LA-U dell'OLIVO

Forum Pubblico => GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. => Discussione aperta da: Admin - Novembre 03, 2008, 11:00:30 am



Titolo: FRANCESCO LA LICATA. -
Inserito da: Admin - Novembre 03, 2008, 11:00:30 am
3/11/2008
 
Quando i boss uccidono i ragazzini
  
 
FRANCESCO LA LICATA
 


L’educazione mafiosa si regge sulla certezza della pena, sulla ineluttabilità della punizione. Grandi, piccoli, anziani, donne e bambini: nessuno sfugge al contrappasso pedagogico riservato a tutti quelli che sbagliano. L’educazione mafiosa non ammette remore, non è previsto il rifugio nella clemenza nel caso si debba impartire l’esempio ai più piccoli e, dunque, ai più indifesi. Non esiste ipocrisia più frequentata, nel mondo delle mafie, non v’è regola più disattesa di quella che dovrebbe proteggere donne e bambini dalla violenza degli uomini adulti. Secondigliano o la periferia palermitana di Brancaccio o San Lorenzo, i Quartieri spagnoli piuttosto che i paesini arroccati dentro la ‘ndrangheta calabrese: non fa differenza, non c’è latitudine che tenga distante l’intransigenza dell’educazione mafiosa.

Dicono che a Secondigliano hanno sparato proprio sui «minori rimasti feriti», eufemismo che nasconde la consapevolezza di aver assistito a una spedizione punitiva, a colpi di pistola, contro ragazzini di 12 anni. E dicono pure che il commando armato fosse formato anch’esso da baby pistoleri. Già, la mafia baby, ultima evoluzione criminale di una realtà che da tempo ormai rotola verso il degrado più inaccettabile. Ma dove sono più i bambini? Se lo chiedeva pure il boss Giovanni Brusca, oggi collaboratore di giustizia, mentre teneva prigioniero il piccolo Giuseppe Di Matteo. Lo accudiva, gli faceva avere le riviste sui cavalli e contemporaneamente lo torturava inculcandogli l’odio verso il padre pentito che non ritrattava e quindi l’esponeva alla rappresaglia. Fino alla decisione di farlo strangolare e squagliare nell’acido, proprio come un adulto. Giuseppe era stato preso a 12 anni, Brusca lo descriverà come un pericolo «perchè era già abbastanza cresciuto» e gli si leggeva negli occhi una determinazione degna di un uomo fatto.

E’ piena di crudeltà la storia nera dei bambini di mafia. Ci fu un momento che a Gela si combattè una guerra per bande. Le armi falcidiarono gli adulti e, a sorpresa, si capì che il comando di una delle famiglie della Stidda era stato preso per mano militare dalla piccola Manuela Azzarelli, orfana di una delle vittime. Manuela si faceva chiamare Bonnie, aveva imparato a essere fredda e violenta come il padre.

I bambini non si toccano, è la legge antica della mafia. E invece li hanno sempre toccati e duramente. Era l’inverno 1960 quando sotto un albero di mandarini nella campagna palermitana fu trovato il cadavere di Paolino Riccobono: una fucilata in petto per avvertire il padre e i fratelli che era ripresa la faida coi Cracolici. E aveva soltanto 13 anni il pastorello Giuseppe Letizia, ucciso con un’iniezione dal medico capomafia di Corleone Michele Navarra. Che aveva fatto Giuseppe? Niente, aveva visto gli uomini di Luciano Liggio gettare in un crepaccio il corpo del sindacalista Placido Rizzotto.

Morì a 12 anni anche il piccolo Claudio Domino. Un colpo di pistola in fronte, uno solo, sparato da un killer professionista. Era la sera del 7 ottobre 1986. Cosa nostra, in quel momento alla sbarra dentro le gabbie del maxiprocesso, fu duramente attaccata per quello sfregio alle regole. Divenne un problema politico per la mafia, quel bimbo assassinato. La cupola dovette intervenire per respingere la paternità dell’omicidio e, per la prima volta nella sua storia, Cosa nostra lesse un comunicato in un’aula di giustizia. Poi fece trovare il killer: ucciso da una overdose procurata. Ecco, omicidio pedagogico.
 
da lastampa.it


Titolo: FRANCESCO LA LICATA. L'ultimo picciotto tra verità e depistaggi
Inserito da: Admin - Gennaio 08, 2009, 12:16:32 am
7/1/2009 (8:21) - PERSONAGGIO

L'ultimo picciotto tra verità e depistaggi
 
Il sanguinario quadro di Cosa Nostra

FRANCESCO LA LICATA
PALERMO


Tre fermi-immagine, tratte dal terrificante film della mattanza mafiosa siciliana, possono fornire una nitida descrizione di Gaspare Spatuzza, 44 anni, il nuovo pentito che scompagina le verità consacrate della strage Borsellino. La prima risale al 23 novembre del 1993, quando l’allora picciotto di Brancaccio si presenta insieme con altri - vestiti da carabinieri - al maneggio di Altofonte e preleva il piccolo Giuseppe Di Matteo, dicendogli che ha il compito di accompagnarlo dal padre (pentito) in un luogo segreto. Il bambino, aveva 13 anni, non vedrà più nè il padre nè nessuno. Morirà strangolato dopo 27 mesi di prigionia. La seconda immagine è datata 15 settembre dello stesso anno e descrive Gaspare Spatuzza che si abbassa sul corpo di don Pino Puglisi, appena raggiunto dal piombo del killer Salvatore Grigoli, prende il borsello del prete e si appropria delle marche della patente. La terza scena non ha ancora una data perchè i magistrati stanno lavorando per trovare il riscontro a quanto raccontato dallo stesso Spatuzza. Ma non è meno cruenta delle precedenti: descrive l’uomo che penetra nell’appartamento occupato da due studentesse universitarie fuorisede a Palermo.

Immobilizza la prima e la lega ad una sedia, poi si avventa sull’altra, la vittima designata, e le inietta una medicina. Perchè Spatuzza, detto ‘u tignusu (il calvo), fa questo? Ecco la sua risposta: era incinta di un boss di Brancaccio con cui aveva una relazione clandestina. Lui, il capo, che era sposato e padre di figli, le aveva proposto di abortire ma la ragazza si era rifiutata. «E allora ci abbiamo pensato noi, grazie anche ad un medico amico che ci ha fornito tre fiale di non so che medicina». Questo è Gaspare Spatuzza. Anzi, forse sarebbe più esatto dire «era», a giudicare almeno dal «manifesto» del suo pentimento: una lettera inviata al Vescovo e alla «Santa Chiesa». Una crisi maturata in undici anni di carcere ed esplosa, anche contro le pressioni contrarie della moglie e del figlio, nel desiderio di raccontare tutto e nella richiesta di incontrare il procuratore Piero Grasso. Ma una volta conosciute le colpe che si è addossato, specialmente la storia del furto della Fiat 126 usata per l’attentato al giudice Borsellino, l’ambiente giudiziario siciliano sembra essersi diviso circa l’affidabilità, ma soprattuto sull’utilità, del nuovo pentito. Una parte dei magistrati sospetta che Spatuzza possa essere una sorta di «virus» mandato per minare la «certezza» dei processi ormai passati al vaglio della Cassazione. La sua versione della fase preparatoria della strage, riflettono i pm, sostanzialmente non sposta molto del quadro generale ma attribuisce a se stesso ciò che la sentenza invece ha definitivamente attribuito all’altro pentito, quel Vincenzo Scarantino che nel 1994 raccontò come fu organizzato il furto dell’auto.

Il racconto di Spatuzza, oggi, cambia il soggetto principale, non più Scarantino ma il nuovo pentito, lasciando pressocchè immutato lo sfondo, con le responsabilità anche della mafia di Brancaccio. La storia di Gaspare Spatuzza non sembra poter far sperare in un «salto di qualità» circa la scoperta dei cosiddetti mandanti occulti della strage Borsellino. Il mafioso è stato un killer sanguinario, il preferito dei fratelli Graviano, ma non pare abbia avuto contatti di vertice. Fu affiliato solo nel 1996, a 33 anni, in un momento di crisi di Cosa nostra, tanto che appena affiliato fu nominato capomandamento per far fronte alla penuria di «quadri» a Brancaccio, un quartiere falcidiato dalla repressione investigativa. E questo è un altro aspetto che rende ancora più incerta la sua sorte: nel calcolo tra costi e ricavi, il bilancio potrebbe sembrare in disavanzo. Dalla sua parte c’è la credibilità e una sorta di riconoscimento generale della sua buonafede. Gaspare Spatuzza non chiede protezione, non vuole soldi nè sconti di pena. Anzi desidera rimanere in carcere perchè, dice, è il solo modo per espiare la pena per tutto il dolore che ha arrecato ai familiari delle sue vittime. Ha raccontato decine di omicidi che neppure ricorda nei particolari, tanti ne ha compiuti. Ed è un riscontro importante per quanto finora appurato anche sulle stragi del 1993 a Roma, Firenze e Milano. Spatuzza è stato tra i preparatori dell’attentato (per fortuna fallito) allo stadio Olimpico, a Roma.

Un’auto al tritolo doveva fare strage di carabinieri. Qualcosa (il telecomando, forse) non funzionò e poi, mentre si cercava di ripetere l’operazione, l’ordine fu improvvisamente revocato: «Si torna a Palermo». Su questo nodo aveva indagato a lungo il giudice Gabriele Chelazzi (scomparso nel 2003). E lo stesso Spatuzza, non potendo collaborare ufficialmente, aveva accettato di offrire informalmente al magistrato il patrimonio delle proprie conoscenze.
Anche questo capitolo dovrà essere esplorato meglio: i temi del colloquio sostenuto col procuratore Grasso, infatti, sono già a conoscenza delle procure di Palermo, Caltanissetta, Roma, Milano e Firenze.

DA lastampa.it


Titolo: FRANCESCO LA LICATA Il ricatto del quieto vivere
Inserito da: Admin - Marzo 16, 2009, 10:08:14 am
16/3/2009
 
I parenti scomodi del giudice
 

FRANCESCO LA LICATA
 
Le cosiddette «parentele scomode» del Procuratore della Repubblica di Palermo, Francesco Messineo, tornano d’attualità nel dibattito che riprende oggi al Consiglio superiore della magistratura. L’organo di autogoverno dei giudici dovrà prendere in considerazione una copiosa documentazione che riguarda il passato, ma anche il recentissimo presente, del fratello della moglie del dott. Messineo, più volte - negli ultimi trent’anni - entrato come sospettato in svariate indagini di mafia, senza mai riportare condanne o giudizi definitivi.

Sergio Maria Sacco, questo il nome del «parente scomodo», dopo numerose peripezie è finito nuovamente in un rapporto dei carabinieri inviato alla Procura della Repubblica l’11 dicembre del 2008 e per questo si è ancora ritrovato oggetto dell’interesse di alcuni giornali che hanno pubblicato la notizia. Da qui parte l’accertamento della prima Commissione del Csm, che si occupa di dirimere le questioni di incompatibilità ambientale dei magistrati. Vedremo come si svolgerà e a quali conclusioni giungerà l’istruttoria del Consiglio.

Una premessa, comunque, sembra d’obbligo. La ricerca dei giudici non è certamente rivolta all’accertamento di comportamenti sconvenienti o censurabili del Procuratore Messineo, sulla cui condotta non sembrano esserci obiezioni di sorta. È l’atteggiamento complessivo dell’Istituzione che regola il buon funzionamento della magistratura, semmai, a suscitare qualche perplessità. La prima parte del dibattito al Csm, infatti, sembra essersi sterilmente arenata su un falso problema: è indagato il cognato del Procuratore? No, quindi è tutto a posto.

Per il passato, inoltre, cioè per le vicende meno recenti ma forse ancor più gravi, le archiviazioni hanno fatto sì che non si frapponessero ostacoli alla nomina del dott. Messineo, avvenuta nel 2006. Di questo tenore sono stati un comunicato di solidarietà dei sostituti procuratori di Palermo («fatti datati» e sepolti), l’audizione del Procuratore generale Luigi Croce («massima stima a Messineo») ed alcuni commenti di solerti fiancheggiatori, in altre occasioni rivelatisi molto più intransigenti nel censurare parentele o semplici contatti tra indagati e soggetti sospettati di mafia. Ma non è esattamente questo, a nostro parere, il cuore del problema.

La risposta che i cittadini si aspettano non riguarda l’accertamento di una responsabilità penale del sig. Sacco, che - tuttavia - andrebbe fermamente ricercata, ma la certezza che un ruolo così importante e delicato come quello ricoperto dal dott. Messineo in nessun modo possa essere ostaggio di maldicenze e chiacchiericcio malizioso. Gli stessi sostituti palermitani sanno ed hanno più volte, giustamente, sottolineato come Palermo sia una città che vive di segnali. Ecco, sarebbe un buon segnale la presenza del nome del cognato del Procuratore - qualunque fosse l’esito di un eventuale processo - in un rapporto, dei carabinieri non di un giornale, che lo indica come contiguo al clan mafioso dei Colli? È appena il caso, forse, di ricorare qualche precedente. Senza scomodare le clamorose dimissioni di Antonio Di Pietro (per un’accusa finita in assoluzione), basterebbe citare il «processo per incompatibilità» al Csm a suo tempo subìto da Giuseppe Ayala «colpevole» di una scopertura con la principale banca della città. Francamente non appare meno grave la lista di sospetti che ha interessato il cognato del Procuratore: dal traffico della droga a qualche omicidio, compreso un arresto nell’ambito delle indagini sull’assassinio del capitano dei carabinieri Emanuele Basile. E inviterebbe ad ulteriore riflessione il fatto che anche il fratello del dott. Messineo sia attualmente sotto processo, in attesa di sentenza, per truffa aggravata. Forse è un po’ troppo, anche a fronte del cristallino comportamento del Procuratore.

 
da lastampa.it


Titolo: FRANCESCO LA LICATA Il ricatto del quieto vivere
Inserito da: Admin - Dicembre 12, 2009, 03:31:39 pm
12/12/2009 (7:35)  - UNO SHOW STUDIATO PER I MEDIA

Una sceneggiata dove niente è come appare

Messaggi da vero boss dietro le dichiarazioni ufficiali

FRANCESCO LA LICATA
PALERMO


Il copione è stato rispettato. Ogni attore ha recitato bene la propria parte. Tanto che tutti - protagonisti e comparse - adesso sono nelle condizioni di potersi dichiarare soddisfatti.

L’imputato, Marcello Dell’Utri, esce dall’aula della Corte d’Appello esibendo come trofeo vittorioso Filippo Graviano che scandisce: «Non conosco il senatore». Lo stesso boss di Brancaccio può vantare di aver, finalmente, spiegato la propria posizione di mafioso non pentito che da qualche tempo ha preso le distanze dal suo passato senza, per questo, fare il salto verso la collaborazione. Ed anche il fratello, Giuseppe, può dire di aver raggiunto l’obiettivo di «mettere in chiaro» che ciò che gli sta più a cuore è di risolvere il problema della sua condizione di detenuto ad un «41 bis» duro, durissimo, tanto duro da costringerlo in condizioni di salute così precarie da «non consentirgli di sopportare un interrogatorio».

E per questo motivo, abbondantemente spiegato in una lettera alla Corte (che il Presidente non ha voluto leggere in aula), «per il momento» si avvale della facoltà di non rispondere. Ma, ha ripetuto più volte, «per il momento». Esattamente come aveva fatto coi magistrati che erano andati a sentirlo in carcere. Com’era ampiamente preventivato, dunque, non c’è stato il colpo di scena. Non c’è stata conferma alle dichiarazioni di Gaspare Spatuzza che coinvolgono Dell’Utri e il Presidente del Consiglio nel groviglio istituzionale delle indagini sulle stragi e sulla cosiddetta «trattativa». Ma davvero qualcuno pensava che i Graviano, mafiosi ancora saldamente ancorati alla loro «ideologia», si sarebbero consegnati alla magistratra, così, nel corso di un processo pubblico, senza nessun accordo preventivo e senza un «contratto»?

Che Filippo avrebbe proseguito nella sua «riflessione» (giudiziariamente innocua) era quasi scontato. Perché il maggiore dei Graviano, questo «percorso di ricerca del bene e della legalità», dice di inseguirlo da almeno dieci anni. Da quando «inviai una lettera alla Procura di Palermo, esternando queste mie convinzioni». Nessuno «ha mai risposto». Il boss non sa esplicitare bene in che cosa consista questo «percorso». Se deve esemplificare racconta dell’aiuto offerto ad altri detenuti per esempio «nella spiegazione della matematica che è una mia passione», oppure del «rapporto corretto nei confronti degli agenti di custodia».

Eppure la sua «storia recente» offre qualche spunto di revisione che restituisce un uomo diverso, rispetto al clichè del boss ricco e crudele. Filippo e Giuseppe sono divenuti padri (chi dice per inseminazione in provetta, chi per contatto diretto con le mogli durante la celebrazione di un processo in Calabria) mentre erano già detenuti. La volontà del fratello grande era che il figlio nascesse lontano dalla Sicila e rimanesse distante da Palermo per sottrarlo all’ambiente mafioso. Ciò non si è verificato e Filippo ne attribuisce - così si intuisce dalle sue stesse dichiarazioni - parte di responsabilità alla moglie che è tornata a vivere a Palermo. Un attrito tanto importante da aver seriamento compromesso il legame matrimoniale. Diverso l’atteggiamento di Giuseppe, che non sembra aver battuto ciglio rispetto al «ritorno a casa» della propria moglie e del figlioletto coetaneo del cugino.

Se si dovesse proprio descrivere, rispettando i canoni mafiosi, i diversi atteggiamenti dei fratelli, si dovrebbe concludere che Filippo è lontano dalla possibilità di una collaborazione coi magistrati perchè riconosce di aver «un passato da farsi perdonare» (l’appartenenza a Cosa nostra), ma rifiuta l’accusa di stragismo e di violenza omicida. E ieri, in qualche modo, ha sottolineato la sua «lontananza», spingendosi fino a dichiarare che «le mie decisioni non sono appannaggio né del sig. Spatuzza, né di mio fratello». Una presa di distanza netta.

Ecco, tra i due, forse, chi ha qualcosa da contrattare è Giuseppe che, abilmente, ieri ha introdotto anche uno dei temi cari ai «trattativisti» e cioè il 41 bis e il carcere duro, sospendendo ogni decisione a quando starà meglio fisicamente. Cioè quando avrà una condizione carceraria migliore. Com’è evidente tutto ciò poco ha a che fare con il destino del sen. Dell’Utri che non dipende né da Gaspare Spatuzza né dai Graviano, ma dall’esito negativo del primo grado. Nei processi di mafia, di solito, non si citano neppure le fonti dei collaboratori, «se si tratta di affiliati non pentiti», perchè - dice la giurispudenza - non potrebbero che negare. L’aspettativa era, dunque, prevalentemente mediatica.

da lastampa.it


Titolo: FRANCESCO LA LICATA Il ricatto del quieto vivere
Inserito da: Admin - Gennaio 04, 2010, 09:59:22 am
4/1/2010

Il ricatto del quieto vivere
   
FRANCESCO LA LICATA


La Procura Generale, nell’ambito di un distretto giudiziario, è l’ufficio della più alta carica dei magistrati che esercitano la pubblica accusa.

Chi ha messo, dunque, la bomba a Reggio Calabria ha inteso colpire l’ufficio giudiziario più importante del capoluogo della Calabria.
Il particolare non è irrilevante, visto che l’esplosivo mafioso - a giudizio dei più - voleva essere più che altro un messaggio alla controparte della 'ndrangheta. È scontato, infatti, che i mandanti dei due motociclisti con casco integrale non avevano - per fortuna - alcuna intenzione di far male. No, volevano soltanto «comunicare», col linguaggio congeniale alle cosche, il proprio malcontento per come si sono messe le cose a Reggio Calabria e in provincia. Altrimenti non avrebbero scelto le prime ore di una domenica di festa, quando le strade sono ancora vuote e gli uffici deserti.

Già, ma come si sono messe le cose ultimamente per i signori del territorio? Non bene, a giudicare dal numero dei latitanti catturati, dei beni sequestrati e della quantità di cocaina sottratta ai narcotrafficanti. Non passa settimana senza che si registri un qualche successo delle forze dell’ordine e dei magistrati. E di recente ci si è messa pure la Procura generale riuscendo a ribaltare in Appello qualche sentenza che era stata generosa nel giudizio di primo grado. Insomma la Calabria sembra voler dare una svolta, rispetto alla tradizionale immagine di terra poco incline alla battaglia antimafia. C’è tutta una letteratura che racconta le difficoltà investigative insite in un microcosmo fortemente condizionato dall’ambiente.

Si è detto tante volte che la realtà calabrese, in qualche modo, rispecchia la condizione in cui versava la Sicilia alcuni decenni fa.
Ecco, sul tema della lotta alla mafia, forse questa considerazione non è proprio campata in aria. La 'ndrangheta ha potuto godere di maggiore libertà d’azione, un po’ grazie al suo stesso humus, un po’ per aver scelto strategie di «basso profilo» che l’hanno in parte sottratta ai riflettori della comunicazione.

Ma era così anche in Sicilia, prima delle stragi, prima di Falcone e Borsellino e della mattanza corleonese, quando una società attenta solo al proprio quieto vivere produceva strumenti di contrasto spuntati e poco efficaci. Un impasto di politica compiacente e di borghesia collusa depotenziava i palazzi della repressione giudiziaria, spesso fino a contaminarli. L’eccesso di violenza svelò l’inganno nascosto nella scelta dell’immobilismo prudente: ma la rivelazione non fu indolore, basta scorrere la lista delle vittime della violenza mafiosa.

Perciò non è consigliabile sottovalutare il messaggio lasciato davanti alla Procura generale di Reggio. Per ora i boss hanno scelto la comunicazione rumorosa ma non mortale. Per ora. Ma chi può garantire per il futuro? C’è una trappola già predisposta: se il «botto» di domenica, scelto secondo la tradizione minimalista tanto cara alla ’ndrangheta, provocherà una deviazione verso il «ragionevole quieto vivere», soprattutto nelle istituzioni, allora avranno vinto ancora loro.

da lastampa.it


Titolo: FRANCESCO LA LICATA Il confine tra il prima e il dopo
Inserito da: Admin - Giugno 30, 2010, 10:21:20 pm
30/6/2010

Il confine tra il prima e il dopo

FRANCESCO LA LICATA

Se Marcello Dell’Utri fosse un imputato come tutti gli altri, la sentenza di ieri della Corte d’Appello - sette anni per concorso esterno in associazione mafiosa - non lascerebbe spazio a tante interpretazioni lontane e contrastanti tra di loro. Il reato è chiaro, il responso dei giudici pure, visto che - in sostanza - conferma l’impianto accusatorio del primo grado con un piccolo «sconto» (due anni) che nei processi d’appello è quasi fisiologico.

Ma Dell’Utri non è un imputato comune: è un senatore della Repubblica e, soprattutto, è uno dei fondatori - insieme con Silvio Berlusconi - del partito che esprime il presidente del Consiglio. Ecco perché, dunque, la sentenza della Corte d’Appello di Palermo si è caricata di significati particolari, di aspettative che vanno oltre la normale dialettica giudiziaria, fino a consentire ai diversi schieramenti reazioni addirittura opposte. Fino a far dire allo stesso imputato che i sette anni inflittigli sarebbero addirittura «un contentino» alla Procura di Palermo.

In cambio dello smantellamento del teorema accusatorio che vorrebbe legare la genesi del concorso tra la mafia e Dell’Utri alla nascita di Forza Italia, come conseguenza quasi diretta della precedente «collaborazione» sul piano imprenditoriale, vale a dire la storia da «Milano 2» alla Fininvest.

E così, come avviene da anni nelle vicende di mafia e politica, ciascuno offre una propria versione, una propria lettura, sempre rimandando alla conoscenza delle motivazioni (fra tre mesi, nella migliore delle ipotesi) una valutazione più approfondita. In un clima del genere, dunque, nessuna sorpresa se si fa strada la suggestione di una analogia tra le vicende Dell’Utri e Andreotti. Ma forse si tratta proprio di una suggestione: nel caso del sette volte presidente del Consiglio, infatti, c’era il punto fermo dell’assoluzione e della prescrizione che chiudevano sostanzialmente la vicenda in modo definitivo. Su Dell’Utri, invece, sembra aver prevalso un atteggiamento della Corte che dà ragione all’ipotesi accusatoria di primo grado, ma per le vicende che precedono il 1992. Secondo i giudici, cioè, esisterebbero prove sufficienti dei contatti fra Dell’Utri e la mafia per il periodo che precede la sua discesa in politica e la successiva stagione stragista ordita da Cosa nostra. Per il resto, non bastano le prove raccolte. Né le rivelazione di Ciancimino, né quelle di Gaspare Spatuzza, fino a questo momento, sembrano avere la forza di offrire la prova regina. Appare lontana, tuttavia, l’ipotesi che possa intervenire una prescrizione a sanare l’intera vicenda: a conti fatti sembra che manchino circa quattro anni al limite previsto dalla legge e un eventuale ricorso in Cassazione potrebbe concludersi nel giro di un anno.

Ma forse è possibile cogliere un’analogia col processo Andreotti e riguarda una certo contrasto interno al collegio giudicante, desumibile dall’assenza di uno sguardo unico e condiviso. La separazione dei fatti tra un «prima» e un «dopo», il 1982 per Andreotti, il 1992 per Dell’Utri, in genere, è sintomo di diverse vedute fra giudici. Non a caso uno dei legali del senatore siciliano ha parlato apertamente della possibilità di una «spaccatura» fra Presidente e giudice relatore e di «divisione», dopo questa sentenza, tra i destini di Silvio Berlusconi e di Marcello Dell’Utri. Un giudizio inespresso aggiunge che in questa divaricazione dei destini è sottinteso che, per «ragion politica», si possa ricorrere al sacrificio del più debole in difesa dell’istituzione superiore. Cosa accadrà adesso? Difficilmente si allenteranno le difese corporative e assisteremo al consolidato ruolo delle parti. Si dimetterà Dell’Utri, com’è avvenuto per il governatore Cuffaro? Non sembra probabile, visto che lo stesso senatore azzurro ha ammesso più d’una volta di essere sceso in politica, che pare non piacergli, per avere uno scudo che lo difenda dalle «aggressioni della magistratura».

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7537&ID_sezione=&sezione=


Titolo: FRANCESCO LA LICATA Non solo mafia
Inserito da: Admin - Agosto 27, 2010, 09:01:17 pm
27/8/2010

Non solo mafia
   
FRANCESCO LA LICATA


Il processo di «sicilianizzazione» della mafia calabrese ha fatto registrare un altro picco con la bomba contro la casa del pg di Reggio Calabria Salvatore Di Landro.

E’ la seconda volta - la prima risale a gennaio e fu preso di mira l’edificio dove ha sede l’ufficio del magistrato - che la ’ndrangheta alza il tiro in direzione della più alta carica inquirente del capoluogo. Ed è, dunque, questo il motivo della preoccupazione che ha portato il comitato per la sicurezza a decidere opportunamente il rafforzamento del livello di scorta al giudice. Ma, tra il primo e il secondo attentato, Reggio è stata teatro di tutta una serie di avvenimenti, piccoli e grandi, che oggi suggeriscono ad autorevoli osservatori di scegliere, nell’analisi di quanto sta accadendo, una «lettura complessa». In questi termini si esprimono il procuratore nazionale Pietro Grasso e il procuratore di Reggio Calabria Giuseppe Pignatone, con ciò sottolineando la difficoltà di decifrare un movimento sotterraneo - ormai costante da mesi e spesso adoperato come contraccolpo all’azione repressiva dello Stato - che sta finendo per diventare una vera spina nel fianco dell’apparato investigativo.

Lo stesso Di Landro, prima del «botto» dell’altra notte, era stato vittima di un sabotaggio alla propria auto di servizio. Ma altri «avvertimenti» erano stati riservati allo stesso procuratore Pignatone (lettera con proiettili), a diversi investigatori e a qualche giornalista particolarmente attivo. Una guerra sorda e sotterranea, dunque, che induce a intravedere una mutazione del Dna della mafia calabrese, un tempo abbastanza riluttante nel ricorrere alle «maniere forti alla siciliana». Una guerra che il sostituto procuratore nazionale Enzo Macrì definisce - con suggestiva metafora - «sciame intimidatorio».

Ma perché questa metamorfosi di una mafia che tradizionalmente ha sempre preferito risolvere le questioni al proprio interno, nel territorio, facendo appello al tradizionale sistema del «quieto vivere» silenzioso che fa ingrassare senza far male a nessuno? La risposta forse va ricercata nelle mutate condizioni ambientali che, da qualche tempo, non riescono più a garantire il tranquillo scorrere di una pace sociale capace di contemperare le esigenze di forze economiche, imprenditoriali, politiche, in una parola lobbistiche fino all’illegalità (mafia e massoneria deviata).

Non è casuale, perciò, che lo stesso procuratore Di Landro indichi nell’inizio della sua nuova gestione il punto di crisi da dove arriva l’ondata di violenza. In sostanza: la musica è cambiata. Intanto per l’innesto di forze nuove, sia magistrati che investigatori, giunte dalla Sicilia dopo la stagione dei successi conclusasi con la cattura di Bernardo Provenzano. E poi per la svolta impressa agli uffici della Procura generale, con la gestione Di Landro che è servita a interrompere una tradizionale «benevolenza» in sede di processi d’appello. Svolta concretizzatasi anche in modo non proprio tranquillo, se si pensa all’intervento del Consiglio superiore (il trasferimento del giudice Francesco Neri), che ha messo a soqquadro il tradizionale «andazzo» improntato alla gestione consociativa dei processi (persino con gli avvocati delle difese).

Ecco perché gli osservatori più attenti, nel commentare l’attentato della scorsa notte, sottolineano come «in Calabria ciò che accade non ha solo un movente mafioso», nel senso che non è solo la ’ndrangheta a muovere i fili. C’è una situazione di condizionamento ambientale, di collusione diffusa che può benissimo indurre a scelte cruente anche la più placida delle borghesie mafiose. Una magistratura attenta e sorda ai richiami delle sirene dai colletti bianchi può dare molto fastidio. Come dimostra una delle ultime indagini - a parte le maxiretate tra Reggio e Milano che hanno messo in crisi il brodo di coltura del riciclaggio dei soldi sporchi - che ha portato in cella Giovanni Zumbo, uno stimato commercialista, nonché perito del palazzo di giustizia col «vizietto» di riferire ai boss, i Pelle, tutte le indagini che i carabinieri stavano svolgendo. Un commercialista un po’ particolare, in contatto con militari ben accetti anche negli uffici dei servizi di sicurezza.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7751&ID_sezione=&sezione=


Titolo: FRANCESCO LA LICATA. Così Don Vito faceva politica
Inserito da: Admin - Settembre 14, 2010, 05:43:05 pm
14/9/2010

Così Don Vito faceva politica

FRANCESCO LA LICATA

Con il materiale ora in possesso delle Procure di Palermo e Caltanissetta, prende forma il «quadro politico» che don Vito Ciancimino ha tenuto in piedi per anni - dai Settanta fino alla morte (2002) - attraversando praticamente la storia della Dc, prima, e tentando, poi, di entrare anche nella «Seconda Repubblica».

Per tutta la giornata di ieri, mattina a Palermo e pomeriggio a Caltanissetta, Massimo Ciancimino è stato sentito sui documenti recentemente acquisiti agli atti di indagini aperte da qualche tempo. Che cosa contengono quelle carte, in parte trovate nel corso della perquisizione ordinata dai magistrati di Caltanissetta, in parte consegnate dallo stesso Ciancimino?

C’è di tutto, là dentro: scritti autografi di don Vito, riflessioni politiche sul partito (la Dc) che si apprestava a «mollarlo» consegnandolo all’opinione pubblica come «unico capro espiatorio» del sistema politico-mafioso. Ci sono anche «pizzini» indirizzati a Bernardo Provenzano: corrispondenza interessante sul giro di soldi che fluttuava tra partiti e cosche.

E c’è lo sfogo politico di don Vito che, secondo un costume mai tramontato, denuncia di essere vittima di una macchinazione giudiziaria e lamenta «una differenza di trattamento», da parte della magistratura, fra le sue vicende ed altre storie, a suo dire, ignorate o sottovalutate perché riguardanti personaggi più importanti, come Marcello Dell’Utri e Silvio Berlusconi.

Fra la documentazione ritrovata in casa della sorella Luciana e in casa della madre, inoltre, è stato trovato un biglietto scritto a macchina e «commentato» a penna da don Vito. Si tratta di una sorta di rendiconto di soldi a lui pervenuti tra il 1979 e il 1983. È un documento davvero sorprendente perché, se fosse provato il contenuto, sarebbe accertato - per esempio - che prima ancora dei legami con Bettino Craxi - Berlusconi avrebbe intrattenuto rapporti con Giulio Andreotti, fino a sostenerlo finanziariamente. Ciò si evince dal flusso di denaro (20 milioni in contanti e 35 in assegni) che il «cavaliere» - allora soltanto imprenditore in ascesa - invia al «divo». Quei soldi, secondo le spiegazioni di Massimo, sarebbero serviti per «risarcire» il padre delle spese sostenute per il tesseramento della sua corrente in quel momento entrata in quella andreottiana.

Una bella storia, quella di Ciancimino che passa con Andreotti ma pretende un risarcimento per le spese di tesseramento, come stabiliva la mediazione sottoscritta da Salvo Lima, l’uomo di Andreotti in Sicilia. Ovviamente non si sa se questa versione sia quella vera; si sa - però - che a don Vito arrivarono soldi «girati» da finanziatori di Andreotti.

Secondo il «pizzino», oltre a Berlusconi, anche Ciarrapico e Caltagirone avrebbero offerto un lauto contributo. Ma è possibile immaginare un Ciancimino nella corrente del suo acerrimo nemico Andreotti? È lo stesso don Vito che racconta come andò, convinto dalle parole del capocorrente che prometteva l’«abbraccio mortale per i comunisti». E siccome il sindaco corleonese non si fidava di nessuno, conservò gelosamente gli assegni come prova dell’«inciucio» con Andreotti.

Così faceva politica, don Vito. E mentre trattava con amici di partito, teneva rapporti stretti con Provenzano. In un altro biglietto, anche questo consegnato, indica a don Binnu come spartire una certa somma a suo dire proveniente «da Berlusconi» non è chiaro a quale titolo. Ma il documento che i magistrati di Palermo analizzano con attenzione è uno «sfogo» di don Vito scritto a macchina e corredato di note autografe. Con la solita prosa astiosa, l’ex sindaco impreca contro giudici e investigatori per la «persecuzione giudiziaria» riservatagli.

Ma mentre impreca scrive di essere stato di grande aiuto a Dell’Utri e Berlusconi nell’impresa edilizia di Milano. Il riferimento va ancora alla Edilnord, a Milano 2, e alla presunta partecipazione economica di soldi mafiosi e di personaggi come i Buscemi e i Bonura.

Che cosa scrive don Vito? «Quello che Berlusconi ha fatto a Milano io ho fatto a Palermo. Ma a lui l’han fatto Cavaliere del lavoro, a me mi hanno arrestato».

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7827&ID_sezione=&sezione=


Titolo: FRANCESCO LA LICATA. - Mafia, le donne vittime nell'ombra
Inserito da: Admin - Ottobre 19, 2010, 11:53:41 am
19/10/2010

Mafia, le donne vittime nell'ombra

FRANCESCO LA LICATA

L’universo mafioso - si sa - pensa solo al maschile. Non c’è spazio per le donne, se non nelle vesti di vittime o protagoniste di immani tragedie e comunque personaggi dal destino segnato. Nessuna donna ha mai ricoperto il ruolo di capo e quando qualcuna si è imposta fino a sfiorare il vertice, ciò è avvenuto per necessità di sostituire un uomo momentaneamente assente. Ma anche le supplenze sono episodi sporadici. Più frequenti, invece, le storie tragiche, la violenza cieca esercitata su «deboli e indifese» che la stessa legge mafiosa vorrebbe ipocritamente destinate ad una «tutela assoluta».

Non si può dire che sia stato osservato il comandamento di rispettare le donne nel caso della vendetta trasversale riservata al pentito siciliano Francesco Marino Mannoia. Aveva da poco accettato di collaborare col giudice Giovanni Falcone quando, era l’ottobre del 1989, Cosa nostra uccise Leonarda, la madre, Vincenza, la sorella, e Lucia, la zia del neo collaboratore. Si salvò a stento Rita, la compagna che adesso vive con lui fuori dall’Italia. Era la prima volta che la mafia contravveniva alle proprie leggi, ma la posta in gioco era troppo alta per non tentare qualsiasi azzardo. Si trattava di bloccare sul nascere il fenomeno del pentitismo che già aveva mostrato tutta la sua pericolosità con le collaborazioni di Tommaso Buscetta e Salvatore Contorno.

Già, Buscetta. Anche questa storia è popolata di donne: tutte in qualche modo vittime del fascino del «mafioso buono». Era vittima Melchiorra Cavallaro, la madre dei suoi figli, relegata al ruolo di comparsa silenziosa. Ed anche la soubrette Vera Girotti, sua compagna nell’attraversamento della «bella vita», lusso e champagne, ma delusa dalla chiusura che il boss opponeva alla richiesta di una «vita più normale». Privilegio, questo, poi concesso da don Masino alla compagna della maturità: Cristina de Almeyda Guimares, donna colta e intelligente che, non a caso, non ha mai voluto prender posto dentro il baraccone mediatico che ha accompagnato l’ultino scorcio della vita del grande pentito.

Chissà, forse la stessa ansia di normalità avrà convinto Lena Garofalo a fidarsi del padre di sua figlia. Forse Lena inseguiva una sistemazione per il futuro di Denise, già stanca di fuggire - insieme con la madre - ai maschi di una famiglia che avevano già deciso di eliminare una testimone, Lena, della loro mafiosità. Imprudente, povera donna: mentre si illudeva che il padre di sua figlia si fosse rassegnato al «perdono», per lei colpevole di aver collaborato coi giudici, quello aveva già messo da parte l’acido per squagliarla. È incredibile come tante donne si rifiutino di vedere ciò che accade attorno a loro. Prendiamo Ninetta Bagarella, la moglie di Totò Riina. Ha sempre difeso il suo uomo, sin da quando, giovanissima, andò al Tribunale di Palermo per «spiegare» ai giudici che Totò era il migliore degli uomini. Poi si è lasciata trascinare nella clandestinità: trent’anni di anonimato riuscendo a partorire quattro figli. Dalla sua bocca non è uscita mai una sola parola di rimpianto, neppure davanti al figlio Giovanni, giovanissimo e già condannato definitivamente all’ergastolo. Ma lei è la moglie del Padrino e, perciò, recita un ruolo importante. Quello di custode dei «valori» di Cosa nostra «correttamente» trasmessi ai figli. Non v’è raffronto possibile con storie più marginali, come quella di Lea Garofalo. Ma anche dentro la «mafia nobile» ha albergato e incombe la tragedia. Che dire della drammatica fine di Vincenzina Marchese, moglie innamoratissima di Leoluca Bagarella? Lui è fratello di Ninetta, la moglie del Padrino. Lei, morta suicida, era figlia e sorella di grandi mafiosi palermitani. Amava tantissimo il suo Luca, fino a sopportare anche lei la clandestinità. Ma aveva un cruccio: l’assenza di figli che lei viveva come un castigo di Dio. Una nemesi divina per la crudeltà con cui Bagarella aveva fatto uccidere e sciogliere nell’acido il piccolo Giuseppe Di Matteo, ‘u picciriddu sequestrato per ricattare il padre pentito e indurlo a ritrattare ogni rivelazione. Bagarella trovò la moglie impiccata in cucina. E come in un racconto dell’orrore l’ha seppellita in un posto che lui solo conosce. Perchè il suo dolore sia soltanto il suo, senza dover condividere la «vergogna» di una moglie suicida.

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Titolo: FRANCESCO LA LICATA - I clan stanno con chi comanda
Inserito da: Admin - Novembre 18, 2010, 12:30:27 pm
18/11/2010

I clan stanno con chi comanda

FRANCESCO LA LICATA

Una nota stonata, il rumore di fondo delle polemiche Saviano-Maroni. Specialmente nel giorno della cattura di Antonio Iovine.
Il successo delle forze dell’ordine, frutto di lavoro e sacrifici di tanti poliziotti e magistrati, in sostanza dello Stato, avrebbe dovuto placare il clamore provocato dal monologo dell’autore di Gomorra.

Colpevole», a giudizio del ministro dell’Interno, di aver «ideologizzato» la lotta alla mafia screditando la Lega Nord, cioè il partito di appartenenza del titolare del Viminale.

Diceva Giovanni Falcone che la lotta alla mafia non è, non dovrebbe essere, né di destra né di sinistra. E i successi dello Stato sono successi di tutti, perché ogni sconfitta delle cosche è una vittoria del bene comune. Così dovrebbe essere, ma così non è e non è mai stato, sin dagli albori della «questione mafiosa» che è antecedente all’Unità d’Italia. Un’autolesionistica vocazione alla rissa ha portato spesso il Paese a dividersi puntualmente, proprio quando - invece - sarebbe stata utile coesione e superamento delle diversità per combattere le mafie.

Cos’è accaduto nelle ultime ore? Un intellettuale tra i più amati dal grande pubblico ha raccontato in tv come la ‘ndrangheta calabrese abbia piano piano, nell’indifferenza generale, conquistato i territori del Nord, e in particolare la Lombardia, fino a ripetere un copione già collaudato nel tempo da tutte le mafie: la ricerca di interlocutori politici per meglio invadere il nuovo territorio e realizzare profitti. Come esemplificazione, esercitando una forzatura, ma sottolineando con onestà che nessuna conseguenza giudiziaria si era verificata, ha citato l’incontro fra un consigliere regionale lombardo della Lega Nord e un mafioso indicato come il capo di un gruppo criminale ben saldo in quella regione. È stata, questa, la miccia che ha fatto esplodere non una polemica ma una «Santabarbara», amplificata da una successiva intervista di Saviano che, con un’uscita infelice, accostava la reazione del ministro a quella del suo nemico giurato Francesco Schiavone, detto «Sandokan». Chiaro che, in simile clima, risulti davvero difficile mantenere la rotta giusta.

Ed è un peccato, perché il monologo di Roberto Saviano avrebbe potuto funzionare come punto di partenza per una riflessione necessaria, specialmente dopo l’esito delle indagini avviate da Ilda Boccassini (Milano) e Giuseppe Pignatone (Reggio Calabria). Un’inchiesta che fotografa una realtà pericolosissima, come sottolinea la relazione semestrale della Dia al Parlamento. «Si è visto - scrive la Direzione Investigativa, riferendosi alla situazione criminale in Lombardia - il coinvolgimento di alcuni personaggi, rappresentati da pubblici amministratori locali e tecnici del settore, che, mantenendo fede ad impegni assunti con talune significative componenti, organicamente inserite nelle cosche, hanno agevolato l’assegnazione di appalti ed assestato oblique vicende amministrative».

Nessuno, ovviamente, vuol dire che la Lega è collusa con la mafia e meno che mai si può mettere in discussione l’impegno antimafia del ministro, tra l’altro sotto gli occhi di tutti. Ma non si deve perdere di vista la vocazione delle mafie ad entrare in relazione coi gruppi politici che amministrano il territorio. Anche stavolta ci sorregge il pensiero di Falcone che metteva in guardia: «Attenzione, la mafia non ha ideologia. Sta o cerca di stare con chi comanda e amministra». Nulla di eccezionale, dunque, che ci provi anche con forze politiche lontane dalla cultura mafiosa.

Ecco, in questo senso l’allarme di Saviano non può essere antitetico al senso di responsabilità del governo, come confermato dallo stesso Maroni, laddove dichiara di conoscere perfettamente i tentativi di infiltrazione al Nord compiuti dai gruppi criminali del Sud. Lo scontro frontale, al contrario, risulterebbe perdente nel lungo tempo. In Sicilia si negò per decenni l’esistenza della mafia e i partiti difesero contro ogni evidenza le mele marce che avevano al loro interno. Il risultato è sotto gli occhi di tutti.

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Titolo: FRANCESCO LA LICATA. - La credibilità tra i fuochi di due procure
Inserito da: Admin - Dicembre 05, 2010, 12:29:41 am
4/12/2010

La credibilità tra i fuochi di due procure

FRANCESCO LA LICATA


Non è facile districarsi fra le contraddizioni del guazzabuglio nel quale sembra essere caduto Massimo Ciancimino con le sue «rivelazioni» sul misterioso e imprendibile «signor Franco», l’uomo dei servizi che avrebbe in qualche modo monitorato l’attività del padre, l’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino, sia nella veste di punto di riferimento politico affaristico della mafia corleonese (fino al 1984), sia nel successivo ruolo di mediatore all’interno della trattativa fra Stato e Cosa nostra durante l’offensiva stragista di Totò Riina.

L’ultima novità del teste riguarda il coinvolgimento di Gianni De Gennaro, ex Capo della polizia e oggi direttore del Dis (Dipartimento informazioni per la sicurezza), tirato in causa come «vicino» all’ambiente del «sig. Franco». E’ ovvio, visto il personaggio, la sua reputazione e il passato di successi nella lotta alla mafia, che la notizia abbia suscitato parecchia fibrillazione. E anche confusione, dal momento che all’immediata reazione di De Gennaro non corrisponde un’altrettanta decisa presa di posizione della Procura di Caltanissetta. Col risultato che Massimo Ciamcimino potrebbe trovarsi due volte accusato di calunnia: una volta da De Gennaro, un’altra volta dai magistrati di Caltanissetta, qualora decidessero (non l’hanno fatto in una recente riunione) di certificare di non credere al teste.

Già, perché questa è una storia che va avanti da mesi, tra opposte convinzioni dei giudici (Palermo dà affidabilità al teste, Caltanissetta ha più volte preso le distanze) e conseguenti diversi atteggiamenti. In particolare si può dire che la Procura di Palermo - anche sulla base di attività investigative che hanno riscontrato molte affermazioni di Massimo Ciancimino - abbia l’interesse processuale a mantenere alta la credibilità del teste. Più complesso il compito dei giudici nisseni, anche per via delle difficoltà insite nella rivisitazione di un periodo storico che ha visto negativamente coinvolti alcuni rappresentati degli apparati di sicurezza impegnati sul fronte antistragista.

Per quel che si sa, Massimo Ciancimino ha fatto il nome di Gianni De Gennaro non durante un interrogatorio ufficiale coi magistrati, ma durante uno scambio di battute informale con alcuni funzionari della Dia che, correttamente, hanno subito presentato una relazione ai giudici. Chiamato, poi, a confermare, Massimo Ciancimino ha ridimensionato il suo pensiero, spiegando che quelle espresse erano convinzioni del padre «notoriamente avvelenato col giudice Falcone e con gli investigatori che lo assistevano». E De Gennaro era il più vicino a Falcone.

Massimo Ciancimino, però, aveva offerto un profilo del «sig. Franco» molto preciso e sorretto da particolari e aneddoti che poco si addicono alla figura di De Gennaro. A cominciare dall’identità anagrafica, per finire all’episodio della concessione di un passaporto al figlio appena nato. Episodio ancora al vaglio degli accertamenti, visto che una prima ricerca si era conclusa nel nulla.

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Titolo: FRANCESCO LA LICATA. - Mafia e pizzo ecco le prime conversioni
Inserito da: Admin - Dicembre 14, 2010, 09:52:03 pm
14/12/2010 - IL CASO

Mafia e pizzo ecco le prime conversioni

FRANCESCO LA LICATA

Quindici palermitani taglieggiati che mandano in galera una banda di mafiosi agguerriti - addirittura i resti della «famiglia» Lo Piccolo - è senz’altro una buona notizia. Specialmente in pieno periodo natalizio, quando Cosa nostra scatena i suoi esattori.

Li manda a «mungere» commercianti e imprenditori, spacciando le estorsioni per «donazioni volontarie» da destinare ad «auguri per i picciotti in galera». Una farsa che si ripete a Pasqua, con le stesse caratteristiche.

Ma questa volta niente auguri ai «picciotti», semmai una retata natalizia. Ed è un risultato importante - come fanno notare i magistrati della Procura di Palermo - soprattutto perché, per la prima volta, i riscontri alle risultanze investigative vengono proprio dalle vittime. Non capita tutti i giorni, nella latitudine siciliana, di poter fornire ai giudici elementi di prova prodotte dal racconto delle parti lese. Senza queste collaborazioni clamorose, le indagini avrebbero sofferto della solita preponderanza di indizi, rispetto alle prove certe: la malattia cronica di cui soffrono i processi di mafia. Ma non è soltanto l’aspetto giudiziario - che pure ha la sua importanza - a dover rallegrare chi tiene a cuore la lotta alla mafia. Denunciare il proprio taglieggiatore, in certe condizioni ambientali, equivale ad una vera e propria rivoluzione culturale. Non a caso polizia e magistratura fanno riferimento ad una «rivolta degli imprenditori palermitani». Quante volte gli sforzi compiuti per alzare la testa (tornano alla mente le passate, negative esperienze di lotta al pizzo) si erano infranti contro il muro della paura. Sì, paura delle conseguenze, paura di dover sostenere lo sguardo del mafioso ed indicarlo in un’aula di giustizia come il proprio carnefice.

Certo, siamo pur sempre all’inizio e tanto merito deve andare ai ragazzi di «Addio pizzo», il gruppo di giovani che da alcuni anni si è letteralmente «inventato» la rinascita della dignità dei commercianti palermitani. E’ vero che i quindici «rivoltosi» non avevano fatto denuncia autonoma, ma è pur vero che assistiti da «Addio pizzo» si sono convinti della bontà della scelta di collaborare. Ora non bisogna mollare: il coraggio dei quattordici va alimentato perché possa aprire la strada ad altre collaborazioni. E questo è compito delle istituzioni che possono fare molto, come dimostra l’altra bella notizia che giunge da Torre del Greco, dove la sinergia fra Stato e organizzazioni antiracket ha consentito di far riaprire a tempo di record la «Nautica Bottino» distrutta da un incendio camorristico. Questa è la strada.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8196&ID_sezione=&sezione=


Titolo: FRANCESCO LA LICATA. - La mafia ai picciotti "Fuggite dall’Italia"
Inserito da: Admin - Gennaio 20, 2011, 06:15:09 pm
 7/2/2008 (7:48)  - LA STORIA, COSA NOSTRA AI TEMPI DELLA GLOBALIZZAZIONE

La mafia ai picciotti "Fuggite dall’Italia"
   
"Troppa pressione", i clan ora guardano al Sud America

FRANCESCO LA LICATA
ROMA

La cattura di Salvatore Lo Piccolo e del figlio, Sandrino, avvenuta lo scorso novembre nelle campagne della periferia palermitana, è arrivata nel pieno imperversare - dentro Cosa nostra - del dibattito sull’annosa questione del cosiddetto «rientro degli scappati». Cioè sulla possibilità di «autorizzare» il ritorno a Palermo dei numerosi esponenti della «famiglia» Inzerillo di Passo di Rigano, a suo tempo (1981, inizio della seconda guerra di mafia) costretti all’esilio dai corleonesi che si apprestavano al blitz finale per la conquista del potere assoluto in Sicilia.

Proprio all’inizio della mattanza era caduto Salvatore «Totuccio» Inzerillo, il grande capo, poi toccò a qualcuno dei parenti prossimi (anche un figlio non ancora diciottenne). E proprio per mettere fine al massacro fu avanzata ai superstiti la proposta fatidica: «Scegliete: o vivi a New York o morti a Palermo». Una proposta, come si dice, che non poteva essere rifiutata e così l’interno clan emigrò a Brooklyn, nel New Jersey, nella Little Italy. In sostanza in terra «amica» visto che lì da tempo comanda il clan Gambino, strettamente intrecciato ai parenti palermitani di Passo di Rigano, soprattutto per i vincoli matrimoniali e di affari, per esempio il traffico degli stupefacenti.

E’ recente la scoperta dei malumori insorti dentro Cosa nostra, quando si profilò la possibilità del ritorno degli «scappati». Si sa di una schermaglia cominciata alla fine del 2004, con l’arrivo a Fiumicino di Rosario «Sarino» Inzerillo, quando si delinearono posizioni nette sul problema: i corleonesi duri, massimo esponente Nino Rotolo, contrari al ritorno; Lo Piccolo e i palermitani, con la sostanziale astensione di Bernardo Provenzano ormai votato a galleggiare tra i due schieramenti, favorevolissimi, anche perchè ansiosi di poter usufruire del collaudato «know how» degli Inzerillo nel campo degli stupefacenti.

Ma le mazzate arrivate prima con la cattura del capo, don Binu, proseguite poi con la retata denominata «Gotha» (Rotolo, Cinà, Bonura e tutti i big corleonesi) e infine con l’arresto dei Lo Piccolo, sembrano aver rimescolato le carte e rimesso in discussione ciò che appariva ormai quasi una dato di fatto: l’accoglienza in grande stile di Palermo al ritorno della «famiglia» Inzerillo. E ciò non solo per l’acuirsi dei dissidi interni che ne sconsigliavano l’esplicitazione con un «editto» che annullasse quello emanato dalla «commissione» negli Anni Ottanta.

Alla fine, forse i problemi antichi potevano essere superati, anche alla luce della barca di soldi che la «professionalità» degli Inzerillo poteva far giungere in Sicilia. Le difficoltà nuove sembra fossero da ricercare nelle mutate condizioni ambientali, a causa dei numerosi successi delle forze di polizia e della nuova linfa che animava le inchieste della magistratura. E sono proprio loro, gli Inzerillo, a manifestare più di una perplessità sull’ipotesi del ritorno.

A testimoniare dubbi e perplessità - oltre al contenuto della sterminata corrispondenza (i «pizzini») sequestrata a Provenzano e ai Lo Piccolo, oltre alle disastrose (per la mafia) intercettazioni del processo «Gotha» - un sussurro carpito nel carcere di Torino alla fine della scorsa estate. E’ Francesco Inzerillo, detto «‘u tratturi», a parlare coi nipoti Giovanni e Giuseppe, andati a colloquio nella casa circondariale dove il boss è detenuto. Francesco tradisce preoccupazione e la trasmette ai giovani: «... qua c’è solo da andare via... e basta... il punto è che tu non puoi stare che ormai i nomi sono segnalati... se non fai niente devi pagare , se fai devi pagare per dieci volte...».

I timori, questa volta, sono originati dal sacro terrore per l’azione degli «sbirri». E, quindi, sarebbe bene «andarsene dall’Europa... non dall’Italia... devi andare via dall’Europa... non si può stare... non si può lavorare liberamente... moralmente...qua futuro non ce n’è... mi dispiace è una bella terra ma futuro non ce n’è».

Sembra una vera ossessione che fa dire allo zio: «Appena ti metti in contatto con una telefonata pure con tua madre o con tua sorella, o con un tuo fratello, tuo nipote... già sei sempre sotto controllo. Te ne devi proprio andare, ma da tutta l’Europa.. perchè ormai è tutta una catena e catenella... te ne devi andare in Sud America.. come lo vuoi chiamare Centro America...». Ma il vero terrore è per «l’articolo 416 bis, automaticamente scatta il sequestro dei beni... cosa più brutta della confisca dei beni non c’è».

Già, la difesa dei soldi, dei «piccioli». E così sembra perdere forma il sogno del ritorno degli Inzerillo, accuratamente coltivato anche grazie a sinergie e parentele, come quella che lega il clan Gambino di New York ai cugini «paisà». Proprio come avevamo appreso dall’indagine Gotha, che rivelava lo stretto legame con lo «zio americano» Frank Calì, socio in affari ma, soprattutto, cognato di Pietro Inzerillo.

http://www.lastampa.it/redazione/cmsSezioni/cronache/200802articoli/29908girata.asp


Titolo: FRANCESCO LA LICATA. - Una sentenza costruita nella legalità
Inserito da: Admin - Gennaio 23, 2011, 06:18:59 pm
23/1/2011

Una sentenza costruita nella legalità

FRANCESCO LA LICATA

La vicenda giudiziaria di Cuffaro rappresenta qualcosa di unico nella storia della «malapolitica» siciliana, marchiata da un sistema che presuppone un’insana convivenza tra partiti, istituzioni e mafia.

L’ex governatore della Sicilia finisce a Rebibbia alla fine di un «normalissimo» iter giudiziario che, nei tempi previsti e senza sbandamenti fra i vari gradi di giudizio, ha ritenuto convincente l’impianto accusatorio che imputava a Cuffaro il favoreggiamento aggravato dall’aver favorito Cosa nostra. Esistono pochi precedenti «netti» come questo che si è concluso ieri mattina con la sentenza di giudici talmente «terzi» da aver disatteso persino le richieste più miti del procuratore generale.

Ma questo vuol dire che Cuffaro è mafioso? Non spetta a noi dare risposte così impegnative, qui, semmai, deve bastare prendere atto di una sentenza costruita nella legalità, cioè nel pieno rispetto delle garanzie costituzionali e della dialettica processuale che, per una volta, non ha fatto leva prevalentemente sull’apporto dei collaboratori di giustizia. E la sentenza dice che l’ex Presidente della Regione Sicilia ha favorito la mafia anche rivelando particolari investigativi che potevano essere molto utili a qualche boss, oppure agevolando l’ascesa di politici graditi ad esponenti di Cosa nostra.

Cuffaro, dunque, ha assunto atteggiamenti più che discutibili ed ha interpretato il proprio ruolo istituzionale in modo inaccettabile e contrario alle regole ed alle leggi. Questo vuol dire che, insieme al populismo bonario che gli procurava il consenso di migliaia di clientes (i favori, i cannoli, i pellegrinaggi religiosi), coltivava un sistema di relazioni molto più pericoloso perché intimamente connesso con la mafia.

Sta proprio qui quella «specificità» siciliana che spesso sottrae alla «ordinaria malapolitica» le vicende isolane, politiche e non. Già, perché in Sicilia tutto viene deformato, amplificato reso «particolare e più grave» dalla presenza mafiosa. La «fisiologica corruzione amministrativa» che impera nel mondo in fondo allo Stivale diventa ancora più inaccettabile perché intinta nel sangue di centinaia di uomini e donne vittime del sistema mafioso. E comportamenti censurabili ma non gravissimi, in Sicilia assumono i connotati di un vero e proprio alto tradimento.

Per questo, forse, come ha detto qualcuno, fare politica in Sicilia è un grande azzardo. Per via del contesto: un sistema vecchio e collaudato, che negli anni ha concesso alla mafia lo status di protagonista, ma oggi deve fare i conti coi tempi che cambiano e con la saturazione di ogni capacità di sopportazione, provata da lutti e tragedie collettive. E l’azzardo, si sa, ha un costo: può finir bene o malissimo.

Quando a Cuffaro in primo grado fu tolta l’aggravante mafiosa, l’imputato quasi «festeggiò» per una condanna pesante (5 anni) che però lo sollevava dall’«azzardo malavitoso». Vero è che quei festeggiamenti aggravarono la sua posizione, dato che fu costretto alle dimissioni da una foto galeotta che lo ritraeva mentre distribuiva cannoli ai suoi supporters. Ma l’assenza dell’alone mafioso sulla propria testa, lo sollevava parecchio. Poi l’appello ripristinò l’aggravante del terribile art.7 e tornò lo spettro di una condanna che lo avrebbe rovinato politicamente e umanamente. Ci sarebbe, a dire il vero, un modo per sottrarre la politica all’abbraccio innaturale e sarebbe quello, a suo tempo, intrapreso dal Presidente Piersanti Mattarella, che preferì l’azzardo nobile pagandone le conseguenze col sacrificio della propria vita.

La fine toccata a Totò Cuffaro non sarà ricordata come una nobile uscita di scena. Eppure un merito bisogna riconoscerlo al «democristianissimo governatore»: quello di aver guardato, ad un certo punto, in faccia la realtà e di essere rimasto in piedi mentre gli crollava il mondo addosso. Da fervido credente qual è, si è aggrappato alla sua fede e alla famiglia, senza nascondersi tra le pretestuose lacrimazioni da vittima del complotto politico. Senza disconoscere la corretta dialettica istituzionale che delega alla magistratura il compito di applicare la legge. Ovviamente questa non è un’ammissione di colpevolezza, ma, appunto, una presa d’atto dell’ineluttabile conclusione della propria vicenda.

«Adesso - ha detto ai pochi amici vicini - affronterò la pena, com’è giusto che sia. E’ un insegnamento che lascio come esempio ai miei figli». E nel pieno rispetto della magistratura è andato a costituirsi, prestandosi - tuttavia - anche alle maligne interpretazioni di quanti vorrebbero vedere nel suo gesto l’assunzione di responsabilità di chi coscientemente ha giocato con l’alta tensione e oggi ne accetta le conseguenze. Ma aiuta di più credere a un Cuffaro che la coscienza non l’ha perduta.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8325&ID_sezione=&sezione=


Titolo: FRANCESCO LA LICATA. - Il biglietto da visita della mafia
Inserito da: Admin - Giugno 09, 2011, 05:26:24 pm
9/6/2011

Il biglietto da visita della mafia

FRANCESCO LA LICATA

Fa sempre un certo effetto ricevere conferme sull’estrema facilità con cui il virus della mafia attecchisce in zone del territorio nazionale ritenute, per storia e caratteristiche socio-culturali, immuni dal contagio della mala pianta. Ogni volta ci lasciamo andare all’autoassolutorio commento («Ma chi l’avrebbe mai detto?») e alla pronta archiviazione di quel qualcosa che in fondo alla mente insinua una certa inquietudine. Vista, però, la frequenza con cui cominciano a squillare i campanelli d’allarme nel «laborioso Nord», non si può che esser soddisfatti dell’iniziativa investigativa del gruppo interforze che ha portato a termine l’operazione Minotauro e disarticolato un’associazione mafiosa di origine calabrese capace di controllare un vasto territorio tra Piemonte, Lombardia ed Emilia.

Non v’è dubbio, in tal senso, che l’esperienza maturata in Sicilia da Giancarlo Caselli non avrebbe lasciato spazio ad attendismi e sottovalutazioni che non appartengono alla cultura del procuratore di Torino. Il magistrato conosce benissimo le cause che, in passato, hanno contribuito al radicamento della mafia nel territorio siciliano: prima di tutto il malinteso senso di difesa dell’onorabilità di un’intera regione «mortificata da una minoranza malavitosa». Benvengano, dunque, azioni mirate, capaci di interrompere trame delinquenziali già fin troppo disconosciute.

Già, perché non è scoperta recente che il Nord sia diventato, nel tempo, terreno appetibile per le cosche mafiose che restano saldamente ancorate alle origini ma, nello stesso tempo, esportano un modello assolutamente identico alla cellula-madre. Sappiamo che il proliferare delle cosche al Nord non è fenomeno recente: ricordiamo i «palermitani» a Milano a braccetto con gli Epaminonda, i Vallanzasca, i Turatello; e non abbiamo dimenticato i «catanesi» a Torino violenti e arroganti fino a decretare in società con i calabresi l’uccisione del procuratore Caccia. La mafia al Nord è un tema dibattuto da anni.

Oggi, però, qualcosa sembra cambiato e sembra gettare un’ombra più cupa del passato. Eravamo assuefatti allo stereotipo del mafioso che, al Nord, si occupa di affari illegali: il gioco d’azzardo, le prostitute, i traffici di armi e droga, la protezione. Già nel 1994, cioè 17 anni prima degli ultimi, recentissimi «allarmi», l’operazione di polizia «Fiori di San Vito» aveva consegnato all’opinione pubblica e ai giornali il quadro di una mafia calabrese saldamente padrona di un vasto territorio, tra Piemonte, Liguria e Lombardia. E già allora si parlò dell’esuberante forza economico-finanziaria della ’ndrangheta.

Ecco, quella forza ignorata per tanto tempo oggi troviamo all’origine del mutato potere mafioso. Un potere che tende a far parte a tutti gli effetti di un blocco sociale egemone, come dimostra - per esempio - la vicenda dello scioglimento del consiglio comunale di Bardonecchia, completamente «infiltrato» dalla mafia calabrese. Oggi le mafie sembrano interessate soprattutto alle attività legali: le grandi opere pubbliche, persino quelle attività diretta emanazione della politica. Basti pensare a cosa è stata la Sanità - specialmente nel Meridione d’Italia - per intuire il processo di trasformazione di una mafia che si allontana da coppola e lupara per identificarsi sempre più con la borghesia corrotta dei colletti bianchi.

Questo il motivo per cui ogni azione di polizia giudiziaria viene, ormai quasi sempre, affiancata da un’attività investigativa imperniata sulla ricerca di beni frutto di attività illegali. E ogni volta si scopre sempre meno profondo il distacco tra società civile e illegalità. Ne sono testimonianza attendibile le prese di posizione di Gian Carlo Caselli e Piero Grasso, procuratore nazionale antimafia. «L’aggressione ai beni e ai patrimoni della criminalità organizzata è la strategia vincente per sconfiggere i clan», così Grasso che indica come un «grande successo» i 70 milioni di euro in beni sequestrati dalla Guardia di Finanza. E Caselli, sull’arresto di Nevio Coral sindaco di Leini per un trentennio, dice: «Era il biglietto da visita della ’ndrangheta da spedire al mondo politico piemontese. Non è certo uno spettatore passivo delle vicende che lo riguardano, ma un soggetto ben collocato nell’ambiente ’ndranghetista».

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Titolo: FRANCESCO LA LICATA. - L'isola-palcoscenico alla fine resta sola
Inserito da: Admin - Giugno 20, 2011, 05:02:39 pm
20/6/2011

L'isola-palcoscenico alla fine resta sola

FRANCESCO LA LICATA

Da qualche tempo Lampedusa sembra diventata un grande palcoscenico dove, in alternanza, si rappresenta ora l’enorme tragedia dell’umanità in fuga da guerre, povertà e tirannia, ora l’intramontabile commedia della politica che cerca l’affermazione di idee della vita e della libertà spesso opposte e contrastanti.

È toccato ieri ad Angelina Jolie, star autentica e dunque lontanissima dal sospetto di autoesaltazione, celebrare con parole sincere Lampedusa e indicarla come «Porta d’Europa» aperta e accogliente. L’ambasciatrice Onu di buona volontà ha avuto giudizi generosi sui lampedusani che ormai da anni affrontano l’emergenza umanitaria senza abbandonarsi ad isterismi e senza chiudersi nell’egoismo ottuso.

Solo un paio di settimane prima Claudio Baglioni, che a Lampedusa tiene casa, attraverso la sua Fondazione aveva messo su una manifestazione per concentrare l’attenzione sui problemi dell’isola. Ha portato 33 cantautori in concerto e per tre giorni tutti insieme hanno incitato: «Lampedusa sùsiti», alzati. «Qui - commentava Baglioni - si gioca una partita bella».

Già, si gioca proprio una partita: questo è certo. Una partita politica il cui esito non è prevedibile e che attira nell’isola personaggi contrastanti e non sempre vicini alle necessità degli isolani.

A marzo giunse il leghista Borghezio che accompagnava Marine Le Pen, candidata all’Eliseo dell’estrema destra francese. Anche in quell’occasione il sindaco De Rubeis - come ieri con la Jolie - fece da padrone di casa. Ma le parole della Le Pen erano molto diverse e annunciavano rudemente ai migranti che per loro non ci sarebbe mai stato spazio in Europa. Ecco, quella era un’altra missione ancora. E pure la discesa del governo, l’arrivo di Berlusconi, accorso per placare le proteste dei cittadini nel momento più acuto degli sbarchi massicci. Non fu esattamente felice la promessa del premier di trasformare l’isola in un enorme campo da golf, espediente probabilmente suggerito da chi ha interessi in quel settore del tempo libero e dello sport.

E così, gli ospiti illustri si succedono a ritmo sempre più frequente, ma Lampedusa rimane immobile coi suoi problemi, divisa tra il dovere della solidarietà insito nella propria origine di terra d’accoglienza e la paura del nuovo sconosciuto.

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Titolo: FRANCESCO LA LICATA. - Quel senso siciliano della morte
Inserito da: Admin - Luglio 06, 2011, 05:16:50 pm
6/7/2011

Quel senso siciliano della morte

FRANCESCO LA LICATA

In Sicilia, a Palermo in particolare, i morti non si celebrano. Si festeggiano. Il 2 di novembre arriva la Festa dei Morti: una Befana anticipata per i bambini siculi. E la notte prima resta aperto fino all’alba il gran bazar dei giocattoli dove i genitori si riversano per esaudire i desideri dei piccoli che hanno deposto nella tomba dei propri cari il pizzino con l’elenco dei giochi richiesti.

Saranno i morti, nell’immaginario infantile, a deporre i doni sulla tavola imbandita con frutta di marzapane, noci, castagne, melograni e «la pupa di zucchero»: l’Orlando con lo scudo per i bambini, la bella Angelica per le femminucce.

Il pensiero della morte è presente nei siciliani e non c’è verso di esorcizzarlo. Giovanni Falcone arrivava a praticare l’ironia e l’autoironia per tenerlo lontano: «Il pensiero della morte - disse alla scrittrice Marcelle Padovani - mi accompagna ovunque. Ma, come afferma Montaigne, diventa presto una seconda natura... si acquista anche una buona dose di fatalismo; in fondo si muore per tanti motivi, un incidente stradale, un aereo che esplode in volo, una overdose, il cancro e anche per nessuna ragione particolare».

«Terribile» è la morte per Leonardo Sciascia, ma «non per il non esserci più ma, al contrario, per l’esserci ancora in balia dei mutevoli pensieri di coloro che restavano». Sempre sorprendente il punto di vista originale dello scrittore di Racalmuto. Puntuale come l’incrollabile pessimismo di Gesualdo Bufalino che vede nella Sicilia «una mischia di lutto e di luce». E «dove è più nero il lutto, ivi è più flagrante la luce, e fa sembrare inaccettabile la morte».

Fu l’ironia a renderla accettabile all’eccentrico barone Agostino La Lomia, che si fece costruire la tomba mentre era in vita e a 62 anni celebrò il proprio funerale, con accompagnamento della banda musicale e regolare «giro» di paste alle mandorle. «La vera casa è la tomba argomentò - e perciò bisogna pensare alla morte quando si è in letizia». Un po’ eccessivo, il barone.

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Titolo: FRANCESCO LA LICATA. - Mafia, il ministro impermeabile al sospetto
Inserito da: Admin - Luglio 12, 2011, 05:50:52 pm
12/7/2011

Mafia, il ministro impermeabile al sospetto


FRANCESCO LA LICATA

Lo stato di salute di un Paese si misura anche dalle capacità di reazione, in difesa della soglia di decenza, che dimostrano le istituzioni ogni volta che la loro credibilità viene messa in discussione da scandali piccoli e grandi. Non v’è comunità al mondo che possa vantare di essere impermeabile alla corruzione, al malaffare e a tutti i moderni mali incurabili. Ma sicuramente ci sono modi diversi di far fronte alla «malattia».

Se è vero tutto ciò, dobbiamo concludere che le nostre istituzioni - e la politica in particolare - non godono di buona salute.

La recentissima vicenda che riguarda il ministro delle Politiche agricole, il «responsabile» Saverio Romano, per cui il gip di Palermo ha richiesto l’imputazione coatta per il reato di concorso esterno in associazione mafiosa, ne è dimostrazione illuminante. Anzi, per il modo in cui la storia è stata affrontata dal protagonista, per l’assoluta assenza di reazione a livello istituzionale e di opinione pubblica (la comunicazione innanzitutto) - eccettuata quella addirittura precedente del Quirinale - non è esagerato affermare che l’«affare Romano» sia da considerare una vera e propria cartina di tornasole delle pessime condizioni in cui versa la vita pubblica italiana.

L’inchiesta giudiziaria su Saverio Romano non è esattamente roba da poco. Quelle indagini hanno portato già alla condanna definitiva dell’ex governatore della Sicilia, Salvatore Cuffaro, e riguardano un intreccio di boss e politica attorno ad un gruppo mafioso vicino a Bernardo Provenzano. Per una imputazione analoga, il concorso esterno, Giulio Andreotti ha subito un lungo processo, dopo una velocissima autorizzazione a procedere richiesta, tra l’altro, dallo stesso imputato eccellente che così si sentì libero di potersi difendere al meglio.

Ma il ministro Romano non ha avvertito la stessa necessità, neppure quando - ancora prima che il Gip decidesse per l’imputazione - il Capo dello Stato aveva esternato le sue perplessità sulla nomina avanzata dal presidente del Consiglio. Anzi, in quella occasione, l’allora indagato dava quasi per scontato che si andasse verso un sicuro proscioglimento e non ebbe esitazioni a presentarsi al Quirinale per il giuramento, accompagnato da moglie e figli, come in un giorno di festa. Era abbastanza chiara l’origine della forza contrattuale di Saverio Romano: la debolezza del governo che per garantirsi la maggioranza saldava il debito coi «responsabili» chiamati a riempire il vuoto lasciato dalla fronda dei finiani. La stessa forza che oggi gli consente di mostrarsi addirittura «sconcertato» per la decisione del giudice e di intravedere un «corto circuito tra le istituzioni e dentro le istituzioni».

Ma oggi qualcosa è cambiato, in peggio. Romano è imputato di mafia, eppure la cosa non sembra sollevare troppo scandalo. Certo, è possibile che funzioni da freno la condizione generale del Paese: c’è la crisi e la speculazione contro l’Italia, c’è lo scandalo Bisignani, l’inchiesta sull’uomo di fiducia del ministro Tremonti, il nostro garante presso i mercati europei e c’è un presidente del Consiglio condannato a risarcire una cifra da capogiro, dopo una lunga tornata mediatica (ed ora anche giudiziaria) che lo ha visto al centro di scandali a sfondo sessuale. Insomma, non stiamo bene. Ma proprio per questo, forse, la vicenda processuale del ministro Romano, passata quasi in sordina, finisce per assumere il valore di controprova del nostro malessere.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8974&ID_sezione=&sezione=


Titolo: FRANCESCO LA LICATA. - Non è soltanto follia d'estate
Inserito da: Admin - Luglio 31, 2011, 11:19:58 am
31/7/2011

Non è soltanto follia d'estate

FRANCESCO LA LICATA

Un inseguimento notturno da film sul raccordo anulare: la polizia spara su un’auto in fuga guidata da un energumeno-stalker che aveva sparato (a salve) alla casa dell’ex fidanzata.
Dentro l’auto è rimasto il cadavere del quarantenne che aveva anche tentato di travolgere un poliziotto. Nello stesso tempo, ad Artena (50 chilometri dalla capitale), venivano trovati i corpi di due uomini, uccisi con coltelli e, forse, con accetta e quindi bruciati. E alle prime luci dell’alba il Tevere restituiva un terzo cadavere di cui ancora pochissimo si sa.

Una notte da «Criminal Mind», anche se si lasciano inesplorati i mille episodi di piccola violenza che ormai non trovano neppure più posto nelle cronache. E puntualmente si mette in moto l’automatismo psicologico che fa scattare l’allarme, la paura, l’inquietudine per la «scoperta» di «Roma violenta». Dentro questo automatismo vanno collocate reazioni diverse e contrastanti di tecnici (responsabili della sicurezza) e politici, alcuni propensi a minimizzare per autodifesa del proprio ruolo, altri ad alzare il tiro per mettere in difficoltà i propri avversari politici.

D’altra parte è, questo, un canovaccio che si ripropone periodicamente e a parti invertite, a seconda di chi ha la responsabilità della gestione della città. Se oggi, dunque, le opposizioni lamentano poca sicurezza, non è certo l’avversa parte politica che se ne può lamentare, visto che le precedenti elezioni sono state fortemente condizionate da una campagna tutta giocata sui temi della sicurezza e della paura dei «clandestini». Ne è testimonianza l’atroce vicenda della signora Giovanna Reggiani, violentata e uccisa da un romeno a Tor di Quinto.

Ma bastano alcuni, anche efferati, episodi, concentrati in uno spazio di tempo breve, per certificare l’entrata di Roma capitale nel novero delle città violente? C’è soltanto un problema di sicurezza dietro le esplosioni di violenza metropolitana? E deve impensierire di più il timore della criminalità organizzata, rispetto alla patologia di una caduta di considerazione del valore della vita umana che costituisce la base dell’imbarbarimento del nostro vivere civile?

Sono domande di non facile risposta che presuppongono valutazioni poco sensibili alle spinte emozionali. Certo, fa impressione che in pieno quartiere Prati un giovane venga assassinato a revolverate alla luce del giorno. E incute certamente paura l’idea che Roma possa tornare quella degli anni di piombo del terrorismo o della morsa paramafiosa dei criminali della Banda della Magliana. Ma come dovrebbe definirsi allora quanto è accaduto e accade in Sicilia e nel Sud in generale? Altro che violenza criminale.

Ventidue assassinati dall’inizio dell’anno non sono pochi, anche se non tutte le vittime sono prodotto del crimine organizzato. Un’analisi più attenta rivela che sono di più i morti prodotti da una «normale, quotidiana violenza». Insomma, il pericolo dell’escalation mafiosa è presente negli addetti ai lavori, ma è un dato ancora «fisiologico» specialmente se rapportato alle dimensioni di una grande metropoli come Roma.

In una recente dichiarazione, all’indomani di uno dei tanti allarmi-criminalità, lo stesso prefetto Pecoraro ha sentito la necessità di distinguere nettamente i delitti di matrice pseudomafiosa dagli altri che presentano moventi cosiddetti «privati» e quindi, a giudizio di tanti, meno allarmanti.

Ma è davvero così? Dobbiamo serenamente rimanere immobili se attorno a noi prolifera una violenza ormai quasi endemica? L’estate, si sa, amplifica malesseri reconditi che esplodono improvvisi. Ma nella cronaca degli ultimi tempi sembra rintracciabile qualcosa in più della follia estiva, qualcosa di più inquietante. Si muore troppo per motivi di interesse: lite col morto a Tor Vergata per un prestito non pagato, muore cadendo dal balcone mentre si cala dalla grondaia dopo aver rubato la borsa al vicino, pastore assassinato dal dipendente perché non lo aveva pagato, rapinatore muore schiacciato dalla porta blindata che aveva fatto saltare col gas. Questi gli episodi più gravi, che certamente ne nascondono molti altri sfuggiti alle cronache.

No, forse più della mafia è inquietante la fine toccata al giovane musicista ucciso a sprangate al rione Monti, o la coltellata inferta, a Porta Maggiore, al trans brasiliano colpevole di aver redarguito un automobilista indisciplinato. Sono sintomi di un malessere più profondo che non potrà essere curato dai 360 carabinieri e poliziotti che arriveranno a Roma a settembre. Quelli sì che sono utili, ma solo per la lotta al crimine. Per l’altra malattia necessita ritornare alla convivenza civile e sfuggire alla sindrome del «canaro della Magliana».

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9040


Titolo: FRANCESCO LA LICATA. - La memoria ritrovata svela 19 anni di misteri
Inserito da: Admin - Ottobre 12, 2011, 12:06:20 pm
11/10/2011

La memoria ritrovata svela 19 anni di misteri

FRANCESCO LA LICATA

La memoria del pentito Giovanni Brusca ha lasciato a desiderare per molti anni. L’assassino di Giovanni Falcone e carnefice del piccolo Giuseppe Di Matteo è stato, in passato, utile per liberare l’indagine sulle stragi mafiose dalla cappa del silenzio assoluto. Si deve a Brusca - prima ancora che a Massimo Ciancimino e agli altri «testi privilegiati» dell’indagine - la scoperta dell’esistenza della trattativa fra Stato e mafia portata avanti da Totò Riina per «convincere» le istituzioni ad alleggerire la repressione, soprattutto carceraria, abbattutasi su boss e picciotti.

Eppure Brusca non si era mai spinto nelle pieghe di quel momento storico ancora pieno di ombre, silenzi ed omissioni. Per vent’anni la memoria non lo ha sorretto sull’inizio di quella trattativa. Ricordava vagamente di averne parlato con Totò Riina, ma non quando e in che termini. Oggi assistiamo al prodigioso ritorno di memoria dell’uomo che dovrebbe portare un marchio indelebile nel cervello, dal momento che si è assunto l’onere di premere il pulsante che ha schiantato Giovanni Falcone e la sua scorta.

Dice il pentito, interrogato ancora su sua richiesta nell’ambito del processo Mori, che finalmente ha ricostruito l’attimo in cui ha saputo da Riina dell’esistenza della trattativa e del cosiddetto «papello» (le richieste della mafia allo Stato contenute in «alcuni fogli». E la data coincide perfettamente coi sospetti dell’accusa e con quanto ha rivelato due anni fa Massimo Ciancimino. Confermando così, indirettamente, la corretta ricostruzione fornita alla magistratura dall’ex ministro Claudio Martelli e da Liliana Ferraro a proposito dell’iniziativa dei carabinieri di intraprendere un contatto con l’ex sindaco di Palermo, Vito Ciancimino, al fine di convincere il vertice della mafia corleonese a finirla con le bombe assassine.

Ma non è solo questo il risultato dell’improvviso ritorno di memoria di Brusca. Cosa fa il pentito, parlando come ha parlato? In sostanza conferma la testimonianza di Massimo Ciancimino, pur non citandolo mai. Ma poi cita, con nome e cognome, Gaspare Spatuzza addirittura indicandolo come una delle sue fonti nel momento cruciale del passaggio dallo stragismo in Sicilia a quello «nel Continente» del 1993 e ‘94. Una perfetta legittimazione per Spatuzza, appena ammesso al programma di protezione. Se l’ex mafioso di Brancaccio - che tira in ballo nelle vicende mafiose Dell’Utri e Berlusconi - sapeva tanto da essere fonte di Brusca, nessuna sorpresa che fosse informato in tempo reale degli sviluppi della strategia di Totò Riina. Ed è credibile, dunque, che conoscesse anche i motivi della fine dello stragismo mafioso: i dissidi tra l’irriducibile Leoluca Bagarella e i «trattativisti» fratelli Graviano, capi di Gaspare Spatuzza. Certo, se la memoria non lo avesse abbandonato, Brusca avrebbe fatto risparmiare 19 anni di fragili indagini e depistaggi. E forse Ciancimino non avrebbe avuto il tempo di farsi del male, suicidandosi come teste.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9309


Titolo: FRANCESCO LA LICATA. - Strage Borsellino, gli oscuri scenari di un depistaggio
Inserito da: Admin - Ottobre 15, 2011, 05:33:25 pm
15/10/2011

Strage Borsellino, gli oscuri scenari di un depistaggio

FRANCESCO LA LICATA

Dopo mesi e mesi di anticipazioni, indiscrezioni, annunci e smentite si è raggiunta la certezza che il processo per la strage di via D’Amelio - che costò la vita a Paolo Borsellino e alla sua scorta - va rifatto. Lo chiede la Procura Generale di Caltanissetta con un documento che il capo di quell’ufficio, Roberto Scarpinato, deve aver scritto non senza fatica e con qualche disagio. Certamente non per inadempienze sue ma per il coinvolgimento, non esaltante, di magistrati e investigatori dell’epoca in una vicenda di cui non si intravede facile via d’uscita.

Scarpinato ha «dovuto» - glielo impone il senso della giustizia e del dovere che non gli manca - chiedere un nuovo giudizio per undici innocenti condannati per reati vari, alcuni dei quali da dieci anni in fase di espiazione dell’ergastolo. Ovviamente ha chiesto anche la sospensione della pena per tutti i detenuti. E’ certo, inoltre, che le porte del carcere si apriranno per altri finora rimasti liberi, protetti dell’enorme operazione di depistaggio che sulla strage Borsellino fu compiuta da organismi istituzionali e da singoli funzionari. Il grande inganno ha ruotato attorno alle dichiarazioni di due falsi pentiti, Scarantino e Candura, autoaccusatisi di aver rubato l’auto che servì per compiere l’attentato. E’ stato scoperto - seppure con grande ritardo - grazie alle rivelazioni di Gaspare Spatuzza, il pentito che ha esibito le prove di quanto afferma, quando racconta come e dove fu imbottita d’esplosivo la «126 bomba» e dove venne rubata. Potrà sembrare incredibile, ma le false rivelazioni di Scarantino e Candura - per la verità traballanti anche all’epoca dei processi - hanno resistito a tre gradi di giudizio, a riprova del fatto dell’esistenza di una specie di «doppio binario» nelle indagini sulla mafia che abbassa la soglia dell’onere della prova, senza alcun pianto greco di garantisti affranti, tranne che non vi sia il coinvolgimento di qualche potente.

Il procuratore Scarpinato ha imbastito un documento tecnico, scevro da analisi e considerazioni. E non poteva essere diversamente, dato che dovrà servire esclusivamente a riparare ad un errore grave. Ma dietro alla fredda certezza di porre rimedio all’ingiustizia c’è tutto un panorama alternativo che si può dedurre facilmente. Un nuovo canovaccio che non può non porsi come fine ultimo la ricerca del «movente» del clamoroso depistaggio. Sarà compito della Procura di Caltanissetta rassicurare i cittadini sul fatto che nessuna zona d’ombra rimarrà sull’atroce fine di Paolo Borsellino. E non solo, dal momento che i nuovi impulsi investigativi sembrano già aver riaperto il discorso anche sull’inchiesta (anch’essa risolta in Cassazione) sulla strage di Capaci. Solo un’indagine approfondita, affrontata senza timori reverenziali o ammiccamenti alla ragion di Stato, potrà riconciliare l’opinione pubblica e, soprattutto, i familiari delle vittime con le istituzioni. E si potrà impedire che Totò Riina continui a mandare i suoi messaggi a destra e a manca, forte dell’ambiguità che gli consente di dire, anche ai magistrati, che «Le stragi sono Cosa vostra». Chi ha pianificato le falsità di Scarantino e Candura? Chi ha mandato tra i piedi alla Procura di Caltanissetta quei due impostori? Chi ha falsificato i riscontri legittimando le bugie dei pentiti d’accatto? La Procura generale oggi chiede la scarcerazione anche per Scarantino. Cosa vuol dire questo? Forse che la calunnia per cui fu condannato quando, in una delle sue ritrattazioni, confessò di essere stato «costretto» a mentire, non è più una calunnia e che - quantomeno - bisognerà approfondire su quelle «pressioni» che disse di aver ricevuto.

Ma perché qualcuno avrebbe dovuto «deviare» le indagini? Le ultime rivelazioni dell’attendibile Spatuzza autorizzano il ragionevole sospetto che la versione Scarantino fosse una specie di toccasana per limitare l’inchiesta ad un movente minimalista della strage: mafia e basta. Il coinvolgimento della Cosa nostra di Brancaccio, dei fratelli Giuseppe e Filippo Graviano, di per sé, allarga gli scenari a ipotesi più complesse e di natura più «economico-politica».

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9323


Titolo: FRANCESCO LA LICATA. - L'ultimo camorrista della scuola siciliana
Inserito da: Admin - Dicembre 08, 2011, 05:22:26 pm
8/12/2011

L'ultimo camorrista della scuola siciliana

FRANCESCO LA LICATA

La cattura di Michele Zagaria, capo storico della «mafia dei Casalesi» e conosciuto ai più con l’eloquente nomignolo di «Capastorta», può davvero considerarsi una pietra miliare della lotta alla criminalità organizzata.

Le stesse modalità dell’arresto (il bunker, la cintura protettiva dei fedelissimi, l’assenza di cellulari intercettabili, l’ostinata presenza nel «suo» territorio, l’ironia del capo che concede ai poliziotti la palma della vittoria), ci consegnano il profilo di una grande operazione per la presa di un grande capo.

Grande, ma anche l’ultimo di una generazioni di criminali che, in Campania, hanno creato un gruppo nuovo e diverso, lontano dalla «cartolina» del guappo «anema e core» e molto più prossimo alla ferrea disciplina della mafia siciliana tutta tesa soprattutto alla concretezza degli affari. Michele Zagaria rappresenta l’ultimo discendente di una camorra cresciuta all’ombra e alla scuola della «migliore» Cosa nostra, quella della mafia di Ciaculli e di Michele Greco il «papa».

Sono ormai decenni che i giornalisti, gli osservatori più accorti sottolineano la particolare pericolosità dei casalesi, giustamente considerati un qualcosa di diverso, di particolare rispetto alla camorra rinchiusa e concentrata nella gestione dell’illegalità diffusa. No, i casalesi - come la mafia siciliana - hanno sempre dimostrato quella attitudine alla corruzione delle istituzioni e delle coscienze di tanti cittadini, specialità che ha consentito a Cosa nostra di assumere la leadership criminale fino a divenire la più potente del mondo.

Le radici non tradiscono: fu il gran capo Antonio Bardellino, socio fondatore della premiata ditta dei casalesi, a inglobare la «famiglia» dentro il redditizio guscio della mafia palermitana dei Greco, dei Bontade e dei Riccobono. Il piatto da spartire era, allora, il contrabbando delle sigarette. Quando cominciarono a prevalere i corleonesi, i fratelli Zaza e Lorenzo Nuvoletta andarono in quella direzione.

Il business delle bionde produceva lauti guadagni, ma i casalesi guardavano oltre. La «scuola siciliana» li portava ad ambire ai grandi affari. E così a furia di investire e intrecciare fortunate amicizie politiche - come dimostra la vicenda ancora aperta dell’on. Nicola Cosentino - si ritrovano oggi, proprio con Zagaria, dentro la realtà dei ricchi appalti che travalicano i confini del proprio territorio per spingersi verso zone erroneamente ritenute immuni dal contagio mafioso, come l’Emilia o la Lombardia.

Sono davvero sorprendenti le affinità del film visto ieri mattina con la moviola delle precedenti catture. Certo, la latitanza di «capastorta» non è stata lunga come quella di Provenzano o di Riina, ma anche le forze dell’ordine e la magistratura di oggi non sono quelle degli Anni Sessanta e Settanta. E’ difficile non accostare Zagaria ai grandi latitanti, tutti uguali nelle regole e nella disciplina: capaci di stare mesi interi segregati in una stanza che scompare in una botola (un meccanismo simile era nella casa di Giovanni Brusca), limitatissimi nei contatti con l’esterno e con gli estranei, sospettosi nell’uso dei cellulari e della tecnologia (Provenzano non li usava, Zagaria dicono usasse schede internazionali sempre diverse). E poi le immancabili immagini sacre e le foto dei propri cari in una cornice a forma di cuore.

Ma attenzione: finisce, come giustamente fa notare il procuratore Piero Grasso, il mito di un imprendibile, non si chiude la battaglia col mostro. L’animale feroce, anzi, può solo diventare più pericoloso perché il nuovo che avanza, anche nelle consorterie criminali, non promette nulla di buono.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9530


Titolo: FRANCESCO LA LICATA. - La follia di due balordi
Inserito da: Admin - Gennaio 06, 2012, 09:44:01 am
6/1/2012

La follia di due balordi

FRANCESCO LA LICATA

La sera del 4 maggio del 1980 il capitano dei carabinieri Emanuele Basile fu ucciso da un commando mafioso mentre, con la moglie e la figlioletta di 4 anni, prendeva parte, a Monreale, alla processione per la festa del Santissimo Crocifisso.

Quando i killer di Cosa nostra spararono, l’ufficiale teneva in braccio la piccola Barbara. Lui fu raggiunto da numerosi colpi, la bambina - fortunatamente - non fu neppure sfiorata.

Questa immagine ci ha attraversato la mente nell’apprendere le fasi sconvolgenti, i particolari della terribile aggressione di Tor Pignattara. Si può azzardare un parallelo tra le due storie? Certo che no, se non per tentare - oltre l’identico sdegno per la violenza inaudita di entrambe le vicende - un ragionamento che possa aiutare a capire ciò che accade intorno a noi, senza cedere alla pur comprensibile trappola emotiva.

E il ragionamento ci dice che l’assalto alla famiglia cinese è opera di balordi, di «scoppiati», chiamiamoli come vogliamo, ma non identifichiamoli con la criminalità organizzata. Gli assassini di Basile, il paragone serve soltanto a sottolineare le differenze con gli altri, erano professionisti e perciò portarono a termine «chirurgicamente» la loro missione. E’ da scartare, dunque, qualsiasi accostamento tra l’eccidio di Tor Pignattara e vecchi fenomeni, come la mattanza della Banda della Magliana.

Drogati, forse. Tanto disperati da produrre il massimo del danno in modo assolutamente dissociato: due morti con un solo proiettile e la perdita del bottino (trovato poi nel giubbotto dell’uomo) sono la fotografia di una violenza cieca e gratuita.

Ecco perché i due assassini sono da considerare, se possibile, ancora più pericolosi del peggiore killer del crimine organizzato. Delinquenti liberi di attraversare qualsiasi territorio e difficilmente catalogabili nelle classificazioni approntate in ogni questura o commissariato. Cani sciolti, senza obiettivi né strategie, capaci di sparare soltanto per l’eccesso di adrenalina che affluisce nelle loro vene. Offuscati, probabilmente, anche dal pregiudizio indotto che vuole la vita di uno straniero, uno «che se la passa meglio» anche se - appunto - straniero, meno preziosa del vicino di casa italiano.

Ma la domanda da porsi è un’altra: quanti sono gli «scoppiati» in circolazione? E soprattutto: come mai rapaci di periferia, squattrinati, riescono a disporre di armi da fuoco? Cosa c’è dietro al salto di qualità che li porta dal taglierino alla pistola? Su questo tema, sembra, si stia concentrando l’attenzione di chi si appresta ad affrontare l’ennesima emergenza.

L’arrivo di uomini destinati al presidio di territori troppo spesso abbandonati al loro destino è una prima, saggia misura. L’altro lavoro investigativo deve essere rivolto al tentativo di bloccare i canali che portano armi dove c’è disagio sociale e la folta presenza di soggetti borderline. Ci dicono che a Roma ogni giorno, tra scippi e furti in appartamento, vengono rubate tre pistole. Sono numeri che devono far riflettere sulla facilità con cui nelle famiglie italiane entrano micidiali armi da fuoco. Negli Stati Uniti si piangono, sempre più spesso, le conseguenze della liberalizzazione delle armi. Noi ne conosciamo solo le più eclatanti: le stragi nelle scuole, gli eccidi. Forse sarebbe il caso di evitare di imitare gli americani anche in questo campo.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9621


Titolo: FRANCESCO LA LICATA. - Scotti, la Dc, la mafia e le verità nascoste
Inserito da: Admin - Gennaio 11, 2012, 11:41:22 am
11/1/2012 - VENT'ANNI DOPO LE STRAGI

Scotti, la Dc, la mafia e le verità nascoste

FRANCESCO LA LICATA


Quest’anno si celebra il ventennale delle stragi mafiose che provocarono la fine di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, i migliori magistrati che l’Italia abbia avuto. Vent’anni sono passati, quasi un quarto di secolo per ritrovarsi oggi ad arrovellarsi sui tanti misteri che nessuna indagine e nessun processo riescono a chiarire. Anzi, a distanza di tanti tempo, dall’inesauribile filo investigativo continuano a giungere notizie che - piuttosto che far luce - gettano ombre sinistre sul già complesso contesto politico di quel momento.

Il 5 dicembre scorso, la Procura di Palermo ha ascoltato (vent’anni dopo i fatti) l’ex ministro Vincenzo Scotti, che nel 1992 guidava il Viminale e venne misteriosamente rimosso senza una comprensibile ragione. I magistrati di Palermo sono gli stessi che indagano sulla famigerata trattativa tra mafia e Stato ed è quindi probabile che in quel trasferimento forzoso vedano qualche attinenza con la decisione politica di avviare - allora - un contatto con Cosa nostra per cercare di fare cessare le stragi mafiose.

Le risposte di Scotti non ci consegnano una bel ricordo di quella stagione. Si potrà dire che si tratta di notizie datate, di «archeologia giudiziaria«, degli ultimi fuochi di una guerra interna alla Dc sul fronte della lotta alla mafia. Si dica quel che si vuole, ma rimane l’amaro in bocca per un boccone indigesto che ha avuto come conseguenza il sacrificio «inutile» di diversi servitori dello Stato.

Dice, in sostanza, Scotti che nel ‘92 (governo Andreotti) la lotta alla mafia andava per «due linee diverse»: una, rappresentata anche da lui, intesa come «strategia di guerra senza condizioni», un’altra «più prudente». E spiega anche di aver subito una vera aggressione per aver lanciato l’allarme che riguardava l’incolumità di alcuni uomini della politica, indicati da un pentito come obiettivi del terrorismo mafioso.

Fu rimproverato da Andreotti per aver dato credito «a una bufala», rivela Scotti. Una «bufala» divenuta drammaticamente attendibile, subito dopo, a giudicare dal terrore disegnato sul volto di Andreotti ai funerali dell’eurodeputato Salvo Lima e dall’apprensione dimostrata dall’allora capo della Polizia, Vincenzo Parisi.

Ricorda anche, Scotti, di aver subito due strane intrusioni nel suo alloggio fino ad arrivare alla sua rimozione, con telefonata imbarazzata di De Mita e lettera del presidente Scalfaro che spiegava: «...se ci fossimo parlati forse le cose sarebbero andate diversamente...».

Ecco, per anni la sostituzione di Scotti è stata rimossa nel silenzio generale e le anomalie della cosiddetta trattativa - prima negata drasticamente poi ammessa a mezza bocca per essere alla fine relegata come esclusiva iniziativa di singoli investigatori - lasciate senza risposte.

Il tempo non sempre è galantuomo.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9637


Titolo: FRANCESCO LA LICATA. - Citato a deporre ma il pentito è morto da anni
Inserito da: Admin - Gennaio 12, 2012, 12:19:38 pm
12/1/2012 - LA STORIA

Citato a deporre ma il pentito è morto da anni

FRANCESCO LA LICATA

Chiamato a testimoniare a Trapani, in Corte d’Assise, al processo per l’assassinio del giornalista Mauro Rostagno, non si presenta e solo allora giudici, investigatori, avvocati e giornalisti scoprono che il preziosissimo teste, un pentito di mafia abbastanza famoso, è morto. E allora si ingenera l’ulteriore equivoco che colloca la morte «sospetta» proprio nel giorno dell’importante deposizione.

Alla fine si deve cedere all’evidenza: il pentito Rosario Spatola è morto nel suo letto nell’agosto del 2008, ucciso da stenti, da una lunga malattia e dalla povertà in cui era precipitato dopo essere uscito dal programma di protezione.

Tutto ciò è avvenuto durante l’udienza di ieri mattina, nell’ambito del dibattimento che vede alla sbarra i vertici della mafia trapanese accusati dell’uccisione di Rostagno, avvenuta il 26 settembre del 1988 a Valderice, nelle vicinanze della comunità «Saman» fondata dallo stesso Rostagno. Nell’imbarazzo generale, tutti - dai giudici ai giornalisti, passando per gli investigatori - hanno dovuto prendere atto che la morte di un pentito portato per tribunali a sostenere accuse pesanti contro personaggi del calibro dell’ex ministro Calogero Mannino o di Bruno Contrada, era passata del tutto inosservata. Tanto da aver inserito il suo nome tra i testi in un processo cominciato dopo la sua morte.

Una fine ingloriosa per il povero Rosario Spatola, passato dagli onori delle tribune televisive, alla fame nera, per precipitare nell’anonimato assoluto nel paesino dov’era nato (Campobello di Mazara) e tornato, vecchio e debole, sfidando il pericolo di una ritorsione mafiosa. Ma quella fine, in verità, appare quasi consequenziale all’andamento della sua vita spericolata e sregolata.

Spatola apparve all’orizzonte nel 1989, quando la Procura di Trapani raccolse la sua testimonianza e quella di Giacoma Filippello (una delle prime donne pentite) che accusavano il sistema politico-mafioso e puntavano il dito contro il ministro Calogero Mannino. Accuse che furono accantonate dall’allora procuratore di Marsala, Paolo Borsellino, che tuttavia - continuò a utilizzare per altri versi le conoscenze di Spatola. Sul versante politico, in verità, non dimostrò grande attendibilità, tanto da incorrere in qualche errore di omonimia, confondendo un Nicolosi per un altro, e restando parecchio sul generico.

Il suo nome riacquistò notorietà nel 1993, quando diede la sua versione sulle presunte collusioni dello «007» Bruno Contrada. Spatola raccontò di aver visto il poliziotto a cena col boss Rosario Riccobono (allora latitante) in un ristorante, nella borgata di Sferracavallo. Fu smentito dal proprietario del locale con una motivazione irrituale ma efficace: «Secondo la testimonianza di Spatola - disse il ristoratore rivolto al tribunale - Riccobono e Contrada stavano seduti in un certo tavolo. Questo è impossibile, signor presidente, perché quel tavolo sta accanto alla porta del gabinetto e io Riccobono non l’avrei mai fatto sedere vicino al cesso. Contrada sì, ma Riccobono mai».

Poi, dopo le stragi del ’92 e specialmente dopo la morte di Paolo Borsellino, cominciò il lento e inesorabile declino del pentito Spatola. Era diventato bizzoso ed esigente, una spina per i funzionari del Servizio di protezione impegnati spesso a fare muro alle richieste del pentito. Eppure aveva ricevuto adeguata protezione, anche per la moglie e per la figlioletta, nata quasi in concomitanza con l’inizio della sua «nuova vita» di collaboratore di giustizia.

Entrò in confusione quando una parte del potere politico avviò la campagna per depotenziare l’importanza dello strumento processuale dei pentiti. Cominciò a denunciare presunte e mai provate irregolarità nella gestione dei collaboratori di giustizia, posizioni rese poco credibili dai precedenti scontri intrattenuti col Servizio di protezione e sempre per problemi economici.

Alla fine Rosario Spatola fu costretto ad accettare una «liquidazione» e ad uscire dal programma ministeriale. Così cominciò la sua lenta agonia. Provò a rifarsi un’esistenza, ma con scarsi risultati. Fu sfrattato dall’alloggio dove viveva sotto falsa identità e si trasferì al suo paese d’origine, forse sperando in un colpo di pistola che avrebbe potuto garantire ai familiari uno straccio di indennizzo. Alla fine, però, è arrivato prima il suo male oscuro.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9640


Titolo: FRANCESCO LA LICATA. - Dell'Utri, la verità giudiziaria e quella della storia
Inserito da: Admin - Marzo 10, 2012, 03:51:41 pm
10/3/2012

Dell'Utri, la verità giudiziaria e quella della storia

FRANCESCO LA LICATA

E adesso ci sarà chi griderà alla vittoria sui «pubblici ministeri che pretendono di scrivere la storia» e chi si aggrapperà ancora all’eventualità che un nuovo processo, già ordinato dalla Cassazione in un collegio diverso da quello appena sconfitto, possa dimostrare la fondatezza della tesi accusatoria della Procura di Palermo. Questo è il quadro che puntualmente ci viene consegnato, ogni volta che una sentenza definitiva accontenta o scontenta i contrapposti gruppi politici l’un contro gli altri armati.

Così è avvenuto con l’«assoluzione parziale» di Giulio Andreotti, «macchiata» dalla millimetrica prescrizione per alcune delle accuse, così durante gli altalenanti risultati dei diversi gradi di giudizio del processo all’ex ministro Calogero Mannino, alla fine assolto - anche lui - per la difficoltà di tenere il punto in Cassazione sul reato di concorso esterno in associazione mafiosa.

Ma forse bisognerebbe concludere che così avviene quando la posta in palio riguarda i volti delle istituzioni e, per automatismo, i giudici vanno alla ricerca di accertamenti più profondi risolvibili con salomoniche mediazioni. Nel caso del processo Dell’Utri - a giudicare dalle parole del procuratore generale e della relatrice - ci sarebbe in più una certa debolezza nell’esposizione delle tesi accusatorie, debolezza che si riverbera irrimediabilmente nella logica delle motivazioni offerte alla Suprema Corte. Ma questo sarà argomento discutibile solo dopo la lettura delle conclusioni di ieri sera.

E’ vero che logica vorrebbe che ogni processo facesse storia a sé, ma è pur vero che lo stesso svolgersi degli avvenimenti quotidiani offre il fianco per una lettura, come si dice, di squisita natura politica. Del resto basterebbe mettere in fila gli ultimi sviluppi giudiziari, cominciati con l’avvento della cosiddetta «Seconda Repubblica», per verificare come siano tenuti insieme da un sottile filo politico. Dall’uccisione dell’eurodeputato Salvo Lima, fino alle stragi mafiose di Capaci, via D’Amelio, Roma, Firenze e Milano: un’unica storia che ha visto coinvolti uomini politici di prima grandezza e fior di istituzioni. In appena 48 ore abbiamo assistito all’agghiacciante quadro descritto dai magistrati di Caltanissetta sulla strage Borsellino e al clamoroso ribaltamento di due sentenze di condanna nei riguardi del sen. Marcello Dell’Utri. Sono vicende separate, certo. Ma sono storie che nell’immaginario viaggiano sulla stessa trama. Forse, allora, si dovrebbe prendere atto che la soluzione giudiziaria possa non corrispondere al reale conseguimento della giustizia, che la verità processuale possa non coincidere con quella storica. In tal caso, però, dovrebbero essere le istituzioni politiche, il Parlamento, ad assumersi l’onere di colmare i vuoti che la magistratura per forza di cose è costretta a lasciare.

Si potrebbe discutere a lungo sui singoli «addebiti» contestati all’imputato Dell’Utri. Certo, sono provate alcune frequentazioni discutibili (Tanino Cinà, lo stalliere Vittorio Mangano in primis) e si potrebbe persino fare della facile ironia sulle telefonate coi mafiosi o sulla sua presenza al matrimonio londinese di un boss italo-americano, presenza giustificata come «casuale», trovandosi lui a Londra per visitare una mostra sui vichinghi. Sono episodi non edificanti ma, ha sostenuto il Pg, non dimostrano il concretizzarsi del concorso esterno. Le frequentazioni, insomma, non sono reato, come non lo furono per Calogero Mannino e per le strette di mano dispensate da Andreotti. Ma non dovrebbero neppure essere sottovalutate in un giudizio politico e morale che non attiene più alle prerogative delle aule di giustizia.
Paradossalmente, forse, a favore di Dell’Utri ha giocato l’enorme mole di atti entrati nel processo in corso d’opera. Durante l’appello sono arrivate le rivelazioni del pentito Gaspare Spatuzza (lo stesso del processo Borsellino) con le accuse sul presunto coinvolgimento dell’imputato, e di Berlusconi, allora presidente del Consiglio, nelle vicende delle stragi mafiose.

Ancora le stragi, ancora il filo rosso che trascina nelle aule di giustizia un’intera stagione politica. Nessun processo, finora, è riuscito a mettere un punto fermo nella direzione della conferma dell’esistenza di una innaturale sinergia, diciamo organica, tra mafia e politica. Neppure quello ad Andreotti pure offerto all’opinione pubblica come «La vera storia d’Italia». E il processo che si profila all’orizzonte di Caltanissetta soffre già del vizio d’origine: la difficoltà di provare il coinvolgimento dei politici che, infatti, sono stati indicati come «presenti» nel palcoscenico del periodo della «trattativa» e delle stragi, ma senza «mani sporche». Una mediazione possibile, come in quasi tutti i processi di mafia e politica, compreso quello contro il sen. Dell’Utri, che può sperare in un nuovo processo e, in subordine, nella prescrizione. Il nuovo clima, derivato dalla caduta di Berlusconi, per paradosso gli può persino giovare. Senza con questo voler credere in una magistratura sensibile ai cambi di stagione.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9864


Titolo: FRANCESCO LA LICATA. - Sciascia e il Paese della ragione smarrita
Inserito da: Admin - Marzo 24, 2012, 03:21:06 pm
24/3/2012

Sciascia e il Paese della ragione smarrita

FRANCESCO LA LICATA

No, questa volta non si tratta di un’invenzione letteraria. E il Comune appena sciolto per mafia non è un luogo immaginario, la Regalpetra di Leonardo Sciascia, ma la Racalmuto di oggi, con le ferite non ancora rimarginate della guerra di mafia degli Anni Novanta, con le lacerazioni dolorose figlie delle accuse sottoscritte dai pentiti che non hanno risparmiato parentele né vecchie e solide amicizie.

La statua di Siascia, senza piedistallo e appoggiata sul marciapiede, si confonde col popolo dello struscio pomeridiano e sembra aprire l’orecchio ai commenti dei soci del circolo Unione. Chissà se finalmente potrà ascoltare anche un semplice accenno sulla mafia, sulla malapolitica, su come l’amministrazione comunale è stata infiltrata dal malaffare. Già, perché nella patria di Leonardo Sciascia, che di mafia parlò quando tutti ne negavano l’esistenza, il problema continua ad essere rimosso nell’indifferenza generale. Una distrazione che non dove essere estranea al contagio.

Descrivendo la sua Regalpetra, annotava Sciascia: «Ho tentato di raccontare qualcosa della vita di un paese che amo, e spero di aver dato il senso di quanto lontana sia questa vita dalla libertà e dalla giustizia, cioè dalla ragione». Era il 1956 e la lontananza dalla «libertà e dalla giustizia» si riferiva soprattutto alla mancanza di equità sociale, all’arretratezza, alla vita grama di chi non aveva né voce né potere. Oggi l’assenza della ragione sta interamente in quella apatia, denunciata da voci isolate come i redattori del periodico «Malgrado tutto» (il giornale «adottato» e protetto dallo scrittore), che non ha saputo o voluto fare tesoro delle terribile esperienza della mattanza mafiosa e della successiva conoscenza del fenomeno scaturita dalle rivelazioni dei pentiti.

La ragione avrebbe imposto un’attenzione maggiore alle conseguenze della faida: se c’è guerra di mafia deve esserci contagio nella società civile e nelle istituzioni. La comunità di Racalmuto quel contagio non ha voluto vederlo. Seppelliti i morti, è scoppiato il silenzio delle armi. E senza cadaveri, si sa, la mafia non esiste. Invece c’era, eccome. Sarebbe bastato andare a guardare dove la commissione prefettizia ha trovato le anomalie che indirizzavano gli appalti sempre nella stessa direzione oppure dare una spiegazione alle presenze, anomale appunto, in seno al consiglio comunale.

Oppure semplicemente chiedersi come mai il Comune continuava a pagare metà stipendio ad un boss condannato e poi divenuto collaboratore di giustizia.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9920


Titolo: FRANCESCO LA LICATA. - Quei difetti meridionali in salsa padana
Inserito da: Admin - Aprile 07, 2012, 11:54:02 am
7/4/2012

Quei difetti meridionali in salsa padana

FRANCESCO LA LICATA

Chissà cosa avrebbe osservato Edward C. Banfield, autore del fortunato saggio su familismo amorale e «arretratezza» meridionale, leggendo le dichiarazioni che Nadia Degrada - dipendente amministrativa della Lega Nord - ha reso ai magistrati che indagano sullo scandalo dei «soldi facili» ai familiari di Bossi.

Sono davvero sorprendenti le risposte della signora Degrada ed anche quelle dell’altra impiegata di via Bellerio, Daniela Cantamessa. Chi ha dimestichezza con le storie immorali del profondo Sud, potrebbe essere facilmente tratto in inganno e credere che quei verbali provengano da qualche indagine sulla malapolitica siciliana o napoletana, oppure calabrese.

E invece riguardano il partito che della lotta al familismo amorale dei meridionali ha fatto la ragione della propria nascita e della propria esistenza. Fino a lasciarsi andare alla pretesa di un federalismo fiscale, pensato per sottrarre il popolo padano al giogo del debito pubblico provocato dal Sud famelico e «senza fondo». Per questo non v’era vicenda di mala amministrazione, registrata sotto il muro di Ancona, che non provocasse la «vibrata protesta» dei difensori del laborioso popolo padano. Per non parlare del (comprensibile) sdegno a fronte delle famigerate foto che ritraevano il governatore siciliano, Totò Cuffaro, alle prese coi cannoli che esorcizzavano l’onta di una condanna sfuggita al pericolo del concorso esterno.

Proprio per distinguersi da «quelli», dai brutti sporchi e cattivi, era nata la Lega. Era il simbolo di Giussano, la vera icona del giustizialismo dell’antipolitica. Sull’onda della lotta al familismo poggiava il successo di Bossi. Che tristezza, dunque, leggere oggi l’esistenza di una vera e propria squadra di fedelissimi del Capo - così chiamano Bossi i leghisti - che a tempo pieno si è occupata delle necessità materiali dei due figli di Umberto: i diplomi e le università private a Londra, le macchine sportive, le spese mediche, i soldi in nero, la «consulenza» al Parlamento Europeo generosamente concessa da Speroni al giovane Riccardo Bossi. E poi l’aiutino (a colpi di centinaia di migliaia di bigliettoni) alla signora Manuela per la sua «scuola bosina» di Varese e il dirottamento di fondi di una legge dello Stato a sostegno sempre dello stesso istituto. Per non parlare della ristrutturazione della terrazza della casa di Gemonio, abitazione del Capo. Gemonio, non provincia di Potenza, che era stato l’osservatorio del prof. Banfield.

Ma il «cerchio magico» di Bossi, quello dei fedelissimi, della ristretta cerchia di amici rinsaldata dopo la grave malattia che ha debilitato l’Umberto, il gruppo dei duri, insomma, accoglieva anche la senatrice Rosy Mauro, che i leghisti chiamano «la nera». Neppure la senatrice - a sentire i testimoni del lungo degrado amministrativo del partito, gestito ormai come un’azienda di famiglia - si è sottratta all’abuso del tesoriere Belsito. E così apprendiamo di una sua «installazione continua» nei pressi dell’abitazione di Bossi, fino a diventare la sua unica ispiratrice e badante. Dice la teste Dagrada che Belsito spesso staccava qualche assegno anche a lei, e aggiunge che coi soldi della Lega sono stati pagati gli studi del fidanzato della senatrice, un poliziotto in aspettativa ma «arruolato» con incarico del Senato, di cui la Mauro è vicepresidente.

Insomma, non sono una gran bella lettura gli interrogatori di Nadia Degrada e Daniela Cantamessa. Rigo dopo rigo si precipita verso la più completa negazione della missione moralizzatrice della Lega. Una tempesta improvvisa? Fulmine a ciel sereno? Chi conosce i meccanismi della vita quotidiana della politica, in verità, qualche indizio deve averlo raccolto ormai da qualche anno.
Anche prima della «caduta» di Bossi. Già quando il Parlamento si popolò di disinvolti nuovi abitanti, giunti al grido di «Roma ladrona», chi è abituato all’osservazione antropologica dei protagonisti della cosa pubblica intuì come i duri e puri del giuramento di Pontida ben presto avrebbero potuto cedere al benessere delle serate trascorse alla Trattoria dell’Orso o nelle comode stanze dei grandi alberghi. E, in fondo, si capì anche come i padroncini delle «fabbrichette» a conduzione familiare del profondo Nord, stazionanti davanti a Montecitorio in attesa del deputato di riferimento, non fossero poi tanto diversi dai famelici Cetto Laqualunque delle contrade meridionali.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9971


Titolo: FRANCESCO LA LICATA. - Un faro sui pericoli in agguato
Inserito da: Admin - Maggio 27, 2012, 09:47:27 am
24/5/2012

Un faro sui pericoli in agguato

FRANCESCO LA LICATA

Dobbiamo essere grati al Capo dello Stato per avere, col suo generoso intervento nell’aula bunker di Palermo, riportato il tema della lotta alle mafie al centro dell’attenzione politica e istituzionale. Senza se e senza ma, di fronte a tanti familiari delle vittime del passato e alle giovani compagne di Melissa, ultima vita sacrificata alla follia terroristica, Napolitano ha detto a chiare lettere che la violenza mafiosa è un pericolo e un attacco alla democrazia. E’ ancora un pericolo mortale, nel senso che non è venuto meno tutto il suo potenziale distruttivo e di penetrazione nel consesso civile. Proprio nel ricordo dei nostri eroi Falcone, Borsellino, La Torre, Dalla Chiesa e di tutti i caduti, allora, bisognerà tenere alta la guardia e impegnarsi nel «garantire stabilità di governo e mettere in cantiere processi di riforma» senza farsi deviare da «attacchi criminali, fenomeni di violenza e comportamenti destabilizzanti di qualsiasi matrice». «Non ci facemmo intimidire - ha assicurato Napolitano - non lasciammo seminare paura e terrore né nel ’92 né in altre dure stagioni e sconvolgenti emergenze. Tantomeno cederemo ora».

Non è stata una semplice commemorazione, quella del Capo dello Stato. Certo, il ricordo di Falcone e Borsellino, il giusto tributo a due grandi italiani sono stati il motore di un discorso che, però, è andato ben al di là dell’esercizio di retorica. Le parole di Giorgio Napolitano hanno messo in evidenza tutta la reale preoccupazione per un momento generale ad altissimo rischio di tenuta istituzionale, ma anche la grande determinazione nel mettere in campo le forze e i rimedi migliori per arginare il pericolo.

Le apprensioni del Capo dello Stato sembrano rivolte principalmente all’attuale fragilità del sistema politico, economico e finanziario, vista come potenziale cavallo di Troia per un possibile attacco mafioso. In questo senso è esplicito il riferimento al 1992 e «agli attentati della primavera del 1993 e il loro torbido sfondo». Aggressione che si esaurì, seppure «la mafia seppe darsi altre strategie, meno clamorose ma non meno insidiose». Anche di queste parole dirette, bisogna esser grati al Capo dello Stato, perché - senza cedimenti al politichese consolatorio - parte dall’esperienza trascorsa per accendere una luce sui pericoli in agguato. Specialmente laddove chiarisce che «la crisi favorisce l’azione predatoria dei clan criminali e questi tendono a porsi come procacciatori di occasioni di lavoro, sia pure irregolare».

Insomma è la debolezza economica che impensierisce più di tutto il Capo dello Stato, fino a temere pericolose irruzioni anche «nei più sofisticati circuiti finanziari». Lo impensierisce tanto da fargli temere persino «feroci ritorni alla violenza di stampo stragista e terroristico». Riferimento chiaro all’attentato alla scuola: «Un sollecito e serio svolgimento delle indagini sull’oscura, feroce azione criminale di Brindisi potrà fornirci elementi concreti di valutazione».

Ma non c’è rassegnazione nel discorso di Napolitano, anzi. Proprio il sangue degli eroi darà la forza di reagire e battere ancora il malaffare, anche con la fierezza di quei ragazzi presenti nell’aula bunker con gli occhi pieni di lacrime, ma fedeli all’eredità di Falcone e Borsellino.

Il Capo dello Stato ha indicato la strada da seguire: la ricerca onesta della verità, anche quella scomoda. Non v’è altro metodo per «dipanare le ipotesi più gravi e delicate di impropri o perversi rapporti tra rappresentanti dello Stato ed esponenti mafiosi». Ma procedere «con profonda sicurezza» non vuol dire «nasconderci la gravità degli errori che in sede giudiziaria possono compiersi, come ne sono stati compiuti nei procedimenti relativi alla strage di via D’Amelio». Non ha voluto tralasciare proprio nulla, il Presidente. A conferma della grande attenzione riposta nell’attuale momento della vita del Paese. Un grande conforto, un immenso sostegno a quanti non hanno abbassato la guardia e continuano a combattere una battaglia sul fronte dell’affermazione della legalità, anche tra gli scetticismi e le critiche di superficiali, frettolose e interessate autoassoluzioni.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10139


Titolo: FRANCESCO LA LICATA. - Mafia, i veleni che allontanano la verità
Inserito da: Admin - Giugno 20, 2012, 11:14:16 pm

20/6/2012

Mafia, i veleni che allontanano la verità

FRANCESCO LA LICATA

Com’era ampiamente prevedibile con la chiusura dell’inchiesta sulla famigerata trattativa fra Stato e mafia l’intera vicenda diventa meno chiara e più confusa.

E tutto perché sulla scena ha fatto irruzione la solita battaglia di parte che non ha mai portato bene al raggiungimento della verità. Specialmente nelle storie di mafia e politica. L’occasione che ha funzionato da detonatore è data da alcune intercettazioni telefoniche.

Quelle tra Nicola Mancino, ex presidente del Senato oggi indagato a Palermo perché sospettato di essere uno dei terminali della trattativa, e il consigliere giuridico del Quirinale, Loris D’Ambrosio. Il primo, ormai è noto, invocava un qualificato intervento a protezione dell’indagato a suo parere vittima di un «differente trattamento» dei magistrati di Palermo, più «duri» di quelli di Caltanissetta. Il risultato di questo intrattenimento telefonico, per dirla in breve, sarebbe stato una lettera del Quirinale, al Pg della Cassazione, al quale si indica la strada dell’esercizio delle prerogative riguardanti i poteri di coordinamento fra le Procure. Questa la cronaca, seppure in sintesi visto che se ne dibatte ormai da giorni.

Ma la polemica sembra aver ampiamente travalicato i confini della dialettica politica perché, per forza di cose, ha finito per trasformarsi in un corposo attacco alla presidenza della Repubblica, anche dopo i chiarimenti offerti dal Quirinale e ritenuti perfettamente in linea coi poteri del Presidente e con il rispetto della legge.

Che le cose stiano in questi termini sembra dimostrato dalla proposta di Antonio Di Pietro, che chiede l’istituzione di una commissione parlamentare d’inchiesta (quindi con poteri giudiziari) per sapere «cosa è avvenuto tra esponenti di governo, esponenti che lavorano alle dipendenze del Quirinale e della magistratura su questa pagina oscura della Repubblica». Ovviamente l’iniziativa ha subito riprodotto gli schemi che sono propri dello scontro fra maggioranza e opposizione: Di Pietro e i movimenti da un lato, dall’altro il Pd («una follia»), Casini etc.

Non sfugge a nessuno quanto poco saggio possa essere il tentativo di coinvolgere il Quirinale in una polemica scivolosa come quella che riguarda il presidente Mancino. Anche perché, ancor prima di chiarire il comportamento dell’indagato e dei personaggi delle istituzioni venuti con lui a contatto, sarebbe forse il caso di fare piena luce su quello che è stato il torbido abbraccio che nel 1992 portò pezzi dello Stato, anche alti e qualificati, a trattare con Cosa nostra la fine dello stragismo mafioso e lo stop alla programmata mattanza di uomini della politica e delle istituzioni. Ma all’Idv sembra interessare più di ogni altra cosa il presunto «trattamento di favore», sempre che ci sia, concesso al «cittadino Mancino». Di questo tenore la polemica a distanza fra Pasquale Cascella, portavoce del Quirinale, e il Fatto Quotidiano , che si riconosce sulle posizioni di Di Pietro e delle opposizioni.

Ciò che è accaduto in Italia tra il 1989 e il 1994 merita davvero di essere approfondito e spiegato: troppo grande sarebbe il peso di un ennesimo buco nero senza verità. Ma una simile operazione avrebbe bisogno di una ferrea unità di intenti della magistratura, ed anche di una unità di vedute, senza steccati, senza la difesa del «proprio particulare» di ognuna delle Procure in campo. E non è sempre vero che le cose funzionino in questo modo. E’ vero, invece, che la magistratura di Palermo e quella di Caltanissetta su tante cose la pensano in modo diverso.

Ne è testimonianza la risposta che ieri il sostituto Nico Gozzo (Caltanissetta) ha dato all’Associazione delle vittime delle stragi mafiose, che lamentava proprio questa differenza di vedute. Gozzo, com’è comprensibile, difende il proprio operato. Ma nega che il diverso trattamento a Mancino sia conseguenza di una «maggiore malleabilità» rispetto ai colleghi di Palermo. Un ulteriore elemento di divisione, questo, di cui non si avvertiva la necessità. Divisione accentuata anche dalla verve polemica dello stesso Gozzo nei confronti dei giornalisti del Fatto Quotidiano , mai nominati ma indicati sostanzialmente come «qualcuno» che si è inserito per «truccare le carte». Anche questo, non sembra il modo migliore per agevolare la comprensione di una vicenda che è già difficile e complessa, di suo, tanto da aver indotto il Procuratore Nazionale, Pietro Grasso, ad augurarsi che «i rappresentanti delle istituzioni si pentano e comincino a collaborare». Se non davanti ai giudici, magari davanti ad una commissione di parlamentari.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10246


Titolo: FRANCESCO LA LICATA. - Serve unità per sanare le ferite
Inserito da: Admin - Luglio 20, 2012, 10:21:12 am
20/7/2012

Serve unità per sanare le ferite

FRANCESCO LA LICATA


Gli anniversari, quelli in memoria di persone care che non ci sono più, sono sempre ferite che si riaprono.

Specialmente in occasione del ricordo di perdite gravi, come sono stati gli assassinii di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Per questo ogni volta viene auspicata quella unità, quella coesione nazionale che servirebbe a lenire il dolore e ad aprire la strada alla speranza che il lutto possa essere risarcito col conseguimento della verità, in genere negata alle «parti lese». Non riusciamo a immaginare migliore unguento alle ferite di un fronte unico, capace di vincere la difficilissima battaglia contro le mafie, il malaffare e la corruzione.

E in questa direzione va il messaggio che, ieri, il Capo dello Stato ha voluto indirizzare ai magistrati riuniti in assemblea per commemorare il giudice Paolo Borsellino. Un segnale di grande affetto verso la signora Agnese, vedova del magistrato, e i figli che il Presidente chiama per nome, così come gli agenti della scorta uccisi con Borsellino. Un tono quasi paterno, quello di Napolitano, anche quando prende l’impegno solenne di voler porre rimedio alla «umiliazione» (per l’intera comunità) per il debito di verità delle indagini, per «quella contraffazione della verità». Ma, aggiunge il Presidente, «si sta lavorando, si deve lavorare senza sosta e senza remore per la rivelazione e sanzione di errori ed infamie che hanno inquinato la ricostruzione della strage di via D’Amelio».

Anche il tono riservato ai magistrati tradisce estrema comprensione per la loro «sofferenza sofferta nel corso degli anni, per la perdita di eminenti esemplari colleghi», e quasi una comunanza («vissi lo stesso dramma») sia per la perdita di Falcone e Borsellino, sia per la tragica fine di uomini come Terranova e La Torre. Una commozione, quella del Presidente, che non può esimerlo per il suo ruolo istituzionale - dal dovere di controllo al fine di «scongiurare sovrapposizioni nelle indagini, difetti di collaborazione tra le autorità ad esse preposte, pubblicità improprie e generatrici di confusione».

Parole che dovrebbero rasserenare, in qualche modo, il clima politico-istituzionale ed appianare le polemiche sorte intorno alla questione delle telefonate al Quirinale dell’ex ministro Nicola Mancino, della loro intercettazione da parte della Procura di Palermo (iniziativa che ha diviso insigni giuristi e costituzionalisti) fino al ricorso, da parte di Napolitano, alla Corte Costituzionale per un pronunciamento su un eventuale conflitto di attribuzione.

Una vicenda che ha avuto notevole ricaduta mediatica, come ormai accade sempre più spesso nelle vicende politico-giudiziarie italiane. «Una tempesta in un bicchier d’acqua», l’ha definita ieri il procuratore nazionale antimafia, Pietro Grasso, che, qualche giorno prima, aveva gettato acqua sul fuoco osservando come la questione fosse «in buone mani», cioè nelle mani dell’Alta Corte, e quindi non c’era che da attendere il qualificato responso.

Al di là della battuta, il parere di Grasso mette in risalto come l’aver voluto coinvolgere il Quirinale abbia sortito, alla fine, il discutibile risultato di aver fatto passare in secondo piano l’obiettivo principale (la verità sulla trattativa tra Stato e mafia) in favore di una polemica di difficile comprensione, dal momento che sono stati gli stessi magistrati di Palermo a chiarire che le telefonate intercettate non avevano «rilevanza penale» e, soprattutto, che da parte del Colle (ha chiarito con onestà il pm Ingroia) non c’era stato alcun tentativo di pressione o di incidere sull’esito dell’inchiesta.

Ma il fragore mediatico ormai sembra essere l’obiettivo della competizione politica: non è importante dibattere su argomentazioni serie e certe, perché prima di tutto, prima della ragione, basta accendere una rissa. La «temperatura alta» sembra essere diventata la condizione preferita dalla politica. E spesso ne fanno le spese i magistrati e le loro inchieste, usate come corpi contundenti prima ancora che si riesca a capire quale sia lo stesso oggetto delle indagini. Nelle prossime ore si dovrebbe giungere alle richieste per gli indagati coinvolti nell’inchiesta sulla «trattativa». Domanda: senza l’iniziativa del Quirinale sul conflitto d’attribuzione, avrebbe retto il segreto sulle telefonate «penalmente irrilevanti»?

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10349


Titolo: FRANCESCO LA LICATA. - Grasso: "Troppe domande sono rimaste senza risposta"
Inserito da: Admin - Luglio 25, 2012, 05:00:36 pm
Cronache

22/05/2012 - 1992-2012 speciale Falcone e Borsellino

Grasso: "Troppe domande sono rimaste senza risposta"

Fianco a fianco al maxiprocesso Grasso conobbe Falcone durante il maxiprocesso a Cosa nostra, quando era giudice a latere

Parla il procuratore nazionale antimafia: “Le vere motivazioni restano oscure”

FRANCESCO LA LICATA

Roma

Quando il procuratore nazionale Pietro Grasso si abbandona ai ricordi, traspare tutta la confidenza che deve aver caratterizzato il suo rapporto umano e professionale con Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Ed anche l’amore per due amici «rubati» dalla violenzamafiosa, tanto da sentirsi - ancora dopo vent’anni - «parte lesa per il danno subìto». Un danno che, stando alle semplici parole del procuratore, non è stato mai indennizzato. Neppure da quelle istituzioni che avrebbero dovuto fare di tutto «per offrire verità e giustizia ai familiari e ai cittadini, privati di un bene incalcolabile e irripetibile».

Cominciamo dai ricordi, dottor Grasso. Chi era Giovanni Falcone?
«Era soprattutto un uomo perbene, un magistrato integerrimo e un grande investigatore. Una persona speciale con un enorme senso dello Stato e del dovere: per questo forse, in vita, ha avuto più nemici che simpatizzanti e, da morto, è diventato l’oscuro oggetto del desiderio dei suoi più acerrimi nemici».

Come vi siete incontrati?
«È stato il maxiprocesso ad avvicinarci, ma già avevo avuto modo di verificare la professionalità che faceva di lui un fuoriclasse. Fu quando dal ritrovamento di una motoretta abbandonata riuscì a risalire al furto, agli autori del furto e, soprattutto, a “fare giustizia” riconsegnando al proprietario il mezzo, seppure danneggiato. Credo che in questa metafora vi sia tutto il senso del fare giustizia, fino al risarcimento della vittima, che non avviene spesso. Poi fui designato alla gestione, come giudice a latere, della “creatura” a cui Falcone teneva di più: il processone all’intera Cosa nostra. Ricordo quando andai a trovarlo per sapere di più dell’impianto processuale e lui, ironico come sempre, quasi sfottente, mi portò davanti alle ottocentomila pagine archiviate in faldoni e mi disse semplicemente: “Eccolo”. Mi sentii schiacciato da quella mole di carte ma non mi persi d’animo e, subito, rilanciai: “Bene, qual è il primo volume”? Così capì che avevo voglia di lavorare e si rassicurò. Già, voglia di lavorare, la dote che più ricercava nei collaboratori».

Dicono non fosse simpatico, Falcone.
«Era una persona seria, merce rara e spesso non amata. Ma in privato sapeva sorridere, sapeva divertirsi. Amava la vita, la libertà, lo sport, la musica, i buoni film, la buona tavola e il vino raffinato. Rappresentava un suo umorismo, tutto particolare. Per esempio la capacità di giocare col senso della morte. Alcuni siciliani, specialmente quelli che vivono a contatto col pericolo, sanno scherzare col macabro, forse per esorcizzare il pensiero dellamorte.Anche Borsellino giocava colmacabro. Giocava con Giovanni e gli diceva: “Io sto tranquillo, tanto se decidono di ammazzare qualcuno sicuramente cominciano da te”. Una volta al ristorante, sul golfo diMondello, abbiamo avuto qualche attimo di apprensione vedendo arrivare una barca che si avvicinava troppo. Poi capimmo che non c’era motivo di allarmarsi e proprio in quel momento si avvicinò il cameriere per un chiarimento sulla bistecca che aveva ordinato Falcone: “Per lei naturalmente al sangue, dottore”. Scoppiammo a ridere, davanti al cameriere sbigottito. Le stesse risate che non riuscimmo a trattenere quella volta che trovammo un’ambulanza, davanti al palazzo di giustizia, sovrastata da un cartello che diceva: “Date il vostro sangue”. “Questi li manda la mafia”, fu il commento di Falcone rivolto a Borsellino».

Riuscivate a percepire il pericolo, man mano che i due si avvicinavano al campominato delle inchieste sui piani alti dellamafia?
«L’omicidio di Salvo Lima fu il campanello d’allarme più importante. Giovanni aveva subìto ogni tipo di avversione, era stato sempre puntualmente bocciato per gli incarichi che il buonsenso gli avrebbe tranquillamente affidati. Persino la bomba all’Addaura era stata strumentalizzata contro di lui. Dissero che l’attentato se l’era fatto lui per guadagnarsi la nomina a procuratore aggiunto di Palermo. E quando accettò di andare a Roma, conMartelli, si inventarono che fuggiva per intraprendere la carriera politica. Vergognoso ciò che ha dovuto subire».

L’omicidio Lima, dunque, lo allarmò.
«Capì che erano saltati gli schemi, proprio mentre sul tappeto delle inchieste c’erano i grovigli dimafia, politica, imprenditoria e appalti. Disse: “Ora può succedere di tutto”».

E così fu. Le stragimafiose... Il ricatto allo Stato.
«Certo, la mafia, i corleonesi, Totò Riina. Ma basta questo a spiegare tutto? Passi avanti se ne sono fatti, ma ci sono domande ancora senza risposta».

Ce ne dica qualcuna, procuratore.
«Per esempio, chi e perché decise di eliminare Falcone con una scenografia di natura terroristica e politica? Fu iniziativa di Riina? Chi e per quale motivo spinse Cosa nostra ad accelerare l’esecuzione della strage di via D’Amelio, tralasciando anche i progetti, già in fase avanzata, di eliminazione di uomini politici? Faceva paura l’eventualità di Borsellino capo della Superprocura, o lo spettro di nuove indagini su mafia e appalti? Prevalevano gli interessi di Cosa nostra lanciata nel tentativo di trattare sul carcere duro e sulle condizioni della cupola, oppure il coacervo di interessi di entità esterne (massoneria, imprenditoria e servizi deviati) decisi a mantenere i loro illeciti profitti? Oppure era il tentativo di disinnescare l’effetto Tangentopoli col conseguente disfacimento del vecchio sistema politico? Devo continuare? Ame pare che basti»

da - http://www3.lastampa.it/cronache/sezioni/articolo/lstp/455232/


Titolo: FRANCESCO LA LICATA. - Un cammino pieno di ostacoli
Inserito da: Admin - Luglio 25, 2012, 05:15:28 pm
25/7/2012

Un cammino pieno di ostacoli

FRANCESCO LA LICATA

Per la Procura di Palermo, dunque, nel 1992 - dopo il trauma del feroce assassinio dell’eurodeputato Salvo Lima - lo Stato italiano scese a patti con Cosa nostra, che chiedeva un «ammorbidimento» del carcere duro in cambio della fine della strategia stragista e, in particolare, della programmata «mattanza» di uomini politici già nel mirino e sottoposti, addirittura, a controlli propedeutici al loro assassinio.

E’ un passo, grave, che i pubblici ministeri palermitani compiono certamente non a cuor leggero e per la portata delle accuse rivolte alle autoritàdeltempoeperilclimapolitico-istituzionale che accoglie la loro iniziativa, certamente non del tutto favorevole alle tesi della pubblica accusa. Tra i personaggi proposti per il rinvio a giudizio (insieme con capimafia di ampio spessore) spiccano gli ex ministri Nicola Mancino e Calogero Mannino, il cofondatore di Forza Italia sen. Marcello Dell’Utri -, tre ufficiali dei carabinieri: nomi pesanti, il cui coinvolgimento certo non alimenta il senso di credibilità nello Stato.

La storia della trattativa con la mafia ha radici antiche, anche se fino a un certo punto è stata liquidata più come «chiacchiera indimostrabile» o fantasia giornalistica che come vicenda realmente accaduta. Si pensi soltanto che Giovanni Brusca - il collaboratore che per primo parlò del «papello», la listadellerichiestediCosanostraalloStato-laconsegnò alla magistratura nel lontano 1997. E l’anno successivo se ne dibatteva alla Corte d’Assise di Firenze, senza che, poi, venisse mai presa in seria considerazione. Oggi che ritroviamo le tesi della Procura in una richiesta di rinvio a giudizio, non si può più credere sia soltanto una «chiacchiera».

I magistrati palermitani sono convinti che la trattativa sia esistita e sia stata originata dall’allarme lanciato dall’allora capo della Polizia, Vincenzo Parisi, nel lontano marzo 1992. Dopo Salvo Lima, Riina voleva uccidere Calogero Mannino, Carlo Vizzini ed altri politici «per lanciare un messaggio»epretendereun trattamento meno duro peril popolodiCosanostra.Anzi,secondoipm,sarebbe stato proprio Mannino ad intervenire presso le strutture investigative (servizi segreti e Ros) perché cercassero un contatto che potesse fermare il progettodellamafia.Unmodopersalvarsilavitae per bloccare la deriva stragista di Totò Riina.

Così l’allora col. Mori e il cap. De Donno (con la copertura del comandante del Ros Antonio Subranni) - sempre secondo i pm - cercarono e trovarono l’aggancio con l’ex sindaco di Palermo, Vito Ciancimino, uno dei pochi in grado di «parlare» con la mafia corleonese. Per dirla in breve, la trattativa qualche effetto l’avrebbe avuto: Mancino prende il posto di Scotti al ministero dell’Interno, Martelli lascia la Giustizia a Conso, e al vertice delle carceri arrivano Capriotti e Di Maggio. Sostengono i magistrati che tutto il movimento produce il mancato rinnovo di 328 decreti di 41 bis per altrettanti mafiosi.

E’ una storia inquietante, questa. Soprattutto perché proprio mentre va in scena il dramma segreto descritto dai pm palermitani, alla luce del sole esplode la tragedia immensa degli attentati a Falcone e Borsellino. E’ questo, crediamo, il nodo che ha fatto esplodere la contrapposizione recente fra le istituzioni e i familiari delle vittime. Ed è, forse, questo lo stato d’animo che ha motivato il lavoro dei pm palermitani.

Ma la strada della loro inchiesta non sembra delle più facili. Non aiuta lo scontro che la Procura ha voluto intraprendere col Quirinale per la vicenda delle intercettazioni tra il sen. Mancino e il consigliere giuridico del Capo dello Stato, Loris D’Ambrosio. Una vicenda adesso ferma, in attesa che la Corte Costituzionale si pronunci sul conflitto d’attribuzione sollevato dal presidente Napolitano.

Non si può dire che questo groviglio non abbia avuto un peso, anche rispetto alla coesione interna del gruppo dei pm. La richiesta di rinvio a giudizio, depositata ieri, non porta la firma del Procuratore capo, Francesco Messineo. E non ha firmato neppure un altro sostituto, Paolo Guido, perché in disaccordo con le conclusioni dei colleghi. Ad indebolire la «squadra» anche il fatto che soltanto uno dei sostituti che hanno firmato, Francesco Del Bene, fa parte della Procura distrettuale antimafia. Per non parlare dell’ulteriore «complicazione» rappresentata dall’annunciata volontà di Antonio Ingroia di trasferirsi per un anno in Guatemala.

Insomma, non mancheranno ostacoli sul «cammino di verità e giustizia», per dirla con le parole del procuratore aggiunto Ingroia. Uno che viene già paventato riguarda un problema di competenza. C’è chi sostiene che il processo sia destinato ad essere trasferito a Caltanissetta o a Firenze, visto che la trattativa era un espediente per interferire in qualche modo nella strategia delle stragi mafiose. Stragi che si sono verificate e rappresentano, dunque, il reato più grave rispetto a quelli contestati ai protagonisti della trattativa. Da qui l’attribuzione della titolarità agli uffici giudiziari che si occupano delle stragi.

Un’eventuale decisione in questo senso contribuirebbe di certo ad accrescere il dolore provocato dalle stragi e alimenterebbe le perplessità di quanti non credono di poter mai ottenere verità e giustizia.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10369


Titolo: FRANCESCO LA LICATA. - Il processo che ha cambiato l’antimafia
Inserito da: Admin - Dicembre 16, 2012, 11:56:42 pm
Editoriali
16/12/2012

Il processo che ha cambiato l’antimafia

Francesco La Licata


Il maxiprocesso contro la mafia, di cui celebriamo oggi il venticinquesimo anniversario, ha rappresentato forse l’unico vero avvenimento rivoluzionario della nostra storia politico-giudiziaria. Il 16 dicembre del 1987 si delineò uno spartiacque netto tra il «prima di Falcone» e il «dopo». 

 

Da allora è cambiata la lotta alla mafia, anzi si può tranquillamente affermare che allora ebbe inizio l’antimafia nelle aule di giustizia. 

Già, perché prima Cosa nostra semplicemente non esisteva come organizzazione criminale unica, coesa e con un’unica direzione strategica. Si erano celebrati processi che puntualmente erano andati a naufragare fra le correnti dei singoli avvenimenti, analizzati caso per caso e perciò indecifrabili o sbrigativamente liquidati con la formula salvifica dell’insufficienza di prove. 

 

Il maxiprocesso, invece, finì per rappresentare il racconto completo di un pezzo di storia d’Italia, a partire dal dopoguerra. Ma un racconto sarebbe rimasto limitato ed esposto alle interpretazioni letterarie se non fosse stato saldamente inserito nei confini rigorosi di una sentenza giudiziaria. Per questo l’istruttoria che preludeva al «maxi» era stata osteggiata con ogni mezzo, lecito o azzardato. Lo sbarramento politico, in chiave utilitaristicamente garantista, aveva aperto le ostilità con le aggressioni a Giovanni Falcone, a Paolo Borsellino e al resto dei componenti del pool dell’Ufficio istruzione di Palermo. La battaglia sul campo sarebbe stata affidata agli avvocati che, sul terreno di combattimento dell’aula bunker, avrebbero messo in atto ogni mezzo (ostruzionismo e ricerca dilatoria, soprattutto) per affossare il dibattimento. Un impegno che a qualcuno dei legali, in seguito, avrebbe procurato un riconoscimento politico tale da spalancare le porte del Parlamento, anche dopo la vittoria di Falcone: la cupola (19 boss) all’ergastolo, i picciotti condannati duramente (2665 anni di carcere) e l’«anticipo» di ciò che sarebbe avvenuto in politica col coinvolgimento giudiziario dei cugini Nino e Ignazio Salvo e di Vito Ciancimino. 

 

Ma proprio questa efferatezza dello scontro, che riguardava Cosa nostra ma non risparmiava i partiti «cresciuti» e «ingrassati» sotto l’ala mafiosa, risulterà essere il timer della bomba che esploderà negli Anni Novanta con l’aggressione stragista allo Stato e il conseguente, scellerato cedimento alla tentazione trattativista. La mafia presentava il conto accumulato durante gli anni delle «indecenti frequentazioni» della politica, e chiedeva di essere salvata dal maxiprocesso che, proprio nel 1992, trionfava in Cassazione (malgrado l’assassinio preventivo del giudice Scopelliti, designato come pm) e relegava la direzione strategica corleonese al carcere a vita. Una condizione che, di fatto, svuotava di potere l’intera organizzazione criminale. Muore l’ex sindaco di Palermo, Salvo Lima, giustiziato pubblicamente come «primo messaggio» di Cosa nostra. Il resto è storia conosciuta: Capaci, via D’Amelio, le stragi di Roma, Firenze e Milano, la mancata strage del 1994, allo stadio Olimpico. A distanza di tanti anni risulta più comprensibile l’affermazione di quanti dichiararono amaramente che «Falcone cominciò a morire il giorno in cui la Cassazione consacrava il successo del maxiprocesso». Morirà anche Paolo Borsellino e morirà la seconda volta quando verrà fuori l’intreccio della trattativa fra Stato e mafia, con le prove del depistaggio e dell’infedeltà istituzionale. Ma oggi, dopo 25 anni, il coltello è ancora affondato nella carne di Cosa nostra: le hanno tentate tutte, ma gli ergastoli stanno ancora sulle loro teste. 

da - http://www.lastampa.it/2012/12/16/cultura/opinioni/editoriali/il-processo-che-ha-cambiato-l-antimafia-WqswMOhqznufXplXAi8oGJ/pagina.html


Titolo: FRANCESCO LA LICATA. - Il solito copione: capri espiatori nessun colpevole
Inserito da: Admin - Luglio 22, 2013, 06:18:31 pm
Editoriali
17/07/2013

Il solito copione: capri espiatori nessun colpevole

Francesco La Licata


il gioco delle parti ha dato vita ad un copione vecchio e usurato, recitato sul palcoscenico del Parlamento da un ministro dell’Interno, Angelino Alfano, che sembrava la copia esatta di tanti suoi predecessori, costretti, nel corso dei decenni, a trovare una «pezza» - anche a costo di sfiorare l’illogico - ogni volta che accadeva l’irreparabile. Alfano ha letto, in sostanza, la relazione approntata dal Capo della Polizia, Alessandro Pansa, quasi affidando proprio a quel testo una sorta di «certificazione» sul fatto che «l’affaire Shalabayeva» si fosse svolto a «sua insaputa». E per dare maggior peso alla relazione Pansa, con una «procedura di trasparenza» abbastanza inusuale, ha comunicato che il documento potrà essere letto da tutti sul sito del ministero. 

 

Alfano ha ribadito che tutto è avvenuto all’insaputa sua e dell’intero governo. Soprattutto la parte dell’operazione riguardante l’espulsione della signora Shalabayeva e della figlioletta, dopo la fallita cattura del marito, il dissidente kazako Mukhtar Ablyazov, che, però, dice il ministro, per la nostra polizia era solo un pericoloso latitante e terrorista, perché così era stato assicurato dal console kazako Adrian Yelemessov.

 

Ora, è comprensibile - anche se non giustificabile - che un’indagine amministrativa debba muoversi cercando di procurare il danno minore - ce lo insegnano decine di commissioni inutili su ogni genere di disastro istituzionale -, ma appare eccessivo che si ammetta placidamente che la nostra polizia (Interpol compresa) non sappia chi e quanti siano gli oppositori stranieri presenti a vario titolo nel nostro Paese. Forse sarebbe stata opportuna magari una telefonata ai nostri servizi o anche a qualche servizio amico, per esempio quello inglese, Paese dove la signora Alma Shalabayeva era stata ospitata prima di giungere a Roma. Ma la ragion politica (in questo caso la difesa della stabilità del governo) deve sempre prevalere e quindi passi che accettiamo di fare la figura dei poliziotti delle barzellette. L’importante è difendere la propria (del ministro e del governo) estraneità, tuonare e promettere che «tante teste cadranno» anche se poi non succederà. 

 

La vicenda, invece, avrebbe meritato ben altro svolgimento. L’ammissione del ministro («non sapevo nulla»), sorretta dall’analisi del prefetto Pansa, è istituzionalmente gravissima. L’indagine amministrativa sembra aver dimostrato che, dopo l’irruzione di uno squadrone di poliziotti a Casal Palocco e la fuga del latitante, si è inceppato il meccanismo della comunicazione tra i burocrati del Dipartimento e il gabinetto del ministro. In sostanza, dice Alfano, la vicenda fu trattata come una normale espulsione e queste pratiche, per prassi, non vengono sottoposte all’autorità politica.

 

Forse ci saremmo aspettati da Angelino Alfano, oltre alla minuziosa, burocratica ricostruzione, anche un qualche cenno sul danno prodotto all’immagine dell’Italia, additata pubblicamente come una «piccola» democrazia che si piega alle richieste del dittatore Nazarbayev. E forse, perché no?, non sarebbe stata inopportuna una qualche parola di umana «pietas» (presumibile per un cattolico come Alfano), a parziale indennizzo del dolore provocato ad Alma e alla sua bambina. Ma la politica concede poco spazio alla considerazione per il prossimo.

Cosa accadrà adesso? Il ministro una testa l’ha portata: quella del prefetto Procaccini, suo capo di gabinetto, che si dimette senza nessuna spiegazione ufficiale e senza che il governo abbia chiarito quale sia la sua «colpa». Poi ci sarà «l’avvicendamento» (a quanti avvicendamenti abbiamo assistito negli anni!) del prefetto Valeri, capo della segreteria del Dipartimento della pubblica sicurezza, prossimo ormai alla pensione. Insomma, non accadrà praticamente nulla. Anzi no, Alfano ha preannunciato, col tono del preside burbero ma non troppo, la formazione di una commissione che riorganizzi interamente il Dipartimento e in particolare la direzione generale degli uffici per l’immigrazione. Questo «studio» dovrà far sì che «non accada mai più che un ministro, un intero governo vengano tenuti all’oscuro» su iniziative così delicate.

 

Sembra di assistere ai titoli di coda di un film visto tante volte. Sempre lo stesso: prima il danno, poi il sacrificio di un capro espiatorio dato in pasto all’opinione pubblica ma senza infierire e, infine, l’immancabile commissione riparatrice. L’aereo di Ustica venne seppellito da un simile organismo che dava fiato alla tesi dell’incidente. Per non parlare delle decine di scandali istituzionali regolarmente insabbiati sotto l’autorevole parere di una relazione parlamentare. Poche storie scandalose, in Italia, si sono chiuse con la condanna dei responsabili. Si sa sempre chi esegue, ma non chi dà l’ordine. Come a Genova, per la Diaz e Bolzaneto.

 da - http://www.lastampa.it/2013/07/17/cultura/opinioni/editoriali/il-solito-copione-capri-espiatori-nessun-colpevole-e2QmTtGhvFAmjS5mMZ90DP/pagina.html


Titolo: Francesco La Licata. Dell’Utri? Fastidioso «déjà-vu»
Inserito da: Admin - Aprile 13, 2014, 05:40:33 pm
Editoriali
12/04/2014

Il film di una storia italiana
Francesco La Licata

Onestamente, c’è qualcuno che possa dirsi davvero sorpreso per l’epilogo toccato alla vicenda di Dell’Utri? Chi ha memoria e conosce, anche superficialmente, la cronaca e la storia del nostro paese non può non provare una sensazione di fastidioso «déjà-vu» di fronte alla trita sceneggiatura messa in scena dai vari protagonisti, che concorrono alla realizzazione dell’ennesima «storia italiana». 

Lo stesso Dell’Utri, per quella che è stata la lunga e annosa sua vicenda politico-giudiziaria, sembra perfettamente rispondere al più classico cliché della italianissima sceneggiata. Che l’ex senatore dovesse finire latitante ai più appariva scontato. Dopo averle tentate tutte, sempre al riparo del formidabile scudo del suo amico e protettore, Silvio Berlusconi, dopo aver «italianamente» sfidato il comune senso del pudore definendo lo stalliere Vittorio Mangano «eroe» della resistenza ai giudici, non gli rimaneva altra strada, sopraffatto da un sistema giudiziario che – seppure in grave ritardo e con mille tentennamenti – si avvia ad una conclusione non proprio favorevole a Dell’Utri, ormai privo della tutela parlamentare che lo stesso Berlusconi gli ha «dovuto» negare per non essere travolto dalla protesta anti-casta.

Non sono mancati gli indizi di ciò che Dell’Utri si apprestava ad organizzare: la villa nella Repubblica Dominicana, acquistata a conclusione di una favorevolissima trattativa intrattenuta col Cavaliere e chiusa con l’acquisizione di una notevole somma, tale da offrire qualche garanzia di serenità nell’eventualità di gravi avversità. Più di un viaggio a Santo Domingo in compagnia di una buona quantità dei suoi amati libri. E c’è da dire che, di fronte a tanta attività, la procura generale per due volte aveva chiesto alla corte d’appello un ordine d’arresto che avrebbe potuto impedire ogni velleità di fuga. Ma i giudici – che non sono dei feroci torturatori, come vanno predicando i garantisti a tassametro – hanno rigettato, evidentemente convinti che non vi fosse un reale pericolo di fuga e preferendo aspettare il definitivo pronunciamento della Cassazione, previsto per martedì prossimo.

Dura da quasi vent’anni la guerra tra la magistratura e Marcello Dell’Utri. Prima indagato con una cautela esemplare (non foss’altro che per il fatto di ritrovarsi accomunato al destino del più potente Berlusconi), poi massacrato soprattutto da una slavina di accuse rovinategli addosso da un esercito di pentiti che lo hanno descritto come l’uomo schermo fra Cosa nostra e Berlusconi, prima imprenditore che usa la protezione della mafia e poi politico che può risolvere i problemi dell’organizzazione criminale.

Anche questa guerra dei vent’anni, in fondo, risponde ai requisiti che caratterizzano le grandi storie italiane. La battaglia cruenta cominciò negli Anni Settanta (i pretori d’assalto, gli scandali dei petroli) ed ebbe lo stesso andamento di quella di questi ultimi tempi: indignazione generale e delega purificatrice alla magistratura per emendare la malapolitica, ma fino a un certo punto, perché poi tutto deve tornare come prima e quindi ritiro unilaterale della delega.

Mafia e politica meritano un posto di riguardo in questa storia cruenta che può annoverare anche vittime colpite da fuoco amico ed errori da più parti. Ma il prezzo di sangue pagato dalla comunità, dalle istituzioni, da tanti cittadini e servitori dello Stato dovrebbe far passare in secondo piano ogni singolo interesse di bottega. Non è andata esattamente così.

Ed oggi, dunque, rivediamo un film più volte visto. Persino nomi e luoghi tornati d’attualità, accendono ricordi e suggestioni del passato. Per esempio Beirut. Dell’Utri potrebbe – dicono – essersi rifugiato in quella città che è stata ed è pure crogiolo di terroristi e spioni impresentabili. Ma ha accolto anche finanzieri, imprenditori in difficoltà (il più noto è Felice Riva) e politici inseguiti dalla magistratura, come il senatore Graziano Verzotto (Dc) latitante in Libano per storie legate alla mafia, al petrolio e alla politica. Sostò a lungo a Beirut, intrattenendo amabili rapporti coi giornali italiani che lo intervistavano regolarmente, anche se ricercato. Poi si spostò a Parigi (dove sembra si stia «curando» Dell’Utri) e lì attese la liberazione da ogni accusa. Morì nella sua villa, alla periferia di Padova.

E possibile, dunque, che «Marcello» rinunci alla pace di Santo Domingo, per dirigersi in Libano? È possibile, è coerente col personaggio, se è vero che l’ex senatore, molto italianamente, abbia fatto intendere di non andare matto per il placido paesaggio dominicano: «Troppo noioso». Poi, magari, ci stupirà tutti e, nel caso di sentenza contraria, curerà le sue arterie e si presenterà ai giudici, offrendo uno strepitoso finale a sorpresa.

Da - http://lastampa.it/2014/04/12/cultura/opinioni/editoriali/il-film-di-una-storia-italiana-O3VoVJfMENqcboDzGaUbZL/pagina.html


Titolo: FRANCESCO LA LICATA. - Il film di una storia italiana
Inserito da: Admin - Maggio 12, 2014, 04:53:31 pm
Editoriali
12/04/2014

Il film di una storia italiana
Francesco La Licata

Onestamente, c’è qualcuno che possa dirsi davvero sorpreso per l’epilogo toccato alla vicenda di Dell’Utri? Chi ha memoria e conosce, anche superficialmente, la cronaca e la storia del nostro paese non può non provare una sensazione di fastidioso «déjà-vu» di fronte alla trita sceneggiatura messa in scena dai vari protagonisti, che concorrono alla realizzazione dell’ennesima «storia italiana». 

Lo stesso Dell’Utri, per quella che è stata la lunga e annosa sua vicenda politico-giudiziaria, sembra perfettamente rispondere al più classico cliché della italianissima sceneggiata. Che l’ex senatore dovesse finire latitante ai più appariva scontato. Dopo averle tentate tutte, sempre al riparo del formidabile scudo del suo amico e protettore, Silvio Berlusconi, dopo aver «italianamente» sfidato il comune senso del pudore definendo lo stalliere Vittorio Mangano «eroe» della resistenza ai giudici, non gli rimaneva altra strada, sopraffatto da un sistema giudiziario che – seppure in grave ritardo e con mille tentennamenti – si avvia ad una conclusione non proprio favorevole a Dell’Utri, ormai privo della tutela parlamentare che lo stesso Berlusconi gli ha «dovuto» negare per non essere travolto dalla protesta anti-casta.

Non sono mancati gli indizi di ciò che Dell’Utri si apprestava ad organizzare: la villa nella Repubblica Dominicana, acquistata a conclusione di una favorevolissima trattativa intrattenuta col Cavaliere e chiusa con l’acquisizione di una notevole somma, tale da offrire qualche garanzia di serenità nell’eventualità di gravi avversità. Più di un viaggio a Santo Domingo in compagnia di una buona quantità dei suoi amati libri. E c’è da dire che, di fronte a tanta attività, la procura generale per due volte aveva chiesto alla corte d’appello un ordine d’arresto che avrebbe potuto impedire ogni velleità di fuga. Ma i giudici – che non sono dei feroci torturatori, come vanno predicando i garantisti a tassametro – hanno rigettato, evidentemente convinti che non vi fosse un reale pericolo di fuga e preferendo aspettare il definitivo pronunciamento della Cassazione, previsto per martedì prossimo.

Dura da quasi vent’anni la guerra tra la magistratura e Marcello Dell’Utri. Prima indagato con una cautela esemplare (non foss’altro che per il fatto di ritrovarsi accomunato al destino del più potente Berlusconi), poi massacrato soprattutto da una slavina di accuse rovinategli addosso da un esercito di pentiti che lo hanno descritto come l’uomo schermo fra Cosa nostra e Berlusconi, prima imprenditore che usa la protezione della mafia e poi politico che può risolvere i problemi dell’organizzazione criminale.

Anche questa guerra dei vent’anni, in fondo, risponde ai requisiti che caratterizzano le grandi storie italiane. La battaglia cruenta cominciò negli Anni Settanta (i pretori d’assalto, gli scandali dei petroli) ed ebbe lo stesso andamento di quella di questi ultimi tempi: indignazione generale e delega purificatrice alla magistratura per emendare la malapolitica, ma fino a un certo punto, perché poi tutto deve tornare come prima e quindi ritiro unilaterale della delega.

 
Mafia e politica meritano un posto di riguardo in questa storia cruenta che può annoverare anche vittime colpite da fuoco amico ed errori da più parti. Ma il prezzo di sangue pagato dalla comunità, dalle istituzioni, da tanti cittadini e servitori dello Stato dovrebbe far passare in secondo piano ogni singolo interesse di bottega. Non è andata esattamente così.

Ed oggi, dunque, rivediamo un film più volte visto. Persino nomi e luoghi tornati d’attualità, accendono ricordi e suggestioni del passato. Per esempio Beirut. Dell’Utri potrebbe – dicono – essersi rifugiato in quella città che è stata ed è pure crogiolo di terroristi e spioni impresentabili. Ma ha accolto anche finanzieri, imprenditori in difficoltà (il più noto è Felice Riva) e politici inseguiti dalla magistratura, come il senatore Graziano Verzotto (Dc) latitante in Libano per storie legate alla mafia, al petrolio e alla politica. Sostò a lungo a Beirut, intrattenendo amabili rapporti coi giornali italiani che lo intervistavano regolarmente, anche se ricercato. Poi si spostò a Parigi (dove sembra si stia «curando» Dell’Utri) e lì attese la liberazione da ogni accusa. Morì nella sua villa, alla periferia di Padova.

E possibile, dunque, che «Marcello» rinunci alla pace di Santo Domingo, per dirigersi in Libano? È possibile, è coerente col personaggio, se è vero che l’ex senatore, molto italianamente, abbia fatto intendere di non andare matto per il placido paesaggio dominicano: «Troppo noioso». Poi, magari, ci stupirà tutti e, nel caso di sentenza contraria, curerà le sue arterie e si presenterà ai giudici, offrendo uno strepitoso finale a sorpresa.

Da - http://www.lastampa.it/2014/04/12/cultura/opinioni/editoriali/il-film-di-una-storia-italiana-O3VoVJfMENqcboDzGaUbZL/pagina.html


Titolo: FRANCESCO LA LICATA. - La decenza violata senza alcuna utilità sul piano ...
Inserito da: Admin - Ottobre 09, 2014, 05:10:38 pm
La decenza violata senza alcuna utilità sul piano giudiziario

08/10/2014
Francesco La Licata

L’istituzione più alta della Repubblica sembra ormai prigioniera di una macchina in corsa, a folle velocità e senza freni, in direzione di un traguardo che non promette nulla di buono sul piano dell’opportunità politica e della decenza. Chi ha messo in moto quella macchina non ha adesso (e non sembra dolersene) volontà alcuna di impedire la vergogna di esporre il Capo dello Stato all’affronto di una testimonianza in presenza di fior di criminali, assassini e stragisti come Totò Riina e Leoluca Bagarella. E tutto nella consapevolezza che nessun elemento nuovo, utile all’accertamento della verità, potrà venire dal «baraccone» in allestimento al Quirinale. 

La Procura di Palermo, e questo era scontato visto i precedenti, non si oppone alla presenza degli imputati - seppure in videoconferenza - durante l’escussione del teste-Napolitano. Non poteva essere diversamente, visto che già una volta i rappresentanti della pubblica accusa avevano espresso la convinzione che la testimonianza di Napolitano fosse essenziale e irrinunciabile, anche a fronte del «pateracchio istituzionale» che ne sarebbe conseguito. Se si considera, poi, che - al punto in cui è giunta adesso la «macchina impazzita» - nulla si può più fare senza mettere a rischio lo stesso processo in corso presso la Corte d’Assise palermitana, si capisce l’assenso dato ieri dai pm alla presenza in aula di Riina, Bagarella e di Nicola Mancino, alla sbarra per falsa testimonianza. Non sembrano possibili tante soluzioni: negare agli imputati, seppure alcuni mafiosi e impresentabili, il diritto a presenziare al processo (tranne il reperimento improvviso di una qualche motivazione «ipertecnica» che sfugge ai non addetti ai lavori) equivale ad assumersi il rischio di invalidare l’intero dibattimento. Ma sarà il presidente della Corte a decidere, nell’udienza di domani.

La china intrapresa, comunque, appare scivolosa e piena di pericoli. Tutti i protagonisti della vicenda sembrano in qualche modo prigionieri di un meccanismo avviato e lasciato senza controllo. Il Presidente ha già chiarito il perimetro entro il quale potrà testimoniare, spazio già delimitato anche dalla Corte costituzionale. Ha anche reso pubblica la lettera scritta, prima che fosse ucciso da un infarto, dal suo consigliere giuridico Loris D’Ambrosio, chiarendo che altro non avrebbe potuto aggiungere. In questo senso si potrebbe concludere che, per l’accertamento della verità sullo svolgimento della trattativa Stato-mafia, il coinvolgimento di Napolitano non sembrava irrinunciabile, visto che nulla dice di poter produrre sui famosi «indicibili accordi» evocati da D’Ambrosio nella sua missiva. Tuttavia il Capo dello Stato si trova oggi nella scomoda posizione di dover lanciare un messaggio di rispetto verso la magistratura ma ad un prezzo certamente alto, quale sarebbe il dover condividere uno spazio processuale coi capi dell’antistato. Forse l’errore sta in alcune decisioni del passato, come quella che ha riguardato la polemica sull’iter da seguire nella distruzione delle intercettazioni dei colloqui tra Nicola Mancino e Napolitano, soggetto politico che non poteva essere intercettato.

Anche allora fu scelta la linea del coinvolgimento istituzionale della carica più alta della Repubblica, visto che il contenuto delle telefonate da distruggere sarebbe arrivato alla conoscenza delle parti, quindi agli imputati e quindi ai giornali. Il conflitto sollevato da Napolitano presso la Corte costituzionale era riuscito ad impedire l’agguato mediatico. Evidentemente non è bastato e Riina può sorridere. 

Da - http://www.lastampa.it/2014/10/08/cultura/opinioni/editoriali/la-decenza-violata-senza-alcuna-utilit-sul-piano-giudiziario-cnIvg2TpaUwO56dKgnwtoM/pagina.html