Titolo: Maria Teresa MELI Inserito da: Admin - Novembre 18, 2008, 02:54:02 pm L'intervista Al senatore sul caso VIGILANZA
Latorre: no a espulsione o altre sanzioni Ormai logori i rapporti con Di Pietro «Basta accuse meschine ai dalemiani. In questa vicenda c'è chi ha commesso errori » ROMA — Senatore Latorre, Villari è presidente della Vigilanza Rai con i voti del Pdl e sembra difficile cambiare questa realtà. «La decisione del centrodestra di votare un candidato dell' opposizione senza accordo costituisce uno strappo molto grave e rompe una consuetudine positiva, quella di condividere la scelta della presidenza della vigilanza, accettando la proposta dell'opposizione. Il comportamento del Pdl si è fatto sempre più pesante. Loro puntano a esasperare il clima: basti pensare, oltre a questa vicenda, alle ultime improvvide dichiarazioni di Brunetta. Sono segnali allarmanti». Ciò detto, non pare proprio che Villari voglia dimettersi. «Proprio perché è espressione della condivisione tra opposizione e maggioranza, il presidente della Vigilanza non può svolgere le sue funzioni pienamente, se non ha un ampio consenso e quindi ritengo che Villari si debba dimettere. Ma sono certo che lo farà e spero che ciò avvenga al più presto». Niente da rimproverare al centrosinistra? «Di fronte a un atteggiamento irresponsabile del centrodestra, con i suoi pregiudizi nei confronti di Orlando, e dopo oltre 40 votazioni, le opposizioni dovevano tenere un comportamento responsabile e non inseguire la destra in questa esibizione muscolare. Questo non è stato possibile perché altrimenti si sarebbe rotto il fronte dell'opposizione. Però adesso questo problema va affrontato, perché francamente è una cosa che lascia il segno il fatto che il segretario del Pd e il leader dell'Udc chiedano a Di Pietro una rosa di nomi e lui non solo non risponda, ma faccia replicare un esponente del suo partito, liquidando questa iniziativa ». Che vuol dire, senatore? «Questo è un episodio che segna in maniera seria i rapporti con l'Idv». Ma tutta l'opposizione sembra non aver giocato al meglio. «Già, a questo punto andrebbe svolta una riflessione rigorosa anche perché si fa un gran parlare di chi vuole mettere le mani sulla Rai trascurando il fatto che con la gestione di questa vicenda si è contribuito a mettersi sotto piedi la Tv di Stato. Per pure preoccupazioni di potere, per avere dei posti in vigilanza e nel Cda non si è affrontato il tema serio di come si dà un futuro a questa azienda». I veltroniani dicono che voi dalemiani avete aiutato Villari. Veltroni lo ha ha lasciato intendere anche nell'incontro con il neo presidente. «Spero che non sia vero. Se si vogliono far fuori D'Alema e i dalemiani lo si faccia a viso aperto senza ricorrere a queste meschinità. Non si può più tollerare che per nascondere eventuali responsabilità politiche ed errori in questa come in altre vicende si ricorra al tema del complotto dalemiano. Questa storia sta diventando grottesca e imbarazzante: ormai è chiaro che si usa questo argomento per distogliere l'attenzione dalle difficoltà reali». Sembra che vogliate espellere Villari. «Io penso che Villari si debba dimettere e che il Pdl abbia compiuto un grave strappo votandolo, però considero sbagliati metodi come quelli dell'espulsione e delle sanzioni che evocano dei precedenti e un'idea della vita democratica che dovrebbero essere ormai alle nostre spalle». Comunque il muro contro muro non è solo sulla Rai. «Un'esasperata conflittualità, alimentata dall'atteggiamento irresponsabile della destra e dall' ostinazione di alcune opposizioni, sta alimentando un clima che porterà a un ulteriore allontanamento tra politica e società. Dovremmo occuparci della grave situazione economica, incalzare la maggioranza a raccogliere il contributo del Pd su questo, invece di seguire una linea dipietrista...». Maria Teresa Meli 18 novembre 2008 da corriere.it Titolo: Maria Teresa MELI I cattolici e il Pd: il partito non c'è Inserito da: Admin - Aprile 04, 2010, 03:24:50 pm Democratici - Cresce il pressing esterno e interno su Bersani
I cattolici e il Pd: il partito non c'è E Di Pietro: fate pulizia e scegliamo un leader ROMA — Il Pd ha molti fronti aperti. Interni ed esterni. Gli alleati non sembrano disposti a fare molti sconti a Pier Luigi Bersani. Antonio Di Pietro gli chiede senza troppi giri di parole di «mettere mano al proprio partito e di fare pulizia interna». Dopodiché, è il ragionamento del leader dell’Italia dei Valori, «dobbiamo attrezzarci a trovare il leader di un nuovo Comitato di Liberazione Nazionale ». Il che significa che Di Pietro dà per scontato che questo personaggio non possa essere Bersani. Anche alla sua sinistra il segretario del Pd ha dei problemi. Nichi Vendola da un mesetto in qua non nasconde la sua intenzione di scendere in campo alle primarie per la scelta del candidato premier. È chiaro che il governatore della Puglia non pensa di diventare lui l’uomo che guiderà il centrosinistra alle prossime elezioni, ma è altrettanto chiaro che questo lavorìo al fianco sinistro disturba Bersani. Non abbiamo fatto il Pd per affidarlo a Vendola, è la riflessione ad alta voce del leader, che l’altro ieri mattina ha incontrato il presidente della Regione Puglia. Al termine del colloquio con Bersani Vendola, incontrando un amico del Pd, si è lasciato sfuggire questa battuta: «A Pier Luigi ho spiegato che è stato più facile battere la destra di quanto lo sia stato battere il "giovane" Max». Dove Max sta per Massimo D’Alema. La frecciatina dimostra come Vendola non abbia ancora metabolizzato la guerra che gli ha portato in casa il presidente del Copasir. E questo è un altro elemento che certamente non migliora lo stato dei rapporti tra la Sel, il movimento del governatore pugliese, e il Pd. Comunque, per non lasciare troppo campo libero a Vendola e neanche a Di Pietro, il quale ultimamente sta cavalcando alcune battaglie classiche della sinistra, Bersani ha deciso di riposizionare il suo partito per occupare quell’area. Ma uno spostamento a sinistra del Pd fa entrare ulteriormente in sofferenza i già sofferenti ex ppi. Ieri il responsabile Welfare Beppe Fioroni ha inviato una email a tutti gli aderenti a «Quarta fase», la componente cattolica di Area Democratica. Una missiva che analizza impietosamente gli errori del Pd: «Forse non ci votano o non ci votano più semplicemente perché non sanno, votando noi, cosa votano». Secondo Fioroni «Grillo non ci ha rubato voti: li abbiamo persi noi», perché il Pd è diventato «la quinta scelta» degli elettori scontenti di Berlusconi che gli hanno preferito, nell’ordine, l’astensionismo, la Lega, i grillini e Italia dei Valori. E a Bersani che aveva invitato il suo partito a «non guardarsi l’ombelico» perdendosi nelle diatribe interne, il responsabile Welfare replica con queste parole: «Ma il Pd non deve neanche continuare a coprirsi gli occhi ». Maria Teresa Meli 03 aprile 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it Titolo: Maria Teresa MELI - L'intervista a Bersani Inserito da: Admin - Aprile 09, 2010, 09:13:29 am L'intervista - Il leader dei Democratici: al Paese servono misure immediate contro la crisi
Bersani: un incontro con il premier? Solo per cose serie, no al chiacchiericcio ROMA - «Innanzitutto vorrei sgombrare il campo da una versione caricaturale di alcune mie parole: io, dopo le Regionali, non ho cantato vittoria. Ho ammesso la nostra delusione e non ho mai nascosto la mia preoccupazione, che deve riguardare tutti, perché queste elezioni hanno rivelato il distacco che c’è tra la società italiana e la politica». Prima di parlare di qualsiasi argomento Pier Luigi Bersani vuole fare questa puntualizzazione. Ci tiene: «Comunque — aggiunge — è stata fatta un’analisi non veritiera: se si ha la pazienza di guardarsi i numeri, prendendo come riferimento le Europee, ci si rende conto che il Pdl perde 4 punti, che la distanza tra centrodestra e centrosinistra si è dimezzata, che solo due partiti sono andati avanti, di poco, la Lega di più ma senza compensare il calo del Pdl». Che farà ora il Pd? «Il Pd può riprendere il suo cammino se ha come punto di riferimento l’Italia. Il che significa che si deve partire dai temi economici e sociali. E in particolare da due questioni: primo, dall’indebolirsi del tessuto connettivo di questa nostra nazione, dove ormai rischia di vigere il si salvi chi può; secondo, dalle pessime prospettive di lavoro delle future generazioni. Il Paese sta facendo tutto il necessario per affrontare questi problemi? No, non stiamo mettendo a fuoco come priorità i temi economici e sociali e non stiamo facendo un patto nazionale per l’emergenza crisi. Ma se noi scantoniamo questo problema per affrontare mille altre pur nobili questioni il distacco tra società e politica diventerà enorme». Le altre pur nobili questioni sarebbero le riforme istituzionali: perché non incontra Berlusconi? «Ho già detto che se si vuole parlare di misure immediate per alleggerire i colpi di questa crisi e discutere sul serio di un pacchetto di riforme in campo economico e sociale, io vado veramente a piedi ad Arcore. Io non ho difficoltà a vedere Berlusconi, è normale che il capo del governo e quello dell’opposizione si incontrino, ma per cose serie, non per un chiacchiericcio che alimenta la confusione già esistente ». A proposito di misure, il governo ha cancellato il suo operato e ha reintrodotto le tariffe minime. «E’ un segnale negativo per l’Italia perché vuol dire "ognuno pensi per sé" ed è un sintomo di chiusura verso le nuove generazioni». Ma lei quali interventi urgenti farebbe? «Un intervento urgente si può fare a partire da due cose: investimenti locali e green economy. E poi ci vogliono un po’ di soldi in tasca subito per i redditi bassi. E da domani un confronto su riforme strutturali che riguardino economia e politiche sociali. Dopodiché, nessuna obiezione se le commissioni parlamentari si confrontano su temi istituzionali. Ma anche su questo vorrei ristabilire la verità. In questo momento sulla materia esistono un progetto di legge Finocchiaro-Zanda consegnato al Senato e uno Bressa, identico, depositato alla Camera. Quindi una bozza del Pd esiste sul serio, fondata su un forte concetto di governo parlamentare, non c’è solo la bozza Calderoli che non è nemmeno giunta in Parlamento. Tra l’altro mi pare che nella destra si debbano chiarire prima le idee tra di loro perché se ne sentono di tutti i colori. Su due cose, però, ci par di capire che sono d’accordo: Senato federale e riduzione del numero dei parlamentari. Sono proposte contenute nei nostri progetti di legge. Perciò potremmo stralciare questi punti e approvare una legge in tempi rapidi». E il semipresidenzialismo? «A un Paese in cui gli elementi connettivi si sono lacerati, in questa bozza viene proposto un confuso percorso federale. E noi pensiamo che di fronte a tutto questo, il punto di equilibrio possa essere un presidente frutto di una contesa politica? Questa impostazione mette in gioco la Repubblica». L’elezione diretta del presidente c’è in Francia. «Il sistema prospettato da Calderoli non c’entra niente con la Francia. Per carità, sostenere il semipresidenzialismo è legittimo, ma in Francia non c’è il federalismo immaginato dalla Lega. E a proposito dell’elezione diretta del capo dello Stato, vorrei dire a chi avesse interesse a farsi vestiti su misura che noi non siamo una sartoria. Se Berlusconi la pensa così si cerchi una sartoria da un’altra parte». Fini dice: rafforzare il Parlamento, cambiare legge elettorale. «Chi si pone in modo sensato il tema del presidenzialismo in un sistema di tipo federale deve per forza fare un elenco tale di pesi e contrappesi di cui non si fa cenno nella bozza, e non basta certo una legge elettorale. Penso che i più consapevoli di loro abbiano il tema ben presente perché in realtà non si parlerebbe di Francia ma di Usa». Berlusconi, però, non sembra voler cambiare la legge. «E io non voglio fare un anno di chiacchiere. Mi si dica subito se si ritiene o no che si debba cambiare la legge. Poi ci possono essere varie soluzioni per me abbordabili: i meccanismi elettorali non sono un totem». E allora perché non parla di legge elettorale con Berlusconi? «Con quale credibilità viene a dire "parliamo con l’opposizione", dopo 30 voti di fiducia e 50 decreti che hanno svilito il Parlamento?». La Lega, comunque, si è intestata la mediazione con voi. «La Lega è un partito del 12 per cento, che ha avuto un aumento e che è riuscita a prendere la presidenza di due fondamentali regioni. La Lega è alla prova di una nuova responsabilità. Noi parliamo di riforme con la maggioranza e non abbiamo problemi a parlare con chi verrà incaricato di farlo. Mi pare che in casa loro ci sia qualche perplessità ad affidare a chi ha insultato il tricolore il ruolo di portabandiera. Noi siamo sempre stati autonomisti e federalisti, ma vogliamo essere il partito della nuova unità della nazione. Noi perciò diciamo alla Lega che tutti gli italiani devono avere parità nei diritti essenziali di cittadinanza e temiamo invece che i meccanismi ipotizzati da Calderoli deroghino da questi principi. Insomma, è sicuramente apprezzabile che la Lega voglia discutere con l’opposizione ma devono convincersi che federalismo significa costruire l’unità della nazione». Perché non appoggiate il referendum sul legittimo impedimento? «La strategia del referendum non è la nostra strategia in queste condizioni: si è visto che non porta risultati, perché ormai non si raggiunge più il quorum, e così si rischia l’effetto boomerang. Perciò presenteremo una nuova legge sull’istituto referendario. Ciò detto, ribadisco la nostra ferma contrarietà al legittimo impedimento ». Maria Teresa Meli 09 aprile 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it Titolo: MARIA TERESA MELI - La Fiat e Pomigliano, ... Inserito da: Admin - Giugno 17, 2010, 06:28:01 pm «Mettere nell'angolo la Cgil non ha nessun senso strategico per il Paese»
La Fiat e Pomigliano, parla Veltroni: «Un accordo duro, ma inevitabile» «Non ci sono ricatti, sull'assenteismo bisogna dire la verità, come i 1.600 permessi per le elezioni 2008» ROMA — Onorevole Veltroni, un giudizio su Pomigliano. «Questo accordo mi sembra inevitabile: è molto duro, però non avviene sotto un ricatto, bensì a causa di una condizione obiettiva che è figlia della nostra globalizzazione diseguale. Come sempre, bisogna mettere sul piatto della bilancia le due alternative: o si rinuncia come Paese a 700 milioni di investimenti e a 15 mila posti di lavoro nel Mezzogiorno, oppure ci si confronta con una sfida, sicuramente difficile dal punto di vista delle relazioni sindacali, e si cerca di trovare il punto più alto di equilibrio tra le esigenze dell' azienda e i diritti dei lavoratori, il primo dei quali è diritto di sciopero. A questo proposito voglio ricordare che la Fiat qualche anno fa sembrava sull'orlo del collasso, ora è un azienda che ha comprato Chrysler, è un azienda in sviluppo che ha investito in Italia molti milioni di euro, è uno dei pochi pezzi d'Italia che invece di essere acquistata, acquista e vuole passare, in cinque anni, da 700.000 a 1.600.000 auto prodotte nel nostro Paese. Dunque, non cimentarsi con questa sfida sarebbe molto rischioso: così come io rifiuto l'idea di Sacconi e di altri di trasformare questo accordo in un modello, pavento anche il rischio che diventi un modello il contrario, cioè l'idea di rifiutarsi pregiudizialmente di affrontare una nuova idea delle relazioni sindacali» C'è dibattito su questo accordo. «Già, e provo un po' di fastidio per tutti quelli, politici o opinionisti, che gestiscono liberamente il loro tempo di lavoro, che hanno redditi elevati e garantiti, che in questa materia pontificano con il ditino alzato. Fastidio, perché si parla di operai che stanno in catena di montaggio, che si vedono ridotto di dieci minuti il tempo di pausa, di persone di cui viene misurato lo spostamento del bacino per valutare la produttività. E' un accordo molto pesante che il sindacato credo avrebbe dovuto affrontare concentrandosi sulle due questioni più delicate: il diritto di sciopero e anche le misure di contrasto dell'assenteismo sul quale, però, è anche bene che si dicano delle verità. Quella è un'azienda in cui il giorno delle elezioni del 2008 su 4.600 lavoratori, 1.600 si misero in permesso perché dovevano stare ai seggi». Un giudizio su Cgil, Cisl e Uil. «Se fossi stato il sindacato avrei affrontato la questione come ho detto. Perché il sindacato è più debole se, senza sedersi a discutere, prima e insieme, già si pronunciano, di fronte a provvedimenti del Governo, dei no e dei sì, si annunciano firme o si convocano scioperi. Considero questo molto pericoloso per il Paese. Quando ero segretario del Pd chiedevo ai sindacati di fare un passo avanti in direzione dell'unità sindacale. Io penso che il giorno in cui dovessimo accettare che il sindacato italiano è spaccato come una mela, quello sarebbe un brutto giorno per il Paese e lo sarebbe sicuramente per il centrosinistra. Io penso che Cgil, Cisl e Uil non debbano perdere la voglia di cercare delle soluzioni insieme e di fare pesare la loro forza per ottenere risultati. Se le tre organizzazioni sindacali fossero andate alla Fiat e avessero posto delle esigenze negoziali ragionevoli credo si sarebbe potuto avere un accordo di livello superiore». Ma la Cgil non rischia l'isolamento? «La Cgil non è la quintessenza del conservatorismo: io ricordo il coraggio riformista di chi ha guidato questo sindacato - da Lama a Trentin a Cofferati e a Epifani - nella storia del risanamento finanziario di questo Paese: mettere nell'angolo la Cgil non ha nessun senso strategico per il Paese, naturalmente poi la Cgil deve stare dentro una sfida di innovazione. Però vorrei dire un'altra cosa. Oggi noi parliamo degli operai di Pomigliano, ma la vera questione sociale di cui nessuno si occupa e che per me è la più drammatica è quella dei figli degli operai di Pomigliano e di tutti i giovani italiani. Cresce una condizione angosciosa di precarizzazione della vita degli esseri umani. Crescono generazioni di ragazzi che non hanno alcuna certezza e alcuna fiducia nel futuro, che vivono di contratti temporanei e miseri, che non mettono al mondo figli, se non in età matura, che non hanno nessuna garanzia per le loro prospettive pensionistiche: questo per me è il problema sociale più spaventoso del nostro Paese. Un ragazzo su tre è in cerca di lavoro: è un dramma non misurabile. La politica invece di discutere ogni giorno delle sciocchezze di Radio Padania contro la nazionale o delle dichiarazioni di uno sciagurato deputato della Lega che auspica il suicidio dei detenuti, dovrebbe parlare di questo perché c'è un'intera generazione che ha paura del futuro. E di questo dovrebbe occuparsi ogni minuto un presidente del Consiglio che invece da venti anni tiene paralizzato il Paese con le sue fobie: i magistrati e la libera stampa». Pessimista, onorevole Veltroni. «Al contrario, il nostro è un Paese che ha una profonda malattia che si chiama assenza di innovazione. So che la parola innovazione sembra contraria allo spirito del tempo, ma tutto quello che noi stiamo vivendo è figlio dell'assenza di innovazione. Il tema di Pomigliano chiama in causa due grandi questioni: la legge sulla rappresentanza sindacale e la riforma del Welfare State, per garantire i nuovi poveri. Su questo l'opposizione deve sfidare il governo che non ha fatto nulla di innovativo, ha sottovalutato la crisi e non ha capito che proprio nei momenti di maggiore difficoltà bisogna fare le riforme più coraggiose». Già, ma il Pd parla a più voci. «Si ragiona come se ci fosse la politica di un tempo, pensiamo che essendo i partiti ancora figli di sistemi ideologici compiuti ci possano essere risposte univoche, ma non è più così, né per l'opposizione, né per la maggioranza. L'unità monolitica non ci sarà mai più. È bene che ci siano tante opinioni, questo non mi spaventa, mi spaventa quando si rinuncia a discutere e soprattutto non si passa poi a delle decisioni impegnative per tutti». Una possibile ricetta per l'Italia. «Io credo sia il tempo di un grande patto tra i produttori. Un patto non per fronteggiare un'emergenza ma per un cambiamento radicale. Non si può avere una pressione fiscale che cresce e un'evasione fuori controllo che ha superato largamente i 100 miliardi. Bisogna ridisegnare il Welfare ricostruendo un sistema di sicurezza sociale. Bisogna ridurre la spesa pubblica, che invece cresce, e fare delle infrastrutture materiali e conoscitive e della rivoluzione ambientale i motori di una nuova stagione di crescita italiana. In campagna elettorale dissi proprio sul Corriere che gli imprenditori erano dei lavoratori e si scatenò il putiferio, ma lo ribadisco. Un imprenditore che magari è un ex operaio che ha messo su una piccola impresa e che sbatte la testa tra una giustizia che ci mette anni a decidere, un sistema infrastrutturale inadeguato e una pressione fiscale esagerata non può essere considerato, e non è considerato, dai suoi lavoratori un nemico o un avversario: il destino dell'uno è legato al destino degli altri e viceversa. Se il centrosinistra vuole cambiare radicalmente il Paese deve proporre questo patto». Ma Berlusconi va per la sua strada. «E nessuno dice niente se da 4 mesi il proprietario di Mediaset è il ministro delle Comunicazioni. In quale altro Paese del mondo succederebbe una cosa del genere? In Italia si è persa la capacità di indignazione. Ogni giorno si scende un gradino. Non è che la barbarie arriva all'improvviso,ma avviene per slittamenti progressivi. Perciò il centrosinistra deve fare una battaglia a viso aperto, senza nessuna concessione alla cultura del Pdl che infrange le regole, né all'egoismo sociale e identitario della Lega. Un centrosinistra che facesse questo, che avesse questo coraggio, tornerebbe a parlare al Paese». Maria Teresa Meli 17 giugno 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA http://www.corriere.it/politica/10_giugno_17/Veltroni-un-accordo-duro-ma-inevitabile_077220b4-79e3-11df-b10c-00144f02aabe.shtml Titolo: Maria Teresa MELI D’Alema: patto per la crescita, come negli anni ’90 Inserito da: Admin - Luglio 15, 2010, 12:33:35 pm «No a scorciatoie, come può pensare parte dell’opposizione»
«Dalla crisi non si esce con la via giudiziaria: ora governo di transizione» D’Alema: patto per la crescita, come negli anni ’90 ROMA — «In questo momento le prospettive appaiono incerte mentre la crisi appare certa». Esordisce così Massimo D’Alema. E la sua non è una battuta: «Io penso che qualsiasi considerazione sulle prospettive politiche dovrebbe prendere le mosse da una preoccupazione vivissima dello stato del Paese. E non mi pare che Berlusconi ne sia consapevole, visto che continua a lanciare futili messaggi di ottimismo». Che fa l’opposizione? Gufa? «Il problema qui non è dividerci tra chi è ottimista e chi è pessimista. Tutti quanti abbiamo speranza nella capacità di questo Paese di riprendersi, ma il problema vero è che noi siamo di fronte a una grande crisi che non è solo economica. C’è anche una crisi morale, di credibilità dello Stato, di fronte alla quale non c’è nessuna risposta, perché c’è un vuoto di leadership politica impressionante. Berlusconi prova a trovare una via d’uscita cercando di costruire un equilibrio politico che lo tuteli di più, e perciò si lancia nel tentativo abbastanza maldestro di riassorbire nella maggioranza Casini. Ma la questione vera non è come puntellare l’attuale equilibrio, è come uscirne». E come se ne esce secondo lei, onorevole D’Alema? «Bisogna prendere atto che la lunga fase della parabola berlusconiana è finita. Nell’ultimo decennio lui è stato il principale arbitro della vita pubblica e ha governato per circa otto anni. Il risultato complessivo di questa esperienza è estremamente negativo. Non credo che l’anno prossimo Berlusconi possa andare all’assemblea della Confindustria e dire che vuole ridurre le tasse, semplificare la pubblica amministrazione, modernizzare il Paese ed essere di nuovo applaudito. Infatti è successo il contrario. La pressione fiscale è aumentata. L’inefficienza e la corruzione della pubblica amministrazione sono cresciute con fenomeni patologici che ricordano per dimensione e gravità la situazione dell’Italia all’inizio degli anni Novanta. Il Pil del 2009 è fermo: è uguale al Pil del 2000, mentre la spesa pubblica è cresciuta di 6 punti. Insomma, un disastro, è difficile usare una espressione diversa». Lei dipinge un quadro a tinte assai fosche... «Siamo di fronte a un bilancio fallimentare, il che pone il Paese in una condizione d’emergenza. E una classe dirigente degna di questo nome dovrebbe dire: fermiamoci un momentino, altrimenti l’Italia va a rotoli, e cerchiamo dei rimedi. Naturalmente questo è un discorso che si rivolge a tutte le forze politiche. Nel senso che, secondo me, non ci sono scorciatoie: non si esce da una crisi di questo tipo attraverso una soluzione giudiziaria, come può immaginare una certa parte dell’opposizione, o attraverso una campagna moralista e giustizialista. Io voglio che si faccia giustizia e penso che le persone che sono gravemente indiziate o sotto processo si debbano dimettere. A questo proposito ritengo un fatto positivo che si siano ottenute le dimissioni di Cosentino, dopo le dimissioni di Brancher e dopo quelle di Scajola. Ma proprio questa sfilata di dimissioni dimostra che siamo di fronte a un problema più profondo. La portata della crisi richiede un salto di qualità politico ed escludo che possa farlo Berlusconi, perché non credo che abbia la capacità del barone di Münchausen che si sollevava da solo. Penso che questa riflessione la si stia facendo anche all’interno del Pdl». Onorevole D’Alema, lei sembra ipotizzare una crisi di governo neanche troppo lontana nel tempo. A quel punto le soluzioni potrebbero essere diverse. Elezioni anticipate o un governo che guidi la transizione. «La prospettiva delle elezioni obiettivamente c’è. Ma io sono d’accordo con la lettera che vi ha mandato Macaluso: ritengo che tornare a votare con l’attuale legge elettorale, per una sorta di referendum su Berlusconi sì, Berlusconi no, non sarebbe utile. C’è bisogno di un momento di responsabilità in cui si affrontino i problemi del Paese con coraggio. Abbiamo bisogno di un nuovo patto sociale. Come negli anni Novanta ci fu un patto per il risanamento, oggi abbiamo bisogno di un patto per la crescita. Tutto ciò l’attuale governo non è in grado di farlo, al di là di ogni valutazione, perché non ha credibilità». Il leader dell’Udc Pier Ferdinando Casini in un’intervista al «Corriere della Sera» ha proposto una soluzione diversa da quella delle elezioni anticipate: lui pensa piuttosto all’opportunità di dare vita a un governo delle larghe intese. «Se si tratta di un’operazione di ceto politico intorno a Berlusconi non serve assolutamente a nulla. Ha un senso, viceversa, se è un appello alla responsabilità per aprire una fase nuova attraverso un governo di transizione, di larghe intese, o come vogliamo chiamarlo. Ovviamente, in una democrazia bipolare questa non può che essere una soluzione temporanea, legata a obiettivi precisi, ivi compresa la riforma della legge elettorale, che produce un bipolarismo fondato su una personalizzazione distorta della politica. E come la realizzazione di un compromesso ragionevole tra nord e sud in materia di federalismo, per evitare che questo diventi il tema di uno scontro lacerante per il Paese. Si tratta di un discorso che ha una logica e credo proprio che il maggior partito di opposizione sarebbe pronto a riconoscere la logica di un ragionamento di questo tipo». Per la verità Pier Ferdinando Casini dice anche che il Pd è pronto a fare un governo guidato da Giulio Tremonti. «Mi sembra una interpretazione un po’ sbrigativa e credo che tutte queste chiacchiere sui nomi servano solo ad ostacolare i processi politici ». Ma non crede di esagerare le difficoltà del momento? Quella di questi giorni potrebbe anche essere una crisi passeggera e Berlusconi potrebbe continuare a governare fino alla fine della legislatura. «È evidente anche agli esponenti della maggioranza che l’attuale equilibrio non regge più, gli elementi di scollamento sono troppi ». Ma chi potrebbe mai essere la personalità che riesce a mettere insieme forze politiche tanto diverse? «Questa è una decisione che spetta, come lei sa, al presidente della Repubblica». E perché mai il Pdl dovrebbe scaricare Silvio Berlusconi per metter su un governo di transizione con le forze dell’opposizione? «È chiaro che se questo discorso non troverà un ascolto nell’ambito della maggioranza è probabile che si arriverà alle elezioni anticipate, perché ormai la situazione non è più sostenibile. Però se dentro il Pdl ci sono persone preoccupate del destino del Paese e non soltanto cortigiani — e io non credo che ci siano esclusivamente cortigiani perché comunque è una grande forza politica che ha avuto il voto di tanti milioni di italiani — questa prospettiva è attuabile. Insomma, il Pdl deve dimostrare se è un partito o una sorta di sultanato. I partiti nelle democrazie moderne hanno la capacità di guardare agli interessi del Paese anche al di là del destino delle leadership, che possono anche cambiare. Per loro questa è una prova importante». Maria Teresa Meli 15 luglio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA http://www.corriere.it/politica/10_luglio_15/meli_intervista-dalema_03bd51d4-8fd5-11df-b54a-00144f02aabe.shtml Titolo: Maria Teresa MELI. - Ferrara: Silvio sbaglia, pagherà un prezzo Inserito da: Admin - Luglio 30, 2010, 10:26:50 am Il direttore del Foglio: gli ho detto di non rompere. La sua anomalia produce instabilità
Ferrara: Silvio sbaglia, pagherà un prezzo «Ora si dividono ma poi dovranno rimettersi insieme o si suicidano entrambi. Ci voleva un divorzio razionale» ROMA - L'altro ieri sera Giuliano Ferrara ci ha provato ancora a convincere Berlusconi alla tregua, ma non era aria. Anche la supercolomba Gianni Letta, raccontano, si era arreso. Ferrara, come giudica la decisione di Berlusconi? «È un errore. Berlusconi pagherà un prezzo notevole perché è brutta l'immagine di un leader politico che caccia una persona che dice di pensarla in modo diverso da lui e di voler continuare lealmente a collaborare dentro lo stesso partito. Per Berlusconi sarà sempre più difficile porsi come lo stabilizzatore e il riformatore politico di questo Paese e come "rassembleur": questa è una scelta che lo condanna di nuovo a un'immagine di forte faziosità e di populismo spinto». Veramente Ferrara non capisce perché lo abbia fatto? «Io gli ho sempre consigliato di non rompere perché pagherà un prezzo troppo alto. Detto ciò, ammetto che c'è qualcosa di intellettualistico e di astratto in questo mio giudizio perché in realtà la questione che ha posto Fini è una questione esistenziale per la leadership berlusconiana». Ossia? «All'inizio Fini gli aveva detto: tu ti sei preso il corpo di An, hai fatto questo partito unico, io sono presidente della Camera, metto su un pensatoio e cerco di costruire il mio futuro dopo di te, tra molto tempo, delineando una destra diversa da quella anomala che rappresenti tu, ma lo faccio con gli intellettuali. Poi però, siccome Berlusconi ha respinto con asprezza anche questo, Fini ha cominciato a organizzare un'altra cosa: un conto lavorare con Filippo Rossi e Alessandro Campi, un conto è mettere in piazza Briguglio, Granata e Bocchino e teorizzare la necessità di una corrente organizzata fino alla sfida aperta. Con questo Fini ha contestato l'essenza di Berlusconi, perché lui non usò a caso l'espressione "discesa in campo", che è diversa da "entrare in politica". La sua è una partita personale con questa triangolazione: io, il popolo italiano e un sistema istituzionale da cambiare. Fini gli ha detto "questa identità non va più bene, si fa politica in un partito politico" e questo vuol dire che Berlusconi non è più il profeta ma il segretario generale. Gli ha prospettato una cosa che lui vede come il diavolo: un partito politico tradizionale secondo un modello che spegne quel fuoco nella pancia che in Berlusconi deriva dall'idolatria di se stesso. E così, effettivamente, ha ottenuto dei risultati in questi quindici anni: ha riformato nella prassi il sistema politico italiano». Rottura definitiva, secondo lei? «Rompono, ma poi dovranno rimettersi insieme e fare insieme le elezioni sennò sarebbe un suicidio per entrambi. E allora perché non fare una separazione consensuale, un divorzio razionale? E invece no, Berlusconi ha scelto la lite». Berlusconi sostiene che Fini dovrebbe anche lasciare la presidenza della Camera. «È una questione molto spinosa, quella della presidenza della Camera. Non si può dire che non abbia fondamento l'osservazione di Berlusconi, c'è una maggioranza che ha eletto Fini, e adesso questa maggioranza sostanzialmente lo sfiducia, però la prassi costituzionale non lo prevede, peraltro non prevede tante altre cose che dice Berlusconi. I presidenti del Parlamento sono cariche dello Stato e non incarichi politici, quindi si produrrà un altro conflitto tra la visione sbrigativa di Berlusconi e quella un po' parruccona di Fini. Comunque il problema vero è un altro: io non vedo lo sbocco di tutta questa vicenda». Non lo vede nessuno... «Capirei di più se Berlusconi dicesse "non mi fanno governare perché adesso mi tolgono il legittimo impedimento con la Corte costituzionale, vogliono assolutamente stroncarmi con le iniziative della magistratura, il Pd sta riprendendo le vecchie trame ribaltonistiche e se ne frega del risultato delle elezioni, io perciò ho bisogno di un nuovo involucro politico e quindi rompo con Fini per fare le elezioni e per riformare la Costituzione". E poi c'è la domanda delle domande che però va fatta se si è onesti». Se la faccia e si dia una risposta. «L'anomalia Berlusconi ha prodotto delle cose importanti, ma ha ancora delle cose da dire al Paese? Berlusconi... e ora cito grandi personalità della storia, ma non vorrei che questo fosse troppo eccitante per lui, non è Metternich, che disegna una mappa e crea un sistema di equilibrio. Però, vorrei dirgli, è dura essere Napoleone, che poi si sa come è finito: a Sant'Elena. Non puoi fare una crisi dietro l'altra, alla fine di questa parabola berlusconiana ci doveva essere il lieto fine stabilizzatore. Se lui riuscisse in questa legislatura, ma mi sembra un po' tardi, a portare a compimento un processo di maturazione del suo rapporto con le istituzioni, se facesse un po' pace anche con i vecchi meccanismi pure impolverati... Sulle intercettazioni per esempio poteva trovare una maggioranza presentando il ddl Mastella, ma niente. Lui rimette sempre tutto in discussione: è un gioco molto rischioso che mette in luce che l'anomalia berlusconiana oggi produce più che altro instabilità». Nel frattempo Berlusconi è impegnato anche su un altro fronte, quello della giustizia. «Io sono furioso per questa degenerazione da Stato di polizia della giustizia italiana. Mi sono così arrabbiato sulla storia P3. Dico, dimostratemi che c'è la corruzione, ma non c'è, non c'è nessuna prova, allora tirano fuori l'associazione segreta. Abbiamo già fatto l'esperienza nel '94: la cospirazione contro lo Stato della P2 si è sgonfiata come una bolla di sapone, tutti assolti, e si trattava di una loggia massonica con gente molto diversa da Pasquale Lombardi. Ecco, anche se dovessi stabilire che tutto quello che fa Berlusconi è errato politicamente, il solo fatto che sia l'ultimo baluardo contro una logica di quel tipo, contro lo Stato di polizia, me lo fa scegliere come uomo politico da sostenere». Maria Teresa Meli 30 luglio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA http://www.corriere.it/politica/10_luglio_30/melli-ferrara-silvio-sbaglia_bda7e95e-9ba3-11df-8a43-00144f02aabe.shtml Titolo: Maria Teresa MELI La tentazione dei veltroniani: gruppi parlamentari autonomi Inserito da: Admin - Settembre 13, 2010, 04:13:39 pm IL CASO
La tentazione dei veltroniani: gruppi parlamentari autonomi L'ex leader Pd ha riunito i fedelissimi l'8 settembre e citato l'esempio di Fini ROMA — Lui, Walter Veltroni, non c'era. E mancavano anche molti parlamentari che fanno riferimento all'ex leader del Pd. Non erano assenze casuali quelle alla festa di Torino, nel giorno del discorso di Pier Luigi Bersani. I veltroniani si sentono sempre più lontani da questo Partito democratico in cui fanno fatica a riconoscersi. Se lo sono detti, una volta tanto senza infingimenti, né furbizie politiche, l'otto settembre, in una riunione dei parlamentari convocata dall'ex segretario nella sede della sua fondazione, Democratica. E per la prima volta in quella sede si è parlato dell’ipotesi di dare vita a dei gruppi parlamentari autonomi. Un’operazione simile a quella fatta da Gianfranco Fini. E infatti Veltroni ha citato proprio l’esempio del presidente della Camera e di «Futuro e libertà». Del resto, con il riavvicinamento del capogruppo a Montecitorio Dario Franceschini e di Piero Fassino alla maggioranza, la battaglia interna rischia di diventare un’aspirazione vana. Sono pochi quelli che hanno un seggio o un incarico da difendere che accettano di stare in minoranza e non si acconciano a dei compromessi con i bersaniani. Sia chiaro, ancora non c’è niente di definito. Si aspetta la direzione convocata per la seconda metà di settembre e si cerca di capire se il Pd cambierà rotta o se, invece, proseguirà lungo il solco tracciato da Bersani e D'Alema. Ma che non si tratti solo di chiacchiere lo dimostra il fatto che sono stati già presi in esame i possibili nomi dei nuovi gruppi parlamentari. All'ex segretario non dispiace «Innovazione e Riformismo». Nel corso di quell'incontro, però, più d'uno ha sollevato qualche obiezione su questo nome. La parola «riformismo», è stato osservato, non ha molto appeal in Italia ed è un concetto non prontamente comprensibile in un Paese come il nostro. Meglio «Democratici per la libertà» che esprime un messaggio molto chiaro: siamo noi il vero Pd. I numeri per fare un gruppo alla Camera e un'analoga pattuglia parlamentare al Senato ci sono. Quindi non è questo il problema. Lo è invece la durata della legislatura perché una precipitazione degli eventi renderebbe difficile l'intera operazione. Ma in quella riunione si è parlato anche d'altro. Delle primarie per la scelta del candidato premier del centrosinistra, per esempio. Il voto per Bersani è escluso, mentre è stato preso in considerazione un eventuale ticket Chiamparino-Vendola, come possibile tandem per affrontare il centrodestra nelle prossime elezioni. Certo, è chiaro a tutti, e per primo allo stesso ex segretario, che la decisione di creare dei gruppi autonomi avrebbe dei contraccolpi inevitabili nel partito. Il nome di Veltroni è legato indissolubilmente al Pd. Lui ne è stato il primo segretario, lui ne parlava anni e anni fa, quando quel progetto veniva visto come un azzardo irrealizzabile dai suoi colleghi dei Ds. La mossa di Fini è niente in confronto, piuttosto sarebbe come se dal Pdl prendesse le distanze Silvio Berlusconi. Dei contenuti di quella riunione è trapelato poco o niente. All’esterno del partito, almeno, perché dentro il Pd qualche eco di quell’incontro ha raggiunto anche gli esponenti della maggioranza dalemian-bersaniana. E ora diventano più comprensibili le parole che diceva l’altro giorno a un ignaro senatore il vice capogruppo a palazzo Madama, Nicola Latorre: «Vedrai che adesso Veltroni cercherà di fare come Fini, la sua strada è sempre più lontana dalla nostra». Maria Teresa Meli http://www.corriere.it/politica/10_settembre_13/tentazione-veltroniani-gruppi-parlamentari-maria-teresa-meli_2fae2742-bf18-11df-8975-00144f02aabe.shtml Titolo: Maria Teresa Meli. Il Pd e la «santa alleanza» «Con Udc e Fli vinciamo» Inserito da: Admin - Febbraio 04, 2011, 06:11:19 pm L'OPPOSIZIONE Il Pd e la «santa alleanza» «Con Udc e Fli vinciamo» Nel progetto c’è Vendola ma non Di Pietro. D’accordo Veltroni ROMA — E ora che Silvio Berlusconi per l’ennesima volta ce l’ha fatta, il Partito democratico si interroga sulla propria strategia. Che fare? Andare avanti così o cambiare linea? «Innanzitutto — osserva Beppe Fioroni — dovremmo smetterla di caricare di grandi significati politici i voti che vengono dati alla Camera, visto che il premier ha la maggioranza e che di fronte a tutte queste sconfitte parlamentari i nostri elettori si scoraggiano. Poi dovremmo smetterla di seguire pedissequamente il soviet supremo delle Procure» . Questo per l’oggi. Ma c’è il domani e la non ancora sopita speranza del Pd che si vada alle elezioni anticipate. Temute e demonizzate fino a un mesetto fa, ora le consultazioni sono diventate per i dirigenti del Partito democratico un oggetto del desiderio. Il cambio di passo nasce dai quasi quotidiani contatti con il terzo polo. Negli ultimi tempi Massimo D’Alema e Pier Luigi Bersani si sono andati convincendo che la santa alleanza anti-Berlusconi non è più una chimera, né è soltanto lo spauracchio con cui fare pressioni sul presidente del Consiglio. Pier Ferdinando Casini questa volta ha lasciato aperta la porta e non ha detto di no all’ipotesi di andare assieme al Pd alle elezioni. È una strada percorribile, ha spiegato ai colleghi dell’Udc e agli ambasciatori del Partito democratico. Raccontano che la svolta del leader centrista sia nata dopo che, con l’esplodere del caso Ruby, la Conferenza episcopale ha cambiato atteggiamento su Berlusconi. Ora il primo obiettivo di Casini è quello di fare fuori— politicamente, s’intende— il Cavaliere. E se per questo bisogna imbarcarsi in un’avventura con il centrosinistra, il numero uno dell’Udc è disposto a farlo. «Vi avevo detto che piano piano Casini si sarebbe convinto» , è il ritornello che in questi giorni un Massimo D’Alema soddisfatto ripete nelle sue conversazioni con deputati e senatori del Pd. E Gianfranco Fini? Potrebbe mai l’ex leader di Alleanza nazionale finire in uno schieramento di questo tipo? Al Partito democratico sono convinti di sì: il presidente della Camera non si staccherà da Casini, farà quello che fa lui. Dunque la sortita di D’Alema, che ha rilanciato l’intesa con il terzo polo in un’intervista a Repubblica la settimana scorsa, non era un’uscita estemporanea. Era il frutto dei contatti che si sono intensificati in questi ultimi tempi. Da questa alleanza resterebbe fuori il solo Di Pietro: «C’è il rischio che prenda più voti, ma non è un problema» , ha spiegato il presidente del Copasir. Non è un problema perché nei due sondaggi commissionati di recente dal Partito democratico uno schieramento che va da Fini a Vendola, passando per Bersani e Casini, avrebbe ottime probabilità di successo sulla coalizione formata da Pdl e Lega. Insomma, al Pd sono assolutamente sicuri che con la santa alleanza la vittoria sarebbe scontata. Tant’è vero che anche gli esponenti della minoranza interna, i cosiddetti Modem di Walter Veltroni, Paolo Gentiloni e Beppe Fioroni hanno deciso di non mettere i bastoni tra le ruote alla maggioranza. Pure loro sono pronti a giocare la partita politica secondo questo schema. «Del resto — spiegava l’altro giorno Gentiloni a un compagno di corrente— se andassimo alle elezioni con questa formazione Berlusconi perderebbe di sicuro. Ed è per questo motivo che lui non vuole assolutamente il voto anticipato. E per la stessa ragione non lo vuole più nemmeno la Lega» . Maria Teresa Meli 04 febbraio 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA http://www.corriere.it/politica/11_febbraio_04/pd-santa_alleanza-bersani-casini_bbe4796e-3029-11e0-b267-00144f02aabc.shtml Titolo: Maria Teresa MELI. Veltroni «chiama» Renzi. E lui stronca il partito Inserito da: Admin - Marzo 10, 2011, 06:23:32 pm L'incontro
Veltroni «chiama» Renzi. E lui stronca il partito «Le firme? Non servono a nulla. Mi auguro che Berlusconi possa dimostrare la sua innocenza». Asse per le primarie ROMA - Sono tutti là. Walter Veltroni, il leader del Pd originale, quello prima versione, che fa gli onori di casa ai due ospiti. Sergio Chiamparino, che poteva essere leader ma che poi ha preferito finire il suo mandato di sindaco di Torino. E Matteo Renzi, il leader che verrà. Sono tutti insieme al teatro dei Servi a Roma, per un convegno di Democratica, la fondazione di Veltroni. Parlano linguaggi differenti tra di loro, ma un filo li unisce, e anni luce li allontanano da Bersani e dal «suo» Pd. Renzi più di ogni altro in quella sala rappresenta la rottura con certe liturgie della politica del centrosinistra. Arriva senza essersi nemmeno tolto dal viso il cerone che ha messo per partecipare a Matrix. Nessun altro lì lo avrebbe fatto, per timore di un possibile accostamento a Berlusconi. Lui sì. Anche perché di questa «ossessione del Pd» per il premier è bello che stufo. Per questo non esita a dire quello che gli altri due si limitano a pensare: «La raccolta di firme non serve a nulla». Il suo linguaggio è diverso e diretto: «Spesso raccontiamo un'Italia triste e i nostri in tv sono tristi e polemici. Però è a Roma e in Parlamento che è così, sul territorio è tutta un'altra storia». Non si preoccupa di abbattere un totem del centrosinistra, la concertazione: «Io sono contrario, andava bene all'epoca di Ciampi, per il governo nazionale, ma non può essere replicata in sedicesimo in tutte le città italiane». Non rinnega la rottamazione, anche se ha abbandonato i rottamatori: «Il senso era di dire: gente non potete svernare in Parlamento...c'è chi ci ha fatto le ragnatele lì». Il sindaco di Firenze non risparmia critiche a nessuno, nemmeno al Bersani che non vuole mettere il suo nome sul simbolo del partito: «È una decisione che ci riporta indietro di 30 anni». E fa anche di più, rompe un tabù che non romperebbe anima viva nel centrosinistra: «Io mi auguro - e so che verrò criticato per questo - che Berlusconi possa dimostrare la sua innocenza al processo perché in un Paese civile non si augura una condanna a nessuno». Tutte parole che farebbero rabbrividire Rosy Bindi, che, però, lì non c'è: il suo Pd non è sicuramente quello che Veltroni ha deciso di mandare in scena al teatro dei Servi. Dunque, il sindaco di Firenze non nasconde la sua diversità, non si trincera dietro giri di parole o astuzie diplomatiche, non abbraccia la cautela. E questo lo rende differente anche da Veltroni e da Chiamparino. Ma poi Renzi parla lo stesso linguaggio del sindaco di Torino - e viceversa - quando si tratta di delineare il Pd come dovrebbe essere e come non è. Per il sindaco di Torino «la sinistra fa un'analisi inadeguata di come evolve la società italiana». Per Renzi il Pd perso nel suo antiberlusconismo non ha altra identità se non questa e non rappresenta quindi un'alternativa di governo. Entrambi sono ostili alla Santa Alleanza. «Va rivista questa strategia», dice il sindaco di Torino. E quello di Firenze: «Basta con gli inciuci, le ammucchiate e i tatticismi, smettiamola di inseguire Fini, Bocchino o altri statisti di questo tipo». Anche sulle primarie la pensano nello stesso modo. Per Chiamparino «sono il metodo più trasparente e democratico», tanto più che i partiti «non hanno più autorevolezza». Per Renzi «non si può chiedere agli elettori di andare nelle sezioni, anche perché la maggior parte sono chiuse», perciò bisogna coinvolgerli con le primarie: «È assurdo che decidano i gruppi dirigenti dei partiti che non rappresentano più niente». Veltroni, soddisfatto, guarda Renzi e Chiamparino, seduto in prima fila. Sale sul palco solo alla fine per un discorsetto di due minuti. Annuncia che la settimana prossima presenterà un ddl per istituire le primarie per legge. Poi chiude così: «Non basta sostenere che questo è l'autunno del Paese, bisogna preparare la primavera». Come a dire: caro Bersani, non puoi solo parlar male di Berlusconi devi anche dire che cosa vuoi fare tu per costruire un'alternativa credibile. Ma in quella sala tutti sembrano guardare a Renzi per quell'alternativa. Lui sorride, nega di essere sceso in campo, ma da un mese è in campagna elettorale per preparare la sua futura candidatura. Maria Teresa Meli 10 marzo 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA da - corriere.it/politica Titolo: Maria Teresa Meli - Vendola: noi e il Pd in un nuovo soggetto Inserito da: Admin - Giugno 08, 2011, 10:57:43 pm L'INTERVISTA
Vendola: noi e il Pd in un nuovo soggetto «Basta etichette stantie: anch'io voglio allargare all'Udc e so che il vecchio welfare non regge» ROMA - Vendola, che insegnamento dovrebbe trarre il centrosinistra dal voto? «Alle Amministrative ha vinto una spinta anti-oligarchica, che si era già affacciata nello straordinario processo democratico delle primarie e ha restituito vitalità e anima alla proposta politica del centrosinistra. E ha perso il politicismo che domina soprattutto nei palazzi». A che cosa si riferisce? «A quei ragionamenti astratti sulle formule magiche della vittoria: si vince al centro, il moderatismo è la chiave di volta, ecc. Ciascuno di noi dovrebbe cimentarsi con il futuro invece che con il passato. Lo dico con affetto ai leader del Pd: c'è qualcosa di stantio, c'è puzza di naftalina nell'uso disinvolto delle etichette ideologiche con cui reciprocamente ci chiamiamo... Radicale, riformista, moderato... Rompiamo con il retaggio delle nostre biografie e mettiamoci tutti quanti in mare aperto, a guardare la scena nuova della politica perché c'è una scena nuova della società». Vendola, pare di capire che lei stia prefigurando la nascita di nuova sinistra tutta unita. «Io non ho ricette già pronte, però dico con umiltà ai miei compagni, a quelli del Pd, e a tutti gli alleati: prendiamo il coraggio di affrontare l'inadeguatezza della forma partito, andiamo in campo aperto. E questo vale per tutti, a cominciare dal mio movimento, Sel: al congresso fondativo abbiamo detto che il nostro obiettivo non era tanto far nascere un partito quanto riaprire una partita. Noi non dobbiamo recuperare lo spazio residuo che fu della sinistra radicale. Sarebbe come scrivere vecchi copioni: il nostro compito invece è quello di rimescolare le carte insieme a tanti altri e altre». Ma crede veramente che Bersani e il Pd accetteranno la sua proposta? «Nel Pd si è aperta una discussione molto interessante. Bettini propone la creazione di un nuovo soggetto unitario. Latorre invita noi e il Pd a essere i cofondatori di un nuovo partito. Il presidente della Toscana Rossi ipotizza una lista unitaria di Sel, Idv e Pd. Sono tutti ragionamenti incoraggianti. Finalmente c'è un'altra idea della politica. Nel cantiere dell'alternativa non distribuiamo le magliette con i colori delle squadre, ma apriamo piuttosto le porte anche a tanti altri che non vengono dai partiti e che portano, competenze, esperienze di vita, ricchezza di cultura. E in quel cantiere, insieme agli altri, proviamo a farci le domande giuste e a darci le risposte giuste: non è forse questo il programma dell'alternativa?». Insomma, secondo lei il Pd, Sel, i partiti del centrosinistra sono pronti sul serio a compiere questo passo. «Perché no? È accaduto che parte rilevante della cultura riformista italiana e del Pd, che aveva militato nella trincea dell'energia nucleare, abbia rapidamente ripiegato le proprie bandiere, è accaduta la stessa cosa sul tema dell'acqua di cui molti propugnavano la privatizzazione. E non voglio fare un discorso provocatorio: anche la sinistra radicale deve accorgersi, per esempio, che non si può tenere in piedi il vecchio welfare. Oggi siamo tutti quanti chiamati a metterci in gioco». Intanto nei palazzi c'è chi prepara una riforma elettorale che possa piacere anche al terzo polo... «Non ho difficoltà a discutere le regole del gioco con tutti, però evitiamo di incartarci». E le primarie? Bisogna accelerare, secondo lei? «Dovremmo concepirle come il catalizzatore di una formidabile mobilitazione delle idee, sapendo che chi le vince ha come compito primario (se posso usare questo bisticcio di parole) quello dell'allargamento della coalizione». Ma potrebbe mai svolgere questo compito lei, il leader di Sel? «Io nella mia modesta esperienza ho governato facendo dell'ascolto della proposta dei centristi un mio dover essere quotidiano e oggi ho un rapporto molto buono con l'Udc nel Consiglio regionale della Puglia. Faccio un altro esempio: Pisapia che chiede a Tabacci di entrare in giunta. Mi pare emblematico del fatto che se si libera il campo da argomenti speciosi e pregiudiziali possiamo tutti impegnarci per lo stesso obiettivo». Vendola, per caso vuole rubare il mestiere a D'Alema e allargare lei all'Udc? «Non mi permetto di rubare il mestiere. Dico solo che mi sento in gioco e spero che tutti quanti si sentano in gioco... alla pari». Maria Teresa Meli 08 giugno 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA da - corriere.it/politica/11_giugno_08/vendola-noi-pd-soggetto-meli_b355f59c-919b-11e0-9b49-77b721022eeb.shtml Titolo: MELI Veltroni «torna» e prova a insidiare il leader Bersani sulla premiership Inserito da: Admin - Dicembre 18, 2011, 05:53:10 pm Pd
Veltroni «torna» e prova a insidiare il leader Bersani sulla premiership Strategie divergenti, il governo Monti rimescola le carte anche a sinistra ROMA - Raccontano che l'altro ieri sera, quando la Lega, a mò di scherno nei confronti di Bersani, ha cominciato a urlare nell'aula di Montecitorio «Veltroni, Veltroni», il segretario del Pd non abbia gradito e abbia avuto un moto di stizza. Non è dato sapere il grado di consapevolezza che i deputati del Carroccio hanno messo nella loro malizia. Chissà se erano consci del fatto che in questo particolare periodo Bersani soffre l'improvviso attivismo dell'ex leader. Risvegliatosi da un lungo letargo Veltroni è più che mai determinato a tornare a condizionare la linea del partito. Ed è per questa ragione che con ancor maggiore slancio degli altri compagni del Pd ha sposato la linea del governo Monti. Certo, non è riuscito a raggiungere l'obiettivo massimo che si era prefisso. Ovverosia la gestione collegiale del partito. Quella è una richiesta che Bersani si guarda bene dall'esaudire. Ma intanto un primo risultato lo ha raggiunto. Come spiegava Ermete Realacci il giorno del voto della manovra: «La rottura con Di Pietro è un fatto acquisito. Pensate che poteva succedere se andavamo alle elezioni, vincevamo e dovevamo governare questa crisi economica con Idv e Sel». Nichi Vendola che è furbo ha capito il gioco ed evita di polemizzare con il Pd per la scelta di appoggiare Monti, Di Pietro, invece, si è messo fuori da solo. E la strategia bersaniana immortalata nella foto di Vasto è ormai un sogno del passato. Rischia di diventarlo anche la candidatura del segretario alla premiership del centrosinistra. Anche su quella Veltroni sta già lavorando. E, ancora una volta, questo suo progetto dipende dal governo Monti. O meglio dalla sua durata. Se si arriva sino a fine legislatura, l'ex leader ha molte più chance di mandare in porto i suoi piani. Ma se invece si va alle elezioni anticipate Veltroni dovrà dire addio alla sua strategia. E un piccolo rischio, stando a Beppe Fioroni, c'è: «Tutti quelli che si rendono conto che se questo governo dura gli attuali equilibri politici verranno modificati e si apriranno molti nuovi giochi, potrebbero avere interesse a staccare la spina a Monti. E non parlo solo di Berlusconi, anche dalla nostra parte c'è chi potrebbe pensarla così, sbagliando perché chi stacca la spina perde le elezioni». Ma se la legislatura va avanti, nel Pd muterà inevitabilmente il quadro. Congresso o non congresso, che per statuto dovrebbe svolgersi nell'ottobre del 2013, cioè dopo le elezioni di fine legislatura. Veltroni e i suoi, in un primo tempo avevano pensato di mettere in pista Matteo Renzi. Ma il sindaco di Firenze appare all'ex segretario un candidato difficile da far accettare al «corpaccione» del Pd, composto da ex Ds, e agli apparati. Archiviata questa ipotesi, ora Veltroni guarda con un certo interesse a Enrico Letta. Il vicesegretario ha dalla sua molte carte: è giovane, è un moderato a cui la foto di Vasto non è mai piaciuta, ed è già stato al governo. Potrebbe essere lui il candidato ideale per la premiership del centrosinistra nel segno del Pd riformista e non socialista d'antan. Insomma di quel Partito democratico che Veltroni aveva immaginato nel 2008, quando lo ha messo al mondo. Maria Teresa Meli 18 dicembre 2011 | 10:44© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/politica/11_dicembre_18/meli_veltroni-torna-insidia-leadership-bersani_99e74602-2957-11e1-b27e-96a5b74e19a5.shtml Titolo: Maria Teresa Meli Bersani all'esecutivo : «I patti non erano questi» Inserito da: Admin - Marzo 22, 2012, 12:20:23 pm Democratici divisi sull'esito del negoziato. Fioroni apprezza. Fassino: sbagliato
Bersani all'esecutivo : «I patti non erano questi» Il Pd costretto a dire sì, anche di fronte al no di Camusso. Il leader teme le tensioni sociali e lo strappo con la Cgil ROMA - Al Pd lo hanno battezzato il «disaccordo concordato». E ai più anziani tra i dirigenti del partito ha ricordato un termine del politichese del tempo che fu: le convergenze parallele. Tradotto, significa che a Largo del Nazareno sperano di gestire senza strappi, rotture e polemiche con la Cgil questa vicenda della riforma del lavoro. Non sarà facile. Quando il provvedimento arriverà in aula il Pd sarà costretto a dire il suo sì, anche di fronte al no di Camusso. «Il nostro voto favorevole, pur con tanti distinguo, non può essere in discussione», sottolinea infatti Enrico Letta. Bersani, che in serata parla con la leader della Cgil, preferisce non essere così esplicito. È fortemente irritato con il governo: «Non ha cercato con convinzione l'accordo. I patti non erano questi, i patti erano che si sarebbe tentata l'intesa in tutti i modi», è il suo rimprovero. Quello che più temono in questo momento i vertici del Pd è lo scoppio di focolai di tensione sociale. Il segretario è stato chiaro con i suoi: «Prepariamoci, perché adesso si apre una fase non facile. La questione sociale esiste e potrebbe aggravarsi nei prossimi mesi. Chi protesta, chi non ce la fa più a fare sacrifici va ascoltato». A questo proposito si mostra preoccupato anche Stefano Fassina: «Il governo rifiutando le aperture fatte dalla segreteria della Cgil alimenta una tensione sociale che non fa bene a nessuno. Quando parlava dell'articolo 18 in conferenza stampa Monti sembrava Sacconi». Sul merito del provvedimento, come era prevedibile, nel Pd ci sono reazioni diverse. Beppe Fioroni non ha dubbi: «Credo che sia stata trovata, sia nel metodo che nel contenuto, una soluzione importante. Si incentiva il lavoro a tempo indeterminato, vengono rafforzati gli ammortizzatori sociali, l'articolo 18 resta con una significativa manutenzione. Nella riunione, altro fattore degno di nota, si è registrata l'unità su tanti punti. Adesso nessuno faccia saltare il banco». Di tutt'altro tenore le osservazioni di Fassina: «Da quello che si può capire finora ci sono dei punti positivi, ma anche molti buchi, per esempio per quel che riguarda gli ammortizzatori sociali. La parte che riguarda l'articolo 18 non va bene perché lo svuota completamente». Secondo il responsabile economico infatti va introdotto il sistema tedesco nel senso pieno del termine, ossia affidando sempre al giudice la decisione, anche nel caso dei licenziamenti economici. La pensa nello stesso modo Cesare Damiano: «Il modello tedesco, al quale si fa spesso riferimento, prevede nel caso di licenziamento per motivi economici senza giusta causa di lasciare al giudice la possibilità di scegliere tra reintegrazione e risarcimenti». La linea ufficiale del Pd sull'articolo 18 è questa. E pubblicamente Bersani dice: «Su questa riforma dovrà pronunciarsi il Parlamento». Come a dire che è pronto a chiedere delle modifiche: «Prenderemo le nostre iniziative», assicura Fassina. Ma Bersani sa bene che non si faranno altri passi avanti nella ricerca di un'intesa con la Cgil. Inevitabilmente, le strade del Pd e quelle del sindacato di Camusso si divideranno. E a largo del Nazareno, nonostante le dichiarazioni contrarie, ci si prepara già ad affrontare l'eventuale richiesta del governo di inserire la riforma in un decreto. Maria Teresa Meli 21 marzo 2012 | 8:30© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/politica/12_marzo_21/gelo-di-bersani-sull-esecutivo-i-patti-non-erano-questi-maria-teresa-meli_00023f4c-7321-11e1-85e3-e872b0baf870.shtml Titolo: Maria Teresa MELI. Bersani: «Nuove regole in pochi mesi sul finanziamento. ... Inserito da: Admin - Aprile 09, 2012, 10:26:39 am L'intervista
Bersani: «Nuove regole in pochi mesi sul finanziamento. Nessuno si metta di traverso» «Senza controlli sui bilanci dei partiti, codici etici e regole sulle candidature l'Italia non è una democrazia moderna» ROMA - Onorevole Bersani, che cosa l'ha spinta ad appellarsi ad Alfano e Casini per promuovere una legge sui bilanci dei partiti? «Io sono convinto che nei prossimi dodici mesi dovremo affrontare un passaggio drammatico: o saremo in grado di consegnare all'Italia un assetto costituzionale occidentale del nostro sistema politico, riformandolo, o ci arrenderemo a un'eccezione italiana, passando da un populismo all'altro. Siccome il nostro obiettivo è il primo, è chiaro che dobbiamo riuscire ad affermare una democrazia moderna in cui i partiti non rispondano solo ai loro elettori e iscritti. Per raggiungere questo traguardo dobbiamo riuscire a varare una legge seria perché le forze politiche abbiano bilanci certificati e controllati, codici etici, meccanismi trasparenti di partecipazione alla vita interna, regole per le candidature. In questo senso vanno previste anche delle sanzioni, come l'esclusione dai finanziamenti ed eventualmente anche il divieto di presentazione liste. Noi avevamo presentato per tempo una nostra proposta e ora diciamo "acceleriamo assolutamente", perché i fatti che stanno emergendo sono allucinanti». Si riferisce alla Lega? «Sì ma non solo, e in ogni caso c'è un punto da sottolineare: in questi anni siamo slittati verso una personalizzazione talmente accesa, con la costituzione di partiti quasi personali, che, com'era inevitabile, ha portato alla creazione di cerchie ristrette, familismi, corti, sistemi feudatari di vassalli valvassori e valvassini, con imperatori capaci di nominare anche i cavalli. Insomma, in queste condizioni non poteva non prendere piede un sistema opaco. Quando io tre anni fa dicevo che non metterò mai il mio nome sul simbolo non volevo fare demagogia, ma intendevo dire che i partiti devono essere un patrimonio collettivo, quasi istituzionale, non posso essere piegati a una logica personale, che tra l'altro ci ha consegnato una legge elettorale dove sono stati possibili casi come quelli di Calearo e Scilipoti che lasciano esterrefatti. Dobbiamo correggere queste derive e prendere esempio dalle normali democrazie occidentali che non hanno questi fenomeni perché lì i leader sono leader pro tempore, secondo regole che i partiti si danno». Lei pensa che i partiti italiani abbiano gli anticorpi necessari? «Assolutamente sì, guardi noi: per esempio, le primarie, che pure sono un meccanismo da migliorare, rispondono proprio all'esigenza di avere un partito, per così dire, all'aria aperta. Lo stesso dicasi per la decisione che abbiamo preso a suo tempo di far certificare i bilanci. Per lo stesso motivo affermo che dopo Bersani ci saranno le primarie, niente cooptazioni, ma meccanismi di partecipazione. La strada è questa e non riguarda solo noi che per primi abbiamo adottato questo meccanismo, dovrà riguardare tutti se vogliamo un sistema trasparente e democratico». Sarete in grado di fare questa legge o ancora una volta toccherà al governo cavarvi d'impaccio? «Un minimo comune denominatore tra i partiti per fare una legge sui finanziamenti c'è e ci può essere. C'è tutta la possibilità di lavorare su questo nelle prossime settimane». Non le sembra di peccare d'ottimismo? «Voglio dire la verità: io avevo scritto questa lettera dicendo di tenerla riservata e di lavorarci sopra, sono stati Alfano e Casini a dirmi "no, tiriamola fuori e impegniamoci a fare queste cose". Questo significa che la volontà c'è. Immagino perciò che nei prossimi giorni si avvierà una discussione approfondita non solo tra noi tre. Se ci mettiamo seriamente all'opera ce la possiamo fare in poco tempo. Faccio un esempio, nella mia proposta di legge si prevede di mettere a sistema un meccanismo di primarie, ma se gli altri non sono pronti, possiamo vedere questa questione più avanti; però sulla certificazione dei bilanci, sulla necessità di inserire una soglia molto bassa per cui bisogna dichiarare i soldi che un partito ha ricevuto, sull'obbligatorietà di pubblicazione su Internet dei nostri bilanci possiamo metterci d'accordo rapidamente». E poi verrà varato un decreto per fare velocemente? «Per quel che riguarda lo strumento, per me può anche essere un progetto di legge di pochi articoli, che abbia una corsia ultrapreferenziale. Non escludo nemmeno, una volta stabilito il contenuto, sentito il governo, e, naturalmente il presidente della Repubblica, che ci si possa avvalere di uno strumento straordinario come il decreto. A me interessa la sostanza: in pochi mesi dobbiamo arrivare a una soluzione». Intanto continuerete a prendere rimborsi senza spenderli tutti per le attività elettorali. «Vorrei chiarire subito una cosa. C'è già stata una drastica riduzione del finanziamento della politica perché nel 2010 erano stanziati 289 milioni di euro, che diminuendo di anno in anno arriveranno ai 143 del 2013. Inoltre non è più vero che se si interrompe la legislatura continua il finanziamento. Dal 2011 non è più così. Con questa tagliola significa che non sarà più nemmeno possibile che partiti ormai morti ricevano dei soldi. Con queste novità, il finanziamento della politica in Italia diventerà inferiore a quello che è in Germania, in Francia o in Spagna. Ciò detto, è vero che il meccanismo adesso lascia un margine d'ambiguità. Sotto il titolo rimborso elettorale c'è, come negli altri Paesi, un forfait che riguarda il finanziamento dell'attività politica e non solo quello della campagna elettorale. Si può riconsiderare questo aspetto, ma l'importante è essere d'accordo su due punti di fondo. Primo, il finanziamento alla politica da Clistene e Pericle in poi c'è sempre stato nelle democrazie per evitare plutocrazie, oligarchie e dominio. Secondo, è vero che bisogna adeguarsi ai parametri europei, laddove non ci fossimo ancora, ma è soprattutto necessario prevedere un sistema di controllo che ora non c'è. Bisogna dire quali sono le regole, scriverle in una legge e avere qualcuno che le certifichi. Su questo fronte l'Italia adesso non è a posto. Senza certificazione regolare non deve essere più possibile prendere i soldi: i partiti non sono associazioni private per cui possono anche mantenere le famiglie dei loro leader, sono l'ossatura della democrazia». Che cosa risponde a chi dice che i partiti si sono svegliati solo ora che sono ricoperti dagli scandali? Lo sapete che gli elettori non hanno più fiducia nelle forze politiche. «Veramente sono due o tre anni che noi del Pd abbiamo elaborato quattro-cinque progetti in materia che ora abbiamo unificato. E voglio essere chiaro: se non riusciamo a risolvere un problema di questo genere ci meritiamo come sistema politico la sfiducia degli italiani. Su questo sconti non se ne faranno. Adesso partiamo, troviamo una soluzione e chi si volesse mettere di traverso se ne prenderà la responsabilità. Facciamo quattro articoli e poi parliamo con la Lega, con l'Idv, con chi sta in Parlamento. Il resto lo vedremo più approfonditamente dopo». La gente non ha più fiducia nei partiti: perché dovrebbe accettare che vengano finanziati pubblicamente? «Se vogliamo somigliare alle democrazie europee dobbiamo prevedere che la politica venga finanziata. Altrimenti ci ribeccheremo un miliardario che suona il piffero con tutti che gli vanno appresso». Maria Teresa Meli 8 aprile 2012 | 9:16© RIPRODUZIONE RISERVATA DA - http://www.corriere.it/politica/12_aprile_08/nuove-regole-in-pochi-mesi-nessuno-si-metta-di-traverso-maria-teresa-meli_1429dd06-8148-11e1-9393-421c9ec39659.shtml Titolo: Maria Teresa MELI Sfido Bersani alle primarie, dovrà farle ... Inserito da: Admin - Maggio 11, 2012, 12:30:49 pm L'intervista Il sindaco di Firenze
«Sfido Bersani alle primarie, dovrà farle Non è legittimato da quelle 2009» Renzi: «Se prende un voto di più sarà il candidato premier del Pd. Amministrative? Abbiamo lasciato sul campo 91 mila voti ROMA - «Se i dirigenti del Pd pensano di aver vinto queste elezioni vuol dire che vivono nell'iperuranio»: Matteo Renzi non si smentisce mai. Pane al pane e vino al vino, senza troppe diplomazie o giri di parole. Sindaco, comunque il Pd ha tenuto. «Non ha senso dire "siamo solo feriti ma non siamo morti". Continuare a dare una lettura relativa di queste elezioni senza sottolineare il dato più importante che è quello dell'astensionismo mi sembra una cosa ridicola. Quando a Genova vota un elettore su due qualche domanda bisognerà pur porsela. E mi pare che l'astensionismo, unito al voto di protesta, fotografa un'Italia totalmente diversa da quella che emerge dai commenti dei leader dei partiti. Dopodiché, per carità, io sono molto felice che il Pd prenda qualche sindaco in più del passato, però è anche vero che lascia sul terreno 91 mila voti. È una cifra bestiale. Persino dove abbiamo vinto abbiamo perso molti consensi». In compenso la destra è andata malissimo. «Alla destra si potrebbe dedicare una puntata di Chi l'ha visto . Ma attenti a entusiasmarsi troppo: sottovalutare Berlusconi oggi sarebbe un clamoroso errore. Il centrodestra oggi non ha più niente da perdere e quindi potrebbe buttare il tavolo all'aria». Ossia mandare a casa Monti? «No, parlo del tavolo politico. Berlusconi potrebbe inventarsi un nuovo soggetto. E questo provocherebbe il bis del '93. Io sento un'assonanza tra quel periodo della gioiosa macchina da guerra di Occhetto e questa fase. Sia dal punto di vista del tipo di coalizione - la foto di Vasto - sia per la sicurezza di vincere che sembra albergare in larga parte dei nostri dirigenti. Attenzione: lo ripeto, Berlusconi può rialzare la testa, inventarsi una cosa nuova e poi noi passiamo i prossimi cinque anni, dal 2013 al 2018, come un gruppo di alcolisti anonimi a chiederci perché abbiamo perso elezioni che avevamo già date per vinte. E non vorrei essere scortese con gli alcolisti anonimi». Intanto c'è chi parla ancora di elezioni anticipate. «Se nel centrosinistra c'è, come io credo, la tentazione di costringere Berlusconi a staccare la spina a Monti per andare alle elezioni a ottobre, vuol dire che ci si sta preparando a commettere un errore politico bestiale». E che cosa dovrebbe fare nel frattempo il Pd? «Io so quello che faccio io adesso: chiedo formalmente al segretario del mio partito di convocare le primarie del Pd. Non vorrei che Bersani pensasse di fondare la propria legittimazione sulle primarie del 2009. Se si vota a marzo del 2013 si facciano le primarie a ottobre o a novembre, senza inventarsi alibi». Renzi, lei parla di primarie del Pd, non di coalizione. «Io sono per farle di partito, come in tutti i Paesi civili. Bersani le vuol fare di coalizione? Ci spieghi perché. In Francia Hollande non le ha fatte con Melenchon». E se Bersani vince, lei che fa? «Se ottiene un voto in più degli altri ha il diritto di essere lui il candidato e tutti noi gli daremo una mano con correttezza ma l'idea di andare a ricercare la sua legittimazione su primarie di tre anni fa, cioè di un'era geologica fa, perché in politica è cambiato tutto, sarebbe assurdo. Bersani deve avere il coraggio di indire le primarie. Mettendosi in gioco lui, se lo ritiene, ma è ovvio che parteciperanno anche altri. Ognuno con il proprio programma». Cioè? «Ognuno dovrà dire come la pensa, quello che intende fare. Per esempio, io trovo timido il Pd sulla legge elettorale perché non può esser un meccanismo alla fine del quale non si sa chi ha vinto le elezioni. Che sia il modello francese, inglese o uzbeko, la sera alle dieci e mezzo si deve sapere chi ha vinto. E ancora, per dirne un'altra. A me non piace l'idea novecentesca del partito che ha il segretario: pensare di togliere il nome dal simbolo, di combattere la personalizzazione così. Oggi la comunicazione è tutto nella vita politica e lo abbiamo visto anche con i movimenti di Grillo e dintorni». Lei accennava alla legge elettorale. Ma crede che i partiti riescano a fare le riforme? «Questa classe politica è già sufficientemente screditata ma se non le fa si condanna al suicidio. Hanno toccato la pensione alla signora sessantenne, possibile che non riescano a toccare il numero dei parlamentari?». Tornando alle primarie, potrebbero cambiare le regole. «Non si cambiano le regole quando fa comodo e il gioco è in corso. Io le preferisco di partito, ma se le vogliono di coalizione bene. Però con le stesse regole con cui sono stati eletti Prodi, Veltroni e Bersani. Non si inventino giochetti strani. Che siano primarie aperte a tutti». Insomma, Renzi, lei è rimasto il rottamatore di sempre. «Mi hanno dato del maleducato quando ho usato il termine rottamazione. Ora posso dire di essere stato fin troppo sobrio: non rivendico il copyright . Avevamo semplicemente detto quello che pensa l'ottanta per cento della gente». Oggi sul Fatto Quotidiano Flores D'Arcais sostiene che dovrebbe essere rottamato anche lei, sindaco. «Quando io andavo all'asilo Flores era stato già espulso dalla Fgci per trotzkismo». E cosa pensa di Grillo? «Che dovrebbe fare un monumento ai partiti politici. Lui è il campione delle contraddizioni: ha sempre affermato tesi che ha poi smentito. Mi riferisco al Beppe Grillo testimonial pubblicitario e poi fustigatore degli spot, al Grillo testimonial delle convention aziendali e oggi fustigatore dei costumi. Dopodiché dice delle cose vere: dopo due, tre mandati i parlamentari non dovrebbero più ricandidarsi. Il Pd ha questa regola interna ma è un partito che si fonda sulle deroghe. Torniamo invece a vivere sulle regole». Maria Teresa Meli 11 maggio 2012 | 7:52© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/politica/12_maggio_11/renzi-sfido-bersani-primarie-maria-teresa-meli_0af0ca32-9b2a-11e1-81bc-34fceaba092f.shtml Titolo: Maria Teresa MELI Pd, l'addio di Veltroni scuote la vecchia guardia ... Inserito da: Admin - Ottobre 15, 2012, 06:08:27 pm L'ex premier potrebbe essere spinto a rinunciare
Pd, l'addio di Veltroni scuote la vecchia guardia D'Alema spiazzato medita il ritiro La mossa crea problemi anche a Bindi, nel mirino di Renzi ROMA - A Pier Luigi Bersani, con cui ha parlato ieri sera, l'ha spiegata così: «E' una scelta del tutto personale, senza altre letture. Non è per fare polemica: avevo preso un impegno nel 2006 e dentro di me l'avevo confermato quando mi sono dimesso da segretario». Ma è indubbio che, al di là delle sue intenzioni e della sua volontà, la scelta di Walter Veltroni è destinata a mutare il corso delle cose nel Partito democratico. Ed è singolare in questo senso che, seppure per caso, il suo annuncio sia caduto proprio nel giorno del compleanno di quel Pd che lui ha fondato. Da settimane l'ex leader spiegava di «non poterne più di essere messo nel calderone dei vecchi che hanno fatto cattiva politica», da mesi ripeteva che «la storia del patto tra i big del partito per cui io mi sarei prenotato la presidenza della Camera per la prossima legislatura è una balla». E ora si sente finalmente «in pace» con se stesso. Il che non vuol dire che si defilerà dalla lotta. Lo ha assicurato al segretario: «Farò campagna elettorale e mi impegnerò per far vincere il Pd». Bersani ha ringraziato sia per la promessa fattagli sia perché con questa decisione Veltroni spiana la strada al leader che vuole rinnovare «senza umiliare o mettere da parte nessuno»: «Dobbiamo far vedere che anche noi vogliamo il ricambio, anche perché è vero». E adesso tutti si chiedono che cosa farà D'Alema. Perché l'annuncio di Veltroni pone un problema ai maggiorenti di lungo corso del Pd. Per dirla con il giovane onorevole Fausto Recchia «in molti oggi si sentiranno invecchiati». Bersani spera in suo autonomo passo indietro. Il presidente del Copasir ha ammesso in più di un comizio che due mesi fa aveva pensato di dimettersi ma che poi di fronte «all'aggressione di Renzi» ha cambiato idea. E ora? Ora che Emanuele Fiano dice «facessero anche gli altri questo gesto». Ora che Alessandra Moretti, portavoce del comitato elettorale di Bersani, non ha fatto e non fa mistero di voler pensionare anche lui, che cosa farà D'Alema? È spiazzato, di certo, perché questa sua scelta l'ex segretario del Pd l'aveva maturata da solo, una settimana fa. Ne era al corrente, in qualche modo, Bersani, ma erano pochissimi quelli che sapevano tutto: la moglie Flavia e l'indispensabile braccio destro Walter Verini. Il presidente del Copasir sostiene che «come sempre, farà quello che è bene per il partito». E lascia intendere che potrebbe defilarsi. Ma intanto non si sa quanto spontaneamente più di seicento politici, economisti, uomini di cultura meridionali oggi su l'Unità sosterranno che per loro «D'Alema è un punto di riferimento». Si badi bene, questo non è un tentativo di ricandidatura da parte del presidente del Copasir. Semplicemente, D'Alema è amareggiato per il trattamento riservatogli: «Sono stato preso come il simbolo negativo della politica». E il fatto che i vertici del Pd non lo abbiano difeso gli ha fatto male. Un conto è uscire dalla mischia politica tra i fischi, un altro uscirne tra gli applausi. Ma non c'è solo D'Alema a essere spiazzato - e nel suo caso anche anticipato - dalla mossa di Veltroni. C'è anche Rosy Bindi. È in Parlamento da una vita e Renzi glielo ricorda ogni volta che può. Lei dice «mi rimetto alle decisioni del partito». Però spiega anche perché e per come si è meritata la ricandidatura. Ora non potrà riscendere in pista senza fare la figura di quella attaccata alla poltrona. Perciò sta riflettendo sul da farsi. Lo stesso dicasi per Anna Finocchiaro. Non ha problemi invece l'ex presidente del Senato Franco Marini che, qualche mese fa, in un'intervista alla Stampa disse che non si sarebbe ricandidato. Ora c'è chi per rito o chi per convinzione, chiede a Veltroni, come fa Enrico Letta, di «ripensarci». Ma lui spiega: «Non ritornerò mai sui miei passi». E non esclude in un prossimo futuro un altro viaggio in quel continente che, al di là delle ironie che sono state fatte, gli è rimasto nel cuore: l'Africa. Maria Teresa Meli 15 ottobre 2012 | 11:18© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/politica/12_ottobre_15/meli-annuncio-rischia-fermare-d-alema-bindi_65259f74-168a-11e2-be27-71fc27f55c26.shtml Titolo: Maria Teresa MELI Bersani deluso dagli attacchi del premier «Insinuazioni ... Inserito da: Admin - Gennaio 27, 2013, 06:05:22 pm Il retroscena - I dati registrano una flessione di 1-2 punti: Calo nei sondaggi, ora il Pd teme «l'effetto Mps»
Bersani deluso dagli attacchi del premier «Insinuazioni non da persona seria» ROMA - C'è preoccupazione, e c'è rabbia nel quartier generale di Pier Luigi Bersani. Quanto durerà la bufera del caso Monte dei Paschi di Siena? «Non lo so», ammette lo stesso segretario. E quali saranno le conseguenze? Simili forse a quelle dell'affaire Unipol del 2005, che sprofondò gli allora Ds in grandi difficoltà? Su questo il leader del Partito democratico ha la risposta pronta: «So che stavolta non ci riusciranno». Ma quando le luci dei riflettori si allontanano e Bersani si slaccia il primo bottone della camicia e allenta la cravatta restano solo i fedelissimi e gli amici. E con loro il segretario può essere più esplicito: «Avevo detto che non sarebbe stata una campagna elettorale facile, che non dovevamo già dare tutto per scontato. Sapevo che avrebbero provato in ogni modo a impedirci di vincere». A dire il vero sembra una magra consolazione avere azzeccato le previsioni. Ma tant'è. Quello che a Bersani non va assolutamente giù è la polemica innescata da Mario Monti. Gli insulti di Grillo erano preventivati, le accuse del centrodestra prevedibili, ma il comportamento del premier... no, quello non se lo aspettavano al Pd. Con i suoi Bersani ragiona in questi termini: «Quello di Monti è stato un attacco a freddo per metterci in difficoltà e questo non è da persona seria». E ora gli occhi dei dirigenti del Partito democratico sono tutti puntati ai sondaggi. C'è un primo campanello d'allarme. Lo segnala in un articolo su Europa Paolo Natale, esperto di analisi dei dati statistici e dei sondaggi: c'è «un piccolo ma significativo decremento delle intenzioni di voto nei confronti del Pd. Poca cosa, per ora, diciamo uno/due punti percentuali». Magari non succederà nulla, spiega Natale, perché non è detto che il calo dei consensi sia direttamente legato alla vicenda Mps. Ma c'è il rischio che l'elettorato colleghi questa storia a quella dell'Unipol del 2005 e allora «potrebbe enfatizzare un rapporto mai molto chiaro, e mai molto chiarito, tra il Pd e il mondo bancario». In questo caso il tesoretto dei consensi del Partito democratico potrebbe essere «eroso in maniera sensibile». Insomma, nonostante le parole d'ordine ufficiali in casa del Pd i timori non mancano. Non a caso anche Renzi, che ha sempre criticato il rapporto tra Mps e partito, tanto da chiudere a Siena la sua campagna elettorale per le primarie il 24 novembre dello scorso anno, oggi preferisce parlare poco o niente. Non vuole essere additato come un traditore, visto il clima che c'è, con Bersani che richiama il partito alle armi contro chi polemizzerà ancora con il Pd, e Massimo D'Alema che spiega ai compagni di partito: «Ci sono ambienti di questo Paese che non ci vogliono al governo». Ritornano nella sinistra italiana paure antiche, riferimenti ai poteri forti... e il 2005 sembra improvvisamente più vicino. Bersani però non vuole dare l'impressione di un partito che gioca in difesa. Dal suo staff ieri minimizzavano gli effetti sul Pd dell'attacco di Monti: «Il premier - era la spiegazione che filtrava dall'entourage degli uomini del segretario - avrà deciso di andare addosso a noi per prendere voti a Berlusconi. Noi non abbiamo problemi, ma deve stare attento a non esagerare che così facendo rischia di imboccare una strada senza ritorno». Il segnale che parte da Largo del Nazareno all'indirizzo di Monti è chiaro: se su suggerimento di Larry Grisolano (l'uomo che per David Axelrod si occupa della campagna del Professore), il premier continuerà a bastonare sul Pd, allora non ci potranno essere rapporti di collaborazione nemmeno in futuro. Dunque, il presidente del Consiglio è avvisato: se vuole avere un rapporto con il Pd all'indomani delle elezioni è bene che non travalichi i limiti. Piuttosto torni a essere la persona seria di un tempo. Ma siccome Bersani è uomo politico troppo accorto per non capire che bisogna mandare anche altri messaggi, questa volta all'opinione pubblica e all'elettorato, il Pd lascia intendere di essere comunque pronto ad avviare un'analisi seria e approfondita sul sistema delle banche italiane e disponibile a un confronto per elaborare nuove regole. È su questo terreno, spiegano a Largo del Nazareno, che Monti può innescare una sfida costruttiva con il Partito democratico, non su quello «delle insinuazioni degne di un Berlusconi». Maria Teresa Meli 27 gennaio 2013 | 10:44© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/politica/13_gennaio_27/pd-sondaggi-calo-mps_56f88442-6852-11e2-b978-d7c19854ae83.shtml Titolo: Maria Teresa MELI D'Alema: impegno con 5 Stelle e Pdl Inserito da: Admin - Febbraio 28, 2013, 11:22:24 am Elezioni 2013 - L'intervista
D'Alema: impegno con 5 Stelle e Pdl «A loro la presidenza delle Camere. Ora dobbiamo salvare il Paese. No all'ipotesi di un governissimo. Neanche Grillo può volere che si precipiti verso le urne. Monti? Dialogo con chi è indispensabile» Presidente D'Alema questo voto ha messo in agitazione tutti. «La situazione dell'Italia era già grave prima, ma questo voto rischia di approfondire la crisi e renderla drammaticamente irreversibile, come si vede anche dalla prima sia pur contrastata reazione dei mercati finanziari. Viceversa, potrebbe rappresentare l'occasione per una svolta positiva». In che senso? «Nel senso che forze che si sono aspramente contrapposte potrebbero assumere una comune responsabilità e farlo in modo nuovo rispetto alla politica tradizionale». Voi del Pd siete stati colti alla sprovvista. Pensavate di vincere. «Non posso dire di essere tra quelli che sono stati presi di sorpresa. Non è stata colta la drammaticità della frattura tra cittadini e sistema politico che è emersa nel corso della campagna elettorale e che certamente viene da lontano». Il voto grillino ha rappresentato una bella botta per voi. «Si è pensato che i grillini pescassero solo a destra e questo è stato vero, in una certa misura, almeno all'inizio; ma poi a un certo punto una parte dell'elettorato del centrosinistra si è volto in quella direzione, tant'è che il voto per Grillo ha in parte prosciugato Sel e ha colpito fortemente noi per diverse ragioni: forse più per angoscia sociale nel Mezzogiorno e più per protesta contro la politica tradizionale nel resto del Paese. La spinta al cambiamento è stata per lo più intercettata dal Movimento 5 Stelle: è un dato con cui dobbiamo fare i conti. Però adesso vorrei soffermarmi sui dati più immediati». Ossia? «È chiaro che siamo di fronte a un voto che segna la fine di un'epoca, tuttavia il Paese deve essere governato. Non è che possiamo fare un convegno culturale, c'è una priorità: salvare il Paese e trovare una soluzione che passi attraverso un'assunzione di responsabilità da parte delle forze principali. Questo significa, innanzitutto, Movimento 5 Stelle, centrodestra e noi». E Monti? «Naturalmente, non sottovaluto il ruolo del centro di Monti, ma occorre rivolgersi alle forze che, per il peso del consenso ricevuto, sono indispensabili a garantire la governabilità del Paese. Mi dispiace che Monti abbia fatto una campagna elettorale come se i problemi del Paese fossero rappresentati da una sinistra non abbastanza riformista, non vedendo che razza di ondata stava per abbattersi sul Paese. Una violenta reazione di matrice populista, con un duplice segno: di critica all'Europa e anche al sistema politico italiano. Attenzione, entrambe le critiche hanno un fondamento, sono le risposte che non sono convincenti. In mezzo a tutto questo sommovimento, Monti pensava di fare l'ago della bilancia, quando invece il problema era fare argine alla destra e al populismo». Tornando all'assunzione di responsabilità, che cosa vuol dire? «Significa innanzitutto far funzionare le istituzioni. Parliamoci chiaro: nessuno può avere interesse a precipitare il Paese verso nuove elezioni, che sarebbero un drammatico choc. Neanche il Movimento 5 Stelle, che ha ottenuto un successo e che ragionevolmente credo voglia dimostrare la capacità di generare cambiamenti positivi per l'Italia». Ma Grillo all'apertura di Bersani ha risposto picche. «È presto per valutare le posizioni che alla fine verranno prese. Mi pare di vedere una certa difficoltà e anche, inevitabilmente, una tendenza a fare tattica. Mi pare anche che questa posizione di Grillo incontri qualche perplessità nel suo stesso mondo. Vedremo...». Quindi cosa propone? «Voglio essere assolutamente chiaro: c'è qualcosa che non può esser fatto nel modo più assoluto e cioè offrire al Paese l'immagine di partiti che cominciano le trattative per un qualche governissimo. È tale il fastidio verso la politica e i suoi riti che una cosa del genere non potrebbe mai funzionare. Quando parlo di assunzione di responsabilità mi riferisco alla possibilità che ciascuno, mantenendo la propria autonomia, possa confrontarsi in Parlamento alla luce del sole. Il primo problema è il funzionamento delle istituzioni e ritengo che le forze politiche maggiori debbano essere tutte coinvolte. E che quindi al centrodestra e al Movimento 5 Stelle vadano le presidenze delle due assemblee parlamentari, ovviamente sulla base della proposta di personalità che siano adeguate a ruoli istituzionali di garanzia». E poi? «Poi il Parlamento, e questo appello è rivolto ovviamente a tutti, deve consentire che il governo possa funzionare ricevendo il voto di fiducia. Il modello siciliano adombrato da Grillo può essere una buona idea, ma c'è una differenza istituzionale: in Sicilia il presidente è eletto dal popolo, a livello nazionale il capo del governo, se non riceve la fiducia del Parlamento, non può governare. Quindi, il confronto caso per caso finisce prima di cominciare. Dunque, ciascuno deve assumersi le proprie responsabilità, senza ammucchiate e senza pasticci. Non dico che bisogna eliminare in modo artificioso le differenze che restano profonde, ma per una volta si può tentare di farne un elemento di ricchezza e di confronto e non necessariamente di scontro pregiudiziale, che rischierebbe di paralizzare le istituzioni e produrrebbe un danno difficilmente rimediabile al Paese». Quindi niente governissimo Pd-Pdl? «Esatto. Sono d'accordo con Bersani. A questo punto, il sistema politico-democratico è chiamato a una prova cruciale: se è in grado o meno di fare le riforme che tante volte ha annunciato e che sin qui non è stato capace di fare. E il sistema politico-democratico comprende, oggi, anche Grillo che, a mio parere, non può chiamarsi fuori». E allora? «La nostra è una proposta di radicale cambiamento che dovrebbe interessare innanzitutto le forze che vogliono il cambiamento. Allora dobbiamo fare una legislatura costituente. Dobbiamo dimezzare il numero dei parlamentari, ridurre quello degli eletti, riformare radicalmente la struttura amministrativa del Paese, mettere mano ai costi della politica, combattere la corruzione, varare una seria legge sul conflitto di interessi. Poi io sono anche dell'opinione che occorra una nuova legge elettorale. In una situazione frammentata come quella italiana l'unica soluzione sarebbe il doppio turno alla francese». C'è chi dice che non abbia senso senza il presidenzialismo. «Non demonizzo l'elezione diretta del presidente della Repubblica, che può anche servire a rafforzare l'unità del Paese. Si potrebbe fare un referendum di indirizzo sulla forma di governo, impegnando il Parlamento a seguire la decisione popolare». E che altro si dovrebbe fare? «Bisogna aggredire il tema del debito, facendo un'operazione sul patrimonio pubblico: valorizzazioni e dismissioni intelligenti, quindi non quelle industriali. E poi, ciò che è fondamentale è imprimere una svolta nel senso della crescita, del lavoro e della giustizia sociale. Non dimentichiamoci, infatti, che una chiave di lettura di questo voto è la disperazione sociale. La gente non ce la fa e comprensibilmente è esasperata verso tutti. Il voto dovrebbe mettere in allarme pure le tecnocrazie di Bruxelles, perché parla anche di loro: ci vuole un governo che abbia un mandato forte per fare valere queste ragioni anche in Europa. Il punto non è "Europa sì", "Europa no", ma "Europa come"». E il reddito di cittadinanza? «Ma chi può essere contrario al reddito di cittadinanza? Il problema è quello di trovare i soldi... Certo, se il Paese brucia un'enorme quantità di risorse in una crisi politica senza sbocchi ce ne saranno molte di meno anche per il reddito di cittadinanza». Ma chi dovrebbe guidare questo governo? Bersani? «Lo guiderà il partito che ha la maggioranza relativa al Senato e quella assoluta alla Camera. E che ha espresso come candidato premier Bersani». Maria Teresa Meli 28 febbraio 2013 | 9:04© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/politica/speciali/2013/elezioni/notizie/28-febbraio-dalema-impegno-5stelle-pdl-meli_d21c1dd0-8168-11e2-aa9e-df4f9e5f1fe2.shtml Titolo: Maria Teresa MELI Via targhe e vini: il Palazzo si piega ai 5 Stelle Inserito da: Admin - Marzo 05, 2013, 05:14:41 pm Il caso
Via targhe e vini: il Palazzo si piega ai 5 Stelle Ma il veterano Colombo avverte: senza giacca li butto fuori ROMA - Solo per Emilio Colombo il tempo sembra non passare mai. E non tanto perché porta i suoi quasi 93 anni bene che più bene non si può. Il senatore a vita sembra essere l'unico, nei palazzi della politica, a restare attaccato alle tradizioni, e non c'è Beppe Grillo che tenga. Colombo, che presiederà la prima seduta dell'assemblea di palazzo Madama essendo il più anziano in quel consesso, ha già messo le mani avanti con gli amici: «Se i senatori del Movimento 5 Stelle si presentano senza giacca e cravatta io non li faccio entrare in Aula». L'esponente della «fu» Democrazia cristiana sembra l'unico a voler resistere all'onda dei grillini. Per il resto, nei palazzi della politica romana ci si adegua con incredibile velocità. Alla Camera funzionari che annusano il vento hanno fatto sparire le tracce dei privilegi. Nella stanza riservata ai deputati che volevano leggere i giornali - ma che più che altro la usavano per lunghi pisolini - è sparita la targa che precisava come il luogo fosse off limits per i comuni mortali. All'ufficio della posta si è volatilizzata come d'incanto l'insegna d'ottone che ammoniva a dare la precedenza agli «onorevoli deputati». In Corea, il corridoio parallelo al Transatlantico, quello posto alle spalle dell'Aula, i commessi non inseguono più i giornalisti per cacciarli. Per un regolamento interno di Montecitorio anche quello spazio è riservato ai parlamentari. Ufficialmente perché possano tenere le loro riunioni lontane da orecchie indiscrete, in realtà perché non vengano visti in compagnia di clienti, lobbisti e ospiti di dubbia moralità. Ma con i grillini in arrivo meglio chiudere un occhio, anzi due, anzi ancora, meglio lasciarli entrambi serrati e voltarsi pure dall'altra parte. Non si sa mai dicano che la «casta» vuole tenersi stretto qualche metro quadrato di corridoio. Anche alla buvette la Camera si è adeguata al nuovo che avanza. Sembra di entrare in un emporio bulgaro, dice qualcuno. No, sembrano i magazzini Gum della Mosca sovietica, replica qualcun altro. Le scatole di cioccolatini di marca sono scomparse. Le poche bottiglie di vino decenti anche. Restano sui banconi panini stantii, un po' di frutta dall'aria affranta e qualche tavoletta di cioccolato non particolarmente pregiato. I prezzi sono esposti ovunque, a mostrare che non sono più bassi che altrove. Fatica sprecata. L'altro giorno, quando hanno fatto la loro gita a Montecitorio, i grillini si sono tenuti ben lontani dalla buvette, quasi fosse un luogo del demonio. Al Senato, nel frattempo, si provvede a competere in austerity con la Camera. Il ristorante che è stato chiuso pochissimo tempo fa, resterà sbarrato. Era stato la pietra dello scandalo per i prezzi bassissimi e ora è più opportuno evitare che i grillini si ricordino quell'episodio non propriamente commendevole. Si farà un altro appalto, si manterrà l'attuale, sarà quel che sarà, ma si deciderà solo quando si saranno insediati i nuovi senatori. Per ora basta e avanza il bar interno. Maria Teresa Meli 5 marzo 2013 | 7:34© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/politica/13_marzo_05/via-targhe-e-vini-il-palazzo-si-piega-allo-tsunami-5-stelle-maria-teresa-meli_8f8937a4-8556-11e2-b184-b7baa60c47c5.shtml Titolo: Maria Teresa MELI La via della trattativa «alla luce del sole». Inserito da: Admin - Marzo 10, 2013, 11:22:33 am l retroscena
Continuano i tentativi di convincere i 5 Stelle: in azione Errani e Puppato Intesa con il M5S, Errani e Puppato in campo I pontieri del Pd giocano l'ultima carta La via della trattativa «alla luce del sole». E tra i «giovani turchi» si guarda al sindaco di Firenze ROMA - Il treno del Pd continua a correre su un doppio binario. Impresa improba, perché il rischio di deragliare è reale. Le rotaie lungo le quali Bersani sta inseguendo la sua premiership fanno tappa dai grillini. Convincerli, blandirli, agganciarli... tutti obiettivi difficili, ma il segretario non demorde. E gioca su più piani questa partita. Da un lato c'è Vasco Errani che continua a tessere la rete del rapporto con gli eletti del «Movimento 5 Stelle». A lui e ad altri parlamentari emiliani il compito di capire quale sia la disponibilità degli eletti di Grillo. Poi c'è il canale di comunicazione aperto con Sandra Bonsanti, figura di spicco del movimento Libertà e giustizia: in lei il Pd individua la possibile intermediaria con i parlamentari 5 Stelle. Quindi ci sono le amicizie personali. Il leader toscano del movimento che fa capo al comico genovese si chiama Massimo Artini: frequentava la stessa scuola di Matteo Renzi, ma, soprattutto, è grande amico di Lapo Pistelli. Gli cura il sito Internet e lo conosce da anni. Infine c'è la rete. Che serve per mobilitare un'ondata grillina a favore dell'accordo con il Pd. Ieri c'è stato l'appello via Internet di un gruppo di intellettuali che chiedono ai 5 Stelle di non voltare le spalle al Partito democratico. Ma questo è solo un assaggio perché i maggiorenti del Pd sanno bene che gli intellettuali più che attrarre possono respingere questi ambienti: perciò si punta alla mobilitazione «dal basso» del popolo della rete. Domani verranno anche scelti i due parlamentari che tratteranno «alla luce del sole» con i grillini. Del tandem dovrebbe fare parte Laura Puppato, ma è chiaro che non è quella ufficiale la diplomazia che riuscirà a sbloccare la situazione. Nessuno in casa democratica crede che alla fine i 5 Stelle accetteranno l'offerta della presidenza della Camera, il che complica ulteriormente i giochi di Bersani. Già, perché se Grillo dicesse di sì il Pd potrebbe offrire la guida dell'assemblea di palazzo Madama al Pdl senza incorrere nell'accusa di voler «inciuciare». In questo schema il nome che era stato scelto era quello di Gaetano Quagliariello. Ma se i grillini insistono nel rifiutare questa offerta allora il Pd terrà per un suo uomo (Dario Franceschini) la poltronissima di Montecitorio e cederà la presidenza del Senato a un esponente della lista Monti (il nome più gettonato fino a ieri era quello dell'ex europarlamentare del Pdl Mario Mauro). Del resto, lo stesso Bersani non sembra di certo sprizzare ottimismo da tutti i pori e ieri ad alcuni parlamentari che gli chiedevano lumi sulle trattative con i grillini per il governo rispondeva con queste parole: «Non credo che siano possibili cambi di casacca nell'immediato... magari più in là. E questo non risolve il problema, tanto più che in questa situazione così complicata c'è la variabile impazzita di Berlusconi. Se il Cavaliere vuole davvero le elezioni le otterrà, è inutile prenderci in giro. Il quadro è così instabile che basta una qualsiasi forzatura per non farlo reggere». Ma, come si diceva, il treno del Partito democratico sferraglia anche su altre rotaie. Dietro il Bersani che cerca di dare al suo partito ciò che secondo lui merita, e cioè la guida del Paese, c'è uno stato di agitazione permanente da parte del Pd. Non si sta parlando dei dirigenti che hanno già fatto mostra di essere pronti a ripiegare su Renzi, nel caso in cui il tentativo del segretario non vada in porto. Ora sono i «giovani turchi» a muoversi. E non lo fanno più come una falange compatta sotto l'insegna di «Bersani o morte». Adesso la nuova sinistra del Pd annusa Renzi. Sì, proprio lui, quello che fino a poco tempo fa era lo «spauracchio» dei giovani turchi, l'«uomo nero» contro cui combattere nelle primarie prossime venture. Corre voce che anche Bersani, il quale ha sempre detto di aborrire i «personalismi», abbia aperto uno spiraglio alla via d'uscita che vede nel sindaco di Firenze candidato premier di un centrosinistra alleato con Monti e con Vendola (se ci sta). L'altro giorno Matteo Ricci, presidente della provincia di Pesaro, bersaniano, vicino ai giovani turchi, ha voluto parlare a tu per tu con Renzi per capirne le mosse e per ribadirgli le sue idee. Ricci aveva già anticipato al Foglio questa inversione di rotta: «Matteo può essere il leader di una nuova generazione». Non si tratta di un caso isolato. Già il sindaco di Bologna Virginio Merola aveva dichiarato che Renzi rappresentava «l'unica speranza di rinnovamento». E persino Orfini, che del sindaco rottamatore è stato acerrimo nemico fino a pochissimi giorni fa, l'altro ieri ragionava così con un compagno di partito: «Non è detto che occorra andare a una sfida all'Ok Corral con Renzi: in realtà le nostre posizioni dopo le elezioni sono più vicine di prima». D'altra parte è sempre stato Bersani il primo a dire che «la ruota deve girare». E ora potrebbe girare in favore del vento renziano. Maria Teresa Meli 10 marzo 2013 | 8:18© RIPRODUZIONE RISERVATA DA - http://www.corriere.it/politica/13_marzo_10/errani-puppato-pontieri-pd-trattativa-m5s_1153cba6-8952-11e2-9abc-68ed907a89d3.shtml Titolo: Maria Teresa MELI Renzi riunisce i suoi parlamentari: basta con i tatticismi... Inserito da: Admin - Marzo 15, 2013, 11:29:00 pm A Grillo dovremmo dire che cosa vogliamo fare noi»
Renzi riunisce i «suoi» parlamentari: basta con i tatticismi, così destinati all'insuccesso Il sindaco di Firenze: «Non vogliamo parlare di presidenze, vogliamo parlare agli italiani dei problemi che hanno» ROMA - Parola di Matteo Renzi prima, durante e dopo la riunione con i «suoi» parlamentari: «Noi non cerchiamo rese dei conti interne, ma non ci si chieda nemmeno di condividere un'impostazione destinata all'insuccesso». Per farla breve, il sindaco di Firenze è già in campagna elettorale, perché non crede che questa legislatura sia destinata a durare molto. «Se la sbrogliassero loro», dice un parlamentare renziano per semplificare il quadro. Il sindaco non si esprime così, ma nell'incontro dice: «Non cogestiamo questa linea e non vogliamo partecipare a logiche di potere interne». Insomma, ripete il primo cittadino rottamatore, «niente tatticismi», perché «non vogliamo parlare di presidenze, vogliamo parlare alla gente, vogliamo parlare agli italiani dei problemi che hanno». Per la verità Renzi vorrebbe parlare pure dei tanti giovani parlamentari, suoi ma anche bersaniani, che il Pd ha portato alla Camera e al Senato. «E invece - confessa amareggiato a un amico - si finisce per discutere solo dei grillini perché il Pd si concentra esclusivamente su Bersani, Franceschini, Finocchiaro, e non si dà spazio ai nostri tanti nuovi parlamentari, non li si valorizza e questo è un peccato». Non piacciono a Renzi (ma pure a tanti deputati e senatori che si rifanno alle sue posizioni) né i compagni di partito che ora inneggiano alle manette per Berlusconi, né quelli che inseguono Beppe Grillo e i suoi seguaci. «Il problema - dice il sindaco di Firenze - non è quello di mandare il Cavaliere in galera, ma di mandarlo in pensione». Quanto alla rincorsa al Movimento 5 Stelle, anche su questo fronte il primo cittadino di Firenze è netto nello spiegare le sue idee: «Stiamo chiedendo a Grillo: "cosa vuoi fare?" E invece dovremmo dirgli noi quello che vogliamo fare». Per Renzi è assurdo «continuare a inseguirlo mentre lui ci sputa in faccia, senza nemmeno metterlo in difficoltà rilanciando sul finanziamento pubblico ai partiti e sui costi della politica». Perché, ricorda il sindaco rottamatore, il rinnovamento non può essere una rappresentazione ma deve essere reale. L'idea che il grillino sia «offerto à la carte » fa sorridere il sindaco di Firenze. Il quale non si spinge a dire, come alcuni parlamentari renziani, «lasciamo che Bersani vada a sbattere contro un muro», ma appare evidente in ogni suo gesto e in ogni sua parola che questo è quello che pensa. Il primo cittadino del capoluogo toscano non sembra apprezzare nemmeno le trattative sotto banco che qualcuno nel Pd (non Bersani, ovviamente) sta facendo con Scelta Civica e con il Pdl. Renzi, infatti, ritiene superato il governo Monti: per lui non può esserci un «sequel». E per questo elenca i punti deboli di quell'esperienza. Sarà su questo terreno che darà battaglia. In Parlamento, se non si andrà alle elezioni. Nella campagna elettorale per le primarie e in quella per le elezioni vere e proprie se la situazione precipiterà. Il patto di stabilità dei Comuni, innanzitutto. È un problema che va affrontato una volta per tutte. Renzi ne ha parlato anche prima della riunione con il presidente dell'Anci Graziano Delrio, e ne discute durante l'incontro a cui è presente pure il sindaco di Reggio Emilia. Quindi la semplificazione della burocrazia amministrativa. L'ultima questione (non certo per importanza, perché anzi da questo punto di vista è la prima) riguarda il lavoro: «Elsa Fornero sbagliava perché insisteva sulla libertà di licenziare, invece noi dobbiamo puntare sulla libertà di assumere». Su lavoro si incentrerà la sua campagna elettorale contro Grillo, quando sarà. Sono discorsi, quelli di Renzi, che convincono soprattutto i giovani parlamentari, i quali non si stancano mai di ripetere: «Siamo qui perché vogliamo fare qualcosa di utile, non perché intendiamo occuparci delle beghe di partito». Il sindaco ascolta e parla quel che basta. Quel che serve a capire che lui vuole passare per le «primarie». Anche «a maggio, se il voto sarà a giugno». Non vuole farsi cooptare dai maggiorenti del partito, che già sono tutti in processione da lui: chi si limita a una telefonata, chi chiede un colloquio a tu per tu. Servono le primarie per legittimare il nuovo leader e per far ripartire il centrosinistra. Dicono che Mario Monti sia d'accordo con questa impostazione e che tra Bersani e Renzi abbia scelto il secondo. Ma non è a questo che punta il sindaco rottamatore. Lui è più ambizioso e vorrebbe «cambiare la politica». Intanto non potendo rivoltare il Pd «come un calzino» ha cambiato il modo di riunirsi dei suoi parlamentari: all'uscita della riunione ogni partecipante ha dovuto sborsare dieci euro per pagare la sala. Maria Teresa Meli 15 marzo 2013 | 7:42© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/politica/13_marzo_15/renzi-riunisce-i-suoi-meli_07267aa8-8d39-11e2-b59a-581964267a93.shtml Titolo: Maria Teresa MELI Bersani ai suoi: governo anche solo di due anni Inserito da: Admin - Marzo 18, 2013, 04:38:49 pm DOPO IL VOTO - Il piano di riforma del finanziamento pubblico.
Bersani ai suoi: governo anche solo di due anni Renzi: meglio se Pier Luigi va avanti. L'obiettivo del leader è un esecutivo breve che si occupi delle riforme ROMA - «Ragazzi, si può andare avanti: c'è la concreta possibilità di fare un governo». Pier Luigi Bersani è convinto che dall'altro ieri si sia aperto uno spiraglio e cerca di galvanizzare i suoi. Con questa spiegazione: «Ieri tutti quelli che volevano il governissimo sono stati sconfitti: l'elezione di Grasso al Senato dimostra che non c'è una maggioranza alternativa alla nostra. Insomma, ora siamo più forti e legittimati per chiedere un mandato». Bersani è fiducioso: «Sono pochi quelli che vogliono veramente andare a votare. La Lega, per esempio, ha bisogno di tempo». Già, il Carroccio. Raccontano che l'elezione di Laura Boldrini sia stata interpretata da Roberto Maroni come una chiusura. Ma così non è. Tant'è vero che Stefano Fassina, intervistato dall' Avvenire , dichiara: «La Lega sa che Bersani ha una cultura autonomista non improvvisata ed è un interlocutore affidabile, ci può essere attenzione reciproca». Quindi c'è il capitolo Grillo. Come spiega il segretario del Pd: «Lì dentro si è aperto un confronto politico e questo è un fatto positivo. La verità è che se si va sul loro terreno si aprono delle brecce. Perché ci saranno delle occasioni in cui dovranno decidere se stare con il centrosinistra o con Berlusconi». Infine, i montiani, perché servono anche loro per un futuribile governo. Bersani non nasconde «l'amarezza» per l'atteggiamento del premier, tant'è vero che l'altro ieri si è negato al telefono quando Monti lo cercava. Però da politico pragmatico sa che con il centro bisognerà comunque arrivare a un accordo se si vuole dare vita a un governo. Che, secondo Bersani, potrebbe durare non meno di due anni, due anni e mezzo, «nonostante la fragilità di questa legislatura». Infatti nel programma su cui il leader del Pd intende far convergere anche le altre forze politiche sono previsti: il «superamento del finanziamento pubblico», compensato da «un sistema di piccole contribuzioni private assistite da parziali detrazioni fiscali»; il dimezzamento dei parlamentari (da 630 deputati a 300, da 315 senatori a 150); l'equiparazione dello stipendio dei parlamentari a quello di un sindaco di un capoluogo di provincia; l'istituzione di un tetto per i dirigenti pubblici. Un governo che deve fare queste riforme ha bisogno di tempo, perciò, per dirla con Bersani, «una volta che è partito, poi è difficile staccargli la spina, perché chi si prende la responsabilità di affossare le riforme? Grillo?». Il quale Grillo, sia detto per inciso, continua a crescere nei sondaggi a disposizione del Partito democratico. Ormai ha oltrepassato quota 30 per cento. Certo, bisogna vedere se dopo le ultime mosse di Bersani (l'elezione di Laura Boldrini e Piero Grasso) e il confronto interno che si è avviato dentro il Movimento 5 stelle i nuovi sondaggi, tra qualche giorno, registreranno un'inversione di tendenza. Ma per ora la situazione è questa. Perciò una parte non indifferente del Pd dubita che in caso di insuccesso di Bersani si vada a votare a giugno. Perché per il centrosinistra le elezioni anticipate possono rivelarsi un azzardo pericoloso. Quindi c'è chi - non Bersani - ipotizza un governo del Presidente presieduto da Grasso o un altro esponente estraneo ai partiti. Ma c'è pure chi - tra i bersaniani - in caso di fallimento punta alle elezioni con Renzi candidato. Il sindaco, invece, non ci pensa. Come ha spiegato ai suoi l'altro giorno: «Se si fa un governo che dura una legislatura per me è anche meglio. Mi ricandido a sindaco e ho il tempo di rafforzarmi nel partito e all'esterno». Maria Teresa Meli 18 marzo 2013 | 9:23© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/politica/13_marzo_18/bersani-ai-suoi-governo-anche-solo-di-due-anni-maria-teresa-meli_94433786-8f8d-11e2-a149-c4a425fe1e94.shtml Titolo: Maria Teresa MELI La «conta» - L'incarico al Segretario del Pd Inserito da: Admin - Marzo 22, 2013, 06:31:02 pm La «conta» - L'incarico al Segretario del Pd
L'altra carta di Bersani : una Convenzione per riforme bipartisan «No a governi col Pdl: ma le regole sì. Ci vuole un governo politico, a questo punto, per come è messa la situazione» ROMA - «Ragazzi, poteva anche andare peggio»: il segretario del Pd, con i fedelissimi, ha voluto sdrammatizzare con questa battuta l'esito dell'incontro con Napolitano. In realtà il colloquio non è stato facilissimo, anche se, ad avviso di Bersani, «non è andato male». Il leader del Pd si è sentito rinfacciare certe «forzature» fatte per ottenere l'incarico pieno in modo da arrivare in Parlamento senza prima passare per il Quirinale. Ma nel Monopoli della politica italiana di questi giorni quella casella non la si può saltare. Incarico sì, ma con l'obbligo di riferire al Colle prima di tentare l'avventura dell'esame delle aule. «Sono prudente», diceva ancora ieri sera, scaramantico, Bersani. Il segretario del Partito democratico ha tutta l'aria di uno che intende fare sul serio. «Ci vuole un governo politico, a questo punto, per come è messa la situazione», ha ribadito con i suoi. Il che non esclude che nell'esecutivo immaginato da Bersani vi siano anche tecnici, come, per esempio, Saccomanni. I nomi dei possibili ministri il leader del Pd li ha già in mente, ma in questo momento quello che importa non sono le persone, bensì «le cose da fare». E anche su quello Bersani sembra avere delle idee ben precise. Le ha confrontate con il capo dello Stato, il quale gli ha chiesto di non tirare giù la saracinesca con il centrodestra in modo definitivo, perché il governo è una cosa, ma la normale dialettica istituzionale è un'altra. Perciò Bersani si è ripromesso di seguire quello che lui definisce «un doppio binario». Da una parte c'è il governo del Paese e, soprattutto, dell'emergenza economica e sociale che attanaglia l'Italia. Dall'altra ci sono le regole e le riforme delle istituzioni che riguardano tutti i partiti, di maggioranza o di opposizione che siano. «Abbiamo sempre detto - è stato il ragionamento di Bersani - che questa sarebbe stata una legislatura costituente e non abbiamo certo cambiato idea. Quindi in Parlamento si può dare vita a una Convenzione che si occupi di cambiare la legge elettorale, ridurre il numero dei parlamentari e trasformare il Senato in una camera delle autonomie. È un compito che spetta al Parlamento, ovviamente, ma il governo può fare da stimolo propulsivo». Una «Convenzione», dice Bersani. Traguardo ambizioso che rimanda alla «Convenzione» per antonomasia, quella che dal 1792 al 1795 elaborò la Costituzione della nuova Repubblica francese. Ma Bersani non ha mai nascosto il suo pensiero: «Il Paese è in uno stato tale per cui c'è bisogno del massimo impegno: questa crisi può essere un'occasione per rilanciare l'Italia». E il Parlamento e la Convenzione possono essere i luoghi dove confrontarsi con il Pdl, che dice di volere la riforma elettorale o con la Lega, che aspira a trasformare il Senato in una Camera delle autonomie. Ciò non significa, però, che Bersani abbia cambiato idea sull'ipotesi di governare con il centrodestra: «Noi non appoggeremo mai nessun governo, di qualsiasi tipo e natura, in cui ci sia il Pdl e non il Movimento 5 Stelle». Su questo Bersani è disposto, ad andare alla conta interna. È pronto a vedere le carte dei renitenti al voto: Matteo Renzi, Dario Franceschini ed Enrico Letta. Con lui ci saranno i «giovani turchi», perché, come dice Orfini: «Un governo con il Pdl e senza grillini sarebbe il nostro suicidio». Il partito, è probabile, si dividerà. Ma su questo Bersani, almeno al momento, non sembra voler fare passi indietro: «La stabilità per il nostro Paese è importante, ma non si esaurisce tutto nella governabilità: ci vuole pure il cambiamento». Maria Teresa Meli 22 marzo 2013 | 8:01© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/politica/13_marzo_22/altra-carta-leader-meli_e35bfb54-92bd-11e2-b43d-9018d8e76499.shtml Titolo: Maria Teresa MELI Ha già un nome: «Governo a bassa intensità politica» Inserito da: Admin - Marzo 26, 2013, 11:19:21 pm Esecutivo a «bassa intensità politica» se il segretario fallisse
Il piano B del Pd: senza il leader un governissimo di otto-nove mesi Nel Partito democratico fronte ampio contro le urne subito per poi lanciare la candidatura di Renzi Ha già un nome: «Governo a bassa intensità politica». E un programma preciso e delimitato: riforma elettorale, riforma del finanziamento pubblico dei partiti, riduzione dell'Imu per determinate fasce di cittadini e (ovviamente) approvazione della legge di stabilità. Questo governo dovrebbe prendere il via nel caso in cui il tentativo di Pier Luigi Bersani dovesse fallire. Scenario, questo, niente affatto improbabile, viste le difficoltà che sta incontrando il segretario del Partito democratico. L'unica carta che potrebbe consentire al leader del Pd di mettere in piedi un suo esecutivo è quella di un accordo segreto stipulato con un gruppo di grillini che fanno capo all'associazione «agenda rossa» di Salvatore Borsellino (che peraltro hanno già votato per Pietro Grasso in dissenso dal Movimento 5 Stelle) e con quelli che sono vicini a Libertà e giustizia di Gustavo Zagrebelsky. Ma se il segretario del Pd non ha questa carta in mano il suo tentativo pare proprio destinato a fallire, anche se ieri girava voce che giovedì Bersani potrebbe chiedere a Giorgio Napolitano un supplemento di indagine. Nel Partito democratico, comunque, non si parla d'altro che di questo governo che dovrebbe vedere la luce in aprile. E dovrebbe durare otto-nove mesi, non di più. Giusto il tempo che serve per mandare in porto i punti programmatici. Lo voterebbero Pd, Pdl, Scelta civica e chiunque altro sia interessato a questo ennesimo tentativo di far uscire dalle secche la politica italiana. Certo, adesso pubblicamente tutti a largo del Nazareno (e anche a Palazzo Vecchio) sostengono Bersani e il suo sforzo. Com'è giusto che sia, visto che il segretario sta cercando di dare vita a un governo a guida Pd. Ma poi molti pensano che non sia opportuno tornare alle elezioni in fretta e furia. Del resto, è il ragionamento che viene fatto nei conversari privati di questi giorni, sarebbe difficile per tutti dire di no a un governo del genere di fronte a quel programma. Un programma che, peraltro, contiene delle proposte su cui il Pd si è sempre detto d'accordo. Anzi, che sono le stesse del Partito democratico. È chiaro che ci sarà una discussione interna molto aspra, che ci si dividerà e si litigherà, ma alla fine bisognerà pur dare una risposta. Ed è difficile che possa essere negativa. Com'è difficile per il Pd spiegare che non vuole riformare la legge elettorale, il finanziamento pubblico dei partiti e non vuole ridurre l'Imu dai mille euro in giù perché anche il Pdl sarebbe disposto a votare quel programma. Del resto si sa già che personaggi influenti come Walter Veltroni sono favorevoli a un cosiddetto governo del Presidente. E Matteo Renzi ha sempre detto: «Se il capo dello Stato ci proponesse un governo istituzionale che faccia poche cose utili come potrebbe il Pd dirgli di no?». Anche gli ex Ppi come Enrico Letta, Dario Franceschini e Beppe Fioroni non sono favorevoli a un ritorno alle urne. Insomma, in realtà, dentro il Pd c'è un fronte ampio e trasversale a favore di un'ipotesi del genere. Una road map così concepita consentirebbe a Renzi di candidarsi alle primarie nel tardo autunno e di riuscire a non bruciarsi perché i tempi delle elezioni si allungano troppo. Il sindaco di Firenze dovrebbe comunque avere un competitore perché non è sua intenzione, come ha ripetuto più volte, «farsi cooptare» dai maggiorenti del Pd: «Non ci penso proprio». E il competitore non potrebbe essere più Bersani dal momento che, un minuto dopo il fallimento del suo tentativo, dentro il partito si aprirebbe il processo al segretario che nessuno ha mai innescato perché c'era l'incarico in ballo. Mentre dietro le sue spalle si svolgono tutti questi movimenti (di cui comunque Bersani è consapevole) il leader del Pd prosegue il suo sforzo con grande determinazione. Quale sia il discorso che il segretario ha fatto alle delegazioni incontrate finora lo ha sintetizzato il presidente di Confindustria Giorgio Squinzi in una lettera ai vertici locali dell'associazione: «Il percorso di formazione del governo, ipotizzato dall'onorevole Bersani, vede il coinvolgimento dei tre principali partiti a partire dalle riforme istituzionali, su cui è possibile trovare una convergenza che consenta l'avvio dell'attività di governo. L'onorevole Bersani ha parlato espressamente di "porta di ingresso" per l'attività del governo. Trovata una convergenza sui temi istituzionali, si dovrebbe passare ai temi dell'agenda, ovvero quelli che toccano più da vicino l'economia". Ma l'«agenda Bersani» rischia di rimanere vuota. Maria Teresa Meli 26 marzo 2013 | 8:13© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/politica/13_marzo_26/il-piano-senza-il-leader-un-governissimo-di-otto-nove-mesi-maria-teresa-meli_f337580e-95d6-11e2-9784-de425c5dfce0.shtml Titolo: Maria Teresa MELI Bersani, la carta di Prodi per evitare le larghe intese Inserito da: Admin - Aprile 02, 2013, 06:16:58 pm «La priorità ora è l'elezione del presidente della Repubblica»
Bersani, la carta di Prodi per evitare le larghe intese Il segretario cerca di uscire dall'angolo e punta sull'ex premier per il nuovo Quirinale ROMA - Pier Luigi Bersani è convinto: «La priorità ora è l'elezione del presidente della Repubblica», annuncia ai suoi. E aggiunge: «Dopo la scelta del nuovo capo dello Stato ci saranno ancora più elementi che giustificheranno l'esigenza di un governo di cambiamento, e che chiariranno che le ipotesi delle larghe intese o di un nuovo esecutivo tecnico retto da una strana maggioranza sono impraticabili». Già, perché se l'elezione del presidente avvenisse senza l'aiuto del Pdl ma con l'apporto dei grillini e, magari, di qualche montiano, sarebbe veramente difficile mettere di nuovo insieme attorno a un tavolo il Pd e il Pdl. Ed è proprio questa l'idea che sta accarezzando Bersani per uscire dall'angolo e rilanciare. Un capo dello Stato di rottura nei confronti di Berlusconi scriverebbe la parola fine sul tormentone delle «grandi intese», come su quello di un governo modello Monti. Il nome vincente in questo senso potrebbe essere quello di Romano Prodi. Ai più è sfuggito il post pubblicato sul blog di Grillo sabato scorso. Ma al Pd lo hanno letto con attenzione e grande interesse. È vero, il leader del Movimento 5 Stelle sostiene di non voler vedere un politico già usato al Quirinale, però poi accusa Partito democratico e Pdl che «vorrebbero un presidente "quieta non movere et mota quietare", non un Pertini, ma neppure più modestamente un Prodi che cancellerebbe dalle carte geografiche Berlusconi». Sì, Prodi sarebbe l'uomo giusto al posto giusto (anche se si parla pure di Stefano Rodotà e Gustavo Zagrebelsky). Al Pd pensano che l'ex premier dell'Ulivo potrebbe ridare l'onore al centrosinistra e l'incarico a Bersani. Ma per ora nessuno vuole bruciare né tappe né nomi, perciò la raccomandazione è: «Prudenza». Anche perché Silvio Berlusconi ha subodorato che c'è qualcosa che non torna. E si è insospettito non poco anche delle mosse di Giorgio Napolitano che a suo avviso servono «a prendere tempo e rendere impraticabile la strada delle elezioni in estate» e rischiano di «metterci fuori dai giochi sul Quirinale». «Stiamo attenti - ripete incessantemente ai suoi il leader del centrodestra - perché come ai tempi di Monti è in atto un'operazione contro di noi, questa volta per eleggere il capo dello Stato senza che i nostri voti siano determinanti». Il Cavaliere è convinto di essere al cospetto di «una trappola» e come i bersaniani guardano con un certo sospetto Enrico Letta, Massimo D'Alema e Matteo Renzi, perché pensano che stiano lavorando di sponda con il Quirinale, per dare vita a un governo che non sia presieduto dal segretario, così lui teme che riparta dentro il Pdl il tentativo di parricidio. «Se c'è qualcuno che nel centrodestra pensa di approfittarne per mettermi da parte, sta facendo male i suoi calcoli, perché io rovescio il tavolo», è il ritornello che più di un suo interlocutore si è sentito ripetere da Berlusconi. Ma in queste stesse ore, quasi fossero predestinati a cadere insieme, anche Bersani fa riflessioni analoghe: «I saggi non possono preparare il terreno per le larghe intese, se c'è qualcuno nel partito che invece ha in mente questo obiettivo lo dica chiaramente». E a sentire certe affermazioni, in mente, quell'opzione, la hanno in diversi. Paolo Gentiloni, per esempio, che dice: «Sto dalla parte di Enrico Letta che ha dato sostegno e fiducia a Napolitano». Mentre un altro renziano, Angelo Rughetti, propone: «Si potrebbero stabilizzare i gruppi di lavoro in un nuovo governo». Per questa ragione Bersani si è reso conto che è quanto mai necessario uscire dall'angolo e non assecondare il tentativo di chi nel Pd vuole prendere tempo e, magari, sfruttare l'allungarsi dei giorni per lavorare all'insaputa del segretario su una candidatura al Quirinale che non guardi solo a sinistra. «Io - spiega ai suoi Bersani - rimango in campo e non mi ritiro. La linea resta quella del governo di cambiamento: non si possono fare le larghe intese solo perché i saggi dicono che c'è l'accordo su due, tre punti». Del resto, continuano a ripetere i bersaniani del giro stretto, il presidente della Repubblica non ha dato l'incarico a nessun altro, quindi... Quindi, avanti ancora sulla linea di sempre. Ne è convinto uno come Matteo Orfini, secondo il quale «la soluzione proposta da Bersani è la più forte anche perché non ci sono nomi nuovi per la premiership». E quindi, per dirla con Alessandra Moretti: «Noi vogliamo un governo di cambiamento e Bersani deve esserne a capo». Maria Teresa Meli 2 aprile 2013 | 9:33© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/politica/13_aprile_02/bersani-carta-di-prodi-meli_adfdd380-9b53-11e2-9ea8-0b4b19a52920.shtml Titolo: Maria Teresa MELI Quelle 120 firme per fermare la corsa di Prodi Inserito da: Admin - Aprile 04, 2013, 05:20:20 pm LA CORSA AL COLLE, il Retroscena: Divisioni anche su Marini
Quelle 120 firme per fermare la corsa di Prodi Orfini: «Nessuno dei nomi che girano funziona, serve il metodo Grasso» ROMA - L'incontro ci sarà, su questo non dovrebbero esserci dubbi: Pier Luigi Bersani e Silvio Berlusconi si incontreranno a breve. D'altra parte, nonostante le polemiche e le incomprensioni, il Partito democratico non ha mai chiuso i canali di comunicazione con il Pdl. Maurizio Migliavacca colloquia spesso con Denis Verdini. Vasco Errani in questi giorni ha parlato sia con Gianni Letta sia con Verdini. E dicono che ieri sera ci sia stato un primo contatto diretto tra Bersani e Arcore. Insomma, la saracinesca del Pd non si è mai completamente chiusa nemmeno nei momenti peggiori. Ma le carte che Bersani ha in mano per convincere Berlusconi a un accordo sul Quirinale che sia propedeutico alla nascita del suo governo sono sempre meno. I nomi di Franco Marini, Giuliano Amato e Massimo D'Alema non piacciono nemmeno agli esponenti del Pd. «Ormai - ha detto Matteo Renzi ai suoi deputati e senatori - è guerra e quindi a Pier Luigi non sarà tanto facile fare giochini sul Quirinale». Per dirla in parole povere, sull'elezione del nuovo presidente della Repubblica i 51 parlamentari renziani non garantiscono nulla. Certamente, non sono disposti a votare per esponenti politici che secondo loro sono degni di essere rottamati. Ma non basta. Anche tra i «giovani turchi» ci sono perplessità, tanto per usare un eufemismo. Matteo Orfini, che non è uno che le manda a dire, spiega: «Va bene il candidato condiviso, ma non può essere Marini, né un altro nome come quelli che girano. Ci vuole qualcosa di nuovo, ci vuole il metodo Boldrini e Grasso anche qui». Già, raccontano che i rapporti tra i «giovani turchi» e Bersani si siano deteriorati. Il segretario è sempre più portato a rinchiudersi nel «tortello magico» e a escludere l'ala sinistra del Pd che pure ha contribuito non poco alle sue primarie. Nel frattempo gli ex Ppi sono invece impegnati a far passare la candidatura Marini. In prima linea c'è Dario Franceschini. Ma anche Beppe Fioroni muove le sue truppe. Per entrambi non sarebbe giusto se l'area cattolica non avesse un suo rappresentante ai vertici delle istituzioni: non al Quirinale, non alle presidenze delle Camere e nemmeno a palazzo Chigi. Come se non bastasse, anche il piano B di Bersani ha molti oppositori. L'ipotesi di andare a votare Prodi, coinvolgendo così almeno una parte dei grillini, rischia di non funzionare. Ben 120 tra senatori e deputati del partito sono pronti a sottoscrivere una lettera pubblica per bloccare questa operazione. Ovviamente, non si tratterebbe di un'iniziativa per dire «Prodi non passerà». Perché una cosa del genere nei confronti del padre dell'Ulivo non può farla nessuno. Sarebbe piuttosto una presa di posizione per esprimere contrarietà all'ipotesi di un candidato «divisivo». L'iniziativa partirà solo nel caso in cui il segretario intenda veramente buttare sul tavolo da gioco del Quirinale la carta Prodi. Del resto, che certe candidature non siano opportune lo pensano in tanti: «Non si può candidare Prodi perché divide troppo», spiegava l'altro ieri Orfini. E dunque? Dunque adesso nel Partito democratico è forte la sensazione (e in alcuni anche la preoccupazione) che Berlusconi approfitti delle divisioni interne per riuscire a strappare un candidato non del Pd. «Se ci presenta una donna, una come Emma Bonino, ci spiazza», era il commento generale di un capannello di deputati, ieri sera. «Sarebbe una iattura», osservava Fioroni. «Non potremmo non votarla», gli replicava il veltroniano Walter Verini. Maria Teresa Meli 4 aprile 2013 | 8:49© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/politica/13_aprile_04/120-firme-per-fermare-corsa-Prodi-Colle_376e3aee-9ce7-11e2-a96c-45d048d6d7eb.shtml Titolo: Maria Teresa MELI Bersani rilancia la sfida: ci vuole un passaggio parlamentare Inserito da: Admin - Aprile 04, 2013, 11:43:34 pm Il centrosinistra
Il segretario vuole andare in Aula Ma i renziani spingono per le urne Bersani rilancia la sfida: ci vuole un passaggio parlamentare I dubbi di Orfini: «Elezioni anticipate sarebbero una sciagura» ROMA - Pier Luigi Bersani rilancia la sua sfida a Silvio Berlusconi. Il segretario del Pd invia al Cavaliere questo messaggio: per noi va bene una soluzione condivisa per il Quirinale, ma tu accetta di far nascere il governo del centrosinistra senza porre ostacoli, altrimenti... Altrimenti c'è sempre Romano Prodi sullo sfondo. Stufo delle voci che lo davano ormai in disarmo, chiuso a Bettola e poco propenso a tornare e a parlare prima di domani, il leader del Pd ha voluto chiarire qual è la sua posizione. A scanso di equivoci. «La nostra proposta di governo è l'unica alternativa al voto». Non che Bersani ufficialmente si auguri le elezioni. «Sarebbero una sciagura», dice in favore di telecamere. Semplicemente, il segretario non può ammettere che «si accantoni il piano del Pd senza alcun voto parlamentare». Insomma, Bersani è pronto, quando vi sarà un presidente della Repubblica nuovo, e nel pieno delle sue funzioni, a riprovarci. «Tra l'altro - dicono i suoi - con un capo dello Stato che ha il potere di scioglimento, vi saranno pochi parlamentari maldisposti verso un governo guidato dal nostro leader». Il responsabile organizzativo del partito, Nico Stumpo, assiso su un divanetto nel Transatlantico di Montecitorio, spiega a un amico che gli chiede lumi: «La nostra posizione è semplice: o andiamo al governo con Bersani, o al voto sempre con lui». E Matteo Orfini afferma: «Sono pienamente d'accordo con tutto quello che ha detto il segretario, solo su una cosa dissento: sul fatto che le elezioni anticipate sarebbero una sciagura». Bersani, dunque, ci spera ancora e vuole far capire a tutti, soprattutto agli esponenti del Pd che non sono d'accordo con la sua linea, che lui è ancora in campo. «In tutti i Paesi normali - spiega il segretario - il leader del partito che ha più voti e più parlamentari governa. Non si capisce perché qui dovrebbe essere diverso e soprattutto non si comprende perché i voti del Pd dovrebbero contare meno degli altri». L'iniziativa dei dieci saggi non è piaciuta a Bersani, ma è chiaro che non può dirlo pubblicamente. Sarebbe come attaccare Napolitano. Però quello che pensa di questa mossa del Colle, il segretario lo spiega ai suoi: «Io non ho indicato nessun nome al Quirinale, i saggi che hanno come riferimento la nostra area sono autonomi da noi e noi da loro. Comunque queste due commissioni non hanno certo il compito di fare un governo, scriverne il programma e decidere chi lo deve guidare. Quello che possono fare, e che sarebbe utile facessero, è un progetto di riforma elettorale condiviso, così potremmo liberarci del Porcellum». Il segretario, comunque, è convinto che se il suo governo andasse alla prova delle Aule parlamentari potrebbe prendere il via. Sennò, ripetono per l'ennesima volta, gli esponenti del «tortello magico», c'è solo il voto perché con il Pdl non si può proprio governare. E se si andasse alle urne in estate, i bersaniani sostengono che non ci sarebbe tempo per avere un candidato del Pd alternativo a Bersani. Già, il tempo stringe e non ce n'è abbastanza per votare una seconda norma transitoria in deroga allo Statuto che consenta anche ad altri Democrat di scendere in campo contro il segretario e poi organizzare le primarie. In questo modo i supporter del segretario ritengono di poter bruciare Renzi. Ma è veramente così? Il sindaco di Firenze la pensa diversamente e ai suoi in gran segreto ha confidato che per lui prima si vota e meglio è. A ottobre, persino a giugno. Tutto purché non parta il treno di una legislatura di lunga durata. Il che sarebbe pur sempre possibile. Infatti, una volta instradato sui binari un nuovo governo, del presidente o di Bersani che sia, sarebbe difficile fermarlo: se arrivasse all'anno prossimo, gli sarebbe facilissimo giungere a quello dopo ancora. Sì, perché il primo luglio del 2014 l'Italia assumerà la presidenza del semestre europeo, il che vuol dire che c'è bisogno di un governo nella pienezza dei suoi poteri. Ciò significa che prima del 2015 non si va a votare. Ma è un orizzonte temporale troppo lontano per Renzi: rischierebbe di non prendere l'ultimo treno a sua disposizione. Maria Teresa Meli 3 aprile 2013 | 8:25© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/politica/13_aprile_03/meli-segretario-vuole-andare-in-aula-renziani_2560b71c-9c21-11e2-aac9-bc82fb60f3c7.shtml Titolo: Maria Teresa MELI Il sindaco Renzi: «Sperano che vada via» Inserito da: Admin - Aprile 12, 2013, 11:06:31 pm I Retroscena - Veltroni al rottamatore: interessati anche del partito
Democratici, tutti contro tutti Il sindaco Renzi: «Sperano che vada via» E non esclude di candidarsi alla segreteria pd. Alessandra Moretti: «Un ruolo per Renzi? Il partito è pieno di primedonne» ROMA - Uno che di Pd se ne intende, l'ex deputato Peppino Caldarola, ha notato un particolare che a tutti è sfuggito: da qualche tempo in qua Pier Luigi Bersani «ha un tic al naso quando è nervoso, cioè sempre». È dai piccoli dettagli, alle volte, che si afferra quello che sta succedendo. Il segretario del Pd è sotto pressione. E ne ha ben donde: «Rischiamo l'implosione», avverte Beppe Fioroni. Già nel Partito democratico è ormai il tutti contro tutti: la presidente Bindi attacca il segretario, il segretario tenta di mettere sotto tiro Renzi, l'ex capogruppo Franceschini ventila la possibilità di una scissione. E il sindaco di Firenze si è convinto che qualcuno dentro il Pd stia lavorando, di provocazione in provocazione (l'ultima è la vicenda che riguarda i grandi elettori del Quirinale), per costringerlo a uscire dal partito. Lo ha spiegato ieri a qualche fedelissimo: «Ho la certezza che i bersaniani vogliono che io me ne vada. Questo è il loro obiettivo. Ma io rimango». Eccome se rimane. Anzi rilancia: adesso non esclude più di candidarsi alla segreteria del Pd. E a Porta a Porta annuncia: «Non metto nessun niet all'ipotesi di candidarmi al congresso». Renzi è talmente convinto di voler lanciare l'Opa sul partito che in questi ultimi tempi ha incontrato i due Grandi Rottamati: Walter Veltroni e Massimo D'Alema. Il primo colloquio, tenuto segreto, è avvenuto a Roma, a casa dell'ex segretario, alla vigilia della Direzione che si è tenuta dopo le elezioni. «Io voglio tornare allo spirito originario del Pd», ha spiegato Renzi a Veltroni. Che, soddisfatto per il riconoscimento, gli ha dato questo consiglio per il suo futuro da leader: «Devi entrare nell'ottica che ti devi interessare del partito, non puoi pensare solo al governo: nel Pd leader e premier coincidono». E il sindaco, come si è visto, ha seguito il suggerimento. Cominciando a tessere la sua tela anche nel Pd. Il secondo colloquio, come si sa, è di ieri. Chissà se D'Alema ha fatto a Renzi la profferta che ha in animo di fargli da giorni, secondo quanto scrive su «Panorama», con lo pseudonimo di Keyser Söze, un noto parlamentare. E cioè di assumere la guida di un governo di salvezza nazionale. Non c'è quindi da stupirsi se la tensione tra Renzi e Bersani (che ieri ha cercato di rabbonire il sindaco) è altissima. La si palpa con mano, al centro come in periferia. Spiega Angelo Rughetti, deputato renziano: «La verità è che il partito è gestito come se le primarie non fossero mai avvenute e non vi fosse un 40 per cento del nostro elettorato che ha votato Matteo». Rughetti racconta anche alcuni episodi che lo hanno molto colpito: «Nelle sezioni se accompagni un cittadino o un amministratore locale a fare una tessera del Pd, se è renziano non gliela fanno». Ma il malessere è generalizzato. Anche gli ex ppi sono a disagio: si sentono esclusi dai giochi. Questo spiega il nervosismo di Franceschini, per esempio. Che si è acuito con l'avvicinarsi dell'elezione del Presidente. «Se non ci sarà un cattolico al Colle vuol dire che è finita una stagione», afferma Fioroni. Sì il Quirinale fa fibrillare ancora di più la situazione. Secondo il direttore di Europa Stefano Menichini il Pd si sta avviando alla partita del Colle come la Dc: «Diviso in correnti». E un autorevole esponente di Largo del Nazaremo aggiunge questa chiosa: «Come la Democrazia Cristiana del 92, che elesse Scalfaro e poi esplose». Sia Renzi che gli ex ppi (che, va detto per inciso, non vanno spesso d'accordo) guardano con sospetto anche ai movimenti a sinistra del Pd. E si chiedono che cosa significhi questo tentativo di matrimonio con Sel. O che rappresenti l'improvviso attivismo di Barca, che l'altro ieri si è incontrato addirittura con il leader Fiom Maurizio Landini in un bar dal nome evocativo: «Ritorno al passato». Renziani ed ex ppi avrebbero potuto avere qualche indizio di ciò che si muove a sinistra se avessero ascoltato ieri in Transatlantico uno dei luogotenenti di Vendola, Gennaro Migliore, che diceva a un amico: «Renzi potrebbe farsi il suo partito e arrivare anche al 20 per cento». Insomma sembrerebbe che nel centrosinistra ci sia chi ritiene che la somma non faccia il totale. E che se ex Ds (con l'innesto di Sel) ed ex margheritini si dividessero per poi allearsi alle elezioni prenderebbero più voti del Pd. «Una solenne stupidaggine», l'ha definita Veltroni nel suo colloquio con il sindaco di Firenze. E Matteo Renzi ha concordato con lui. Maria Teresa Meli 12 aprile 2013 | 8:28© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/politica/13_aprile_12/democratici-tutti-contro-tutti-il-sindaco-sperano-che-vada-via-maria-teresa-meli_80cffe22-a32a-11e2-a571-cfaeac9fffd0.shtml Titolo: Maria Teresa MELI ANCHE CASINI PRONTO AL VIA LIBERA, MA PESA IL NO DI ... Inserito da: Admin - Aprile 14, 2013, 07:43:29 pm RETROSCENA -
ANCHE CASINI PRONTO AL VIA LIBERA, MA PESA IL NO DI FRANCESCHINI Il fronte (da Renzi a D'Alema) che punta su Prodi per il Colle L'ok di Veltroni e la preoccupazione del segretario ROMA - Il primo, inequivocabile, indizio è la presenza quasi quotidiana di Arturo Parisi alla Camera e il suo insistere sul fatto che «all'Italia serve un De Gaulle». Il secondo è l'intervista di Graziano Delrio all' Unità , per spiegare che «Prodi al Quirinale sarebbe una figura di garanzia». Il terzo è rappresentato dalle parole di Matteo Renzi a Porta a Porta : «Prodi è uno dei candidati. Berlusconi farà di tutto pur di averne un altro, ma tutto dipende da un fatto: se si farà o meno l'accordo con il centrodestra». Il quarto lo fornisce sempre il sindaco di Firenze quando annuncia il suo «no» a Franco Marini. Insomma, per farla breve, lo scontro congressuale del Partito democratico si è spostato sul campo di battaglia del Quirinale: in questo momento si stanno confrontando due armate, una punta su Prodi, l'altra su Marini. E una cosa è certa: ci saranno morti e feriti. Bersani, che l'altro ieri mattina ha sondato Veltroni e ieri D'Alema e Bindi, in questi giorni ha fatto il nome di Marini come quello di un possibile candidato condiviso con il Pdl. Ma Veltroni, che ha invitato il segretario a consultare maggiormente il Pd in questo frangente delicato, perché, altrimenti, per dirla con Ermete Realacci c'è il rischio che «i gruppi parlamentari non diano una risposta convinta alla proposta che verrà fatta», non pensa che Marini possa essere il candidato giusto, pur apprezzandolo e stimandolo. Anche D'Alema ha delle perplessità, legate all'identikit del futuro presidente della Repubblica. Secondo l'ex premier il nuovo capo dello Stato deve avere «credibilità internazionale». Fioroni e Franceschini, invece, non la pensano così: loro sono posizionati su Marini e non vorrebbero discostarsi di lì. Ma ora che Renzi ha ufficializzato il suo «no» all'ex presidente del Senato, proprio dopo l'incontro con D'Alema, i giochi sono cambiati. L'ex premier sta cercando un candidato condiviso. Non con il Pdl. Ma prima di tutto dentro il Pd perché capisce che sennò non si va da nessuna parte. Perciò ha voluto parlare con Renzi e ha cercato di convincere Bersani a seguire un percorso più lineare. A D'Alema Prodi non dispiace. E nemmeno a Veltroni. Infatti Fioroni cerca di correre ai ripari: «Renzi e gli altri che vogliono un presidente divisivo non pensano all'interesse generale del Paese». E Bersani, che pensa di Prodi? L'altro giorno Angelo Rughetti, neo deputato renziano, ragionava così con un capannello di colleghi di partito: «Mi pare che siamo alla "nuova" politica dei due forni. C'è il piano A, che prevede l'accordo con Berlusconi per Marini al Quirinale e un governo Bersani delle "quasi larghe intese". Poi c'è il piano B: accordo con il Movimento 5 Stelle per Rodotà o un personaggio simile, che garantirebbe l'incarico a Bersani, ma in questo caso gli sarebbe più difficile ottenere la fiducia». Le riflessioni ad alta voce di Rughetti sono condivise da molti. Ma la domanda che si fanno tutti o quasi è questa: «Come farà Bersani a dire pubblicamente no a Prodi?». Già, il progetto è di mettere il segretario con le spalle al muro e metterlo di fronte a un bivio: dire ufficialmente che in nome dell'accordo con Berlusconi preferisce sacrificare il leader fondatore dell'Ulivo o accettare la candidatura di Prodi? La novità in questo campo è anche un'altra: Casini, che ieri ha visto pure lui Bersani, si sta spostando su Renzi perché con il sindaco di Firenze candidato premier non avrebbe problemi a schierarsi con il centrosinistra. E il leader dell'Udc non disdegna l'idea di appoggiare Prodi. Insomma, i giochi per il Quirinale in casa democratica sono complicati, anche se si sta lavorando per trovare un'unità interna su un nome (ma Matteo Orfini, per esempio, ancora ieri sparava sia su Prodi sia su Marini). E anche in questo campo Renzi ha introdotto la sua innovazione: «Non pugnalerò mai Bersani alle spalle e non vi saranno franchi tiratori». Insomma, il dissenso verrà reso pubblico, con gli effetti mediatici che ne conseguiranno. Alla luce di queste vicende l'esclusione del sindaco di Firenze dai grandi elettori operata da franceschiniani e bersaniani assume un significato prettamente politico, che non può essere derubricato a fatto locale. Maria Teresa Meli 13 aprile 2013 | 7:48 © RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/politica/speciali/2013/elezioni-presidente-repubblica/notizie/meli-fronte-renzi-dalema-punta-prodi-colle_1066a140-a3fc-11e2-9657-b933186d88da.shtml Titolo: Maria Teresa MELI Scontro Renzi-Bersani, terremoto nel Pd Inserito da: Admin - Aprile 16, 2013, 02:53:41 pm Scontro Renzi-Bersani, terremoto nel Pd
Ex dc in rivolta. Già si contano i franchi tiratori Il sindaco: per loro meglio perdere che andare oltre la sinistra ROMA - La vicenda del Quirinale ha terremotato il Partito democratico. Pier Luigi Bersani sente la maggioranza sfuggirgli sotto i piedi. I cattolici, infatti, o per meglio dire, gli ex democristiani sono sul piede di guerra: hanno capito che non sarà Franco Marini il candidato del partito al Colle e minacciano fuoco, fiamme e scissioni. Seduto su un divanetto Beppe Fioroni scuote la testa e mormora ironico: «Amato da gran paraculo può fare anche il para-cattolico». Dario Franceschini fa avanti e indietro per il Transatlantico con l'aria forzatamente svagata. I «Mpm», ossia i «malmostosi per Marini» (così sono stati battezzati nel Pd gli ex Dc) sono gli unici ad aggirarsi per una Camera semivuota. Intanto il segretario che vede inevitabilmente sgretolarsi la maggioranza fa convocare una riunione di bersaniani «puri» allargata anche agli «impuri». Cioè ai «giovani turchi», che gli uomini del segretario vogliono incorporare alla loro corrente per riallargare una maggioranza che rischia di essere una minoranza. Il clima è tale che un parlamentare di lungo corso profetizza: «Ci saranno minimo ottanta franchi tiratori chiunque sia il candidato». Intanto Matteo Renzi parte alla volta di Parma: «C'è chi mi ha sconsigliato di andarci, ma chi se ne importa: l'inciucio con Berlusconi lo sta facendo Bersani, mica io». Il sindaco di Firenze sa che i due lo temono. Il segretario soprattutto perché sono già due candidati che gli ha fatto saltare. Guardando a come lo trattano, non sembrerebbe che Renzi abbia tutta questa influenza, ma è così. Lui critica Marini e Finocchiaro, dirigenti e parlamentari del Pd li difendono, però, spiega un autorevole esponente della maggioranza bersaniana, «se non sono più che immacolati, alle accuse di Matteo seguono quelle della gente, dei grillini e in questo clima meglio lasciar perdere». Sembra la fotografia di un partito paralizzato, ma l'impressione che ricava il sindaco di Firenze è tutt'altra: «Vogliono comandare loro, sempre e solo loro (gli ex ds, ndr ), adesso si sono inventati anche Barca, ma facessero quello che vogliono: se preferiscono perdere per non allargare il perimetro oltre la sinistra, affari loro». Renzi in questi giorni si sente sotto attacco: «E nessuno mi difende, perché mi vivono come un corpo estraneo». Non lo consola il fatto che i vertici del Pd non abbiano difeso nemmeno Romano Prodi dagli attacchi di Berlusconi e dei suoi (lo ha fatto, due giorni dopo, solo Enrico Letta). E a qualche amico che lo invita ad andare avanti nella conquista del partito confida il suo vero timore: «Se continuano così, io rischio di ereditare una terra bruciata». La tensione spezza gli ultimi fili del rapporto che legava Bersani e Renzi. Il segretario è arrabbiato e si sfoga così con i suoi: «Quello è un irresponsabile. Ha paura che io riesca a fare un governo che duri mentre lui vuole andare alle elezioni anticipate. Ma ha fatto male i suoi calcoli». Nonostante il buon numero di solerti pompieri che cercano di spegnere i mille fuochi che si accendono nel campo del Pd, il compromesso appare impossibile. Per tutto il giorno continuano gli attacchi dei bersaniani a Renzi. Solo Berlusconi li ha impegnati con la stessa intensità. Renzi non vuole replicare direttamente agli insulti. Ma c'è chi si chiede quanto potrà durare una situazione del genere. E il deputato renziano Angelo Rughetti offre una chiave di lettura di quanto sta accadendo: «È strano che Bersani non senta la necessità di fare in modo che le relazioni politiche in questa fase delicata vengano portate avanti anche con il contributo di chi ha preso il 40 per cento dei consensi e si affidi solo alla vecchia guardia». È una delle critiche che vengono fatte al segretario, quella di procedere senza coinvolgere una parte importante del partito. E c'è chi, come l'ex parlamentare del Pd Peppino Caldarola, imputa questo modo di fare agli uomini più vicini al leader: «Gotor e gli altri che circondano il segretario dovrebbero ispirarsi a letture più liberali se non vogliono far degenerare la vita interna del Pd e passare alla storia come il più ottuso gruppo dirigente che la sinistra abbia mai avuto». E c'è anche un'altra accusa che viene rivolta a Bersani. Dai renziani, ma è condivisa dai dalemiani e dai veltroniani. È di nuovo Rughetti a spiegare di che cosa si tratta: «Mi piacerebbe che Bersani facesse più il segretario e meno il candidato premier. Tutti sanno che il governo di minoranza non esiste e non serve: un esecutivo che così non è utile e non va messo in pista». Già, però Bersani è seriamente intenzionato ad andare avanti con il suo governo di minoranza. Non spera che i grillini cambino casacca adesso, però è convinto che con il tempo alcuni lo faranno. Maria Teresa Meli 16 aprile 2013 | 8:23© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/politica/speciali/2013/elezioni-presidente-repubblica/notizie/16-aprile-terremoto-pd-ex-dc-in-rivolta-si-contano-franchi-tiratori-meli_1c6861a6-a657-11e2-bce2-5ecd696f115c.shtml Titolo: Maria Teresa MELI Renzi convince i Giovani turchi Inserito da: Admin - Aprile 21, 2013, 06:11:07 pm Retroscena - Epifani potrebbe sfidare il sindaco. Che è sicuro: ora cambiare si può
Renzi convince i Giovani turchi Al via la «Rifondazione democratica» I nuovi equilibri del partito dietro la «gaffe» di Barca pro Rodotà ROMA - La chiamano già «Rifondazione democratica». È il nuovo corso del Pd che si è liberato dei «padri», cioè di D'Alema, Veltroni e Bersani. Alla guida di questo processo ci sarà - sembra quasi superfluo dirlo - Matteo Renzi. Il sindaco rottamatore sabato è rimasto nella sua Firenze, ma ha seguito passo dopo passo quello che succedeva a Montecitorio. E ai fedelissimi ha spiegato: «Molti sono stati colpiti a affondati, io no. Ieri in questo partito c'erano Bersani e Bindi, oggi non ci sono più: il Pd può finalmente cambiare. Ora dovrò pormi il problema del congresso, dovrò decidere se candidarmi alla segreteria, è vero, ma andiamo avanti un passo per volta. Intanto abbiamo conquistato la possibilità di fare cose nuove. E poi vedremo quello che succederà in futuro: magari dovrò confrontarmi alle primarie con quello del catoblepismo». E quest'ultima parola è affogata in una risata. Già, perché Fabrizio Barca ha sbagliato tempi e modi della sua uscita a favore di Rodotà, giocandosi le simpatie dei Giovani turchi. A immaginare con lui un nuovo partito che si fondi con Sel sono rimasti Gianni Cuperlo e il governatore della Toscana Enrico Rossi. Mentre Laura Puppato ha lasciato il Pd per veleggiare verso Nichi Vendola. Quel che resta del Partito democratico starà con Renzi. Il sindaco è su di giri: non lo preoccupa nemmeno il fatto che potrebbe nascere un nuovo governo, facendo slittare i tempi delle elezioni e, quindi, della sua candidatura: «Aspetto, ho tutto il tempo che voglio». Anche perché è sensazione diffusa che questo esecutivo, se mai vedrà la luce, non godrà di vita lunga: un annetto al massimo. Quel che sta accadendo nel Pd è un rinnovamento generazionale e non solo. A Roma Matteo Orfini delinea già le possibili novità. Che partono da subito: «Intanto alle consultazioni non ci possono andare Enrico Letta, Speranza e Zanda perché non mi rappresentano. Qualsiasi impegno che loro possono prendere non mi riguarda. Non si può fare finta di non vedere quello che è successo. Perciò la delegazione che andrà al Quirinale dovrà rispettare tutti e non solo le vecchie correnti: bersaniani, lettiani e franceschiniani. Non sono più quei tempi e infatti deve cessare anche la conventio ad excludendum nei confronti di Matteo Renzi. Il sindaco rappresenta il 40 per cento di questo partito». Insomma, i Giovani turchi vogliono anche loro la Rifondazione democratica, anzi puntano ad arrivare all'obiettivo il prima possibile. E c'è un aspetto della rivoluzione operata dentro il Pd che può incidere nel prossimo futuro. Basta ascoltare di nuovo Orfini: «Non è affatto scontato che ci sia il nostro "sì" al governo e non è affatto detto che un esecutivo si possa mettere in piedi solo con il Pdl. Vogliamo discutere pure di questo». Insomma, tutto viene rimesso in gioco in questo Pd che corre verso Renzi. E non c'è Barca che tenga. Tanto più dopo l'appoggio a Rodotà. «Una roba inaccettabile», sibila Stefano Fassina. Del resto, i Giovani turchi hanno ormai rotto il legame che li teneva a Sel: «Sono come Bertinotti». Ora il loro interlocutore politico si chiama Renzi. Sarà con il sindaco che dovranno trovare l'accordo e sarà con lui che dovranno lavorare. I vecchi equilibri si sono spezzati per sempre. Cercano di farlo intendere anche al povero Roberto Speranza, capogruppo da troppo poco tempo per comprendere quello che sta accadendo. Adesso dovrà mettersi in moto la macchina congressuale, perché le assise nazionali devono tenersi al più presto. C'è chi le vorrebbe fare già a giugno, senza aspettare ottobre. Ma i tempi dipenderanno inevitabilmente dalle vicende politiche: se non si riuscisse a fare un governo e si dovesse andare alle elezioni, allora il congresso potrebbe slittare. Ma i «padri» non hanno veramente troppa fretta di essere sloggiati dalle loro rendite di posizione. Perciò si stanno cercando di riorganizzare e di resistere al ricambio generazionale. E guardano a Guglielmo Epifani come al possibile segretario del dopo Bersani. L'ex leader della Cgil è una figura rassicurante, è l'unico del Pd che in questi giorni è riuscito a parlare con la gente che manifestava fuori del Palazzo. Ed Epifani, sul governo che verrà, ha idee diametralmente opposte a quelle di Orfini. Secondo lui «l'unica chance» è l'esecutivo «con il centrodestra»: «Non ho paura di dirlo, anche perché, dopo tutti gli scioperi che ho organizzato contro di lui nessuno mi può dare del berlusconiano». È Epifani, dunque, la carta che potrebbe essere giocata da una parte del Pd al tavolo delle primarie? Sarà lui a sfidare Matteo Renzi alle primarie quando verrà il momento di decidere di chi è la leadership del Partito democratico? L'ex segretario della Cgil si schermisce, ma è proprio lui quello che in questi giorni di sbandamento di Bersani ha cercato di aggiustare la linea e di evitare che il Pd in affanno da eccesso di insulti via web, finisse fuori strada. Certo, Epifani e Renzi sono due mondi opposti. Che però convivono nello stesso partito. «È vero - ammette lo stesso Epifani - ci sono nel Pd due tronconi politici e culturali diversi e in questi giorni, durante la vicenda del Quirinale, si è visto con particolare evidenza». Maria Teresa Meli 21 aprile 2013 | 9:31© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/politica/13_aprile_21/renzi-convince-i-giovani-turchi-al-via-la-rifondazione-democratica-maria-teresa-meli_138fbe64-aa3d-11e2-968c-b1e4e5776c81.shtml Titolo: Maria Teresa MELI D'Alema e i (finti) veti sul candidato Inserito da: Admin - Maggio 11, 2013, 05:38:32 pm I renziani contrari alla linea «soft» del capo: «Non dovrebbe trascurare così il partito»
D'Alema e i (finti) veti sul candidato Ma la partita vera si gioca a ottobre L'sms dell'ex premier: qualsiasi cosa deciderai, avrai il mio sostegno. Renzi, timori per l'asse Letta-Bersani-Franceschini ROMA - È tutto rinviato. Ma non a data da destinarsi. A ottobre. Lì si decideranno le sorti del Partito democratico. E anche quelle del governo. Non sotterrano l'ascia di guerra, i maggiorenti del Pd, ma la depongono per un po'. Per quel che basta per arrivare al redde rationem, che ormai è inevitabile. Oggi non saranno rose e fiori, però neanche guerre. Semplicemente, ognuno prenderà posizione, in vista del dopo. Per alcuni sarà dopo Congresso, per altri dopo governo, per tutti una prova che non si può evitare. Le parole che accompagnano il Pd in questi giorni complicati non sono esattamente beneauguranti: «Epifani? È come far tornare Mazzone sulla panchina della Roma», dice qualche dirigente di fede giallorossa. Ma anche il più importante dei tifosi del Pd, ossia Massimo D'Alema, non storce un baffo e non alza un sopracciglio. Benché sia arrabbiato perché dall'entourage di Franceschini lo hanno dipinto come vinto e sfatto. Hanno addirittura detto che aveva posto un veto su Epifani, che si è dovuto rimangiare. La storia è un po' diversa. Quel veto c'era quando per la prima volta si parlò dell'ex leader sindacale come segretario. Era un escamotage di Bersani e dei suoi per evitare il congresso, la resa dei conti interna, e, soprattutto, per scongiurare la prospettiva di dover ridare indietro tutte le poltrone importanti. Ma quando si è capito che l'ex segretario aveva mollato l'osso e il piano, D'Alema non ha avuto problemi a mandare il suo sms a Epifani: «So che stanno inventando storie che riguardano miei veti su di te, sappi che non è vero e sappi che qualsiasi cosa tu deciderai di fare avrai il mio sostegno». L'ex presidente del Consiglio attribuisce a Franceschini la colpa di queste indiscrezioni messe ad arte in giro. Già, perché il giochetto sarebbe questo: dipingere l'esito dell'affanno Pd come la nascita di un asse Letta-Bersani-Franceschini a cui, ovviamente, soccomberebbero sia D'Alema che Renzi. E non importa che i due la pensino molto diversamente: quel che conta è dimostrare che c'è chi ha vinto e chi ha perso, e che nella seconda categoria ci sono quelli che, per un motivo o per l'altro, potrebbero far traballare il governo. È così? Non è così? Difficile sapere la verità in questo Pd dove ognuno gioca contro l'altro. Ma una traccia c'è. Non di verità: una traccia di come il Pd sta vivendo questo connubio complicato con il governo. È di nuovo Franceschini il protagonista, suo malgrado. Ma è a lui che gli ex Ds imputano questa versione light della conventio ad excludendum, che taglia le unghie a Gianni Cuperlo, mette in difficoltà D'Alema e lascia tutta la sinistra in affanno e in difficoltà. Questa volta il protagonista - involontario - è Veltroni. Il suo «uomo», Marco Minniti, dovrebbe prendere la delega per i Servizi. Anzi, sarebbe più corretto scrivere che avrebbe dovuto prendere, perché la storia becca una curva e non riesce a tenere il passo. Enrico Letta chiama Minniti e gli promette: «Aspetta qualche giorno e ti darò la delega ai Servizi». Di giorni ne passano tanti e non si sa più niente. Gianni Letta ha chiesto per conto di Silvio Berlusconi che quella delega vada a Gianni De Gennaro. Letta - Enrico - non si fa più sentire con Minniti. Franceschini invece fa sapere che il governo non ha gradito l'intervista di Veltroni al Corriere e che quindi il veltroniano Minniti potrebbe aver perso la sua buona occasione. Sarà anche questo un conto da regolare al Congresso prossimo venturo. Chi sembra che non abbia nessuna voglia di chiedere o trattare in vista di quell'appuntamento è Matteo Renzi: «In teoria ora dovrei fare l'incazzato, chiedere, pretendere e accusare, ma non voglio fare il Pierino, quello che dice sempre di no, per me non c'è nessun problema, facessero quello che vogliono». I renziani, o almeno la maggior parte di loro, ossia quelli che non rispondono al rito fiorentino stretto, non sono d'accordo. Pensano che il capo non debba trascurare il partito. Lui, per ora, da quell'orecchio non ci sente, ma chissà che di qui a ottobre non cambi idea. Maria Teresa Meli 11 maggio 2013 | 7:47© RIPRODUZIONE RISERVATA DA - http://www.corriere.it/politica/13_maggio_11/dalema-e-i-finti-veti-su-Epifani_8366471c-b9fb-11e2-b7cc-15817aa8a464.shtml Titolo: Maria Teresa MELI Enrico vede bene Matteo segretario, la premiership viene dopo. Inserito da: Admin - Giugno 09, 2013, 10:38:34 am L'incontro
Letta e Renzi, patto sul «tandem» Enrico vede bene Matteo segretario, la premiership viene dopo. Il fattore Zingaretti ROMA - Beffe, burle e sberleffi, quando non erano guerre, scontri e conflitti: da (quasi) sempre sono questi i rapporti tra fiorentini e pisani. Fino a oggi, almeno. Ossia fino alla nascita di questo strano tandem di marca Pd e di origine Dc composto da Enrico Letta e Matteo Renzi. La vulgata politica vuole che i due siano amici-nemici, come da copione prestampato della sinistra. Ma non è proprio così. O, meglio, la storia è un po' più complicata di così. Enrico dice di Matteo: «Sarebbe un ottimo segretario». Matteo dice di Enrico: «È un amico e ho fiducia in lui». Nessuno, anche in casa democratica, crede che dicano - e facciano - sul serio. Nessuno, salvo chi li conosce bene e sa che entrambi, abbeveratisi al tardo democristianesimo, non mentono. Perché Letta ritiene veramente che sia meglio avere Renzi segretario, piuttosto che grillo parlante, sempre pronto a riprendere il governo: «Sbaglia chi pensa che la sua elezione farebbe fibrillare l'esecutivo come fu con Veltroni e Prodi. Anzi, un'assunzione di responsabilità da parte di Matteo sarebbe auspicabile», è il ritornello che il presidente del Consiglio ama ripetere ai fedelissimi. «Enrico è sincero quando dice che esaurita questa esperienza non intende ricandidarsi a premier, anche perché oggettivamente sarebbe complicato per il Pd andare alle elezioni con il capo del governo delle larghe intese», assicura il sindaco di Firenze ai suoi. Che Renzi non abbia come faro quello di provocare la caduta del governo, ma che sia invece intenzionato a capire fino a dove può arrivare l'attuale esecutivo e che cosa possa fare per rendere più semplice la competizione del futuro, lo ha capito anche il Pdl. Ne ha avuto la prova provata Angelino Alfano, qualche sera fa, quando ha incontrato il medesimo a cena dal presidente dell'Eni Giuseppe Recchi. Sì, anche il vicepremier ha compreso che l'idea berlusconiana di spingere il Pd in un angolo, giocando sul dissidio Letta-Renzi è fallace e non efficace. Il fatto che caratterialmente siano così distanti, istituzionale il premier, movimentista il sindaco, potrebbe non essere foriero di divisioni. «Siamo due persone diverse, che anche per questo sono complementari. Ci rispettiamo e ci aiutiamo», spiega Letta. E Renzi chiarisce: «Davanti a un panino mangiato in fretta e furia, il giorno in cui Napolitano ha scelto Enrico, ci siamo scambiati una promessa: io avrei aiutato lui e viceversa. Se la premiership fosse toccata a me avrei voluto Enrico come segretario, e ora potrei fare io il leader del partito, mentre lui è a palazzo Chigi». E se Renzi ha un'idea del Pd che dovrà essere, differente da quella di Letta, non importa. «Altro che partito liquido: di più!», scherza sempre con i suoi il sindaco. Che Renzi voglia palazzo Chigi dopo le prossime elezioni non è un mistero per nessuno. Che Letta sogni invece un posto in Europa, e, più precisamente la presidenza della commissione Ue, lo sanno tutti, il primo cittadino di Firenze in testa. Che i due, nonostante le differenze caratteriali, vadano d'accordo è quindi un fatto assodato. E dopodomani, a Firenze, quando si incontreranno, cercheranno di farlo capire ad amici e avversari, a tifosi e nemici, tramite un'operazione mediatica di cui hanno bisogno entrambi. Ed è proprio per questo che i nemici dell'accordo Letta-Renzi sono tanti. In prima fila, dicono i sostenitori del sindaco, c'è Dario Franceschini. Lui, al contrario del premier e del primo cittadino di Firenze, non avrebbe parte in commedia, dopo le elezioni. Poi c'è Pier Luigi Bersani, che ha ancora il dente avvelenato. Insomma, c'è una parte del Pd che non si rassegna al patto tra il sindaco e il premier e cerca di mettere in difficoltà Renzi. E infatti è stato negato un posto al Copasir al fedelissimo Luca Lotti, nonostante Renzi lo avesse chiesto. Il che ha provocato non poche tensioni, tanto che il sindaco ieri è arrivato a minacciare di far saltare il banco ritirando lo stesso Lotti dalla segreteria del partito. Il fronte anti-Renzi è dunque agguerrito e ha un unico vero candidato alla segreteria da contrapporre al rottamatore: Nicola Zingaretti. Il «governatore» del Lazio non scopre ancora le sue carte, ma l'uscita di ieri, contro il correntismo del Pd, al quale, secondo lui, si è acconciato anche Renzi, è più che indicativa. Zingaretti potrebbe ottenere anche i consensi dei non allineati del Pd (che sono tanti). Il sindaco lo sa, e aspetta settembre prima di decidere se candidarsi o meno alla segreteria. Fino ad allora il Pd ballerà... e non sarà una danza di società. Maria Teresa Meli 7 giugno 2013 | 8:04© RIPRODUZIONE RISERVATA da - Titolo: Maria Teresa MELI I sospetti del sindaco: vogliono mandarmi in Europa Inserito da: Admin - Luglio 07, 2013, 11:32:35 am Dietro le quinte - «Mi conoscono poco, io decido da solo»
I sospetti del sindaco: vogliono mandarmi in Europa «Pronto a candidarmi se il leader lo sceglie la gente» ROMA - «Avete presente la haka dei maori che gli All Blacks cantano prima delle loro partite di rugby? Ebbene siamo nella fase in cui ci fanno la haka per intimidirci, ma non ci dicono quando inizia la partita, né con quali modalità»: è questa la battuta, più amara che ironica, che circola tra i renziani in attesa della commissione per le regole del congresso. Certo, immaginarsi Bersani, D'Alema o Franceschini nei panni dei rugbisti neozelandesi è impresa improba, ma un po' per sdrammatizzare, un po' perché in guerra si ritengono sul serio, i sostenitori del sindaco ricorrono alla metafora della haka. Lui medesimo, Renzi Matteo, usa altri toni e altri linguaggi. Si è stufato un bel po' di come tanti maggiorenti del Pd lo trattino. E si sfoga con amici e confidenti. Certo, però, di una cosa: che se Epifani domani dovesse dare una data certa e regole che consentano a tutti di votare alle primarie lui mollerebbe gli ormeggi: «Se domani decidono che può votare per il segretario chi ha sempre votato, cioè gli elettori, e fissano una data, non ci sono dubbi: io mi candido un minuto dopo». Traduzione: il sindaco potrebbe scendere in pista già domani o, al massimo, dopodomani. «E poi voglio vedere che succede», è il suo ritornello. Ma il fatto è che Renzi non è sicuro non tanto di candidarsi, quanto di poterlo fare. Teme gli ostacoli che stanno disseminando sul suo cammino. E con i fedelissimi ragiona così: «D'Alema è arrabbiato con me perché vorrebbe che io gli dicessi "sì buana, sì buana". Lui vuole che io vada in Europa, per... diciamo... fare un'esperienza internazionale. Così mi si tolgono di torno per un po'. Mi dicono: "Vieni qui che ti diamo lo zuccherino... così poi potrai fare il premier". Pensano che io sia così accecato dalla voglia di andare a Palazzo Chigi da accettare le loro proposte. Ma mi conoscono poco. Io decido per i cavoli miei. Se le primarie sono aperte mi candido, sennó riprovo a fare il sindaco che è un mestiere che mi piace molto. Anche se loro non mi vorrebbero nemmeno a Firenze per un altro mandato, mi vogliono in Europa, lontano. Ma io piuttosto faccio il professore all'Istituto universitario europeo, che è una cosa seria, sempre che lì accettino il mio english». Renzi è fra l'arrabbiato e il faceto in questi giorni. Lo spettacolo della riunione del correntone non lo ha preoccupato,anzi: «Bersani che propone di fare il Pd dopo averlo disfatto...». Piuttosto, a impensierirlo è il fatto che si continui a pensare di mandare il Congresso per le lunghe, o di cambiarne le regole: «Stanno preparando un pacchetto per farmi fuori», spiega Renzi ai suoi in questo weekend che precede la riunione della commissione per le regole. Quella riunione in cui,stando ad alcuni, Guglielmo Epifani dovrebbe convocare il congresso a fine novembre. Peccato che questo non sia così scontato, a detta dello stesso segretario: «Sarà difficile fare le assise entro quel mese, perciò non le abbiamo ancora fissate, del resto non abbiamo scelto nemmeno le modalità, anche perché le due cose - tempi e regole - sono legate. Comunque io penso che sia sempre più difficile immaginare di non fare delle primarie aperte sulla scelta finale del segretario». Renzi, però, continua a non fidarsi troppo, perché non è la prima volta che si è sentito fregato dai maggiorenti del suo partito e perché gli è stato detto in tutte le salse di lasciare stare la ditta. E così il sindaco di Firenze confida ai suoi: «Il primo tentativo è quello di far slittare il congresso con la scusa che disturberebbe il governo. Il secondo è quello di far eleggere il segretario dagli iscritti. Ci pensano in molti: D'Alema, Franceschini, Bersani. Loro sanno che a queste condizioni io non mi candiderei e puntano su Epifani che tranquillizza tutti. Già, il premier secondo loro non deve essere scelto dall'elettorato, non sia mai, ma dal Partito con la P maiuscola». Sì, Renzi continua a non fidarsi, eppure domani la Commissione per le regole potrebbe riservargli una sorpresa. E in questo caso domani o martedì il sindaco potrebbe scendere ufficialmente in campo. Maria Teresa Meli 7 luglio 2013 | 9:41© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/politica/13_luglio_07/i-sospetti-del-sindaco-vogliono-mandarmi-in-europa-maria-teresa-meli_a803a278-e6be-11e2-a870-69831ea32195.shtml Titolo: Maria Teresa MELI Il sindaco teme lo slittamento del congresso. Inserito da: Admin - Luglio 13, 2013, 10:34:08 am Retroscena
Il tour tra i leader europei, poi l'annuncio Renzi, sfida «obbligata» per la segreteria Il sindaco teme lo slittamento del congresso. I consigli di Veltroni sul partito ROMA - Nel Pd, affannato e ancora vincolato all'alleanza con Silvio Berlusconi, si aspetta il prossimo tormentone. Non è che ci sia da attendere troppo. Già la prossima settimana andrà in scena l'ennesimo dramma democrat. Questa volta il pomo della discordia è la mozione dei grillini che prevede l'abolizione della tranche di luglio del finanziamento pubblico ai partiti. Su questa battaglia Matteo Renzi ed Enrico Letta sono uniti. Chiedono entrambi chiarezza e invocano tutti e due lo stop a questo sistema. Perciò Epifani e Bersani, che pure sono contrari all'abolizione tout court dell'attuale legge, hanno cercato il compromesso. Il messaggio a Renzi è stato spedito direttamente dal capogruppo alla Camera Roberto Speranza: «Troviamo una posizione univoca, non possiamo dividerci su questo». Il sindaco di Firenze è stato chiaro nella risposta che ha affidato ai suoi: «Io non voglio destabilizzare niente, non ne ho la minima intenzione, però non potete chiedermi rinvii dell'abolizione del finanziamento o soluzioni pasticciate. Per carità, sono prontissimo a preparare un documento di tutto il Pd, ma prima voglio leggerlo bene, voglio che su questo ci sia la massima chiarezza». E poi, con i suoi Renzi è stato più esplicito: «Su questo tema dobbiamo continuare a incalzare il partito, non dobbiamo lasciar andare la presa, perché è un tema troppo importante». Insomma, Renzi sa bene che nel Pd c'è ancora chi vorrebbe metterlo alle strette e isolarlo, ma sa anche che ogni qual volta i maggiorenti del partito danno l'impressione di volerlo ingabbiare la sua popolarità sale. Per questa ragione tranquillizza i suoi, preoccupati per il pressing della maggioranza interna che li accusa di voler far cadere il governo Letta: «Figuriamoci, non è per quello che facciamo noi che l'esecutivo va avanti o cade. Può procedere solo se sbroglia nodi e offre soluzioni e comunque nel nostro gruppo non c'è nessuno, a cominciare da me, che vuole contrastare Letta. Dopodiché, se la nomenklatura del Pd è convinta di salvare se stessa isolando me, chi se ne importa». Tanta apparente flemma nasconde però una preoccupazione. E cioè che il governo vada avanti per altri due anni, come ha lasciato intendere ieri lo stesso Letta. Fino al 2014 e oltre. In questo caso è chiaro che Renzi dovrebbe giocarsi tutto sul piatto della segreteria del partito, anche se dalle parti di Largo del Nazareno continua a spirare vento di rinvio. Perché, come dice un autorevole dirigente bersaniano: «Se la situazione politica si complica noi non possiamo certo tenere il congresso del partito in autunno. Sarà inevitabile farlo slittare all'inverno inoltrato». Quello del rinvio è un pericolo reale, di cui Renzi ha contezza. Il sindaco di Firenze conosce i sondaggi di Berlusconi, quelli che rivelano come il centrodestra sia condannato a perdere nel caso in cui il primo cittadino del capoluogo toscano capeggiasse lo schieramento di centrosinistra. Stando a quelle rilevazioni il fronte guidato dal Pd vincerebbe sia alla Camera che al Senato. Vittoria piena, insomma. Ed è per questo, secondo Renzi e i suoi, che Berlusconi farà di tutto pur di non provocare la caduta del governo. Ed è sempre per questo che, vista la possibilità di un dilatarsi ulteriore dei tempi, il sindaco rottamatore deve giocare per forza la partita della segreteria. Glielo ha detto anche Walter Veltroni che pare non abbia apprezzato affatto che i suoi si siano uniti a Bersani ed Epifani nel tentativo di isolare Renzi. «Non puoi non avere dietro il partito, altrimenti non riuscirai a fare niente». Lezione che, a quanto pare, Renzi ha mandato giù a memoria. Perciò da qualche tempo in qua i sondaggi lo confortano ma non gli bastano. Il 59 per cento degli italiani, stando all'ultimo sondaggio Swg lo vorrebbe come leader, mentre solo il 33 ha fiducia nell'attuale governo. Enrico Letta ha maggior appeal dell'esecutivo da lui guidato, perché veleggia intorno al 46 per cento, ma è tuttora sotto il sindaco di Firenze che, pure, nelle ultime settimane ha perso punti. Il che, vedendo come si muove in questi giorni, non deve preoccuparlo oltre misura. Tant'è vero che ha programmato una serie di viaggi nelle capitali europee per accreditarsi con i governanti della Ue (la prima visita data all'altro ieri). Una decisione che la dice lunga sulle sue future intenzioni: lo dirà quando lo dirà, ma, di fatto, il tormentone «Renzi si candida o non si candida», è già finito. Renzi si candida. E tutto nel Pd prenderà il via dal quel momento . 13 luglio 2013 | 7:30 © RIPRODUZIONE RISERVATA Maria Teresa Meli da - http://www.corriere.it/politica/13_luglio_13/renzi-toru-europa-annuncio_13b46418-eb7d-11e2-8187-31118fc65ff2.shtml Titolo: Maria Teresa MELI Dagli incarichi ai costi: la rivoluzione nel partito Inserito da: Admin - Dicembre 11, 2013, 10:27:09 am Primarie pd
Dagli incarichi ai costi: la rivoluzione nel partito Il sindaco dà sei mesi a Letta per le riforme: «La mia sarà una segreteria a costo zero» ROMA - Arriva Matteo Renzi, forte di un risultato netto che più netto non si può, e sarà rivoluzione anche al Nazareno. «La mia sarà una segreteria a costo zero», anticipa il sindaco ai fedelissimi e spiega il perché: «Noi dobbiamo fare politica per favorire la vita dei cittadini non per sottrar loro i soldi». Il che significa che chi starà in segreteria non prenderà indennità o rimborsi dal partito, ma si accontenterà del proprio stipendio, quale che sia il suo ruolo: parlamentare, amministratore locale, professore universitario o intellettuale. Il coordinatore di questo organismo dirigente sarà il fido Luca Lotti, braccio destro e sinistro del neo segretario. Poi ci saranno molte donne. Tra cui la deputata Silvia Fregolent. E Debora Serracchiani, a cui dovrebbero andare gli Enti Locali, a meno che, alla fine, non si preferisca affidarle la presidenza dell’Assemblea nazionale, il ruolo, per intendersi, che fu di Rosy Bindi. Lorenzo Guerini, il deputato che per Renzi ha seguito le trattative per i regolamenti congressuali, dovrebbe fare il tesoriere. Antonio Funiciello, attuale responsabile della Comunicazione, resterebbe in segreteria, sebbene potrebbe ricevere un altro incarico. E sempre in segreteria dovrebbero entrare anche il coordinatore della campagna delle primarie Stefano Bonaccini e il presidente della provincia di Pesaro Matteo Ricci. Quindi ci sarà qualche nome ad «effetto», che con la politica non ha nulla a che vedere. «Sulla segreteria, comunque, non tratto con nessuno», avverte Renzi. Nemmeno con gli alleati, ossia con Franceschini e Fassino, tanto per fare due nomi: «Sono io che mi sono candidato a segretario, sono io che ci ho messo la faccia». Strutture meno costose, dunque, e, soprattutto, più snelle. Il che significa che Renzi smantellerà i forum e gli innumerevoli dipartimenti messi in piedi da Bersani, con relativi stipendi e segreterie. Al loro posto, dei responsabili di rete che riuniranno sindaci, assessori ed esperti del settore su ogni materia che verrà di volta in volta affrontata. Sempre a costo zero, naturalmente. Non solo, «gli iscritti verranno consultati» sulle questioni principali: «Sennò per quale motivo lo abbiamo fatto a fare l’albo degli elettori? Almeno in questo modo lo usiamo». L’appello agli elettori delle primarie sarà il modo in cui Renzi sfuggirà all’abbraccio degli oligarchi, che cercheranno di logorarlo. Bersaniani e dalemiani stanno già preparando una corrente organizzata. Vorrebbero coinvolgere nell’operazione anche i «giovani turchi», i quali, però, hanno risposto di no e cercano un abboccamento con i renziani, perché preferirebbero non tornare dai «padri» con cui hanno rotto. Sempre per il capitolo «riduzione delle spese», appena si sarà fatta un’idea più chiara, Renzi sposterà il Pd dal Nazareno: è una sede troppo costosa. Si parla di via Tomacelli, ma non c’è ancora niente di certo. La rivoluzione di Renzi, però, non riguarderà solo il partito, naturalmente. Quello che deve dire a Letta, in realtà, il segretario lo ha già spiegato al diretto interessato proprio in questi gorni. E glielo ripeterà, perché è a lui che vuole parlare, non ad Alfano, che continua a non volere tenere da conto: «Enrico, siamo tutti nella stessa barca, noi del Pd e il governo. O si rema o si affonda. Anche perché se continuiamo ad andare avanti così, con il governo che non fa granché, si limita agli annunci e e poi preferisce i rinvii, le larghe intese le fanno Beppe Grillo e Silvio Berlusconi». «Per questo motivo - e qui ecco che il sindaco detta l’agenda del Partito democratico al governo e al Parlamento - dobbiamo arrivare alle Europee di maggio avendo approvato alla Camera la riforma elettorale, e questo è affar nostro e non dell’esecutivo. Quindi bisognerà approvare un pacchetto di tagli ai costi della politica, anche quello prima delle Europee, e, sempre per quella scadenza, l’abolizione del Senato dovrà essere passata in prima lettura sia alla Camera che a palazzo Madama. E non sto parlando di quel fumoso progetto di Quagliariello, ma di trasformare il Senato nella Camera delle Autonomie locali, con i presidenti delle regioni e i sindaci che non prendono nessuna indennità». Non basta. Prima di quella data il segretario vuole anche che sia presentato un «piano rivoluzionario per il lavoro», che si occupi «dei 7 milioni di non garantiti». Ecco, queste sono le condizioni, perché «il Pd finora ha avuto molta pazienza e adesso vuole avere molto coraggio, e lo deve avere pure il governo sennò non si va da nessuna parte». 09 dicembre 2013 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - Maria Teresa Melihttp://www.corriere.it/politica/13_dicembre_09/dagli-incarichi-costi-rivoluzione-partito-e9606c36-609b-11e3-afd4-40bf4f69b5f9.shtml Titolo: Maria Teresa MELI I dubbi sui veri obiettivi del Cavaliere. Inserito da: Admin - Dicembre 24, 2013, 06:44:27 pm Il retroscena - La tattica sulle regole del voto
Renzi non si fida di Alfano e Berlusconi E teme di non controllare i «suoi» parlamentari I dubbi sui veri obiettivi del Cavaliere. Sullo sfondo la riforma della legge elettorale, che potrebbe puntare a indebolirlo ROMA - Matteo Renzi non si fida. Non di Alfano e tanto meno di Berlusconi. «Tutti e due - è il convincimento del segretario del Pd - stanno utilizzando la legge elettorale per fare i loro giochi rispetto al governo. Il vicepremier perché vuole protrarre la legislatura il più a lungo possibile per paura di andare alle elezioni. L’altro perché pensa di utilizzare questa storia per andare alle elezioni a maggio. E noi non dobbiamo restare incastrati in questi giochini perché vogliamo cambiare il sistema sul serio». Già, adesso il timore di Renzi e del suo entourage è che, alla fine della festa, sia Alfano che Berlusconi vogliano tenersi questa legge elettorale. Il primo per timore che, appena cambiata, si vada dritti alle urne, lasciando il Ncd a metà del guado e con pochi consensi. Il secondo perché andando al voto con il proporzionale rimarrebbe comunque determinante per i giochi politici futuri e schiaccerebbe Alfano. Ma c’è un altro dubbio, ancora peggiore, che assilla in questi giorni Renzi: il rapporto con i gruppi parlamentari del Pd. I quali, com’è noto, sono stati creati a immagine e somiglianza della maggioranza bersaniana. È vero che Matteo Orfini dice che per quanto lo riguarda «tentare di fregare il segretario, come da tradizione, sarebbe una stupidaggine perché equivarrebbe a fregare tutta la baracca del Pd». Ma tra gli avversari interni del leader è uno dei pochi a pensarla così. I bersaniani non nascondono le loro intenzioni. O, almeno, faticano sempre di più a farlo. Alfredo D’Attorre spiega ai giornalisti un tipo di riforma che non sembra quella immaginata da Renzi. Poi a qualche compagno di partito dice: «Comunque, vanno lette bene le motivazioni della sentenza della Corte costituzionale prima di decidere». Sì, il dispositivo della Consulta è un altro appiglio per chi vuole evitare che il segretario faccia un blitz sulla riforma elettorale. C’è chi dice nel Transatlantico di Montecitorio che la sentenza della Corte potrebbe delimitare la legge elettorale che verrà, insomma, metterle dei paletti. E c’è chi lo spera. Soprattutto tra chi punta a impedire a Renzi di raggiungere il suo obiettivo: dimostrare di mantenere la parola data e mandare in porto alla Camera la riforma elettorale entro la fine di gennaio, al massimo nella prima settimana di febbraio, non oltre. Se Renzi non centrasse questo obiettivo non farebbe certamente una bella figura. Per questa ragione guarda con apprensione all’«ostruzionismo strisciante» non solo del Nuovo centrodestra, ma anche del fronte bersaniano. Nonché di una fetta degli ex popolari, che sembrano esprimersi non troppo diversamente da Angelino Alfano. Beppe Fioroni, per esempio, sottolinea con forza che occorre andare avanti sulla strada di un nuovo sistema, ma aggiunge una postilla di non poco conto: «Che senso ha fare la riforma elettorale adesso se poi dobbiamo approvare un sistema improntato sul monocameralismo? Significherebbe dover rimettere mano subito dopo alla legge». E, nel frattempo, in quel pezzo del Pd che vorrebbe frenare il segretario si sta pensando di unificare alcune proposte di legge in materia di riforma elettorale per valorizzare le preferenze e indebolire il premio di maggioranza. Si tratta di progetti che potrebbero avere il via libera anche del Nuovo centrodestra, il che, naturalmente, metterebbe in difficoltà il segretario. Il leader del Pd, infatti, non intende veramente strappare con la maggioranza, ma vuole allargarne il perimetro, che è cosa diversa. Piuttosto, sono i renziani a temere che il vero obiettivo dei bersaniani sia proprio quello di accollare al leader del Pd la colpa dello strappo, inducendolo a farlo con il loro «ostruzionismo strisciante», e addossandogli a quel punto la responsabilità della rottura della maggioranza e della caduta del governo. Insomma, quella elettorale può trasformarsi per il segretario in una materia incandescente, anche perché alla Camera sulla riforma si può votare a scrutinio segreto. Per questo c’è chi gli suggerisce - finora inascoltato - di procedere spedito sul Mattarellum senza scorporo. Ma Renzi è convinto che ci voglia troppo tempo per ridisegnare i collegi. 22 dicembre 2013 © RIPRODUZIONE RISERVATA Maria Teresa Meli Da - http://www.corriere.it/politica/13_dicembre_22/renzi-non-si-fida-alfano-berlusconi-teme-non-controllare-suoi-parlamentari-06e42b32-6adb-11e3-b22c-371c0c3b83cf.shtml Titolo: Maria Teresa MELI «Io mi sto giocando tutto», la partita del sindaco e la... Inserito da: Admin - Gennaio 19, 2014, 06:03:10 pm La strategia
«Io mi sto giocando tutto», la partita del sindaco e la distanza con il premier La diplomazia del segretario: «L’accordo è davvero a un passo» ROMA - Squilla il cellulare di Matteo Renzi. Una, due, tre volte. Risquilla. Dall’altra parte c’è Enrico Letta che vuole sapere come è andata. Il segretario del Pd non risponde. Deve parlare con Alfano. Per la verità ha avuto una telefonata con il leader del Nuovo centrodestra anche prima dell’incontro con Silvio Berlusconi, però c’è una seconda puntata. Il sindaco di Firenze spiega ai suoi che il vicepremier è preoccupato e quindi molto disponibile. Forse lo vedrà oggi per chiudere definitivamente. Renzi chiama anche il Quirinale, per spiegare nei dettagli i passi avanti fatti con Berlusconi. «È tutto molto delicato», dice poi ai suoi. Talmente delicato che il leader del Pd non sente il bisogno di un colloquio con il presidente del Consiglio subito dopo l’incontro con il Cavaliere. Solo alle nove di sera il sindaco risponde a un sms del premier che non è riuscito a contattarlo e che vuole sapere come sia andata perché è all’oscuro delle trattative finali. Renzi dice a Letta di non intervenire e di starsene da parte: il momento è troppo delicato ed è meglio che l’inquilino di Palazzo Chigi, che non ha seguito la mediazione, non intervenga e lasci giocare i protagonisti della trattativa. Del resto, Renzi lo ha detto mille volte, anche in passato: «Il governo non si occupi della materia elettorale, perché spetta ai partiti». E in effetti così è. Il segretario sta facendo più parti in commedia, pur di arrivare al risultato finale. «Non mi importa del rimpasto, non mi interessano i diverbi nei partiti. So che mi sto giocando tutto: la faccia e anche la testa. Ma l’accordo per la nascita della Terza Repubblica è a un passo e non possiamo sprecare questa occasione». Perciò in questa fase preferisce parlare con Alfano o con il Cavaliere, che con Letta. L’accordo è praticamente fatto e non vuole interferenze esterne. Né vuole ascoltare le proposte di rimpasto o le offerte per un patto che duri lo spazio di un anno. Ora, spiega, la priorità è Berlusconi. Non perché il Cavaliere lo abbia affascinato. Tutt’altro. Ma perché è solo tramite lui che si può «cambiare il sistema elettorale e mandare in porto l’abolizione del Senato e la modifica del Titolo quinto della Costituzione». Ma Renzi non fa nessuna concessione a Berlusconi. Il quale, accolto da Lorenzo Guerini, che è diventato il plenipotenziario del segretario in «terra romana», appena si accomoda sul divano, proprio sotto una foto di Bob Kennedy, tenta di andare al sodo: «Allora, caro Matteo, quando mandiamo a casa questo governo?». Ma il segretario del Partito democratico da quell’orecchio mostra di non volerci sentire: «Così cominciamo malissimo, mi vuoi mettere in difficoltà? Il governo non è in discussione». Della serie, mettiamo i puntini sulle i. E Renzi ha talmente tanta fretta di metterli che alla fine dell’incontro con il leader di Forza Italia pone un’ulteriore condizione. Chiede che Berlusconi nel videomessaggio dica pubblicamente - e palesemente - «sì» alle altre riforme. A quelle costituzionali, che abbisognano di un anno di tempo e che fugano i dubbi sulla possibilità di un accordo tra il sindaco e Berlusconi che punti a staccare la spina anzitempo alla legislatura. Il leader di Forza Italia mantiene la parola data, anche perché, come confesserà poco più tardi: «Renzi è troppo simpatico. È veramente nuovo». Ma l’uomo nuovo non vuole farsi impaniare nelle logiche vecchie. Per questo, dopo l’incontro parla il minimo indispensabile. Eppure sa bene che Berlusconi questa volta non potrà rovesciare il tavolo, per il semplice fatto che finora era un «intoccabile» e lo sarà di nuovo se straccia l’accordo con Renzi. Come sa, perché lo ripete più volte ai suoi, che Alfano è «disponibile» al confronto e alla mediazione. Certo, ci sono i bersaniani che insistono, fanno pressioni e minacciano divisioni, ma non è che gli incutano un grande timore. Sono meno della metà del 18 per cento che alle primarie ha votato in suo favore. E non hanno nemmeno una sponda a sinistra. Basta sentir parlare Nichi Vendola: «Io l’accordo lo farò con Renzi, uomo nuovo e simpatico, frutto della Terza Repubblica. Non lo faccio certo con Fassina o Cuperlo che mi propongono il Letta bis. E questa sarebbe la sinistra del Partito democratico? Siamo messi veramente bene». E infatti Renzi non sembra temerli in vista della direzione di domani: «So che siamo a uno snodo decisivo ma so anche che o chiudiamo adesso o non chiudiamo mai più. Del resto, so anche che posso farlo solo io. L’unico legittimato da un voto popolare a trattare persino con Berlusconi». Già, perché, come notano i renziani, gli altri interlocutori del segretario non hanno ricevuto la legittimazione popolare da un voto. Né Alfano, né Letta. «Perciò - spiega Renzi ai suoi - vado avanti e chi la dura la vince» . 19 gennaio 2014 © RIPRODUZIONE RISERVATA Maria Teresa Meli Da - http://www.corriere.it/politica/14_gennaio_19/io-mi-sto-giocando-tutto-partita-decisiva-sindaco-distanza-il-premier-086c4564-80db-11e3-a1c3-05b99f5e9b32.shtml Titolo: Maria Teresa MELI. - Renzi meglio fallire che restare fermi Inserito da: Admin - Gennaio 29, 2014, 05:03:11 pm Il retroscena -
La soddisfazione dopo l’incontro con i deputati: sì da tutti, anche da Cuperlo Legge elettorale, Renzi e il gioco al rialzo nelle trattative: meglio fallire che restare fermi E sul no serale del leader di FI: fa parte del gioco delle trattative ROMA - Gli amici gli avevano detto di evitare gli azzardi. I fedelissimi gli avevano suggerito di non presentarsi alla riunione dei deputati pd della commissione Affari costituzionali della Camera. E lui? Lui ha ascoltato, sorriso. E fatto, come sempre di testa sua. Cioè si è presentato alla riunione del gruppo del Partito democratico. Ha avuto ragione: «Dicevano che io non controllavo il gruppo? Che è successo? Tutti mi hanno detto sì, persino Cuperlo. Niente emendamenti che rompevano le scatole. In compenso Forza Italia che aveva accettato la soglia al 38 per cento ora con Berlusconi ha bloccato tutto, ma fa parte del gioco delle trattative», è un sindaco di Firenze felice della prova di forza eseguita e vinta quello che a sera chiacchiera con i suoi e non sembra dare troppa importanza ai problemi con FI. IL JOBS ACT- Renzi è un Frecciarossa, che si ferma, a mala pena, a Roma, giusto perché non potrebbe fare altrimenti. E mentre è lì nella capitale e vede Denis Verdini e Angelino Alfano (in tempi separati e ognuno a quattr’occhi), avverte i democratici che la direzione che aspettavano per il 30 gennaio sarà invece per il 6 febbraio. Peccato se Enrico Letta e il suo governo perderanno altro tempo per preparare l’ «Impegno 2014» ma prima di quella data il Partito democratico non è in grado di fare il punto della situazione. E infatti l’ordine del giorno della riunione, negli sms che arrivano a tutti i parlamentari e ai componenti del parlamentino del Pd recita così: «Patto di coalizione, più varie ed eventuali». Il Jobs act è sparito di nuovo. Non c’è più, con buona pace di chi era convinto che fosse quello l’oggetto della riunione. Quello è un programma che va bene per «una campagna elettorale», dice uno dei fedelissimi del sindaco di Firenze, non un «compromesso al ribasso per trattare con Alfano, Lupi, Quagliariello e Giovanardi». Tradotto dal politichese all’italiano: il Jobs act sarà materia di campagna elettorale in vista delle elezioni europee, non materia di scambio con il Nuovo centrodestra per una mediazione qualsiasi che, magari, preveda un rimpastino. «LETTA PENSI AL GOVERNO»- «Non è quello il mio obiettivo», spiega il segretario del Pd, che aggiunge: «Io a Letta non chiedo nemmeno uno sgabello, neanche ora che De Girolamo si è dimessa». E ancora, sempre ai fedelissimi: «Su queste cose decida lui. Gliel’ho già detto molte volte: lo scontro politico continuo con me è controproducente. Per il governo e per la legislatura, più che per il Pd e per me. Credo che lui ormai abbia capito che se gli consiglio di occuparsi del governo lo dico per il suo bene. Non è che l’esecutivo vada alla grande e noi del Pd vogliamo che invece faccia delle cose, che vada avanti, che non si impantani definitivamente nella palude italiana come il resto della politica». Del resto, quello che pensa dell’esecutivo guidato da Enrico Letta, Matteo Renzi lo ha detto più e più volte: « Io non sono e non voglio essere un ostacolo per Letta. Anzi, penso che grazie a me e a chi mi ha sostenuto in questo confronto sulle riforme abbia dimostrato quanto sia facile passare dalle parole ai fatti. È esattamente quello che si chiede a Letta: andare avanti, lasciando da una parte le chiacchiere, ed esercitandosi sui fatti concreti». RISCHIA TUTTO MA NON STA FERMO- Ma Renzi è conscio che la sua operazione è quanto mai rischiosa? Nel Pd, come si diceva, i suoi nemici non sono pochi, anche se la maggior parte preferisce offrire il sorriso al coltello. Ma quando qualcuno gli chiede come va, Renzi ostenta sicurezza e tranquillità: «La riforma va avanti, e mi pare che vada abbastanza spedita». Tutta questa ostentazione di sicurezza non convince i suoi avversari, ma l’uomo è fatto così. È più forte di lui: «Preferisco rischiare anche il fallimento, piuttosto che stare fermo nella palude. I contraccolpi ci saranno di sicuro e me li aspetto. Si serviranno di ogni mezzo e proveranno qualsiasi cosa per stopparmi. Ma se credono che io mi logori di qui al 2015 si sbagliano di grosso, possono aspettare... e avranno delle amare delusioni. A me portano bene tutti quelli che gufano sul mio insuccesso e sul mio logoramento». E ancora. «Il tentativo è sempre lo stesso. Ormai sono diventati monotoni. Non riusciranno a fermarmi, se lo mettano in testa. Non pensavano che io incontrassi Berlusconi al Nazareno e io l’ho incontrato, non si aspettavano che nel giro di poche settimane trovassi un accordo per le riforme elettorali e io l’ho trovato...». Insomma, è sempre quella che il vice capogruppo del Senato del Pd, Giorgio Tonini, definisce la «mossa del cavallo», la sortita che premia il sindaco di Firenze e spiazza i suoi avversari interni. Tanto lui, ancora una volta, è pronto a giocare l’arma finale: «Niente riforma, niente legislatura, dunque voto». 28 gennaio 2014 © RIPRODUZIONE RISERVATA Maria Teresa Meli Da - http://www.corriere.it/politica/14_gennaio_28/segretario-gioco-rialzo-d513b308-87e4-11e3-bbc9-00f424b3d399.shtml Titolo: Maria Teresa MELI Renzi avvisa Letta: ci vuole una svolta Inserito da: Admin - Febbraio 03, 2014, 04:42:13 pm CENTROSINISTRA, LE SCELTE
Renzi avvisa Letta: ci vuole una svolta Il segretario chiede al premier azioni di governo più incisive: «Enrico casca male se pensa di tirare a campare con un rimpasto» Matteo Renzi si rifiuta di essere messo in mezzo nel gioco del governo che non va. Dicono i suoi: sono soprattutto i lettiani e il Ncd a «praticare questo sport» per giustificare le difficoltà dell’esecutivo. Il sindaco di Firenze ribadisce ai compagni di partito che lui non sta facendo altro che aspettare di capire come intenda muoversi il premier: «Io mi sto impegnando sul fronte delle riforme, senza contare il fatto che sto conducendo il partito dentro il Pse e che sto lavorando a un progetto ampio e complesso come il «Jobs act», Letta dovrebbe occuparsi del governo. E con questo non intendo parlare del rimpasto ma dell’azione del governo. Però non vedo muoversi niente...». Politichese - Tradotto dal politichese al «renzese» in presa diretta: «Se Enrico pensa di risolvere la situazione mettendo qualcuno dei miei dentro il governo, facendo qualche aggiustamento di programma e continuando a tirare a campare, casca male. Ci vuole una svolta. Bisogna cambiare verso anche lì. Lo avete sentito quello che ha detto Squinzi? È un campanello d’allarme da non sottovalutare». Insomma, anche il segretario del Pd sembra far parte di quella sempre più vasta schiera di esponenti del mondo della politica, dell’economia e dell’impresa che vorrebbero dall’esecutivo uno scatto di reni: Letta dovrebbe battere un colpo, è il leit motiv del leader. Che sembra veramente preoccupato per l’immobilismo del governo: «Devono avere più coraggio, perché se continuano così non si va da nessuna parte». Tra l’altro il sindaco di Firenze non sembra condividere l’ottimismo del premier sull’uscita dell’Italia dalla crisi. Anzi, a suo giudizio, se si procede con il metodo del «vivacchiare» si rischia di mancare l’appuntamento con l’eventuale ripresa quando mai sarà. E questo sarebbe un errore imperdonabile per la classe politica italiana, perché getterebbe il Paese nel baratro. Impensierito - Renzi è impensierito da questa difficoltà del premier di andare avanti con maggiore vigore, così come ha sollecitato anche ieri Prodi dalle colonne del Corriere . «Io - ha spiegato agli amici il segretario del Pd - ho detto a Enrico che non voglio fargli le scarpe, mi sono candidato a sindaco e ho avviato un processo di riforme anche costituzionali che prevede almeno un anno prima di andare in porto e che quindi scavalca la finestra elettorale di quest’anno. Insomma, ho fatto di tutto per tranquillizzarlo, ora però è necessario che il governo agisca con maggior coraggio, esattamente come ha fatto il nostro partito. In fondo anche io, con la storia delle riforme, ho corso il rischio di bruciarmi. E lui?». I pericoli - Secondo certi pd, nel voto segreto alla Camera il segretario potrebbe correre ancora qualche pericolo su alcuni emendamenti. Su quello sulle preferenze, per esempio, sussurra qualcuno. Ma su quel fronte Renzi sembra abbastanza tranquillo, come spiegava già giorni fa ad alcuni compagni di partito: «Alfano mi ha assicurato che per loro quella è solo una battaglia di bandiera». Dunque, sono altre le preoccupazioni di Renzi: anche secondo il segretario del Pd, come per Prodi e Squinzi, il governo dovrebbe essere assai meno timido e agire con ben maggiore incisività. Ed è proprio per questo che, quando sarà il momento, il sindaco sfodererà un’agenda che sarà difficile prendere sotto gamba. Né lo si potrà allettare, come fanno ancora alcuni, con il sogno della poltrona di Palazzo Chigi, da conquistare senza le elezioni: «È un tema - dice il segretario - che non è all’ordine del giorno. So che c’è chi ne parla. Non io, che ho sempre detto che non voglio scorciatoie ma prove elettorali». L’agenda - E il sogno di «dettare», nel frattempo, l’agenda al governo, quello no che Renzi non lo ha abbandonato. Sul piatto metterà la questione del lavoro, anzi, dei lavori. E altre più spinose. Una delicata per Saccomanni: la richiesta dei cinque miliardi fuori dal patto di Stabilità per la ristrutturazione degli edifici scolastici. Le altre due difficili da digerire per il Nuovo centrodestra: la revisione radicale della «Bossi-Fini» e la questione delle unioni civili. Due punti «non più rinviabili», secondo il segretario del Pd. E infatti il responsabile del settore in segreteria, Davide Faraone, ha il mandato di continuare a lavorarci proprio in questi giorni. Se Alfano e Letta pensavano di risolvere la pratica «governo» senza troppi problemi, dovranno ricredersi. 03 febbraio 2014 © RIPRODUZIONE RISERVATA Maria Teresa Meli Da - http://www.corriere.it/politica/14_febbraio_03/renzi-avvisa-letta-ci-vuole-svolta-30b9896c-8ca9-11e3-b3eb-24c163fe5e21.shtml Titolo: Maria Teresa MELI Renzi stringe i tempi ma esclude la staffetta Inserito da: Admin - Febbraio 09, 2014, 05:26:09 pm I leader avverte: non seguiremo un governo in declino
Renzi stringe i tempi ma esclude la staffetta L’idea che la vittoria alle urne sia a portata di mano ROMA - Matteo Renzi è pronto per tornare nella sua Firenze dopo la direzione del Pd. Ha giusto il tempo di scambiare qualche osservazione con i fedelissimi prima di prendere il treno: «Con Enrico non ho calcato la mano volutamente. Il suo discorso ha imbarazzato tanti nella riunione. Io ho preferito lasciar stare. Gli ho solo dato i quindici giorni. Decidesse lui che cosa vuole fare: o opta per un colpo d’ala o si trascina avanti in questo modo. Ma il Pd in questo caso non seguirà le sorti declinanti del governo». Il sindaco sa che si è giunti al momento della verità. Davanti al parlamentino del Pd si è lasciato tutte le strade aperte: voto anticipato, staffetta a Palazzo Chigi, proseguimento della legislatura con Letta. Quest’ultima opzione, però, ha la data di scadenza: «Lo schema era quello di un percorso di diciotto mesi. Dieci ne sono passati. Ne mancano otto». Ma di questo ieri sera, dopo la riunione, il segretario preferiva non parlare. Era tutto proiettato su un altro scenario futuro: «Diciamoci la verità, qui o si rompe tutto, e le riforme, purtroppo, saltano, e quindi si va alle elezioni, oppure riusciamo a rivoltare l’Italia come un calzino e facciamo quello di cui l’Italia ha bisogno». Ma veramente, in questo secondo caso, il sindaco di Firenze pensa che sia possibile raggiungere il traguardo con Letta? «È tutto nelle sue mani - confida agli amici - finora il suo governo si è rivelato inadeguato, questa è la realtà dei fatti, ma potrebbe prendere coraggio e compiere una svolta. Altrimenti è chiaro che non si va da nessuna parte». In questo caso, a dire il vero, c’è qualcuno che da qualche «parte» potrebbe anche andarci. E non è Letta, bensì Renzi. Quel Renzi che ha fissato per il 20 febbraio la direzione in cui il Pd discuterà del governo. E ne deciderà anche le sorti. Per uno di quei curiosi, ma frequenti casi del destino, quella riunione si terrà all’indomani dell’incontro tra il presidente del Consiglio e il leader di Confindustria Giorgio Squinzi, che, ieri, a Radio 24, ha lasciato intendere a Giovanni Minoli di aver deciso di abbandonare l’inquilino di Palazzo Chigi al suo destino: «O si presenterà con le bisacce piene o...». O il presidente di Confindustria chiederà al capo dello Stato di non sostenere più questo governo. E qui arrivano le complicazioni per Renzi. Perché Giorgio Napolitano non vuole «un vuoto politico» in questa fase e perché ormai sono molti i soggetti - tra politici, imprenditori, esponenti del mondo della finanza e dell’economia - che chiedono al segretario del Partito democratico di prendere il posto di Letta. Il sindaco di Firenze ritiene che sarebbe «un errore» e sa bene che i precedenti in materia non giocano in suo favore. Un esempio per tutti: Massimo D’Alema. Come sa che se andasse alle elezioni in tempi relativamente brevi avrebbe la vittoria a portata di mano. Con la riforma elettorale, secondo quasi tutti i sondaggi, il centrosinistra governerebbe senza dover scendere a patti con nessuno. E, comunque, alla peggio, anche con il sistema frutto della sentenza della Consulta il Pd avrebbe un notevole pacchetto di consensi e Renzi potrebbe vestire i panni della Merkel in una grande coalizione. Ma il segretario del Pd sa anche che «resistere» al pressing forsennato che viene fatto nei suoi confronti è sempre più difficile. «Il tema non è il mio ingresso a Palazzo Chigi, chi se ne importa, non voglio farmi ingabbiare, risucchiare dalla palude e voglio stare lontano da certa gentaccia», confessa lui agli amici fiorentini. E aggiunge: «Non sono un bischero e non voglio che gli altri mi facciano bischero». Ma anche Renzi, che non si tira indietro di fronte alle decisioni difficili, sa che sarebbe complicato per lui respingere certe profferte. L’uomo che vuole «chiarezza» e che la chiederà a Letta il 20 febbraio, potrebbe essere costretto a doverla esprimere lui. Con un sì o con un no che potrebbero cambiare le sue sorti e quelle della politica italiana. 07 febbraio 2014 © RIPRODUZIONE RISERVATA Maria Teresa Meli Da - http://www.corriere.it/politica/14_febbraio_07/renzi-stringe-tempi-ma-esclude-staffetta-362cfcd0-8fc4-11e3-b53f-05c5f8d49c92.shtml Titolo: Maria Teresa MELI «Niente provocazioni, tanto Letta si dimette» Inserito da: Admin - Febbraio 14, 2014, 06:36:04 pm Governo al bivio
La tattica di Renzi per la direzione «Niente provocazioni, tanto Letta si dimette» Summit nella notte coi suoi: «La storia è esaurita, il partito è con me» ROMA - Nell’ultimo summit, a sera tarda, quello ristretto, con Speranza, Zanda, Franceschini e Renzi si decide la linea finale: non raccogliamo le provocazioni di Letta, tanto domani si dimette. Perciò il segretario ieri ha preferito tacere ufficialmente. E far dire al suo portavoce Guerini: «In Direzione non ci sarà nessun duello. Il contributo offerto dal premier sarà oggetto di una discussione responsabile e approfondita, così come sarà fatto per quanto riguarda l’operato del governo». Ma questa è l’ufficialità. Con i suoi, naturalmente, Renzi è ben più esplicito: «La storia si è esaurita, non ci sono più le condizioni per andare avanti. Questo governo rischia di essere una zavorra per l’Italia». Già, con i fedelissimi il sindaco di Firenze è netto e lascia pochi spazi ai dubbi. «Il partito è compatto con me», spiega il segretario. Sì, perché la minoranza gli ha fatto sapere che sarà con lui, oggi in Direzione. L’unico nodo da sciogliere è se sia meglio votare la relazione del segretario o un ordine del giorno, che formalmente spersonalizzerebbe lo scontro tra il leader e il premier. Ma la sostanza non cambia. Seppure in maniera garbata, sottolineando la bontà di alcune parti del programma di Letta («Tra l’altro - osserva il segretario - ha preso pari pari il Jobs act, le mie proposte sulla scuola, lo ius soli...».), si dirà che però ci vogliono «un’altra fase» e «altri protagonisti». Insomma, è necessaria «una discontinuità». Di fatto, sarà una sorta di sfiducia a Letta, ma molto molto soft, per evitare nuovi scontri e conflitti. E i renziani sono convinti che dopo quel pronunciamento il presidente del Consiglio andrà al Colle, anche se c’è chi dice che invece insisterà per un passaggio parlamentare. Ma in casi come questi, è chiaro, i dubbi e i sospetti si affollano. Al Nazareno c’è addirittura chi sospetta che Letta voglia creare una sorta di «Asinello», come fece Parisi dopo che D’Alema prese il posto di Prodi. Un Asinello di centro, però, con i «Popolari per l’Italia» e Ncd. Il segretario non ci crede, invece. E comunque tira dritto per la sua strada. Non gli fanno paura nemmeno i sondaggi anti staffetta che i lettiani twittano da giorni: «I leader devono leggerli i sondaggi, non seguirli. Se io li avessi seguiti sarei rimasto presidente della provincia di Firenze. Non mi fanno paura, vedrete che la gente si dimenticherà questa storia». Qualcuno dei suoi gli chiede come. E lui risponde lesto: «Ho intenzione di fare due o tre cose esplosive nei primissimi mesi del governo, due tre cose importantissime. La staffetta non se la ricorderà più nessuno. Si dimenticheranno tutti del cambio tra me e Letta. Alla gente interessa l’occupazione, la crisi economica...». È già entrato nella parte, il segretario del Partito democratico. Nel pomeriggio ha un lungo colloquio con il presidente di Confindustria Giorgio Squinzi, poi parla con gli alleati di governo. Ma la giornata di ieri, per Renzi, è stata piena anche di tensione. E pensare che in mattinata, dopo un’ora di scambio di insulti con il presidente del Consiglio, il segretario del Pd riteneva di aver trovato una sorta di compromesso con l’inquilino di Palazzo Chigi. Così, almeno ha raccontato ai suoi: «Non è andata malaccio, ci siamo lasciati con l’idea di individuare un percorso, lui mi ha dato dei consigli, mi ha anche detto quali provvedimenti, secondo lui, andavano portati avanti comunque, mi ha lasciato intendere che si dimetterà». Poi, ecco che da Palazzo Chigi fanno filtrare che il colloquio è andato male. A quel punto il sindaco di Firenze si arrabbia non poco: «Se è così, allora rimanesse pure lì, e noi andiamo alle elezioni a ottobre, pure con il “Consultellum”, se non ci fanno fare la riforma elettorale. Se pensa che facendo questi giochetti io mi ritragga, si sbaglia, io vado avanti». In serata, poi, dopo aver sentito una parte della conferenza stampa del premier, il segretario è ancora più imbufalito. Prima si sfoga con i suoi: «Perché non lo ha tirato fuori prima questo “Impegno Italia”? Perché lo ha fatto solo adesso, mentre per settimane l’unica cosa che mi ha proposto è stato un rimpastino, quando io gli ho ripetuto mille volte che delle poltrone non mi frega niente? Non ci credeva?». Mano mano la rabbia è montata. Tanto che quando il leader doveva andare alla riunione con alcuni rappresentanti degli enti locali del Pd si è fatta irrefrenabile. Prima ha fatto una telefonata concitata: «Capito che cosa è successo? Avevamo siglato un patto e lui ha fatto l’opposto e ha scelto il muro contro muro. Come ci si può comportare così slealmente?». Poi, nella riunione, ha dato sfogo a tutta la sua rabbia: «Ha detto una cosa e ne ha fatta un’altra, si deve dimettere! Sapete che c’è? Domani (oggi per chi legge n.d.r.) vado in Direzione e dico che andiamo a votare!». Il sindaco è furioso. Graziano Delrio lo allontana cercando di calmarlo. Fassino fa altrettanto. Qualche ora più tardi la decisione: non raccogliamo provocazioni, optiamo per la linea soft e così lo facciamo dimettere e acceleriamo la pratica. L’obiettivo, infatti, è di arrivare in Parlamento per la fiducia martedì o mercoledì al massimo. 13 febbraio 2014 © RIPRODUZIONE RISERVATA Maria Teresa Meli Da - http://www.corriere.it/politica/14_febbraio_13/tattica-renzi-la-direzione-niente-provocazioni-tanto-si-dimette-3e4da9e0-9470-11e3-af50-9dc536a34228.shtml Titolo: Maria Teresa MELI La corsa del segretario, il gelo con Palazzo Chigi Inserito da: Admin - Febbraio 14, 2014, 06:38:49 pm MINISTRI E GIURAMENTO
La corsa del segretario, il gelo con Palazzo Chigi Anche se al governo, resterebbe capo del partito Nella squadra uscirebbe ridimensionato Ncd ROMA - L’altro ieri diceva: «Ho già i numeri». Intendendo per tali, ovviamente, quelli necessari per passare in Parlamento. Il giorno dopo era ancora più ottimista. Quando Bruno Tabacci si è presentato al Nazareno per discutere con lui, si è trovato di fronte un Matteo Renzi disteso e, almeno all’apparenza, sicuro: «È fatta. C’è un unico, vero, problema: come garantire un’uscita di scena onorevole a Enrico Letta». Il leader del Centro democratico ha sorriso e ha offerto il suo suggerimento: «Noi democristiani in questi casi risolvevamo la questione con l’offerta del ministero degli Esteri». Il segretario del Pd ha contraccambiato il sorriso ma non ha lasciato capire come intenda risolvere quella che per lui e per il partito intero sta diventando una vera e propria grana. SFIDUCIA RECIPROCA - Certo, l’iniziativa non può prenderla lui, anche se le diplomazie del leader e del premier, soffocate le rispettive tifoserie, stanno lavorando per un incontro da tenersi stamattina presto, perché i rapporti tra il sindaco di Firenze e l’inquilino di Palazzo Chigi sono a dir poco pessimi. Letta ritiene «inaffidabile» Renzi. Il quale, a sua volta, lo giudica «inidoneo» a fare il premier. Insomma, le cose stanno così. Difficile che possano cambiare. Ma è pure assai improbabile che si arrivi veramente allo scontro tra i due in Direzione. Anche perché, proprio in vista dell’assemblea del parlamentino del Partito democratico, è stato preparato un ordine del giorno da mettere in votazione e che avrebbe la stragrande maggioranza dei voti in cui si propone la nascita di un nuovo e solido governo in grado di accompagnare la stagione delle riforme. Prima di arrivare a tanto, dunque, si troverà una soluzione. Alla democristiana o meno. LA VELOCITA’ E’ TUTTO - Nel frattempo Renzi sa che la sua unica alleata è la velocità con cui si muove. Perciò ha preso in contropiede Letta e prima che il presidente del Consiglio potesse lanciare un appello ai parlamentari del Partito democratico per cercare di uscire dall’angolo li ha riuniti ieri mattina e li ha convinti quasi tutti. Solo i bersaniani di stretta osservanza, come Nico Stumpo, diffidano ancora delle mosse del leader e sembrano aver capito che l’idea di mandarlo a Palazzo Chigi per toglierlo dal partito non è stata una grande mossa, dal momento che Renzi, se dovesse diventare premier, manterrebbe anche la carica di segretario. Al Nazareno ci sarebbe un vice, probabilmente Lorenzo Guerini, come reggente. Ma è al governo, adesso, che il sindaco pensa già. Meditando di bruciare le tappe. Lui vorrebbe addirittura arrivare al giuramento domenica sera, lunedì al massimo. LA NUOVA SQUADRA - La squadra dei ministri, nella sua testa, l’ha già pronta. Il Nuovo centrodestra uscirà ridimensionato: niente più Interno e Infrastrutture. Non ci sarà più un vicepremier. Vi saranno personalità che non hanno a che fare con la politica e dei dicasteri «verranno accorpati per consentire il risparmio di alcune centinaia di milioni». Circolano già addirittura i primi nomi dei possibili ministri. L’Interno andrebbe a Graziano Delrio. Nella compagine governativa entrerebbe anche l’amministratore delegato di Luxottica Andrea Guerra, che di Renzi è buon amico e il cui nome il sindaco di Firenze aveva suggerito anche a Letta, quando doveva mettere in piedi il suo esecutivo nell’aprile scorso. Potrebbe essere lui il ministro dell’Economia. Ma per quel dicastero si fanno anche altri due nomi: quelli di Lorenzo Bini Smaghi e di Pier Carlo Padoan. C’è ancora un altro nome che circola e che non dispiace a buona parte dei gruppi parlamentari di Sel, anche se è ovvio che, almeno in un primo momento, semmai il governo Renzi dovesse vedere la luce, il partito di Vendola non gli voterebbe la fiducia. Si tratta del nome dell’ex ministro della Coesione territoriale Fabrizio Barca. LE ALLEANZE - Ci saranno anche dei politici, naturalmente, ma sarà essenzialmente il governo di Renzi, non un governo legato alle contingenze delle ristrette intese, piuttosto l’inizio del nuovo corso politico che il segretario del Pd intende intraprendere con la coalizione che verrà. Ossia quella del futuro, che non avrà certo al suo interno il Nuovo centrodestra, bensì Sel e, forse, anche alcuni ex grillini. Per questo lungo la strada della legislatura cercherà di infittire i rapporti con questi gruppi. Nello schema che vede Renzi a Palazzo Chigi, comunque, il leader del Pd si candiderebbe anche alle Europee, per cercare di trascinare il Pd. Ma se tutto questo non dovesse accadere? Pazienza, dice lui, «l’obiettivo non è decidere le carriere, coltivare il proprio orticello, ma disegnare quale deve essere il progetto per portare gli italiani fuori dalla crisi». 12 febbraio 2014 © RIPRODUZIONE RISERVATA Maria Teresa Meli Da -http://www.corriere.it/politica/14_febbraio_12/corsa-segretario-gelo-palazzo-chigi-43396a32-93b4-11e3-84f1-d7c36ce692b4.shtml Titolo: Maria Teresa MELI Renzi a confronto con Napolitano sui ruoli chiave Inserito da: Admin - Febbraio 22, 2014, 08:05:48 am Il retroscena del colloquio con Grillo: «se fossi stato solo segretario sarei saltato sul tavolo»
Renzi a confronto con Napolitano sui ruoli chiave Il premier incaricato ai suoi: ci chiedono continuità sull’Economia Giornata di riunioni, colloqui e tensioni, quella di ieri, per Matteo Renzi. Il culmine, all’apparenza, è stato l’incontro con Beppe Grillo, che è andato in diretta streaming. Alla fine il segretario si è detto «soddisfatto di come è andata». «Ha fatto una figuraccia quando ha detto “io non sono democratico” - ha spiegato dopo ai suoi -. Lì mi ha fatto un gran regalo. E secondo me tanti dei suoi sono rimasti male per il suo comportamento». In compenso l’atteggiamento di Renzi è stato più che flemmatico: «Se fossi stato il segretario del Pd e basta - confessa il leader del Partito democratico - gli saltavo sul tavolo, ma da presidente incaricato dovevo restare sereno e ci sono riuscito». Prima c’era stato il vis à vis con Berlusconi. Sul piatto, le riforme e la possibilità di legarle alla prossima istituzionale: la scelta condivisa di un nuovo presidente della Repubblica. L’appuntamento più atteso - Ma è stato quello con il capo dello Stato l’appuntamento più atteso. E anche il più difficile. Si è trattato di quello che in politichese si potrebbe definire un incontro «franco». Matteo Renzi e Giorgio Napolitano hanno ingaggiato un braccio di ferro su alcune caselle chiave del governo. E nell’incontro il presidente della Repubblica ha avuto modo di ricordare al segretario del Pd che, come vuole la Costituzione, spetta anche a lui la nomina dei ministri. Tanto per far capire al leader del Partito democratico che non poteva fare di testa sua. Non sull’Economia, almeno, che è uno dei dicasteri più importanti. L’Europa ci guarda - Renzi l’ha raccontata così ai fedelissimi, dopo quell’interminabile e faticosissimo colloquio: «Napolitano mi ha spiegato che alcuni partner europei sono molto esigenti con l’Italia e vogliono che il nostro Paese si presenti con le carte in regola. Il nostro credito dipende da quello. Perciò, secondo lui, il ministro dell’Economia deve rappresentare la stabilità e anche la continuità. E deve essere una persona in grado di dialogare con personaggi come la Merkel». Insomma, per dirla povera, il capo dello Stato continua a preferire l’idea di un tecnico a via XX Settembre. Mentre il segretario del Partito democratico, fosse per lui, opterebbe per un «profilo più politico». Ma su questo punto nel colloquio, a quanto pare, avrebbe dovuto aprire la porta al cedimento. Sebbene su un punto sia stato fermissimo: no alla riconferma di Saccomanni. Comunque, «su una cosa non ci piove: deve essere chiaro sin dall’inizio che il ministro dell’Economia deve collaborare con me». L’ottimismo non manca - Però, sarà l’ottimismo che a Renzi non difetta mai, o sarà la necessità di ostentare un buon grado di sicurezza anche con i suoi, fatto sta che il leader del Partito democratico con i fedelissimi non ha detto che l’incontro è andato male, sebbene in realtà non siano stati sciolti tutti i nodi: «Siamo entrati molto nel merito dei diversi problemi e vi dirò che ho ricavato una sensazione molto positiva dall’atteggiamento del presidente». Le nubi - Anche sul governo, nonostante le difficoltà non manchino, e le tensioni rimangano, Renzi vede allontanarsi le nubi. E infatti spiega ai fedelissimi: «Diciamoci la verità, Alfano non pone nessun ostacolo insormontabile. Non lo ha mai posto nemmeno sul ministero dell’Economia. I problemi non vengono da Angelino: è lui che ne ha con Berlusconi. Lascerò sfogare tutti per un’altra giornata e poi tirerò le somme. Tanto ogni partito sa che questo è l’ultimo governo della legislatura, quindi nessuno penserà di far saltare il tavolo in aria per andare alle elezioni». Il quadro - E ancora, sempre improntato all’ottimismo: «Il quadro complessivo del governo è sempre più chiaro». Il premier incaricato lo ha analizzato a lungo con il suo braccio destro e sinistro Graziano Delrio, l’uomo che occupa un posto chiave nella strategia renziana: «Siamo molto avanti con il lavoro, sebbene ci sia ancora qualche nodo da sciogliere. Io sarei pronto a fare il governo anche prima di sabato, ma preferisco prendermi qualche giorno in più per preparare un discorso programmatico serio e rigoroso in vista di lunedì prossimo». La sfilza dei “no” - Dell’inizio traballante della sua avventura di cui qualcuno dei suoi si preoccupa, lui fa mostra di interessarsi ma solo fino a un certo punto. Tutta la sfilza di no ricevuti anche dagli amici che ha demoralizzato una parte dei suoi fedelissimi non sembra aver spento l’entusiasmo del segretario del Partito democratico: «La gente non bada a queste cose. La gente bada alle cose concrete. Si aspetta da noi i fatti. Il che significa che appena il governo si mette in moto dobbiamo conseguire dei risultati in tempi rapidi. E per ottenere questo obiettivo ci vuole coraggio. Molto coraggio». E, forse, commenta un deputato pd, «anche una buona dose di incoscienza che chissà se il Renzi versione istituzionale avrà ancora». 20 febbraio 2014 © RIPRODUZIONE RISERVATA Maria Teresa Meli Da - http://www.corriere.it/politica/14_febbraio_20/renzi-confronto-napolitano-ruoli-chiave-b51f4528-99f3-11e3-b054-e71649f9da68.shtml Titolo: Maria Teresa MELI Il premier punta ai tagli alla spesa Agire prima dello tsunami Inserito da: Admin - Febbraio 24, 2014, 06:49:29 pm La svolta
Il premier punta ai tagli alla spesa «Agire prima dello tsunami» L’obiettivo: giù le tasse sul lavoro. «Conviene un governo di legislatura, i soldi non si trovano con la pressione fiscale» ROMA - Matteo Renzi non è abituato a tanti giri di parole, né a prenderla alla lontana. Lui, i problemi, in genere, li prende di petto, se non altro perché così li sbriga prima. O, quanto meno, si fa un’idea di quello che potrebbe accadere e si prepara a recuperare i danni o ad arginarli: «Soldi in cassa non ce ne stanno, è inutile che ci prendiamo in giro. E i risultati della spending review rischiano di arrivare tardi rispetto alla data che ci chiedeva l’Europa». LE RIFORME - L’uomo è fatto così, non accuserebbe mai direttamente Enrico Letta di aver tardato e di non aver rispettato i tempi dettati dell’Europa, anche se così è, e se questo rinvio secondo il premier si abbatterà sul suo governo e non su quello precedente. Però non vuole deflettere dal suo obiettivo. Si è dato delle scadenze, di cui ha avuto modo di parlare con Pier Carlo Padoan solo velocemente per telefono, e vuole arrivare fino in fondo. Con i suoi Renzi non riesce a nascondere la verità. Non può far finta che la situazione ereditata dal governo precedente non esista. «Perché dovrei fare un esercizio di masochismo puro?», è la domanda provocatoria che si rivolge in questi giorni e che, soprattutto, rivolge a quelle corporazioni che non ha mai amato e con cui, prima o poi, sarà costretto a confrontarsi. I soldi, secondo il presidente del Consiglio «non si trovano certo aumentando la pressione fiscale». E il fatto che Padoan «non sia un rigorista» non gli dispiace affatto. I fondi, secondo il premier, bisogna trovarli dalle «riforme che l’Europa ci chiede». Anzi, che «ci ha già chiesto e di fronte alle quali non «possiamo più indugiare». Solo quelle che ci daranno «l’energia per andare avanti, altrimenti...». Altrimenti il rischio è che tutta l’imprenditoria italiana si ritiri e si allontani. «Perciò - dice e ridice Renzi - bisogna fare presto, prima che arrivi lo tsunami. Questa è la ragione per cui dobbiamo fare sul serio». GLI OBIETTIVI - Il presidente del Consiglio ha due obiettivi chiari in mente: «Abbassare le tasse sul lavoro e contenere la spesa pubblica. Anzi, se è possibile abbatterla». Perché questo è, non da ora, un pallino del segretario del Pd, a cui sta lavorando alacremente, cercando di convincere anche la sparuta compagine lettiana, per far capire al popolo del Partito democratico come la pensa, rassicurare l’alleato sulle sorti dello scrutinio elettorale e della sua legislatura. «Io - confida li premier ai fedelissimi - penso sul serio che un governo di legislatura ci convenga. E non lo dico per prassi, per rassicurare gli alleati come quelli del Nuovo centrodestra o per assicurarmi dei voti in Parlamento». GOVERNO DI LEGISLATURA - E ancora: «Io penso sul serio che sia necessario un governo di legislatura. Prima non si poteva fare perché eravamo di fronte a un esecutivo paralizzato per tanti motivi, con un premier inidoneo, non per colpa sua, con una compagine che riusciva ad andare avanti, e che procedeva solo se galleggiava e se non muoveva niente. Per noi è l’esatto contrario. E quindi o acceleriamo subito, o sono guai. Noi non solo possiamo, ma dobbiamo». Parola, anzi, parole di presidente del Consiglio. E nella mente di Renzi sono tante le rivoluzioni da fare. Una per tutte. Da pronunciare sottovoce per non creare il panico: sostituire i direttori generali dei ministeri, i responsabili delle strutture burocratiche. «Bisognerà sostituirne un bel po’», dicono i renziani. «Letta non lo ha fatto e non poteva farlo», mormora il presidente del Consiglio. Il suo non è un atto d’accusa. Piuttosto una constatazione. «Banale», dicono i suoi e aggiungono: «Ma essenziale, perché non abbiamo tempo da perdere e nel puzzle delle spese da ridurre c’è anche questo tassello». Per dirla alla Renzi «tutto è indispensabile pur di arrivare a maggio con la riduzione delle spese e quindi con la possibilità di ridurre le tasse». 23 febbraio 2014 (modifica il 24 febbraio 2014) © RIPRODUZIONE RISERVATA Maria Teresa Meli Da - http://www.corriere.it/politica/14_febbraio_23/premier-punta-tagli-spesa-agire-prima-tsunami-9de696d0-9c5b-11e3-bf70-ea8899950404.shtml Titolo: Maria Teresa MELI Le maggioranze variabili del leader Inserito da: Admin - Febbraio 26, 2014, 05:39:23 pm GLI SCENARI
Le maggioranze variabili del leader Ma la vera insidia oggi è nel suo Pd Calderoli: «Matteo Renzi è sottilmente eversivo» ROMA - «Sono un presidente del Consiglio del Partito democratico: in aula al Senato l’ho detto chiaramente, nel governo precedente questo non era così chiaro», Matteo Renzi scherza con qualche parlamentare amico. Scherza sì, ma mica tanto. È un’ulteriore conferma del fatto che il suo non è un «Letta bis», che la sua è tutta un’altra storia. E tra un po’ se ne accorgeranno anche i compagni di viaggio del premier con le mani in tasca e l’eloquio che non convince i senatori perché è rivolto alle orecchie di quegli italiani che lo seguono in diretta tv. ALFANO SI SIEDE AL POSTO DI PADOAN - Se ne renderà conto Alfano che si accaparra un posto accanto al premier. Nella scenografia renziana quella poltrona era riservata a Padoan. Così non è stato. Però questo non basta perché il Nuovo centrodestra possa cantare vittoria, anche se, senz’altro, lo farà. Già, perché il presidente del Consiglio sa quante e quali insidie si possono nascondere in Parlamento e per questo ha deciso di adottare una tattica che lo metta al riparo il più possibile da ricatti, imboscate e veti incrociati. Anche perché è conscio che il primo partito da cui deve guardarsi le spalle è proprio il suo. In questo senso l’assemblea dei senatori del Pd, ieri mattina, è stata significativa. Mario Tronti si è buttato su un ritratto psicoanalitico del «personaggio Renzi» e della sua «supponenza». Quel che resta dei bersaniani, come Miguel Gotor, ha dichiarato: «Voterò la fiducia solo per disciplina di partito». Il civatiano Corradino Mineo, per non essere da meno, ci ha tenuto a precisare che la sua, invece, è «una fiducia con data di scadenza incorporata». E l’ex sindaco di Brescia, Corsini, «en passant» ha notato che Renzi «non conosce la differenza tra una riunione di un consiglio comunale e un’assemblea del Senato». Ma in fondo, questo è solo colore. Le citazioni di Renzi da Fatima alla Cinquetti LA BATTAGLIA DELLA RIFORMA ELETTORALE - La battaglia vera sarà un’altra. E quella di folkloristico avrà assai poco. Si giocherà a breve. Non a palazzo Madama. Bensì alla Camera dei deputati. Sul terreno della riforma elettorale. Sì, perché chi credeva che quella battaglia fosse chiusa, si sbagliava di grosso. Francesco Boccia, lettiano, nonché presidente della Commissione Bilancio di Montecitorio, intervistato da Alessandra Sardoni per Omnibus, lo ha lasciato capire chiaramente: «Riprenderemo la bandiera delle preferenze». Insomma, il presidente del Consiglio vorrebbe portare a casa la riforma entro i primi dieci giorni di marzo per due ragioni. Innanzitutto, perché è stata la prima promessa che ha fatto agli italiani, quando non aveva ancora varcato il portone di palazzo Chigi ed era solo segretario del Pd. Poi perché è sulla revisione del Consultellum che si basa la possibilità di mantenere la cosiddetta doppia maggioranza con Forza Italia, una maggioranza istituzionale, che però gli serve a non dipendere dal Nuovo centrodestra. Solo così, infatti, il presidente del Consiglio potrebbe condurre i giochi come li ha sempre condotti: dando lui il «la» al governo, menando lui le danze. IL FORNO A SINISTRA - «Governare significa anche decidere e decidere, significa prendersi le responsabilità in prima persona, pagandone il prezzo se si sbaglia»: è il convincimento dell’ancora per poco sindaco di Firenze. Per quanto lo riguarda ha già «trattato abbastanza» con Alfano e alleati vari: tanto è certo che essendo il suo «l’ultimo governo di questa legislatura» nessuno proverà a far saltare il tavolo dell’esecutivo. Ma non basta. Renzi ha pronto anche un terzo forno, non si sa mai quello con Forza Italia, per le bizze di Berlusconi, si chiudesse. È quello a sinistra. Non si è ancora aperto. Ma non è un caso che il premier non abbia nemmeno tentato di spaccare Sel, che pure in Parlamento è divisa tra i filo-governativi e i duri e puri. Non è un pezzo della sinistra che vuole, ma la vuole tutta intera, in vista dell’alleanza (elettorale) che verrà e delle convergenze parlamentari contingenti che potranno essere (ius soli, unioni civili). È un terzo forno, una terza possibilità di non vincolarsi mani e piedi agli alleati di governo. E di giocare, come ha sempre fatto, a modo suo. 25 febbraio 2014 © RIPRODUZIONE RISERVATA Maria Teresa Meli Da - http://www.corriere.it/politica/14_febbraio_25/maggioranze-variabili-leader-ma-vera-insidia-oggi-suo-pd-e197dd2e-9de3-11e3-a9d3-2158120702e4.shtml Titolo: Maria Teresa MELI - Il referendum sarebbe un plebiscito. Inserito da: Admin - Aprile 02, 2014, 10:18:57 pm Il retroscena -
Palazzo Chigi e l’ipotesi referendum sulla riforma: sarebbe un plebiscito Il premier verso la prova dell’Aula Timori di alleanze tra civatiani e M5S Ma il capo del governo ai suoi: comunque vada, non ho paura. La «saldatura» mediatica tra i due mondi critici con la riforma potrebbe mettere in difficoltà Renzi di Maria Teresa Meli ROMA - «Non ho paura. Come va a finire va a finire, ma una sola cosa è certa: non ho paura di come finirà al Senato»: Matteo Renzi è convinto che, tra un tira e molla e l’altro, non ci sarà Grasso che tenga. E nemmeno la minoranza interna lo preoccupa. «Nessuna paura», ripete il presidente del Consiglio. Spavalderia? O una sorta di mantra confortante e autoconsolatorio, che Matteo Renzi ama ripetere ai compagni di partito, ai colleghi di governo e ai giornalisti, per non sentirsi sulle spine per quello che avverrà di qui al 25 maggio a Palazzo Madama? La verità é che sul serio il presidente del Consiglio non teme la prova dell’Aula che dovrà pronunciarsi sulla riforma del Senato. A Palazzo Madama lo sanno tutti. A cominciare dai pochi lettiani e bersaniani che puntano a una rivincita in Parlamento. Tant’è vero che alla Camera proprio gli ex lettiani e gli ex bersaniani si sono acconciati a dare vita a una corrente che ha come unico scopo il «prepensionamento» dei vecchi leader - a cominciare da Pier Luigi Bersani e Massimo D’Alema - e la nascita di una nuova componente che interloquisca con il leader. Ci saranno dunque problemi al Senato? A sentire i parlamentari del Partito democratico no. «Fosse per me lo abolirei», dice Enzo Amendola. «Figuriamoci se questo è il problema», assicura Nico Stumpo. E si sta parlando di deputati che non hanno fatto di certo il tifo per Renzi. Anzi. Insomma, per farla breve, dal Pd Renzi non ha problemi veri. Lo sapeva anche il presidente del Senato, che ha pubblicamente preso la parola per dire che il progetto del segretario del Pd non gli piaceva. Pietro Grasso, qualche giorno fa, prima di fare la sua uscita pubblica, aveva detto quello che pensava anche al capogruppo del Pd Luigi Zanda: «Possibile che tu stia zitto? Non capisco perché pure tu non difenda il Senato di cui fai parte. Muoviti». E Zanda gli aveva spiegato che ormai persino Anna Finocchiaro, di rado d’accordo con il premier, aveva capito che non era più il caso di fare resistenza. Del resto, il presidente del Consiglio lo ha spiegato ai fedelissimi: «Se il disegno di legge non passasse con la maggioranza necessaria, per una riforma costituzionale, cioè con i due terzi, si andrebbe al referendum. E sapete che c’è? A quel punto il provvedimento passerebbe con un plebiscito popolare». Ed è questa la vera ultima strada del premier. La strada che nessuno vuole intraprendere perché sa che, alla fine della festa, sulla ruota della fortuna politica, Renzi può giocare la carta più pesante. È questo il motivo per cui Berlusconi, pur vedendo i sondaggi che danno Forza Italia in picchiata, alterna la frenata e l’accelerata. Già, il leader di Forza Italia teme che Renzi si giochi il tutto per tutto. Magari anche ventilando elezioni anticipate, dopo l’eventuale referendum confermativo. A quel punto, e questa è l’opinione di Berlusconi, «Renzi avrebbe tutto per sé: le urne prima del tempo, per saldare la sua leadership, il referendum confermativo, per saldare il suo asse con il Paese e poi chissà che altro...». Ma in realtà, l’uomo che continua a dire «non ho paura», anche se lo ha confessato a pochissimi, un timore lo ha. È un rovello che lo rode dentro. E non riguarda l’eventuale reazione della minoranza tradizionale, per intendersi quella degli ex Cuperlo, perché con quella parte del Pd il premier sta già regolando i conti, anche nel caso in cui questo equivalga a una distribuzione di posti, prebende e seggi che verranno. Riguarda piuttosto l’unica vera opposizione che esiste ormai dentro il Partito democratico: l’ala di Pippo Civati. Ecco di che cosa ha paura il presidente del Consiglio: che la corrente civatiana conduca con il Movimento 5 Stelle la battaglia contro quella che sia Grillo che Civati definiscono «una finta riforma». La saldatura mediatica di questi due mondi potrebbe mettere in difficoltà persino il Renzi sulla cresta dell’onda. 2 aprile 2014 | 08:32 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/politica/14_aprile_02/premier-la-prova-dell-aula-timori-alleanze-civatiani-m5s-071d8ac2-ba30-11e3-9050-e3afdc8ffa42.shtml Titolo: Maria Teresa MELI Tangenti Mose, l’ira del premier: dare i poteri all’Antico Inserito da: Admin - Giugno 05, 2014, 09:23:55 am Il retroscena
Tangenti Mose, l’ira del premier: dare i poteri all’Anticorruzione Renzi: «Lavoro come un pazzo per convincere gli investitori ma il passato sembra voler tornare» Di Maria Teresa Meli ROMA - Quando la notizia dello scandalo del Mose è giunta sulle agenzie di stampa Matteo Renzi non voleva credere ai suoi occhi. Il premier era a colloquio con Raffaele Cantone per definire il problema legato al ruolo del commissario anticorruzione nella vicenda delicatissima dell’Expo, ed ecco arrivare quest’altra tegola. «Sono cose raccapriccianti, che fanno malissimo all’immagine dell’Italia e mai come in questo momento questo è controproducente», è stato poi lo sfogo del presidente del Consiglio. E ancora: «Ma come, io sto lavorando come un pazzo per convincere gli investitori esteri a venire nel nostro Paese e finalmente c’è un interesse da questo punto di vista. Si vede muovere qualcosa, anzi più di qualcosa. Però ecco che il passato sembra voler tornare». «Bisogna muoversi» Non ci sta, l’inquilino di Palazzo Chigi, a sopportare oltre questo stato di cose. Si è trovato coinvolto suo malgrado nella vicenda dell’Expo, con i cantieri in ritardo, e poi gli arresti e gli avvisi di garanzia. Per cercare di risollevare la situazione ha dovuto «per l’ennesima volta» dire che ci metteva «la faccia», ed ecco arrivare una nuova cattiva novella. Ma ora è l’Expo l’urgenza: «Sarà la vetrina dell’Italia nel mondo: non possiamo sbagliare». Il che significa che non si possono nemmeno bloccare gli appalti delle aziende coinvolte nelle inchieste giudiziarie: vorrebbe dire rallentare tutto, e già la situazione va per le lunghe di per sé perché è partita tardi ben prima che Renzi andasse a Palazzo Chigi. Si potrebbe commissariarle. «Bisogna muoversi», è l’imperativo del premier. Il che, tradotto in soldoni, significa dare attuazione ai poteri dell’autorità Anticorruzione. Il premier spera di riuscirci già nel Consiglio dei ministri di venerdì, ma non è affatto detto. Comunque su un punto il presidente del Consiglio è chiaro: non si può creare una super struttura nuova e super poteri che sconfinino da quelli previsti dalla legge che istituisce l’autorità Anticorruzione. Non è questa la strada. La via giusta, piuttosto, è quella di affidare a Cantone la supervisione della gestione dell’Expo, senza bisogno di creare attorno a lui nuovi organismi. Lo stesso Cantone, del resto, nell’incontro di ieri non ha chiesto questo. Il magistrato vuole però che venga data attuazione alla legge. Il che significa, ha spiegato al presidente del Consiglio, «che mi siano date le persone che dovrebbero affiancarmi nel mio lavoro, per esempio. Ma i quattro commissari che dovrebbero far parte con me dell’Anticorruzione non ci sono ancora. E poi dobbiamo aumentare i controlli». «Insomma - è stata la risposta di Renzi - sono tutte cose già previste dalla legge». Il nuovo ddl anticorruzione Vero, verissimo. Purché si facciano, è la raccomandazione di Cantone, che con Renzi sembra aver chiarito ogni problema, ma che non sembra fidarsi troppo della politica. «Bisogna stare attenti - è il succo del suo ragionamento - perché ormai quasi sempre dietro le grandi opere si cela la corruzione». Ed è proprio per evitare che continui il dilagare di questo fenomeno - perché, ribadisce Renzi, «deve essere chiaro a tutti che questa ormai è una roba che appartiene al passato dell’Italia, il nostro Paese non sarà mai più quella cosa là» - che si sta pensando anche ad altro. Oltre a rendere operativa la legge Severino, in modo che si definiscano una volta per tutti i poteri di Cantone, il governo sta valutando l’opportunità di elaborare il testo di un nuovo ddl anticorruzione da presentare in Senato, anche questo come un segnale «forte» per «far capire che si sta facendo sul serio». Comunque, pure Cantone fa «sul serio» e prima che il provvedimento che lo riguarda arrivi in Consiglio dei ministri vorrebbe «vederlo» ed «essere consultato». 5 giugno 2014 | 07:30 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/cronache/14_giugno_05/ira-premier-dare-poteri-all-anticorruzione-68844bcc-ec6f-11e3-9d13-7cdece27bf31.shtml Titolo: Maria Teresa MELI Renzi vuole accelerare: l’Italia non fallirà Inserito da: Admin - Agosto 30, 2014, 09:33:33 am Il capo del governo tra sfide interne e preparazione al vertice Ue del 30 agosto.
Telefonata con Ban Ki-moon Renzi vuole accelerare: l’Italia non fallirà Piano di riforme strutturali entro l’anno. «Ce la possiamo fare senza paura» Di Maria Teresa Meli ROMA - «Anche stavolta sconfiggeremo i professionisti della gufata»: Matteo Renzi torna a Roma e si mette subito al lavoro. In ballo non ci sono solo i provvedimenti per il Consiglio dei ministri di venerdì prossimo - sblocca Italia, giustizia civile e scuola -, ma anche un «piano di riforme strutturali che approveremo entro l’anno». Quel che serve, come spiega lo stesso premier ai suoi, per «acquisire maggiore credibilità in Europa». «Credibilità» e, quindi, «flessibilità». «In questo modo - è il ritornello del presidente del Consiglio - avremo peso nella Ue». Già, la Ue. Immerso negli italici problemi, l’inquilino di Palazzo Chigi non dimentica che per lui il 30 agosto sarà il giorno della verità, non tanto per la questione flessibilità, perché la battaglia vera, su quel tema, sarà in autunno, quanto per la scelta dell’Alto rappresentante, anche se, per dirla sempre con il capo del governo, «le basi» di quella battaglia «vanno poste già adesso». Infatti Renzi sabato prossimo potrà dire di aver segnato un risultato se tutto il suo lavoro per ottenere il posto di Lady Pesc per la ministra degli Esteri Federica Mogherini andrà in porto. «Mogherini ha buone chance», continuano a ripetere i renziani. Ed effettivamente ottenere quella poltrona per il premier sarebbe molto importante: il segnale che l’Italia «conta in Europa», giacché Lady Pesc sarà anche la vice del presidente della Commissione europea, il che consentirà a Renzi di avere sulla sua scrivania tutti i dossier dell’Unione europea. «Si cambia davvero», è la frase di incitamento che il presidente del Consiglio utilizza con il suo staff, strappato alle vacanze anzitempo. «Se qualcuno pensa che io abbia paura di quello che ci aspetta, sbaglia persona», ripete Renzi ai suoi interlocutori in questo lunedì in cui si è nuovamente buttato a capofitto nei problemi italiani. E non solo in quelli, dal momento che ha anche un colloquio con Ban Ki-moon. Lo scenario internazionale è da brividi e Renzi, nel semestre di presidenza italiana della Ue, non vuole dare mostra di mancare all’appello. Anche perché la situazione lo preoccupa, soprattutto quella in Libia, Paese dove l’Italia ha corposi interessi. Ma lo sguardo in questi giorni è - inevitabilmente - concentrato sull’Italia. Renzi è «soddisfatto» per la circolare Madia: «È il segnale - spiega - che stiamo facendo sul serio anche su questo fronte, che le nostre non sono chiacchiere, ma fatti». Però l’entusiasmo endemico non gli fa velo. Il presidente del Consiglio si rende perfettamente conto delle difficoltà che ha di fronte. «La situazione - ammette - è complicata e delicata e va gestita con grande responsabilità e serietà. Ma l’Italia non fallirà. Anzi si incamminerà verso la ripresa». Sì, Renzi non cambia idea: «L’importante è cambiare il modello economico europeo basato tutto sul rigore e non sulla crescita». Di qui il «piano dei mille giorni», «mille giorni non per perdere tempo», ma perché, «pur nelle difficoltà», «ce la possiamo fare senza paura di nessuno»: «Non vivo nel terrore dei mercati, perché sono convinto che l’Italia sia più forte delle paure». Dunque, i mille giorni «servono per chiedere la flessibilità», oltre che per «risollevare l’Italia». Impresa ardua, ma il presidente del Consiglio è convinto che, delineando un piano di riforma a vasto raggio, riuscirà a convincere l’Europa. Per questa ragione sulla sua scrivania, ingombra di dossier di tutti i tipi (incluso quello sulla scuola che, di fatto, ha avocato a sé), c’è anche il Jobs act. Ma Renzi è convinto che non serva solo quel provvedimento: anche il tentativo di sbloccare la giustizia civile ha una sua (grande) importanza nella strategia del premier. “Più di cinque milioni di fascicoli sono bloccati», ripete il presidente del Consiglio, il quale sa che, se non risolve questo problema, non servirà a nulla il suo tentativo di «cercare aziende da portare in Italia». O, meglio, di «facilitare gli investimenti italiani e stranieri nel nostro Paese». Solo in questo modo, a suo giudizio, «si possono risolvere le crisi industriali» e si possono «invertire i dati della disoccupazione». 26 agosto 2014 | 08:01 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/politica/14_agosto_26/renzi-vuole-accelerare-l-italia-non-fallira-0c17d1a8-2ce6-11e4-b2cb-83c2802e5fb4.shtml Titolo: RENZI CONVINCITI: GUFI E SCIACALLI NON CHIEDONO SCUSA. Inserito da: Admin - Agosto 31, 2014, 11:54:37 am Bruxelles
La rivincita (e lo sfogo) di Renzi: ora qualcuno dovrebbe scusarsi Dopo la nomina della Mogherini, il premier si toglie qualche sassolino. E sul governo dice: «Mai esistiti piani B. Al momento esclusi rimpasti, solo il cambio agli Esteri». di Maria Teresa Meli DALLA NOSTRA INVIATA BRUXELLES - «Quanta gente in Italia dovrebbe chiedere scusa per quello che ha detto e scritto sull’operazione Mogherini, con la convinzione che non sarebbe andata in porto». Con i fedelissimi e i collaboratori Matteo Renzi si toglie qualche sassolino dalla scarpa. Anche se ufficialmente sono solo sorrisi e abbracci per festeggiare una vittoria che ha cercato e voluto in tutti i modi. Ma dura un attimo, non di più, lo sfogo del premier. La gioia per la missione compiuta, per la contentezza di «non avere mai dubitato né cambiato idea» è troppo grande per indulgere in recriminazioni sul passato: «Io ero convinto di farcela. Nella mia testa non c’erano piani B, c’era solo Federica, come avevo spiegato a tutti i miei interlocutori, esteri e non. Il resto erano giochetti italiani per metterci in difficoltà. Le ipotesi Letta e D’Alema non sono mai esistite se non per i giornali italiani e per qualche politico. Il nostro provincialismo, alle volte, non ha confini». E, sempre con i fedelissimi, il premier bolla con le stesse parole anche il gioco del totonomine sul successore di Mogherini, iniziato da giorni e destinato a proseguire fino a novembre, quando la titolare della Farnesina assumerà ufficialmente il suo incarico in Europa. Circolano diverse ipotesi ma la più accreditata al momento è quella che non prevede un rimpasto, piccolo o grande che sia. Nessun passaggio di ministri da una casella all’altra, bensì una semplice sostituzione di Mogherini. Con chi? Le voci che da Roma rimbalzano a Bruxelles indicano il favorito in Lapo Pistelli. Anche se chi conosce bene Renzi non esclude una sorpresa. Del resto, di tempo per pensare alla questione il premier ne ha ancora un po’. Di tempo per recriminare ulteriormente su chi non scommetteva sul suo successo invece non ne ha più. Lo sfogo sulle polemiche passate si esaurisce presto, perché poi la natura dell’uomo prende il sopravvento. Va bene che da ora in poi Renzi ha deciso di procedere passo dopo passo, come un maratoneta e non come un centometrista, ma incassata la vittoria in una partita giocata con grande determinazione, il premier va oltre e pensa già al vertice europeo sulla crescita che si terrà il 7 ottobre prossimo. A Milano, probabilmente, ma la sede non è ancora stata decisa, benché sia certo che l’incontro si svolgerà nel nostro Paese, che ha fortissimamente voluto, chiesto e sollecitato l’appuntamento. In compenso l’evento e la data sono stati già stabiliti e il premier mira a questo vertice per dare ulteriore peso all’azione del suo governo nello scacchiere dell’Unione: «La vicenda di Federica è andata bene, ora lavoriamo a ottenere un nuovo risultato». Questo il succo dei suoi ragionamenti: «Noi dobbiamo avere la forza di cambiare il modello di politica economica della Ue, basato tanto sul rigore e poco sulla crescita. Dobbiamo quindi mettere in campo tutti gli strumenti di flessibilità che ci sono». E ancora: «L’Europa deve cambiare strada e verso perché la risposta che ha dato finora alla crisi economica e finanziaria che ha investito tutto il continente non è stata sufficiente». Sono parole che il capo del governo va ripetendo fino allo sfinimento. Sì, perché da sempre Renzi è convinto che «sarebbe miope non coniugare il rigore con la crescita»: «Non chiediamo certo una mancia per l’Italia, non è di questo che si sta parlando, visto che non siamo certo un osservato speciale nella Ue. Stiamo piuttosto parlando di una strategia più ampia che serva anche all’Europa». Non solo, il premier è convinto che occorra fare anche un’altra operazione. Ossia, quella di rendere la Ue meno distante dai «suoi cittadini». E anche meno invisa: «L’Europa deve stare accanto ai cittadini, non contro di loro». Il che non vuol dire, lo ha ribadito anche ieri con i suoi interlocutori degli altri Paesi della Ue, che pensi di ottenere questo risultato sforando il 3%: «Io non faccio il lobbista dell’Italia e posso assicurare che noi rispetteremo le regole, ma bisogna che l’Europa prenda atto che c’è bisogno di maggiori investimenti e che è più che mai necessario cambiare politica economica» . 31 agosto 2014 | 08:29 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/politica/14_agosto_31/rivincita-sfogo-renzi-ora-qualcuno-dovrebbe-scusarsi-35be0154-30d7-11e4-9629-425a3e33b602.shtml Titolo: Maria Teresa MELI «Non si può perdere tempo» Inserito da: Admin - Settembre 21, 2014, 06:14:19 pm Retroscena
«Non si può perdere tempo» Il premier Renzi ha pronto il decreto Ai suoi spiega: non voglio uno sciopero, ma non lo temo Il duello L’idea del segretario democratico: non è un duello tra destra e sinistra, ma tra conservatori e riformisti Di Maria Teresa Meli ROMA - «La partita in questo momento non è solo con i sindacati, ma anche con Massimo D’Alema, Pier Luigi Bersani e Gianni Cuperlo. Per questa ragione ho voluto scrivere agli iscritti del Partito democratico, per far capire loro quale è la vera posta in gioco». Matteo Renzi fa Matteo Renzi. Ossia non mostra di voler arretrare sulla battaglia che riguarda il Jobs act. E non solo: «Noi non ci fermiamo su nulla: sulla giustizia, sul lavoro, sull’articolo 18, sulla Pubblica amministrazione». Deve essere chiaro anche agli elettori del Pd, perché la battaglia non è «come vorrebbe far credere Camusso» tra «destra e sinistra», ma «tra conservatori e riformisti». Ed è superfluo dire a quale categoria il presidente del Consiglio iscriva D’Alema, Bersani, Cuperlo e il segretario della Cgil. Jobs Act «Sarà finalmente chiaro a ognuno - si infervora il premier dopo aver scritto quella lettera aperta - che o si risolve tutto insieme o non si risolve nulla». Per questa ragione, e non per inseguire le elezioni, l’inquilino di Palazzo Chigi mette nel calderone delle riforme anche quella che riguarda la legge elettorale. Ma ora è il Jobs act l’oggetto del contendere, il provvedimento che sta accendendo lo scontro più aspro nel mondo del centrosinistra e tra il governo e i sindacati. Il decreto, di fatto, è già pronto. Perché Renzi non può consentirsi il lusso di mandare le cose troppo per le lunghe. Lo ha spiegato ai fedelissimi e agli alleati di governo a lui più vicini: «C’è un’unica cosa che non possiamo proprio fare: perdere tempo». Già, perché quella riforma «va fatta prima del Consiglio europeo». Perché è sempre la flessibilità quella che il presidente del Consiglio va cercando e la potrà ottenere soltanto così. «Sarà una grande operazione», assicura agli alleati. E aggiunge: «È chiaro che io non voglio lo sciopero generale e non lo auspico, però non mi preoccupa, io mi devo occupare di chi non è tutelato e non è garantito. Questa situazione non può più andare avanti, altrimenti i giovani non avranno un futuro». Gli interrogativi sulla Camusso Perciò se l’intenzione dei «conservatori» è quella di mantenere lo status quo, di mettere i bastoni tra le ruote, «io il decreto lo faccio». Da Camusso, a dire il vero, il premier si aspettava questa levata di scudi. Sa che il segretario della Cgil gliel’ha giurata e che non ha intenzione di fargli nessuno sconto. La sua, a giudizio dei renziani, è ormai una posizione pregiudiziale e difficilmente potrà cambiare. E, riflettendo ad alta voce con i collaboratori, Renzi si interroga se tra i motivi di tanto livore da parte di Camusso non vi sia anche il fatto che i «sindacati prendono per i patronati più di quattrocento milioni di euro che con la dichiarazione dei redditi precompilata varata dal governo per il prossimo anno potrebbero sparire». L’atteggiamento delle minoranze interne Ma è soprattutto l’atteggiamento che giudica pretestuoso della minoranza del suo partito che in questo momento infastidisce il premier. Il quale, essendo come si auto-definisce lui stesso, non un improvvisatore, ma uno «che studia con costanza», ricordava dichiarazioni assai diverse di coloro che adesso gli fanno la fronda. Le ricordavano bene anche alcuni parlamentari di più lungo corso rispetto alla nuovissima leva renziana. E le hanno ritrovate dopo una breve ricerca. Ne hanno ripescata una di Cesare Damiano, del 2005, entusiasta, dopo un viaggio in Danimarca, in cui sosteneva che la flexsecurity è «un modello funzionante». Ce ne è un’altra, di Pier Luigi Bersani, del 2009, che suona così: «Non va bene che ci sia una parte protetta e la metà senza tutele. Ci vuole una riforma del mercato del lavoro che superi questo dualismo. Questo doppio regime nel lavoro non funziona. E sono pronto alla battaglia con i sindacati perché pure loro si dimostrano miopi». E il presidente del Consiglio ricorda ancora un Massimo D’Alema entusiasta della proposta di contratto unico di Pietro Ichino, nel 2009, che, en passant, prevedeva l’eliminazione dell’articolo 18. E qualche senatore a lui vicino è andato a cercare la prima edizione del Codice semplificato del 2009, quello che riscrive integralmente lo Statuto dei lavoratori e, ovviamente, anche l’articolo 18. La prima firma è di Ichino. La terza è di Vannino Chiti. 21 settembre 2014 | 08:52 © RIPRODUZIONE RISERVATA DA - http://www.corriere.it/politica/14_settembre_21/non-si-puo-perdere-tempo-premier-renzi-ha-pronto-decreto-2e184b58-4158-11e4-a55b-96aa9d987f34.shtml Titolo: Maria Teresa MELI «La vecchia guardia è spianata» Inserito da: Admin - Settembre 30, 2014, 10:22:22 pm «La vecchia guardia è spianata»
Così il leader spacca i dissidenti Dopo le scintille in direzione la vittoria a larga maggioranza sul lavoro, Matteo Renzi è su di giri. La sua frase si riferisce a Massimo D’Alema e Pier Luigi Bersani di Maria Teresa Meli «Li ho spianati»: al termine della riunione della direzione, Matteo Renzi è su di giri. La sua frase si riferisce a Massimo D’Alema e Pier Luigi Bersani. È riuscito a staccare una buona parte della minoranza dalla «vecchia guardia». Non solo, è convinto che «ogni volta che Bersani e D’Alema si mettono insieme mi fanno un grande favore e un bello spot». «Massimo, in fondo - confida ai collaboratori - con tutto quel rancore ci sta dando una mano. Ve l’avevo detto che era ancora incavolato nero per la storia della nomina europea». Il premier-segretario ha fatto una piccola concessione all’ala più moderata della minoranza (il licenziamento disciplinare da definire) che ha contribuito a dividere il fronte dei suoi oppositori. Operazione a cui ha contribuito un incontro conviviale ieri tra i vicesegretari Lorenzo Guerini e Debora Serracchiani, il capogruppo Roberto Speranza e il presidente del partito Matteo Orfini. Bersani e D’Alema masticano amaro per le defezioni e, ostentatamente, mentre il segretario parla guardano i loro iPad. Versione normale quella del primo, un nuovissimo mini il tablet dell’ex ministro degli Esteri che, ogni tanto, interrompe la lettura per fare commenti sprezzanti che, poi, ripeterà sul palco. Ovviamente, non applaudono. Ma il presidente del Consiglio non sembra troppo preoccupato per le reazioni dei due, anzi. C’è solo una cosa che gli dà fastidio, come confida ad alcuni compagni di partito: «La strumentalizzazione di un tema importante come quello del lavoro per prendersi una rivincita. Siccome non sono riusciti loro a fare dei cambiamenti non vogliono che li faccia io. Però vedo che anche nella minoranza c’è tanta gente che capisce che bisogna tutelare i giovani e i lavoratori e non l’ideologia dell’articolo 18». Ma c’è anche un’altra operazione che ieri Matteo Renzi ha fatto. Non riguarda il partito, bensì i sindacati. Invitandoli per la prima volta dopo mesi a un incontro a Palazzo Chigi proprio nel giorno in cui si è sancita la divisione tra la Cgil da una parte e la Cisl e la Uil dall’altra, spingerà ancora di più Susanna Camusso sulla strada dell’isolamento, mettendola in difficoltà, e tenterà nello stesso tempo di recuperare il rapporto con il leader della Fiom Maurizio Landini. Certo, la partita non è finita. Ora si sposta al Senato, dove i numeri sono ben diversi da quelli della direzione. Lì i parlamentari sono quelli scelti da Bersani nelle elezioni del 2013. «Le decisioni si devono rispettare, come facevo io quando ero in minoranza», dice Renzi. E comunque non è la prima volta che il segretario-premier forza la mano e ottiene risultati, anche se pure stavolta ha seguito i consigli di Napolitano che lo ha invitato a smussare asperità e contrasti. «La musica è cambiata», continua a dire il premier. Che vorrebbe togliere una volta per tutte al suo partito quella che definisce «la coperta di Linus» del passato ideologico della sinistra. Insomma, non vorrebbe più sentire Massimo D’Alema pronunciare la parola padrone quando si parla di un «imprenditore che si spacca la schiena per aprire l’azienda» e che magari «deve mandare a casa dieci persone non perché è cattivo» ma perché è costretto e «sta allo Stato farsene carico». Quello che stupisce Renzi (e stupisce anche i suoi) è che proprio nello stesso momento ci sia una parte dell’establishment e della minoranza del Pd che «vogliono farmi fuori». Il presidente del Consiglio ha già detto di credere alle coincidenze. Però si è anche convinto che questo «gruppo non unito» ce l’abbia con lui perché fa le cose «senza chiedere il permesso». Insomma, senza farsi condizionare. Ma su questo il premier non cambierà idea: «Non scenderò a patti con quella parte di establishment che si sente spodestata e rivuole il potere per condizionare la politica. Sia chiaro: o noi o loro». E sia chiara anche un’altra cosa, fa sapere a fine giornata il presidente del Consiglio: «Non è finita qui». Nelle intenzioni dell’inquilino di Palazzo Chigi la «rivoluzione soft» (ma si può definirla ancora veramente tale?) continua. 30 settembre 2014 | 07:53 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/politica/14_settembre_30/vecchia-guardia-spianata-cosi-leader-spacca-dissidenti-fcbed7fc-4864-11e4-a045-76c292c97dcc.shtml Titolo: Maria Teresa MELI Renzi ha più alleati e rilancia la politica contro i tecnocrat Inserito da: Admin - Ottobre 05, 2014, 07:38:00 pm Renzi ha più alleati e rilancia la politica contro i tecnocrati
Il premier è pronto ad andare a Bruxelles e a scontrarsi anche con la Germania. Il suo scatto d’orgoglio: «il Pd ha più voti della Cdu» Di Maria Teresa Meli «Oggi sono stato tutto il giorno a occuparmi della legge di Stabilità, punto. Noi manterremo il vincolo del 3 per cento. Il 23 ottobre al Consiglio europeo di Bruxelles mi presenterò con le carte a posto, ma non perché avrò fatto i compiti a casa che chissà chi mi chiede, ma perché avrò fatto le riforme che gli elettori mi hanno chiesto nelle urne delle Europee»: Renzi non vuole farsi trovare impreparato, ma non vuole neanche soggiacere ai diktat dei «rigoristi» europei. Il premier è pronto ad andare a Bruxelles e a scontrarsi anche con la Germania pur di portare a casa il risultato. «Io stimo la Merkel», continua a dire. Ma è anche vero che la situazione è cambiata. David Cameron, da cui sarà oggi, e che pure non fa parte dell’euro, si tiene lontano dalla politica austera inaugurata nella Ue, Hollande ha annunciato che sforerà senza se e senza ma. Insomma, ormai il premier, che pure non oltrepasserà la fatidica soglia del 3 per cento, qualche alleato in più ce l’ha. Senza contare che, come ha rivendicato anche l’altra sera, nella Direzione del suo partito, il Pd ha preso più voti della Cdu. E questo sul tavolo della Ue qualcosa dovrà pur contare. Certo, visto dall’Europa e dal mondo il Pd di fronte alla Cdu è piccola cosa, ma nel consesso europeo quei voti in più valgono. «Il mondo - dice Renzi - chiede politica, non bastano l’economia e la tecnica. Occorre la buona politica». Un richiamo, nemmeno tanto implicito, alle politiche ultrarigoriste che la Germania ha imposto all’Europa. «Torna l’Italia», avverte il premier. Come a dire, scordatevi dei governi tecnici o simil tecnici a cui vi siete abituati finora, perché adesso è la politica che «conta e i tecnocrati non contano più». Ma ciò nonostante, al contrario della Francia, l’Italia «manterrà il vincolo del tre per cento»: «da quel dato non ci muoveremo». Ovvio. Perché è ciò che gli serve per condurre lo scontro con Bruxelles al prossimo consiglio europeo. Anche perché, per decisione sua e di Padoan, comunicata a Napolitano già da una ventina di giorni, la legge di stabilità non punterà a rispettare il pareggio di bilancio calcolato al netto delle fluttuazioni dell’economia. È da tempo che sia il premier che il ministro dell’Economia hanno deciso di non ridurre il deficit e di non far scendere il debito. Perché punteranno tutti i soldi della legge di Stabilità sulla crescita. E non si sta parlando solo del bonus di 80 euro. Ma punteranno anche sulla riduzione del costo del lavoro che è l’altro punto su cui Renzi si gioca la partita della vita. «La battaglia per la flessibilità ci permette di stare per tre anni alle nostre condizioni e ci consente di scambiare flessibilità con riforme, facilitando il piano europeo di investimenti da trecento miliardi». E siccome di Europa si parla, e di Italia vincente in Europa, era inevitabile la telefonata di congratulazioni a capitan Totti: «Sei un grande». E su questo non ci sono altri commenti da fare. 2 ottobre 2014 | 07:08 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/politica/14_ottobre_02/renzi-ha-piu-alleati-rilancia-politica-contro-tecnocrati-a5cbbdd8-49f0-11e4-9fe4-a545a65e6beb.shtml Titolo: Maria Teresa MELI. Pd, gli «irriducibili» nell’angolo ma un pezzo potrebbe ... Inserito da: Admin - Novembre 15, 2014, 05:47:04 pm Il retroscena
Pd, gli «irriducibili» nell’angolo ma un pezzo potrebbe staccarsi I democratici spaccati tra maggioranza e tre fronti d’opposizione sabato l’incontro di Area riformista. Cuperlo non ci sarà: non mi hanno invitato Di Maria Teresa Meli ROMA Da ieri, ufficialmente, non c’è più un Pd, ma ce ne sono almeno quattro. Di cui un pezzo, forse, si staccherà, per navigare nelle acque della sinistra insieme a Sel e ad altri compagni di traversata. C’è il Pd di Renzi, quello che conta almeno un 40 per cento di consensi, quando non sono di più in taluni sondaggi che spingono certi sostenitori del premier a sognare le elezioni anticipate. Poi ci sono tre minoranze. Che ogni tanto dialogano tra di loro ma che da mercoledì, e ancor di più dal giorno appresso, stanno allontanandosi. La minoranza più corposa fa capo a Roberto Speranza. Per abitudine si dice che il leader sia Bersani, ma in realtà in quell’area si è compiuto una sorta di Midas di craxiana memoria e le nuove generazioni hanno preso le redini della situazione: con Speranza ci sono il ministro dell’Agricoltura Maurizio Martina, Nico Stumpo ed Enzo Amendola. Raccontano che anche il governatore del Lazio Zingaretti non abbia più voglia di incrociare la spada con il segretario. Alcuni di questi esponenti della cosiddetta «area riformista» si vedranno domani a Milano. Dove invece non ci sarà l’ultras dalemiano Gianni Cuperlo, che confessa candidamente: «Non mi hanno invitato». Lì lanceranno la loro corrente. Il cui motto è stato forgiato da Bersani in puro bersanese, per l’appunto: «O si va a messa o si sta a casa». Potrebbe essere tradotto così: non si possono vagheggiare scissioni e nuovi partiti, o si lascia la politica o si lavora per la ditta...e anche un po’ per logorare e condizionare il segretario. I «riformisti» non vogliono rompere, né tanto meno traslocare altrove. Il loro sogno è riprendersi il partito. Magari non ci riusciranno, però restano dentro. E sono disposti a siglare compromessi con il premier. Come sul Jobs act. La mediazione è stata decisa mercoledì notte, dopo la riunione della direzione Pd dallo stesso Renzi, in un incontro al quale hanno partecipato tra gli altri il presidente del Pd Orfini, i capigruppo parlamentari, la ministra Boschi, il vice segretario Guerini e il responsabile economico Filippo Taddei: «Se mi garantite che i tempi non si dilatano ma restano gli stessi si può cambiare qualcosina», ha annunciato il premier. Mossa abile, che ha contribuito a spaccare ulteriormente le minoranze. L’ «area riformista», alla quale, oltre agli esponenti già nominati, si aggiungono il presidente della Commissione lavoro Cesare Damiano, gran tessitore di accordi, l’ex segretario Guglielmo Epifani e Vasco Errani, brinda all’accordo. Glissando sul fatto che tanto la fiducia verrà messa ugualmente per sbrigarsi. Gli altri masticano amaro. Alcuni aspettano la linea da D’Alema che con Renzi è sempre più feroce: «Lui è uno che dice una cosa e poi ne fa un’altra, e infatti Berlusconi lo ha scelto come suo erede, Renzi è un episodio nella cronaca politica italiana e con la sua riforma elettorale andrà a finire che porterà Salvini al governo». Perciò Cuperlo non esulta per l’accordo e dice che c’è «ancora un eccesso di delega al governo». Ma ribadisce di voler restare dentro il Pd. Anche se è proprio su D’Alema che si appuntano i sospetti di chi, nel partito, paventa una scissione. La terza minoranza è quella di Civati che ieri sera, insieme a Stefano Fassina, ha partecipato con Vendola a una manifestazione di Sel. Lui è sempre dato in uscita. Dentro Sinistra ecologia e libertà qualcuno ci spera: «Basterebbe che venisse lui con noi per dare un segnale che siamo capaci di attrarre i voti in uscita dal Pd. Per Sel sarebbe molto importante», spiegava ieri Nicola Fratoiannni a un compagno di partito. Infine ci sono i cosiddetti «cani sciolti». Fassina, che ancora non ha deciso come voterà sul Jobs act riveduto e corretto: «Leggo gli emendamenti e decido». E Rosy Bindi, che pronuncia le stesse parole. Non si muovono insieme, ma spesso fanno e dicono le stesse cose perché li unisce una grande antipatia per Renzi e una smodata passione per Susanna Camusso. © RIPRODUZIONE RISERVATA 14 novembre 2014 | 08:03 Da - http://www.corriere.it/politica/14_novembre_14/gli-irriducibili-nell-angolo-ma-pezzo-potrebbe-staccarsi-c66477f4-6bcb-11e4-ab58-281778515f3d.shtml Titolo: Maria Teresa MELI Renzi: «Silvio ci seguirà, vuole stare al tavolo nella... Inserito da: Admin - Novembre 15, 2014, 05:50:10 pm Il retroscena
Renzi: «Silvio ci seguirà, vuole stare al tavolo nella partita del Colle» Il premier: «Ognuno ha messo i suoi ingredienti. Ora tutti spingono il carrello». «Come al supermarket, abbiamo nel carrello il 3% per Ncd e i nomi bloccati per gli azzurri» Di Maria Teresa Meli A sera, dopo l’incontro con la delegazione di Forza Italia capeggiata da Silvio Berlusconi, Matteo Renzi ha il tempo di rilassarsi un poco con i suoi, prima di prepararsi ad affrontare la riunione della Direzione del suo partito. Nello staff del presidente del Consiglio circola questa battuta, piuttosto cruda, ma che spiega con una certa efficacia la situazione: «È come se fossimo in un supermercato con il nostro carrello. Ci abbiamo messo il 3 per cento per Alfano, i capilista bloccati per Berlusconi e adesso tutti spingono quel carrello. E questo era quello che ci interessava». Detta così, forse, suona un po’ brutale, ma piuttosto realistica. Perché se è vero che l’ex Cavaliere ieri ha detto «no» al 3 per cento e al premio di lista, è anche vero, come ha spiegato ai collaboratori e ai fedelissimi il premier, che «ci ha assicurato che non farà imboscate e che garantirà che i tempi vengano rispettati». «Del resto - ha aggiunto Renzi - nessuno si aspettava che ci dicesse di sì, non poteva farlo, dopo aver ricompattato il suo partito, altrimenti Forza Italia si sarebbe nuovamente divisa e Fitto sarebbe tornato alla carica. Insomma, immaginare che Berlusconi fosse disponibile a darci di più era francamente impossibile, ma va bene così». Il presidente del Consiglio è soddisfatto, non dispera di ottenere qualcosina di più durante l’iter parlamentare, ma anche se ciò non dovesse accadere, pazienza. È riuscito a fare un accordo con la sua maggioranza di governo sul premio alla lista (cosa a cui teneva sopra ogni altra cosa, perché è il bipartitismo, in realtà, l’obiettivo finale a cui tende Renzi) e nel contempo non ha provocato la rottura del patto del Nazareno, anche se quell’intesa si è andata modificando nel tempo. «Non dimentichiamoci - ha spiegato ancora ai suoi il premier - che Berlusconi ci ha anche promesso che andrà avanti con noi sulla riforma del Senato, che non si sfilerà e pure questo è un punto molto importante». Dunque «si può procedere celermente, secondo i tempi stabiliti, senza rinvii e stoppando qualsiasi tattica dilatoria, cosa che era il nostro primo obiettivo». Per il resto, il premier non è preoccupato per il fatto che Fi voterà a favore solo di determinati punti della riforma elettorale. Sa che sulla soglia del 3 per cento i voti saranno molti di più di quelli dello stretto confine della maggioranza di governo. Per esempio, perché Sel e Fratelli d’Italia dovrebbero dire «no» a uno sbarramento che consente a queste due forze politiche di presentarsi da sole? Quanto al premio di lista, il premier ritiene di non avere problemi nemmeno su quel fronte. È convinto che su quel punto il suo partito sarà compatto e che qualche apporto potrebbe venire anche dai banchi dell’opposizione. Per farla breve, il premier è convinto che la riforma elettorale «verrà approvata entro la fine dell’anno al Senato ed entro febbraio del 2015 alla Camera». Ma non ostenta un po’ troppa sicurezza il presidente del Consiglio? Una fetta della minoranza del Partito democratico potrebbe dargli del filo da torcere al Senato: «Già, ma questa volta - ha spiegato ai più stretti collaboratori - dovranno farlo con il voto palese, mettendoci la faccia e assumendosi le loro responsabilità». Inclusa quella di far fallire una delle riforme che Giorgio Napolitano aveva posto come condizione per accettare il suo secondo mandato. Renzi, che non è certo un ingenuo, sa bene che sia nel Pd che dentro Forza Italia c’era e c’è chi vuole mandare all’aria tutto e le mosse del vertice di maggioranza di lunedì e dell’incontro di ieri con comunicato incorporato sono servite proprio a sventare queste manovre. Come sa, perché l’ex Cavaliere glielo ha confermato ieri, che Berlusconi vuole stare al tavolo in cui si deciderà la successione a Napolitano: «Lui - ha spiegato ai suoi - mi ha detto di avere tutto l’interesse a essere dentro questa partita». Nei corridoi di Montecitorio, dopo quell’incontro, circola voce che questo sia l’assillo di Berlusconi. Motivo in più perché il leader di Fi non rompa il patto. Motivo in più perché Renzi si senta sufficientemente tranquillo. 13 novembre 2014 | 07:56 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/politica/14_novembre_13/renzi-silvio-ci-seguira-vuole-stare-tavolo-partita-colle-e55276ec-6aff-11e4-8c60-d3608edf065a.shtml Titolo: Maria Teresa MELI Renzi e l’occasione per prendere la Capitale roccaforte ostile Inserito da: Admin - Dicembre 07, 2014, 05:43:03 pm Il retroscena
Renzi e l’occasione per prendere la Capitale, roccaforte ancora ostile Il Pd romano, una delle sacche più forti di resistenza al «renzismo», era uno degli avamposti della vecchia «ditta» ex Ds ed ex Dc Di Maria Teresa Meli ROMA Certo non gli ha fatto piacere. Anzi. Finché si trattava del numero degli astenuti in Emilia-Romagna, è riuscito a tenere botta bene, perché in fondo, in quella tornata, nonostante il calo dell’affluenza alle urne, ha confermato una regione al Pd e un’altra - la Calabria - l’ha strappata al centrodestra. Ma il caso di «Mafia Capitale» lo ha digerito assai peggio. Primo, perché, come ha spiegato «ha oscurato l’approvazione del Jobs «act e la chiusura della vertenza Ast». E questo gli ha dato non poco fastidio, visto che «fatti» del genere, insieme agli altri che seguiranno (la riforma elettorale al Senato e quella sul bicameralismo alla Camera) gli serviranno a dimostrare che «non sono malato di annuncite», ma passo «dalle parole ai fatti» e le mie «non sono chiacchiere», come qualcuno «racconta». Il pd romano una delle sacche più forti di resistenza al renzismo Ma alla fine Renzi sta cercando di risolvere anche questa brutta storia a modo suo. Ossia, cercando di trarre del «buono» dal «cattivo» che è toccato in sorte. L’uomo è pragmatico. E non ha mai fatto mistero di «non essere quel politico improvvisato che qualcuno si immagina», ma «uno che legge i dossier, si prepara e poi, dopo aver studiato bene la situazione, decide». Per questa ragione, prima di trovare la soluzione per la questione romana, ha impiegato qualche ora di tempo. Quel tanto che gli serviva per capire che c’era del «marcio», che Marino andava «salvaguardato», e che il Partito democratico capitolino doveva essere decapitato. L’ultima tappa, in fondo, non gli è dispiaciuta poi troppo, perché il pd romano era una delle sacche più forti di resistenza al renzismo, anche se formalmente tutti o quasi, si erano convertiti al nuovo corso. La Capitale, come altre città italiane, del resto, era uno degli avamposti della vecchia «ditta» (intendendo per tale, in questo caso, non solo quella costituita dai ds ma anche quella proveniente dalla fu Dc) che cercava di «cambiare verso» a modo suo. Il commissariamento affidato al presidente Matteo Orfini Perciò la prima mossa è stata quella di chiedere a Lionello Cosentino di farsi da parte. Si è detto e raccontato che è stato lo stesso segretario della federazione romana a decidere di fare un passo indietro. In realtà le cose sono andate diversamente. Cosentino, che alle primarie non si era schierato con Renzi, sperava di assumere lui il ruolo di commissario. E invece gli è stato spiegato che doveva andare via. Lui ha fatto resistenza. Al Nazareno sono volate parole grosse e per i corridoi della sede del Pd si sono sentite voci alterate. Ma alla fine, la linea Renzi è uscita vincente. A quel punto il premier si è trovato di fronte a due scelte: affidare il commissariamento al vicesegretario Lorenzo Guerini o al presidente Matteo Orfini. Non volendo scontentare più di tanto la minoranza, che non vuole umiliare, perché gli serve nel grande risiko del Quirinale, il segretario ha proceduto a una consultazione lampo, sentendo le diverse anime del partito. Ha chiesto a chi conta nella Capitale quale fosse il nome preferito. «L’unico che non ha consultato è stato Nicola Zingaretti» si lamentano però gli uomini del presidente della regione Lazio, i quali temono che in questa partita una delle vittime sarà il loro leader. Che rappresenta una delle sacche di resistenza del Pd al renzismo imperante. Non a caso, ogni tanto si parla di lui, come del possibile competitor di area ds all’ex sindaco di Firenze. Alla fine la scelta è caduta su Orfini. Uno che prende molto sul serio il suo lavoro, che conosce Roma, e che non è tipo da fare passi indietro, tant’è vero che ha già annunciato ai segretari dei circoli: «Sono pronto a chiamare uno a uno tutti gli ottomila iscritti al partito, voglio sapere chi sono, perché hanno aderito, da dove vengono...». In parole povere, anche nella Capitale, che con la consueta pratica della resistenza passiva era riuscita a tenere a bada il renzismo, si sta facendo strada il nuovo corso. Il caso di Micaela Campana, coinvolta nella vicenda per un sms a Buzzi Certo, le polemiche non sono finite. E nemmeno i timori di nuovi sviluppi. Ma per ora su Micaela Campana, coinvolta nella vicenda per un sms a Buzzi, il Pd ha deciso di non muoversi. «Non facciamo di tutta l’erba un fascio» è il ritornello del premier. La deputata del Pd, bersaniana di ferro, non è indagata, quindi non si autosospenderà dalla segreteria. Né il premier, finora almeno, glielo ha chiesto. Forse, per ragioni di opportunità, le verranno cambiate le deleghe (al Welfare e al terzo settore) che ha nell’organismo dirigente del partito. Per il resto, c’è la minoranza, Rosy Bindi in testa, che continua a tentare di mettere in difficoltà Renzi su questa vicenda, ma lui con i fedelissimi fa spallucce e dice: «Ci sono strumentalizzazioni e provocazioni alle quali non vale neanche la pena replicare». 7 dicembre 2014 | 09:27 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/politica/14_dicembre_07/renzi-l-occasione-prendere-capitale-roccaforte-ancora-ostile-71407144-7de9-11e4-9639-7f4a30c624ee.shtml Titolo: Maria Teresa MELI Renzi: D’Alema vuole mandarci a casa Inserito da: Admin - Dicembre 14, 2014, 05:56:43 pm IL PREMIER
Renzi: D’Alema vuole mandarci a casa L’ira di Renzi, ora la conta all’assemblea pd. L’idea di pubblicare le spese delle segreterie Bersani e Epifani Colpo di coda della vecchia guardia Vogliono un altro esecutivo Di Maria Teresa Meli ROMA Una cosa per Matteo Renzi è chiara: «Siamo di fronte al colpo di coda della vecchia guardia contro di me. E per questa ragione cerca di frenare la riforma del Senato e l’Italicum». A capo di questo schieramento c’è sempre lui, secondo il premier: Massimo D’Alema, che «guida il fronte trasversale dei conservatori che comprende anche Forza Italia». Ma non c’è solo l’ex ministro degli Esteri nel mirino del segretario. L’impressione è che anche Bindi, Bersani e Finocchiaro «stiano cercando il colpo finale per salvare loro stessi e la vecchia classe dirigente e affossare me». Con quale obiettivo finale? È su questo che lo stesso Renzi e i suoi fedelissimi non hanno le idee chiare. «Forse - ragiona ad alta voce il premier con i suoi - ormai è passata la linea D’Alema: pur di distruggere me, distruggiamo pure l’Italia, il che vuol dire cercare di mandare a casa questo governo e metterne un altro, senza passare dalle elezioni, agli ordini della troika e della Commissione europea. Sennò qual è la strategia? Quella di condizionare l’elezione del presidente della Repubblica? O siamo alle richieste inconfessabili: avere delle liste bloccate che garantiscano i loro candidati che altrimenti alle elezioni non verrebbero mai eletti?». Gli interrogativi sulla strategia o sulla mancanza della stessa si accavallano nella mente di Renzi, ma sulle risposte da dare non ci sono dubbi. Lo spettro delle elezioni resta lì sullo sfondo. Però, visto che non spaventa abbastanza, ci sono soluzioni operative più immediate da mettere in atto che potrebbero fare assai male alla minoranza, anche a quell’area riformista capeggiata da Roberto Speranza, che però non ha battuto un colpo in favore del segretario nel momento del bisogno. «Se lo scontro all’interno del partito si fa sempre più duro, bisognerà comportarsi di conseguenza», avverte Renzi. Primo segnale: l’assemblea regionale toscana che avrebbe dovuto incoronare Enrico Rossi come candidato alla regione è stata posticipata e ora i renziani fanno sapere che potrebbero spuntare nuove candidature alle primarie. A livello nazionale la risposta potrebbe essere altrettanto dura: sono in bilico in segreteria nazionale i posti di Micaela Campana e Andrea De Maria, rispettivamente componenti dell’area Speranza e Cuperlo. La prima è legatissima a Bersani ed è la ex moglie del pd Daniele Ozzimo, dimessosi da assessore comunale di Roma perché coinvolto nella vicenda di «Mafia Capitale». Il secondo è uomo di Cuperlo, il quale, secondo i renziani, sta portando avanti il progetto dalemiano senza se e senza ma. Ciò potrebbe significare la fine della gestione unitaria adottata finora nel Pd. Dunque, come ha spiegato il premier ai suoi, «potrebbero esserci ripercussioni molto forti sia a livello locale che nazionale». Da quest’ultimo punto di vista, domenica, all’assemblea nazionale, potrebbe esserci una sgradita sorpresa per molti: il tesoriere Francesco Bonifazi potrebbe mettere on line i dati del bilancio delle segreterie Bersani, Epifani e Renzi, con relative spese e stipendi degli staff. Insomma, per dirla con il segretario, sarà l’assemblea nazionale «il momento della verità»: «Sto preparando un documento molto esplicito e impegnativo sulle riforme su cui chiederò il voto». Basterà a ridurre a più miti consigli la minoranza e, soprattutto, a sedare i renziani che invocano le elezioni? Certo nemmeno questa prospettiva basta per ora a trattenere il premier, che non ha accettato l’attacco di D’Alema a Delrio: «Graziano è un mite e non ha mai minacciato nessuno, Massimo può dire altrettanto?». Domanda retorica, ovviamente. 12 dicembre 2014 | 10:40 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/politica/14_dicembre_12/renzi-d-alema-vuole-mandarci-casa-b521f8c8-81e1-11e4-bed6-46aba69bf220.shtml Titolo: Maria Teresa MELI Il doppio ultimatum di Renzi e l’arma del voto a maggio Inserito da: Admin - Dicembre 14, 2014, 11:24:11 pm Il doppio ultimatum di Renzi e l’arma del voto a maggio
Messaggio a sinistra pd e Berlusconi: state giocando con il fuoco Tensione La rabbia dei renziani: «Altro che ditta, hanno violato i patti, agguato studiato a tavolino» Di Maria Teresa Meli ROMA Matteo Renzi si è stufato di aspettare Berlusconi che temporeggia sulla riforma elettorale e di subire gli agguati della minoranza pd. All’uno e agli altri il premier invia segnali ben chiari, che hanno il sapore dell’ultimatum. Quello rivolto al leader di Forza Italia è un messaggio inequivocabile: «Se lui molla l’accordo, noi andiamo dritti sulla nostra strada con il Mattarellum e ci presenteremo da soli alle elezioni, visto che il Pd è un partito maggioritario, con quel sistema». Il che significa non solo rompere con Berlusconi, con tutto quel che ne consegue (per esempio, che il numero uno di FI non toccherà palla sull’elezione del capo dello Stato), ma prefigurare un voto politico ravvicinato, quando il Mattarellum verrà approvato dalle Camere. Tant’è che si ipotizza già un possibile «election day» a maggio con Regionali, Comunali ed elezioni politiche. Ma questa, al momento almeno, è più che altro un’arma di pressione, perché lo scioglimento anticipato della legislatura non è l’obiettivo prioritario di Renzi, il quale, peraltro, è convinto che, alla fine, «Berlusconi non romperà». Però, è chiaro, che di incidente in incidente, di problema in problema, si potrebbe comunque scivolare verso il voto anticipato. Anche perché tra i renziani cresce la tentazione di andare alle elezioni. Soprattutto dopo che il governo è andato sotto in Commissione Affari costituzionali di Montecitorio. Sul banco degli imputati soprattutto Lauricella, Cuperlo e Bindi. Ma anche altri. L’insofferenza dei renziani è alle stelle. In Commissione Marco Meloni vota contro e Francesco Sanna esce, il che avvalora in loro l’ipotesi che di mezzo ci sia pure «un complotto dei lettiani». Insomma, sono imbufaliti con le minoranze: «Questa non la mandiamo giù. Stiamo prendendo il fango per tutti loro, vedi Roma, e questo è il ringraziamento? Uno sgambetto? Altro che ditta, hanno violato un accordo con un agguato studiato a tavolino, che mette a rischio tutto». I fedelissimi del premier, il cerchio più ristretto, in una riunione informale propongono: «Variamo il Mattarellum, facciamo le liste noi e poi vediamo». Persino il mite Guerini perde la pazienza: «Io sono buono e caro, ma violare un patto di lealtà è un vulnus». Già, perché l’accordo preso era questo: mai votare contro il capogruppo del Pd in Commissione. Impegno preso a nome di tutti e siglato da Guerini, Speranza, Rosato, Fiano e Boschi con D’Attorre, Sanna, Giorgis e Pollastrini. Il presidente del Consiglio per ora frena, anche se la sua irritazione è palpabile: «Pensano di intimidirci, hanno tradito un vincolo, ma non mi conoscono. Si divertono a mandarci sotto per far vedere che esistono, persino a costo di votare con Grillo e Salvini. Questo è il loro livello. Non hanno tenuto fede alla parola data. Però non vale la pena arrabbiarsi. Andranno sotto in aula. E quindi andiamo avanti. Piuttosto, pensate a difendere Napolitano dai nuovi attacchi di Grillo». Una parte dei fedelissimi insiste. Vuole le elezioni. «Calma - replica Renzi -. Quelli vogliono solo far deragliare le riforme. Ma se falliamo noi, che cosa ottengono? Di fare arrivare la troika. Avete letto quello che ha detto Juncker? Bel risultato che ottengono i conservatori e i frenatori pur di far vedere che sono ancora vivi». «Comunque all’assemblea di domenica - è la conclusione - ci sarà la resa dei conti. Si chiarirà bene la linea e il fatto che nel Pd ci sta chi ci vuole stare. Faremo in modo che tutti capiscano che la minoranza sta giocando con il fuoco». Sì, annuisce Debora Serracchiani: «Stanno proprio scherzando col fuoco». Con il fuoco delle elezioni, pensa più d’uno in quella stanza. 11 dicembre 2014 | 07:15 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/politica/14_dicembre_11/doppio-ultimatum-renzi-l-arma-voto-maggio-b8b86566-80fc-11e4-98b8-fc3cd6b38980.shtml Titolo: Maria Teresa MELI La strategia di Renzi sul Quirinale: sul mio nome non ... Inserito da: Admin - Gennaio 24, 2015, 10:07:59 am L’elezione del capo dello stato
La strategia di Renzi sul Quirinale: sul mio nome non potranno dire no Il premier punta a ritrovare l’unità: se saranno contro, vuol dire che giocano allo sfascio. Bersani si candida a fare il mediatore. D’Alema confida a tanti di tifare per Tsipras Di Maria Teresa Meli ROMA - Manca solo una manciata di giorni al grande appuntamento, eppure Matteo Renzi continua a giocare a carte coperte. Difficile per il premier fare altrimenti, dal momento che ormai tutti i fucili sono puntati su di lui. I fucili degli avversari, come i grillini, che il presidente del Consiglio è pronto a incontrare per discutere del Quirinale, a patto che «loro accettino di venire nella sede del Partito democratico, al Nazareno», senza fare sceneggiate. E anche (o soprattutto?) quelli della minoranza interna. La quale minoranza, ieri sera, ha voluto mandare al premier un altro segnale, annunciando che non voterà a Palazzo Madama un emendamento presentato da Anna Finocchiaro. Come a dire: non credere che se candidi lei al Colle noi diciamo di sì e tutto viene risolto. Una mossa, questa, che era già stata anticipata dal senatore dissidente Corradino Mineo, nel corso della trasmissione di La7 L’aria che tira: «Io personalmente non voterei la Finocchiaro, se venisse candidata al Quirinale, e penso proprio che Bersani farà lo stesso». L’incontro con l’ex segretario Già, Pier Luigi Bersani. Un secondo incontro con l’ex segretario - dopo il primo, andato a vuoto - è stato messo in agenda ed è imminente. Ma il presidente del Consiglio non sa se sarà risolutivo, anche se assicura ai suoi che alla fine verrà proposto un candidato «a cui la minoranza non potrà dire di no», a meno che «non si voglia giocare allo sfascio, e io non lo penso». Renzi fa mostra di credere alla buona fede dell’ex segretario che dice «non faremo i franchi tiratori». Ma la verità è che il premier non ha compreso bene dove veramente vogliano andare a parare gli esponenti della minoranza: «Non si capisce - dice ai suoi - dove vogliano andare, non hanno una strategia comune». Sin qui la cosa non ha provocato delle difficoltà all’inquilino di Palazzo Chigi: «A me finora è andata bene così, perché abbiamo portato a casa il risultato che ci premeva, cioè quello di una legge elettorale che stabilirà chi vince senza ambiguità. Il che, grazie anche alla riforma del Senato, consentirà a chi governa di poterlo fare veramente». I numeri contro Ma in un futuro nient’affatto remoto, bensì molto prossimo, Renzi dovrà fare i conti con una fetta del «suo» partito che non risponde alle direttive della segreteria. Non saranno 140, perché, come confessava Corradino Mineo, all’assemblea della minoranza, l’altro ieri, «erano forse un centinaio», però rappresentano comunque un numero che pesa. Non tanto e non solo in vista dell’elezione del presidente della Repubblica, perché, per come si sono messe le cose, il presidente del Consiglio può concedersi anche il lusso di 101 franchi tiratori. È il prosieguo della legislatura che, a questo punto, è in gioco. Sì, perché nel campo del Pd sono in molti a puntare a un ridimensionamento di Renzi. Un’altra sinistra E l’elezione dell’uomo del Colle è un tassello di questa operazione. Basta vedere i posizionamenti. Bersani, in attesa del desiderato (da lui) incontro con il premier, fa intendere a Renzi che potrebbe indossare i panni del mediatore, ma poi lascia andare avanti Miguel Gotor e gli altri al Senato. Massimo D’Alema, invece, non fa nemmeno quella parte e confida a destra e a manca di tifare per la vittoria di Alexis Tsipras in Grecia, quasi prefigurando un’altra sinistra al di là del Partito democratico. «C’è chi spera di farmi fuori o, quanto meno, con i ricatti, di condizionarmi, ma è una speranza vana, io vado avanti perché sono convinto che questo Paese abbia bisogno di grandi cambiamenti», dice il presidente del Consiglio. Che, come si è detto, non cercherà certo la rottura sul Quirinale: «Alla quarta votazione dobbiamo avere un presidente, perché ci sono molti professionisti della politica autocandidati che sperano di entrare in gioco dalla quinta in poi». Quindi il nome su cui alla fine convergerà Renzi non sarà un nome che gli potrà portare l’ostilità dei suoi avversari interni. La scadenza Il premier si è dato come limite il 2 febbraio, anche se spera di chiudere prima la vicenda. Per il resto sa che il cammino non sarà facile, comunque si chiuda la partita del Quirinale. Non basterà una soluzione che vada più o meno bene a tutti a sanare le ferite interne. Ma Renzi è convinto che, quale che sia l’esito finale di quella vicenda, archiviata la pratica, il governo non subirà contraccolpi pesanti: «È da tempo, ormai, che mi mettono i bastoni tra le ruote e che cercano di ostacolare i nostri provvedimenti, eppure stiamo andando avanti lo stesso», spiega. E aggiunge: «Vedrete che non dureremo molto, ma moltissimo. Molleranno prima quelli che stanno cercando di ostacolarci, perché io non mollo mica». 23 gennaio 2015 | 08:45 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/politica/speciali/2015/elezioni-presidente-repubblica/notizie/strategia-leader-quirinale-mio-nome-non-potranno-dire-no-46876cc4-a2c8-11e4-9709-8a33da129a5e.shtml Titolo: Maria Teresa MELI Il premier Renzi: Silvio non romperà Inserito da: Admin - Gennaio 30, 2015, 04:46:17 pm Il retroscena
Elezione Presidente della Repubblica Il premier Renzi: Silvio non romperà Il capo del governo alle prese con tre maggioranze di Maria Teresa Meli e Francesco Verderami Grazie a un ex dc, Renzi fa pace con gli ex pci, blinda la «ditta», si prepara ad accompagnare il suo prescelto al Colle e si ritrova con tutte le carte del mazzo in mano. Comprese le elezioni anticipate. Non era mai accaduto che un presidente del Consiglio diventasse il capo di tre diverse maggioranze: quella di governo, quella del patto del Nazareno e quella del Quirinale. Certo, Mattarella non è stato ancora eletto, ma è inevitabile che da giovedì il leader del Pd debba guardare oltre l’elezione del capo dello Stato. Il premier d’ora in avanti si troverà a coltivare i nuovi rapporti che ha costruito (con Sel) e a gestire quelli che si sono logorati con l’alleato di governo (Alfano) e con l’alleato di opposizione (Berlusconi). Il modo in cui ha cambiato schema di gioco ha spiazzato i suoi interlocutori, e la conversazione con Berlusconi non dev’essere stata amabile. Tuttavia Renzi ritiene che il rapporto con il leader di Forza Italia non si sia rotto, «mi ha detto che comunque l’intesa sulle riforme rimane valida. Ora - ha spiegato ai dirigenti del partito - si prenderà qualche giorno per smaltire la rabbia. Dopo si ripartirà». Una conferma rispetto a quello che aveva preventivato, e cioè che il Cavaliere non si sarebbe posto sulle barricate per la scelta di Mattarella, che si sarebbe «limitato a marcare il dissenso con la scheda bianca». Se per questo, il leader di Forza Italia - che non accetta mai la sconfitta - giovedì mattina sembrava tentennare, come fosse addirittura intenzionato a votare a favore del candidato di Renzi: un moto dell’anima o una reazione istintiva? Per non sbagliarsi, i dirigenti azzurri hanno fatto pressing su di lui: «Non possiamo votarlo», gli ha detto più volte Ghedini. Il prezzo politico che Berlusconi sta pagando è molto alto: tra Fitto che chiede l’azzeramento dei vertici di Forza Italia e la Lega che lo irride e avoca a sé il primato nel centrodestra, gli è rimasta solo l’intesa con Alfano, che ha tenuto fede al «patto sul Quirinale» stretto tra le forze che si rifanno al Ppe. È il primo embrione del progetto di ricostruzione dell’area moderata che si rifà all’Ump francese. Anche con il ministro dell’Interno Renzi è ai ferri corti. Immaginava che Ncd alla fine avrebbe votato a favore di Mattarella, «e secondo me Alfano sbaglia se vota scheda bianca. Per certi versi mi dispiace, perché con la posizione che ha assunto rischia di perdere consensi». Il segretario del Pd, dopo averci provato di persona, gli ha inviato numerosi ambasciatori che hanno tentato di fargli cambiare idea. E nei loro ragionamenti non è mai mancato un cenno al «rischio di una crisi di governo»... Ma il leader del raggruppamento di Area Popolare contesta al premier il cambiamento di schema, e alla riunione con i grandi elettori ha spiegato il suo «no a logiche ancillari»: «Non siamo cadetti di Berlusconi, figurarsi se diventiamo cadetti di Renzi». La scheda bianca permette ad Alfano di presidiare un’area che va ancora ricostruita, e mette nel conto la possibilità che si incrini l’asse con Renzi. Il punto è che la situazione si fa complicata nell’esecutivo, e come se non bastasse il Cavaliere giovedì - per uscire dalle secche - lo ha messo in difficoltà con le sue dichiarazioni che anticipavano addirittura l’apertura della crisi da parte di Ncd. «Berlusconi non ha titolo per parlare di questioni di governo», ha detto il responsabile del Viminale per parare il colpo: «E il patto di governo non è in discussione. Piuttosto toccherà al premier fare il vigile urbano, per evitare incidenti agli incroci». Sono gli «incroci» delle tre maggioranze distinte e distanti che il segretario del Pd ha costituito e che oggi lo rendono il dominus nel Palazzo. «Ma se Renzi pensa di andare avanti con le tre maggioranze va a sbattere», dice il bersaniano Gotor. Sarà, intanto il primo obiettivo del leader democrat - quello fondamentale - è di concludere l’operazione Quirinale portandosi dietro tutto il suo partito. E su questo è ottimista: «Ho ricompattato il Pd, anche se nessuno lo credeva possibile. Persino Fassina è con noi. Fino ad ora è stato un capolavoro». Poi, ripetendolo quasi come un mantra, Renzi dice di credere nel «senso di responsabilità di tutti i parlamentari democratici». Ma ora lo attende la prova del voto a scrutinio segreto, «ora si va alla prova di forza in Aula e dobbiamo stare attenti, controllare quante saranno le schede bianche e quelle disperse, perché non possiamo permetterci nessun errore». E infatti, dopo la prima chiama, è stato analizzato il risultato. I voti andati dispersi sono stati un po’ troppi, e bisogna verificare se si tratta di una sorta di «libera uscita» momentanea o se dietro c’è dell’altro. In fondo, questo rimane pur sempre il «Parlamento dei 101» . In più, c’è da considerare la possibile reazione di tutti quei quirinabili che speravano di essere «il prescelto» e che invece vedono sfumare le loro aspettative. La dote di voti di Renzi è elevatissima, ma va capito se tutti i suoi avversari riuscirebbero a diventare una «massa critica» capace di far saltare l’elezione del capo dello Stato al quarto scrutinio. Sarebbe un evento tanto clamoroso quanto improbabile. Per cautelarsi dai franchi tiratori il premier si sta muovendo su due fronti. Il primo è mediatico: quando la Boschi dice che «altri si preparano a votare Mattarella», si tentano di dissuadere i malintenzionati. Il secondo è politico: al Nazareno sono convinti che «nel segreto dell’urna qualcuno di Forza Italia voterà con noi. O Berlusconi o Fitto»... 30 gennaio 2015 | 07:21 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/politica/speciali/2015/elezioni-presidente-repubblica/notizie/quirinale-premier-renzi-fine-silvio-non-rompera-8cba223a-a846-11e4-9642-12dc4405020e.shtml Titolo: Maria Teresa MELI Il contrattacco di Renzi: lasciare non gli conviene, noi ... Inserito da: Admin - Febbraio 06, 2015, 11:17:43 am Il retroscena
Il contrattacco di Renzi: lasciare non gli conviene, noi abbiamo i numeri Ai suoi dice: stiamo distruggendo il gruppo di FI al Senato. Dopo Mattarella i sondaggi sul tavolo del leader dicono che la fiducia nel governo è salita di quattro punti Di Maria Teresa Meli ROMA «Non si è rotto il patto del Nazareno: si è rotta Forza Italia». Matteo Renzi non ha nemmeno un’esitazione, un accorgimento diplomatico o un rigurgito di prudenza. Il presidente del Consiglio è netto e non parla il linguaggio politico del «dico e non dico». Non è nel suo stile. Tanto meno in un momento come questo: «Stiamo distruggendo il gruppo di Forza Italia al Senato. E abbiamo i numeri comunque, anche senza quelli che i giornalisti chiamano cespugli, ma vedrete che loro li riprenderemo, non hanno nessun interesse ad andarsene. Sul Nuovo centrodestra sono tranquillo. Rientrerà. Non ci sarà nessuno sconquasso, i ministri del Ncd resteranno al loro posto. E non si tratta di fare verifiche, la mia porta a Palazzo Chigi è sempre aperta e io con Alfano discuto sempre». I fatti sembrano dar ragione al premier, perché il ministro dell’Interno, intervistato dal Tg3 spiega di volersi tenere ben stretto all’alleanza con Renzi. Del resto, come dicono nello staff del premier se il leader del Ncd provasse a uscire dal governo «perderebbe i quattro quinti dei suoi parlamentari...». «Vado dritto, con o senza di lui» Diverso è il discorso che riguarda FI. «Lì - è la spiegazione del premier - c’è una divisione profondissima e ci sono molti cattivi consiglieri che indirizzano Berlusconi nella direzione sbagliata. Io penso che al di là delle invettive e dei proclami di guerra di questi giorni sia tutta convenienza loro recuperare sulle riforme. Se non lo vogliono fare, pazienza, significa che intendono farsi del male da soli». Anche perché a quel punto chi garantirebbe a Berlusconi che il Pd non cambi idea sui capilista bloccati da lui così fortemente voluti? È vero che Renzi ha detto e ridetto che «la legge elettorale non si tocca», però se uno dei contraenti il patto viene meno alla parola data tutto può succedere... Ma si tratta, in realtà, solo di ragionamenti astratti perché è «sempre stato Berlusconi a volere l’intesa, però se qualche cattivo consigliere gli ha fatto balenare l’idea che avrebbe usato le riforme come arma di scambio con me, allora è cascato male. Io vado dritto, con lui o senza di lui e non accetto tentativi di condizionamento». Forza Italia cala all’11,5% Comunque, secondo il premier non conviene a nessuno esasperare la situazione. Non ad Alfano. E nemmeno a Berlusconi «che pure ha delle difficoltà a gestire i gruppi di FI». Mettersi su una china che può far scivolare tutti verso le elezioni anticipate non sarebbe un buon affare né per Forza Italia né per il Ncd. L’ultimo sondaggio di Piepoli sulla scrivania del premier parla chiaro. Dopo l’operazione Mattarella la fiducia nel governo è salita di 4 punti e ora l’esecutivo si è attestato sul 51 per cento. Nel borsino dei leader il premier è in testa con il 50 per cento (+1), Berlusconi è al 19 (-2), Grillo al 14 (-2), Salvini al 26 (-3). Tra i partiti, sempre stando a questo sondaggio arrivato sul tavolo del premier a Palazzo Chigi, l’unico in crescita è il Pd che è al 36 per cento e guadagna quindi un punto. Forza Italia cala all’11,5 per cento (-1), il Movimento 5 Stelle al 18, la Lega al 15,5, Sel al 4,5 e il Nuovo centrodestra al 5. Se questi sono i dati, una situazione di caos e il rischio di un incidente che porti alle elezioni anticipate non convengono certo a Forza Italia e nemmeno a Ncd. E comunque il comportamento ondivago di queste due forze politiche, stando almeno a questo sondaggio non le ha premiate. Anche per questa ragione Matteo Renzi spinge ancora di più l’acceleratore sulle riforme, certo com’è che «i cittadini italiani non staranno mai dalla parte della conservazione». Ma, come si diceva, il premier è convinto che, alla fine, sull’Italicum Berlusconi tornerà indietro e cercherà di rientrare nel gioco. «Basta cose complicate» Piuttosto nell’entourage renziano c’è maggiore preoccupazione per quello che riguarda la riforma del Senato e del titolo quinto della Costituzione. L’impressione è che Forza Italia stia iniziando le manovre per sfilarsi da quella riforma dopo la prima lettura. Un’ipotesi del genere complicherebbe non poco le cose al Partito democratico perché se rimanesse il bicameralismo perfetto l’Italicum resterebbe a metà: varrebbe per la Camera ma non per il Senato, dove resterebbe in vigore il sistema elettorale proporzionale. Ciò significherebbe per il Pd la prospettiva di una vittoria monca che gli consentirebbe di guadagnare il premio di maggioranza a Montecitorio, ma lo costringerebbe ad allearsi con altri partiti a Palazzo Madama. Esattamente ciò che Renzi non vuole, come ha spiegato bene l’altro ieri a «Porta a Porta»: «Il primo partito vince e governa, basta coalizioni, pentapartiti e altre cose complicate». 5 febbraio 2015 | 08:15 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/politica/15_febbraio_05/contrattacco-renzi-lasciare-non-conviene-noi-abbiamo-numeri-a11f0e84-ad05-11e4-8190-e92306347b1b.shtml Titolo: Maria Teresa MELI Renzi: si va avanti, i numeri ci sono Berlusconi ora è in un.. Inserito da: Admin - Febbraio 13, 2015, 02:48:48 pm Renzi: si va avanti, i numeri ci sono Berlusconi ora è in un vicolo cieco
Il premier ai suoi: al Senato pur di non andare alle urne voteranno molte nostre proposte Di Maria Teresa Meli ROMA «Più Silvio Berlusconi minaccia le elezioni più crescono i nostri numeri al Senato, è matematico», è un Matteo Renzi tranquillo, che non fa propaganda né tenta la carta dello sbruffone, quello che fa questi ragionamenti. Un Matteo Renzi che fa il presidente del Consiglio e deve avere tutti i pezzi sulla scacchiera, inclusa la regina, quella che più volte aiuta a fare scacco matto. «In questo modo la nostra maggioranza è blindata fino al 2018, checché ne dica Silvio Berlusconi che vorrebbe andare al voto addirittura nel 2015 pur di mantenere il Consultellum, sperando di guadagnare qualcosa. Non solo, se va avanti così noi andiamo alle elezioni nel 2018 e vinciamo». E ancora: «Ma ha interrogato i suoi in proposito? Vedrà che in Senato, dove abbiamo una maggioranza di più stretta misura più lui insiste più lì la situazione sarà tranquilla perché i parlamentari, pur di non andare al voto, a Palazzo Madama voteranno molti dei nostri provvedimenti». Il presidente del Consiglio sembra quasi augurarsi il «Berlusconi furioso». Innanzitutto perché a primavera regalerà al centrosinistra la Campania. L’ennesima regione strappata alla destra, visto che in queste condizioni sarà assai complicato per il Nuovo centrodestra andare con Forza Italia in quella terra e non con il Partito democratico. Quella è un’operazione che il presidente del Consiglio aveva in mente sin dall’inizio. Cioè sin da quando ha visto che in quella regione il Partito democratico era diviso in bande e per questa ragione rischiava di perdere. L’apporto del Nuovo centrodestra consentirà a Renzi di ottenere anche questa regione. Ma non solo. È una partita più ambiziosa delle elezioni regionali quella che Matteo Renzi si sta giocando: la partita di una «maggioranza blindata fino al 2018», che «intercetta la ripresa» e «non sciupa questa occasione» e, quindi, «vince» anche alle prossime elezioni, mettendo in cantiere «nuove riforme». Perché l’idea del premier è quella di «far uscire il Paese dalla crisi» e di rilanciarlo per «aprire una nuova stagione». Perciò l’alzata di scudi di Silvio Berlusconi lo preoccupa nel contingente, ma solo fino a un certo punto: «Dai voti del primo giorno di ripresa della riforma costituzionale alla Camera, quelli in cui Forza Italia doveva dimostrare la grande opposizione - dice ai suoi - mi pare di aver visto solo un gran delirio da cui non sanno come uscire. E nonostante Berlusconi abbia tentato di fare tutto ciò per ricompattare il partito non mi pare che ci sia riuscito, anzi». Secondo il presidente del Consiglio, che, come è noto, non usa le sfumature per descrivere la situazione politica, Berlusconi «si è infilato in un vicolo cieco». E si è messo «con Beppe Grillo e Matteo Salvini nel mondo di chi protesta e non propone». Peraltro, ultimo arrivato in una terra che non è la sua. Nemmeno tanto bene accetto. Tanto che i parlamentari di Forza Italia da ieri mandano sms a tutti, colleghi di Camera e Senato di diversi gruppi (dal Partito democratico al Nuovo centro democratico, per intendersi) e a giornalisti per dire loro che non capiscono più le mosse del «capo» e, soprattutto, non le possono approvare come facevano un tempo. Qualcuno di quei messaggini è arrivato anche agli emissari del presidente del Consiglio. Con un unico, evidente, scopo: far sapere all’inquilino di Palazzo Chigi che non tutti i deputati e senatori azzurri la pensano come l’ex Cavaliere. È per questa ragione che Renzi, tranquillo, assicura ai suoi: «Vedrete che una ventina di parlamentari di Forza Italia a Palazzo Madama voterà per noi ogni volta che ci sarà bisogno». Dopodiché Renzi tutto è tranne che un incosciente, anzi è un gran calcolatore: studia ogni mossa con grande attenzione e non lascia nulla al caso. Sa bene che alla Camera «la partita è completamente diversa da quella del Senato per i numeri». A Montecitorio, ha spiegato ai fedelissimi, prima o poi passa tutto, magari più lentamente, se questi di Forza Italia continuano sulla linea di Renato Brunetta e magari sull’Italicum si può anche slittare a settembre ma ci si arriva, senza toccare una virgola, perché, come abbiamo detto più volte, quella legge ormai non si tocca più. È a Palazzo Madama «che comincia un’altra partita». Anche lì i «numeri ci sono». Ma non sono solidi come quelli della Camera, per cui «bisognerà procedere giorno per giorno», ma «ci aiuterà la mancanza di lucidità di Berlusconi che per andare dietro a Matteo Salvini sta ugualmente spappolando il suo partito e sta allontanando da lui il Nuovo centrodestra». Perciò la parola d’ordine del presidente del Consiglio è una sola: «Sulle riforme si va avanti come prima, più di prima». Nessun tentennamento nemmeno verso la sinistra interna: «Pensare di ricambiare la legge elettorale adesso, dopo che l’abbiamo discussa, ridiscussa e cambiata un sacco di volte, accettando molte proposte della minoranza e delle altre forze politiche significa soltanto volerla mandare per le lunghe», spiega il presidente del Consiglio ai collaboratori. E «di fatto significa non farla per niente», ma «noi non ci fermeremo». E su questo il presidente del Consiglio non ha esitazioni o dubbi: «Non si torna indietro, io non torno indietro. Non si pensi che siccome Forza Italia è partita all’attacco, o perché c’è chi è scettico dentro lo stesso Partito democratico io ceda». Anzi, di più. Ai parlamentari del Partito democratico, nella direzione prevista per lunedì 16 febbraio il premier-segretario farà un discorso più chiaro (e più semplice) del solito, benché l’eloquio esplicito non gli faccia certo difetto. Dirà loro senza tanti mezzi termini che «toccherà al Partito democratico dimostrare senso di responsabilità e di lealtà». Il che significa mettere ogni parlamentare del Pd di fronte alla propria coscienza. 11 febbraio 2015 | 07:30 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/politica/15_febbraio_11/renzi-si-va-avanti-numeri-ci-sono-berlusconi-ora-un-vicolo-cieco-81397b8a-b1b6-11e4-a2dc-440023ab8359.shtml Titolo: Maria Teresa MELI Il premier liquida le accuse: «Le parole di Berlusconi fanno.. Inserito da: Admin - Febbraio 13, 2015, 02:54:12 pm Dietro le quinte
Il premier liquida le accuse: «Le parole di Berlusconi fanno ridere» Renzi non sembra prendere troppo sul serio l’attacco del leader di Forza Italia Di Maria Teresa Meli «Quello che dice Berlusconi non vale nemmeno una risposta. Ma una risata. Sì quello che dice Berlusconi sulla deriva autoritaria delle riforme fa ridere», Matteo Renzi non sembra prendere sul serio l’attacco del leader di Forza Italia. «Propaganda, rivolta soprattutto all’interno dei suoi gruppi parlamentari», dice il premier ai suoi collaboratori per spiegare l’alzata di scudi dell’ex Cavaliere, che ha inasprito i toni nei suoi confronti. Renzi ostenta sicurezza e non sembra temere l’irrigidimento del leader di Forza Italia. Anzi: «Lui - spiega ai suoi - sa che quell’intesa che è stata stretta sulle riforme interessa al Paese e ai cittadini italiani, ma conviene anche a lui, se vuole rientrare in gioco. Non è un caso che sia stato sempre Berlusconi a volerla e a cercarla. Dopodiché, se adesso si contorna di cattivi consiglieri, affari suoi. Noi siamo sempre pronti a riprendere il discorso, ma senza ricatti: le regole si discutono alla luce del sole. A me interessa fare delle buone leggi per gli italiani, a lui non so». Le riforme grande cosa per gli italiani Per farla breve, il pensiero del presidente del Consiglio è questo: «Berlusconi decida se le riforme sono una schifezza come dicono Brunetta e altri soggetti dello stesso tipo o se sono un fatto positivo, come disse proprio il leader di Forza Italia all’inizio. Insomma, decida se ha cambiato idea, perché non sono un contentino per me, ma una grande cosa per il Paese e per gli italiani. E se pensa di ricattarmi io comunque arrivo fino al 2018 con o senza Forza Italia che vota le riforme». Le risse non convengono Insomma, Renzi vuole svelare il gioco di Berlusconi, vuole vedere se il Cavaliere arriverà veramente fino alla fine e oltrepasserà il confine da cui non potrà più tornare indietro o se un minuto prima dell’ultimo passo farà l’ennesima giravolta e ricomincerà la trattativa. Nell’attesa, il presidente del Consiglio, nonostante certi toni irridenti e anche provocatori - suoi, ma pure dei fedelissimi - preferisce non dare fuoco alle polveri e aspettare che si svelenisca il clima. Perché la verità è che al premier come al capo di FI non convengono le risse e le lotte senza ritorno. Il primo ha troppo a cuore le riforme e mandarle in porto con Berlusconi significa accorciarne i tempi. Il secondo non vede l’ora di tornare al tavolo dei leader che contano. 8 febbraio 2015 | 08:18 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/politica/15_febbraio_08/premier-liquida-accuse-le-parole-berlusconi-fanno-ridere-8d421f9c-af61-11e4-bc0d-ad35c6a1f8f9.shtml Titolo: Maria Teresa MELI Il gelo di Renzi sul ruolo ddi Lupi ... Inserito da: Admin - Marzo 18, 2015, 10:45:14 pm Il gelo di Renzi sul ruolo ddi Lupi
«Un problema c’è, serve chiarezza» Nessun contatto tra premier e titolare alle Infrastrutture. Delrio: passi indietro? È presto La linea del capo del governo è netta: non prendo lezioni di moralità da nessuno Di Maria Teresa Meli ROMA Più che gelido è glaciale l’atteggiamento che Matteo Renzi riserva a Lupi nel giorno in cui il ministro viene coinvolto nell’indagine su Ercole Incalza. Il premier non cerca nemmeno il ministro per chiedergli spiegazioni. Meglio non parlargli, perché un colloquio telefonico del genere, in una giornata come questa, potrebbe finire molto male. «Domani (oggi per chi legge ndr ) ne sapremo di più grazie a quello che uscirà e già adesso stiamo approfondendo quanto sia grave questa vicenda, ma è inutile girarci intorno, il problema c’è», dice ai suoi il presidente del Consiglio. E ha l’aria grave di chi non accetta che qualcuno gli rovini la festa proprio nel giorno in cui il governo sta andando avanti sul ddl anticorruzione: «Nessuno tuttavia utilizzi questi fatti per dare il messaggio che sono tutti uguali, che i grandi eventi tipo Expo non si possono fare, che siamo condannati a soccombere alla corruzione». E ancora, sempre con i collaboratori, sempre con lo sguardo più cupo di chi non ammette «sgarri»: «Diciamoci la verità, parliamoci chiaramente senza troppi giri di parole, politicamente, Lupi non è facile da sostenere». E infatti dalla bocca del premier non esce una sola parola di solidarietà nei confronti del ministro delle Infrastrutture. L’importante per Renzi è «avere massima fiducia nella magistratura» e «attendere che faccia piena chiarezza». Quel che gli uomini del premier lasciano intendere è che sarebbe quasi un sollievo per tutti se fosse lo stesso Lupi a trarre d’impaccio il governo dimettendosi preventivamente per ragioni di opportunità. In modo da non alimentare nuove polemiche o attacchi contro l’esecutivo. Se arrivasse una mozione di sfiducia individuale questa volta difficilmente si ripeterebbe il solito copione del governo che si stringe compatto al ministro messo nel mirino. Del resto, la guerra contro quell’unità di missione che operava alle Infrastrutture e in cui lavorava Ercole Incalza Renzi l’aveva ingaggiata da tempo. E questo non può essere un caso. Il premier non era poi riuscito nel suo intento originario. Cioè quello di sopprimere del tutto quell’organismo. Ma non si era arreso e con lui non si erano arresi i renziani di Palazzo Chigi che continuano la loro lotta ai cosiddetti «mandarini» sempiterni del potere italiano. E infatti alla fine sono riusciti a «prepensionare» Incalza, che attualmente ricopriva il ruolo di consulente esterno del ministero di Lupi. È chiaro, come spiega il sottosegretario Delrio a «Otto e mezzo», che «è prematuro chiedere le dimissioni di Lupi» e infatti nessun renziano di rango al momento le chiede. Però, come ripete il premier ai collaboratori, «un problema c’è e serve fare la massima chiarezza, cosa che dovrà fare anche Lupi». Il quale Lupi ieri sera ha incontrato Alfano, che, al contrario del ministro delle Infrastrutture, ha parlato con Renzi e ha compreso bene quale sia lo stato d’animo del premier. Toccherà a lui convincere Lupi a fare un passo indietro? Comunque, per il momento a Palazzo Chigi si attende di capire quale sia la vera portata della vicenda. Oggi la lettura dei giornali servirà a Renzi per farsi un quadro più chiaro della situazione, poi assumerà le sue decisioni. Su un punto però il premier nutre una granitica certezza: «Io non prendo lezioni di moralità da nessuno». Il che vuol dire che si può essere garantisti, come lui è già stato in passato. Ma se invece non si intravedono buoni motivi per seguire questa linea, allora è diverso. In casi come questi Renzi è pronto ad agire con quella determinazione che ha dimostrato in altre occasioni. 17 marzo 2015 | 08:00 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/politica/15_marzo_17/gelo-renzi-ruolo-ministro-un-problema-c-serve-chiarezza-f617d182-cc72-11e4-a3cb-3e7ff6d232c1.shtml Titolo: Maria Teresa MELI Infrastrutture, le pressioni su Cantone che dice no. Inserito da: Admin - Marzo 23, 2015, 11:12:09 am Il retroscena
Indagati nel governo, mossa di Palazzo Chigi: pronti a sostituirli Infrastrutture, le pressioni su Cantone che dice no. Il leader Pd non vuole avallare il doppio binario per evitare problemi con Ncd Di Marco Galluzzo, Maria Teresa Meli ROMA «E poi sarà la volta dei sottosegretari»: così Matteo Renzi spiega i suoi piani futuri ai fedelissimi. Perché il presidente del Consiglio non vuole offrire il fianco a nessuna accusa di doppiopesismo che desti un polverone sul governo. Dunque toccherà ai sottosegretari inquisiti e indagati farsi da parte, dopo le dimissioni di Maurizio Lupi, che, peraltro, era stato solo sfiorato dall’inchiesta giudiziaria fiorentina. E questo non certo perché «è la magistratura, che pure deve fare la sua parte, a dettare i tempi dell’azione di governo», visto che ormai «la parola è tornata alla politica», che «è autonoma», proprio come «autonoma è la magistratura». Ma perché non si possa dire che Renzi difende alcuni (magari quelli del Partito democratico o che al suo partito sono più vicini) mentre molla gli altri. Vuole essere inattaccabile, il premier. E non intende avere ricadute negative nel suo rapporto con il Nuovo centrodestra. Per questa ragione non ha mai voluto smentire la versione dei fatti data da Lupi, anzi l’ha ufficialmente avvalorata. Quando, in realtà, il colloquio che ha poi portato l’ex ministro a dimettersi è stato assai meno gioviale di quanto i due lo abbiano voluto raccontare. O molli tu o ti facciamo mollare noi: è stato questo il succo del ragionamento che il presidente del Consiglio ha fatto all’allora ministro. Però non ha voluto che all’esterno trapelasse niente e con i suoi si è raccomandato: «Se Maurizio ha bisogno di qualche ora per rendersi conto della strada che deve prendere, faccia pure, noi non diciamo niente». E a coloro che apparivano un po’ perplessi rispetto a questa linea, dopo l’annuncio dell’ex ministro, Renzi ha replicato: «Avete visto chi aveva ragione? Vi avevo detto di stare tranquilli, perché sapevo quello che stavo facendo». Ma ora c’è chi teme che possano nascere nuove tensioni con Ncd, proprio adesso che nuovi provvedimenti sono alle porte e che i numeri della maggioranza, a Palazzo Madama, sono risicati. Ancora una volta Renzi fa sfoggio di serenità: «Non preoccupatevi che tutto si sistemerà. Ho la fila di quelli che vogliono stare con noi al Senato». E a quanto si sussurra dalle parti del Nuovo centrodestra ci sarebbe la fila anche altrove. Nello stesso Ncd. Nel mirino il ministro Beatrice Lorenzin. Le malelingue la danno in partenza, sebbene non in un futuro immediato, verso il Pd. Appare ancora complessa la questione del ministero delle Infrastrutture e del dicastero da dare all’Ncd dopo le dimissioni di Lupi. Raccontano che Alfano abbia chiesto l’Istruzione, ma che finora Renzi glielo abbia negato. Il premier non va pazzo per la Giannini (quattro giorni prima di presentare il disegno di legge sulla buona scuola ha cestinato il progetto del ministro e lo ha riscritto daccapo), però, ormai, soprattutto adesso che la titolare di quel dicastero è passata al Partito democratico, rimuoverla diventerebbe complicato. Tanto più che quel ministero, a cui assegna grande importanza, Renzi lo controlla per interposta persona. Complicata anche la questione delle Infrastrutture. Spacchettarle ridividendole in Trasporti e Lavori pubblici? O tenerle in un unico ministero? E in questo caso a chi affidarlo? È circolato il nome di Nicola Gratteri (il magistrato che Renzi avrebbe voluto alla Giustizia al posto di Orlando), ma il presidente del Consiglio, che pure ieri lo ha visto, nega recisamente. Dicono che abbia invece insistito con Raffaele Cantone, il quale, però sarebbe propenso per il no. A questo punto sembrerebbe prevalere l’ipotesi spacchettamento. In quel caso l’unità di missione in cui lavorava Ettore Incalza verrebbe inglobata a Palazzo Chigi, sotto il controllo del fido Luca Lotti. E il resto del ministero, depotenziato, andrebbe a un Ncd. Mentre la dem Anna Finocchiaro approderebbe agli Affari regionali. 21 marzo 2015 | 07:01 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/politica/15_marzo_21/indagati-governo-dimissioni-f96547ba-cf8e-11e4-b8b8-da1e3618cfb1.shtml Titolo: Maria Teresa MELI Renzi: prendere o lasciare. Inserito da: Admin - Aprile 16, 2015, 04:17:55 pm Il retroscena
Renzi: prendere o lasciare. Se la legge non passa dovrò salire al Quirinale L’apertura sul Senato Il leader disposto a trattare solo su alcune parti della riforma del Senato Di Maria Teresa Meli ROMA Matteo Renzi non vuole fare forzature con la sua minoranza interna, né inasprire i toni della polemica, ma ciò non significa che non sia più determinato che mai, anche perché considera già vinta questa partita. All’assemblea di oggi chiederà ai deputati di votare sulla sua proposta che contiene due punti precisi: l’immodificabilità dell’Italicum e la richiesta ai parlamentari del Pd di non presentare emendamenti sulla legge elettorale voluta dal governo. Prima della riunione il segretario ha in programma un colloquio con Roberto Speranza, che ha già rimesso il mandato di capogruppo a Montecitorio in Direzione e che potrebbe confermare le dimissioni. L’idea di Speranza è che, libero dai vincoli impostigli dal ruolo, potrebbe rafforzare la sua leadership nella minoranza. Però non ha ancora sciolto tutti i nodi e aspetta di parlare con il premier per compiere un passo definitivo. Spera di convincerlo che «la spaccatura del Pd sull’Italicum potrebbe diventare un problema per la segreteria». Ma da quell’orecchio Renzi non ci sente. In compenso ha già fatto sapere al capogruppo che non vuole farlo andare via, nonostante sia uno dei leader della minoranza, ma che a questo punto sta a lui decidere il da farsi. Per quel che riguarda invece il suo, di programma, il premier è più che sicuro: «Il confronto è durato un anno, il testo della legge è stato modificato, se ora dico che non ci sono margini di manovra non lo faccio per forzare ma perché è arrivato il momento di decidere. Adesso si vota nel gruppo e l’esito di quel voto sarà vincolante per tutti». Renzi è convinto di avere i numeri. A suo giudizio «la maggioranza sull’Italicum è blindata, anche perché alla stessa minoranza non conviene esasperare i toni». E infatti Renzi dà per scontato che una grossa fetta di quell’area in Aula voterà «sì» alla riforma della legge elettorale: «Una decina voterà contro e qualche altro magari se ne andrà», sostengono nello staff del premier. Ma gli scrutini segreti rischiano di essere tanti. E segreto sarà, con tutta probabilità, anche il voto finale. Quindi il rischio di possibili imboscate trasversali è sempre dietro l’angolo. Eppure il segretario del Pd è ugualmente convinto che alla fine prevarranno le ragioni della prudenza: «Se la legge non passasse, io non potrei fare altro che trarne le inevitabili conseguenze e salire al Quirinale da Mattarella». Una frase, questa, che il presidente del Consiglio ha ripetuto a diversi interlocutori in questi giorni e che induce alla cautela quanti vogliono evitare lo scioglimento anticipato delle legislatura e l’incognita delle urne. Quanto alla fiducia, per ora resta uno spauracchio. Agitato più che altro per raffreddare i bollenti spiriti degli oppositori interni, che, per la verità, con il passar delle ore, si stanno facendo sempre più tiepidi. Insomma, la fiducia, in realtà appare assai improbabile, anche se i renziani difendono questo strumento e non accettano le critiche di chi dice che utilizzarlo per l’Italicum sarebbe una forzatura inaudita. Questo il ragionamento che viene opposto alle critiche: «La fiducia è un atto eminentemente politico e che cosa c’è di più politico di una riforma elettorale voluta dal governo?». Insomma, il premier non lascia più margini di mediazione. Il suo è un «prendere o lasciare», posto in maniera urbana ma molto netta. La minoranza lo ha capito e non si fa troppe illusioni. Ci potrebbe essere una sola apertura, perché lo stesso premier, benché si senta già vincitore anche di questa partita, non vuole strafare. E l’eventuale apertura potrebbe riguardare un altro fronte. Quello della riforma costituzionale che dalla Camera tornerà prossimamente a Palazzo Madama. Lì (anche se la cosa non è stata ancora decisa) potrebbero essere accettate delle modifiche. Ovviamente solo nella parti del testo che sono state cambiate dall’assemblea di Montecitorio, perché ciò che è già passato nella stessa versione sia al Senato che alla Camera non è più emendabile. 15 aprile 2015 | 07:14 © RIPRODUZIONE RISERVATA DA - http://www.corriere.it/politica/15_aprile_15/renzi-prendere-o-lasciare-se-legge-non-passa-dovro-salire-quirinale-074ac410-e32e-11e4-8e3e-4cd376ffaba3.shtml Titolo: Maria Teresa MELI Italicum, Renzi: «Il partito è con me E ora li scavalchere Inserito da: Admin - Maggio 01, 2015, 12:34:58 pm Il retroscena
Italicum, Renzi: «Il partito è con me E ora li scavalcheremo a sinistra» L’idea del premier di un «piano anti povertà» e la scommessa sulle Regionali la «vera prova» sul consenso alle sue mosse dopo la controversa fiducia sulla legge elettorale Di Maria Teresa Meli ROMA Matteo Renzi è convinto che il can can suscitato dalla decisione di una parte della minoranza di non votare la fiducia «durerà poco». In verità la sfilata dei big che usciranno dall’Aula preoccupa gli stessi fedelissimi del premier. Ma il presidente del Consiglio li rassicura così: «Vedrete che alla fine non sarà controproducente per il nostro elettorato, anche se il loro obiettivo è proprio questo. L’importante è spiegare bene le cose. Io lo farò anche a Bologna, nel mio discorso alla festa dell’Unità. E poi nelle prossime settimane li scavalcheremo a sinistra con l’azione di governo». Come? L’inquilino di palazzo Chigi pensa all’utilizzo del tesoretto in questa chiave. Immagina un «grande piano anti-povertà» perché quelle risorse, a suo giudizio, devono essere destinate alla «parte più debole del Paese». Per evitare la durissima reazione di Bersani, Letta, Bindi, Speranza e degli altri che oggi diserteranno le votazioni, Renzi avrebbe dovuto rinunciare allo strumento della fiducia. Era l’opzione del mediatore a oltranza Andrea Orlando che, ieri, in Consiglio dei ministri, ha invitato Renzi a considerare l’ipotesi di rinunciarvi nel caso fossero arrivati da parte della minoranza interna «significativi segnali politici». Ma quel che è giunto è stato invece il pronunciamento dell’ex capogruppo Roberto Speranza: «Non voterò la fiducia». «Il richiamo della foresta è stato più forte», secondo il premier che, a quel punto, ha avuto gioco facile a convincere anche i più perplessi: «Facciamo questa battaglia a viso aperto, come sempre. O passa la riforma o andiamo al voto e non sono certo io a temere le elezioni». Del resto, in cuor suo, Renzi non ha mai avuto dubbi in proposito, convinto com’era convinto, che sull’emendamento che prevede l’apparentamento al secondo turno, i suoi oppositori interni ed esterni avrebbero «cercato di metterci sotto», vanificando così l’impostazione bipartitica dell’Italicum. Ma sulla riforma elettorale Renzi non poteva non «tirare dritto». «È un impegno - ha spiegato ad alcuni parlamentari - che ho preso con i cittadini italiani, non saremmo credibili se non facessimo questa riforma. Io ci metto la faccia, come sempre». E non c’è solo questo, ovviamente. Il premier crede veramente che l’Italicum, per quanto non sia un provvedimento «perfetto», sia pur sempre un «ottimo compromesso» e che, soprattutto, raggiunga gli obiettivi che si era prefissato: «Così daremo la stabilità necessaria ai governi e la faremo finita una volta per tutte con le coalizioni disomogenee che non funzionano». Queste sicurezze del premier non debbono far pensare che Renzi ritenga che non accadrà nulla: «Vedrete - confida ai più stretti collaboratori - che una parte dei mass media ci salterà sopra ed è proprio quello che vuole una fetta della minoranza, l’ala più oltranzista, quella che magari medita di andarsene oppure di riprendersi in qualche modo la ditta». Ma la prima ipotesi, quella della scissione, con questa riforma elettorale diventa molto più difficile e la seconda, quella caldeggiata da Massimo D’Alema, per Renzi, è improbabile: «Non mi fermeranno». Insomma, il presidente del Consiglio è disposto a scontare un po’ di «caos mediatico», per dirla con le parole di un renziano di stretta osservanza, perché è sicuro di poter ribaltare la situazione: «Il partito è con noi, soprattutto gli iscritti. La stragrande maggioranza mi chiede di non fermarmi e di non arretrare». Renzi non ci sta a essere dipinto come un dittatore, non accetta il fatto che Bersani e compagni lo facciano passare per quello che ha voluto dividere il partito imponendo la fiducia sull’Italicum: «Diciamoci la verità, abbiamo modificato questo disegno di legge un sacco di volte per andare incontro alle richieste espresse dalla minoranza. Ora quelli non vogliono cambiarlo nel merito, vogliono affossarlo e, magari, con l’Italicum affossare anche me. Noi però non glielo permetteremo». E comunque la «vera prova» per il presidente del Consiglio sarà rappresentata dalle elezioni regionali. Se in quelle consultazioni il Pd riporterà un successo (cosa di cui il presidente del Consiglio sembra abbastanza convinto), allora «ogni discussione lascerà il tempo che trova». 29 aprile 2015 | 07:29 © RIPRODUZIONE RISERVATA Titolo: Maria Teresa MELI Landini, Piperno e Scalzone: i compagni di strada di Potere... Inserito da: Admin - Giugno 09, 2015, 11:26:44 am Landini, Piperno e Scalzone: i compagni di strada di Potere operaio che sarebbe meglio perdere
Alla Costituente di Coalizione sociale spuntano due volti noti del passato Di Maria Teresa Meli Grazie all’occhio attento di una giovane cronista dell’Huffington Post che, nonostante l’età, conosce anche i pezzi dell’antiquariato politico, non è sfuggita la partecipazione alla convention di Maurizio Landini di Franco Piperno, classe 43, e Oreste Scalzone, classe 47. Un duo un tempo assai affiatato (ma anche ora i rapporti sono ottimi). Anzi, per amor di precisione, all’epoca a cui ci si riferisce, Piperno e Scalzone componevano con Toni Negri un trio. Insieme fondarono Potere operaio. Insieme, come equilibristi non molto saldi sulle gambe si inerpicarono su quel filo che divideva le Brigate rosse dai movimenti di sinistra che non disdegnavano le spranghe, i roghi e le pistole. Poi c’è stata la galera, la fuga in Francia, ci sono stati i libri, le dichiarazioni e infine il semi-oblio. Scalzone è tornato a farsi vivo di recente. Con le lotte di Pomigliano d’Arco, tanto care a Landini. Piperno è rimasto più defilato. Ma nel 2011 ha scatenato una notevole polemica, quando, nel decimo anniversario dell’attentato alle Torri gemelle, ha definito quel gesto un «evento dalla bellezza sublime», «compiuto da un pugno di audaci intellettuali». Per quell’atto provava «ammirazione», per quanto (bontà sua) «non scevra da raccapriccio». L’altro giorno Renzi - che Landini si è scelto come l’avversario perfetto - criticava quella sinistra che è convinta che «il passato sia stata la pagina più bella» ed è invece preoccupata del futuro (il riferimento alla Coalizione sociale era voluto e non casuale). Ma il premier è giovane. Aveva solo tre anni quando Piperno nel ’78 esaltava la «geometrica potenza dispiegata dalle Brigate rosse a via Fani». Quella era una brutta pagina del passato. E la sinistra la ricorda come tale. Insieme ad altre, che a guardarle adesso, un po’ ingiallite e un po’ sgualcite, incarnate da uomini che cercano un’ennesima nuova vita, in fondo sempre uguale a se stessa, nella Coalizione sociale, non fanno paura: diffondono solo un’infinita mestizia. Sono come la pagine di quei racconti che ti mettono il magone e che preferiresti chiudere di scatto e non prendere mai più in mano. Chissà se Landini in cuor suo ha dato peso o no a quelle due presenze. Chissà se ha capito che per averla vinta sullo «storytelling» renziano è meglio perdere qualche compagno di strada. 8 giugno 2015 | 08:44 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/politica/15_giugno_08/landini-piperno-scalzone-compagni-strada-landini-potere-operaio-f2678e6c-0da7-11e5-9908-1dd6c96f23f8.shtml Titolo: Maria Teresa MELI Migranti, Renzi: «Battaglia forte in Europa ma è pronto un... Inserito da: Admin - Giugno 14, 2015, 03:45:45 pm L'INTERVISTA
Migranti, Renzi: «Battaglia forte in Europa ma è pronto un piano B» Il premier sull’Italia: «È un buon momento. Noi fino al 2018 ma il Pd non teme il voto». Su Marino: «Lo rispetto ma non si può sottovalutare il messaggio che arriva da Roma» Di Maria Teresa Meli Presidente Renzi è un momento complicato per l'Italia. «No, è un bel momento, con buona pace dei gufi e dei profeti di sventura. L'occupazione sale di 200 mila unità. La crescita ha di nuovo il segno più, i consumi segnano un risveglio. Veniamo da un G7 dove non eravamo più il problema, ma parte della soluzione. La fame di Italia nel mondo tira l'export come non mai. E l'Expo che doveva essere un disastro annunciato è un fiore all'occhiello. Potrei proseguire con esempi di tutti i tipi. Eppure il dibattito politico interno è incartato solo sulle cose che non vanno. Sembra che una parte della classe dirigente di questo Paese non viva senza ricorrere alla paura. Del diverso, dell'immigrazione, del futuro. Ma noi abbiamo scommesso sul coraggio, non sulla paura, e dunque avanti tutta». Bè, l'immigrazione è una vera e propria emergenza. «Guai a sottovalutarla. È un tema grave e - diciamolo chiaro - le risposte che l'Europa sta dando sono insufficienti. Redistribuire solo 24 mila persone è quasi una provocazione». Ma se la Ue non vi ascolterà è vero che adotterete una linea più dura sull'immigrazione? «Nei prossimi giorni ci giochiamo molto dell'identità europea e la nostra voce si farà sentire forte perché è la voce di un Paese fondatore. Se il consiglio europeo sceglierà la solidarietà, bene. Se non lo farà, abbiamo pronto il piano B. Ma sarebbe una ferita innanzitutto per l'Europa. Vogliamo lavorare fino all'ultimo per dare una risposta europea. Per questo vedrò nei prossimi giorni Hollande e Cameron e riparlerò con Juncker e Merkel. In Europa va cambiato il principio sancito da Dublino II e votato convintamente da chi oggi protesta contro il nostro governo. La comunità internazionale è responsabile di ciò che accade in Libia in ragione dell'intervento di 4 anni fa e della scarsa attenzione successivamente dedicata al tema. Se la Libia non trova un assetto istituzionale, diventa la calamita per fanatici e terroristi e dunque ci stiamo giocando una partita di portata storica. La vogliamo affrontare con la serietà di un Paese che è una potenza mondiale o inseguendo chi fa tweet sulla scabbia e propone di sparare al primo che passa? Torniamo al buon senso». Si riferisce a Salvini, presidente? «Certo che mi riferisco a lui. Strillare di epidemie significa procurare allarmismo ma tutti i report medici dicono che non è così. Se volessimo fare polemica, potremmo criticare il fatto che la Lega a Strasburgo ha votato contro la proposta di aiutare l'Italia ridistribuendo le quote di immigrati: il colmo! Ma non è tempo di divisione: ieri ho chiamato Zaia e Maroni. Ho offerto e chiesto collaborazione istituzionale». Intanto la Francia respinge i profughi e le Regioni non li vogliono. «La situazione è tesa, ma i numeri sono appena più alti dello scorso anno: al 13 giugno 2014 avevamo accolto 53.827 persone. Al 13 giugno 2015 siamo a 57.167. Numeri sostanzialmente simili. Senza contare che le persone che sono ferme nelle stazioni hanno un biglietto per lasciare l'Italia: il blocco di qualche giorno di Schengen li sta tenendo fermi qui, ma per loro non è l'Italia la destinazione. Il tempo della campagna elettorale è finito: noi stiamo aprendo un fronte in Europa difficilissimo, mi piacerebbe che l'intero sistema istituzionale - compresi i governatori leghisti - facesse il tifo per l'Italia. Quando vado all'Expo vedo cittadini di tutto il mondo arrivare entusiasti e felici di Milano, dell'Italia. Apro i siti e sembra che Milano sia il sobborgo di una megalopoli malata. Gridare al lupo ti fa ottenere un voto in più, ma quando i quotidiani internazionali mettono in discussione la tenuta del sistema turistico come accaduto ieri, ci rendiamo conto che stiamo facendo danno all'Italia? Il problema c'è. Ma quando vedo iniettare nel dibattito pubblico dosi di terrore verbale, temo la reazione istintiva, di pancia. In economia possiamo rilanciare solo se le aziende, i risparmiatori, gli investitori vivono una fiducia che è ben giustificata dalle riforme in atto. E nella vita di tutti i giorni abbiamo necessità di tornare a credere nelle istituzioni». Squinzi si lamenta perché l'Italia è esclusa dai vertici europei sulla Grecia. «Rispetto la sua posizione. Ma a quei vertici non vado. Non è un problema di inviti, visto che Tsipras mi ha più volte chiesto di partecipare. Solo che noi abbiamo una cultura europeista per cui i problemi si affrontano nelle sedi istituzionali, non nei caminetti. Alexis si è affidato alla Merkel e a quelli che hanno seguito la sua campagna elettorale spunta un sorriso, visto ciò che diceva allora. Ma se questo è ciò che vuole la Grecia, ok. Solo che l'Italia partecipa ai vertici istituzionali, non a quelli informali. Per spiegare ai greci che non possiamo pagare le baby pensioni a loro dopo aver fatto tanta fatica per toglierle agli italiani non serve una riunione. Tutti noi vogliamo la Grecia nell'Euro, ma devono volerlo anche loro: noi siamo pronti a dare una mano. È maturo il momento della svolta economica per l'Europa, puntando più sulla crescita che sull'austerità. Ma per arrivarci occorre aver completato il percorso delle riforme strutturali, a cominciare dalle nostre». Voterete sì all'arresto di Azzollini? «Leggeremo le carte. Se emergerà il fumus persecutionis voteremo contro l'arresto. Se tutto sarà in linea con la Costituzione e con le leggi, voteremo a favore dell'arresto, come abbiamo fatto anche con i nostri. Gli sconti si fanno nei negozi, non in Parlamento». Quando sospenderà De Luca? «Sulla Severino faremo ciò che prevede la legge, senza interventi ad personam. Esiste una contraddizione, perché de Magistris e De Luca sono nella stessa situazione, non si capisce perché uno dovrebbe essere sospeso e l'altro no. Vedremo le decisioni dei giudici. Nel frattempo sto dialogando con De Luca sui dossier più importanti, a cominciare dalla nomina del commissario di Bagnoli che andrà in cdm venerdì assieme ad alcuni decreti fiscali e molto altro». Dopo il suo incontro con Putin come sono i rapporti con gli Usa? «Ottimi. Obama ha più volte espresso apprezzamento per le riforme italiane che al G7 ha definito "coraggiose". Sull'economia gli americani sono punto di riferimento: più crescita, meno austerity. Sulla Libia, sono gli unici che hanno chiara la situazione e ci stanno fornendo tutto il supporto come noi facciamo con loro altrove. Sulla Russia abbiamo discusso in amicizia soprattutto nel vertice alla Casa Bianca, condividendo anche le sfumature. Il G7 è uscito con una posizione condivisa: si dia corso integralmente agli accordi di Minsk 2. Lo stesso Putin si è detto favorevole. Adesso lavoriamo per passare dalle parole ai fatti». Se l'inchiesta romana dovesse decapitare altri vertici del Pd in giunta e in consiglio comunale continuerete a dire «o Marino o morte»? «Ho rispetto per Ignazio Marino. Non possiamo però sottovalutare il messaggio che viene da Roma. Ci sono due questioni differenti. Sul piano giuridico aspettiamo le carte, ma personalmente non vedo elementi per sciogliere il Comune per mafia. Non si tratta solo di una questione mediatica internazionale, ma di un giudizio basato su quello che ad ora abbiamo letto. Se - come credo - la questione scioglimento per mafia non esiste, dovremo affrontare politicamente (in sede Pd) la questione Roma. Il partito va rifondato come ha iniziato a fare bene Orfini. Migliaia di ragazzi vogliono fare politica in quella città e un Pd capitolino profondamente ripensato può accoglierli, valorizzarli, esaltarli. Possiamo studiare una grande campagna sui circoli, come propone lo studio di Barca. Possiamo inventarci il modello organizzativo del partito del nuovo secolo, prendendo dal male di questa situazione il bene. Il governo è pronto a fare la propria parte ma è finito il tempo in cui si davano i soldi a Roma capitale con leggerezza. Se decideremo di andare avanti lo faremo solo se convinti, non per paura di perdere il Comune. Dobbiamo cambiare l'Italia e l'Europa, possiamo aver paura di Di Battista o dei delfini di Alemanno? Il mio Pd non può mai aver paura delle elezioni. Mai. Altrimenti diventa come gli altri». Ma veramente crede di arrivare fino al 2018 con i numeri del Senato? «Al Senato i numeri sono più solidi del passato. Credo che la maggioranza dei parlamentari non voglia interrompere questo percorso di riforme. Il mio governo oggettivamente ha fatto in 15 mesi cose ferme da anni: riforma elettorale, Jobs act, il pacchetto di interventi sulla giustizia. E siamo in pista su riforma costituzionale, diritti e terzo settore, pubblica amministrazione, fisco. Gli interventi economici, dagli 80 euro al taglio Irap del costo del lavoro, hanno rilanciato l'economia italiana. Gli investitori internazionali tornano a credere in noi. Vorrei essere chiaro: si può sempre fare di più. E cercheremo di farlo. Se poi deputati e senatori si sono stancati di noi, basta togliere la fiducia delle Camere e vediamo chi prenderà quella dei cittadini. Ma non vedo praticabile questo scenario: a mio giudizio la legislatura andrà avanti fino al 2018». Sta per cambiare i vertici della Cdp? «Bassanini e Gorno Tempini hanno fatto un buon lavoro. Nelle prossime ore decideremo le nuove tappe. Cassa depositi e prestiti è strategica per il futuro del nostro Paese e ci sono tutte le condizioni per fare un ulteriore passo in avanti». Non la imbarazza sapere che Buzzi ha finanziato alcune sue iniziative? Restituirà quei soldi? «La fondazione Open restituisce in automatico i denari ricevuti da realtà discusse. Il Pd ha uno statuto diverso. Ma troverà la strada per restituirli. Quello di cui sono fiero invece è il meccanismo all'americana che stiamo mettendo in atto per finanziare la politica. Superato il finanziamento pubblico, siamo l'unico partito che non ha licenziato il personale, ricorrendo a una seria spending e aumentando donazioni liberali e trasparenti. Meglio così che i diamanti in Tanzania o le lauree a Tirana del Trota, mi creda». Non le sembra che sia cambiato il vento nei suoi confronti? «Mi chiedono di inventarmi qualche colpo a effetto. Ma dopo anni di immobilismo in Italia l'unico colpo a effetto che può fare il capo del governo è governare quotidianamente con serietà e responsabilità. Il tasso di attuazione dei decreti è salito al 65%, tutti i dossier procedono, le aziende pubbliche, a partire da Eni, Enel e Finmeccanica, dopo il cambio dei vertici viaggiano più spedite. Certo se il Jobs act lo avessero fatto quelli di prima, oggi staremmo meglio. Se si fosse fatta prima la legge elettorale, avremmo un sistema più stabile. Se avessero già fatto la riforma costituzionale non impiegheremmo mesi per approvare una legge. Chiunque può passare il tempo a piangere e rimpiangere. Ma noi siamo diversi da chi ci ha preceduto. Non vogliamo trovare alibi, ma trovare soluzioni. Ora dobbiamo continuare sulla strada delle riforme, più decisi che mai. Ma la prima riforma, strutturale, è restituire orgoglio all'Italia e fiducia agli italiani. E in questo clima questa è la sfida più difficile. Però è anche la più bella. Dopo quindici mesi di governo sono più convinto di prima che il nostro Paese tornerà a guidare l'Europa. A noi toccherà sudare e lavorare molto. I nostri figli però staranno meglio di noi. Questo è il vero motivo per cui facciamo politica. Non per godere della rendita del passato, ma per costruire una speranza per il domani». 14 giugno 2015 | 08:20 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/politica/15_giugno_14/noi-senato-piu-forti-avanti-fino-2018-ma-pd-non-teme-voto-a6b5cce6-125b-11e5-85f1-7dd30a4921d8.shtml Titolo: Maria Teresa MELI Renzi dopo la frenata ai ballottaggi “Basta mediare, tornerò.. Inserito da: Admin - Giugno 27, 2015, 10:31:50 am IL PD
Renzi dopo la frenata ai ballottaggi “Basta mediare, tornerò a fare Renzi” Il bilancio del premier: c’è chi mi vorrebbe spianare, a Venezia la sinistra ha perso Di Maria Teresa Meli ROMA «La sintesi è questa: abbiamo perso dove ci siamo fermati a mediare. Adesso Renzi deve tornare a fare Renzi». Pensare che il premier torni indietro dopo quello che lui stesso ha definito «un insuccesso» significherebbe non conoscere bene di che pasta è fatto il presidente del Consiglio. «So - dice il premier - che c’è gente che vorrebbe spianarmi e vorrebbe approfittare di queste Amministrative per farlo, ma mi dispiace per loro, vinceremo anche questa battaglia». Eppure la situazione è quanto mai delicata e Renzi lo sa bene. Basti pensare alla questione della scuola al Senato. È sufficiente che il governo vada sotto in Commissione per rendergli impossibile il giochetto di mettere la fiducia in Aula e sveltire la pratica. «Sarebbero dei pazzi irresponsabili - ripete il premier ai collaboratori - se la riforma viene rinviata ci saranno centomila persone che non verranno assunte a settembre per colpa della minoranza del Partito democratico, e grazie anche al sindacato, bella vittoria per loro». Renzi non sembra scoraggiarsi. Anche se i suoi avversari dentro e fuori il Partito democratico sono pronti a scommettere che dopo le elezioni amministrative, con un doppio turno che ha penalizzato il centrosinistra, «sarà costretto a cambiare l’Italicum». Il bersaniano Gotor e il berlusconiano Minzolini sono i più accesi sostenitori di questa tesi. «Cambiarlo? Non ci penso nemmeno», ha spiegato lui a tutti i parlamentari che ieri glielo hanno chiesto. Il presidente del Consiglio continua a ritenere che «Forza Italia non tirerà la corda», a «meno che non voglia finire sotto Salvini». Insomma, sembra essere sicuro che il primo a garantirgli in qualche modo i numeri al Senato sarà proprio Silvio Berlusconi, perché l’immagine dell’ex Cavaliere che si acconcia all’idea di fare il numero due del leader leghista non gli sembra proprio verosimile. E, del resto, «anche la minoranza interna», è il ragionamento che va facendo il presidente del Consiglio con i fedelissimi a Palazzo Chigi, «deve stare molto cauta, perché a questo giro non possono sottovalutare il risultato di queste elezioni: loro hanno perso». Il riferimento è a Felice Casson, il candidato che già nel 2005 si era scontrato contro Cacciari per la poltrona di sindaco ed era stato sconfitto. Ma anche a Mirello Crisafulli, battuto ad Enna, a cui Renzi, alle Amministrative, ha negato il simbolo del partito. Morale della favola, il premier è convinto, anche se non lo dice ad alta voce e lo sussurra solo nelle orecchie dei più fidati collaboratori che «non ci sono alternative» al suo governo. A meno che qualcuno «non preferisca andare a votare». Il che, precisa Renzi, «sarebbe da irresponsabili», da «politici che pensano solo a loro stessi e non al bene del Paese che gradualmente si sta riprendendo». Ma, è il ragionamento che fa l’inquilino di Palazzo Chigi con i suoi, «se quelli che vogliono spianarmi pensano che questa sia la strada, allora...». Allora che? «Allora se andassimo alle elezioni anticipate oggi io vincerei a mani basse. Basta guardare i dati generali per capirlo e non fissarsi su questa o quella vittoria o sconfitta. Anzi dirò che ogni tanto mi prende quasi la voglia di sfidare gente come Matteo Salvini o Beppe Grillo alle urne, però poi mi trattengo perché so quale deve essere il mio ruolo, il fatto è che, a quanto pare, gli altri leader politici non sanno quale debba essere il loro e pensano che si debba stare in campagna elettorale permanente, accada quel che accada, tanto del Paese chi se ne frega». Il premier, con i fedelissimi a Palazzo Chigi, passa in rassegna tutte le possibilità: «Che possono fare? - ironizza -. Abbattermi e mettere su un governo Salvini-Bersani-Brunetta e Grillo? Forse nemmeno in quel caso avrebbero i numeri. E, comunque, nel Partito democratico la maggioranza assoluta l’ho io. In direzione e nei gruppi parlamentari». Come a dire: la minoranza pd può abbaiare, persino mordere, ma non è in grado di costruire nessuna alternativa e non tornerà mai più a tenere in mano le chiavi della «ditta». 16 giugno 2015 | 07:07 © RIPRODUZIONE RISERVATA DA - http://www.corriere.it/politica/15_giugno_16/renzi-la-frenata-ballottaggi-basta-mediare-tornero-fare-renzi-d25f5a58-13e4-11e5-896b-9ad243b8dd91.shtml Titolo: Maria Teresa MELI Le scelte dem da Roma a Palermo Così Renzi vuole ribaltare... Inserito da: Admin - Luglio 19, 2015, 06:15:34 pm Il retroscena
Le scelte dem da Roma a Palermo Così Renzi vuole ribaltare il partito L’idea di candidare la politologa Gualmini l’anno prossimo a Bologna Oggi a Milano l’assemblea nazionale pd: serve aria nuova, tornerò a fare Renzi Di Maria Teresa Meli Se fosse un film (cosa che, almeno attualmente, non è perché assomiglia più a una «soap opera») quello che va in onda oggi, all’Expo, potrebbe avere un titolo insolito per un sequel: «Renzi uno, la vendetta». Già, l’assemblea nazionale del Pd, convocata per obbligo, a termini di Statuto, di per sé non avrebbe storia. Sarebbe solo il pedissequo ripetersi di un rito che un regolamento interno vuole che si reciti almeno due volte l’anno. La minoranza, che ora minaccia fuoco e fiamme, in realtà, ne avrebbe fatto volentieri a meno, perché sa che quella sarà la platea davanti alla quale il premier preannuncerà le sue mosse, stoppando e prevenendo, di fatto, quelle dell’opposizione interna. E non solo. Perché pure chi lo ha sostenuto finora, in questo periodo, lo sta facendo penare. Anche se su questo il premier non sarà mai esplicito. Per dirla in soldoni, a Renzi non piace l’accanimento terapeutico senza costrutto della giunta Marino, anche se a non voler staccare la spina è il presidente del partito Matteo Orfini. Come non gli piace il Crocetta che, al di là delle presunte intercettazioni, ha lasciato la Sicilia abbandonata a se stessa, nonché preda dei grillini. Elisabetta Gualmini potrebbe correre come sindaco a Bologna E non si appassiona per Michele Emiliano che in Puglia corteggia «il Movimento 5 Stelle» e a Roma va a una cena di ex dc patrocinata da Beppe Fioroni. Il segretario vuole «aria nuova nel partito». Al centro come in periferia. E qualcuno interpreta così le voci secondo le quali Elisabetta Gualmini, politologa e vicepresidente della giunta dell’Emilia-Romagna, potrebbe correre come sindaco di Bologna. «Renzi - dice il premier parlando di sé - deve tornare a a fare Renzi e quindi basta mediazioni al ribasso». Il che non significa che il premier voglia fare tutto da solo. Anzi. C’è un motivo se ha aperto un dialogo a dir poco intenso con una fetta importante, nonché preponderante, della minoranza interna, capeggiata dal ministro Maurizio Martina. Quella parte della sinistra del Pd gli serve per sostituire i bersaniani renitenti al Pd versione renziana, ma anche quei «giovani turchi» che giocano delle partite in proprio, come è accaduto a Roma, con Orfini. Trattare con la minoranza In più, Martina e i suoi servono perché i numeri, nonostante il sempiterno ottimismo renziano, sono quelli che sono e quindi al Senato bisognerà trattare con la minoranza, o almeno con parte di essa, per approvare la riforma costituzionale, perché, come avrà modo di ribadire anche oggi il premier, «sulle riforme bisogna correre». Già, perché secondo Renzi, su questo ha ragione Napolitano: «Non si può sempre disfare la tela». Bersani nei panni di Penelope? Eppure secondo i renziani il sì dell’ex segretario pd dovrebbe essere acquisito perché «non possono essere tutti voti di coscienza». Insomma, basta: «Si torna ad accelerare su tutto e su questo oggi sarò chiarissimo». Riforme C’è però chi non crede ancora che il premier abbia veramente intenzione di spingere il piede sull’acceleratore e andare avanti, sul partito, sulle riforme, contro i potentati locali e contro le «burocrazie interne e internazionali». «C’è chi spera nella restaurazione», scherza Renzi con i fedelissimi alla vigilia di questa assemblea del Pd, nella quale il premier ha deciso di «parlare con grande franchezza al partito, ma anche al Paese». Gli avversari interni, come sempre, lo aspettano al varco, anche se avrebbero preferito rinviare la pugna a dopo la calura estiva. Se non altro per il timore che il premier chieda loro un voto in commissione Affari costituzionali del Senato che li vincoli sulla riforma costituzionale. Un voto che non consenta l’indomani, ma nemmeno il mese dopo, di rimettere tutto in discussione, come ha spiegato Renzi ai suoi: «Io sono pronto alla mediazione e ho offerto un ventaglio di ipotesi su cui lavorare. Siamo tutti disponibili a farlo. Se c’è un no, a questo punto, è solo preventivo e mira a far impantanare tutto». Se la gioca, questa volta, Renzi, convinto che non vi siano alternative: «Nemmeno un governo Bersani, Salvini, Brunetta, avrebbe i numeri in Parlamento», è la battuta che ama fare con i fedelissimi. 18 luglio 2015 (modifica il 18 luglio 2015 | 11:21) © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/politica/15_luglio_18/scelte-dem-roma-palermo-cosi-renzi-vuole-ribaltare-partito-84549304-2d17-11e5-ab2f-03a10057a764.shtml Titolo: Maria Teresa MELI Caso Marino, la linea di Renzi: «Se ha il coraggio di farlo... Inserito da: Admin - Luglio 30, 2015, 10:26:31 pm Il retroscena
Caso Marino, la linea di Renzi: «Se ha il coraggio di farlo spetta a lui andare avanti» Il via libera condizionato del premier: nessun nome per gli assessori. «Se farà bene non gli mancherà l’appoggio del governo», dice ancora il segretario del Pd Di Maria Teresa Meli Matteo Renzi sa che Roma non può essere derubricata a un «affare locale». Perciò, dopo aver taciuto fin tanto che ha potuto ed essersi limitato a frasi generiche, ieri il premier ha dovuto affrontare la questione. Nel suo stile. Ossia, senza fare nessuna vera apertura di credito a Marino, ma cercando di mantenere l’unità del Pd e il «buon nome» della Capitale. E questo si è tradotto in un «via libera» condizionato al sindaco, che potrebbe essere anche l’anticamera della fine della giunta. Può sembrare un paradosso, ma è così. Basta sentir parlare Renzi: «Un sindaco viene eletto dai cittadini e questo è un fatto importante. A lui, quindi, toccano tutti gli onori ma anche gli oneri. Lo so bene io che ho fatto il suo mestiere fino a poco tempo fa». Insomma, «spetta a Marino, se ne ha il coraggio e se è capace di farlo, andare avanti con la nuova giunta: se riuscirà a fare cose concrete e a risollevare la città, non gli mancherà l’appoggio del governo». Ma alla giunta, sia detto per inciso, i renziani, stando almeno alle notizie di ieri sera, non daranno un nome per un assessorato, benché la richiesta sia venuta sia da parte del primo cittadino della Capitale che dal commissario del Pd romano Matteo Orfini. Con il quale, ci tiene a ribadire l’inquilino di palazzo Chigi, «l’obiettivo è comune». Ossia la rinascita della Capitale. Renzi, «blitz» alla festa dell’Unità di Roma: «Verdini nel Pd? Mai» Questa volta Renzi non prende la questione di petto. Non fa come al suo solito. Ma si lascia uno spazio per tirarsi fuori nel caso in cui Marino non riesca a definire la sua operazione, o, comunque, non riesca ad andare avanti ancora per molto, nonostante il rimpasto della giunta. «Io - è il ragionamento che fa il premier, stufo di sentirsi tirato in ballo per ogni alito che viene dal Campidoglio - sono più che disponibile, perché, ripeto, so quanto sia difficile il mestiere di primo cittadino». Insomma, da pari a pari. Da sindaco a sindaco, Renzi spiega a Marino che ora tocca a chi guida Roma dimostrare di essere all’altezza della situazione. Nessun ultimatum, «perché la Capitale non si merita di essere trascinata in una situazione di ingovernabilità». Ma «il sindaco di Roma deve dare un segnale», insiste Renzi. E quale sarebbe mai il segnale che il premier attende? Innanzitutto un corposo pacchetto di «proposte concrete», perché «Roma ne ha bisogno», tanto più adesso che si avvicina il Giubileo. E poi «basta con le polemiche a distanza», che, secondo Renzi, hanno il sapore della «politica vecchio stampo». Per farla breve: Marino non faccia finta che la questione Roma è una competizione tra lui e il premier, perché così non è. «Io - confida Renzi ai collaboratori - finora non ho messo bocca su questa storia proprio per questo, per evitare che i miei sembrassero dei diktat dall’alto, nei confronti di un sindaco che è stato eletto direttamente dai cittadini». Il che non vuol dire che il premier non sia preoccupato per quanto è avvenuto a Roma e per quanto potrebbe ancora avvenire, perciò avverte il sindaco e non solo lui: «Stop con il piccolo cabotaggio». È vero, Marino «sta sforzandosi in tutti i modi» per fare andare avanti la giunta e la città. Però questo non basta. È chiaro che «Roma è la capitale e il governo farà di tutto per sostenerla». Ma è altrettanto chiaro che Renzi non muoverà un dito se si renderà conto che l’operazione rimpasto è solo il frutto di «personalismi». L’appoggio è garantito, a patto che sia per la Capitale. Non per le velleità dei protagonisti romani di questa vicenda. È per questa ragione che il governo non darà più un euro che non sia «motivato» per Roma. Non un soldo andrà a finire nella voragine del buco del Campidoglio. Dopodiché, se Marino «è in grado e ha coraggio», «dimostri quello che sa fare», partendo, come ogni sindaco, dai problemi veri: «Le buche, l’immondizia, i trasporti...». E i romani, senz’altro, potrebbero aggiungere qualche altra voce a questo elenco renziano. 28 luglio 2015 (modifica il 28 luglio 2015 | 09:19) © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/politica/15_luglio_28/marino-linea-renzi-se-ha-coraggio-vada-avanti-1de58520-34eb-11e5-984f-1e10ffe171ae.shtml Titolo: Maria Teresa MELI Quel piano studiato da mesi per spiazzare destra e sinistra Inserito da: Admin - Agosto 02, 2015, 04:30:01 pm Quel piano studiato da mesi per spiazzare destra e sinistra
Avvio in concomitanza con le Amministrative, «ma non è una manovra elettorale» Il leader non dà per scontate modifiche al ddl Boschi di riforma del Senato di Maria Teresa Meli Quello che Matteo Renzi enuncia dal palco dell’Auditorium dell’Expo è un vero e proprio programma per la fase due del suo governo, di qui al 2018. Era da mesi che aveva messo sotto i suoi consiglieri economici e lavorava a stretto contatto con il ministro Padoan alla riduzione delle tasse. Perché per il premier è quello l’obiettivo più importante, non solo per il suo esecutivo ma anche per il suo partito: «Voglio modificare radicalmente l’immagine del Pd, questa è la vera svolta per il Partito democratico. Perciò ho preferito annunciare adesso queste misure, che avremmo dovuto invece annunciare in autunno, per dare subito il segno del cambiamento». Renzi è perfettamente conscio che nel 2018, quando affronterà l’ultimo punto del suo programma fiscale, quello degli scaglioni Irpef, «diranno che la mia è una manovra elettorale» per le politiche. Ed è anche per questa ragione, spiega, «che voglio dirlo qui e ora». Perché si sappia, appunto, che di un progetto si tratta e non di un mero marchingegno per vincere le prossime elezioni. Il messaggio Insomma, il messaggio è che il «taglio delle tasse non è più un tabù». Però il fatto che il primo step del suo programma giunga in coincidenza con le amministrative non può essere un caso fortuito. Il tema delle tasse è un’arma vincente. Spiazza tutti gli avversari, al di là delle loro dichiarazioni polemiche di ieri. A destra come a sinistra sarà difficile, per esempio, condurre una battaglia contro l’abolizione della tassa sulla proprietà della prima casa, quando il governo attuerà il suo piano. Tanto più che Italia, come è noto, i proprietari di un’abitazione sono la stragrande maggioranza e in alcuni dei comuni in cui si voterà il prossimo anno la tassazione è altissima. La seconda tappa Nel 2017 Renzi passerà alla seconda tappa del suo programma. Gli interventi su Irap e Ires. «Sulla tassazione dei profitti delle società voglio arrivare ai livelli della Spagna», è il vero obiettivo del premier. Anche questo difficile da contrastare. Sarebbe complicato per Berlusconi spiegare al suo elettorato il motivo per cui non appoggia Renzi. Ma anche la minoranza interna è rimasta spiazzata dal discorso del presidente del Consiglio. Lo si vedeva dai volti e dagli sguardi lì all’Auditorium. Dalla difficoltà di replicare alle sue parole. Del resto, il premier, che si è guardato bene dal fare qualsiasi concessione ai bersaniani, su un punto è stato tassativo: «Dobbiamo occuparci dell’Italia, non discutere solo tra di noi». Come a dire: «Basta occuparci del nostro ombelico». E infatti, mentre gli esponenti della minoranza, sul palco, sembravano rimasti ancora alla puntata del giorno prima e criticavano l’eventuale appoggio dei verdiniani alla riforma costituzionale, il presidente del Consiglio il nome di Denis Verdini non lo ha nemmeno pronunciato. Ai fedelissimi, prima, aveva già anticipato che non lo avrebbe fatto e aveva spiegato: «Dov’è lo scandalo se una decina di senatori vogliono votare la nostra riforma? Non è che noi diamo in cambio presidenze di commissione o posti di governo. Questo non esiste. Abbiamo sempre detto che più gente condivideva il ddl meglio era. Forse il problema è per altri, perché più voti ci sono per la riforma costituzionale, meno contano i loro veti». La doppia veste di Renzi Sì perché il Renzi di questa Assemblea nazionale veste i panni del presidente del Consiglio, ma nel contempo quelli del Renzi prima maniera. E si capisce chiaramente che non dà per scontate le modifiche al ddl Boschi. Per carità, lui è pronto al dialogo, ma quel che si arguisce è che la riforma si cambia solo se la maggioranza è d’accordo, certamente non perché la minoranza interna lo impone. E c’è un terzo messaggio che il Renzi prima maniera ha lanciato ai dirigenti che pensano di gestire le realtà locali a modo loro o credono di riprendersi le chiavi della «ditta»: nel Pd, sino a quando ne sarà il leader, comanderà lui. Nessuno si illuda. 19 luglio 2015 (modifica il 19 luglio 2015 | 09:52) © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/economia/15_luglio_19/quel-piano-studiato-mesi-spiazzare-destra-sinistra-cbfc6234-2de1-11e5-804a-3dc4941ce2e9.shtml Titolo: Maria Teresa MELI Renzi non vuole errori sul Giubileo: dopo l’Expo massimo... Inserito da: Admin - Agosto 28, 2015, 11:36:39 pm Renzi non vuole errori sul Giubileo: dopo l’Expo massimo impegno
L’idea di evitare il voto a Roma nel 2016. A meno che non ci siano le urne anticipate. Il leader punta a tenere sotto scacco il sindaco, bersagliato dai dirigenti pd Di Maria Teresa Meli Matteo Renzi ripone ben poca fiducia nella speranza che la situazione nella Capitale migliori, anche dopo il rimpasto della giunta e l’innesto della coppia Marco Causi-Stefano Esposito. Non è questione di scarso apprezzamento nei confronti dei due nuovi assessori, lo scetticismo del premier riguarda piuttosto la situazione romana in generale e la gestione Marino, in particolare. Ciò nonostante, il premier vuole che questa giunta vada avanti e non venga sciolta: «Non salviamo Marino, salviamo Roma», ha spiegato ai suoi. E poi ha precisato: «Non voglio aggiungere la Capitale alla lista delle città in cui si vota». Solo in un caso l’inquilino di Palazzo Chigi correrebbe il rischio delle urne nella Capitale senza temere di regalare la città ai grillini: se si arrivasse veramente allo scioglimento prematuro della legislatura e alle elezioni anticipate. Allora, sarebbe la campagna elettorale di Renzi a livello nazionale che farebbe da traino a Roma. Se si avverasse una simile ipotesi, sarebbero gli stessi vertici del Pd, nei primi mesi del prossimo anno, a staccare la spina a Ignazio Marino. Ma a bocce ferme, l’ipotesi del voto capitolino viene scartata. Il che non impedisce, però, a Renzi di lasciare che i parlamentari del Pd che si riconoscono in lui continuino a sparare ad alzo zero contro il sindaco. Lorenza Bonaccorsi, Angelo Rughetti e Gennaro Migliore hanno rinnovato di recente le loro critiche a Ignazio Marino, invitandolo a lasciare il Campidoglio e il presidente del Consiglio non fa cessare le critiche e gli attacchi per due motivi. Da una parte, vuole che sia chiaro che Renzi e i renziani nulla hanno a che spartire con l’attuale gestione capitolina: «La situazione a Roma è tale che io non voglio essere tirato in mezzo e pubblicamente preferisco metterci bocca il meno possibile», ripete il premier ai suoi. Dall’altra, il presidente del Consiglio non ferma i parlamentari anti Marino perché intende tenere sotto scacco il sindaco per fargli capire che da ora in poi sarà sotto tutela e non potrà agire troppo di testa sua. Anche per questa ragione, Renzi si appresta a sfilare la gestione del Giubileo (e non solo di quello) al sindaco. Del resto, l’appuntamento dell’8 dicembre è troppo importante per vederlo fallire, perché, inevitabilmente, la responsabilità di un eventuale insuccesso dell’Anno Santo ricadrebbe anche sul governo. «Avremo gli occhi di tutto il mondo puntati addosso, ancora di più che per l’Expo, non si possono fare errori o sciocchezze», è il convincimento del presidente del Consiglio, il quale non vuole che, dopo il successo dell’Esposizione universale, che «sta registrando dei numeri pazzeschi», il governo inciampi sul Giubileo. «Non possiamo vanificare il risultato dell’Expo», spiega a collaboratori e fedelissimi il premier. Tutto deve filare liscio. Perciò l’inquilino di Palazzo Chigi ha fatto pressing sul riluttante Pier Carlo Padoan perché sbloccasse dei fondi a favore del Giubileo. Ma la domanda che si fanno in molti nel Pd (soprattutto in quello romano) è questa: accetterà Marino di essere messo pubblicamente in un angolo a occuparsi solo del traffico? Perché è chiaro che i provvedimenti che il governo si accinge a prendere sulla gestione della Capitale lasciano poco spazio ai dubbi: il sindaco verrà sottoposto a una sorta di amministrazione controllata. C’è chi ritiene che alla fine, nonostante l’indubitabile «umiliazione», Ignazio Marino non reagirà a questo stato di cose, perché mediaticamente sarà lui a tagliare i nastri del Giubileo e ciò gli basta. Ma c’è anche chi, nel Pd, teme una sua reazione. E in questo senso c’è molta preoccupazione per il libro che il primo cittadino sta scrivendo sui suoi primi due anni da sindaco e che uscirà a dicembre. Ossia proprio a qualche mese di distanza dalle elezioni amministrative. Chi conosce bene Marino è infatti convinto che con la pubblicazione delle sue «memorie» dal Campidoglio, il sindaco voglia prendersi una vendetta nei confronti del Partito democratico. © RIPRODUZIONE RISERVATA 27 agosto 2015 | 07:34 Da - http://roma.corriere.it/notizie/politica/15_agosto_27/renzi-non-vuole-errori-giubileo-l-expo-massimo-impegno-aaec3e02-4c7c-11e5-9b47-ed94dd84ed07.shtml Titolo: Maria Teresa MELI Il premier: nessun passo indietro sulla cancellazione di Tasi Inserito da: Admin - Settembre 02, 2015, 04:38:39 pm Il premier: nessun passo indietro sulla cancellazione di Tasi e Imu
Renzi: «Le riforme danno frutti». L’incontro con Padoan sulla legge di Stabilità: rispetteremo i parametri Ue. «Nessuna ragione di preoccuparsi» Di Maria Teresa Meli ROMA Europa o non Europa, per Matteo Renzi è semplicemente «impossibile» non andare avanti con il progetto di cancellare la tassa sulla casa. «Io non torno indietro», ha spiegato il premier ai suoi collaboratori senza perdersi in troppi giri di parole. Il presidente del Consiglio ha precisato che le sue proposte in materia di fisco sono «un punto centrale» delle priorità del governo: «Rappresentano un patto che facciamo con gli italiani». E un patto del genere, secondo Renzi, non si può disattendere. «Basta con i politici che parlano, promettono e non fanno», è il suo leit motiv. Insomma, per Renzi «i segnali di crescita ci sono» e le «riforme stanno portando i loro frutti», quindi non vi è motivo per non procedere come stabilito. «In Europa saremo decisi», ha annunciato il premier ai fedelissimi. E ha illustrato questo suo orientamento anche al ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, che ha incontrato ieri per esaminare la prossima legge di Stabilità. Legge che sarà fondamentale nelle intenzioni di Renzi per raggiungere l’obiettivo che si è dato: quello di una «rivoluzione copernicana» del fisco. Perciò non sarà l’Europa a convincerlo a venire meno alla parola data agli italiani. Del resto, Renzi ha confermato che «il nostro Paese osserverà i parametri» fissati dall’Unione europea, quindi, a suo giudizio, la stessa Ue non ha ragione di preoccuparsi. Tanto più che, ha osservato il premier con più di un interlocutore, «continueremo a fare le riforme». Dunque, Renzi ha rassicurato i collaboratori che non solo non cambierà direzione di marcia, ma non vi saranno nemmeno dei rallentamenti. D’altra parte il premier è convinto, e lo ha ribadito ieri ai fedelissimi, che l’Europa «non ci può dire quali tasse abbassare». Non lo può certo fare quell’Europa che è stata «assente» sul fronte dell’immigrazione, lasciando l’Italia e la Grecia da sole a fronteggiare l’arrivo dei barconi e le stragi in mare. «Non penso che ci proveranno e se ci provano avranno una risposta adeguata», è la linea che ha illustrato ieri ai suoi. Per Renzi la posta della «rivoluzione fiscale» è troppo alta. Ha studiato questa uscita da mesi, è andato poi definendola e quindi ora non intendere abbandonare quella che sarà «una parte fondamentale» del suo programma. E questo non solo perché le elezioni amministrative sono previste per la primavera del prossimo anno, o perché si potrebbe scivolare e arrivare anche alle politiche anticipate (ipotesi, questa, a cui Renzi continua a dire di non credere): «É l’Italia che ha bisogno di questa ulteriore spinta, ed è per l’Italia che questo progetto deve andare avanti, non per il destino futuro del governo o per il mio personale». Quindi, se non ci sarà da litigare o da alzare la voce con l’Unione europea, per Renzi, è ovviamente meglio. Ma se invece per raggiungere il suo scopo dovrà sbattere i pugni sul tavolo di Bruxelles, allora non si tirerà indietro. É pronto a farlo. Per un’unica cosa il premier non è disponibile: ritirarsi in buon ordine e rinviare il progetto di cancellare la tassa sulla casa nel 2016. 2 settembre 2015 (modifica il 2 settembre 2015 | 09:13) © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/politica/15_settembre_02/premier-nessun-passo-indietro-cancellazione-tasi-imu-761bdf42-5141-11e5-addb-96266eadb506.shtml Titolo: Maria Teresa MELI Se la satira volgare prende di mira il ministro donna e le ... Inserito da: Arlecchino - Ottobre 26, 2015, 11:47:01 am Se la satira volgare prende di mira il ministro donna e le unioni gay
Una vignetta inserita nella nota quotidiana di Forza Italia ironizza sul ministro Boschi e sulle unioni civili. Ma il risultato è tutt’altro che divertente Di Maria Teresa Meli Ci sono uomini (politici) che odiano le donne. Accade in Italia. E succede anche che nella nota q quotidiana del gruppo di Forza Italia, il cosiddetto Mattinale, creatura del presidente dei deputati azzurri Renato Brunetta, appaia una vignetta sessista (che il Corriere ha deciso di non pubblicare) contro Maria Elena Boschi. La libertà di satira è sacra. Anzi è più che sacra. Ed è inviolabile, naturalmente. Ma se il sarcasmo è al servizio di una parte politica, allora le cose cambiano e criticare quella «striscia» è legittimo. La storia è questa. In un fumetto dal titolo «Boschi, unioni civili con chi ci sta» si vedono le gambe nude di una donna, che è distesa su un letto e che chiede ammiccante: «Chi vuole fare un’unione civile con me?». Ovvio che una vignetta simile non poteva non suscitare un «caso» e una polemica che non si è sopita nemmeno dopo le «scuse» (tardive). Renato Brunetta giustamente si indigna ogni volta che qualche politico fa della greve ironia sulla sua statura. Ma, evidentemente, il capogruppo di Forza Italia alla Camera usa due pesi e due misure. Quel che vale per lui non vale per gli altri. Tanto più se i bersagli in questione sono una donna, colpevole di essere bella e giovane (oltre che brava), e un tema (l’omosessualità) che non divide più i cittadini italiani, ma solo i parlamentari nostrani. La ministra delle Riforme sta riuscendo a completare l’iter difficile di un disegno di legge costituzionale che ha il suo nome, e che aveva avuto in prima battuta i voti di Forza Italia. É ovvio che questo sia motivo di grande disappunto per Brunetta. Non solo: Boschi si è anche espressa con grande nettezza (unica nel governo) a favore delle unioni civili. Ma il capogruppo di Forza Italia, invece di rilasciare delle dichiarazioni critiche nei suoi confronti, come avrebbe fatto se il suo avversario politico fosse stato un uomo, ha preferito affidarsi alla satira volgare del Mattinale. Insomma, a quanto pare, la colpa della ministra Maria Elena Boschi è doppia, anzi, tripla: è giovane, bella ed è una donna. Perciò contro di lei è meglio utilizzare il sessismo e non la polemica politica. Quella si riserva ai «maschietti». Per le «femminucce» non vale la pena. Come non vale la pena prendere sul serio i problemi di tutti gli omosessuali italiani che vorrebbero riconosciuti quei diritti che nel resto del mondo occidentale sono acquisiti ormai da tempo. 22 ottobre 2015 (modifica il 22 ottobre 2015 | 10:46) © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/politica/15_ottobre_22/se-satira-volgare-prende-mira-ministro-donna-unioni-gay-5208888e-788e-11e5-95d8-a1e2a86e0e17.shtml Titolo: Maria Teresa MELI Renzi convoca il Pd: battaglia ideologica solo per logorarmi. Inserito da: Arlecchino - Ottobre 28, 2015, 06:10:47 pm Il retroscena
Manovra, Renzi convoca il Pd: battaglia ideologica solo per logorarmi Il premier convinto che la Legge di Stabilità appena presentata sia il frutto di un «lavoro straordinario», malgrado le critiche arrivate anche dall’interno del partito. «L’abbassamento delle tasse è quasi una rivoluzione» Di Maria Teresa Meli ROMA La polemica della minoranza sulla legge di Stabilità la dava per scontata: «Vedrete che adesso partirà un nuovo tormentone», aveva avvertito i suoi. Ma tutto ciò non fa mutare idea a Renzi: la manovra rappresenta un «lavoro straordinario» e sotto il profilo dell’abbassamento delle tasse è quasi «una rivoluzione». Questo non significa che il governo non sia disposto a modificarne alcuni punti, però il premier tiene le carte coperte e assicura ai collaboratori che, almeno al momento, non è prevista la modifica dell’abolizione dell’Imu per le prime case di lusso: «Loro stanno facendo una battaglia ideologica, mentre il punto importante è che riducendo le tasse si consente al Paese di ripartire». Renzi, comunque, ha chiesto a Zanda e Rosato di indire un’assemblea dei gruppi proprio per discutere in prima persona con tutti della legge. Il premier è anche convinto che se la Stabilità «verrà spiegata bene» non vi saranno problemi con l’elettorato. E i sondaggi finora sembrano dargli ragione. Ma Renzi è anche amareggiato perché Bersani e altri esponenti della minoranza lo accusano di tradire la Costituzione: «Non parlano mai male di Berlusconi o di Grillo, ma attaccano me. L’intento è quello di logorarmi, ma io tengo duro», si sfoga con i fedelissimi. Già, il premier è convinto che se non avesse tolto le tasse sulle prime case di lusso o se non avesse alzato a 3.000 euro la soglia del contante, i suoi oppositori avrebbero trovato comunque qualcosa a cui appigliarsi per polemizzare con lui. Ed è sicuro, che, quando si chiuderà la partita della manovra, la minoranza partirà lancia in resta per ingaggiare una nuova battaglia. L’ennesima. Ma adesso lo scontro è sulla legge di Stabilità e il presidente del Consiglio non è preoccupato, anzi intende contrastare la minoranza inchiodandola al ruolo di partito delle tasse. Ma qualche renziano, a dire il vero, un timore ce l’ha: che alzando in questo modo il livello dello scontro, gli oppositori possano arrivare a un punto di non ritorno. Il premier, in cuor suo, invece non crede che sia in atto una scissione e che persone come Bersani, Speranza e Cuperlo stiano puntando proprio a questo obiettivo. Piuttosto, è convinto che le motivazioni che spingono i suoi oppositori siano sempre le stesse: la «ditta» non sopporta il fatto di non avere più il controllo del partito, che considera come «cosa sua». E perciò sceglie come terreno di battaglia, un terreno che le sembra il più adatto a intercettare certi umori del popolo di sinistra. «Ma - è il succo del suo ragionamento - è profondamente ingiusto bollare questa come una legge di destra, perché non lo è, è una legge che va incontro alle esigenze dei cittadini». Così il premier, ma secondo Speranza la manovra «è fatta per cercare di attrarre i voti dell’elettorato di Berlusconi». Lo stesso ex capogruppo, comunque, non intende compiere strappi non più ricucibili. Ma gli altri, che cosa faranno? Voteranno tutti questa legge, se, alla fine, il governo dovesse mettere la fiducia? A Palazzo Chigi si ragiona anche su questa ipotesi. E non si esclude che più d’uno, sebbene non tantissimi, decida di non votare la fiducia. Ma quale sarà la reazione dei vertici del Partito democratico nei confronti di coloro che spingeranno il loro dissenso fino in fondo? Niente provvedimenti disciplinari o espulsioni, è la parola d’ordine. Ma gli elettori del Pd dovranno sapere «chi è che cerca di rimettere in piedi il Paese e chi pensa solo ad affossare il proprio governo». 19 ottobre 2015 (modifica il 19 ottobre 2015 | 11:48) © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/politica/15_ottobre_19/manovra-renzi-convoca-pd-battaglia-ideologica-solo-logorarmi-8133b2f4-761e-11e5-9086-b57baad6b3f4.shtml Titolo: Maria Teresa MELI L’intervista a Matteo Renzi Inserito da: Arlecchino - Dicembre 09, 2015, 07:37:02 pm L’intervista a Matteo Renzi
«Noi non vogliamo una Libia bis La crescita? Sfideremo Bruxelles» Ovunque il premier è anche leader del partito. Non credo che cambierò l’Italicum. Il salto di qualità sui consumi ci sarà quando si smuoverà il moloch del risparmio privato Di Maria Teresa Meli Francia, Germania e Gran Bretagna si stanno muovendo sul fronte della guerra all’Isis. Noi siamo l’unico grande Paese europeo fermo, presidente Renzi qual è la strategia? «La posizione dell’Italia è chiara e solida. Noi dobbiamo annientare i terroristi, non accontentare i commentatori. E la cosa di cui non abbiamo bisogno è un moltiplicarsi di reazioni spot senza sguardo strategico. Tutto possiamo permetterci tranne che una Libia bis». Non teme che così l’Italia rischia di avere un ruolo marginale nella partita libica? «Se protagonismo significa giocare a rincorrere i bombardamenti altrui, le dico: no grazie. Abbiamo già dato. L’Italia ha utilizzato questa strategia in Libia nel 2011: alla fine cedemmo a malincuore alla posizione di Sarkozy. Quattro anni di guerra civile in Libia dimostrano che non fu una scelta felice. E che oggi c’è bisogno di una strategia diversa». E noi restiamo fermi... «No, siamo ovunque. L’Italia è una forza militare impressionante. Guidiamo la missione in Libano, siamo in Afghanistan, in Kosovo, in Somalia, in Iraq. Il consigliere militare di Ban Ki- moon per la Libia è il generale Serra, uno dei nostri uomini migliori. Abbiamo più truppe all’estero di tutti gli altri, dopo gli americani e come i francesi. I tedeschi hanno deciso di aumentare i loro contingenti dopo Parigi, ma ancora non arrivano al nostro livello di impegno. E ciò che loro hanno deciso nel dicembre 2015, noi facciamo dal settembre 2014. Sono fiero e orgoglioso dei nostri militari. Ma proprio perché ne stimo la professionalità dico che la guerra è una cosa drammaticamente seria: te la puoi permettere se hai chiaro il dopo. Quando diventi presidente del Consiglio ti guida la responsabilità, non la smania». Intanto, però, Hollande interviene, e lei no. «Ho grande rispetto, stima e amicizia personale per François Hollande. È un uomo molto intelligente, la sua reazione è legittima e comprensibile. Ma lui sta guidando una Francia ferita, che ha bisogno di dare risposte a cominciare dal piano interno. Noi vogliamo allargare la riflessione, lottando contro il terrorismo e domandandoci quale sia il ruolo dell’Europa oggi. Doveroso intensificare la lotta a Daesh, discutiamo del come. E non dimentichiamo che gli attentati sono stati ideati nelle periferie delle città europee: occorre una risposta anche in casa nostra. Ecco perché servono scuole e teatri, non solo bombe e missili. È per questo che per ogni euro speso in sicurezza l’Italia investirà un euro in cultura». Comincia l’Anno Santo, aumentano i rischi di un attentato? «I rischi ci sono sempre. Non facciamo allarmismi e non sottovalutiamo niente. Speriamo di replicare il successo Expo». Il «rosso» Corbyn dice no all’intervento, come lei, mentre i blairiani sono a favore, non la imbarazza? «Blair passerà alla storia come un gigante, non solo nel Regno Unito. Ma questo non significa che le abbia azzeccate tutte. Credo che sull’Iraq siano stati compiuti errori, possiamo dirlo o è lesa maestà? Detto questo davanti a Daesh e tutte le forme di terrorismo noi siamo pronti, anche militarmente. Se ci sarà una strategia chiara ci saremo. Ma perché questo accada adesso è cruciale un accordo a Vienna sulla Siria e uno a Roma sulla Libia: ci stiamo lavorando. Fa meno notizia di un bombardamento, ma è più utile per sradicare il terrorismo». Lei ha deciso di stanziare 500 milioni per le periferie, ma molti sindaci dicono che sono pochi. «Non sono pochi. E si sommano ai milioni liberati dal patto di Stabilità, agli investimenti sulle scuole e sugli impianti sportivi. Non servono miliardi per combattere il degrado ma cittadini consapevoli e progetti fatti bene, all’insegna di quell’arte del “rammendo” di cui parla Renzo Piano. Piccoli interventi ma fatti bene possono cancellare il degrado e restituire un senso di comunità. Parola di (ex) sindaco». Non crede di aver deluso le imprese spostando le risorse stabilite per taglio all’Ires al bonus per i giovani? «No. Abbiamo eliminato l’Irap costo del lavoro, l’Irap agricola, l’Imu. Abbiamo ridotto in modo strutturale la pressione fiscale sulle imprese e continueremo a farlo. Chi vorrà investire in azienda - anziché mettersi i soldi in tasca - avrà incentivi a cominciare dal superammortamento. E i consumi sono tornati a crescere da quando abbiamo rimesso nelle tasche degli italiani 10 miliardi con gli 80 euro. Nessuno aveva mai fatto così tanto in così poco tempo. Le aziende lo sanno. Si può sempre fare meglio, ma dato il quadro di bilancio - dal prossimo anno il debito finalmente scenderà e questo è un bene per i nostri figli - non possiamo fare di più. Adesso la sfida è soprattutto sui consumi. Gli italiani sono delle formichine e hanno un risparmio privato tra i più alti al mondo. Se smettiamo di piangerci addosso e creiamo un clima che incoraggi a rimettere in circolo i denari, allora l’Italia tornerà locomotiva d’Europa. Il salto di qualità lo faremo quando si smuoverà l’immenso moloch del risparmio privato. E, in misura minore, gli investimenti pubblici». L’Istat ha rivisto in meglio le stime del Pil che aveva dato l’altro giorno. Ma comunque di uno 0,8 si tratta, cambierà qualcosa nella legge di Stabilità o gli interventi previsti sono sufficienti? «Non cambia niente. Fino a un anno fa dicevano che avremmo fatto la fine della Grecia e oggi la musica è diversa. In un anno recuperiamo trecentomila posti di lavoro col Jobs act, i mutui crescono del 94%, il Pil torna positivo dopo tre anni. Certo, il quadro internazionale non ci aiuta, ma l’Italia è forte. E se riparte la scintilla che viene solo dai cittadini, dai consumatori, dagli imprenditori, allora altro che Grecia: faremo meglio della Germania». Il Censis ci descrive come un Paese in letargo... «Quella del letargo è una immagine che non mi convince. Chi sta tenendo in piedi l’Italia è gente che non dorme. Gente che crede nel merito. Che rischia tutti i giorni». State preparando un decreto che esclude dall’applicazione del Jobs act il pubblico impiego. Perché questa disparità di trattamento tra pubblico e privato? «Se sei dipendente pubblico significa che hai vinto un concorso. Non è che se cambia sindaco allora quello ti licenzia. Mi accontenterei di licenziare quelli che truffano, che rubano, che sono assenteisti. Senza che qualche giudice del lavoro li reintegri. Ma nel pubblico è impossibile che, cambiando maggioranza politica, si possa licenziare: sarebbe discriminatorio. In ogni caso le norme sul pubblico impiego saranno interessanti e per certi aspetti rivoluzionarie». Nonostante gli interventi di Draghi, le cose non sembrano funzionare soprattutto nel nostro Paese, si aspettava di più dalla Bce? «Draghi sta facendo un lavoro straordinario e chi lo critica non si rende conto che occorre del tempo per gli effetti del Quantitative easing. Per il momento la ripresa si deve principalmente a fattori interni. Quello che serve oggi è una discussione sulla politica economica europea, con la Commissione. Noi abbiamo ottenuto la flessibilità e la stiamo anche utilizzando. Ma la vera domanda da farci è: la linea economica tenuta fino ad oggi è sufficiente a restituire crescita all’Europa? Per me no, c’è bisogno di cambiare rotta. Questa è la sfida a Bruxelles. Difficilissima ma vale la pena farsi sentire. Siamo l’Italia, noi!». Si è aperta una grande polemica per il salvataggio di quattro banche. «Se il governo non fosse intervenuto queste banche avrebbero chiuso, i dipendenti sarebbero andati a casa e i correntisti non si sarebbero salvati. Rivendico con orgoglio l’azione del governo per salvare le banche, i lavoratori e i correntisti senza usare denaro pubblico. La vicenda subordinati non è facile, ma cercheremo di aiutare queste persone. Che però non sono truffate: hanno siglato contratti regolari, sia chiaro. Quello che è successo a certe banche è il frutto di venti anni di scelte discutibili. In passato i governi hanno deciso di non intervenire per il consolidamento del sistema bancario: credo sia stato un errore. La Merkel ha messo 247 miliardi per salvare il sistema del credito tedesco (che ancora oggi è peggio del nostro), ma chi ci ha preceduto a Palazzo Chigi ha pensato di rinviare i problemi. Adesso i nodi sono al pettine. Noi non ci tiriamo indietro di fronte alle responsabilità. Abbiamo sistemato le popolari, tra mille polemiche. E dopo Natale vogliamo consolidare le banche del credito cooperativo, facendone uno dei gruppi bancari più solidi sul modello del Crédit Agricole». Il Pd sembra in grande affanno, basti pensare a come si divide a Milano tra Sala e Balzani. «Il sindaco di Milano lo scelgono i milanesi, non i rignanesi. Saranno delle primarie bellissime, che vinca il migliore. Tutto il resto è dietrologia, noia, autoreferenzialità. I candidati parlino con i cittadini e chi è più convincente sarà il candidato». Intanto la prossima settimana ci sarà la Leopolda, non è in contraddizione con la mobilitazione dei banchetti pd di oggi? «Nessuna contraddizione, anzi: iniziative complementari. La Leopolda è uno straordinario incubatore di talenti e di idee. Chi ironizza sulla classe dirigente uscita dalla Leopolda dovrebbe verificare i risultati. Un anno fa Jobs act, legge elettorale, riforma costituzionale, riforma della Pubblica amministrazione, buona scuola, riduzione delle tasse sembravano sogni impossibili da raggiungere. A distanza di 12 mesi per noi parlano i risultati. La generazione Leopolda adesso è al potere: dobbiamo dimostrare di cambiare la politica senza permettere alla politica di cambiare noi. Sono stato a Rignano, nel mio paese, per il banchetto del Pd. Mi fa piacere che alla fine, ritrovandosi con gli amici di sempre, ti rendi conto che alla fine dei conti non siamo cambiati, che noi siamo sempre noi, persone semplici, chiamate per un po’ a servire il Paese e poi pronte a tornare al proprio ruolo. Nei fatti la Leopolda ha rivoluzionato il sistema politico». In momenti come questi in cui per forza è molto impegnato sul fronte del governo, non pensa che il doppio incarico sia un errore? «No. Ovunque il capo del principale partito è anche leader del governo». Le Amministrative non si profilano vittoriose per il Pd, per questo dite già che non sono un test per il governo? «È banalmente una questione di serietà. Se eleggi un sindaco che c’entra il governo? Le Comunali scelgono i primi cittadini, non i primi ministri. E comunque da qui alle Amministrative ci sono 6 mesi: con tutto il rispetto, noi nel frattempo vogliamo governare». È una domanda posta un po’ in anticipo ma da tempo se la fanno tutti o quasi: cambierà l’Italicum? «Credo proprio di no». 6 dicembre 2015 (modifica il 6 dicembre 2015 | 08:28) © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/politica/15_dicembre_06/noi-non-vogliamo-libia-bis-crescita-sfideremo-bruxelles-97bed6ea-9be7-11e5-9b09-66958594e7c5.shtml Titolo: Maria Teresa MELI Caso banche, il retroscena Matteo Renzi preoccupato ... Inserito da: Arlecchino - Dicembre 17, 2015, 07:30:38 pm Caso banche, il retroscena
Matteo Renzi preoccupato per l’impatto sui consensi: «Dobbiamo dare un segnale» Ma il leader Pd è convinto che la mossa della mozione di sfiducia di FI sarà un boomerang. A preoccuparlo è piuttosto il possibile calo di consensi nel suo elettorato. Per questo punta a spingere per la commissione di inchiesta parlamentare Di Maria Teresa Meli «Bisogna circoscrivere questa vicenda e voltare pagina». Anche se davanti alle telecamere di Porta a Porta fa mostra di non essere preoccupato, con i collaboratori Matteo Renzi non nasconde di nutrire qualche timore. A impensierirlo non sono certo le mozioni. Anzi. Vorrebbe «votarle il prima possibile» per «lasciarsi questa storia alle spalle». Il presidente del Consiglio sa bene di avere un’ampia maggioranza alla Camera, e sa che anche al Senato i parlamentari di Denis Verdini, checché ne dicano i grillini, non saranno necessari perché la sinistra interna «si sta comportando in maniera seria e leale». Perciò un voto del genere, tanto più dal momento che le opposizioni non si esprimeranno tutte in maniera compatta per la sfiducia, può solo «rafforzare» il governo e la posizione della ministra Maria Elena Boschi. È questa la ragione per cui lo vorrebbe subito. Non solo, c’è un altro aspetto di questa storia delle mozioni di sfiducia che secondo Renzi gioca in suo favore. L’uscita di FI, che ha deciso di rincorrere la Lega e il Movimento cinque stelle, viene infatti vista dal premier come un «vero e proprio boomerang», perché dimostra che quel partito è «garantista a corrente alternata», cioè solo quando ci sono in ballo questioni che riguardano Silvio Berlusconi. È una mossa, quella di Forza Italia, che secondo Palazzo Chigi creerà sconcerto nell’elettorato azzurro, in quell’elettorato al quale Renzi non nasconde di puntare in vista delle elezioni amministrative, ma, soprattutto, delle politiche, che il premier ritiene si debbano tenere nel febbraio del 2018. Un pezzo di quell’elettorato, del resto, stando ai sondaggi che arrivano con regolare frequenza al Pd, è già stato conquistato e Renzi è convinto che lo spettacolo di una FI appiattita sulle posizioni di Grillo contribuirà a provocare altre fughe. Ma allora che cosa preoccupa il presidente del Consiglio? Non il «solito teatrino» allestito alla Camera e al Senato, bensì l’impatto che questa vicenda può avere sugli italiani. «I risparmiatori sono molti in Italia e dobbiamo evitare che non si fidino più di noi per colpa di tutto il clamore mediatico che viene dato a questa vicenda...», riflette il premier con i fedelissimi. I sondaggi riservati di Palazzo Chigi, finora, sono confortanti da questo punto di vista. Da quei dati emerge che per il 70 per cento degli italiani la colpa della situazione in cui si trovano le quattro banche salvate è degli stessi istituti bancari, mentre solo per il 13 per cento la responsabilità è da attribuirsi al governo. Quanto alle intenzioni di voto, il Pd è stabile al 33,6, mentre i grillini perdono lo 0,2 rispetto alla settimana scorsa, attestandosi sul 26,5 per cento. Ma il problema è che non è affatto detto che la vicenda giudiziaria si chiuda qui. Nel Pd sono preoccupati che possa arrivare un avviso di garanzia al padre della ministra Boschi. Il che comporterebbe nuove polemiche e nuovi contraccolpi. Per questa ragione il presidente del Consiglio continua a ripetere ai suoi che occorre «voltare pagina». Il premier, però, sa anche che questo non basta: non è sufficiente cercare di rassicurare i risparmiatori. Ci vuole «un intervento forte per cambiare il sistema bancario», bisogna dimostrare che questo governo «al contrario dei precedenti» non intende «lasciare le cose come stanno»: «I miei predecessori - ragiona Renzi con i collaboratori - hanno fatto un grosso sbaglio a non consolidare il sistema bancario italiano e ora noi non possiamo sottrarci a questa responsabilità. Tocca al nostro governo provvedere in questo senso». E con la stessa determinazione, secondo il presidente del Consiglio, bisogna spingere per la costituzione di una commissione parlamentare di inchiesta monocamerale, composta da una ventina di esponenti. In questo modo si darà il segnale che l’esecutivo «non ha paura di accertare la verità, perché ha sempre agito con trasparenza ed è quindi suo interesse che questo organismo prenda vita». © RIPRODUZIONE RISERVATA 16 dicembre 2015 (modifica il 16 dicembre 2015 | 11:42) Da - http://www.corriere.it/politica/15_dicembre_16/matteo-renzi-preoccupato-l-impatto-consensi-dobbiamo-dare-segnale-93856b40-a3bf-11e5-900d-2dd5b80ea9fe.shtml Titolo: Maria Teresa MELI La strategia di Renzi sul Fiscal compact Inserito da: Arlecchino - Gennaio 17, 2016, 05:37:27 pm Lo scontro
La strategia di Renzi sul Fiscal compact Il premier punta alla revisione del Patto sui bilanci e tiene alti i toni con la Ue contro l’«austerità» «Nessuna paura, non ci telecomandano». E ai suoi dice di non trovare «sponde» in Mogherini Di Maria Teresa Meli Finora è una suggestione. Un’idea che Matteo Renzi sta accarezzando. Cioè quella di porre agli alleati europei la questione di una revisione o, meglio, una reinterpretazione del Fiscal compact , cioè dell’accordo europeo che impone agli Stati alcuni vincoli per contenere il debito pubblico nazionale. Revisione, non cancellazione, ovviamente. Al ministero dell’Economia, a dire il vero, sono piuttosto pessimisti sul fatto che la Commissione Ue assecondi tale ipotesi. Eppure il presidente del Consiglio non ha abbandonato questa idea. Anche perché, in mancanza di una maggiore flessibilità su questo punto, per il premier diventerebbe difficile riuscire a mantenere le promesse fatte per il 2017 e per il 2018. L’offensiva di Renzi L’offensiva europea di Renzi, quindi, non è un capriccio. Come sempre, quando vuole trattare, il presidente del Consiglio alza i toni dello scontro per poi trovare un punto di caduta e arrivare a una mediazione il più favorevole possibile dal suo punto di vista. Se poi l’Europa si dovesse dimostrare impermeabile su quel fronte, il premier ne aprirebbe un altro. Con lo stesso obiettivo: «Farla finita con l’austerità che rischia di uccidere la Ue». Perciò, di qui a fine gennaio, quando incontrerà Angela Merkel, e poi a febbraio, quando vedrà il presidente della Commissione Ue Juncker, il premier proseguirà nella sua offensiva europea. E anche dopo, naturalmente. Ma il problema di Renzi è quello di riuscire a tessere delle alleanze con i suoi partner europei, tanto più che l’inquilino di palazzo Chigi ha confessato di non trovare mai delle «sponde efficaci» nella rappresentante dell’Italia in Commissione, Federica Mogherini. «Non ci facciamo telecomandare» Il presidente del Consiglio, comunque, appare molto determinato nella sua offensiva: «Questi non mi fanno paura. Io rappresento l’Italia, spero che lo capiscano tutti». E infatti anche ieri, in visita alla Reggia di Caserta, è tornato sull’argomento: «È finito il tempo in cui qualcuno poteva immaginare di telecomandare l’Italia. Ci dobbiamo far sentire, con gentilezza e con garbo, ma dobbiamo farci sentire». E per far capire bene che cosa intende dire, Renzi è stato molto netto. Riferendosi a Juncker, ha osservato: «Può essere normale fare polemiche assurde sul niente? L’Europa non è un’accozzaglia di regole, l’Europa non si salva con le discussioni sullo zero virgola». «Non è una battaglia contro l’Europa» Insomma, la posizione del presidente del Consiglio lascia adito a poche ambiguità. La sua - Renzi ci tiene a precisarlo - «non è una battaglia contro l’Europa». Già, il premier non considera la Ue «cattiva», ma, spiega: «Noi non possiamo vivere come in una condizione di subalternità psicologica nei confronti dell’Europa o della Germania. Noi non siamo subalterni a nessuno». Renzi vorrebbe fosse chiaro che la sua non è una polemica pretestuosa, e men che meno una mossa «elettorale». Le elezioni amministrative di giugno, precisa in questi giorni ai suoi interlocutori, non sono l’obiettivo di questa offensiva. E non lo è nemmeno il voto politico anticipato. Ciò a cui mira il presidente del Consiglio è un traguardo più ambizioso: riuscire veramente a dare una «svolta» all’Europa: «Per questo - dice ai fedelissimi - occorre pronunciare delle parole chiare». Parole che, nel vocabolario del premier, a quanto si è visto in questi giorni, non mancano. E non mancheranno nemmeno in futuro, dal momento che il presidente del Consiglio è sinceramente convinto di fare ciò che gli impone il suo ruolo: «Io sto difendendo l’Italia». 17 gennaio 2016 (modifica il 17 gennaio 2016 | 08:24) © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/politica/16_gennaio_17/strategia-renzi-fiscal-compact-09c51e12-bce9-11e5-9ebd-3d31e1693d62.shtml Titolo: Maria Teresa MELI L’accusa del presidente Renzi: qualcuno vuole solo lo sfascio Inserito da: Arlecchino - Marzo 12, 2016, 09:48:41 am Il retroscena
L’accusa del presidente Renzi: qualcuno vuole solo lo sfascio Il premier si è stufato delle polemiche quotidiane della minoranza del partito «Il Paese è altrove e i soliti si impegnano in ridicole divisioni correntizie» Di Maria Teresa Meli Miracoli renziani: il presidente del Consiglio è riuscito a mettere insieme Walter Veltroni, Massimo D’Alema, Pier Luigi Bersani, Achille Occhetto e Antonio Bassolino. Tutta gente che si prende poco, che ha litigato e che, in alcuni casi, non si parla addirittura da anni. Ma due cose accomunano queste figure: l’aver fatto parte del vecchio Pci e l’avversione maturata in questo periodo nei confronti del segretario- premier. C’è Veltroni, per esempio, che si tiene lontano dalla politica, ma se qualche vecchio amico gli chiede di Renzi, risponde così: «Non se ne può più». E c’è D’Alema, secondo il quale il nuovo leader del Pd «è un pericolo per la democrazia». Poi c’è Bassolino, profondamente «offeso» perché «Matteo non ha fatto nemmeno un gesto nei miei confronti». E c’è pure l’ottantenne Occhetto, che parla male di tutti questi esponenti del Partito democratico, ma se sente nominare il presidente del Consiglio gli viene il fumo agli occhi. Infine, c’è Bersani, che in un’intervista al Corriere della Sera è stato gelido con il candidato ufficiale del partito a Roma, Roberto Giachetti, mentre ha mostrato una certa simpatia per l’eventuale discesa in campo dell’ex ministro dei Beni culturali, Massimo Bray. La qualcosa, come era ovvio, non è piaciuta al premier. Che ha deciso di prendere le sue contromisure e di passare all’offensiva. Domenica, infatti, Renzi farà un discorso alla scuola dei giovani democratici sulle primarie e sui rapporti interni al partito. E lì, assicurano i renziani, «interverrà pesantemente», perché si è stufato delle polemiche quotidiane della minoranza. Con i collaboratori il presidente del Consiglio è stato esplicito: «Il Paese è altrove e i soliti si impegnano in ridicole divisioni correntizie. Giocano al tanto peggio, tanto meglio e sanno solo parlare male di me, del partito e del governo. Non hanno un obiettivo politico, non hanno un progetto alternativo, non hanno il leader, non hanno i numeri. Il loro obiettivo è solo lo sfascio, la sconfitta del Pd alle amministrative». Poi, pubblicamente, il presidente del Consiglio si è espresso così: «La politica politicante, quella che è sui giornali e nei programmi televisivi, le discussioni interne tra i partiti e tra gli addetti ai lavori, sono tutte cose che agli italiani non interessano. Mentre i soliti vivono di polemiche, noi ci occupiamo delle cose concrete». Ma in realtà l’attenzione di Renzi e dei suoi uomini è rivolta anche al Pd. C’è la «pratica Bassolino» da sistemare. Raccontano che il vicesegretario Lorenzo Guerini, che ha l’animo del mediatore, si stia dando da fare per tentare un incontro di riappacificazione tra il premier e l’ex sindaco di Napoli. Ci riuscirà? E poi ci sono le elezioni. Nel quartier generale renziano si studia come evitare che il fiorire delle candidature a sinistra e la polemica continua della minoranza interna possano nuocere e influire negativamente sul risultato delle amministrative. Perciò ci si sta muovendo anche a sinistra. Il che significa che sia a Milano che a Roma i candidati del Partito democratico dovrebbero essere affiancati da liste di sinistra. Quella arancione nel capoluogo lombardo, che verrà presentata nonostante il forfait di Francesca Balzani e un’altra formazione simile nella Capitale, a sostegno di Roberto Giachetti. Ciò comporterà, inevitabilmente, la spaccatura di Sel che, a Roma come a Milano, non è tutta allineata e coperta con i vertici nazionali. Una parte di quel movimento, infatti, vorrebbe allearsi con il Pd. Ma anche nella sinistra interna del Partito democratico qualcosa si sta muovendo. La componente di minoranza che fa capo a Gianni Cuperlo ieri ha preso le distanze dai bersaniani, presentando un documento che è un appello all’unità nel tentativo di rilanciare il Pd. Su questo punto Cuperlo è stato molto chiaro: «Noi siamo leali», ha ripetuto più volte nel corso di una conferenza stampa. E poi ha precisato: «Non vogliamo lasciare nessun margine all’ambiguità». Cosa che, invece, secondo i renziani, Pier Luigi Bersani ha ampiamente fatto nell’intervista al Corriere. 10 marzo 2016 (modifica il 10 marzo 2016 | 22:06) © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/politica/16_marzo_11/accusa-presidente-renzi-qualcuno-vuole-solo-sfascio-bee23c2e-e702-11e5-877d-6f0788106330.shtml Titolo: Maria Teresa MELI Renzi: «Devo cambiare di più il Pd Le critiche? ... Inserito da: Arlecchino - Giugno 13, 2016, 12:55:50 pm Renzi: «Devo cambiare di più il Pd Le critiche? Perché l’ho fatto poco»
Il presidente del Consiglio e leader dem: «Queste elezioni sono soltanto locali Uno schieramento trasversale mi attacca? Non temo chi fa politica contro qualcuno» Di Maria Teresa Meli Presidente Renzi, partiamo dai fischi di oggi. È finita la sua luna di miele con il Paese? «Non vorrei deluderla troppo. Ma io ho preso i fischi dal primo giorno e continuerò a prenderli, mettendo la faccia ovunque. Nella campagna delle Europee 2014, quelle del mitico 41%, ho fatto comizi interi da Palermo a Napoli fino a piazza della Signoria nella mia Firenze dove c’erano centinaia di fischietti, striscioni e contestazioni. E governavamo da due mesi appena, altro che luna di miele. Il 2015 è stato un lungo elenco di fischi dal Jobs act, con la Fiom in tutti i miei eventi a contestare, fino alle proteste dei professori. Non è una novità. Sono invece molto contento del fatto che chi ieri contestava da Confcommercio alla fine è sceso a discutere e con un paio di loro è scattato persino l’abbraccio. Hanno ragione a chiedere meno tasse, ma sanno anche che stiamo riducendo ogni anno la pressione fiscale. Certo, loro non vogliono che diamo gli 80 euro a chi guadagna meno di 1.500 euro netti. Li rispetto, ma non sono d’accordo: io penso che sia una misura di giustizia sociale e non torno indietro». Se le Amministrative andassero male per il Pd, si aprirebbe un periodo di grande fibrillazione... «Ho legato la mia permanenza al governo all’approvazione delle riforme nel referendum di ottobre e mi hanno accusato di aver personalizzato. Adesso gli stessi vorrebbero legare il governo al voto di alcune realtà municipali? Ma non scherziamo. Nessun Paese del mondo civile fa così. Si rassegnino: le elezioni amministrative sono un passaggio locale. Utili tutte le riflessioni sociologiche di questo mondo. Ma che vada in un modo o in un altro stiamo parlando di episodi territoriali, non di un voto nazionale». Ma se il Pd perdesse a Roma e Milano per lei sarebbe un brutto colpo. «È ovvio che preferisco che vinca. È ovvio anche che il Pd — anche in caso di vittoria — deve affrontare un problema interno perché non è possibile continuare con un gruppo dirigente che tira e altri che tutti i giorni lavorano per dividere. Ci parliamo tra noi e invece dovremmo parlare alla gente. Ma uno alla volta, per carità. Adesso lavoriamo sui ballottaggi, poi discuteremo. Oggi ho visto l’ennesima perla del gruppo dirigente Cinque Stelle: la senatrice Taverna, membro dello staff cui deve rispondere l’eventuale sindaco Raggi, propone di posticipare le Olimpiadi. Dal baratto alle Olimpiadi una volta ogni tanto, dopo averci deliziato con le sirene, i complotti americani sull’allunaggio e altre amenità. Non è un problema di Pd: davvero i romani vogliono questo gruppo dirigente?». Il 5 giugno si è visto che c’è un ampio schieramento trasversale contro di lei, non ha paura che si rinsaldi e si allarghi al referendum? «Io credo che sia poco corretto fare analisi di politica nazionale sul voto amministrativo. Ma se proprio si deve fare, dico che non mi fa paura chi fa politica contro qualcuno. Se c’è una novità che ho portato — fin dall’inizio del travagliato rapporto con Berlusconi — è stata quella di fare politica per un’idea e non contro un nemico. Io penso che gli italiani siano molto maturi, più dei politici e più dei raffinati commentatori. Al referendum sulla scheda c’è la possibilità di avere un Paese più semplice o di mantenere il sistema com’è. Di superare finalmente le storture del bicameralismo paritario e dare governabilità o continuare con inciuci, larghe intese e piccoli cabotaggi. Di attaccare quella che viene ritenuta la casta della politica riducendo le spese per parlamentari e consiglieri regionali o tenersi il sistema politico più costoso d’Occidente. Io credo che un elettore deluso, che magari vota 5 Stelle o Lega, al referendum voterà sì. Poi alle politiche del 2018 magari sceglierà un altro premier. Ma quel premier, ammesso che vinca, potrà governare». Bersani le chiede di non far mettere i banchetti per il Sì alle feste dell’Unità. «È un atteggiamento che non capisco e mi colpisce molto. Ci siamo giocati tutta la legislatura, nata dal fallimento elettorale, sulla possibilità di fare le riforme. Abbiamo fatto sei letture cambiando più volte il testo per venire incontro alle esigenze di tutti e segnatamente della minoranza del Pd. Sappiamo che se la riforma non passa l’Italia tornerà a ballare per l’instabilità e l’ingovernabilità e torneremmo a essere il problema dell’Europa. E io dovrei vergognarmi di quello che abbiamo fatto? Qui sta il punto. La nostra comunità rispetta chi vuole votare in altro modo, noi non espelliamo nessuno. Ma una cosa è il rispetto per chi non la pensa come la maggioranza, altra cosa è annullarsi, vergognarsi delle nostre riforme, nascondere i nostri tavolini e le nostre bandiere». Quindi non accetta la richiesta di Bersani? «Me lo lasci dire: facciamo il Jobs act con 455 mila posti di lavoro in più e stiamo zitti in pubblico per paura di irritare qualche sindacalista. Riduciamo il precariato nella scuola come nel privato con i nuovi contratti a tempo indeterminato e non lo rivendichiamo perché temiamo le polemiche. Eliminiamo l’Imu e non possiamo dirlo perché lo voleva anche Berlusconi. Eliminiamo la componente costo del lavoro dell’Irap e ci vergogniamo perché è una richiesta di Confindustria. Otteniamo il doppio turno e le preferenze e non ci va bene perché il premio alla lista e non alla coalizione mette in crisi la sinistra radicale. Facciamo la legge sui diritti civili e non va bene perché la vota anche Verdini. Otteniamo la flessibilità e non lo diciamo perché il problema è il Fiscal Compact, che peraltro il precedente gruppo dirigente ha ratificato in silenzio. Le feste dell’Unità sono le feste del Pd. Non le feste di una corrente minoritaria del Pd. Se ci togliamo la politica, cosa rimane? E la proposta di dire “Sì al referendum” alle feste viene dal segretario regionale dell’Emilia-Romagna, non dal nazionale». Anche ieri alla Confcommercio vi hanno chiesto di ridurre le tasse. Almeno a questa richiesta dirà di sì? «Certo. Se vanno avanti le riforme, avremo ancora margini di azione per ridurre ulteriormente le tasse. Ma non voglio parlare di nessuna ipotesi fino al giorno dopo il referendum. Altrimenti mi diranno, come in passato, che si tratta di una mancia elettorale». Dopo il 5 giugno se la sente di dire che aveva ragione la minoranza? L’alleanza con Verdini non paga. «L’alleanza parlamentare con Verdini nasce dal fatto che nel 2013 si sono perse le elezioni. E con Verdini quel gruppo dirigente ha già governato votando insieme la fiducia a Monti e a Letta. Quel gruppo dirigente ha scelto Migliavacca e Verdini per fare un accordo — poi saltato — sulla legge elettorale. E adesso se Verdini — che non è ovviamente rappresentato al governo — vota con noi in Parlamento questo sarebbe un problema? Quanto alle Amministrative, l’alleanza a Napoli e Cosenza, perché queste erano le due città interessate, mi pare che avesse carattere locale. E che non abbia funzionato per nessuno. Nel 2018 il Pd si presenterà da solo, un partito a vocazione maggioritaria come previsto dallo statuto. Punto». Il Pd non sembra attrarre l’elettorato di sinistra... «Sinceramente non mi pare questo il punto. Io almeno non vedo un trasloco di voti verso Fassina e Airaudo. Quelli che invece votano Cinque Stelle — meno comunque del passato — sono diversi. Chi non ci ha votato, non ci ha votato per problemi sul territorio, sui singoli candidati. Ma se proprio vogliamo trasformarlo in un voto di protesta contro di me, ok, diciamola tutta: chi non ci vota più per colpa mia non mi accusa di aver cambiato troppo nel Pd. Mi accusa di aver cambiato troppo poco. Mi accusano di aver mediato fino allo sfinimento con tutte le correnti e le correntine del Pd. Ogni giorno ho cercato di mediare, di discutere, di tenere buoni tutti. Dobbiamo cambiare di più, non di meno». Lei ha detto di voler «usare il lanciafiamme» nel Pd e la minoranza si è sentita nel mirino. Che cosa intendeva dire? «Il problema non riguarda solo la minoranza. Ma il modo con il quale vogliamo usare questi diciotto mesi che ci separano dal congresso. Vorrei che ci occupassimo del futuro del Paese, non del futuro dei parlamentari. Il male della politica italiana è di avere troppi partiti e troppi politici. Ci vogliono invece più idee nei partiti e più buona politica». Perché è così contrario all’idea di attribuire il premio di maggioranza alla coalizione vincente e non al partito? «Mi sembra di essere stato chiaro. Ma le sembra normale che mentre il mondo fuori discute di Trump, mentre l’Europa riconosce il nostro passo in avanti sul Mediterraneo e l’Africa con il Migration Compact, mentre finalmente si passa dalla cultura dell’austerity a una stagione di investimenti, la preoccupazione principale della classe politica italiana sia capire se il premio di maggioranza lo diamo alla lista o alla coalizione?». I 5 Stelle sembrano pronti a passare dalla protesta alla proposta. Non la spaventa il fatto che Grillo potrebbe rappresentare la novità che prima sembrava rappresentata da lei? «Quando ci saranno le elezioni politiche la partita sarà una partita a tre. Il Pd, un candidato del Movimento 5 Stelle e vedremo chi sarà, un candidato del centrodestra, e vedremo chi sarà. Gli italiani sceglieranno, a quel punto. Ma se ci sarà un sistema istituzionale finalmente funzionante l’Italia avrà fatto un passo avanti chiunque vincerà quelle elezioni. Io personalmente rispetto tutti e non ho paura di nessuno». L’hanno criticata perché va da Putin quando in Italia ci sono i ballottaggi... «Sta scherzando spero. Scusi, che facciamo? Siccome ci sono le amministrative smettiamo di governare il Paese? Non partecipo al Forum di San Pietroburgo su cui ho garantito la presenza da mesi? Ma ci rendiamo conto che in questi anni l’Italia ha recuperato credibilità a livello internazionale? E dovremmo tornare alla piccola guerriglia politica locale, con decine di partiti che si scontrano tutti gli anni in elezioni territoriali mentre gli altri Paesi fanno politica internazionale? Spiacente, io non ci sto. Sono il leader pro-tempore di uno dei Paesi più importanti del mondo, l’Italia che parla con Obama e con Putin. Non l’Italietta che spende settimane a discutere della percentuale di due liste civiche». 10 giugno 2016 (modifica il 10 giugno 2016 | 15:29) © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/amministrative-2016/notizie/renzi-devo-cambiare-piu-pd-critiche-perche-l-ho-fatto-poco-821f86a6-2e7f-11e6-ba60-ddaed83f69c5.shtml Titolo: Maria Teresa MELI «Roma sarà il vero banco di prova del Movimento 5 Stelle» Inserito da: Arlecchino - Giugno 22, 2016, 06:37:20 pm Elezioni Amministrative
Renzi e i ballottaggi: vedremo che cosa sanno fare i grillini Dimettermi? Non ci penso Il premier resta convinto che il voto non sia stato contro il governo, ma determinato dai problemi delle città. «Roma sarà il vero banco di prova del Movimento 5 Stelle» Di Maria Teresa Meli ROMA - «Non mi dimetto da niente». Sono giorni he Matteo Renzi va ripetendo mestamente, ma anche realisticamente: «Roma non la recuperiamo più». E quando arrivano gli exit poll, a confermare le sue parole, il presidente del Consiglio scuote il capo e dice: «Ora vedremo che cosa sanno fare i grillini». Già, perché secondo il premier gestire la Capitale, ridotta così com’è, non sarà facile e sarà quello il vero banco di prova del “Movimento 5 stelle”. Su quella ribalta Virginia Raggi e il direttorio che la segue passo passo avranno tutti i riflettori accesi, e, chissà, «quella vittoria potrebbe rivelarsi anche un boomerang». Ma Renzi non crede che quello di Roma sia stato un voto contro di lui. O contro la riforma costituzionale: «Lì abbiamo perso le elezioni nelle periferie non perché si sono espressi sul bicameralismo o sul sistema elettorale. Abbiamo perso perché quelle periferie erano piene di immondizia e problemi e perché la Capitale è stata governata male. Ho visto le immagini dei telegiornali sul voto a Roma. Si vedevano i cassonetti che straripavano di rifiuti davanti ai seggi...». Il Nord, invece, tiene sospeso sino all’ultimo il Partito democratico e il premier. Nel settentrione, a Torino e a Milano, «può succedere di tutto», spiega il presidente del Consiglio nel tardo pomeriggio, dando per scontato che a Torino «vincerà Appendino» e a sera ne avrà la riprova. Ciò a cui però Renzi non crede è che quel voto rappresenti la prova generale della Santa Alleanza contro di lui, quella che tenterà l’assalto al palazzo coagulandosi attorno al “No”, il giorno del referendum istituzionale. «A Milano come a Torino - è il ragionamento del premier - non c’è nessuna Santa Alleanza contro di me. Basti pensare che tra chi vota Appendino a Torino c’è, ahimè, anche gente che poi dirà “si” alla riforma e che addirittura vota e ha votato per me. Si tratta di gente (molti giovani) che si esprime contro quella che considera la vecchia politia». Per questa ragione, il presidente del Consiglio dice di non temere per le conseguenze che le elezioni amministrative, qualsiasi sia il risultato definitivo, potranno avere sul voto di ottobre: «Io aspetto tutti al varco del referendum e lì ci divertiremo». Il premier ragiona anche sull’offensiva che la minoranza interna potrebbe mettere in atto all’indomani del voto delle amministrative. E’ convinto che diranno che «ci vuole un segretario che lavori a tempo pieno» e che, quindi, chiederanno la modifica di quell’articolo dello Statuto del Pd secondo il quale il leader del partito è automaticamente il candidato premier. Ma per raggiungere questo obiettivo «ci vuole un congresso», spiega ai collaboratori il presidente del Consiglio. E aggiunge: «Ma comunque bisogna passare prima per il referendum e io quello sono sicuro di vincerlo. Stavolta ci sarò io in campo e quella sarà una sfida fantastica». «Io comunque non mi dimetto da niente». Ma una registrata al partito, Renzi la vuole dare sul serio e «la si darà - ha annuncia il premier ai suoi già nei giorni scorsi- a prescindere dai risultati elettorali». Come intende procedere il premier in questo senso? «Partendo dall’organizzazione del referendum», precisano i renziani. Sarà quello, infatti, lo strumento che il presidente del Consiglio utilizzerà «per capire chi lavora nei territori, chi sono gli alleati interni di cui ci si può fidare» e per comprendere anche «come funziona effettivamente la rete renziana». Insomma, di fatto il referendum costituzionale sarà lo strumento attraverso il quale il premier preparerà il “suo” partito. Dopo si svolgerà il Congresso nazionale e, quindi, verrà il tempo delle elezioni politiche. Perciò la “macchina elettorale” che verrà creata per far vincere i “Si” al referendum sarà la stessa “macchina” che, per dirla con le parole di un renziano molto influente, «terrà il motore acceso per il dopo...». Insomma, mentre si prepara a parare gli attacchi interni ed esterni, il premier di una cosa è assolutamente certo: «Che fine farò io dipenderà dal referendum, non dalle amministrative”. Da aggiungere dove sarà al momento del voto 20 giugno 2016 (modifica il 20 giugno 2016 | 04:02) © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/amministrative-2016/notizie/renzi-ammette-batostaho-rottamato-troppo-poco-5c942204-3675-11e6-88d7-7a12a568ff47.shtml Titolo: Maria Teresa MELI Trovata l’intesa con Merkel, ora il piano casa può partire Inserito da: Arlecchino - Settembre 01, 2016, 07:31:44 pm Il retroscena
Trovata l’intesa con Merkel, ora il piano casa può partire Il premier ha margine per trattare L’obiettivo di Palazzo Chigi è di rinegoziare la soglie del deficit del 2,3%. La cancelliera punta su Roma e Parigi come alleati stabili dopo il voto della Gran Bretagna su Brexit Di Maria Teresa Meli «Meglio di così non poteva andare. È stato un ottimo vertice»: Matteo Renzi è più che soddisfatto dell’esito del «bilaterale» con la Germania. Angela Merkel gli ha assicurato che non metterà i bastoni tra le ruote all’Italia quando il nostro Paese chiederà alla Commissione europea la flessibilità necessaria per provvedere alla ricostruzione del dopo-terremoto e alla realizzazione del progetto di «Casa Italia». «Matteo, non vi faremo la guerra su questo», ha detto la cancelliera al premier. E Renzi, da parte sua, ha precisato: «Chiederemo tutta la flessibilità necessaria, rispettando le regole». È ovvio che Merkel in pubblico preferisca parlar poco dell’argomento e si limiti a delegare la «soluzione» alla Commissione europea. Ma la cancelliera deve pensare al suo elettorato assai poco propenso all’allentamento dei vincoli di bilancio europei. Riservatamente, però, è più esplicita, anche perché sa che ormai, nello scenario Ue il partner più affidabile, oltre che stabile, è Renzi. François Hollande, infatti è in difficoltà, oltre che in uscita, e la Gran Bretagna ha detto addio all’Europa. Perciò, nella conferenza stampa che precede la cena con gli imprenditori italiani e tedeschi, la Cancelliera si spinge fino al punto di augurarsi un successo delle riforme di Renzi. «Quasi una sorta di “endorsement” referendario», scherzano i renziani. Il presidente del Consiglio italiano è ben conscio della situazione europea e dei mutati rapporti con i tedeschi. Non a caso è solito ripetere: «Ci sono due Paesi-guida in Europa, la Germania e noi». Dunque, dopo questo incontro, il premier, che sul tema «flessibilità» in conferenza stampa sfoggia sobrietà e misura, anche per non mettere in difficoltà l’alleato tedesco, ha capito di poter andare avanti nelle trattative che aprirà con la Commissione europea per raggiungere il suo obiettivo. Non è un mistero ciò che ha in mente il presidente del Consiglio: «Voglio andare oltre l’1,8 per cento del rapporto deficit-Pil fissato per il prossimo anno». Al 2,3 almeno, se non di più. Del resto, per Renzi «l’Europa non può essere solo burocrazia, austerity e finanza, altrimenti non ha futuro». Ma il premier non sceglierà la via degli ultimatum o dei pugni sul tavolo per ottenere la «flessibilità necessaria», come ha fatto la volta scorsa. O, quanto meno, non si metterà contro la Germania che in questa fase può rivelarsi un prezioso alleato. Le relazioni tra i due Paesi, a suo dire, sono «buonissime» e il presidente del Consiglio non intende guastarle. Senza contare il fatto che anche il suo rapporto personale con Merkel negli ultimi tempi si è rafforzato. Sul «migration compact» proposto dall’Italia il premier e la cancelliera sembrano trovare grande sintonia anche pubblicamente. E infatti non è escluso che Germania e Italia possano lavorare insieme in Africa (nel Mali e nel Niger, per esempio) a missioni diplomatiche congiunte con l’obiettivo di mettere in piedi dei campi dell’Onu per accogliere i profughi. Quindi l’umore del premier, ieri, era decisamente alto. E come gli accade in questi casi, Renzi non ha risparmiato battute scherzose all’indirizzo degli altri partecipanti al vertice bilaterale nella sede della Ferrari di Maranello. All’inizio della riunione plenaria con i ministri di entrambi i Paesi, il presidente del Consiglio era in compagnia di Merkel, Schäuble e Alfano (tutti e tre appartenenti al Partito popolare europeo) e allora, rivolto ai socialdemocratici Gabriel e Steinmeier ha chiesto scherzosamente aiuto: «Sigmar, venitemi a dare manforte, che sono circondato...». Il buonumore non lo ha abbandonato nemmeno durante la cena con gli imprenditori dei due Paesi. Dando la parola al presidente di confindustria tedesca, Ulrich Grillo, il presidente del Consiglio ha fatto questa premessa: «È l’unico Grillo che apprezzo». Dunque, un incontro proficuo per il premier, ma questo non significa che la strada sia in discesa. Nonostante la Germania abbia intenzione di non ostacolare le richieste di flessibilità italiane, la partita si giocherà a Bruxelles, con la Commissione europea, ed è una partita è ancora tutta da giocare. «Sarà lunga», ha confidato Renzi ai collaboratori. E non sarà facile piegare i falchi della Ue. 31 agosto 2016 (modifica il 31 agosto 2016 | 23:47) © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/esteri/16_agosto_31/ora-piano-casa-puo-partire-premier-ha-margine-trattare-039e83a2-6fbd-11e6-856e-2cdca5568f05.shtml Titolo: Maria Teresa MELI LA SETTIMA «LEOPOLDA» Inserito da: Arlecchino - Novembre 05, 2016, 10:41:25 am LA SETTIMA «LEOPOLDA»
La strategia del premier sull’Italicum una legge che piaccia ad alleati e FI Renzi pensa già a una nuova kermesse dopo il voto. «Crescita del Sì nei sondaggi netta e implacabile. Ci saranno fuochi d’artificio» Di Maria Teresa Meli FIRENZE «Prima votiamo meglio è. Il rinvio non esiste, si va avanti tutta. Per noi sarebbe dannoso far slittare il referendum e infatti questa ipotesi per quanto mi riguarda non esiste». Matteo Renzi non ha dubbi. Nessun rinvio: «La exit strategy è da persone senza coraggio. E perciò non ho un piano B. La crescita dei Sì nei sondaggi è netta e implacabile e io me la gioco tutta». Il presidente del Consiglio non demorde e rilancia. Tant’è vero che in questa settima Leopolda pensa già all’ottava. «Che vinca il Sì, che vinca il No, ci ritroveremo qui a fare i fuochi d’artificio», si lascia sfuggire David Ermini. Un’altra Leopolda. Per sancire la vittoria, o per dare battaglia in caso di sconfitta. Perché anche in caso di insuccesso il premier ritiene che occorra andare avanti e «non mollare». Nessuna «coercizione» Il presidente del Consiglio è convinto della strada che deve intraprendere, quale che sia: «Faccio Renzi fino all’ultimo. Preferisco morire da Renzi che vivere da pecora», dice il premier ai collaboratori. Sarà quel che sarà ma il referendum si svolgerà secondo i tempi prestabiliti. E se perderà, se i No avranno la meglio, Renzi accetterà le conseguenze del caso. Non lo dice più palesemente, il premier, perché si è ripromesso di non parlare più del suo caso personale. Ma lo sa il presidente della Repubblica, come lo sanno i suoi alleati, che pure hanno cercato di fargli cambiare idea: se il referendum dovesse andare male Matteo Renzi si dimetterebbe. E anche la decisione di aprire un tavolo di trattativa sulla legge elettorale riguarda il referendum, anche se non è una contrattazione interna che riguarda solo il Partito democratico. È chiaro che il premier non vuole più subire l’accusa di aver fatto l’Italicum a sua immagine e somiglianza. Ed è per questa ragione che ha fatto istituire una commissione elettorale del Partito democratico. Per dimostrare che da parte sua non c’è nessun intento «coercitivo». Ma gli interlocutori sono al di fuori del Pd. L’unico problema del presidente del Consiglio non riguarda la minoranza del Pd. Quella la dava per persa da tempo. Tant’è vero che le trattative sulla riforma elettorale non sono mai state volte a convincere la sinistra del Pd: «Quelli pur di farmi perdere, preferiscono dare il Paese a Di Maio». La ricerca di una «quadra» Dunque, quelle trattative avevano l’unico scopo di dimostrare che Bersani e soci hanno già deciso di votare No al referendum, e in questo senso il Gianni Cuperlo che approva l’accordo interno serve a dimostrare questo assunto: se non si è contro Renzi per principio si riesce a trovare un compromesso onorevole all’interno del Pd. In realtà, il lavorìo sulla riforma dell’Italicum riguarda gli alleati di governo. Cioè il Nuovo centrodestra di Angelino Alfano e Scelta civica, che fanno pur parte della maggioranza di governo. E poi, ovviamente, c’è Forza Italia con cui bisogna trattare. È a loro, a Ncd, a FI, a Sc, in realtà, che è rivolto questo sforzo per trovare una quadra sulla legge elettorale. E non a caso il presidente del Consiglio pronuncia parole quanto mai vaghe sulla revisione dell’Italicum. Dice che il ballottaggio non è più un tabù, ma non precisa i contorni di una possibile riforma della riforma, anche perché il secondo turno continua a non dispiacergli. Eppoi, come ha spiegato ai collaboratori, la materia è quanto mai complicata: «Alfano è contro il ballottaggio, Franceschini è a favore, Napolitano vuole il turno unico, Prodi ritiene che invece ci debba essere il secondo turno». E ancora: «Forza Italia ci ha chiesto di trattare solo dopo il referendum». Quindi è pensando alle «divisioni nel centrosinistra» e alle «posizioni attendiste» di Berlusconi che Matteo Renzi calibra i suoi interventi. Con un unico obiettivo: «Referendum avanti tutta». 5 novembre 2016 | 00:54 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://roma.corriere.it/notizie/cronaca/16_novembre_05/strategia-premier-sull-italicum-legge-che-piaccia-ad-alleati-fi-357b4706-a2e5-11e6-9bbc-76e0a0d7325e.shtml Titolo: Maria Teresa MELI Crisi di governo Matteo Renzi: «Faccio quel che serve al Colle Inserito da: Arlecchino - Dicembre 10, 2016, 09:37:41 am Il retroscena
Crisi di governo, Matteo Renzi: «Faccio quel che serve al Colle» E i suoi pensano a un partito Il premier dimissionario potrebbe accettare il bis per poi votare. E bloccherebbe Franceschini Di Maria Teresa Meli Il leader è a Pontassieve (dovrebbe tornare a Roma oggi pomeriggio) e il Partito democratico si interroga sulle sue mosse future. Lo fanno anche i renziani che ieri erano particolarmente interessati a un sondaggio di Nicola Piepoli, secondo il quale un partito dell’ex premier avrebbe più consensi del Pd. È un’idea che stuzzica una fetta dei sostenitori del segretario. Per intendersi, quella che vede con maggior fastidio le manovre di Franceschini e compagni. Il «capo», però, almeno per ora, continua a guardare dentro i confini del Pd, tant’è vero che sta già preparandosi al Congresso, che vorrebbe tenere «subito», per «rimettere le cose a posto» e poi «rilassarmi un annetto e prepararmi alla sfida delle prossime elezioni». «Quello che serve a Mattarella io faccio» Ma potrebbe esserci un altro scenario nel futuro dell’ex premier, soprattutto dopo le dichiarazioni di ieri di Luigi Di Maio, il quale ha detto che pur di andare alle elezioni i Cinque stelle sarebbero disposti ad arrivare al voto con il governo Renzi. Già, si sta parlando della possibilità che il segretario del Pd resti in carica. In quel caso Franceschini dovrebbe accodarsi, anche perché, secondo Renzi, non ha comunque la maggioranza dei gruppi parlamentari, tanto più dopo che Orlando non ha accettato la sua proposta di fare asse per stringere in un angolo il segretario. «Conviene a tutti fare gioco di squadra, soprattutto a chi ora è ministro», commenta il leader con i suoi. Ma quello della sua permanenza a Palazzo Chigi è uno scenario di cui al momento il segretario non vuole parlare. Eppure c’è. E anche Renzi sa che se Mattarella glielo chiedesse gli sarebbe difficile dire di no. Soprattutto nel caso in cui sia la Lega che i grillini facessero capire al capo dello Stato che sono favorevoli ad andare alle elezioni velocemente anche con questo governo: «Quello che serve a Mattarella — spiega infatti il leader ai suoi — io faccio. È l’abc della politica. In una situazione di crisi si aiuta il presidente della Repubblica, perciò da parte mia c’è la massima disponibilità». Il rischio Verdini Fino a un certo punto, naturalmente: «Bersani — ragiona con i collaboratori l’ex premier — dice che non bisogna andare al voto, ma allora devi fare un governo con Verdini. Bersani ci sta? Eppoi Denis a questo giro non si accontenterà di stare fuori dal governo. Chiederà un ministero. E io in questo cul de sacnon mi ci voglio mettere. Non ci sto a farmi insultare da leghisti e grillini che ci accusano di avere una maggioranza non legittima, figlia di un parlamento illegittimo... In questo caso preferisco dire avanti il prossimo». In molti ieri hanno cercato il segretario pd per avere la linea, ma lui ha ripetuto a tutti la stessa frase: «La politica non è più “renzicentrica”. Per cui aspettiamo quello che dicono gli altri e ascoltiamo Mattarella». Ma sono in pochi a credere che il leader non stia studiando una nuova mossa per «sparigliare». © RIPRODUZIONE RISERVATA 8 dicembre 2016 (modifica il 9 dicembre 2016 | 01:00) Da - http://www.corriere.it/la-crisi-di-governo/notizie/faccio-quel-che-serve-colle-f08e188e-bd84-11e6-bfdb-603b8f716051.shtml Titolo: Maria Teresa MELI Renzi condanna il giustizialismo Agli scissionisti: nessuno... Inserito da: Admin - Marzo 14, 2017, 06:08:59 pm LE CONCLUSIONI DELL’EX PRESIDENTE DEL CONSIGLIO
Renzi condanna il giustizialismo Agli scissionisti: nessuno ci distrugge L’ex premier al Lingotto lancia la generazione dei quarantenni. «Essere di sinistra non significa rincorrere un totem del passato». Orlando: no a strette sugli avvisi di garanzia Di Maria Teresa Meli «Vi voglio bene anche io»: Matteo Renzi chiude così il suo discorso al Lingotto, mentre la platea, la cui età media è scesa in questo ultimo giorno di convention dedicato al suo discorso, si spella le mani. L’ex segretario vuole lanciare pochi, chiari, messaggi. Rivolti al suo popolo più che ai giornali. Il primo riguarda la vicenda Consip: «Noi siamo per la giustizia giusta, che qualcuno, anche nel nostro campo, ha confuso con il giustizialismo». E ancora: «La Costituzione dice che un cittadino è innocente fino a sentenza passata in giudicato. I processi si fanno nei tribunali, non sui giornali, e le sentenze le fanno i giudici, non i commentatori». La platea applaude. In modo insistito. Da Roma il suo sfidante, il ministro della Giustizia Andrea Orlando, fa sapere di essere d’accordo: «Contenimento del clamore dei processi». Però niente stretta sugli avvisi di garanzia, come qualcuno ipotizzava, perché «rischia di ledere i diritti della difesa». Momento di debolezza Però non è solo sulla giustizia che l’ex segretario vuole mandare dei messaggi al suo partito. Nel mirino, ora, gli scissionisti: «Nelle scorse settimane qualcuno ha cercato di distruggere il Pd perché c’è stato un momento di debolezza, soprattutto mia. Ma non si sono accorti che c’è una forza, c’è una solidità, che vengono espresse dalla comunità del Pd, indipendentemente dalla leadership. Si mettano il cuore in pace: il Pd c’era prima, ci sarà dopo e ora cammina con noi». Già, la sinistra, avverte Renzi, è il Partito democratico. Se ne facciano una ragione Bersani e D’Alema: «Essere di sinistra non significa rincorrere un totem del passato, andare sul palco con il pugno alzato cantando bandiera rossa. Quella è una macchietta non è politica». Esperti di Xylella Ma è soprattutto D’Alema, l’uomo che da due anni preparava la scissione e che ha convinto Bersani e Speranza ad accodarsi, il bersaglio di Renzi: «Tanti oggi parlano di Ulivo, gli stessi che lo hanno segato, che hanno contribuito a far cadere Prodi. Sono esperti di Xylella, più che di Ulivi...». Ma per questo Pd, che ha resistito alla scissione e alla bufera giudiziaria, e che adesso è al Lingotto, ci sono altri messaggi. L’ex segretario vuole far capire che con il governo non ci sono tensioni. E infatti accoglie Paolo Gentiloni, salutato da una standing ovation, con queste parole: «Bentornato a casa, lavoriamo insieme». Il premier, che l’ex segretario fa salire sul palco, a fine comizio, insieme a Martina, aveva preannunciato la sua presenza al Lingotto con questo tweet: «Con Renzi, più forza al Pd per il futuro dell’Italia». Ed è una grande prova di forza, per il leader, avere con sé non solo la maggior parte dei ministri, ma anche il premier, che volendo avrebbe potuto non schierarsi per mettere al riparo il governo. Millennial da conquistare Dopo un ringraziamento al popolo del Pd, Renzi esalta «la generazione Lingotto»: i quarantenni del partito, ma anche i Millennial che vuole conquistare. L’ex segretario evita di attardarsi sul tema delle alleanze: è «politichese». «La prima alleanza che dobbiamo fare — dice — è con i milioni di cittadini che credono in noi». Già, «non è possibile replicare i modelli del passato». Quindi Pisapia e compagni dovranno attendere: del resto, «senza il Pd non si va da nessuna parte» e nessuno può pensare di condizionare il Partito democratico, perché, come dice Orfini, «la sinistra siamo noi». Ma quale sinistra? Renzi la spiega così: «Siamo noi, siamo una forza tranquilla». Lo slogan coniato da Mitterrand, l’uomo che rese vincente il partito socialista in Francia, mandando in soffitta i comunisti d’Oltralpe. 12 marzo 2017 (modifica il 13 marzo 2017 | 00:42) © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/politica/17_marzo_12/renzi-condanna-giustizialismo-d7914842-0767-11e7-96f4-866d1cd6e503.shtml Titolo: Maria Teresa MELI Renzi e quei sospetti su D’Alema. Poi dà la linea: non ... Inserito da: Arlecchino - Luglio 04, 2017, 05:17:56 pm Renzi e quei sospetti su D’Alema. Poi dà la linea: non inseguiamo Insieme
I sospetti sull’ex leader dei Ds e sulle manovre per un’altra scissione, lo scetticismo nei confronti della piazza di Pisapia, l’autodifesa sulla grande coalizione Di Maria Teresa Meli ROMA — All’indomani di quello che nel Pd qualcuno, scherzando, ha definito il «vaffa-day» di Matteo Renzi, i toni si fanno più contenuti anche se lo spirito resta quello del Forum di Milano. E una coltre di silenzio avvolge le esternazioni di Pisapia. Niente pubblicità La linea l’ha decisa il leader e i suoi luogotenenti la portano avanti. Ed è questa: «Non inseguiamo quella che è solo un’operazione mediatica, ma che non ha grandi consensi, replicando, potremmo solo valorizzarla». Insomma, l’impressione, nel quartier generale del Pd, è che a Santi Apostoli vi fosse «molto ceto politico», «poca società civile» e «pochi giovani» e che quindi sia controproducente puntare i riflettori su Pisapia facendogli pubblicità. «Non parliamo di lui, parliamo del Paese», ripeteva già l’altro ieri sera Orfini. Del resto, l’impressione del segretario, ma anche di tutti gli altri dirigenti a lui vicini, è che riuscire a dialogare con quella piazza «sia molto complicato». Non sono perciò alle viste colloqui, nonostante sia da una parte che dall’altra vi siano i pontieri sempre speranzosi di ritagliarsi un ruolo e di arrivare a una mediazione. L’ombra di Bersani Renzi non ha in programma incontri con Pisapia, anche perché rifugge dai «riti della vecchia politica». Con l’ex sindaco di Milano, comunque, il segretario non ha mai avuto cattivi rapporti nemmeno quando Pisapia si opponeva alla candidatura di Giuseppe Sala, ma sicuramente i due hanno impostazioni politico-culturali assai diverse. In più non è sfuggita alla dirigenza del Pd la piega che ha preso il processo per la costruzione di un soggetto politico unitario di sinistra. Anche i renziani, in Transatlantico, hanno sentito Bersani spiegare ai suoi che «Pisapia segue i miei consigli». Consigli che, provenendo dall’ex segretario, puntano ovviamente a mettere l’accento sulla natura alternativa al Pd del nascituro cartello elettorale. D’Alema e i caminetti Certo, Pisapia, nel comizio di sabato, ha utilizzato toni molto diversi da quelli di Bersani, ma al Nazareno l’impressione è che la componente di Articolo 1-Mdp abbia preso il sopravvento rispetto a quella dell’ex sindaco. Non solo, Renzi ritiene che la «vera mente» di tutta l’operazione sia Massimo D’Alema. Il sospetto è che l’ex ministro degli Esteri stia lavorando per riuscire a mandare in porto due obiettivi. Primo, convincere Sel a fare parte del futuro soggetto politico. Secondo, favorire una nuova scissione del Pd. Ufficialmente, sia Andrea Orlando che Gianni Cuperlo continuano a dire di non volersene andare, ma per quanto terranno questa posizione? Tanto più che Renzi ha lasciato chiaramente capire che non intende riunire «caminetti» per fare le liste elettorali o trattare le candidature con i «capicorrente». E infatti Speranza invita Orlando a scegliere con chi stare: «Ma Andrea si è candidato a segretario del Pd», gli replica Ugo Sposetti. La grande coalizione Renzi, comunque, non vuole attardarsi oltre in «dibattiti che interessano solo gli addetti ai lavori». E non commenta pubblicamente nemmeno la richiesta di Orlando di un referendum tra gli iscritti nel caso in cui nella prossima legislatura si debba andare a un governo di grande coalizione. Questa è una cosa di cui Renzi non si capacita: «Io con il leader di Forza Italia non ho mai governato, loro sì: che vogliono da me?», si è sfogato con i suoi il segretario, che ieri si è complimentato con il sindaco di Modena, Gian Carlo Muzzarelli, per la «perfetta» organizzazione del concerto di Vasco Rossi. Un’implicita critica alla prima cittadina di Torino, Chiara Appendino (Movimento 5 Stelle) sugli incidenti del dopopartita di Champions. 2 luglio 2017 (modifica il 2 luglio 2017 | 23:11) © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/politica/17_luglio_03/renzi-sospetti-d-alema-insieme-e052a1f2-5f63-11e7-8241-893ad62f90c4.shtml Titolo: Maria Teresa MELI Boschi si difende in tv: «Vegas mi invitò a casa sua, ma non.. Inserito da: Arlecchino - Dicembre 15, 2017, 09:35:02 am Boschi si difende in TV: «Vegas mi invitò a casa sua, ma non lo vidi lì»
La sottosegretaria a duello con Travaglio: «Non mollo». E racconta di un sms con cui il presidente Consob l’avrebbe invitata a casa sua per un incontro di prima mattina Di Maria Teresa Meli «Purtroppo c’è un accanimento incredibile nei miei confronti, ma se pensano che questo mi possa far mollare si sbagliano di grosso, non hanno capito chi sono. Ora si combatte»: nel suo giorno più difficile Maria Elena Boschi si confida con gli amici e fa sapere che giocherà all'attacco. Nel primo pomeriggio scorre sul cellulare gli sms che il presidente della Consob Giuseppe Vegas le ha mandato. E trova quello che le interessa. Il 29 maggio del 2014 lui le chiede, in modo che lei poi definirà «inusuale», di andare a casa sua alle otto del mattino. Lei risponde: «Ci vediamo in Consob o al ministero». La sottosegretaria decide quindi la strategia: andrà in tv, ospite di Lilli Gruber, con Marco Travaglio e parlerà anche di quel messaggino. Intanto posta su Facebook il suo intervento del 18 dicembre del 2015 alla Camera, quando venne presentata una mozione di sfiducia contro di lei sul caso Etruria, per dimostrare che non ha mentito: «Non è giusto subire aggressioni sul nulla, ma non mi fanno certo paura. Dopo due anni di strumentalizzazioni, adesso basta». Poi Boschi duella con Di Battista su Twitter. Il deputato grillino la accusa di non dire la verità, lei replica a brutto muso: «Il bugiardo sei tu». Si fanno le sette di sera, è ora di andare da Lilli Gruber su La7 a Otto e mezzo. Sulle agenzie di stampa nel frattempo sono uscite altre dichiarazioni di Vegas, quelle in cui dice che l’allora ministra del governo Renzi non ha mai fatto pressioni. In tv la sottosegretaria chiarisce subito: «Non mi dimetto, non ho mai fatto nessun favoritismo nei confronti di mio padre, che se ha sbagliato pagherà». Nel Pd qualcuno ritiene che Boschi dovrebbe fare un passo di lato, ma lei non è della stessa opinione: «Non sono attaccata alla poltrona ma alla verità, e non è giusto lasciare solo perché ci sono persone che dicono bugie». E ancora: «Contro di me c’è un attacco, ci si nasconde dietro l’alibi Boschi per non individuare i responsabili veri, c’è qualcosa che non torna». Tocca a Marco Travaglio, che attacca e la accusa di mentire. La sottosegretaria preannuncia un’azione civile contro di lui e gli dà del «bugiardo». Quindi, il colpo di teatro: «Ho un sms di Vegas, mi chiese addirittura di incontrarlo a casa sua, in modo inusuale. Io gli dissi di non vederci lì, tra l’altro da soli, ma al ministero o alla Consob». Poi aggiunge: «Ho incontrato più volte Vegas, abbiamo parlato del sistema bancario e ho espresso anche preoccupazioni sull’aggregazione di Vicenza e Arezzo, ma nulla di strano, nessuna pressione». Dunque, è la sua conclusione, «non ho sbagliato a parlarne con Vegas perché non ho chiesto nulla che eccedesse il mio ruolo istituzionale». Travaglio riparte all’attacco: «In un altro Paese la sua carriera politica sarebbe finita». Ma lei replica: «Se fossi stato un uomo non mi avrebbe riservato questo trattamento. Ha fatto i soldi andando nei teatri italiani con un’attrice poco vestita che mi scimmiottava». Non è disposta a mollare di un millimetro, la sottosegretaria. Si ricandiderà, anche se premette che «lo deciderà il Pd»: «Mi auguro in Toscana, alla Camera». E nega che Renzi dovrebbe prendere le distanze da lei. Poi annuncia una querela anche verso Di Maio che l’ha paragonata a Mario Chiesa. Ma c’è un’altra audizione su cui sono puntati i riflettori. Quella di Ghizzoni, ex ad di Unicredit. Boschi ribadisce di averlo incontrato. E ha discusso con lui di Banca Etruria? «È capitato di parlarne. Ma non ho mai chiesto niente che potesse favorire la Banca. Non ho fatto nessuna pressione. Come lui ho incontrato pure i suoi successori e i vertici di altre banche». Al termine della trasmissione, Boschi è soddisfatta, anche se la tensione della giornata non scivola via. A sera arriva la solidarietà del premier Paolo Gentiloni. Secondo il premier «Maria Elena ha chiarito tutto». 14 dicembre 2017 (modifica il 15 dicembre 2017 | 00:11) © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/politica/17_dicembre_15/boschi-si-difende-tv-vegas-mi-invito-casa-sua-ma-non-vidi-li-79872d0c-e114-11e7-acec-8b1cf54b0d3e.shtml Titolo: Maria Teresa MELI Renzi: chiunque dovrà passare dal Pd E chiude con le accuse... Inserito da: Arlecchino - Marzo 03, 2018, 11:12:11 pm Renzi: chiunque dovrà passare dal Pd
E chiude con le accuse al M5S Il segretario dem chiude la campagna a Firenze: Grillo fa schifo e Di Maio ci ha insultati e ora chiede voti? Comunque vada resterò fino al 2021 Di Maria Teresa Meli «Ho cominciato a far politica sognando la democrazia americana...e mi ritrovo la Democrazia Cristiana»: prima dell’ultimo sforzo elettorale Matteo Renzi recupera - seppure per po’ - il sorriso. Succede quando gli raccontano che molti dei professori-ministri del governo Di Maio lavorano all’Università “E Campus”, invenzione dell’ex maggiorente democristiano Vincenzo Scotti. Il segretario del Partito democratico è immerso nella giornata finale della campagna elettorale. Con i sostenitori non si risparmia: «Qualsiasi sia il risultato elettorale, io resterò segretario fino al 2021, come hanno deciso le primarie». Con gli amici commenta l’ultima indiscrezione: il governo Pd, Leu e Cinque stelle. E’ un’ipotesi che Romano Prodi ha illustrato a qualche amico. «D’altra parte - sottolinea un renziano di rango - già nel 2013 Prodi pensava di potersi far eleggere al Quirinale con i voti di Grillo, è possibile che stia preparando il terreno per il 2022, quando scadrà Mattarella». Quella di un governo D’Alema-Di Maio-Pd è’ un’ipotesi che vede contrario il segretario del Partito democratico: «Una cavolata, i numeri in Parlamento li ho io, quindi non si faranno giochetti a prescindere da me». E per chiarire bene come la pensa anche ai vari “padri nobili” del Pd che sperano in una riunificazione della sinistra, Renzi spiega: «Grillo ci fa schifo. E Di Maio dopo averci insultato per anni con quale faccia ci chiede ora i voti per il suo governo? Prima di votare il principe degli impresentabili noi andiamo all’opposizione» Renzi alla vigilia del voto appare realista se non pessimista: «Il Pd non farà un grande risultato», dice il segretario agli amici. Ma poi aggiunge, con un sorriso: «Comunque vada dovranno passare per il Pd. Per fare qualsiasi governo, per fare qualsiasi cosa dovranno rivolgersi a noi. Sia Di Maio che Berlusconi». A meno che...». A meno che «non facciano un governo grillini - Lega. In questo caso l’Italia sarà affidata agli apprendisti stregoni dei 5 stelle e del Carroccio». E’ una prospettiva, questa, che preoccupa Renzi: «Il sorpasso della Lega su Forza Italia è possibile», ammette il segretario del Partito democratico. Renzi punta ancora a fare del Pd il primo partito al Senato, mentre sembra dare per scontato che il Movimento 5 stelle sarà il primo alla Camera: «Se fosse così non sarebbe male - confida ai collaboratori - perché dovrebbero venire comunque a cercarmi, e alla fine, inevitabilmente, il Partito democratico sarebbe il baricentro di qualsiasi equilibrio politico». Ovviamente, sempre che i grillini nono ottengano un successone e e non aspirino a fare un governo con Matteo Salvini e Giorgia Meloni. «Sarebbe un danno per l’Italia, ma è sempre un’eventualità che anche Berlusconi teme», confessa un esponente del governo Gentiloni. «Ma forse - ironizza Renzi con i fedelissimi - Gigino si accontenterebbe di fare il presidente della Camera». Quindi il segretario del Pd aggiunge, sempre rivolto ai suoi in questo venerdì di passione e di attesa: «E su questo potrebbe trovare anche delle sponde dal Quirinale. Del resto in questa vicenda del suo ridicolo governo le ha già avute in qualche modo». Dunque Renzi sta già preparando le possibili contromosse rispetto a una eventuale vittoria grillina alle elezioni di domani. Eppure il clima dentro il Partito democratico non sembra dei migliori. Ieri non c’è stata nessuna manifestazione di chiusura unitaria. Niente palco per la squadra del Pd e men che meno per i leader della coalizione di centrosinistra. Ognuno ha chiuso la campagna elettorale per conto suo. Renzi nella sua Firenze. Gli altri nei loro collegi. E a Roma non c’è stato nessun evento conclusivo, nessun finale con i fuochi d’artificio, come si usa in questi casi, sebbene i Cinque stelle abbiano chiuso nella Capitale la loro campagna elettorale. Eppure a Roma, nel collegio Roma uno, si presenta il presidente del Consiglio. Ma il Pd capitolino, che pure aveva prenotato una piazza a Trastevere, ha preferito cambiare rotta e organizzare una mobilitazione con gazebo e circoli aperti nella speranza di sollecitare gli indecisi. Gentiloni ha perciò preferito chiudere la sua campagna in un centro anziani all’Esquilino: «Speriamo di avere l’occasione, per me e per il Pd, di andare avanti», ha detto il presidente del Consiglio, che è ancora in testa a tutti i sondaggi di popolarità e che ha appena ricevuto la “benedizione” dell’Economist, che lo ha definito il miglior premier possibile per l’Italia. 2 marzo 2018 (modifica il 3 marzo 2018 | 16:11) © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/elezioni-2018/notizie/renzi-chiunque-dovra-passare-pd-elezioni-2018-pd-204345f8-1e5b-11e8-af9a-2daa4c2d1bbb.shtml Titolo: Maria Teresa MELI Renzi, ecco la lettera di dimissioni ... Inserito da: Arlecchino - Marzo 09, 2018, 05:34:26 pm Renzi, ecco la lettera di dimissioni
La guida del partito va a Martina La lettera nelle mani di Orfini: «Le mie dimissioni sono esecutive, sono già fuori senza scontri e polemiche, con grande serenità» Di Maria Teresa Meli La lettera di addio di Renzi è datata 5 marzo. L’ha in mano Orfini, a cui il segretario l’ha consegnata quello stesso giorno perché venga ufficializzata lunedì prossimo in Direzione. Non ci sono ambiguità: «Le mie dimissioni sono esecutive, sono già fuori senza scontri e polemiche, con grande serenità», ha spiegato Renzi ai colleghi di partito. La delegazione E in quella missiva l’ex premier chiede di «convocare l’Assemblea nazionale». Non ci sarà nessun reggente fino ad allora. Il partito sarà guidato dal vice segretario Martina. E saranno loro a formare, con i capigruppo, la delegazione che andrà al Quirinale per le consultazioni. Poi a metà aprile, l’Assembla nazionale deciderà se eleggere un segretario lì, senza primarie, o fare un congresso vero e proprio. Renzi preferirebbe la seconda ipotesi, è ovvio, ma non si impunterà sulla prima, che, al momento, gli pare la più probabile. Guarda anzi con un certo distacco alla pletora di possibili candidati: Martina, Chiamparino, Calenda, Zingaretti. Chissà, forse ce ne sarà anche uno renziano, ma il nome è ancora coperto. Il bilancio Non c’è rancore in questo addio, forse un po’ di amarezza. Renziano d’alto rango Ieri Renzi era a Firenze, a palazzo Vecchio, prima, da Nardella, e poi a fare scuola guida al figlio con il motorino. Ai suoi ha raccomandato di evitare scontri e conflitti. Intende andarsene con serenità, anche se lo accusano di voler preparare il terreno per un partito tutto suo e individuano nell’associazione che ha detto di voler fare il germe di questo nuovo soggetto. La serenità è dovuta anche al fatto che la linea che lunedì verrà certificata in Direzione è la sua: niente governo con i grillini o con la destra. È quello su cui ha insistito sin dopo le elezioni: facciamo esporre la Lega e i 5 Stelle, non possiamo essere noi il partito delle poltrone. Racconta un renziano d’altro rango. «Anche se Franceschini smentisce, noi sappiamo che aveva parlato con i grillini e voleva un accordo con loro. Pure Gentiloni era su questa linea. Senza parlare di Zanda, lui che ha cassato la legge anti-vitalizi ora vuole fare l’intesa». Un’intesa pressoché impossibile, alla Camera, per una banale questione di numeri: per avere la maggioranza un governo del genere dovrebbe ottenere il voto di più del 90 per cento del gruppo pd. Peccato, però, che metà di quel gruppo sia composto da renziani. E l’intesa con i grillini è stata al centro di un diverbio, a margine dell’ultimo Consiglio dei ministri, tra Lotti e Franceschini: vediamo se nei gruppi hai i numeri per fare un accordo con loro, è stato l’avvertimento del ministro dello Sport. Che sarà il vero regista dei renziani, ora che il leader ha fatto un passo di lato. I maggiorenti Ma comunque gli altri maggiorenti del Pd dovranno scendere a patti con il segretario uscente. Al Senato, visti i numeri, verrà eletto un suo pasdaran. Alla Camera si troverà un nome di mediazione e non quello di Maria Elena Boschi, come si era vociferato, perché la sottosegretaria si è sfilata da qualsiasi incarico. Le truppe renziane in Parlamento non faranno sconti e si muoveranno compatte. Per l’elezione dei presidenti delle Camere, ma anche quando si affronterà la questione del governo. «Pensano di aver fatto fuori Renzi, ma sottovalutano che ci sono comunque i renziani», avverte un deputato. 7 marzo 2018 (modifica il 8 marzo 2018 | 09:21) © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/politica/18_marzo_07/pd-orfini-renzi-si-dimesso-formalmente-lunedi-martina-apre-direzione-1af1ce6e-2241-11e8-a665-a35373fafb97.shtml Titolo: Maria Teresa MELI Gentiloni, Prodi, Veltroni e l’accordo per Calenda alla ... Inserito da: Arlecchino - Marzo 09, 2018, 06:33:24 pm Gentiloni, Prodi, Veltroni e l’accordo per Calenda alla guida del (nuovo) Pd
Santagata: «È una buona risorsa per il partito». Renzi e l’ipotesi di Delrio segretario Di Maria Teresa Meli I «padri nobili» del Pd, a quanto pare, hanno deciso. Gentiloni, che ne è stato il primo sponsor, Prodi e Veltroni, dopo una serie di consultazioni informali, ritengono che l’uomo adatto a guidare il Pd sia Carlo Calenda. Con un avvertimento da parte del Professore: che non sembri una candidatura dall’alto. Il che potrebbe significare passare per un congresso vero con le primarie. L’ex braccio destro di Prodi, Giulio Santagata, per la cui lista il Professore si è speso in campagna elettorale, spiega a un amico: «Calenda è una persona di qualità, una buona risorsa per rifare il Pd». Il ministro dello Sviluppo economico si è sempre schermito dalle domande dei giornalisti a questo riguardo: «È Gentiloni il leader», ha detto quando ha annunciato che avrebbe preso la tessera del Partito democratico. Ma anche quella decisione di iscriversi al Pd l’ha definita con il presidente del Consiglio. E non fa mistero di questa intesa con l’inquilino di palazzo Chigi: «Ogni mia mossa — ha spiegato a qualche amico — è concordata con Paolo». Calenda, che lunedì sarà al Nazareno per la Direzione, nelle intenzioni dei promotori di questa soluzione potrebbe essere un Renzi più di sinistra. Lui stesso si è definito di recente «un socialdemocratico». E i giri che Calenda sta facendo in questo periodo nelle fabbriche da salvare gli stanno procurando una certa popolarità a sinistra. Non solo, con la sua linea, il suo dinamismo e il suo modo di fare, il ministro dello Sviluppo economico, potrebbe togliere acqua al mulino dei renziani ortodossi, che promettono battaglia dentro il partito. I renziani delusi, invece, hanno già manifestato tutto il loro entusiasmo per la decisione del ministro di prendere la tessera del partito. «Preparo subito un comitato d’accoglienza per Calenda», ha esclamato Matteo Richetti alla notizia. L’accordo è riservato e ne sono a conoscenza in pochi perché non si sa ancora quale sia la reazione di tutto il Pd di fronte a questa ipotesi. L’unica, secondo i promotori di questa operazione, che «potrebbe consentire un rilancio del Pd dopo la brutta sconfitta del 4 marzo». Già, perché Calenda ha dalla sua anche il fatto di essere relativamente giovane. L’operazione però per andare in porto ha bisogno del coinvolgimento di altri soggetti: Dario Franceschini in primis, che in questa fase appare particolarmente schivo e prudente. Ma dopo qualche contatto con lui, gli sponsor di Calenda sembrano ottimisti. E poi viene la parte più difficile. Cioè quella di convincere Renzi. Il segretario dimissionario continua a dire che lui si vuole «tenere fuori da tutto». E per dimostrare quanto ciò sia vero non solo ha smentito di voler fare un partito in proprio ma ha anche fatto sapere che per ora non procederà più nemmeno con l’associazione a cui pure aveva pensato subito dopo le dimissioni. Però, anche se si considera fuori da tutti i giochi, la sua presa su una parte del Pd è notevole. Il timore è che Renzi possa decidere alla fine di giocare un’altra partita, appoggiando Graziano Delrio. Il ministro delle Infrastrutture ha con sé un pezzo importante del Pd (un nome per tutti, Lorenzo Guerini), oltre a essere in ottimi rapporti con il Quirinale. Una soluzione di compromesso potrebbe essere quella di affidargli il ruolo di segretario-traghettatore all’Assemblea nazionale, per poi andare, nel 2019 e non nel 2021 (data di scadenza di quel mandato) al Congresso con Calenda. 8 marzo 2018 | 23:48 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://roma.corriere.it/notizie/politica/18_marzo_08/gentiloni-prodi-veltroni-l-accordo-calenda-guida-nuovo-pd-09f9a026-2310-11e8-a740-dc76cebf8197.shtml Titolo: Maria Teresa MELI RIFONDAZIONE COMUNISTA: «uno schiaffone a Veltroni» Inserito da: Arlecchino - Aprile 16, 2018, 12:22:03 pm RIFONDAZIONE COMUNISTA: «uno schiaffone a Veltroni»
Sicurezza: l'assedio al leader del Pd Mastella: «L'errore? Sapevo e ho taciuto». Cdl: «Qualcuno vuole minare il comando di Veltroni» ROMA - «È uno schiaffone a Walter»: Antonello Falomi, deputato di Rifondazione, esce dall'aula della Camera e riassume a modo suo la giornata. Il capogruppo del Prc, Gennaro Migliore, chiosa e precisa: «Non c'è un complotto contro Veltroni, ma questo decreto non andava bene, quindi se decade è meglio». In una Camera sovraeccitata ognuno respinge la paternità di quel provvedimento che non vedrà mai la luce: tutti la accollano al sindaco di Roma. Mastella, che ha messo comunque il suo nome sul provvedimento, spiega: «Se il decreto cade non è un problema, il problema è tener su questo governo che non è un granché ma che comunque fa meno schifo della sua maggioranza». Il ministro dell'Interno Amato, che pure aveva minacciato le dimissioni nel caso in cui il decreto venisse affondato, ricorda ai collaboratori che il suo progetto iniziale sulla sicurezza era «un disegno di legge e non un decreto». Tutto in carico a Veltroni. Soprattutto dopo che dal Quirinale Napolitano fa sapere che non gradisce affatto le notizie date dal governo ai giornali: lui quel decreto non lo firmerà, neanche di fronte a una promessa di futura modifica. E la posizione del Colle dà una definitiva svolta a una giornata caotica. Perché ancora nel pomeriggio Mastella dichiarava: «Andrà a finire che il decreto passa e che il capo dello Stato non lo firma». Niente affatto: Napolitano non ha intenzione alcuna di accollarsi errori altrui. Come quel contenuto nella norma sull'omofobia che Jole Santelli, deputata di Forza Italia e membro della commissione Giustizia, spiega così: «Il casino lo hanno fatto Cesare Salvi e il suo staff al Senato». Veramente? Mastella non svela il colpevole, ma osserva: «Uno dei responsabili del mio ufficio legale mi aveva già spiegato, quando il decreto era in Senato, che quell'emendamento sull'omofobia era sbagliato, ma io non ho detto niente...». Veltroni, però, non vuole fare la parte della vittima sacrificale, soprattutto da quando che ha capito che nel Pd qualcuno sta mettendo in gioco la sua leadership. «Ho chiesto - spiega ai suoi - quel decreto perché la gente lo vuole, dopodiché non sono stato certo io a scriverlo in maniera errata e fare pasticci». Come a dire: io non c'entro nulla, se manca una regia politica e il Parlamento inciampa e sbaglia, non è certo colpa mia. E Peppino Caldarola la dice più diretta: «L'unico errore è stato quello di affidare la gestione di questo problema alle mani poco abili del governo». Mentre Roberta Pinotti parla alla Cdl perché il Pd intenda: «L'opposizione sta cercando di minare la leadership di Walter con questa storia». È l'ennesimo braccio di ferro tra Veltroni e i maggiorenti del Pd, Prodi in testa. Il sindaco di Venezia Massimo Cacciari, che si trova a passare per la Camera, sembra un marziano. È basito per quel che è accaduto e apostrofa così il socialista Roberto Villetti: «Ma quand'è che sciogliete questo Parlamento?». Su una poltrona del Transatlantico Ciriaco De Mita alza gli occhi al cielo e sospira. «Questo governo porterà il Paese alla rovina». Maria Teresa Meli 19 dicembre 2007 da corriere.it |