LA-U dell'OLIVO

Forum Pubblico => I GIUSTI MAESTRI => Discussione aperta da: Arlecchino - Giugno 08, 2007, 04:34:45 pm



Titolo: GIORGIO BOCCA.
Inserito da: Arlecchino - Giugno 08, 2007, 04:34:45 pm
OPINIONI

L'ANTITALIANO

Il grande buio dell'informazione
di Giorgio Bocca


Siamo alla confusione delle lingue come ai tempi di Babilonia. E i comunicatori che vivono nel mondo degli inganni del consumismo devono saper mentire con grande mestiere 

Al tempo di Internet, della comunicazione totale e fulminea, l'informazione dell'uomo comune è tornata alla confusione delle lingue, proprio come ai tempi di Babele.

Tutti ascoltano radio e televisioni, molti leggono giornali, moltissimi campano nell'abbondanza e nella confusione delle immagini. Ma sappiamo pochissimo del mondo in cui viviamo e se durerà.

La mancanza di informazione è della maggior parte dei viventi a causa, per cominciare, dell'incomprensibilità crescente del linguaggio: sempre più globale e fitto di espressioni straniere, inglesi la maggioranza, una somma di linguaggi specialistici che ignoriamo sorvolando nella lettura a salti da cavalletta, una fatica nel leggere che superiamo accontentandoci dei titoli, anch'essi in gran parte stranieri e gergali.

Sempre più ampi gli spazi dedicati alla economia e alla finanza del tutto incomprensibili alla maggior parte dei lettori. Giornali come 'Il Sole 24 Ore' o il 'Financial Times' hanno tirature altissime perché acquistati come status symbol di cui si capisce pochissimo.

Uno degli argomenti più seguiti dai lettori è quello di che tempo che fa sul quale la confusione regna sovrana e le contraddizioni di chi informa danno capogiro e nausea. Metà scienziati a giurare che la colpa è dell'uomo e dei veleni che fabbrica, metà a ghignare di queste superstizioni e a ricordare che le mutazioni della natura sono imprevedibili e certo non attribuibili agli uomini. I quali continuano a comportarsi in modi totalmente demenziali e contraddittori per tutto ciò che riguarda la salvezza dell'ambiente e la continuità della specie.

Nei paesi della fame e della miseria le plebi sono felici se il loro governo ha costruito una bomba atomica che non farà cessare la fame, ma di cui potranno morire milioni di persone. E nei paesi del benessere, dove il traffico nelle città è diventato insostenibile, si levano ondate di compiacimento se la mega fabbrica locale produrrà milioni di auto.

Questa incapacità di leggere nel futuro, di capire il futuro, questa voluta cecità sull'ambiente e sulle sue risorse ha provocato movimenti culturali deleteri: il revisionismo antistorico e il liberismo suicida, due movimenti atti a dimenticare il presente e a giocare con il passato.

Il revisionismo arrivato al punto di compiacersi delle più assurde rivisitazioni della storia (vedi la negazione dell'Olocausto) ha l'effetto di distrarre l'attenzione dal presente e di indirizzarla su un passato dalle cento versioni e il liberismo suicida di immaginare una inesistente intelligenza del mercato e un provvidenziale intervento della concorrenza, carico di rischi. Sino a negare, con il revisionismo storico, l'evidenza: che in Italia c'è stata di recente una guerra di popolo chiamata Resistenza, unica base della nostra fragilissima democrazia. E che sono di Stato le poche aziende a livello mondiale l'Enel, l'Eni, la Finmeccanica e la stessa Fiat che senza lo Stato sarebbe defunta le molte volte.

E non solo: nel buio dell'informazione e della conoscenza anche il ritorno agli scontri di religione, fra le verità rivelate e il laicismo, fra la Chiesa e il Parlamento.

Una cosa è certa. I vari mestieri degli informatori sono diventati spesso più che difficili assurdi: devono vivere in un mondo in cui il consumismo impone i suoi inganni che la gente non solo accetta, ma di cui si compiace, devono saper mentire con grande mestiere, non devono vergognarsi del padre giornalista che di lui si preferiva dire "suona il violino in un casino".
 

da espressonline


Titolo: Maria Cervi, la bambina che vide l'orrore
Inserito da: Admin - Giugno 13, 2007, 06:20:04 pm
Maria Cervi, la bambina che vide l'orrore
Wladimiro Settimelli


Lei, Maria Cervi, quella terribile mattina del 25 novembre del 1943, con la paura che le serrava la gola, vide tutto: i fascisti che sbucavano dalla nebbia intorno alla casa di Fraticello. Vide il padre, Antenore, che con i fratelli Gelindo, Aldo, Ferdinandio, Agostino, Ovidio ed Ettore, sparavano per difendersi. Vide il nonno Alcide che passava da una finestra all’altra della soffitta e faceva partire un colpo dietro l’altro da un vecchio fucile. Poi il silenzio terribile dopo che le munizioni erano finite. Subito dopo, ecco l’arrivo dei fascisti che entrarono in casa urlando. Presero tutti e cominciarono a picchiare.

Poi il fuoco che divorava i fienili e i mobili delle stanze, in mezzo ad un fumo infernale. E loro, le mogli dei Cervi e figli piccoli che guardavano ammutoliti da un angolo dell'aia. Quella fu l'ultima volta che Maria vide il padre Antenore vivo. L'altra notte Maria Cervi, nipote di papà Cervi e figlia di uno dei sette eroici fratelli fucilati dai fascisti a Reggio Emilia, tutti insigniti di medaglia d'oro al valore è deceduta improvvisamente. Era lei, da sempre, l'anima dell'Istituto Alcide Cervi ed era lei che riceveva a Campegine, a Fraticello e a Gattatico, i luoghi della famiglia, i visitatori. Migliaia che arrivavano, dal dopoguerra in poi, da ogni angolo d'Europa per farsi raccontare le sensazioni, le sofferenze. E Maria, paziente, raccontava tutto ai grandi e i ragazzi delle scuole. Lo aveva fatto anche con me nel febbraio dello scorso anno, durante il congresso nazionale dell'Anpi. Come tanti della mia generazione, avevo letto tutto dei Cervi: dal celebre libro di Renato Nicolai alle lunghe biografie delle enciclopedie della Resistenza. Ma, dopo avere conosciuto Maria al congresso dell'Anpi a Chianciano, come un ragazzino delle elementari, non avevo resistito alla voglia di chiederle il racconto di quella mattina. Davvero volevo sapere ancora una volta? Poi aveva cominciato dal descrivere quella famiglia emiliana del tutto particolare. Una famiglia di contadini che si occupava anche della storia del mondo, di biologia, di cose scientifiche legate allo sfruttamento della terra, di coltivazioni particolari, di progresso sociale e, ovviamente, di politica. Aldo, l'«intellettuale», quando avevano deciso di acquistare un trattore era andato a prendere quella «buffa macchina» fin dal concessionario. Maria raccontava: «Non aveva potuto metterci una qualche bandiera sopra, ma a fianco dello sterzo aveva legato un grande mappamondo che sarebbe servito a tutti per conoscere gli altri popoli del mondo».

Poi era comiciata la vera e propria attività antifascista dando aiuto ai partigiani e ai prigionieri di guerra che scappavano dalle prigioni e dai campi. Molti di loro - mi spiegava Maria - erano rimasti nascosti nei fienili anche quando, dopo l'8 settembre, era cominciata la lotta armata. E anche i piccoli di casa Cervi si erano ormai abituati a non dire neanche una parola di quello che vedevano nella grande casa dei padri. Era, quindi, una specie di grande «cellula da combattimento». In mezzo al fieno e nelle stalle c'erano ormai fasci di armi per rifornire i ragazzi in montagna e i fascisti certamente lo immaginavano. Avevano più volte interrogato i Cervi, ma non avevano cavato un ragno dal buco. Poi era arrivata quella gelida mattina di novembre e gli uomini in camicia nera. Erano in tanti perché dei Cervi avevano una paura sfottuta. Subito la sparatoria era diventata terribile. Poi ecco la fine delle munizioni e la resa per tentare di salvare almeno le donne e i bambini. I fratelli furono portati al tiro a segno di Reggio e fucilati uno dopo l'altro. Papà Cervi saprà della strage solo dopo.

Maria Cervi racconta queste cose, calma e serena come sempre. Papà Cervi, decorato con le medaglie dei figli e la sua dal presidente Einaudi, dirà parlando «dei ragazzi» una frase rimasta celebre: «Dopo un raccolto ne viene un altro... ».

Maria Cervi, in tutti questi anni ha lavorato giorno dopo giorno per ricordare gli uomini della sua famiglia, la Resistenza e parlare ai ragazzi delle scuole di libertà, democrazia, giustizia sociale. È stato come se tutti gli altri Cervi avessero lasciato a lei questo grande compito.

La notizia della sua morte ha suscitato cordoglio e rimpianto ovunque. L'Istituto Alcide Cervi l'ha ricordata in un lungo messaggio. Così hanno fatto l'Associazione partigiani di Reggio Emilia, l'Anpi, le associazioni combattentistiche, il segretario Ds Fassino e il ministro D’Alema, il sindaco di Roma Veltroni, il Presidente della Repubblica, i presidenti della Camera e del Senato. La camera ardente è stata allestita presso il Museo Cervi di Gattatico. I funerali si svolgeranno oggi alle ore 13. Il corteo funebre si trasferirà poi a Campegine per l'omaggio davanti al monumento ai sette fratelli Cervi.

Pubblicato il: 13.06.07
Modificato il: 13.06.07 alle ore 9.32   
© l'Unità.


Titolo: Giorgio Bocca Bush sempre in cerca di nuovi nemici
Inserito da: Admin - Giugno 25, 2007, 06:59:10 pm
OPINIONI

L'ANTITALIANO

Bush sempre in cerca di nuovi nemici
di Giorgio Bocca


La politica americana somiglia a quella dell'antico impero romano. E non porta bene. Ora punta a Est, verso la Cina. Una prospettiva davvero poco incoraggiante 
Gli uomini neri, i cattivi, quelli che danno fuoco al nostro bene supremo l'automobile, quelli che spaccano le vetrine delle banche, i nemici del genere umano, i vandali tornano all'assalto delle nostre città e i poliziotti in tenuta antiguerriglia fanno muro, stanno schierati nelle vie e nelle piazze pronti a scattare nella carica con manganelli di acciaio e proiettili di gomma. E noi i moderati, le persone ragionevoli, i timorati dell'ordine stiamo davanti alle televisioni per assistere allo spettacolo del law and order, dei servitori dello Stato che rimettono le cose a posto, mettono in fuga i facinorosi, riportano la calma.

È una storia che ho già ascoltato negli anni Venti, i primi della mia vita: tornava mia madre, la maestra, da un viaggio a Torino e mi raccontava dei rossi che insultavano gli ufficiali e strappavano le bandiere, ma poi intervenivano i soldati della brigata Sassari arrivati dalla Sardegna e riportavano l'ordine a legnate e a fucilate.

Da dove arrivano oggi gli uomini neri, i cattivi, i black blok come li chiamano? Da tutta Europa, da tutto il mondo. Attraversano nazioni e continenti, a piedi, in treno, in aereo e dove arriva il presidente americano George Bush arrivano anche loro. Bush e gli uomini neri, i giovani violenti, i nemici dell'ordine, non si incontrano mai direttamente: i governi che ospitano Bush preparano eserciti di poliziotti per proteggerlo, Bush va nei palazzi del potere, in Vaticano, nella ambasciata americana e i cattivi, i teppisti restano fuori nelle strade a prendere le legnate dei poliziotti.

Ma che senso ha questa guerriglia che si ripete in tutte le città del mondo in cui arrivi Bush? Cos'è la furia di tutti questi giovani violenti, perché questo signore texano con la sua bella moglie ben nutrita desta così violente reazioni?

È difficile dirlo, è molto difficile dirlo, dato che il signore texano è il nostro fedele alleato dai tempi della Seconda guerra mondiale, lo zio americano che ci ha salvato con il piano Marshall, che ci ha protetto dalla minaccia di Stalin e delle divisioni russe pronte a invaderci e che, anche recentemente, ha messo a posto i serbi di Belgrado bombardando Belgrado e i ponti sul Danubio.

D'accordo noi siamo alleati degli Usa e dobbiamo tener fede all'alleanza e compiacerci con i nostri poliziotti quando liquidano a manganellate la teppaglia anti-americana. Ma questo signor Bush non potrebbe per qualche anno, adesso che è caduto il muro di Berlino, preoccuparsi un po' di più dell'inquinamento e dell'effetto serra e un po' meno della guerra prossima ventura? I potentissimi Stati Uniti, ora che il pericolo sovietico è scomparso, non potrebbero guardare al mondo con minor sospetto?

Eppure il quadro dei rapporti internazionali è pochissimo incoraggiante, la preparazione a una nuova guerra mondiale è evidente, l'intero apparato militare della superpotenza è slittato verso l'Est, e a Est non si vede altro possibile avversario che la Cina, sai che prospettiva incoraggiante preparare la guerra contro un nemico che ha un miliardo di uomini.

Non è così? Le basi tedesche create contro l'Urss sono state in buona parte smobilitate e spostate nelle grandi basi di nuova creazione come nel Kosovo; i sommergibili atomici della Maddalena sono andati in Turchia; una nuova enorme base aerea è sorta nelle steppe Kirghise dell'Asia centrale e in Afghanistan il contatto diretto, il contatto di frontiera, è già raggiunto: una valle afgana confina con una regione cinese in cui si trovano rampe missilistiche.

L'equilibrio delle grandi potenze, si dirà, è sempre stato incerto, e con l'era nucleare è un equilibrio del terrore, ma è difficile, molto difficile, contestare che la visione americana del mondo è decisamente pessimista, che per il Pentagono i potenziali nemici si rinnovano di continuo. Ma è la filosofia dell'antico impero romano e non porta bene.
 
da espressonline.it


Titolo: Re: Giorgio Bocca: Viva i campioni dell'Italia clericale
Inserito da: Admin - Luglio 01, 2007, 12:08:44 pm
L'ANTITALIANO

Viva i campioni dell'Italia clericale
di Giorgio Bocca


Berlusconi, Bossi, Casini, Fini... Che modelli di virtù cristiane sono questi che fanno i loro comodi civili ma sono sempre in prima fila a baciare l'anello dei cardinali? Commenta  Fanno bene i Bagnasco, i Bertone e gli altri porporati del Vaticano ad affidare la difesa della sacra famiglia ai timorati onorevoli della destra, e a diffidare dei rossi peccatori nemici della morale. Ma forse farebbero bene a essere più cauti nello scegliere i campioni dell'osservanza cattolica. Ecco qui una sfilata di sepolcri imbiancati che dei precetti di Santa Romana Chiesa se ne infischiano altamente.

Il grande capo dei capi, l'amico del cardinal Sodano, Silvio Berlusconi, quello che ha le zie suore e la madre quasi santa, felice sposo nel 1965 di Carla Dell'Oglio ha divorziato nell'85 e si è risposato con Veronica Lario, due figli con la prima, tre con la seconda. Il fedelissimo capo della Lega il senatur Bossi ha divorziato dalla prima moglie Gigliola Guidali per sposare Manuela Marrone e procreare Renzo, Sirio Eridano e Roberto Libertà, tutti autorizzati a cercarsi un nome più decente. Poi c'è Pier Ferdinando Casini che ha divorziato nell'85 da Roberta Lubich da cui ha avuto due figlie per unirsi ad Azzurra Caltagirone, figlia dell'imprenditore Caltagirone che è fra i suoi finanziatori.

E ora abbiamo Gianfri Fini che si separa dalla moglie Daniela già sposata con un parà della Folgore a cui preferì Fini allora missino, chiamato tortellino perché arrivava da Bologna. La signora Fini si definisce un maschiaccio. La vedova di Giorgio Almirante dice: "Daniela è una donna garbata. Certo non è Rita Levi Montalcini, ma se è per questo neppure lui è Gabriele D'Annunzio. Inoltre non vedo in giro chissà quante first lady dotate di savoir faire".

Daniela del resto non ci teneva alla parte di first lady, passava le sue domeniche sportive nella tribuna d'onore della Lazio all'Olimpico. "La Lazio", diceva, "per me è il massimo, mi riempie la vita". Amava le feste in discoteca con Salvo Sottile, quello invaghito della Gregoraci, si lasciava sfiorare da una inchiesta sulla sanità, inveiva contro gli omosessuali, sfrecciava su auto potenti ad alta velocità fino a quando lei e Gianfri si sono accorti che "seguivano strade diverse", con piena soddisfazione dei colonnelli di An che la vedevano come il fumo negli occhi.


Ma insomma, sono questi i campioni della Italia clericale e osservante. Ricordiamo i tempi felici di papa Pacelli, della nobiltà nera che prestava servizio d'onore in Vaticano, dei Colonna e dei Massimo. Ricordiamo i Lombardi, che già dalla nascita decidevano chi di loro sarebbe stato il predicatore della ortodossia o il generale o il prefetto, ricordiamo le famiglie romane della nobiltà nera che non accettarono i Savoia e la Bella Rosin morganatica.

Ma che modelli di virtù cristiane sono questi che fanno i loro comodi civili, ma poi sono sempre in prima fila a baciare l'anello dei cardinali e a genuflettersi di fronte al papa tedesco? Si legge sui giornali che la coppia Fini ha passato il Capodanno del 2007 in Honduras con amici tra cui Roberto Carminati, il parrucchiere delle Vip che si occupa del nuovo look della signora Daniela e le ha consigliato capelli rossi e tailleur.

Si direbbe che questa nuova classe politica ignori sistematicamente le buone intenzioni che predica e si circondi abitualmente di un generone che sta fra i portaborse e i ruffiani. Daniela Fini adora sparare. Ha tre pistole, una calibro 38 una 9 corto e una 6 e 35 piccolissima "che porto con me la sera quando esco da sola".  Poco prima della separazione la signora si è confidata con il settimanale 'Chi' ha cui ha rivelato che "la cucina la fa sempre lei".
(29 giugno 2007)

da espresso.repubblica.it


Titolo: Re: Giorgio Bocca: L'ottimismo dell'informazione
Inserito da: Admin - Luglio 08, 2007, 11:57:38 am
OPINIONI

L'ANTITALIANO

L'ottimismo dell'informazione
di Giorgio Bocca

I mass media per tirar su il morale alla gente non s'arrestano neppure di fronte al vergognoso.

E spaziano in tutti i campi correndo ai ripari con messaggi consolatori 


In un periodo di tristi previsioni e di stati depressivi ostili ai consumi, l'informazione di massa reagisce con un ottimismo forzato, automatico, senza distinguere, senza temere le esagerazioni. Guardate le pagine degli spettacoli e delle recensioni, ogni giorno c'è uno scrittore sconosciuto del Nebraska o delle Antille che ha venduto un milione di copie, o una cantante negra che ha smerciato due milioni di dischi. Il giorno dopo nessuno ne parla più, ma ci sono già i sostituti.

Nelle pagine milanesi o romane trovano posto comici da strapazzo che non fanno ridere neppure per sbaglio, neppure i carcerati di San Vittore, neppure i barboni del Giambellino, neppure i sindaci che promuovono i melanconici spettacoli con sovvenzioni comunali. Ma la festa continua.

L'ottimismo dell'informazione di massa non si arresta di fronte al vergognoso. Su tutte le cronache la notizia vergognosa che i salari bassi non si muovono, ma quelli dei manager sono saliti del 18 per cento in un anno, ha il suo giusto risalto. E si segnala quello dell'ex presidente dell'Alitalia, Giancarlo Cimoli, che è arrivato a milioni di euro dopo aver portato l'azienda al fallimento, e quello del presidente della Fiat e della Fiera di Bologna Luca Cordero di Montezemolo, che arriva ai sette milioni di euro che in lire fanno svariati miliardi, vedi il capintesta, il capo dell'Enel che gli euro non sa più dove metterli.

Per tirar su il morale alla gente l'informazione di massa ha scoperto che bisogna dir peste e corna del primo ministro Romano Prodi, per non parlare del vice ministro Vincenzo Visco, di cui non si discute la competenza, ma che appare arrogante e scontroso perché ha avuto il coraggio di dare un'occhiata alle alte gerarchie della Guardia di Finanza.

L'ottimismo caritatevole dell'informazione di massa spazia in tutti i campi dell'umana sussistenza. Gli studiosi degli oceani antartici hanno appena scoperto che nei mari ghiacciati esistono nel profondo riserve favolose senza fine di specie ittiche, valanghe di crostacei carnivori. Un esercito di migliaia di scienziati è coinvolto in un progetto internazionale di ricerca di vertebrati e invertebrati e negli ultimi quattro anni hanno scoperto riserve senza fine persino nel canale di Sicilia dove ostriche giganti sono abbarbicate al fondo marino.

Il consumo di materie prime minaccia carestie? L'informazione ottimista di massa corre ai ripari: il consumo insensato esiste, ma si può riparare, per esempio, sostituendo le condutture d'acqua di rame con quelle di plastica.

Le mutazioni climatiche insidiano la vita umana? Niente paura, la scienza sta già passando al contrattacco.

Ogni giorno i media informano che un nuovo aereo a razzo attraverserà l'Atlantico in due ore, che sono già stati venduti centinaia di aerei da 300 passeggeri e che un 358 Airbus a due piani è già disponibile con una sala da pranzo per 20 persone, stanze con letti matrimoniali, bagni con idromassaggio e alloggi per l'equipaggio fra cui fotografo, massaggiatore e piloti di riserva. Un'azienda svedese è pronta anche a fornire una batteria antimissile.

Più il traffico è asfittico, più l'aria è mefitica, più il Vaticano è costretto a mettere fra i peccati più o meno mortali anche i sorpassi e più le vetrine scintillanti della stampa consolatoria e ottimista si riempiono di offerte per i contemporanei purché, s'intende, forniti di un congruo numero di milioni.

da espressonline


Titolo: Giorgio Bocca. A pugni nudi contro i terroristi
Inserito da: Admin - Luglio 15, 2007, 12:39:56 pm
L'ANTITALIANO

A pugni nudi contro i terroristi
di Giorgio Bocca


Andavano all'assalto al grido di Allah e sono stati messi al tappeto dai pugni dei coraggiosi e robusti viaggiatori inglesi.

Mi auguro che noi italiani non dobbiamo affrontare simili prove  Un agente vicino alla macchina sospetta in Forth Street Mosque a Glasgow

Bisognerebbe incominciare a capire che cosa è il terrorismo islamico, il terrorismo che cresce nel mondo musulmano contro l'Occidente. Si direbbe un rifiuto della democrazia da parte della teocrazia, delle società governate dal dio Onnipotente, di quelle rette dalle leggi e dalla ragione umane.

E allora di fronte a manifestazioni di terrorismo quali quelle per fortuna abortite in Inghilterra, l'unica reazione possibile è quella di non capire, di non accettare, di continuare nella vita normale. Come se fosse normale che nelle strade della tua città ci siano persone che progettano di ucciderti, che desiderano ucciderti, che considerano il tuo assassinio come un successo civile e religioso. È una scelta per la fermezza che ha profonde tradizioni civili e patriottiche, che ricorda il modo inglese di sopportare i bombardamenti nazisti di Londra.

Se è difficile capire il terrorismo lo è altrettanto combatterlo. La polizia inglese deve sorvegliare 1.100 individui, liberi di circolare nel Regno Unito che sono possibili terroristi, sia per le loro storie personali sia per gli ambienti che frequentano. E nelle due grandi democrazie occidentali, l'americana e l'inglese, i grandi obbiettivi di possibile terrorismo islamico, grosso modo quello che fa capo ad Al Qaeda, ha già ottenuto un grande risultato strategico, quello di impegnare una gran parte degli apparati di polizia occidentali.

Si è avuta la conferma, nei casi di Scozia e Inghilterra, che il terrorismo che semina morte e distruzione non è un terrorismo importato per una operazione speciale, ma il 'terrorismo della porta accanto' dello studente, dell'impiegato, del nato e cresciuto in Inghilterra che sente l'insopportabile bisogno di rischiare la vita per colpire gli infedeli, i satana. È stato trovato un documento che progettava un attacco a un locale di danze, il Tiger Tiger, il cui obiettivo era di far saltare in aria "tutte quelle peccatrici dalle gambe nude".


Ci sono delle ragioni precise, storiche, attuali che provochino la crescita del terrorismo islamico? Tutti ci proviamo a elencarle: l'occupazione dell'Iraq; la presenza di Israele; la repressione dei talebani in Afghanistan, della rivoluzione islamica in Somalia, dopo quella in Algeria; le repressioni degli islamici in Indonesia; le scuole coraniche del Pakistan; l'imperialismo iraniano e tutto ciò che ci riporta ai tempi in cui i guerrieri dell'Islam "passaro il mar e in Francia nocquer tanto", ai tempi cioè in cui tutte le coste del mare latino erano fortificate contro i feroci saraceni.

Si potrebbe dire che l'unica nota positiva di questo nuovo scontro di civiltà è che stavolta i 'mori', i guerrieri di Allah, spesso e volentieri falliscono i loro attacchi, spesso mancano le miracolose combinazioni che hanno provocato la strage di New York. In Scozia si sono visti questi terroristi andare a cozzare con la loro Jeep contro l'ingresso dell'aeroporto. Erano più esperti quelli dell'Ira che provavano il percorso, e alcuni di questi che andavano all'assalto al grido di Allah venivano messi al tappeto dai pugni dai coraggiosi e robusti viaggiatori.

Mi auguro che noi italiani non dobbiamo affrontare simili prove, direi che sarebbero pochi i viaggiatori coraggiosi pronti ad affrontare terroristi armati di molotov che occupano sale d'aspetto minacciando stragi, a pugni nudi come nella noble art.

(13 luglio 2007)
da espresso.repubblica.it


Titolo: Giorgio Bocca l'AntItaliano
Inserito da: Admin - Luglio 22, 2007, 02:44:45 pm
L'ANTITALIANO

Un'altra estate da cretinismo generale
di Giorgio Bocca


Il cretinismo cialtrone imperversa: su tutti i giornali ci sono fotografie di Lele Mora, un procuratore di divette televisive, e di Fabrizio Corona. Commenta  Fabrizio CoronaIl cretinismo in tutte le sue forme, consumistico, sanitario, sessuale, ha rotto gli argini, domina incontrastato, naviga gli oceani, sulle navi giganti delle super crociere dove i vacanzieri stanno come polli nella stia a ingozzarsi di pappe dolciastre, riempie gli schermi televisivi e i giornali. Senza tregua, senza misura.

È possibile che un uomo di media cultura non sappia cosa è una 500 Fiat? Non sappia che è una delle edizioni delle utilitarie cioè delle scatole di sardina che vanno a velocità pazzesche per tener alta la media delle migliaia di morti su strada che neppure i parenti stretti piangono, di cui la pubblica sanità se ne infischia, che le cronache ignorano per abbondanza? È possibile che giornali di 'opinione', come li chiamiamo, ne parlino come la Madonna pellegrina?

E va bene che 'La Stampa' di Torino è un house organ della Fiat ma è il cretinismo totale che dovrebbe un po' spaventare i contemporanei. Sentite: "Se l'abbiamo aspettata a lungo qualche settimana in più non toglie a nessuno il gusto di guidarla. Ne vale la pena perché se è accattivante a prima vista la nuova bambina su strada si rivela addirittura entusiasmante". E noi che ridevamo degli immigrati meridionali che passavano la domenica a lavare e lucidare la nonna della bambina. "Poi la metti in moto e la passione aumenta. Scopri i vani porta oggetti in ogni angolo, la presa Usb, il meglio dei sistemi di connessione interattiva". La gente si ferma per vederla, per toccarla perché "chi la possiede ne farà soprattutto un modello da esibire. L'auto che ride va vissuta con gioia".

Poi c'è il sadomasochismo super cretino dei vacanzieri da crociera. Salgono su una nave gigante per stare sdraiati sulle poltrone a mangiare in continuazione. Come vitelli all'ingrasso. Si alzano solo per andare alle slot machines. Una fiumana di gente che gioca come bambini scemi senza comunicare. Sulla enorme nave ci sono duemila turisti in vacanza e un migliaio di extracomunitari al loro servizio per rifornirli in continuità di prosciutto al forno caramellato al miele e la mela cotta in salsa di lampone. 
Tutti intruppati a fare le stesse gite, le stesse cene di gala, gli stessi balli brasiliani. E poi, a metà pomeriggio, salsicce e lasagne, teglie di pizza a festoni, macchinette che sputano gelati. Si viaggia di notte, ci si sveglia presto, si passa attraverso il metal detector. C'è tutto nella grande nave, anche la sala operatoria, anche il piccolo obitorio biposto.

Il supercretinismo cialtrone imperversa: su tutti i giornali ci sono fotografie di Lele Mora, un procuratore di divette televisive, e di Fabrizio Corona, uno che ha fatto fortuna fotografando e ricattando. Pare che anche Silvio Berlusconi lo voglia usare per la campagna elettorale come uno dei nuovi eroi del nostro tempo, uno che non sa far niente di onesto ma che passa il tempo fra belle donne e belle ville, non come quei poveretti che si battono per le poche lire di una pensione.

Il cretinismo a guardar bene è la professione più redditizia di questo paese. Silvio Berlusconi che è stato per anni capo del governo non sapeva niente dei furfanti che lo circondavano, delle malefatte che combinavano, niente dei miliardi che Craxi mandava in Tunisia o in Centro America, niente degli avvocati che corrompevano i giudici, niente dei fascisti perenni che faceva salire al governo.

Incomincia un'altra estate da cretinismo generale in cui non ci accorgeremo dei mafiosi che si sono impadroniti di Milano, degli assassini balcanici che trapiantano qui le loro mafie. Tutti felici per aver la Cinquecento con lo spruzzo di profumo a comando.

(20 luglio 2007)
da espresso.repubblica.it


Titolo: GIORGIO BOCCA Civiltà in cenere
Inserito da: Admin - Luglio 25, 2007, 05:56:04 pm
CRONACA

IL COMMENTO

Civiltà in cenere
di GIORGIO BOCCA


Povere case circondate dalle fiamme, nuvole dense di fumo che assediano i centri abitati; il fuoco che lambisce le spiagge spingendo i bagnanti a cercare rifugio in mare, a farsi salvare dalle barche; gente disperata, esasperata, che attende per ore una risposta dei vigili del fuoco con il fazzoletto sulla bocca per riuscire a respirare un'aria piena di ceneri, tossica: qualcuno non ce l'ha fatta, ed è morto asfissiato prigioniero nella sua auto.
È stata una giornata terribile, campale quella di ieri: sugli schermi della tv scorrevano immagini che sembravano riprese a Beirut, ed invece era Peschici, sul Gargano. La protezione civile non ha mai fatto così tanti interventi aerei, oltre cento, sono bruciati migliaia di ettari di bosco , il monte Pollino arde come una immane torcia sulle arsure calabresi, il fuoco spinto dal vento divora il patrimonio di verde nel sud.

Come ogni estate, più di ogni estate. E come ogni estate pubbliche autorità, servitori della Protezione civile, amministratori di comuni e di provincia gridano agli incendiari. Ma questo esercito di piromani, questa nazione di delinquenti pronti a tutto, anche a mandare arrosto donne e bambini alla fine della stagione della paura scompare, non ne resta traccia fra i boschi carbonizzati, il fumo stagnante e le braci ancora ardenti.
Quasi impossibile acciuffarli, se si eccettuano i due misteriosi immigrati che in Sicilia sarebbero stati sorpresi a incendiare dei cespugli rinsecchiti per un dolo che nessuno riesce a immaginare. Nell'ultimo anno, d'altronde, ne sono stati denunciati oltre quattrocento, ne sono stati arrestati appena una decina, ed è probabile che chi è stato preso in fragranza sia già stato liberato.

L'ingegner Bertolaso, capo della Protezione civile, si è scagliato contro l'esercito dei criminali che provocano sciagura e appiccano incendi: "È una guerra criminale, i roghi sono quasi tutti dolosi - ha detto - i piloti dei Canadair mi dicevano che spegnevano un focolaio e ne vedevano accendersi altri quattro altrove". Non è forse vero che i delinquenti riescono a far soldi su tutto, anche sugli alberelli sparsi del Pollino? I piromani possono essere al servizio di grandi o miserabili speculazioni edilizie, possono incendiare un bosco in nome della propria riassunzione come operai dediti alla riforestazione: è accaduto più di una volta. Incendiari si può diventare per sbadataggine, menefreghismo, o perché il caos edilizio in cui la nostra città è cresciuta ci consente di tenere un deposito di bombole di gas tra gli sterpi, dove non dovrebbe essere. E basta una piccola scintilla ad avere un effetto devastante.
Sia dolo o incuria, sempre l'interesse particolare viene posto al di sopra di quello generale.

La svalutazione del bene pubblico è arrivata alla sua massima ignominia, le strade di alcune grandi città coperte dall'immondizia che le autorità municipali non si occupano di trasportare altrove, o non vi riescono. Ma vi è altro e di peggiore dell'incuria ed è il vandalismo di massa. I giovanotti che lanciano sassi sulle automobili e quelli che sforacchiano con pistole e fucili i cartelli delle indicazioni stradali appartengono anche loro all'indomabile razza di bestioni che non sopportano discipline, l'esercito temuto di casseur, di gente che non solo rompe e guasta ma che lo fa con grandissimo gusto per cui non si può prevedere il tempo giusto della ragione e dell'educazione. Il mondo moderno è pieno di casseur di ritorno che arrivati dai deserti aridi e dalle notti buie spaccano le fontane e rompono le lampade. Si vede che il caldo dell'estate scatena tutti i casseur che girano per le nostre strade e sono milioni, molti pronti a uccidere chi li ha sorpassati in auto, o urtati in una folla figuriamoci cosa gli importa se una sigaretta accesa dà fuoco a un bosco e se qualche malcapitato ci brucia vivo.

(25 luglio 2007) 

da repubblica.it


Titolo: Giorgio Bocca soldi facili delle guerre per la pace
Inserito da: Admin - Agosto 04, 2007, 09:25:46 pm
L'ANTITALIANO

I soldi facili delle guerre per la pace
di Giorgio Bocca


Con la riduzione degli eserciti ad agenti di affari colossali, chi potrà opporsi alle loro violenze e ai loro delitti senza fine? 
Quando si tratta di votare le spese militari "per dare le armi ai nostri soldati", scende in Parlamento e nei partiti l'antico unanimismo. Non si è ancora trovato di meglio al mondo per far passare il denaro pubblico dalle casse dello Stato alle tasche dei privati. Così avveniva già ai tempi degli antichi romani secondo una logica ferrea: 'Si vis pacem para bellum'. E con la storia del nemico alle porte tutti erano pronti a pagare.

L'unico che nella sua megalomania romagnola credette di poterne fare a meno fu il duce Benito Mussolini: alla vigilia dell'entrata in guerra i generali gli dissero che erano in pratica privi di artiglieria. Lui rispose che gli sarebbero bastate poche migliaia di morti per sedersi al tavolo della pace. Il capo di Stato maggiore maresciallo Pietro Badoglio capì l'antifona, firmò l'ordine strategico generale "difesa su tutti i fronti". E c'è in Italia della gente che l'impero lo rimpiange: pagava a ufficiali e sottufficiali le indennità di servizio e potevi fumare le Muratti.

Dopo la catastrofica sconfitta il buon affare delle spese militari è stato per anni ridotto al minimo. Ma ora stiamo riprendendoci.

Mi hanno fatto impressione le sedute parlamentari in cui si è discusso il finanziamento delle nostre forze armate e del loro impiego in difesa della pace, come si è soliti dire quando si partecipa in qualche modo a una nuova guerra. Da queste sedute parlamentari viene fuori che tutti i deputati di tutti i partiti hanno un qualche preciso interesse ad approvare queste leggi per cui quelle che ci sono non vengono mai abolite e di nuove ne vengono sempre approvate.

Chi avrebbe mai detto, nel primo dopoguerra, che avremmo dovuto mandare i nostri soldati a difendere la pace nel Kosovo, in Libano, in Angola, a Baghdad, a Kabul? Eppure li abbiamo mandati chiunque fosse il ministro degli Esteri in carica, un democristiano o un comunista, come il D'Alema che se stesse a lui deciderebbe ogni giorno una nuova spedizione.

'Si vis pacem para bellum'. La canzone si ripete in tutte le epoche e non ce ne è un'altra che piaccia di più ai politici che amano la pace. Li avete visti nei telegiornali i deputati della pace appena possono sfilare di fronte a un picchetto militare d'onore? Il ministro della Difesa Parisi che è un passerotto spellacchiato si alza, si impettisce, getta sguardi fieri.

C'è una conoscenza millenaria dei propri vizi in fatto di guerra, delle proprie crudeltà. Il generalissimo Cadorna ha fatto morire migliaia di italiani sul Carso per appoggiare i governi amici che gli assicuravano la carriera.

Che cosa è che l'esercito, tutti gli eserciti di tutte le guerre, possono chiedere ai politici che li mandano, alle politiche estere che se ne servono? La complicità. E con la privatizzazione degli eserciti, con la riduzione degli eserciti ad agenti di affari colossali, chi potrà opporsi alle loro violenze e ai loro delitti senza fine? La Russia di Stalin ha condannato a morte i marinai di Murmansk chiusi nelle loro bare di acciaio, gli americani hanno provato le atomiche sui loro soldati.

L'ultima grande utopia della guerra partigiana e dei suoi condannati a morte fu che valeva la pena di combatterla purché fosse l'ultima. Non lo era come non era l'ultimo buon affare.

La guerra al terrorismo ha riportato di grande attualità, di grande moda la guerra. Bisogna farla per difendersi dalla follia, dal fanatismo, dalla ferocia. Ma bisogna anche farla per fare i soldi facili di tutte le guerre. Per esempio fare le guerre come le grandi aziende logistiche, come la Tav, o come i trasporti aerei supersonici. Farli perché anche gli altri prima o poi li fanno. Che è il modo più sicuro per scomparire tutti dalla faccia della Terra.

da espressonline


Titolo: GIORGIO BOCCA... Dalle valli alpine una lezione di civiltà
Inserito da: Admin - Agosto 24, 2007, 06:40:13 pm
L'ANTITALIANO

Dalle valli alpine una lezione di civiltà
di Giorgio Bocca


Non c'è più povertà nelle campagne che conosco. Sono lontani i tempi in cui i contadini erano costretti a emigrare. Oggi è Francia, è Svizzera anche nelle nostre terre  Uno scorcio della ValtellinaNelle nostre valli alpine sono in corso i grandi riti ancestrali in memoria delle grandi miserie patite, dei pantagruelici banchetti desiderati, dei convivi barbari in cui il rosso del vino si mescolava al rosso del sangue. Ogni sera puntualmente ai telegiornali valligiani appaiono le cronache delle colossali mangiate rievocatrici delle lunghe fami, degli interminabili risparmi, delle leggendarie avarizie.

Dalla Valpelline arrivano le immagini della zuppa valpellinenze gigante, 300 porzioni di zuppa distribuite in piazza ai locali e ai turisti. Le telecamere che passano da una tavolata di valdostani arrivati da Parigi che hanno doppia fame arretrata, quella che i loro avi hanno fatto in valle e quella che i loro nonni o bisnonni hanno fatto in Francia ai tempi delle emigrazioni.

Ogni tanto si alzano dai tavoli per andare nelle cucine a vedere come miracolosamente rinasce in abbondanze mai viste la seuppa, la zuppa di brodo, pane, fontina e cavoli, "moltissimi cavoli" raccomanda il cuoco etologo, e "del nostro buon brodo valdostano", perché nei pranzi delle rimembranze popolari il pane, la fontina, i cavoli hanno la bontà inimitabile dei ricordi familiari e paesani, un brodo così non è fatto solo di carne e di acqua, ma della vita povera che si è fatta, dei dialetti che si sono parlati.

I cuochi affettano porzioni enormi di valpellinenze con la crosta bianca oro della fontina fusa con i cavoli bolliti e intanto sulle strade delle valli alpine, nelle gran ferie di agosto passano gli altri cortei festanti e affamati di memorie verso le feste agostane delle polente taragne, delle salsiccie cotte nel vino, delle torte di verdure al formaggio puzzone. E intorno a queste sagre e feste padronali, e pro loco, c'è tutta una intesa rinascita di civiltà contadina, una civiltà in cui automobili e ortaggi e cibi e fami arretrate e pranzi di nozze senza fine dominano, mescolando i loro millenni passati alla modernità.

Conosco bene il Piemonte alpino e la Valtellina, e la nuova civiltà dei formaggi e delle automobili, dei vini e dei meccanici. L'agricoltura che sembrava morta, i contadini che sembravano scomparsi nelle grandi fabbriche cittadine dopo pochi decenni di sradicamento, di lavori servili, di rassegnata offerta di forza lavoro alla modernità cittadina, hanno rimesso in moto un loro nuovo modo di produrre e di distribuire.

In provincia di Cuneo sono nati i frutteti industriali che producono in serie e i loro coltivatori diretti, le decine di migliaia che coltivano le fragole o i lamponi o i peperoni o fanno i formaggi. E tutti lavorano con i loro automezzi e hanno rifatto la casa e vanno in vacanza a Rimini o a Laigueglia e comunque si sono rilanciati nella vita sociale e se non hanno inventato la felicità, hanno però recuperato moltissimo di antico. Hanno ritrovato le loro radici, sono tornati a essere popolo libero, padrone della sua vita, gente di campagna più civile e libera e autonoma di quella di città.

Non c'è più povertà nelle campagne che conosco, sono lontani i tempi in cui i contadini emigravano per 'terre assai lontane' nelle valli in cui si viveva di polenta e di erbe di campo. Ora la domenica i contadini vanno a pranzo in trattoria. È Francia, è Svizzera anche nelle nostre terre.

C'è il rischio che questa nuova Italia contadina persi i suoi modelli, i suoi bisogni, le sue speranze pauperistiche sia politicamente confusa, scambi il populismo dei nuovi demagoghi per libertà e progresso, voti per la Lega o per Berlusconi. Ma non importa, conta che ha superato gli anni dell'abbandono e della rassegnazione, conta che sia ancora padrona di una terra che la fa vivere.

(23 agosto 2007)

da espresso.repubblica.it


Titolo: GIORGIO BOCCA... Che bel delitto merita un applauso
Inserito da: Admin - Agosto 31, 2007, 11:16:17 pm
L'ANTITALIANO

Che bel delitto merita un applauso
di Giorgio Bocca


È una delle novità assurde di questi tempi fasulli. In cui bisogna far spettacolo e mostrare allegria anche quando si è in lutto e al fondo della tristezza. Commenta  Chiara Poggi nel fotomontaggio con le cugineOgni giorno, al vespro, l'informazione televisiva compie il suo rito funebre. Racconta i morti da automobili sulle strade e i delitti. Non si sa di preciso a chi interessi questo lugubre e orrido notiziario. Per milioni di ascoltatori il fatto che una famiglia sia morta in un incidente stradale a Canicattì o che una giovane donna sia stata pugnalata in casa sua a Casalpusterlengo, sono del tutto indifferenti, ma ci si è fatta l'abitudine e ormai si andrebbe a cena o a dormire meno soddisfatti della giornata se non ci avessero raccontato questa storia di fondo della nostra vita italiana.

Un memento tutto sommato indolore e quasi consolatorio: beh, anche stavolta è toccato ad altri! La televisione riferisce le testimonianze dei passanti o dei vicini di casa, tutte sui delitti: assurde, inventate, di comodo. Sembravano normalissimi, buongiorno e buonasera, brave persone, non ci siamo mai accorti di niente.

E di che cosa avrebbero dovuto accorgersi? Che in quella giornata apparentemente normale a lui o a lei era girata la testa, aveva buttato il bambino dalla finestra e ammazzato lui o lei a coltellate? I testimoni non sapevano niente e non hanno capito niente di quello che è accaduto. Le televisioni lo sanno. E allora, perché non dicono che in questo mondo accadono cose incomprensibili di cui agli altri non importa veramente niente, ma bisogna parlarne? Non consiste in questo la solidarietà umana, la fratellanza?

Nelle sere seguenti il rito informativo funebre viene perfezionato: appaiono mazzi di fiori di fronte alla casa dei morti assassinati, si fanno i funerali, i superstiti quando appare il feretro si uniscono in uno scrosciante applauso. Che cosa significa? È il sollievo per lo scampato pericolo? È un commiato corale? È la prova che anche noi comunità il nostro dovere lo facciamo sempre, adesso anche con fiori e applausi. È una delle novità assurde di questi tempi fasulli in cui bisogna far spettacolo e mostrare allegria anche quando si è in lutto e al fondo della tristezza.
L'applauso per gli assassinati e i suicidi equivale alla musica per tutti e a ogni ora che è diventata una regola nazionale.

I clienti di un bar appena possono mettono assieme una orchestrina, ogni attività umana anche caritatevole anche scientifica tende a manifestarsi con musica sguaiata e dilettantesca, la cultura nazionale consiste principalmente in cori e canzonette, ci sono intellettuali, noti politologi, che esistono perché da giovani hanno fatto parte di una voga canterina.

Presto tornerà di moda anche l'arte naturale del fischio, dello strumento gratuito che tutti possiedono per far musica con il fiato. Ci siamo abituati a vivere per l'assurdo e nell'assurdo. Viviamo al centro di un enorme universo informativo che è riuscito nel nome dell'informazione ad annullarla: volente o nolente anche uno come me che ha passato la vita a informare e a cercare di essere informato si accorge di vivere in un assordante incomprensibile frastuono.

Che cosa è accaduto, per esempio, a metà agosto con lo scoppio di una crisi finanziaria che ha divorato migliaia di miliardi? È accaduto che la pubblica opinione, diciamo i lettori dei giornali e i clienti delle televisioni, hanno saputo di aver perso parte dei loro risparmi senza sapere bene il perché, essendo al di fuori della loro comprensione le spiegazioni forrine dei cosiddetti media.

Miliardi di persone abituate a discutere sul soldo, a risparmiare il soldo, hanno mandato giù senza protesta fiumi di notizie incomprensibili non solo dalla gente comune, ma anche dagli esperti finanziari che in settimane non sono riusciti a spiegarsi e spiegarci che cosa era accaduto. Forse una cosa sola, non pubblicamente ammessa: che il mercato, questa famosa guida superiore della umana economia, in realtà privo di ragione e di controlli, è un uragano che viene per il mondo.
(31 agosto 2007)

da espresso.repubblica.it


Titolo: GIORGIO BOCCA - Noi attratti dalla insensatezza della vita
Inserito da: Admin - Settembre 08, 2007, 09:20:15 pm
L'ANTITALIANO

Noi attratti dalla insensatezza della vita
di Giorgio Bocca


I delitti senza alcuna ragione. Gli incendi dei boschi. Le contraddizioni della scienza. Ci sembra di vivere un'epoca in cui il casuale e il privo di senso dominano incontrastati  Il giornale di oggi eguale a quello di ieri e dell'altro ieri, come se la vita degli uomini si fosse appiattita in un sempre identico: il tempo che fa, di cui parliamo in continuazione senza saperne niente; gli incendi di boschi e altri inspiegabili oltraggi alla natura opera di delinquenti immaginari perché incomprensibili; i delitti senza ragione; le contraddizioni della scienza; le parole a vuoto della politica e la solita alluvione di culi e di tette giovanili.

Da più di un mese i giornali sono pieni del delitto di Garlasco, cioè del nulla che si fa crimine: un amico o parente della vittima che passa un mattino, suona alla porta di una studentessa, viene fatto entrare e la massacra.

La differenza fra l'oggi e il passato è di quantità. È che gli eventi assurdi, incomprensibili, gratuiti, che in passato venivano collocati nella sfera ignota della vita, ci sembrano oggi la totalità, ci sembra cioè di vivere in un'epoca in cui il casuale, il privo di senso dominano incontrastati. L'informazione ha dedicato milioni di pagine al delitto di Cogne e ne dedicherà altrettante al delitto egualmente assurdo di Garlasco e a tutti gli eccidi e torture e sevizie che avvengono senza ragione nelle villette inutilmente blindate dell'Italia.

Perché questa attenzione al delitto senza senso, al sangue versato senza ragione? Questa attenzione almeno è un segno comprensibile del nostro tempo: siamo morbosamente attratti dalla insensatezza della vita, siamo avvinti da questo agguato che ci sovrasta, da questo male che ci circonda e per cui non c'è rimedio, siamo atterriti, ma anche in parte restituiti alla certezza di vivere in un mondo in cui resta l'homo homini lupus, la certezza di vivere in una valle di delitti e di lacrime.

Bisogna essere avanti negli anni e fragili per sentire il peso, il buio di questa esistenza casuale e incerta. Solo la giovinezza e le sue irragionevoli fiducie possono vincere queste paure, ma per quasi tutti, quando il mondo esce dai suoi sogni di potenza e di ferocia e cade in depressione, si torna a vivere di dubbi e di ansie. Da più di un mese
i giornali padani sono pieni della cronaca senza fatti del delitto di Garlasco. Il quotidiano di Pavia ha aumentato le vendite quotidiane di 3 mila copie. In luoghi che per me hanno ricordi profondi.

In una delle rogge dove sono stati trovati abiti insanguinati, abbandonati dall'assassino o da ignoti, si è ucciso, si è annegato sotto i rami di un gelso, lo scrittore Lucio Mastronardi, l'autore de 'Il calzolaio di Vigevano'.

Ci incontravamo qualche sera alle Rotonde di Garlasco, cinque silos di riso alti come un palazzo e collegati da un edificio che avevano trasformato in balera. Il direttore didattico di Vigevano lo aveva cacciato dalla scuola e lui di notte telefonava a sua moglie, la maestra Ficarotta, e le gridava allungando quel nome: "Ficarottaaa". Lei che lo riconosceva gli gridava: "Lucio va a piantè el ris".

E fu a Vigevano che volevano processarmi perché avevo scritto un articolo che cominciava così: "Mille fabbriche una libreria". Di quella Vigevano Mastronardi era l'io parlante. La Vigevano operosa, rozza, impietosa lo avrebbe fatto a pezzi, ma senza di lei, lui non avrebbe mai trovato la rabbia per scrivere. Quando il manoscritto del 'Maestro di Vigevano' arrivò alla Mondadori non gli risposero neppure per dirgli che non interessava.

Ma è cambiato qualcosa in meglio in questi anni? Le grandi case editrici pubblicano in continuazione libri non libri, dell'orrore, della fantascienza, delle perversioni sessuali, e raccolte di delitti senza senso in una vita senza senso per cui bisogna pure sfangarsela.

(06 settembre 2007)
da espresso.repubblica.it


Titolo: GIORGIO BOCCA... - I nuovi ricchi fanno massa
Inserito da: Admin - Settembre 28, 2007, 10:53:17 pm
L'ANTITALIANO

I nuovi ricchi fanno massa
di Giorgio Bocca


Previsioni catastrofiche sui cambiamenti climatici ma nessun accordo tra le potenze per porvi rimedio. Globalizzazione che non è universalità ma il nuovo sfruttamento dei ricchi sui poveri  Un ghiacciaio nell'Oceano ArticoPrimo: il grandissimo parlare che si fa delle mutazioni climatiche è in gran parte falso, contraddittorio, condizionato da interessi economici o di potere. Si era appena chiuso il congresso sulle mutazioni climatiche di Roma, ampiamente ripreso dall'informazione come fonte di indiscutibili verità, che il professor Prodi illustre scienziato del clima lo ha definito privo di ogni valore scientifico.

Vale a dire che in fatto di mutazioni climatiche non abbiamo certezze: se dipendano dagli interventi dell'uomo sull'ambiente, dagli spostamenti dell'asse terrestre, dalle tempeste solari, da misteriosi cicli dei massimi sistemi, dalla esistenza o meno di un Dio creatore. Sappiamo che ci fu un tempo in cui la terra era in gran parte ricoperta di ghiacci o frequentata da dinosauri, poi misteriosamente scomparsi, più calda o più fredda di oggi ma non sappiamo il perché.

E ci sembra di aver capito che questa scienza non solo è impotente a spiegarci chi siamo e cosa ci facciamo in questo mondo, ma è anche facilmente corruttibile e usata per ragioni di lucro, per dire che l'attuale dilagante catastrofismo può avere un effetto propulsivo su alcune industrie della sopravvivenza energetica, le più appetibili dal mercato di massa anche se non le più necessarie. La voglia di guadagno prevale e non c'è nemico peggiore per la salvezza dell'umanità.

Quale è stata la risposta dei grandi Stati, delle grandi economie, alla notizia che i ghiacci dell'artico si stanno sciogliendo e che zone enormi di mari e di terre saranno percorribili, coltivabili, usabili? Un accordo per il miglior uso di queste nuove risorse che si offrono alla umanità? La formazione di una autorità mondiale che pianifichi l'uso di quelle terre e di quei mari senza ricadere negli errori del passato? No la risposta di tutti i paesi confinanti con i mari e le terre artiche è stata la rivendicazione del loro possesso e del loro uso esattamente come al tempo del colonialismo. Perché questa è la tendenza assurda della specie e dei suoi dirigenti da sempre: che tutti fanno a gara per rivendicare i vantaggi del libero mercato fingendo di non sapere, di non vedere, che è proprio esso ad affrettare la fine dell'umanità. Non c'è economista, non c'è politico che non faccia pubblico elogio del mercato, dell'iniziativa privata e che non denunci gli errori e i delitti delle gestioni pubbliche.


La condanna del comunismo pianificatore e pubblico è un assioma, una verità indiscutibile, proprio ora che la necessità di un ordine mondiale, di una preveggenza mondiale sono evidenti. Tutti parlano di globalità facendo finta che si tratti di universalità, di una soluzione buona per tutti mentre in pratica si tratta di un nuovo pesantissimo sfruttamento dei ricchi sui poveri. Certo la vita da ricchi nella libera economia è piacevole come non lo è mai stata nei millenni precedenti: i ricchi possono fare tutto, la loro maggioranza relativa li mette al riparo da ogni rivoluzione, le masse dei nuovi ricchi fanno quadrato per evitare ogni sacrificio e per continuare negli sprechi.

E non c'è governo che non accetti le sue condizioni: tutti devono poter rubare impunemente il bene pubblico, tutti devono poter violare le leggi, tutti devono poter invocare e praticare l'abolizione delle tasse. Nuovi demagoghi arringano il popolo promettendo felici anarchie. Ma questo mondo di Bengodi senza voglia di giustizia e senza preveggenza non può durare.

(28 settembre 2007)
da espresso.repubblica.it


Titolo: GIORGIO BOCCA... La guerra infinita
Inserito da: Admin - Ottobre 20, 2007, 04:38:43 pm
L'ANTITALIANO

La guerra infinita
di Giorgio Bocca


L'impero ne ha fatto una parte integrante della sua economia. E a combattere vanno i poveri che per campare devono arruolarsi  Perpetual war for perpetual peace. Ossia, la guerra infinita, come quella in corso nel Medio Oriente. Nella guerra infinita nessuna sconfitta appare definitiva: il Bush sconfitto in Iraq può essere vincitore in Afghanistan dove la partita è aperta o in Iran dove la guerra è già cominciata senza dichiarazioni ufficiali.
Che cos' è la guerra infinita che riempie le nostre televisioni, i nostri giornali, le nostre perpetue angosce? Come può durare senza soste? Come è possibile che i potenti la alimentino di continuo?

Una delle ragioni per cui esistono queste guerre infinite è la scomparsa in molti paesi, negli Stati Uniti in particolare, della leva militare obbligatoria. Nella Seconda guerra mondiale, quando c'era la leva obbligatoria, il soldato lo facevano tutti e proprio per questo si arrivò a una pace che durò più di mezzo secolo. Furono gli Stati Uniti d'America a capire per primi che la guerra di tutti non era più possibile, che i giovani ricchi piuttosto di fare la guerra del Vietnam preferivano disertare in Canada o in Sudamerica. Allora finì l'esercito di leva e si arrivò all'esercito di mestiere: ufficiali istruiti e bianchi, truppa ignorante e di colore, cioè i poveracci in gran parte neri che per campare dovevano arruolarsi. Di costoro vivi o morti che siano ci si può occupare come carne da cannone. Se uno dei poveracci muore al Pentagono non si disturbano, mandano un telegramma alla famiglia e consegnano il cadavere a domicilio.

La guerra infinita può continuare anche nella ricca America: la riserva di poveri che devono in qualche modo campare è senza fine. La guerra senza fine è possibile, anzi necessaria, perché l'impero ne ha fatto una parte integrante della sua economia: i 150 mila soldati mandati in Iraq, a cui aggiungere i 70 mila contractors, i mercenari che sostituiscono i soldati a stipendio di compagnie private come la gigantesca Halliburton del vicepresidente Dick Cheney, sono costati alla nazione americana una montagna di miliardi finiti per la maggior parte nelle tasche dei ricchi che giustamente considerano la guerra infinita il migliore e più sicuro degli investimenti.


La guerra infinita è possibile perché infinita è la lotta per la sopravvivenza economica. Il presidente americano George Bush ha fatto guerra all'Iraq non perché Saddam Hussein era un dittatore feroce, non per esportare la democrazia, ma perché era in gioco il fondamento dell'impero, cioè l'indissolubile binomio del controllo del petrolio e della supremazia del dollaro. La guerra infinita è possibile perché i suoi artefici ne hanno fatto una guerra globale che si sposta come vuole in tutti i continenti. Le guerre di un tempo si ripetevano nei luoghi cruciali dei confini, montagne o fiumi deputati a ospitare le grandi stragi. Adesso la rocca di Gibilterra è praticamente abbandonata e gli americani sono partiti armi e bagagli dalla Maddalena per le nuove basi in Turchia più vicine all'epicentro bellico.

E le bandiere? Le patrie? Le fanfare? I nastrini delle medaglie e delle guerre? Resistono come i colbacchi e le penne e i picchetti d'onore, perché quanto più la guerra è impossibile tanto più tutti si preparano a farla. L'Inghilterra ha appena costruito una nuova potentissima flotta, la Russia vuol tornare minacciosa come ai tempi di Stalin. Persino i tedeschi hanno rimandato nel mar del Libano le loro navi da guerra e i cinesi tengono pronto un esercito di un milione e mezzo di uomini. La guerra infinita piace a tutti, non c'è piccolo paese che non spenda buona parte delle sue risorse nel commercio delle armi. Prosit.
(19 ottobre 2007)

da espresso.repubblica.it


Titolo: GIORGIO BOCCA... Il ritorno degli antifascisti
Inserito da: Admin - Ottobre 29, 2007, 06:45:23 pm
L'ANTITALIANO

Il ritorno degli antifascisti
di Giorgio Bocca


I tre milioni e mezzo che hanno votato alle primarie del Pd sono la nostra assicurazione sulla vita e sulla libertà  I tre milioni e mezzo di voti per la nascita del partito democratico sono, sostanzialmente, l'antifascismo che gli italiani, almeno la metà degli italiani, hanno conosciuto negli anni della sconfitta e della vergogna e poi della reazione partigiana. Un antifascismo che esce fisicamente integro dagli anni della mediocrità civile, dell'edonismo grossolano, dell'affarismo senza principi.

Voglio dire che negli italiani che abbiamo visto fare la coda davanti ai seggi elettorali abbiamo visto ritornare l'Italia delle persone oneste, per bene, che sanno leggere e scrivere, che conoscono la buona educazione che vogliono vivere in un paese civile.

Questa Italia antifascista è tornata con i suoi tre milioni e mezzo di voti per una ragione semplice: perché il ritorno del fascismo è un pericolo reale, perché appena gratti il perbenismo borghese di Alleanza nazionale ritrovi i labari della X Mas, i ceffi delle brigate nere, le bandiere con le croci celtiche, i picchiatori di borgata, le signore della fiamma tricolore che vanno in giro con la rivoltella nella borsetta.

I tre milioni e mezzo di voti per il Partito democratico sono l'Italia che ha detto no alla prepotenza di una destra sovversiva che appena perse le elezioni ha ricominciato a chiedere ossessivamente di tornare al governo. Ogni santo giorno tutti i fogli di questa destra, la maggior parte della stampa nazionale compresa quella confindustriale, a dire: Prodi vattene, sinistra radicale scompari, Visco in galera, Tremonti alle finanze, torniamo subito, per cominciare, a un bel governo di coalizione. Con distribuzione di privilegi e di indulgenze alla razza padrona di cui si parla in 'Capitalismo di rapina', l'inchiesta di Biondani, Gerevini e Malagutti che racconta come un gruppo di avventurieri dell'economia abbia saccheggiato il Paese, violato tutte le leggi, derubato i risparmiatori, guadagnato cifre stratosferiche senza che nessuno abbia voluto vedere, capire ciò che stava accadendo.

Dieci anni di affari favolosi per l'Italia peggiore, furba e ladrona: l'Italia dei conti truccati, dei politici corrotti, dei buchi nei bilanci aziendali, delle ruberie personali. Bastava guardare i conti, ma nessuno lo ha fatto.

È questa Italia del privilegio e del malaffare che nei mesi scorsi ha chiesto con arroganza, con prepotenza, di tornare nei palazzi del potere a cui i tre milioni e mezzo di antifascisti si sono opposti. L'offensiva di questa destra alla quale hanno partecipato anche i liberal più altezzosi e supponenti non ha dato tregua.

Usciva un libro in cui si diffamava la Resistenza? Pagine intere di presentazioni di lodi, di recensioni, di giudizi favorevoli da parte di storici e di sociologi. Con la solita giustificazione: è una revisione storica, un fatto di cultura, bisogna parlarne. E poi le televisioni, anche quelle di Stato, presidiate da avanzi di fascismo, grandi giornali affidati a direttori di sicura simpatia nera.

Ma non se ne accorgevano i padroni dell'informazione? Ma sì che se ne accorgevano, ma l'ordine era quello di portar acqua al mulino della destra. E chi lo ha dato quell'ordine? Lo ha dato un affarismo che apprezza il caos, che monetizza la corruzione.

I tre milioni e mezzo che hanno votato per il Partito democratico sono la nostra assicurazione sulla vita e sulla libertà. Ci difendono dalla pigrizia e dalla rassegnazione, dalla cattiva tentazione dell'antipolitica. Ma sì, lasciamoli fare, lasciamoli dire che intanto noi e i nostri figli resteremo onesti e virtuosi. No, nel marcio finiamo di essere tutti eguali, tutti sporchi, tutti disposti a cedere, a lasciar fare.

(29 ottobre 2007)
da espresso.repubblica.it


Titolo: GIORGIO BOCCA... Quelle parole oscure
Inserito da: Admin - Novembre 03, 2007, 08:07:45 am
L'ANTITALIANO

Quelle parole oscure

di Giorgio Bocca


C'è un ermetismo di ritorno che riguarda la politica, l'economia, la sanità, il giornalismo. Per esempio Giuliano Ferrara e il suo 'Foglio' o anche il documento del Partito democratico  Giuliano FerraraL'emergere di un linguaggio oscuro è uno dei sintomi di una società ammalata. Parole di Flaubert. E la saggezza popolare ci esorta invano: "Parla come mangi". L'oscurità nel modo di parlare e di scrivere non è casuale, i sudditi vi ricorrono per difendersi dal potere politico, per ingannarlo.

Durante il fascismo il linguaggio ermetico serviva sia a distinguersi dal regime che a servirlo. Erano ermetici i cultori della fantomatica mistica fascista che nessuno sapeva bene cosa fosse, ma per cui si tenevano convegni e si stampavano riviste. Si capiva vagamente che era il contrario del comune sentire, del comune pensare, che erano velleità confuse, aspirazioni informi, ma poiché darne una spiegazione chiara era impossibile, ci si accontentava del loro suono come dell'appartenenza a una arcana scienza.

L'ermetismo autoritario creava nuove forme di linguaggio, di comunicazione, si imparava a leggere fra le righe in modo criptico la trama cangiante del potere, gli economisti vi ricorrevano, come oggi del resto, per fare i conti in tasca alle finanze dei regimi.

Ci fu un recupero della chiarezza nei primi anni della Repubblica, quando la ricostruzione del paese imponeva il linguaggio della verità, ma ben presto le tentazioni ermetiche ripresero il sopravvento: si arrivò ai capolavori delle 'convergenze parallele' e dei partiti 'di lotta e di governo'.

Oggi, nell'era della comunicazione disinformatrice e del dominio pubblicitario, l'ermetismo è sorto a un dominio incontrastato cui la magia della scatola televisiva dona un'indiscutibile sacralità. Il nulla e l'oscuro detti in televisione sono i nuovi dogmi.

C'è un lettore normale che sia riuscito a capire che cosa sono, da chi vengono manovrate, a chi giovino le privatizzazioni e le fusioni? Certo, quando la sinistra assume posizioni della destra il ricorso all'ermetismo diventa, per la sinistra, indispensabile.

Un ermetismo di ritorno è anche quello dei grandi professionisti, che dovendo badare ai loro interessi sono tornati al 'greco' baronale. Le televisioni sono piene di trasmissioni sulla salute in cui i nuovi baroni si presentano in camice bianco e invece di spiegare la malasanità si mettono a parlare nel gergo: 'greco' incomprensibile alla platea.

C'è anche un giornalismo ermetico, il quale dovendo spiegare personaggi come Cossiga o Mastella o Berlusconi preferisce le penombre delle allusioni o gli enigmi. Il massimo dell'ermetismo colto è raggiunto dal 'Foglio' in cui l'ex comunista Giuliano Ferrara deve spiegare che lui è sempre di sinistra anche se è passato alla destra. Si va costituendo attorno al 'Foglio' una setta ermetica, che quanto più è dotta e intelligente, tanto più è oscura. Convinta però di formare un'élite, di cui il paese non è degno.

Il trionfo dell'ermetismo in questo periodo storico è confermato ogni giorno dalle dichiarazioni dei leader politici che dicono una cosa da nessuno comprensibile, ma perché, chi vuole, intenda. Un discorso ermetico e farraginoso che riempie le pagine dei giornali senza che nessuno lo capisca.

Il maggiore esempio di documento ermetico è quello del Partito democratico: un partito che nasce senza un programma, senza una direzione, senza una organizzazione stabile, e che pure rappresenta la speranza della democrazia italiana. Più che un partito, un'aspirazione, un desiderio di salvezza.

(02 novembre 2007)
da espresso.repubblica.it


Titolo: GIORGIO BOCCA - La politica che vive di paure
Inserito da: Admin - Novembre 09, 2007, 05:48:49 pm
L'ANTITALIANO

La politica che vive di paure

di Giorgio Bocca


Quella del comunismo che non c'è più è una paura retrospettiva e attuale. Poi c'è quella di don Baget Bozzo che sta resuscitando un comunismo genetico  La base americana a La Maddalena, in Sardegna,
ora in smantellamentoAgli italiani piace avere paura, la paura ha sostituito le ideologie e le utopie, aver paura di qualcosa, reale o meno, è come una conferma esistenziale: qualcuno sa che ci siamo, qualcuno ci vuol male.

Ci sono stati periodi in cui alcune paure erano dominanti, la paura della guerra, per esempio, la terribile guerra antica delle baionette e dei feriti abbandonati sui campi di battaglia. La paura delle guerre di religione e delle persecuzioni razziali.

Ora invece, a parte la paura della morte, non ci sono più grandi paure, ma una insalata di varie paure che spaziano dal geologico al meteorologico, dall'ecologico all'alimentare. È come se stessimo dissotterrando tutte le paure ipotetiche e discutibili del nostro passato o trasformando in paura anche ciò che ci lasciava del tutto tranquilli.

L'amianto, per esempio. Nel regime fascista l'amianto era considerato come il più sicuro e duttile degli isolanti, lo usavamo sui treni, negli uffici, dovunque. Nella mia città per una visita del Duce servì per erigere finte facciate di palazzi inesistenti sul percorso che avrebbe seguito e anche finti tripodi. Ora la paura dell'amianto cancerogeno dilaga, interi treni avvelenati dall'amianto sono stati parcheggiati su binari morti.

Non molti anni fa le condotte elettriche erano qualcosa di rassicurante: tracciavano nelle campagne, nelle montagne, la rete dell'energia, ci piaceva che sopra le nostre teste passasse quella forza amica. Adesso quartieri e villaggi formano comitati in lotta contro la paura dei campi magnetici che provocano le peggiori malattie: cancri, leucemie e simili anche se non se ne ha la prova certa.

Ma la paura non ha bisogno di prove, si nutre di se stessa, inventa pregiudizi e superstizioni, si esalta della sua demenza. Prendiamo la paura del comunismo che non c'è più, che è retrospettiva e attuale. La paura retrospettiva è quella fornita dal revisionismo storico di un comunismo sempre sul punto di scatenare la sovversione. Non importa che l'Italia dopo la Seconda guerra mondiale fosse una provincia dell'impero americano, presidiata da basi militari americane, riconosciuta dall'Urss come parte integrante dell'impero occidentale. Non passa giorno senza che la stampa moderata non ricordi con brividi di paura la quinta colonna comunista.


Morto un Edgardo Sogno viene alla ribalta un prete genovese, don Gianni Baget Bozzo, che sta resuscitando un comunismo genetico, patologico da semel abbas semper abbas, fatto di geni autoritari, violenti, che si trasmettono di generazione in generazione, un comunismo lombrosiano riconoscibile dagli zigomi e dalle labbra, un comunismo dell'anima che non si accontenta di combattere i suoi avversari di classe, ma li odia, li vorrebbe distruggere.

La politica vive di paure: la destra della sempiterna paura del comunismo, la sinistra della incombente paura berlusconiana. Paure che si sarebbero accentuate proprio perché per la prima volta c'è stata un'alternativa di governo, per la prima volta c'è uno scontro aperto e sincero fra sinistra e destra.

Difficile dire se sia più numeroso in Italia il popolo della paura o quello del coraggio. Anche perché tra l'uno e l'altro c'è trasfusione continua di coraggiosi che diventano paurosi e viceversa. Certo il popolo della paura non ha mai avuto simpatia per quello del coraggio, ha sempre preferito la pace dei vescovi.

(08 novembre 2007)

da espresso.repubblica.it


Titolo: Colloquio con Giorgio Bocca
Inserito da: Admin - Novembre 14, 2007, 09:10:21 am
La cronaca per passione

di Antonio Carlucci

La voglia di raccontare. L'esperienza partigiana. La capacità di spaziare tra giornali e tv.

Sempre con lo stesso senso di responsabilità civile. Il ricordo di Biagi nelle parole del grande giornalista suo amico.

Colloquio con Giorgio Bocca

Guardiano del faro
 
Anche questa volta si mostrava certo di farcela.


Sabato pomeriggio, superata una crisi per la quale era stato ricoverato, Enzo Biagi aveva scherzato con chi era andato a trovarlo: "Fatevi ridare i soldi del vestito nuovo, il mio funerale è rinviato".

Come aveva sempre scherzato, ogni volta che la vita lo aveva messo davanti all'esperienza della malattia. Quando molti anni fa i medici decisero che il suo cuore aveva bisogno di una serie di bypass, Biagi si avviò verso la sala operatoria canticchiando "Dove vanno a finire i palloncini", una filastrocca di Renato Rascel.

Questa volta, tra speranze e delusioni, è andata avanti fino alle 8 di martedì 6 novembre. A 87 anni, Enzo Biagi se ne è andato in punta di piedi, accanto le figlie Carla e Bice. Di Biagi, del suo modo di fare giornalismo, della generazione di cronisti venuti alla ribalta dopo la fine della Seconda guerra mondiale e la sconfitta del nazifascismo, 'L'espresso' ha parlato con Giorgio Bocca, coetaneo di Biagi (anche lui è nato nell'agosto del 1920), editorialista del settimanale e come Biagi da oltre sessant'anni testimone dei fatti d'Italia e del mondo.

Che giornalista era Enzo Biagi?
"Era un giornalista globale. Mentre io e tanti altri della stessa generazione concepivamo il giornalismo come rapporto esclusivo ed unico con la scrittura, Enzo pensava che fosse giusto usare tutti i mezzi esistenti per comunicare. Fu tra i primi a utilizzare lo strumento televisivo, e sempre tra i primi a comunicare attraverso le pubbliche relazioni industriali".

Qual è il tratto comune che distingue la generazione di giornalisti come te ed Enzo Biagi?
"Eravamo dei giornalisti innamorati totalmente della nostra professione. Per questo gruppo di giornalisti, quasi tutti piemontesi ed emiliani, fare il giornalista, scrivere, raccontare la realtà nella quale eravamo calati era il massimo che potessimo avere. È stata sempre la nostra vera ricchezza e il patrimonio che abbiamo gelosamente conservato".

Che cosa vi aspettavate quando avete cominciato l'esperienza del giornalismo, quasi tutti occupandovi di cronaca italiana?
"La fortuna della nostra generazione di giornalisti è stata la guerra partigiana. Noi non siamo venuti fuori dal nulla, eravamo tutti in qualche modo persone conosciute e importanti della società che aveva deciso di far la guerra ai nazifascisti. Abbiamo capito che eravamo partiti bene con il piede giusto".

Che cosa avete portato nel modo di essere giornalisti di quella esperienza in montagna?
"Molte cose. Innanzitutto il senso di responsabilità di tutto quello che c'era da fare ogni giorno. Poi, un senso di sicurezza in noi stessi, il credere a quello che sceglievamo di fare e di scrivere. Infine, pur essendo tutti giovanissimi giornalisti, abbiamo capito di essere attori e protagonisti da subito del mondo che andavamo raccontando".

Quando siete entrati nei giornali grandi e piccoli che vi hanno accolto, che tipo di rapporto avete instaurato con la generazione di giornalisti precedente alla vostra che era cresciuta e aveva lavorato con il fascismo al potere?
"Un rapporto ambiguo. Come quello che ha contrassegnato la generazione precedente alla mia. Per esemplificare, il giornalismo fascista-antifascista di Bottai che aveva messo radici soprattutto nei giornali di Bologna".

Qual è stato il rapporto che voi giovani giornalisti avete avuto con il potere, sia quello politico che quello economico?
"Con il potere politico di distacco da subito, perché eravamo stati vaccinati dalla nostra esperienza di lotta al fascismo. Era lì davanti a noi l'ossequio devoto di molti giornalisti verso il regime. In ogni caso, quasi tutti eravamo attenti alla politica, ma senza entrare nel gioco della politica".

E con il potere economico?
"Per alcuni di noi era completamente estraneo alla vita professionale. Personaggi della Torino post guerra e della ricostruzione come Giovanni Agnelli senior e Vittorio Valletta li vedevamo come appartenenti ad un altro mondo".

Non fu così per tutti però...

"Enzo Biagi fu uno dei primi a capire che i giornalisti potevano avere un ruolo importante nella comunicazione aziendale e nelle pubbliche relazioni, tanto che stabilì un rapporto con la Edison".

Quale tipo di insegnamento pensate di avere trasmesso alle generazioni di giornalisti successive alla vostra?
"Che esiste sempre la possibilità di fare un giornalismo libero e indipendente".

C'è qualcosa che accomuna il modo con cui facevate giornalismo agli inizi della carriera e il modo in cui lavorano i giovani cronisti di oggi?
"Mi sembra che ci siano fortissime differenze. Per noi fare il giornalismo era una vocazione, una attività totale. Oggi non mi sembra che ci sia la stessa passione o lo stesso approccio. Diciamo la verità, oggi il giornalismo spesso è di bassa qualità, se non pessimo".

Addirittura pessimo?
"Sì, proprio così. Troppo spesso si vede un modo di fare giornalismo che non racconta più i fatti che accadono. Noi avevamo davanti un'Italia tutta da raccontare e lo abbiamo fatto, ciascuno a suo modo. Ricordo ancora quando andai a Vigevano a raccontare un cittadina dove c'erano duecento fabbriche. O quando Enzo fu mandato nel Polesine alluvionato".

Non sarà che la vostra generazione non è riuscita nel trasmettere ai giovani il vostro modo di fare questo mestiere?
"La nostra capacità di esplorare l'Italia e di raccontarla era il modo di tracciare una strada e un esempio. Noi l'abbiamo fatto, altri hanno deciso di seguire una strada diversa".

Chi è l'erede di Enzo Biagi, un giovane che sia sulle sue orme?
"Io non lo vedo. Ma può darsi che ci sia".

(09 novembre 2007)

da espresso.repubblica.it


Titolo: GIORGIO BOCCA... I baci di Cherasco
Inserito da: Admin - Novembre 17, 2007, 12:53:01 am
I baci di Cherasco

E la macellaia di Verduno, rotonda di magliette, pullover e tuniche imbottite, al riparo dal freddo, sorride ai cotechini e gorgheggia 

DI GIORGIO BOCCA


Oggi niente politica.

Ci attende una giornata di sole e di vento nelle Langhe lungo la valle del Tanaro. L'aspetto sconvolgente del paesaggio è che, a differenza degli altri che sono a quinte, segnate dalle valli, è di essere circolare, per cui a ogni spostamento cambiano tutte le prospettive: la piramide del Viso o il massiccio del Rosa passano dalla tua destra alla tua sinistra, si sposta la barriera delle Alpi, le centinaia di castelli, di torri, di borghi, e nella pianura i viadotti sullo Stura, bianchi ricami, e i declivi color verde tenero-marrone dei prati, i vigneti, i noccioleti e i campanili in un paesaggio fatto dall'uomo, consolidato, ma ancora a suo modo primigenio, perché in quella calma, in quella sicurezza potrebbe improvvisamente esplodere l'antica Natura.

Senti che il tempo, le case, gli alberi, le nevi, i fiumi appartengono a una natura certa e incerta. Questo è uno dei luoghi in cui non c'è riparo, devi misurarti a viso aperto con la grandezza del Piemonte, dentro le sue erosioni e mutazioni, passate e future, delle montagne che riempiranno di terra il golfo del grano e del latte, del mare che tornerà a coprire queste colline.

Questo golfo del grano e del latte è terra di valichi, di scambi, di transumanze, di fughe verso l'altro mondo, di eserciti in marcia. Per cui proprio in novembre i paesi del lungo Tanaro, Cervere e Narzole, celebrano la colazione di Napoleone durante la battaglia di Marengo, che secondo loro fu a base di porri, che oggi cuociono in tutte le salse, frittate, minestre, nelle osterie-trattorie che stanno lungo i rettilinei per i viandanti che passano e tu li senti passare stando al caldo, protetto dalle tendine bianche che nascondono la strada, mentre discuti coi commensali se il Dolcetto dell'82 fu migliore di quello dell'87.


E i contadini, finalmente assurti al piacere-onore della trattoria, alzano i volti pietrosi dai piatti e si guardano, come per essere ben sicuri che sono anche loro tra i benestanti della terra, che hanno anche loro la lista dei 20 piatti e dei 200 vini, e stanno al caldo dietro le tendine bianche mentre fuori ci sono zolle gelate e stoppie e gelsi potati e bealere con il bordo ghiacciato.

Poi andremo a Cherasco, nelle confetterie dove fanno i Baci, cioccolatini squisiti, con i vasi di cristallo e la medagliera delle esposizioni. E vedi il retrobottega-laboratorio dove fabbricano i loro cioccolatini preziosi, e te li pesano come fossero pepite d'oro o brillanti, aggiungendone uno o due per fare il peso giusto. Commesse di confetteria, che da una vita si sfiorano, si urtano nei vecchi negozi, inseparabili, in attesa che i fornitori portino cioccolata, nocciole e miele che infaticabilmente lavorano e mettono nei vasi di cristallo da drogheria e da farmacia. Sotto, sul bancone, ci sono i vassoi delle meringhe e delle paste con le creme dai colori rosa e marrone, da disporre sui vassoi, due per qualità, per i pranzi della domenica.

I clienti entrano come in una sacrestia, silenziosi, pazienti, mentre le commesse, vestite di grigio, lavorano come api operaie.
Ci sono ancora negozi, nelle campagne del Piemonte, dove i negozianti compiono lavori che tu diresti ripetitivi come una funzione religiosa: negozianti allegri.
La macellaia di Verduno, rotonda di magliette, pullover, tuniche imbottite, al riparo dal freddo, sorride ai cotechini e gorgheggia.

(16 novembre 2007)

da espresso.it


Titolo: GIORGIO BOCCA - Miracolo democratico
Inserito da: Admin - Novembre 23, 2007, 06:53:12 pm
Miracolo democratico

Come è possibile che questa organizzazione che noi chiamiamo Stato continui, bene o male, a consentire una civile coesistenza?

DI GIORGIO BOCCA


Periodicamente la democrazia viene a noia ai fortunati che ci vivono.

L'ondata antidemocratica più violenta percorse l'Europa verso il 1930, in occasione della crisi economica e del periodo di fortuna del fascismo.

Si moltiplicarono le invettive, le critiche: il laburista Harold Lasky, gli scrittori Thomas S. Eliot, George Bernard Shaw per i quali la democrazia parlamentare era diventata sinonimo di menzogna, debolezza, mediocrità, compromesso, bassezza.

Poi ci pensarono Hitler, i nazisti e Stalin, con il comunismo sovietico, a far ritornare l'amore per la democrazia, a farla accettare come 'il minore dei mali' o, come diceva Churchill, "un errore, ma trovatemi qualcosa di meglio".

Resta però da chiedersi come mai la democrazia non riesca mai a liberarsi di debolezze e di errori elementari. Poniamoci alcuni perché.

Perché la democrazia italiana ha accettato l'idea, plebea più che populista, di un'edilizia imposta e diretta da capomastri ladri, da geometri ignoranti, dagli immigrati in cerca di 'pane' e da speculatori?

Perché l'edilizia italiana, l'urbanistica italiana, non potevano essere dirette dagli architetti e dagli urbanisti?

Perché la democrazia finge di ignorare che esistono situazioni eccezionali che impongono dittature temporanee e task force?

Perché deve aspettare sempre che un generale Dalla Chiesa venga ucciso prima di dare pieni poteri a un suo successore?

Perché ogni comune può impedire la costruzione di una centrale elettrica o di una linea ad alta velocità, cioè opere d'interesse nazionale e internazionale?

Perché in tutte le zone autonome l'elettoralismo delega a dei montanari appena usciti da una vita provinciale e populistica di gestire tutte le trasformazioni della modernità?

Perché le leggi sono sempre utopiche, e mai rivedibili ai lumi della ragion pratica?

Perché magistrati, onorevoli, giornalisti, moralisti, continuano a baloccarsi con le favolette costituzionali del diritto al lavoro, alla casa, alla salute e persino alla felicità, quando la realtà di ogni giorno dimostra per l'appunto che sono dei nobili intenti e dei desideri?

Perché si sono fatte discussioni interminabili per una questione di comune educazione civile come quella di consentire ai Savoia di tornare in Italia?

Perché non si riforma la partitocrazia, almeno per decidere che non tocca ai partiti decidere di tutto e di tutti?

Perché un qualsiasi municipio può opporsi alla costituzione di amministrazioni multicomunali che nelle zone metropolitane sono un'evidente necessità?

Perché bisogna sempre, ad ogni costo, tessere l'elogio del proletariato e mettere all'indice Céline, anche se la definizione di Céline "il proletariato è un borghese fallito" appare inaccettabile?

Tutte queste domande appaiono gratuite in un periodo in cui la vita politica italiana e il modo di governare appartengono a una confusione sistematica e continua, per cui non c'è dichiarazione di un ministro o di un sindacalista che non sia immediatamente smentita o corretta secondo le convenienze personali.

C'è da chiedersi cosa mai sia questo miracolo di società complesse e complicate che pure riescono a sopravvivere e a consolidarsi. Come è possibile, ci si chiede, che un'economia come quella italiana, condizionata al 60 per cento dalle organizzazioni mafiose, possa sopravvivere e per certi aspetti fiorire? Come è possibile che questa organizzazione caotica che noi chiamiamo Stato continui, bene o male, a consentire una civile coesistenza?

(23 novembre 2007)

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Titolo: GIORGIO BOCCA - Gli italiani e il re di denari
Inserito da: Admin - Dicembre 04, 2007, 11:23:50 pm
Gli italiani e il re di denari

Si ripete con Berlusconi la contraddizione del fascismo e del favore di cui godette presso i liberali e i cattolici 

DI GIORGIO BOCCA


Moriremo berlusconiani? Il brutto pensiero, l'incubo si fa sempre più pesante, il nuovo homme fatale è sempre più potente, fa e disfa i partiti a suo piacere. Il fatto che milioni d'italiani lo amino e lo seguano fa pensare che avesse ragione il banchiere Cuccia quando diceva: "La maggioranza degli italiani è rimasta intimamente legata al modello fascista".

Gli italiani amano Silvio Berlusconi anche nei suoi difetti scoperti. Non è un francescano che dona, ma che continua a prendere. La democrazia e le sue lungaggini lo infastidiscono. Anche oggi se la prende con i parrucconi della politica "che parlano e non fanno, che non hanno mai lavorato", e intende dire che non hanno mai partecipato alla gara speculativa, agli imbrogli e alle scorrettezze.

Non è abituato a rispettare le regole, ma al contrario a violarle. Per questo ha stipendiato decine di avvocati celebri, li ha arricchiti, ma da essi è stato arricchito. Non ha modelli culturali da rispettare. Gli intellettuali sono al suo servizio, è il padrone della Mondadori e della Einaudi, in pratica dell'editoria.

Perché uno così dovrebbe fermarsi nella ricerca del potere assoluto, della impunità assoluta? La sua idea della democrazia è inesistente, la sua idea dei partiti da padrone. Il re di denari sono io, oggi sciolgo un mio vecchio partito, domani ne fondo un altro, le regole e le gerarchie le decido io.

Il signore delle televisioni e dei giornali che effetto ha avuto sull'informazione? Che cosa ha introdotto di nuovo? Ha scritturato i giornalisti peggiori, gli avventuristi più spregiudicati, non ha esitato a diffamare i suoi avversari politici, vedi gli attacchi personali a Gianfranco Fini, naturalmente smentiti: "Io far parlare i giornali delle amanti di Fini? Figuriamoci, io sono la persona più corretta del mondo".


Resta da chiedersi se l'inclinazione di Berlusconi e del suo popolo per una dittatura morbida di tipo televisivo lascerà il campo a quella per una dittatura forte. Si dice che una garanzia sia rappresentata dal fatto che abbia sempre ricercato l'alleanza di altri partiti 'democratici', ma la tenuta di questi partiti è storicamente illusoria: erano alleati del fascismo nascente anche i liberali e i cattolici, e quando Mussolini andò al potere erano convinti che il suo fosse un governo transitorio. Per arrivare al partito totalitario anche allora ci vollero degli anni, dal 1922 al '25, per arrivare alle leggi eccezionali.

Si ripete con Berlusconi la contraddizione fondamentale del fascismo e del favore di cui godette presso gli italiani: di un movimento sovversivo che si muta, con la presa del potere, in ricostruttore e potenziatore del vecchio Stato. La veemenza con cui Berlusconi si è scagliato contro uno dei capisaldi del vecchio Stato, la giustizia, è tipica di una borghesia che vuole distruggere lo Stato liberale per costruirne uno a suo completo servizio.

I berlusconiani di ferro hanno esultato per la sua decisione di sciogliere Forza Italia e di creare un nuovo partito, hanno detto che ha dimostrato una genialità da Lenin. Non pare che la svolta berlusconiana sia proprio paragonabile a 'i dieci giorni che sconvolsero il mondo'. Se vogliono dire che Berlusconi possiede la suprema disinvoltura dei grandi politici possiamo concederlo, ma non è di essa che un paese come l'Italia sente il bisogno. Il bisogno vero di questo paese è di imparare finalmente a essere democratico, a rispettare le regole del gioco democratico.

(30 novembre 2007)

da espresso.repubblica.it


Titolo: Periodicamente la democrazia viene a noia ai fortunati che ci vivono.
Inserito da: Admin - Dicembre 04, 2007, 11:25:12 pm
Giorgio Bocca.

Periodicamente la democrazia viene a noia ai fortunati che ci vivono.

L'ondata antidemocratica più violenta percorse l'Europa verso il 1930, in occasione della crisi economica e del periodo di fortuna del fascismo.


Si moltiplicarono le invettive, le critiche: il laburista Harold Lasky, gli scrittori Thomas S. Eliot, George Bernard Shaw per i quali la democrazia parlamentare era diventata sinonimo di menzogna, debolezza, mediocrità, compromesso, bassezza. Poi ci pensarono Hitler, i nazisti e Stalin, con il comunismo sovietico, a far ritornare l'amore per la democrazia, a farla accettare come 'il minore dei mali' o, come diceva Churchill, "un errore, ma trovatemi qualcosa di meglio". Resta però da chiedersi come mai la democrazia non riesca mai a liberarsi di debolezze e di errori elementari.

Poniamoci alcuni perché.

Perché la democrazia italiana ha accettato l'idea, plebea più che populista, di un'edilizia imposta e diretta da capomastri ladri, da geometri ignoranti, dagli immigrati in cerca di 'pane' e da speculatori?

Perché l'edilizia italiana, l'urbanistica italiana, non potevano essere dirette dagli architetti e dagli urbanisti?

Perché la democrazia finge di ignorare che esistono situazioni eccezionali che impongono dittature temporanee e task force?

Perché deve aspettare sempre che un generale Dalla Chiesa venga ucciso prima di dare pieni poteri a un suo successore?

Perché ogni comune può impedire la costruzione di una centrale elettrica o di una linea ad alta velocità, cioè opere d'interesse nazionale e internazionale?

Perché in tutte le zone autonome l'elettoralismo delega a dei montanari appena usciti da una vita provinciale e populistica di gestire tutte le trasformazioni della modernità?

Perché le leggi sono sempre utopiche, e mai rivedibili ai lumi della ragion pratica?

Perché magistrati, onorevoli, giornalisti, moralisti, continuano a baloccarsi con le favolette costituzionali del diritto al lavoro, alla casa, alla salute e persino alla felicità, quando la realtà di ogni giorno dimostra per l'appunto che sono dei nobili intenti e dei desideri?

Perché si sono fatte discussioni interminabili per una questione di comune educazione civile come quella di consentire ai Savoia di tornare in Italia?

Perché non si riforma la partitocrazia, almeno per decidere che non tocca ai partiti decidere di tutto e di tutti?

Perché un qualsiasi municipio può opporsi alla costituzione di amministrazioni multicomunali che nelle zone metropolitane sono un'evidente necessità?

Perché bisogna sempre, ad ogni costo, tessere l'elogio del proletariato e mettere all'indice Céline, anche se la definizione di Céline "il proletariato è un borghese fallito" appare inaccettabile?

Tutte queste domande appaiono gratuite in un periodo in cui la vita politica italiana e il modo di governare appartengono a una confusione sistematica e continua, per cui non c'è dichiarazione di un ministro o di un sindacalista che non sia immediatamente smentita o corretta secondo le convenienze personali.

C'è da chiedersi cosa mai sia questo miracolo di società complesse e complicate che pure riescono a sopravvivere e a consolidarsi. Come è possibile, ci si chiede, che un'economia come quella italiana, condizionata al 60 per cento dalle organizzazioni mafiose, possa sopravvivere e per certi aspetti fiorire? Come è possibile che questa organizzazione caotica che noi chiamiamo Stato continui, bene o male, a consentire una civile coesistenza?

(23 novembre 2007)

da espresso.repubblica.it


Titolo: GIORGIO BOCCA - L'umanità è in pericolo per le sue stolte moltiplicazioni dei...
Inserito da: Admin - Dicembre 14, 2007, 05:05:38 pm
Olimpiadi della follia

Giorgio Bocca

L'umanità è in pericolo per le sue stolte moltiplicazioni dei viventi e dei consumi.

La dittatura cinese li moltiplica e il mondo li ammira e li loda 

Il mercato globale ha messo in crisi l'antica idea del nemico. Chi è il nemico oggi?

Quello che parla una lingua diversa dalla tua? Che ha una religione diversa dalla tua?

O uno che diventa amico perché può fare dei buoni affari con te?


L'impero americano, il capitalismo occidentale non hanno ancora deciso: vivono nel dubbio che il nemico siano gli Stati canaglia, che non riconoscono la superiorità morale della cristianità, oppure se questi nemici stanno diventando - sono già - degli eguali in economia, con cui si possono, anzi si devono, fare buoni affari.

Il conflitto delle ideologie può sopravvivere al mercato globale, in cui gli ex comunisti diventano gli insostituibili fornitori di fonti energetiche? Nel dubbio i generali americani hanno tentato di creare un sistema radar missilistico che garantisca all'impero occidentale di colpire la Russia, ma non di essere colpito. Sennonché l'importanza economica della Russia, indispensabile al mercato globale, impone un compromesso: fare entrare anche la Russia ex comunista nel sistema difensivo.

Così dicasi per la Cina, che continua a essere uno Stato del male, in quanto comunista, ma che ha una forza economica in grado di mettere in crisi il mercato globale. Anche con la Cina si sta arrivando a un compromesso, con quella olimpiade sportiva che deve in qualche modo riproporre l'idea greca della tregua: tutti alle Olimpiadi di Pechino, anche i più efferati capitalisti, pur di continuare a fare buoni affari.

Fra le molte cose incomprensibili dell'umanità contemporanea, la definizione di nemico è la più ardua, la presenza degli eserciti e il moltiplicarsi delle guerre sono assurde, ma - si direbbe - necessarie. Che senso hanno le guerre tra simili, fra economie complementari, fra soci in affari? Una sola risposta è possibile fuori da tutte le retoriche e le consolazioni: perché gli uomini non possono vivere senza preda, senza violenza, perché un nemico se lo reinventano comunque.

C'è una lezione della storia di cui gli uomini non vogliono tener conto, perché non hanno il coraggio di ammettere che l'impero universale è una soluzione rifiutata dall'uomo animale da preda, una soluzione peggiore dei guasti che vorrebbe abolire, una disciplina, una razionalità che l'istinto predatorio rifiuta.

I saggi dell'impero romano avevano capito questo inconfessabile rifiuto quando riconoscevano la necessità dell'esistenza dei barbari e consigliavano ai loro eredi di non valicare i limiti dell'impero romano.

Dal tempo remoto del paradiso terrestre gli uomini sanno che il loro peccato mortale è stato di voler assaggiare il frutto dell'albero della scienza, ma continuiamo nell'errore di questa ricerca, di essere noi uomini il vero Dio in terra.

La realtà ci smentisce, la scienza non ci allontana, ma ci avvicina all'ora della nostra estinzione. Siamo prigionieri di un granello di terra che naviga nel vuoto dell'universo, ma progettiamo impossibili esplorazioni del cosmo, scoperte di altri mondi, tutti inabitabili, deserti in cui l'acqua della fertilità è sostituita dal gas metano.

L'umanità è in pericolo per le sue stolte moltiplicazioni dei viventi e dei consumi. La dittatura cinese li moltiplica e il mondo li ammira, li loda. Ogni volta che nel mondo rispunta questa follia produttivistica ricadiamo nell'illusione di aver scoperto la cornucopia, ma è un'illusione.

Ricordate il miracolo giapponese, il miracoloso modo giapponese di produrre? In parte era scienza logistica, ma soprattutto sfruttamento del lavoro umano. Eppure ci cademmo: per anni libri e giornali celebrarono il modo giapponese di produrre. Fu un caso fortunato se ci venne in mente di metterlo alla prova a casa nostra nelle acciaierie di Taranto, dove fece il prevedibile fallimento.

(14 dicembre 2007)

da espresso.repubblica.it


Titolo: GIORGIO BOCCA - Risiko tra potenze
Inserito da: Admin - Dicembre 25, 2007, 07:20:36 pm
Risiko tra potenze

Negli stretti di Hormuz e di Malacca si gioca la partita mondiale.

Per ora i buoni affari sembrano scongiurare una guerra.

Ma il conflitto tra gli Usa e la Cina resta incombente 

DI GIORGIO BOCCA


Il mercato globale rimette in discussione le definizioni tradizionali di nemico come colui che ti contende il controllo della terra, fonte di ricchezza e di sopravvivenza, barbaro invasore che va preventivamente dominato e invaso. Sostituito dal concorrente-socio in affari, che ti può contendere il dominio del mondo, ma di cui non puoi fare a meno nella finanza e nel mercato.

Il sinologo Oscar Marchisio del centro studi di Granarolo ci suggerisce un esempio di stretta attualità in un saggio che ha per titolo: 'Il Risiko mondiale si gioca negli stretti di Hormuz e di Malacca'. Lo stretto di Hormuz, la chiusura del golfo Persico, e quello di Malacca, tra Malesia e Indonesia, sono i due 'colli di bottiglia' per cui passa oggi il commercio del petrolio, strategicamente decisivo come ai tempi in cui gli imperi olandese e britannico erano padroni delle comunicazioni tra il Medio e l'Estremo Oriente. Allora per il mercato delle spezie e della gomma, ora dell'oro nero.

Attorno ai due stretti si addensano le tensioni più forti fra le grandi potenze: il Giappone e la Cina, potenze emergenti, hanno un bisogno vitale di assicurare la libera navigazione nello stretto di Malacca, il corridoio marittimo tra Singapore e Busan, perché per esso passa il rifornimento del petrolio necessario alle loro economie in espansione. Lo stretto di Hormuz, che chiude il golfo Persico, è la via obbligata del rifornimento energetico che proviene dagli Emirati Arabi, dall'Iran e dall'Iraq.

La Cina non è in grado di essere padrona dello stretto di Malacca, ma può contenderlo agli altri. Fra due anni disporrà di una flotta di 50 sottomarini e di 60 unità di superficie, non sarà in grado di avere il potere marittimo totale, come lo ebbe la Marina inglese, ma potrà impedire ad altri l'accesso al suo mare interno. Intanto cercherà di superare i rischi dello stretto con gli oleodotti in costruzione attraverso la Thailandia e la Birmania, e con le superpetroliere giganti che potranno percorrere altre rotte evitando lo stretto.


Il Risiko estremo è presente anche nello stretto di Hormuz, dove la schiacciante superiorità militare degli Stati Uniti resta esposta agli attacchi dei barchini superveloci degli iraniani. In questo complicatissimo confronto strategico, la superpotenza americana, forte di numerose portaerei, di un'aviazione strategica e della potenza atomica, ha trovato una forte alleata nell'India, i cui governanti hanno capito che chi può intervenire nel controllo dei due stretti ha un ruolo decisivo: è per questo che l'India ha costruito una flotta di navi di linea attorno alla portaerei Viraat.

Siamo tornati, in sostanza, all'equilibrio del terrore della guerra fredda, la sola cosa che possa impedire una guerra fra gli Stati che si contendono le fonti di energia è la stessa di quella che evitò il conflitto mondiale fra gli Stati Uniti e l'Unione Sovietica: il terrore della distruzione reciproca e l'invivibilità del mondo.

Il Risiko è complicato dal fatto che ciascun protagonista tende poi a coprirsi i fianchi da possibili attacchi locali. Gli indiani, per esempio, hanno dato il via a una collaborazione militare con gli iraniani, navi da guerra iraniane sono ospitate nella base indiana di Kochi, ed esercitazioni comuni sono in corso fra cinesi e giapponesi.

Il sinologo Marchisio dice che il conflitto fra Stati Uniti e islamici è tutto sommato risolvibile, perché si svolge nello stesso campo capitalistico, mentre quello tra gli Usa e la Cina comunista appare irrisolvibile. Ma per ora i buoni affari sembrano in grado di allontanare una guerra.

Le elezioni in Russia sono l'ultimo, clamoroso esempio del nemico-socio in affari. Chi ha bisogno del gas e del petrolio russi critica i brogli che hanno promosso Putin, ma con moderazione, e c'è chi, come Sarkozy, si congratula.

(24 dicembre 2007)

da espresso.repubblica.it


Titolo: GIORGIO BOCCA - L'ossessione del cavaliere
Inserito da: Admin - Gennaio 05, 2008, 04:33:23 pm
L'ossessione del cavaliere

Berlusconi coltiva la sua megalomania, dalla politica al calcio, con sincera passione.

Non possiamo fare altro se non seguire la sua vertiginosa parabola 

DI GIORGIO BOCCA

Un miliardario brianzolo ossessionato dal potere si aggira per l'Italia. Ha un nemico mortale di nome Prodi e lo insegue nelle vie e nelle piazze, nelle televisioni di cui è padrone, sui giornali, in parlamento, nei ministeri, nei campi di calcio, dovunque.

Non si darà pace, non deporrà la fatale inimicizia finché non avrà distrutto il pacifico, bonario professore bolognese che spesso chiama con il nome irridente di Mortadella.

Ha scritturato una canea di botoli furiosi che dall'alba a notte fonda, simulando amor di patria offeso, lo insultano e lo deridono. Non c'è travaglio o sofferenza del popolo italiano di cui Prodi non sia colpevole. Rincarano le cipolle? Manca il riscaldamento su un treno di pendolari? La neve e la pioggia flagellano le città del Meridione? Subito, da cento schermi televisivi, da cento giornali, i servitori del Cavaliere, melliflui e irridenti, indicano in Prodi il colpevole, lo offrono alla rabbia e alle ire vendicative dei sudditi.

E tutti attendono, con la bava alla bocca, che dia finalmente le dimissioni, che si ritiri sul natio Appennino tosco-emiliano a pedalare faticosamente su una bicicletta da corsa che sembra sempre sul punto di spaccarsi sotto il suo peso di ragazzo grasso, il nostro Fatty della comica ridolinesca che viene ripetuta di continuo per farlo apparire goffo e femmineo mentre il suo rivale, il Cavaliere, è giovane, robusto, scattante, con i capelli tinti di un bel nero.

Di cosa non è colpevole il pacioso professore di Bologna? C'è il direttore di un telegiornale del Cavaliere che arrotonda la bocca a cul di gallina quando alla fine di una descrizione delle sventure nazionali causate dal Professore arriva al momento topico di pronunciare il suo nome, a cui fa seguire le accorate richieste di otto milioni di italiani, che chiedono la cacciata dell'inetto, dei tre milioni di italiani che si sono già iscritti al nuovo Partito del Popolo della Libertà, perché il Cavaliere crede nella magia delle parole, crede che a ripetere la parola libertà i suoi seguaci si trasformino da servitori in liberi.

Un giorno ho chiesto ad alcuni seguaci del Cavaliere quali fossero le sue migliori qualità. All'unisono mi hanno risposto: ha una marcia in più.

È vero, nella sua ossessione non ha pari, la ossessione gli dà forze sovrumane, fa cinque comizi al giorno, vola dal Brennero a Capo Passero, le televisioni lo riprendono nel momento della nostra grande illusione, quando tenta di emergere dal gruppo di guardaspalle che lo circonda, e l'impressione è che l'abbiano arrestato.

Una illusione che ebbero gli italiani negli anni del regime, quando un incauto giornale pubblicò una fotografia del Duce fra le guardie che lo proteggevano e scrisse nella didascalia: 'Mussolini fra i carabinieri'.

Il nostro non si dà tregua. Raccomanda le amichette dei suoi galoppini elettorali, cerca di corrompere i senatori a vita, insulta i magistrati, passa dalla politica al calcio, descrivendosi in entrambi come provvidenziale. Il Milan vince un titolo mondiale e lui racconta che suo padre lo aveva previsto fin dalla più tenera età e legge un suo diario adolescenziale per la gioia dei cortigiani entusiasti.

Ma il Cavaliere è amato da milioni di italiani perché non nasconde la sua ossessionante megalomania, ma la coltiva con sincera passione. È fatto così! Non possiamo far altro se non seguire la sua vertiginosa parabola.

(04 gennaio 2008)

da espresso.repubblica.it


Titolo: GIORGIO BOCCA - I moderati di massa
Inserito da: Admin - Gennaio 05, 2008, 04:44:23 pm
I moderati di massa

Una borghesia senza principi ma ricca di denaro, di conoscenze, di privilegi, domina il paese senza bisogno, per ora, di leggi speciali e di polizia 

DI GIORGIO BOCCA


Il comizio di Berlusconi a BolognaI partiti politici italiani sembrano dominati da una frenesia nominalistica, dalla voglia incontenibile di cambiar nome, simbolo, distintivo, bandiera, di camuffarsi, di fingere di essere ciò che non sono. Tutti amanti di una libertà che negano agli altri negli affari, come nell'informazione, come nella giustizia, tutti pensierosi di un popolo che disprezzano, temono e ingannano, pronti a lodare una morale che violano ogni giorno, ogni ora. Non la poltiglia senza nome e senza ideali di cui parla il mio amico De Rita, ma un sistema di ferree complicità fra benestanti, di assoluta reverenza per il dio denaro.

In questo sistema che può essere chiamato in vari modi, come consumismo anarcoide, dominio dei manager, produttivismo senza regole, domina un'idea che ha conquistato sia coloro che privilegia, sia quanti a esso si rassegnano: c'è un solo dio, una sola morale, un solo scopo, un solo modello sociale, una sola way of life, una sola pagana religione: il denaro, la ricchezza, i soldi da cui tutto deriva, tutto dipende.

Perché milioni di italiani corrono ai gazebo di Berlusconi per aderire appassionatamente alle sue false promesse populistiche, alle sue promesse di ordine e di benessere quotidianamente smentite dalla misera realtà di un paese in declino? Perché sperano di entrare in qualche modo a far parte dell'Italia che rappresenta, l'Italia dei moderati che sono i benestanti di massa, la borghesia senza principi ma ricca di denaro, di conoscenze, di privilegi, che domina il paese senza bisogno, per ora, di leggi speciali e di polizia.

Si vuole un esempio recente di questa dittatura morbida? In una fabbrica torinese, un'acciaieria, avviene una strage di operai bruciati vivi da un'esplosione di gas incandescente. È chiaro a tutti che la sciagura è stata causata dal produttivismo ossessivo, dalla mancanza di precauzioni e di prevenzioni.

In una società meno consumistica, meno serva del profitto a ogni costo scoppierebbe una rivoluzione, una rivolta di popolo.

Nella Torino del capitalismo anarcoide niente: gli operai morti vengono sepolti, i parenti risarciti con modeste regalìe, i padroni della fabbrica liberi e anche sdegnati, la colpa non è loro, ma degli operai che dovevano badare agli estintori.

Cercare altri esempi, ricordare altri esempi è persino ridicolo. Giornali e case editrici non fanno altro che sfornare libri, memoriali, saggi in cui si raccontano per filo e per segno le violazioni delle leggi, dei regolamenti, dei normali rapporti civili avvenuti nel paese.

Un libro dal titolo 'Gomorra' racconta con realismo estremo i delitti della camorra, un altro, 'La Casta', elenca i notabili che dovrebbero stare in galera, i cortigiani del capo dei moderati fanno gli elogi dello stalliere mafioso che doveva essere associato all'ergastolo e invece accompagna a scuola i figli del padrone.

Ma perché questi libri sono dei bestseller, perché le loro edizioni si succedono? Perché i i lettori vogliono finalmente conoscere il marcio che li circonda? No, credo che il vero movente sia un altro, sapere come i furbi sono riusciti a fare i soldi, a diventare ricchi e potenti violando quei freni per gli sciocchi che sono le leggi.

Poi anche nella società del capitalismo anarcoide qualcuno capisce come stanno veramente le cose, esce dall'apatia, s'infuria. Ma sono jacqueries: tumulti da lazzaroni che la classe dominante dei moderati di massa può sopportare, chiusa nei suoi quartieri blindati.

(28 dicembre 2007)

da espresso.repubblica.it


Titolo: GIORGIO BOCCA - La spazzatura è l'emblema di una città senza regole.
Inserito da: Admin - Gennaio 11, 2008, 07:14:10 pm
Napoli maledetta

di Giorgio Bocca

La spazzatura è l'emblema di una città senza regole.

E di una cultura dell'illegalità che rischia di travolgerci tutti


Nel gennaio 2006 quando uscì da Feltrinelli il mio 'Napoli siamo noi', un noto scrittore partenopeo scrisse che ero "una vecchia sciarpa littoria carica di nostalgie" e il direttore del 'Mattino' rincarò la dose degli insulti e Raffaele La Capria scrisse che mi ero "troppo sprofondato nella mentalità piccolo settentrionale". Ma a sprofondare è stata in questi giorni Napoli sotto l'immondizia, e il fatto che sia sprofondata come due o quattro anni fa, fa giustizia di queste difese d'ufficio di Napoli vittima del nord egoista. Nelle interviste tv ai napoletani che impediscono la riapertura delle discariche di Pianura si è ancora sentito qualcuno dire che "le immondizie ce le mandano giù i settentrionali", ma anche un bambino sa che le cose stanno diversamente. Napoli, la Napoli della povertà, è diventata come le altre città italiane un luogo di consumismo moderno intensissimo e senza regole e non ha saputo o potuto fargli fronte, lo ha subito come una slavina che tutto copre e soffoca. Vizi antichi spesso pittoreschi e tollerabili accumulandosi sono diventati intollerabili, la mitica armonia napoletana fra la natura stupenda e la città 'intelligente' pronta agli adattamenti e ai rimedi, si è arresa di fronte alla colata incontenibile dei rifiuti e delle confezioni.

La tolleranza totale che torna fra le cause del disastro non è una novità. Parlare di tolleranza zero a Napoli è ignorare la storia. A palazzo di giustizia, quando arrivò da Palmi il procuratore Agostino Cordova si vendevano sigarette, registrazioni di film, magliette d'autore contraffatte: era il mercato nel tempio. Cordova lo spazzò via, e non glielo hanno perdonato. L'igiene a Napoli nei secoli era sconosciuta, si cuocevano i maccheroni per strada, la pizza nei sottoscala. Tutto abusivo, tutto liberamente venduto: per anni in centro si è tenuto il famoso mercatino della merce rubata nei depositi americani, non era una vergogna, ma un'attrattiva locale. Oggi si vendono dovunque borse griffate e programmi informatici, registrazioni di film e tutti lavorano tranquillamente in nero. Napoli è l'unica città dove anche l'artigianato più rispettabile, come il presepe, è prodotto in nero. È la città dove i politici rei confessi di corruzione non solo vengono perdonati, ma tornano al potere. Ma fu per questo che intitolai il mio saggio 'Napoli siamo noi': perché anche da noi, in tutta Italia, i condannati per violenza o truffa politica, i deputati o i ministri ladroni, sono stati riammessi nelle direzioni dei partiti o nei pubblici uffici. A Napoli la faccenda era più spavalda, regnava a Napoli negli anni Novanta il ministro
Cirino Pomicino. Costui, l'11 marzo 1990, si presentò con un seguito di amici alla sede della Rai e annunciò festosamente: "Guaglio', mo' trasimme tutti quanti, la Rai è di tutti, non è vero?", per vedere una partita di calcio del Napoli.

I napoletani non sono tutti camorristi, ma hanno fatto proprio il linguaggio camorrista. Nelle intercettazioni della polizia ricorrono linguaggi cifrati: "Mi mandi venti chili di mele", "passi dal mio segretario per quantificare", "mi scusi se l'hanno già disturbata, ma adesso tocca a me". Un deputato dei Ds, Isaia Sales, ha scritto di questo costume napoletano: "Il potere politico è diventato il regolatore quasi assoluto della vita sociale ed economica di grandi aree, le sue regole sono diventate le regole dell'economia, qualcosa di simile a ciò che accade nei paesi dell'est". A Napoli è possibile tutto: lo psichiatra Ceravolo ha inventato una maglietta con su stampata una finta cintura di sicurezza, e assicura di averne vendute molte. Ma non facciamoci illusioni: Napoli ormai siamo noi, i nostri consumi culturali non fanno una gran differenza, sono la poltiglia di familismo, violenza, maschilismo, superstizione, pornografia con l'ossessione consumistica come unico criterio di giudizio. Il consumismo ha travolto con le sue immondizie le ultime resistenze civili di Napoli. Ma tutto il Paese è a rischio. Si è scritto di Napoli: "Nella città convivono due classi, i letterati e il popolo", i letterati, gli intellettuali, si spartiscono i pubblici uffici, governano un popolo di cui Guido Dorso diceva: "Una plebe non ancora uscita dal limbo della storia, abbrutita dalla tradizione e dalla miseria". Questa plebe sopravvive nei cento mestieri umili, 'spiccia faccende', piccola manovalanza che non può contare su un reddito regolare, da cui deriva la voglia di sopravvivere alla miseria, di sopportare la miseria che è all'origine della tolleranza generale: tutto deve essere permesso affinché tutti possano vivere.
(10 gennaio 2008)


Riassumendo: una classe borghese che difende i suoi privilegi spartendosi il pubblico denaro e un "volgo che nome non ha" che inventa ogni giorno un modo per sopravvivere. Pare che all'origine della camorra ci sia stata un'associazione spontanea di delinquenti dediti all'estorsione, certo è che la camorra ha sempre avuto funzioni retrograde, al servizio dei grandi padroni. E questa funzione retrograda si è confermata nel disastro della città invasa dalle immondizie: la camorra, per i suoi interessi, non ha esitato a favorirla. Una città che per avere troppi problemi non ne risolve mai nessuno, dove il problema vero è sempre un altro che altri dovrebbero risolvere, dove le regole valgono solo per gli altri e si arriva a quella che impone ai motociclisti il casco e nessuno lo indossa, o lo porta tra collo e schiena, per metterselo in caso di controllo. Qui il motorino non è un mezzo di trasporto, ma qualcosa che fa parte del tuo corpo, che usi per eludere ogni controllo. Napoli è stata fatta così come è oggi dalla sua storia. L'unica giustificazione di questa storia è che nella modernità dovunque il perseguimento del bene comune non è più né possibile né desiderato. Per pagare un dirigente militare la camorra spende 20.000 euro al mese, un killer 2.500 euro a omicidio, un collaboratore fisso 750 euro. Per tenere in piedi una rete criminale ci vogliono montagne di soldi, e i camorristi se li procurano allargando la loro economia, superando la concorrenza con i mitra e la finanza con le estorsioni. Le ultime notizie sulla metastasi criminale, che le nostre autorità definiscono preoccupanti, sono in realtà spaventose.

L'attività imprenditoriale camorrista è arrivata nell'Italia del nord, nel 'miracolo' del Veneto. Fabbriche e magazzini di merci falsificate sono sparse nel mondo e nessuno protesta perché la metastasi non è più contenibile, centinaia di negozi, centri commerciali, ditte di trasporto sono legati al modo camorristico di intraprendere: violenza e denaro sporco da riciclare. Se improvvisamente stazioni invernali, lacustri, marine sono tutto un fiorire di investimenti magari sballati, magari megalomani, a tenerli in piedi con un mare di denaro sono le mafie che controllano il commercio della droga, il crescente consumo di stupefacenti di società stressate, impaurite, tese allo spasimo nella ricerca del profitto. Non occorre essere un papa per capire che il globalismo non risolve i problemi del mondo, ma li aggrava. L'Italia spaventata dal disastro di Napoli invoca l'intervento dell'esercito e della polizia. Ma neanche le cosiddette forze dell'ordine sfuggono alla corruzione, come sa quel padre di famiglia che ha raccontato allo scrittore Roberto Saviano: "Perché mio figlio vuole fare il poliziotto? Credo da quando ha visto uno del commissariato con l'Audi TT". La corruzione delle forze dell'ordine è a livelli impensabili. Quello strategico pare arrivi alla costituzione di una vera e propria 'cupola', di cui fanno parte capi clan e ufficiali dei carabinieri che possono avere rapporti con ambienti politici e istituzionali. Qualcosa di simile si verificò negli Stati Uniti degli anni Trenta e la società civile riuscì a ristabilire regole del gioco accettabili. L'Italia e l'Europa sono chiamate alla prova, il disastro napoletano è un avviso a tutta la società europea.

(10 gennaio 2008)

da espresso.repubblica.it


Titolo: GIORGIO BOCCA - Sono tutti complici
Inserito da: Admin - Gennaio 18, 2008, 05:05:12 pm
Sono tutti complici

Politici, vigili urbani, camorra: a Napoli si perpetua il principio che il peggio previene un peggio ancor peggiore

L'Europa civile, il mondo si chiedono increduli, spaventati, che cosa mai succeda a Napoli, la grande città mediterranea di origine e civiltà greca, carica di storia e di monumenti, oggi sepolta sotto una spessa coltre di immondezza, senza una classe dirigente degna del nome, con una casta di potere divisa tra inutili e vaghi lamenti. Eppure il mistero dei rifiuti di Napoli un mistero non è: è il noto teorema della corruzione, guadagnare il più possibile con il minimo sforzo.

Regna una complicità generale, una ditta che tratta rifiuti ferrosi ha fatto ottimi affari scavando buche nelle campagne attorno a Napoli e riempiendole di rifiuti velenosi. I padroni dei terreni non lo sapevano? "Sì", dicono, "scaricavano le scorie nocive nei nostri terreni. Ma non a 250 euro come si è detto, ma a 50. Noi non abbiamo mai capito che seppellissero materiale velenoso, avevamo creduto alla storia che i nostri terreni avevano una natura interessante che doveva essere esaminata. Questo ci diceva il signor Passariello, e per questo permettevamo loro di fare grosse buche".

Nei campi di Francolise nel Casertano sono state sepolte montagne di rifiuti ferrosi. "Non sapevamo, non avevamo capito", ripetono i padroni della Italmetalli, che ha scaricato in Campania migliaia di tonnellate di rifiuti e oggi sono latitanti.

Per ottenere una opportuna vigilanza dei rifiuti occorrerebbe una pubblica vigilanza bene addestrata. Ma i vigili urbani di Napoli hanno sempre rappresentato un problema irresolubile per molte ragioni. La prima è che, essendo 4.500, formano un bacino elettorale che ogni politico deve mantenersi buono anche a costo di sopportare i loro ricatti. Una piaga dei vigili è la sindacalizzazione e le specializzazioni. Dei 2.550 in servizio, 400 non sono in pratica disponibili perché fanno lavori sindacali e non possono essere impiegati lontano da casa. Un vigile, che ha assistito senza muoversi a una rapina, ha subito dichiarato che un vigile non ha "compiti di polizia". I disponibili ai servizi si sono specializzati in nuclei: per la protezione turistica, per il traffico, per la sorveglianza dei pontili. Ci sono nuclei esentati dall'indossare questa divisa. Nuclei che dovrebbero sorvegliare i tassisti abusivi, che stanno tranquillamente in coda all'aeroporto e davanti all'ingresso degli alberghi. Per anni il nucleo dei trasporti non si è accorto che nelle officine dell'azienda comunale gli autobus venivano sistematicamente spogliati e sabotati.


Il principio napoletano secondo cui il peggio rientra nella normalità, anzi previene un peggio ancor peggiore, produce di continuo i suoi teoremi perversi. È tutto un andirivieni di moralismo e permissivismo, di accordi per impedire che si faccia chiarezza, di fieri propositi e di commossi appelli alla legalità.

I rifiuti occupano le strade perché non c'è modo più comodo per liberarsene. Nel centro direzionale gli impiegati comunali usano far pulizia gettando dall'alto dei grattacieli cartoni e carte nelle strade. Ci sono quartieri alti, che dal tempo di 'Le mani sulla città' stanno sull'orlo di frane e burroni in cui la camorra getta i rifiuti. Gli abitanti respirano aria puzzolente, ma non c'è rimedio possibile: le immondizie nei precipizi non le raccoglie nessuno, non si raccolgono neppure quelle intorno alla Stazione centrale da cui ogni giorno transitano centinaia di migliaia di viaggiatori.

I rifiuti si accumulano perché i soldi per raccoglierli spariscono per mille rivoli, e perché la camorra sabota gli impianti di raccolta, fa scioperare i netturbini. C'è una località che si chiama Montagna Spaccata, una valletta immersa nel verde e nei fiori. Ne hanno fatta una discarica puzzolente a pochi passi da un castello, la camorra l'ha messa lì per convincere il proprietario a vendere.

Napoli non cambia mai, ci torni dopo cinque, dopo dieci anni e non è cambiato niente, stessa anarchia, stesse alleanze malavitose.

Negli anni '80 ci fu a Napoli lo scandalo dei farmacisti che gonfiavano le ricette, le moltiplicavano. E non erano pochi gaglioffi, erano centinaia di rispettabili professionisti. Oggi lo scandalo è il medesimo, solo che gli hanno trovato un nome nuovo: Ricettopoli.

(18 gennaio 2008)

DA ESPRESSO.REPUBBLICA.IT


Titolo: GIORGIO BOCCA... Il tradimento di Napoli
Inserito da: Admin - Gennaio 25, 2008, 04:54:52 pm
Giorgio Bocca

Il tradimento di Napoli


Il disastro dei rifiuti in Campania è vissuto da gran parte degli italiani come una cattiva azione che ricade su tutti. Cresce il rancore contro chi pratica il latrocinio del bene pubblico e se lo spartisce per comodi privati  Il disastro napoletano dell'immondizia suggerisce alcune riflessioni sul cosiddetto sviluppo sostenibile e sul suo contenitore ideologico, il liberismo trionfante e senza discipline.

Lo sviluppo sostenibile non è più l'espansione perenne dei secoli delle esplorazioni senza fine e dei consumi senza misura. La terra non è infinita, le città non sono senza misure, il degrado che un tempo poteva essere trasferito dai paesi ricchi a quelli poveri oggi è sotto la porta di casa di tutti.

La convivenza civica non è più una questione di volontà individuale, ma d'impegno sociale: chiunque occupi e sporchi, occupa e sporca per tutti; la raccolta differenziata dei rifiuti impone una disciplina generale, è un esempio del socialismo nelle società mature, indispensabile alla sopravvivenza, prima che alla giustizia. La fine dell'individualismo del tipo pionieristico è evidente, il diritto di difendere ad ogni costo la propria indipendenza individuale appare assurdo. Dire che il dramma dei rifiuti è una lezione di civismo sarà una magra consolazione, ma è certo che essa impone a tutti di occuparsi dei doveri comuni, delle difese comuni.

L'anarchia sociale non è più possibile, il nostro modo di produrre e di consumare non è più tollerabile se conserva le divisioni sia personali sia amministrative.

La tragedia dei rifiuti impone una riflessione sulla corruzione, sulla sua tolleranza. La colpa più grave del berlusconismo, cioè del cattivo liberismo, è stata la predicazione continua, spesso impudente, della tolleranza per i corrotti, per i furbi di tutti i quartierini capitalistici. Il disastro dei rifiuti napoletani è prima di tutto un disastro della corruzione dei dirigenti della pubblica amministrazione e della criminalità privata.

In questi anni hanno ricevuto dal governo centrale e dall'Europa decine di miliardi per risolvere la raccolta e la collocazione delle spazzature, e se li sono spartiti e mangiati. Su questo non ci sono dubbi: i soldi per costruire gli inceneritori e nuove zone di raccolta, per impiegare netturbini e trasportatori sono finiti nelle tasche dei funzionari e dei politici, tutto si tiene inesorabilmente nella società moderna. La corruzione degli uni ricade a danno degli altri, le mancanze, gli sprechi, gli sporchi comodi degli uni ricadono inevitabilmente sugli altri.


È per questo che il disastro napoletano è vissuto da gran parte degli italiani come un tradimento, come una cattiva azione che ridonda su tutti. È per questo che le altre regioni hanno risposto in modo negativo alla richiesta di aiuti. L'ammirazione popolare per le associazioni fuorilegge, in odio alle discipline statali, sta mutandosi in un rancore verso coloro che praticano il latrocinio del bene pubblico, che si spartiscono il bene pubblico per comodi privati.

C'è infine un pesante giudizio tecnico-logistico sul modo con cui si è provveduto alla sistemazione dei rifiuti, il confronto con il resto d'Italia e con l'Europa è stato impietoso. Solo una cecità civica, una negazione della civile convivenza può abbandonare le immondizie nelle strade e nelle piazze, sporcare e ammorbare intere città, mettere in fuga i turisti in città come Napoli dove il turismo è tra le poche fonti di ricchezza, confermare la voce della anarchia napoletana.

Ha ragione lo scrittore La Capria, quando dice che la mitica armonia napoletana fra natura e tolleranza è stata creata ad arte affinché i vizi fossero scambiati per virtù, le colpe per meriti, come se il disordine rappresentasse il modo più civile di esistere e di amministrare. L'ordine svizzero sarà poco intelligente, poco brillante, ma è la base di una vita civile.

(25 gennaio 2008)

da espresso.repubblica.it


Titolo: GIORGIO BOCCA - I cannoli di Cuffaro
Inserito da: Admin - Febbraio 02, 2008, 10:05:54 am
Giorgio Bocca

I cannoli di Cuffaro


Inquisiti per mille latrocini e soprusi, i nuovi padroni sanno che nello sfascio delle istituzioni possono sempre affidarsi ai grandi avvocati per evitare i castighi e conservare l'appoggio dei clienti che partecipano al loro banchetto  Tre nomi, tre personaggi campeggiano nelle cronache politiche e giudiziarie: Clemente Mastella, Salvatore Cuffaro, Silvio Berlusconi. Indagati, processati e magari condannati, ma sempre adulati dai loro clienti e complici di questa dittatura morbida che toglie la gioia di vivere a una metà degli italiani, ma viene spesso appassionatamente difesa dall'altra metà.

Non resta che prender atto che una metà degli italiani, di destra o di sinistra che sia, è ormai legata o rassegnata a questa gestione clientelare della cosa pubblica, che vige in tutti gli uffici della pubblica amministrazione, diciamo in questo modo italiano che le clientele politiche e affaristiche hanno di appropriarsi del pubblico denaro.

Il colpo di grazia alla democrazia è stato l'applauso del parlamento, in tutti i suoi ordini, a Clemente Mastella, che difendeva se stesso e il suo clan e attaccava la magistratura che si era permessa di ricordargli che la legge è uguale per tutti. E quell'applauso spiega come l'attuale classe dirigente politica-manageriale ostenti la più assoluta indifferenza per ciò che va sotto il nome di pubblica opinione.

Stalin redivivo chiederebbe: "Quante divisioni ha la pubblica opinione?", che potere ha la pubblica opinione di regolare il consumismo anarcoide, il clientelismo avido, la irresponsabilità dei deputati?

Inquisiti per mille latrocini e soprusi, i nuovi padroni sanno che nello sfascio delle istituzioni possono sempre affidarsi agli azzeccagarbugli più abili, ai grandi avvocati per evitare i castighi e per conservare l'appoggio dei clienti che partecipano al loro banchetto. Il male, ora lo vediamo chiaramente, è antico, progressivo e a quel che sembra inevitabile. L'immoralismo dei Craxi e degli Andreotti, lodato e rimpianto da una parte sempre maggiore del ceto dirigente, doveva farci prevedere il peggio. Ho assistito anni fa al processo di Giulio Andreotti sul famoso bacio al padrino Riina, cioè sui suoi rapporti con la mafia. Rapporti noti e addirittura rivendicati come un merito.


Tutti sapevano che la corrente di Andreotti nella Democrazia cristiana era diretta dai mafiosi Ciancimino e Lima e finanziata dai mafiosi cugini Salvo, a cui il ministro scriveva una lettera pubblicata su tutti i giornali: "Vi accusano perché sono invidiosi di voi". Ero come cronista al processo, quando arrivò da Roma una delegazione democristiana venuta a portare ad Andreotti la solidarietà del partito, composta tra gli altri da Casini e Mastella. Passarono tra i nostri banchi salutando, sorridenti, pimpanti, euforici, come se si celebrasse una vittoria della democrazia e non uno degli spettacoli più sordidi e umilianti per la nazione e la sua storia: la tradizionale assoluzione per insufficienza di prove di un potente protetto dallo Stato complice.

Insieme a Clemente Mastella torna nelle cronache italiche Salvatore Cuffaro, ex presidente della Regione Sicilia. Un tribunale lo ha appena condannato a cinque anni di reclusione per aver avvertito un 'pezzo da novanta' siciliano di stare attento ai suoi telefoni, intercettati dai magistrati, ma assolto dall'accusa di complicità con la mafia, una contraddizione in termini spudorata, la stessa usata al processo Andreotti, e il signor Cuffaro, prima di essere costretto a dimettersi, ha festeggiato, offrendo dolci e champagne ai suoi amici.

Intanto Berlusconi deride e accusa i giudici che lo accusano di aver tentato di corrompere alcuni senatori a vita usando i suoi servi nella televisione di Stato. I capiscuola Bettino Craxi e Giulio Andreotti ci avevano avvertiti, ma noi andiamo avanti verso lo sfascio generale.

(01 febbraio 2008)

da espresso.repubblica.it


Titolo: Una politica da brividi
Inserito da: Admin - Febbraio 09, 2008, 11:50:02 am
Giorgio BOCCA

Una politica da brividi


 C'è chi si chiede ancora perché cresce in Italia l'antipolitica? Per la semplice ragione, direi, che i politici parlano della politica in modo indecente, si comportano in politica in modo indecente. La Camera dei deputati al gran completo interrompe la miseranda e imbarazzante confessione del senatore Clemente Mastella con applausi scroscianti.

Che ha detto il senatore Mastella per suscitare simili entusiasmi? Ha detto che se la giustizia osa sfiorare un suo familiare, lui è prontissimo a far cadere il governo, a gettare il Paese in una crisi che potrebbe avere un esito disastroso per la democrazia. Ha detto che il sistema clientelare in cui è maestro, la spartizione tra amici e parenti del pubblico denaro, è la norma. E non basta, in quasi tutti gli interventi nel dibattito che ha portato alla caduta del governo Prodi, i deputati hanno fatto l'elogio dell'immoralità: rubare per far politica non è rubare, è un nobile servizio della sovranità popolare, è la più nobile e provvidenziale delle professioni.

Questo è stato l'argomento principe nella difesa del presidente della regione siciliana Salvatore Cuffaro: ebbene sì, io ho favorito un mafioso che mi procura dei voti, ma che c'è di male? Non è pacifico che così fan tutti?

All'esito della votazione, alla notizia che il governo Prodi era stato battuto da pochissimi voti di alcuni voltagabbana recidivi, tutti già noti per precedenti cambi di campo al miglior offerente, la tribuna dei vincitori si è scatenata come una plebe da circo massimo: vae victis, pollice verso, insulti, stappo di champagne, e un deputato ha persino ingurgitato una fetta di mortadella, come in un rito cannibalesco, per far capire che divorava il vinto e odiato Romano Prodi.

E se uno dei moderati non era stato al gioco omicida, veniva insultato secondo il più omofobo e plebeo degli insulti: 'Vecchia checca'. Lo spettacolo di questa rivincita del moderatismo italiano faceva venire i brividi, ricordava la ferocia della plebe napoletana nei giorni della restaurazione borbonica.


C'è ancora qualcuno che si chiede perché nel Paese si è diffusa una forte delusione per la politica? Le riprese televisive dell'assemblea parlamentare hanno documentato, in modo impietoso, qual è il livello culturale dei nostri onorevoli. Siamo ancora agli avvocati demagoghi delle cronache parlamentari del regno.

Nell'ora drammatica per il Paese, i nostri si compiacciono di citazioni in francese del tipo: après moi le déluge, e le ripetono compiaciuti, le traducono per gli avversari ignoranti. Altro che i 'giochini della politica' lamentati da Silvio Berlusconi. Urla, gesti, facce, linguaggio da angiporto, da lupanare da cui si può capire che la bestialità di certo tifo calcistico non è affatto un'eccezione, se gli onorevoli la ripetono in Parlamento.

Lo spettacolo è stato talmente basso che per una volta persino la stampa al servizio dei padroni ha avuto ritegno ad applaudire. Del resto l'idea che i politici hanno della politica non sembra più esaltante. La politica, diceva il deputato socialista Formica, è "fatta di merda e di sangue"; in una versione meno cruda, il famoso sindaco radicale di Lione Herriot era solito dire: "La politica è come l'andouillette, deve sapere un po' di merda, ma non troppo", l'andouillette è un tipo di salsiccia.

Così l'alta lezione di Machiavelli ha incoraggiato una gara di ladri e ignoranti.
(08 febbraio 2008)

da espresso.repubblica.it


Titolo: GIORGIO BOCCA Un nuovo socialismo
Inserito da: Admin - Febbraio 15, 2008, 09:30:24 pm
Giorgio Bocca

Un nuovo socialismo

Il libero mercato sta portandoci all'autodistruzione, perché il mondo non ha più posto per tutti i desideri e per tutti i soprusi. Al suo posto il socialismo della sopravvivenza arriverà, speriamo, al mercato possibile  La borsa di MilanoSui giornali e alla televisione continua l'elogio del libero mercato, cioè di qualcosa che non esiste, smentito dalla realtà. E mentre si celebra la morte delle ideologie, delle utopie, delle promesse ingannevoli, sale il concerto di lodi al 'capitalismo natura', cioè la corsa al profitto come unico premio ai cittadini laboriosi e unico freno ai pigri e ai disonesti. La giustificazione ripetuta sino alla noia è il solito così siam fatti o così fan tutti. Basta aprire gli occhi e guardare cosa succede nel nostro Paese e nel mondo per capire che questo libero mercato non è libera concorrenza, ma uno scontro di giganti che dispongono di montagne di miliardi e dell'appoggio dei politici al potere, non libero mercato, ma spartizione tra i più forti.

E allora, perché appendergli addosso virtù che non ha e nascondere anche i difetti più macroscopici? Il libero mercato, nel senso di un mercato senza regole che può portare alla fine del genere umano, è la filosofia delle alluvioni, dei terremoti: venir trascinati verso la rovina universale continuando a dire che si tratta di un processo naturale e benefico.

Il libero mercato come selezione dei migliori? Quel che succede realmente in Italia è l'esatto contrario, la corsa al profitto seleziona i peggiori: ci sono province nel nostro Meridione in cui il ceto dirigente, la borghesia al potere negli uffici e nelle industrie, quella che dovrebbe combattere le associazioni malavitose, diventa Mafia, crea la nuova società capovolta dove sono premiati i delinquenti e puniti gli onesti.

Dal libero mercato si passa al partito degli affari, dallo Stato di diritto allo Stato mafioso dove a comandare sono le associazioni dei furbi e ladri. La decomposizione dello Stato di diritto è manifesto: l'applauso del Parlamento a un deputato che difende l'impunità sua e della sua casta, il perdurante e crescente elogio del 'martire' Craxi, cioè del politico che ha creato il sistema delle 'dazioni', i pedaggi che la politica pretende dalla società civile, un politico condannato in modo definitivo dai tribunali della Repubblica, uno che considerava giusto e normale usare ai suoi fini personali i miliardi delle aziende di Stato. Difeso e lodato dal partito degli affari perché aveva ridotto la politica a un affare.

A volte si ha l'impressione che si avvicini la catastrofe finale. La vergognosa vicenda napoletana di una grande città sommersa dalla spazzatura perché i furbi e i ladri per fare soldi non hanno voluto spazzarla via, indica però la via a un socialismo nuovo, non più utopico e romantico, non più evangelico e filantropico, ma da stato di necessità. Un socialismo obbligatorio che s'imporrà per la sopravvivenza, perché il mondo ha dei limiti, perché non ha più posto per tutti i desideri e tutti i soprusi.

Il libero mercato sta portandoci all'autodistruzione: se non provvedi a rimuovere la tua spazzatura, te la ritrovi sulla porta di casa. Il rimedio dei ricchi di passare le loro spazzature ai poveri non è più facile e indolore.

Al posto del libero mercato il socialismo della sopravvivenza arriverà, speriamo, al mercato possibile. Mettendo fine al mercato libero dell'autodistruzione, degli sprechi, dei furti, per passare al mercato ragionevole dei consumi compatibili con le risorse, del benessere esente dagli sprechi e dalle competizioni insensate. E alla rinuncia a una cultura di stampo militare, fatta di continue conquiste e di continui riarmi.

(15 febbraio 2008)

da espresso.repubblica.it


Titolo: GIORGIO BOCCA Si cammina nel vuoto
Inserito da: Admin - Febbraio 23, 2008, 02:34:10 pm
Giorgio Bocca

Si cammina nel vuoto


La politica è senza idee, sostituite dal denaro. Berlusconi è già pronto a dirigere l'orchestra moderata. Il Pd si sta già preparando alla grande coalizione e volta le spalle alla sinistra  Negli anni Sessanta, quando scrissi 'La scoperta dell'Italia', la definii "l'America di vent'anni prima": un Paese alla rincorsa del benessere e della modernizzazione secondo il modello americano.

L'Italia di oggi è più sfuggente, avvolta nei sogni e nelle immagini della televisione, un Paese senza classi, ma sovraffollato da un'umanità indefinibile, la poltiglia di cui parlano i sociologi, da cui emergono nuove categorie.

Fra i poveri ha una triste notorietà la categoria dei caduti sul lavoro, nell'Italia di prima non se ne parlava, come non si parlava delle vittime del traffico: ogni giorno c'erano decine di morti da automobili e decine di morti da lavoro, ma le cronache sorvolavano; perché oggi ogni giorno tutti i telegiornali raccontano di chi è caduto da un'impalcatura o è schiacciato da una macchina? È come sventolare una bandiera sociale, una sentinella coraggiosa morta per conto di tutti.

Un'altra categoria di poveri, ben distinta dalla massa dei poveri che non sanno più di esserlo perché hanno in casa il computer o il telefonino, sono le categorie delinquenziali: le bande che rapinano in villa e seviziano gli inquilini per fargli aprire una cassaforte, i falsi controllori del gas, gli stupratori di periferia e le altre categorie di un Paese dove la criminalità si fa norma.

Di nuovo in questa Italia c'è il modo di far politica all'americana. Una politica dove le idee sono assenti, sostituite dal denaro, e dove affiorano la cattiva letteratura e il generico sentimentalismo. Non l'enciclopedismo della rivoluzione francese, o il marxismo scientifico di quella russa, ma vaghi rimpianti romantici e filantropici: lo 'I care' di don Milani, il 'possiamo farlo' di Obama e di Veltroni, e anche il neonaturalismo dei partiti 'quercia' o 'ulivo'. Come in America i due grandi partiti intercambiabili del moderatismo universale. Silvio Berlusconi è già pronto a dirigere l'orchestra moderata. Gli ex comunisti confluiti nel Partito democratico non sono più per lui i violatori di donne e i mangia bambini, ma dei buoni socialdemocratici, per cui la libertà è preferibile alla giustizia.

Quanto al Partito democratico, si sta già preparando alla grande coalizione, volta le spalle alla sinistra, si appresta a formare il partito dei buoni cittadini che trascurano le idee e pensano al fare, che naturalmente sarà anche il partito del rubare. A tutti i neo moderati le elezioni americane sono parse illuminanti, trascinanti, anche se non si capisce il perché, trattandosi di una partita giocata e decisa dai soldi e condita dagli snobismi letterari, dai divismi personali, dalle demagogie. Preferibile certo alle ferocie e alle violenze dei regimi autoritari, ma sostanzialmente una copertura della tecnocrazia al potere.

Se questo sarà nel prossimo futuro il modello moderno dello Stato di diritto, l'unica consolazione possibile sembra quella churchilliana: "La democrazia è piena di difetti, ma non si è ancora trovato qualcosa di meglio".

Su tutto e tutti regna un generale smarrimento, un vago senso di camminare nel vuoto. Le grandi potenze, Stati Uniti e Russia, continuano a riarmare pur sapendo, dagli anni della guerra fredda, che la guerra è impossibile. Il ministro della Difesa americano rimprovera gli europei di essere imbelli, mentre nel suo Paese è scomparso l'esercito dei cittadini, sostituito da quello dei mercenari; tutti i paesi del mondo temono l'effetto serra e tutti continuano a produrre veleno; tutti predicano i diritti umani, ma persino gli inglesi ordinano ai loro atleti di non parlarne alle Olimpiadi di Pechino. I fascisti non sono più fascisti, i razzisti vanno a visitare lo Yad Vashemm, il museo dell'Olocausto a Gerusalemme; il papa tedesco torna al Concilio di Trento, anche se la sua chiesa lamenta la scomparsa delle vocazioni religiose.

(22 febbraio 2008)

da espresso.repubblica.it


Titolo: GIORGIO BOCCA. Divorati dal progresso
Inserito da: Admin - Marzo 08, 2008, 04:54:30 pm
Giorgio Bocca.

Divorati dal progresso


L'ossessione del primato subito superato da uno nuovo. Le mode che nel passato erano secolari, oggi durano mesi o settimane. Un modo per resistere a questa usura sarebbe la riscoperta della lentezza  Pippo Baudo e Piero Chiambretti durante
l'ultimo festival di SanremoL'informazione corre dietro alla record-mania, al culto del primato. Chi è il più ricco del mondo? Non fai in tempo a sapere che è l'americano spilungone e dinoccolato, il geniale e filantropico Bill Gates, padrone di Microsoft, che subito i media ti correggono: è stato superato le cento volte e nei modi più imprevedibili dai nuovi super ricchi su cui non avresti puntato un euro: dall'iraniano che controlla il traffico del petrolio nello stretto di Hormuz, al palazzinaro in grattacieli del Dubai, all'indiano che fabbrica automobili a bassissimo costo, al sindaco Bloomberg di New York, il re della stampa finanziaria, alla signora cinese che ricicla la carta straccia, all'australiano Murdoch di Sky che ha televisioni nei cinque continenti, agli ex giovanotti di Yahoo che non si ritengono appagati da un'offerta di quaranta miliardi di dollari, o a qualche emiro arabo che ha appena ordinato a un cantiere di Viareggio uno yacht lungo più di cento metri.

Eugenio Montale, che era un poeta e conosceva i vizi degli uomini, diceva che madre natura ha dovuto adattarsi alle nostre debolezze, dell'animale che domina il mondo, ma fisicamente è il più sprovvisto: senza artigli, senza pelliccia, senza zanne capaci di azzannare la preda, con denti indeboliti dai cibi cotti. Intelligente e avido, ma preso in contropiede dall'abbondanza dei suoi strumenti e dall'impazienza dei suoi desideri.

Un modo per resistere all'usura del progresso sarebbe la riscoperta della lentezza, celebrata quest'anno per la seconda volta da una giornata mondiale, e dai nutrizionisti come Carlin Petrini dello Slow Food. Ma l'ossessione del primato è dominante: nel mondo delle canzoni hai appena conosciuto l'americana che ha venduto cinque milioni di dischi, che è già stata superata dalla francese o dalla cubana o dalla polinesiana che di milioni ne hanno venduti sei o sette.
La rubrica obbligatoria in tutti i programmi è la top ten, la classifica dei dischi più venduti, dove ogni paese piazza i suoi campioni, il nostro da Mina alla Pausini.

Nel passato le mode erano secolari, legate di solito al monarca che aveva dominato quel secolo, Luigi XIV o Napoleone, oggi durano mesi o settimane, come quella degli abiti. I tempi si sono ristretti; mobili, vestiti, monili, libri che passavano da una generazione all'altra si consumano subito e passano al mercato dei robivecchi, di cui il poeta Morpurgo ha scritto: "Sono stato al mercato dell'usato, e mi hanno subito comprato".

Guido Piovene di questo progresso divorante diceva: "È importante, ma guai se finisce in spazzatura". Giovani impazienti occupano il mercato abbandonato dagli anziani stanchi. I nostri nipoti e nipotini sanno usare gli strumenti dell'informatica meglio di noi anziani. Perché si trovano in casa gli strumenti della modernità, ma anche, diremmo, per una disposizione misteriosa, come se il loro udito, il loro tatto fossero diversi dai nostri, più adatti al nuovo. Il nuovo è ciò che domina il nostro tempo, non sai più se l'apprendimento sia un vantaggio o un cattivo uso del tempo, se un progresso nella conoscenza o nella confusione.

Credevamo che nel nostro cielo volassero gli angeli. Non era così, ma certamente erano meglio quegli angeli immaginari che i rottami e la sporcizia lanciati nello spazio dai nostri razzi, gentilmente chiamati dai russi 'Rakiete'.

(07 marzo 2008)

da espresso.repubblica.it


Titolo: GIORGIO BOCCA. Il regno della neve
Inserito da: Admin - Marzo 11, 2008, 05:47:19 pm
Il COMMENTO

Il regno della neve

di GIORGIO BOCCA


 Per millenni il monte anonimo, poi il Mont Maudit, inaccessibile e maledetto, il pilone di granito che chiude la Val d'Aosta e domina la catena alpina, visibile dalla lontana Ginevra: un pan di zucchero lontano che galleggia nell'azzurro del cielo.

Per millenni né Italia, né Francia, né Savoia, troppo alto, troppo grande per appartenere a uno Stato o a un municipio.

Gli abitanti delle valli che lo circondano lo chiamavano Harp, che vuol dire "alta montagna", di cui abbiamo avuto notizia quando sui roccioni che dominavano Courmayeur apparvero in vernice bianca delle grandi "H" scritte dai separatisti. Le patrie che circondano il gigante finiscono sui ghiacciai sopra i quattromila metri, più in alto, si sono avventurati per secoli solo i raccoglitori di cristallo come Balmat, il primo scalatore della montagna.

Sopra i quattromila gli antichi non si avventuravano, agli antichi le altitudini non interessavano, le lasciavano ai camosci e alle marmotte, ecco perché sulle carte le disegnavano tutte uguali: a denti di sega senza nome.

Sopra i tremila niente è cambiato in questi secoli. La linea dei boschi è rimasta stabile, i ghiacciai camminano un po' su e un po' giù. Sono invece in mutamento continuo gli uomini, gli animali, le macchine, le case. Non ci sono più i gamberi di fiume nella Dora, i ranocchi nelle acque ferme del marais in Val Veny, i ballatoi di legno, i mulini ad acqua, gli spartineve trainati dai cavalli, le file dei muli che salivano i valichi, le slitte per le corvée, quando di neve ne veniva giù cinque o sei metri.

A Courmayeur, sotto il Bianco, si coltivava tra i turisti una necrofilia alpina: l'elenco di tutti i morti da slavina o da valanga. Si ripercorreva con zelo il loro ultimo cammino, riponendoci le domande inutili sulle sciagure avvenute. Perché avessero perso l'equilibrio in un passaggio facile, come Gervasutti, il grande alpinista chiamato il Fortissimo, in una elementare corda doppia. Nel regno del bianco c'era un altro svago canonico: riconoscere, ricordare, tutti i nome delle vette, o aiguilles, o denti, o picchi, o vedrette o combe, o laghi come corredo di favole e leggende. "E voi montagne ci guardate, ci guardate, ma non siete mai cadute".

Che ha voluto dire Elias Canetti? Che fra noi uomini e loro montagne c'è un rapporto impari, metafisico, le nostre mode contro la loro immobilità, le nostre passioni contro la loro indifferenza. Noi, che per secoli le abbiamo ignorate, improvvisamente abbiamo rivolto loro un'attenzione morbosa.

Ho intervistato scalatori famosi, ancor presi dalla montagna come una donna bellissima e assassina. La conquista del Monte Bianco è un compendio della cultura romantica dell'Europa felix prima delle guerre mondiali. Il gigante come un miraggio cui si davano mutevoli nomi: Alpis Albus, Saxus Albus, Malé, Maudit, e si immaginava che lassù, dietro la vetta, ci fosse un gigantesco serbatoio di neve da cui scendevano le lingue di ghiaccio. Arrivò per primo in vetta Balmat, con un medico di Chamonix, e poi fu la volta dello scienziato ginevrino De Saussure, che restò per tre ore sulla vetta coi suoi strumenti scientifici, e poi fu il turno di una donna, Henriette d'Angeville, che aveva per motto "vouloir c'est pouvoir".

Meno romantica la scalata di un'altra donna, Marie Paradis, una valligiana portata su di peso dalle guide di Chamonix, per fare reclame sui giornali. C'è stata anche la Courmayeur degli antifascisti, le amate montagne che gli antifascisti torinesi vedevano in fondo ai corsi alberati e diritti delle loro città. Amate perché sicure per le loro amicizie e per i loro discorsi, perché il fascismo era degli aviatori, dei bersaglieri e non degli alpini.

(11 marzo 2008)

da repubblica.it


Titolo: GIORGIO BOCCA. In fondo a una cisterna
Inserito da: Admin - Marzo 15, 2008, 12:29:14 pm
Giorgio Bocca

In fondo a una cisterna


Della tragedia di Gravina abbiamo capito solo una cosa. Che la nostra resta una società per molti aspetti primitiva e arretrata in cui il controllo sociale si riduce all'antico luogo comune 'facciamoci gli affari nostri'  Francesco e Salvatore Pappalardi,
i due fratelli scomparsi a GravinaSulla tragedia dei due bambini di Gravina trovati morti in una cisterna, sono state date migliaia di versioni. Ma in questa molteplicità di voci, di lamenti, di sdegni non abbiamo trovato un atto di coscienza né dello Stato, né della regione, o del comune, o della sanità pubblica, o della magistratura, insomma delle istituzioni. Lo Stato non ha dato risposta alle domande che mettono in gioco la sua ragion d'essere.

A Gravina c'era un edificio abbandonato in cui un pozzo profondo venticinque metri scendeva in una cisterna senza vie d'uscita. Possibile che fosse senza copertura? Perché il Comune e le pubbliche autorità non si sono mai curate di coprirlo? A Gravina, come in molte altre città italiane, si piange, si depreca, si portano mazzi di fiori sui luoghi della tragedia, si applaude al passaggio delle bare durante i funerali, riti funebri dal sapore arcaico con le donne che urlano lamenti come le prefiche, ma la società, lo Stato, dove sono?

Due bambini scompaiono, li si cerca per mesi, loro padre è sospettato di averli uccisi, la polizia e le squadre di volontari esplorano città e campagna. Ma che tipo di ricerche e di esplorazioni furono, se non ci si accorse dei due cadaveri nella cisterna? Furono ricerche serie, oppure ci si accontentò di lasciare dei segni con la vernice rossa sulle pareti, come prova che erano avvenute? E qualcuno delle pubbliche autorità si è chiesto come mai in una cisterna larga pochi metri non siano stati visti i due bambini morti, che pure indossavano abiti visibilissimi? Le pubbliche autorità trovavano normale che gruppi di ragazzi ogni giorno corressero rischi mortali correndo fra i ruderi?

Ci siamo rilette le spiegazioni che polizia, magistratura, cittadini hanno dato di questa mancanza di prevenzione e di attenzione, e abbiamo trovato resoconti incomprensibili, in un burocratese infarcito di frasi dialettali. Che cosa abbiamo capito? Che
la nostra resta una società per molti aspetti primitiva e arretrata in cui il controllo sociale si riduce all'antico luogo comune 'facciamoci gli affari nostri'.

A Gravina tutti si conoscono e si sorvegliano. Ci sono anche le telecamere che registrano ogni movimento, anche una telecamera che vide passare uno dei fratellini, quello che aveva i pantaloni bianchi. Ma questa sorveglianza totale, questa civica onniscienza finiscono, come i due bambini, in una cisterna senza uscita, nel buio fondo dell'omertà, dell'irresponsabilità, del 'qui lo dico e qui lo nego'. La magistratura ha inquisito il padre dei due bambini senza arrivare ad alcuna certezza, creando il solito processo indiziario. La ragione è che è assai difficile fare giustizia in un paese in cui manca l'essenziale per farla: il consenso e la collaborazione dei cittadini, dove chi ha visto tace, chi sa non parla, sicché ogni fatto di cronaca nera si trasforma immediatamente in un giallo irrisolvibile.

Anche la strage di Erba, che nonostante i testimoni oculari e le ripetute confessioni degli assassini, è un giallo in cui si cerca il fantomatico 'terzo uomo'. Un giorno a Lugano, che sta nella Svizzera italiana, cioè abitata da italiani come noi, vidi un tale arrivare in auto e posteggiare davanti a un negozio sul lungolago dove la sosta è proibita. Se ne andò mentre dal negozio usciva di corsa una commessa che, non essendo riuscita ad avvertirlo, telefonò alla polizia che subito arrivò per mettergli la multa sul parabrezza. Dicono che la Svizzera, anche quella abitata dagli italiani, sia un Paese noioso e anche un po' gretto, ma fabbrica orologi che funzionano, amministrazioni efficienti e persino barche che vincono la coppa America, il campionato del mondo.

A Gravina, come in altre città italiane, gli abitanti sono intelligenti, pronti, per nulla noiosi, ma continuano a soffrire e a morire anzitempo perché la società, cioè lo Stato, per loro resta un estraneo di cui diffidare.

(14 marzo 2008)

da espresso.repubblica.it


Titolo: GIORGIO BOCCA. Il paese delle mille leghe
Inserito da: Admin - Marzo 21, 2008, 07:43:48 pm
Giorgio Bocca

Il paese delle mille leghe


Ieri la colpa delle differenze tra il Nord avanzato e il Sud arretrato era solo del capitalismo e del suo egoismo. Ma dietro i malanni del Sud c'era ben altro. Ce ne accorgiamo oggi. Con una borghesia che ha fatto proprio il sistema mafioso  Un simpatizzante a un congresso
della Lega NordNel 1990, l'Italia dei vecchi partiti sembrava ancora intoccabile, immutabile. Poi un movimento politico rozzo ma vitale, la Lega Lombarda, spezzò come un fiume in piena gli argini dei partiti-padrone e mise in crisi dei tabù che sembravano intoccabili. Fra questi l'unità d'Italia e il suo corollario, il meridionalismo, il primo figlio della cultura risorgimentale, il secondo di quella marxista.

Era fuori discussione l'esistenza di una nazione 'una e indivisibile' dal Brennero alla Sicilia. Se restavano delle differenze tra il Nord avanzato e il Sud arretrato, la colpa era unicamente del capitalismo e dei suoi egoismi. Fu allora che scrissi un pamphlet che aveva per titolo 'La disunità d'Italia' e mi resi conto che questo problema centrale era stato rimosso dalla cultura dominante e dal sistema politico.

Anche uno come me, che come giornalista aveva percorso in lungo e in largo il Paese, scritto libri sulle sue sconfitte e i suoi miracoli, non aveva avuto il coraggio di guardare fino in fondo, si era sempre in qualche modo fermato alla storia sacra, alla certezza che l'unità d'Italia esisteva ed era in progresso, che si andava rafforzando grazie ai media comuni, al mercato comune, e che i ritardi del Sud erano pedaggi necessari, errori rimediabili.

Scrivendo 'La disunità d'Italia' mi resi conto di quanto fosse superato il meridionalismo marxista, il piagnisteo sui torti e i soprusi subiti dall'Italia povera da parte dell'avido capitalismo nordista, C'era ben altro dietro i malanni del Sud, e negli anni a venire ce ne saremmo resi conto.

Oggi la disunità d'Italia si è fatta più profonda, e lo scandalo napoletano non è soltanto un'emergenza straordinaria, una sciagura naturale incontrollabile, un'onda anomala inevitabile, ma una calamità fabbricata con le nostre mani, sacchetto d'immondizia dopo sacchetto gettato in strada.

Lo scandalo dell'immondizia ci ha ricordato che in Italia non c'è ancora uno Stato unito. Il commissario straordinario incaricato di risolvere il problema, Gianni De Gennaro, non è riuscito a superare questa mancanza di Stato, a vincere l'anarchia popolare, a mettere d'accordo le amministrazioni locali e gli interessi a esse legati. Le decisioni via via prese dal commissario per aprire delle discariche o per mettere in funzione gli inceneritori, sono state sistematicamente bloccate dalla mancanza di una organizzazione statale coesa e logica.

I fatti che confermano la disunità d'Italia sono sotto gli occhi di tutti, a cominciare dalla diffusione del modo mafioso di gestire il pubblico denaro. La mafia non è più soltanto la secolare organizzazione criminale, gestita da gente del popolo. Se n'è impadronita la borghesia delle professioni e delle arti, dei 'galantuomini' che usano la sanità, i lavori pubblici e gli uffici giudiziari come una loro proprietà.

Questa nuova mafia viene rivelata dalle retate che quasi ogni settimana ciò che resta di polizia e di giustizia compiono fra 'cittadini al di sopra di ogni sospetto', la borghesia che in questi anni ha adottato il sistema mafioso, che si è impadronita delle unità sanitarie, dei cantieri stradali, e persino dei boschi pubblici, vedi in Calabria la riserva di Isola Capo Rizzuto, che i notabili locali usano come loro proprietà e che affidano gratuitamente alle guardie forestali dello Stato.

La presenza della disunità è visibile anche nel costume e nella morale pubblica. Nel secolo borghese c'era almeno un reato imperdonabile: rubare ad altri borghesi con il fallimento, un delitto da pagare con la vita, oggi rubare, anche ai soci e agli amici, è diventato cosa normale di cui i furbi si vantano. La disunità d'Italia è confermata dai due opposti populismi politici: la Lega Nord e quella siciliana dell'onorevole Lombardo, che hanno ricominciato con le reciproche accuse.

(21 marzo 2008)

da espresso.repubblica.it


Titolo: GIORGIO BOCCA. - Silenzio su Gomorra
Inserito da: Admin - Marzo 30, 2008, 04:12:33 pm
Silenzio su Gomorra

di Giorgio Bocca


Il fatto: alla Corte d'Assise di Napoli il difensore di due camorristi presenta un'istanza di legittima suspicione perché lo scrittore Roberto Saviano, la giornalista Rosaria Capocchione del 'Mattino' e il magistrato dell'antimafia Raffaele Cantone (il primo con il libro 'Gomorra', l'inchiesta sull'associazione mafiosa, la seconda per gli articoli sul 'Mattino' di Napoli, il terzo per la sua attività all'antimafia) avrebbero influenzato la corte.
L'istanza è firmata da due camorristi di Casal di Principe, i cosiddetti casalesi, ed è irridente e minacciosa. Saviano è chiamato il "presunto romanziere", per dire che ha inventato favole, la Capocchione "pennivendola", entrambi d'accordo con il magistrato "calunniatore". I firmatari sono: il camorrista Francesco Bidognetti e Antonio Iovine, latitante da 12 anni, entrambi già condannati in primo grado all'ergastolo. E Antonio Iovine è considerato l'organizzatore del traffico di rifiuti della Campania. Ci si chiede: perché i camorristi di Casal di Principe ostentano una tale arroganza verso i giornalisti e i giudici? E perché una tale arrogante provocazione passa quasi sotto il silenzio dei politici e dei media? L'arroganza è una tradizione dei camorristi di Casal di Principe e del loro leggendario capo dal nome salgariano di Sandokan: grande bandito che insultava, minacciava, taglieggiava i suoi impauriti concittadini.

La scarsa attenzione dei politici e dei media si può spiegare con la vigilia elettorale, con la vecchia regola dei politici di 'non parlar di corda in casa dell'impiccato', qui del sistema mafioso che si è allargato dalla Sicilia all'intero Meridione ed è risalito al Veneto e alla Lombardia.

Un argomento scomodo, l'inchiesta di Saviano nel libro 'Gomorra'. Per toglierselo dai piedi le nostre autorità volevano relegarlo in una 'località protetta', cioè all'Asinara, dove erano stati reclusi i brigatisti rossi; ora Saviano, cui va la mia piena solidarietà e quella dei giornalisti de 'L'espresso', vive chiuso in casa e ha una scorta dei carabinieri. Di solito le istanze per la legittima suspicione vengono depositate agli atti senza darne lettura. Ma in questo caso l'avvocato difensore ha potuto leggerla in aula: 60 pagine di insulti e minacce, senza che nessuno dei magistrati presenti reagisse; non era mai accaduto nulla del genere.

La richiesta di legittima suspicione ricorda le dichiarazioni di guerra allo Stato da parte dei corleonesi quando passarono all'uccisione di magistrati e poliziotti. Silenzio dei leader moderati, un breve comunicato Ansa di Veltroni e Bertinotti, una telefonata di Napolitano al direttore del 'Mattino': "Esageruma nen", come diceva Norberto Bobbio.




20 marzo 2008
da www.robertosaviano.it


Titolo: GIORGIO BOCCA. - I valori della Mafia
Inserito da: Admin - Marzo 31, 2008, 07:11:56 pm
Giorgio Bocca

I valori della Mafia


L'Onorata Società è cambiata tecnicamente, negli impieghi finanziari, negli affari, ma resta intatto quel misto tra l'associazione criminale e la confraternita religiosa. L'incarnazione del rifiuto delle altre società che si nutre di pene e di sofferenze più che di piaceri e di sprechi  Totò RiinaIl 'papa' della Mafia, Michele Greco è uscito dalla prigione per andare al cimitero senza dire una parola sulla sua vita di capo della Onorata Società, continuando a negare l'impossibile: "Nessuno può dire che mi sia ammafiato". Eppure è provato fuori da ogni possibile dubbio che ha diretto per anni la cupola mafiosa, ordinato omicidi e sequestri, diretto il commercio della droga.

I capimafia muoiono senza parlare. Totò Riina e Nitto Santapaola sono scomparsi nel carcere di massima sicurezza rinunciando al bisogno umano di raccontare chi sono stati, che poteri hanno avuto. La mafia nega se stessa proprio quando la riafferma, ed è questa assurdità che la distingue da una organizzazione criminale comune, è una setta sacrificale. Questa è la ragione per cui anche un nemico, il più duro dei nemici, come Giovanni Falcone, le ha riconosciuto una perfezione, al negativo, ma sempre perfezione. I capimafia in catene riaffermano il dogma della omertà mafiosa, indiscutibile, al confronto la fragilità degli 'onesti', uomini politici o degli affari che siano, è totale.

La mafia è cambiata tecnicamente: nei suoi impieghi finanziari, nei suoi affari, ma i suoi valori restano intatti, valori da società segreta, a metà tra l'associazione criminale e la confraternita religiosa. I capi mafiosi che tengono in casa altari e immagini sacre, che credono nella religione, sembrano paranoici, ma in sostanza riaffermano la separatezza della mafia, affermano che anche nel loro mondo separato si può cercare l'illusione e il conforto della religione.

Per la borghesia degli affari il conto in banca è qualcosa di più che l'arricchimento: è una stella polare, la giustificazione dei peccati. La fedeltà alla 'organizzazione', come la chiamava il padre di Corrado Alvaro, il rispetto assoluto del silenzio mafioso, sono orrendi, ma diversi dalla delinquenza comune. È una separatezza alla quale cerchiamo spiegazioni antiche, storiche e antropologiche: gli invasori stranieri arrivati nell'isola da ogni parte del mondo antico, greci, fenici, latini, normanni, arabi, svevi. La successione degli Stati stranieri che la Sicilia profonda ha rifiutato e combattuto, rimane nella mafia, anche se degradata a società di assassini.


Viviamo la mafia come un popolo di alieni, che ci sorprende per il suo modo di ragionare o di non ragionare. Gli storici, i magistrati, i sociologi che la studiano si chiedono come sia possibile che decine di migliaia di persone abbiano introiettato nei secoli una così invincibile diffidenza verso ogni tipo di Stato, introdotto o imposto dai dominatori stranieri. I comportamenti di una famiglia mafiosa, come quella di Riina, sembrano inseguire un continuo e desiderato sacrificio, un oscuro desiderio di morte. Il figlio di Riina ventenne è già stato condannato all'ergastolo, la moglie di Riina, Antonietta, è tornata a vivere a Corleone, come se questa fosse la sua Gerusalemme, la sua città sacra e insostituibile.

Gli studiosi della mafia sono tentati di scambiare la 'cupola' per un consiglio di amministrazione, ma è qualcosa di diverso: è l'incarnazione del rifiuto delle altre società, un'incarnazione che si nutre di pene e di sofferenze più che di piaceri e di sprechi. Quasi tutti i capi mafiosi sono ammalati di cuore o di reni, corrosi dalle ansie e dai fantasmi dei loro delitti.

(29 febbraio 2008)

da espresso.repubblica.it


Titolo: GIORGIO BOCCA. Immortale e fragile
Inserito da: Admin - Aprile 05, 2008, 11:13:45 am
Giorgio Bocca

Immortale e fragile


Ora che ho compiuto il mio percorso fra immortalità e fragilità, mi pare di vedere più lucidamente le opportunità e i rischi della vita, ma sempre dominato, trascinato da quei due opposti stati d'animo  I due tempi dell'uomo: quello dell'immortalità e quello della fragilità. La certezza di essere immortale è propria degli anni verdi, quando si è giovani e forti. Ma non sempre. A volte quella certezza è di breve durata, si spegne, il dio che ti protegge ti abbandona, se ne va.

Ho conosciuto in guerra uomini valorosi, di coraggio estremo, primi negli assalti, nelle marce in territorio nemico e li ho visti ripresi dalla fragilità, li ho visti tornare alle prudenze, a nascondersi, come se in loro si fosse spenta la forza vitale. Li riconoscevi dal sorriso incerto, dai trasalimenti.

Ho incontrato la certezza nell'immortalità nei giorni di guerra. Sei in un bosco per seguire i movimenti del nemico che ti cerca. Sei vicino a un albero di tronco forte, in piedi dietro l'albero, e d'improvviso nell'aria arriva come uno schiaffo, come un soffio, vedi nel tronco zampillare una raffica di proiettili. Ti morde uno spasimo di paura, ma resti certo della tua immortalità, la Parca non ha ancora spezzato il filo della tua vita. Oppure sai che dietro la svolta della strada può esserci un agguato, che dietro quel dosso c'è un nemico, ma se sei certo dell'immortalità troverai uno scampo.

Nella certezza dell'immortalità anche il buio può esserti amico, il buio che ti ha atterrito nell'infanzia può diventare una difesa: puoi passare un valico presidiato dal nemico, rasentare le sue guardie, sentire i loro richiami, ma passare. Nel buio che prima ti atterriva ti muovi come l'uomo invisibile delle favole, ti spingi fin sotto la casa dove il nemico si è trincerato per la notte, vedi quello che sta di guardia a una finestra, vedi la brace della sua sigaretta e puoi anche risparmiargli la vita, perché l'immortalità ti fa generoso.

Nel tempo della fragilità, che prima o poi arriva, quando la protezione del tuo dio ti ha abbandonato, vivi nel vuoto e cerchi di riempirlo, allontanarlo dietro porte blindate, casseforti murate, occhi di telecamere appesi alle pareti, ronde di sorveglianti e anche di cani feroci, che lasciano sempre passare i ladri e gli assassini, i 'cave canem' ignorati nei secoli. Nel tempo della fragilità sai di essere un guscio sottile, debole, che anche un bambino può spezzare.

È questa fragilità di molti, di tutti, che ha creato alla società, lo stato, il bisogno assillante della sicurezza di cui parliamo in continuazione e che non raggiungiamo mai, l'eterna promessa dei governanti, il loro eterno inganno che funziona quando sono in cerca del tuo voto, del tuo consenso.

Ora che ho compiuto il mio percorso fra immortalità e fragilità, mi pare di vedere più lucidamente le opportunità e i rischi della vita, ma sempre dominato, trascinato da quei due opposti stati d'animo, dell'immortalità divina e della fragilità senza scampo. Sbagliano gli uomini a sorridere delle loro eterne scaramanzie, del cercare per tutta la vita i segni della fortuna e sfuggire quelli della sventura. Sbagliano quelli che, nel tempo dell'immortalità, cedono alla superbia e al disprezzo per i deboli. Prima o poi arriverà anche per loro il tempo di sentirsi nudi e indifesi. Non c'è eroe, non c'è potente, non c'è tiranno che possa sottrarsi a questa altalena tra la fiducia e la disperazione. Dicono che essa sia ciò che ci distingue dagli animali. Ma che ne sappiamo noi di loro?

Guardare indietro, ricordare i giorni dell'immortalità in quelli della fragilità è un esercizio rischioso che può lasciare atterriti. Come è stato possibile che tante volte abbiate sfiorato la morte o le mutilazioni e le invalidità, come avete fatto a resistere alle fatiche incredibili, che abbiate resistito per mesi, per anni, a quelle angosce? I reduci mentono a se stessi per poter ricordare. Un tempo che per essi resta memorabile, ma anche incredibile e assurdo quando se ne è usciti.

(04 aprile 2008)

da espresso.repubblica.it


Titolo: GIORGIO BOCCA. I dannati dello sport estremo
Inserito da: Admin - Aprile 11, 2008, 03:06:47 pm
Giorgio Bocca

I dannati dello sport estremo


I resoconti sulla preparazione olimpica degli atleti sfiorano a volte l'orrore. E in questa ricerca del primato a fini di lucro o di potere si è formata una burocrazia cinica che alleva una gioventù decerebrata e capricciosa  Il baby-fenomeno inglese Thomas Daley,
13 anni, agli Europei di EindhovenPerché i comunisti cinesi vanno pazzi per le Olimpiadi? Per la stessa ragione, diremmo, per cui andavano pazzi gli stalinisti sovietici, i nazisti tedeschi e gli impresari delle università americane. Perché lo sport ossessivo dei record è il modo migliore per fabbricare dei giovani fanatici, contenti di esserlo, felici di non pensare, di non essere liberi, di non amare, e soprattutto di sopportare le burocrazie che campano alle loro spalle.

Cosa sono queste Olimpiadi per cui si è pronti a sacrificare i diritti umani? La libera partecipazione di de Coubertin, o la fabbrica di nuovi autoritarismi? Giornali e televisioni raccontano la preparazione degli atleti, dei campioni famosi. Chi sono? Che vita fanno? Una vita da forzati, infantiloide, fra rinunce alle cose piacevoli della vita, isolamenti, capricci divistici, deformazioni fisiche.

Prendiamo una giovane nuotatrice. Sveglia alle sette del mattino, mezz'ora di ginnastica e riscaldamento muscolare, colazione spartana, poi in piscina per ore, per chilometri, con aggiunta di torture specialistiche come nuotare tirandosi dietro un secchiello forato per rinforzare le gambe, o fare sottacqua metà piscina per avere delle partenze e virate migliori, spaccarsi la schiena per delle nuotate innaturali come quella a delfino. In un ambiente dominato dai moralismi ipocriti che guidano la ricerca ossessiva dei primati.

La burocrazia moralista considera diabolico l'uso delle droghe e degli eccitanti, il 'dopaggio', come lo chiamano; ma che altro è uno sport che ti obbliga a continui superamenti dei limiti naturali? Si è spietati con chi fa uso di droghe, ma che altro è costringere degli adolescenti a esercizi da circo equestre, o un saltatore in lungo a esercizi scimmieschi per 'migliorare la spinta'?

I resoconti sulla preparazione olimpica
sfiorano a volte l'orrore. Dai maratoneti etiopici o abissini costretti a vivere correndo, alle ginnaste-bambine obbligate a diventare mostruosi fasci muscolari per una vita di contorsioni e di salti mortali. E il tuffatore bambino che a 13 anni salta dal trampolino di dieci metri e se sbaglia resterà invalido a vita?

Ma c'è qualcosa di peggio. In questa ricerca del primato a fini di lucro o di potere, estranea allo sport, si è formata una burocrazia cinica, che pur di avere successo e prebende alleva una gioventù decerebrata, capricciosa, che torna a credere nei feticci, negli amuleti, nei finti amori e nelle finte passioni, nei finti fidanzatini. Le nuotatrici famose se li scambiano per andare più forte, gli allenatori li usano. E attorno a questa umanità di bambini muscolari, ecco fiorire un giornalismo di super-esperti, dal linguaggio gergale, composto da luoghi comuni comprensibili solo ai cercatori di record, ma incapace di parlare, di raccontare.

In questa abbondanza di primati eccelsi, sempre più lontani dai limiti umani, viene poi fuori la poltiglia delle frasi ripetute, dei sentimenti inespressi. Non una nuova epica, una nuova letteratura, ma le ridicole rievocazioni della Olimpia greca, con le cerimonie delle danzatrici in tuniche bianche che accendono fiaccole da spedire in aereo per il giro del mondo.

Giorgio Ruffolo ha scritto un bel libro sul capitalismo estremo, che per vari motivi sembra avviato all'autodistruzione. Ma lo sport estremo non segue forse la stessa parabola?

Sono in vendita per i computer dei filmini sullo sci estremo ambientato nelle montagne americane sempre coperte da neve fresca e farinosa. Gli sciatori estremi come gladiatori, disposti a ferirsi e a morire per lo spettacolo. Pare abbiano successo. L'orrore è arrivato anche nel mondo innocente e silenzioso della neve.

(11 aprile 2008)

da espresso.repubblica.it


Titolo: GIORGIO BOCCA. Rimpianto dei Prodi
Inserito da: Admin - Aprile 18, 2008, 12:18:20 am
Giorgio Bocca

Rimpianto dei Prodi


Romano Prodi e la sua famiglia risultano insopportabili agli avversari per la loro normalità.

E fanno uscire pazzi di rabbia quelli che di ogni incarico pubblico fanno un affare privato.

Nel giorno in cui gli italiani ricevono la prima buona notizia di questo annus horribilis, cioè l'assegnazione a Milano dell'Expo 2015; nel giorno in cui il sindaco di Milano, la signora Moratti, riconosce pubblicamente a Romano Prodi di aver operato con pazienza, dedizione e competenza internazionale per ottenere la maggioranza dei voti stranieri, il Cavalier Silvio Berlusconi ha continuato e rincarato attacchi, insulti e derisioni a Prodi. Confermando l'idea che prima Giolitti e poi Mussolini ebbero della politica in questo paese: "Governare l'Italia, più che impossibile è inutile".

Come è noto Prodi ha rinunciato a candidarsi a capo del governo e a deputato in Parlamento. E uno dei suoi ministri, Vincenzo Visco, non è neppure stato presentato alle elezioni dal Partito democratico. Il ceto dirigente e la pubblica opinione non hanno espresso né stupore né rincrescimento per questo ritiro dalla vita pubblica di due persone cui va riconosciuto il merito eccezionale, e forse per questo ignorato e biasimato, di avere, per primi nel paese dei privilegi personali e delle pubbliche negligenze, rimesso ordine nei conti dello Stato e fatto pagare le tasse agli evasori. Associati nell'odio e nel disprezzo dei benpensanti, dei 'moderati', al ministro Di Pietro, che il Cavaliere di Arcore definisce nei suoi comizi "un uomo che mi fa orrore", e si capisce perché, perché ha osato mandare a giudizio i più noti ladroni della Repubblica.

Nella letteratura mondiale, dal tempo remoto dei classici, esistono satire, saggi, racconti sul mondo alla rovescia, dove gli onesti finiscono in prigione e i furfanti trionfano. Ma qui si esagera, ed è proprio questa esagerazione, questa mancanza di limiti, di rispetti, di misure, che ci fa capire a fondo la crisi della nostra società.

Romano Prodi e la sua famiglia appartengono a quella media borghesia che ogni società civile considera il suo sostegno: professori, scienziati, amministratori, economisti, storici, di buoni studi, uomini per bene con mogli e figli per bene, pronti come Prodi a pagare le ambizioni politiche con le fatiche e i sacrifici propri del 'servitore dello Stato'.


Il sindaco di Milano Letizia Moratti lo ha riconosciuto pubblicamente: il Professore emiliano pacioso e bon vivant ha perso molte notti per tenere i contatti coi delegati stranieri da cui dipendeva la scelta di Milano, e lo ha fatto anche a vantaggio di un sindaco e di una città che politicamente non stanno dalla sua parte. Ma al Cavaliere di Arcore è bastato individuare in lui il più forte ostacolo alla sua rivincita per insultarlo e deriderlo da mesi, per ordinare alla sua stampa 'gialla' una diffamazione sistematica quanto incivile, arrivata ad accusarlo di aver nascosto i regali avuti come capo del governo, come a dire di aver rubato i 'gioielli della corona'.

Ciò che in Prodi è insopportabile per i suoi avversari è la normalità, la sua vita privata è quella di una persona normale, civile. Non è un tycoon, non è un miliardario, non è un seduttore, un macho, e neppure un tiranno, è uno che essendo fra le persone più influenti nell'establishment dell'Iri, cioè nella concentrazione più alta della finanza e del potere pubblico, non ha rubato. C'è da far uscire pazzi di rabbia quelli che di ogni incarico pubblico fanno un affare privato.

Conosciamo i vizi e le assurdità del nostro Paese, e le ragioni serie dell'antipolitica, ma non al punto di rinunciare alle poche persone oneste e capaci, non al punto di rassegnarsi alla sconfitta e alla disperazione.

(17 aprile 2008)

da espresso.repubblica.it


Titolo: GIORGIO BOCCA. Milano nell'Italia che cambia
Inserito da: Admin - Aprile 18, 2008, 02:17:07 pm
POLITICA IL COMMENTO

Milano nell'Italia che cambia

di GIORGIO BOCCA


DI CHE umore è Milano dopo il voto? Forzisti berlusconiani e leghisti bossiani festeggiano, ma non fraternamente. Le due tribù che hanno vinto sono divise e confuse. Il voto, i suoi risultati strabilianti hanno sorpreso anche loro.
Numeri alla mano si è capito che molti dei voti andati alla Lega sono di berlusconiani stanchi degli appetiti eccessivi del leader, del suo protagonismo megalomane, e hanno preferito la Lega, hanno preferito Bossi.

Hanno vinto, ma hanno perso la loro identità, non sanno più quello che sono, se di destra o di sinistra, come gli ex-operai comunisti passati dal Pci al Carroccio, dalla Cgil a Rosy Mauro. E anche noi, sopravvissuti alle elezioni, non abbiamo capito bene chi siamo, chi sono questi milanesi metà moderati e metà pronti a "prendere il fucile", come dice con una metafora il loro capo, per dare la caccia agli immigrati delinquenti.

Fra i milanesi sconfitti la costernazione è profonda, il lutto totale, tutti stanno un po' come Romano Prodi: hanno dato le dimissioni da tutto, idee e posti di comando, non pensano alla rivincita, vogliono dimettersi, rinunciare. Come Prodi, tutti vorrebbero voltare le spalle alle speranze e alle illusioni, a questa Italia incomprensibile.

Sanno di essere sconfitti, ma cos'è questa Italia vincente? Quali sono i valori in cui crede, i suoi ideali, le sue utopie? Nessuno lo sa, nessuno lo capisce. Una volta ai milanesi della Madunina piacevano gli uomini sinceri con il "cuore in mano". Ma per che cosa hanno votato? Non lo sanno che il voto nelle province meridionali è stato un voto chiaramente segnato dalla mafia? Non lo sanno che i nuovi leader meridionali, molti dei nuovi eletti, sono amici dei pezzi da novanta? E' dunque la mafia che piace agli elettori milanesi? Certamente no. Ma gli piace vincere, gli piace il potere, gli piacciono i soldi. Ecco quello che la sinistra, radicale o socialdemocratica, ha sottovalutato.

In un mondo in cui non si leva più il Sol dell'avvenire, in cui è morta l'utopia del socialismo, in cui la pubblicità consumista ha sostituito tutti i buoni pensieri e le buone intenzioni, la cosa che conta, che tutti desiderano qual è? I soldi. Pochi, maledetti e subito, come si dice, e il nuovo leader glieli ha promessi, e anche il lumbard Bossi li ha promessi con la sua Malpensa targata Carroccio, con la sua Expo 2015, con la sua Lombardia del federalismo fiscale, locale, regionale, che nessuno capisce cos'è. Le tasse che versano gli abitanti di una regione restano sotto il controllo di quella regione. E chi pensa alla nazione, alla sua unità, all'Italia una e indivisibile? Si vedrà, ma intanto chi ha i soldi se li goda, gli altri si aggiustino.

Questa sembra l'unica morale accettata, l'unica morale corrente. I milanesi sconfitti, più che tristi, sono svuotati, incapaci di capire. Lo tsunami politico che li ha travolti li ha lasciati nudi in mezzo ai rottami della società. Che cosa vogliono gli italiani? Si chiedono: davvero è finito il tempo in cui il vecchio repubblicano Ugo La Malfa li esortava così: "Nel dubbio aggrappati alle Alpi", e i socialisti "nel dubbio aggrappati a Molinella"? Una sola consolazione: ne abbiamo viste di peggio.


(18 aprile 2008)

da repubblica.it


Titolo: GIORGIO BOCCA. A scuola dai buoni maestri
Inserito da: Admin - Aprile 26, 2008, 10:01:42 am
Giorgio Bocca

A scuola dai buoni maestri


Soldati, Vittorini, Moravia. La perfezione suicida di Besozzi. La mia fatica di operaio della scrittura. Ai giovani vorrei dire: parlate e scrivete chiaro 

Ora che sono vecchio e dovrei essere anche saggio, i giovani mi chiedono se ci sono davvero dei buoni maestri che t'insegnano a superare le difficoltà della vita e ti consigliano per fare un buon lavoro. Che tipo di buon maestro? Ne ricordo alcuni.

Mario Soldati, lo scrittore, era un uomo geniale e imprevedibile, scriveva romanzi e dirigeva film, era un uomo pratico. "Quanti tavoli hai nel tuo studio?", mi chiese quando lo incontrai per un'intervista. "Ho una scrivania - gli dissi - quante dovrei averne?". "Tavoli - disse lui - non scrivanie, almeno tre tavoli, lunghi e larghi, da tenerci su, a portata di mano, ciò che ti occorre: libri, dizionari, penne, matite, nastro adesivo, forbici, bianchetto. Tu fumi? Sigarette? Sbagli, meglio il Toscano, una scatola di Toscani sul tavolo con fiammiferi svedesi e portacenere, almeno quattro, perché chi ti visita sparge la cenere dappertutto. E le macchine per scrivere: almeno due, in caso una si rompa; e i tuoi libri, da cui puoi sempre ricopiare qualcosa, perché nulla è più inedito di ciò che è stampato. E anche fiori, e caramelle alla menta. Ti piacciono?". Era simpatico, Soldati, un buon maestro.

Era un buon maestro anche Elio Vittorini, formidabile organizzatore di cultura, che fece la prima antologia della letteratura americana, per farci capire che Pascoli e Carducci, Dante e Boccaccio erano indispensabili, e che anche Gide e i francesi non potevano mancare, ma c'erano anche gli altri di lingua inglese.

Era un buon maestro anche Alberto Moravia, di lui si sapeva come lavorava, come si doveva lavorare: di mattina, dalle dieci a mezzogiorno, secondo il metodo delle duecento righe al giorno, senza aspettare l'ispirazione, come un buon cottimista che fa regolarmente il suo lavoro.

Ora che sono vecchio e devo essere anche saggio, posso dare qualche consiglio ai giovani: attenti al perfezionismo. Tommaso Besozzi, il giornalista che rivelò la vera morte del bandito Giuliano, ucciso da suo cugino Pisciotta per conto dei carabinieri, non usava mai una parola più del necessario, scriveva cronache essenziali, pure e dure come un diamante. Un giorno che gli finì la voglia e la capacità di restare in quella sua perfezione, andò nel pollaio della sua casa di campagna, tolse la sicura a una bomba a mano e se la fece esplodere nel petto, come un kamikaze del buon giornalismo. Certo una simile fine disperata ed eroica non la consiglio. Il perfezionismo è una malattia diffusa tra i cronisti.

Per anni consumai migliaia di fogli buttati nel cestino al minimo errore, ne venni fuori solo con un atto di modestia: accontentati di scrivere come puoi, come sai, con gli errori che fai, con le ripetizioni, le inesattezze, le citazioni sbagliate. Non sei un genio, sei un operaio della scrittura, fai, come Moravia, il tuo cottimo, la tua produzione giornaliera.

Posso anch'io entrare nella parte del buon maestro? E allora vorrei dire ai giovani: per favore non ricominciamo con l'ermetismo, con la scrittura per pochi, da decrittare, con gli snobismi di gruppo, con le lettere per pochi. Forse l''Ecclesiaste' sarà un po' misterioso, come il velo del tempo, e i sonetti di Shakespeare a chiave, ma la grande letteratura, la buona letteratura è chiara.

Non date ragione a Kierkegaard o ad altri odiatori del giornalismo, manipolatori d'idee e inventori di falsi bisogni. "Parla come mangi", dice il proverbio, parla e scrivi chiaro.

(24 aprile 2008)

da espresso.repubblica.it


Titolo: GIORGIO BOCCA. Lo zar al bagaglino
Inserito da: Admin - Maggio 03, 2008, 04:04:48 pm
Giorgio Bocca.

Lo zar al bagaglino


Berlusconi ha vinto, a 'mani basse' le elezioni, ed è l'uomo più ricco d'Italia, anche se i Ferrero della Nutella e Leonardo Del Vecchio degli occhiali in miliardi sono più ricchi di lui, ma lui è il capo del governo, e la politica è il più potente moltiplicatore di ricchezza che si conosca.

Anche in antico, del resto: Cesare, carico di debiti, con un consolato si rifaceva il patrimonio, e accettava come socio nel triumvirato Crasso perché era ricco a centinaia di milioni di sesterzi, accumulati con la più spregiudicata speculazione edilizia: arrivava a far incendiare interi quartieri per poi poter ricostruire nuovi caseggiati grandi il quadruplo.

Dunque, vinte le elezioni, il nostro Silvio, 'ma per fortuna che Silvio c'è', come canta un suo ammiratore, ha invitato in una delle sue ville in Sardegna lo 'zar' Vladimir Putin, che è uno degli uomini più potenti del mondo, e come i suoi predecessori, Stalin o Andropov, dispone della Gpu, o Nkvd, cioè dei poliziotti con il cappotto lungo fino ai piedi che all'alba bussano alla porta di casa tua, ti danno giusto il tempo di toglierti il pigiama, ti portano via e, se ti va bene, parenti e amici ti rivedranno in fotografia al processo, se no scompari per sempre.

Insomma, lo zar Putin viene a trovare Silvio in Sardegna, e cosa gli ha preparato il suo ospite e amico? Una serata con le ballerine e i comici del Bagaglino, un teatrino romano di avanspettacolo, del tipo qualunquista becero, che ogni sera ha come spettatori la crème del generone capitolino.

Avete notato l'ossimoro? Crème e generone, i contrari che si accordano. I due fra i più potenti e ricchi del mondo assistono allo spettacolo in una villa sempre protetta a spese dello Stato da decine di carabinieri. In antico si faceva anche di meglio: ai tempi di Tiberio dopo il festino i giovani ospiti venivano gettati in mare dai dirupi di Capri.

A farla breve il vecchio moralista che sono racconta il festino ai figli e nipoti venuti a trovarlo, e loro mi ascoltano senza condividere il mio stupore per le ballerine e i teatranti. La faccenda pare loro normale, anche loro forse sono dell'idea che nella privacy tutto sia lecito. Lo scandaloso per loro è altro: che Putin sia venuto in Sardegna dall'amico Silvio, non solo per divertirsi in vacanza, ma per combinare grandi affari di Stato: i rifornimenti di gas all'Europa, un aiuto dell'Aeroflot russa ad Alitalia, la partecipazione alla cerimonia inaugurale alle Olimpiadi in Cina. E osservano che Putin non era ancora stato nominato primo ministro, e nessuno dei due era legittimato dai rispettivi parlamenti. I giovani sono sconcertati, non capiscono come i due potenti possano comandare il mondo ignorando le istituzioni solo perché sono amici, come oggi in politica due signori ricchi e potenti possano, solo perché amici, decidere per conto di milioni di cittadini. In Russia e in Cina chiamano questo modo di governare 'democrazia rinnovata', adatta al mondo globale.

Ma il vecchio moralista resta del suo parere: le scorrettezze istituzionali non lo preoccupano più di tanto, quel che gli sembra un segno di questo tempo balordo è che Putin, l'erede della Rivoluzione di Ottobre, del terrore staliniano, ma anche dei generali e dei soldati che hanno vinto la Seconda guerra mondiale, un personaggio che partecipa al governo del mondo, non trovi di meglio per distrarsi che volare in Sardegna per ascoltare le canzonette del napoletano Apicella, amico di Silvio, o le battute in romanesco degli attori del Bagaglino. Il teatrino che fu fondato dall'autore della canzone delle Brigate nere: "Le donne non ci vogliono più bene perché portiamo la camicia nera".

(02 maggio 2008)

da espresso.repubblica.it


Titolo: BOCCA: fine della nostra storia se dici che sei antifascista ti ridono in faccia
Inserito da: Admin - Maggio 24, 2008, 10:19:27 pm
Bocca: «È la fine della nostra storia, se dici che sei antifascista ti ridono in faccia»

Rinaldo Gianola


«Roba da pazzi. Il sindaco Alemanno vuole dedicare una strada ad Almirante, uno che fucilava i partigiani. Anzi no, mi sbaglio: non sono matti.
È una provocazione, la provocazione di chi si sente vincitore e può fare quello che vuole». Giorgio Bocca, partigiano e giornalista, è uno dei pochi intellettuali in giro che si oppone alla revisione fai-da-te della storia e che, nonostante l’aria che tira, ha ancora il coraggio di difendere la Resistenza, la Costituzione repubblicana basata sull’antifascismo. Purtroppo non si fa illusioni, «l’Italia e gli italiani sono così...».

Bocca, ci tocca vedere pure questa: una strada intitolata ad Almirante.

«Non c’è niente di strano. I fascisti sono al governo, hanno vinto e vogliono far vedere quello che sanno fare. L’altra sera, dopo il consiglio dei ministri a Napoli, ho letto che Berlusconi è andato a far festa con Gasparri. Capito? I fascisti si sono riciclati, adesso fanno i ministri, hanno il potere, sono tornati in forze e, come hanno detto, non si sentono più figli di un dio minore».

Ma Almirante...

«Almirante è sempre stato un fascista: un difensore della razza, un repubblichino di Salò che partecipava ai rastrellamenti di partigiani in val Sesia. Adesso lo celebrano, andiamo bene... Siamo a un’altra svolta. L’Italia è sempre la stessa: trionfano il conformismo e il trasformismo. Oggi c’è un altro cambio di stagione».

È la fine di una storia?

«Lo ha detto Fini, diventato presidente della Camera: “Con me finisce il dopoguerra”. Voleva dire che finisce anche l’antifascismo. E quindi possono dedicare le strade a chi vogliono»

Possibile che una notizia del genere non desti qualche reazione, magari una protesta della sinistra...

«La sinistra? Perchè, c’è ancora la sinistra? Ho l’impressione che pur di campare la sinistra, o quel che rimane, sia disposta a tutto. Bisogna mangiare nella greppia del potere per tirare avanti».

E l’antifascismo della Costituzione?

«Se oggi dici che sei antifascista rischi di trovare qualcuno che ti ride in faccia, i valori sono andati a farsi benedire. Ma con chi te la prendi? I fascisti sono diventati tutti filoisraeliani, parlano pure del 25 aprile come se fosse la loro festa. E tutto fila liscio, come se fosse la cosa più naturale del mondo. Allora ci sta anche la strada per un fucilatore di partigiani».

Deluso?

«Molto di più. Sono appiattito, sotterrato, sono quasi morto. Dal punto di vista politico uno con la mia storia è finito. Non mi riconosco in questo paese, nei “valori” che esprime questa classe dirigente. La mia storia è scomparsa. Io sono uno di quelli che si è battuto per il ritorno dell’Italia alla democrazia, per la sconfitta della dittatura fascista, difendo la memoria della stagione partigiana che riscattò questo Paese. Ma oggi sono uno sconfitto, hanno vinto loro. Basta guardarli. Ormai si è stabilito che la democrazia è una parvenza, un’illusione. E, forse, è vero».

E quest’Italia assorbe tutto, senza mai destarsi?

«Gli italiani sono trasformisti, sempre gli stessi, stanno con chi vince. Magari una volta c’era qualche speranza, qualche principio per cui battersi. Forse anche noi partigiani ci eravamo illusi di cambiare il Paese. L’altro ieri Berlusconi ha detto alla Marcegaglia che le proposte di Confindustria sono il programma del suo governo. Ma ci rendiamo conto? Come fa il capo del governo a dire una cosa del genere? Quando mai nella nostra storia abbiamo pensato che la Confindustria fosse il Paese? E la Marcegaglia, la raccomando... Ha fatto un intervento per accusare tutti, senza un cenno autocritico, senza un rimorso su quanto sta accadendo. Questi capitalisti pensano di essere sempre nel giusto, di non aver nessun difetto».

E invece?

«Il capitalismo è sopravvissuto al comunismo, ma non è scevro di gravi difetti. È un sistema in crisi, ci sta togliendo l’acqua, l’aria per vivere. Stiamo sulla stessa barca e stiamo affondando, tutti felici in questo globalismo catastrofico. Noi italiani facciamo finta di niente, ma stiamo precipitando. E ora è comparso il segno del precizio».

Quale?

«La scelta di tornare al nucleare. Una follia. Ricadiamo nello stesso errore che avevamo evitato, per un colpo di fortuna, vent’anni fa. E il bello è che torniamo al nucleare con le stesse motivazioni di allora, “perchè ci serve”. Ci siamo dimenticati tutto. A questo punto ci meritiamo le centrali nucleari e anche la strada per Almirante».

Pubblicato il: 24.05.08
Modificato il: 24.05.08 alle ore 8.00   
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Titolo: GIORGIO BOCCA. Il duce modernizzatore
Inserito da: Admin - Maggio 25, 2008, 05:33:46 pm
Il duce modernizzatore

Giorgio Bocca



Il sindaco di Roma Gianni Alemanno dice che il Fascismo ebbe il merito di modernizzare l'Italia. Come autore della 'Storia della guerra fascista', pubblicata da Laterza nel 1969, vorrei ricordare ad Alemanno che certamente l'Italia del ventennio si modernizzò, come tutti i paesi industriali di questo mondo, ma con gravi ritardi nell'industria pesante, nell'aviazione, nei mezzi corazzati, nell'artiglieria, cioè proprio nelle industrie decisive per un regime che aveva come fine la guerra di conquista.

Il ritardo non fu imputabile solo al Fascismo, ma al sistema finanziario che il Fascismo aveva ereditato dall'Italia liberale, che già dalla Prima guerra mondiale aveva anteposto all'innovazione tecnologica la crescita dei profitti. Un ceto di produttori spesso freddo, se non ostile al Fascismo, si era però rifiutato di costruire una tecnostruttura moderna, e mentre negli Stati Uniti un manager come Alfred P. Sloan, della General Motors, pubblicava le sue memorie sulla tecnica manageriale, da noi silenzio e indifferenza, e Adriano Olivetti, che era stato il primo ad adottare metodi avanzati, veniva criticato dai dirigenti della Fiat che chiamavano la Olivetti 'cavalleria leggera'.

Nell'agosto del '38 si riunisce la commissione degli Armamenti, presieduta da Mussolini. Il duce chiede come si possa impostare il rinnovamento delle artiglierie. Gli risponde il generale Favagrossa. Il ministero dei Cambi e Valute ha fatto sapere che mancano le divise pregiate per importare gli impianti, e Giordani, presidente dell'Iri, aggiunge: "Bisognava pensarci dieci anni fa". "Già", conclude il duce, "avete ragione Giordani, bisognava pensarci". Il maresciallo Badoglio, capo dello Stato maggiore e del comitato per l'Indipendenza economica non ha nulla da aggiungere, conosce bene il pensiero del duce che rende inutile ogni discussione: "Mi bastano qualche migliaio di morti per sedermi da vincitore al tavolo della pace".


Nella convinzione che la guerra comunque la vinceranno i tedeschi si fanno affari assurdi, come la vendita alla Francia, nostro prossimo nemico, di materiale bellico per 400 milioni, e per altri 2 miliardi alla Romania e all'Ungheria. Persino la Russia dei soviet acquista da noi motori di aviazione Caproni. Mussolini, che ha l'arte di superare le contraddizioni, sentenzia: "Ognuno, anche il cervello più opaco, può constatare che la divisione fra economia di guerra e di pace è semplicemente assurda". E un giorno che è in visita all'aeroporto di Forlì, dice al generale Pricolo, comandante dell'Aviazione: "Miracolo quel caccia che abbiamo visto in prova.

Lo chiameremo CaPreCa, caccia Predappio-Caproni". Pricolo assente, non dice che il caccia miracolo è uno degli aerei da turismo che serve agli addestramenti dei riservisti, non dice che in mancanza di aerei molti riservisti si addestrano su modelli da laboratorio. La guerra contro la Francia e l'Inghilterra, come previsto, la vincono i tedeschi, e un Hitler generoso concederà l'armistizio solo se sarà firmato anche dall'Italia. Il 22 giugno i plenipotenziari francesi arrivano a Roma, e i nostri Badoglio, Ciano, Pricolo e Roatta li ricevono stringendogli calorosamente la mano, paiono sinceramente commossi. I francesi pongono la questione dei fuoriusciti italiani, a cui la Francia ha dato asilo. Non ci sono problemi, non se ne parlerà nell'armistizio, meglio non dare pubblicità a un'emigrazione che gli italiani devono ignorare.

Ma che modernizzazione fascista è stata quella, in un regime aggressivo e conquistatore che non sa darsi le armi necessarie?

(23 maggio 2008)

da espresso.repubblica.it


Titolo: GIORGIO BOCCA. Se Silvio canta la ninna nanna
Inserito da: Admin - Giugno 06, 2008, 04:58:33 pm
Giorgio Bocca

Se Silvio canta la ninna nanna


Berlusconi è cambiato come cambiano i vincitori e come cambia la loro generosità strumentale. Addormentare meglio che uccidere. Drogare dolcemente meglio che seviziare  Silvio BerlusconiDi fascisti in Italia non ce ne sono più. Neppure quelli che fanno il saluto romano, che sventolano bandiere con le svastiche o le croci celtiche. Il presidente della Camera, tempio della democrazia, Gianfranco Fini, ha detto che per lui il 25 aprile partigiano e il 1 maggio rosso sono due giorni fondamentali per la Repubblica. E Fini è un uomo d'onore.

Anche il sindaco di Roma, Gianni Alemanno, festeggiato in Campidoglio dai taxisti in camicia nera, è un vero democratico, che rende onore ai martiri delle Fosse Ardeatine.

E Silvio Berlusconi? Beh, lui è il più cambiato di tutti, lo dice anche Adriano Celentano, la "coscienza della nazione", lo dice anche il governatore della Campania, Antonio Bassolino se non ci aiuta lui - dice - Napoli affonda.

I vincitori, com'è noto, sono persone fortunate, a cui il successo moltiplica le virtù e le seduzioni. Solo un regista matto può pensare che Silvio sia sempre un Caimano, per Celentano e per gli uomini di buona volontà è un altro, irriconoscibile, modestissimo nelle pretese, generoso con gli avversari. Davvero?

Noi, sui fascisti non più fascisti e sul Caimano diventato agnello, conserviamo gli antichi dubbi. In che cosa è cambiato Berlusconi? Nella capacità di sedurre nemici e concorrenti? Il primo aneddoto che mi raccontò, quando lo conobbi, fu che durante un viaggio in ferrovia da Roma a Milano, riconobbe nel signore seduto davanti a lui il politico più ostile a concedergli le licenze per le sue televisioni: "Ebbene - mi disse - quando arrivammo a Milano, era d'accordo con me su tutto".

Due settimane fa Eugenio Scalfari ha cercato di spiegarlo a 'Che tempo che fa': "Berlusconi è uno che mente in continuazione, senza complessi e pentimenti. Solo che alle sue menzogne crede profondamente, con una tenacia e una determinazione incredibili".

Quando lavorai per qualche tempo nelle televisioni di Berlusconi, e lo difesi nei giorni in cui le avevano oscurate, Eugenio disse bonariamente: "Giorgio, sei innamorato di Berlusconi". Per fortuna gli amori passano. Oggi dovrebbe essere facile capire che Berlusconi è cambiato come cambiano i vincitori e come cambia la loro generosità strumentale: oggi è meglio governare cooptando o, se preferite, corrompendo, piuttosto che uccidendo o imprigionando.

I consumi di massa non permettono più le semplificazioni della ferocia, gli internati e i fucilati non comprano automobili o telefonini, le polizie costano, le carceri sono insufficienti. Meglio addormentare che uccidere. Meglio drogare dolcemente che seviziare. Ma la tentazione autoritaria resta, ed è meno resistibile.

Questo fascismo, a parole non più fascista, questa democrazia universale, dove è sparita la lotta di classe, e dove il limbo dei call center permette a tutti di immaginarsi ricchi e sazi, i problemi li lascia irrisolti. Con il fascismo buono, democratico, liberale, l'antifascismo non ha più senso, è una retorica fastidiosa, che Berlusconi e i suoi sorvolano, cambiando registro. A qualcuno pare che basti.

Ma guardiamoci attorno, guardiamo cos'è quest'Italia pacificata dai benpensanti, e vedremo che questa pacificazione è in realtà l'accettazione del peggio. Berlusconi fa il suo mestiere di uomo di potere, ha capito che la sola politica che possa aprirgli le porte del Quirinale è l'accordo di comodo. Ma vien voglia di ricordare il poeta: "Oh non per questo dal fatal di Quarto...".

(30 maggio 2008)

da espresso.repubblica.it


Titolo: GIORGIO BOCCA. La memoria di Almirante
Inserito da: Admin - Giugno 06, 2008, 04:59:27 pm
Giorgio Bocca

La memoria di Almirante


Le ragioni per cui la democrazia italiana sarebbe debitrice di una strada a lui dedicata non sono comprensibili. Salvo una: che i sempre fascisti si sono riciclati e appoggiano Berlusconi  Il sindaco di Roma Gianni AlemannoIl sindaco di Roma Gianni Alemanno e il signor Andrea Ronchi di Alleanza Nazionale lamentano che a sinistra si faccia opposizione a intitolare una strada di Roma a Giorgio Almirante, fondatore del Movimento sociale italiano. Perché gli epigoni del neofascismo vogliono che la capitale d'Italia dia questo riconoscimento a uno che aderì alla Repubblica sociale di Salò e partecipò alla repressione dei partigiani?

La ragione ci pare questa: perché la minoranza d'italiani che seguì Mussolini a Salò, alleata fino all'ultimo alla Germania nazista, responsabile dell'Olocausto, il più grave dei delitti commessi contro l'umanità, è convinta di aver reso un servizio al Paese, che Almirante sia stato, in qualche modo, utile alla rinascita democratica. Come? Nel modo che Enrico Mattei ha ricordato con la franchezza dell'uomo di potere: "I neofascisti del Msi per me erano come un taxi. Li usavo per fare una corsa, li pagavo, e poi pensavo agli interessi dell'Eni e del Paese".

Non era solo Mattei a usare quel taxi: lo prese anche Alcide De Gasperi quando si trattò di vincere il referendum per uscire dalla Monarchia e passare alla Repubblica, e lo prese anche Palmiro Togliatti quando, come guardasigilli, firmò l'amnistia per i combattenti di Salò e persino per i loro delitti contro la popolazione civile. I superstiti di Salò erano pur sempre un bacino di voti che faceva gola a tutti, anche ai comunisti del Pci. E allora, visto che della rinascita neofascista furono in certo modo complici anche i due partiti più importanti della Repubblica 'nata dalla Resistenza', perché non riconoscere ad Almirante la piccola attestazione di benemerenza di una strada nella periferia romana?

A Roma ci saranno migliaia di strade più o meno costellate di buche che neppure i taxisti conoscono a memoria. A Tokyo evitano persino di intitolarle a qualcuno, i taxisti le riconoscono da un edificio, da un ufficio. Non sempre: una volta chiesi di essere portato all'ambasciata italiana, e solo dopo mezz'ora di corsa capii che il taxista non sapeva dove fosse.


Dunque, perché opporsi alla strada romana per Giorgio Almirante? Alle strade si dà un nome perché siano riconoscibili, e poco importa se si tratta del nome di un filantropo o di un tiranno. Ma quando il nome è di una persona che ha avuto una parte non trascurabile nella storia recente, non è il caso di chiedersi se la sua memoria sia gradita ai cittadini? La memoria di Almirante probabilmente è gradita ai suoi compagni di avventura politica, alla minoranza dei sempre fascisti che Almirante riuscì a far accettare ai partiti antifascisti dell''arco costituzionale'.

Ma è una memoria gradita all'intero Paese? Diremmo proprio di no. Sia De Gasperi che Togliatti, padri fondatori della nostra democrazia, sapevano che, agli occhi del mondo civile, il neofascismo non era gradito. De Gasperi andò a Parigi per la firma del trattato di pace e disse ai vincitori: "So che in questa assemblea tutto mi è contro salvo la vostra personale cortesia". E la rinascita di un movimento neofascista non serviva certo a procurarci la benevolenza dei vincitori. E Togliatti firmò l'amnistia sapendo che gli iscritti al suo partito la disapprovavano.

Riassumendo: le ragioni per cui la democrazia italiana sarebbe debitrice di una strada a Giorgio Almirante sono poco o niente comprensibili. Salvo una: che i sempre fascisti si sono riciclati e appoggiano il governo Berlusconi.

(06 giugno 2008)

Da espresso.repubblica.it


Titolo: GIORGIO BOCCA. Benedetto Silvio
Inserito da: Admin - Giugno 21, 2008, 05:05:06 pm
Giorgio Bocca


Benedetto Silvio


Papa Ratzinger approva il nuovo corso senza perifrasi, gioisce per il nuovo clima politico e invita i vescovi a dare il loro contributo. Ma più che gli interessi del Paese sembra avere a cuore quelli del Vaticano  Ogni volta che un papa di Roma chiede al Cesare di turno privilegi e sussidi per la chiesa, i vaticanisti al servizio della Santa Sede esortano a "non appiattire il discorso", a non "usare la logica del mondo per la sfera religiosa". Che è una bella pretesa in un paese come il nostro dove il sommo pontefice è anche il vero e riconosciuto monarca, ripreso dalle televisioni a ogni sua comparsa in pubblico, citato da ogni fonte d'informazione qualsiasi cosa dica, considerato un maestro di laicità anche quando, e accade di continuo, antepone la religione alle istituzioni.

Lo dico da italiano cattolico apostolico romano, cioè da uno nato e cresciuto nella millenaria cultura dei compromessi tra Dio e Cesare, che ci ha fatto così come siamo, latini e malleabili, furbastri ma non feroci, scettici ma superstiziosi, e tutto il resto che ognuno di noi, passato per parrocchie e catechismi, conosce benissimo.

Va però detto che questo modo di essere papisti, questa volta ci sorprende per la sua totale, aperta impudenza. La chiesa ha bisogno dello Stato per finanziare le sue strutture e i suoi servizi? Vuole tornare in forza nelle scuole pubbliche e private? Vuole un fisco che la esenti dai tributi? Vuole un'economia in crescita esente dalla lotta di classe? E lo dice con estrema franchezza.

Le elezioni hanno riportato al potere Silvio Berlusconi, e l'alleanza di centrodestra che da sempre, con le buone o con le cattive, chiede ai cittadini la pace sociale a fini produttivi, che, in pratica, come sappiamo, vuol dire ricchi sempre più ricchi e privilegiati e poveri che contano sempre di meno. E il papa tedesco approva senza perifrasi, esprime "gioia per il nuovo clima politico", invita i vescovi "a dare il loro specifico contributo a questa fase di concordia, a rapporti più sereni tra le forze politiche e le istituzioni, in virtù delle percezioni più vive delle responsabilità comuni per il futuro della nazione".


Un clima nuovo più fiducioso e costruttivo? Gioia per il nuovo clima politico? Così dice il papa. Se però in questo Paese è ancora lecito laicamente dissentire, diremmo che queste prese di posizione a favore di un modo di fare politica, di fare economia, di fare società siano più attinenti agli interessi del Vaticano che a quelli del Paese.

Il capo del nuovo governo che allieta il cuore di sua santità è un industriale che si è presentato all'assemblea degli industriali dichiarando che il suo programma di governo è esattamente come il loro, come quello della loro volitiva presidentessa Emma Marcegaglia. Neppure Mussolini, che era arrivato al potere con l'appoggio dei 'padroni del vapore', gli aveva mai riconosciuto la guida dello Stato, la guida della società. Tanto più che il bilancio della politica confindustriale non sembra proprio un invito all'ottimismo.

Il comunismo è fallito dovunque, ma il nostro capitalismo non ha assicurato nemmeno l'unità della nazione o la nettezza urbana, non ha sconfitto ma ha fatto prosperare le mafie. Si direbbe che il potere religioso e quello politico stiano trovando un pieno accordo per denunciare la lotta di classe come l'unico vero ostacolo al benessere e alla felicità generali. È un vizio antico dei ceti dominanti, purtroppo pagato con milioni di morti e di affamati.

(13 giugno 2008)


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Quel che il Papa non vede


'Aria nuova, di pace sociale e di rinata speranza'? Ma dove vive Benedetto XVI? Non sa che la criminalità organizzata è uscita allo scoperto, fronteggia e ricatta uno Stato debole?  Benedetto XVIIl bacio della mano del papa è un segno di sottomissione al potere ecclesiastico? Il presidente del consiglio Berlusconi, il liberale cavouriano del 'libera chiesa in libero Stato', il custode della Costituzione repubblicana laica, il bacio della mano l'ha fatto due volte, per le televisioni, unificate come non mai al servizio dei grandi poteri, e il reciproco compiacimento è stato evidente: il papa tedesco sorrideva e irraggiava soddisfazione.

I cronisti vaticani hanno notato che le sedie dei due erano state messe di traverso. Accanto e non dietro il tavolo, quasi preparate all'evenienza di un abbraccio. Il papa ha colto l'occasione della visita di Berlusconi per dichiarare urbis et orbis che in Italia "c'è un'aria nuova, di pace sociale e di rinata speranza".

Dove vive questo papa? In quale beato isolamento? Non lo sa che il paese Italia, come ha detto Giorgio Ruffolo, non è mai stato "così lontano dalla unificazione economica e politica, così amaramente lontano e frustrato?". E che un presidente della Regione siciliana ha aggiunto: "Siamo ormai vicini al punto di non ritorno, i nostri problemi pongono in questione la stessa democrazia". La rete delle parrocchie, presente nell'Italia intera come le stazioni dei carabinieri, non funziona più, non riesce più a informare le superiori gerarchie della situazione reale del Paese?

Il santo padre non sa che la criminalità organizzata, mafia, camorra, 'ndrangheta è uscita allo scoperto, fronteggia e ricatta uno Stato debole?
Ci sono due potentati italiani che ostentano un gran ottimismo e che scommettono sul successo di questo governo, che francamente non riusciamo a capire: la chiesa di papa Ratzinger e la Confindustria. La chiesa che dà il suo pieno appoggio a un governo moderato di centrodestra, e i giovani confindustriali, che con la loro presidentessa, Emma Marcegaglia, accolgono Berlusconi quasi con tripudio
, "Silvio, Silvio", come a ricompensarlo delle sue dichiarazioni di solidarietà corporativa: "Il vostro programma è il mio programma".

Ci sono due modi di affrontare i tempi difficili: quello churchilliano di dire ai cittadini che li attendono lacrime e sangue, e quello italiano di invocare un uomo della provvidenza. Che cosa vuole la chiesa? Risolvere i suoi problemi gravissimi facendosi ripianare i debiti da un governo amico? E cosa spera il governo? Di superare, grazie all'appoggio della chiesa, le terribili difficoltà di governare l'Italia e il mondo? La chiesa non sa che un ritorno al concilio di Trento e alla controriforma sarebbe esiziale per la sua unità? Il governo degli industriali non sa che il globalismo capitalista dei ricchi sempre più ricchi e dei poveri sempre più poveri porta a nuove guerre e alla fame di molti?

Persino nell'America del re dollaro sta crescendo la voglia del mutamento, la necessità di trovare nuove forme sociali, nuovi e meno pazzeschi modi di accumulare e distribuire. Tutto indica, anche per il nostro Paese, soprattutto per il nostro Paese, la necessità di arrivare a un 'socialismo della sopravvivenza', cioè a un modo ragionevole, moderno di rispondere ai bisogni dell'umanità, il liberal-socialismo che cercherà di far convivere i bisogni fisici dell'uomo con i suoi diritti. E allora, che senso ha plaudire ad alleanze conservatrici, a dittature morbide, pur di tirare avanti verso il prossimo, prevedibile disastro?


(20 giugno 2008)

da espresso.repubblica.it


Titolo: GIORGIO BOCCA. Il modello Santa Rita
Inserito da: Admin - Giugno 27, 2008, 11:47:32 am
Giorgio Bocca

Il modello Santa Rita


Quel che succedeva nella clinica milanese sta nella cultura dominante dello sviluppo a ogni costo. Medici e amministratori hanno applicato alla sanità il principio di massimizzare il profitto sacrificando i deboli e gli ingenui  Disraeli, che del governo degli uomini se ne intendeva, ha detto: "Nel nome della necessità sono stati compiuti i delitti più inutili ed efferati". Nel nome delle grandi necessità contemporanee, quali lo sviluppo e il globalismo, se ne commettono altri altrettanto inutili ed efferati: nella Cina dallo sviluppo prodigioso a cui il capitalismo irragionevole guarda con ammirazione, decine di migliaia di minatori sono morti per la riapertura delle vecchie miniere di carbone, e stragi si susseguono nelle città mal costruite, o dove i fiumi sono stati sconvolti per l'elettrificazione forzata.

Anche oggi, forse, converrebbe ripensare alle superiori necessità che dominano la nostra vita associata, la nostra cultura, la nostra educazione, necessità che si presentano come progresso, e che regolarmente si traducono in violenza dei forti sui deboli.

Il caso della clinica milanese Santa Rita è illuminante. Qual è la superiore necessità che porta i dirigenti e i medici di una clinica ad abusare degli ammalati più deboli, degli anziani, degli ingenui e dei succubi? La necessità del profitto, del guadagno, dominante nell'economia globalistica. Si dirà che anche le superiori necessità dello sviluppo e dei consumi hanno dei limiti, che i dieci comandamenti valgono per tutti, ma non tutti sanno resistere alle tentazioni.

Amministratori e medici della clinica milanese hanno commesso peccati abominevoli, inutili ed efferati, come diceva l'ex premier inglese Benjamin Disraeli, ma dentro la cultura dominante dello sviluppo a ogni costo. Medici e amministratori della Santa Rita hanno applicato alla sanità i principi dello sviluppo e del consumismo di massa: massimizzare il profitto sacrificando i deboli e gli ingenui. Esattamente ciò che avviene nella maggiore delle industrie, l'edilizia, la 'madre di tutte le industrie', dove ogni giorno si contano vittime del lavoro, cioè i poveri o ignoranti mandati a morire per risparmiare sulle prevenzioni o i materiali.


Medici e amministratori della Santa Rita non sono, non dovrebbero essere, degli imprenditori qualsiasi: dovrebbero rispettare il giuramento d'Ippocrate o ricordarsi della carità cristiana, ma cosa ha fatto la cultura dominante dello sviluppo in difesa dell'onestà e contro l'avidità? Bettino Craxi definiva i suoi critici "moralisti un tanto al chilo", ma qui non si tratta di moralismo, si tratta di una scelta di vita per la sopravvivenza non di una classe, ma dell'umanità. Quando Enrico Berlinguer, uomo ragionevole, propose l'austerità, venne sconfessato dagli uomini del suo partito, della mitica classe operaia, dissero che era "la politica del tirare la cinghia". E invece era una proposta di cambiar registro, di cambiar cultura, di superare sia il liberismo capitalista sia il marxismo dei piani quinquennali fatti con gli schiavi del gulag.

Ci sarebbe anche un'osservazione, per così dire estetica: quali sono i modelli di vita, i desideri, le ambizioni che stanno dietro al produttivismo a tous prix? Le serate al Billionaire? Le vacanze in Puglia dell'emiro del Dubai su una barca lunga cento metri e con 500 invitati? Le nozze della figlia di José María Aznar, dove si ritrovano, non a caso, gli stessi che vanno al Billionaire?

(27 giugno 2008)


da espresso.repubblica.it


Titolo: GIORGIO BOCCA. Quella voglia di fascismo
Inserito da: Admin - Luglio 05, 2008, 09:41:03 am
Giorgio Bocca

Quella voglia di fascismo


Gli italiani si conoscono: sanno di essere una somma di piccoli autoritari in potenza. Basta vedere come si comporta chi arriva al comando di una azienda: megalomania, controllo dei dipendenti, richiesta di obbedienza assoluta ai sottoposti  Benito MussoliniIl risultato delle recenti elezioni, il successo dei ricchi e potenti che si autodefiniscono liberali, fa sì che da noi ci si chiede se stiamo ritornando al fascismo. E non valgono a tranquillizzarci le precisazioni degli storici sulla unicità irripetibile del medesimo.

Perché gli italiani temono un ritorno di qualcosa di molto simile al fascismo? Perché si conoscono, perché dai rapporti di ogni giorno con il loro prossimo sanno di essere una somma di piccoli autoritari in potenza. Qual è il modo di pensare e di essere che presto assume ognuno di noi che arrivi al comando di un'azienda, metal- meccanica o editrice, profit o non profit, cooperativa o padronale? In 90 casi su cento arriva la megalomania, l'alzabandiera quando è in azienda, il nome scritto in caratteri cubitali sulla facciata, le cento fotografie sull'house organ, meglio se con pretese culturali e collaborazioni ben pagate agli intellettuali cortigiani.

Fin qui vizietti quasi accettabili. Meno accettabile, ma inevitabile, il controllo di ciò che dicono e pensano i dipendenti. Nella mia lunga carriera ho capito, tardi e inutilmente, che qualsiasi critica tu faccia al padrone, anche se confidata all'amico sicuro, all'orecchio del padrone ci arriva. Con la tecnologia moderna dei controlli microfonici o telematici, solo un ingenuo può pensare di sfuggire al controllo, ma siccome la maldicenza e la critica sono diffuse, il risultato è che la megalomania padronale si può mutare in mania di persecuzione. Non c'è padrone che, in nome della necessità e dell'efficienza, non arrivi prima o poi a una richiesta di obbedienza del sottoposto. Non assoluta, non immediata, ma se il sottoposto dice no a una richiesta del padrone un numero intollerabile di volte, il padrone non si dimenticherà il suo nome, tra i non collaborativi o tra i riottosi.


Le riunioni aziendali, presto assurte a cerimonia religiosa, a Pentecoste, si modellano presto sul padrone - maestro che insegna e ordina ai dipendenti - allievi che ascoltano e annuiscono. Il padrone-maestro a volte presenta i suoi ordini come paterni consigli, ma anche qui, se il dipendente li rifiuta per una, due, al massimo tre volte, finisce, se non tra i reprobi, tra i rompiscatole, che per il padrone è la stessa cosa.

In gioventù, quando ero forte e presuntuoso, elaborai una teoria rarissimamente vincente e spessissimo per me micidiale. Dissi e scrissi che per fare carriera, per salire nella scala del potere era necessario contraddire il padrone, per affermare la propria decisa volontà a diventarlo. Ma è un gioco alla roulette russa. E infatti, lo avrete notato, quelli arrivati in alto sono tra i più prudenti e ossequienti.

Evitare le critiche al padrone è possibile, anche se impone un forte autocontrollo. Ma come evitare le lodi al padrone dei cortigiani, per cui servire e genuflettersi è un piacere?

Con questi la partita è comunque persa, perché il padrone li disprezza ma non può farne a meno, a volte li strapazza ma mai se ne libera. A ben guardare, il fascismo è questa normalità, quando le si aggiunge la galera o l'esilio.

(04 luglio 2008)

da espresso.repubblica.it


Titolo: GIORGIO BOCCA. Che razza di ottimisti
Inserito da: Admin - Luglio 11, 2008, 10:38:42 pm
Giorgio Bocca

Che razza di ottimisti


Più il mondo è avvelenato e asfittico, e più la stampa consolatoria ci riempie di effetti mirabolanti. La Terra è malata? Niente paura, la scienza ci salverà  La libera stampa è certamente una misura del progresso così come la grande informazione, ma si vorrebbe che fossero meno oscillanti fra filantropia e ferocia, fra ottimismo e catastrofismo, fra avvisi di pericolo e promesse mirabolanti, fra notizie vere e leggende metropolitane. La grande e libera informazione è certamente all'avanguardia nel progresso tecnico, nei modi di comunicare e di informare, ma si vorrebbe capire perché, nei periodi di siccità e di gran caldo, continuino a coltivare l'incombente minaccia dei piromani come secoli fa quella degli untori che seminavano la peste a Milano o delle streghe che rubavano i bambini in Valtellina e nel Canton dei Grigioni. Come si è poi saputo, la peste la portavano i lanzichenecchi di Carlo V sporchi e pidocchiosi, e le streghe o le 'fantine' delle valli piemontesi venivano perseguitate e magari arse vive perché diverse. In realtà i leggendari, inafferrabili piromani che ricompaiono ogni estate calda e secca, definiti dal capo della protezione civile come "i malvagi che vogliono rovinare l'Italia", sono poi degli italiani abbastanza normali nel loro vizio che è di rubare dove possono con il minimo rischio.

Nella stagione degli incendi tutti i giornali parlano dei piromani e si chiedono dove si nascondano, dove trami questa setta demoniaca. E non li trovano, perché l'incuria normale di chi butta un mozzicone di sigaretta in un cespuglio, o la modesta delinquenza di chi riga un'automobile con un cacciavite, sono le cause di quei piccoli delitti che, messi assieme, producono l'inferno. C'era un industrialotto ad Agrate, Brianza, che sosteneva di aver inventato il modo per distillare la benzina dai rifiuti industriali. Lo faceva a suo modo: ogni mattina all'alba partiva con un'autobotte carica di liquidi pestiferi e se ne liberava lasciando una scia nera sull'asfalto.


In periodi di previsioni tristi e di stati depressivi, ostili ai consumi di massa, l'informazione reagisce con ottimismi forzati, senza temere esagerazioni. Guardate le pagine degli spettacoli e delle recensioni: ogni giorno c'è uno scrittore sconosciuto, del Nebraska o delle Antille, che ha venduto un milione di copie del suo ultimo libro, o una cantante nera che ha smerciato due milioni di copie del suo disco; il giorno dopo nessuno ne parla più, per lasciare il posto a nuovi miracoli. Attori e comici da strapazzo, che non fanno ridere nessuno, servono alla festa del falso ottimismo che continua. I salari sono bassi, le famiglie normali, si dice, non arrivano alla fine del mese, ma per tener su il morale s'informano i lettori che gli stipendi dei manager sono saliti del 18 per cento in un anno.

L'ottimismo dell'informazione di massa spazia in tutti i campi. Gli studiosi degli oceani assicurano che nei mari antartici esistono nel profondo riserve favolose di petrolio come di specie ittiche. Negli ultimi quattro anni hanno scoperto riserve senza fine persino nel canale di Sicilia, dove ostriche giganti starebbero abbarbicate nel fondo per sfamarci. Il consumo di materie prime minaccia una futura carestia? L'informazione ottimista corre ai ripari: per esempio propone di sostituire le condutture d'acqua di rame con quelle di plastica. Le mutazioni climatiche insidiano la nostra vita? Niente paura, la scienza ci salverà. Ogni giorno i media informano che un nuovo aereo a razzi attraverserà l'Atlantico in due ore, aerei da 300 passeggeri, airbus a tre piani, con una sala da pranzo per 20 persone, stanze con letti matrimoniali, bagni con l'idromassaggio e servizi di fotografo e massaggiatore. Un'azienda svedese è pronta a fornire anche una batteria antimissile. Più il mondo è avvelenato e asfittico, e più la stampa consolatoria ci riempie di effetti mirabolanti, purché, s'intende, chi vorrà usufruirne, sia fornito di un congruo numero di milioni.

(11 luglio 2008)

da espresso.repubblica.it


Titolo: GIORGIO BOCCA. Normalità siciliana
Inserito da: Admin - Luglio 19, 2008, 07:29:52 pm
Giorgio Bocca


Normalità siciliana


A volte in Sicilia viene il sospetto che l'incombente presenza della morte violenta, l'ombra nera sull'isola solare, sia qualcosa di naturale e magari di ammirabile  La valle dei templi di AgrigentoIl mio compaesano Aldo Cazzullo, giornalista del 'Corriere', si chiede quello che ci chiediamo inutilmente da anni, da secoli, forse da prima del diluvio universale: ma che paese normale è la Sicilia? È normale che il reddito dei siciliani sia fra i più bassi in Italia, che far l'industriale in Sicilia sia un rischio assurdo, ma che gli amministratori della destra, amici degli amici, siano stati riconfermati nelle recenti elezioni nella misura bulgara del 70 o dell'80 per cento?

È normale che i parenti degli uccisi dalla mafia vengano regolarmente bocciati se si presentano al voto, che la sinistra sia in via di estinzione, che personaggi come Girolamo Li Causi o Pompeo Colajanni appartengano a remote leggende, eroi di una specie estinta?

Sì, è possibile, è normale e la domanda che continuiamo a porci, con stupore forse superfluo, è ampiamente spiegata dai fatti e dai misfatti che sono noti a tutti, che il mio collega del 'Corriere' conosce, su cui abbiamo scritto libri e corrispondenze che saranno riscritti dai nostri figli e nipoti.

La legge fondamentale della autonomia siciliana è stata l'autoconcessione dell'impunità ai consiglieri eletti, "l'insindacabilità per i voti dai consiglieri dati in assemblea e per le opinioni espresse dai consiglieri nell'esercizio delle loro funzioni".

In pratica la licenza a fare tutto impunemente: assumere a fondo perduto le spese per gli impianti antigelo fatti dai produttori di agrumi; sovvenzionare i cantieri privati per i collegamenti con le isole, spesso fantomatici; finanziare le associazioni di allevatori che dichiarano all'Unione europea allevamenti inesistenti; finanziare i distillatori che producono e immagazzinano illegalmente un mare di alcol.

Recentemente la Regione ha scoperto l'assistenza agli anziani che, ovviamente, deve essere migliore di quella svedese, centinaia di miliardi sono stati stanziati per costruire case di riposo e servizi di assistenza. Dei 400 comuni dell'isola, quasi la metà incassa i sussidi senza dare alcun rendiconto, ma se la Corte dei conti cerca di frenare la dissipazione è un'offesa, un attentato all'autonomia.


La contiguità, per non dire la complicità, fra gli uomini politici e la mafia è così evidente, così scoperta, da avere un effetto accecante: tutti si specchiano in quella evidenza e ne rimangono come accecati, come abbacinati. È un effetto che arriva nel continente. Ci sono famosi avvocati, industriali, ministri, tecnici dei lavori pubblici che ci spiegano che è da ingenui, da miopi non riconoscere il dato di fatto: la mafia c'è, gli avvocati di mafia, i finanzieri di mafia, i politici di mafia non sono pecore nere, profittatori cinici come non lo sono tutti coloro che vivono dentro o accanto all'economia mafiosa, che è, ti spiegano, l'economia reale, perché le automobili, le case, le garçonnière, i libri, il ristorante, tutto in qualche modo arriva dalla mafia.

A pensarci bene anche i reparti elitrasportati dalla polizia campano perché c'è la mafia. A volte in Sicilia ti viene il sospetto, e qualcosa di più di un sospetto, che l'incombente presenza della morte violenta, l'ombra nera sull'isola solare, sia qualcosa di naturale, e magari di ammirabile, che il vivere nella violenza e nella morte sia, anche per gli onesti, una vita degna di un uomo più che quella tranquilla e noiosa del continente. Qui c'è la guerra, e la guerra, per orrenda che sia, fa vibrare emozioni, sentimenti, solidarietà, memorie sconosciute a chi vive in pace. Forse la presenza della mafia suscita un sentimento di eccellenza. O no?

(18 luglio 2008)


da espresso.repubblica.it


Titolo: GIORGIO BOCCA. Come cambiano i giornali
Inserito da: Admin - Luglio 27, 2008, 12:32:05 am
Giorgio Bocca

Come cambiano i giornali


Perché siano leggibili occorre un linguaggio corretto, scolastico, che è quasi scomparso, sommerso dai gerghi, dalle abbreviazioni, dalle allusioni, dalle mode inzeppate di parole straniere  Mi scrivono dei giovani che vogliono fare il giornalista, mi chiedono consigli. Se fossi sincero gli direi: ringrazio il cielo di aver chiuso la professione prima che fosse morta suicida. Per fare, non dico un giornale eccellente, un giornale da classe dirigente, ma un giornale leggibile, occorre la materia prima indispensabile, un linguaggio corretto, scolarizzato, del tipo appunto imparato sui banchi di scuola adatto a un lettore di media cultura - sopra il livello di povertà, se no che gli serve leggerlo? - cui il giornale serve come informazione su quel che accade al mondo e per dare aria nuova al cervello. Questo linguaggio scolastico è quasi scomparso, seppellito dai gerghi, dalle sigle, dalle abbreviazioni, dalle allusioni, dalle mutazioni continue degli argomenti, delle mode inventate giorno per giorno, inzeppate di parole straniere, specialistiche, professionali, da segnali grafici che messi assieme, più che a un nuovo linguaggio, assomigliano a un sistema confuso d'indicazioni stradali, in una metropoli in cui non sai bene come muoverti, dove andare.

I vecchi lettori del secolo borghese forse esageravano con i loro giornali di classe scritti solo per gli elettori che il censo autorizzava al voto. Ma in casa mia e dei miei amici c'erano degli abbonati ai grandi giornali, alla 'Stampa', alla 'Gazzetta del Popolo', al 'Corriere della Sera' che li compravano ogni giorno, ma che, non facendo in tempo a leggerli, li conservavano a pile nel salotto e con calma, pian piano, li recuperavano per così dire senza sprecare un titolo, un corsivo.

In quei giornali c'era la cultura media comune della borghesia al potere e del socialismo nascente. Non c'era politico conservatore o rivoluzionario che non pensasse subito a un giornale come strumento indispensabile per la politica come per l'economia.
Gramsci e Mussolini erano inconcepibili senza l'Ordine Nuovo o il Popolo d'Italia, gli imprenditori senza i magni organi 'indipendenti', cioè alle loro dipendenze, il Fascismo senza la stampa di regime.

Che cosa è cambiato profondamente nella stampa? È cambiato l'editore che non è più un politico o un imprenditore, ma il mercato, e precisamente quel suo braccio armato che è la pubblicità, la creatrice irresistibile di desideri e di consumi, la potentissima locomotiva che trascina il genere umano verso nuovi sprechi e forse nuove guerre.

L'informazione adatta alla pubblicità deve sempre essere un pugno allo stomaco, deve stupire, impressionare, lasciare il segno sul lettore. Per questo oscilla fra catastrofismo e ottimismo, fra paure immaginarie e promesse esagerate. In questa eccitazione continua si passa da un eccesso all'altro. Negli anni della mia gioventù tutti i giornali descrivevano i pregi dell'amianto e ora tutti lo accusano di essere cancerogeno. Le statistiche dicono che i delitti 'antichi', omicidi e rapine, stanno decrescendo, ma la paura cresce fra la gente e può decidere un'elezione. Il massacro dell'automobile continua: tra Europa e Stati Uniti uccide più di centomila persone l'anno e ne ferisce più di un milione, ma il mercato fa finta di non accorgersene.

Il catastrofismo si mescola all'ottimismo, entrambi esagerati, si procede fra filantropia e ferocia, magari resuscitando le vecchie persecuzioni ai piromani colpevoli di tutti gli incendi come gli untori della peste. Il commissario alla protezione civile Bertolaso, seguendo l'immaginazione popolare, li ha definiti "uomini malvagi che vogliono rovinare l'Italia", mentre sono italiani normali che ritengono normali i loro piccoli, abituali delitti


(25 luglio 2008)

da espresso.repubblica.it


Titolo: GIORGIO BOCCA. Il piacere di servire
Inserito da: Admin - Agosto 02, 2008, 09:13:15 am
Giorgio Bocca


Il piacere di servire


Una borghesia che diffida dello Stato e che alla libera concorrenza, troppo rischiosa e faticosa, preferisce l''amicizia' mafiosa, la pianificazione dei privilegi, dei servizi e delle obbedienze  Tutti educati e con autocontrollo. Niente insulti, niente parolacce. Rispettiamo i capi di Stato e il sommo pontefice. La schizofrenia politica italiana, incontinente, riempie televisioni e giornali con la sua demenza, le contraddizioni, i nonsense, l'assurdo e soprattutto il girare a vuoto.

Dicono che il capo dello stato Napolitano si è chiuso in un addolorato silenzio. Fa bene. Che altro resta da fare in un paese che sta andando alla deriva, dove la politica è succube di una economia anarcoide? Vogliamo guardare le cose come stanno? Vogliamo dirci a che punto è la disunità d'Italia, quello che dell'Italia si pensa nel mondo? Ha destato scandalo il fatto che ai giornalisti americani al seguito di Bush sia stata distribuita una biografia del nostro presidente del consiglio che testualmente dice: "Egli è uno che domina il mercato televisivo e grazie a esso è salito ai più alti gradi della politica, anche se in politica è un dilettante, così è diventato ricchissimo e regna nel paese della corruzione e dei corrotti".

Il presidente americano Bush ha chiesto scusa al nostro primo ministro, assicurandogli la sua stima come amico e come statista, ma tutti sanno che la versione data ai giornalisti è sostanzialmente vera, confermata dallo stesso Berlusconi e dai suoi più stretti collaboratori. Vedi l'amico di sempre Fedele Confalonieri, che al momento della scesa in campo di Silvio disse: "Se non entravamo in politica, l'alternativa era di finire in galera come ladri o come mafiosi". E il fondatore di Publitalia, Marcello Dell'Utri: "Che facciamo? - gli chiesi". "Facciamo un partito". "Ma come lo facciamo un partito?". "Lo fanno tutti - disse - lo facciamo anche noi".

Dunque un dilettante, anche se abile e bravo a persuadere i concittadini di essere il nuovo uomo della Provvidenza
. Ma è proprio il successo del politico improvvisato, la sua capacità di farsi amare, o invidiare, o temere da milioni di italiani a confermare la versione: il successo di Silvio, la sua capacità di piacere agli italiani, dipende da molti aspetti, ma soprattutto dal piacere di servire i potenti e da quello di 'incoraggiare la fortuna' salendo sul carro del vincitore.

Tutto ciò rientra nella mentalità di una borghesia che diffida dello Stato, e che alla libera concorrenza troppo rischiosa e faticosa, preferisce l''amicizia' mafiosa, la pianificazione dei privilegi, oltre, s'intende, che dei servizi e delle obbedienze. Fa dunque un certo effetto schizofrenico leggere le cronache delle manifestazioni della sinistra, dove i partecipanti si esortano alla moderazione, condannano gli eccessi polemici, bandiscono gli insulti come se fossero a un congresso di pacifisti sul lago di Ginevra, e non in una democrazia morente o già morta, con preoccupanti ricorsi di Fascismo.

Nessuno, a quanto pare, drammatizza. Il mondo è pieno di stati autoritari dove la gente in qualche modo campa, nel Kazakistan c'è un padre padrone che ha incamerato le ricchezze petrolifere del paese, e con una figlia padrona di tutto il sistema alberghiero. E in Bielorussia il capo del governo democratico è l'ex luogotenente di Stalin.

Dunque su di animo, cari concittadini: in qualche modo vivremo e andremo in vacanza, anche se per qualcuno torneranno i lager e le polizie segrete. La pubblicità è in crescita. Niente paura.

(01 agosto 2008)


da espresso.repubblica.it


Titolo: GIORGIO BOCCA. L'Italia triste dei capannoni
Inserito da: Admin - Agosto 09, 2008, 06:42:08 pm
Giorgio Bocca


L'Italia triste dei capannoni


Il dogma dello sviluppo ha ucciso il paesaggio. Da Milano a Firenze ormai è una teoria infinita di fabbrichette, cubi di cemento e trincee antirumore  Un amico mi invita nella sua casa di campagna sulle colline di Ascoli Piceno, sopra la valle del Tronto per cui corre la via Salaria, la più famosa delle vie del sale, senza cui i nostri antichi non avrebbero conservato e insaporito i loro alimenti. Quattro ore e passa di autostrada per la Lombardia, l'Emilia, le Marche, regioni ricche, moderne: un'occasione per misurare lo sviluppo del Paese.

Il primo tratto tra Milano e Lodi si merita questo titolo: la scomparsa del paesaggio. La pianura del Po, "la più fertile e ricca regione d'Europa", come diceva quel re di Francia di nome Enrico, illustre invasore, la pianura dei pioppi e delle marcite, dei fontanili che sgorgano nei prati di erba medica, il paese di Bengodi, delle montagne di cacio e di ravioli, dei campanili svettanti nel verde, delle abbazie e delle cattedrali, dei battisteri policromi, degli Stradivari e dei culatelli è scomparso, sommerso da una distesa ininterrotta di fabbriche e fabbrichette.

Non le fucine e i fumaioli, i magli giganteschi e i forni per le colate dei metalli, non il mondo di Vulcano, non i colossi siderurgici della Ruhr o della Vallonia, non i Kombinat di Stalingrado, ma le fabbriche e fabbrichette del consumo di massa produttrici di creme e di plastiche, di prefabbricati, e di dadi per brodo, di detergenti e di lampadari e di mobili scadenti e gli autogrill con i percorsi obbligati, che se devi andare alla toilette devi sorbirti tutta la mercanzia, non un futuro titanico, per eroi e giganti, ma il consumo di bassa qualità e di breve durata di cui si compongono il benessere e il progresso che tutti gli umani inseguono, che sono al centro di ogni politica, anzi, sono la politica, con i suoi corsi e ricorsi, le sue memorie drammatiche - ricordate la crisi del '29? - i suoi attori e i suoi speculatori, i suoi 'bagni di sangue', che sarebbero i miliardi divorati dalla Borsa, insomma: le cose importanti della vita di oggi.


C'è poco da scherzare, c'è pochissimo da fare ironia sullo sviluppo, senza il quale pare non si possa vivere. Ma questo si può dire: che alla bellezza abbiamo preferito la quantità, l'abbondanza anche al prezzo del brutto e del volgare. La pianura padana dei campanili svettanti nel verde, dei battisteri policromi, delle certose, delle 'delizie' estensi o viscontee non c'è più. C'è una colata di cemento senza fine, di hangar piatti sui cui spiccano cubitali i nomi dei titolari della fabbrichetta e file di camioncini della ditta, tutti con il nome del padrone e la sua bandiera, che alzano quando è presente e possente.

Ma c'è del nuovo e di orrendo: le coperture antisuono fatte per proteggere le villette circostanti, le possenti paratie di plastica e di laminato che oscurano il sole e hanno creato delle gallerie lunghe chilometri che impediscono di vedere i declivi dell'Appennino, i portici che salgono a San Luca, i boschi, i villaggi. Bologna deve essere da quella parte, oltre i capannoni e i casoni della Fiera.

A dirti che c'è ancora il resto del mondo sono solo i cartelloni che indicano le deviazioni per Ferrara o per Firenze, anche loro dentro le trincee antisuono. Lo sviluppo prima di tutto, se non si cresce si muore, se le percentuali calano è la rovina imminente, il trasporto su strada o su gomma è indiscutibile, da quel giorno del dopoguerra in cui la Fiat e l'Eni decisero di imporlo al Paese, ma a guardarlo così dal vero, un lastrone di cemento sopra la nera terra padana nei fumi e nei rombi delle colonne di camion che vanno da un capo all'altro del Paese per trasportare a Taranto l'acqua minerale della Valtellina e a Sondrio quella di Rionero in Vulture tra le due file di baracconi degli autogrill, hai l'impressione, sbagliata s'intende, ma forte, che questo sia un paese di matti.

(08 agosto 2008)


da espresso.repubblica.it


Titolo: GIORGIO BOCCA. La politica li fa ricchi
Inserito da: Admin - Agosto 14, 2008, 05:29:01 pm
Giorgio Bocca


La politica li fa ricchi


Motivo di indignazione è che a molti potenti di casa nostra l'uso del potere per accumulare fortune risulta ancora del tutto normale  Silvio Berlusconi con Vladimir PutinIl tema è: la ricchezza come naturale appannaggio del potere politico. Il primo ministro russo Putin e il presidente Medvedev hanno notoriamente patrimoni milionari depositati nelle banche svizzere, il capo del governo italiano ignora il conflitto di interesse, continua a far affari con le televisioni e il mercato immobiliare, per non parlare dei sultani e califfi sparsi per il mondo, di ogni razza e religione, che arrivano in vacanza nei nostri porti su barche lunghe cento metri e centinaia di invitati. Nulla di nuovo sotto il sole, ma qualche vistosa correzione rispetto alle rivoluzioni borghesi e alle loro costituzioni democratiche.

Prima di quelle rivoluzioni, il fatto che un politico, un condottiero, avesse pieno diritto a procurarsi una grande ricchezza facendo uso del suo potere era perfettamente normale. Persino il cristianesimo, la religione degli schiavi e dei poveri, lo aveva in pratica riconosciuto: 'Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio', essendo noto anche allora che la ricchezza di Cesare arrivava da sudditi tartassati e da nemici vinti. Senza la minima esitazione o interno dubbio Caio Giulio Cesare, sperperatore del patrimonio familiare, andava come luogotenente in Spagna a rifarsene una più grande nel giro di pochi mesi. E il Verre depredatore dei siciliani doveva avere davvero esagerato per meritarsi le accuse ciceroniane. Notoriamente il miliardario Crasso, ladro eccelso, veniva cercato come socio nel triumvirato da Cesare e Pompeo.

Non è che nel secolo borghese i conflitti di interesse fra politici e affari mancassero. Emanuele Filiberto, di ritorno dal servizio militare, rimetteva rapidamente assieme il patrimonio della sua casa, incamerando risaie in quel di Vercelli a lui fedelissima e anche il padre della patria, Vittorio Emanuele, non fu estraneo agli scandali bancari del Regno e alle tangenti raccolte con la costruzione delle strade e delle ferrovie. Persino alcuni garibaldini risolsero così i loro conflitti di interesse e un Medici del Vascello, passato al servizio della monarchia, venne premiato con la tenuta della Mandria, oggi quartiere residenziale della Torino ricca.


E allora? Che motivo di indignazione o di stupore ci può essere se un potente della politica ne approfitta per diventare ricco? Un motivo c'è, precisamente quello che si verifica quando la quantità di un comportamento diventa qualità e responsabilità, quando l'acquisto della ricchezza non ha più limiti e giustificazioni, quando soprattutto viene cancellato dal codice penale, considerato normale anzi benemerito.

Il capo del governo italiano, dicono i giornali, ha mandato una lettera di solidarietà e di auguri a un politico arrestato per malversazione sanitaria. E alcuni dei politici indagati e arrestati si affrettano a ricordare, come compagni di persecuzione, noti politici arrestati e condannati, in primis Bettino Craxi, di cui lamentano la 'persecuzione giudiziaria che si strinse attorno a lui', e così altre vittime del giustizialismo che si tolsero la vita non resistendo alla ingiustizia.

Ma forse sarebbe il caso di intendersi. Non aveva qualche responsabilità Craxi se una regolare sentenza, regolare anche per la Corte di giustizia europea, elencò le sue appropriazioni di pubblico denaro, e non ne aveva il dottor Gabriele Cagliari dell'Eni se la sua vedova spontaneamente restituì il denaro depositato in Svizzera? Ecco lì: il motivo di stupore e di indignazione è proprio questo, che a molti politici e potenti di casa nostra l'uso del potere per accumulare ricchezza risulta ancora del tutto normale.

(14 agosto 2008)


da espresso.repubblica.it


Titolo: GIORGIO BOCCA. La congrega dei potenti
Inserito da: Admin - Agosto 23, 2008, 11:44:48 pm
Giorgio Bocca


La congrega dei potenti


C'è una consorteria dei ricchi e potenti, una loro massoneria, che si considera al di sopra delle leggi. Pronti a diffamare i giudici che si azzardano a toccarli  Interno di un tempio massonicoIl procuratore di Napoli Agostino Cordova, che avevo conosciuto sul campo della lotta alla mafia e alla camorra, aveva confidenza con me e certe sere mi telefonava a casa a Milano per raccontarmi le difficoltà del suo lavoro, e una volta mi confidò che aveva iniziato un'inchiesta sulla massoneria, un'inchiesta, diceva, importante, in pratica sul potere in Italia. Fu lì che capii che voleva l'impossibile.

Lo capii perché nella storia italiana, per quello che ne conosco, c'è sempre uno Stato che deve fare i conti con l'anti-Stato, una legge, una giustizia che vengono ostacolate, combattute proprio dai potenti che dovrebbero difenderle. Come se la consorteria dei potenti che formano una loro alleanza, una loro massoneria, si considerasse al di sopra delle leggi che valgono per i comuni mortali.

Per esempio coloro che stavano dietro le trame nere, tipo principe Borghese e soci, o dietro allo Stay Behind, l'organizzazione armata che avrebbe dovuto intervenire contro un fantomatico colpo di Stato comunista, e il tutto si risolse con vacanze di lusso e distribuzione di prebende. Paragolpisti simili hanno sempre avuto questo in comune: di presentare i nemici dei loro affari come nemici della nazione, di criminalizzare la giustizia inventandosi il giustizialismo come abuso della medesima. E non mancano un'occasione per affermarlo, per dimostrarlo.

Un noto uomo politico viene pescato con le mani nel sacco? Subito gridano alla persecuzione, gli mandano lettere di solidarietà, auguri fraterni contro cui i magistrati hanno solo la magra consolazione di indignarsi. Si scopre che i capi di un'azienda avevano creato un servizio segreto di informazioni e che si difendono affermando che non ne sapevano niente. E subito i giornali e le televisioni dei potenti associati corrono in loro difesa. Non importa se il colpevole sia di destra o di sinistra, se conservatore o riformista: per la congregazione dei potenti, fra cui non mancano principi della Chiesa e signori del capitale, va difeso.


È massoneria questa? È una organizzazione segreta che impone i suoi voleri allo Stato o è semplicemente una spontanea, temporanea convergenza di interessi? Il risultato comunque è il medesimo: la dissoluzione continua e sistematica della democrazia.

Su alcuni giornali si è letto addirittura l'organigramma di questa società al di sopra delle leggi: politici, imprenditori, ufficiali della Guardia di finanza, alti prelati. E siccome questo sparare nel mucchio non ha effetti pratici, la massoneria che dispone dei soldi e dei mezzi d'informazione è ripartita subito con la diffamazione dei giudici 'giustizialisti' di Mani pulite, per cui alla fine risulta che l'unico uomo nero del paese è l'infame e rozzo Antonio Di Pietro.

Lo spettacolo dei servi che si prestano sui vari media a diffamare quel poco che resta in questo Paese di onestà e di leggi, è uno dei più indecenti e avvilenti cui si possa assistere, e ogni volta ci si chiede come sia possibile che i cittadini lo sopportino e spesso lo premino dando i loro voti proprio a coloro che dirigono l'ignobile orchestra. Ma la ricchezza e il potere impongono da sempre, e temiamo per sempre, questi prezzi pesantissimi: il piacere di servire si rinnova di popolo in popolo, di generazione in generazione. I Galileo sono costretti alla ritrattazione, i Giordano Bruno al rogo, e i loro nemici? Nell'inferno dantesco. Che con ogni probabilità non c'è.

(22 agosto 2008)


da espresso.repubblica.it


Titolo: GIORGIO BOCCA. Dispotismo democratico
Inserito da: Admin - Agosto 29, 2008, 11:29:12 pm
Giorgio Bocca


Dispotismo democratico


Quello praticato da Berlusconi è la base dell'autoritarismo morbido. Con una linea di governo simile a quella di Craxi: non disturbare il manovratore  Bettino CraxiPer millenni le aristocrazie dei guerrieri e dei sacerdoti hanno goduto il privilegio di essere differenti dai comuni cittadini davanti alla legge. L'appartenenza alle classi dominanti gli consentiva di essere, in tutto o in parte, esentati dalla legge che valeva per le classi inferiori. Coloro che di professione in Italia si occupano di politica, fanno la politica, pensano ancora, come le passate aristocrazie, di essere al di sopra della legge o differenti di fronte alla legge comune?

Sicuramente differente è il segretario padrone del partito di governo, secondo un mussolinismo perenne dalle nostre italiche parti. Silvio Berlusconi non è diverso in questo senso da Bettino Craxi. Il Partito socialista di Craxi, come quello di Forza Italia berlusconiano, non è un partito di classe o di opinione. È un insieme di consorterie borghesi che hanno trovato il loro capo, qualcosa che sta fra il demagogo e l'amministratore delegato.

Chi è il più furbo, il più abile del reame? Il più furbo, il più abile e anche il più ricco è lui, i suoi grandi cortigiani vivono della sua gloria e dei suoi favori. Come con Craxi la linea del governo, il modo di governare è 'non disturbare il manovratore'.

E cosa vuole il manovratore? Ricostruire a suo modo lo Stato che ha distrutto, riformare la giustizia, l'informazione, la fabbrica del consenso. Come Craxi, Silvio non ha una corte di partito, come Craxi i suoi veri amici e compagni di avventura sono i grandi imprenditori e i finanzieri. A ragione il mondo capitalista lo considera un suo protettore, lui stesso ripete che il suo programma di governo è quello della Confindustria, che gli imprenditori sono suoi sodali, che aspetta da loro consigli e aiuti. Il partito di Silvio non ama i congressi, basta il capo padrone a decidere il da farsi. La divinizzazione è inevitabile, gli organi di controllo sono inesistenti, il dispotismo democratico è la base dell'autoritarismo morbido.


Uno dei miti craxiani, il suo primato non in discussione nel partito e nel paese, era la governabilità, che in pratica consiste nella certezza, di Craxi allora come di Silvio adesso, che con lui al potere tutto in qualche modo si risolverà per il meglio. Il culto della personalità è uno spettacolo quotidiano, a volte ridicolo, spesso affliggente.

Si ricorda un episodio di servilismo del sindacalista Ottaviano Del Turco che sale alla tribuna di un congresso e dopo aver detto che lo sciopero per il ticket sanitario è stato giusto, conclude che però Craxi ha avuto ragione a dire che è stato un errore. Simili contorcimenti erano la regola al congresso milanese nel capannone dell'Ansaldo, salivano alla tribuna i compagni rivoluzionari e antiborghesi e poi svoltavano appena saputo che Bettino era a colloquio con Silvio nel suo camper.

Come Craxi, Silvio gliela canta chiara ai suoi nemici, ai suoi "persecutori che non gli chiedono neppure scusa". In questo Craxi era inarrivabile. Bobbio era "un filosofo dei miei stivali", "Scalfari un mascalzone grandissimo e recidivo", "Biagi un moralista un tanto al chilo", "De Mita? Per durare deve servire il caffelatte ai socialisti tutte le mattine".

Nel partito di Craxi il maestro di politica era il compagno Antonio Natali che insegnava ai giovani l'arte di raccogliere le tangenti per finanziare il partito. E se qualcuno diceva a Bettino che certe sezioni erano piene di ladri, lui rispondeva: "Adesso mi occupo di vincere le elezioni, poi mi occuperò anche dei ladri". Ma la distinzione fra le finanze del partito e le finanze personali rimase piuttosto fluida. E i veri nemici dei politici, allora come adesso, rimasero i giustizialisti.

(29 agosto 2008)


da espresso.repubblica.it


Titolo: GIORGIO BOCCA. Gli operai irrilevanti
Inserito da: Admin - Settembre 05, 2008, 10:58:46 pm
Giorgio Bocca


Gli operai irrilevanti

Si sentono marginali, sanno che il progresso tecnologico e il capitale conteranno sempre di più e loro e il sindacato non ci possono fare niente, e meno che mai i partiti e gli intellettuali della sinistra.


Sui giornali hanno scritto che il funerale degli operai torinesi morti nell'incendio di una acciaieria sembrava un funerale dei poveri. L'irrilevanza operaia è visibile, il mito della classe operaia è scomparso, i quartieri operai venivano chiamati la cintura rossa, il voto alla sinistra comunista e socialista vi era prevedibile, massiccio; oggi a Mirafiori votano Forza Italia.

Gli operai scendevano sul centro di Torino o di Milano il primo maggio o dopo l'attentato a Togliatti armati, come al 25 aprile dell'Insurrezione. Nei primi anni del dopoguerra mi è ancora capitato di vedere gruppi di operai che fischiavano al ritorno in automobile dei borghesi dai weekend o alla prima della Scala, le squadre di calcio avevano una connotazione di classe: il Torino e il Milan erano squadre operaie, la Juventus e l'Inter squadre borghesi; c'era un modo di vestire operaio, c'erano i tram degli operai, gli orari operai di quelli che indossavano la tuta e portavano il gavettino con la schiscetta, la colazione operaia, a Torino c'era il fiume dei borghesi, che si salutavano con il Cerea, che era il nome del loro imbarcadero, e il Po dei poveri, oltre Moncalieri, dove incontravi gli scavatori di sabbia. Il quartiere torinese di San Paolo, dove erano le fabbriche Lancia, era chiamato 'el burg del fumm', la sera del sabato nei rioni operai non si accendevano le luci delle televisioni, ma risuonavano i canti degli ubriachi dopo la sbronza consolatrice.

Dove è finita la classe delle rivoluzioni, del confronto sociale, delle camicie scure per non vederci le macchie di grasso, nella sua perenne divisa da lavoro diversa da quella dei colletti bianchi?

I segni dell'irrilevanza operaia erano visibili da anni. A Torino, per dire, la Camera del lavoro era scomparsa dal centro, dalle parti della Cittadella, color rosa sbiadito, ringhiere rugginose, uffici nudi, avamposto operaio traslocato dalle parti del cimitero, irriconoscibile, come un'azienda di plastica e i 'quadri' del sindacato sembrano dei commessi viaggiatori, hanno la valigetta ventiquattrore dei manager, e il loro capo, Fausto Bertinotti, è "un intellettuale che predilige il cachemire, ma sta dalla parte degli operai".

Un amico degli anni torinesi, un amico allora e oggi, uno che la irrilevanza operaia è stato tra i primi a capirla, ricordo il colloquio in un ufficetto della nuova Camera del lavoro, "chi non lo sente", mi diceva, "il vuoto sociale che sta attorno a questa Camera del lavoro? Sociale e politico: il lavoro dipendente non ha più strutture forti materiali e mentali. Senza il lavoro dipendente le fabbriche e i servizi non funzionerebbero, ma gli occhi di tutti sono fissati al capitale. Il lavoro è diventato marginale. Gli operai si sentono marginali, sanno benissimo che il capitale ha fatto la sua scelta, che d'ora in avanti il progresso tecnologico e il capitale conteranno sempre di più e il lavoratore sempre di meno e che non ci possono proprio far niente, né loro né il sindacato, e meno che mai i partiti della sinistra. Una classe operaia che non crede più né alla rivoluzione né all'avanzamento. E non ci credono più neppure gli intellettuali di sinistra, i cantori dei miglioramenti generali che venivano dalla lotta di classe".

Oggi nella sconfitta della sinistra radicale Bertinotti dice che neppure il Partito democratico sa funzionare da opposizione al berlusconismo trionfante. Quella volta a Torino gli chiesi se il suo pessimismo era irreversibile. Mi diede una risposta che mi sembra attualissima: "L'unico conforto è che la controparte non sta meglio di noi quanto a chiarezza sull'avvenire".

Neppure il vincitore, il capitale, né interroga, né si interroga sul futuro. Non è questione di saperne di più dei padroni, ma di saperne per conto di tutti, di sapere come potrà sopravvivere la democrazia dei diritti umani.

(05 settembre 2008)

da espresso.repubblica.it


Titolo: GIORGIO BOCCA. Senza pudore
Inserito da: Admin - Settembre 10, 2008, 07:50:39 am
POLITICA    IL COMMENTO

Senza pudore

di GIORGIO BOCCA


GIORNALI e televisioni si occupano di una questione storica inventata, forse a scopi elettorali, dal sindaco di Roma Alemanno: se il fascismo sia condannabile in toto o da dividere in due tempi. Quello del regime modernizzatore del paese, entrato nel novero delle potenze coloniali con il consenso della maggioranza degli italiani. E quello del crepuscolo che per allinearsi con il nazismo hitleriano promulga le leggi razziali e resta fedele all'alleanza con Hitler fino alla disfatta. Diciamo una distinzione incomprensibile da parte del suo autore, il sindaco di Roma Alemanno, e del suo stretto parente Rauti, che hanno militato proprio in quel neofascismo che raccoglieva l'eredità del Mussolini filonazista, del Mussolini del male assoluto.

È vero, come dice Alemanno, che il fascismo nel corso della sua storia breve ma intensa è stato anche altro dalla politica razziale, anzi, spesso il suo contrario, dallo schieramento militare contro l'occupazione nazista dell'Austria, alla protezione che l'esercito italiano assicurò ai perseguitati ebrei in tutti i territori occupati, come ben sanno i piemontesi che dopo l'armistizio videro arrivare dalla Francia migliaia di ebrei al seguito della IV armata. La storia è già di per sé un via vai confuso che si presta alle più varie revisioni e confutazioni, ma non rendiamola più complicata di quanto già sia.

Dividere il fascismo tra imperialismo normale, accettabile storicamente, e regime del male assoluto da rifiutare in toto, andando in visita con lo zucchetto ebraico in testa al sacrario di Gerusalemme, è un'operazione politica anguillesca, che solo dei politici di normale cinismo possono praticare. Non sappiamo che cosa si riprometta di ricavarne il sindaco neofascista di Roma. Forse di far credere ai suoi elettori l'impossibile, cioè di separare il fascismo dal suo Duce. Ma si tratta di un'operazione, non solo storicamente infondata, ma politicamente rischiosa, si tratta di far passare a un tempo la tesi di un Mussolini antisemita favorevole alla Soluzione Finale, ma di mascherare la cosa certamente peggiore del suo opportunismo, del fatto cioè che era disposto ad avallare la strage degli innocenti per stare dalla parte del più forte. Un opportunismo confermato dai documenti storici che non giova certo al neofascismo.

La testimonianza del ministro degli esteri e parente di Mussolini Galeazzo Ciano è chiarissima: "Egli (Mussolini) ritiene ormai stabilita l'egemonia prussiana in Europa. È di avviso che una coalizione di tutte le altre potenze, noi compresi, potrebbe frenare l'espansione germanica, ma non respingerla, non fermarla". E aggiunge: "La sua non è una valutazione scientifica delle forze in campo, non considera un intervento anglo-francese-sovietico, che potrebbe in poche ore schiacciare la Germania rinata dalle ceneri di Compiègne. La sua è una convinzione politica e mitica, che affascina anche coloro che per scienza e professione dovrebbero conoscere i veri rapporti di forze".

Siamo all'irruzione dell'irrazionale nella storia. Ma è proprio questo modo irrazionale, contradditorio di fare la storia il lato oscuro dei movimenti autoritari, del neofascismo come del neocomunismo, questo mettere d'accordo i contrari che fu tipico di Mussolini e per cui gli Alemanno e i Fini possono fare gli elogi dei caduti della Resistenza come dei "ragazzi di Salò", che impiccavano e fucilavano i partigiani, dei soldati che difesero Roma dalle truppe naziste, come di quelli della Repubblica Sociale di cui il ministro della difesa La Russa ha detto: "Dal loro punto di vista combatterono credendo nella difesa della patria".

Con questo relativismo senza limiti e senza pudori si può discutere a non finire di potere, ma lasciando in pace la comune ragione e la sua evidenza. Quella ricordata per l'occasione da alcuni familiari delle vittime dell'Olocausto: "Non sappiamo se il fascismo fu il male assoluto. Ci basta sapere che con il fascismo alleato di Hitler i nostri parenti finirono nelle camere a gas".

(9 settembre 2008)

da repubblica.it


Titolo: GIORGIO BOCCA. Un ministro di polizia
Inserito da: Admin - Settembre 13, 2008, 12:36:54 am
Giorgio Bocca


Un ministro di polizia


Roberto Maroni non c’entra con gli Interni: si occupa soltanto di immigrati. Ma non conosce le ragioni  che spingono questa ondata umana  Apro la televisione e c'è il Roberto Maroni, oggi nientepopodimeno che ministro di polizia, come si diceva un tempo, ed era più giusto, perché che senso ha chiamarlo degli Interni se si occupa continuamente degli stranieri che arrivano dalle nostre parti, e gli tocca spiegare l'impossibile. Cioè che alcuni possono restarci e altri essere rispediti, non si sa bene come, a casa loro, che alcuni sono regolari e altri no, ma se tu chiedi a uno che viene, per dire, dall'Africa sahariana perché è arrivato da noi rischiando la vita, lui ti mostra un rubinetto dell'acqua e ti dice: «Qui basta girarlo, con due dita, dove sono partito per avere l'acqua devo fare due ore di marcia».

Guardo il Roberto Maroni, oggi potentissimo ministro, a cui nel '93, la bellezza di quindici anni fa, per prima cosa domandai: «Scusi Maroni, ma come ha fatto in tutti questi anni a sopportare Umberto Bossi?» E mi rispose: «Non lo saprete mai perché non lo so nemmeno io». E fra le cose che non sapremo mai perché non le sa nemmeno lui ministro di polizia c'è anche questa ondata migratoria incontenibile per quanto facciano e dicano i nostri governanti passati e presenti, come nessuno ha mai saputo perché le invasioni barbariche ci furono ai tempi di Romolo Augusto, non prima e non dopo.
Il nostro tempo potrà essere vituperato per i più differenti motivi, ma non per la noia, non per il risaputo, non per il sempre eguale. Basta aprire una finestra sul mondo per rimanere basiti per l'incomprensibilità sua e degli umani che lo abitano.

Da noi ora è di moda l'imperatore Adriano per molte ragioni, in ultimo il ritrovamento di un suo busto con un orecchio solcato da una piega profonda, segno premonitore della malattia cardiaca che lo uccise. E naturalmente tutti rievocano la sua passione amorosa per il giovinetto Antinoo, a cui eresse in morte addirittura un tempio, passione per i suoi contemporanei romani per nulla scandalosa, affari suoi: figuriamoci se il signore del mondo non poteva innamorarsi di un giovinetto e portarlo a spasso dall'Egitto alla Grecia lasciando quell'arcigna della moglie nella splendida villa di Tivoli.

Ma il fatto è che questa storia imperiale di altri tempi viene ricordata sugli stessi giornali, nelle stesse televisioni dove si vedono penzolare dalla forca gli sventurati iraniani, condannati non solo per omosessualità ma per adulterio, questi ultimi lapidati nel più feroce dei modi, prima calati in una buca in modo che esca fuori solo la testa, gli uomini di faccia ai loro carnefici, le donne di nuca, come in una macabra partita a bocce con teste umane e pietre.

Giornali e televisioni ci mostrano Roberto Maroni, l'uomo che dopo aver abbandonato Bossi è tornato con lui e neanche questa volta sa il perché, e noi siamo lì a discutere di immigrati regolari e clandestini da far entrare e respingere, cioè dell'impossibile con disperati che pur di arrivare da noi attraversano il mare stipati su un gommone.

E oggi alle porte di casa nostra, nelle terre da cui l'imperatore Adriano ebbe l'accortezza di venir via, continua il massacro che neppure gli esperti dell'informazione riescono a spiegare: seguaci di un califfo ucciso secoli fa che fanno a pezzi con le bombe quelli della setta ai loro occhi ancora colpevoli, musulmani che fanno strage di cristiani o di indù, ex fondatori di "città nuove", di paradisi comunisti, che pistola alla mano danno il colpo di grazia ai condannati a morte di cui rivendicano subito gli organi, da destinare a qualche ammalato capitalista.

Apro la televisione, guardo Roberto Maroni che è un bravo tipo, di quelli che non sanno perché continuano a credere di poterlo cambiare, questo mondo.

(12 settembre 2008)


da espresso.repubblica.it


Titolo: GIORGIO BOCCA. Se muore la speranza
Inserito da: Admin - Settembre 20, 2008, 04:27:17 pm
Giorgio Bocca


Se muore la speranza


In questa modernità mirabolante i più poveri, i più deboli hanno scoperto di avere uno strumento di terrore e di scandalo: la morte.
 
Vorrei capire perché nel 2008, nell'era del globalismo, di Internet, delle sonde mandate su Marte per scoprire la presenza di acqua, di Barack Obama, il candidato nero alla presidenza degli Stati Uniti, delle Olimpiadi in Cina e di altre meraviglie dell'umano progresso, la morte violenta, le stragi del terrorismo, i delitti d'onore, della gelosia, di religione, di razza purché coronati dalla morte altrui siano il pasto comune e insostituibile dell'informazione radiotelevisiva e cinematografica.

Vorrei capire perché, qualsiasi giornale, computer, film, documentario faunistico alpinistico, qualsiasi notizia dal mondo sia importante, richiesta dal pubblico, degna di umane passioni solo se corredata da un numero possibilmente cospicuo di morti. Perché le immagini di una processione indù in una provincia remota dell'India vengono trasmesse nel mondo intero solo se centinaia di poveracci, di bambini e di donne, sono morti calpestati.

In questa modernità mirabolante per scoperte scientifiche, dominata da giganteschi apparati militari, da correnti speculative che travolgono potentissime banche e onnipotenti economie, i più poveri, i più deboli, i più bistrattati hanno scoperto di avere a loro disposizione uno strumento irresistibile di terrore e di scandalo: la morte. Anche a costo di far uso della morte propria, anche a costo di cercare i loro improbabili paradisi dandosi la morte.

Ogni essere umano sa di possedere un dono insostituibile, la vita, e un ricatto contro cui il terrore della morte dei viventi non ha scampo. Forse l'ondata di terrorismo suicida che sta insanguinando il mondo più che dalla voglia di preda e di conquista o dalle ribellioni contro i potenti deriva da questa libertà insopprimibile che ha l'uomo, anche il più umile: la libertà di darsi la morte.


C'è stata anche per millenni la predicazione dei padroni ricchi e potenti, dei principi e dei sacerdoti per convincere i sudditi che morire per la società era onorevole e bello. Ma il terrorismo attuale si lega solo in parte alla lotta di classe, all'uso dei poveri e ignoranti da parte dei ricchi e sapienti. Forse questa esplosione mondiale di un terrorismo quasi sempre inspiegabile a fini politici, quasi sempre manifestamente esiziale più a chi lo pratica che a chi lo subisce, deriva, anche se è impossibile spiegarlo, documentarlo, da una perdita generale e irrimediabile di speranza.

Quando scrissi il mio saggio sul terrorismo italiano, assurdo e inspiegabile come il terrorismo mondiale, la risposta più convincente fu quella datami da un capo storico delle Br: "Tu mi chiedi perché la lotta armata negli anni Settanta e non prima? Credo perché la classe operaia arrivava dagli anni della ricostruzione, della grande fatica, dei bassi salari, della discriminazione e stava rendendosi conto che il suo tempo era già passato che non ci sarebbe stato nessun 'sol dell'avvenire'. Fu il suo canto del cigno, ma allora chi lo sapeva? Siamo piombati in un mutamento che non capivamo, abbiamo scambiato la nostra rabbia per una rivoluzione".

Temo che qualcosa del genere stia avvenendo a livello mondiale agli umili e diseredati della Terra. È stato detto dopo l'ultima guerra mondiale che cominciava un'era di pace e prosperità per tutti, che le guerre non erano più di conquista ma di liberazione, che il comunismo o il capitalismo della tecnologia e della scienza avrebbero fatto regnare l'abbondanza e l'eguaglianza. E invece arriva il catastrofismo, la penuria dei cibi e dell'energia, i nuovi conflitti per assicurarsi l'aria e l'acqua per vivere. Forse il vero movente del terrorismo è quello dell'eroe ebraico: 'Muoia Sansone con tutti i filistei'.

(19 settembre 2008)


da espresso.repubblica.it


Titolo: GIORGIO BOCCA. L'uovo di Silvio
Inserito da: Admin - Settembre 26, 2008, 06:24:41 pm
Giorgio Bocca.


L'uovo di Silvio


Il berlusconismo ha un nome antico: populismo. Che riesce nei paesi e nei tempi in cui le promesse possono essere mantenute alle spalle degli altri, con gli imperi, le economie coloniali  Silvio BerlusconiSe ai suoi tempi ci fossero stati i sondaggi di opinione, lo spartano Licurgo, legislatore ottimo, avrebbe prescritto di evitarli come la peste perché il buon governante deve sapere che i sudditi preferiscono i comodi propri al bene dello Stato, i vantaggi individuali a quelli della collettività.

Ma cosa fa il signore che governa l'Italia? La governa, finge di governarla con i sondaggi di opinione. Seguite l'informazione al suo servizio e l'altra che finge di non esserlo, ma lo è. Sistematicamente i cittadini qualsiasi, il cosiddetto popolo sovrano, approvano ciò che il capo del governo suggerisce, e più si tratta di proposte demagogiche, illusorie e magari forcaiole, più le sottoscrivono con tendenza all'unanimità. Volete fare dei soldati dei poliziotti? Sì al 90 per cento. Volete armare le guardie municipali? Come no, e se proprio non è il caso di fornirle di mitra come se fossero gangster, almeno di pistoloni calibro 38. I governi che promettono sicurezza finiscono quasi sempre in dittatura: dura o morbida? Diamogli il voto.

C'è una ragione per cui Bettino Craxi è stato il grande protettore dell'attuale capo del governo e per cui è da lui ricambiato con rimpianto e stima? Perché la pensavano allo stesso modo: prima il potere, poi il buon governo. Fra i socialisti craxiani c'era anche un mio giovane amico, intelligente e onesto. Era il tempo delle tangenti imposte dai politici in ogni professione, in ogni affare. Gli chiesi: "Ma Craxi non si accorge che i quadri del suo partito appena possono rubano?". "Glielo ho chiesto", rispose, "e lui mi ha detto: 'Adesso voglio arrivare al governo e al governo si arriva con la maggioranza dei voti, e alla maggioranza si arriva anche con i soldi. Quando sarò stabilmente al governo penserò anche a sistemare i ladri'".

È un ragionamento che presenta a un tempo dei vantaggi pratici e dei rischi mortali, come quello di finire impiccato dagli stessi ladroni.

Il modo di governare caro a Silvio ha un nome antico: populismo. Consiste in un gioco tentatore ma spesso mortale: prometteva a tutti l'uovo subito, riservando a sé e ai propri fidi la gallina domani. Riesce nei paesi e nei tempi in cui le promesse possono essere mantenute alle spalle degli altri con gli imperi, con le economie coloniali, con il dominio finanziario. Per imporlo i governi populisti ricorrono di solito all'attivismo, all'uomo della provvidenza, che moltiplica i pani e i pesci, è onnipresente, fa in un amen ciò che gli altri non riescono a fare in anni, come far sparire la spazzatura, almeno in centro se non si può in periferia.

Governare la modernità e la globalità è difficile, spesso impossibile e i problemi del prossimo futuro - come l'acqua e l'energia per tutti in una crescita generale senza fine e senza limiti - sono spaventosi, ma il solo modo di affrontarli con ragionevole speranza di superarli è quello opposto al populismo e al governo dei sondaggi di opinione, quello diverso dall'apparire prima dell'essere, quello che non assegna o si rassegna alla guida dell'economia affidata alla pubblicità.

Il vizio dilagante dell'apparire prima dell'essere si è confermato in occasione delle Olimpiadi di Pechino. Fino all'assurdo, al grottesco degli improvvisati difensori dei diritti umani che su giornali e televisioni praticavano l'ultima trovata dei nostri neo conservatori: essere di sinistra anche essendo di destra.

(26 settembre 2008)

da espresso.repubblica.it


Titolo: GIORGIO BOCCA. La fabbrica dei sogni
Inserito da: Admin - Ottobre 04, 2008, 03:48:39 pm
Giorgio Bocca


La fabbrica dei sogni


Preferiamo il potere alla libertà, il denaro all'onestà e soprattutto il vecchio nazionalismo colpevole delle ferocie senza nome lo preferiamo a ogni civile rivoluzione  Sono archiviate, deo gratias, le olimpiadi spettacolo a misura di uomo, meraviglioso e orrendo, la conferma che la umana storia sarà ancora per i millenni a venire meravigliosa e orrenda come è sempre stata.

Ha vinto la Cina meravigliosa e orrenda degli atleti fabbricati a costo di deformarli con gli allenamenti forzati, con l'obbedienza cieca degli aguzzini-allenatori e nell'ultimo paese comunista con i premi in denaro che ti fanno ricco per la vita.

Ha vinto lo spettacolo meraviglioso orrendo di un paese che ha fabbricato gli stadi più belli e magici, il cubo azzurro del nuoto, il nido di cemento dello stadio per nasconderli sotto la perenne nube grigia della industrializzazione forzata. La meravigliosa orrenda olimpiade che è piaciuta se non a tutti, alla stragrande maggiorana umana, ai regimi della democrazia come a quelli della condanna a morte e della censura, a quelli dei diritti umani alla vita e alla libertà. Lo si è capito da subito con tutti che sorvolano sui diritti umani.

Insomma, come sempre: il potere e il denaro prima di tutto, con gli uomini del potere e del denaro in prima fila a spiegare la ineluttabilità e la bontà del potere e del denaro che prevalgono su tutto. Cominciamo dalla abbondanza a volte ridicola dello spettacolo olimpico, del mito olimpico gonfiato, stravolto, intossicato. I giochi dell'Ellade e del mondo antico avevano l'impronta di una umanità a misura d'uomo, erano limitate nel tempo e nella quantità, erano le competizioni naturali di popoli contadini e guerrieri. Ripresentarli in età moderna e tecnica in cui tutti i valori contadini e guerrieri sono irriconoscibili rispetto al passato, la falsa idea decoubertiana della partecipazione più importante della vittoria, hanno avuto uno strepitoso successo perché il potere e il denaro hanno immediatamente riconosciuto la impostura e la sua inevitabile commercializzazione, facendone quella macchina di affari e di commerci sportivi che ricopre il mondo e prevale su tutti i vecchi, e ora persino ridicoli, distinguo dilettantistici.

Nella meravigliosa orrenda olimpiade cinese alcuni aspetti della eterna servitù umana al potere e al denaro hanno dato di sé la misura assoluta. La prevalenza eterna della cattiva moneta sulla buona. Cominciamo dalle intrusioni indecenti della industria sportiva. Che cosa ha da spartire con lo sport, con lo spirito olimpico, con la retorica sportiva, la fabbricazione di costumi da nuoto che diminuiscono la resistenza dell'acqua? L'uomo è o non è qualcosa di diverso da un siluro o da un delfino? Che cosa sono queste infinite variazioni del gioco antico della palla nel fango, nella sabbia, su una pantalera, contro un muro?

E le iperboli, le retoriche, i luoghi comuni dell'informazione sportiva che continua a mescolare lo snobismo decoubertiano con la corsa di tutti al denaro? Impagabili nella loro innocenza gli atleti italiani che in materia di tasse hanno chiesto candidamente la pura e semplice esenzione. Come fece Gino Bartali dopo un vittorioso Tour de France. Interrogato da Alcide De Gasperi su cosa il governo, il paese, potessero fare per premiarlo, rispose: "Mi tolga le tasse". E De Gasperi: "Mi spiace Gino, ma questo non si può".

La meravigliosa orrenda olimpiade di Pechino ci ha purtroppo inchiodato alla nostra condizione umana: preferiamo i sogni alla realtà, il potere alla libertà, il denaro all'onestà e soprattutto il vecchio nazionalismo, colpevole della guerra eterna e delle ferocie senza nome, lo preferiamo a ogni civile rivoluzione. Una bandiera che si alza su un pennone, un inno mal suonato ci fanno ancora piangere e delirare.

(03 ottobre 2008)

da espresso.repubblica.it


Titolo: GIORGIO BOCCA. Una vita spesa bene
Inserito da: Admin - Ottobre 10, 2008, 06:51:17 pm
Giorgio Bocca.


Una vita spesa bene


È quella del nostro esercito fermo nella difesa di una società civile, nella ripugnanza per la vita senza leggi e senza rispetti. Per la trasmissione ai figli di valori più forti di ogni ignoranza e corruzione, per la loro scelta virtuosa di rifiutare il peggio dilagante  Giovani in discotecaSpesso mi chiedo se ho speso bene la mia vita. La guerra partigiana, il giornalismo, i libri? Diciamo che non ci ho perso la faccia, che posso uscirne dignitosamente. Ma basta? Poi ci sono i figli. Anche con i figli è questione di fortuna, di combinazioni? Che una malattia non li uccida, che un ubriaco al volante non li travolga, che non si leghino a persona sbagliata, che non gli cada un mattone in testa? Certo, ma ringraziamo la fortuna e arriviamo alla fine di questa vicenda familiare: qualche merito noi genitori ce lo abbiamo? Forse sì, forse almeno per questo abbiamo speso bene la vita, abbiamo portato qualcosa alla parte buona dell'umanità, qualcosa che potrà servire alla sopravvivenza, se ci sarà.

Che cosa? Ce lo chiediamo noi genitori ancora stupiti della fortuna. Certamente non le parole, le prediche, i divieti, i consigli. Qualcosa che non aveva bisogno di parole, di gesti: una ripugnanza fisica e intellettuale per quella enorme fatica che è la pratica del male, riconoscibile in tutte le sue forme, la furbizia, la menzogna, l'infedeltà, l'inganno. Riconoscibile perché come esseri umani segnati dal peccato originale ne eravamo partecipi. Ma convinti, guardandoci indietro, che i figli questa ripugnanza la capissero, la sentissero e che si fermassero ogni volta che arrivava la tentazione di ignorarla, di violarla.

Forse la nostra è una delle tante presunzioni umane, ma che in tutti questi anni, in tutte le combinazioni della vita abbia funzionato questo confine morale insuperabile, questo segno sul terreno della nostra civitas ci pare chiaro. Stupidaggini e peccati di tutti noi molti, e anche ambizioni mal riposte, impazienze, invidie, pigrizie, egoismi, ma non un'adesione vera al male, non un cedimento vero alle grandi tentazioni del demonio. E siccome questa nostra sostanziale tenuta morale e civile è delle persone che conosciamo, delle persone che frequentiamo, siccome ci capita dopo un incontro di dirci "ma guarda che persone per bene, di persone normali ne esistono ancora", le ragioni di ottimismo ci sono ancora.


Certo non è facile: giù in città nelle strade e nelle piazze continuano a sfilare, in apparenza cuorcontento, ladri e violenti, sui giornali e alle televisioni i profittatori furbi e arrivisti occupano la scena ripetendo instancabili le loro miserabili avventure per il potere o per la ricchezza, e sembrano impunibili nella loro esibita delinquenza. Ma non sono i padroni del mondo e dell'avvenire.

C'è anche il nostro esercito fermo nella difesa di una società civile, nella ripugnanza per le fatiche del male. Piccoli segni che il potere e la ricchezza mal guadagnate e mal gestite possono avere passato il segno della sopportazione; i bagnanti della Sardegna che cacciano i gommoni dei miliardari del Billionaire.

Abbiamo speso bene la nostra vita? Credo di sì. Non tanto e non solo per le opere fatte, per le testimonianze lasciate, ma soprattutto per questa trasmissione ai figli, alle nuove generazioni dei fondamenti del viver civile e della ripugnanza per la vita senza leggi e senza rispetti, meravigliati per questa trasmissione di valori più forte di ogni ignoranza e corruzione, per questa scelta virtuosa dei figli, per questo loro rifiuto del peggio dilagante.

(10 ottobre 2008)


da espresso.repubblica.it


Titolo: GIORGIO BOCCA. L'eterno fascismo italico
Inserito da: Admin - Ottobre 18, 2008, 12:10:30 pm
Giorgio Bocca.


L'eterno fascismo italico


Le favole menzognere ma consolatrici sono meglio della verità. L'attivismo più apparente che reale aiuta a campare. Le paure irrazionali ma diffuse sono più importanti della realtà  Benito Mussolini assieme ad altri gerarchi fascistiIl quotidiano 'il Giornale' ha pubblicato una lunga lettera di un 'ragazzo di Salò', un professore emerito di ordinamento giudiziario dell'università di Bologna, Giuseppe di Federico, il quale racconta che a dodici anni, nel 1944, voleva arruolarsi nelle brigate nere di Salò per riparare al disonore di aver cambiato alleato, la Germania nazista, nel corso della guerra.

Il professore rivendica di aver scelto la fedeltà a un alleato razzista, imperialista, stragista, che Benedetto Croce definiva "nemico dell'umanità", come "fedeltà nelle cose in cui credo senza curarmi troppo delle convenienze". Nel caso, senza curarsi del fatto che gli alleati nazisti stessero mandando nelle camere a gas milioni di innocenti.

Sul tema del tradimento dell'alleato molti italiani a Salò e dopo Salò si rifiutarono di capire che la fedeltà a un'alleanza criminale è iniqua e che il suo tradimento è giusto e doveroso. Forse perché da millenni la cultura del potere predica la rassegnazione dei sudditi, degli 'ometti', dei cittadini comuni, dei sottoposti. Ma il diritto esiste, è un diritto naturale che non ha bisogno di essere codificato, è il diritto insopprimibile di ribellarsi al dispotismo quando esso arriva alla malvagità totale, alla rottura di ogni contratto sociale, all'ingiustizia imposta e proclamata. Chi rifiuta, come il professore emerito, il diritto degli italiani occupati dai nazisti a tradire l'alleanza voluta da Mussolini per paura e convenienza, più che per ragioni ideologiche, rifiuta il diritto umano a scegliere tra il giusto e l'iniquo.

Il professore emerito dice a sua scusa che lui non sapeva delle atrocità del nazismo, che solo "quando tornò dall'America un mio zio ci disse che le atrocità erano vere e a lui non potevamo non credere. Fu un vero shock per tutti noi".


Ma dietro al ritorno attuale di un modo di sentire, più che di pensare, neofascista, c'è qualcosa di peggio del non sapere, c'è un'affinità al fascismo eterno e in particolare al fascismo italiano che il berlusconismo rappresenta in modo spontaneo: le favole menzognere ma consolatrici sono meglio della verità, l'attivismo più apparente che reale aiuta a campare, le paure irrazionali ma diffuse sono più importanti della realtà.

Le statistiche dicono per esempio che l'Italia è uno dei paesi più sicuri del mondo, con il più basso numero di rapine e di omicidi? Non importa, la gente coltiva le sue paure; il metodo più semplice per vincerle era quello usato dal fascismo che ignorava i delitti nell'informazione, oggi invece si pecca in senso opposto, ma sono due facce della stessa falsificazione della realtà.

Il ritorno al fascismo eterno congenito degli italiani è un dato di fatto che è sotto gli occhi di tutti: tutto ciò che si lega in qualche modo a quell'archetipo, a quello stampo, a quello stile ha fortuna, tutto ciò che gli si oppone è nel migliore dei casi superato, noioso, retorico.

Fascista l'Italia di oggi? Ma dove? Ma come? Tutti o quasi pronti a negare l'evidenza: che l'informazione economica, politica, criminale è sempre più asfittica, legata ai padroni, che quella televisiva che dipende dalla pubblicità, cioè dal potere economico, è quasi inesistente, ridotta alle pillole informative incomprensibili e contraddittorie dei telegiornali, che il parlamento è esautorato, che il il governo può fare e dire tutto quello che gli fa comodo, anche di aver impedito la terza guerra mondiale, anche di aver ripulito il paese dalle sue soverchianti immondizie, anche di garantire i risparmiatori da qualsiasi crisi mondiale, e gli italiani ci stanno, come ai tempi in cui il duce sfidava il mondo stando su un mucchio di letame.

(17 ottobre 2008)

da espresso.repubblica.it


Titolo: GIORGIO BOCCA. IL RICORDO Una lezione di generosità
Inserito da: Admin - Ottobre 21, 2008, 11:28:46 am
IL RICORDO

Una lezione di generosità


di GIORGIO BOCCA


Quando sento parlare di buoni maestri penso subito a Vittorio Foa, il migliore e il più presente negli anni dei miei buoni maestri. L'ho conosciuto leggendolo nel gennaio del '44, appena arrivato nelle Langhe dalla Val Maira con la anabasi partigiana dalla montagna alle colline del vino. Una staffetta ci portò da Torino l'ultimo quaderno di Giustizia e Libertà.

Aveva la copertina rossa e in nero la spada di Giustizia e Libertà. Era un articolo sulle alleanze orizzontali necessarie alla Resistenza, le alleanze ostiche alla nostra formazione elitaria, dei pochi ma buoni. Quella lezione di intelligenza e di modestia ci arrivò nel momento giusto, della euforia combattentistica e della superbia. Un quadro lucido della situazione, un richiamo alla realtà. Lo stesso modo di vedere il mondo, senza retorica ma senza rassegnazione degli altri maestri del liberal socialismo, da Gobetti a Bobbio, dai Galante Garrone ai Rosselli, dai Valiani ai Parri. Vittorio Foa ci è stato maestro di generosità e di fedeltà intellettuale, di antifascismo solidale e intransigente, il necessario ma sempre legato alla ragione.

Ho avuto come compagni di viaggio nella politica e nella cultura due intellettuali di stampo giellista: Paolo Spriano e Vittorio Foa. Il primo era diventato lo storico del Partito comunista, il secondo il dirigente della Cgil legata al Partito comunista. Li ho seguiti per anni nella burrascosa vicenda delle fazioni e delle passioni politiche e la mia stima in loro è durata e cresciuta per la loro fedeltà alla ragione, per la capacità rara di restarle fedeli se occorreva con "l'astuzia dell'intelligenza".

La prova migliore di Spriano fu la storia del Partito comunista dove tutto ciò che si doveva sapere fu indicato anche se non gridato e per Vittorio la visita del sindacato all'Unione Sovietica e la relazione critica che ne seguì, precisa anche se non gridata. Ciò che faceva di Vittorio una persona amata da tutti coloro che lo conoscevano era la sua curiosità disinteressata, la sua fedeltà a una ragione ragionevole.

Nonostante la galera fascista e le faziosità di cui soffrì anche l'antifascismo non rinunciò mai a cercar di capire i diversi, non sacrificò i sentimenti e l'ironia al disprezzo e alla condanna. Fu sempre un amico, un padre, un compagno comprensivo. Mi incantarono i suoi ultimi libri, specie i ricordi di montagna, così come mi aveva colpito il suo saggio sul quaderno di GL, il suo saper restare uno che sa ridere, come quando della politica giovanile ricordava il fastidio di sua madre per quelle montagne di Courmayeur piene di neve e di antifascisti.

Vittorio e la sua famiglia passavano le vacanze a La Salle in Valle d'Aosta. Vittorio non era più in grado di camminare ma si faceva portare in auto fino al Piccolo San Bernardo per le montagne in cui aveva camminato da ragazzo e che ricordava tutte perfettamente per nome. Anche quello un modo del suo essere fedelmente affettuoso.

(21 ottobre 2008)

da repubblica.it


Titolo: GIORGIO BOCCA. I pescecani e il popolo bue
Inserito da: Admin - Ottobre 24, 2008, 10:22:23 pm
Giorgio Bocca


I pescecani e il popolo bue


Cittadini sovrani? Sovrani di che? Di sentire il capo del governo raccomandare ai sudditi spennati "ascoltatemi, è ora di comprare le azioni". Un consiglio buono per gli speculatori  Ci voleva la grande crisi, più grande di quella del '29, così grande che i grandi della Terra né sanno da dove arrivi né come tamponarla, per smascherare le umane presunzioni, le umane ignoranze, l'umana demenza. 'Viva la Ca' Granda', come si cantava in Piemonte, viva la gabbia dei matti!

La grande crisi mette a nudo gli uomini più superbi, i più sapienti. Dove sono finiti? Sono in televisione o sui giornali o ai summit mondiali anticrisi per dire che, come il più umile degli ignoranti, non sanno cosa stia accadendo, perché accada, come se ne esca. Sanno soltanto, pensate un po', che l'unica cosa da fare è quella del pessimismo siculo: 'Chinati giunco', chinati uomo debole, lascia che passi l'onda di piena che dopo, se sarai ancora vivo, ti alzerai.

Li avete ascoltati nei giorni di grande crisi i potenti e i saggi della Terra? Quello che sta in Vaticano ha detto che il denaro non conta, è come la sabbia del deserto, basta un soffio di vento per disperderla. Ma non è con quella sabbia, con quella polvere che ha fatto delle sua sede terrestre il più ricco palazzo del mondo? Non è con quella polvere che sostiene i suoi missionari, le sue opere di carità, la sua propaganda della fede?

Nei giorni più travolgenti della crisi i grandi saggi sono saliti sulle loro cattedre per raccomandare agli ignoranti: "Nervi a posto! Ragionate! Non perdete la testa!". Ma si può? È come chiedere agli agnelli di non avere paura del lupo che sta facendo strage, come raccomandare: "Noi siamo, come ci chiamate, i vostri pescecani, ma adesso seguite i nostri consigli". Gli economisti non per nulla sono chiamati i dottori della 'triste scienza'. Di professione fanno previsioni sbagliate, predicano l'impotenza o addirittura giustificano i lupi. Quelli della crisi attuale sono già al lavoro. "Non stracciamoci le vesti - dicono - le grandi crisi in fondo sono necessarie, la ricchezza umana a guardar bene nasce dal superamento delle difficoltà". È la filosofia dei superstiti, dei fortunati, è l'assoluzione dei colpevoli. I colpevoli a parole vanno puniti, vanno cacciati, ma chi è colpevole in un mondo di matti? Così i Ceo delle grandi aziende vadano pure in pensione ai Caraibi con liquidazioni miliardarie. Siamo persone civili, non è vero? Siamo democratici, contro le pene capitali, non è vero? In questo i saggi, i maestri, toccano un tasto, come dire, popolare. Una di queste sere di crisi alla televisione hanno fatto parlare uno dei lupi, dei pescecani, che ha spiegato per filo e per segno come vendeva ai gonzi i 'titoli spazzatura' guadagnandoci miliardi, e quando gli hanno chiesto come ci sia riuscito, ha risposto: "Perché sono bravo". Gli spettatori lo hanno linciato? No, è risuonato un grande, sincero applauso.


La grande crisi conferma ciò che si sa del popolo bue, che essendo tale viene chiamato dai potenti il 'popolo sovrano'. Sovrano di che? Di sentire il capo del governo raccomandare ai sudditi spennati "ascoltatemi, è ora di comprare le azioni". Un consiglio buono per gli speculatori ribassisti che con la crisi hanno fatto montagne di soldi, non per chi dalla crisi è stato spennato.

Ma ha ragione Silvio, la sua popolarità non è mai stata così alta. Da quando predica la sicurezza come la prima richiesta dei cittadini, non c'è mai stata una crescita della malavita organizzata come adesso, che il ministro Maroni parla di una vera guerra contro lo Stato. Comunque calma, non perdete la calma.

(24 ottobre 2008)


da espresso.repubblica.it


Titolo: GIORGIO BOCCA. Fare i conti con la storia
Inserito da: Admin - Ottobre 31, 2008, 03:49:27 pm
Giorgio Bocca.


Fare i conti con la storia


La chiusura dei giovani di An all'antifascismo democratico, più che una questione di risarcimenti di violenze subite nel passato, mi pare sia un'attuale rivincita di potere  Giorgio AlmiranteFederico Iadicicco, giovane militante di Alleanza nazionale, partito nato dal Msi, cioè dal neofascismo erede e continuatore del mussolinismo di Salò, ha dichiarato che lui e i giovani del partito di cui è leader Gianfranco Fini restano: "Noi non possiamo essere, non vogliamo essere e non saremo mai antifascisti". A prova che se l'antifascismo, a fascismo ingloriosamente morto e sepolto, è irripetibile, il neofascismo continua nella confusione del linguaggio e nella labilità della memoria. Che insomma non è scomparso il movimento politico autoritario che in ogni città italiana aveva il suo 'sacrario dei caduti per la causa' e il culto della 'mistica fascista' che nessuno, allora e adesso, è mai riuscito a capire in cosa consistesse. È davvero significativo che l'unico collegamento fra il fascismo squadristico degli anni Venti e il rifiuto antifascista di Iadicicco sia la fedeltà 'ai morti per la causa'. Ci hanno ucciso, dunque siamo.

Il signor Iadicicco l'età della ragione ce l'ha, essendo della classe 1974, dunque sa certamente che per antifascismo oggi non s'intende muovere guerra al fascismo storico, nato e morto con Benito Mussolini. Per antifascismo oggi s'intende la difesa della democrazia da qualsiasi forma aperta o strisciante di dittatura, di mancanza di libertà, di nuovi razzismi, di nuovi imperialismi. È per questo che nella Costituzione repubblicana si dichiara espressamente il rifiuto della guerra e la difesa delle libertà e dei diritti umani. E allora il signor Iadicicco e i suoi camerati allergici all'antifascismo si mettano d'accordo con i dirigenti del loro partito che si dichiarano fedeli alla Costituzione e vanno in processione al sacrario ebraico di Yad Vashem. Rievocare il martirologio neofascista, raccontare la democrazia italiana come un regime dove è d'uso comune la caccia al neofascista, come nella Germania nazista lo fu la caccia all'ebreo, è un'esagerazione evidente.

I conti con la storia vanno fatti, ma senza usarli a sproposito. La guerra partigiana fu guerra di liberazione dall'occupante, ma anche guerra civile fra gli italiani, lasciò ferite profonde e inimicizie difficili da dimenticare. Ma tutto sommato ci fu una rifondazione nazionale, una rinascita civile, una coesistenza dei nemici di ieri.

Era l'anno 1977 quando scrissi per Laterza la storia della Repubblica di Mussolini, e la scrissi anche con colloqui con Giorgio Almirante fondatore del Msi, col generale Diamanti, il secondo del maresciallo Graziani, con i parenti di Buffarini Guidi, il ministro di polizia di Salò, con i perseguitati e con i persecutori di quegli anni di guerra e di sangue. Allora e dopo ebbi la sensazione, la certezza, che il miracolo si era compiuto, che il Paese era sopravvissuto alle lacerazioni profonde, all'odio insanabile, alla stupidità delle guerre.

E allora la riflessione che va fatta è un'altra, sulla natura umana, sull'incurabile egoismo umano. La chiusura dei giovani di An all'antifascismo democratico, più che una questione di risarcimenti di violenze subite nel passato, mi pare sia un'attuale rivincita di potere, lo sfruttamento del successo elettorale, la percezione di un protagonismo riacquistato.

Insomma, anche i giovani neofascisti - sempre fascisti - vogliono la loro parte di potere e di ricompense. I loro dirigenti di mezza età sono diventati ministri e sindaci, sono tra i vincitori della Repubblica berlusconiana. Gli basta e avanza l'alleanza con i moderati reazionari. Dell'antifascismo democratico non sanno cosa farsene.

(31 ottobre 2008)


da espresso.repubblica.it


Titolo: GIORGIO BOCCA. Perchè vince la destra
Inserito da: Admin - Novembre 07, 2008, 03:57:46 pm
Giorgio Bocca.


Perchè vince la destra


Non offre soluzioni credibili alle paure e alle inquietudini umane ma la sua onda lunga si nutre di illusioni da offrire ai deboli e poveri  Il portiere del Milan Christian AbbiatiUn'onda lunga di destra dilaga per l'Europa. Votano a destra austriaci, tedeschi, inglesi, e in Italia, dove la destra è maggioranza ormai stabile, già pensano a prendersi anche la presidenza della Repubblica. Dovunque risorgono movimenti fascisti o razzisti, dovunque i tentativi di arrivare a società comuniste o socialiste sono falliti o deviati al punto, vedi in Russia o in Cina, da apparire irriconoscibili.

La forza oscura ma vincente di questo ritorno ai desideri e agli egoismi irrazionali spiega perché Berlusconi indichi nella pazzia il motore del progresso. Certo la storia umana sta sotto il segno, se non delle pazzie, della irresponsabilità. È stata forse razionale, responsabile, la crescita demografica continua, benedetta dal precetto divino del 'crescete e moltiplicatevi' o le conquiste ed esplorazioni senza fine scambiate per scoperta del paradiso terrestre? E cosa è un progresso che ormai sfiora di continuo l'autodistruzione?

L'onda lunga della destra non offre soluzioni credibili alle paure e alle inquietudini umane, offre qualcosa di più attuale e micidiale, offre un'illusione ai ricchi e ai forti di poter controllare i pericoli presenti e prossimi sacrificando i poveri e deboli. Nel mondo sono riprese le grandi emigrazioni dei poveri verso le terre dei ricchi. La destra che sale in tutti i paesi ricchi è divisa fra la paura dei nuovi arrivati e il bisogno che ne ha per i lavori più duri e sgradevoli.

Nel secolo borghese le grandi potenze europee pensarono di aver risolto questa contraddizione con il colonialismo: l'immigrazione dei poveri veniva disciplinata o impedita, i padroni delle conoscenze, delle tecniche, delle armi producevano le merci di valore e le vendevano ai poveri in cambio del lavoro e di materie prime. Questa spartizione del mondo fu portata ai suoi estremi dal nazismo come schiavitù razzista.


Oggi la crescita della destra non è più sotto il segno dell'imperialismo, ma sotto quello dell'Occidente assediato, non più offensivo ma difensivo. Una scelta di breve periodo ma reale, attuale. I posti buoni su questa Terra non sono molti, pochi quelli dove scorrono i fiumi biblici del latte e del miele. E siccome la paura come si sa è una cattiva consigliera, la destra dei ricchi e dei forti conquista anche quelli che non lo sono, ma pensano di esserlo.

Mi ha molto impressionato, molto colpito per la sua evidente irrazionalità, il coming out, la confessione fascista di un noto calciatore del Milan, che ha spiegato la sua nostalgia con delle motivazioni immaginarie, inesistenti e comunque irripetibili, del fascismo come età dell'ordine e della felice coesistenza tra partito unico, patria, religione. Non lo sa il bravo portiere Christian Abbiati che la soluzione coloniale del fascismo oggi è impossibile, che l'ordine pubblico fascista era uno Stato di polizia oggi inaccettabile e che tutto ebbe il suo prezzo spaventoso con la sconfitta in un'assurda guerra di conquista?

Ma il non sapere, diffuso in tutti i movimenti politici, è dominante in quelli della nostalgia e della conservazione estrema, i quali proprio per queste loro manchevolezze, per questi difetti hanno fortuna tra quanti preferiscono i sogni alla realtà. Il bravo calciatore crede di poter essere un fascista non razzista e non conquistatore, vale a dire inesistente. Perché l'esistenza e la persistenza dei fascismi è proprio quella di credere nella religione dei più forti e nella sconfitta dei più deboli; anche se questa è la legge della giungla indegna di creature nate 'per seguir virtute e conoscenza'.


(07 novembre 2008)
da espresso.repubblica.it


Titolo: GIORGIO BOCCA. Piccoli gerarchi crescono
Inserito da: Admin - Novembre 14, 2008, 10:33:10 pm
Giorgio Bocca.


Piccoli gerarchi crescono


Un fascismo come quello littorio è impossibile, ma l'autoritarismo, le persuasioni occulte o retoriche o consumistiche, e soprattutto il piacere di servire i più forti, sono di nuovo fra noi  Domani vengono quelli della televisione austriaca per intervistarmi sul neofascismo italiano. Ne scrivo spesso, ho pubblicato un libro sul tema che ho intitolato 'Il filo nero', per dire qualcosa che può essere spezzato, sotterrato, ma che continua a dipanarsi nella nostra storia.

Che cosa gli dirò? Per cominciare gli dirò che il ritorno dei fascisti, se non del fascismo come regime, è un dato di fatto: ci sono di nuovo, nel governo, nei giornali, nella radio, nell'editoria, nel cinematografo, persino nelle canzoni. Noi antifascisti ci consoliamo dicendo che sono tornati per conto terzi, come negli anni Venti dicemmo che erano arrivati per conto dei capitalisti, del Vaticano, della monarchia, del venerdì nero di Wall Street, ma allora come adesso sappiamo che sono arrivati o tornati perché in Italia c'erano da sempre, dai tempi degli antichi romani o del Rinascimento, delle milizie nere nelle guerre civili.

Ci sono di nuovo e, come sempre, vogliono impadronirsi di tutto, anche del loro contrario, anche dell'antifascismo, come il Gianfranco Fini e il sindaco di Roma, prontissimi a rubarci il mestiere dell'attivismo e del populismo.

Ma come definirlo oggi questo filo nero che rispunta da ogni parte, questa nostra eterna specialità o affinità per cui prima o poi ce li ritroviamo in casa in cerca di un duce o di un impero o semplicemente di un manganello, indefinibili ma realissimi?

Aveva a suo modo ragione il fascista estremo Julius Evola a dire che il reato di apologia di fascismo contemplato dalla Costituzione repubblicana era assurdo, "perché nessuno era in grado di dare una definizione precisa di fascismo". L'unica cosa certa del fascismo, dei fascisti, è che sono naturalmente sordi, inadatti, nemici della democrazia, "Autobiografia della nazione", come diceva Gobetti. "Adattamento all'indole storica e alla cultura del popolo italiano", come diceva Cuoco, o "negati alla democrazia", come scriveva Prezzolini: "Islandesi, svizzeri, inglesi, americani sono nati democratici. Noi autoritari e faziosi. Che l'italiano sia un popolo democratico è un'assurdità. Forse non sono stato fascista perché ero troppo poco italiano".

Definizioni sommarie, esagerate, smentite dagli italiani morti per la libertà e la democrazia? Forse sì, ma un sospetto rimane anche in me, se ho intitolato questa rubrica 'l'Antitaliano'.

La ricomparsa dei fascisti se non del fascismo può essere parzialmente spiegata dalla nostra storia, dalla lunga dominazione straniera e dalla breve esperienza democratica. Ci vuole del tempo per dimenticare i secoli delle fazioni e della violenza e per diventare una nazione unita e democratica. Anche la guerra partigiana fu troppo breve per cambiarci in modo duraturo, troppo breve persino per darci delle canzoni, un inno, costretti per la fretta a ricopiare quelli militari della monarchia, o a trasformare in democratici quelli imperialisti. Il revisionismo storico, la diffamazione della Resistenza a cui è stato difficile opporsi, il successo di nuovi populismi ingannevoli e ladri ci avvertono: nulla si ripete in modo identico nella storia umana.

Un fascismo come quello littorio è impossibile, ma l'autoritarismo, le persuasioni occulte o retoriche o consumistiche, il 'lei non sa chi sono io', i milioni di gerarchi in pectore, e soprattutto il piacere di servire i più forti, sono di nuovo fra noi.

(14 novembre 2008)

da espresso.repubblica.it


Titolo: GIORGIO BOCCA. Attenti al gran bugiardo
Inserito da: Admin - Novembre 21, 2008, 11:01:21 am
Giorgio Bocca.


Attenti al gran bugiardo


C'è una forma di ottimismo smentita dalla storia, quello di chi non crede alla ripetizione di dittature come quelle del Novecento.
Non è così, la storia dimostra che si può vivere anche senza Stato, anche tornando alla legge della giungla  Silvio BerlusconiIl partito democratico ha tenuto la sua manifestazione di massa a Roma e, due milioni o trecentomila convenuti, è stato un successo: Veltroni ha potuto dire che l'Italia della piazza è "migliore della destra che la governa", che l'antifascismo è la stessa cosa della democrazia e che il fatto che il presidente del Consiglio non lo nomini mai è un segno preoccupante, ragion per cui è giusto e doveroso fargli una forte, tenace opposizione.

Già, ma qui sta il punto: come la fai l'opposizione a uno come Berlusconi che non solo la rifiuta, ma sinceramente non sa cosa sia, e che comunque, smentendo ciò che ha detto cinque minuti prima davanti alla folla di testimoni che lo ascoltano in piazza o alla televisione, non sa neppure chi sia lui stesso?

Anni fa Eugenio Scalfari disse che Silvio era il più straordinario bugiardo che avesse mai conosciuto, uno che crede fermamente, sinceramente alle sue menzogne, ed è lo stesso Berlusconi a confermare questo giudizio quando racconta, compiaciuto, che durante un viaggio in treno da Milano a Roma si trovò seduto di fronte al suo più accanito nemico che però, alla fine del viaggio, era completamente, non parzialmente, d'accordo con lui.

Il fatto, lamentato da Veltroni, che egli non si sia mai pronunciato sull'antifascismo, preferendo il fare della politica e del governo alle scelte ideologiche, non è casuale, fa parte di un modo di governare e di intraprendere in cui è maestro. Chi ha frequentato come dipendente una delle sue televisioni sa che egli decide tutto, ma per tutto ha un coprispalle. Nel peggiore dei casi ricorre a un silenzio tombale, un 'fin de non recevoir' totale e un po' dolente: ma si fanno a uno come lui domande così indiscrete? Che opposizione si può fare a uno che per natura, per attitudine, per convincimento, essendo uomo nato per le pubbliche relazioni, si trova a vivere in un periodo in cui la pubblicità è sovrana e la politica è spettacolo? Che opposizione si può fare a uno che può essere contemporaneamente il più fedele alleato della democrazia americana e l'amico fidato di Putin, cioè del Kgb riciclato in Gazprom?

Nessuno di noi sa cosa ci attende in un prossimo futuro, se un nuovo fascismo senza lager o una nuova rivoluzione democratica. Gli ottimisti vedono nella manifestazione del Pd a Roma la prova che anche da noi c'è ormai uno zoccolo duro della democrazia. Il pessimismo di altri sta nella costatazione che dietro agli aspetti ludici e bonari, consumistici ed edonistici dei moderati di casa nostra c'è però una tendenza, se non una volontà precisa e premeditata, a sbaraccare lo Stato di diritto per aver mano libera nel fare, che può essere anche nel rubare e nello speculare, come è stato spiegato a tutti dalla attuale crisi economica. C'è una forma di ottimismo smentita dalla storia, l'ottimismo di chi non crede alla ripetizione di dittature come quelle del Novecento, alla sopravvivenza comunque di regole e di leggi civili, senza cui non esiste società umana. Non è così, la storia dimostra che si può vivere anche senza Stato, anche tornando alle legge della giungla. Hitler aveva perso ogni legame con le istituzioni del Terzo Reich e Stalin ignorava ogni giorno la costituzione che lui stesso aveva scritto, entrambi i despoti imponevano la loro volontà. E per vincere la loro follia ci vollero milioni di morti.

(21 novembre 2008)
da espresso.repubblica.it


Titolo: GIORGIO BOCCA. Se dell'Utri sta con Obama
Inserito da: Admin - Novembre 28, 2008, 10:23:08 pm
Giorgio Bocca.


Se dell'Utri sta con Obama


Il modello Berlusconi ha fatto scuola: Fini e Alemanno antifascisti, Calderoli apre all'Onda. È la politica stile commesso viaggiatore  Silvio Berlusconi e George W. BushDi un liberale moderato che si era messo a fare l'interventista e il nazionalista, Mussolini, che non era privo di humour, disse: "Questa è concorrenza sleale".

La destra italiana la pratica senza esitazione e ritegno. In testa gli ex missini di Alleanza nazionale: tutti in pellegrinaggio a Gerusalemme, allo Yad Vashem, il sacrario dell'Olocausto, e appena tornati tutti comprensivi e solidali con gli studenti di sinistra che scioperano contro la Gelmini. L'esempio viene dall'alto, dal presidente del Consiglio e aspirante alla presidenza della Repubblica Berlusconi. Si ricorda di lui, quando era impresario edile, che compariva all'ufficio vendite per fare tutte le parti: del venditore come del tecnico, dell'impresario come del consulente, del cliente soddisfatto come di quello in cerca di spiegazioni. Alla vigilia delle elezioni americane abbiamo saputo che era per Obama e non per McCain. Come i suoi fedelissimi Bondi e Dell'Utri. Restando amico di Putin e sodale di Gheddafi a cui, incredibile ma vero, pare abbia promesso aiuto in caso di attacco americano. E il ministro Frattini, uomo di garbo e di mondo, ha subito dichiarato che "tra Silvio e Obama ci sono molte affinità".

Siamo alla politica da commesso viaggiatore, da mercante in fiera pronto a tutto pur di vendere i nostri callifughi, sicuri che in piazza ci sarà sempre uno pronto a comprare le medicine miracolose, le lozioni per la rinascita dei capelli.

È difficile capire se l'italiano comune segua Silvio nelle sue evoluzioni perché crede davvero che sia il re Mida che trasforma in oro tutto quello che tocca o perché il piacere di servire il più forte è sempre un gran piacere. Fatto sta che il modo o la moda attuale di far politica, questo populismo generalizzato e moltiplicato dalla mentalità pubblicitaria dominante, sono praticati da tutti, senza distinzioni di partito o d'ideologia. La democrazia è pur sempre una parola magica, un marchio di buon governo? Il sindaco neofascista di Roma Alemanno e il presidente della Camera Fini sono oggi i più rapidi, pronti, sicuri testimoni della democrazia, più democratici dei giudici della corte costituzionale, più antifascisti del presidente dell'Anpi. Gli studenti manifestano nelle piazze? Il leghista Calderoli, quello che un tempo non amava 'i culattoni' e detestava 'i maomettani' della sinistra, trova parole di comprensione e di apertura.

La lezione del Silvio 'incantatore di serpenti' è diventata luogo comune, precetto virtuoso da copiare. Se vuoi vendere la tua merce, buona o cattiva che sia, devi piacere all'uditorio, alla platea, pensare all'ovvio e non al complicato, all'uomo comune e non all'eccezione. La voga che hanno le trasmissioni sul tempo, che ripetono i discorsi rituali sulla pioggia e sul freddo dall'inglese da caricatura, l'inglese che esce con ombrello e galoche anche se splende il sole, confermano che anche noi siamo maturi per i conformismi dominanti. Politici come Silvio sono prontissimi a farne uso, incuranti del vero e anche del verosimile. L'importante è avere i soldi ed essere a capo dello Stato, che il liberismo denigra e combatte, ma che resta il padrone del 60 per cento della spesa pubblica, del giro di miliardi.

Il politico Mussolini non era uno sprovveduto quanto a conoscenza dei difetti degli italiani. Ma neppure lui avrebbe potuto prevedere che i suoi eredi avrebbero cavalcato anche i modelli della democrazia e dell'antifascismo.

(28 novembre 2008)
da espresso.repubblica.it


Titolo: GIORGIO BOCCA. Il mestiere delle banche
Inserito da: Admin - Dicembre 05, 2008, 10:58:26 pm
Giorgio Bocca.


Il mestiere delle banche


Da sempre i monarchi hanno limato le monete d'oro per il bene loro e del loro casato, da sempre applauditi dai sudditi. Perché le banche non dovrebbero fare altrettanto?  Una lettrice, impiegata di banca, mi scrive lamentando che faccio di ogni erba un fascio dei bancari, come il ministro Brunetta degli statali, tutti fannulloni. E per due fitte pagine mi spiega come gli impiegati vengano letteralmente schiacciati dai dirigenti esosi e dai clienti avidi e ignoranti.

"Che ne sa lei delle giornate infernali di lavoratrici e lavoratori bancari che sono letteralmente perseguitati dai vari manager con tutti i mezzi possibili, sms sui telefoni personali, mail, telefonate, continui rimbrotti, riunioni a tutte le ore, con l'unico sacro obiettivo di raggiungere il budget? Che ne sa lei di quello che in questi anni abbiamo subito con tutte le fusioni, incorporazioni, tagli aziendali, riconversioni, mutamenti di mansioni, spinte commerciali insopportabili, pretese da nuove generazioni di capetti che anziché i globuli rossi hanno nel sangue un fiume di dollari? Le ultime leggi aumentano le nostre responsabilità nel rapporto con i clienti come se fossimo dei banchieri responsabili delle strategie e degli strumenti. E che dire dei clienti, dei risparmiatori? Ho speso ore e ore a spiegare a massaie e pensionati che le azioni Parmalat e Cirio erano più rimuneratrici perché più rischiose. Ma le massaie e i pensionati volevano guadagnare molto e subito, e ora che si sono bruciati, sono i più accaniti ad accusarci".

Così la mia lettrice. Qui vorrei dirle che mi metto anch'io nell'elenco dei clienti colpevoli, e non solo per avidità, ma anche per altri peccati più veniali come la pigrizia e la vanità. Mi spiego: sono cliente di due grandi banche. La prima a Milano, a due passi dalla casa in cui abitavo, la seconda, dopo un trasloco, sempre a due passi da casa; non perché avessi bisogno di due banche, ma perché vicine a casa.

Quando partì la nuova 'filosofia aziendale' o bancaria di trasformare gli impiegati in procuratori di affari, la nuova banca arrivò per prima, mi mandò a casa la bancaria di fiducia accompagnata dal direttore di filiale. Mi spiegarono che era il momento di fare degli investimenti e mi fecero firmare un contratto per una assicurazione sulla vita. La pigrizia per cui avevo scelto per due volte la banca vicino a casa mi punì. Come? Per pigrizia non avevo letto le due pagine fitte del contratto al comma dove si diceva che esso era legato al corso delle operazioni di Borsa. La Borsa crollò poco dopo e presi il primo bagno.


La seconda banca si fece viva quando avrei dovuto tener conto della prima fregatura. Ma venne da me l'impiegato simpatico che conoscevo da vent'anni, un impiegato letterato, che leggeva i miei libri. Non ricordo di preciso quale investimento mi propose, ma fu un secondo bagno. Ero amico dell'ad, cioè amministratore delegato della grande banca, lo avevo difeso sul giornale nei giorni di Mani Pulite. Gli scrissi della mia disavventura. Non mi rispose perché, come è noto, la prudenza è una virtù dei banchieri.

Il direttore di filiale della prima banca è stato trasferito in provincia, e non mi ricordo nemmeno come si chiamasse, l'impiegato letterato è andato in pensione sostituito da una donna prudente con cui fatico a comunicare per via della privacy per cui ogni filiale è più segreta e inavvicinabile di Fort Knox.

Morale della storia? Da sempre i monarchi hanno limato le monete d'oro per il bene loro e del loro casato, da sempre applauditi dai sudditi.

Perché le banche, che sono del mestiere, non dovrebbero fare altrettanto?

(05 dicembre 2008)
da espresso.repubblica.it


Titolo: GIORGIO BOCCA. Alleanza criminale
Inserito da: Admin - Dicembre 12, 2008, 03:31:25 pm
Giorgio Bocca.


Alleanza criminale

Sui rifiuti a Napoli si è creato il perverso legame tra industria del Nord e Camorra con la complicità di funzionari comunali e regionali, e di alti ufficiali  Una strada di Napoli ricoperta di rifiutiLa struttura della società mafiosa è un mistero solo per chi, essendone complice, si rifiuta di vederla. Prendiamo il caso dei rifiuti industriali. L'industria che li produce non sa come smaltirli a basso costo, è inevitabile che chieda o accetti la collaborazione delle mafie. Sappiamo cosa è accaduto a Napoli e nella Campania: i terreni agricoli e il sottosuolo urbano sono stati riempiti di veleni. La complicità dello Stato è indispensabile: amministrazioni pubbliche, polizia, carabinieri, guardia di finanza devono partecipare.

La prova? La prova sta nel fatto che l'operazione è avvenuta, che le burocrazie e le polizie statali l'hanno subita e anche in parte assecondata. Ci vuole pure la complicità dell'informazione, e infatti ogni giorno giornali, radio e televisioni raccontano d'interi apparati statali, ultimo quello del Molise, coinvolti nel ladrocinio, ogni volta fingendo che questa collaborazione sia casuale, e non sistematica.

A Napoli e in Campania si racconta come di cosa notoria che al piano alto dell'operazione ci stanno anche alti ufficiali dei carabinieri e alti funzionari comunali e regionali. La scoperta che anche gli alti servitori dello Stato possono essere complici della delinquenza o della sovversione, noi italiani l'abbiamo fatta in modo traumatico negli anni del terrorismo e delle trame nere, quando abbiamo saputo che anche prefetti e questori potevano partecipare a operazioni illegali, nascondere le prove, tacitare i testimoni, favorire i potenti e i loro affari. Si è costituito un tessuto mafioso parallelo o sovrastante quello legale.

A Napoli si è scoperto che la camorra era presente in tutti i lavori per la nuova litoranea, da Palazzo Reale allo stadio del calcio; per tutti i permessi e le modalità dei lavori c'è, documentata, la presenza della camorra, quasi sempre su carta intestata a un ente pubblico, scritta con i computer della Regione o del Comune.

L'informazione eroica alla Saviano è meritoria ma sostanzialmente impotente di fronte a un apparato che unisce la delinquenza organizzata allo Stato. Per portare a termine la gigantesca operazione dei rifiuti industriali e ospedalieri si è creata la perversa alleanza fra la grande industria del Nord e l'organizzazione malavitosa locale, e ora l'avvelenamento del territorio non è più riparabile, tutte le norme igieniche e sanitarie sono state violate impunemente per anni. Si conoscono i nomi e i titolari delle società che hanno compiuto lo scempio, è di poche settimane fa la scoperta che il sottosuolo di Napoli, la Napoli dei cunicoli e delle grotte, è stato riempito di rifiuti.

Per compiere il misfatto c'è voluta la complicità di centinaia di funzionari e anche di poliziotti tutt'ora in servizio, corrotti in due modi: con il denaro e con la vita salva, e magari con le informazioni camorriste grazie alle quali potevano far carriera arrestando spacciatori di droga o piccoli rapinatori.

Oggi è impossibile nascondersi l'amara verità: il sistema camorristico si è allargato a intere province, le centinaia di arresti, le operazioni monstre celebrate dalla televisione sono lì a dimostrare che il cancro malavitoso si è diffuso: un esercito di delinquenti che non si sa come arrestare e come custodire, riciclato in continuazione dagli indulti e dalle assoluzioni.

Quanti decenni o secoli dovranno passare prima di uscire dal disastro?

(12 dicembre 2008)
da espresso.repubblica.it


Titolo: GIORGIO BOCCA. Giustizia addio
Inserito da: Admin - Dicembre 19, 2008, 12:44:59 am
Giorgio Bocca

Giustizia addio


In questo mutevole tempo la sacralità della magistratura è svanita. Ora avanza un modello pragmatico, cangiante, opportunista, dove tutto è possibile: 'Il tempo del fare', come lo chiama Berlusconi  Nei giorni di Mani Pulite, inverno del 1992, la magistratura italiana sembrava onnipotente. Ricordo la mattina che andai al palazzo di giustizia per intervistare il grande accusatore Antonio Di Pietro, e nel corridoio della Procura c'era la coda dei milanesi doc: industriali, avvocati, amministratori, costruttori, finanzieri, che mi conoscevano, mi salutavano perché prima di quella mattina intervistavo loro per sapere come andavano le faccende del potere, e ora invece erano lì in attesa di essere introdotti nell'ufficio di colui che poteva decidere della loro libertà, della loro vita, nell'ufficio de 'l'uomo violento', come lo chiama ora Berlusconi.

E spesso mi chiedo: come è possibile che quella magistratura allora onnipotente, la stessa che mandò a giudizio e condannò Bettino Craxi, mise alla berlina Forlani, tolse colore e vita all'amministratore della Dc Citaristi, disfece il sistema del centro-sinistra, come è possibile che poi non sia riuscita a disfarsi di Berlusconi che oggi la attacca e la insulta ogni giorno, parlando di magistrati boia, di magistrati assassini? E come è possibile che nel programma di governo di prossima attuazione ci siano come punti base la riforma della magistratura, la separazione delle carriere, la supremazia della politica?

La risposta non è facile, ma possiamo provarci. Per dirla marxianamente, la sovrastruttura del potere, le sue forme politiche sembrano ancora quelle di allora, ma è la struttura di base che è profondamente mutata: il potere degli Stati nazionali è sottoposto ai condizionamenti dell'economia globale, i cui alti e bassi si trasferiscono rapidamente da un continente all'altro, le ideologie sono morte o in gravissima crisi, gli Stati comunisti hanno fatto loro le imprevedibilità del capitalismo, quelli liberisti riconoscono la necessità degli interventi statali.

Il tempo delle istituzioni immutabili, dei poteri eterni e indiscutibili si allontana. Il modello attuale è il pragmatismo di Barack Obama, che essendo stato eletto nel nome del cambiamento è già intento a rimettere assieme l'America che conta e che decide, non più quella repubblicana dei petrolieri e dei banchieri, ma il suo facsimile della Fondazione Clinton.

In questo mutevole tempo la sacralità della magistratura è svanita, la sua funzione al servizio dello Stato, la mitica funzione della quadratura del cerchio, dei contrasti irrisolvibili dalla società civile non è più indispensabile. Il tempo della giustizia sovrana è quello immutabile scritto a caratteri giganteschi sulle facciate dei tribunali, non questo pragmatico, cangiante e opportunista dove tutto è possibile, anche che il capo dell'anticomunismo italiano sia amico fraterno e alleato dei comunisti russi allevati dal Kgb, o che l'onorevole Villari del Partito democratico si faccia eleggere al comitato di vigilanza della Rai da Forza Italia e che anche radicali e socialisti approvino questa libertà da re Travicello.

La cosiddetta opinione pubblica, diciamo l'opinione della minoranza che in Italia si occupa ancora di politica, è sempre divisa fra il ruolo della grande personalità e il corso della storia, fra l'individuo che s'impadronisce del potere e la storia che gliene offre l'opportunità; Berlusconi lo chiama 'il tempo del fare'. Un tempo in cui le istituzioni millenarie cedono agli appetiti e alle avidità insopprimibili e risorgenti. Da noi un uomo abile e ricco giunto alla guida del governo ricorda ogni giorno alla magistratura che il suo fare non sopporta gli intralci dell'onorata istituzione.

(18 dicembre 2008)

da espresso.repubblica.it


Titolo: GIORGIO BOCCA. Chi ci salva dalla crisi
Inserito da: Admin - Dicembre 27, 2008, 09:53:03 am
Giorgio Bocca


Chi ci salva dalla crisi


Non gli economisti che hanno le mani in pasta, non Paulson, il 'mago' della Federal Reserve, non questi manager che mettono in piazza le loro follie e le loro violenze  Traders a Wall StreetMa che cosa è questa crisi?, ironizzavano i canzonettisti degli anni Trenta. Sulla crisi attuale non potrebbero: oggi tutti sanno che cosa è, è una crisi immedesimata, stampata sui difetti umani elementari quali avidità, impazienza, disonestà, voglia di potere, di sfruttamento altrui e di stupidità, che risulta difficile, spesso impossibile ignorarlo.

Gli economisti che hanno le mani in pasta sono i meno adatti a spiegarla, riescono meglio i letterati, gli artisti. Il vecchio Tolstoj, per dire: "Il diavolo del perfezionamento tecnico ha convinto gli uomini che più oggetti fabbricheremo e più rapidamente e meglio sarà per tutti. E così gli uomini perdono la vita per fabbricare un numero di oggetti perfettamente inutili sia per coloro che li hanno prodotti, sia per coloro che si sono indebitati per averli".

La crisi è chiara, chiarissima per chi l'ha ogni giorno voluta, ma è questa chiarezza la ragione prima di umiliazione, l'ammissione, l'evidenza che ci siamo rovinati con le nostre mani. Viviamo, dice il sociologo Edgar Morin, con una bomba a scoppio ritardato nel nostro armadio. C'è da stupirci se ci divora l'angoscia? Ogni mattino apriamo giornali e radiotelevisioni con un fiero proposito: questa volta voglio proprio capire perché oggi tutto va storto, tutto è in perdita se facciamo le stesse cose di ieri quando tutto era guadagno, sviluppo. E la prima constatazione scoraggiante, ma che dico, disperante, è che stiamo facendo di tutto per riprodurre i guasti e gli errori di ieri.

Chi sono gli esperti, i dottori emeriti, le teste fini a cui chiediamo di rimettere in sesto la baracca dell'economia? Oggi il primo ad apparire sugli schermi, sui fogli, è stato un gigante di nome Henry Paulson, dalla voce cavernosa e tremante, uno dei maghi della Federal Reserve che hanno perseguito per decenni l'indebitamento gigantesco, la vendita di 'azioni spazzatura', il trasferimento a paesi esteri del debito commerciale americano, e il consumismo folle che sta mettendo a rischio finale la nostra sopravvivenza, in un vortice irresistibile in cui qualsiasi cosa si faccia è sbagliata: se consumi ti indebiti, se non consumi l'economia si ferma, se segui la corsa tecnologica inquini, se non la segui fallisci.

E guardando al mattino appena alzati e già depressi questi manager che mettono in piazza le loro follie e le loro violenze, questi primi della classe che ci ritroviamo, ci vien di pensare che forse per gli umani di un altro millennio le cose cambieranno in meglio, ma che per noi il peggio è assicurato. Per giunta, essendo persone scolarizzate sappiamo anche che tutto era prevedibile, evitabile. Non è noto dai tempi di Tacito che "la debolezza umana fa sì che i rimedi vengano sempre dopo il male"? Non è arcinoto che uno dei grandi pensatori del capitalismo americano, il signor Taylor del famoso metodo produttivo, diceva amabilmente agli operai: "Non vi chiedo di pensare. C'è gente pagata per questo". La tecnica come toccasana! Ma fa anche parte della tecnica il colpo partito che non può tornare indietro, le dighe colossali che hanno compromesso per sempre i sistemi idrici cinesi, egiziani o danubiani.

Ogni mattino apriamo i giornali o le televisioni per sapere se i nostri governanti e salvatori sono in arrivo. Lo spettacolo non è incoraggiante: giocano con le montagne di dollari o di sterline come era di moda negli anni del miracolo economico giocare a Monopoli con i dadi e i soldi falsi. L'economia in genere e quella globale in particolare danno vita a meccanismi al di fuori di ogni controllo, sensibili a tutti gli umani desideri, a tutte le umane debolezze. Apprezzabili soprattutto se fuori da ogni controllo. E allora di che ci lamentiamo?

(24 dicembre 2008)
da espresso.repubblica.it


Titolo: GIORGIO BOCCA. C'è un ufo alla rai
Inserito da: Admin - Gennaio 01, 2009, 10:37:15 am
Giorgio Bocca.

C'è un ufo alla rai


L'Italia si sta popolando di uomini senza dimensioni. Come certi politici dell'opposizione pronti a salire sul carro della maggioranza  Riccardo VillariL'Italia va popolandosi di uomini senza dimensioni. Cosa intendiamo per dimensioni? Tutto ciò che dà la misura di un uomo, lo definisce, lo qualifica, gli impone dei rispetti: la sua cultura, i suoi amici e maestri, i suoi principi morali e politici. Stanno scomparendo. I cittadini campano a quanto pare benissimo, indefinibili, imprendibili. L'esempio più chiaro, scolastico, è il senatore Riccardo Villari. Viene eletto presidente della Commissione di vigilanza Rai dai nemici del suo partito, Partito democratico. Avesse un minimo di dimensione politica si dimetterebbe immediatamente, ma non ce l'ha, tutto ciò che si sa di lui è l'aspetto pacioso, il pulloverino di cachemire, il tifo per il Napoli, e neppure la sua professione di medico delle malattie del fegato è per lui qualificante. Perciò resta dove è, sulla poltrona che gli hanno regalato per fare un danno al suo partito, cioè al partito che lo ha fatto senatore. Dice di non essere il solo a mancare di dimensioni impegnative. E in questo ha ragione: la politica italiana va riempendosi di personaggi che ricordano i palloni aerostatici della guerra, non sai se per essere abbattuti dal nemico o per abbatterlo.

Che dimensioni hanno gli oppositori del premier Silvio Berlusconi? Spesso è impossibile dirlo. Fanno parte dell'opposizione, ma si capisce lontano un miglio che gli andrebbe benissimo salire sul carro della maggioranza. Gli ex comunisti napoletani alla Bassolino, per dire: arriva a Napoli il Cavaliere per ripulirla dalla immondizia nelle strade del centro, mentre la regione intera si è riempita della immonda camorra sino a soffocarne il respiro civile, sino a farne una città civilmente morta, e Antonio Bassolino con i suoi aiutanti pencola, ha una gran voglia di fare il salto, di ritrovarsi nella tribuna d'onore del Napoli accanto a Villari. E il pencolare rientra nella più antica tradizione politica italiana, nel trasformismo che dura dai secoli bui delle dominazioni straniere: 'Francia o Spagna purché se magna'. Forse ci sono ancora italiani a cui questa mancanza di dimensioni precise, di riferimenti, dà il voltastomaco: come vivere in un paese senza indicazioni stradali, senza divieti d'accesso, senza leggi, senza regole rispettabili e rispettate.

Che idea ha della politica il senatore Villari? Che un uomo politico, cioè un rappresentante dei cittadini, non rappresenta che se stesso, le sue piccole ambizioni, i suoi comodi, i suoi viaggi gratis in ferrovia o in aeroplano: un politico così è accettabile? Eppure lo è, il senatore Villari viene fischiato ma anche applaudito se appare in pubblico, e nonostante gli inviti ad andarsene da tutte le parti, resta al suo posto.

Ma non solo i politici. Che dimensioni, che amici e maestri, che punti di riferimento hanno i magistrati delle Procure di Catanzaro e Salerno, che si sono fatti la guerra come due bande di malfattori, con violenze e sopraffazioni reciproche? Quali dimensioni civili, quali modelli hanno gli amministratori di città come Catania che non pagavano l'elettricità per la pubblica illuminazione e tutti gli altri che hanno usato le unità sanitarie per sistemarci i parenti e fare bottino? Si fa sempre più difficile in questo paese rispettare la dimensione, la misura, la qualifica che va sotto il nome di cittadino italiano, di cui spesso ci si vergogna.

(31 dicembre 2008)
da espresso.repubblica.it


Titolo: GIORGIO BOCCA. Ragazze sposate un miliardario
Inserito da: Admin - Gennaio 09, 2009, 04:44:10 pm
Giorgio Bocca.


Ragazze sposate un miliardario


Perché gli italiani hanno rivoluto Berlusconi al governo? Che cosa ha in più degli altri politici il premier, visto che l'unico consiglio di vita che ha saputo dare alle donne è di trovare un buon partito?  Antonio Di Pietro, a chi lo rimprovera di occuparsi ossessivamente di Silvio Berlusconi, risponde: ma non è lui che ha il potere, non è lui che sta massacrando la nostra democrazia, la giustizia, tutto? Se così è, alla risposta di Antonio Di Pietro si dovrebbe aggiungere: ma in cosa consiste questo grande potere di un parvenu della politica, perché la maggioranza degli italiani lo ha chiamato al governo per la terza volta, perché gli conserva il suo appoggio? Non è certamente la capacità reale di governare, di dettare le linee dello sviluppo economico, di una ragionevole politica estera, di una giustizia giusta.

In materia economica Berlusconi continua a negare l'evidenza della crisi, l'attribuisce al catastrofismo degli italiani, li invita a consumare mentre, colpiti dalla crisi, cercano di risparmiare, a comprare azioni mentre le Borse crollano, a comportarsi cioè, nel migliore dei casi, come dei grandi speculatori che non sono, come degli spericolati rialzisti essendo dei risparmiatori spaventati. La responsabilità della crisi mondiale non è evidentemente solo di questo imprenditore milanese che ha fabbricato quartieri residenziali e creato reti televisive, ma certamente ha cavalcato in questi anni tutti i rischi e le pazzie del liberismo senza controlli e del produttivismo alla cieca. Tanto che l'unico consiglio di vita che sinceramente ha potuto dare alle concittadine è stato: "Sposate un miliardario".

Ma allora, perché gli italiani lo hanno riconfermato al governo? Che cosa gli dà che altri politici non sappiano dargli? È una domanda che mi sono posto da quando l'ho incontrato per la prima volta nella sua casa milanese di via Rovani, prima che si trasferisse nella reggia di Arcore. E lì mi sono reso conto che ciò che la gente chiede a un politico sono molte cose diverse dal buon governo, molte cose che appartengono più all'innamoramento, alla seduzione e anche alla magia, che al buon governo. Quasi tutti coloro che lo conoscevano e a cui chiedevo di spiegarmi le ragioni del suo successo, mi dicevano: "Ha una marcia in più. Una forza in più".

Anche quella di apparire più che di essere, o le due cose insieme. A conferma che la vita è sogno e che il sogno è teatro. Che cosa può realmente fare uno come Berlusconi al governo dell'Italia nella grande crisi finanziaria ed economica che attanaglia il mondo? Praticamente nulla di concreto. Non è con le parole, con le barzellette, con le battute, con i gesti a sorpresa che puoi rianimare un mercato saturo, una finanza impazzita, un'avidità senza limiti. E neppure con l'attivismo senza soste, con la mobilità leggendaria, in viaggio continuo da Roma a Mosca, da Bangkok a Washington, nel gesto continuo di chi si mette a posto la cravatta o si chiude la giacca mentre sfila davanti ai picchetti d'onore. Ma forse la fascinazione della politica, per cui Berlusconi era nato e a cui si è dato anima e corpo, è proprio questa mescolanza di teatro e di azione, di realtà e di sogno a tempo indeterminato.

Quanto dura la fortuna di un demagogo come Silvio? Fino a quando anche i suoi difetti appariranno straordinari ai suoi cortigiani? Anche il rischio della fortuna mutevole fa parte della politica, di questa pretesa o presunzione di diventare, come li chiama Omero, "pastori di popoli".

(09 gennaio 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: GIORGIO BOCCA. Il potere alle macchine
Inserito da: Admin - Gennaio 16, 2009, 11:41:30 pm
Giorgio Bocca.


Il potere alle macchine


L'auto che ci ha cambiato la vita ha il diritto di dominarla: ogni giorno c'è un massacro sulle strade e la nostra complicità con i delitti è totale, al massimo l'accusa è di omicidio colposo  Fra le macchine che dominano la nostra vita, l'automobile è la più potente: non solo ci uccide, ma ci dà licenza di uccidere. Il giovane che ha fatto strage d'innocenti a Milano con la sua auto ha dichiarato tranquillamente: "Pioveva e la visibilità era minima, ho sterzato e sono piombato sul gruppo, che non avevo visto. Mi spiace per le vittime". Un giudice l'ha già mandato libero, l'omicidio colposo è un omicidio quasi normale nella società in cui l'automobile è la macchina sovrana, indispensabile, se si ferma la sua produzione non solo perdono il lavoro quelli che la fabbricano, ma si ferma anche l'indotto, il laborioso formicaio che partecipa alla produzione.
Noi leggiamo sui giornali, seguiamo alla televisione le notizie del massacro quotidiano senza stupore e condanna. Se c'è un omicidio premeditato con l'aggravante dei futili motivi è proprio quello di chi è alla guida di quel proiettile vagante che è un'auto che corre ad alta velocità, magari ubriaco, magari assonnato. Certo però che sarà l'infernale, l'ingovernabile macchina a farlo perdonare e rimandarlo libero perché possa subito mettersi al volante di un'altra macchina omicida.

Una volta entrati in questa alienazione non se ne esce più. La macchina che ha cambiato la tua vita ha il pieno diritto di dominarla. Tutto l'ordine sociale va sottomesso alla sua crescita, alla sua straripante moltiplicazione. La nostra complicità con i suoi delitti è totale: come può un giudice raziocinante mandare libero un giovanotto che ha fatto strage d'innocenti, accusandolo al massimo di omicidio colposo? Ma è chiaro, anche il giudice condivide il patriottismo automobilistico, anche lui sa benissimo che l'automobile è sacra, ha liberato l'umanità dalla fatica del camminare e dalla schiavitù delle distanze, gli ha regalato l'ubiquità, la sua enorme forza motrice, il poterti sentire solo dentro la folla, la libertà di decidere in una vita già decisa dagli altri.

Per ritrovare un minimo di coscienza sul nostro stato di dipendenza assoluta dalle macchine, possiamo contare su qualche black out energetico. Nulla di drammatico, intendiamoci, un piccolo avviso in portineria: causa lavori l'elettricità sarà interrotta dalle nove alle dodici. Ed eccovi alle nove in punto riportati di colpo non alla preistoria, non alla clave e alle pelli ferine, ma all'assoluta impotenza, a uno stato prenatale. Tutto spento, tutto immobile, la casa come una sorda prigione: nel buio non potete leggere, le macchine per scrivere e per calcolare sorde, inerti come pietre, freddi i termosifoni, muti i telefoni, inchiodate le saracinesche.

Pazienza, tre ore passano in fretta, vi resta il letto per riposare. I black out passano, l'energia ritorna, il moto continuo riprende, ma quel panico da mancanza di energia, quel ritrovarvi incapaci di sopravvivenza, di autonomia, non vi abbandonerà presto, vi siete resi conto della fragilità estrema di questo modo di vivere protetti dalle macchine, sostituiti dalle macchine, complici delle macchine.
E ogni tanto gli annunci di catastrofi totali irreparabili, città come New Orleans coperte dalle acque, mutamenti climatici catastrofici con un'umanità che non sa più fare manualmente le cose più semplici.
Ogni giorno a Milano c'è un incidente tramviario, il più sicuro dei mezzi di pubblico trasporto su rotaie si rompe, esce dai binari, investe qualcosa.
Che sia già iniziata la rivolta delle macchine?

(16 gennaio 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: GIORGIO BOCCA. Corruzione modello Romeo
Inserito da: Admin - Gennaio 24, 2009, 04:30:04 pm
Giorgio Bocca.

Corruzione modello Romeo


L'imprenditore ha spiegato che il suo Global Service, svelto di mano e di 'dazioni', era però indispensabile a far funzionare Stato ed economia. Che oggi non sono più capaci nemmeno di aggiustare fogne e strade  Alfredo RomeoSiamo alla corruzione continua, andata e ritorno. Poteva spiegarcelo solo un napoletano svelto e intelligente, il signor Alfredo Romeo, gestore della Global Service, che già dal nome sembra indicare un servizio totale, pubblico-privato, onesto-ladro, individuale-collettivo, diciamo qualcosa di più simile all'Urss di Leonid Breznev che al liberismo di Luigi Einaudi.

Vediamo la corruzione di andata: gli amministratori dello Stato, la burocrazia statale e quella dei partiti, per rubare meglio hanno rinunciato alle scuole di ornato urbano come a quelle di pubblica amministrazione. Un esercito famelico di monsù Travet, un tempo fiero di servire i sovrani e la patria in onorata miseria, ha preteso la sua parte di bottino. Il Partito socialista di Bettino Craxi ha trovato la quadratura ideologica di questa pretesa universale alla ricchezza o almeno al sussidio statale. Gli amministratori socialisti di Torino hanno spiegato per primi alla nuova Italia che un pubblico amministratore capace compiva la stessa funzione di un tecnico o di un imprenditore e che dunque andava retribuito come un professionista. E se non era retribuito si aggiustava. Dopo aver sostituito l'aborrito servizio militare con il mercenariato e la pubblica amministrazione con le consulenze e i privilegi di partito, i signori delle segreterie hanno occupato le banche e gli enti pubblici, pretendendo di essere finanziati al di fuori da ogni controllo. Sembrava che, finito il regno e il fascismo, nascesse la nuova Italia democratica. È nata invece l'Italia delle mafie politiche-criminali, che non è una nostra specialità, ma un portato di questo capitalismo globalistico che è riuscito nel capolavoro di mettere in crisi anche le residue economie comuniste.

Silvio Berlusconi ha creduto di potersi caricare sulle spalle questa squinternata società e pensa di cavarsela con il suo populismo fronteggiato da un vecchio socialista per bene come il presidente Giorgio Napolitano, che almeno sa parlare in lingua e in civili maniere. In questa situazione un napoletano svelto come questo Romeo della Global Service, inquisito dai magistrati napoletani per avere le mani in pasta con la burocrazia partitica di mano lesta, ci ha spiegato con le prime deposizioni che la corruzione italiana, è diciamo pure, epocale, mondiale, del tipo 'andata e ritorno', come dimostra il fatto certo che il sistema mafioso sta risalendo la Penisola come la linea delle palme, e che è il sistema politico ed economico del Nord ricco ad alimentarlo.


Cosa ha detto di preoccupante, ma di vero, lo svelto Romeo? Che il suo Global Service svelto di mano e di 'dazioni' è però indispensabile a far funzionare Stato ed economia; è un po' e non a caso, come i Tolkac sovietici, i comunisti miliardari che rimettevano in moto la produzione, trovavano i ricambi, gli operai specializzati, le materie prime introvabili nel piano quinquennale. Ignoriamo nei particolari le attività di Romeo, ma ci pare più che credibile che la rete dei suoi affari si allargava perché le pubbliche amministrazioni corrotte avevano dimenticato la corretta amministrazione del territorio e dei beni pubblici, non sapevano più aggiustare né le fogne né le strade, non sapevano progettare delle buone città, una buona igiene. Il populismo di Berlusconi fa il pari con la frenetica attività festaiola dei partiti, mostre, festival del cinema, sorrisi di belle donne e canzoni imperversanti nel paese dei balocchi. Romeo come un Tolkac?

(23 gennaio 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: GIORGIO BOCCA. No alla gara delle fazioni
Inserito da: Admin - Febbraio 06, 2009, 05:24:29 pm
Giorgio Bocca

No alla gara delle fazioni


Di fronte al dramma di Gaza non siamo certo per l'indifferenza ma neppure per la faziosità irragionevole  Donne beduine scappano dalla loro casa
in fiamme a Beit LahiaLa rissa in televisione fra Santoro e la Annunziata ha segnato il punto più deludente di una bassissima stagione politica. Una rissa tra faziosità che non riescono a capire che stanno affrontandosi su una sciagura storica comune a entrambi i popoli, palestinese e israeliano. Per il primo la sorte amara dei deboli che i potenti e i ricchi hanno lasciato sconfiggere per indifferenza o comodo, per il secondo l'ultimo, millenario processo di 'caccia all'ebreo', ricorrente nella storia.

Nei mesi che trascorsi in Israele per la guerra dei Sei giorni e per il processo Eichmann, il sentimento d'impotenza di fronte alla tragedia storica che si ripresentava davanti a me era desolante. Mi facevo portare in taxi da David, il marito della proprietaria del ristorante La Gondola, che parlava un po' d'italiano perché era stato nella brigata ebraica che aveva risalito l'Italia con gli Alleati angloamericani. Con David non parlavo dei palestinesi perché sapevo come la pensava: "Con arabi - diceva ogni tanto come se il pensiero gli salisse dai precordi - io così...", e faceva il gesto del tagliagole.

Ho deciso allora di non partecipare più alla gara delle fazioni e dei loro giudizi, per una semplice e forse pavida riflessione: cosa puoi dire tu che sei comodo spettatore delle spaventose sofferenze altrui? Come puoi intervenire tu che stai al sicuro, al caldo, ben nutrito, su guerre senza prigionieri, su inimicizie millenarie?

Poco dopo il processo Eichmann è uscito il libro di uno scrittore ebreo che accusa Israele di aver usato il processo a fini politici, per il risarcimento economico da parte dei persecutori più che per avere giustizia. Una tesi che impressiona, ma semplicistica. Certo il processo serviva a Israele in lotta per la propria esistenza a far tacere l'ostilità dei paesi arabi, a ottenere finanziamenti tedeschi e americani. Ma chi assisteva al processo non poteva fermarsi a questi retroscena, lo seguiva con atterrito stupore, come la testimonianza di quel fatto orrendo, incredibile: che nell'Europa moderna fosse avvenuto un massacro razzista, milioni di uomini sterminati per delle teorie risibili.

Ogni giorno arrivavano in aula gli ebrei superstiti dei paesi occupati dai nazisti: francesi, norvegesi, olandesi, belgi, danesi, italiani, ogni volta si saliva nei cieli alti della tragedia e della malvagità senza senso, che non è affatto banale come sostiene Hannah Arendt, ma opera del Maligno, del diavolo tentatore, del peccato originale che non ci abbandona. La perfezione organizzativa di un eccidio demenziale, il colossale trasporto dei condannati a morte che ostacolava lo sforzo bellico nazista, fino all'ultimo viaggio di una tradotta di ebrei da Budapest a Vienna mentre le avanguardie dell'Armata Rossa erano già vicine alla città. Non avevo mai partecipato a un lutto, a un pianto così totale e unanime. Sotto il cielo basso di Gerusalemme, il cielo che è la casa di Dio, sembrava annunciarsi il Giudizio Universale.

E lo stesso invito al silenzio, a non sentenziare, a non giudicare di fronte all'immane sventura altrui mi viene dalle cronache di migliaia di morti, soprattutto bambini e donne indifese, e alla loro storia che, come quella degli ebrei, è una lunga storia di persecuzioni e di prepotenze altrui, le grandi potenze, la Francia e l'Inghilterra, che hanno giocato con freddo cinismo sulle guerre del Medio Oriente, e noi dell'Asse nazi-fascista che volevamo passare a El Alamein per arrivare fino in Siria e in Iraq per altri massacri.

Non siamo certo per l'indifferenza di fronte al dramma di Gaza, ma non siamo neppure per la faziosità irragionevole.

(06 febbraio 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: GIORGIO BOCCA. Una corazza contro la dittatura nata da una guerra di popolo
Inserito da: Admin - Febbraio 14, 2009, 12:07:55 am
L'ANALISI

Una corazza contro la dittatura nata da una guerra di popolo

di GIORGIO BOCCA


 CI SONO due recenti dichiarazioni pubbliche del premier Berlusconi che servono a capire il personaggio e il suo populismo: che Eluana Englaro dopo diciassette anni di vita artificiale potesse partorire, e che i costituenti italiani del '48 erano degli stalinisti che s'ispiravano alla costituzione dell'unione Sovietica. Due dichiarazioni che sono la negazione dell'impossibilità umana di sopravvivere alla morte della coscienza e dell'intelligenza, e la negazione della dittatura come annullamento della democrazia.

Generazioni di comunisti europei hanno saputo benissimo, sin dalla sua promulgazione nel '36, che la costituzione staliniana era un sogno e un'impostura per coprire la dittatura, che il socialismo reale era quello dei piani quinquennali e della modernizzazione forzata, ma nella convinzione e nella speranza che quello fosse il solo percorso possibile. Come Togliatti scrisse in risposta alle critiche di Gramsci: "Dobbiamo riconoscere che l'azione del partito comunista russo, la rivoluzione russa sono stati il più grande fatto di organizzazione e di propulsione delle forze rivoluzionarie. Oggi questa propulsione è ancora attiva e crescente nel proletariato mondiale, all'evidenza è ancora attiva nelle classi operaie del mondo, nel mondo intero c'è la convinzione che in Russia, dopo la conquista del potere, il proletariato può costruire il socialismo e sta costruendolo".

Nella generazione dei comunisti dell'era staliniana restava cioè la profonda convinzione che con tutte le sue deviazioni autoritarie Stalin restava nel profondo un socialista, e che la dittatura sovietica, nonostante i suoi spaventosi prezzi, aveva tenuta aperta la via al socialismo, come era stato confermato dalla vittoria contro il nazismo. Siamo cioè di fronte a uno dei grandi paradossi della storia: i comunisti europei sanno che il socialismo in un solo paese si è trasformato in una dittatura spietata, ma pensano che sia ancora possibile riparare l'errore di percorso, costruire un socialismo democratico.

Togliatti è il testimone politico più autorevole di questa ambiguità. Rappresentante del Comintern in Spagna durante la guerra civile, detta i tredici punti di una costituzione repubblicana che entrerà in vigore a guerra vinta contro il franchismo: autonomie regionali, rispetto della proprietà e dell'iniziativa private, e dei diritti civili, libertà di coscienza e di fede religiosa, assistenza alla piccola proprietà, riforma agraria per la creazione di una democrazia rurale, rispetto delle proprietà straniere non compromesse con il franchismo, ingresso della Spagna nella Società delle Nazioni, amnistia per tutti gli spagnoli che hanno partecipato alla guerra di liberazione. In sintesi il progetto di rimettere assieme un paese diviso fra anarchici, socialisti, comunisti e conservatori, un paese, si badi, dove la polizia politica stalinista continuava ad arrestare e fucilare i nemici, presunti o reali.

La costituzione togliattiana fu naturalmente criticata sia dalla sinistra trozkista come un tradimento della rivoluzione, sia dai conservatori come un cavallo di Troia dello stalinismo. Ma essa resta nel 1938 come uno dei punti più alti del rilancio democratico. Aggiungiamo che anche il cinico Togliatti si era illuso sulla possibilità di correggere lo stalinismo: è proprio di quell'anno la svolta machiavellica di Stalin, che cessa gli aiuti alla rivoluzione spagnola per preparare le nuove alleanze con le grandi democrazie minacciate dal nazismo. Sconfitto in Spagna il riformismo togliattiano ritorna nell'Italia democratica dopo il '45, e questa volta è l'intero arco costituzionale, dai comunisti ai democristiani ai liberali, in un paese che ha conosciuto la ferocia nazista, a volere una costituzione democratica, di cui Piero Calamandrei può dire "lo spirito della Costituzione deve tradursi in questi caratteri essenziali: la democrazia come sistema politico delle libertà, e il lavoro come sostanza di una libertà non solo formale. In sostanza il programma dei fratelli Rosselli e del movimento Giustizia e libertà". Il progetto spagnolo di costituzione scritto da Togliatti deve adattarsi al mutamento della società italiana: il partito comunista e le sue pretese egemoniche sono state fortemente ridimensionate dalle elezioni, il primo partito italiano è il socialista seguito dal democristiano, il peso dei cattolici nella società italiana è determinante, e il partito comunista ne prende atto facendo approvare anche ai compagni più riottosi l'articolo sette, cioè la conferma dei patti lateranensi che riconoscono alla chiesa una posizione di assoluto privilegio.

Due compagni, La Noce e Terracini, negano il loro voto, ma il partito compatto approva. E qui si chiude il mito del partito della rivoluzione o della "terza ondata", che ancora turba i sogni del nostro premier, e che viene ripetuto sino all'ossessione nella sua propaganda elettorale. La Costituzione repubblicana e democratica non è nata solo da un accordo politico fra i partiti. È nata dalla guerra di liberazione, dalla presa di coscienza che il paese era socialmente imperfetto e antico, che l'Italia regia e fascista aveva compiuto una modernizzazione tecnica e in parte economica, ma non aveva risolto le divisioni sociali, restava una società divisa in cui gli operai, i contadini e in genere i poveri restavano diversi anche nel modo di vestire, di parlare, e persino nel pubblico passeggio, oltre che nella giustizia e nei diritti umani. La guerra partigiana non fu una rivoluzione politica, ma come guerra di popolo, a cui partecipavano italiani di ogni ceto, fu una rivoluzione sociale, per fare finalmente del popolo italiano un popolo unito.

I critici della Costituzione si dividono fra quelli che la giudicano troppo prudente e quelli per cui è troppo avanzata. È difficile però disconoscerne i meriti, essa è stata nel dopoguerra una corazza che ha protetto il paese da cedimenti autoritari, da ipocrisie populistiche e demagogiche, cioè dalle tentazioni cui il nostro premier spesso cede.


(13 febbraio 2009)
da repubblica.it


Titolo: GIORGIO BOCCA. No alla gara delle fazioni
Inserito da: Admin - Febbraio 14, 2009, 03:19:11 pm
Giorgio Bocca.

No alla gara delle fazioni


Di fronte al dramma di Gaza non siamo certo per l'indifferenza ma neppure per la faziosità irragionevole  Donne beduine scappano dalla loro casa
in fiamme a Beit LahiaLa rissa in televisione fra Santoro e la Annunziata ha segnato il punto più deludente di una bassissima stagione politica. Una rissa tra faziosità che non riescono a capire che stanno affrontandosi su una sciagura storica comune a entrambi i popoli, palestinese e israeliano. Per il primo la sorte amara dei deboli che i potenti e i ricchi hanno lasciato sconfiggere per indifferenza o comodo, per il secondo l'ultimo, millenario processo di 'caccia all'ebreo', ricorrente nella storia.

Nei mesi che trascorsi in Israele per la guerra dei Sei giorni e per il processo Eichmann, il sentimento d'impotenza di fronte alla tragedia storica che si ripresentava davanti a me era desolante. Mi facevo portare in taxi da David, il marito della proprietaria del ristorante La Gondola, che parlava un po' d'italiano perché era stato nella brigata ebraica che aveva risalito l'Italia con gli Alleati angloamericani. Con David non parlavo dei palestinesi perché sapevo come la pensava: "Con arabi - diceva ogni tanto come se il pensiero gli salisse dai precordi - io così...", e faceva il gesto del tagliagole.

Ho deciso allora di non partecipare più alla gara delle fazioni e dei loro giudizi, per una semplice e forse pavida riflessione: cosa puoi dire tu che sei comodo spettatore delle spaventose sofferenze altrui? Come puoi intervenire tu che stai al sicuro, al caldo, ben nutrito, su guerre senza prigionieri, su inimicizie millenarie?

Poco dopo il processo Eichmann è uscito il libro di uno scrittore ebreo che accusa Israele di aver usato il processo a fini politici, per il risarcimento economico da parte dei persecutori più che per avere giustizia. Una tesi che impressiona, ma semplicistica. Certo il processo serviva a Israele in lotta per la propria esistenza a far tacere l'ostilità dei paesi arabi, a ottenere finanziamenti tedeschi e americani. Ma chi assisteva al processo non poteva fermarsi a questi retroscena, lo seguiva con atterrito stupore, come la testimonianza di quel fatto orrendo, incredibile: che nell'Europa moderna fosse avvenuto un massacro razzista, milioni di uomini sterminati per delle teorie risibili.


Ogni giorno arrivavano in aula gli ebrei superstiti dei paesi occupati dai nazisti: francesi, norvegesi, olandesi, belgi, danesi, italiani, ogni volta si saliva nei cieli alti della tragedia e della malvagità senza senso, che non è affatto banale come sostiene Hannah Arendt, ma opera del Maligno, del diavolo tentatore, del peccato originale che non ci abbandona. La perfezione organizzativa di un eccidio demenziale, il colossale trasporto dei condannati a morte che ostacolava lo sforzo bellico nazista, fino all'ultimo viaggio di una tradotta di ebrei da Budapest a Vienna mentre le avanguardie dell'Armata Rossa erano già vicine alla città. Non avevo mai partecipato a un lutto, a un pianto così totale e unanime. Sotto il cielo basso di Gerusalemme, il cielo che è la casa di Dio, sembrava annunciarsi il Giudizio Universale.

E lo stesso invito al silenzio, a non sentenziare, a non giudicare di fronte all'immane sventura altrui mi viene dalle cronache di migliaia di morti, soprattutto bambini e donne indifese, e alla loro storia che, come quella degli ebrei, è una lunga storia di persecuzioni e di prepotenze altrui, le grandi potenze, la Francia e l'Inghilterra, che hanno giocato con freddo cinismo sulle guerre del Medio Oriente, e noi dell'Asse nazi-fascista che volevamo passare a El Alamein per arrivare fino in Siria e in Iraq per altri massacri.

Non siamo certo per l'indifferenza di fronte al dramma di Gaza, ma non siamo neppure per la faziosità irragionevole.

(06 febbraio 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: GIORGIO BOCCA. L'imperatore Barack Obama
Inserito da: Admin - Febbraio 14, 2009, 03:25:45 pm
Giorgio Bocca

L'imperatore Barack Obama


Il giuramento del nuovo presidente Usa è stato uno spettacolo impressionante  e un po' preoccupante della potenza e della ricchezza americane che si mostravano al mondo  Il giuramento dell'imperatore d'America Barack Obama, un miliardo e passa di spettatori in ogni contrada del mondo, io a Milano, Lombardia, nell'Italietta. Cosa mi ha colpito della trionfale cerimonia? Non il discorso del nuovo presidente: non privo di buone novità e buone promesse, ma prevedibile, quasi dimesso, prudente verso i misteri del mondo e del futuro. I riti e i miti americani? Stranoti e un po' fastidiosi, con quella celebrazione dei coraggiosi, eroici pionieri che per la verità sterminavano gli indigeni armati di frecce e asce. Che cosa allora? Il volto raggiante e compiaciuto dell'impero, lo spettacolo impressionante e un po' preoccupante della potenza e della ricchezza americane che si mostravano al mondo, opulente e soddisfatte, raggianti e compiaciute negli auto elogi.

Veniva spontaneo il confronto con il nostro establishment, con la festa della Repubblica, i bersaglieri che corrono con il fiato grosso, la pattuglia aerea tricolore, le autorità in tribuna, tutti ingrassati dal banchetto governativo, grandi chiappe, giacche che non si chiudono, cravatte che strozzano, tutti in coda dietro il capo dello Stato a cerimonia finita verso pastasciutte e mozzarelle.

Senza paragone l'impero, l'imperatore e la sua corte, le centinaia, le migliaia di senatori, governatori, generali, ammiragli, miliardari, congressman, scienziati e belle mogli in un trionfo di colori, come dicono fossero i templi della Grecia o dell'Egitto: viola, verdi, gialli. A coppie, a file indiane, a gruppi festosi tutti ben nutriti, massaggiati, profumati, soddisfatti di far parte dei padri coscritti dell'unione, pronti al sorriso, alla stretta di mano, ai gesti affettuosi, hello vecchio McCain, una carezza alle gemelle Bush, un applauso anche a quella vecchia lenza di Cheney che arriva su una sedia a rotelle per via di un dolore alla schiena che si è fatto traslocando i libri; anche tu John, la tua signora, tua figlia, insieme con il nuovo imperatore, una fetta della grande torta per ognuno, centinaia di ministeri, supercomandi, missioni speciali, consigli di amministrazione, è il nostro turno di quattro anni, ma poi verrà il turno degli altri.

Le donne dell'impero! Ridano pure a Parigi o a Milano dell'abito di Michelle bianco come una meringa, dei suoi modelli da granatiere misura massima, rida pure la Carla parigina, ma noi siamo le signore del mondo, guardate la nostra ricchezza, centinaia di automobili giganti che avanzano a passo d'uomo verso il Campidoglio, ognuna seguita dagli agenti della sicurezza, un esercito, trentamila, quarantamila e per ognuna di noi: cameriere, cuoche, pettinatrici, truccatori, un'americana dell'impero la si riconosce subito dal trucco perfetto, preciso.

Guardate i coniugi Clinton, avanzano lentamente per assaporare gli applausi, lei circondata dalla gloria del dipartimento di Stato, tutti i paesi della Terra attenti a quello che dice e come si muove, lui con la sua fondazione, la più ricca del creato, migliaia di miliardi, lui che applaude, lei che sorride a lui. Dicono nel vecchio mondo che fra loro ci siano lotte feroci, invidie, vendette. Sì, ma li tiene assieme compatti, solidali, fedeli, l'idea che ci sarà un posto di privilegio e di comando per tutti, che già domani, dopo il giuramento, le danze, le feste, ognuno troverà il suo ufficio al piano più alto del grattacielo. Proprio come dicevano i giovani imprenditori americani che conobbi anni fa al congresso di Losanna. "Un posto al piano più alto - dicevano - c'è per tutti". Cioè per tutti loro signori del mondo.

(13 febbraio 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: GIORGIO BOCCA. Testimoni per sempre
Inserito da: Admin - Febbraio 22, 2009, 03:33:58 pm
Giorgio Bocca


Testimoni per sempre

Il negazionismo dell'Olocausto del vescovo lefebvriano William Richardson è preoccupante non solo per lui ma per il genere umano  Il vescovo William RichardsonNuntio vobis gaudium magnum: il negazionismo non c'è. Papa Ratzinger lo ha condannato. Che cosa non può un sommo pontefice! Anche negare il nulla! Che altro è, se non il nulla, ripetere come il vescovo lefebvriano che le camere a gas non sono mai esistite, che non c'è la prova storica della loro esistenza? Ma questo accade al mondo. Chi può impedire al prossimo di affermare che è il sole che gira intorno alla terra e non viceversa? Reverendo Richardson, non ci sono le prove storiche delle camere a gas? Neanche i milioni di persone che ci morirono? Neanche le fosse comuni riempite con le migliaia di cadaveri trovate dai soldati alleati o sovietici?

Ha mai sentito parlare di un certo Eichmann, il capostazione della morte, l'ufficiale delle SS che dirigeva il traffico delle tradotte dirette ad Auschwitz o a Mauthausen? Ebbene, quel signor Eichmann, mi creda, è esistito per davvero, e io, inviato da un giornale a Gerusalemme, l'ho visto, l'ho sentito parlare, ho visto la gabbia di vetro in cui stava durante il processo, con i suoi quaderni di diverso colore in cui annotava ciò che dicevano il presidente e gli avvocati. Ho ascoltato per mesi le migliaia di testimoni, di sopravvissuti arrivati da ogni parte del mondo a raccontare come uscisse il fumo dal camino di quelli bruciati nei forni.

Sa perché gli aviatori alleati o russi non bombardarono mai i campi di sterminio (mistero storico ancora da risolvere)? Non certo perché quei campi non ci fossero, ma, è una delle ipotesi, perché si sarebbe fatta strage dei deportati. Lei reverendo dice che forse qualche ebreo è stato fucilato o strozzato o squartato negli anni della 'soluzione finale' decisa nella riunione nazista al lago di Wannsee, diretta da Heydrich. Ma lo sterminio era allo studio anche prima, proprio con le camere a gas che secondo lei non sono mai state in funzione.

Fu un geniale capitano delle SS nella Francia occupata a fare l'invenzione, a intuire che si potevano risparmiare le pallottole di fucile collegando il tubo di scappamento del gas all'interno dei camion. Uscì dalla prigione con uno dei camion genialmente adattati con un carico di deportati, e tornò senza aver sprecato neppure il colpo di grazia.

Uno dei lati misteriosi, diciamo pure demenziali, dell'Olocausto era il segreto da cui era circondato dai suoi autori, i capi del Terzo Reich, ma anche dai comuni cittadini, donne e bambini. Mauthausen non è in Siberia, Auschwitz non è al Polo nord, vicino ai campi di sterminio c'erano dei villaggi, delle città tedesche o polacche dove la gente viveva, parlava, sapeva quello che accadeva nei campi. Mi colpì durante una visita a Mauthausen che il mondo dei liberi, dei padroni tedeschi, fosse visibile dalle finestre delle baracche, in alto su un colle, che a vista fosse possibile, anzi certo, che i liberi e padroni si chiedessero che cosa stesse accadendo lassù nel lager.

Il negazionismo del reverendo Richardson è preoccupante non solo per lui, ma per il genere umano. Che cosa può spingere un essere normale dotato di buona salute mentale, di buona cultura, di normale sentimento dell'umano e del divino, del vero e del falso, dell'evidenza, a negare ciò che è certificato dalla più innegabile delle testimonianze: la morte.

Il fatto che in milioni sono partiti sulle tradotte del capostazione Eichmann e non sono tornati, che all'anagrafe su intere famiglie è stato tracciato il segno nero della scomparsa, che ci siano le fotografie delle vittime, le loro ultime parole e scritti, come si fa reverendo a dire che non ci sono le prove storiche?

(20 febbraio 2009)
da epresso.repubblica.it


Titolo: GIORGIO BOCCA. I faziosi di Eluana
Inserito da: Admin - Marzo 07, 2009, 12:32:04 am
Giorgio Bocca.

I faziosi di Eluana


I cultori della vita a ogni costo in obbedienza a Dio non si accorgono di volersi sostituire a Dio  Uno dei cartelli all'esterno
della clinica La QuieteNei giorni in cui si spense Eluana Englaro l'informazione di ogni tipo, scritta, verbale, televisiva si è ingolfata in miriadi di contraddizioni. Il partito della vita sacra era poi lo stesso per cui è nobile e bello morire per la patria o per la fede e i sostenitori della morte naturale erano gli stessi che la allontanarono artificialmente con la scienza e con le sue sperimentazioni.

Facciamo un esempio: in una famiglia c'è un vecchio novantenne colpito da ictus ed entrato in coma. Si spegnerebbe in breve naturalmente, ma nella società moderna l'idea della morte naturale di cui parla la Chiesa è inaccettabile, i familiari, anche se religiosi, invece di vegliare pietosamente sull'agonia del parente chiamano l'autoambulanza che corra al pronto soccorso del più vicino ospedale, dove una squadra di medici cercherà in ogni modo di tenere in vita il moribondo per diversi motivi: il dovere di Ippocrate, certo, ma anche perché la sperimentazione fa parte della professione, e anche per non correre rischi di denunce e risarcimenti. Tal che il prolungamento artificiale della vita assume una parvenza di vita accettabile anche dai viventi normali e sani. Che accettata però in modo acritico diventa una colpevole e a volte indegna ignoranza, come si è visto a Udine, dove alla clinica di Eluana arrivava gente con bottigliette d'acqua e tramezzini al prosciutto per soccorrerla, lei che era tenuta in vita da pastiglie introdotte a forza nello stomaco.

I cultori della vita sacra, della vita a ogni costo non tengono il minimo conto delle sofferenze atroci di un essere prigioniero di un corpo inerte che con tutte le cure più avanzate non potrà mai riacquistare, non diciamo la normalità, ma un minimo di coscienza e di conoscenza. E dire, come si è detto, che in una società cristiana, cattolica, i parenti del ricoverato saranno assistiti dalla pubblica carità e dalle suore non è sempre vero, e certo è che le sofferenze, le lacerazioni che ne derivano ai familiari sono devastanti.


Il partito della vita, che dovrebbe rappresentare l'aspetto caritatevole del cristianesimo, è nei fatti composto soprattutto da intolleranti e faziosi. Il priore del monastero di Bose, Pietro Bianchi, uomo di grande carità, è stato colpito "dalla mancanza di stile evangelico" di quanti parlavano del padre di Eluana come di un assassino e di quanti si dolevano per la sua interminabile sofferenza come di suoi correi. E ha osservato che la facilità con cui la religione si trasforma in politica è la negazione della medesima.

Ha impressionato in certi cultori della sacralità della vita la voglia di mentire a se stessi, di rifiutarsi di prendere atto che la vita artificiale di Eluana non era più vita, che per 17 anni si era tenuta artificialmente in vita una che aveva la spina dorsale spezzata non guaribile e nessuna possibilità di riacquistare coscienza e conoscenza.

È lo stesso culto della vita a ogni costo che lascia perplessi i visitatori della Piccola casa della divina Provvidenza, la pia istituzione del Cottolengo, dove tengono in vita esseri mostruosi e deformi. Gli eccessi della carità fanno il paio con quelli dell'ideologia. I cultori della vita a ogni costo in obbedienza a Dio non si accorgono di volersi sostituire a Dio, massima empietà.

(06 marzo 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: GIORGIO BOCCA. Rapiti da un raptus
Inserito da: Admin - Marzo 15, 2009, 09:49:50 am
Giorgio Bocca


Rapiti da un raptus

Uccidere con ferocia piace agli umani. Da Hitler ai camorristi di Casal di Principe. All'undicenne che spara alla donna del padre e poi se ne va a scuola  A noi umani piace discutere, filosofare su ciò che ci è ignoto e magari inconcepibile come il Padreterno, la sacralità della vita, e dove sta il confine esatto tra la vita e la morte. Ma la cosa più difficile da spiegare è come mai questa temuta morte che sta nei nostri incubi con la sua falce minacciosa e le sue occhiaie vuote sia poi una delle nostre opere preferite.

Per millenni il premio più ambito dai conquistatori di città era lo sterminio degli uomini, lo stupro delle donne e il saccheggio. Ma anche in tempi storicamente recenti ha avuto grande notorietà, e un seguito non del tutto spento, l'imbianchino austriaco che dopo aver annunciato in un suo libro l'intenzione di voler conquistare uno 'spazio vitale', lo riempì con un numero enorme di morti: sei milioni di ebrei, altrettanti russi, una decina di europei del Vecchio e del Nuovo mondo, più gli asiatici da lui coinvolti nel massacro.

Ma non fu solo lui a volerlo, i suoi innumerevoli complici stavano in ogni classe sociale, prolungarono la strage per anni, fino al finale nibelungico, impiccarono e fucilarono quei pochi che volevano por fine al massacro.

Ci sono rimasti i 'discorsi a tavola', deliranti, che l'imbianchino faceva mangiando cavoli bolliti e pappette vegetariane ai generali, scienziati, filosofi, industriali della sua corte, il meglio di uno dei paesi più avanzati e progrediti del mondo. E oggi, in ogni angolo d'Europa ci sono giovanotti con il cranio pelato e le svastiche che lo vorrebbero di ritorno, 'ma questa volta cattivo', come dice l'atroce barzelletta.

La vita è sacra, ma la morte piace. A cominciare da chi predica la sacralità della vita ma continua a mandare patrioti a morire in guerra. La morte piace a chi, giovane, dovrebbe averne orrore più degli anziani. La morte da automobile è irresistibile nelle notti del sabato, e per chi dà morte con l'automobile l'indulgenza è grande, quasi un'approvazione generale, chi in automobile piomba su umili pedoni che si sono affidati a semafori o strisce è quasi esente da pene, viene subito liberato. Famiglie distrutte, bambini fatti a pezzi, assassini subito fuori.


La morte terrorizza gli umani, ma a molti di essi piace dare la morte agli altri, la morte sembra l'unico modo per ripagare i torti subiti, le umiliazioni. Una giovane immigrata che abita a Roma si sente offesa dalla corte di un amministratore di condominio. Quale miglior riparo all'offesa che ucciderlo a martellate, tagliarlo a pezzi e chiuderlo con l'aiuto dell'affettuoso marito in una valigia?

I camorristi di Casal di Principe che trafficano in droga sono disturbati dagli immigrati di colore arrivati in Campania per la raccolta dei pomodori. Che di più rapido e sbrigativo che finirli a raffiche di Kalashnikov?

Uccidere con ferocia piace agli umani, e ogni volta la vox populi spiega alle televisioni o nei giornali che "chi l'avrebbe mai detto! Era così gentile, così mansueto. Mai una parola dura, mai una violenza. E poi, chi sa, un raptus".

La comprensione degli umani per gli umani assassini è naturale nella scimmia assassina. Può capitare a tutti quel raptus per cui a uno che ti ha guardato la ragazza, superato in auto, detto un insulto, fatto delle avance sessuali viene il raptus omicida. È venuto anche a quell'undicenne americano che ha riconosciuto in una donna un'intrusa dei suoi affetti familiari, così è entrato in casa, ha preso una rivoltella del padre, ha ammazzato la donna e poi, appagato dalla morte, è andato come ogni mattino a scuola.

(13 marzo 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: GIORGIO BOCCA. Prevalenza del peggio
Inserito da: Admin - Marzo 21, 2009, 12:10:13 pm
Giorgio Bocca


Prevalenza del peggio


Dalle infinite code in autostrada ai sondaggi televisivi. Dalle ronde al cartello dei pastai per aumentare i prezzi. Le scelte 'bulgare' del popolo sovrano  Vista dalla parte dei ricchi questa grande crisi, la più grande dal '29, ma non molto più grande, è grottesca più che drammatica, si morde la coda, si contraddice. Al rientro in auto dalla Valle d'Aosta la prima constatazione che fai è che del risparmio energetico tutti parlano, ma nessuno lo pratica.

Che insomma la regola generale è di fare il contrario di ciò che si predica. Non siamo il paese delle microauto utilitarie? Quelli della Chrysler o della General Motors non hanno chiesto alla Fiat di insegnargli a fare le auto tascabili? Sulle gazzette non si parla di altro, ma fra Courmayeur e Milano di microauto non ne vedi una, Cinquecento e Seicento sono scomparse.

Il mio vecchio gioco di contare i 'pentolini', come li chiamavo, è impossibile, non ci sono più, è pieno di bisonti, di corazzate, di caimani, una sola coda dal Monte Bianco a corso Sempione. Perché tutti partono alla stessa ora, quando è già buio, perché trovano tutte le scuse per tirar tardi? Prima era solo un sospetto, adesso è una certezza: perché stare in coda gli piace, perché non c'è solo, come hanno scritto Fruttero e Lucentini, la prevalenza dei cretini, c'è anche la prevalenza del peggio.

La coda in auto è la cosa più stupida del mondo, stupida come le statistiche. Non c'è nulla di misterioso nelle code, dipendono dai numeri, dalla quantità. A un certo punto, senza un'apparente ragione, senza imprevisti e incidenti drammatici, la marmellata metallica rallenta, i cambi di corsia, le uscite dal benzinaio, lo stop and go, la noia, gli sbadigli si sommano; non c'è nulla da fare, neppure tirare a indovinare, la marmellata come si era intasata si apre, la strada si libera, correte di nuovo alla velocità di un pedone. Nell'Italia povera non c'erano code di auto, e neppure funivie, ma chi tornerebbe indietro?


Il peggio della modernità ci piace, ci piacciono le tre S: i soldi, il sangue, il sesso. Il padrone della televisione satellitare Rupert Murdoch è un australiano, ma è uno che ci conosce bene. Ogni giorno alla sua televisione appaiono dei sondaggi di opinione, naturalmente tradotti in immagini, gli striscioni blu o rossi che si allungano come serpenti. In blu quelli che non approvano una novità, in rosso i favorevoli.

Ebbene, con i sondaggi del popolo sovrano non si sbaglia, sceglie sempre il peggio, con percentuali bulgare come usa dire, ma i bulgari sono autorizzati a chiamarle italiane.
La stragrande maggioranza è favorevole alle ronde. Dicono che i carabinieri hanno la testa dura, ma forse in materia di ronde sarebbe più giusto tener conto della loro esperienza. La quale gli fa dire cose ovvie.

Per esempio che in tutte le regioni dove fioriscono le mafie e le camorre, e sono molte per non dire tutte, saranno le organizzazioni criminali a impadronirsi delle ronde o a usarle, e che spendere un sacco di euro per armare e attrezzare i nostri Rambo non è il migliore degli affari.

L'effetto più visibile della modernità è di aver aumentato e posto fuori controllo la prevalenza del peggio. Ogni occasione è buona per favorirla. I nostri pastai hanno formato un cartello per non farsi la concorrenza, e aumentano i prezzi di spaghetti e maccheroni proprio mentre la povera gente non aveva i soldi per arrivare alla fine del mese e mentre il prezzo del grano crollava.

Dite che la prevalenza del peggio non c'è? Faccio una facile previsione: la maggioranza del popolo sovrano aspetta con malcelata ansia che i ladri di Wall Street facciano a pezzi Barack Obama. Da molti si sente già dire: finirà come i Kennedy.


(20 marzo 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: GIORGIO BOCCA. A chi piace l'immigrato
Inserito da: Admin - Aprile 08, 2009, 10:06:27 am
Giorgio Bocca,


A chi piace l'immigrato

Le grandi migrazioni di massa sono come le maree e i terremoti che nessuno riesce a regolare. C'è chi viene danneggiato e chi ci guadagna sopra  Siamo qui per lavorare è la frase che riassume pensieri e sentimenti degli immigrati poveri nel nostro Paese, il 'fin de non recevoir' alle nostre profferte di amore, eguaglianza, solidarietà. Grazie per le buone parole, ma siamo qui per fare le badanti, raccogliere i pomodori, spaccare le pietre o fondere i metalli. Dite che ci integreremo con voi, che finiremo per avere i vostri diritti e il vostro benessere? Forse tra 50, fra cento anni, per ora tiriamo la carretta, stiamo in guardia, viviamo nelle nostre comunità, ci fidiamo solo dei nostri amici e parenti.

Questo è oggi lo stato dell'immigrazione nel nostro Paese, l'ultima immigrazione di massa dopo le invasioni e le conquiste millenarie. È un bene o un male? Diciamo che è un fatto naturale, come le correnti marine o i terremoti, con il cattivo e il buono che ci portano, ci piacciano o meno.

Sulle migrazioni in genere, su questa di massa in particolare, si esercitano tutte le retoriche e gli opportunismi possibili. Anche se alla resa dei conti sono riedizioni della schiavitù: i poveri e i vinti della Terra lavorano per i vincitori e i ricchi. In questa riedizione aggiornata della schiavitù gli svizzeri tedeschi sono dei maestri: nelle grandi stazioni turistiche della valle del Rodano come dell'Engadina gli schiavi di giorno non si vedono, stanno chiusi nei loro alloggi, solo di sera escono furtivamente, appaiono nelle case e per le strade a trasportare pesi o a raccogliere immondizie. Nei luoghi deputati della ricchezza la vista degli schiavi non è gradita.

Sono un bene o un male le immigrazioni? Sono un fatto naturale che si ripete nel bene come nel male. In tutte assieme ai migliori e coraggiosi arrivano i peggiori e sventurati. La criminalità marocchina o rumena riproduce con delitti diversi quella di noi italiani nel gangsterismo del Nord America. In cui accadevano le stesse cose di oggi in Campania o a Duisberg, che i gangster calabresi o campani di recente importazione si ammazzavano con quelli irlandesi o londinesi delle precedenti.

Sulle migrazioni di massa ci sono pareri diversi. Non piacciono a chi viene danneggiato, piacciono a chi ci guadagna sopra. Il loro grande guaio comune è che sono di lunga, lunghissima digestione, che occorrono molti decenni, a volte secoli, perché si chiudano le loro ferite e si ricostituisca una civile normalità. Ci fu al principio del secolo breve, come chiamano il Novecento, la grande illusione del comunismo, la speranza nella rivoluzione delle rivoluzioni che avrebbe eliminato le differenze tra i ricchi e i poveri, i vincitori e i vinti. Finita nell'inferno stalinista quella grande speranza, siamo tornati a considerare queste invasioni di massa come le maree o i terremoti, come fenomeni naturali che pochi lodano, molti deprecano e nessuno riesce a regolare, come si conferma con il popolo dei naviganti e dei naufraghi che nessuno al mondo può trattenere da affrontare la fame e la sete e il mare impietoso.

E il fallimento della grande rivoluzione ha segnato anche la fine dei miti e dei riti della classe centrale, la classe operaia che si faceva carico delle sofferenze del mondo. Cose di altri tempi. Oggi come oggi la grande migrazione è un'opportunità per i ricchi di fare altri soldi o di permettersi altri comodi, e per la maggioranza dei comuni cittadini, né santi né eroi, di viverla come una sgradevole necessità, come un prezzo da pagare a questo famoso progresso, a questa conclamata modernità di cui tutti parlano come necessità, come obbligo. Che non è proprio il massimo della libera scelta.

(03 aprile 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: GIORGIO BOCCA. Preistoria neofascista
Inserito da: Admin - Aprile 10, 2009, 10:47:19 am
Giorgio Bocca


Preistoria neofascista


A questi nemici giurati e inguaribili della Repubblica democratica basta recitare il ritorno al passato, non di progettarlo. Ma attenzione: neanche la marcia su Roma e le leggi speciali erano state progettate  Un militante di Forza NuovaSto leggendo con sgomento e rassegnazione il saggio di Paolo Berizzi sul rinascimento italiano ed europeo. Perché ciò che sta rinascendo e potrebbe di nuovo sommergerci è qualcosa d'incomprensibile e di inafferrabile: il vuoto, il vuoto completo d'idee, di cultura, di storia. Solo pulsioni generazionali, di violenza giovanile. 'La ricreazione è finita', si legge nei loro proclami. Per dire che è finito il tempo della ragione e ritorna il tempo della violenza, il tempo del fascismo come malattia dello spirito, come moda, come follia comune a ogni classe, a operai, borghesi, contadini con i moti di massa simili alle maree, sindacati rossi che in una notte diventano neri, socialisti internazionalisti che si riscoprono nazionali, cioè nazisti.

L'onda lunga della destra porta con sé l'onda torbida del neofascismo. Quanti sono i giovani con le teste rasate, le svastiche, il saluto romano, che rinnegano la democrazia e le sue libertà per tornare al culto razzista, alla voglia di un dominio della razza bianca, all'odio millenario, sempre lo stesso, per gli ebrei? Pare quasi 200 mila, una cifra enorme, una massa che aumenta a valanga, una prospettiva di lacerazioni e scontri feroci inevitabili, una maledizione eterna.

La televisione di 'Repubblica' ha trasmesso un'inchiesta sul neofascismo. Vi ho trovato conoscenze e personaggi che credevo finti. Il capo dei naziskin romani che conobbi a una trasmissione di Giuliano Ferrara. Grottesco, preistorico. "L'Olocausto?", diceva: "Forse qualcuno è stato ucciso nei campi di prigionia, ma lo sterminio di massa è un'invenzione. Dove sono le prove? Le camere a gas le hanno inventate gli ebrei".

Con chi ce l'hanno i nazifascisti? Con tutti e con nessuno. Contro le droghe e gli hamburger degli americani, ma anche contro i comunisti nemici degli americani, contro gli ebrei che perseguitano i palestinesi, ma anche contro tutti i movimenti di liberazione, contro tutti i sindacati, e anche contro i liberisti, contro i banchieri che stanno rovinando il mondo con la loro finanza truffaldina.


La storia? I nazifascisti la ignorano spavaldamente, si radunano dietro i loro labari, picchiano i malcapitati, ma ignorano anche i fatti da cui sono nati, la grande crisi capitalistica del '29 e le lotte sociali da cui sono nati loro stessi, l'attuale terremoto economico. Niente. Qualche fotografia del duce e di Hitler, di camerati festanti, di croci uncinate e il vuoto.

Che cosa schedano e indagano le questure, che cosa vuol sapere il ministero degli Interni di questi che ogni giorno platealmente violano una delle leggi fondamentali della Repubblica, l'articolo 139 della Costituzione: "È vietata la riorganizzazione sotto qualsiasi forma del disciolto partito fascista"?

Sul tema della congiuntura antidemocratica, del colpo di Stato autoritario, della presa del potere non una riga, non un pensiero, per questo la Repubblica democratica può dormire tranquilla, i suoi nemici giurati e inguaribili pensano a tutto meno che a sovvertirla, gli basta, si direbbe, la libertà di recitare il ritorno al passato, non di progettarlo.

Ma attenti: neanche la marcia su Roma e le leggi speciali erano state progettate, sono arrivate da sole quando la democrazia si è arresa senza combattere, quando i ludi cartacei hanno cessato di essere una politica credibile.

(09 aprile 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: GIORGIO BOCCA. I colonnelli del Cavaliere
Inserito da: Admin - Aprile 21, 2009, 11:26:42 pm
Giorgio Bocca


I colonnelli del Cavaliere


Generazioni di italiani non hanno lavorato, patito, combattuto per ritrovarsi in questa Italia che è riuscita a liberarsi dal fascismo ma non dai fascisti  Berlusconi ed altri leader del Pdl alla chiusura del congresso di fondazioneAh non per questo dal fatal di Quarto... Ritorna il lamento dell'Italia garibaldina, di azione e di qualità, per l'Italia degli affari sporchi e delle mafie, inevitabilmente clerico fascista. E non è uno dei soliti cambi generazionali, ma la fine di un'epoca e soprattutto di una grande speranza.

Pierre Teilhard de Chardin diceva di poter credere in Dio solo attraverso una crescita morale e civile del genere umano. Qualcosa di simile ci era parso di cogliere nel primo cinquantennio della Repubblica: volgeva al termine una triste società di classi, dove i poveri e gli umili erano riconoscibili anche dal modo di vestire e di parlare, la guerra partigiana, guerra di popolo e di volontari, aveva creata con le sue grandi alleanze orizzontali una prima, imperfetta ma per noi miracolosa unità nazionale, alla civilizzazione delle parrocchie si era aggiunta quella dei partiti e dei sindacati.

I forti conflitti sociali erano anche terreni d'incontri e di conoscenze, i grandi partiti storici e ideologici creavano comunque nuove spinte all'eguaglianza e al benessere. E ci eravamo lasciati alle spalle il grande inganno di un imperialismo tardivo in un'età in cui il colonialismo era al tramonto, e il razzismo si era inabissato assieme al Terzo Reich. Insomma l'Italia della ricostruzione, del miracolo economico, della modernità, delle autostrade e della democrazia.

E adesso, nel volgere di pochi anni, la fine delle speranze e il ritorno al passato, a qualcosa di molto simile, ma in peggio, all'Italia monarchica e fascista, questo regime dove non c'è un monarca per grazia di Dio, ma un padrone che non sopporta limiti e controlli, che allo Stato di diritto è andato sostituendo quello d'eccezione, delle leggi ad personam, della corte familiare e clientelare.

La vecchiaia è una brutta malattia, ma se le si unisce, come ora, questo penoso, deludente ritorno al passato e ai suoi vizi, può mutarsi in tormento. Dove sono i modelli, le speranze, le nobili ambizioni che diedero gioia e interesse alla nostra vita? Dove la speranza o l'illusione di Pier Paolo Pasolini di vedere nei comunisti gli uomini nuovi? O quella di Enrico Mattei su un'economia operosa e indipendente?


Persino la riedizione del fascismo sembra di corto respiro. Sopravvissuto alla tragedia di Salò e poi alle umiliazioni e alle durezze dell'isolamento, oggi il fascismo dei colonnelli, dei nuovi gerarchi nati a imitazione dei granduchi del regime ha imitato il fondatore nel più spericolato trasformismo. Il nuovo leader Gianfranco Fini ha guidato la sua cordata nelle giravolte più audaci in tutte le direzioni: dei nemici della democrazia e del Parlamento ha fatto i loro più zelanti difensori, ha rinnegato l'imperialismo e il razzismo mirando a un posto nelle democrazie europee. L'unico insegnamento mussoliniano rimasto vivo è di giocare spregiudicatamente tutte le carte che portano al successo.

Invecchiare in un paese che guarda al passato, che ripercorre le vie sbagliate del passato è umiliante prima che inutile e faticoso.

'Ah non per questo dal fatal di Quarto', non per questo generazioni d'italiani hanno lavorato, patito, combattuto; non per ritrovarsi fra questi neo liberali che non sanno cosa sia la libertà, fra questi uomini di Stato che ogni giorno combattono e disgregano lo Stato. In questa Italia che è riuscita a liberarsi dal fascismo ma non dai fascisti.

(16 aprile 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: GIORGIO BOCCA. La Resistenza non ha colore
Inserito da: Admin - Aprile 22, 2009, 04:13:11 pm
La Resistenza non ha colore


di GIORGIO BOCCA


SILVIO Berlusconi, accogliendo l'invito del segretario pd Franceschini, parteciperà per la prima volta al 25 aprile. È una decisione che va giudicata positivamente perché in essa oltre che a un diritto si riconosce il dovere del presidente del Consiglio di celebrare assieme a tutti gli italiani la festa della Liberazione e i valori della Resistenza, dell'antifascismo e della Costituzione. Ma quando aggiunge che lo farà perché di questa festa non se ne appropri soltanto la sinistra il premier rivela di essere ancora lontano da una autentica maturità democratica e storica. Più fallace di lui si dimostra il ministro della Difesa Ignazio La Russa.

La Russa, uno dei neofascisti sdoganati da Berlusconi, dichiara che "i partigiani rossi meritano rispetto ma non possono essere celebrati come portatori di libertà", cioè fra i fondatori della democrazia italiana. È difficile capire su cosa si basi l'affermazione di La Russa dato che il Partito comunista italiano che organizzò e diresse i partigiani rossi, meglio noti come garibaldini, fece parte e parte decisiva dell'Assemblea costituente da cui è nata la Repubblica democratica.

Che i comunisti italiani abbiano scelto la democrazia invece che la dittatura potrà sembrare ai loro avversari una scelta opportunistica, obbligata dai rapporti di forza in Europa e nel mondo ma si prenda atto anche da chi avrebbe preferito un esito diverso che essa ci fu e fu per i comunisti italiani vincolante. Gli storici non hanno ancora fornito la prova di chi fu la responsabilità di questa scelta: se fu decisa da Stalin o dalla Internazionale comunista di cui l'italiano Palmiro Togliatti era un autorevole dirigente, ma l'accettazione da parte comunista della divisione del mondo in due sfere di influenza fu un dato di fatto accettato sin dagli anni della guerra di Spagna, riconfermato nell'incontro fra i vincitori della guerra contro la Germania nazista e rispettato anche dopo l'invasione sovietica dell'Ungheria.

Fosse interprete del pensiero politico di Stalin o convinto della necessità di convivere con le grandi democrazie occidentali Togliatti, arrivato in Spagna durante la guerra civile, dettò i tredici punti di una costituzione che sarebbe entrata in vigore a guerra finita di chiara impostazione democratica: autonomie regionali, rispetto della proprietà e della iniziativa privata e dei diritti civili, libertà di coscienza e di fede religiosa, assistenza alla piccola proprietà, riforma agraria per la creazione di una democrazia rurale, rispetto delle proprietà straniere non compromesse con il nazismo, ingresso della Spagna nella Società delle nazioni. Naturalmente già allora gli avversari dei comunisti dissero che era una scelta tattica in attesa della rivoluzione, ma una scelta vincolante come si dimostrò in Grecia quando i partigiani rossi di Markos e il loro tentativo di impadronirsi del potere furono abbandonati alla più dura sconfitta. Che la scelta democratica fosse valida nella Repubblica fu chiaro quando tutte le fiammate rivoluzionarie della base comunista, dall'occupazione della prefettura di Milano a quella del monte Amiata dopo l'attentato a Togliatti, furono spente dalla polizia diretta da Scelba senza reazione del partito.

Possiamo dire che le affermazioni di La Russa sull'inaffidabilità democratica dei partigiani rossi sono un processo alle intenzioni smentito dal rispetto alla Costituzione dei comunisti italiani, che al contrario dei neofascisti alla Borghese o delle trame nere, non hanno mai progettato colpi di Stato e si sono schierati con decisione contro il terrorismo delle Br. Ma c'è un'altra ragione, anche essa storica, per dissentire dalla dichiarazione di La Russa ed è quella di considerare il movimento partigiano garibaldino come un tutt'uno con il partito comunista e il partito comunista come la stessa cosa di una dittatura stalinista. Procedere per generalizzazioni arbitrarie è un cattivo modo di fare la storia e anche la politica.

Chi ha conosciuto il movimento partigiano nella sua improvvisazione e varietà estrema sa bene che diventare un partigiano rosso non era sempre una scelta politica, ideologica, che si andava nelle brigate Garibaldi per molte ragioni non politiche, perché erano fra le prime formatesi o le più vicine, le prime che si incontravano fuggendo dalle città occupate dai nazifascisti magari per raggiungere dei conoscenti, degli amici. Si pensi solo al comando garibaldino piemontese, che si forma in valle Po con gli ufficiali di cavalleria della scuola di Pinerolo che seguono Napoleone Colajanni, nome partigiano Barbato, perché loro amico non perché comunista, o gli altri che in Val Sesia vanno con Cino Moscatelli perché è uno della valle come loro non perché è comunista.

Così come noi delle bande di Giustizia e Libertà nel Cuneese che non avevamo mai sentito parlare del partito di azione e del suo riformismo liberal-socialista, ma che eravamo compagni di alpinismo di Duccio Galimberti o Detto Dalmastro. Nella guerra partigiana prima veniva la sopravvivenza, la ricerca delle armi e del cibo, poi sul finire arrivò anche la politica, ma le ragioni di lealtà e di amicizia restarono dominanti per cui egregio ministro La Russa mi creda ma per uno che è stato partigiano le differenze di cui parla non ci sono state. Per venti mesi, per tutti, la ragione di combattere era la libertà.

(22 aprile 2009)
da repubblica.it


Titolo: GIORGIO BOCCA. I giorni peggiori
Inserito da: Admin - Aprile 25, 2009, 10:09:13 am
Giorgio Bocca


I giorni peggiori


La retorica e la mediocrità piccolo borghese restano e rinascono. Il ritorno dilagante delle menzogne sta oscurando il cielo  Mara CarfagnaI fascisti c'erano all'incoronazione del Cavaliere, gli squadristi eterni e i reduci di Salò, ma chi conosce l'Italia prefascista ha ritrovato la piccola borghesia padronale e ambiziosa che rotea gli occhi e gonfia le gote quando canta la strofa dell'inno nazionale 'che schiava di Roma Iddio la creò' sciaguratamente adottato dai costituenti democratici.

L'Italia (ma potremmo dire l'Europa sciovinista e 'über alles') che pensavamo, speravamo di esserci lasciata alle spalle dopo il massacro dell'ultima guerra mondiale. E invece eccoli lì come usciti da una vecchia fotografia del 'secolo breve', felici e trionfanti attorno al nuovo ducetto: come un mazzo di fiori, con le camicette bianche sull'impetuoso seno, le donne- ministro, la Carfagna e la Meloni, le gallinelle del padrone, a memoria di privilegi maschili antichi.

Poi, come in una foto scolastica, tutti i nuovi gerarchi e gerarchetti, la faccina protesa verso il capo. E ancora. Grazie alla televisione che tutto vede, i giovani entusiasti, uomini e donne, finalmente anche per loro nati e cresciuti nella grigia democrazia un capo, un superuomo, un duce.

Ecco la ragione per cui questi sono a nostro parere i giorni peggiori della nostra vita, quelli per cui possiamo mestamente pensare di averla vissuta invano. Questo ineluttabile slittamento verso il passato, questa terribile delusione: il tempo passa, i troni e le dominazioni cadono, i ladri e i malvagi muoiono come tutti, ma la retorica e la mediocrità piccolo borghese restano e rinascono. Il ritorno dilagante delle retoriche, delle menzogne sta oscurando il cielo.

Più di tutte insopportabile e affliggente la retorica del 'popolo della libertà', un nome impudicamente rivendicato dalla nuova razza padrona. Diciamo impudicamente perché se c'è un paese al mondo dove la libertà è un bene raro e misterioso, un regalo talmente prezioso che a volte facendone uso ci sembra di sfiorare l'eresia, è il nostro.


Sentimmo il desiderio di libertà negli anni della dittatura morente e poi ne parlammo molto, concitatamente, nei giorni della guerra di liberazione. Noi liberalsocialisti eravamo per la libertà totale, pura e ingenua, i vecchi combattenti comunisti ci mettevano in guardia: libertà, sì, ma che sia anche libertà dal bisogno. E i costituenti non poterono ignorarlo (ecco ciò che il Cavaliere definisce influenze bolsceviche), fondarono la Repubblica sulla libertà e anche sul lavoro.

Poi per oltre mezzo secolo abbiamo cercato di capire, di sopravvivere, di avanzare nella giungla degli appetiti umani dominanti, nella lotta continua, quotidiana per affrontare il disonesto e il corruttore, e, in primis, di riconoscerlo dietro le menzogne e le propagande. Di nuovo, ancora convinti dalle esperienze quotidiane che la libertà è una distinzione umana ma non gratuita, non regalata ma conquistata e conservata con quotidiana fatica, con quotidiano impegno personale, al di fuori delle belle parole che applicate a una realtà indecente, indecenti appaiono.

C'è da chiedersi come 'l'animale politico' Mussolini, uomo non sprovvisto d'intelligenza politica, abbia potuto pensare di cambiare gli italiani con il profluvio di retorica nazionalista, ma evidentemente questo tipo di errore è inevitabile, se oggi l'abile affarista che ci ritroviamo a capo del governo crede di sostituire la patria e l'impero con la libertà, anzi, le libertà, perché lui è abituato a far le cose in grande, e a presentarle come in un supermercato.

(24 aprile 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: GIORGIO BOCCA. Come uscire dalla crisi
Inserito da: Admin - Maggio 01, 2009, 12:48:31 pm
Giorgio Bocca


Come uscire dalla crisi


L'abbandono forzato del gigantismo, malattia perenne del capitalismo, avrà l'esito sociale noto: ceto medio punito, capitalisti in fuga col bottino e il rombo di nuove voglie rivoluzionarie  Obama è una brava persona, uno che sta dalla parte degli onesti, ma è il presidente degli Stati Uniti, il più grande Stato capitalistico del mondo, e bon gré mal gré dovrà pure risolvere la grande crisi finanziaria ed economica in cui versa il mondo.

Come farà? Farà come tutti i capi di Stato che lo hanno preceduto: toserà le monete d'oro, stamperà miliardi di dollari e magari seguirà i consigli un po' truffaldini dei nuovi Casanova, inventerà qualche lotteria o qualcosa di simile per far soldi, si farà consigliare da finanzieri esperti, gli stessi che insegnano l'arte capitalistica di fare soldi. Ai miei tempi il principe degli esperti era il professor Bruno Visentini, il più abile dei consiglieri fiscali e al tempo stesso dirigente industriale venerato dalla nascente specie dei manager.

Negli anni Sessanta ne conobbi parecchi a Courmayeur, la stazione alpina dove si davano il cambio gli antifascisti perseguitati e i capitalisti al potere, e la prima cosa che notai fu questa: i manager godevano di una straordinaria facoltà di cadere sempre in piedi, licenziati da un'azienda con congrua liquidazione ne trovavano subito un'altra con stipendi e poteri aumentati, quale che fosse stato l'esito della loro gestione.

Un'altra prerogativa della corporazione era l'impunità. In carcere per bancarotta e frode andavano solo e raramente i loro contabili, anche se tutti citavano i tristi casi dei loro colleghi americani o inglesi finiti in qualche penitenziario. L'economista Giulio Sapelli sostiene che i manager hanno fatto un vero colpo di Stato decidendo di comune accordo di darsi delle retribuzioni sempre più grandi, addirittura stratosferiche, centinaia di volte quelle di un comune operaio e impiegato con le stock option, delle vere e proprie truffe ai danni degli azionisti, con la scusa che avevano creato del valore aggiunto che andava premiato, come se il valore aggiunto di un'azienda non fosse dovuto a tutti coloro che ci lavorano.

Come farà il bravo Obama a tirar fuori gli Stati Uniti e il mondo dalla crisi che ci attanaglia? Con tutte le sapienti manovre di cui parlano i mezzi d'informazione, ma soprattutto con l'antico, insostituibile metodo della tosatura dell'oro, con il conio di nuova moneta, con la svalutazione e con la sua inevitabile conseguenza sociale: la punizione del ceto medio, la sua riduzione forzata a una ristrettezza proletaria.

Tutto avviene secondo i tempi e i modi canonici: nessuno sa spiegare il mistero della grande crisi senza fine dell'industria automobilistica americana e mondiale. Che c'è di misterioso in questa crisi? Niente. Tutti sanno che essa è dovuta a crescite incontrollate: automobili sempre più grandi e più care e richieste salariali sempre più alte, in una parola il gigantismo, malattia perenne del capitalismo, la cui cura principale un tempo consisteva nei grandi salassi economici e di vite umane che erano le guerre.

E quali sono oggi le cure che Obama e gli altri governanti ci propongono e c'impongono? L'uscita forzata dal gigantismo, automobili più economiche e salari meno alti, con l'esito sociale noto: ceto medio punito e retrocesso, capitalisti in fuga con il bottino e un rombo, per ora soffocato, di nuove voglie rivoluzionarie, come alla City londinese.

(30 aprile 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: GIORGIO BOCCA. Le macchine intelligenti
Inserito da: Admin - Maggio 08, 2009, 04:48:55 pm
Giorgio Bocca


Le macchine intelligenti


Con la modernità computerizzata tutto è più comodo e facile, ma anche più mediocre e deludente. Ci risparmia fatiche inutili e ripetitive, ma non ci fornisce genio, arte, intuizione  Il punto debole della modernità, delle macchine intelligenti, dei computer e di Internet è che ci risparmiano le fatiche stupide, ripetitive, ma non ci forniscono genio, arte, intuizione. Almeno nel lavoro che è il mio e che credo di conoscere, la letteratura, la scrittura, il narrare. Tale essendo l'argomento, diventa molto difficile trovare le parole per spiegare, ritorna la tentazione dell'ermetismo, dell'oscurità sacerdotale.

Le macchine della modernità, computer, copiatrici, calcolatrici, eccetera, mi rendono più facile, meno faticoso il mio mestiere di scrittore. Tutto ciò che scrivo viene ricordato, annotato, ricopiato a piacimento in centinaia di copie. Fatiche che hanno segnato la mia vita e i miei incubi di appunti persi, di pagine cancellate da gesto maldestro, persino capitoli rosicchiati dai criceti, come mi capitò con la 'Storia della guerra partigiana' durante una vacanza a Courmayeur.

Per non parlare delle nevrosi da perfezione che trasformava ogni articolo in una tortura: al minimo errore il foglio strappato, un senso d'impotenza, il gusto giallo della sigaretta in bocca. Per non parlare di tutto il resto: sofferenza per i nomi dimenticati o sbagliati, per le date errate, per i luoghi confusi, le memorie perse, sicché per uscirne bisognava ricorrere a una sorta di autoanalisi, accettare gli errori e le manchevolezze, dare per normale l'errore e la stupidità.

Con la modernità computerizzata tutto è più comodo e facile, ma tutto più mediocre e deludente. Non è che voglia vantarmi di aver scoperto ciò che tutti sperimentano in questa modernità, ma la percezione dell'inganno modernista la ebbi subito, quando un giovane sardo di nome Soru aveva creato in Sardegna una società di nome Tiscali fatta di aria, di segni leggeri come l'aria, parole, memorie, calcoli che il giovanotto intraprendente vendeva come fossero pane o carne. Se le vendeva aveva ragione lui, ma a me sembrava che fossero opera di magia, da far sparire come il Maligno con il segno della croce.

Poi venne la marea dell'informatica, del basic, degli operatori robotici, elettronici, del silicio arricchito, dei computer di terza o quarta generazione, della sbornia di tecniche e di calcoli che ci avrebbero portato alla conquista non solo della Luna, ma dell'Universo.

Eppure quel dubbio, quella cautela, quel pensiero di assistere a un grande inganno, a una retrocessione umana scambiata per un passo decisivo per la sopravvivenza in un futuro radioso, non mi ha mai abbandonato, perché quello che ci veniva donato con una mano ci veniva tolto con l'altra o comunque non regalato e a volte peggiorato: la letteratura scritta con il computer che sa di frigorifero e di conservanti, gli spettacoli della televisione troppo ricchi di trucchi, l'invasione dell'immaginario e dell'immaginato per cui i fotogrammi di film sostituiscono spesso la cronaca, per cui le guerre che si vedono sugli schermi sono messe assieme con il repertorio di magazzino, i combattenti sono embedded addetti alle trasmissioni dei servizi stampa.

La storia dell'uomo è fatta così, cambia annullando il passato, innovando. Ma un miglioramento vero e proprio non lo si vede, le bandiere, gli eserciti, i nazionalismi retorici del 'Right or wrong, my country' restano come le stragi naziste o staliniane. Tutto stampato meglio, con una grafica più elegante. Ma il peggio è che il tempo di sopravvivenza sembra più corto.

(07 maggio 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: GIORGIO BOCCA. Poveretti e furbetti
Inserito da: Admin - Maggio 17, 2009, 12:01:05 am
Giorgio Bocca.


Poveretti e furbetti

Il terremoto dell’Aquila ha mostrato la propensione al furto di massa, la partecipazione di massa a stragi premeditate pur di guadagnare sulla costruzione, sull’affitto, sulla manutenzione delle case  Qual è la regola di vita italiana dominante e perenne? Detta alla brutta: tirare a campare e, se si può, rubarci sopra. Il terremoto in Abruzzo dopo i terremoti millenari in Sicilia, Calabria, Molise, Marche, Emilia Romagna e su su fino al Friuli lo confermano, nell?insieme, nei particolari e anche nelle eccezioni virtuose.

Il baccano polemico che si è fatto su alcuni resoconti della carta stampata e della televisione non cambia di una virgola la regola eterna che è di piangere sul latte versato. Versato da noi italiani sordi a ogni avvertimento, prevenzione, lezione della geografia, dell?economia e della storia.

Una correità di massa, una complicità totale, un fatalismo che passa di generazione in generazione che ha trovato persino una sua immagine falsa e retorica, lo ?stellone d?Italia?, la fortuna che ci protegge, sempre smentita dalle successive catastrofi, sempre coperta da una retorica plebea, dalle rituali consolazioni clericali, con il porporato di turno che esorta e corregge a disastro avvenuto.

Un quadro impietoso ma ampiamente documentato, il 30 per cento delle case dell?Aquila oggi è inagibile, dicono i tecnici. Che significa? Che una casa su tre è stata costruita con un progetto sbagliato, con materiale scadente, o addirittura con il nulla, con il vuoto. La definizione dei colpevoli grandi e piccoli, di solito affidata a commissioni d?inchiesta che non vogliono o non possono indagare, è in realtà notissima: la colpa è di tutti o quasi tutti. Il capo del governo lo ha dichiarato a suo modo: «Nel disastro non c?è stato dolo».

Cioè tutti colpevoli. Nessun colpevole. Tutto si può dire del terremoto abruzzese ma non che sia stato una sorpresa. Anche un bambino con gli occhi bendati potrebbe puntare il suo ditino su uno qualunque dei borghi dell?Italia sismica, cioè appenninica e carnica, stretta tra le masse in movimento africane ed europee e dire: «Prima o poi qui». Fin qui, come dice Silvio, nessun dolo.

Ma con i progetti sbagliati, i materiali scadenti, il cemento fatto con la sabbia marina come la mettiamo? Perché c?è questa propensione al furto di massa, questa partecipazione di massa a stragi premeditate, perché pur vivendo sopra faglie e voragini la società nel suo complesso ha corso il rischio della catastrofe pur di guadagnare sulla costruzione o sull?affitto o sulla manutenzione delle case? Prendersela con la televisione per un resoconto critico o con la Protezione civile, che ancora una volta ha dato prova di essere uno dei pochi servizi pubblici funzionanti, e tacere sulle complicità o sul fatalismo di massa è cosa priva di senso e perciò largamente da noi praticata.

E allora diciamo una buona volta che come società nazionale siamo ancora dei poveri, con il modo di pensare dei poveri: tiriamo a campare ?del doman non c?è certezza?, la prevenzione costa troppo, spartiamoci quel poco che c?è, se i più furbi rubano in grande, noi approfittiamo degli avanzi del loro banchetto. Questo modo di essere, di pensare è antico quanto il nostro Paese e forse la storia può in parte spiegarlo.

Basta girarlo, questo Paese: quasi tutte le sue città, i suoi borghi, stanno in cima a una rupe o a un colle, fortificati contro il continuo passar di nemici. La nostra solidarietà non è per tempi di pace, ma dopo un sacco del nemico. Ma questo divagare per la storia è anche un modo di consolarci. Con i terremoti che continuano.

(15 maggio 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: GIORGIO BOCCA. Il G8 che divertimento
Inserito da: Admin - Maggio 24, 2009, 11:29:19 am
Giorgio Bocca


Il G8 che divertimento


Il vertice che piace tanto a Berlusconi è una inutile recita dal vivo dei potenti e serve a dimostrare che esistono. A simulare una ragione, una necessità, una provvidenza: immaginarie ma necessarie  Il premier Silvio BerlusconiDopo la caduta definitiva di Napoleone, i grandi d'Europa si riunirono a Vienna per accordarsi sul nuovo ordine, che era poi l'antico degli aristocratici al potere. Il Congresso si diverte, scrissero i cronisti del tempo.

E fu davvero così: re e cortigiani sopravvissuti alla bufera della rivoluzione francese e alle guerre napoleoniche passarono gran parte del tempo in pranzi e in balli e in amori. Fu il capostipite dei G8 che tanto piacciono a Silvio Berlusconi, che è riuscito a imporli all'intero Occidente come sacra rappresentazione del potere.

Qualcosa di cui il potere sentiva il bisogno: l'occasione di mostrarsi in tutta la sua pompa, i suoi sprechi e la sua recita per i sudditi di un ordine ricomposto, di gerarchie ristabilite, di una storia che continua.

In occasione del terremoto in Abruzzo affidato alle cure di Guido Bertolaso, capo della Protezione civile, ci parve giusto riconoscergli funzioni effettive di gran ciambellano del regno, capace di provvedere ai suoi bisogni e alle cure dei suoi mali. E lo conferma la notizia testé appresa che si occupava anche del G8 che doveva svolgersi alla Maddalena, ma che per evidenti necessità di rappresentazione è stato trasferito all'Aquila, capoluogo dell'Abruzzo terremotato.

Bertolaso ci ha spiegato che il trasferimento è tutto sommato un buon affare sia dal punto di vista spettacolare, emotivo, sia da quello economico. Il G8 alla Maddalena sarebbe infatti costato una montagna di milioni di euro per le spese di sicurezza e di alloggi per le migliaia di delegati e di giornalisti da ospitare in navi gigantesche e da proteggere con migliaia di poliziotti e di soldati. A che pro? Per quale reale e urgente necessità? Ma che domande ingenue.

I G8, come il Congresso di Vienna, come tutte le rappresentazioni del potere, militare, politico o religioso che sia, servono prima di tutto a dimostrare che esistono, a simulare una ragione, una necessità, una provvidenza, immaginarie ma necessarie. Al punto che queste manifestazioni continuano a dispetto della modernità e del progresso tecnico.


Che bisogno c'è di organizzare questi convegni dei potenti in questo o in quel punto del pianeta con spese colossali e rischi terribili quando ci sono gli apparati delle telecomunicazioni che consentono tutti i tele-eventi che si desiderano? Al massimo c'è da trovare un certo accordo tra i fusi orari, ma si può fare.

Ma a cosa servono i G8? Quali accordi per il governo del mondo producono? Uno solo, diremmo: convincere i potenti riuniti e i loro sudditi in rispettoso ascolto che è possibile, o perlomeno tentabile, un avvento della ragione, una tregua degli egoismi e delle follie umane.

Ecco una delle ragioni per cui i G8 piacciono tanto a Silvio Berlusconi e in genere ai potenti. Gli piacciono non perché pensino davvero che servano a cambiare lo stato caotico delle umane faccende, ma perché le buone intenzioni sono tutto ciò che si può pretendere da una specie dissennata come la nostra.

E soprattutto perché cosa c'è di più caro al potere, se non la sua recita dal vivo, davanti agli uomini in carne e ossa, con le bandiere multicolori che palpitano al vento, con la folla schierata al passaggio delle automobili presidenziali? Anche ai G8 i potenti si divertono come al Congresso di Vienna. La diplomazia non è una delle conquiste del genere umano?

(22 maggio 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: GIORGIO BOCCA. Questo lusso non fa per me
Inserito da: Admin - Luglio 19, 2009, 04:58:18 pm
Questo lusso non fa per me

di Giorgio Bocca


Sono stato ospite di un hotel 'cinque stelle L'. Soffi di porte dorate, ascensori bomboniere, tende bianche e morbide come un mantello regale... E a me vengono i crampi 

Mi è capitato di essere ospite di un hotel cinque stelle L, che vuol dire lusso, e di rendermi conto che il lusso, anche quello vincente, ammirato, dichiarato, esposto, sicuro di sé, che sta egnando l'attuale era globale, non fa per me. Per questi motivi.

Il primo è il crampo, non dico dell'avarizia, ma di chi rispetta il denaro e teme la povertà come imago mortis. Un crampo delicato, tenue, ma che ti segue da quando sei nella hall del cinque stelle L a quando approdi tra soffi di porte dorate e ascensori bomboniera nell'appartamento - attento a non chiamarlo alloggio, logis, alla piemontese - grande più di casa tua in città.

E già tre cameriere stanno aprendo le tende bianche, spesse e morbide come un mantello regale, sul paesaggio bellissimo, unico al creato della 'divina costiera' che ti blocca il respiro al pensiero che dovrai vederlo ogni giorno e dire "sembra una cartolina", come si dice al tuo paese fra la gente comune.

La tv. Dov'è la tv? Un maggiordomo, come intuendo il tuo pensiero, si avvicina a una libreria antica, con i volumi rilegati in rosso porpora, sfiora con una mano un volume e la libreria si apre sullo schermo opalescente. E il telecomando? È lì sul tavolo, accanto al vassoio di ciliegie rosse, carnose e morbide come se ne vedono dal fruttivendolo di via Montenapoleone a Milano, dove le impacchettano nella carta argentata come fossero gioielli. Non chiedere come si accendono o spengono le decine di lampade con l'abat-jour di pergamena, non riuscirai a capirlo per tutto il soggiorno.

Il crampo al pensiero del mucchio di denaro che se ne va a ogni secondo di soggiorno nell'hotel a cinque stelle L ti ritorna prepotente quando arrivano i camerieri del servizio in camera, tre, del luogo diresti, magri e belli come il 'Monello' di Gemito.

Quando se ne vanno, ti getti sul letto, stanco per il viaggio, ma è un letto alto e grande come quello del re Sole, e sul tavolino c'è una bottoniera dorata con indicazioni comprensibili solo per gli habitué del lusso di cui Giulio Sapelli ha scritto: "Sempre più numerosi sono i fautori di una società basata sulla glorificazione del lusso, mai vertiginoso come in questi anni. Intendiamoci, la presenza e il mito del lusso hanno sempre accompagnato la storia delle comunità umane, ma è l'ostentazione che li caratterizza".

E proprio questa ostentazione che, assieme al poco rispetto per il denaro guadagnato con fatica, m'insegue con i crampi delicati ma insistenti, con la scoperta del superfluo in un palazzo dove si aprono saloni dominati da busti di imperatori romani seguiti da scale e scalette prive di senso, verso una cappella con altare, da cui si passa a giardini pensili in cui si muovono giardinieri in divise turchesche, qui un piccolo bar, là un mini-ristorante, dovunque cascate di fiori e d'improvviso l'azzurro di una piscina in cui stanno tuffandosi due giovani clienti, nordiche si direbbe dal pallore del corpo e il biondo dei capelli.

I clienti del super lusso sembrano tutti come assopiti nel loro superiore benessere, sdraiati su lettini candidi sotto i rami di una limonaia, serviti di bevande da camerierine locali, l'orecchio a un telefonino da cui arrivano voci da Stoccolma o da New York.

Ogni tanto, a prova che esiste il resto del mondo, arrivano dei botti sordi, le mine delle cave che sulla montagna celeste preparano nuovi nidi d'angelo. Domani si torna in città, nei suoi fragori e nei suoi fetori. Se Dio vuole.

(17 luglio 2009)


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Quelle guerre dimenticate

di Giorgio Bocca

Declassate a disordini spontanei, a febbri passeggere, hanno motivazioni ideologiche più che di sopravvivenza, e sono presentate come missione civilizzatrice  Un marine Usa in AfghanistanIl Mulino pubblica un saggio sulle dr les de guerres contemporanee che insanguinano il mondo anche se fingiamo che non siano vere guerre. L'attacco alle torri gemelle di New York dell'11 settembre 2001, risposta dei poveri e barbari all'impero dei ricchi e occidentali, ha aperto una serie di nuove guerre del Terzo Millennio, nei Balcani, in Georgia, nel Medio Oriente, nell'Africa nera, in Thailandia, nelle Filippine, nella Corea, nel Pakistan, in Afghanistan, a Ceylon.

Strane guerre, ma guerre. Guardate quasi con fastidio e imbarazzo dagli esperti di relazioni internazionali, estranee alla narrativa trionfalistica dei nuovi miti, come la globalità dei mercati che ha superato le vecchie frontiere. Questo rifiuto delle guerre che sono in corso segna le relazioni internazionali come un gigantesco autoinganno accettato da tutti pur di non contraddire il mito imperante dell'ordine globale del libero mercato.

Le molte guerre in corso a tutti note e da tutti declassate a disordini spontanei, a febbri passeggere, sono in realtà necessarie a torto o a ragione al nuovo unico impero mondiale, l'americano, arrivato al punto critico di tutti i grandi imperi, nel classico dilemma tra la moderazione e l'espansione, fra la conservazione dei confini attuali e la ripresa alla corsa senza fine alle conquiste. Il dilemma che fu già dell'impero romano fra i confini stabili sul Reno e sul Danubio e la necessità di mantenere il primato e l'influenza, economica e politica, sul mondo intero.

Le molte guerre in corso hanno motivazioni ideologiche più che di sopravvivenza. Gli Stati Uniti, egemoni nel continente americano, hanno a loro disposizione tutte le risorse necessarie. Ma non gli bastano: eserciti americani sono nei Balcani, in Italia, nei paesi arabi del Medio Oriente, in Israele, in Pakistan, nell'Iraq, nell'Afghanistan, in Giappone, nell'isola di Diego Garcia, al Polo Nord e in Antartide. Per evidenti motivi di dominio, ma presentati come missione civilizzatrice, e negli ultimi anni come meritoria esportazione della democrazia.


Sono guerre inevitabili, legate a una fisica del potere, alla mancanza di equilibrio dei poteri nel mondo, per cui il più forte è quasi costretto a occupare il vuoto lasciato dai deboli. Si tratta perciò di guerre 'ineguali', che possono cessare come nel Vietnam solo per una resipiscenza, un recupero di saggezza di fronte all'uso di armi che potrebbero portare all'autodistruzione della specie umana.

Nuove guerre con nuovi caratteri. Non più legate ai confini delle patrie, ma estendibili al mondo intero, reticolati sovrapponibili ai rapporti di pace. Come la caccia ai terroristi che gli Stati Uniti e la loro agenzia di sicurezza, la Cia, svolgono in tutto il mondo. Con grave, forse inguaribile ferita a quanto si era riusciti a creare di diritto internazionale. Guerre come una 'necessaria tecnologia di controllo', cioè come un modo per capire a che punto è arrivata nel mondo la corsa all'autodistruzione. La guerra non come prova di vita e di morte per un popolo, ma per il mantenimento della sua way of life. Come nei 'Tre giorni del condor', il film dove la Cia fa strage di innocenti pur di garantire alla nazione imperiale la benzina necessaria alle sue auto e ai suoi grattacieli sempre illuminati. Guerre minacciate o simulate, come fa la Corea del Nord perché sia tolto l'embargo commerciale che la strozza.

Concludendo, il vero pericolo del nuovo imperialismo e delle sue guerre infinite non è risolvibile, perché sta nel peccato originale dell'uomo, nelle sue debolezze, nelle sue incontenibili passioni, nelle sue avidità che si riaccendono a ogni tentazione.
(10 luglio 2009)


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La morale corrente

di Giorgio Bocca


Chi ha pagato le spese delle feste di Berlusconi? Quanto è costato il servizio poliziesco di protezione nei luoghi di 'Gomorra' e dei Casalesi? E i soldi per il G8 alla Maddalena sono serviti pure per la campagna elettorale?  Centro congressi costruito
alla MaddalenaGli italiani hanno perso con il modo di governare berlusconiano la cognizione di ciò che appartiene al privato o al pubblico. In parole semplici: di ciò che va pagato dallo Stato e di ciò che tocca al premier.

A Capodanno, riferiscono le cronache più o meno piccanti, ci fu a villa Certosa, residenza estiva del primo ministro, una festa di difficile definizione: mondano-partitica, estetico-elettorale, di formazione politica o di alta ruffianeria. Sessanta avvenenti signorine furono trasportate in aereo da Roma alla Sardegna, ospitate per due giorni nella villa e istruite ai fondamentali della politica (quali esattamente non si è capito, se alla ricerca del consenso o allo studio della Costituzione).

Che la festa sia avvenuta è certo, perché una delle peculiarità per cui Silvio è famoso è quella di fare scandalo, ma di farlo documentare e pubblicizzare dai suoi giornalisti e fotografi di fiducia, per esempio dal giornale di gossip 'Chi' che è diventato un vero house organ della casa, decisivo nella formazione della sua immagine.

Chi ha pagato le spese? Ci voleva pochissimo a saperlo: se lui di tasca sua, se il suo partito per l'uso politico delle veline candidate alle elezioni, se qualche azienda pubblica, se il ministero degli Interni che deve provvedere alla sicurezza del premier e dei suoi ospiti. Nessuno nei giornali o nelle televisioni ha creduto opportuno chiederlo. La rivoluzione plutocratica vincente, il trionfo del lusso che ormai fa parte del costume contemporaneo lo sconsigliavano.

Nessuno che abbia chiesto quanto sia costato il servizio poliziesco di protezione, come nessuno se lo è chiesto per la festa napoletana per il compleanno di Noemi, anche se era di pubblica conoscenza che il ristorante e la zona erano stati blindati da agenti e mezzi questurini. E qui il rischio era ben più forte che in Sardegna: fare un banchetto nei luoghi di 'Gomorra' e dei Casalesi, essere attorniato per le fotografie ricordo da decine di sconosciuti, era un po' giocare alla roulette russa.


Anche qui silenzio e ossequio al volere del potente cui il popolo ha delegato il governo. È lo stesso ragionamento che si fa per la legge ad personam, il lodo Alfano, per cui Berlusconi è esente durante l'incarico da ogni inchiesta giudiziaria: come farebbe a governare, dicono, se dovesse correr dietro a tutti i processi istruiti da una magistratura in mano ai comunisti?

In fatto di etica, di rispetto dell'opinione pubblica, i politici si adeguano a quella che viene chiamata la morale corrente, che in pratica è la negazione della morale, la propensione umana a chiedere allo Stato tutti i benefici e dare in cambio il meno possibile.

Quando la morale corrente nella classe dirigente aveva un minimo di rispondenza alla morale tout court, Quintino Sella la sera spegneva le luci al ministero delle Finanze, Luigi Einaudi e Alcide De Gasperi accettavano di essere processati per le accuse di lesa patria di un giornalista come Guareschi, e il povero Ferruccio Parri dormiva su una branda in uno stanzino della presidenza del Consiglio. Era la chiarezza di una morale condivisa.

Ora chi si chiede più se i soldi spesi per il G8 alla Maddalena servissero più alla campagna elettorale del premier che alla politica estera, e se le 'opere del regime' tornate ogni sera in televisione, alcune spettacolari come l'inaugurazione del complesso per l'incenerimento dei rifiuti di Acerra con sapiente regia del nuovo duce che apre una tendina e appare il mostro divoratore d'immondizia, qualcosa di simile all'inaugurazione della bonifica pontina dei cinegiornali dell'epoca, con centinaia di trattori che appaiono sulla piana come un'armata provvidenziale, se le opere del regime, dicevo, sono una propaganda personale o no?

(07 luglio 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: GIORGIO BOCCA. L'equilibrio del terrore
Inserito da: Admin - Agosto 04, 2009, 03:43:26 pm
L'equilibrio del terrore

di Giorgio Bocca


Mentre Usa e Russia decidono di ridurre le armi di distruzione totale, altri Stati medi e piccoli ce le hanno e gli abitanti le desiderano fortemente e festeggiano come una liberazione il fatto di poterne disporre
 Mentre i grandi della Terra si incontrano nei G8 in preparazione del G20 per tentare di risolvere i terribili problemi dell'umanità, è arrivata finalmente una buona notizia. Stati Uniti e Russia avevano deciso di tagliare una notevole parte delle armi di distruzione totale. Per un salutare ritorno alla ragione? No, perché i missili intercontinentali e i radar e le altre apparecchiature super moderne arrugginiscono, si disarmano da sole e vanno sostituite con una spesa che neppure le grandi potenze possono scatenare. Si è capito che il fallimento economico è l'unico freno alla follia degli scienziati e dei generali. Ma la follia resta e con essa la speranza che il mondo le sopravviva.

Avete capito di che misura è la riduzione degli armamenti decisa da Obama e dal presidente russo? Milleseicento missili intercontinentali a testa, come a dire la quantità sufficiente a distruggere la vita sul pianeta Terra più volte. D'accordo le superpotenze a mantenere, a costi astronomici, le altre migliaia di missili pronti al lancio.

A questo equilibrio del terrore non si è arrivati per caso, ma per opera dei più avanzati stati maggiori di scienziati e di generali che hanno continuato per anni a chiedere ai governanti di adeguarsi alla minaccia nemica che da teorica diventava pratica. Ed è per conoscenza di causa che i grandissimi della Terra sanno che scienziati e generali dei paesi meno forti e ricchi sono pronti a tutto pur di aver anche loro missili e bombe di distruzione totale.

Perché giornali e televisioni si occupano ossessivamente del G8 e già si preoccupano dei G20 del prossimo futuro? Credo perché si è capito che in qualche modo bisogna pur ricostruire un diritto internazionale, una regola della convivenza e della sopravvivenza.

Siamo ancora in tempo? Sempre dal G8 in preparazione dei G20 si è capito che il disarmo parziale voluto dagli Stati Uniti e dalla Russia non risolve il problema decisivo della sopravvivenza se altri Stati medi e piccoli le bombe ce le hanno e soprattutto se tutti gli abitanti del pianeta a quanto pare desiderano fortemente averle e festeggiano come una liberazione dal terrore il fatto di potervi anche loro partecipare.


Quando il buon Pertini socialista all'antica esortava a "riempire i granai e a svuotare gli arsenali" fra l'approvazione generale, una nostra industria riforniva i campi minati del mondo intero con le bombe che hanno riempito il mondo di morti o di mutilati. E quando i sacerdoti e pontefici di tutte le religioni fanno a gara a ricordarci che la vita è sacra, e considerano assassini coloro che per pietà aiutano a morire i quasi morti come la povera Englaro, ma poi continuano a gestire le loro chiese fornendo cappellani militari agli eserciti, i dubbi sul futuro dell'umanità rimangono. Perché c'è sempre chi, non avendo rubato o ucciso al tempo dell'Impero romano delle Crociate o delle invasioni barbariche, rivendica il diritto di farlo nel prossimo futuro, come fanno oggi gli imperi nascenti della Cina e dell'India che all'invito dell'Occidente a non inquinare il pianeta con la industrializzazione forzata, rispondono: vogliamo solo fare quello che voi avete fatto prima di noi e di cui vi gloriate continuamente.

Ha destato grande scandalo Bernie Ecclestone organizzatore di corse automobilistiche per aver fatto in pubblico la lode di Hitler che "certe cose sapeva come risolverle". Con il vecchio sicuro metodo di eliminare i concorrenti.(30 luglio 2009)
 
da repubblica.it


Titolo: GIORGIO BOCCA. Se lo scandalo non fa notizia
Inserito da: Admin - Agosto 08, 2009, 07:06:04 pm
Se lo scandalo non fa notizia

di Giorgio Bocca


Siamo il Paese dove il partito di maggioranza si vanta di essere il partito della libertà. Che in pratica vuol dire la libertà dei ricchi e dei potenti di fare ciò che vogliono
 Gli uomini di potere, conservatori, ma anche riformisti, preoccupati del bene pubblico, dicono, invocano la fine 'della stagione dell'odio', dello scontro sociale, cioè della lotta di classe senza cui saremmo ancora al feudo e alla servitù della gleba. Sarebbe bene che spiegassero di chi parlano. Degli uomini in genere o di noi italiani?

Certamente non dei primi, visto che gli europei cristiani e civili stanno rispedendo a sicura fame e probabile morte i poveracci che cercano scampo da noi, che i cinesi ammazzano i sudditi in cerca di libertà, gli americani sono in armi in tutti gli angoli del mondo. Di noi italiani farebbero bene a non parlare almeno dei nuovi razzisti che vorrebbero instaurare la separazione razziale sui tram. Ma restiamo ai patetici appelli alla union sacrée. Che cosa è per noi italiani la democrazia? È il bene sociale e civile per cui abbiamo fatto la guerra civile o di liberazione, con 30 mila morti, più di 100 mila feriti e grandissima sofferenza? Se così è, e se è vero che siamo uomini liberi, democratici, perché mai dovremmo sopportare senza muover un dito che questo bene venga giorno dopo giorno insidiato, svuotato, corrotto? Se la democrazia è il sistema politico delle libertà e dei reciproci controlli, perché mai dovremmo fraternamente abbracciare quanti indefessamente operano per privarcene?

Chiudiamo la stagione dell'odio, si sente dire da più parti. D'accordo, ma la stagione della corruzione imperante, delle mafie in espansione, della corsa al vitello d'oro, del rifiuto di ogni regola etica, questa stagione non la chiudiamo mai? Dite che esagero? Forse siamo scesi a un punto così basso della pubblica coscienza che il peggiore degli scandali non fa più scandalo.

Per esempio, la notizia recente che la stragrande maggioranza degli italiani denuncia un reddito annuo inferiore ai 25 mila euro e che non più del 2 per cento degli italiani dice di superare i 200 mila euro annui. E con questa civiltà fiscale che si fa un paese moderno? Abbracciamoci pure e rotoliamoci pure soddisfatti nella nostra anarchia servile. Nelle province della Italia ricca e soi disant civile, nelle provincie lombarde decine di amministrazioni comunali sono state denunciate per complicità nella truffa dei semafori taroccati, truccati dove il segnale giallo era ridotto al minimo per moltiplicare le multe. E nell'Abruzzo terremotato a cui abbiamo dato prova di civile solidarietà, metà degli edifici sono crollati perché gli impresari edili avevano messo sabbia marina nel calcestruzzo.

La cementificazione del territorio procede a ritmi folli, il terreno agricolo viene divorato ogni anno quanto più si parla di fame nel mondo e chi partecipa alle speculazioni? I comuni, le pubbliche amministrazioni che pur di fare cassa offrono sconti e facilitazioni, per far crescere metropoli come la Roma delle periferie abbandonate a sé e degli stupri, priva di vigilanza e di servizi.

E insieme alla scomparsa di una vigilante opinione pubblica scompare anche la difesa della democrazia, la difesa della libertà. Nel paese dove il partito di maggioranza si vanta di essere il partito della libertà. Una libertà che è l'equivalente della falsa concordia nazionale, che in pratica vuol dire la libertà dei ricchi e potenti di fare ciò che vogliono.(06 agosto 2009)
 
da espresso.repubblica.it


Titolo: GIORGIO BOCCA. Quanti amici ha Totò Riina
Inserito da: Admin - Agosto 14, 2009, 11:36:00 am
Quanti amici ha Totò Riina

di Giorgio Bocca


I carabinieri, specie quelli che arrivano da altre provincie, sanno che in Sicilia un colpo di lupara può raggiungerli in ogni vicolo, in ogni tratturo.
È naturale, allora, che si creino delle tacite regole di coesistenza

L'ex sindaco di Palermo Leoluca Orlando, il capo siciliano della mafia Totò Riina, lo scrittore della sicilitudine Leonardo Sciascia, il generale dei Carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa ucciso dalla mafia perché la conosceva bene, Massimo Ciancimino il figlio del sindaco mafioso di Palermo don Vito e altri esperti della onorata società hanno spiegato invano agli italiani che il problema numero uno della nazione non è il conflitto fra il legale e l'illegale, fra guardie e ladri, fra capi bastone e le loro vittime inermi, ma il loro indissolubile patto di coesistenza. L'essere la mafia la mazza ferrata, la violenza che regola economia e rapporti sociali in province dove la legge è priva di forza o di consenso.

Eppure la maggioranza degli italiani non se ne vuol convincere, si rifiuta di crederlo e quando il capo della mafia Totò Riina fa sapere che l'assassinio del giudice Paolo Borsellino è stato voluto o vi hanno partecipato i tutori dell'ordine, ufficiali dei carabinieri o servizi speciali, il buon italiano si dice: è l'ultima scellerataggine di Riina, mette male nel nostro virtuoso sistema sociale. Se ci sono due scrittori italiani e siciliani che hanno larga e meritata popolarità nel paese essi sono Giuseppe Tomasi di Lampedusa autore del 'Gattopardo' e Andrea Camilleri i cui libri sono in testa alle vendite, salvo il libro migliore, uno dei primi edito da Sellerio in cui spiegava per filo e per segno i compromessi fra mafia e Stato su cui si fonda l'unità d'Italia.

Senza alcuna presunzione di avvicinarmi a questi maestri, vorrei umilmente ricordare ai miei connazionali le ragioni per cui il capo delle mafie Totò Riina ha potuto scrivere il famoso 'papello' al capo del governo italiano per chiedergli, come ora ci fa sapere Massimo Ciancimino custode del documento, se, viste le buone relazioni correnti, il capo del governo non poteva mettere a disposizione del capo della mafia una rete della televisione. Proprio come chiesero e ottennero la Terza rete i comunisti quando condizionavano il mercato del lavoro.

Massimo Ciancimino, il figlio del sindaco mafioso di Palermo, ha detto o lasciato capire che i carabinieri 'nei secoli fedeli' si attennero nelle operazioni di mafia ad attenzioni speciali, clamorosa quanto rimasta senza spiegazioni credibili la mancata perquisizione nella villetta in cui Riina aveva abitato e guidato per anni la 'onorata società'.

Del pari sono rimaste senza spiegazioni le accuse e le richieste di chiarezza mosse, quando era sindaco a Palermo, da Leoluca Orlando. Eppure una ragione del 'comportamento speciale' della più efficiente polizia italiana verso la mafia c'è ed è evidente: i carabinieri, come la mafia, non sono qualcosa di estraneo e di ostile alla società siciliana, fanno parte e parte fondamentale del patto di coesistenza sul territorio, di controllo del territorio condiviso con la Chiesa e con la mafia. In ogni paese siciliano accanto alla Chiesa e al parroco c'è una caserma dei carabinieri e una cosca mafiosa. Spiega Camilleri nel suo aureo libretto: i parroci sono persone oneste, ma sanno che a mettersi apertamente contro la mafia restano isolati, senza sussidi, senza ragazzi negli oratori. E i carabinieri? I carabinieri, specie quelli che arrivano da altre provincie, sanno che la loro vita è appesa a un filo che un colpo di lupara può raggiungerli in ogni vicolo, in ogni tratturo. Non è naturale, obbligatorio che si creino delle tacite regole di coesistenza o di competenza?

(12 agosto 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: GIORGIO BOCCA. La grande delusione
Inserito da: Admin - Settembre 03, 2009, 10:26:37 pm
La grande delusione

di Giorgio Bocca


Viene dalla fiducia non solo marxista che il dominio dell'economia avrebbe risolto tutti i nostri problemi, mentre metà della gente non ha più un soldo da spendere, da investire, o il coraggio di farlo
 
Un giovane che lavora nella pubblicità mi dice più stupefatto che impaurito: sembra che nessuno dei miei clienti commercianti, imprenditori, sarti, impresari teatrali abbia più una lira. Non spendono, non investono non ti chiedono più nulla. Io per campare sono pronto a vendere per cinquemila euro un lavoro che a me ne costa diecimila. Tutti quelli che conosco navigano come me in un mare senza più acqua, respirano un'aria senza più ossigeno, bussano a porte che si aprono solo per dirti che non hanno bisogno di te.

Il mondo si è diviso improvvisamente fra quelli che i soldi ce li hanno ancora, li fanno ancora girare e quelli che non sanno più bene che cosa li attenda domani, che la siccità un bel giorno finisca così come è arrivata.

Ma in questo mondo spaccato in due, dove la circolazione del denaro che per gli uomini di oggi è come la circolazione sanguigna, che per alcuni funziona e per altri si è fermata, restano ancora dei beni, dei consumi, degli usi, delle abitudini comuni a tutti e ora insostituibili: le vacanze, le automobili, come la voglia di staccare dal lavoro. Ma staccare come, se sei tu che sei stato staccato? La televisione, il tempo che fa e allora, in questo paese rimasto per metà a secco, avvengono incredibili migrazioni vacanziere, sulla circolare di Mestre si formano delle code di sei-sette ore, la protezione civile distribuisce in un'ora diecimila bottiglie di minerale agli automobilisti assetati, i telegiornali fanno vedere spiagge e montagne gremite di gente, anche di stranieri venuti chissà perché come sempre a questi patimenti estivi.

Sarà così la fine del mondo? Un progressivo consumo di risorse, di macchine, di valute pregiate, di case, di tutto, fino al vuoto finale, fino alla parificazione di tutti nella fame e nella sete.

È singolare che proprio nella modernità super liberista della
Thatcher e di Reagan, dell'ossessione anticomunista, dei dominanti miti del più feroce individualismo, tutti, ma proprio tutti, siano costretti da questa grande crisi che nessuno sa bene cosa sia e da dove sia arrivata a provare sulla propria pelle che non siamo padroni della nostra vita, dei nostri destini, dei nostri comodi. Che siamo ancora, come nel tempo antico, come sempre, in balìa delle tempeste e delle sette piaghe che un dio crudele può mandare quando vuole sulla terra.

Stupefatti e come paralizzati dalle recenti sanguinose delusioni di tutti gli 'ismi' provati nel secolo scorso: nazismi, fascismi, comunismi che hanno seminato guerre e lager e torture cui ora si aggiunge più che il dubbio la certezza che anche il capitalismo fabbrica di abbondanza non riesca a liberarsi dalle due malattie congenite e misteriose. Come questa per cui improvvisamente metà della gente non ha più una soldo da spendere, da investire, o il coraggio di farlo, sicché non avendo consolazioni migliori partiamo tutti negli stessi giorni verso le infernali code di auto, verso le puzzolenti resse estive.

Per gli uomini di lunga vita come il sottoscritto c'è un altro motivo di stupore: la grande delusione dell'economicismo, la fiducia non solo marxista che il dominio dell'economia avrebbe risolto tutti i nostri problemi. Ma di fronte al giovane pubblicitario che mi racconta più stupito che impaurito che il denaro è sparito dalle sue sorgenti e dai suoi fiumi, che la circolazione sanguigna di cui viviamo si è per metà fermata, come non ricordare che negli anni della fame e del terrore eravamo aperti alle più meravigliose speranze, che c'erano giovani che sacrificavano la vita per tenerle in vita?

(28 agosto 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: GIORGIO BOCCA. Il paese delle fiction
Inserito da: Admin - Settembre 10, 2009, 10:56:06 am
Il paese delle fiction

di Giorgio Bocca


Berlusconi ha trasformato tutto in favola, spettacolo, propaganda: dalla vita familiare integerrima, raccontata a 'Chi', all'economia, fino alla politica estera  Storie mirabolanti del paese delle fiction. Se il capo del governo deve informare i cittadini su fatti e scandali della sua politica e della sua vita pubblica e privata, che fa? Va in Parlamento e si rivolge ai rappresentanti del popolo italiano? Oppure si presenta a una conferenza stampa, o si rivolge ai grandi quotidiani o alle televisioni?

No. Convoca un suo dipendente, il direttore del settimanale 'Chi', un giornale di gossip del tipo 'Sorrisi e Canzoni', e sul suo house organ, molto diffuso nella fascia della prima alfabetizzazione, si racconta come in una fiction: non il Barbablù che dicono i suoi nemici, ma un buon padre di famiglia amatissimo da figli e nipoti in attesa di cospicua eredità che sperano distribuita in un modo equo come ha precisato una delle figlie.

E che succede nel paese delle fiction? Che la detta pubblicazione viene considerata una gaffe di nababbo convinto che tutto gli sia permesso dalla ricchezza, una gaffe magari da ignorare? No, tutti i giornali e le televisioni italici riprendono ampiamente questo ultimo esempio di giornalismo 'verissimo', quanto a dire inventato o manipolato, perché nell'era del capitalismo globale tutto ciò che fa soldi va adottato e imitato.

Il verissimo della saga familiare berlusconiana non è una eccezione, un capriccio sultanesco, ma la norma. Tutto in economia, in politica nel regno di Silvio diventa fiction: una favola, uno spettacolo, una promozione, una propaganda, una scommessa in cui molti vivono beati e altrettanti attendono il momento del risveglio non si sa se comico o drammatico.

Quasi quasi gli italiani a questo verissimo si sono abituati a giudicare dalla accettazione supina di ogni notizia o favola utili al sultano. Ecco un breve elenco di come le intenzioni di Silvio si mutino in verità indiscutibili: il nostro premier usa con disinvoltura suprema le sue relazioni con i grandi della politica internazionale. L'amicizia (ma che genere di amicizia è mai possibile fra capi di governo?) con
Putin lo autorizza a dire che la guerra tra Russia e Georgia è finita grazie ai suoi buoni uffici. Figuriamoci trattandosi di Stati pronti a sterminarsi a vicenda. Si mette la prima pietra del gasdotto fra la Russia, la Turchia e l'Europa, risultato di lunghe e difficili trattative tra Mosca e Ankara? Salta subito su il misirizzi italiano che si fa invitare all'inaugurazione per dire che il merito è suo. L'America di Obama esce dalla guerra fredda di Bush e va con il suo presidente al Cremlino? Come tacere che è stato Silvio il buon consigliere?

In politica interna la fiction regna sovrana fino ai più inverosimili futuribili. Adesso il signore di Arcore ha solennemente promesso che prima di morire sconfiggerà la Mafia - proposito ardito e generoso ma strabiliante dato che sotto il suo governo le mafie si sono estese all'intero paese, hanno le principali basi di operazione nel Milanese o nel dolce Veneto e che una notevole fetta della classe politica in Sicilia, in Calabria, in Campania e su su fino al Piemonte o alla Lombardia è infiltrata da mafiosi!

Attento Silvio! Forse qualcuno di noi ci crede ai tuoi miracolosi interventi fra le grandi potenze e i loro reggitori, ma debellare la Mafia! Mettere fine a un compromesso fra criminalità organizzata e politica che ha prodotto compromessi altrove inconcepibili: come il presidente della Corte di Cassazione che al principio del secolo riceveva in casa sua con tutti gli onori il capo della onorata società indicandolo in una pubblicazione giuridica alla pubblica riconoscenza.

(04 settembre 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: GIORGIO BOCCA. Così è nato Il sultanato
Inserito da: Admin - Settembre 13, 2009, 09:53:22 pm
Così è nato Il sultanato

di Giorgio Bocca

Attacchi ai magistrati. Sdoganamento dei fascisti. Giustificazione degli evasori. Così Berlusconi ha stravolto la democrazia, sotto gli occhi di una sinistra che non capiva o fingeva di non capire  Villa CertosaCiò che colpisce nell'operaio di oggi, scrive Alfredo Reichlin, è il suo ritorno ad altre epoche, la sua solitudine. Il ritorno ad un tempo in cui il lavoro salariato rappresentava il lato servile della società, la manovalanza senza diritti di un'epoca in cui il mondo del lavoro era senza rappresentanza, relegato nel sottosuolo sociale. Qui, dice Reichlin, c'è la spiegazione della sconfitta della sinistra da cui non si può uscire se non si capisce quello che è accaduto. È accaduto che le classi dominanti, la borghesia mercadora e produttrice, ha capito che doveva attaccare lo Stato democratico 'fondato sul lavoro' della Costituzione, che doveva riprendere in mano tutti i poteri come li aveva avuti l'aristocrazia, più di quanti ne aveva avuti la borghesia nella rivoluzione industriale.

Il Berlusconi che si presenta alle platee moderate come 'uno dei vostri', ha capito d'istinto che bisognava riformare lo Stato, distruggere e attaccare tutte le garanzie liberali, anche quelle della nuova Repubblica democratica. È stata una decisione di 'pancia' prima ancora che di testa, l'infallibile decisione da animale da preda che la sinistra e i lavoratori italiani non hanno capito o hanno finto di non capire. Ogni scelta del nuovo sultanato mirava a quella ripresa totale del potere, seguiva quell'istinto, quella fame di potere, ma a molti sembrava assurdo, impossibile e scambiavano queste scelte reazionarie per un capriccio da padroncino, per una risposta ad un sopruso subito.

Attaccava la magistratura? La pubblica opinione non capiva che era un attacco alla democrazia, pensava che fosse soltanto il risarcimento dei presunti torti subiti dalla burocrazia di un italiano che si era fatto da sé e che non aveva paura dei potenti.

Sdoganava i fascisti preferendoli ai democratici? Era solo uno che andava contro i miti e i riti della sinistra. Perché un fascista non poteva essere un buon cittadino?

Diceva che le tasse erano eccessive e che lui capiva quelli che cercavano di non pagarle? L'italiano medio lo approvava: il peso delle tasse era davvero gravoso.
Quando poi è arrivata l'ondata revisionista, il rovesciamento dei valori democratici, la riabilitazione dei fascisti di Salò alleati fino all'ultimo dei nazisti, l'operazione reazionaria ha calato la maschera, anche se oggi lo spazio che i giornali e la televisione premiano non è l'operazione di verità, ma quella di denigrazione e di falsità storica.

Negli ultimi vent'anni, non un tempo breve, l'osservatore onesto della nostra vita politica si è reso conto che la manovra reazionaria procedeva con larghezza di mezzi e tenacissima volontà di distruzione degli avversari alla costruzione della democrazia autoritaria. Certamente, come osserva Reichlin, la svolta reazionaria è solo in parte opera di Berlusconi e del suo partito: è una svolta mondiale.
È l'illusione capitalistica di risolvere i problemi del mondo con il liberismo economico, cioè con l'avidità invece che con la razionalità.

(10 settembre 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: GIORGIO BOCCA. La cattiva maestra
Inserito da: Admin - Settembre 19, 2009, 12:09:07 am

La cattiva maestra

di Giorgio Bocca


La televisione è una scuola così pervasiva da essere frequentata senza che nessuno ce lo ordini. E la sua capacità educativa non solo è nulla, ma è negativa  Ogni giorno i cittadini dei paesi moderni, cioè di quelli che hanno accesso agli ultimi ritrovati della tecnica, frequentano una gigantesca scuola dell'obbligo, nel senso che è quasi impossibile rifiutarsi di frequentarla: la televisione. Una scuola senza aule e bidelli, casalinga, da seguire stando comodamente in poltrona con una birretta fresca a portata di mano. Senza orari obbligatori, ma di fatto frequentata da interi popoli per due o più ore al giorno. Decisiva per la cultura di un popolo perché insegna perentoriamente a tutti come parlare, come comportarsi, come gestire.

Che effetti ha avuto sul genere umano una scuola così pervasiva da essere universalmente frequentata senza che nessuno ce lo ordini? La prima constatazione è che la sua capacità educativa, la sua facoltà di correggere i difetti umani e di rafforzare le virtù non solo è nulla, ma negativa. Certamente non ha indotto i suoi frequentatori a non nominare il nome di Dio invano, a non desiderare la donna d'altri, a non uccidere, non rubare, non dare falsa testimonianza e a non cedere ai peccati della gola, della superbia e della vanità. Nel migliore dei casi i suoi interessati sostenitori, come il capo del governo italiano, la elogiano senza riserve per aver aperto al libero mercato e alle loro aziende gli sterminati pascoli della pubblicità, quanto a dire la prevalenza dell'imbonimento sulla corretta informazione.

Pur essendo difficile e forse impossibile dare voti a quell'enorme ammasso che è la cultura televisiva, possiamo dire che essa risulta pessima nel campo del linguaggio, dove il parlar curiale, colto, raffinato, elegante, è stato sostituito da una congerie volgare, idiomatica, dialettale, plebea, straniera, dal gigantesco swahili in cui s'intendono gli uomini che non sanno più parlare in una lingua nobile.


La scuola obbligatoria della televisione ha in comune con la modernità, con il progresso scientifico, di essere un processo variamente giudicabile, ma senza possibilità di pentimento, di correzione. Una volta scoperto e utilizzato il nuovo resta, nel bene come nel male, come ben sanno i contemporanei in perenne, angosciosa attesa che qualche pazzo faccia uso di quella scoperta demoniaca che è la bomba nucleare. Ma a parte la tragedia delle tragedie, l'apocalisse atomica, ci sono centinaia di innovazioni moderne che hanno cambiato la nostra vita in peggio. Non è forse evidente che la scrittura a mano, libera da ogni automatismo meccanico, da ogni memoria automatica era la migliore per la buona letteratura, che oggi un libro scritto con il computer ha un po' odor di computer? Che le scoperte conservative, imitative, ripetitive, fotografiche abbiano cambiato spesso in peggio le umane arti è evidente. E, per restare nel concreto, la distruzione del paesaggio voluto e imposto dalla modernità non è una condanna inevitabile del genere umano?

La grande scuola moderna della televisione, obbligatoria per milioni di uomini senza ordini superiori, è cosa buona o cattiva? Il fatto è che in pratica nessuno se lo chiede più, e che gli Stati nemici della televisione come lo fu il primo Israele si sono arresi.

La cosa più drammatica di questo tempo è la resa umana al cosiddetto progresso. Buono o cattivo lo accettiamo a scatola chiusa, la sua inarrestabilità produce orrore, ma anche rassegnazione. Ho visto questa estate due vallate alpine, la val Ferret e la val Veny, due stupende valli del Bianco sepolte sotto una lastra metallica di auto. Distrutte, violentate da masse umane felici dello scempio.

(17 settembre 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: GIORGIO BOCCA. La cattiva maestra
Inserito da: Admin - Settembre 22, 2009, 11:06:31 am
La cattiva maestra

di Giorgio Bocca


La televisione è una scuola così pervasiva da essere frequentata senza che nessuno ce lo ordini. E la sua capacità educativa non solo è nulla, ma è negativa  Ogni giorno i cittadini dei paesi moderni, cioè di quelli che hanno accesso agli ultimi ritrovati della tecnica, frequentano una gigantesca scuola dell'obbligo, nel senso che è quasi impossibile rifiutarsi di frequentarla: la televisione. Una scuola senza aule e bidelli, casalinga, da seguire stando comodamente in poltrona con una birretta fresca a portata di mano. Senza orari obbligatori, ma di fatto frequentata da interi popoli per due o più ore al giorno. Decisiva per la cultura di un popolo perché insegna perentoriamente a tutti come parlare, come comportarsi, come gestire.

Che effetti ha avuto sul genere umano una scuola così pervasiva da essere universalmente frequentata senza che nessuno ce lo ordini? La prima constatazione è che la sua capacità educativa, la sua facoltà di correggere i difetti umani e di rafforzare le virtù non solo è nulla, ma negativa. Certamente non ha indotto i suoi frequentatori a non nominare il nome di Dio invano, a non desiderare la donna d'altri, a non uccidere, non rubare, non dare falsa testimonianza e a non cedere ai peccati della gola, della superbia e della vanità. Nel migliore dei casi i suoi interessati sostenitori, come il capo del governo italiano, la elogiano senza riserve per aver aperto al libero mercato e alle loro aziende gli sterminati pascoli della pubblicità, quanto a dire la prevalenza dell'imbonimento sulla corretta informazione.

Pur essendo difficile e forse impossibile dare voti a quell'enorme ammasso che è la cultura televisiva, possiamo dire che essa risulta pessima nel campo del linguaggio, dove il parlar curiale, colto, raffinato, elegante, è stato sostituito da una congerie volgare, idiomatica, dialettale, plebea, straniera, dal gigantesco swahili in cui s'intendono gli uomini che non sanno più parlare in una lingua nobile.

La scuola obbligatoria della televisione ha in comune con la modernità, con il progresso scientifico, di essere un processo variamente giudicabile, ma senza possibilità di pentimento, di correzione. Una volta scoperto e utilizzato il nuovo resta, nel bene come nel male, come ben sanno i contemporanei in perenne, angosciosa attesa che qualche pazzo faccia uso di quella scoperta demoniaca che è la bomba nucleare. Ma a parte la tragedia delle tragedie, l'apocalisse atomica, ci sono centinaia di innovazioni moderne che hanno cambiato la nostra vita in peggio. Non è forse evidente che la scrittura a mano, libera da ogni automatismo meccanico, da ogni memoria automatica era la migliore per la buona letteratura, che oggi un libro scritto con il computer ha un po' odor di computer? Che le scoperte conservative, imitative, ripetitive, fotografiche abbiano cambiato spesso in peggio le umane arti è evidente. E, per restare nel concreto, la distruzione del paesaggio voluto e imposto dalla modernità non è una condanna inevitabile del genere umano?

La grande scuola moderna della televisione, obbligatoria per milioni di uomini senza ordini superiori, è cosa buona o cattiva? Il fatto è che in pratica nessuno se lo chiede più, e che gli Stati nemici della televisione come lo fu il primo Israele si sono arresi.

La cosa più drammatica di questo tempo è la resa umana al cosiddetto progresso. Buono o cattivo lo accettiamo a scatola chiusa, la sua inarrestabilità produce orrore, ma anche rassegnazione. Ho visto questa estate due vallate alpine, la val Ferret e la val Veny, due stupende valli del Bianco sepolte sotto una lastra metallica di auto. Distrutte, violentate da masse umane felici dello scempio.

(17 settembre 2009)
da repubblica.it


Titolo: GIORGIO BOCCA. Ci siamo liberati del fascismo, ci salveremo anche dal ...
Inserito da: Admin - Ottobre 09, 2009, 06:56:15 pm
«Ci siamo liberati del fascismo, ci salveremo anche dal berlusconismo»

di Oreste Pivetta

Spero nel miracolo» risponde Giorgio Bocca a un amico partigiano, che gli chiede un confronto tra ieri e oggi, tra i vent'anni di Mussolini e i quindici di Silvio. Cioè: ci siamo liberati del fascismo, ci salveremo anche dal berlusconismo. E poi spiega: "Il popolo italiano ha già dimostrato altre volte una forza straordinaria e insperata... ". Prima di tutto dovrebbe rendersi conto del precipizio morale, della corruzione, della devastazione culturale. Più che Berlusconi c'è a spaventare l'esito diffuso della sua politica e della sua cultura. Parlano le immagini: "Basta guardare una fotografia: lui, il piccolo dittatore, vestito di nero, sempre circondato da cinque o sei energumeni vestiti di nero”.

Giorgio Bocca, partigiano e giornalista, a che punto siamo dopo la bocciatura del lodo Alfano? Che succederà?
«Berlusconi rimarrà al governo, i suoi avvocati inventeranno mille cavilli perchè i suoi processi cadanoin prescrizione e se anche Berlusconi dovesse cadere resterà il berlusconismo, il male profondo di un paese che ha così poca dignità d'accettare la guida di un uomo corrotto che sta distruggendo la democrazia... ».

Come scrive Saramago nel suo «Quaderno» censurato dalla Einaudi e pubblicato dalla Bollati Boringhieri: «Nel caso concreto del popolo italiano... è dimostrato come l'inclinazione sentimentale che prova per Berlusconi, tre volte manifestata, sia indifferente a qualsiasi considerazione di ordine morale». Preciso, no?
«Che gli italiani, figli di un fascismo mai completamente estirpato, siano corrotti lo si vede: quantamafia, quanta camorra, quante tangentopoli, quanto fisco evaso. Berlusconi ha avuto modo di dare una patente alla corruzione: con lui, sul suo esempio, non s'è più sentito il bisogno di celare, nascondere. Si può fare tutto alla luce del sole. Sentire quelli che si vantano perchè non pagano le tasse... Che cosa gliene importa della democrazia? ».

La malattia è profonda.Tanto più difficile rimediare.
«Certo. Davvero occorre darsi tempo e sperare nel miracolo, appunto, o in quelle scosse profonde nella coscienza, cui abbiamo talvolta assistito».

Ti è già capitato di vivere momenti come questi?
«Da giovane ho conosciuto il fascismo e la privazione di tutti i diritti ».

Berlusconi vanta i suoi sondaggi e il suo sessanta, settanta, ottanta per cento di preferenze tra gli elettori...
«Anche Mussolini vantava un grande seguito popolare. Era un padre padrone, proprio come s’atteggia Berlusconi. Mussolini andava a mietere il grano, si mostrava a torso nudo e incantava le folle. Berlusconi va in televisione e inaugura le casette. Hitler era un mostro. Loro li definirei dittatori morbidi».

Come giudichi, a proposito, le reazioni di Berlusconi?
«Privo di qualsiasi bussola politica. Come si fa a gridare che Napolitano è di sinistra, che Napolitano avrebbe dovuto pesare sulla Corte? Come si fa a dire che la Consulta è di sinistra? Una follia. Non è solo questione di rispetto di una sentenza, è anchemancanzadi senso della realtà: ma li conosce i giudici della Consulta, che in maggioranza se mai sono di destra per formazione, cultura, età...».

E il presidente Napolitano?
«Cauto come sempre. Prudente. Vuol fare il Presidente. Di fronte alle nefandezze di Berlusconi avrei preferito sentire parole più forti. A un certo punto viene il momento di dire basta».

Oltre i giudici chi e che cosa dovrebbe temere di più Berlusconi? Fini?
«Ma intanto deve temere quanti nel suo stesso schieramento si sonoconvinti che un individuo simile è pericoloso anche per la destra. Si è capito poi che Berlusconi non incanta più gli industriali, che preferirebbero un Tremonti».

E la Chiesa, dopo gli scandali con le escort?
«La Chiesa lo tiene in piedi, perché sa di poterlo ricattare, sa di poter pretendere da lui in cambio soldi e leggi».

Non dimentichiamo la sinistra...
«Pelandrona e inconcludente. Di fronte a quanto sta avvenendo non ci si può limitare a dire che Berlusconi deve continuare a governare».

Per fortuna, stiamo in Europa.
«L’Europa è una garanzia.Non può consentire che nel suo cuore a un certo punto spunti un regime con i connotati del fascismo. Ma quello è pure capace di trascinarci fuori dall’Europa. Le tenterà tutte».

09 ottobre 2009
da unita.it


Titolo: GIORGIO BOCCA. Morire a Kabul
Inserito da: Admin - Ottobre 16, 2009, 11:14:10 pm
Morire a Kabul

di Giorgio Bocca



Oggi si tace o si sorvola sull'uso dei droni, gli aerei senza pilota. I droni non colpiscono solo i terroristi, ma fanno strage di civili. Come Karzai ha spesso denunciato
 
La morte dei sei paracadutisti italiani in Afghanistan ha destato grande commozione e ha riempito per giorni la nostra informazione. Ma sulle ragioni reali per cui sono morti, cioè sul perché noi partecipiamo all'occupazione armata dell'Afghanistan, il silenzio o l'elusione regnano sovrani. Per decisione della Nato, dicono i nostri governanti. Ma cosa è la Nato e che ruolo noi abbiamo nella Nato? In teoria è una spontanea alleanza di nazioni che vogliono difendere la loro libertà da aggressioni autoritarie. Nella pratica è un'alleanza militare in cui gli Stati Uniti hanno di fatto l'egemonia militare e tecnica grazie alla quale sono loro a prendere le decisioni più importanti. Non vincolanti ma quasi, come si evince dal fatto che non tutti i paesi della Nato partecipano alla guerra in Afghanistan, ma quelli che vi partecipano devono allinearsi alla propaganda e ai silenzi della potenza egemone.

Quali silenzi? Quali elusioni? Ai tempi dell'intervento armato in Serbia si tacque o si eluse sui feroci bombardamenti che colpirono anche i civili di Belgrado e interruppero per anni la libera navigazione del Danubio, oggi si tace o si sorvola sull'uso dei 'droni', gli aerei senza pilota che ripetono e in alcuni casi inaspriscono le rappresaglie sulle popolazioni che resero feroce la Seconda guerra mondiale. I droni non colpiscono solo i terroristi, ma fanno strage della popolazione civile, come il presidente Karzai ha spesso denunciato. Lo scopo è il medesimo per cui Stalin riempì di patrioti polacchi le fosse di Katy'n, Hitler bombardò Varsavia e anche gli Stati democratici ricorsero alla guerra totale: terrorizzare il nemico.

Ma fino a che punto il silenzio o la propaganda sono più utili di una reale conoscenza dei problemi? Fino a che punto le decisioni del Pentagono sono esenti da ogni critica etica o pratica che sia? Che ne sa l'opinione pubblica italiana dei droni? Perché ogni pubblica discussione su queste nuove armi è taciuta o sorvolata come un tradimento? I droni sono aerei senza pilota che possono decollare da piste fisse o mobili controllati a distanza da persone prossime ai campi di battaglia come lontane decine di migliaia di chilometri. Se il divario tecnologico tra i tedeschi e gli italiani era grande negli anni della guerra partigiana, osserva il professor
Luigi Sertorio, quello fra gli americani e gli afgani oggi è enorme. I droni possono volare rasoterra o a quote altissime, al riparo da ogni contraerea, portare missili con esplosivi chimici o nucleari e il loro pilota può stare seduto al sicuro in un centro guida grazie al posizionamento satellitare. Senza rumore, senza prevedibilità, senza possibilità di risposta che non sia il terrorismo.

I talebani, il terrorismo, sono un fenomeno misterioso con effetti demoniaci, ma sono anche simili ai droni: non si manifestano e non vengono allo scoperto. Il terrorismo è folle, ma non disumano, nel senso che è opera degli uomini e non degli alieni. E per capirlo non basta maledirlo, bisogna cercare le cause da ogni parte, anche dalla nostra, per esempio della scienza e della tecnica che fabbricano i droni.

"L'America", ha detto il presidente Obama, "è stanca della guerra". Non solo l'America. Ai nostri produttori, ai nostri scienziati, ai nostri politici il professor Luigi Sertorio fa questo augurio: che li assista finalmente l'angelo dell'intelligenza. Ma come si può pensare, come pensano i sostenitori della guerra a oltranza contro i nostri diversi, che dopo averli massacrati si prenderanno cura nel futuro della nostra civiltà?

(15 ottobre 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: GIORGIO BOCCA. Il padrone in redazione
Inserito da: Admin - Novembre 04, 2009, 11:19:26 am
Il padrone in redazione

di Giorgio Bocca


La libertà di stampa è un bene comune necessario, uno specchio in cui vedere come realmente siamo, a quali tentazioni siamo esposti  Da noi si discute della libertà di stampa come di un bene assoluto, di un diritto insopprimibile che scende sugli uomini 'per grazia di Dio' come la sovranità. Ma in realtà è tutt'altra cosa: una conquista civile sofferta e a continuo rischio, un bene frutto del progresso, ma dal progresso fortemente condizionato e insidiato.

Come? Dagli interessi economici, per cominciare. Ho iniziato la mia vita di giornalista a Torino dove i quotidiani concorrenti erano 'La Stampa' e 'La Gazzetta del Popolo'. Alla 'Stampa', di proprietà della Fiat, era proibito dare notizia che un operaio di Mirafiori era morto sul lavoro, al massimo si poteva dire che era deceduto 'nel trasporto all'ospedale'.

Alla 'Gazzetta del Popolo' la proprietà era la SIP, Società Idroelettrica Piemontese, per cui si taceva sui folgorati dall'elettricità industriale ed era meglio non occuparsi troppo di quella naturale dei fulmini. Gli uffici stampa delle due aziende madri sovraintendevano al culto aziendale: alla 'Stampa' Tota Robiolo diceva commossa ai giornalisti convocati per una conferenza della direzione 'a cinque dita', dei cinque direttori generali: "Signori silenzio, qui si fa l'Italia".

Alla 'Gazzetta' l'inaugurazione di una centrale o anche solo di una condotta d'acqua era celebrata come una vittoria, e dell'amministratore delegato Attilio Pacces si parlava con la reverenza per un padreterno.

Poi ci sono i condizionamenti politici. Al 'Giorno', proprietà dell'Eni di Enrico Mattei, i condizionamenti politici erano complessi: i giornalisti dovevano sapere che Mattei era un democristiano di sinistra ex partigiano nemico dei petrolieri americani, ma il vicepresidente Cefis, pure lui ex partigiano, era di destra, disponibile a un accordo con le 'sette sorelle'. E che per tenere i piedi in questo duumvirato si era arrivati alla convivenza di due direttori:
 Pietra e Della Giovanna.

Ma il condizionamento dei condizionamenti, dopo gli anni del miracolo economico, fu un altro, quello della pubblicità che finì per essere più importante dei politici e dei padroni del vapore, perché tutti dovevano riconoscere che senza i soldi della pubblicità non avrebbero campato.

Che altro? Molto altro: le chiese e i loro dogmi, le patrie che 'a torto o a ragione' vanno difese, le mode, le forze misteriose per cui 'dalle ghiande può nascere una quercia'. E allora che dire? Che non c'è scampo, che la libertà di stampa è un'utopia? C'è chi pensa che questa via di scampo esiste e che l'abbia indicata Indro Montanelli quando scrisse "ogni giornalista deve sapere che il suo vero, unico padrone è il lettore". Che a parte la retorica ha una sua verità, perché uno che fa il giornalista, che desidera diventare giornalista, è mosso dalla curiosità di sapere cosa sta accadendo attorno a lui, di scoprire ciò che è coperto dagli interessi personali o di gruppo, di muoversi a occhi aperti in questa giungla che è la vita. E questa voglia di sapere, di conoscere, non è qualcosa di regalato dal buon Dio, da sempre esistito.

Per generazioni, per millenni gli uomini comuni hanno accettato di vivere sotto la cappa delle sacralità del trono e dell'altare, ma dalla Riforma, dalle rivoluzioni borghesi, dall'Enciclopedia qualcosa è cambiata nel profondo, per tutti la libertà di stampa è un bene comune necessario, uno specchio in cui vedere come realmente siamo, a quali tentazioni siamo esposti. Questo credo di averlo capito nella mia lunga vita di giornalista: che chi lo fa è mosso da una gran voglia di capire e di raccontare come vanno realmente le cose di questo mondo. E se non glielo permettono se ne duole, e se tradisce la sua onesta voglia se ne vergogna.

(29 ottobre 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: GIORGIO BOCCA. La mafia non è una favola
Inserito da: Admin - Novembre 09, 2009, 03:07:02 pm
La mafia non è una favola

di Giorgio Bocca


Sono stato additato come nemico della patria per aver scritto che tra Stato e criminalità organizzata si sono create zone di tolleranza se non di coesistenza.
Ma ho solo cercato di capire cosa stava accadendo in Italia
 
Mi è capitato di recente di incorrere nelle ire e nei sarcasmi della maggioranza di destra al potere per aver scritto che fra lo Stato e la criminalità organizzata delle mafie si erano create, di fatto, zone di tolleranza se non di coesistenza. E la stampa della maggioranza scrisse che ero un nemico della patria o vittima del sonno della ragione, cioè uno che delirava. Il più educato, Fabrizio Cicchitto, disse che: "Da saggista che era, Bocca si è trasformato in romanziere, inventa collusioni fra la mafia e lo Stato". Ma romanziere non lo sono mai stato, ho solo cercato di capire che cosa stesse accadendo in questa strana società che è l'italiana.

Cominciai nell'anno Settanta con un'inchiesta sulla mafia dei giardini, cioè sul rifornimento idrico della campagna palermitana controllata dalla mafia. Andai per prima cosa alla caserma dei carabinieri e incontrai l'allora maggiore Carlo Alberto Dalla Chiesa, uomo serio, concreto ma non privo d'ironia. Mi disse: "Ma davvero vuole sapere cosa è la mafia dei giardini? Ma crede davvero che ci sia la mafia?". Lui sapeva benissimo che la mafia c'era, e prevedeva persino che dalla mafia sarebbe stato ucciso, voleva solo mettermi in guardia dalla grande menzogna del potere in Italia che da sempre nasconde i suoi rapporti con la criminalità organizzata dicendo che non esistono. La stessa cosa, in linguaggio mafioso, la diceva in quei giorni il boss Gerlando Alberti al giudice che lo interrogava: "La mafia? Ma cosa è questa mafia di cui lei mi parla, una marca di formaggio?".

Quando Totò Riina, il boss dei boss, venne arrestato, mi chiesi, come tutti in Italia, come mai avesse potuto abitare con la famiglia e dirigere l'Onorata Società stando in una villetta di Palermo. E quando seppi che sua moglie aveva partorito due volte nel maggiore ospedale di Palermo chiesi sul giornale come mai il primario non sapesse chi era, dato che a
Palermo e a Corleone lo sapevano tutti. Per risposta mi arrivò una telefonata di un medico dell'ospedale con minaccia di morte. Mi chiesi anche in quei tempi lontani perché mai la riserva di caccia di Michele Greco, grande boss mafioso a Bagheria, fosse frequentata da poliziotti e funzionari dello Stato, e poi in quasi mezzo secolo di giornalismo le molte altre domande senza risposta, non solo su Andreotti amico e protettore di Salvo Lima, un amico degli amici, ma anche sui socialisti e liberali e persino i radicali che avevano cercato e gradito i voti della mafia sino a recenti elezioni regionali, dove in 61 circoscrizioni su 61 hanno vinto gli amici dei mafiosi, come il 30 per cento degli eletti nel consiglio regionale.

Insomma, cercai di capire, di raccontare che la mafia non era una brutta favola inventata dai cattivi nordisti, ma un'organizzazione con un giro d'affari ogni anno di 100 mila miliardi di vecchie lire, oggi più che triplicato se si aggiungono i buoni affari della 'ndrangheta e della camorra. Senza aggiungere che oggi non è più necessario, come facevo io con la mia Topolino Fiat, scendere da Milano a Palermo, Calabria compresa quando non c'era ancora l'autostrada, basta andare in un sobborgo milanese, nord o sud Milano non fa differenza, o nei ristoranti con specialità di pesce per trovare i capi e i picciotti che minacciano, ricattano e uccidono. E speriamo che nessuno riproponga una bella inchiesta parlamentare sulla mafia. Ce n'è già stata una e Leonardo Sciascia che era un intenditore scrisse: "La mafia si è permessa una commissione parlamentare d'inchiesta", per dire che era destinata al fallimento in un paese dove la mafia è complice se non padrona.

(05 novembre 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: GIORGIO BOCCA. Fascisti e opportunisti
Inserito da: Admin - Novembre 13, 2009, 03:18:12 pm
Fascisti e opportunisti

Di Giorgio Bocca


La destra reazionaria è piena di ex socialisti alla Bombacci, è astiosa, ha voglia di diffamazione, disprezza la ragione pacata, gli intellettuali e gli studiosi di storia. Poi ci sono quelli che dicono di voler essere neutrali  Berlusconi a Porta a portaSono anni ormai che ci chiediamo se il fascismo ritornerà, ma tranquilli amici, un po' è già tornato; non il fascismo del ventennio, ma quello di sempre, autobiografia della nazione, frutto spontaneo del nostro autoritarismo anarcoide, del nostro piacere di servire, della retorica patriottarda. Sono già tornate le parole del patriottismo e del nazionalismo retorico e gli annessi riti funebri: chi muore per sventura o per dovere viene chiamato eroe, chi insiste a vedere i nostri difetti antitaliano, e se non basta sovversivo, colpevole di opporsi, ironia della storia, a quanti vogliono sovvertire la democrazia.

Se il fascismo di regime chiamava pantofolai o panciafichisti i borghesi di normale buon senso, questi che ci ritroviamo vedono complottisti e sabotatori in chiunque si opponga al nuovo sultanato. È tornato il populismo a due tempi, di elogio e di disprezzo, di tipo mussoliniano in cui gli elogi senza limiti agli italiani "popolo di santi, eroi, navigatori" e persino di migratori, si alternavano alla "povera razza italiana che non cambierà non dico in diciotto, ma neppure in centottanta anni".

Tornerà il fascismo? Tranquilli, un po' è già tornato. La destra reazionaria è già piena di ex socialisti alla Bombacci, che pensano che un posto alla greppia valga il voltagabbana, e come tutti i transfughi sono i più entusiasti del nuovo duce e i più rancorosi con i vecchi compagni. La formazione in atto del nuovo regime la capisci dall'astio, dalla voglia di diffamazione, dal desiderio incontenibile di mettere a tacere chi si oppone al nuovo ordine. Nel rinnovato ma eterno fascismo c'è anche il disprezzo per la ragione pacata sostituita dalla ragione di chi urla più forte, la cagnara che imperversa ogni sera nei dibattiti televisivi dove i sostenitori del sultano si piazzano nelle prime file e su istruzioni del padrone urlano come cagnacci rabbiosi, impediscono agli altri di parlare. E riconosci i favoriti del sultano che con le loro voci riescono a coprire anche un rombo di cannone. Gli urli, la violenza verbale annuncio di quella fisica, e poi l'assoluta indifferenza alla logica, alla grammatica, alla sintassi, alla storia, a un minimo di buona educazione.

Un guitto del giornalismo può tranquillamente accusarvi di non aver capito niente del terrorismo citando non i tuoi libri sul tema, ma una cronaca del suo incerto esordio. Non è solo la democrazia che questo nuovo fascismo allo stato naturale ed eterno vuole affondare, ma anche la normale convivenza, la normale educazione. Le élite della cultura vengono retrocesse alla vanità snobistica, gli studiosi di storia e di politica irrisi dai propagandisti, la stampa internazionale presentata come una canea invidiosa delle nostre glorie e dei nostri successi. Chiunque dissenta o si opponga è travolto da una marea di contumelie e di accuse infamanti che non risparmiano più nemmeno gli alleati di classe, i signori dell'industria e della finanza, anche loro investiti dal rancore del piccolo duce brianzolo, che sembra un ricorso storico di quello del ventennio che nel crepuscolo di Salò voleva "seminare di mine sociali la Pianura padana", in odio ai grandi capitalisti che lo avevano abbandonato, l'infido Agnelli e il grigio Pirelli, come li chiamavano.

E non mancano i sempiterni 'pesci in barile', quelli che se la cavano dicendo di voler rimanere neutrali in questo scontro di opposti eserciti.

Ma questa non è una guerra di conquista, è un'elementare difesa della democrazia.

(12 novembre 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: GIORGIO BOCCA. Tira un certo venticello
Inserito da: Admin - Novembre 26, 2009, 03:59:58 pm
Tira un certo venticello

di Giorgio Bocca


La calunnia è diventata una pratica da sbirri a prova di buon senso e di ragione: chi accusa rovesciando le parti pretende dall'accusato giustificazioni e scuse.

La calunnia è un venticello del melodramma è diventata, con l'attuale governo, pratica normale di diffamazione dei nemici o presunti tali. E chi la pratica così si giustifica: "Mi danno tre milioni di euro d'ingaggio". 'La calunnia è un venticello' del melodramma si è trasformata in una marea che travolge gli oppositori o temuti tali, annunciata dalla stampa di regime con titoli a tutta pagina come fosse scoppiata una nuova guerra mondiale. Fra i più recenti: "La moralista Ida Borsellino ha comprato una casa da un mafioso", "Un giornalista di 'Repubblica' spia dei servizi cecoslovacchi", il procuratore aggiunto di Milano Francesco Greco "tiene sotto tiro l'economia italiana" perché chiede il fallimento delle aziende fallite. Ragion per cui anche lui è un antitaliano sabotatore.

Tutti coloro che nei 73 anni di vita del premier sono entrati in collisione con la sua irresistibile ascesa si ritrovano legati alla colonna infame, colpevoli di aver in qualche modo disturbato il suo ego espansissimo da lui medesimo descritto: "Non so cosa è il carisma, ma credo di averlo, sono nel cuore degli italiani". Nel ricevimento a Venezia dell'emiro del Qatar ha ricordato come fosse roba sua "qualche dato storico e culturale della nazione, chiese, musei, siti archeologici e l'amore dei connazionali.
Il carisma l'ho sempre avuto, sono sempre stato adorato da tutti quelli che lavorano con me, parlamentari, collaboratori, quanti mi conoscono. Quando vado in giro è imbarazzante l'attenzione, l'affezione nei miei confronti. Certo sono consapevole del fatto che la gente può cambiare, ci vuole poco. Per ora prendo atto del fatto di essere nel cuore di molti italiani che me lo manifestano in ogni occasione. Non ho fatto alcuna gaffe, nemmeno una, sono tutte inventate dai giornali".

Anche quelle di cui è testimone il mondo, di cui ha riso il mondo? Prova di amore e di consenso anche le gigantesche guardie del corpo che gli fanno corona ovunque vada?
Anche loro con i loro petti a prova di pallottola?

'La calunnia è un venticello' del melodramma è diventata una pratica da sbirri a prova di buon senso e di ragione, in cui chi accusa rovesciando le parti pretende dall'accusato giustificazioni e scuse. Negli archivi di servizi cecoslovacchi non meglio definiti si trovano delle carte in cui un giornalista italiano viene indicato come informatore senza che risulti alcuna informazione? Peggio per lui se i cecoslovacchi non l'hanno registrata, la confessi lui adesso a trenta o quarant'anni di distanza, spieghi lui perché il tentativo di usarlo di un agente provocatore viene usato oggi in modo diffamatorio, e se non può inventarselo si aggiusti; noi lo leghiamo comunque alla colonna infame.

Stiamo tornando alla barbarie, ha detto il priore di Bose Enzo Bianchi. Una barbarie da Inquisizione in cui il nemico eretico deve fornire le prove delle colpe che non ha commesso, deve riconoscersi sabotatore e traditore della patria. Ci sono persone afflitte da una gigantesca autostima, da un'evidente megalomania, da un amore di sé spropositato, convinti di fare il bene degli altri mentre lo espongono a rischi mortali.

Nel 1940, alla vigilia dell'entrata in guerra, l'industria militare italiana era in grado di produrre 300 aerei da combattimento l'anno, la Germania 600, l'Unione Sovietica mille, gli Stati Uniti da soli 4 mila. Ma al superego di Mussolini le nude cifre non interessano, conta solo la furbizia italica con cui mettere tutti nel sacco.

A Silvio il gigantesco debito pubblico e i numeri veri dell'Italia non interessano. "Ghe pensi mi", dice.

(20 novembre 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: GIORGIO BOCCA. Onorevoli garçonnière
Inserito da: Admin - Novembre 28, 2009, 03:50:24 pm
Onorevoli garçonnière

di Giorgio Bocca


È un mondo ignobile di corrotti, spie e sgherri contro cui gli onesti non hanno scampo e possono solo sperare che nessuno si accorga di loro 
Il capo del governo italiano, fra i massimi custodi della Costituzione democratica, a prova della sua umana bontà di fondo confessa di aver avvisato il quasi comunista Piero Marrazzo, presidente della Regione Lazio, di stare attento che c'era in giro un filmino hard su suoi rapporti con le brasiliane transessuali. Lo aveva saputo da sua figlia dirigente della Fininvest e della Mondadori a cui il filmino era stato offerto dai ricattatori. Tradotto in italiano normale: il capo del governo democratico fra i massimi custodi della Costituzione avvisa un presidente di regione corrotto e corruttore di stare in guardia per coprire la sua condotta, se non penalmente punibile certo scorretta secondo l'etica politica. E subito in suo soccorso intervengono illustri parlamentari e giornalisti di cui sono notorie le avventure erotiche poco commendevoli scoperte in passato dalla polizia. Quanto a dire: le violazioni al comune senso della morale, le escursioni nel campo del proibito, del vizioso, dell'illegale sono ormai la normalità per il ceto dirigente della Repubblica democratica italiana e dell'Occidente ricco ed egemone.

Come viene confermato dal principe di Monaco che assolda uno spione della Cia per sorvegliare i suoi cortigiani infedeli, e dalla proliferazione di agenti segreti e spioni che per conto di Stati o di aziende penetrano i segreti dei cittadini invisi al governo o quelli dei concorrenti.

Insomma un mondo ignobile di corrotti e di spie, di sgherri e di lenoni contro cui gli onesti superstiti non hanno scampo e possono fidare unicamente nella speranza che nessuno si accorga di loro.

Che succede? La specie degli onesti si è estinta e quella dei furbi e malvagi ha invaso la terra intera come la gramigna? Forse è il momento di riflettere sulla cosiddetta modernità, sui suoi pregi ma anche sulle sue insidie e condizionamenti.


Cominciamo dai mezzi d'informazione e di spionaggio. È innegabile che oggi spie e pescatori nel torbido hanno a loro disposizione un arsenale tecnico irresistibile: telefoni che girano filmini, teleobbiettivi che fotografano a chilometri di distanza, microspie a cui non sfugge un sospiro, ragion per cui ogni avanzo di galera, ogni balordo - e il mondo ne è pieno - può trasformarsi in un agente segreto che fa passare un giornale per spia, ogni fotoreporter fallito può diventare un ricattatore, ogni transessuale brasiliano può entrare nella vita segreta di un potente, nella garçonnière di Marrazzo come di un erede Agnelli.

Nella modernità lo spionaggio da una necessità dello Stato si trasforma in una normalità delle relazioni economiche, tutte le grandi aziende arruolano noti spioni per avere informazioni sui loro concorrenti, aziende come la Telecom o la Pirelli e persino squadre di calcio come l'Inter hanno alle loro dipendenze qualche servizio d'informazione. I quali ricorrono alle armi e ai trucchi tradizionali degli spioni, le belle cortigiane come i prestanti transessuali, fra il denaro facile, la polizia corrotta e l'inevitabile polverina bianca della cocaina.

Ma non basta. A fornire una giustifcazione sociale e ideologica al marciume generale vengono mobilitati gli analisti e gli psicologi i quali su tutti i mezzi d'informazione spiegano dottamente che gli uomini arrivati al potere spesso senza merito sono consci del loro ingiusto privilegio e prima o poi non resistono alla voglia di autodistruggersi, come a una superiore e invincibile vendetta della morale sul libertinaggio senza limiti. E altre eleganti spiegazioni che il potere non ha limiti tranne la sua incontinenza.

(26 novembre 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: GIORGIO BOCCA. Ossessioni da sultano
Inserito da: Admin - Dicembre 09, 2009, 04:47:41 pm
Ossessioni da sultano

di Giorgio Bocca


Berlusconi si crede il migliore e il più fortunato. Di qui il bisogno di essere amato, l'incubo di essere tradito dai suoi, le manie sugli abiti e gli odori, e la fobia per i comunisti.

Fedele Confalonieri, amministratore delegato delle televisioni di Berlusconi e suo 'fratello', non di sangue ma di una vita, in una recente intervista ha così descritto la democrazia autoritaria: "La democrazia ha dei freni che a Silvio danno fastidio, Silvio è un uomo del fare, non gli piace trattare. Ma non è un dittatore, come dicono i suoi nemici. (...) Se si fosse limitato alla televisione oggi avrebbe più del 90 per cento dei consensi. Ma lui ha voluto giocare in prima persona. E ha spaccato in due il Paese".

Vediamo di capire in modo più esteso in cosa consiste questo sultanato? Consiste principalmente nel fatto che un essere umano nasce con l'idea di essere il migliore, il più audace, il più fortunato del mondo. È una follia? Sì, ma è anche la forza vitale del capo o di chi si crede tale come Silvio, di chi si sente dalla nascita, dall'oratorio, dalle scuole elementari un homme fatale.

"Era pieno di sé", dice Confalonieri, "si sentiva migliore di quelli che vedeva attorno a sé. Lui ha un naturale superiority complex.
Si potrebbe dire che è un po' bauscia. Ma ha dimostrato che è bravo, che può permettersi queste cose". In altre parole: è talmente preso di ammirazione per se stesso che ne fa un'ossessione. Ed è questa ossessione che gli dà forza e tenacia strabilianti: fa cinque comizi al giorno, vola dal Brennero a Capo Passero per emergere scattante dal tetro gruppo di guardaspalle che lo circondano perennemente, stessa ossessione di un altro italiano, quel duce che spesso aveva l'incubo di essere defenestrato dai suoi adoratori. Ossessivo in tutto, a cominciare dagli abiti e dai cattivi odori che lo terrorizzano, per cui distribuisce ai deputati del Popolo della libertà uno spray al mentolo accompagnato da un biglietto: "Egregio onorevole, certo di farle cosa gradita la prego di accettare questo piccolo omaggio fresco e profumato e di usarlo al fine di rendere sempre più piacevoli gli incontri. Firmato: un cittadino che crede nel benessere".

Ossessivo sul lavoro. Lo ricordo nei primi anni di Canale 5. Il suo collaboratore prediletto era un allenatore di pallacanestro che lo seguiva negli studi armato di un cronometro pronto a rimproverare chiunque peccasse di lentezza.

Come è possibile che un uomo dominato dall'ambizione e dalla voglia di potere possa non solo essere obbedito ma anche amato? Ma come dice il suo fraterno amico è nato così e vive in un'alternanza continua fra la voglia di comandare e quella di piacere. Passa la sua vita tra un ottimismo senza limiti e repentine cadute, nei sospetti di tradimento e di agguati. Dominante in lui il timore che "un eletto dal popolo possa essere soppiantato da un non eletto", come il governatore della Banca d'Italia, Draghi.

Ma l'ossessione delle ossessioni è quella dei comunisti. Nella sua bonomia lombarda il fratello amico da una vita Confalonieri ha detto a Claudio Sabelli Fioretti che lo intervistava: "Silvio ha gli infrarossi nel cervello, è un genio, vede quello che tu non vedi. I comunisti non c'erano più ma c'era ancora la paura del comunismo. Ottima capacità di marketing ma anche di politica. La paura del comunismo è stato un ottimo argomento di vendita".

Vogliamo aggiungerci la vocazione populista che ha in comune con Bossi: "Noi ascoltiamo la gente", dicono, "noi sappiamo cosa piace alla gente". È il loro modo di fare politica. Non sembra un progresso da quando Immanuel Kant diceva "il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me".

Ma come sultano Kant non valeva un bottone.

(03 dicembre 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: GIORGIO BOCCA. Noi pecore matte
Inserito da: Admin - Dicembre 13, 2009, 11:09:44 am
Noi pecore matte

di Giorgio Bocca


La crisi non è del capitalismo, dei suoi meccanismi impazziti, delle sue false ideologie ma di noi uomini che non abbiamo ancora imparato l'arte di vivere in società
 
Ma cosa è questa crisi? Quando l'abbiamo preparata con le nostre mani ci siamo rifiutati di capirla, di evitarla, avanti verso il precipizio come pecore matte. Adesso che nella crisi ci siamo fino al collo, al mattino diciamo che ormai è alle spalle, e alla sera che siamo entrati in una nuova bolla di debiti.

Il capo del nostro governo, signore della pubblicità e della televisione, ottimista per vocazione e per mestiere ripete di continuo l'avvertimento di Roosevelt agli americani degli anni Trenta: "L'unica cosa di cui dobbiamo avere paura è la paura". Ma come ci ha ricordato don Abbondio "il coraggio, se uno non lo ha, non se lo può dare". La sola cosa che riusciamo a capire è che la crisi del capitalismo è irrazionale, come lo siamo noi uomini col nostro confuso bagaglio d'istinti e di razionalità. Di fronte alla crisi prevedibile ma non prevista qualche miliardario americano si è sparato nel giardino di casa o nel garage, non per aver perso i mezzi per una vita agiata, ma il potere. Questi Ceo, questi boss duri e spietati nelle battaglie per i soldi ma fragili di fronte alla cattiva fortuna!

Crolla il Pil, abbiamo detto nei giorni peggiori. La ripresa sarà lenta e rischiosa, diciamo oggi. E magari nello stesso giorno il nostro governo dice che siamo i primi in Europa a risalire la china, e la Banca europea che siamo gli ultimi.

Di cosa abbiamo paura? Paura della miseria? Delle sette piaghe che afflissero l'Egitto? Della glaciazione o dell'incendio del mondo? No, paura della nostra follia, di noi che al seguito dei nostri banchieri abbiamo voluto guadagnare prima cento e poi mille e poi come il re Mida trasformare in oro tutto ciò che toccavamo, anche la carta straccia dei titoli spazzatura. La crisi c'è ancora, diciamo, ma il peggio è passato. E chi governa ci esorta a non avere paura. Ma come non aver paura, se viviamo in attesa e nel terrore di quella fregatura della fregatura creata dal buon Dio per il genere umano e per tutte le specie viventi che è la morte, fregatura così inaccettabile che abbiamo dovuto inventare i miti della reincarnazione o della resurrezione per non impazzire?

Come facciamo a non aver paura se continuiamo a moltiplicarci a miliardi su una Terra sempre più povera, se è fallita anche la speranza di giustizia del socialismo, se le guerre continuano a insanguinare il nostro pianeta? Abbiamo capito che la crisi, questa e le precedenti, è una perdita di ricchezza relativa, e dai più fortunati sopportabile, e che, dicono gli ottimisti, forse è una grande occasione per correggere gli errori del sistema economico che chiamiamo capitalismo.

Il capitalismo? Uno dei tanti ismi, dei tanti nominalismi che compongono la nostra cultura? Ma no, la crisi non è del capitalismo, dei suoi meccanismi impazziti, delle sue false ideologie, della sua teorica inevitabilità, ma di noi uomini, di noi pecore matte, che non abbiamo ancora imparato l'arte di vivere in società, di dominare i nostri desideri infantili, le nostre angosce esistenziali.

Parliamo ancora con terrore della grande crisi del '29, ma quali lezioni ne abbiamo tratto? Poche e tardive. Qualche intervento degli Stati per salvare banche e aziende dalla bancarotta, ma lasciando libera la speculazione di riprodurre altre bolle. Nel giorno in cui abbiamo festeggiato la Madre Terra, sui giornali si leggeva che un centinaio di specie era arrivata all'estinzione e sappiamo che la colonizzazione umana dello spazio rimane fantascienza, chimera consolatrice. Restiamo affidati ai sogni e alla follia della vita che noi folli consideriamo il massimo dei beni.

(10 dicembre 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: GIORGIO BOCCA. Clooney What else?
Inserito da: Admin - Dicembre 17, 2009, 08:14:57 pm
Clooney What else?

di Giorgio Bocca


Molti italiani non conoscono la loro lingua ma in tv e nei giornali si moltiplicano espressioni inglesi e francesi. Non per essere capiti ma ammirati o invidiati  George ClooneyDalla lettura dei giornali italiani e dall'ascolto delle televisioni risulta che chi non conosce la lingua inglese o francese non capisce una notevole parte di ciò che vi è scritto e detto. In pratica non c'è un articolo o una notizia che non contenga parole straniere, spessissimo presenti nei titoli e negli annunci. Si aggiunga il fatto, documentato da una trasmissione popolare come il 'Grande Fratello', che molti dei lettori e degli spettatori non conoscono neanche la lingua italiana, e nemmeno i protagonisti della politica italiana, pensano che il presidente della Repubblica sia Berlusconi, e che la capitale dell'Inghilterra sia L'Ondra, con l'apostrofo.

Che effetto ha questo imbarbarimento della lingua? Che alcuni italiani, i leghisti per dire, tornano ai dialetti o li rimpiangono, e molti non sono più padroni né dei dialetti né della lingua, e hanno ridotto il loro vocabolario - vedi le interviste ai campioni dello sport, specie calcatori e ciclisti - a una decina di frasi fatte e di pseudo concetti ripetuti all'infinito, del tipo: 'la forza del gruppo', 'siamo concentrati', 'dobbiamo ancora lavorare'. Al che giustamente dal pubblico partono voci d'irrisione come: ma andate a lavorare.

Alcune delle parole straniere a forza di essere usate sono diventate comprensibili a tutti? Nessuno lo sa di preciso. Può darsi lo siano le più note come killer, mister, premier, manager, ma visto le risposte dei partecipanti al 'Grande Fratello' potremmo avere delle sorprese e scoprire che il mare dell'ignoranza è più vasto del globo terrestre. La cosa più curiosa è che siano diventate di comune uso giornalistico e televisivo parole straniere certamente incomprensibili dalla maggioranza degli italiani, imposte al grande pubblico dalla vanità dei comunicatori, che alla voglia di essere capiti antepongono quella di essere ammirati o invidiati come appartenenti alla classe dirigente, che sa le parole che la populace ignora. Ad esempio che senso ha negli annunci di svendite stagionali o di viaggi economici usare le parole
low cost?

Intendiamoci. La lingua usata dai giornali, dalla radio e dalla televisione non può essere in ogni caso una lingua popolare comprensibile da tutti. Lo spiegò agli operai torinesi Antonio Gramsci quando scrisse che anche il giornale che aveva fondato, 'L'Unità' giornale comunista dei lavoratori, non poteva usare in ogni argomento una lingua chiara a tutti, che c'erano argomenti che esigevano una lingua dotta, specialistica. Ma questo non dovrebbe valere per gli argomenti comuni, normali, questa è una violenza che l'ideologia dominante dell'economia globale, del mercato regolatore del genere umano impone anche dove non serve.

Che l'attore George Clooney venga usato per publicizzare una macchinetta da caffè si capisce: è un attore famoso, simpatico; ma che nella didascalia sotto la sua immagine venga scritto 'Nespresso what else?' è puro snobismo di pubblicitari.

La definizione di progresso resta ardua e forse impossibile. Di certo vi è che la vita media si è allungata e che alcune malattie ieri incurabili oggi curabili lo sono, ma la morte resta una punizione divina incomprensibile nonostante i promessi paradisi. Il contemporaneo è meglio o peggio del passato? L'imbarbarimento della lingua dà una risposta parziale: il contemporaneo e il futuro prevedibile sono più comodi ma più brutti del passato. La ricerca del bello che nel passato era dominante nella classe dirigente e nell'ammirazione dei sudditi pare sostituito dal binomio denaro-potere.

(16 dicembre 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: GIORGIO BOCCA. Quei delitti accettabili
Inserito da: Admin - Dicembre 29, 2009, 03:30:49 pm
Quei delitti accettabili

di Giorgio Bocca


I morti sul lavoro,i danni alla salute prodotti dall'industria,le truffe con falsi e abusi: per gli italiani hanno un puro interesse statistico, perché li considerano normali
 
I delitti che appassionano gli italiani sono quelli senza ragione: il nulla che si fa crimine, come a Garlasco in Lombardia, dove un mattino qualcuno, un amico o un parente della vittima, o uno sconosciuto, suona alla porta di una studentessa che gli apre e la massacra, non si sa bene con quale arma, e anche questo accresce il pubblico interesse. I delitti assurdi, incomprensibili, gratuiti sono la norma, si ha l'impressione di vivere in un tempo in cui il casuale, il privo di senso dominano, come se anche nella nostra civile società arrivasse l'amok, il vento della follia delle società primitive. Non passa giorno che i media dell'informazione manchino la notizia di uno stupro, il più irragionevole dei delitti, il più incredibile, se è vero come riferiscono i media che la violenza si è prolungata oltre ogni fisica possibilità. Come se fosse tornata la paura dei tempi di guerra, quando in Italia arrivarono dall'Africa i marocchini arruolati dalla Francia che non rispettavano neppure le settantenni. Oggi al loro posto i rumeni, o 'quelli dell'Est'. Lo stupro, delitto ancestrale ben noto ai condottieri del tempo antico, che accordavano ai soldati vittoriosi il permesso di saccheggio e di stupro.

Poi ci sono gli altri delitti, per i quali gli italiani hanno un puro interesse statistico, ne tengono la contabilità, ma li considerano normali, tutto sommato accettabili. I delitti dell'industria che ogni anno mette in vendita prodotti con decine di migliaia di sostanze chimiche certamente dannose alla salute o di cui s'ignorano gli effetti: metalli pesanti, mercurio, diossina, vernici velenose. E i morti sul lavoro, di cui ogni anno si dice con soddisfazione che sono diminuiti perché sono passati da duemilacinquecento a duemilacinquanta.

C'è una solidale ipocrisia fra ricchi e poveri in tema di morti sul lavoro: i primi premeditatamente espongono a rischio di morte chi lavora per farli ricchi, i secondi accettano il rischio per uscire dalla miseria. Si aggiungano i delitti senza ragione o con una ragione inaccettabile, i vandalismi di quanti spaccano le vetrine dei negozi, le panchine dei parchi, imbrattano i muri, tagliano gli alberi, avvelenano le sorgenti, devastano i treni.

Ogni giorno le cronache dei media ci ripetono che siamo una specie balorda e autolesionista. La ripetizione del male, della sua stupidità, della sua inutilità non ci stanca mai, anzi, la cerchiamo con paziente applicazione e ingegnosità. Ogni giorno si ha notizia che i nostri concittadini, magari amici o conoscenti, si sono associati per frodare il prossimo. Truffe complicatissime con abile alterazione di registri e di bollette, con mirabile fabbricazione di falsi e di abusi. Non un lavoro da poco e penoso, ma un lavoro che piace, che appassiona, che convince a reiterare i delitti.

La delinquenza non è un'occupazione penosa, si lega a un desiderio antico, infantile di 'farla franca', come il gioco dei quattro cantoni o del dottore per assaggiare il proibito. E più si sale nella scala della delinquenza, più si rivela il suo infantilismo: i terribili mafiosi o camorristi che si fabbricano il covo segreto dietro un muro posticcio con un cunicolo di fuga che mai li salvano dall'arresto, ma che rinnovano un loro desiderio puerile.

Sulla collina di Reggio Calabria c'erano, e probabilmente ci sono ancora, decine di ville fortilizio con muri di cinta, allarmi televisivi, feritoie, camere blindate, riserve alimentari. E ci si stupisce se i politici populisti, che lodano la società dei furbi e disonesti e maledicono i giustizialisti, cioè quelli che vogliono la giustizia, hanno successo?

(22 dicembre 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: GIORGIO BOCCA. Di bolla in bolla
Inserito da: Admin - Gennaio 08, 2010, 11:42:22 pm
Di bolla in bolla

di Giorgio Bocca


Assolutamente incomprensibili alla gente e spesso anche agli esperti chiamati a fare chiarezza, le bombe economiche e finanziarie hanno per protagonisti i soliti noti
 
La crisi economica che ha afflitto il mondo non è ancora finita che già si prevede una sua prossima riedizione, la grande bolla è appena scoppiata che già si lavora alacremente a seminarne altre in ogni continente. Non proprio nuove, spesso identiche a quelle appena scoppiate fra il lamento e il lutto generali. Per nulla nuova, identica alle passate, l'oscurità che continua a circondare i fatti economici e finanziari.

Ogni sera sulle televisioni più potenti e popolari, avvenenti economiste - una giusta dose di sex appeal è d'obbligo anche nella 'triste scienza' - raccontano come è scoppiata la bolla in modo assolutamente incomprensibile dalla stragrande maggioranza dei telespettatori, e spesso dagli stessi esperti chiamati a fare chiarezza. Tutti ripetono che una delle cause della crisi è stata proprio l'ignoranza che circonda i fatti e misfatti dell'economia e della finanza, ignoranza che ha permesso al signor Madoff, re dei truffatori, di rubare migliaia di miliardi agli stessi esperti di Wall Street. Una feroce lezione di cui a quanto pare nessuno tiene conto, visto che una gigantesca bolla è appena scoppiata nell'emirato di Dubai.

Sul banco degli accusati in prima linea ci stanno i banchieri e gli esosi manager, cioè i protagonisti della 'economia creativa', cioè di azzardo e rischio estremi, alla quale tutti stanno ritornando come all'unica che permetta guadagni enormi alle spalle dei gonzi. I 150 anni di carcere inflitti a Madoff sono, direbbe Sciascia, uno dei lussi che la febbre speculativa si permette: non spaventano nessuno, non fermano nessuno dal riprovarci. La modernità del capitalismo sembra consistere nella sua incorreggibilità e nella sua irresponsabilità.

La rivoluzione dei manager che ha mandato in pensione i vecchi 'padroni del vapore' ha cambiato radicalmente i modi e i fini della produzione. Uno degli istituti su cui si basa la rivoluzione dei manager è la
stock option, premio 'all'aumento del valore' aziendale. Quale valore? Quello del profitto, comunque ottenuto.

È notorio che i guadagni sproporzionati, assurdi, dei grandi manager derivano dagli accordi per cui si assicurano a vicenda i posti di comando e i premi, indifferenti ai giudizi della pubblica opinione, spesso premiati anche se hanno condotto alla rovina un'azienda. Lloyd Blankfein, supermanager di Goldman Sachs, ha avuto nel 2008 una gratifica da più di 50 milioni di dollari, Gary Cohn, presidente dell'azienda, ne ha guadagnati circa la metà, Rick Wagoner, che ha portato sull'orlo del fallimento la General Motors, ha avuto una liquidazione da 20 milioni di dollari.

"Viviamo", dice il sociologo Edgar Morin, "con una bomba a scoppio ritardato nel nostro armadio". Ma ogni giorno una di queste bombe scoppia e provoca danni irreparabili. Gli economisti chiamati da Barack Obama a curare la grande crisi americana, come mister Paulson, il gigante dalla voce cavernosa, sono gli stessi che per decenni hanno incoraggiato l'indebitamento senza limiti, la superbolla dei mutui per la casa anche se non avevi i soldi per pagarlo.

È noto e stranoto dai tempi di Tacito che "i rimedi alle umane debolezze vengono sempre dopo il male che hanno causato". Il famoso signor Taylor, inventore del metodo produttivo omonimo, diceva amabilmente agli operai: "Non vi si chiede di pensare, c'è gente pagata per questo"; il guaio è che spesso c'è gente pagata per pensare a come rubare.

(08 gennaio 2010)
da espresso.repubblica.it


Titolo: GIORGIO BOCCA. Di bolla in bolla
Inserito da: Admin - Gennaio 15, 2010, 03:54:55 pm
Di bolla in bolla

di Giorgio Bocca


Assolutamente incomprensibili alla gente e spesso anche agli esperti chiamati a fare chiarezza, le bombe economiche e finanziarie hanno per protagonisti i soliti noti
 
La crisi economica che ha afflitto il mondo non è ancora finita che già si prevede una sua prossima riedizione, la grande bolla è appena scoppiata che già si lavora alacremente a seminarne altre in ogni continente. Non proprio nuove, spesso identiche a quelle appena scoppiate fra il lamento e il lutto generali. Per nulla nuova, identica alle passate, l'oscurità che continua a circondare i fatti economici e finanziari.

Ogni sera sulle televisioni più potenti e popolari, avvenenti economiste - una giusta dose di sex appeal è d'obbligo anche nella 'triste scienza' - raccontano come è scoppiata la bolla in modo assolutamente incomprensibile dalla stragrande maggioranza dei telespettatori, e spesso dagli stessi esperti chiamati a fare chiarezza. Tutti ripetono che una delle cause della crisi è stata proprio l'ignoranza che circonda i fatti e misfatti dell'economia e della finanza, ignoranza che ha permesso al signor Madoff, re dei truffatori, di rubare migliaia di miliardi agli stessi esperti di Wall Street. Una feroce lezione di cui a quanto pare nessuno tiene conto, visto che una gigantesca bolla è appena scoppiata nell'emirato di Dubai.

Sul banco degli accusati in prima linea ci stanno i banchieri e gli esosi manager, cioè i protagonisti della 'economia creativa', cioè di azzardo e rischio estremi, alla quale tutti stanno ritornando come all'unica che permetta guadagni enormi alle spalle dei gonzi. I 150 anni di carcere inflitti a Madoff sono, direbbe Sciascia, uno dei lussi che la febbre speculativa si permette: non spaventano nessuno, non fermano nessuno dal riprovarci. La modernità del capitalismo sembra consistere nella sua incorreggibilità e nella sua irresponsabilità.

La rivoluzione dei manager che ha mandato in pensione i vecchi 'padroni del vapore' ha cambiato radicalmente i modi e i fini della produzione. Uno degli istituti su cui si basa la rivoluzione dei manager è la
stock option, premio 'all'aumento del valore' aziendale. Quale valore? Quello del profitto, comunque ottenuto.

È notorio che i guadagni sproporzionati, assurdi, dei grandi manager derivano dagli accordi per cui si assicurano a vicenda i posti di comando e i premi, indifferenti ai giudizi della pubblica opinione, spesso premiati anche se hanno condotto alla rovina un'azienda. Lloyd Blankfein, supermanager di Goldman Sachs, ha avuto nel 2008 una gratifica da più di 50 milioni di dollari, Gary Cohn, presidente dell'azienda, ne ha guadagnati circa la metà, Rick Wagoner, che ha portato sull'orlo del fallimento la General Motors, ha avuto una liquidazione da 20 milioni di dollari.

"Viviamo", dice il sociologo Edgar Morin, "con una bomba a scoppio ritardato nel nostro armadio". Ma ogni giorno una di queste bombe scoppia e provoca danni irreparabili. Gli economisti chiamati da Barack Obama a curare la grande crisi americana, come mister Paulson, il gigante dalla voce cavernosa, sono gli stessi che per decenni hanno incoraggiato l'indebitamento senza limiti, la superbolla dei mutui per la casa anche se non avevi i soldi per pagarlo.

È noto e stranoto dai tempi di Tacito che "i rimedi alle umane debolezze vengono sempre dopo il male che hanno causato". Il famoso signor Taylor, inventore del metodo produttivo omonimo, diceva amabilmente agli operai: "Non vi si chiede di pensare, c'è gente pagata per questo"; il guaio è che spesso c'è gente pagata per pensare a come rubare.

(08 gennaio 2010)
da espresso.repubblica.it


Titolo: GIORGIO BOCCA. Il mondo che piace ai liberisti
Inserito da: Admin - Gennaio 22, 2010, 09:53:29 am
Il mondo che piace ai liberisti

di Giorgio Bocca

La corsa a consumare di più e a lavorare di meno, l'aumento demografico e il matricidio della terra che stiamo compiendo, imporranno, non per saggezza ma per necessità, il liberalsocialismo
 
Chi vincerà fra liberalismo e comunismo? Vincerà, si spera, il liberalsocialismo della sopravvivenza.
Per l'avvento del buon senso e della saggezza? No, per necessità, per l'istinto fondamentale della sopravvivenza, perché andando avanti come andiamo arriveremo alla fine della specie umana.

Un socialismo obbligato e obbligatorio meglio comunque che l'estinzione? A lume di logica sì. E anche di matematica, perché due più due faranno quattro anche nel nostro prossimo avvenire, nonostante le menzogne della pubblicità e le megalomanie dei demagoghi. Niente profezie, ma previsioni elementari per evidenti, visibilissime ragioni.

Primo: il cosiddetto progresso, la corsa umana a consumare di più e a lavorare di meno ha assunto una velocità e un ritmo sempre più divoranti. Ci abbiamo messo decine, centinaia di millenni ma adesso ci siamo: l'informatica, il computer in tutte le case e in tutti gli uffici ci ha fatto passare dai mutamenti lenti della produzione, dai salassi delle epidemie e delle guerre a una corsa continua senza misura e senza meta.

Il saluto normale degli uomini, il buon giorno, buona salute, è mutato in quello di buon lavoro. Lo usiamo compiaciuti senza accorgerci che è un mutamento radicale del modo di essere umano: il lavoro punizione divina per il peccato originale, il lavoro imposto dal creatore all'uomo con il sudore della sua fronte che da condanna si trasforma in modello. Per giunta in un lavoro quasi sempre umiliante e alienante, il lavoro della catena fordista, il cui fondatore così diceva: "Operai, non vi si chiede di pensare, ci sono persone pagate per questo". Per la stragrande maggioranza un lavoro meno faticoso che in passato, ma così alienante che lo si compensa con il consumismo universale o con lo scoppio delle carceri, la crescita continua di quanti magari delinquendo, al lavoro stupido non ci stanno.

Secondo: l'assurdo aumento demografico, il fallimento del comandamento divino crescete e moltiplicatevi che le chiese continuano a predicare, dicendo che ci sarà cibo e tetto per tutti. Non è vero già oggi: nel mondo milioni di persone muoiono di fame e di freddo. Per rispondere al crescente numero di bocche affamate il progresso senza limite e ragione sta compiendo un matricidio, sta uccidendo la madre terra. Non sappiamo se l'effetto serra sia veramente prodotto dall'aumento di anidride carbonica che produciamo con le fabbriche e l'allevamento, ma sappiamo di certo, basta guardarci intorno, che stiamo divorando il territorio, cementificandolo, asfaltandolo al punto che il bel paese in cui siamo nati è diventato irriconoscibile nel giro di pochi decenni, basta percorrerlo dal Brennero a Capo Passero per constatare che campi e città sono ormai invisibili dietro le pareti antirumore, i cartelloni pubblicitari e la selva dei tralicci elettrici o televisivi. Che cosa è la delocalizzazione tanto lodata dai liberisti? È la progressiva occupazione e distruzione dei territori ancora intatti.

Nella corsa dissennata al progresso autodistruttivo le ideologie che si sono affrontate e combattute nel Novecento si sono dissolte: Berlusconi vale Putin, Sarkozy vale Lukashenko, tutti fanno a gara a chi divora di più e più in fretta i beni della terra. Un socialismo obbligato e obbligatorio è nel nostro prossimo futuro? Quanto prossimo non lo sappiamo, ma inevitabile di certo. Speriamo con un minimo di libertà e di diritti umani. È per questo che i 'piccoli Cesari' che ci ritroviamo sono ridicoli prima che nocivi.

(21 gennaio 2010)
da espressso.repubblica.it


Titolo: GIORGIO BOCCA. Il paese che piace a Silvio
Inserito da: Admin - Febbraio 01, 2010, 11:57:07 am
Il paese che piace a Silvio


di Giorgio Bocca

Non sopporta le regole della democrazia parlamentare dettate dalla Costituzione e vuole farsi uno Stato a sua misura e comodo
 
Dalla sua stanza dell'ospedale San Raffaele, da lui finanziato per deviare da Milano 2 - suo investimento edilizio - le rotte aeree in partenza da Linate, Silvio Berlusconi, ferito al volto da uno psicolabile, che essendo tale ha usato per arma un modellino in polvere di marmo del Duomo, ha ripetuto agli amici: "Ma perché mi odiano tanto?". Domanda che solo un grande sovversivo, solo uno che fa di continuo l'elogio della pazzia, del superamento del modesto buon senso, convinto di poter andare oltre il possibile, oltre il normale e il lecito può porsi nel momento in cui la risposta dovrebbe essergli chiarissima: mi odiano perché non sopporto le regole della democrazia parlamentare dettate dalla Costituzione, perché voglio farmi uno Stato a mia misura e comodo.

E a sua imitazione, a suo eco, il Popolo della Libertà, come lo ha chiamato, accusa indignato, accorato la metà degli italiani a cui la democrazia parlamentare dei controlli e delle garanzie va bene, va meglio della democrazia autoritaria e del simil-fascismo che rialza la testa nel mondo.

Perché mi odiano tanto? Si stenta a credere che se lo chieda davvero. Lo avversano, cercano di resistergli per una ragione diremmo storica: per sfuggire al destino, alla condanna di essere uno Stato, un popolo incapace di essere libero, sempre in preda alle tirannie. Non è il solo, nel 'bel paese ch'Appennin parte e 'l mar circonda e l'Alpe'; come osservò Prezzolini il fascismo è stato una manifestazione di una nostra tendenza perenne, "autobiografia della nazione", diceva Gobetti, "adattamento alla storia e alla cultura del popolo" aggiungeva il Cuoco o, per citare Prezzolini, "gli italiani sono negati alla democrazia. Olandesi, svizzeri, inglesi, americani sono nati democratici. Noi autoritari e faziosi. Che l'italiano sia un popolo democratico è una assurdità".

Già, ma proprio per questa eterna assurdità agli italiani della Repubblica nata dalla Resistenza è sembrato un miracolo, una svolta prodigiosa essere arrivati a una Costituzione che prevede i controlli e sancisce i diritti.

Berlusconi si chiede perché è tanto odiato? Perché la metà degli italiani, e forse più della metà, lo ha visto nei 16 e passa anni della sua avventura politica sempre intento a svuotare e colpire, a disprezzare questa democrazia: non sopporta le sue regole, sempre alla testa del partito del fare che produce, che intraprende, ma se i giudici lo fermano quando varca il confine del lecito, li accusa di invidia e di odio, tipiche accuse generiche di chi vuol fare ciò che gli comoda.

Non a caso Berlusconi si è rifiutato per 16 anni di partecipare alle commemorazioni della Resistenza, non a caso ha sdoganato i fascisti, non a caso si è alleato con il separatismo antirisorgimentale della Lega, non a caso ha sdoganato i peggiori dittatori superstiti, sempre anteponendo i buoni affari ai buoni principi.

E si chiede perché è odiato da quanti hanno voluto, hanno sperato, hanno tentato di fare dell'Italia un paese dove la legge è uguale per tutti, dove gli oppositori non sono ipso facto 'comunisti assassini', dove chi si oppone alle forme risorgenti di fascismo non è ipso facto un seminatore di odio, un infame, un traditore?

C'è il pericolo di un ritorno del fascismo? La storia è imprevedibile, ma la possibilità è innegabile. Basta constatare come il delitto di un pazzo è stato sufficiente a rovesciare le parti, a mettere a prudente silenzio gli oppositori, sotto accusa i difensori della democrazia.

(28 gennaio 2010)
da espresso.repubblica.it


Titolo: GIORGIO BOCCA. Bugie in nome della pace
Inserito da: Admin - Febbraio 12, 2010, 02:02:57 pm
Bugie in nome della pace

di Giorgio Bocca

Da Putin a Obama si sprecano gli scambi di menzogne e ipocrisie. Da noi il Cavaliere ha addirittura inventato il 'partito dell'amore'
 

I giorni delle virtuose esortazioni si sono compiuti: imperatori e papi, presidenti della Repubblica eletti dal popolo e dittatori, capi tribù e stregoni con voci di circostanza hanno predicato pace e fratellanza con un'ammirevole perseveranza, visto che nel frattempo il signore di tutte le Russie, Putin, annunciava nuovi armamenti contro la minaccia del signore americano che, avendo vinto il premio Nobel per la pace, dichiarava aperta la caccia ai terroristi islamici dello Yemen.

Da noi il capo dello Stato ripeteva il suo appello alla concordia nazionale, fra il consenso quasi unanime dei capi partito, a cominciare dal cavaliere di Arcore che con ogni mezzo di pressione e di seduzione sta cercando dalla bellezza di quindici anni di affossare la Repubblica democratica e di instaurare quella presidenziale e autoritaria che più gli aggrada.

Intanto il sommo pontefice si è rivolto a tutti i soldati di tutti gli eserciti intenti a scannarsi nelle più assurde delle guerre di civiltà o di religione, economiche o ideologiche, e tutti i portavoce di tutti i partiti, progressisti o conservatori, comunisti o liberal hanno fatto avere a lui e al nostro capo dello Stato le loro solidali approvazioni; salvo uno di nome Di Pietro, che, rimasto fuori dal coro, si è subito meritato insulti e condanne di quasi terrorista.

Il generale scambio di menzogne e di ipocrisie si è svolto nel nome e nella sacralità del Natale in memoria di un nativo di Betlemme, che per aver predicato amore ai suoi contemporanei fu crocifisso fra due ladroni. Da noi il cavaliere di Arcore, signore della propaganda e del populismo ha addirittura inventato il 'partito dell'amore', il cui organo di stampa nel giro di poche settimane ha praticamente ucciso alla vita pubblica e alla professione il direttore di un giornale che aveva osato qualche timida critica, e poi fatto strame di editori, direttori e giornalisti avversi al nuovo regime in costruzione.

In questa gara a chi mente meglio e di più si sono segnalati i capi dei due imperi, l'americano e il russo. L'americano ha addirittura annunciato una guerra non dichiarata, una di quelle strane guerre contemporanee, in cui non si capisce bene chi sia l'alleato e chi il nemico, visto che l'alleato con il suo 'fuoco amico' e i suoi droni o aerei senza piloti fa strage senza distinzioni di ribelli armati e anche di pacifici cittadini, si proclama difensore dell'alleato ma ne occupa il territorio, e con il pretesto di salvare democrazie inesistenti bombarda e incendia a piacer suo.

Per non essere da meno il signore di tutte le Russie, per ragioni di potere sue, ha fatto sapere che fabbricherà nuove potentissime armi per rispondere a un sistema di difesa missilistico americano, difesa non si sa sa bene da chi, forse dalla Cina e dal sio comunismo che, a quanto pare, è il capitalismo più efferato del mondo.

E a giudizio dei più celebrati opinion leader del creato il pacifismo di facciata che è d'obbligo in Italia e il confronto atomico delle grandi potenze sarebbero gli argomenti seri, i dibattiti storici decisivi a cui dobbiamo aggiungere quelli sul terrorismo islamico diretto da miliardari arabi che addestrano i loro armati nelle montagne del Pakistan o dello Yemen e hanno fatto rinascere la pirateria nel Corno d'Africa e nella remota Indonesia. Che cosa voglia di preciso il terrorismo islamico nessuno degli esperti mobilitati sul tema è riuscito a spiegarlo: guerra di religione o di civiltà? Scontro tra seguaci di Maometto o di Gesù Cristo? Forse l'antica insopprimibile voglia della scimmia assassina di uccidere il prossimo.

(11 febbraio 2010)
da espresso.repubblica.it
 


Titolo: GIORGIO BOCCA. Il padre Po avvelenato dai figli ...
Inserito da: Admin - Febbraio 27, 2010, 09:46:19 am
Veleno e cemento oltraggiano acque millenarie

Sindaci e ambientalisti sono in allarme

Il padre Po avvelenato dai figli in 5 anni l'inquinamento è triplicato

di GIORGIO BOCCA


IL LAMBRO avvelenato, che minaccia di avvelenare il Po è l'ultima delle devastazioni compiute dal partito del fare e del non ragionare. Il Piemonte è "il padre di tutte le inondazioni", i suoi fiumi non tengono più, non regolano più. Contadini, industrie e cavatori hanno chiesto all'alto corso del Po più del ragionevole.

Hanno preso i suoi valligiani per farne dei manovali, le sue acque per derivazioni che in certi tratti, d'inverno, asciugano il fiume che è tanto più pericoloso quanto più è in magra. Tra Casalgrasso e Moncalieri, c'è il "materasso alluvionale" più profondo e più pregiato d'Europa. Ghiaie e sabbie depositatesi nei millenni per una profondità che arriva ai duecento metri, materiali di corso alto dunque puri e pregiati. Ogni tanto, dove il bosco fluviale s'interrompe, sembra di essere sul Canale di Suez dove passa fra alte dune sabbiose. Sono le colline di sabbia delle cave per cui si muovono come insetti mostruosi i camion giganti. Ricordano la confusione e il fervore dantesco dell'"arsenal dei viniziani", gru alte cinquanta metri, scavatrici mostruose, baracche e la pozza d'acqua della cava, delle voragini profonde fino a duecento metri, a centinaia in un territorio che dall'alto sembra un groviera con il rischio che le acque del fiume sfondino le paratie di terra e si uniscano alle acque delle cave con un caos idrologico imprevedibile.

Il rischio è grande, ma cosa è il rischio per i contemporanei? Gli esperti del Progetto Po ci perdono la testa, ma per i due milioni di Torino e dintorni è una cosa inesistente. Eppure le acque delle cave inquinatissime potrebbero penetrare nella falda acquifera che fornisce il settanta per cento dei consumi della metropoli. La grande difesa in superficie del depuratore del Po Sangone, il più grande e pare l'unico da qui al delta, potrebbe essere sottopassato. Ma che sanno i nostri governanti di questi rischi? Poi le genti del fiume Po hanno perpetrato il misfatto di rifiutare, di sabotare la navigazione commerciale del fiume. Ogni giorno arriva nel porto fluviale di Cremona una nave da carico. Potrebbero essere trenta, cinquanta se Cremona fosse collegata all'area di Milano, dove si concentra la metà della produzione industriale italiana, ma gli agrari si oppongono. Quanti sono? Forse cinquecento proprietari fra grandi e piccoli fra Pizzighettone e Crema. Più forti dei quattro milioni di abitanti della grande Milano e pronti a tutto. Il teorema degli agrari è il seguente: il canale è inutile perché il Po non è veramente navigabile: fondali bassi, nebbie, due periodi di magra. Non è vero, il professor Della Luna, un grande esperto del Po dice: "I giorni in cui il Po da Cremona al mare ha un fondale di due metri e cinquanta, due metri e ottanta sono duecentosessantanove, sui due metri trecentodiciassette. I fondali sui due metri e ottanta saranno necessari quando useremo le navi fluvio-marine lunghe centocinque metri e larghe undici e cinquanta, navi da duemila tonnellate, ma con le navi di oggi i fondali medi sono sufficienti. Quelli del Reno, che è la più grande via d'acqua d'Europa, sono analoghi". Credo che il professore, che è fra i progettisti del canale dica una cosa vera: il Po è il più navigabile fiume d'Europa e il meno navigato. Cremona è a trenta metri di altezza sul livello del mare mentre il Rodano a Lione a centosessanta. Il dislivello tra Cremona e Milano è di cinquanta metri, e il canale tedesco tra il Meno e il Danubio ha superato una quota di quattrocentosei metri. I francesi vogliono collegare con un canale Parigi a Lilla, ci sono due progetti ed è in corso una lotta aspra fra i sindaci dei due tracciati che se lo contendono. Qui i venti sindaci fra Pizzighettone e Milano sono tutti fortemente ostili. Perché? Perché i lombardi hanno perso il gusto per l'intrapresa e sono allineati sulla linea conservatrice di "sfruttiamo l'esistente".

Ma cosa è questo esistente? È un sistema di trasporto su strada prossimo a scoppiare anzi già scoppiato. Nonostante la terza corsia, la autostrada Milano-Bologna, è già un fiume rombante di camion che non possono, come un fiume vero, "esondare" in lanche o golene. E siccome il piano Delors prevede nel decennio un raddoppio del traffico o si usano anche le vie di acqua o si va verso una cementificazione folle. Nella metropoli milanese vivono quattro milioni di persone e ognuna di esse ha bisogno di un trasporto di materiali solidi di tre metri cubi: cifre terrificanti. Il Po è un fiume di rare piene ma disastrose, nel '51 e nel '94 ha inondato intere province. Ma per la navigazione è un fiume placido, riceve gli ultimi dei suoi trenta grossi affluenti, il Mincio e il Panaro a 160, 140 chilometri dalla foce, diciamo una portata costante con variazioni regolari, ma dei grandi fiumi europei è il meno usato, quattrocentomila tonnellate di merce contro milioni.

Il Po è il grande padre avvelenato dai suoi figli. "Spero di morire prima di veder morto il Po" si legge in uno degli ultimi scritti di Riccardo Bacchelli. L'agonia è stata, per un fiume millenario, rapida, quindici anni fa il Po era ancora un Nilo, invadeva secondo le stagioni le terre di golena e le fecondava, dico le terre comprese fra gli argini di maestra, alti, possenti, rinforzati ogni anno e gli argini di ripa, pian piano invase dai coltivatori padani che vi hanno costruito le loro case le loro "grange" o piccoli borghi mettendo nel conto che ogni tanti anni, magari cinquanta, magari dieci il fiume dà e toglie, arricchisce e impoverisce. Gente di Po, comunque, incapace di abbandonare il suo fiume, la sua storia. Ora dopo una esondazione - sono belli i nomi fluviali - restano sul terreno chiazze di olio, macchie calcinate di residui chimici. "Solo pochi anni fa - mi dice un uomo del fiume - andare per i pioppeti inondati era stupendo, si passava in barchino tra i filari nella luce ombra della piantagione, più che una violenza era una silente, pacifica comunione di acque e di piante. Ora, appesi ai rami più bassi, trovi i sacchetti di plastica, i nastri di plastica e sembra di stare in un film dell'orrore, ti aspetti che compaiano mostri esangui". Ma anche i pallidi eleganti pioppi hanno la loro parte nel disastro del Po. Li hanno piantati fino alla riva del fiume e non sono alberi che rafforzano l'argine, non si piegano all'onda come i canneti o i salici, non hanno radici forti come gli ontani, sono piante di poche radici sradicabili, per proteggerli si è imprigionato il fiume nei cassoni dei "bolognini" o delle prismate, difese dure che fanno impazzire la corrente. E inquinano, i tronchi sono cosparsi di insetticidi, la chimica arriva nel terreno, bisognerebbe arretrarli di almeno cento metri ma quel che è fatto è fatto, la barriera verde sta sulle rive. L'agonia per un fiume millenario che non era mai sostanzialmente cambiato è stata rapida, questione di venti, di quindici anni. Non molto tempo fa i pescatori si facevano la minestra con l'acqua del fiume prendevano l'acqua con la loro tazza di legno per berla. Ora non se la sentono più di entrarci a gambe nude, si proteggono con stivaloni e tute. L'inquinamento è salito negli ultimi cinque anni dai 14 milligrammi per litro ai 50. Pochi anni fa la gente del Po anche benestante faceva le vacanze sul fiume, preferiva i suoi ghiaioni alle spiagge affollate di Viareggio o di Rimini, conosceva gli accessi, sapeva tagliare le frasche con cui fare dei ripari al sole, non sentiva come Gioan Brera nessun complesso edipico verso il padre fiume feroce "rombante nelle notti di piena" semmai, adesso, il complesso è verso il padre sporco. Le società fluviali avevano nomi diversi ma sempre abbinati a "canottieri" e il legame è così antico che anche se ci si bagna in piscina in club aperti di recente a quindici chilometri dal fiume sempre canottieri sono.

Ha scritto uno studioso del fiume, Piero Bevilacqua: "Nella cultura dello sviluppo padano ci si è mossi verso l'ambiente come in una realtà da dominare, da schiacciare". Che il Po fosse il sistema nervoso di questa grande valle, il punto di riferimento, di identità, quello che dava una misura precisa alla nostra vita non ha avuto alcuna importanza: era solo un canale di scarico, un luogo per estrazioni di sabbia e allevamenti di maiali. Non si è più distinto fra rischi accettabili e rischi mortali, fra i rischi normali di un fiume e la sua uccisione; non si è più distinto fra convivenza accettabile e convivenza distruttiva. E così si è arrivati all'assurdo che per la manutenzione normale del fiume si sono spesi in sei anni settecento miliardi e per pagare i danni della piena del Tanaro diecimila. Che per l'auto ogni persona spende tre milioni l'anno ma tutti assieme i lombardi non sono stati capaci di bonificare la zona del Lambro, non se ne è fatto niente perché l'acqua del Lambro e dei pozzi è strumento di potere politico che i sindaci e i partiti non vogliono mollare. I soldi per la variante di valico dell'autostrada Bologna-Firenze li troveremo, ma quelli per collegare le vie d'acqua del Veneto e andare dal Po a Ravenna chi sa quando. Eppure sono ottimista, ho partecipato quest'anno a un convegno sul Po, c'erano quattrocento amministratori, tecnici, studiosi del fiume. Molti non si erano mai incontrati prima, eppure c'era un sentire comune: il governo civile del Po, il recupero del Po devono diventare senso comune, devono formare un nuovo pensiero sociale che riprenda il cammino del riformismo del primo Novecento. La secessione non risolve nulla, ci vuole l'autogoverno solidale. Come mai? La società impazzisce ogni tanto.

L'agonia del fiume e anche quella dei suoi pesci, non molti anni fa al mercato di Piacenza vendevano trance di storione di Po oggi se ne trovano ancora, non i giganti di quattro metri di cui Plinio il vecchio per Paduam navigante, seguiva le scie argentee, se ne pescano ancora nelle lanche di acqua tiepida dove vengono a digerire il pasto di carpe e di cavedani ma non superiori ai due metri. Sono scomparse anche le anguille di Ongina dove una ostessa con la faccia di Giuseppe Verdi le friggeva crocchianti e dolci mentre il marito era addetto al taglio perpetuo dei culatelli di Zibello, le cose miracolose che maturano solo all'aria umida del Po come i prosciutti e gli stradivari. Nel fiume si pescano ancora lucci, scardole, cavedani, carpe ma spesso "di gusto avariato". Imperversa il pesce siluro, lo squalo del Po. Venti anni fa non c'era o era rarissimo. Dicono che questo silurus flanis descritto dai naturalisti come "pesce tirannico, crudele vorace" sia arrivato dal Baltico. "C'è una Lombardia - mi dice il dottor Gavioli assessore all'Ambiente della Provincia di Parma - che ha prodotto i grandi costruttori di canali da Leonardo al Filarete e un'altra che ha prodotto Craxi e Formigoni", la Lombardia che ha impiegato venti anni a rendere percorribili le strade per Como e per Lecco, che non è stata capace di bonificare il bacino del Lambro che butta nel Po tutti i suoi rifiuti e veleni, incapace di capire che non ci sono solo gli interessi suoi ma anche quelli dei sedici milioni di italiani che stanno nei settantamila chilometri quadrati del bacino fluviale, nelle terre che Philippe de Commines, al seguito di Carlo VIII di Francia descrisse nel suo diario come "il paese più bello e il più abbondante di Europa". Non è facile capire per quale involuzione dello sviluppo questa Lombardia che scavava i navigli per cui passavano le merci provenienti da Genova e dall'Adriatico fino alla fossa interna milanese dove si legavano a quelli provenienti dall'Europa attraverso i laghi, come mai la Lombardia dei grandi ingegneri idraulici come l'Aristotele Fioravanti e il Bertola da Novate non sia capace oggi di collegare il Po a Milano, non riesca a fare di questo Po cadaverico e puzzolente il fiume della rinascita.

© Riproduzione riservata (27 febbraio 2010)
da repubblica.it


Titolo: GIORGIO BOCCA. Il furto generale
Inserito da: Admin - Febbraio 27, 2010, 10:57:07 am
Il furto generale

di Giorgio Bocca


È proprio il nostro modo mercantile di concepire la società a incoraggiare e spesso imporre la corruzione
 
Aerei Protezione Civile

Furto generale, indifferenziato, continuo e crescente fra chi sta al potere e chi dal potere è escluso ma al potere aspira. Giustificato dai dotti e astuti al servizio del potere. Nel silenzio rassegnato delle minoranze che anche in un recente passato davano stile e dignità al Paese, i moralisti disprezzati dagli uomini del fare. La loro assenza, il loro silenzio sono da società afasica, inerte. È questo distacco totale fra le minoranze e le masse che toglie il respiro.

Le cronache della corruzione dilagante sono ripetitive e di basso livello. Si tratti dello scandalo della Protezione Civile come delle violenze della democrazia autoritaria, l'indignazione è assente, la voce degli onesti soffocata sotto un mare di volgarità.

Se si pensa al rapporto tra minoranze e masse negli anni del fascismo, della guerra partigiana, del ritorno alla democrazia, e il presente pubblicitario e consumistico, la svolta appare grande e forse irreversibile. I maestri dell'Italia povera, progressisti o conservatori che fossero, comunisti o liberal-socialisti, pensavano la politica, il governo della città, come qualcosa d'inseparabile da un comportamento morale, persino casto. Da Norberto Bobbio il filosofo a Giancarlo Caselli il giudice, da Piero Gobetti a don Ciotti ritornava l'aspirazione a una politica pulita, casta, non da bacchettoni, ipocriti, ma nel senso della serietà, della disciplina.

Il giudice Giancarlo Caselli a chi gli domandava se era preoccupato per i rischi che correva negli anni di piombo rispondeva: "Credo che i rischi facciano parte della mia funzione di giudice". Ma oggi della castità di Gobetti e di Bobbio, del desiderio di rigenerare il mondo dei primi comunisti sembra non sia rimasta traccia.

Lo scandalo della Protezione Civile SPA, inteso come tentativo si sottrarre ai controlli la salute pubblica, l'ordine pubblico, si riduce alla curiosità da voyeur sugli amori dei politici con segretarie e massaggiatrici, e sui rapporti di do ut des di una società di libero e spesso sfrenato scambio senza capire che è proprio il nostro modo mercantile di concepire la società a incoraggiare e spesso a imporre la corruzione.

C'è in questa modernità un grande, logorante conflitto fra i due modi di concepire il modo di vivere associati. La filosofia degli uomini del fare, di cui è capintesta il presidente del consiglio, del fare tutto e subito per ottenere con il consenso dei cittadini nuovo potere e nuova ricchezza, e la filosofia della legge eguale per tutti e dei suoi continui controlli, di quanti hanno capito che l'attuale modernità è una macchina surriscaldata che corre troppo veloce, che necessita di freni ai suoi meccanismi impazziti, ai suoi desideri smodati.

Il sociologo Latouche ha detto che si sente la necessità di 'buttar sabbia' in questo processo vorticoso. Ma invece che discutere di questi problemi decisivi, invece che tradurre in politica queste scelte per la sopravvivenza, ecco che ci perdiamo negli scontri da voyeur, rumorosi e vani, sui pettegolezzi, sulle massaggiatrici cubane, sulle escort, sui gay, sui trans. Chi se ne duole passa per un moralista ipocrita, ma è solo uno che ha conservato un minimo di serietà, e se volete di decenza, se il mondo in cui viviamo è ancora un mondo pazzo e crudele in cui si continua a morire di fame o di guerre.

Non è un caso se il signore che ci governa è l'editore del più diffuso foglio della stampa rosa. E non per dabbenaggine e cattivo gusto, come si dice, ma perché da politico spregiudicato e abile ha capito che il consenso lo si ottiene anche alla maniera di Circe, trasformando gli uomini in porci.

(25 febbraio 2010)
espresso.repubblica.it


Titolo: GIORGIO BOCCA. Veleno e cemento oltraggiano acque millenarie
Inserito da: Admin - Marzo 03, 2010, 11:15:43 am
Veleno e cemento oltraggiano acque millenarie

Sindaci e ambientalisti sono in allarme

Il padre Po avvelenato dai figli in 5 anni l'inquinamento è triplicato

di GIORGIO BOCCA


IL LAMBRO avvelenato, che minaccia di avvelenare il Po è l'ultima delle devastazioni compiute dal partito del fare e del non ragionare. Il Piemonte è "il padre di tutte le inondazioni", i suoi fiumi non tengono più, non regolano più. Contadini, industrie e cavatori hanno chiesto all'alto corso del Po più del ragionevole.

Hanno preso i suoi valligiani per farne dei manovali, le sue acque per derivazioni che in certi tratti, d'inverno, asciugano il fiume che è tanto più pericoloso quanto più è in magra. Tra Casalgrasso e Moncalieri, c'è il "materasso alluvionale" più profondo e più pregiato d'Europa. Ghiaie e sabbie depositatesi nei millenni per una profondità che arriva ai duecento metri, materiali di corso alto dunque puri e pregiati. Ogni tanto, dove il bosco fluviale s'interrompe, sembra di essere sul Canale di Suez dove passa fra alte dune sabbiose. Sono le colline di sabbia delle cave per cui si muovono come insetti mostruosi i camion giganti. Ricordano la confusione e il fervore dantesco dell'"arsenal dei viniziani", gru alte cinquanta metri, scavatrici mostruose, baracche e la pozza d'acqua della cava, delle voragini profonde fino a duecento metri, a centinaia in un territorio che dall'alto sembra un groviera con il rischio che le acque del fiume sfondino le paratie di terra e si uniscano alle acque delle cave con un caos idrologico imprevedibile.

Il rischio è grande, ma cosa è il rischio per i contemporanei? Gli esperti del Progetto Po ci perdono la testa, ma per i due milioni di Torino e dintorni è una cosa inesistente. Eppure le acque delle cave inquinatissime potrebbero penetrare nella falda acquifera che fornisce il settanta per cento dei consumi della metropoli. La grande difesa in superficie del depuratore del Po Sangone, il più grande e pare l'unico da qui al delta, potrebbe essere sottopassato. Ma che sanno i nostri governanti di questi rischi? Poi le genti del fiume Po hanno perpetrato il misfatto di rifiutare, di sabotare la navigazione commerciale del fiume. Ogni giorno arriva nel porto fluviale di Cremona una nave da carico. Potrebbero essere trenta, cinquanta se Cremona fosse collegata all'area di Milano, dove si concentra la metà della produzione industriale italiana, ma gli agrari si oppongono. Quanti sono? Forse cinquecento proprietari fra grandi e piccoli fra Pizzighettone e Crema. Più forti dei quattro milioni di abitanti della grande Milano e pronti a tutto. Il teorema degli agrari è il seguente: il canale è inutile perché il Po non è veramente navigabile: fondali bassi, nebbie, due periodi di magra. Non è vero, il professor Della Luna, un grande esperto del Po dice: "I giorni in cui il Po da Cremona al mare ha un fondale di due metri e cinquanta, due metri e ottanta sono duecentosessantanove, sui due metri trecentodiciassette. I fondali sui due metri e ottanta saranno necessari quando useremo le navi fluvio-marine lunghe centocinque metri e larghe undici e cinquanta, navi da duemila tonnellate, ma con le navi di oggi i fondali medi sono sufficienti. Quelli del Reno, che è la più grande via d'acqua d'Europa, sono analoghi". Credo che il professore, che è fra i progettisti del canale dica una cosa vera: il Po è il più navigabile fiume d'Europa e il meno navigato. Cremona è a trenta metri di altezza sul livello del mare mentre il Rodano a Lione a centosessanta. Il dislivello tra Cremona e Milano è di cinquanta metri, e il canale tedesco tra il Meno e il Danubio ha superato una quota di quattrocentosei metri. I francesi vogliono collegare con un canale Parigi a Lilla, ci sono due progetti ed è in corso una lotta aspra fra i sindaci dei due tracciati che se lo contendono. Qui i venti sindaci fra Pizzighettone e Milano sono tutti fortemente ostili. Perché? Perché i lombardi hanno perso il gusto per l'intrapresa e sono allineati sulla linea conservatrice di "sfruttiamo l'esistente".

Ma cosa è questo esistente? È un sistema di trasporto su strada prossimo a scoppiare anzi già scoppiato. Nonostante la terza corsia, la autostrada Milano-Bologna, è già un fiume rombante di camion che non possono, come un fiume vero, "esondare" in lanche o golene. E siccome il piano Delors prevede nel decennio un raddoppio del traffico o si usano anche le vie di acqua o si va verso una cementificazione folle. Nella metropoli milanese vivono quattro milioni di persone e ognuna di esse ha bisogno di un trasporto di materiali solidi di tre metri cubi: cifre terrificanti. Il Po è un fiume di rare piene ma disastrose, nel '51 e nel '94 ha inondato intere province. Ma per la navigazione è un fiume placido, riceve gli ultimi dei suoi trenta grossi affluenti, il Mincio e il Panaro a 160, 140 chilometri dalla foce, diciamo una portata costante con variazioni regolari, ma dei grandi fiumi europei è il meno usato, quattrocentomila tonnellate di merce contro milioni.

Il Po è il grande padre avvelenato dai suoi figli. "Spero di morire prima di veder morto il Po" si legge in uno degli ultimi scritti di Riccardo Bacchelli. L'agonia è stata, per un fiume millenario, rapida, quindici anni fa il Po era ancora un Nilo, invadeva secondo le stagioni le terre di golena e le fecondava, dico le terre comprese fra gli argini di maestra, alti, possenti, rinforzati ogni anno e gli argini di ripa, pian piano invase dai coltivatori padani che vi hanno costruito le loro case le loro "grange" o piccoli borghi mettendo nel conto che ogni tanti anni, magari cinquanta, magari dieci il fiume dà e toglie, arricchisce e impoverisce. Gente di Po, comunque, incapace di abbandonare il suo fiume, la sua storia. Ora dopo una esondazione - sono belli i nomi fluviali - restano sul terreno chiazze di olio, macchie calcinate di residui chimici. "Solo pochi anni fa - mi dice un uomo del fiume - andare per i pioppeti inondati era stupendo, si passava in barchino tra i filari nella luce ombra della piantagione, più che una violenza era una silente, pacifica comunione di acque e di piante. Ora, appesi ai rami più bassi, trovi i sacchetti di plastica, i nastri di plastica e sembra di stare in un film dell'orrore, ti aspetti che compaiano mostri esangui". Ma anche i pallidi eleganti pioppi hanno la loro parte nel disastro del Po. Li hanno piantati fino alla riva del fiume e non sono alberi che rafforzano l'argine, non si piegano all'onda come i canneti o i salici, non hanno radici forti come gli ontani, sono piante di poche radici sradicabili, per proteggerli si è imprigionato il fiume nei cassoni dei "bolognini" o delle prismate, difese dure che fanno impazzire la corrente. E inquinano, i tronchi sono cosparsi di insetticidi, la chimica arriva nel terreno, bisognerebbe arretrarli di almeno cento metri ma quel che è fatto è fatto, la barriera verde sta sulle rive. L'agonia per un fiume millenario che non era mai sostanzialmente cambiato è stata rapida, questione di venti, di quindici anni. Non molto tempo fa i pescatori si facevano la minestra con l'acqua del fiume prendevano l'acqua con la loro tazza di legno per berla. Ora non se la sentono più di entrarci a gambe nude, si proteggono con stivaloni e tute. L'inquinamento è salito negli ultimi cinque anni dai 14 milligrammi per litro ai 50. Pochi anni fa la gente del Po anche benestante faceva le vacanze sul fiume, preferiva i suoi ghiaioni alle spiagge affollate di Viareggio o di Rimini, conosceva gli accessi, sapeva tagliare le frasche con cui fare dei ripari al sole, non sentiva come Gioan Brera nessun complesso edipico verso il padre fiume feroce "rombante nelle notti di piena" semmai, adesso, il complesso è verso il padre sporco. Le società fluviali avevano nomi diversi ma sempre abbinati a "canottieri" e il legame è così antico che anche se ci si bagna in piscina in club aperti di recente a quindici chilometri dal fiume sempre canottieri sono.

Ha scritto uno studioso del fiume, Piero Bevilacqua: "Nella cultura dello sviluppo padano ci si è mossi verso l'ambiente come in una realtà da dominare, da schiacciare". Che il Po fosse il sistema nervoso di questa grande valle, il punto di riferimento, di identità, quello che dava una misura precisa alla nostra vita non ha avuto alcuna importanza: era solo un canale di scarico, un luogo per estrazioni di sabbia e allevamenti di maiali. Non si è più distinto fra rischi accettabili e rischi mortali, fra i rischi normali di un fiume e la sua uccisione; non si è più distinto fra convivenza accettabile e convivenza distruttiva. E così si è arrivati all'assurdo che per la manutenzione normale del fiume si sono spesi in sei anni settecento miliardi e per pagare i danni della piena del Tanaro diecimila. Che per l'auto ogni persona spende tre milioni l'anno ma tutti assieme i lombardi non sono stati capaci di bonificare la zona del Lambro, non se ne è fatto niente perché l'acqua del Lambro e dei pozzi è strumento di potere politico che i sindaci e i partiti non vogliono mollare. I soldi per la variante di valico dell'autostrada Bologna-Firenze li troveremo, ma quelli per collegare le vie d'acqua del Veneto e andare dal Po a Ravenna chi sa quando. Eppure sono ottimista, ho partecipato quest'anno a un convegno sul Po, c'erano quattrocento amministratori, tecnici, studiosi del fiume. Molti non si erano mai incontrati prima, eppure c'era un sentire comune: il governo civile del Po, il recupero del Po devono diventare senso comune, devono formare un nuovo pensiero sociale che riprenda il cammino del riformismo del primo Novecento. La secessione non risolve nulla, ci vuole l'autogoverno solidale. Come mai? La società impazzisce ogni tanto.

L'agonia del fiume e anche quella dei suoi pesci, non molti anni fa al mercato di Piacenza vendevano trance di storione di Po oggi se ne trovano ancora, non i giganti di quattro metri di cui Plinio il vecchio per Paduam navigante, seguiva le scie argentee, se ne pescano ancora nelle lanche di acqua tiepida dove vengono a digerire il pasto di carpe e di cavedani ma non superiori ai due metri. Sono scomparse anche le anguille di Ongina dove una ostessa con la faccia di Giuseppe Verdi le friggeva crocchianti e dolci mentre il marito era addetto al taglio perpetuo dei culatelli di Zibello, le cose miracolose che maturano solo all'aria umida del Po come i prosciutti e gli stradivari. Nel fiume si pescano ancora lucci, scardole, cavedani, carpe ma spesso "di gusto avariato". Imperversa il pesce siluro, lo squalo del Po. Venti anni fa non c'era o era rarissimo. Dicono che questo silurus flanis descritto dai naturalisti come "pesce tirannico, crudele vorace" sia arrivato dal Baltico. "C'è una Lombardia - mi dice il dottor Gavioli assessore all'Ambiente della Provincia di Parma - che ha prodotto i grandi costruttori di canali da Leonardo al Filarete e un'altra che ha prodotto Craxi e Formigoni", la Lombardia che ha impiegato venti anni a rendere percorribili le strade per Como e per Lecco, che non è stata capace di bonificare il bacino del Lambro che butta nel Po tutti i suoi rifiuti e veleni, incapace di capire che non ci sono solo gli interessi suoi ma anche quelli dei sedici milioni di italiani che stanno nei settantamila chilometri quadrati del bacino fluviale, nelle terre che Philippe de Commines, al seguito di Carlo VIII di Francia descrisse nel suo diario come "il paese più bello e il più abbondante di Europa". Non è facile capire per quale involuzione dello sviluppo questa Lombardia che scavava i navigli per cui passavano le merci provenienti da Genova e dall'Adriatico fino alla fossa interna milanese dove si legavano a quelli provenienti dall'Europa attraverso i laghi, come mai la Lombardia dei grandi ingegneri idraulici come l'Aristotele Fioravanti e il Bertola da Novate non sia capace oggi di collegare il Po a Milano, non riesca a fare di questo Po cadaverico e puzzolente il fiume della rinascita.

© Riproduzione riservata (27 febbraio 2010)
da repubblica.it


Titolo: GIORGIO BOCCA. A chi piace il sultano
Inserito da: Admin - Marzo 06, 2010, 11:25:01 am
A chi piace il sultano

di Giorgio Bocca

Metà degli italiani hanno rinunciato alla facoltà, conquistata a caro prezzo dai loro padri, di giudicare e controllare colui che li governa
 

In attesa che Mosè scenda dal monte Sinai con le tavole della legge e disperda gli adoratori del vitello d'oro, prendiamo atto che nel paese Italia non esiste più una pubblica opinione degna del nome, un controllo dei sudditi su chi li governa, un limite al populismo debordante. Se questa non è una democrazia autoritaria, dove il sultano può dire e disdire a suo comodo, che altro è? Senza limiti, senza opposizione, spesso senza decenza.

Il capo del governo va in Israele e per avere il consenso dei suoi ospiti si mette in testa il kippah e dichiara senza la minima esitazione e prudenza che Israele ha fatto bene a bombardare Gaza e i palestinesi che ci vivono, bambini compresi, uffici e magazzini delle Nazioni Unite compresi. Interviene cioè in uno degli irrisolti drammi contemporanei senza preoccuparsi delle conseguenze, come un commesso viaggiatore che bada soltanto a vendere la sua merce.

Poi prosegue il suo viaggio elettorale andando a Ramallah dal governo palestinese, cui dice il contrario di quel che ha detto a Gerusalemme. E se qualcuno gli chiede che cosa pensi del muro che separa i due paesi, terribile segno del dramma irrisolto, dice di non averlo visto, occupato come era a preparare il suo prossimo disdire del detto, senza mancare durante il viaggio di raccontare l'ultima barzelletta sulla Madonna che dell'immacolata concezione dice "avrei preferito una femminuccia".

Silvio Berlusconi fa il mestiere che sa fare benissimo da quando dirigeva non solo la costruzione di Milano 2 quartiere residenziale, ma anche l'ufficio vendite, magari intervenendo di persona in incognito. Sono gli italiani, almeno una metà degli italiani, che sembrano aver rinunciato alla facoltà che va sotto il nome di democrazia di giudicare, controllare, approvare o disapprovare colui che li governa, si direbbe che questa facoltà, questo diritto acquisito a duro prezzo dai loro padri non li interessi più, che la sola cosa che veramente li interessi è di fare in qualche modo soldi, legalmente se possono, e se no illegalmente, per avidità o per togliersi il gusto di farla franca.

L'aspetto terribile del berlusconismo non è soltanto la licenza di dire e disdire che gli viene concessa, il potere di fare e disfare che gli è valso il nome di sultano, ma il fatto che mai come ora il paese Italia è 'nave senza nocchiero in gran tempesta', vascello di immemori e di servi che va dove porta il vento. Il nocchiero che gli va bene è uno che per aver successo va in giro per il mondo dando ragione a tutti, a chi è in guerra come a chi la subisce, scagliandosi contro i nemici immaginari come i comunisti defunti o scomparsi e avendo per amici i figli e i nipoti dello stalinismo come il suo caro amico Putin.

Ma le democrazie prive di opinione pubblica, prive di cittadini pensanti sono le peggiori, le più esposte a nuove dittature, sono nel migliore dei casi le dittature della maggioranza al potere, dei ricchi e potenti che ignorano la legge e possono pagare i migliori azzeccagarbugli per violarla. E abbiamo il sospetto, e forse più di un sospetto, che sia proprio questo a piacere di Silvio a metà degli italiani, il pensiero che ogni mattino ci fa vedere scuro il giorno, disperante il futuro, sempre vincente la stoltezza degli uomini.

Il nocchiero che va bene alla metà degli italiani è uno convinto che la ricchezza del mondo sia senza fine, che i pascoli della pubblicità, cioè del dire e disdire siano immensi, che l'avvenire sia dei furbi e dei profittatori. Il più noto dei consigli di buona fortuna e di buon governo che ha dato ai suoi concittadini è: "Sposatevi un milionario", l'equivalente di 'vincete alla lotteria'. Che sarà anche vero per quello che vince o che attacca il cappello al chiodo giusto, ma è pura illusione e diseducazione per tutti gli altri.

(04 marzo 2010)
da espresso.repubblica.it


Titolo: GIORGIO BOCCA. Tra pubblico e privato
Inserito da: Admin - Marzo 14, 2010, 03:23:00 pm
Tra pubblico e privato

di Giorgio Bocca

Nella pubblica opinione viene cancellata la divisione fra ciò che viene fatto per il bene dello Stato e ciò che serve a ottenere il consenso elettorale
 

Il mondo continua a essere pieno d'ingenui di buona volontà che si chiedono perché abbiano sempre la meglio i furbi, i pratici, gli uomini del fare, dell'agire, i costruttori d'imperi capitalistici che stanno uccidendo con il capitalismo la specie umana convinti di salvarla, convintissimi di avere ragione.

Da noi gli ingenui di buona volontà s'interrogano su alcuni misteri di Pulcinella come: perché essendo l'ultima o penultima provincia dell'impero chi governa l'Italia ha sentito il bisogno di spendere un miliardo di euro per dotare la nostra Marina militare di una portaerei di nome Cavour assolutamente superflua in una guerra finale e distruttiva fra le grandi potenze? Da noi gli ingenui di buona volontà si sono chiesti perché mai questa portaerei costata un miliardo di euro sia stata mandata in soccorso ai terremotati di Haiti e abbia fatto uno strano détour in Brasile? La risposta l'ha data sul quotidiano 'la Repubblica' un esperto di finanza militare, Giampaolo Cadalanu, risposta quasi incredibile ma vera sulla follia che governa il mondo, particolarmente attiva da noi da quando a capo del governo ci sta il più famoso dei 'faso tuto mi'.

Dunque, la portaerei Cavour ha traversato l'Atlantico con il détour in Brasile per arrivare finalmente ad Haiti a disastro avvenuto e irreparabile per le seguenti ragioni: perché comunque il dispendioso intervento era più utile alle finanze della nostra Marina e dell'industria cantieristica che andare avanti e indietro per il Mediterraneo in assenza di ogni possibile minaccia nemica, una faccenda comunque dell'impero americano, che di portaerei ne ha una decina. Il viaggio transatlantico della Cavour era un'ottima occasione per mostrare al mondo il talento della nostra industria navale, compreso il détour brasiliano, essendo il Brasile uno dei possibili acquirenti. Il tutto reso possibile e magari lodevole da una specialità del capitalismo contemporaneo, quella di essere fondato sul potere politico, sul governo, sull'uso del pubblico denaro ma conservando l'autonomia delle imprese private.


La protezione civile come la Marina militare, nel sultanato berlusconiano, funzionano come società private, le decisioni vengono prese da chi le comanda, il controllo parlamentare arriverà, se arriverà, solo a cose fatte. Ne deriva che viene cancellata nella pubblica opinione la divisione fra pubblico e privato, fra ciò che viene fatto per il bene dello Stato e ciò che serve a ottenere il consenso elettorale. Questa è la tendenza tipica delle democrazie autoritarie, la sua tentazione perenne.

Cosa fece il generale Dalla Chiesa quando gli fu affidata la lotta al terrorismo? Costituì un gruppo d'azione composto da specialisti che operava in piena autonomia, ricorrendo se necessario anche all'illegale come il controllo dei carcerati e dei loro rapporti familiari o alle operazioni di annientamento preventivo come la strage della colonna genovese.

Se questo premio all'efficienza sia preferibile al pubblico controllo è questione che divide anche i democratici convinti, come la domanda se sia giusto o meno trattare con il nemico, usare la clemenza se conviene o restare intransigenti. Negli anni di piombo alcuni uomini guida della democrazia e dell'antifascismo come Valiani, come Pertini, furono per la linea dura, convinti dalle loro esperienze che la democrazia aveva il diritto e il dovere di difendersi dal nemico terrorista che minacciava l'esistenza stessa dello Stato democratico.

Ma l'intransigenza degli uomini del fare può sempre sconfinare nel privilegio e nell'impunità. Questo è uno dei limiti, dei nodi, delle incognite delle democrazie moderne. Il 'yes we can' del cambiamento che diede la vittoria a Obama deve poi vedersela con chi detiene altri e più decisivi poteri.

(11 marzo 2010)
da espresso.repubblica.it


Titolo: GIORGIO BOCCA. Napoli e l'arte di vivere
Inserito da: Admin - Marzo 19, 2010, 06:40:12 pm
Napoli e l'arte di vivere

di Giorgio Bocca


Dal dissesto dell'ospedale Cardarelli ai furti d'auto. Che qui sono normali come gli accoltellamenti
 

Nel quartiere Pallonetto di Napoli ci sono 400 falsi matti che ricevono sussidi e pensioni d'invalidità dalla pubblica sanità.
Un quartiere a ridosso dei grandi hotel, dei turisti. Il Municipio e ora anche la Procura hanno aperto una indagine per capire il nuovo monstrum della sanità partenopea. "Se ci sono delle mele marce", ha detto l'assessore competente, "verranno eliminate".

Quattrocento mele marce sono la normalità, che si traduce a livello civile medio in anarchia sanitaria. Questo monstrum sanitario all'evidenza era noto da tempo, perché in un piccolo quartiere dove la gente vive, per così dire, addosso al prossimo nel reticolo dei vicoli è impossibile che non fosse noto e arcinoto che decine e decine di finti ciechi per pazzia riscuotessero pensioni e sussidi continuando a guardare la televisione e a guidare l'automobile. Insomma al Pallonetto si era creata da chi sa quanto tempo un'organizzazione che funzionava come un orologio di precisione: medici compiacenti rilasciavano certificati d'invalidità, i falsi invalidi presentavano domande di assistenza all'azienda sanitaria locale, Asl, dove una commissione inoltrava la pratica al Comune, che a sua volta incaricava l'Inps di provvedere al pagamento.

Ora in Comune si dice che è stato un funzionario onesto e zelante a scoprire la truffa, ma è un modo per nascondere la verità: l'intera comunità sapeva da tempo, e taceva, per non dire che approvava. Siamo cioè a uno dei tanti monstrum di quell'incurabile piaga sociale, di quell'inestirpabile anarchia che resiste da secoli nelle grandi città del nostro Meridione. C'è chi traveste questa anarchia da manifestazione di colore locale, da napoletanità, e lo scrittore La Capria ne ha dato una brillante spiegazione: "Accortisi di non vivere in armonia con la natura e avendone estrema necessità, i napoletani cominciarono a recitarla. E così iniziò la loro recita collettiva".

Ma con le recite non si esce dal sottosviluppo, e il dramma di Napoli è che il suo non solo si riproduce, ma si aggrava. Vent'anni fa un amico napoletano mi accompagnò in visita del maggiore ospedale della città e mi fece incontrare il presidente della USL 40, quella del Cardarelli. "Il Cardarelli", mi disse, "opera come gli altri ospedali napoletani. Per ora riusciamo a garantire il minimo". Un anno dopo seppi dai giornali che anche lui era inquisito per illeciti amministrativi. Il Cardarelli funzionava al minimo come i ministeri romani, solo di mattina, il pomeriggio i medici si occupavano delle loro attività private. Molti in tre giorni esaurivano il lavoro settimanale e concentravano in un giorno le quattro ore che ogni giorno avrebbero dovuto dedicare alla formazione professionale. Ero stato al Cardarelli quattro anni prima, accompagnato da un cardiologo sindacalista, e ora constatavo che le cose erano cambiate. Ma in peggio: il Cardarelli stava sempre in una pineta lastricata di automobili, quasi tutte vecchie e arrugginite, il solo modo per non farsi rubare l'auto da una gang che opera lì da anni, che tutti conoscevano, come i falsi matti, e che nessuno in città denunciava perché in città i furti d'auto sono assolutamente normali come gli accoltellamenti. "Entri, vada in giro e nessuno", mi aveva detto il mio accompagnatore, "le chiederà chi è".

E chi mi ha accompagnato nelle visite successive: "Guardi, le pareti hanno la stessa tinta degli ospedali del Terzo Mondo". Un reparto modernissimo del primario che conosce 'le vie privilegiate' e accanto altri in cui gli ammalati sono sistemati nei corridoi, magari contorti, stralunati a occhi chiusi, come a dire che non vogliono vedere più niente di questa sporca vita. In alcuni di questi reparti sembra di essere in una stazione, gli ammalati in mezzo alla baraonda di parenti, amici, infermieri che continuamente si fanno un caffè.

(18 marzo 2010)
da espresso.repubblica.it


Titolo: GIORGIO BOCCA. Non sparate sul turista
Inserito da: Admin - Marzo 29, 2010, 04:37:11 pm
Non sparate sul turista

di Giorgio Bocca

Nella disfida tra il turismo d'élite e quello popolare c'è un dato di fatto: la combinazione di bella natura e belle opere è in via di estinzione
 

Snobismo elitario o consumismo di massa, chi è che 'spara sul turismo'? Per dire chi è il nemico del turismo degli altri? Una risposta la ebbi dall'amico che mi accompagnava in una ricognizione alpina in Valle d'Aosta, sulla 'collina', come la chiamano i locali, sopra La Salle, la montagna dolce di prati e di pioppi che si alza verso Planaval e la Grande Rochère. Ci eravamo fermati a guardare dall'alto la valle velata nel mattino da una nebbiolina azzurra, e io dissi all'amico: "Speriamo non arrivi anche qui la folla di Courmayeur o di Cervinia". E lui: "Arriverà, arriverà certamente, perché quello che piace a noi non dovrebbe piacere anche agli altri?".

La letteratura è piena di queste ingenue scoperte del turismo di élite che a un certo punto si accorge che i posti belli piacciono anche ai vacanzieri di Ferragosto, "gli sfaccendati", come li chiamava Pierre Loti, "che invadono i siti alpini e marini". Ma la guerra tra turisti aristocratici e turisti popolari continua spesso solo a parole, a volte con ostilità più marcate. Come la volta che a Pugliola, un villaggio sulla collina di Lerici in vista del 'golfo dei poeti', del Tino e di Porto Venere, trovai nella cassetta delle lettere della mia casa questo messaggio poco amichevole: "Seconda casa, genocidio delle minoranze". O lo stupore con cui in una comitiva di sciatori in un ristorante di Rhémes-Notre-Dame riconobbi, o pensai di riconoscere, alcuni militanti di Prima Linea, in vacanza tra una gambizzazione e l'altra dei nemici di classe.

Ma cosa c'è dietro questo conflitto fra i due turismi a cui il sociologo Duccio Canestrini ha dedicato un prezioso saggio? C'è il fatto che nel turismo, come in tutto il resto, nel traffico, nei mercati, nel consumo di aria o di acqua, nello scambio di notizie, nella delinquenza e nella popolazione carceraria, nel consumo di droghe come di medicine, di leggende metropolitane come di luoghi comuni, la ressa umana si fa sempre più soffocante. Lo snobismo avrà la sua parte, ma la folla asfissiante non è un'invenzione elitaria, è una constatazione, spesso una sgradevole esperienza.

Ci sono due valli sotto il Monte Bianco, eleganti anche nei nomi: le valli Veny e Ferret. Solo trenta o quaranta anni fa, non secoli, erano come le aveva fatte madre natura, due giardini dell'Eden sotto le pareti di rocce precipiti, proibitive anche per camosci e stambecchi. Oggi nei giorni turistici dell'estate come dell'inverno sono gironi infernali, dove moltitudini senza fine si disputano con minaccioso accanimento un posto ai ristoranti dove la polenta concia scorre a fiumi, con il cervo arrivato dalla Serbia o dalla Carinzia. E cercando invano un posto arretri con la tua auto fino a ritrovarti espulso dal giardino dell'Eden, già in un prato spelacchiato lungo la Doria.

Non raccontiamoci storie sulla disfida tra il turismo dei signori e quello dei travet di Ferragosto. Il dato di fatto è che nella bella Italia la meta del turismo, cioè il paesaggio, la combinazione millenaria della bella natura e delle belle opere è in via di estinzione o comunque di oscuramento, di invisibilità, si può andare da Milano a Brindisi per la via Emilia e poi per la Adriatica fra due pareti antisuono oltre le quali ci sono due interminabili file di fabbriche e fabbrichette ciascuna con il nome del titolare a lettere cubitali. Il mare è scomparso dietro le villette unifamiliari e i condomini, dietro i tabelloni pubblicitari e le pompe delle stazioni di servizio. E lo scempio irrimediabile è questione di tre o quattro decenni, se siete uomo di media o lunga vita ricordate che il vostro turismo giovanile, la vostra esplorazione del mondo avveniva ancora fra scenari incantevoli, in un piacere e stupore continuo degli occhi.

A sparare sul turista oggi è il mondo in cui vive il progresso senza fine e senza senso.

(25 marzo 2010)
da espresso.repubblica.it


Titolo: GIORGIO BOCCA. Onnipotenti e impuniti
Inserito da: Admin - Aprile 01, 2010, 03:06:57 pm
Onnipotenti e impuniti

di Giorgio Bocca


Perché tutti o quasi tutti gli uomini di potere rubano come se il furto sia l'unico lavoro degno del loro potere, del loro comando?
 
Faccio il cronista da più di sessant'anni, osservo la gente, la studio nei suoi vizi e nelle sue virtù ma c'è una domanda a cui non ho ancora trovato risposta: perché si ruba? Perché rubavano nel Regno e poi nella prima e nella seconda Repubblica, perché rubavano i ricchissimi Raul Gardini e Carlo Sama? Alla morte di Serafino Ferruzzi, miliardario di Ravenna, avevano ereditato una fortuna, avevano proprietà agricole, navi, treni, aerei, fattorie e allevamenti in Patagonia, ma non gli bastavano, diventarono padroni della Montedison, una grande industria che fatturava all'estero il 60 per cento, un potentato, e la depredarono. Dell'industria non gl'importava niente, erano dei commercianti.

Insomma, in pochi anni sono riusciti a fare un buco di 31 mila miliardi di lire. Non si era mai visto nel mondo un buco simile, il precedente della Chrysler era stato di 16 mila. Soldi bruciati come? In spese folli per radio Telemontecarlo, per la regata del Moro di Venezia, per squadre di pallacanestro o di volley, per i componenti del clan, una cinquantina di persone, per auto Ferrari e per barche da 30 metri. Poveracci di questo mondo, ma lo sapete che si fa presto a spendere?

Rubava il Duilio Poggiolini, direttore del servizio farmaceutico pubblico, e rubava il direttore dei telefoni di Stato, Parrella. Non bruscolini: 70 e più miliardi di tangenti dalle industrie a cui davano una mano. Il sistema ladro seleziona ladri sempre più esperti. Anni fa un'inchiesta nel provveditorato delle opere pubbliche di Milano stabilì che 29 impiegati su 30 erano corrotti. La corruzione universale, omnicomprensiva è un cane che si morde la coda. Quando venne arrestato Giuseppe Garofalo, amministratore delegato della Montedison, e gli venne chiesto dove avesse preso i 250 milioni che aveva versato a un dirigente della Democrazia cristiana, prima disse che erano soldi suoi, poi che era il nero di un immobile venduto evadendo il fisco e poi ancora che erano frutto di una consulenza non registrata in bilancio. Insomma, per difendersi da un reato ne confessava altri due o tre che ai suoi occhi proprio reati non erano.

Hanno rubato politici eccellenti come Aldo Moro e Bettino Craxi, invocando come Javeh, il dio padre, la sospensione ideologica della colpa: "Sì, ho detto ad Abramo di uccidere Isacco, ma per metterlo alla prova". L'equivalente di "sì, abbiamo rubato, ma per il partito".

Un illustre sociologo, il professor Pizzorno, scrisse che uno dei pochi deterrenti contro la corruzione erano le manette dei carabinieri, la paura di essere messi al bando dal proprio gruppo, dalla propria professione, ma è un deterrente superato da tempo, da quando i funzionari di Stato e i politici corrotti non solo non se ne vergognano, ma se ne vantano, o peggio ancora come nel berlusconismo fingono di condannare la corruzione che hanno praticato e favorito.

Da più di sessant'anni mi chiedo come cronista del mio tempo perché tutti o quasi tutti gli uomini di potere rubino come se il furto fosse l'unico lavoro degno del loro potere, del loro comando e privilegio sociale. L'economista Giulio Sapelli mi ha dato questa risposta: "Per sentirsi pari a Dio, onnipotenti e impuniti. La società moderna non ha Dio e non ha suoi sostituti, ha perso la capacità di distinguere, non ha una stella polare, non ha un disegno politico, non ha istituzioni che riescano a sostituire Dio". Su per giù come diceva Dostoevskij: "Se Dio non esiste tutto è permesso".

Silvio Berlusconi dice che il furto generale di oggi non è come Tangentopoli. Che vuol dire? Che oggi i suoi compagni del Popolo della libertà non rubano più per il partito ma per se stessi o per i loro amici e parenti? Francamente più che un progresso ci pare un regresso verso l'età della pietra, verso l'età perenne della scimmia ladra e assassina.

(31 marzo 2010)
da espresso.repubblica.it


Titolo: GIORGIO BOCCA. C'era una volta l'informazione
Inserito da: Admin - Aprile 10, 2010, 11:15:25 pm
C'era una volta l'informazione

di Giorgio Bocca


Ermetismo, oscurità, idiomi segreti della ricchezza e del potere non sono un capriccio: sono il prodotto di rapporti sociali inconfessabili

L'ermetismo dell'informazione va di pari passo con il falso elogio del popolo sovrano; più si dice che solo il popolo può scegliere chi ci governa e più l'arte del governo è incomprensibile, non dico al cittadino comune, ma alla stragrande maggioranza degli italiani che capisce una sola cosa, così evidente che è impossibile non capirla: lo Stato, come avverte il craxiano Rino Formica che di queste cose se ne intende, sta andando al collasso, il vuoto d'informazione chiara e comprensibile è diventato norma non trasgredibile.

Qualunque sia il tema di un'informazione di stampa o radio-televisiva lo scopo dichiarato, il risultato perseguito è di non informare, di essere oscuri e noiosi quanto basta perché la platea degli italiani cambi canale e si rifugi in qualche 'Verissimo' mignottificio e finalmente la gente capisca quel che si dice e si scrive: per far carriera bisogna andare a letto con i padroni. La logorrea ermetica copre gli spazi d'informazione come il petrolio degli spurghi industriali il fiume Lambro affluente del Po.

Quando entrai nel giornalismo una settantina di anni fa, che c'era ancora un re sul trono e non al Festival di Sanremo, i giornalisti migliori per sintesi e chiarezza erano i 'pastonisti', i corrispondenti da Roma dei grandi giornali, i Mattei, i Gorresio, i Negro che avendo a disposizione una colonnina su giornali allora a due fogli vi riassumevano i fatti politici ed economici della giornata in modo chiarissimo. Ed erano fatti spesso drammatici, decisivi per il Paese.

Oggi a leggere o ad ascoltare i resoconti di giornata, in un italiano bastardo zeppo di parole straniere, idiomatiche, gergali viene voglia di gridare basta, torniamo tutti a scuola, torniamo a parlare come si mangia. E mettiamo una cosa in chiaro: l'ermetismo, l'oscurità, gli idiomi segreti della ricchezza e del potere non sono un capriccio, sono un portato inevitabile di rapporti sociali inconfessabili.


Avete letto o ascoltato le registrazioni telefoniche dei nostri politici e affaristi? Si compongono di gerghi segreti, mafiosi, intercalati da scurrilità plebee, di affari sporchi e di 'vaffan', un linguaggio misto di banda del buco e di postribolo. Non è un caso che la scuola anglosassone d'informazione, i fatti distinti dalle opinioni, gli incipit essenziali i quando-come-dove, i dati anagrafici precisi, il tempo che faceva e anche il due più due fa quattro, siano sostituiti da tiritere senza fine, da confronti specialistici: tu giornalista che capisci i miei doppi sensi, le mie allusioni, quanto siamo bravi, quanto siamo nel giro che conta, alla faccia del popolo sovrano che per tenerlo buono basta dirgli che è il più intelligente e il più bravo del mondo.

Nella rete della comunicazione sovrabbondante, istantanea, poliglotta c'è una regola taciuta ma dominante: alla fine quelli che hanno la ricchezza e la conoscenza fanno i loro porci comodi, magari invidiati e votati dai poveracci.

Che informazione c'è stata sulle grandi truffe mentre si svolgevano? Che cosa ne abbiamo saputo in tempo debito delle truffe sulla banda larga, sui paradisi fiscali, sulle partite Iva evase, sulle grandi opere e sui grandi eventi, sulle opere del regime e del sultano? Nulla a tempo debito. Ora, a ladrocinio fatto, veniamo a sapere con larghezza di particolari osceni da chi è composta la nostra classe, non diciamo dirigente, ma affaristica. Da anarcoidi avidi, parenti dei 'pescicani' della prima guerra mondiale, di fronte ai quali il Mackie Messer brechtiano era un gentiluomo oxoniense.

Si parla della libertà di stampa quando stanno per soffocarla, quando televisioni e giornali rimbombano di voci incomprensibili, idiomatiche, specialistiche.

(08 aprile 2010)
da espresso.repubblica.it


Titolo: GIORGIO BOCCA. L'impossibile e il giusto
Inserito da: Admin - Aprile 16, 2010, 04:10:09 pm
L'impossibile e il giusto

di Giorgio Bocca

È assurdo pretendere dai governanti la felicità o l'eterna giovinezza. Ma i cittadini dovrebbero chiedere quel che rientra nelle loro possibilità. Primo: non rubare
 
Con il loro governo gli italiani o hanno pretese eccessive, assurde, o sono di una condiscendenza, di una passività incredibili. Le richieste eccessive sono presto dette: al governo si chiede in primo luogo la sicurezza, cioè qualcosa che è affidata a ogni cittadino, al controllo dei desideri, impulsi, follie della 'scimmia assassina', alias homo sapiens sapiens. La cronaca nera quotidiana conferma che il nostro vicino di casa può essere uno come il giardiniere del re della pasta Amato, che un mattino, incontrandolo nella villa di Sorrento, non ha resistito alla voglia improvvisa di ucciderlo a coltellate; per non dire degli sposini di Erba che hanno sterminato una famiglia "perché facevano rumore". È assurdo pretendere da un governo il lavoro quando non ce n'è per colpe non sue, o addirittura la felicità come pretendono gli americani, o l'eterna giovinezza e la bellezza e il buon umore e altri doni che neppure il buon Dio può concedere a tutti ma che tutti vogliono.

Se invece si passa ai guasti, ai mali che un governo può fare il discorso cambia: qui i divieti elencati dal Decalogo sono una legittima richiesta dei sudditi, qualcosa che rientra nella possibilità dei governanti. Per cominciare: non rubare. Ma come? In Italia il furto non è generale, non c'è una gara ad arraffare, frodare, imbrogliare, rapinare? Sì ma non con la complicità del governo, non con il governo che tiene il sacco e fa da palo.

Si discute se il furto generale di oggi sia la stessa cosa di tangentopoli o diversa. Potremmo dire che tangentopoli era un furto generale della politica per mantenere se stessa e i suoi manovratori, mentre l'attuale è uno sport nazionale, un modo di vivere quasi universale che coinvolge politici e prostituti di ambo i sessi, che accomuna il ministro alla massaggiatrice, il paparazzo al regista, il posteggiatore al premier, il gentiluomo del papa allo spacciatore di droga.

Ai governanti non ha senso chiedere le virtù celesti, ma di non praticare senza ritegno i peccati capitali. Fosse solo con i cattivi esempi: come assoldare i migliori e più spregiudicati avvocati per ingannare i giudici, i più abili costruttori o organizzatori per rubare sugli 'eventi', i più celebri economisti per partecipare al sacco della pubblica finanza.

Ciò che colpisce nel comportamento civile degli italiani, nel modo in cui concepiscono la cittadinanza con i suoi diritti e i suoi doveri, è il distacco grandissimo, la sproporzione fra le domande impossibili e la giusta richiesta di ciò che il governo può e deve fare. Le vittime di sciagure naturali, terremoti, frane, inondazioni non chiedono a un governo di fare onestamente il possibile per aiutarli, chiedono il miracolo di riavere quello che hanno perso rimesso a nuovo e magari migliorato.

Conoscendo a fondo questo modo di pensare delle masse il sultano che le governa, le tacita e accontenta con i suoi miracoli, i villaggi modello ricostruiti in tempo record con tutto 'il ben di dio', come usa dire, compreso lo spumante. Trasforma cioè la sciagura naturale in un evento miracolo e gioioso. È così in tutta la pubblica amministrazione, nella finanza come nella scuola, nelle forze armate come nella politica estera. La meta da raggiungere non è più la normalità ma il primato storico, non la viabilità ma il ponte sullo stretto più lungo del mondo, non la nettezza urbana di ogni paese civile ma il miracolo in technicolor del lungomare di Napoli di nuovo frequentato dai turisti stranieri che scendono dalle navi da crociera.

Nulla di nuovo. Nella mia piccola città piemontese per una visita del Duce le facciate inesistenti dei palazzi vennero sostituite da pareti di amianto. Velenoso, come oggi si sa.

(15 aprile 2010)
da espresso.repubblica.it


Titolo: GIORGIO BOCCA. La politica dell'odio
Inserito da: Admin - Aprile 25, 2010, 11:28:14 pm
La politica dell'odio

di Giorgio Bocca

Gli uomini come Berlusconi vengono al mondo con l'idea fissa che la vita è questa: guerra perpetua dei più forti a danno dei più deboli
 

Il capo del governo crede nel nominalismo, nel potere che hanno i nomi di diventare realtà, e dopo avere inventato il partito dell'amore insiste a deprecare il partito dell'odio, cioè l'opposizione, cioè quanti cercano di resistere alla democrazia autoritaria, alla dittatura morbida. Il trucco è sempre lo stesso, dei nomi spacciati per realtà, della propaganda gridata come se fosse verità indiscutibile: il comunismo della terza internazionale aggressivo, implacabile, astuto da combattere come ai tempi di Stalin e di Beria e della classe operaia che spezza le sue catene, e non di quella che vota Lega o chi le pare come normale cittadinanza.

Il trucco che piace al Cavaliere che sin qui ha funzionato, sollevandolo e conservandolo al potere, è il seguente: scambiare a parole, ma parole numerose e rimbombanti da coprire il cielo come può permettersi uno che è padrone delle televisioni, dei giornali, delle case editrici, scambiare - dicevo - l'odio, o più semplicemente l'avversione, la stanchezza, l'umiliazione dei concittadini per la causa e non per l'effetto del suo cattivo governo, un modo di ragionare questo sì da vecchio comunismo stalinista, accusare le vittime del sistema di esserne i colpevoli, la loro reazione al malgoverno per ostilità viscerale irragionevole, quel che si chiama odio.

L'antico e tenace vizio di 'rovesciar la frittata' è da sempre per il Nostro, metodo e ragion di vita. La prima cosa che Berlusconi si è chiesto nel letto d'ospedale dove era ricoverato per l'attentato di un folle è stata: "Perché mi odiano tanto?". Si stenta a credere che se lo sia chiesto davvero. Non lo sa il perché? Metà degli italiani, e forse più della metà, da 16 anni lo vede accanitamente intento a svuotare, colpire, disprezzare il bene comune della democrazia, cioè del vivere in un paese civile dove la legge è eguale per tutti, dove l'informazione cerca di essere la più corretta e libera, dove i codici vengono rispettati come i giudici, e non accusati da mattino a sera di essere dei persecutori invidiosi della sua fortuna, della sua eccellenza.

"Perché mi odiano tanto?", si chiede. Non lo sfiora il sospetto che i suoi concittadini, la metà almeno e forse più, hanno voluto, hanno provato a fare dell'Italia una democrazia simile a quelle dell'Occidente progredito, dove si è liberi di pensare e di votare secondo coscienza, dove gli oppositori non sono ipso facto dei 'comunisti assassini', dove i liberi cittadini che non amano la dittatura della maggioranza non sono ipso facto dei seminatori di odio, sabotatori dell'economia, pessimisti nemici del benessere.

Uno dei vizi dialettici del Nostro è di procedere per antitesi inconciliabili, per verità rivelate e indiscutibili. Lui è per il partito del fare, contro quello delle vane discussioni, per il partito che produce, che intraprende contro quello che parla e non fa, non si stupisca che metà e forse più degli italiani si è stancata di questa vecchia musica, della democrazia irrisa come 'ludi cartacei'.

Gli uomini come Berlusconi vengono al mondo e magari ci campano benissimo, da padroni, con l'idea fissa che la vita è questa: guerra perpetua dei più forti a danno dei più deboli, di quelli che fanno e non si chiedono mai se fanno bene o male. Non è un caso se l'uomo politico a lui più vicino, più amico è stato Craxi, il cui disegno politico era il seguente: "Voglio arrivare al governo, al potere, e per farlo ci vogliono i soldi, a costo di tollerare i mariuoli. Quando sarò al governo penserò a sistemare anche i ladri". Non è andata proprio così. Un vecchio amico del premier lo ha paragonato ad Anteo, il gigante che abbattuto a terra, dalla terra ritrova le forze. Ma per nostra fortuna l'era dei giganti è passata.

(22 aprile 2010)
da espresso.repubblica.it


Titolo: GIORGIO BOCCA. Marasma politico
Inserito da: Admin - Maggio 07, 2010, 12:05:03 am
Marasma politico

di Giorgio Bocca

È la situazione dell'Italia di oggi con gruppi disomogenei, pronti a separarsi e a contraddirsi. E con un solo comun denominatore: arricchirsi a spese dello Stato
 
Lo stato della politica italiana è definibile in una parola: marasma. Esattamente la nausea da mal di mare. Una poltiglia politica senza senso e senza domani, composta da raggruppamenti disomogenei, pronti a separarsi e a contraddirsi con un solo comun denominatore: arricchirsi a spese dello Stato.

Il gruppo egemone, la destra, che va dal raggruppamento qualunquista di Berlusconi e Dell'Utri, Forza Italia, all'Alleanza Nazionale fascistoide di Gianfranco Fini, alla Lega separatista e antirisorgimentale di Bossi è un coacervo di contrari e di diversi tenuti assieme solo dal comune banchetto a spese dello Stato. Nessuno saprebbe dire che cosa è questo super partito di Berlusconi, se dell'amore o del fare, due cose che stanno assieme solo se unite dall'avidità che muove il fare ma uccide l'amore. Alla manifestazione romana il Popolo delle libertà è arrivato con uno striscione tricolore gigantesco dietro il quale sfilavano anche gli uomini della Lega, il cui leader ha dichiarato che lui la bandiera italiana la usa solo per pulirsi il culo. Anche i leghisti partito dell'amore? Ma non sono quelli pronti a scendere dalla val Brembana armati di fucile per liberare la Padania e cacciare gli immigrati ladroni e sporchi? Quando Bossi e Silvio celebrano la loro fedeltà al partito ambiguo del fare e dell'amore, dietro si sente l'accento forte della realpolitik, siamo diversi ma uniti nel banchetto del potere.

E che ci fa in quella compagnia Gianfranco Fini, il presidente della Camera, cioè il gran ciambellano della democrazia parlamentare? Cerca di sopravvivere, si prova a mettere insieme una destra legalitaria da paese civile, si defila dai bagni di folla di Silvio con la scusa che il presidente della Camera non partecipa alle manifestazioni elettorali, ma il suo progetto politico è incerto, esposto a una serie di mutazioni sociali che hanno cambiato il quadro politico.

Va scomparendo la classe media, la piccola borghesia che era indispensabile al buon governo, alle mediazioni fra le classi alte e il basso proletariato. C'è stata una rivoluzione plutocratica, si è formata una nuova classe di ricchi a cui si appartiene non per virtù di sangue o di merito, ma di censo, di soldi, non manifatturiera e neppure di razza, non legata alla qualità delle merci e neppure al colore della pelle, neppure razzista, ma dei soldi di cui disponi.

E ancora la rivoluzione dei manager, che hanno sostituito i vecchi padroni e creato una rete di reciproci favori e intese grazie alla quale si arricchiscono in modo spropositato rispetto ai lavoratori dipendenti, centinaia di volte di più. Con il conseguente affermarsi di un lusso esibito senza ritegni e di una speculazione finanziaria sfrenata. I 150 anni di carcere inflitti al finanziere Madoff non hanno frenato la corsa generale ai guadagni e agli sprechi. È accaduto che non solo i famosi Ceo, i supermanager, si siano arricchiti a miliardi, ma che per coprirli sia cresciuta la corruzione e la cortigianeria fino all'assurdo delle ricompense accordate a manager che avevano mandato in rovina l'azienda. Sicché a conclusione di una crisi economica gravissima, da cui si stenta a uscire, l'unica spiegazione trovata da politici ed economisti è stata l'avidità senza freni. Nessuno invece è riuscito a spiegare quali vantaggi siano venuti alle imprese o ai loro azionisti dai premi concessi ai dirigenti o all'aumento del valore di cui si vantano.

La crisi continua ma il peggio è passato, dicono giornali e televisioni, e gli scampati si raccontano compiaciuti che l'unico paese finito al tappeto è la piccola Islanda. Di tutto questo terremoto non si trova quasi traccia nel nostro modo di far politica, il berlusconismo continua a riempire di parole e di promesse la mancanza di interventi pianificanti, di new deal a imitazione di quello rooseveltiano.

(29 aprile 2010)
http://espresso.repubblica.it/dettaglio/marasma-politico/2126062/18


Titolo: GIORGIO BOCCA. La strategia del sultano
Inserito da: Admin - Maggio 08, 2010, 02:58:50 pm
La strategia del sultano

di Giorgio Bocca

Ogni giorno il premier se la prende con il catastrofismo dell'opposizione, ma poi le classifiche ci collocano al di sotto di Camerun e Malesia
 

Il mondo in cui viviamo è più misterioso o più chiaro che nel passato, i contemporanei amano più la privacy o la rete planetaria di Internet, gli arcana imperii o l'informazione su tutto continua o rimbombante? Dicono che noi uomini abbiamo costruito per sopravvivere uno spazio fra la libertà dei nostri desideri e le leggi che ci siamo date cui ci sottomettiamo, fra i nostri istinti e le costituzioni con cui ci proteggiamo. E ancora: che in questa permanente contraddizione la menzogna, il superamento delle realtà contrarie con le bugie utili o pietose sarebbe il solo modo per poter vivere. La ricerca del segreto, del non confessabile, sarebbe una delle maggiori conquiste sociali e politiche dell'uomo, ciò che fa la differenza dagli altri esseri viventi. Il monarca assoluto, il re Sole e il dittatore esemplare Stalin, così feroce da poter dominare la ferocia umana, sono come teorizzava Machiavelli l'unico modo per durare al sommo del potere? L'anima del commercio, per dire il motore dell'economia, è di parlare anzi di gridare tutto in continuazione o di tacere di tutto come fece il banchiere Cuccia che in vita sua non diede mai un'intervista? Aveva ragione Hitler quando chiedeva perdono a Dio 'per l'ora X e per gli ultimi cinque minuti di guerra' in cui avrebbe usato le armi segrete, le atomiche, o avevano ragione gli americani che le atomiche ce le avevano e le usavano?

Anche Bettino Craxi amava minacciare armi segrete che non aveva, quando diceva di avere 'in mano un poker d'assi' contro il suo accusatore Di Pietro. Non ce l'aveva e partì per l'esilio di Hammamet. Ma ciò che distingue gli arcana imperii del passato dai segreti del nostro presente è che di segreto c'è solo il banchetto a spese dello Stato del sultano e della sua corte, nessun potere reale sull'economia, sull'indipendenza, sulla difesa, sul futuro del nostro Paese: solo il potere delle parole, degli imbonimenti, ancora grandissimo se si unisce all'uso pubblico del denaro. Il sultano ha una politica estera? Non sembra degna del nome la sua propensione alla diplomazia viaggiante contraddittoria e spettacolare, cioè vana. Va in Israele e dà ragione a Israele, che di fatto con le colonie rivendica i confini del re Salomone, va dai palestinesi e dice il contrario e lo conferma in visita a quell'altro pittoresco sultano che è Gheddafi. È il fedele alleato degli Stati Uniti del presidente Obama, o lo specialista in barzellette che di Obama dice che è 'abbronzato'? È il primo della classe in economia, colui che ha salvato l'Italia dalla grande crisi, o il populista che si vanta di aver ridotto le tasse mentre le ha aumentate, e risolto i problemi del nostro bilancio con la signora Brambilla dalla chioma bionda e dalle belle gambe nominata ministro del turismo?

Ogni giorno se la prende con il catastrofismo dell'opposizione, ma poi arrivano le classifiche internazionali sui valori civili, ricerca, sanità, occupazione, libertà di stampa e così via, e siamo sempre al trentesimo posto dietro al Camerun o la Malesia. Ogni giorno insulta e accusa i cattivi magistrati 'comunisti', ma fa approvare delle leggi ad personam per non apparire nelle aule di giustizia e per non rispondere delle imputazioni che gli vengono mosse. Usando la stampa e le televisioni di cui ampiamente dispone per gridare alla persecuzione e al complotto. Ha messo riparo alle ingiustizie sociali, all'anarchia del tardo capitalismo? Pare proprio di no, l'Italia è piena di precari senza lavoro e senza previdenza, e lui continua dai suoi giornali e dalle sue emittenze a gridare che c'è lavoro per tutti insomma, l'antico dilemma fra il potere segreto e la pubblica informazione si è risolto a questo modo: che la pubblica informazione è controllata da chi il potere lo usa a comodo suo.

(06 maggio 2010)
http://espresso.repubblica.it/dettaglio/la-strategia-del-sultano/2126498/18


Titolo: GIORGIO BOCCA. Maledetta borghesia
Inserito da: Admin - Maggio 14, 2010, 11:06:16 pm
Maledetta borghesia

di Giorgio Bocca

Il successo elettorale della Lega è dovuto a una sconfitta della politica e della democrazia
 
Sul finire del 1992 partecipai a una riunione della buona borghesia milanese per la campagna elettorale di Nando Dalla Chiesa contro i barbari della Lega ante portas. C'eravamo proprio tutti noi delle professioni, delle arti, delle buone scuole, delle buone letture pronti a difenderci dagli urlatori gutturali nelle valli Brembana e Seriana, di Quarto Oggiaro e della Bovisa. C'erano sociologi e storici, letterati e finanzieri, ma una cosa fu subito chiara: che della metropoli milanese e della provincia lombarda sapevamo poco o niente, che non c'eravamo accorti che i partiti della sinistra erano praticamente scomparsi dall'hinterland, che in quella sterminata distesa di case, di fabbriche e fabbrichette c'erano rimasti vivi e attivi solo i parroci, i neocattolici di Comunione e liberazione e quelli della Lega. Che ne era dei partiti della sinistra, il comunista, il socialista? E della Democrazia cristiana? Rimanevano delle sezioni abbandonate, delle insegne cadenti e dei percettori di tangenti. Una riunione di anime belle ma poco informate, di intellettuali impegnati ma poco attenti al dato di fatto che i sindaci di Varese, di Como, di Monza, di Paderno erano tutti finiti in galera o inquisiti per furti, sostituiti da leghisti zotici, incolti ma non ladri.

Fu in quell'anno 1992 che scrissi su "Repubblica" un editoriale intitolato "Grazie barbari", che mi valse presso alcuni amici della sinistra la fama di traditore della democrazia e della civiltà, ma che era semplicemente la presa di coscienza della involuzione della partitocrazia, del fatto che i socialisti di Craxi e i comunisti di Occhetto, o i democristiani di Bassetti padroni di Milano non si erano opposti all'affarismo e alla corruzione, ma l'avevano permessa e a volte favorita, che con Craxi presidente del consiglio non era conveniente denunciare i reati dei compagni, o rendere pubbliche le confessioni del gangster complice Epaminonda.

La critica che in quella riunione della buona borghesia progressista facemmo alla Lega e al suo egoismo localista, al suo poujadismo, alla sua Vandea, fu una critica meditata, salvo che sorvolò, ignorò il fatto o il misfatto delle nostre violazioni ai principi fondamentali della democrazia, al fatto che avevamo finto di non accorgerci che l'Italia restava divisa, che la Costituzione veniva quotidianamente violata e che la Lega era in crescita sotto i nostri occhi per nostra manifesta incapacità o volontà di fare del nostro paese un paese dei diritti, ma anche dei doveri civili.
In quel 1992 si capì che dietro l'ostilità per la Lega della buona borghesia italiana c'erano non solo il legittimo timore di una regressione politica democratica, ma il voler chiudere gli occhi sul fatto che questa regressione politica democratica era già in atto. Una signora di Milano colta e virtuosa mi spedì un telegramma con una sola parola: vergogna. Aveva ragione sul fatto che provavo vergogna, ma di far parte di una borghesia che negli ultimi 15 anni aveva sopportato quasi senza reagire il degrado della più ricca città italiana, il fatto incontestabile che si trovi al 34mo posto in Europa per la qualità della vita.
La situazione è davvero cambiata oggi nel 2010? Al contrario sembra peggiorata, perché, come dice il leghista Calderoli, la funzione prevalente della Lega attuale sembra quella di "salvare il berlusconismo", di sostenere il sultanato, la democrazia autoritaria che si va consolidando, che ha resistito alle recenti elezioni regionali, che sembra - più che una scelta politica - una propensione viziosa al tanto peggio tanto meglio.
Il successo elettorale della Lega, evidente, imponente in due delle maggiori regioni del Nord, il Piemonte e il Veneto, checché ci si consoli con il numero dei voti, è dovuto a una sconfitta della politica e della democrazia. Alla politica incapace di provvedere agli interessi nazionali i leghisti possono porre il localismo del neo eletto Cota: "A me di Termini Imerese non importa niente".
Una pietra tombale sul Risorgimento.

(13 maggio 2010)
http://espresso.repubblica.it/dettaglio/maledetta-borghesia/2127026/18


Titolo: GIORGIO BOCCA. Poche parole senza pensiero
Inserito da: Admin - Maggio 23, 2010, 11:01:41 am
Poche parole senza pensiero

Giorgio Bocca

Usiamo frasi di una monotonia affliggente. Sempre le stesse per tutti i significati.

Prive di riflessione, di spirito poetico e profetico. Senza favole e senza sogni
 

Avanti con il progresso verso una vita sempre più comoda ma noiosa, verso una lingua sempre più insipida e inespressiva, alla portata di tutti. I mezzi di comunicazione sono abbondanti, onnipresenti, ma ripetono frasi di una monotonia affliggente. Chi ci ascolta potrebbe dire che siamo come gli inglesi che ci stupivano perché incontrandosi dicevano tutti le stesse cose sul tempo che fa, quasi sempre brutto, e sulla salute: "Oggi piove e come sta?". "Bene grazie".

Ci siamo anche noi. Poche parole, sempre le stesse, per tutti i significati e non tutte assieme, ma secondo la moda impostata dai media. L'ultima: concentrato, concentriamoci. Brutte parole che sanno di lager o di salsa di pomodoro. Che vogliono dire? Le cose più varie: stiamo attenti, diamoci uno scopo, riuniamo le forze dell'attenzione, facciamo chiarezza, non distraiamoci e simili. I commentatori della televisione, specie i cronisti sportivi, i calciatori e gli allenatori ne fanno un uso spropositato, è una delle pappe reali a cui ricorrono per sostituire una lingua che ignorano o che non padroneggiano o anche per riferirsi sommariamente a fatti agonistici composti da sentimenti, istintualità, coordinazione, intuizioni, fatiche, insomma da quel fascio di cose diverse e mutevoli che è la vita di tutti, che abbiano vinto o perso, che siano eccellenti o schiappe, tutti debitamente concentrati.

Non parlo il dialetto piemontese da quando ero soldato negli alpini 70 anni fa, ma a volte anche ora mi sorprendo a mormorare qualche frase, a raccontare in dialetto, a sentirne la nostalgia, la capacità di espressione, di partecipazione che aveva e che nella lingua sciapa di tutti si è persa.
Stiamo vivendo una mutazione della civiltà simile per importanza a quella che ci fu quando la scrittura subentrò alla tradizione orale tale da cambiare il nostro modo di vivere e di pensare. Con l'abbondanza dei mass media, delle informazioni che ci arrivano a ogni ora del giorno, che ci riempiono le orecchie e la memoria, diminuirà l'esercizio della riflessione, del pensiero, dello spirito poetico e profetico. Già oggi uno di noi che si dedichi a questa attività intellettuale appare un po' fuori dalla modernità, un po' perditempo, un po' estraneo al partito del fare, come lo chiama il capo del nostro governo, preferibile a quello del pensare e del sognare. Saremo più bravi, più intenti a produrre bisogni e desideri superflui, e più ricchi di informazioni inutili e ripetitive.

La marea dell'informatica, degli operatori robotici elettronici, del silicio arricchito, dei computer di quarta o di quinta generazione, la sbornia di tecniche e di calcoli ci esenterà dalla filosofia. Eppure rimane in noi il pensiero di vivere un grande inganno, una retrocessione umana scambiata per un passo decisivo verso l'immortalità e la divinità; dico il brutto presentimento di un'inevitabile punizione, di uno scoperto inganno per tutto ciò che ci viene donato con una mano ma tolto con l'altra: le favole splendide dell'immaginazione tradotte nei colori sgargianti e volgari dei cartoni animati, gli spettacoli della televisione pieni di tutti i cattivi gusti, l'arte oratoria sostituita dal parlar facile e volgare della pubblicità.
Nulla di nuovo intendiamoci, la storia degli uomini è sempre stata così, ha sempre superato il passato annullandolo, chi saprebbe dire se in meglio o in peggio? La televisione come un'immensa scuola dell'obbligo che insegna a tutti a "concentrarsi", cioè a fare qualcosa che non riusciamo più a descrivere.

(20 maggio 2010)

http://espresso.repubblica.it/dettaglio/poche-parole-senza-pensiero/2127408/18


Titolo: GIORGIO BOCCA. Il cavaliere in panchina
Inserito da: Admin - Maggio 28, 2010, 08:30:21 am
Il cavaliere in panchina

Giorgio Bocca

Il "taglio" di Leonardo, l'allenatore del Milan, colpevole di non vincere sempre, viene accettato come una normalità.
Perché la cortigianeria a favore dei ricchi si è enormemente diffusa
 

Il Cavaliere è davvero un uomo pubblico, interamente esposto al pubblico. Non ci sono misteri sulla sua psicologia, sui suoi punti di forza, sulle sue debolezze, e nel caso che qualcuno le avesse dimenticate è pronto a ricordargliele. Si occupi di affari di Stato come il calcio una cosa è certa: lui ha sempre ragione e gli altri sempre torto, lui è sempre leale e fedele, gli altri sempre infidi e traditori.

Recentemente è toccato all'allenatore del Milan, Leonardo, ultimo nella serie degli allenatori caduti in disgrazia. Che ha fatto di male questo Leonardo? Non ha vinto né il campionato italiano né la coppa dei campioni, fatti che per qualsiasi essere ragionevole non sono una colpa, dato che gli aspiranti al successo sono in molti e che per averlo avevano speso più del Cavaliere, il quale, volendo essere amato da tutti, dai cittadini contribuenti come dai tifosi del Milan, voleva continuare a vincere ma spendendo di meno. Una contraddizione in termini, ma inaccettabile dagli uomini che si credono fatali e irresistibili. Così per tutto il campionato in corso i cronisti al servizio del Cavaliere hanno dovuto vedersela con gli ordini e i contrordini del nostro, che ora come capo del governo predicava l'austerità e la correttezza dei conti, ora come presidente padrone del Milan voleva continuare a vincere e stravincere. Gli allenatori del Milan sono pagati lautamente e dunque nessuno piange se il loro padrone li maltratta. Ma accade nel gioco del calcio esattamente quello che accade in politica: che i capricci, le prepotenze del padrone vengano tollerati finché resta padrone, e gli errori dei dipendenti subito puniti, salvo i casi di defenestrazione dei padroni che di solito cadono sempre in piedi.

Insomma, l'allenatore Leonardo, come prima di lui gli allenatori Sacchi e Ancelotti, colpevoli di non vincere sempre, a un certo punto vengono "segati" dal padrone alla maniera cara al padrone: non improvvisa e drammatica, ma con una progressiva caduta in disgrazia, come i primi ministri alla corte del Re Sole o della regina Vittoria.

Durante una conversazione con gli amici o con i colleghi di governo, il Cavaliere padrone lascia cadere un giudizio, non già di condanna, ma malevolo, sull'allenatore dipendente, per esempio che Leonardo, il caro Leo, "è testardo", che sembra un'osservazione innocente, ma che per i cortigiani suona come una condanna irrimediabile. Tanto più se il Cavaliere con l'aria di scherzare tira fuori l'intera verità: "Il fatto è che l'allenatore dovrei farlo io".

A parziale scusante del Cavaliere c'è il fatto che la cortigianeria a favore dei ricchi si è enormemente diffusa, e viene accettata come una normalità. L'informazione al servizio dei padroni predica senza ritegno il teorema caro ai padroni: non ci sono datori di lavoro ma benefattori, non ci sono lavoratori che creano la ricchezza di tutti, anche dei padroni, ma degli ingrati che osano sputare nel piatto in cui mangiano. I giornali del padrone ripetono ossessivamente, impudentemente che uno scrittore, un regista, un cantante, chiunque per meriti suoi abbia fatto guadagnare miliardi al padrone impresario è tenuto all'obbedienza e alla perenne gratitudine.
I giornali del padrone e i loro direttori non lo sanno? Lo sanno benissimo, ma sanno anche che la calunnia "è un venticello" che lascia sempre il segno.
C'è una sorta di cupio dissolvi, di compiacimento servile nella comprensione e nell'accettazione delle prepotenze padronali, il che spiega la ferocia delle defenestrazioni e delle gogne nei rari casi in cui il padrone resta privo del potere e dei soldi.

(27 maggio 2010)
http://espresso.repubblica.it/dettaglio/il-cavaliere-in-panchina/2127822/18


Titolo: GIORGIO BOCCA. Meno male che Silvio c'è
Inserito da: Admin - Giugno 04, 2010, 06:43:06 pm
Meno male che Silvio c'è

Giorgio Bocca

Il segreto del consenso a Berlusconi è la scarsa educazione civile e democratica degli italiani cui va bene il partito della democrazia autoritaria
 

È da un bel po' di anni che gli italiani, che sono per la legge eguale per tutti, si chiedono perché il dannato berlusconismo non passi mai di moda, perché tutti ne parlino male ma a maggioranza continuino a votarlo.
Che cosa non abbiamo almanaccato? È un maestro nel gioco delle parole che da Giolitti a Crispi a Mussolini ha sempre incantato gli italiani, è un Paperon de Paperoni come ogni italiano vorrebbe essere, è un abile populista che dice agli italiani ciò che vogliono sentirsi dire: che sono belli, intelligenti, simpatici, furbi, che a loro non gliela fa nessuno. È un grande venditore, un esperto piazzista che racconta balle come acqua di sorgente, i potenti della Terra ne cercano i consigli, ridono alle sue barzellette, riducono l'armamento atomico, fermano le guerre, e se non ci fosse che ogni tanto uno tsunami o un vulcano islandese ci provano a ricordare che la matrigna natura è più forte del suo ottimismo, lui continuerebbe a vendere ottimismo fasullo, attivismo da "faso tutto mi". E ogni tanto, quando ci vuole, anche la sua zampata cattiva, il duro richiamo all'ordine dei critici e degli indisciplinati.
Tutte le abbiamo studiate, voltate e rivoltate, discusse fino alla noia, fino all'antiberlusconismo come vizio, come mangiarsi le unghie, come prurito irriducibile, come fobia, meno che meditare su due caratteri permanenti di noi italiani: la ritrosia a pagare le tasse e la propensione ad "aggiustarci" che è di tutti, dei Paperoni ma anche dei travet.
Questo è il grande partito trasversale su cui Silvio sta galleggiando, e che a piena voce o nell'intimo continua a dire "meno male che Silvio c'è", l'indistruttibile maggioranza berlusconiana che resiste a tutto, persino nomi osceni come il Partito della libertà o il Partito dell'Amore, che altrove provocherebbe ciniche risate.

Eppure le spiegazioni chiare, chiarissime ci sono. Una è quella che i sociologi chiamano la "dittatura della maggioranza", o anche dei benestanti sempre più benestanti e dei poveri sempre più poveri, dei garantiti sempre più garantiti e dei precari sempre più indifesi. Il Silvio del gioco delle parole esagera quando dice che la via alla ricchezza è alla portata di tutti, basta sposare un miliardario, o anche come è bello il mare di Sardegna - il suo - se lo guardi è pieno di italiani felici sulle loro barche, ma è anche vero che c'è una maggioranza di italiani che arriva alla fine del mese e non paga le tasse a spese dei lavoratori dipendenti dal prelievo automatico, anche per merito del comunismo d'ordine alla Togliatti, l'ideologo del Comintern, cioè di Stalin, cioè del capitalismo buono guidato dai comunisti.
La maggioranza degli italiani cui il berlusconismo tutto sommato va bene sono i commercianti che quando arrivò l'euro capirono che gli italiani continuavano a ragionare in vecchie lire, e ci guadagnarono su, i liberi professionisti di ogni libera professione che possono denunciare la metà o la metà della metà del reddito. E anche i ceti emergenti, cioè gli ex poveri che se non possono frodare il fisco frodano il pubblico impiego, timbrano il cartellino dell'ufficio e poi vanno a fare la spesa o le commissioni.
Il segreto del berlusconismo è un segreto di Pulcinella, è la scarsa educazione civile e democratica degli italiani che naturalmente si giustificano dicendo che l'Italia è troppo "lunga", per dire troppo diversa per clima, per storia, o troppo bella e troppo calda, per aver voglia di lavorare, per cui va sempre a finire che anche la gloriosa classe operaia vota Lega o Partito della libertà, cioè se va bene il partito della democrazia autoritaria.

(03 giugno 2010)
http://espresso.repubblica.it/dettaglio/meno-male-che-silvio-ce/2128367/18


Titolo: GIORGIO BOCCA. La politica come la moda
Inserito da: Admin - Giugno 11, 2010, 12:14:11 pm
La politica come la moda

Giorgio Bocca

Il voto e la scelta dei candidati seguono sempre più criteri irrazionali, misteriosi conformismi che producono successi miracolosi. Come succede con i libri, le canzoni, gli abiti, salvo ricordarli solo come curiosi capricci
 
L'equivoco sta nello scambiare il meno peggio per l'ottimo, di pensare che la democrazia, il "one man one vote" sia la perfezione della libertà e del controllo, e non, come diceva Churchill, piena di difetti ma "non si conosce niente di meglio".
La delega popolare, il consenso popolare, il voto, non si basano solo sul libero e razionale convincimento dell'elettore, sulla sua facoltà di scegliere i programmi migliori, i governanti, ma anche su altro che non è sempre razionale e non sempre premia i migliori. Quali il carisma personale di un candidato, la sua capacità di seduzione che non coincide sempre con i suoi meriti, la noia per un governo durato troppo a lungo per buono che sia stato, la voglia di cambiare, la speranza che il nuovo sia meglio del vecchio. Insomma quei misteriosi conformismi, quei misteriosi messaggi conformisti che fanno cambiare le mode, che producono i successi miracolosi inspiegabili razionalmente, esteticamente, come i bestseller, il libro, la canzone, l'abito che tutti vogliono, tutti comprano salvo a ricordarli solo come curiosi capricci. In altre parole: in che misura la politica, cioè la nostra vita associata, i nostri usi e costumi e leggi sono un decalogo divino, e in quale invece conformismi che vanno e vengono?
Ci fu un tempo, a metà degli anni Settanta, in cui il conformismo più alla moda era quello del "comunismo liberale", del mitico "sorpasso" del Pci sulla Dc. La sera del 25 giugno del 1975 mi invitarono a cena dei vecchi amici cattolici di una grande famiglia di industriali milanesi; la televisione trasmetteva i risultati elettorali e i miei vecchi amici erano felici per la vittoria del Partito comunista, avevano votato anche loro comunista. Anche la zia Bice? La capofamiglia, l'erede del fondatore del famoso cotonificio, quella che ogni settimana riceveva l'amministratore che le portava i dividendi e i rendimenti? Anche allora, s'intende, c'erano i borghesi anticomunisti, ma non erano di moda, non si dichiaravano.

Oggi succede il contrario, oggi zia Bice vota Berlusconi e impreca contro il traditore Fini, perché in attesa che la ruota del conformismo giri di nuovo, se non tutti, i più sono di destra, cercano di ingraziarsela, o le assegnano i primi posti nelle gallerie televisive. E fra le destre molti stanno rivalutando la Lega e il senatur Bossi e suo figlio "la trota", già in carriera.
Sono di moda, ritornano di moda, anche i fascisti, consci o inconsci, come il sindaco di Salerno che ha pubblicato in occasione del 25 aprile, festa della Liberazione, un suo manifesto storico in cui ripudia i partigiani e ringrazia i giovani soldati americani "di aver salvato l'Italia dal comunismo staliniano". Pensate! Il sindaco di una città italiana che non sa che i giovani soldati americani sbarcarono in Italia anche grazie all'alleanza con l'Unione Sovietica e grazie ai suoi milioni di morti, e che nel primo governo dell'Italia libera a Salerno c'era anche il comunista Palmiro Togliatti. È l'abissale, tetragona, presuntuosa ignoranza della nuova eterna destra ad atterrirci, più della profezia Maya sulla fine del mondo nel 2012.
Questa predicazione ossessiva del fare a danno del pensare, questo correre alla cieca verso un futuro che sarà quel che sarà, come nella vecchia festa della rottura delle pignatte, con il rischio di rompere quella piena di acqua sporca.
La politica non è sempre razionalità, spesso è moda e conformismo. L'unico modo per evitare il peggio e quello dei reciproci controlli anche se difficili e defatiganti.

(10 giugno 2010)
http://espresso.repubblica.it/dettaglio/la-politica-come-la-moda/2128681/18


Titolo: GIORGIO BOCCA. Il cavaliere impunito e la regola del silenzio
Inserito da: Admin - Giugno 12, 2010, 11:18:29 am
DDL INTERCETTAZIONI

Il cavaliere impunito e la regola del silenzio

di GIORGIO BOCCA

Giù la maschera. Quello che vuole, che pretende la maggioranza al potere è l'impunità totale, il silenzio sui suoi furti e malversazioni. Ai tempi di tangentopoli la maggioranza al potere si accontentava di far passare i suoi furti per legittima pubblica amministrazione. Ricordate la tesi del craxiano Biffi Gentili? Se i politici sono chiamati ad amministrare grandi città, grandi problemi con competenze da tecnocrati perché non devono essere pagati come tali? E se non lo sono perché si vuole impedire che si autofinanzino? Oggi la maggioranza al potere non ha più bisogno di questi sofismi. Rivendica il diritto di rubare attraverso la politica come un normale, dovuto diritto di preda. Al tempo di tangentopoli i socialisti craxiani ma anche quelli di altri partiti avevano nascosto i furti per mezzo della politica nei conti "protetti" cioè segreti in Svizzera a Singapore a Hong Kong. E avendo messo il bottino al sicuro si erano tolti anche il gusto di prendere per i fondelli i loro concittadini con la tesi assurda che l'autofinanziamento dei partiti non era solo una necessità ma un dovere di chi si faceva carico di amministrare lo Stato e la democrazia.

Oggi nella Italia berlusconiana il furto attraverso la politica è scoperto, normale. Appena si può si ruba e viene il sospetto che sia avvenuta una mutazione antropologica, che la maggioranza al potere sia convinta che l'uso della politica per rubare sia non solo normale ma lodevole e che le istituzioni abbiano il dovere di proteggerlo. L'Italia un tempo paese dei misteri, delle società segrete, delle congiure massoniche sotto l'egida del cavaliere di Arcore sta diventando una democrazia autoritaria dichiarata e compatta a difesa dei suoi vizi e dei suoi furti. Perché opporsi al bavaglio che viene imposto all'informazione? Non aveva ragione Mussolini ad abolire la cronaca nera e a coprire gli scandali del regime? Esiste un modo più efficace di lavare i panni sporchi in gran segreto senza che le gazzette li mettano in piazza? L'imprenditore Anemone che si rifiuta di rispondere ai magistrati che indagano sui suoi affari non è la pecora nera, l'eccezione ma la norma della società berlusconiana del fare tutto ciò che comoda ai padroni, senza pagare dazio.

La conferma della mutazione antropologica viene dal fatto che i politici presi con la mano nella marmellata mostrano più stupore che vergogna. La loro corruzione era normalissima, candida, da buon padre ladro di famiglia. A uno era bastato pagare una garconnière al centro di Roma, un altro aveva lasciato mano libera agli impresari edili dopo il terremoto in cambio di una revisione in casa sua dei servizi igienici, diciamo del funzionamento del cesso e del bagno. Ad altri ancora la possibilità di avere a spese dello Stato qualche mignotta, insomma la grande crisi della politica italiana, il grande rischio di una democrazia autoritaria, di una dittatura mascherata, morbida starebbe nella banalità del male, nei piccoli vizi nelle piccole tentazioni della cosiddetta classe dirigente.

Un'Italia senza misteri con un capo del governo schietto, schiettissimo. Che vuole? Che pretende? Il minimo di un uomo del fare più che del pensare: di non avere controlli, di non avere intralci e se gli viene in testa di allevare un cavallo nessuno si permetta di obbligarlo a tirar su una mucca. Che cosa ha scoperto il Cavaliere? Quello che avevano scoperto prima di lui tutti gli uomini autoritari del fare, che i controlli sono fastidiosi e a volte insopportabili. In una parola: che la democrazia è più complicata e faticosa della dittatura.

(12 giugno 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/06/12/news/bocca_intercettazioni-4778644/?ref=HREA-1


Titolo: GIORGIO BOCCA. Il Nord e il potere mafioso
Inserito da: Admin - Giugno 19, 2010, 09:13:55 am
Il Nord e il potere mafioso

Giorgio Bocca

Le cosche si sono trasformate in una nuova borghesia del malaffare. Che si è infiltrata negli uffici pubblici come nel sistema finanziario

(18 giugno 2010)

Non c'è accordo sulle celebrazioni dei centocinquanta anni dell'unità d'Italia. La Lega non nasconde il suo dissenso. Umberto Bossi ha dato il là e i suoi diadochi lo seguono con dichiarazioni solo in apparenza ambigue: "Ci sono problemi più seri da risolvere", "L'unità sì ma nel federalismo", eccetera. E siccome la Lega è decisiva in questo governo, Berlusconi non si impegna, lesina i soldi per le celebrazioni, non interviene a fermare la frana del comitato organizzatore.

Intanto la sinistra resta nel suo stato confusionale, non ha il coraggio o la voglia di raccogliere lo spirito unitario o risorgimentale della Resistenza partigiana fondamento della Repubblica democratica. Lo spirito unitario della Resistenza, per chi l'ha fatta, è fuori da ogni dubbio. I partigiani di ogni colore politico, comunisti, giellisti, liberal-monarchici furono da subito uniti dal fine comune di salvare l'unità e l'indipendenza nazionale. Pronti nella primavera del '45 a respingere le velleità annessionistiche di De Gaulle in Val d'Aosta e Susa e quelle al confine orientale di Tito.

Ricordo perfettamente che di fronte ai moti separatisti siciliani e calabresi, di Portella della Ginestra e di Caulonia, ci fu una spontanea offerta partigiana di riprendere le armi a difesa dell'unità nazionale. Il vento del Nord, come fu chiamata la presenza partigiana nei primi governi di Parri e di De Gasperi, guardasigilli il comunista Togliatti, fu chiaramente unitario e risorgimentale. Sentimento condiviso dagli italiani che si strinsero attorno a quei padri fondatori della Repubblica. Lo spirito unitario della guerra partigiana del suo governo che ebbe il nome di comitato di liberazione, è arrivato intatto fino ad oggi? Le voglie di secessionismo sono perdenti anche oggi?
Due fattori contrari, due pericoli sono emersi negli anni dell'Italia democratica. Uno è la progressiva salita al Nord delle mafie meridionali, l'Onorata società siciliana, la 'ndrangheta calabrese e la sacra corona pugliese, la progressiva conquista di basi operative nelle grandi città del Nord.

La presenza della criminalità organizzata, per sua storia e natura antistatale, è qualcosa di visibile, di onnipresente, di impudente. Ci sono ristoranti, mercati, club, sezione di partito, amministrazioni della Padania equamente divise fra la novità politica della Lega anti-unitaria e le cosche mafiose che di patria conoscono solo quella della rapina e delle consorterie criminali.

È accaduto così che il partito del fare berlusconiano, per cui il binomio denaro-potere è tutto, è diventato volenti o nolenti il punto di appoggio o di mascheramento della conquista malavitosa del Nord. Le mafie da società segrete si sono trasformate in nuova borghesia del malaffare, delle cricche politico-delinquenziali che non si accontentano dei ricatti delle minacce, ma occupano i pubblici uffici, s'infiltrano nel sistema finanziario, nelle gerarchie ecclesiastiche, negli uffici giudiziari. Siamo alla degenerazione del tessuto sociale, all'anarchia ladresca: tutti tentati dal furto invece che dal lecito guadagno.

Si dice che dei primi anni della sua unità l'Italia monarchica è stata ricca di scandali e di ruberie che riguardavano anche i ceti alti e altissimi. Ma quella odierna è una criminalità talmente diffusa da apparire, da essere pensata come normale. Non a caso l'estrema destra reazionaria va riscoprendo come suoi nemici mortali i partigiani e inalbera cartelli su cui scrive "partigiani assassini".

 

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Titolo: GIORGIO BOCCA. Secessione, la mafia ringrazia
Inserito da: Admin - Giugno 23, 2010, 05:51:11 pm
Secessione, la mafia ringrazia

di Giorgio Bocca

Le cosche si sono trasformate in una nuova borghesia del malaffare. Che si è infiltrata negli uffici pubblici come nel sistema finanziario

(22 giugno 2010)

Non c'è accordo sulle celebrazioni dei centocinquanta anni dell'unità d'Italia. La Lega non nasconde il suo dissenso. Umberto Bossi ha dato il là e i suoi diadochi lo seguono con dichiarazioni solo in apparenza ambigue: "Ci sono problemi più seri da risolvere", "L'unità sì ma nel federalismo", eccetera. E siccome la Lega è decisiva in questo governo, Berlusconi non si impegna, lesina i soldi per le celebrazioni, non interviene a fermare la frana del comitato organizzatore.

Intanto la sinistra resta nel suo stato confusionale, non ha il coraggio o la voglia di raccogliere lo spirito unitario o risorgimentale della Resistenza partigiana fondamento della Repubblica democratica.

Lo spirito unitario della Resistenza, per chi l'ha fatta, è fuori da ogni dubbio. I partigiani di ogni colore politico, comunisti, giellisti, liberal-monarchici furono da subito uniti dal fine comune di salvare l'unità e l'indipendenza nazionale. Pronti nella primavera del '45 a respingere le velleità annessionistiche di De Gaulle in Val d'Aosta e Susa e quelle al confine orientale di Tito.

Ricordo perfettamente che di fronte ai moti separatisti siciliani e calabresi, di Portella della Ginestra e di Caulonia, ci fu una spontanea offerta partigiana di riprendere le armi a difesa dell'unità nazionale. Il vento del Nord, come fu chiamata la presenza partigiana nei primi governi di Parri e di De Gasperi, guardasigilli il comunista Togliatti, fu chiaramente unitario e risorgimentale. Sentimento condiviso dagli italiani che si strinsero attorno a quei padri fondatori della Repubblica. Lo spirito unitario della guerra partigiana del suo governo che ebbe il nome di comitato di liberazione, è arrivato intatto fino ad oggi? Le voglie di secessionismo sono perdenti anche oggi?

Due fattori contrari, due pericoli sono emersi negli anni dell'Italia democratica. Uno è la progressiva salita al Nord delle mafie meridionali, l'Onorata società siciliana, la 'ndrangheta calabrese e la sacra corona pugliese, la progressiva conquista di basi operative nelle grandi città del Nord.
La presenza della criminalità organizzata, per sua storia e natura antistatale, è qualcosa di visibile, di onnipresente, di impudente. Ci sono ristoranti, mercati, club, sezione di partito, amministrazioni della Padania equamente divise fra la novità politica della Lega anti-unitaria e le cosche mafiose che di patria conoscono solo quella della rapina e delle consorterie criminali.

Accaduto così che il partito del fare berlusconiano, per cui il binomio denaro-potere è tutto, è diventato volenti o nolenti il punto di appoggio o di mascheramento della conquista malavitosa del Nord. Le mafie da società segrete si sono trasformate in nuova borghesia del malaffare, delle cricche politico-delinquenziali che non si accontentano dei ricatti delle minacce, ma occupano i pubblici uffici, s'infiltrano nel sistema finanziario, nelle gerarchie ecclesiastiche, negli uffici giudiziari. Siamo alla degenerazione del tessuto sociale, all'anarchia ladresca: tutti tentati dal furto invece che dal lecito guadagno.

Si dice che dei primi anni della sua unità l'Italia monarchica è stata ricca di scandali e di ruberie che riguardavano anche i ceti alti e altissimi. Ma quella odierna è una criminalità talmente diffusa da apparire, da essere pensata come normale. Non a caso l'estrema destra reazionaria va riscoprendo come suoi nemici mortali i partigiani e inalbera cartelli su cui scrive "partigiani assassini".

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http://espresso.repubblica.it/dettaglio/secessione-la-mafia-ringrazia/2129191/18


Titolo: GIORGIO BOCCA. Cricca parassita
Inserito da: Admin - Giugno 27, 2010, 09:18:56 am
L'opinione

Cricca parassita

Giorgio Bocca

Il sistema Anemone non è che la routine della burocrazia borghese che si arrotonda lo stipendio a spese dello Stato.

E che si spezza non per ragioni di qualità e di morale, ma di quantità

(25 giugno 2010)

Da cosa viene la grande pazienza, la grande connivenza che le classi medie italiane hanno per quelle alte ladrone e prepotenti, oggi per la cricca affaristica che si è spartita gli appalti più ricchi e i privilegi più sfacciati? Credo dalla comune concezione della vita sociale, dal comune modo di essere riassumibile in una parola: arrangiarsi. Una parola che vuol dire molte cose come: non solo sopravvivere alle iniquità sociali del censo e della nascita, ma trarne vantaggio, far pagare agli altri i nostri debiti, le nostre spese, migliorare il nostro posto nella graduatoria sociale.

Nel modo di vivere che si riassume nella parola arrangiarsi la separazione fra il legale e l'illegale dovrebbe essere stabilita dal codice dei delitti e delle pene, ma non è facile capire, in pratica, dove sia aggirabile e dove inflessibile. Per uno nato e cresciuto nella piccola e media borghesia italiana del Novecento, l'arrangiarsi consisteva nell'uso paziente e insistente dei piccoli privilegi di classe. Io, per dire, sapevo che il vigile urbano che mandava il figlio a scuola da mia madre maestra non mi avrebbe multato anche se andavo in un senso vietato, sapevo che per far ottenere a mio padre professore una cattedra nella stessa città dove mia madre era maestra era necessaria una raccomandazione forte, magari dello zio avvocato non iscritto al Fascio ma massone, o di monsignor Re canonico del Duomo, cugino di mia nonna.

Ricordo bene il potere e la necessità di quest'ombrello protettivo di classe a cui ogni famiglia ricorreva per ottenere non dico il proibito, l'impossibile, ma anche quello che onestamente si poteva desiderare. Per salvarmi da una di queste raccomandazioni che mi assicurava l'ingresso all'Accademia di Modena per accedere alla carriera militare che detestavo, dovetti farmi bocciare in ginnastica fra lo stupore mai risolto di chi mi aveva raccomandato e di mia madre. Che cosa c'era dietro questo sgarro alla regola? Perché mai un raccomandato metteva in crisi il sistema sacro delle raccomandazioni? Erano così stupiti che finsero di credere che davvero ero incapace di salire sulla pertica o di saltare sul cavallo da palestra.

Il sistema delle raccomandazioni, dei privilegi di classe leciti o tollerabili, si spezza non per ragioni di qualità e di morale, ma di quantità. Dall'attuale scandalo della cricca che si è formata attorno all'impresario Anemone vengono fuori i vecchi modelli borghesi del parassitismo statale.

La classe serve lo Stato, ma dallo Stato pretende servizi casalinghi, per esempio gli attendenti, che sono dei soldati di leva come gli altri arruolati per la difesa della patria, ma in pratica usati come camerieri, per le pulizie in casa o per accompagnare i figli a scuola. O gli autisti delle auto blu dei pubblici uffici usati dalla famiglia del funzionario per andare al mare o fare la spesa. Il grande scandalo della cricca Anemone e della Protezione civile nasce da questa routine, della burocrazia borghese che si arrotonda lo stipendio a spese dello Stato. Nei verbali delle procure si ripetono i racconti dei piccoli favori pretesi e ottenuti dalle famiglie dei grandi burocrati: uno si faceva "ristrutturare" la casa, in parole povere si faceva regalare una boiserie o una biblioteca o un salotto, un altro si faceva pagare la metà o i due terzi di un "mezzanino" di 200 metri quadrati con vista sul Colosseo, un altro sistemava moglie, cognati e figli nelle pubbliche imprese.

Si dirà che c'è di strano, di orripilante? Il sistema capitalistico, il nostro non è lo stesso che permette alla British Petroleum di pagare il disastro multimiliardario del Golfo del Messico e di guadagnarci ancora?

 
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http://espresso.repubblica.it/dettaglio/cricca-parassita/2129702/18


Titolo: GIORGIO BOCCA. Perché il premier in difficoltà cita Mussolini
Inserito da: Admin - Luglio 18, 2010, 10:45:25 am
Perché il premier in difficoltà cita Mussolini

Giorgio Bocca

L'onnipotente Berlusconi, come il Duce, dice di non avere potere. Perché scopre di doverlo spartire con i suoi collaboratori

(07 luglio 2010)

Silvio Berlusconi, l'uomo più ricco e più potente d'Italia, dice e ripete di essere privo di potere. Esattamente come lo diceva Mussolini quand'era il dittatore che faceva scrivere sui muri d'Italia "il Duce ha sempre ragione". Che significano queste dichiarazioni di impotenza di uomini nel pieno della loro onnipotenza? Direi la constatazione che non sono Dio, non sono il padreterno e la santissima trinità, non sono il motore unico dell'universo ma devono spartire il loro potere con i loro ministri i quali a loro volta devono spartirlo con i loro collaboratori, fra i quali certamente non mancano gli infidi e gli infedeli.

Insomma, scoprono che l'uomo è un animale sociale che esiste, domina ed è famoso solo se per lui lavorano altri uomini, cioè la società. E il fatto che gli uomini "fatali", i "pastori di popoli", i signori della storia prima o poi facciano la sensazionale scoperta che il loro potere esiste ed è possibile solo se condiviso e condizionato da tutti gli altri esseri umani che "strisciano fra cielo e terra", sembra miracoloso.

La vita di questi potenti è segnata dalla loro dominante megalomania che gli fa credere di non avere pari al mondo, ma anche da una serie di scoperte dell'acqua calda, del tipo che i loro sudditi sono gelosi, pigri, infidi, ladri e come non bastasse che ci sono anche la natura, il destino, la dea fortuna, la jella e ovviamente la morte a limitare il potere a cui hanno dedicato la loro vita.

Con l'inevitabile e spiacevole conseguenza che c'è un prezzo da pagare alla ricchezza e al potere, una forte dose del ridicolo di ritrovarsi tutti come il Nerone di Petrolini, alias Mussolini, di cui gli italiani risero.

Il paragone con Mussolini, privo di potere ma con il potere di trascinare l'intero Paese in una guerra disastrosa, appartiene alla megalomania dei sultani, alla loro illusione di poter sostituire la mancanza di reali poteri economici e militari con il rimbombo delle parole, con il castello di sabbia delle parole.

Il Mussolini messo sotto accusa dal Gran Consiglio del Fascismo il 25 luglio del '43 si difende ricorrendo per l'ultima volta alle parole di cui è maestro, che gli hanno permesso di durare per un ventennio. Il suo imperialismo era anacronistico, la sua marina militare non aveva i mezzi per dotarsi di portaerei? Rimediava, credeva di rimediare, con il sistema delle parole: "L'Italia - diceva - è tutta una portaerei".
I suoi seguaci applaudivano ma da lì a poco gli inglesi, che le portaerei ce le avevano, sarebbero arrivati nel mare di Taranto per affondare con i siluri il grosso della nostra flotta. A parole la sua Italia fascista faceva tremare il mondo.

In realtà arrivammo alla guerra con un esercito male armato. Nel maggio del 1940 il duce aveva approvato un piano per la fabbricazione di 8.543 bocche da fuoco di grande e di medio calibro. I prototipi erano buoni ma l'acciaio e i soldi per fabbricarli mancavano. Così alla vigilia della guerra Mussolini chiede all'alleato tedesco i mezzi per farle con la famosa "lista molibdeno", la lunghissima lista di quanto ci mancava per farla, la guerra.

Il Cavaliere di Arcore in fatto di guerre si accontenta di modesti interventi al seguito dell'alleato americano, ma è il ricorso al potere delle parole vale per tutto il resto, per la politica estera come per la crisi economica. A parole siamo i migliori del mondo, nelle statistiche dei valori reali sempre sotto il ventesimo o il trentesimo posto, magari dietro il Camerun o la Colombia.

Particolare interessante: il Mussolini che si lamenta di non aver potere è ricavato da un falso memoriale.

 
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http://espresso.repubblica.it/dettaglio/perche-il-premier-in-difficolta-cita-mussolini/2130510/18


Titolo: GIORGIO BOCCA. Intelligence double face
Inserito da: Admin - Luglio 18, 2010, 10:46:07 am
Intelligence double face

di Giorgio Bocca

A cosa servono i servizi segreti? Ai buoni affari dei padroni degli Stati. E a far finta di fronteggiare il caos della società

(15 luglio 2010)

Niccolò Pollari e Mario Mori Niccolò Pollari e Mario MoriA cosa servono, perché esistono i servizi segreti? Un tempo si pensava che servissero per scoprire e parare le mosse del nemico, l'Unione Sovietica, per dire, l'"impero del male" o il pericolo giallo dei miliardi di cinesi con gli occhi a mandorla.

È ancora così? L'Urss non esiste più, è tornata la vecchia Russia ma anche lei con le mani legate dalle atomiche, cioè dalla distruzione della specie assicurata a tutti. E la Cina ha troppe bocche da sfamare per concedersi la follia di una guerra. Quale altro possibile nemico? La misteriosa e perfida speculazione che minaccia l'euro e fa crollare le Borse? No quella no, dipende dall'avidità degli uomini e non ci sono servizi segreti che possono sconfiggerla. La mafia? Ma no, la mafia ormai è un'istituzione degli Stati moderni, necessaria alla circolazione del capitale e al finto gioco fra ladri poliziotti, che si danno la caccia per le strade ma si accordano nelle banche.

E allora? Allora c'è venuto il sospetto, l'idea che la cosiddetta intelligence, la politica segreta dei servizi segreti, serva a due altri scopi concreti: ai buoni affari dei padroni degli Stati, che è sempre un buon motivo, e poi a far finta di fronteggiare in qualche modo lo stato caotico della società, cioè a giustificare chi essendo al governo dispone dei servizi segreti con cui domina il caos.
Se non ci fossero queste due ragioni, diciamo così psicologiche, sarebbe difficile trovarne altre, di pubblica utilità, dato che i servizi segreti non fanno altro che mettersi l'un l'altro il bastone fra le ruote, a opporre servizi fedeli a servizi deviati.
La vicenda degli attentati mafiosi del '93 è per l'appunto una conferma dell'assurdità e della confusione che regna nei servizi segreti, cioè la prova che essi esistono solo per via di questa inguaribile umana confusione. Noi, persone che aspiriamo alla normalità, stentiamo a raccapezzarci.

Cominciamo dall'attentato alla villa del giudice Falcone all'Addaura. Pare che fossero all'opera due rami dei servizi segreti e nessuno ha capito quale dei due fosse deviato. Uno che preparava la superbomba che doveva far saltare la villa e il suo padrone, l'altro che disinnescava la bomba e rimandava la morte di Falcone al prossimo attentato, non si sa se mafioso o dei servizi deviati, cioè della mafia che si annida nella direzione dello Stato. E come non bastasse il mistero di questo Stato bifronte che ora aiuta la mafia e ora la combatte, ci hanno pensato le ricostruzioni filmate delle televisioni a rendere impenetrabile il mistero.
Qualcosa del genere accadde per l'altro misterioso apparato parastatale e cossighiano di Stay Behind, l'organizzazione paramilitare che avrebbe dovuto intervenire nel caso di un colpo di Stato comunista. E l'unica cosa che si capì fu che i suoi dirigenti e militanti avevano passato a spese dello Stato delle vacanze di lusso nelle più note stazioni turistiche della Sardegna per sorvegliare i campi di addestramento dei presunti congiurati.

La storia italiana è piena di questi misteri ambigui, ce ne furono anche nella Repubblica di Salò, dove il principe Junio Valerio Borghese, un nobile monarchico passato alla Repubblica lacustre, organizzò una marcia, ovviamente mai fatta, su Salò per disarcionare o rimettere in linea il Mussolini al tramonto.

O se preferite anche la misteriosa vicenda del "ponte" tra fascisti sconfitti e socialisti rampanti organizzato, a parole, dal Bonfantini di Novara.

O anche la "vera" morte di Mussolini con cui dei furboni necrofili strapparono un po' di milioni agli editori di rotocalchi.


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http://espresso.repubblica.it/dettaglio/intelligence-double-face/2130880/18


Titolo: GIORGIO BOCCA. Questo Marchionne pare Silvio
Inserito da: Admin - Luglio 23, 2010, 11:23:03 am
Questo Marchionne pare Silvio

di Giorgio Bocca


Come Berlusconi, il capo del Lingotto è convinto che il potere debba avere mano libera. Ed entrambi sembrano stupiti quando scoprono che i sottoposti non gradiscano

(22 luglio 2010)

L'idea che il potere, in un'impresa come in uno Stato, debba avere mano libera sui dipendenti e sui cittadini è di quelle dure a morire.
Il manager della Fiat Marchionne in questo è simile al capo del governo Berlusconi, entrambi stupiti e quasi delusi che i lavoratori sottoposti non capiscano, non gradiscano il ricatto del capitalismo globale: o mangiate questa minestra o saltate dalla finestra.
Appartiene alla filosofia del potere la convinzione che la legge del più forte, nel caso del mercato globale, sia anche la più giusta.
Ma è un'idea di comodo, cara a chi sta al potere, smentita dalla storia, cioè dalla lotta di classe e dal progresso produttivo e sociale: se l'automazione è arrivata nelle fabbriche rivoluzionando e migliorando il modo di produrre lo si deve anche alla lotta di classe, alle rivendicazioni operaie. Marchionne è certamente un manager intelligente come lo fu prima di lui Cesare Romiti, e magari i toni ricattatori e autoritari possono servire nel tempo breve, ma non alla creazione di una durevole crescita civile.

Non sembra il caso di ricorrere di continuo nei rapporti di lavoro alle superiori, indiscutibili esigenze del mercato globale, cioè della facoltà che il capitale scambia per un suo inalienabile diritto: trasferire la produzione dove più gli comoda. È una pretesa inaccettabile da un paese civile: non si può compiere la prima accumulazione del capitale, la prima crescita produttiva e tecnica usando le risorse umane locali e poi trasferirsi dove al capitale conviene. Soprattutto in paesi come il nostro dove la formazione di una società industriale è avvenuta anche grazie ai privilegi e alle discipline autoritarie, anche grazie ai riarmi e ai bagni di sangue delle guerre mondiali.
Come Cesare Romiti, come altri manager e imprenditori, Marchionne è convinto che la crescita economica di un paese sia la stessa cosa della sua crescita civile e che essa sia possibile solo se si rispettano le regole fondamentali che legano il lavoro al salario e che rifiutano come utopie suicide quelle sessantottesche del più salario e meno lavoro. Ma questo rispetto delle regole non può essere una prerogativa dell'imprenditore razionale da imporre ai dipendenti immaturi che preferiscono la partita della Nazionale di calcio al lavoro, non può essere la richiesta di rinunciare nel nome della produzione ai diritti conquistati con duri sacrifici.

Anche il capitale, anche il potere capitalistico inseguono utopie come quella che sia possibile e augurabile abolire la lotta di classe.
Non è così, sia che i padroni siano liberali, sia che siano comunisti come la Cina, dove i grandi balzi produttivi maoisti stanno finendo secondo logica nella ripresa degli scioperi e nelle lotte per i diritti umani.

Ha detto Marchionne: "Stiamo facendo discussioni su principi e ideologie che ormai non hanno più corrispondenza nella realtà.
Parliamo di storie vecchie di trenta o quarant'anni, stiamo a parlare del padrone contro il lavoratore. Sono cose che non esistono più".
Davvero? Forse il Ceo della Fiat si sbaglia o si illude. I padroni esistono ancora, come i lavoratori che dai padroni dipendono.
 
E per governarli occorre anche modestia, pazienza e sapersi mettere, come usa dire, nei loro panni.

   
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Titolo: GIORGIO BOCCA. Il limite dell'indecenza
Inserito da: Admin - Luglio 31, 2010, 05:06:50 pm
Il limite dell'indecenza

di Giorgio Bocca

Nel mondo dei consumi trionfanti, della corsa al furto e al privilegio sta tornando un bisogno di misura, di moderazione, di etica

(30 luglio 2010)

C'è un modo razionale, scientifico per prendere atto che la terra è troppo piccola per il numero crescente di uomini che ci vivono su. Il modo per esempio di Giovanni Sartori che scrive sul "Corriere" per informarci che se tutti consumassero i prodotti della terra come gli americani o i francesi o anche noi italiani, ci vorrebbero non uno ma tre pianeti come il nostro per sopravvivere. Ma questo modo scientifico, razionale, lascia, a quanto pare, il tempo che trova: leggiamo, ci pensiamo un attimo, ma dimentichiamo come se fosse passata una nube, un buio subito cancellato dallo splendore dei consumi trionfanti.
Forse più della ragione e della buona informazione conta l'arcano istinto di sopravvivenza per cui fra gli esseri umani va pian piano diffondendosi una crescente nausea per il consumismo dissennato, non certo fra chi deve vincere la fame e la sete, ma almeno fra noi dei paesi ricchi e spreconi.

Lo dico perché sono sazio e vecchio? Può essere, ma credo che ci sia altro, che fra i sazi vada diffondendosi o tornando un bisogno socratico o evangelico di leggerezza fisica e mentale, una nausea per questa soffocante abbondanza, un desiderio di magrezza che forse viene dallo spettacolo dell'umanità super sazia e ultra pingue visibile in qualsiasi bagno di folla televisivo: pance enormi, seni deformi, culi straripanti, esseri traballanti sotto il loro peso, ansimanti sotto i loro grassi.
Giovanni Sartori scrive che nei paesi ricchi la superficie bioproduttiva necessaria a mantenere i super consumi è ormai arrivata a 2,2 ettari a persona, ma anche chi non lo sa deve aver capito che c'è qualcosa di sbagliato in questa corsa a consumare pur di consumare, che l'uomo ha bisogno di cibo e di panni ma anche di leggerezza, non di restare soffocato, schiacciato sotto il numero e il peso delle cose.

Nel sonno della morale pubblica, nella corsa generale delle classi dirigenti al furto e al privilegio forse la nausea da consumismo può giocare il ruolo che in passato ebbero le religioni. Forse l'unico freno, l'unico rimedio alla follia consumistica degli uomini del fare e del consumare è il rifiuto dell'attivismo frenetico.

Una delle ragioni per cui dovunque nel mondo dei consumi trionfanti e della finanza divorante sta tornando un bisogno di misura, di moderazione, di etica è lo spettacolo indecente della società come l'hanno voluta e imposta gli adoratori del vitello d'oro. Filippo Ceccarelli ha scritto un saggio per Feltrinelli che ha per titolo: "La Suburra. Sesso e potere. Storia breve di due anni indecenti". Ceccarelli è uno scrittore erudito e brillante, non un Savonarola o uno Jacopone da Todi, ma il ritratto della nostra società, dell'Italia come la vogliono gli uomini del fare e del rubare è quasi incredibile nella sua assurdità. Ci vuole molto a capire che la vita dei ladri, dei prosseneti, dei servi, dei ruffiani è una vita infame? Ci vuole molto a capire che far parte della Cricca ha un prezzo altissimo anche fisico, che i ladri come i mafiosi sempre in attesa di carcere o di vergogna hanno vita breve e disonorata?

Cresce la noia, il fastidio, la ripugnanza per la Suburra, per questa Italia miserabile per cui si aggirano come topi di fogna affaristi, avventurieri, profittatori. C'è qualcosa che viene prima della morale, prima del rispetto delle leggi, prima dell'onorabilità: il disgusto per la Suburra, cioè per la servitù agli appetiti, ai vizi più degradanti.
Ha ragione Ceccarelli. L'aggettivo giusto, calzante per questo tipo di classe dirigente è: indecente. Anche il demonio, anche i peccati mortali non possono superare il limite dell'indecenza, del gusto pessimo, del ripugnante.

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Titolo: GIORGIO BOCCA. Torna il pallone, dio della follia
Inserito da: Admin - Agosto 12, 2010, 08:29:04 am
Torna il pallone, dio della follia

di Giorgio Bocca

Gianni Brera diceva che il calcio era matematica, logica, e gli piaceva lo zero a zero. Tutto sbagliato: io amo questo sport perché è irrazionale, imprevedibile, perfino assurdo, E basta un colpo di vento o un grumo di terra a cambiare tutto


Perché il gioco del calcio è il più bel gioco del mondo? Perché è affidato al caso, perché nessuno ne possiede il segreto, perché ricomincia sempre da capo, perché è affidato a una palla rotonda che può cambiar direzione a un soffio di vento, perché la forza di una squadra ora sembra invincibile, il giorno dopo scompare, perché nel calcio non esistono i per sempre o i mai che nella vita reale sono le nostre condanne, perché la dea fortuna può arrivare quando non te lo aspetti, e così la dea sfortuna, senza regole precise, a capriccio a sollevare gli umili e a punire i superbi. Perché, come nel gioco del lotto, tutti alla fine perdono pensando di vincere, perché ci sarà sempre un Casanova capace di "correggere la fortuna" anche a costo di finire ai Piombi, come il giocatore dell'Uruguay che con la mano ha impedito la rete certa degli avversari ed è diventato un eroe perché gli avversari hanno sbagliato il rigore e la sua squadra ha passato il turno.

Il calcio è il gioco più bello del mondo, il più appassionante, perché è lo specchio degli uomini, dei loro difetti, delle loro vanità. La punizione fatale che il gioco del calcio riserva ai primi della classe, ai secchioni, ai fortunati è una consolazione del genere umano. Il Brasile produce campioni in continuazione, dopo essere stato il migliore all'attacco diventa più forte anche in difesa, le maglie giallo-oro dei suoi tifosi colorano già gli stadi per il sicuro trionfo, le bellissime tifose carioca sono pronte alla samba della vittoria, e il dio del calcio inventa un olandese di statura media che improvvisamente si avvita nell'aria come un missile e segna la rete che in un attimo distrugge l'imbattibilità, la superiorità, la perfezione quasi divina delle maglie giallo-oro e le riduce a un gregge sconfitto e piangente. Quale altro gioco premia i mediocri, gli invidiosi, i fanatici meglio del calcio? Quale colpisce meglio i presuntuosi e i superbi?

Ci sono al mondo milioni, miliardi di persone senza qualità e senza fortuna che devono sorbirsi per mesi, per anni il rimprovero vivente dei campioni, degli eroi, dei superdotati. Prendete un tipo come l'allenatore dell'Inghilterra Fabio Capello. È un friulano emigrato in Inghilterra, che ha fatto una carriera incredibile, allenatore della Nazionale inglese, la più blasonata del mondo, del Paese che ha inventato il calcio. Un uomo di ferro, intelligente, capace. Un primo della classe. E finalmente anche lui a strapparsi i capelli, a maledire il mondo, a uscire scornato e furente dal campo perché l'ultimo dei tifosi del Pizzighettone possa dire agli amici del bar sport: "Ve lo avevo detto, anche lui è un montato".

Il gioco del calcio è popolarissimo come il gioco del lotto. Alla fine vince solo il banco, lo Stato padrone, ma non muore mai la speranza. Il gioco del calcio è la vendetta quotidiana dei tifosi ignoranti sui tecnici sapienti, lautamente pagati, che hanno ridotto il gioco più bello e imprevedibile del mondo a una matematica arida e soffocante. Il calcio non è più il gioco dove una palla impazzita deviata da un grumo di terra, da un filo d'erba può decidere di una vittoria. Il calcio raccontato dagli esperti è una barbosissima matematica di quattro quattro due o quattro tre uno due. Il massimo teorico del gioco, il lombardo Gianni Brera, era arrivato al punto massimo della follia matematica scrivendo e predicando che la migliore partita possibile, la più razionale, era quella che si concludeva in un pareggio, zero a zero, avendo gli allenatori, i teorici, risolto tutti i possibili errori. Ma il calcio è ben altro, il calcio è il dio orfico misterioso e pazzo che rinnova a ogni partita le sue sorprese e i suoi misteri.

(10 agosto 2010)
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Titolo: GIORGIO BOCCA. «Napolitano parli più spesso, l'Italia rischia»
Inserito da: Admin - Agosto 14, 2010, 10:48:24 pm
Giorgio Bocca: «Napolitano parli più spesso, l'Italia rischia»

di Oreste Pivetta

Bocca, il vecchio giovane partigiano, il grande giornalista che ha insegnato quanto il mestiere di giornalista possa essere importante quando s’esercitano le armi della critica e quando si sa difendere l’indipendenza di giudizio (e Bocca potrebbe ricordare, per questo, infiniti attacchi da destra e da sinistra). Bocca mi dice del suo «pessimismo totale, apocalittico» nel descrivere un paese alla deriva, con rimpianto per le occasioni che questo paese ha avuto (e costruito) per essere una democrazia, vera, moderna: Ma la democrazia – dice Bocca – è pratica assai difficile, impegnativa. Forse troppo difficile e impegnativa per gli italiani.

Hai letto l’intervista al presidente Napolitano sull’Unità?
«Mi sembra solo che il presidente abbia tutto il diritto di intervenire quando e dove vuole».

Dopo l’intervista, si sono uditi in coro gli strepiti degli ultrà berlusconiani contro la scelta del presidente di affidare il suo pensiero a un giornale di partito come l’Unità… Gasparri ha sentenziato che Napolitano avrebbe tradito il suo mandato: non sarebbe più un presidente super partes…
«Stupidaggini. Questioni di lana caprina. Che cosa vuol dire super partes? Peraltro, è giustificato rimanersene super partes quando tutto ti rotola attorno? Se ho una critica per Napolitano, è proprio per la sua freddezza, per la sua distanza. Francamente, certe volte, non capisco il suo silenzio. Di fronte a un’emergenza come quella che stiamo vivendo, popolata di ladri e truffatori, credo che dovrebbe sentire il bisogno di intervenire più spesso»
.
Anche sull’Unità, quindi?
«E dove, altrimenti? Nella crisi devastante del paese, ci sta anche la crisi dell’informazione. Informazione di regime: televisioni, giornali… asserviti, con rare eccezioni. Berlusconi riesce a imporre ovunque la sua visione propagandistica delle cose. Gli basta mezzo punto in percentuale in più di qualcosa per gridare al miracolo, alla rinascita, al successo. Naturalmente per merito suo. Poi si leggono le classifiche internazionali che compaiono sugli organi di stampa di tutto il mondo e ci ritroviamo al quarantesimo posto, al cinquantesimo o non so a che gradino delle graduatorie che dovrebbero riassumere il grado di civiltà o di benessere di un paese. Ma la sua versione intanto passa tra gli italiani, per responsabilità della stampa e delle televisioni, che hanno rinunciato al loro compito, che non è far da megafono a tutte le banalità di Berlusconi, ma è indagare seriamente la realtà. Pensa al successo del gossip: ti viene proposto un mondo in cui specchiarti, che ti viene proposto di imitare, senza che nessuno ti dica che quella è solo una brutta cartolina».

Sei pessimista. Eppure qualche cosa si muove. Fini, ad esempio, dà segni di rottura…
«Fini è stato uno dei capi del Msi e non lo dimentico. Il figlio di una socialista. Non capisco come abbia potuto seguire quella strada. Ma io non riesco a pensare al presente italiano come una sfida Berlusconi-Fini. Intanto Berlusconi ha sempre la maggioranza e il suo codazzo di dipendenti e di ministri, caricature di ministri. Ripeto: è in crisi la democrazia, che vive di equilibrio di poteri e di esercizio del controllo, in un paese dominato da un tardo capitalismo che non sopporta più i controlli. Berlusconi è l’interprete sommo di questo capitalismo di rapina: chi più di lui ha dimostrato ostilità a qualsiasi tipo di controllo, da imprenditore o da politico, allo stesso modo? Questo è il paese dove alcuni comitati d’affari si sono organizzati in un sistema, o in un regime, omertoso, con garanzie di impunità, come mostrano le tante leggi ad personam approvate o tentate, per rapinare soldi allo Stato. Fare affari in Italia significa prendere soldi allo Stato: questa è la verità, come si dimostra ogni giorno».

Ma è un problema solo nostro?
«Nostro, direi, con una spiccata originalità. Perché anche altrove rubano, ma tutto sommato è forte un costume democratico che ovviamente genera una reazione diffusa, produce anticorpi al malaffare. Qui pare che vada bene così. Tutti rubano, tutti si illudono di poter rubare: tutto sommato la crisi è da abbondanza… o da illusione di abbondanza. Mi pare che questo sia uno dei peggiori momenti della nostra storia, che ti conduce alle più amare riflessioni. Come ci si può spiegare tanta ammirazione degli italiani per Berlusconi? Che cosa ha fatto Berlusconi se non i propri interessi, sempre? Se cerchi di dare una spiegazione, devi concludere che gli italiani sono un popolo di immaturi, suggestionati da alcune immagini pubblicitarie. È la storia della passione nazionale per il gossip, di cui si diceva prima. Ma forse questa non è una spiegazione sufficiente, se penso all’ultimo, o quasi, secolo di storia, al fascismo, alla Resistenza, alla Liberazione, alla ricostruzione dopo la guerra. In fondo gli italiani sono stati capaci di liberarsi dai nazisti e dai fascisti, di conquistarsi la democrazia, di avviarsi al benessere. E adesso? Il disastro, il baratro, il rischio di nuove dittature. Come spiegare la mutazione? Diciamo che gli italiani sono imponderabili. O, più tragicamente, che gli italiani sono un popolo negato alla democrazia, storicamente, salvo straordinarie reazioni di alcuni momenti della sua storia, e che questo è un paese dove le mafie hanno incontrato più fortuna della democrazia. Dicono che sono pessimista perché sono vecchio. Sono vecchio, è vero, ma sono pessimista perché sono vissuto molto, ho imparato a conoscere questo paese, Berlusconi e la gente che gli sta attorno».

14 agosto 2010
http://www.unita.it/news/italia/102383/giorgio_bocca_napolitano_parli_pi_spesso_litalia_rischia


Titolo: GIORGIO BOCCA. Che bel mestiere il faccendiere
Inserito da: Admin - Agosto 21, 2010, 12:53:58 pm
Che bel mestiere il faccendiere

di Giorgio Bocca

Oggi essere un ladro non è più un'eccezione, un'insopportabile vergogna, ma una normalità. Rubano imprenditori e giudici, banchieri e generali

(20 agosto 2010)

Ci sono giorni in cui si ha paura di uscire di casa per non essere trascinati via dalla fiumana impazzita dei corrotti, dalla folla di ladri e scrocconi e parassiti. Proprio come ha scritto Michele Ainis su "La Stampa": "Ci sono dentro il poliziotto e il giudice, l'imprenditore e il generale, il direttore della Asl come il prefetto, il banchiere e i professori. Tutti affaccendati in faccende deplorevoli ma ben retribuite. Il faccendiere ormai incarna il mestiere con la maggior schiera di seguaci".
Perché? Cosa è accaduto per fare di questo mondo un mondo tutto di ladri, imbroglioni, servitori infidi, profittatori, complici? La risposta più semplice è: l'abbondanza della modernità.
Le macchine della produzione moderna, dell'automazione, della globalizzazione, delle scoperte scientifiche, della logistica hanno creato quei mostri produttivi che ci lasciarono sbigottiti al principio del secolo di fronte al fordismo e alle fabbriche di automobili, di fronte a quel nuovo dio di Valletta, e Marchionne che sforna milioni in macchine meravigliose e complesse come i panini di un fornaio. In misura tale da creare abbondanza non per la società intera, ma per le classi alte al potere, per almeno il 60 per cento degli abitanti e, per il loro stato, un emporio in cui servirsi e rubare con grande facilità, proprio come sta accadendo.

Una seconda ragione è che sia avvenuta senza che ce ne rendessimo conto una trasformazione antropologica della specie umana capace di cancellare antichi modi di pensare e di essere. Come la sacrosanta paura dei carabinieri, l'incancellabile vergogna dell'arresto, della galera, l'onta del fallimento, dei debiti, che per quelli della mia generazione, diciamo del secolo borghese, erano ancora dominanti.
Faccio un esempio per me illuminante: negli anni di piombo incontrai in carcere dei terroristi, per scrivere un libro. Uno era stato sorpreso dalla polizia mentre rubava un'automobile per fare un attentato, e subito si era proclamato brigatista. Gli chiesi: ma perché ti sei subito confessato brigatista, cioè passibile di ergastolo? Non potevi dire che eri solo un ladro di automobili? Mi rispose: "Come potevo con i miei parenti, con gli amici del paese dire di essere un ladro di automobili? Che vergogna!". Insomma, oggi essere un ladro non è più un'eccezione, un'insopportabile vergogna, ma una normalità, un fare "come fanno tutti".
Una terza spiegazione è che la classe media al potere, nuova borghesia del denaro e degli affari, abbia preso atto e coscienza dei suoi effettivi diritti e privilegi di classe. Esattamente come prima di lei fece l'aristocrazia del sangue, delle armi e della proprietà terriera: a chi era libero guerriero e proprietario erano concesse libertà e prepotenze ai cittadini comuni negate.
Forse senza che ce ne accorgessimo è avvenuta una trasformazione antropologica per cui la società moderna è progredita nelle tecniche e nelle conoscenze e arretrata nei rapporti civili, è ritornata a privilegi e differenze sociali per cui una parte dei cittadini si sente autorizzata a derubare lo Stato, a usarlo per i suoi arricchimenti e le sue carriere lasciando la paura dei carabinieri agli altri che soldi e potere non ne hanno.

Dite che esagero? Non credo. Lo specchio del mattino, il guardarsi allo specchio per la pulizia del mattino non è più l'appuntamento traumatico con una cattiva coscienza, è una semplice faccenda di lozioni e di creme, dopodiché usciamo tranquilli da casa per ricominciare a rubare fra il generale consenso.

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Titolo: GIORGIO BOCCA. Per le stragi niente paura
Inserito da: Admin - Agosto 29, 2010, 09:13:11 am
Per le stragi niente paura

di Giorgio Bocca

Il temuto crollo dello Stato italiano per le rivelazioni giudiziarie sui delitti di mafia è una finta minaccia. Perché non vi è nulla di più solido, di più certo, di più intoccabile della disonestà al potere

(27 agosto 2010)

Strage di Capaci Strage di CapaciCi si chiede se la politica, se la società reggeranno allo sfascio criminale del paese, alle rivelazioni sulle stragi mafiose del '93, sugli stretti rapporti fra chi governa questo paese e chi lo deruba e lo uccide. E la risposta è ovvia: ce la farà, resisterà, sopravviverà perché in questo paese non esiste una separazione netta, precisa fra il criminale e l'onesto e fra il legale e il mafioso.
I due italiani che mi hanno spiegato con le parole e con l'esempio l'ineluttabilità di questa condanna eterna sono stati due siciliani assassinati dalla mafia, due giudici, Falcone e Borsellino. Essi erano l'incarnazione di questa condanna.

Falcone apparteneva alla specie dei siciliani ironici fatalisti che combattono la mafia sapendo che prima o poi ne saranno uccisi. "Il mio conto con Cosa nostra - mi disse quando venne a Milano per interrogarmi sulla mia ultima intervista con il generale Dalla Chiesa - il mio conto - disse - resta aperto. Lo salderò con la mia morte, naturale o meno. Tommaso Buscetta mi ha messo in guardia. Verrà il suo turno, prima o poi ci riusciranno".
Lo sapeva anche Paolo Borsellino la volta che lo incontrai nel suo studio a Palermo. Diceva: "Il rapporto tra Stato e mafia non ha misteri: controllano entrambi lo stesso territorio, a volte fanno finta di non vedersi, a volte si uccidono".
La società, lo Stato reggeranno alla verità sulle stragi del '93, sulle collusioni tra Stato e mafia tra legalità e crimine? Ma certo che resisteranno, dato che si portano nel sangue le complicità e le omertà, dato che i soldi di cui vivono le loro tre economie sono comuni.

C'è un'economia propriamente mafiosa che esercita direttamente il suo potere criminale, un'istituzione con la sua cultura, le sue regole, i suoi delitti e castighi. Accanto c'è un'economia legale-mafiosa che offre le sue mediazioni professionali e fa buoni affari assieme alla mafia senza sporcarsi le mani. È denaro proveniente dai crimini, dal saccheggio dello Stato. Infine c'è l'economia legale che ogni giorno sfiora l'illecito, spesso complice della malavita in un mercato mondiale, globale, che non riconosce il diritto internazionale, dove l'unica regola valida è quella dello sfruttamento del lavoro altrui. Ragion per cui ogni operazione economica in questo deserto della legalità va garantita da accordi illegali di potere. È la pratica per cui si arriva alle transizioni più assurde, come i commerci con i regimi autoritari libici o iraniani, che vengono pagati con armi o con droga contro l'interesse della società civile. Se con la droga alcuni paesi del Terzo mondo possono pagare i loro debiti con l'industria avanzata questi soldi vanno bene a tutti, anche se il danno finale è la distruzione del diritto internazionale.

È il diabolico intreccio di cui ha parlato Beria D'Argentine: "Dove l'illecito è costretto a lasciar mano libera al delitto, la giustizia è impedita". In parole povere: la mafia dominante in Italia non è una favola, un'invenzione, un babau, ma uno dei poteri fondamentali con cui tutti devono fare i conti.
Ecco perché il temuto crollo dello Stato italiano per le rivelazioni giudiziarie sui delitti di mafia è una finta minaccia. Non vi è nulla di più solido, di più certo, di più intoccabile che la disonestà al potere.

 
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Titolo: GIORGIO BOCCA. Attenti al ladro
Inserito da: Admin - Settembre 04, 2010, 09:10:12 am
Attenti al ladro

di Giorgio Bocca

Gli onesti vivono in Italia come in un paese straniero, cercando di passare inosservati, di non incorrere nelle ire e nelle vendette dei padroni che non accettano il minimo dissenso

(03 settembre 2010)

Due Italie separate e incomunicanti.

L'Italia delle caste e delle cricche e quella che si guadagna onestamente la vita. Lontane una dall'altra anni luce, nel modo di vivere, di pensare, nei modelli di morale e di estetica. Come sia possibile la loro convivenza senza una dura resa dei conti resta un mistero. Forse per l'istinto di sopravvivenza, di stare comunque sulla stessa barca, nello stesso mare infido.

Ogni mattina giornali, radio e televisioni informano gli italiani onesti, rispettosi delle leggi, attenti alla morale corrente e al giudizio del prossimo che nell'altra Italia centinaia, migliaia di concittadini hanno sfidato la prigione, il disonore, i carabinieri e i poliziotti per arricchirsi a mezzo della politica e ai danni dello Stato, e lo hanno fatto senza provare vergogna rimorso, anzi con il compiacimento di chi si sente parte della classe ladrona che finge di essere classe dirigente.

Il paese Italia vive in stato di schizofrenia, anche se i mezzi di informazione si affannano ogni mattino a informare gli onesti che i loro vicini di casa appena possono rubano o malversano. La coesistenza delle due Italie è permessa dalla naturale ritrosia degli onesti a frequentare i ladri, una scelta spesso a fiuto, a istinto, e viceversa la diffidenza e più ancora il fastidio dei ladri per le persone oneste.

Fatto sta che spesso accade che un onesto alla notizia di una nuova ennesima retata di ladri si chieda: ma è possibile che io non ne conosca e riconosca mai uno, che incontri per il mio lavoro capi ufficio, direttori, pubblici ufficiali, imprenditori e mai una volta mi renda conto che sono dei ladri? O forse accade proprio il contrario, che a fiuto, a vista, lo riconoscono subito il ladro, ma si accontentano di girare alla larga.

Quando si è giovani con figli piccoli la presenza della razza ladrona la vedi facilmente, perché i figli vanno a scuola e hanno molti amici, devi andare alle loro feste con i parenti dei loro compagni e non puoi non riconoscerli, i ladroni e i cortigiani. Ma avanti negli anni il rischio di incontrarli diminuisce o si annulla, la cerchia dei tuoi amici si riduce ai pochi e fidati, sicché poi, ogni mattino quando arriva l'informazione, ti sorprendi a chiederti: ma è possibile che sia questa la società in cui vivo, questa in cui si è perso non solo il più elementare rispetto della pubblica opinione, ma di ogni tipo di vergogna, di pentimento, di disagio?

L'Italia dei ladri non solo è priva di vergogna, ma proterva e protetta.
Il noto impresario costruttore dichiara a muso duro che si avvarrà della facoltà di non rispondere a quei menagramo filocomunisti dei magistrati, e quasi tutti appena colti con le mani nel sacco minacciano agli incauti giornalisti querele miliardarie. Su tutti i media padronali s'impartiscono lezioni a misura dei ladri. Non esistono più datori di lavoro che si giovano del lavoro e dei talenti dei loro dipendenti, ma benefattori che accusano i loro dipendenti di "sputare nel piatto in cui mangiano".

Ragion per cui uno scrittore che ha fatto guadagnare una fortuna al suo editore viene accusato di tradimento e fellonia: che vergogna!
Ha scritto un libro di un milione di copie, ha fatto guadagnare al suo editore miliardi e questi osa criticarlo o essere di diversa opinione.

Spesso gli italiani dell'Italia onesta vivono nel loro paese come in un paese straniero, cercando di passare inosservati, di non incorrere nelle ire e nelle vendette dei padroni, che al minimo dissenso li accusano di essere dei sovversivi, iscritti al partito dell'odio.

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Titolo: GIORGIO BOCCA. Il paese delle storie eterne
Inserito da: Admin - Settembre 17, 2010, 02:10:56 pm
Il paese delle storie eterne

di Giorgio Bocca

Apri i giornali al mattino e sai già tutto: la noia spessa della società ladra.

La scoperta che lo Stato è la vera banca dei ladroni

(17 settembre 2010)

Il segreto di una lunga vita sta nel trovarla interessante non solo dopo le prime volte, ma sempre, anche dopo la centesima, nel conservare la curiosità dei bambini anche se gli anni passano. Le prime volte sono intense e memorabili: il primo amore ricordato per tutta la vita come l'unico, il più grande; il primo lutto familiare, la terribile scoperta che la morte non risparmia i cari, i più amati; il primo schiaffo ingiusto di tuo padre per un errore commesso da un altro; il primo desiderio sessuale. Anche la montagna della prima gita. Può essere una montagna qualsiasi, brulla, modesta, ma sognerai per tutta la vita la sua neve che si alzava sotto i tuoi sci, le curve che disegnavi come in una danza.
Forse per conservare il piacere della prima volta vengono in nostro soccorso le abitudini che ci fanno desiderare come la prima volta la sigaretta di ogni giorno, il cognac di ogni dopo pranzo. I giovani pensano che la lode del tempo passato sia mancanza di fantasia, di desiderio del nuovo, di gioventù. Ma il suo nome giusto è che si è esaurito lo stupore della prima volta, dell'emozione della prima volta di un colpo di fucile, di un mare in tempesta, di un fulmine che ti esplode a un passo.

Saper vivere, imparare a vivere è sapere che il mondo continua anche dopo la prima volta, che alla sorpresa dell'ignoto seguiranno quelle della conoscenza, delle sue complessità, dei suoi dubbi. Ma non è facile. La sorpresa della prima volta è vibrante, bruciante, forte, ha il segno dell'immortalità, il segno dell'evoluzione che non si ferma, della vita che continua. Solo le prime volte dei bambini possono far riscoprire ai vecchi il calore della vita che continua. La condanna a una vita fatta solo di seconde, di terze, di centesime volte, quella che a volte colpisce anche i paesi di lunga e ricca storia, anche come il nostro che più volte sono stati guida del mondo: la noia del risaputo e dell'inevitabile, la profondissima noia dei paesi dove il fare della minoranza al potere è rubare, ingannare, mentire.
Apri i giornali al mattino e sai già tutto ciò che vi è scritto, la noia spessa della società ladra. Che cosa ha fatto il ministro dello Sviluppo economico? Ha sviluppato le ristrutturazioni dei suoi alloggi con i soldi degli impresari favoriti negli appalti. Che cosa può aver combinato il direttore delle opere pubbliche che decide i finanziamenti per la produzione di energie rinnovabili? Si è messo d'accordo con un noto faccendiere in odor di mafia e di massoneria deviata, un amico di "Cesare", del politico onnipotente, e a forza di faccende inconfessabili se non al magistrato ha fatto miliardi sui terremoti, sulle alluvioni e sulla siccità perché l'utile e il dilettevole della società ladra è far soldi con le imprese più facili, ultima quella di privatizzare l'acqua.

Altro che sorpresa delle prime volte, questo è diventato il paese delle storie eterne, a ben vedere sempre la stessa, la scoperta che lo Stato è la vera banca dei ladroni, la grande cassaforte da cui possono tirar fuori i soldi a palate, ma che diciamo, a colline, a montagne con una facilità inaudita. Basta trovare o farsi trovare dal capo cordata, dal ducetto di turno, dall'uomo della fortuna, dall'incantatore e tutte le porte del tesoro si aprono, anche quelle delle sciagure e dei disastri nazionali e mondiali, come nella storia esemplare dei costruttori di alloggi che si felicitano l'un l'altro per gli ottimi affari che faranno sull'Abruzzo terremotato.
La vita non è fatta così? La stagione giovanile delle prime volte emozionanti e poi le centinaia, le migliaia di seconde volte sicure come la morte, nella società ladrona.© Riproduzione riservata

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Titolo: GIORGIO BOCCA. Democrazia e satrapia
Inserito da: Admin - Settembre 21, 2010, 05:22:06 pm
Democrazia e satrapia

di Giorgio Bocca

La scissione di Fini dal berlusconismo, l'idea politica, sta nella parola legalità.

Che è il punto di separazione irrinunciabile fra Stato di diritto e sultanato

(10 settembre 2010)

Che cosa è questa crisi? Nessuno lo sa. Quando finirà? E chi lo sa? Si direbbe che la specie umana abbia perso il controllo dell'economia, non sappia più quanti beni produce e perché, se in misura giusta o eccessiva.
L'altro giorno, per dire, ho smarrito il cavetto di alimentazione del mio rasoio elettrico. Non ho trovato un ricambio, la ditta che li fa li cambia di continuo, quelli in commercio non si adattavano al vecchio rasoio, ho dovuto comprare un rasoio nuovo. Possibile? Possibilissimo, gran parte della produzione è affidata alla variazione continua dei prodotti, all'eliminazione forzata dell'usato. Se l'economia, anche la più semplice come quella di sostituzione è affidata a un inganno, a un furto, al togliere a un possessore di un utensile la possibilità di tenerlo in funzione, la comprensione della funzione economica che va sotto il nome di finanza, acquisto e vendita di beni, gestione di interessi e di debiti è così complicata e irraccontabile che di fatto tutta o quasi l'informazione finanziaria stampata o radio-televisiva è incomprensibile a una persona di media cultura, riservata a specialisti che comunicano in modo cifrato, specializzato.

Ne risulta che giornali e telegiornali non sono più in grado di spiegare al cittadino comune che cosa è una manovra finanziaria, che cosa una politica di sviluppo o di antirecessione, che cioè la maggior parte della politica, della pubblica amministrazione è una serie di pacchetti confezionati dagli esperti. Economia e finanza non sono più materia per i cittadini ma per gli esperti, che nell'ignoranza generale diventano uomini del miracolo, veggenti in un mondo di ciechi.
Come ha fatto Marchionne a risanare la Chrysler? Come uomo di economia? No, come uomo dei miracoli che va in giro vestito da uomo dei miracoli, con un maglione scuro e pantaloni cascanti. A forza di invenzioni e di progressi l'umanità si è riconsegnata ai furbi e ai truffatori.
Che cosa sono l'economia e la finanza nel sultanato berlusconiano? Un lavoro assiduo, instancabile e, a volte, maniacale del ceto al potere, del sultano e della corte a servire lo Stato derubandolo.
Che cosa era la specialità del faccendiere Carboni? L'antica abitudine a organizzare furti del pubblico denaro con tutte le trovate possibili. Per esempio il piano della produzione di energia eolica, cioè per ottenere dagli amici della regione Sardegna i permessi per impiantare i moderni mulini a vento dello Stato, i sussidi per pagare e per collegare la produzione alla rete elettrica. Un gioco da gran furfanti ma anche da bambini nella sua semplicità: basta mettere d'accordo gli amici che stanno alla regione con quelli che stanno al governo e con gli altri che stanno nell'informazione, nella magistratura e in tutti i nodi e i passaggi che contano, e il gioco è fatto. Deve essere anche, finché non arrivano le manette e la galera, un gioco appassionante per un ometto come Carboni, convinto di essere un maestro nella fabbrica di soldi, e degli altri della nuova loggia P3, che se non esiste per statuto e per cerimonie misteriose esiste di fatto.
Il fenomeno politico del berlusconismo sta tutto qui, nell'applicazione alla politica e al governo della mentalità mercuriale, affaristica sempre alla ricerca del denaro pubblico, a volte guadagnato in modo onesto, spesso, se i controlli mancano, in modo truffaldino.

Il programma politico, l'idea politica, la scissione dal berlusconismo di Fini stanno nella parola legalità, che è la sua bandiera, la legalità è il punto di separazione decisivo e irrinunciabile fra la democrazia e il sultanato, fra lo Stato di diritto e la satrapia.

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Titolo: GIORGIO BOCCA. Ma che noia la tivvù
Inserito da: Admin - Settembre 24, 2010, 06:34:43 pm
Ma che noia la tivvù

di Giorgio Bocca

Ci arriva una marea dell'ovvio, del ripetuto, dello stolto, del volgare.

Persino i bollettini del tempo che notoriamente è mutevole sono sempre uguali

(24 settembre 2010)

Miss Italia 2010 Miss Italia 2010Un illustre collega scrive in una sua rubrica sul "Corriere della Sera": "Giorgio Bocca si lamenta perché la televisione è noiosa. Gli diamo un consiglio: la spenga". Non è così facile come pensa spegnere il mondo: le sue voci incessanti dirette e di sottofondo, le sue infinite voci che ci arrivano da mille fonti visive, auditive e dalle loro incessanti eco.
Un tempo eremiti e trappisti si ritiravano in qualche romito per non udirle, ma ora ti arrivano dovunque, come le particelle che penetrano anche nella roccia profonda del Gran Sasso. Sono le voci irresistibili della pubblicità, la padrona del creato, la padrona degli uomini moderni.

Che tipo di voci sono? Ripetitive fino all'ossessione, come la pubblicità altrimenti detta "l'anima del commercio", se questa è un'anima e non un orrendo rimbombo. Le voci che arrivano dal mondo riempiono le nostre ore, si ripetono all'infinito per la semplice ragione che la comunicazione continua deve ripetersi.
Cominciamo dal notiziario sportivo, il cui pezzo forte è il mercato dei calciatori. Alcuni sciagurati senza nome e senza futuro devono in continuazione occuparsi di brocchi senza fama e senza futuro, essendo i campioni rari e prenotati, e per darsi un tono farciscono questo vuoto delle loro spiritosaggini e di scambi di complimenti chiamandosi per nome, "cara Tania, cara Gioia". Poi arriva la specialista dell'economia e della finanza, che dovendo occuparsi dei ladrocini e delle truffe mondiali dei suoi padroni usa un linguaggio specialistico, incomprensibile a tutti salvo che ai suoi invitati che parlano il loro cinese fra sorrisi d'intesa.
Caro collega illustre: tu dici che basta spegnere la televisione e la radio e non leggere i giornali per salvarsi dalla schiacciante, aggressiva ripetitività del mondo? Io ebbi la precisa e scoraggiante prova della nostra passività di fronte alle voci mercuriali del mondo in un viaggio negli Stati Uniti. Passavamo da uno Stato all'altro, per campi sterminati, lasciando alle spalle nuvole di grattacieli e fiumi di automobili, ma la radio continuava a ripetere una parola come un continuo schiaffo, un continuo sputo, una continua invocazione o condanna: la parola dollaro, per ricordarti di continuo che quella moneta era l'unità di misura della tua vita, di tutta la nostra vita.

Non basta spegnere le televisioni e buttare i giornali per scampare alla marea dell'ovvio, del ripetuto, dello stolto, del volgare che riarriva dal mondo. Il quale con le nuove tecniche ha scoperto i nuovi mezzi di comunicazione, inesauribili, ma non le notizie, le informazioni, le invenzioni, la poesia, le consolazioni di cui si nutre l'uomo, e non sapendo inventarne di nuove le ripete all'infinito: la maggior parte delle trasmissioni campa di vecchi film, di vecchie inchieste, di vecchi spettacoli, di cadaveri illustri che ricompaiono sugli schermi fluorescenti. Non illudiamoci che si tratti di una riscoperta della nostra storia e della vita del nostro pianeta, di quello che siamo stati e che possiamo essere. Questi sono argomenti complessi, difficili, che la fabbrica televisiva affronta solo con rievocazioni elementari, con il solito Egitto di cartapesta presentato da qualche guida improvvisata, e le presentazioni servono a riciclare il già visto, le "nevi del Kilimangiaro" e i gorilla della montagna sono sempre gli stessi e un presentatore vale l'altro, una bonazza a cui purtroppo la televisione sforma un po' le curve vale l'altra.
Persino i bollettini del tempo che notoriamente è mutevole sono sempre uguali.

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Titolo: GIORGIO BOCCA. La lezione di Gheddafi
Inserito da: Admin - Ottobre 01, 2010, 03:55:45 pm
La lezione di Gheddafi

di Giorgio Bocca

La visita del colonnello ci ha mostrato come la strada verso un mondo civile è ancora lunga e non resta che rafforzare e rispettare quel poco di diritto internazionale che ci siamo dati

(01 ottobre 2010)

In occasione della visita in Italia del dittatore libico Gheddafi abbiamo avuto la conferma del nostro peccato originale, della vocazione del genere umano al male, del perenne trionfo del diavolo o maligno. Personaggi dei più diversi ceti sociali, delle più diverse educazioni, hanno ripetuto con forza come ineluttabile il teorema della perdizione, la corsa di tutti al peggio.

Gheddafi è un dittatore arcaico, feroce e astuto, parodia della politica, ma ha il petrolio e il metano, è il padrone dell'energia a buon prezzo senza la quale il nostro consumismo delirante non può durare. I più agghiaccianti erano i superstiti del sessantotto, delle utopie comuniste più ardite, quelli che avevano superato Gesù Cristo nel messaggio evangelico della onesta povertà e dell'amor del prossimo. Ed eccoli, fra i più decisi a seguire la nuova legge, il nuovo testamento: il nostro dio è Mammona, non c'è altro dio che quello dei buoni affari, se vuoi convertire peccatori fai come loro, frequentali, trattali bene e naturalmente cogli l'occasione per fare soldi.

Il colonnello Gheddafi e le sue oscene amazzoni con gli occhiali neri, il tiranno libico arrivato in Italia con il suo circo equestre di cavalli berberi (ma pensate, il campione dell'anticolonialismo, della rivincita islamica, che si presenta ai feroci italiani dell'impero con una "fantasia" equestre, cioè con il più colonialista dei festeggiamenti) e fa meglio dei missionari europei che compravano le anime con le collane di specchietti: lui incarica una società di convertire centinaia di fanciulle con 200 euro a testa, fa meglio di tutti i ricattatori, chiede i soldi all'Europa bianca minacciandola di aprire le porte all'immigrazione di colore.

Lui conosce l'arte della diplomazia da colpo sicuro, diventare socio in affari dei corrotti, usare le società anonime per coprire i furti comuni. Gli intellettuali democratici con la puzza sotto il naso? Niente paura, basta promettergli borse di studio, finanziamenti per le loro università, per le loro pubblicazioni. L'effetto boomerang? Lo sdegno e il rifiuto per quest'islamismo dozzinale e corrotto? Non contateci, il furbo Gheddafi conosce i nostri punti deboli.

Alla fine dei conti: che dire? Che proporre? Che la strada da percorrere verso un mondo civile è ancora lunga e irta di ostacoli, ma che non c'è altro da fare che cercare di rafforzare e di rispettare quel poco di diritto internazionale che ci siamo dati, che questa e non altra è la conquista, il progresso che dobbiamo compiere. Non il partito del fare che tanto piace al Cavaliere di Arcore e ai suoi ammiratori laburisti, ma il partito dei diritti umani, della legge internazionale eguale per tutti.

La lezione di Gheddafi è stata chiara: non si rende civile la specie umana incoraggiando i suoi vizi, non si regola l'avidità incoraggiandola, ricevendo con tutti gli onori despoti feroci in cambio di petrolio e coltivando le false giustificazioni che non c'è altro modo per convincerli, che bisogna persuaderli invece che fargli il viso delle armi.

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Titolo: GIORGIO BOCCA. Le gambe delle modelle
Inserito da: Admin - Ottobre 08, 2010, 12:56:28 pm
Le gambe delle modelle

di Giorgio Bocca

Siamo assillati da paure e incertezze. A tenerci in corsa in questo mondo c'è la vanità ma sono di più le forze che ci dominano.

Le mode per esempio, l'appartenenza al gregge

(08 ottobre 2010)

C'è chi si sente padrone di sé e del mondo e chi vive di paure e di misteri. Io fra essi, piccoli e grandi. Uno piccolo è quello del citofono. Per tutta la giornata l'elettricista ha trafficato in casa, per le scale, nel cortile per aggiustare il citofono, cioè il filo che collega l'ingresso al piano terreno con il mio studio. Pare che stiamo per tornare sulla Luna per andare su Marte, ma il filo del mio citofono è sempre rotto. Funziona per qualche ora e poi si sentono dei crac, dei frrr, niente altro. Sono in questa casa da 15 anni e da altrettanti il citofono si rifiuta di funzionare, tiene in scacco me, la segreteria del condominio, gli elettricisti di turno, insomma la tecnica. È una stupidaggine ma mi dà un grande fastidio e aumenta la mia insicurezza.
Poi ci sono le grandi impotenze, i grandi buchi neri. L'economia per esempio, il mistero delle crisi economiche. Se ne occupano giornali e televisioni, esperti di ogni tipo e grado presentati da fanciulle di gradevole aspetto. Gente che ha studiato anni, che ha un cervello fine e computer prodigiosi a sua disposizione, ma cosa sanno dirti? Su per giù cose del genere: "Forse siamo fuori dalla crisi ma potremmo tornarci. Io l'avevo prevista ma non sapevo come evitarla. Un giorno o l'altro se ne andrà ma non sappiamo quando. Roosevelt la curò con il New Deal e il comunismo con i piani quinquennali, ma al momento non abbiamo rimedi convincenti".

Sarò un debole, un pauroso, ma le incertezze di questo mondo per me sono troppe: dal classico vaso che può caderti in testa, al fulmine che può inchiodarti, alla Borsa valori che sale e scende a suo comodo. Dite che sono un pauroso? Un fragile? Ma chi è che non ha sentito un brivido di angoscia salendo in un ascensore al pensiero che la fune d'acciaio potrebbe rompersi?
A tenerci in corsa in questo mondo c'è la vanità. C'è sempre qualcuno che per diventare famoso è pronto a entrare in una capsula metallica che sarà lanciata nel cosmo. Ma sono di più le forze che ci dominano, che ci schiacciano. Le mode per esempio, l'appartenenza al gregge e a ciò che il gregge ci impone. Quest'anno vanno di moda gli abiti blu e tutte le donne si vestono di blu. Pare che lo abbia deciso Armani o qualche altro santone della moda, ma non perché sia un padrone dei colori, è padrone del fatto che un colore di moda viene adottato da tutti finché non arriva una nuova moda. Così è anche delle capigliature. Quest'anno quelle maschili seguono la moda della capigliatura: tutti quelli che non sono calvi sono costretti a seguirla, ciocche di capelli caduti sulla fronte, l'opposto della moda di 120 anni fa quando regnava Umberto I che aveva i capelli a spazzola, i capelli alla Umberto, e tutti lo copiavano.

Le mode non sono casuali, le impongono di solito quelli che sulle mode campano: sarti, parrucchieri, venditori di effimero, fotografi. Quest'anno i fotografi hanno cambiato le gambe delle modelle: da tonde, polpose e diritte che erano, le impongono magre e arcuate, tutte quelle che appaiono sugli schermi e sui giornali devono tenerle un po' storte. Le taglie grandi sono bandite, anche se la maggior parte delle persone è grossa e cicciona e nei negozi di abbigliamento non si trovano più magliette e camicie di taglia grande, bisogna farsele fare su misura. E questo spiega in parte la moda: bisogna trovare il modo di aumentare i consumi e di vincere la noia del già visto, del già pensato, e così succede che le persone più sottomesse alla legge del gregge, alle abitudini e ai luoghi comuni del gregge, passino per le più eleganti. Sono le più obbedienti ai valori delle masse e passono per snob.

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Titolo: GIORGIO BOCCA. La nuova destra di Fini
Inserito da: Admin - Ottobre 15, 2010, 10:51:45 pm
La nuova destra di Fini
di Giorgio Bocca

Dopotutto il liberismo opportunistico è meglio di un autoritarismo permanente e aggressivo. Ma c'è il rischio che ancora una volta si perda l'occasione per una solida e affidabile scelta democratica

(15 ottobre 2010)

Che Gianfranco Fini sia un politico in cui gli italiani si riconoscono è confermato dai seguenti dati di fatto: i suoi avversari Berlusconi e Bossi hanno subito cercato di toglierselo dai piedi nel modo sleale, all'italiana, che ci è proprio, depoltronarlo, cacciarlo dalla sedia autorevole su cui è seduto, la presidenza della Camera. E le sue svolte politiche, ultima quella del suo discorso a Mirabello, hanno confermato che egli è uno dei più arditi interpreti del trasformismo italiano, avendo osato, finora con successo, di mettere d'accordo fascismo e liberalismo che notoriamente sono come il bianco e il nero, il diavolo e l'acqua santa, e di essersi fatto applaudire toto corde sui temi della libertà da una platea fra cui i fascisti di sempre, gli squadristi eterni, erano chiaramente riconoscibili, a conferma, in questo caso, che da noi le idee contano pochissimo rispetto allo spirito di fazione e alla convenienza.

Gli avversari di Fini hanno detto che il suo è stato un discorso abile pronunciato da un politicante abile nel parlar bene per non dire niente. È vero, ma che altro è, salvo rare e spesso tragiche eccezioni, il modo di far politica in Italia? Per me non è stata una sorpresa. Ho conosciuto Gianfranco Fini per un'intervista quando era segretario del Msi, erede prediletto di Giorgio Almirante. Andai alla direzione neofascista come in terra nemica, come la volta che a Monaco intervistai il maresciallo Kesselring. Chiesi a Fini quali fossero i valori del neofascismo. Mi rispose che erano la fedeltà alla parola data, l'onorabilità, la tradizione, insomma quello che un cittadino ben nato ha succhiato con il latte materno. Non mi spiego che cosa avessero a che fare questi valori con una fedeltà al nazismo che di questi e di altri grandi valori aveva fatto strame.

Gianfranco Fini è un uomo politico e il suo mestiere è di trovare consensi oggi, e nel mondo di oggi la democrazia è di moda, non odiata e diffamata come negli anni dei fascismi nascenti. E si può anche pensare che dopotutto il liberismo opportunistico è meglio di un autoritarismo permanente e aggressivo. Resta però la sensazione che dietro queste facili conversioni italiane dal fascismo alla libertà ci siano gli antichi vizi, l'antica ignoranza, e gli antichi opportunismi. E che ancora una volta si perda l'occasione di consolidare questo vago desiderio di libertà in una solida, consistente, affidabile scelta democratica.

Gianfranco Fini è un politico italiano, molto italiano. La sua scelta del luogo dove annunciare la sua svolta, il paesello del ferrarese, si colloca nella tradizione italiana. Anche i socialisti turatiani avevano il loro luogo contadino puro e fedele, e raccomandavano: "Nei momenti difficili aggrappati a Molinella". La Molinella della destra liberale si chiama Mirabello, e a Mirabello nella cerimonia d'investitura di Fini è tornato a galla anche il legame italiano con la civiltà contadina. A Fini hanno offerto il tradizionale bicchiere di vino del buon ritorno, e lui lo ha bevuto e apprezzato come si deve in visita ai parenti di campagna.
E dove si è svolto il discorso-comizio? Nella piazza del paese sotto la canonica. Mancavano solo Peppone e don Camillo. Dicono che è un bene per l'Italia che finalmente nasca una destra "normale". È un desiderio comprensibile se si pensa alle occasioni perdute dal berlusconismo, alla sua stolta volontà di trasformare il governo in un buon affare.

   
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Titolo: GIORGIO BOCCA. Ma poi danno il meglio di sè
Inserito da: Admin - Ottobre 24, 2010, 03:43:03 pm
Ma poi danno il meglio di sè

di Giorgio Bocca

Gli italiani emergono nei momenti difficili. Però nei giorni di pace e abbondanza mostrano differenze abissali.
E non sai dire se gli toccheranno tempi felici o nuove sventure

(22 ottobre 2010)

Fontana di trevi a Roma Fontana di trevi a RomaChi sono gli italiani? Esistono gli italiani come nazione diversa dalle altre, riconoscibile fra le altre per i suoi difetti e le sue virtù? A volte la conferma della loro esistenza è di un'evidenza lampante. Basta, per dire, passare il confine fra il Trentino e l'Alto Adige per capire che si è in mondi diversi, fra popoli diversi per lingua, costumi, senso geometrico del paesaggio, disegno dei campi, dei boschi, dei campanili, delle case, delle stufe, dei prosciutti, dei Cristi in croce, dei tabernacoli, del pane, di tutto. E se non sai di preciso che sono gli italiani come puoi rispondere sul loro futuro, predire le loro sorti sociali e politiche? Tu sei uno di quelli che credono nella vitalità, nel futuro, nella salvezza degli italiani. Ma perché ci credi? Per un forte senso di appartenenza, di solidarietà, di affinità? O per qualcosa di più generico e indefinibile come "lo stellone", la protezione divina accordata a questo popolo nel bene come nel male, nella buona come nella avversa fortuna?

Hai dato a questa rubrica di giornale il titolo "L'Antitaliano", per dire l'italiano diverso da quello che il nazista Goebbels chiamava con disprezzo "un popolo di camerieri e di zingari", o Lamartine "un'espressione geografica", o Mussolini "un popolo che è inutile governare". Milioni di persone della stessa lingua, per cui "il sì suona" ma incapaci, messi assieme, di diventare società, Stato. E poi nelle tue recenti memorie passano gli italiani opposti, i montanari, i contadini, gli umili che durante la guerra stavano con te partigiano, anche se sapevano che le loro case sarebbero state incendiate e loro uccisi o deportati.
Chi sono gli italiani? Quelli che hai conosciuto e stimato per gli imperativi etici, i Bobbio, i Gobetti, i Foa, quelli che scrivevano le lettere dei condannati a morte, e i montanari come il taglialegna Marella, che ti offriva il suo vino mentre la sua casa bruciava e diceva: "Un errore i nazisti lo fanno sempre, mi hanno bruciato la casa, mi hanno rubato le bestie, adesso non mi resta che combatterli fino alla fine".
Dicono, ed è vero, che gli italiani danno il meglio di sé nei giorni difficili. Danno, ad essere più esatti, quello che non ti aspetti, dati i loro usi e costumi abituali . Per cui, come per improvviso miracolo, lo stesso che era pronto a ucciderti, a venderti per un interesse banale in difesa della "roba", di una gallina, di un frutto ora è pronto a perdere tutto, la vita compresa, contro l'occupante. E più erano italiani umili, poveri, abbandonati, più erano generosi, più si privavano del poco che avevano per aiutarti, durante i rastrellamenti ti ospitavano nonostante le minacce di fucilazione.

In questa nazione che chiamano italiana, in questo popolo che abita la Penisola "ch'Appennin parte, e 'l mar circonda et l'Alpe" ci sono, specie nei giorni di pace e di abbondanza, differenze abissali, caricaturali tra gli italiani. I faccendieri amici dei politici al potere, i cortigiani dei ducetti di turno, gli amministratori della furbizia e dell'inganno che appaiono in televisione e sui giornali con il loro seguito di escort e di profilattici, nelle loro ville comprate con i soldi dello Stato, fra i loro legulei pronti a tutto, fra i faccendieri nati per frodare, che potrebbero fare professioni oneste ma sono attratti irresistibilmente dalle truffe e dai lenocini, insomma la scoperta che il peccato originale e il demonio non sono un'invenzione dei preti, ma la realtà incancellabile del mondo.

E se allora qualcuno ti chiede che ne sarà degli italiani, se li aspettano tempi felici o nuove sventure non sai bene cosa rispondere, ti rivolgi anche tu allo stellone che dovrebbe proteggerci. Ma perché poi?

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Titolo: GIORGIO BOCCA. Alla fiera dei luoghi comuni
Inserito da: Admin - Novembre 02, 2010, 06:33:52 pm
Alla fiera dei luoghi comuni

di Giorgio Bocca

Dato che la politica italiana è sempre la stessa, fatta di retroscena e di conflitti di interessi noti a tutti ma che nessuno risolve, meglio tirare a campare e masticare gomma

(29 ottobre 2010)

Casa di Montecarlo Casa di MontecarloI luoghi comuni sono come la calcina per le case: se vuoi che i mattoni stiano assieme devi spalmarli come il burro su un tramezzino. Apriamo un giornale o una tv a caso e guardiamo cosa passa la cucina dei luoghi comuni. C'è sempre un Napolitano a doppia temperatura: "Gelo di Napolitano", "Napolitano (riscaldato) stringe la mano al nuovo ministro Romani". A che si deve questo mutamento di temperatura del nostro presidente? I media non lo spiegano, non per ragioni politiche ma di tira a campare: dato che la politica italiana è sempre la stessa, fatta di retroscena e di conflitti di interessi che tutti conoscono ma che nessuno risolve, meglio darli per noti e tirare avanti a masticare gomma.

E così ogni giorno c'è un "piano di rilancio dell'industria", una "disoccupazione giovanile che sale" e "gli uomini della P3" che per altri è "la bufala della P3". Poi quello che ci vuole di orgasmo consumistico: "Ken Follet ha venduto cinquantasei milioni di copie", "la Coca-Cola senza zucchero è la più venduta negli Usa", "è uscito il sesto libro di Giampaolo Pansa sul sangue dei vinti che non dimenticano".
Ci sono anche le imprevedibili sciagure naturali che però si ripetono regolarmente ogni anno negli stessi luoghi, dalla Costiera amalfitana al nord Milano, dove imperversa un fiumiciattolo di nome Seveso, piccolo, ma, se gli va, furibondo. E trattandosi di Milano non può mancare la scoperta di versi inediti di Alda Merini, poetessa proletaria. La casa di Montecarlo fa storia a sé. Mai un edificio che non sia il Colosseo è stato nominato e fotografato con maggior frequenza.

La metà dei media, per via del fatto accertato che le donne hanno più tempo degli uomini per leggere, è riempito di argomenti cosiddetti femminili perché sono di evasione, spesso stranoti e insulsi, ma che ripetuti per la millesima volta tengono compagnia, come la cura dei malesseri che vanno e vengono per conto loro, la confezione delle marmellate che tutti conoscono dato che si tratta dell'operazione non ardita o complessa di far cuocere assieme frutta e zucchero. Temi che essendo di per sé corroboranti possono accompagnarsi bene ai consigli sul sesso, ai cento modi cinesi di fare l'amore e nei casi più arditi del sesso con gli animali.
C'è poi quell'argomento senza fine che sono i cantanti, dal cupo Battiato alla misteriosa Mina, molto invidiata perché ha la residenza in Svizzera e che, come se non le bastassero le canzoni, tiene anche una rubrica settimanale sulla "Stampa" di sociologia varia e un po' ermetica. Molto spazio, si diceva, viene riservato alla cura dei malesseri incurabili o quasi, che consiste nell'indicare lenimenti e guarigioni impossibili o elementari, come la moderazione nel cibo o nel sesso, che per miliardi di uomini hanno altri nomi come la miseria o la fame.

Molto curate, si capisce, le rubriche sull'astrologia e sugli oroscopi, la cui bontà è garantita dal fatto indiscutibile che sono vecchi come l'umanità, popolarissimi proprio perché fuori da ogni conferma logica e statistica. Ai lettori maschi sono dedicate le pagine dello sport, che per gli italiani è il calcio, dove il vaniloquio non solo è permesso, ma richiesto e illuminato perché di qualsiasi giocatore o partita o allenatore si può dire tutto e il suo contrario, inventando amori e odi, congiure o condanne, vizi e virtù che non hanno alcun riscontro nella realtà, pur di continuare l'etica fasulla di guerre immaginarie, di gloriose battaglie con una palla di cuoio che se ne va dove vuole a ogni soffio di vento.

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Titolo: GIORGIO BOCCA. Giornalismo suicida
Inserito da: Admin - Novembre 05, 2010, 04:21:10 pm
Giornalismo suicida

di Giorgio Bocca

Mai si era scesi così in basso: in una gara al reciproco dileggio fatta con inedita violenza.

Causa il declino, se non la scomparsa, dei valori etici

(05 novembre 2010)

http://espresso.repubblica.it/dettaglio/giornalismo-suicida/2137664/18http://espresso.repubblica.it/dettaglio/giornalismo-suicida/2137664/18Mai il giornalismo italiano era sceso così in basso. Un fiume di diffamazioni reciproche, di attacchi personali, di finte rivelazioni su peccati veri o presunti anche se risalenti a trenta o a cinquant'anni fa del tipo "sei stato un fascista", "hai scritto lodi di Mussolini". In questa gara al reciproco dileggio i giornalisti sembravano voler apparire più accaniti, più feroci dei loro mandanti proprietari.
Il direttore del "Giornale", per dire, sembra impegnato in una gara con il proprietario di fatto Silvio Berlusconi a chi è più accanito nella diffamazione degli avversari politici. Che si tratti di un giornalismo suicida che vuole morire in mezzo ai miasmi e ai veleni che sprigiona lo capiscono tutti, anche nella parte di uno dei protagonisti del conflitto. Nicola Porro, vicedirettore del "Giornale", ha detto in televisione: il "Giornale" parte ogni mattino con due condizionamenti pesantissimi, uno di essere il giornale del padrone, l'altro di avere un direttore che appena sveglio pensa a quali argomenti trovare per aumentare il numero dei lettori. È una descrizione perfetta di ciò che non bisogna fare nel buon giornalismo. Il padrone che usa il giornale anche per i bassi affari, per i mediocri conflitti della lotta politica, e il direttore che cerca gli argomenti scandalosi che piacciono ai lettori non possono ignorare che così si fa del giornalismo giallo, non del buon giornalismo.

Il direttore editoriale del "Giornale" Vittorio Feltri non perde occasione per ricordare che con il suo modo di fare informazione ha diminuito i debiti e aumentato la vendita, ma ha fatto un giornale dichiaratamente fazioso, dichiaratamente punitivo degli avversari politici del suo padrone, un giornale che incute paura. Neppure negli anni della guerra fredda, dello scontro frontale con il comunismo staliniano si era arrivati a una simile violenza. Di De Gasperi, il leader democristiano, si scriveva al massimo che era un austriacante, un deputato di Trento al Parlamento viennese, di Togliatti che era l'uomo di Stalin, ma si rispettava la sua vita privata, la sua separazione dalla moglie, la sua relazione con la Iotti.

Allora io facevo un giornalismo di inchiesta che suscitava scandalo presso i conservatori, ma scrivendo della famiglia del re del cemento Pesenti non andavo più in là dal rivelare che in casa chiudeva il frigorifero con un lucchetto e si faceva pagare l'usura come dagli amici cui imprestava l'automobile.
Ma si dice: Berlusconi è stato sottoposto dalla stampa di sinistra a una persecuzione inaudita, a migliaia di attacchi, a volte di calunnie. Sì, ma come risposta a una sua ostilità senza precedenti verso la democrazia italiana, verso la magistratura, ad una sovraesposizione dei suoi piaceri e dei suoi amorazzi.
Ma c'è sempre una ragione più profonda. Questa durezza polemica, questo colpire l'avversario senza esclusione di colpi derivano anche dal cambiamento della società e dal declino, se non dalla scomparsa, dei valori etici. Nel mondo industrializzato dopo la seconda guerra mondiale valori come l'onore, la fedeltà, il buon nome, la rispettabilità si sono affievoliti sino a scomparire, sostituiti da un unico dominante valore: il denaro-potere, la ricchezza che ti mette al di sopra delle leggi e dei giudizi. Chi fa bancarotta non si toglie più la vita per la vergogna, i colpevoli dei fallimenti dolosi non si nascondono ma continuano a godere dei privilegi della ricchezza. In questo deserto degli antichi valori, in questa società dell'homo homini lupus non ci sono più limiti al generale massacro.

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Titolo: GIORGIO BOCCA. L'Italia di Avetrana
Inserito da: Admin - Novembre 12, 2010, 03:26:20 pm
L'Italia di Avetrana

di Giorgio Bocca

Il Paese intero sembra afflitto da delitti feroci senza senso, come se non sapesse più risolvere i suoi conflitti se non alla maniera barbara di levar di mezzo gli avversari o i contraddittori

(12 novembre 2010)

Gli italiani sono sedotti dai delitti, cioè dal male e dai suoi demoni. Nella campagna di Avetrana, come in tutti i luoghi dei crimini più orrendi, gli italiani vanno in pellegrinaggio per riconoscere da vicino i mostri che frequentano i loro sogni e le loro fantasie. Avetrana è un villaggio del profondo Sud e l'assassinio "familiare" di Sarah Scazzi è maturato e si è compiuto in una profonda campagna secondo un modo familiare cioè contadino, ma tutti gli italiani lo hanno sentito come proprio, a smentita che la società italiana moderna abbia perso i suoi fondamenti contadini: il perdurare di una diffusa barbarie soggetta agli appetiti sessuali e all'ignoranza.
Ciò che colpisce nel comportamento del contadino assassino Michele Misseri, di sua figlia Sabrina e della stessa vittima Sarah è l'assoluta stupidità dei comportamenti, il loro lasciarsi trascinare dai demoni dei desideri, della gelosia, degli istinti. Così privi di raziocinio che oggi a delitto avvenuto risulta difficile, quasi impossibile, ricostruirne una trama comprensibile.

Perché padre e figlia avrebbero ucciso Sarah? Dicono gli inquirenti: perché il Misseri aveva molestato la nipote quindicenne e ne era stato respinto, perché sua figlia Sabrina era gelosa di Sarah, sua rivale in amori paesani. E per questo si uccide, in modo che il delitto riveli tutte le sue origini familiari, e come non bastasse il Misseri ritrova in un campo il telefono della vittima credendo di allontanare da sé i sospetti mentre li ingigantisce? Non la coscienza, non la ricerca di impunità, non il giudizio del prossimo, non la morale guidano gli sciagurati, ma la televisione, l'occhio magico della televisione che riempie le loro giornate, il solo che li possa seguire e svelare nelle loro mosse assassine. "La televisione dava il telegiornale quando io telefonai a Sarah", dice Sabrina, "non ero nella cantina dove è stata uccisa". Tutti animati da una ferocia irragionevole e dall'accanimento contro i familiari.
Perché il Misseri ha accusato la figlia di complicità? Per trascinarla con sé all'inferno? Perché non sa controllare la memoria e la accusa con quel "noi siamo andati al pozzo". Tutti privi di pietà, Sabrina che accusa il padre e lo vuole sepolto vivo in prigione, l'amica di Sabrina Mariangela che non trova parole di pietà, ma di implacabile giustizia: "Se la mia amica c'entra la deve pagare".
Ne esce male anche l'informazione, Avetrana è un villaggio del profondo Sud nella campagna di Taranto, i primi ad accorrere sono i corrispondenti locali che mandano fiumi di parole confuse, di rivelazioni contraddittorie che si aggiungono alla difficoltà di trovare una minima ragione nella caotica e irragionevole vicenda.

Ma non solo Avetrana, l'Italia intera sembra afflitta da delitti feroci senza senso, una serie quotidiana di mogli uccise dal marito o di fidanzati accoltellati dall'amata gelosa. Come se l'Italia intera, l'intera società italiana, non sapesse più risolvere i suoi conflitti e le sue contraddizioni se non alla maniera barbara di levar di mezzo gli avversari o i contraddittori.
Nei giorni più duri e roventi della guerra civile un modo di dire usuale di un nemico era "fallo fuori", uccidilo, lascia il suo cadavere in un bosco o in un fiume, fallo sparire fisicamente. Come se la memoria e il rimorso non fossero dei testimoni implacabili per una prosecuzione senza fine del reciproco massacro.

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Titolo: GIORGIO BOCCA. Il nord inquinato
Inserito da: Admin - Novembre 20, 2010, 03:46:37 pm
IL COMMENTO

Il nord inquinato

di GIORGIO BOCCA

Ha fatto scandalo l'intervento di Saviano sulla Padania mafiosa e sulla Lega come terreno di caccia delle mafie calabresi e siciliane. Ma che la politica basata sulle tessere e sulle clientele, come viene praticata in Italia, sia un terreno adatto alle infiltrazioni mafiose non è una novità. Già nell'Italia rossa e in Toscana le clientele dei mezzadri erano un'istituzione rispettata e ritenuta il nuovo ordine: "Il capitalismo democratico è quello diretto dei comunisti".

E similmente per i cattolici integralisti di Comunione e Liberazione "il capitalismo buono è quello diretto dai seguaci di Don Giussani". La Lega continua la democrazia delle clientele. Se andate a vedere chi sono i leghisti nel Comasco o nel Varesotto trovate delle clientele che si spartiscono il mercato del lavoro, l'accesso alle tenute di caccia, ai sussidi, ai crediti agevolati.

Che le mafie, salite dal meridione, ambiscano ad entrare in queste clientele è normale, che la Lega e la sua organizzazione siano l'oggetto dei desideri dei mafiosi è un rischio concreto. Su questo Roberto Saviano ha detto cose vere, credibili: il leghismo è infiltrato dalle mafie del Sud. Mi convince un po' meno la tesi che tutto il federalismo possa essere un'occasione per un'epidemia mafiosa.
Certo, il federalismo all'italiana favorisce le clientele, basti pensare alle centinaia di finti ciechi mantenuti dalle amministrazioni della Campania, alle migliaia di assunti dalla burocrazia siciliana e della Lucania, più numerosi
percentualmente di quelli di Roma.

Gli sdegni e le proteste dei leghisti contro le accuse di Roberto Saviano sono poco convincenti, piuttosto si rafforza l'idea che nella società di tipo mafioso, dove la libertà di concorrenza è sostituita dai monopoli clientelari, dove la libertà di opposizione e di critica tace di fronte alla rete dei privilegi, la consorteria sia un portato storico, la difesa dalla legge del più forte, anche nel peggio, una forma di protezione per i non protetti e per i non riconosciuti. Qualcosa di simile ai Nap, Nuclei armati proletari, che negli anni di piombo assunsero la protezione dei derelitti e dei delinquenti.

Come ha osato dire Saviano che il virtuoso Nord celtico è mafioso? Eppure per esser d'accordo con lui basta girare per Milano e nell'hinterland. I mafiosi non solo sono visibili, ma padroni. Andate dal famoso ristorante di pesce di Città Studi, a capo del salone principale c'è una tavolata di mafiosi, non solo riconoscibili ma dichiarati, ostentati: una tavola lunga cinquanta metri. Alla destra le donne, fimmine cun fimmine, alla sinistra gli uomini, masculi cun masculi.

Al centro il capo, un vecchio con occhi fissi in un al di là mafioso, pallido, gracile, ma circondato da picciotti pronti a morire per lui. A un suo cenno i camerieri rinnovano le gioie della cornucopia, portano pesci preziosi, verdure raffinate. Noi stiamo a tavoli trascurati dai camerieri, tutti attenti a servire i mafiosi, arrivati in questa terra di marcite e di risaie dalle montagne calabresi o siciliane per rinviare, forse di secoli, la mitica unità d'Italia, per riaffermare la sua disunità reale.

È curioso come nell'era del mercato globale, senza confini, delle industrie senza patria, delle nazioni senza eserciti siano la mafia e la malavita a ricreare dei corpi sociali distinti, delle discipline e delle regole.

A Milano, città del capitalismo cosmopolita, dove una banca può comprare o vendere beni in ogni parte del mondo, dove i grandi ricchi sono al di sopra delle leggi, paradossalmente le mafie rappresentano ancora la diversità, la differenza fra il legale e l'illegale. Quella sera al ristorante di pesce vicino a Città Studi di Milano io e la mia famiglia di borghesi, cresciuti al suono degli inni nazionali, abbiamo potuto guardare i nuovi concittadini, se non i nuovi padroni: i mafiosi della 'ndrangheta o della mafia saliti al Nord e diventati in pochi anni non solo i padroni del denaro e dell'abbondanza, ma della tavola d'onore. Al loro servizio i camerieri zelanti, noi nei tavoli periferici, in attesa di essere serviti. Cose che accadono al centro di Milano, cose più che normali nelle periferie. Ci sono alberghi e ristoranti sulle strade per Lodi o per Vigevano dove alle due di notte, in notti di piogge e di neve, trovi tavoli imbanditi per i mafiosi, che discutono sui loro affari. A Corsico, a Mortara, a Mede, nei ristoranti trovi, se ti va bene, un tavolo d'angolo, lontano da quelli degli uomini d'onore.

E i giornali della borghesia, diventata socia d'affari della mafia, si lamentano e accusano Saviano di essere un comunista che offende l'onore del Nord operoso. A Milano i giovani continuano a fare la movida notturna, a girare per la città come in casa loro. Noi anziani ci muoviamo con cautela, in terra che ci sembra nemica. Forse abbiamo ragione entrambi. La vita continua.

(20 novembre 2010) © Riproduzione riservata
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Titolo: GIORGIO BOCCA. - Sposate un miliardario
Inserito da: Admin - Novembre 26, 2010, 05:21:28 pm
Sposate un miliardario

di Giorgio Bocca

È la soluzione indicata da Berlusconi a un paese fragile, che si arrende a ogni avversità naturale, che passa da un'emergenza all'altra in un territorio devastato dalla ingordigia e dai furti

(19 novembre 2010)

Alluvione in Veneto Alluvione in VenetoDa ogni parte si annuncia il tramonto del berlusconismo e si dice che a dargli l'ultima spinta sia stato Gianfranco Fini, per anni riconosciuto capo del neofascismo. Insomma, una tipica faccenda del trasformismo italiano della destra affaristica affondata dalla destra ideologica, nel frattempo riveduta e corretta in chiave democratica. Con la sinistra che stava a guardare o quasi. Operazione abilmente condotta da Fini e apprezzata dagli opportunisti che sono corsi ad applaudirlo e a promettergli loro voti. Insomma è toccato all'erede di Giorgio Almirante, fascista di Salò, di sventare il tentativo berlusconiano di instaurare una democrazia autoritaria.

Nella sala in cui Gianfrà, come lo chiamano, celebrava la sua vittoria si riconoscevano i fascisti di sempre che applaudivano l'abilità di Gianfrà nel presentare il suo progetto politico di una destra sempre a destra ma presentabile, lieti di abbandonare la nave pericolante e di saltare sulla zattera di salvataggio.
Forse che a noi il tramonto del berlusconismo non va bene? Va benissimo, anche se accompagnato dal sospetto che sia passibile di nuovi giri di valzer. Quali sono i pilastri, i fondamenti della democrazia sana e forte che piace a Fini e alla sua destra presentabile? I soliti cari alla borghesia ben pensante: l'amor di patria, vulgo nazionalismo, il rispetto della persona purchè ricca, la legalità, il meglio di un liberismo ben ordinato e civile. Fini, come ogni politico, fa bene a mostrarsi ottimista, ma la realtà del paese Italia non sembra incoraggiante, sembra piuttosto quella di un paese che non regge o regge male al suo sviluppo caotico e dissennato.

Intanto possiamo tirare le somme dell'esperienza berlusconiana. Fino all'ultimo il Cavaliere ha applicato al governo del paese i sacri principi del capitalismo aggressivo e ingordo. Buono forse negli anni in cui il mondo era ricco di risorse e di spazi vuoti, non ora, pieno di moltitudini affamate e di terre cementificate. La sua idea del progresso sociale si riassume in una delle battute che non fanno ridere ma piangere che gli sono care, il consiglio a una giovane donna in cerca di fortuna: "Sposi un miliardario".

Nei lunghi anni del suo potere il Cavaliere è stato un maestro di populismo, ha capito che poteva fare degli italiani suoi complici incoraggiandoli al naturale anarchismo, a non pagare le tasse, a liberarsi dei lacci e lacciuoli delle leggi, ad affidarsi alla pubblicità "anima del commercio" che nella gestione del paese si risolveva nel "tutto va bene", nei miracoli che sostituivano la buona amministrazione.

Il paese non ha resistito a questa cura massacrante: nei suoi punti deboli, fisici e civili, si è sfasciato, è arrivato al disastro perenne di Napoli e di altri luoghi del profondo sud. Governare l'Italia non è mai stato facile, ma pensare di governarla coll'attivismo del "faso tuto mi", delle amicizie con i potenti della terra, anche con i più feroci tiranni dimenticando ogni regola etica e praticando disinvoltura e furbizia, forse è servito ad arricchire la casta dei politici amici, ma non a salvarci da una retrocessione continua in tutti gli aspetti del vivere civile. Ancora una volta si è dimostrato che il buon imprenditore capitalista non è sempre un buon politico.
Al termine della gestione berlusconiana l'Italia si presenta come un paese fragile che si arrende a ogni avversità naturale, che passa da un'emergenza all'altra in un territorio devastato dall'ingordigia e dai furti. Forse al Cavaliere conveniva restare nelle sue televisioni, nei loro spettacoli, e nelle loro illusioni.

 
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Titolo: GIORGIO BOCCA. Caro Maroni hai la mafia in casa
Inserito da: Admin - Dicembre 05, 2010, 12:18:06 am
L'opinione

Caro Maroni hai la mafia in casa

di Giorgio Bocca

Da sempre la malavita organizzata si infiltra nelle schiere di chi ha il potere politico. E il Carroccio al nord ne ha moltissimo

(03 dicembre 2010)

Raduno della lega a Pontida Raduno della lega a PontidaGianfranco Fini e Pier Luigi Bersani sono comparsi in televisione invitati da Fabio Fazio per spiegare agli italiani che cosa sono oggi la destra e la sinistra. Nessuno dei due ha risposto in maniera convincente, a prova che la politica oggi è una partita di tessere e di interessi più che di idee.
Fini ha parlato di una destra immaginaria, disinteressata e patriottica, tacendo su quella reale che vota Berlusconi per cui il denaro è tutto, e Bersani di una sinistra che si dedica alla cura delle ingiustizie sociali e non di quella reale che si occupa principalmente dei posti e delle clientele.
L'unico tema nuovo lo ha affrontato Saviano parlando dell'affinità tra la 'ndrangheta calabrese che opera a Milano e dintorni e la Lega che ha creato in questi anni le sue reti affaristiche e clientelari, con la differenza che per ora non uccide chi le dà noia. Differenza decisiva fra concezione barbara o civile della società, ma non tale da impedire una certa affinità di metodi. La Lega non uccide, non coltiva riti segreti, salvo l'innocuo folklore celtico, e per il momento non va al di là del suo "celodurismo", delle sue rodomontate.

Ma ha ragione Saviano quando parla di affinità: la Lega ha un'organizzazione leninista e dove arriva politicamente distribuisce posti buoni ai suoi, come Cesare ai legionari, ed è più comprensibile per i mafiosi che non l'avvocato Ambrosoli, dai mafiosi ucciso.
È un movimento politico democratico, ma non rinuncia al distintivo come i partiti di regime, il fazzoletto e la cravatta verdi orgogliosamente esibiti quasi a segnalare una superiorità della specie. Non sono democratici quelli che in tutti i partiti fanno le prediche democratiche ma che rifiutano la libera scelta degli elettori e si dimettono se non vince il loro candidato, non sono democratici i leghisti e il loro ministro Maroni che si scaglia contro Saviano per aver detto una semplice verità: le mafie cercano di infiltrarsi nelle schiere di chi ha il potere politico, e che la Lega ce l'abbia nel nord Italia sembra indubitabile.
I segni di questa perdurante riluttanza alla democrazia dei protagonisti della politica italiana sono sotto gli occhi di tutti. I giovani evitano le elezioni e la lotta politica, pensano, e lo dicono, che "tanto non cambia mai niente". I radicali, che in passato erano il sale della politica, i sostenitori della sua funzione critica, producono personaggi come Capezzone, portavoce di Berlusconi, la destra berlusconiana si riempie la bocca della parola libertà secondo la concezione pubblicitaria che la ripetizione massiccia e martellante di un messaggio come di un annuncio pubblicitario risulta vincente.

Gli ascolti record di "Vieni via con me" sono la prova che c'è una sete di verità, di ricerca della verità, una nausea del linguaggio stereotipo. Anche nei partiti di sinistra continua a prevalere un certo autoritarismo, i partiti democratici chiedono la riforma della legge elettorale, promettono agli elettori di restituirgli il diritto di scegliere i loro rappresentanti, ma in pratica le direzioni continuano a riservarsi il diritto di imporli.
Per secoli da noi le virtù riconosciute dai politici sono state la furbizia e il tornaconto. Romano Prodi, a me che gli chiedevo se avrebbe vinto le elezioni diceva: "Lo spero, ma quello (Berlusconi) ha molti soldi, troppi soldi". E in questi giorni assistiamo al mercato delle vacche, con i deputati che passano per soldi da un partito all'altro. Che pena!

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Titolo: GIORGIO BOCCA. Sud, basta coi luoghi comuni
Inserito da: Admin - Dicembre 05, 2010, 09:01:26 am
Sud, basta coi luoghi comuni

di Giorgio Bocca

Ancora oggi c'è chi al leghismo di Bossi contrappone l'immagine di un Mezzogiorno fiorente depredato dal Nord. E' una balla. I veri motivi dell'arretratezza del Meridione sono altri

(26 novembre 2010)

Il lamento meridionalista si rinnova. Era il 1990 quando Rino Nicolosi, presidente della Regione Sicilia, disse: "Sappiamo in molti qui al Sud che siamo ormai vicini al punto del non ritorno posto dai nostri problemi irrisolti". Ribadito oggi dall'attuale presidente Raffaele Lombardo. Intanto presso Napoli i dimostranti contro i rifiuti nella discarica di Terzigno bruciano la bandiera nazionale.
Ritorna la vecchia storia del Nord ricco e industriale che sfrutta il Sud povero agricolo e lo depreda dal poco di benessere che aveva raggiunto. Facendo eco alla lunga campagna meridionalista durata per tutta l'Italia unita che, accanto a buoni e ragionevoli argomenti, allinea le lamentele di comodo e oggi di nuovo di moda. La Sicilia e il Sud ricchi depredati dai nordisti, come sostiene Lombardo, è in buona parte un'invenzione demagogica. Il Sud e la Sicilia del regno borbonico, liberati o conquistati da Garibaldi, ricchi e progrediti certamente non lo erano.

Il Sud è povero da secoli e lo è ancora. Due capitali popolatissime, Napoli e Palermo, e attorno migliaia di villaggi poveri, inospitali, dimenticati. Le differenze con il Nord nell'anno dell'unità enormi, a cominciare dalle strade: al Nord 67 mila chilometri, al Sud 15 mila. Quando il presidente Berlusconi annuncia in Parlamento che in breve risolverà il problema dell'autostrada Salerno-Reggio Calabria l'assemblea ride e rumoreggia, perché tutti sanno che è sempre in costruzione o riparazione.
Il Sud viene definito "uno sfascio pendolo" in perenne frana. Ci sono paesi, si legge in una cronaca di fine Ottocento, dove una lettera messa alle poste a Castrovillari impiega ad arrivare due volte il tempo che da Londra o da Parigi. Neanche un chilometro di ferrovia sotto Salerno nell'anno dell'unità, il 90 percento di analfabeti in Sardegna, l'89 in Sicilia, l'86 in Calabria e in Campania.

Egregio onorevole Lombardo, ci voleva un bel coraggio da parte di un Nord che lei definisce predone e oppressivo a prendere sulle braccia un simile fardello? Quante volte il meridionalismo onirico ci ha raccontato come lei che l'industria del Sud era fiorente e che fu sacrificata al Nord. Le industrie tessili del Sud non vendevano una pezza sul mercato europeo, l'arsenale dei Borboni era certamente per l'epoca un grande complesso industriale, con più di mille operai che producevano navi, locomotive, cannoni e macchine, ma fuori mercato, destinato a fallire già nel 1870. Scrive lo storico Carlo De Cesare: "L'industria napoletana era armonica ma immobilista e senza prospettive. Le campagne separate dalla capitale con scarsissime comunicazioni, un livello culturale infimo, debolissime attrezzature civili".
Un altro luogo comune è che nel Sud la rivoluzione agraria fallì per colpa del capitalismo nordista. Ma a dire il vero le condizioni dell'agricoltura meridionale erano pessime e così ne scriveva in francese Fulchignon: "O il latifondo o contadini così poveri e ignoranti da non poter diventare imprenditori. Si accontentano di piantare qualche ulivo o qualche gelso e vivono in condizioni bestiali".

I movimenti secessionisti meridionali che copiano quello leghista sono insensati. La crisi del mondo contemporaneo è altra, di essere senza governo, di affidare solo agli appetiti del capitalismo la programmazione della produzione e dei consumi, di non capire che questo andare verso il futuro in ordine sparso in affannosa caotica lotta per accaparrarsi i mercati nuovi abbandonando i vecchi porta soltanto al generale disastro.


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Titolo: GIORGIO BOCCA. Servilismo, l'arma finale del Cav..
Inserito da: Admin - Dicembre 10, 2010, 10:19:27 am
Servilismo, l'arma finale del Cav..

di Giorgio Bocca

Berlusconi va alla battaglia decisiva dividendo il mondo in due: da un lato chi si inchina a lui, ricavandone tutti i vantaggi; dall'altra parte chi «non ha capito niente del mondo»

(10 dicembre 2010)

Che cos'è il berlusconismo? È che, abbandonato da Mara Carfagna, il re di denari Silvio si è subito aggrappato al nondum matura est, chi non mi segue non mi merita. La forza e la condanna degli uomini fatali, provvidenziali, del destino è la loro incorreggibilità, restano fedeli a se stessi, ai loro vizi, alle loro autoassoluzioni fino all'ultimo. La sorte umana di Silvio come di tutti i pari suoi è un'inestricabile mescolanza di vanità sua e di obbedienza altrui, il fascino di amore e odio, di paura e di servitù che li circonda.

L'uomo fatale, il padrone, il duce è la stessa cosa del bene e del male uniti in ogni essere umano, il re e il fratello, il tiranno e il benefattore. Quando lo incontri hai l'impressione di aver trovato il tuo dio in terra, colui che ti libera dal vuoto e dalle incertezze della vita, il Berlusconi adorato da Bondi. Il poter lavorare nello stesso palazzo, il poterlo incontrare nei corridoi e nelle scale, il sentirlo parlare in un'assemblea ti dà felicità e sicurezza di essere un suo discepolo, di partecipare alla sua ricchezza e alla sua fama. I suoi adoratori e servitori vivono l'ebbrezza della servitù, di poterlo imitare, di copiare i suoi abiti, le sue giacche, le sue divise da manager, di cantare con lui su una nave da crociera o di essere ospiti nelle sue ville ai Caraibi. La sua segretaria quando qualcuno arriva negli studios senza cravatta sorride: ecco l'uomo presuntuoso che non ha ancora capito la necessità e i vantaggi della divisa padronale.

L'uomo fatale è un uomo massa. Egli senza dubbio sa che l'obbedienza totale al capo è fondamentale nella sua e nella vostra fortuna. Chi non obbedisce non è tanto un ribelle, ma un emarginato, uno che non sa riconoscere la convenienza del servire. Il fascino dell'obbedienza è fondato anche sulla solidarietà, chi obbedisce pensa di essere utile agli altri, fa la guardia per salvare gli altri. L'obbedienza è come la fede, come la grazia divina, quando sei fornito di "una marcia in più", come dicono di Berlusconi.

Dell'obbedienza si danno spiegazioni logiche, bisogna obbedire perché l'homme fatale è la fonte di ogni potere. Chiunque affermi in sua presenza che l'uomo è nato libero e per essere libero non sa quel che dice: l'uomo è ciò che è perché ha un capo, saggio e onnipotente. Tornato da una missione diplomatica Silvio alza gli occhi al cielo e dice: "Abbiamo riformato la Nato, l'alleanza che regola il mondo libero, abbiamo recuperato l'amicizia con la Russia, unificato il mondo civile e i giornali si occupano della Carfagna".

Dalla parte di Silvio sta quella forza onnipotente che è la voglia di servire, il riparo che l'uomo comune trova alle incertezze della vita, il sentirsi parte di quel mondo miracoloso che spetta ai fortunati e ai ricchi, la sensazione che stare al suo servizio, al servizio della sua ricchezza, sia già parteciparvi, il primo passo per raggiungerla, per essere anche tu un Vip, un very important person.

Ho conosciuto anche io l'ebbrezza di stare vicino al signore, alla sua luce di uomo fortunato. Un altro dei fondamenti della sindrome autoritaria è quello di credere, di far credere, che essa sia qualcosa di divino, che il suo potere discenda dall'alto, ed è per via di questo dono divino che il duce, il capo, anche il più onesto e volenteroso diventa un despota e un tiranno, insindacabile: se i sudditi mettono in discussione il suo potere si stupisce, reagisce nell'unico modo che conosce, la volontà di potenza. Sventurati coloro che lo amano.

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Titolo: GIORGIO BOCCA. La mafia che fa paura alla grande Milano
Inserito da: Admin - Dicembre 16, 2010, 03:42:58 pm
La mafia che fa paura alla grande Milano

di GIORGIO BOCCA


NEL PAESE della mistificazione e degli illusionisti, nulla ci sorprende più della realtà quando la sua durezza ci viene sbattuta in faccia. La stampa governativa è ottimista, narra di un Paese in gara con il mondo avanzato per benessere e riformismo, ma gli uomini di legge e di giustizia sono di parere opposto. Questa è la notizia di ieri: il procuratore aggiunto di Milano, Ilda Boccassini, durante un incontro con la stampa, a cui erano presenti magistrati e esponenti della direzione nazionale antimafia, ha tracciato un ritratto della nostra società molto diverso e molto preoccupante.

Regna nel Paese, persino nella grande Milano nordista e padana affacciata sull'Europa, il silenzio delle vittime, di quanti subiscono le prepotenze e i furti delle mafie. Il fenomeno estorsivo e usuraio, hanno detto i magistrati e i titolari dell'ordine, continua e si infittisce. I cittadini sono restii a denunciare i delitti di cui sono vittime. "Non ci arrivano denunce" ha detto la Boccassini. "È un dato sintomatico di cui dobbiamo prendere atto, la società si piega alla delinquenza, ne subisce le violenze e le minacce". "Ritengo che il fenomeno dell'usura e dell'estorsione nel Milanese e in Lombardia sia in netto aumento" ha aggiunto il procuratore della Repubblica Bruti Liberati. "Si parla molto di questi tempi della penetrazione mafiosa, ma l'omertà degli imprenditori non è mutata. Si preferisce sopportare piuttosto che denunciare".

È ancora la Boccassini a rincarare la dose: "Cambiano le città ma l'omertà verso fenomeni come quello dell'usura non muta. A Milano non ci sono state denunce da parte di imprenditori, anche se le estorsioni non si sono fermate. Ne dobbiamo prendere atto. Dietro la porta del mio ufficio non c'è la fila di chi è vittima dell'usura". Sono stati arrestati centottanta mafiosi notoriamente pericolosi, uomini della 'ndrangheta per i quali si chiede il processo, ma le estorsioni sono aumentate. È stato chiesto al procuratore a che punto è l'inchiesta del governo sulle infiltrazioni della 'ndrangheta nei partiti e nelle istituzioni lombarde. Ha risposto: "Se ne parla molto ma nei fatti l'omertà nei riguardi delle mafie non muta".

Questa è la situazione. Ogni giorno un proclama del capo del governo o del ministro dell'Interno sui clamorosi successi dello Stato al crimine mafioso e ogni giorno migliaia di estorsioni, di minacce e di silenzi. Capita così che molte nostre domande trovino una risposta cruda, se non crudele. Il governo Berlusconi conduce seriamente la lotta contro la mafia o favorisce la crescita di un'economia mafiosa? Siamo in una democrazia dove la legge è uguale per tutti o in un regime autoritario dove le associazioni e la mentalità mafiosa costituiscono la norma e dettano le regole? Da un lato abbiamo la vulgata governativa, gestita dal ministro dell'Interno, per cui ogni giorno si celebrano le vittorie del legale sull'illegale, si pubblicano gli elenchi delle centinaia di criminali arrestati e incarcerati fra il tripudio di poliziotti e un altro, quello dei magistrati, dei giuristi, dei sociologi che ogni giorno prendono atto della progressiva uscita del Paese dalla legalità, dal rispetto delle leggi, delle regole del vivere civile, dalla democrazia con rispetto dei diritti e dei doveri e non come campo di battaglia in cui prevalgono i più forti e i più furbi.

(16 dicembre 2010) © Riproduzione riservata
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Titolo: GIORGIO BOCCA. La tempesta non passa da sola
Inserito da: Admin - Dicembre 22, 2010, 10:35:45 pm
La tempesta non passa da sola

di Giorgio Bocca

Chi spera che finisca l'era della politica al servizio dei giochi del sultano può essere ottimista.

A patto di impegnarsi. Perché la libertà non è un regalo ma una conquista

(17 dicembre 2010)

25 aprile, partigiani 25 aprile, partigianiFinirà questa discesa nel vuoto, questa disgregazione del paese Italia, civile e fisica? In quest'autunno di pioggia senza fine gli italiani guardano in televisione il loro "bel paese ch'Appennin parte, e 'l mar circonda et l'Alpe" disfarsi in frane e smottamenti, lo "sfascio pendulo" che si consuma, che vien giù con le sue case e le sue chiese millenarie, i superstiti che indicano ai cronisti la linea bianca della frana e raccontano storie di parenti, di amici scomparsi sotto il fiume di fango.
Finirà questo imbarbarimento della politica ridotta ai giochi e alla volgarità di un sultano che l'ha sostituita, coperta con la sua ossessiva fame di potere, di ricchezza e di protagonismo?
Finirà, finirà anche questa volta: chi ha conosciuto la caduta del fascismo e il ritorno alla democrazia e gli anni dei miracoli economici e politici sa che finirà, che si troveranno sempre i mille di Garibaldi o della guerra partigiana, le minoranze capaci di riunire il Paese o di combattere gli invasori, capaci di rovesciare gli opportunismi millenari, di chiedere al signore della storia di dargli tempo, dopo l'8 settembre del '43, di pagare il ritorno alla libertà, non di averlo in regalo.

Una cosa va detta: nessuno, neanche il più pessimista, pensava che saremmo finiti così in basso, che il sultano brianzolo sarebbe arrivato al pubblico dileggio della democrazia, all'esortazione a "non leggere giornali", a garantire i segreti dei potenti.
C'è chi ha detto del sultano: la sua eccellenza politica consiste in questo: ha fatto degli italiani suoi complici, che riconoscono nei suoi difetti i loro difetti, la loro furbizia, il loro gallismo, i loro piaceri plebei, la loro voglia di harem, il loro squadrismo. L'ha fatto perché è fatto così o per calcolo sottile, perché conosce se stesso e il suo prossimo, perché sa che il male è più divertente del bene. Di certo le ultime sortite contro l'informazione, contro la giustizia, contro lo Stato, contro la democrazia erano mirate all'eterno qualunquismo italico, e così l'esibizionismo dei suoi piaceri volgari a misura piccolo borghese, le feste che piacciono al generone, coca e puttane, ville nei Caraibi, in Sardegna e sul lago Maggiore. E su tutto l'attivismo incessante, il "faso tuto mi", anche l'amor del prossimo, la protezione delle minorenni ladruncole.
Finirà, anche stavolta finirà.

Non lo dico per una vana patriottica speranza, ma perché so che può accadere, che è già accaduto, nel settembre del '43 quando i mille che diedero il via alla guerra partigiana salirono in montagna. Il pensiero affliggente e paradossale di quella minoranza era: non sarà troppo tardi? Gli alleati angloamericani padroni del mare e del cielo non sbarcheranno in Liguria come sono sbarcati in Sicilia? Quanti giorni ci rimarranno per meritarci sul campo il ritorno alla democrazia e alla libertà? Sì, a dirlo può sembrare retorico, ma la guerra che continuava, la lenta risalita dei liberatori dalla Sicilia alla Pianura padana furono per la Resistenza un sollievo: inspiegabilmente la strategia dei vincitori ci concedeva il tempo per il nostro esame di riparazione, avremmo avuto il tempo di formare un esercito di popolo, il Corpo volontari della libertà come fu chiamato.
Anche allora gli attendisti, i prudenti, quelli di buon senso pensavano che fosse meglio aspettare che la tempesta passasse da sola, "chinati giunco che il maltempo se ne andrà". Ma avevano ragione i mille, la libertà la si conquista, non la si riceve in regalo.

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Titolo: GIORGIO BOCCA. Denaro e potere, cioè soprusi
Inserito da: Admin - Gennaio 08, 2011, 03:13:44 pm
Denaro e potere, cioè soprusi

di Giorgio Bocca

Gli incroci tra grandi patrimoni e cariche politiche stanno creando una forma moderna di monarchia assoluta.

Da Putin a Berlusconi, pionieri delle nuove istituzioni affaristiche travestite da democrazie

(29 dicembre 2010)

È tornato il SIM, lo Stato Imperialista delle Multinazionali in cui le Brigate rosse riconobbero o credettero di riconoscere il nemico assoluto del proletariato mondiale: le grandi aziende senza altra patria che il profitto capitalistico, le padrone del mercato globale senza frontiere e senza controlli, il nuovo dominio che non arretra davanti alle stragi. Utilissimo, indispensabile per attribuirgli tutte le violenze, le prepotenze dei ricchi verso i poveri, dei sapienti verso gli ignoranti. Siamo tornati con WikiLeaks allo stato fluido e incontrollabile della comunicazione, alle voci che diventano notizie, alle supposizioni che sostituiscono le informazioni, al credibile che conta più dell'autentico. Tutto nel fiume delle notizie segrete può essere vero come inventato, preciso come generico. È la rivincita della comunicazione sull'informazione. Tutto è possibile e niente è sicuro: che i veri nemici dell'espansionismo iraniano, musulmano, siano i sovrani arabi che custodiscono il simbolo della religione musulmana, che i collaboratori segreti della Russia imperialista siano i capitalisti alla Berlusconi.

A me sembra di essere tornato agli anni confusi e isterici, con le centinaia di bollettini e fogli magari suggeriti dagli stessi che diffondevano informazioni tendenziose del tipo "la strage di Stato", feuilleton fabbricati con l'aiuto di chi le stragi di Stato preparava o nascondeva. Segreti, scoop credibili ma non autentici, frutto di diplomazia di servizi segreti che nessuno può contraddire o confermare.
Per esempio i rapporti di affari di Berlusconi e Putin. Berlusconi dice: io ho agito solo per il bene dell'Italia. Nella democrazia autoritaria i capi di governo ritrovano i poteri delle monarchie assolute, possono dare a chi vogliono doni e appalti. Il primo ministro può praticare i commerci che vuole, anche quello dei deputati: si è saputo che alcuni deputati del partito di Di Pietro, il più attento all'etica politica, sono passati per soldi da Berlusconi. Assieme a essi un industriale milanese ricco e fortunato che è stato persino capolista in Veneto per il Partito democratico. Anche lui transfuga e con dispetto, non lo avrebbero onorato abbastanza. Tutti sanno quale è il premio per i transfughi, non solo una rielezione ma anche una congrua parcella. A tutti sembra quasi normale e Di Pietro che vuol ricorrere alla magistratura per punire i traditori pare un fazioso. La nomina a deputato è una rendita personale, qualcosa che può essere comprata e venduta.

Essere primo ministro è anche essere titolare di vantaggi economici enormi, come le forniture del gas russo agli Stati europei. E se Putin e Berlusconi godono di tali poteri e beneficano i loro soci e amici in affari non è forse giusto che come gli antichi sovrani godano di questo potere di far doni ai loro sostenitori? Solo che ciò che nelle monarchie o dittature era considerato normale e giusto, il potere del monarca o duce di arricchire il suo seguito, qui fa scandalo. Donde le finzioni delle leggi sui conflitti di interessi. Il premio che tocca a chi ha il potere politico di far regali in pratica è normale. Tutti sanno che Putin è il despota rosso perché ha alle spalle la polizia segreta di stampo staliniano e il potere economico di Gazprom, cioè dell'ente per l'energia, e così tutti sanno che Berlusconi è l'uomo che può imporre la sua politica all'Eni e all'Enel, due enti che controllano l'energia in Italia.

La differenza tra le monarchie, gli Stati autoritari e quelli sedicenti democratici è che i poteri di fatto prevalgono su quelli di diritto, e l'illegalità non è solo normale ma necessaria al funzionamento del sistema, e che non si sa mai dove finisce l'interesse degli Stati e dove comincia quello dei clan di potere e del capo, non sai mai dove finisce la delega concessa dai cittadini con il loro voto e dove comincia il potere che il capo e i suoi collaboratori si sono ritagliati.

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Titolo: GIORGIO BOCCA. A chi servono gli infiltrati
Inserito da: Admin - Gennaio 19, 2011, 06:48:33 pm
A chi servono gli infiltrati


di Giorgio Bocca

Il loro impiego non ha portato a nulla. Le mafie hanno continuato la loro marcia alla conquista del Paese. La corruzione è dilagata

(14 gennaio 2011)

I giornali si occupano spesso dei cosiddetti infiltrati, che sono un po' il motore del nostro tempo, esseri misteriosi malvagi che accorrono dove ci sono disordini tumulti per seminare confusione, ferite, colpire alle spalle non visti e non uditi e poi dileguarsi prima che i carabinieri chiudano i malcapitati nei panier à salade, come li chiamano i parigini, i carri della polizia dalle pareti metalliche traforate per sorvegliare gli arrestati. I giornali amano molto gli infiltrati, la specie misteriosa e furtiva che nei disordini sociali, nelle convulsioni spesso inspiegabili si abbandona a violenze imprevedibili. La spiegazione più semplice che la stampa politica dà degli infiltrati è che il disordine di cui sono portatori fa il gioco sicuro, matematico dell'ordine repressivo o, per usare un linguaggio tecnico, che senza cambiare radicalmente il quadro sociale, senza fare la rivoluzione che in fondo è un rischio per tutti, anche per chi guida il gioco, lo sposta a destra, lo riconduce sotto il controllo delle autorità repressive.

Fin qui tutto sembra chiaro dai tempi manzoniani: gli infiltrati del governo spargono disordini per Milano, gridano che i popolani stanno dando l'assalto ai forni e rumoreggiano quando appare un gendarme, gli tirano dei sassi, assaltano i negozi finché scatta la repressione; i più facinorosi sono arrestati, Renzo Tramaglino fugge in tempo su un barchino attraverso l'Adda e la vicenda dei dominatori e dei dominati rientra in un alveo accettabile per i primi e obbligato per i secondi. Ma questa non è una spiegazione convincente degli infiltrati e del loro ruolo, che sarebbe quello di far prevalere l'ordine e con esso il vivere ordinato della società.

Chi, come il sottoscritto, ha passato gran parte della sua vita di giornalista a raccontare e a strologare sui misteriosi infiltrati di cui la storia patria è fornitissima, si chiede ancora se il preteso utile che si attribuisce al loro intervento sia davvero tale, se sia stato conveniente davvero al potere e ai suoi organi repressivi, se sia stato utile ai governanti e in ultima analisi alla società. C'è stato un tempo, diciamo alla fine degli anni Settanta, in cui il famoso servizio segreto americano, la Cia, carabiniere del mondo libero, e le polizie dell'impero furono come colte dalla frenesia degli infiltrati: da assoldare, addestrare e nascondere per lavorare a tempo pieno al disordine generale con ogni genere di minacce, di delitti, di treni passeggeri fatti saltare, di bombe nelle piazze dove si tenevano comizi, di attentati ai carabinieri, di impiego di neofascisti addestrati nella Grecia dei colonnelli, di reduci della X Mas del comandante Borghese, di anarchici sprovveduti per spargere la voce di una congiura dinamitarda. Insomma, il disordine endemico: il caso 7 aprile, l'assassinio di Mattei, lo Oas, i legionari del colonnello Massu, la mafia che ne approfitta per piazzare le sue bombe, la giustizia impotente in coda, i colpevoli assolti. Questo è stato negli anni Settanta il lavoro continuo e sanguinoso degli infiltrati, guidati dalla polizia dell'impero e da quella della Nato. A che è servita, anche da un punto di vista imperiale e conservatore? A niente o a peggiorare la vita della gente comune, dei cittadini, il livello medio della società.

Con tutti questi infiltrati e le loro bombe, i loro morti, le mafie organizzate hanno continuato la loro marcia alla conquista del Paese. La corruzione è dilagata, ogni comportamento etico è diventato quasi ridicolo. È cresciuta l'occupazione giovanile, si sono aperte nuove strade per i giovani? Al contrario, a forza di infiltrati e strategie degli opposti estremismi siamo andati al peggio. Anche per i padroni che degli infiltrati si sono serviti.

 
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Titolo: GIORGIO BOCCA. La festa è finita
Inserito da: Admin - Gennaio 21, 2011, 05:32:40 pm
La festa è finita

di Giorgio Bocca

Fa uno strano effetto vivere in un mondo che non sa bene che ne sarà di lui nei prossimi anni e di cui abbiamo perso il controllo

(21 gennaio 2011)

Sono stato in una borgata alpina durante le feste di Natale e mi sono chiesto: c'è ancora la crisi economica o non c'è più? In apparenza la crisi se n'è andata. Sul piazzale della borgata lungo la strada che ci scende dalla provinciale un lastricato metallico di auto, forse 200 auto, nuove, senza graffi nelle verniciature, che ci si poteva muovere a stento. Ne scendevano famiglie ben vestite di panni invernali, pellicciotti e maglione di lana, scarpe da sci impermeabili e calzettoni ricamati alla nordica. Uno spettacolo confortante?
Direi il contrario, uno spettacolo di gente in bilico fra l'ultimo consumo di massa e l'incertezza del futuro, per i giovani il buio di un futuro dove le possibilità di un lavoro ben retribuito sembrano essere letteralmente scomparse. In montagna per una grande festa di fine anno. L'ultima grassa o proprio l'ultima? Fa uno strano effetto vivere in un mondo che non sa bene che ne sarà di lui nei prossimi anni, un mondo di cui abbiamo perso il controllo o la falsa certezza di averlo, il controllo dell'economia, della scienza, del nostro numero demografico fra noi ignari e incerti.

Solo qualche finto sapiente alla Marchionne che continua a immaginare un futuro di produzione incessante e crescente e per convincerci se ne va in giro vestito da uomo tranquillo con un pullover nero e un po' slabbrato e un faccione rotondo alla buona.
Ma chi sono questi italiani in vacanza alcune ore per l'ultima festa grassa? Quasi tutti provvisti di una riserva del grasso che colava negli anni dei miracoli veri o creduti tali. Li vedete quei giovani che alloggiano nel condominio più alto, nell'alloggio del padre di uno di loro? Laureati di fresco in cerca di un lavoro che non trovano, quasi una merce che evapora nell'aria, introvabile. I soldi per le funivie e per mangiare glieli hanno passati i genitori, loro ci mettono la loro voglia di vivere i loro vent'anni che sono sempre una bella risorsa. E quegli altri che scendono da un pulmino e bisogna correre dietro ai bambini che sono entrati in un garage. Lui è un giovane architetto, appena licenziato dallo studio del famoso architetto che ha dovuto tirare i remi in barca per una crisi e una settimana fa li ha riuniti nel suo studio per dire che il lavoro è scomparso, se n'era andato nell'aria, volatilizzato. Lui ha resistito finché ha potuto, ma ora ha dovuto dare il sciogliete le fila. Non è allegro, ma si può finire l'anno senza andare in vacanza nella borgata dove si è andati da quando si era bambini?
Nella casa dell'editore di letteratura popolare le luci sono accese. Tempi duri anche per lui, ha appena venduto una parte dello studio di Milano, ma poteva passare l'ultimo dell'anno in città, poteva non invitare la segretaria amante? In tutte le case della borgata ci sono gli italiani della crisi che nessuno sa quando è arrivata e quando se ne andrà. Tutti per questa forse ultima vacanza hanno tagliato qualcosa nei regali, nelle spese, tutti hanno fatto i conti e sono riusciti, almeno credono, a farli.

Gli unici che siano riusciti a fare un Natale grasso, incredibile, sono stati gli impiegati regionali della regione autonoma che quest'anno li ha mandati in crociera nel Mar Rosso e adesso sono lì che raccontano ad amici e parenti com'era azzurra l'acqua del golfo di Aqaba o com'erano verdi le palme del Negev.
La crisi non è finita, il futuro è incerto ma la gente ci ha fatto l'abitudine. Prendete i milanesi. Vivono nella regione più ricca d'Italia, ma proprio a Milano c'è un fiumiciattolo di nome Seveso, un rigagnolo non navigabile che al minimo temporale esonda, allaga interi quartieri, e per vie sotterranee arriva in tutte le cantine e nei negozi per le riprese dei telegiornali.

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Titolo: GIORGIO BOCCA. I dubbi di un padre
Inserito da: Admin - Gennaio 28, 2011, 10:05:27 pm
I dubbi di un padre

di Giorgio Bocca

Ma che altro è la famiglia se non quest'intreccio di contraddizioni, di lacci e lacciuoli da cui cerchiamo di scioglierci mentre li stringiamo?

(28 gennaio 2011)

Penso di continuo, da padre, a come garantire il futuro dei miei figli e nipoti, anche se mi rendo conto benissimo che in certo modo forzo i loro desideri e le loro scelte, che è un sopruso da vecchio. Ma che altro è la famiglia se non quest'intreccio di contraddizioni, di lacci e lacciuoli da cui cerchiamo di scioglierci mentre li stringiamo?
Mi rendo conto di continuo che l'educazione permissiva è un errore, che l'educazione senza verghe non li abitua alle punizioni e ai sacrifici, ma appena sento di genitori duri e aridi compiango i loro figli. Com'è difficile vivere e come è insostituibile vivere anche nei suoi errori. Non la finisco mai di tediare i miei figli e nipoti con la necessità della parsimonia, se non del sacrificio, non cesso mai di ricordargli i vantaggi di un padre lavoratore, risparmiatore, di ricordargli che la presente fortuna è sempre a rischio, che la triste povertà è sempre in agguato. Arrivo all'assurdo di rimproverargli in cuor mio di non aver fatto i sacrifici che giustamente potevano evitare. Di non aver osato e rischiato quando non ne avevano bisogno o quando sarebbe stato un errore osare e rischiare.

So che questo colloquio interiore con figli e nipoti è privo di senso, una copia in falsetto del colloquio interiore che certamente essi hanno con me, ma come sostituirlo, come non rendersi conto che la famiglia è questo e non altro: un eterno compromesso fra gli affetti e il buon senso, fra il buon pater familias e i giovani vitali e istintivi che siamo stati, fra le generazioni che continuano ma cambiano, e questa è la sola labile storia che li unisca, una storia che ci segue e comanda.

I parenti saggi, per dire quelli della mia età che sono saggi finché non danno fuori se non di matto, ma da imprevedibili come tutti siamo, mi ripetono i loro consigli: alla figlia dai troppi soldi, non imparerà mai a vivere del suo, del ragazzo non freni la violenza che ora è voglia di vivere ma potrebbe diventare arroganza o prepotenza.

Hanno ragione, ma a parole, non nella vita come è, ed è la vita com'è che non insegna niente a nessuno, checché ne dicano i libri di scuola, che costringe tutti a ripetere gli stessi errori salvo diventare un tronco d'albero senza più vita. Ora ti frena e ora ti consiglia a non remare contro ai desideri e ai capricci dei figli. Il miracolo della famiglia è di resistere negli anni alle sue contraddizioni, ai confronti dei difetti e dei gusti, di far vivere fianco a fianco per anni persone legate nel sangue ma diversissime in tutto il resto, insomma il miracolo di vincere la noia familiare e di far prevalere i conforti, gli imprevedibili conforti familiari di cui mi sono reso conto negli anni di ferocia che abbiamo chiamato di piombo.

In quegli anni ho visto che gli unici legami che resistevano alla paura e all'odio erano quelli familiari, che gli unici a non ripudiare il figlio terrorista o sbirro erano i parenti, gli unici che incontravi nei parlatori delle carceri o nelle corsie degli ospedali.

È la constatazione che a superare le prove supreme della parentela, della comune origine, della comune storia è un legame carnale, un fatto diciamo bestiale più che intellettuale ci richiama al mistero dell'umana esistenza pronta a uccidere per sopravvivere e a morire per solidarietà.

   
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Titolo: GIORGIO BOCCA. Una giornata in ospedale
Inserito da: Admin - Febbraio 11, 2011, 03:33:17 pm
Una giornata in ospedale

di Giorgio Bocca

La Milano dei poveri, degli ambulatori, la Milano vera che vive fuori dalla tv, mi ha spaventato, è terribile

(11 febbraio 2011)

Ci sono due Italie che riescono a convivere non si sa come, non si sa per quale miracolo: l'Italia dei ricchi e quella dei poveri, l'Italia di piazza della Scala, dello stilista Armani, del Biffi, la Milano da bere e quella della periferia, del grande ospedale, dove i poveri arrivano dopo aver aspettato il loro turno magari per sei o sette mesi.
Io che sto nella Milano dei ricchi, dove tutte le donne sono magre, belle e sexy, appena tornate da una vacanza alle Maldive, guardo le infermiere e mi chiedo perché non ce n'è una in pace con il suo corpo, o troppo grasse o magre come chiodi, come se non fossero padrone di se stesse.


Siamo al sesto piano dell'immenso ospedale, sotto di noi nel piazzale escono fumate bianche da camini che ricordano i lager, ma anche i soldi e le energie che il Comune spende per i poveri. Chiedo al dottore che mi opererà alla mano: "Come mai le infermiere sono tutte troppo grasse o magre come chiodi?". Mi guarda stupito: "Si vede", dice, "che non sanno regolarsi".


Già, ci sono italiani ricchi e colti che sanno regolarsi e altri che, arrivati finalmente a mangiare a volontà, non si fermano più. Andiamo agli ascensori per raggiungere la sala operatoria. Ce ne sono quattro. Quando ne arriva uno, soffiando, gli italiani poveri degli ospedali partono alla carica come se fosse l'ultimo vascello di salvezza, e in mezzo a loro mi chiedo se siano veramente italiani, gli stessi che appaiono in televisione, ma no sono molto diversi, quasi irriconoscibili, impauriti, impacciati con i volti tirati dalle paure e dalle sofferenze. Connazionali, sì, ma che vivono separati da noi dell'Italia ricca, che basta un'infermiera di cattivo umore a spaventarli.
Siamo al San Paolo, in uno dei migliori ospedali italiani, un ospedale di avanguardia nel mondo civile, ma anche qui, dove tutto sembra previsto, preordinato per il pronto intervento, l'impressione è di stare in guerra, di essere nella retrovia di una battaglia sanguinosa.


Passi per un corridoio e attraverso una porta aperta vedi che in una stanza stanno vestendo una donna morta da pochi minuti, e intorno la vita dei sopravvissuti continua con rabbia e frastuono, infermiere e infermieri discutono animatamente del contratto degli ospedalieri che sta per essere firmato a Roma, poche decine di euro in più ma ne parlano come se gli cambiasse la vita.
La mia mano pare sistemata, anch'io posso raccontare di aver avuto il mio intervento al condotto carpale, che è una malattia molto di moda. "E una volta", chiedo al mio medico, "chi ce l'aveva che faceva?". "Si teneva la mano fredda e dolente", risponde. Mio figlio viene a prenderci, ci vuole più di mezz'ora per arrivare dal centro di Milano al San Paolo, così puoi vedere come ci si muove, come si vive nella più ricca città italiana, quella dei terroni che sono arrivati con la valigia di cartone.


Nelle strade auto parcheggiate su due o tre file che a muoverle sembra impossibile, ma due vigili urbani in impermeabile nero ed elmetto bianco guardano il caos da pioggia con indifferenza professionale, prima o poi tutti riusciranno a tornare a casa per accendere la televisione e ritrovare l'Italia dove le donne sono magre, snelle e sexy o almeno così sembra grazie ai riflettori e ai ceroni.
Mia moglie mi chiede come sto. "Alla mano bene", le dico, "ma la Milano dei poveri, dell'ospedale, la Milano vera che vive e campa fuori dalla televisione mi ha spaventato, è terribile". "Sempre esagerato", commenta lei, "questa è la vita, l'importante è che ci sia. La vuoi anche bella?".

   
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da - espresso.repubblica.it/dettaglio


Titolo: GIORGIO BOCCA. Perché Marchionne ci ricatta
Inserito da: Admin - Febbraio 11, 2011, 03:34:23 pm
Perché Marchionne ci ricatta

di Giorgio Bocca

Nel vecchio capitalismo la fabbrica era il risultato di un perenne scontro-accordo tra padroni e operai. In quello nuovo, la produttività è pensata fin dall'inizio per non lasciare scelta ai dipendenti

(07 febbraio 2011)

Dicono che la proposta di Sergio Marchionne agli operai Fiat di Pomigliano e di Mirafiori (gli altri, quelli di Termini Imerese, sono fuori, la fabbrica ha già chiuso) sia chiara, anzi chiarissima: o gli operai lavorano in modo sostenibile dalla concorrenza delle altre fabbriche di auto del mondo o si chiude, si va in Brasile o a Detroit. Qual è la novità?
Questa semplicissima: il futuro dell'industria nel mondo non dipende più dalla lotta di classe, dal confronto fra il capitale dei padroni e la forza di braccia dei lavoratori, ma da un solo giudice, un solo padrone: la produttività, l'insieme di ritrovati tecnici e organizzativi che consentono di produrre a costi inferiori e a profitti crescenti.


Come a dire: l'unità lavorativa della Fiat, come la chiamava Vittorio Valletta, non è più quell'associazione di uomini e di mezzi da cui dipende il modo di progredire e di crescere, non è più il confronto di uomini e di interessi umani che cercano di far convivere i profitti dei padroni con quelli degli operai, che tentano di stabilire attraverso le lotte e le trattative i rispettivi diritti e doveri, la proprietà non è più il risultato di questo incessante scontro-accordo, ma un aut aut come quelli che Marchionne ripete: o si lavora secondo le richieste della produttività vincente o si chiude, si va altrove nel mercato globale.
Certo, ci sono vari modi per esporre questo nuovo modo di concepire lo sviluppo industriale. Si può sempre dire che il manager intelligente come Marchionne tiene conto dei desideri e dei diritti umani dei dipendenti, che la difesa di un minimo civile di cooperazione fra le parti è, come dice il ministro Maurizio Sacconi, assicurata e normale, ma è chiaro che la condizione sine qua non posta da Marchionne è che l'ultima parola deve spettare alla produttività, cioè a chi vince la corsa tecnica organizzativa nel mercato mondiale.
Ma si dirà: che c'è di nuovo? Non è sempre andata così? Da quando esiste l'industria non è sempre andata che i padroni, i detentori dei capitali, sia privati che pubblici, sono sempre dovuti ricorrere a correttivi di questo liberismo totale, hanno sempre dovuto "proteggere", disciplinare, correggere la produttività, che il liberismo non era in grado di gestire?


L'idea liberista che il mercato sia il giudice sovrano giusto e provvidenziale dell'economia è un'idea che sedusse alcuni economisti, ma si rivelò sempre perdente. Per assicurare la continuità del lavoro gli Stati sono ricorsi a tutto, dall'autarchia alla dittatura, dal coinvolgimento totale giapponese allo stacanovismo sovietico, ma pensare come pensa o finge di pensare Marchionne che la produttività venga prima del confronto sociale è un'idea che solo Toni Negri aveva sfiorato quando disse che forse la filosofia capitalistica era entrata nelle stesse macchine, che il turbo capitalismo contemplava non solo il dominio del capitale sugli operai, ma che anche gli strumenti della produzione erano ideati e fabbricati per assicurare il potere del capitale.


Quello che sembra sfuggire a Marchionne, o che probabilmente finge di non capire pur di far passare il suo nuovo-vecchissimo modo di produrre fra la rassegnazione generale, è che non esistono delle soluzioni democratiche alle dittature, non esiste un modo di trasformare gli operai schiavi, sia pure ben nutriti, in operai cittadini dotati di diritti come gli altri cittadini.
A questo mondo o si va avanti tutti insieme o si subisce la produttività che regola tutto a suo comodo.

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Titolo: GIORGIO BOCCA. Il sultanato e i suoi danni
Inserito da: Admin - Febbraio 12, 2011, 10:49:11 pm
Il sultanato e i suoi danni

di GIORGIO BOCCA

Che cosa è stato per l'Italia il periodo che va sotto il nome di berlusconismo? Certamente un periodo di perdita della pubblica educazione, della correttezza dei rapporti civili. Di una delle sue allieve predilette, la signora Minetti, Berlusconi ha detto: "Una donna intelligente, laureata, che è diventata per suoi meriti consigliere regionale".

Ma nelle intercettazioni di questa signora viene fuori un altro personaggio, una donna di una volgarità è di un'avidità notevoli, che di Berlusconi dice: "Quel vecchio dal sedere floscio che ci faceva eleggere a cariche pubbliche per farci pagare dai contribuenti". Nessuna vivandiera di lanzichenecchi sarebbe stata più feroce.

Il berlusconismo è anche una riduzione della lotta politica a livello infimo, in questa politica il ministro degli Esteri della Repubblica italiana, invece di occuparsi delle bufere sociali in corso in Egitto o in Tunisia, legge alla Camera una comunicazione di un ministro di Santa Lucia, repubblica delle banane caraibica, la rivelazione storica che Gianfranco Fini, co-fondatore del partito di governo, ha un cognato di nome Tulliani che è proprietario di una casa Montecarlo. In altre parole il ministro degli Esteri di una grande nazione europea si presta a diffamare il presidente della Camera diventato nemico politico del sultano.

Il berlusconismo è un periodo nero della storia politica e civile italiana anche per altri aspetti, a cominciare dai rapporti fra il presidente del Consiglio e l'informazione, fra il signore di Arcore e la libertà di stampa. Criticato da giornalisti e da politologi il premier si comporta come un sultano vendicativo e minaccioso, viola tutte le regole della pubblica informazione, irrompe nelle trasmissioni televisive e radiofoniche per insultare i suoi critici usando parole da trivio come "la sua trasmissione è un postribolo" e "infami menzogne". Offrendosi alla giusta reazione degli accusati di cui dice: "di lei mi vergogno", "la sua trasmissione è infame". Un'impressionante riedizione del Nerone di Petrolini, del despota feroce e ridicolo che abusa del suo potere e si fa applaudire dalle sue vittime.

Con il Cavaliere di Arcore ecco il danno maggiore: la giovane e fragile democrazia italiana si riduce a un pettegolezzo volgare, a un gossip che tutto occupa e soffoca, che rischia di mascherare tutti i problemi del governo, tutti i doveri di educazione e di stile, il paese intero, sotto una nube ronzante di menzogne e abuso di potere. Perché comunque si consideri l'uomo di Arcore, egli è la gente che frequenta, che ama, che protegge, che innalza o abbassa a suo piacere, questa corte maleducata e supponente che grazie a lui vive di bassi servizi. Tutti, anche i migliori, che ritengono normale avere dalla res publica non solo un lauto stipendio ma anche le amanti.

Il berlusconismo come un tempo di corruzione e di servitù, esentato dalla ferocia solo dal controllo internazionale e dall'indole del sultano che vuole non solo l'obbedienza ma anche la gratitudine del popolo. E il disagio, la stanchezza di vivere in un paese senza morale, senza regole del gioco rispettate da tutti, senza disciplina, ci fa rimpiangere quelle società che ti mettono alla prova di educazione e di ragione, non quelle dove tutto è permesso a patto che tutto decada verso il peggio. Purtroppo per molti italiani il laisser faire è preferibile ai doveri.
 

(12 febbraio 2011) © Riproduzione riservata
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Titolo: GIORGIO BOCCA. Berluskonia è il regno del consumo senza limiti, nato con le tv..
Inserito da: Admin - Febbraio 18, 2011, 04:50:26 pm

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L'opinione

Moltiplicatore di desideri

di Giorgio Bocca

Berluskonia è il regno del consumo senza limiti, nato con le tv Mediaset. Fa credere ai poveri di essere ricchi e consola gli infelici

(18 febbraio 2011)

L'ultima di Silvio: "Io non ho mai pagato le donne". Mai pagato le donne? Forse voleva dire l'esatto contrario: che è l'uomo che ha pagato le donne più di ogni altro arrivato al potere. Con lui si è vista in Italia la prima corte di donne al governo, ha preso delle donne di scarsa o nessuna formazione intellettuale e di governo e gli ha affidato mezzi e poteri per il funzionamento dello Stato, riforme come quella della scuola o il turismo o le pari opportunità. E per la prima volta la presenza femminile al governo del paese è stata manifesta nei mezzi d'informazione: donne in tutte le cerimonie pubbliche, presentate e segnalate anche per la loro avvenenza, a cominciare dalla crocerossina ammirata dal nostro in una sfilata per una festa della Repubblica. Donne a corona attorno al capo, il petto proteso in suo onore.

Dice il nostro: "Non ho mai curato e favorito i miei interessi ma sempre quelli del paese". Che faccia di bronzo, si diceva una volta. Con Berlusconi, sotto la sua guida, esempio e incitamento, è avvenuto il mercimonio totale del bene pubblico, una folla di affaristi, commercianti, speculatori lo hanno applaudito quando diceva "sono uno di voi, sono uno del partito del fare non del parlare o del sognare". Del fare che? Lo ha detto esplicito esplicito quando ha parlato della funzione della televisione e dei suoi meriti: "Aprire gli immensi pascoli della pubblicità", sin lì limitata dalla radio e dalla televisione pubblica, offrire agli uomini del fare i mezzi per moltiplicare le loro offerte, i loro inganni, le loro contraddizioni.

Fin dalle prime trasmissioni televisive si capì dove stava il genio mercuriale del nostro: non solo fingere che l'Italia fosse improvvisamente diventata il paese dell'abbondanza, ma di un'abbondanza hollywoodiana, in technicolor, da Miami Beach, da Quinta strada. Uscivano allora le istruzioni che il nostro dava ai registi e agli autori delle sue televisioni: credersi ricchi, apparire ricchi ancora prima di diventarlo.
La fabbrica di Berluskonia, il regno del consumo senza limiti e della felicità assoluta sotto la guida del buon sultano, avvenne con la costruzione di Canale 5, Italia 1 e Retequattro. Passando negli studios televisivi alla periferia di Milano si capiva che Silvio non solo era capace di moltiplicare i bisogni e desideri, ma anche di far credere ai poveri di essere ricchi e agli infelici di essere privilegiati. I poveri cristi noleggiati o assunti per far funzionare la produzione appena entrati nel recinto magico si trasformavano, si sentivano eleganti, spigliati, erano entrati nel prato dei miracoli, del benessere e della bontà. Qui la bonarietà naturale del nostro è diventata un'arma irresistibile di dominio.

Il capo dei capi, l'uomo dei miracoli e della provvidenza era anche buono, correva al letto degli ammalati, soccorreva gli afflitti. Esagerava un po', come nel recente messaggio alla nazione, vantando anche carità pelose o ambigue quando non malsane, come il prestito generoso a Lele Mora dipinto come uomo buono e generoso, lui che in vita sua ha sempre gestito una scuderia di attricette e attorucoli pronti a tutto pur di arrivare in tv, pronti anche a seguire il capo nei giorni delle sue demenze senili, del suo delirio d'eterna giovinezza a cui l'uomo generoso, il migliore dei buoni padri di famiglia ha sacrificato moglie e figli, in una serie televisiva simile a quelle hollywoodiane di J. R.
Silvio a parole ama le donne, le fa ricche, le corteggia, e le consiglia per la vita: "Sposatevi un miliardario". Ma non è così facile come dice lui.

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Titolo: GIORGIO BOCCA. Non si può morire per l'Afghanistan
Inserito da: Admin - Febbraio 27, 2011, 05:54:03 pm
Non si può morire per l'Afghanistan

di Giorgio Bocca

È già difficile credere che sia bello e onorevole immolarsi per la patria quando la patria è in pericolo, ancora meno accettare che la tua vita sia messa in gioco per una questione di potere o di diplomazia

(25 febbraio 2011)

Militari italiani in Afghanistan Militari italiani in AfghanistanPerché partecipiamo alla guerra in Afghanistan? Perché i nostri soldati vanno a morire in quelle desolate terre, perché le autorità recitano il rituale cordoglio con cerimonia funebre e pianto dei parenti? Perché la guerra continua a essere necessaria alla politica internazionale e interna? Perché l'umanità non si è ancora liberata della voglia ancestrale di sangue fraterno? Senza ripetere che la guerra c'è per i buoni affari dei fabbricanti di armi?
Una risposta suggerita dalla storia recente è: la guerra permane come prova di nuove guerre, nuove armi, di nuove strategie, come la guerra di Spagna fu il banco di prova della Seconda guerra mondiale. Hitler e i nazisti vi fecero la prova dei bombardieri verticali, gli Stuka, e della guerra lampo delle divisioni corazzate che superavano la vecchia guerra di trincea, la prova della guerra totale che distrusse Coventry. Oggi in Afghanistan l'arsenale americano prova le sue nuove armi, come gli aerei senza piloti o i missili che colpiscono con una precisione assoluta dopo voli di migliaia di chilometri, e anche il resto come le torture psicologiche dello spionaggio totale.

La seconda ragione è quella dei buoni affari dei mercanti di cannoni. La guerra giustifica e nobilita ogni decisione del potere economico, le cerimonie funebri in cui i capi di Stato posano le mani sulle bare dei caduti vogliono affermare la sacralità della guerra, anche di quella fatta per avere più potere.
C'è anche, s'intende, il motivo politico. La guerra è sempre dalla parte della conservazione del potere da parte dei padroni, i Berlusconi di tutti i regimi riaffermano regolarmente che la guerra è necessaria e provvidenziale anche se razionalmente nessuno può spiegare il perché. Devono esserci anche ragioni di spettacolo, di modo di recitare: l'ultimo caduto in Afghanistan, un alpino sardo, è stato ucciso in modo mafioso, impensabile nelle guerre risorgimentali, da un soldato afghano in divisa che si è avvicinato con la scusa di chiedere come funziona un mitragliatore e gli ha sparato una raffica in viso.
Questa è la guerra per cui muoiono dei giovani italiani? E per cui si commuovono i reggenti della Repubblica? O è una storia di tipo gangsteristico in cui nessuno riesce più a distinguere il nemico dal sicario, il soldato fedele dal traditore? Una storia afghana dove l'ingenuo italiano soccombe all'astuto afghano, come si diceva nell'avanspettacolo.
Immancabile la cerimonia del ritorno in patria della salma, dei picchetti d'onore a Ciampino, di un lutto che nessuno riesce a capire, di un sacrificio che nulla può aggiungere o togliere al bene della patria. Un morto in Afghanistan come quelli sulla Cernaia per i giochi diplomatici di Cavour. Un giovane italiano che è andato a morire per povertà, perché si era sposato da poco e non aveva i soldi per mantenere una giovane moglie che viene mostrata in lacrime e in lutto.

Che significa per i giovani italiani questo rituale che si ripropone quasi ogni mese? È già difficile credere che sia bello e onorevole morire per la patria quando la patria è in pericolo, ancora meno accettare che la tua vita sia messa in gioco per una questione di potere o di diplomazia. I morti per Cavour servivano per fare l'unità d'Italia. Ma questi? Per un invito alla Casa Bianca del nostro premier?

   
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Titolo: GIORGIO BOCCA. La vera missione della politica
Inserito da: Admin - Marzo 05, 2011, 04:52:48 pm
La vera missione della politica

di Giorgio Bocca

Oggi i deputati non osano più parlare al cuore, si perdono in congetture giuridiche.

E il loro compito principale è trasferire denaro pubblico nelle tasche dei produttori e dei costruttori, far muovere gli appalti

(04 marzo 2011)

Il politico, cioè il delegato al funzionamento dello Stato, è sempre più in difficoltà. le vecchie armi del mestiere come la retorica e l'eloquio forense si sono come spuntate di fronte alla difficoltà di governare il puttanaio generale. Un esempio. L'altro giorno alla camera un poveraccio eletto dal popolo si è cimentato nell'impresa impossibile di difendere il premier Silvio Berlusconi dall'accusa di concussione. con voce tonante ha cercato di spiegare che Berlusconi aveva telefonato alla questura di Milano per far rilasciare la signorina Ruby, sua amichetta, sostenendo che era davvero convinto che fosse la nipote di Mubarak e che era intervenuto per evitare un incidente diplomatico.

Si è spuntata l'arma dell'oratoria forense, l'arte del discorso coltivata da tutti i politici dell'Italia unita da Mussolini a Nenni; oggi i deputati non sanno o non osano più parlare al cuore, oggi anche loro si perdono in congetture giuridiche, in sottigliezze procedurali mentre i loro colleghi annoiati chiacchierano o escono a fumare una sigaretta.

Qual è il compito principale dei politici di oggi? Trasferire il denaro pubblico nelle tasche dei produttori e dei costruttori, far muovere il mattone e gli appalti, distribuire i finanziamenti pubblici. Con queste mercuriali faccende le diversità politiche, gli ideali, il sol dell'avvenire cedono il campo agli affari.
Anche la protezione civile, nata come provvida organizzazione per sopportare le calamità naturali, diventa una gran macchina da affari più o meno puliti in cui un deputato di sinistra ne vale uno di destra come faccendiere. La politica come olio per ungere i meccanismi amministrativi.

Importante ma non sempre presentabile, leggibile, difficile mestiere quello del politico. Deve far funzionare lo Stato, la sua economia, i suoi servizi spesso in concorrenza con i produttori e con i commercianti.
Il motore dello Stato, la cooperazione dei politici e degli imprenditori, è spesso simile a uno sciame furioso d'api tutte alla ricerca del loro miele, è per questo che noi vecchi partigiani della generazione che guadagnò all'Italia il biglietto di ritorno alla democrazia siamo fortemente preoccupati: reggerà questa costruzione appesa a fili e a nodi fragili? O ci sarà un inevitabile ritorno dei regimi autoritari capaci di risolvere con la forza i contrasti? Ci sono in televisione dei telefilm americani il cui messaggio ossessivo e monotono è il seguente: la polizia dello Stato deve legnare continuamente i rivoltosi e indisciplinati per consentire alla macchina di funzionare.

Ecco perché il pericolo numero uno delle società conservatrici non è più il rivoluzionario comunista, ma l'anarchico, quello che rompe il legame delle collaborazioni, corrette o delittuose che siano. Il nuovo Millennio sembra aprirsi come i precedenti all'influenza dell'incertezza e del casuale. Riusciremo a comporre le nuove profonde contraddizioni del vivere sociale? La differenza antica fra sinistra e destra, fra la sinistra riformatrice progressista e la destra conservatrice e retriva non ha più senso.
Tutti siamo allo stesso tempo per la conservazione e per la riforma, per la legge e l'ordine e la tempestosa creazione schumpeteriana. La sola previsione che possiamo fare del futuro prossimo è di una società nevrotica alle prese con i mille rischi del mondo ricco insidiato dalla marea dei poveri che si ammassano alle sue frontiere, minacciosi.

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Titolo: GIORGIO BOCCA. Dittatori con la valigia
Inserito da: Admin - Marzo 24, 2011, 05:18:16 pm
Dittatori con la valigia

di Giorgio Bocca

Quando scappano, i tiranni si portano dietro tutto l'oro e i tesori che avevano rubato.

Come dei grassatori che partono con il bottino. Oltre ai capitali già esportati evidentemente vogliono salvare tutta la refurtiva

(11 marzo 2011)

La prima cosa strana della defenestrazione dei dittatori della "quarta sponda", algerini, tunisini, egiziani, è che se ne vanno con le valigie piene di oro preparate da giorni, come dei grassatori che partono con il bottino. Padroni dello Stato da decenni non avevano ancora imparato che nella finanza internazionale i tesori si spostano con un colpo di telefono, che l'esportazione di capitale è la cosa più facile del mondo? Sì, l'avevano imparato, ma evidentemente vogliono salvare tutta la refurtiva, a costo del ridicolo di fuggire come dei malviventi, si vedano le cinquanta valige di Mubarak.

La seconda cosa ridicola nella fine dei dittatori è che viene decisa e organizzata fra compari di dittature e di ladrocinio, di solito il rais e i suoi collaboratori governativi e i militari, i generali dell'esercito che sono stati per decenni suoi associati nel potere autoritario.

Il rais politico fugge fra le imprecazioni e i fischi del popolo insorto mentre i militari assumono la parte dei mediatori, dei traghettatori verso una possibile ma improbabile democrazia. Perché non hanno partecipato alle ferocie e agli abusi del sultanato non perché hanno a loro disposizione i carri armati e cannoni.
Segue un altro strano fatto: i peggiori sostenitori dei regimi autoritari, i carcerieri, i torturatori, i fucilatori, i poliziotti, le spie, i cortigiani più ladri e malvagi pensano che è l'ora di mettersi in salvo come si può, affidandosi ai barconi malandati dei traghettatori senza scrupoli che riempiono il mare con i loro convogli disperati, che la Marina da guerra italiana sorveglia e guida fino a Lampedusa.

E l'informazione fa di queste ciurme delle vittime del nuovo potere, da persecutori a perseguitati che bisogna soccorrere nei centri di accoglienza da cui partiranno per raggiungere i loro complici in Francia o in Germania dove anche loro, come il rais, hanno messo in salvo i frutti delle loro rapine.

Un'altra osservazione che va fatta è che ancora una volta le rivoluzioni, i moti popolari, la caduta delle dittature sono arrivati senza che gli osservatori del mondo libero, diplomatici, giornalisti, commercianti, lo prevedessero e lo annunciassero, a segno che la nostra modernità è una condensa confusa e un'indefinita mescolanza di mutamenti che nessuno riesce a controllare, nella politica come nell'economia.

Al punto che da giorni l'Italia intera sta interrogandosi sul fatto misterioso della più grande delle sue fabbriche, la Fiat, che non si sa se resterà a Torino con il suo stato maggiore o fuggirà in America o nel Canada dove ha sede il supermanager Marchionne, un altro fenomeno in questa transizione che si distingue dai politici perché ha risolto il problema dell'abbigliamento andando in giro in pullover invece che in uno dei doppiopetti di ministri o sottosegretari che i loro imbarazzati portatori continuano a rimettere in ordine con abbottonamenti di panza e rifacimenti del nodo alle cravatte, a cui le immense platee televisive assistono stupite che i grandi della terra siano così impacciati e preoccupati di presentarsi alla folla in attesa in mezzo a guardie del corpo chiaramente riconoscibili per imprinting poliziesco e corporature a cassettone. Il nostro Berlusconi gli dimostra la sua gratitudine appoggiando amichevolmente una mano sulle loro spalle quadrate che per anni gli hanno evitato lanci di oggetti contundenti con ferimento e perdita di due denti.

Gli insorti occupano le piazze e festeggiano. E noi che siamo passati nel secolo scorso per quest'esultanza di questi popolari tripudi non possiamo trattenere un pensiero amaro: e poi? Poi come finirà quando dei rais di turno si sarà persa la memoria e i generali si saranno messi d'accordo con i nuovi politici per organizzare una qualche democrazia autoritaria dove i poveri cui una volta nella vita viene concesso di occupare le piazze delle capitali saranno stati rimandati nelle loro periferie?

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Titolo: GIORGIO BOCCA. L'Italia che applaude la Minetti
Inserito da: Admin - Marzo 24, 2011, 05:18:58 pm
L'Italia che applaude la Minetti

di Giorgio Bocca

La cultura berlusconiana è riuscita a rovesciare le categorie: per loro i nemici della giusta società non sono i ladri e i corruttori, ma i magistrati che cercano di far rispettare la legge.

E l'impudenza diventa la norma

(18 marzo 2011)

Si tratti di atti comuni come di rivoluzioni, gli uomini procedono a gregge uno dietro l'altro dove li porta l'unanimismo accidentale. Perché tunisini, algerini, egiziani, iraniani scendono nelle piazze per chiedere la libertà a cui prima hanno rinunciato per seguire sultani o sacerdoti?

Persino la Libia, unico Stato arabo fino ad ora calmo e obbediente al suo dittatore nella bufera generale, grazie al petrolio che assicurava ai sei milioni di abitanti un benessere e un tenore di vita altissimo per l'Africa, ora si sta ribellando. La voglia di libertà erompe a catena come un'epidemia, perché gli uomini decidono che è il momento di lottare per la libertà a costo della vita quando lo fanno i loro vicini.

Le grandi rivoluzioni, la francese e la sovietica, produssero in tutto il mondo focolai rivoluzionari, nei giorni della rivoluzione francese in tutti paesi della santa alleanza conservatrice i giovani alzarono gli alberi della libertà, magari accogliendo in loro nome come liberatori i più grandi imperialisti come Napoleone Bonaparte. E in suo onore tanti giovani polacchi mossero a cariche disperate contro gli oppressori russi, scambiandolo per il liberatore.

In questa girandola di oppressi che diventano oppressori, di liberati che diventano schiavisti e dominatori c'è una sola cosa costante: tutti quelli che arrivano al potere rubano, coltivano l'illusione di garantirsi con il furto il perenne benessere, il perenne potere sui più poveri.

Nella Roma imperiale il furto dei vincitori era considerato normale, fisiologico. L'aristocratico Cesare, dopo aver dilapidato le sue fortune in giochi e in feste, andava nella provincia spagnola a ricostruirsi in breve tempo con la rapina del dominatore le sue fortune e i suoi connazionali non trovavano nulla d'illecito e di scorretto nel suo comportamento.

Silvio Berlusconi ha fatto di questo ladrocinio dei potenti la norma invidiata e rispettata almeno dalla metà dei suoi concittadini, i quali anche se lo biasimano in pubblico, in privato lo invidiano, vorrebbero essere al suo posto anche nel coltivare piaceri modesti e un po' turpi. Il Berlusconi che parte per un viaggio governativo assieme a una bella escort e a due simpatici avventurieri della politica non fa qualcosa di illecito, vituperato dalla gente, fa quello che la metà abbondante della gente vorrebbe fare.

In occasione dei guai processuali di Berlusconi il suo uomo di pubbliche relazioni, Giuliano Ferrara, è uscito in un paradossale ma italianissimo rovesciamento delle parti: gli eversori, i corrotti, i nemici della giusta società non sono i ladri e i corruttori, gli eversori delle leggi, ma i cittadini operosi e onesti che hanno il torto supremo di pretendere di vivere del loro lavoro, del loro sudore, come dice la Bibbia.

Sono loro la vera peste della società: gli invidiosi, gli inquisitori pronti a mandare ai ferri e alle galere i bravi e allegri dilapidatori del bene pubblico, sono loro, i lividi e tristi moralisti, a calunniare i potenti, a esortare i loro amici, i feroci magistrati, a perseguire i bravi costruttori di ricchezze e di benessere.
Bisognava vederle le migliaia di persone accorse alla requisitoria del Ferrara come applaudivano, come giubilavano a sentire trattati come infami i procuratori della Repubblica che accusano Berlusconi di aver cercato di impaurire i poliziotti per liberare la minorenne ladruncola e prostituta Ruby, come si commuovevano per la mala sorte della giovane Minetti, amante di Berlusconi e tenutaria delle giovani invitate alle sue feste.

Povera Minetti: avvertita da Silvio si era precipitata in questura a liberare la Ruby per salvarla alla sua maniera, cioè farla assistere da un'altra giovane prostituta. L'impudenza come norma, come regola.

   
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Titolo: GIORGIO BOCCA. Non fermeremo l'immigrazione
Inserito da: Admin - Aprile 07, 2011, 12:14:54 pm
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L'opinione

Non fermeremo l'immigrazione

di Giorgio Bocca

È utopia pensare di difendere l'Europa a oltranza con il controllo del Mediterraneo. Al massimo potremo rallentare l'esodo o aiutare l'Africa a diventare un po' più ricca. E la Libia con tutto questo c'entra poco
(31 marzo 2011)
Immigrati a Lampedusa Immigrati a LampedusaI ribelli libici che chiedono libertà hanno storicamente ragione, perché la Libia è abbastanza ricca per concedersi democrazia e libertà, ma se attraverso la ribellione libica tutti i poveri dell'Africa chiedessero o cercassero di raggiungere la ricca Europa si arriverebbe a un feroce conflitto continentale. Ci sono precedenti nella storia dell'umanità.

Le invasioni barbariche che segnarono la fine dell'impero romano che lasciarono alle popolazioni italiche uno sgomento da fine del mondo erano numericamente sopportabili.
L'Italia poteva ospitare centinaia di migliaia di longobardi o di goti, l'impero bizantino rimasto in piedi riuscì a respingerli, i vandali vennero deviati verso l'Africa e la Spagna.

Meno facile fu assorbire l'invasione araba che dalla Mecca dilagava verso l'Asia e verso l'Africa settentrionale occupando anche la Sicilia e l'Andalusia. E non fu un'invasione solo predatoria, gli arabi portarono in tutto il Mediterraneo la loro civiltà agricola, le irrigazioni e la filosofia greca, come grado di civiltà erano più avanzati loro che "in Francia nocquer tanto" piuttosto che i sovrani carolingi di stirpe germanica.

L'invasione e la grande migrazione degli europei verso le Americhe scoperte da Colombo furono senza dubbio le più feroci nei rispetti degli indigeni: intere civiltà come gli inca e gli aztechi vennero distrutte dall'invasione. Che cosa è prevedibile negli anni a venire? C'è chi pensa a una difesa dell'Europa a oltranza con il controllo del Mediterraneo, ma è un'ipotesi utopica: non sono riusciti gli Stati Uniti a chiudere il confine messicano e a impedire l'emigrazione del Sud America, e non ci riusciremo neppure noi. Al massimo potremo intervenire in due modi: o rallentare l'esodo o aiutare il continente africano a diventare ricco, se non come l'Europa, a diversità sopportabile.

La ribellione libica rientra solo per alcuni versi in questa osservazione sui grandi esodi, essa avviene contro ogni previsione, proprio quando il piccolo Stato africano si è liberato dal colonialismo italiano e grazie al ritrovamento del petrolio e del gas è diventato un ricco esportatore.

Si ribella una nazione di pochi milioni di cittadini proprio mentre il suo reddito pro capite si avvicina a quello europeo. Ma non ci sono solo i motivi dei grandi esodi quali povertà e servitù, in Libia sono intervenuti i più decisivi fattori della civilizzazione, quali i mass media capaci di trasmettere notizie e di raccontare ai locali come stiano veramente le cose, nessuno può reprimere totalmente radio, telefoni e televisioni che spontaneamente possono creare un reticolo di informazioni rivoluzionarie, possono raccontare alla gente in che grado è asservita e come si può organizzare una ribellione.

Il paradosso è che la ribellione della Cirenaica ha avuto il sostegno dei rivoluzionari egiziani per attaccare una dittatura come quella di Gheddafi che economicamente li aveva promossi a livelli di vita civile. Nel grande terremoto politico e sociale libico si incontrano contraddizioni e paradossi di ogni genere: gli italiani che si trovano in Libia per lavorare e non certo per occupazione militare - e chi meglio lo sa del colonnello Gheddafi che cacciò quelli rimasti dopo la guerra - vengono accusati dal dittatore di aver parteggiato per la rivoluzione mentre è evidente che sono stati danneggiati da essa nei loro buoni affari. E può darsi che le accuse di aver fornito di armi i rivoltosi siano persino vere, perché nel confuso gioco del potere i servizi segreti italiani possono aver aiutato una ribellione gradita agli americani.

Ero in Libia quando Gheddafi prese il potere e in pochi giorni cacciò i coloni italiani, contadini veneti che avevano bonificato la campagna di Tripoli e che costituivano un gruppo sociale progredito e necessario a uno sviluppo equilibrato. Ma il colonnello aveva bisogno di una sua fama di liberatore, voleva che il suo potere avesse il suggello della guerra patriottica di liberazione. Poi si vide che democratico era quel capo beduino che governava il Paese come una tribù, con pose e compiacimenti da capo tribù.

 
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Titolo: GIORGIO BOCCA. Non c'è nemmeno la bella Elena
Inserito da: Admin - Aprile 08, 2011, 10:28:54 pm
Non c'è nemmeno la bella Elena

di Giorgio Bocca

La guerra in Libia è incomprensibile come quella di Troia. Solo la fame di energia dei francesi e degli inglesi, la voglia di mettersi alla prova dei generali e il business della ricostruzione possono spiegarla

(08 aprile 2011)

La guerra di Troia, causata dal rapimento della bella Elena, era sin qui quella più incomprensibile: sembra strano che degli uomini raziocinanti si affrontassero in battaglia per via di una bella donna. Ma la guerra libica è ancora meno comprensibile: da qualunque parte la si giri non si riesce a capire perch? mai uomini adulti ragionevoli stiano in questi giorni ammazzandosi nello "scatolone di sabbia", come lo chiamavano al tempo del fascismo, forse perché lo avevamo conquistato, sperando il meglio. Il tutto reso oggi non direi più drammatico ma più folle dal fatto che alcuni dei paesi in guerra, a cominciare dagli Stati Uniti, possiedono la bomba atomica cioè l'arma della distruzione totale, che però non usano, come a dire che per questa guerra bastano le vecchie armi, che è una guerricciola per qualche barile di petrolio.

Anche l'Italia è in guerra, nonostante il parere contrario del suo ministro degli Esteri e del capo dello Stato. Il capo del suo governo, Silvio Berlusconi, maestro assoluto delle capovolte, si dice addolorato per averla mossa al suo amico Gheddafi e fa capire in tutti i modi di essere pronto a mediare per salvare, se non il potere, la pelle del suo amico, il quale, dovendo dar prova al mondo dell'ingiustizia che subisce e di essere un amico del genere umano, ogni giorno che può bombarda i suoi connazionali, anche chiamati "i ribelli".

Chi ci capisce è davvero bravo: i libici che si sono ribellati alla dittatura di Gheddafi, dittatura come numerose altre nel mondo che nessuno Stato libero si sogna di attaccare per via della libertà, come i ribelli egiziani o tunisini o siriani, nessuno sa bene che liberali siano o autoritari e magari religiosi fanatici come i Fratelli Musulmani, ma questo, per chi non ci va di mezzo rende il gioco più interessante.

Chi vincerà la guerra incomprensibile? Probabilmente i ribelli, vale a dire le grandi potenze occidentali che stanno alle loro spalle. Par di capirlo dal fatto che quando Gheddafi stava per domarli il bravo Obama è intervenuto mandando ai ribelli un sacco di armi moderne, grazie alle quali si sono salvati e hanno ripreso l'offensiva.

Per quale arcana ragione è scoppiata la guerra libica? Per gli intrighi dei perfidi cinesi e degli infidi russi? Si direbbe di no, si direbbe che a prendere l'iniziativa sia stato il magiaro-francese Sarkozy, spalleggiato dall'ex imperialista inglese Cameron per via del motivo poco nobile ma molto concreto che le riserve di energie naturali stanno rapidamente consumandosi e che la Libia è il paese con più petrolio in pancia di tutti gli altri.

Un altro aspetto singolare, e perciò difficilmente comprensibile, di questa guerra è che le maggiori potenze del mondo vi partecipano con una paura matta di fare una mossa sbagliata, più lunga del consentito, che potrebbe scatenare un conflitto generale inevitabilmente atomico. Perciò eccoli fare delle mosse strane da battaglia navale giocata sulla carta, lanci dimostrativi di missili, schieramento di portaerei, come in una rivista di aerei, che bombardano gli accampamenti del tiranno per convincerlo a fare fagotto, offensive inconvenienti degli uni, il giorno dopo smentite dalle controffensive degli altri. Una guerra comica se non fosse pagata con la vita di poveri cristi obbligati a farla.
Nel contempo fuga di poveri africani su barche e barconi dei loro nonni verso l'Italia e l'Europa, questa sì che è una notizia terribile, una fuga che solo un ministro italiano può pensare di fermare con qualche lira svalutata, con qualche elemosina ai fuggiaschi: tenga queste mille lire e faccia ritorno da dove è arrivato. Aggiungiamo i militari di professione, i generali di Stato maggiore che hanno bisogno di far la prova delle guerre future, e che convincono i capi politici che queste guerre sono necessarie, per non dimenticare i costruttori di immobili che dovranno rimettere in piedi le città distrutte.

 
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Titolo: GIORGIO BOCCA. 150 anni per ridurci così ...
Inserito da: Admin - Aprile 25, 2011, 12:06:40 am
150 anni per ridurci così

di Giorgio Bocca

Un ministro che promuove la secessione dall'Europa. E un capo di governo che racconta frottole e barzellette.
Senza mai mantenere le promesse. Questa è l'Italia che festeggia l'unità

(22 aprile 2011)

L'italia celebra i centocinquant'anni della sua unità nell'anarchia più totale e ridicola. Convinta lei e i suoi sudditi che più si è senza governo, senza futuro, senza buon senso e più si è adatti a questo pazzo mondo. Con un ministro di nome roberto Maroni che, essendo arrivato al potere sulla crescita separatista dell'Italia ricca stanca di mantenere quella povera e caotica, non trova di meglio che aprire una campagna antieuropea, si mette ad accusare l'Europa di ingiustizie nei nostri riguardi, vuole che l'Europa scambi l'arrivo di 20 mila disgraziati per un'invasione barbarica, per una minaccia al continente, chiede all'Europa ricca e ordinata di far fronte al mantenimento di 20 mila tunisini fuggiaschi dalla miseria del loro paese, e che cosa minaccia?

Di lasciare l'Europa ingrata, la secessione dall'Europa ricca e civile senza la quale ci ritroveremo a livello mafioso e mediorientale. Sembrava che il piccolo Maroni da Varese, braccio destro del bugiardo Umberto Bossi, fosse una persona ragionevole, consapevole dei nostri limiti e doveri, ma anche lui si è messo a dar fuori di matto. Basta con l'Europa, basta con l'Unione europea. Perché cosa vuole lui, l'Unione africana?, come ha detto una volta il timido Bersani.

Intanto che cosa fa il capo di governo di questa repubblica delle banane che celebra i centocinquant'anni della sua Unità che ha sprecato per provare a unire milioni di atterriti o rassegnati? Qual è l'ultima del Cavaliere? Che l'accusa di essere un corruttore di minorenni e uno che abusa del suo potere è falsa, perché lui la minorenne marocchina non l'ha corrotta, le aveva fatto regali e concesso protezione per la ragione opposta, per salvarla dalla tentazione di vendersi, per consentirle di tornare sulla retta via.
E milioni di italiani gonzi, rappresentati da centinaia di deputati dall'aspetto autorevole, fingono di credere a quella balla senza limiti. Come nelle recite di Petrolini, il comico che non faceva a tempo ad aprire bocca e i sudditi gridavano "bene, giusto".

In che cosa consiste il governo della Repubblica democratica italiana? Nella ripetizione di promesse che non verranno mantenute, che tutti sanno che non saranno mantenute, che nessuno chiede di mantenere: la penosa faccenda degli immigrati appare ogni giorno in televisione, nell'impotenza del governo non dico a risolverla ma ad affrontarla. E' tutto un andirivieni confuso di immigrati che sbarcano da decrepiti barconi per finire in campi di raccolta da cui fuggono senza sapere bene dove andare, o che vengono ripresi come cani randagi da poliziotti che non sanno bene dove tenerli, e un governo che si adonta se il resto dell'Europa non vuole accoglierli.

Leggi e accordi internazionali sono parole vuote, l'Italia non si è impegnata a impedire l'immigrazione di clandestini che dal sud del Paese finisce poi per invadere l'intera Europa? Sì, ma lo ha fatto come sempre sulla carta, con uno di quei convegni fra governanti in cui il nostro caimano si pavoneggia nella parte del factotum, e ne approfitta per raccontare le sue laide barzellette, le più ignobili, raccatta nella nostra volgarità le barzellette, cioè l'umorismo che si compra, che si sparge nel Paese come una macchia di unto e di sporco, senza inventiva per fingere di essere spiritoso come un commesso viaggiatore.

Il caimano minaccia giudici e onesti, è lui il più forte, difeso dalla sua straripante vergogna. Lo chiamano a processo? Ci va e insulta i magistrati, la stampa che lo accusa, minaccia i giudici di togliere le prebende, i poliziotti di lasciarli senza pistole e benzina, è un corruttore universale, l'uomo della banana e dell'ombrello, il faccio-tutto-io che fa rimpiangere i dittatori mitomani e megalomani ma con qualche residuo desiderio di grandezza.

No, c'è toccato nel centocinquantesimo compleanno dell'Unità proprio questo sughero inaffondabile, con le sue gambe arcuate e il suo lucido da scarpe in testa.

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Titolo: GIORGIO BOCCA. Il nucleare? E' la fine del mondo
Inserito da: Admin - Maggio 13, 2011, 11:15:14 am
L'opinione

Il nucleare? E' la fine del mondo

di Giorgio Bocca

Il terremoto in Giappone e l'incidente di Fukushima dimostrano che l'uomo non è in grado di controllare gli effetti distruttivi dell'atomo. Soprattutto se si assommano alla sete di denaro. E allora, che vogliamo fare?

(05 maggio 2011)

Adesso possiamo prevedere come finirà il mondo, abbiamo appena fatto la prova generale. Un terremoto sottomarino, di quelli frequenti nell'oceano Pacifico, ha prodotto uno tsunami che ha fatto crollare una centrale atomica, le sbarre di uranio stanno entrando in fusione, c'è il rischio che la morte atomica si allarghi per centinaia di chilometri portata dal vento e dalle piogge, e che gli uomini in fuga dal flagello distruggano il sistema economico, non ci sia più da vivere per tutti, sanguinose guerre di sopravvivenza facciano strage, nessun governo nazionale e internazionale riesca a vincere il caos.

In quella lontana estate del 1945 la notizia che una bomba atomica era esplosa su una città del Giappone pareva a noi occidentali quasi normale: una nuova arma fra le centinaia di nuove armi era apparsa sui campi di battaglia, ciascuno di noi sopravvissuto al massacro poteva dire come quel senatore americano amico di Truman: "Evviva, diamogli addosso a quelle facce gialle dei giapponesi". Ma non si trattava di una punizione dei cattivi e di un trionfo dei buoni, si trattava dell'inizio della fine del mondo, compreso il genere umano, si trattava del via libera al mostro atomico, una forza incontenibile capace di distruggere tutto e tutti.

Possibile che gli scienziati che la fecero, questa bomba, non se ne fossero resi conto? Se n'erano resi conto, ma erano prigionieri della loro opera, non potevano dire di no a una bomba infernale fra le infernali ma che metteva fine a un conflitto che aveva insanguinato il mondo intero.

La centrale di Fukushima fuori controllo in Giappone, proprio nel paese in cui il mostro atomico si vide per la prima volta in tutto il suo orrore, è la prova inconfutabile che il dolce mondo in cui siamo nati porta in sé una condanna a morte che lo minaccerà fino al giorno della sua distruzione, quella potenza distruttiva dell'atomo che l'umano ottimismo pensava di poter controllare è invece risultata incontenibile.

Il lucido pessimismo di Oppenheimer non bastò a evitare la scelta sbagliata. Egli fu uno di coloro che fabbricarono la bomba per salvare il mondo dal mostro nazista e capirono solo tardi, solo a disastro avvenuto, che si trattava di una falsa salvezza, che il mondo era stato consegnato a uno sterminio atomico rimandabile ma inevitabile.

Oppenheimer e altri come lui capirono che avevano aperto la strada all'apocalisse, ma erano impotenti di fronte a un presidente degli Stati Uniti come Truman, arrivato dall'America isolazionista, che si esprimeva in modo feroce e sincero nel plaudire a ogni bomba che fosse utilizzabile contro le facce gialle.

Nel film sulla decisione di usare la bomba compare un senatore americano che sembra l'uomo della cecità umana: piccolo, tracagnotto, sicuro di sé. La bomba? Ma lanciatela subito, è la nostra salvezza. E invece è il mostro che ci portiamo dietro per cui le massime potenze del mondo sono riuscite finora (ma per quanto?) a firmare dei patti di non proliferazione atomica, patti risibili dato che ognuna delle grandi e medie potenze possiede un numero di bombe sufficiente a distruggere il mondo le cento e le mille volte. E il piccolo senatore è fiero di aver voluto e approvato la nascita di una scienza atomica suicida, quella luce accecante che vediamo prefigurata da Picasso a Guernica, il mostro che sputa fuoco sopra uomini e bestie impazzite.

Arriva dal Giappone la conferma che questo mostro è stato come sempre affidato a coloro che per denaro erano pronti a liberarlo, ai costruttori di armi infernali che non hanno rispettato le cautele e le misure, che hanno creato le fabbriche di morte dentro una delle province più popolate del Giappone, la morte atomica che deforma e avvelena la popolazione dei quartieri più popolosi.
E ancora, a disastro avvenuto, la certezza che per il denaro si continua a mentire, a non dire come stanno realmente le cose in Giappone e altrove. Potremmo dire che la vera arma infernale nel mondo è la sete di denaro, a cui non resiste nessuno.

     
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Titolo: GIORGIO BOCCA. - Forse i Maya avevano ragione
Inserito da: Admin - Maggio 13, 2011, 11:16:01 am

L'opinione

Forse i Maya avevano ragione

di Giorgio Bocca

La fine del mondo è già cominciata, prima del 2012. C'è il diluvio universale, ci sbudelliamo senza senso, rubiamo senza vantaggio

(13 maggio 2011)

La previsione dei Maya, la fine del mondo nel 2012, sembra sia stata anticipata: dall'oceano Pacifico a quello Indiano le forze della natura sembrano già scatenate per mettere fine a questo pazzo mondo e alla specie umana. Dio fa impazzire chi vuol perdere, non c'è più saggezza e previdenza fra le genti, con gli tsunami tutti hanno visto il ritorno del diluvio universale, il mare che si gonfia, che straborda, le sue acque che coprono i campi e le città, i colpiti dalla punizione divina, i miserabili esseri bipedi che salgono dove possono, sulle alture o sui tetti, per salvarsi.

Ma la terra non ha sempre tremato sotto i nostri piedi? Sì, ma ora si aprono voragini, paesi interi come l'Italia sembrano sgretolarsi a ogni pioggia, sfasci penduli inghiottiti dal mare, sono quasi scomparse le stagioni con il loro corso regolare, fa caldo d'inverno, freddo d'estate, i principini d'Inghilterra si tuffano fra i ghiacci della Groenlandia e un astronauta vuole essere ibernato pur di fuggire su Marte.
Oh, poveri noi peccatori e stolti. Le guerre non sono più quelle, con un loro senso belluino, sono piuttosto impazzimenti. Non c'è più un impero che governa le genti ma un concentrato di potere che si muove come un titano cieco menando fendenti a dritta e a manca, anche a se stesso. In Libia eserciti di straccioni si rincorrono in un carosello demenziale per la litoranea e per il deserto, gli uni si dicono governativi e gli altri ribelli, entrambi dove arrivano uccidono e fanno bottino, il capo del governo italiano che crede di essere il più furbo del mondo aderisce all'alleanza occidentale contro Gheddafi ma si addolora per i rischi del suo amico dittatore.

Obama, il presidente americano, il capo della superpotenza che tiene alle armi milioni di uomini e decine di corazzate, invece di reprimere le violenze e il sangue li incoraggia. Si è saputo che la Cia, organizzatrice di intrighi nel mondo intero, era operativa da mesi in Libia. E i suoi degni compari: l'ungaro-francese Sarkozy e il conservatore inglese Cameron che a guardarlo fa pensare che Churchill fosse di un'altra specie.
E noi? Il ministro della Difesa Ignazio La Russa cerca la rissa e agita la chioma e insulta il presidente della Camera approfittando dell'assenza del capo del governo, che è volato a Lampedusa per fare la sua solita comparsata trombonesca: promette sgomberi che ha negato agli altri e acquista una villa in parte abusiva che con una legge ad personam farà regolare.
Capito? Arriva in un'isola dove migliaia di persone, profughi disperati cercano di sopravvivere e si compra una villa; un premier popolarissimo, amato dalla gente ma sempre circondato da marcantoni dalla faccia quadrata, guardie del corpo davanti e di dietro. Eppure piace agli italiani, o fa dire da cento televisioni che piace o è convinto di piacere, come capita a tutti i tiranni finché sono al potere e a tutti i miliardari che dispongono di una liquidità senza fine.

C'è un altro segno che la fine del mondo è vicina e forse è già cominciata, ed è la voglia di uccidere, specie gli innocenti, fanciulle in fiore ammazzate come pecore sacrificali e gettate in pozzi o in stagni che le divorino le pantegane. Raccontate alle platee televisive con un accanimento e un compiacimento da circo massimo al momento in cui entrano le belve, seguite con attenzione e compiacimento dagli esperti del genere: avvocati, poliziotti, cronisti di nera a cui il presentatore-domatore dà la parola come un boccone prelibato, uno zuccherino per farli saltare nel cerchio, i tetri specialisti della macelleria generale.
La fine del mondo è già cominciata, il diluvio universale riempie di fetide acque i nostri campi, ci sbudelliamo senza senso, ci derubiamo senza vantaggio, continuiamo a coltivare le magnifiche sorti progressive del genere umano. Per non parlare della centrale atomica di Fukushima che avvelena il Giappone.

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Titolo: GIORGIO BOCCA. L'Italia che tollera i "casciabal"
Inserito da: Admin - Maggio 21, 2011, 10:19:16 am
L'opinione

L'Italia che tollera i "casciabal"

di Giorgio Bocca

A Milano chiamano così i mentitori spudorati. Come Berlusconi. Che insieme a metà degli italiani fa danni. Costringendo l'altra metà a ripararli. Ma perché i volenterosi non si stancano di questo andazzo?

(20 maggio 2011)

In televisione di questi tempi appare un italiano di mezza età, né bello né brutto, normale. è il sindaco di Manduria, un paesino meridionale dove il governo ha improvvisato un centro raccolta dei profughi in arrivo dall'Africa. "Vengo a sapere ora che ne stanno arrivando altri 1.200. Nessuno mi ha avvisato", dice, "vadano tutti in malora, io mi tolgo la sciarpa di sindaco e se la vedano loro".
Dice che non lo hanno avvisato ma che qualcosa farà per trovare ai 1.200 un posto dove dormire e qualcosa da mangiare. In questo senso il nostro Paese è veramente evangelico: il buon Dio troverà il modo di sfamare gli affamati e guarire gli ammalati, ma il buon Dio a guardare bene è poi la povera gente che supplisce ai furbi e ai profittatori e dà una mano ai bisognosi. Cercando di sopravvivere con l'oblio dei perdenti e delle vittime, con la mansuetudine dei poveri e dei sofferenti.

L'uomo giusto per governare questo Paese è Silvio Berlusconi da Arcore Brianza. Lui ha capito subito, da sempre, che gli italiani si governano così: a parole, a vane promesse e bugie colossali. Arriva a Lampedusa gremita di profughi affamati e feriti e annuncia che comprerà una villa. Poi si corregge. Non l'ha comprata perché attorno c'è troppo rumore di miseria e di bisogno. Meglio una sul lago di Como, anche se non ci metterà mai piede, come in quella che ha acquistato il mese scorso. I sudditi non lo cacciano a pedate, continuano a votarlo, i suoi figli si innamorano dei calciatori, appaiono nelle cronache mondane e negli elenchi dei miliardari, invidiati dai più e dunque esemplari in un Paese di pazzi e di mentecatti.

Davvero un Paese difficile da raccontare e spiegare. Da me vengono spesso dei giornalisti stranieri: in sessanta e passa anni di giornalismo mi sono fatto la fama di conoscitore di questo bizzarro Paese, e siccome ho conosciuto le difficoltà dei cronisti, ricevo tutti, parlo con tutti. Ma di che cosa? Di un Paese, di un popolo, di una nazione che più la conosci e meno sai dire com'è fatta, come campa, perché stia in piedi. Dicono quelli che la conoscono: l'Italia è un paese dove la metà della gente tiene in piedi quello che l'altra metà sta rovinando, distruggendo, dove la sinistra, per dire la parte riformista, indulge al malgoverno e ai peccati della destra pigra e profittatrice.

Vengono colleghi e curiosi di ogni paese, si siedono davanti a me nel mio studio e mi chiedono: che Paese è questo che sta andando alla rovina, come appare da molti segni, per poi salvarsi per il rotto della cuffia come spesso gli capita? Cerco di rispondere, ma ho scarsa convinzione. Anche se mi occupo di questo balordo Paese da tanti anni, so di non poter prevedere, di non poter garantire, di aspettarmi solo e sempre che la metà degli italiani buoni ripari ciò che l'altra metà ha ancora una volta distrutto. Forse se il duce non avesse compiuto l'errore di entrare in una guerra più grande di noi saremmo ancora qui a vivere di speranze e di menzogne consolatrici, di sabati fascisti e di tutti al mare, di MinCulPop, ministero della cultura popolare, miniera di notizie ottimiste e false, e di "8 milioni di baionette" scambiate per immagine di potenza e non di arretratezza.

Arrivano nel mio studio i colleghi italiani e stranieri che vengono da me perché ho fama di occuparmi da settant'anni di ciò che va e di ciò che non va in questa terra da pipe, come la chiamavano ai tempi in cui la nostra radica era famosa nel mondo. Il nostro segreto? Il più antico del mondo: "Chi ha dato ha dato, chi ha avuto ha avuto", oppure: "Chi è morto giace e chi è vivo si dà pace". Il Silvio da Arcore, l'ultimo dei nostri duci è, come gli altri prima di lui, un mentitore a prova di bomba, uno che ha capito dalla nascita che questo è il Paese dei grandi "casciabal" (ballisti in milanese). Chi ha detto che "la pubblicità è l'anima del commercio"? Non solo l'anima, ma la sostanza, la pratica, l'essenza. La metà dei casciabal comanda e fa danni e l'altra metà di volenterosi ripara. Che altro c'è da capire? Forse una cosa: perché mai la metà dei volenterosi non si stanca, una buona volta?
 
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Titolo: GIORGIO BOCCA. Ad Arcore c'è un megalomane
Inserito da: Admin - Giugno 13, 2011, 10:50:20 pm
Ad Arcore c'è un megalomane

di Giorgio Bocca

Il Nostro ha perso ogni controllo, in Italia come all'estero. Ormai c'è chi prova umana compassione per lui, ma purtroppo è ancora il capo del governo e l'uomo che ci rappresenta nel mondo

(13 giugno 2011)

Fu sua moglie la prima a definirlo un ammalato, uno che aveva bisogno di cure per uscire dalla sua megalomania. Il megalomane non si improvvisa da un giorno all'altro e non è facile riconoscerlo in tempo perché di solito non è un mediocre, non è privo di qualità, è semplicemente uno che con il tempo non sa più controllarle, uno, per dirla alla buona, che non ha più il senso della misura e che se ce l'ha, la reprime sistematicamente. Quando lo conobbi a Canale 5, la sua prima televisione, mi colpì più per le sue qualità professionali e imprenditoriali che per i suoi eccessi di personalità.

Era il primo uomo di televisione che conoscevo che la televisione l'avesse studiata a fondo, che la conoscesse nelle sue potenzialità e nei suoi limiti, che avesse capito come la sua capacità seduttiva fosse un artificio, più apparenza che sostanza, più spettacolo che storia o cronaca. Mi capitò di leggere uno dei suoi appunti di lavoro: precisi, dettagliati, di uno del mestiere, su come andavano usate le immagini, gli abiti, i colori e soprattutto i tempi, perché il segreto della televisione era proprio quello dei tempi, di non staccare mai la presa dallo spettatore, di non dargli tempo né di annoiarsi né di discutere. Per questo aveva arruolato un giovanotto robusto e preciso che andava in giro con un cronometro e registrava tutti i tempi delle riprese in modo da poterli correggere a ragion veduta. "Vedi, qui ti sei allungato di quindici secondi, là addirittura di trenta".

Non è facile individuare il megalomane, che spesso è uomo di qualità, non è stato facile in politica capire dove l'eloquenza o la gestualità di un Mussolini o di altro capo popolo ricoprissero i suoi difetti al punto di trovare irresistibile e incantatore anche un Hitler con i suoi baffetti e la sua isteria. Qualche segno della sua megalomania il nostro lo lascia sempre, anche nelle cose minime. Il nostro amava le giacche con i bottoni d'oro e amava che così si vestissero quelli del suo stato maggiore. E poi la sua repulsione totale, fisica, a ogni critica in pubblico.
Una volta, essendo venuta di moda la libertà di stampa, lo intervistai sull'argomento e per non fare l'intervista in ginocchio ci misi anche qualche appunto critico, qualche richiamo personale. Prudentissimi, ma evidentemente non bastava. Alla sera rimasi in casa per vedere la messa in onda, ma l'intervista non apparve né quella sera né le seguenti. Perfettamente inutile chiedere il perché ad aiutanti e segretari e consiglieri: era scesa un'impenetrabile cortina di silenzio. Nei palazzi di Milano 2 dove lavoravano centinaia di persone non ce n'era una che sapesse dirmi dov'era finita e perché era scomparsa.

Oggi sembra impossibile, dato che il nostro ha perso ogni controllo, confida pubblicamente i suoi dispiaceri da megalomane ai capi di Stato stranieri, si lascia trascinare dalla sua inimicizia per i magistrati che osano giudicarlo, pretende che i parlamentari del suo partito credano alla storia di Ruby "nipote di Mubarak", alla pochade nascosta in suo rispetto. C'è chi prova un'umana comprensione per il personaggio, chi ricorda i lati accettabili della sua personalità ma come si fa, trattandosi di uno che è il capo del governo, l'uomo che rappresenta l'Italia nel consesso internazionale?

Ci si chiede se questa storia imbarazzante avrà un seguito e se sarà di pessimo gusto come è stato in questi ultimi anni. Certo l'Italia, la storia italiana, non avevano proprio bisogno di un personaggio così vistoso, così gaffeur che sembra stampato apposta per coprire le debolezze, le cadute di stile nazionali.
Uno degli aspetti più dannosi è che le diplomazie straniere hanno usato in questi anni la megalomania di Berlusconi per ottenere favori, blandendolo e ascoltando le sue lamentele contro i giudici faziosi e contro i comunisti sabotatori. Gli consentivano queste risapute litanie per poi ottenere da lui ciò che gli interessava.

     Silvio Berlusconi

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Titolo: GIORGIO BOCCA. Siamo liberi, ma non siamo felici
Inserito da: Admin - Giugno 18, 2011, 11:11:35 pm
Siamo liberi, ma non siamo felici

di Giorgio Bocca

Il libro di Mauro e Zagrebelsky ci ricorda l'importanza vitale della democrazia. Hanno ragione, ma l'assenza di dittatura non basta se poi soffochiamo sotto il peso dell'avidità e degli interessi personali che si sostituiscono alla ricerca del bene comune

(17 giugno 2011)

La copertina del libro di Mauro e Zagrelbesky La copertina del libro di Mauro e ZagrelbeskyNel loro dialogo sulla felicità della democrazia Ezio Mauro e Gustavo Zagrebelsky affermano la superiorità di una forma di società che consente a tutti, non solo ai pochi privilegiati, di pensare, di comunicare, di scrivere, di fare affari come politica, di esistere in libertà senza tema del poliziotto che ti suona alla porta all'alba, delle spie che riferiscono le tue parole agli intolleranti.

Chi ha avuto l'esperienza di vivere in entrambe le società, la libera e l'autoritaria, ricorda molto bene che il duro prezzo da pagare nella seconda non era sempre la galera o la privazione delle libertà individuali, ma l'umiliazione continua di dover mentire o tacere, di dover essere muto di fronte alle più sfacciate violazioni della verità e della ragione. Ne ho un ricordo vivissimo.

Si era nei giorni della guerra contro la Grecia, la spedizione assurda voluta dal clan Ciano-Mussolini solo per tentare un'impari competizione con le guerre lampo dei nazisti in Polonia e in Norvegia. E invece di un facile successo era stata una ritirata e sarebbe stata fatale se gli alpini della Julia non avessero fatto baluardo. Al confine tra Italia e Francia, a Mentone, i francesi avevano esposto dei cartelli irridenti: "Grecs arretez-vous, içi France".

E in uno di quei giorni di umiliazione e di vergogna il federale fascista della mia città ci aveva radunato in un teatro per risollevare gli animi, e mentre diceva le menzogne della propaganda, il famoso "adesso viene il bello", io in platea fra gli altri studenti avevo voglia di alzarmi a gridare: "No, non è vero, questa è una guerra già persa, il nostro riarmo è solo un bluff, le artiglierie che avevate promesso non ci sono, l'aviazione non si è mossa neppure durante la spedizione francese nelle acque di Genova". E invece tacevo, perché come tutti avevo paura di finire in galera o al confino. E subivo tutta l'umiliazione di tacere che è la peggior cosa che ci sia in una società autoritaria.


Hanno toccato un tasto giusto Mauro e Zagrebelsky parlando della felicità della democrazia, la felicità di essere, di sentirsi uomini liberi. Tutti, liberi di vivere la vita nelle sue infinite forme, di manifestare, di realizzarsi come cittadini, di assumere diritti e doveri. Questa felicità non è un bene astratto o uno stato ideale irrealizzabile, è qualcosa di estremamente concreto e cogente, qualcosa che ha spronato una generazione a volere e a fare la guerra partigiana, la guerra di liberazione dagli occupanti tedeschi.

Viene proprio da dire dell'Italia di oggi che questa ricchezza in buona parte sopravvive, quotidianamente ne godiamo, stanno però crescendo gli impedimenti di quel potere fortissimo che è il denaro, gli interessi personali, il peso di controllo e di soffocamento progressivo che gli interessi materiali hanno sostituito al binomio giustizia e libertà, che è l'essenza della democrazia.

Ho sentito dire da amici questa amara riflessione: siamo liberi ma la mediocrità della vita ci sta soffocando. Apro la televisione, i giornali, ascolto le radio: è una marea di falsità e di stupidità che non ci dà tregua. Seguo i dibattiti politici, un bla bla bla ripetitivo, parole elusive prive di senso, una recita che ha dell'osceno perché capisci benissimo che i buoni intenti sono una copertura, un diversivo, e che al contrario tutti pensano ai buoni affari. Da cui una sorta di nausea per la politica in generale, vissuta come un colossale inganno e presa in giro, con quel presidente virtuoso che continua nelle buone prediche mentre attorno a lui ogni giorno, a ogni ora c'è qualcuno che ruba o malversa.

La democrazia è il modo migliore di vivere associati, le sue forme sono le migliori, le sue ragioni inoppugnabili, ma se lascia che gli interessi privati prevalgano sui generali può diventare oggetto di feroci critiche e di odio, come all'inizio del secolo scorso, quando l'odio per la democrazia divampava in tutta Europa e creava i mostri del fascismo.

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Titolo: GIORGIO BOCCA. Politici alla fiera delle vanità
Inserito da: Admin - Giugno 25, 2011, 06:41:49 pm
Politici alla fiera delle vanità

di Giorgio Bocca

Qualsiasi mossa è studiata per fare bella figura davanti ai telespettatori: da come si aggiusta la giacca a come si saluta la gente.

Per non parlare dei talk-show dove la mimica facciale e gli atteggiamenti sono determinanti

(24 giugno 2011)

La trasmissione Ballarò La trasmissione BallaròLa televisione scuola dell'obbligo, mater et magistra, comunione dei viventi! Alla televisione non si assiste, ma si partecipa. Specie i politici, che hanno bisogno di essere conosciuti e ricordati. Guardate una trasmissione come "Anno zero" o "Ballarò": i politici sono schierati in prima fila, sono loro i protagonisti e lo sanno.

Tutti si fanno accompagnare da due o tre compari con posti prenotati alle loro spalle, i compari quando il politico parla assentono o sorridono: finalmente qualcuno che parla chiaro! Sono soddisfatti, si guardano soddisfatti, il politico sapendo di essere ripreso commenta con la mimica. Parla il comico di turno? Il politico non solo è sorridente ma sta per crepare dalle risate. Mai sentito un comico così divertente, con sfottò così azzeccati. Parla un avversario? Il politico dissente ma civilmente, fa dei gesti di negazione, qualche sorrisetto di superiorità, qualche smorfia di disappunto, qualche occhiata di sdegno. Qualcuno arriva anche al gran gesto, si alza furibondo e abbandona la sala invano inseguito dal presentatore o dal regista.

La televisione scuola dell'obbligo, mater et magistra fa di tutti coloro che la frequentano degli attori alle prime armi che si comportano, si atteggiano, cercano di mettersi in evidenza nei modi più ingenui e risaputi. La giacca ha una parte fondamentale, l'abbottonatura della giacca: scendono dalle automobili blu, si guardano attorno per vedere se i poliziotti di corte sono schierati, sorridono all'autorevole seguito e la loro manina è già all'opera, velocissima e precisa abbottona la giacca e poi corre al nodo della cravatta, che a forza di essere stretto diventa una pallottolina, un colpetto di mano al costato per accertarsi che tutto funzioni.

L'uomo politico, specie se piccolo e con gambe storte, deve far vedere che lui cammina marziale spedito, parte a lunghe falcate e gli altri dietro per non perdere il passo, e mentre cammina saluta tutti, anche gli uscieri, e mette amichevolmente la mano sulla spalla di uno dei poliziotti in borghese che deve precedere un po' storto senza protestare. Il politico arriva al predellino di auto o a un qualsiasi rialzo su cui balza agilissimo e incomincia ad arringare la folla che lo invoca. Poi scende soddisfatto e ricomincia la toilette: si aggiusta la giacca, sistema il colletto della camicia, si passa una mano in testa per domare i capelli, se ci sono.

Se appartiene alla razza dei commessi viaggiatori ha un campionario di mosse e mossette rassicuranti: un saluto all'amico da anni fedele riconosciuto nella folla, uno sguardo in alto per vedere quelli che applaudono dai balconi, un altro per accertarsi che gli sbirri siano tutti lì a proteggerlo, incurante che milioni di telespettatori vedano che non si muove se non coperto dagli agenti di sicurezza alti, spalle quadrate, teste quadrate, poveracci che per mestiere rischiano la pelle. E qualcuno ha capito, lo vedi che cerca di liberarsi dalla mano del padrone posata sulla sua spalla mentre camminano.

Ma è un mestieraccio anche quello dell'amato duce: giornate intere passate in aereo o in elicottero per raggiungere strade e piazze gremite da fedeli mobilitati e stipendiati, da un nugolo di servi pronti ai servigi più ignobili, mentre si va a un comizio di ruffiani e di clienti. No, non è un bel mestiere, una bella vita quella del padrone del carrozzone statale: tutti chiedono soldi e favori, pronti a voltare le spalle e a impugnare i pugnali alle idi di marzo, quando il capo non avrà neppure il tempo di stupirsi per i Brute fili mi.

Per fortuna c'è lo smodato amore di sé che fa sopportare fatiche e incidenti. Per amore di sé il capo è pronto a sobbarcarsi fatiche terribili, a frequentare banchetti e simposi orripilanti. Ricordo un mio parente candidato nel Partito socialista in una città del Piemonte che a ogni elezione rischiava di ammalarsi per aver dovuto bere vino acido con i compagni.

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Titolo: GIORGIO BOCCA. Ma perché ci filiamo il Principato?
Inserito da: Admin - Luglio 21, 2011, 11:30:01 am
L'opinione

Ma perché ci filiamo il Principato?

Giorgio Bocca

Non se ne può più di sentir parlare di Alberto e della moglie che si è già stufata di lui. Perché invece non diciamo che Montecarlo è il peggior simbolo della speculazione, dell'evasione fiscale e del denaro di rapina?

(20 luglio 2011)


Mondovisione, tutti i sovrani del creato, in carica o no come il nostro Emanuele Filiberto, lo stilista Giorgio Armani, la principessa Carolina, Gustavo e Silvia di Svezia, Guglielmo di Olanda e Haakon Magnus di Norvegia.

Due file di spettatori lungo il percorso fra palazzo Grimaldi e la cattedrale, il presidente della Repubblica francese, il tout Paris dell'Arc du Triomphe, la Londra di Wimbledon e di Westminster, insomma il meglio del meglio per festeggiare il Principato dei contrabbandieri e dei biscazzieri, a riprova che, per proletari e per ricchi blasonati, pecunia non olet.

Come sia riuscito questo Principato a sopravvivere fra i grandi regni di Spagna, di Francia, d'Inghilterra e l'avidità dei Savoia è noto: nella loro rocca i Grimaldi facevano sortite corsare e approfittavano delle guerre fra le grandi potenze per ritagliarsi la loro parte di bottino. L'ultimo dei Grimaldi ebbe il colpo di genio di mettere sulla rocca una casa da gioco frequentata da tutti principi con le mani bucate a spese dei sudditi, inventore della garanzia aurea delle monete sempre limate dai sovrani.

La gloriosa dinastia non ha legato il suo nome a nessuno dei grandi avvenimenti politici ed economici del Vecchio continente, le sue uniche attività sono state speculative, la costruzione di case su ogni scoglio del Principato e persino sul mare per ospitare i clienti biscazzieri e anche gli evasori fiscali. Durante la trasmissione televisiva della cerimonia nuziale e dei cortei veniva da chiedersi perché mai gente accorsa da ogni parte del mondo, anche i miei conterranei del basso Piemonte e di Ventimiglia, fosse dietro le transenne in migliaia. Per applaudire che? Il figlio di Ranieri e di Grace Kelly, attrice bella come una dea, ma che voleva un titolo nobiliare e i miliardi dei palazzinari e la corte di cartapesta di Montecarlo.

Ero fra i cronisti del matrimonio con Ranieri e la domanda che ciascuno di noi si poneva era: ma perché questa donna baciata dalla bellezza e dalla fortuna, attrice famosa, ricca di suo, ha dovuto sposare questo nobilotto da Costa Azzurra, che quando indossa la divisa da principe sembra il capo della banda musicale, che nelle città della Costa deve allietare tutti i galà per il turista, come il gran galà con pranzo al superclub del casinò dove quello che conta è esserci, far vedere che ci si è. Inusuale la presenza di Armani, che c'era per aver fatto l'abito della sposa, la quale, essendo meno esperta e meno abituata di Grace, si è offesa e adombrata per aver saputo alla vigilia delle nozze che il suo principe in divisa bianca e gialla di ordinanza di non si sa quale fantomatico esercito aveva nel tempo messo al mondo non si sa quanti bastardi, da salutare anche loro con tanto di titolo nobiliare.

L'esempio del Principato di Monaco, di questa finta monarchia che in realtà è uno dei centri principali della speculazione turistica, roulettistica e immobiliare, è una pubblica confessione dei requisiti fondativi dell'aristocrazia europea e mondiale. Che ha sempre storto il naso a parole contro la venalità dei borghesi e l'avidità dei fondatori d'imperi, ma a Montecarlo è sempre venuta per giocare e trovare amori più stuzzicanti di quelli coniugali. Insomma, per un'insopprimibile propensione al denaro facile di rapina o di gioco che è poi quella da cui hanno avuto origine i famosi e altezzosi casati. Come se nella memoria fosse rimasta l'importanza di quel primo accumulo di capitale, fatto, se occorreva, anche nelle prime crociate.

Si capiva guardando in mondovisione la crème del matrimonio principesco, che fra i nobili di tutta Europa finiti nel cortile del castello e le migliaia di spettatori plaudenti lungo il percorso del gran premio il denominatore comune di questo scrocco in grande stile era di stare attorno all'albero della cuccagna. Qual è stata durante il matrimonio della corte inglese l'inquadratura più trasmessa dalle televisioni? Quella del gran culo di Pippa, la sorella della sposa. Il simbolo sessuale che piace ai marchesi come ai facchini. Alberto di Monaco | Principato di Monaco

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Titolo: GIORGIO BOCCA. - Ma chi sono questi 'faccendieri'?
Inserito da: Admin - Luglio 25, 2011, 12:15:04 pm
Ma chi sono questi 'faccendieri'?

di Giorgio Bocca

I giornali li chiamano così, ma in realtà si tratta di pidocchi. Che si attaccano ai politici e offrono loro case in centro, regali esentasse, lussi e comodità. Corrompendo la democrazia Bisignani

(22 luglio 2011)

Chi sono i faccendieri di cui sono piene le cronache e i moralismi? Come è possibile che questi pidocchi del malcostume corrente siano scelti come persone di fiducia da ministri e da alti funzionari dello Stato? A leggere ciò che ne scrivono i cronisti parlamentari o di gossip mondano, sono dei "bru bru" che ogni professionista per bene, giudice, avvocato, ingegnere, professore si guarderebbe bene dal frequentare.
E allora perché i nostri politici se ne circondano e li usano? Il mistero di Pulcinella è stato svelato dal nostro Filippo Ceccarelli, con il garbo micidiale che gli si conosce. Per la casa: non la casa qualsiasi dei cittadini normali ma la casa in vista di Montecitorio, raggiungibile magari a piedi in ogni ora del giorno e della notte anche se ci sono tumulti o scioperi. Una casa con vista del Colosseo o vicino al Pantheon.

Si dirà: ma che bisogno hanno dei faccendieri personaggi cui certo il denaro non manca? E' evidente: perché per trovare delle case con quei requisiti è indispensabile per i potenti avere le mani in pasta nel mercato immobiliare, nei suoi non sempre limpidi do ut des, nelle frequentazioni degli altri faccendieri.
L'elenco dei piaceri e dei lussi dei faccendieri portati alla ribalta dagli ultimi scandali mette i brividi. Rischiano la galera, l'esclusione dalla buona società, la nomea di cafoni, e di emulare i "pescicani" della prima guerra mondiale, gli arricchiti volgari: automobili fuoriserie da centinaia di migliaia di euro, orologi da 20 mila euro, barche da ormeggiare a Portofino e feste continue per accontentare le mogli volgari e insaziabili che si scelgono come uomo della vita un faccendiere.

Ha colto nel punto debole i nostri potenti il cronista di modi gentili ma di penna tagliente. Se tu uomo di governo vuoi la casa in vista di Montecitorio devi tenerti in squadra il faccendiere che ha passato la vita a frodare il fisco e a fare loschi commerci. Quello che potenti di oggi, i ministri e i vari funzionari che si servono dei faccendieri, non riescono a capire è che l'unico modo per far parte degnamente di una classe dirigente è il taglio dai comodi e dai piaceri legati ai servi senza stile e senza morale.
Il ragionamento che i potenti fanno è chiaro, ed è lo stesso che faceva Enrico Mattei con i fascisti della prima Repubblica: io questi nemici o estranei alla democrazia li adopero come si adopera un taxi, salgo, mi faccio portare dove devo andare, e chi si è visto si è visto.

Non è così: l'antifascismo democratico ha predicato per tutto il regime l'intransigenza, ha insegnato a generazioni che era un errore venire a patti e a commerci con gli uomini del regime, l'opposizione a un regime autoritario non è possibile se poi si condividono i lussi, i condizionamenti, i comodi del potere.
Il ministro che per sposarsi ha bisogno di andare nella località del lusso massimo della Penisola sorrentina è uno che dà al Paese questo messaggio: io sono uno che predica bene e razzola male, uno che predica la lotta agli sprechi e la corretta amministrazione e che poi vi dimostra di avere i desideri e i piaceri dei faccendieri. In occasione dei matrimoni dei nostri uomini politici vige ancora la regola quasi obbligatoria della lista dei regali.

Quando si celebra la cerimonia del potente di turno il ceto dirigente cala per così dire la maschera e compilando la lista dei regali si confessa in pubblico: che serve al nostro caro collega di partito e di casta? Un uliveto, una villetta al mare, un servizio da tavola per ventidue? Esenti dalle tasse.
Ai tempi del grande potere democristiano la lista dei regali e la loro consegna assumevano un significato politico. Cronisti e fotoreporter venivano invitati di fronte alla casa del festeggiato per assistere alla sfilata dei doni, come se fossero arrivati dall'Oriente su una carovana. Lo spettacolo non destava scandalo, era un segno manifesto del potere che si mostrava senza veli ai cittadini.

   
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Titolo: GIORGIO BOCCA. Che fatica capire l'Italia
Inserito da: Admin - Agosto 06, 2011, 04:04:44 pm

L'opinione

Che fatica capire l'Italia

di Giorgio Bocca


I torinesi che la fanno da padroni a Detroit. La frenesia delle donne di rifarsi naso e corpo.

La passione per gli omicidi misteriosi, da Sarah a Yara.

Nel nostro paese l'unica distrazione vera ormai sembra essere la politica

(28 luglio 2011)

Alcune cose che non riesco capire di questo tempo. La Fiat che compra la Chrysler, per cominciare. La pulce italiana, i pigmei di Torino, che la fanno da padroni a detroit. Inspiegabile. La Fiat di oggi e di un prossimo futuro non sembrava proprio avviata a conquistare il mondo. La sua industrializzazione del sud non era stato un successo: chiuso l'impianto di Termini Imerese, in crisi quello di Pomigliano d'Arco, lento ricambio dei modelli sul mercato fermo. E invece con l'arrivo di un oriundo italo canadese come sergio Marchionne è un fiorire di successi e di progetti: nuovi impianti in Serbia e Polonia, l'acquisto della Chrysler, uno dei giganti di Detroit, lodi generali al supermanager che sa abbinare l'automazione alla finanza.

Chi ha fatto il miracolo? Nessuno risponde, è uno di quei momenti in cui l'azienda non si sa bene perché e come si mette a correre verso imprevedibili successi. Probabilmente il miracolo l'hanno fatto le banche, la finanza mondiale che hanno riconosciuto in Marchionne uno dei suoi cavalli di razza, di quelli che sanno come si salta sulla cresta dell'onda. I menagrami dicono che alla fine della fiera la Fiat sarà una delle poche grandi aziende italiane a passare il mare e andare negli Stati Uniti, paradiso del capitalismo. Impressionante comunque il reverente silenzio con cui tutta la stampa accetta il fatto che John Elkann sia il nuovo re dell'auto.

La seconda cosa che non capisco di questa nostra Italia che cambia è lo straordinario successo della chirurgia plastica, quella che rifà nasi e bocche, e che ha portato al governo Daniela Santanchè (cognome da nubile Garnero), separata dal chirurgo omonimo. Le italiane sembrano dominate dalla frenesia di farsi rifare faccia e corpo. E' un'illusione costosa e rischiosa. Spesso i connotati corretti o rifatti sono peggio di quelli originali, spessissimo i nuovi tessuti collassano e incomincia un calvario per riparare quelli che hanno ceduto e comunque vada quelle che si sono rifatte sono riconoscibilissime. Di alcune ci si chiede perché l'abbiano fatto. Perché tante attrici e cantanti si sono fatte mettere delle bocche enormi e puttanesche?

Un'altra strana passione italica è quella delle indagini sui delitti irrisolvibili e i misteri processuali, il cui capostipite è la vicenda Bruneri-Canella, dello smemorato conteso da due signore torinesi. Delitti inspiegabili, o stupidi e proprio per questo impuniti, come quello della giovane Sarah nel profondo sud o della ragazzina Yara a Bergamo, sono una manna per le televisioni sempre a corto di immagini da bruciare nella fornace. Che cosa c'è di meglio per la televisione di indagini strampalate a cui partecipano gli esperti esibizionisti, dove tutti possono dire la loro, che più ridicola è meglio è?

La questione non è nuova. Quando entrai nel giornalismo erano di moda i processi fiume, non sullo schermo luminoso ma sulla carta stampata. Processi seguiti da milioni di persone che non si stancavano di schierarsi pro o contro la colpevolezza o l'innocenza dei processati. E si andava avanti per decenni, per generazioni, come nel caso di Ettore Grande, un diplomatico la cui moglie era stata uccisa a rivoltellate a Bangkok, e famosi criminologi arrivarono, al suo secondo processo, a dire per difenderlo che la colpa era dell'Amok, la follia che coglieva gli indigeni nei giorni delle grandi piogge. Con gli avvocati che per far assolvere i loro clienti usavano la tecnica tutti colpevoli nessun colpevole, tutti rei confessi nessuno condannabile.

Il grande Silvio Berlusconi ha portato una novità in questo gioco di processi senza fine, per la platea popolare annoiata in cerca di emozioni. Per vari anni l'Italia intera si è incantata alle sue gaffe e ai suoi difetti; fra un po', quando se ne sarà andato, li rimpiangerà, e andrà in cerca di qualcosa di inutile su cui discutere. I politici sono già all'opera per creare nuovi vaniloqui.

 
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Titolo: GIORGIO BOCCA. - Uomo d'affari, non di governo
Inserito da: Admin - Agosto 11, 2011, 12:28:42 pm
Uomo d'affari, non di governo

di Giorgio Bocca

È questo il giudizio che la storia riserverà a Berlusconi. Che ormai è avviato verso un umiliante tramonto.

E il bilancio dei suoi vent'anni in politica sarà negativo: l'Italia è infatti regredita


(04 agosto 2011)

Per semplificare la storia del berlusconismo, che proprio semplice non è, i suoi compagni di avventura, che non brillano per accuratezza ed eleganza, vanno dicendo su tutte le piazze e tutte le gazzette: "povero Silvio, è cotto, è vecchio e stanco, non ha più le belle doti d'animale da preda di un tempo", non è più né tigre né volpe, come vorrebbero fosse ancora i suoi "liberi servi", come li chiama Giuliano Ferrara. Silvio Berlusconi è semplicemente un populista che ha fatto il suo tempo, abile demagogo ma cattivo politico, uno che avendo successo come uomo d'affari ha pensato di esserlo anche come uomo di stato e di governo, votandosi a un umiliante tramonto.

Non occorre essere un Machiavelli per sapere che la politica, nonostante le apparenze avventurose e casuali, è una partita con le sue ferree regole. Per abbattere una dittatura, anche la più astuta e implacabile, occorrono due eventi spesso concomitanti: una crisi economica e una sconfitta militare. Finché i soldi girano e non si fanno guerre perse anche un cattivo governo populista può reggere compensando gli errori con la propaganda e con i sogni.

Il berlusconismo non è stato un rifacimento del fascismo: diversissime le condizioni economiche e i rapporti internazionali, ma del fascismo ha ripetuto le esitazioni e i pentimenti che facevano dire a un Goebbels che Mussolini non aveva la statura dei grandi dittatori, non era il capo che "faceva la storia" come Hitler o Stalin.
Il giudizio su Berlusconi uomo politico non conosce vie di mezzo. Molti in Italia si sono illusi che fosse l'uomo che non è, il nuovo re Mida protetto dalla fortuna, capace di arricchire anche i suoi nemici. Parlando di questo Berlusconi più furbo che prudente, più opportunista che coraggioso si corre il rischio dell'ambiguità, di comporre un ritratto che piace ai suoi sostenitori: "In fondo qualcosa di buono ha fatto anche lui". E invece qui si pone un giudizio severo.

Tirate le somme il berlusconismo come governo, come reazione di una società moderna e civile è un fallimento. Non c'è un solo aspetto della società italiana che non esca impoverito, peggiorato da questo ventennio di democrazia autoritaria. Non c'è stata la continuazione da molti attesa del miracolo economico, cioè lo sviluppo di un Paese industriale forte in progresso come negli anni della ricostruzione, ma invece un Paese sempre sull'orlo di una recessione, sempre affidato a strutture deboli, sempre esposto all'anarchia e alla corruzione dilagante.

La follia estrema è stata quella di scatenare per motivi personali una lotta senza quartiere e senza misura alla magistratura, alla giustizia, cioè a uno dei fondamenti della società moderna. Il torto o il limite di Berlusconi è stato quello di non riuscire ad avere nella maturità una vita diversa da quella del successo imprenditoriale. Non ha mai saputo separare gli interessi del paese da quelli suoi personali, ha continuato a fare i suoi affari immobiliari, le sue speculazioni in Borsa, le sue amicizie internazionali, ha sempre tenacemente voluto uniti l'utile personale al prestigio politico.

In tutti i luoghi italiani in cui è intervenuto come capo del governo non ha mancato di essere anche l'uomo d'affari che favoriva i suoi amici e magari ostacolava i suoi concorrenti.
Chi ha conosciuto i due Berlusconi, l'imprenditore e il politico, non riesce a capire perché non abbia neppure tentato di superare questa sua ambiguità di fondo, non abbia mai avuto il coraggio di scegliere. Un capo di governo che si crede un uomo fatale per il suo Paese, che trasforma un giornalista abile e furbo come Michele Santoro nel suo principale nemico è uno che nella politica e nella storia non sa bene quello che vuole.
Berlusconi non ha saputo dominare le richieste, spesso assurde e spesso puerili, del suo ego espanso, ha voluto essere primo, amato, seguito da tutti e per tutto, cosa che è palesemente impossibile.

     
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Titolo: GIORGIO BOCCA. - B. è un Mussolini fallito
Inserito da: Admin - Agosto 22, 2011, 04:11:09 pm


di Giorgio Bocca

Quando si racconterà la storia dell'Italia sotto il Cavaliere si vedrà che c'erano tutte le premesse di una dittatura.

E' mancata solo la violenza fisica sui dissidenti, sostituita con l'intimidazione mediatica

(16 agosto 2011)

Perché la maggioranza degli italiani, anche conservatori, vota contro Silvio Berlusconi, contro la sua democrazia autoritaria? Perché dopo anni di rassegnazione riscopre la politica e l'adopera per porre fine a un regime che non ha neppure la giustificazione dell'efficienza? Perché il tiranno non ha saputo, non ha potuto fare di quello strumento decisivo del potere che è il terrore la certezza dei sudditi di essere dentro il tritacarne poliziesco.

Berlusconi non ha saputo o voluto essere un dittatore sanguinario, torturatore, feroce. Ha pensato di poter sostituire i plotoni d'esecuzione con il fango della diffamazione e le persuasioni della corruzione, che gli fosse più facile devastare la faccia, la reputazione dei suoi concorrenti al potere che mettere in piedi il pesante apparato della repressione poliziesca. Non neghiamogli un naturale rifiuto per la violenza bruta, per la macelleria sociale, per i lavori forzati, i gulag. Il che non esclude la violenza, la volontà di ferro di distruggere gli avversari: il caso Boffo è esemplare. Boffo è stato eliminato non con le pallottole ma con la diffamazione.

Come dittatore di nuovo tipo Berlusconi ha usato le armi di cui era ben fornito: il denaro e la stampa gialla. Era dagli anni Venti, dalla nascita del fascismo, che un aspirante tiranno preferiva la diffamazione dell'avversario all'intimidazione fisica. Arrivato alla proprietà di molte reti televisivi e di un quotidiano nazionale Silvio è stato il primo a scoprire che il gossip, l'informazione mondana, i retroscena sessuali potevano essere una formidabile arma politica deterrente e distruttiva. Come si era impadronito della televisione, della pubblicità e delle loro seduzioni senza la minima preoccupazione culturale e morale, senza il minimo timore di cosa ne pensassero gli altri, i moralisti, gli intellettuali, famiglie a lui estranee, Berlusconi è diventato il signore dei telegatti televisivi e della stampa colorata o rosa o gialla, o per corrompere o per diffamare.

Chiunque al mondo avesse avuto come lui la capacità e la fortuna di diventare un grande editore si sarebbe preoccupato di fare informazione di prestigio, avrebbe avuto come modelli "Le Monde" o il "New York Times". Ma lui, che prima di tutto è uomo di successo, ha preferito da subito fare dei suoi giornali qualcosa di simile a se stesso, pronto a rintuzzare il minimo attacco avversario, ripagarlo con diffamazioni senza misura, prolungate per giorni e settimane, su tutto ciò che di abusivo e di illegale potevano aver fatto i concorrenti o anche non aver fatto, bastava che fosse credibile che lo avessero fatto.

La storia italiana politica o economica, come si era formata nella Repubblica democratica, non era una villanella senza peccato, esente da tutte le tentazioni connesse all'informazione, l'unico mondo in cui il fantastico e il falso possono sostituirsi al vero e al serio. La tentazione è forte e il sistema pubblicitario la moltiplica, ma in quella stampa, persino nel periodo fascista, esisteva un minimo di educazione, di civile convivenza: nessuno si è mai sognato nella Repubblica italiana di attaccare Togliatti per la sua relazione extraconiugale, e indiscrezioni sugli amori altrui erano rare e contenute.

Con Silvio e il bunga bunga l'elogio del piacere della prostituzione diviene imperante, asfissiante. Dicono di Berlusconi che sia malato di sesso. Certo appartiene a quella specie umana che non sa parlare di altro, pensare di altro, quelli che il sesso lo portano in fronte.

Una conferma che lascia sbalorditi: ricevendo a Roma il primo ministro israeliano Netanyahu, Berlusconi a un certo punto si è voltato verso un grande quadro e ha detto "questo è il bunga bunga del 1811, quello è Mariano Apicella e quell'altro sono io", indicando due personaggi. L'imbarazzato Netanyahu ha fatto un sorriso di circostanza. E arrivando a Palazzo Chigi Silvio aveva fermato il corteo per salutare una bella ragazza.

 
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Titolo: GIORGIO BOCCA. L'eterna legge delle tre S
Inserito da: Admin - Agosto 26, 2011, 06:25:18 pm
L'eterna legge delle tre S

di Giorgio Bocca

Sesso, sangue, soldi. Come insegnavano i maestri del giornalismo non c'è miglior modo per segnalare la propria presenza al mondo.

E la strage del giovane norvegese lo conferma

(18 agosto 2011)

Perché il giovane norvegese cristiano antimusulmano ha fatto strage di ragazzi in un'isola presso Oslo? Perché l'omicidio - l'assassinio di un essere umano - resta l'ultima occasione totale, perfetta, dei disperati, dei dimenticati, dei visionari, dei pazzi per affermare la loro presenza al mondo, per dimostrare che anche i reietti, i borderline, i disadattati, i mostri, gli abbandonati possono rivendicare la loro presenza al mondo: uccidono per le loro pazze ragioni, ma anche e soprattutto per questo.

Anni fa, quando furono create le prime scuole di giornalismo, i professori, quelli del mestiere, predicavano la legge delle tre S: sesso, soldi, sangue i tre argomenti che facevano vendere i giornali, aumentare le tirature e la pubblicità. Anche adesso, anche nell'efferata strage compiuta dal giovane norvegese di 90 giovani si dimostra che la legge delle tre S è sempre valida e che nel più civile paese del mondo qualcuno può entrare nell'isola dove i giovani come lui s'incontrano con un arsenale di morte, pugnali, pistole, mitra, bombe a mano e fare strage credendo, felice, di essere finalmente un giustiziere, pronto a massacrare degli innocenti agli occhi di tutti, ma non ai suoi, che vedono i nemici personali e del mondo anche negli adolescenti dall'aspetto innocente.

Siamo nel terreno dell'assurdo, del mostruoso, dell'orrendo, come a dire un terreno che fa comunque parte dell'umano, di ciò che l'uomo può compiere e compie, e qui forse è la risposta alla permissività che la società civile ha per gli assassini potenziali che circolano armati nelle strade delle nostre città, il perché ci siano paesi civilissimi che permettono ai loro cittadini come un diritto primordiale e inalienabile di circolare armati come ai tempi della frontiera e dei feroci indiani. Voglio dire dell'apparentemente incomprensibile realtà per cui una nazione civilissima come la Norvegia permette a un ragazzo pazzo che sogna il ritorno di Odino e dei giganti - che nella fantasia dei primi abitanti erano i grandi ghiacciai percorrenti le terre scandinave - di sbarcare sull'isola dove i giovani di Oslo si trovavano per un campus estivo del partito laburista con un armamentario bellico da marine, sfuggito ai custodi o forse scambiato per armi giocattolo, e poi assiste impotente per un'ora senza intervenire alla mattanza di quasi cento giovani che il pazzo prendeva con calma di mira e ai quali dava il colpo letale quando erano a terra feriti.

Eppure in un viaggio negli Stati Uniti ho visto il mio taxista sparare in una notte a New York contro uno che aveva tentato di fermarlo, e in un ristorante di cowboy nell'Oregon decine di uomini che posavano pistole e carabine sui tavoli e guardavano stupiti il disarmato che si era fermato nella loro mensa. E ancora in un deserto del New Mexico, quando la mia auto s'impantanò fuori strada e arrivò in nostro soccorso un indiano, forse un cheyenne, che era stato in Italia durante la guerra, di cui conservava una carabina a tracolla, e scambiando qualche parola nella nostra lingua ci portò in salvo.

Nella tragedia di Oslo il ridicolo si mescola al tragico: la polizia era convinta che il pazzo fosse uno dei terroristi islamici che lanciavano bombe in città, non un sostenitore della razza ariana che voleva purificare i figli della madre Norvegia con i capelli biondi e gli occhi azzurri. Noi nel nostro piccolo abbiamo riempito uno sterminato numero di pagine di giornale con i nostri delitti paesani e pecorecci dove in obbedienza alla legge delle tre S abbiamo dato la parola ad avvocaticchi di provincia e a sedicenti criminologi e a testimoni pronti a tutto pur di apparire in tv, al punto che la magistratura ha dovuto arrestarne alcuni che si erano inventati rivelazioni sui delitti. Una festa per la tv popolare che ha voltato e rivoltato le macabre frittate fino alle nazionali celebrazioni popolari dei parenti delle vittime, applauditi dalla popolazione e sepolti sotto montagne di fiori candidi.

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Titolo: GIORGIO BOCCA. Il gusto di parlar male dei colleghi
Inserito da: Admin - Settembre 02, 2011, 06:09:10 pm
Il gusto di parlar male dei colleghi

di Giorgio Bocca

Buona parte del tempo che si passa al lavoro è dedicato alla maldicenza. Domina l'invidia per chi comanda e per chi occupa posizioni importanti. La sacralità della fatica oggi è un po' attutita

(25 agosto 2011)

E' difficile capire se in questa valle di sudore e di fatiche il lavoro sia una condanna oppure la fonte di ogni salvezza e beatitudine. Nel cortile della mia città piemontese c'era una piccola carrozzeria. il padrone, sua moglie e il lavorante, dalle prime ore del giorno a sera inoltrata, recitavano nel loro dialetto: "venta el travailler, travajuma, el travail bien fait, anche Gesù Crist l'era un ouvrier". E sfasciavano, verniciavano, martellavano, perforavano quasi in trance, come quel cantante autore del verso "chi non lavora non fa l'amore", completamento di "chi non lavora non mangia". Ma è davvero così nel presente e nel prevedibile futuro?
A volte ho il dubbio, l'impressione che dietro a questo inno all'attivismo ci sia il fatto che la vita degli uomini moderni trascorre a debita distanza dal lavoro, di cui si parla moltissimo. Il piccolo scrivano fiorentino che si logorava gli occhi la notte a lume di candela è stato smentito dalla gran parte degli scrittori che ho conosciuto: Moravia, Soldati, Calvino parchi programmatori del loro tempo di scrittura, al massimo le cento righe a macchina ogni giorno che una volta fatte autorizzano alle letture, agli ozii, alle conversazioni. Mario Soldati era il meglio organizzato: "Quanti tavoli hai?", mi chiese la volta che andai a trovarlo a Fiaschierino, "tavoli come questi su cui posare carte, fogli, copie, fiori, sigarette, tutto".

Non solo nella Torino del truciolo e del tornio il lavoro a parole è dominante, dovunque gli italiani comuni, anche i più notori scansafatiche, si salutano con fieri e virtuosi "buon lavoro". Una parola domina le cronache politiche e sindacali: "il tavolo", la parte per il tutto, le trattative che in ogni angolo del paese si svolgono sul modo di lavorare.
La sacralità del lavoro, un po' attutita in questi tempi di automazione e di computer, ma fortissima e inevitabile nei giorni di Pietro Secchia e dei "lavoratori con le mani callose". La sacralità imperitura per cui in tutte le riunioni e conferenze in qualche modo attinenti al lavoro a un certo punto avveniva la rivelazione carismatica dell'operaio, eroe in carne e ossa, e il funzionario di partito lo presentava: "Ecco il compagno Ferretti, da trent'anni alle presse", e il compagno incedeva nella sala fra due ali di persone reverenti, il dio incarnato dell'operaismo.
Ma è davvero così per la maggior parte degli uomini comuni? Vediamo come passa la giornata di un uomo comune, di un impiegato, di un commesso, di un professionista. Una parte del tempo che questi uomini dedicano al lavoro passa parlando male dei colleghi, dominante l'invidia per chi comanda o per chi è nei posti importanti.
Siamo sinceri: le infinite ore trascorse nelle redazioni dei giornali, negli uffici, nelle pause di riposo o di refezione passano a parlare male dei colleghi più fortunati, in organizzazioni che si definiscono di lavoro ma che spesso dovrebbero essere chiamate macchine da critica e maldicenza del prossimo; negli eterni tentativi, infantili quanto feroci, di eliminare tutti quelli che ti fanno ombra e di procedere per purghe generali come nelle migliori dittature staliniste.

Ma andiamo al sodo, e cioè al feroce della vicenda: gli stakanovisti sono pochi anche nei paesi dei "compagni". Il piacere della maldicenza è uno dei preferiti: ricordo quando lavoravo alla "Gazzetta del popolo" e il giornale chiudeva alle due del mattino: scendevamo nel corso Valdocco con un collega e a volte facevamo l'alba parlando del direttore e del redattore capo e di tutti gli errori madornali che avevano compiuto e delle villanie che ci avevano riservato. Faceva giorno quando, soddisfatti, ci allontanavano verso le nostre case.
Questo modo di chiudere la giornata lo si trova anche negli scritti di Gramsci quando racconta la sua esperienza a "l'Unità" di Torino. E così è stato in tutti i giornali in cui ho lavorato e pettegolato.

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Titolo: GIORGIO BOCCA. “Il Pd è come il Psi di Craxi”
Inserito da: Admin - Settembre 12, 2011, 03:59:51 pm
Giorgio Bocca: “Il Pd è come il Psi di Craxi”

Il giornalista: "In quanto a onestà la sinistra è la stessa cosa della destra. Bersani non dovrebbe fare un passo indietro, ma buttarsi a mare. Il pericolo, ora, è che questa classe dirigente (tutta) faccia un golpe per evitare la galera"

Due squilli e il ricevitore si alza. Poi non fai nemmeno in tempo a concludere una domanda – sulla questione morale a sinistra – che la risposta è questa: “Ma è la solita storia della corruzione politica: tutti i partiti, in tutte le epoche, quando amministrano hanno bisogno di soldi e li rubano. Nulla di nuovo sotto il sole”. Dall’altra parte, l’accento cuneese di Giorgio Bocca, scrittore e firma di Repubblica e dell’Espresso. Che, con il tono mite di un neo 91enne, aggiunge il seguente siluro: “Soprattutto nulla di nuovo rispetto a Craxi”.

Vede analogie tra il Pd e i tempi d’oro del Psi piglia-tutto?
Macché analogie. Vedo un’assoluta identità.
Perché?
Craxi diceva: i mariuoli ci sono ma i soldi servono ai partiti. L’unica cosa che si capisce da questa vicenda è che la sinistra è la stessa cosa della destra, quanto a onestà.
Ce lo spieghi meglio.
C’è poco da spiegare: rubano tutti. Tutti i politici hanno lo stesso interesse: avere il potere e fare soldi. La via è comune.
Nella sua similitudine tra Pd e Psi non torna solo la lungimiranza. Il partito di Craxi fu annientato dagli scandali. Il Pd vuol fare la stessa fine? Non è vero che la storia insegna?
Historia magistra? Mah. Guardi, le dico questo: alla fine della Guerra io e altri partigiani pensavamo che il Partito socialista avrebbe cambiato il modo di fare politica in Italia. Nel giro di pochi anni tutte le persone per bene e oneste sono state cacciate da quel partito. Dove sono rimasti solo i furbi e i ladri. Vuol farmi dire che la politica è cambiata? Non lo penso.
Non voglio farle dire nulla: le chiedo come può la dirigenza del Pd essere così miope.
Non c’è nessun disegno politico, questa è la cosa grave. C’è l’istinto, in chi fa politica, di usare i mezzi più facili.
Quali sono?
Mettere le mani sul denaro e corrompere. Non mi pare si tratti di altro.
Tangentopoli non è servita.
Vista dal punto di vista di uno storico no. Andiamo ancora più indietro. Che ha fatto Giulio Cesare quando aveva consumato il suo patrimonio? S’è fatto mandare in Spagna, dove ha rubato talmente tanto che è tornato a Roma ricchissimo. Ha armato un esercito e si è impadronito del potere. Le dinamiche sono abbastanza chiare.
Bersani dovrebbe fare un passo indietro, considerando i suoi rapporti stretti con Penati?
Altro che far passi indietro. Dovrebbe fare un tuffo nel mare.
Ci sono stati tempi in cui la politica era diversa?
Forse solo nelle grandi emergenze, durante le guerre, si sono visti politici onesti e disposti anche a farsi fucilare per la libertà. Ma quando la politica diventa amministrazione scade, di solito, a un livello bassissimo. Non conosco oggi un politico che sia stimabile come persona privata. Un uomo come me, che a vent’anni comandava una divisione partigiana, aveva tutte le opportunità di impegnarsi in politica. Ma ho capito immediatamente che era un rischio da non correre. E non me ne sono pentito. Mai.
Così non c’è scampo.
Come si fa a sperare? Io non vedo segni di cambiamento.
Non dappertutto è così. Nella maggior parte dei Paesi a regime democratico l’etica pubblica è un valore.
Dove si sono stabilite – almeno in minima parte – le regole del gioco, il codice viene rispettato. Noi le avevamo stabilite, ma le abbiamo anche mandate all’aria. Dopo la guerra partigiana e la Liberazione dell’Italia, l’onestà è stata, per quasi mezzo secolo, un valore condiviso. Allora i partiti rubavano, ma lo facevano con cautela e vergognandosene quando venivano scoperti. Ora si ruba senza nemmeno vergogna.
È una questione statistica. Essere indagati o imputati, per i politici, fa quasi curriculum…
Sì, è un metodo. Un sistema: lo diceva oggi (ieri, ndr) nel suo articolo sul Fatto Nando Dalla Chiesa, una persona che stimo, come del resto stimavo molto suo padre. Però anche lui non scrive a chiare lettere: lì c’è gente che ruba. Con i nomi e i cognomi.
Siamo ancora nella fase delle indagini preliminari. Diventa un reato fare certe affermazioni prima dei processi.
Sì, ma mi ha stupito il tono di Dalla Chiesa, troppo leggero. Oggi è impossibile dire a un politico che ha rubato “hai rubato”. Ma allora cos’è questo giro di affari, soldi, tangenti?
Bersani, all’alba della vicenda Penati, minacciò querele a destra e a manca.
È vero, infatti mi sono ben guardato dallo scrivere articoli sull’argomento. Le querele volano e i giornali nemmeno ti sostengono. Un tempo mi sarei lanciato nella discussione, stavolta non l’ho fatto anche con un senso di paura.
Al di là dell’opportunità, secondo lei dire “faremo una class action contro i giornalisti” è un discorso politico?
La classe politica rivendica il diritto di far paura alla stampa.
Più che politica è arroganza.
I potenti dicono: state zitti perché comandiamo noi.
Non sono comportamenti molto diversi da quelli dei partiti di governo.
Berlusconi è più moderno, ha capito che con il denaro si risolve tutto. La sua calma si legge così: io li compro e tanti saluti. Gli altri, semplicemente, non hanno abbastanza soldi. E hanno delle preoccupazioni d’immagine. Ma come fa Penati a difendersi?
I democratici si sentono – e si professano – molto diversi dal centrodestra.
Certo che si dicono diversi. Lo fanno perché agli occhi della pubblica opinione non vogliono apparire uguali agli altri. Uguali ai ladri.
Vede pericoli?
L’unico pericolo è che questa intera classe dirigente, per non andare in galera, faccia un golpe.
Un loro azzeramento no?
Proveranno a tirare avanti, come han fatto fino a ora. Chi ha i soldi se la cava. Cesare è ricordato come uno dei più grandi uomini politici della romanità ed era uno che confessava candidamente di aver rubato. Però potrebbe arrivare anche un moto d’ira popolare che li manda tutti a casa. Mi trovo di fronte a un’umanità incomprensibile. Un politico che ruba, sa di essere al di fuori dell’etica. Eppure lo fa. Io veramente non li capisco.
Crede che la prudenza dei vertici del partito sulla questione Penati vanificherà il successo delle amministrative e dei referendum?
Mi pare che ci sia un fraintendimento su questo nuovo interessamento alla politica. Lo scambiamo per un cambiamento morale. Ma è più che altro una moda.
Ha compiuto 91 anni tre giorni fa…
… quindi posso dire tutto, anche le sciocchezze?
No, le chiedevo cosa direbbe a un ragazzo italiano di vent’anni.
Gli direi: “Non rubare”. Si vive meglio da onesti. L’onestà è l’unica riserva per sopportare questa vita terrena, che è piena di insidie e porcherie.
Evangelico.
Certo. Sono sempre più cattolico.


da - http://www.ilfattoquotidiano.it/2011/08/31/giorgio-bocca%E2%80%9Cil-pd-e-comeil-psi-di-craxi%E2%80%9D/154350/


Titolo: GIORGIO BOCCA. Tripoli, la guerra degli avvoltoi
Inserito da: Admin - Settembre 13, 2011, 10:53:27 am
Tripoli, la guerra degli avvoltoi

di Giorgio Bocca

Il conflitto in Libia, ridicolo e assurdo, segna un ritorno del colonialismo.

E conferma che il capitalismo non è stato superato, come non lo sono le rapine e le appropriazioni indebite

(12 settembre 2011)

Adesso la sporca faccenda della guerra libica sembra abbastanza chiara, come può esserlo un caso di criminalità diplomatica e bellica. Le due potenze europee interessate a far bottino nello "scatolone di sabbia" dell'era fascista e ora pieno di riserve di petrolio non hanno aspettato la fine dei combattimenti.
L'Italia ha spedito a Bengasi il numero uno dell'Eni, il presidente francese Sarkozy ha addirittura convocato a Parigi una conferenza di pace, esempio eccelso di cinismo politico affaristico. Gli italiani che vogliono rimettere le mani sui pozzi gestiti dall'Eni, nei giorni della crisi economica hanno già dato ordine di scongelare 350 milioni di euro di fondi presenti nelle banche italiane da versare ai nuovi governanti libici, anche se non si sa bene chi siano e quali garanzie possano offrire.

Sarkozy ha fatto di meglio, ha convocato a Parigi i nuovi dirigenti libici perché il mondo intero sappia che sta nascendo una nuova forma di protettorato. La Francia, in questa guerra tipicamente coloniale fra due potenze industriali europee e una africana alla mercé dei loro missili e portaerei e caccia supersonici, ha fatto con assoluta noncuranza la parte del predone ricco e prepotente, infischiandosene dei principi immortali di giustizia e libertà delle rivoluzioni borghesi, la loro per prima.

Ecco lo stupefacente, l'incredibile di questa vicenda che spazza via quasi allegramente tutte le buone intenzioni pacifiche e legalitarie nate dall'ultima guerra mondiale. Prima che si chiudesse un secolo la classe operaia dei paesi ricchi ha approvato la guerra di rapina. La Francia evidentemente ci pensava da tempo.
Priva di riserve petrolifere, affidata a una produzione atomica quanto mai sbilanciata e rischiosa, ha approfittato del declino dell'impero americano e del suo disinteresse per ciò che accade nel piccolo mare Mediterraneo e ha messo in mostra la sua efficiente aviazione e la sua portaerei per risentirsi grande potenza.
L'opinione pubblica europea ha seguito fra preoccupazione e imbarazzo la riproposizione di una storia vecchio stile di cui non si capivano né i rischi né la necessità.

Che senso aveva tornare al vecchio confronto delle navi e degli aerei quando la questione del petrolio era poi una questione di soldi e se darli a Gheddafi e alla sua corte di profittatori e di cortigiani o alla nuova generazione di politici?

Colonello Roland Lavoie Colonello Roland Lavoie Diciamo che questo ritorno di colonialismo è la conferma che il capitalismo non è stato superato, come non lo sono le rapine e le appropriazioni indebite, come non lo sono i mezzi violenti per risolvere tutte le questioni di sopravvivenza e di prestigio.

L'Europa e noi italiani in particolare abbiamo assistito a questa assurda e ridicola guerra nell'età dei commerci internazionali come a qualcosa di incomprensibile. Nessuno si è mosso per aiutare i legittimisti di Gheddafi e la sua corte variopinta, ci andava bene accettare i suoi prestiti alle nostre industrie in difficoltà e dare addirittura un posto in una delle nostre squadre di calcio di serie A a quel brocco di suo figlio, ma senza creare rapporti di amicizia, di ideali politici.

L'Inghilterra vittoriana poteva seguire con ardore l'impresa di Garibaldi, la nostra piccola rivoluzione liberale, o più tardi i nostri comunisti potevano partecipare alla guerra proletaria della Spagna repubblicana. Questa volta gli italiani non hanno parteggiato per nessuno, neppure per i più forti come erano quelli schierati ma non uniti dalla Nato. Strana guerra. Di avventurieri o di personaggi politici indefinibili fra il rosso e il nero, una turba avida che non sa bene cosa voglia da un'Europa unita e civile, se la pace e la democrazia per tutti o solo i buoni affari.

 
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http://espresso.repubblica.it/dettaglio/tripoli-la-guerra-degli-avvoltoi/2160075/18


Titolo: GIORGIO BOCCA. I soldi veri arriveranno dall'aumento dell'Iva.
Inserito da: Admin - Settembre 17, 2011, 04:25:04 pm
L'opinione

In tv va in onda la lotta all'evasione

di Giorgio Bocca

I soldi veri arriveranno dall'aumento dell'Iva.

Ma i telegiornali raccontano che partirà una spietata caccia a chi non paga le tasse.

Così il governo maschera la realtà della manovra

(16 settembre 2011)

La partita delle tasse secondo Berlusconi si gioca così: prima si piange miseria, prossimo default o bancarotta, casse vuote e rovina, poi lo Stato pigro, esitante, pavido promette una manovra severa e la prevede a tempo breve, superando in solerzia tutti gli altri Stati europei. Si succedono riunioni degli esperti e dei ministri competenti, e la manovra assume la forma di operazione di guerra che non guarda in faccia nessuno.

Tasse per tutti questa volta, anche per i ricchi, colti dal balzello di solidarietà nazionale e da raffiche di articoli e discorsi sul dovere dei cittadini, di tutti cittadini, di soccorrere la patria in pericolo. Sta a vedere, dicono i democratici riformisti di sinistra, che questa volta anche il Cavaliere di Arcore ha capito che bisogna rinunciare alla demagogia, alla politica di classe, e chiedere sacrifici a tutti.

La svolta sembra quasi rivoluzionaria. Non lo è il modo di presentarla alla pubblica opinione: non se ne capisce niente come al solito. I telegiornali di regime vanno avanti per delle mezz'ore a elencare cifre, tagli, previsioni, pareri di professori insigni, ma un cittadino di media cultura non ne capisce niente: un'intera nazione dalle Alpi al Lilibeo finge di occuparsi della famosa, miracolosa manovra che il mondo intero ci invidia.

I commessi del governo addetti ai giornali confezionano interviste popolari, colte a volo fra i banchi della verdura di un mercato e un negozio di parrucchiere per chiedere il parere del popolo. E' uno spettacolo miserrimo ed esilarante. Gli interpellati preparati in precedenza rispondono con delle frasi prive di senso ma che esprimono appoggio alla manovra governativa ed esortazioni al dovere comune nell'ora del bisogno.

Nessuno che dica che della manovra ha capito poco o nulla, anche perché il premier e i suoi aiutanti e consiglieri la cambiano di continuo, sempre rimandano a prestissimo l'ora della verità.

Comunque pare che questa volta qualcosa venga tagliato sul serio: la pletora delle province e dei comuni microscopici, i costi della politica e il famigerato parco macchine, le migliaia di auto blu di funzionari grandi e piccoli.

Ma a un certo punto della gazzarra sulle tasse, argomento inviso a un popolo di noti evasori, il Cavaliere di Arcore capisce che è l'ora di intervenire con la bonarietà e la saggezza dell'uomo "che non mette le mani nelle tasche degli italiani".

E cosa ti annuncia? Che i miliardi mancanti per quadrare il bilancio statale saranno trovati colpendo, ma questa volta severamente, l'evasione fiscale, cioè il rifiuto di milioni d'italiani di pagare le tasse a tutti noto, anche alla Guardia di Finanza, e da nessuno perseguito.

Voi direte che è la scelta di un premier populista e imbroglione ma non privo del cinismo occorrente al governo delle nazioni. Qual è il ragionamento retrogrado ma vincente del nostro? Le tasse vanno imposte alla massa dei contribuenti, che sono come noto i poveri o i ceti medi.

Le tasse esemplari di giustizia come quelle di solidarietà sono lodevoli a parole, ma le tasse che servono sono le imposte indirette che colpiscono tutti automaticamente; per la propaganda servono anche le tasse che non si è riusciti a far pagare, quelle degli evasori che però si promette questa volta di tosare a dovere.

Ed ecco le informazioni sulle tecniche raffinate e implacabili con cui saranno colpiti gli evasori per una somma enorme che risolve tutte le questioni di bilancio. Nel Settecento l'avventuriero veneziano Giacomo Casanova girava l'Europa e le sue corti suggerendo ai governanti di ricorrere alle lotterie per sfruttare l'ingenuità popolare e la sua speranza di facile ricchezza.

Adesso da noi partirà la campagna contro gli evasori. Vi parteciperà, crediamo, anche il ministro Tremonti che sugli evasori italiani e sui loro metodi ha scritto interessanti libri.

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da - http://espresso.repubblica.it/dettaglio/in-tv-va-in-onda-la-lotta-allevasione/2160524/18


Titolo: GIORGIO BOCCA. In tv va in onda la lotta all'evasione
Inserito da: Admin - Settembre 18, 2011, 04:26:55 pm
In tv va in onda la lotta all'evasione

di Giorgio Bocca

I soldi veri arriveranno dall'aumento dell'Iva. Ma i telegiornali raccontano che partirà una spietata caccia a chi non paga le tasse. Così il governo maschera la realtà della manovra

(16 settembre 2011)

La partita delle tasse secondo Berlusconi si gioca così: prima si piange miseria, prossimo default o bancarotta, casse vuote e rovina, poi lo Stato pigro, esitante, pavido promette una manovra severa e la prevede a tempo breve, superando in solerzia tutti gli altri Stati europei. Si succedono riunioni degli esperti e dei ministri competenti, e la manovra assume la forma di operazione di guerra che non guarda in faccia nessuno.

Tasse per tutti questa volta, anche per i ricchi, colti dal balzello di solidarietà nazionale e da raffiche di articoli e discorsi sul dovere dei cittadini, di tutti cittadini, di soccorrere la patria in pericolo. Sta a vedere, dicono i democratici riformisti di sinistra, che questa volta anche il Cavaliere di Arcore ha capito che bisogna rinunciare alla demagogia, alla politica di classe, e chiedere sacrifici a tutti.

La svolta sembra quasi rivoluzionaria. Non lo è il modo di presentarla alla pubblica opinione: non se ne capisce niente come al solito. I telegiornali di regime vanno avanti per delle mezz'ore a elencare cifre, tagli, previsioni, pareri di professori insigni, ma un cittadino di media cultura non ne capisce niente: un'intera nazione dalle Alpi al Lilibeo finge di occuparsi della famosa, miracolosa manovra che il mondo intero ci invidia.

I commessi del governo addetti ai giornali confezionano interviste popolari, colte a volo fra i banchi della verdura di un mercato e un negozio di parrucchiere per chiedere il parere del popolo. E' uno spettacolo miserrimo ed esilarante. Gli interpellati preparati in precedenza rispondono con delle frasi prive di senso ma che esprimono appoggio alla manovra governativa ed esortazioni al dovere comune nell'ora del bisogno.

Nessuno che dica che della manovra ha capito poco o nulla, anche perché il premier e i suoi aiutanti e consiglieri la cambiano di continuo, sempre rimandano a prestissimo l'ora della verità.
Comunque pare che questa volta qualcosa venga tagliato sul serio: la pletora delle province e dei comuni microscopici, i costi della politica e il famigerato parco macchine, le migliaia di auto blu di funzionari grandi e piccoli.

Ma a un certo punto della gazzarra sulle tasse, argomento inviso a un popolo di noti evasori, il Cavaliere di Arcore capisce che è l'ora di intervenire con la bonarietà e la saggezza dell'uomo "che non mette le mani nelle tasche degli italiani".

E cosa ti annuncia? Che i miliardi mancanti per quadrare il bilancio statale saranno trovati colpendo, ma questa volta severamente, l'evasione fiscale, cioè il rifiuto di milioni d'italiani di pagare le tasse a tutti noto, anche alla Guardia di Finanza, e da nessuno perseguito.

Voi direte che è la scelta di un premier populista e imbroglione ma non privo del cinismo occorrente al governo delle nazioni. Qual è il ragionamento retrogrado ma vincente del nostro? Le tasse vanno imposte alla massa dei contribuenti, che sono come noto i poveri o i ceti medi.

Le tasse esemplari di giustizia come quelle di solidarietà sono lodevoli a parole, ma le tasse che servono sono le imposte indirette che colpiscono tutti automaticamente; per la propaganda servono anche le tasse che non si è riusciti a far pagare, quelle degli evasori che però si promette questa volta di tosare a dovere.

Ed ecco le informazioni sulle tecniche raffinate e implacabili con cui saranno colpiti gli evasori per una somma enorme che risolve tutte le questioni di bilancio. Nel Settecento l'avventuriero veneziano Giacomo Casanova girava l'Europa e le sue corti suggerendo ai governanti di ricorrere alle lotterie per sfruttare l'ingenuità popolare e la sua speranza di facile ricchezza.

Adesso da noi partirà la campagna contro gli evasori. Vi parteciperà, crediamo, anche il ministro Tremonti che sugli evasori italiani e sui loro metodi ha scritto interessanti libri.

   
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Titolo: GIORGIO BOCCA. Fate i gasdotti non la guerra
Inserito da: Admin - Settembre 30, 2011, 03:46:42 pm
Fate i gasdotti non la guerra

di Giorgio Bocca

Lo stato della pace nel mondo è pessimo.

I conflitti continuano e molti Paesi sono coinvolti solo perché fanno parte di un'alleanza.

Sembra di essere tornati alle follie del '14 e del '43

(22 settembre 2011)

Che cosa significa in politica estera la prossima inaugurazione dei due gasdotti giganti dalla Russia verso la Germania e, a sud, verso l'Italia? Se la logica avesse ancora un senso in questo mondo di matti significherebbe un passo importante se non decisivo verso la stabilità e la pace mondiale. significherebbe che la Russia fornitrice diverrebbe l'alleato stabile dell'Europa fornita, che i due colossali collegamenti sarebbero dei fortissimi legami di pace. Mentre tutto il mondo parla di questi segni distensivi è tutto un ribollire di notizie contrarie e preoccupanti.
In Egitto la rivoluzione democratica islamica è svoltata improvvisamente e tragicamente in un gigantesco pogrom di vecchia maniera contro Israele. Una sua sede diplomatica al Cairo è stata assaltata, distrutta da una folla di egiziani che ripetevano i furori della Germania razzista e nazista, e intanto si muoveva anche la Turchia di Erdogan, che minacciava una puntata nella striscia di Gaza contro l'odiato Israele.

Siamo tornati alla mobilità incontenibile che precedette la Seconda guerra mondiale, il mutare di ora in ora di alleanze, di patti aggressivi, di spazi vitali, di storiche vendette, di voltafaccia incredibili - da lasciare senza fiato - fra il nazismo arrembante e la Russia sovietica, con quel Molotov sbattuto fra Mosca e Berlino nel più folle balletto diplomatico che il mondo abbia conosciuto. E siamo in un tempo in cui fare la guerra significa distruzione atomica, in cui negli arsenali ci sono bombe capaci di distruggere il mondo decine e decine di volte.
Il segno generale di questo tempo è la mancanza di indignazione nelle politiche interne e in quelle internazionali. In quelle interne la corruzione può arrivare a gradi estremi di impudenza e di diffusione, può toccare tutti i partiti e qualsiasi uomo politico, può rendere incerta ogni pubblica amministrazione, può seminare buche in tutte le strade, ma la gente, gli onesti, voltano lo sguardo e la loro indignazione non esplode.
In politica estera lo stato della pace nel mondo è pessimo: le guerre continuano, in molti paesi migliaia di cittadini alle armi vengono spediti in paesi remoti e ostili, spesso desertici, dove nel migliore dei casi addestrano milizie locali per continuare il conflitto. Il clima generale è questo: non c'è più un paese che non sia legato ad alleanze militari. Tragico il caso della Nato, l'alleanza atlantica che ha coinvolto nella guerra veterocoloniale di Libia anche paesi che non avevano alcun interesse in gioco.

Sembra di essere tornati alle guerre a catena del 1914 e del 1943 e alle loro sanguinose assurdità: gli operai socialisti tedeschi che partivano per il fronte cantando come se quella contro i francesi e gli inglesi fosse una loro guerra di liberazione. E la delusione di vedere il presidente francese Sarkozy fomentare la guerra per correre dietro a qualche barile di petrolio.
Ci fu un periodo, durato millenni, in cui l'occupazione principale dei governanti e dei sudditi era far la guerra, giusta o ingiusta, difensiva o aggressiva non faceva differenza: a vedere il nostro ministro della Difesa quando indossa panni militari si direbbe che sia ancora così. La guerra piace anche agli intellettuali di sinistra, piaceva a Cesare Pavese che di lei diceva "rialza il tono della vita", e piaceva persino ad alcuni capi partigiani, non a quelli di Giustizia e Libertà per cui la guerra partigiana andava fatta perché non si facessero più guerre.
La storia contraddittoria dell'umanità, il suo vitalismo autolesionista fanno prevedere che ci saranno altre guerre, che spade e lance continueranno a risuonare nelle nostre umane vicende. Forse sarebbe bene che invece di fremere al suono delle lance e delle spade si ricordassero i feriti abbandonati a morire in una trincea.

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da - http://espresso.repubblica.it/dettaglio/fate-i-gasdotti-non-la-guerra/2161880/18


Titolo: GIORGIO BOCCA. Pessimista io? Sì, ecco perché
Inserito da: Admin - Ottobre 13, 2011, 04:37:45 pm
Opinione

Pessimista io? Sì, ecco perché

di Giorgio Bocca

'Nella vita mi è andata bene e sono un vecchio che sta in piedi.

Ma se guardo il mondo oggi, e la strada che ha preso il genere umano, non riesco proprio a vedere segni di speranza'

(06 ottobre 2011)

Dovrei essere un ottimista di ferro. Mi è andata bene nella vita, nel lavoro, nella salute. Sono un vecchio che si tiene ancora insieme anche se la vecchiaia è una fatica continua. E allora come mai sono pessimista? Lo sono sulle sorti dell'umano genere, non sulle mie, scampato ad avversità e guerre. All'umano genere le cose non vanno proprio bene.

Non abbiamo mai avuto il controllo sulla natura, cui rivolgiamo lodi sperticate mentre lei ci ignora e colpisce ferocemente se le fa comodo. E sì che ne abbiamo prove quotidiane. A nord di Milano, per esempio, c'è un fiumiciattolo di nome Seveso, un rigagnolo fetido e non navigabile, ma basta un temporale per fargli allargare interi rioni della metropoli ricca e superba, signora delle tecniche del denaro. Dico il Seveso, ma il traffico urbano fra Milano e Monza in alcune ore del giorno è già ingorgo, asfissia, un inestricabile caos di lavori in corso, strade interrotte, deviazioni, vicoli ciechi in cui ti coglie l'angoscia del labirinto.

Chi si avventura in questa anti-città deve procedere a passo d'uomo fra continui divieti, andirivieni, salti di corsia, scavi, buche, calcinacci, sussulti, frenate, urli, fumi fetidi. Ormai l'arrivo a casa è come l'arrivo in un porto da una tempesta, sollievo ma anche fatica di vivere.
Ma c'è davvero rimedio al disordine, c'è davvero un modo per evitare il ritorno alle tirannie della politica come della tecnica, delle mode, delle impreviste follie collettive, del movimento senza meta e senza ragione che Anna Maria Ortese vedeva ogni giorno a Napoli?
Sei un pessimista, dicono. E' vero, ma come non esserlo?

Solo 80 anni fa Roosevelt propose agli americani un New Deal, un nuovo patto sociale, un nuovo modo di produrre e di correggere gli errori del capitalismo. Qualcuno lo definì il "capitalismo generoso". E dopo la seconda guerra mondiale un altro americano propose il piano Marshall per salvare l'economia europea e quella mondiale, sfidando quella sovietica dei piani quinquennali. Oggi l'economia americana è sprofondata in una crisi profonda di cui nessuno conosce le origini e il modo di uscirne, mentre nella Russia di Putin torna una miseria nera.

Non abbiamo un controllo demografico, la popolazione del mondo sta andando verso sette e più miliardi, che per mantenerli occorrerebbero non una ma quattro terre. Non sembra controllabile neppure la malvagità della "scimmia assassina", le cronache sono piene di delitti assurdi come quello recente di Milano dove uno cui due motociclisti avevano graffiato l'automobile li ha rincorsi armato di una catena e li ha lasciati in fin di vita. E i passanti interrogati dai cronisti ripetono: "Sembrava una persona così tranquilla, non alzava mai la voce". Ma la catena sì, e ha tentato di uccidere due giovani in un raptus diabolico che può succedere a tutti.

E la politica: a quale lotta demenziale e spesso mediocre si è ridotta la lotta per il potere? Ha scritto Sergio Romano: "La democrazia, il governo di tutti era possibile forse nella polis, dove tutti potevano partecipare ai comizi nel foro. Ma oggi come è possibile fare politica democratica, come è possibile far politica assieme in modo specifico con le distanze enormi e le telecomunicazioni ingannevoli e insufficienti?". Scoppiano guerre e rivoluzioni come quelle dei paesi arabi, di cui tutti parlano senza avere un'idea, se non precisa, approssimativa, di che si tratta.

I contendenti in un campo vengono definiti insorti o lealisti ma hanno in comune le storie dei loro crimini e se gli uni siano veramente migliori degli altri è ancora incerto. In Libia gli insorti scoprono le fosse comuni dove giacciono centinaia di vittime di Gheddafi, ma a Tripoli conquistata dai ribelli le persecuzioni dei seguaci di Gheddafi sono in corso, e il premier italiano, il pacifico Silvio, non si è mai accorto che il rais era un tiranno. Dalla Russia arriva la notizia che Putin ha dichiarato morta la democrazia: ha prenotato il Cremlino per i prossimi cinquant'anni. C'è da essere ottimisti?

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da - http://espresso.repubblica.it/dettaglio/pessimista-io-si-ecco-perche/2163188/18


Titolo: GIORGIO BOCCA. - La Padania esiste ma non è della Lega
Inserito da: Admin - Ottobre 26, 2011, 04:50:54 pm
Opinione

La Padania esiste ma non è della Lega

di Giorgio Bocca

In geografia la pianura del Po è una realtà. Il bluff di Bossi è di aver fatto credere che il suo partito la può separare dal resto d'Italia in qualsiasi momento. Ma il risultato sarebbe solo un'insensata guerra civile

(13 ottobre 2011)

La Padania non c'è, dice il presidente Napolitano, e i nazionalisti applaudono. Finalmente qualcuno gliel'ha cantata nuda e chiara a quel Bossi. Ma che vuol dire la Padania non c'è? E allora cos'è quella pianura che Napoleone cercò per la sua carica agli austriaci là dove cominciava, a Marengo? Se una cosa è chiara in Italia, fra tante confusioni geografiche e linguistiche, una è proprio la pianura del Po detta Padania, che va dal Piemonte all'Adriatico percorsa dal fiume più lungo del paese.

La più ricca d'Italia e d'Europa, per la meraviglia dei re di Francia e degli imperatori del sacro romano impero che cercarono di impadronirsene. La Padania non c'è? C'è eccome, solo che non appartiene, come crede Bossi, alla Lega nord, e se si facessero elezioni per la Padania i voti per la Lega sarebbero del 15, al massimo del 20 per cento, chiaramente minoritari rispetto a quelli dei pro Italia.

Il bluff sin qui riuscito a Bossi è di avere quasi convinto l'opinione pubblica che la Lega potrebbe in ogni momento separare la Padania dall'Italia, mentre potrebbe soltanto cacciarla in una guerra civile priva di senso e impari, perché le forze dello Stato sarebbero preponderanti. Bossi sin dall'inizio della sua carriera, sin da quando girava l'Italia a predicare il separatismo, ha sempre giocato sul bluff, ha sempre confidato nel fatto che agitando la sua minaccia sarebbe stato tollerato e ricompensato. La politica di Bossi è stata un'oscillazione continua fra separatismo impossibile, ma preoccupante per i suoi effetti disgreganti, e l'uso del suo seguito elettorale per avere soldi e potere locale. Era una politica della paura e dell'incertezza che aveva la sua presa sulla pubblica opinione. Anche io le cento volte dopo averlo intervistato e ascoltato mi sono chiesto: ma questo demagogo su quale seguito può contare? E facendo il conto ragionevole degli italiani a cui la costituzione di uno staterello nel Nord sarebbe sembrata una iattura o una stramberia mi sarei dovuto tranquillizzare, e invece ne traevo altre ragioni di preoccupazione perché la propensione alla stramberia degli italiani non poteva essere ignorata. Che cosa era stato "L'uomo qualunque" di Guglielmo Giannini se non una stramberia di un giornalista mitomane, di un Napoleone da fiera? Eppure fu seguita da centinaia di migliaia di persone, il suo giornale era arrivato a tirature altissime.

Bossi fonda i suoi ricatti sull'ingovernabilità politica degli italiani, sulla loro ignoranza di fondo della politica e dell'economia. Il programma economico della Padania bossiana non esiste, esiste l'industria del Nord, una delle più forti d'Europa, e lui pensa: io me la prendo e il problema è risolto. La descrizione che mi faceva anni fa della sua lotta politica con Craxi era semplicemente demenziale. Un racconto nibelungico fra il mostro Craxi arrivato dall'Albania e l'eroe di Giussano, coraggioso e forte che non tremava di fronte al mostro, lo aspettava in un lago padano e lo uccideva con la sua spada magica. Quel giorno per la prima volta Bossi riceveva la stampa che conta, era molto eccitato, forse voleva strafare.

L'uomo è fatto così. Lo stupefacente è che venga scambiato dai suoi concittadini, ma anche dai forestieri, come una testa fine politica, come un capo politico autentico a cui, se non tutto, molto deve essere permesso: un gesto osceno e insulti agli avversari.

Un personaggio preoccupante: lui, la sua famiglia, la sua corte che non conosce regole e rispetto, dove si può passare dal cavillo politico al gesto laido dell'indice alzato, dai costumi regionali agli abiti ministeriali, una compagnia di teatro come quella dei Legnanesi, divertenti ma plebei. Un'inserzione bizzarra nella normalità della politica italiana, che ricorda un po' la maleducazione dello squadrismo fascista.

 
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Titolo: GIORGIO BOCCA. - B. e il Duce: diversi in cosa?
Inserito da: Admin - Ottobre 28, 2011, 05:40:42 pm
Regime

B. e il Duce: diversi in cosa?

di Giorgio Bocca

Mussolini era un tiranno armato, il Cavaliere invece ha realizzato un autoritarismo morbido che, con le barzellette e la corruzione, ha ucciso l'orgoglio degli italiani, ne ha eroso l'anima. Per questo il capo del fascismo è finito a piazzale Loreto, mentre questo non siamo stati ancora capaci di mandarlo via

(24 ottobre 2011)

La domanda è: perché gli italiani riuscirono a liberarsi di Mussolini, un tiranno armato, e non sono capaci di licenziare Berlusconi, che non ha milizie e ha instaurato un regime autoritario ma non feroce? Forse perché Berlusconi non ha una politica, ma governa nell'assenza della politica. il suo qualunquismo totale agli italiani evidentemente piace.

Mussolini aveva una politica estera e cercava di cogliere gli ultimi vantaggi dell'imperialismo. Commise l'errore fatale di allearsi con il nazismo hitleriano per la conquista del mondo e fu travolto nel suo fallimento. Berlusconi non ha una politica estera, è pronto a passare dall'alleanza con gli Stati Uniti a quella con la Russia, ma agli italiani la cosa sembra indifferente, come ai tempi di "Francia o Spagna purché se magna". Mussolini aveva creato un regime autoritario nazionalista che per certi versi piaceva agli italiani vanesi superficiali, un regime di cui era palese la debolezza: il gallo fascista che cantava su un mucchio di letame ma che coltivava l'amor proprio dei suoi sudditi fino all'ora della delusione totale. Berlusconi non ha creato nessun regime politico, ma qualcosa di peggio: l'assenza della politica, ha autorizzato gli italiani a fare i loro comodi.

Che cosa è la corruzione berlusconiana? Un permesso generale di furto, un invito a rubare allo Stato a vantaggio dei privati furbi. Il fascismo era un regime a tre piani: il mussoliniano, il clericale o partito dei vescovi, e il capitalista, i padroni del vapore "il grigio Pirelli" e "l'infido Agnelli", la rete delle parrocchie e la monarchia. A questi poteri antichi e sovrapposti Mussolini si consegnò senza sospettare la congiura in corso, accettò l'invito del sovrano all'ultima udienza e fu congedato con una frase perfida di falsa cortesia piemontese: "C'am fasa el piasì", mi faccia il piacere di togliersi di mezzo, e fuori lo aspettava il colonnello dei carabinieri e l'autoambulanza che fu la sua prima prigione. Una rivoluzione autoritaria che si credeva padrona del paese e che finiva in un arresto clandestino, in una congiura di palazzo organizzata da Dino Grandi, ministro degli Esteri firmatario e promotore della condanna del Gran Consiglio, l'organo creato per difendere il duce e che invece lo liquidava. Berlusconi e la sua fine politica sono altra cosa: l'uomo è tuttora in piedi, per merito dei suoi difetti più che delle sue virtù. Lui ha fatto il gallo del pollaio cantando sul mucchio di letame, ma ha permesso a milioni di italiani di fare i comodi loro, di non pagare le tasse, di saccheggiare lo Stato. La sua formazione di imprenditore abile e fortunato si è rivelata una iattura, prevedibile, perché quando alla guida di un paese arriva a furor di popolo uno che è nato per far soldi, per essere il capo degli avidi, è chiaro che guiderà il saccheggio.

Tutti si chiedono perché resti al potere anche se dice cose intollerabili, come il "forza gnocca" come nome del partito della rinascita. Resta al potere perché il suo regime di autoritarismo morbido senza torturati e fucilati ha ucciso l'orgoglio, la protesta, l'indignazione degli italiani, la loro ribellione al satrapo e alle sue laide barzellette. Un'immensa platea di decine di milioni di persone apre le televisioni e legge i giornali per sapere che il cavaliere di Arcore ha di nuovo dato fuori di matto, ma non si sa più come fermarlo, come interdirlo. Nel 1945 avemmo l'illusione, la speranza che fosse tornata, e tornata per sempre, la democrazia, il tempo della ragione e della solidarietà. Ci siamo sbagliati: è arrivata una stagione di privilegio e soperchierie. Chi di noi, diciamocelo, ha ancora il coraggio di dire ai nostri figli che gli abbiamo preparato una vita nella libertà e nella giustizia?

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Titolo: GIORGIO BOCCA. B. crolla, ma forse è tardi
Inserito da: Admin - Novembre 03, 2011, 11:31:17 pm
B. crolla, ma forse è tardi

di Giorgio Bocca

Questo regime sta finendo come il fascismo: per autodistruzione. Dopo Mussolini, per un po', ci fu un impulso riformatore e perfino etico. Adesso invece c'è il rischio che tutto cambi perché non cambi proprio niente

(02 novembre 2011)

Dicono che bisogna credere nel futuro, in un futuro diverso, migliore di questo presente, di questa marmellata di cose, oggetti, bisogni fra cui strisciamo. Non c'è neppure odio per le generazioni che ci hanno condotto in questa palude. Certo hanno mal governato il paese, lo hanno compromesso, hanno lasciato crescere la malavita, hanno dato ai cittadini un'unica morale, un'unica aspettativa: rubare allo Stato dove si può, finché si può.

Che altro vogliono dire i vescovi quando lamentano la mancanza di etica della nostra società, la mancanza di buone regole, di buoni comportamenti? L'impressione generale, scoraggiante, paralizzante è che sia troppo tardi per venirne fuori, le complicità sono troppe, le malversazioni di massa soffocanti, le occasioni di riscatto rare: non c'è un prevedibile 25 luglio per l'arresto del tiranno, non c'è un 8 settembre per l'inizio della guerra partigiana, non c'è un'occupazione straniera di cui liberarsi.

Sono le grandi dimensioni dei nostri attuali vizi, delle nostre pigrizie, delle nostre cattive abitudini a imprigionarci. Questa volta i "mille" del coraggio e dell'avventura sembrano scomparsi.
Ogni sera gli italiani che ancora desiderano vivere in una libera democrazia si chiedono quanto durerà questo decadimento, questa resa al peggio, e se questa rinascita è realmente possibile o un vano desiderio che si rinnova di generazione in generazione. Il capo della polizia borbonica non accoglieva a Napoli il liberatore Garibaldi per disarmarlo, non consegnava la guida dell'ordine pubblico ai capi della camorra? Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa non è l'eterna vittoria dei reazionari?

Nella mia vita ho visto cadere alcuni regimi autoritari, a cominciare da quello fascista, quasi sempre per autodistruzione. Le sedi dei partiti restavano aperte ma vuote, gli iscritti buttavano via le tessere e i distintivi, ritornavano i vecchi partiti guidati dai revenant, dai politici di ritorno.
Ci risiamo? Ogni sera agli italiani si chiedono quando avverrà, come andrà a finire. Che fare? Mandare in galera tutti i ladri? Si organizzerebbero subito come il partito più forte del paese e comunque le prigioni non basterebbero. Fare l'ennesima rivoluzione gattopardesca, cambiare tutto perché nulla cambi? L'ennesima rivoluzione per finta, con i furbi e i ladri lesti a tornare al potere? Sono i grandi numeri, le grandi dimensioni di questa società a impedire che cambi veramente.

Nei primi anni della repubblica un giornalista napoletano di nome Guglielmo Giannini inventò "l'uomo qualunque" un movimento insensato, nemico della politica ma con la pretesa di fare la migliore delle politiche. Arrivò a vendere 700 mila copie e fu ucciso dal suo successo senza sbocco: non aveva un progetto fattibile, scomparve senza lasciare traccia se non nella sua inconsistenza, nella sua volgare utopia.
Il difetto vero degli italiani lo aveva colto Leopardi quando denunciava la mancanza di un'opinione pubblica capace di una scelta etica. L'ultima illusione è stata quella della guerra partigiana: guerra di popolo per la libertà e la giustizia che diede al paese un forte impulso riformatore, durato mezzo secolo, una volontà di diventare finalmente un paese democratico. Quest'ultima illusione sembra davvero consumata.

Il paese è bello, ricco di beni naturali, ma è molto difficile viverci per l'anarchia di chi ci abita. Per l'illusione costante di poter migliorare la società senza disciplina e senza sacrifici, per l'idea assurda che esista uno "stellone", una garanzia di fortuna che spontaneamente risolve i problemi del paese.


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Titolo: GIORGIO BOCCA. Un deficit di civiltà nel tirannicidio
Inserito da: Admin - Novembre 13, 2011, 11:10:46 am
Opinione

Un deficit di civiltà nel tirannicidio

di Giorgio Bocca

I giustizieri che danzavano sul cadavere di Gheddafi erano complici dei suoi delitti. Ma il dio della vendetta acceca tutti. E la giustizia dei vincitori è inevitabile. Così trionfa la ferocia

(03 novembre 2011)

Muammar Gheddafi Muammar GheddafiChe orrore l'eccidio del tiranno. una prova che quelli che lo uccidono sono più feroci di lui, privi di ogni pietà come lui. Nella fotografia dell'esecuzione c'è il corpo sanguinolento di Gheddafi e di chi gli ha appena sparato: un giovanotto che mostra felice il suo trofeo, la pistola d'oro del rais, e a fianco un ragazzo di forse dieci anni, privo di pietà e di ogni umana espressione, grassoccio di buon appetito che pensa alla prossima colazione. Altre fotografie hanno mostrato le ultime ore di vita del dittatore, l'umiliazione del feroce e superbo in fuga, distrutto dalla paura, terrorizzato, nascosto dentro un tubo di scolo dell'autostrada per ripararsi dalle raffiche dei caccia a reazione francesi, giustizieri per sete di petrolio.

Quali sono state le ultime parole del rais? "Non sparate, non uccidetemi". Il giovanotto gli aveva sparato alle gambe mentre tentava di rialzarsi e aveva già visto la sua pistola d'oro di cui si sarebbe impadronito. Che orrore la fine del Gheddafi, simile a quella degli altri potenti feroci, quando il dio della vendetta acceca tutti, toglie il senno a tutti. Che senso aveva quella fuga in extremis nel deserto libico di sabbia luminosa e tersa che si sarebbe visto anche un coniglio in fuga? Perché non fuggire di notte a lume di luna?

I cronisti dicono: "Ci sono alcuni particolari da chiarire, alcuni punti oscuri da spiegare". Sì, c'è da spiegare la follia degli uomini, incontenibili nell'ora delle defenestrazioni e delle giustizie sommarie. L'uccisione del tiranno è la prova che i suoi giustizieri sono come lui, non sono ancora arrivati alla celebrazione di un processo, vogliono il sangue. I giornali hanno pubblicato le fotografie di tutti i dittatori uccisi a furor di popolo, sul patibolo fra i loro giustizieri. Pagano per i loro delitti, ma come non pensare che di quei delitti furono complici quelli che ora danzano sui loro cadaveri con la loro pistola d'oro? Come distinguere nelle facce stravolte dei giustizieri le stesse passioni di coloro che ora si apprestano a giustiziare?

La cosa più turpe in queste scene di umana ferocia è la mancanza di pietà o meglio di solidarietà umana. In punto di morte il feroce tiranno Gheddafi, il volto coperto di sangue, gli occhi imploranti, le richieste di pietà estreme, è uno che fa la sua estrema chiamata di correo, uno che dice ai giustizieri: "Ma in che cosa voi siete diversi da me?". Certo, la logica dei vincitori risulta quasi sempre vincente. Certo, senza la giustizia dei vincitori questo sarebbe un mondo invivibile. Certo, i tiranni più o meno pazzi come Gheddafi commettono violenze che gridano vendetta, per cui una vendetta era inevitabile.
Ma come liberarsi da questa catena senza fine di oppressori da arrestare, di malvagi da isolare, di scimmie assassine da fermare? Le fotografie dell'eccidio, quegli ultimi sguardi di Gheddafi che ormai guarda la morte sono il grande mistero che il cristianesimo ha creduto di risolvere con la passione, la crocifissione e la resurrezione di Cristo, ma questa tragedia resta incombente, gli agnelli sacrificali non la risolvono. Per tutte le generazioni arriva il giorno in cui si strappa il velo del tempio, in cui ci ritroviamo indifesi di fronte alla ferocia e all'irragionevole.

Il giorno della morte di Gheddafi sembrava uno dei giorni dell'ira, le cateratte del cielo si erano aperte per rovesciare sopra di noi le acque della punizione divina. Le città degli uomini sono fragilissime, le loro fogne, i loro tombini, le loro dighe si spezzano alla prima onda di piena, non ci vuole molto a piegare la nostra superbia. L'impressione peggiore della vicenda è che la democrazia libica sia inesistente e che forse non si avvererà mai. Le immagini dell'uccisione di Gheddafi dimostrano un livello di civiltà molto arretrato, un deficit che occorreranno secoli per colmare. Ma d'altra parte anche noi con Mussolini non abbiamo saputo rinunciare a questa soluzione della morte come unico modo per superare il problema.

 
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Titolo: GIORGIO BOCCA. Black bloc, il gioco della guerra
Inserito da: Admin - Novembre 20, 2011, 05:07:34 pm
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Opinione

Black bloc, il gioco della guerra

di Giorgio Bocca

Gli uomini hanno bisogno dell'esperienza della violenza, di partecipare alla lotteria della morte.

E' un'esigenza che rinasce a ogni generazione, per 'rialzare il tono della vita'

(10 novembre 2011)

Chi sono i black bloc e gli altri giovanotti che percorrono l'Europa in odio alla civiltà industriale ma svolgendo la funzione utilissima di consumare il surplus? Cerco di evitarli, perché alla mia età frequentare violenti essendo deboli non ha senso. Ma credo di aver capito la ragione della loro presenza e del loro successo, perché con i mezzi di cui dispongono le polizie si potrebbero anche levar di mezzo, e invece li si lascia fare quel che vogliono da Roma alla Val Susa.

Sono l'eterno bisogno degli uomini di giocare alla guerra, meglio se una guerra per finta, anche se ogni tanto ci scappa il morto che serve a tenere alta l'eccitazione cioè il divertimento. Pure io nella fanciullezza ho partecipato alle guerre per gioco, e ricordo con un po' di nostalgia la loro assoluta mancanza di ragion pratica e al tempo delle bande giovanili sulle ripide della Stura e del Gesso a Cuneo.

Noi della banda di Cuneo Nuova avevamo costruito le nostre capanne non lontano dalla stazione ferroviaria, fumavamo dei pezzi di radici con un buco, acide, avevamo spade e scudi di cartone. E un nemico, il terribile Pecollo, figlio di una prostituta carico di odio per il mondo soprattutto per noi, figli di borghesi. Un giorno me lo trovai di fronte in un campo. Era di pelle scura, tozzo, torvo. Lui fece due passi avanti d'improvviso mi colpì con un pugno in piena faccia. Poi fuggì verso il bosco. Ero caduto a terra, sanguinante gemevo ma avevo compiuto la mia iniziazione a quel gioco a cui gli uomini non resistono dove ogni tanto si muore.

Non è un caso se i black bloc hanno scelto colori e simboli di morte. La guerra, diceva Cesare Pavese, "rialza il tono della vita", il suo fascino è l'altra faccia della sua stupidità. In tutti i momenti di guerra vera, quando era finita la guerra infantile con le spade e gli scudi di cartone, mi sono chiesto perché lo facessi, perché fossi caduto anch'io nella sua seduzione.

Le SS tedesche sono arrivate a Cuneo, hanno incendiato Boves, noi dalla Val Grana corriamo in soccorso dei compagni, pura follia. Nell'abitato di Borgo San Dalmazzo, dove c'è il bivio per Boves, incontriamo un camion di tedeschi. Faccio quel che fanno gli altri, sparo un colpo di fucile e quasi cado giù dal camion ripartito di scatto, noi di qua i tedeschi verso la Val Gesso in una guerra che dovevo ancora conoscere, capire, ma lo ricorderò per tutta la vita come uno dei momenti più intensi.

I momenti della violenza, il pugno di Pecollo, lo scontro di Boves, sono le banalità di cui la guerra fa i ricordi indimenticabili della tua vita. Se li eviti, se manchi quell'esperienza, è mancato qualcosa di decisivo. La morte, il rischio mortale, rendono epici fatti più banali.

C'è un solo modo di far apparire inaccettabile la violenza: che sia a fin di bene, che venga esercitata solo per essere cancellata. Ma qui si apre il gioco senza fine delle illusioni, degli inganni, della malvagità compiuti in buona fede. Ci si illude anche di poter ricorrere come giudice finale alla ragione, ma ogni volta la ragione è sopraffatta dagli altri sentimenti e istinti vitali, i sette peccati capitali e i veniali da cui derivano.

Un biografo di Immanuel Kant ha scoperto che il padre della legge morale era un libertino e un gaudente e un corruttore.

Per consolidare una società civile non c'è che perseverare e perseverare nel rifiuto della violenza feroce, anche se piace alla scimmia assassina.
Si sarebbe tentati di usare come consolazione il fatto che le società umane sono sempre meno feroci e sempre più rispettose della legge, ma improvvisamente dittature come quella nazista o quella di Gheddafi ci riportano alla realtà: l'uomo è sempre disponibile alla ferocia insensata.

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Titolo: GIORGIO BOCCA. Silvio come l'ho conosciuto io
Inserito da: Admin - Novembre 25, 2011, 10:51:23 pm
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Opinione

Silvio come l'ho conosciuto io

di Giorgio Bocca

Vuole sembrare un capo buono. Ma deve essere sempre lui a comandare.

E accetta tutti gli atti di sottomissione scambiandoli per qualcosa di dovuto al suo ego.

Che non sopporta nemmeno i guasti del tempo. Come la calvizie

(17 novembre 2011)

"Nulla è più turpe di una calvizie cappelluta", Marziale ha ragione. Il mistero di Berlusconi: come può un uomo intelligente sopra i 70 vergognarsi della normale calvizie e ricorrere alle ridicole simulazioni capellute con vernici nerastre? Credo che sia dovuto al virilismo del nostro, che vuol comandare anche ai guasti del tempo. Lo si capisce dalle fotografie del 1977 apparse tempo fa qui sull'"Espresso". Il nostro ha una chioma da paggio Fernando, fluente e morbida, ma a guardar bene sulla fronte si vede già la lanugine di una calvizie incipiente. Quel segnale deve essere stato il suo tormento di bellastro. L'insieme era quello di un uomo gelido e sospettoso nella sua apparente dolcezza, femmineo, smanioso di convincere tutti che lui con le donne faceva sfracelli.

Fotografie che rivelano le ambizioni da megalomane, che per me resta definito da quella telefonata mattutina in cui mi disse: "Caro Bocca sono qui sulla punta dei piedi per vincere il mio complesso d'inferiorità". Nei giorni precedenti in un'intervista avevo per l'appunto detto che era perseguitato da un complesso d'inferiorità per gli intellettuali. Ci sono personaggi compatti nelle loro virtù e nei loro difetti, malvagi o buoni dalla testa ai piedi. E quelli double face, metà buoni e metà cattivi, metà generosi e metà avidi che ti sorprendono di continuo e di cui tutti parlano per come sono indecifrabili.

Chi è Berlusconi? Quando lo conobbi eravamo nella direzione della sua azienda televisiva. C'era il suo amico da una vita Fedele Confalonieri, se si può più misterioso e indecifrabile di lui. Perché Confalonieri era l'amico del cuore, il consigliere fidatissimo del nostro? Che cosa hanno in comune, perché uno ha legato la sua vita all'altro? Credo che non lo sappiano ancora e attribuiscano il fatto a un'incontrastabile magia. Quel giorno del primo incontro Confalonieri, a me che gli confidavo le mie preoccupazioni per il rapporto professionale con Silvio, disse serio: "Non preoccuparti, fra voi c'è il feeling".

Apparentemente c'era una possibilità di convivenza, e magari di simpatia, ma immersa in un mare di diversità inconciliabili. Silvio era ed è un animale da preda, io un cuore tenero pronto ai cedimenti. Il nostro rapporto non sarebbe stato facile, lo capii una sera che ci fu una presentazione dei programmi. Silvio arrivò con le sue segretarie che gli trovarono il posto migliore, le luci migliori, attenuandole con una calza di seta. E lui si accomodava in quei favori come naturali, come dovuti alla sua superiorità di padrone. Non cattivo, non villano ma inesorabilmente prepotente e padrone del nostro rapporto, questo mi fece capire che tutto ciò che di buono avrei fatto lì dentro si sarebbe trasformato in un suo merito. Come se fossimo arrivati all'incontro da due pianeti diversi. Comunicanti ma diversi.

Chi può dire di essere veramente amico di Berlusconi? Tutti rispondono subito: Confalonieri, da una vita, ma non credo che sia proprio così, credo che in Confalonieri ci sia piuttosto affettuosa rassegnazione a lavorare per il più forte. Berlusconi è un personaggio preoccupante più che ammirevole o temibile. Attaccato al suo enorme ego può trovare in una crisi politica la forza per sfidare il mondo. Ma per cosa? Per affermare la sua mediocrità, la sua mancanza di stile, di gusto? Basta vedere il suo sepolcro, le sculture nel parco per celebrare l'unione dei fedeli.

Anche quando si fa fotografare con i figli c'è sempre qualcosa di falso, vuole sempre dimostrare che è il padrone buono, il padre buono, il risolutore di ogni problema; e come alimentare un egoismo enorme volendo apparire mansueto e generoso? E' la fatica della sua vita, da ciò non è stato ucciso ma si è ridotto a fantoccio di se stesso. Tutti gli uomini politici impiegano gran parte del loro tempo pubblico a sistemarsi la cravatta e la giacca, a sorvegliare il loro modo di camminare, ma in lui questa attenzione è scoperta e ridicola, vien voglia di soccorrerlo, povero Silvio. Così è andato a salutare il picchetto d'onore passandolo in rivista con le sue gambette storte da calciatore di periferia. Sic transit gloria mundi, come ha dichiarato, il berlusconismo è finito. Era l'ora, dopo diciassette anni.

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Titolo: GIORGIO BOCCA. I dissesti? Tutta colpa nostra
Inserito da: Admin - Dicembre 02, 2011, 06:08:09 pm
L'opinione

I dissesti? Tutta colpa nostra

di Giorgio Bocca

I disastri causati dalle alluvioni sono colpa degli uomini, non dei mutamenti climatici.

Perché prima si costruisce senza criterio e poi non si ha la capacità di affrontare le emergenze

(28 novembre 2011)

Si dice che le alluvioni sono "sciagure naturali" dovute al mutamento climatico e alle forze che dominano l'uomo. E' uno dei modi per non assumere le nostre responsabilità. Mentiamo anche con la natura, fingiamo che le colpe siano sempre tutte sue. Non è così: la presenza degli uomini è decisiva, nei paesi desertici le alluvioni possono fare ciò che vogliono ma non danneggiano nessuno, nelle zone umanizzate sono disastrose.

Qual è stata nella recente alluvione di Genova la responsabilità maggiore dei danni? I comportamenti abituali degli uomini in tema di alluvioni. Prima le prepariamo costruendo nelle zone in cui dovrebbero esondare le acque di piena, poi aggraviamo il disastro continuando a vivere nel corso delle alluvioni come se non ci fossero: bambini a scuola, automobili nelle strade, cittadini lenti a rifugiarsi anche sulle alture. Sicché vista dall'alto, vista da un terrazzo, la piena di un fiume appare come una corsa pazza di persone che non sanno cosa fare, dove andare, come ripararsi.

Ho conosciuto il comportamento dei miei simili anni fa durante l'inondazione del Polesine. Il Po era in piena da almeno una settimana, ma nel Polesine nessuno se ne curava. Solo la guardia municipale di un paese vicino a Ferrara, Occhiobello, si decise a sfidare quanti non volevano spaventare la gente di Occhiobello dando l'allarme suonando le campane, e il Po stava già precipitando nella breccia da cui stava invadendo le zone di Adria e Rovigo. Fu la mia scuola di alluvione.

Strana scuola, alle prime ore del mattino partivamo in auto da Ferrara, raggiungevamo il grande lago formatosi con la piena, salivamo sugli anfibi dei vigili o dei soldati arrivati in soccorso da tutta Italia e giravamo per quel mare immobile e azzurro in cui si specchiavano le nevi delle Alpi. Gli abitati apparivano con i loro campanili sorgenti dalle acque, si vedeva la gente che si era rifugiata sui tetti, alcuni erano rimasti impigliati come uccelli fra i rami di un albero. Un giorno arrivammo a Adria, la gente alle finestre applaudiva, la strada principale era diventata una specie di Canal Grande, a un balcone le signorine del bordello salutavano festose come educande.

Chi è scampato a un'alluvione sa bene quali sono le colpe e gli errori fatti dagli uomini. Anni fa feci un viaggio lungo il Po dalla sorgente alla foce. Era chiaro che almeno la metà delle case da Revello in poi sarebbero state allagate. Il disastro predisposto dagli uomini continuava per tutto il corso del fiume: scomparsi i canali di scolo dei boschi, asfaltate tutte le strade, un mantello di cemento attorno alle città, nessun taglio degli alberi cresciuti lungo le rive, una proliferazione di pioppi che non potevano trattenere le acque. E sì che gli spazi nella pianura del Po ci sembravano enormi, in Liguria in quegli stretti spazi strappati alla montagna la morte come dei topi in un secchio era sicura.

Un altro fatto importante nelle alluvioni dipende dalla "civiltà idrica" degli uomini: ci sono regioni in cui sono avvenute alluvioni disastrose, come il Friuli e il Biellese, in cui spontaneamente, per tradizioni storiche, gli abitanti del posto hanno immediatamente iniziato la ricostruzione e nel giro di poche settimane hanno rimesso le strutture del paese in condizioni di funzionare. A seguito di altre catastrofi nei paesi arretrati del Sud, come in Irpinia o nel Belice, le conseguenze e i danni si sono protratti per anni. In alcune zone d'Italia progredite gli uomini e le loro organizzazioni reagiscono immediatamente, mentre in altre comincia la lagna dei soccorsi dello Stato che non arrivano.

Il dramma di questo Paese è di avere queste contraddizioni che non possono essere guarite dall'intervento del governo, ma sono connaturate alla storia delle popolazioni.

da - http://espresso.repubblica.it/dettaglio/i-dissesti-tutta-colpa-nostra/2167164/18


Titolo: Addio a GIORGIO BOCCA. Partigiano e scrittore
Inserito da: Admin - Dicembre 25, 2011, 11:46:09 pm
   

LA BIOGRAFIA

Giorgio Bocca, partigiano e scrittore

Difese e spiegò i valori della Resistenza

   
    Dai morti in fabbrica al Berlusconismo la storia d'Italia nelle pagine di Repubblica

GIORGIO BOCCA nasce il 28 agosto 1920 a Cuneo, da genitori insegnanti. Cresce nella condizione sociale tipica della borghesia piemontese e da ragazzo frequenta la Facoltà di Giurisprudenza. Per le sue abilità sciistiche e i risultati sportivi, noti in tutta la provincia, si iscrive al Gruppo Universitario Fascista. Le prime collaborazioni giornalistiche sono con il foglio cuneese del Partito Nazionale Fascista, esprimendo posizioni e idee vicine al partito.

L'amicizia con Benedetto Dalmastro, a sua volta connesso a Duccio Galimberti lo porterà a fondare dopo l'armistizio le formazioni "Giustizia e Libertà" con cui dopo l'8 settembre, Giorgio Bocca aderisce alla lotta partigiana. Nel 1945 firma le condanne a morte di cinque prigionieri dell'esercito della Repubblica Sociale.

L'uomo di lettere.  Bocca inizia a scrivere da adolescente, sospende l'attività sotto le armi e la riprende alla fine della lotta partigiana, sul giornale di Giustizia e Libertà. Arrivano poi le collaborazioni con L'Europeo e Il Giorno, e nell'Italia del boom economico degli anni sessanta realizza diverse inchieste che raccontano e mettono in luce il momento storico del Paese.

Con Eugenio Scalfari, nel 1976 è tra i fondatori di Repubblica.

Bocca lavora anche per la tv, a cavallo tra gli anni '80 e '90, realizzando programmi per le emittenti della Fininvest di Silvio Berlusconi.

Ma la penna di Giorgio Bocca non è solo per i giornali. Sono molti i libri che firmerà, per raccontare la società italiana, i mutamenti del tessuto sociale e del territorio, il costume, gli infiniti e spinosi problemi dal nord al mezzogiorno. Particolare attenzione al tema del terrorismo, con inchieste e interviste ai protagonisti del periodo.

Lo sguardo di Bocca sulla realtà italiana è rimasto unico nel tempo, sempre originale e spesso spiazzante per le posizioni. Sostenitore di fenomeni politici come la prima Lega nord, antiberlusconiano per definizione, no global fuori dai movimenti. Soprattutto, difensore del revisionismo verso la Resistenza, in dura polemica con il collega Gianpaolo Pansa.

E lucido nell'analisi fino all'ultimo, nelle interviste rilasciate alla stampa e alla tv. In un'intervista a l'Espresso, Bocca dice: «Sono certo che morirò avendo fallito il mio programma di vita: non vedrò l’emancipazione civile dell’Italia. Sono passato per alcuni innamoramenti, la Resistenza, Mattei, il miracolo economico, il centro-sinistra. Non è che allora la politica fosse entusiasmante, però
c’erano principi riconosciuti: i giudici fanno giustizia, gli imprenditori impresa. Invece mi trovo un paese in condominio con la mafia.
E il successo di chi elogia i vizi».

(25 dicembre 2011) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/spettacoli-e-cultura/2011/12/25/news/giorgio_bocca_partigiano_e_scrittore-27080769/index.html?ref=search


Titolo: Addio Giorgio BOCCA: giornalista e partigiano
Inserito da: Admin - Dicembre 26, 2011, 04:28:16 pm
Addio Giorgio Bocca: giornalista e partigiano

E' morto oggi nella sua casa di Milano Giorgio Bocca.

Il grande giornalista e scrittore era nato a Cuneo il 28 agosto del 1920.

Partigiano con Giustizia e Liberta', nel dopoguerra giornalista d'inchiesta per l'Europeo e per Il Giorno, nel 1976 tra i fondatori di Repubblica.

25 dicembre 2011

E' morto oggi pomeriggio nella sua casa di Milano, dopo una breve malattia, Giorgio Bocca. Lo rende noto la casa editrice Feltrinelli.
Il grande giornalista e scrittore era nato a Cuneo il 28 agosto del 1920.


Tra i grandi protagonisti del giornalismo italiano, Giorgio Bocca, scomparso oggi all'eta' di 91 anni, ha raccontato nei suoi articoli e nei suoi libri l'ultimo mezzo secolo di vita italiana con rigore analitico e passione civile, improntando sempre il suo stile alla sintesi e alla chiarezza.

Nato a Cuneo il 28 agosto del 1920, Bocca inizio' a scrivere gia' a meta' degli anni '30, su periodici locali e poi sul settimanale cuneese La Provincia Grande. Da giovane aderì alle organizzazioni fasciste. Durante la guerra si arruolo' come allievo ufficiale alpino e dopo l'armistizio fu tra i fondatori delle formazioni partigiane di Giustizia e Liberta'.

Riprese allora l'attivita' giornalistica, scrivendo per il giornale di GL, poi lavorando per la Gazzetta del Popolo, per l'Europeo e per Il Giorno e segnalandosi per le grandi inchieste. Nel 1976 fu tra i fondatori del quotidiano la Repubblica, con cui ha sempre continuato a collaborare. Al suo attivo, in una carriera cinquantennale, anche numerosi libri, che spaziano dall'attualita' politica e dall'analisi socioeconomica all'approfondimento storico e storiografico, senza mai dimenticare la sua esperienza partigiana.

Tra le sue opere: Storia dell'Italia partigiana (1966); Storia dell'Italia nella guerra fascista (1969); Palmiro Togliatti (1973); La Repubblica di Mussolini (1977); Il terrorismo italiano 1970-78 (1978); Storia della Repubblica italiana - Dalla caduta del fascismo a oggi (1982); Il provinciale. Settant'anni di vita italiana (1992); L'inferno. Profondo sud, male oscuro (1993); Metropolis (1994); Piccolo Cesare (2002, dedicato al fenomeno Berlusconi, libro che segno' il passaggio di Bocca da Mondadori, suo editore da oltre dieci anni, a Feltrinelli); Le mie montagne (2006); E' la stampa, bellezza (2008). Annus Horribilis, Milano, Feltrinelli (2010). Fratelli Coltelli (1948-2010 L'Italia che ho Conosciuto), Milano, Feltrinelli (2010). Nell'aprile 2008 Bocca ha vinto il premio Ilaria Alpi alla carriera.


da - http://www.unita.it/italia/addio-giorgio-bocca-giornalista-e-scrittore-1.365926


Titolo: IL RICORDO DI GIORGIO BOCCA. Il ruvido partigiano nella Milano di Mattei
Inserito da: Admin - Dicembre 26, 2011, 04:31:19 pm
IL RICORDO DI GIORGIO BOCCA

Il ruvido partigiano nella Milano di Mattei

Era uno dei protagonisti di quell'epoca, ma faceva finta di essere sempre un contadino, bastian contrario ottuso.

di di FRANCESCO CEVASCO

Ci ha lasciato così: «La politica, il parlar di politica come interminabile, ossessivo fiume di oscenità, come accadeva nella fanciullezza quando ci scambiavamo parole "sporche" persuasi che quello fosse il segno della raggiunta maturità, che eravamo uomini capaci di essere uomini. Giornali e televisioni sembrano dominati dalla foia delle immagini lubriche, dell'umorismo da caserma». Ci ha lasciati così Giorgio Bocca, con queste ultime, le sue solite, parole dure, cattive, arrabbiate. Mica le inutili smancerie di chi è consapevole di essere arrivato agli ultimi giorni della sua vita e te la mena con se stesso, con quanto è stato grande, bravo e bello e un primo della classe nel suo mestiere di giornalista.

No, Bocca ha preferito il suo, solito, stile ruvido, contadino, duro come la terra del Piemonte da cui è arrivato in quella città chiamata Milano che gli è entrata talmente nel cuore e nel lavoro e negli affetti e nell'amore che ci ha scritto pure quel libro dal titolo Il Provinciale dove di provinciale non c'è niente, ma c'è la conquista di un mondo che allora era il mondo attorno al quale girava l'Italia intera. Milano. La Milano di Mattei, quella che nel giornalismo si chiamava Il Giorno. Di quella Milano Il Provinciale Giorgio era uno dei protagonisti ma faceva finta di essere sempre quel contadino ruvido, quel partigiano che aveva sfidato la morte nazista, quel giornalista che sfidava questori, prefetti, magistrati, poliziotti, spioni, padroni, burocrati, imprenditori esentasse, inventori di dossier tarocchi eccetera. Faceva finta di essere un bastian contrario ottuso, come i suoi compaesani di Cuneo che per far bella figura tenevano accese le luci sulle strade pubbliche anche di giorno, per tirare le sue stoccate (anche con male parole) ai democristiani, socialisti, comunisti, missini di turno.

Mica era un eroe il Vecchio Leone: «Confesso che per far quadrare i conti di qualche mia inchiesta - raccontò ventuno anni fa, in occasione di una delle mille interviste celebrative del suo settantesimo compleanno - ho un po' forzato le cose: vero era quello che ho scritto, ma, magari, un po' meno o un po' più vero di quanto non fosse vero davvero». Bocca aveva anche il coraggio delle sue paure. «Quando ero nel mirino dei terroristi - raccontava - non mi vergogno a dire che avevo appeso un lenzuolo annodato, come quelli dei carcerati, fuori dalla finestra per essere pronto scappare. E, ancora peggio, una volta ho lasciato che fosse mia moglie ad andare ad aprire la porta di casa quando avevo il sospetto che a suonare fosse una qualche brigata che voleva farmi la pelle». Insomma, dove lo troveremo un altro che, come lui, ha saputo sfidare i nazisti delle SS, gli agenti dei servizi deviati, i padroni del vapore e ha avuto il coraggio di non nascondere le debolezze di un qualunque «Provinciale»?

25 dicembre 2011 | 21:56

da - http://milano.corriere.it/milano/notizie/cronaca/11_dicembre_25/bocca-milano-cevasco-1902656546461.shtml


Titolo: Giorgio BOCCA: «Sempre coerente con libertà e democrazia»
Inserito da: Admin - Dicembre 26, 2011, 04:34:58 pm
LE REAZIONI

Addio a Bocca, il capo dello Stato Napolitano: «Sempre coerente con libertà e democrazia»

Scrittori, politici e colleghi ricordano il giornalista scomparso

Giorgio Napolitano: «Figura di spicco del movimento partigiano rimasto sempre coerente con quella sua fondamentale scelta di campo per la libertà e la democrazia. Dedicatosi subito al giornalismo di inchiesta e di battaglia civile, Giorgio Bocca ha scandagliato nel tempo la realtà del nostro Paese e le sue trasformazioni sociali con straordinaria intransigenza e combattività. Con sentimenti di riconoscenza per il suo vigoroso impegno partecipo al cordoglio della famiglia e del mondo dell'informazione».

Roberto Saviano: «Da lui ho capito che non bisognava mai lasciarsi ferire, né abbassare gli occhi: gli insulti sono spinte ad andare oltre, a entrare più in profondità nei problemi. La mia strada per l'inferno l'ha indicata lui, Gomorra si è nutrito della sua lezione»

Oliviero Diliberto: «Spietato commentatore della nostra Italia, coerente fino all'ostinazione è stato un autentico e rigoroso interprete dei valori costituzionali. Negli ultimi 20 anni è stato uno dei protagonisti delle battaglie contro il degrado culturale nel quale il nostro Paese è sprofondato».

Piero Fassino (sindaco di Torino): «Un uomo che ha creduto profondamente nei valori di libertà, democrazia, giustizia legalità e ha speso le migliori energie della sua lunga esistenza per affermarli, ispirando ogni giorno la sua straordinaria passione di giornalista e di scrittore a rigore etico, senso dello Stato, spirito repubblicano»

Fabrizio Cicchitto (presidente dei deputati del Pdl): «Non possiamo dimenticare due cose di Giorgio Bocca: i suoi servizi giornalistici negli anni '60-'70, fondati sull'analisi delle nuove realtà economiche e sociali del Paese e il suo libro su Palmiro Togliatti che mandò in crisi tutta la ageografia messa in piedi dal Pci. Purtroppo da diversi anni a questa arte Giorgio Bocca non ha fatto altro che riscrivere lo stesso articolo di condanna dell'Italia degenerata della quale Berlusconi era insieme il protagonista e il principale colpevole».

Carlo De Benedetti (editore di Repubblica e de L'Espresso): «Una persona che ho molto ammirato, soprattutto per la sua coerenza e per la cocciutaggine piemontese con cui, da grande giornalista, è sempre stato dalla parte di chi, per una ragione o per l'altra, godeva di meno privilegi e meno libertà»

Ezio Mauro (direttore Repubblica) «Giorgio Bocca era un grande amico, un uomo di Repubblica ma anche un personaggio appassionato della storia repubblicana incompiuta del nostro Paese. E proprio le vicende di questi giorni ci fanno dire quanto ancora ce ne sarebbe bisogno».

Emilio Fede (giornalista): «Un grande amico, con il quale ho vissuto l'inizio della mia avventura giornalistica alla Gazzetta del Popolo di Torino. Ci facevamo compagnia, la notte, dopo la chiusura del giornale. Con Ugo Ronfani, Adalberto Minucci, Diego e Pierino Novelli, andavamo alla stazione di Porta Nuova, a Torino, per mangiare pane e mortadella alle bancarelle dove approdavano i nottambuli. Poi, insieme al mio inizio con le reti Mediaset. Insieme quella notte della Guerra del Golfo. Lo leggevo nei suoi editoriali su L'Espresso. Non importa quello che era da condividere e quello no. Ciao Giorgio. Molti ti ricordano e ti ricorderanno. Anche Berlusconi che qui ti aveva chiamato come voce libera».

Redazione online

25 dicembre 2011 | 22:15© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/cronache/11_dicembre_25/addio-a-giorgio-bocca_0c2f4f8c-2f1d-11e1-95dc-af938f95d8a0.shtml?fr=correlati


Titolo: IL BOCCA ... Arrivò al «Giorno» vestito come uno di Cuneo...
Inserito da: Admin - Dicembre 26, 2011, 04:37:21 pm
IL RICORDO DI GIORGIO BOCCA

Milano, le cene e l'amore. Quel Provinciale che parlava poco e sapeva essere generoso

Arrivò al «Giorno» vestito come uno di Cuneo... E qualcuno gli suggerì: «Per conoscere la città vai in casa Cederna»

di  GIULIA BORGESE


Io me lo ricordo, il mio vecchio e carissimo amico, Giorgio Bocca, anzi «il Bocca» come era familiarmente chiamato, fin da quando arrivò a Milano, al Giorno di Baldacci: era un ragazzo chiaramente e dichiaratamente provinciale (e infatti sarà proprio Il provinciale forse il più bello dei suoi tanti libri) vestito come uno di Cuneo, la sua città, con maglioni lavorati a disegni di fiocchi di neve.

Lui stesso ricordava che arrivato a Milano non conosceva nessuno, ma qualcuno al giornale gli aveva suggerito: «Per conoscere la città vai subito in casa Cederna». E lui così aveva fatto, e lì da mia zia Camilla e mia nonna Ersilia lo incontravo spesso. Aveva fatto una intera pagina sul Giorno – una pagina a colori, che allora sui quotidiani era una rarità- intervistando un gruppo di miei amici, giovani della borghesia che si affacciavano appena al mondo del lavoro: chi era avvocato, chi industriale, chi designer, chi pubblicitario… E tutti poi sono diventati suoi amici. Lui allora aveva casa in via Pascoli e possedeva un magico libro di cucina, Il cuoco piemontese, settecentesco e un po’ unto e consunto: di lì si ispirava per certe sue cene indimenticabili. Per esempio telefonava alle sei del pomeriggio e diceva, col suo bell’accento piemontese che non aveva mai perduto: «Ho finito l’articolo e adesso faccio il manzo al cucchiaio, venite alle nove».

Il buon mangiare e il buon vino facevano parte integrante della sua vita, per esempio una delle ultime volte che ho pranzato a casa sua nella via privata Giovannino De Grassi, tra via San Vittore e corso Magenta, mi aveva attirato con la promessa di assaggiare un forma del famoso formaggio Castelmagno che gli avevano appena regalato. Aveva sposato nel 1972 o ’73 una mia amica della Valtellina, Silvia Giacomoni. Anzi ero proprio stata io a presentarli, tutti e due da poco abbandonati dai loro rispettivi coniugi, tutti e due un po’ tristi e soli. Incredibile, in un attimo il carattere valtellinese di lei e quello piemontese di lui si sono accordati, e loro si sono proprio innamorati, di un amore che è durato fino ad oggi. Giorgio aveva una figlia, Nicoletta, la Silvia due bambini Bruno e Davide: in breve hanno messo su casa insieme, in via Bagutta, dando vita a una grande e nuova famiglia. In vacanza andavano tutti nella bella casa in Val d’Aosta oppure sulla barca a vela che tenevano a Lerici, con Davide che era diventato subito un bravissimo skipper.

Parlava poco, il Bocca, aveva conservato quella sua simpatica ruvidezza montanara –o partigiana- ma sotto le camicie a quadri che gli regalava il Tai Missoni, batteva un cuore –come si usa dire- davvero generoso: spesso sapeva addirittura essere dolce se un amico era un po’ depresso e aveva bisogno di speciale affetto. E di amici ne aveva molti. Adesso sta per uscire il suo ultimo libro e –mi dice Carlo Feltrinelli, il suo editore- è almeno riuscito e vederlo finito, a prenderlo in mano, a guardarselo bene. Ma che dire? Il Bocca è una persona indimenticabile .

25 dicembre 2011 | 21:54

da - http://milano.corriere.it/milano/notizie/arte_e_cultura/11_dicembre_25/giorgio-bocca-giulia-borgese-1902656733377.shtml


Titolo: Giorgio BOCCA: «Senza lotta partigiana, sarei un avvocato»
Inserito da: Admin - Dicembre 26, 2011, 04:39:02 pm
Il giornalista racconta la lunga vita in un'intervista a Maria Pace Ottieri e Luca Musella

«Senza lotta partigiana, sarei un avvocato»

Le nozze con una ballerina e l'amore ('eccessivo') per i nipoti

Giorgio Bocca a tutto tondo in un dvd della Feltrinelli

di PAOLO DI STEFANO


MILANO - L’ultima intervista a Giorgio Bocca è consegnata a un dvd pubblicato un paio di mesi fa dalla Feltrinelli.
C’è quasi tutto Bocca: gli inizi, la carriera, le sue idiosincrasie, le sue passioni, il passato e il presente. Il giornalista racconta la sua lunga vita a Maria Pace Ottieri e Luca Musella. Senza la lotta partigiana, ricorda Bocca, sarebbe stato destinato alla carriera di avvocato: «Era la sorte che aveva un giovane piccolo-borghese come me».

La guerra civile, a cui Bocca ha dedicato saggi e racconti (da Partigiani della montagna a Una Repubblica partigiana sulla resistenza in Val d’Ossola), ha rappresentato per lui una perfetta coincidenza tra «fare una cosa meritoria e fare una cosa divertente», una «meravigliosa vacanza», «andare in giro per le montagne, senza una lira in tasca, padrone del tuo destino…». Sul senso di libertà provato durante la Resistenza, Bocca ha scritto molte pagine, ma qui quell’esperienza viene inserita in un contesto ampio che riguarda il senso religioso, anzi superstizioso, della famiglia d’origine, la passione per la montagna e lo sci, le prime amicizie (con il futuro cognato Detto Dal Mastro), il senso del dovere militare tipicamente piemontese. La guerra partigiana viene ricordata da Bocca come «illusione bellissima», una speranza delusa di cambiamento radicale per l’Italia: «il grosso del Paese l’ha subita ma non l’ha fatta», si trattava in realtà di una rivoluzione minoritaria, come il Risorgimento.

Con il suo tono severo, Bocca si sofferma poi sulla Liberazione e sull’immediato dopoguerra, sulle prime elezioni, sulla convinta appartenenza al Partito d’Azione e sulle divisioni politiche all’alba della ricostruzione. «I partiti che contavano per la gente erano quelli che davano la garanzia che o comandava il papa o comandava Stalin: le scelte erano quelle». Poi il miracolo economico, in cui «c’erano già tutti i vantaggi e i difetti della società italiana». Un’espansione molto disordinata che badava solo al guadagno immediato e che trascurava il futuro.

Il suo paesaggio interiore è sempre rimasto quello cuneese, ma Bocca si trasferisce ben presto a Torino al tempo dell’università: lì percepisce la centralità della Fiat come una sorta di «corte monarchica» in cui la città si riconosce ancora oggi. Tra le persone incontrate da Bocca e raccontate da vicino nei loro tratti particolari c’è l’Avvocato, che , dice, «se non fosse stato un miliardario, sarebbe stato un ottimo giornalista». Camilla Cederna, la miglior giornalista d’Italia, «la correttezza in persona»; Oriana Fallaci, «una carogna veramente, di cui non mi sono mai fidato»; Dino Buzzati, un austroungarico gentile, amato «anche per la sua follia»; Umberto Eco, «un uomo di ghiaccio»; Emilio Tadini, «un vero amico», eccetera.

Bocca parla anche di argomenti privati: del primo matrimonio e della separazione («ho voluto sposarmi con una ballerina e poi tutti in famiglia a dirmi: te lo avevamo detto!»), della figlia Nicoletta…

L’Italia di Bocca, vista dalle redazioni dei giornali, dalla «Gazzetta del Popolo» all’«Europeo», dal «Giorno» alla «Repubblica», è un Paese che non gli piace particolarmente, specie nei suoi miti che sembravano incrollabili e indiscutibili: la classe operaia, che «aveva in sé la verità e la virtù», il comunismo, la Democrazia cristiana, e in genere la politica.

L’anticomunismo di Bocca è risaputo, così come è nota però la sua stima per Togliatti, cui ha dedicato una monografia: «Effettivamente Togliatti era uno che aveva capito tutto (…) ha compiuto un miracolo politico». Il ricordo del primo viaggio in Russia è anche il ricordo della reazione negativa che ebbero i suoi reportage: «Bocca schifoso detrattore». Altri temi dell’intervista sono argomenti-chiave della storia italiana del dopoguerra. L’epoca del terrorismo: «Per la stessa ragione per cui io avevo deciso di combattere (nella Resistenza n.d.R.), pensavo fosse comprensibile, non giusto, ma comprensibile, che alcuni giovani, per opporsi al sistema borghese, sparassero».
D’altra parte però Bocca non nasconde l’amicizia e l’ammirazione per il generale Dalla Chiesa. Il controverso rapporto con il Sud (cui si legano giudizi durissimi: «è il terrore, è il cancro») e le inchieste sul terremoto dell’Irpinia: «l’occasione perché il sistema clientelare mafioso facesse i suoi affari, così come è successo con il terremoto dell’Aquila. Chi ne ha approfittato e lo ha usato è stato Berlusconi».

E gli ultimi vent’anni vissuti da vicinissimo con curiosità e poi con disgusto: dalla fine del craxismo e della Dc a Tangentopoli, alla nascita della Lega, con la proposta del senatore Bossi: «Vuoi diventare senatore? Per carità! Insomma, avrei potuto fare carriera politica come leghista perché allora mi consideravano un amico. Non avevano capito invece che, come uomo di Giustizia e Libertà, li detestavo. Capivo che erano persone prive di ogni cultura…». L’antiberlusconismo degli ultimi tempi è praticamente attualità. Seguono i giudizi sul giornalismo di ieri e di oggi, sul vino «buonissimo» che fa sua figlia, un’autocritica sul suo essere «un cattivo nonno per eccesso: eccesso d’amore e soprattutto eccesso d’incitamento al successo. Voglio che abbiano fortuna come me».

25 dicembre 2011 | 22:00

da - http://www.corriere.it/cultura/11_dicembre_25/di-stefano-bocca_78afb66c-2f2f-11e1-95dc-af938f95d8a0.shtml


Titolo: GIORGIO BOCCA. La grande caccia all'Azionismo
Inserito da: Admin - Dicembre 26, 2011, 04:53:07 pm
La grande caccia all'Azionismo

di GIORGIO BOCCA

L'ANTICOMUNISMO senza comunisti è superato in livore e ossessione solo dall'antiazionismo senza azionisti, ultimo un intervento di Giuliano Ferrara su "l'Unità", una sorta di esorcismo contro il demonio che continua ad aggirarsi per l' Italia. Sono passati cinquantaquattro anni dalla caduta del governo Parri che segnò la fine della brevissima avventura politica del Partito d'Azione, ma l'azionismo resta un partito centrale della politica italiana: un partito virtuale, in gran parte immaginario, l'opposto di tutti i vizi e le debolezze secolari della nazione, di una virtuosità giacobina, estranea alla cultura clericale del paese, di fronte a cui anche i suoi vecchi militanti si sentono impari: ma davvero eravamo un partito di vipere come diceva Giannini il fondatore dell' Uomo qualunque del professor Codignola? Un partito di incorreggibili sovversivi come dicevano di Riccardo Lombardi e di Emilio Lussu i liberali? O più semplicemente gli eredi delle minoranze laiche, illuministe, repubblicane, riformiste fatte regolarmente a pezzi dalle restaurazioni borboniche o papaline, una minoranza scomoda in un paese diviso fra guelfi e ghibellini?

L'avventura politica del Partito d'Azione fu breve, resa possibile forse solo dall'anomalia della Resistenza, un periodo corto e così eccezionale da permettere la guida delle élite sulle masse, dell'utopia sulla realpolitik, della progettazione riformista sulla conservazione del vecchio stato.

La grande maggioranza dei partigiani di Giustizia e Libertà sapeva poco o niente dei fratelli Rosselli e di Gobetti, delle due anime del partito, diviso fra il moderatismo di La Malfa e il giacobinismo di Lussu ma gli andava bene la voglia di modernizzare il paese, di toglierlo dalle dipendenze clericali, cattoliche o comuniste che fossero; gli andava molto bene e questo era il cemento che li univa, la affermazione di una politica etica, sottratta ai peggiori commerci elettorali, a una accettazione acritica della democrazia; per
una democrazia forte capace di difendersi, di cui Leo Valiani era il più deciso sostenitore. Che si trattasse di una avventura breve lo si era già capito nella primavera del '45 quando gli italiani tornarono a fare la fila per iscriversi ai vecchi partiti socialista o cattolico, dandogli milioni di voti alle prime elezioni e trascurando questo partito nuovo dal nome strano "di azione", infelice nome che poteva ricordare l'attivismo, l'interventismo fascisti.

La diaspora degli azionisti fu rapida dopo il congressso del febbraio '46 che ne segnò il dissolvimento: alcuni tentarono di sopravvivere in nuove formazioni politiche effimere, altri passarono nel Partito socialista o repubblicano ma restandovi sempre in certo modo come corpi estranei. Il loro merito, la ragione per cui l'azionismo senza azionisti è ancora così odiato e temuto è che rimasero nella memoria spesso nella fantasia come i portatori di una eresia, di ciò che il paese rassegnato a volte sembrava desiderare ma che poi, come spaventato, rifiutava: la politica non disgiunta dalla etica, la indipendenza da ogni potere clericale, la cura della società.

Che resta dell'azionismo?

Quanto basta per essere odiato.

Resta lo stupore, la incredulità di fronte a certi spettacoli della restaurazione: tutti quei ministri e notabili della repubblica "nata dalla Resistenza", ma neppure il suo presidente se ne ricorda, che vanno in piazza San Pietro ad ascoltare genuflessi gli ultimatum di un pontefice che fa il suo mestiere di integralista; e questa politica che per il terrore che ha dell'etica, predica ogni giorno a destra come a sinistra l'assoluzione generale, Tristano Codignola era una vipera per il qualunquista Giannini, Lombardi e Foa dei giacobini, l'intero partito una minoranza che tentava una fuga in avanti. Però meglio sconfitti che vincitori se i vincitori hanno prodotto i personaggi contemporanei che non hanno ritegno a dare di sé pubblico e disgustoso spettacolo: ex ministri che pagavano con le tangenti in un anno un conto in albergo di mezzo miliardo, che facevano sparire i miliardi dei "conti protezione" e ora chiedono che gli si restituisca la dignità e l'onore. Ma dignità e onore ognuno se li guadagna da sé, non li aspetta da una amnistia.

C'È evidentemente in questo paese un azionismo che dura, che spaventa, che è ancora di stimolo, di esempio a cinquantaquattro anni dalla sua morte, che forse resisterà anche al neo liberismo e alla globalità, qualcosa come fu il costume repubblicano nella Roma imperiale, lo spirito conciliare nella Chiesa di Andreotti e di Marcinkus. Allargare la definizione di azionista a tutto ciò che di pulito e di coraggioso sopravvive nella repubblica è una retorica, a cui gli azionisti si sarebbero opposti per primi.

Ma anche se l'azionismo fosse solo un mito, una bella leggenda da cavalieri della tavola rotonda, se fosse solo una aspirazione, una affinità elettiva conserviamolo ringraziando i suoi molti nemici che con il loro odio sempiterno lo onorano, e lo perpetuano.

La Repubblica
18 novembre 1999

http://www.circolorossellimilano.org/MaterialePDF/la_grande_caccia_azionismo.pdf


Titolo: GIORGIO BOCCA. La sinistra delle regole - da MicroMega 2/1999
Inserito da: Admin - Settembre 12, 2013, 11:22:31 am
Giorgio Bocca | La sinistra delle regole

Scomparso il ‘diamante’ del proletariato, omologati il look e le attese, la sinistra s’è arresa alla deregulation e alle ragioni del proprio fallimento.

Un grido per una sinistra che abbia ancora il coraggio dell’utopia.

di Giorgio Bocca, da MicroMega 2/1999

Chiedere oggi che cosa sia la sinistra è una domanda politicamente imbarazzante se non scorretta. Chiedersi che cosa sia questa mitica sinistra in un’Europa in cui i suoi tradizionali partiti socialisti e comunisti sembrano acquisiti ai teoremi e ai miti del neoliberismo più irresponsabile socialmente, in cui senza vergogna, almeno intellettuale, ripete i ragionamenti sulle superiori necessità economiche contro le quali combatté per più di un secolo, sembra sempre più spesso inutile quando non ridicolo. A volte vien voglia di tornare a quelle definizioni da biologia ottocentesca del tipo «si è rivoluzionari da giovani e conservatori da vecchi». Ecco tutto.

Meno banalmente si è tentati di definire la sinistra in modi psicologici o moralistici: è uno stato d’animo, è una misteriosa mescolanza di memorie, di geni e di caratteri nativi, una sorta di affinità elettiva. Bobbio ha cercato di ancorarla a un minimo concreto dicendo che la sostanza della sinistra, del socialismo è l’eguaglianza, non quella totale delle colonie dei gesuiti o delle utopie, ma l’eguaglianza delle possibilità, che sembra un modo un po’ gobettiano, un po’ elitario di rimandare il tutto alle intelligenze e ai caratteri individuali che della diseguaglianza sono le cause perpetue. Più modestamente o forse da quell’incerto e tiepido uomo di sinistra che sono direi che la distinzione fra sinistra e destra oggi, nel trionfo del capitalismo mondialista, può essere questa: non perdere l’attenzione per i diritti e i bisogni degli uomini in carne e ossa, non cedere alle necessità superiori della tecnica e dello sviluppo, non accettare il trionfalismo e le retoriche delle rivoluzioni scientifiche e tecnologiche, non separare le decisioni, i progetti dai prevedibili effetti che avranno.

Questa proprio mi sembra la debolezza maggiore della democrazia liberista americana e della socialdemocrazia europea: questo accettare e rincorrere e incoraggiare le mutazioni nel modo di produrre e di distribuire senza chiedersi che effetti avranno sugli uomini, sulla loro vita. A volte la sinistra europea sembra compiacersi delle ragioni o non ragioni della destra, sembra scoprire con eccitazione le necessità superiori per cui essere di sinistra in simili frangenti è molto difficile, quasi impossibile. Una sinistra pronta a tutte le autocritiche che dà per scontato che il capitalismo sia un sicuro vincente, che non si accorge – come si accorgono i capitalisti – che esso sta diventando sempre più un «capitalismo difficile» che i suoi gestori non riescono più a controllare in una globalità dove uno sternuto in un paese dell’Estremo Oriente si ripercuote in tutti i continenti, dove gli avventurieri e i grandi speculatori possono combinare guai che fanno tremare le banche nazionali. Un capitalismo mondiale senza freni che, anche se può sembrare retorico, ci può condurre all’autodistruzione del pianeta. Che succederà, si chiedono gli esperti, quando la Cina sarà industrializzata e riverserà i suoi veleni, i suoi fumi nel Pacifico? Chi resisterà alla motorizzazione universale? Domande drammatiche per risposte evasive.

C’è molta pigrizia, molta arrendevolezza nella sinistra. Si direbbe che passi il tempo più a leccare le proprie ferite, a riconoscere le proprie sconfitte che a pensare alla riscossa. Che si può fare, si chiede, se il fordismo è morto e la fabbrica diffusa ha ucciso «il diamante del lavoro», la compattezza del proletariato di fabbrica? Che si può fare contro le segmentazioni specialistiche che dividono il mondo del lavoro, della ricerca, della scienza in settori non comunicanti fra di loro? E come condannare i ritorni agli sfruttamenti del passato che ora vanno sotto il nome di flessibilità se comunque essi danno lavoro?

È difficile oggi essere di sinistra, le eguaglianze e uniformità consumistiche possono ingannare. Non vestiamo, mangiamo, viaggiamo tutti quasi allo stesso modo? Non ci curiamo, divertiamo, congiungiamo in modi simili? L’uguaglianza possibile non è forse stata raggiunta? E invece la diseguaglianza continua e aumenta, appare come una legge fisica inderogabile che si diffonde come per vasi comunicanti, che scopre e impone nuove forme. La casta degli informatici, dei cittadini di Internet, di quelli che si distinguono facendo seguire al loro nome quelle formule di tipo algebrico che definiscono il sito, appartiene a un nuovo mondo apparentemente di libero accesso, oltre ogni separazione e frontiera: ma a fare un po’ di conti si tratta di una minoranza che possiede mezzi di comunicazione e di conoscenza formidabili all’interno di una maggioranza che ne resta priva.

In tale situazione una sinistra che abbia ancora il coraggio dell’utopia sembra perdente in partenza. Come proporre riforme radicali come quella di sopprimere l’eredità economica quando in tutti i paesi dove si è tentato il comunismo o ancora lo si costruisce si è tornati all’indietro agli antichi, fondamentali rapporti familiari? Il mondo attuale appare come un sovrapporsi per ora confuso e imprevedibile di innovazioni e di conservazioni, un vai e vieni in cui gli scopritori, gli innovatori procedono trionfanti mentre la risacca gli toglie la terra sotto i piedi, in cui uno Stalin seguace di Lenin deve nel corso della guerra tornare ai vecchi indiscutibili valori della religione patriottica, deve richiamare in servizio i pope dalle mitrie sfavillanti.

Chiedere oggi che cosa debba fare la sinistra sembra difficile se non impossibile. E forse ci sono solo risposte prudenti come: sopravvivere, resistere al regno di Behemot, il biblico simbolo del¬l’anarchia, del grande disordine sotto il cielo. La sinistra, specie quella europea che sembra essere andata a scuola dalla Thatcher, che accetta come modelli la flessibilità americana e il globalismo economico dovrebbe scegliere fra deregulation e regulation. E convincersi che la prima è la scelta connaturata alla destra irresponsabile, la quale non vuole ostacoli nella sua marcia alla massimizzazione dei profitti e alla cancellazione degli Stati sociali, e che la sua sopravvivenza oggi sta nel ritorno alle regole, nel ritorno a un minimo di ordine, di freno, di progetto nello scatenarsi degli «spiriti animali» del neocapitalismo che nel fallimento del comunismo vede l’autorizzazione a un’espansione continua, divorante, caotica.

Un capitalismo, un liberismo che sembrano aver perso l’idea del bene comune, delle mediazioni fra forti e deboli, fra vincenti e perdenti; ostili a ogni tipo di ordine come ad ostacoli alla loro espansione. Non a caso nemici di tutte le forme dell’ordine sociale come il fisco, la giustizia, la trasparenza, la netta divisione fra società legale e società malavitosa, la difesa dell’ambiente, la difesa della storia. Non a caso gli argomenti della deregulation più o meno camuffati battono sempre sull’avversione ai baluardi del¬l’ordine: le cose vanno male, ripete la destra, perché c’è troppa fiscalità, troppa invadente e arrogante giustizia, un’esagerata antieconomica difesa dell’ambiente, un conformismo storico che non tiene conto dell’altra parte, dell’altra voce. A guardarle nel concreto tutte queste richieste di deregulation sono rivendicazioni dei ricchi e dei potenti a fare quel che vogliono, quando vogliono, a continuare a farlo.

Nel fisco come nella giustizia chi ha denaro e buoni avvocati finisce sempre per vincere. Per rendersene conto basta la lettura dei quotidiani. Non passa giorno senza che una giustizia addomesticabile non cancelli le accuse e le condanne dei grandi corrotti e corruttori: riabilitati quelli che specularono indegnamente sulla sanità pubblica, sugli appalti, sui falsi in bilancio. E commenti spudorati: ha prevalso la giustizia, smentito il pool di Mani Pulite, sconfitto il partito delle manette. In questi anni la grande alleanza trasversale dei potenti, padrona di tutti o quasi i mezzi di informazione, ha lavorato di concerto, spingendo avanti ora l’uno ora l’altro dei suoi grandi calibri, pagando e premiando la diffamazione. Una sinistra debole e spesso pusilla ha pensato che l’unico modo per opporsi a questa offensiva fosse quello di secondarla, di concederle delle vie di sfogo, senza capire che la reazione conservatrice, da noi ma credo in tutto il mondo, non si accontenta mai delle mezze misure, che la sua vittoria non si traduce in mediazione ma in imposizione autoritaria. Non ha pensato che l’arrendevolezza sarebbe presto diventata un segnale del cambiar del vento, che in tutta Italia in tutti i palazzi di giustizia molti giudici avrebbero seguito il nuovo corso con una serie di sentenze «riparatrici».

In tutti i campi la deregulation conservatrice ha messo con le spalle al muro la sinistra che non ha il coraggio della chiarezza e dell’ordine. La rigenerazione dello Stato nelle province mafiose è stata elusa, insabbiata dietro gli exploit polizieschi, dietro gli arresti clamorosi e teatrali dei boss, cioè della parte minore e primitiva della mafia diffusa, della mafia che si estende a gran parte della borghesia parassitaria. Riina e Bagarella finivano nelle carceri di alta sicurezza e la borghesia mafiosa tornava nei palazzi del potere, trovava nuovi partiti nazionali pronti a coprirla, nuovi killer e diffamatori pronti a dare dell’assassino a Caselli. Bastano pochi soldi al vecchio potere per trovare gente per i bassi servizi, basta pagare la rivista di un comunista storico, assumerne i figli in una televisione, bastano le briciole rimaste sulla tavola padronale.

La deregulation è congenita alla destra, adesso che nelle grandi città del Nord si allargano le aree dismesse le amministrazioni scoprono che sono state inquinate, che occorreranno centinaia di miliardi per bonificarle e che i vecchi proprietari non hanno la minima intenzione di pagarli. Ecco perché l’ordine ecologico, l’ordine verde e oggettivamente di sinistra, si oppone oggettivamente alla dilapidazione di un bene pubblico come il territorio. La sinistra dovrebbe anche farsi custode dell’ordine storico, combattere il revisionismo truffaldino, la storia dei dubbi e del relativismo che viene spacciata per storia alta raffinata. Non come la storia dei vincitori tagliata a blocchi con la spada, ma come la storia dei cervelli fini che vedono le contraddizioni e le ambiguità. Con il fine neppur troppo nascosto di dimostrare che i potenti hanno sempre ragione anche se hanno scelto per loro tornaconto la parte sbagliata, anche se erano dalla parte delle camere a gas e delle pulizie etniche. Non occorre essere un filosofo per sapere che la complessità e la casualità del mondo sopraffanno spesso la ragione, ma che altro deve fare la sinistra se non difendere la ragione, se non cercare di riportare sempre un minimo di ordine morale e sociale?

(26 dicembre 2011)

da - http://temi.repubblica.it/micromega-online/giorgio-bocca-la-sinistra-delle-regole/