono ai tunnel in Val di Susa. E si schiera contro la procura di Torino che nelle scorse settimane ha indagato 12 attivisti per eversione e terrorismo. “In Valle c’è un movimento di base – continua l’europarlamentare – che pratica la disobbedienza civile e come ogni disobbedienza qualcosa disturba”. Sono diverse le voci del Pd piemontese che si sono alzate contro l’europarlamentare colpevole di “denigrare la procura” e “allearsi con i sovversivi”. Vattimo risponde: “Alle volte mi sento un privilegiato, perché posso fare l’estremista. Certo un operaio di Pomigliano se protesta viene licenziato, io approfitto della mia posizione di privilegio sociale per fare casino” di Cosimo Caridi 19 agosto 2013 da - http://tv.ilfattoquotidiano.it/2013/08/19/val-di-susa-vattimo-non-considero-azioni-dei-notav-come-terroristiche/242470/ |