Titolo: VITTORIO EMANUELE PARSI - Inserito da: Admin - Settembre 23, 2008, 10:25:10 am 23/9/2008
Quei fragili alleati VITTORIO EMANUELE PARSI Non sono ancora chiari i moventi del rapimento di 11 turisti occidentali avvenuto ieri nell’Alto Egitto. Fonti ufficiali del governo lo hanno classificato come un atto di banditismo comune e non di terrorismo. Questo lascia sperare in una felice conclusione della vicenda che vede coinvolti anche cinque nostri connazionali. D’altra parte, in anni non lontani, proprio in Egitto, i turisti stranieri erano stati oggetto a più riprese di una campagna mirata da parte di formazioni che si richiamavano ad Al Qaeda e, come il caso yemenita insegna, il confine tra banditismo e terrorismo è spesso labile, soprattutto laddove le istituzioni politiche statali faticano a consolidarsi e a sviluppare efficaci canali di rappresentanza. Per lunghi anni quello egiziano è stato un regime sostanzialmente dittatoriale, ai cui leader, più o meno carismatici, era affidata la mediazione tra le istituzioni e la società. Pur così diversi tra loro, Nasser, Sadat, Mubarak erano però accomunati da questa funzione di «supplenza» rispetto alla debolezza delle istituzioni. Questa debolezza, sia in termini di accessibilità sia in termini di efficacia, non ha però impedito che una burocrazia corrotta e famelica si consolidasse e appropriasse delle cariche pubbliche. Producendo un duplice effetto negativo: da un lato, l’aumento del malcontento e il peggioramento delle condizioni di vita di larghe fasce della popolazione; dall’altro, la progressiva fuga del dibattito e della progettualità politica dai canali formali a quelli informali, quando non clandestini. È a seguito degli eventi dell’11 settembre 2001 che i Paesi occidentali hanno preso atto dell’insostenibilità della situazione e, preoccupati che un crollo violento e repentino del regime potesse rendere l’Egitto facile preda del messaggio jihadista, hanno iniziato a fare pressioni su Mubarak affinché procedesse alla graduale apertura e liberalizzazione delle istituzioni. Detto per inciso, è la stessa politica attuata nei confronti del Pakistan di Musharraf: cioè dei due Stati-cerniera della lotta contro la proliferazione dell’islamismo radicale. Com’è ovvio, se l’Occidente dovesse «perdere» il Pakistan, diventerebbe impossibile sconfiggere i taleban in Afghanistan. Ma un Pakistan che dovesse cadere preda di una sindrome afghana, con l’autorità del governo centrale ridotta all’area della capitale, costringerebbe l’India ad accantonare qualunque velleità di «bilanciamento» nei confronti della Cina, privando l’equilibrio asiatico (e quello globale) di un giocatore fondamentale. Altrettanto vitale è il ruolo dell’Egitto, non solo nei confronti dell’endemicamente instabile «piccolo Medio Oriente», ma anche verso quel continente africano che dal Corno d’Africa al Darfur, all’intera fascia sub-sahariana è sempre più campo d’azione per l’islamismo più radicale e violento. In entrambi questi Paesi, sono innanzitutto le preoccupazioni geopolitiche a motivare i governi occidentali verso un’opera di State building che non può aggirare la questione di una maggiore accessibilità e responsabilità delle istituzioni politiche nei confronti dei cittadini. Nel lungo periodo solo Stati «forti» (autorevoli e non autoritari) possono riuscire a rintuzzare l’offensiva politica dell’islamismo radicale. In questo senso bisognerebbe agevolare la transizione verso istituzioni più democratiche e incalzare i regimi a perseguire la via delle riforme. Nel breve periodo, occorre però sostenere i governi nostri alleati, affinché il loro tracollo non renda impossibile conseguire l’obiettivo «strategico». È quindi necessario appoggiarli, con il rischio che tale sostegno allontani la soluzione del problema e alimenti il consenso raccolto da quelli che vogliamo combattere. Si tratta, per dir così, di sconfiggere la malattia senza uccidere il paziente. Negli ultimi tempi la consapevolezza della obbligatorietà di questa rotta sembra si sia un po’ allentata. Forse questo rapimento, che speriamo si risolva per il meglio, è un segnale che faremmo bene a cogliere prima che anche in Egitto banditismo e terrorismo si saldino, fino a diventar sinonimi. da lastampa.it Titolo: VITTORIO EMANUELE PARSI Quelli di Barack Inserito da: Admin - Settembre 30, 2008, 12:00:23 pm 30/9/2008
Austria, il perdente vota nero VITTORIO EMANUELE PARSI Domenica, quasi un elettore austriaco su tre ha votato per uno dei due partiti della destra radicale. Se Haider e il suo ex delfino Strache non avessero corso separatamente, oggi la destra esprimerebbe il partito di maggioranza relativa e il candidato cancelliere. L’Austria torna così a «turbare» l’Europa, come già nel 1999. Anche oggi, c’è da scommetterlo, si chiederà a gran voce un «cordone sanitario» nei confronti di qualunque coalizione associasse uno dei due partiti di destra. D’altra parte, se né Strache né Haider possono essere fatti passare per emuli di Hitler, però Fpoe e Bzoe (pur non essendo partiti neonazisti) si collocano al di fuori di quella convenzione antifascista che ha segnato la rinascita della democrazia austriaca dopo la guerra. Ma lasciamo da parte i futuri equilibri viennesi e concentriamoci invece sulle possibili ragioni del successo di Fpoe e Bzoe. Anton Pelinka, politologo austriaco studioso delle destre, sostiene che gli elettori della destra sono «i perdenti della modernizzazione», cioè quei ceti che si sentono maggiormente minacciati dalle conseguenze della globalizzazione. Sembra un ragionamento ampiamente condivisibile, che però merita qualche integrazione, perché oltre ai «maschi, operai» di cui parla Pelinka e alle frange di nostalgici fascistoidi, sembra che per la destra abbiano votato anche molti «cittadini di prima generazione». Cioè quegli immigrati integrati nella società e nell’economia austriaca che temono di perdere i diritti appena conquistati, e che vedono nei nuovi arrivati una minaccia per il proprio status e dei rivali con i quali dover spartire le sempre più magre risorse dello Stato sociale. Il dato significativo è che, per battere questa «concorrenza», questi nuovi austriaci sono disposti a votare partiti che vagheggiano una vecchia Austria mai davvero esistita. Implicitamente essi pongono la questione di quali sono gli «ultimi» politicamente rilevanti. Cioè cercano di farsi scudo della cittadinanza appena acquisita e di farla valere nei confronti di chi non è cittadino. E per difendere questa posizione Haider e compagni appaiono più «affidabili» dei socialisti e persino dei cattolici, «troppo» cosmopoliti o umanitari. L’elezione che ha visto il trionfo della destra è la prima alla quale sono stati ammessi i sedicenni, e anche il voto giovanile pare abbia premiato la destra. Sarebbe riduttivo liquidare il tutto con la voglia di cambiamento delle giovani generazioni. Appare più proficuo cominciare a pensare ai giovani, in Austria e in Europa, come a una «minoranza» che sa di esserlo e sa di essere discriminata in quanto tale. Se gli operai cinquantenni e gli immigrati integrati temono di perdere i propri «privilegi», i giovani sanno di non averne e basta. Entrano tardi e a condizioni peggiori sul mercato del lavoro e però sostengono un sistema pensionistico che li discrimina platealmente. Ai loro occhi, la grande coalizione non è che la manifestazione più odiosa ed evidente di quel patto consociativo tra i partiti (socialista e popolare) e i sindacati che hanno costruito uno Stato sociale dai cui benefici e dalle cui protezioni si sentono esclusi. Va infine osservato che anche l’antieuropeismo ha probabilmente portato consensi alla destra (e guarda caso la Spoe di Faymann, che ha perso assai meno voti della Oevp, è stata molto critica verso la Ue). Il disamore verso l’Unione ha tante spiegazioni note. Ne aggiungerei un’altra. Abbiamo sempre sostenuto, e con ragione, che l’unificazione è la sola risposta razionale per tentare di governare gli effetti della globalizzazione. Una parte consistente dell’elettorato inizia invece a vedere europeizzazione e globalizzazione come due fenomeni che agiscono di concerto, perché lo privano congiuntamente della capacità di decidere del proprio futuro e svuotano sia la sovranità sia i processi democratici nazionali. Se non poniamo in fretta riparo a questa percezione, dovremo vedere crescere sempre più un sentimento antieuropeo nei nostri Paesi, con le conseguenze catastrofiche che si possono facilmente immaginare. da lastampa.it Titolo: VITTORIO EMANUELE PARSI Un passo oltre la crisi Inserito da: Admin - Ottobre 20, 2008, 12:33:47 pm 20/10/2008
Un passo oltre la crisi VITTORIO EMANUELE PARSI Regole per gestire l’emergenza, ma non l’emergenza come regola, nella consapevolezza che il vizio, o la malattia, dell’Italia, e non certo da oggi, consiste nel trascinarsi nel presente quel tanto che basta a far perdere di vista il futuro. I tempi di crisi possono richiedere una «costituzione per l’emergenza», per parafrasare il titolo del bel volume di Bruce Hackermann, dedicato ai rapporti tra sicurezza e libertà negli anni della lotta al terrorismo. E però proprio la draconiana correzione di rotta, che la gravità degli eventi può persino arrivare a imporre, non deve far scordare che le misure imprescindibili per superare il rischio di naufragio non possono trasformarsi in provvedimenti permanenti. Se è saggio ridurre la velatura durante una burrasca, guai a quel capitano che, rinunciando a decidere la rotta, si accontentasse del piccolo cabotaggio, «dimenticandosi» di tornare a liberare le vele non appena le condizioni lo consentissero nuovamente. Il dibattito politico italiano sembra oggi incagliato nelle pregiudiziali ideologiche e, ancor di più, nei rispettivi catastrofismi, che sembrano decisamente inutili e persino irritanti, soprattutto quando l’opinione pubblica chiede piuttosto di poter capire le dimensioni reali della crisi presente e di ricevere gli elementi necessari ad alimentare una ragionevole fiducia nel futuro. Del resto, proprio la gravità della situazione ci spinge alla ricerca di criteri che consentano di giudicare la bontà delle decisioni a prescindere dal colore politico di chi le attua o le propone. Uno, molto semplice e per questo efficace, si ritrova nell’ampia intervista che Luca Cordero di Montezemolo ha rilasciato ieri alla Stampa. Sono giuste quelle scelte che non precludono un futuro all’Italia. Sono sbagliate quelle posizioni che invece di «trasformare» le paure dei cittadini si limitano a cavalcarle. In questo senso è importante tenere distinti il piano dell’emergenza temporanea da quello della struttura permanente. Il capitalismo non sta morendo, e ciò che i cittadini (in quanto imprenditori e in quanto lavoratori) si aspettano nell’immediato dalle autorità politiche non è un nuovo colbertismo o il ritorno all’intervento pubblico nell’economia, ma regole efficaci e semplici per consentire un gioco più corretto, ampliato a più attori (anche stranieri), e un sostegno «eccezionale» fino a quando le normali condizioni di mercato non saranno ristabilite. Nel lungo periodo, sempre i medesimi soggetti (imprenditori e lavoratori) hanno bisogno di quelle misure necessarie a far riprendere il largo all’economia italiana, orientate a favorire flessibilità, mobilità sociale, alleggerimento di massa della pressione fiscale e concorrenza. Evidentemente, a governo e opposizione spettano responsabilità diverse, e i giudizi positivi che l’esecutivo raccoglie, non solo nei sondaggi d’opinione, sono il frutto della capacità di aver cominciato a prendere decisioni per troppo tempo rinviate. Oltre ai provvedimenti legati alla contingenza finanziaria ed economica, è un settore strategico come l’istruzione quello che costituirà il banco di prova della volontà riformatrice del governo Berlusconi. L’istruzione è infatti il campo in cui meglio si coglie lo snodo delicato tra il presente e il futuro di una società: e alla politica spetta la responsabilità di farci capire se intende pensare l’istruzione come risorsa a disposizione per il futuro della società o come asset utile per alimentare nel presente i propri bacini elettorali. Su questo snodo la sinistra italiana appare oggi in drammatico ritardo. Proprio nel dibattito sulla riforma Gelmini l’operato dell’opposizione desta più di una perplessità. Un refrain ricorrente, in Italia ma anche altrove, accusa la destra di cavalcare le paure per trarne sostegno elettorale (quella degli immigrati, quella della criminalità...). Difficile non constatare come, sulla riforma della scuola, non sia invece la sinistra ad agitare la paura del cambiamento e gli spettri di una «rapina del futuro», mentre nel frattempo si arrocca in una difesa miope del presente e dei presunti vantaggi che spera di ricavare da una politica «oggettivamente conservatrice». Magari ci sbaglieremo, ma se sulla scuola continuerà in questa strategia, l’unica a vedersi scippata del proprio futuro dalla riforma Gelmini sarà la sinistra italiana. da lastampa.it Titolo: VITTORIO EMANUELE PARSI Quelli di Barack Inserito da: Admin - Ottobre 22, 2008, 12:14:44 pm 22/10/2008
Torna l'asse Usa-Europa VITTORIO EMANUELE PARSI Il futuro presidente degli Stati Uniti sarà probabilmente il primo inquilino della Casa Bianca che si troverà a dover affrontare un problema inedito per la storia americana dai tempi del presidente Theodore Roosevelt. Da quando cioè gli Usa conclusero la stagione del loro splendido isolamento e si tuffarono nel mondo. Si tratta del tramonto della convinzione che la diffusione dell’economia di mercato e del capitalismo avrebbe finito per avvantaggiare innanzitutto gli Stati Uniti, cioè quella che ormai era già diventata l’economia più grande e più avanzata del pianeta. Questa idea, assai più della diffusione della democrazia - che pure ne rappresenta un corollario importante - ha rappresentato la vera idea-guida della politica di Washington nel mondo nel corso del «secolo americano». Saranno Woodrow Wilson e Franklyn Delano Roosevelt a sviluppare questo corollario della politica estera americana e a forgiare la coppia concettuale «democrazia e mercato», che si rivelerà fondamentale per sconfiggere l’Unione Sovietica nella lunga Guerra fredda. Nel corso della secolare vicenda che li ha visti protagonisti della politica internazionale, gli Stati Uniti hanno sovente tollerato di avere come alleati - ma sarebbe più preciso definirli «clienti», nell’accezione latina del termine - regimi che in nessun modo sarebbe possibile definire democratici; ma non hanno mai esteso la loro protezione a sistemi che non fossero, dal punto di vista economico, capitalisti. Dopo il 1989, si spiega così la politica clintoniana, tutta tesa a favorire il processo di globalizzazione, ritenuto il volano capace di innescare un circolo virtuoso di ordine e sicurezza per il mondo attraverso la diffusione dell’economia di mercato, l’accelerazione dell’interdipendenza e la moltiplicazione dei sistemi democratici. Al di là dei suoi meriti, e anche oltre le sue indubbie qualità, Bill Clinton si trovò nella fortunata condizione di gestire con abilità e coraggio un successo costruito da altri prima di lui. Fu un momento unico, in cui gli Stati Uniti erano il sole di un sistema copernicano (in termini di potenza), ma anche il mozzo della ruota (rispetto al processo di globalizzazione). Per un lungo momento, quello che Theodore Roosevelt aveva iniziato sembrò poter essere portato a compimento. La grande novità che però si stava producendo sotto traccia, e che sarebbe esplosa con le conseguenze dell’11 settembre, era non tanto e non solo il rafforzarsi o il ritornare di altre grandi potenze (la Cina, la Russia), ma il fatto che grandi porzioni di quel sistema integrato di economie di mercato creato grazie al successo americano nella Guerra fredda, non dipendevano per la loro sicurezza dalla protezione americana. Detto con semplicità, il trionfo del capitalismo e dell’economia di mercato non significava più, ipso facto, né un incremento della quota di ricchezza, né un aumento del potere economico e politico americani. Tra i Paesi che hanno segnato la maggior crescita economica nel principio del nuovo millennio, i cosiddetti BRICs, Cina e Russia sono infatti indipendenti (quando non rivali degli Stati Uniti) per quel che concerne le proprie concezioni e le rispettive politiche di sicurezza, mentre India e Brasile non vedono necessariamente nel mantenimento di una posizione di leadership globale degli Stati Uniti la principale garanzia per la propria sicurezza politico-militare. Per nulla paradossalmente, è l’Europa a dipendere ancora per la propria sicurezza dalla continuità della leadership americana. Il ritorno assertivo e muscolare sulla scena internazionale di una Russia che sembra irreversibilmente inclinare verso una «demokratizatsiya» dai tratti marcatamente illiberali da un lato, e la crescita continua di una Cina semplicemente «fuori scala» per un’Europa persino più unita dell’attuale, dovrebbero consigliare agli europei di giocare la carta della «debolezza americana» nella direzione della ricerca di una partnership più paritaria, ma non per questo aleatoria. È proprio adesso che un’Europa consapevole del proprio valore insostituibile come alleato democratico della democratica America, e forte del temporaneo vantaggio della sua più lungimirante strategia per uscire dalla crisi finanziaria, dovrebbe rilanciare l’intesa con gli Stati Uniti, nella consapevolezza che (come ha osservato Angelo Panebianco dalle colonne del Corriere della Sera), il tramonto della leadership globale degli Stati Uniti potrebbe rendere il mondo meno «pacifico», meno «libero» e più inospitale per le democrazie. Quanto questa corretta previsione potrà essere smentita dipenderà anche dalla determinazione che i sistemi fondati sulla democrazia e sul mercato, per quanto diversamente essi possano essere declinati, sapranno dimostrare nel cercare la difficile via della collaborazione, ricordando che la relazione speciale tra Europa ed America non è fondata principalmente su periodici interessi comuni, ma su un tessuto permanente di valori condivisi. da lastampa.it Titolo: VITTORIO EMANUELE PARSI Quelli di Barack Inserito da: Admin - Ottobre 29, 2008, 11:02:25 pm 29/10/2008 - LE ELEZIONI NEGLI STATI UNITI
Traiano for president VITTORIO EMANUELE PARSI Al culmine di una fase di crisi molto acuta del principato, nel 98 d.C. Marco Ulpio Traiano divenne imperatore. Primo non italico ad ascendere al trono di Augusto, Traiano fu l’ultimo imperatore che estese i confini di Roma e si dimostrò capace di interpretare e rinvigorire la sua missione universale meglio di quanto non avessero e non avrebbero fatto altri imperatori prima e dopo di lui. Adottato dal predecessore Nerva, confermato nella sua carica dal Senato e acclamato dal popolo di Roma, Traiano rappresentò la prova vivente della capacità dell’élite romana di cooptare tra le sue file anche elementi esterni al suo esclusivo entourage, purché ritenuti di valore e utili alla causa imperiale. Martedì prossimo, forse, gli americani eleggeranno Barack Obama alla carica politica più importante del mondo contemporaneo. Se questo dovesse accadere, quasi duemila anni dopo l’acclamazione di Traiano, gli Stati Uniti avranno dato oggettivamente prova di una capacità cruciale e insieme rarissima per ogni sistema politico: quella di rinnovarsi nella continuità. E, scommettendo sulle qualità presunte di questo moderno «provinciale», l’America potrà forse rilanciare la missione e la capacità attrattiva dell’«impero della libertà», per riprendere la fortunata espressione di Thomas Jefferson, proprio quando quel ciclo sembrava volgere al termine. I quasi quarant’anni occupati dal regno di Traiano e da quello del suo successore Adriano fornirono all’impero nuovo slancio, concorrendo a prolungare la sua straordinaria parabola. Traiano non era certo un «uomo della strada» e, pur se proveniente dalla provincia Baetica, non era uno straniero e neppure l’esponente di una cultura politica «antiestablishment». Tutt’altro; era stato allevato nel rispetto e nel mito delle istituzioni romane e imperiali, a cominciare dalle legioni, il cui comando costituiva un fattore di legittimazione sempre più decisivo per chi aspirasse alla porpora. Anche Barack Obama, per quanto sia un outsider rispetto ai circoli politici di Washington, non è certo «Joe l’idraulico», oltre a essere un uomo cresciuto nella fede nei principi e nei valori dell’America. È un giovane senatore degli Stati Uniti, laureato ad Harvard, che ha saputo sfruttare benissimo le risorse che il sistema mette a disposizione dei migliori. La sua formazione «pubblica» non è avvenuta in circoli che contestavano la cultura politica degli Usa, bensì all’interno di un ambiente che voleva invece compierla fino in fondo. Come spesso è stato giustamente ripetuto in questi mesi, Barack Obama è un simbolo, è la rappresentazione della perdurante vitalità del sogno americano, del rispetto per il talento che la «terra delle opportunità» offre ai suoi figli, naturali o adottivi che siano. Potremmo spingerci un po’ oltre, fino ad affermare che Obama è un «nero astratto», e proprio in quanto tale più facilmente votabile per tanti americani bianchi del Midwest, che avrebbero molte difficoltà ad eleggere un afroamericano non alla presidenza, ma al consiglio di zona. Obama non è cioè il tipico esponente della comunità politica afroamericana, passato per una fase di opposizione talvolta radicale al sistema e poi forgiato nella lotta per i diritti civili, come Jesse Jackson. È il figlio mulatto di un nero africano e di un’americana non di colore, allevato dalla famiglia materna di bianchi progressisti. Per i neri americani, però, Obama è già diventato uno di loro, per aver riportato sotto i riflettori questioni che - a cominciare dalla povertà, dalla salute, e dalle famiglie monoparentali - riguardano la comunità nera più delle altre. Non si tratta di un’ambiguità nel posizionamento o nella stessa identità di questo giovane senatore. Ma di una componente di «astrattezza» che tutti i simboli devono possedere, in modo che tanti, anche molto diversi tra loro, vi si possano rispecchiare o identificare. E, se sarà eletto, non possiamo che augurare, a lui ma anche a noi, che l’America abbia visto bene, e che Barack Obama abbia davvero quelle qualità sulle quali l’America ha scommesso. da lastampa.it Titolo: VITTORIO EMANUELE PARSI Quelli di Barack Inserito da: Admin - Novembre 04, 2008, 06:10:23 pm 4/11/2008
Quelli di Barack VITTORIO EMANUELE PARSI E’una sorta di fredda e decisa determinazione quella che oggi contribuirà a portare un numero record di americani alle urne per eleggere il nuovo Presidente degli Stati Uniti. Non si tratta di frenesia, nessuno parla di «salvare il Paese», non ci sono cortei dai pretesi numeri milionari e tanto meno manifestazioni violente o anche solo vagamente irrispettose della libertà altrui. Ma la sensazione è che una parte consistente di americani, specialmente quelli dalle convinzioni politiche meno partigiane, capaci di votare per i repubblicani o per i democratici a seconda delle circostanze, desiderino un segnale forte di cambiamento. Davvero al di là dei suoi demeriti e dei suoi errori (come la scelta di Palin come vicepresidente), McCain pagherà probabilmente questo sentimento impetuoso, questa «forza tranquilla», per ricordare l’efficace slogan con cui François Mitterrand vinse il suo primo mandato presidenziale, convincendo milioni di francesi non certo socialisti a votare per lui. Analogamente al di là delle sue qualità e delle mosse indovinate, se Obama diverrà il primo presidente «non bianco» nella storia degli Stati Uniti, dovrà ringraziare anche la rabbia fredda che milioni di elettori hanno maturato nei confronti di George W. Bush e dell’establishment repubblicano. Ci sono storie che aiutano a capire meglio le cose di tanti discorsi. Joe Grieco è un professore di Relazioni Internazionali alla Duke University, nel North Carolina, una delle università più prestigiose degli Stati Uniti. Nessuno è più lontano di lui dalla figura di un attivista di partito. Eppure questo tranquillo professore universitario di mezza età, che alle ultime due elezioni ha votato per George W. Bush, è uno dei tanti volontari che, come sua moglie Pat, hanno dedicato parte del loro tempo a sostegno della candidatura di Obama, e per la prima volta nella loro vita hanno finanziato una campagna elettorale. Più che un democratico, Joe Grieco è un «obamaiano», convinto delle qualità del candidato democratico e conquistato dalla sua notevole capacità oratoria, che non esita a paragonare a quella di «Reagan, Blair o persino Churchill». Certo, la comunità accademica è sempre stata prevalentemente liberal, ma non tutti sono sostenitori così attivi di Obama, come Joe Grieco. Mike Mastanduno è vicepreside della Facoltà di Social Sciences al Dartmouth College, nel New Hamsphire, dove insegna American Foreign Policy. Dartmouth fa parte della Ivy League, che raccoglie le università in cui hanno studiato e studiano le élite di Boston e di New York, quelle che occupano le posizioni più importanti da Washington a Wall Street, e sottolinea come, questa volta, la voglia di cambiamento travalichi il posizionamento politico tradizionale di tanti elettori. «Sarebbe un pasticcio, se Obama non ce la dovesse fare: anche se questo avvenisse in maniera limpida, senza che si ripetesse l’imbarazzante spettacolo del 2000. Troppi americani perderebbero la fiducia che, quando le cose non vanno, gli elettori hanno sempre la possibilità di cambiarle e di mandare a casa chi ritengono responsabile della situazione». A pensarci bene, questa è una delle poche novità positive che hanno caratterizzato gli anni della nostra travagliata e incompiuta «seconda repubblica», in cui, con una sola eccezione, gli italiani hanno sempre «licenziato» le maggioranze in carica per dare alle ex minoranze la chance di dimostrare che cosa sapevano fare. Barack Obama è certamente consapevole di quanto la volontà di voltare pagina abbia giocato un ruolo determinante nel gonfiare le vele della sua campagna. E sa anche che, qualora fosse eletto (come tutti i sondaggi lasciano prevedere), la sensazione del cambiamento e della discontinuità sarà quella prevalente per qualche settimana, al massimo per qualche mese. Poi il futuro presidente dovrà misurarsi con i problemi giganteschi ereditati dalla precedente amministrazione (dalle guerre alla crisi economica). E allora dovrà faticare, e parecchio, per mantenere vivo questo sentimento, per alimentare la speranza di rinnovamento di cui gli elettori lo hanno fatto depositario, alfiere e simbolo. E sarà lì che vedremo la stoffa se, come in tanti speriamo, davvero la stoffa c’è. Quando gli americani parlano degli Anni Trenta, li descrivono come gli anni della Grande Depressione. Solo in seconda battuta, quei medesimi anni diventano quelli del «New Deal», della grande trasformazione imposta alla società americana da Franklin Delano Roosevelt. L’augurio migliore che possiamo fare ad Obama, se questa notte si ritroverà Presidente degli Stati Uniti, è che le future generazioni possano ricordare questi anni non solo come quelli della più grande crisi economica dopo quella del 1929, ma anche come gli anni di una nuova ripartenza: per l’America e per il mondo. da lastampa.it Titolo: VITTORIO EMANUELE PARSI Forza liberal Inserito da: Admin - Novembre 07, 2008, 10:07:42 am 7/11/2008
Forza liberal VITTORIO EMANUELE PARSI Già solo per questo,per aver compiuto la promessa del sogno americano, l’elezione di Barak Obama a 44° presidente degli Stati Uniti rappresenta un fatto epocale, che arriva proprio quando l’America aveva più bisogno di tornare a credere in se stessa, nel suo essere «una nazione benedetta dalla Provvidenza». Per quanto possa essere difficile in queste ore riuscire a farlo, dovremmo però provare a mettere da parte l’emozione di vedere il primo Presidente «non bianco» della storia degli Stati Uniti, e andare oltre, per chiederci se l’elezione di Obama non possa rappresentare per l’America di oggi, a posizioni partitiche rovesciate, qualche cosa di analogo a ciò che significò l’elezione di Ronald Reagan per l'America degli Anni Ottanta. L’arrivo di Reagan alla Casa Bianca segnò l’inizio della cosiddetta rivoluzione conservatrice, quella che fu capace di rimettere in carreggiata un Paese che non credeva più in se stesso, nei suoi miti e nei suoi leader. Grazie a quell’outsider che aveva fede nell’American Dream più di quanta ormai ne avessero le sue stanche e rassegnate élite, gli americani, questo popolo di sognatori, ripresero a lottare e tornarono a ripetersi, allora come in altri momenti cruciali della storia della grande Nazione, «We Can Do It». Ce la possiamo fare a vincere la sfida della Guerra fredda, nella quale l’Urss appariva in clamoroso vantaggio, a far riprendere a correre l’economia americana, di cui i giapponesi stavano acquistando a prezzi di saldo persino i simboli (le grandi major cinematografiche, i grattacieli di Manhattan), a restaurare i valori di una tradizione fatta di responsabilità e libertà, individualismo e senso comunitario, in un mix unico per audacia e generosità. Quella rivoluzione non sarebbe però stata possibile, se il suo alfiere non fosse stato capace di conquistare, non solo per sé ma anche per il suo partito (e qui sta il punto), il centro dello schieramento politico americano, rifacendo del Grand Old Party la «casa naturale» dei moderati, o meglio degli elettori indipendenti, come più correttamente sono definiti da queste parti coloro che non votano in base a pregiudiziali ideologiche. Da allora fino a martedì scorso, i repubblicani erano riusciti a mantenere questa collocazione privilegiata, nonostante progressivamente, anno dopo anno, il partito fosse scivolato verso posizioni sempre più conservatrici e minoritarie, piuttosto che autenticamente tradizionali e maggioritarie. La tenuta era stata facilitata dal fatto che questo Paese è sempre stato, almeno finora, decisamente e strutturalmente orientato più verso il centrodestra (per dirla all’italiana) che non verso il centrosinistra. Significativamente, ci volle l’avvento sulla scena politica di un animale politico straordinariamente dotato come Bill Clinton, per riuscire sospendere la rendita elettorale che Reagan aveva fornito al Gop. Ma il southern boy non riuscì mai a trasferire al partito il suo successo, e a trasformare il proprio carisma personale in consensi stabilizzati per i democratici. Oggi, a Barack Obama si apre concretamente questa possibilità, cioè la chance di far partire una rivoluzione liberal, dopo che quella conservatrice ha esaurito da tempo la sua spinta innovatrice. Non si tratta di cancellare tutto quello fatto in questi anni, ma di raccogliere idealmente il testimone del «cambiamento nella continuità» dalle mani dei migliori interpreti del conservatorismo per affidarlo a quelle dei liberal. È giunta l’ora che la cultura politica liberal degli Stati Uniti torni a giocare un ruolo meno elitario e compiaciuto, a parlare alla working class (alla vecchia come alla nuova) e possa così nuovamente arricchire la vita e il dibattito politico degli Stati Uniti. È questo che gli americani intendono per alternanza, non certo l’infinito fare e disfare cui siamo abituati da queste parti; ma il muoversi verso l’orizzonte alternando «i bordi», sfruttando cioè i venti più efficaci in ogni stagione. A sua disposizione, il presidente Obama ha una dote elettorale straordinaria fatta dal 54% di consensi degli elettori indipendenti, del 66% di quelli under 29 e dell’enorme numero di latinos portati alle urne. Per paradosso, il voto nero è stato quello meno determinante per la sua vittoria, se si considera che i votanti afroamericani sono passati solo dall’11% del 2004 all’attuale 13%. È un ottimo punto di partenza per fare dei democratici il partito di riferimento degli elettori indipendenti per un lungo periodo di tempo, per ricollocarlo al centro dello schieramento dal quale da troppo tempo si era allontanato. In tal modo, Barack Obama aiuterà anche i repubblicani moderati a vincere la loro dura battaglia interna contro la destra religiosa e conservatrice che, insieme con la crisi economica, è tra i maggiori responsabili della débâcle di McCain. Per la sua stessa storia personale, e per come ha saputo costruire il suo posizionamento durante le durissime primarie democratiche, Barack Obama, è riuscito a presentarsi come colui che era in grado di incarnare il «cambiamento senza salti nel buio», la freschezza che l’America chiedeva e il ritorno ai valori dell’autentica tradizione americana. È una ricetta che funziona dovunque, basti pensare alla Francia delle ultime presidenziali o all’Italia del 1994: ma mentre è molto facile da descrivere e molto difficile da perseguire. Obama sa, molto più di tanti suoi imitatori, che il lavoro vero inizia adesso, che l’onda che l’ha trascinato fin qui non è molto diversa da quella che portò Jimmy Carter alla Casa Bianca: ma che la disaffezione e lo scontento sono sufficienti per essere eletti, non per governare. Gli americani, disgustati degli scandali Enron, disorientati da due guerre in sette anni, preoccupati dalla crisi finanziaria, hanno concesso al candidato Obama e ai democratici la loro fiducia: tocca al presidente Obama, ora, dimostrare che in tanti avevano visto giusto. da lastampa.it Titolo: VITTORIO EMANUELE PARSI Non è "partisan" abolire certe leggi Inserito da: Admin - Novembre 11, 2008, 10:58:48 am 11/11/2008
Non è "partisan" abolire certe leggi VITTORIO EMANUELE PARSI Rimettere la barra al centro: questa sembra essere la principale preoccupazione che anima Barack Obama, più forte ancora della volontà di confermare la sensazione diffusa che alla Casa Bianca qualcosa sia davvero inequivocabilmente cambiato. In queste ore lo staff di Obama starebbe esaminando circa 200 tra ordini esecutivi e provvedimenti normativi emanati dal presidente George W. Bush per verificare quali abrogare e quali emendare sostanzialmente. A prima vista una tale iniziativa sembrerebbe contraddire platealmente quello spitito «post-partisan» che lo stesso presidente eletto aveva invocato nei primi discorsi successivi alla vittoria, a cominciare da quello tenuto la notte dello storico martedì della sua «incoronazione». E però, a una più pacata analisi, non sfugge come le cose stiano in maniera affatto diversa. Nell’argomentare questa tesi, occorre premettere che molti dei provvedimenti sui quali potrebbe abbattersi la futura scure presidenziale riguardano temi di natura etica, per cui è fin troppo facile immaginare che le revisioni e le cancellazioni annunciate produrranno un vespaio e che la polemica politica si infiammerà e travalicherà rapidamente i confini degli Stati Uniti. Prima che ciò accada, e che i toni della discussione possano assumere quelli propri della rissa (e ne abbiamo già avuto penose avvisaglie nei giorni scorsi), cerchiamo di precisare almeno due questioni. La prima, la più semplice, è che lo staff presidenziale sta concentrando la sua attenzione su quei provvedimenti ritenuti «divisivi» e «ideologici», ovvero non sufficientemente condivisi dalla maggioranza dell’elettorato americano. Si vogliono cioè colpire quelle norme che avrebbero cercato di estendere «per legge» le convinzioni proprie della destra religiosa più conservatrice, della cosiddetta «Bible Belt», all’intera società americana. E che l’esecutivo di Washington fosse da molti ritenuto troppo vicino alle tesi neoconservatrici non è certo una scoperta di oggi e neppure di Obama. Mentre forse può rappresentare una «scoperta», per l’opinione pubblica europea, il fatto che l’influenza del neoconservatorismo fosse stata assai maggiore, ma anche molto più contrastata, sul piano interno e delle politiche pubbliche relative alla sanità, al welfare, all’ambiente e alla ricerca scientifica, che non su quello internazionale e della politica estera, dove peraltro la controversa dottrina della guerra preventiva e dell’esportazione della democrazia erano state silenziosamente accantonate, anche in virtù del loro insuccesso. Senza dimenticare, evidentemente, che, di tutte le politiche pubbliche, quella estera è quella che maggiormente risente dell’azione degli altri attori che affollano, con le proprie, l’arena internazionale. Non per caso, dopo le velenose congratulazioni inviategli dal presidente Ahmadinejad per la sua elezione, Obama ha dovuto inserire precipitosamente un passaggio sull’Iran nel suo discorso e assumere una posizione più tranchant di quanto probabilmente non sarebbe stato nelle sue intenzioni originarie. Saprà Barack Obama applicare lo stesso metro - «la sensibilità etica di una parte non può essere estesa per legge all’intera società» - anche quando questo urterà contro le sue convinzioni personali? Le occasioni per verificarlo di certo non mancheranno. Del resto, negli stessi giorni in cui gli elettori americani lo sospingevano verso la Casa Bianca, quelli della California votavano per l’abrogazione del matrimonio gay in quello Stato. È un ammonimento, qualora ce ne fosse bisogno, che la società americana non è quella che i cantori della destra religiosa vorrebbero, ma neppure quella immaginata dai paladini del liberalismo più radicale. Nel rispetto delle convinzioni personali di ognuno, occorre, soprattutto per un Presidente che voglia riuscire nell’impresa di riformarla, non perdere di vista dov’è il baricentro della società americana. C’è poi una seconda e più spinosa questione che va chiarita. Sui temi etici, la possibilità d’una mediazione sui contenuti è ridotta al minimo. Esistono proposizioni in cui, per ognuno, è vero «A» o è vero il suo opposto «non-A». Tutto lascia intendere che nei prossimi anni, in America e non solo, tali oggetti dovranno in misura sempre maggiore essere regolati per via politica. Fatti salvi alcuni pochi principi che definiscono la natura liberale di un sistema politico (e perciò sono irrinunciabili), sugli altri le divisioni resteranno a lungo non componibili. Concentrarsi sul metodo grazie al quale possano essere effettuate scelte anche in materie così impegnative, e ampliarne la sua condivisione, appare perciò la scelta più appropriata, oltre che la sola alternativa possibile a un vuoto normativo che esporrebbe specialmente i soggetti più deboli (economicamente, culturalmente e socialmente) a una condizione di ancora maggiore solitudine e diseguaglianza, oltremodo inaccettabile proprio in considerazione della dimensione valoriale dei dilemmi in gioco. Ecco perché, proprio su questioni eticamente incandescenti, non è una scelta «partisan» abolire provvedimenti adottati dalla precedente amministrazione in spregio a un metodo condiviso. E perché invece lo sarebbe la loro sostituzione con norme dai contenuti speculari che avvenisse ricorrendo alle medesime (sbagliate) modalità suggerite dalla destra ultraconservatrice in questi anni. da lastampa.it Titolo: VITTORIO EMANUELE PARSI - Ciao, vecchia Europa Inserito da: Admin - Novembre 16, 2008, 10:08:36 am 16/11/2008
Ciao, vecchia Europa VITTORIO EMANUELE PARSI C’è troppa Europa nel tradizionale G8. Ma l’Europa rischia di pesare troppo poco nel novello G20 in corso in queste ore a Washington. È possibile, come molti ritengono, che questi vertici siano poco utili, sostanzialmente inefficaci e di qualche interesse, forse, per i soli capi di Stato e di governo che vi partecipano. D’altronde, se in tempi di crisi occorrerebbe non indugiare ed evitare gli appuntamenti poco più che rituali, è altrettanto vero che proprio le crisi impongono anche momenti simbolici, in cui sia possibile «mettere in scena» l’unità di intenti della comunità internazionale. Le due esigenze devono perciò essere contemperate. In tal senso, non c’è dubbio che un vertice come il G8, che raccoglie i grandi Paesi occidentali più la Russia, rischia di essere ormai persino più anacronistico del tradizionale G7. Da un punto di vista concettuale, il G8, che sorgeva dalla volontà esplicita di allargare la sua membership all’ex nemico, è nato morto. E’nato morto perché la logica post-Guerra fredda della sua architettura era già stata sorpassata dall’incalzare dei tempi al momento del suo stesso concepimento. E infatti la presenza russa nel club, e la minaccia di sospenderla, non ha influenzato minimamente l’attuale stato di tensione russo-americana. Il fatto poi che delle otto poltrone al suo tavolo, ben quattro siano riservate a governi europei tutti membri dell’Unione, rende palese una sovrarappresentazione della «vecchia Europa», davvero poco giustificabile, poco utile e poco opportuna, visti i tassi di crescita delle economie non «occidentali» che hanno connotato l’ultimo decennio e la prevedibile maggiore rilevanza che esse andranno acquisendo negli anni a venire. Per quanto a Paesi di media o piccola statura come Italia e Canada la cosa possa comprensibilmente dispiacere, l’idea di affiancare e, prima o poi, sostituire il G-8 con un altro organismo capace di rappresentare anche le economie emergenti è in sé positiva e, in una certa misura, inevitabile. E in questo senso sembra già muoversi la futura amministrazione americana, che sarà probabilmente molto più «global oriented» di tutte quelle che l’hanno preceduta. Perché tutto ciò non si traduca in una perdita secca di rilevanza dell’Europa, diventa fondamentale che essa, almeno in vertici di questo tipo, si decida a compiere un gesto tanto audace quanto necessario: pretendendo, possibilmente già dal prossimo appuntamento previsto tra poco più di tre mesi, di occupare un seggio solo, ma dal peso specifico enormemente superiore. L’autorevolezza della voce europea difficilmente potrà trarre infatti un qualche giovamento dall’allargamento dello spezzatino della sua partecipazione all’Olanda e alla Spagna (oltre che al solito pleonastico rappresentante dell’Unione). Non sappiamo che cosa possa essere ricompreso in quel «ti darò tutto ciò che mi chiederai» che, in cambio di uno strapuntino, il premier spagnolo Zapatero avrebbe promesso al presidente francese Sarkozy (che già pare piuttosto ben accompagnato da «Carlà», la quale, nell’averci recentemente edotto circa il suo sollievo «di non essere più italiana», forse ignora di seguire una lunga, disdicevole e peraltro molto italica tradizione). Certo è che ben altra cosa sarebbe se i 16.620 miliardi di dollari e 451 milioni di abitanti dell’Unione fossero rappresentati da un solo delegato (Sarkozy o Barroso), almeno in vertici dal connotato prevalentemente simbolico come quello in corso a Washington. L’Europa ne acquisirebbe un maggior prestigio e darebbe più peso specifico alle sue decisioni, rendendo evidente che, una volta che l’accordo sulle misure da intraprendere è stato raggiunto tra le capitali dei Paesi dell’Unione, quest’ultima è in grado di mostrare la sua compattezza e la sua esistenza tutt’altro che solo simbolica. Nell’intervista pubblicata da La Stampa giusto ieri, Paul Krugman, premio Nobel dell’economia e guru dell’opinione liberal, ammoniva come la trappola di una percezione parrocchiale e ristretta dell’interesse nazionale rischi di rendere vertici come questi inutili se non dannosi. È possibile che le parole di Krugman, in sé condivisibili, costituiscano una fuga in avanti rispetto alle attuali condizioni del mondo e di ciò che è ragionevolmente possibile attendersi dai suoi leader. Il fatto, però, che 27 Paesi che liberamente hanno scelto di condividere un comune destino politico (e che già in buona parte condividono la stessa moneta), sappiano iniziare a dar corpo, anche simbolico, a un interesse nazionale «europeo» (cioè della «nazione civica» che l’Unione è) rappresenterebbe invece un adeguamento alla realtà e un rifiuto di logiche che sono oggettivamente alle nostre spalle. da lastampa.it Titolo: VITTORIO EMANUELE PARSI - Il terrore punta sul Pakistan Inserito da: Admin - Novembre 29, 2008, 09:53:13 am 29/11/2008
Il terrore punta sul Pakistan VITTORIO EMANUELE PARSI L’India è ormai entrata stabilmente nel novero dei Paesi target dell’estremismo islamista, la cui galassia si dimostra sempre più capace di elaborare strategie che raccordino la dimensione regionale con quella globale. In questa prospettiva, appare in realtà non così rilevante che la regia degli attentati dei giorni scorsi sia imputabile ad al Qaeda piuttosto che a spezzoni deviati dei potentissimi servizi segreti pachistani (Isi). A tal proposito, non dovremmo mai dimenticarci che, per quanto la sua leadership ideologica e militare sia araba, al Qaeda si è forgiata nella lotta contro i sovietici in Afghanistan, trovando prima nei servizi segreti del Pakistan e poi nei Talebani gli alleati necessari per compiere quel salto di qualità che l’avrebbe portata a realizzare gli attentati dell’11 settembre 2001. Oggi, mentre le cellule dell’organizzazione in Iraq sono state in gran parte smantellate grazie alla brillante conduzione politico-militare concepita e attuata dal generale Petraeus, l’Afghanistan, la terra dove Bin Laden ha costruito le basi della sua fortuna jihadista, torna a essere il teatro principale dello scontro. Come conseguenza di ciò, l’ambiguità della posizione pakistana si fa sempre meno sostenibile. La collaborazione di Islamabad è infatti una condizione necessaria per qualunque strategia contro i Talebani, anche e soprattutto per quelle più «politiche», che mirano alla frattura della coalizione raccolta intorno al Mullah Omar. E in una simile ottica, mentre il fronte afghano riacquista la sua primitiva rilevanza strategica, l’ampia indulgenza, per non dire l’aperto sostegno, che le forze di sicurezza pakistane hanno fin qui garantito ai Talebani non è più tollerabile. Questo ha generato le crescenti pressioni sul governo pakistano affinché si comporti più lealmente rispetto agli alleati americani e della Nato. Ma ha anche prodotto la risposta avversaria. Finora, l’azione jihadista si era «accontentata» di destabilizzare il Pakistan, senza sfruttare appieno tutte le possibilità offerte dalla particolare condizione del Paese. Con gli attentati di questi giorni, che in realtà coronano una lunga serie di violenze costate la vita a oltre 800 cittadini indiani, i jiahdisti hanno scelto di cambiare la propria strategia. Non intendono più limitarsi alla conquista del potere nel musulmano Pakistan, ma vogliono fare di questo Paese la prima linea di un nuovo scontro frontale contro gli infedeli. Hanno cioè smesso di considerare il Pakistan come il teatro di una fitna (la guerra civile contro gli apostati e gli empi all’interno della umma islamica), per trasformarlo invece nella prima linea di un jihad contro gli infedeli e «idolatri» indiani. Tutto ciò implica che il lungo conflitto che dai tempi della partizione si trascina latente, e che ciclicamente esplode, tra India e Pakistan venga messo al servizio di questo disegno, e l’irredentismo kashmiro ne diventi parte integrante, replicando amplificato e con maggior successo il tentativo di islamizzazione del conflitto ceceno. Ovviamente questo comporta, all’interno del progetto jihadista, il riposizionamento dell’India, la quale diventa il «nemico vicino», da colpire insieme al «nemico lontano» occidentale: con un’estensione all’India e al suo rapporto con l’Occidente (soprattutto nella sua declinazione economica) della medesima logica applicata nei confronti di Israele (il piccolo Satana) e della sua relazione con gli Stati Uniti (il grande Satana). Due fronti di mobilitazione vengono così saldati: la lotta contro gli apostati e quella contro gli infedeli si fanno una cosa sola, grazie anche all’agevolazione oggettivamente fornita dalla progressiva egemonia che il nazionalismo indù sta svolgendo nei confronti del patriottismo indiano (di cui anche gli attentati anticristiani dei mesi scorsi hanno costituito un tragico segnale). da lastampa.it Titolo: VITTORIO EMANUELE PARSI - Quella strada Pechino-Kabul Inserito da: Admin - Dicembre 15, 2008, 05:50:27 pm 15/12/2008
Quella strada Pechino-Kabul VITTORIO EMANUELE PARSI Un ribaltamento copernicano della politica di sicurezza americana in tutta l’Asia: smettere di pensare alla Cina come al prossimo rivale globale e iniziare a considerarla un partner essenziale per la sicurezza in Asia. Si tratta di un clamoroso avvicendamento nelle preoccupazioni strategiche che hanno dominato le riflessioni delle teste d’uovo del Dipartimento di Stato, del Pentagono e di molti dei più prestigiosi think tanks indipendenti di New York e Washington. E però tutto questo sembra essere la condizione necessaria affinché gli Stati Uniti e gli alleati occidentali possano chiudere vittoriosamente la «war on terror» in Afghanistan e gettare le basi per un possibile ordine internazionale sufficientemente stabile. Nei giorni della sua visita romana, il generale Petraeus ha ribadito ciò che il presidente eletto Barack Obama non si è mai stancato di ripetere in campagna elettorale. Per cercare di vincere in Afghanistan servono più truppe, una politica orientata a dividere il fronte talebano e un aiuto meno timido e ambiguo da parte del Pakistan. I primi due punti di questa ambiziosa strategia chiamano in causa essenzialmente gli americani e il loro rapporto con gli alleati occidentali. Senza abbandonare la mentalità della coalition of willings che ha caratterizzato anche la campagna afghana (con gli americani a fissare gli obiettivi e gli alleati a condividere cautamente gli sforzi), sarà ben difficile ottenere i risultati sperati. Occorre invece che la condivisione tra alleati parta proprio dall’elaborazione degli obiettivi. Quali sono oggi, a sette anni dall’inizio della guerra, gli scopi politici e militari che ci proponiamo? Fino a che punto e con chi siamo disposti a trattare? Chi vogliamo corrompere, chi eliminare e chi catturare? Quando potremo considerare raggiunti i principali obiettivi della guerra? Ottenere un maggiore e migliore coinvolgimento del Pakistan è invece una questione che coinvolge innanzitutto la capacità americana di convincere i pachistani che la pacificazione del fronte afghano non farà venire meno l’attenzione che Washington continuerà a riservare a Islamabad. Benché ciò non venga esplicitamente dichiarato, una delle preoccupazioni pachistane è che, quando l’Afghanistan venisse sostanzialmente pacificato, nulla tratterrebbe Washington da stringere ulteriormente i suoi legami con l’India, politica che gli americani stanno attuando da alcuni anni in funzione di contenimento della Cina. I cinesi, dal canto loro, pur aspirando a neutralizzare le mosse americane, devono cercare di riavvicinarsi all’India senza perdere il favore dei propri tradizionali alleati pachistani. Si tratta di un vero e proprio rompicapo strategico, dal quale è possibile uscire solo a condizione di una revisione radicale dell’approccio americano alla sicurezza dell’Asia (meridionale in primis) e del ruolo che la Cina può svolgere rispetto a tale obiettivo. Considerare la Cina un partner per la sicurezza asiatica e non un futuro possibile rivale per la leadership globale: questo è l’audace passo che Obama dovrebbe risolversi a compiere. In tale mutata ottica la relazione indopachistana, invece di essere sottoposta a ulteriore tensione dalle mosse competitive di Washington e Pechino, verrebbe sostenuta dalla loro azione cooperativa. E Islamabad si troverebbe nelle condizioni migliori per fare quella decisa scelta di campo che potrebbe consentire anche l’inizio della stabilizzazione del suo fragilissimo regime e la lotta contro i propri talebani e tutte le formazioni qaediste che vogliono ridurre il Pakistan a una enorme retrovia per le proprie azioni terroristiche in Afghanistan e in India. Gli eventi di questi anni indicano che la «rivalità strategica» tra Washington e Pechino è solo una possibilità e non una certezza. In compenso, si va concretizzando l’altra possibilità, quella di una «partnership strategica» sinoamericana. In termini economici e finanziari l’interdipendenza tra Stati Uniti e Cina è seconda solo a quella tra Stati Uniti ed Europa. In termini di sicurezza, nessuna delle scelte fin qui compiute da Pechino sta andando nella direzione di voler ribaltare l’ordine americano in Asia, e gli accordi economico-commerciali stipulati a novembre col governo di Taiwan sono un atto dalla forte rilevanza simbolica anche nei confronti degli Stati Uniti. L’antica «via della seta» collegava la Cina all’Occidente proprio passando per il Khyber Pass e l’antica Bactriana. Non sarebbe per nulla paradossale che, oggi, la strada migliore per venir fuori da Kabul arrivasse fino a Pechino. da lastampa.it Titolo: VITTORIO EMANUELE PARSI - L'Europa e il terzo gigante Inserito da: Admin - Dicembre 18, 2008, 10:44:35 am 18/12/2008
L'Europa e il terzo gigante VITTORIO EMANUELE PARSI Tra oggi e il 2050, nonostante pandemie, crisi alimentare e guerre civili, e pur ipotizzando una moderata riduzione della fertilità femminile, la popolazione dell’Africa subirà un incremento di oltre un miliardo di persone, che le consentirà di superare i giganti demografici rappresentati da India e Cina. Si tratterà di una popolazione estremamente giovane, cioè nel pieno della sua età lavorativa. Nello stesso torno di tempo, la popolazione europea diminuirà di quasi 70 milioni, attestandosi nel suo complesso intorno ai 660 milioni di individui, cioè circa il 65 per cento del solo incremento demografico africano e, soprattutto, sarà una popolazione decisamente più vecchia di quella attuale. Per quanto questi semplici dati quantitativi, forniti dalle Nazioni Uniti e rielaborati dal demografo della Sapienza Antonio Golini, possano colpirci e per quanto elevata possa essere la nostra diffidenza verso le previsioni, le proiezioni demografiche sono tra le meno aleatorie che si possano immaginare. Uno che di alea, aspettative e previsioni se ne intendeva, Alan Greenspan, per molti anni presidente della Federal Reserve, osservava in un libro del 2003: La demografia è il destino, nel senso che al peso e alle dinamiche della demografia, come al destino, non si può sfuggire. Che ci piaccia o meno, tra poco più di quarant’anni questi saranno i rapporti tra Europa e Africa in termini di popolazioni relative. Quello che i numeri non ci possono dire, però, è quali saranno i rapporti politici ed economici tra i due continenti. Perché qui il destino non c’entra nulla: questo dipende da noi, dalle nostre politiche e dalle nostre scelte. Non possiamo alterare il destino demografico, ma possiamo cercare di determinare il valore (negativo o positivo) del suo impatto nel lungo periodo attraverso le scelte politiche che operiamo giorno per giorno (cioè nel breve periodo). Dipenderà anche da noi, se l’impressionante crescita demografica africana si trasformerà in un esodo biblico di disperati che si abbatterà sulle nostre società, più impaurite perché più vecchie, alimentando il razzismo e la chiusura culturale, oppure se diventerà un motore della crescita economica dell’Africa e la chiave di volta della conservazione del benessere dell’Europa. La buona notizia è che abbiamo davanti a noi un arco temporale di oltre quarant’anni per lavorare nella giusta direzione. Quella cattiva è che dobbiamo iniziare da subito, cercando di coagulare il consenso necessario qui e ora in vista di un vantaggio molto procrastinato nel tempo. Perseguire la stabilizzazione politica e lo sviluppo economico dell’Africa non è un atto di carità o di filantropia: è l’interesse strategico dell’Europa. E il primo passo consiste nello sforzo di trasformare i Paesi rivieraschi del Sud del Mediterraneo da serbatoi e trampolini di lancio delle carrette della disperazione, in partner economici e politici e in poli di irradiazione di sviluppo e crescita. Con la consapevolezza della dimensione dello sforzo, ma anche della rilevanza della posta in gioco. A fronte di questi numeri e di queste prospettive, l’importanza dell’Unione Euro-mediterranea varata dal presidente Sarkozy il 14 luglio di quest’anno emerge limpidamente. Non sarà semplice trovare il modo di coniugare tra loro un Nord, altamente istituzionalizzato, regionalizzato e integrato, e un Sud carente in tutte e tre queste dimensioni. Ma occorre capire che ciò che in un’ottica di corto respiro può appare un’impresa troppo ardua e costosa è, in effetti, il migliore investimento che potremmo fare. Per riuscirci, basta allungare un po’ lo sguardo, e tornare a concepire la politica come un investimento nel presente che ci consente di «guadagnare futuro». Cioè l’opposto dello spettacolo cui assistiamo - a volte allibiti, spesso rassegnati - in cui sembra che il futuro sia solo una cambiale da portare allo sconto, perché il nostro destino possa consumarsi in un presente senza fine. da lastampa.it Titolo: VITTORIO EMANUELE PARSI - Il petrolio dello zar Inserito da: Admin - Dicembre 24, 2008, 05:33:34 pm 24/12/2008
Il petrolio dello zar VITTORIO EMANUELE PARSI Il solstizio d’inverno è conosciuto da sempre come il giorno più buio dell’anno. Dal 2008 sarà ricordato probabilmente come uno dei giorni più bui anche per l’improbabile democrazia russa. Proprio il 21 dicembre scorso, infatti, il Senato federale di Mosca ha ratificato all’unanimità l’approvazione dell’emendamento costituzionale che consente di prolungare il mandato presidenziale da quattro a sei anni. Manca soltanto la firma da parte del presidente Medvedev, e poi tutto sarà pronto per uno scenario che molti ritengono già disegnato da tempo, ovvero le ravvicinate dimissioni del presidente in carica e nuove trionfali elezioni per Vladimir Putin, il terzo di questo nome a regnare sulla terra dei Rus’. Colpisce la rapidità con cui si è svolto un complesso processo di revisione costituzionale, che prevedeva l’approvazione a maggioranza qualificata dei due terzi da parte della Camera Bassa e del Senato, oltre a quella di una novantina di corpi legislativi territoriali. E’ francamente improbabile che il presidente Medvedev si sottragga a un dovere così gradito e in tal modo, in poco più di un mese, tutto l’iter si sarà sostanzialmente concluso, dimostrando la straordinaria efficienza delle nuove istituzioni russe, o la loro totale subalternità ai voleri dello zar Vladimir, scegliete voi. Vale la pena notare che la procedura di revisione costituzionale della nuova Russia è stata costruita a ricalco di quella stabilita per la Costituzione degli Stati Uniti, che prevede il voto a maggioranza dei due terzi da parte delle Camere e la successiva ratifica da parte dei tre quarti degli Stati. Come è stato ricordato anche quest’anno in occasione dell’elezione di Barack Obama, è proprio la complessità di questa procedura a far ritenere quasi impossibile che venga abbandonato il farraginoso meccanismo dei «grandi elettori», e abolito l’anacronistico «collegio presidenziale» che rende formalmente indiretta l’elezione del presidente americano. Speriamo di essere presto smentiti, ma il processo di transizione alla democrazia della parte centrale dell’ex Unione Sovietica rischia di essere ricordato come uno dei peggiori fallimenti che la storia ricordi. In termini di democrazia, libertà e rule of law, la Russia sta regredendo anno dopo anno, dimostrando ancora una volta come le difficoltà di radicamento dei regimi democratici persistano anche laddove essi non sono il frutto di un’imposizione dall’esterno. Il dato di fondo è che nulla sembra smentire l’adagio secondo il quale «quelli che governano la Russia sono gli stessi che la posseggono», in una forma di neopatrimonialismo aggiornato al XXI secolo che rischia di far risvegliare Max Weber dal suo meritato riposo. Così, mentre da un lato il caso russo ci rammenta come istituzioni formalmente democratiche possano essere facilmente manipolate fintanto che la cultura politica di un Paese non è saldamente ancorata ai valori della democrazia, dall’altro ci mostra come i detentori del potere moscovita siano pronti a soffocare qualunque esile opportunità si apra per la crescita di una cultura politica liberale (se non democratica), anche ricorrendo alla blindatura delle istituzioni. Certo la fretta che sembra guidare le mosse della coppia Putin-Medvedev lascia sospettare che, sotto la cenere, qualcosa di diverso stia covando, in Russia. È stato osservato che la capacità delle autorità federali di pagare pensioni e stipendi pubblici (in un’economia in cui lo Stato è ancora, direttamente o indirettamente, il più grande distributore di reddito) dipende dal fatto che il prezzo del petrolio non scenda stabilmente sotto i 70 dollari al barile. Oggi siamo a 36 e, tra l’esplosione della bolla speculativa sulle materie prime e la crisi economica, non è così facile prevedere una rapida e duratura risalita del corso del petrolio (e neppure del gas). La popolarità di Putin e la stessa legittimazione del suo sempre più leaderistico potere è fondata (fin da quando era primo ministro di Eltsin) su una triade composta da alte quotazioni del greggio, conseguente capacità di spesa da parte dello Stato ed elaborazione di un’ideologia nazional-patriottica molto assertiva. Nell’ipotesi che la recessione possa durare per tutto il prossimo anno, non sarebbe poi così strano se Putin cercasse di anticipare il più possibile la prova elettorale: finché le casse dello Stato e dei fedeli nuovi oligarchi sono ancora parzialmente piene. E, a mano a mano che i soldi dovessero iniziare a scarseggiare, non ci sarebbe molto da stupirsi se il Cremlino decidesse di far ricorso a un ulteriore inasprimento dei toni dell’ideologia nazional-patriottica, nell’intento di scaricare verso l’esterno le difficoltà interne e sfruttando quel secolare complesso di accerchiamento che rappresenta una costante del modo russo di guardare al mondo. da lastampa.it Titolo: VITTORIO EMANUELE PARSI - Il risveglio della Germania Inserito da: Admin - Dicembre 30, 2008, 10:06:10 am 30/12/2008
Il risveglio della Germania VITTORIO EMANUELE PARSI E’un diritto legittimo di Israele proteggere la propria popolazione civile ed il proprio territorio» e la responsabilità dell’attacco israeliano a Gaza è «chiaramente ed esclusivamente» di Hamas, che ha unilateralmente «rotto gli accordi per il cessate-il-fuoco» e dato avvio a un «continuo lancio di razzi in territorio israeliano». Per il momento in cui arrivano, a 48 ore dall’inizio del durissimo esercizio di autodifesa messo in atto dal governo di Gerusalemme, le dichiarazioni attribuite alla cancelliera Angela Merkel dal suo portavoce sono politicamente molto pesanti. Sono pesanti anche per l'appoggio oggettivo che forniscono a Mubarak e Abu Mazen. Ma sono ancora più significative perché, nel ribadire il pieno sostegno tedesco a Israele, rompono le modalità felpate con cui tradizionalmente la diplomazia tedesca era usa muoversi nella regione. Sembra quasi che, dopo un lungo periodo di sonno, la Cancelliera abbia deciso di scegliere un momento e un tema cruciali per sancire il ritorno della Germania sulla scena della grande politica estera. Fino ad ora, infatti, Merkel si era distinta in politica estera per una visione piuttosto angusta. Certo, sui temi della crisi economica la Germania aveva svolto il suo tradizionale ruolo di mastino del rigore. E però, anche in quel campo, la Cancelliera era sembrata soprattutto muoversi come capo del governo tedesco più che come possibile leader dell'Unione. Paradossalmente, dopo essere stata tra i principali protagonisti e beneficiari della trasformazione del sistema internazionale post Guerra fredda, era come se la Germania si fosse progressivamente appartata dalla grande politica internazionale, interpretandola sempre più in chiave quasi esclusivamente strumentale rispetto alle vicende di politica interna. In fondo, le stesse modalità plateali della «grande frattura» consumata da Schroeder nei confronti di Bush in occasione della guerra in Iraq, che pure aveva segnato una crisi acuta nei rapporti tra Berlino e Washington, erano sembrate dettate principalmente da motivi di politica domestica. Fu proprio grazie al clamore con cui rivestì la propria polemica nei confronti dell'amministrazione americana, infatti, che Schroeder riuscì inaspettatamente a vincere elezioni in cui era dato per spacciato. Ora, al crepuscolo di un semestre di presidenza francese tanto attivista quanto alla fine, purtroppo, poco concludente (si pensi alle modalità suicide con cui Parigi ha gestito il lancio di un'iniziativa pur cruciale e strategica come l'Unione Euro-Mediterranea), la Germania sembra volersi candidare a riassumere quel ruolo guida, senza il quale la politica estera dell'intera Unione resterebbe un mero esercizio retorico. Il fatto è stato immediatamente colto in Francia, e non proprio benevolmente, si direbbe. In sole 48 ore, alle dichiarazioni più critiche verso Israele rilasciate dal presidente Sarkozy hanno fatto seguito quelle attribuite alla Cancelliera e la convocazione d'urgenza da parte dell'Eliseo di un vertice sulla crisi di Gaza, proprio nell'ultimo giorno prima che Praga rilevi Parigi. Difficile immaginare che Angela Merkel non avesse messo in conto la possibile irritazione di Sarkozy, sia pur non prevedendone la subitanea contromossa. Si direbbe però che Merkel stia guardando più lontano, oltre Atlantico piuttosto che sulle rive della Senna, e abbia deciso di «supplire» temporaneamente, almeno in termini di impegno politico, a quella che è stata giustamente definita la «latitanza di Washington», destinata a durare fino all'insediamento della nuova amministrazione. Il segnale mandato a Obama e al suo segretario di Stato Hillary Clinton, sembra indicare che l'Europa è pronta ad assumersi maggiori responsabilità e a giocare un ruolo più importante in Medio Oriente: spazzando innanzitutto il campo da quelle differenze di sfumature che spesso si sono prestate a qualche ambiguità, a cominciare da quelle riguardanti il sostegno convinto ad Abu Mazen e il rifiuto di considerare Hamas un interlocutore possibile fino a quando non si dimostrerà responsabile e rispettoso del diritto di Israele ad esistere. Com'è noto la Germania fa anche parte di quel «terzetto» europeo incaricato di cercare di stabilire le pre-condizioni per un dialogo diretto tra Usa e Iran sulla questione del programma nucleare iraniano. Una Germania meno «cerchiobottista» a Gaza potrebbe, contemporaneamente, trovare più ascolto a Gerusalemme e a Washington nel tentare fino all'ultimo di scongiurare pericolose opzioni militari e chiarire a Teheran che giocare la carta di una possibile spaccatura occidentale potrebbe rivelarsi una tragica illusione. da lastampa.it Titolo: VITTORIO EMANUELE PARSI - La tregua possibile Inserito da: Admin - Gennaio 07, 2009, 12:42:46 pm 7/1/2009
La tregua possibile VITTORIO EMANUELE PARSI Nonostante un bilancio in vite umane che si fa di ora in ora più tragico, è estremamente difficile che Israele possa ascoltare le molte voci che lo invitano a sospendere le operazioni militari contro la Striscia di Gaza. Arrivati a questo punto, infatti, una tregua non garantirebbe in maniera credibile la cessazione del lancio dei missili Qassam da parte delle milizie di Hamas, a cui si deve la responsabilità dell’attuale gravissima crisi. Proprio alla decisione da parte dell’organizzazione terroristica di rompere la tregua precedentemente concordata (e peraltro ripetutamente violata), assunta unilateralmente e annunciata con un clamore mediatico pari solo al cinismo con cui è stata adottata, si deve la reazione israeliana che ha portato all’invasione della Striscia. Ancorché Israele rinunci al tentativo (che appare comunque irrealistico) di eliminare completamente la presenza organizzata di Hamas da Gaza, la cessazione delle attività militari può arrivare solo a condizione che l’obiettivo di bloccare stabilmente il lancio di missili sul Sud del Paese venga raggiunto. Ma per far questo è necessario che la strategia militare sia integrata da quella politica. Esistono solo due alternative, infatti: quella del conseguimento per via politica di quanto militarmente non è stato possibile fare (sulla falsariga della conclusione della campagna contro Hezbollah nell'estate 2006), oppure quella del consolidamento politico di un successo ottenuto grazie alla supremazia militare. Le autorità israeliane hanno preliminarmente chiarito che non ritengono accettabile il ristabilimento del semplice status quo. La ragione della scelta a favore di una reazione tanto violenta (lasciamo da parte le polemiche relative alla sua «sproporzione»), si trova nella sempre più ferma convinzione israeliana che proprio l’accettazione supina dello status quo rappresenti un errore strategico rispetto alla sopravvivenza dello Stato ebraico. Alla base di tale convincimento sta la consapevolezza che, nel giro di due o tre decenni, il bilancio demografico tra israeliani di religione ebraica da un lato, e arabi di Israele e palestinesi dall’altro, segnerà un saldo negativo permanente e non modificabile neanche attraverso nuove quanto improbabili ondate di immigrazione ebraica. Il semplice dato demografico si trasforma poi in minaccia se si considera come il radicalismo di matrice islamista abbia fatto e stia continuando a fare proseliti in gran parte della Umma. A chi osserva come il trascinarsi e l’incancrenirsi della questione israelo-palestinese abbia fornito un ambiente ideale al successo delle varie formazioni radicali, gli israeliani replicano che esse traggono origine innanzitutto dalla corruzione, dal nepotismo, dall’illiberalità e dall’inefficienza di gran parte dei regimi arabi e che, in ogni caso, è proprio l’esistenza di movimenti come Hamas e Hezbollah ai confini con Israele (da Gaza al Libano) che rende impossibile qualunque avanzamento di un ipotetico processo di pace. E questo è tanto più vero per chi pensi che la loro azione sia sostenuta e coordinata dall’occulta regia iraniana. Gli israeliani ritengono quindi che entro il 2030, al massimo, l’attuale quadro della sicurezza regionale sarà insostenibile e deve perciò essere modificato, nella direzione di una reciproca accettazione tra i diversi soggetti politico-territoriali del Medio Oriente. Affinché ciò avvenga, è però necessario indebolire le capacità militari e la presa politica delle formazioni estremiste, correndo anche il rischio che le proprie azioni possano nell’immediato rinforzarne l’aura di «martirio», ma cogliendo l’opportunità del loro isolamento politico rispetto alla gran parte dei governi arabi della regione, alimentato dalla preoccupazione che questi nutrono nei confronti delle mire politiche di Teheran. Anche se le cose, sul piano militare, dovessero volgere al meglio per gli israeliani, è però difficile immaginare il consolidamento politico dell’eventuale successo in assenza di interlocutori. Nella migliore delle ipotesi, Hamas potrà risultare indebolito nella sua presa su Gaza, con ciò aprendo oggettivamente prospettive per l’azione futura di altri soggetti (non necessariamente Fatah). Ma quando Tsahal dovrà lasciare Gaza, la tregua dovrà essere pur concordata con qualcuno. Fanno bene gli israeliani a non voler intavolare trattative dirette con Hamas (che predica lo sterminio degli ebrei). In particolar modo, una «tregua senza garanzie» riprodurrebbe esattamente quello scenario precedente la crisi che Israele non può accettare. Diverso sarebbe se, con la mediazione egiziana e della Lega Araba e con il consenso israeliano, un soggetto terzo si incaricasse di svolgere trattative per una tregua tra le parti, offrendosi di vigilare sulla garanzia del suo rispetto con un proprio contingente militare e non inviando qualche pattuglia di «osservatori». È esattamente ciò che sbloccò la situazione in Libano nell’estate del 2006. Evidentemente Gaza non è il Libano e le divisioni, i rifiuti e i fallimenti incassati in queste ore rendono la strada lunga e irta di ostacoli, ma nessun attore meglio dell’Unione Europea (che continua a far parte del «Quartetto») potrebbe svolgere una tale funzione, così trascinandosi fuori dalla penosa impasse in cui l’ha gettata il prevalere, al suo interno, delle chiacchiere sui fatti. Una simile ipotesi, da costruire con pazienza e senza clamori di grandeur, potrebbe convenire anche ad Hamas, in quanto unica realistica alternativa a un’autodistruttiva guerra totale contro Israele e contro il suo stesso popolo. Dalle sconfitte si impara più che dalle vittorie. E perciò non è detto che proprio il proseguire dell’offensiva israeliana non possa spingere Hamas a prendere in considerazione una proposta di mediazione europea, per quella «tregua duratura» che Gerusalemme chiede. La sola che le autorità israeliane potrebbero accettare, la sola che i governi europei dovrebbero avanzare. da lastampa.it Titolo: VITTORIO EMANUELE PARSI - Quelle folle imponenti Inserito da: Admin - Gennaio 11, 2009, 05:07:31 pm 11/1/2009
Quelle folle imponenti VITTORIO EMANUELE PARSI Numeri imponenti, quelli di ieri a Milano, che fanno impallidire quelli registrati pochi giorni fa sul sagrato del Duomo. Il fatto che il teatro della preghiera collettiva con cui si è conclusa la manifestazione pro Palestina sia stato diverso, il piazzale antistante la Stazione Centrale, consente di far chiarezza almeno su una cosa. Ciò che ci colpisce non ha nulla a che fare con l’ipotetico affronto o la meno ipotetica mancanza di delicatezza verso la religione ampiamente maggioritaria in Italia (ne scriveva sulla Stampa di ieri Gian Enrico Rusconi). No, il punto è un altro e, evidentemente, molto più importante per la civile convivenza in una società composita culturalmente e per le istituzioni doverosamente laiche della Repubblica. Il punto è che la politicizzazione delle molte decine di migliaia di individui di religione islamica presenti nel nostro Paese sta avvenendo su un tema che incorpora, nella sua storia, sessant’anni di violenza e di rabbia: talvolta latente, talvolta esplosiva. Il punto è che ciò si manifesta nel momento in cui una «tregua duratura» tra Hamas e Israele sembra essere lontana e mentre le posizioni appaiono, se possibile, radicalizzarsi ulteriormente. Il punto infine è che, in queste condizioni e su questi temi, il rischio che organizzazioni politiche affini o vicine a Hamas (e, più in generale, al mondo del fondamentalismo islamista radicale) diventino le «beneficiarie naturali» di questa politicizzazione è estremamente elevato. È in sé un fattore positivo che i cittadini stranieri che lavorano in Italia si organizzino politicamente per far valere i propri diritti, i propri interessi e le proprie aspettative. Ma non è indifferente, rispetto alla possibilità di una convivenza non programmaticamente conflittuale, che ciò avvenga nel nome di valori di un tipo o di un altro, sull’onda di una spinta all’integrazione o di fenomeni, come la guerra, che polarizzano e aiutano a trovare le ragioni dello scontro e della diversità esibita e brandita come un’arma, invece che impiegata come uno strumento di arricchimento complessivo della società. Le manifestazioni pro Palestina di questi giorni, che avvengono un po’ in tutto il continente, sono legittime, in questa Europa costruita sui valori della tolleranza e della libertà. E noi vogliamo che resti tale. Guai a chi, impaurito, lo dimenticasse. Bene ha fatto il presidente del Consiglio a ricordarlo concretamente, liquidando la proposta leghista di far pagare una tassa sul permesso di soggiorno, quasi in una riedizione banalizzata della «vendita delle indulgenze» di infausta memoria. Ma chi marcia e prega per i propri «fratelli nell’Islam» deve essere consapevole che la libertà non è garantita dalle regole e dal loro rispetto, ma è costruita sulle regole e sul loro rispetto. L’entità di queste manifestazioni ci ricorda anche che il mondo arabo è parte del nostro mondo, e che i governi occidentali hanno uno speciale interesse a contribuire il più rapidamente possibile al raffreddamento di questa crisi, prestando tutta la loro disponibilità alla realizzazione del piano franco-egiziano per una forza internazionale a Gaza. da lastampa.it Titolo: VITTORIO EMANUELE PARSI - La tregua impossibile Inserito da: Admin - Gennaio 19, 2009, 03:19:18 pm 19/1/2009
La tregua impossibile VITTORIO EMANUELE PARSI E’ una tregua fragilissima quella che stentatamente ha preso avvio nelle ultime 48 ore a Gaza. Proclamata unilateralmente dagli israeliani, non accettata inizialmente da Hamas. E poi, dopo qualche altra decina di morti palestinesi, nuovamente ai nastri di partenza. Al momento non sappiamo neanche se davvero riuscirà a consolidarsi, per durare quella settimana che Hamas dichiara di essere disposta a concedere: tante, forse troppe, sono le differenze sostanziali sulla sua interpretazione e sulla sua esecuzione, a cominciare dall’effettivo ritiro delle truppe di Gerusalemme. Nel luglio del 2006, giova ricordarlo, Tsahal non abbandonò le posizioni occupate nel Sud del Libano fin quando l’esercito regolare di Beirut non arrivò a rilevarla. Qui a Gaza, dove si prospetta l’intervento di una forza multinazionale apparentemente simile a quella che da quasi due anni vigila sull’attuazione della tregua tra Israele e Hezbollah, nulla di analogo può accadere. In realtà, nonostante le molte apparenti analogie, quasi nulla di questa tregua ricorda quanto accaduto nel Sud del Libano. E, mentre forse ci accingiamo a inviare nostre truppe nell’area, sarà utile ricordarselo. Ciò che maggiormente conta, però, è che, se tutto andrà bene, avremo a disposizione una settimana per cercare di impostare qualcosa di più di un semplice cessate il fuoco tra le parti. Il conflitto divampato il 27 dicembre scorso, infatti, non è stato la conseguenza di un doppio errore di calcolo, da una parte e dall’altra, come fu per la guerra libanese dell’estate del 2006. All’opposto, sia il governo israeliano sia Hamas hanno deliberatamente scelto la rischiosa via della guerra per mutare uno status quo ritenuto da entrambi, e per motivi diversi, insostenibile. Hamas voleva rompere l’assedio economico e militare di Gaza e il proprio isolamento politico. Israele voleva interrompere definitivamente lo stillicidio di missili sul Negev e assestare un durissimo colpo a Hamas approfittando del suo isolamento all’interno dello stesso mondo arabo. Ambedue le parti hanno cioè scelto la via dell’«azzardo politico», nella speranza di incamerare un decisivo successo. Ecco perché è stato così difficile riuscire a giungere a una tregua, che non poteva semplicemente offrire un cessate il fuoco, ma deve invece creare i presupposti per un superamento dello status quo ante accettabile per entrambi le parti. Il trascorrere del tempo, del resto, stava già modificando il quadro politico della crisi. Nelle quasi quattro settimane di conflitto Israele si è resa conto che stava erodendo quel capitale di credito e simpatia che era riuscita ad accumulare nei lunghi mesi in cui aveva pazientemente subito i continui lanci di missili Qassam e, soprattutto, il «vantaggio» concessole da Hamas con la sua denuncia unilaterale della tregua precedente e con l’inizio dell’offensiva missilistica. Da parte sua Hamas era riuscita a lucrare, giorno dopo giorno, sulle immagini di quelle vittime palestinesi innocenti rimbalzate sui circuiti mediatici internazionali, dove un solo fotogramma decontestualizzato vale più di mille analisi. Poco importava che quelle povere vittime, uccise dal piombo israeliano, fossero state condannate a morte dalla dirigenza di Hamas, non solo consapevole fin dall’inizio dell’enorme prezzo che il popolo di Gaza avrebbe pagato all’estremismo del gruppo fondamentalista, ma che di quelle morti (e della loro esibizione) aveva bisogno come strumento di pressione sull’opinione pubblica internazionale. Proprio questa era stata l’arma strategica capace di riequilibrare gli esiti politici del conflitto. Può anche darsi che Israele abbia raggiunto «gli obiettivi prefissati», come ha sostenuto il premier Olmert, ma di sicuro la sua situazione era sempre più insostenibile di fronte a una comunità internazionale via via più irritata, e con i governi europei in apprensione di fronte alla rabbia non sempre composta delle proprie minoranze arabe e islamiche. Quali fossero questi obiettivi, non è mai stato rivelato. Ma la sensazione è che essi si concentrassero in uno solo: ristabilire il timore arabo per la capacità militare israeliana dopo il fiasco della «guerra di luglio». Come già avvenuto in Libano nel 2006, l’Europa è oggi chiamata a contribuire al consolidamento della tregua di Gaza. È un fatto positivo, che ridà peso alla posizione europea nel cosiddetto «Quartetto» e che arriva dopo le divisioni interne delle prime ore e anche dopo che, con la sua fermezza, Angela Merkel aveva chiarito che un manicheo invito al cessate il fuoco non sarebbe stato sufficiente. Con il suo sostegno aperto alle ragioni di Israele, la Germania ha in fondo costretto lo stesso Sarkozy a uno sforzo più effettivo, più «politico», nell’area. Francia, Germania e Italia, per ora, rappresentano la pattuglia di testa di questo maggior impegno europeo per la pace nel conflitto israelo-palestinese. A differenza di quanto finora ben fatto in Libano, qui non basterà sorvegliare l’attuazione dell’intesa. Occorrerà darsi da fare, e parecchio, per costruire le condizioni politiche per una tregua duratura, che al momento non ci sono. Sarà necessario lavorare con tutti gli strumenti a disposizione per far compiere un passo decisivo verso l’unica soluzione possibile: cioè quella riassunta nella formula «due popoli, due Stati». A tutt’oggi le posizioni estremiste di Hamas, che continua a predicare a suon di bombe la distruzione di Israele e l’espulsione del popolo ebraico dalla Palestina, rappresentano il principale ostacolo verso questo esito. Sarebbe importantissimo che l’impegno europeo a Gaza non perdesse di vista la necessità di accompagnare Hamas a rivedere questa posizione, il cui prezzo è già costato la vita di troppe vittime innocenti, tanto israeliane quanto palestinesi. da corriere.it Titolo: VITTORIO EMANUELE PARSI - Un po' Lincoln un po' Reagan Inserito da: Admin - Gennaio 22, 2009, 03:35:01 pm 22/1/2009
Un po' Lincoln un po' Reagan VITTORIO EMANUELE PARSI Non è stato un discorso memorabile, neppure lontanamente paragonabile a quelli tenuti da JFK (Kennedy) o FDR (Roosevelt). Ma nessuna «parola» avrebbe retto il confronto con il semplice «fatto» che Barack Obama sia divenuto il 44° presidente degli Stati Uniti, il primo nero in oltre duecento anni di storia. In fondo, è stata un’ennesima manifestazione della sobrietà che contraddistingue l’uomo. Una sobrietà che dovrà tenere a bada, affinché, in tempi grami come gli attuali, non rischi essere percepita come rigidità. Il sorriso che ha regalato al mondo, mentre incespicava sulla formula del giuramento, fa ben sperare che non voglia seguire il suo modello, Abramo Lincoln, anche nel moralismo tristanzuolo da predicatore. D’altra parte, si potrebbe dire, il tempo delle chiacchiere è finito, e ora occorre che i fatti inizino a parlare, e che il nuovo presidente, come lui stesso ha ripetutamente chiesto, possa essere giudicato per quel che fa, e non per quel che è o incarna. Barack Obama dovrà essere innanzitutto un gran traghettatore o, se si preferisce, essere quell’«Interpreter in Chief», che seppe essere Ronald Reagan, capace di prendere per mano un Paese scosso da una guerra perduta, da una presidenza dal prestigio dimidiato, dalla crisi economica e dagli oltraggi subiti in campo internazionale e lo rimise in piedi, nel nome degli autentici «valori americani». Potrà apparire paradossale accostare «l’era della responsabilità» obamiana a quella dell’ «edonismo reaganiano», ma, in realtà, l’uno e l’altro sono abili comunicatori e convincenti interpreti del discorso politico dei Padri Fondatori. «Sfide inedite», e «strumenti nuovi», dunque, ma «valori vecchi», i solidi valori di quei testardi gentiluomini di campagna, che decisero di farsi americani perché restando sudditi inglesi non avrebbero potuto continuare a essere uomini liberi. Come osservava ieri Paul Berman nell’intervista realizzata da Maurizio Molinari, dopo le presidenze di Clinton e George W. Bush, più connotate ideologicamente, si torna all’antico, a quell’impasto di idealismo e pragmatismo che rappresenta la cifra più autentica (e meno imitabile) della politica americana. Coniugare sfide, strumenti e valori, e traghettare oggi gli americani oltre questo rigido inverno di crisi, come Washington traghettò le sue sparute truppe sulle gelide acque del Delaware, per andare a cogliere la Vittoria a Trenton e dimostrare al mondo, prima ancora che ai suoi connazionali, che «quando nulla più sopravviveva se non la speranza e il valore», che ancora una volta gli americani hanno saputo affrontare il pericolo e, uniti, averne ragione. Mentre richiamava i valori della tradizione americana, il presidente Obama non ha però rinunciato a mantenere quella cifra di apertura sul mondo che lo rende un interprete unico, quasi il prototipo di un «nuovo» spirito americano, adeguato alle sfide del XXI secolo. Non si è limitato a dire con chiarezza ai suoi 300 milioni di concittadini che la ripresa economica e politica degli Stati Uniti non sarà possibile senza l’aiuto e la collaborazione di amici e alleati, «perché il mondo è cambiato e noi dobbiamo cambiare insieme con esso». Pur in un momento di grave crisi economica e finanziaria, quando una parte cospicua delle risorse e delle attenzioni del Paese sarà assorbita dai malanni interni, ha voluto ribadire come la leadership americana può essere riaffermata solo a condizione che sappia mantenere la sua vocazione universale. Perché un’America confortata nei suoi valori più autentici può tornare a essere un «faro sulla collina», ma solo un’America aperta sul mondo può riuscire a riscoprire la sua anima profonda, quella che l’ha resa, agli occhi del mondo, la «terra dei liberi e dei valorosi». Non Washington, né Lincoln: ma di sicuro Franklin Delano Roosevelt, il vero architetto delle istituzioni che hanno fatto giustamente definire il ’900 come «il secolo americano», avrebbe potuto sottoscriverle, se non addirittura pronunciarle. Un programma ambizioso, quello di Obama, come necessariamente dev’essere per poter tentare di sconfiggere una crisi che è insieme economica e di fiducia, e per la cui realizzazione ha chiesto innanzitutto la collaborazione, l’impegno di ogni cittadino americano. Chissà. Forse l’ha fatto per quella straordinaria abilità politica che ha dimostrato di avere così rapidamente accumulato. A noi piace pensare che, più probabilmente, l’abbia fatto nella consapevolezza che, in democrazia, ciò che è davvero cruciale non è né la denuncia dei problemi, né l’individuazione delle tante possibili soluzioni. Ma la capacità di decidere a quale legare la propria fortuna e di raccogliere il consenso necessario a trasformarla da programma in realtà, da parole a fatti. da lastampa.it Titolo: VITTORIO EMANUELE PARSI - I due volti di Barack Inserito da: Admin - Febbraio 05, 2009, 10:25:24 am 5/2/2009
I due volti di Barack VITTORIO EMANUELE PARSI Sono almeno due le cose che colpiscono, e non certo positivamente, nell’apprendere la notizia che l’«America di Obama» continuerà con le «rendition», il programma che prevede la possibilità di arrestare ed eventualmente detenere segretamente all’estero i sospetti terroristi. La prima riguarda il Presidente e, in particolare, la coerenza tra le sue decisioni e i principi in nome dei quali è stato eletto e ai quali fa ampio ricorso nella sua comunicazione prima e dopo la vittoria; la seconda l’atteggiamento nei suoi confronti da parte degli osservatori, in particolar modo di quelli liberal. Potremmo definire l’una e l’altra come le due facce di una sorta di sindrome del «doppio standard», per cui il giudizio sull’accettabilità o meno di una qualunque pratica dipende esclusivamente o prevalentemente da chi la attua e non dalle caratteristiche proprie dell’azione. E così, se ad arrestare l’imam di Milano Abu Omar, e a spedirlo in Egitto per «ammorbidirlo un po’», è la Cia di Bush si grida allo scandalo, ma se domani un’analoga operazione viene compiuta dal nuovo «potere intelligente» appena insediato alla Casa Bianca allora è tutta un’altra cosa. Certo, l’amministrazione assicura che queste operazioni saranno eseguite in «maniera diversa», che le detenzioni avranno durata limitata e che si chiederanno garanzie ai governi dei Paesi in cui i sospettati verranno inviati affinché essi non vengano torturati. Tutto ciò assomiglia però al massimo a una brutta «lettera di manleva morale», utile per scaricarsi la coscienza o, più prosaicamente, per evitare di dover mentire, con il rischio, magari, di finire nelle maglie di una possibile procedura di impeachment. In fondo l’attuale segretaria di Stato è pur sempre la moglie di quel Presidente che tali pratiche le ha autorizzate nel 1993 e che sotto impeachment c'è quasi finito. Alla fine, almeno su questo punto, è stato più trasparente George W. Bush, che con la sua retorica dell’America sotto assedio e la sua logica di guerra giustificava le «rendition» e Guantanamo in nome dell’emergenza. Ma chi ha denunciato, opportunamente, quella logica e quella retorica, e ha impiegato ben diversi registri comunicazionali, invitando l’America e il mondo a credere in un cambiamento non solo di amministrazione e di stili o comportamenti, ma addirittura di un’epoca (l’epoca della responsabilità) dovrebbe andarci un po’ più cauto. O per lo meno evitare il ridicolo, ricordandosi che anche l’apertura di Guantanamo era stata concepita «su base transitoria». Ma tra le tante qualità del virtuoso Obama e del suo staff sembra che l’autoironia e il senso dell’umorismo difettino un po’. Basti pensare all’involontaria comicità che oggi colpisce l’autocertificazione di «sana e robusta costituzione etica» che l’allora «Presidente eletto» aveva chiesto ai suoi futuri collaboratori di firmare, e che aveva procurato qualche imbarazzo a Hillary Clinton. Proprio lo staff si sta rivelando essere assai meno virtuoso di quanto era lecito aspettarsi: che nel «dream team» dell’era della responsabilità, ardentemente volto a ristabilire l'equità sociale, saltino fuori continuamente evasori fiscali e contributivi non è certo un bello spettacolo. Di questo passo finiremo per rimpiangere la moralità dei tempi di Bill Clinton, il quale in fondo si limitava a correr dietro a qualche sottana. Chiudere Guantanamo e autorizzare la prosecuzione delle rendition e delle detenzioni segrete all’estero si direbbe davvero incoerente. A meno che non si consideri che, mentre è ormai ampiamente ostile a Guantanamo, il pubblico americano sembra invece molto meno interessato a procedure che riguardano innanzitutto cittadini stranieri e rapporti con i governi stranieri: alcuni dei quali (come l’Egitto) sono ben contenti di poter mettere le mani su potenziali dissidenti, mentre altri (come quelli europei) ritengono illegali le modalità di quegli arresti e di quelle detenzioni. Che dire poi del fatto che la stessa Human Rights Watch, vero e proprio mastino dei diritti umani durante l’amministrazione Bush, si sia ora trasformata in un grazioso barboncino (come il Daily Mirror definì Blair ai tempi di un tempestoso G8 nel luglio 2006), ammansita al punto di prendere per oro colato le giustificazioni presentate dallo staff presidenziale. Il sospetto, che speriamo possa venire fugato al più presto, è che, in America come in Italia, il mondo liberal si consideri «antropologicamente superiore» ai cowboys della destra repubblicana, dimostrando di essere afflitto da quel pregiudizio (a proprio favore) così brillantemente descritto da Luca Ricolfi in alcuni lavori tanto documentati quanto micidiali sulla sinistra italiana. I problemi che Obama deve affrontare sono tanti e complessi, a cominciare dalla crisi economica che rischia di far saltare il contratto sociale anche in America. Sarebbe quindi ingeneroso non concedergli il beneficio d’inventario, come a lungo venne riconosciuto a George W. Bush: che dovette misurarsi con l’«inaudito» dell’11 settembre, non riuscendo a dimostrarsi all’altezza di un compito così tremendo. Non possiamo che augurare a Barack Obama miglior fortuna del suo predecessore, confortati nella speranza dalle qualità che l’uomo sembra davvero possedere. Ma, proprio a fronte della gravità degli impegni, dell’enorme investimento emotivo che ha circondato la sua elezione e delle aspettative che il mondo nutre su di lui, l’ultima cosa di cui il Presidente ha bisogno è un coro di adulatori acritici. da lastampa.it Titolo: VITTORIO EMANUELE PARSI. Inserito da: Admin - Febbraio 26, 2009, 03:42:11 pm 26/2/2009
Possiamo farcela ma come? VITTORIO EMANUELE PARSI A fronte di una crisi economica che continua a configurarsi sempre un po’ peggiore e un po’ più lunga della più aggiornata delle previsioni, il presidente degli Stati Uniti sembra aver scelto una strada - innanzitutto di comunicazione ma non solo - orientata a sottolinearne l’aspetto grave eppure contingente. La notte che ci aspetta, è questo il senso del suo primo Discorso sullo stato dell’Unione, sarà buia e lunga ma, quando tornerà a sorgere, il sole illuminerà un’America rigenerata dal punto di vista non solo finanziario, ma nella struttura industriale, nello spirito e negli equilibri sociali. Per ricorrere a uno slang pokeristico, piuttosto che «vedere» le carte della crisi, Obama «rilancia»: cerca di riaccendere la fiducia degli americani (ai minimi storici da quando è rilevata sistematicamente) richiamando quella capacità di osare, quello spirito indomito che per tutta la campagna elettorale ha cercato di ridestare nei concittadini. Obama sta dicendo agli americani che la crisi è ancora peggiore di quanto sembri, perché colpisce un sistema che aveva perso progressivamente energia. Perché negli anni della grande abbondanza, in quelli di Clinton e persino in quelli di Bush, il Pil è cresciuto attraverso l’indebitamento, la finanziarizzazione, e la sostanziale deindustrializzazione dell’economia a stelle e strisce. Troppa dell’industria rimasta nel Paese è «vecchia» e poco competitiva rispetto a quella dei concorrenti. Per paradosso, solo il comparto legato alle commesse del Pentagono, all’aerospaziale e alla ricerca di nicchia più avanzata è veramente all’avanguardia. E così il presidente si assume, auguriamoci consapevolmente, un rischio enorme: di «scommettere» sulla crisi, di coglierne l’aspetto di rottura con un modello che ritiene sbagliato e di sfruttarne i potenziali aspetti di rigenerazione. I 700 miliardi di dollari già stanziati (anche dalla precedente amministrazione) non saranno sufficienti. Ne serviranno molti ancora di più. Ma a questo punto l’obiettivo deve essere diverso dal semplice ripristino dei precedenti equilibri economici. E per ogni dollaro che va alle banche (grandi finanziatrici della sua campagna elettorale) e all’industria automobilistica (i cui lavoratori sindacalizzati hanno votato in massa per lui), altri ne devono essere ritrovati: per rilanciare l’istruzione e riformare ed estendere i servizi sanitari. Quale economia il sole tornerà a illuminare tra due o tre anni, alla fine della grande crisi, dipenderà dalle scelte politiche che l’amministrazione farà. In questa impostazione la chiarezza sulle scelte, tanto più se di rottura, dev’essere massima. E invece qui è ancora nebbia fitta. Dire che i mercati hanno preso male l’indeterminatezza presidenziale è un garbato eufemismo. In molti si chiedono se la strategia di Obama - forte in termini comunicativi, per il l’impatto ideale, per la capacità di evocare il sogno in tempi da incubo - sia anche realistica. «Hope and change» non è solo un fortunato slogan elettorale: esprime un bellissimo concetto. Però, malauguratamente, «hope and change» risuona diversamente nello «studio ovale». La crisi è gigantesca e Obama deve dimostrare di avere poche idee chiare per fronteggiarla. Roosevelt ci mise tre anni per trovare la ricetta giusta che fu il New Deal. I tempi sono cambiati dagli Anni 30. E, d’altra parte, un nero non sarebbe stato neppure eletto sindaco negli Anni 30. Obama non avrà tre anni, ma al massimo tre mesi per convincere tutti quelli che hanno investito così tanto su di lui. Giusto o sbagliato che sia, «è la politica, bellezza». Obama è stato eletto anche perché ritenuto più idoneo di McCain a domare l’orso. Ora deve iniziare a farlo. Deve spiegare quali sono le due, tre priorità che ha identificato, con quali strumenti intende affrontarle, con quali risorse e a spese di chi. È il «commander in chief», e sa bene che nessuna scelta politica importante può accontentare tutti. Anzi. Il plauso universale, in genere, testimonia solo che tutti sono convinti di aver scampato lo scomodo ruolo di «involontari finanziatori dell’interesse generale». Ma se nessuno «paga», nessuno «incassa». Il giudizio positivo sulle politiche del New Deal rooseveltiano l’hanno dato gli storici, dopo. Ma i contemporanei si accapigliarono eccome su quelle politiche, gridando all’«involuzione autoritaria» della presidenza e al «rischio di socialismo». Quello scontro furibondo fu il miglior testimone che quelle politiche stavano incidendo la carne viva del tessuto finanziario, economico e sociale, distruggendo privilegi e realizzando nuovi diritti: cioè erano vere «riforme». Al momento, sono ancora troppi i plaudenti perché si capisca dove s’intendono trovare le risorse necessarie alle politiche prescelte. È il momento di passare decisamente all’azione, signor Presidente, di andare oltre alla pur importante rassicurazione sul fatto che «possiamo farcela», per spiegarci un po’ meglio «che cosa» possiamo fare. Coraggio. da lastampa.it Titolo: VITTORIO EMANUELE PARSI. Il mercato ci fa uguali Inserito da: Admin - Marzo 05, 2009, 09:28:51 am 5/3/2009
Il mercato ci fa uguali VITTORIO EMANUELE PARSI A leggere certi commenti, come ad ascoltare talune dichiarazioni, sembra quasi di respirare un’aria di mesta rivincita nei confronti del mercato, accusato di essere un meccanismo che, quando va bene, alimenta l’ineguaglianza e le vanità, e quando va male accentua la prima e mostra il carattere fatuo delle seconde. Si insinua il dubbio che il mercato non sia il luogo in cui si manifesta la «distruzione creatrice» del capitalismo ma, al contrario, abbia in sé una tendenza dissipatrice, che deve essere permanentemente regolata dall’esterno. Normalmente la difesa della «virtù» del mercato avviene associandolo alla sua funzione di scudo, insieme con la proprietà privata, della liberta politica e, in termini di efficienza, ricordando che, in ambito economico, vale per il mercato e il capitalismo quel che è stato osservato per la democrazia in ambito politico: è la peggior forma di organizzazione economica a parte tutte le altre. Nessun socialismo (e neppure nessun colbertismo) riuscirà mai a eguagliare l’efficienza del mercato. Per la semplice ragione che esso si basa sulla semplice constatazione che non esiste alcun giudice illuminato migliore del singolo individuo nel determinare quale sia la propria scala di priorità nella soddisfazione dei suoi bisogni. Ma difendere il mercato in nome della libertà è operazione fin troppo facile. Ciò su cui si riflette meno è invece il ruolo che il mercato gioca per consentire che l’eguaglianza sia qualcosa di più che un semplice enunciato astratto. Potrà apparire paradossale che il mercato, che si fonda sulla disuguaglianza per fornire incentivi all’azione economica e che produce disuguaglianza in forza della diseguale qualità del contributo di ognuno, possa essere «difeso» in nome dell’eguaglianza. Ma il paradosso è solo apparente. L’eguaglianza è un principio politico fondamentale, a cui solo i totalitarismi di destra e il conservatorismo preilluminista e antimoderno si sono opposti apertamente. All’azione politica, e non a quella economica, spetta primariamente di riallineare le posizioni tra i membri della comunità e, in un’ottica liberale, di garantire ai cittadini non solo un trattamento eguale a prescindere dalle condizioni di ricchezza o dalle abilità e competenze possedute, ma persino condizioni eque di partenza anche nella competizione economica. L’eguaglianza è un concetto antico, tipico delle democrazie, ma non è loro esclusivo appannaggio. I sistemi aristocratici, tipicamente, prevedevano l’eguaglianza tra «i migliori». E le stesse democrazie dell’antichità sono delle «aristocrazie allargate», egualitarie al punto che le cariche politiche potevano essere estratte a sorte, perché persino la virtù era supposta essere identica tra i pochi che potevano vantare il titolo di cittadino. A questa eguaglianza dai tratti «esclusivi», le moderne democrazie hanno contrapposto un’eguaglianza effettivamente «inclusiva». Questo passaggio, indubbiamente positivo, ha finito però col fare sì che, nella vita quotidiana di gran parte dei cittadini delle democrazie liberali, il valore dell’eguaglianza fosse assai poco sperimentabile, limitato al diritto di voto e all’eguaglianza di fronte alla legge. Ciò che ha cambiato radicalmente le cose, facendo dell’eguaglianza un dato diffuso nella vita quotidiana di centinaia di milioni di individui delle classi non privilegiate, è stato in realtà il mercato di massa. È il successo del mercato di massa che ha reso le classi popolari sempre meno distinguibili da quelle «agiate», a partire dai consumi, innanzitutto, elevando in maniera inimmaginabile il loro tenore di vita, schiudendogli la praticabilità di desideri prima preclusi: e questo resta vero nonostante il fatto che negli ultimi decenni la ricchezza abbia conosciuto una nuova polarizzazione. Così, chi oggi invita al pauperismo, alla sostituzione dei consumi e a una sobrietà non certo intesa come eleganza e ragionevole distacco dal superfluo, o chi si erge a triste profeta della «decrescita» come soluzione alla crisi economica, o favoleggia di arcadie economiche perlomeno improbabili, in un pianeta sovraffollato di viventi, dovrebbe ripensare a com’era l’Italia di inizio Novecento, guardare le foto dell’Archivio Alinari, ricordarsi dei tempi grami in cui «il popolo» si riconosceva persino dall’odore. E soprattutto, dovrebbe ricordare che se domani saremo più poveri saremo anche meno eguali: perché, come la storia insegna, l’eguaglianza non alligna nella miseria. da lastampa.it Titolo: VITTORIO EMANUELE PARSI - Trappola iraniana per Obama Inserito da: Admin - Marzo 09, 2009, 10:32:00 am 9/3/2009
Trappola iraniana per Obama VITTORIO EMANUELE PARISI Può darsi che la strategia di Bush incentrata sulla necessaria interdipendenza delle varie crisi del «Greater Middle East» fosse troppo ambiziosa, ma la sensazione è che l’attuale amministrazione stia optando per un frazionamento molto rischioso, che condurrà gli Usa a giocare una serie di battaglie tattiche, lasciando all’Iran il privilegio di muoversi strategicamente sui diversi scacchieri subregionali. Con una mossa audace, ma forse poco lungimirante, Hillary Clinton ha invitato l’Iran a partecipare a una conferenza di pace sull’Afghanistan da tenersi entro la fine del mese. Anche nel momento più buio della crisi irachena, timidi tentativi di approccio alla repubblica islamica erano stati messi in atto. Senza gran successo, peraltro, al punto che il miglioramento della situazione in Iraq era arrivato dal surge e dalla politica di apertura ai leader tribali della minoranza sunnita, entrambi voluti dal generale Petraeus. Nel caso afghano, si parte da un presupposto corretto, il comune interesse degli alleati della coalizione e degli iraniani a sconfiggere i talebani, ma si sottovaluta la partita strategica che Teheran sta giocando con lucida coerenza da anni. Se l’interesse iraniano a una sconfitta dei talebani in Afghanistan e Pakistan è evidente, molto meno chiaro è quale contributo potrebbe fattivamente apportare l’Iran alla pacificazione della regione. I Paesi arabi sunniti, infatti, sono tutt’altro che favorevoli alla prospettiva di un qualche riconoscimento della leadership iraniana nella regione. E quanto poco velleitaria fosse la visione del Greater Middle East, lo dimostra uno sviluppo di solo 48 ore fa: il Marocco ha interrotto le relazioni diplomatiche con l’Iran dopo l’ennesima minaccia lanciata da Teheran all’indipendenza del Bahrein, definito una «ex provincia iraniana». Quasi le stesse parole con le quali Saddam Hussein liquidò la sovranità kuwaitiana prima dell’invasione del 1990, che scatenò la guerra del Golfo. Tutt’altro che dubbio, invece, è quale ruolo la teocrazia iraniana stia giocando nell’altra grande crisi mediorientale, cioè quella israelo-palestinese, dove si frappone frontalmente alla ripresa del processo di pace, al punto da essere stato invitato da Abu Mazen a non intromettersi negli affari dei palestinesi. L’Iran non è solo uno dei maggiori finanziatori di Hamas ed Hezbollah, è anche uno dei principali avversari di qualunque riavvicinamento tra Damasco e Gerusalemme e di ogni ipotesi di normalizzazione tra Libano e Israele. Ma soprattutto, come è stato ribadito dai vertici del regime schierati al gran completo appena pochi giorni or sono, fa del non riconoscimento del diritto all’esistenza di Israele un’arma fondamentale della propria politica estera. Ed è molto improbabile che essa possa essere abbandonata, poiché è la via attraverso la quale il regime rivoluzionario iraniano cerca di conquistare i cuori e le menti delle masse arabe, aggirando i loro governi (ritenuti asserviti all’Occidente), e facendo passare in secondo piano la natura sciita e non araba di chi tanto rumorosamente la agita. Simili considerazioni sarebbero sufficienti a spingere Obama e Hillary Clinton a una maggior prudenza, prima di cadere nella «trappola iraniana». Conviene alienarsi larga parte del mondo arabo sunnita per compiacere Teheran? E in cambio di che cosa? Resta poi il dubbio se l’attuale amministrazione sarebbe davvero in grado di mantenere una simile politica di fronte alle pressioni che inevitabilmente Israele metterebbe in campo per spingere gli Usa ad abbandonarla, lasciando gli alleati europei col classico «cerino in mano». Ovviamente, il fatto che l’Iran sia reticente sui propri programmi nucleari, sulla cui esistenza ha mentito per anni in aperta violazione del Trattato di non proliferazione da esso liberamente sottoscritto, e che ormai sia fortemente sospettato di essere a un passo dal raggiungimento di una capacità nucleare militare, non fa che aggiungere dubbi circa la saggezza di questa nuova fase della politica americana. In questo caso, paradossalmente, è l’Iran che sembra essere rimasto intrappolato nella sua stessa tela. Concepito come uno strumento per asseverare le proprie pretese di leadership o, quantomeno, per vedere riconosciuto il proprio ruolo di potenza regionale, il programma nucleare rischia invece di essere il maggiore ostacolo al conseguimento di un simile risultato. Proprio ora che in molti sarebbero pronti a mettere la buona volontà iraniana alla prova, la sua presunta esistenza rende sostanzialmente impossibile il raggiungimento di un fine strategico lungamente perseguito. da lastampa.it Titolo: VITTORIO EMANUELE PARSI - Lo scandaglio di Barack Inserito da: Admin - Marzo 22, 2009, 10:23:09 am 22/3/2009
Lo scandaglio di Barack VITTORIO EMANUELE PARSI In poco più di 24 ore la Guida suprema della Repubblica islamica ha gelato le profferte di apertura americane. A Washington sono subito aumentate le critiche repubblicane per l'inusuale iniziativa di Obama, con paralleli più o meni espliciti e velenosi alla naïveté di Jimmy Carter. In realtà, la durezza e la rapidità della reazione di Khamenei lasciano supporre che, in casa iraniana, il videomessaggio qualche crepa l’abbia prodotta. Se accantoniamo le polemiche politiche di corto respiro, nelle parole di Obama possiamo rintracciare tre temi: la ricerca di interlocutori possibili all'interno del circuito politico «legale» della Repubblica islamica; l’offerta da parte di Washington di abbandonare una politica iraniana inchiodata al regime change; la rassicurazione dei dirigenti arabi che la nuova offensiva diplomatica verso l’Iran non avverrà a scapito del mondo arabo e sunnita. Con una mossa audace, ambiziosa e non priva di rischi, Obama ha cioè deciso di provare a prendere il toro iraniano per le corna, e verificare quale sia lo spazio effettivamente a disposizione per la ricerca di un accordo regionale complessivo con la teocrazia di Teheran. Da decenni infatti l’Iran alimenta due immagini contrastanti eppure entrambe vere. Da una parte quella di un paese dal circuito politico interno estremamente articolato, per nulla monolitico e tutto sommato espressione di una società molto aperta e differenziata. Dall’altra, quella di una politica estera coerente, ma sostanzialmente incompatibile sia con gli interessi occidentali sia con il rafforzamento della stabilità regionale desiderata a Riad, al Cairo e a Gerusalemme. Per dirla in maniera molto sintetica, alla ricchezza e alla vivacità del dibattito politico interno iraniano non sembra corrispondere un’articolazione altrettanto imponente delle linee di politica estera. Una strada non facile Rivolgendosi direttamente agli iraniani, Obama cerca di capire se, nell’ambito del circuito politico «legale» iraniano, esistono (e quanto pesano) attori che sulla politica estera del paese possano avere posizioni diverse da quelle fin qui ostentate dal regime e offre loro una sponda. È una strada lunga e per nulla facile, che però deve essere tentata, considerate le nubi nerissime che si stanno addensando sulla regione. Da qualche tempo, ormai, i rapporti dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica sembrano essere più pessimisti di quelli della National Intelligence Agency. È una curiosa inversione, che illustra la preoccupata consapevolezza americana di non avere troppe frecce al proprio arco (alternative a un pericolosissimo intervento militare israeliano o congiunto), qualora l’Iran fosse davvero in procinto di raggiungere una capacità nucleare che nessuno sinceramente crede sarà solo civile. Quella nucleare è una delle politiche che l'Iran deve essere indotto ad abbandonare, insieme con l'altra pericolosissima, riassumibile nel sistematico sabotaggio di una pace tra Israele, Palestina e mondo arabo fondata sulla formula «due popoli, due Stati». Washington non chiede da subito l’accantonamento della più becera retorica anti-israeliana, né l’immediata e definitiva rinuncia ai progetti di grandezza nucleare, anche se, ovviamente, fa dipendere dallo scioglimento di questi due nodi il raggiungimento di un accordo complessivo con l’Iran. Vuole però capire se, nell’attuale circuito politico della Repubblica islamica, c’è qualcuno capace di raccogliere davvero il segnale inviato con il video di Obama. Un video usato come un ecoscandaglio, che prova a sondare le profondità della politica iraniana alla ricerca di forme di vita politica finora non conosciute. Questo implica - ed ecco il secondo punto - la disponibilità americana ad accettare la teocrazia per quello che è, mettendo da parte ogni velleità di cambiamento di regime indotto o favorito dall’esterno. Tutto ciò suonerà poco «liberal», ma in realtà investe sull’ipotesi che, allentando la pressione esterna, le dinamiche interne del rapporto istituzioni politiche-società possano lentamente e naturalmente evolversi nella direzione di una progressiva liberalizzazione del regime. Un segnale al mondo arabo Infine, e non meno importante, c’è un ulteriore chiaro segnale al mondo arabo, la cui dirigenza è estremamente inquieta di fronte a un possibile riavvicinamento tra Teheran e Washington, tanto più dopo gli innegabili vantaggi ottenuti dall’Iran grazie alla guerra irachena, alle campagne israeliane di Libano e Gaza e al ventilato coinvolgimento iraniano nella soluzione del rompicapo afghano. Solo alcuni giorni fa, i sauditi avevano fatto ufficialmente sapere che il loro «piano» non sarebbe stato sul tavolo «per sempre», ricordando all’America che la ricerca di un riavvicinamento con l’Iran non avrebbe dovuto significare l’inizio di un’inaccettabile egemonia persiana e sciita sugli arabi sunniti. La partita continua a restare complicata e dall’esito tutt’altro che scontato. Ma almeno, per ricorrere a una metafora rugbistica in omaggio al «Torneo delle 6 Nazioni», per la prima volta dopo tanti anni siamo tornati a giocare «nei loro 22». da lastampa.it Titolo: VITTORIO EMANUELE PARSI. Dollari e regole Inserito da: Admin - Aprile 03, 2009, 05:31:15 pm 3/4/2009
Dollari e regole VITTORIO EMANUELE PARSI Due erano i rischi principali cui andava incontro il delicato vertice G20 di ieri a Londra: la clamorosa rottura tra le posizioni anglo-americane e quelle franco-tedesche, o un accordo di facciata e al ribasso. Entrambi avrebbero prodotto conseguenze disastrose, con contraccolpi psicologici tali da distruggere in un giorno la timorosa euforia delle Borse mondiali di questi tempi, rendendo lo spettro del baratro sempre più reale. Al di sotto degli interessi immediati e corposi dei protagonisti, e delle loro legittime preoccupazioni sul minaccioso avanzarsi di un pericoloso dissesto sociale, quella che è sembrata riemergere, nelle settimane che hanno condotto al vertice di ieri, è stata l’antica ruggine tra modello anglosassone e modello renano dell’economia di mercato. Tale tenzone, assai fiorente fino a tutti i complicati Anni Settanta, sembrava essere andata in soffitta con la fine del decennio successivo, il crollo del comunismo e il trionfo della new economy. Non a caso la tenzone si rianima proprio ora che una nuova e assai più radicale crisi si manifesta con asprezza. Così, alla ricetta proposta da America e Gran Bretagna, cioè i Paesi che ospitano le due più grandi piazze finanziarie mondiali, incentrata sulla priorità di rianimare il malato con massicce iniezioni di liquidità e di credito, Parigi e Berlino replicavano con l’esigenza di imporre al mercato regole nuove e rigorose, affinché non finisse col ripercorrere i medesimi errori. Ha prevalso una soluzione di buon senso, non spettacolare di sicuro, ma allo stesso tempo la sola che potesse inviare un segnale di cauto ottimismo ai mercati: aumentare la dotazione dell’Fmi e sostenere il commercio internazionale, così da allontanare lo spettro del protezionismo. Il tutto accompagnato da misure simboliche, ma importanti, di «moralizzazione» del circuito finanziario (come il veto ai bonus per i banchieri), e dall’introduzione di un maggior controllo sulle attività degli hedge funds, alla promessa di intervenire nei confronti dei paradisi fiscali. L’Europa, a partire dalla Germania, si è ritrovata nella rinnovata leadership francese. E questo è un bene. Certo la riunione di Londra non è stata una nuova Bretton Woods, per la quale del resto mancano i presupposti politici. D’altra parte, se è giusto sottolineare che l’assenza di regole adeguate è stata una delle cause determinanti (anche se non la sola) dell’attuale dissesto finanziario, occorre anche ricordare che sarebbe deleterio confondere la terapia di rianimazione del mercato con la necessaria riabilitazione successiva all’eventuale scampato pericolo. Comunque sia, è stato evitato che, all’indomani del vertice, ognuno vada per la sua strada, replicando l’errore capitale che trasformò la gravissima crisi del 1929 nella «Grande Depressione» degli Anni Trenta. Il successo europeo al vertice di Londra, però, non deve farci scordare che queste assise hanno fornito anche qualche indicazione sull’assetto del sistema internazionale che potrebbe profilarsi al tramonto del sempre più imperfetto e claudicante unipolarismo americano, registrando il crescente ruolo della Cina. In tal senso, c’è da esser certi che aumenterà l’attenzione dell’America di Obama verso Pechino: una marcia di avvicinamento da cui potrebbe emergere un nuovo assetto bipolare, assai meno competitivo di quello sovietico-americano. Washington potrebbe cioè essere tentata di scommettere su un accordo preferenziale con Pechino, il cui effetto potrebbe manifestarsi appieno quando i tempi volgeranno nuovamente al bello. Nel delineare la nuova architettura internazionale, anche la Russia gioca le carte che ha, le quali non appaiono così disprezzabili: siano quelle del proprio arsenale nucleare (alla cui riduzione bilaterale Medvedev si è detto disponibile) o quelle della sua posizione di fortissimo dealer di prodotti energetici. Se i passi intrapresi a Londra verranno confermati alla Maddalena e al prossimo G20 di fine anno, l’Europa potrà essere soddisfatta di aver contribuito a rendere più simile a sé la struttura del sistema economico globale. Ma è importante che ciò non le faccia dimenticare come essa rischi di uscire oggettivamente «ridimensionata» da vertici cui partecipano Paesi «terzi» del calibro di India o Brasile. La partita è appena all’inizio. E va oltre la riscrittura delle regole dell’economia globale. In un nuovo ordine mondiale che fosse governato da un sostanziale condominio bipolare sino-americano e, persino nell’ipotesi di un multipolarismo allargato ai nuovi Paesi emergenti e alla Russia di Medvedev, l’Europa dovrà comunque continuare a faticare e a rischiare come ha fatto a Londra, per trovare il posto cui aspira al tavolo della «Bretton Woods prossima futura». da lastampa.it Titolo: VITTORIO EMANUELE PARSI. Inserito da: Admin - Aprile 06, 2009, 11:56:42 am 6/4/2009
Una sfida per l'Europa VITTORIO EMANUELE PARSI Un Obama in «gran spolvero» quello visto ieri a Praga, capace di un discorso in cui visione per il futuro, attenzione per la storia e generosità verso gli alleati europei sono riusciti superbamente a mascherare la delusione per lo scarso raccolto fatto nella prima visita presidenziale sul Vecchio Continente. Quello visto in questi giorni è stato un Obama persino troppo kennediano nei modi e nello stile, a cui dobbiamo augurare maggior fortuna di quella che arrise al suo predecessore nel portare a casa punti pesanti nelle partite che contano. Dopo aver riconosciuto la specificità di un’Alleanza fondata su valori comuni e aver reso omaggio alla perdurante novità della costruzione europea, Obama ha ribadito la volontà di tornare a collocare gli Usa alla guida delle politiche ambientali e del disarmo nucleare. Musica per le orecchie europee, straziate da anni di retorica bushiana. In realtà, quella di Obama è sembrata anche una sfida lanciata all’Europa perché, in quanto trattata «da pari», si dimostri capace di assumere più responsabilità. A cominciare dalla questione della proliferazione nucleare. Sarebbe infatti un pericolosissimo paradosso che, mentre le superpotenze nucleari disarmano, regimi irresponsabili e più o meno paranoici si dotassero di armi atomiche e missili intercontinentali. È il caso della Corea del Nord, ma evidentemente anche dell’Iran. Ai russi e agli europei Obama ha ribadito ciò che sosteneva già Bush: lo scudo ci protegge dalla minaccia iraniana, e solo se e quando l’Iran rinuncerà ai suoi bellicosi propositi esso verrà rimosso. E tanto i russi quanto gli europei, che non amano lo scudo, possono fare molto per esercitare maggiori pressioni su Teheran. La scommessa di Obama è la stessa, con i russi come con i cinesi, con gli iraniani come con gli europei: cambiare i toni e talvolta apportare correzioni tattiche alla rotta, ma senza deflettere rispetto agli obiettivi. Agli europei in particolare Obama offre rispetto e attenzione, ma in cambio chiede all’Europa di dimostrare di essere cresciuta e di essere pronta a giocare un ruolo a tutto tondo, anche sulla sicurezza e in Afghanistan. E qui cominciano le dolenti note. A fronte della richiesta Usa di più truppe combattenti da parte degli alleati, quello che ha ottenuto è stato un incremento di addestratori e ausiliari di vario tipo e «a tempo determinato». Voleva soldati, gli si manderanno poliziotti, crocerossine e panettieri con un contratto che scadrà con le elezioni afghane e impicciati dai soliti caveat. Risposta un tantino incongrua, soprattutto quando proviene da governi che schierano l’esercito nei parchi cittadini per scoraggiare scippatori e malintenzionati, ma che a quanto pare ritengono che nell’Helmand e nel Farah, dove marines americani e soldati italiani combattono una vera guerra, l’apertura di qualche commissariato sia sufficiente per sconfiggere le milizie talebane. Al di là della legittima soddisfazione per come si è concluso il G20 londinese, l’Europa corre un serio rischio: che il tavolo del futuro ordine mondiale sia di foggia più europea, ma non preveda una sedia per l’Europa. È l’Afghanistan a rappresentare il vero torture test sulla serietà delle ambizioni europee e sulla capacità di diventare un fornitore di sicurezza collettiva. Come abbiamo sostenuto altre volte, una sconfitta a Kabul non segnerebbe solo la relativizzazione dell’importanza della Nato (e di quella degli alleati europei agli occhi degli Usa), ma renderebbe molto più arduo l’emergere di quello scenario multipolare che è il solo nel quale l’Europa può sperare di avere un posto. L’alternativa sarebbe un bipolarismo sino-americano, meno conflittuale di quello Usa-Urss ma, proprio per la natura post-ideologica che lo caratterizzerebbe, anche molto più pervasivo e, alla fin fine, opprimente per tutti gli altri. Non potremmo, per intenderci, arricchirci e farci gli affari nostri mentre le nuove superpotenze si minacciano a vicenda, ma rischieremmo di divenire tributari del nuovo con-dominio planetario. È anche per scongiurare questo pericolo che, in quanto europei, dobbiamo vincere in Afghanistan. E la sfida afghana, proprio in termini di sicurezza, è alla nostra portata. Perché mentre l’Europa non può illudersi di far da sola per garantire la propria sicurezza nei confronti della superpotenza nucleare con la quale confina, può invece giocare un ruolo decisivo in un conflitto convenzionale, per quanto asimmetrico, come quello afghano. da lastampa.it Titolo: VITTORIO EMANUELE PARSI - Caraibi duemila Inserito da: Admin - Aprile 15, 2009, 09:05:30 am 15/4/2009
Caraibi duemila VITTORIO EMANUELE PARSI Come ai tempi in cui i vascelli di Sua Maestà davano la caccia a pirati e bucanieri tra le coste del New England e quelle dei Caraibi, così la Us Navy pare aver iniziato la propria guerra contro i pirati che infestano il Corno d’Africa. Apparentemente la sproporzione delle forze non dovrebbe lasciar dubbi sull’esito della lotta: la Marina americana vale, da sola, quanto le 16 flotte inseguitrici messe insieme, una proporzione incredibile, se si pensa che quando Britannia governava le onde, il Primo Lord del Mare si accontentava di un rapporto decisamente meno favorevole. Paradossalmente, è proprio la gigantesca potenza della flotta statunitense a costringere Washington a una reazione dura ed esemplare, tanto più in tempi di tagli di budget come gli attuali, durante i quali sarebbe difficile per gli ammiragli del Pentagono giustificare ai contribuenti l’imponente spesa per portaerei, caccia e aviazione imbarcata, qualora un pugno di straccioni del mare potesse continuare impunemente ad abbordare navi commerciali a stelle e strisce. Eppure, Washington è conscia che proprio il successo dell’operazione cha ha condotto alla liberazione del capitano Phillips, potrebbe portare a una radicalizzazione del conflitto. Quella che rischia di divampare tra i bucanieri e gli Stati Uniti potrebbe assumere i contorni di una guerra asimmetrica della peggior specie. Il pericolo è quello che, a fronte di una decisa militarizzazione dello scontro, i pirati optino per una altrettanto netta politicizzazione della natura della loro lotta e della loro stessa identità. Al momento, per quanto sia dato sapere, queste formazioni sono sostanzialmente paragonabili a poco più che gang criminali organizzate. Anche sfruttando la condizione di anarchia che dall’inizio degli Anni 90 caratterizza la Somalia, e in virtù dell’indotto economico generato dai sequestri, esse stanno però ampliando il proprio seguito presso la popolazione. In parte si spacciano come dei novelli Robin Hood, in parte sono essi stessi sensibili ai messaggi più radicali della predicazione jihadista, che chiude volentieri un occhio sulle attività criminali dei suoi potenziali accoliti, quando queste sono principalmente rivolte contro l’Occidente. E i governi occidentali hanno imparato sulle montagne afghane quanto sia pericolosa una simile miscela e come sia difficile rendere attraente una «onesta miseria», quando il partecipare all’economia criminale assicura a tanti poveracci quantomeno la sopravvivenza. Somalia, icona degli «Stati falliti» La Somalia, insieme all’Afghanistan, fu una delle icone dei cosiddetti «Stati falliti», che si moltiplicarono negli Anni Novanta, quando conclusasi la Guerra Fredda venne meno anche la sua straordinaria capacità di strutturare il sistema internazionale, saturandolo, e impedendo che esso potesse conoscere «spazi vuoti». Non per caso, il crollo del regime di Siad Barre, cliente a fasi alterne di sovietici e americani, fu praticamente simultaneo a quello del Muro di Berlino. Proprio nelle vie di Mogadiscio si infranse l’illusione che, tramontata l’epoca dei blocchi e in nome di una ritrovata unità d'intenti, fosse possibile restaurare l’ordine, almeno quel tanto necessario a distribuire aiuti umanitari. Oggi, l’Oceano Indiano di fronte alla Somalia è davvero simile ai Caraibi di metà Settecento. E, come allora, solo l’affermarsi di un qualche potere nell’entroterra e sulle coste può rendere quelle acque insicure per la pirateria. La quale non scomparirà, visto che i profitti sono straordinariamente alti se paragonati agli investimenti necessari per questa attività (che certo è rischiosa, ma che è concretamente svolta da chi non ha nulla da perdere, a parte una vita di stenti e senza prospettive), e potrebbe assumere proporzioni più «accettabili», simili a quelle che si registrano nello Stretto di Malacca. Puntare sulle autorità locali Negli Anni Novanta gli americani provarono a restaurare un potere centrale vagamente efficace a Mogadiscio. Ci hanno riprovato le Corti islamiche qualche anno fa e poi ancora gli americani, attraverso l’invasione etiope. Nulla di fatto. Forse sarebbe ora di accantonare l’idea che, almeno a breve, sia possibile restaurare un’autorità centrale effettiva in Somalia, e cercare piuttosto di favorire, o non ostacolare, il consolidamento di «autorità locali di governo», con le quali tentare poi la via di accordi basati su incentivi e punizioni così da rendere più dura la vita ai pirati. da lastampa.it Titolo: VITTORIO EMANUELE PARSI - Teheran salverà il Pakistan Inserito da: Admin - Maggio 05, 2009, 11:26:20 am 5/5/2009
Teheran salverà il Pakistan VITTORIO EMANUELE PARSI E’ cosa risaputa che la situazione in Afghanistan continui a essere tutt’altro che brillante, nonostante il progressivo potenziamento del contingente americano e il timido rilassamento dei caveat delle forze alleate. E sarebbe grave se il tragico evento occorso a Herat due giorni fa, con l’uccisione accidentale di una ragazzina ad opera di militari italiani, divenisse un pretesto per provocare un’ulteriore burocratizzazione delle regole d’ingaggio dei nostri soldati. Quel dramma, che ci colpisce così particolarmente all’interno del più ampio dramma afghano, deve semmai ricordarci come sia irta di pericoli e di vittime, anche innocenti, la via che porta alla stabilizzazione del Paese e dell’intera regione circostante. Che, per arrivare a destinazione, questa via debba passare per Teheran, e vedere un qualche coinvolgimento della Repubblica islamica è un’opinione che va prendendo corpo, soprattutto in Europa e anche in forza del sostegno a favore di questa ipotesi da parte della Farnesina. Secondo i più audaci sostenitori di un maggior ruolo iraniano nella crisi afghana, in questo modo sarebbe possibile contrastare il doppio e forse triplo gioco che il Pakistan sta conducendo rispetto ai talebani. Giova ricordare che gli studenti islamici sono una creatura dell’Isi (i servizi segreti militari pachistani, potentissimi e sostanzialmente autonomi dalle autorità politiche) e che ci volle la minaccia da parte di Bush di «portare il Pakistan all’età della pietra» per convincere Musharraf a sospendere (almeno ufficialmente) l’assistenza che i propri servizi fornivano ai talebani, in termini di armi, addestramento e protezione. La crescente presenza nello stesso Pakistan dei gruppi integralisti pashtun (etnia maggioritaria in Afghanistan, fortissima anche in Pakistan e particolarmente ben rappresentata tra i quadri dell’Isi) allunga del resto più di un’ombra sulla lealtà che è lecito attendersi dallo strategico «alleato» pachistano il quale, mentre combatte l’islamismo militante al di là del confine, lo blandisce al di qua, autorizzando l’applicazione della Sharia nella valle dello Swat (a 150 km da Islamabad) o tollerando la presenza di talebani pachistani nel distretto di Bruner (100 km dalla capitale). Washington appare particolarmente preoccupata della prospettiva che il fragile ma determinante alleato possa finire frammentato in tanti potentati de facto: un vero e proprio incubo nell’ipotesi che alcuni dei possibili «signori della guerra» si trovino a esercitare il proprio controllo su alcuni dei siti di stoccaggio delle testate nucleari pachistane (stimate tra 60 e 100), di cui Washington non conosce neppure l’esatta ubicazione. Infatti, proprio per evitare che di fronte a un simile esito gli americani potessero decidere di bombardare i siti nucleari pachistani (ipotesi alquanto rocambolesca, in realtà), le autorità pachistane si sono sempre ben guardate dal fornire a Washington informazioni troppo dettagliate al riguardo. Ma un simile scenario è scavalcato, in peggio e di gran lunga, dalla possibilità che il Pakistan sia oggi in una situazione analoga a quella dell’Iran negli Anni 70. Nel 1979, la rivoluzione guidata dall’ayatollah Khomeini trasformò l’Iran da uno dei tre pilastri (insieme con Turchia e Israele) dell’ordine regionale patrocinato da Washington nel suo più radicale contestatore e più attivo destabilizzatore. Più di una rivoluzione in stile iraniano, con l’improbabile avvento di una teocrazia a Islamabad, ciò che viene ipotizzato è la progressiva e sempre più decisa penetrazione dell’islam radicale e dei suoi adepti all’interno dei gangli dello Stato pachistano, soprattutto degli apparati di sicurezza. Questi ultimi, proprio per i lunghi decenni di sostegno ai talebani, appaiono tutt’altro che ostili o impermeabili a quei «nemici» che dovrebbero combattere. Inoltre, e contrariamente a quanto era vero per il laico «impero» dello Sha Palhavi, lo Stato pachistano è stato già parzialmente ma pesantemente «islamizzato». Uno dei più decisi in questa direzione fu, guarda caso, un generale: quello Zhia ul Haq il cui colpo di Stato portò all’impiccagione del padre di Benazir Bhutto, a sua volta uccisa in un attentato da molti ritenuto irrealizzabile senza la partecipazione dell’Isi, proprio mentre un altro generale, Musharraf, si apprestava a lasciare il potere. Probabilmente nemmeno Teheran sarebbe contenta di vedere una replica della sua lezione, se ciò dovesse portare alla nascita di una potenza nucleare islamica sunnita e integralista. Inutile nascondersi che un simile disastro strategico, evidentemente, rischierebbe di far pericolosamente accostare la figura di Barack Obama a Jimmy Carter (il presidente che perse l’Iran) piuttosto che a quella di Franklin Delano Roosevelt (il Presidente che donò prosperità e sicurezza all’America e al mondo). Ed è l’ultima cosa di cui il mondo e l’America hanno bisogno. da lastampa.it Titolo: VITTORIO EMANUELE PARSI - La sana religione Inserito da: Admin - Maggio 12, 2009, 04:21:00 pm 12/5/2009
La sana religione VITTORIO EMANUELE PARSI La prima parte del pellegrinaggio di Benedetto XVI in Terrasanta, quella più specificamente incentrata sui rapporti con l’islam, si è conclusa come meglio non sarebbe stato possibile. Accolto da un re, Abdallah di Giordania, che ha legato il destino politico suo personale, quello della dinastia e quello del Paese alla scommessa che sia possibile sconfiggere dall’interno le derive radicali così insistenti nel mondo arabo, il Papa si è mosso con prudenza e sagacia, smentendo sia quelli che lo avrebbero voluto protagonista di un viaggio più politico (si veda l’intervista concessa dal solito ambiguo Tarik Ramadan alla Stampa domenica), sia chi lo aveva dipinto come una sorta di «augusto gaffeur», interrogandosi su quante «nuove Ratisbona» avrebbero potuto sorgere dai 32 discorsi previsti per il Papa (così l’Herald Tribune di venerdì scorso, in un articolo forse un po’ troppo disincantato). Tutto bene, quindi, almeno per ora. Al di là dei suoi inevitabili significati anche politici, nel senso nobile del termine, quello del pontefice romano è innanzitutto il viaggio di un illustre pellegrino nei luoghi che, secondo la tradizione cristiana, furono testimoni di gran parte dell’avventura terrena di Gesù. Non bisognerebbe mai dimenticarlo. EBenedetto XVI, lo ha voluto ribadire, ancora sull’aereo che lo conduceva ad Amman, ricordando che si muoveva nella sua veste di «leader spirituale di una grande religione e non in quella di capo politico». Il concetto è a dir poco cristallino e, condivisibile non solo dai fedeli cattolici o dai credenti in generale, ma anche da chi, laicamente, rispetta il ruolo che le religioni possono liberamente svolgere proprio grazie alla netta separazione tra religione e politica che ha forgiato la modernità. Ciò che immediatamente salta all’occhio, tanto più sullo sfondo del tormentato Levante, è il destino peculiare (e positivo) che il cristianesimo, anche nella sua versione cattolica, ha avuto in Occidente. È grazie al secolare processo di laicizzazione e secolarizzazione che la società occidentale ha prodotto e conosciuto, e che ha consentito anche la trasformazione dei credo religiosi storicamente più diffusi in Occidente, che, oggi, la massima autorità spirituale del cattolicesimo può essere accolta come amica in un Levante dove l’Islam è di gran lunga dominante. Inutile sottolineare come l’incandescente situazione del Medio Oriente veda uno scenario nel quale, invece, le speranze che laicizzazione e secolarizzazione progrediscano sono ormai pie illusioni. Dal Libano all’Iran, dall’Iraq all’Egitto e, sia pure in forme molto diverse, allo stesso Israele e alla Turchia, la politicizzazione della religione e la deriva religiosa del discorso politico sembrano semmai essere la nuova tendenza. Al punto che suonano tutt’altro che convenzionali le parole pronunciate sabato da Ratzinger di fronte alle autorità religiose e culturali del regno ascemita: è «la manipolazione ideologica della religione per scopi politici il catalizzatore reale delle tensioni e delle divisioni e anche delle violenze nella società». Il corollario di queste affermazioni è che quando la religione è impropriamente utilizzata come strumento di lotta politica essa si trasforma: il suo messaggio intimamente pacifico viene sostituito da un simulacro dal valore spirituale molto più basso, ma dal potenziale devastante. La potremmo definire la «legge di Gresham applicata alla religione»: così come, dove circolano due mezzi di pagamento di valore intrinseco diverso (oro e argento), la moneta cattiva (cioè quella di bassa lega) scaccia quella buona, altrettanto si potrebbe dire accada dove circolano due proposte religiose dal valore intrinseco differente (una capace di non prestarsi a un uso improprio e l’altra politicizzata). Alla fine, il rischio è che la religione piegata ad uso politico prevalga su quella autenticamente intesa. Ovvero che il cattivo uso scacci il buon uso poiché, detto più semplicemente, quando «la si butta in politica», la «cattiva» religione scaccia quella «buona». Nel Levante ciò appare particolarmente evidente. E non riguarda questa o quella fede, per i propri contenuti specifici. Ma piuttosto investe tutte le religioni in quelle società dove i processi di laicizzazione e di secolarizzazione sono falliti, si sono interrotti o non hanno mai davvero preso piede. Anche in Occidente del resto, in secoli bui, il cristianesimo rischiò di «snaturarsi» e «corrompersi», perché alcuni tentarono di porlo al «servizio della politica». Ma quel rischio venne progressivamente rintuzzato e tanto la religione quanto la società furono poste al sicuro da ciò che altrimenti avrebbe minacciato la libertà di entrambe. Un’ultima notazione. In un mondo in cui è diffuso l’impiego della religione come strumento di mobilitazione politica, i moderati e illuminati come re Abdallah rischiano di avere vita difficile. Per dirla con Schumpeter, i radicali e gli estremisti sembrano infatti essere imprenditori politici più «appropriati», una volta che si consenta un uso politico della religione. da lastampa.it Titolo: VITTORIO EMANUELE PARSI - I talebani e la vendetta dei burattinai Inserito da: Admin - Maggio 26, 2009, 03:25:03 pm 26/5/2009
I talebani e la vendetta dei burattinai VITTORIO EMANUELE PARSI Appena nel febbraio 2009, il governo pachistano aveva concesso ai talebani che controllavano lo Swat di adottare la Sharia, estendendo così a poco più di un centinaio di chilometri dalla capitale l’area di giurisdizione della legge islamica tradizionale, la cui validità, fino a quel momento, non oltrepassava le aree tribali della frontiera nordoccidentale. L’umiliante capitolazione era stata la sola via individuata dal governo per ottenere il cessate il fuoco dalle milizie integraliste di etnia pashtun (e di nazionalità pachistana), che di fatto controllavano il distretto. In queste settimane, il debole governo di Islamabad che con quell’accordo aveva fatto infuriare Washington e le altre capitali della coalizione alleata, sta conducendo una dura offensiva contro i talebani nella valle dello Swat, e sembra prossimo a riconquistarne le più importanti città. Che cosa ha cambiato la situazione al punto tale da ribaltare le posizioni tra i ribelli e le forze governative? Di sicuro le pressioni americane affinché l’«alleato» nella guerra al terrore mutasse atteggiamento non devono essere state ininfluenti. Tanto le autorità civili, quanto i vertici militari, sanno benissimo che gli aiuti degli Stati Uniti sono vitali per tenere a galla lo Stato pachistano. Altrettanto importante è risultato il cambio di strategia imboccato con decisione dall’amministrazione Obama, che reputa possibile la sconfitta dei talebani solo a condizione di affrontare il fenomeno per quello che è: un’espressione politico-militare dei Pashtun, le cui valli attraversano il confine tra Pakistan e Afghanistan, e che devono perciò essere contrastati in ambedue i Paesi. Ma il fattore probabilmente determinante è stata la percezione, finalmente chiara a Islamabad, che proprio in virtù del loro successo nello Swat, i talebani rischiavano di assumere progressivamente il controllo del Paese o di provocarne il collasso. Le forze armate pachistane e i servizi segreti (Isi) non si erano mai mostrati entusiasti di dover collaborare con americani e Nato alla distruzione di quella che essi ritenevano (e in buona sostanza era) una propria creatura. Per l’intera durata della campagna afghana, né dall’Isi né dall’esercito era venuto chissà quale aiuto. Per decenni, del resto, essi avevano considerato i talebani uno strumento attraverso il quale praticare il proprio «piccolo gioco» (piccolo se confrontato al «grande gioco» di India e Russia nel corso dell’800 per il controllo dell’Asia sud-occidentale): cioè la direzione politica unitaria di tutti i pashtun, tanto afghani quanto pachistani. Per fare ciò, era opportuno che nessuna potenza «maggiore» interferisse e che lo Stato pachistano e soprattutto l’esercito, progressivamente islamizzati, mantenessero la propria solidità. La prima condizione è venuta meno con l’11 Settembre e il successivo intervento americano. Può darsi che tra i vertici della sicurezza di Islamabad qualcuno abbia ancora pensato di poter sfiancare gli Usa, fino a provocarne il ritiro, elevando i costi umani dello scontro. Ma giorno dopo giorno, i talebani si sono rinforzati e fatti più audaci, fino a «mettersi in proprio» e tentare il loro «piccolo gioco» a cavallo del confine. Il burattino tentava così di prendere il posto del burattinaio, esponendolo, per di più, al rischio serissimo di perdere tutto il potere accumulato in decenni e decenni. Ed ecco allora come si spiega la reazione durissima dell’esercito pachistano, che ha iniziato a combattere per la sopravvivenza sua e del Paese, e non più nello scomodo ruolo di alleato neghittoso della coalizione occidentale. da lastampa.it Titolo: VITTORIO EMANUELE PARSI - Afghanistan vietato perdere Inserito da: Admin - Maggio 30, 2009, 10:15:15 am 30/5/2009
Afghanistan vietato perdere VITTORIO EMANUELE PARSI Questa volta è andata bene. Le truppe italiane impegnate in Afghanistan non hanno subito perdite, e i tre parà feriti hanno riportato danni lievi. Ma, nel corrente e corrivo «dibattito politico», questi fatti riportano in primo piano quello scenario internazionale che meriterebbe qualche attenzione in più, almeno in prossimità del voto europeo. I nostri soldati, rischiando ogni giorno la loro vita in Afghanistan, ci ricordano che il mondo con i suoi problemi non si fermerà nella spasmodica attesa di sapere chi vincerà il trofeo della volgarità tra i «leader» nostrani. Militari, carabinieri (e poliziotti, con e senza pancia) sono un pezzo di istituzioni, un pezzo di Stato di cui andare orgogliosi. Il modo migliore di onorare il sacrificio loro e delle loro famiglie è interrogarci sul senso della nostra presenza in quel tormentato Paese, cercando di capire perché, per l’Europa ben più che per l’America, sia decisivo l’Afghanistan. Proviamo infatti a chiederci quali sarebbero le conseguenze se gli Stati Uniti si disimpegnassero dall’Afghanistan prima di essere riusciti a stabilizzarlo. In termini regionali, una sconfitta delle forze alleate in Afghanistan potrebbe avere effetti molto seri, potenzialmente in grado di destabilizzare l’intera area circostante. Potrebbe infatti risultare estremamente difficile «tenere» il Pakistan, avendo perso l’Afghanistan. È la riedizione della vecchia «teoria del domino», questa volta applicata all’Asia sudoccidentale. Ma a livello sistemico, funziona sempre la teoria del domino? Dipende. In Corea, nel 1948, mentre l’Urss di Stalin e la Cina di Mao erano saldamente alleate, quella teoria fornì un’interpretazione appropriata della realtà. In Vietnam, quasi trent’anni dopo, fu invece il suo abbandono a consentire a Nixon e Kissinger di riformulare la politica americana, sacrificando il Vietnam per consentire il riavvicinamento sino-americano. La bruciante sconfitta vietnamita produsse limitate conseguenze strategiche a favore dell’Urss, perché più che compensata dal vantaggio conseguito da Washington grazie all’alleanza con Pechino. In politica internazionale, insomma, la gravità delle sconfitte dipende soprattutto da chi se ne avvantaggia. Anche la Gran Bretagna nel 1842 subì una sanguinosa débâcle (17 mila morti) nella ritirata da Kabul, che la rivale Russia non seppe sfruttare, e l’influenza inglese nella regione cessò solo nel 1947, con l’indipendenza indiana. E nel 9 d. C. i Romani persero 3 legioni ad opera di Arminio, nella selva di Teutoburgo; ma nessun rivale strategico di Roma fu in grado di avvantaggiarsi di tale sconfitta, e l’impero sopravvisse oltre 4 secoli. E quindi: al di là del danno in termini di reputazione e motivazione per la leadership americana, un eventuale ritiro americano avrebbe conseguenze sistemiche solo se avvantaggiasse qualche rivale strategico degli Usa, o invogliasse qualcuno a diventarlo. I candidati realistici a una simile posizione sono solo due: Cina e Russia, ma ambedue appaiono decisamente refrattari a invischiarsi in un’area dove i ricordi del passato (per la Russia) o i timori su futuri contagi islamisti (per la Cina) funzionano da efficace deterrente. Per l’Europa le cose sono ben diverse. Sconfiggere i talebani e l’estremismo che incarnano dovrebbe essere una nostra priorità. Siamo noi, e non gli Stati Uniti, a confinare con quel mondo musulmano dove il fondamentalismo fa proseliti. Siamo ancora noi, e non gli Stati Uniti, ad avere al nostro interno quote crescenti di popolazioni musulmane che, anche per la nostra incapacità di offrire loro un’efficace integrazione politica e civile, potrebbero essere sensibili al messaggio estremista. Ma c’è un ulteriore interesse di natura strategica che spiega le ragioni del nostro impegno nelle valli afghane. Se, malauguratamente, l’instabilità regionale dovesse alterare il quadro sistemico e costringere l’India a concentrare tutte le sue attenzioni su un Pakistan sempre più inquieto, nessuna politica di engagement nei confronti della Cina sarebbe seriamente possibile. Con il risultato di rendere sempre più allettante, agli occhi di Washington, la realizzazione di un grande accordo con Pechino - il famoso G2 - e di segnare il tramonto della rilevanza politica e militare della Nato e, insieme a essa, dell’Europa. da lastampa.it Titolo: VITTORIO EMANUELE PARSI - L'ardita scommessa di Obama Inserito da: Admin - Giugno 06, 2009, 05:34:20 pm 5/6/2009
L'ardita scommessa di Obama VITTORIO EMANUELE PARSI L’America e l’Islam condividono alcuni valori fondamentali, dal rispetto per la dignità umana alla tolleranza; hanno interessi comuni, come quello alla pace e allo sviluppo nella sicurezza; hanno paure comuni, di fronte al fatto che modernità e globalizzazione possano minacciarne tradizioni e identità, svuotando le libertà di scelta in campo economico e politico; hanno persino nemici comuni, a partire dall’estremismo e dall’ignoranza. Quello che li divide sono valutazioni politiche su singole questioni specifiche, sia pur gravi come il conflitto israelo-palestinese. Attraverso un dibattito franco, ma rispettoso delle peculiari sensibilità e del peso della storia (il cui racconto, inevitabilmente, non è mai il medesimo per tutti), le divergenze di opinione e le differenti valutazioni possono però essere gradualmente ricomposte. Lontano da Guantanamo e da Bin Laden È un percorso lungo, dall’esito per nulla certo, che richiederà tempo. Ma è un percorso che deve essere intrapreso, perché è nell’interesse comune di tutti e perché è la cosa giusta da fare. È proprio dal riconoscimento di quanto ampio e profondo sia il terreno di condivisione che occorre muovere, per provocare un «nuovo inizio» nelle relazioni tra Stati Uniti e Islam. Ma perché ciò accada, è necessario che gli uni e gli altri si liberino dei rispettivi pregiudizi, che capiscano che la vera America non ha nulla a che vedere con Abu Ghraib e Guantanamo e il vero Islam non si esaurisce e non si riconosce in Bin Laden e nei talebani, e che entrambi smettano di indulgere in auto-rappresentazioni e in comodi stereotipi tanto confortanti quanto fallaci. In una cultura come quella arabo-islamica, in cui le parole e i gesti simbolici contano parecchio, Barack Obama è andato al Cairo a parlare all’Università tradizionalmente più importante della regione, e a rammentare la sfida che essa seppe raccogliere nell’età aurea di quella civilizzazione, armonizzando progresso e tradizione. A quell’antica capacità Obama ha chiamato il mondo islamico, perché ritrovi in se stesso la volontà e la capacità di forgiare modernità e democrazia, progresso e diritti della donna, sviluppo economico e libertà religiosa. Il diritto a uno Stato palestinese sovrano Obama non ha concesso sconti sui fatti, 11 Settembre compreso; non ha criticato apertamente la politica del suo predecessore sulla guerra in Iraq, alla quale pure è stato da sempre contrario; ha stigmatizzato il negazionismo dell’Olocausto come «senza basi, frutto dell’ignoranza e dell’odio»; e ha chiarito oltre ogni ragionevole dubbio che l’alleanza tra Israele e Stati Uniti è «infrangibile». Ha però ribadito che anche i palestinesi hanno diritto al proprio Stato sovrano e che il via libera israeliano agli insediamenti costituisce un ostacolo sulla via della pace. Contro la tattica del fatto compiuto Obama torna così alla tradizionale politica americana verso Israele: il sostegno risoluto e concreto al suo diritto alla sicurezza non significa che gli Stati Uniti accettano qualunque decisione israeliana né tanto meno che possono acconsentire alla tattica del fatto compiuto. Prende atto che il contesto in cui Israele si muove è cambiato: il «fronte del rifiuto» non esiste più, il mondo arabo non è monoliticamente ostile alla pace, e adegua la politica degli Stati uniti alla mutata realtà, provando a costruire anche una sponda araba - accanto, e non al posto di quella israeliana - grazie a cui rafforzare la posizione americana in Medio Oriente. È una scommessa alta e difficile, questa di Obama, in cui il Presidente rischia grosso. Ma solo uno sciocco potrebbe pensare di portare la pace in Medio Oriente senza assumersi rischi proporzionati all’impresa. E Barack Obama è tutto fuorché sciocco o pavido. da lastampa.it Titolo: VITTORIO EMANUELE PARSI - Effetto Obama sul Libano Inserito da: Admin - Giugno 09, 2009, 10:11:44 am 9/6/2009
Effetto Obama sul Libano VITTORIO EMANUELE PARSI Fortuna audax adiuvat! Non si è ancora spenta l’eco del coraggioso discorso pronunciato dal presidente americano al Cairo, che la sorte sembra venirgli in aiuto, con la storica vittoria della «Coalizione del 14 marzo», governativa e filo-occidentale, nelle elezioni parlamentari libanesi. Nel giro di poche settimane, anche grazie al sostegno ricevuto da parte di tanti cittadini fuoriusciti negli ultimi tre anni e tornati appositamente per votare, il cartello elettorale guidato dal figlio di Rafik Hariri (il premier il cui assassinio nel 2005 diede il via alla «primavera libanese») ha ribaltato i pronostici e sconfitto i rivali dell’«Alleanza dell’8 marzo», capeggiata da Hezbollah e sostenuta dal generale Michel Aoun, ultimo paladino della resistenza maronita antisiriana nel Libano della guerra civile. Proprio il patto sottoscritto da quest’ultimo con gli ex nemici aveva fatto ritenere che il movimento integralista sciita, vicino a Damasco e a Teheran, potesse giungere al potere grazie al voto popolare. Di fronte a questa prospettiva, molti dei cristiano maroniti sostenitori di Aoun, i cui voti nella complicata contabilità elettorale libanese erano determinanti per assegnare la vittoria agli uni o agli altri, non se la sono sentita di seguire «il generale», e hanno fatto confluire i propri voti sulle altre formazioni cristiane (la Falange e le Forze Libanesi). Hezbollah subisce un duro colpo, dopo che appena un anno fa, mostrando i muscoli delle sue milizie e a seguito di un vero e proprio assedio al Parlamento durato molti mesi, era riuscita a imporre la propria inclusione nella compagine governativa e a ottenere una sorta di potere di veto su ogni decisione dell’esecutivo. Anche in quella occasione, la natura «anfibia» e ambigua del movimento guidato da Nasrallah era sembrata essere stata la chiave strategica del successo. Contemporaneamente movimento politico e milizia armata (meglio e più pesantemente dell’Esercito regolare), soggetto politico libanese e allo stesso tempo longa manus di Damasco e Teheran, Hezbollah era riuscita finora a districarsi con successo nella lunga stagione di instabilità seguita all’omicidio di Hariri. Proprio l’indignazione per quell’omicidio (di cui era sospettata Damasco) aveva costretto i siriani a ritirarsi, almeno formalmente, dal Paese dei Cedri. Quel ritiro aveva spinto Hezbollah a giocare con maggiore decisione il ruolo di partito nazionale, dando vita al «fronte dell’8 marzo». Nel 2006 la «guerra dei 33» giorni contro Israele aveva messo nuovamente in risalto (a fronte di gravi rischi e danni enormi) la dimensione militare del movimento. Proprio attraverso quel conflitto, Hezbollah aveva rivendicato (non senza ambiguità e non in maniera incontestata) la necessità di mantenere la propria struttura militare come unico efficace baluardo a difesa dell’indipendenza libanese. Sembra che questa «natura irrisolta» abbia, questa volta, giocato contro Hezbollah, allontanando gli elettori maroniti dal partito di Aoun. Ora, come ha prontamente sottolineato il sempiterno leader druso Walid Jumblatt, è cruciale non isolare gli sconfitti, e cercare semmai di «mantenerli agganciati» al processo democratico. Sono parole decisamente in sintonia con quelle pronunciate al Cairo da Obama. Il nuovo Medio Oriente può nascere solo se tutte le forze in campo scelgono l’addio alle armi e la via politica come un’opzione non solo tattica. Hezbollah non era stata nominata nel discorso di Obama e il Libano vi era sostanzialmente assente. Eppure anche da Beirut potrebbe prendere avvio il «nuovo inizio» da lui evocato. Riuscirà Hzbollah a compiere un passo così importante? E, soprattutto: Teheran e Damasco, la cui posizione in Libano esce indebolita dall’esito del voto, glielo consentiranno? da lastampa.it Titolo: VITTORIO EMANUELE PARSI - Afghanistan l'ambiguità è un rischio Inserito da: Admin - Giugno 12, 2009, 06:49:32 pm 12/6/2009
Afghanistan l'ambiguità è un rischio VITTORIO EMANUELE PARSI Sono sempre più frequenti e sanguinosi gli scontri in cui sono coinvolte le truppe italiane in Afghanistan. Quello di ieri è il settimo degli ultimi 40 giorni. Come lo stesso comunicato del Comando di Herat chiarisce, i tre parà sono rimasti feriti nel corso di un’operazione di rastrellamento di elementi ostili attuata in maniera congiunta con l’esercito afghano. Non è una novità. Da quasi un anno i nostri soldati stanno facendo ciò per cui sono addestrati: combattere. Il fatto in sé non dovrebbe destare scalpore: se si inviano forze militari in zona di guerra a sostegno del legittimo governo è perché si intende contrastare l’azione degli insorti (questo è lo scopo dell’Isaf). Sulla rilevanza del fronte afghano per la sopravvivenza politica della Nato sono state spese molte parole. Ed è persino banale osservare che, se si ritiene che la campagna afghana non debba essere perduta - pena il dilagare dell’instabilità in tutta l’Asia sud-occidentale, in Medio Oriente e nel Mediterraneo - allora le truppe europee presenti nella regione devono fare la loro parte, cioè combattere. In questo senso, d’altra parte, vanno e non certo da oggi le pressioni degli Stati Uniti e degli altri alleati più coinvolti nelle operazioni «scova e distruggi», cioè i canadesi, gli inglesi e gli olandesi. Lo stesso Obama, osannato dalla folla praghese appena qualche settimana fa, aveva chiesto (apparentemente) senza successo ai partner europei della Nato più truppe combattenti e una minor varietà di «caveat» alle regole di ingaggio dei diversi contingenti nazionali. Oltre tutto, occorre sottolineare che proprio la pressione maggiore cui le forze alleate stanno sottoponendo i Talebani nell’Helmand ha finito col sospingerli verso le aree circostanti, tra cui proprio la provincia di Farah, affidata al comando italiano. In parte per la consapevolezza della posta in gioco, in parte per le mutate circostanze di teatro, in parte per l’azione diplomatica esercitata dagli Usa, il nostro ruolo in Afghanistan sta assumendo una fisionomia diversa, più marcatamente aggressiva, probabilmente più efficace e sicuramente più rischiosa. Tutto ciò non solo è nella logica delle cose, ma è anche legittimo e necessario. La sensazione, però, è che l’opinione pubblica non ne sia stata chiaramente informata, com’è invece doveroso in democrazia. Il punto è che, se non si dicono le cose come stanno, sono le truppe sul campo a correre un pericolo più elevato. Innanzitutto perché potrebbero dover «combattere con un braccio legato dietro la schiena», se i caveat cui devono sottostare non vengono adeguati e se i mezzi di cui sono equipaggiati non sono appropriati al tipo di missione. In secondo luogo perché rischiano di trovarsi «politicamente scoperti», cioè impegnati in una missione oggettivamente diversa da quella per cui hanno ricevuto mandato. I Talebani sanno bene che più perdite infliggono alle truppe Isaf più cresce la probabilità che le opinioni pubbliche occidentali chiedano il ritiro dei propri contingenti. A maggior ragione sanno che è più conveniente colpire i contingenti di quei Paesi dove sia palese l’ambiguità sull’impiego e sul ruolo dei soldati. Un’opinione pubblica non consapevole di essere in guerra è infatti molto meno disposta ad accettarne gli inevitabili costi umani. E un governo che non sia stato esplicito nel chiarire che una missione di peace enforcing implichi la necessità di combattere può apparire più facilmente condizionabile a suon di morti Per essere franchi fino alla brutalità: l’ambiguità e l’opacità della nostra presenza in Afghanistan fa dei nostri soldati dei bersagli il cui «valore politico», agli occhi dei nostri nemici, rischia di essere doppio o triplo rispetto a quello dei loro commilitoni olandesi, inglesi, canadesi. da lastampa.it Titolo: VITTORIO EMANUELE PARSI - Ayatollah referendum d'azzardo Inserito da: Admin - Giugno 17, 2009, 03:04:46 pm 17/6/2009
Ayatollah referendum d'azzardo VITTORIO EMANUELE PARSI Quello che rischia di travolgere, piuttosto imprevedibilmente, il regime degli ayatollah è l’azzardo politico di Ahmadinejad, che ha trasformato le elezioni presidenziali da un referendum sul suo operato in un referendum sulla stessa Repubblica islamica. A mano a mano che la scadenza elettorale si avvicinava, cresceva il timore nel suo entourage. Cresceva il timore che il sostegno al presidente non fosse tale da garantirgli una vittoria certa, neppure al ballottaggio. Ha così capito che, in un sistema come quello iraniano (una pseudodemocrazia nella quale l’unico spazio di espressione del dissenso è paradossalmente quello delle elezioni tra candidati selezionati con cura dal regime), se voleva vincere doveva cambiare l’interlocutore e «il quesito referendario». Non rivolgersi al popolo per guadagnarne il consenso, ma invece far capire alla «guida suprema» che in gioco non c’era solo la sorte politica del presidente, ma quella del sistema di cui Khamenei era il massimo esponente. Per riuscirci non ha esitato ad attaccare con durezza crescente il candidato Mousavi, quasi spintonandolo nel ruolo di leader non solo moderato, ma anche riformatore e persino liberale. Così facendo ne ha gonfiato il sostegno presso i giovani, le donne istruite, la borghesia e gli intellettuali: cioè tutti gli insofferenti del corrotto e dispotico regime che da trent’anni martirizza il civile popolo iraniano. L’appoggio a Mousavi cresceva così giorno per giorno, ma insieme con il consenso aumentava il grado di pericolosità della sua vittoria per il regime stesso. Probabilmente, proprio l’ultima grande manifestazione pre-elettorale, così affollata di giovani festosi e colmi di speranza, come non se ne vedevano dai tempi dell’elezione di Khatami, ha convinto il titubante Khamenei a rompere gli indugi e a sottoscrivere la nuova alleanza tra i conservatori, i cui interessi egli rappresenta, e i radicali (armati) di Ahmadinejad. In quel momento, accettando di avallare brogli elettorali probabilmente giganteschi, Khamenei ha sancito la fine del regime inventato da Khomeini. L’esperimento della Repubblica islamica era stato sottoposto a tensioni istituzionali di senso opposto fin dal crepuscolo della vita di Khomeini. Due tentativi di riformarlo in senso più liberale sono falliti. Il primo, abortito ancora prima di iniziare, ad opera del delfino di Khomeini, l’ayatollah Montazeri, imprigionato poco prima di succedere al suo mentore morente. Il secondo, più ambiguo, ad opera di Khatami, bloccato da Khamenei. Da quando è stato eletto presidente, Ahmadinejad non ha mai fatto mistero della sua insofferenza per il ruolo dell’alto clero e della sua volontà di riportare il regime alla «purezza» della fase rivoluzionaria, da perseguire riducendo il ruolo del clero. Il paradosso è che l’operazione gli potrebbe riuscire, proprio grazie all’aiuto del supremo garante di quell’ordine che lui vuole radicalmente trasformare. Se Ahmadinejad prevarrà, se riuscirà a reprimere una rivolta che sembra sempre più una «quasi rivoluzione», il regime che sorgerà sarà cosa sostanzialmente diversa da quello fin qui conosciuto. Prestandosi platealmente a violare quelle regole (per quanto già non eque) per difendere le quali esiste il principio del «governo dei giureconsulti», Khamenei ha minato la base stessa della legittimità dal doppio registro (elettorale e «sapienziale»), uno a sostegno ma anche a moderatore dell’altro, sulla quale si basa la formula inventata da Khomeini. È stata l’ultima volta che le parole, per quanto non amate, son potute uscire dalla sua bocca godendo ancora dell’aura incontestabile (se non incontestata) del sapere. Ma al suono di quel che esse sostenevano, l’autorità si è dissolta, mostrando il volto nudo del potere. Era dai tempi della rivoluzione che abbatté lo scià Reza Pahlevi, che a Teheran non si vedevano simili folle oceaniche, così determinate a sfidare i divieti delle autorità e le pallottole dei basiji. Il regime ha già chiarito che non esiterà a uccidere pur di sopravvivere. Farebbe però bene a ricordare che il culto del martirio fa parte della cultura sciita duodecimana. E che proprio nel 1979 ogni funerale si trasformò in una manifestazione ancora più rabbiosa e gigantesca. Quel che oggi manca ai rivoltosi/rivoluzionari è un leader, perché Mousavi non ha certo la tempra di un Khomeini: ma una leadership potrebbe emergere proprio dai moti di piazza. Senza dimenticare che il gruppo dirigente del regime inizia a manifestare crepe, e alcuni dei suoi esponenti più scaltri (Rafsanjani? Larijani?) potrebbero essere tentati da una soluzione alla «romena» (ricordate la fine di Ceausescu nel 1989?), pur di preservare le proprie rendite politiche ed economiche. da lastampa.it Titolo: VITTORIO EMANUELE PARSI - Ciechi come su lo scià Inserito da: Admin - Giugno 21, 2009, 09:33:35 am 21/6/2009
Ciechi come su lo scià VITTORIO EMANUELE PARSI Come nel 1978. Il regime si illude che usando la forza o, per meglio dire, la violenza che dà libero sfogo alla rabbia, riuscirà a prevalere e a sconfiggere il «suo» popolo. Chiunque abbia avuto l’occasione di assistere, 30 anni fa, alla cecità con cui lo scià commentava la rivoluzione non potrà non restare colpito dall’assonanza tra le parole dell’ultimo imperatore e quelle che la Guida Suprema Kahmenei ha pronunciato durante il sermone di venerdì scorso. Può darsi che maggiore fortuna arrida al duo Khamenei/Ahmadinejad (dove il secondo appare il «puparo» del primo), ma di sicuro né l’uno né l’altro sembrano volersi arrendere all’evidenza che, dopo oltre 30 anni, ogni minima legittimità del regime è tramontata. Ahmadinejad e Khamenei sono riusciti, in meno di dieci giorni, ad affossare il regime, come nessuno dei suoi oppositori poteva anche solo lontanamente sperare di riuscire a fare. Può darsi che, come accadde per l’Urss nella stagione delle lunga stagnazione brezneviana, che il regime si consumi con estrema lentezza. Ma, di sicuro, la credibilità residua di quel peculiare compromesso inventato da Khomeini tra legittimità popolare e legittimità sapienziale si è ormai esaurita. Come 30 anni fa, le milizie del regime sparano sulla folla. Come 30 anni fa i soldati si ribellano ai comandanti, e la confusione è il tratto più caratterizzante della situazione. Il regime non finirà in una notte, ma la sua fine è probabilmente irreversibile, in un crollo verticale della legittimazione che ricorda il grido del bimbo nella favola di Hans Christian Andersen: «Il re è nudo!». E il re è davvero nudo, perché dopo il suo vile discorso del venerdì, Khamenei ha chiarito oltre ogni ragionevole dubbio che, pur di mantenere il suo potere personale e pur di tutelare i corposi interessi politici ed economici che rappresenta, è disposto a tradire quella costituzione che ha giurato di difendere e stringere un patto scellerato con Ahmadinejad e il suo «partito dei reduci». Khamenei, in realtà, rischia di giocare con Ahmadinejad lo stesso ruolo di Hindenburg rispetto ad Hitler nel 1933. La crisi costituzionale in cui Khamenei ha precipitato l’Iran, è paragonabile a quella che si avrebbe in Inghilterra se la regina prendesse parte alla contesa politica per Downing Street, favorendo smaccatamente un candidato e danneggiandone un altro. Questo ha fatto Khamenei, e questo ha ribadito in occasione del sermone del venerdì, consapevole di provocare la folla e di legittimare l'inasprimento della repressione. Di fronte a ciò che sta avvenendo in Iran, alla violenza omicida di un regime dalla legittimità evanescente, anche il presidente Obama, fin qui prudentissimo e per questo duramente criticato in patria, ha rotto gli indugi, ammonendo il governo iraniano sul fatto che nessuna censura potrà impedire al mondo di vedere che cosa sta avvenendo in Iran. A maggior ragione apparirebbe stonato, oggi più che mai, mentre i morti accertati si contano ormai a decine, insistere nel reiterare l’invito al ministro degli Esteri di Ahmadinejad di partecipare al vertice di Trieste. Le democrazie devono essere disponibili a trattare anche con i regimi non democratici: ma non a qualunque prezzo. Rinunciare a far crollare un regime ostile non implica l'accettazione a trasformarsi nel puntello di governi che non esitano a sparare sui propri cittadini. Dal punto di vista della comunità internazionale, la domanda è una sola: quale scenario preferiamo tra la rivoluzione khomeinista del 1978 e la rivoluzione ungherese del 1956? Il punto non è se riusciremo a impedire che il regime massacri i suoi stessi cittadini, dopo averli derubati del diritto di voto. Il punto è se lasceremo intendere alla teocrazia iraniana che, qualunque cosa faccia, non pagherà nessuna conseguenza. Non dipende da noi il fatto che Khamenei abbia, consapevole o meno, venduto ad Ahmadinejad quei principi della Repubblica islamica che aveva giurato di difendere. Ma dipende da noi chiarire che ogni violenza compiuta contro il popolo iraniano comporterà un prezzo che il regime non potrà non pagare. da lastampa.it Titolo: VITTORIO EMANUELE PARSI - La bussola impazzita di Pechino Inserito da: Admin - Luglio 07, 2009, 11:13:52 pm 7/7/2009
La bussola impazzita di Pechino VITTORIO EMANUELE PARSI Secondo le stesse fonti di polizia cinesi, sono 156 i morti sinora accertati dei violentissimi scontri scoppiati nello Xin Jiang, proprio mentre il presidente Hu Jintao arrivava in Italia alla testa di una nutrita delegazione di circa 300 imprenditori. E’ un colpo pesante sulla politica cinese di mostrarsi con il volto rassicurante del capitalismo che non vacilla di fronte alla grande crisi, e che forse, anzi, salverà l’economia mondiale dalle prospettive di tracollo, grazie ai propri tassi di crescita comunque siderali. Al di là dell’evidente dimensione tragica della notizia, delle vite spezzate, è evidente che quanto sta accadendo agli estremi confini occidentali della Cina danneggia tutti. Danneggia innanzitutto gli uiguri, che altrettanto testardamente ma meno irenicamente degli ex sudditi del Dalai Lama, non ci stanno a divenire minoranza in casa propria. Ancora in agosto, a pochi giorni delle Olimpiadi, mentre l’attenzione del mondo convergeva sulle strade di Lhasa, una serie di attentati aveva scosso lo Xin Jiang, dove da decenni continua la resistenza degli 8 milioni di uiguri (di etnia turca e religione musulmana) all’offensiva assimilazionista di Pechino. Pechino accusa gli uiguri ribelli di essere ispirati da Bin Laden e dai suoi sodali. Ci sarebbe da stupirsi se una qualche infiltrazione qaedista o islamista radicale non si fosse verificata nella regione negli ultimi dieci anni, a fronte della politica cinese orientata alla pura e semplice repressione. Anche la Cina ne esce parecchio male. Colpisce del gigante economico e politico cinese l’incapacità a ogni variazione rispetto al tema della repressione spietata quando si tratti di dover gestire il dissenso. Se quelli dello Xin Jiang ricordano i moti del Tibet dello sorso anno, in quanto a motivazioni etnico-identitarie, per numero di vittime sono i più gravi (almeno tra quelli di cui si è avuto notizia in Occidente) dalla strage di piazza Tien An Men nel 1989. La Cina è un Paese dallo straordinario passato e dalle grandi prospettive. Eppure sembra che la sua classe dirigente non si renda conto che per completare l’opera, per fare di quel futuro qualcosa di più di una promessa, occorra anche sottoporre il sistema politico a una trasformazione - altrettanto radicale, non brusca, ma rapida - di quella che ha fatto diventare l’economia cinese la quarta del pianeta. Si tratta della stessa classe dirigente che in così poco tempo (tre decenni) ha fatto così tanto per portare fuori l’«impero di mezzo» dalla condizione disastrosa in cui l’avevano cacciata gli appetiti delle potenze europee, l’invasione giapponese, la guerra civile e la criminale dittatura maoista. Una classe dirigente che è riuscita nell’impresa, per nulla scontata, di gestire in maniera tutto sommata ordinata ben tre ricambi generazionali, dopo quello di Deng Xiao Ping. E che ora appare invece incapace di uno sforzo altrettanto lungimirante di quello del vecchio capo comunista. Ma quel che sta accadendo in Xin Jiang, frustra anche le speranze e i desideri occidentali di poter guardare alla Cina solo come a un grande partner economico e finanziario, e un promettente socio politico nella gestione di quel mondo «post-moderno» di cui, soprattutto in Europa, amiamo favoleggiare. Il governo cinese si muove con grande sagacia economica e con salda lungimiranza strategica, ma la sua bussola è ancora orientata a una politica il cui polo magnetico è costituito da un nazionalismo molto assertivo. Di questo occorre essere consapevoli, e proprio per questo, gli inviti ad allargare alla Cina il G8 (il vecchio club delle grandi economie democratiche alleate degli Stati Uniti più la Russia) appaiono oggi più che mai improvvidi. Il concetto cinese di «armonia» che tanto affascina molti osservatori occidentali assomiglia terribilmente a quello occidentale di «egemonia», un po’ più ipocrita, un po’ più violento. Ai leader delle sette democrazie del G8, in questi giorni, toccherà un compito ingrato in più, di cui avrebbero fatto volentieri a meno: assumere una posizione che non umilii il governo ed il popolo cinesi ma che, allo stesso tempo, non svillaneggi neppure i principi da cui le democrazie liberali e i loro cittadini traggono la propria ispirazione. E, inutile negarlo, tutti gli occhi saranno puntati sul presidente Obama: perché è il leader democratico che ha ridato al mondo intero il gusto e la sfida della speranza, e perché è il presidente di un Paese il cui debito pubblico è in gran parte custodito nei forzieri della People’s Bank of China. da lastampa.it Titolo: VITTORIO EMANUELE PARSI - Ma l'America sa sempre correggersi Inserito da: Admin - Luglio 13, 2009, 09:32:48 am 13/7/2009
Ma l'America sa sempre correggersi VITTORIO EMANUELE PERSI Dopo Guantanamo e il Patriot Act (con le gravi limitazioni dei diritti civili che conteneva), siamo arrivati a una sorta di Special Branch della Cia, che di fatto rispondeva solo a Dick Cheney. Cheney, il vicepresidente di George W. Bush, da molti ritenuto il vero falco dell’amministrazione, l’uomo di più alto grado e di maggiore autonomia fra i tanti sensibili alle tesi neocon, il più risoluto all’indomani dell’11 settembre, secondo l’allora «zar» della sicurezza Dick Clarke, a indicare in Saddam Hussein il mandante degli attentati newyorchesi, avrebbe avuto a disposizione una Cia tutta sua. O quantomeno sarebbe stato l’unico destinatario di una serie di rapporti riservati, arrogandosi un potere di veto sulle informazioni disponibili per il Congresso che la Costituzione degli Stati Uniti non gli riservava in alcun modo. A mettere insieme tutto questo, la prima riflessione che sovviene è semplice: ci è andata ancora bene. Ci è andata ancora bene che, a fronte di così tante e sistematiche violazioni dei principi e della prassi costituzionale degli Stati Uniti, il sistema nel suo complesso abbia retto. Abbia retto al punto da consentire l’elezione di un presidente ben diverso, come Barack Obama, il cui avvento alla Casa Bianca appare sempre più come provvidenziale. Più laicamente, si potrebbe osservare che i sistemi costituzionali ben congegnati, esattamente come le barche ben disegnate, riescono ad autocorreggere, perlomeno entro certi limiti, gli sbandamenti, gli scarrocci e lo scadere della rotta. Mai come in questi mesi è apparsa centrale la misura che vieta a un presidente di restare in carica per più di due mandati. Per tutte le volte che questa norma, introdotta dopo l’eterna presidenza di Franklin Delano Roosevelt, è stata maledetta in America e altrove, per lo spreco di talento che essa comporta (si pensi a Reagan o a Clinton), è proprio in momenti come questo che occorre renderle omaggio. Perché il fatto che il Commander in chief, dopo al massimo otto anni, torni a essere un Mr. Smith qualunque può darsi che non sia sufficiente a ricordare a ogni funzionario che la sua prima lealtà consista nel servire la legge. Ma di sicuro rende molto probabile che, allo scadere del periodo, le magagne saltino fuori. Staremo a vedere, nelle prossime settimane, che cos’altro emergerà su questa brutta vicenda. E tutti speriamo che non finisca «buttata in politica», ma che invece venga fatta luce con fermezza e imparzialità. Al di là della constatazione che le cose potevano andare peggio di quanto si sia verificato, si rafforza il dubbio che le procedure per reagire a uno stato di gravissima emergenza come quello scaturito dall’11 settembre debbano essere riviste. Tornano a suonare profetiche le parole di Bruce Ackerman, professore di diritto e scienza politica a Yale, che in un gran bel lavoro di tre anni fa (Prima del prossimo attacco) proponeva il varo di una «Costituzione d’emergenza », che permettesse sì al governo federale di «intraprendere azioni eccezionali per contrastare il rischio di nuovi attacchi », ma allo stesso tempo «impedisse l’adozione di misure permanenti» a detrimento delle liberta civili. Ackerman sosteneva che l’adozione alla luce del sole di misure eccezionali, sottoposte a una serie di scrutini da parte del Congresso a tempi predeterminati e improrogabili, e con quorum di maggioranza sempre più elevati, fosse di gran lunga preferibile alla forzatura interpretativa delle norme esistenti da parte di Corti e apparati esecutivi o dell’introduzione a titolo definitivo di norme eccessivamente restrittive della libertà. Questa volta ci è andata bene, appunto. Mala prossima? da lastampa.it Titolo: VITTORIO EMANUELE PARSI - Le ragazze di Teheran vinceranno Inserito da: Admin - Luglio 25, 2009, 11:12:14 am 22/7/2009
Le ragazze di Teheran vinceranno VITTORIO EMANUELE PARSI Che cosa resta del futuro, quando ti hanno portato via le prospettive e persino le speranze? I sogni. Ecco quello che resta. E poco importa che i lugubri e tristi ayatollah, i mullah dallo sguardo traverso, accompagnati dai loro violenti sacrestani, dal «generone» del bazar e dagli sgherri della polizia religiosa non lo capiscano e chiamino quei sogni «illusioni». Gli illusi sono loro, che non si rassegnano all’evidenza di come il loro tempo sia finito, forse non domani, forse non tra sei mesi: ma il regime non si salverà né attraverso la repressione sanguinaria ordinata da Ahmadinejad e Khamenei, né con i tardivi tentativi di Rafsanjani di ammansire la rabbia dei giovani e delle donne di Teheran. Basta guardare i volti, le belle facce vive, forti, spesso gravi, tragiche nella consapevolezza del momento, ma mai teatralmente severe o studiatamente accigliate, che letteralmente animano le foto che arrivano dalla capitale iraniana, attraverso mille peripezie, per sentire come i sogni sono l’ultima cosa che puoi permetterti di perdere, una volta che ti hanno già portato via tutto il resto. «Non è un Paese di vecchi», per parafrasare il titolo di un famoso romanzo di Cormac McCarthy (da cui i fratelli Coen hanno tratto l’ennesimo film capolavoro). Un Paese in cui il 66% della popolazione ha meno di 25 anni si confronta con una rivoluzione vecchia di 30, che ha fallito molte delle sue promesse, a partire da quella di dare a questo popolo giovane e insieme antico un futuro degno del suo grandioso passato. Con lo scorrere inesorabile del tempo, semmai, il regime rivoluzionario si è sempre più rinserrato in se stesso, svelando il carattere crescentemente farsesco dell’ossimoro «democrazia islamica», l’impossibilità di tenere insieme il potere del clero e la sovranità della Nazione, dimostrando per l’ennesima volta che la democrazia può essere «temperata» solo dalla libertà, e non certo da fonti d’autorità che si reputino superiori per un’asserita infallibile sapienza teologica. Bisogna afferrare questo, immaginare quanto debba essere frustrante vivere sotto un regime che ti fa sprofondare nel passato, mentre tu aneli al futuro, quanto possa essere stridente il contrasto tra la delirante agorafobia di un potere ossessionato dal terrore del contagio straniero, del complotto internazionale, della corruzione morale occidentale e la soffocante claustrofobia che sperimentano ogni giorno i giovani e le donne di Teheran, con la loro estroversione, la loro curiosità e apertura verso l’Occidente e persino l’attrazione verso il «grande Satana» americano. Se ai giovani il regime sta rubando il futuro, alle donne, da 30 anni, ha sottratto persino il presente. Così le giovani donne sono state derubate due volte, e sfidano le squadracce dei basiji ben sapendo che se Ahmadinejad e Khamenei dovessero alla fine prevalere, la condizione femminile nel Paese potrebbe persino peggiorare. È vero: in gran parte delle società musulmane le donne hanno ancora minori opportunità che nella Repubblica islamica dell’Iran. E con ciò? Una situazione di palese e ingiustificabile disparità non diventa «equa» solo perché in qualche altra parte del mondo la giustizia è calpestata in misura ancora maggiore. Le sorridenti ragazze di Teheran, con i loro veli colorati dai quali sfuggono innumerevoli ciocche di capelli corvini, ogni giorno irridono le cupe e tetragone autorità religiose. Sono anche iconicamente agli antipodi dell’espressione arcigna del fondatore della teocrazia iraniana, o di quella rabbiosa dei guardiani esaltati e prezzolati della «moralità» di regime. Oggi il sorriso di quelle ragazze è velato di tristezza per tutte e tutti coloro che in queste settimane hanno pagato con la vita un pesantissimo tributo a un comune sogno di libertà. Questo è il solo velo che, fieramente, vogliono portare, fino a quando ogni altro velo sarà caduto, e loro, come tutti gli iraniani, saranno libere: non solo di sognare, ma di vivere come meglio credono e di credere solo in ciò che vogliono. da lastampa.it Titolo: VITTORIO EMANUELE PARSI - Il dovere dell'Italia a Kabul Inserito da: Admin - Luglio 27, 2009, 05:03:13 pm 27/7/2009
Il dovere dell'Italia a Kabul VITTORIO EMANUELE PARSI Hanno ormai cadenza quasi quotidiana le notizie di attentati, attacchi e operazioni militari di più vasta portata in cui sono coinvolte le truppe italiane in Afghanistan, che di per sé attestano quantomeno un inasprimento della situazione tattica e di teatro. A fronte di quanto sta già accadendo, e del prevedibile innalzamento della conflittualità che non si esaurirà con le elezioni di metà di agosto, il quesito che innanzitutto il governo e la sua maggioranza devono porsi è uno solo: l’Italia e le sue Forze Armate sono nelle condizioni di poter sostenere una campagna dalla durata ancora indefinita, nella quale i nostri soldati saranno chiamati sempre più a svolgere con crescente continuità un ruolo più aggressivo nei confronti degli insorti (come peraltro stanno già, egregiamente, facendo)? Evidentemente, la risposta implica due dimensioni. La prima riguarda la dinamica politica interna. L’uscita solo apparentemente estemporanea di Umberto Bossi («torniamocene a casa») esprime il crescere delle perplessità sul senso della missione all’interno delle file della maggioranza. Per motivi di bilancio, oltretutto, il governo sta operando per la riduzione degli organici della difesa, dove l'Esercito è in grado di schierare non più di 7 brigate operative per un totale di circa 20-25.000 uomini. Un numero così esiguo da rendere impossibile adempiere per tempi prolungati a più missioni internazionali di un certo respiro. D’altronde l’idea che, per conservare un certo rango nella politica internazionale, l’Italia debba dimostrare concretamente la capacità di assumersi maggiori oneri per il mantenimento dell’ordine internazionale sembra ormai un’acquisizione bipartisan. Dall’Iraq all’Afghanistan al Libano, questa consapevolezza ha guidato le decisioni di governi di opposto orientamento politico nelle scelte di prendere parte a operazioni militari internazionali. E, qualora ce lo fossimo già dimenticati, questa «nuova» attitudine italiana è stata vigorosamente apprezzata dal presidente Obama in occasione sia della visita a Washington del nostro presidente del Consiglio, sia dell’ultimo G8 aquilano. Ma se le forze a disposizione sono estremamente limitate, occorre selezionare gli impegni con estremo rigore, alla luce del nostro interesse nazionale. La missione Isaf rientra tra questi? La risposta affermativa riposa sulla convinzione che una ritirata dall’Afghanistan si presenterebbe come una sconfitta militare dell’Occidente e della Nato (la cui credibilità politica e militare verrebbe seriamente scossa); galvanizzerebbe e rinvigorirebbe le formazioni jihadiste ovunque nel mondo, privando ulteriormente della volontà di resistere e della speranza di prevalere tutti quelli che, nella vasta e variegata umma dei fedeli di Allah, lottano affinché islam e democrazia possano trovare una sintesi felice e originale: cioè renderebbe ancora più instabile e ostile il nostro «estero vicino». In termini globali, poi, paleserebbe la perdurante irrilevanza dell’Europa come fornitore di sicurezza e la sua marginalità politica, così avvicinando la prospettiva di un G2 sinoamericano. Affinché a ogni nuovo futuro scontro che dovesse coinvolgere le nostre truppe, con il presumibile, doloroso e quasi inevitabile bilancio di vittime, non si ricominci a parlar di caveat e «Tornado», ovvero a invocare precipitosi ritiri, la consapevolezza delle ragioni strategiche della nostra presenza in Afghanistan è il solo rimedio possibile. E sarebbe opportuno che il governo lo chiarisse all’opinione pubblica con la giusta fermezza, cosa che solo in parte è avvenuta in questi mesi. Esiste una sola possibilità alternativa. È quella che suggestivamente ricorda che fu proprio Osama Bin Laden il primo a perseguire quella politica di internazionalizzazione della crisi afghana, che culminò con gli attentati dell’11 settembre 2001 e l’invasione alleata. Da quando abbiamo seguito Bin Laden sulla politica da lui imposta, non solo non abbiamo fatto grandi passi avanti in Afghanistan, ma siamo riusciti addirittura a mettere a repentaglio il Pakistan. Se invece il diretto coinvolgimento occidentale cessasse, e il conflitto si «afghanizzasse», probabilmente il Pakistan continuerebbe a tessere le sue trame nel Paese vicino come ha sempre fatto (almeno dagli Anni Settanta), nelle vesti di burattinaio, piuttosto che in quelle di potenziale prossima vittima del contagio talebano. Sarebbe evidentemente un cambio di strategia drastico, dagli esiti incerti e neppure molto onorevole. La cui decisione, comunque, dovrebbe esser assunta dalla coalizione nel suo complesso. Ma le mezze misure, tantopiù in guerra, portano solo a sconfitte complete. da lastampa.it Titolo: VITTORIO EMANUELE PARSI - Sfida aperta ai signori della guerra Inserito da: Admin - Agosto 21, 2009, 11:20:15 am 21/8/2009
Sfida aperta ai signori della guerra VITTORIO EMANUELE PARSI Non sappiamo ancora quale candidato alla presidenza afghana possa cantar vittoria, ma siamo già in grado di stilare una prima lista di vincitori e sconfitti dopo un election day come quello di ieri, tanto atteso quanto temuto: i talebani e i signori della guerra hanno perso. Il popolo afgano e la coalizione internazionale ha vinto. Nonostante le truculente dichiarazioni dei giorni scorsi («taglieremo le dita a chi va a votare»), l’ondata di attentati sanguinari e vigliacchi dell’ultimo mese e l’insofferenza dei pashtun (l’etnia di maggioranza relativa) per il ruolo crescente nel governo del Paese di tagiki, uzbeki e «persino» azeri, l’affluenza è stata superiore alle più rosee aspettative. Come già era avvenuto in Iraq, quando le prime elezioni vennero tenute sotto la minaccia dei qaedisti e degli insorgenti, il popolo ha deciso di andare a votare, e milioni di afghani (e soprattutto di afghane) hanno lanciato il loro personale, pacifico jihad in faccia ai tagliagole che sognano un Afghanistan da incubo, dove alle bambine sia persino preclusa l’istruzione elementare. Ma è andata persino meglio che in Iraq, perché ieri nessuna etnia e nessun gruppo religioso ha deciso di disertare le urne o è caduto nella trappola dalla propaganda violenta e spaventosa dei ribelli, come invece era accaduto per i sunniti iracheni. Gli afghani e le afghane hanno messo le loro vite nella mani dei soldati della coalizione, che ha scelto di correre il rischio politico di tenere elezioni in queste condizioni, scommettendo che le proprie truppe sarebbero riuscite a consentirne lo svolgimento. Uno sforzo imponente, a cui anche le forze armate italiane hanno dato il loro determinante contributo, a testimonianza di un’eccellenza e di una professionalità diffuse che hanno pochi eguali tra le altre istituzioni della Repubblica. Ma anche l’ennesima riprova che una presenza militare più attiva, più numerosa e più aggressiva resta la condizione indispensabile per consentire all’Afghanistan di intraprendere la difficile via della ricostruzione. Dopo questa dimostrazione di forza tranquilla, di coraggio diffuso, fornita dal popolo afgano, i talebani escono politicamente assai ridimensionati, e con loro tutti i cocciuti sostenitori della «necessità di coinvolgere i talebani nel futuro del Paese». Farlo ora, dopo la prova di coraggio superata ieri dal popolo afghano, sarebbe mancare di rispetto a un’intera nazione. Replicherebbe un errore analogo e speculare a quello compiuto dall’amministrazione Bush nel 2002, quando decise di appoggiare i signori della guerra, pur di non «impegnarsi» nella ricostruzione economica e istituzionale del Paese, e così tradì le aspettative di milioni di afghani che contavano sull’America per realizzare un nuovo Afghanistan. I risultati li vediamo ora, mentre si fa strada la consapevolezza che dovremo impegnare almeno altri 50.000 uomini per riportare la sicurezza a Kabul e in tutto l’Afghanistan. Occorreranno soldati e tempo. Ma occorrerà anche denaro, molto più di quello fin qui davvero erogato. Basti pensare che nei primi due anni successivi alla caduta del regime talebano, all’Afghanistan sono andati aiuti per soli 57 dollari pro capite: poco più della metà dei 100 dollari che si stimano essere l’investimento minimo per ricostruire uno Stato fallito (secondo la Rand), infinitamente meno dei 233 andati a Timor Est, dei 529 del Kosovo o dei 679 della Bosnia. Senza soldati, soldi e disponibilità a un impegno prolungato, il successo della giornata di ieri rischia di essere presto sciupato. Vedremo come andrà a finire: se sarà necessario un ballottaggio e se il prossimo presidente sarà ancora Karzai o invece Abdullah o, a sorpresa, Ghani. Soprattutto vedremo quanto si stimerà che abbiano pesato i brogli già denunciati. D’altronde, immaginare elezioni di tipo «danese» in un Paese in cui la corruzione è dilagante e dove la produzione di oppio conosce nuovi impressionanti record, sarebbe stato folle. Ma è inutile nascondersi che il nemico da battere ieri erano i talebani e il loro messaggio di morte e non la corruzione e il narcotraffico. E questo nemico, almeno ieri, è stato battuto. La paura era che le elezioni non si potessero neppure tenere o che l’affluenza fosse irrisoria, non che fossero perfettamente corrette. Non fermiamoci qui e non accontentiamoci. Ma non sottovalutiamo e non sprechiamo lo straordinario successo di ieri. da lastampa.it Titolo: VITTORIO EMANUELE PARSI - Rischia l'Europa più che l'America Inserito da: Admin - Settembre 05, 2009, 05:22:57 pm 5/9/2009
Rischia l'Europa più che l'America VITTORIO EMANUELE PARSI Non si ferma un attimo l’ottovolante afghano. Avevamo appena constatato il buon successo politico delle elezioni presidenziali, ed è iniziata la ridda di accuse di brogli, da parte dello sfidante Abdullah, e di «settarismo anti-pashtun» da parte del presidente in carica Karzai. Avevamo tirato un sospiro di sollievo per il fatto che le minacce talebane di tagliare le dita ai votanti erano apparse quasi una «bufala», e su tutti i giornali del mondo compariva la foto di uno sfortunato elettore afghano al quale i talebani avevano mozzato naso e orecchie. Neppure il tempo di prendere atto di come l’impegno delle truppe della coalizione avesse consentito di mettere gli insorgenti sulla difensiva, e un kamikaze faceva saltare per aria il vicecapo dei servizi segreti di Kabul. Ieri, infine, una probabile strage (anche) di civili, questa volta firmata dall’Isaf: è la testimonianza che la quantità dei «danni collaterali» è inversamente proporzionale al numero delle truppe sul terreno, ma fornirà inevitabilmente elementi a chi chiede di «riportare a casa i ragazzi». Nel frattempo, con estenuante lentezza, lo scrutinio delle schede procede (siamo ormai oltre il 60%), e il vantaggio di Karzai si consolida, sfiorando ormai quel 50% + 1 dei voti validi espressi che renderebbe superfluo il ballottaggio. Questo era lo scenario di gran lunga preferito da tutti gli analisti appena pochi mesi orsono, perché avrebbe evitato la costosa (e rischiosa) organizzazione di un’altra giornata elettorale. Siccome non è dalle vittorie, ma dalle sconfitte che (talvolta) si impara, non è per nulla senza fondamento il timore che i talebani potrebbero organizzarsi meglio per il secondo turno e colpire molto più duramente di quanto accaduto nel precedente election day. D’altra parte, con tutte le circostanziate accuse di brogli che circolano, solo un secondo turno elettorale potrebbe fornire effettiva legittimità a una probabile nuova elezione di Karzai. La situazione è talmente complicata che, paradossalmente, non siamo nemmeno in grado di decidere che cosa augurarci che succeda, quale sia lo scenario migliore, o il meno peggiore, per voltare definitivamente la pagina delle elezioni. Di sicuro appare irrealistica la prospettiva di riportare a casa in tempi brevi i rinforzi che anche il governo italiano ha inviato per garantire lo svolgimento delle elezioni. Questa volta, a ribadire che semmai in Afghanistan servono più soldati per più tempo, oltre a un impegno politico ed economico più consistente, costante ed effettivo, non è stato soltanto il solito generale americano, ma il ministro degli Esteri francese Bernard Kouchner, alla conferenza di Parigi di qualche giorno fa. Kouchner, che non è uno sprovveduto, sa bene che un fallimento in Afghanistan potrebbe segnare la fine politica dell’Alleanza Atlantica. Cosa che Parigi non desidera affatto, dopo che è appena solennemente rientrata nella struttura militare integrata. D’altronde, il venir meno di un legame fortemente istituzionalizzato tra Usa ed Europa danneggerebbe molto più questa che quelli. La «de-occidentalizzazione del mondo» in rapida accelerazione con la fine della Guerra Fredda, la perdita relativa di influenza dell’Occidente nella comunità internazionale, è frutto in gran parte dell’arretramento del peso europeo, mentre gli Usa potrebbero ricoprire un ruolo di potenza globale, seppur ferita, anche se la partita afghana dovesse andar male. Il problema per gli europei, come sempre, è riuscire a adottare politiche conseguenti alle analisi, cosa tutta da vedere, ovviamente. Ma anche per l’America di Obama suona qualche campanello d’allarme. In particolare, desta preoccupazione il fatto che negli Usa stia crescendo il numero di quanti vorrebbero il ritiro delle truppe. Come si ricorderà, la differenza tra la guerra in Afghanistan e quella in Iraq è stato uno dei punti fermi (e vincenti) di Obama durante la campagna elettorale. Se la leadership fatigue degli americani dovesse crescere, le pressioni sul presidente per un disimpegno potrebbero però diventare irresistibili e spingerlo a riconsiderare l’intera sua strategia per «Af-Pak», con un danno evidente per la sua autorevolezza. È un’eventualità, per ora, remota. Ma segnala intanto che lo stesso Obama, la cui popolarità negli Usa sta subendo un calo repentino e dalle dimensioni inattese, potrebbe iniziare ad accusare una sua personale leadership fatigue. da lastampa.it Titolo: VITTORIO EMANUELE PARSI - Il nostro impegno va rispettato (allora lo si cambi) Inserito da: Admin - Settembre 18, 2009, 11:53:34 am 18/9/2009
Il nostro impegno va rispettato VITTORIO EMANUELE PARSI Il singolo evento che ha causato il maggior numero di vittime tra i nostri soldati in Afghanistan non è avvenuto durante una delle tante operazioni «scova e distruggi» in cui da tempo sono validamente impegnati, ma a Kabul durante un servizio di scorta. Che cosa impariamo? Che in una guerra asimmetrica le missioni a minor contenuto di «aggressività», condotte in zone operative più «tranquille», possono comportare rischi maggiori di quelle di combattimento. Per cui bisogna smettere di immaginare che un impiego più «discreto» dei nostri militari possa esporli a minori perdite. Non c’è dubbio che il rafforzamento e il migliore impiego del contingente militare è solo uno dei vettori di qualunque tentativo di stabilizzazione dell’Afghanistan. Il secondo è la ricostruzione del tessuto politico e istituzionale del Paese, e il terzo è la trasformazione dell’impatto della regione circostante sull’Afghanistan da negativo in positivo: a partire dal Pakistan, che - da retroterra e santuario dei Taleban - deve diventare la seconda ganascia di una tenaglia volta a stritolarli. È evidente che proprio sul secondo vettore la situazione sia tutt’altro che incoraggiante. Le elezioni presidenziali rischiano di diventare un boomerang fatale, non solo provocando l’ulteriore disaffezione degli afghani verso il regime, ma soprattutto offrendo ai Taleban un’insperata occasione supplementare per far fallire quel test elettorale che avevano cercato di sabotare in tutti i modi. Solo sul fronte regionale iniziamo a intravedere qualche timido segnale di miglioramento e i Taleban sembrano incontrare finalmente qualche problema in Pakistan. Ma occorre ribadire che una presenza militare internazionale incisiva e determinata rimane la condizione necessaria perché la cosiddetta soluzione politica, che tutti invocano e nessuno riesce a trovare, non finisca con il diventare la pietra filosofale del conflitto afghano. Mandare più truppe sta riuscendo difficile persino agli Usa di Obama, improbabile che l’Italia possa farlo. Possiamo però auspicare che il governo mantenga l’impegno di non ritirare i soldati. Il quadro politico lascia sperare che la gravità del momento prevalga sullo spirito di fazione. È significativo che i meno allineati rispetto a questa posizione siano la Lega e l’Italia dei Valori. In particolare il partito di Di Pietro, libero da vincoli di governo, appare solo intento a fare bottino nelle prossime Regionali tra quella parte dell’elettorato meno sensibile e più diffidente rispetto alle missioni militari, traendo il massimo profitto dell’assenza di concorrenza (vista la scomparsa dal Parlamento della sinistra radicale). Entrambi i partiti sono però accomunati dall’inclinazione a ricondurre la dimensione internazionale sempre e comunque alla più miope logica domestica: si tratti di fare inserzioni a pagamento contro il governo sull’Herald Tribune (l’Idv) o di cavalcare il timore per l’immigrazione clandestina (la Lega). da lastampa.it Titolo: VITTORIO EMANUELE PARSI - Non è stato il gesto di un pazzo Inserito da: Admin - Ottobre 14, 2009, 10:28:54 am 14/10/2009
Non è stato il gesto di un pazzo VITTORIO EMANUELE PARSI Può darsi che Mohamed Game sia uno scapestrato senza legami organici con l’internazionale jihadista. Ma intanto due suoi complici sono stati arrestati. In casa sua sono stati trovati 40 chili di materiale idoneo a ricavare esplosivo. Non solo. Quello che sembrava essere un piccolo ordigno, si è rivelato essere una bomba grande dieci volte tanto. Game - come altri inquisiti, arrestati e incarcerati prima di lui - frequentava il centro islamico di viale Jenner, finito nel mirino degli inquirenti fin da quando delle investigazioni sul terrorismo islamista (prima dell’11 settembre) si occupava in maniera quasi solitaria un magistrato proveniente dall’antimafia siciliana, Stefano D’Ambruoso. In questi ultimi anni tante cose sono cambiate a Milano e in Italia, anche nella direzione di una ricerca di maggior dialogo tra le comunità di migranti di fede islamica e gli apparati di sicurezza. Ancora pochi giorni orsono, un importante imam della capitale ricordava come la collaborazione tra le comunità dei credenti e le autorità repubblicane, sulla falsariga di quanto da tempo avviene in Francia e sulla scorta di quanto il ministro Maroni ha sostenuto più volte, fosse determinante innanzitutto per difendere i nostri concittadini di fede islamica e i tanti stranieri musulmani dall’azione culturalmente violenta di improvvisati e improbabili cantori di una presunta «purezza» originaria della fede, dalla loro arrogante fitna contro tutti coloro che essi ritengono «apostati». Tra queste voci, informate e accorate, quella del centro culturale islamico di viale Jenner a Milano è sempre stata la più flebile e ambigua, continuamente attenta a elevare capziosi distinguo, quasi che avesse più a cuore la tutela degli elementi meno integrati nel tessuto sociale cittadino piuttosto che la sorte di migliaia e migliaia di fedeli di Allah, che ogni giorno offrono il loro sincero contributo alla convivenza, svellendo quei muri di diffidenza reciproca che non saranno certo abbattuti da quel provincialissimo snobismo culturale e civile da cui è afflitto il nostro Paese, che con stanco autocompiacimento si manifesta nei talk show televisivi e nella retorica del politicamente corretto. La strada l’ha indicata con chiarezza il presidente Fini: tempi rapidi e certi per l’acquisizione della cittadinanza che accompagnino tempi rapidi e certi per l’applicazione rigorosa delle leggi della Repubblica. da lastampa.it Titolo: VITTORIO EMANUELE PARSI - Iran, la strana coincidenza Inserito da: Admin - Ottobre 20, 2009, 10:07:38 am 20/10/2009
Iran, la strana coincidenza VITTORIO EMANUELE PARSI Più che la chiamata di correo nei confronti di Gran Bretagna e Usa per gli attentati nel Beluchistan, ciò che preoccupa è un’accusa. Preoccupa maggiormente l’accusa rivolta ai Servizi di Intelligence pachistani (Isi) di essere i veri e propri mandanti della strage, corredata dalla minaccia iraniana di «condurre operazioni ovunque si dimostrassero necessarie», compreso il «territorio pachistano». La preoccupazione risiede nel fatto che, al di là della capacità iraniana di provarle, le accuse non risultano totalmente inverosimili. Non può sfuggire come tra i «complici» indicati da Teheran non compaia Israele (che il regime definisce “amabilmente" il Piccolo Satana, per distinguerlo dal Grande Satana americano), quasi ad attestare lo sforzo da parte iraniana di avvalorare la verosimiglianza delle insinuazioni sollevate nei confronti di Islamabad. Che il potentissimo Isi, da anni, stia conducendo una propria politica estera, al di fuori del controllo delle stesse autorità pachistane, è d’altronde ben più di un sospetto. Le stesse critiche condizioni in cui versa il Waziristan, dove solo dopo essere stato apertamente sfidato e umiliato dai talebani locali, l’esercito sembra aver deciso di provare (almeno in apparenza) a chiudere la partita, attesta di una connivenza tra intelligence pachistana e forze estremiste in cui non si riesce nemmeno più a capire «chi è il pupo e chi è il puparo». Per i vertici dell’Isi, che hanno foraggiato prima i talebani e poi il loro regime anche in chiave anti-iraniana, qualunque coinvolgimento dell’Iran in un’intesa sulla sicurezza regionale che avesse il nulla osta americano significherebbe la vanificazione di decenni di sforzi. La strategia perseguita e attuata dall’Isi si era fin qui tradotta in un gioco estremamente rischioso: da un lato partecipare, svogliatamente, alla lotta contro i talebani in Afghanistan; dall’altro mantenere i contatti con la galassia che si riconosce nel Mullah Omar, per lasciar intendere di essere gli unici a poter intraprendere i passi esplorativi preliminari necessari per la cosiddetta «soluzione politica» del puzzle afgano. Ora, il rischio di un ballottaggio e quello della ricerca di una possibile soluzione della questione nucleare iraniana, che preveda un accordo complessivo sulla sicurezza regionale con l’Iran in veste di comprimario, sembrano sommarsi e mandare a monte l’intero disegno. Come che sia, quella tra il probabile annuncio del ballottaggio afgano e l’attentato nel Beluchistan iraniano sembra essere qualcosa di più di una straordinaria coincidenza temporale. Il fatto è che, come molti altri, i servizi pachistani sembrano non credere che la comunità internazionale voglia e possa davvero bloccare la corsa nucleare di Teheran, per cui sabotare qualunque ipotesi di riavvicinamento tra Usa e Iran resta la sola ipotesi realisticamente, e pericolosamente, percorribile. da lastampa.it Titolo: VITTORIO EMANUELE PARSI - I pericoli del fronte dimenticato Inserito da: Admin - Ottobre 26, 2009, 11:03:36 am 26/10/2009
I pericoli del fronte dimenticato VITTORIO EMANUELE PARSI Il mostruoso duplice attentato che ieri a Baghdad ha causato oltre 130 morti e 500 feriti può essere interpretato attraverso due chiavi di lettura complementari. Un’interpretazione è più concentrata sulle dinamiche interne irachene, l’altra più attenta al dato regionale. Dal punto di vista interno, occorre sottolineare che a Baghdad la sicurezza è così peggiorata da arrivare vicino all’ordinaria contabilità del terrore precedente il «surge» del generale Petraeus. La tensione tra sciiti e sunniti è ormai oltre il livello di guardia, con sparizioni, omicidi e «piccoli attentati» pressoché quotidiani. Il governo di Al Maliki resta in una condizione di debolezza estrema e la prossimità della scadenza elettorale spinge tutti i suoi oppositori a impiegare qualunque mezzo per fare sì che l’appuntamento per le elezioni parlamentari (il 16 gennaio) coincida con il licenziamento di Al Maliki. Significativamente l’attentato di ieri ha preceduto di poche ore un importante incontro tra i diversi leader iracheni, che avrebbe dovuto arrivare a un accordo in extremis sulla riforma elettorale, scongiurando così il pericolo di un rinvio delle elezioni. La cronica litigiosità dei protagonisti del circuito politico ufficiale del Paese offre infatti enorme spazio di manovra sia agli irriducibili saddamisti sia, soprattutto, alle cellule di Al Qaeda, che si sono andate riorganizzando in seguito alla sostanziale diminuzione della pressione militare americana in Iraq, che non è stata compensata da un miglioramento delle capacità di intelligence e difensive del nuovo Stato iracheno. A quasi sette anni dall'invasione che portò al crollo del regime di Saddam Hussein, nonostante lo sforzo militare profuso e a prescindere dalle somme promesse e (talvolta) elargite per rimettere in piedi le istituzioni irachene, la situazione resta ampiamente insoddisfacente. Se allarghiamo lo sguardo all'intera regione mediorientale, poi, è impossibile non constatare come nessuna delle crisi che si sono aperte o aggravate in conseguenza dell’11 settembre 2001 è stata avviata a soluzione. La strage di ieri ha costretto tutti a tornare a interrogarsi sul futuro dell’Iraq; ma le notizie che quotidianamente giungono dall’Afghanistan non sono certo più incoraggianti, con la prospettiva di un ballottaggio presidenziale che paralizzerà ulteriormente il già diviso esecutivo afghano, a meno che un’improbabile governo di unità nazionale non riesca a scongiurarlo. Anche a causa del protrarsi del conflitto afghano, la situazione pachistana rimane senza grandi prospettive positive di evoluzione e non pare neppure che la trattativa sul nucleare iraniano registri significativi progressi. In sostanza, mentre i nuovi fronti di tensione si moltiplicano, non si riesce a chiuderne nessuno di quelli aperti da più tempo. La crisi politico-istituzionale in Libano continua a peggiorare pericolosamente, e persino le modalità con cui si cerca di tamponarla (si pensi al relativo disallineamento del maronita Michel Aoun rispetto agli alleati sciiti di Hezbollah) potrebbe finire col surriscaldare il clima politico. A Gaza, infine, non sembra proprio che la presa di Hamas sulla stremata popolazione palestinese (ma chi ne parla più?) si stia allentando. Il paradosso è che gli Stati Uniti non sono mai stati così pesantemente e direttamente presenti in Medio Oriente come negli ultimi nove anni, eppure non sono mai apparsi così lontani dall'assicurare una stabilità soddisfacente all’intera area. Era assai maggiore la capacità americana di condizionare l’ordine mediorientale quando questa era esercitata off shore - politicamente e militarmente, attraverso gli inviati speciali e le portaerei stazionate nel Mediterraneo, nel Golfo Persico e nell’Oceano Indiano - di quanto non sia oggi, che si può avvalere di divisioni corazzate e proconsoli. Se l’intervento politico-militare diretto non ha portato i frutti che gli Usa speravano, è però evidente che tornare semplicemente alla situazione precedente, ritirandosi dall’intero scacchiere, è di fatto impossibile. Allo stesso tempo l’America non può permettersi (e neppure l’Europa, per la verità) di abbandonare l’Afghanistan al suo destino, di lasciare che l’Iran raggiunga lo status di grande potenza regionale «in cambio di niente», o che l’Iraq precipiti in una situazione tipo Libano 1980. L'equazione «ritiro dall’Iraq e maggior coinvolgimento in Afghanistan», così elegantemente sostenuta da Barack Obama durante la campagna elettorale, efficace anche per la sua semplicità, potrebbe risultare semplicistica, così da costringere le teste d’uovo dell'amministrazione democratica a concepire una nuova vision americana per il Medio Oriente: diversa e, auspicabilmente, più efficace di quella partorita dai neocons di George W. Bush, ma non per questo meno articolata e meno ambiziosa. da lastampa.it Titolo: VITTORIO EMANUELE PARSI - Obama e i rischi di un Afghanistan senza strategie Inserito da: Admin - Novembre 02, 2009, 10:35:57 am 2/11/2009
Obama e i rischi di un Afghanistan senza strategie VITTORIO EMANUELE PARSI Lal Mohammed è il nome del contadino afghano a cui i talebani mozzarono naso e orecchie, come punizione per essere andato a votare al primo turno delle elezioni presidenziali. La sua vicenda commosse, per un breve momento sia chiaro, l'opinione pubblica del mondo. Il suo cocciuto coraggio sembra simboleggiare la forza degli umili, che sta nel numero ma anche nella dignità individuale, capace di prevalere persino sulla ferocia dei violenti e sull'arroganza dei potenti. Ora sappiamo che il suo sacrificio non è servito a nulla. Il ministro degli Esteri Abdullah Abdullah ha definitivamente rotto gli indugi e dichiarato che non parteciperà al ballottaggio, per timore di ulteriori brogli. Il paradosso è che, a rigore di Costituzione afghana, il ballottaggio dovrebbe tenersi comunque, sulla pelle dei tanti Lal Mohammed, altrimenti il presidente in carica Ahmid Karzai - il cui fratello è accusato di essere, contemporaneamente, un narcotrafficante e sul libro paga della Cia - potrebbe perdere la già scarsissima legittimità di cui gode. Buon primo anno alla Casa Bianca, Mr President!, verrebbe da dire… Certo è che la situazione dell'area sfiora ormai il disastro, e non sembra che la Casa Bianca abbia per le mani chissà quali idee. In queste condizioni, i 40.000 rinforzi (forse) promessi al generale McCrystall rischiano di essere allo sbaraglio. D'altra parte, senza questi e altri rinforzi, le truppe già presenti sul territorio possono rappresentare poco più che bersagli per gli attacchi dei talebani e dei qaedisti. Con il precipitare della situazione istituzionale afghana, si palesa sempre più che la tanto auspicata «soluzione politica» del pasticcio afghano potrebbe essere persino più chimerica della soluzione militare. A Washington si direbbe che siano paralizzati. L'idea di villaggi protetti dalle truppe locali sostenute da militari Usa somiglia maledettamente alla riedizione dell'incubo vietnamita disegnato dal team Johnson-Westmoreland (il comandante delle truppe Usa in Indocina). La semplice destituzione di Karzai, sempre ammesso che si trovi con chi rimpiazzarlo, ricorda troppo da vicino la strada che portò l'Armata Rossa alla sconfitta. In queste condizioni, comunque, è giunto il momento che la Casa Bianca decida senza altri indugi il da farsi, anche a costo di «commissionare» Karzai, affidando la «dittatura temporanea» a McCrystall. E’ una strategia politicamente scorretta, non c'è dubbio, e molto, molto rischiosa; ma è sempre meglio della «non-strategia» fin qui messa in campo. E' infatti semplicemente assurdo e dilettantesco che l'orizzonte in cui agisce chi offre il maggior contributo al tentativo di mettere in sicurezza il Paese (le truppe americane e quelle della coalizione) debba essere determinato, continuamente cambiato e ulteriormente complicato dalle faide interne a una coalizione tanto corrotta quanto sgangherata, dai pasticci di un'improponibile Commissione elettorale indipendente, dalle solite chiacchiere di principio dei funzionari Onu. Se la Casa Bianca non è disposta a dare uno strattone alla cavezza di Karzai e soci, tanto vale che si inizino i colloqui tra i Paesi membri della coalizione per andarcene di lì il più rapidamente possibile, «sperando» che l'Afghanistan resti terra di nessuno per molti anni a venire, e non diventi subito e di nuovo il rifugio esclusivo e sicuro di Al Qaeda e dei talebani. Ma questa è forse la scelta più difficile per Obama. Per quanto il Presidente cerchi di girarci intorno, quella afghana è «la guerra di Obama». O per lo meno lo è diventata, da quando sulla distinzione tra fronte afghano e fronte iracheno l'allora candidato Barack convinse gli elettori di avere la stoffa del «Commander in Chief». da lastampa.it Titolo: VITTORIO EMANUELE PARSI - La prova di forza Inserito da: Admin - Dicembre 06, 2009, 11:20:10 am 30/11/2009
La prova di forza VITTORIO EMANUELE PARSI Ora che in sede Aiea Russia e Cina hanno aderito alla linea dura occidentale nei confronti dell’Iran (chiudere il sito nucleare di Qom), la prospettiva di un rafforzamento delle sanzioni verso il regime iraniano si fa più probabile, anche se non necessariamente certa. Molto dipenderà infatti dall’atteggiamento di Pechino, ammesso e non concesso che Mosca mantenga ferma la sua posizione anche in Consiglio di Sicurezza Onu. Proprio una simile eventualità lascerebbe Pechino di fronte a un delicato dilemma o, più prosaicamente, con il classico cerino in mano. Consentire che siano adottate sanzioni nei confronti di Teheran, tanto più se queste dovessero prima o poi toccare il settore degli idrocarburi, sarebbe estremamente doloroso per Pechino. Alla Cina sempre più assetata di energia fanno decisamente gola il gas e il petrolio iraniani. Pechino ha recentemente firmato un contratto cinquantennale con l’Iran per la fornitura di gas e guarda con favore alla realizzazione del «gasdotto dell’amicizia», che collegherebbe Iran, Pakistan e India, che auspica possa essere successivamente esteso allo Xiang. Non solo. La Cina si sta muovendo con vigore in tutta l’Asia centrale: a iniziare dai Paesi Sco (Uzbekistan e Kazakistan soprattutto), che costituiscono consistenti mercati di sbocco dei propri prodotti commerciali, per finire con lo stesso Afghanistan, dove sta realizzando discreti ma importanti investimenti. D’altra parte, se Mosca dovesse mantenere l’allineamento con l’Occidente, e Pechino decidesse invece di sfilarsi, minacciando più o meno esplicitamente l’impiego del suo diritto di veto contro un eventuale inasprimento delle sanzioni a Teheran, la Cina si ritroverebbe di fatto isolata. Cioè proprio in quella posizione che ha accuratamente cercato di evitare negli ultimi trent’anni di accorta politica estera (cioè dai tempi della svolta di Deng). Qualcuno forse ricorderà che, persino in occasione della guerra del Kosovo, i cinesi furono abilissimi nel mettere insieme in Consiglio di Sicurezza una coalizione ostile al conflitto che comprendeva Brasile e India, che mentre evitava a Pechino di esporsi in maniera solitaria impediva comunque che la questione di una copertura Onu alla guerra della Nato potesse neppure approdare all’ordine del giorno. In questo caso, oltretutto, Pechino potrebbe veder vanificati anni di lavoro volti ad accreditare la Cina come un responsabile membro della comunità internazionale, e proprio su una questione, come quella della proliferazione nucleare, decisiva per la sopravvivenza non meramente retorica del concetto stesso di comunità internazionale. Sarebbe un risultato paradossale, tanto più che Pechino ha un interesse anche «individuale» alla tenuta del trattato di non proliferazione. Tutte le sue violazioni, acclarate o sospette, realizzate o in fieri (Israele, India, Pakistan, Nord Corea e Iran), hanno infatti riguardato l’Asia, cioè la regione «di casa» della Cina. Il rischio che un’eventuale sfida iraniana rilanci quella nordcoreana, con effetti a catena sul quadro regionale (dalla Corea del Sud al Giappone), rappresenterebbe un serio ostacolo alle ambizioni di Pechino di legittimare il proprio ruolo crescente in Asia e nel sistema internazionale, costringendola per di più a distrarre attenzione e risorse dagli assi strategici della politica estera ed economica. Infine, Hu è consapevole di dover concedere qualcosa di concreto a Obama, se vuole favorirne il ruolo di possibile mediatore tra Europa e Cina sulle questioni climatiche, altrimenti il sogno del G2 rischia di trasformarsi in un miraggio prima ancora di aver preso concretamente vita. Ma sarebbero efficaci nuove sanzioni per convincere l’Iran a più miti consigli? Dipende. Per il momento Ahmadinejad procede con le sue pericolose smargiassate, minacciando di aprire altri 10 nuovi siti, di incrementare dal 3,5% al 20% l’arricchimento dell’uranio iraniano, e di cessare ogni «collaborazione» con la Aiea. Al di là della sicurezza esibita, però, probabilmente inizia a rendersi conto dell’occasione che si è lasciato sfuggire rifiutando l’ultima proposta del sestetto, che avrebbe consentito di salvare la faccia a tutti, all’Iran e alle grandi potenze, con un compromesso che, comunque, avrebbe costituito la tacita accettazione internazionale della svolta autoritaria in politica interna imposta al regime degli ayatollah dal presidente iraniano. Ora Ahmadinejad si trova di fronte a un diktat che, comunque decida di rispondere, sia che si pieghi sia che tenga duro, potrebbe indebolirlo, dando spazio e fiato all’opposizione interna. Non tanto quella delle piazze e dell’«Onda verde», quanto a quella tecnocratica e dei bazarì che si raccoglie intorno a Rafsanjani: cioè proprio quella più pericolosa per lui. da lastampa.it Titolo: VITTORIO EMANUELE PARSI - Iran, si stringe la strada del negoziato Inserito da: Admin - Dicembre 29, 2009, 11:05:57 am 29/12/2009
Iran, si stringe la strada del negoziato VITTORIO EMANUELE PARSI Sarebbe già più che sufficiente l'amore per la libertà a spingerci idealmente accanto ai giovani che a Teheran e in tante altre città iraniane sfidano la violenza tutt’altro che cieca delle squadracce di Ahmadinejad e Khamenei, la triste diarchia che dal golpe bianco della scorsa estate si è impossessata del potere assoluto nella Repubblica islamica. Ma occorre dire che dalla vittoria dell’onda verde, di questo straordinario movimento acefalo, dipendono sempre più anche le residue chances che alla questione del nucleare iraniano possa essere trovata una soluzione insieme accettabile per tutte le parti ed efficace nella sostanza. Qualcuno ricorderà che alcuni anni orsono, a Washington, si erano inventati l'espressione «fascismo islamico», per raccogliere sotto un'unica etichetta le diverse forme politiche assunte dall’islamismo radicale. La cosa era risultata immediatamente controversa, un'operazione grossolana che aveva suscitato scalpore e risentimento non solo nel mondo musulmano, al punto di finire presto vittima del fuoco di fila del «politicamente coretto». Eppure, riguardo alla deriva del regime iraniano, con il suo sistematico uso della violenza squadrista, poche altre locuzioni apparirebbero oggi altrettanto appropriate per indicare non un insieme di fenomeni più o meno simili, ma il caso peculiare dell'Iran di questi mesi. A lungo in bilico tra timidi tentativi di autoriforma e svolte sempre più autoritarie, in cui persino i labili freni posti all'arbitrio del potere da parte della Costituzione islamica vengono travolti, il regime di Teheran sembra aver imboccato la via di un’ulteriore spinta verso un totalitarismo di tipo nuovo. A rappresentare l'ultima fragile, valorosa barriera per evitare che questo passaggio irrimediabilmente si compia, stanno - soli - gli studenti, i giovani e le donne, che da mesi riempiono le strade e le piazze della capitale, di Isfahan, di Shiraz, e contro cui si abbatte sempre più brutale la repressione del regime. Se falliranno, se Ahmadinejad e Khamenei prevarranno, nulla potrà più arrestare la completa mutazione del regime. Nelle cancellerie occidentali la consapevolezza di tutto ciò sta crescendo, insieme alla certezza che, qualora il regime dovesse trionfare, verranno meno anche le residue, esili speranze di poter trovare qualunque soluzione alla questione del nucleare iraniano. Da quando Khamenei ha deciso di appoggiare il golpe bianco di Ahmadinejad, infatti, le posizioni negoziali iraniane si sono, se possibile, ulteriormente irrigidite e, soprattutto, sono state accompagnate da una serie di atti concreti e calcolate provocazioni, tutte governate dalla strategia del fatto compiuto: dalla sperimentazione di missili a lunga gittata all'apertura di un nuovo sito a Qom, alla messa in funzione di centinaia e centinaia di centrifughe, all’annuncio della prossima apertura di un numero non precisato di ulteriori impianti. Lo scippo delle elezioni e i torbidi che ne sono seguiti hanno reso evidente come l'ipotesi di un avvicendamento per via costituzionale del gruppo di potere e interessi di cui Ahmadinejad e Khamenei sono espressione, semplicemente non esista più. Paradossalmente, è oggi meno irrealistico puntare su un crollo (dall'interno) del regime degli ayatollah che su una sua trasformazione in senso «moderato». E questo ha implicazioni anche su tutta la vicenda del nucleare di Teheran. Se Khamenei e Ahmadinejad dovessero prevalere, infatti, il regime avrà completato la sua trasformazione interna e, ancor più di prima, si sarà autocollocato in una posizione di volontario «autismo internazionale», che lo renderà sempre meno sensibile alle pressioni esterne e sempre più incline a giocare la carta della «Patria in pericolo», per raccogliere intorno a sé il consenso degli indecisi e poter dipingere gli oppositori come «servi dello straniero». Chi, nel nome del realismo politico, della prudenza diplomatica e del tornaconto economico, invita «a non bruciare tutti i ponti con il regime», dimentica che i ponti con l'esterno, questo regime, li sta sistematicamente bruciando dalla scorsa estate, e che solo la sua sconfitta dall'interno - che forse non sarà vicina ma che appare oggi meno chimerica di cinque mesi fa - può evitare che l'Iran si trasformi in una pericolosissima Corea del Nord del Medio Oriente. E solo questa preoccupazione dovrebbe guidare le nostre azioni, per quanto caute, prudenti e discrete dovranno essere. da lastampa.it Titolo: VITTORIO EMANUELE PARSI - Haiti, sfida per Obama Inserito da: Admin - Gennaio 22, 2010, 09:33:25 am 22/1/2010
Haiti, sfida per Obama VITTORIO EMANUELE PARSI Che cosa succederà «dopo», quando la fase acuta delle prime settimane di emergenza umanitaria sarà alle spalle, lasciando dietro di sé un Paese devastato economicamente, socialmente e politicamente? Haiti era notoriamente uno Stato fallito ben prima della catastrofe di nove giorni fa, benché convenisse a tutti far finta che il governo del presidente René Preval esercitasse un’effettiva autorità sull’isola. A mano a mano che la polvere si posa sulle rovine e sui morti, diventa però sempre più difficile che la finzione possa continuare e ancor meno probabile che la popolazione locale sia disposta a riconoscere una qualche legittimità alle istituzioni della Repubblica caraibica, schiantate dal terremoto insieme con le vite dei cittadini di Port-au-Prince e le loro povere cose. Al di là delle forme che si riusciranno a individuare, Haiti necessita di una assunzione in carico da parte della comunità internazionale, per un tempo che sarà tutto fuorché breve. Ancorché tra le cause immediate del dissesto haitiano (e men che meno tra quelle del terremoto) non sia da annoverare una guerra civile, l’occupazione da parte di una potenza straniera, la pulizia etnica o il fanatismo religioso, quello che si prospetta per il Paese è un intervento dal respiro, dalla durata e dalla consistenza di quelli messi in atto in Bosnia, a Timor Est, in Kosovo e in Afghanistan. Sempre che non si voglia lasciar scivolare il popolo haitiano in un girone dantesco analogo a quello somalo. Si tratta di una sfida per tutta la comunità internazionale, che deve riuscire a dar prova di saper intervenire nel nome dell’interesse generale dell’umanità, accantonando inaccettabili rivalità nazionali. Ed è un banco di prova per chiunque ritenga che, mentre occorre continuare a fronteggiare le minacce alla sicurezza e all’ordine internazionale di tipo «classico», proprio cominciando dalla devastata Haiti sia possibile posare la prima pietra per edificare un mondo diverso e migliore. Al di là della ovvia e immediata drammaticità che caratterizza l’emergenza haitiana, essa interpella le capacità del mondo di andare oltre le chiacchiere e le buone intenzioni sul tema della global governance, tanto quanto lo fanno il riscaldamento globale, il depauperamento delle acque, o lo sterminio per fame. Se questo è vero per tutti i membri della società internazionale, lo è un po’ di più per gli Stati Uniti e per il loro presidente, Barack Obama. Di tale società e del suo ordine, gli Usa sono da oltre 60 anni i maggiori azionisti e i principali garanti, e hanno visto crescere il loro ruolo con il tramonto del sistema bipolare. Nei confronti dell’emisfero occidentale, poi, è dai tempi della «Dottrina Monroe» (1823) che gli Stati Uniti hanno prima rivendicato e poi esercitato un’influenza a lungo esclusiva, e ancora oggi preponderante. Per quanto Haiti sia il tipo di vicino che gli americani preferirebbero non avere nel proprio «backyard», i ripetuti interventi militari nell’isola (1891, 1994, 2004-2005) e una quasi ventennale occupazione (1914-1934), rendono testimonianza di come essa abbia rappresentato e seguiti a rappresentare anche una questione di «interesse nazionale» per Washington: ieri per conservare i proventi delle sua piantagioni, oggi per evitare che flussi di esuli dalle dimensioni bibliche si abbattano sulla Florida. A un anno dal suo insediamento e a poche settimane dalla consegna di un premio Nobel per la pace che ha sollevato più di una polemica, il presidente Obama si trova a dover dimostrare che le speranze e le aspettative evocate dalla sua brillante retorica possono trovare concreta applicazione. E deve farlo in un momento in cui il suo astro appare appannato all’interno degli Stati Uniti, dopo lo «smacco» subito in Massachusetts e con un’America profonda preoccupata per una crisi e una disoccupazione che non mollano, dove tornano a cantare le sirene di un anacronistico neo-isolazionismo. Se gli Usa non riusciranno a esercitare una leadership efficace in questa crisi, vincendo anche i sospetti e le critiche che già in questi giorni cominciano a serpeggiare, il prestigio del presidente e lo stesso «soft power» americano potrebbero infatti risultarne appannati. Qualche giorno fa, a Kabul, i talebani hanno ricordato a tutti che il vecchio mondo continua, richiamando con brutalità il presidente al suo ruolo di Commander in Chief e alla sua capacità di chiudere i conti con il passato. Nei prossimi mesi, a Port-au-Prince, Obama dovrà raccogliere concretamente una sfida cruciale per il futuro di tutti, a partire dagli «ultimi»: porre la leadership americana al servizio di un nuovo modello di governance davvero globale. da lastampa.it Titolo: VITTORIO EMANUELE PARSI - Il fardello dell'amicizia con Teheran Inserito da: Admin - Febbraio 02, 2010, 02:13:18 pm 2/2/2010
Il fardello dell'amicizia con Teheran VITTORIO EMANUELE PARSI La geografia non fa sconti, e il Levante è davvero sulla soglia di casa dell'Italia. Quando il vicepremier israeliano definisce gli italiani «i migliori vicini di Israele» ci ricorda implicitamente che la nostra politica verso il Medio Oriente, diversamente da quella dell'Olanda o della Gran Bretagna, non può prescindere da questo dato. Una politica di vicinato non costringe a fare certe scelte a scapito di altre, ma impone un’attenta ponderazione di ogni singolo atto e di ogni singola dichiarazione. Questo è vero sempre. Lo è a maggior ragione per un'area come il Medio Oriente e per quel che riguarda il diritto di israeliani e palestinesi a vivere in pace e sicurezza. Per molti decenni la politica mediorientale dell’Italia è stata orientata dal concetto di equidistanza: ha cercato di mantenere gli ottimi rapporti (d'affari e non) con il mondo arabo senza venir meno ai sentimenti di solidarietà verso Israele e il popolo ebraico. A chi obiettava che questa linea di comportamento finiva con l'essere troppo spesso concretamente sbilanciata a favore del mondo arabo e islamico, compresi quei governi più intransigenti nel rifiutare lo stesso diritto all'esistenza di Israele, veniva spesso risposto che era la geografia. Che era la necessità di buon vicinato, a dettare una prudenza così simile all’ignavia. Con l'avvento di Berlusconi, le cose sono decisamente cambiate, e l'11 settembre e il sostegno politico alla guerra contro Saddam Hussein hanno contribuito a collocare progressivamente l'Italia tra gli amici di Israele. Del mutamento dei rapporti tra i due Paesi, non c'è forse indicatore più esplicito della richiesta, avanzata alcune settimane fa dal governo israeliano, di prolungare il periodo di comando italiano della missione Unifil 2. Si tratta del riconoscimento che l'azione di Unifil 2, di cui l'Italia fu prima promotrice con il governo Prodi, è ritenuta da Israele un utile contributo per la propria sicurezza. Non stupisce quindi né che lo stato delle relazioni dei due Paesi sia così eccellente, né che gli israeliani riconoscano a Berlusconi di aver contribuito a imprimere una svolta alla politica mediorientale dell'Italia, che ha finito con l'impegnare anche i governi di centrosinistra. Quando Berlusconi parla di «Israele nell'Unione Europea», rispolverando una vecchia idea del partito radicale, va oltre l'espressione del sentimento di amicizia per lo Stato ebraico, ed esplicita l'idea di una vera e propria alleanza, così forte e convinta da poter dar vita a una comune unità politica, basata sulla condivisione dei valori e delle istituzioni democratiche, oltre che sul richiamo alle «radici giudaico-cristiane della nostra civiltà». Al di là della scarsa praticabilità di una simile opzione, occorre chiedersi se sarebbe nell'interesse israeliano una simile prospettiva, che faciliterebbe le accuse di «estraneità e artificialità» rivolte alla presenza di Israele nella regione dai suoi più acerrimi nemici. Tra questi ultimi, una posizione privilegiata spetta all'Iran, uno dei nostri migliori partner commerciali, con il cui governo l'Italia ha mantenuto sempre buoni rapporti. Fin quando l'Iraq di Saddam ne conteneva le mire egemoniche, e fin quando l'Italia perseguiva la politica dell'equidistanza, l'ingombro delle ottime relazioni italo-iraniane era tutto sommato tollerabile. Ma oggi, l'Iran ha un'influenza infinitamente maggiore sul Levante, e rappresenta una minaccia crescente per la sicurezza di Israele, oltre che per l'ordine regionale, il fardello di questa amicizia si fa sempre più pesante, e diventa addirittura insostenibile, se le parole di amicizia di Roma verso Tel Aviv vogliono essere prese sul serio. Non è un caso che il vicepremier israeliano chieda oggi agli italiani quello che si chiede agli amici. Ci invita alla coerenza e, piuttosto che filosofeggiare una futura casa comune, ci chiede un aiuto ora nel difendere la propria casa: cioè ci chiede di far seguire, alle parole, i fatti. da lastampa.it Titolo: VITTORIO EMANUELE PARSI - Il costo della fermezza Inserito da: Admin - Febbraio 13, 2010, 05:29:07 pm 10/2/2010
Il costo della fermezza VITTORIO EMANUELE PARSI Non c’è mai da star troppo tranquilli quando degli «studenti» iraniani prendono di mira un’ambasciata occidentale a Teheran. Il ricordo non può non tornare al ben più drammatico assalto del 1979 alla legazione americana, proprio agli albori di quella rivoluzione di cui domani ricorre il 31° anniversario. Questa volta, a differenza di quanto accadde allora, le manifestazioni ostili non hanno portato a nessuna occupazione e a nessuna presa di ostaggi. Seppur tardivamente la polizia è intervenuta a «disperdere» i manifestanti, che più di un indizio fa ritenere fossero basiji, le stesse squadracce di miliziani utilizzate in questi mesi dal regime contro gli studenti dell’«onda verde». Lo stato delle relazioni tra Roma e Teheran, per tanti anni così buono da suscitare se non scandalo per lo meno imbarazzo presso altre più intransigenti cancellerie occidentali, è precipitato in pochi giorni, e difficilmente tornerà a volgere al sereno. Durante la sua visita a Gerusalemme era stato lo stesso premier italiano a dare un chiaro segnale che la musica stesse cambiando. Alla difesa a spada tratta del diritto alla sicurezza per Israele, Berlusconi aveva accompagnato l’appello alla comunità internazionale affinché adottasse dure sanzioni contro l'Iran, ed era giunto a rivendicare il dovere morale delle democrazie di sostenere l’opposizione iraniana. Contenuti così forti, proclamati con quei toni davanti alla Knesset, era difficile che potessero non incontrare una violenta risposta da parte iraniana. E infatti così è successo, in un crescendo di toni che ha visto prima intervenire la tv di Stato, poi la Guida Suprema, che ha promesso ceffoni all’Occidente in occasione della ricorrenza della Rivoluzione, quindi il suo sodale Ahmadinejad, che ha annunciato l’avvio del processo di ulteriore arricchimento dell’uranio, per culminare nell’espressione pubblica della «spontanea indignazione popolare». Con l’ultimo, veramente obliquo e di stampo gangsteristico, la gamma degli avvertimenti sembra, per adesso, completata. Staremo a vedere; nel frattempo l’Eni si è detto pronto a seguire le indicazioni del governo, ridimensionando il valore dei propri contratti in loco, e anche questo lascia ritenere che Roma abbia deciso di abbandonare ogni possibile ambiguità nelle relazioni con Teheran. Per un Paese che cerca di ritagliarsi un proprio ruolo internazionale, innanzitutto nel Levante e più in generale nel Mediterraneo, il peso dei buoni rapporti con Teheran era diventato insostenibile, tanto più che Roma vanta, secondo alcuni critici, rapporti fin troppo cordiali anche con Mosca. Ma se la rilevanza della Russia di Putin e Medvedev può giustificare la scelta di far innervosire Washington, non avrebbe avuto senso seguitare ad applicare la stessa filosofia con l’Iran. Del resto, quello di Khamenei e Ahmadinejad è ormai un regime totalmente screditato, che solo uno sciocco potrebbe sperare di riuscire a condizionare o indurre a più miti consigli attraverso il dialogo e le profferte di amicizia. Persino i cinesi, che si oppongono a un inasprimento delle sanzioni per ragioni meramente opportunistiche, non credono a una tale prospettiva. E non è detto che a Pechino non inizino a domandarsi se valga la pena rischiare di finire essi stessi isolati sulla vicenda iraniana. Se non può farlo la piccola Italia, a maggior ragione una potenza emergente come la Cina, che rivendica un ruolo globale, non può permettersi di apparire l’ultima degli opportunisti... La violenza e la scompostezza delle reazioni iraniane alle mosse italiane segnalano quanto queste brucino, e come la prospettiva di una totale solitudine sia temuta a Teheran più di quanto siano disposti ad ammettere. Ora è possibile che qualcuno accusi Silvio Berlusconi di aver agito sventatamente. Ma in questo caso l’accusa apparirebbe capziosa. Come ha ricordato il ministro degli Esteri Frattini, l’Iran ha problemi con il mondo e non con l’Italia o con il governo Berlusconi. Quest’ultimo ci pare abbia invece semplicemente fatto una scelta che non vanificasse l’azione che l’Italia ha responsabilmente deciso di svolgere in Libano e Afghanistan: fare la propria parte per contribuire alla sicurezza regionale e internazionale. Si tratta di una scelta di coerenza, costosa e non indolore, ma non per questo meno necessaria o apprezzabile. da lastampa.it Titolo: VITTORIO EMANUELE PARSI La cultura in prigione Inserito da: Admin - Marzo 03, 2010, 11:25:20 am 3/3/2010
La cultura in prigione VITTORIO EMANUELE PARSI Dei Paesi del «Greater Middle East», e dell’Asia occidentale in generale, l’Iran è uno dei pochi che possa vantare una vera società civile. La sua vitalità l'abbiamo vista all'opera (ma meglio sarebbe dire "intravista", considerata la strenua azione censoria del regime) durante i mesi di manifestazioni che hanno preceduto e seguito le elezioni farsa dell'estate scorsa. Ad alimentarla e sostenerla, ben più che l'improbabile leadership di qualche improvvisato politico pseudo-riformista, ha contribuito una classe intellettuale tanto articolata, radicata e cosmopolita quanto la cricca al potere a Teheran è sempre più monolitica, autoreferenziale e gretta. Gli intellettuali, con i loro rapporti internazionali e le loro conoscenze del mondo e nel mondo costituiscono la vera rete capillare di oppositori sistematici al regime e alla sua degenerazione sempre più evidentemente totalitaria. Sono gli alimentatori della speranza e della prospettiva che l'Iran non finisca chiuso in quel nero sudario che Khamenei e Ahmadinejad tessono per un Paese e un popolo dalla storia antica e dalla cultura raffinatissima, che anela a un futuro all'altezza del suo grande passato. Sono coloro i quali ancora impediscono che un popolo e un Paese non siano ridotti a trascinare l'esistenza in un eterno presente claustrofobico. Sono quelli a cui i giovani e le ragazze di Teheran guardano, alle cui idee si nutrono, per ritemprarsi spiritualmente dalle bastonate che fiaccano i loro corpi. Cioè sono quelli di cui il regime ha più paura, quelli che devono essere soffocati, affinché nessuno possa anche solo sognare un cielo azzurro. L'arresto di Jafar Panahi, di sua figlia e dei suoi ospiti, nella sua casa, senza che nessuna delle persone tradotte in carcere abbia commesso la benché minima colpa, evoca gli scenari degenerati dell'impero ai tempi di Caligola, se non dell'Unione Sovietica di Stalin. E vien da chiedersi se questi tragici eventi troveranno un giorno i loro Tacito, o dei Salamov capaci di scrivere una versione iraniana dei «racconti della Kolyma». Il regime è conscio che l'opposizione politica è ben poca cosa. Ma altrettanto bene sa quale ruolo hanno svolto nelle rivoluzioni dell'Iran moderno gli intellettuali, compresa quella khomeinista del 1978-79. E così ha deciso di spegnerne la voce, e di mandare un segnale chiaro a tutta la società iraniana: nessuno si illuda di essere al sicuro, nessuno si senta protetto dall'aura della fama e del rispetto internazionale. In passato a Panahi era stato impedito di lasciare il Paese, per ritirare un premio cinematografico, partecipare a un dibattito, testimoniare la tetra situazione in cui versa l'Iran. Adesso la prigione, l'arresto completamente arbitrario, manifesta la trasformazione in senso sempre più apertamente totalitario del regime, in cui il terrore diventa lucido strumento di governo. Non è la prima volta che gli intellettuali iraniani vengono imprigionati a scopo intimidatorio e preventivo. Ma la sistematicità con cui questo sta avvenendo, unita alla violenza della repressione di ogni manifestazione di dissenso e alle impiccagioni degli oppositori, segna un'escalation, un salto qualitativo verso il baratro, verso l'abisso. E noi che cosa possiamo fare, quale contributo possiamo dare perché tanto coraggio non sia sprecato? Poco, ma non nulla. E' il momento che in Occidente, nelle nostre università, nelle nostre istituzioni culturali inizi una mobilitazione concreta, affinché sia offerta un'ospitalità discreta, quasi silenziosa, agli intellettuali iraniani. Invitiamo i nostri colleghi a partecipare ad attività di studio e ricerca e a periodi di soggiorno nei nostri atenei, affinché possano continuare a mantenere accesa la fiaccola della speranza e a restare menti e voci libere a disposizione del loro Paese. Non si tratta di prepararne l'esilio, ma di evitare che la claustrofobia ne spenga la vitalità e la tempra. Che possano ritemprarsi, per poter continuare a lottare e a rappresentare la speranza di un intero Paese, e la nostra, comune, nella libertà. da lastampa.it Titolo: VITTORIO EMANUELE PARSI - Il passato allontana Ankara dall'Europa Inserito da: Admin - Marzo 06, 2010, 11:32:15 am 6/3/2010
Il passato allontana Ankara dall'Europa VITTORIO EMANUELE PARSI Come era prevedibile, il governo turco ha reagito con la massima durezza al voto del Comitato Affari Esteri del Congresso degli Stati Uniti che invitava la Turchia a riconoscere che il massacro di centinaia di migliaia di armeni nel corso della Prima guerra mondiale costituì un vero e proprio genocidio, in tutto per tutto simile all’Olocausto perpetrato dal regime nazista alcuni decenni dopo. Ma come mai, a quasi un secolo di distanza da quei tragici eventi, compiuti per di più da un soggetto istituzionale (l’impero ottomano) diverso dall’attuale repubblica, le autorità di Ankara continuano a mantenere una posizione così rigida? La risposta è che il genocidio del popolo armeno è il più imbarazzante filo rosso che lega il tramonto dell’impero ottomano e la nascita della repubblica kemalista. Esso rispose infatti al disegno di «turanizzare» (turchizzare, ndr) l’impero, di sostituire alla precedente e ormai decadente fedeltà verso il sultano, una nuova, vigorosa lealtà verso una patria nazionale turca, tutta da costruire, da «inventare», come era accaduto per le altre nazioni affermatesi nel corso del secolo. Quel disegno intersecava e parzialmente dirottava l’ultimo disperato tentativo di riformare l’impero, sostenuto dai giovani turchi a partire dalla fine dell’800. La deriva nazionalistica del movimento riformatore aveva definitivamente preso il sopravvento dopo le guerre balcaniche del 1912 e del ’13, alimentata dalle stragi e dalle espulsioni forzate delle popolazioni musulmane nelle province europee fino a quel momento appartenute all’impero, perpetrate da greci, serbi e bulgari. A quelle efferatezze, che non avevano risparmiato gli ebrei di Salonicco, i turchi risposero con le prime espulsioni e le prime stragi degli armeni e dei greci dall’Anatolia. La pulizia etnica riprese vigore durante la guerra mondiale, raggiungendo l’apice con gli eventi del 1915. E si trattava di una pulizia tanto etnica quanto religiosa, esplicitamente e lucidamente perseguita dalla nuova classe dirigente dell’impero, che in parte cospicua transiterà poi nella nuova repubblica fondata da Mustafa Kemal, dopo la vittoriosa guerra contro la Grecia e le altre potenze occupanti. Lo stesso «laico» Kemal Atatürk, in realtà, riteneva che l’equazione tra «vero turco» e musulmano sunnita fosse perfettamente funzionale alla sua causa, e non a caso osteggiò tutte le altre fedi religiose (anche musulmane) e riservò all’islam sunnita una posizione privilegiata presso il ministero del Culto, con una visione del rapporto «Stato-Chiesa» molto più simile al modello inglese di Enrico VIII che a quello francese repubblicano, cui sovente è erroneamente accostato. Nel difendere le origini della Repubblica da un imbarazzante peccato originario, i nuovi signori di Ankara continuano a ritenere, sia pure da posizioni ben più «pie», che l’identità nazionale turca sia di fatto inscindibile da quella islamica e sunnita. E con questo fanno un ulteriore passo che allontana la Turchia da quell’approdo europeo che formalmente sostengono ancora di volere raggiungere. da lastampa.it Titolo: VITTORIO EMANUELE PARSI - Usa, passi falsi in Medio Oriente Inserito da: Admin - Marzo 23, 2010, 09:05:47 am 23/3/2010
Usa, passi falsi in Medio Oriente VITTORIO EMANUELE PARSI Speriamo che dai colloqui di Washington tra israeliani e americani esca qualcosa di buono, capace di rianimare un processo di pace in condizioni simili al Lazzaro del Vangelo di Giovanni. Barack Obama è uomo di grande qualità e straordinariamente tenace, come ben attesta lo storico successo ottenuto sulla riforma sanitaria. Ma quello dell’ordine mediorientale è un tema ugualmente intrattabile e dall’altrettanto storica portata, per affrontare il quale il Presidente degli Usa si troverà a condurre una battaglia persino più solitaria. Tra le tante politiche pubbliche, la politica estera è per definizione quella il cui successo non dipende totalmente dal governo che la elabora e la mette in opera, neppure quando si tratta della superpotenza americana. A farla naufragare o, meno drammaticamente, a procrastinarne e attenuarne gli effetti, non concorrono solo gli eventuali abbagli analitici, o le «resistenze» di avversari e rivali (che evidentemente giocano ognuno la propria partita), ma talvolta le mosse degli stessi alleati. L’inopportuna decisione israeliana di consentire nuovi insediamenti ebraici a Gerusalemme Est è tra queste. Mentre la condanniamo, occorre però riconoscere che essa è frutto di un’analisi convinta innanzitutto della debolezza della leadership e della crescente solitudine americana in Medio Oriente. La sensazione è che gli Usa stiano perdendo innanzitutto la presa sugli alleati nella regione: non solo gli israeliani, ma anche la Turchia (nonostante proprio da Ankara Obama avesse inaugurato il suo primo viaggio europeo) e persino l’Iraq, che è sempre più impaziente di liberarsi dei soldati di Petraeus. Se Netanyahu sfida così apertamente Obama, è perché sa che l’America non è in grado né di sanzionare seriamente Israele né di cambiare significativamente per il meglio l’orizzonte strategico in cui Israele vive. Da un lato, come dovette pubblicamente ribadire Hillary Clinton appena 48 ore dopo una dura sfuriata nei confronti delle autorità israeliane, «l’impegno americano a favore della sicurezza di Israele» prescinde da qualunque contingente divergenza di opinione, anche aspra (esempio di quello che gli arabi chiamano «doppio standard»). Dall’altro, l’amministrazione Obama non è riuscita a far rallentare di un solo giorno la prospettiva di un Iran nucleare, vero e proprio incubo della dirigenza israeliana. Anzi, l’aver trascurato di impegnare più frontalmente l’Iran sulla questione dei diritti umani e delle elezioni truccate a favore della sola issue nucleare ha finito col fornire a Mosca e Pechino uno spazio sempre maggiore in Medio Oriente, trasformandoli di fatto nei protettori degli ayatollah. Questo è lo scenario che contemplano anche gli arabi, che dopo il «discorso del Cairo» (tanto ispirato quanto audace) si aspettavano molto di più dal presidente Obama e che invece vedono gli «altri» (israeliani, iraniani e turchi) acquisire sempre più peso e autonomia a scapito loro. Serve un cambio di rotta rapido e incisivo, un segnale che «compensi» il ritiro delle truppe dall’Iraq e sia in grado di chiarire a tutti (alleati, avversari e neutrali) che gli Stati Uniti hanno intenzione di tornare a esercitare una leadership effettiva nel Medio Oriente. da lastampa.it Titolo: VITTORIO EMANUELE PARSI - Europa ai margini Inserito da: Admin - Aprile 07, 2010, 04:51:15 pm 7/4/2010
Europa ai margini VITTORIO EMANUELE PARSI Non a sufficienza per far felici i suoi sostenitori più liberal, ma abbastanza per consentire ai falchi di accusarlo di aver minato la credibilità strategica americana. Ma, soprattutto, un argomento spendibile nel prossimo summit antiproliferazione di Washington, che però rende ancora più complicati i rapporti con gli alleati della Nato. L’intervista che preannuncia la (quasi) rinuncia (non definitiva) al first strike atomico da parte americana fa sicuramente scalpore. Se non altro perché segna un altro passo verso la fine di un provvisorio «post-Guerra Fredda» che dura ormai da oltre 20 anni e indica come meno utopico l’obiettivo di un mondo libero dalle armi nucleari. In termini di dottrina difensiva degli Usa, ci dice che il Pentagono si appresta a prendere atto che coloro che vogliono e possono colpire il territorio americano con attacchi convenzionali, chimici e batteriologici non sono sensibili alla deterrenza nucleare. Fino ad ora, del resto, con l’eccezione di Pearl Harbor nel dicembre 1941 (che peraltro allora non era considerato propriamente territorio nazionale), solo Osama Bin Laden era riuscito nell’impresa di bombardare l'America. Ma, a onor del vero, va detto che non risulta che l’ipotesi di scatenare un attacco nucleare sull'Afghanistan sia stata presa in seria considerazione neppure da George W. Bush. Dal punto di vista delle minacce che possono giustificare politicamente ed eticamente una rappresaglia nucleare a un attacco non nucleare, diciamocelo con chiarezza, la situazione è decisamente cambiata con la fine dell’Urss. In questo nuovo mondo, persino le 1500 testate atomiche che Mosca e Washington si riservano di conservare bastano e avanzano per mantenere il rango e il prestigio di superpotenza nucleare. Senza considerare che, oggi, è proprio in campo «convenzionale» (se l’espressione ha ancora un senso), che gli Usa sono una spanna sopra gli altri. Per dirla con l’editorialista del New York Times Roger Cohen, d'altro canto, bisognerebbe chiedersi se, insieme alla Guerra Fredda, e a una sicurezza (efficacemente) garantita per circa 40 anni dalla prospettiva della mutua distruzione garantita, non sia ormai sparito anche il vecchio mondo transatlantico. Durante la Guerra Fredda, infatti, era proprio la minaccia che gli Stati Uniti avrebbero reagito con la rappresaglia atomica anche di fronte a un attacco convenzionale in Europa, a far star tranquilli gli europei e a tenere a bada i russi. Oggi sembra quasi che le parti si siano invertite e che, pur di conquistare Mosca alle sanzioni anti-iraniane, Washington sia disposta a tirare un'altra picconata a quel che resta di Transatlantia. È vero che pure l'Europa è sostanzialmente al sicuro da attacchi nucleari di sorta (Parigi ha più testate di Pechino e Londra segue a ruota i cinesi), ma il punto è che la garanzia nucleare strategica fornita dall'America è una delle poche cose che rende gli Usa ancora indispensabili e insostituibili per la sicurezza europea. Rinunciare al first strike nucleare, oltretutto senza aver prima consultato gli alleati, indebolisce l’Alleanza (un cui comitato di saggi, guidato da Madeleine Albright, aveva appena ribadito la necessità di mantenere anche armi nucleari tattiche in Europa), e non la rafforza; anche se può paradossalmente esaudire le aspirazioni del presente governo tedesco. In un bel commento sulla «Stampa» di ieri, Enzo Bettiza si interrogava su quale Russia fosse l'interlocutore dell’Occidente - quella di Putin o quella di Medvedev? - mentre sul «Corriere» André Glucksmann sottolineava come Berlino ballasse qualche giro di valzer di troppo con Mosca. Difficile credere che a Washington non se ne siano accorti. Più facile pensare che avessero in mente qualcosa di diverso dai rapporti transatlantici: e questa non è una buona notizia per l’Europa. Forse davvero il presidente Obama ha iniziato a porsi il problema di cercare il consenso con i leader del mondo e non solo quello dell’opinione pubblica, come sosteneva il «Washington Post» esattamente mercoledì scorso: il problema, per noi europei, è che, Obama sembra voler reagire al declino americano cercando di perseguire una nuova leadership globale, anche a costo di mettere a repentaglio l'idea stessa di Occidente. da lastampa.it Titolo: VITTORIO EMANUELE PARSI - Le zone grigie delle nuove guerre Inserito da: Admin - Aprile 14, 2010, 02:48:19 pm 14/4/2010
Le zone grigie delle nuove guerre VITTORIO EMANUELE PARSI Col tempo, forse, avremo tutti maggiori elementi per capire su quali basi si è fondata l’operazione che ha portato all’arresto degli operatori di Emergency nell’ospedale di Lashkar Gah. Va detto subito che due cose sono apparse da subito egualmente inverosimili: da un lato, l’accusa rivolta al personale italiano dell’ospedale di essere parte di un complotto volto ad assassinare il governatore afghano; dall’altro, l’ipotesi che il governo afghano o addirittura Isaf abbiano voluto costruire una trappola per togliersi dai piedi l’Ong di Gino Strada. Per quanto Emergency non abbia mai mostrato alcuna simpatia per il governo di Karzai e per le operazioni di peace keeping in generale, è difficile immaginare l’ospedale di Lashkar Gah trasformato in una cellula jihadista. D’altronde, Isaf ha ben altre magagne e ben altrimenti ingombranti testimoni di cui preoccuparsi, molto più potenti e soprattutto molto più conosciuti e strutturati internazionalmente rispetto ad Emergency. Restano per il momento aperte le ipotesi «minori», dal punto di vista mediatico-complottardo, e non necessariamente alternative: che Emergency abbia esercitato una vigilanza insufficiente su che cosa veniva introdotto nella sua struttura, e che il governatore regionale abbia deciso di intervenire in modo da far pagare alla Ong di Strada il conto per il ruolo, ritenuto non completamente chiaro, svolto nella pasticciata liberazione di Daniele Mastrogiacomo, conclusasi con il pagamento di un riscatto, il rilascio di alcuni capi terroristi e l’uccisione dell’interprete afghano del giornalista di Repubblica. Il caso di Emergency offre però l’opportunità di interrogarci su quanto sia ancora possibile, per gli operatori umanitari, far risaltare la propria terzietà, la propria neutralità rispetto alle posizioni dei combattenti, quando la forma che la guerra oggi prevalentemente assume è quelle della «guerra tra le gente», per ricorrere alla brillante espressione coniata dal generale inglese Rupert Smith. Per sperare di vincerle, sempre ammesso che sia possibile, queste guerre devono prevedere che qualunque intervento militare sia completato da una componente civile, che contribuisca alla «conquista del cuore e delle menti» della popolazione (lo diceva già Mao), gettando le premesse per la sconfitta anche politica del nemico. Così facendo, di necessità, i confini tra azione esclusivamente umanitaria e intervento politico-militare che contempli anche l’azione umanitaria sfumano nell’indeterminatezza. Diventa cioè quasi impossibile distinguere l’azione degli operatori umanitari da quella dei soldati e dai funzionari delle forze internazionali il cui fine ultimo, al di là delle modalità operative magari parzialmente coincidenti e persino delle intime motivazioni personali, non è quello di mitigare le sofferenze dei popoli coinvolti in un conflitto, ma di vincere, di sconfiggere il nemico, dove portare la popolazione neutrale dalla propria parte diventa l’arma decisiva del successo. Questi ultimi sono tutti scopi legittimi, in particolar modo quando coloro contro i quali si combatte si rendono responsabili di crimini odiosi, di atti terroristici o di violente e vigliacche discriminazioni, fondate sulle convinzioni, sulla razza, sulla religione o sul genere. Ma si tratta di scopi politici, che sono per loro essenza diversi da quelli umanitari, ai quali però gli attori politici non possano rinunciare, se non vogliono condannarsi al fallimento. Rifiutare di esporsi al rischio di «questa contaminazione», non necessariamente implica l’assunzione, e il suo riconoscimento da parte di tutti gli attori coinvolti, di una propria neutralità. Perché implica il rischio speculare che il confine di un’azione puramente volta al sostegno della popolazione civile venga sorpassato, e si finisca col divenire oggetto di altre, e ben peggiori, contaminazioni: al di là di ogni buona intenzione. da lastampa.it Titolo: VITTORIO EMANUELE PARSI - La politica e lo strapotere centralista Inserito da: Admin - Aprile 26, 2010, 11:41:36 am 26/4/2010
La politica e lo strapotere centralista VITTORIO EMANUELE PARSI L’Italia, in termini politici, è un Paese fatto di periferie. Nord, Sud, Centro (Roma compresa) politicamente non contano nulla. Sono, per dirla con il politologo norvegese Stein Rokkan, «luoghi privi di risorse di potere» e, in questo senso periferici e marginali rispetto a un circuito politico che, se è fisicamente insediato a Roma, tratta gli interessi e le aspettative dei cittadini della capitale con lo stesso disprezzo che riserva al Piemonte o alla Calabria, alla Lombardia o alla Toscana. L’arrogante autoreferenzialità del ceto politico, in realtà il suo totale autismo nei confronti della società che pretende di rappresentare, si rispecchia nella vita dei partiti. Conta di più l’ultimo dei galoppini di via dell’Umiltà o di via Sant’Andrea delle Fratte che il governatore del Veneto, o quello della Puglia. Essere lontano dal circuito politico romano, con i suoi riti, i suoi abbagli, i suoi salotti e le sue illusioni, è anzi criterio sicuro di esclusione dal «giro che conta». E infatti, nessun leader nazionale, o aspirante tale, ha alle spalle un cursus honorum locale effettivo, è stato cioè espresso dal territorio. Nulla di paragonabile a un Clinton governatore dell’Arkansas, a un Reagan governatore della California, o a un Obama, senatore nel Campidoglio dell’Illinois. Tutta colpa della legge elettorale? Troppo comodo, anche se questa ha sicuramente perfezionato il meccanismo predatorio dei partiti nei confronti della sovranità popolare. La verità è che chiunque si sia azzardato a porre all’ordine del giorno la necessità che i partiti si federalizzino, per assolvere affettivamente la loro funzione di raccordo tra società civile e sistema politico, è stato trattato con sufficienza, irrisione e malcelata irritazione. Questo è vero per tutti i partiti, nessuno escluso. Si veda quanta strada ha fatto il monito (fuori tempo massimo) di Prodi per una riarticolazione del potere interno al Pd tra centro e periferia, o l’affondamento delle proposte di Chiamparino e Cacciari (non precisamente due nullità politico-civili) per la creazione di un «partito del Nord». All’interno del Pdl basta ricordare il trattamento ricevuto da Roberto Formigoni quando si prospettò un suo ingresso nella compagine governativa. Il governatore lombardo potrà piacere o meno, ma il consenso certo non gli manca: eppure il valore di questa risorsa sembra scomparire d’incanto appena si varca il confine regionale. In compenso, Milano è governata da un sindaco impalpabile, paracadutato su Palazzo Marino direttamente dalle stanze del ministero dell’Istruzione, con i risultati che conosciamo. Neppure la Lega, il partito federalista per antonomasia, sfugge a questa maledizione centralista, anche se il monopolio della capacità di iniziativa politica è esercitato, da Bossi in persona, dalla sede di via Bellerio in Milano: a dimostrazione che al «sacco del Nord» documentato nel bel libro di Luca Ricolfi, corrisponde un «sacco dell’Italia tutta», in termini di sua periferizzazione a opera di un centro politico sempre più lontano e vorace. Di fronte a questo danno strutturale, lo psicodramma in scena a Roma in questi giorni quasi scompare. Eppure, la timida e un po’ sbilenca riforma federale delle istituzioni in corso di attuazione offre qualche chance per invertire questo trend, antico ben più della Repubblica. A condizione che la società civile sia disposta a dismettere i toni del lamento e a riprendere quelli dell’impegno, nella consapevolezza che quello che è in gioco è il futuro nostro (di noi italiani), non il loro (dei partiti). Per sperare di riuscirci, però Nord, Centro e Sud non devono lasciarsi trascinare in una «guerra tra banlieu della politica», fornendo «carne da cannone» per le risse del solito triste avanspettacolo romano. Occorre invece che sappiano allearsi per la riconquista della centralità nel sistema politico e partitico dell’Italia e degli italiani. L’ultima cosa di cui il Nord ha bisogno è una secessione dell’anima rispetto al resto d’Italia. L’ultima cosa che serve al Sud è una (pretesa) difesa dei suoi interessi rivendicata da parte di spezzoni del ceto politico in funzione di un regolamento di conti interno al Pdl (sempre che esista ancora). È il solo modo per combattere insieme, e magari sconfiggere, tanto la politica predatoria dei partiti, quanto l’antipolitica pericolosa e rabbiosa e i suoi improvvisati impresari. E sulla scelta audace di fare dell’Italia, finalmente, un Paese fatto di tanti centri e non più di tante periferie, di cittadini e non di clienti, conviene riflettere a tutti: ai partiti esistenti, e a quei soggetti nuovi che potrebbero rappresentare uno strumento a disposizione della società civile per la sua doverosa assunzione di responsabilità. da lastampa.it Titolo: VITTORIO EMANUELE PARSI - Ora il nucleare farà meno paura Inserito da: Admin - Maggio 03, 2010, 08:57:04 am 3/5/2010
Ora il nucleare farà meno paura VITTORIO EMANUELE PARSI Verde, nero e giallo. Non è il vessillo di un ennesimo nuovo Stato riconosciuto dall’Onu. Verde, nero e giallo sono invece i colori che rappresentano il disastro ambientale che, a una manciata di anni da Katrina, si sta abbattendo sulla costa meridionale degli Stati Uniti: dalla Louisiana alla Florida. C’è il verde dell’ambientalismo più dogmatico e intransigente, che ha gridato al tradimento quando un presidente, nero e pragmaticamente ecologista, si è dichiarato favorevole al nucleare per ridurre l’inquinamento atmosferico e i rischi connessi alle trivellazioni sempre più «audaci». C’è il nero della marea di greggio che ormai ha iniziato ad abbattersi sulle coste, mettendo in ginocchio una parte del Paese già stremata, e che ci ricorda come i disastri provocati dall’uomo possiedono quasi invariabilmente due caratteristiche: sono peggiori dei disastri naturali e, contemporaneamente, potevano essere quasi sempre evitati, con un po’ più di cautela e con un po’ meno cupidigia. C’è il giallo, infine, che è il colore tradizionalmente associato al pericolo: quello che si sta materializzando nel Golfo del Messico, ma anche quello evocato da ogni discorso sul nucleare; il giallo, ancora, che ci ricorda della crescente domanda energetica cinese, associata alla totale sconsideratezza messa finora in mostra dalle autorità di Pechino sulle questioni ecologiche e ambientali. Fuori di metafora, mentre si cercano i responsabili di un simile scempio e si tenta di correre ai ripari, si prova anche a quantificare il danno e a capire quanti decenni ci vorranno per rimettere più o meno in sesto l’ecosistema della zona. Una cosa però dovremmo averla chiara nella testa. A fronte di una domanda di energia che sarà crescente e di prezzi che non potranno che salire, incidenti come questi saranno più frequenti, non meno. Dovremo trivellare di più e in situazioni più estreme, per soddisfare la domanda, e il crescere dei prezzi renderà «economiche» trivellazioni in condizioni e in luoghi finora risparmiati dalle piattaforme e dalle torri. Se a questo uniamo gli appetiti delle compagnie e la mancanza di scrupoli dei governi non democratici, la nostra previsione diventa quasi una profezia che si auto-avvera. Proprio la magnitudine della tragedia ci offre però anche l’opportunità di chiedere con forza che si ricominci, finalmente, a riflettere con serietà e senza pregiudizi sul fatto se il mondo può permettersi di continuare a puntare in maniera quasi esclusiva sugli idrocarburi e i combustibili fossili, con quel tanto di fonti rinnovabili che assolvono la nostra cattiva coscienza o se invece, all’inizio del XXI secolo il nucleare non sia alla fine l’investimento meno pericoloso. Anche su questo aleggia il colore del giallo, con dati che si inseguono e che si contraddicono, con «alibi» esibiti in luogo di prove, e sicurezza assolute sbandierate a destra e a manca. L’opinione pubblica ha invece il diritto di essere messa al corrente dei progressi compiuti verso un nucleare più sicuro come delle questioni ancora irrisolte (a partire da quella delle scorie). È una responsabilità a cui sono chiamate la comunità scientifica e la classe politica, ognuna per la parte che le compete: agli scienziati di presentare il quadro più esaustivo possibile dello «stato dell’arte» e delle ragionevoli aspettative future; ai politici di assumere in maniera trasparente le decisioni che ritengono appropriate, di spiegarle e di convincere l’opinione pubblica della bontà della scelta adottata. E a tutti noi, il dovere di far valere il peso di un giudizio informato e non pregiudiziale: pensando un po’ di più, anche in questo campo, alle generazioni future è un po’ meno al nostro «giardino di casa». Assumendoci anche noi, qualunque sia l’opzione, le nostre responsabilità. http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7293&ID_sezione=&sezione= Titolo: VITTORIO EMANUELE PARSI - Duro colpo al sogno dell'Europa Inserito da: Admin - Maggio 10, 2010, 11:07:39 am 10/5/2010
Duro colpo al sogno dell'Europa VITTORIO EMANUELE PARSI La sensazione è che sia stata persa una occasione «drammatica», nell’accezione inglese del termine, per rendere chiaro a investitori e speculatori (ammesso che siano soggetti ancora distinguibili) che l’Europa fa sul serio, quando dice di voler «mettere in riga i mercati» e regolarne gli eccessi. Alcuni mesi fa, al debutto europeo di Barack Obama e nel pieno della crisi finanziaria, i leader europei fecero la morale al giovane presidente Usa, illustrando come l’Europa fosse disponibile a guidare uno sforzo globale verso una maggiore assunzione di responsabilità da parte della politica nei confronti delle intemperanze dei mercati finanziari. A distanza di circa un anno, ci ritroviamo con Washington che chiede a Bruxelles misure più incisive per evitare che la speculazione destabilizzi l’economia europea: con tanti saluti ai bei discorsi sulla governance europea e alle nostalgie per il cosiddetto «capitalismo renano». Le misure adottate da Ecofin sono già in queste ore sottoposte al feroce, ma non per questo equo, scrutinio dei mercati (alle 2 di questa mattina apriva la Borsa di Tokyo); è però difficile non constatare come l’Europa ne esca non troppo bene. Londra ha già dichiarato che non intende partecipare al consorzio per il salvataggio della Grecia dal fallimento. Quello che sarà ricordato forse come l’ultimo atto di politica economica internazionale del governo di Gordon Brown, potrebbe consistere in un siluro lanciato alle già esigue possibilità della Grecia di non coinvolgere nel suo naufragio altre consistenti porzioni d’Europa. È vero che, quando era il Cancelliere dello Scacchiere di Tony Blair, Gordon Brown lottò aspramente contro qualunque ipotesi di futura confluenza della sterlina nell’euro. D’altra parte il punto di vista inglese che, essendo la Grecia dentro l’euro, debbano essere i Paesi di Eurolandia a mettere mano al portafoglio, è una solenne sciocchezza. Se la Grecia affosserà l’euro o trascinerà con sé Spagna o Portogallo, non sarà certo la sterlina il bastione che difenderà le disastrate finanze britanniche. Piaccia o non piaccia al moribondo esecutivo laburista, oggi l’euro rappresenta la seconda valuta di riferimento del mondo, e una sua crisi sarebbe un evento traumatico per l’intero sistema finanziario, da Shanghai a New York, fino a Londra. Ovvio che queste cose siano note a Brown, eppure, come ai tempi della signora Thatcher, il riflesso inglese è sempre quello di cercare di ottenere dall’Europa più di quanto si sia disposti a concederle: a qualunque costo. Un’altra signora, Angela Merkel, ha provato ad assumere una posizione meno miope. Ma forse lo ha fatto con poca convinzione ed eccessivo ritardo, col risultato di disorientare i cittadini tedeschi, che l’hanno punita duramente nelle elezioni regionali in Nordreno-Vestfalia. Andava spiegato prima e meglio agli elettori che sostenere la Grecia non è una «scelta», ma la sola via per impedire un contagio altrimenti disastroso. Al di là delle evidenti ripercussioni sul sistema finanziario tedesco della eventuale bancarotta greca, andava detto chiaro e tondo che se l’Europa non riesce a dimostrare di saper tenere a galla nemmeno la minuscola Grecia, rischia di essere affondata tutta insieme, se la speculazione dovesse attaccare un Paese di medie dimensioni come la Spagna. È beffardo che proprio per la sua posizione di feroce opposizione al salvataggio della Grecia, l’Spd sia stata premiata dagli elettori renani. Dopo aver seppellito la «terza via», si direbbe che il de profundis debba essere intonato anche per la vecchia idea di solidarietà internazionalista tanto cara alla tradizione più nobile del socialismo europeo. Per una volta Berlino farebbe meglio a guardare a Parigi e a Roma, per ricordare che cos’è (o dovrebbe essere) l’Europa. È quasi scontato affermare che le istituzioni europee sopravviveranno anche a questa ennesima «vittoria perduta», ma certo è che l’ambizione di avere un’Europa più politica e meno mercatistica e finanziaria riceve un altro duro colpo. E di colpo in colpo, prima o poi, ci ritroveremo a chiederci se sotto l’euro c’è ancora qualcosa. Triste che questo avvenga nel 60° anniversario del discorso con cui Robert Schuman lanciava il progetto di un’Europa unita. Sarà anche il segno dei tempi, ma lasciateci dire che sono proprio tempi brutti. http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7329&ID_sezione=&sezione= Titolo: VITTORIO EMANUELE PARSI Clinton: sanzioni Teheran si smarca Inserito da: Admin - Maggio 22, 2010, 05:54:44 pm 19/5/2010
Clinton: sanzioni Teheran si smarca VITTORIO EMANUELE PARSI E così, proprio mentre sembrava messo all'angolo dagli sforzi occidentali per l'inasprimento delle sanzioni, l'Iran ha mosso. E che mossa. Grazie all’accordo con Brasile e Turchia per lo scambio di uranio scarsamente arricchito con combustibile nucleare, in un colpo solo è riuscito a far tornare in alto mare qualunque prospettiva di intesa raggiunta ai danni delle proprie ambizioni nucleari e a incrinare ulteriormente la stessa nozione di comunità internazionale, la cui volontà, soprattutto dalla fine della Guerra Fredda, è stata fatta coincidere troppo spesso con quella occidentale o americana. Per riuscirci si è appoggiato a due Paesi fino a poco tempo fa confinati a un ruolo regionale più sognato che effettivo (come il Brasile) o per nulla inclini a intralciare la politica globale degli Stati Uniti, anche quando questa destabilizzava pesantemente l'equilibrio della propria regione (come la Turchia). In particolar modo con la presidenza Lula, il Brasile ha smesso di baloccarsi con l'idea che l'essere il gigante del Sudamerica potesse alimentare le sue aspirazioni alla leadership regionale, invece che renderla virtualmente impossibile. Anche a causa di una serie di insuccessi patiti, il Brasile da alcuni anni ha capito che proprio quel gigantismo che gli impediva di proporsi come primus inter pares in Sudamerica legittimava invece le ambizioni a giocare una politica globale, perseguita innanzitutto con la ricerca di accordi con il Sudafrica, l'India, la Cina, la Russia stessa. Allo stesso tempo, e in maniera per nulla paradossale, il Brasile di Lula si è progressivamente sfilato dalle posizioni sterilmente «antiyanqui» classiche della retorica politica latinoamericana. Un po’ come avvenne per l'Inghilterra, che con la definitiva sconfitta nella Guerra dei Cento Anni non poté più giocare la partita continentale e fu «costretta» a giocare una partita mondiale. Analogamente, il fallimento su scala regionale ha costretto il Brasile a pensare molto più in grande, favorendone l'incredibile crescita di ruolo di questi anni. La Turchia di Erdogan, dal canto suo, ha progressivamente dovuto trovare un proprio posizionamento strategico indipendente, che le consentisse di uscire dalla stretta in cui l'avevano cacciata il sostanziale rifiuto europeo della sospirata membership e la presenza sempre più diretta e aggressiva degli Usa in Medio Oriente. Dismesse le velleità del panturchismo (l'unificazione o la leadership dei popoli di lingua turca dall’Anatolia al Caucaso all'Asia centrale), Ankara ha ricominciato a pensarsi nel Medio Oriente e, anche aiutata dalle inclinazioni ideologiche dell'AKP, ne ha tirato alcune implicazioni: ha raffreddato le relazioni con Israele (che rischiavano di zavorrarne l'azione), si è riavvicinata alla Siria e, soprattutto, ha deciso di intavolare un «dialogo strategico regionale» con l'Iran, la vera potenza emergente nell'area. Gli iraniani, una volta individuata la breccia nello schieramento internazionale, ci si sono infilati di gran carriera, consapevoli che, una volta palesata, si sarebbe immediatamente allargata. E infatti così è successo: con il ritorno di Russia e Cina a una posizione molto tiepida sulla prospettiva di altre sanzioni, nonostante l’annuncio da parte di Hillary Clinton di un accordo su un nuovo testo. Ora anche la Francia appare titubare, preoccupata che, a questo punto e almeno per un po’, ogni tentativo di mostrare determinazione verso Teheran possa rendere ancora più evidente che sulla questione della non proliferazione la posizione occidentale è sempre più solitaria. Sulla proliferazione, in realtà, gli interessi degli attori sono disposti per cerchi concentrici. Al nucleo, i più interessati restano gli americani, che (come i russi) sono una delle due principali potenze nucleari, ma che (diversamente dai russi) sono anche i principali azionisti, fruitori e garanti di un sistema internazionale che resta ancora disegnato da Washington. Un po’ più esterni sono gli europei, che in quell’ordine si riconoscono, ma che sono disponibili o rassegnati a un suo parziale superamento e comunque appaiono assai meno decisi a difenderlo «a qualunque costo». Molto più esterni sono gli altri grandi attori, emergenti o riemergenti: dalla Cina alla Russia (appunto) all’India, al Brasile alla Turchia, le cui politiche concretamente annunciano che la centralità occidentale dell’ordine internazionale è in via di rapido superamento. http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7369&ID_sezione=&sezione= Titolo: VITTORIO EMANUELE PARSI - Ankara al bivio Inserito da: Admin - Giugno 01, 2010, 11:38:03 am 1/6/2010
Ankara al bivio VITTORIO EMANUELE PARSI L’assalto condotto dalle forze speciali di Tsahal alle imbarcazioni che si proponevano di violare il blocco navale di Gaza, dichiarato unilateralmente dal governo israeliano, sta facendo precipitare il livello delle relazioni tra Ankara e Gerusalemme ai minimi storici. La questione va però ben oltre il contenzioso bilaterale, e investe piuttosto la collocazione complessiva della Turchia nel «campo occidentale». Le conseguenze di quello che è successo al largo di Cipro, infatti, lasciano intravedere una questione che, nella sua semplice brutalità, può essere formulata come segue: «E’ ormai praticamente certo che la Turchia non verrà accettata in Europa; ma quanto a lungo la Turchia riuscirà ancora a stare nella Nato?». Inutile nasconderselo, si tratta del disvelamento di un vero e proprio tabù, la cui esistenza spiega le ragioni della straordinaria insistenza americana, da Bush padre a Obama, affinché la Ue aprisse le sue porte ad Ankara. Il punto è davvero semplice. In questi ultimi vent’anni, e in maniera per nulla indolore, la Nato ha conosciuto un crescente coinvolgimento in Medio Oriente. E nessun indizio segnala che la tendenza sia destinata a cambiare: non solo per gli evidenti interessi Usa, ma anche perché i soci europei della Nato (in grandissima parte anche membri della Ue) sanno benissimo che il loro residuo valore politico-strategico agli occhi americani (tanto più per questo Presidente) si gioca anche nella disponibilità a lasciare che la Nato sia sempre più operativa laddove la sua azione è più necessaria: a partire dal Medio Oriente. Fintanto che la possibilità di un ingresso della Turchia nell’Unione restava aperta, proprio la prospettiva di una doppia membership (europea e atlantica) poteva oggettivamente aiutare a tenere in asse la Turchia con i Paesi europei della Nato. Ma ora che questa chance è sostanzialmente sfumata, le cose si complicano maledettamente. Chiusa fuori della porta d'Europa, la Turchia ha nel frattempo elaborato una sua politica mediorientale, cioè per la regione con cui sempre meno è confinante e di cui sempre più è parte. La sua rinnovata natura di attore mediorientale, evidentemente, la espone a rischi ben maggiori di coinvolgimento nei conflitti insoluti della regione di quelli che avrebbe corso in quanto Paese europeo, membro dell’Unione (o seriamente candidato a diventarlo). I fatti di queste ore, e in realtà di questi ultimi anni, ci danno conferma di quella che non è più solo un’ipotesi di scuola. Oltretutto, la politica dell’Akp, con il suo precario equilibrio interno tra laicità e confessionalismo, e la sua natura perlomeno ondivaga, avendo rilegittimato l'identità religiosa nel circuito e nella retorica politica turca, ha contribuito a risvegliare i moventi dell'internazionalismo e della solidarietà musulmane, se non islamiste, con l'ovvia conseguenza di rendere l'antica relazione speciale tra Ankara e Gerusalemme sempre più ingombrante per la politica turca in Medio Oriente. E anche questo allontana inesorabilmente Ankara dall’Europa e anche dall'intero Occidente, per i quali Israele non può e potrà mai essere considerato uno Stato mediorientale «come gli altri». http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7426&ID_sezione=&sezione= Titolo: VITTORIO EMANUELE PARSI - Ma ancora una volta ha vinto Teheran Inserito da: Admin - Giugno 10, 2010, 05:22:58 pm 10/6/2010
Ma ancora una volta ha vinto Teheran VITTORIO EMANUELE PARSI Alla fine il Consiglio di Sicurezza dell’Onu ha approvato il quarto round di sanzioni nei confronti dell’Iran. Almeno due considerazioni meritano di essere svolte: la prima in ordine a chi non le ha votate, la seconda circa la loro possibile efficacia. Come avevano peraltro anticipato, né Brasile né Turchia hanno appoggiato l’inasprimento delle sanzioni. E’ la conferma che sulla questione della proliferazione nucleare il punto di vista euro-americano fa sempre più fatica a imporsi e ad attrarre consensi. Annacquandone molto l’asprezza, Washington è riuscita a portare dalla sua parte Cina e Russia, che con Parigi e Londra appartengono al ristretto club delle potenze nucleari «legittime» e detengono il potere di veto in Consiglio; ma non un Paese amico e grande potenza emergente (come il Brasile) e neppure un alleato e sedicesima economia mondiale (come la Turchia). Da un punto di vista più generale, siamo alla replica, appena attenuata, della frattura che si produsse in Consiglio di Sicurezza diversi anni fa, in occasione della decisione occidentale di combattere in Kosovo contro la Serbia di Milosevic. Allora non si andò al voto proprio perché Cina e Russia, ma anche Brasile e India fecero pubblicamente sapere che avrebbero fatto mancare il loro appoggio. Allora proprio l’opposizione delle due «grandi democrazie del Sud» fece più scalpore della scontata opposizione russo-cinese. Era il primo scricchiolio di un ipotetico fronte comune delle democrazie del pianeta di fronte alle sfide del mondo post-bipolare. Oggi il diniego brasiliano e turco quasi «oscura» l’accordo raggiunto fra i 5 Grandi, e testimonia la rapida erosione del soft power degli Usa (nonostante Obama, ma qualcuno inizia a pensare anche grazie a Obama) e la crescente de-occidentalizzazione del sistema internazionale. Più in particolare, desta scalpore la presa di posizione turca, perché costituisce l’ennesimo strappo rispetto alla solidarietà atlantica e occidentale su un tema quale la sicurezza collettiva degli Stati membri e i rischi a cui essa è esposta dalla proliferazione nucleare e dalla perdita di prestigio degli Usa. Ancorché la proliferazione non sia di stretta competenza della Nato, proprio il documento elaborato il 17 maggio di quest’anno dal cosiddetto «Comitato dei saggi» - costituito per ridefinire il nuovo «concetto strategico dell’Alleanza», adeguandolo al mutamento dello scenario internazionale - indicava nella proliferazione nucleare una minaccia maggiore, e nella capacità della Nato di fornire risposte efficaci e condivise un test decisivo di adeguatezza. A neppure una settimana dal pasticcio della «freedom flotilla», la Turchia compie un altro passo che la colloca oggettivamente ai margini dell’Alleanza e ne accredita la sempre più blanda appartenenza allo «schieramento occidentale». Tutto ciò accade a meno di 24 ore dall’annuncio iraniano di voler impiegare proprie unità navali «civili» in un nuovo pericolosissimo tentativo di forzare il blocco di Gaza: un’operazione che salda, per mano iraniana, la vicenda di Gaza con quella del programma nucleare di Teheran. Un incidente tra unità israeliane e iraniane al largo di Gaza sarebbe di per sé già gravissimo, perché materializzerebbe lo spettro israeliano di dover fronteggiare la possibile minaccia iraniana su due fronti: in Libano attraverso Hezbollah, e a Gaza attraverso Hamas. In una simile prospettiva la possibilità che Israele non decida un’azione contro l’Iran prima che esso divenga una potenza nucleare dipende solo dall’efficacia delle sanzioni approvate ieri. Ed ecco il secondo punto della nostra analisi. Le nuove sanzioni non sono quelle che gli Stati Uniti auspicavano: erano il massimo che si poteva ottenere, ma il massimo è probabilmente meno del minimo necessario. Esse non colpiscono i veri interessi vitali dell’Iran (idrocarburi), né impediscono all’Iran di aggirare i vincoli internazionali vecchi e nuovi. Finora il governo iraniano ha dimostrato di essere disposto a pagare (e far pagare al suo popolo) un prezzo economico alto in cambio di un ricavo politico ritenuto maggiore. Se non si modifica tale trade-off (e non mi pare che le nuove sanzioni lo facciano), Ahmadinejad non ha ragione di cambiare politica. È una lotta contro il tempo, in cui le carte buone le ha l’Iran e il tempo gioca a suo favore. Tra l’altro, sanzioni inefficaci non sono solo inutili, ma anche dannose, perché fanno il gioco del regime, alimentando la mentalità da stato di assedio che lo aiuta a radicalizzare il clima interno e massacrare le opposizioni (solo nella giornata di ieri ci sono state 15 impiccagioni). Colpisce, infine, il fatto che gli Usa sembra non riescano a capire se è possibile (e se conviene loro) trasformare il proprio ruolo di protettori di un ordine mediorientale (sempre più fragile) fondato sul predominio israeliano in quello di garante di un nuovo ordine più equo e stabile, ma forse impossibile da raggiungere in queste condizioni. http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7460&ID_sezione=&sezione= Titolo: VITTORIO EMANUELE PARSI - Barack potrà spegnere Internet Inserito da: Admin - Luglio 01, 2010, 10:32:23 pm 28/6/2010
Barack potrà spegnere Internet VITTORIO EMANUELE PARSI Nel caso di un attacco cibernetico che rischi di mettere in crisi la sicurezza (economica) nazionale, il Presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, potrà «chiudere» la rete per un periodo di tre mesi senza dovere ottenere un’autorizzazione preventiva da parte del Congresso. Questo è il testo approvato in Commissione del Senato, che con ogni probabilità passerà anche lo scrutinio dell’aula. Si tratta di un atto dalla forte valenza simbolica. Neppure in seguito agli attentati terroristici dell’11 settembre si era arrivati a prevedere che l’Esecutivo potesse «confiscare» il web ai suoi cittadini per un tempo così lungo con un semplice ordine presidenziale. Il periodo di 90 giorni richiama immediatamente un altro caso particolarmente delicato in cui l’esercizio dei poteri presidenziali conosce una forte discrezionalità. Si tratta della disposizione che prevede che il Presidente possa impiegare truppe americane in operazioni di guerra per 90 giorni senza dover passare da una formale autorizzazione del Congresso. E’ alla luce di una simile discrezionalità che è iniziato il coinvolgimento degli Usa in gran parte dei conflitti del secondo dopoguerra. Oggi che la rete potrebbe rappresentare il campo di battaglia del futuro, per molti aspetti altrettanto se non più pericoloso di quelli più consueti e tradizionali, gli Usa corrono ai ripari e mettono la difesa nazionale nelle condizioni di poter agire tempestivamente. Che la minaccia cibernetica sia tutt’altro che un’ipotesi fantascientifica è attestato da una quantità di esperienze recenti e dall’evoluzione della stessa dottrina strategica della Nato. Negli anni passati la Lituania, membro dell’Unione Europea e dell’Alleanza Atlantica, fu sottoposta a un vero e proprio assalto cibernetico da parte russa. A loro volta, i servizi cinesi sono stati accusati dal governo britannico (tra gli altri) di aver tentato ripetutamente di violare siti della difesa e di imprese industriali collegate alla sicurezza nazionale. Lo stesso concetto strategico dell’Alleanza, in corso di revisione, prevede un incremento dell’attenzione dedicata alle contromisure in caso di attacchi cibernetici contro l’organizzazione e gli Stati membri. D’altronde, però, è facile osservare che per la stessa natura world wide della rete, una chiusura dei provider americani produrrebbe conseguenze ben oltre i confini degli Stati Uniti. Eppure, ancora una volta, come accade con regolarità bipartisan dalla fine della Guerra Fredda (con l’eccezione dell’amministrazione del primo Bush), le implicazioni multilaterali delle soluzioni adottate unilateralmente vengono tenute in ben scarsa considerazione sulle rive del Potomac. Era così con George W. Bush e i suoi consiglieri neocon, e lo schema sembra riprodursi con Barack Obama e le sue teste d’uovo liberal. Ma non è solo questo a destare inquietudine. È evidente che l’impatto di un simile provvedimento sulle libertà civili dei cittadini americani sarebbe molto superiore a quello che regola in maniera analoga l’invio di truppe combattenti all’estero. Da un lato resta da vedere come reagiranno l’opinione pubblica e le organizzazioni libertarie. Cosa avrebbero detto se la stessa norma fosse stata emanata durante l’amministrazione Bush? Dall’altro, occorre considerare schiettamente che tutto ciò segnala un ulteriore allontanamento tra gli Stati Uniti e l’Europa riguardo la scelta di quale sia il punto di equilibrio ottimale tra la tutela delle libertà individuali e dei diritti civili e la difesa della sicurezza collettiva. E, paradossalmente, avvicina gli Usa alla Cina, contro le cui politiche censorie della rete (ovviamente sempre adottate nel nome della sicurezza nazionale) si era pubblicamente e rumorosamente spesa la segretaria di Stato Hillary Clinton non molti mesi fa. È davvero paradossale che, in un’epoca segnata dall’evidente progressiva deoccidentalizzazione del mondo, un passo ulteriore in questa pericolosa direzione debba arrivare dagli Stati Uniti, creatori e massimi beneficiari del concetto politico di Occidente. http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7528&ID_sezione=&sezione= Titolo: VITTORIO EMANUELE PARSI - Il passo indietro della Casa Bianca Inserito da: Admin - Luglio 07, 2010, 05:04:20 pm 7/7/2010
Il passo indietro della Casa Bianca VITTORIO EMANUELE PARSI Tutti d’accordo sul riavviare colloqui diretti tra Autorità Palestinese e governo israeliano, nel ritenere la prospettiva di un Iran nucleare una minaccia inaccettabile alla sicurezza regionale, e nel ribadire il legame «infrangibile tra Stati Uniti e Israele». Ma al di là delle belle parole, è Benjamin Netanyahu a uscire vincitore dai colloqui allo Studio Ovale ed è Barack Obama a dover fare buon viso a cattivo gioco. Forse Obama ha scelto ancora una volta di privilegiare l’agenda interna, ha pensato alla potentissima lobby ebraica e alla sua capacità di influenzare le elezioni di mid term, già presentate come un test decisivo per una presidenza in serio calo di popolarità. Ma forse è anche l’inizio della revisione di una strategia, quella dell’amministrazione Usa, che fin qui ha portato risultati davvero scarsi. L’ambizioso, e generoso, progetto di Obama di ricollocare gli Usa come un honest broker in Medio Oriente si è probabilmente scontrato con la realtà: una realtà nella quale l’America di Obama è decisamente meno potente di quella di Clinton e persino di quella di George W. Bush, anche se di quest’ultima senz’altro più accattivante. Il vertice sembra non aver neppure preso in seria considerazione lo scontro tra i due principali alleati americani nella regione, Israele e Turchia, che è sempre meno ipotetico: per la rigidità israeliana, per l’errore di calcolo turco e per la perdita di influenza americana. Dopo avere puntato sulla Turchia come ponte tra Occidente e Islam, aver tentato un approccio soft con il regime iraniano, aver pronunciato un brillante discorso al Cairo, aver annunciato un cambio di strategia in Afghanistan (sconfessando e rilegittimando il presidente Kharzai a settimane alterne) e aver più volte preso le distanza dalla politica del governo israeliano, i risultati portati a casa da Obama sono modestissimi. Un’escalation tra Israele e la Turchia che pure non giungesse allo scambio di cannonate per difendere la prossima «freedom flottilla», già pronta a salpare, dischiuderebbe una prospettiva persino più devastante per il futuro della Nato di quella dello scontro militare tra Turchia e Grecia negli Anni 70 (durante la crisi di Cipro), perché avrebbe per oggetto quel Medio Oriente in cui la Nato è sempre più coinvolta. Gli israeliani, che pure portano a casa da questo vertice un successo insperato, non possono nascondersi un fatto evidente: che con la Turchia perdono il solo alleato che avevano nella regione, di fatto rafforzando «l’arcinemico» iraniano, che Ankara appare peraltro disposta a riconoscere come interlocutore a tutti gli effetti. Così Teheran capitalizza ulteriormente gli effetti della guerra del 2006 (disastrosa per Israele), con la progressiva fuoriuscita del Paese dei Cedri dalla sfera occidentale, la ripresa dell’influenza siriana e il consolidamento del potere politico del Movimento sciita suo alleato. La Turchia, dal canto suo, continua a non capire che pensare di poter giocare un ruolo maggiore in Medio Oriente, in grado di disimpegnarsi tra multiple alleanze, senza che questo metta in crisi il suo tradizionale e sempre più incerto posizionamento occidentale è una pericolosa illusione. Il solo fatto che il governo di Ankara possa pensare di chiudere lo spazio aereo ai velivoli commerciali israeliani, o definisca Israele uno «Stato pirata» (con una retorica pericolosamente prossima a quella di Ahmadinejad) colloca oggettivamente la Turchia pericolosamente ai margini dello schieramento occidentale, che vede in Israele un partner comunque diverso e privilegiato rispetto agli altri Stati della regione. D’altronde, e questo è il corollario più preoccupante e beffardo di tutta la situazione, a quasi nove anni dall’11 settembre e nonostante tutti gli sforzi profusi innanzitutto dagli Usa, il germe del radicalismo religioso pervade la regione e conquista o riconquista terreno: dal Libano all’Iraq, dall’Afghanistan all’Iran, alla Turchia e allo stesso Israele, che sempre più Israele assomiglia agli altri Stati della regione, in cui la politicizzazione delle religioni gioca un ruolo decisivo e per nulla benefico. http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7564&ID_sezione=&sezione= Titolo: VITTORIO EMANUELE PARSI - Il verde Libano rischia di nuovo di pagare per tutti Inserito da: Admin - Agosto 04, 2010, 04:46:48 pm 4/8/2010
Il verde Libano rischia di nuovo di pagare per tutti VITTORIO EMANUELE PARSI Erano diversi mesi che a Beirut, come in tutta la regione, si rincorrevano le voci di una possibile nuova operazione militare israeliana di vasta portata in Libano. Il rischio che i gravi incidenti di ieri sul confine tra i due Paesi, formalmente in stato di guerra dal 1948, possano dare il via a scontri di portata ben maggiore è purtroppo tutt'altro che inconsistente. E' la prima volta, dalla guerra dell'agosto 2006, che le Forze di Difesa Israeliane (Idf) e l'Armata Libanese (Al) si affrontano con tanta violenza e con conseguenze così drammatiche (cinque morti, tra cui un colonnello israeliano, e un numero imprecisato di feriti). Difficile che la cosa possa finire qui, anche se lo stesso comandante israeliano del settore settentrionale, il maggior generale Gadi Eisenkot, ha tenuto a precisare che spera possa trattarsi di «un caso isolato». È evidentemente anche il nostro auspicio, quello dei Paesi che forniscono un contributo importante alle forze di Unifil (la cui presenza è stata determinante per mantenere la precaria, eppure quasi quadriennale, tregua Hezbollah-Israele), e quello di buona parte della comunità internazionale, con le solite, scontate eccezioni, a iniziare da quella iraniana. La dinamica dei fatti non è ancora stata chiarita, soprattutto per quel che riguarda il luogo (di qui o di là del confine?) in cui la pattuglia israeliana è stata presa di mira dai militari libanesi e se l'azione israeliana che ha portato alla reazione libanese fosse stata coordinata con Unifil (come sostengono i portavoce dell'Idf) o meno (nella versione dell'Al). «Continua a mancare il passo finale che non spetta ai militari ma ai soggetti protagonisti, che non sembrano nella condizione, perché non vogliono o non possono, di trasformare una tregua in una pace stabilizzata». Il ragionamento del ministro della Difesa La Russa, se portato alle estreme eppure logiche conseguenze, ci ricorda che, se le condizioni politiche non mutano in maniera decisiva, il lavoro di Unifil rischia di essere ogni giorno meno efficace e più pericoloso. Ora, proprio guardando alle attività «soggetti protagonisti», difficile non constare che questi incidenti si verificano proprio a ridosso degli importanti incontri avvenuti a Beirut nei giorni scorsi tra sauditi e siriani. Ryad e Damasco sono stati per lungo tempo i grandi burattinai della politica libanese: se la Siria ha occupato il Paese dei Cedri per decenni, i Sauditi sono stati «gli inventori» della carriera politica di Rafik Hariri (il padre dell'attuale primo ministro il cui misterioso assassinio fu all'origine della cosiddetta «primavera libanese» e del ritiro siriano nel 2005). Un loro accordo sul futuro del Libano potrebbe mutare in maniera decisiva i fragili equilibri interni del Paese, riducendo il peso politico di Hezbollah. Un'ipotesi, questa, per nulla gradita a Teheran, essendo proprio l'Iran l'attore che ha maggiormente visto incrementare il proprio ruolo in Libano negli ultimi anni. Può quindi darsi che ci sia lo zampino iraniano dietro i fatti di ieri, come potrebbe anche essere verosimile che Israele abbia voluto ricordare a tutti che senza il suo benestare nessun accordo sul Libano può avere chance di concreta realizzazione. Un accordo tra Siria e Arabia Saudita a spese di Teheran forse è fantapolitica. Ma, a guardare le cose da Beirut, potrebbe non essere gradito fino in fondo neppure al governo israeliano, che, dopo aver ottenuto l'appoggio tanto caloroso quanto inatteso di Obama poche settimane fa, appare sempre più orientato a cercare una soluzione globale dei propri problemi di sicurezza, di cui la definitiva sconfitta del regime iraniano sembra un elemento irrinunciabile. Paradossalmente, l'allentamento della pressione iraniana sui confini israeliani (tramite Hezbollah) e l'eventuale crisi dell'alleanza tra Teheran e Damasco potrebbe allontanare la prospettiva di una simile «quadratura del cerchio». La domanda che sono in molti a farsi in queste ore a Beirut, è se, ancora una volta, sarà il «verde Libano» a pagare il prezzo dei giochi di potere altrui. E, senza farsi troppe illusioni, guardano a Washington per cercare la risposta. http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7674&ID_sezione=&sezione= Titolo: VITTORIO EMANUELE PARSI - La paura del futuro Inserito da: Admin - Agosto 20, 2010, 12:35:59 pm 20/8/2010
La paura del futuro VITTORIO EMANUELE PARSI Le truppe da combattimento americane hanno lasciato l’Iraq, mantenendo sul posto una corposa retroguardia di 50 mila uomini. È un’altra delle promesse fatte da Obama in campagna elettorale che viene (più o meno) mantenuta. Ma è anche quanto avevano concordato la precedente amministrazione e le autorità irachene, i cui vertici militari (tenente generale Babaker Zebani) vorrebbero ora che le residue truppe americane restassero in Iraq non solo per tutto il 2011, ma addirittura fino al 2020. Il futuro del Paese si presenta tutt’altro che roseo. I rapporti tra le formazioni (e le milizie) sciite, sunnite e curde sono sempre sul punto di rottura; gli attentati stanno conoscendo una nuova recrudescenza; la stessa società, che nel suo complesso è esasperata ed esausta per il pesante tributo di sangue e distruzione che ha dovuto pagare per liberarsi dalla tirannia di Saddam Hussein, sembra essere completamente sfibrata dai lunghi anni del terrore, prima qaedista e poi settario. Guardando al Paese e all’intera regione, credo che tre considerazioni possano essere brevemente svolte. 1. Il rovesciamento del regime baathista ad opera degli americani ha avuto ripercussioni sull’intero Medio Oriente, com’era facile prevedere. Tuttavia non nel senso auspicato da George W. Bush, di un’apertura di quella regione alla democrazia, sia pure importata manu militari. Esso ha piuttosto segnato la sconfitta, almeno per ora, del progetto identitario fondato sul binomio laicità-modernizzazione, a favore di quello integralismo-radicalismo. Le ambizioni egemoniche di Saddam Hussein erano state alimentate dallo scoppio della rivoluzione khomeinista in Iran, e dalle paure che essa aveva suscitato nell’intero Medio Oriente. Nonostante i contorcimenti neoreligiosi dell’ultimo Saddam, la rivoluzione khomeinista ha sconfitto quella baathista e Teheran ha accresciuto il proprio ruolo regionale. 2. Nelle sabbie irachene l’America ha consumato il sogno di un nuovo ordine mondiale fondato sulla sua leadership e garantito dalla sua indiscussa supremazia militare. Quest’ultima resta, ma sembra essere sempre più ingombrante e meno risolutiva, se è vero che mentre le forze armate Usa si ritirano sono in arrivo 7000 nuovi contractors, che dovranno provvedere, di fatto privatizzandola, alla sicurezza delle aree petrolifere. È un paradosso. G.W. Bush andò in guerra contro tutto e contro (quasi) tutti, invocando il fallimento del diritto internazionale e della stessa validità assoluta del concetto di sovranità. E ha perso. Quella di Bush è stata però anche la sconfitta dell’ultimo tentativo di cambiare apertamente le regole del gioco, mantenendone inalterate la dimensione pubblica, politica e territoriale. Fallito il primo esplicito approccio neoimperiale degli Stati Uniti all’ordine mondiale, a Washington sembrano ancora incerti su quale strada intraprendere, forti di una sola consapevolezza: che il tornare indietro è semplicemente impossibile. 3. Anche in seguito al vuoto causato dalla sconfitta irachena, il sempre precario ordine mediorientale sta conoscendo un avvitamento inedito, in cui molti protagonisti stanno cambiando il loro ruolo tradizionale. Israele non è più l’incontestata potenza militare della regione, tendenzialmente «pro status quo»; l’Iran, al suo punto di massima proiezione regionale, sembra disposto a giocarsi il tutto per tutto nella ben più importante partita nucleare; la Turchia mostra un nuovo attivo interesse per l’area che mette in tensione i rapporti con i suoi alleati non solo regionali; l’Egitto fatica a mantenere un basso profilo, continuando a investire sulle speranze di una pax americana tra Israele e Palestina che si riducono ogni giorno di più anche per la debolezza manifestata dagli Stati Uniti. Ciò che accomuna sempre di più i diversi attori è che tutti sembrano in grado di impedire il successo altrui, ma nessuno appare credibilmente nelle condizioni di far trionfare il proprio. Il fatto è che con la caduta del tiranno molti hanno tratto vantaggio nel breve periodo: Israele, il Kuwait e l’Iran hanno visto scomparire un acerrimo nemico; George W. Bush ha chiuso la partita iniziata dal padre; i curdi e gli sciiti iracheni (cioè la vasta maggioranza) sono più liberi e probabilmente non poi tanto più insicuri di prima. Ma nessuno, finora, è riuscito a trasformare questi vantaggi immediati nelle fondamenta per un futuro più stabile. http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7726&ID_sezione=&sezione= Titolo: VITTORIO EMANUELE PARSI - La Russia è il vero vincitore Inserito da: Admin - Agosto 22, 2010, 09:10:49 pm 22/8/2010
La Russia è il vero vincitore VITTORIO EMANUELE PARSI Teheran esulta per essere riuscita nell’impresa nonostante il recente (blando) inasprimento delle sanzioni decretato dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu, ma è Mosca ad aver fatto bingo ieri, con l’attivazione della centrale nucleare di Bushehr nel Sud dell’Iran. Ci sono voluti 35 anni per completare il vecchio impianto di concezione tedesca da parte dei nuovi fornitori russi, e solo la cocciuta ambizione nuclearista della Repubblica islamica ha consentito di evitare una plateale rottura con i russi, sospettati di tirarla per le lunghe allo scopo di evitare eccessivi attriti con l’Occidente. Ma, alla fine, Ahmadinejad può esibire un successo tanto in campo interno (i cittadini iraniani sono esasperati dai continui black out energetici), quanto internazionale (dimostrando le eccellenti performance del Paese). Nonostante continuino a essere preoccupati dai rischi di proliferazione, come dimostrato anche dall’adozione di sanzioni aggiuntive da parte della Ue, i Paesi occidentali ritengono soddisfacenti le modalità con cui i due reattori diventano operativi; la centrale sarà infatti gestita dai russi, che forniscono il combustibile nucleare e ritirano le scorie, e sarà aperta agli ispettori della Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica. Proprio il pesante coinvolgimento russo è stato l’elemento chiave perché il progetto andasse a buon fine. L’impegno di Mosca a supervisionare l’intera operazione non poteva essere derubricato a una mera trovata propagandistica o a una strategia disinformativa, come invece accade regolarmente per le dichiarazioni iraniane. Ma il modo in cui Mosca ha giocato la partita le ha consentito di «rivendere» più volte e a più acquirenti la stessa prestazione, oltretutto senza mai deflettere dai propri obiettivi strategici. Vediamo perché. La Russia è la seconda potenza nucleare mondiale ed è membro permanente del Consiglio di Sicurezza. Mosca sa benissimo che, dopo la Guerra Fredda, la sua posizione nel sistema politico internazionale è tale soprattutto per il suo status di potenza nucleare (oltre che per la ricca dotazione energetica). Se c’è un Paese che, quindi, ha più da perdere da un’eventuale proliferazione, questo è la Russia. Piuttosto che aderire acriticamente, e gratuitamente, alla posizione di fermezza occidentale, Mosca ha però scelto di trovare la via affinché il diritto iraniano allo sviluppo del nucleare civile (un diritto che nessuno mette formalmente in discussione) fosse concretamente realizzabile. Così, in cambio del suo sostegno all’ultimo round di sanzioni Onu, ha ottenuto che americani ed europei «sfilassero» di fatto la centrale di Bushehr dal dossier della «proliferazione nucleare iraniana» (un punto segnato a Usa ed Europa). In tal modo, la Russia ha ricevuto, oltre a un cospicuo contratto di fornitura, la riconoscenza non solo iraniana, ma anche di molti Paesi del Sud, che forse per un attimo sono tornati a guardare Mosca come un «alleato naturale», un po’ come avveniva ai vecchi tempi del terzomondismo e dell’Urss (un punto alla Cina). Grazie a Bushehr, Mosca riacquista peso su tutta la vicenda del dossier nucleare iraniano, diventando il vero pivot del cosiddetto «5+1» (Usa, Russia, Cina, Gran Bretagna, Francia e Germania), per essere, di tutto il gruppo, il solo naturalmente contrario alla proliferazione, leale sulle sanzioni e con entrature rilevanti a Teheran. E per questa via, il Cremlino torna a contare in Medio Oriente, come non avveniva più dalla guerra del 1990-91, quando l’Urss di Mikhail Gorbaciov dovette acconsentire alla guerra contro il suo alleato ed ex pupillo Saddam Hussein (un punto ancora agli americani e uno agli israeliani). A circa 20 anni di distanza, lo switch tra il cavallo iracheno e quello iraniano non si presenta esente da rischi, evidentemente: a iniziare dal fatto che la Repubblica di Ahmadinejad e Khamenei appare per nulla propensa a farsi cavalcare da chicchessia. Ma il rientro in un Medio Oriente che fino a pochissimi anni fa sembrava un esclusivo feudo americano giustifica un tale azzardo, nella speranza che a Mosca abbiano qualche idea su che cosa fare, una volta tornati nella scacchiera mediorientale. Certo è che i buoni uffici tra Occidente e Iran prestati da Mosca potrebbero indurre quest’ultima a tentare un’operazione simile con Damasco, alleato iraniano e il solo regime sopravvissuto dei vecchi clientes sovietici di un tempo: una variabile di cui tener conto da qui al 2 settembre, e anche dopo, ovviamente. http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7734&ID_sezione=&sezione= Titolo: VITTORIO EMANUELE PARSI - L'alleato imbarazzante Inserito da: Admin - Agosto 30, 2010, 04:27:12 pm 30/8/2010
L'alleato imbarazzante VITTORIO EMANUELE PARSI Napoleone Bonaparte si racconta fosse furibondo con i suoi parenti, sempre avidi di nuovi regni e onori, e che a ogni loro astrusa richiesta commentasse sconsolato «Che posso dire! Gli amici si scelgono, i parenti ti capitano». Difficile che Silvio Berlusconi possa invocare la malasorte, pensando a tutti i guai che il suo amico Gheddafi gli sta combinando. Arrivato a Roma con il solito imbarazzante codazzo di «amazzoni», tende e cavalli, che in confronto un circo di terz’ordine apparirebbe sobrio, l’ineffabile colonnello ha pensato bene di esternare la sua filosofia religiosa. Così, di fronte a un inclito pubblico di più o meno avvenenti hostess convocate all’uopo, ha invitato l’Europa «a convertirsi all’Islam», portando a casa, almeno a quel che si dice, la conversione di tre ragazze, come acconto. Il monito, già discutibile di per sé (andiamo, colonnello, delle signore appena conosciute le si invita a un giro di danza, a cena, a far due chiacchiere, non alla conversione… figuriamoci poi i continenti), risulta essere un’autentica cafonata fatto in quella Roma che oltre a essere la capitale d’Italia è, anche, la sede del papato da una cosetta da nulla come duemila anni. Pur in un’epoca in cui al multiculturalismo è doveroso sacrificare persino il buongusto e l’eleganza, la visita dell’ospite libico è sempre più (pre)destinata a essere il trionfo del Kitsch. C’è qualcosa di francamente sconcertante nel vedere come un premier e un governo che hanno sempre fatto della difesa delle radici cristiane dell’Europa, dell’atlantismo e dell’occidentalismo uno dei tratti più caratterizzanti della propria filosofia politica, un vero e proprio tratto di autoidentificazione, possano poi trovarsi in una situazione così imbarazzante. Si dirà che occorre trattare con i vicini che si hanno e cercare di mantenere buone relazioni con chiunque. Corretta osservazione. Allo stesso modo si potrà ricordare che va a merito del governo Berlusconi aver chiuso l’infinito contenzioso con la Libia, tra l’altro in modo tutto sommato vantaggioso per noi, impresa che non era riuscita né al furbissimo Andreotti né al sornione Prodi: incontestabile. Si affermerà, infine, che il Trattato di Bengasi ha consentito di trasformare la Libia in un partner per la lotta all’immigrazione clandestina: vero, pur con qualche imbarazzo sulle modalità con cui le autorità libiche si prestano alla bisogna. Ma l’interesse nazionale non giustifica, e soprattutto non richiede, di rendersi disponibili a ospitare grottesche pagliacciate. È pur vero che l’ospite è sacro, ma è altrettanto vero che reiterare inviti a ospiti così imbarazzanti è poco furbo. È una delle regole da sempre discretamente seguite in diplomazia. Gli inglesi, che han governato un impero per qualche secolo e la cui abilità diplomatica li ha spesso esposti ad accuse di «doppiezza» (la perfida Albione…), erano sicuramente costretti a intrattener rapporti con personaggi bizzarri almeno tanto quanto il colonnello. Ma non han mai trasformato Hyde Park in un circo. Avevano ben chiaro il senso della dignità della Casa («Home Fleet» era il nome della Flotta destinata a tutelare le Isole, e «domestic» è l'aggettivo usato per definire gli affari interni). Talvolta si direbbe che sia invece un’altra la metafora che il premier ha in mente per l’Italia, e cioè quella aziendale, per cui, si sa, «il cliente ha sempre ragione»… Più che conflitto di interessi, in questo caso, si potrebbe parlare di una vera e propria confusione di ruoli da parte del premier-imprenditore. Una confusione che, comunque, non fa bene al Paese e alla sua immagine. http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7763&ID_sezione=&sezione= Titolo: VITTORIO EMANUELE PARSI - Anche l'Islam ha tanti reverendi Jones Inserito da: Admin - Settembre 15, 2010, 09:08:10 am 15/9/2010
Anche l'Islam ha tanti reverendi Jones VITTORIO EMANUELE PARSI Ma quanti «reverendi Jones» ci sono nel mondo islamico e quanto grande è il loro seguito? La sconsiderata minaccia di questo oscuro pastore di un’ancor più sconosciuta chiesa evangelica della Florida, peraltro neppure attuata, di bruciare il Corano ha offerto il pretesto per l’ennesima strage di cristiani nel subcontinente indiano. Tutto ampiamente e drammaticamente previsto, ma oggi, mentre contiamo le vittime innocenti di una violenza inaccettabile, è impossibile fare a meno di sottolineare che, se bruciare i libri è esecrabile, ammazzare persone innocenti è peggio. Perentorie, in tal senso, le parole del vescovo di Jammur & Kashmir nell’intervista rilasciata a La Stampa di ieri, «non si può giustificare con una proposta offensiva la soppressione di vite innocenti», e neppure di quella del «colpevole» autore della proposta, mi sentirei di aggiungere. Non dovrebbe mai essere dimenticato del resto che, per quanto non sia condivisibile dar fuoco ai simboli e alle effigi che non ci piacciono, una simile pratica rientra pur sempre nella libertà d’espressione, la quale nelle democrazie gode della massima tutela, perché se la prima vacilla trascina nella sua caduta anche le seconde. Non per caso, una trentina d’anni fa, la Corte Suprema riconobbe il diritto di bruciare la bandiera degli Stati Uniti come un esercizio, per quanto detestabile, di tale libertà, dichiarando incostituzionali le norme che ben 48 Stati dell’Unione su 50 avevano adottato a difesa del vessillo a stelle e strisce. È del tutto evidente che «l’amor di Patria» e il «timor di Dio» sono sentimenti in sé rispettabili e sacri per i rispettivi credenti, ma sarebbe una deroga inammissibile al principio della libertà di espressione pretendere che ciò che per gli uni o gli altri è «sacro e inviolabile» venisse sottratto all’esercizio di una delle principali libertà, sia pure in forme, lo ripetiamo, assai discutibili. La «prevedibilità» della violenza scatenata in India contro cristiani colpevoli solo di essere tali, non toglie niente alla sua inaccettabilità e pretestuosità. È solo l’ennesima manifestazione della dilagante e crescente intolleranza nell’Islam, una vera e propria malattia che sta soffocando le società dove l’Islam è religione maggioritaria, e che rischia di restringere gli spazi di libertà anche nelle nostre società. Che siano le vignette danesi, le provocazioni di un idiota o più sofisticate polemiche culturali, quando un qualunque imam leva la voce per scatenare la violenza è sicuro di trovare seguito e, troppo spesso, anche la connivenza delle autorità (basti pensare ai cristiani impiccati in Pakistan per blasfemia dopo «regolare processo»). Come ha sottolineato ieri Angelo Panebianco con l’abituale franchezza sul Corriere, «la “loro” malattia dovrebbe essere, ma non è, il nostro primo argomento di discussione». Nei giorni scorsi i media sono stati accusati di aver «creato il mostro», facendo del reverendo Jones un personaggio planetario. La verità è che l’attenzione che i media occidentali hanno dedicato a Jones semplicemente obbedisce a un vecchio adagio della professione: «un cane che morde un uomo non fa notizia, un uomo che morde un cane è una notizia». Proprio perché viviamo in società laiche e liberali, ci fa specie e desta il nostro sdegno ogni deriva della versione del sentimento religioso oggi prevalente in Occidente. Secoli di guerre civili di religione intra-occidentali ci hanno dolorosamente vaccinato rispetto ai rischi dell’uso politico e violento delle religioni e insegnato i vantaggi della tolleranza. Diversamente stanno le cose in gran parte del mondo islamico, nel quale l’utilizzo politico del movente religioso gode di un successo tanto maggiore quanto più è estremo e dove anche i media, troppo spesso, giocano un ruolo diverso. Non è un caso che, a scatenare i professionisti della violenza religiosa in Kashmir sia stata la diffusione di immagini della «profanazione» del Corano da parte dell’iraniana Press Tv, cioè della televisione di un Paese la cui legislazione considera normale la lapidazione delle adultere... http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7833&ID_sezione=&sezione= Titolo: VITTORIO EMANUELE PARSI - La guerra e i veri obiettivi Inserito da: Admin - Ottobre 10, 2010, 10:12:04 am 10/10/2010
La guerra e i veri obiettivi VITTORIO EMANUELE PARISI Il 2010 si va profilando come l’anno più luttuoso per la coalizione multinazionale da quando la guerra afghana è cominciata. E a questa tendenza generale non sfugge purtroppo neppure il contingente italiano. Il prezzo da pagare si fa sempre più alto, al punto che dal presidente Obama al premier Cameron al ministro della Difesa La Russa, tutte le autorità governative si affannano a proclamare il 2011 come l’anno in cui terminerà lo sforzo di Isaf. Quasi volessero rassicurare l’opinione pubblica che si tratta di stringere i denti ancora per un anno e poi l’incubo, con il suo stillicidio di morti, cesserà o perlomeno smetterà di riguardarci. Lasciateci dire che tutto questo è profondamente sbagliato. Il punto non è fissare una data e cercare di arrivarci in qualche modo. Il punto è capire quali sono gli obiettivi della nostra guerra, quella di Isaf, in Afghanistan, adeguare la strategia agli obiettivi e ritirarsi quando saranno stati raggiunti o quando risultasse evidente che è impossibile ottenere più di quanto è stato conseguito. Ma procediamo con ordine. Quello che tutti sembrano aver dimenticato è che la guerra in Afghanistan era già in corso quando la coalizione internazionale è arrivata. Era una guerra tra l’Alleanza del Nord, il cui leader Massud fu eliminato poche ore prima dell’11 settembre, e il regime talebano. L’intervento occidentale in quel conflitto fu causato dagli attentati dell’11 settembre e dal rifiuto del regime talebano di consegnare Osama alle autorità americane, come richiedevano le Nazioni Unite. Noi non siamo entrati in guerra per trasformare l’Afghanistan in una socialdemocrazia, né per far prevalere questa o quella fazione. Ma abbiamo sostenuto una fazione e rovesciato il regime talebano per un duplice scopo: quello esplicito di eliminare le cellule qaediste e catturare Bin Laden e quello implicito di tenere la guerra lontano dall’Occidente, dopo che Bin Laden era riuscito a portarla nel cuore dell’Occidente. Potremo discutere all’infinito se, finora, l’obiettivo esplicito è stato raggiunto, consapevoli che di Bin Laden si sono perse le tracce tanto che neppure sappiamo se è ancora vivo, ma anche che gran parte della struttura qaedista in Afghanistan è stata eliminata fisicamente. Siamo peraltro riusciti a tenere la guerra lontano dalle nostre case, anche se, in questi nove anni, Londra e Madrid sono state colpite da due gravi attentati terroristici. La domanda che oggi dovrebbero porsi i leader della Nato e dei Paesi associati è se, arrivati a questo punto, non occorra cambiare radicalmente strategia per raggiungere i medesimi obiettivi (tenere lontana la guerra e colpire Al Qaeda), cioè se la presenza delle truppe Isaf costituisca ancora uno strumento efficace o possa essere invece controproducente rispetto ai nostri scopi di guerra. Che non sono quelli di Kharzai. Il Presidente afgano ha i suoi scopi, sintetizzabili nel restare al potere e nel cercare di dare un minimo di tregua al suo popolo. Per potercela fare ha bisogno come minimo di avere un migliore strumento militare, che gli consenta di consolidare la propria posizione, e poi di cercare una soluzione politica del conflitto che sia la sua e non la nostra, parlando con chi ritenga opportuno. A tal fine, la nostra presenza rischia di essere un impiccio. Finché Isaf sarà in Afghanistan il raggio di trattative che Kharzai potrà intavolare con successo sarà di necessità limitato. Ma se l’Alleanza riterrà che, giunti a questo punto, il conseguimento dei nostri scopi di guerra richieda il ritiro di Isaf, allora si dovrà procedere in questa direzione. Valutando solo che ciò avvenga senza mettere a rischio la credibilità della Nato e chiarendo che se l’Afghanistan, con o senza l’associazione dei talebani al governo, dovesse tornare a essere un santuario per i terroristi, si esporrà a una massiccia rappresaglia militare. Durante i quasi dieci anni di guerra, ci siamo ritrovati a combattere per obiettivi probabilmente irrealizzabili con queste modalità e comunque in così poco tempo. Le foto delle ragazze di Kabul negli Anni 60, con i loro tailleur e i loro capelli al vento ci ricordano che la situazione è regredita di conflitto in conflitto, da quando il Paese è scivolato nella guerra civile che portò all’intervento russo. Quello che abbiamo imparato è che, quando la guerra è tra la gente, conquistare i cuori e le menti della popolazione civile è la sola via per vincere. Ma farlo mentre si combatte è quasi impossibile. Sarebbe come cercare di fare contemporaneamente lo sbarco in Normandia (in cui morirono più civili francesi che soldati di tutti gli eserciti) e il Piano Marshall. Ed è proprio quello che stiamo provando a fare in Afghanistan. http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7938&ID_sezione=&sezione= Titolo: VITTORIO EMANUELE PARSI - Il sapore della vendetta Inserito da: Admin - Ottobre 27, 2010, 09:38:27 am 27/10/2010
Il sapore della vendetta VITTORIO EMANUELE PARSI Era prevedibile che la sentenza di condanna a morte per Tareq Aziz, ex vicepresidente dell’Iraq di Saddam Hussein, provocasse forti reazioni in tutto il mondo. Aziz aveva sempre cercato di accreditarsi come il volto moderato del regime sanguinario di Saddam, giocando con scaltra spregiudicatezza sulla sua appartenenza alla fede cattolico-caldea e su quel suo aspetto fisico bonario, se non addirittura dimesso, con quel viso che ricordava vagamente quello del presidente cileno Salvador Allende, ucciso dai golpisti di Pinochet. Evidentemente Aziz non era per nulla quello che molti volevano disperatamente che fosse. Era un militante del partito nazional-socialista del Baath, un altissimo gerarca del regime di Hussein, pronto a servirlo per gli scopi più brutali, sfruttando le sue qualità «diplomatiche», che non si allontanò da Saddam neppure quando il tiranno decise di gassare i suoi sventurati sudditi. In ciò, Aziz era l’equivalente iracheno dei Ribbentrop e degli Hess, che in ogni occasione cercarono con la frode di accreditare l’idea falsa di un nazionalsocialismo quasi rassicurante, diverso da quello che era in realtà. In quanto figura di spicco del regime, perfettamente a conoscenza e complice di ogni sua scelta criminale, Aziz è politicamente, moralmente e penalmente colpevole, in solido con quel padrone che fino all’ultimo ha scelto di servire, e che ora si appresta a seguire sul patibolo. E proprio qui sta il punto della nostra contrarietà e delle proteste del mondo: sull’entità e la qualità della pena. Come tantissimi altri, anche chi scrive ritiene che la pena di morte sia un retaggio del passato di cui, con fatica, perseveranza e passione in Europa ci siamo finalmente liberati. Togliere la vita anche al peggiore dei criminali ripugna alla nostra coscienza, ci sembra un atto indegno del progresso umano che offende innanzitutto la nostra dignità. Evidentemente queste obiezioni morali lasciano il tempo che trovano a chi ha deciso di accogliere la pena di morte nel proprio ordinamento (dall’Iraq alla Cina, dal Giappone agli Stati Uniti). Se un ordinamento giudiziario come quello iracheno prevede la pena capitale, del resto, per l’entità dei crimini di cui anche Aziz si è macchiato, quella pena può essere definita appropriata, sempre che le procedure seguite per decretarla siano state rispettose di quanto prevede la legge irachena. Su questo i dubbi sono tanti e fondati, e le continue rivelazioni sull’eccessiva disinvoltura con cui sono state commesse, incoraggiate e tollerate sistematiche violazioni dei diritti umani da parte delle nuove autorità irachene e delle forze occupanti, dopo la caduta del regime di Saddam, non fanno che accentuare queste perplessità. Persino chi volesse sostenere che la sentenza nei confronti di Aziz è stata emessa nel rispetto formale e sostanziale delle procedure legali irachene dovrebbe non essere insensibile a una ragione squisitamente politica che consiglia un atteggiamento di clemenza nei suoi confronti. Innanzitutto per allontanare il sospetto che quello che si sta consumando a Baghdad sia «anche» un regolamento di conti. Mentre invece le nuove autorità irachene avrebbero l’interesse a cercare di marcare in tutti i modi possibili il proprio differente status etico rispetto al regime di cui Aziz era esponente di primissimo piano. Osservava con ragione Niccolò Machiavelli, molti secoli orsono, che talvolta la ragion politica richiede di compiere azioni moralmente riprovevoli ma politicamente necessarie. Si può essere d’accordo o no, ma di certo anche il Segretario della Repubblica fiorentina sottoscriverebbe che la ragion politica non richiederà mai di compiere azioni stupide e controproducenti, che attirano su chi le compie l’ostilità di una parte considerevole del mondo. Se per l’esecuzione di Saddam si poteva forse invocare la ragion politica (il regime era fragilissimo, appena in via di instaurazione, in un contesto di guerra civile), nel caso di Aziz simili considerazioni non sussistono. E la sua esecuzione appare un atto forse vendicativo, ma sicuramente tanto stupido quanto moralmente riprovevole. http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8006&ID_sezione=&sezione= Titolo: VITTORIO EMANUELE PARSI - Rivincita sul voto Inserito da: Admin - Novembre 09, 2010, 06:09:22 pm 9/11/2010
Rivincita sul voto VITTORIO EMANUELE PARSI Partito con l’esplicito obiettivo di riuscire a frenare la «fuga di posti di lavoro americani in India», Obama ha scelto di fornire alla sua tutt’altro che scontata visita indiana (è il terzo Presidente Usa a visitare il Paese) un colpo d’ala politico. Con un’accelerazione rispetto alle sempre più continue aperture di credito americane nei confronti della «più popolosa democrazia del pianeta», il Presidente americano si è spinto a sostenere in maniera tanto esplicita e solenne, quanto priva di conseguenze effettive, le aspirazioni indiane a un seggio permanente nel Consiglio di Sicurezza dell’Onu. La riforma del Consiglio, e dell’organizzazione nel suo complesso, giace impantanata da anni nella palude del Palazzo di Vetro, ed è improbabile che le cose possano cambiare a breve. Ma una così autorevole presa di posizione costituisce un’ottima premessa affinché il dialogo tra Washington e Delhi possa portare a qualche risultato spendibile dal Presidente anche e soprattutto sul fronte interno: cioè in termini di posti di lavoro e accordi commerciali. Sono ormai molti anni che Washington sta letteralmente «allevando» l’India come grande potenza, per farne un alleato strategico in grado di bilanciare le possibili aspirazioni egemoniche cinesi in Estremo Oriente. Non si tratta di un’opzione anticinese, ma piuttosto di una scelta a favore del mantenimento di quel multipolarismo asiatico di cui Washington è stata storicamente garante. E la cosa, al di là delle reazioni ufficiali e mediatiche, potrebbe in fondo non dispiacere a Pechino, che ha tutto l’interesse a rassicurare i vicini circa il carattere armonioso e non minaccioso della sua crescita. Proprio in omaggio a una simile strategia, il predecessore di Obama, liberò la vendita di componenti decisive per i reattori nucleari indiani, bloccata dal Congresso a seguito della violazione indiana del Trattato di Non Proliferazione Nucleare: un passo, quello, ben più denso di significati concreti, per un Paese sempre più affamato di energia, ma ancora incredibilmente legato a materie prime altamente inquinati e scarsamente efficienti come il carbone. Certo che sostenere la richiesta di un seggio permanente nel Consiglio di Sicurezza per un Paese che ha violato apertamente il trattato di non proliferazione appare una scelta simbolicamente persino più audace dello sblocco di qualche turbina. Sarà piuttosto il Pakistan a cogliere nella decisione americana un ulteriore segnale del degrado delle relazioni bilaterali con Washington, dove l’insofferenza per un alleato ritenuto doppiogiochista e fellone nella lotta ai talebani è temperata solo dalla consapevolezza della sua insostituibilità. Più in generale, il mondo islamico non vedrà di buon occhio questo passo, che sarà letto come l’ennesima delusione seguita alle grandi aspettative suscitate dall’ormai lontano discorso del Cairo. Anche fuori degli States, il problema del gap tra le enormi aspettative suscitate e le modeste prestazioni fin qui realizzate appare perseguitare Obama, la cui politica estera nei prossimi due anni dovrà giocoforza essere sempre più attenta agli interessi strettamente americani e lontana da quell’afflato di leadership e responsabilità globali che oltreconfine gli aveva provocato tanta simpatia e tanto interesse. Inevitabilmente, anche sulla politica estera gli effetti delle disastrose elezioni di Midterm si faranno sentire, spingendo il presidente a privilegiare quelle regioni (e quegli interlocutori) ove, accanto a più tradizionali e dilazionati interessi strategici possano essere perseguiti anche più schietti e immediati interessi economici. Quindi più Asia meridionale e orientale e meno Medio Oriente: a iniziare da quel Levante (Israele, Palestina, Libano, Siria) dove l’America sta perdendo presa politica e non ha grandi interessi economici, o dove la militarizzazione dell’azione di politica estera (Iraq, Afghanistan) impone scelte sostanzialmente obbligate. Il risultato complessivo potrebbe essere apparentemente paradossale: ovvero che un presidente partito con convinzioni, aspirazioni e aspettative orientate a esercitare una leadership globale e insieme condivisa, potrebbe ritrovarsi (pena la sconfitta alle prossime elezioni) a svolgere un’azione concreta molto più serrata intorno all’interesse nazionale degli Stati Uniti. Non per colpa delle sue idee, si dirà, ma per via del ciclo economico e delle sue conseguenze politiche. Ma in fondo è né più né meno quanto accadde a George Bush (padre), che nonostante le idee (un nuovo ordine mondiale da costruire multilateralmente) e le azioni (il successo della Guerra del Golfo e della sua straordinaria coalizione arcobaleno) venne sconfitto per non aver saputo trovare le risposte giuste alla preoccupazioni economiche del suo elettorato domestico. http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8058&ID_sezione=&sezione= Titolo: VITTORIO EMANUELE PARSI - La crisi delle Coree paralizza l'Onu Inserito da: Admin - Novembre 27, 2010, 12:02:41 am 26/11/2010
La crisi delle Coree paralizza l'Onu VITTORIO EMANUELE PARSI E’ assordante il silenzio dell’Onu di fronte all’ennesima, gravissima provocazione da parte della Corea del Nord. Ed è tanto più sconcertante se si pensa che, a parte la Guerra del Golfo del 1990-‘91, proprio la penisola coreana è stata il solo luogo in cui le truppe sotto il vessillo delle Nazioni Unite combatterono per restaurare la sovranità di uno Stato. L’invasione dalla Corea del Sud da parte del Nord diede inizio alla Guerra di Corea, che tra il 1950 e il 1953 causò quasi 4 milioni di vittime. Allora la Cina comunista non era un membro dell’Onu e i suoi volontari ebbero una parte cruciale nel conflitto a fianco dell’aggressore, e l’adozione della risoluzione del Consiglio di Sicurezza (Cds) che autorizzava l’uso della forza per respingere l’invasore fu resa possibile dalla momentanea assenza del rappresentante sovietico, che disertava le sessioni del CdS nella speranza di bloccarne i lavori. La Guerra Fredda è finita da oltre 20 anni, la Russia ha condannato aspramente l’attacco nordcoreano e la Cina è un gigante economico e politico, membro del Wto (l’Organizzazione Mondiale del Commercio), sempre più integrato nel sistema internazionale e ben rappresentato nelle sue istituzioni. Nessuna contrapposizione ideologica frontale, paragonabile a quella del mondo bipolare, divide i «grandi della Terra», nessuno ha interesse a vedere precipitare il Nord-Est asiatico in uno stato di disordine o, peggio, in una guerra. Eppure l’Onu non riesce a proferire una parola autorevole e unitaria. L’Onu, la cui Commissione d’Armistizio vigila dal luglio del 1953 sul rispetto della tregua tra le due Coree, resta così paralizzata, come sempre, ogni volta che la Nord Corea è artefice di una sfida all’ordine regionale e internazionale. E’ esattamente quello che accade da anni con il suo dossier nucleare. Per spiegare le timidezze del CdS, e in un certo senso anche per comprendere l’arroganza di Pyongyang, in molti ritengono occorra guardare alla Cina, quasi che Pechino sia vittima di un’antica sindrome da Guerra Fredda. In quanto membro permanente del CdS, Pechino starebbe operando per impedire una dura condanna della Corea del Nord da parte del CdS. La Cina è la sola alleata della Corea del Nord, che aiuta in termini economici, energetici e alimentari, estremamente preoccupata dell’eventuale crollo del regime, una vera e propria monarchia ereditaria comunista, ormai prossima alla terza generazione. Consapevoli di ciò, i Kim giocano le loro carte con spregiudicatezza: «incatenando» l’alleato maggiore alle proprie folli iniziative, la Corea del Nord si comporta come un piccolo bullo di quartiere, che sa di avere le spalle coperte, sia pur controvoglia, da un boss ben più temuto e rispettato. Ma perché la Cina dovrebbe prestarsi a un simile gioco, quando essa ha tutto l’interesse a mantenere tranquilla l’area del Nord-Est asiatico, così da continuare a convincere i propri vicini che la sua crescita politica ed economica non li minaccia? I cinesi sono ben consapevoli che un innalzamento della tensione nella regione renderebbe sempre più improbabile quel progressivo disimpegno Usa che Pechino auspica possa prima o poi realizzarsi. Allo stesso tempo, però, non intendono in alcun modo fornire l’impressione di considerare «accettabile» la presenza americana nell’area (di qui la dichiarazione che mette sullo stesso piano il cannoneggiamento nordcoreano e le annunciate manovre militari americane). Ma le azioni nordcoreane, come le fin qui timide reazioni americane, lasciano intendere una nuova rischiosa possibilità per i dirigenti cinesi. Quella di mettere in serio imbarazzo Washington, rendendo evidente che la protezione militare degli Usa è un elemento assai aleatorio, perché l’America sta diventando di fatto incapace o non volenterosa di difendere i propri alleati. Se Giappone e Corea del Sud iniziassero a nutrire dubbi sull’effettiva volontà americana di garantire la loro sicurezza, cioè di ottemperare gli obblighi che derivano dal vincolo di alleanza, potrebbero realisticamente cominciare a volgere lo sguardo verso Pechino, la sola, forse, in grado di bloccare la minaccia nordcoreana alla fonte. Lasciar rosolare a fuoco lento gli Usa, attendere fino all’ultimo momento prima di cavarla d’impaccio, contribuirebbe ad erodere le ragioni dell’alleanza che lega Washington a Seul e Tokyo, e magari a Taipei (capitale della «provincia ribelle» di Taiwan) e renderebbe possibile quello che per ora non è nemmeno immaginabile: che l'America rinunci a quel ruolo di riequilibratore antiegemonico in Asia orientale che ha svolto per quasi 80 anni nei confronti prima del Giappone, poi dell’Urss e ora della Cina. A ben vedere, è solo la presenza americana a impedire a Pechino di poter sognare una leadership regionale, ottenuta magari pacificamente, ma anche altrettanto incontrastata. http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8134&ID_sezione=&sezione= Titolo: VITTORIO EMANUELE PARSI - Un doppio rischio per Obama Inserito da: Admin - Novembre 30, 2010, 05:33:01 pm 30/11/2010
Un doppio rischio per Obama VITTORIO EMANUELE PARSI Non sarà l’«11 settembre della diplomazia», come ha sostenuto il ministro degli Esteri Frattini, e forse neppure «l’attacco alla comunità internazionale» di cui parla Hillary Clinton, ma la diffusione dei files del Dipartimento di Stato (DoS) rischia di produrre agli Stati Uniti un danno dall’entità non così immediatamente calcolabile. Il fatto che il Segretario di Stato abbia chiesto ai suoi diplomatici di raccogliere tutte le informazioni sensibili (compreso il Dna, ove possibile), dei rappresentanti degli Stati accreditati all’Onu non è esattamente una bazzecola. Sono cose da film di James Bond, che forse la logica della Guerra Fredda poteva giustificare, ma che fanno a cazzotti con tutti gli sforzi della diplomazia pubblica messa in campo dall’amministrazione Obama in questi anni e stridono platealmente con la stessa idea di change, così centrale nella brillante ars rhetorica obamiana. Tutti i pregiudizi sull’«ipocrisia yankee», sul cinismo che si nasconde sotto le belle parole, ne verranno inevitabilmente alimentati. Si potrà osservare che, al di là di caustici giudizi su questo o quel leader straniero e di valutazioni geopolitiche talvolta francamente approssimative, non sono emerse tracce di comportamenti anomali, come le renditions o i waterboard di Bushiana memoria. Ma occorre anche considerare che quelle finora svelate sono informazioni carpite al circuito del DoS, ma non sono informazioni criptate, come sarebbero invece quelle che dovessero contenere informazioni su comportamenti «inammissibili». Questo doppio standard, questa tensione tra le parole e i fatti, non può che appannare l’aura internazionale di Obama, che anche sulla maestria oratoria aveva costruito la sua reputazione e, ovviamente, ne esce indebolita anche Hillary Clinton, cioè il Presidente attuale e uno dei più seri candidati alla sua successione. La seconda cosa che colpisce è una certa incoerenza anche tra i giudizi raccolti dalle ambasciate americane e le conseguenti decisioni politiche della Casa Bianca. Il nostro premier è stato bacchettato per i suoi legami troppo stretti con Putin. E chi scrive è sempre stato altrettanto perplesso. Eni è stata criticata pesantemente per la questione dei gasdotti e dei suoi accordi con Gazprom: che magari allontanano la prospettiva di una politica energetica europea attenta anche alla sicurezza oltre che agli sconti di prezzo (ma non più degli accordi tra russi e tedeschi), e però di sicuro dispiacciono alle compagnie americane interessate a fare affari altrettanto lucrosi in materia energetica. La pericolosità della Russia, secondo i files del DoS, starebbe nel suo essere uno «Stato-mafia». Bene. Ed è in base a questa valutazione che al vertice Nato di Lisbona, dieci giorni fa, la Casa Bianca ha proposto di condividere con la Russia le tecnologie per la difesa antimissile? Qualcosa non torna, sarà pressappochismo, sarà prepotenza commerciale, ma qualcosa non torna. Più che tirare un sospiro di sollievo per quello che i files non contengono, occorre preoccuparsi per quello che rivelano, è cioè la solita vecchia attitudine americana a tracimare dalla leadership alla supremazia: a cui i Presidenti migliori hanno saputo porre un consapevole argine, nello stesso interesse Usa, per rafforzarne il ruolo internazionale. E’ previsione fin troppo scontata che dalla Russia alla Cina, al mondo arabo (nei confronti dei cui leader il giudizio è durissimo), il contenuto di questi files (e non la sola diffusione) alimenterà nuovo antiamericanismo, rendendo sempre più evanescente il soft power americano. Nicolò Machiavelli rammentava che il potere del principe può derivare dall’amore o dal timore. Oggi Obama rischia di dover fronteggiare la peggiore combinazione per Washington: un’America che torna ad essere poco amata e che continua a essere poco temuta. http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8150&ID_sezione=&sezione= Titolo: VITTORIO EMANUELE PARSI - I cristiani e il peccato colonialista Inserito da: Admin - Dicembre 28, 2010, 06:21:09 pm 28/12/2010
I cristiani e il peccato colonialista VITTORIO EMANUELE PARSI Le stragi di cristiani avvenute in Nigeria tra Natale e Santo Stefano hanno motivazioni riconducibili anche a dinamiche locali, ma allo stesso tempo si inseriscono in quella lunga scia di violenze anticristiane accoratamente denunciate dal Papa. Dal Pakistan all’India, dall’Iraq all’Egitto, dal Sudan alla Nigeria, appunto, sembra che la tolleranza verso quelle che pure sono talora corposissime minoranze di antico insediamento sia sempre meno praticata. Sarebbe evidentemente sbagliato fare di ogni erba un fascio, eppure un elemento comune a queste esplosioni di selvaggia violenza, mi pare possa essere individuato: dovunque sono perseguitati, i cristiani vengono considerati cittadini di second’ordine, la cui piena e leale appartenenza alla comunità politica è continuamente messa in dubbio proprio a causa della loro adesione a una fede presentata come culturalmente aliena alla tradizione autenticamente «autoctona». E questo è vero anche laddove, come in Cina, la persecuzione non ha bisogno di ricorrere allo spargimento di sangue. La religione cristiana viene cioè strettamente associata all’Occidente e al suo predominio politico, più o meno prolungato e lontano: presentata, per alcuni forse vissuta, come la religione dei conquistatori. Una tale identificazione assoluta tra il cristianesimo e l’Occidente, è resa possibile attaccando il «punto debole» comune a tutte le grandi religioni, sempre alla ricerca di un difficile equilibrio tra i loro elementi propriamente teologici universalisti e il loro costrutto culturalmente e geograficamente determinato. Ed ecco allora che il cristianesimo, esattamente come l’islam, è ovviamente una religione universale, ma è stato culturalmente costruito da segni, categorie, concetti e parole occidentali (né più né meno di quanto l’islam sia stato edificato con «mattoni» culturali arabi). L’intreccio tra cristianità e cultura occidentale è quello che per quasi un decennio ha alimentato la polemica sulle «radici cristiane dell’Europa», tanto oggettivamente evidenti, a parere di chi scrive, quanto oggi è altrettanto oggettivamente problematico il rapporto tra l’Europa e le religioni. Se il messaggio teologico contenuto in religioni come il cristianesimo o l’islam è il vettore che rende queste ultime potenzialmente universali, il loro costrutto culturale è quello che ne provoca l’attrito, che ne indebolisce concretamente la capacità di diffusione. Così, a mano a mano che ci si allontana da quell’Occidente dove la «particolarità geografica» dei segni culturali di cui la religione cristiana è intessuta non risalta (perché si «confonde» con altri costrutti culturali), la concreta valenza universale dei suoi contenuti specificamente religiosi si attenua, rendendo più facile la collocazione del cristianesimo all’interno di quella cultura occidentale rifiutata programmaticamente come ultimo prodotto della dominazione coloniale. Non può sfuggire che, se la rivolta contro il retaggio coloniale occidentale che accomuna l’Asia all’Africa risale alla metà del secolo scorso, essa è rinfocolata e dirottata dall’uso politico della religione, che si traduce sempre e comunque nel piegare un messaggio universale al proprio contesto particolare. È ovvio che chi sceglie questa strada guarda per istinto e per calcolo politico alla dimensione culturale della religione altrui, per classificarla non solo come erronea ma come aliena alle tradizioni culturali autoctone. Se da un punto di vista occidentale può apparire un paradosso che società come le nostre, descritte o percepite come sempre più scristianizzate, si vedano ascrivere la religione cristiana come un proprio elusivo prodotto culturale, dal punto di vista di chi rivendica un’autocollocazione esterna ai valori occidentali, l’operazione ha un suo senso politico, oltre ad avere una utilità non trascurabile per le classi dirigenti di quei Paesi, o per alcune frazioni di esse. Queste ultime infatti, alimentando la contrapposizione al «cristianesimo occidentale», possono più facilmente screditare i valori del rispetto dei diritti umani, della democrazia e della libertà, che vengono artatamente presentati come subdoli strumenti del predominio occidentale e possono invocare in nome di valori proposti come «indigeni, autoctoni o locali» una pretesa maggiore sintonia con i popoli che governano o aspirano a governare. E una simile tentazione si fa sempre più invitante via via che sembra palesarsi un declino della governance euro-americana sul sistema politico internazionale, che lascia intravedere la possibilità (incubo per alcuni, sogno per altri) di una sua progressiva de-occidentalizzazione. http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8233&ID_sezione=&sezione= Titolo: VITTORIO EMANUELE PARSI - La cacciata degli infedeli Inserito da: Admin - Gennaio 02, 2011, 06:50:14 pm 2/1/2011
La cacciata degli infedeli VITTORIO EMANUELE PARSI Sono almeno due i piani di lettura che si possono scegliere per spiegare i gravissimi attentati anticristiani di Alessandria d’Egitto: il primo concentrato sulle peculiarità proprie del più importante dei Paesi arabi, il secondo più attento alle dinamiche complessive del Medio Oriente e al peggioramento generale delle condizioni di sicurezza (ma dovremmo dire di sopravvivenza) dei cristiani in tutto il mondo arabo e islamico. Il mio punto di vista è che essi sono talmente intrecciati che devono essere tenuti contemporaneamente presenti se si vuole capire davvero la portata degli eventi cui stiamo assistendo. Quello che appare essere in atto in tutto il Medio Oriente è una vera e propria spinta a omogeneizzare il tessuto sociale dal punto di vista religioso. Per lungo tempo il mondo musulmano ha conosciuto la piaga della rivolta contro i propri leader ritenuti corrotti e (intimamente) apostati da parte di movimenti che si autoproclamavano i soli interpreti autentici del messaggio del Profeta. Pensando all’Egitto, il pensiero corre immediatamente a Anwar el Sadat, il coraggioso presidente del viaggio a Gerusalemme che venne assassinato da appartenenti ai Fratelli Musulmani pochi anni dopo aver stipulato i primi accordi di pace con Israele. In campo sciita, con tutti i necessari distinguo, impossibile non ricordare la rivoluzione khomeinista, che portò alla caduta dello scià Reza Pahlavi e all’instaurazione della Repubblica islamica. In realtà, quella della rivolta violenta e del tirannicidio è una pratica antichissima, risalente addirittura alla caduta del califfato ommayade nell’VIII secolo e al movimento dei kharigiti, che fin dalle origini della tradizione arabo-islamica (si ricordi che Maometto compì la sua predicazione nel VII secolo) ha contribuito a fornire piena legittimità alla violenza come strumento di lotta politica. Il «paradiso dei martiri» è sempre aperto: anche perché, nulla, o non molto, è cambiato nello stile di conduzione dei regimi politici della regione nel corso degli ultimi 1200 anni. Poco importa che si richiamino a sempre più lontane e confuse rivoluzioni socialiste (l’Egitto), all’oscurantismo religioso (l’Arabia Saudita), o a un qualche pasticcio concettuale frutto della caduta violenta e per mano straniera del precedente tiranno (l’Iraq): resta il fatto che gli spazi effettivi di tolleranza e rispetto per la diversità e la sovranità individuale che tali regimi contemplano sono talmente irrisori da finire col contribuire a legittimare essi stessi la violenza di cui sono oggetto. In quella che agli occhi dei fondamentalisti violenti è una fitna (una lotta interna al mondo musulmano contro gli apostati e gli eretici), da oltre un decennio è però divampata una vera e propria jihad il cui scopo è purificare la società dalla presenza cristiana. In parte questo è dovuto alla semplicistica sovrapposizione tra cristianesimo e Occidente, che ha accompagnato la progressiva marginalizzazione politica del primo e l’ascesa del secondo nel corso soprattutto del Novecento. Ma in parte è anche legata all’obiettivo di rendere religiosamente uniformi le società arabe, così che il messaggio che associa in maniera esclusiva la rivolta politica e la sua declinazione islamista radicale non trovi più alcun ostacolo. D’altra parte, nei tanti regimi illiberali che da sempre costellano la regione, i cristiani avevano trovato protezione (e non diritti) in quanto comunità politicamente sottomessa al potere costituito, e non come individui, come del resto la stessa tradizione coranica e la lunga consuetudine della dominazione prima araba poi ottomana avevano loro insegnato. Ecco allora che è sempre stato particolarmente facile e odioso additarne i loro esponenti come «manutengoli» del tiranno, legati a lui ma estranei al corpo di una società beceramente immaginata e violentemente modellata come monolitica. L’Egitto è tradizionalmente il Paese più importante del mondo arabo, il solo vero alleato (e non cliente) americano in quel mondo. Al Cairo Obama scelse di tenere il suo importante e infruttuoso discorso ai musulmani del mondo. A distanza di circa due anni da allora, il regime è sempre più avviluppato in una crisi di transizione di cui non vede un’uscita che possa essere auspicabile, dove l’introduzione di elezioni fantoccio ha contribuito a esasperare la tensione politica e sociale, e dove il futuro di una minoranza cristiana che risale a quasi duemila anni orsono appare sempre più nero. http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8247&ID_sezione=&sezione= Titolo: VITTORIO EMANUELE PARSI - La rabbia dei giovani senza futuro Inserito da: Admin - Gennaio 09, 2011, 11:21:38 am 9/1/2011
La rabbia dei giovani senza futuro VITTORIO EMANUELE PARSI Egitto, Tunisia, Algeria: sembra che il Nord Africa rischi di saltare in aria in una miscela esplosiva di regimi più o meno brutalmente autoritari e insieme sempre più deboli. Un composto di crescenti difficoltà economiche con tassi di disoccupazione impressionanti, e di un Islam radicale che soffia sul fuoco. Per chi ha memoria della sporca guerra degli Anni 90, costata oltre 150 mila morti, il timore che il più grande dei Paesi del Maghreb possa nuovamente imboccare la via della violenza settaria rappresenta un vero e proprio incubo. Ed è un rischio reale, visto che gli epigoni del Fis sembrano godere nuovamente di un consenso crescente tra la popolazione algerina. La legittima enfasi sugli sciacalli sempre pronti ad azzannare le società arabe nel nome della loro visione distorta e fanatica dell’Islam rischia però di farci percepire ciò che sta avvenendo sulle coste meridionali del Mediterraneo come qualcosa di eccessivamente «distante», e quindi più facilmente esorcizzabile. In realtà, i giovani disperati che ad Algeri e a Tunisi distruggono e assaltano tutto ricordano molto di più i casseurs parigini della banlieue in fiamme di sei anni fa, o gli «anarchici» greci delle settimane scorse che non i seguaci di questo o quell’imam radicale. Ciò cui stiamo assistendo in questi giorni in Algeria e in Tunisia è l’esito di una combinazione fatta di tre elementi: regimi politici poco o per nulla inclusivi, in cui il circuito politico legale è concretamente impermeabile alla società e incapace di fornire risposte adeguate al sentimento di totale abbandono in cui essa si dibatte; una crisi occupazionale, ancor prima che economica, che vede un tasso di disoccupazione stabilmente intorno al 25% nella contemporanea assenza di meccanismi di Welfare; e una distribuzione della popolazione per fascia d’età (il 75% degli algerini ha meno di 30 anni) che fa sì che quelli che non hanno nulla da perdere a «spaccare tutto» siano tanti, tantissimi: forse abbastanza numerosi da fare una rivoluzione. A Parigi come a Torino, a Londra come a Berlino o a Madrid, abbiamo dati sulla disoccupazione giovanile non molto diversi, e tutti i governi, di qualunque colore, sono in difficoltà nell’offrire ai giovani risposte che non siano palliativi o vuote promesse. Non è un caso che proprio i giovani siano quelli a un tempo meno protetti da ciò che resta dello Stato sociale e più alienati rispetto al sistema politico (si vedano i dati sull’astensionismo giovanile). Ma nella vecchia Europa (mai l’aggettivo è apparso più appropriato) i giovani, semplicemente, sono pochi, non abbastanza per far prendere in considerazione le proprie richieste, figuriamoci per «fare la rivoluzione». La nostra piramide demografica è speculare rispetto a quella dei nostri dirimpettai, e questo - insieme alla maggior inclusività dei nostri sistemi politici e alla maggior solidità dei nostri sistemi di Welfare, ovviamente - è ciò che fa la vera differenza. Quel che rischia di condannare i conti dell’Inps, o per lo meno di rendere la nostra vecchiaia meno florida di quanto avessimo sperato, è anche la miglior garanzia di stabilità del sistema e spiega la sostanziale attitudine conservatrice di un Paese come l’Italia. Oltremare è esattamente l’opposto. In maniera per molti versi analoga a quanto avvenne nel 1992, possiamo solo sperare che il regime riesca a tenere la situazione sotto controllo, ma non certo permetterci il lusso di illuderci che ciò possa minimamente coincidere con un qualche inizio di soluzione. Se Paesi come i nostri, istituzionalmente solidi e dalla ben maggiore capacità di pressione sull’economia globale, i suoi attori e i suoi forum, non riescono a venire a capo di questa distruzione sistematica di posti di lavoro che l’economia contemporanea sembra imporre, come pensare che una simile impresa possa riuscire a sistemi ben più fragili come quelli del Maghreb? http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8274&ID_sezione=&sezione= Titolo: VITTORIO EMANUELE PARSI - Gli errori americani Inserito da: Admin - Gennaio 27, 2011, 11:58:55 pm 27/1/2011 - ANALISI
Gli errori americani VITTORIO EMANUELE PARSI C’è un dato, per noi inquietante, che accomuna fenomeni diversi tra loro come la caduta di Ben Ali in Tunisia, le rivolte anti-Mubarak in Egitto, la crisi del governo Hariri in Libano e le difficoltà di Habu Mazen dopo la divulgazione dei «Palestinian files». Questo dato comune non va ricercato nelle cause, ma nelle conseguenze di questi eventi, ed è descrivibile come la repentina perdita di «egemonia» americana sul Mediterraneo meridionale e orientale, che rischia di avvenire attraverso la sostituzione di regimi e governi filo-occidentali con regimi e governi anti-occidentali. Se continua di questo passo, è possibile che in pochissimo tempo gli Stati Uniti si ritrovino ad avere nella regione un pugno di alleati, assai scomodi (sia pure per ragioni diversissime, come Israele o l'Arabia Saudita) o praticamente irrilevanti o fragilissimi (i vari Emirati e la Giordania). E tutto ciò fa aumentare le probabilità che, nel nuovo quadro strategico, un conflitto arabo-israeliano diventi quasi inevitabile. È l'Egitto che in questo momento desta maggiori preoccupazioni. Il regime di Mubarak appare decisamente in affanno: dopo gli attentati anticristiani a cavallo dell'inizio dell'anno, e le seguenti manifestazioni di protesta dei copti, la tensione è nuovamente tornata a divampare, sull'onda dei successi conseguiti dalla rivolta tunisina. Ancorché i Fratelli Musulmani abbiano dichiarato di non essere alla guida della protesta, a Suez come ad Alessandria o al Cairo, la folla si è scontrata con le forze di polizia al grido di «Allah akbar!». L'organizzazione islamista, esclusa fraudolentemente dalle elezioni politiche di novembre, sarebbe del resto la principale beneficiaria di un eventuale tracollo del regime. Può darsi che, grazie al puntello determinante offerto dalle forze armate, Hosni Mubarak riesca a restare in sella, ma è quasi impossibile che a succedergli sia il figlio. La Casa Bianca, dal canto suo, ha un bel garantire «l'appoggio americano a quanti manifestano pacificamente per la libertà in Tunisia e in Egitto». La verità è che la caduta del regime significherebbe per l'America la perdita del più importante alleato nel mondo arabo, con conseguenze drammatiche per l'intero quadro mediorientale. Se i Fratelli Musulmani dovessero arrivare al potere al Cairo, infatti, difficilmente continuerebbero a partecipare all'isolamento internazionale di Hamas (che proprio ai «Fratelli» si richiama). La periclitante posizione di Abu Mazen si farebbe sempre meno sostenibile e la stessa «pace fredda» con Israele potrebbe essere rimessa in discussione. Il nervosismo israeliano è poi acuito dall'assistere all'irresistibile ascesa al potere in Libano dei propri «arcinemici» di Hezbollah. Con l'incarico di formare un nuovo governo assegnato al filosiriano Najib Mikati (al posto del filo-occidentale Saad Hariri), sembra chiudersi, almeno per ora, la stagione di speranze inaugurata con la «Rivoluzione dei cedri» nel 2005. Da allora, il Libano era tornato a essere molto vicino a Washington e a Parigi, nonostante il breve ma devastante conflitto con Israele nel 2006 e la crescita di importanza di Hezbollah nel panorama politico interno. Tutto questo potrebbe essere già un ricordo. E le responsabilità americane nell'aver contribuito a «perdere il Libano» non sembrano essere insignificanti. La posizione dogmatica degli Usa sul Tribunale speciale per il Libano (incaricato di fare luce sull'omicidio di Rafik Hariri) ha finito per condizionare i diversi governi libanesi che, per continuare a ottenere l'aiuto americano, hanno dovuto mantenere una posizione rigidamente pro-Tsl, nonostante il quadro politico interno lo consentisse sempre meno e illudendosi che l'appoggio Usa sarebbe stato determinante per tenerli in vita. Mai calcolo è stato più sbagliato. Di fatto, il dogmatismo degli Usa ha concorso a radicalizzare lo scontro politico interno, producendo così la situazione più favorevole a Hezbollah. Ora gli Usa già minacciano di tagliare gli aiuti e la collaborazione economica con Beirut, nel caso che l'esecutivo Mikati dovesse essere varato e si appresterebbero a imporre sanzioni nei confronti del Libano qualora il Tsl dovesse richiedere l'incriminazione di esponenti di Hezbollah e il nuovo governo libanese dovesse opporvisi. Una politica suicida, che semplicemente rafforzerebbe l'influenza di Siria e Iran sul Paese. Nel frattempo tutti si chiedono quanto Israele potrebbe accettare una situazione del genere senza essere tentato da una nuova, meglio preparata e più spietata, campagna libanese. Uno scenario già di per sé inquietante, che diventerebbe semplicemente un incubo, immaginando un Egitto senza Mubarak e una Palestina senza Abu Mazen. http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8339&ID_sezione=&sezione= Titolo: VITTORIO EMANUELE PARSI - I Fratelli Musulmani un dialogo da aprire Inserito da: Admin - Febbraio 02, 2011, 05:28:22 pm 2/2/2011
I Fratelli Musulmani un dialogo da aprire VITTORIO EMANUELE PARSI Non c’è dubbio che la profondità e l’estensione della protesta in Egitto abbia colto di sorpresa le diplomazie delle potenze occidentali, a cominciare dagli Stati Uniti. Fino ad ora, all’ormai consueta balbuzie europea, di cui il vertice di un paio di giorni fa a Bruxelles costituisce solo l’ennesimo esempio, ha fatto da imbarazzante controcanto la confusione americana. L’America è stata sistematicamente in ritardo di fronte allo tsunami che sta squassando il sud del Mediterraneo, è apparsa sempre essere almeno due passi indietro rispetto al corso degli eventi, affannata a inseguirli piuttosto che in grado di esercitare una qualche influenza. Imbarazzante, se solo si considera che, dopo Israele, l’Egitto è il secondo destinatario degli aiuti (economici e militari) degli Usa. Nei giorni scorsi, dopo il tartufesco ritardo con cui la Casa Bianca ha esteso anche alle proteste egiziane la patente di legittimità prima rilasciata solo ai moti tunisini, l’America ha prima chiesto a Mubarak di non reprimere nel sangue la rivolta, poi di riprendere il processo di liberalizzazione timidamente intrapreso sotto la pressione di George W. Bush e Condoleezza Rice, infine di fare un passo indietro. In una frase: sempre troppo poco e troppo tardi. Forse però il tempo c’è ancora per provare a giocare d’anticipo, a condizione di mettere in campo l’audacia necessaria, anche nella consapevolezza che, senza un intervento coraggioso, il corso degli eventi potrà solo andare in una direzione poco favorevole agli interessi occidentali nell’area e alla stessa stabilità strategica del Medio Oriente, con conseguenze negative anche e innanzitutto per il popolo egiziano. In altri termini, occorre già pensare al dopo-Mubarak, cercando di esercitare tutta l’influenza di cui si dispone per provare a indirizzarlo e bisogna farlo a partire dall’individuazione degli interlocutori per ora, e sottolineo il per ora, ancora decisivi. Mi riferisco ai militari, ad El Baradei e ai Fratelli Musulmani. Al momento sono questi tre, per motivi diversi, gli interlocutori dotati di risorse significative. Finché il regime sta in piedi, i militari continuano a esercitare il controllo dell’uso della forza. La loro sbandierata decisione di non impiegarla contro i protestatari può ovviamente essere letta come una manifestazione di debolezza, ma credo vada anche interpretato come un segnale politico, di disponibilità al dialogo, alla ricerca di una soluzione di compromesso in questa fase di resilienza del vecchio regime. El Baradei ha dalla sua la chance di essere l’unico federatore possibile per coalizzare tute le forze anti-Mubarak, per dare la spallata decisiva al regime. L’unico di cui tutti si fidano o dicono di fidarsi. El Baradei è forte della sua debolezza, di non essere il leader di alcun gruppo organizzato. Ma ciò che è la sua forza si ribalterebbe nella sua debolezza non appena il regime venisse abbattuto. Caduto il regime, le diverse anime del composito movimento sorto più o meno spontaneamente, inizierebbero una dura battaglia politica per conseguire la leadership o, più probabilmente, l’egemonia sul nuovo corso. E in questa terza e decisiva fase, inutile far finta di negarlo, i Fratelli Musulmani sarebbero quelli meglio in grado di conseguire la vittoria, per la loro migliore organizzazione e per la loro più capillare diffusione. Con quali garanzie per la natura liberale o democratica del loro regime è difficile a dirsi, tanto più se la natura rivoluzionaria del processo dovesse prevalere. Se il processo sarà rivoluzionario, infatti, saranno le minoranze meglio organizzate a guidarlo e a volgerlo a proprio vantaggio, e senza mediazione alcuna. Ogni attore, quindi, è particolarmente forte in una fase - quella della resilienza del potere al tramonto, quella del suo abbattimento, e quello dell’instaurazione di un regime diverso - ma più debole in tutte le altre. Con l’avvertenza ovvia che, se i momenti non vengono legati insieme, chi vince l’ultima mano vince tutto il piatto. Qualora invece, mentre la fase uno appare già pericolosamente agli sgoccioli ma non ancora completamente conclusa, Washington intavolasse trattative congiunte con tutti gli attori significativi, potrebbe vincolarli a una serie di impegni e concessioni reciproche, trasformando le diverse distinte fasi (di resilienza, abbattimento e instaurazione rivoluzionaria) in un unico processo di transizione. Ciò implicherebbe il riconoscimento della natura politica legittima dei Fratelli Musulmani, ma eviterebbe di riprodurre in Egitto su scala ancora maggiore il disastro di Gaza: cioè di chiedere prima elezioni regolari, per poi disconoscerne la validità quando chi vince non ci piace. Inutile negare che una simile mossa comporta rischi ovvi, ma un’apertura «contrattata» degli Usa alla legittimità politica dei Fratelli Musulmani potrebbe essere la sola carta da giocare per evitare scenari peggiori in tutta la regione e per mettere in scacco l’influenza crescente di regimi estremisti come quello iraniano. da - lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali Titolo: VITTORIO EMANUELE PARSI - Alla fine ha vinto Obama Inserito da: Admin - Febbraio 12, 2011, 10:23:18 am 12/2/2011
Alla fine ha vinto Obama VITTORIO EMANUELE PARSI Alla fine il presidente degli Stati Uniti Barack Obama ha vinto la sua scommessa, e le pressioni americane sono state probabilmente decisive per provocare le dimissioni di Mubarak. Quello che si prefigurava come il «giovedì nero» della diplomazia americana, il giorno in cui gli Stati Uniti toccavano con mano la loro perdita di influenza in Medio Oriente e Washington doveva persino subire l’affronto di vedersi sostituita da Riad nel ruolo di sostenitore dei regimi fin lì alleati, si è tramutato nel venerdì in cui è arrivata la vittoria in una difficile prova di forza. La Cia e la stessa Casa Bianca si sono giocati molto della loro credibilità in un’operazione pericolosa come quella di dare per scontato che il raiss egiziano si piegasse alla volontà di Washington senza badare alle raccomandazioni europee ed israeliane che invitavano invece a maggior prudenza. Un rischio assunto anche per ribaltare la sensazione che l’amministrazione americana, colta di sorpresa come tutti dalla rivolta egiziana, fosse costantemente in affanno e confusa sul da farsi: stanco di inseguire gli eventi, Obama ha provato ad anticipare i suoi desideri. E per ora, questo azzardo l’ha vinto. Mubarak ha provato a fare appello a quel concetto di onore che, nel mondo arabo e in generale nel Medio Oriente, continua a giocare un ruolo per nulla trascurabile. Da quelle parti il «salvare la faccia» (la reputazione, avrebbe detto Thomas Hobbes) è una cosa talmente importante da poter trasformare una sconfitta in una vittoria. Fu una certa idea dell’onore che nella guerra del 1990-91 consentì a Saddam Hussein di essere percepito in gran parte del mondo arabo non come un patetico sbruffone ma come l’eroe che aveva sfidato gli americani. Fu la mancanza di cooperazione americana nel cercare un compromesso che potesse salvare la faccia del presidente Khatami che impedì di trovare una soluzione accettabile sulla questione del nucleare iraniano quando forse era ancora possibile. Questa volta, almeno per ora, l’appello all’onore arabo non ha funzionato neppure nei riguardi dell’esercito, che ha deciso di scaricare Mubarak, per difendere lo Stato e (probabilmente) il suo posto all’interno del potere egiziano. Ora staremo a vedere che cosa succederà. È possibile che la resa di Mubarak contribuisca a deradicalizzare il clima, ma è anche possibile che spinga la piazza a far pressione sui militari per rinunciare qui e ora a qualunque ruolo politico. È possibile che i militari accettino di accompagnare la transizione accontentandosi di esserne i guardiani ma anche che tentino la via del colpo di Stato per non perdere gli enormi privilegi di cui godono. Bisognerà anche capire, ovviamente, quanto varrà la testa di Suleiman una volta che Mubarak non c’è più. Tutte possibilità. Quello che è certo è che proprio il successo inaugura la fase più «politica» della rivoluzione, la lotta tra le tante anime di questa rivolta: comprese quelle che hanno fatto finora di tutto per non comparire, per restare nell’ombra, per defilarsi. E in questa fase l’esercito, se non risulterà essersi consumato oltremisura nel dilemma del sostenere o meno Mubarak, potrà essere una delle poche garanzie contro una deriva più o meno estremista. Una cosa sembra potersi dire guardando agli eventi di queste settimane in Tunisia ed Egitto. Negli Anni 50 il golpe di Nasser inaugurò la stagione dei governi militari nazionalisti e socialisteggianti in tutta la regione. Alla fine degli Anni 70, la rivoluzione khomeinista lanciò l’idea che una repubblica islamica fosse realizzabile alle soglie del Duemila. Oggi, il successo delle rivolte tunisina ed egiziana sembra dirci che saranno le rivoluzioni acefale dal basso a poter caratterizzare il Medio Oriente. Chissà se la testardaggine di Obama, il cui idealismo ha avuto ragione del realismo del suo Segretario di Stato, porterà vantaggi anche alla posizione americana nel Medio Oriente o invece potrà solo accompagnare la perdita progressiva e irrimediabile dell’influenza Usa. E non è per nulla detto che Hillary non paghi un prezzo per l’eccessiva pubblicità data al suo dissenso. Inizierà il solito stucchevole dibattito tra chi vorrà contrapporre l’idealismo di Obama al realismo di Hillary. Sarebbe un errore. Dobbiamo sempre ricordare che politica estera americana (e l’America stessa in realtà) è sempre stata un impasto di realismo e idealismo: tanto nelle sue espressioni più riuscite quanto in quelle più fallimentari lo è stata quella di Reagan, Bush padre e Clinton; lo è stata quella di Carter, Bush figlio: è ancora presto per arruolare tra i primi o tra i secondi l’America di Obama. da - lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali Titolo: VITTORIO EMANUELE PARSI - Il Colonnello non molla Inserito da: Admin - Marzo 05, 2011, 05:00:45 pm 5/3/2011
Il Colonnello non molla VITTORIO EMANUELE PARSI Sono confuse e spesso contraddittorie le notizie che giungono dalla Libia, ma non su un punto. Sono chiare e univoche almeno sul fatto che la fine di Gheddafi è tutt’altro che imminente. Il colonnello non solo non molla, ma sfida come suo costume la comunità internazionale (ha appena nominato un nuovo ambasciatore all’Onu) e continua imperterrito a impiegare ogni mezzo a sua disposizione per reprimere la rivolta. Sa bene che il fattore tempo gioca a suo favore, che mentre il denaro gli consente di continuare a far arrivare mercenari e armi dai porosi confini meridionali (anche grazie all’appoggio di amici come Mugabe), i ribelli prima o poi esauriranno le scorte di armi sottratte ai lealisti e che, soprattutto, proprio il carattere spontaneo della ribellione rende difficile l’emergere di una leadership capace di fornire un progetto agli esasperati ed esausti cittadini libici. D’altronde, in una situazione di pressoché totale ignoranza su quali potrebbero essere i futuri eventuali leader del dopo-Gheddafi, la prospettiva di procurare armi ai ribelli appare ovviamente impraticabile. I ribelli chiedono con crescente insistenza che la comunità internazionale intervenga per porre fine a una repressione che il prolungarsi della guerra civile rende sempre più violenta, mentre parimenti fa aumentare il nostro disagio di assistere inermi a quanto avviene. Eppure, proprio mentre Gheddafi accentuava la sua pressione sugli insorti, scemavano rapidamente le prospettive di un intervento militare occidentale diretto almeno a impedire l’impiego dei bombardieri contro la popolazione civile. Le ragioni tecniche e legali che rendono estremamente complicata l’attuazione di una no fly zone sui cieli della Libia sono state ampiamente spiegate in questi giorni. Sembra però opportuno sottolineare che proprio la capacità di resistenza mostrata dal colonnello modifica il quadro complessivo e rende l’ipotesi di intervento militare esterno ancora più implausibile. Non solo perché questo andrebbe incontro a difficoltà maggiori o a un numero di perdite prevedibilmente più alto. Ma per un fatto squisitamente politico. Sino a pochi giorni fa un intervento militare esterno sarebbe stato un modo per accelerare un destino segnato, allo scopo di limitare il sacrificio di vite umane. Si sarebbe cioè configurato come un intervento umanitario un po’ più «muscolare», una sorta di operazione «Restore Hope» (Somalia 1991), auspicabilmente di maggior successo. Oggi il medesimo intervento avrebbe il senso di far pendere la bilancia a favore di una parte contro un’altra in una situazione di guerra civile ancora molto fluida e dall’esito incerto. Sarebbe un intervento dal chiaro significato politico: ben più arduo da accettare non solo per Cina e Russia, ma anche per molti Paesi arabi e africani. Guadagnando tempo, resistendo, Gheddafi sa così di rendere molto più difficile che lo sdegno occidentale possa produrre ciò che in cuor suo più teme, l’escalation (anche militare) dell’internazionalizzazione della crisi. da - lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali Titolo: VITTORIO EMANUELE PARSI - L'Italia teme il riassetto della "nuova Libia" Inserito da: Admin - Marzo 23, 2011, 04:51:01 pm Economia
21/03/2011 - ANALISI Al fianco dei francesi per affermare i nostri interessi Il latte Parmalat: i francesi di Lactalis hanno comprato il 15% del gruppo. Il governo italiano vuole bloccarli L'Italia teme il riassetto della "nuova Libia" VITTORIO EMANUELE PARSI Ricordarlo a ridosso delle celebrazioni del 150 anniversario dell'Unità d'Italia (al cui successo la Francia diede un contributo essenziale) non vuole essere un gesto grossolano. Trascorsi i tempi in cui la rivalità tra noi e i più potenti cugini si manifestava sul campo di battaglia, oggi è l’arena economica a fornire il teatro di una sfida infinita, alimentata da una somiglianza che ci fa irrimediabilmente diversi. Nella condotta internazionale delle nazioni, oltre tutto, non è che sia sempre così netta la distinzione tra i moventi squisitamente politici e quelli eminentemente economici, che concorrono a determinare lo sfuggevole concetto di interesse nazionale. Sarebbe perciò singolare che non ci fossero anche considerazioni di carattere economico tra le ragioni che hanno portato Parigi a premere con forza per un significativo intervento militare a favore degli insorti libici, e ancor più tra quelle che l’hanno fatta decidere per il riconoscimento di un governo provvisorio a tutt'oggi inesistente. All'Eliseo, le aspettative di veder rafforzata la propria posizione commerciale con la nuova Libia post - Gheddafi non avranno probabilmente ricoperto il ruolo principale nel far assumere una decisione così ricca di incognite politiche, ma è difficile credere che esse non siano state prese in attenta considerazione. Lo stesso ragionamento, del resto, potrebbe essere esteso alla Gran Bretagna, le cui compagnie petrolifere vennero espulse dal colonnello poco dopo la conquista del potere, per essere rimpiazzate di lì a non molto da quelle italiane. Ovvio che in molti sperino di poter conquistare spazio per le proprie «piattaforme nazionali» a scapito di chi ne aveva costruite di solide nei 40 anni di potere di Gheddafi, cioè principalmente dell'Italia, per la quale la Libia rappresenta circa un terzo dell’interscambio transmediterraneo. La consapevolezza di quanto potesse essere elevato il costo di un cambiamento di regime traumatico in Libia aveva conseguentemente suggerito legittima cautela al nostro governo, fino a quando la brutalità della repressione da un lato e il formarsi di un'opinione interventista tra i nostri principali alleati dall’altro non aveva fatto ritenere insostenibile una posizione eccessivamente attendista. Nello smuovere le esitazioni di Berlusconi - talvolta troppo incline, come Bossi, a una concezione della politica estera eccessivamente schiacciata sulla dimensione economica, eppure proclive a puntare su un ruolo anche militare per il Paese in tanti altri teatri mediorientali - un contributo importante è venuto dallo stesso Gheddafi, che ha fatto capire senza mezzi termini che, in caso di una sua vittoria, le compagnie italiane sarebbero state buttate a mare, 40 anni dopo i discendenti dei nostri antichi coloni. Una volta che ciò è stato chiarito con brutale rudezza, si è altresì palesato un fatto tanto semplice quanto illuminante: dobbiamo iniziare a considerare l’ammontare dei nostri interessi in Libia totalmente perduto in caso di vittoria del colonnello, ragion per cui il solo modo per tutelarli è partecipare senza timidezze all’abbattimento del suo regime. Potrà la Francia far valere il suo maggior peso politico-militare a guerra finita? Dipende in parte da quanto durerà la campagna e come sarà condotta e in parte da noi. Se ci comporteremo come gli altri membri della coalizione, saremo probabilmente trattati dalle future autorità libiche come gli altri, ma avremo dalla nostra il vantaggio di operare in Libia da oltre 40 anni, avendo sempre stipulato e onorato contratti vantaggiosi anche per la Libia e i libici e non solo per l'Italia e Gheddafi. La Francia farà il suo gioco, che risponde anche al tentativo di recuperare terreno e influenza dopo la figuraccia rimediata in Tunisia, la perdita di quote di mercato in tutto il Maghreb il flop di quell’Unione per il Mediterraneo che la Merkel continua ad affossare: insomma, il solito mix di incessante ricerca della perduta grandeur e di abilità nel perseguire più concreti obiettivi. E noi faremo il nostro gioco, consapevoli che per la tutela dei nostri interessi commerciali, muovere all’attacco è la sola difesa possibile. Che la Francia sia complessivamente più forte e meglio organizzata dell'Italia è cosa nota. Ma non sempre chi è più forte trionfa, tantopiù se dà la partita per vinta prima ancora di averla giocata: come hanno imparato a loro spese i Blues al Flaminio, sorprendentemente sconfitti otto giorni fa dal quindici dell’ovale azzurro. da - lastampa.it/economia Titolo: VITTORIO EMANUELE PARSI - Sgarbo grave, non decisivo Inserito da: Admin - Marzo 29, 2011, 04:48:03 pm 29/3/2011
Sgarbo grave, non decisivo VITTORIO EMANUELE PARSI Fa bene Franco Frattini a sdrammatizzare la teleconferenza che ieri ha raccolto intorno a un tavolo virtuale i leader di Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e Germania, apparentemente per predisporre l’agenda del vertice di Londra. Ha probabilmente ragione il ministro degli Esteri a sostenere che «lì non stanno decidendo niente». Ma in ogni caso resta evidente lo sgarbo grave dell’esclusione del Paese dal quale partono gran parte dei raid che stanno facendo a pezzi l’apparato militare di Gheddafi. Ed è un’esclusione resa ancora più amara dalla partecipazione della Germania di Angela Merkel che, come ricordava in un duro articolo pubblicato ieri sull’Herald Tribune l’ex ministro degli Esteri tedesco Joschka Fischer, continua a manifestare una concezione della politica estera miope e di corto respiro, che squalifica le ambizioni di leadership tedesche. Forse conviene proprio partire da qui, da due errori speculari commessi in successione da tedeschi e francesi, per spiegare come Sarkozy abbia insistito perché la Germania fosse della partita e perché Berlino abbia mutato il suo giudizio sull’operazione «Alba dell’Odissea» in pochi giorni. Con la sua astensione in Consiglio di Sicurezza sulla Risoluzione 1973, la Germania si era infatti ritrovata in una posizione estremamente debole, mostrandosi persino più sorda di Russia e Cina alla richiesta di aiuto che la Lega Araba aveva presentato alla comunità internazionale. Si era trattato di una scelta che chiariva una sola cosa: se le sfide per l’Europa di oggi e di domani coinvolgeranno in maniera crescente il Mediterraneo, allora la Germania è inadatta alla leadership. La Francia di Sarkozy, che era stata coraggiosa nel dare subito concreta attuazione alla Risoluzione, così concorrendo in maniera determinante al salvataggio di Bengasi, si era poi avvitata in uno sterile protagonismo, destinato alla sconfitta (come puntualmente è avvenuto), avanzando una pretesa di leadership che in Europa nessuno era disposto a concederle. A Parigi sembrava incredibilmente sfuggire che se la «naturale» leadership americana è sostenuta dal contributo che Washington fornisce da anni alla sicurezza collettiva europea, non risulta che la Francia svolga un analogo ruolo. Il vertice telematico, o meglio ancora la sua composizione, riflette proprio l’interesse comune di Francia e Germania a provare a mettere insieme le proprie rispettive debolezze. La debolezza della Germania, tardivamente consapevole di aver rischiato di affondare alla prova dei fatti quella politica estera e di sicurezza comune che nessuno in Europa più di Berlino aveva sostenuto per decenni. La debolezza francese di rischiare di vedere compromessa la propria posizione in Europa separandosi dallo storico alleato renano, per di più sottobraccio all’Inghilterra di Cameron, che in quanto a europeismo lascia per lo meno a desiderare. L’Italia in questa sorta di rappresentazione teatrale non aveva niente da offrire, né a Berlino né, ovviamente, a Parigi. E che Francia e Germania pesino in Europa e nel mondo più dell’Italia è un dato di fatto tanto risaputo quanto banale. E non sarà Berlusconi o qualunque altro leader migliore o peggiore di lui a poterlo cambiare. La partita vera, non solo per l’Italia, ma per l’Europa, per la Libia e per il futuro del Mediterraneo, si gioca oggi a Londra. E per quel che riguarda il ruolo dell’Italia, il comando delle forze impegnate nel blocco navale, l’inclusione nel Gruppo di contatto e la partecipazione attiva a una coalizione sotto la guida della Nato pesano molto di più che l’esclusione, pur immeritata e sgarbata, da una teleconferenza organizzata all’ultimo momento per lenire l’orgoglio ferito di Sarkozy. da - lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali Titolo: VITTORIO EMANUELE PARSI - Dichiarazione di resa dell'Europa Inserito da: Admin - Aprile 23, 2011, 11:55:24 am 23/4/2011
Dichiarazione di resa dell'Europa VITTORIO EMANUELE PARSI È un paradosso; ma mentre la campagna aerea contro Tripoli, voluta da Parigi, non sembra scalfire la lealtà che molti libici mostrano nei confronti di Gheddafi, il colonnello ha avuto più successo nell’incrinare la solidarietà europea. Dove le bombe hanno potuto poco, i barconi di migranti hanno fatto la differenza. Così a 48 ore dalla denuncia del ministro degli Esteri Franco Frattini (abbiamo la certezza che Gheddafi stia impiegando i migranti come arma politica contro l’Unione), fonti dell’Eliseo annunciano che la Francia sta pensando di sospendere la validità del Trattato di Schengen, oltretutto a una manciata di giorni dall’incontro bilaterale italo-francese. Basterebbe questa considerazione a far giudicare un gesto sconsiderato quello ventilato dall’Eliseo. Intendiamoci bene, nessuno nega le responsabilità italiane, nell’essersi fatti cogliere impreparati da un evento tanto atteso quanto enfatizzato e nell’aver poi dato l’impressione di essere solo alla ricerca di un escamotage tecnico per scaricare sui cugini d’Oltralpe la patata bollente dei balzeros nordafricani. Ma da che mondo è mondo due errori non fanno una cosa giusta: la fermezza mostrata da Sarkozy suona troppo di trovata elettorale e oltretutto fa abboccare la Francia (e con lei purtroppo l’Europa tutta) alla deliberata provocazione non di Berlusconi, ma di Gheddafi. Difficile immaginare che sospendendo Schengen, Sarkozy non fosse consapevole di andare contro decenni di politica francese, sempre attenta a evitare di fare scelte che potessero mettere a repentaglio la consapevolezza dolorosamente acquisita dopo la Seconda Guerra mondiale, che un’Europa unita e solida è la residua chance che la storia offriva alla Francia di continuare a «contare». Impossibile non constatare, però, che non è la prima volta che gli egoismi francesi rischiano di causare un danno consistente all’Europa: basti pensare all’affondamento della Comunità europea di difesa nel 1954 e al referendum contro la Costituzione europea nel 2005. La risposta francese è grave perché rischia di costituire un passo indietro effettivamente irrevocabile al cammino fin qui compiuto dall’integrazione europea. Per reagire a questo, serve però qualcosa che vada oltre la rappresentazione della sterile contrapposizione italo-francese. Occorre che si prenda atto di un fatto tanto semplice quanto decisivo. Schengen apriva le frontiere interne di un’Europa che si credeva (e in parte era) senza più minacce alle sue frontiere esterne. Dopo la caduta dell’Urss e del comunismo, nella quale la Nato aveva giocato un ruolo fondamentale, l’Unione, e i suoi Stati membri, erano stati in realtà capaci di affrontare, con l’allargamento, la delicata e immane partita della stabilizzazione dell’ex impero sovietico. Avevano cioè messo in comune quella che allora, cessata la minaccia militare portata dall’Urss, costituiva la minaccia maggiore alla sicurezza europea, cioè il rischio di anarchia ai propri confini. Oggi, e per gli anni a venire, questo è il punto, l’impatto dei flussi migratori sulle coste europee costituirà la maggiore sfida per la stabilità e la sicurezza dell’intera Europa. La sospensione di Schengen non rappresenta in alcun modo uno strumento per raccogliere la sfida, ma semplicemente la dà per persa in anticipo. Quello che occorre è invece mettere in comune, il tema dell’immigrazione, predisporre politiche di successo che rendano nuovamente sicure le frontiere esterne dell’Unione, per continuare a far sì che i confini interni continuino a restare ricordo del passato. da - lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/ Titolo: VITTORIO EMANUELE PARSI - Torna un vecchio nemico comune Inserito da: Admin - Aprile 29, 2011, 06:30:51 pm 29/4/2011
Torna un vecchio nemico comune VITTORIO EMANUELE PARSI L’attentato di Marrakech ci rammenta in maniera drammaticamente spettacolare quanto siano tutt’altro che univoci i segnali che provengono dal Medio Oriente e dal Maghreb. Se scorriamo le cronache dall’inizio dell’anno e se riconsideriamo i commenti che hanno provato ad interpretare i fatti, possiamo agevolmente constatare come diverse, spesso opposte chiavi di lettura si siano susseguite, quasi affastellate le une sulle altre, lasciandoci spesso l’impressione che stessimo freneticamente inseguendo eventi tanto sorprendenti, o quantomeno inattesi, da impedire una visione e una comprensione d’insieme. Dopo l’entusiasmo più facile per la Rivoluzione dei Gelsomini, è venuto quello più contenuto per la caduta di Mubarak; poi la preoccupazione è stata la cifra prevalente di fronte alle rivolte in Bahrein e Yemen; lo sgomento è stato seguito dalla sensazione di poter concorrere attivamente a determinare un esito più accettabile in Libia, mentre la repressione durissima operata dal regime di Assad ci ha indotto a una comprensibile e impotente prudenza. Ora i 15 morti di Marrakech ci riportano sotto gli occhi l’immagine di un nemico che credevamo ormai antico, Al Qaeda e le sue ramificazioni, che speravamo di aver quantomeno relegato, e in parte distrutto, tra le sabbie dei deserti iracheni e degli altipiani afghani. In questi mesi, del resto, avevamo assistito a come il sanguinario messaggio qaedista, e più in generale di tutte le organizzazioni che si ispirano a Osama Bin Laden e alla sua predicazione armata, risultasse poco ascoltato, emarginato dal discorso politico intessuto nelle «nuove» piazze arabe. Avevamo constatato come quelle organizzazioni fossero rimaste spiazzate persino più di noi dal rimettersi in moto del mondo arabo e sperato che questo spiazzamento potesse precludere alla loro fine politica. Può darsi che la fine politica del terrorismo islamista sia segnata, proprio in virtù di come sta cambiando il mondo arabo; ma è evidente che i suoi paladini non si daranno per vinti senza lottare. La strage di ieri sembra proprio mirare al «botto mediatico», qualcosa che riesce persino a oscurare parzialmente il «matrimonio del secolo» che oggi si celebra a Westminster. Siamo ancora in attesa che qualcuno rivendichi l’attentato e non conosciamo le argomentazioni che verranno addotte per questa ennesima strage: ma non stupirebbe se venisse tentato il parallelo tra gli arabi morti sotto le bombe della Nato e gli occidentali ammazzati da una pretesa «furia vendicatrice araba». Sappiamo già che qualcuno nei nostri Paesi, forse persino nei nostri Parlamenti, avrà in serbo argomentazioni più o meno simili: «Vedete, dopo le ondate bibliche di immigrati, ora le bombe… Ecco che cosa si guadagna a occuparsi dei fatti di quelli lì...». E invece no, nella consapevolezza che le ragioni dell’intervento in Libia, e le circostanze che lo hanno reso possibile, sono sostanzialmente uniche e quasi certamente irripetibili, dobbiamo mantenere fermo un punto tanto dolorosamente e faticosamente scoperto: che lo spazio mediterraneo è uno spazio politico comune, nonostante non sia ancora strutturato di istituzioni politiche adeguate. Dobbiamo continuare a cogliere gli elementi potenzialmente positivi di questo sommovimento epocale che attraversa tutta la sponda Sud e non farci vincere da riflessi antichi, che ci condannerebbero tutti, europei e arabi, alla comune sconfitta. Se avessimo mostrato indifferenza o cinismo di fronte alle sofferenze del popolo libico avremmo fornito altre e ben più velenose argomentazioni alla propaganda di ispirazione qaedista. Per fortuna non lo abbiamo fatto; e anche per questo possiamo più credibilmente chiamare gli assassini di Marrakech nemici comuni: nostri e dei nostri fratelli arabi. da - lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/ Titolo: VITTORIO EMANUELE PARSI - La bomba umana del raiss Inserito da: Admin - Maggio 08, 2011, 11:33:02 am 8/5/2011
La bomba umana del raiss VITTORIO EMANUELE PARSI E’ un uso spregiudicato e malevolo, oltre che cinicamente sapiente, quello che Gheddafi fa delle vite umane. Da quando il moto di ribellione di una parte imponente del suo popolo si è trasformato in una guerra civile abbiamo assistito a tutto il repertorio dell’orrore. Non pago di aver torturato e ucciso in oltre quarant’anni di potere assoluto un numero imprecisato di oppositori e di aver patrocinato e organizzato alcuni tra i più sanguinosi attentati che la storia del terrorismo ricordi, Gheddafi ha iniziato letteralmente a bombardare i suoi stessi sfortunati sudditi, nel momento in cui essi si erano illusi di potersi liberare del tiranno. Quando sono iniziate le incursioni aeree della coalizione internazionale, il Colonnello è ricorso alla mobilitazione dei suoi sostenitori tripolini per farne scudi umani, allo scopo di proteggere se stesso e i luoghi simbolici del suo potere assoluto. Alla ricerca di come le vite degli altri potessero essere ulteriormente sfruttate per restare abbarbicato al suo trono, ha pensato quindi di provare a dar consistenza alla minaccia proferita all’indirizzo dell’Italia e dell’Europa - «vi inonderò di profughi!» - facendo di tanti disperati una vera e propria «bomba umana». Ora, come se i corpi vivi non fossero più sufficienti, ecco l’orrore dei corpi inanimati, di naufraghi impiegati come martiri inconsapevoli, shahid di una battaglia che non è la loro. Quei corpi che riaffiorano dalle acque al largo di Tripoli ne ricordano altri, quelli delle 270 vittime della strage di Lockerbie: quelli come questi, tutti morti per causa di Gheddafi. Oggi come allora, Gheddafi impiega l’orrore come messaggio, evoca i nostri incubi peggiori nella speranza che contemplare il baratro ci spinga a desistere. Studia i suoi interlocutori, il Colonnello, e a ognuno riserva lo spettacolo che più ne colpisce il punto debole. A Maroni e ai suoi compagni di partito e sostenitori serve su un piatto d’argento le migliaia di sbarchi di questi giorni a Lampedusa; ai cattolici e ai tanti laici tormentati dal dubbio che l'utilizzo della forza possa salvare più vite umane di quante ne sacrifica, propone vittime collaterali e corpi che affiorano dalle onde. Nulla hanno in comune le ragioni sottilmente xenofobe di chi persegue un’impossibile fortezza europea al riparo da profughi e migranti e quelle di chi ha verso l’impiego della forza armata una riserva morale quasi assoluta. Ma questo non rende meno efficace la strategia del Colonnello. Per sconfiggerla, occorre la consapevolezza che solo una fermezza e una determinazione ancora maggiori potranno porre fine a tutto questo, attraverso la rimozione di Gheddafi dal potere. Farla finita con Gheddafi il più presto possibile rappresenta il primo strumento per salvare il maggior numero di vite umane. A fronte dell’ulteriore imbarbarimento nelle modalità di conduzione della guerra operato da Gheddafi, occorre però aggiornare la nostra strategia - nel nome di quel principio che resta la base morale ineludibile del nostro intervento: la salvaguardia delle vite innocenti minacciate dal Colonnello - e verificare la possibilità di realizzare immediatamente una rete di soccorso ai migranti il più vicino possibile alle coste libiche. Lo impongono le ragioni dell’umanità ma anche quelle della politica e di una strategia militare che, da tempo ormai, ha imparato cosa significhi dover combattere «la guerra tra la gente», foss’anche in mezzo al mare, e come ogni vita salvata ci avvicini alla sola vittoria possibile: quella dell’umanità da - lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali Titolo: VITTORIO EMANUELE PARSI - Avvertimenti dalla Siria Inserito da: Admin - Maggio 28, 2011, 11:04:53 am 28/5/2011
Avvertimenti dalla Siria VITTORIO EMANUELE PARISI Si dice che tre indizi facciano una prova. In Medio Oriente ce ne sono già almeno due che fanno ipotizzare che Damasco possa essere il mandante ed Hezbollah l’esecutore o il complice dell’attentato realizzato ieri a Sidone contro i militari italiani inquadrati all’interno di Unifil. Risaliva solo al giorno prima la notizia che il Consiglio di Sicurezza avesse allo studio nuove sanzioni contro il regime criminale di Bashar al Assad. E proprio la mattina prima il segretario generale Ban Ki-moon aveva inaugurato a Beirut una conferenza di tre giorni dedicata ai Tribunali speciali internazionali, di cui quello sul Libano (incaricato di far luce sull’omicidio del premier Rafik Hariri nel 2005) è da sempre fortemente avversato da Hezbollah, contro i cui leader convergono numerosi e circostanziati sospetti. Troppo difficile credere nella pura casualità della successione temporale di questi tre eventi. La sensazione è che Damasco abbia deciso di reagire con un avvertimento di stampo mafioso alle crescenti pressioni della comunità internazionale affinché cessi la carneficina di civili inermi, colpevoli solo di volere la fine della tirannia personale della famiglia Assad e del suo clan alawita. Dall’estate del 2006 questo è il più grave attentato che ha per oggetto le truppe di Unifil, inviate per consentire e sorvegliare la tregua tra Hezbollah e Israele dopo la «guerra di luglio» e per prestare assistenza al ristabilimento dell’autorità dell’Armée Libanese sulla ex «fascia di sicurezza» a Sud del fiume Litani. Hezbollah, che di quel territorio ha fatto uno dei suoi feudi, ha continuato in questi anni a esercitare un potere esclusivo su Sidone e sull’intera area, con una strategia di non aperta ostilità verso le forze dell’Onu, sempre attenta comunque a tutelare, oltre ai propri interessi, anche quelli dei suoi padrini di Damasco e Teheran. Una pista alternativa potrebbe portare a qualche fazione radicale palestinese, decisa a elevare la tensione sul confine israelo-libanese; ma appare al momento una strada più tenue di quella che porta a Damasco. D’altronde è francamente molto difficile credere che un attentato di tale valenza simbolica abbia potuto essere organizzato a Sidone, porta di ingresso dell’area presidiata da Unifil, sotto il naso di Hezbollah. Ed è poco credibile che Hezbollah abbia compiuto o lasciato compiere un simile atto politico senza concordare l’azione con Damasco. Più probabile che con l’attacco al convoglio Unifil la Siria abbia voluto chiarire alla comunità internazionale e all’Onu che se continueranno a «interferire nei suoi affari interni» il regime è disposto a incendiare l’intera regione, fino al punto di trascinare il Libano nel suo lugubre furore (provocando una nuova guerra civile), fino al punto di evocare lo spettro di un nuovo conflitto arabo-israeliano, che spaventa tutti, ma a questo punto forse non spaventa più così tanto Damasco. Certo, Assad e i suoi sanno che un conflitto potrebbe costare loro carissimo: ma, a mano a mano che l’opposizione interna non cessa nonostante gli ormai quasi mille morti di queste settimane e via via che l’isolamento internazionale della Siria cresce, rievocare il cronico conflitto arabo-israeliano potrebbe essere la sola carta rimasta in mano al regime per far passare in secondo piano la «primavera araba» o, peggio, per dirottarla contro il solito «nemico esterno», dietro il quale nascondere la sempre più declinante legittimità del suo potere, per tentare di conservarlo a qualunque costo, giocando il tutto per tutto, come sempre sulla pelle degli altri. Chi ha concepito questo attacco aveva ben chiara l’importanza del lavoro che svolgono i nostri soldati. Speriamo che anche a Roma (e in Padania…) lo capiscano. da - lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/ Titolo: VITTORIO EMANUELE PARSI - Afghanistan parte il ritiro di Obama Inserito da: Admin - Giugno 23, 2011, 10:15:43 am 23/6/2011 - VIA 30 MILA SOLDATI
Afghanistan parte il ritiro di Obama VITTORIO EMANUELE PARSI Un solo discorso, tre pubblici diversi. Questo è stato l’ennesimo salto mortale cui il presidente ha sottoposto la propria notevole e universalmente riconosciuta ars oratoria. Il discorso sull’avvio della exit strategy (10 mila soldati a casa quest’anno, 20 mila il prossimo) dalla più lunga guerra della storia americana, che Barack Obama ha pronunciato alle 8 di ieri sera, ha dovuto cercare di soddisfare almeno tre diversi tipi di audience: quella domestica, rappresentata dal Congresso e dagli elettori americani, quella internazionale degli alleati e delle attuali o emergenti grandi potenze rivali, e quella dei nemici, talebani e «qaedisti», contro i quali stiamo combattendo. Tutti ansiosi, in realtà, di vedere il ritorno a casa delle truppe coinvolte nelle operazioni di Enduring Freedom e di Isaf, eppure tutti molto attenti ai corollari che potevano essere celati nell’annuncio dell’avvio di uno dei disimpegni più attesi della storia militare. Il target domestico, quello più rilevante per le prossime elezioni presidenziali, era tutto sommato il più facile a cui parlare. L’opinione pubblica americana è così stanca della guerra in Afghanistan, che non poteva che plaudire a un presidente che, onorando una promessa fatta in campagna elettorale, «riportava a casa i ragazzi e le ragazze». Su questo versante Obama poteva giocare alcune carte che nessun suo predecessore ha mai avuto in mano. In primo luogo l’eliminazione fisica di Osama Bin Laden, che quasi dieci anni or sono diede il via a questa guerra. Con la spettacolare operazione dei Navy Seals, il Presidente aveva compiuto quella missione di «giustizia vendicatrice» che nell’immaginario collettivo americano giustificava il conflitto persino più di qualunque discorso sulla sicurezza internazionale. La stessa opposizione repubblicana aveva nel frattempo fornito chiari segnali di essere conscia sia della forza del Presidente sia della stanchezza dell’elettorato, di fatto lasciando intendere che non avrebbe fatto da cassa di risonanza alle preoccupazione dei vertici militari, i quali premevano per un posticipo del ritiro di almeno un anno. D’altra parte, gli stessi comandanti Usa, mentre non potevano dimenticare che in un momento decisamente peggiore Obama aveva comunque garantito l’aumento di 30.000 uomini da loro richiesto, allo stesso tempo restavano consapevoli del rischio di overstretching e logoramento di un esercito ininterrottamente in guerra su più fronti da quasi dieci anni. Più complesso era il pubblico rappresentato dagli alleati e dai rivali. Ai primi, che tutti indistintamente vorrebbero la fine della guerra «occidentale» in Afghanistan, il Presidente doveva mandare segnali differenziati e però coerenti. A Kharzai, che non avrebbe fatto la fine dell’ultimo presidente «intronato» dai sovietici, letteralmente fatto a pezzi dai mujaheddin; al Pakistan, che non doveva illudersi di poter tornare a tessere le sue tante e diverse trame (del governo, delle tribù, dell’Isi) nel vicino Afghanistan come era stato lasciato libero di fare negli ultimi decenni; agli alleati della Nato, ai quali doveva far capire che l’inizio graduale del ritiro americano non significava il «tutti a casa» e che contemporaneamente dovevano essere rassicurati sul fatto che le tendenze neoisolazioniste del Congresso e dell’opinione pubblica americana (vedi la minaccia di non finanziamento per la campagna di Libia) non sarebbero state rafforzate dalla decisione annunciata ieri. A cinesi, russi e a tutti quelli che auspicano una riduzione del ruolo americano nel Grande Medio Oriente, doveva fare intendere che questo non era neppure da ipotizzare: ma che anzi, semmai, l’America stava riorganizzando e ottimizzando i suoi sforzi, proprio per poter continuare a giocare il ruolo di principale pilastro di quel poco di ordine internazionale ereditato dalla fine della Guerra Fredda. Per capire questo, credo che raccordare il discorso di ieri con quello tenuto a Westminster appena poche settimane orsono, sulla perdurante necessità della leadership occidentale, eviterebbe più di un abbaglio. Ai nemici, infine, il discorso doveva offrire una possibilità di discordia: chiarire che, come e più che in Iraq, l’America era disposta a scendere a patti con i capi locali e persino con i taleban non direttamente coinvolti nelle stragi dell’11 settembre, a condizione che essi non offrissero nessuna sponda ai qaedisti. Proprio per questo, i militari chiedevano ancora un anno di pressione, per eliminare più nemici possibili e persuadere meglio i sopravvissuti. Il Presidente ha pensato diversamente. Le prossime settimane ci forniranno indicazioni non solo su questo specifico punto, ma sull’efficacia del discorso presidenziale nell’aver convinto i suoi tre diversi pubblici a fare ognuno la parte che Obama riserva loro. da - lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8889&ID_sezione=&sezione= Titolo: VITTORIO EMANUELE PARSI - Il colpo di coda dei talebani Inserito da: Admin - Giugno 30, 2011, 05:14:43 pm 30/6/2011
Il colpo di coda dei talebani VITTORIO EMANUELE PARSI Un attentato spettacolare e drammatico nel cuore di Kabul. E’ quello che nella notte tra martedì e mercoledì ha causato 21 morti (compresi i 6 attentatori) qui a Kabul, con la perfetta scelta del luogo: l’hotel Intercontinental (che insieme all’hotel Serena ospita la più parte della stampa internazionale e delle delegazioni straniere); e del momento in cui colpire: il giorno di avvio della conferenza che raccoglie allo stesso tavolo i membri del governo, i vertici delle forze di sicurezza e i governatori provinciali, cioè di coloro che di fatto, a partire dal 21 luglio dovranno guidare l’avvio della «transizione», il passaggio di consegne tra Isaf e le autorità afghane. Per capire la successione di attentati che in questi giorni sta insanguinando il Paese occorre proprio partire da qui, da questo concetto che racchiude a scommessa su cui la Nato, ma in realtà anche l’Onu e l’intera comunità internazionale si giocano la faccia e gli afghani si giocano la vita. A parte la cessazione di oltre 30 anni di guerre, non c’è nulla che gli afghani sembrano desiderare più ardentemente della fine della presenza politica e militare straniera sul loro suolo. E non c’è nulla di cui gli afgani sembrano aver più paura. Questo sentimento duplice, a Kabul e in tutto l’Afghanistan, si respira nell’aria. Non c’è persona, dai comandanti dell’Ana (Afghan National Army) ai leader politici, fino ai rappresentanti della società civile e a quelli del mondo degli affari, che non sostenga la stessa opinione: «È giunto il momento per noi afgani di tornare ad assumerci la responsabilità del nostro Paese e di garantirne la sicurezza, lo sviluppo e la governance». È in questa triade, del resto, che si articola la transizione. Evidentemente, non è per nulla scontato che il processo vada in porto con successo. Anzi. Il «comprehensive approach» (militare, politico ed economico) perseguito dalla Nato rappresenta certamente la sola via per porre fine a dieci anni di intervento militare occidentale, ma richiede che queste tre dimensioni si incastrino tra loro come le tessere di un puzzle difficilissimo. Inutile dire che, affinché l’esercizio riesca, sarà necessaria anche una notevole dose di fiducia e di speranza da parte sia degli afgani sia della comunità internazionale. E occorrerà che il futuro prenda il posto del passato, come orizzonte temporale dominante dell’Afghanistan. Ed è proprio questo che gli insorgenti mirano a scoraggiare. Prima il micidiale attentato contro un ospedale nella provincia di Kabul, poi il cuore steso della capitale: il senso del messaggio talebano è chiaro. Fare intendere che «transizione» è solo un modo più educato (e ipocrita) per dire «tutti a casa». La paura degli attentati è così tornata a dominare la vita di Kabul, ma anche di Mashar-e-Sharif, dove il 1˚ aprile la sede di Unama, la missione dell’Onu dedicata ad assistere l’Afghanistan venne presa d’assalto dalla folla inferocita per il rogo del Corano organizzato negli Stati Uniti da un pastore estremista. Eppure, la gravità dell’attentato non dovrebbe fare dimenticare che proprio a Kandahar, nel Sud del Paese, una delle zone dove gli insorgenti sono ancora sensibilmente forti, 14 attentati suicidi sono stati sventati dalle operazioni congiunte di Isaf e Ana e nessun attentatore è riuscito a colpire edifici governativi o delle forze di sicurezza. Il paradosso, a ben guardare, è che proprio il settore della sicurezza appare quello meno problematico della transizione. Soprattutto l’esercito ha visto aumentare non solo i numeri dei suoi effettivi, ormai vicini ai programmati 175.000 uomini, ma soprattutto la qualità de suo personale. Le stesse forze di polizia, che hanno a lungo goduto di una pessima reputazione, stanno cominciando a guadagnare numeri, efficienza e consenso presso la popolazione. I vertici militari di Isaf insistono molto sul fatto che è proprio la dimensione militare è quella che mostra i segnali più incoraggianti e scommettono sul successo del passaggio di consegne alle loro controparti afghane, il cui «mentoring» continuerà comunque fino al termine del 2014. L’annuncio del ritiro del surge da parte del presidente Obama non ha sorpreso nessuno e sia Isaf sia i comandanti afghani sembrano fiduciosi che questo possa non incidere negativamente sui piani previsti. Ma occorre chiedersi come farà l’Afghanistan, che resta sempre il quinto Paese più povero del mondo, a mantenere un apparato di sicurezza formato da 350.000 professionisti (tra soldati e poliziotti), a malapena necessari per riuscire a consolidare la sicurezza dopo il 2015. La stessa soluzione politica, del resto, con la riconciliazione nazionale e le reintegrazione degli ex insorgenti nella vita sociale ed economica dell’Afghanistan, è legata alla possibilità che il Paese possa fare progressi decisi anche nel campo dello sviluppo economico e politico. La comunità internazionale ha promesso il suo sostegno anche dopo il 2015. Ma il timore che viene espresso in tante conversazioni off record con i vertici politici e militari di Kabul è che, una volta che i soldati occidentali saranno tornati a casa, sarà molto difficile che le opinioni pubbliche siano ancora disposte ad avallare spese per l’Afghanistan, sia pure destinate in aiuti allo sviluppo e non in assistenza militare. Si tratta di una preoccupazione non infondata, effettivamente, oltretutto alimentata dalla percezione di un quadro regionale piuttosto ostile, in cui il Pakistan e l’Iran giocano una partita che ha per campo di battaglia e per posta l'Afghanistan. Visto da Herat, il fantasma dell’Iran, con la sua crescente influenza economica su una delle regioni più sviluppate del Paese e con il suo appoggio crescente a diverse formazioni di insorgenti, appare tutto fuorché una manifestazione di paranoia. Gli afghani sono disposti a fare la loro parte, ma chiedono alla comunità internazionale di non abbandonarli una volta che Isaf si sarà ritirata. Ma la sensazione è che i cittadini e i contribuenti occidentali, dopo dieci anni di guerra, siano semplicemente stufi di sentir parlare di Afghanistan. da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8918&ID_sezione=&sezione= Titolo: VITTORIO EMANUELE PARSI - Logica demagogica e provinciale Inserito da: Admin - Luglio 08, 2011, 10:09:13 am 8/7/2011
Logica demagogica e provinciale VITTORIO EMANUELE PARSI Un suk indegno, che svende l’onore del Paese e il sacrificio delle sue Forze Armate in cambio di qualche mese di sopravvivenza di un esecutivo vitale quanto lo era Breznev all’inizio degli Anni 80. Sicuramente il modo peggiore di rendere omaggio al caporale Tuccillo, le cui esequie sono state celebrate appena 48 ore fa, e per far sentire ai suoi commilitoni la vicinanza di quella Patria che loro difendono e altri umiliano. Occorreva invece andare oltre e giocarsi, per tirare a campare, uno dei pochi risultati concreti e positivi di quasi vent’anni di politica estera. Parliamoci chiaro: dopo l’89, il crollo del Muro di Berlino, la fine del comunismo, l’ingresso della Cina nel Wto, il mondo si era fatto troppo vasto per un Paese come l’Italia, che aveva sempre faticato a trovare un posto tra i grandi. Non senza difficoltà interne notevoli, i governi di centrodestra e di centrosinistra avevano individuato nella partecipazione alle missioni militari internazionali uno strumento attraverso il quale tutelare il «rango internazionale» dell’Italia, nonostante molti altri indicatori ne suggerissero un declassamento. In questi anni abbiamo assistito a improbabili sparate sulla «funzione mediatrice» esercitata tra Russia e Stati Uniti o furbetti ammiccamenti a dittatori come Gheddafi, Ahmadinejad o Lukashenko; abbiamo anche dovuto archiviare tante inconcludenti e velleitarie presenze ai G8 e una difficoltà strutturale a mantenere la nostra posizione nella nuova Unione Europea. Nonostante tutto ciò, proprio la quantità e la qualità della partecipazione militare italiana alle missioni internazionali ha consentito di far emergere un’immagine dell’Italia capace di sfidare gli stereotipi vecchi (e anche, ahimè, quelli nuovi) di un Paese cialtrone, arraffone e inaffidabile. Quante volte negli anni passati il centrodestra aveva fatto legittimo vanto e strumento di polemica politica dell’essere venuto in soccorso degli esecutivi ulivisti sul sostegno finanziario alle missioni militari. E, d’altra parte, lo stesso centrosinistra si era ben guardato dal votare contro il loro rifinanziamento anche quando non ne condivideva il fine (si pensi all’operazione «Antica Babilonia»). Per quasi vent’anni, quello delle missioni militari internazionali è stato uno dei pochi campi sui quali si è dispiegato il tanto invocato «spirito bipartisan», nutrito da un barlume di consapevolezza che l’interesse nazionale non può sempre soccombere di fronte agli interessi di parte. Non solo, proprio questo convergere sul senso della decenza, che anche lo scontro politico più furibondo deve saper mantenere quando ciò che è in gioco è la stessa idea di Patria, aveva concorso ad emarginare le forze politiche estreme all’interno dei due schieramenti (le varie formazioni post-comuniste, la Lega, l’IdV). Tutto questo, ieri, è stato gettato semplicemente alle ortiche, come un abito di poco valore ormai fuori moda. Persino gli eredi di una «Destra Nazionale» in passato sempre pronta a impugnare il Tricolore per menar fendenti sugli avversari, ora si piegano ai diktat dei «veri credenti» nella fantomatica esistenza della Padania, di chi fatica ad alzarsi in piedi quando passa la bandiera. In termini politici, quella che si è consumata ieri è stata la resa dell’agenda internazionale di fronte alla logica più demagogica e provinciale. E questo precedente rischia di pesare domani anche sugli equilibri interni di un’eventuale maggioranza di centrosinistra. Tanto Bossi quanto Di Pietro sono sempre stati perfettamente consapevoli che ogni volta che il dibattito politico si sposta sul versante internazionale i loro interessi ne patiscono. Le posizioni di politica estera espresse da Lega e IdV sono del resto inconsistenti e la dimensione internazionale è assente dalla loro proposta politica, se non in quanto declinata in xenofobia o protezionismo commerciale. Ieri è stato chiarito che neppure le missioni militari internazionali e il loro finanziamento costituiscono più un inviolabile «sancta sanctorum», una riserva protetta in cui tutelare l’interesse nazionale. Da ieri, tutto è in vendita: e persino la parola data a Paesi amici e alleati può essere ritirata per ragioni di mera, immediata convenienza interna. E se questo vale per la politica internazionale, figuriamoci per quella domestica. Non è certo casuale che mentre si perde ogni residua capacità di opporre il bene comune all’interesse più partigiano, ritorni l’estremismo nelle sue forme più violente, l’affermazione becera del proprio punto di vista, del proprio tornaconto ideologico, com’è avvenuto recentemente in Val di Susa. Ieri, l’onorevole Bossi ha avuto l’ardire di sostenere che «grazie alla Lega migliaia di ragazzi torneranno a casa». Per impedire che questo governo vada a casa anche lui, aggiungeremmo noi. da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8953&ID_sezione=&sezione= Titolo: VITTORIO EMANUELE PARSI - Ultimo atto dell'Undici Settembre Inserito da: Admin - Agosto 24, 2011, 09:55:30 pm 24/8/2011
Ultimo atto dell'Undici Settembre VITTORIO EMANUELE PARSI Quando dieci anni fa Osama Bin Laden scatenò la sua guerra personale contro gli Stati Uniti, in molti osservammo che il mondo non sarebbe stato più lo stesso e che le conseguenze sul sistema politico internazionale, a partire dalla regione del Grande Medio Oriente, sarebbero state drammatiche. Il crollo del regime del colonnello Gheddafi, può così essere visto come l’ultimo dei cambiamenti prodotti quel giorno, ma il cui segno è quello del ribaltamento della logica che ha generato l’11 settembre. Le rivoluzioni che stanno scuotendo il Maghreb e il Levante rappresentano un’importante sconfitta per il progetto qaedista, perché mostrano quasi “plasticamente” che la politica è soprattutto qualcosa che si svolge alla luce del sole, nelle piazze, mobilitando le persone e non terrorizzandole attraverso azioni omicide concepite nella psicotica oscurità di remote caverne. Con il loro successo nel rovesciare quei tiranni contro cui il terrorismo si era in gran parte vanamente scagliato, i moti della Primavera araba hanno relegato ai margini del discorso politico arabo la violenza terroristica e riaperto lo spazio discorsivo all’islam politico. L’ultimo, in termini temporali, dei grandi avvenimenti di questo decennio è così forse il più significativo. Più ancora, al di là dell’enorme impatto simbolico, dell’eliminazione fisica di Osama. Proprio per la loro spontaneità e per il loro totale radicamento autoctono, le rivoluzioni arabe stanno ridisegnando un Grande Medio Oriente che sembra lasciarsi alle spalle l’11 settembre e le sue conseguenze insieme a quella miriade di errori strategici americani che ne sono stati l’incubatrice. Esse rappresentano in realtà il principale elemento di speranza per un quadro regionale che da quella fatidica data non aveva fatto altro che divenire più precario e insieme più bloccato, nonostante la quantità gigantesca di risorse politiche, economiche e soprattutto militari impiegate per costruire un nuovo ordine più stabile e sicuro. Appena accantoniamo le rivoluzioni che in Tunisia, Egitto e Libia hanno rovesciato presidenti e raiss o che sono ancora in corso in Yemen e Siria, ciò che colpisce del Medio Oriente non è tanto la sopravvivenza o meno di questo o quel regime, quanto piuttosto la persistenza dei suoi caratteri ad un tempo più resilienti eppure strutturalmente dissipatori d’energia. È vero, in questi dieci anni la regione ha conosciuto rivolgimenti non di poco conto, spesso ottenuti con il vasto impiego del tritolo e dei suoi moderni derivati: al costo di una quantità di bombe superiore a quelle sganciate sulla Germania in tutto il II conflitto mondiale, Saddam Hussein è stato rovesciato ed è finito al patibolo. In Afghanistan i Talebani sono stati rimpiazzati dalla “Repubblica di Karzai”. Due regimi ostili agli Stati Uniti sono cioè stati sostituiti da due regimi sostenuti dagli Stati Uniti, sia pur non così affidabili come alleati. La stagione riformista della Repubblica Islamica Iraniana, che dieci anni fa era guidata dal raffinato Khatami, discendente del Profeta, dopo che una sanguinosa repressione ha schiacciato i primi moti di libertà dell’intera regione, è oggi stretta nella plumbea morsa di Ahmadinejad. Ma nonostante tutti questi eventi, quella drammatica fragilità che si era manifestata con l’11 settembre – quando l’America era all’apice del suo potere politico, economico e militare, l’incontrastata superpotenza solitaria il cui ordine sembrava dover regnare in Medio Oriente – non si è minimamente attenuata, semmai il contrario. La persistenza degli elementi di instabilità è cioè stata capace di metabolizzare persino l’avvicendamento dei regimi quando ciò è stato prodotto dall’esterno, con l’impiego di una forza tanto devastante quanto inconcludente. Metafora, ma in realtà spiegazione di tutto quello che non riesce a cambiare è l’inabissamento del processo di pace israelo-palestinese o, per meglio dire, arabo israeliano. Non è né scandaloso né casuale, ma estremamente preoccupante questo sì, che il rimettersi in moto della politica in Egitto rischi di chiudere anche la finestra di opportunità aperta dalla pace separata siglata da Begin e Sadat nel 1978. Dal settembre 2001 a oggi il progressivo abbandono della ricerca sincera di una via negoziale per la pace tra israeliani e palestinesi ha prodotto la distruzione di Ramallah e l’umiliazione dell’OLP (ancora vivente Arafat), l’invasione di Gaza e il rafforzamento di Hamas, quella del Libano meridionale e il rafforzamento di Hezbollah, e ha visto peggiorare le condizioni generali di sicurezza del popolo israeliano. Difficile dimenticare che proprio la rabbia e l’umiliazione per l’infinito perpetuarsi del conflitto arabo-israeliano avevano contribuito ad alimentare il rancore di tanti arabi e l’odio di Bin Laden verso l’America. Tutto questo è restato pericolosamente dov’era: in un mondo, però, dove l’America non occupa più quella posizione di egemone solitario, signore della guerra e della pace di tutti e per tutti, che deteneva dieci anni fa. da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9121 Titolo: VITTORIO EMANUELE PARSI - L'incubo della guerra Inserito da: Admin - Settembre 11, 2011, 04:33:22 pm 11/9/2011
L'incubo della guerra VITTORIO EMANUELE PARSI Ci sono molte chiavi di lettura per spiegare quanto è accaduto al Cairo. Ne vorrei proporre una semplice e preoccupante: di fronte al declino dell’egemonia americana in Medio Oriente nessuna forma di stabilità regionale è compatibile con il perdurare del conflitto israelo-palestinese. Non appena il vento della Primavera araba aveva raggiunto l’Egitto, molti osservatori avevano preconizzato che il crollo del regime autoritario e corrotto di Mubarak avrebbe lasciato il campo libero alle forze islamiste radicali, ostili al Trattato di pace firmato con Israele nel 1979. La dura realtà è che non occorre scomodare la Fratellanza Musulmana per spiegare l‘assalto da parte di migliaia di dimostranti all’ambasciata israeliana, perché quel trattato non è inviso soltanto agli integralisti musulmani, ma a gran parte della popolazione egiziana, che continua a ritenere che la «pace separata» siglata dall’allora presidente Sadat abbia rappresentato un tradimento della causa araba. Il possibile cortocircuito tra le rivoluzioni arabe – che rappresentano un elemento positivo di dinamismo, capace di porre fine a quei decenni di autismo politico che avevano concorso a generare il terrorismo qaedista di Bin Laden – e l’irrisolto conflitto israelo-palestinese – il cui non superamento ha costituito una micidiale zavorra per il futuro di tutti i popoli della regione – sta proprio in questa «novità» che si prospetta per l’ordine mediorientale: cioè il prevalere nell’equilibrio regionale dei caratteri endogeni rispetto a quelli esogeni. Un fatto che di per sé sarebbe positivo, se non per una circostanza decisiva: ovvero che senza l’influenza determinante esercitata da un attore esterno, gli Stati Uniti, nessuno stato di quiete (non parlo di pace) è possibile nella regione, perché il potenziale destabilizzante rappresentato da un conflitto che dura ormai da oltre 60 anni e che ha metabolizzato più di un «processo di pace» non trova nessun rimedio. Gli attori regionali hanno capacità sufficienti, semmai, per accrescere gli effetti disordinanti di quel conflitto (si pensi all’Iran o alla Siria), o per esserne risucchiati (si veda la Turchia), ma non per contrastarli e neppure per tenerli semplicemente a bada. Gli anni colpevolmente perduti nel decennio dei Novanta, e il successivo decennio post 11 settembre, in cui l’omologazione di ogni forma di lotta violenta con il terrorismo e la logica semplicistica e però in un certo senso obbligata della «war on terror» ha fatto se possibile ulteriormente imbarbarire il quadro delle relazioni arabo-israeliane (ripresa delle intifade, recrudescenza degli attacchi contro obiettivi in territorio israeliano, invasione del Libano, invasione e blocco economico di Gaza), ci hanno condotto a una condizione che era di stallo solo grazie alla crescente presenza e influenza americana nella regione. Da oggi, dovrebbe essere chiaro a tutti che una simile condizione non ce la possiamo più permettere. Venerdì si è così cominciato a profilare quello che dall’inizio dell’anno le autorità israeliane temevano, e che hanno fatto ben poco per cercare di scongiurare. La frustrazione della folla egiziana per la contraddittorietà e la lentezza del processo di transizione democratica si è saldata con la rabbia nei confronti di Israele, per l’impunità di cui sembra godere in virtù della sua relazione speciale con gli Stati Uniti e del cosiddetto doppio standard con cui l’America giudica quel che accade in Medio Oriente. Come ha sostenuto un manifestante intervistato da Al Jazeera : «Obama chiede a noi di rispettare l’incolumità dei cittadini israeliani in Egitto, ma non ha speso una parola per condannare l’omicidio da parte delle forze di sicurezza israeliane di cinque guardie di frontiera egiziane il 18 agosto scorso». Sono quasi le stesse parole che ha usato il premier Erdogan, a proposito del «silenzio di Obama» dopo che le anticipazioni di stampa sul rapporto dell’Onu - che condanna l’uso eccessivo della forza durante l’assalto alla flottiglia di solidarietà per Gaza nel maggio 2010 (in cui sono stati uccisi diversi cittadini turchi) - hanno portato Ankara ad un passo dalla rottura delle relazioni diplomatiche con Tel Aviv. Come se non bastasse, tra pochi giorni, l’Assemblea generale dell’Onu dovrà discutere della dichiarazione d’indipendenza palestinese presentata dall’Anp. La prevista opposizione americana (e forse europea) non potrà che essere percepita come l’ennesima provocazione da parte di un’opinione pubblica esasperata. In simili circostanze, il rischio che la regione corra rapidamente verso un nuovo conflitto è tutto fuorché aleatorio, anche a fronte del crescente isolamento di Israele, che in poco più di un anno ha perso i due soli (tiepidi) alleati che aveva nella regione: Turchia ed Egitto. In queste condizioni nessuno, a cominciare da tanti cittadini della democratica Israele, può più permettersi il lusso di ignorare che la sola alternativa a una pace vera sarà l’ennesima, inutile guerra. da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9185 Titolo: VITTORIO EMANUELE PARSI - Ma l'Europa non può perdere Ankara Inserito da: Admin - Settembre 25, 2011, 11:06:17 am 19/9/2011
Ma l'Europa non può perdere Ankara VITTORIO EMANUELE PARSI Erdogan flette i muscoli anche con l’Unione Europea. In poco più di una settimana è arrivato a un passo dalla rottura delle relazioni diplomatiche con Israele per le mancate scuse sull’uccisione di cinque cittadini turchi imbarcati nella «freedom flottilla» (intercettata di fronte a Gaza nel maggio scorso), ha ventilato la possibilità di far scortare la prossima dalla Marina turca se fosse necessario. Ha poi incassato il plauso delle folle e delle autorità transitorie in Egitto e in Libia, ha scaricato sonoramente l’ex alleato siriano, ammonendolo pubblicamente che «non si può governare contro il volere del popolo». Minacciare il «congelamento» delle relazioni con Bruxelles qualora, come previsto, nel secondo semestre del 2012 Cipro dovesse assumere la presidenza di turno dell’Unione - e nel frattempo non fossero conclusi i negoziati con la repubblica secessionista (e filo turca) di Cipro Nord - è una mossa meno azzardata di quanto possa apparire a prima vista. Per cominciare, minacciare un «congelamento» delle relazioni diplomatiche se non verranno soddisfatte alcune condizioni, costituisce un comportamento analogo a quello che i turchi hanno dovuto sperimentare sulla propria pelle un discreto numero di volte, proprio per mano europea. Così facendo, Erdogan appaga innanzitutto l’orgoglio turco, in passato troppe volte umiliato dagli europei e oggi invece solleticato dagli arabi, così a lungo soggetti alla Sublime Porta. Lo fa sapendo che in politica 10 mesi sono un’eternità, per cui avrà a disposizione 300 giorni per trovare un’occasione che lo induca a rivedere (magnanimamente) la propria posizione. Allo stesso tempo, dice ai turco-ciprioti - e attraverso loro al mondo - che lo standing internazionale della Turchia è cambiato per effetto del cataclisma geopolitico che sta interessando l’intero Mediterraneo e per il coraggio e la sagacia della dirigenza dell’Akp (il partito del premier). Erdogan sa benissimo che il prezzo che potrebbe realisticamente pagare per una mossa così audace (un po’ mussoliniana per la retorica muscolare da «grande proletaria umiliata») non è poi così elevato. I turchi sono tornati a essere un po’ meno gelidi nei confronti dell’Unione (si veda l’ultimo rapporto Transatlantic Trends, di cui La Stampa ha fornito ampio resoconto quattro giorni fa), ma sono piuttosto scettici sulla possibilità che possano prima o poi entrare nell’Unione. Troppo forti le opposizioni francesi e tedesche e destinate a rafforzarsi in un’epoca di crisi economica, di continui insuccessi elettorali del partito della Merkel e di imminenti presidenziali francesi. D’altra parte il favorevole status di Paese «eternamente candidato» fornisce alla Turchia condizioni privilegiate che non verrebbero messe in discussione neppure se Erdogan dovesse per sei mesi rifiutarsi di incontrare le delegazioni della Ue. Non risulta oltretutto che l’Unione sia apparsa finora troppa smaniosa di far proseguire le trattative per l’adesione turca… Insomma, se la Turchia potrà al più aspirare a un lunghissimo fidanzamento ma non a un matrimonio (né d’amore, né d’interesse, né riparatore), il suo primo ministro sa benissimo che l’Europa non può permettersi, proprio ora, di perdere la Turchia (in questo il ministro Frattini ha perfettamente ragione). Ora proprio no. Perché se può irritare l’altezzoso orgoglio francese vedere come Erdogan riscuota successo da Damasco a Gaza, dal Cairo a Tripoli, fino a Tunisi, a Parigi come a Berlino, a Londra come a Roma, sanno tutti benissimo che la possibilità che i regimi che nasceranno in conclusione delle rivoluzioni arabe possano essere osservanti e conservatori ma non per questo radicali e antioccidentali dipende anche dal successo di Erdogan nel vendere il suo progetto politico: quello di un Islam politicamente attivo e rilevante ma nell’ambito di uno Stato che si mantiene laico. E val proprio la pena tollerare qualche smargiassata e qualche incontro in meno affinché una simile prospettiva diventi sempre meno aleatoria. da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9216 Titolo: VITTORIO EMANUELE PARSI - L'Iran gli Usa e la trappola della provocazione... Inserito da: Admin - Ottobre 14, 2011, 05:20:03 pm 14/10/2011
L'Iran gli usa e la trappola della provocazione perfetta VITTORIO EMANUELE PARSI Eliminare l’ambasciatore saudita a Washington senza essere presi con le mani nel sacco era un’ipotesi talmente irrealistica che nessuno a Teheran può averla presa seriamente in considerazione. Egualmente impossibile era ritenere che i mandanti non sarebbero stati identificati. Il solo dubbio che poteva sussistere era semmai se la scoperta del complotto e dei suoi mandanti sarebbe avvenuta prima o dopo la realizzazione dell’attentato. Allora per quale motivo Teheran avrebbe scelto una simile strategia apparentemente «suicida»? Credo che la risposta vada proprio cercata a partire da quest’ultimo aggettivo: suicida, perché solo facendo ricorso alla razionalità che guida gli attentatori suicidi è possibile comprendere la logica tutt’altro che irrazionale che ha guidato le mosse di Teheran. L’obiettivo non era quello di colpire senza essere scoperti o identificati; l’obiettivo era quello di riconquistare il centro della scena mediorientale, stanare le eventuali contraddizioni degli Stati Uniti, mutare un quadro strategico che da oltre un anno è sostanzialmente sfavorevole agli interessi iraniani, nonostante il successo (ormai lontano e non produttivo di conseguenze) ottenuto con l’avvento di un governo controllato da Hezbollah a Beirut. Tutti gli eventi dell’ultimo anno che per comodità abbiamo raccolto sotto la definizione di «primavera araba» rappresentano per l’Iran un pessimo affare, a prescindere da quelli che potranno essere gli esiti di quell’autunno che sembra profilarsi all’orizzonte nel Maghreb. Se, come ancora è possibile ma sempre più improbabile, la domanda di libertà, uguaglianza, dignità e futuro posta in essere dalle folle arabe (in particolare dai giovani) non verrà tradita o dirottata dai nuovi governanti, nel Maghreb potrebbero affermarsi dei regimi «repubblicani», ovvero un pericoloso modello capace di rigalvanizzare i giovani, le donne, gli intellettuali che nelle scorse elezioni avrebbero già cacciato dal potere Ahmadinejad e i suoi, se non fossero stati derubati grazie ai brogli elettorali e zittiti a suon di omicidi ed esecuzioni. Se, viceversa, a Tunisi, Tripoli o Il Cairo dovessero prendere il potere dei partiti islamisti sunniti, l’unicità della proposta politica iraniana - una repubblica islamica di stampo autoritario e populista a forte mobilitazione e con elezioni addomesticate ma ricorrenti - verrebbe meno e il regime perderebbe molto del suo fascino agli occhi di quelle masse arabe che guardavano alla rivoluzione iraniana come il solo precedente di una rivolta di successo contro un despota autoctono spalleggiato dall’Occidente. L’imbarazzo iraniano a fronte di quel vento di rivolta che sta scuotendo il Medio Oriente è implacabilmente messo in luce dai guai che stanno aggravando il regime siriano di Bashar Assad, il solo alleato dell’Iran nella regione, e dalla perdurante instabilità nel confinante Iraq, dove oltretutto le locali autorità sciite non sono mai apparse troppo disposte a partecipare passivamente al «gran disegno» iraniano. Nel nuovo assetto strategico che si va profilando, nonostante le gravi difficoltà interne, anche l’Egitto sta riacquistando parte di quel ruolo che tradizionalmente occupava nel Medio Oriente e che aveva perso firmando gli accordi di Camp David: alzare i toni della polemica con Tel Aviv, riaprire i valichi con Gaza e aver collaborato alla liberazione del caporale Shalit è un «filotto» che segna il ritorno dell’Egitto sulla scena diplomatica regionale. Ma è l’Arabia Saudita - l’arcinemico e per di più «empio» dell’Iran- che risulta destinato a cogliere i maggiori vantaggi dal mutamento del quadro strategico. Con un Iran ai margini della scena politica, persino la scomparsa di Saddam Hussein finisce per essere un vantaggio soprattutto per Riad, a cui la crisi del regime siriano (suo tradizionale competitor in Libano), la possibile vittoria di partiti islamisti in Tunisia, Libia ed Egitto e le gravi difficoltà in cui versa al Qaeda dopo la morte di Osama Bin Laden potrebbero regalare più di quanto i Saud avessero mai osato sperare. Si spiega molto bene, quindi, la scelta di un obiettivo saudita. Ma perché proprio quello a Washington? Non basta il significato simbolico implicito a chiarire una simile decisione. Il punto è sostanziale. Gli iraniani sanno benissimo (e lo sanno anche i sauditi) che la crescita del ruolo di Riyad è possibile solo a condizione che gli Stati Uniti continuino a esercitare la propria influenza in Medio Oriente in modo credibile agli occhi delle capitali arabe, ben più che a quelli delle folle. Certo, la possibile svolta autoritaria delle rivoluzioni arabe potrebbe complicare la politica americana nell’area. Ma se a Washington riuscissero a mantenere i nervi saldi nel caso di una simile eventualità, proprio la carta saudita potrebbe rivelarsi preziosa. Quest’ultima però perderebbe molto della sua forza se l’America, di fronte a una clamorosa provocazione, non rispondesse in maniera appropriata. E che cosa meglio di un complotto volto a uccidere l’ambasciatore saudita a Washington potrebbe rappresentare la «provocazione perfetta»? Se gli Usa dovessero reagire in una maniera giudicata troppo timida, attesterebbero ulteriormente la loro perdita di prestigio nella regione, compromettendo la stessa investitura dell’Arabia Saudita come nuovo leader del Levante e del Golfo. Se dovessero scegliere l’opzione militare dell’attacco selettivo (non esclusa dal presidente) Obama fornirebbe spazio alle accuse iraniane di agire alla stessa maniera del suo predecessore: in maniera muscolare, imperiale, «occidentale» (nell’accezione critica che il termine ha in Medio Oriente e non solo) quando si tratta di colpire un Paese islamico, alimentando così la polemica anti-imperialista e antisionismo degli ayatollah, a cui le folle arabe continuano a restare sensibili. Dal punto di vista iraniano il complotto apre quindi a due possibilità diverse, ma che consentono entrambe di smuovere un quadro altrimenti destinato a soffocare lentamente il regime iraniano, alle prese con una crisi economica grave, acuita dalle sanzioni internazionali per un programma nucleare dall’esito e dai tempi per nulla scontati. Oltretutto nella consapevolezza che l’unica cosa che Obama non vuole e non può fare e quella di scatenare una vera e propria guerra risolutiva contro l’Iran... da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9317 Titolo: VITTORIO EMANUELE PARSI - Con la sharia a Tripoli comincia l'inverno arabo Inserito da: Admin - Ottobre 26, 2011, 04:45:33 pm 25/10/2011
Con la sharia a Tripoli comincia l'inverno arabo VITTORIO EMANUELE PARSI Hanno suscitato nervosismo in Occidente le dichiarazioni del presidente del Consiglio Nazionale di Transizione (Cnt) libico, Mustafa Abdel Jalil, circa la volontà di fare della sharia «la fonte del diritto» per la nuova Libia. Del resto, il timore che nel mondo arabo alla colorata primavera rivoluzionaria dovesse seguire un grigio inverno islamista non ha mai davvero abbandonato i governi e le opinioni pubbliche occidentali. Dopo aver visto rafforzarsi di mese in mese le prospettive di successo del partito islamista Ennahda nelle elezioni per l’Assemblea Costituente in Tunisia, esserci rassegnati alla possibilità che i Fratelli Musulmani arrivino al potere in Egitto e dovuto preoccupare per la popolarità dei salafiti (sospettati di essere coinvolti nella strage dei Copti del 13 ottobre scorso), le dichiarazioni di Jalil sembrano fatte apposta per dare corpo ai peggiori fantasmi che da mesi agitano i sonni dell’Occidente. In realtà non è tanto il puro e semplice riferimento alla sharia come fonte del diritto che dovrebbe inquietare, quanto piuttosto il corollario reso esplicito successivamente dallo stesso Jalil: «Ogni norma che contraddica i principi dell’islam non avrà più valore», a cominciare da quelle relative a divorzio e poligamia per finire col divieto di prestare denaro dietro il pagamento di un interesse. La sharia, infatti, è annoverata tra le fonti del diritto nelle Costituzioni di diversi Paesi a maggioranza musulmana: dall’Egitto di Mubarak (avete letto bene) al Sudan, dall’Indonesia al Marocco, dalla Malaysia all’Arabia Saudita, dall’Iran a 12 degli Stati che compongono la Federazione della Nigeria fino al nuovo Afghanistan post-talebano. Evidentemente, quello che cambia radicalmente da caso a caso (e che comporta differenze altrettanto radicali per la vita delle persone, a cominciare dalle donne) è l’interpretazione che si fornisce sia del concetto di «fonte del diritto», sia di quello stesso di sharia, oltre che la sua concreta attuazione. Il riferimento generico alla sharia tra le fonti del diritto, tra i suoi principi ispiratori, rende infatti omaggio a quella concezione, ampiamente diffusa nel mondo musulmano, che ritiene impossibile per un potere «legittimo e giusto» essere in contrasto col disegno divino. Per più di un aspetto, a fronte del dilagare di forme di potere personali, corrotte e autoritarie che hanno dominato per tanti anni queste società, il richiamo alla legge divina rappresenta qualcosa di simile (ma non analogo) a ciò che nella tradizione occidentale ha significato il richiamo al diritto naturale come ricerca di un solido baluardo contro l’arbitrio dei tiranni. Detto questo, non può sfuggire che la sharia può diventare (e spesso diventa) uno strumento micidiale di violazione della libertà individuale quando la si trasformi da un’elevata fonte di ispirazione per il legislatore a una legislazione sacrale che prevarica programmaticamente quella dello Stato o a cui quest’ultima deve conformarsi sotto pena di nullità. Questioni come lo statuto legale della donna, le punizioni corporali, la violazione dei diritti umani e i rapporti economici finanziari rappresentano altrettanti casi di palese attrito tra la concezione contemporanea di giustizia e quella che si ricava dall’interpretazione della sharia più diffusa tra coloro che ne propugnano il ripristino. È quindi motivata la preoccupazione rispetto a quanto ha affermato Jalil, tanto più che in un Paese le cui istituzioni sono state sistematicamente smantellate da Gheddafi nel corso di 41 anni, e dove le strutture tribali tradizionali sono tutt’ora rilevanti, è difficile immaginare che cosa potrebbe frenare la totale «islamizzazione della legge». Un ultimo punto deve però essere ricordato. La questione della tolleranza religiosa e dell’effettiva tutela legislativa dei diritti delle minoranze e dei singoli individui nei Paesi in cui l’islam è religione maggioritaria non dipende esclusivamente dal ruolo che la sharia occupa nella legislazione: basti pensare al caso della laica Turchia, in cui comunque il proselitismo per religioni diverse da quella islamica è sostanzialmente impossibile. da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9358 Titolo: VITTORIO EMANUELE PARSI - Piazza Tahrir e il bivio dei militari Inserito da: Admin - Novembre 22, 2011, 12:37:17 pm 22/11/2011
Piazza Tahrir e il bivio dei militari VITTORIO EMANUELE PARSI Mentre gli scontri tra dimostranti e forze di sicurezza in piazza Tahrir non accennano a placarsi, appare ormai irreversibile il ribaltamento del ruolo dell’esercito agli occhi di una parte crescente dell’opinione pubblica egiziana. I militari, che fino a poco tempo fa erano salutati come i garanti della fuoriuscita dal regime di Mubarak, sono oggi considerati il principale ostacolo alla transizione verso la democrazia. E la cattiva notizia è che la percezione dei manifestanti è corretta. Oggi l'Egitto è un regime militare in cui il capo del Consiglio supremo delle forze armate, Hussein Tantawi, riunisce nelle sue mani i medesimi poteri di Hosni Mubarak, pur se in una fase ben più caotica di quella in cui il suo predecessore si era trovato ordinariamente. Per molti aspetti è stato stupefacente come l'esercito fosse fin qui riuscito a mantenere l'incredibile posizionamento di paladino del cambiamento, nonostante l’acritico sostegno garantito a Nasser, Sadat e Mubarak in quasi sessant’anni di associazione al potere. Perché un fatto è evidente: cambiano i leader, cambia l'allineamento internazionale del Paese, ma quello che resta costante è il ruolo delle forze armate, vere detentrici, più che semplice sostegno, del potere effettivo. Costringendo alle dimissioni il rais, lo scorso 11 febbraio, dopo aver tenuto una posizione defilata rispetto ai tentativi di schiacciare la rivolta, l'esercito era riuscito a far dimenticare tutto ciò, a metterlo sullo sfondo, complice la consapevolezza di tutti - dai soggetti politici ai semplici cittadini - che far chiarezza sulle sue reali intenzioni avrebbe potuto essere troppo rischioso, forse fatale, per gli stessi esiti della rivoluzione. Nei nove mesi trascorsi è iniziata una partita a scacchi in cui i militari hanno via via palesato le proprie intenzioni, riassumibili nella volontà di mantenere potere privilegi acquisiti in mezzo secolo. Allo stesso tempo però, l'insofferenza dell’opinione pubblica è cresciuta a mano a mano che l'avvicinarsi della scadenza elettorale consumava il tempo a disposizione per eventuali compromessi e rischiava di svuotare la rilevanza del primo libero pronunciamento elettorale nella storia egiziana. È stato questo a rendere lo scontro pressoché inevitabile. Ora è molto difficile che, dopo la strage di copti di un paio di mesi fa e il massacro dei giorni scorsi, un qualche accettabile compromesso possa essere ristabilito. I militari o finiranno per essere spazzati via o dovranno gettare la maschera e proporsi non come gli interpreti della rivoluzione e della sovranità popolare, ma come i liquidatori dell’una e dell’altra. Un brutto affare per tutti. Per gli egiziani innanzitutto e per tutto il mondo arabo che all’Egitto guarda anche in questa occasione. Ma un disastro anche per gli Usa, che si erano convinti a mollare Mubarak, tardivamente e dopo furibondi contrasti interni all'amministrazione Obama, proprio perché pensavano di poter contare sull’inedita carta di militari riformisti pronti a farsi garanti verso Washington di una transizione ordinata alla cui conclusione sarebbe nato un Egitto nuovo e diverso in tutto tranne che nel suo allineamento internazionale. Ora, al massimo, avremo uno dei due esiti ma molto difficilmente tutti e due: un Egitto come sempre governato dai militari e alleato degli Usa oppure un Paese in cui il ruolo politico dell’esercito è drasticamente ridotto ma non più alleato degli Stati Uniti. Il sogno di coniugare in una sola stagione politica il riformismo marziale di Mustafa Kemal Atatürk e l’islamismo moderato e democratico di Erdogan è morto prima ancora di nascere. E l'Egitto non appare destinato a diventare una "nuova Turchia". Nel frattempo, dal Libano di Hezbollah, ormai alleato pressoché solitario della Siria nel mondo arabo, giunge la notizia dello smantellamento della rete spionistica con cui l'Agenzia era riuscita a infiltrare il movimento sciita, oltretutto, pare, scoperta anche grazie all’impiego delle sofisticate apparecchiature fornite da Langley al Mukabarat durante il precedente governo filo-occidentale. Si tratta di un colpo che rende ancora più evidente l'affanno americano nel Medio Oriente, nel Levante in particolare, dove la crisi siriana rischia di andare fuori controllo proprio mentre i tamburi di guerra tornano a risuonare tra Israele e l'Iran. Un segnale che Hezbollah manda anche all'opposizione siriana, nei cui confronti le frontiere libanesi torneranno a sigillassi, nella logica di quello scontro finale cui il regime di Assad sembra persino aspirare più che limitarsi a non temere. da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9465 Titolo: VITTORIO EMANUELE PARSI - Un regime non al passo dei tempi Inserito da: Admin - Dicembre 05, 2011, 11:18:28 am 5/12/2011
Un regime non al passo dei tempi VITTORIO EMANUELE PARSI Alla fine il partito di Putin e Medvedev (Russia Unita) potrebbe riuscire a conquistare la maggioranza assoluta dei seggi della Duma, ma di sicuro si fermerà ben lontano da quella maggioranza dei due terzi che, nell’attuale Parlamento, gli aveva consentito di fare praticamente tutto quel che voleva. Venti punti percentuali in meno non sono uno scherzo, rappresentano semmai una solenne batosta, tanto più se si considerano le modalità non proprio «britanniche» con cui si è svolta la campagna elettorale e si sono celebrate le elezioni. Putin ha dato fondo al solito armamentario fatto di intimidazioni, minacce, chiusura di siti internet ostili e accuse agli oppositori di essere al soldo dello straniero sempre generosamente impiegato, fin da quando era il primo ministro di un altro presidente, non Dmitrj Medvedev ma Boris Eltsin. Forse occorre proprio partire da quegli anni, per provare a spiegare che cosa questa volta non ha funzionato e la risposta è una sola: dagli anni di Eltsin, che segnarono l’ascesa irresistibile della stella putiniana, la Russia è cambiata molto più di quanto non sia cambiato lui. Vladimir Putin ha costruito una macchina del potere perfettamente oliata, per la Russia che usciva da oltre 70 anni di comunismo, dalle umiliazioni patite con la fine della Guerra Fredda, dalle gigantesche amputazioni territoriali subite ad opera di popoli una volta soggetti, dallo spettacolo avvilente della tarda leadership eltsiniana. La sua ricetta fatta di revanscismo muscolare, di machismo sboccato («staneremo i terroristi ceceni anche nel cesso!»), di insofferenza per le regole e le procedure formali e di plateale irrisione nei confronti della sostanza della democrazia, risulta oggi molto meno appealing per un Paese che si è lasciato quel passato definitivamente alle spalle. È un Paese che non si sente minacciato da un’America oggi ben più debole di quella di Clinton e Bush, che non vede più la confinante Unione Europea come un potenziale rivale politico, che guarda persino alla Cina con un atteggiamento meno diffidente. In una frase, è un Paese che è molto meno ossessionato dalla sua passata grandezza di quanto lo sia il suo attuale primo ministro. Ma è anche un Paese che avverte come sempre più inaccettabile e ingiustificabile lo strapotere degli «uomini del presidente», fatto di corruzione, ruberie e confisca sistematica della libertà di stampa e di critica, di giochi che fanno scempio della Costituzione e del più elementare senso di giustizia. Putin è rimasto ai tempi della Guerra Fredda e del tramonto dell’Urss, i cittadini russi sempre meno. In fondo, quello cui stiamo assistendo è un fenomeno non troppo diverso, seppur meno drammatico e rivoluzionario, di quello visto in opera con le Primavere arabe, con regimi che faticano ad adattarsi a un cambiamento che loro stessi hanno contribuito a provocare. Regimi che non reggono il passo dei tempi. È significativa la timida ma sostanziale presa di distanza del presidente Medvedev dal suo primo ministro. È un indicatore che la solidità della squadra inizia forse a vacillare ma soprattutto rivela impietosamente la differenza generazionale e di mentalità tra i due uomini, il primo nato nel 1965 ed economista di formazione, il secondo nato nel 1952 ed ex spia del Kgb. Il prossimo 4 marzo dovrebbe verificarsi la staffetta tra presidente e premier, analogamente a quanto avvenne nel 2008. L’elezione di Putin, virtualmente senza rivali, appare pressoché scontata, ma il segnale di irritazione dell’elettorato per un meccanismo che di fatto aggira il divieto costituzionale di ricoprire la massima carica istituzionale per più di due mandati deve far riflettere se persino in Russia il periodo degli Czar non stia volgendo al tramonto. da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9517 Titolo: VITTORIO EMANUELE PARSI - L'irreversibile scelta atomica Inserito da: Admin - Gennaio 12, 2012, 12:22:05 pm 12/1/2012
L'irreversibile scelta atomica VITTORIO EMANUELE PARSI Mustafà Ahmaddi Roshan è il quarto scienziato legato al programma nucleare iraniano che perde la vita a seguito di un attentato negli ultimi sei mesi. Si tratta di un segnale inequivocabile e inquietante della drammatica escalation della crisi che contrappone Teheran a una serie pressoché infinita di avversari. Le autorità iraniane hanno immediatamente accusato i servizi segreti dell’«entità sionista». Ipotesi plausibile, benché prontamente smentita dal governo di Tel Aviv, ma tutt’altro esaustiva, giacché sia i sauditi sia gli americani potrebbero ben aver organizzato, preso parte o supportato l’assassinio del professore. Proprio l’ampio ventaglio delle ipotesi plausibili circa la (o le) paternità dell’attentato testimonia dell’isolamento iraniano e della completa irrealizzabilità della sua aspirazione a essere riconosciuto come una «legittima» potenza regionale. Il presidente Ahmadinejad - che di un tale isolamento è tra i principali artefici - ha un bel darsi da fare a esibire amicizie nel Caribe e sulle Ande. La realtà è che, al momento, nessuno di quelli che contano (Cina, Russia) appare intenzionato a muovere un dito per sostenere l’Iran nel caso di un’azione militare diretta a distruggere gli impianti di arricchimento dell’uranio (ormai prossimo a una percentuale del 20%, ben al di là di quanto seriamente giustificabile con fini esclusivamente civili) proprio mentre una simile prospettiva si fa sempre meno irrealistica. Le manovre navali iraniane nello allo Stretto di Hormuz, unite al lancio di missili a media e lunga gittata, e l’immediata replica americana, con l’invio di una portaerei della classe Nimitz a incrociare nelle stesso ristretto specchio d’acqua, indicano che nessuno degli attori principali di questo dramma appare intenzionato a fare un passo indietro. Lo spettacolo dello sciame di «Mas» e di microsommergibili iraniani è di quelli da far venire i capelli dritti in testa al comandante della John C. Stennis, ma il suo arrivo in prossimità delle acque territoriali iraniane rende letalmente vulnerabile l’intera rete dei siti nucleari iraniani e materializza lo spettro di un’azione militare volta alla loro distruzione (degli Stati Uniti da soli, di Israele e Usa congiuntamente, o in diverse combinazioni ipotizzabili). Con tutta evidenza si tratterebbe di un’iniziativa capace di infiammare un’area che è già più che surriscaldata. Ma è significativo che proprio a Washington crescano le voci che ritengono un attacco militare «il male minore», se paragonato all’alternativa di doversi confrontare con un Iran divenuto potenza nucleare. In tal senso, l’articolo comparso sull’ultimo numero di «Foreign Affairs» a firma di Matthew Kroenig è particolarmente esplicito nel porre la scelta tra «un conflitto convenzionale e un possibile conflitto nucleare». Paradossalmente, dovrebbe essere proprio Barack Obama a dare il via libera alla più classica delle «guerre preventive» tanto care alla dottrina neocon di George W. Bush, colpendo un avversario prima che diventi così forte da rendere l’azione troppo costosa e forse impossibile. Certo, l’Iran potrebbe facilmente sottrarsi dalla scomoda posizione di oggetto di un simile drammatico dilemma, facendo un passo indietro, o mostrandosi disposto a trattare innanzitutto con gli occidentali e i vicini arabi, considerando nei fatti il nucleare un oggetto di scambio, sacrificabile in nome di altri più rilevanti obiettivi. Per lungo tempo una parte considerevole degli analisti e degli addetti ai lavori ha privilegiato una simile ipotesi, che ha perso però progressivamente credibilità, di pari passo con la crescente radicalizzazione del quadro politico interno iraniano e con l’aumentata consapevolezza che, alla fine, la possibilità di acquisire lo status di potenza nucleare è il solo «successo irreversibile» in politica estera oggi alla portata della Repubblica Islamica. Gli oltre 30 anni trascorsi dalla caduta dello scià hanno infatti dimostrato la straordinaria resilienza del regime di fronte agli attacchi esterni (si pensi alla lunghissima guerra difensiva contro l’Iraq di Saddam), ma anche la caducità degli altri risultati conseguiti. Il passare del tempo sta dimostrando che le guerre che l’America ha intrapreso in Iraq e Afghanistan non hanno privilegiato innanzitutto l’Iran (come molti sostenevano), ma semmai il Pakistan e soprattutto l’Arabia Saudita. La quale si presenta oggi anche come la gran beneficiaria della «fase due» delle rivoluzioni arabe, proprio mentre la sola effettiva alleanza intessuta da Teheran nella regione sta svanendo o diventando inutilizzabile a causa della crisi probabilmente definitiva del regime di Assad. DA - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9638 Titolo: VITTORIO EMANUELE PARSI - Siria, per non destabilizzare vince lo stallo Inserito da: Admin - Gennaio 25, 2012, 10:07:43 am 24/1/2012
Siria, per non destabilizzare vince lo stallo VITTORIO EMANUELE PARSI Uno stallo rosso sangue: è esattamente questa la fotografia della situazione in Siria, dove il regime degli Assad e i gruppi ribelli risultano intrappolati lungo un sentiero di crescente radicalizzazione, mentre nessuno appare in grado di poter sconfiggere l’altro. A oltre dieci mesi dal suo divampare e nonostante gli oltre 5.000 morti fin qui provocati da una repressione sempre più feroce, il regime di Bashar Al Assad non è stato in grado di schiacciare la rivolta. La violenza impiegata contro i dissidenti è però stata sufficiente a evitare che la rivoluzione siriana sfruttasse l’abbrivio delle altre primavere arabe. Ha cioè impedito che essa potesse divenire incontestabilmente maggioritaria all’interno della società, come invece è accaduto in Tunisia e in Egitto. Si trattava della sola possibile strategia a disposizione di Assad, una volta che le prime stragi non avevano ottenuto l’effetto sperato di dissuadere chiunque volesse unirsi ai nuclei originari di rivoltosi. Proprio la scelta della brutalità ha spinto le forze dell’opposizione a perseguire la via della resistenza armata nei confronti del regime, così concorrendo a spostare il Paese da una situazione di «rivoluzione pacifica» a quella attuale di «guerra civile a bassa intensità». Una guerra civile che oggi è in stallo. Le zone in cui la rivolta ha preso avvio restano infatti ancora confinate alla periferia del Paese e la stessa roccaforte ribelle di Homs è in realtà divisa tra filo-governativi e rivoltosi. Anche le defezioni nelle file dell’Armée siriana, seppure in aumento, sono ancora piuttosto scarse, con le fonti più generose che parlano di 15.000 disertori e renitenti su 200.000 effettivi (che assommano a 450.000 includendo i riservisti in massima parte richiamati in servizio). Sostenitori del regime e ribelli sembrano oggi in grado di raccogliere il consenso di minoranze sostanziose della popolazione, mentre la maggioranza resta (o torna a essere) indecisa sul da farsi. La radicalizzazione dello scontro potrebbe così fare il gioco del regime, che appare in grado di sfruttare le paure e le divisioni che attraversano la composita e frammentata società siriana. Il protrarsi degli scontri aumenta la possibilità che nel fronte anti-Assad siano i più estremisti a prevalere. E, infatti, la preoccupazione che la fine del potere dispotico (ma laico) degli Assad possa segnare il trionfo di un regime fondamentalista e intollerante inizia a diffondersi non solo tra gli alauiti e i cristiani ma anche tra molti sunniti. Non è un caso che gli attori regionali - a cominciare dalla Lega Araba, che domenica sera ha deciso (anche con il consenso siriano) di estendere la missione dei propri osservatori, mentre ha incassato un netto rifiuto alla proposta di un governo di transizione - sembrano tornati a essere piuttosto cauti, dopo essersi parecchio sbilanciati a favore della rivoluzione nei mesi scorsi. La Lega si era del resto decisa a scaricare Assad solo nel momento in cui aveva iniziato a considerarlo un fattore di destabilizzazione del fragile ordine del Levante e nella convinzione che le sue ore fossero ormai contate. In realtà, la resilienza del regime ha fatto venir meno le speranza di un esito in stile tunisino o egiziano, mentre si fanno sempre più irrealistiche le possibilità di un intervento esterno. Se europei e americani hanno sostanzialmente sempre escluso il loro coinvolgimento, quello turco o arabo - già assai poco credibile - si è semplicemente dissolto dopo il monito lanciato da Teheran circa la sua intenzione di difendere l’alleato siriano in caso di «invasione straniera». Arrivati a questo punto, c’è chi inizia a pensare che il trionfo dei ribelli potrebbe avere effetti destabilizzanti eguali o persino superiori alla sopravvivenza del regime di Assad. Se a Damasco dovesse comparire un potere sunnita e integralista, gli effetti sui precari equilibri del vicino Libano e sulla stessa fragile Giordania potrebbero infatti essere devastanti, trascinando il primo in una nuova guerra civile e minacciando la monarchia ashemita (entrambi esiti inaccettabili innanzitutto per Ryad). Molto meglio temporeggiare e iniziare a vedere come finirà la partita nucleare tra Teheran e Washington, allora, la quale comunque collocherà il mondo arabo in una posizione di forza o debolezza relative, semplificando le scelte della Lega (e di sauditi e qatarini che la stanno «discretamente» guidando). da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9685 Titolo: VITTORIO EMANUELE PARSI - Russia, sulla Siria un veto del passato Inserito da: Admin - Febbraio 08, 2012, 12:06:54 pm 8/2/2012
VITTORIO EMANUELE PARSI Un fiasco per il mondo civilizzato»: così il premier turco RecepTayyp Erdogan ha commentato il naufragio della risoluzione di condanna al Consiglio di Sicurezza dell’Onu causato dal veto opposto da Cina e Russia. Ha perfettamente ragione Erdogan ed è del tutto evidente che la responsabilità di questo fiasco non possono certo essere attribuite alla struttura e alla burocrazia del Palazzo di Vetro. Appena 24 ore prima, il Segretario Generale dell’Onu, Ban Ki Moon, si era detto «sconvolto» di fronte al continuo massacro di civili, definito «totalmente inaccettabile agli occhi dell’umanità» e aveva rincarato la dose, ammonendo il presidente siriano Assad che «la mancanza di un accordo al Consiglio di Sicurezza non dà alle autorità siriane il permesso di aumentare gli attacchi contro la popolazione. Nessun governo può commettere simili atti contro il proprio popolo senza che la sua legittimità ne sia erosa». Parole durissime, per chi conosca il felpato linguaggio abitualmente utilizzato dai vertici dell’Onu quando si trovino di fronte a spaccature difficilmente sanabili tra i «grandi». Eppure parole che attestano, ancora una volta, come la situazione siriana stia diventando sempre più intollerabile. Per i siriani, ovviamente, che sono trascinati ogni giorno di più nel baratro di una guerra civile per colpa della furia cieca con cui il regime di Assad ha deciso di rispondere a quelle che, fino a marzo, erano ancora moderate richieste di autoriforma del sistema: sistematicamente irrise dalle promesse mendaci del presidente e dei suoi manutengoli. Per il popolo della Siria si sta apparecchiando uno scenario da incubo in cui sarà chiamato a scegliere tra il sostegno al macellaio di Damasco e quello a un fronte di oppositori composito, al cui interno proprio l’inasprimento della guerra civile non può che far emergere le frange più violente ed estremiste. Parole alle quali, quasi plasticamente, si contrappongono quelle pronunciate ieri dal ministro degli esteri russo, Serghei Lavrov, in visita a Damasco: «Ogni leader deve assumersi le proprie responsabilità e il presidente siriano si sta assumendo le sue». Sembra di essere tornati agli anni più cupi della Guerra Fredda, quando Pechino neppure faceva parte dell’Onu e Mosca era la capitale dell’Unione Sovietica e «il mondo civilizzato» si divideva in due campi, ognuno convinto che la sua idea superiore di civiltà giustificasse qualunque nefandezza, a partire dal sostegno ai dittatori più sanguinari e ai regimi più criminali. Questa becera prassi non era seguita solo dai russi (allora sovietici), giacché la democratica America sosteneva i torturatori argentini, salvadoregni e nicaraguensi e la Francia - che ieri riferendosi al veto russo-cinese affermava per bocca del suo ministro della Difesa Gerard Longuet, che «esistono culture politiche che meriterebbero di essere prese a calci nel sedere» - trovava naturale appoggiare un criminale psicopatico come Papà Doc ad Haiti... Tutto come sempre, allora? Non proprio. La spaccatura in Consiglio di Sicurezza rappresenta infatti un vistoso arretramento sulla via, impervia, di costruire una sensibilità comune all’intera società internazionale per lo meno sulle grandi questioni dei diritti umani e della decenza etica. Difficile non costatare con amarezza che il cinismo esibito nei decenni dello scontro sovietico-americano era giustificato da concezioni ideologiche sistematicamente antagoniste le une rispetto alle altre e da una contrapposizione strategica globale: un vero e proprio gioco a somma zero, in cui il valore di ogni pedina dipendeva dal suo rapporto col sistema nel suo complesso. Mentre oggi quello che sembra governare le logiche di Mosca e Pechino (nella fattispecie) è un realismo politico non solo completamente privo di scrupoli, ma anche fine a se stesso. Nel caso russo, al trascinamento di alleanze ereditate dal passato, si sommano la velleità di giocare la sola carta a disposizione per provare a rientrare nel gioco mediorientale (da cui prima l’Urss e poi la Russia sono state estromesse molti anni orsono) e l’opportunismo di approfittare di un’America in forti difficoltà in un’area nella quale ha politicamente investito sempre di più a partire dal 1990, ma con risultati decisamente insoddisfacenti. Il duello discorsivo che oggi oppone la Russia all’Occidente non è figlio di due narrative «sinceramente» alternative, ma della visione ottocentesca della politica estera che sembra guidare l’azione della Russia di Putin: appare, e forse è, una risposta difensiva, «restauratrice» che fa sempre più somigliare la Russia odierna a quella che dopo il 1815 si illudeva di poter tornare ad avere il passato (nella forma aulica di tradizione) come faro, dopo che la stagione furiosamente orientata al futuro sembrava essersi chetata sul campo di battaglia di Waterloo. da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9749 Titolo: VITTORIO EMANUELE PARSI - Il crollo dei consumi che sfibra l'Occidente Inserito da: Admin - Febbraio 29, 2012, 10:07:09 am 29/2/2012
Il crollo dei consumi che sfibra l'Occidente VITTORIO EMANUELE PARSI Ha ragione Charly Kupchan: «L’eventualità di un’epoca “post-occidentale”», contraddistinta dall’ascesa economica e geopolitica di potenze diverse da quelle della comunità atlantica sta alimentando un animato dibattito ricco «di riflessioni ansiose sul futuro dell’Occidente. Di fronte alla perdita della centralità dell’Occidente, la prospettiva di un suo progressivo allargamento, ovvero della trasmissione dei «valori occidentali» ai più rampanti tra gli attori emergenti (la Cina innanzitutto, ma anche la Turchia o la nuova Russia) può suonare rassicurante. In fondo essa riecheggia l’antico motto per cui «la Grecia conquistata conquistò a sua volta il rozzo vincitore», come ebbe a dire Orazio. Una prospettiva rassicurante, quindi, eppure una prospettiva, purtroppo, irrealistica, per un Occidente che sembra intento piuttosto a «perdere i pezzi», abdicando ai suoi stessi valori, piuttosto che a espandere l’area della sua penetrazione politico-culturale. Proprio ciò che sta avvenendo in Grecia in questi mesi è la manifestazione più evidente della rinuncia occidentale a tutelare quella capacità di coniugare mercato e democrazia, sviluppo economico ed eguaglianza politica, ciò che - in altri termini - ha costituito la cifra più intima del «modello occidentale». La natura della crisi odierna è duplice. Da un lato paghiamo l’insufficiente sforzo di riflessione per adeguare le istituzioni politiche democratiche rappresentative alle sfide che esse devono fronteggiare. Dall’altro siamo schiacciati da forme di organizzazione della produzione che troppo spesso ottimizzano la produttività a scapito di qualunque altro valore (la globalizzazione evocata da Kupchan). Il risultato è il divorzio della ragione politica dalla ragione economica, la secessione di una razionalità rispetto all’altra che costituisce l’abiura dell’Occidente rispetto a se stesso. Così va in scena il dramma greco, il dramma di un popolo il cui ceto medio è letteralmente «piallato», la cui sovranità è sospesa fino a data da destinarsi e i cui sacrifici sembrano oramai un supplizio di Tantalo. Tutto compiuto affinché l’euro sopravviva (certo), ma anche perché le banche estere che hanno concesso prestiti consapevolmente d’azzardo (lucrando profitti tanto facili quanto rischiosi) possano «socializzare» le perdite. Di fronte allo spettacolo di un Paese che può solo scegliere tra la bancarotta finanziaria e la bancarotta etica e sociale, a chi assiste non resta che la scelta tra il privilegio di una logica o di un’altra, tra il prevalere dell’economicismo o del politicismo. Che «le cicale greche» riducano i loro consumi, dunque; che i greci tornino a essere «poveri» come son sempre stati, fin quando non potranno nuovamente «permettersi» i livelli di consumo degli «altri» europei, degli «altri» occidentali. Peccato che pochi sembrino preoccuparsi di quanto non i greci, ma tutti noi, cittadini (ex?) delle democrazie occidentali potremo permetterci (e fino a quando) che i livelli di consumo possano abbattersi senza trascinare con sé anche la pur minima fede nella democrazia. Democrazia che ha al suo cuore l’idea di eguaglianza, quella inscritta nella Dichiarazione del 4 luglio 1776, «che tutti gli uomini sono creati eguali (…) dotati di certi inalienabili diritti, (…) per garantire i quali sono istituiti tra gli uomini governi che derivano i loro giusti poteri dal consenso dei governati; che ogni qualvolta una qualsiasi forma di governo tende a negare questi fini, il popolo ha diritto di mutarla o abolirla». La sperimentazione concreta di questa idea di eguaglianza - disponibile a tutti e non solo a pochi - è il cuore della modernità politica occidentale, ciò che ha consentito la realizzazione della democrazia di massa, la quale è proceduta sottobraccio all’elevazione degli standard di consumo delle masse. A chi storce il naso di fronte a questo parallelo, a chi ci parla oggi della «virtù» del pauperismo e della decrescita e indulge nella nostalgia per società meno consumiste e più sobrie, occorre ricordare che il «volgare consumismo» è stato il meccanismo che ha indotto mobilità, rotto le gilde e le corporazioni e messo in crisi quelle società «bene ordinate», ma tremendamente ingiuste, sperequate, conservatrici e immobili. Vale ancora la pena di rammentare che l’espansione dei consumi di massa ha fatto sperimentare in via concreta e indiretta - potremmo dire «surrogata», ma non per questo meno vera - l’eguaglianza a centinaia di milioni di persone, per le quali essa era stata fino a quel momento un concetto astratto e lontano. Ma non solo. Alla promessa di alti standard di consumi e di progresso individuale e collettivo, l’Occidente ha dovuto non poca parte della sua vittoria sul modello sovietico. Basti ricordare i diplomatici dell’Est espulsi dagli Usa negli Anni Ottanta, che tornavano a casa carichi di televisori e lavatrici o quanto la «voglia di fragole» (introvabili nella Ddr) e in generale di ordinari beni di consumo sia stata per i tedeschi dell’Est una molla non meno forte dell’aspirazione di libertà per voltare le spalle al paradiso dei lavoratori di Honecker. Tutto questo ha fatto parte del mito attrattivo dell’Occidente rispetto al resto del mondo. Di tutto questo sembra che, oggi, ci stiamo dimenticando. Allora, come possiamo pensare di espandere agli altri un modello in cui neppure noi sembriamo più disposti a credere? da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9827 Titolo: VITTORIO EMANUELE PARSI - Che senso ha restare a Kabul fino al 2014? Inserito da: Admin - Marzo 13, 2012, 03:04:45 pm 13/3/2012 - LA MISSIONE AFGHANA
Che senso ha restare a Kabul fino al 2014? VITTORIO EMANUELE PARSI Soldati americani che «impazziscono» e massacrano civili inermi per difendere i quali sono stati inviati in Afghanistan: è successo l’altroieri a un sergente maggiore dei marines. Militari afghani che sparano e uccidono i soldati di Isaf che li stanno addestrando: è capitato a inglesi e americani due volte nel corso degli ultimi dieci giorni. Copie del Corano che vengono bruciate per sciatta negligenza provocando violente manifestazioni e assalti ai compounds alleati in cui muoiono decine di afghani: è accaduto nel corso dell’ultimo mese. Droni che ammazzano persone a casaccio nel tentativo di eliminare questo o quel capobanda: si verifica ciclicamente, non a Gaza, ma in Afghanistan e in Pakistan. Sono tutti episodi - tanti, troppi - che sembrano confermare lo stesso amaro dubbio: che la condizione della sicurezza in Afghanistan stia rapidamente peggiorando, al punto che in molti si chiedono se sia realistico pensare di ritirare il grosso delle truppe straniere dal Paese entro il 2014, come la Nato ha annunciato di voler fare da oltre un anno. Ieri anche la voce della Cancelliera Angela Merkel, in visita alla grande base tedesca di Mazar El Sharif nel Nord del Paese, si è unita a questo coro. Eppure, la domanda «giusta» sarebbe un’altra: in queste condizioni, che senso ha tirare fino al 2014? Non sarebbe più saggio, prudente ed efficace accelerare i tempi, prendendo atto del sostanziale fallimento - politico oltre che militare - di più di dieci anni di campagna? La guerra afghana ha infatti messo in evidenza tanto errori politici quanto errori militari. Per dirla con von Clausewitz, il continuo cambiamento dello scopo politico della guerra (Zweck) ha reso impossibile fissare per l’azione militare degli obiettivi (Ziel) che potessero essere qualificati come successi decisivi. Dal 2001, la campagna afghana ha visto l’affastellarsi di un’infinità di obiettivi: abbattere il regime talebano, distruggere l’infrastruttura di Al Qaeda, catturare bin Laden, diffondere pratiche e istituzioni più democratiche, lottare contro la corruzione, sostenere il governo di Karzai, limitare l’influenza delle potenze regionali vicine. Obiettivi da perseguire anche quando diventavano oggettivamente incompatibili tra loro: come il sostegno assoluto a Karzai e la trasparenza dei processi elettorali o la lotta alla corruzione. In oltre dieci anni, possiamo dire di aver realizzato una minima parte di questo ambizioso, articolato e mutevole programma: bin Laden è morto, Al Qaeda ha subito colpi durissimi e molti insorgenti sono stati fisicamente eliminati. È vero. Ma molti altri ne hanno preso il posto e, cosa ben più grave, persino quella parte di popolazione che aveva salutato con speranza (se non proprio fiducia) l’intervento occidentale ci sta girando le spalle. Non a caso, il «mentoring e il training» delle forze di sicurezza locali si sta dimostrando fallimentare proprio per il crescere della diffidenza e insofferenza reciproca tra reclute afghane e militari della coalizione, percepiti sempre di più come l’ennesima forza di occupazione da parte della popolazione. Osservava il generale inglese Rupert Smith, che la «guerra tra la gente» (quella tipica a partire dagli Anni 90) richiede professionisti preparati, flessibili e versatili, lo stesso previsto dal «comprehensive approach» ideato da Petraeus e sostenuto dagli alti papaveri del Pentagono e della Casa Bianca: pensando al «sergente impazzito» di domenica scorsa e alla quantità crescente di «incidenti» che coinvolgono i militari americani viene da chiedersi se non ci sia qualcosa da cambiare nelle pratiche di selezione e addestramento delle forze armate Usa, che in Afghanistan si sono trovate a perdere proprio la battaglia per la conquista «del cuore e della mente della popolazione». Dal punto di vista etico, è amaro doversi lasciare alle spalle «un altro Iraq», avendo alimentato e poi deluso le aspettative di milioni di afghani, a cominciare dalle donne, che perderanno quei pochi diritti «conquistati» durante la presenza alleata. Ma se occorre rivedere radicalmente la strategia, prima se ne prende atto e meglio è per tutti. Probabilmente abbiamo iniziato a perdere la guerra in Afghanistan quando non siamo riusciti ad assicurarci l’effettiva e leale collaborazione del Pakistan, che ha protetto e alimentato l’insorgenza quando era più debole e più vicina alla sconfitta, con l’obiettivo politico (Zweck) di continuare a esercitare la sua egemonia sul Paese vicino. La beffa è che Islamabad ha applicato la lezione di von Clausewitz meglio di Washington e ha probabilmente vinto la «sua» guerra. Così, nel 2014 -13 anni e decine di migliaia di morti dopo - proprio il Pakistan tornerà a essere il vero arbitro assoluto dei destini afghani: esattamente come quando a Kabul regnava il mullah Omar… da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9879 Titolo: VITTORIO EMANUELE PARSI - Il dittatore non si fermerà e l'America non può ... Inserito da: Admin - Aprile 12, 2012, 03:39:23 pm 12/4/2012
Il dittatore non si fermerà e l'America non può trattare VITTORIO EMANUELE PARSI Per capire quali chance effettive ha di radicarsi la tregua annunciata per oggi in Siria, è sufficiente porsi una semplice domanda. Esiste una sola buona ragione al mondo Basha el Assad dovrebbe dire sì alla trattativa? Per cui uno spietato dittatore, un personaggio sicuramente spregevole ma probabilmente tutt’altro che sprovveduto dovrebbe acconsentire ad avviare un dialogo con i ribelli o anche soltanto prendere in seria considerazione la proposta di cessate il fuoco avanzata dall’inviato speciale delle Nazioni Unite, l’ex Segretario generale Kofi Annan? La risposta, altrettanto semplice ma desolante, è no. Chi invoca la via negoziale (dalla Lega araba alle Nazioni Unite, dalle potenze occidentali al fronte composito degli oppositori), ognuno con la sua propria idea della Siria post-Assad, è infatti diviso su tutto, tranne che su una cosa: il dittatore se ne deve andare e il regime deve finire. Un’opinione ampiamente condivisibile, intendiamoci, ma una pessima base negoziale. Assad e il regime che rappresenta dovrebbero graziosamente farsi da parte «per il bene del Paese», un argomento assai poco efficace nei confronti di un tiranno che di fronte a richieste ben più moderate, tredici mesi fa, non esitò a far sparare sulla folla, a far torturare a morte dei bambini, gettando i presupposti della guerra civile odierna. La stessa richiesta di un provvisorio cessate il fuoco appare priva di senso, dal punto di vista del regime, considerato che storicamente le tregue han sempre favorito i più deboli e mai i più forti. E in termini militari, almeno per ora, il regime è decisamente più forte dei ribelli. Perché mai dovrebbe accettare di allentare la brutale pressione che sta esercitando da oltre un anno, che rappresenta ancora la carta migliore a sua disposizione? Non certo per evitare altre stragi, giacché la strategia stragista è stata quella deliberatamente perseguita dagli apparati di sicurezza, allo scopo di terrorizzare i nemici, ammonire minacciosamente gli incerti e stringere maggiormente a sé i fedeli, trasformandoli in complici di un vero e proprio bagno di sangue. La strategia tipicamente terroristica del regime ha infatti freddamente puntato sulla radicalizzazione dello scontro, di cui l’esacerbazione della violenza è componente essenziale, anche al fine di scavare un vallo di sangue tra i sostenitori e gli oppositori. Ha scelto l’escalation nella consapevolezza che, se questa non fosse bastata a schiacciare la rivolta, avrebbe comunque favorito l’emergere tra gli oppositori delle leadership più estremiste, così spingendo sotto le «ali protettrici» del regime tutte le minoranze della composita e frammentata società siriana, preoccupate che la fine del regime della famiglia Assad implichi l’avvento di un potere islamista sunnita: ipotesi per nulla peregrina. Assad non ha alternative al continuare a combattere, attento solo a non irritare irreparabilmente i suoi due protettori che contano: Russia e Cina. Questo spiega la pantomima delle dichiarazioni moscovite del suo ministro degli Esteri e, più in generale, il balletto nei confronti delle iniziative dell’Onu e della Lega Araba. La Russia sarebbe probabilmente la sola in grado di esercitare un’azione moderatrice su Damasco, a patto però di poter offrire qualcosa al rais di diverso dalla resa senza condizioni. Cosa che la Russia, evidentemente, potrebbe fare solo con l’accordo degli Stati Uniti. Ma l’America di Obama, in piena campagna presidenziale, non può permettersi di mostrarsi «debole» con Damasco, tantopiù di fronte ai rischi che potrebbero derivare se una simile lettura dovesse prevalere a Teheran o Tel Aviv. Un’America che si mostrasse o fosse percepita irresoluta o debole finirebbe col perdere qualunque (residua) capacità di deterrenza sulla crisi ben più complicata legata alle scelte nucleari iraniane. Senza contare che avallare ora una via effettivamente negoziale nei confronti di Damasco significherebbe scontentare tutto il mondo arabo che, da Doha a Ryad, dal Cairo a Gaza, ha scaricato Assad. Oltretutto, un simile cambiamento di strategia mostrerebbe ancora una volta come Washington si è mossa durante tutto l’arco di crisi delle «Primavere arabe» senza coerenza strategica, azzoppata anche dal fatto di avere un segretario di Stato con ambizioni presidenziali, che in ogni scelta deve tener d’occhio non solo questa scadenza elettorale ma anche la prossima. Il punto debole di tutto l’armamentario di «proposte negoziali» e «minacce» avanzate nei confronti di Assad è che esse vengono avanzate come se qualcuno fosse pronto a intervenire nel caso esse venissero rifiutate, come se fossero un ultimatum, mentre sono solo un bluff. Ed è la consapevolezza di questa debolezza, che fa forte Assad, quasi più di quanto lo facciano i suoi tanks e i suoi pretoriani. da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9985 Titolo: VITTORIO EMANUELE PARSI - Afghanistan, perché la via d'uscita è necessaria Inserito da: Admin - Aprile 16, 2012, 11:49:27 am 16/4/2012
Afghanistan, perché la via d'uscita è necessaria VITTORIO EMANUELE PARSI Non esiste più una sola zona effettivamente sicura in tutto l’Afghanistan. Neppure il perimetro che racchiude il compound del quartier generale di Isaf, delle ambasciate e delle principali agenzie internazionali può dirsi immune dagli attacchi degli insorgenti. La tattica di questi ultimi ricorda sempre più quella dei vietcong: colpire i funzionari e i simboli del governo ovunque sia possibile e portare la guerra nella stessa capitale, per rendere chiaro chi ha l’iniziativa. Una strategia per alimentare un dubbio che ormai gli stessi ambienti militari faticano a non far trapelare: «Vale la pena continuare a combattere una guerra che ormai nessuno crede più di poter vincere?». La transizione, che nel corso di tre anni avrebbe dovuto vedere il progressivo passaggio di consegne tra forze Isaf e forze di sicurezze afgane, semplicemente non sta funzionando. Polizia ed esercito di Kabul sono perennemente sulla difensiva e sembrano incapaci di passare al contrattacco. Non occorre aver studiato Clausewitz per capire che la vittoria finale può arridere e solo a chi riesce ad assumere l’iniziativa: basta guardare una partita di rugby (lo sport che più di ogni altro simula una battaglia) per rendersene conto... A chi è abbastanza vecchio per ricordarselo, questa guerra appare sempre più inquietantemente simile al conflitto vietnamita. Nella notte tra il 30 e il 31 gennaio 1968 i vietcong e l’esercito del Vietnam del Nord scatenarono «l’offensiva del Tet», il cui scopo esplicito era dimostrare la loro capacità di colpire ovunque. Militarmente furono sconfitti, politicamente vinsero, fiaccando la volontà di combattere degli Stati Uniti. I talebani non hanno i mezzi e i numeri che aveva a disposizione Ho-Chi-Min, ma ancora una volta ieri hanno giocato d’anticipo, scatenando la loro «offensiva di primavera» ben prima che l’esercito di Karzai neppure pensasse a come utilizzare militarmente la fine della stagione invernale. In realtà è da quando Isaf ha smesso di sostenere la maggior parte dello sforzo diretto, passando la palla agli afghani, che abbiamo perso l’iniziativa. E non la riconquisteremo. Ero in Afghanistan, poco meno di un anno fa, e ricordo come l’attacco all’hotel Intercontinental di Kabul (il 28 giugno) anticipò in maniera «plastica» tutte le difficoltà dell’afghanizzazione del conflitto. Eppure, non esiste una strategia alternativa a questa per rendere la vita più difficile agli insorgenti. Nei loro comunicati, i ribelli hanno precisato come intendessero «vendicare» l’onore del popolo afgano oltraggiato da alcuni comportamenti attuati dalle truppe americane (i roghi del Corano, l’oltraggio di cadaveri, le stragi di civili...). La presenza delle truppe Isaf, sempre più percepite come l’ennesima forza di occupazione, consente ai talebani di presentarsi nella veste di «patrioti» e facilita le accuse di collaborazionismo rivolte al governo di Karzai. Quest’ultimo, appena pochi giorni fa, aveva apertamente ventilato la possibilità di anticipare di un anno le elezioni legislative, così da rendere possibile accorciare la transizione. Karzai non è un suicida, evidentemente. Ma è consapevole che l’unica alternativa all’accelerazione del ritiro del contingente internazionale, sarebbe un suo incremento e il ritorno a un più massiccio impiego nelle operazioni «search and destroy». Tutti obiettivi irrealistici, mentre quello che i governi occidentali cercano, a iniziare dall’amministrazione americana, è una via d’uscita che non contempli, come scena finale, la riedizione della vergognosa fuga in elicottero dal tetto dell’ambasciata assediata di Saigon nel 1975. Un più rapido disimpegno di Isaf, oltretutto, consentirebbe probabilmente alle autorità afghane di assumere un atteggiamento più flessibile nei confronti delle ricorrenti ipotesi di trattative complessive aperte anche ai rappresentanti della guerriglia e di ipotizzare «soluzioni politiche» che sarebbero forse troppo imbarazzanti per Washington e per le altre capitali occidentali. C’è infine un dato estremamente significativo di come le cose siano cambiate a Kabul ed è rappresentato dal mutamento di giudizio sulla exit strategy irachena: presentata come un compromesso soddisfacente e non come una situazione da non replicare. Con tanti saluti al mantra di questi anni: «L’Afghanistan non sarà un altro Iraq»... da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10000 Titolo: VITTORIO EMANUELE PARSI - All'Europa serve più unità Inserito da: Admin - Maggio 17, 2012, 05:16:05 pm 17/5/2012
All'Europa serve più unità VITTORIO EMANUELE PARSI Siamo solo all’inizio, ma c’è da credere che al di là delle scontate dichiarazioni circa la rilevanza strategica dell’asse franco-tedesco e del comune auspicio che la Grecia non esca dall’euro, la relazione tra Parigi e Berlino sia destinata a una profonda revisione. È una necessità che in parte prescinde dal cambio della guardia all’Eliseo. È perlomeno dall’89, dalla fine della Guerra Fredda, che il rapporto tra Francia e Germania non è stato oggetto di un ripensamento reciproco. Dire che resta essenziale affinché l’Europa unita sopravviva è un’ovvietà. Quello che è meno ovvio è capire come si possa riarticolare. La Germania sta sperimentando come una sua leadership «eccessivamente solitaria» la esponga a un insostenibile isolamento. La Francia sa bene che una parte non irrilevante del suo peso deriva dall’agire in tandem con Berlino. Ambedue sono perfettamente consapevoli di come l’Europa, piuttosto che vincolarne le sovranità, potenzia le rispettive posizioni e ne hanno a cuore il futuro. Ma quando parlano di Europa, si fa sempre più netta la sensazione che abbiano in mente due costruzioni ben diverse. A tema non è più la sovranità nazionale, il timore francese di vederla erosa, l’ansia tedesca di un suo troppo imperioso ritorno. No, in discussione è che tipo di Europa dovrà essere quella capace di assorbire lo choc greco (oggi), qualunque siano le decisioni che i greci e gli altri europei prenderanno nei prossimi mesi. Il caso greco, nella sua drammaticità, è esemplare, quasi plastico del come abbiamo lasciato andare alla deriva la tensione sempre latente e però vitale tra logica politica e logica economica così da ritrovare su due sponde opposte le ragioni della democrazia e quelle del mercato. La paura con cui attendiamo l’esito delle prossime, ennesime, elezioni greche è attestata dal nervosismo delle Borse e dal surriscaldamento degli spread. I greci voteranno tra un mese, ma intanto i mercati hanno già votato: e la forza dei numeri ha già sconfitto la forza del numero. Il voto ponderato di chi concentra e sposta ricchezze finanziarie ha già messo in rotta il voto popolare: il suffragio universale, a inizio del XXI secolo, è tornato a essere qualcosa da temere, di cui diffidare, da procrastinare o svuotare, come accadeva all’inizio del ’900. Evidentemente, il tentativo che il francese Hollande sta mettendo in atto è ricordare alla tedesca Merkel che, a forza di perseguire ossessivamente la stabilità finanziaria, stiamo rischiando di produrre la destabilizzazione politica e sociale, mentre è evidente che occorre procedere tenendo sotto controllo entrambe. Politiche che perseguono solo l’una o l’altra forma di stabilità non ne realizzeranno nessuna. Tutto questo era implicito in quel modello renano di capitalismo che per decenni è stato il vanto europeo, e che è stato progressivamente abbandonato. Si dirà che è successo sotto l’incalzare dei mercati. Occorre rispondere che è proprio alla politica che compete il porre i limiti e trovare i rimedi alle derive economicistiche o panpoliticiste. Sia Merkel che Hollande sanno bene che senza un accordo tra loro, nessuna soluzione è possibile e che la risposta «più Europa!» è giusta ma parziale, se non la si declina in un modello concreto. Paradossalmente, in vista del prossimo G8 di Camp David, è stato il presidente Obama ad ammonire i responsabili europei a imboccare con più coraggio la via delle manovre di stimolo alla crescita. Prima che sia troppo tardi e che la recessione europea non vanifichi gli onerosi sforzi messi in atto dalla sua amministrazione per sostenere sviluppo e occupazione oltre Atlantico. È un invito neppure troppo implicito a una maggiore unità europea, quello che viene dagli Usa. Esattamente come fece Eisenhower al sorgere del processo europeo, anche oggi l’America di Obama preme perché l’Europa sia più coesa. Negli Anni 50 la minaccia era quella del comunismo e dell’Urss. Oggi essa è rappresentata dalla speculazione e dalla recessione. Ma la risposta possibile è sempre una sola: più unità. A condizione di sapere su che cosa chiamare a raccolta i popoli d’Europa e avere il coraggio di farlo, prima che i fantasmi del lato oscuro del ’900 tornino a farsi troppo inquietanti. da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10114 Titolo: VITTORIO EMANUELE PARSI - Un sanguinario "no" a ogni trattativa Inserito da: Admin - Maggio 27, 2012, 04:52:04 pm 27/5/2012
Un sanguinario "no" a ogni trattativa VITTORIO EMANUELE PARSI Una strage solo apparentemente senza senso quella compiuta a Hula molto probabilmente ad opera delle forze di sicurezza del regime di Assad. Almeno 90 morti, ma c’è chi parla di 110, tra cui oltre 30 bambini, vittime del brutale bombardamento da parte dell’artiglieria pesante sulla cittadina, «colpevole» di sostenere i ribelli. Non è il primo massacro del genere ascritto agli assadiani, e neppure tra i più efferati: nei mesi scorsi le immagini strazianti di bambini torturati a morte dal Mukabarat (la polizia segreta del regime) fecero il giro della rete. Ma questo di Hula avviene sotto gli occhi dei 250 osservatori inviati dall’Onu con il beneplacito del regime - per vigilare il mantenimento della tregua (fittizia) in atto da oltre un mese. Una tregua che, a seguito della diffusione di queste immagini, il «Libero Esercito Siriano», che controlla secondo l’Onu diverse località strategiche nel Paese, ha detto di non poter e voler più rispettare, mentre in Siria sono iniziati a comparire i primi striscioni di protesta contro gli osservatori dell’Onu «complici passivi» delle nefandezze del regime. Si fa allora più chiara la strategia di Assad: provocare la denuncia della tregua da parte dei ribelli, umiliare l’Onu frustrando le speranze di chi confidava nell’internazionalizzazione per una fuoriuscita pilotata dalla crisi, atterrire ancora di più i «neutrali» e i più «tiepidi» tra i propri sostenitori, ammonendoli su come il regime sia disposto a procedere senza pietà verso i suoi oppositori. Certo, a ogni massacro che viene rivelato, Assad rischia di irritare oltre misura la comunità internazionale, fino a provocarne un possibile intervento. Ma è un rischio calcolato. A ben guardare, coloro che a gran voce oggi chiedono all’Onu di fare qualcosa - i governi occidentali e la Lega araba - sono gli stessi che già da tempo hanno scaricato Assad, al quale hanno fatto sapere di non essere disposti a concedere nulla di diverso da una sostanziale resa incondizionata. Assad ha evidentemente deciso di correre questo rischio, nella convinzione (il tempo dirà quanto giusta o sbagliata) che il veto russo in sede di Consiglio di Sicurezza continuerà a proteggerlo da conseguenze troppo pesanti. E un intervento esterno al di fuori dell’egida dell’Onu sarebbe un azzardo che nessuno può semplicemente permettersi. L’internazionalizzazione che ha in mente Assad è un’altra: e passa attraverso il Libano, che è sempre più risucchiato dalla guerra civile del Paese vicino, a cui lo lega un rapporto di amore-odio. Le due società sono speculari in termini di mix confessionale (gli sciiti sono ormai maggioritari in Libano, mentre i sunniti lo sono in Siria) ma un precario equilibrio tra le diverse confessioni è garantito dalla Costituzione, sia pur con sempre maggior fatica. Da quando in Siria è scoppiata la rivoluzione, il Libano sta col fiato sospeso. Nei giorni scorsi gli incidenti tra sunniti e sciiti libanesi, finora confinati a Nord del Paese nella zona di Tripoli, sono tracimati a Beirut, facendo morti e feriti e vedendo la stessa Armée accusata di parteggiare per il regime di Assad (del quale il partito Hezbollah, che esprime la maggioranza di governo a Beirut, è peraltro ferreo alleato). Sul fronte interno, anche con questa ennesima strage, Assad ha chiarito che la trattativa coi ribelli non rientra nei suoi piani. Come molti osservatori di cose siriane sostengono, comunque questa guerra civile vada a finire, essa sarà caratterizzata da massacri spaventosi da entrambe le parti. Assad ha deliberatamente scelto la via della radicalizzazione e della polarizzazione del conflitto interno anche per impedire ai timidi e agli indecisi tra i suoi sostenitori di poter saltar dall’altra parte della barricata. La composita coalizione che lo appoggia, in parte controvoglia, non è fatta solo di alawiti ed esercito, ma anche di drusi, cristiani e sunniti «laici» che sono sempre più preoccupati della crescente egemonia dei fondamentalisti tra le file della resistenza. I massacri servono ad ampliare e consolidare il vallo di sangue tra le «due Sirie» che si contrappongono e che rappresentano già una forzata semplificazione rispetto all’eterogenea composizione della società siriana, che Assad scientemente continua ad usare a suo beneficio. da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10151 Titolo: VITTORIO EMANUELE PARSI - L'economia allarga l'Atlantico Inserito da: Admin - Giugno 06, 2012, 05:01:49 pm 6/6/2012
L'economia allarga l'Atlantico VITTORIO EMANUELE PARSI Ci sono cause contingenti e cause di più lungo periodo nella ruvidezza e nell’urgenza con cui il presidente Obama sta ripetutamente strigliando i leader europei. L’intenzione è spronarli, soprattutto Angela Merkel, a prendere le misure necessarie per evitare una recessione globale. Le cause del primo tipo sono legate all’approssimarsi della scadenza elettorale. È forte, e per nulla infondato, il sospetto dell’amministrazione Obama che la recessione europea possa provocare un effetto boomerang sull’economia americana (dalla quale il contagio era partito) e che comunque sia corresponsabile del peggioramento inatteso dei dati sull’occupazione negli Stati Uniti. Si tratta, evidentemente, di un lusso che il Presidente non può permettersi a 5 mesi dalle elezioni, com’è ampiamente dimostrato dal fatto che Mitt Romney abbia raggiunto il Presidente nei sondaggi. Le seconde sono legate alla tenuta del rapporto transatlantico e alla solidità e prospettiva del concetto di Occidente. Quest’ultimo appare paradossalmente più saldo (almeno per ora) quando sono in gioco questioni strategiche e di sicurezza. Nonostante le aspre divisioni con Francia e Germania sulla guerra in Iraq e il ventilato ritiro anticipato del contingente francese dall’Afghanistan, sono state proprio le recenti crisi divampate a seguito delle Primavere arabe che hanno visto l’Occidente procedere più compatto di quanto ci si potesse attendere. Se l’intervento militare della Nato in Libia non ha registrato significative defezioni, anche le pressioni sul regime di Assad in Siria sono state condivise da Washington e dalle principali capitali dell’Unione. Persino la crisi legata al nucleare iraniano ha registrato una convergenza transatlantica per nulla scontata. Da notare, infine, che la concorde fermezza occidentale dimostrata in queste occasioni ha evidenziato la perdurante distanza degli standard etici (oltre che degli interessi) tra il Cremlino e i governi europei, contribuendo a riallontanare quella prospettiva eurasiatica tanto cara a Mosca e al cui fascino neppure Berlino è apparsa sempre immune. In questi mesi, però, è la solidità sul piano economico e finanziario del blocco occidentale a mostrare crepe preoccupanti. In particolare, ciò che inizia a palesarsi è che un’Europa (meno) unita sotto la (solitaria e miope) leadership tedesca potrebbe essere sempre più proclive ad allentare le ragioni economiche e culturali della solidarietà occidentale. È vero che la crisi colpisce primariamente l’Europa ma è vero anche che, in un continente in difficoltà, la Germania va in controtendenza. Le sue industrie continuano a produrre, i suoi conti sono in ordine e l’inflazione bassa; grazie alla debolezza dell’euro, oltretutto, la Germania gode di una svalutazione che, senza macchiare il «blasone» del suo rigorismo finanziario, non può che avvantaggiare la seconda economia esportatrice del pianeta. Per anni Washington ha visto nella Germania il suo più leale alleato e lo stesso progetto di unificazione europea venne appoggiato da Washington anche per ancorare la Germania all’Occidente atlantico, quando essa era l’estrema marca di un confine militarizzato sul quale stava un nemico la cui presenza ricordava ogni giorno la necessità del legame transatlantico. E proprio la divisione tedesca rafforzava la prospettiva atlantista della Germania. Dalla fine di quel mondo sono passati oltre 20 anni. E quello che le guerre in Iraq e Afghanistan non sono riuscite a fare - indebolire le ragioni dell’alleanza - potrebbe verificarsi oggi a causa della crisi e di una Germania forse non abbastanza audace per perseguire consapevolmente un «gran disegno», ma sufficiente «cocciuta» per insidiare le basi dell’alleanza occidentale. A Washington ci si ritorna così a chiedere se l’egemonia tedesca sul vecchio continente sia compatibile con un «Occidente atlantico» e, soprattutto, si riflette se piuttosto che paventare il rischio che la nuova Cina possa seguire le orme della Germania guglielmina (tentando l’assalto all’egemonia continentale), non debba invece destare più preoccupazione la possibilità che la Germania di Angela Merkel sia tentata dal seguire le orme della Cina odierna: una forte export led economy assistita da una moneta (l’euro) debole. E se fosse di natura economica quella «guerra su due fronti» teorizzata dagli strateghi del Pentagono come la sfida più pericolosa per l’egemonia americana? da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10196 Titolo: VITTORIO EMANUELE PARSI - Evitato lo scontro frontale Inserito da: Admin - Giugno 25, 2012, 10:30:12 am 25/6/2012
Evitato lo scontro frontale VITTORIO EMANUELE PARSI L’ Egitto ha finalmente il suo presidente. Il primo eletto per davvero in tutta la storia della Repubblica. Solo all’inizio dello scorso anno nessuno avrebbe potuto prevedere che il successore di Hosni Mubarak non sarebbe stato suo figlio, ma un esponente dei Fratelli Musulmani. Nelle settimane successive alla caduta del raìs, in febbraio, sarebbe stato altrettanto impossibile immaginare una situazione come l’attuale: con i due soggetti politici «forti» del Paese (la Fratellanza e l’Esercito) impegnati in una partita tattica ma senza esclusioni di colpi, intenti a disporre le proprie pedine sul campo, per neutralizzare il vantaggio che gli avversari possono aver ottenuto. Se c’è un risultato che la rivoluzione egiziana ha conseguito, questo è stato il produrre e distruggere i possibili scenari futuri quasi senza soluzione di continuità, a testimonianza di come il risveglio del mondo arabo non sia un fuoco di paglia destinato a sfumare rapidamente. La mobilitazione di piazza Tahrir durante tutta la scorsa settimana è stato il monito che i Fratelli Musulmani hanno voluto lanciare ai militari, affinché fosse chiaro che non si sarebbero lasciati scippare anche della vittoria alle presidenziali dai generali. E infatti i loro leader hanno già annunciato che i militanti continueranno ad occupare la piazza fino a quando la «dichiarazione costituzionale» che delega ai militari il potere legislativo sino alle elezioni del prossimo Parlamento non verrà revocata. Il popolo di questa piazza Tahrir è molto diverso da quello che per primo ha innescato la rivoluzione: meno giovani di Twitter, meno donne, molti barbuti. È un segnale chiaro che siamo entrati in una seconda fase rivoluzionaria in cui gli attori capaci di mobilitare le masse sono sostanzialmente due: i Fratelli Musulmani e i Salafiti. Le Forze Armate, dal canto loro, con il ritardo nella proclamazione dei risultati, hanno mandato il loro avvertimento agli islamisti: non vogliono andare allo scontro frontale, ma non sono certo disposti a perdere la loro capacità di condizionare chiunque “regni” al Cairo. Nel frattempo, tanto per evitare il rischio di essere fraintesi, la Corte Suprema ha sciolto il Parlamento per illegittimità e il Consiglio supremo delle Forze Armate ha appunto avocato a sé il potere legislativo. La partita sarà ancora lunga e ricca di colpi di scena, c’è da starne certi. In termini rugbistici, potremmo dire che Esercito e Fratellanza hanno deciso di riorganizzarsi e giocare una seconda fase, ognuno conscio e preoccupato della forza della squadra nemica. Lo scenario di una cooperazione «obbligata» tra loro, che pure per qualche mese era parsa una soluzione possibile, è tra quelli sfumati in queste settimane. Mentre resta aperta l’opzione di una collaborazione tra i Fratelli Musulmani e i partiti liberali, entrambi accomunati dalla legittimazione elettorale e dalla volontà di chiudere la lunga esperienza dell’interferenza militare nella vita politica del Paese, che peraltro risale ai primi decenni del XIX secolo, e dall’interesse comune a ridurre lo spazio a disposizione dei Salafiti. Sono molte le specificità nazionali che stanno influenzando l’esito della rivoluzione egiziana, dunque. Ma allo stesso tempo essa fa emergere due protagonisti assoluti della fase storica che i Paesi arabi stanno attraversando: i partiti islamisti e le Forze Armate, dove i primi rappresentano il cambiamento e i secondi la continuità. In passato, sono stati proprio i militari gli attori della modernizzazione negli Anni 50 del secolo scorso. Sono loro, oggi, che costituiscono il freno principale, il maggiore ostacolo, a quel processo di rinnovamento del sistema politico (e del suo rapporto con la società) che con tutte le loro pericolose contraddizioni i partiti islamisti comunque rappresentano. Per questi ultimi, la sfida decisiva sarà quella di resistere alle sirene della radicalizzazione, che proprio la “resistenza”, l’attrito, del potere militare potrebbe risvegliare. Vedremo se Mohamed Morsi si rivelerà uno stratega sufficientemente attento, capace di guardarsi tanto dalle insidie dei militari, quanto da quelle dei Salafiti, ai quali una “radicalizzazione controllata” del quadro politico potrebbe non dispiacere, proprio in vista delle nuove elezioni legislative che dovrebbero tenersi nell’arco dei prossimi sei mesi. Sempre che non subentrino nuovi rinvii. da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10261 Titolo: VITTORIO EMANUELE PARSI - Il cinico calcolo di Putin Inserito da: Admin - Luglio 14, 2012, 03:57:55 pm 14/7/2012
Il cinico calcolo di Putin VITTORIO EMANUELE PARSI Sedici mesi di guerra civile e almeno 16.000 morti tra la popolazione, in gran parte causati dall’esercito di Bashar al Assad e dalle sue milizie, in un crescendo wagneriano, sempre più livido e sinistro. Risale all’altro giorno l’ultima ecatombe (oltre 200 morti nella martoriata provincia di Hama) denunciata dagli attivisti e confermata anche dal regime, che però ne ha addossato la responsabilità a «formazioni terroristiche al soldo di potenze straniere». Assad sembra aver definitivamente scelto la strada di giocarsi il tutto per tutto. Consapevole che forse neppure questo gli consentirà di sopravvivere politicamente, ma altrettanto disposto a sfruttare ogni singola possibilità che l’impotenza della comunità internazionale gli offre. La più sanguinosa delle intifade arabe partite dal sacrificio di un giovane venditore ambulante tunisino vede infatti il mondo ancora alla ricerca di una soluzione capace di arrestare l’orrore siriano. Se nelle ultime ore Pechino si è detta disponibile a considerare una mozione di condanna del regine siriano che non escluda l’imposizione del cessate il fuoco, permane invece il veto russo a qualunque ipotesi di intervento militare esterno. Per quanto cinica ci possa apparire la posizione russa, il Cremlino ha ben chiaro che proprio la sua «postura eccentrica» sulla crisi siriana è quella che gli ha consentito di tornare ad acquisire un peso in Medio Oriente dopo oltre un ventennio. Putin è ben conscio che un appoggio incondizionato e a tempo indeterminato ad Assad non è possibile (oltre ad aprire la prospettiva di un riacutizzarsi della mai sopita tensione con la numerosa minoranza musulmana della Federazione Russa), sa altrettanto bene, però, che con il crollo del regime la rilevanza di Mosca tornerebbe a essere nulla. È proprio questo punto a rendere così difficile trovare un’intesa tra l’Occidente (e la Lega Araba) e la Russia. Una transizione al dopo Assad significherebbe inevitabilmente la fine del regime baathista e quindi la perdita di qualunque interlocutore per il Cremlino. Il regime siriano non è più riformabile. Forse non lo è mai stato, troppi essendo i beneficiari di oltre quattro decenni di potere assoluto, i cui equilibri erano garantiti dalla presenza della famiglia Assad. Di sicuro comunque non è più riformabile ora, 16 mesi e 16.000 morti dopo. Al di là della buona disposizione occidentale nei confronti di Mosca, della volontà di non umiliare la Russia come di fatto è avvenuto in Libia, l’Occidente non è in grado di offrire a Mosca null’altro che la scelta tra continuare così o accettare di perdere qualunque influenza sulla Siria del futuro. Dal canto suo, d’altronde, lo stesso Occidente non appare così determinato di fronte all’opzione militare, senza la quale è a questo punto impensabile arrestare il conflitto. Certo, la ferocia della repressione avrebbe già da tempo consentito di intervenire sulla base della «responsabilità di proteggere» sancita dalla Carta delle Nazioni Unite e invocata nei casi della Libia e del Kosovo (dove peraltro si agì senza autorizzazione Onu); ma il fatto è che le opinioni pubbliche occidentali (a iniziare da quella americana in un anno elettorale) sono stufe di guerre mediorientali che vedono il coinvolgimento dei propri eserciti dal 1990 (Desert Storm, per la liberazione del Kuwait), che gli assetti militari sono stati logorati in questi anni e che una crisi economica che dura dal 2008 e che non si sa quando e come finirà rende estremamente difficile capire dove reperire le risorse per avviare una campagna dal calendario assolutamente imprevedibile. La Siria non è la Libia, evidentemente. Non lo è per dotazione militare (ieri si sono diffuse voci inquietanti sullo spostamento di munizionamento chimico dai siti di stoccaggio), non lo è per collegamenti internazionali (l’Iran non resterebbe a guardare la distruzione del suo principale alleato), non lo è per collocazione geografica (il Libano esploderebbe e il confine israeliano si surriscalderebbe). Oltretutto, chiunque volesse intervenire nel Paese dovrebbe avere un piano per la regione che contemplasse anche la soluzione del problema palestinese. Lo aveva ben chiaro George H. Bush, quando proprio a seguito della guerra del 1990/91 contro Saddam avviò i colloqui di Madrid e il processo di Oslo, che neppure la potentissima America di quegli anni seppe però difendere dal consapevole sabotaggio del governo di Tel Aviv. A complicare ulteriormente il quadro, infine, c’è la constatazione di come quasi due anni di primavere arabe abbiano segnato lo straordinario innalzamento della rilevanza saudita nella regione. E se Luigi XV non aveva intenzione di «combattere per il re di Prussia», c’è da scommettere che neppure Barack Obama frema dalla voglia di combattere per Abdullah Ibn Saud. da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10330 Titolo: VITTORIO EMANUELE PARSI - I rischi di un puzzle da incubo Inserito da: Admin - Luglio 19, 2012, 10:03:54 pm 19/7/2012
I rischi di un puzzle da incubo VITTORIO EMANUELE PARSI Da quando la crisi siriana ha preso avvio, il timore di tutti è stato che essa potesse far deflagrare l’intero Levante. E di conseguenza, per i vincoli politici saldissimi che legano il regime di Assad, Hezbollah in Libano e la Repubblica islamica dell’Iran, accelerare il precipitare della tensione tra Teheran e Tel Aviv, continuamente alimentata dall’opaca vicenda del programma nucleare iraniano. I giorni di Assad e del suo regime appaiono sempre più contati. L’attentato che ieri ha provocato la morte, tra gli altri, del ministro della Difesa (generale Rajha), del capo dell’intelligence militare e cognato di Bashar al Assad (Assef Shawkat) e ha ferito gravemente quello degli Interni (Mohammed al Shaar) e segnala lo straordinario salto di qualità nelle capacità dei ribelli di colpire fin nel cuore dei palazzi del potere. L’attentato è avvenuto in una delle zone più sorvegliate di Damasco, proprio mentre era in corso una riunione dell’unità di crisi del governo e dopo che da giorni i combattimenti erano divampati in alcuni quartieri del centro della capitale. Questa sola circostanza, mentre è ancora poco chiara la dinamica dei fatti, attesta però che oltre alle defezioni plateali che in queste settimane hanno coinvolto sempre più la cerchia dei collaboratori più vicini al raìs, se ne stanno evidentemente verificando altre, più silenti e letali, perché dissimulate da lealtà. Sono soprattutto i sunniti del regime a passare all’opposizione, contribuendo a rendere sempre più esplicita la natura alauita del potere degli Assad e in questo senso alimentando indirettamente la possibile deriva settaria della guerra civile in corso nel Paese. Agli occhi di molti membri della sua comunità, la morte del generale Rajha – il cristiano di più alto rango tra i dignitari di Assad – rischia di essere interpretata come un lugubre presagio del destino che potrebbe attendere la minoranza cristiana del Paese, dai ribelli accusata di essere rimasta leale al dittatore, i cui numeri si stanno già assottigliando. Analogamente a Saddam Hussein, anche Hafez al Assad (padre di Bashar) aveva fatto del «divide et impera» l’asse portante della propria strategia di controllo. Ambedue a capo di repubbliche socialiste e di fazioni rivali del partito Baath ed entrambi al governo di società religiosamente frammentate, sia l’uno che l’altro si erano sempre appoggiati sulle minoranze (sunniti e cristiani in Iraq, alawiti e cristiani in Siria) per controllare la maggioranza delle proprie popolazioni. Bashar ha proseguito sulle orme del padre, ovviamente. Ma proprio il dubbio sulla tenuta del regime potrebbe infiammare la lotta settaria ben oltre i confini siriani. Non è un caso che nel vicino Libano, il cui precario equilibrio poggia invece su un tanto esplicito quanto fragile compromesso costituzionale tra le sette, si facciano sempre più frequenti gli scontri tra sostenitori e oppositori del regime siriano (la cui influenza nel Paese dei Cedri è tornata a essere massiccia dopo che il partitomilizia di Hezbollah è diventato la formazione egemone del nuovo governo). Ieri persino nella centrale Hamra – quartiere prevalentemente sunnita di Beirut – sciiti e sunniti si sono sparati addosso, portando fin nel cuore della capitale quegli scontri finora concentrati nel Nord, nella zona di Tripoli. L’attentato di ieri in Bulgaria, in cui sette turisti israeliani hanno perso la vita e una ventina sono rimasti feriti, potrebbe non avere alcuna connessione con gli eventi finora analizzati. Ma le accuse rivolte all’Iran dal premier israeliano Benjamin Netanyahu di essere «responsabile» dell’attentato (che fa seguito ad alcuni altri in cui il coinvolgimento di cittadini iraniani è stato provato) e la sottolineatura di come questo atto terroristico sia stato perpetrato nel 18° anniversario dell’attacco alla comunità ebraica di Buenos Aires (di cui proprio Hezbollah è dagli israeliani ritenuto l’esecutore) creano comunque un collegamento gravido di fosche conseguenze politiche. È possibile che davvero l’Iran ed Hezbollah siano dietro questo attentato, che l’abbiano deciso con lo scopo deliberato di ammonire la comunità internazionale sui prezzi da pagare nel caso di un coinvolgimento troppo diretto nelle vicende siriane. È anche possibile che il governo israeliano sia balzato troppo rapidamente alle conclusioni, magari coltivando la pericolosa illusione di regolare i conti una volta per tutte con i propri avversari. Ad ogni modo, e per la prima volta, non è mai stato così concreto come in queste ore il rischio che l’irrisolta questione dell’accettazione della presenza di Israele nella regione (e del rispetto dei diritti del popolo palestinese) si saldi con le intifade arabe di questi due anni, con le lotte tra sciiti e sunniti (dal Bahrein al Libano) e con la vicenda atomica iraniana. Un puzzle da incubo. da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10347 Titolo: VITTORIO EMANUELE PARSI - L'equilibrio tra politica ed economia Inserito da: Admin - Luglio 25, 2012, 05:13:01 pm 25/7/2012
L'equilibrio tra politica ed economia VITTORIO EMANUELE PARSI Chissà se tra le letture di Angela Merkel figurano anche i romanzi di Agatha Christie… Tra questi, uno particolarmente famoso è «10 piccoli indiani», che racconta della progressiva eliminazione da parte di un misterioso padrone di casa dei suoi ospiti, tutti collegati tra loro per una particolare vicenda. Le vittime facilitano il compito dell’assassino perché sono incapaci di coordinare una comune azione di difesa: uccisi uno a uno a causa della loro diffidenza reciproca. Come i dieci piccoli indiani della novella, anche i diciassette Paesi dell’euro sembrano non riuscire a compiere quei passi, politici, che gli consentirebbero di poter contrastare più efficacemente gli attacchi della speculazione. Da più parti si sostiene con ottime ragioni che solo un’Unione che appaia più profonda e irreversibile può convincere la speculazione che si guadagna di più scommettendo a favore dell’euro e sul suo futuro invece che contro. Perché ciò possa avvenire, però, i nostri diciassette piccoli indiani dovrebbero iniziare a ricordarsi di appartenere a una sola medesima tribù, quella di Eurolandia, e comportarsi di conseguenza. Dovrebbero soprattutto iniziare a capire che sotto attacco da parte della speculazione non c’è solo la moneta unica, la stabilità finanziaria, le prospettive economiche delle future generazioni. In gioco c’è la stessa democrazia poiché, come osservava ieri Mario Deaglio nel suo commento per La Stampa, nel «duello tra finanza e democrazia» un principio deve essere mantenuto fermo: che «le democrazie hanno il dovere di pagare i debiti ma anche il diritto alla non interferenza dei creditori nei loro affari». Non basterà certo l’accordo tra i soli Paesi della zona euro a ridefinire i rapporti tra politica ed economia, tra la democrazia e il mercato. Affinché possano essere adottate le misure necessarie per evitare che la speculazione finanziaria finisca per affossare le economie reali, le società che le esprimono e le istituzioni politiche che governano le une e le altre occorrerà che tutti i Paesi dell’Unione e, dopo le elezioni di novembre, anche gli Stati Uniti si muovano in maniera coordinata, rammentando che proprio l’aver saputo mantenere in equilibrio democrazia e mercato, le ragioni dell’ oikos e quella della polis , fu alla radice dello straordinario successo arriso all’Occidente nel secondo dopoguerra. Se consideriamo il periodo che va tra il 1929 e il 1989 come una sola grande stagione – aperta dalla crisi del sistema capitalista internazionale e chiusa dal crollo della sua proposta antagonista rappresentata dal comunismo – è possibile osservare una spinta alla redistribuzione della ricchezza (fino al termine degli Anni 70 negli Usa e in Europa occidentale) associata a un progressivo allargamento della partecipazione politica libera ed effettiva (la cui ultima ondata coincide col crollo del Muro di Berlino). A un modello di economia liberale «temperata» (in cui le istituzioni pubbliche limitavano gli effetti più devastanti delle oscillazioni del mercato) era associato un modello politico fondato sulla democrazia di massa, capace di sconfiggere i paradigmi autoritari di destra (prima) e quello totalitario di sinistra (poi) che avevano offerto delle alternative illiberali alla sfida dell’inclusione dei ceti popolari nel circuito politico. I due modelli – quello economico e quello politico – si sorreggevano e si integravano vicendevolmente. In altri termini, le scelte di politica economica adottate per uscire dalla crisi innescata dal «giovedì nero» del 1929 furono tutt’altro che indifferenti per il consolidamento del modello democratico come «standard» politico occidentale. Oggi, le modalità con cui usciremo da questa lunga crisi, le scelte e le non-scelte di politica economica che adotteremo o scarteremo, avranno ripercussioni decisive sullo «standard democratico» con cui l’Occidente si governerà nei decenni a venire. Finora, al riparo dei loro spread, i Paesi finanziariamente più solidi hanno prestato orecchio da mercante a queste argomentazioni. Paradossalmente, il declassamento dell’outlook economico generale di Germania e Olanda da parte di Moody’s potrebbe iniziare a far capire anche ai loro governanti che solo muovendoci insieme e tempestivamente potranno evitare che il Bundestag e il suo omologo olandese siano semplicemente gli ultimi due Parlamenti europei a dover ammainare la bandiera della democrazia politica per non averla saputa rifondare su scala continentale quando ancora era possibile. Può apparire provocatorio riaffermare la necessità di un primato della politica in un Paese come il nostro, in cui i partiti che appoggiano il governo Monti si baloccano con l’idea demenziale di elezioni anticipate, adducendo la speciosa spiegazione che «il quadro si va logorando», cioè che loro potrebbero decidere di far saltare il banco. Ma il tempo delle scelte decisive è ora, ora o mai più. Perché se è vero che «lo statista guarda alle prossime generazioni mentre il politico alle prossime elezioni» occorre pur ricordare che la speculazione, purtroppo, si accontenta di guardare alle prossime 24 ore… da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10368 Titolo: VITTORIO EMANUELE PARSI - Lo schiaffo di Morsi agli intoccabili Inserito da: Admin - Agosto 13, 2012, 09:59:03 am 13/8/2012
Lo schiaffo di Morsi agli intoccabili VITTORIO EMANUELE PARSI Tutto si può dire del «collocamento in congedo» del feldmaresciallo Hussein Tantawi da parte del neopresidente egiziano Mohammed Morsi, tranne che fosse nell’aria. La decisione è giunta completamente inattesa e quello che resta da capire è se il primo presidente civile e liberamente eletto nella storia egiziana ha commesso un azzardo che potrebbe precipitare il Paese nel caos. O se invece Morsi ha agito forte di un consenso tra le file dell’esercito che nessuno sospettava potesse avere. Ovviamente il portavoce del presidente ha parlato di una decisione condivisa, ma è difficile credere che Tantawi, lo stesso uomo che aveva cercato fino in fondo di preservare il potere dei militari - una tradizione egiziana che rimonta addirittura alla fondazione dello Stato mammalucco - abbia accettato di farsi da parte volontariamente. Insieme al pensionamento di Tantawi - nominato «Consigliere del presidente» e insignito della massima onorificenza egiziana, il «Gran collare dell’Ordine del Nilo» - Morsi ha anche disposto l’abrogazione della «Dichiarazione costituzionale», adottata proprio poche ore prima del suo insediamento, che di fatto alterava l’equilibrio dei poteri a favore dei militari, privando il presidente di un discreto numero di importanti prerogative. È proprio questo il fatto che rende più difficile credere a un avvicendamento concordato ai vertici del Supremo consiglio militare, oltre che ai vertici della Difesa. Possibile che l’establishment militare, un vero e proprio Stato nello Stato, detentore di un potere corporativo che assicura ai suoi membri una vasta serie di privilegi e benefit economici e di status, abbia accettato di veder cadere non Tantawi, ma tutto il trinceramento che Tantawi aveva costruito a difesa della posizione delle Forze Armate? In cambio di che cosa o per paura di che cosa i generali avrebbero dovuto accettare un simile ridimensionamento, che comunque rappresenta uno smacco anche per il loro prestigio di «intoccabili»? Difficile quindi che si sia trattato di un ripiegamento tattico. Si direbbe che Mohammed Morsi sia deciso a seguire la strada mostrata da Recep Erdogan, il premier turco che ha privato le forze armate di quel ruolo di «guardiani della laicità delle istituzioni» assegnato loro dallo stesso Mustapha Kemal Atatürk e confermato da tutte le Costituzioni tranne l’ultima, emendata per volontà del premier e approvata da un referendum popolare. Ma Erdogan ha impiegato anni per fare molto meno di ciò che Morsi sta provando a fare in pochi mesi. È però vero che Erdogan aveva dalla sua un assetto istituzionale comunque formalmente liberale consolidato in decenni, che la Turchia è un Paese membro della Nato e ancora formalmente in attesa di essere riconosciuto come «candidato alla membership» da parte della Ue e che un aperto pronunciamento da parte dell’esercito avrebbe incontrato una fortissima reazione interna e internazionale. Insomma Erdogan poteva permettersi di giocare una partita a scacchi, Morsi sta giocando una partita di poker, in cui il bluff è parte della strategia. Il presidente probabilmente ha colto al balzo l’occasione della pessima figura rimediata dall’esercito con l’incursione in Sinai da parte dei quaedisti a inizio settimana. E qualcuno, a questo punto, potrebbe sollevare qualche dubbio sulla sua matrice proprio a partire dalla «natura provvidenziale» che essa potrebbe avere per le fortune della Fratellanza, che fino a qualche mese fa aveva ottimi rapporti con chi governa la Striscia e concorre a sorvegliarne i confini. Certo anche i militari hanno qualche carta in mano: potrebbero smettere di collaborare attivamente al mantenimento dell’ordine in un Paese che è ancora ben lontano dall’essere tornato alla normalità. Potrebbero ritirarsi platealmente nelle caserme in attesa di essere «costretti» a tornare per il bene della Repubblica. Tutto è possibile. Ma forse è un altro l’asso nella manica di Morsi, la famosa minaccia di cui parlavamo prima. Nessuno infatti sa quanto profonda e diffusa sia la penetrazione della Fratellanza nelle forze armate, nei suoi ranghi intermedi. Nessuno tranne Morsi e Tantawi. Al quale il presidente potrebbe aver fatto balenare la prospettiva di un nuovo pronunciamento degli «ufficiali liberi»: anche questa volta, come nel 1953, contro i vertici del potere militare, ma diversamente da allora non per insediare al potere un nuovo colonnello Nasser, ma per difendere il primo presidente civile (ed eletto) d’Egitto… da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10425 Titolo: VITTORIO EMANUELE PARSI - Dove nasce l'ostilità anti-Usa Inserito da: Admin - Settembre 14, 2012, 10:27:06 pm 14/9/2012
Dove nasce l'ostilità anti-Usa VITTORIO EMANUELE PARSI Paradossalmente, l’assalto al Consolato americano di Bengasi è il fatto politicamente meno negativo per gli Stati Uniti, anche se ovviamente il più tragico e il più pericoloso per la campagna elettorale del presidente, tra tutte le manifestazioni di ostilità antiamericana che in queste ore stanno attraversando il Medio Oriente. Proprio la sua natura apertamente terroristica lo isola infatti dai moti che attraversano la società libica, ne fa, per più di un aspetto, un’azione «anacronistica» rispetto al tempo che le società arabe stanno vivendo. Questo tempo continua a essere scandito dalle manifestazioni di piazza, dalle rivoluzioni, dalla presa del potere sotto la spinta popolare da parte di formazioni politiche islamiste, persino dalla guerra civile (come in Siria): ma non più dagli attentati terroristici come principale strategia di mobilitazione e azione politica. Non può sfuggire che il terrorismo continui a mietere vite e a fare proselitismo in Iraq o, fuori del mondo arabo, in Afghanistan e in Pakistan: cioè in Paesi che restano ancora inchiodati alla stagione dell’11 settembre e alle conseguenze delle politiche adottate come reazione a quelle stragi maledette. Ben diversa è la situazione libica, dove la popolazione è scesa in piazza per manifestare la sua condanna dell’attentato, consapevole che senza le bombe della Nato e degli Stati Uniti Gheddafi sarebbe ancora al potere. Dove gli Stati Uniti si sono impegnati direttamente per abbattere un dittatore in guerra contro il suo popolo, hanno ottenuto il maggiore risultato della strategia attuata da Barack Obama nei confronti del mondo arabo in occasione delle tante e diverse primavere che negli ultimi due anni lo stanno attraversando: nessun sostegno ai dittatori e nessun ostacolo ai processi rivoluzionari in corso. Una politica seguita anche in Egitto, ma con molta più titubanza, e in parte anche in Yemen, dove però l’America ha agito principalmente attraverso l’Arabia Saudita. Non è allora forse casuale o incomprensibile che proprio in questi Paesi l’antiamericanismo così diffuso nelle società arabe stia riemergendo, alimentando - questo è il punto - non azioni terroristiche, ma manifestazioni di piazza: per ora ancora minoritarie, ma non per questo meno in grado di fare rapido proselitismo. Quello che rende estremamente più pericolose le situazioni di Sanaa e del Cairo è infatti proprio la natura degli atti di ostilità antiamericana che utilizzano lo strumento associato nei cuori e nelle menti di tanti arabi alla stagione delle primavere: cioè a quei moti che hanno abbattuto dittature pluridecennali. Siamo in campagna elettorale ed evidentemente lo staff di Romney parlerà di una politica mediorientale fallimentare, di un’America nuovamente sotto attacco, non amata, non rispettata e alla fine nemmeno temuta. Ed è vero che la politica di Obama non ha portato i frutti sperati, basti pensare alla freddezza reciproca mostrata da Obama e Morsi (il presidente egiziano) nella telefonata intercorsa dopo i fatti del Cairo. Ma le ragioni di questo insuccesso sono ben diverse da quelle indicate da Romney. Chi abbia anche solo un poco frequentato il Medio Oriente e il mondo arabo sa perfettamente che la diffidenza e l’ostilità nei confronti degli Stati Uniti è legata alla convinzione che l’America applichi un inaccettabile doppio standard nella regione. È il sostegno acritico che Washington assicura a Israele - qualunque azione compia, chiunque sia al governo - che ha sempre alienato all’America la simpatia delle opinioni pubbliche e delle élite arabe. È il vero e proprio «intrappolamento» della strategia americana in Medio Oriente all’interno di quella israeliana che gli arabi ritengono incomprensibile. È il disinteresse concreto mostrato verso il processo di pace in Palestina che alimenta i sentimenti ostili delle piazze arabe verso la superpotenza garante del (dis)-equilibrio regionale. Barack Obama ha fatto molto per cambiare la politica mediorientale degli Stati Uniti, ma non abbastanza sulla questione che da decenni e decenni gli arabi avvertono come una ferita sempre aperta. Ed è questo che rende la sua politica mediorientale complessivamente «fallimentare». L’evidenza che sia il Presidente meno antiarabo degli ultimi decenni svanisce di fronte al fatto che nel mondo arabo tutti sono convinti che, in ogni caso, al di là del giudizio ex ante, il comportamento ex post degli Stati Uniti sfocerà sempre in un acritico sostegno al governo israeliano: che si tratti degli insediamenti illegali di coloni nei territori occupati o delle ipotesi di un attacco militare israeliano contro i reattori nucleari iraniani. Il sostegno alle rivoluzioni arabe che l’America di Obama ha scelto come sua opzione strategica, non senza contraddizioni e incertezze, ha aperto una finestra di opportunità che ora si va lentamente richiudendo, anche perché molti sono gli attori interessati a che ciò avvenga: e non tutti necessariamente figurano nella lista dei nemici degli Stati Uniti. da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10526 Titolo: VITTORIO EMANUELE PARSI - I due messaggi di Netanyahu Inserito da: Admin - Novembre 15, 2012, 04:51:28 pm Editoriali
15/11/2012 I due messaggi di Netanyahu Vittorio Emanuele Parsi Netanyahu ha cominciato alla sua maniera la campagna elettorale per le legislative, facendo assassinare il capo militare del partito-milizia di Hamas, a Gaza, con una serie di bombardamenti che hanno ucciso almeno 7 innocenti civili palestinesi oltre ad Ahmad Jaabari e a suo figlio (altrettanto innocente). Con questa decisione, il premier di Tel Aviv ha anche recapitato un messaggio al presidente degli Stati Uniti sinistramente analogo a quello inviato esattamente quattro anni fa con l’operazione «piombo fuso», ovvero l’attacco violentissimo contro la Striscia di Gaza, che causò oltre 1200 morti tra i palestinesi. I bombardamenti sono stati presentati come rappresaglia per gli attacchi contro le forze armate israeliane compiuti nelle scorse settimane da parte dei miliziani al comando di Jaabari e per il lancio di una cinquantina di razzi Qassam verso il territorio israeliano, che nelle scorse ore si era fatto più intenso, pur senza aver provocato morti tra la popolazione. È da escludere che quanto accaduto ieri non abbia serie ripercussioni sulla regione e non c’è da dubitare che, al di là delle dichiarazioni con cui si cerca di non criticare troppo apertamente i raid israeliani, a Washington regni perlomeno il disappunto. La scelta del momento per una simile azione – che comunque non trova nessuna giustificazione legale – apparentemente non poteva essere più infelice. O forse è meglio dire «rivelatrice» delle vere intenzioni che hanno mosso Netanyahu: ottenere un successo propagandistico ad uso interno e contemporaneamente contribuire a radicalizzare il quadro regionale, così da provocare quell’effetto di rally ’round the flag sul quale il premier israeliano conta per rendere ancora più difficoltoso il formarsi di una coalizione elettorale nel litigioso fronte della sua opposizione politica. La rivelazione, subito diffusa dalle autorità militari israeliane, che Ahmad Jaabari era stato «il carceriere del caporale Shalit» (il militare israeliano detenuto per sei anni da Hamas e poi rilasciato in cambio di un migliaio di prigionieri palestinesi) è volta a dimostrare la determinazione del primo ministro, che si staglia con ancora maggiore forza sull’immagine del profilo timido ed emaciato del coscritto Shalit, la cui vicenda aveva creato un movimento di forte e insieme tenera coesione nell’opinione pubblica israeliana e in larga parte di quella occidentale. Evidentemente, una rappresaglia così violenta in questo momento, rende il quadro regionale ancora più teso, come se non bastasse la guerra civile siriana con il rischio che essa contagi il Libano e intacchi il già precario equilibrio giordano. Ed è appena il caso di accennare al fatto che l’omicidio di 9 persone a Gaza non potrà che costringere lo stesso Morsi ad assumere una posizione molto dura nei confronti del governo di Tel Aviv. Si tratta cioè di un vero e proprio regalo fatto alla componente più radicale dei Fratelli Musulmani (di cui Hamas è una lontana filiazione) e dei salafiti. Tutto questo proprio nel momento in cui il presidente Obama sembrava intenzionato a proseguire nella coraggiosa e cauta apertura di credito verso il regime egiziano, proprio allo scopo di concorrere alla stabilizzazione dell’intera regione. La cosa più triste, pensando alla tradizione democratica di Israele e alla straordinaria levatura morale di tanti dei suoi intellettuali, è dover prevedere che questo attacco sarà probabilmente interpretato dalle opinioni pubbliche arabe come una risposta indiretta alle «primavere» di questi due anni. Il fatto, sottolineato da tutti i commentatori, che esse avessero sostanzialmente disertato i più consueti «luoghi» dell’odio anti-israeliano, rischia di diventare solo un ricordo. E l’onda lunga della rabbia rivoluzionaria domestica potrebbe saldarsi con quella antica dell’esasperazione per l’umiliante e sistematica violazione dei diritti del popolo palestinese. Il rischio è che ne nasca un vero tsunami regionale, capace di far ritrovare gli Stati Uniti invischiati in un conflitto che non vogliono e che il presidente Obama si era ripromesso di contribuire a disinnescare nel corso del suo secondo mandato. da - http://lastampa.it/2012/11/15/cultura/opinioni/editoriali/i-due-messaggi-di-netanyahu-n2WZhk9aLf56eBb4ZfPgbO/pagina.html Titolo: VITTORIO EMANUELE PARSI - Assist al Cairo da Israele Inserito da: Admin - Novembre 24, 2012, 05:48:47 pm Editoriali
24/11/2012 Assist al Cairo da Israele Vittorio Emanuele Parsi Ha impiegato 48 ore il presidente egiziano Morsi per mettere all’incasso sul piano domestico il successo conseguito grazie al ruolo cruciale giocato nel rendere possibile la proclamazione della tregua tra Israele e Hamas. Forte della riconoscenza americana e, soprattutto, della convinzione di Washington che «il nuovo faraone» -- come già lo hanno ribattezzato i suoi oppositori - sia l’uomo indispensabile affinché le rivoluzioni che stanno interessando il mondo arabo non travolgano definitivamente i sempre più incerti equilibri regionali, Morsi ha provveduto a sigillare il proprio potere rispetto a qualunque possibile infiltrazione proveniente dai superstiti del vecchio regime. La magistratura, insieme ai militari, continuava infatti a rappresentare un baluardo all’azione islamizzante del nuovo regime e, contemporaneamente, costituiva un formidabile centro di potere alternativo a quello del presidente. Nei mesi scorsi, il braccio di ferro tra il presidente Morsi e il procuratore generale Abdel Meguid Mahmoud per le assoluzioni comminate ai principali collaboratori di Mubarak impegnati nella repressione durante la cosiddetta «battaglia dei cammelli» di piazza Tahir aveva già chiarito che la rivalità tra i due uomini nascondeva un conflitto molto più strutturale tra gli esponenti del nuovo ceto politico (forte della legittimazione elettorale) e l’intera magistratura (nominata dal vecchio regime) che non poteva che sfociare in una escalation. E così è puntualmente successo. Dopo quella del feldmaresciallo Tantawi ora è la testa del procuratore generale Mahmoud a rotolare metaforicamente nel cesto. La rivoluzione va avanti, dunque: questo è il primo segnale che il presidente invia innanzitutto ai suoi sostenitori, forse perplessi per il sostegno a loro avviso tiepido offerto da Morsi ai cugini di Hamas. Dal punto di vista istituzionale, più che realizzare una svolta autoritaria - possibile, probabile ma non ancora certa - le decisioni di Morsi proseguono nell’opera di riequilibrare i pesi tra funzionari nominati e cariche elettive a tutto vantaggio di queste ultime. In tal senso Morsi sta provvedendo a liberare presidenza e assemblea costituente dall’ingombrante tutela che esercito e magistratura intendevano esercitare sull’Egitto dei Fratelli Musulmani. È pero evidente il fatto che il poverissimo pedigree liberale che il partito di Morsi può esibire desta più di una preoccupazione presso i suoi oppositori, a cominciare dai Copti e dalle sempre più esigue e assediate componenti «laiche» della società civile egiziana, che non a caso stanno manifestando in queste ore. Considerando l’influenza che l’Egitto e la sua rivoluzione hanno sull’intero mondo arabo anche i timori internazionali su una possibile deriva sempre più illiberale dell’Egitto sono giustificati. D’altra parte è attraverso la rivoluzione dello scorso anno che l’Egitto è tornato a costituire un punto di riferimento per le masse arabe come non accadeva dai tempi di Nasser. Certo, il generale seppe trasformare un colpo di Stato in una rivoluzione, mentre Morsi sembra essere alle prese con la trasformazione di una rivoluzione in un colpo di Stato: ma è l’esito finale quello che potrebbe accomunare due presidenti così diversi, ovvero la costruzione di un «populismo autoritario inclusivo» in sostituzione dei sistemi autoritari che li avevano preceduti. Le prossime settimane, se non i prossimi giorni, sveleranno qualcosa di più circa le vere intenzioni di Morsi: si limiterà a proteggere il processo rivoluzionario da possibili tentativi di bloccarlo o imboccherà con sempre maggior convinzione la strada di un’involuzione autoritaria? È comunque presto per intonare il de profundis per la più importante di tutte le primavere arabe e per decretare l’avvento di un inverno gelido e grigio. Resta però viva l’amara sensazione che proprio l’errore strategico commesso da Netanyahu, senza la sua decisione di aprire a Gaza una crisi che ha dimostrato di non essere nelle condizioni di chiudere, abbia rappresentato un assist insperato per Morsi, in grado di consentire li di anticipare una mossa azzardata che forse avrebbe dovuto quantomeno rinviare. da - http://lastampa.it/2012/11/24/cultura/opinioni/editoriali/assist-al-cairo-da-israele-ahIsdcxRBosAmPeVlPqmIO/pagina.html |