Titolo: Luigi Manconi. Il momento della legge Inserito da: Admin - Ottobre 01, 2008, 05:23:12 pm Il momento della legge
Luigi Manconi Oggi, in commissione Sanità del Senato, inizia la discussione sul Testamento biologico. Il quadro del confronto si presenta assai difficile, e non da ora. Da oltre un decennio, da quando presentammo la prima proposta di legge in materia, una domanda molto semplice attende risposta: perché mai se un adulto consapevole può rifiutare un trapianto di organo, anche quando esso può salvargli la vita, quello stesso adulto consapevole non può dichiarare il proprio rifiuto di alimentazione e idratazione artificiali per il tempo nel quale non fosse più nel pieno possesso delle proprie capacità? È un interrogativo al quale sfuggono - con pochissime eccezioni - i parlamentari del centrodestra e, ancor prima, teologi moralisti e gerarchie ecclesiali e, infine, il presidente della Conferenza Episcopale Italiana monsignor Angelo Bagnasco. Eppure, proprio intorno a quel quesito e alla difficoltà, forse impossibilità, di trovare risposte condivise si gioca il conflitto politico-parlamentare in materia di dichiarazioni anticipate di volontà. E la situazione oggi appare particolarmente ardua, dopo che la prolusione di monsignor Bagnasco aveva indotto a frettolose valutazioni positive. In effetti, quelle parole rivelano come la Chiesa sia infine consapevole che sulle questioni di “fine vita”, anche in Italia, si debba rispondere a due domande fondamentali: il riconoscimento di quel bisogno irriducibile di autodeterminazione sulle scelte relative alla propria sfera personale, che si manifesta oggi in particolare sui temi del nascere e del morire; l’esigenza di tutela del proprio corpo e del proprio percorso esistenziale rispetto all’onnipotenza, non sempre conosciuta e raramente controllabile, delle biotecnologie. La Chiesa ammette che queste domande implicano tutele giuridiche; ma, ancora una volta, reagisce con una prudenza che, per un verso, rivela angoscia, se non paura, per la volontà/capacità di autonomia e di libera scelta dell’individuo e, per altro verso, segnala un atteggiamento svalutativo nei confronti del senso di responsabilità personale, che vorrebbe sempre e comunque sottoposto ad autorità esterne. Eppure la posta in gioco è limpida: in ultima istanza, non può essere altro che la volontà individuale - adeguatamente informata, sempre suscettibile di ripensamento, costantemente assistita dal rapporto terapeutico e, quando possibile, da una rete di relazioni famigliari e sociali - ad assumere la decisione. Non è solo la carta costituzionale, la convenzione di Oviedo, tutte le dichiarazioni internazionali e l’intera giurisprudenza italiana ad affermarlo. È, innanzitutto, il buon senso: in presenza di una controversia tra paziente e medico, perché mai dovrebbe essere la decisone di quest’ultimo a prevalere? Il medico che, in scienza e coscienza, formula una valutazione diversa da quella affermata dal paziente, può ricorrere all’obiezione di coscienza: ma non può, certo, disubbidire. Lascia stupefatti, pertanto, quanto affermato da monsignor Elio Sgreccia, teologo bioeticista, particolarmente ascoltato in Vaticano: il medico «deve disubbidire» (intervista al Corriere della Sera del 23 settembre 2008). Ciò risulta in aperto contrasto con l’articolo 38 del codice deontologico dei medici, dove si legge: «il medico deve attenersi, nell’ambito della autonomia e indipendenza che caratterizza la professione, alla volontà liberamente espressa della persona di curarsi e deve agire nel rispetto della dignità, della libertà e autonomia della stessa». Non solo: «il medico, se il paziente non è in grado di esprimere la propria volontà, deve tenere conto nelle proprie scelte di quanto precedentemente manifestato dallo stesso in modo certo e documentato». Ma Elio Sgreccia, in realtà, ha voluto - esplicitamente, direi - mettere “sotto controllo” il presidente della Cei. Non a caso, in quell’intervista, ha spiegato acribiosamente che «un Testamento biologico non è incluso nella legge di cui parla il cardinale Bagnasco»; e vanno esclusi «con o senza dichiarazioni anticipate, i testamenti di vita». Ancor più autorevolmente, il predecessore di Bagnasco, monsignor Camillo Ruini critica il «relativismo soggettivista», che affiderebbe «alla volontà del singolo ammalato, o di altre persone, la decisione di produrre la morte». Ma, subito dopo, Ruini sostiene con forza il «dovere di motivare il paziente, attraverso strumenti non coercitivi, alla tutela della propria salute, con tutti i mezzi proporzionati» (Avvenire del 25 settembre 2008). Giustissimo, ma se quella opera di “motivazione” si rivelasse insufficiente, a chi spetta la decisione sulla sospensione delle cure? Ancora una volta, sarà il paziente - e chi altri mai - a decidere su di sé. Resta il fatto che sulla questione dell’alimentazione e dell’idratazione artificiali le posizioni della gerarchia risultano immobili e immutabili; e che, pertanto, un pronunciamento morale («varare, si spera col concorso più ampio, una legge sul fine vita») si è tradotto in una valutazione di ordine scientifico-sanitario, del tutto impropria («trattamenti di sostegno vitale, qualitativamente diversi dalle terapie sanitarie»): ancor più immotivata se confrontata con l’affermazione di Maurizio Muscaritoli, presidente della Società italiana di nutrizione artificiale e metabolismo: «nutrizione ed idratazione artificiali vanno considerate trattamenti medici da non somministrare se non di beneficio per il paziente, indipendentemente dal suo stato di coscienza». Perché mai una affermazione così netta, espressione di criteri esclusivamente scientifici, deve essere messa in dubbio da un giudizio di natura etica e di ispirazione religiosa, quale quello del presidente della Conferenza Episcopale Italiana? Ma quel che è peggio è che quel monito morale viene fatto proprio (come un sol uomo: è il caso di dire) da tutto il centrodestra. Il quale centrodestra, immarcescibilmente imperturbabile davanti alla sorte di Eluana Englaro per sedici anni, ora la evoca solo per negarle quanto lei stessa chiedeva, quand’era cosciente, e quanto ora chiedono disperatamente i suoi famigliari. Il risultato è, temo, il peggiore: una legge sul Testamento biologico potrebbe essere varata, ma tale da costituire un pesantissimo passo indietro. Come già accaduto a proposito della fecondazione assistita, il vuoto legislativo rischia di essere colmato da un cattivo pieno: che nega la volontà del soggetto e il suo diritto all’autodeterminazione proprio in riferimento alla sua sfera più intima e delicata. Sia chiaro. Tutto ciò - checché ne dicano Sgreccia e Bagnasco - non ha nulla a che vedere con l’eutanasia, che resta inequivocabilmente altra cosa, e che non riguarda il “lasciar morire” e il “lasciarsi morire”: ma implica un intervento attivo e determinante, finalizzato a interrompere una vita. Ma ha ragione Concita De Gregorio quando, nel suo articolo di domenica scorsa, scrive: «l’eutanasia, in Italia, esiste già. Lo sanno bene tutti: i medici e i pazienti, le famiglie a cui è toccato e tocca il dolore di star vicino a chi se ne sta andando o se ne è andato già ma non può morire davvero». Sì, è esattamente così. Ma per una combinazione miserevole di codardia e ipocrisia, di virtù fattasi integralismo e di altruismo trasceso in fanatismo, lo si nega. Eppure la conferma viene dalle fonti più insospettabili, come una ricerca scientifica curata, tra gli altri, da Adriano Pessina, direttore del centro di bioetica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, il più inflessibile e intransigente difensore della “vita dal concepimento alla morte naturale”. In quella ricerca, pubblicata nel 2003, si legge che il 3,6% dei medici intervistati «ha ammesso di aver talvolta somministrato deliberatamente dosi letali di farmaci» a malati terminali, affetti da sofferenze non lenibili; e che, «tale comportamento viene considerato eticamente accettabile dal 15,8% di quel campione di medici». Pubblicato il: 01.10.08 Modificato il: 01.10.08 alle ore 11.10 © l'Unità. |