Titolo: ALBERTO STATERA Inserito da: Admin - Dicembre 22, 2008, 10:29:24 am Il presidente dimissionario della Sardegna oggi alla prova del Consiglio
"Basta pasticci e nomenklature, spazio alla questione morale" Soru il giorno dello strappo "Sono pronto a nuove elezioni" di ALBERTO STATERA Oggi è il giorno della resa dei conti dell'"Obama di Sanluri", come gli avversari della sua stessa parte politica, a loro volta bollati come "Sinistra immobiliare", hanno acidamente soprannominato Renato Soru. Alle 17 si riunisce il Consiglio regionale, al termine del quale il governatore della Sardegna comunicherà se conferma o ritira le dimissioni date a causa delle imboscate cementizie alla legge per la difesa delle coste dalla speculazione. Presidente, allora confermerà le dimissioni? "Deciderò sulla base del dibattito in Consiglio. Quel che per ora confermo è che è il momento della chiarezza, non è più il tempo delle decisioni pasticciate, degli accordi poco trasparenti, dei giochetti di pochi e delle camarille". Con la conferma delle dimissioni quando si andrà al voto? "Il 15 o il 22 febbraio". Mi pare che lei si sia già preparato a candidarsi subito per il secondo mandato, sanando in tutta fretta il suo conflitto d'interessi con la nomina a fiduciario per le sue aziende del professor Racugno. "Sì. Ed è la prima volta che capita in Italia. E' un blind trust secondo le norme che la Regione Sardegna si è recentemente data sul modello canadese, messo a punto anche dal professor Guido Rossi, che molti in Italia potrebbero applicare pur senza obbligo di legge: ne guadagnerebbero tutti in trasparenza". Mario Segni dice però che è un modello lassista e qualcuno ironizza dicendo che Racugno a Tiscali è come "Fedelu Confalonieru" a Mediaset e suo fratello all'Unità è come "Paolu Berlusconu" al Giornale. "Sciocchezze. Io vengo sostituito in tutto dal professor Racugno, persona di specchiata onestà e moralità. Egli mi sostituisce come socio a pieno titolo, non può parlare con me delle società, non può prendere direttive, non può scambiare qualsivoglia informazione, deve assumere tutte le decisioni aziendali in piena autonomia. Mio fratello è stato nel consiglio dell'Unità per pochi giorni e si è già dimesso. Nessuno in buona fede può scambiare il fiduciario Racugno con Fedele Confalonieri. Egli parla col suo azionista, si consulta, lo informa e ne viene informato, in un dialogo che presumo continuo. Il contratto fiduciario prevede invece il divieto di scambiarsi anche solo informazioni. Racugno ed io dovremmo eventualmente parlarci soltanto di nascosto e contravvenendo a un preciso obbligo di legge. Questo le sembra possibile?". Direi di no, se c'è etica da tutte le parti, ma ormai ne vediamo di tutti i colori. E comunque il contratto di blind trust è revocabile in qualunque momento. "Ma perché dovrei revocarlo. Se revocassi il blind trust, diventerei incompatibile come presidente della Regione". Lei, presidente, ha dato le dimissioni per gli attacchi cementizi della sua stessa maggioranza alla difesa delle coste pochi giorni prima che venisse giù il diluvio della questione morale, o meglio immorale, in tutta Italia: Napoli, Firenze, Roma, l'Abruzzo, la Basilicata. Il diluvio di scandali deriva, come qualcuno dice, dalla forma "liquida" dei partiti? "Guardi, la questione morale fu posta per primo da Enrico Berlinguer nel 1980, quando i partiti non erano liquidi. Anzi erano superstrutturati, erano presenti in ogni dove, occupavano tutti i gangli delle istituzioni, del potere e della società. Forse è cambiato il quadro, ma oggi la situazione morale è persino peggiore: la mancanza di una comunità di valori e di programmi causa la perdita di fiducia e di legittimazione da parte dei cittadini nei confronti delle istituzioni, ciò che rischia di portarci presto in una deriva autoritaria o all'amara considerazione del si salvi chi può". Prima si rubava per il partito, o almeno così si diceva, ora per sé e la propria cordata? "Non è solo questione di furti, pur deprecabili, ma dello spreco di risorse, di disinteresse per il bene comune come l'ambiente, la scuola, la sanità pubblica. E' il problema dell'indecisionismo, della difficoltà nel governare di fronte a scorrerie di bande che cercano di mantenere il potere. E' altrettanto grave che rubare impedire che si facciano gli inceneritori, o trasformare la scuola in una merce, con un'istruzione migliore per chi può pagare di più. O delegittimare la sanità pubblica per rafforzare quella privata". Più che i partiti oggi imperversano i cacicchi, come li chiama D'Alema, o i capibastone, come li ha definiti Veltroni? "Forte ed esemplare nella sua crudezza la definizione di Veltroni, come pure quella di D'Alema. Di fronte al dilagare dei capibastone bisogna riaffermare la funzione dei partiti come luogo di partecipazione politica, come sono previsti dalla carta costituzionale. O si cercano la partecipazione e il consenso sui programmi e i comportamenti, o si baratta una spiaggia per cento voti". Prego? "Sì, penso alla questione sarda, ma vale per tutte le questioni. Anche dalla nostra parte c'è chi pensa: meglio cento voti oggi svendendo una spiaggia o un altro pezzo di paesaggio, e conservando un potere che dura lustri interi, che restituire alle future generazioni un ambiente nel quale sia bello vivere un paesaggio intonso. I partiti sono necessari, perché la politica deve accogliere la partecipazione dei cittadini rispetto alla logica dei capibastone. Ma a certe condizioni". La prima? "Devono essere partiti ben radicati nel territorio, aperti, effettivamente rappresentativi dei bisogni e delle aspirazioni delle comunità, capaci di una discussione ampia, piuttosto che dedicarsi alla perpetuazione eterna delle stesse dieci o venti persone che da troppo tempo incarnano tutti i ruoli e decidono per tutti. Non è più tempo di nomenklature". Magari senza cadere nella sindrome "dateci Obama": nel Partito Democratico, che D'Alema giudica senza amalgama, non sarà l'Obama di Moncalieri, quello di Bettola e neanche quello di Sanluri, a risolvere i problemi dell'amalgama e dei cacicchi che a livello locale fanno come vogliono in assenza dell'autorità di partito. "Certamente. E' necessario ricostituire una comunità di valori e di programmi. Soltanto così si neutralizzano i ras e le loro scorrerie". Scusi, presidente, lei dà l'impressione di essere un buon giocatore di poker, ma se porta la Sardegna al voto tra poco più di due mesi, lei sa che i rischi sono altissimi, mentre imperversa a sinistra anche la questione morale. Alcuni sondaggi danno la destra 10 punti sopra. "Altri danno noi in vantaggio. Ma non credo alle tattiche sondaggistiche preelettorali. Credo invece nella necessità di mantenere il patto con gli elettori. O questo patto lo posso portare avanti in modo compiuto, senza derogare e scantonare, o non m'interessa governare purchessia". (22 dicembre 2008) da repubblica.it Titolo: ALBERTO STATERA. Torino e la guerra tra i poveri "Ma non saremo mai schiavi" Inserito da: Admin - Gennaio 13, 2011, 12:05:55 pm IL REPORTAGE
Torino e la guerra tra i poveri "Ma non saremo mai schiavi" Il timore è che il bilancio non sarà positivo per nessuno: sindacato, imprenditori, sinistra, governo e Fiat. E la città diventa l'emblema della nazione che arretra di ALBERTO STATERA TORINO - Non si chiama Fortunato Santospirito l'anziano operaio, ha i capelli grigi, non parla con cadenza avellinese, dialoga fitto con Nichi Vendola in pugliese stretto, ma ad ascoltarlo davanti al cancello 2 della Fiat sembra di rituffarsi in Fiat-Nam. Regia di Ettore Scola, sceneggiatura di Diego Novelli, il film sul Vietnam sociale sabaudo girato nel 1973 in 16 millimetri era un racconto di miserie, quella del sud di malaria e pellagra e quella della fabbrica del nord dura, che s'incrociavano a Mirafiori, riassunte nell'esistenza del giovane meridionale approdato operaio a Torino. Oggi, nel fulgore della globalizzazione marchionnesca, che rianima a Milano la più depressa borsa d'Europa, è tutto un rincorrersi di nuove storie di povertà narrate dal popolo del no al referendum, ma anche della maggioritaria fazione del sì coatto, che sarà dato per non perdere il lavoro e gli 800 euro al mese di cassa integrazione o i 1.200 di salario pieno. "Dolore sociale" lo chiama nel suo immaginifico stile sociologese, che suona come una sorta di contrappasso rispetto alla rozzezza lessicale berlusconiana, il governatore pugliese, qui oggi a raccogliere ciò che resta della sinistra devastata e quel che sopravvive dell'antica classe operaia, la working class che si era fatta ceto medio. E quando il dolore sociale non incontra più la politica gli effetti possono essere pericolosi, forse devastanti. Un'onda più strabiliata che indignata percorre il popolo assiepato tra le bandiere e gli striscioni con slogan d'antàn quando giungono, riferite di bocca in bocca, le parole di Berlusconi sulla legittimità dell'abbandono dell'Italia da parte della Fiat se dovesse vincere il no. "Ridicolo pagliaccio" è l'epiteto più gentile per il turboliberista confuso che gettò qualche miliardo per preservare l'italianità a termine dell'Alitalia. Epiteto comunque più educato di tutti quelli urlati all'indirizzo di Fassino, volto nuovamente in "Fessino" come quando era giovane, che deputato da decenni e aspirante candidato sindaco di Torino, dice senza vergogna che "se fosse nei panni di un operaio" voterebbe sì a Marchionne. Si evoca con termini ingiuriosi D'Alema. E persino Chiamparino, l'ex mito della sinistra istituzionale, il sindaco della rinascita, cui l'operaio Marco Ferrante, consigliere comunale, augura di farsi un po' di primo turno alla catena di montaggio invece che appassionarsi alle partite serali a scopone scientifico nell'appartamento supertecnologico del canado-svizzero-chietino che solo di stipendio guadagna come 435 operai e, con le stock option, eguaglia o forse supera i salari complessivi dell'intera forza lavoro di Mirafiori. Compenso legittimo, ma alquanto ardito per chi vuol parlare agli operai di etica, sia pure del capitalismo globale. Voterebbe sì anche il governatore leghista Roberto Cota che tra la difesa d'ufficio sempre più tiepida delle mattane del premier, non più perdonate come parole dal sen fuggite, e i mille voti che la Lega sostiene di avere dentro Mirafiori tra i favorevoli coatti al marchionnismo, sceglie ancora Berlusconi. Ma per quanto ancora? A fianco del cancello 2 di Mirafiori, presidiata dai guardiani in divisa, c'è una palazzina a un piano dipinta di rosso. E' chiamata altezzosamente, con insegna in corsivo, Mirafiori Club, come se fosse uno sporting in collina o un campo di golf nei pressi delle magioni della Famiglia sabauda con la F maiuscola, oggi dimentica di fronte al "giustificazionismo" berlusconiano della secca frase che l'Avvocato Agnelli pronunciò quando qualcuno gli chiese perché non aveva voluto vendere alla Gm, che offriva un pacco di miliardi: "Fiat: Fabbrica Italiana Automobili Torino". E basta. E' sbarrata la palazzina rosa, come è chiuso all'interno il supermercato "Gigante". Forse riaprirà il giorno 17, a referendum concluso, quando in settimane intere di cassa integrazione i vasetti di yogurt non rischieranno più di andare a male per mancanza di clienti. "Dello yogurt posso fare a meno, non della casa. Ma stanno per portarmela via perché, dopo mesi a 800 euro di salario, non pago più il mutuo", racconta uno di mezza età a don Vendola confessore, sotto uno striscione che grida "Ci hanno tolto troppo, riprendiamoci tutto!" A fianco un Marchionne-squalo di cartapesta con le fauci spalancate piene di teschi, ossa scarnificate e tra i denti dollari e dollari che pendono a illustrare la finanziarizzazione del mondo globalizzato, dove il lavoro è ormai tra gli ultimi valori. "Schiavi mai", giura il cartellone dei Cobas, mentre il turno del mattino sciama fuori. Facce cupe, sguardo basso, barbe lunghe, donne con i capelli scarmigliati dopo la catena di montaggio dell'alba nebbiosa. Scoppia qualche tafferuglio quando gli attivisti Fiom urlano nelle orecchie dei reduci dalla catena: "Non buttate a mare le conquiste dei nostri padri", "Non fate come Pomigliano, noi siamo diversi". Fino alla cantilena più ingenerosa: "Venduti, venduti!" a chi, con il sì, pensa di difendere il posto, il mutuo, l'affitto, la rata della macchina, i libri di scuola dei bambini. Se ha un senso l'espressione "guerra tra poveri", è qui oggi nella capitale sabauda, ai piedi delle Alpi, che quella guerra si consuma ai cancelli della fabbrica più antica d'Europa ancora in funzione, che i radicali della Fiom preconizzano come una caserma marchionnesca sotto la Mole e gli altri come l'ultima spiaggia prima dell'espulsione dalla vetta che sembrava a portata di mano della middle class. L'ex capo, socialdemocratico dal volto umano, eroe dei due mondi, pochi anni dopo lo sbarco a Torino chiamato da Umberto Agnelli, è vissuto adesso come un caporale di giornata dagli operai del no e anche da quelli del sì. Osannato quando ristrutturava le mense, gli asili e i cessi di Mirafiori, cacciando i dirigenti di un'azienda overmanaged e underled, con troppi dirigenti eppure sottodiretta, maledetto ora, quando con lo stile spiccio dell'epoca lancia la new manifacturing, tardo epigono del guru della Toyota Tadashi Yamashina. Ma il problema autentico, più che la catena di montaggio e il presunto schiavismo marchionnesco, è il paese che arretra e, nell'assenza di ogni prospettiva futura, rigetta nella semipovertà migliaia di Fortunato Santospirito, come quello descritto quarant'anni fa da Scola e Novelli. Il viaggio Fiat-Nam riprende a sera in piazza Statuto, proprio dove - quasi mezzo secolo è passato - fu presa d'assalto la sede dei metalmeccanici della Uil, colpevole già allora di aver firmato nottetempo un accordo separato con la Fiat. La fiaccolata dei no illumina via Garibaldi tra i saldi al 70%, fino a un lieve sbandamento della colonna all'angolo di via della Misericordia. Nomen omen: il negozio all'angolo annuncia su un cartello a grandi lettere "Oro usato". Si propone una "rottamazione" del vecchio oro, come quella delle macchine che per un po' ha tenuto in piedi la Fiat. Si rottama un vecchio gioiello d'oro per uno nuovo. Ma in fondo al cartello, pudicamente, si spiega il senso vero dell'operazione commerciale: 25 euro al grammo per l'oro "usato" in caso di " ritiro in contante". Gli affari, naturalmente, non sono su chi ristruttura vecchi gioielli, ma su chi chiede in cambio denaro contante. Le operaie e le mogli di operai Fiat fanno la fila. Narrano nel corteo che dentro Mirafiori l'azienda si è assai attivata per sostenere l'organizzazione del referendum, che Uilm e Fim avevano pensato addirittura di rinviare per asserite "ragioni tecniche". La macchina sindacale è ora supportata fattivamente, fornendo il destro al fronte del no per sostenere che è il tempo del ritorno al Sida, il sindacato giallo che prosperò quando nel 1957, regnante Vittorio Valletta, la Fiom scese dal 64 al 37 per cento, per poi precipitare al 21. Si chiude mesta la sera dell'antivigilia. Comunque finisca venerdì, il timore è che il bilancio, a conti fatti, non sarà propizio per nessuno. In un paese senza più politica, tra mille balbettii politicanti e incongrui, a far politica si è rilasciata una delega in bianco a Sergio Marchionne, in una presunta logica pseudo liberista. Forse alla fine ne uscirà del bene, ma intanto si cumuleranno tante macerie. Quelle del sindacato, della Confindustria, della sinistra, della destra, del governo, di Torino. E forse anche della Fiat. a.statera@repubblica.it (13 gennaio 2011) © Riproduzione riservata http://www.repubblica.it/economia/2011/01/13/news/grido_torino-11162048/?ref=HRER1-1 Titolo: ALBERTO STATERA. Milano ha rotto la diga della destra. Inserito da: Admin - Maggio 17, 2011, 05:17:41 pm IL PERSONAGGIO
Il miracolo di Giuliano il Barbarossa "Il berlusconismo si può battere" Pisapia al 48% affonda la Moratti: "Milano ha rotto la diga della destra. Il mio modello è Antonio Greppi, il sindaco che dopo la Liberazione ricostruì la città cominciando dalla Scala. Alla fine ognuno ha fatto il suo dovere. C'è anche chi mi ha aiutato stando zitto" di ALBERTO STATERA "BARBAROSSA a Palazzo Marino", grida uno al Teatro Elfo Puccini quando entra Giuliano Pisapia, ancora incredulo dei numeri che prima dell'ora di cena gli assegnano le proiezioni. Così, col Barbarossa, fu salutata l'elezione di Emilio Caldara. È Il sindaco dell'antico socialismo municipale meneghino durante e dopo la prima guerra mondiale, che il candidato ha evocato più volte in campagna elettorale, non solo nei salotti borghesi, nel quadrilatero ambrosiano dei ricchi e degli intellettuali, ma anche nei mondi periferici delle case popolari. "Per la verità - mi dice - il mio modello è più vicino, è Antonio Greppi, il sindaco della ricostruzione che ho conosciuto personalmente. Dopo la Liberazione ricostruì mezza Milano cominciando dalla Scala, con una sensibilità culturale di cui la città, insieme a molte altre cose, ha oggi un gran bisogno. Occorre ricostruire l'anima di questa città, farla tornare a guardare al futuro". Ma è accaduto ciò che il capolista Berlusconi non più tardi di 72 ore fa definiva "l'impensabile", cioè che si andasse al ballottaggio con un netto vantaggio del candidato di centrosinistra, in una campagna elettorale cui egli stesso ha dato l'impronta del referendum sulla sua persona e sul suo governo. Una radicalizzazione grottesca a colpi di magistrati brigatisti e di avversari sporchi, ladri e estremisti, che apre una falla politica di livello nazionale nel centrodestra, cui non è difficile prevedere seguiranno alluvioni. Lo aveva già preannunciato Bossi, avvertendo che in caso di vittoria a Milano avrebbe vinto lui, in caso di sconfitta avrebbe perso Berlusconi. Perciò, avvocato Pisapia - gli diciamo - se tra due settimane lei, accusato dagli avversari di essere un pericoloso gauchiste, diventerà sindaco di Milano, più che Greppi o Caldara potrà paradossalmente incarnare l'epigono di Gino Cassinis, il sindaco socialdemocratico che nel 1961, giusto mezzo secolo fa, aprì la strada al centrosinistra nazionale. "Nessuno, e neanche io - risponde ancora incredulo - poteva pensare che nella diga di questa destra in una città in appalto si potesse aprire una falla di tali dimensioni, che può far debordare l'onda fino a Roma. Ma Milano, che anticipa sempre tutto, ha capito la necessità di una svolta. Non solo tra i borghesi, tra gli intellettuali o al Rotary, ma nelle case popolari, tra i ceti produttivi, nell'associazionismo, tra i cattolici, tra i giovani. Si è come ricomposta una saldatura tra la cultura e i quartieri popolari su un Patto per Milano, di cui hanno capito l'urgenza mondi e forze diverse. Un nuovo blocco sociale". Certo, vedere l'altro giorno sul palco del comizio di chiusura in Piazza Duomo, con Roberto Vecchioni che intonava "Luci a San Siro", Susanna Camusso fianco a fianco con Piero Bassetti, gran borghese democristiano che sibilava di una Moratti bottegaia reazionaria e incolta, che con tratti padronali ha governato l'anarchismo urbano e l'agonia della città della cultura, dava quasi una sensazione di incredulità. Nella capitale del berlusconismo incistato ormai da più di tre lustri, la Moratti tre giorni dopo perde una decina di punti e Berlusconi perde la faccia. Il fascismo, il socialismo, la resistenza, il centrosinistra, il boom economico. E anche Mani Pulite e lo sfregio dell'erotismo puttaniere dell'Olgettina. Milano fatale. Non c'è pezzo di storia italica che non sia nato qui. "Purtroppo - mi corregge il sindaco oggi "probabile", come si definisce - anche il leghismo". Confessa Pisapia che all'inizio di una campagna elettorale lunghissima, con le primarie del Pd che lo incoronarono contro la volontà dei democratici che avrebbero voluto candidato l'architetto Stefano Boeri, sentiva il gelo intorno a sé. Poi ha visto crescere il consenso nei tour elettorali di quartiere vecchia maniera, via via che la Moratti cantilenava il suo programma fotocopia, inanellava figuracce sulle'Expo, dando l'immagine di un esile strumento nelle mani di Berlusconi, di Formigoni, degli affaristi di Comunione e Liberazione, dei Larussa, luogotenenti di Salvatore Ligresti, dei tanti Batman che hanno ristrutturato abusivamente 70 mila loft, come ha fatto il suo ragazzo. Tutti gli interessi cementieri che hanno imposto l'anarchia urbana in nome del potere della "leva finanziaria" delle banche: milioni di metri cubi e tanti finanziamenti, fino a strozzarsene. E il Partito Democratico? Ha partecipato alla gelata? "No, devo dire che alla fine ognuno ha fatto il suo dovere". "Alla fine", avvocato? "Beh, alcuni mi hanno aiutato anche stando zitti, quando hanno capito che ragionevolmente si poteva vincere". E, analizzando la forbice tra i voti della Moratti e quelli di lista, Pisapia è convinto di aver rastrellato non solo tra i finiani del Fli e tra gli altri moderati centristi convinti della necessità del voto utile, ma anche tra i berlusconiani della prima ora, stravolti dalle gesta estremiste del leader carismatico e tra i leghisti, che non sembra abbiano ottenuto la valanga favorevole che vagheggiavano. Poche ore ancora e metteranno Berlusconi sul banco degli imputati con la sciura Letizia, improbabile propalatrice di dossier, peraltro anche prima tutt'altro che amata in via Bellerio. "Non so quanto la Moratti si sia fatta male da sola con le falsità pronunciate contro di me. Ma, uscendo dalla sede di Sky a Santa Giulia dove mi ha attaccato, ho avuto l'opportunità di girare nel nuovo quartiere, dove mi hanno assediato gli abitanti per dirmi che non hanno servizi essenziali, non hanno asili, sono mal collegati. Un quartiere che potrebbe essere bello, ma è invece l'emblema della bolgia urbanistica che è diventata la cifra meneghina. Continuano a costruire non edilizia sociale, ma edilizia di lusso a 9000 euro al metro, come a CityLife. Case che nessuno può comprare se non qualche ricco forestiero. Perché così si alimenta il circolo vizioso dei finanziamenti bancari-cemento- metri cubi-debiti". Le due settimane di qui al ballottaggio si annunciano feroci, un'altra campagna elettorale, nella quale chi lo conosce dice che Berlusconi non trascurerà alcuna arma letale. La dote morattiana di 12 milioni, che qualcuno dice siano 20 per la generosità del marito petroliere, non sono probabilmente esauriti, come è invece bruciato il milione e 800 mila di Pisapia. Ma la pecunia non fa la vittoria, se un blocco sociale si è rotto e un altro si è costituito intorno a un candidato atipico. "L'importante ora - dice come a sé stesso Pisapia - è non commettere errori sull'ultimo miglio". a.statera@repubblica.it (17 maggio 2011) © Riproduzione riservata da repubblica.it/politica/2011/05/17/news/ |