Titolo: BILL EMMOTT. - Inserito da: Admin - Ottobre 07, 2008, 12:49:20 pm LA RICETTA USA E QUELLA UE
Il costo dell’Europa disunita Ma non doveva essere, questa, una crisi americana, scatenata dai mutui subprime americani e dal capitalismo yankee? Allora perché le banche europee sembrano soffrire più della loro controparte statunitense? Se nessuno si è sentito rincuorato dal voto di venerdì al Congresso americano, per l'approvazione del pacchetto di salvataggio da 700 miliardi di dollari per le banche americane, si può dire che nemmeno in Europa si siano mantenuti i nervi saldi, a giudicare dagli annunci frettolosi dei governi per assicurare un'ulteriore protezione ai risparmiatori. Forse il peggio deve ancora venire, e non solo nel sistema finanziario, bensì nell'economia reale. Gli ultimi avvenimenti in Europa metteranno a tacere le pretese dei politici e di alcuni commentatori che il modello europeo di capitalismo, e specie quello finanziario, sia in qualche modo superiore a quello angloamericano, solitamente tacciato di maggior spregiudicatezza. Che si tratti di una valutazione errata — o quanto meno ingannevole — è già stato dimostrato dal fatto che le banche europee, in questa crisi, hanno subito maggiori perdite totali, per colpa dei prestiti senza copertura, rispetto alle banche americane: 181 miliardi di dollari contro 150, secondo il Financial Times, che cita un'analisi dell'agenzia di ricerca Creditflux. Se le banche europee fossero state più stabili, caute, meglio controllate e meno spregiudicate, allora questo non sarebbe accaduto. Le perdite delle banche europee sono da addebitare al massiccio acquisto di derivati sui mercati americani. Esse hanno altresì prodotto in proprio un certo numero di derivati, ma la maggior parte proveniva da oltreoceano. Allora, possiamo ancora gettare la colpa sugli Stati Uniti? Tanto per cominciare, le banche europee non erano costrette all'acquisto, e coloro che esercitavano i controlli potevano anche impedir loro di accumulare riserve così ingenti. Ma lo hanno fatto, perché lo ritenevano redditizio. Oggi l'Europa deve affrontare tre distinte tempeste, che complessivamente rischiano di infliggere ingenti danni. Una viene dai derivati americani. Un'altra, tuttavia, viene dall'aumento delle insolvenze sui prestiti nel mercato immobiliare europeo, dove i prezzi sono ora in discesa, in particolare in Irlanda, Gran Bretagna, Spagna e Francia. La terza, imminente, ha l'aspetto di una progressiva recessione economica, aggravata dai tagli al prestito effettuati dalle banche, che provocheranno parecchi fallimenti, sia familiari che aziendali, che andranno a sommarsi nuovamente alle perdite e alle sofferenze bancarie. L'incertezza sulla reale portata di queste difficoltà e sulle debolezze ancora nascoste nei bilanci bancari basta oggi ad affossare i mercati azionari. Come sempre, però, l'insicurezza principale e immediata riguarda quello che i governi possono fare per arginare il problema. I mercati saranno anche più capaci dei governi per stanziare i capitali, inventare tecnologie e interpretare le preferenze della gente, ma in tempo di crisi solo i governi dispongono di risorse sufficienti per trovare una via d'uscita, perché rappresentano l'intera nazione e tutti i suoi contribuenti. Nazione: parola d'importanza cruciale. Il governo Usa ha suscitato polemiche tra i suoi contribuenti per l'impiego di denaro pubblico allo scopo di nazionalizzare prima due gigantesche società ipotecarie, poi la compagnia di assicurazioni Aig ed ora per acquistare debiti per 700 miliardi di dollari. Ma almeno ha agito, e lo ha fatto più celermente e risolutamente di quanto non fece il governo giapponese durante la crisi finanziaria degli anni '90. Quasi certamente sarà costretto a intervenire nuovamente, con un altro enorme pacchetto destinato a iniettare nuovo capitale nelle banche. E così dovrà fare anche l'Europa. Ma il problema in Europa è che ci sono tante nazioni, che rifiutano di cooperare tra di loro. È un dato inevitabile, ma anche deludente e preoccupante. È inevitabile, perché i distinti governi nazionali saranno sempre dalla parte del proprio elettorato e dei propri contribuenti. Per questo l'Irlanda si è affrettata, la settimana scorsa, a garantire i suoi depositi bancari malgrado il rischio di destabilizzare i sistemi finanziari degli altri Paesi europei, risucchiando i depositi; ed è per questo che l'Olanda si è precipitata a nazionalizzare la quota olandese di Fortis, la banca belga in difficoltà che l'aveva appena acquistata dall'ex banca olandese, Abn-Amro. È deludente constatare come questi governi non riescono a coordinarsi gli uni con gli altri, malgrado i regolari incontri e la moneta unica. La lezione da trarre, sia dagli interventi americani che dalla crisi finanziaria giapponese degli anni '90, è che alla fin fine il sistema bancario sarà stabilizzato soltanto dallo sforzo del governo per ricapitalizzare le banche. Questo può e deve essere fatto tramite «titoli preferenziali» contro capitale, proprio come ha fatto il grande investitore Warren Buffett con Goldman Sachs a New York: a lui andrà un dividendo annuale del 10 per cento, e questo possono esigere anche i governi. In Europa, al momento, la ricapitalizzazione verrà effettuata da ogni singolo Paese, e probabilmente con pacchetti diversi varati dai singoli governi, il che potrebbe sortire l'effetto opposto, ovvero la destabilizzazione. Per questo motivo, è un vero peccato che la proposta di Francia e Olanda, condivisa anche dall’Italia, a favore di un fondo collettivo di ricapitalizzazione per l'Unione Europea sia stata così fermamente respinta dalla Germania, oltre che da altri Paesi membri. È una soluzione che, prima o poi, si rivelerà indispensabile. E più l'Europa aspetta, tanto maggiori saranno le risorse da destinare al progetto. Bill Emmott 07 ottobre 2008 da corriere.it Titolo: BILL EMMOTT Il maggioritario per l'Italia non funziona Inserito da: Admin - Settembre 14, 2010, 05:47:42 pm 14/9/2010
Il maggioritario per l'Italia non funziona BILL EMMOTT E’ lusinghiero per noi inglesi che il nostro sistema sia stato tanto spesso lodato nel corso del dibattito italiano sulla politica e la legge elettorale. E ci siamo sentiti lusingati anche quando quest’anno, a maggio, tanti commentatori italiani hanno espresso preoccupazione perché il nostro sistema elettorale maggioritario uninominale secco non era riuscito, per la prima volta in 36 anni, a produrre un governo forte, portando necessariamente alla formazione di un governo di coalizione per la prima volta dal 1945. Eppure, per quanto lusinghiera, l’attenzione è, a mio parere, sbagliata. Un sistema maggioritario ha funzionato bene per la Gran Bretagna, ma non è adatto all’Italia. L’anno scorso ho girato l’Italia facendo ricerche per un nuovo libro, «Forza, Italia», che sarà pubblicato il mese prossimo da Rizzoli. L’obiettivo della ricerca era esplorare i punti di forza del Paese per trovare la «Buona Italia», in contrapposizione alla «Cattiva Italia» su cui tanti critici stranieri (me compreso) si sono concentrati. Dopo questo primo editoriale su «La Stampa» spero di scrivere regolarmente della Buona Italia. Grazie a questa affascinante e piacevole ricerca ho concluso che le riforme non funzioneranno se non si adatteranno ai punti di forza e alla vera natura della società italiana. Ed è per questo che l’esperimento con i sistemi maggioritari è stato un fallimento. L’attuale collasso della maggioranza che sostiene il governo Berlusconi ne è l’ultima prova. Alcuni diranno che il conflitto all’interno della coalizione di centro-destra è personale, un conflitto basato sul sostegno o sull’opposizione a Silvio Berlusconi stesso, e quindi non possono esserne tratte conclusioni strutturali o di sistema. Ma questa è una spiegazione elementare. La realtà più profonda, sicuramente, è che la coalizione formata nel 2008 era artificiale. Così come lo era quella del 2001-06, anche se è durata più a lungo. Queste sono state coalizioni tra incompatibili, di meridionali con la Lega Nord, di riformatori liberali e conservatori, di fautori di un fisco indulgente con sostenitori dell’austerità. A sinistra è lo stesso. Il Partito Democratico esiste veramente come partito? Perché le forze più vivaci ed attive a sinistra sono al di fuori del Pd, come la Sinistra Ecologia e libertà di Nichi Vendola o L’Italia dei valori di Antonio di Pietro? Perché il partito è lacerato dalle fazioni? Si può dire, correttamente, che tutti i grandi partiti raccolgono diverse tendenze, come il Partito Democratico in America, il Partito laburista in Gran Bretagna o la Spd in Germania. Ma è questione di proporzioni. Forse Pierluigi Bersani si accinge a dimostrare che sbaglio, ma apparentemente né lo stesso Pd né la sua sperata coalizione per il nuovo Ulivo sembrano avere una logica. La speranza di alternanza, per i potenziali governi concorrenti, era comprensibile dopo Tangentopoli e il crollo della Prima Repubblica. Ma il detto militare che i generali cercano sempre di combattere l’ultima guerra, piuttosto che guardare alla prossima battaglia, è anche molto adatta alla situazione. La mancanza di alternanza è stata un vero problema nel contesto della Guerra fredda e in una politica dove gli estremi erano inaccettabili. Ma oggi? Tutti gli sforzi per produrre maggioranze solide, con il premio di maggioranza e la ricerca di partiti bipolari, sono falliti. Ciò che ha l’Italia con l’attuale sistema elettorale è un’alternanza instabile. In aggiunta, ha fallito nel produrre governi operativi. Né il governo Berlusconi del 2001-06 né quello attuale sono riusciti ad attuare granché dell’agenda delle riforme, nonostante l’apparente forza di voto delle coalizioni in Parlamento. Perché? La mia convinzione è che il motivo è questo: le coalizioni erano artificiali, non reali, così come il Pd resta un partito artificiale. L’elenco delle riforme che sembra essere in agenda per tutti include giustizia, istruzione, lavoro, federalismo, modifiche costituzionali, e altro ancora. Tutte queste riforme hanno bisogno di un ampio consenso perché ci sia una possibilità di realizzarle. Tutte richiedono l’accettazione di base da parte delle principali parti politiche che gli avversari hanno legittimamente il diritto di governare. Eppure, né il consenso né l’accettazione sono possibili, fino a quando resta in piedi l’attuale sistema maggioritario e iper-partigiano. L’alternanza politica britannica funziona in parte grazie alla tradizione: è ciò a cui siamo abituati. Ma funziona soprattutto perché c’è in Gran Bretagna un’ampia accettazione delle regole del gioco politico. Noi non abbiamo una costituzione scritta ma tutti i partiti politici accettano che la nostra tradizione costituzionale fissi alcuni requisiti e regole di base. A maggio di quest’anno, quando le nostre elezioni politiche non hanno prodotto una maggioranza assoluta, quella tradizione costituzionale è stata messa a dura prova. Eppure, in quattro giorni, è stata formata una coalizione ed è stata accettata dallo sconfitto Partito laburista. Esisteva già il consenso perché il cambiamento fosse regolare e legittimo. In Italia, mi pare, il consenso deve essere creato e ricreato continuamente. Potere e interessi sono più divisi e più diffusi che in Gran Bretagna. La profonda divisione tra destra e sinistra è più di una semplice questione di filosofia o politica. Quindi, questa divisione di base ha sempre bisogno di essere colmata per creare il consenso e questo consenso richiede anche l’inserimento di altre forze, sia regionali o di settore. Per questo nel mio libro propongo che sia abbandonato il premio di maggioranza e che la legge elettorale sia riformata in favore di un sistema che scoraggi i partiti minuscoli ma che riconosca comunque la diversità e la diffusione di interessi politici e di identità. Un sistema simile a quello usato in Irlanda, che permette di evitare le liste di partito votando direttamente per i candidati in circoscrizioni multiple, dove questi vengono scelti con un «voto singolo trasferibile» e raggruppati in base alle preferenze, con la soglia del 5% di consensi necessaria per ottenere seggi: questo è il tipo di sistema che mi sembra adatto a soddisfare le caratteristiche di base dell’Italia e a produrre governi capaci di riforma. Nessun sistema elettorale è infallibile. Ma ogni sistema ha bisogno di incanalare la politica di un Paese, senza cercare di sovvertirla o trasformarla. (Traduzione di Carla Reschia) http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7829&ID_sezione=&sezione= Titolo: BILL EMMOTT. Inserito da: Admin - Ottobre 04, 2010, 12:04:54 pm 4/10/2010
Obama deve ritrovare credibilità BILL EMMOTT Mentre Barack Obama è tutto preso dalla campagna elettorale per i candidati democratici nel tentativo di contenere le perdite del suo partito al voto di medio termine del 2 novembre per il rinnovo del Congresso, è tempo di pensare a quello che prima sembrava inconcepibile e cioè che potrebbe finire la sua carriera di Presidente al primo mandato, come Jimmy Carter nel 1976-1980, e come lui essere considerato un fallimento. Questo non è ancora probabile, ci saranno un sacco di alti e bassi nella politica tra oggi e le elezioni presidenziali del 2012. Ma appare già chiaro che questi due anni saranno dominati da uno sforzo continuo e forse disperato per evitare l'umiliazione della sconfitta. Un obiettivo che condizionerà tanto la politica interna come quella estera e quindi interesserà il mondo intero. Per un uomo che si vedeva, ed è stato visto in tutto il mondo, come un Presidente di cambiamento, questa è di per sé una notevole trasformazione. In patria ha raggiunto due dei principali obiettivi che si era posto: la riforma sanitaria che assicura una copertura quasi universale e la riforma delle regole finanziarie per rendere meno probabili future crisi. Eppure è stato ampiamente denigrato per la prima e ha ricevuto poco credito per la seconda. Oggi come oggi questi grandi risultati finiscono per pesare come una debolezza invece di essere una forza. E tutto ciò che fa o dice è oscurato dall'economia: la ripresa è in corso e finora è stata più forte e più costante che nella maggior parte dell’Europa, ma la disoccupazione rimane ostinatamente e storicamente elevata, al 9,6% della forza lavoro. Il deficit del bilancio federale di 9% del Pil, che riflette il programma di stimolo fiscale di Obama dello scorso anno, lo condanna: con la disoccupazione ancora elevata, lo stimolo è visto come un fallimento costoso e non come un provvedimento senza il quale le cose sarebbero andate molto peggio. In politica estera l’idea iniziale, condivisa a livello globale, che sarebbe stato un nuovo tipo di Presidente americano è stata sostituita dalla disillusione. Certo, Obama rimane il leader mondiale con cui ognuno vuole farsi una foto o da cui vorrebbe ricevere una telefonata. Ma gli alleati dell’America sembrano sempre più inclini a pensare che debba ancora dimostrare di saper prendere in mano la situazione nelle sfide più impegnative, in Medio Oriente, in Iran e in Afghanistan, e che non abbia dato alcun contributo sul cambiamento climatico. Gli avversari dell’America lo snobbano e lo fanno arrabbiare senza alcun timore. E' giusto un simile fuoco di fila di critiche? In un certo senso gli indici di gradimento personale di Obama nei sondaggi smentiscono questa litania negativa: il suo punteggio si aggira intorno al 45%, non è molto diverso da quello di Ronald Reagan nel 1982 ed è migliore di quello di Bill Clinton nel 1994, in momenti in cui entrambi questi due Presidenti rieletti dovettero subire severe battute d'arresto nelle elezioni del Congresso. La preoccupazione per Obama, tuttavia, è che se è ancora gradito al pubblico a livello personale, così non è per le sue politiche, in particolare la riforma sanitaria, il deficit di bilancio e la guerra in Afghanistan. Se, come sembra probabile, i suoi avversari repubblicani a novembre prenderanno il controllo del Congresso, influiranno sempre di più sulla sua agenda e il rischio è che saranno poi in grado di focalizzare l'attenzione sulle politiche che lo rendono impopolare. Se è così, i suoi attuali livelli di popolarità possono semplicemente riflettere il fatto che non è ancora emerso con chiarezza un candidato repubblicano per il 2012. Una volta che ci fosse, i sondaggi potrebbero cambiare. Anche così la sconfitta del 2012 è tutt’altro che inevitabile come dimostrano gli esempi di Reagan e Clinton. Reagan ha beneficiato della ripresa economica e di una politica estera forte, mentre Clinton è riuscito a volgere in vantaggio elettorale l'ostruzionismo repubblicano al Congresso. Barack Obama finora non è riuscito a trasformare la brillantezza mostrata nella sua campagna del 2008 in un modo efficace di comunicare con il popolo americano come Presidente: sembra più un professore universitario che l’amico saggio che Reagan e Clinton riuscivano a essere. Con la ripresa economica, e forse, come per Clinton, con il vantaggio offerto da oppositori repubblicani troppo zelanti nel Congresso, potrebbe ancora farcela. Ma sarà dura. Nulla è certo nella politica elettorale, soprattutto su un periodo di tempo lungo come due anni. Quello che può essere previsto, tuttavia, è la probabile influenza sulla politica interna ed estera. Gli effetti saranno di vario tipo. Il 29 settembre la Camera dei Rappresentanti ha approvato una legge progettata per consentire al governo americano di punire la Cina perché manipola la propria valuta e quindi esporta sotto prezzo, una legge che ora passerà all’esame del Senato. Il 15 ottobre il Tesoro degli Stati Uniti pubblicherà la sua relazione semestrale e dirà se i partner commerciali dell’America - in pratica la Cina - stanno manipolando le loro valute. I sentimenti protezionisti sono in aumento, e la capacità della Casa Bianca e del Tesoro di resistere a questa tendenza si sta indebolendo. Questo sta accadendo in vista delle elezioni del Congresso. Dopo una pesante sconfitta repubblicana, è probabile che la Casa Bianca possa seguire il rullo dei tamburi protezionistici nello stesso partito di Obama e nei sindacati, e prendere misure anticinesi. Questo porterà la questione della manipolazione monetaria e degli squilibri commerciali dalle conferenze degli economisti alle agende politiche mondiali. E metterà la Cina e l'America su una rotta di collisione, un corso che potrebbe essere aggravato dalle dispute sul sostegno della Cina al regime nordcoreano, per esempio, o sulle rivendicazioni territoriali nel Mar Cinese meridionale. Non è ancora chiaro dove dovrebbe stare l'Europa, dato che lamenta la crescita dell’euro ma celebra le forti esportazioni verso la Cina della Germania. Un'altra preoccupazione di politica estera sarà che il presidente Obama potrebbe fare quello che gli europei parlano di fare in prima persona ma temono possa fare l’America: ritirarsi precipitosamente dall'Afghanistan, per guadagnare punti nei sondaggi d'opinione. Anche altre due questioni interne faranno da cornice alla lotta per la Casa Bianca. La prima sarà lo sforzo repubblicano per cancellare la riforma sanitaria di Obama, sfidandolo a porre il veto, nonostante l'impopolarità della riforma. L'altra sarà il braccio di ferro sul deficit di bilancio, dove ogni parte tenta di dipingere l'altra come spendacciona o fiscalmente iniqua. Non sarà un bello spettacolo. In realtà rischia di far sembrare un gioco da bambini la battaglia europea sui piani di austerità e il salvataggio delle banche. Traduzione di Carla Reschia http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7914&ID_sezione=&sezione= Titolo: BILL EMMOTT. Una scelta coraggiosa Inserito da: Admin - Ottobre 09, 2010, 03:53:05 pm 9/10/2010
Una scelta coraggiosa BILL EMMOTT Non è sempre noto per il suo coraggio. Troppo spesso, asseconda con debolezza sentimenti alla moda. Ma quest’anno il Comitato per il Nobel per la Pace ha fatto una scelta coraggiosa e ammirevole con Liu Xiaobo, il dissidente che la Cina ha condannato l’anno scorso a 11 anni di carcere per il terribile delitto di propaganda per la democrazia. Rude e scomposta la replica della Cina, che ha definito la scelta un’offesa. Che potrebbe, in modo non meglio precisato, danneggiare le relazioni tra Cina e Norvegia, non fa che confermare la validità e il merito della scelta. Qualcuno potrebbe dissentire: diranno che il premio per la Pace dovrebbe andare a chi promuove la pace internazionale, piuttosto che a quelli, come il signor Liu, che tengono campagne per i diritti umani e la democrazia all’interno dei loro Paesi. Questo riconoscimento è, secondo la Cina, un’ingerenza nella sua politica interna e nella sua sovranità. Sì, lo è, vorrei rispondere, ed è per questo che mi piace. Altri governi o istituzioni internazionali non sono in grado di interferire nella sovranità nazionale. Rischiano di essere accusati di ipocrisia - come è possibile che governi impegnati a espellere gli zingari rom, a dare in gestione la politica di immigrazione alla Libia o a chiudere in galera senza un vero processo persone sospettate di terrorismo diano ad altri lezioni sui diritti umani? E poi devono tenere in considerazione altri interessi, troppi, compresi il commercio e la sicurezza. Ma il Comitato del Premio Nobel per la Pace può farlo liberamente: risponde soltanto alla Fondazione Nobel, al Parlamento norvegese e, più genericamente, all’opinione pubblica mondiale. Il fatto che la Norvegia non sia membro dell’Unione europea è un vantaggio: il comitato non ha bisogno di sentirsi vincolato dalla diplomazia europea o dalle sottigliezze dello sforzo per forgiare una politica estera e una rete di sicurezza comuni. Per chiunque non sia ipocrita, Liu Xiaobo è una causa eccellente, come lo era quando le fu assegnato il Premio per la Pace nel 1991 Aung San Suu Kyi, l’attivista birmana incarcerata perché vuole la democrazia. Dal massacro di piazza Tienanmen nel 1989, che fu la risposta alle proteste per migliori condizioni e per il controllo dell’inflazione da parte dei lavoratori e a quelle degli studenti per la democrazia, la campagna per la riforma politica in Cina è diventata in gran parte sotterranea. A poco a poco, nei successivi 20 anni, via via che nel Paese crescevano la ricchezza e, sotto molti aspetti, la libertà, è diventato lecito parlare, in termini generali, a favore della democrazia. Ma due cose sono rimaste un anatema per le autorità cinesi: il primo atto inaccettabile è mettere direttamente in discussione il ruolo, attuale o futuro, del Partito comunista nel governo della Cina, il secondo è quello di tradurre le dichiarazioni individuali in un gruppo in qualche modo organizzato. Due anni fa il signor Liu ha fatto entrambe queste cose inaccettabili: ha collaborato alla redazione di un manifesto chiamato Carta 08 in omaggio al movimento Charta 77, guidato in Cecoslovacchia durante la Guerra fredda da Vaclav Havel, che chiedeva la democrazia pluralista e di fatto la fine del monopolio del potere del Partito comunista. E, invitando altri a firmare la Carta, lui e i suoi colleghi firmatari minacciavano di diventare un vero nucleo di opposizione alle autorità. Per questo motivo è stato immediatamente arrestato, per intimidire gli altri. Fino all’assegnazione del Premio Nobel della Pace, il sistema ha funzionato. Probabilmente funzionerà ancora. Sebbene la diffusione di Internet e la proliferazione di giornali e riviste abbiano complicato il compito delle autorità nel mettere a tacere il dissenso, riescono ancora a farlo con notevole successo. I redattori sanno dove corrono le linee rosse e obbediscono. La critica delle politiche pubbliche è consentita e in qualche caso anche incoraggiata come una sorta di valvola di sicurezza e di responsabilità pubblica, ma la critica del sistema politico non lo è. La discussione sovversiva su Internet è rapidamente individuata e messa a tacere. Liu è, di conseguenza, quasi sconosciuto in Cina. Ciononostante, un premio di questo tipo, con tutta l’attenzione internazionale e la copertura mediatica che attira, aumenta per le autorità cinesi la difficoltà di controllare il flusso delle informazioni. Rende inoltre più difficile per i governi stranieri ignorare il problema. Quasi certamente, quando il passaggio della Cina a una qualche forma di democrazia sarà storia, probabilmente in un momento in cui la diffusione della tassazione sui redditi provocherà l’irresistibile esigenza di rappresentanza della classe media, il Nobel per la Pace di quest’anno meriterà solo una nota a piè di pagina. Ma è una nota ammirevole, una nota di cui il Comitato del Premio per la Pace può essere giustamente orgoglioso. Ed è una nota che si distingue per la piccola possibilità di diffondere il passaparola della democrazia all’interno della Cina e, cosa altrettanto importante, per il coraggio e per i principi. traduzione di Carla Reschia http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7934&ID_sezione=&sezione= Titolo: BILL EMMOTT La diffidenza incrina le alleanze Inserito da: Admin - Dicembre 03, 2010, 04:16:43 pm 3/12/2010
La diffidenza incrina le alleanze BILL EMMOTT La buona notizia riguardo alle ultime rivelazioni di Wikileaks a proposito delle relazioni dei diplomatici americani su Silvio Berlusconi è che distolgono l'attenzione dai party e dalla vita privata «rilassante» del presidente del Consiglio. Molti italiani, soprattutto sostenitori del governo di centro-destra, hanno a lungo lamentato l'eccessiva attenzione internazionale agli scandali sessuali. La cattiva notizia, tuttavia, è che queste rivelazioni ora concentreranno l'attenzione là dove avrebbe sempre dovuto appuntarsi: sul rapporto tra imprese e governo, e soprattutto tra interessi economici personali e l’esercizio della politica estera. Le rivelazioni, che sono sostanzialmente rapporti di voci in circolazione a Roma e all'interno dello stesso partito di Berlusconi, non dovrebbero sorprendere alcun osservatore internazionale che dal 2001 abbia seguito da vicino la politica italiana. Né, ovviamente, possono necessariamente essere ritenute precise: sono accuse e sospetti, non fatti dimostrati. Ma tali indiscrezioni guadagnano un di più di autorevolezza se provengono dai messaggi di diplomatici americani, dalla consapevolezza che queste convinzioni hanno fatto la differenza negli atteggiamenti e nelle politiche relative alla sicurezza della superpotenza mondiale. Ovviamente un alleato chiave per l’Italia. Inoltre, dovrebbero rammentarci qualcos’altro che è di fondamentale importanza nelle relazioni internazionali. Questo cruciale valore aggiunto è la fiducia. Normalmente, tra alleati di lunga data, e soprattutto tra alleati che sono democrazie, la fiducia negli affari esteri è consolidata da lunghi anni di conoscenza sempre più approfondita degli interessi sottotraccia e delle motivazioni di ciascun Paese. Per quanto riguarda la Russia, per esempio, è ben noto come la Germania abbia una visione diversa di quel Paese rispetto alla Gran Bretagna o agli Stati Uniti, a causa della maggiore vicinanza geografica, degli stretti legami commerciali e della dipendenza energetica. Tale consapevolezza è stata un po’ complicata dal rapido inserimento di Gerhard Schroeder in un incarico assai ben remunerato come presidente del gasdotto russo-tedesco poco dopo aver lasciato la carica di Cancelliere della Germania. Dato che si era pubblicamente espresso a favore dell’operazione quando era Cancelliere, molti critici ritennero inappropriato che avesse accettato l’incarico, anzi persino scandaloso, e avevano sicuramente ragione. Ma questo sgarbo non ha minato la fiducia nella politica tedesca verso la Russia, perché l'affare era stato condotto in modo trasparente ed era in linea con quella che era diventata una costante della politica della Germania dopo la fine della Guerra Fredda. L'importanza delle accuse riguardanti Berlusconi e Putin è che, contrariamente al caso tedesco, sembra che abbiano minato la fiducia americana riguardo le linee della politica estera italiana nei confronti della Russia e sollevato dubbi circa la coerenza di tale politica nel passato. Pur attribuendo un chiaro valore al sostegno fornito dall’Italia per le operazioni militari in Afghanistan e Iraq, tanto dal governo Berlusconi 2001-06 come da quello di Romano Prodi nel 2006-08, questi dispacci diplomatici indicano che in America si sono diffuse l’esasperazione, la diffidenza e anche l’amarezza per il corso della politica italiana nei confronti della Russia, in un periodo in cui il comportamento russo stava di nuovo causando particolare preoccupazione a Washington. L'essenza di questa diffidenza, è importante ripeterlo e sottolinearlo, non si fonda sul tema della politica «giusta»: un argomento del genere potrebbe essere discusso pubblicamente e del tutto apertamente con un alleato democratico come l'Italia. No, l'essenza della diffidenza sembra essere sorta dalla convinzione che la politica italiana era diventata personale e non nazionale, e dal sospetto che nascondesse interessi commerciali - di nuovo personali e non nazionali. Tutti i governi, e tutti i capi di governo, coltivano l'idea che stretti rapporti personali fra i leader possano essere utili nelle relazioni internazionali. L’affiatamento tra Bill Clinton e Tony Blair, per esempio, sembra sia stato considerato un bene tanto in America come in Gran Bretagna. Il problema di queste rivelazioni non verte su questo tema: normalmente, sarebbe un vantaggio per uno o più leader europei godere di una sorta di relazione privilegiata con il leader russo. George W. Bush, dopotutto, ha affermato di aver «guardato nell’anima di Putin», quando i due si incontrarono per la prima volta. Queste accuse, però, vanno oltre la chimica personale. La loro essenza mi richiama inevitabilmente alla mente la ben nota copertina pubblicata da The Economist, nel 2001, quando ero capo redattore della rivista: dichiaravamo che Silvio Berlusconi era «inadatto» a governare l'Italia. Questo non aveva niente a che fare con scandali sessuali. Aveva piuttosto qualcosa a che fare con prove e incriminazioni. Ma, soprattutto, la nostra motivazione e la nostra preoccupazione concernevano i pericoli per la democrazia insiti in una relazione troppo stretta tra un potente uomo d'affari e le istituzioni di governo. Era inevitabile che sorgesse il sospetto che le politiche del governo venissero orientate a favore degli interessi commerciali individuali o societari. E tali sospetti e accuse corrodono profondamente la fiducia nel governo, anzi nello stesso capitalismo. Ora, da queste rivelazioni di Wikileaks, possiamo vedere che questi sospetti corrodono anche la fiducia tra gli alleati in tema di politica estera. Questo logorio è in atto da molto tempo. Ma renderlo di pubblico dominio ora rischia di rendere ancora più profonda, e più diffusa, la diffidenza. Traduzione di Carla Reschia http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8162&ID_sezione=&sezione= Titolo: BILL EMMOTT. L'Italia non risponde al telefono Inserito da: Admin - Gennaio 31, 2011, 06:21:48 pm 30/1/2011
L'Italia non risponde al telefono BILL EMMOTT Pochi giorni fa un’intervistatrice tv mi ha chiesto cosa credevo potesse pensare della politica italiana un alieno proveniente da un altro pianeta, un extraterrestre che improvvisamente si fosse trovato a Roma. Una bella domanda, anche se mi sono chiesto se lei vedeva anche me come una sorta di alieno. Forse come commentatore straniero sono davvero una specie di extraterrestre, ma vorrei rilanciare: di fronte alla politica italiana oggi siamo tutti alieni, rispetto ai politici siamo tutti creature di un altro pianeta, italiani o stranieri, giovani o vecchi, di destra o di sinistra. Perciò la mia risposta è che il nostro extraterrestre chiederebbe come mai in Italia c’è così tanta politica e così poco governo. Infatti, se l’Italia fosse l’unico Paese sulla Terra visitato dall’alieno, la creatura dovrebbe concludere che in questo gioco chiamato democrazia la politica e il governo devono essere variabili indipendenti, attività non connesse, e potrebbe dedurne che in Italia il vero governo deve essere altrove, probabilmente in qualche luogo segreto, perché nessuno dei politici sembra avere nulla a che fare con esso. Ciò che i media internazionali rispecchiano oggi, in realtà, è l’idea, affine ma più limitata, che il grande successo di Silvio Berlusconi, in effetti la vera eredità dei suoi anni a Palazzo Chigi, sia aver finalmente sostituito come cliché favorito tra gli stranieri per l’Italia «La Dolce Vita» con la frase «Bunga Bunga». Tuttavia il danno, come ben comprende il nostro alieno, è molto più grave della semplice sostituzione di una bella immagine cinematografica con uno scollacciato esotismo. Il danno può essere riassunto adattando la famosa frase detta da Henry Kissinger, quando l’allora segretario di Stato Usa chiese a chi avrebbe dovuto telefonare se avesse voluto parlare con l’Europa. Se si fosse riferito all’Italia di oggi, avrebbe detto che il numero lo conosce, ma nessuno risponde al telefono. Non ha senso, pensano i governi stranieri o le imprese, chiamare l’Italia, perché il governo, e forse ogni iniziativa, non esiste più. I politici, almeno tutti i politici nazionali, si sono lasciati alle spalle il mondo reale. «Povera Italia», come ha detto recentemente il mio ex datore di lavoro, The Economist. La rivista fu anche rimproverata nel 2001, quando descrivemmo Silvio Berlusconi come «inadatto a guidare l’Italia», ma non ci rendevamo conto che la parola cruciale non era solo «inadatto», ma anche «guidare». Né lui né nessun altro nella politica italiana mostra alcun interesse a guidare l’Italia. Naturalmente gli italiani hanno percepito questo per qualche tempo. Milioni di voi hanno fatto de «La casta» di Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo un grande bestseller nel 2007, un fenomeno che in qualsiasi altro Paese avrebbe implicato la presenza di una forza irresistibile per il cambiamento. Ma la politica è proseguita come prima. Solo, peggio. Che dire dell’economia? Gli analisti hanno speso un sacco di tempo l’anno scorso chiedendosi in cosa l’Italia è diversa dalla Grecia, dall’Irlanda e dal Portogallo, dato che il suo debito pubblico è uno dei più grandi d’Europa in rapporto al Pil. La conclusione popolare, soprattutto con Giulio Tremonti, è che l’Italia è diversa perché non soffre di crisi del settore finanziario, ha un deficit di bilancio relativamente modesto ed è ancora in grado di onorare i debiti, nonostante un tasso di crescita lento. Quindi questa è una buona notizia. È tempo di convincersi del contrario. Infatti, sebbene l’analisi sia corretta, la conclusione è errata: in realtà, questa è una cattiva notizia. Perché almeno i governi di Grecia, Irlanda e Portogallo stanno facendo qualcosa sotto la pressione della loro crisi: le riforme sono state tentate. Almeno in Irlanda c’è un’opposizione che sa chi è il suo leader e sa che vuole andare al governo alle elezioni anticipate che si terranno il mese prossimo. Così come ad altri commentatori mi viene spesso chiesto come possa il presidente del Consiglio sopravvivere a scandali che avrebbero costretto alle dimissioni in pochi giorni qualunque altro leader europeo. La ragione non ha veramente nulla a che fare con il sesso o machismo che viene spesso citato, ancora meno con l’opinione pubblica. La differenza decisiva tra l’Italia e ciò che sarebbe accaduto in Francia, Spagna o Gran Bretagna è che gli alleati di Berlusconi, all’interno del suo partito e della sua coalizione, non gli hanno ancora chiesto di dimettersi, cosa che altrove i loro omologhi avrebbero già fatto da tempo. Essi non vedono alcuna necessità di farlo e presumibilmente credono di poter ancora trarre beneficio dall’alleanza con lui. Né l’opposizione appare seriamente intenzionata nel tentativo di costringerlo ad andarsene, o di cercare di convincere i suoi alleati, nel Pdl o nella Lega, che i loro interessi potrebbero essere serviti meglio senza di lui. Lo spettacolo piuttosto strano della legge sul federalismo fiscale e relativi dibattiti mettono in luce questa mancanza di urgenza e di determinazione. Dopo tanti anni di discussioni su questo problema, con il disegno di legge principale approvato da quasi due anni e con le scadenze per le leggi di attuazione presumibilmente imminenti com’è possibile che ci sia così poca chiarezza su ciò che davvero significa federalismo fiscale? Non sono solo gli alieni a non riuscire a decifrare il vero significato di questo cambiamento apparentemente così importante. La domanda che devo continuare a pormi alla luce di questa scena politica triste, paralizzata, del tutto autoreferenziale, è se mi sbagliavo lo scorso ottobre esprimendo speranza e ottimismo nel mio libro «Forza, Italia: come ripartire dopo Berlusconi». Certamente non abbiamo ancora raggiunto il «dopo», ma la mancanza di leadership, o anche del desiderio di averne una, è scoraggiante. Così, torniamo al nostro alieno e supponiamo che così come è extraterrestre sia anche un economista esperto. Se l’alieno desse un’occhiata ai dati economici dell’Italia, vedrebbe una lista familiare di punti deboli: la crescita economica più lenta rispetto ad altri Paesi della zona euro allargata, la caduta dei redditi delle famiglie; la crescita a rilento della produttività, l’invecchiamento e la stagnazione della popolazione, l’alta disoccupazione giovanile, i disavanzi del commercio della bilancia dei pagamenti, nonostante tutte le dicerie sulle esportazioni italiane (che, contrariamente alla credenza popolare, sono solo al quinto posto nell’Unione europea, sommando beni e servizi, o al quarto solo per le merci). Ma incontrerebbe anche imprenditori che lavorano giorno e notte per creare e inventare prodotti di alta qualità venduti in tutto il mondo; vedrebbe, dal referendum Fiat, una volontà emergente tra i sindacati moderati e i lavoratori per modernizzare le pratiche del lavoro; vedrebbe le idee, l’energia e la creatività dei giovani e potrebbe essere impressionato dalla forza delle cooperative e delle reti nel lavorare insieme per obiettivi comuni. Soprattutto, noterebbe, nelle sue conversazioni con gli economisti italiani umani, un consenso insolito (per l’economia) su ciò che deve essere fatto. Il manifesto dell’alieno sarebbe chiaro, insieme forse con la sua strategia di investimento: concluderebbe, come amano dire gli investitori, che in Italia l’«opportunità al rialzo» di una crescita economica più rapida, lungo le linee tedesche, è grande se solo ci potesse essere un accordo per liberare le energie del Paese. L’agenda richiede il passaggio a un diritto del lavoro unitario ma più flessibile; il trasferimento di risorse pubbliche dall’odierno pantano di usi improduttivi a un nuovo sistema di assicurazione contro la disoccupazione; la liberalizzazione dei mercati per i servizi e per le merci così da consentire maggiore concorrenza e innovazione e, per tutti, la riduzione dei costi. E ancora di più, naturalmente, compresa una versione molto più ambiziosa della riforma Gelmini, per trasformare le università in istituzioni di livello mondiale costrette a concentrarsi sugli studenti e sui risultati. Sarebbe un ordine del giorno liberale, non poi così diverso da quello che i leader e gli altri Paesi della zona euro chiederebbero se l’Italia dovesse in effetti trovarsi in una crisi del debito sovrano. Ecco perché una tale crisi non sarebbe una cosa negativa, nel caso dell’Italia. Un’agenda del genere avrebbe bisogno di una leadership politica. In realtà avrebbe bisogno di politici interessati alla politica e al governo del Paese. Per il momento non lo sono. Eppure, come Hosni Mubarak, che non è lo zio di Ruby, sta imparando in Egitto, non si può contare per sempre sullo status quo. (Traduzione di Carla Reschia) da lastampa.it Titolo: BILL EMMOTT Nella Ue le nuove democrazie Inserito da: Admin - Febbraio 28, 2011, 03:36:17 pm 28/2/2011
Nella Ue le nuove democrazie BILL EMMOTT Il rifiuto del colonnello Muammar Gheddafi di trarre le conclusioni sia morali che pratiche dalla sua situazione di barricato a Tripoli, con più della metà del suo Paese (almeno in termini di popolazione) caduto nelle mani dell’opposizione, non deve stupire nessuno. Nei suoi 40 anni al potere in Libia non ha mai dato prova né di una forte morale, né di un istinto pratico, salvo per quello che riguardava la conservazione del suo potere. Il risveglio del mondo arabo, iniziato appena un mese fa, continua invece a portare sorprese. Una, particolarmente benvenuta a chi scrive, è giunta sabato, da un Paese molto lontano dal Nord Africa. E credo che in una prospettiva a lungo termine, misurata in decenni, porterà sorprese importanti all’Unione Europea nel suo insieme. Ma prima parliamo della non-sorpresa. Dall’inizio della rivolta in Tunisia, si è spesso detto e scritto che l’ondata di proteste nel mondo arabo era inaspettata e imprevista. Ma è vero il contrario, sono state predette in tutto salvo l’aspetto temporale. Sconvolgimenti, incluse rivoluzioni sociali e politiche, sono stati pronosticati per il mondo arabo costantemente, almeno nei due decenni precedenti. Il problema semmai è che questi pronostici erano talmente frequenti da aver annoiato il pubblico fino agli sbadigli, e passare alla fine inosservati. Ero rimasto sorpreso dagli eventi in Tunisia, Egitto, Libia, Bahrein, Oman e altri Paesi. Ma ho capito che non avrei dovuto stupirmene quando un ex collega dell’Economist - dove ho lavorato dal 1980 al 2006 - mi ha proposto di leggere un lungo «speciale» sul mondo arabo che il loro responsabile per gli esteri, Peter David, aveva pubblicato il 25 luglio 2009. Intitolato «Risvegliandosi dal sonno», l’articolo di David raccontava della «febbre sotto la pelle» nella maggioranza dei Paesi arabi, e citava innumerevoli libri e articoli di altri autori che già in precedenza erano giunti alla stessa conclusione. Una volta che si guarda ai fatti, sorprende non tanto che la rivoluzione sia oggi in atto, quanto che non sia accaduta prima: nei 21 Paesi membri della Lega Araba la popolazione è raddoppiata negli ultimi 30 anni, più della metà dei 360 milioni di persone che li abitano ha meno di 25 anni. Gli arabi sono sempre più urbanizzati, e grazie a tv satellitari come la qatariota Al Jazeera hanno un accesso sempre maggiore all’informazione. Eppure, nonostante i prezzi sul petrolio e sul gas siano rimasti alti negli ultimi anni, il reddito della gente non è cresciuto, e le riforme politiche sono state quasi inesistenti. Nessuno, meno che mai gli anziani dittatori e i loro compari che governavano questi Paesi, dovrebbe stupirsi per la diffusione delle proteste e delle rivoluzioni. Per questo motivo, se in futuro questo movimento non si espandesse a Ovest, verso l’Algeria e il Marocco, e a Est, in Giordania, Siria, Arabia Saudita e gli altri Paesi del Golfo, dovremmo considerare proprio questa una sorpresa. Come nell’Europa Orientale e Centrale dopo il crollo del Muro di Berlino, la rivolta in espansione non porterà necessariamente la democrazia e non riuscirà ad abbattere definitivamente i regimi dovunque. Ma la pressione che provocherà non si riuscirà più a ignorare. La sorpresa di sabato scorso è venuta invece dalla decisione del Consiglio di sicurezza dell’Onu di imporre sanzioni al regime di Gheddafi, congelandone le attività, e di deferire il Colonnello al Tribunale penale internazionale (Tpi). Per quanto benvenute e appropriate, queste decisioni sono poco più che gesti, considerato che l’assassino Gheddafi si è barricato a Tripoli e non appare troppo indebolito in questo momento dal congelamento dei suoi beni o dal divieto di viaggiare. Il vero significato della risoluzione giace però nell’unanimità del Consiglio di sicurezza, e soprattutto nell’appoggio, sia pure poco entusiasta, della Cina. Che ha comunque votato per deferire il Colonnello al Tpi per aver trattato i suoi oppositori più o meno nella stessa maniera in cui Pechino nel 1989 intervenne contro la rivolta di piazza Tiananmen. L’esercito cinese aveva sparato sulla folla dai ponti e non dagli elicotteri e dai caccia, ma ci sono pochi dubbi che Deng Xiaoping, che allora governava la Cina, non avrebbe esitato a far ricorso ancora più massiccio alla forza se fosse stato necessario. La Cina di oggi tiene all’importanza di istituzioni e accordi multilaterali molto più di quella del 1989. Perciò è significativo e sorprendente che il suo governo ha ammesso, nella cornice della più importante istituzione multilaterale, di considerare l’uso della forza omicida per la repressione di una rivolta come un crimine del quale i leader devono rispondere. E’ un cambiamento importante. E sarà importante ricordare questa dichiarazione alla Cina, quando i tibetani o i musulmani dello Xinjiang scenderanno in piazza la prossima volta. Prima di allora, e prima di una nuova protesta nella piazza Tiananmen di Pechino, non possiamo sapere quanto sul serio prendere questa posizione. Ma potrebbe essere una sorta di segno di maturità: si è arrivati a un punto in cui il sempre maggiore coinvolgimento della Cina nel mondo (in Libia ci sarebbero almeno 30 mila lavoratori cinesi) la spinge anche ad assumere posizioni più responsabili. E forse - ma solo forse - il tempo di reagire al dissenso interno con i massacri è finito. La sorpresa a lungo termine portata dagli eventi in Egitto, Tunisia e ora in Libia, si ripercuote invece nel nostro lontano futuro. Riguarda le conseguenze che il possibile e probabile contagio delle rivoluzioni democratiche nell’ampia regione del Nord Africa e del Medio Oriente porterà all’Unione Europea. Dovremmo essere pazienti nell’osservare fin dove si spingeranno queste rivoluzioni, come lo fummo nei primi mesi dopo la caduta del muro di Berlino nel 1989. Ma, come allora, pianificare e riflettere in anticipo si rivelerà utile. L’Ue si è evoluta attraverso una serie di idee che, quando furono proposte per la prima volta, erano apparse improbabili, per diventare poi un giorno inevitabili. La prossima idea del genere potrebbe essere l’espansione dell’Ue alla costa meridionale del Mediterraneo. Nessuno oggi si attende un’evoluzione del genere, considerando che Francia, Germania e altri Paesi europei non riescono ad accettare l’idea dell’adesione della Turchia, che è già una democrazia. Ma torniamo ai primi Anni 90: divenne rapidamente chiaro che l’Europa Occidentale aveva un grande interesse a patrocinare la stabilità e lo sviluppo economico degli ex satelliti sovietici suoi vicini, e lo fece in un lungo e lento processo culminato con la piena adesione all’Ue per 10 di questi Paesi, più di dieci anni dopo. Non tutti gli ex «satelliti» dell’Urss sono diventati democrazie, e non tutti, almeno per ora, hanno aderito all’Ue. Lo stesso succederà probabilmente in Nord Africa e in Medio Oriente. Eppure, bisogna pensare ai paralleli tra il crollo dell’Unione Sovietica nelle terre al confine orientale dell’Ue, e alla caduta delle dittature arabe nella costa meridionale del Mediterraneo. Così come dopo il 1989, anche oggi i grandi interessi e l’opportunità storica che l’odierno risveglio arabo offre all’Europa diventeranno sempre più chiari nei prossimi mesi e anni, nel bene e nel male. L’America ha nella regione complessi dossier militari, e verrà ritenuta responsabile per quello che accadrà - o non accadrà - in Palestina. L’Europa, come nel dopo-1989, può offrire soprattutto legami culturali ed economici, che hanno una valenza più positiva. I Paesi europei sono già oggi i maggiori partner commerciali di numerosi Paesi nordafricani: l’Italia, per fare un esempio, è leader con la Libia e l’Algeria grazie al petrolio e al gas. La logica di questi legami, accanto alle paure di instabilità e migrazioni di massa, può puntare un un’unica direzione a lungo termine: una qualche sorta di forma di adesione all’Ue per alcuni Paesi nordafricani. Più che un’adesione a pieno titolo, come la vediamo oggi, si tratterebbe di un’Unione nuova che contempla diverse forme di adesione. In fondo vale già oggi, visto che solo alcuni dei 27 fanno parte del sistema dell’euro, o della zona Schengen. Quindi ci vorrà una nuova formula per offrire integrazione economica, incluso un successivo accesso ai commerci e al mercato unico, ai Paesi democratici del Nord Africa, probabilmente senza concordare per il momento una piena libertà di movimento della mano d’opera. Tutto questo significherà che l’Unione Europea stessa dovrà cambiare di nuovo nome: potrebbe diventare l’Unione Europea e Mediterranea. Senza una proposta del genere, senza una visione così a lungo termine, cosa potrà offrire l’Europa alle neodemocrazie nordafricane, se e quando emergeranno? Un po’ di aiuto, qualche posto all’università. Tutto qui. Eppure, dopo la caduta del Muro di Berlino, abbiamo da offrire, come incentivo per le riforme democratiche, qualcosa di veramente prezioso: la possibilità di unirsi a noi. Appare difficile, anche senza menzionare l’Islam. Ma non dimentichiamo che un tale sviluppo darebbe anche un senso economico e politico all’Europa. Mediterraneo, se guardiamo alla sua radice latina, significa «al centro della terra», e non «confine meridionale». Fu il centro del nostro mondo per secoli. E fa parte del vicinato europeo. da - lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali Titolo: BILL EMMOTT. Il rischio di fuggire dal mondo Inserito da: Admin - Marzo 13, 2011, 06:27:13 pm 13/3/2011
Il rischio di fuggire dal mondo BILL EMMOTT Se vi siete mai chiesti perché il Giappone abbia così pochi vecchi edifici o perché la più famosa xilografia giapponese, opera dell’artista Hokusai, rappresenti una grande onda, o anche perché il termine internazionalmente accettato per maremoto sia «tsunami», una parola giapponese, bene, ora lo sapete. Venerdì un incredibile, terribile terremoto e uno tsunami hanno ricordato a tutti noi quello che 120 milioni di giapponesi sanno da una vita: che il loro arcipelago di isole sul limite estremo dell’Asia è la zona sismica più attiva del mondo abitato. È troppo presto per fare una stima di quante persone abbiano perso la vita nel terremoto e nello tsunami, ma anche un semplice sguardo ai filmati dell’onda che distrugge città e villaggi del Nord-Est del Giappone suggerisce che il numero finale potrebbe essere nell’ordine delle decine di migliaia, o forse anche di più. Per via della frequenza e della gravità dei terremoti, le norme edilizie in Giappone sono molto rigide e la tecnologia è altamente avanzata. So per esperienza di piccoli terremoti (ho vissuto in Giappone per tre anni alla metà degli Anni 80 e da allora sono un assiduo frequentatore) che trovarsi in un grattacielo durante un terremoto è spaventoso, perché l’edificio continua a oscillare per un tempo incredibilmente lungo, ma anche molto sicuro. Questo non vale invece per le case ordinarie, specialmente nelle piccole città e nei villaggi. I terremoti, e gli incendi che spesso li seguono, nel corso dei secoli hanno insegnato ai giapponesi a costruire e progettare case che possono essere sostituite facilmente e con poca spesa. Anche molti dei templi storici che i turisti visitano in una città antica come Kyoto sono stati ricostruiti più volte nel corso dei secoli. Così, quando lo tsunami ha colpito, molte piccole case sono state spazzate via o schiacciate come scatole di fiammiferi. Guardando il disastro giapponese, una delle prime cose che mi viene in mente è un senso di colpa: mi sento in colpa perché sono più sconvolto e choccato da questa catastrofe che, per esempio, dal terremoto ad Haiti nel gennaio 2010 che forse ha ucciso 250 mila persone. Perché? Non è solo perché una volta ho vissuto in Giappone e ho molti amici lì, benché, certo, anche questo conti. Il fatto è che il Giappone assomiglia di più alla Gran Bretagna o all’Italia di Haiti o della provincia di Sichuan in Cina, dove sono morte circa 70.000 persone: è un Paese moderno, sviluppato, industrializzato, come i nostri, in cui non ci aspettiamo che improvvisamente, durante un normale pomeriggio di marzo, decine o centinaia di migliaia di persone possano morire. Mette in discussione il nostro senso di sicurezza, di civiltà, le protezioni che la ricchezza sembra assicurarci. E quindi quale potrebbe essere l’impatto di un tale evento in Giappone? Il primo principio quando si tratta di valutare le catastrofi naturali è, credo, di dimenticare l’economia. Molta gente chiede immediatamente quale sarà l’impatto economico in quella che è la terza economia del mondo. La risposta è che, salvo il brevissimo termine, sarà trascurabile. Naturalmente, ci saranno disagi per le fabbriche, i trasporti, le industrie di servizi e tutti i tipi di attività economiche. Ma sarà una cosa solo temporanea. Lo sforzo della ricostruzione rilancerà la produzione economica e creerà posti di lavoro e, in un’economia moderna e sviluppata, la gran parte di questo sarà finanziata dalle assicurazioni. Così, proprio come dopo l’uragano Katrina negli Stati Uniti, che ha devastato New Orleans nel 2005, l’impatto economico è la cosa meno importante di cui preoccuparsi. Una questione economica più significativa riguarda la sicurezza energetica: questa catastrofe potrebbe indebolire o rafforzare la fede dei giapponesi nella tecnologia a energia nucleare. Il Giappone è, accanto alla Francia, la nazione più dipendente dal nucleare per la produzione di energia elettrica. Non si capisce ancora se uno o più dei suoi reattori nucleari possa essere stato reso pericoloso dal terremoto: se, in presenza del peggior terremoto della storia del Giappone non ci fossero stati gravi danni né avvelenamento da radiazioni, questo potrebbe rafforzare la scelta nucleare. Ma se il Giappone ha subito un incidente simile a quello di Cernobil in Ucraina nel 1986, allora l’opzione nucleare potrebbe anche uscirne distrutta, specialmente in altri Paesi a rischio sismico come l'Italia. E’ troppo presto per esprimere un giudizio, tuttavia. I veri, significativi effetti a lungo termine saranno probabilmente psicologici e culturali. L’ultimo grande terremoto in Giappone si è verificato nel 1995 a Kobe, una città industriale a Sud-Ovest di Tokyo e ha causato 6.500 morti. Col senno di poi, è chiaro che il disastro di Kobe ha scosso la fiducia dei cittadini sia nella competenza del governo sia nell’efficacia del regolamento edilizio del Paese. A differenza dell’Italia, il governo godeva della fiducia dei cittadini in Giappone e i regolamenti erano ritenuti i migliori al mondo. Il risultato di un soccorso caotico e del crollo di molte strutture che erano state considerate a prova di terremoto ha di certo contribuito a distruggere la fiducia della gente comune nel sistema in cui avevano fino ad allora confidato. La yakuza locale, le bande del crimine organizzato hanno guadagnato credito per il loro ruolo nei soccorsi a scapito della polizia e dell’esercito o dei funzionari pubblici. Sarebbe sbagliato attribuire tutto a un solo evento. Ma di conseguenza la politica giapponese e le procedure di attuazione delle politiche sono diventate meno decise ed efficaci, e più dispersive e controverse. L’esperienza del terremoto di Kobe ha sicuramente contribuito a tale processo. Ora, c’è una possibilità che i risultati politici siano positivi piuttosto che dannosi. La politica altamente disfunzionale del Giappone, che ha dato al Paese quattro primi ministri negli ultimi quattro anni, potrebbe ora arrivare a un accordo temporaneo, o almeno a un obiettivo comune attorno al compito di ricostruire e rimettere in sesto la nazione. Le memorie politiche possono essere brevi e la morale scarsa, ma la lotta in corso proprio prima del terremoto, che bloccava il bilancio annuale del governo per forzare il ricorso alle urne, sicuramente ora apparirà irresponsabile e obsoleta. Il Paese ha urgente bisogno di un senso di comune appartenenza, per varare le riforme e rilanciare la propria economia, e una terribile catastrofe naturale potrebbe contribuire a dare esattamente quel tipo di sensazione. Il Giappone si è ricostruito e reinventato più volte in passato dopo le calamità, compreso il terremoto del 1923 seguito da un incendio che distrusse Tokyo, e la sconfitta e la distruzione del secondo conflitto mondiale. Vi è, tuttavia, anche un pericolo psicologico e culturale. Ed è che, choccato da questa catastrofe e reso di nuovo consapevole della propria vulnerabilità, il popolo giapponese possa di nuovo ripiegarsi su se stesso, distogliendo ambizioni ed interessi dalla globalizzazione e diventando ancora più insulare e remoto di quanto già sia. Questa tendenza è in corso da qualche tempo. Nella tecnologia c’è anche una frase per definirla: «L’effetto Galapagos». Negli ultimi 20 anni le imprese di elettronica giapponesi hanno continuato a produrre innovazioni meravigliose ma molte applicabili solo a casa, in ambiente giapponese. Da qui questa idea che il Giappone si stia evolvendo separatamente, come le iguane e le tartarughe delle isole Galapagos. Più in generale il crescente distacco dal resto del mondo è stato visto nella diminuzione del numero dei giovani giapponesi che scelgono di studiare o lavorare all’estero. Il problema giapponese è in questo senso il contrario della «fuga dei cervelli» dell’Italia: sempre meno giovani si recano all’estero, e questo significa che sempre meno stanno imparando da esperienze, tecnologie o idee internazionali. Sarebbe sbagliato esagerare questo rischio. Dopo questo disastro il Giappone non ha intenzione di chiudere le sue porte al mondo nel modo in cui lo fecero i suoi shogun Tokugawa (leader militari) per oltre 200 anni, dal 1630 fino al 1860. Ma potrebbe anche diventare ancora più diffidente, più preoccupato dei suoi affari, più sulla difensiva e più, beh, spaventato. Speriamo di no: l’Asia e il mondo sarebbero peggiori senza l’attivo contributo di uno dei Paesi più sviluppati e avanzati del mondo, in particolare con la Cina in crescita e la Corea del Nord sempre pericolosa. (Traduzione di Carla Reschia) da - lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali Titolo: BILL EMMOTT Senza la verità non si fanno riforme Inserito da: Admin - Aprile 30, 2011, 03:41:36 pm 30/4/2011
Senza la verità non si fanno riforme BILL EMMOTT Mi ha fatto piacere leggere l’elegante risposta di Antonio Vigni («Tre verità sull’Italia») al mio articolo provocatorio sulle «bugie». Le sue verità però hanno bisogno di qualche chiarimento. La prima pseudo-pseudo bugia-verità era se il sistema industriale italiano avesse mostrato la sua forza durante la crisi. Lo sfondo che manca alla sua configurazione della crescita della produzione industriale nel 2010 è che, dopo lo choc Lehman, il crollo produttivo in Italia tra il secondo trimestre del 2008 e il secondo trimestre del 2009 (il momento peggiore della crisi) era, con il 20%, il quarto più grave di tutta l’Unione Europea, peggio che in Germania e molto peggio che in Francia (15%). Questo crollo mostrava debolezza, e per mostrare forza il recupero avrebbe dovuto essere molto più veloce che in Francia. Non lo è stato. Un ragionamento simile si applica alla seconda pseudo-pseudo bugia-verità, sull’esportazione: l’Italia ha avuto la seconda perdita più grave delle esportazioni nell’Unione Europea nello stesso periodo post Lehman, quindi il suo recupero dovrebbe essere più forte per recuperare il terreno perduto. In entrambi i casi va aggiunto un ulteriore punto: il settore manifatturiero è stato deludente, ma il settore terziario è andato ancora peggio, il che è più importante dato che (includendo sia il pubblico che il privato) fa il 70% del prodotto nazionale lordo contro il 25% del settore manifatturiero. La terza pseudo-pseudo bugia-verità riguarda il fatto se i risparmi e la ricchezza delle famiglie siano un fattore positivo per l’economia. Come dice lui, nel 2010 i consumi privati hanno contribuito poco alla crescita di domanda nazionale, perché le famiglie hanno scelto di risparmiare meno delle loro declinanti entrate effettive. Ma questo non è un «fattore positivo» sostenibile: perché i consumi aiutino la crescita economica, le entrate familiari devono aumentare, altrimenti i fantastici risparmi familiari italiani spariranno molto rapidamente. La questione fondamentale è ben illustrata dall’asserzione che il rapporto tra debito pubblico italiano e prodotto nazionale lordo era il 119% nel 2010 paragonato al 121,5% nel 1995. Questo significa che i governi in questi 15 anni hanno fallito o a tagliare abbastanza la spesa pubblica o a generare sufficiente ricchezza per ridurre questo rapporto. Il che a sua volta spiega perché durante una crisi globale che ha colpito Paesi come Gran Bretagna, Irlanda e America, dove il settore privato si indebita troppo, l’Italia, dove questi peccati non avvengono, ha comunque avuto una delle riprese economiche più deboli nel mondo occidentale. Per cambiare ciò sono necessarie delle riforme. E per fare le riforme, bisogna riconoscere la verità. da - lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/ Titolo: BILL EMMOTT L'economia della Cina cambia pelle Inserito da: Admin - Maggio 14, 2011, 03:19:58 pm 14/5/2011
L'economia della Cina cambia pelle BILL EMMOTT Non appena pensi di aver decifrato il funzionamento dell’economia cinese, ecco che di colpo cambia radicalmente. Questo è ciò che accade quando in un’economia il Pil cresce del 10% annuo e quindi raddoppia di dimensione ogni sette anni, con enormi cambiamenti sociali. Essa deve continuare a evolversi, adattandosi, trasformandosi. Ora la novità è che la Cina sta smettendo di essere il maggior centro mondiale di produzione a basso costo. E così facendo assomiglierà sempre di più al Giappone, anche se non ancora a quello degli Anni 70. L’annuncio del 12 maggio di Coach, il grande marchio americano di pelle e accessori, che prevede di spostare la metà delle sue produzioni attualmente in Cina a causa del crescente costo del lavoro è l’ultimo segnale di questo cambiamento. I livelli salariali in Cina sono in aumento di circa il 20% annuo, superiore alla crescita della produttività, grazie a nuove leggi sul lavoro che hanno rafforzato i diritti dei lavoratori, così come la crescente competitività per la manodopera qualificata e semi-specializzata. Un recente studio realizzato dal Boston Consulting Group ha esplorato le implicazioni di questa inflazione salariale per Cina, Stati Uniti ed Europa. Gli analisti del Bcg hanno concluso che, in concomitanza con il graduale deprezzamento del dollaro Usa nei confronti della valuta cinese, lo yuan, i salari cinesi nel corso dei prossimi cinque anni passeranno dall’attuale 9% al 17% dei salari degli Stati Uniti entro il 2015. Nel 2000, i salari cinesi erano solo il 3% di quelli Usa. Questo appare ancora come un grande divario, e lo è. Ma il lavoro non è l’unico costo che conta per le multinazionali come Coach. Anche i costi del trasporto e il tempo hanno importanza e l’aumento dei prezzi dell’energia significa che anche i costi di spedizione e trasporto aereo delle merci stanno salendo. Inoltre, la Cina non è l’unico Paese che cambia, o che migliora la produttività dei suoi lavoratori: anche la produttività Usa sta crescendo rapidamente. Per questo motivo, il rapporto del Bcg elenca altre multinazionali che hanno già spostato le loro produzioni dalla Cina, alcuni verso Paesi asiatici a più basso costo e gli altri di nuovo in America: Caterpillar, Ford, Flextronics e anche un produttore di giocattoli, Wham-O. Il settore manifatturiero americano, secondo questa analisi, è orientato a una forte ripresa nei prossimi cinque-dieci anni. Questo, tuttavia, secondo l'analisi del Bcg, non accade in gran parte dell’Europa, e certamente non in Italia. La nostra produttività cresce molto meno rispetto agli Stati Uniti, grazie a mercati del lavoro poco flessibili e alla scarsità della libera concorrenza; il divario tra i salari del settore manufatturiero in Italia e quelli in America è il più ampio rispetto a Francia, Germania e Regno Unito. Cosa significa questo per la Cina? Non vuol dire che la Cina presto non sarà più un gigante manufatturiero. In effetti, può ben essere ancora il più grande produttore al mondo. Ma produrrà molto di più per il suo mercato interno in forte espansione e meno per l’esportazione; e, in secondo luogo, i suoi stessi esportatori dovranno orientarsi verso la fascia alta, per creare prodotti di maggior valore, prodotti di alta tecnologia per cui i costi del lavoro sono meno significativi. Ecco dove è utile l’analogia con il Giappone degli Anni 70. Nel corso degli Anni 50 e 60 l’economia giapponese è cresciuta a tassi annui a due cifre come quella cinese negli ultimi anni, grazie ai bassi costi del lavoro, all’industria pesante, agli enormi investimenti nell’urbanizzazione, a una valuta a buon mercato fissata ad un valore basso rispetto al dollaro, alla mancanza di leggi contro l’inquinamento. Poi tutto è cambiato: il Giappone è stato costretto a rivalutare la sua moneta, i tassi dei salari hanno cominciato ad aumentare, drammaticamente, lo shock del prezzo del petrolio del 1973 ha fatto impennare l’inflazione e soprattutto i costi dell’energia; e le proteste popolari hanno costretto il governo a introdurre severe leggi ambientali e a farle rispettare rigorosamente. Per un po’ sembrò un disastro, la fine del miracolo giapponese. Ma in realtà era solo l’inizio di una nuova fase di quel miracolo. La combinazione dell’iniziativa nel settore privato con alcuni interventi statali ha trasformato il Giappone: il Paese più sporco e con il maggior consumo di energia sviluppata degli Anni 70 negli 80 era diventato il più pulito e il più efficiente. E l’industria giapponese ha cessato di competere sulla base di acciaio, prodotti chimici, giocattoli, auto di bassa qualità e radio: si è spostata verso l’alta gamma, riuscendo a dominare i nuovi settori dell’elettronica di consumo, dei semiconduttori e delle vetture compatte, soprattutto durante gli Anni 80. Un risultato simile può essere immaginato nel prossimo decennio per la Cina. Non sarà più una base di produzione a buon mercato per le esportazioni delle multinazionali. La sua moneta gradualmente si sta rivalutando e probabilmente tra poco il processo verrà accelerato, per mantenere il controllo dell’inflazione. Per ragioni politiche le autorità cinesi sentono la necessità di consentire ai salari di crescere, per fermare le proteste dei lavoratori contro il governo e per dissuaderli dal voler imitare le rivoluzioni arabe. Allo stesso modo, la pressione per far rispettare le leggi ambientali del Paese in modo più rigoroso cresce di mese in mese e di anno in anno. In un Paese autoritario, nominalmente comunista, come la Cina, c’è il pericolo che questa trasformazione non avvenga senza scosse, come nel democratico Giappone. Vi è il rischio di instabilità politica. Tuttavia, il Partito Comunista ha imparato la lezione dal Giappone e comprende la necessità di una simile trasformazione per il Paese. Sta lavorando per organizzare il cambiamento senza permettere che questo diventi una sfida al suo potere. Finora è sempre riuscito a gestire tali cambiamenti. Finora. Traduzione di Carla Reschia da - lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/ Titolo: BILL EMMOTT. L'ECONOMIST SUL CAVALIERE: HA FREGATO L'ITALIA Inserito da: Admin - Giugno 10, 2011, 10:24:03 am 10/6/2011 - L'ECONOMIST SUL CAVALIERE: HA FREGATO L'ITALIA
Dieci anni di polemiche BILL EMMOTT Se qualcuno, dieci anni fa, mi avesse detto che nel 2011 avrei scritto regolarmente editoriali per un giornale italiano e che avrei pubblicato un libro sull’Italia, avrei risposto che era matto. Dopo tutto, come direttore di The Economist, stavo viaggiando molto in America e in Asia, ma non in Italia, e il mio personale passato di scrittura riguardava il Giappone. Ma poi, quasi esattamente dieci anni fa, all’Economist abbiamo pubblicato la nostra nota copertina, dichiarando che Silvio Berlusconi era «inadatto» a governare l’Italia. E, anche se io allora non lo sapevo, la mia vita stava per essere cambiata da quella copertina. In un primo momento pensavo che sarebbe cambiata semplicemente per la necessità di evitare gli italiani: per molti di loro The Economist, e quindi il suo direttore, era diventato il nemico pubblico numero uno. Questo era vero anche per molti lettori che in realtà non sostenevano il Cavaliere: erano indignati perché una pubblicazione straniera aveva osato prendere una posizione così forte sulle elezioni italiane e sul suo probabile prossimo presidente del Consiglio. Molti lettori, tuttavia, ne furono davvero felici. Berlusconi, naturalmente, non era tra questi, anche se sostenne di essere un ex abbonato. Mostrò la sua mancanza di gioia chiamandoci «comunisti», e il suo quotidiano Il Giornale rafforzò questo punto di vista pubblicando la mia foto in prima pagina e facendo notare che assomigliavo a Lenin. Quindi intentò la prima di due cause per diffamazione contro la rivista. Dieci anni dopo guardo a quelle origini della mia nuova vita legata all’Italia con un misto di orgoglio e di perplessità. Orgoglio perché gli organi di stampa dovrebbero battersi per principi importanti e fare del loro meglio per dire la verità, ed è quello che stavamo facendo. Ma anche perplessità a causa del ruolo insolito e difficile assegnato in Italia ai critici e ai commentatori stranieri. Quel ruolo, di cui ora beneficio, è molto lusinghiero. Ma non sono del tutto sicuro su come interpretarlo. Sotto questo aspetto l’Italia è sorprendentemente simile al Giappone. La maggior parte dei Paesi presta poca attenzione a ciò che gli stranieri dicono o scrivono su di loro. I media britannici raramente riportano quello che i media francesi, americani o italiani dicono della Gran Bretagna. La Francia praticamente non riconosce alcun ruolo ai commentatori stranieri. E in realtà neppure l’America, anche se l’immigrazione rende difficile definire chi è del luogo e chi è straniero. Ma sia il Giappone che l’Italia sembrano prestare molta più attenzione degli altri alle idee e alle analisi degli stranieri sul loro Paese. Perché? La risposta, ho concluso, è che i critici stranieri sono utilizzati in un mix di modi buoni e cattivi. Positivo è il sentimento, autentico, che nessun Paese detenga il monopolio della conoscenza o del giudizio, da qui un interesse genuino a imparare dalle idee e dalle esperienze di altre persone. Il modo sbagliato, invece, va in una direzione del tutto diversa: in entrambi i Paesi il dibattito politico è molto parrocchiale e ripiegato su se stesso, e tanto il Giappone quanto l’Italia oppongono abbastanza resistenza a partecipare pienamente a ciò che chiamiamo globalizzazione. Di conseguenza, i critici stranieri sono spesso usati come strumenti in una disputa essenzialmente interna, come armi politiche per aiutare una parte o l’altra. In tale uso la necessità di un’arma è più importante di quello che il critico straniero sta in effetti dicendo. Nel mio libro «Forza, Italia: come ripartire dopo Berlusconi» sostengo che c’è una «buona Italia» e una «mala Italia», e che l’equilibrio tra le due deve essere cambiato. Ci sono così tante energie positive e idee da liberare. Dopo dieci anni di articoli sull’Italia, prima come nemico pubblico numero uno del centro-destra, poi come quello che Il Giornale ha definito un «anti-italiano», quindi come ricercatore delle eccellenze e delle potenzialità dell’Italia, sento anche che l’equilibrio tra il buon uso dei commenti stranieri e il cattivo uso deve cambiare. Con questo voglio dire che le analisi degli stranieri sull’Italia, sui suoi problemi e sulle sue potenzialità, potrebbero essere di maggior profitto per i lettori e gli opinionisti italiani se si accantonasse la parzialità politica. Gli stranieri, scrivendo di un altro Paese, hanno molti punti deboli: soprattutto l’ingenuità e l’ignoranza delle sottigliezze. Ma la loro forza può e deve essere la loro indipendenza dalla politica interna e dalle parti. Il grande merito del discorso agli azionisti tenuto il 31 maggio dal governatore della Banca d’Italia Mario Draghi sta nel fatto che è una figura realmente indipendente, indipendente dalla politica e anzi in procinto di lasciare il Paese. Il suo discorso merita di essere letto e riletto molte volte. I suoi discorsi non sono certo le «prediche inutili» di cui si lamentava. La miglior ambizione che qualsiasi analista straniero d’Italia possa albergare nel proprio cuore è di non fare sermoni inutili. Traduzione di Carla Reschia da - lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/ Titolo: BILL EMMOTT Se si tradisce la fiducia dei lettori Inserito da: Admin - Luglio 07, 2011, 09:46:14 am 7/7/2011
Se si tradisce la fiducia dei lettori BILL EMMOTT I giornalisti britannici spesso possono risultare arroganti e presuntuosi in modo fastidioso, anche se fanno finta di disprezzarsi e dicono d’essere ancora meno popolari dei politici e dei venditori di auto usate. Lo scandalo che sta esplodendo a Londra sembra destinato a spiegare entrambe queste contraddittorie affermazioni. E così facendo sta danneggiando persone e istituzioni che vanno da David Cameron, il primo ministro, a Rupert Murdoch, il più potente proprietario di media del Paese, a molte delle forze di polizia regionali britanniche, tra cui la polizia metropolitana di Londra. Tutti sanno, da secoli, che ci sono giornalisti disposti virtualmente a tutto per ottenere, o, se necessario creare, una storia, in tutti i Paesi, ma sicuramente in Gran Bretagna, con la sua stampa nazionale così competitiva. A Fleet Street, l'antica (ma ora teoricamente vacante) sede della stampa di Londra, un vecchio adagio recita che tutto ciò di cui ha bisogno un buon giornalista siano gambe robuste e l’astuzia di un topo. Tutto vero ma la domanda ora è quanto oltre possa spingersi quell’astuzia prima di finire per infrangere la legge e distruggere la fiducia del pubblico. Questa storia ha impiegato molto tempo ad emergere. Quattro anni fa apparve chiaro che alcuni giornalisti del giornale della domenica più venduto nel Paese, il News of the World, si erano spinti troppo oltre. Il loro corrispondente che assicurava la copertura sulla famiglia reale fu condannato per aver usato un detective privato per intercettare illegalmente i messaggi vocali sui telefoni cellulari di vari principi e dei loro amici, ed entrambi finirono in carcere. Andy Coulson, che allora era il direttore del giornale, si era dimesso affermando però di non aver saputo nulla di quello che stava succedendo. Quella storia merita di essere raccontata per quello che non accadde e ciò a sua volta spiega perché questo scandalo è importante e perché i giornalisti inglesi siano stati così arroganti negli ultimi anni. Il punto è che non ci fu nessuna inchiesta pubblica e nemmeno una vera indagine. Il proprietario di The News of the World, Rupert Murdoch, disse che si trattava di un caso isolato di cattiva condotta da parte di un giornalista canaglia, che non aveva alcuna autorizzazione. Quando altre celebrità e politici iniziarono a dire che anche i loro telefoni erano stati violati, la polizia iniziò ad indagare. Ma dissero di non aver trovato alcuna prova di ulteriori malefatte. Così due anni dopo, il leader del partito conservatore, David Cameron, si sentì autorizzato ad assumere il signor Coulson come capo della comunicazione, un lavoro che ha conservato quando David Cameron è stato eletto primo ministro nel maggio 2010. Ma negli ultimi nove mesi, è emerso un numero sempre crescente di rivelazioni, a conferma che, lungi dall'essere un caso isolato, queste intercettazioni telefoniche illegali erano in effetti assai diffuse al giornale. L'idea che il signor Coulson in qualità di direttore non ne sapesse nulla ha rischiato di danneggiare sia la sua attendibilità sia la sua fama di competenza. Per paura di diventare un caso politico, a gennaio ha rassegnato le dimissioni dal numero 10 di Downing Street, una mossa di cui il primo ministro si è dichiarato dispiaciuto, definendola nobile. Finora le rivelazioni hanno riguardato essenzialmente le celebrità, che suscitano poca simpatia pubblica. Ma il 5 luglio il quadro è cambiato, radicalmente, quando da accuse ben circostanziate è emerso che nel 2002 il giornale aveva usato un detective privato per introdursi nel cellulare di una studentessa di 13 anni sparita da casa, Milly Dowler, che poi fu ritrovata assassinata. Questa notizia ha scatenato l'inferno, facendo emergere nuove accuse su casi di spionaggio telefonico in occasione di altri processi per omicidio ad alto impatto mediatico e gli inserzionisti hanno annunciato che avrebbero sciolto i loro contratti con News of the World. Questa è una situazione politicamente esplosiva per via dei legami tra News Corporation e David Cameron, che casualmente è anche amico di Rebecca Brooks, che ha preceduto il signor Coulson come direttore del News of the World, quando è scoppiato il caso dell’ omicidio Dowler e ora è amministratore delegato della società britannica di Rupert Murdoch, News International. Questa incandescenza politica è smorzata solo dal fatto che lei e la sua organizzazione erano vicini anche ai governi laburisti di Tony Blair e Gordon Brown. In Italia i giornali e le emittenti sono spesso politicamente allineati, così amicizie e alleanze cambiano con i governi. In Gran Bretagna questo è meno vero, soprattutto perché Rupert Murdoch possiede così tanti giornali - Il Times, il Sunday Times, il Sun e il News of the World - che tutti i governi lo vogliono dalla loro parte, a prescindere dal partito politico. E tutti i politici hanno paura dei danni che i giornali, sia quelli di Murdoch come quelli concorrenti, possono fare alla loro reputazione, perciò sono riluttanti a sfidare troppo apertamente la stampa. Lo scandalo, tuttavia, è anche istituzionalmente esplosivo. Perché la ragione fondamentale per cui non c'è stata alcuna vera indagine su questo scandalo negli ultimi quattro anni non è stata solo la codardia politica, ma il fatto che anche la polizia vi era pesantemente coinvolta. Il Sun, il News of the World, il Daily Mail, il Daily Mirror e altri tabloid non solo ricevono abitualmente confidenze da parte della polizia, che sarebbe normale, ma pagano anche i poliziotti per le singole informazioni, e questo è illegale. Così a quanto pare la polizia non ha voluto guardare troppo da vicino lo scandalo delle intercettazioni perché per farlo rischierebbe di esporre i propri rapporti molto stretti e talvolta illegali con i giornalisti. Martedì scorso, appena esploso lo scandalo, News International ha annunciato che avrebbero passato alla polizia i dettagli dei pagamenti ai poliziotti per le informazioni, autorizzati quando il signor Coulson era direttore. In altre parole, i dettagli delle tangenti autorizzate dal futuro capo della comunicazione per il primo ministro. E’ difficile dire cosa accadrà ora, lo scandalo è ancora in piena esplosione. Probabilmente sarà avviata una sorta di inchiesta pubblica sulla condotta dei giornalisti dal governo o dal Parlamento. Probabilmente, ci sarà anche una ricerca seria sulla corruzione all’interno della polizia, e sulla condotta dei singoli poliziotti. Ci saranno le dimissioni ai vertici di News International, e ci saranno pressioni sul governo perché impedisca a Murdoch di assumere il controllo completo di BSkyB, la sua società TV via satellite, anche se questo legalmente sarà complicato. Infine, ci sarà un dibattito sull’opportunità di introdurre controlli pubblici sulla condotta della stampa, ipotesi che preoccupa ogni giornalista serio, in quanto limiterebbe la nostra libertà di parola e d’indagine. Ma mentre la combattiamo dovremo tuttavia evitare di sembrare arroganti e presuntuosi. Traduzione di Carla Reschia da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8948&ID_sezione=&sezione= Titolo: BILL EMMOTT. - Italia attenta, metti a rischio la credibilità Inserito da: Admin - Luglio 10, 2011, 04:02:43 pm 10/7/2011
Italia attenta, metti a rischio la credibilità BILL EMMOTT Nel corso di questi ultimi due anni in cui ho scritto e parlato dell’Italia, ogni volta che ho detto qualcosa di critico sui punti deboli dell’economia italiana, quasi inevitabilmente, qualcuno tra il pubblico o tra i lettori ha risposto dicendo: «Ma noi non siamo come la Grecia, e abbiamo superato molto bene la crisi». Ho sempre contestato la seconda parte di tale argomento, che non è supportata dai fatti, ma mi sono sempre detto d’accordo sulla prima. Ecco perché è così strano, e potenzialmente tragico, che proprio il governo italiano negli ultimi giorni appaia determinato a rendere l’Italia più simile alla Grecia. Il panico dei mercati finanziari di venerdì, con la svendita delle azioni italiane e il costo del debito pubblico in ascesa, riflette esattamente questo sentimento. Proprio come per il Portogallo, la Spagna e la Grecia, la crescita economica in Italia è debole e il Pil e la produzione manifatturiera si riprendono più lentamente dalla crisi globale del 2008-09 rispetto a quanto è avvenuto in Francia, in Germania o nei Paesi Bassi. Ma almeno le finanze pubbliche nazionali erano sotto controllo, con un piccolo deficit di bilancio e il rapporto tra debito pubblico e Pil stabilizzato. Quindi, a differenza della Grecia, la debole crescita economica italiana non implicava che il Paese potesse diventare insolvente e non in grado di pagare gli interessi sui suoi enormi debiti pubblici. Situazione, comunque, che non può essere data per garantita. Perché quando si tratta di finanza pubblica, la differenza tra confortevole stabilità e dolorosa insolvenza è abbastanza esile. Un aumento dei tassi di interesse praticati dagli investitori in obbligazioni, o un improvviso aumento della spesa pubblica o una diminuzione delle entrate fiscali possono precipitare un Paese nella crisi, soprattutto quando il debito pubblico ammonta al 120% del Pil. (A proposito, il debito pubblico dell’America, Paese spesso descritto come fiscalmente sconsiderato, arriva appena al 65% del Pil). In alternativa, una crisi può improvvisamente scoppiare quando sorgono dubbi sulla condotta futura della politica del governo, a causa dell’instabilità politica, perché questi dubbi riguardano anche la possibilità di un controllo adeguato sulla spesa e sulle tasse. La debolezza dell’economia italiana e l’enorme debito pubblico la rendono vulnerabile esattamente a questo genere di dubbi. In precedenza durante la crisi economica e la lenta ripresa, i timori per l’instabilità politica e dei mercati finanziari sembravano aiutare il governo di Silvio Berlusconi. Qualunque cosa tu possa pensare di noi, poteva dire il governo, sarebbe assai rischioso cambiarci o forzare le elezioni in questa situazione. Ma ora le battaglie all’interno del governo sono diventate molto più destabilizzanti delle battaglie tra il governo e i suoi critici. Se questa guerra continua, l’opzione più opportuna sarebbe quella di andare a elezioni anticipate o cambiare il governo. Le misure fiscali proposte dal ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, sono state accettate dal mercato, ma gli analisti sia all’interno sia all’esterno del Paese hanno notato una loro caratteristica importante: le principali riduzioni del disavanzo di bilancio avverranno in futuro. Questo è importante ora che la battaglia politica tra il presidente del Consiglio e il ministro dell’Economia è uscita allo scoperto. Perché l’inevitabile conclusione che trarranno gli analisti di mercato è che i tagli in effetti non si faranno mai. La credibilità delle misure fiscali si sta sgretolando. Pensateci dal punto di vista di un osservatore esterno. Un giorno, il Presidente del Consiglio dichiara che si è sempre opposto alla guerra in Libia, a cui le forze italiane partecipano, come parte della Nato. Un altro giorno il presidente del Consiglio attacca il suo stesso ministro dell’Economia, rende esplicito che favorisce la riduzione delle tasse e permette che uno dei suoi giornali pubblichi notizie dannose su Tremonti. Che cosa dovrebbe credere questo osservatore? Il capo del governo si oppone alle politiche del suo gabinetto, e al suo stesso ministro. Questo, da un punto di vista nazionale, è un suicidio. Si sta distruggendo la credibilità. L’aspetto più importante delle politiche economiche del Paese, cioè la rigorosa gestione del deficit di bilancio, viene messa in serio dubbio. Se continua su questa strada l’Italia nella mente degli investitori internazionali finirà davvero nella stessa categoria del Portogallo, dell’Irlanda, della Spagna e della Grecia: instabile, insostenibile e insolvente. E per di più tutto questo è del tutto inutile da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8959&ID_sezione=&sezione= Titolo: BILL EMMOTT. - La trasparenza di uno scandalo Inserito da: Admin - Luglio 20, 2011, 10:28:50 am 20/7/2011
La trasparenza di uno scandalo BILL EMMOTT Gli scandali inglesi, ora dovrebbe essere abbondantemente chiarito, funzionano in modo diverso da quelli italiani. In Italia gli scandali iniziano con una rivelazione apparentemente enorme ed enormi quantità di attenzione, ma poi diventano sempre più piccoli e l’attenzione svanisce. In Gran Bretagna è il contrario: i nostri scandali partono in sordina ed emergono lentamente, ma poi diventano sempre più grandi. E così non possiamo ancora prevedere quanto si allargherà ancora lo scandalo, ormai di ampia portata, che ha investito i giornali di Rupert Murdoch e la polizia di Londra. Quello che appare chiaro è che Rupert Murdoch, 80 anni, architetto e forza trainante del più grande gruppo mediatico del mondo, ieri ha interrotto la testimonianza del figlio James davanti alla commissione parlamentare ristretta per dire: «È il giorno più umiliante della mia vita». Non possiamo giudicare quanto fosse sincero quando l’ha detto. Ma possiamo dire che lui, la sua famiglia e la sua compagnia hanno sofferto sia una grande umiliazione sia un colpo mortale per il loro potere politico. E’ molto probabile che lo scandalo causerà anche un vero e prolungato danno commerciale. News Corporation ha già dovuto chiudere il suo giornale più redditizio in Gran Bretagna, News of the World, e abbandonare l’offerta per acquistare i due terzi di British Sky Broadcasting che non possiede. I restanti quotidiani nazionali - Sun, Times e Sunday Times - appaiono vulnerabili per l’abbandono degli inserzionisti e dei dirigenti e della redazione. E c’è un rischio, piccolo finora, che le indagini si estendano anche alle operazioni americane di News Corporation. A lungo termine, e nel più ampio interesse nazionale, i problemi di Rupert Murdoch e della sua compagnia non sono le questioni più importanti in questo scandalo. Le questioni più importanti riguardano le accuse di corruzione della polizia da parte dei giornalisti, la regolamentazione per i media in Gran Bretagna, e il rapporto tra politici e mezzi d’informazione. Eppure anche così, lo spettacolo di uno tra i più potenti magnati dei media a livello mondiale interrogato in Parlamento in merito allo scandalo, era estremamente avvincente. Verrà ricordato per molto tempo a venire. La cosa più memorabile, per questo spettatore, è la percezione di quanto all’oscuro sembri o pretenda di essere il signor Murdoch dell’operato dei suoi giornali in Gran Bretagna, dei casi legali che coinvolgono queste aziende, e persino delle strutture che si immagina gestissero quei giornali. L’immagine che passava era quella di un uomo che aveva perso i contatti con un impero mediatico diventato troppo grande e troppo complesso per essere gestito da una sola famiglia. Immagine rafforzata dai frequenti silenzi che seguivano una domanda, a cui spesso Rupert Murdoch rispondeva semplicemente «no». Era come se questo uomo d’affari una volta grande e potente stesse lottando per capire la domanda e trovare almeno una risposta. Naturalmente, i suoi avvocati gli avranno consigliato di stare molto attento e di dare risposte il più brevi possibile, ma l’impressione data andava oltre la prudenza. In Gran Bretagna è ormai diffusa la sensazione che Rupert Murdoch sia uomo del passato: che né lui né la sua famiglia torneranno a essere potenti o influenti nei media o in politica. Cosa che non si può dire degli Stati Uniti, dove Fox Tv e le aziende cinematografiche e il Wall Street Journal gli danno ancora un’enorme potenza commerciale e qualche influenza politica. Ma in Gran Bretagna stiamo entrando in una nuova era. Quello che ancora non si sa è in che modo sarà nuova o diversa quest’era. Il motivo per cui non lo sappiamo è che ogni giorno emergono nuovi elementi dello scandalo: in questa sola settimana, a parte la testimonianza di Murdoch, i più importanti sviluppi hanno incluso le dimissioni di due tra i poliziotti più in evidenza della Gran Bretagna e la morte di un giornalista che era stato ampiamente citato perché aveva denunciato la condotta illegale del suo ex datore di lavoro, il News of the World, e del suo ex direttore, Andy Coulson, diventato poi responsabile della comunicazione per il nostro primo ministro David Cameron. E, in parallelo alle indagini, sono state avviate due pubbliche inchieste indipendenti per riferire sul comportamento dei media e su quello della polizia. Rimane aperta la questione di quanto questo scandalo possa danneggiare seriamente David Cameron, alcuni membri del suo partito hanno addirittura iniziato a parlare apertamente della possibilità di sue dimissioni. Che allo stato delle cose appaiono improbabili. La sua decisione di assumere il signor Coulson, nonostante il suo passato come direttore di un giornale accusato di attività illegali, è stata chiaramente pessima, soprattutto per averlo tenuto in servizio così a lungo. Ma fin qui questa è una prova di cinismo piuttosto che di corruzione o di illegalità, e non vi è nulla di nuovo nel cinismo dei politici. Le sue dimissioni richiederebbero nuove rivelazioni su di lui che svelassero che sapeva più di quanto non abbia ammesso finora sul coinvolgimento del signor Coulson in atti illegali, o rivelazioni su qualche altro comportamento illecito. Lo sviluppo più importante riguarda proprio la polizia. Questo è importante in senso immediato: il fatto che due alti ufficiali si siano dimessi significa che quegli uomini personalmente, e molti dei loro colleghi, possono ora avere un motivo per svelare nuove informazioni o nuove prove che potrebbero danneggiare News Corporation, altri giornali o anche il signor Cameron e altri politici. Ma è anche importante in un senso più profondo: la polizia è sotto inchiesta, come istituzione, sia per non aver applicato correttamente la legge sulle intercettazioni telefoniche, sia perché accusata di essere stata pagata da giornalisti e investigatori privati per avere informazioni, cosa che è illegale. Queste indagini sono scioccanti ma non del tutto nuove. La Gran Bretagna ha già avuto in passato scandali e indagini sulla corruzione nella polizia. Quelli precedenti riguardavano tangenti versate da bande criminali. Lo shock di queste accuse è l'idea che la polizia possa aver venduto informazioni private su gente comune, persone che dovrebbe proteggere. Alla fine, questo scandalo svanirà e guariranno le ferite che ha prodotto. Un punto di forza della Gran Bretagna è che ha vigorosi anticorpi nella sua democrazia, grandi risorse che faranno piazza pulita delle infezioni e degli abusi di potere. Certo, non sappiamo ancora quando questo accadrà, né quanto possa dilagare lo scandalo. Ma nel caso che noi giornalisti ci eccitassimo troppo al riguardo, dovremmo prendere nota di un sondaggio che è stato pubblicato ieri sul quotidiano Guardian: diceva che, nonostante lo scandalo, il partito conservatore ha riacquistato vantaggio sui laburisti, e i loro partner nella coalizione, i liberaldemocratici, hanno pure riguadagnato popolarità. Può essere che il pubblico inglese si preoccupi di questo scandalo meno di quanto fanno i media. Traduzione di Carla Reschia da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8999 Titolo: BILL EMMOTT. - Un patto non dirada la nebbia Inserito da: Admin - Agosto 01, 2011, 04:45:26 pm 1/8/2011
Un patto non dirada la nebbia BILL EMMOTT L’ accordo quadro sulla manovra fiscale concordato ieri tra democratici e repubblicani al Congresso degli Stati Uniti e la Casa Bianca all’altro capo di Pennsylvania Avenue, non è un granché e non è nemmeno di ampio respiro. Ma quanto meno è un accordo, e assumendo che sia accettato dal Congresso durante i prossimi due giorni eviterebbe alle finanze pubbliche una crisi del tutto superflua, potenzialmente in grado di innescare una nuova crisi finanziaria globale. Anche così, non è la fine della storia, non a lungo termine. Il direttore di una rivista italiana di recente mi ha chiesto cosa pensassi circa la differenza tra la crisi monetaria dell’Europa e quella dell’America, dicendomi che a suo avviso l’America ha il grande vantaggio di avere un sistema presidenziale. Spero che non lo pensi adesso, ma in ogni caso davvero dovrebbe prestare maggiore attenzione alla Costituzione americana. Perché questo dibattito farsesco sul tetto del debito è tutta colpa dei padri fondatori: Jefferson, Washington e gli altri. Hanno progettato la costituzione americana, con tutti i suoi pesi e contrappesi, espressamente per ostacolare il potere decisionale di un singolo, in particolare del Presidente che avrebbe potuto rischiare di diventare dittatoriale come il re britannico Giorgio III, e sono certamente riusciti nell’intento in modo spettacolare nel corso della lunga discussione sull’innalzamento del tetto del debito nazionale di 14.300 miliardi di dollari («soffitto di debito», una sorta di limite di indebitamento legale) per evitare un default o una massa di tagli alla spesa, dopo il 2 agosto. Un fatto degno di nota, di certo, è che in tutto questo processo praticamente nessuno nei mercati finanziari ha finora previsto il default dell’America, o anche il declassamento dalla tripla A del suo rating. Si metta a confronto l’andamento delle trattative di questo fine settimana con quelle precedenti il vertice di emergenza della zona euro, il 21 luglio: mentre i rendimenti obbligazionari della zona euro, in particolare per la Spagna e per l’Italia, erano saliti per la paura di un default da mini-Grecia, il mercato dei buoni del Tesoro americani è rimasto abbastanza tranquillo. I tassi dei buoni del Tesoro a breve o medio termine sono saliti un po’, ma quelli a 10 anni in effetti venerdì sono caduti. Il dollaro è scivolato, ma non esattamente in modo catastrofico. Forse i mercati aderiscono alla cinica visione che Churchill aveva dei suoi alleati: «Si può sempre contare sugli americani, fanno la cosa giusta... dopo aver provato tutto il resto...». Più probabilmente avevano già previsto tutto; i negoziati dell’ultima ora conclusi con un cattivo affare, ma almeno conclusi, e l’apparente accordo di ieri per un presunto taglio di 3000 miliardi di dollari alla spesa in oltre dieci anni sembrano dimostrare che hanno avuto ragione. Più in profondità, la loro impassibilità potrebbe riflettere la sensazione che il vero problema è un po’ più a lungo raggio rispetto a quanto è stato rappresentato da un termine in qualche modo artificiale, come la scadenza del tetto del debito. Il vero problema comprende un fenomeno a medio termine e una questione a lungo termine, anche se strettamente correlati. Il primo è simboleggiato, ma non circoscritto al gruppo dei conservatori repubblicani dentro e fuori il Congresso che si fanno chiamare Tea Party. Quel gruppo, le cui eroine sono Sarah Palin e una ardita congressista del Minnesota, Michele Bachmann, è stato il cuore del blocco durante i negoziati sulla riforma fiscale e il limite del debito. Come in ogni Paese, quando c’è una piccola maggioranza parlamentare e del Congresso, un gruppo di fanatici può ottenere un potere di veto che va oltre la sua reale capacità di rappresentanza numerica. Fortunatamente, sembra probabile che il veto ora possa essere superato da un compromesso tra le forze più moderate. I Tea Party, tuttavia, rappresentano più di un semplice veto temporaneo. La migliore analogia storica è con il movimento isolazionista nato in America durante gli Anni 30. La posizione dei Tea Party sull’ampio debito americano, sembra, di primo acchito, abbastanza ragionevole: quando qualcuno ha preso in prestito troppo, dicono, è sbagliato concedergli di più. Ma in realtà, cercare di curare i debitori tutto d’un colpo, negando loro ogni prestito e obbligandoli a mancare ai loro obblighi, obblighi che sono stati tutti stabiliti dal precedente voto del Congresso, sarebbe stato irresponsabile e, all'atto pratico, isolazionista. Isolazionista perché l’America è la più grande economia del mondo così come la sua più grande debitrice, e molti dei suoi titoli di Stato sono detenuti da stranieri. Un default sarebbe sostanzialmente un default sul debito estero. Ma i Tea Party non si preoccupano degli stranieri, o della credibilità internazionale del loro Paese. Come il movimento America First negli Anni 30 e durante i primi anni della Seconda guerra mondiale, essi sostengono che il Paese dovrebbe lasciar perdere il mondo per risolvere i propri problemi, lasciare che l’America si concentri su se stessa. Peggio ancora, in un certo senso, alcuni nei Tea Party vedono il mondo come una minaccia per l’America: la signora Bachmann, attualmente l’unica dei Tea Party a essersi presentata come candidata alla presidenza per il 2012, due anni fa ha proposto un emendamento costituzionale per impedire che il dollaro venga sostituito da una valuta estera, cosa che in realtà era già illegale e che nessuno pensava di fare. Il suo obiettivo era quello di creare l’apparenza di una minaccia là dove non esisteva. Quando nel 2008 è scoppiata la crisi finanziaria, molti economisti temevano che avrebbe prodotto un’ondata di protezionismo, soprattutto negli Stati Uniti, e ci sono stati sospiri di sollievo quando questo non è successo. Eppure la nascita dei Tea Party e il voto per il Congresso dello scorso novembre suggeriscono che la vera minaccia è l’isolazionismo, che nel tempo può produrre una nuova ondata di protezionismo commerciale e finanziario. Sarebbe sbagliato sopravvalutare l’importanza attuale dei Tea Party: rimane una piccola minoranza rumorosa. Ma la grande battaglia di medio termine è per la Casa Bianca e per il controllo del Congresso nelle elezioni del novembre 2012. Sarebbe rassicurante credere a tutte le persone comuni intervistate dai tg delle tv straniere che si dicono imbestialite dal comportamento irresponsabile del Congresso, in particolare dall’ostruzionismo dei Tea Party, e pensare che nelle elezioni del prossimo anno gli estremisti andranno in sofferenza. Queste persone sono state intervistate a Washington DC e New York, e possono anche non essere rappresentative della nazione. C’è molto ancora da mettere in gioco per le elezioni del prossimo anno, e i conservatori repubblicani giocheranno in modo assai duro. Così, la questione a lungo termine al centro della scena sarà: l’economia americana può fare ciò che ha fatto in passato, e rilanciare e riformare se stessa dal basso, nonostante le inutili partite politiche giocate a Washington? E’ notoriamente flessibile, e i veri eroi americani sono sempre stati Google, Wal-Mart, Apple e Boeing, non i lungimiranti visionari politici della capitale. Ma gli ultimi dati economici, diffusi la scorsa settimana, hanno mostrato un quadro altrettanto stagnante in America come in Gran Bretagna. Questo non è sorprendente, in entrambi i casi: dopo aver fatto troppo affidamento sulle spese dei consumatori e sul boom del credito, entrambi i Paesi erano destinati a passare attraverso un lungo e doloroso periodo di adattamento. Anche con le esportazioni in crescita, che è il caso dell’America e della Gran Bretagna, è difficile superare completamente gli strascichi del dopo crisi, e questo era vero anche prima che i rincari dei prezzi del petrolio e dei generi alimentari facessero sentire i consumatori ancora più poveri. Questo andrà avanti per molto tempo a venire. In un primo momento la politica fiscale è stata una soluzione, in quanto il prestito ha stimolato l’economia. Ora è un problema, perché i tagli, per quanto necessari, deprimono la domanda. In America, dove i tagli sono comunque stati differiti, c’è una complicazione aggiuntiva: la lunga disputa sulla politica fiscale e l’impostazione del governo, che durerà fino e oltre le elezioni del 2012, sta producendo una fitta nebbia che offusca non solo il futuro fiscale del Paese, ma anche il futuro delle relazioni dell’America e il suo atteggiamento verso il mondo esterno. In questo contesto confuso e altamente incerto, sarebbe veramente miracoloso se le imprese dovessero decidere per investimenti massicci in America. Quindi la migliore ipotesi, purtroppo, è che non lo faranno. La disputa sul fisco continuerà, la nebbia rimane, e il mondo non può dipendere da una rapida ripresa dell’America. [Traduzione di Carla Reschia] http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9044 Titolo: BILL EMMOTT. - L'imprenditore che non capisce l'azienda Italia Inserito da: Admin - Agosto 08, 2011, 04:47:49 pm 5/8/2011
L'imprenditore che non capisce l'azienda Italia BILL EMMOTT La turbolenza dei mercati finanziari è tale da farci quasi dare ragione al presidente del Consiglio: l’Italia appare come la vittima di questa crisi, non come la sua causa. Perché in parte è vero: la crescita economica si sta indebolendo ovunque nel mondo ricco, l’America ha evitato il default del debito, ma solo attraverso un compromesso fragile e i governi della zona euro non sono riusciti a dare una soluzione esauriente al problema della Grecia, l’incapacità di rimborsare i propri debiti. Ma non siate troppo solidali con Silvio Berlusconi. L’Italia, o meglio il suo governo, ha la sua parte di colpa. Il presidente del Consiglio ha ricordato al Parlamento che lui è un uomo d’affari. Ma poi ha dimostrato di aver dimenticato ciò che un business di successo richiede: la conoscenza dei ricavi dell’azienda, il controllo dei suoi costi, e una gestione che abbia un piano strategico credibile. Nel suo attuale ramo d’impresa, e cioè il governo dell’Italia, egli non ha messo in opera nessuna di queste tre cose. Ecco perché l’Italia oggi è nell’occhio del ciclone. Il premier ha dimostrato di non capire l’amministrazione dei ricavi quando ha sostenuto che l’Italia è solida perché le famiglie italiane hanno risparmi elevati e debiti bassi. Questo è vero ma irrilevante dal punto di vista delle finanze del governo, perché quei risparmi a nulla servono per incrementare i suoi ricavi, e poco per rendere più facile il prestito, perché la maggior parte dei titoli vengono acquistati dalle banche e dagli stranieri. Citare i risparmi delle famiglie come un punto di forza per le finanze pubbliche è come per un uomo d’affari citare la ricchezza dei suoi clienti o dei suoi dipendenti come prova della solvibilità della sua azienda. L’unico modo in cui questi risparmi privati potrebbero essere d’aiuto si verificherebbe se il governo dovesse aumentare drasticamente le imposte per aumentare i ricavi, o se obbligasse le famiglie a comprare il debito pubblico. Sicuri che solo i comunisti prenderebbero in considerazione una cosa del genere? Egli non ha il controllo dei costi del governo, perché la manovra fiscale recentemente presentata dal suo ministro dell’Economia è rimasta vaga su come ridurre la spesa e ha differito i principali tagli fino a dopo il 2013. Ancora più importante, tuttavia, è il fatto che non può avere il pieno controllo perché il governo italiano è un grande debitore che anche con gli oneri finanziari ultimamente così bassi sta pagando il 4% del Pil ogni anno per i debiti di servizi che raggiungono il 120% del Pil, il secondo più alto nella zona euro dopo la Grecia. Se i mercati obbligazionari domandassero tassi di interesse più elevati per compensare i rischi che si assumono nel gestire il debito italiano, allora tali spese per gli interessi aumenterebbero, e non c’è nulla che il governo possa fare al riguardo. Come la maggior parte dei leader politici intrappolati in questa situazione, il presidente del Consiglio ha accusato gli speculatori. Ma in quanto uomo d’affari deve conoscere la differenza tra speculatori e investitori o finanziatori. Sono gli investitori e i finanziatori che stanno causando problemi all’Italia, perché la valutano a rischio o incapace di buone prestazioni. Un buon imprenditore avrebbe risposto presentando a questi investitori un piano strategico credibile e spiegando come intendeva aumentare i ricavi e controllare i costi: in altre parole, stimolare la crescita economica e ridurre le spese. Ma un piano del genere non esiste, e questo governo ha perso ogni credibilità sulla sua capacità di produrne uno. Il presidente del Consiglio ha ragione, questo sì, a chiedersi: perché ora? Il mio governo non è mai stato credibile, potrebbe dire per essere perdonato, perché proprio adesso i mercati finanziari si sono messi a fare questo casino? La risposta è, in parte, che i mercati si comportano come branchi di animali, corrono tutti insieme nella stessa direzione, rassicurandosi così l’un l’altro. La tendenza occidentale, in questo luglio e agosto, è chiaramente cattiva: rallentamento della crescita, problemi crescenti di debito, politica disfunzionale, in molti Paesi, all’improvviso, e il branco è in fuga da questo. L’altra risposta è l’euro. È ironico, in un certo senso. Quando fu lanciata la moneta unica, nel 1999, i suoi sostenitori dicevano che avrebbe avuto due grandi effetti: sarebbe servito come strumento di pressione sui Paesi membri perché liberalizzassero le loro economie per compensare la perdita di svalutazione della moneta come strumento politico; e avrebbe dato una disciplina ai mercati obbligazionari richiedendo tassi di interesse più elevati ai Paesi a maggior rischio. Nulla di tutto questo è accaduto durante i primi dieci anni di corso della moneta, ma ora questi effetti si stanno entrambi manifestando. È solo che stanno accadendo più improvvisamente e violentemente di quanto chiunque vorrebbe. Inoltre, la pressione per la liberalizzazione e la disciplina dei mercati obbligazionari è rafforzata dall’esatta natura delle operazioni di soccorso che la Germania sta conducendo per la Grecia. Il vertice di emergenza del 21 luglio ha concordato su un nuovo salvataggio, ma anche sul fatto che il debito della Grecia debba essere ridotto facendo sì che i creditori privati estendano la durata delle loro obbligazioni e accettino tassi di interesse più bassi. Vedendo questa proposta, che non è ancora pienamente attuata, agli investitori viene naturale chiedersi: se dobbiamo sopportare questi fardelli per la Grecia, per chi altri potremmo doverlo fare questo in futuro? La risposta, naturalmente, è chiunque abbia debiti di governo così alti da poter diventare insostenibili nei prossimi anni. In altre parole, l’Italia. Perché l’unica cosa veramente solida è il livello elevato del debito del governo. [Traduzione di Carla Reschia] da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9064 Titolo: BILL EMMOTT. - L'impotenza di un sistema fragile Inserito da: Admin - Agosto 10, 2011, 11:43:39 am 10/8/2011
L'impotenza di un sistema fragile BILL EMMOTT Non ci penserà molto spesso ma tornando a casa in anticipo dal suo soggiorno italiano per farsi carico dell’emergenza, il premier britannico, David Cameron, deve aver pregato di trovare il classico tempo dell’estate inglese: pioggia, preferibilmente scrosciante. Perché la sensazione dominante nel governo e nelle forze di polizia è l’impotenza di fronte all’improvviso scoppio di disordini e illegalità nelle principali città della Gran Bretagna. È tanto difficile spiegare queste sommosse, quanto sarà per David Cameron venirne a capo. Solo la pioggia sembra in grado di poterle spegnere in fretta. Le spiegazioni svaniscono rapidamente per diventare mere descrizioni. Ciò che è scioccante a proposito degli eventi che si sono sviluppati negli ultimi quattro giorni è aver dimostrato ai cittadini britannici quanto vicino alla superficie della società ci siano violenza, disprezzo per la legge e addirittura disprezzo per le comunità locali. Proprio come in Francia nel novembre 2005 quando le rivolte si diffusero e durarono per settimane, non c’è alcuna ragione evidente per cui gli scontri siano cominciati ora, e quindi nessuna risposta plausibile alla domanda su quando potrebbero cessare. I disordini iniziati sabato nel povero quartiere suburbano di Londra Tottenham avevano almeno una causa: la rabbia e l’incomprensione per l’uccisione da parte della polizia di un uomo del posto al momento dell’arresto. La violenza e i saccheggi di ieri, in decine di periferie e città, non avevano alcun motivo apparente al di là del fatto che i giovani si copiavano l’un l’altro, nella convinzione che la polizia non sarebbe stata in grado di fermarli, e che incendiare automobili ed edifici o rubare dai negozi è divertente, in un certo senso, se si pensa di poter farla franca. C’è, ovviamente, una spiegazione generale: la disoccupazione e un senso di disperazione di fronte a un’economia stagnante. Ma il tasso di disoccupazione britannica, al 7,7% della forza lavoro, non è particolarmente alto per gli standard europei o americani: la statistica equivalente in Italia è l’8%, in Francia è il 9,5% e negli Stati Uniti è il 9,2%. Tutti noi abbiamo tassi di disoccupazione più elevati per i giovani che per i più anziani e in questo senso la situazione inglese non è peggiore di altre. Una spiegazione allettante è la tensione razziale, perché era chiaramente il fattore principale la volta scorsa quando nelle città inglesi si innescava la rivolta, nel 1981, quando Margaret Thatcher era primo ministro. C’è chiaramente di nuovo un elemento di questo genere, perché il giovane che è stato ucciso a Tottenham era nero, e la zona è nota da tempo per i cattivi rapporti tra la polizia e la locale comunità afro-caraibica. Eppure la maggior parte degli esperti di ogni provenienza concorda sul fatto che le relazioni razziali in Gran Bretagna nel 2011 sono molto meglio di quanto lo fossero trent’anni fa. Inoltre, il modo in cui i disordini si sono diffusi nelle notti successive non ha mostrato ulteriori contenuti razziali. L'unico elemento comune sono stati i giovani, generalmente incappucciati, intenti a distruggere e saccheggiare. Non c’è stato alcun ovvio bersaglio politico o istituzionale: niente multinazionali, niente banche, non il governo, nemmeno la polizia. Così, che conclusioni dovrebbero trarre i britannici, e che cosa dovrebbero pensare gli altri Paesi della Gran Bretagna? La prima conclusione deve essere quella di condividere qualsiasi giustificazione possano avere i britannici. La nostra società è più fragile di quanto pensassimo. Le nostre famiglie sono più deboli di quelle italiane, per esempio, e anche la fedeltà alle comunità locali è debole. Le principali vittime della violenza sono stati i vicini, piccoli commercianti, i servizi delle comunità locali. Chiaramente ai rivoltosi non importa nulla di tutto questo. Una seconda conclusione porta inevitabilmente a rinnovare le preoccupazioni sulla povertà e la disuguaglianza. Nessun governo può permettersi di ignorare le disparità nella società britannica, e deve fare tutto il possibile per ridurre questi margini. Il guaio è che farlo richiede molto tempo, se pure è possibile. Ed è inevitabilmente reso più difficile nel breve termine se si deve anche tagliare la spesa pubblica. Terzo punto, e più immediato, tuttavia, dev’essere la preoccupazione per la sicurezza, la legge generale e l’ordine. David Cameron e il suo governo dovranno valutare la possibilità di utilizzare metodi di polizia più duri, compresi i cannoni d'acqua e i veicoli blindati. Quasi certamente, egli capovolgerà un elemento della recente politica del governo: dovrà aumentare forze di polizia anziché ridurle, come previsto in precedenza dal suo piano. Con i Giochi Olimpici in programma a Londra entro un anno, il pensiero di tumulti in quell’occasione, capaci di danneggiare la reputazione della Gran Bretagna in tutto il mondo, deve dargli gli incubi. Più di tutto, però, come per il primo ministro francese nel 2005, Dominique de Villepin, e il suo collega allora ministro degli Interni, Nicolas Sarkozy, la sensazione principale di David Cameron dev’essere di impotenza. Ecco perché pregherà per la pioggia. [Traduzione di Carla Rieschia] da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9081 Titolo: BILL EMMOTT. - Ecco perché il delitto di Perugia è diventato un caso unico Inserito da: Admin - Ottobre 06, 2011, 04:45:30 pm 5/10/2011
Ecco perché il delitto di Perugia è diventato un caso unico BILL EMMOTT Avendo trascorso la maggior parte di settembre a Perugia, so che di solito è deliziosamente isolata dal mondo, seppure piena di studenti stranieri, uno dei quali, in quel periodo, era questo giornalista inglese. Almeno, la città dava questa sensazione fino a che improvvisamente piazza Matteotti si è riempita di camper delle tv quando in Corte d’appello si è aperto il processo d’appello a Amanda Knox e Raffaele Sollecito. Mi è stato detto che qualcuno nella sala stampa del tribunale mi ha riconosciuto passeggiando per la città e ne ha dedotto che ero interessato al caso Knox. La verità è che non lo ero. Ma il mondo lo era. Tutti dovrebbero sentirsi dispiaciuti per la famiglia della vittima dell’omicidio, Meredith Kercher, la cui uccisione è diventata quasi un dettaglio nella vasta copertura mediatica di questo processo. Ma dovremmo anche dispiacerci per tutte le vittime degli altri omicidi e per le loro famiglie, perché i processi contro coloro che sono accusati delle loro morti si svolgono ogni giorno, senza destare nemmeno un centesimo dell’interesse suscitato nei media dal caso Kercher. Perché questo caso, al di sopra di tutti gli altri, ha attirato tanta attenzione? Anche il primo ministro britannico e il Dipartimento di Stato americano si sono sentiti in obbligo di rilasciare un commento ai media sul verdetto. Bene, questo di per sé fornisce un primo indizio: perché il processo è stato internazionale e questo da subito lo ha reso anche politico. E’ facile dimenticare che la persona che rimane in carcere per l’omicidio di Meredith Kercher è originaria della Costa d’Avorio, perché i media di quel Paese sono minimi. Questo non vale per i media americani e britannici, tuttavia, né tanto meno per i media italiani. Con una vittima britannica e imputati americani e italiani l’interesse dei media era assicurato in partenza, in più quel che accade in questi casi è che i media nazionali iniziano a montarsi a vicenda, riprendendo l’uno i reportage dell’altro, rispondendo ai rispettivi servizi e alimentando i reciproci pregiudizi. Perché è strano ma vero che molte persone, in tutti i nostri Paesi, si sentono particolarmente sospettose, o hanno semplicemente paura, della polizia e dei sistemi giudiziari stranieri. Gli italiani che leggono le accuse americane sull’incompetenza della polizia italiana e dei pubblici ministeri italiani, o le affermazioni sul sistema giudiziario «medievale» in vigore in Italia, potrebbero giustamente risentirsi e difendersi contrattaccando. Sarebbero certamente giustificati indicando i molti errori giudiziari che si verificano in America, tali da portare persino alla esecuzione (qualche volta) di uomini innocenti (e, molto più raramente, di donne). Eppure non c’è bisogno di prendere queste critiche in modo personale, anche se i tentativi di Silvio Berlusconi durante i suoi 17 anni in politica di minare la credibilità della magistratura italiana potrebbero aver favorito questo tipo di pregiudizio. Basta ripensare alla prima risposta dell’opinione pubblica e dei media francesi all’arresto di Dominique Strauss-Kahn, allora a capo del Fmi, con l’accusa di aver violentato una donna delle pulizie in un albergo di New York, nel maggio scorso. Immediatamente in Francia ci fu chi disse che la giustizia americana è scorretta e che il modo americano di trattare i sospetti arrestati è primitivo (se vi ricordate, ammanettarono Strauss-Kahn davanti alle telecamere). Ora che è stato liberato e che i capi d’imputazione sono stati abbandonati, quelle accuse sono svanite. Oppure, in un contesto britannico, possiamo richiamare alla memoria un caso precedente che tenne banco per anni sulle pagine dei nostri giornali, la scomparsa nel 2007 di una bambina piccola, Madeleine McCann, in vacanza con i genitori in Portogallo. Molto presto i media britannici iniziarono ad accusare la polizia portoghese di incompetenza, pregiudizio o peggio. Gli stranieri, dopo tutto, sono bersagli facili ed attraenti. E i sistemi giudiziari sono particolarmente spaventosi perché oltre a strane leggi, procedure e linguaggi, mettono in gioco temi fondamentali: la vita e la libertà. C’è, tuttavia, un’altra ragione per cui il caso Kercher, ormai ampiamente conosciuto come il caso di Amanda Knox, ha raggiunto una tale straordinaria celebrità internazionale. E’ perché ha coinvolto delle donne e per di più giovani e attraenti. La stragrande maggioranza degli omicidi è commessa da uomini, anche se molte delle vittime sono donne. È abbastanza raro avere un imputato di sesso femminile, anche se era solo uno dei tre accusati. Ecco perché, a prescindere dalla sua nazionalità americana, i due uomini coinvolti sono apparsi assai meno esposti, almeno nella copertura dei media internazionali. Il caso, naturalmente, verte anche su sesso e droga, benché questo sia tristemente vero per molte cause penali. I mezzi di comunicazione e i loro lettori e spettatori, amano le storie esotiche, e questa di certo lo era, che coinvolgono la vita privata e l’evidente dissolutezza di giovani donne attraenti che vivono in un Paese lontano e che, allo stesso pubblico, appare come una terra romantica. In altre parole, la storia è apparsa anche come uno stereotipo sull’Italia, pur se solo una delle persone coinvolte è effettivamente italiana. Quello stereotipo, il comportamento licenzioso, persino immorale, negli ultimi anni è stato molto presente nelle menti degli osservatori stranieri dell’Italia. E, una volta che il processo è diventato un circo mediatico, gli avvocati di entrambe le parti hanno sfruttato questi stereotipi. L’idea, incoraggiata dalla cultura delle veline e del bunga-bunga, che le donne siano o madri o puttane o streghe, sicuramente sta dietro la descrizione fatta dal procuratore la scorsa settimana della signorina Knox come una lussuriosa creatura diabolica. Spiegata in questo modo, come un processo con una combinazione esplosiva di imputati internazionali, donne e Italia, pare ovvio che questo sarebbe stato un grande evento. Eppure me ne sento ancora sorpreso e un po’ triste. Forse alla fine la mia sorpresa riflette il mio giudizio di parte essendo io un genere di giornalista piuttosto diverso. Mi ricordo nel 1997, quando arrivò una domenica mattina arrivò la notizia della morte della principessa Diana. Chiesi subito a un collega: «Pensi davvero che venerdì questa sarà ancora una grande storia?». (Il giorno di pubblicazione di The Economist). Certo che lo era. E’ diventato il numero più venduto del giornale, almeno fino all’11 Settembre. Traduzione di Carla Reschia da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9282 Titolo: BILL EMMOTT. - Le tre mosse per centrare la via d'uscita Inserito da: Admin - Ottobre 23, 2011, 11:50:41 am 23/10/2011
Le tre mosse per centrare la via d'uscita BILL EMMOTT Quando, negli Anni 90, i politici del mio Paese litigavano furiosamente sul fatto che la Gran Bretagna dovesse o meno adottare l’euro, a volte mi stupiva che persone apparentemente sane potessero eccitarsi tanto per qualcosa di tanto noioso e tecnico come un sistema di valuta. Ora, vedendo ogni prossimo vertice dei governi europei annunciato come uno sforzo drammatico per salvare il mondo da un disastro finanziario causato dall’euro, mi rendo conto che sbagliavo. Dice una maledizione cinese: «Possa tu essere condannato a vivere in tempi interessanti», e non c’è dubbio, staremmo tutti meglio se l’euro tornasse a essere noioso. Purtroppo, non vi è alcuna possibilità che questo accada nell’immediato. Il motivo, che poi è la ragione per cui sia il Consiglio europeo di oggi sia la riunione dei leader mondiali al G-20 in Francia ai primi di novembre sono drammaticamente importanti, è che i problemi veri non sono affatto quelli tecnici. Riguardano invece la politica, le forme di governo, la condotta dei politici e la loro affidabilità e credibilità. Anche questo, tuttavia, complica il lavoro di questi incontri per trovare una soluzione, e rende ancora più difficile per gli osservatori esterni o, in realtà, per i governi stessi, valutare se le soluzioni annunciate saranno davvero efficaci. È facile descrivere il problema dell’euro in termini apparentemente tecnici. La Grecia è in bancarotta, questo significa che il suo governo non può permettersi di continuare a pagare gli interessi sui suoi debiti, ciò a sua volta significa che le banche che hanno acquistato titoli di stato greci stanno per perdere soldi, se la Grecia, alla fine, dovesse andare in default. Poiché questo default è ormai visto come inevitabile, e ne hanno anche parlato apertamente i funzionari e i politici di Bruxelles e Berlino, gli investitori hanno iniziato a preoccuparsi della solvibilità di altri governi che sono grandi debitori e anche di quella delle banche che hanno loro prestato denaro. Quindi tutte le persone coinvolte nell’euro sanno cosa si deve fare. Le banche europee devono essere rese più forti raccogliendo nuovo capitale, in modo che possano resistere a eventuali perdite sui titoli greci. Altri Paesi fortemente indebitati - Spagna, Italia, Portogallo e Irlanda – devono essere «separati», nel gergo odierno, e cioè agli investitori deve essere data la certezza che non andranno in default, anche se la Grecia si rivelerà insolvente. E poi la Grecia ha bisogno di andare in default, almeno per dimezzare i propri debiti. Pare semplice, vero? Il problema, tuttavia, con questo programma tripartito, è la sequenza secondo cui deve essere messo in atto. Per rendere questo esercizio di salvataggio dell’euro conveniente per i contribuenti che copriranno le perdite delle banche e offriranno prestiti soccorrevoli ai Paesi e per gli investitori privati a cui viene chiesto un maggior capitale, l’ordine giusto in cui fare tutto questo è cominciare con la «separazione». Una volta chiarito che l’Italia e gli altri non causeranno perdite del debito sovrano, la quantità di capitale necessario per rafforzare le banche sarà minore. E poi, fatta la separazione e rafforzate le banche, sarà possibile gestire con facilità un default della Grecia. Questa però non è la sequenza in cui ci si sta approssimando a questo programma. E non è la sequenza preferita dai politici tedeschi. La sequenza effettivamente in atto comincia dalla Grecia, con un misto di punizione per i greci colpevoli di essere stati mutuatari stravaganti e di aver mentito circa la vera dimensione del loro deficit e dei loro debiti, e con un primo tentativo di condividere con i finanziatori privati le perdite causate dalla Grecia. Questo è stato l’approccio seguito dai leader europei, durante l’incontro del 21 giugno, quando su sollecitazione tedesca la ristrutturazione del debito greco è stata avviata costringendo i finanziatori privati a tagliare «volontariamente» il 20% del valore dei loro prestiti. Ciò ha portato a speculazioni di mercato su future «volontarie» perdite su crediti per i debiti di altri Paesi e ha spaventato tutte le istituzioni finanziarie che concedono prestiti alle banche europee, motivo per cui oggi vi è la necessità di aumentare il capitale delle banche. La sequenza di eventi era sbagliata in parte perché era condotta dalle pressioni del mercato, ma anche a causa delle pressioni politiche nel Nord Europa, specialmente in Germania. Quindi la domanda per il summit odierno è se ora la sequenza possa essere modificata, iniziando con il principio della separazione, quindi passando alla ricapitalizzazione delle banche, e concludendo con il default greco. Apparentemente dall’annuncio del vertice sembra di capire che s’intende fare così. Ma la politica rimane un grosso ostacolo. A parole il principio della «separazione» fa sembrare le cose facili. Si prende un po’ di filo spinato e dei paletti e si recinta la Grecia. Questa è la metafora. La maggior parte dei Paesi vuole che questo sia fatto aumentando i fondi disponibili al fondo di salvataggio dell’Unione europea, noto come Fondo europeo di stabilità finanziaria, per metterlo in condizioni di prestare all’Italia, alla Spagna o al Portogallo danaro bastante a convincere i mercati finanziari che non saranno mai insolventi riguardo ai loro debiti. Il problema politico con la «separazione» nasce a causa di una domanda fondamentale che sta dividendo i Paesi della zona euro. Si tratta di sapere se in una zona a moneta unica è necessario che i membri si assumano la responsabilità collettiva di tutti i debiti governativi emessi in euro. Quando fu lanciato l’euro nel 1998, la responsabilità collettiva fu deliberatamente respinta. Una mossa verso la predominante proprietà collettiva dei debiti, attraverso il Fondo europeo di stabilità finanziaria, potrebbe rovesciare tale decisione qualora implicasse che il Efsf non dovrebbe solo prestare denaro in caso di emergenza, ma potrebbe doverlo fare anche in futuro. Lo stesso varrebbe se i membri della zona euro decidessero di autorizzare l’emissione di euro-obbligazioni con garanzia collettiva, come è stato proposto da Giulio Tremonti e da altri. Cosa c’è di sbagliato nella responsabilità collettiva? Significa, ad esempio, che i contribuenti tedeschi finirebbero per condividere la responsabilità per le pensioni pubbliche italiane o spagnole. O, più importante, la responsabilità di affrontare qualsiasi futura stravaganza da parte di un qualsiasi membro della zona euro. Ciò significa che la responsabilità collettiva porta con sé un grande azzardo morale, un grande pericolo perché potrebbe incoraggiare in futuro il cattivo comportamento dei governi. In teoria, questo pericolo può essere affrontato istituendo regole rigorose in materia di prestiti e di deficit di bilancio. Ma questo è quel che, teoricamente, è stato fatto nel 1998, e le regole non hanno funzionato. Le nuove regole potrebbero essere stabilite da un trattato piuttosto che solo con un accordo intergovernativo, ma anche questo non ne garantirebbe l’applicazione. I fan dell’integrazione europea dicono che ci deve essere anche un Tesoro europeo, che gestisca un’unione fiscale. Ma questo solleva le stesse domande. Domande strettamente politiche. Umberto Bossi potrebbe davvero accettare che il suo amato federalismo fiscale sia sovvertito da una forma sovrannazionale di unione fiscale? Silvio Berlusconi accetterebbe di ricevere istruzioni da un Tesoro europeo sull’aumento delle tasse o i tagli alla spesa pubblica? Lo accetterebbe la Francia? Ne dubito. La reazione politica contro le decisioni imposte collettivamente, contro il dover pagare per la stravaganza degli altri, da diversi anni si sta diffondendo attraverso i Paesi Bassi, la Germania, la Finlandia e perfino nel nuovo Stato membro della Slovacchia. È molto difficile credere che questa reazione sarà superata in tempi brevi. L’umore politico è andato nella direzione opposta rispetto all’unione fiscale, alla responsabilità collettiva e a una più profonda integrazione. Quindi non possiamo aspettarci che questa richiesta di integrazione, di responsabilità collettiva, sia accolta al vertice di oggi, se mai potrà esserlo. L’istinto politico, soprattutto nel Nord Europa, rimane fortemente a favore di responsabilità nazionale separate riguardo ai debiti. Al contrario, ci sarà probabilmente un altro tentativo di eludere questa domanda e di prendere tempo. I fondi a disposizione del Efsf saranno aumentati ma la Germania insisterà per regole che limitino l’uso di tali fondi. Poi si aspetterà per vedere come reagiscono i mercati. Se reagiscono con calma le banche saranno ricapitalizzate e alla Grecia sarà consentito di andare in default abbastanza velocemente. Allo stesso tempo i politici terranno le dita incrociate. Sperando che l’Italia davvero guarderà ai mercati come se fosse separata dalla Grecia. Purtroppo, se la crescita economica s’indebolisce e la paralisi politica che circonda il governo italiano si prolunga, è improbabile che i mercati restino fiduciosi a lungo. da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9351 Titolo: BILL EMMOTT. - Inseguendo la credibilità perduta Inserito da: Admin - Novembre 07, 2011, 09:10:58 am 2/11/2011
Inseguendo la credibilità perduta BILL EMMOTT Cosa vuol dire «credibilità»? In uno dei suoi film Groucho Marx ha detto che la credibilità, insieme all’integrità, sono fondamentali nella vita, e che se riuscite a fingerle non avrete problemi. I mercati finanziari stanno mostrando di ritenere che, quando il 26 ottobre scorso i leader dei governi dell’Eurozona hanno annunciato una soluzione «completa» della crisi del debito sovrano, stavano fingendo. La sfida ora consiste nel ricostruire la credibilità perduta. Il motivo immediato per la perdita di fiducia da parte dei mercati finanziari è la Grecia, visto che il referendum sul salvataggio annunciato dal governo di Atene aumenta la probabilità di un default sul debito del Paese, unica opzione rimanente nel caso gli elettori respingessero il piano. Ma il problema maggiore riguarda non la Grecia, ma gli altri debitori in difficoltà dell’Eurozona, in primo luogo l’Italia. Se la Grecia fosse l’unico problema dell’Eurozona la soluzione sarebbe semplice: se gli elettori greci non gradiscono le condizioni per avere sostegno finanziario, possono uscire dall’euro. Il problema è che la Grecia non è la sola. Il piano «completo» del 26 ottobre presupponeva, in qualche modo, di «isolarla» dagli altri grandi indebitati. Ma questo tentativo di innalzare una barriera è fallito. E, almeno nella visione dei mercati, il fallimento è da attribuire sia ai Paesi che hanno cercato di costruire la barriera, che a quelli che si trovavano dall’altra parte, in primo luogo l’Italia. I costruttori della barriera hanno fallito perché non sono riusciti a mettersi d’accordo per stanziare una somma sufficiente per proteggere l’Italia. In altre parole, non hanno fornito denaro sufficiente per comprare la quantità di titoli emessi dall’Italia che servisse a compensare il gap creato dalle vendite delle banche e delle assicurazioni, oggi e potenzialmente nel futuro. Non ci sono riusciti non per avarizia. Il fatto è che, per ragioni diverse, né la Francia, né la Germania si sentivano in grado di assumersi la responsabilità collettiva - implicita nell’impegno che avrebbero dovuto prendere - per il debito presente e futuro dell’Italia. E’ una situazione che difficilmente sarà soggetta a cambiamenti, anche nel caso il dramma in corso diventasse un’autentica emergenza. Né la cancelliera Angela Merkel, né il Presidente Nicolas Sarkozy pensano che i loro elettori accetteranno costi e sacrifici da pagare a livello nazionale per questa responsabilità collettiva. Perciò hanno scelto di continuare con la loro strategia dell’ultimo anno: stanziare un po’ di soldi nella speranza di comprare tempo. Ma il tempo non può essere comprato facilmente quando viene a mancare la credibilità. Se i mercati potessero essere convinti che, in caso di vera emergenza, la Germania e la Francia accetterebbero la responsabilità collettiva, la strategia di comprare tempo potrebbe funzionare. Ma le democrazie sono entità trasparenti. Così come tutti sanno che la Grecia dovrà dichiarare default, tutti sanno cosa gli elettori tedeschi pensano dell’idea di assumersi il debito italiano o quello portoghese. La democrazia italiana ha numerosi difetti, ma da questo punto di vista è identica a quella tedesca: è trasparente. Ed è per questo che, nonostante le misure di austerità adottate in estate, e nonostante la lettera d’intenti che il governo italiano ha scritto la settimana scorsa sulle misure da prendere riguardo al debito e alla crescita, agli investitori sembra di sapere già come andrà a finire. Pensano che solo poche - se non nessuna - delle misure proposte verranno realizzate perché sanno che la coalizione di governo è divisa al riguardo. Sanno che i sindacati si oppongono alle riforme del mercato del lavoro e sono abbastanza certi che nell’aprile del 2012 - cioè molto prima che la maggior parte delle misure proposte possa venire introdotta - si terranno elezioni politiche anticipate. Se il governo di Silvio Berlusconi si fosse costruito, da tempo, una reputazione di serietà, di fedeltà alle promesse fatte, di capacità di prendere decisioni dolorose, probabilmente le cose sarebbero andate diversamente. Gli investitori avrebbero creduto che le misure per tagliare il debito e rilanciare la crescita sarebbero state prese, e non si sarebbero preoccupati per l’eventualità di elezioni anticipate. Ma l’esperienza fa pensare ai mercati l’opposto: che il governo non è serio, e che farà il possibile per evitare decisioni dolorose. Stavolta, potrebbe anche essere ingiusto. Ma è troppo tardi per lamentarsi. La vita è ingiusta. Soprattutto quando la credibilità è svanita. Qualunque cosa ne pensasse Groucho Marx, è troppo tardi per fingerla. da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9388 Titolo: BILL EMMOTT. - Perché l'Italia può farcela Inserito da: Admin - Novembre 13, 2011, 11:00:15 pm 13/11/2011
Perché l'Italia può farcela BILL EMMOTT Guardare l’Italia negli ultimi anni è stato come guardare un incidente d’auto al rallentatore. O forse un’analogia migliore, più inglese sarebbe quella di paragonare il Bel Paese al Titanic. E’ forte, piena di gente ricca e ben costruita ma il proprio autocompiacimento la sta portando lentamente verso un iceberg. Ora, però, bisogna cambiare analogia. Dobbiamo chiederci che cosa può fare il professor Mario Monti per rianimare e curare il malato italiano. Il presidente del Consiglio europeo, Herman Van Rompuy, ha sicuramente ragione quando ha detto, venerdì, che «l’Italia ha un rendimento economico potenzialmente elevato ma ha bisogno di enormi sforzi per realizzarli in modo strutturale e permanente». Questo è molto simile a quello che ha detto il professor Monti negli ultimi mesi nei suoi articoli e nei suoi discorsi sempre più schietti. In verità, la forza economica dell’Italia ha giocato un ruolo alquanto contraddittorio durante la lunga fase di preparazione a questa crisi. Molti economisti hanno giustamente detto che i «fondamentali» del Paese sono buoni: alti livelli di ricchezza e di risparmio delle famiglie, basso debito privato, un sistema bancario stabile e una bilancia commerciale favorevole per i manufatti. In questo senso, l’Italia non è come la Grecia. Eppure i politici hanno abusato di tale argomento usandolo per suggerire che non c’era bisogno di fare molto. Il limite dell’argomento dei «fondamentali» inizia con il fatto che quando il problema è una crisi di fiducia nel debito sovrano, questi punti di forza sono quasi irrilevanti. Il problema è il fatto che il governo italiano deve 1,9 trilioni di euro, una cifra pari al 120% del Pil, lo stesso livello del 1994 quando Silvio Berlusconi entrò in politica. Tutto ciò che importa a coloro che prestano denaro al governo italiano è se il governo è in grado di onorare i debiti. La ricchezza privata e il basso indebitamento delle imprese sono rilevanti sotto questo profilo solo se questo significa che il governo può raccogliere più tasse dal settore privato o convincere i risparmiatori ad acquistare più titoli di stato. Eppure, il più significativo fatto «fondamentale» mostra perché ciò è difficile: l’economia in Italia è cresciuta appena del 3% nel decennio 2001-2010, mentre in Francia è cresciuta del 12%. In questo senso l’Italia non è come la Grecia: è peggio. Il reddito pro capite della Grecia è cresciuto in media di circa il 2% all’anno nel 2001-2010, mentre in Italia in realtà è precipitato. L’Italia si sentiva e in qualche modo sembrava forte e ricca, ma in realtà, non solo stagnava ma s’impoveriva. I redditi delle famiglie sono più bassi di quanto non fossero dieci anni fa. Il debito del governo è più grande di quanto non fosse allora. L’idea che il Paese fosse comunque in una bella posizione è stata utilizzata, dal Presidente del Consiglio, dai suoi ministri e, a volte, da dirigenti d’azienda anche come pretesto per evitare la necessità di decisioni difficili. Il buon argomento «fondamentale» è, comunque, corretto nel modo in cui l’ha usato il Presidente Van Rompuy: il potenziale dell’Italia rimane forte. Questo è il motivo per cui questa crisi finanziaria è tanto una tragedia come un crimine: modesti ma costanti cambiamenti fatti anno dopo anno, negli ultimi dieci anni o più, avrebbero potuto sia ridurre il debito pubblico e rendere il Paese meno vulnerabile sia liberare la naturale forza economica del Paese, rendendo il debito più gestibile, il tutto senza causare troppa pena. Il compito del nuovo governo sarà di fare questo, e non in maniera graduale e modesta, ma rapidamente e ambiziosamente. Nessuno, meno di tutti il professor Monti, si aspetta che questo sia facile. La parte più facile, infatti, sarà tagliare il deficit di bilancio più rapidamente rispetto ai piani che sono ora passati in Parlamento. Il forte senso nazionale della crisi finanziaria farà in modo che questo sforzo ottenga supporto, almeno per i prossimi mesi, nonostante le inevitabili proteste contro questo o quel taglio. Idealmente, l’austerità iniziale dovrebbe essere anche parte di un quadro più a lungo termine per ridurre il peso del debito pubblico dell’Italia fino a, diciamo, l’80% del Pil nei prossimi dieci anni. Il problema per il nuovo governo, tuttavia, sarà simile a quello della Grecia: la riduzione fiscale potrebbe essere necessaria per ripristinare la fiducia degli investitori e ridurre gli oneri finanziari in Italia, ma rischia di precipitare il Paese nella recessione, forse anche in modo grave tanto più che il resto dell’eurozona è destinato, secondo Mario Draghi nella sua prima conferenza stampa come presidente della Banca centrale europea, a una «lieve recessione». Una recessione italiana potrebbe deprimere ulteriormente le entrate fiscali, rendendo più difficili gli obiettivi di bilancio e innescando un circolo vizioso al ribasso. Quindi ciò che è necessario è una combinazione di austerità e di riforma che solleciti i veri punti di forza del Paese, agevolando la crescita. E’ probabile che la vita del governo Monti sarà troppo breve per poter attuare un programma di riforma davvero profondo. Ma potrebbe avviare le cose in quella direzione e porre le basi per le riforme. Poi, qualunque sarà il governo eletto nel 2012 o nel 2013 sarebbe in una posizione migliore per realizzarle. L’Italia può davvero accettare la riforma? Questa è una domanda che mi viene spesso rivolta dai miei amici non italiani. Grazie al viaggio in giro per l’Italia che ho fatto per il mio libro, «Forza, Italia: Come ripartire dopo Berlusconi» (pubblicato un anno fa da Rizzoli) ho fiducia che la risposta sia sì. La mia fiducia comincia, infatti, a Torino. La riforma richiede la costruzione del consenso e una visione di un futuro migliore da condividere. Questo, mi pare, è ciò che il sindaco Valentino Castellani ottenne a Torino negli Anni 90, quando formò l’equivalente cittadino di un «governo tecnico», poi il piano è stato esteso e realizzato dal suo successore, un politico più convenzionale, Sergio Chiamparino. La crisi finanziaria e politica di Torino ha portato al cambiamento. Lo stesso può accadere a livello nazionale. La fede in un tale cambiamento richiede anche esempi di successo di aziende che si sono costruite un ruolo di leader non solo in campo nazionale ma anche mondiale e possono ispirare gli altri. Troppo spesso, i commenti sul successo italiano si limitano ai produttori di piccole e medie dimensioni. Molti sono eccellenti, ma non è sufficiente avere l’eccellenza in un settore che rappresenta appena un quinto dell’economia. E le piccole imprese spesso non sono in grado di competere a livello globale. Quindi ciò che occorre è un successo più ampio, in tutti i settori del business del Paese, e la creazione di aziende più grandi. Gli esempi ci sono, in settori nuovi come in quelli vecchi: la leadership di Luxottica nel mercato mondiale negli occhiali da sole, Ferrero per il cioccolato, ma anche Technogym per i centri benessere, Autogrill nella ristorazione di massa e duty-free al dettaglio, e la Rainbow, nell’animazione per i bambini. Quello che queste aziende dimostrano anche, però, è che gli ostacoli alla crescita sono molti e vari. E, in quanto eccezioni, mostrano quanto gli ostacoli impediscano alle altre imprese di emularli. Primi della lista la legislazione in materia di lavoro che scoraggia le imprese dall’assumere lavoratori e le pratiche di lavoro che rendono le aziende italiane meno produttive rispetto ai Paesi vicini. Ma così sono le regole restrittive e i cartelli che fanno aumentare i costi e impediscono alle imprese di entrare in nuovi campi, rendendo più gratificante espandersi all’estero che in patria, in Italia. Il tipo di programma di riforma necessario per innescare il potenziale d’Italia è quello che elimina diritti, tutele e privilegi da una gamma molto ampia di gruppi e organizzazioni. Come si arriverà a questo è molto controverso. Quindi sarà necessario costruire attentamente il consenso, un processo reso più difficile dalla legge elettorale vigente, che incoraggia la polarizzazione e si focalizza sulla personalità. Come è stato ampiamente discusso, è vitale una riforma di questa legge elettorale. Tale consenso sarà inoltre essenziale per la grande riforma delle leggi sul lavoro che è necessaria per realizzare un mercato unico del lavoro, coniugando flessibilità e sicurezza. Questo richiederà una collaborazione tra governo, sindacati e associazioni dei datori di lavoro che non è mai facile. Eppure è stato fatto in passato per eliminare la scala mobile, quindi potrà sicuramente essere fatto di nuovo. Il più grande, necessario sforzo dovrà essere l’accurata rimozione dei diritti e dei privilegi che ostacolano la concorrenza e l’innovazione. In «Forza, Italia», proponevo che il nuovo governo italiano si rivolgesse a un uomo che aveva appena compilato un rapporto per la Commissione europea sul modo di approfondire il mercato unico europeo, chiedendogli di fare lo stesso per l’Italia, e poi incaricarlo della sua applicazione. Il nome dell’uomo era professor Mario Monti. Egli ora dovrà trovare qualcun altro per fare quel lavoro, ma almeno sa cosa vuole che sia fatto. Traduzione di Carla Reschia da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9427 Titolo: BILL EMMOTT. - Una medicina salvavita per l'euro Inserito da: Admin - Dicembre 08, 2011, 05:29:26 pm 8/12/2011
Una medicina salvavita per l'euro BILL EMMOTT Purtroppo una buona giornata non salverà l’euro né lo salveranno le pie promesse di comportarsi meglio in futuro. Di sicuro il piano di austerità italiano e i propositi franco-tedeschi di unione fiscale rappresentano un progresso. Ma da fare c’è molto di più. Come ha detto il presidente del Consiglio, l’Italia ha fatto la sua parte, ma solo la sua prima parte. Quella più vitale - le liberalizzazioni per affrancare energie, che indubbiamente ci sono, da investire nella libera iniziativa e nella crescita - deve ancora arrivare. Però l’euro deve sopravvivere, per rendere quelle misure possibili ed efficaci. Sopravviverà? Sì, oggi sembra più probabile di quanto non sembrasse una settimana fa. Ma in un paio di settimane la situazione potrebbe essere di nuovo nera. Perché queste proposte di unione fiscale, o «unione di stabilità» come piace dire ai tedeschi, in verità sono solo la promessa di non ripetere in futuro una crisi come questa. Equivalgono a portare un infartuato in terapia intensiva e limitarsi a leggergli testi di medicina su come evitare il prossimo infarto. Non è così che supererà la crisi. Qualche medicina migliore arriverà a breve se la Banca Centrale Europea decidesse che, con la promessa unione fiscale, non corre più rischi comprando grandi quantità di bond italiani e spagnoli. Questo però fornirebbe un aiuto solo temporaneo, come un respiratore artificiale. Non renderà più sano il paziente. La malattia dell’euro nasce, anzitutto, dall’insostenibile combinazione di debito enorme e crescita bassa o negativa in Grecia, Italia, Spagna, Portogallo e, fino a poco fa, Irlanda. Ma ci sono altre due concause. Una è l’accettazione esplicita, anche tra i leader politici dell’eurozona, che la Grecia ha bisogno di un forte sconto sui suoi debiti, probabilmente anche superiore a quello già concordato. Questo getta dei dubbi sul rischio dei debiti di altri Paesi. La seconda è la profonda divisione all’interno dei governi dell’eurozona sulla forma dell’unione monetaria: deve comportare solo regole fiscali o anche una qualche forma di responsabilità collettiva sui debiti sovrani? Sulla base di quanto è stato annunciato finora, la Germania è risolutamente attaccata alla sua posizione: l’euro dev’essere un sistema solo di regole e mai di responsabilità collettiva. Questa è una decisione logica e legittima, ma lascia aperte molte domande. Perché questa volta le regole dovrebbero essere credibili? Un trattato, delle sanzioni automatiche e la Corte europea di giustizia colpiscono in modo positivo, ma non è scontato che funzioneranno meglio del vecchio Patto di stabilità e crescita, beffato nel 2002-2003. Le sanzioni automatiche, poi, si limiterebbero a punire Paesi già in difficoltà economiche, sicché perché dovrebbero essere efficaci? Potrebbero solo produrre una nuova crisi. La domanda successiva è se le regole fiscali attualmente proposte risolvano il vero problema. Se l’Europa si fosse data queste regole e la loro rigorosa applicazione quando, nel 1999, fu lanciata la moneta, certamente a Italia, Grecia e Belgio non sarebbe stato consentito di entrare nell’euro. Ma Irlanda, Spagna e pure Francia e Germania, tutte oggi con debiti molto più alti di quanto le regole non «permettano» per la crisi economica del 2008-2010, oggi sarebbero punite. Con che risultato? Se quelle regole fossero state applicate negli anni 2008-2010, la crisi europea sarebbe stata ancora più profonda, dato che ai governi sarebbe stato proibito di contrastare il crollo della domanda privata con un supporto fiscale. Se invece quelle regole fossero state accantonate, che cosa ne sarebbe stato della loro credibilità? C’è poi anche il problema cruciale di come l’eurozona possa spostare la sua credibilità dal punto in cui si trova adesso, con molti Paesi che hanno un debito pubblico pari o superiore al 100 per cento del Pil, alla Nuova Utopia del 3 per cento annuo del deficit di bilancio rispetto al Pil e del 60 per cento del debito pubblico, sempre rispetto al Pil. Per usare una metafora dell’aviazione, la «rotta di avvicinamento» a questa condizione futura avrà un ruolo cruciale nel costruire la credibilità. E inevitabilmente quella rotta, e lo stesso trattato, richiederanno un periodo lungo per essere negoziati e applicati. Questo lascia ancora la necessità urgente, per il paziente-euro tanto malato, di una medicina salvavita a lungo termine. A me pare che questo debba implicare due interventi eccezionali. Il primo deve fare una distinzione - definitiva - tra la Grecia e gli altri Paesi fortemente indebitati. Non farla, attraverso politiche sia nazionali sia dell’eurozona, è la causa dei bond italiani lanciati oltre il 7% di interesse. La via più chiara è anche una via rischiosa: espellere la Grecia dall’euro. L’altra medicina salvavita necessaria è una qualche forma di garanzia collettiva per i debiti sovrani, o almeno per una parte. Con l’unione fiscale in cammino, e la Grecia sulla strada dell’esclusione, sarebbe possibile per la Germania lasciar cadere il suo veto precedente su questa evoluzione. Potrebbe progettare di farlo comunque, magari con uno stretto limite di tempo per la garanzia, legato a programmi di riforma e austerità fiscale. I rating sui debiti dell’eurozona saranno comunque declassati, sicché questo non è più un buon argomento contro la «messa in comune» dei debiti. Se e quando essa avverrà, potremo dire con certezza che l’euro sopravviverà. da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9528 Titolo: BILL EMMOTT. - "Londra è stata egoista Proprio come Berlino" Inserito da: Admin - Dicembre 10, 2011, 04:39:08 pm Esteri
10/12/2011 - Intervista Ex direttore di The Economist Bill Emmott ha diretto The Economist, il più autorevole tra i settimanali economici, dal 1993 al 2006. È nato nel 1956, vive tra Londra e il Somerset Emmott: scelta stupida, ma questo patto non decollerà mai Andrea Malaguti corrispondente da Londra Bill Emmott, perché David Cameron non ha firmato il trattato? «Egoismo. Motivi di politica interna. Il tentativo di tranquillizzare l’ala più conservatrice del partito. In definitiva ha fatto una scelta stupida, così come stupido è stato in passato il comportamento di altri Paesi europei. A cominciare da quello della Germania, per cui l’euro deve essere un sistema di regole e mai una responsabilità collettiva. In quanto a egoismo Berlino non è stata seconda a nessuno». Quanto ha inciso la difficoltà di rapporti tra Cameron e Sarkozy? «Zero». I due non si amano. «Se è per questo neppure la Merkel e Sarkozy si amano, ma stiamo parlando di un problema personale che non riguarda gli incontri istituzionali. A Bruxelles ciascuno rappresenta il proprio Paese». Basta la politica interna a giustificare la scelta di Londra? «Sì, perché il Regno Unito non crede che questo trattato avrà mai un’attuazione effettiva. Ci vorranno mesi di negoziazione e alcuni Paesi dovranno ricorrere a un referendum per farlo passare». Anche lei la pensa così? «Suppongo che trovare una mediazione tra ventisei Stati sarà quasi impossibile, forse ci riuscirà il gruppo dei diciassette». Il Regno Unito verso l’isolamento. Anzi, solo. «L’Inghilterra è stata spesso su posizioni diverse da quelle di Bruxelles. Non c’è niente di nuovo sotto il sole e questo tipo di isolamento non è pericoloso. Si può gestire come al solito. Frasi come: “Europa a due velocità”, sono un po’ generiche». Perchè allora la scelta di Cameron è stata stupida? «Perché ha fatto un grosso danno di immagine alla Gran Bretagna, scommettendo sul fatto che in un periodo relativamente breve il suo comportamento sarà dimenticato a livello internazionale». Almeno non sarà costretto a cedere alle pressioni dei conservatori per un referendum che sleghi l’Inghilterra dall’Europa. «Questo è il vero vantaggio secondario che ha ottenuto. Ha allentato la morsa e si è rimesso al centro del suo partito. Ora per lui sarà meno complicato gestire la politica interna». Compreso il rapporto con Nick Clegg, europeista convinto e suo vice al governo? «Compreso. Per Clegg era importante evitare il referendum e ora mi sembra più preoccupato degli effetti dei tagli ai dipendenti pubblici. Quello sarà il vero terreno di confronto». Ed Miliband sostiene che Cameron ha messo a nudo tutta la sua debolezza in Europa. «Il leader laburista, con queste dichiarazioni, fa solo il suo dovere di capo dell’opposizione». Tony Blair avrebbe fatto la stessa cosa? «Sì, ma in un altro modo». Cioè? «Non avrebbe insistito sulla necessità di difendere la City e sopratutto non si sarebbe fatto condizionare da questa forma di nazionalismo radicale». La City come ha reagito? «Con equilibrio. Per loro non cambia tanto. Erano e restano il centro del mondo finanziario europeo». Non c’è il rischio che quel centro si sposti a Francoforte? «Non vedo né il rischio né il motivo». Tanto rumore per nulla? «In parte è così. Questo accordo risolve il problema sbagliato. Attraverso l’accordo fiscale cerca di prevenire nuovi guai ma non risolve quelli presenti». Beh, non è poco. «Neanche molto. Se fosse stato in vigore nel 2008, quando c’è stata la crisi di Lehman Brothers, non sarebbe comunque stato sufficiente per evitare il disastro. E sono sicuro che neppure la Germania lo avrebbe rispettato. Quando sei dentro l’emergenza ti affidi a soluzioni d’emergenza». da - http://www3.lastampa.it/esteri/sezioni/articolo/lstp/433789/ Titolo: BILL EMMOTT. - Quel che Monti dovrebbe dire Inserito da: Admin - Gennaio 15, 2012, 11:32:17 am 15/1/2012
Quel che Monti dovrebbe dire BILL EMMOTT L’indisciplina degli Stati membri che ha portato alla crisi dell’euro, ha scritto nel giugno scorso un saggio, è nata da «una malsana cortesia reciproca e dall’eccessiva deferenza verso gli Stati membri di grandi dimensioni». Questo saggio è il professor Mario Monti, autore di un blog per il «Financial Times». Ora che è il presidente Monti, e ora che la crisi dell’euro si sta di nuovo intensificando, è tempo che segua il suo stesso eccellente consiglio. Dobbiamo sperare che, nei suoi incontri con il cancelliere tedesco Angela Merkel e il presidente francese Nicolas Sarkozy, abbia già parlato in modo chiaro e diretto. Se così non fosse, questo è ciò che dovrebbe dire. «Cari colleghi, come ben sapete mi piace dire che io sono il più tedesco tra tutti gli economisti italiani. Bene, ora sarò anche americano e senza peli sulla lingua. Sotto la vostra guida, la zona euro non riesce ancora ad affrontare la realtà. Sì, noi italiani siamo stati molto, molto lenti ad affrontarla, ma ora stiamo lavorando sodo. Adesso tocca a voi. «In un attimo tornerò alla realtà italiana perché il nostro lavoro, lo so, è appena iniziato. Ma se la zona euro prosegue così com’è allo stato attuale, il nostro lavoro sarà distrutto in ogni caso, perché le nostre banche e la valuta crolleranno. Ci sono due realtà che finora avete rifiutato di accettare e affrontare. «La prima è che la Grecia getta ancora un’ombra fosca su tutti gli altri membri dell’eurozona. Perché? Perché chiunque sia in possesso di una calcolatrice tascabile, per non dire di un computer, può capire che non sarà in grado di rimborsare i debiti, anche se i creditori privati accetteranno un’enorme riduzione del valore dei loro prestiti. Le voci sulla riduzione per ora sono cessate, ma anche se alla fine si farà, la Grecia, secondo previsioni piuttosto ottimistiche, ridurrà semplicemente il suo debito pubblico al 120% del Pil entro la fine del decennio. «Le finanze pubbliche italiane sono state sull’orlo di una crisi con gli oneri finanziari saliti a oltre il 7%. Siamo molto più deboli, in termini economici, di quanto ci siamo raccontati nel decennio passato, ma siamo ancora molto più forti della Grecia, quindi se siamo vicini a una crisi con il nostro debito al 120% del Pil, come sopravviverà la Grecia con oneri finanziari sempre maggiori e con un’economia molto più debole? Questo significa solo che ci sarà una nuova crisi greca ogni pochi mesi, che per contagio ci danneggerà tutti. «Sappiamo tutti che, in primo luogo la Grecia non avrebbe dovuto essere autorizzata a partecipare all’euro, e la verità è che anche all’Italia non avrebbe dovuto essere consentito farlo, perché i nostri debiti erano troppo alti. Ma questa è storia. La realtà attuale è che ora la Grecia deve lasciare l’euro, perché altrimenti la sua insolvenza continuerà ad avvelenarci tutti. Dovrebbe farlo con tutto l’aiuto finanziario possibile che noi e il Fondo monetario internazionale possiamo offrire, ma il punto importante è che dovrebbe farlo presto. «Quando ciò accadrà, gli altri Paesi altamente indebitati, prima fra tutti l’Italia, saranno duramente colpiti dalla speculazione dei mercati sul nostro prossimo default e successiva uscita di scena. Il lavoro principale per dimostrare che ciò non è vero sta a noi: in Italia occorre fare di più per dimostrare che abbiamo un piano credibile a lungo termine per ridurre il nostro debito pubblico al livello del Trattato di Maastricht, il 60% del Pil, probabilmente entro 10 - 15 anni, introducendo allo stesso tempo misure per far crescere di nuovo la nostra economia con un tasso medio annuo di almeno il 2%. «Stiamo lavorando a questo, come sapete, e il mio governo si accinge a presentare la prossima fase del programma di riforme. Ma la seconda realtà è che abbiamo bisogno del vostro aiuto, sia per sopravvivere abbastanza a lungo perché le riforme producano il loro effetto, e ancora di più per sopravvivere all’inevitabile e auspicabile uscita greca dall’euro. «Pubblicamente, avete dichiarato che il fiscal compact, il patto fiscale che tutti noi (tranne la Gran Bretagna) abbiamo accettato di 9 dicembre, è la soluzione che l’euro richiede. Ma cerchiamo di affrontare la realtà, non dobbiamo essere troppo educati e deferenti: sappiamo tutti che questo non è vero. Non è vero perché anche con un trattato non c’è motivo perché i mercati credano alle nostre promesse di contenere il disavanzo pubblico e (nel caso dell’Italia) dimezzare il debito pubblico in rapporto al Pil. Queste promesse sono necessarie e importanti, ma non sono sufficienti e non sono credibili. «Non sono credibili a causa della Grecia, come ho già detto, ma anche perché il passaggio dal peccato alla virtù sta andando troppo per le lunghe. La politica e gli imprevisti sono destinati a intervenire, mettendo in forse le nostre promesse. E come ha sottolineato la Banca centrale europea, i mercati possono già vedere come tutti stiamo cercando di indebolire le disposizioni del trattato, per renderci più accettabile l’idea di mancare gli obiettivi del deficit e del debito. I mercati sanno che la Germania e la Francia nel 2003 hanno distrutto il patto di stabilità e crescita, quindi ci sta che diffidino ancora una volta di noi e delle nostre promesse. «No, miei cari colleghi, questo fiscal compact non è sufficiente, né i miei piani nazionali di austerità e liberalizzazione dei piani basteranno per distinguere in modo sicuro l’Italia dalla Grecia quando quel Paese andrà in default. L’unico modo per risolvere questo problema, l’unico modo per far sì che l’inevitabile uscita della Grecia non sia un disastro, è che voi due, il che significa soprattutto la Germania, accettiate la responsabilità collettiva per i debiti della zona euro, emettendo eurobond garantiti congiuntamente. «Questi eurobond possono avere una durata limitata nel tempo e devono essere subordinati sia al fiscal compact sia ai nostri piani di liberalizzazione interna. Ma senza di essi, l’euro semplicemente non sopravviverà. So che questo significherà che il credito di ognuno verrà declassato, proprio come lo è stata la Francia e che ci sarà un grande scontro nella politica tedesca. Mi dispiace di essere maleducato, ma come direbbero gli americani: Guardate in faccia la realtà. Svegliatevi e sentite l’odore del caffè. E voi sapete che il miglior caffè lo facciamo noi italiani». da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9651 Titolo: BILL EMMOTT. - La possibilità di cambiamento adesso è reale Inserito da: Admin - Febbraio 09, 2012, 10:31:57 am 9/2/2012
La possibilità di cambiamento adesso è reale BILL EMMOTT Il tempo, si dice, è un gran dottore, ma il modo in cui l’immagine dell’Italia all’estero si è trasformata nei tre mesi passati tra le dimissioni del presidente Silvio Berlusconi il 12 novembre e l’odierna visita del presidente Mario Monti alla Casa Bianca è stato a dir poco miracoloso. Mi dispiace di essere sacrilego, ma, come molti miracoli, questo è un po’ un’illusione. Tuttavia, le illusioni sono importanti, e così, per questo miracolo, valgono tre parole: centralità, verità e possibilità. Il miracolo è un’illusione perché un Paese non può cambiare così tanto in tre mesi. Questo punto di vista non nasce, vi assicuro, perché io sia il tipo di scrittore straniero che preferisce pensare che la Costa Concordia rappresenti l’Italia meglio del presidente Monti: sarebbe assurdo. Piuttosto, si pone perché nessuno, e nessuna nuova legge o misura di bilancio, può cambiare una situazione così velocemente. La maggior parte delle riforme economiche e istituzionali che sono necessarie non sono state ancora convertite in legge, figuriamoci attuate. E chiaramente resta una quantità enorme di resistenza ai cambiamenti che vengono proposti, in tutti i campi, sia il diritto del lavoro o la disciplina fiscale o la liberalizzazione dei mercati e delle professioni. Non si può assolvere un peccatore che non si è pentito, ha scritto Dante Alighieri, ed è tutt’altro che chiaro se il pentimento ci sia stato. Anche così, la questione del cambiamento di rotta italiano ha raggiunto uno status di centralità, per questo il presidente Barack Obama sente il desiderio di incoraggiarlo. Per centralità si intende la percezione che il destino dell’Italia e il suo futuro siano improvvisamente importanti per il futuro dell’Europa e, a sua volta, per il futuro dell’Occidente nel suo complesso. Questo è precedente al 12 novembre, ma è diventato più urgente che mai in quel mese così caldo per i mercati obbligazionari. Come i mercati obbligazionari avevano riconosciuto allora, l’Italia conta, tanto per gli americani come per i colleghi europei, prima di tutto per le sue dimensioni: sia come terzo maggior governo debitore al mondo (dopo America e Giappone) che come terza maggiore economia dell’eurozona (dopo Germania e Francia), una crisi del debito sovrano e una profonda recessione in Italia sarebbero veramente pericolose per tutti i Paesi ad essa strettamente legati, il che significa Europa e America. L’ombra di una tale crisi è diventata più minacciosa a causa della crescente aspettativa di un default del debito greco, un’aspettativa che sta di nuovo crescendo. Questo non si traduce in rendimenti pericolosamente elevati dei titoli obbligazionari italiani, soprattutto perché un altro italiano assai stimato, Mario Draghi alla Banca centrale europea, ha scongiurato il pericolo di una crisi bancaria europea con la sua tempestiva e massiccia offerta alle banche di prestiti illimitati a tre anni. L’Italia, però, è centrale anche per motivi diversi dal suo essere semplicemente una pericolosa bomba a orologeria economica. In primo luogo perché la sua stagnazione e paralisi politica nel corso degli ultimi 20 anni si presenta al resto dell’Occidente come un duro avvertimento ma anche come un’opportunità. L’avvertimento riguarda il possibile lento, inesorabile declino se l’onere del debito non viene affrontato e se un’economia e una società perdono la capacità di evolversi, di cambiare, il tratto essenziale che i Paesi capitalisti democratici devono avere se vogliono sopravvivere e prosperare in questa epoca di grande fermento tecnologico e politico. L’opportunità, tuttavia è quella della ripresa e del rinnovamento, persino di un rinascimento, se la liberalizzazione s’impone e riprende un’evoluzione dinamica. Se l’Italia potrà tornare a essere un’economia di mercato trainante, come durante gli Anni 50 e 60, allora c’è speranza per l’Europa e l’Occidente. Se non sarà possibile, gli oneri per gli altri Paesi saranno maggiori e più deboli le loro possibilità di successo. L’Italia è strategica anche per la ragione che, in termini personali, stava dietro il famoso titolo di copertina «Inadatto a governare l’Italia», che volli quando ero direttore di The Economist, nel 2001. Ovvero che, durante vent’anni di politica dominata da Silvio Berlusconi, l’Italia ha reso evidente il pericolo che un governo democratico diventi ostaggio di grandi aziende, dei media e del potere personale. Le leggi vengono applicate iniquamente e piegate all’uso personale, il normale ruolo di regolamentazione del governo è sovvertito, la Costituzione è minata, e il flusso di informazioni è gravemente distorto. Questo è importante – ancora oggi – soprattutto per l’Italia medesima, ma è anche esattamente la stessa preoccupazione che sovrasta la politica americana quando qualcuno si lamenta del potere di Wall Street o delle grandi compagnie petrolifere, o di altri lobbisti. È la paura corrosiva che lo strapotere possa distorcere o addirittura guidare le decisioni democratiche. La fine, almeno, di quel potere che aveva occupato Palazzo Chigi, è di grande importanza simbolica per le altre democrazie occidentali. Uno degli effetti di quel potere, tuttavia, è la seconda parola determinante per questo miracolo: verità. Altri governi in Europa e certamente gli Stati Uniti sono giunti alla conclusione che non potevano fidarsi della parola dell’Italia con il governo Berlusconi. Non era il caso delle questioni militari, motivo per cui l’amministrazione Bush era cordiale con l’Italia, grazie ai dispiegamenti militari in Iraq e in Afghanistan. Ma valeva per tutto il resto. Annunci, promesse, affermazioni, dichiarazioni d’intenti: i governi stranieri erano arrivati ad attribuire loro la credibilità di uno spettacolo teatrale. E’ stato triste vedere il presidente Berlusconi perseverare in questa abitudine nella sua intervista con il Financial Times, pubblicata il 4 febbraio, dove ha di nuovo fatto la sua promessa, impossibile da credere, di lasciare la politica in prima linea, ripetuto le sue incredibili smentite sul bunga-bunga, solo per tenere quella frase agli occhi dell’opinione pubblica, e reiterato gli attacchi alla Costituzione italiana che mettono in risalto l’inadeguatezza del suo potere. Sono stato particolarmente colpito da quell’intervista, bisogna ammetterlo, perché recentemente sono stato trascinato nel solito balletto dal presidente Berlusconi in persona. A dicembre, a un evento al Quirinale, quando gli avevo detto che stavo girando un documentario sull’Italia, aveva detto spontaneamente che «era a mia disposizione» per un’intervista. In seguito ha negato di aver mai offerto una intervista filmata, sostenendo che doveva essere stato un malinteso. Al contrario, ogni parola che dice il presidente Monti è ritenuta degna di fede dai governi stranieri. Sanno che affronta enormi difficoltà. Ma pensano che valga la pena di parlargli e di sostenerlo, perché possono credere a ciò che dice. E questo ci porta alla possibilità. L’illusione della trasformazione miracolosa dell’immagine dell’Italia è che certamente l’Italia non si è trasformata, né è fuori pericolo dal punto di vista finanziario o economico. La recessione peggiorerà le finanze pubbliche, rendendo più che possibile il varo di un altro pacchetto di misure fiscali entro la fine dell’anno se si devono continuare a sostenere i mercati obbligazionari e a ottemperare agli obiettivi di bilancio della zona euro. La liberalizzazione e la riforma del lavoro sarà difficile da attuare, e ci vorranno molti anni perché abbia un effetto significativo sulla crescita economica. Tanto la parte politica come quella economica di questo processo sono irte di pericoli. Ma ciò che è cambiato è che ora c’è una reale possibilità di cambiamento. C’è qualcosa da sollecitare e in cui sperare. Il governo Monti, e il sostegno parlamentare e pubblico che lo circondano, rappresentano per l’Occidente una luce brillante di possibilità in un paesaggio altrimenti oscuro. Alla fine, il Paese che ha più o meno inventato il capitalismo moderno, che ha dato origine al Rinascimento che ha prodotto l’uomo moderno, si sta risvegliando dopo un lungo sonno catatonico. Questa è una buona ragione per prestare attenzione, e offrire un caloroso benvenuto a Washington. traduzione di Carla Reschia da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9753 Titolo: BILL EMMOTT. - Stavolta Pechino deve rischiare Inserito da: Admin - Febbraio 28, 2012, 05:37:30 pm 28/2/2012 - LA CRESCITA CINESE
Stavolta Pechino deve rischiare BILL EMMOTT La Cina è uno di quei Paesi, e di quelle economie, che ti fanno venire le vertigini. Appena ti sembra di aver colto le regole base di come funziona la Cina e la direzione nella quale sta andando, tutto cambia. Può essere frustrante per gli osservatori stranieri e i concorrenti, ma non deve certo sorprendere. Il fatto che l’economia cinese cresce del 10 per cento l’anno significa che ogni sette anni il suo Pil raddoppia. E non è possibile senza cambiare radicalmente, sia sul piano sociale sia su quello economico. Dunque, il cambiamento in Cina è routine. Ora, in un nuovo rapporto intitolato «Cina 2030», la Banca Mondiale afferma che il Paese è giunto a un punto di svolta. Potrebbe - dicono gli autori del documento - continuare a crescere rapidamente per i prossimi due decenni, seppure a un tasso più moderato del 6-7 per cento annuo, e potrebbe conseguire questo risultato senza distruggere l’ambiente di tutto il pianeta o la propria società. Ma solo a condizione di un cambiamento sostanziale. Le proposte di cambiamento contenute nel rapporto della Banca Mondiale sono piuttosto comuni e convenzionali, sia perché l’argomento è già stato affrontato da altri analisti, sia perché il rapporto è stato scritto in collaborazione con i rappresentanti del governo cinese. La questione più interessante non riguarda le proposte in sé - che consistono essenzialmente nel diventare più innovativi, verdi, egualitari e privatizzati - bensì quanto il cambiare possa davvero restare l’eterna routine cinese. In linea di principio, è possibile. Uno dei motivi è che si tratta di un Paese così vasto e vario. Lo sviluppo può migrare geograficamente, e lo sta facendo, esattamente come fanno già i lavoratori cinesi. Con una popolazione di 1,3 miliardi di persone, la Cina è quattro Americhe in un solo Paese. E come gli Stati Uniti nella loro storia hanno spesso fatto grandi progressi in alcune regioni, spostando sia la localizzazione che la natura della crescita, così la Cina può fare altrettanto. E ciò le conferisce una flessibilità interna. La seconda ragione è il grande pragmatismo, che risale all’ascesa alla guida del Paese di Deng Xiaoping nel 1978. «Non importa se il gatto è nero o bianco, basta che dia la caccia ai topi», disse in una sua famosa frase. E quindi, le politiche sono cambiate, rispondendo ai problemi che sorgevano come alle nuove opportunità che si aprivano. Il Partito comunista cinese in realtà non ha un’ideologia che vada oltre l’imperativo di conservare il proprio potere e sopravvivere. Negli ultimi decenni sono state scritte tonnellate di libri e articoli che predicevano l’imminente collasso della Cina. Di solito, l’argomentazione si basava sull’idea che il Paese stesse applicando politiche economiche sbagliate, o che stava andando incontro alla destabilizzazione politica e a una rivolta contro il Partito comunista. Tutte queste previsioni si sono rivelate sbagliate. Le previsioni economiche di regola hanno sottovalutato la flessibilità della Cina, la sua capacità di assorbire i problemi, gli choc e gli sprechi. Le previsioni politiche hanno sottovalutato la flessibilità e la resistenza del Partito comunista, così come la tolleranza dei cinesi nei confronti di un governo autoritario, a condizione che i loro redditi e le loro opportunità continuassero a migliorare. Ma non si può contare in eterno né sulla flessibilità, né sulla resistenza, nel campo economico come in quello politico. In realtà, la maggiore preoccupazione è - o dovrebbe essere - la possibilità che la flessibilità e la resistenza possano venire in contraddizione l’una con l’altra, in modi che la Banca Mondiale è stata costretta a descrivere in modo fin troppo educato. La forza e la resistenza del Partito comunista e dei suoi strumenti di governo sono stati costruiti in una maniera brillante: fin dalla morte di Deng nel 1997, il partito si è trasformato dalle sue vecchie origini ideologiche e rivoluzionarie dei tempi di Mao, per diventare essenzialmente una burocrazia meritocratica. Nessuno può più avere il potere che avevano avuto il presidente Mao e poi lo stesso Deng. Ora i leader sono soggetti a rigidi limiti temporali di mandato, e tutte le cariche nel partito vengono sottoposte a regolare rotazione. Uno di questi avvicendamenti incombe quest’anno, quando il presidente Hu Jintao e il suo premier, Wen Jiabao, si ritireranno al 18˚ Congresso in autunno, dopo nove anni in carica, e verranno sostituiti - o almeno così si pensa - da Xi Jinping e Li Keqiang. Questa rotazione al vertice, insieme a quella di tutte le cariche di partito, serve a tenere la corruzione almeno parzialmente sotto controllo, e a evitare devastanti lotte di potere. Finora, questo sistema ha funzionato in maniera superba. L’altra cosa che fa questo sistema, però, è incoraggiare la timidezza e la gradualità. Il presidente Hu è stato al potere per quasi dieci anni, ma non lascerà riforme o trasformazioni maggiori associate al suo nome. La Cina non pratica più «grandi balzi in avanti» promossi con risultati devastanti da Mao negli Anni 50. La sua burocrazia è troppo conservatrice. Nessuno vuole correre rischi, o almeno così appare. Il tipo di proposte avanzate dalla Banca Mondiale, e discusse da analisti e funzionari cinesi, richiede invece dei rischi. Nelle ultime settimane si è assistito a un improvviso attacco di sincerità da parte di funzionari legati alla Banca centrale cinese, che hanno esortato una liberalizzazione più rapida dei mercati del capitale, addirittura della convertibilità della moneta. Ma questo sarebbe rischioso. E’ poco probabile che la leadership uscente voglia correre un tale rischio, e non sappiamo ancora se la nuova dirigenza sarà più spavalda. Il pragmatismo e il diffuso desiderio di continuare a crescere, a tirare ancora più cinesi fuori dalla povertà e a trasformare la Cina in un Paese ricco, potrebbero alla fine spingere la burocrazia a essere più flessibile. Ma ciò non è inevitabile. I sistemi, anche quelli di maggior successo, possono diventare calcificati e bloccati. E’ accaduto al Giappone negli Anni 80 e, in maniera diversa, sta accadendo all’Italia. Interessi particolari si trincerano. L’establishment diventa conservatore. E questa è oggi la maggiore minaccia alla crescita, anche della Cina. da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9824 Titolo: BILL EMMOTT. - Il dopo Fukushima, depressi e disillusi nel Paese del grande choc Inserito da: Admin - Marzo 11, 2012, 10:59:50 am 11/3/2012
Il dopo Fukushima, depressi e disillusi nel Paese del grande choc BILL EMMOTT E’ stato un anno di straordinarie ondate emotive. Quando si diffuse la notizia del terremoto, poi dello tsunami e dell’incidente nucleare nel Nord-Est del Giappone, l’11 marzo 2011, la prima reazione fu un misto di shock, stupore e solidarietà. ome poteva un Paese ricco e sviluppato essere improvvisamente devastato da una catastrofe naturale di tale portata, nel bel mezzo di un normale venerdì pomeriggio? Grazie alla capillarità degli smartphone e delle fotocamere digitali, questo è stato anche uno dei disastri naturali più ripresi nella storia, così tutti potemmo assistere con orrore all’onda che spazzava via l’entroterra, abbattendo edifici alti e trascinando con sé flotte di auto e di barche. Come s’iniziò a capire che erano rimaste uccise migliaia di persone - il numero ufficiale oggi, un anno dopo, è 19 mila, di cui più di tremila ancora elencate come disperse - la nostra reazione fu di tristezza. Ma poi il film mostrò la risposta della popolazione all’emergenza, e il rapido intervento delle forze armate giapponesi e della polizia. Questo mutò la nostra emozione in ammirazione, soprattutto per lo stoicismo mostrato dalla gente. Ma l’ammirazione si tinse rapidamente di paura, quando si diffuse la notizia dell’incidente nucleare alla centrale energetica di Dai-ichi, a Fukushima. I reportage televisivi non si concentrarono più sulla costa devastata, ma si spostarono sull’esplosione a Fukushima e l’eventualità di una nuova Cernobil. Alcuni residenti stranieri, tra i quali purtroppo anche alcune ambasciate europee (ma non quelle inglesi e italiane), cominciarono a lasciare Tokyo. Poi, accadde una cosa strana. O almeno, è strana per un giornalista che è infinitamente curioso degli altri Paesi e dei postumi delle crisi. La cosa strana è che, non appena divenne chiaro che la centrale elettrica Dai-Ichi di Fukushima in realtà non stava per esplodere provocando ulteriori devastazioni, gli stranieri persero interesse per il disastro giapponese. Le troupe televisive fecero le valigie e se ne andarono. Il Giappone fu più o meno di nuovo dimenticato. Non, naturalmente, dai 120 milioni di giapponesi. Da allora le loro emozioni hanno continuato a oscillare in modo incontrollabile. In questo momento sembra che queste emozioni siano dominate da due sentimenti principali: depressione, nella grande area devastata, per la mancanza di progressi nella ricostruzione di città e villaggi, e disillusione, al confine della diffidenza, verso il governo. È difficile stabilire quanto si debba essere critici per la lentezza dei progressi nella ricostruzione. Dopo tutto, il terremoto che ha sconvolto L’Aquila ha avuto luogo nel 2009 e la città italiana non è ancora stata ricostruita. La devastazione giapponese è stata su scala molto più vasta, ha distrutto completamente comunità, porti e terre coltivate lungo una striscia costiera fino a dieci chilometri di larghezza e oltre 300 di lunghezza. In quella zona, gli edifici non erano solo danneggiati, come accade in un terremoto. Sono stati completamente distrutti, come colpiti da decine di bombe atomiche. Per questo non potevano essere ricostruiti, nemmeno in parte, in appena un anno. Tuttavia, quello che ho provato quando a ottobre ho rivisitato parte della zona devastata, la stessa che avevo visitato meno di un mese dopo lo tsunami, è stata la mancanza di speranza, la sensazione che le città non saranno mai ricostruite. I detriti sono stati eliminati, ma si trovano ancora in enormi cumuli. Per i residenti evacuati sono stati costruiti alloggi temporanei, ma spesso lontano dalle loro vecchie case. Sono sempre in corso di elaborazione e discussione piani per ricostruire le comunità, ma finora ben poco è stato messo in pratica. Lo stesso accadrebbe nella maggior parte dei Paesi occidentali, forse in tutti. La politica e la burocrazia si aggrovigliano l’una con l’altra, soprattutto di fronte a un compito di tale portata. In Giappone, però, le persone hanno imparato ad aspettarsi di più. Sono cresciute credendo che il loro Stato, il loro governo, fossero efficienti e fattivi. Quello Stato, dopo tutto, aveva ricostruito il Giappone dopo il 1945, facendone uno dei Paesi più sicuri, più confortevoli e più ricchi del mondo. La disillusione verso lo Stato giapponese, per la politica come per la burocrazia, cresce ormai da due decenni. Nel 1990, l’incapacità di rispondere con successo alla crisi finanziaria che aveva colpito il Giappone scosse la fiducia della gente nel governo, così come una serie di scandali, inclusi diversi piccoli incidenti nucleari. Ora, però, la confusione del dopo disastro, combinata in modo dirompente con la crisi della centrale nucleare Dai-Ichi di Fukushima, ha distrutto la fiducia nel governo, quasi come lo tsunami ha distrutto le comunità costiere. Il contrasto con il settore privato è stato netto. La ferrovia ad alta velocità a gestione privata e l’aeroporto di Sendai, nella zona colpita dallo tsunami, sono stati riparati e riaperti nel giro di tre mesi. Il mondo, e i produttori giapponesi nel resto del Paese, inizialmente sono rimasti sconvolti vedendo la dipendenza delle case automobilistiche e delle aziende di elettronica da componenti chiave realizzati in fabbriche che si trovavano nel Nord-est del Giappone. In un primo momento, i proprietari di quelle fabbriche danneggiate avevano previsto che sarebbero state riaperte in un lasso di tempo di cinque-sei mesi dopo il disastro. In realtà, la maggior parte è stata riaperta molto prima. È stata una straordinaria prova di ciò che il settore privato giapponese può fare nel caso di una crisi, quando ognuno si rimbocca le maniche e si mette al lavoro. La risposta politica e del governo è stata l’opposto. Inizialmente, la crisi ha prodotto forti richiami dei politici al senso di unità nazionale, inviti a sospendere i giochi politici e a dare una risposta collettiva al disastro. Ma quella prima coesione è durata solo poche settimane. Da allora la politica è tornata allo stato disfunzionale, erratico e disunito in cui si trovava prima dell’11 marzo. Il Giappone ha cambiato il suo primo ministro cinque mesi dopo il disastro, e sia l’opposizione sia le grandi fazioni all’interno del partito di governo hanno costantemente manovrato per tentare di forzare la mano verso le elezioni. In un tale clima non sorprende che la pianificazione per la ricostruzione sia stata lenta, figuriamoci la sua attuazione. Questo ha anche rallentato la ripresa economica. Di solito dopo le catastrofi naturali, il Pil in un primo momento cade, ma poi rimbalza rapidamente perché il denaro viene speso in grandi quantità per la ricostruzione. Qualcosa del genere è successo subito, ma è stato neutralizzato dalle incertezze sulla politica e il governo, che hanno scoraggiato gli investimenti aziendali. La più grande e più duratura fonte di sfiducia, delusione e incertezza è stata l’energia nucleare. Un trend positivo è stato rappresentato dalla maggiore apertura da parte del governo e da un coinvolgimento più attivo delle organizzazioni non profit e delle fondazioni nell’indagare che cosa è andato storto. Ma è stata scioccante la rivelazione di quanto fossero addomesticati e inadeguati i controlli di prevenzione per gli incidenti nucleari, della rete di complicità tra legislatori, politici, media e affari per coprire i pericoli, di quanto il Paese sia stato vicino a un disastro ancora peggiore. Questo fa sì che in Giappone delusione, sfiducia e persino rabbia siano le eredità emotive più durature dell’ultimo anno. Ci vorrà molto tempo prima che quelle emozioni svaniscano. Tuttavia, un’altra emozione importante non dev’essere trascurata: è la tristezza per la sorte di quelle 19 mila persone in quel giorno incredibile di marzo, un anno fa. da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9871 Titolo: BILL EMMOTT. - I mercati chiedono altre risposte Inserito da: Admin - Aprile 11, 2012, 07:01:28 pm 11/4/2012
I mercati chiedono altre risposte BILL EMMOTT A dare retta ai mercati finanziari, la differenza tra un felice recupero e un imminente disastro risiede in 80.000 posti di lavoro in America, un Paese con una forza lavoro di 155 milioni di persone, oltre che in alcune notizie leggermente negative dalla Cina. Naturalmente questo non può essere vero, soprattutto da un punto di vista europeo. Eppure, lo spavento post-pasquale dei mercati ci ricorda qualcosa che è reale. È un errore prestare troppa attenzione, di là di una divertita ammirazione o dell’orrore, ai movimenti giornalieri o settimanali nei mercati azionari, obbligazionari o valutari. La ragione è semplice. E cioè che l'arte del trading finanziario non ha nulla a che fare con l'individuazione di reali tendenze economiche. È un’arte che ha semmai a che fare con l’interpretazione della psicologia di un branco di animali, che è una buona approssimazione per gli operatori finanziari. Per fare soldi, devi indovinare da che parte si metterà a correre la mandria. Che cosa succederà il giorno o la settimana o il mese successivo alla vostra attività non è del minimo interesse. E quindi un calo improvviso delle azioni o un aumento degli spread obbligazionari non indica che nell’economia mondiale sia cambiato qualcosa di sostanziale. L'economia statunitense sembrava avere una crescita moderata, di circa il 2-2,5% annuo, anche prima che i dati sui posti di lavoro a marzo provocassero una piccola delusione. Anche l’economia cinese stava già rallentando prima delle notizie un po' deludenti sull'inflazione e gli ordini di produzione. Eppure, dietro a tutto questo e al comportamento nervoso del mercato delle obbligazioni europee e delle azioni, si cela una verità fondamentale. Ovvero che né i problemi di debito sovrano della zona euro nel suo complesso, né quelli dell’Italia, in particolare, sono stati risolti. E ogni nuovo dato sulla crescita nell'eurozona e sulla disoccupazione oggi suggerisce che la recessione nell' area dell'euro, e in particolare nell'Europa meridionale, sta peggiorando. La crisi del debito sovrano è per metà semplice aritmetica e per metà ha a che fare con la volontà politica. La semplice aritmetica dice che se le economie di Spagna e Italia quest’anno andranno incontro a una recessione più grave di quanto previsto appena un paio di mesi fa, una o entrambe mancheranno gli obiettivi per ridurre i loro disavanzi pubblici. Ciò significa che se il presidente Monti è davvero determinato ad attenersi al patto fiscale europeo che ha firmato a dicembre, avrebbe bisogno di varare un'altra serie di manovre di bilancio, aumenti del prelievo fiscale e tagli di spesa. La mia scommessa è che questo probabilmente accadrà: che egli dovrà infrangere la promessa di non praticare quest’anno ulteriori tagli di bilancio. E qui entra in gioco la volontà politica. I mercati, il che significa le persone che comprano e vendono titoli di Stato, devono scommettere se la Spagna e l'Italia faranno o meno ciò che è necessario per rispettare i loro impegni nell’eurozona. Di per sé, è chiaro, ovviamente, che il premier Monti abbia davvero questa volontà politica. Ma non può essere considerato isolatamente. Le prime grandi questioni politiche che incombono sui mercati provengono da altri Paesi. Certamente dalla Grecia, dove i sondaggi d'opinione indicano che i principali vincitori delle prossime elezioni parlamentari del 6 maggio saranno i piccoli partiti anti-riforma e anti-austerità. Ma anche dalla Francia, dove una vittoria del socialista François Hollande al secondo turno delle elezioni presidenziali in quello stesso giorno potrebbe destabilizzare l’accordo fiscale della zona euro. Ma vi sono questioni politiche anche in Italia. Come Monti sa molto bene, le riforme condotte a termine durante i suoi quattro mesi in carica appaiono notevoli solo in confronto a quelle dei tre governi che l’hanno preceduto. Non lo sono rispetto alla dimensione del compito. Ha avviato un importante ma modesto programma di liberalizzazione, ha dato un piccolo stimolo alle forze della concorrenza, e, se riuscirà a diventare legge, ha varato una riforma importante ma non epocale delle leggi sul lavoro. Nessun acquirente di titoli di Stato italiani può averne tratto la conclusione che le prospettive di crescita economica dell'Italia siano state così trasformate. Il calo dei rendimenti dei titoli di Stato italiani deve qualcosa alla credibilità e alle riforme del governo Monti ma molto di più all’enorme sussidio da parte della Banca centrale europea, sotto forma di prestiti triennali agevolati alle banche europee che sono state convinte, soprattutto quelle italiane, a prendersi un po’ di più del debito italiano. Così non dovrebbe sorprendere nessuno che le cattive notizie economiche abbiano convinto gli operatori finanziari a scommettere che il branco del mercato obbligazionario sarebbe scappato dall’Italia. Era una buona e facile scommessa a breve termine. La domanda è se potrebbe anche diventare una buona scommessa a lungo termine. La risposta giace nella profondità della recessione italiana, nelle onde politiche che emergono dalla Grecia e dalla Francia, nella capacità del governo Monti di far passare ulteriori riforme, e, in definitiva, dalla possibilità che questa fase di riforme possa durare. Se si crede che sarà giusto, nel migliore dei casi, un fenomeno passeggero, questione di un anno, una transizione tra una politica vecchia e una ancora più vecchia, allora non ci può essere alcun dubbio: la mandria fuggirà in preda al panico. Traduzione di Carla Reschia da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9982 Titolo: BILL EMMOTT. - La nuova via dell'Europa nasce dai voti di protesta Inserito da: Admin - Maggio 06, 2012, 04:56:40 pm 6/5/2012
La nuova via dell'Europa nasce dai voti di protesta BILL EMMOTT La democrazia è, essenzialmente, un meccanismo di controllo, di responsabilità. Dunque le elezioni sono l’occasione per esprimere la rabbia, per protestare, per punire chi è stato al governo nei periodi difficili. Il voto di oggi, in Francia, Grecia, Italia e Germania, così come le consultazioni locali il 3 maggio in Gran Bretagna, sarà principalmente un momento di protesta. Ma potrebbe anche costituire un punto di svolta. La protesta non sorprende considerando che gran parte dell’Europa occidentale è alla sua seconda recessione nel giro di cinque anni, i disoccupati sono almeno un decimo della forza lavoro e la disoccupazione giovanile è al 30% in Italia e 50% in Spagna e Grecia. E in particolare non sorprende perché c’è così poco in cui sperare o essere ottimisti. La politica dei governi dell’Eurozona è dominata dall’austerità fiscale, dalla riduzione dei deficit di bilancio attraverso l’aumento delle tasse e dalla riduzione della spesa pubblica. Per quei Paesi, come l’Italia, con un debito pubblico così ingente che i creditori non sono più disposti a finanziarlo salvo che non sia tagliato, l’austerità è inevitabile, ma garantisce recessione, disoccupazione e mancanza di speranza, almeno quando è l’unica politica e viene presentata come la sola strada percorribile. Le politiche pubbliche dominate dall’austerità, il mantra sulla disciplina fiscale come unica direzione possibile, sono ciò che rendono le elezioni di oggi, in particolare quelle in Grecia e in Francia, un potenziale punto di svolta. La difficoltà nel prevedere ciò che porteranno, tuttavia, deriva dal fatto che la Grecia e la Francia potrebbero, potenzialmente, indirizzare l’Europa su nuove vie. Le elezioni parlamentari greche sono importanti perché nel corpo dei 17 Paesi dell’Eurozona, la Grecia è la parte più malata, l’arto in cancrena. La sua economia è in recessione per il quarto anno consecutivo. Nonostante i diversi massicci salvataggi finanziari e i grossi sconti sul suo debito pubblico da parte dei creditori privati, la Grecia con ogni evidenza continua a non riuscire ad affrontare il suo attuale livello di debito. Si dovrà scovare qualche nuova soluzione. Come in tutte le elezioni europee oggi in Grecia i partiti estremisti e di protesta hanno buone prospettive. Ma mentre un largo consenso per il Movimento Cinque Stelle di Beppe Grillo non trasformerà la politica italiana o cambierà le politiche del presidente Monti, molti voti agli estremisti greci, inclusa, soprattutto, l’ultra-destra dell’Alba d’oro, potrebbero trasformare la politica greca e il suo percorso se basteranno a fare sì che i due principali grandi partiti, Nea Demokratia e il socialista Pasok, non saranno in grado di avere la maggioranza in una coalizione. Il modo più importante in cui tali soggetti potrebbero trasformare la politica greca è cambiare il rapporto di forze in Parlamento, orientandolo contro la prosecuzione dell’austerità e delle riforme, il che significa quasi certamente contro il proseguimento dell’adesione all’euro. La maggior parte degli economisti privati hanno a lungo considerato che un completo default del debito greco sia più o meno inevitabile, ma hanno previsto che questo momento non sarebbe arrivato fino al 2013, quando l’austerità fiscale potrebbe essere progredita abbastanza da permettere al Paese di sopravvivere senza nuovi prestiti stranieri. Ma un voto di grandi proporzioni per i partiti estremisti oggi potrebbe avvicinare la data del default. L’uscita della Grecia dall’euro sarebbe, a parere di questo commentatore economico britannico almeno, salutare per l’euro, così come è bene, per un corpo umano, se un arto in cancrena viene amputato. Ma, proprio come in un’operazione chirurgica, ci sarebbero rischi, in particolare il panico dei mercati obbligazionari e forse nuovi crolli tra le banche europee. Sarebbe un momento molto pericoloso. Vale anche per la Francia se questo Paese oggi elegge come suo presidente François Hollande, il socialista? No, non nello stesso modo. A differenza del presidente Nicolas Sarkozy, il signor Hollande è un tipico membro dell’élite francese, educato in una delle sue «grandes écoles». Non sarà un pericoloso radicale. Ma la sua elezione potrebbe cambiare tutto il dibattito europeo sulla crescita economica. Una vittoria di Hollande causerà, questo sì, qualche pericolo a breve termine. Questo deriva dal fatto che a giugno in Francia si terranno anche le elezioni generali parlamentari, e così il signor Hollande saprà quanto potrà essere forte il suo governo solo dopo il voto di giugno. Egli, in effetti, dovrà fare campagna elettorale ancora per un mese, nella speranza di influenzare i sondaggi e questo aumenterà l’incertezza che circonda l’Europa. Principalmente, però, l’elezione di Hollande sarà importante perché promette di rilanciare o forse, per meglio dire, destabilizzare, le relazioni inter-governative centrali in Europa, che sono quelle tra Germania e Francia, prima di tutto, e poi tra questi due e gli altri grandi Paesi, il che significa Italia, Spagna, Paesi Bassi e, in modo più distaccato, Gran Bretagna. François Hollande ha detto che vuole un nuovo accento sulla crescita e che per ottenerlo rinegozierà il trattato fiscale di dicembre. La questione che rimane da risolvere è cosa questo può e vuole dire. Non significa una modifica delle norme che disciplinano il deficit di bilancio e il debito: la Germania non accetterà un tale cambiamento e la Francia non avrebbe il coraggio di chiederlo. Ma potrebbe significare due altre cose. Un «patto per crescere», come ha chiesto il presidente della Banca centrale europea Mario Draghi, può significare soltanto una combinazione di liberalizzazione del mercato e maggiori investimenti pubblici nelle infrastrutture. La liberalizzazione del mercato, sotto forma di un esteso e approfondito Mercato unico europeo, è quello che ha chiesto a febbraio Mario Monti nella lettera agli altri governi europei, firmata anche dal britannico David Cameron e da altri nove. Finora la Francia si è opposta e il signor Hollande ha fatto una campagna contro la liberalizzazione. L’altro aspetto, e cioè gli investimenti pubblici, è possibile solo se i Paesi con buoni rating e bassi costi finanziari decidono di finanziarli. Questo dovrebbe essere fatto attraverso una grande espansione della Banca europea per gli investimenti, con capitali provenienti principalmente dalla Germania e da altri creditori. Perché la Germania dovrebbe essere d’accordo? La prima risposta è che i tedeschi, come tutti gli altri, si rendono conto che la recessione protratta a lungo è politicamente pericolosa. Più a lungo si va avanti, più i partiti estremisti ne trarranno vantaggio. La seconda risposta è che se la Francia dovesse fare un patto con l’Italia e gli altri Paesi, e almeno appoggiare la liberalizzazione del mercato, ci sarebbe la possibilità di un ritorno: più investimenti pubblici in cambio di una riforma più strutturale, che i tedeschi dovrebbero approvare. In tali circostanze sarebbe difficile per la Germania bloccare una direzione completamente supportata da Mario Monti. E la terza risposta è che anche la Germania andrà presto al voto, nell’autunno del 2013. Se per allora, la situazione economica europea sarà ulteriormente peggiorata, allora anche il Cancelliere Angela Merkel dovrà affrontare le proteste. I suoi partner di coalizione, i liberaldemocratici, sono praticamente morti come partito politico. Nel 2013 la sua scelta di un nuovo partner cadrà sul partito dei Verdi o su una grande coalizione con il partito socialdemocratico, il principale movimento di opposizione. Lei allora sarà in una posizione più forte se sarà vista come chi ha davvero salvato l’euro e con esso l’economia europea. Le elezioni di oggi in Grecia potrebbero essere pericolose per questo progetto, le elezioni in Francia, lo metteranno in discussione, ma con la Francia, almeno, un accordo è possibile. (Traduzione di Carla Reschia) da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10067 Titolo: BILL EMMOTT. - E' necessario affrontare la verità Inserito da: Admin - Giugno 10, 2012, 11:22:02 pm 10/6/2012
E' necessario affrontare la verità BILL EMMOTT Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano aveva ragione a dire, lo scorso novembre, al momento dell’insediamento del nuovo governo Monti, che era tempo di dire e guardare in faccia la verità. Purtroppo poche persone sembrano averlo ascoltato. Anche tra i governi leader della zona euro, dove è ancora più necessario affrontare la verità. La necessità di affrontare la verità sull’Eurozona è la più urgente, in Italia se si continua a non riconoscere la verità, il fallimento potrebbe rivelarsi ancora più tragico. La verità sull’Eurozona comincia con la situazione attuale. Ovvero che fin dall’inizio della crisi del debito sovrano, circa due anni fa, le politiche condotte da Germania e Francia e seguite dal resto della zona hanno rappresentato dei tentativi di rinviare il problema, per guadagnare tempo. La speranza era che nel tempo così guadagnato il piccolo Paese problematico, la Grecia, sarebbe riuscito a stabilizzare le sue finanze pubbliche, e anche i grandi Paesi problematici, Italia e Spagna, avrebbero messo sotto controllo i loro debiti riuscendo anche a riformare il loro mercato del lavoro e a stimolare la competitività. Questa politica è servita a guadagnare tempo, ma quel tempo ormai è esaurito, per cui la politica è diventata controproducente. I Paesi dell’Europa meridionale sono intrappolati in una spirale economica discendente, una spirale di morte: i tagli di bilancio fanno rallentare le loro economie, un processo che scoraggia le imprese dal prestare o investire soldi, indebolendole ulteriormente. Il risultato in Spagna e in Italia è che due Paesi europei che nel 2008-10 potevano vantare la buona organizzazione e la solidità dei loro sistemi bancari ora hanno banche deboli e fragili. Il mercato immobiliare spagnolo continua a generare debiti sempre più alti mentre l’economia declina, che è poi il motivo che ha costretto il governo spagnolo a chiedere fondi internazionali per ricapitalizzare le banche. Quelle italiane detengono troppi titoli di Stato nazionali sul cui valore i mercati ora s’interrogano, e i loro clienti sono sempre più deboli. La disciplina fiscale, secondo le regole del Trattato di bilancio inter-governativo lanciato lo scorso dicembre, è la grande idea dell’Eurozona per affrontare questi problemi. Alcuni la definiscono «un’unione fiscale». Ma la verità è che non si tratta affatto di un’unione fiscale, che richiederebbe un ministero delle Finanze comunitario che da Bruxelles imposti una politica che rifletta le situazioni economiche nei 17 Stati dell’Eurozona. Al contrario, il Trattato stabilisce solo un insieme condiviso di regole fiscali, da applicare quasi a prescindere dalla situazione economica di ogni Paese. È possibile che si possa guadagnare ancora un po’ di tempo: forse grazie agli elettori greci che potrebbero anche non scegliere un governo anti-austerità, ma piuttosto uno che sostenga ancora il corso attuale; e forse, anche già questo fine settimana, grazie a un accordo a sostegno delle banche spagnole, che eliminerebbe uno dei più grandi timori su ciò che potrebbe accadere se i greci votassero per il partito di estrema sinistra Syriza e finissero per non onorare i loro debiti. La Spagna, almeno, non collasserebbe. Ma la spirale discendente continuerebbe. Perché non si è fatto nulla per fermarla? Non è perché i politici tedeschi o francesi o gli altri non capiscano la situazione. È perché non sono ancora riusciti ad affrontare la verità sull’euro. Il fatto è che nel 1999 la moneta unica è nata all’insegna della solidarietà, ma in una realtà di responsabilità nazionali separate. La pretesa della solidarietà ha fatto sì che le regole macro-economiche che erano state stabilite nel Trattato di Maastricht del 1992 fossero immediatamente distrutte, dal momento che avrebbero dovuto impedire nel 1999 l’adesione dell’Italia e nel 2001 quella della Grecia. La realtà della responsabilità nazionale - ciascuno deve fare i conti con i propri debiti e il proprio sistema bancario - ha fatto sì che la solidarietà fosse una finzione. La verità superficiale su questo punto è che i tedeschi vogliono che la responsabilità resti nazionale, così come gli olandesi e alcuni altri, e che i francesi vogliono una solidarietà più vera. Una cosa sorprendente dei mercati dell’Eurozona nel corso dei due anni di crisi – il fatto che non siano mai stati veramente boicottati dagli investitori preoccupati - si spiega con il fatto che abbastanza investitori sembrano aver creduto che, alla fine, la Germania avrebbe ceduto e accettato la solidarietà. Può essere. Ma stiamo esaurendo il tempo per scoprirlo. E intanto il problema potrebbe essere che il gusto per la solidarietà in Francia e in altri Paesi della zona euro, tra cui probabilmente l’Italia, è in declino. In molti Paesi la politica nazionale si sta rivoltando contro l’euro e le sue regole di austerità. Uno scenario da incubo potrebbe essere quello in cui i tedeschi finalmente accettano la solidarietà, proprio quando gli altri grandi Paesi sono costretti nella direzione opposta dalla rabbia dei loro elettori. Nel breve termine, una soluzione basata su una qualche forma di solidarietà appare inevitabile: un salvataggio internazionale per le banche spagnole: idealmente qualche stimolo fiscale nei ricchi Paesi del Nord Europa, una forma limitata di obbligazioni garantite collettivamente, dedicate o agli investimenti nelle infrastrutture o al ripianamento della fetta maggiore del debito irlandese, portoghese e spagnolo, per esempio. Eppure, è importante ascoltare con attenzione la cancelliera Angela Mer-kel. Lei dice che l’Europa deve avere una maggiore integrazione politica ed economica. Ciò suggerisce chi vede i controlli collettivi, una cessione di sovranità, come pre-condizione per la solidarietà. Se è così, questo potrebbe rallentare il decorso delle cose, così come verificare se gli elettori della zona euro sono veramente disposti a vedere scomparire una maggiore autonomia. Questa non sembra essere l’opinione di Beppe Grillo, in ogni caso. Perché a questo osservatore britannico sembra che in Italia la verità non sia stata accettata. Il governo Monti è in carica da sei mesi, il che potrebbe significare quasi due terzi del suo mandato, se i partiti politici insisteranno per elezioni anticipate a ottobre. Ma quante cose sono realmente cambiate? Il principale risultato del governo Monti è stato quello iniziale: il rigore di bilancio. Questo è stato un grande obiettivo, che ha reso l’Italia l’unico Paese della zona euro davvero in grado di soddisfare le regole di bilancio. Ma non è stato accompagnato da alcuna sostanziale liberalizzazione del mercato, e neppure dalla pur molto discussa legge di riforma del mercato del lavoro. Gruppi di interesse di tutti i tipi, dai sindacati alle imprese agli stessi partiti politici, hanno bloccato il cambiamento. Questa forse non è una sorpresa per gli italiani ormai logorati. Ma agli osservatori stranieri sembra una tragedia. Lo sarebbe davvero se l’Italia, già vulnerabile a causa del suo enorme debito pubblico, ponesse fine a quest’anno di governo tecnico con poche riforme sostanziali e un’economia e una società non meglio preparate ad affrontare qualunque tempesta possa arrivare dal resto dell'Europa. Traduzione di Carla Reschia da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10212 Titolo: BILL EMMOTT. - Il rischio-Ue che spaventa il mondo Inserito da: Admin - Luglio 22, 2012, 11:30:06 am 22/7/2012
Il rischio-Ue che spaventa il mondo BILL EMMOTT Noi qui nell’emisfero settentrionale stiamo per iniziare le nostre vacanze estive in uno stato d’animo cupo, in parte perché alla nostra malinconia si sono unite alcune delle economie emergenti del Sud del mondo. Ma la parola più importante da tenere a mente, quella che sta davvero determinando gli atteggiamenti dei mercati finanziari e anche delle gestioni aziendali, non è tristezza. È rischio. Se si dovessero guardare solo le previsioni economiche appena riviste, pubblicate dal Fondo Monetario Internazionale la scorsa settimana, si vedrebbe solo buio. L’Fmi ha tagliato la sua stima di crescita economica globale nel 2012 al 3,5%, grazie al rallentamento della crescita in Cina, India e Brasile, ma anche grazie alla recessione dell’euro-zona. Il Fmi quest’anno prevede un calo del Pil della zona euro dello 0,3%, che scende a un preoccupante 1,9% in Italia e 1,5% in Spagna. Questi dati seguono la crescita mondiale del 5,3% nel 2010 e del 3,9% nel 2011, così è chiaro che la tendenza è tristemente al ribasso. Gli Stati Uniti sembrano relativamente in salute con previsioni di crescita del 2% per quest’anno, due volte di più della Germania (e dieci volte di più dello stagnante 0,2% della Gran Bretagna). Ma anche con questi numeri la crescita è troppo lenta per avere molto impatto sulla disoccupazione tanto più che la popolazione degli Stati Uniti e la sua forza lavoro sono in crescita. Eppure questo genere di numeri mi riporta indietro nel tempo. Durante il mio incarico come direttore di The Economist, ricordo la pubblicazione di una copertina, penso fosse nel settembre 2002, che descriveva l’economia mondiale come «in stasi», con questo volevo dire che era come una nave a vela che non si muoveva perché c’era assenza di vento. Ciò si basava sulle previsioni di crescita del Fmi per il 2002 - ancora più basse per il 2003. Allora cosa successe? In realtà il mondo, tra il 2002 e il 2007, ha avuto i cinque anni di crescita economica più veloce degli ultimi 40 e passa anni. Sarebbe bello pensare che possa accadere di nuovo, e che salti fuori che noi tutti siamo stati troppo pessimisti. Non è impossibile: le economie emergenti sono probabilmente solo in un rallentamento temporaneo, causato dal loro sforzi per ridurre l’inflazione dei prezzi e gli Stati Uniti hanno una notevole capacità di reinventarsi, come ora stanno facendo con il boom del petrolio e del gas. Ma siamo realisti: non è probabile. E la ragione principale non risiede in Cina o negli Stati Uniti. Si trova nel rischio, o piuttosto nei sentimenti che le aziende e gli investitori hanno ora circa il rischio. Anche se la guerra in Afghanistan era iniziata nel 2001 e nel 2003 stava per iniziare in Iraq, in realtà le imprese, in quei giorni non percepivano grossi rischi nella loro attività, nei loro mercati, nei loro investimenti. Mentre ora sì. Ovviamente, gli investitori e i manager sono sempre preoccupati del rischio. Questo è il loro lavoro. Ma la differenza, ora, è che percepiscono che la gamma dei rischi è molto più ampia, la gamma di possibili eventi drammatici è più vasta rispetto al 2002. La rivolta araba, con la guerra civile in corso in Siria, è un esempio, soprattutto se si associa alla tensione sul programma nucleare iraniano: questo rende il prezzo dell’energia ancor più imprevedibile del solito. Il risultato è che l’utile e ben accolta caduta dei prezzi del petrolio che si è verificata negli ultimi mesi si è parzialmente invertita. Le preoccupazioni per l’economia cinese e la sua stabilità politica dopo lo scandalo e le accuse di omicidio contro Bo Xilai, ex sindaco della Chicago cinese, Chongqing, rientrano in una categoria simile. E sono, a mio avviso, esagerate: la capacità del governo di sostenere la crescita attraverso la politica monetaria e fiscale rimane forte. Ma in un momento di generale nervosismo sul rischio sembra che alcune aziende non investano perché in allarme per il futuro della Cina. Anche così, la più grande fonte di preoccupazione è molto più vicina a casa. È l’Europa. Il problema non è semplicemente il fatto che i debiti governativi sono enormi, che la crescita è inesistente e che vi è un fondamentale disaccordo tra i Paesi debitori e quelli creditori su come dovrebbe essere gestito l’euro. Certo, queste cose sono importanti. Ma il vero problema è che la gamma dei possibili esiti sembra così ampia. Come può una società pianificare i propri investimenti tenendo conto della possibilità dell’uscita greca dall’euro? Che percentuale di probabilità dovrebbe dare alla possibilità che altri Paesi possano lasciare l’euro, o che la moneta possa crollare del tutto? Che cosa dovrebbero pensare le imprese delle prossime elezioni italiane, con Beppe Grillo e Silvio Berlusconi che, entrambi, riflettono ad alta voce sul fatto che l’Italia debba abbandonare l’euro? La risposta intellettuale, o analitica, è che le probabilità dell’uscita greca sono alte ma la probabilità che lascino altri Paesi o quella di un collasso completo sono molto basse. La possibilità che l’l’Italia lasci l’euro e vada in default è inesistente: ogni banca italiana crollerebbe immediatamente. Ciò che si sente spesso dire in Paesi al di fuori dell’area dell’euro, in particolare in America, e cioè la scissione della valuta in due, con due diverse valute comuni, una per il Nord e l’altra per il Sud dell’Europa è, a mio avviso, praticamente inconcepibile. Tuttavia, in questo momento la nostra difficoltà è che le risposte intellettuali e analitiche non sono sufficienti. I consigli d’amministrazione e le istituzioni finanziarie devono prendere decisioni. Quello che stanno facendo sempre di più, in risposta a questa incertezza sull’euro, e sull’Italia, è di non investire affatto. Si sono seduti sul loro denaro, o lo mettono, in condizioni di scarsa resa, in luoghi apparentemente sicuri, come i Bund tedeschi. Questo processo sta diventando una profezia che si auto-avvera. La liquidità sta scivolando lontano dalle economie della zona euro e, per motivi diversi ma correlati, anche dall’economia britannica. Gli investitori in Grecia non stanno facendo quello che farebbero normalmente dopo una crisi finanziaria, ovvero correre a caccia di buoni affari. Pensano che in futuro i prezzi potrebbero scendere ulteriormente e che la Grecia avrà una nuova crisi. Se c’è una cosa che i governi, soprattutto quelli europei, hanno bisogno di pensare durante le vacanze è come ridurre queste percezioni di rischio. Come si possono convincere le aziende e gli investitori che la gamma degli esiti possibili non è così ampia come temono? C’è disponibilità di cassa in abbondanza. Solo, non viene spesa. Traduzione di Carla Reschia da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10358 Titolo: BILL EMMOTT. - L'eredità politica dei Giochi Inserito da: Admin - Agosto 05, 2012, 07:39:27 pm 5/8/2012
L'eredità politica dei Giochi BILL EMMOTT Dovremmo probabilmente ringraziare Mitt Romney. Prima che il candidato repubblicano alla Casa Bianca arrivasse a Londra e commettesse l’errore di dubitare pubblicamente della preparazione britannica per le Olimpiadi, e ancora peggio, di quanto davvero ci piacesse l’idea dei Giochi, eravamo in effetti un po’ scontrosi e un po’ apatici sull’argomento. Ma da allora l’evento è diventato un grande festival patriottico, un simbolo di unità in una terra di solito litigiosa. È una reazione comune: la maggior parte dei Paesi sono felici quando possono criticarsi, ma sono molto meno contenti quando a farlo sono gli stranieri. E probabilmente Mitt Romney non ne aveva neppure l’intenzione. Ma adesso, proprio nel mezzo di questi Giochi, la questione è ancora delicata, e non poco sorprendente. L’evento sta raccogliendo un grande successo tra la gente, non soltanto nel mondo ma anche a casa, provocando un sentimento nazionalistico piuttosto straordinario. Un esempio è la Bbc, che noi britannici con orgoglio e patriottismo tendiamo a considerare la migliore televisione delmondo,ma anche quella con la mentalità più internazionale. Eppure, almeno sui canali nazionali, la Bbc sta seguendo i Giochi come se vi partecipasse un paese solo: la Gran Bretagna. Ogni giorno i titoli di testa sono per i più recenti successi della squadra inglese, il «TeamGB» come la chiamano. Gli altri 203 paesi sono a malapena menzionati, non importa quanti record i loro atleti e le loro atlete possano battere. uesto è stato in parte il riflesso di una partenza lenta: ci sono voluti diversi giorni prima che la squadra inglese vincesse la prima medaglia d’oro. Ma rispecchia anche un grande investimento nazionale nello sport, come anche in altre forme di cultura, durante gli ultimi dieci - quindici anni, con mezzi finanziari innovativi: anziché impiegare i soldi dei contribuenti, che una volta erano la risorsa per sostenere lo sport, la maggior parte dei fondi è stata raccolta dalla Lotteria Nazionale, gestita privatamente, e da altri sponsor privati. Quindi proprio come la Tate Modern, che dalla sua apertura nel 2000 è diventata la galleria d’arte contemporanea più di successo del mondo, grazie principalmente alle donazioni private, la Gran Bretagna ha improvvisamente iniziato a raccogliere risultati eccezionali alle Olimpiadi per la stessa ragione. Siamo un po’ tutti nazionalisti quando si tratta di sport. Ma il nazionalismo inglese di quest’anno è comunque sorprendente, per tre ragioni. La prima è che il nostro non è un Paese molto unito. A rugby o a calcio giochiamo con nazionali separate: Scozia, Galles, Inghilterra e l’Irlanda delNord.Ein politica gli scozzesi si stanno muovendo per ottenere l’indipendenza. Il secondo motivo è che la cultura britannica, e qui in realtà voglio dire inglese, tende a celebrare la sconfitta, se pur coraggiosa. Ci aspettiamo di perdere ai rigori con l’Italia o con la Germania. Nel tennis non ci aspettiamo di vincere a Wimbledon. Siamo persino convinti che andremo malissimo a cricket. Ma c’è una terza e più importante ragione. Esattamente un anno fa, il 6 agosto, Londra fu travolta dalle rivolte, un’ondata d’incendi, saccheggi e violenze che in poco tempo invase anche altre città. Finì dopo quattro o cinque giorni. Ma portò a un lungo periodo di esame di coscienza nazionale sulle divisioni tra ricchi e poveri, delinquenti e rispettosi, soddisfatti e alienati. Nessuno credette allora che la Gran Bretagna fosse un paese in pace con se stesso, unito dalla sua «Britishness”. E poi una settimana fa è arrivata la Cerimonia di Apertura dei Giochi diretta da Danny Boyle. Probabilmente ha provocato più di una scrollata di spalle dalle parti più povere di Tottenham, dove sono iniziate le rivolte dell’anno scorso, a circa un chilometro dal Parco Olimpico, ma di sicuro nessuna ostilità. In effetti, i britannici sembrano piuttosto uniti nel loro orgoglio: abbiamo pensato fosse un po’ pazza, un po’ sentimentale, molto creativa e con un colpo di genio nell’inclusione della Regina Elisabetta e il suo cammeo con James Bond. Una nazione che sa essere creativa, sa essere seria, ma riesce a ridere di se stessa: così agli inglesi piace vedersi, e la partecipazione della Regina ha colto questo aspetto alla perfezione. Il giorno dopo, mentre passeggiava per le sedi olimpiche con il sindaco di Londra, Boris Johnson, la Regina è stata sentita mentre commentava la sua comparsa nella cerimonia come «un po’ ridicola ». All’uomo con cui stava parlando quella frase sarà piaciuta tantissimo. Perché tra il fervore nazionalistico, l’entusiasmo per l’intero evento, e l’atmosfera generale di pensiero positivo anche nel bel mezzo della recessione e delle diseguaglianze sociali, c’è stato un grande beneficiario politico: proprio Boris Johnson. Il sindaco di Londra è una strana creatura politica. È membro del partito conservatore, ma si permette di criticare il suo stesso governo. Sembra molto inglese e anche Euroscettico, eppure suo nonno era turco, sua nonna russa, e suo padre lavorava come funzionario alla Commissione Europea a Bruxelles.Èmolto più attento al tema dell’immigrazione della maggior parte dei suoi colleghi conservatori. Agli occhi degli inglesi appare un po’ come una caricatura aristocratica, con il suo linguaggio a volte tratto dai libri per bambini degli Anni Trenta; eppure è popolare, perché comunica comunque bene con il pubblico. Agli inglesi piacciono le sue barzellette, il suo ottimismo, la sua franchezza, e la sua vita privata a volte spericolata. In effetti queste sue caratteristiche lo fanno somigliare non poco a Silvio Berlusconi, un politico su cui Johnson scrisse un ritratto pieno di ammirazione quando era direttore del settimanale di destra «The Spectator». Gli mancano naturalmente altri punti di forza di Berlusconi come i soldi e il potere mediatico. Ma ciò in cui gli assomiglia maggiormente è il desiderio costante di essere positivo. Come risultato, gli analisti politici inglesi hanno iniziato a discutere se Johnson riuscirà alla fine a diventare Primo Ministro, anche sconfiggendo alle primarie l’attuale premier e leader del partito conservatore David Cameron. Sono tutti d’accordo che non ci riuscirà, perché i britannici, specialmente quelli che vivono fuori Londra, sono troppo cinici e critici dei loro politici per eleggere qualcuno che racconta barzellette, per quanto brillanti. Io non sarei così sicuro. Le Olimpiadi hanno dimostrato quanto gli inglesi amino lo spettacolo, e quanto adorino prenderne parte. Quest’anno abbiamo anche celebrato il sessantesimo anniversario della salita al trono della Regina Elisabetta, e anche quella è stata una festa memorabile e piena di ottimismo, nonostante il tradizionale maltempo inglese. In una grande città internazionale come Londra, le Olimpiadi difficilmente lasceranno un segno duraturo. Ci occuperemo di altre cose abbastanza rapidamente. Ma nella politica nazionale, e nello stato d’animo nazionale, potrebbe rimanere un segno. Stiamo mostrando che ci piace vincere, e che in questo momento ci piace stare ad ascoltare leader fiduciosi e positivi. Boris Johnson sarà un uomo da tenere d’occhio. Traduzione a cura di Clara Colombatto da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10405 Titolo: BILL EMMOTT. - Un rebus in tre punti per l'Euro Inserito da: Admin - Settembre 10, 2012, 08:45:49 pm 9/9/2012
Un rebus in tre punti per l'Euro BILL EMMOTT Sarebbe bello prevedere che l’autunno porterà un po’ di sole alle nostre cupe economie europee, una luce alla fine del tunnel della crisi dell’euro. Purtroppo, però, sarebbe avventato presumerlo, anche dopo l’importante annuncio di Mario Draghi, giovedì, alla Banca centrale europea. Perché nessuno dei tre principali problemi che affliggono l’euro è stato ancora risolto. E’ vero che il quadro non pare molto più felice dall’altra parte della Manica, in Gran Bretagna o dall’altra parte dell’Atlantico negli Stati Uniti. La scorsa settimana il primo ministro britannico, David Cameron, ha annunciato un pacchetto di misure presumibilmente intese a rafforzare la crescita economica, ma il pacchetto, in definitiva, era vuoto: ha dimostrato che il suo governo non sa cosa fare. Allo stesso modo, il presidente Barack Obama nel suo discorso alla Convenzione del partito democratico non è riuscito a delineare un vero programma di quello che vorrebbe fare se a novembre sarà rieletto presidente. Almeno il presidente della Bce, Draghi sa cosa fare: «Tutto il possibile», e, se necessario, comprerà titoli di Stato italiani o spagnoli in misura sufficiente a ridurre a livelli accettabili i costi di finanziamento di tali Paesi. In altre parole, nella sua visione, occorre rimuovere il premio caricato dagli istituti di credito sui governi per coprire il rischio di un crollo dell’euro. L’euro non sta per crollare, dice, quindi non c’è bisogno di un premio. Si tratta di un piano ingegnoso e rappresenta un notevole progresso che Draghi sia riuscito ad annunciarlo nonostante l’opposizione politica tedesca. Se dovesse funzionare, potrebbe addirittura riportare il sorriso sui volti del primo ministro Cameron e del presidente Obama, perché loro sanno che la recessione e il possibile crollo della zona euro deprimono le loro economie e rendono più guardinghe le loro aziende. Ma anche se il piano di Draghi è necessario e anche se può riuscire a far sì che non siano solo i mercati finanziari a determinare il futuro dell’euro, non basta a risolvere l’inghippo dell’eurozona. Questo rebus ha tre punti. Il primo è pratico: come ristabilizzare la moneta europea, come vogliono i tedeschi, gli olandesi e gli altri Paesi creditori del Nord Europa, in base a rigorose norme di bilancio e a severe condizioni per eventuali salvataggi, finché c’è un Paese membro - la Grecia - che notoriamente non può obbedire alle regole e avrà inevitabilmente bisogno di altri aiuti? Espellere la Grecia metterà in pericolo la moneta e il sistema bancario europeo, ma tenerla come membro mina la credibilità di tutte le regole e le «condizioni» a cui la Germania e Draghi fanno riferimento. Su questo non è stato fatto alcun progresso e per la fine di settembre occorrerà decidere per un nuovo salvataggio della Grecia. Il secondo è politico. Se, come dicono i creditori, la mutualizzazione del debito, un’unione bancaria e le misure di solidarietà del tipo appena annunciato da Draghi richiedono un passo verso l’unione politica e il trasferimento di sovranità alle istituzioni europee di tutti i tipi, come può accadere ciò in un frangente in cui l’andamento della politica nazionale in tutta l’Unione Europea si sta muovendo virtualmente nella direzione opposta? Il voto olandese del 12 settembre sarà un test per questo. Ma anche se la politica nazionale non si muove attivamente verso una posizione anti-euro, dappertutto, e particolarmente in Germania c’è resistenza a una maggiore centralizzazione. Il terzo e ultimo enigma è di natura economica, ma alla fine è politico, ed è meglio illustrato dall’Italia stessa. La domanda è come la moneta, e con essa le società e le democrazie dell’Europa occidentale, possono essere salvate dalla sola austerità fiscale. L’Italia illustra quest’aspetto attraverso la combinazione dei tagli di bilancio del governo Monti, che erano necessari per rispettare gli impegni europei e rassicurare gli investitori internazionali, e una profonda recessione. E anche attraverso i frequenti riferimenti del presidente Monti alla «buona condotta» dell’Italia e al fatto che i suoi «fondamentali economici» non giustificano gli elevati costi di finanziamento. Queste affermazioni sono del tutto vere se si guarda solo alla politica fiscale. L’Italia è virtuosa, obbedisce alle regole dell’eurozona e presenta un deficit di bilancio di gran lunga inferiore rispetto alla Gran Bretagna. Ma non sono vere se si guardano la crescita economica e le sue prospettive. Senza la crescita economica, il debito sovrano dell’Italia crescerà a una percentuale ancora più elevata del Pil, e molto probabilmente il presidente Monti non raggiungerà del tutto i suoi obiettivi di bilancio. E, cosa più importante, senza la prospettiva di un ritorno alla crescita economica, la situazione politica potrebbe rivelarsi abbastanza brutta. Gli italiani questo lo sanno, naturalmente. Ma come molti altri europei, sono anche riluttanti ad accettare il tipo di riforme di liberalizzazione che vorrebbero il presidente Monti e altri come lui. Il mondo europeo è troppo definito dall’austerità, dal sacrificio, dalle misure di salvataggio un po’ difficili da comprendere, come quelle della Banca centrale europea. L’ingrediente mancante è quello che il presidente François Hollande ha messo in luce in primavera durante la sua campagna elettorale, ma che da allora è caduto nel dimenticatoio: un riequilibrio della politica europea verso la crescita, con l’allentamento fiscale al Nord e la liberalizzazione al Sud. Miracoli esclusi, finché questo non accade, e fino a quando gli altri due enigmi dell’eurozona non saranno adeguatamente affrontati, l’Europa è destinata a continuare a zoppicare, da una crisi all’altra. Traduzione di Carla Reschia da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10505 Titolo: BILL EMMOTT. - Cina-Giappone, la contesa che fa paura al mondo Inserito da: Admin - Settembre 26, 2012, 03:43:22 pm 22/9/2012
Cina-Giappone, la contesa che fa paura al mondo BILL EMMOTT Il mondo è giustamente preoccupato dalla guerra civile in Siria, e dalla violenza antioccidentale nei Paesi arabi e nelle altre nazioni islamiche in risposta al noto film amatoriale che attaccava il Profeta. Ma c’è anche un’altra serie di tensioni di cui preoccuparsi: quelle tra Cina e Giappone. Molto probabilmente, alla fine rientreranno e tornerà la calma. Tuttavia, vi è un rischio significativo che non andrà così. Si potrebbe anche arrivare a un conflitto. Viste da migliaia di chilometri di distanza, le questioni in gioco sembrano banali, persino assurde. Poche piccole isole nel Mar Cinese Orientale, note in Giappone come Senkaku e in Cina come Diaoyu, una manciata di rocce, di questo stanno discutendo la seconda e la terza economia più grandi del mondo. Eppure quelle rocce hanno scatenato le più gravi manifestazioni anti-giapponesi in Cina dal 2005, mentre in decine di città cinesi si sono radunate folle per protestare al di fuori delle ambasciate e delle fabbriche e dei negozi appartenenti ai giapponesi. Cosa ancora più inquietante, i media statali cinesi hanno riferito che «1000» barche da pesca cinesi si stanno dirigendo verso le isole contese, determinate, si presume, a far valere le rivendicazioni territoriali della Cina sulla pesca all’interno di quello che sono attualmente acque territoriali giapponesi. Quanto seriamente dovremmo prendere questa notizia? Al tempo dell’ultima grande ondata di manifestazioni anti-giapponesi, sette anni fa, avevo fatto proprio questa domanda a un vecchio politico giapponese del partito allora al governo, Taro Aso. La sua risposta fu noncurante: “Il Giappone e la Cina si odiano a vicenda da più di mille anni - ha detto, - non dovrebbe sorprenderla che anche oggi sia così.” Poiché l’onorevole Aso nel 2008-2009 diventò primo ministro del Giappone, un linguaggio così poco diplomatico era un po’ preoccupante. Ma in sostanza stava dicendo la verità. Questi due Paesi sono sempre stati rivali a tutti i livelli - politica, cultura, economia, territorio. Questo è chiaramente dimostrato dal fatto che entrambi rivendicano la sovranità su grandi distese di fondali e di oceano: la rivendicazione più controversa della Cina riguarda l’intero Mar Cinese Meridionale, con il rifiuto delle pretese di Vietnam, Filippine, Malesia e altri Paesi vicini; il Giappone rivendica le Senkaku, contese anche dalla Corea del Sud, e, per via della conformazione del Paese, un grande arcipelago di piccole isole, una vasta fascia dell’Oceano Pacifico. Questo genere di rivendicazioni è di solito roba da avvocati e funzionari che si occupano della Convenzione delle NazioniUnitesuldirittodelmare,l’accordo internazionale che ha lo scopo di governare e arbitrare tali pretese di sovranità in «zone economiche esclusive». Ciò che preoccupa ora è che il problema tra il Giappone e la Cina si è spostato nelle strade delle città cinesi, nella politica nazionalistadientrambi iPaesi,einunmomento estremamente delicato della politica interna cinese. Questo è ciò che lo rende pericoloso. Là in mare, se davvero 1000 navi da pesca cinesi si stanno dirigendo verso le isole occupate dai giapponesi - o anche se il numero reale è solo la metà di quello – potrebbe facilmente capitare un incidente, una collisione con una nave della Marina giapponese o con la guardia costiera. O anche un non-incidente, un errore di calcolo, con una nave affondata e la perdita di vite umane. L’ironia della situazione è che si è verificata a causa delle mosse che il governo giapponese ha appena fatto per cercare di calmare le acque. Le isole Senkaku, che il Giappone ebbe in piena sovranità per la prima volta nel 1895, e poi riebbe nel 1972 quando gli Stati Uniti le restituirono al Giappone insieme a Okinawa, sono state a lungo di proprietà privata. Il governatore di Tokyo, Shintaro Ishihara, della destra nazionalista, ha proposto all’inizio di quest’anno di acquistarle per il suo governo metropolitano di Tokyo. Così il governo centrale del Giappone è intervenuto per acquistarle, con lo scopo di impedirgli di creare problemi. La tempistica, tuttavia, ha trasformato una misura intesa a calmare le acque in un innesco. Il partito comunista che governa la Cina si sente sotto pressione per via degli scandali legati alla corruzione e al rallentamento dell’economia. Si attende per il prossimo mese la nomina di un nuovo presidente e di un nuovo primo ministro. Così, quando l’opinionepubblicacinesehacominciato a gridare ad alta voce slogan antigiapponesi in rete e nelle manifestazioni di piazza, il partito sembra aver deciso di sfruttare le manifestazioni per confermare le sue credenziali patriottiche invece di reprimerle. Per lo stesso motivo, l’istinto di adottare la linea dura, e di mettere a segno provocazioni nelle acque intorno alle isole, andrà avanti per diversi mesi mentre si svolge questo passaggio politico. Anche in Giappone, la politica è instabile: le elezioni generali si terranno solo all’inizio del 2013 e una delle stelle nascenti della politica nazionale - il giovane (43 anni) sindacodi Osaka,ToruHashimoto - ha appena lanciato un movimento politico nazionale in parte basato sulla retorica nazionalista. In precedenti occasioni, quando sono sorte tensioni tra Giappone e Cina, in un mese o due le acque si sono calmate. I legami economici tra questi due partner che condividono enormi scambi e investimenti di solito inducono i politici alla ragione. Nel 2008, il Giappone e la Cina riuscirono persino a concordare lo sviluppo congiunto di petrolio e gas sotto il fondo marino intorno alle isole Senkaku, anche se il progetto non è ancora stato attuato. Gli Stati Uniti, che nel Giappone hanno uno dei più stretti alleati, di solito riescono a calmare gli animi. Moltoprobabilmentequestoaccadrà di nuovo. Ma in un anno di elezioni presidenziali, gli Stati Uniti non sono nelle condizioni migliori per calmare le acque, e in ogni caso la loro posizione morale sulla questione non è così forte dal momento che il Congresso non ha ancora ratificato la Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, anche se la Convenzione è stata approvata ben tre decenni fa, nel 1982. In passato, i grandi conflitti sono spesso sorti da contenziosi minori e da errori di calcolo. Il mondo deve pregare che ciò non accada di nuovo ora, per colpa di alcune piccole rocce nel Mar Cinese Orientale. Traduzione di Carla Reschia da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10554 Titolo: BILL EMMOTT. - Nel caso Bbc i due estremi dell’Inghilterra Inserito da: Admin - Ottobre 26, 2012, 09:31:35 am Editoriali
25/10/2012 - scandalo a Londra Nel caso Bbc i due estremi dell’Inghilterra Bill Emmott Le stelle della tv popolare in altri Paesi sono generalmente incomprensibili per gli stranieri, che si tratti di campioni di giochi a premi, comici, veline, o cantanti pop. C’è qualcosa d’impenetrabilmente locale nella cultura popolare di massa. Invece gli scandali degli altri Paesi, soprattutto quelli sessuali, che coinvolgono quelle stesse elusive celebrità straniere, fanno presa. È accaduto proprio così con lo scandalo che ora in Gran Bretagna sta sconvolgendo la più indipendente, la più rinomata, apparentemente la più etica emittente del mondo, la cara vecchia Bbc. E’ uno scandalo avvincente per via delle storie di sesso, anche se alcune di esse sono sgradevoli. Lo è perché mostra gli inglesi al loro meglio e al loro peggio: al meglio perché la Bbc si è affrettata ad autocondannarsi, a flagellarsi per le sue mancanze; al peggio negli attacchi ipocriti alla Bbc sui nostri tabloid, i cui parametri morali sono di gran lunga peggiori. Infine, fa presa anche perché gli argomenti che essenzialmente sono alla base dello scandalo, la libertà di stampa e l’etica dei mezzi di comunicazione, sono sorprendentemente simili a ciò che sta accadendo in tutto il mondo. Proprio mentre i giornalisti italiani discutono la nuova «legge bavaglio» e la possibilità che un direttore di giornale come Alessandro Sallusti possa essere mandato in prigione, in Gran Bretagna il dibattito in merito a questo scandalo riflette anche la vicenda di spionaggio telefonico che ha colpito i giornali di Rupert Murdoch lo scorso anno e il crescente nervosismo per il prossimo piano per un sistema più rigido di disciplina dei media. Lo scandalo che coinvolge la Bbc riguarda un ex presentatore di quello che fu negli Anni 70 e 80 un longevo programma musicale, «Top of the Pops», che ospitava programmi per bambini e raccoglieva un sacco di soldi in beneficenza. Si scopre che Sir Jimmy Savile, diventato tale grazie alla sua opera di carità, era un molestatore sessuale seriale, sia delle quattordicenni credulone che si presentavano in massa alla Bbc per partecipare a «Top of the Pops», sia di disabili e malate di mente nei vari ospedali dove aveva lavorato. Questo sarebbe già abbastanza grave, ma la cosa più grave è che solo dopo la morte di Savile, l’anno scorso a 84 anni, un importante programma d’attualità della Bbc, «Newsnight», ha messo in cantiere un servizio televisivo sulle accuse da parte di alcune delle sue vittime, ma poi l’ha sospeso per ragioni che non sono ancora state spiegate. Lo scandalo è scoppiato quando un canale rivale ha ripreso alcuni dei temi che il servizio della Bbc aveva sollevato, e ora i giornalisti della Bbc coinvolti sono tutti presi a lanciare accuse ai loro padroni. Con un tocco meravigliosamente britannico lunedì la Bbc ha riportato il servizio di un rinomato programma di attualità, «Panorama», che attaccava «Newsnight», rivelando alcune delle sue manchevolezze. E nell’edizione del martedì di «Newsnight» il programma ha mandato in onda una discussione sul programma stesso e sui suoi errori. E’ tutto intrattenimento. Ma, ci si potrebbe chiedere, perché tanto clamore attorno a questo scandalo? Le celebrità fanno sesso con i fan, anche con quelli molto giovani, in tutti i Paesi, soprattutto da quando la televisione e la musica pop si sono fuse creando una cultura di massa. Il fatto che Jimmy Savile abbia sfruttato queste opportunità non è più sorprendente del fatto che i membri dei Beatles o dei Rolling Stones abbiano dormito con groupies di varie età. E il fatto che Savile abbia anche molestato vulnerabili ricoverate può essere disgustoso, ma non è il primo criminale sessuale e non sarà l’ultimo. Non sono però quelli i veri problemi, le vere ragioni per cui questo scandalo, nato da un uomo un po’ strano che molte persone trovavano abbastanza inquietante, continuerà a fare notizia ancora per lungo tempo. Ci sono in gioco due veri problemi. Uno è l’angoscia per quella che Dante Alighieri chiamava «ignavia»: la tendenza delle persone a stare a guardare e non fare nulla, anche quando sanno che è stato fatto male. La Bbc e le altre istituzioni britanniche, tra cui in particolare gli ospedali e le associazioni di beneficenza con cui si era impegnato Savile, andranno incontro a un lungo periodo di indagini e di esami di coscienza: la gente, dirigenti inclusi, sapeva che cosa stesse accadendo e non ha fatto nulla? Questo problema di mancanza di coraggio morale, di complicità in virtù del silenzio è, a mio avviso, un aspetto fondamentale del nostro tempo in tutte le democrazie occidentali. Tanto le élite come la gente comune sono accusate di non affrontare la realtà, di non agire o almeno gridare ad alta voce quando le nostre democrazie si trovano sotto attacco, per esempio da parte delle potenti oligarchie aziendali che assumono il controllo sul governo. Questa è la storia dell’Italia con Silvio Berlusconi, ma anche, in modo diverso, la storia della mancanza di un regola alla finanza in Gran Bretagna e Usa grazie allo strapotere della City di Londra e di Wall Street. Lo scandalo Savile alla Bbc è un caso minore rispetto a quelli. Ma se riesce a concentrare un po’ d’attenzione sulla responsabilità personale e sul peccato di ignavia, sarà una buona cosa. Il secondo vero problema riguarda la regolamentazione dei media e la loro responsabilità. Grazie allo scandalo dello spionaggio telefonico, che questa settimana si è allargato a un secondo gruppo britannico, gli editori del tabloid Daily Mirror, a breve un giudice presenterà le sue proposte sulla futura disciplina dei media. Probabilmente proporrà di sostituire il tradizionale, ma del tutto inefficace, sistema britannico di autoregolamentazione con una nuova agenzia che abbia poteri statutari. Questo sarà ferocemente avversato dai direttori dei giornali britannici. Lo scandalo Savile non è collegato direttamente a questo: emittenti come la Bbc sono già disciplinate da un’agenzia di vigilanza. Ma influenzerà ugualmente la politica di regolamentazione dei media perché la stupida decisione di «Newsnight» della Bbc di cancellare la sua stessa indagine confermerà la convinzione che dei media non ci si può fidare perché non decidono da sé. Per me, ex direttore di una rivista, è una constatazione molto triste. Noi dei media dobbiamo assumerci la responsabilità delle nostre azioni e rimanere sempre consapevoli della fiducia che i nostri lettori e telespettatori hanno riposto in noi. Ma questo significa anche che i media devono prendere atto delle conseguenze quando non riescono ad agire in modo responsabile e quando violano quella fiducia. traduzione di Carla Reschia da - http://www.lastampa.it/2012/10/25/cultura/opinioni/editoriali/nel-caso-bbc-i-due-estremi-dell-inghilterra-432PkRq6BbGsE8GMiUOHPI/pagina.html Titolo: BILL EMMOTT. - L’anima global è nascosta nelle Langhe Inserito da: Admin - Novembre 04, 2012, 05:15:50 pm Editoriali
04/11/2012 L’anima global è nascosta nelle Langhe Bill Emmott Poiché la prima sera ci siamo trovati per una cena conviviale piemontese a Torino e il giorno dopo abbiamo fatto una gita tra le colline perfette e cariche di viti delle Langhe, avremmo dovuto pensare all’amicizia, ai ricordi condivisi, o almeno al Barolo e al vitello tonnato. E naturalmente lo abbiamo fatto. Ma siamo giornalisti. Così siamo condannati dal nostro mestiere a badare ai percorsi, ai temi maggiori. E così abbiamo pensato al senso di modernità e tradizione, al reale impatto della globalizzazione e a cosa rimane immutabile nei nostri Paesi. Il «noi» a cui mi riferisco è un gruppo di vecchi amici incontrati quando eravamo tutti stanziati come corrispondenti stranieri in Giappone, più decenni fa di quanto ci piaccia ricordare (ma nel mio caso, il mese scorso sono passati 29 anni da quando mi trasferii a Tokyo). Ogni anno o due ci ritroviamo insieme in un Paese diverso, per ricordare, per parlare, per spassarcela. Questa volta l’organizzatore è stato il meraviglioso Fernando Mezzetti, che è stato corrispondente de «La Stampa» a Tokyo alla fine degli Anni 80, dopo aver lavorato per il «Giornale» a Pechino e a Mosca. E’ stata un’idea di questo globetrotter a portarci tutti in Piemonte. Il Giappone è stato, per tutti noi, un’esperienza formativa. Abbiamo vissuto lì quando era ritenuto sinonimo di modernità, di efficienza, della sfida orientale alla supremazia economica occidentale. E’ stato la Cina del suo tempo, la forza inarrestabile che era destinata a superare l’Europa e l’America. Era il futuro. Ma poi improvvisamente non lo è stato più e non ha sorpassato nessuno. Ha subito un crollo finanziario, a partire dal 1990, l’enorme scoppio di una bolla del credito che è stato un segno precursore della crisi che l’Occidente sta vivendo ora. Le cause della crisi giapponese furono come un esperimento di laboratorio per quello che è successo in seguito negli Stati Uniti e in Europa: il fallimento della regolamentazione finanziaria, la presa in ostaggio del governo da parte di potenti gruppi di interesse, il fallimento della politica poi per risolvere il pasticcio. E questo presunto maestro di adattamento ai cambiamenti si è dimostrato incapace di cambiare e di adattarsi alle nuove circostanze, lasciando il Giappone a 20 anni di stagnazione. Abbiamo il Giappone in comune, ma abbiamo formazioni molto diverse. Oltre a me e Fernando, il nostro gruppo comprendeva un altro inglese (ex-Bbc), un francese (che ora lavora per Mediapart e prima era all’Afp), un canadese-ungherese (ora con la Stanford University, ma ancora in Giappone), e un americano ( ex-Cbs News), mentre tra le nostre mogli ci sono una sudcoreana, una giapponese, un’inglese, una portoghese e un’italiana. Eppure questo gruppo così variegato ha comunque imparato la stessa lezione dalla nostra esperienza giapponese. Ovvero che non dobbiamo prendere le cose, e in particolare le tendenze, come permanenti. Come si dice in inglese, le apparenze ingannano. In giro per le Langhe e visitando cantine come quelle della famiglia Ceretto, di Gianni Gagliardo, presidente dell’Accademia del Barolo, e di Contratto, ci siamo ricordati di questo concetto. Un principio giapponese vuole che tutto abbia una facciata, tatemae, ma anche una verità nascosta, o honne. Nelle Langhe tatemae è quello che i turisti vedono, o vogliono vedere, in molti dei bei paesaggi italiani: un senso di tradizione, di immutabilità, l’idea che abbiano conservato l’aspetto del passato. Eppure l’honne, come i lettori de «La Stampa» senza dubbio sanno mentre noi non lo sapevamo, è molto diverso. Ed è che la bellezza e il carattere delle Langhe sono una creazione molto moderna. Infatti, come abbiamo cominciato a pensare e a parlare dei nostri Favorita, Nebbiolo e Chinato, siamo arrivati a chiederci se in realtà potrebbero essere parte dell’essenza stessa della modernità occidentale, nella nostra epoca globalizzata. Per noi è stata una sorpresa sapere quanto povere fossero le Langhe ancora in epoca moderna e quanto recente sia il suo emergere come centro di vini di alta qualità, cibo e turismo. Alla cantina Ceretto ci hanno raccontato di come il padre e il nonno dell’attuale famiglia avessero discusso animatamente se avesse senso o meno iniziare a imbottigliare il vino. In tutti questi paesi, in quei vigneti e piccole aziende agricole, tutto sembra e appare estremamente locale. Ma la verità è che le maggiori influenze sono globali. Quando eravamo tutti in Giappone negli Anni 80, il vino era molto costoso e anche difficile da trovare, in particolare il buon vino. Quando Fernando era a Pechino era praticamente sconosciuto al di fuori dei compound occidentali. Oggi i ristoranti italiani sono i più comuni tra quelli non giapponesi in tutte le grandi città del Giappone, e il vino è economico e largamente bevuto, soprattutto dalle donne. E la domanda cinese ora guida il mercato globale del vino per i vini di alta qualità, così come è molto probabile che guiderà il mercato per i vini più economici tra 10 o 20 anni. In tutti questi vigneti, al di là delle uve, delle cantine e delle sale di degustazione, l’elemento più evidente è la tecnologia. Le vasche luccicanti in acciaio inox, i sistemi di controllo, gli strumenti di analisi. L’altra cosa più evidente è la raffinatezza del marketing: i disegni di etichette, le forti identità visive, il posizionamento di vini diversi a diversi livelli di prezzo per diverse fasce di consumatori. E la terza è la visione globale dei proprietari. Tutta la lunga storia della viticoltura nella regione porta la modernità scritta a grandi lettere: la globalizzazione unita alla tecnologia, unita a un uso intelligente dell’immagine. Questo elemento, ne sono certo, c’è sempre stato. Ma ora è dominante e si combina con un altro fenomeno più recente, una creazione, per lo più, dell’ultimo decennio. È l’accento sulla qualità, sia tra i consumatori che tra i produttori. Poche settimane più tardi, questa volta senza il mio gruppo di amici giornalisti, sono tornato a Torino per il meraviglioso Salone del Gusto di Slow Food. Si tratta di una celebrazione di molte cose: delle idee di purezza, di natura, dei metodi di coltivazione tradizionali. Ma anche di una celebrazione della qualità, e del desiderio di presentare la qualità al mondo: questa è sicuramente l’essenza dei presidi Slow Food, in cui la qualità è certificata e gli agricoltori sono autorizzati a presentarla a un mercato più ampio e a un prezzo più alto di quello che potrebbero permettersi. Nei tre o quattro decenni che io e la mia banda di amici abbiamo passato nel giornalismo, il più grande cambiamento che tutti abbiamo vissuto (e di cui abbiamo beneficiato, come corrispondenti esteri) è stata la globalizzazione: l’ascesa e la caduta del Giappone, la crescita costante della Cina, la diffusione dello sviluppo economico in gran parte del resto dell’Asia e persino nell’Africa sub-sahariana. Dal punto di vista economico è stato di enorme beneficio non solo per i Paesi emergenti, ma anche per l’Europa e per l’America. Da un punto di vista culturale, per non parlare della politica, ci sono maggiori dubbi. Di quei dubbi abbiamo parlato molto nelle Langhe e a Torino. Molti europei si sentono sballottati e flagellati dai venti della globalizzazione, in particolare dall’immigrazione, ma anche dal modo in cui le culture sono diventate molto più interconnesse, attraverso i media e Internet, ma anche attraverso la compenetrazione in tutti i nostri Paesi, del cibo, delle bevande, della musica, ecc. altrui. La produzione su scala globale, di massa, di tutte queste cose, proprio come per i divani o gli orologi, può dare la percezione che la qualità e l’individualità abbiano raggiunto un minimo comune denominatore. Ed è così a volte. Ma le Langhe, in verità con la rinascita di Torino nel corso degli ultimi 20 anni, ci hanno offerto uno sguardo sul futuro e non sul passato. Per noi sono diventate il simbolo di un’Europa che riesce a fare quello che ha sempre fatto meglio durante i periodi più belli della sua storia: concentrarsi sulla conoscenza, l’ingegno e la creatività, esplorare il mondo in cerca di nuovi mercati e di nuove terre, porre l’accento sulla qualità piuttosto che sulla quantità. Anche il Giappone faceva così. Prendeva le idee all’estero e le migliorava, ha rivoluzionato la sua società e il modo di vivere, ma pur sempre conservando la specificità giapponese. Al momento sembra aver perso la capacità di farlo, logorato da una lunga stagnazione, impaurito dalla crescita della Cina e, recentemente, abbattuto dal suo tragico tsunami. Anche l’Italia ha perso questa capacità, per motivi propri, tra i quali la sua lunga stagnazione. Ma la nostra allegra banda di vecchi corrispondenti stranieri ha lasciato le Langhe e Torino con un senso di speranza. Questi luoghi che abbiamo visitato ci sono sembrati, alla fine, più moderni e più adatti al nuovo mondo di quanto non fosse stato il caso per altre delle nostre precedenti rimpatriate, come ad esempio l’Ungheria (2007) o il Portogallo (2010). Nessuno potrebbe dire che hanno perso anche un solo grammo della loro identità piemontese e italiana, anche se sono radicalmente mutate. Il nostro prossimo incontro si terrà, probabilmente, in Gran Bretagna. Mi chiedo cosa penserà il gruppo di quel Paese e quanto bene rappresenterà la modernità. Beh, la prossima volta non sarò io a scrivere le conclusioni. traduzione di Carla Reschia da - http://lastampa.it/2012/11/04/cultura/opinioni/editoriali/l-anima-global-e-nascosta-nelle-langhe-ecdyJQmlzSkLvuJcfiK9PL/pagina.html Titolo: BILL EMMOTT. - La voglia di cambiare Inserito da: Admin - Novembre 19, 2012, 09:11:54 pm Editoriali
19/11/2012 La voglia di cambiare Bill Emmott Venerdì, mentre ero seduto nella Sala d’Arme dello splendido Palazzo Vecchio di Firenze, sentendo che così tanti giovani, da Renzi ai «Pionieri», vengono apprezzati e «cacciati» dai miei amici della Rete per l’Eccellenza Nazionale, continuava a venirmi in mente la famosa canzone dal film «South Pacific». Devi avere un sogno, se non hai un sogno come potrà avverarsi? Ma continuavo anche a pensare questo: il problema dell’Italia è che vive in una specie di sogno, e che deve svegliarsi. Ci sono, in realtà, due generi di sogno. Per anni, per decenni anche, l’Italia ne ha avuto troppo pochi del primo tipo e troppi del secondo. Il primo è il tipo di sogno che ha a che fare con qualcosa che si vuole che accada. E’ il sogno nella mente di ogni imprenditore di successo, ma anche di ogni innovatore e creatore del cambiamento, nelle comunità locali come nelle scuole, nelle organizzazioni benefiche o nei grandi affari della politica nazionale e internazionale. Questi sognatori non badano a cosa è stato fatto o a ciò che è permesso fare. Guardano a cosa potrebbero fare con le loro mani e i loro cervelli, per creare una realtà completamente nuova. I «Pionieri» che stanno cercando quelli che si definiscono Arenauti sono persone così: gente che sta inventando nuovi modi di fare le cose e nuove cose da fare o creare, inseguendo il proprio sogno, un sogno di cambiamento. Ma gli stessi Arenauti, questo gruppo di oltre 100 professionisti, soprattutto giovani, provenienti da molti settori, condividono questa miscela di sogni e di azione. Il motivo per cui li sostengo e sono ispirato da loro fin da quando li ho incontrati per la prima volta, nel 2009 è esattamente quel misto di sogni e di azione. Ci sono un sacco di persone, in Italia come nel mio paese, che presentano i loro sogni di cambiamento con manifesti e dichiarazioni e discorsi. Non ce ne sono così tanti che lavorano per cercare di mettere in pratica i loro sogni. Mentre io, uno scrittore inglese di mezza età, stavo seduto a guardare il sindaco Matteo Renzi tenere il suo discorso di benvenuto con la sua classica tenuta, blue jeans, camicia bianca aperta al collo e giacca blu scuro, naturalmente ho dovuto interrogarmi anche su di lui. È un altro giovane sognatore. Ma è un uomo che vuole mettere i suoi sogni alla prova dei fatti? Troppi politici sognano solo di arrivare al potere per il gusto dello stesso piuttosto che per raggiungere un vero e proprio obiettivo condiviso. Il sindaco Renzi, come tutti rilevano, parla molto di più di principi astratti e vaghe aspirazioni che di fatti concreti, sostanziali. Se il suo fosse il lancio di una nuova impresa, non riuscirebbe a raccogliere capitali perché gli investitori non finanzierebbero un sogno senza un vero piano d’investimento. Ma non si tratta di affari. Il suo scopo è ottenere dei voti e ha imparato tanto dalla Gran Bretagna di Tony Blair come da Silvio Berlusconi che il voto può essere conquistato più facilmente con un linguaggio positivo e ispirato piuttosto che attraverso i programmi politici. Ricordo bene uno dei miei peggiori giudizi come direttore dell’Economist: fu quando, prima delle elezioni del 1997 in Gran Bretagna, scrissi che Blair non meritava sostegno perché non era riuscito a dire al popolo britannico che cosa avrebbe effettivamente fatto quando fosse diventato primo ministro. Era sbagliato perché non teneva conto del fatto che gli avversari di Blair avevano perso tutta la loro credibilità e negava l’ipotesi che semplicemente il potere dato dall’essere una novità e dall’impersonare il cambiamento avesse in sè il potenziale per rendere fattibili azioni concrete. Nessuno di noi può sapere se questo sarebbe vero anche qualora il «pioniere» emergente di Firenze vincesse le primarie del PD e poi le elezioni della prossima primavera. Ma sarebbe un errore fare come ho fatto io nel 1997 e respingere la possibilità solo perché si tiene nel vago ed è inesperto. L’establishment politico è concreto e scafato ma ha perso ogni credibilità, proprio come i conservatori britannici negli Anni ‘90. La questione fondamentale è se l’elettorato italiano sia giunto a credere che il cambiamento sia necessario, e non un cambiamento superficiale ma fondamentale. Fino ad ora, di sicuro, ha prevalso il secondo tipo di sogno: l’illusione, così diffusa tra gli italiani, che le cose possano continuare come sono perché è tutto veramente OK, qualsiasi cosa ne dicano quei noiosi degli economisti e dei sondaggisti. Questo tipo di sogno non ha a che fare con la creazione di una nuova realtà ma con il desiderio di negarla e di evitare la necessità di fare qualcosa di serio, e certamente difficile, per cambiarla. Ecco perché abbiamo chiamato il mio prossimo film documentario sull’Italia «La ragazza in coma», o la fidanzata in coma. Questa sospensione delle funzioni vitali è in parte il risultato delle azioni negative, egoistiche di ciò che nei miei libri ho definito «la cattiva Italia». Ma è anche un risultato del desiderio di sognare per evitare la realtà e l’azione. Quanto più vedo quel desiderio e ne sento parlare tanto più divento preoccupato e pessimista. Poi, però, mi torna la speranza quando incontro e dò più ascolto all’altro tipo di sognatori. Gruppi come RENA, che traducono i sogni in azioni, e «pionieri» come quelli che loro ricercano, ansiosi di eliminare tutti gli ostacoli al cambiamento e di creare nuove realtà, necessarie per produrre il risveglio che all’estero tutti gli ammiratori dell’Italia auspicano. La rottamazione è essenziale. Ma lo sono anche le azioni reali, per trasformare i sogni in una nuova, più costruttiva realtà. Traduzione di Carla Reschia da - http://lastampa.it/2012/11/19/cultura/opinioni/editoriali/la-voglia-di-cambiare-OBDJQ8SGZhueN32BwuaX1I/pagina.html Titolo: BILL EMMOTT. - Un Paese che rifiuta la realtà Inserito da: Admin - Dicembre 10, 2012, 07:36:49 pm Editoriali
10/12/2012 Un Paese che rifiuta la realtà Bill Emmott Se una decina d’anni fa qualcuno mi avesse detto che avrei pensato, scritto e fatto un film non su Giappone, Cina o qualcuno dei miei vecchi temi di interesse, ma sull’Italia, mi sarei chiesto se il mio interlocutore avesse fumato sostanze illegali. Ma per come la vedo ora, e per come ritengo che le imminenti elezioni politiche in Italia saranno cruciali, e il modo in cui ho trascorso i miei ultimi anni non mi sorprende per nulla. Il motivo non sono solo quelle due famigerate parole, Silvio e Berlusconi. Il fatto è che l’Italia è centrale in una serie di fenomeni che da tempo mi preoccupano per il futuro dell’Occidente. Mi appassionai per la prima volta all’Italia a causa di Silvio Berlusconi. Sì, è così. Noi dell’Economist lo dichiarammo inadatto a governare l’Italia» sulla nostra copertina dell’aprile 2001, per ragioni di principio; niente a che vedere con gli scandali sessuali per i quali più tardi divenne famoso in Gran Bretagna e in America. I princìpi in questione riguardavano il giusto rapporto che ci deve essere in una democrazia tra il potere privato, capitalistico, e il governo - devono restare il più possibile separati, così come un arbitro di calcio deve restare indipendente dalle squadre - e l’importanza dello stato di diritto. Non eravamo «per la sinistra» e di certo non eravamo «comunisti», come diceva Berlusconi, anche se io assomiglio a Lenin. Non eravamo nemmeno «contro la destra». Eravamo contro la conquista dei poteri di governo in una democrazia occidentale da parte di un singolo, enorme interesse privato; ed eravamo contro l’erosione dello stato di diritto che quell’interesse provocava. Come dice Umberto Eco nel mio film, anche in altri Paesi ci sono tycoon, e potenti lobby e concentrazioni di media perciò quel che accadeva in Italia era e resta un pericolo per la Gran Bretagna, gli Stati Uniti e molti altri Paesi. Da quella copertina dell’Economist cominciò il mio viaggio in Italia. Un viaggio allietato da due denunce per diffamazione da parte di Berlusconi (entrambe le cause sono state vinte dall’Economist), e diventato più intenso man mano che approfondivo la mia conoscenza dei problemi dell’Italia in tutte le loro forme: economiche, politiche e morali. Nel corso del viaggio ho scritto un libro per i lettori italiani - «Forza, Italia: Come ripartire dopo Berlusconi» – che ho poi arricchito e rivisto per il lettori inglesi con il titolo «Good Italy, Bad Italy» mentre stavo preparando il «Girlfriend in a Coma». E’ stato un viaggio affascinante, spesso divertente, ma ha avuto su di me due conseguenze: mi ha reso più pessimista, e ancora più preoccupato per le malattie dell’Occidente. Sono diventato più pessimista perché mi sono reso conto della forte resistenza al cambiamento e alle riforme in Italia, da parte di gruppi di interesse di tutti i tipi. E’ stata questa resistenza il maggior problema del Presidente Monti durante l’ultimo anno. Monti pensa che se fosse riuscito a persuadere questi gruppi di interesse - sindacati, grandi aziende, ordini professionali o pensionati -, che ciascuno doveva fare qualche concessione e rinunciare a qualche privilegio per il bene comune, questo sarebbe accaduto. Un po’ come avviene durante i negoziati per il disarmo, quando i Paesi accettano di rinunciare ai loro carri armati e missili. Ma, almeno per ora, non ha funzionato. Non è successo perché Monti dipendeva dal sostegno parlamentare di partiti che rifiutavano il cambiamento per assecondare il nocciolo duro dei loro elettori, o anche solo per farsi dispetto a vicenda. Non ha funzionato anche perché tutti sapevano che il governo di Monti era provvisorio: bastava aspettare e «far passare la nottata», come si suol dire. Perfino gli enti locali hanno usato questa tattica, rinviando l’applicazione di nuove leggi visto che sapevano che il voto era imminente. Questo mi ha reso pessimista per una seconda ragione. Per anni, fino a che la crisi del mercato dei titoli di Stato del 2011 ha costretto l’élite italiana a riconoscere i veri malanni economici del Paese, avevo notato una forte e diffusa tendenza a rifiutare la realtà, a ricorrere a dati falsi o datati per rassicurarsi che il Paese fosse in realtà più forte che debole: un alto tasso di risparmio privato (in realtà dimezzato), famiglie ricche (ma provate a vendere le case che sostengono questa «ricchezza»), un forte settore manifatturiero (che produce solo un settimo del Pil e diventa sempre meno competitivo), l’innata creatività italiana (mentre la meritocrazia è stata distrutta e i neolaureati più creativi emigrano a Berlino, Londra e New York). Lo choc della crisi del debito sembrava aver cambiato questa percezione. Ma lo ha fatto davvero? Se i gruppi di interesse continuano a bloccare con tanta determinazione le riforme, probabilmente ritengono che in fondo il cambiamento non è necessario. Nei miei momenti di ottimismo mi dico che stanno solo guadagnando tempo, sperando di essere più forti rispetto ad altri gruppi di interesse dopo le elezioni del 2013. Ma può darsi che sperino semplicemente in qualcosa di magico che accada nel frattempo ed eviti la necessità di cambiare: una cura miracolosa proposta da Mario Draghi alla Bce; l’improvvisa disponibilità della Germania a pagare i debiti dei Paesi dell’Europa del Sud, o qualcos’altro. La verità continua a venire evitata. Queste tendenze – quella dei gruppi di interesse a difendere i loro titoli e privilegi e quella delle élite che cercano di non affrontare la realtà – non sono un’esclusiva italiana. Problemi di questo genere esistono anche nel resto del mondo. Anche l’America che aspetta di vedere come il Congresso risolverà il problema del «fiscal cliff» che minaccia la sua economia dopo il 1 gennaio 2013, vede le lobby difendere i loro privilegi e le élite negare la realtà. La differenza con l’Italia è che qui questo processo è andato avanti a lungo, una ventina d’anni, mentre le altre forze economiche e sociali andavano degenerando. L’America e la Gran Bretagna sono solo all’inizio di questo processo, e continuo a sperare che riusciranno ad evitarlo. L’Italia invece, come dice il titolo del mio film, è finita in coma. Si risveglierà? La decisione di Berlusconi di presentarsi alle elezioni sfidando l’austerità di Monti fa credere che il rifiuto della realtà resti forte, almeno nella destra. Le elezioni saranno un test cruciale, forse addirittura storico. Saranno la prova di quanto i partiti e le lobby che li appoggiano hanno veramente compreso la natura dei problemi italiani e capito che continuare le vecchie politiche non è una soluzione. Sarà la prova per comprendere se la domanda di nuove idee da parte degli elettori, di nuova responsabilità e anche di facce nuove verrà soddisfatta. E, per quel che riguarda l’Occidente, sarà un test per mostrare se la nostra fiducia nella capacità delle democrazie di correggere gli errori ha un fondamento. Il Presidente Monti ha ragione a dimettersi e anticipare questo esame. È un test che non può e non deve essere più rimandato. da - http://lastampa.it/2012/12/10/cultura/opinioni/editoriali/un-paese-che-rifiuta-la-realta-VWctYjX6PXo5opfRdGTDgK/pagina.html Titolo: BILL EMMOTT. - Il Giappone e la sindrome cinese Inserito da: Admin - Dicembre 18, 2012, 06:03:00 pm Editoriali
18/12/2012 - le idee Il Giappone e la sindrome cinese Bill Emmott M i sentivo un po’ strano. Domenica pomeriggio, grazie a un collegamento video, dal cuore della campagna inglese sono stato trasportato dall’altra parte del mondo e anche nel mio passato. Ho preso parte a un dibattito televisivo sulle elezioni in un Paese in crisi economica e politica – e, no, non era l’Italia bensì il Giappone. Il primo commento dei presentatori del programma sulla tv di Stato giapponese, la Nhk, è stato il più inesatto: «Gli occhi del mondo sono puntati sul Giappone», hanno detto. Non lo sono: poche persone, in Europa almeno, sapevano che domenica si votava in Giappone e ad ancora meno ne importava qualcosa. Abbiamo le nostre crisi, sia politiche che economiche, di cui preoccuparci, e il Giappone non accende più la nostra immaginazione come quando vivevo lì come corrispondente estero, negli Anni 80. Eppure, il voto è stato piuttosto drammatico, e contiene alcuni segnali importanti per noi europei. Il primo messaggio è che quando un Paese è da vent’anni in difficoltà economiche, vale per il Giappone proprio come per l’Italia, ecco, la politica può diventare estremamente volatile. Tre anni fa, il partito che aveva dominato la politica giapponese per mezzo secolo, il Partito liberal democratico (Ldp), era stato umiliato alle elezioni, scacciato da un partito nuovo, più giovane, apparentemente più progressista, il Partito democratico del Giappone (Dpj). Gli esperti scrissero che l’Ldp era finito. Ora, tre anni dopo, l’Ldp torna al potere con un voto a valanga ancora più massiccio di quello grazie al quale fu sconfitto nel 2009. Silvio Berlusconi può senza dubbio essere un po’ rassicurato dal risultato del Giappone. Novità e giovinezza sono belle cose, indica l’esempio giapponese, ma se un governo non mostra competenza, chiarezza ed efficienza, in particolare di fronte a una catastrofe straordinaria come lo tsunami che nel marzo 2011 uccise circa 20.000 persone e causò l’incidente nucleare all’impianto di Dai-ichi, a Fukushima, che non ha ucciso nessuno, ma spaventato milioni e di persone ed è costato miliardi, sarà buttato fuori alla prima occasione. Il secondo messaggio, tuttavia, è che singoli temi popolari, come il sentimento anti-nucleare, per gli elettori sono meno importanti della competenza. Perché l’Ldp, che ora è assai potente in Parlamento, è il gruppo più filo-nucleare in Giappone, ed è il partito che può più giustamente essere incolpato per la relazione troppo stretta e negligente tra il governo e l’industria nucleare di Fukushima che ha reso possibile l’incidente. Vi è, tuttavia, un terzo messaggio che può servire a spiegare perché la competenza e la professionalità alla fine hanno convinto gli elettori a dare all’Ldp un’altra possibilità. Ed è che la forza più potente in ogni elezione è la paura. Nel caso del voto giapponese del 2012, c’è stata la paura di un inarrestabile declino economico, perdurando l’incompetenza del governo del Dpj e le continue faide interne. Ma era la Cina la paura principale. La Cina non è in procinto di invadere o attaccare il Giappone. Ma durante l’anno scorso la nuova superpotenza mondiale è diventata sempre più assertiva, aggressiva perfino, sulle sue storiche rivendicazioni territoriali nei mari che circondano le sue lunghe coste, in particolare il Mar Cinese Meridionale e il Mar Cinese Orientale. Rivendicazioni che a noi in Europa, a migliaia di chilometri di distanza, sembrano piuttosto assurde, dal momento che riguardano solo un sacco di rocce e scogli disabitati, ma si tratta anche di risorse petrolifere e di gas sottomarino. Si è tentati di pensare che l’importanza di queste controversie sia stata esagerata, e che il buon senso prevarrà e che presto sarà raggiunto una sorta di ragionevole compromesso. Non è questa la sensazione in Asia, soprattutto nei piccoli Paesi attorno al Mar Cinese Meridionale come le Filippine, e nemmeno in un Paese grande come il Giappone. Perché a loro è chiaro che queste rivendicazioni territoriali non sono solo sulle risorse e non sono assurde. Sono importanti per la Cina sia per motivi di prestigio nazionale sia per strategia militare. E formulando le sue rivendicazioni in maniera sempre più intransigente e assertiva, la Cina sta cercando di fare quello che gli israeliani fanno quando costruiscono nuovi insediamenti nei territori occupati dei palestinesi: stanno creando una nuova realtà sul terreno, o, nel caso della Cina, sul mare. Il Giappone non vede una fine scontata della pressione cinese e del suo appetito per una «nuova realtà». Due giorni prima delle elezioni politiche, un aereo di vigilanza cinese ha violato lo spazio aereo giapponese sopra le isole contese, per la prima volta da quando le relazioni diplomatiche tra i due Paesi sono state ripristinate nel 1972. È come se la Cina stesse facendo notare al Giappone che le isole contese non possono essere difese e quindi sarebbe meglio se il Giappone semplicemente accettasse che oggi la Cina è responsabile della zona e lì può fare quello che vuole. Questo è ovviamente inaccettabile per il Giappone che possiede le isole contese in accordo ai termini del trattato di pace di San Francisco del 1951, in base al quale i vincitori della Seconda guerra mondiale sistemarono le questioni in sospeso, e che in ogni caso le deteneva fin dal 1895, senza che nessuno, prima, le avesse ufficialmente rivendicate. Il governo del Dpj si è mostrato fermo sulla questione, ma messo sotto pressione ha vacillato. L’Ldp durante la sua campagna elettorale ha promesso una linea più dura. Alla fine, gli elettori giapponesi sembrano aver deciso che, per quanto non si fidino dell’Ldp per tutta la corruzione del passato, si fidano ancora meno della Cina. Ciò non significa che ora ci sarà un deliberato scontro tra i due giganti economici dell’Asia. Ma significa che entrambi probabilmente non scenderanno a compromessi, cosa che aumenta il rischio di uno scontro accidentale al largo del Mar Cinese Orientale. Se qualcosa del genere dovesse accadere metterebbe gli Stati Uniti in una posizione scomoda, perché a norma del Trattato di Sicurezza nippo-statunitense sono tenuti a difendere il territorio giapponese in caso di attacco. Alla Cina va bene che il Giappone ora abbia un governo più nazionalista e piuttosto di destra. Infatti, mentre la verità è che è stata la Cina a mostrarsi aggressiva, cercando di cambiare lo status quo nel Mar Cinese Meridionale e in quello orientale, la sua posizione ufficiale è che è stato il Giappone a provocare la disputa. Ora, userà ogni occasione per ritrarre il nuovo governo come una sorta di ritorno al passato militarista del Giappone. Alla fine del mio dibattito televisivo post-elettorale sulla Nhk, a tutti gli intervenuti è stato chiesto di scrivere una parola o una breve frase su cui pensavano che il nuovo governo giapponese dovesse concentrarsi. L’hanno chiesto a me per primo e ho scritto la semplice parola «economia», sostenendo che se il nuovo governo non risolverà i problemi economici del Giappone, non sarà in grado di fare progressi nemmeno negli altri campi. Poi è toccato al partecipante cinese, un illustre ex ambasciatore chiamato Wu Jianmin, un uomo che da giovane era l’interprete francese per il primo ministro Zhou Enlai durante l’era di Mao. Ha scritto «sviluppo pacifico», dicendo che il governo giapponese ha bisogno di concentrarsi su questo e non causare alcun problema internazionale. L’implicazione era intelligente e chiara: egli sosteneva che il Giappone era l’aggressore, con il rischio di ritorno al militarismo. Questa è una sciocchezza. Ma la Cina moderna è altrettanto abile nell’uso della propaganda come durante i giorni del presidente Mao. Traduzione di Carla Reschia da - http://www.lastampa.it/2012/12/18/cultura/opinioni/editoriali/il-giappone-e-la-sindrome-cinese-tYqakDRvhfAv5ImnWz6lOL/pagina.html Titolo: BILL EMMOTT. - Le questioni che il Pd non può evitare Inserito da: Admin - Gennaio 16, 2013, 04:21:22 pm Editoriali
15/01/2013 Le questioni che il Pd non può evitare Bill Emmott A distanza di oltre un mese, forse non è sorprendente che il mondo esterno, sia in Europa che negli Stati Uniti, non abbia ancora davvero iniziato a prestare molta attenzione alle elezioni in Italia. Ma a questo osservatore straniero sembra che l’attenzione del mondo finora sia stata piuttosto contraddittoria. Da un lato, una sorta d’inorridita perplessità per l’invadenza della campagna di Silvio Berlusconi, insieme con una certa preoccupazione per la posizione apparentemente debole nei sondaggi del preferito dagli stranieri, Mario Monti. Ma d’altra parte, lo spread, un indice certo dell’umore degli investitori verso l’Italia, a livelli molto benigni e rassicuranti. Sarà fondamentale non essere troppo rilassati o rassicurati dallo spread deliziosamente basso, se rimarrà così con l’approssimarsi del voto. L’Italia è stata favorita da una fase mondiale di ottimismo sui mercati finanziari, spinti soprattutto da pareri positivi sulle prospettive per l’economia degli Stati Uniti e da una risoluzione del braccio di ferro sulla politica di bilancio degli Stati Uniti, ma anche dai pareri positivi sulla stabilità dell’euro-zona. Ma i mercati finanziari sono volubili. Possono cambiare umore molto rapidamente. Questo cambiamento di umore potrebbe essere provocato dagli eventi in Grecia, in Spagna o in Germania, per esempio. O anche dalle elezioni italiane. I media stranieri sono colpevoli quanto quelli italiani nella loro ossessione per Berlusconi. I loro titoli o i loro sommari sottolineano doverosamente come lui e i suoi fallimenti nel governo in oltre otto degli ultimi dieci anni siano al centro della situazione economica e politica in Italia. Ma poi il volume della loro copertura finisce per giocare a suo favore, dandogli l’attenzione che è stato così bravo a utilizzare come strumento politico. Malgrado le molte menzogne dette durante il suo incontro televisivo con Michele Santoro, ha raggiunto il suo obiettivo: attenzione. Tutto questo è abbastanza prevedibile. Ciò che si sta rivelando più difficile da analizzare per gli osservatori stranieri è quello che dovrebbero capire esattamente dalla lista del senatore Monti e dei suoi sostenitori politici. E cosa dovrebbero fare di Pier Luigi Bersani, che si sentono obbligati a descrivere come un «ex comunista», e che tuttavia, se lo spread è, dopo tutto, un’indicazione, essi ritengono attuerà una politica fiscale responsabile. Non si tratta solo degli osservatori stranieri, naturalmente. Ma, ancora, l’affermazione di Corrado Passera che non si candida a causa del modo in cui le liste vengono spartite ha catturato l’attenzione internazionale, perché, come ex banchiere di rilievo internazionale è abbastanza noto, soprattutto alla City e a Wall Street. E siamo preoccupati come molti italiani di ogni vicinanza politica al Vaticano. Il senatore Monti resta molto stimato all’estero, e sicuramente molti hanno ancora grandi aspettative su di lui. Ma c’è un po’ di delusione e di preoccupazione. Bersani, per contro, è una figura ampiamente sconosciuta a livello internazionale e questo è probabilmente un vantaggio. Sappiamo che si è speso per una cauta liberalizzazione come ministro di alto livello nel governo Prodi del 2006-08. Sappiamo anche, e si noti, che la lista del Partito Democratico rispecchia la sinistra più di quanto non facciano il centro o il blocco Renzi. Quindi c’è una certa preoccupazione. Questa preoccupazione sarà stata certo un po’ mitigata dall’intervista rilasciata da Stefano Fassina al Financial Times del 13 gennaio. Sembrava confermare che un’amministrazione Bersani sarebbe più centrista che di sinistra, favorevole al patto fiscale europeo e intenzionata ad «aprire il mercato delle assicurazioni, delle farmacie e dei servizi legali». Questo è un programma piuttosto limitato per la liberalizzazione, che riecheggia la riforma Bersani del 2006-08, ma è almeno un inizio. Su La Stampa, il 4 dicembre avevo posto sei domande al signor Bersani, intese ad accertare se egli comprende veramente la natura dei problemi dell’Italia. Perché pensa che la crescita economica in Italia sia stata così lenta? Come si creano posti di lavoro? Perché tanti italiani emigrano? Capisce la responsabilità della sinistra per la distruzione della meritocrazia? Ovviamente né lui né qualcuno del suo staff ha risposto. Ma le risposte a queste domande sono fondamentali se gli italiani e il mondo esterno devono avere fiducia in un governo guidato da Bersani. Sul sito web del mio film, www.girlfriendinacoma.eu domani inizierò un conto alla rovescia fino a quando il signor Bersani risponderà, almeno ad alcune delle mie domande. Fino a quando non lo farà e fino a quando le risposte non saranno convincenti, ci sarà un’ombra sulle prospettive per il prossimo governo, un’ombra sulla fiducia internazionale per Bersani medesimo. Non è un caso che la non-così-segreta speranza internazionale sia che il senatore Monti esca bene dal voto, tanto da imporre il suo ritorno in Palazzo Chigi dopo il 24 febbraio. Come cresce la consapevolezza dell’improbabilità che ciò accada, cresce la preoccupazione su ciò che l’onorevole Bersani pensa davvero, sa e capisce. Traduzione di Carla Reschia da - http://lastampa.it/2013/01/15/cultura/opinioni/editoriali/le-questioni-che-il-pd-non-puo-evitare-mw1rbgICIVmGgrJv1dZ8TN/pagina.html Titolo: BILL EMMOTT. - Il messaggio del voto all’Europa Inserito da: Admin - Marzo 02, 2013, 03:20:34 pm Editoriali
01/03/2013 Il messaggio del voto all’Europa Bill Emmott Gli stranieri, in particolare i giornalisti e i politici, amano le battute e le semplificazioni, ecco perché molti sono ricorsi alla parola «pagliacci» per descrivere lo sbalorditivo risultato elettorale in Italia, dal tedesco Peer Steinbrück alla rivista inglese, The Economist. Ma è un grosso errore farsi beffe di questo risultato, o di Beppe Grillo personalmente. L’Europa, come l’Italia, ha bisogno invece di prenderlo molto sul serio. Benché l’esito sia stato notevole per il modo in cui ha disatteso le prime previsioni di voto e nel pasticcio parlamentare che ha prodotto, non è stato davvero sorprendente. Molti elettori erano in crisi, crisi finanziaria; molti elettori, a volte gli stessi che erano in crisi, a volte diversi, avevano un disperato bisogno di cambiamento, di speranza in qualcosa che potesse infine cambiare la politica italiana o il governo italiano. Questa situazione è particolarmente evidente in Italia, dove la sofferenza e il desiderio di cambiamento sono particolarmente acuti. Ma accade anche in altri paesi. Così, quando le elezioni premiano un candidato che ha ascoltato il dolore e si è concentrato solo su un modo per alleviarlo, e un altro candidato che si trova praticamente da solo a parlare di cambiamento, gli altri Paesi europei devono prestare attenzione. Il fatto che il primo sia Silvio Berlusconi e il secondo Beppe Grillo è un peccato per l’immagine internazionale dell’Italia, ma pazienza. Quell’immagine passerà. Il messaggio serio per l’Europa non sta nel dettaglio dei programmi politici di Grillo o di Berlusconi, né in alcun pericolo immediato per l’euro. Il messaggio grave sta nel fatto che esigere austerità fiscale, anno dopo anno, in tutti i Paesi dell’Eurozona, non può funzionare a lungo in termini politici a meno che non si accompagni a un messaggio positivo di speranza, di nuove opportunità, di un futuro più luminoso per i figli e i nipoti. E’ il messaggio che il presidente Mario Monti non è riuscito a trasmettere. Né Pier Luigi Bersani, tanto più che il suo Pd incarnava i vecchi modi di fare politica. Ma è anche il problema con l’incalzante messaggio che viene da Berlino e dal cancelliere Angela Merkel: la disciplina di bilancio, al fine di raggiungere la competitività non è un messaggio che ispiri o motivi le persone. Può andar bene per un anno o due. Ma la crisi dell’euro sta arrivando al suo terzo anno. Impari o meno la lezione, il mondo ora guarderà l’Italia, e in particolare a Berlusconi e a Grillo, in uno stato di nervosa fascinazione. Chi conosce la politica italiana può fare un ragionevole tentativo di prevedere come si comporterà Berlusconi: sfrutterà la sua posizione politica per il massimo guadagno e starà già cercando di capire quali deputati e senatori di altri partiti, in particolare del M5S, potrebbero essere persuasi a cambiare bandiera e ad unirsi al Pdl. Nessuno tuttavia, all’estero certamente, ma probabilmente anche in Italia, sa prevedere il comportamento di Grillo. Forse nemmeno lui potrebbe, dal momento che questa è una situazione nuova anche per lui, e si starà chiedendo come diavolo farà a mantenere il controllo dei suoi 162 parlamentari, della maggior parte dei quali non sa quasi nulla. Certo, ha necessità di dettare l’agenda, concentrandosi su alcune aree chiave della riforma che può esigere dal Pd e dal Pdl. Ma quali e con quali rischi? Queste sono le domande più insidiose. Naturalmente è un momento di pericolosa instabilità, e, naturalmente, i mercati finanziari hanno ragione a essere preoccupati per l’Italia. Tuttavia, dato il discredito della classe politica in questi ultimi anni, dato il forte senso d’irrealtà o di negazione che ha così spesso dominato il dibattito politico ed economico, è anche un momento molto eccitante. Forse è più facile da dire per un non-italiano che per un italiano. Noi non dobbiamo convivere con le conseguenze. Ma se l’Italia davvero deve svegliarsi, allora l’allarme probabilmente deve suonare un po’ come questo, tanto forte è stata la resistenza dei partiti politici, delle federazioni di grandi imprese e dei sindacati alla necessità di un cambiamento. In passato allarmi di questo tipo sono stati ignorati, o tacitati e potrebbe accadere di nuovo. Se ciò dovesse accadere, tuttavia, gli effetti potrebbero essere davvero gravi. Non ci sarebbe alcun conforto nel fatto che siano stati opera di un pagliaccio. Traduzione di Carla Reschia da - http://www.lastampa.it/2013/03/01/cultura/opinioni/editoriali/il-messaggio-del-voto-all-europa-5UqqVU8OFN2FEr9Y4rkCCK/pagina.html Titolo: BILL EMMOTT. - “Italia al collasso, Beppe Grillo è un rantolo di fine corsa” Inserito da: Admin - Aprile 10, 2013, 06:39:20 pm Sei in: Il Fatto Quotidiano > Media & regime > Crisi,
Crisi, Emmott: “Italia al collasso, Beppe Grillo è un rantolo di fine corsa” L'ex direttore dell'Economist e autore del docu-film "Girlfriend in a coma" al Fatto Quotidiano: "Se mi chiedi parole per raccontare questa crisi, la prima che mi viene in mente è la collusione, la connivenza. È come se larga parte del Paese fosse stato socio occulto di questa deriva" di Antonello Caporale 10 aprile 2013 “Se state annegando in una crisi che definite senza precedenti è perché gli argini della società civile non hanno retto. In Italia si è verificato un collasso di tutti gli organi vitali della comunità: prima la politica certo. Ma poi la Chiesa, poi la famiglia, infine l’informazione. Un birillo caduto sull’altro, un effetto domino disastroso. Non c’è istituzione salva, integra, degna. Alla fine, del vostro Paese resta il corpo scheletrito, ridotto alla fame. Lo scuoti ma non ricevi segnali di vita. Lo osservi e lo trovi immobile, insensibile a qualunque sollecitazione. Il voto a Beppe Grillo non è altro che un sussulto, un rantolo di fine corsa, un moto di rabbia e impotenza insieme”. In coma. Se il termine della vita è la morte, il coma è quell’anticamera, è il momento che lo precede, la malattia che invade ogni cellula e la immobilizza, lo stadio che annuncia la probabile fine corsa. La parola che viene in mente a Bill Emmott, co-autore del film “Girlfriend in a Coma” scritto insieme ad Annalisa Piras che lo ha diretto e prodotto. Dal coma si può uscire, ma è una impresa titanica. Ci aspetteranno anni di dolori e a dircelo è un amico dell’Italia, una persona che si sente fidanzato con l’Italia: la ama ma non la riconosce più. Emmott è stato il primo osservatore oltre frontiera ad accorgersi di un problema, divenuto poi pericolo, chiamato Silvio Berlusconi, il primo a metterlo in prima pagina catalogandolo come “unfit”: inadatto, inadeguato a governare. Emmott dirigeva l’Economist a quel tempo e quella copertina sollevò una nube così alta che ancora adesso si scorge dietro la sua sagoma di londinese mite, col pizzetto e il passo del gentlman. Bill torna sempre qui da noi. Due, tre volte l’anno. Dalla Toscana divaga per la penisola: “in treno è facilissimo. Con Frecciarossa raggiungi ogni città quando vuoi. Da noi non esistono treni così veloci (se si esclude il Londra-Parigi)”. È il primo encomio in tanta desolazione. “Potrei risponderti che il treno veloce non è una questione dirimente. Non cambia la faccia del tuo Paese”. Che conosci così bene da definirlo come una tua girlfrend. Del resto “Girlfrend in a coma”, è l’ultimo amaro atto d’accusa nel quale riepiloghi vent’anni di storia, la ricomponi attraverso le facce del potere, sfingi spesso immobili, occhi di vetro che assistono all’oltraggio della legalità e della Costituzione. Ma il tuo film recinta la vicenda berlusconiana dentro l’opera collettiva di una classe dirigente collusa e nel panorama asfissiante di una società che mormora, non parla, ama le mezze verità e le mezze vergogne, si produce in mezzi inchini e mezzi dinieghi. Bill, non abbiamo altro da fare che morire? Possibile che non scorga altro, la società italiana è complessa e possiede energie ancora vitali secondo me. “Tutto quel che è accaduto non è stato un caso, non un incidente della storia. La forza pirotecnica del berlusconismo, e le smargiassate, e la grandiosità dei suoi conflitti e anche del suo potere che si è espanso e ha attecchito profondamente nella cultura del Paese, è il risultato di una larga compromissione della borghesia, degli intellettuali. Se mi chiedi parole per raccontare questa crisi, la prima che mi viene in mente è la collusione, la connivenza. È come se larga parte del Paese fosse stato socio occulto di questa deriva. Ho detto che la condizione di salute mi sembra peggiore di quel che una veduta meno prossima della mia possa intuire. Non c’è solo crisi politica e non è questione di recessione economica. C’è di più”. In Inghilterra non sarebbe stato possibile, ho capito bene? “Abbiamo avuto leader carismatici, dotati di una forza particolare. Chi può dimenticare il carisma di Churchill? E oggi come non si può rievocare il governo e il pugno della Thatcher? Perfino il mandato di Tony Blair è stato sostenuto da un ampio movimento di opinione favorevole. Ma questi tre signori hanno sempre avuto di fronte contropoteri eccellenti, una bilancia che distribuiva su diversi pesi gli interessi in campo. L’informazione britannica è molto più rigorosa e tenta sempre di fare il proprio mestiere. Puoi dirmi che la Rai è come la Bbc?”. No, la Rai non è affatto la Bbc: “Ci troviano d’accordo, allora. E quale altro potere ha retto in Italia durante questo ventennio? C’è un parallelismo significativo tra la decadenza della politica, l’appannamento del suo senso etico, e l’ondata di malcostume che ha piegato la Chiesa, infiltrando dentro quella comunità l’odore dei soldi e della corruzione. Un pilastro della società civile è così venuto a mancare e proprio nel momento in cui c’era più bisogno che restasse in piedi. Ecco perchè la crisi da voi è più profonda, più seria e più grave”. Una società più debole e più incattivita: “Rabbia, sa esprimere solo la rabbia. Il voto al Movimento 5 Stelle altro non è che una esplosione legittima ma piuttosto confusa di ribellione”. Ho visto il tuo film. Eri al Quirinale, mi pare, e la cinepresa ha fatto una panoramica degli invitati a una cerimonia di Stato. “Quel popolo di potenti radunati al Quirinale è la cornice dentro la quale l’anomalia si è sviluppata. Non ci sono innocenti, questo mi pare assodato”. Siamo tutti “unfit”? “Di sicuro un gran numero lo è”. dal Fatto Quotidiano del 9 aprile 2013 da - http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/04/10/crisi-emmott-italia-al-collasso-beppe-grillo-e-rantolo-di-fine-corsa/558165/ Titolo: BILL EMMOTT. - Tra Usa e Cina un futuro fianco a fianco Inserito da: Admin - Giugno 09, 2013, 11:01:45 am Editoriali
09/06/2013 Tra Usa e Cina un futuro fianco a fianco Bill Emmott A tutti noi piacciono le narrazioni semplici. Eppure anche i nostri racconti preferiti spesso si contraddicono l’un l’altro. E’ idea comune che quando sorge un nuovo potere ci sarà inevitabilmente da mettere in conto un conflitto con i poteri dominanti esistenti. Il centenario, che cadrà l’anno prossimo, dell’inizio della prima guerra mondiale tra la Germania e le vecchie potenze europee, Francia e Gran Bretagna, ha convinto molti che oggi questo rischio esista tra la Cina e gli Stati Uniti. Un’altra narrazione, particolarmente amata dai giornalisti, e in contraddizione con la prima, è l’idea che la diplomazia personale tra i leader di queste grandi nazioni sia ciò che fa la differenza e determina se ci sarà uno scontro o una collaborazione. Se solo Guglielmo di Germania e re Giorgio V d’Inghilterra si fossero incontrati a giugno o luglio del 1914, come hanno appena fatto nel loro vertice californiano di due giorni il presidente americano Barack Obama e il presidente cinese Xi Jinping, forse non sarebbe scoppiata la Prima guerra mondiale poche settimane più tardi. E la storia del 20° secolo sarebbe potuta essere completamente diversa. Le storie parallele sono come una gara tra un dramma greco classico, in cui la tragedia deve inesorabilmente accadere nonostante gli avvertimenti del coro, e un classico film di Hollywood in cui gli eroi salvano la situazione conducendo al lieto fine. La realtà, tuttavia, è diversa dalle tragedie greche e anche dai film di Hollywood. E’ più imprevedibile, ma anche più rassicurante. Questo è il modo di valutare le relazioni Usa-Cina, e non solo il fatto che il presidente Obama e il nuovo capo di Stato cinese si siano seduti insieme in maniche di camicia e senza cravatta sotto il sole californiano raccontandosi qualche barzelletta. C’è abbastanza posto nel mondo perché queste due superpotenze coesistano l’una accanto all’altra e evitando i conflitti. Perché, mentre durante la Guerra fredda l’Unione Sovietica e gli Stati Uniti avevano ideologie assai distanti tra loro e modi molto diversi di concepire la realtà, lo stesso non vale per l’America e la Cina. In realtà, nonostante gli uni abbiano una democrazia e gli altri un regime autoritario a partito unico, gli americani e i cinesi hanno una visione molto simile del mondo. Questo è dimostrato, infatti, dal modo in cui, nonostante i reciproci timori e sospetti, sembrano piuttosto ammirarsi a vicenda. Entrambi i paesi hanno la cultura dell’impresa individuale, del capitalismo, del desiderio di arricchirsi e di reinventarsi in continuazione. In Cina quella cultura è stata messa in ombra dal comunismo del presidente Mao Xedong ma sin dai primi Anni 80 è in ripresa e si sta sempre più riaffermando. Entrambi sono anche Paesi prevalentemente assorbiti dai loro affari interni. La Cina si autodefinisce il «regno di mezzo» perché per tantissimi secoli si è ritenuta al centro del mondo. Eppure, nella sua lunga storia non è mai stata una potenza imperiale o coloniale, tranne che nei confronti dei territori ai propri confini, come il Tibet. Vuole proteggere il proprio territorio, cosa che a volte ha significato espanderlo. L’America, in fondo, è uguale: protetta dai suoi due oceani, ha davvero sempre voluto essere lasciata in pace, fin dai tempi di George Washington, che mise in guardia i suoi connazionali contro «i coinvolgimenti stranieri». Dal 1941 questo non è stato più possibile e gli Stati Uniti da allora naturalmente si considerano una potenza globale. Ma non si sono mai trovati a loro agio nel ruolo. Non sono mai stati un impero nel senso europeo della parola: il loro predominio è fatto di influenza, di regole, di idee, piuttosto che di territori coloniali. Certo, l’America è una potenza più idealista di quanto sia mai stata e probabilmente sarà nel corso di questo 21° secolo la Cina grazie alla sua forza crescente. E’ improbabile che ci sia un insieme di «valori cinesi» o principi politici che la Cina cercherà di imporre agli altri. Ma anche l’America ha oscillato tra una politica estera fondata sugli ideali e una più dura realpolitik, e di solito quest’ultima ha avuto il sopravvento. Per questo motivo non occorre immaginare come inevitabile la tragedia greca, ovvero lo scenario da 1914 di uno scontro inevitabile. I sorrisi tra il Presidente Obama e il presidente Xi erano genuini e accoglienti, ma non perché il loro rapporto possa disinnescare la bomba a orologeria nel rapporto Usa-Cina. Bensì perché quella bomba a tempo, in quanto tale, non c’è. Ci sono, tuttavia, e sono reali e importanti, delle tensioni che regolarmente devono essere risolte. Allo stato delle cose queste comprendono reciproche accuse di cyber-spionaggio o cyber-attacchi, e, più pericolose, delle tensioni tra la Cina e gli alleati asiatici degli Stati Uniti, il Giappone e le Filippine, per le rivendicazioni territoriali nel Mar Cinese Orientale e nel Mar Cinese Meridionale. E queste questioni territoriali in effetti hanno qualcosa che ricorda il 1914. La Prima guerra mondiale, ricordiamocelo, non è iniziata a causa di uno scontro diretto tra Germania, Francia e Gran Bretagna, ma perché l’assassinio a Sarajevo dell’arciduca Francesco Ferdinando, erede al trono austro-ungarico, ha fatto sì che gli austro-ungarici dichiarassero guerra alla Serbia. In modo analogo, uno scontro in mare tra la Cina e le Filippine o, peggio ancora, uno scontro tra Cina e Giappone, ha il potenziale per costringere le grandi potenze a confrontarsi. E queste rivendicazioni territoriali riguardano in realtà il controllo strategico degli oceani, piuttosto che le isole specificamente oggetto della controversia. Una questione importante al riguardo è se la Marina degli Stati Uniti dovrebbe essere libera di pattugliare attorno alle coste della Cina, o se dovrebbe invece essere ricacciata verso le sue basi a Guam o alle Hawaii, o direttamente verso la madrepatria. I segnali che arrivano su queste controversie, tuttavia, oggi sono più incoraggianti rispetto a sei o 12 mesi fa. Sia la Cina che l’America sembrano capire quanto alta è la posta in gioco. Entrambe hanno cercato di calmare i toni. La settimana scorsa a Singapore, durante una grande conferenza su difesa e sicurezza, è emerso che le navi da guerra cinesi stanno navigando all’interno delle acque territoriali di Guam, il che implica che la Cina ha deciso di non mettere al bando le navi americane bensì di emularle. Quando si tratta di grandi potenze non ci può essere alcun dubbio: più si parla meglio è e la questione cruciale è avere regolari comunicazioni da ambo le parti circa le intenzioni, gli interessi e le pre-occupazioni. Negli ultimi dieci anni gli Stati Uniti e la Cina hanno enormemente ampliato la quantità di tempo che trascorrono a parlare tra loro e questo primo grande vertice tra i presidenti Obama e Xi ne è stata una felice conseguenza. Non è necessario che il 21° secolo sia sanguinoso e tragico come il 20°, e uno scontro tra la Cina e l’America è largamente evitabile. Da un punto di vista europeo questo è desiderabile così come il fatto che i presidenti abbiano avuto un così lungo vertice. Quello che è, o dovrebbe essere, più preoccupante è che nessuno dei due sembra desiderare di spendere così tanto tempo ed energie a parlare con gli europei. Noi evochiamo il passato, non il futuro. Traduzione di Carla Reschia da - http://www.lastampa.it/2013/06/09/cultura/opinioni/editoriali/tra-usa-e-cina-un-futuro-fianco-a-fianco-RvcZD8q0X9S8YUpacWu4ML/pagina.html Titolo: BILL EMMOTT. - Letta è ok ma la City resta scettica Inserito da: Admin - Luglio 21, 2013, 10:02:17 am Editoriali
21/07/2013 Letta è ok ma la City resta scettica Bill Emmott Non c’è nulla che noi scettici, sospettosi e talvolta un po’ insulari britannici amiamo di più di chi, arrivando a farci visita, parla la nostra lingua, e non solo in senso lessicale. È senz’altro il caso del presidente Enrico Letta impegnato questa settimana nel suo Grand Tour delle istituzioni londinesi, dal numero 10 di Downing Street ai media internazionali come il «Financial Times» e «The Economist», dagli investitori e analisti finanziari della City agli intellettuali e agli opinionisti . Perché alla fine, sembrava proprio uno di noi, con il suo ottimo inglese, i modi eleganti, le sue idee sul libero mercato. Il suo colpo da maestro, nella capitale che di recente ha celebrato il funerale di Margaret Thatcher, è stato quello di annunciarci per l’autunno il suo piano per la privatizzazione del patrimonio pubblico. Se c’è una cosa che potrebbe rendere credibili ai cinici finanzieri della City tutti i suoi proclami sulla riduzione del debito pubblico italiano, la riforma della politica e la liberalizzazione dell’economia, ecco, sarebbe esattamente un piano di privatizzazione. Eppure, meglio non sognare troppo. Perché un’altra caratteristica britannica è che noi seguiamo le notizie internazionali, soprattutto leggendo il FT. Questo significa che, dietro la calda accoglienza (in una per noi insolita ondata di caldo estivo) e i sorrisi pieni di ottimismo di quanti l’hanno accolto, aleggiava un bel po’ di scetticismo. L’attenzione era puntata soprattutto sullo strano caso di Alma Shalabayeva. Il Kazakistan ha gettato un’ombra sulla visita a Londra di Letta, molto più di quanto abbia fatto il comportamento incivile e barbaro di Roberto Calderoli. Non che abbia giovato all’immagine internazionale dell’Italia, ma praticamente nessuno a Londra ha mai sentito parlare di Calderoli e chi ne sa qualcosa pensa la Lega Nord sia sgradevole ma irrilevante. Nessuno, peraltro, aveva mai sentito parlare della signora Shalabayeva e di suo marito Mukhtar Ablyazov, ma la loro storia ha avuto grande risonanza. «Consegna speciale», così l’Ufficio delle Nazioni Unite per i diritti umani ha definito questa deportazione, è un termine che fa male a Londra, giacché riteniamo che il nostro governo sia stato coinvolto in qualcuna di queste procedure extragiudiziali illegali durante il passato decennio, durante la «guerra al terrorismo» guidata dagli Stati Uniti. Ma abbiamo anche una fede particolarmente radicata nello Stato di diritto, e nel rispetto dell’asilo politico. Inoltre, è appena giunta a termine in Gran Bretagna un’annosa vicenda riguardante l’estradizione di un islamista radicale giordano, Abu Qatada, dopo oltre un decennio di battaglie legali per poterlo espellere e rimpatriare in Giordania dove doveva essere processato. A Londra la gente si chiede, se ci sono voluti dieci anni per ottenere il diritto di espellere Abu Qatada, come mai ha potuto la polizia italiana espellere la signora Shalabayeva e sua figlia nel giro di due giorni, senza alcuna possibilità di appello? Il caso kazako, tuttavia, piace ad alcuni euroscettici britannici perché conferma una delle loro più radicate convinzioni, vale a dire che il problema con l’Unione europea è che siamo solo noi britannici a obbedire alle regole, mentre tutti gli altri le ignorano. Non importa che non sia vero, né che in questo caso la normativa in questione siano i diritti umani e le convenzioni dell’Onu, piuttosto che qualcosa che ha a che fare con l’Ue. Gli euroscettici britannici amano essere confermati nelle loro credenze. E tuttavia non è questo il motivo principale per cui il caso kazako ha oscurato il successo della visita del presidente Letta. La ragione principale è che, per tutti quelli che prestano attenzione al governo italiano, il caso kazako ha dimostrato come, nonostante l’agenda coraggiosa e le sagge promesse, né le istituzioni di governo, né la coalizione siano più capaci, affidabili e responsabili di prima. E’ stato un brutto anno per la diplomazia italiana: la cattiva gestione del caso dei marò in India ha offuscato l’immagine di competenza del governo Monti. Ora il caso kazako suggerisce che, anche quando è ministro degli Esteri una persona ammirata a livello internazionale come Emma Bonino, non ha davvero alcun potere o influenza. Che il ministro dell’Interno, responsabile della deportazione, sia uomo di Silvio Berlusconi non è passato inosservato, tanto più che uno dei messaggi del presidente Letta diceva, almeno implicitamente, che erano finiti i tempi in cui immagine dell’Italia era plasmata da Berlusconi. Al di là delle ombre, peraltro, l’affettuoso consenso britannico per il presidente Letta era venato di simpatia ma pieno di scetticismo. Uno scetticismo solidale per quanto riguarda l’economia e soprattutto l’euro: gli inglesi sanno che lo spazio di manovra dell’Italia è limitato e che ogni speranza poggia su un qualche cambiamento nella politica tedesca dopo le elezioni di settembre, di cui nessuno può essere sicuro. Ma sulla stabilità del governo, e sulla sua capacità di svolgere il programma impressionante e rassicurante tracciato dal presidente Letta, lo scetticismo di Londra era più profondo. Sappiamo che parla sul serio e ci è piaciuto quello che abbiamo sentito. Dubitiamo, però, che sia in grado di farlo. Tuttavia, per una volta ci auguriamo di essere smentiti. traduzione di Carla Reschia da - http://lastampa.it/2013/07/21/cultura/opinioni/editoriali/letta-ok-ma-la-city-resta-scettica-1SDiJtGOTR224sHz3ZvHFM/pagina.html Titolo: BILL EMMOTT. - Perché il Pdl è “adatto” a stare al governo Inserito da: Admin - Agosto 04, 2013, 08:38:17 am Editoriali
03/08/2013 Perché il Pdl è “adatto” a stare al governo Bill Emmott Dopo che l’«Economist» pubblicò nel 2001 la famosa copertina con il titolo su Berlusconi «unfit» a guidare l’Italia, mi è stato fatto notare che questa parola non ha un equivalente preciso in italiano. Può darsi. Ma dopo la decisione della Corte di Cassazione, in molti continuano a chiedermi se un partito guidato da Berlusconi sia ora «inadatto» a far parte del governo Letta. Per quanto paradossale possa sembrare, la mia risposta è che il Pdl è «adatto» a far parte dell’attuale governo. Ma non necessariamente per molto tempo. I significati di «unfit», che si traduca come «inadatto» oppure no, sono diversi a seconda del caso. Sul fatto che Berlusconi fosse «inadatto» a guidare l’Italia non avevamo nessun dubbio a causa del suo conflitto di interessi. Ma poi si è mostrato incapace anche in un altro senso: perché non è stato in grado di riformare né risollevare l’Italia mentre era a Palazzo Chigi. La presenza del Pdl nel governo Letta suscita però dubbi su un altro tipo di idoneità. Dopo tutto, qual è lo scopo per cui è nato il governo Letta? È stato concepito come la soluzione a quasi tre mesi di stallo dopo le elezioni di febbraio. Non è stato pensato per una riforma rivoluzionaria del Paese, piuttosto come uno strumento per avere stabilità immediata in una situazione di grandi instabilità. Quindi, la domanda che ci si dovrebbe porre adesso è questa: la presenza del Pdl aiuta o ostacola il processo di riforme politiche che il presidente Napolitano ha chiesto al governo quando è nato nell’aprile scorso? La conferma della condanna a Berlusconi non cambia la risposta a questa domanda, a meno che il Pdl decida di cambiare il proprio atteggiamento. Solo se il Pdl decidesse di cambiare, contestando in qualche modo la condanna del suo leader, sfidando la magistratura, bloccando le riforme e avanzando ulteriori richieste, diventerebbe chiaramente «inadatto» agli scopi dell’attuale governo. Se lo fa, il risultato più probabile, e preferibile, sarebbe quello di nuove elezioni, anche se ci potrebbe essere il tentativo di formare un nuovo governo. L’establishment politico, che nel caso italiano tende a includere il media-system con le grandi corazzate dell’informazione, è sempre contrario all’idea di nuove elezioni. Porterebbero nuove incertezze, comporterebbero il rischio di nuove interruzioni e potrebbero favorire ancora una volta outsider come Beppe Grillo. I governi stabili sono preferibili. Tuttavia, queste non sono buone ragioni per opporsi a nuove elezioni se l’alternativa è la paralisi politica. La ragione migliore per opporsi a eventuali nuove elezioni è che si terrebbero con la vecchia legge elettorale, con tutte le sue note carenze. La più seria delle quali è che grazie al premio di maggioranza, il risultato produrrebbe una scossa e forse un esito scandalosamente anti-democratico. Quindi, come osservatore che non fa parte dell’establishment politico italiano, io voterei per continuare con il governo Letta fino a che non si approvi una nuova legge elettorale. Il Pdl è disponibile ad appoggiare una riforma del genere o a fare i compromessi necessari, rispettando la decisione della Cassazione? Nessuno al momento lo sa. L’unico modo di scoprirlo è provarci. Alcuni membri del Partito democratico non saranno certo d’accordo o perché credono che candidarsi contro un partito guidato da un condannato porterebbe un vantaggio elettorale, o perché temono di coprirsi di vergogna per aver collaborato con il Pdl nella coalizione. Se il governo non combinerà nulla, quest’ultima preoccupazione sarebbe giustificata. Ma l’idea di poter avere un vantaggio elettorale rischia di ripetere lo stesso errore commesso dai suoi oppositori negli ultimi 20 anni: quello di sottovalutare Silvio Berlusconi. Negli Anni Sessanta, il grande presidente riformatore americano, Lyndon B. Johnson, aveva un’ottima, seppur volgare, frase per descrivere questo tipo di situazione: «Meglio averli dentro la tenda che pisciano fuori, piuttosto che averli fuori che pisciano dentro. Almeno per un po’». Traduzione di Merope Ippiotis da - http://lastampa.it/2013/08/03/cultura/opinioni/editoriali/perch-il-pdl-adatto-a-stare-al-governo-zLeqboYuIYaitITrgu3YZK/pagina.html Titolo: Bill Emmott. Così svanisce il mito dell’intelligence americana Inserito da: Admin - Ottobre 28, 2013, 08:50:26 am Editoriali
27/10/2013 Così svanisce il mito dell’intelligence americana Bill Emmott «Non farsi prendere». Mi ha risposto così un ex alto funzionario dell’intelligence britannica quando gli ho chiesto quali principi dovrebbero regolare le attività delle agenzie di spionaggio quando mettono sotto controllo i loro alleati. Questo non significa che la polemica sulla Nsa americana che ascolta le telefonate di Angela Merkel non sia importante. Ma significa che è importante per un motivo diverso dall’idea ingenua che spiarsi tra alleati sia «inaccettabile», come si è sentita in obbligo di dire la Cancelliera. Il motivo per cui sono importanti le rivelazioni sulla Nsa che continuano ad arrivare dal loro ex dipendente, Edward Snowden, che ha ottenuto asilo politico in Russia, hanno a che fare con la competenza. La prima cosa scioccante per le altre agenzie di spionaggio, come l’MI6 britannico, è che la Nsa si sia fatta scoprire. Ma la seconda cosa sconvolgente è quanto alla Nsa siano stati incapaci di mantenere non solo questo segreto, ma tutta la storia della loro vasta attività di sorveglianza. Si potrebbe sostenere che questo accade perché gli americani sono arroganti. Pensano di essere in grado di fare una cosa solo perché è tecnicamente possibile farla e credono che nessuno sarà in grado di fermarli. Per questo il cancelliere Merkel aveva detto che «non bisogna fare le cose solo perché si è in grado di farle». Ma accanto a questa verità sull’arroganza americana, una costante della vita occidentale fin dalla Seconda guerra mondiale, si è affermata anche la convinzione che della competenza degli americani più o meno ci si poteva fidare. La vicenda Snowden ha distrutto questa convinzione. Snowden era un collaboratore informatico di prima nomina. Non era una spia provetta e neppure un genio del computer. Se era a conoscenza lui del programma di sorveglianza della Nsa e aveva accesso a informazioni sulle registrazioni delle conversazioni telefoniche dei leader mondiali, allora lo stesso vale per migliaia o forse decine di migliaia di altri dipendenti. Questo va contro l’essenza delle operazioni di intelligence: la severa protezione delle informazioni all’interno di piccoli gruppi di persone in base al principio che «hanno bisogno di sapere». Ecco perché i nemici dell’Occidente di Al Qaeda, così come prima di loro i bolscevichi di Lenin, usano strutture a cellule in cui ogni piccolo gruppo non sa e non può sapere che cosa fanno gli altri. Un tale sistema di protezione delle informazioni è certamente diventato più difficile nell’era digitale. Ogni sistema informatico complesso - e la Nsa è probabilmente uno dei più sofisticati al mondo - ha bisogno di amministratori per controllare le password, l’accesso e la crittografia, che saranno quindi in grado di venire a sapere una quantità enorme di cose, se solo sono abbastanza interessati a farlo. Eppure è ancora possibile creare barriere, mettere limiti a ciò che ogni amministratore può sapere. La Nsa semplicemente pare non essersi presa questa briga. Questo è probabilmente l’aspetto più dannoso di tutta la vicenda. Di certo, come conseguenza delle ultime rivelazioni, la Germania e gli altri Paesi europei chiederanno nuovi e più equi diritti nei loro accordi per la condivisione delle informazioni di intelligence con gli Stati Uniti. Hanno modo di farlo adesso ed è ovvio che vogliano sfruttare l’occasione. Ma in questo modo la grande vittima è la reputazione della competenza dell’America e con essa la volontà degli alleati europei di fidarsene e di collaborare in futuro. Il sentimento, con ogni probabilità è reciproco. L’America non è stata favorevolmente impressionata dalla competenza e dall’efficienza dei leader europei in questi ultimi anni, soprattutto nel trattare la crisi del debito sovrano dal 2010, e dalla loro politica estera verso la Libia, la Siria, l’Egitto, l’Iran e la Russia, tra gli altri. Anche l’Europa ha brontolato e sbuffato per l’indecisione americana in Medio Oriente, soprattutto per la sua incoerenza sulla Siria. Così la vicenda dell’Nsa amplierà ulteriormente quelle crepe nel rapporto transatlantico. E’ molto più importante delle precedenti rivelazioni di Wikileaks, anche se quelle già avevano mostrato l’incompetenza nella protezione delle informazioni. Il materiale svelato da Wikileaks era imbarazzante, ma non c’era alcuna informazione segreta, nulla di davvero importante. Le rivelazioni di Snowden, invece, arrivano nel cuore della raccolta di informazioni. Tutti gli alleati occidentali hanno avuto in precedenza incidenti imbarazzanti con l’intelligence, soprattutto durante la guerra fredda. Di solito riguardavano la scoperta di agenti sovietici in posizioni di rilievo. Non è noto a tutti, ad esempio, che la ragione per cui c’è sempre stato un funzionario europeo a capo del Fondo monetario internazionale da quando è stato istituito nel 1944, è che l’artefice del Fondo monetario internazionale, un funzionario americano chiamato Harry Dexter White, che progettò sia il Fondo sia la Banca mondiale con l’economista britannico Lord Keynes, si rivelò essere una spia sovietica. Il presidente Harry Truman scelse di consegnare il Fmi all’Europa, anche se era la più potente delle due nuove istituzioni, per evitare l’imbarazzo di una pubblica rivelazione dell’opera di spionaggio di White. Incidenti del genere si sono verificati in tutti i nostri Paesi durante la guerra fredda e non c’è dubbio che ci si spiasse tutti a vicenda. Ma la consapevolezza che avevamo un nemico comune ci ha tenuti insieme e la leadership americana è stata ritenuta troppo necessaria per metterla radicalmente in discussione. Oggi il mondo è diverso. Noi europei vogliamo ancora la leadership americana ma vogliamo anche che il nostro leader mostri non solo potere ma anche competenza. Sono aspirazioni che verranno danneggiate dal caso Nsa. Traduzione di Carla Reschia Da- http://lastampa.it/2013/10/27/cultura/opinioni/editoriali/cos-svanisce-il-mito-dellintelligence-americana-UKHBrz76w5r9bf7KpiBDPO/pagina.html Titolo: BILL EMMOTT. - Filippine, un disastro che mette a rischio la tenuta sociale del Inserito da: Admin - Novembre 13, 2013, 04:33:04 pm Editoriali
11/11/2013 Filippine, un disastro che mette a rischio la tenuta sociale del Paese Bill Emmott Oltre alla questione più importante - il terribile costo umano - la tragedia del tifone Haiyan alle Filippine segna la fine di una serie di buone notizie per una nazione del Sud-Est asiatico che finora non aveva condiviso troppi successi della regione. Speriamo che la forza e la credibilità che le precedenti buone notizie avevano portato al governo del presidente Benigno Aquino III gli permettano di tenere insieme il Paese e recuperare rapidamente. Corruzione, cattiva gestione, guerre separatiste e guardaroba pieni di scarpe di Imelda Marcos, hanno per decenni reso le Filippine il peggior attore del Sud-Est asiatico. Un Paese che, nonostante i cento milioni di abitanti, è stato talvolta guardato con un misto di disprezzo e pietà dai suoi vicini, specialmente l’influente, disciplinata e ricca città-stato di Singapore. Ma negli ultimi anni tutto questo ha iniziato a cambiare. L’anno scorso il governo finalmente ha firmato la pace con il Fronte di Liberazione Islamico Moro, forza separatista che ha condotto una lotta armata per più di 25 anni nella regione meridionale del Mindanao, conflitto ignorato dal resto del mondo nonostante abbia ucciso più di 120 mila persone. C’è molto lavoro da fare prima che la pace sia finalmente garantita, ma dato che il patto promette di dare al Mindanao un alto livello di autonomia, analoga a quella della Catalogna in Spagna, sembra davvero uno spartiacque. Nel frattempo le Filippine hanno mostrato una forte crescita, grazie a un’espansione annuale del prodotto interno lordo maggiore del 4% in nove degli ultimi 12 anni, e con previsioni della Banca di Sviluppo Asiatico per il 7% nel 2013. La sua valutazione di credito internazionale è stata innalzata di grado quest’anno da tutte le tre maggiori agenzie internazionali, l’ultima, Moody’s, giusto un mese fa. Grazie alle tasse crescenti e ai soldi inviati dai numerosi filippini che lavorano all’estero, il Paese è anche diventato un creditore netto mondiale, con riserve di valuta straniera che superano i debiti. Questo sviluppo economica non è avvenuta prima del tempo. Le Filippine si trovano in una regione dove è facile scontrarsi con i vicini - l’ultima lite è sul territorio sottomarino con la Cina - e hanno dovuto chiedere aiuto diplomatico agli Stati Uniti, di cui un tempo erano colonia, per fronteggiare i cinesi. Regimi corrotti, troppo disfunzionali e screditati per garantire che le necessarie infrastrutture venissero costruite, in precedenza avevano reso difficile la creazione di alleanze. Il presidente Aquino viene dalla più famosa famiglia politica del Paese. Suo padre Benigno fu assassinato nel 1983 perché si opponeva all’allora dittatore Ferdinand Marcos, e sua madre Corazon condusse la rivoluzione «potere al popolo» che nel 1986 rovesciò Marcos e la rese il primo Presidente democraticamente eletto. Fin dalla sua elezione nel 2010, il compito di ripulire il Paese dalla corruzione è stato rinforzato e le infrastrutture hanno iniziato a essere ricostruite. Ora, di fronte ai danni compiuti dal tifone Haiyan, il compito del presidente Aquino di tenere insieme il Paese e ricostruirlo è più grande e più duro che mai. Eppure disastri naturali di questo tipo hanno alcune caratteristiche che rendono il recupero più semplice. Prima di tutto l’aiuto e assistenza materiale che viene da grandi e piccole potenze, e che per lo meno sospende le baruffe diplomatiche. È quel che è successo circa tre anni fa, quando il Giappone fu colpito da terremoto e tsunami, e lo stesso è probabile che accada nel caso delle Filippine. Una seconda caratteristica è che l’effetto economico dei disastri naturali è temporaneo e relativamente poco importante. Con una forte posizione di credito e supporto internazionale, le Filippine saranno in buona posizione per ricostruirsi in fretta e potranno installare migliori infrastrutture e edifici più moderni di prima. Il boom della ricostruzione neutralizzerà, e forse supererà, i costi economici di breve termine. L’effetto economico, ripeto, non è importante. Quello su cui bisogna concentrarsi è l’impatto umano e sociale di un disastro naturale come questo. Il vero pericolo per le Filippine è che la tragedia sia una nuova fonte di divisioni, risentimenti e rabbia, causati da qualsiasi ingiustizia o corruzione percepita nel periodo successivo al disastro e nella ricostruzione. Per affrontare questo pericolo, saranno necessarie tutta la determinazione e le capacità politiche ereditate dal Presidente Aquino. Da - http://lastampa.it/2013/11/11/cultura/opinioni/editoriali/un-disastro-che-mette-a-rischio-la-tenuta-sociale-del-paese-6gxhRj7V8zu55FS6Lt82OP/pagina.html Titolo: BILL EMMOTT. - Gli ostacoli alla crescita economica Inserito da: Admin - Febbraio 09, 2014, 05:54:36 pm Editoriali
09/02/2014 Gli ostacoli alla crescita economica Bill Emmott Dall’inizio del 2014 per gli investitori internazionali nell’economia mondiale è cambiato tutto. Per i giovani disoccupati d’Italia, Gran Bretagna o persino America, o per una famiglia con un reddito invariato o in calo negli ultimi cinque anni, non è cambiato nulla. La grande domanda per il 2014 è se questi due percorsi torneranno a unirsi. Per gli investitori il cambiamento è notevole, anche se a pensarci bene non dovrebbe sorprendere. Per i giovani disoccupati e per le famiglie normali, al contrario, è la mancanza di cambiamento a deludere. Ma per loro la vera, grande delusione in molti paesi, l’Italia in particolare, è la mancanza di iniziativa da parte del governo o dei politici. Ci sarà un perché se il Movimento Cinque Stelle rimane stabile nei sondaggi e partiti anti-sistema come il Dutch Freedom Party in Olanda, il Front National francese o l’Independence Party britannico, guadagnano consensi nella prospettiva delle elezioni di maggio per il Parlamento europeo. Il cambiamento per gli investitori, tuttavia, dovrebbe portare un po’ di speranza, almeno per quanto riguarda un eventuale termine per la delusione. Una speranza più forte in America e in Gran Bretagna che in Italia o nel resto della zona euro, ma che potrebbe arrivare anche lì, in ultima analisi. A patto cioè, che gli eventi in Asia e in altre economie emergenti, non lo blocchino o lo destabilizzino. In che cosa consiste il cambiamento? Nel fatto che invece di continuare a calcolare quanto sono deboli le economie americana, inglese, giapponese e nordeuropea, investitori e banchieri centrali sono ora costretti a calcolare quanto siano forti. Il recupero dopo un crac finanziario, specialmente se duro come quello del 2008-09, è sempre lento. Ci vuole tempo perché le banche si sistemino, perché le aziende riducano i loro debiti, la fiducia è in frantumi. Ma alla fine ritorna e le aziende ricominciano a investire e ad assumere. Questo è chiaramente quello che sta accadendo in America e in Gran Bretagna. La ripresa degli investimenti va al rallentatore, ma è in corso. In America a gennaio sono stati creati meno nuovi posti di lavoro di quanto sperassero gli economisti, ma probabilmente ne è in gran parte responsabile il brutto tempo. La Federal Reserve confida nella ripresa abbastanza da aver iniziato a restringere la sua politica monetaria, riducendo gradualmente la quantità di obbligazioni acquistata ogni mese dal mercato, il cosiddetto «alleggerimento quantitativo». A differenza dell’America, il crescente rafforzamento della Gran Bretagna è dovuto più al mercato immobiliare e ai consumi delle famiglie e questo potrebbe renderlo meno sostenibile nei prossimi anni. Ma anche lì la disoccupazione è in calo e i redditi, al momento, stanno cominciando a crescere. Per questo motivo è probabile che entro la fine dell’anno la Banca d’Inghilterra cominci a ridimensionare la propria politica monetaria per impedire che la crescita produca un nuovo aumento dell’inflazione. Nella zona euro la preoccupazione è diversa: piuttosto che dell’inflazione la Banca centrale europea deve preoccuparsi della deflazione, o del calo dei prezzi, perché una tale tendenza renderebbe il peso già enorme del debito pubblico ancora più oneroso e potrebbe anche danneggiare le imprese. Ma la settimana scorsa la Bce ha ottenuto un’importante vittoria presso la Corte costituzionale tedesca, quando il giudice ha deciso che non poteva bloccare le misure adottate da Mario Draghi per sostenere il sistema finanziario. Questo rende più probabile che per combattere l’inflazione la Bce sarà ora in grado di presentare la propria politica di «alleggerimento quantitativo», pompando denaro nelle economie della zona euro così come la Fed ha fatto in America. Quindi il cambiamento è in cammino, su entrambe le sponde dell’Atlantico. Ma, come sempre, incombe un’ombra, o meglio, due ombre. In Europa la grande incognita è la politica – il pericolo che le elezioni europee di maggio potrebbero trasformare la naturale delusione dei comuni elettori in una grande ribellione contro l’Unione europea, contro la cooperazione internazionale e contro le politiche di austerità associate con l’euro e con la Germania di Angela Merkel. Nel mondo, però, l’incognita è un’altra anche se pure lì c’è una componente politica. L’ombra proviene dai nuovi fermenti che agitano le economie emergenti, quelle che negli ultimi cinque anni hanno salvato l’economia globale. In parte questo è il risultato del mutamento di politica della Federal Reserve, dal momento che l’alleggerimento quantitativo americano negli ultimi anni ha inondato di denaro non solo gli Stati Uniti ma il mondo intero. Anche un sacco di economie emergenti, però, hanno continuato a crescere velocemente in mezzo alla recessione globale, creandosi da sé molto nuovo credito e incoraggiando le proprie imprese private a chiedere prestiti. Il processo è stato sostenuto dall’aumento dei prezzi delle risorse naturali e dell’energia, che ha fatto apparire gli investimenti nelle economie produttrici di risorse dell’Africa, dell’Asia e dell’America latina come una scommessa a senso unico. Ma ora i prezzi delle materie prime sono in calo e questo rende la scommessa più rischiosa. È per molti versi un ritorno alla crisi finanziaria dei mercati estasiatici ed emergenti del 1997-98. I paesi che avevano accumulato grossi debiti privati e grandi deficit della bilancia dei pagamenti furono duramente colpiti. Così i produttori di petrolio, come la Russia, perché il prezzo del petrolio crollò. Ora le economie più fragili sono ancora quelle con grandi deficit come la Turchia, il Sud Africa, l’India e Indonesia, ma anche, di nuovo, la Russia. Le turbolenze dei mercati emergenti sono solo agli inizi, quindi è troppo presto per dire se sarà solo un’onda nell’oceano o un nuovo tsunami. C’è anche un’ulteriore complicazione: la Cina. La seconda più grande economia del mondo non è fragile, né ha un deficit. Ma altri paesi dipendono dalle sue importazioni, in particolare di risorse naturali e semilavorati. E la sua economia sta rallentando bruscamente per via della bolla del credito interno e degli sforzi ufficiali per contenerla. Lo scenario più favorevole è che le turbolenze dei mercati emergenti stavolta siano contenibili e che il rallentamento della Cina sia moderato. Ciò consentirebbe alle economie occidentali in convalescenza di recuperare le forze nel corso dell’anno. Eppure, dobbiamo sempre ricordare che la politica ha il potere di distruggere anche la previsione più fiduciosa e che i mercati finanziari vanno nel panico come mandrie di gnu inseguiti dai leoni. E dobbiamo infine ricordare che il punto dell’intero esercizio non sono le cifre del Pil o il reddito degli investitori ma il futuro di quei giovani disoccupati e i redditi familiari. Se non ci saranno miglioramenti entro la fine del 2014, non ci sarà nulla di cui rallegrarsi. Da - http://lastampa.it/2014/02/09/cultura/opinioni/editoriali/gli-ostacoli-alla-crescita-economica-mWuCxWg3JCOwJz2N7rm9qO/pagina.html Titolo: BILL EMMOTT. - Smog e debiti banco di prova per la Cina Inserito da: Admin - Marzo 26, 2014, 11:34:43 pm Editoriali
26/03/2014 - il paese a una svolta Smog e debiti banco di prova per la Cina Bill Emmott Una verità eterna sulla Cina moderna è che è in continua evoluzione. Appena credete di aver capito cosa sta succedendo, soprattutto in campo economico, vi scoprite superati. E’ inevitabile in un’economia che raddoppia di volume ogni 7-10 anni e che oggi è 25 volte più grande e più ricca di quando nel 1978 l’allora leader, Deng Xiaoping, diede il via al processo di transizione dalla pianificazione centrale maoista al capitalismo di mercato. Ma una cosa resta uguale: la politica conta molto di più dell’economia. Durante la mia visita a Pechino, la scorsa settimana, due fenomeni hanno attirato la mia attenzione. In primo luogo che, nonostante alcune splendide giornate di sole senza traccia di smog , tutti quelli che incontravo fossero intenti a studiare i loro smartphone per consultare le applicazioni in grado di informarli sulle ultime stime dell’inquinamento atmosferico nella capitale. A questo visitatore l’aria sembrava sorprendentemente limpida, ma tutti i miei amici scuotevano la testa, spiegando quanto sia raro il cielo blu, ma anche come, grazie ai loro telefoni, sapessero che anche in quei giorni incantevoli il livello delle pericolose particelle cancerogene nell’aria era molto più alto rispetto al livello di sicurezza fissato dall’Organizzazione mondiale della sanità. Il secondo fenomeno è stato l’improvviso irrompere nei notiziari di storie di aziende insolventi, portate dai loro debiti al fallimento, anche per volontà del governo o delle banche di proprietà statale. Dall’inizio della crisi finanziaria globale, nel 2008, la crescita economica cinese è stata trainata in gran parte da una grande espansione del credito, tanto al settore privato come ai governi locali. Un’espansione ora in rallentamento, la parola d’ordine del governo centrale è che le imprese insolventi non debbano necessariamente essere salvate. Saranno lasciate andare in bancarotta, per reintrodurre una certa disciplina nel mercato. L’aria e l’acqua inquinata e il cibo contaminato sono diventati negli ultimi dieci anni tratti distintivi della storia economica della Cina. Lo stesso vale per il debito, la cui crescita è stata associata almeno a livello di aneddoto, alla costruzione di palazzi di uffici e condomini rimasti vuoti, con rapidi cambiamenti nel settore finanziario e con il manifestarsi di quella che in Occidente era una frase legata al crollo del 2008, il «sistema bancario ombra», in altre parole la finanza non regolamentata, che può anche significare finanza pericolosa. Di conseguenza, la combinazione di questi problemi ambientali in costante peggioramento con la crescita spaventosa del debito ha portato a molte previsioni, soprattutto occidentali ma a volte anche cinesi, di un imminente disastro. La crescita economica è andata comunque rallentando, dai tassi annui, parametrati sull’inflazione, di oltre il 10%, fino al pur sempre alto 7,5% . Potrebbe essere sul punto di crollare adesso, sepolta dai debiti e soffocata dall’inquinamento? La risposta è in parte nell’economia ma soprattutto nella politica. La parte economica della risposta è che, certo, il debito è cresciuto rapidamente e spesso in modo dispendioso, ma partendo da un punto piuttosto basso. Il sistema finanziario rimane principalmente controllato dalle banche statali. Quindi, se i prestiti crollano, la conseguenza non sarà uno shock come quello della Lehman Brothers ma piuttosto costi crescenti per il Tesoro. Le cifre non sono del tutto trasparenti. Ma, secondo le migliori stime, attualmente il debito congiunto dell’amministrazione centrale e di quelle locali ammonterebbe a circa il 55-60 % del Pil, che è meno della metà del rapporto debito pubblico-Pil dell’Italia. Un aumento del rapporto, causato da perdite su crediti delle banche statali, sarebbe una mossa nella direzione sbagliata, potenziale fonte di problemi per il futuro. Ma può essere sopportato, almeno per il prossimo decennio o più, così come l’Italia è stata in grado di permettersi un crescente livello di indebitamento negli Anni 70 e 80. Il vero problema è l’aspetto politico di questo processo avviato per fare pulizia dei prestiti sconsiderati e affrontare l’enorme spreco di capitale che si è verificato nel corso degli ultimi cinque anni. E questo è il vero problema anche per quanto riguarda l’ambiente. Se esaminate i discorsi dei dirigenti a capo del Partito comunista cinese nel corso degli ultimi cinque anni, o anche su un periodo più lungo e date un’occhiata anche ai loro «piani quinquennali», troverete una promessa dopo l’altra: «riequilibrio» dell’economia, fine di una direzione «insostenibile», opera di pulizia, tanto dell’ambiente come del cattivo credito. Ma fin qui poco è davvero stato fatto, su entrambi i fronti. Le leadership del presidente Hu Jintao e del primo ministro Wen Jiabao erano troppo deboli o troppo poco disponibili a mantenere le loro promesse. Secondo studi indipendenti ci potrebbero essere oltre un milione di morti premature ogni anno per colpa dell’inquinamento atmosferico. Su una popolazione di 1,3 miliardi può non sembrare molto. Ma significa che l’inquinamento dell’aria è già diventato la quarta causa di morte più comune tra gli adulti, anche se molti degli effetti dell’assorbimento di particelle cancerogene nei polmoni non saranno visibili per parecchi anni a venire. Ora c’è una nuova leadership e si sta parlando e agendo in modo molto più duro. Il presidente Xi Jinping e il suo premier, Le Keqiang, da quando sono entrati in carica, l’anno scorso, hanno stretto la presa. In Cina c’è sempre stata una sorta di unità anticorruzione, ma con la presidenza Xi l’azione è diventata più ampia e incisiva di qualsiasi altra da due decenni a questa parte e ha portato al licenziamento e all’arresto di migliaia di alti funzionari nel partito e nelle potenti imprese di proprietà statale, e quindi alla rimozione di molti potenziali nemici. Si tratta di una purga di cui i vecchi dittatori comunisti potrebbero andare orgogliosi. Ma coniugata a un crescente orientamento a utilizzare fonti disciplinari non comuniste, ossia il mercato e le imprese private. Di qui l’ondata di default del debito, dal momento che la dirigenza ha dichiarato di non voler salvare le imprese in via di fallimento. C’è un po’ di ottimismo anche per l’ambiente. Dopotutto, anche i capi del partito devono respirare. E devono preoccuparsi della protesta pubblica che ormai si è abitualmente focalizzata sull’ambiente. Sarà la nuova leadership a segnare la svolta? Non possiamo saperlo. Ma sappiamo che il più importante banco di prova della loro forza e della loro determinazione sarà il confronto con i tanti gruppi di interesse – spesso nei governi locali e nelle imprese statali – che traggono vantaggio dall’inquinamento e che sono cresciuti grazie a un continuo flusso di credito facile. Due luoghi si stanno riempiendo velocemente: le prigioni e campi di lavoro, grazie alle epurazioni degli alti funzionari; e ora alle liste dei fallimenti. Più spesso questo accade, più dovrebbe crescere l’ottimismo nei confronti della Cina degli investitori stranieri e degli osservatori. Solo se questo processo si fermerà, vuoi per timidezza politica, o per proteste popolari di massa, ci si dovrebbe preoccupare. La Cina ha il potenziale per un progresso economico molto più grande. Che questo avvenga o meno è nelle mani della politica. Traduzione di Carla Reschia Da - http://lastampa.it/2014/03/26/cultura/opinioni/editoriali/smog-e-debiti-banco-di-prova-per-la-cina-7qmFkUgh0hnahg8rxs7YAM/pagina.html Titolo: BILL EMMOTT. - Il governo alla prova di leadership Inserito da: Admin - Maggio 05, 2014, 11:35:12 pm Editoriali
04/05/2014 Il governo alla prova di leadership Bill Emmott A luglio l’Italia si troverà davanti a un’opportunità e al contempo a una responsabilità. Un’opportunità per dimostrare la sua capacità di leadership dinanzi all’Europa, un’opportunità per avviare qualcosa che potrà essere ricordata come una fase importante e popolare del progetto europeo. Ed è un’opportunità, inoltre, per lanciare, o meglio rilanciare, qualcosa che aiuterebbe molto l’imprenditoria e le famiglie italiane, oltre ad essere la risposta più seria e pratica che il Vecchio continente può dare ai piani di Vladimir Putin in Ucraina. Questo «qualcosa» è quello che può essere chiamato «Unione energetica» europea. E l’opportunità in questione è la presidenza di turno del Consiglio dei ministri europeo, che durerà per sei mesi a partire dall’1 luglio. Questa presidenza di turno di sei mesi di solito viene inaugurata con annunci e dichiarazioni relative ad ambiziose intenzioni, specialmente davanti ai mezzi di informazione nazionali, che sottolineano l’importanza del ruolo assunto. Proclami che vengono puntualmente dimenticati a causa del pantano di summit noiosi, comunicati sciatti e progressi compiuti a passo di lumaca. Per ora, la presidenza di turno italiana sembra aderire a questo percorso già visto. In realtà non lo deve essere necessariamente. I sei mesi di presidenza, durante i quali l’Italia avrà un ruolo primario nel dettare l’agenda di lavori per l’Europa, inizierà sulla scia dei risultati delle elezioni europee che si terranno tra il 22 e il 25 maggio. L’esito delle urne, se i sondaggi si dimostreranno attendibili, porterà a un risultato positivo per Matteo Renzi, ma sembrano destinati ad essere piuttosto negativi per l’Unione europea nel suo complesso. Questo a causa del rafforzamento dei partiti euroscettici, come il Fronte nazionale in Francia, l’Independence Party in Gran Bretagna, e il Freedom Party in Olanda, determinati ad occupare una gran parte di seggi nel Parlamento europeo. Se le previsioni dovessero essere confermate, questo peserebbe sullo spirito europeo, con pesanti ricadute sulla stessa agenda di lavori. Questi voti anti-europeisti riflettono la lunga recessione e gli alti tassi di disoccupazione. Ma soprattutto sono il riflesso di quel clima di disillusione nei confronti dell’Unione europea che è cresciuta in un decennio ed oltre. Molte persone oggi sembrano convinte che l’Ue sia senza una direzione ed incapace di realizzare qualsiasi passo in avanti volto a migliorare il livello di vita del popolo, o ancor peggio, che possa essere addirittura funzionale agli interessi di una élite di politici, banchieri e grandi imprese a danno della gente comune. Prima che le vicende ucraine precipitassero, con l’invio delle truppe al confine e le forze speciali di Mosca in azione all’interno del Paese, si sentiva spesso dire, con un retrogusto di amarezza, che era tragicamente ironico che molti europei perdevano affezione nei confronti dell’Ue proprio in un momento in cui tanti cittadini ucraini, nelle proteste contro Kiev, manifestavano il loro amore per le idee e i valori che l’Ue rappresentava. Da allora, con l’annessione della Crimea alla Russia e la ribellione nell’Ucraina orientale, l’Ue si è dimostrata sempre più impotente. I suoi moniti e avvertimenti non hanno sortito nessun effetto. Le sue imprese non vogliono perdere commesse e affari con la Russia. E nel complesso siamo troppo dipendenti dalla Russia per le forniture di energia da poter rischiare una seria rottura delle relazioni con Mosca. In un quadro di questo tipo cosa può fare l’Italia in occasione dei summit europei che si terranno durante la presidenza di turno? Certo non può fare miracoli, ma può avviare un processo in grado di migliorare la sua immagine in Europa e, nel medio termine, rafforzare l’economia nazionale. L’energia è sempre stata un ottimo fattore potenziale di cooperazione e integrazione europea. Condividiamo la necessità di approvvigionamenti sicuri al prezzo più conveniente possibile. Condividiamo la necessità di ridurre le emissioni nocive per tutelare l’ambiente, e produrre più energia attraverso fonti pulite e rinnovabili. Condividiamo la necessità di rendere le nostre reti di distribuzione il più efficienti possibile, e al contempo di assicurare la fornitura di energia anche quando c’è poco vento o il sole non splende quanto dovrebbe. Un mercato unico dell’energia, la competizione del settore, i vantaggi delle economie di scala assicurate da una rete europea, il potere legale di impedire la concessione di sussidi nazionali che alterano la concorrenza: questi sono stati gli strumenti tradizionali della cooperazione europea, usati nella Comunità per il carbone e l’acciaio degli Anni Cinquanta, così come la campagna contro i sussidi degli Anni Ottanta, il mercato unico degli Anni Novanta, o la politica dei «cieli aperti» sempre negli Anni Novanta. Come la Commissione europea ha ribadito a più riprese, l’energia sarebbe dovuta essere uno dei grandi progressi dell’Ue nello scorso decennio. Ma non lo è stato. Ci sono di fatto tre ragioni che hanno contribuito a questo fallimento. La prima è che gli investimenti energetici sono costosi. Ma una ragione ancor più forte è che le imprese energetiche nazionali sono assai potenti e fortemente legate alla politica, tanto da poter bloccare ogni progresso. Una terza ragione è che la strada verso le energie rinnovabili ha dovuto convivere spesso con la concessione di sussidi nazionali che frammentano il mercato piuttosto che unificarlo, proprio come un tempo facevano per le auto o l’acciaio. E questo ha reso le imprese energetiche ancora più bramose di bloccare il progetto di un mercato comune europeo dell’energia. Ora comunque, l’Italia ha un’opportunità e una responsabilità. L’opportunità di utilizzare la crisi ucraina per costruire quel consenso politico necessario a togliere di mezzo gli ostacoli. I giganti energetici italiani, come Eni ed Enel, sono stati d’impedimento così come i giganti tedeschi e di altri Paesi. Così se l’Italia vuole rilanciare il progetto di un’unione energetica, le sarebbe di aiuto rimediare alla crescente impressione di non voler scontentare Eni o la Russia per vili ragioni commerciali. E’ una responsabilità perché l’Europa ha un estremo bisogno di compiere progressi sul fronte energetico. La dipendenza dalla Russia per un terzo delle nostre forniture di gas naturale è una seria debolezza. E nonostante il fatto di essere circondati da fornitori di carbone, gas e petrolio, i nostri prezzi dell’energia elettrica sono due o tre volte superiori a quelli americani. In Italia i prezzi dell’elettricità, sono i più elevati del club dei 34 Paesi industrializzati dell’Ocse. Ed è una responsabilità ancor maggiore, perché l’Europa ha bisogno di leadership, anche per dimostrare ai propri cittadini che l’Ue è in grado di portar loro vantaggi politici, economici e sociali. La fornitura di energia sicura e a basso costo, attraverso un mercato unico e competitivo, interconnesso da una rete di distribuzione super-efficiente grazie alla quale l’elettricità può essere fornita dalla società in tutta Europa, è l’esempio eccellente e più potente di quello che l’Ue può fare. Qualcuno tuttavia deve far sentire la sua voce, deve gridare per far comprendere questa necessità e per rilanciarla, al fine di creare pressioni sulla Germania e altre nazioni affinché mostrino un atteggiamento serio sull’Unione energetica. A luglio l’Italia avrà l’opportunità di fare esattamente questo. Da - http://lastampa.it/2014/05/04/cultura/opinioni/editoriali/il-governo-alla-prova-di-leadership-7Zg4dra1XqxfrH6X0yKfeP/pagina.html Titolo: Bill Emmott. E sull’Unione incombe Marine Le Pen Inserito da: Arlecchino - Gennaio 09, 2017, 05:31:53 pm E sull’Unione incombe Marine Le Pen Pubblicato il 09/01/2017 Bill Emmott Il Generale Charles de Gaulle ne sarebbe orgoglioso. Perché il futuro dell’Europa in questo nuovo anno non sarà plasmato in Germania, né in Italia, né nella problematica Russia, e nemmeno nella Gran Bretagna della Brexit, ma in Francia. Altri avranno un ruolo, potrebbero anche creare dei casi. Ma sarà la Francia ad avere l’influenza più decisiva. De Gaulle non era un fautore molto collaborativo della solidarietà europea. Dopo tutto, com’è noto, a metà degli Anni 60 ricattò la giovane Comunità europea boicottando gli incontri per promuovere la propria visione di un’Europa intergovernativa piuttosto che sovrannazionale. Era quello che Donald Trump potrebbe chiamare «La France prima». Ma ecco, voleva l’Europa per rendere la Francia più potente nel mondo, e questo sta di nuovo per accadere. Uno dei motivi è ben noto: la possibilità, ed è scioccante anche solo che si possa definire una possibilità, che a maggio Marine Le Pen del Front National possa essere eletta alla presidenza. Chi non ha sentito enunciare la cupa logica speculativa? Che dopo la Brexit e Trump, il prossimo colpo alle previsioni razionali e alla saggezza convenzionale, la prossima vittoria del populismo, debba essere il presidente Le Pen? Se ciò dovesse accadere, l’Unione europea finirebbe in pezzi. A differenza di Trump, Le Pen è in politica da 20 anni e le sue posizioni politiche hanno una consistenza che significa che devono essere prese sul serio: lei vorrebbe ricostruire le barriere commerciali della Francia, lasciare l’euro e limitare rigorosamente l’immigrazione, e nessuna di queste cose è compatibile con l’Unione europea come la conosciamo. E lei fa davvero sul serio. Il risultato è che non ha senso alcuno in qualsiasi Paese dell’Ue - la Gran Bretagna che negozia la Brexit, l’Italia che prende in considerazione di andare al voto - prendere decisioni importanti fino alla conclusione del secondo turno delle elezioni presidenziali in Francia, il 7 maggio. Il risultato è semplicemente troppo importante per tutti noi. Ma è importante anche per un altro motivo, oltre alla paura di un presidente Le Pen. Questa seconda ragione per cui l’influenza della Francia sarà determinante è molto più positiva. Nei suoi 60 anni di esistenza l’Unione europea non ha mai fatto progressi, non è mai stata in grado di agire in modo credibile e con decisione, tranne quando i governi di Francia e Germania hanno pensato insieme, pianificato insieme e lavorato insieme. Durante i cinque anni del mandato del presidente François Hollande, questo motore franco-tedesco è arrivato a un punto morto. Nessuna delle due parti si fida dell’altra e i tedeschi pensano che il presidente Hollande sia debole e incapace. Senza il motore franco-tedesco, la gestione delle molteplici crisi dell’Europa è stata disastrosamente lenta, inefficace e divisiva. Eppure Francia e Germania hanno interessi comuni: le uccisioni di Berlino il 19 dicembre, a poco più di un anno dal massacro del Bataclan e cinque mesi dopo un identico attacco condotto con un camion a Nizza, hanno dimostrato che i due Paesi devono affrontare la stessa minaccia terroristica; avendo concepito insieme l’euro quando Kohl e Mitterrand erano presidenti e collaboravano strettamente, condividono un profondo interesse per far funzionare il sistema valutario; e con l’America di Trump, potenzialmente ostile all’Europa, hanno più che mai bisogno l’uno dell’altro nella geopolitica. Se in Francia a maggio si verifica il risultato più probabile delle elezioni presidenziali, vale a dire la vittoria del candidato di centro-destra François Fillon, si potrebbe aprire una nuova era per la collaborazione franco-tedesca. Fillon, economicamente un liberalizzatore, ma conservatore sotto il profilo sociale, è molto più compatibile con il cancelliere Angela Merkel e soprattutto con i suoi sostenitori della Democrazia cristiana e dell’Unione cristiano sociale, rispetto al presidente Hollande. Potrebbe anche riuscire a convincere Merkel e il parlamento tedesco ad allentare i vincoli di bilancio stretti che bloccano le economie della zona euro. Ma il risultato probabile si avvererà, dopo un 2016 che ha visto vanificati i risultati dati per probabili in Gran Bretagna e in America? I principali pericoli, in Francia come in Olanda, dove si vota a marzo, e in Italia, in qualsiasi momento si voterà, nascono dalla combinazione di alto tasso di disoccupazione, redditi delle famiglie stagnanti e paura dell’immigrazione. Il problema di Hillary Clinton è stato il suo legame troppo stretto con le istituzioni americane che avevano portato al crollo finanziario del 2008 e che in seguito non sono state in grado di gestire una ripresa equa. La Brexit è un caso molto diverso, data la lunga storia di semi-distacco dall’Europa della Gran Bretagna, ma può ancora essere spiegata con l’alienazione dai poteri costituiti che fondamentalmente comprendevano un’Europa che, grazie alla perdita del motore franco-tedesco, ormai sembrava un problema piuttosto che un qualsiasi tipo di soluzione. Per vincere nel 2017 i partiti politici e gli intellettuali che auspicano società aperte e liberali e una collaborazione a livello europeo dovranno dimostrare di poter offrire più speranza per il futuro dei cittadini di tutte le età di quanto non facciano i sostenitori della chiusura e del rifiuto dell’Europa, come ad esempio le Pen e Geert Wilders nei Paesi Bassi. Questo significa che dovranno convincere gli elettori che possono far di nuovo funzionare l’Europa, rendendola parte della soluzione per i problemi nazionali piuttosto che essa stessa un problema. Soprattutto dovranno convincere gli elettori che sono in grado di restituire dinamismo all’economia nazionale, rimuovendo ciò che ostacola la crescita e la creazione di posti di lavoro. François Fillon è adatto a questo compito perché è capace di rivolgersi sia ai giovani che vogliono lavoro e opportunità sia ai più anziani che si preoccupano dei valori francesi tradizionali. Entrambi gli altri principali candidati, Manuel Valls per la sinistra e l’indipendente Emmanuel Macron, hanno anch’essi la capacità di ispirare i giovani ma, in quanto appartenenti al governo Hollande, risultano compromessi dal suo fallimento. La posta, per l’Europa e per il mondo, non potrebbe essere più alta. [traduzione di Carla Reschia] Licenza Creative Commons Alcuni diritti riservati. Da - http://www.lastampa.it/2017/01/09/cultura/opinioni/editoriali/e-sullunione-incombe-marine-le-pen-0VA9ClmAglQCbUW9r4O5uL/pagina.html?wtrk=nl.direttore.20170109. Titolo: BILL EMMOTT. - May, la chiarezza che giova all’Unione Inserito da: Arlecchino - Gennaio 18, 2017, 06:00:10 pm May, la chiarezza che giova all’Unione
Pubblicato il 18/01/2017 Bill Emmott Bene, almeno l’incertezza è finita. Alcuni commentatori hanno definito i sei mesi di oscillazioni del governo britannico sul piano per la Brexit «ambiguità costruttiva», una frase usata da Henry Kissinger 40 anni fa. Confusione rende meglio l’idea, ma ora è chiaro: il primo ministro britannico Theresa May ha annunciato che il Regno Unito lascerà il mercato unico europeo e l’unione doganale. E’ un azzardo, ma ha un senso. Anche la scorsa estate la signora May aveva detto che tra le sue priorità c’erano limitare la libera circolazione dei cittadini europei e porre fine alla giurisdizione della Corte europea di giustizia nel Regno Unito. Per questo la Gran Bretagna deve abbandonare il mercato unico, perché è sottoposto alle leggi europee e la libera circolazione ne è uno dei principi cardine. Logico quindi attenersi a questo piano. Certo si può discutere se siano queste le priorità, anche sul piano politico, a parte quello economico. La signora May evidentemente pensa che per lei sarebbe politicamente troppo rischioso acconsentire a mantenere la libertà di movimento. Sta dicendo d’altra parte che è pronta a correre il rischio di causare un danno economico alla Gran Bretagna abbandonando il più grande mercato unico del mondo per evitare un rischio politico al partito conservatore a cui appartiene. Durante i sei mesi di confusione e ambiguità sui piani britannici per la Brexit, il primo ministro ha lasciato che i suoi ministri e il suo partito si cimentassero in un dibattito pubblico chiedendosi se questa fosse la scelta giusta. La sua posizione sul tema è stata coerente. Ma lasciando aperto il dibattito e aspettando di vedere quale sarebbe stato l’atteggiamento degli altri governi europei ha permesso che prevalesse l’incertezza. La fine di questo stato di cose è una buona notizia per gli altri 27 membri dell’Unione europea. Non devono più preoccuparsi che la Gran Bretagna cerchi di convincerli ad abbandonare i principi che sono il cuore dell’Unione europea. Non ce l’avrebbe fatta, anche se alcuni politici e intellettuali britannici chiaramente erano convinti che qualche altro Stato fosse pronto a limitare l’immigrazione e che riuscire a tenere nel mercato unico la Gran Bretagna, la quinta economia mondiale, fosse così importante da valer bene qualche concessione. Si sarebbe risparmiato un sacco di tempo dimostrando che si trattava di un’illusione. Si sarebbe rischiato di creare una spaccatura ancora maggiore tra i Paesi dell’Unione e una relazione ancora più difficile con la Gran Bretagna. Quindi la chiarezza su questo tema farà bene all’Europa. Le celebrazioni del 60° anniversario del Trattato di Roma, a marzo, non devono essere offuscate da questo problema. L’Unione europea può andare avanti cercando di sviluppare le sue politiche sulle questioni molto più importanti dei rifugiati, dell’economia e delle relazioni con la Russia. Per la Gran Bretagna tuttavia, anche il discorso del primo ministro May non fa del tutto chiarezza sul futuro del Paese. Il Regno Unito sa che in futuro negozierà un trattato di libero scambio con l’Unione europea, così come cercherà di farlo con gli Stati Uniti e con altri Paesi. Ma ancora non si sa quanto lontano voglia spingersi il governo britannico per adempiere alla vaga promessa del primo ministro May di creare una «Gran Bretagna globale» che sarà il punto di riferimento per la libertà di commercio. Sappiamo, per certo, che la Gran Bretagna non intende seguire Donald Trump sulla via dell’isolazionismo e del protezionismo. Il voto sulla Brexit è stato più frutto di arroganza nazionalista che di quella sorta di rabbia per la globalizzazione cavalcata da Trump. Ma cosa implichi questo per l’economia britannica ancora non si sa. La signora May dice che il suo obiettivo è il libero commercio con l’Unione europea. Questo disegno comprende l’agricoltura? Abolirà tutti i sussidi e le altre forme protezionistiche per gli agricoltori britannici uscendo dall’Unione e consentirà l’accesso ai prodotti comunitari senza tasse né quote? O, per fare un altro esempio, sappiamo che lasciando l’Unione il Regno Unito potrà abbassare le tasse sulle importazioni di auto fino a zero, se vorrà. Il tasso europeo è ora del 10%. Questo intende la signora May quando dice che «liberarsi» dell’Unione europea ci permetterà di diventare i maggiori sostenitori del libero scambio. Ma le aziende automobilistiche giapponesi, indiane e americane che producono nel Regno Unito saranno d’accordo con quest’eccellente idea? Tutto questo non lo sappiamo. E quindi il risultato vero del discorso chiarificatore del primo ministro britannico è di aver chiarito le idee agli altri 27 membri dell’Ue, ma non molto alla Gran Bretagna stessa. Traduzione di Carla Reschia Licenza Creative Commons Alcuni diritti riservati. Da - http://www.lastampa.it/2017/01/18/cultura/opinioni/editoriali/la-chiarezza-che-giova-allunione-60630GsXKfLSa9ubjK2nEK/pagina.html |