Titolo: FEDERICO RAMPINI. Inserito da: Admin - Settembre 19, 2008, 10:29:46 am ECONOMIA La fuga dei risparmiatori provoca danni incalcolabili all'economia
I rendimenti dei bond statunitensi crollano ai valori del 1941 Paura come ai tempi di Hilter patrimoni a caccia del rifugio di FEDERICO RAMPINI BISOGNA risalire al Blitz su Londra, il bombardamento ordinato da Hitler nel '41 che parve annunciare lo sbarco tedesco in Gran Bretagna. Il panico sul mercato del credito ha raggiunto livelli che non si erano più visti dai giorni più bui della Seconda guerra mondiale. Di fronte al crollo di tanti patrimoni la fuga dei risparmiatori verso un "rifugio sicuro" - come i buoni del Tesoro americani - ha prodotto un risultato incredibile: i rendimenti sui Treasury Bonds degli Stati Uniti sono crollati (0,03% i buoni trimestrali) al livello più basso dai tempi dei raid aerei della Luftwaffe sulla capitale inglese. Questo fuggi fuggi verso la sicurezza infligge dei danni incalcolabili non solo alle finanze ma all'economia reale. Nessuno si fida più della solvibilità della controparte: i prestiti fra banche in Europa e negli Stati Uniti sono quasi congelati. La paura dei crac a catena sta intaccando per la prima volta il valore dei fondi comuni monetari: sono investimenti considerati liquidi quasi come dei conti correnti, tranquilli, "da buon padre di famiglia". Dall'epicentro originario di Wall Street il disastro si è dilatato sprigionando conseguenze sul tenore di vita di intere nazioni. I tassi sui mutui sono rincarati anche in Italia. La recessione americana ha bloccato la crescita europea, colpisce le prospettive di chi cerca lavoro. I fondi pensione, ormai diffusi nel mondo intero compresa l'Italia, sono esposti a perdite pesanti che ridurranno il tenore di vita dei futuri pensionati. Anche i risparmiatori più cauti sono vulnerabili: la "finanza esoterica" ha infilato i suoi titoli-spazzatura ovunque, gli inviti alla calma dei nostri banchieri e dei nostri assicuratori vanno presi con beneficio d'inventario; sono validi solo fino alla prossima sorpresa. Il Welfare semi-privato si morde la coda: i fondi pensione per tamponare le loro perdite hanno speculato al ribasso nel tentativo di recuperare qualcosa nel crollo generale. Così sono diventati parte di quella "orda selvaggia" che ha contribuito al crac: la banca d'affari Morgan Stanley ha dovuto contattare direttamente i gestori delle maggiori casse previdenziali americane, per scongiurarli di cessare le puntate ribassiste contro il suo titolo. La speculazione al ribasso è nel mirino delle autorità di Borsa, a cominciare dall'organo di vigilanza di Wall Street, la Securities and Exchange Commission (Sec). Nell'emergenza la Sec ha varato nuove regole contro la "vendita allo scoperto" (l'operazione in cui un investitore prende in prestito un'azione che non ha per venderla subito, poi ricomprarla in futuro scommettendo che costerà meno, e restituire il prestito guadagnando sulla differenza). Le misure tecniche per scoraggiare la speculazione ribassista sono state invocate dall'American Bankers Association e da diversi politici del Congresso di Washington. Tutti a caccia degli "untori", gli avvoltoi che si avventano su nuove prede da scarnificare tra le grandi banche quotate in Borsa. Ma la speculazione al ribasso in questo contesto è fisiologica e inarrestabile. Dov'erano invece l'associazione dei banchieri, dov'erano i legislatori del Congresso, quando i loro interventi avrebbero potuto colpire le cause primarie di questa crisi? Nel disastro globale di questi giorni ciò che sconcerta è la totale assenza di misure preventive. Questa crisi, nella sua forma acuta e palese è ormai vecchia di 15 mesi: il collasso dei titoli legati ai mutui subprime iniziò a fine giugno del 2007. Inoltre c'è chi l'aveva visto arrivare molto prima, e non si tratta di "profeti" eterodossi e marginali ma di protagonisti centrali del sistema. Warren Buffett, il secondo miliardario più ricco degli Stati Uniti, gestore del colosso finanziario Berkshire di Omaha, nel 2002 dichiarava: "I titoli derivati sono armi di distruzione di massa". Sul sistema di regole e controlli aggiungeva: "Nessuna banca centrale ha il compito di prevenire i crac a cascata nei derivati e nelle assicurazioni". Dunque uno dei finanzieri più influenti del pianeta, regolarmente chiamato a testimoniare al Congresso e al Senato di Washington nelle audizioni sulla politica economica, aveva avvisato i guardiani del mercato. Più esplicito di così non poteva essere. Quelle parole oggi suonano come un terribile atto di accusa per governi, banche centrali, authority di vigilanza. Negli Stati Uniti e in Europa. Nulla è veramente cambiato nell'architettura portante della finanza globale, dal 2002 a oggi. Nessuna riforma radicale è stata varata neppure negli ultimi 15 mesi, quando la crisi era ormai visibilissima e stava dispiegando i suoi effetti letali, dapprima al rallentatore, poi in una sequenza sempre più frenetica di catastrofi. Dare addosso alla speculazione ribassista oggi è una misura patetica, un'autentica presa in giro: è il malato che in un impeto d'ira spezza il termometro che gli sta indicando la sua febbre. Ben altri sono i limiti che andavano decisi. Il mondo dei derivati è rimasto un universo parallelo, un sistema bancario-ombra dove non vigono le stesse regole e gli stessi controlli imposti all'attività creditizia ordinaria. Gli hedge fund continuano a essere una giungla selvaggia. I titoli strutturati, i misteriosi contratti di copertura dal rischio-fallimento che hanno travolto il colosso Aig, tutto questo bubbone è stato lasciato ipertrofizzare. I banchieri centrali si incontravano nei convegni dell'Fmi a Washington, o della Bri a Basilea, e si scambiavano dotte relazioni sulla "necessità" di correggere le falle del sistema. Di quegli studi sono pieni gli archivi delle banche centrali. Compresi i lavori della task force sui rischi sistemici guidata dal nostro Mario Draghi. Ma le conseguenze concrete finora sono state pressoché nulle. Abbiamo una finanza globale ma non abbiamo una vigilanza globale. I gestori di patrimoni immensi hanno continuato a operare in zone grigie di lassismo, irresponsabilità, impunità. I mercati sono interconnessi a livello planetario, ma le regole e i controlli sono un paesaggio frammentario e balcanizzato. Il panico di questi giorni è un terribile fallimento delle autorità di sistema, che paghiamo tutti. Anche nelle colpe vi è una gerarchia e un ordine. Il primo imputato è l'establishment americano, da Wall Street alla classe politica legata a filo doppio agli interessi delle grandi lobby del denaro. L'America vive da anni sotto l'egemonia culturale di uno slogan che fu lanciato da Ronald Reagan, poi ripreso dai Bush padre e figlio, infine riciclato con ardore dal duo McCain-Palin in questa campagna elettorale: "Lo Stato non è la soluzione dei problemi, lo Stato è il problema". E' questa l'ideologia che ha teorizzato i benefici del laissez-faire. E' stata fatta propria anche da Alan Greenspan, al timone della Federal Reserve per ben 17 anni, il massimo teorico della capacità dei mercati di autoregolarsi. Greenspan ha continuato a difendere quell'ideologia fino a poche settimane fa, salvo improvvisamente cambiare tono e definire la crisi attuale come "la più grave da un secolo". Il suo successore e l'Amministrazione Bush ora nazionalizzano a tutto spiano. Questa crisi travolge le ideologie e sposta di colpo il terreno su cui si combatte la battaglia presidenziale americana. Ma il 4 novembre è lontano; il gennaio 2009 in cui il nuovo presidente Usa assumerà i poteri è lontanissimo. Di qui ad allora il bilancio dei danni potrà essersi aggravato. L'Europa e il resto del mondo non possono permettersi di aspettare. (19 settembre 2008) da repubblica.it Titolo: FEDERICO RAMPINI. Inserito da: Admin - Ottobre 09, 2008, 10:32:46 am ECONOMIA IL COMMENTO
Alla guerra con armi vecchie di FEDERICO RAMPINI "LA più violenta crisi finanziaria dagli anni Trenta" la definisce il Fondo monetario internazionale. Il paragone evoca il rischio che i danni finali possano aggravarsi molto, prima di vedere una vera schiarita. Se guardiamo all'indice più significativo della Borsa americana (S&P 500), dal 7 settembre 1929 all'8 luglio 1932 la sua caduta fu dell'86%. Attualmente lo stesso indice ha perso "solo" il 36% rispetto ai massimi dell'anno scorso. Se si prende alla lettera il parallelo tracciato dal Fondo monetario, la distruzione di risparmio rischia di essere appena iniziata. E che dire di beni ancora più essenziali che sentiamo minacciati, a cominciare dai posti di lavoro? I paragoni storici vanno maneggiati con cautela. Nella Grande Depressione degli anni Trenta il tasso di disoccupazione in America raggiunse il 25% della popolazione attiva. Oggi nonostante le ondate di licenziamenti siamo ancora sotto il 7% di disoccupazione americana. La differenza storica fondamentale sta nel salto immenso compiuto dalla presenza dello Stato nell'economia: era minima nel 1929, oggi è pervasiva. Neppure la cosiddetta "rivoluzione reaganiana e thatcheriana" degli anni Novanta negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, con le privatizzazioni e la deregulation, ha ridotto significativamente la quota del Pil che fa capo al settore pubblico. Lo Stato non licenzia in una recessione. Non smette di gestire scuole e ospedali. E' questo il potente "stabilizzatore" che fu voluto proprio per evitare che si ripetesse una Grande Depressione dai costi sociali spaventosi. L'allarme resta, tuttavia. Di questa crisi ignoriamo ancora la durata e i costi finali. Le banche centrali hanno sfoderato ieri un "intervento senza precedenti": così lo ha definito la Federal Reserve. Il taglio concertato dei tassi d'interesse su scala globale è stato operato simultaneamente dalla Fed e dalla Bce insieme alle consorelle inglese, svizzera, canadese, svedese, perfino dalle banche centrali della Cina e degli Emirati arabi uniti. Ma per i mercati il gesto "senza precedenti" è tutt'altro che risolutivo. Li assale il dubbio che le banche centrali usino strumenti antiquati, che siano in ritardo di una crisi, che stiano combattendo la guerra precedente. A lungo le classi dirigenti hanno sottovalutato questa tempesta. Ad ascoltare le imbarazzate autodifese di tanti banchieri, si direbbe che il dramma sia scoppiato in un baleno, come una calamità naturale, e in una concatenazione così veloce che nessuno poteva prevederla. In realtà i segnali precisi di un grave dissesto finanziario originato dai mutui americani (e da altri eccessi di indebitamento) risalgono alla fine del mese di giugno 2007. Nell'agosto 2007 ci furono già pesanti turbative nel mercato del credito in tutto il mondo. Al Forum di Davos a gennaio non si parlava d'altro che della tempesta globale. Da quelle prime avvisaglie fino a oggi sono già state scritte intere biblioteche sulle cause di questo disastro, da autorevoli economisti come Robert Shiller (lo stesso che aveva già denunciato negli anni Novanta la bolla speculativa della New Economy e previsto il successivo crollo del Nasdaq). L'opinione pubblica ha il diritto di chiedere dei conti su cosa è stato fatto durante questo lungo periodo costellato di "preavvisi di uragano": quali misure furono prese dai top manager delle banche, dalle autorità di vigilanza, dai governi. E' sconcertante che spuntino nell'affanno dei piani di emergenza estemporanei, per fronteggiare una crisi che si sviluppa alla luce del sole da ben 16 mesi. I costi potevano essere inferiori se i banchieri avessero detto la verità prima, anziché sperare di farla franca e augurarsi di lasciare l'ultimo cerino acceso in mano a qualche concorrente. Quel cerino ha causato un incendio che era largamente annunciato. Ma dall'America all'Europa i massimi esponenti dell'establishment sembrano i conigli abbagliati all'improvviso dai fari dell'auto su una strada di notte. Per essere stata a lungo esorcizzata, la recessione sarà più estesa e più pesante, anche nelle conseguenze sociali. L'epicentro cruciale del disastro non sono le Borse, e il problema maggiore non è certamente il costo del denaro. E' la crisi di fiducia generalizzata che paralizza il credito. Di questa crisi sono protagoniste le banche per prime, affondate dalla dimensione misteriosa delle loro esposizioni. Una veduta del baratro su cui si affaccia il settore bancario si è avuta nei giorni scorsi, quando in Germania certi esercizi commerciali hanno cominciato a rifiutare i pagamenti con carte di credito emesse da istituti inglesi. Arrivati sull'orlo di un simile abisso di paura, la nazionalizzazione delle banche inglesi era una scelta obbligata. I tagli dei tassi iniziati ieri sono solo il primo, timido passo nel lavoro di lunga lena che impegnerà le banche centrali. Il loro compito assomiglia alla rieducazione di un paziente colpito da ictus: possono essere necessari mesi, forse anni, per ripristinare la normalità in alcune funzioni. E' una funzione vitale per l'economia reale il recupero di una base di fiducia e riattivare la circolazione del credito. Se a qualcosa serve il taglio dei tassi, è a rendere meno cara la ricapitalizzazione delle banche. Ma sarà un'operazione onerosa, che può richiedere ulteriori sforzi da parte dei contribuenti. Negli Stati Uniti, se si sommano i salvataggi pubblici già effettuati, le iniezioni di liquidità da parte della Fed, e il nuovo fondo del Tesoro per rilevare i titoli - spazzatura delle banche, si arriva già oggi ben oltre i 1.500 miliardi di dollari: è più della metà dell'intero bilancio pubblico americano (incluse la difesa e l'istruzione) ad essere già andato in fumo, in un falò che sarà ricordato con sgomento per diverse generazioni. (9 ottobre 2008) da repubblica.it Titolo: FEDERICO RAMPINI. Inserito da: Admin - Ottobre 12, 2008, 05:15:08 pm ECONOMIA L'ANALISI.
Nel piano Ue non ci saranno stanziamenti anti-crisi ma una serie di misure per ridare solidità al sistema bancario L'Eurogruppo segue Gordon Brown la ricetta Paulson non è più l'esempio Sarà aumentata la vigilanza per poter avere dei "guardiani" dei mercati in grado di controllare i colossi del credito di FEDERICO RAMPINI L'EUROPA si aggrappa a uno spiraglio di speranza: è un piano inglese per una potente offensiva degli Stati che aggredisca tutti i nodi del collasso finanziario. Il vertice G7 di Washington non è bastato per lanciare un'azione unificata contro la débacle del sistema finanziario mondiale. Ci riprovano oggi a Parigi i ministri economici europei in un vertice pomeridiano animato da un'urgenza febbrile. Hanno poche ore di tempo prima della riapertura delle Borse, per scongiurare un altro lunedì nero. Il piano di Londra è la base per le decisioni che potrebbero essere approvate stasera. Al primo punto c'è l'estensione della tutela pubblica anti-crac non più soltanto ai conti correnti dei risparmiatori ma anche a tutta l'attività di prestito tra banche. Gli Stati garantirebbero dall'insolvenza le emissioni di obbligazioni bancarie e altre operazioni a termine, quella linfa vitale che scorre nel settore del credito in tempi normali e che ora si è inaridita: il mercato interbancario. Al secondo posto c'è la ricapitalizzazione delle banche stesse, con massicce iniezioni di fondi statali. E' un'imponente nazionalizzazione o semi-nazionalizzazione, sia pure provvisoria nelle intenzioni; in attesa di una schiarita che consenta di rivendere in futuro quelle quote pubbliche ad azionisti privati. Al terzo posto viene una revisione delle norme contabili. Con questa si vuole arrestare la spirale della sfiducia provocata dal fatto che certi "titoli tossici" in questo momento non hanno più mercato. Nessuno ha idea di cosa possano valere e nell'abisso del pessimismo si tende a valutarli zero. Di conseguenza affondano i bilanci delle banche e di certe assicurazioni. Infine si dovrebbe creare una cellula europea per la vigilanza bancaria. In modo che gli Stati dell'Unione abbiano finalmente dei guardiani dei mercati di dimensioni comparabili ai colossi bancari sovranazionali, formatisi a colpi di acquisizioni straniere. Da questa bozza di progetto resterebbe fuori invece l'idea del fondo "alla Paulson" sostenuta dall'Italia - e inizialmente anche dai francesi - ma avversata dalla Germania. Contro la proposta di replicare in Europa quel fondo americano (i 700 miliardi di dollari per riacquistare dalle banche montagne di "titoli tossici" legati ai mutui subprime) all'inizio sembrava esserci solo una forma di egoismo tedesco: il timore della Germania di doversi sobbarcare l'onere maggiore, mentre il fondo sarebbe servito a salvare anche le banche altrui. C'erano anche dubbi sulla gestione, visto che l'Europa non ha un ministero del Tesoro federale, e pochi vogliono affidare alla Commissione di Bruxelles o alla Bce poteri così importanti. Ma un colpo di scena ha creato un ostacolo nuovo sulla strada di quel fondo: il piano Paulson è stato abbandonato da Paulson. In una débacle personale che distrugge la sua credibilità già scarsa, il ministro del Tesoro Usa ha dovuto stravolgere il suo stesso progetto, già bocciato dai mercati. Dopo averlo imposto al Congresso con un ricatto - come l'ultima speranza contro un crac generalizzato dell'economia americana - tra venerdì sera e sabato al G-7 Paulson ha fatto un voltafaccia clamoroso. Si è reso conto che l'operazione di acquisto dei titoli tossici richiederà troppo tempo e sarà tecnicamente complessa. Nell'immediato il fondo da 700 miliardi verrà usato per ricapitalizzare le banche, con nazionalizzazioni parziali o totali come quelle che hanno salvato dalla bancarotta Fannie Mae, Freddie Mac e il gigante assicurativo Aig. Anche in America lo Stato acquisterà nuove quote nel controllo azionario delle banche. Washington si adegua al modello inglese? In realtà Paulson "riscopre" una clausola del suo piano che gli fu imposta dal Congresso a maggioranza democratica: furono i parlamentari ad aggiungere un emendamento che permette di usare i 700 miliardi per acquisti di azioni nelle banche in crisi. La ricetta inglese che raccoglie forti consensi, è però densa di incognite. Parlare di un'azione comune dell'Europa è ancora prematuro. La filosofia dominante resta quella che ciascun paese applicherà il piano al proprio contesto tenendo conto delle differenze nazionali. L'autonomia dei singoli governi può tradursi in differenze cruciali, gravide di effetti sui mercati dei capitali. Quanto ampio e costoso sarà l'ombrello di garanzia statale sui prestiti tra banche e sulle obbligazioni? La Gran Bretagna ha stanziato 250 miliardi di sterline, in Germania circolano stime di 400 miliardi di euro e si parla di estendere la protezione ai fondi comuni monetari. Altri paesi meno generosi potrebbero essere destabilizzati da fughe di capitali verso le nazioni con le banche più protette. Si rischiano nuovi episodi di concorrenza tra Stati come quando l'Irlanda varò per prima l'assicurazione illimitata sui depositi, attirando folle di risparmiatori inglesi. Sarà necessaria una vera armonia nell'applicazione del piano per impedire tensioni pericolose. Anche la ricapitalizzazione delle banche si presta ad abusi. Vanno aiutate tutte? Solo le più grandi? O quelle meglio gestite? Se lo Stato elargisce aumenti di capitali a occhi chiusi avremo salvataggi indiscriminati. La crisi di mercato non svolgerà l'unica funzione positiva che ha: operare una selezione tra banche più solide e banche meno sane. La revisione delle regole contabili rischia di essere un altro regalo ai banchieri, che ne approfitteranno per occultare lo stato reale dei loro bilanci. "Essere trasparenti paga" ha detto ieri il governatore Draghi a Washington, ma i nuovi criteri di contabilità possono spingere nella direzione opposta. La nuova cellula di vigilanza europea sarebbe altrettanto impotente delle authority attuali, se non viene decisa una grande riforma delle regole del settore bancario, che colpisca anche la "finanza ombra" dei derivati. E' importante che l'emergenza non spinga a salvataggi indiscriminati, che oltre ai costi enormi sui contribuenti alimenterebbero future bolle speculative, giustificate dalla certezza che i banchieri la fanno sempre franca. Infine cresce la possibilità che i salvataggi statali vengano richiesti ben oltre il settore bancario. Le nuove convulsioni di crisi nell'industria automobilistica americana, per esempio, ricordano di colpo ai governi che esiste un'economia reale anch'essa in sofferenza, e quest'ultima potrebbe ben presto presentare un conto pesante in termini di occupazione. La focalizzazione sui problemi del credito allora apparirà troppo limitata. Dal piano europeo ci si aspettano risposte anche sulla strategia anti-recessione. (12 ottobre 2008) da repubblica.it Titolo: FEDERICO RAMPINI. Europa ritrova credibilità per lanciare la sua Bretton Woods Inserito da: Admin - Ottobre 14, 2008, 08:25:55 am ECONOMIA L'ANALISI /
L'unità ha fatto la differenza: per la prima volta i mercati del Vecchio continente hanno trainato quelli Usa L'Europa ritrova la credibilità per lanciare la sua Bretton Woods di FEDERICO RAMPINI L'EUROPA unita ha fatto la differenza. Il suo piano di salvataggio ha superato il primo esame dei mercati. E' prematuro cantare vittoria contro l'epidemia virale della malafinanza. La volatilità isterica delle Borse non è un indicatore su cui costruire grandi teorie, e neppure previsioni di medio termine. I rialzi euforici di ieri del resto non cancellano le perdite accumulate nelle settimane precedenti. L'incubo non si è dissolto in una seduta: non si può escludere che questo fausto lunedì 13 sia stato un rimbalzo tecnico, l'afflusso di investitori "mordi-e-fuggi". Ma la giornata di ieri è stata comunque a suo modo storica. Per la prima volta non è Wall Street ad avere condizionato le piazze finanziarie del nostro continente. E' successo invece l'esatto contrario. Gli indici Dow Jones, Nasdaq e Standard&Poor hanno ricevuto l'impulso fondamentale dalle decisioni del summit domenicale di Parigi e dall'impetuoso rialzo mattutino di tutte le Borse europee. Dopo settimane di angoscia, in cui dai palazzi del potere di Washington non usciva una cura che convincesse i mercati, quella cura è stata partorita in un vertice dell'Eurozona, "ispirato" a sua volta dalla ricetta del premier britannico Gordon Brown. E' uno schiaffo all'Amministrazione Bush e al suo segretario al Tesoro Henry Paulson, che hanno estorto al Congresso 700 miliardi di dollari senza riuscire a invertire l'umore catastrofico che prevaleva sui mercati fino a venerdì scorso. La terapia europea non è radicalmente nuova né troppo diversa dalle varie "toppe" usate da Washington: gli americani per primi hanno nazionalizzato diversi colossi finanziari (Fannie Mae, Freddie Mac, Aig); anche la Federal Reserve ha inondato le banche di liquidità; anche i depositi dei risparmiatori Usa hanno ricevuto assicurazioni addizionali. L'aggiunta decisiva, che sembra avere fatto la differenza, è l'ombrello "nucleare" che gli Stati dell'Eurozona hanno steso a protezione di tutto il mercato interbancario, garantendo contro i rischi d'insolvenza anche le operazioni di finanziamento tra gli istituti di credito, il vitale mercato interbancario che era paralizzato. Inoltre i mercati sono stati favorevolmente colpiti dall'unità d'intenti, dalla strategia comune, dal fatto che improvvisamente l'Europa ha reagito compatta di fronte all'emergenza. La vittoria di ieri - forse temporanea - contro lo tsunami finanziario è stata pagata carissima. Tirando le prime somme dei numerosi piani nazionali che hanno applicato le direttive del vertice di Parigi, si arriva a un costo che in dollari raggiunge i 2.400 miliardi di dollari. E' più del triplo di quanto hanno stanziato gli Stati Uniti, che pure sono l'epicentro originario di questa crisi. Se i mercati sono stati impressionati dal sussulto di decisionismo europeo, i cittadini contribuenti dell'Unione saranno altrettanto colpiti quando comincerà ad arrivare il conto in termini di pressione fiscale. Anche perché il poderoso aumento dei deficit pubblici provocato dai salvataggi bancari si sovrappone a una congiuntura economica disastrosa, una recessione che a sua volta deprime le entrate fiscali degli Stati. E dopo avere dissanguato le casse pubbliche per rimediare agli errori dei banchieri, bisognerà trovare risorse per sostenere la crescita, alleviare le sofferenze di settori industriali in crisi, fronteggiare l'aumento dei disoccupati. Il tutto in un continente europeo già afflitto dall'invecchiamento demografico e da squilibri finanziari strutturali nei sistemi previdenziali. Una giornata di tripudio nelle Borse non deve fare abbassare la guardia neanche sul fronte della crisi bancaria. I suoi costi possono ancora lievitare. Gli stanziamenti decisi ieri nelle capitali dell'Unione sono una stima di quel che servirà, ma il vero onere lo conosceremo solo alla fine. Dopo lo scoppio della bolla speculativa di Tokyo nel 1989, la crisi bancaria degli anni Novanta costò al Giappone il 24% del suo Pil. Le grandi crisi finanziarie del passato negli Stati Uniti in media costrinsero a interventi pubblici dell'ordine del 16% del Pil. Gli interventi straordinari annunciati ieri da Berlino e Londra, Parigi e Roma, rischiano di essere solo un acconto preliminare. Senza prematuri trionfalismi, l'Europa ha comunque l'opportunità di usare questo momento di credibilità per imporre agli Stati Uniti profonde riforme di sistema. E' questa la fase per avviare la Bretton Woods II di cui si è parlato, spesso a sproposito, nei giorni scorsi. I suoi compiti sono chiari. Al primissimo posto c'è la regolamentazione del mostruoso mercato dei titoli derivati: 55.000 miliardi di dollari, quattro volte il Pil degli Stati Uniti. Le lobby dei banchieri hanno sempre neutralizzato ogni tentativo di disciplinare la "finanza ombra". In un momento in cui la credibilità dei banchieri è precipitata agli inferi, e le loro colpe saranno pagate dai contribuenti per diverse generazioni, è urgente cambiare le regole del gioco. L'Unione europea deve anche riportare al centro dell'attenzione - coinvolgendo le superpotenze Cina e India - lo squilibrio macroeconomico fondamentale che è all'origine di questa crisi: l'eccesso di debiti dell'America, favorito da politiche monetarie lassiste, e politiche fiscali irresponsabili. L'accumulo di disavanzi commerciali col resto del mondo da parte degli Stati Uniti è l'altra faccia di quei debiti delle famiglie americane che rappresentano ormai il 140% del Pil Usa. Ci sono altre lezioni che ogni paese può cominciare a trarre da questa crisi. La deflazione che ha ridimensionato pesantemente i valori di tanti beni capitali, dalle case alle azioni, ha degli effetti sui modelli di sviluppo. Finita l'èra della finanza creativa, finito il boom dei titoli esoterici, le banche sono costrette a ridurre il loro ruolo. Si stima che nell'ultimo decennio in America dietro ogni dollaro di aumento del Pil - l'aumento di reddito dell'economia reale - c'erano cinque dollari di crediti. Una montagna di attività finanziarie sovrastava la produzione di cose, di beni e servizi reali. Il Pil nazionale era solo una frazione, rispetto alla bolla dei debiti che c'era dietro. Quell'epoca è finita con i crac bancari del 2008. "Bucata" la bolla, l'economia globale è in fase di atterraggio: bruscamente ritrova l'impatto con il suolo. E' realistico prevedere che per una lunga fase il baricentro delle attività economiche tornerà a spostarsi in favore della produzione di cose, di beni reali, di servizi utili alle persone. La finanziarizzazione del capitalismo ha toccato il suo limite, e assisteremo a una retromarcia. Un mondo dove la vocazione manifatturiera e il lavoro produttivo vengono rivalutati rispetto alla finanza, è un mondo dove anche le priorità delle politiche economiche nazionali andranno riviste. (14 ottobre 2008) da repubblica.it Titolo: FEDERICO RAMPINI. G20, missione impossibile per i Grandi della Terra Inserito da: Admin - Novembre 10, 2008, 10:15:13 am ECONOMIA
Il governo mette in campo il 20% del Pil: in 2 anni tagli alle tasse e più investimenti La mossa punta a prevenire un'esplosione della conflittualità sociale La recessione arriva a Pechino via alla manovra da 600 milioni dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI PECHINO - Contro la recessione globale scende in campo la Cina, con una manovra di rilancio della crescita che supera per le sue dimensioni quelle approvate dagli Stati Uniti e diversi paesi europei. E' segno che il governo di Pechino è in allerta per la minaccia alla stabilità sociale e politica del paese: ieri il Consiglio di Stato ha annunciato una terapia d'urto senza precedenti. La Repubblica Popolare mette in campo 586 miliardi di dollari di risorse statali in un biennio, l'equivalente del 20% del Pil cinese. (Il paragone non va fatto coi 700 miliardi del piano Paulson destinati a ricapitalizzare le banche ma coi 200 miliardi di dollari di sostegno alla crescita varati quest'anno negli Usa). Il clima di emergenza che regna tra i leader cinesi è sottolineato dall'annuncio fatto di domenica, dopo aver richiamato improvvisamente a Pechino per "impegni prioritari" il ministro delle Finanze, che stava partecipando al vertice G20 in Brasile. "Negli ultimi due mesi - si legge nel comunicato diffuso ieri a Pechino - la crisi finanziaria globale ha avuto un'accelerazione giorno dopo giorno. Di fronte a questa minaccia dobbiamo aumentare gli investimenti pubblici in modo energico e rapido". Il Consiglio di Stato, un organo dell'esecutivo, preannuncia una "politica fiscale aggressiva" fatta di maggiore spesa pubblica e sgravi d'imposte, insieme con una "politica monetaria espansiva" (nuovi tagli dei tassi, dopo che la banca centrale ha già ridotto per ben tre volte il costo del denaro da metà settembre). La terapia shock sarà mirata anzitutto a "migliorare le condizioni di vita della popolazione, perché possa aumentare i consumi". L'annuncio cinese rappresenta una svolta che era attesa nel resto del mondo. Il ruolo della Cina è fondamentale per trovare una via d'uscita dalla recessione globale. L'anno scorso, secondo il Fondo monetario internazionale, la Repubblica Popolare ha contribuito per il 27% alla crescita dell'economia mondiale. E' una locomotiva di cui l'Occidente non può fare a meno. Ma fino a qualche mese fa l'atteggiamento dei leader cinesi era improntato alla cautela. Per tutto il primo semestre del 2008 sugli schermi radar dei dirigenti comunisti il pericolo numero uno era l'inflazione: i forti rincari di tutte le materie prime (dal petrolio ai metalli, dalle derrate agricole al legname) avevano messo sotto pressione un'economia di trasformazione manifatturiera come quella cinese, oltre a creare tensioni sociali per l'aumento del costo della vita. Solo dopo l'estate Pechino ha cominciato ad aggiustare il tiro. E da un paio di mesi è sfumata definitivamente l'illusione del "decoupling", l'idea cioè che le potenze emergenti potessero "sganciarsi" da questa recessione e restarne sostanzialmente immuni. Il presidente Hu Jintao e il premier Wen Jiabao inoltre hanno seguito con inquietudine le dichiarazioni di Barack Obama in campagna elettorale: i toni protezionisti, e la richiesta alla Cina di rivalutare la sua moneta. Tra una settimana i leader di Pechino vogliono presentarsi al vertice G14 di Washington con le carte in regola, mostrando che stanno facendo la loro parte per rilanciare lo sviluppo economico nel mondo intero. Un aumento dei consumi delle famiglie cinesi è sempre stato considerato dai governi dell'Occidente come la via maestra perché la Cina eserciti un effetto benefico sulla crescita globale (una parte di quei consumi infatti si traduce in importazioni di prodotti europei, americani, giapponesi). La maximanovra varata ieri risponde anche a impellenti necessità interne. Anche l'economia cinese sta perdendo colpi vistosamente. La decelerazione della crescita è impressionante. L'anno scorso il Pil aumentò dell'11,7% segnando un record storico. Nel primo semestre di quest'anno il tasso di crescita era già passato al 10%. Nel trimestre scorso (da luglio a settembre) la crescita si è attestata al 9%. Per il 2009 le stime più attendibili prevedono un "magro" +7,5%, il minimo da vent'anni. Una crescita superiore al 7% farebbe sognare ogni altro paese al mondo, ma per la Cina è motivo di allarme. Ogni anno in media 15 milioni di contadini cinesi abbandonano le campagne per cercare lavoro in città. Ad essi vanno aggiunti i giovani che escono dalla scuola e appartengono ancora a generazioni numerose, una "gobba" demografica che ancora non sconta gli effetti della denatalità. In totale se la crescita cinese non riesce a creare almeno venti milioni di nuovi posti di lavoro all'anno, ci sono tutte le condizioni per un'esplosione di conflittualità sociale. E' quello che in effetti si sta già verificando in alcune zone del paese. Il Guangdong, la regione meridionale che ha la più alta densità di industrie, è da mesi l'epicentro di tensioni. Migliaia di fabbriche hanno chiuso per fallimento - soprattutto nel settore tessile-abbigliamento e nella produzione di giocattoli - e i licenziamenti di massa hanno scatenato proteste diffuse. Ancora pochi giorni fa la ricca metropoli industriale di Shenzhen è stata il teatro di scene di guerriglia urbana, migliaia di manifestanti hanno affrontato la polizia. Il detonatore di quest'ultima rivolta - almeno secondo le ricostruzioni dei mass media ufficiali - sembra essere stato un banale diverbio dopo un incidente stradale, ma la sensazione è che le difficoltà economiche stiano trasformando quell'area in una polveriera. Ora con la maximanovra di politica economica il governo spera di aggiungere due punti alla crescita del Pil dell'anno prossimo. La terapia d'urto include nuovi investimenti pubblici nell'edilizia popolare, l'accelerazione della costruzione di ferrovie e aeroporti; investimenti nelle energie rinnovabili; spese sociali a favore delle fasce più indigenti; prestiti alle piccole e medie imprese; detassazione sugli acquisti di macchinari industriali. E' una lunga lista di provvedimenti che hanno un denominatore comune: fare affluire il più rapidamente possibile nuovo potere d'acquisto alla popolazione, prima che sia troppo tardi. Il bilancio pubblico cinese è abbastanza solido da poter reggere un boom di nuove spese. Il dubbio semmai riguarda il peso della corruzione, che può limitare la parte degli aiuti che finirà veramente a beneficio della popolazione. (10 novembre 2008) da repubblica.it Titolo: FEDERICO RAMPINI. G20, missione impossibile per i Grandi della Terra Inserito da: Admin - Novembre 15, 2008, 11:02:00 pm Oggi a Washington la "Bretton Woods 2", ma senza Obama si rischia il flop
Anche la Russia nella squadra europea guidata da Sarkozy G20, missione impossibile per i Grandi della Terra di FEDERICO RAMPINI Una Bretton Woods 2 per ridisegnare le regole della finanza globale, i poteri di intervento delle autorità pubbliche sui mercati. Più un Piano Marshall 2, un potente rilancio degli investimenti pubblici concertato a livello mondiale per sconfiggere la recessione. Sono le aspettative irrealistiche che alcuni governi europei hanno alimentato sull'agenda del vertice G-20 che si apre oggi a Washington. Un summit al quale gli europei - guidati da Nicolas Sarkozy - si presentano con un sembiante di unità che include perfino la Russia, cooptata in un fronte unito dopo che il crollo del prezzo del petrolio ha turbato le ambizioni neoimperiali di Mosca. Ma a fare gli onori di casa a Washington c'è ancora George Bush, deciso a difendere la sua eredità storica e a respingere ogni processo contro il capitalismo americano. Il presidente uscente - in carica fino al 20 gennaio - ha accolto i suoi ospiti con una difesa dei principi del libero mercato. Ha fatto capire che ostacolerà ogni tentativo della vecchia Europa di imporre forme di "dirigismo" che soffochino i mercati finanziari. In questo momento in realtà è l'aspetto "Piano Marshall" ad avere il sopravvento. Dopo che l'America, l'Unione europea e il Giappone sono sprofondati nella recessione, l'urgenza di un'azione coordinata per rilanciare la crescita dell'economia reale supera perfino il bisogno di terapie contro la malafinanza. Ma il Piano Marshall - con cui fu finanziata la ricostruzione europea dopo la seconda guerra mondiale - ebbe un pagatore unico, l'America. Oggi nessun paese ha i mezzi per fare da locomotiva unica della ripresa. Molti, anzi, esitano a impegnarsi con manovre di bilancio troppo onerose per i conti pubblici: o perché sono ancora appesantiti dai debiti del passato, o per una logica mercantilista (chi si muove per primo con un forte rilancio della domanda interna rischia di vedere aumentare le importazioni, e di regalare ai propri vicini i benefici della ripresa). Così sul fronte delle strategie di investimenti statali per promuovere lo sviluppo, a Washington chi vanterà la mossa più ardita paradossalmente è la Cina: nessun altro paese può eguagliare la sua manovra di 586 miliardi di dollari di spese pubbliche (in un biennio), pari a circa il 16% del Pil della Repubblica Popolare. Eppure Pechino, anche se è preoccupata per il netto rallentamento della sua crescita, ha ancora avuto un aumento del Pil del 9% nel trimestre scorso. Gli americani hanno alle spalle un flop: quest'estate Washington aveva varato 150 miliardi di aiuti diretti alle famiglie (assegni del Tesoro recapitati a domicilio), ma il clima di paura ha indotto i consumatori americani a mettere quei soldi da parte anziché spenderli. Barack Obama vuole riprovarci, con un'iniezione di potere d'acquisto di dimensioni analoghe possibilmente entro Natale. Ma non è detto che il Congresso uscente l'approvi. E al G-20 di oggi Obama manda solo due osservatori, per evitare di essere coinvolto anzitempo nelle responsabilità di un eventuale fallimento. Tra i paesi che brillano per timidezza c'è la Germania: colpita duramente dalla recessione, ancora non ha varato manovre significative per rilanciare i consumi e la domanda interna. E' un attendismo che la dice lunga sulla presunta compattezza del fronte europeo. Alla fine il G-20 spaccerà per "azione concertata" contro la recessione un elenco di provvedimenti decisi dai singoli governi, secondo criteri e priorità nazionali. Sul fronte della Bretton Woods 2 il quadro non è migliore. I leader mondiali hanno già pronto l'alibi: per arrivare alla prima Bretton Woods (nel 1944) ci vollero due anni di preparativi e poi tre settimane di serrate trattative sui dettagli, malgrado la leadership indiscussa dell'America di Franklin Roosevelt e l'illuminata ispirazione teorica di John Maynard Keynes. Non s'improvvisa in un week-end la grande riforma della governance globale che allora creò il Fondo monetario internazionale, la Banca mondiale e il Gatt (antenato del Wto). In realtà già da anni i nuovi progetti di riforma sono sul tappeto, e ogni dettaglio tecnico è stato esaminato ai massimi livelli. Per esempio nella task force dei banchieri centrali presieduta dal nostro Mario Draghi. Ma sulle ricette ci sono profondi dissensi di principio, fossati ideologici che neppure la gravità di questa crisi ha fatto superare. L'idea di creare una Organizzazione mondiale della finanza - con poteri analoghi a quelli che ha il Wto per il commercio - continua a essere osteggiata da lobby che estendono i loro tentacoli da Wall Street ai paradisi fiscali off-shore. Portare sotto un controllo stringente delle banche centrali gli hedge fund; costringere le banche a inserire nei loro bilanci anche gli strumenti derivati: queste soluzioni si scontrano con resistenze fortissime soprattutto in America. Obama darà forse un segno di cambiamento se sceglierà un segretario al Tesoro che non abbia legami con Wall Street. Per il momento il summit creerà gruppi di studio, per prendere tempo senza decidere nulla di concreto. L'unica novità di oggi è che il G-20 prende di fatto il posto del G-8. E' un riconoscimento dell'importanza delle potenze emergenti. Ma la Cina, l'India o il Brasile non hanno ancora il know how finanziario per essere gli ispiratori di modelli nuovi di regolazione. E sospettano che li stiamo cooptando nella governance globale soprattutto per esigere da loro contributi generosi. (15 novembre 2008) da repubblica.it Titolo: Federico Rampini. Giappone, la crisi si aggrava Inserito da: Admin - Dicembre 09, 2008, 02:58:20 pm Rubriche » La piazza asiatica
Giappone, la crisi si aggrava Fallite 31 società: è record Federico Rampini Si aggrava la recessione giapponese. A Tokyo la de-crescita del Pil nel terzo trimestre di quest'anno è stata rivista al ribasso: il dato aggiornato rivela un arretramento dello 0,5% dell'economia nipponica da luglio a settembre, contro un dato iniziale che era stato misurato a meno 0,1%. Il declino del terzo trimestre, proiettato su base annua, fa prevedere adesso una contrazione per l'intero 2008 pari a meno 1,8% del Pil. A confermare la debolezza del Sol Levante, il numero di società quotate alla Borsa di Tokyo che sono fallite dall'inizio dell'anno è salito a quota 31, un record storico dalla fine della seconda guerra mondiale. Il pessimo stato dell'economia nipponica può sorprendere se si considera che il sistema bancario sembra quasi immune dalla contagione dei titoli "tossici" che perseguita le banche occidentali. Ma il tallone d'Achille del Giappone è un altro: malgrado il suo decollo economico abbia preceduto di trent'anni quello cinese, il modello di sviluppo non è mai veramente cambiato e l'economia giapponese resta eccessivamente dipendente dalle esportazioni. Sono state le sofferenze dei giganti dell'export, da Toyota a Sony, a trainare il Giappone nel vortice della recessione euro-americana. Come la Cina, anche l'India continua a rafforzare la manovra di sostegno della crescita. L'ultimo annuncio è un pacchetto di provvedimenti fiscali e di spesa pubblica pari a 4 miliardi di dollari. Sale così a 60 miliardi di dollari il totale dei provvedimenti annunciati a New Delhi per contrastare gli effetti della recessione globale. Alla politica di bilancio espansiva si aggiunge il continuo calo del costo del denaro: dalla bancarotta Lehman Brothers a oggi la banca centrale indiana ha ridotto del 2,5% i tassi direttivi. E nell'elettorato indiano non c'è stato un "effetto Mumbai" come molti si aspettavano. Nella tornata di elezioni locali che si è tenuta subito dopo l'attacco terroristico, il partito di governo (il Congresso) ha vinto tre delle cinque consultazioni: Delhi, Rajasthan e Mizoram. Il partito d'opposizione (i nazionalisti indù del Bjp) ha dovuto accontentarsi di conservare gli Stati del Madhya Pradesh e del Chhattisgarh in central India. Il Bjp aveva tentato di sfruttare la tragedia di Mumbai accusando il Congresso di avere trascurato la sicurezza. Le elezioni nei cinque Stati erano un test importante in vista del rinnovo del Parlamento federale: il voto nazionale dovrà tenersi al più tardi nel maggio 2009. (9 dicembre 2008) da repubblica.it Titolo: Federico RAMPINI. Il modello cinese cambia vestito Inserito da: Admin - Dicembre 11, 2008, 11:13:28 am Rubriche » La piazza asiatica
Il modello cinese cambia vestito Federico Rampini. La competitività del made in China basata sui bassi salari è un modello in via di graduale superamento. La Cina diventerà entro il 2012 il numero uno mondiale nel numero di nuovi brevetti tecnologici internazionali depositati, raccogliendo i frutti dello sforzo compiuto attraverso gli investimenti nella ricerca e nell'innovazione. E' la conclusione a cui giunge il rapporto pubblicato da Thomson Reuters-World IP Today con il titolo: "Patented in China -- The Present and Future State of Innovation in China". Lo studio indica che il modello di sviluppo cinese sta rapidamente modificando le sue priorità, con uno spostamento di risorse dai settori tradizionali come l'agricoltura e la manifattura ad alta intensità di lavoro, in favore di attività più innovative. Oltre al consistente aumento degli investimenti pubblici nelle università e nella ricerca scientifica e tecnologica, il governo ha introdotto da anni importanti incentivi fiscali e monetari per spingere le imprese a sviluppare innovazioni al loro interno. Stati Uniti, Giappone, Europa, Cina e Corea del Sud rappresentano assieme il 75% di tutti i brevetti internazionali depositati nel mondo. All'interno di questo gruppo tuttavia negli ultimi cinque anni la velocità di crescita dei brevetti cinesi ha nettamente surclassato ogni altra zona. L'ufficio brevetti internazionali cinese è già il terzo del mondo per le invenzioni depositate e la sua ascesa verso il primato assoluto a questo ritmo sarà cosa fatta entro quattro anni. Malgrado i venti di recessione il venture capital non ha smesso di sentire l'attrazione fatale verso la Cina. Almeno fino al terzo trimestre di questo anno gli investimenti di venture capital nella Repubblica Popolare hanno continuato a salire a ritmi robusti: da luglio a settembre sono affluiti nuovi investimenti pari a 964 milioni di dollari, in aumento del 22% sullo stesso trimestre del 2007. Nei primi nove mesi del 2008 il volume complessivo di fondi di venture capital investiti in Cina ha raggiunto 3,29 miliardi di dollari, superando quello che era stato il precedente record storico (ma su 12 mesi) di 2,88 miliardi nel 2001. (11 dicembre 2008) da repubblica.it Titolo: FEDERICO RAMPINI. Inserito da: Admin - Dicembre 15, 2008, 12:20:44 pm Rubriche »
La piazza asiatica L'alleanza Tokyo-Pechino per proteggere la Corea Federico Rampini La paura della recessione ha fatto il miracolo: è nata una santa alleanza anti-crisi fra Cina, Giappone e Corea del Sud, tre paesi che hanno passato l'ultimo mezzo secolo a guardarsi in cagnesco e diffidare l'uno degli altri. Per la prima volta nella storia, nel weekend si è riunito in Giappone un vertice a tre, con i primi ministri nipponico e cinese e il presidente sucoreano. All'ordine del giorno, la concertazione delle manovre pubbliche dei tre paesi per sostenere la crescita. Nessuna decisione concreta è stata presa che possa assomigliare ad un maxipiano asiatico (non c'era da aspettarselo). Tuttavia il summit ha sancito un accordo che invece è di una concretezza immediata: una rete di currency swaps fra le tre banche centrali che crea un dispositivo di mutuo soccorso. E' un passo importante. Dietro si intravvede il timore che questa crisi globale possa mettere in serie difficoltà l'anello più debole della neonata triplice alleanza: la Corea del Sud già da settimane subisce attacchi speculativi contro la sua moneta nazionale, fughe di capitali e svalutazioni. Né Pechino né Tokyo hanno interesse a stare alla finestra se affonda la Corea del Sud, importante partner commerciale e nona potenza industriale del pianeta. Gli accordi di currency swaps sono quindi, anzitutto, un messaggio forte lanciato ai mercati: dietro alla Corea del Sud ora ci sono le due banche centrali più ricche del pianeta. La cinese e la giapponese insieme "pesano" per più di 3.000 miliardi di riserve valutarie. Adesso quelle risorse possono essere mobilitate istantaneamente per interventi di sostegno della moneta sudcoreana. Un altro miracolo politico è stato, se non provocato, almeno accelerato dai timori della crisi. Questo riguarda le relazioni fra la Cina continentale e Taiwan. Da oggi partono alla grande i collegamenti diretti con l'isola: 16 voli passeggeri nonstop al giorno; via libera anche al primo collegamento nonstop per i voli cargo, da Guangzhou (Canton) a Taipei; inaugurazione di rotte dirette per la navigazione mercantile fra 63 porti della Repubblica navale e 11 a Taiwan; lancio del servizio di recapito postale diretto. Prima per ragioni politiche la maggior parte dei collegamenti dovevano transitare da "zone terze", in particolare Hong Kong (che appartiene alla Cina ma ha lo statuto di Regione amministrativa speciale con molte diversità e privilegi). Questo balzo in avanti nel disgelo fra Pechino e Taipei è un'evoluzione politica che matura da mesi, per la precisione da quando gli elettori taiwanesi hanno scelto un presidente meno apertamente indipendentista. Tuttavia la crisi economica ha fatto la sua parte. I dirigenti politici sulle due sponde dello Stretto hanno capito che in una fase come questa tutto ciò che può dare slancio al commercio estero e agli investimenti internazionali è manna dal cielo. (15 dicembre 2008) da repubblica.it Titolo: FEDERICO RAMPINI. Un ricordo di Huntington Inserito da: Admin - Gennaio 02, 2009, 04:15:12 pm 1 Gen 2009 Un ricordo di Huntington FEDERICO RAMPINI Sobbalzò quando provai a definirlo un neoconservatore. Non amava essere messo nel mucchio con Paul Wolfowitz, William Kristol e Richard Perle, cioè quei falchi che ebbero un ruolo cruciale nel teorizzare la guerra in Iraq. Volle che mettessi nero su bianco la sua presa di distanza nell’ultimo colloquio che ebbi con lui per Repubblica, nel 2004. «Io mi definisco un conservatore tout court – mi disse Huntington – . Anzi, scriva pure che sono un conservatore all’ antica. Il termine neocon si riferisce a persone e idee impegnate a promuovere un’ economia liberista e a ridurre l’ intervento dello Stato. In politica estera negli anni Settanta e Ottanta i neocon predicavano il braccio di ferro con l’ Urss. Ispirarono Ronald Reagan e Margaret Thatcher. Dal crollo dell’ Unione sovietica in poi, essi hanno voluto un’ America attiva nel diffondere la democrazia e l’ economia di mercato in tutto il mondo. Un conservatore tradizionale come me vede il mondo in termini di equilibrio di poteri, e non ha simpatie per le potenze imperiali». Più ancora dell’etichetta neocon, ricordo che lo preoccupava il “processo” morale a cui era stato sottoposto dopo l’11 settembre 2001. La sua più celebre intuizione era stata rovesciata contro di lui, diventando quasi un corpo di reato. L’opinione progressista e liberal lo additava come il vero ispiratore dei toni da crociata usati da George Bush nelle prime reazioni dopo l’attacco alle Torri gemelle. Il suo libro del 1996 “Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale” (pubblicato in Italia da Garzanti), fu riletto come una teorizzazione dell’ inevitabilità del conflitto tra Occidente e Islam. Come spesso accade in questi casi, il successo ha un prezzo: la sua opera più famosa venne citata regolarmente, e polemicamente, da chi non l’aveva mai letta. Il suo scontro delle civiltà venne riscoperto come la classica profezia che si auto-avvera: l’ idea che il conflitto tra “noi” e “loro” è ineluttabile, quindi in ultima istanza la visione di Bush di una guerra mondiale tra il bene e il male. Huntington mi offrì una confutazione sdegnata. «Nessuna profezia è capace di avverarsi da sola, tutto dipende da come la gente reagisce alla profezia stessa. Mi spiego: negli anni Cinquanta e Sessanta molti leader politici intelligenti, diversi diplomatici ed esperti militari prevedevano l’ inevitabilità di una guerra atomica tra Stati Uniti e Unione sovietica. La guerra non avvenne perché quella profezia fu presa così sul serio da provocare una serie di rimedi preventivi e contromisure: politiche di controllo degli armamenti, una linea rossa di comunicazione d’ emergenza tra la Casa Bianca e il Cremlino, più alcune regole di comportamento che bene o male furono seguite dalle due superpotenze durante la guerra fredda. Nel mio saggio sullo scontro delle civiltà ho indicato alcuni conflitti che all’epoca apparivano minori, e ho avvertito il pericolo che essi degenerassero fino a diventare grandi conflitti. Concludevo quel libro proprio esortando i governi ad agire per prevenire quello scenario». A conforto di quelle parole ricordo la sua netta dissociazione verso il conflitto in Iraq, una scelta con cui Huntington ruppe i legami con quasi tutta la destra americana (rimase però legato fino all’ultimo con Francis Fukuyama, il suo allievo più fedele anche nella condanna della politica estera di Bush-Cheney). Quella rottura, Huntington ebbe il coraggio di consumarla in tempi non sospetti: nel 2002, quando l’America era ancora compatta nel sostenere il suo presidente, e perfino molti leader democratici (da Hillary Clinton in giù) si apprestavano ad appoggiare l’invasione di Bagdad. «Esattamente un anno prima che cominciasse l’ attacco – mi disse – io mi opposi ai piani che già venivano discussi alla Casa Bianca. Allora prevedevo che avremmo avuto non una ma due guerre. La prima, contro Saddam, l’ avremmo vinta rapidamente. La seconda guerra invece ci avrebbe opposti al popolo iracheno». Altrettanto decisa fu la sua condanna di Guantanamo e Abu Ghraib. «Le fotografie delle torture, in particolare le umiliazioni sessuali, rafforzano nei paesi arabi la convinzione di essere vittime, il senso di rivolta contro un Occidente depravato». Pensatore austero, analista rigoroso delle relazioni internazionali, Huntington non era a suo agio nel ruolo di star. Dopo aver rotto con l’intellighenzia di destra non fece nulla per accattivarsi le simpatie della sinistra. Al contrario, il suo ultimo saggio importante – “Who Are We?” (Chi siamo?) – gli creò intorno un vuoto di consensi. Quel grido di allarme contro il pericolo che un’ immigrazione incontrollata alteri l’ identità e i valori della nazione americana non era accettabile in campo democratico, ma neppure tra la maggioranza dei repubblicani (da Bush a McCain tradizionalmente favorevoli all’immigrazione perché sensibili agli interessi delle imprese). Ma anche quel saggio fu in larga parte frainteso. Che non fosse un banale manifesto xenofobo o isolazionista, lo dimostra ciò che Huntington mi disse sull’immigrazione islamica in Europa. «La bassa crescita demografica europea non vi lascia alternativa, se non quella di cercare di assimilare gli immigrati. L’ esperienza americana del Novecento offre a voi europei delle lezioni importanti per le politiche di integrazione. Gli immigrati che provengono da culture diverse devono essere dispersi nel territorio. Bisogna spezzare le loro comunità, allo scopo di diffonderli e mescolarli con il resto della popolazione, negli stessi quartieri dove abitate voi. In passato per gli immigrati cattolici o ebrei in America la dispersione ebbe un ruolo notevole». Rimaneva convinto però che un blocco dei flussi in entrata potesse diventare necessario in certi periodi storici. «L’ assimilazione degli immigrati che erano giunti qui in America dall’ Europa del Sud o dell’ Est prima della prima guerra mondiale, fu aiutata dal fatto che negli anni Venti ci fu un vero e proprio blocco delle frontiere. I flussi migratori verso gli Stati Uniti furono stoppati per legge durante un periodo consistente. Quindi quegli immigrati che c’ erano già, anziché essere rafforzati dal costante arrivo di altri connazionali, dovettero fondersi nella società americana». da rampini.blogautore.it.repubblica.it Titolo: Federico Rampini. Dubai, scoppia la bolla immobiliare Inserito da: Admin - Gennaio 07, 2009, 04:47:19 pm Braccio di ferro Mosca-Kiev, l'Europa resta senza rifornimenti russi
La Ue oggi sconta la mancata costruzione di un mercato unico del gas Bruxelles presa in ostaggio paga le divisioni interne di FEDERICO RAMPINI LA puntualità è sospetta. Un'ondata di gelo polare attanaglia l'Europa. Subito esplode la lite Mosca-Kiev; la penuria "politica" del gas russo con cui ci riscaldiamo e produciamo corrente elettrica. La crisi coglie l'Italia sorprendentemente impreparata, anello debole di una Unione europea anch'essa colpevole di imprevidenza. Ieri i volumi di fornitura di gas russo al nostro paese sono crollati del 90% rivelando la nostra fragilità. Siamo uno dei paesi più dipendenti da Gazprom. Non consola trovarsi in compagnia di ex-satelliti dell'Unione sovietica come la Slovenia e l'Ungheria. Né rassicurano le parole del ministro Scajola che annuncia "riserve sufficienti per alcune settimane". L'inverno è ancora lungo, altri paesi hanno in stoccaggio scorte strategiche valide per mesi. Visto che questa crisi sembra un remake del braccio di ferro tra Russia e Ucraina nel gennaio 2006, il Financial Times ricorda la massima di Karl Marx secondo cui "la storia si ripete prima sotto forma di tragedia poi di farsa". L'umorismo si addice agli inglesi, che grazie ai giacimenti del Mare del Nord sono autosufficienti in gas naturale. Per noi continentali è più tragico che farsesco scoprire che a tre anni di distanza nulla è cambiato nelle nostre fonti di approvvigionamento. Un quarto di tutto il gas continua a venire dalla Russia. E l'80% di quella fornitura continua a traversare l'inaffidabile Ucraina. Il conflitto tra Mosca e Kiev sull'energia ha origini storiche. Il gasdotto che traversa l'Ucraina fu costruito quando questa faceva ancora parte dell'Unione sovietica e quindi subiva i diktat del Cremlino. Dopo la fine dell'Urss gli ucraini hanno conservato un lascito ereditario e una servitù di passaggio. Il lascito positivo è un prezzo politico del gas, inferiore fino a ieri alle quotazioni del libero mercato. Il privilegio lo pagano ospitando sul loro territorio un'imponente autostrada di tubature, il pipeline strategico che Mosca usa per procurarsi valuta pregiata vendendo il gas all'Europa occidentale. A intermittenza, di solito dopo abbondanti nevicate e temperature sottozero, Gazprom si "ricorda" improvvisamente che gli ucraini pagano il gas troppo poco e gli chiude il rubinetto. I dirigenti di Kiev reagiscono servendosi da soli, cioè rubando dalle megacondutture il gas destinato a noi. E l'Unione europea viene presa in ostaggio. Dietro le ragioni commerciali Mosca ha motivazioni politiche. L'ultimo braccio di ferro sul gas con gli ucraini fu una plateale interferenza politica. Nostalgici dell'impero sovietico, Putin e Medvedev hanno tentato di ostacolare la formazione a Kiev di un governo filo-occidentale. I rubinetti del gas vennero chiusi subito dopo le elezioni ucraine. L'episodio attuale è probabilmente una vendetta a freddo - è il caso di dirlo - per far pagare a Kiev il suo appoggio politico alla Georgia durante il conflitto dell'estate scorsa. Ma se il regime russo è una caricatura grottesca e feroce della democrazia, l'Ucraina non versa in condizioni molto migliori. Ha un presidente e un premier impegnati in una lotta fratricida, il Pil in caduta libera (meno 14%), la bancarotta di Stato rinviata momentaneamente grazie a un prestito d'urgenza (16,4 miliardi di dollari) del Fondo monetario. Perfino la sua banca centrale è lambita da pesanti sospetti di corruzione. I remake dei film non sempre hanno il successo dell'originale. La Russia sta esaurendo rapidamente la sua capacità di usare il ricatto energetico per ricostruirsi una sfera d'influenza imperiale. La rendita gas-petrolifera si assottiglia a vista d'occhio. Noi europei stiamo ancora pagando il gas russo intorno a 500 dollari per mille metri cubi, in virtù di contratti a lunga scadenza firmati quando i costi energetici erano ai massimi storici. Ma quei contratti hanno clausole d'indicizzazione che adattano il prezzo del gas a quello del petrolio, con sei o dodici mesi di ritardo. Le casse del Tesoro di Mosca, come il rublo, stanno soffrendo. Una nuova bancarotta di Stato della Russia (o il crac di pezzi portanti della sua industria di Stato) non è un evento impossibile nel corso del 2009. La recessione globale rivela gli errori strategici compiuti da Putin-Medvedev e dai loro oligarchi. Hanno sprecato gli anni delle vacche grasse, trascurando di investire nella scoperta di nuovi giacimenti e nelle infrastrutture di trasporto dell'energia. Per non parlare della mediocre situazione socio-economica della maggioranza dei loro connazionali, appena sfiorati dal benessere del boom. I russi pagheranno presto una politica arrogante e di corto respiro per la quale vengono a mancargli le risorse finanziarie. E' una magra consolazione per l'Europa occidentale, che ha dimostrato una pericolosa miopìa. Anzitutto per la viltà da noi praticata quando l'Orso russo sembrava irresistibile; donde la sostanziale rinuncia a sostenere la costruzione di una democrazia sana in Ucraina e in altre nazioni dell'ex impero sovietico. Anche nel settore dell'energia abbiamo colpe serie. Come il ritardo nel completare il progetto Nabucco, cioè la rete di gasdotti che attraverso i Balcani e la Turchia devono consentirci un accesso diretto al gas dell'Asia centrale, riducendo la nostra dipendenza da quello russo. E' imperdonabile la mancata costruzione di un vero mercato unico europeo del gas, che doveva fluidificare la circolazione dentro l'Unione e quindi consentire di ovviare rapidamente ai deficit energetici congiunturali di questo o quel paese. Su tutto pesa l'ombra di giganteschi e inconfessabili conflitti d'interessi: negli anni del suo boom Gazprom ha notoriamente "reinvestito" una parte della rendita per garantirsi i favori di importanti leader politici europei. Ora l'Unione si ritrova catapultata nell'improbabile ruolo di mediatore tra Mosca e Kiev, per garantire che il gas torni presto ad affluire in casa nostra. Come per il Medio Oriente anche questa crisi sembra fatta su misura per esaltare le nostre divisioni interne. Come al solito c'è un fronte del sorriso che ama dire sempre di sì a Mosca. E c'è un fronte che vorrebbe affrontare i russi a muso duro, ma non ne ha i mezzi. (7 gennaio 2009) da repubblica.it Titolo: FEDERICO RAMPINI. Il bisturi spuntato Inserito da: Admin - Gennaio 20, 2009, 05:03:02 pm ECONOMIA L'ANALISI
Il fantasma di Londra di FEDERICO RAMPINI Recessione dell'economia reale, frana della finanza pubblica, recrudescenza di dissesti bancari: in questo "triangolo delle Bermude" la crisi si avvita di nuovo a ritmi convulsi. Il deficit italiano è in brusca risalita al 3,8%, il debito viaggia verso il 110% del Pil. Rischia di esplodere ben oltre quel livello, qualora - l'ipotesi è della Commissione europea - anche l'Italia sia "costretta a ricapitalizzare qualche banca in crisi", come sta facendo Londra in preda a una nuova emergenza. Si conferma per il 2009 una brutale decrescita in Italia e nell'Eurozona: meno 2% del Pil. In un biennio la nostra disoccupazione arriverà a minacciare quasi un lavoratore italiano ogni dieci. C'è un nesso implacabile tra i gravissimi costi sociali e la crisi delle banche. La finanza malata, su cui finora si è intervenuti con terapie inefficaci, continua a trascinarci a picco. In Inghilterra crolla la Royal Bank of Scotland ma i tremori si allargano a Lloyds Banking; non sono al sicuro Barclays e Hsbc. L'insieme degli attivi delle banche inglesi vale 4.000 miliardi di sterline, due volte e mezzo il Pil britannico. Basta che il 15% dei titoli custoditi nei bilanci di quelle banche valgano zero, e un terzo del Pil inglese va in fumo. Questa aritmetica spinge il Financial Times fino a ventilare il rischio di bancarotta sovrana per il Regno Unito. Ma anche senza arrivare allo scenario estremo dell'insolvenza statale, il salvataggio delle banche può portare il debito pubblico inglese ai livelli della Grecia. L'arrivo di un membro così illustre nel club dei Pigs (Italia Spagna Grecia Portogallo) non sarebbe una buona notizia per noi. Anzi, si riaffaccia lo spettro del 1992, quando Roma e Londra precipitarono assieme in una drammatica crisi di sfiducia dei mercati, facendo esplodere gli interessi sul nostro debito pubblico. Più si ingrossa la lista degli stati fragili, più i mercati diventano diffidenti e i capitali fuggono verso poche oasi: i buoni del Tesoro americani o tedeschi. Siamo daccapo all'ottobre del 2008, si riparte da zero. Tre mesi fa una catena di insolvenze bancarie spinse sull'orlo del baratro la finanza globale. Ai primi di ottobre l'America annaspava col piano Paulson, 700 miliardi di dollari per resuscitare le banche. Quel progetto di ricomprare i titoli-spazzatura coi fondi del contribuente finì in un vicolo cieco. L'Inghilterra sembrò aver trovato la soluzione: ricapitalizzare direttamente gli istituti di credito, con una nazionalizzazione parziale. Gordon Brown gettò sul piatto 500 miliardi di sterline fra iniezioni dirette di capitale pubblico nelle banche, prestiti straordinari della banca centrale, e altre garanzie di Stato. Molti lo imitarono, compresa l'America. In tre mesi quei fondi sono spariti in un buco nero. Ieri Londra era di nuovo sull'orlo del precipizio. Giovedì un allarme parallelo era già scoppiato negli Stati Uniti, dove i due giganti Bank of America e Citigroup hanno rivelato nuove voragini di perdite. Giovedì il Tesoro di Washington in stato di allerta ha dovuto staccare in pochi minuti un nuovo assegno da 20 miliardi per Bank of America, e accollarsi altri 100 miliardi di future perdite dell'istituto sui titoli-spazzatura. Mentre Obama celebra il suo ingresso alla Casa Bianca la sua task force economica deve già entrare in sala operatoria e intervenire sul malato a cuore aperto. In America e in Europa è ormai chiaro che sono stati compiuti errori imperdonabili, dopo la falsa tregua di ottobre. I massicci aiuti alle banche non sono stati accompagnati da vincoli stringenti per obbligare i banchieri a redistribuire il favore, cioè a riprendere l'erogazione del credito all'economia reale. Inoltre l'eccessiva autonomia lasciata ai banchieri ha prolungato la mancanza di trasparenza sui bilanci. Donde le clamorose sorprese di buchi sempre nuovi e crescenti. Qui sta il punto di congiunzione perverso con le sofferenze dell'economia reale, il crollo della produzione, dei consumi, i licenziamenti di massa. Da un lato la crisi del mondo finanziario pesa sui conti pubblici, fa esplodere i deficit statali, impaurisce i risparmiatori. D'altro lato lo "sciopero dei banchieri" continua a privare il settore produttivo della linfa vitale che è il credito. Ora in America torna d'attualità il piano che prevedeva di svuotare l'ascesso comprando alle banche i loro titoli invendibili sui mercati. Forse saranno parcheggiati in una enorme bad bank di stato, una sorta di deposito di scorie radioattive. Gordon Brown non esclude quella ricetta ma intanto spinge ancora più avanti la nazionalizzazione, che nel caso della Royal Bank of Scotland diventa totale. Resta l'urgenza di fissare obblighi per il settore bancario, che ha tradito la sua ragion d'essere. L'immenso sperpero di denaro pubblico, che pagheremo per generazioni, deve almeno servire a qualcosa. In quanto all'Italia, è finita l'illusione che sia meno esposta perché finora "periferica" nello tsunami bancario. I dati sulla finanza pubblica, l'allarme sul rischio sovrano, ci dicono che la campana suona anche per noi. (20 gennaio 2009) da repubblica.it Titolo: FEDERICO RAMPINI. Il bisturi spuntato Inserito da: Admin - Febbraio 24, 2009, 11:52:12 pm Rubriche » La piazza asiatica
Federico Rampini Tokyo, crollo inarrestabile e il governo entra in campo DI fronte alla frana inarrestabile dell'indice Nikkei, torna ad affacciarsi in Giappone l'ipotesi di un intervento diretto del governo per comprare azioni in Borsa e tentare così di arginare la caduta delle quotazioni, che tra l'altro ha effetti deleteri sulla stabilità delle banche nipponiche. E' il ministro delle Finanze Kaoru Yosano ad aver ventilato questa possibilità evocando "misure statali a sostegno del mercato" che oggi ha toccato i minimi da 27 anni precipitando al livello del 1982. Tenuto conto che gli istituti di credito giapponesi possiedono importanti portafogli azionari, il ministro Yosano ha dichiarato che "la continua caduta delle azioni può avere conseguenze serie, abbiamo iniziato l'esame delle possibili azioni". Diversi esponenti del mondo industriale hanno rivolto appelli al governo perché entri in campo. Un lontano precedente risale al 1965, quando Tokyo istituì un organismo pubblico per acquistare azioni in Borsa. L'ipotesi di investimenti pubblici nell'acquisto di azioni si aggiunge a un altro intervento già in cantiere: la banca centrale del Giappone ha in progetto di comprare fino a 1.000 miliardi di yen (oltre 10 miliardi di dollari Usa) in obbligazioni emesse da imprese nipponiche. Le obbligazioni dovrebbero avere almeno un rating "A". Questo intervento della Banca del Giappone, che equivale a finanziare direttamente le imprese senza passare attraverso i normali istituti di credito, imita analoghe azioni già avviate negli Stati Uniti dalla Federal Reserve. La banca centrale nipponica ha anche in progetto di acquistare fino a 3.000 miliardi di yen di commercial paper, titoli a breve termine emessi dalle aziende industriali per il finanziamento dell'attività corrente. In Cina per la prima volta la banca centrale lancia l'allarme deflazione. L'autorità monetaria di Pechino ha ammonito che "di fronte alla debolezza della domanda le spinte inflazionistiche sono esaurite mentre si rafforzano le pressioni al ribasso dei prezzi". A gennaio l'indice dei prezzi alla produzione in Cina è calato del 3,3%. (24 febbraio 2009) da repubblica.it Titolo: FEDERICO RAMPINI. Il bisturi spuntato Inserito da: Admin - Marzo 01, 2009, 10:35:58 pm ECONOMIA
Il Pil americano al 6,2%: è stato il venerdì nero dell'economia reale Difficile ritrovare nella memoria una giornata così densa di segnali negativi Il bisturi spuntato di FEDERICO RAMPINI È stato il "venerdì nero" dell'economia reale, un malato ben più importante delle banche e delle Borse. È difficile ritrovare nella memoria una giornata così densa di segnali tutti negativi da ogni angolo del pianeta. Il Pil americano è caduto del 6,2% (quasi il doppio rispetto alle stime iniziali), i consumi delle famiglie Usa sono in ritirata del 4,3% insieme alla frana dei prezzi delle case. In Giappone le esportazioni sono falcidiate del 45% e la produzione industriale del 10%. L'India, uno degli ultimi giganti asiatici con il segno più davanti al Pil, vede dimezzarsi la sua crescita. Sul fronte delle aziende: 30 miliardi di dollari di perdite alla General Motors, 16.000 licenziamenti alla Sony. E alle porte di casa nostra i sinistri scricchiolìi di bancarotta sovrana che minacciano i più giovani Stati membri dell'Unione, nell'Europa dell'Est. Volendo trovare ad ogni costo un chiodo a cui aggrapparsi per attenuare l'ansia, si può osservare che la pesante revisione al ribasso del Pil americano ci descrive un evento che ormai è già alle nostre spalle. I dati sul Pil sono uno specchietto retrovisore sul recente passato (l'ultimo trimestre del 2008), non ci insegnano nulla di nuovo sul presente né tantomeno sul futuro. Si può anche ricordare che per ritrovare una caduta del Pil americano così accentuata non occorre evocare la Grande Depressione degli anni Trenta. Nel primo semestre del 1982 l'America ebbe una de-crescita del 6,4% eppure non conserviamo un ricordo tragico di quella recessione. Purtroppo c'è una differenza cruciale rispetto ai primi anni Ottanta (che pure videro la concomitanza di importanti fallimenti bancari, le Savings & Loans). Allora non ci fu quella eccezionale simultaneità nella crisi che oggi contagia tutte le aree del mondo. America, Europa, Giappone, dragoni del Sudest asiatico, Russia, Opec, vanno tutti a fondo contemporaneamente. È la ragione per cui questa viene pronosticata come una recessione durevole. Secondo tutte le istituzioni internazionali sarà la più lunga dal dopoguerra. Poche nazioni finora hanno reagito con provvedimenti all'altezza di questo shock. Solo gli Stati Uniti e la Cina hanno varato manovre di spesa pubblica consistenti in proporzione ai rispettivi Pil. E perfino quelle rischiano di non bastare. L'America, dove si gioca la partita decisiva, sentirà nel tessuto economico-sociale i primi frutti della terapia Obama (787 miliardi di dollari di spesa) solo a partire dalla seconda metà dell'anno. Per allora la recessione avrà già inferto ferite nuove e profonde. Si renderà probabilmente necessaria una seconda cura a base di iniezioni di spesa statale. Uno sforzo immane, se si pensa che già oggi il deficit federale americano viaggia verso il 12% del Pil, ai livelli della seconda guerra mondiale. Obama sente il bisogno di rassicurare i mercati finanziari - dove deve piazzare una marea di nuovi titoli del debito pubblico - e quindi promette una riduzione del deficit in tempi ragionevoli. Impossibile: l'orizzonte di durata di questa crisi gli imporrà una prolungata "overdose" di spesa pubblica per compensare la ritirata dei consumi e degli investimenti privati. La sua azione è complicata dal persistente collasso del credito. Qui il team di Obama continua a peccare di timidezza. Non osa pronunciare la parola "nazionalizzazione" neppure nel giorno in cui lo Stato diventa il principale azionista del colosso Citigroup col 36% del capitale. Una certa ritrosìa è comprensibile: Obama sta già facendo uno strappo al giorno rispetto a trent'anni di pensiero unico neoliberista, in un paese dove il candidato repubblicano che lo accusava di "socialismo" prese comunque il 46% alle presidenziali. Ma la lentezza nell'affondare il bisturi dentro il sistema bancario ha dei prezzi pesanti. Ogni salvataggio parziale (Fannie e Freddie, Aig, Citigroup) ha un conto che continua a crescere all'infinito. I mercati s'interrogano su quale sarà la prossima "nazionalizzazione non-detta": Bank of America? Intanto si avvicina il momento in cui si abbatterà sui conti del sistema creditizio una nuova marea di dissesti, non più i vecchi titoli tossici legati al mercato immobiliare ma i nuovi fallimenti di aziende industriali. La frana dell'economia reale si prenderà a sua volta una crudele rivincita su quelle banche che furono all'origine della crisi. Come Franklin Roosevelt nei celebri "cento giorni" del 1933, Obama è costretto a muoversi su due livelli paralleli: tappare falle in estrema urgenza, e al tempo stesso varare i cantieri delle grandi riforme che affrontino le debolezze strutturali del sistema americano. La fretta moltiplica le occasioni di errori. Roosevelt ne commise molti. Il più grave fu il ripiegamento dell'America su se stessa. Non solo attraverso il protezionismo ma anche nella manipolazione della politica monetaria il New Deal fu pervicacemente introverso e nazionalista. Oggi gli Stati Uniti non possono permettersi una simile deviazione. Sono molto meno autosufficienti che negli anni Trenta, hanno bisogno dei capitali cinesi per il loro debito, del mercato europeo per le loro esportazioni. L'Unione europea non è ancora uscita dal torpore; non offre una sponda reale in questa crisi. I piani di rilancio della domanda nel Vecchio continente sono ancora modesti, frammentari, incoerenti, macchiati di protezionismo. Non c'è stata finora una risposta energica per organizzare il salvataggio dei vicini più deboli, in quell'Europa orientale e balcanica da cui può partire un improvviso effetto-domino, crac finanziari seguiti da agitazioni sociali e instabilità politica. Dobbiamo fare la nostra parte al più presto: perché l'esperimento Obama abbia il successo finale del New Deal senza riprodurne i costi; e per evitare che dalla conclusione di questa lunga crisi emerga un G-2 sino-americano che non avrà mai più bisogno di noi. (28 febbraio 2009) da repubblica.it Titolo: Federico Rampini. Dubai, scoppia la bolla immobiliare Inserito da: Admin - Marzo 03, 2009, 05:22:38 pm Rubriche »
La piazza asiatica Dubai, scoppia la bolla immobiliare Federico Rampini. E' scoppiata la bolla immobiliare di Dubai: il valore delle case crolla, molti cantieri sono stati chiusi a lavori incompiuti per l'insolvenza dei costruttori, e il sistema creditizio locale mostra segni di gravi difficoltà. Nei sette Stati che fanno parte degli Emirati arabi uniti sono stati cancellati 250 miliardi di dollari di progetti edilizi, la maggior parte dei quali erano concentrati a Dubai. Dalla crisi non sono immuni neppure i gruppi edilizi di proprietà statale, come Nakheel e Emaar. E' di fatto congelato anche il completamento del Dubai World Trade Center. Di fronte a queste notizie lascia perplessi l'annuncio - fatto ieri dal governo indonesiano al vertice internazionale della finanza islamica - secondo cui le banche islamiche sarebbero meno vulnerabili in questa crisi. Il governo giapponese ha deciso di attingere alle riserve ufficiali della sua banca centrale (circa 1.000 miliardi di dollari, la seconda riserva più ricca del mondo dopo la Cina) per fornire prestiti a tassi agevolati alle aziende nipponiche che operano sui mercati internazionali. L'inusuale ricorso alle riserve della banca centrale è motivato dall'estrema difficoltà in cui si trovano gli esportatori giapponesi. 500 miliardi di yen saranno messi subito a disposizione delle imprese esportatrici perché possano fare fronte al finanziamento della propria attività quotidiana sui mercati esteri. Intanto la Toyota ha rivelato per la prima volta che chiederà ufficialmente di poter ricevere aiuti governativi da Washington, per la filiale finanziaria (credito all'acquisto rateale) che opera per i suoi stabilimenti situati negli Stati Uniti. Il renminbi (o yuan) cinese ha subìto per il sesto giorno consecutivo un declino nella parità con il dollaro. Oggi ha toccato i 6,8392 renminbi per un dollaro Usa. La valuta della Repubblica Popolare fluttua entro una banda di oscillazione dello 0,5% quotidiano. Dal 2005 ha smesso di essere agganciata al dollaro, e fino a questa recente scivolata si era lentamente rivalutata, del 20% in tre anni rispetto al dollaro. La parità con l'euro oggi è a quota 8,5962. La moneta cinese non sfugge alla generale debolezza delle valute asiatiche che favorisce il dollaro. (3 marzo 2009) Titolo: FEDERICO RAMPINI L'allarme della Cina sui titoli Usa Inserito da: Admin - Marzo 14, 2009, 03:37:58 pm ECONOMIA L'ANALISI
L'allarme della Cina sui titoli Usa dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI PECHINO - "Abbiamo prestato capitali enormi agli Stati Uniti, sinceramente siamo preoccupati". Con questa uscita esplosiva ieri il premier cinese Wen Jiabao ha insinuato il sospetto sulla solvibilità di lungo termine del Tesoro americano e sui rischi connessi all'esplosione del deficit pubblico Usa. I mercati hanno reagito immediatamente, i Treasury Bonds hanno perso quota di fronte all'eventualità di una "sfiducia" da parte del più grande creditore sovrano degli Stati Uniti. Allo stesso tempo però Wen ha rassicurato Washington sul fatto che il governo di Pechino è pronto a varare una seconda manovra di spesa pubblica, "anche immediatamente se necessario", per rilanciare la crescita. Mentre il portavoce della Casa Bianca, Robert Gibbs, si è affrettato a dire: "Gli investimenti negli Stati Uniti sono i più sicuri al mondo". Non vi sono quasi precedenti di un leader straniero che osi mettere in dubbio la credibilità del debito pubblico americano. Bisogna risalire agli attacchi di Charles De Gaulle alla fine degli anni '60 contro l'aggancio dollaro-oro, in piena guerra del Vietnam. Oggi il contesto è profondamente cambiato: la massima parte del debito pubblico Usa collocato all'estero finisce nei forzieri delle banche centrali asiatiche, prima fra tutte quella cinese. Nel corso del 2008 i volumi di Bot americani sottoscritti dalla banca centrale di Pechino sono aumentati del 46%, a quota 700 miliardi di dollari. La stragrande maggioranza delle riserve ufficiali cinesi (2.000 miliardi di dollari) sono piazzate in Treasury Bonds e lo stesso vale per i portafogli degli istituti di credito pubblici e dei fondi sovrani che fanno sempre capo alla Repubblica Popolare. L'Amministrazione Obama sarà costretta a nuove maxi-emissioni di titoli pubblici nel 2009 (fino a 2.000 miliardi di dollari aggiuntivi) per finanziare i salvataggi bancari e le manovre di spesa pubblica. Di qui l'allarme lanciato ieri dal capo del governo cinese nella conferenza stampa che ha chiuso la sessione legislativa del Congresso del Popolo. "Il presidente Obama - he detto Wen - ha varato misure per fronteggiare la crisi, che guardiamo con molte aspettative. Ma l'America deve tutelare la propria credibilità, deve onorare le sue promesse, deve garantire la sicurezza degli investimenti cinesi". La clamorosa uscita di Wen rientra nelle manovre tattiche che preludono al vertice G-20 del 2 aprile a Londra. Di certo il premier cinese non ha voluto preannunciare un abbandono della politica cinese di investimenti nei titoli del Tesoro Usa. Non c'è nessun segnale che la banca centrale di Pechino stia diversificando il suo portafoglio, nel quale l'euro e lo yen e l'oro continuano a occupare uno spazio del tutto marginale. Smettere di finanziare il debito pubblico americano avrebbe per i cinesi una conseguenza catastrofica: il tracollo del dollaro, quindi una rovinosa caduta di competitività del made in China già sofferente per il calo della domanda mondiale. Dal 2005 la moneta cinese si è rivalutata del 26% sul paniere delle principali valute, e Pechino non ha interesse ad accelerare un apprezzamento che danneggia i suoi esportatori. Ma la preoccupazione per l'escalation del debito americano è reale. Da una parte Wen Jiabao deve rispondere a una constituency nazionale - l'ala "populista" del Partito comunista - che vorrebbe destinare a investimenti interni le risorse ingenti accumulate con gli attivi del commercio estero. Soprattutto, i leader cinesi temono che Washington stia costruendo le premesse per un'uscita dalla crisi basata sulla vecchia ricetta "inflazione più svalutazione". E' una strategia che ha illustri precedenti storici: la via maestra per alleggerire il debito è stampar moneta e creare inflazione. Pechino ha osservato con allarme la mossa spregiudicata della Banca centrale svizzera che ha innescato una svalutazione del franco: un piccolo precedente che può segnare l'inizio di una catena di svalutazioni competitive. Uno scenario che naturalmente preoccupa il creditore di ultima istanza, la Cina. In vista del G-20 i leader di Pechino mettono sul tavolo le loro priorità. Sono disposti a creare contro l'Europa un fronte Asia-America (che include il Giappone), favorevole a ulteriori iniezioni di investimenti pubblici anti-recessione. In cambio però vogliono da Washington delle garanzie: niente protezionismi stile Buy American, e no alle svalutazioni competitive. (14 marzo 2009) da repubblica.it Titolo: FEDERICO RAMPINI. Inserito da: Admin - Marzo 23, 2009, 11:15:09 am L'assalto a una caserma dopo la notizia del suicidio di un religioso fermato
Intanto il Sudafrica nega il visto al Dalai Lama. L'ira del Nobel Tutu Il pugno di Pechino sul Tibet monaci in rivolta, cento arrestati dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI PECHINO - Cento monaci buddisti arrestati, un assalto di massa contro una caserma di polizia, migliaia di soldati in stato di massima allerta: in Tibet riesplode la tensione, un anno dopo le rivolte contro l'occupazione cinese che furono schiacciate nel sangue. Nonostante la regione sia in stato di assedio, con un dispiegamento senza precedenti di forze armate, e vietata ad ogni osservatore straniero, ieri sono filtrate notizie di duri scontri. L'ultimo episodio è accaduto al monastero di Ragya, nella provincia del Qinghai: quindi fuori dal confine amministrativo attuale del Tibet. Il Qinghai come il Sichuan hanno "ricevuto" intere enclave tibetane quando il perimetro delle provincie fu ridisegnato per motivi politici, dopo l'invasione cinese del 1949. L'obiettivo era quello di rimpicciolire il Tibet le cui dimensioni originarie si avvicinavano a quelle dell'intera Europa occidentale. Tuttavia le comunità tibetane che vivono nelle provincie limitrofe hanno conservato la stessa ostilità verso il governo cinese, e sono rimaste a maggioranza fedeli al Dalai Lama, il leader politico-spirituale fuggito in esilio nel 1959. L'ultima protesta nel Qinghai segue di pochi giorni il lancio di una bomba contro una caserma di polizia. Attorno al monastero di Ragya la scintilla della rivolta sembra essere stata il suicidio di un monaco 28enne, Tashi Sangpo, gettatosi nelle acque del fiume dopo essere che la polizia lo aveva interrogato e torturato. La sua colpa: aveva esposto la bandiera nazionale tibetana, un vessillo proibito dalla legge cinese perché è simbolo dell'indipendenza. Alla notizia del suicidio del religioso più di duemila persone sono scese in piazza a protestare contro le violenze poliziesche. I manifestanti, inclusi un centinaio di monaci, si sono diretti verso il commissariato di polizia di Ragya e l'hanno preso d'assalto. La controffensiva dei reparti speciali anti-sommossa e delle forze armate non si è fatta attendere, con la nuova retata di manifestanti. I monaci detenuti finiscono nei campi di lavori forzati, dove subiscono sedute di "rieducazione" in cui sono costretti a rinnegare il Dalai Lama e a giurare fedeltà al partito comunista cinese. Malgrado il susseguirsi di episodi di protesta, finora il governo di Pechino sembra essere riuscito a evitare una rivolta generalizzata come quella dell'anno scorso. Il 14 e 15 marzo 2008, approfittando anche dell'avvicinarsi dei Giochi olimpici e quindi della maggiore attenzione dell'opinione pubblica occidentale, la protesta partita da Lhasa era dilagata in tutto il Tibet, apparentemente cogliendo impreparate le autorità centrali. Quest'anno Pechino ha voluto prendere tutte le precauzioni, aumentando il dispiegamento preventivo di militari e polizia. Inoltre l'isolamento del Tibet e il divieto di accesso per gli stranieri ha reso più stringente il controllo cinese sulle informazioni che filtrano da quelle zone. Nei confronti dell'estero, il governo della Repubblica Popolare ha alternato il bastone e la carota: da una parte le aperture al dialogo con i rappresentanti del Dalai Lama (finora rivelatesi inconcludenti), dall'altra i "castighi" somministrati ai governi stranieri colpevoli di solidarietà col Tibet (come la cancellazione del vertice tra Cina e Ue dopo la visita del Dalai Lama all'Eliseo). L'ultimo paese a piegarsi al ricatto di Pechino è il Sudafrica. Ha negato il visto al Dalai Lama, che avrebbe dovuto incontrare Nelson Mandela, come lui premio Nobel per la pace. Sdegnato un altro Nobel, l'arcivescovo Desmond Tutu, che ha accusato il Sudafrica di "soccombere vergognosamente alle pressioni di Pechino". Il paese è mèta di importanti investimenti cinesi nelle materie prime, un legame economico che ha sicuramente pesato nel veto al Dalai Lama. (23 marzo 2009) da repubblica.it Titolo: FEDERICO RAMPINI. Pechino, segnali di ripresa e riparte l'export dei vicini Inserito da: Admin - Marzo 27, 2009, 11:49:31 am Pechino, segnali di ripresa e riparte l'export dei vicini
Federico Rampini A Pechino già si intravvede la luce in fondo al tunnel della crisi. Questo almeno è il messaggio reiterato in questi giorni dai più importanti esponenti della Repubblica Popolare. Il governatore della banca centrale Zhou Xiaochuan (lo stesso che ha fatto notizia all'inizio della settimana con la proposta di una "valuta globale" per sostituire il dollaro) annuncia che vi sono già chiari segnali di una ripresa economica. "Gli indicatori più importanti - sostiene Zhou in un articolo pubblicato oggi sul sito online della banca centrale - concordano nell'annunciare una ripresa della crescita". Per la prima volta in modo così diretto, la tenuta dell'economia cinese viene usata per dimostrare la superiorità del sistema politico autoritario e dirigista. Il banchiere centrale infatti attribuisce esplicitamente la ripresa economica alla "azione decisiva del governo", che mette in contrasto con i ritardi di altre nazioni. "Il nostro governo - scrive Zhou - ha varato misure di politica economica tempestive, energiche ed efficaci, dimostrando così la superiorità di questo sistema quando si tratta di prendre deicisioni politiche di vitale importanza". Qualche elemento di conferma sulla tenuta dell'economia cinese sembra venire anche da un paese vicino: la Corea del Sud ha visto rallentare il tracollo delle sue esportazioni. Dopo la pesantissima caduta del 34% a gennaio, a febbraio la discesa è stata del 18% e a marzo del 13%. Non sono certo cifre positive ma sembrano indicare che il crollo delle esportazioni incontra un "pavimento". Molti esperti individuano questo pavimento nella domanda cinese. Dopo un ultimo trimestre 2008 in cui le imprese cinesi spaventate dalla crisi mondiale hanno drasticamente ridotto i loro acquisti, la necessità di ricostituire le loro scorte di magazzino ora sta rianimando gli investimenti. E i paesi vicini, molto dipendenti dal traino cinese, cominciano a risentirne qualche beneficio. A Pechino intanto si conferma l'anomalia di un sistema bancario che gode di una salute eccezionale, se paragonata al resto del mondo. La Industrial & Commercial Bank of China Ltd., la più grande azienda di credito del paese, ha annunciato che i suoi profitti nel 2008 sono cresciuti del 35,2%. Unico segno della crisi è il rallentamento del tasso di crescita, visto che gli utili dell'istituto nel 2007 erano cresciuti del 65%. ICBC ha anche raggiunto un accordo con la Goldman Sachs per rinviare la cessione della partecipazione detenuta dal gruppo bancario americano nel suo capitale. L'inflazione indiana rallenta allo 0,27%, un dato che offre alla banca centrale di New Delhi la possibilità di ulteriori riduzioni nei tassi d'interesse. Il rallentamento dell'indice dei prezzi è spettacolare, tenuto conto che un anno fa l'India era minacciata da una iperinflazione, e ancora a gennaio il carovita per i consumatori aveva segnato un rialzo del 10%. (26 marzo 2009) da repubblica.it Titolo: RAMPINI. Corruzione, economia e populismo così è fallito il modello Thailandia Inserito da: Admin - Aprile 14, 2009, 02:52:10 pm L'ANALISI
Corruzione, economia e populismo così è fallito il modello Thailandia di FEDERICO RAMPINI DUE leader di governo tra i più potenti del mondo costretti a una movimentata fuga in elicottero: è il segnale che la crisi thailandese è tutt'altro che una vicenda locale. L'immagine del premier cinese Wen Jiabao e del suo omologo giapponese Taro Aso "evacuati" in extremis dall'aviazione militare, con l'interruzione forzata di un importante summit che si era aperto venerdì a Pattaya, restituisce la dimensione internazionale del caso-Thailandia. Questa nazione del sud-est asiatico fu uno dei primi "dragoni" a sperimentare la modernità, l'apertura all'Occidente e i benefici della globalizzazione. Oggi è un concentrato di ricette fallite. I leader dell'Asean si erano riuniti a Pattaya proprio per discutere un approccio comune alla recessione che colpisce l'Estremo Oriente, ma quel dialogo è stato interrotto dal caos delle proteste che minacciano il governo di Bangkok. E' inevitabile tracciare il parallelo con un'altra crisi finanziaria internazionale, "l'asiatica" che ebbe inizio proprio in Thailandia nel 1997: oggi ci appare per molti versi come una prova generale del collasso sistemico iniziato negli Stati Uniti un decennio dopo. Negli occidentali è forte la tentazione di liquidare la Thailandia come uno Stato da operetta. I golpe hanno una frequenza disarmante: gli ultimi avvennero nel 1971, 1977, 1991, 2006. L'esercito appare come l'arbitro di ultima istanza delle contese tra fazioni politiche. Dietro l'esercito, in un ruolo occulto e spesso indecifrabile, c'è la regìa imprevedibile e nefasta del re. Ma in quest'ultimo divampare della violenza, con i sanguinosi regolamenti di conti tra le "camicie rosse" dell'opposizione e le "camicie gialle" filogovernative e filomonarchiche, il caos politico thailandese è accentuato dalle confusioni dei ruoli. Il precario governo guidato dal 44enne Abhisit Vejjajiva, che traballa paurosamente sotto i colpi della contestazione, avrebbe le carte in regola per una gestione moderata e consensuale della crisi economica. Ma il suo premier è macchiato da un peccato originale: la legittimità popolare gli fa difetto dalla nascita. Abhisit è andato al potere grazie alla congiunzione tra la pressione della piazza e le congiure di palazzo. Ha avuto il sostegno delle forze armate e del Parlamento, mai quello del suffragio universale. Per ben due volte, nel 2005 e nel 2007, gli elettori hanno chiesto il ritorno al potere del principale partito di opposizione e la loro volontà è stata calpestata da una democrazia truccata. La natura di quell'opposizione a sua volta non fa che accentuare l'instabilità della Thailandia. Il leader deposto e in esilio, Thaksin Shinawatra, fu definito a suo tempo "un Berlusconi asiatico". Le etichette sono fuorvianti e questi paragoni sono sempre delle forzature. Sta di fatto che Thaskin è al tempo stesso un magnate-simbolo di un nuovo capitalismo, che fece fortuna con il boom delle telecomunicazioni, poi fu al centro di gravi accuse quando vendette il suo impero a investitori stranieri (di Singapore). E' un leader populista di successo: la sua immensa ricchezza personale non gli impedisce di avere una solida base di consenso tra i ceti meno abbienti delle regioni rurali. È lì che la sua azione di governo esercitò i benefici più reali: aumento della spesa per l'istruzione, la sanità, e accesso al credito per i piccoli agricoltori. Al governo dal 2001 al 2006, Thaksin ha rivoluzionato le regole del gioco, cavalcando la diffusa sfiducia popolare verso l'élite di Bangkok. Ma le sue pulsioni autoritarie erano preoccupanti, come nell'uso spregiudicato della campagna anti-droga per ridurre le libertà e aumentare l'arbitrio poliziesco. Dall'esilio dorato fra Dubai e Londra - dove ha comprato la squadra di calcio Manchester City - Thaksin continua a usare la sua ricchezza per finanziare le proteste anti-governative, convinto che un ritorno alle urne potrebbe consentirgli di insediare un premier-fantoccio. L'alternativa tra un plutocrate populista e l'attuale governo sorretto (forse solo provvisoriamente) dai militari e dal re, è un'atroce caricatura di quel che potrebbe essere la dialettica democratica in un paese ormai sviluppato come la Thailandia. Il caos di Bangkok è la smentita più severa di quelle teorie sul "modello asiatico" di paternalismo autoritario, che hanno importanti fautori da Singapore a Pechino. La presunta stabilità di quel modello, in tutte le sue varianti di destra e di sinistra, è messa a dura prova dalla tempesta economica attuale e non solo in Thailandia. (14 aprile 2009) da repubblica.it Titolo: FEDERICO RAMPINI. Earth Day, se la recessione fa calare l'inquinamento Inserito da: Admin - Aprile 22, 2009, 04:08:57 pm GIORNATA DELLA TERRA
Earth Day, se la recessione fa calare l'inquinamento Nel giorno della celebrazione voluta dall'Onu per la prima volta lo smog diminuisce dal corrispondente FEDERICO RAMPINI PECHINO - Dopo cinque anni di vita a Pechino, una delle città più inquinate del pianeta, la mia sensazione di un calo nello smog poteva essere dovuta a semplice assuefazione. Ma un panel indipendente di esperti internazionali conferma quello che le narici di noi residenti avvertono da qualche tempo. Nella capitale cinese l'inquinamento atmosferico dell'ultimo trimestre è stato inferiore del 25% rispetto ai 7 anni precedenti. Lo scienziato Chak Chan della Hong Kong University of Technology non ha dubbi: "E' grazie alla recessione". Per i fautori della de-crescita è un trionfo della loro tesi: la migliore cura per l'ambiente è fermare lo sviluppo. Segnali simili si moltiplicano in ogni angolo del pianeta. In America, da New York a San Francisco, i pendolari costretti a risparmiare riscoprono in massa i mezzi pubblici meno inquinanti, metropolitane e treni. Le compagnie aeree a corto di passeggeri lasciano a terra molti apparecchi e disdicono i contratti di acquisto con Airbus e Boeing. Centinaia di navi portacontainer, a Hong Kong e Yokohama, Seul e Singapore, sono ferme per il crollo del commercio mondiale: anche lo smog del trasporto marittimo si riduce. In Europa 150 città hanno aderito al movimento delle Transition Town, che applicano una strategia sistematica per la riduzione dei consumi energetici. Il laboratorio più vasto per misurare "l'impatto verde" della crisi è la Repubblica Popolare, che due anni fa superò gli Stati Uniti per il volume di Co2 rilasciato nell'atmosfera. Non solo a Pechino ma in tutta la Cina un effetto positivo della recessione è innegabile. Nella provincia meridionale del Guangdong hanno chiuso per bancarotta 62.400 imprese in un solo trimestre. E quindi hanno smesso di rilasciare smog. La fine della bolla speculativa immobiliare ha bloccato l'apertura di nuovi cantieri per edificare grattacieli a Shanghai. Il consumo di elettricità (prodotta da centrali a carbone) è in calo per la prima volta da decenni. Tutte le cause dell'inquinamento sono in ritirata. Sulla sponda opposta del Pacifico si accumulano nei piazzali di Detroit i Suv invenduti, disertati dai consumatori. Diventa un simbolo nazionale la famiglia Wojtowicz di Alma, nel Michigan. Il marito Patrick, ex camionista di 36 anni, la moglie Melissa di 37, la figlia quindicenne Gabrielle, sono stati scelti dal giornale Usa Today come i precursori di un nuovo trend: "La frugalità del XXI secolo". I Wojtowicz hanno restituito alle banche tutte le carte di credito. Hanno disdetto l'abbonamento alla tv via cavo. Hanno venduto nei mercatini dell'usato i costosi giocattoli elettronici. Si sono ritirati in una fattoria con porcile e pollaio per allevare gli animali, e un campicello di 16 ettari per coltivare frutta e verdura. Il loro obiettivo economico è l'autosufficienza. E naturalmente uno stile di vita sostenibile. Le reazioni dei lettori di Usa Today sono entusiastiche. Il taglio dei consumi imposto alle famiglie americane dalla crisi viene nobilitato come una nuova etica, un trend di costume. Comincia a cambiare quella miriade di abitudini quotidiane che imponevano una pressione crescente sull'ecosistema. Le virtù della de-crescita sembrano confermate. In realtà nel passato c'erano stati dei casi simili, che consigliano prudenza. Lo scienziato ambientale Kenneth Rahn, dell'università di Rhode Island, ricorda che quando crollò l'Unione sovietica e tutta l'Europa dell'Est entrò in una lunga crisi economica, i livelli di smog sopra il circolo polare artico diminuirono del 50%. La chiusura di tante fabbriche in Russia e nei suoi ex-satelliti aveva provocato gli stessi effetti che sono visibili vent'anni dopo in Cina. "Una riduzione dell'attività economica - dice Rahn - automaticamente abbassa i livelli di inquinamento". Ma per l'ambiente questo progresso è durevole? Il caso della crisi nel blocco ex-sovietico non è confortante. Quando la riduzione dello smog è solo un effetto dell'impoverimento, i suoi benefici sono temporanei. Le recessioni sono addirittura controproducenti se rallentano gli investimenti in nuove tecnologie verdi, penalizzate dal contro-choc petrolifero e dall'inaridirsi del credito. L'industria cinese dei pannelli solari è tramortita da un crollo di esportazioni. Theolia, il colosso francese delle energie alternative, ha cancellato il progetto di creare una nuova filiale dedicata ai paesi emergenti. Il magnate americano T. Boone Pickens, che aveva in cantiere la più grande centrale eolica del mondo nel Texas, ha congelato il progetto. Un'altra impresa specializzata nell'energia generata dalle pale a vento, la britannica Centrica, ha bloccato tre piani di creazione di nuove centrali eoliche. Oltre all'improvviso ritorno di un temibile concorrente come il petrolio o il carbone a buon mercato, un handicap aggiuntivo per le fonti rinnovabili è che spesso richiedono finanziamenti a lungo termine. La crisi bancaria ha reso più difficile raccogliere fondi per progetti decennali. Un indicatore dei problemi futuri è il comportamento delle compagnie petrolifere. Durante l'impennata dei prezzi del greggio, si erano scoperte una nuova vocazione verde. Ora che il greggio è precipitato sotto i 50 dollari il barile, la Shell ha già dismesso le sue attività nel solare e nell'energia eolica. Resta la speranza che i comportamenti delle grandi imprese cambino quando scatteranno gli incentivi dell'Amministrazione Obama, e 150 miliardi di dollari del bilancio federale irrigheranno il business delle fonti rinnovabili. La recessione da sola non ce la può fare. (22 aprile 2009) da repubblica.it Titolo: FEDERICO RAMPINI. Pechino, corsa ai Bot a breve Inserito da: Admin - Aprile 22, 2009, 04:14:49 pm Rubriche »
La piazza asiatica Pechino, corsa ai Bot a breve Federico Rampini Vivremo a lungo in un mondo caratterizzato dalla deflazione? I tesorieri della Repubblica Popolare non ne sono affatto convinti. Pechino non fa mistero del suo timore che la politica economica americana stia creando le premesse per un ritorno dell'inflazione (peraltro il modo più sicuro per ridurre il debito pubblico di Washington). E adesso la banca centrale cinese si comporta di conseguenza: pur continuando ad acquistare massicciamente i titoli del Tesoro Usa, sta operando una riconversione del suo portafoglio a favore dei Bot americani a breve termine. E' una classica mossa per ridurre la propria esposizione di fronte al rischio di improvvisi rialzi dei tassi Usa, che potranno rendersi necessari se l'inflazione tornerà a salire. Nel mese di febbraio la banca centrale cinese nella gestione delle proprie riserve valutarie ha venduto quasi un miliardo di Treasury Bond a lunga scadenza, e ha comprato invece 5,6 miliardi di Treasury Bill trimestrali. E' la prima volta dal mese di novembre che l'autorità monetaria cinese acquista più titoli a breve che a lunga scadenza. I Bot trimestrali rappresentano l'investimento più sicuro e liquido, anche se danno un rendimento pari a zero o in certi casi un interesse negativo. I T-Bond a lunga scadenza invece perdono automaticamente valore nel caso di un improvviso aumento dei tassi d'interesse ufficiali. Attualmente la banca centrale cinese ha 744 miliardi di dollari investiti in titoli del debito pubblico americano, il più grosso quantitativo detenuto da un singolo investitore straniero. Dalla Cina arriva un altro segnale rincuorante sullo stato dell'economia reale: le aziende di Stato hanno chiuso il mese di marzo con un aumento medio dei profitti pari al 26%, su base annua. Il dato di marzo è in netto contrasto con quanto era avvenuto nei primi due mesi di quest'anno, quando i profitti delle imprese pubbliche erano calati del 33%. La Cina ha avviato la costruzione di reattori nucleari di terza generazione, usando la tecnologia americana AP 1000 ad acqua pressurizzata del gruppo Westinghouse. I reattori sono in costruzione a Sanmen nella provincia orientale dello Zhejiang, e secondo l'agenzia stampa Nuova Cina questa sarà la prima centrale atomica di terza generazione ad entrare in funzione nel mondo. (21 aprile 2009) da repubblica.it Titolo: FEDERICO RAMPINI. I padroni della luce Inserito da: Admin - Aprile 23, 2009, 02:54:11 pm L'ANALISI
I padroni della luce di FEDERICO RAMPINI Un'immagine della Terra di notte composta da più immagini riprese da oltre 400 satelliti Nasa Cos'è la modernità? Comunque la definiamo, da oggi sicuramente sappiamo dov'è la "nostra" modernità: è il regno della luce. Un regno dai confini precisi e spietati, oltre i quali c'è un'immensa umanità delle tenebre. Per capire il mondo in cui viviamo ora abbiamo questo planisfero straordinario, risultato di 400 immagini satellitari montate per costruire un'unica foto. E' la Terra come se fosse tutta simultaneamente avvolta nella notte. E' un'oscurità trafitta da milioni di punti luminosi, qui densissimi, là più radi, altrove inesistenti. Sono le luci dell'urbanizzazione, dello sviluppo, della produzione di ricchezza, della densità civile, dei flussi di comunicazione. Ecco che grazie alla notte tutto diventa più chiaro: i confini tra le civiltà, i dislivelli di benessere, i fossati tecnologici. Questo planisfero condensa lezioni di geopolitica; analisi sulla globalizzazione; scenari sul futuro dell'ambiente; rapporti di forza demografici. Dà un'angosciosa visibilità alle diseguaglianze. Ciascuno prenda il suo tempo, si soffermi a fissare queste immagini prese dai satelliti: sono l'inizio di tanti percorsi d'indagine per decifrare il senso della nostra epoca. Questo planisfero andrebbe appeso nella aule scolastiche e universitarie, dovrebbe aprire le lezioni di geografia, storia, economia, sociologia, scienze politiche. Osservate dove il regno della luce è imperioso e incontrastato. Splende l'Europa; tutta la parte abitata degli Stati Uniti; il Giappone. E' quella che fu la Trilaterale. E' l'asse delle liberaldemocrazie capitaliste che ha fatto e disfatto i destini del pianeta dopo la seconda guerra mondiale. Prima ancora era il mondo delle potenze coloniali o neocoloniali. E' l'epicentro delle rivoluzioni tecnico-industriali del Novecento. Sembra quasi di percepire un'antica arroganza dietro quelle tre zone di luce così abbagliante. Ma non sono più sole. Vista dalla stratosfera è ben luminosa tutta la fascia sviluppata della Cina, nuovo imponente protagonista dello sviluppo e della modernizzazione, ma ben diverso dal vecchio club delle democrazie. Il triangolo dell'India è perfettamente riconoscibile grazie a una luce diffusa, omogenea, non troppo intensa ma priva di ombre: l'immagine fedele di una modernità "soft", che ha tentato di evitare gli strappi di accelerazioni troppo brutali. Quelle due vaste zone di luci recenti sarebbero state invisibili dallo Sputnik sovietico o dagli astronauti americani che andarono sulla luna: solo da un paio di decenni i due miliardi del nuovo ceto medio asiatico hanno acceso lampadine e televisori, computer e fari delle automobili. Irregolare, a chiazze di leopardo, la luce segnala oasi di sviluppo in Medio Oriente e nel Golfo Persico. La Russia bianca è un'appendice sbiadita della nostra Europa; emana verso il resto dei suoi territori fino alla Siberia dei fasci tenui, le arterie di uno sviluppo petrolio-diretto. Qualche sottile zona costiera dell'America latina lancia i suoi messaggi verso l'universo: ci siamo anche noi, ce l'abbiamo fatta. Sono quelli entrati finalmente nel G-20, dove si concentra l'80% della ricchezza mondiale. E tutto il resto? Forse è da lì che bisognerebbe partire: perché anche senza contare gli oceani, nel mondo emerso il buio è quasi più esteso della luce. Va decifrato. Non tutte le oscurità sono uguali. Ci sono vaste zone nere che indicano geografia e demografia favorevoli: Canada e Australia, ricchi di natura selvaggia e materie prime, con popoli sparpagliati su territori sconfinati. Ci sono invece zone di buio affollatissime. Il continente nero con minuscole eccezioni (uno spicchio di Sudafrica) è rimasto ai margini della globalizzazione: la fiammata già esaurita delle materie prime non ha seminato i germi di una modernità solida. L'Asia centrale è in gran parte scura, per i satelliti che scrutano nella notte. Visto che là si combatte da otto anni per stanare Osama bin Laden, anche i conflitti esplosi dopo l'11 settembre 2001 hanno una declinazione in termini di luce contro tenebre. Non è per forza un giudizio di valori; è la constatazione che gli antagonismi più distruttivi coincidono in parte con dei confini di modernità misurati in gigawatt. Già, come dimenticare che tutti quegli addensamenti luccicanti per bucare la notte richiedono centrali elettriche, energia? Il regno della luce possiamo confrontarlo con altre geomappe satellitari, dell'inquinamento atmosferico. Coincidono perfettamente. (23 aprile 2009) da repubblica.it Titolo: FEDERICO RAMPINI. Il mistero del Piccolo Buddha che oggi compie vent'anni Inserito da: Admin - Aprile 26, 2009, 10:09:08 am Federico Rampini.
LA STORIA Il mistero del Piccolo Buddha che oggi compie vent'anni L'erede del Dalai Lama è scomparso da 14 anni. Pechino lo dà per morto. Ma il Tibet lo festeggia dal corrispondente F. RAMPINI PECHINO - È l'anniversario che la Cina ha deciso di cancellare. Oggi compie vent'anni il Panchen Lama, la seconda autorità spirituale del buddismo tibetano, il "vice" del Dalai Lama alla guida del suo popolo. Ma Gedhun Choeky Nyima - questo il nome del vero Panchen Lama - è invisibile dall'età di sei anni. Poco dopo la sua investitura da parte del Dalai, il 14 maggio 1995, il bambino fu sequestrato con tutta la sua famiglia dalla polizia cinese. Quello che divenne "il prigioniero politico più giovane del mondo" da allora è recluso in un luogo segreto. La sua colpa è imperdonabile: per il solo fatto di esistere, il Panchen incarna l'autonomia di un potere spirituale che lo ha scelto senza prendere ordini dal governo. L'ultima violenza su di lui il regime di Pechino l'ha commessa alcuni giorni fa, lasciando filtrare indiscrezioni sulla sua morte. Nessun annuncio ufficiale - altrimenti il governo dovrebbe fornire spiegazioni e prove sull'improvviso decesso di un ventenne - ma solo voci. Che gli esuli tibetani vicini al Dalai Lama definiscono false. Forse per vie imperscrutabili riescono ad avere notizie su di lui. Alla vigilia di questo compleanno proibito, i cinesi non si sono limitati a diffondere insinuazioni sulla morte del loro giovane prigioniero. Pechino ha deciso di esibire in due eventi ufficiali il suo "gemello comunista": il Panchen del regime. Quasi coetaneo dell'altro (ha 19 anni), etnicamente tibetano anche lui ma figlio di due membri del partito comunista, questo si chiama Gyaincain Norbu. Nel 1995, non appena catturato il vero Panchen, la controfigura venne investita solennemente dal governo. Secondo le autorità cinesi è lui l'undicesima reincarnazione del "grande studioso" della setta Gelugpa. Il Panchen filo-cinese non è mai stato accettato dai suoi connazionali, che gli negano ogni legittimità. Senza la benedizione del Dalai, per i fedeli è un impostore. Perciò anche lui ha finito per trascorrere infanzia e adolescenza come un detenuto. Per paura che i tibetani potessero influenzarlo le autorità lo hanno allevato a Pechino, in un convento politically correct, sotto il controllo del partito. I maestri di dottrina gli insegnavano il patriottismo (cinese), la fedeltà al governo, il mandarino e l'inglese: utili per farne un futuro portavoce urbi et orbi. Per anni le sue apparizioni in pubblico sono state rare e protette da una scorta. In una di quelle occasioni, paracadutato per poche ore nel 2005 nel monastero di Tashilhunpo a Shigatse (storicamente la sede del Panchen) il povero burattino dei cinesi rimase impaurito dal disprezzo dei religiosi. Nelle foto ufficiali ha la faccia di un bambinone cresciuto, goffo e timido, vittima di un gioco troppo grande per lui. Un mese fa le cose sono cambiate. Il Panchen-di-Pechino è stato lanciato sul palcoscenico a marzo per una celebrazione importante. Ricorreva il 50esimo anniversario della fuga in esilio del Dalai Lama, un giorno di lutto per il suo popolo. Nella stessa data quest'anno il governo ha istituito una nuova festa nazionale: la Giornata dell'Emancipazione dei Servi del Tibet. Un'occasione per celebrare la "liberazione" dalla teocrazia feudale dei lama, grazie al provvidenziale intervento dell'Esercito Popolare di Liberazione sotto la guida di Mao. Il 28 marzo il Panchen comunista è apparso in una cerimonia di Stato a Lhasa. Il giovane era visibilmente agitato, ma ha detto quello che si aspettavano da lui: "Voglio ringraziare sinceramente il partito comunista per avermi aperto gli occhi, così so riconoscere il bene dal male". Poi una stoccata diretta a colui che dovrebbe esserne il padre spirituale. "Sono io stesso discendente di schiavi - ha detto Gyaincain Norbu - e ho imparato a distinguere chi ama il popolo tibetano, da quelle persone senza scrupoli che per motivi di ambizione minacciano la pace". Jia Qinglin, membro del Politburo, ha reso esplicita l'accusa: "Il Dalai ignora i veri desideri del popolo. Vuole la secessione per restaurare l'antico regime feudale". In un crescendo di visibilità, il Panchen comunista è riapparso al recente Forum Mondiale del Buddismo, organizzato in pompa magna dalle autorità cinesi. Un evento ecumenico: aperto nella città di Wuxi, provincia del Jiangsu, si è concluso a Taipei capitale dell'"isola ribelle" di Taiwan. Dopo il confucianesimo anche il buddismo viene recuperato dai leader cinesi. Purché sia una religione di Stato, il presidente Hu Jintao è convinto che serva a proiettare un'immagine rassicurante della Cina, a rafforzare il suo soft power in Asia. E il giovane Gyaincain Norbu ha fatto il suo dovere. Ai delegati mondiali del simposio buddista ha dichiarato: "Questo evento dimostra che in Cina regna la libertà religiosa". Ha partecipato alle sedute ristrette di alcuni seminari di studio: perfino un incontro con celebri imprenditori sul tema "Filosofia e Business". I magnati industriali che lo hanno incontrato dicono che i suoi interventi sono stati "fonte d'ispirazione". Le foto dell'agenzia Nuova Cina lo ritraggono, occhialuto e intimidito, mentre porge una sciarpa bianca in omaggio al presidente del Congresso del Popolo, Wu Bangguo. L'alto gerarca lo ha incoraggiato a "lavorare alacremente per l'unità del popolo cinese". Zhan Ru, direttore dell'Istituto di studi orientali all'università di Pechino, era anche lui a quel congresso: "E' stato un incoraggiamento per tutti. Eravamo onorati di avere con noi un Budda vivente". Lo sforzo per osannare il povero burattino è corale. Tradisce il nervosismo di Pechino per il ventesimo compleanno del vero Panchen Lama. La tensione è affiorata ai massimi livelli. Hu Jintao ha lanciato un avvertimento secco a Barack Obama: non vuole che il presidente americano riceva il Dalai Lama, atteso in America tra breve. Il tono è da ultimatum. Sul Tibet il leader cinese è pronto a rischiare un gelo diplomatico con Washington. Forte del suo potere economico-finanziario, Hu Jintao spera di intimidire Obama. Già ci è riuscito con Nicolas Sarkozy, costretto a farsi "perdonare" la visita del Dalai all'Eliseo. Il Sudafrica ha preferito far saltare un summit dei premi Nobel pur di non concedere il visto al leader tibetano in esilio. Dietro la durezza cinese spunta la partita cruciale: la successione del 73enne capo spirituale. Pechino ha già annunciato che alla sua morte spetterà al potere politico la scelta del prossimo "reincarnato": come all'epoca della dinastia imperiale dei Qing, secondo le ricostruzioni degli storici revisionisti di regime. Pur di evitare questa sopraffazione il Dalai Lama ha accennato a una contromossa: cambiare le regole e procedere a un'elezione democratica del suo successore. Chissà se il suo discepolo ventenne, ovunque si trovi, può intuire la battaglia furibonda che si prepara. Se è vivo oggi passa anche questo compleanno nella solitudine che ormai è il suo destino. Lontano dal Tibet, lontano dai suoi e dal mondo, forse condannato a essere invisibile fino a quando morirà davvero. (25 aprile 2009) da repubblica.it Titolo: FEDERICO RAMPINI. "Germogli verdi" dal Sol Levante Inserito da: Admin - Maggio 01, 2009, 12:42:15 pm Federico Rampini
Rubriche » La piazza asiatica "Germogli verdi" dal Sol Levante Anche il Sol Levante oggi intravvede i suoi "germogli verdi", quei primi segnali premonitori di una ripresa che già sono stati avvertiti negli Stati Uniti scatenando il rialzo delle Borse. Per la prima volta dopo sei mesi, a marzo è risalita la produzione industriale del Giappone, alimentando la speranza che si avvicini la fine della recessione più lunga dal dopoguerra. L'industria nipponica ha registrato un aumento di produzione dell'1,6% in marzo rispetto a febbraio. Un dato confortante se paragonato con la diminuzione del 9,5% avvenuta a febbraio, e il calo di produzione del 10% nel mese di gennaio (sempre rispetto al mese precedente). La situazione resta tuttavia pesante se il confronto viene effettuato sull'anno prima. Prendendo come base di riferimento il marzo 2008, la produzione del marzo 2009 risulta ancora inferiore del 34,2%. A Tokyo però prevale un cauto ottimismo: si prevede che in aprile la produzione industriale possa segnare un'altra ripresa, dell'ordine del 4%, seguita forse da un +6% a maggio, secondo le anticipazioni degli stessi industriali. Secondo l'economista Naoki Murakami "vediamo spuntare l'alba per l'economia giapponese, la produzione industriale ha ormai toccato il fondo". La velocità di ripresa non è certo esaltante: se si avverano le previsioni degli industriali, a maggio la produzione nipponica avrà semplicemente ritrovato i livelli del mese di gennaio di quest'anno. Cioè livelli che erano già depressi da più di un anno di recessione. L'economia del Giappone è entrata in recessione ufficialmente nel secondo trimestre del 2007. Ha subito una de-crescita pesantissima nell'ultimo trimestre del 2008 quando il suo Pil è sceso del 12,1%. I dati del Pil per il primo trimestre 2009 devono ancora uscire ma si teme che siano peggiori del trimestre precedente, perché ancora risentiranno della fase di caduta più brutale. Ma i segnali di una inversione di tendenza sono confermati dai dati sull'export: anche su quel fronte Tokyo comincia a pensare che il peggio sia ormai passato. (30 aprile 2009) da repubblica.it Titolo: FEDERICO RAMPINI. General Motors, il record cinese Inserito da: Admin - Maggio 05, 2009, 11:31:18 pm Rubriche »
La piazza asiatica Federico Rampini General Motors, il record cinese La Cina sembra davvero un altro pianeta: sicuramente per il settore dell'auto. La General Motors ha annunciato un record storico delle sue vendite nella Repubblica Popolare ad aprile: + 50% rispetto all'aprile 2008. La Gm ha venduto 151.084 vetture in un mese, il massimo assoluto da quando è presente sul mercato cinese. Colpisce anche il fatto che all'interno della Gm la performance più brillante sia stata realizzata dalla gamma Buick (55.245 auto vendute in aprile), proprio una delle marche più derelitte nel suo mercato originario degli Stati Uniti. Su un altro fronte, quello dei piccoli veicoli commerciali, la Gm ha perfino superato il boom di vendite delle auto. I camioncini leggeri infatti hanno segnato +60,6% di vendite ad aprile rispetto allo stesso mese dell'anno scorso. Nei veicoli commerciali la Gm è in joint venture con i gruppi locali Saic e Wuling di Shanghai. Anche il mercato indiano non langue. Brilla in particolare l'accoglienza per la sua neonata più celebre, la Nano. Il gruppo Tata ha già incassato 500 milioni di dollari di anticipi dai clienti che si sono prenotati sulle liste d'attesa per le consegne della celebre utilitaria. Da quando la Tata ha aperto le iscrizioni, dal 9 al 25 aprile si sono prenotati 610.000 clienti di cui 203.000 hanno già versato la "caparra" di 95.000 rupie, equivalente all'80% del prezzo di listino. Le prime consegne sono previste a luglio, e per evitare i favoritismi l'assegnazione delle prime Nano avverrà con un sistema di estrazione a sorte. (5 maggio 2009) da repubblica.it Titolo: RAMPINI. Calano gli investimenti stranieri la Cina fa i conti con la recessione. Inserito da: Admin - Maggio 15, 2009, 12:27:39 pm Federico Rampini.
Calano gli investimenti stranieri la Cina fa i conti con la recessione Si è fermata la corsa dei capitali esteri verso la Cina. Nel mese di aprile l'afflusso di investimenti stranieri nell'economia cinese è stato di soli 5,9 miliardi di dollari, il 23% in meno rispetto allo stesso mese dell'anno scorso. Nei primi quattro mesi del 2009 gli investimenti esteri diretti sono stati 27,7 miliardi di dollari, in calo del 21% rispetto al primo quadrimestre del 2008. E' ormai da sette mesi consecutivi che gli investimenti stranieri in Cina sono in discesa, ma la riduzione di aprile è molto più accentuata (a marzo erano scesi del 9,5%). Il dato è collegato alle difficoltà delle multinazionali straniere - americane, europee, giapponesi e sudcoreane - i cui tagli di bilancio si riflettono anche in una contrazione degli investimenti esteri. Ancora nel 2008 la Cina aveva potuto contare su un afflusso di investimenti esteri diretti in continua ascesa, del 7% superiore al 2007. Ora l'inaridirsi dei capitali esteri fa venir meno una delle fonti di finanziamento che hanno svolto un ruolo importante nella crescita cinese degli ultimi anni. Chi in Cina è rimasto, però, non sembra lamentarsene. In particolare il settore bancario cinese sembra essere uno dei pochi a riservare delle buone sorprese per i big della finanza mondiale. Il gruppo Hsbc ha realizzato sul mercato cinese 353 milioni di dollari di utile nel trading di valute, obbligazioni e derivati, in crescita del 137% sull'anno prima. Citigroup ha visto aumentare del 95% il suo utile netto in Cina (a 191 milioni di dollari) grazie soprattutto al trading sulle valute. Non altrettanto fortunato può dirsi chi ha investito nella direzione contraria. Uno dei più celebri fondi sovrani asiatici, l'ente di Stato Temasek di Singapore, subisce una perdita di 4,6 miliardi di dollari per aver voluto andare in soccorso alla Merrill Lynch. Temasek aveva acquisito una partecipazione del 14% nel capitale di Merrill Lynch, pochi mesi prima che il colosso finanziario di Wall Street scivolasse verso la bancarotta. Le grandi banche d'investimento americane giocarono la carta dei "cavalieri bianchi" stranieri, andando in cerca di capitali per uscire dal vortice della crisi di sfiducia. Poi Merrill Lynch è stata pilotata dal governo Usa nelle braccia di Bank of America, altro gigante malato e bisognoso di sussidi pubblici. Per effetto dell'acquisizione, il gruppo Temasek si è visto scambiare la sua quota, a ragione di 0,86 azioni Bank of America per ogni azione Merrill. Il crollo di valore della Bank of America ha fatto il resto: dopo avere investito quasi 6 miliardi di dollari in Merrill, l'ente pubblico di Singapore ha liquidato la sua quota per soli 1,3 miliardi. (15 maggio 2009) da repubblica.it Titolo: Federico Rampini. Cosa vuole la Corea del Nord? Inserito da: Admin - Maggio 25, 2009, 06:15:02 pm 25
mag 2009 Cosa vuole la Corea del Nord? Federico Rampini Ricatto, prepotenza e provocazione: sono le tattiche negoziali predilette dal leader nordcoreano Kim Jong Il. Perché dovrebbe cambiare? Bisogna dargli atto che finora hanno funzionato. Nonostante la stragrande maggioranza del suo popolo viva nel terrore e nella fame, il regime comunista di Pyongyang ha smentito finora chi si aspettava un suo crollo. Il test nucleare di oggi s’inserisce in una strategia lucida e razionale, tesa a massimizzare il potere contrattuale per estorcere concessioni all’America e ai suoi alleati. Il test atomico di stamattina è l’ultimo atto (per ora) di una escalation della tensione. Le puntate più recenti: il 5 aprile il lancio di un missile a lunga gittata inabissatosi nel Pacifico tra il Giappone e le Hawaii; l’arresto di due giornaliste americane tuttora in carcere a Pyongyang; il congelamento della pur limitata cooperazione economica con la Corea del Sud. Come giustifica questi gesti la dittatura nordocreana? Oggi un comunicato di Pyongyang si esprime così: “L’analisi della politica di Obama negli ultimi 100 giorni dimostra che non è cambiato nulla. E’ inutile sedersi a un tavolo con un interlocutore che ci è ostile”. Sembra un certificato di morte per i “negoziati a sei” (con Usa, Cina, Russia, Corea del Sud e Giappone) che si trascinano stancamente da anni. Quei negoziati avevano avuto un’improvvisa schiarita nel febbraio 2007: l’Amministrazione Bush accettò di allentare le sue sanzioni in cambio di un arresto del programma nucleare nordcoreano. Tra quelle sanzioni, va ricordato, una infastidisce particolarmente Kim Jong Il: il blocco dei suoi conti bancari personali su una banca offshore di Macao (Cina). Il disgelo si interruppe bruscamente nel dicembre 2008, di fronte al rifiuto della Corea del Nord di accettare delle ispezioni che verificassero l’effettiva cessazione dei piani nucleari. Gli esperti di tecnologia missilistica o nucleare possono spiegarci finché vogliono che la Corea del Nord è una “tigre di carta”, che questo o quell’esperimento è stato un flop. Certo Pyongyang non è una grande potenza. Ma la vicinanza immediata della Corea del Sud e del Giappone, nonché di decine di migliaia di soldati americani, consente a Kim di infliggere danni anche con mezzi rudimentali. La dittatura nordcoreana in passato è riuscita ad estorcere aiuti economici (finiti regolarmente a ingrassare la nomenklatura) proprio alternando le minacce e le concessioni. Nessuna Amministrazione americana ha trovato una soluzione durevole. La chiave sta a Pechino. Non che il regime di Kim sia un burattino nelle mani dei cinesi, tutt’altro. Ma una pressione costante, prolungata e severa della Repubblica Popolare, con l’uso di tutti gli strumenti a disposizione (compresa la minaccia di embargo energetico) potrebbe sicuramente piegare i nordcoreani. Quel tipo di pressione non c’è stata. E’ chiaro che Pechino preferisce lo status quo. I governanti cinesi esercitano pressioni “gentili” sui nordcoreani, guadagnandosi apprezzamenti da Washington. Ma il loro intervento evita accuratamente qualsiasi atto che possa accelerare una decomposizione della dittatura di Pyongyang. Lo sbocco finale, i cinesi lo sanno benissimo, sarebbe la riunificazione con la Corea del Sud. La penisola coreana diventerebbe la prima democrazia filo-americana ad avere un confine terrestre con la Cina. da repubblica.it Titolo: FEDERICO RAMPINI Dieci cose che cambieranno nel mondo dopo la crisi Inserito da: Admin - Maggio 29, 2009, 03:48:08 pm ECONOMIA Domani con "Repubblica" il nuovo libro di Federico Rampini
Dal lavoro ai consumi: nuove regole per un futuro ancora incerto Dieci cose che cambieranno nel mondo dopo la crisi di FEDERICO RAMPINI La Grande Recessione del 2007-2009 può davvero concludersi prima che abbiamo fatto in tempo a imparare qualcosa, a isolare i responsabili, a curarne le cause, a prevenire una ricaduta? C'è in giro una gran voglia di voltare pagina senza avere regolato i conti. Nella speranza assurda che si possa ripartire da dove ci eravamo fermati l'altro ieri, con gli stessi valori, le stesse regole di prima. Per fortuna ci sono segnali di altra natura. Uno di questi si chiama Kedamai Fisseha. Cittadino americano di origine etiope, a 22 anni si laurea in economia e commercio alla prestigiosa università di Harvard. Un anno prima della tesi aveva fatto uno stage a Wall Street, alla banca Morgan Stanley. Adesso invece ha deciso di arruolarsi nel programma Teach for America. E' un'organizzazione non profit che recluta neolaureati per mandarli a insegnare nelle scuole dei quartieri più poveri e degradati delle metropoli americane. "Mi considero fortunato - dice Fisseha - la crisi in fondo è stata una liberazione per me". Lawrence Katz, docente di Harvard, censisce le carriere professionali di tutti i laureati della sua superfacoltà dal 1960 ad oggi. "Fino a poco tempo fa la carriera nella finanza attirava i primi in graduatoria. Oggi non è vero che Wall Street abbia smesso completamente di assumere. Sono i ragazzi, o almeno una parte di loro, che stanno cambiando interessi e valori". Verso questi ragazzi che si orientano per il loro futuro, e verso noi stessi, abbiamo un dovere: non sprecare questa crisi. E' urgente un'operazione-verità che metta a nudo le cause profonde di un disastro che non è finito. Guardando anche oltre i gravi danni sociali, abbiamo bisogno di diradare la nebbia all'orizzonte. Ci servono delle mappe per orientarci, una guida di comportamenti, un manuale di sopravvivenza. Dobbiamo capire come ne usciremo, con quali regole del gioco, quali nuovi equilibri e rapporti di forze: sul nostro luogo di lavoro e nella gestione dei risparmi; nelle nostre scelte di consumo e nell'impatto sull'ambiente. In quale mondo vivremo, con quali attori, dentro quali equilibri globali. Vogliamo sapere perché l'economia di mercato non sarà più la stessa, e a cosa assomiglierà la sua prossima versione. Come attrezzarci a vivere con la deflazione, o quel che verrà dopo la deflazione. Quale cultura si affermerà nelle aziende. Cosa cambia nelle banche e nel nostro rapporto con il credito. Quale choc o controchoc può arrivare dal fronte dell'energia e delle materie prime. Cosa resta dei "modelli" esaltati negli anni precedenti, dall'America alla Cina. E se la Grande Recessione può partorire, come la Depressione degli anni Trenta, una corrente di cambiamento durevole nei sistemi politici, nelle ideologie dominanti, nei valori etici. (...) I mezzi dispiegati per evitare il peggio sono stati colossali. Hanno ordini di grandezza che superano l'immaginazione. Sommando gli aiuti di Stato agli istituti di credito e le operazioni di rifinanziamento d'emergenza effettuate dalle banche centrali, a marzo del 2009 si arrivava a un totale di 5.500 miliardi di dollari (...). Aggiustato per tener conto dell'inflazione, l'onere dei salvataggi bancari è sette volte il costo della guerra nel Vietnam. 23 volte il programma spaziale Apollo con cui l'America arrivò sulla luna. 47 volte il Piano Marshall per la ricostruzione dell'Europa occidentale dopo la seconda guerra mondiale. Tra Borse, obbligazioni, case, dall'estate del 2007 in poi è stata distrutta una ricchezza pari a 50.000 miliardi di dollari. E' quasi l'equivalente di un anno di Pil mondiale. Proviamo a tradurre questi macrofenomeni in termini di bilanci familiari: quanti possono reggere se un anno intero di reddito va in fumo? Qualsiasi cosa ci raccontino le statistiche mese per mese, un evento di queste proporzioni lascia tracce durevoli nella psicologia collettiva. Resta un'eredità d'incertezza, di cautela nello spendere e nell'investire. Non c'è manovra di aiuti pubblici che possa sanare rapidamente queste ferite. L'intera società è pervasa dalla diffidenza. (...) Nel futuro del Vecchio continente potrebbe esserci la "sindrome giapponese". L'uscita dalla crisi può prendere le forme di una ripresa finta, anemica, senza crescita. Una bonaccia in cui tutti i nostri mali diventerebbero cronici, insolubili: dal debito pubblico alla crisi previdenziale, dal precariato alle tensioni sociali. Il naufragio del modello giapponese deriva proprio dall'incapacità delle classi dirigenti di Tokyo di capire la deflazione-depressione degli anni Novanta. La loro lentezza nell'affondare il bisturi dentro un sistema bancario disastrato; la timidezza delle misure per il rilancio dei consumi interni; il rifiuto dell'immigrazione come rimedio alla denatalità. Sono tutti sintomi oggi presenti anche in Europa. La prospettiva di un orizzonte piatto, senza sviluppo, può piacere ai fautori della de-crescita, che vedono nella "idolatrìa del Pil" la radice di tutti i nostri mali: a cominciare dalla distruzione dell'ambiente. Ma se si realizza il loro desiderio, le delusioni potrebbero essere amare. Nella grande bonaccia dove troveremo le risorse per investire in tecnologie verdi, per aumentare i fondi pubblici alla scuola, all'università, alla ricerca scientifica? (...) Se la Grande Recessione ha avuto tra le sue cause economiche l'aumento delle disparità sociali, aggredire questo problema diventa doppiamente prioritario. E' il modo per rilanciare una crescita sana, basata su un potere d'acquisto meglio diffuso, anziché sull'economia del debito. Ed è anche una terapia per molte malattie sociali che ci affliggono. (...) La Depressione degli anni Trenta fu uno di quei momenti della storia in cui interi sistemi di valori vengono ribaltati, si crea una nuova etica civile. Temprata dalle sofferenze, quella che gli americani battezzarono The Greatest Generation riscoprì la fede nell'azione collettiva, l'utilità del sacrificio, la solidarietà, il dovere dello Stato di agire per il bene comune. Le grandi crisi servono a rimettersi in discussione, costringono a osare là dove il pensiero non si era mai avventurato: su quella del XXI secolo il verdetto è aperto. (29 maggio 2009) da repubblica.it Titolo: FEDERICO RAMPINI. La Cina fa shopping in Italia Inserito da: Admin - Giugno 10, 2009, 03:38:17 pm Rubriche » La piazza asiatica
La Cina fa shopping in Italia Federico Rampini "Il governo cinese effettuerà una missione di acquisto a fine giugno in Italia per acquistare beni strumentali e prodotti italiani, in particolare energia e tecnologia". Lo ha annunciato il viceministro allo Sviluppo Economico con delega al Commercio Estero, Adolfo Urso, dopo aver incontrato a Pechino l'omologo cinese Gao Huceng, a cui ha consegnato una lista di oltre 300 aziende italiane interessate a vendere beni e prodotti a investitori cinesi. "La lista è stata elaborata d'intesa con Ice, Confindustria, Confapi e diverse associazioni di categoria, da Ucimu a Federmacchine, - spiega Urso - Quasi la metà delle aziende presenti nella lista appartengono al settore dei macchinari, il resto ai comparti moda e arredo-casa, farmaceutica, agro-alimentare e alta e altissima tecnologia. La Cina dispone di molta liquidità, un forziere di oltre 100 miliardi di dollari. Risorse fresche pronte per essere investite in Europa. Fino ad ora a beneficiarne erano state Germania, Gran Bretagna e Svizzera". L'ultimo shopping cinese dello scorso febbraio si concluse con una missione di acquisto di 13,5 miliardi di euro ma l'Italia rimase tagliata fuori. Ora tenta di recuperare terreno e di accreditarsi come una mèta appetibile per i capitali cinesi. Un progetto cinese in Sicilia promosso dal gruppo HNA (holding cinese attiva nella logistica con un fatturato di oltre 25 miliardi di euro) porterebbe alla creazione di un aeroporto intercontinentale nella Sicilia orientale e a una piattaforma logistica integrata nel triangolo che va dal porto di Augusta all'aeroporto di Catania. Nel 2008 l'export italiano in Cina è stato di 6,4 miliardi di euro, in crescita del 2,5% rispetto al 2007, ma ben 4 volte inferiore rispetto all'import. Oltre il 40% del nostro export è rappresentato da macchinari e apparecchiature. L'Italia è il quinto paese nella UE per flusso di investimenti diretti in Cina dopo Regno Unito, Germania, Paesi Bassi e Francia. I principali settori in cui operano le imprese italiane sono: autoveicoli, trasporti aerei e marittimi, idrocarburi, petrolchimica e ingegneria, aeronautico, telecomunicazioni, opere civili, farmaceutico e sanitario. Per il 2009 si prevede un aumento delle esportazioni cinesi del 19% a livello mondiale, in calo rispetto al +27% degli ultimi cinque anni, mentre la crescita del PIL cinese sarà pari al 6,5%, in diminuzione rispetto al +9% registrato nel 2008 e al +13% del 2007. Per far fronte alla crisi mondiale, Pechino ha varato un piano di sostegno e rilancio economico da 486 miliardi di dollari da utilizzare entro il 2010. Ieri intanto la Cina ha nuovamente aumentato gli sgravi fiscali all'export, per rilanciare le vendite sui mercati esteri. La nuova tornata di aiuti fiscali all'export - la settima dall'inizio della recessione globale - beneficia ben 2.600 prodotti tra cui esportazioni agroalimentari, macchinari, calzature, giocattoli. Pechino ritocca al rialzo le previsioni sulle vendite automobilistiche. Unico mercato a sfidare la crisi, quello cinese ha già superato la soglia dei 10 milioni di vetture vendute su base annua, collocandosi al primo posto mondiale e sorpassando così gli Stati Uniti. Adesso le associazioni di settore prevedono che entro la fine del 2009 le vendite raggiungeranno 11 milioni di autovetture. (9 giugno 2009) da repubblica.it Titolo: FEDERICO RAMPINI Il potere degli emergenti Inserito da: Admin - Luglio 10, 2009, 06:40:02 pm IL COMMENTO
Il potere degli emergenti di FEDERICO RAMPINI Archiviato il primo giorno di summit nel formato ormai obsoleto del G8, l'allargamento della seconda giornata alle cinque potenze emergenti (Cina India Brasile Messico e Sudafrica) ha rivelato la forza tremenda del "fronte dei veti". Gli emergenti hanno una visione del mondo lontana dalla nostra. Hanno altre priorità. Hanno il peso economico e politico per esercitare un formidabile potere d'interdizione. E' questo il vero senso della giornata di ieri. La coalizione degli esterni al G8 non è più "la periferia". Al contrario, Cina e India rappresentano potenzialmente i motori della crescita mondiale, gli unici giganti ad essersi sganciati dal ciclo recessivo. Ma allargare la rappresentanza della governance globale fino a includerli, espone al rischio della paralisi decisionale: tanto ampio è il divario degli interessi. "E' un buon inizio, non è un compito da poco riuscire a colmare le distanze fra così tanti leader, ed è ancora più difficile riuscirci nel bel mezzo di una recessione". Con il suo energico ottimismo Obama ha voluto imprimere un segno positivo al vertice. Quel suo giudizio si riferiva all'accordo sul clima, firmato da paesi che generano l'80% delle emissioni carboniche del pianeta. Ma poco prima la delegazione cinese aveva suonato tutt'altra musica: "L'accordo sul clima non vincola la Cina, che ritiene fondamentale prendere in considerazione le diverse condizioni dei paesi emergenti". Dall'India all'Egitto, altri hanno appoggiato la posizione cinese, respingendo l'impegno di ridurre del 50% le emissioni di CO2 entro il 2050. La controproposta: che i paesi industrializzati si impegnino a fare molto di più, tagliando del 40% le loro emissioni entro il 2020; e che offrano fondi e tecnologie ai paesi meno avanzati per la riconversione a uno sviluppo sostenibile. Pechino articola una posizione che fa il pieno di consensi in tutto il mondo non-occidentale. Primo: la Cina ci ricorda che storicamente l'inquinamento accumulato nel pianeta lo abbiamo prodotto in massima parte noi "vecchi ricchi" nei decenni in cui eravamo i soli protagonisti dell'industrializzazione. Secondo: le nostre multinazionali hanno un ruolo decisivo nel trasferire verso le nazioni emergenti le produzioni più distruttive per l'ambiente. Terzo: il tenore di vita dei cinesi e degli indiani resta molto inferiore al nostro, in fatto di consumo frugale noi dovremmo imparare qualcosa da loro. Conclusione: non si può chiedere ai colossi asiatici di fermare le centrali a carbone solo perché loro sono troppo numerosi. Questa non è una divergenza "negoziabile" su cifre e date; è lo scontro tra visioni, interessi e bisogni profondamente diversi. Per la stragrande maggioranza dell'umanità lo sviluppo resta la priorità, l'urgenza, l'imperativo assoluto. Riuscire a cambiare la qualità di quello sviluppo, esige soluzioni profondamente innovative che fuoriescono dall'arcaica cultura negoziale delle diplomazie e degli sherpa. "Tra vecchi paesi ricchi e nazioni emergenti - osserva Kim Carstensen del Wwf - non è stato superato il grande fossato della diffidenza". D'altra parte quando il fronte degli emergenti sprigiona la sua grande forza d'interdizione, mette a nudo anche i limiti di audacia dei leader occidentali. A parte l'aver ripudiato finalmente il "negazionismo" di Bush sul cambiamento climatico, di concreto sull'ambiente Obama cos'ha fatto? Sta spingendo faticosamente al Congresso una legge sul trading di diritti d'emissione, copiata dal modello europeo che ha dato risultati deludenti. Non ha neppure messo all'ordine del giorno un aumento delle tasse sulla benzina, che al distributore in America costa meno che in Cina. Non è solo sul clima che l'apparente concordia è stata ottenuta solo annacquando all'infinito i contenuti. G8 più G5 si sono "impegnati a resistere al protezionismo e a incoraggiare l'apertura dei mercati", promettono una "conclusione ambiziosa ed equilibrata dei negoziati sulla liberalizzazione dei commerci" (Doha Round) nel 2010. Ma non c'è alcun cenno alla grande disputa sul protezionismo agricolo europeo e americano, immenso ostacolo all'accordo di Doha. Neanche una parola sulle malefiche clausole protezioniste infilate surrettiziamente in tutte le manovre di spesa pubblica anti-recessione, dal Buy American di Washington al Buy Chinese di Pechino. (L'Italia, piccola economia molto dipendente dall'export, ha tutto da perdere se avanza indisturbata questa marea neoprotezionista). La vacua convergenza sul rilancio della crescita globale è stata raggiunta solo dopo aver messo fra parentesi un'altra sfida poderosa lanciata dai cinesi: l'attacco a sua maestà il dollaro. Chiedendo di "promuovere un sistema monetario internazionale più diversificato", la delegazione di Pechino ha comunque sancito l'inizio di un processo inevitabile. Il signoraggio del dollaro, che primeggia sia nelle riserve delle banche centrali sia nei pagamenti dei commerci fra nazioni, è l'eredità di un'epoca in cui la supremazia economica americana era incontrastata. Ora la Cina moltiplica gli accordi bilaterali con India, Russia, Brasile, Argentina; in quel club già si abbandona il dollaro per passare a pagamenti bilaterali con le valute nazionali. E' naturale che questo avvenga. Basti pensare che la Cina ha sostituito gli Stati Uniti come primo partner economico del Brasile: perché gli imprenditori di Shanghai e Sao Paulo dovrebbero continuare a usare dollari nelle loro relazioni, esponendosi alla capricciosa volatilità di una moneta che riflette le debolezze del bilancio federale di Washington? Il tramonto del vecchio ordine è nei fatti. Ma quello che si disegna nel post-G8 è un mondo assai più complicato, e non necessariamente più stabile. (10 luglio 2009) da repubblica.it Titolo: FEDERICO RAMPINI. Viaggio nella trincea dello Xinjiang Inserito da: Admin - Luglio 21, 2009, 11:18:07 pm Reportage.
Due settimane dopo la più cruenta repressione etnico-religiosa mai vista da 40 anni nella Repubblica popolare cinese Ecco la città proibita di Urumqi Viaggio nella trincea dello Xinjiang La propaganda si scaglia contro la leader uigura in esilio Rebiya Kadeer e la stampa estera "faziosa e anti-cinese" dal nostro inviato FEDERICO RAMPINI URUMQI - A ogni crocevia i soldati cinesi sono disposti "a testuggine" come gli antichi romani. Quadrilateri di scudi per proteggersi da un attacco nemico che può arrivare da ogni lato, all'improvviso. Sono centurioni ad alta tecnologia: giubbe antiproiettile, scudi di plexiglas, fucili automatici puntati in faccia alla gente che passa. Due settimane dopo la rivolta degli uiguri che ha fatto duecento morti (bilancio ufficiale), la capitale dello Xinjiang vive sotto la morsa di un'occupazione militare. Accentuata da un impenetrabile black-out delle comunicazioni. Un test di accecamento elettronico che segna un nuovo progresso nelle tecniche di repressione. Teatro della più cruenta protesta etnico-religiosa mai vista da quarant'anni nella Repubblica Popolare, oggi Urumqi è tagliata in due. Nella zona moderna dove gli immigrati cinesi (han) sono la schiacciante maggioranza, la vita è tornata quasi alla normalità: ingorghi di auto e supermercati pieni, un paesaggio di neon e pubblicità sfavillanti come in tutte le metropoli della Cina. Ma una trincea di paura separa il centro storico, il ghetto dove i musulmani sono in stato d'assedio. Le vie d'accesso alla città vecchia sono vuote di automobili. Sfilano regolari solo le colonne di autocarri dell'esercito: segnalano l'inizio della "no man's land" dove i cinesi han non si avventurano più. Negli edifici pubblici requisiti dalle forze armate si vedono marce e si sentono inni patriottici a tutte le ore. La presenza militare deve essere esibita, ben visibile giorno e notte. Vaste macchie nere - le divise dei reparti speciali di polizia antisommossa - si alternano con chiazze verde-marrone - le tute mimetiche dei soldati - e colorano in modo sinistro il paesaggio urbano. Una volta attraversati i posti di blocco si penetra nella casbah islamica: diroccata, in disfacimento, con bambini che scorazzano a piedi nudi nella sporcizia, vicoli che puzzano di fogna e trasudano miseria, dove i grattacieli della città cinese sembrano appartenere a un mondo lontano. Anche lì è tornata una sorta di normalità, le bancarelle con ciambelle calde e pane "nan" schiacciato, spiedini di agnello alla griglia, profumi di spezie, donne velate, bazaar di sete, un pezzo di Medio Oriente finito a viva forza dentro la Repubblica Popolare. Quella che non ritorna, invece, è la finzione che le due città cinese e turcomanna possano convivere tranquillamente, sotto lo sguardo paterno delle autorità di Pechino. La trincea armata che separa le due Urumqi, la zona libera e i territori occupati, evoca l'altro isolamento soffocante. Su tutto lo Xinjiang - un'area vasta cinque volte l'Italia - è calato un impressionante silenzio elettronico che blocca le comunicazioni con l'esterno. Non esiste più Internet; il manager olandese dello Sheraton a cinque stelle allarga le braccia sconsolato: da due settimane non arrivano né partono email. E' impossibile telefonare all'estero, le linee internazionali sono mute, anche i cellulari sono limitati alle chiamate locali. Per sei lunghissimi giorni sono tagliato fuori dal mondo. L'implacabile macchina della censura cinese ha chiuso gli accessi, ha il controllo totale sull'informazione. Non escono notizie dall'interno dello Xinjiang. L'occupazione militare è la stessa che avevo visto un anno fa a Lhasa, dopo la rivolta del Tibet. E' nuovo il black-out tecnologico. E' un salto di efficienza che dà i risultati previsti. La tragedia degli uiguri è presto dimenticata, nonostante l'escalation nel bilancio delle vittime e degli arresti in massa dopo la strage del 5 luglio. Questa operazione hi-tech porta la firma di Wang Lequan, 64 anni, numero uno del partito comunista nello Xinjiang e fedelissimo del presidente Hu Jintao. Preso alla sprovvista nelle prime 48 ore di guerriglia urbana, che costrinse Hu a disertare il G8 dell'Aquila per rientrare precipitosamente a Pechino, in seguito Wang si è rifatto una credibilità studiando il caso Tibet. Alle tradizionali tecniche anti-insurrezionali, basate sul dispiegamento di una schiacciante forza militare, il boss del partito comunista ha aggiunto lo spregiudicato blitz tecnologico per accecare le comunicazioni. Il controllo sull'informazione consente al regime di lasciar filtrare una sola versione: il terrore del 5 luglio fu una fiammata di violenza a senso unico, gli uiguri si sono scatenati con una furia selvaggia contro gli han, mentre la polizia è intervenuta con misura. Può esserci una parte di verità in questa ricostruzione. Ma nessun osservatore indipendente ha avuto accesso agli ospedali e agli obitori. Nessuno ha potuto verificare il conteggio etnico che nella versione governativa assegna un numero preponderante di morti alla comunità han. I mass media di Stato alimentano una virulenta campagna nazionalista, con un'immensa eco in tutta la Cina. Due i bersagli: Rebiya Kadeer, la leader uigura in esilio accusata di avere istigato la rivolta a scopi secessionisti; la stampa estera bollata come faziosa, bugiarda, anti-cinese. Il controllo capillare di Wang Lequan mi insegue anche nella tappa successiva del mio viaggio, a Kashgar: la roccaforte musulmana dove gli uiguri sono ancora maggioranza. La punta estrema dello Xinjiang nel cuore dell'Asia centrale. Non passano 15 minuti dalla mia registrazione all'hotel e già una voce ostile urla al telefono della mia camera, mi convoca nel salone d'ingresso. E' un commissario di polizia in borghese, mi fa capire il personale dell'hotel. Lui non si qualifica, non mi dirà mai il suo nome. Io in piedi, lui sprofondato in una poltrona della reception con l'aria minacciosa e onnipotente, mi fa un interrogatorio in piena regola. Non ci sono turisti occidentali in albergo. Ad altri colleghi il visto da giornalista sul passaporto è valso un'espulsione immediata (e illegale). "Qui le interviste le organizzo io", mi avverte. Gli incontri con lui saranno frequenti, fino alla mia partenza. La sua presenza deve essere ben visibile ad altri, anche quando non lo vedo io: il pedinamento dei giornalisti da parte della polizia intimidisce gli uiguri, cuce le bocche dei testimoni. Davanti al mio albergo, nella Piazza del Popolo dominata dalla gigantesca statua in granito di Mao Zedong, un grande schermo proietta a ripetizione le immagini maledette del 5 luglio a Urumqi. E' un film horror offerto gratis a tutta la cittadinanza. Sono riprese selezionate, appaiono solo cinesi han dai volti sfigurati di botte e coperti di sangue. In questa roccaforte musulmana le immagini potrebbero avere quasi un effetto di incitamento alla rivolta. Ma il messaggio è completato dal via vai incessante di camion militari. Procedono a gruppi di tre autocarri. I soldati hanno i mitra spianati, e sacchetti di sabbia anti-esplosivi. Dai camion i megafoni urlano alla cittadinanza appelli all'ordine. Nel venerdì di preghiera il piazzale davanti alla moschea grande (Idh Kah) si riempie di truppe. La mia visita "turistica" dentro il luogo di culto avviene proprio in parallelo con un'ispezione di sicurezza. Mancano poche ore all'afflusso dei fedeli, un piccolo gruppo misto di ufficiali dell'esercito e funzionari di polizia perlustra l'interno della moschea. Li dirige un giovane in borghese molto curato, con i capelli cortissimi, giacca di lino e jeans chiari aderenti in foggia Armani. Un esemplare di tecnocrate che potrebbe lavorare in una merchant bank di Shanghai. A me riservano poche occhiate di sbieco, hanno ben altro da fare. Studiano con cura la disposizione dei luoghi, gesticolano per indicare le vie d'uscita. Poco dopo vedrò installare i metal detector all'ingresso della moschea. E al centro del piazzale un minaccioso camion bianco con antenna satellitare, più varie telecamere puntate sulla gente che entra. Da Kashgar prendo la strada che porta ai confini con Pakistan, Tajikistan e Afghanistan. Sono luoghi maestosi, dove il deserto Taklimakan finisce alle falde dei monti Kunlun. Paesaggi solitari e magnifici, come il lago Karakul dominato dalla cima innevata del Monte di Giada, 7.600 metri di altitudine. Le montagne desertiche sono solcate dall'autostrada nuova fiammante a quattro corsie; spuntano miniere a cielo aperto, dove le scavatrici frugano questa terra ricca di risorse. Si spinge fino a queste alture semidesertiche la potenza economica cinese, segnalata dai Tir e dalle centrali fotovoltaiche. E' la porta d'accesso ai vicini dell'Asia centrale. Ma i camionisti uiguri e kazakhi sono fermati regolarmente ai posti di blocco. Vedi i loro volti turcomanni incupirsi davanti ai poliziotti cinesi. Intuisci l'onta della loro sottomissione. Qui la potenza imperiale di Pechino lambisce il suo fronte caldo con l'Islam. Da qui la solidarietà con la causa degli uiguri viaggia verso l'Asia musulmana, provoca i raid dei talebani contro le imprese cinesi in Afghanistan, arriva fino a creare una crisi politica con il governo di Ankara. Sono appena otto milioni gli uiguri dello Xinjiang, più quattro milioni di emigrati per cercare lavoro nel resto della Repubblica Popolare: come i due uiguri uccisi in una fabbrica di Canton, la scintilla dei moti del 5 luglio. Sono un'inezia, come le altre 56 minoranze etniche, soverchiati da oltre un miliardo di han. Ma visti dalle frontiere dell'Asia centrale sono una spina nel fianco della Cina, un disturbo per la penetrazione economica in altre nazioni islamiche. In Occidente è ben più popolare la causa del popolo tibetano. Contro gli uiguri Pechino ha saputo usare l'argomento dell'anti-terrorismo, dopo che alcuni militanti sono stati catturati dagli americani in Afghanistan, e detenuti per anni a Guantanamo. L'Amministrazione Usa e i governi europei non vogliono schierarsi con movimenti secessionisti dello Xinjiang accusati di avere legami con al Qaeda. E' nel mondo islamico che la questione uigura assume un altro aspetto. Proietta l'immagine di una Cina efficiente e ricca ma spietata; un'impero multietnico che piega tutte le razze al ritmo della sua modernizzazione ma non le integra. Nell'ondata nazionalista con cui il paese ha reagito alla rivolta di Urumqi, molti cinesi hanno gettato la maschera della "società armoniosa" esaltata da Hu Jintao. Nei commenti sui giornali, nei blog e nei forum online, si è scatenato un fiume di accuse contro gli uiguri. Ladri e mafiosi. Parassiti. Privilegiati dalle facilitazioni per le minoranze. Un lungo elenco di recriminazioni si è levato dal ventre della Cina profonda, contro le forme di "affirmative action" elargite per placare le etnìe non-han. Sconvolti dalle immagini della tv di Stato sui linciaggi degli han a Urumqi, a Pechino Shanghai e Canton molti hanno ricordato che gli uiguri non sono sottoposti al controllo delle nascite, possono avere tutti i figli che vogliono. Ricevono "punti" supplementari nei concorsi di ammissione alle università. Facilitazioni che non hanno impedito un crescente divario socio-economico. E non cancellano altre umiliazioni. Come quella che cerca di nascondermi pudicamente la mia guida, che chiamerò Mohammed, quando gli chiedo se è mai stato in pellegrinaggio alla Mecca. "Non ho fretta - mi risponde - prima devo sistemare i figli. Il Corano dice che ci sono altre priorità". Una penosa bugìa. Agli uiguri il viaggio alla Mecca è proibito dal 2001. In un paese dove la libertà di andare all'estero è ormai un diritto di massa, per gli uiguri è difficile ottenere il passaporto. Sono ridotti a sentirsi prigionieri, in una terra che consideravano tutta loro. (21 luglio 2009) da repubblica.it Titolo: FEDERICO RAMPINI. Brown furioso per l'accoglienza a Megrahi Inserito da: Admin - Agosto 26, 2009, 04:45:31 pm Primo dossier per il neo ambasciatore.
Brown furioso per l'accoglienza a Megrahi Gheddafi a New York il 24 settembre Le famiglie delle vittime di Lockerbie pronte alla protesta Il premier a Tripoli i dubbi della Casa Bianca dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI NEW YORK - La visita di Berlusconi da Gheddafi è il primo dossier delicato che attende il nuovo ambasciatore americano in Italia. Il 64enne David Thorne pochi giorni fa ha concluso la "cerimonia del giuramento" a Boston, sotto lo sguardo affettuoso del suo sponsor politico più importante: il cognato John Kerry, ex candidato presidenziale e presidente della commissione Esteri al Senato, che ha convinto Obama a sceglierlo come rappresentante a Roma. Imprenditore di successo, grande conoscitore del nostro paese dove visse dall'età di 8 anni (suo padre amministrava gli aiuti del Piano Marshall nel dopoguerra), Thorne parla correntemente l'italiano: gli sarà utile per trasmettere con precisione le perplessità e i timori di Washington sulla questione libica. Un tema diventato scottante dopo l'accoglienza trionfale organizzata a Tripoli per Abdel Basset Ali al-Megrahi, il terrorista colpevole della strage di Lockerbie in cui undici anni fa morirono 189 americani. Condannato all'ergastolo, al-Megrahi è stato rilasciato dalla Scozia per ragioni umanitarie, perché sarebbe malato di cancro. Oltre a "deplorare" la decisione scozzese, Obama aveva subito ammonito la Libia: "Che al suo arrivo non sia trattato da eroe". Come è puntualmente accaduto, suscitando orrore in America. Le famiglie delle vittime di Lockerbie preparano manifestazioni di protesta per il 24 settembre, quando Gheddafi verrà a New York all'assemblea dell'Onu. E la Casa Bianca non può sottovalutare il loro dolore. Ieri il premier britannico Gordon Brown si è allineato con Washington, si è detto "furioso" e "disgustato". Era il primo commento fatto da Brown, ed è chiaro che le sue parole erano soppesate per tamponare lo sdegno degli Stati Uniti. Il premier ha spiegato che a luglio aveva detto a Gheddafi che il governo britannico non poteva avere alcun ruolo nella liberazione di al-Megrahi, decisione presa dall'esecutivo scozzese. "Sono arrabbiato e provo repulsione per l'accoglienza ricevuta al suo ritorno in Libia da un attentatore colpevole di un enorme crimine terroristico", ha detto Brown. Il premier ha aggiunto che l'impegno della Gran Bretagna contro il terrorismo resta "assoluto", e ha negato che la vicenda possa danneggiare i rapporti con gli Usa. Brown ha sentito il bisogno di una condanna così netta dopo che la Libia era riuscita a coinvolgere Londra, ringraziando per il presunto ruolo della famiglie reale ed altre connessioni altolocate che avrebbero facilitato la liberazione. Altrettante ragioni di irritazione a Washington, dove adesso si guarda con apprensione agli "usi" politici che Gheddafi potrà fare della visita di Berlusconi. Non che la squadra di Obama voglia ripudiare il disgelo iniziato nel 2003 tra l'Amministrazione Bush e la Libia. Ma Gheddafi viene considerato poco affidabile. Mantenere i patti non è il suo forte, soprattutto se i patti includono clausole di riservatezza. Così al G8 dell'Aquila il portavoce di Obama sentì il bisogno di precisare che l'abbandono del programma nucleare libico fu "una decisione assolutamente volontaria". Per sgomberare il campo da "rivelazioni" su presunte contropartite. Dell'Italia, Washington teme la fragilità strutturale, legata all'eccessiva dipendenza energetica da poche fonti, geopoliticamente ad alto rischio. E nessuno dimentica che a Roma a giugno Gheddafi definì l'America "terrorista come Bin Laden". Cosa potrà accadere con Berlusconi a Tripoli? Più delle Frecce Tricolori si temono scivoloni di sostanza, come accadde un anno fa quando il Trattato di pace Italia-Libia parve contenere una clausola di protezione per Tripoli contro l'uso delle basi Nato. Casa Bianca e Dipartimento di Stato non vogliono rilasciare dichiarazioni, anche per non pregiudicare i primi passi del neo-ambasciatore. Ma che il viaggio di Berlusconi giunga in un momento inopportuno, se lo lasciano strappare. (26 agosto 2009) da repubblica.it Titolo: FEDERICO RAMPINI. Ultimatum di Obama al Congresso Sanità per tutti gli americani Inserito da: Admin - Settembre 11, 2009, 11:16:04 am In un atteso discorso alle Camere, il presidente ritrova i toni della campagna elettorale
"Non sono il primo a provarci, ma voglio essere l'ultimo. Il tempo dei giochi politici è finito" Ultimatum di Obama al Congresso "Sanità per tutti gli americani" dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI NEW YORK - "Non sono il primo presidente a provarci - dice - ma voglio essere l'ultimo". Barack Obama lancia il suo ultimatum al Congresso: la "sua" riforma sanitaria va fatta, e va chiusa entro quest'anno. Il presidente ritrova i toni ispirati della campagna elettorale, denuncia lo scandalo di un sistema di assistenza medica che "esclude perfino molti appartenenti al ceto medio". Fustiga il suo Paese con rara violenza: "L'America è l'unica democrazia avanzata, è l'unica nazione ricca, che si trova in condizioni così penose. Dove le assicurazioni ti possono revocare ogni assistenza col pretesto di una malattia pre-esistente; o perché hai perso il lavoro". Racconta storie tragiche, come quella di una donna abbandonata dall'assicurazione nel bel mezzo della chemioterapia per il tumore al seno. "Dobbiamo offrire un'assistenza sanitaria alla portata dei 46 milioni di americani che non ce l'hanno. Nessuno dovrebbe finire in bancarotta solo perché si è ammalato. Siamo a un punto di rottura, il tempo dei giochi politici è finito". Obama annuncia la sua controffensiva sulla riforma sanitaria, un test decisivo. Lo fa in un attesissimo discorso davanti alle Camere riunite e alla nazione, in diretta alle otto di sera locali su tutti i network tv. E' la sfida su cui si gioca la sua presidenza. Dopo un'estate in affanno, messo in difficoltà dagli attacchi dell'opposizione e con indici di popolarità in declino (il 52% dei cittadini lo boccia sulla sanità), il presidente scende in campo e si gioca la sua autorevolezza. Capisce di aver sbagliato a lasciare la briglia sciolta al Congresso. "Non perderò più il mio tempo", minaccia: è un ultimatum contro chi vuole solo sabotare la riforma. Annuncia per la prima volta dei principi non negoziabili, i contenuti che devono essere nella nuova legge, senza i quali opporrà il veto. Il primo rassicura i moderati: "Non un centesimo di deficit pubblico in più". Questa riforma da 900 miliardi di dollari "deve autofinanziarsi", attraverso risparmi, tasse sulle assicurazioni private e i contribuenti ricchi. Ma ricorda che il costo di questa riforma è molto inferiore a quello delle guerre in Iraq e in Afghanistan, o agli sgravi fiscali per i ricchi varati da George Bush. Il secondo principio: "Migliorare l'assistenza per chi l'ha già; offrirla a quelli che finora non possono permettersela". E' un dosaggio di giustizia sociale per affrontare una delle piaghe più gravi dell'America e di stabilità. Guai a spaventare gli americani che lavorano nelle grandi aziende, hanno polizze assicurative soddisfacenti, e perciò temono "la mutua di Stato". Su questo punto controverso - il varo di un'assicurazione pubblica - Obama resta prudente e non pone pregiudiziali. Non è vera riforma, dice, senza "un'autentica possibilità di scegliere, una concorrenza che offra agli americani diverse opzioni". Oggi la sanità lasciata alle forze di mercato non funziona, ricorda il presidente. Le compagnie assicurative si riservano di negare le polizze ai soggetti a rischio, e perfino di cancellarle per chi viene colpito da malattie gravi. Questo "sarà vietato per legge". Il costo delle polizze oggi è alle stelle, è proibitivo per piccole aziende, autonomi, disoccupati. La folle "inflazione medica" costringe gli Usa a spendere il 16% del Pil per la sanità, molto più degli altri Paesi sviluppati e con risultati inferiori. Offrire un'assicurazione pubblica in concorrenza con le private, secondo Obama "aiuterebbe a migliorare la qualità delle cure e a ridurre i costi". Il presidente fa un gesto gradito alla sinistra del suo partito, che vuole l'opzione pubblica come garanzia di equità. Sul fronte opposto c'è la furiosa resistenza dei repubblicani e delle lobby del capitalismo sanitario. Obama non si spinge fino alle estreme conseguenze. Non minaccia il veto presidenziale se la riforma non conterrà l'opzione pubblica. Può accettare una fase transitoria in cui si sperimenta la creazione di cooperative per far concorrenza alle assicurazioni private. Preannuncia una "Borsa delle polizze" in cui cittadini e datori di lavoro possano selezionare le offerte più competitive. "Sono aperto a idee nuove, non ho rigidità ideologiche", insiste il presidente. Condanna la campagna di calunnie organizzata dalla destra repubblicana durante l'estate, con l'appoggio della lobby assicurativa: la riforma sanitaria è stata accusata perfino di imporre l'eutanasìa obbligatoria, negando le cure agli anziani per ridurre le spese. Smentisce anche l'accusa di voler estendere gratis l'assistenza agli immigrati clandestini. "La Casa Bianca ha cercato di mantenere un tono civile. Gli avversari hanno usato tattiche del terrore. Spero che il partito repubblicano riscopra la voce della ragione. Troveranno un partner disponibile". Riserva strali acuminati alle compagnie assicurative, che "guardano solo ai profitti da esibire a Wall Street, e strapagano i loro top manager". "Sull'80% delle misure c'è ormai un accordo", dice, ma nonostante l'ottimismo Obama non ha fatto breccia nell'opposizione. Il partito repubblicano è convinto che sulla sanità potrà affondare questo presidente, come fece con Bill Clinton nel 1993. Questa legge è uno snodo decisivo: se Obama non la porta a casa entro l'anno, tutta l'agenda delle riforme è a rischio. Ma se sui repubblicani non ci sono più illusioni, le aperture al dialogo di Obama in realtà hanno altri obiettivi. Vuole ricompattare il suo partito democratico, divaricato tra l'ala progressista che vuole una riforma audace, e i moderati che temono un'ulteriore esplosione di spesa pubblica. Soprattutto Obama si rivolge alla nazione, per spazzare via miti e leggende sul "socialismo sanitario" che hanno seminato l'ansia. Quattro dei cinque disegni di legge in esame al Congresso soddisfano i suoi "principi essenziali": assicurazione obbligatoria per tutti, sussidi pubblici per chi non può permettersela, controlli sulle tariffe assicurative, e divieto di escludere i pazienti. Il presidente tira fuori, nel finale a sorpresa, una lettera che Ted Kennedy gli scrisse prima di morire. E' il momento più alto del suo discorso. "Siamo di fronte a una sfida morale, che riguarda i principi fondamentali di giustizia sociale. E' in gioco il carattere stesso della nostra nazione. Non possiamo accettare rinvii, non possiamo fallire questo appuntamento con la storia". (10 settembre 2009) da repubblica.it Titolo: FEDERICO RAMPINI Bonus e speculazioni sono già tornati Inserito da: Admin - Settembre 12, 2009, 11:33:18 am ECONOMIA
Dopo la crisi i padroni della finanza hanno ricominciato a colpire Il nuovo capo di Aig ha uno stipendio 13 volte superiore a quello di Obama Bonus e speculazioni sono già tornati dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI NEW YORK - Per festeggiare l'anniversario del crac che fece tremare il mondo, la top manager della banca Wells Fargo, Cheronda Guyton, ha avuto un'idea originale. Ha organizzato un party sontuoso dentro una villa di Malibu da 12 milioni di dollari. Pignorata a un cliente rovinato dal truffatore Bernie Madoff. Il nuovo amministratore delegato del colosso assicurativo Aig, il cui salvataggio pubblico è costato al contribuente americano 182 miliardi di dollari, si è assegnato di recente uno stipendio da 7 milioni l'anno: 13 volte quello del presidente degli Stati Uniti. Un anno dopo la bancarotta della Lehman Brothers, i padroni della finanza sono tornati a colpire. Impuniti e arroganti come prima. Il 15 settembre 2008 è una data che Wall Street non può dimenticare. E' una di quelle giornate impresse nella memoria in modo così indelebile che ciascuno ricorda cosa stava facendo, dov'era, in quale compagnia: come l'11 settembre 2001, o il giorno dello sbarco sulla luna. Il tracollo della celebre banca d'investimento ebbe effetti a catena sui mercati mondiali. Provocò il panico non solo tra i risparmiatori mai ai vertici dell'alta finanza, una crisi di sfiducia tale che le banche smisero di prestarsi fondi tra loro. Fu la paralisi completa del credito, un collasso sistemico. Nei giorni terribili che seguirono, mentre le banche centrali e i governi tentavano ogni manovra d'emergenza per rianimare il capitalismo, fu detto: il mondo non sarà mai più come prima. Oggi quella profezia si è realizzata solo in parte. Certo, la grande recessione ha lasciato ferite profonde nel tessuto sociale. I consumatori hanno scoperto comportamenti "frugali". Il ruolo dello Stato nell'economia si è allargato in tutti i paesi. Ma è proprio nell'epicentro originario della crisi, il mondo della finanza, che la spinta per il cambiamento si è già esaurita. Lo constata con sgomento perfino il quotidiano più letto da quei signori, il Wall Street Journal: "La catastrofe Lehman ha lasciato immutate molte cose. Lo sforzo di riformare le regole dei mercati è stato sconfitto dalla resistenza dei banchieri. I superstipendi sono di ritorno. Le speculazioni ad alto rischio pure. Tornano a circolare prodotti finanziari esotici molto simili a quelli che nell'autunno scorso trascinarono i mercati e l'economia globale nel precipizio". La velocità con cui Wall Street è tornata a praticare i vecchi vizi, è sconcertante. Dopotutto, le scosse dello "sciame postsismico" sono ancora percettibili. Sono fallite 100 aziende di credito, ma la Federal Insurance Deposit prevede che ne moriranno altre 200 entro i prossimi 12 mesi. Il segretario al Tesoro Tim Geithner sta concludendo solo in questi giorni le operazioni di soccorso straordinario che hanno pompato 2.500 miliardi di dollari di liquidità per garantire le banche. E decine di migliaia di dipendenti bancari hanno perso il lavoro. Ma per chi è rimasto al suo posto, la Bengodi ricomincia. Le cinque maggiori banche di Wall Street hanno già riservato 61 miliardi di dollari per le gratifiche ai propri manager e trader, solo nel primo semestre di quest'anno. E' un po' meno che nel 2007 - l'ultimo anno della bolla speculativa prima del tracollo - ma oggi il bottino si spartisce tra un numero minore di banchieri. Individualmente, tornano a guadagnare ancora più dei livelli precrisi. E come hanno fatto ad aggirare le regole "tassative" varate dall'Amministrazione Obama e dal Congresso per evitare quegli eccessi? Semplice: la legge limita i bonus, cioè i premi di fine anno, quindi loro si sono aumentati gli stipendi mensili. Il numero uno della Goldman Sachs, Lloyd Blankfein, a una conferenza in Germania mercoledì ha espresso "comprensione" per gli attacchi ai superstipendi dei banchieri. Ma la Goldman nel frattempo ha già accantonato 11,4 miliardi da elargire ai dipendenti solo nella prima metà del 2009. In parallelo con l'ingordigia dei top manager, tra loro è tornata anche la febbre della speculazione. L'insieme dei titoli derivati - ad alto rischio - detenuti dalle banche americane ha raggiunto 14.600 miliardi di dollari: quasi il triplo rispetto al 2006. Dietro la corsa al rialzo della Borsa - il Dow Jones ha guadagnato il 54% da marzo - e dietro altri fenomeni sconcertanti come l'oro a 1.000 dollari l'oncia, o l'euro che sfiora un dollaro e mezzo, c'è una constatazione disarmante: nel Casinò della finanza sono ricominciate le puntate spericolate, i giochi d'azzardo. Wall Street ha ripreso a fabbricare perfino i famigerati "titoli tossici", le cosiddette obbligazioni strutturate che furono il detonatore iniziale della grande crisi: nel 2007 ci trituravano e impacchettavano dentro i debiti dei mutui subprime, oggi il gioco si fa con le polizze vita degli anziani. La grande assente è la riforma generale delle regole. Invocata da tutti i G20 degli ultimi dodici mesi, il 24 settembre farà di nuovo la sua apparizione al summit di Pittsburgh. Nel ruolo di un fantasma che non fa più paura a nessuno. (12 settembre 2009) da repubblica.it Titolo: FEDERICO RAMPINI Vola il Dow Jones vola Inserito da: Admin - Novembre 10, 2009, 09:29:06 am Federico Rampini
Vola il Dow Jones vola 10.170 è l’ultima quota raggiunta dall’indice azionario Dow Jones pochi minuti fa. Un nuovo massimo da oltre un anno. A nulla servono quindi gli avvertimenti di esperti autorevoli che mettono in guardia contro questa nuova euforìa, primo fra tutti l’economista Nouriel Roubini. Roubini fu uno dei pochi a prevedere in modo preciso la grande crisi del 2007-2008. Pochi giorni fa ha lanciato l’allarme sulla nuova bolla speculativa, secondo lui alimentata dalla politica del credito facile perseguita dalle banche centrali. La Federal Reserve americana mantiene i tassi direttivi a quota zero e di recente ha ribadito che non ha l’intenzione di cambiare strategia né a breve né a medio termine. Il credito a buon mercato e la liquidità abbondante alimentano ogni sorta di speculazione. Una delle più pericolose secondo Roubini è il “carry trade”: consiste nell’indebitarsi in dollari (visto che costa poco) e poi investire in altre monete dai rendimenti maggiori (per esempio il dollaro australiano). L’oro alle stelle, i futures del petrolio in risalita, le Borse dei paesi emergenti che macinano rialzi spettacolari, lo stesso Dow Jones in impennata: tutto sembra ”déjà vu”. I quotidiani che dovrebbero fare opinione tra gli investitori – dal Financial Times all’Economist – trasudano pessimismo su questa bolla. Gordon Brown ha provato a proporre una tassa sulle transazioni finanziarie ma la sua idea è stata bocciata. Sembra di rivedere il gioco del cerino acceso che andò avanti fino all’inizio del 2008. Quando ormai erano chiari i segnali di una grande crisi, ma banchieri e gestori di fondi esitavano a tirarsi fuori. C’è una logica terribile nel mondo della finanza. Vendere troppo presto è un peccato imperdonabile: significa rinunciare a un guadagno facile e cospicuo. Vendere quando crolla tutto invece è un errore veniale: perché il banchiere incauto può sempre dire che i suoi colleghi hanno fatto come lui. da rampini.blogautore.repubblica.it Titolo: Federico Rampini L’America è delusa dal G2. Inserito da: Admin - Novembre 19, 2009, 02:38:21 pm L’America è delusa dal G2.
Federico Rampini Barack Obama è arrivato all’ultima tappa della tournée asiatica. A Seul oggi affronta da vicino la minaccia nucleare nordcoreana. Ma in patria si fa già un bilancio critico di questa tournée. I giudizi sono impietosi. “La Cina è stata irremovibile – osserva il New York Times – Obama ha scoperto una superpotenza in ascesa che è ben decisa a dire no agli Stati Uniti”. Ancora più duro il Washington Post: “Obama torna dalla Cina senza risultati sui dossier importanti, dal nucleare iraniano alla rivalutazione del renminbi. E’ poco per un presidente che fece campagna elettorale promettendo grandi cambiamenti nella diplomazia. L’unica cosa che è cambiata è il tono conciliante degli Stati Uniti”. Obama ha concesso molto ai suoi interlocutori. Ha cominciato con l’inchino un po’ troppo ossequioso all’imperatore giapponese, erede della dinastia che porta la responsabilità storica dell’attacco su Pearl Harbor. A Pechino, a differenza dei suoi predecessori, per non irritare i padroni di casa Obama non ha cercato di incontrare qualche dissidente perseguitato. Non ha fatto il gesto di andare a messa, che George Bush fece per sollevare il tema della libertà religiosa. La Casa Bianca stavolta non ha ottenuto neppure la diretta televisiva per il dialogo tra Obama e gli studenti di Shanghai. Ha dato fin troppo e in cambio di cosa?, si chiedono in America. da rampini.blogautore.repubblica.it Titolo: FEDERICO RAMPINI. Usa, compromesso svolta per la riforma sanitaria di Obama Inserito da: Admin - Dicembre 09, 2009, 04:39:51 pm Situazione sbloccata dopo il Partito democratico trova un accordo per estendere "Medicare", l'assistenza pubblica per i pensionati ai 55enni
Usa, compromesso al Senato svolta per la riforma sanitaria di Obama dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI NEW YORK - Un compromesso raggiunto ieri sera al Senato di Washington potrebbe spianare la strada per l'approvazione della riforma sanitaria voluta da Barack Obama. Al centro dell'intesa c'è la controversa "opzione pubblica", cioè l'introduzione di una forma di assicurazione sanitaria offerta dallo Stato, in concorrenza con le assicurazioni private. Finora questo nodo sembrava finora insormontabile, non solo per la decisa opposizione dei repubblicani ma anche per le divisioni in seno alla maggioranza democratica. La componente più moderata del partito democratico - sensibile anche alle pressioni della lobby assicurativa - è contraria a quella che viene demonizzata come una "statalizzazione" del sistema sanitario. Ieri sera il capogruppo democratico al Senato, Harry Reid, ha annunciato che è stato raggiunto "un ampio accordo" in seno al partito di maggioranza per risolvere la disputa sul ruolo dello Stato. I dettagli dell'accordo non erano ancora noti ieri sera, ma secondo le prime indiscrezioni un punto centrale sarebbe questo: l'estensione del Medicare, un'assistenza sanitaria già oggi gestita dallo Stato e riservata agli ultra-65enni. Il progetto di riforma potrebbe offrire già a partire dall'età di 55 anni la possibilità di aderire al Medicare. Il compromesso offrirebbe diversi vantaggi. Il Medicare, pur essendo sotto l'ombrello pubblico, è un sistema flessibile che consente il ricorso a medici e ospedali privati. Ha generalmente una buona reputazione fra i pensionati che già ne usufruiscono. Estenderlo ai 55enni darebbe di fatto l'opzione pubblica a una consistente fascia di "baby-boomers". Potrebbe essere un test iniziale, il primo passo verso un'estensione ad altre categorie di età. Non è però quell'opzione pubblica generalizzata, che vorrebbe la sinistra democratica per calmierare l'iperinflazione dei costi medici e delle tariffe assicurative. Ieri intanto, sempre al Senato, un altro passaggio importante è stato la bocciatura (54 voti contro 45) di un emendamento repubblicano che puntava a vietare il rimborso delle spese di aborto nelle nuove regole assicurative previste dalla riforma. Una sorta di "cavallo di Troia" con cui il partito anti-abortista tentava di usare la riforma sanitaria per impedire l'interruzione di gravidanza alle donne più povere. Se fosse passato l'emendamento infatti, solo le donne che chiedono il sussidio pubblico per assicurarsi, si sarebbero viste negare il diritto all'aborto. "Una maggioranza - ha detto la senatrice Dianne Feinstein, democratica della California - ha deciso che non è giusto vietare l'aborto a una donna solo perché la sua polizza sanitaria riceve un sussidio dal governo". © Riproduzione riservata (9 dicembre 2009) da repubblica.it Titolo: FEDERICO RAMPINI. Il vescovo di New York contro il Times... Inserito da: Admin - Gennaio 17, 2010, 04:19:08 pm Martedì si vota in Massachusetts per il seggio lasciato vacante alla morte di Ted
Un feudo democratico messo in pericolo dai repubblicani e dal nuovo movimento Tea Party Vacilla il trono Kennedy e Obama vola a Boston dal nostro inviato FEDERICO RAMPINI BOSTON - "Se viene a Boston oggi lo accuseranno di trascurare la tragedia di Haiti. Se non viene rischia di perdere un voto locale da cui dipende tutta la sua presidenza". È il dilemma di Barack Obama, secondo l'esperto elettorale del Partito democratico Peter Fenn. Ma la Casa Bianca ha deciso. Ad Haiti è stata mandata Hillary Clinton, il presidente oggi accorre a Boston a fare campagna. È il segnale di massima allerta. "Democratici sull'orlo del panico", li descrive il Boston Globe. Tutto per una banale elezione suppletiva che fino a poche settimane fa era considerata un non-evento. Martedì qui nel Massachusetts si vota per il seggio di senatore rimasto vacante nell'agosto scorso con la morte di Ted Kennedy. Monopolio democratico, feudo di Ted per 47 anni, il Massachusetts è l'angolo d'America più progressista che si possa immaginare. Qui per molto tempo hanno convissuto, rafforzandosi a vicenda, i diversi pilastri del kennedysmo: la vecchia sinistra sindacale dei colletti blu, l'immigrazione operaia irlandese e italiana, e l'intellighenzia liberal che affolla le migliori università del pianeta, tutte concentrate sulla sponda del Charles River dirimpetto a Boston: Harvard, Brandeis, il Massachusetts Institute of Technology. Qui il blocco sociale progressista nell'ottobre 2008 garantì a Obama un trionfo: il 62% dei voti. E ora potrebbe squagliarsi. Fino a far deragliare la sua presidenza. L'allarme è suonato all'improvviso. Ancora tre settimane fa un sondaggio del Boston Globe dava alla candidata democratica Martha Coakley un comodo vantaggio di 17 punti. Venerdì scorso, nell'ultima indagine fatta dalla Suffolk University, il suo rivale repubblicano Scott Brown l'ha sorpassata: 4 punti di vantaggio. L'inverosimile può accadere. Un uomo di destra nel seggio dal quale Ted Kennedy lanciò per mezzo secolo le sue battaglie sui diritti civili e le riforme sociali? Oltre allo shock simbolico, una disfatta qui avrebbe gravi ripercussioni nazionali. A Washington i democratici scenderebbero sotto la fatidica soglia dei 60 senatori, cioè quella maggioranza qualificata che impedisce all'opposizione di destra di paralizzare l'agenda legislativa con l'ostruzionismo. Salterebbe quasi sicuramente la riforma della sanità; con un effetto-domino finirebbero impantanate le nuove leggi sull'ambiente, sui mercati finanziari, sull'immigrazione. Obama lo riconosce esplicitamente nel messaggio su YouTube che ha rivolto agli elettori di Boston alla vigilia del suo arrivo qui: "Tutti i miei progetti di cambiamento possono dipendere da un solo voto al Senato". Poi ci sarebbe lo shock psicologico, che secondo la politologa di destra Peggy Noonan è destinato a condizionare le elezioni di mid-term a novembre. "Già preoccupati dalle sconfitte di due mesi fa in Virginia e New Jersey - ricorda la Noonan -, nei collegi a rischio alcuni democratici hanno ritirato le loro candidature per novembre". Se la destra espugna il Massachusetts, avrà speranze di infliggere una batosta a Obama tra dieci mesi, forse addirittura mettendolo in minoranza al Congresso. Sembra incredibile che a provocare tutto questo sia stato lui, Scott Brown. Per trovare qualcosa nella biografia di questo avvocato di 50 anni i mass media locali hanno dovuto scavare fino agli anni dell'università: quando vinse una gara per lo studente più sexy del suo ateneo. Come premio finale, una foto in cui appare nudo su Cosmopolitan (dopo averla vista alcune elettrici si sono candidate per fargli da bodyguard nei comizi). All'inizio le sue chances erano così limitate da scoraggiare i finanziatori. "Per mesi ho usato solo email, Facebook e Twitter - racconta - perché non avevo i soldi neppure per comprare francobolli e spedire i volantini". Girando con il suo camioncino, Brown ha fatto una campagna all'antica. Umilmente. Una cittadina alla volta, ha stretto migliaia di mani, ha partecipato a riunioni di quartiere o di caseggiato. Tutto il contrario della candidata democratica. Preparata, autorevole, la 57enne Martha Coakley è un volto noto per i cittadini: è l'attorney general (procuratore capo) del Massachusetts. La certezza di stravincere l'ha resa arrogante. Poco disponibile a incontrare i semplici cittadini, si è accontentata di garantirsi le alleanze con i "signori dei voti", i notabili del partito, l'establishment sindacale, le lobby professionali. Fino a farsi una fama pericolosa. "È una persona fredda, distante, ignora i problemi quotidiani della gente", la incalza Brown negli spot televisivi. "Le linee d'attacco di Brown - osserva lo studioso elettorale Stuart Rothenberg - colgono i punti deboli non solo della Coakley ma dei democratici e dello stesso Obama. La sanità, per esempio. La maggioranza degli americani o non condivide questa riforma, oppure non capisce perché abbia monopolizzato l'attenzione. La disoccupazione è ben più importante". La campagna di Brown ha assunto vigore grazie al Tea Party Movement, la nuova rivolta anti-tasse. Battezzata così in omaggio a un evento storico che avvenne proprio a Boston, culla dell'indipendenza: qui nel 1773 gli americani si ribellarono al dominio coloniale inglese buttando in mare tonnellate di tè (fonte di gettito fiscale per Londra). Il nuovo Tea Party è una mobilitazione dal basso contro la riforma sanitaria e tutti i progetti di Obama che la destra definisce statalisti o addirittura "socialisti". Coglie un'ansia diffusa: il timore che dopo la grande recessione arrivino le stangate fiscali, a stremare un ceto medio già in difficoltà. "Con questo messaggio - osserva lo stratega della destra Whit Ayres - Brown ha spostato tanti elettori indecisi e indipendenti perfino nella roccaforte liberal del Massachusetts. Figurarsi il successo che può avere su scala nazionale. Se questa strategia vince qui, sarà il nostro modello per la riscossa di novembre". © Riproduzione riservata (17 gennaio 2010) da repubblica.it Titolo: FEDERICO RAMPINI. "Wall Street ha aiutato Atene a truccare i conti pubblici" Inserito da: Admin - Febbraio 15, 2010, 11:06:05 pm Inchiesta del New Yor Times sul ruolo giocato da Goldman e JP Morgan.
Ombre anche sull'Italia "Wall Street ha aiutato Atene a truccare i conti pubblici" dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI NEW YORK - La Grecia ha truccato i conti pubblici e ha ingannato per anni l'Europa con l'aiuto dei "soliti noti": Goldman Sachs e altri colossi di Wall Street. Lo rivela il New York Times in un'ampia inchiesta che getta nuove ombre sulla credibilità della Grecia, proprio mentre l'Eurozona è alle prese con i piani per il suo salvataggio. L'inchiesta dimostra che gli stessi metodi usati da Wall Street per creare la bolla speculativa dei mutui subprime sono stati replicati con le finanze pubbliche della Grecia e di altri paesi europei, Italia inclusa. Grecia e Italia vengono citate fra quei Paesi i cui governi hanno fatto ricorso alla consulenza delle grandi banche americane (Goldman Sachs e JP Morgan Chase) per delle operazioni di "chirurgia estetica" che hanno dissimulato la vera entità dei deficit pubblici. Un ruolo perverso spetta ai titoli derivati: quanto hanno nascosto, e quanto nascondono tuttora, dell'indebitamento di alcuni Stati sovrani? Il caso greco domina le rivelazioni, creando un serio imbarazzo al governo di Georgios Papandreou ma anche ai suoi interlocutori di Bruxelles, Berlino e Parigi alle prese col rischio di crac sovrano di uno Stato membro dell'Eurozona. Decine di interviste documentano un inganno andato avanti a lungo, "dieci anni di menzogne della Grecia" che hanno gettato fumo negli occhi della Commissione europea e hanno consentito ad Atene di aggirare il Patto di stabilità. Uno dei "montaggi finanziari" escogitati da Goldman Sachs "ha nascosto alle autorità di Bruxelles miliardi di debiti". Fino all'ultimo, poco prima che le convulsioni della crisi greca esplodessero alla luce del sole, sull'asse Atene-Wall Street si è tentato di barare. A novembre una delegazione di altro livello della banca americana è arrivata ad Atene per discutere una nuova possibilità di guadagnare tempo. La missione era guidata da Gary Cohn, presidente di Goldman Sachs. I maghi della finanza avevano in mente un nuovo dispositivo per far scivolare i costi attuali della sanità pubblica greca "sui bilanci di anni molto lontani". Un po' come, in America, le banche rifilavano dei nuovi mutui ai proprietari di case sommersi dai debiti. Il trucco aveva funzionato in precedenza. Nel 2001, subito dopo l'ammissione della Grecia nell'Unione monetaria, la stessa Goldman Sachs aveva assistito il governo di Atene nel reperire miliardi sui mercati. Quel finanziamento del debito pubblico fu nascosto nei bilanci, grazie a un montaggio che la trasformava in un'operazione sui cambi anziché un prestito. Nel novembre 2009 il tentativo fallì: troppo tardi, forse. L'attenzione dei mercati e della Commissione europea deve aver sconsigliato l'ennesimo trucco. Il New York Times specifica che i derivati hanno svolto un ruolo chiave in questa vicenda. Scrive che "gli strumenti finanziari elaborati da Goldman Sachs, JP Morgan Chase e altre banche, hanno consentito ai leader politici di mascherare l'indebitamento aggiuntivo in Grecia". E con "l'aiuto della JP Morgan l'Italia ha fatto di più. Nonostante persistenti alti deficit, un derivato del 1996 ha aiutato l'Italia a portare il bilancio in linea". In decine di montaggi finanziari, rivela l'inchiesta, "le banche fornivano liquidità immediata ai governi in cambio di rimborsi futuri, e questi debiti venivano omessi dai bilanci pubblici". Un esempio: la Grecia rinunciò ai proventi della lotteria nazionale e delle tasse aeroportuali per anni a venire, in cambio di una liquidità immediata. Questo genere di operazioni non sono state contabilizzate come dei prestiti. Ingannando così sia le autorità di Bruxelles, sia gli investitori in titoli del debito pubblico greco, che ignoravano la vera dimensione dell'indebitamento e quindi il rischio d'insolvenza. Come un tocco di ironia alcuni dei montaggi finanziari furono battezzati coi nomi di dèi dell'Olimpo, come Eolo. Secondo l'economista Gikas Hardouvelic "i politici vogliono passare la patata bollente a qualcuno, se un banchiere gli dimostra come farlo, lo fanno". Sulla stessa lunghezza d'onda Garry Schinasi, esperto della task force di vigilanza sui mercati all'Fmi: "Se un governo vuole imbrogliare, ci riuscirà". Le banche hanno fornito il know how, e si sono fatte compensare: per il montaggio del 2001 Goldman Sachs ricevette una commissione di 200 milioni di dollari dalla Grecia. Quell'operazione fu un "swap sui tassi d'interesse": uno strumento che può servire a coprirsi da un rischio di variazione dei tassi, ma può anche essere usata a fini speculativi. Essa consente a un investitore o a uno Stato di convertire un debito a tasso variabile in uno a tasso fisso, o viceversa. Analogo è lo "swap di valute" che serve a proteggersi contro una variazione nei tassi di cambio, oppure a speculare su futuri scossoni tra le monete. Infine la "chirurgia estetica" sui conti greci ha ipotecato aeroporti e autostrade, mettendo i loro proventi nelle mani dei creditori per molti anni futuri. Il problema che emerge dalle rivelazioni del New York Times riguarda i danni alla trasparenza dei bilanci pubblici. "Il peccato originale dell'Unione monetaria - conclude l'inchiesta - è che Italia e Grecia vi entrarono con deficit superiori ai livelli consentiti dal Trattato di Maastricht. Anziché ridurre la spesa, però, i governi tagliarono artificialmente i deficit con l'uso di derivati. E i derivati, in quanto non appaiono ufficialmente nei bilanci, creano un'ulteriore incertezza". I campanelli d'allarme non sono mancati. Già nel 2008 Eurostat, l'istituto statistico di Bruxelles, aveva attirato l'attenzione sulle operazioni di "cartolarizzazione" dei debiti pubblici "montate ad arte per ottenere un certo risultato sui conti pubblici". Ancora prima, nel 2005, l'allora ministro delle Finanze greco Georgios Alogoskoufis, avvertì che l'operazione fatta con l'assistenza di Goldman Sachs avrebbe "appesantito i conti pubblici con pagamenti fino al 2019". In un giro perverso di transazioni, alcuni di quei titoli sono stati perfino usati dalla Grecia come "garanzie" in deposito alla Bce. Per il contribuente tedesco, che adesso dovrebbe finanziare il salvataggio, la diffidenza è più giustificata che mai. © Riproduzione riservata (15 febbraio 2010) da repubblica.it Titolo: FEDERICO RAMPINI. Egemonia asiatica, la Cina punta alla leadership totale Inserito da: Admin - Febbraio 18, 2010, 02:54:40 pm L'America scopre di temere la rincorsa cinese.
Dall'economia alle tecnologie dai trasporti all'energia Pechino guadagna sempre più terreno Egemonia asiatica, la Cina punta alla leadership totale dal nostro inviato FEDERICO RAMPINI WASHINGTON - Quando oggi Barack Obama riceverà qui il Dalai Lama, nella Map Room della Casa Bianca, Washington aspetterà col fiato sospeso la nuova bordata di proteste da Pechino. Gli Stati Uniti si chiederanno quale prezzo la Repubblica Popolare potrebbe far pagare, per punire quell'omaggio al Tibet che considera un'interferenza nella propria sovranità nazionale. È un America nervosa perché si scopre vulnerabile, assediata dalla grande rivale asiatica, su fronti nuovi e insospettati: l'industria e la finanza, certo, ma ora anche la ricerca scientifica, la cultura, il "soft power" su cui si costruisce un'egemonia globale. Lo sconvolgimento dei rapporti di forze parte naturalmente dall'economia. Proprio alla vigilia dell'arrivo del Dalai Lama si è appreso che Pechino ha "liquidato" una parte dei suoi giganteschi investimenti in Buoni del Tesoro degli Stati Uniti. Commentando la vendita record dei Treasury Bond, per 34 miliardi di dollari (ne restano comunque 755 miliardi nelle casse della banca centrale cinese) il Wall Street Journal si chiede con ansia se sia "un segnale di sfiducia verso l'America". Che umiliazione: il Tesoro degli Stati Uniti trattato come fosse la Grecia, in balìa del giudizio dei cinesi. Più probabilmente il disinvestimento di Pechino è una mossa cautelativa. Il premier cinese Wen Jiabao da mesi denuncia il rischio che l'alto debito americano rilanci l'inflazione, e che Washington rimborsi i cinesi con carta straccia. Perciò Pechino diversifica i suoi investimenti. Anziché Bot, compra direttamente aziende americane. Il fondo sovrano del governo di Pechino (China Investment Corporation) ha divulgato la lista delle grandi imprese di cui è diventato azionista, per ora di minoranza. C'è il meglio del capitalismo americano: Apple, Citigroup, Coca Cola, Bank of America, Visa, Johnson & Johnson. Un altro segnale enigmatico, alla vigilia dell'incontro tra Obama e il Dalai Lama, è il nulla osta del governo cinese per l'attracco a Hong Kong di una flotta di cinque navi militari americane, guidate dalla portaerei ammiraglia Uss Nimitz. Orville Schell, il direttore dell'Asia Society e l'esperto di Cina più ascoltato da Hillary Clinton, commenta così: "Pechino sta imparando a usare con l'America il bastone e la carota, tiene Washington sulla corda, alterna minacce e blandizie". Per una singolare coincidenza, proprio in questi giorni di alta tensione s'inaugura al China Institute di New York una grande mostra su Confucio. È il filosofo dell'ottavo secolo avanti Cristo di cui il regime cinese si "appropria" il pensiero rivisitandolo, per farne il teorico di un moderno paternalismo autoritario. La mostra su Confucio, così come tutto il China Institute, è un'iniziativa di Stato finanziata dalla Repubblica Popolare. "Confucius: his Life and Legacy" costa meno di una partecipazione azionaria in Apple, ma segnala il nuovo fronte della penetrazione cinese che si è aperto. L'offensiva culturale, sostenuta dalla potenza economica, sfida l'Occidente anche sul terreno delle idee. Il mandarino ha soppiantato lo spagnolo per la rapidità di diffusione come prima lingua straniera nelle scuole americane. Quando è uscita la notizia che il boom delle iscrizioni ai corsi di cinese alle elementari è sussidiato generosamente da Pechino (con borse di studio, formazione degli insegnanti, regali di materiale didattico e audiovisivo) sul New York Times sono apparse lettere di protesta dei genitori. "È inaccettabile - ha scritto un padre allarmato - che la politica scolastica degli Stati Uniti venga decisa da un governo straniero". E quale governo. Certo non suscitano lo stesso allarme i sussidi di Nicolas Sarkozy per lo studio del francese all'estero. La promozione della civiltà cinese non viene percepita dall'Occidente come un fenomeno puramente culturale. Minxin Pei, ricercatore della Fondazione Carnegie, ricorda che America e Cina sono divise da "insormontabili differenze in termini di valori, sistemi politici, visione dell'ordine internazionale, e interessi geopolitici". Quasi per un crudele scherzo del destino, i finanziamenti della Repubblica Popolare per lo studio del mandarino dilagano nelle scuole americane proprio quando gli Stati Usa sull'orlo della bancarotta (dalla California alla Florida) devono tagliare gli stipendi agli insegnanti e ridurre gli orari delle lezioni. Martin Jacques, lo studioso britannico autore di un libro-shock che vuole aprire gli occhi all'America ("When China Rules the World": quando la Cina dominerà il mondo) sostiene che questo è proprio uno degli effetti più dirompenti della crisi economica dell'Occidente: "La Cina è un modello di Stato che funziona. D'ora in avanti il dibattito sul ruolo dello Stato nelle società moderne non potrà più prescindere dall'esempio cinese". Ian Buruma, un altro esperto di Estremo Oriente che abbiamo intervistato per questa inchiesta, sottolinea che "di fronte alla crisi delle liberaldemocrazie occidentali, il fascino della Cina avanza anche in aree del mondo vicine a noi". Non passa giorno senza che il raffronto con la Cina sia motivo di ansia e frustrazione per la superpotenza leader. La settimana scorsa Barack Obama ha finalmente firmato il via libera ai fondi federali per avviare il progetto dell'alta velocità in California e in Florida. Per il presidente doveva essere un fiore all'occhiello, una di quelle grandi opere infrastrutturali che aveva annunciato fin dal suo insediamento. Ma la Tav di Obama è stata così liquidata l'indomani da un giornale "amico", il New York Times: "Se tutto va bene, il primo treno ad alta velocità comincerà il servizio nel 2014 fra Tampa e Orlando, una tratta di sole 84 miglia. Ma a Capodanno i viaggiatori cinesi hanno inaugurato il nuovo treno ad alta velocità, 664 miglia in tre ore, da Guangzhou a Wuhan. Entro il 2012 le linee ad alta velocità in funzione saranno 42, tutta la Cina sarà collegata". Un raffronto amaro. Tanto più se viene fatto quando Washington è reduce da una "chiusura per neve" di una settimana. La capitale federale della nazione più ricca del pianeta, per penuria di spazzaneve, si è arresa alle intemperie e ha smesso di funzionare per sette giorni consecutivi. Nella gara tra due modelli di Stato, è l'America che si ritrova in serie B. Forse nessuno più di Obama ne è consapevole. Per questo presidente il confronto con la Cina è diventato una costante, il tema che ricorre più spesso nei suoi discorsi. Obama cerca di spronare il suo paese, come John Kennedy fece per la gara con l'Unione sovietica nella conquista dello spazio dopo il sorpasso dello Sputnik. Usando la Cina come "benchmark", come punto di riferimento, Obama spera di rovesciare le umiliazioni in positivo, di trasformarle in adrenalina, in altrettanti stimoli a riconquistare la leadership. Avverte che "la Cina ci sta dando dei punti anche sul terreno della Green Economy, produce più pannelli solari e pale eoliche di noi". Gli esperti energetici disegnano un quadro inquietante. In un futuro non troppo lontano, l'America potrebbe scoprirsi due volte dipendente: dal petrolio arabo e dalle tecnologie verdi (pannelli fotovoltaici, batterie per auto elettriche) sempre più made in China. Ma l'establishment e il sistema istituzionale americano sembrano intorpiditi, incapaci di reagire alle frustate del presidente. Dall'energia all'ambiente le riforme languono, bloccate da veti politici e resistenze lobbistiche. Di fronte all'autoritarismo cinese la democrazia americana arranca. Gli Stati Uniti perdono colpi nella ricerca scientifica, penalizzata dai tagli di bilancio, mentre gli investimenti cinesi in questo campo aumentano ogni anno a ritmi vertiginosi, di due cifre percentuali. Dalle università americane comincia un riflusso di talenti, numerosi cervelli asiatici - cinesi e anche indiani - tornano in patria attirati da nuove opportunità. La gara tra America e Cina non lascia indifferenti gli europei. Non è un caso se l'avvertimento più severo agli americani oggi viene da Martin Jacques, un intellettuale inglese, cittadino di un altro impero decaduto che dovette cedere il suo primato. Noi occidentali, sostiene Jacques, ci siamo illusi che la Cina a furia di modernizzarsi sarebbe diventata sempre più simile a noi. La storia dimostra al contrario che la diversità cinese è profonda, radicata, irriducibile. La mancanza di democrazia non è un handicap nel breve termine: anche la maggior parte delle nazioni europee (e il Giappone) governarono la modernizzazione e lo sviluppo attraverso regimi autoritari. E l'egemonia cinese - espandendosi dal denaro alla politica, dalla tecnica alla cultura - può riproporre in forma moderna quella che fu l'antica relazione tra l'Impero Celeste e i suoi vicini: un "sistema tributario" di Stati vassalli, satelliti ossequiosi. © Riproduzione riservata (18 febbraio 2010) da repubblica.it Titolo: FEDERICO RAMPINI. Il vescovo di New York contro il Times... Inserito da: Admin - Marzo 30, 2010, 11:08:52 am Il quotidiano nel mirino della Chiesa: "Punta a coinvolgere il Santo Padre in persona"
I vaticanisti del giornale puntano il dito contro l'omertà delle autorità vaticane Il vescovo di New York contro il Times. Il giornale: "Niente complotti solo notizie" dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI NEW YORK - Perfino l'arcivescovo "progressista" di New York, Timothy Dolan, è indignato contro il New York Times. Perché sbatte lo scandalo dei pedofili ogni giorno in prima pagina? Cosa c'è dietro? Forse, come sostengono senza troppe parafrasi alcuni ambienti cattolici, è all'opera la "lobby ebraica" newyorchese? "Ciò che accresce la nostra tristezza - dice Dolan - sono le insistenti insinuazioni contro il Santo Padre in persona. C'è una voglia frenetica di coinvolgerlo in persona". La teoria del complotto allude alla proprietà del New York Times: la famiglia Sulzberger figura tra le dinastie ebraiche della città, anche se il giornale non esita ad attaccare Israele. Nel grattacielo di Renzo Piano sull'Ottava Avenue, dove ha sede la redazione, le bordate del Vaticano sono considerate come un tentativo di distogliere l'attenzione dalle vere responsabilità dello scandalo. Certo, la serie di reportage è uscita con un ritmo martellante: lo scoop sui 200 bambini sordi molestati per anni da un sacerdote americano mai punito dal Vaticano; poi le inchieste sul passato di papa Ratzinger in Germania; infine altre rivelazioni dall'Irlanda e dagli Stati Uniti. "Le nostre inchieste - ci dice Diane McNulty, direttrice esecutiva del quotidiano per le relazioni esterne - sono basate sulla meticolosa raccolta di notizie e documenti. La Chiesa non smentisce neppure un dettaglio di quello che abbiamo pubblicato. Le accuse di abusi sessuali sono un tema serio e lo stesso Vaticano lo riconosce. Anche il ruolo svolto dal Papa nel reagire a quelle accuse è un aspetto centrale della vicenda". La deontologia del giornalismo americano, il rispetto delle notizie, l'interesse del lettore, è la linea di difesa della "Signora in Grigio", come viene chiamato l'austero e rigoroso quotidiano. Ma dietro lo scontro tra il New York Times e la Santa Sede c'è anche una profonda incompatibilità di valori. Lo rivela l'editorialista Maureen Dowd, una delle grandi firme del quotidiano: Dowd ricorda che negli anni in cui il cardinal Ratzinger dirigeva la Congregazione della dottrina della fede, era "così ossessionato dai costumi sessuali della nostra società - interveniva costantemente contro la pillola e l'aborto - che non aveva tempo di reprimere gli abusi sessuali dei preti sui bambini". La Dowd sottolinea come l'ossessione del clero continua tuttora, fino a schierare la conferenza episcopale americana contro la riforma sanitaria di Barack Obama. È evidente la distanza che separa le gerarchie cattoliche dai valori della società americana più "liberal", impregnata della rivoluzione sessuale degli anni Sessanta, di cui il New York Times è un'espressione. Un'altra grande firma del quotidiano, l'ex vaticanista Frank Bruni (autore di un libro sui preti pedofili), punta l'indice contro l'omertà della Chiesa e la sua estraneità allo Stato di diritto. Bruni ricorda che sia il cardinale irlandese Sean Brady, sia l'arcivescovo americano Rembert Weakland, di fronte alle denunce dei bambini molestati sessualmente, ebbero una preoccupazione dominante: "Evitare lo scandalo, proteggere la Chiesa dalla pubblicità negativa". Trattata come un peccato, la pedofilia può essere oggetto di confessione, pentimento e penitenza, aggirando la giustizia umana. "Lo stesso Ratzinger - sottolinea Bruni - non esortò i suoi sottoposti a denunciare i colpevoli dei crimini alla polizia". Questo è intollerabile per un giornale ancorato nei valori della Costituzione americana, nella tradizione della liberaldemocrazia. Per l'editorialista Ross Douthat la Chiesa è prigioniera di una "gerarchia conservatrice con una mentalità da bunker", una psicosi di stato d'assedio che le impedisce di "capire la dimensione dello scandalo". Bruni conclude: quando un'istituzione è tutta impegnata a difendersi da una presunta minaccia esterna, rischia di non rispondere alla vera minaccia che è al suo interno. © Riproduzione riservata (30 marzo 2010) da repubblica.it Titolo: FEDERICO RAMPINI Un altro serio pericolo resta il Pakistan dove una parte dei... Inserito da: Admin - Aprile 14, 2010, 12:53:34 pm LO SCENARIO
Petrolio del Golfo in cambio di sanzioni e sull'Iran Barack incrina il muro cinese Le manovre americane per ottenere l'appoggio di Pechino alle nuove misure contro Teheran. Un altro serio pericolo resta il Pakistan dove una parte dei servizi fa il doppio gioco con i Taliban FEDERICO RAMPINI Petrolio del Golfo in cambio di sanzioni e sull'Iran Barack incrina il muro cinese WASHINGTON - "Per una crudele ironia della storia - dice Barack Obama - vent'anni dopo la fine della guerra fredda il rischio di un attacco nucleare è aumentato". Se al Qaeda dovesse mettere le mani sull'atomica - conclude Obama - sarebbe una catastrofe mondiale". Non è un allarme teorico, quello che ha spinto il presidente a ospitare il più grande vertice mai organizzato dagli Stati Uniti dopo la creazione dell'Onu nel 1945. I terroristi ci hanno già provato, e forse sono arrivati vicini a procurarsi materiale nucleare. Una cellula di Al Qaeda in Arabia saudita ha tentato di comprare atomiche russe sul mercato nero, con la benedizione di esponenti islamici radicali che giustificano l'uso di armi di distruzioni di massa contro gli "infedeli". Un episodio misterioso è accaduto in Sudafrica: un commando armato è arrivato quasi a impadronirsi di un deposito nucleare. Nell'America che non ha dimenticato l'11 settembre, inevitabilmente queste notizie vengono collegate anche con gli arresti recenti per una tentata strage nel metrò di New York. L'allarme non riguarda solo gli Stati Uniti. Obama ha ricordato che tutto il mondo è in pericolo: al Qaeda o i suoi alleati hanno già colpito anche Londra e Madrid, Mumbai e Bali. Con il summit di Washington, il presidente ha alzato il livello di consapevolezza internazionale su questo pericolo. Ha ottenuto sulla carta dai 49 leader mondiali un impegno a migliorare le difese dei depositi nucleari esistenti. Lo ha fatto anche per rafforzare la propria credibilità all'interno degli Stati Uniti. La sicurezza nazionale è un terreno dove tradizionalmente i presidenti democratici sono considerati più "deboli". Ha scelto ancora una volta una decisa rottura con il metodo di George Bush: puntando su un'azione multilaterale, concordata. Ha dimostrato fiducia nella legalità internazionale dei trattati, che il suo predecessore considerava come fastidiosi vincoli. Come spiega Ben Rhodes, del National Security Council, per questa Casa Bianca "arrivare a un potenziamento del trattato di non proliferazione è essenziale, perché le nazioni che non lo rispettano come l'Iran siano tenute a pagarne un prezzo". Dietro le conclusioni positive di questo vertice, quanto incisivi saranno i risultati nelle aree più critiche del pianeta? Obama è partito con un'eredità pesante. Decenni di politica estera americana, di una realpolitik contraddittoria, oggi gli presentano il conto. Un esempio drammatico è nel subcontinente asiatico. Il Pakistan fu usato dall'America per foraggiare al Qaeda ai tempi in cui era l'Unione sovietica a combattere i taliban in Afghanistan. Ora il Pakistan è un paese instabile, con un'opinione pubblica sempre più anti-occidentale, una polveriera atomica che potrebbe finire nelle mani di un governo fondamentalista. I suoi servizi segreti continuano a fare il doppio gioco con i taliban. Lì per i terroristi non è impensabile trovare la "pista" giusta per procurarsi l'atomica. Anche se l'Iran non era nell'agenda del summit, se n'è parlato molto, soprattutto fra americani e cinesi. La "bomba atomica sciita" rischia di essere la prima prova drammatica della politica estera di Obama. La tenacia con cui il presidente oggi persegue le sanzioni, gli serve a dimostrare che la sua offerta originaria di dialogo con il governo iraniano non era un sintomo di debolezza. Ma quanto potranno essere efficaci le sanzioni, per indebolire il regime o dissuaderlo dai suoi piani nucleari? "Non sono la bacchetta magica", ha ammesso ieri Obama. In passato le misure di embargo già attivate si sono rivelate un colabrodo perfino negli Stati Uniti: sono recenti le rivelazioni sulle vendite di apparecchiature militari made in Usa a Teheran. Nell'immediato le sanzioni "forti e dure entro la primavera", che promette Obama, servono a fermare un'azione militare preventiva da parte di Israele per colpire i siti nucleari del grande nemico. Basterebbe questa funzione - impedire la deflagrazione di un conflitto incontrollabile in Medio Oriente - per giustificarle. Ai margini del vertice Obama ha fatto progressi per ottenere l'appoggio della Cina, indispensabile all'Onu. "La Cina è preoccupata delle conseguenze economiche", ha detto ieri sera Obama. L'America ha dovuto mobilitare i suoi alleati del Golfo Persico per mettere in campo contropartite robuste. I sauditi e gli emirati garantiscono che forniranno alla Cina tutto il petrolio di cui ha sete la sua economia, se l'Iran non fosse più in grado di farlo. Non basta. Pechino vuole preservare anche il valore dei suoi investimenti colossali nell'industria energetica del Medio Oriente. Se dovesse perderci in Iran in conseguenza alle sanzioni, l'Arabia saudita le concederà addirittura dei diritti di estrazione, con la benedizione americana. La cooperazione cinese non è gratis. Ma in questo come in altri casi, l'entourage di Obama adotta il "teorema dell'industria della salsiccia": anche in politica, è meglio gustarsi il prodotto finito, senza vedere tutto ciò che ci viene messo dentro. © Riproduzione riservata (14 aprile 2010) da repubblica.it Titolo: FEDERICO RAMPINI. Una "lady di ferro" in campo contro i padroni della Borsa Inserito da: Admin - Aprile 20, 2010, 09:24:58 am USA
Una "lady di ferro" in campo contro i padroni della Borsa Mary Schapiro, da un anno alla guida della Sec: "Si è fatto finta di non vedere, ora basta". "Il solo fatto di attaccare Goldman Sachs è il segno che la Commissione è molto sicura di sé" dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI NEW YORK - Barack Obama verrà di persona a Wall Street, a sostenere l'offensiva contro Goldman Sachs e la degenerazione della finanza. Dopo l'affondo della Securities and Exchange Commission (Sec), che venerdì ha imputato alla Goldman una grave frode contro i clienti, sarà il presidente giovedì a scendere nella "tana del leone". "L'ultima crisi - ha detto ieri Obama - ha distrutto 8 milioni di posti di lavoro e migliaia di miliardi di risparmi delle famiglie. Questa è la posta in gioco, se non cambiamo le regole e non riformiamo Wall Street". Con una manovra di accerchiamento i democratici accelerano i tempi della riforma legislativa sui mercati. Commentando lo scandalo Goldman, ieri il presidente della commissione Finanze del Senato Chris Dodd ha detto: "Per mettere fine a comportamenti come questi e per proteggere la nostra economia da un altro disastro, dobbiamo agire subito". L'appoggio della Casa Bianca è totale verso Mary Schapiro, la dama di ferro che da poco più di un anno è al timone della Sec, l'organo di vigilanza sulla Borsa. Questa giurista di 53 anni, con una lunga esperienza nella regolazione dei mercati, è la protagonista di una vera rivoluzione. "Ma chi si crede di essere, la guardiana della finanza?" era il commento ironico di Newsweek ieri. In effetti l'America aveva dimenticato che proprio questo è il compito della Sec. L'organo di controllo che la Schapiro ereditò al suo insediamento il 20 gennaio 2009, era ridotto all'ombra di se stesso. Sotto i suoi tre predecessori nominati da George Bush (Harvey Pitt, William Donaldson e Christopher Cox) la Sec era diventata "la volpe a guardia del pollaio", secondo la caustica definizione data perfino da un repubblicano: John McCain. Tutti i peggiori scandali dell'ultimo decennio le erano passati sotto il naso: i crac della Enron e della Worldcom, più ovviamente la gigantesca bolla dei mutui subprime, dei titoli strutturati e dei credit default swap che causarono la bancarotta di Lehman Brothers e sono al centro della frode Goldman. Lo smacco più umiliante fu la truffa di Bernard Madoff. Un'inchiesta dello stesso ispettore generale della Sec ha concluso che l'organo di controllo fallì miseramente nel suo compito. Fin dal 2002 aveva ricevuto denunce su Madoff. Se fosse intervenuta avrebbe salvato le vittime del "buco" da 7 miliardi. Ma l'inettitudine della Sec nell'ultimo decennio non era casuale. Mary Schapiro la spiega con lucidità: "L'America fu catturata dall'idea che i mercati possono correggersi da soli, e che gli esperti di Wall Street possono proteggere il nostro sistema finanziario meglio dei controllori. La Sec è stata traviata da quella filosofia". I suoi predecessori non erano ciechi, avevano l'ordine di non vedere. Ma in un discorso dell'ottobre scorso, che è interessante rileggere dopo lo scandalo Goldman, la Schapiro fece capire che l'andazzo era cambiato: "Il risparmiatore, l'investitore possono accettare che una bolla speculativa sulle nuove tecnologie o una recessione fanno parte del gioco dell'economia di mercato. Quello che non possono accettare è un sistema inaffidabile, ingannevole". E' proprio questo il significato della bomba che la Schapiro ha lanciato contro Goldman con l'accusa di frode. E' la fiducia alla base del funzionamento dei mercati, quella che la Goldman ha distrutto con il suo comportamento. Quando all'inizio del 2007 il gestore di hedge fund John Paulson andò da Goldman spiegando che voleva scommettere sul crollo dei mutui subprime, gli fecero confezionare un portafoglio di titoli "tossici" su misura. Poi Goldman rifilò i titoli a grossi clienti tra cui la banca olandese Abn Amro e la tedesca Ikb, nascondendo il ruolo di Paulson. "Questa ricostruzione è terribile per la reputazione di Goldman Sachs - osserva il giurista Marcel Kahan della New York University - perché non c'è nulla di peggio agli occhi del mercato. L'accusa alla Goldman di aver truffato i propri grandi clienti può creare un danno alla sua immagine che sarà un multiplo delle multe inflitte dalla Sec". Questo lo sa bene Mary Schapiro. Nell'armamentario a sua disposizione, il poliziotto dei mercati non ha soltanto le sanzioni amministrative. L'azione della Sec spesso è solo un inizio. Se vince, dopo la sua multa può muoversi la magistratura con processi penali; entrano in campo le vittime con le richieste di indennizzi in sede civile; infine c'è il danno di immagine che può essere irreparabile. Inesorabile, la Schapiro non si muove solo contro le banche. Le sue inchieste si moltiplicano a tutto campo, la settimana scorsa ne ha aperte contro General Electric e Hewlett-Packard. Ma di certo la grande banca d'investimento che domina Wall Street da decenni è il bersaglio più importante, l'avversario più potente. "Il solo fatto di attaccare Goldman Sachs - osserva il giurista Donald Langevoort della Georgetown University - è il segno che la Sec oggi è molto sicura di sé. Un tempo non ne avrebbe avuto le risorse. Perché contro Goldman Sachs sarà vera guerra". © Riproduzione riservata (20 aprile 2010) da repubblica.it Titolo: FEDERICO RAMPINI. Caccia allo speculatore: è un diversivo dai problemi veri Inserito da: Admin - Maggio 09, 2010, 06:01:10 pm Caccia allo speculatore: è un diversivo dai problemi veri
Federico Rampini Ora la caccia allo speculatore è in cima alle preoccupazioni dei governi dell’Eurozona. Questo purtroppo conferma la debolezza della risposta europea a questa crisi. Quando s’invocano le oscure forze del capitale è un brutto segno. La speculazione esiste, ha mezzi consistenti, io stesso ho raccontato le “cene segrete” di Wall Street tra gli hedge fund, sulle quali la magistratura e la Sec hanno aperto un’indagine per capire se ci fu collusione nell’organizzare gli attacchi all’euro. Ma prendersela con la speculazione è come voler rompere il termometro perché ci dice che abbiamo la febbre alta. Ricordiamo l’attacco guidato da George Soros nel 1992 contro lira e sterlina: fu possibile per l’altissimo debito pubblico dei due paesi, e l’insostenibilità della loro appartenenza al regime dei cambi quasi-fissi (allora lo Sme). Soros precipitò il crollo della lira, l’uscita dallo Sme, ma così facendo costrinse l’Italia ad accettare un risanamento dei conti pubblici (Amato) che era necessario in quanto tale: eravamo avviati su una china distruttiva, per comportamenti irresponsabili delle nostre classi dirigenti. Oggi la situazione non è diversa: dalla corruzione dei passati governi greci, all’ostinazione della Germania nel rifiutare un governo europeo dell’economia, ogni nazione è messa di fronte al conto degli errori accumulati in molti anni. La speculazione ci si arricchisce sopra. Ma nessuno denunciava la speculazione quando era di segno opposto: rafforzava l’euro, consentiva alle banche europee di rimpinguarsi i bilanci con finanziamenti a tasso zero. C ‘è un’attenzione asimmetrica ai danni degli speculatori. Li si scopre malvagi e distruttivi solo quando le loro scommesse disturbano uno status quo consolidato. L’ultima grande crisi che ebbe come suo epicentro l’Asia, quella del 1997, fu l’occasione anche là di alte grida contro il complotto della finanza occidentale. Il premier malese Mahatir divenne famoso per le sue denunce contro le congiure degli speculatori angloamericani. Da allora però l’Asia, più che prendersela con gli speculatori, ha imparato una lezione diversa. Oggi le nazioni orientali hanno le finanze pubbliche più in ordine del mondo, i conti con l’estero in attivo, ricche riserve valutarie per consentire alle banche centrali di difendere le rispettive monete. E dietro tutto questo, ci sono delle economie reali con i “fondamentali” in ordine: a cominciare dalla competitività. Questo andrebbe ricordato, perché se l’attenzione dell’opinione pubblica si concentra sulla “caccia all’untore”, è un comodo diversivo per i nostri governi e banchieri centrali, ma è pseudo-economia. http://rampini.blogautore.repubblica.it/?ref=hpblog Titolo: FEDERICO RAMPINI. I vantaggi dell'euro debole Inserito da: Admin - Maggio 26, 2010, 03:33:02 pm VALUTE
I vantaggi dell'euro debole di FEDERICO RAMPINI Un leader storico della sinistra e un europeista come Giorgio Napolitano era proprio l'interlocutore di cui Barack Obama aveva bisogno ieri. Il presidente americano non ha nascosto la sua preoccupazione perché "l'Europa risponda unita alla crisi". E non avvitandosi in politiche economiche iper-restrittive. La stessa manovra da 24 miliardi varata ieri a Roma contribuisce all'inquietudine degli Stati Uniti. Obama ne sta spingendo una di segno diametralmente opposto: chiede al Congresso 200 miliardi di dollari in più da iniettare nell'economia per evitare che ricada in recessione. L'allarme della Casa Bianca cresce via via che l'America si scopre vulnerabile al contagio del male europeo. L'esperienza di Napolitano aiuta a prendere le distanze dalle convulsioni quotidiane dei mercati e a guardarle in una prospettiva storica. Dopotutto l'euro valeva appena 82 centesimi di dollari nell'ottobre del 2000: quando Napolitano era europarlamentare a Strasburgo, George Bush non aveva ancora "rubato" l'elezione ad Al Gore, e Obama era un giovane docente di diritto costituzionale alla University of Chicago. Anche con lo scivolone a quota 1,22 l'euro è ridisceso appena a metà strada tra il suo massimo storico (1,60) e gli abissi di dieci anni fa. Ma l'America del 2000 era un altro mondo: con la piena occupazione, una crescita che scoppiava (fin troppo) di salute, al termine della prodigiosa galoppata della New Economy. Oggi Obama vede la sua ripresa, ancora fragile, investita in pieno dalla tempesta europea. Per questo, come ha ricordato a Napolitano, lo stesso presidente americano è intervenuto ripetutamente nei giorni scorsi su Angela Merkel, Nicolas Sarkozy e José Luis Zapatero per sollecitare una risposta forte. Ma ancora ieri, mentre Obama e Napolitano s'intrattenevano alla Casa Bianca, dai mercati arrivava la conferma che il piano salva-euro traballa paurosamente. Per l'America le minacce sono molteplici. C'è un freno immediato alla sua crescita: l'euro debole penalizza le esportazioni made in Usa e fa calare i profitti realizzati nel Vecchio continente dalle multinazionali americane. Questo si traduce già in una perdita secca fra i 30 e i 60 miliardi di dollari, secondo J. P. Morgan Chase. A cui bisogna aggiungere oltre 1.000 miliardi di dollari di ricchezza americana distrutta negli ultimi cali delle Borse mondiali. Poi c'è il contagio della sfiducia, il più insidioso. L'Amministrazione Obama segue con apprensione quel che accade nelle banche europee: il salvataggio statale di un istituto spagnolo ricorda eventi simili che accaddero qui nel 2008. Dal debito sovrano degli Stati dell'area mediterranea, l'instabilità può estendersi alle banche tedesche inglesi e francesi. E per l'interconnessione di tutta la finanza mondiale, Wall Street non è al riparo. Perciò Obama ha inviato il segretario al Tesoro Tim Geithner in Germania, a parlare con il governo tedesco e i vertici della Bce. Vuole convincere gli europei a fare degli "stress-test" alle sue banche: sono simulazioni di situazioni estreme, come gli elettrocardiogrammi fatti sotto sforzo, per capire lo stato di salute reale del credito. L'altro messaggio che Obama invia agli europei tramite il suo segretario al Tesoro è in netta controtendenza rispetto a quanto sta succedendo: "Aumentare il sostegno alla crescita". Parlando con Napolitano il presidente americano ha auspicato "un più efficace coordinamento delle politiche fiscali europee", che è il contrario di una corsa scomposta verso i tagli di spesa, unidirezionali, di segno pericolosamente restrittivo. Per Geithner, che fu funzionario del Fondo monetario internazionale in Asia, il rischio è che l'Europa diventi un altro Giappone. Sbagliando terapia dopo una recessione, ci si può condannare a un decennio di paralisi. C'è voluto un 48enne presidente degli Stati Uniti per confermare a Napolitano la vitalità del pensiero keynesiano. Le grandi crisi economiche richiedono audacia, terapie anticonvenzionali, a costo di sfidare l'ortodossia. Perciò Obama progetta una manovra bis non fatta di tagli, ma di aumenti di spesa. Il suo principale consigliere economico, Larry Summers, spiega al Congresso quel che occorre per risollevare l'economia "dall'abisso profondo" in cui era caduta. Prestiti alle piccole imprese, prolungamento delle indennità di disoccupazione, trasferimenti alla finanza locale per evitare tagli ai servizi sociali. 200 miliardi in più per la crescita, un "allungo" del 25% rispetto alla manovra di quasi 800 miliardi varata nel gennaio 2009. Obama sa che l'opposizione lo accuserà di rafforzare il suo "socialismo" in America. Sa che il linguaggio rigorista della Merkel non è molto diverso da quello della destra americana. Sa che da quella parte sta soffiando il vento: con i conservatori inglesi, e la probabile rimonta repubblicana in America a novembre. Appena salutato Napolitano, si è dovuto imbarcare sull'Air Force One e volare a San Francisco. Per fare campagna in favore di una senatrice democratica che rischia di perdere il suo seggio, nel collegio più progressista d'America. © Riproduzione riservata (26 maggio 2010) http://www.repubblica.it/economia/2010/05/26/news/vantaggi_euro_debole-4337173/?ref=HREC1-1 Titolo: FEDERICO RAMPINI. Arriva il G20 ma è un dialogo tra sordi Inserito da: Admin - Giugno 25, 2010, 11:24:45 am LA CRISI
Arriva il G20 ma è un dialogo tra sordi Torna la paura della bancarotta greca Gelo tra Usa ed Europa. Giù le Borse anche per i debiti di Madrid e Lisbona. Mentre gli americani criticano la Merkel per la politica restrittiva dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI NEW YORK - "Ora che hai cominciato a usare Twitter possiamo finalmente sbarazzarci del telefono rosso d'emergenza tra la Casa Bianca e il Cremlino". Barack Obama apre così la conferenza stampa congiunta con il suo omologo russo Dmitry Medvedev. Reduce, quest'ultimo, da una visita nella Silicon Valley californiana a caccia di investimenti nelle tecnologie avanzate. E' singolare che il presidente americano riservi alla Russia il solo incontro bilaterale che precede la partenza per il G20 per Toronto. Altra anomalìa: l'unico vero regalo a Obama, in una settimana per lui catastrofica (tra Bp e generali indisciplinati), glielo ha offerto il leader cinese Hu Jintao avviando un rafforzamento della sua moneta. E i vecchi amici europei dove sono finiti? "Qualsiasi parvenza di unità del G20 è già un ricordo". Il bilancio impietoso, alla vigilia del summit mondiale, lo traccia uno sherpa che di vertici ne ha preparati molti, l'americano Dan Price. "Nessun altro G20 - aggiunge Price - è stato preceduto da così tante lettere in cui i leader si accusano reciprocamente e puntano il dito contro gli errori altrui". Prima ancora di cominciare, il G20 è già finito? Questa formula che ha sostituito il G8 non è più efficiente del predecessore. Le geometrie del potere planetario cambiano troppo velocemente, nessun "guscio" di global governance è riuscito finora ad esprimerle. Sulla crescita economica, le regole della finanza, l'ambiente, l'energia, la lotta alla proliferazione nucleare e al terrorismo, c'è una geometria variabile di "cerchi". Le potenze che contano, quelle che sono presenti in tutti i cerchi, non sono le stesse del passato. Venti membri sono troppi, soprattutto se gli europei non parlano con una voce sola. C'è anche una ragione positiva per cui il summit di questo weekend è stato svuotato in anticipo di aspettative. E' la decisione della Cina di avviare un graduale rafforzamento della moneta, il renminbi o yuan. Pechino ha accolto una richiesta americana e ha tolto dall'agenda di Toronto una potenziale controversia. La Repubblica Popolare, guidata da un governo che continua a definirsi comunista, sta dimostrandosi un partner giudizioso per Obama. Per quanto graduale, l'apprezzamento del renminbi va nella direzione desiderata: aumenta il potere d'acquisto cinese e in prospettiva la domanda di prodotti e servizi occidentali. Il gesto di Hu Jintao fa sentire gli americani ancora più distanti dall'Europa. Con il vecchio partner atlantico le incomprensioni sono superiori a quelle che dividono Washington da Pechino? Sembra incredibile ma sul terreno economico è vero. Alla vigilia del G20 la "guastafeste" per eccellenza è Angela Merkel. Alla Germania, Obama rivolge una richiesta analoga a quella che ha fatto ai cinesi. E' una richiesta coerente con le analisi del Fondo monetario internazionale. I macro-squilibri dell'economia mondiale possono riassumersi così: ci sono paesi che hanno vissuto al di sopra dei loro mezzi, creando debiti insostenibili e bolle finanziarie. L'America è il primo fra questi. Ora gli americani hanno iniziato a sanare lo squilibrio: la propensione al risparmio delle famiglie è in netto aumento. Ma perché questo non si traduca in un effetto depressivo, altri paesi devono fare la loro parte. Le nazioni che hanno vissuto "al di sotto" dei loro mezzi, esportando e risparmiando troppo, devono aumentare i consumi. Si tratta per l'appunto di Cina e Germania. E' impossibile aggiustare gli squilibri di una parte del mondo se l'altra metà non fa altrettanto in senso inverso. E' assurdo che tutti i paesi simultaneamente vogliano uscire dalla crisi aumentando il loro attivo commerciale, a meno di riuscire a esportare su Marte. Ma la Merkel, facendosi interprete di un sentimento diffuso nell'opinione pubblica tedesca, vede l'economia sotto una prospettiva "etica", con i debiti identificati al "vizio" e il risparmio come la virtù assoluta. Lo ha ribadito in un'intervista al Wall Street Journal dove respinge al mittente le richieste di Obama, quasi fossero un'eresìa. "Non è interesse di nessuno - ha detto la Merkel - ridurre la competitività tedesca". Secca la replica della Casa Bianca: "E' nell'interesse della crescita europea e mondiale, che i paesi in attivo aumentino la loro domanda interna". Berlino e Parigi vogliono la Tobin Tax sulle transazioni finanziarie, Washington no. Altro che la Bretton Woods 2 per rifondare le regole dei mercati, di cui si favoleggiava ai G20 precedenti. Oggi si assiste a un dialogo tra sordi tra le due sponde dell'Atlantico. L'incomprensione s'inserisce in un contesto ancora preoccupante. A poche ore dal summit, l'economia globale manda nuovi segnali di pericolo. I mercati tornano a temere una bancarotta della Grecia (dove la Borsa ha chiuso a meno 4,1%), e il costo dei credit default swaps (contratti assicurativi contro l'insolvenza) schizza al rialzo. Preoccupa anche la nuova impennata dei debiti in Spagna e Portogallo. Le Borse europee, ieri fortemente in ribasso, penalizzano i titoli bancari perché gli istituti di credito sarebbero i primi ad affondare se qualche Stato diventasse insolvente. In America le vendite di case negli Usa sono crollate del 33% non appena è scaduto il generoso incentivo fiscale: è una conferma di quanto la ripresa sia ancora dipendente dal sostegno pubblico. Sintomatico è il commento dell'ufficio studi Deutsche Bank: "Così come il mercato immobiliare americano è appeso al sostegno statale, il sistema bancario europeo dipende dagli aiuti della Bce. E' ancora capitalismo questo?" La domanda accresce il senso d'inadeguatezza del G20. Insieme con la frustrazione di Washington verso l'Europa, si rafforza il peso di modelli alternativi. Il capitalismo di Stato cinese, con una forte capacità di dirigismo pianificatore, ha retto meglio alla crisi. Pechino diventa il perno di nuove alleanze che bypassano le geometrie dei vari G8 e G20. La Cina ha superato gli Usa come principale partner del Brasile. Quest'ultimo, a sua volta, si afferma come una vera potenza con una politica estera autonoma: sul dossier nucleare iraniano le iniziative del Brasile hanno spiazzato Washington. Su ambiente, energia, terrorismo, interlocutori come Russia, India, Arabia saudita, pesano più di Italia e Francia. Nei cerchi che illustrano le nuove gerarchie post-G20, l'America vede sempre meno Europa. (25 giugno 2010) © Riproduzione riservata http://www.repubblica.it/economia/2010/06/25/news/arriva_il_g20_ma_un_dialogo_tra_sordi_torna_la_paura_della_bancarotta_greca-5140917/?ref=HREC1-4 Titolo: FEDERICO RAMPINI. Le porte aperte degli Usa Inserito da: Admin - Luglio 01, 2010, 12:02:44 pm Le porte aperte degli Usa
100 milioni di nuovi americani Gli immigrati sono all'origine del boom demografico e creativo degli Stati Uniti. Ma per molti, specie nel Sud, sono ancora una "minaccia". Finora Obama è stato a guardare. Ma oggi annuncia la svolta dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI NEW YORK - Nel preparare il discorso alla nazione che farà oggi, affrontando il tema esplosivo dell'immigrazione, Barack Obama si è studiato più volte queste cifre. Le proiezioni dello U. S. Census Bureau possono dare le vertigini. Secondo i demografi del censimento federale entro quarant'anni la popolazione degli Stati Uniti sarà aumentata fino a situarsi tra 422 e 458 milioni, dai 300 di oggi. Le stime più prudenti, dell'Onu, indicano 404 milioni nel 2050. Anche nell'ipotesi minima, cento milioni di persone in più. Un aumento di un terzo rispetto all'America di oggi. In proporzione, bisogna immaginare l'Italia cresciuta di 18 milioni in poco più di una generazione. E quasi tutto dovuto all'ingresso di stranieri, più il tasso di natalità elevato delle minoranze etniche già residenti. Si capisce che anche in America il "partito della paura" sia diventato un problema serio per il presidente, con i referendum anti-immigrati dall'Arizona al Nebraska. Ma dalla settimana scorsa quello schieramento non è più il solo in campo. "Agli immigranti del mondo intero che hanno spirito d'iniziativa, noi dobbiamo dire: venite in America, vi accoglieremo a braccia aperte". Sono le parole di Michael Bloomberg, il sindaco di New York che il 24 giugno ha lanciato la sua iniziativa pro-immigrati: Partnership for a New American Economy. È una vasta alleanza in cui spiccano due componenti. Da una parte ci sono i sindaci delle metropoli multietniche, da Los Angeles a Philadelphia, da San Antonio a Phoenix, uniti a prescindere dal colore politico (lo stesso Bloomberg è un ex repubblicano, oggi indipendente di centro). L'altra colonna portante sono imprenditori alla guida dell'industria americana, da Boeing a Disney a Hewlett-Packard. "Chiudere le porte agli immigrati sarebbe il suicidio di questa nazione", avverte Bloomberg. Propone una corsìa preferenziale per dare subito la Green Card (permesso di soggiorno a tempo illimitato) a chiunque crei lavoro per dieci persone. "Più immigrati uguale più benessere", è lo slogan del sindaco. Il suo alleato più prezioso è Rupert Murdoch. In quanto padrone della tv Fox News, il magnate di origine australiana (e lui stesso naturalizzato americano) crea una contraddizione in seno alla destra. Fox News è la tv più schierata contro Obama. Ma sull'immigrazione gli ordini di scuderia sono precisi: non si cavalcano campagne xenofobe. Per Obama la scesa in campo del duo Bloomberg-Murdoch, con l'alleanza trasversale sindaci-industria, ha aperto un nuovo spazio di manovra. Col discorso di oggi il presidente può avventurarsi sul terreno che è stato definito "il terzo binario della politica americana": l'allusione è al binario del metrò dove passa la corrente ad alta tensione. Luis Gutierrez, deputato democratico dell'Illinois, è uno dei 22 parlamentari latinos, membri dell'associazione Congressional Hispanic Caucus. Obama li ha riuniti martedì, in preparazione della sua uscita pubblica. È una base elettorale preziosa. Nel 2008 alle elezioni presidenziali i due terzi degli ispanici votarono per lui. "Il presidente - dice Gutierrez - spiegherà all'America perché è importante una grande riforma. La priorità è trovare una via equa, trasparente e garantista, per legalizzare 11 milioni di clandestini". In preparazione del discorso di oggi, un segnale lo ha mandato John Morton, l'uomo di Obama che dirige l'Immigration & Custom Enforcement. "Stop alle espulsioni di mogli e bambini che non hanno i documenti in regola - dice Morton - le deportazioni devono concentrarsi sugli elementi sospetti di terrorismo, o sui membri di gang criminali". Al tempo stesso il presidente ha fatto un gesto verso gli Stati di frontiera più preoccupati per l'escalation di violenza che accade a Sud di Tijuana o del Rio Grande, dove infuria la guerra dei narcos messicani. "Mille poliziotti in più alle Border Patrol, e 1200 soldati della Guardia Nazionale lungo il confine", annuncia Janet Napolitano che dirige la Homeland Security, il superministero degli Interni. Obama non può abbandonare questo tema alle iniziative dei singoli governatori, ai referendum locali. "È impensabile - dice il suo portavoce Robert Gibbs - che ogni Stato Usa faccia una riforma diversa sull'immigrazione". Con il rischio che prevalgano le frange più fanatiche, e provvedimenti spesso puramente simbolici, inapplicabili. Come la legge varata a furor di popolo nella cittadina di Fremont, nel Nebraska: vieta di affittare ai clandestini e scarica sui padroni di case l'onere di controllare i documenti. Un'operazione che spesso neppure la polizia è in grado di fare, per il dilagare di sofisticati falsari della Social Security (il codice fiscale). Anche la legge anti-clandestini passata per referendum in Arizona rischia di trasformarsi in un boomerang. Si vedrà se i nuovi controlli della polizia locale saranno efficaci. Per ora l'effetto immediato è la campagna di boicottaggio degli Stati vicini contro il turismo in Arizona. E all'interno dei partiti? Di certo il Tea Party e le frange estreme della destra populista hanno dimostrato di poter intimidire i repubblicani moderati in bilico per la rielezione a novembre. L'ex candidato presidenziale John McCain ancora pochi anni fa sull'immigrazione aveva una posizione così aperta da firmare un disegno di legge insieme a un progressista come Ted Kennedy. Adesso, col suo seggio senatoriale a rischio in Arizona, McCain si arrocca in difesa: "Primo, sigillare questa frontiera". Altrove in America il pericolo-criminalità non pesa molto nel dibattito sull'immigrazione. I dati sulla delinquenza sono in calo, per la prima volta in una recessione. Conta di più il fatto che la crisi lascia in eredità 15 milioni di disoccupati: per loro, gli stranieri sono concorrenti su un mercato del lavoro ancora depresso. Ma nel lungo periodo per la destra è rischioso pescar voti cavalcando queste paure. Il Tea Party è già percepito come un "club bianco". Se i repubblicani s'identificano per il colore della pelle sono condannati a diventare minoranza. Perfino dopo la più grave crisi economica dalla Grande Depressione, in America sull'immigrazione c'è una vena di ottimismo inesauribile. L'interpreta il celebre demografo-economista-urbanista Joel Kotkin, che ha appena pubblicato il saggio The Next Hundred Million (I prossimi cento milioni). Per lui la formidabile crescita demografica resta la causa principale di vitalità dell'America. Non è solo questione di numeri ma di freschezza, rinnovamento, dinamismo. "Sulle cento maggiori imprese americane - dice Kotkin - quindici sono state fondate e guidate da stranieri". Google, Facebook, Yahoo, non esisterebbero se gli Stati Uniti avessero chiuso le frontiere. "Entro la metà del secolo - prosegue Kotkin - questo paese avrà 350 milioni di persone sotto i 65 anni. L'Europa al confronto sarà un continente-ospizio, con un terzo della popolazione ultrasessantacinquenne". La demografia non ha smesso di avere un ruolo nel confronto geo-strategico tra superpotenze. "Non a caso Putin lamenta il rischio di una decadenza della Russia: nel 2050 avrà perso il 30% dei suoi abitanti e sarà ridotta a un terzo degli Stati Uniti". L'altra grande rivale, la Cina, è soggetta a un rapido invecchiamento che metterà a dura prova la tenuta sociale, per la mancanza di Welfare State. Contro questo vate dell'abbondanza umana, però, oltre alla destra xenofoba si levano voci da sinistra. Kotkin ha nemici tra gli ambientalisti radicali, che predicano la crescita zero anche nelle nascite. Peter Kareivan, scienziato del Nature Conservancy, dice che "non fare figli è l'atto più eroico per combattere le emissioni di CO2". La femminista-verde Colleen Heenan condanna le famiglie numerose come "irresponsabili per il loro contributo alla distruzione delle risorse naturali". Obama deve tener conto che anche a sinistra non tutti identificano l'immigrazione con una manna dal cielo. Per Kotkin queste critiche sono assurde, oltre che profondamente estranee alla natura dell'America. "Lo spazio qui non manca affatto. Abbiamo più immigrati di Germania, Francia, Inghilterra, Canada e Giappone messi insieme, eppure la densità della popolazione Usa è un sesto di quella tedesca. E anche per salvare il pianeta occorrono idee nuove, quindi giovani. In quanto alla qualità della vita sarà assai peggiore in quei paesi dove mancano nuove generazioni per sostenere la popolazione anziana. E poi le frontiere aperte sono un ingrediente indispensabile della società aperta. L'America non sarà più egemonica come in passato, ma grazie alla mescolanza multietnica conserverà una marcia in più, dalla tecnologia alla creatività culturale. L'atteggiamento verso gli immigrati ci identifica come una terra di diritti, libertà personali, tutele costituzionali, valori universali". (01 luglio 2010) © Riproduzione riservata http://www.repubblica.it/esteri/2010/07/01/news/le_porte_aperte_degli_usa_100_milioni_di_nuovi_americani-5294675/?ref=HRER2-1 Titolo: FEDERICO RAMPINI. Obama ce la fa, passa la riforma bancaria Inserito da: Admin - Luglio 16, 2010, 07:38:59 am 15 lug 2010 Obama ce la fa, passa la riforma bancaria Federico Rampini PaulvolckerPassa definitivamente al Congresso la grande riforma delle regole della finanza. Obama vince la sua scommessa: aveva promesso agli elettori che avrebbe firmato questa legge prima delle vacanze estive. Per il lettore italiano può sembrare un notizia già vecchia, perché della riforma si è parlato molto nei vari passaggi dell’iter legislativo. Però bisogna ricordare che in fatto di rapidità gli Stati Uniti hanno battuto tutti. Nessun paese europeo ha ancora varato una riforma così onnicomprensiva. Anche se le patologìe che vuole curare la riforma americane si sono manifestate con la stessa pericolosità in Europa. I capisaldi di questa riforma sono: 1) il governo avrà nuovi poteri per avvistare “pericoli sistemici” in capo a colossi bancari, e smembrarli d’autorità; 2) nasce una nuova agenzia federale per la tutela del piccolo consumatore e utente di servizi finanziari; 3) vengono introdotte restrizioni severe alle attività speculative delle banche come gli investimenti in hedge fund e titoli derivati. Nessuno pensa che sia una riforma perfetta. Per strada si sono persi alcuni “pezzi”, sotto l’incessante pressione delle lobby di Wall Street. L’ex presidente della Federal Reserve e oggi consigliere di Obama, Paul Volcker (nella foto), avrebbe voluto un divieto totale delle attività speculative da parte delle banche. Ma è comunque il più grande cambiamento delle regole dai tempi della Depressione degli anni Trenta. Molto ora dipenderà dai regolamenti attuativi, che saranno varati da varie authority del settore: la Federal Reserve, e la nuova agenzia per la tutela del consumatore. Quindi saranno cruciali anche le nomine che Obama farà in quegli organismi. Scritto giovedì, 15 luglio 2010 alle 18:31 nella categoria consumatori, finanza. http://rampini.blogautore.repubblica.it/2010/07/15/obama-ce-lha-fatta-la-riforma-bancaria-e-legge/?ref=HREC1-1 Titolo: FEDERICO RAMPINI. Gli Usa pagano la bolla, l'abitazione non si rivaluta più. Inserito da: Admin - Agosto 24, 2010, 11:08:42 am IL RACCONTO
Case invendute e prezzi a picco addio al mattone come bene rifugio Gli Usa pagano la bolla, l'abitazione non si rivaluta più. Una frattura epocale: l'immobile non può più tramandare la ricchezza tra le generazioni. Bruciati 6mila miliardi dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI NEW YORK - Bei tempi quando il mattone era una certezza: un valore sicuro, una protezione del risparmio, un patrimonio da tramandare per il benessere dei figli. Per una generazione di americani quello stereotipo va in frantumi. Come buon investimento la casa va cancellata, dimenticata per i prossimi 20 anni. Tanti ce ne vorranno, annunciano gli esperti consultati dal New York Times, solo per recuperare il valore distrutto durante l'ultimo crac del mercato immobiliare. "La proprietà di un'abitazione - è la conclusione del sondaggio - non avrà più un'utilità paragonabile a quella che ebbe negli ultimi 50 anni, quando essa fu non soltanto un alloggio ma anche una riserva di ricchezza familiare". Tra gli esperti che emettono la dura sentenza c'è Dean Baker, direttore del Center for Economic and Policy Research. E' lui a calcolare che due decenni saranno necessari soltanto per ricostituire il valore immobiliare perso dal 2005 a oggi: sono 6.000 miliardi di dollari di ricchezza privata andati in fumo, per la caduta delle quotazioni al metro quadro già avvenuta. Senza contare che forse non abbiamo ancora visto il peggio. Oggi escono i dati sulle vendite di case nel mese di luglio e la previsione è di un ulteriore calo del 20% rispetto a un anno fa. La quantità di abitazioni che sono disponibili sul mercato e attualmente in vendita è il doppio di quello che sarebbe stata in periodi normali (pre-crisi). Una simile massa di case invendute è un potente fattore che spinge verso ulteriori ribassi dei prezzi. E sì che il valore medio delle case ha già perso il 30% dall'inizio della recessione. Un tracollo di queste proporzioni fa prevedere una frattura secolare, rispetto al trend del dopoguerra. Tutto quello che credevamo di sapere sul mattone, forse appartiene a un'epoca storica irripetibile: quando le case si compravano non solo per abitarci ma per proteggere il patrimonio familiare contro l'inflazione, assicurare un'eredità dignitosa ai figli. O addirittura, nel caso degli anni di boom in America, il "mattone come un Bancomat": il credito facile e la deducibilità fiscale al 100% degli interessi consentivano di rifinanziarsi continuamente offrendo alle banche la casa come garanzia. Così le famiglie si pagavano anche l'università dei figli, la nuova automobile, le vacanze all'estero. Ora perfino gli economisti che lavorano per conto di grandi gruppi immobiliari rinunciano a spargere ottimismo. Uno di questi è Stan Humphries, chief economist del sito Internet Zillow che si specializza nelle compravendite immobiliari: "Non esiste una legge economica per cui il mattone debba rivalutarsi. Durante gli anni del boom circolarono varie teorie sul fatto che il mercato immobiliare è speciale: vuoi per la scarsità di superficie edificabile, vuoi per la crescita demografica legata all'immigrazione. Nessuna di queste spiegazioni regge". Al massimo, avverte Humphries, nel lungo termine la casa può preservare il suo valore evitando che venga distrutto dall'inflazione. Ammesso che torni ad esserci un'inflazione significativa. Ma arricchirsi no, non è garantito da nessuna spiegazione razionale. Eppure la speranza, o la voglia d'illudersi, è dura a morire. Il massimo esperto del mercato immobiliare è senza dubbio Robert Shiller, docente a Yale. Shiller fu insieme a Nouriel Roubini il più lucido profeta della grande crisi del 2008: con anni di anticipo aveva previsto in modo accurato l'esplosione dei mutui subprime. Ha anche messo a punto l'indicatore più affidabile dell'andamento dei prezzi delle case. Oggi le sue ricerche rivelano che una quota della popolazione americana continua a vivere un sogno impossibile. Da San Francisco a Boston, i neo-proprietari intervistati puntano su un incremento del 10% annuo nei prossimi dieci anni. "Credono che la rivalutazione degli immobili sia una legge della natura", osserva Shiller. Era l'illusione generalizzata nel 2005, nell'ultima fiammata di rialzo dei prezzi. Continua a esserlo oggi, anche se il mercato non ha ancora toccato il fondo. Non è stato sempre così. Nella prima metà del Novecento, ricordano gli storici dell'economia, la casa non era considerata certo come un bene speculativo. Era un bene d'uso, serviva per risolvere il problema dell'alloggio, proprio come un'automobile serve a trasportarci ma non puntiamo ad arricchirci rivendendola dopo qualche anno. Tutto è cambiato nel dopoguerra, per la congiunzione di alcuni fattori storici irripetibili: il baby-boom delle nascite tra il 1945 e il 1965, una crescita economica formidabile, l'alta inflazione provocata dalle crisi energetiche e dalle rivendicazioni salariali degli anni Settanta, una politica fiscale particolarmente generosa verso gli acquirenti di case (negli Usa non c'è limite alla deducibilità degli interessi passivi dall'imposta sul reddito). "L'esperienza delle generazioni che comprarono case tra gli anni 70 e gli anni 90 - dichiara al New York Times l'economista Barry Ritholtz - non è la normalità, è stata un'aberrazione. Non si ripeterà più". (24 agosto 2010) © Riproduzione riservata http://www.repubblica.it/economia/2010/08/24/news/case_usa-6467353/?ref=HREC1-2 Titolo: FEDERICO RAMPINI Usa, il trionfo del Tea Party Inserito da: Admin - Settembre 16, 2010, 10:18:19 am IL CASO
Usa, il trionfo del Tea Party Cancellati i vip repubblicani Il movimento della Palin sbanca le primarie per le elezioni di mid-term a novembre: da New York al Delaware vincono i candidati dell'ultradestra. E il Gop rischia di perdere i moderati dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI NEW YORK - Trionfa il Tea Party, festeggiano i democratici. È il paradosso dell'ultima tornata di primarie americane, con cui i partiti hanno selezionato i candidati che si sfideranno a novembre nelle elezioni di mid-term: quando verrà rinnovata l'intera Camera, un terzo del Senato, e saranno eletti anche i governatori di Stati importanti. Due i risultati più sorprendenti, entrambi nel campo repubblicano. Nella primaria per scegliere il candidato governatore dello Stato di New York ha perso il favoritissimo Rick Lazio, sconfitto dal neofita Carl Paladino: decisivo è stato l'appoggio del Tea Party, il movimento anti-tasse e anti-Stato, che si è riconosciuto negli slogan oltranzisti di Paladino. Ma selezionando un personaggio così estremo e controverso, il partito repubblicano quasi certamente si è giocato le chances di conquistare New York a novembre. In quella che resta una gara tutta dominata da italo-americani, ha ben più probabilità di farcela il democratico Andrew Cuomo. Stesso copione nel Delaware. Lì si trattava di scegliere il candidato senatore, per il seggio che un tempo fu di Joe Biden, l'attuale vicepresidente. Altro colpo di scena in campo repubblicano: ha perso il notabile che aveva dietro di sé tutto l'establishment del partito, Michael Castle, spodestato da Christine O'Donnell che dalla sua aveva Sarah Palin, ex candidata alla vicepresidenza e una leader tra le più influenti nel Tea Party. Risultato: gli stessi repubblicani sono quasi certi di essersi "giocati" le chances di conquistare il seggio senatoriale del Delaware a novembre. E proprio su quel seggio potrebbe sfumare la loro speranza di fare un "en plein", portando via sia la Camera che il Senato ai democratici. Parola di Karl Rove, lo stratega elettorale che firmò le vittorie di George Bush: "Secondo me adesso quella gara è persa". Di colpo la destra comincia a interrogarsi sull'effetto-netto del Tea Party. Fortissimo nelle primarie di partito, dove va a votare una ristretta base di militanti, il Tea Party rischia di spostare talmente a destra l'asse dei repubblicani da spaventare quote di elettori moderati, gli indipendenti di centro che sono indispensabili per vincere. Il tallone d'Achille del Tea Party non è solo nelle posizioni estreme, ma anche nel tipo di "fauna" che attira. Paladino, il magnate di Buffalo che ha sconfitto Lazio, ha scatenato polemiche per delle email razziste e con foto pornografiche trasmesse ad amici e colleghi. Ha paragonato il presidente della Camera dello Stato di New York - Sheldon Silver, ebreo - a un "Anticristo". Ha detto che se vince a novembre andrà "con la mazza da baseball" a sfasciare il governo locale. Ha proposto di mandare i poveri nelle carceri a prendere "lezioni di igiene". È un linguaggio che piace al Tea Party perché interpreta l'esasperazione di fasce di ceto medio impaurito dalla crisi economica, disgustato dagli sprechi di spesa pubblica, convinto che Barack Obama stia "socializzando l'America" e prepari stangate fiscali. "Dicono che sono un uomo arrabbiato, ed è la pura verità: siamo tutti arrabbiati", dichiara Paladino. Ma tradizionalmente a New York, uno Stato che pende a sinistra, il partito repubblicano è riuscito a vincere solo quando ha candidato dei moderati. A livello cittadino è stato il caso dei sindaci Rudolph Giuliani e Michael Bloomberg, quest'ultimo essendo poi uscito dal partito per diventare un indipendente. Secondo Bryant Cooper, esponente repubblicano di Manhattan, "scegliendo Paladino abbiamo di fatto regalato il posto di governatore a Cuomo". Stessa musica nel Delaware. Christine O'Donnell è piaciuta al Tea Party ma sembra una candidata debole per conquistare l'elettorato moderato. Dall'interno del suo stesso partito le sono piovute addosso accuse pesanti: la O'Donnell ha truccato il proprio curriculum vitae attribuendosi titoli di studi inesistenti; è incapace di gestire le proprie finanze personali e ha sfiorato la bancarotta. Nulla di così grave da dissuadere la base del Tea Party, innamorata del suo linguaggio "popolare" e delle sue invettive anti-establishment. Ora la destra si chiede se con candidati di questo profilo potrà ancora strappare il traguardo massimo, di una sessantina di seggi alla Camera più sei o sette al Senato. O se invece rischia di doversi accontentare di una vittoria più limitata. Le sorprese sono sempre possibili, perché l'umore dell'elettorato non pende certo a sinistra. La prova: tutti i democratici che votarono contro la riforma sanitaria di Obama, hanno vinto le rispettive primarie. (16 settembre 2010) © Riproduzione riservata http://www.repubblica.it/esteri/2010/09/16/news/usa_il_trionfo_del_tea_party_cancellati_i_vip_repubblicani-7123686/?ref=HREC1-6 Titolo: FEDERICO RAMPINI. L'Asia lancia la guerra delle monete parte la sfida ... Inserito da: Admin - Settembre 20, 2010, 09:41:59 am L'INCHIESTA
L'Asia lancia la guerra delle monete parte la sfida economica all'Occidente Vendite di yuan e yen per spingere l'export, aut aut sulla tecnologia. Ignorate le accuse di concorrenza sleale la nciate dal ministro Usa Geithner alla Cina dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI NEW YORK - Le accuse del segretario al Tesoro americano alla Cina sono pesanti. "Mantiene la sua moneta sostanzialmente sottovalutata e dà un vantaggio sleale alle sue esportazioni; tollera il furto di tecnologie straniere; crea barriere ingiustificate contro i prodotti americani". In altri tempi una requisitoria così dura avrebbe messo in allarme la Cina e il mondo intero. Stavolta invece, da Pechino alle parole di Tim Geithner non si è degnato di rispondere neppure un sottosegretario. Il governo cinese ha affidato la replica a una funzionaria, la portavoce del ministero degli Esteri Jiang Yu: "Un eventuale rafforzamento della nostra moneta, il renminbi, comunque non risolverebbe i problemi dell'America, né il suo deficit né la sua disoccupazione". A Washington Christopher Dodd, uno dei più influenti senatori democratici, commenta sconsolato: "Ormai la Cina fa quello che vuole". E non solo la Cina. Mercoledì scorso sui mercati mondiali è andata in scena un'inedita manovra a tenaglia contro le monete dell'Occidente. Sia la Cina che il Giappone sono intervenuti pesantemente a vendere renminbi (o yuan) e yen, per svalutare e quindi aiutare le proprie esportazioni. L'impatto degli interventi delle due banche centrali cinese e giapponese si è sentito su euro e dollaro, spinti al rialzo. E' ormai l'Asia intera che si muove per conto suo. Se non contro di noi, certo senza di noi. "Asia Alone", l'Asia da sola, è il provocatorio saggio che mette in allarme l'America. Lo ha scritto Simon Tay, presidente del Singapore Institute of International Affairs. Tay è un esperto che per la sua formazione è piuttosto "filo-americano". Ma dall'osservatorio privilegiato di Singapore avverte i segnali di una dinamica nuova. "Si accelerano le tendenze - dice Tay - che portano l'Asia intera ad andare per la sua strada, a prescindere dagli Stati Uniti". Quello che è accaduto la settimana scorsa, quando Pechino e Tokyo hanno spinto in modo simultaneo al ribasso le loro valute, sfidando apertamente l'ira di Washington, sarebbe stato impensabile fino a pochi anni fa. Per un singolare coincidenza, ricorre il 25esimo anniversario del celebre accordo del Plaza: una pietra miliare nella storia delle monete, un evento simbolico dell'egemonia americana al suo apice. Nel settembre del 1985 all'hotel Plaza di New York l'Amministrazione Reagan dominava a tal punto il club dei Grandi - allora era il G5 - che riuscì a costringere il Giappone ad una poderosa rivalutazione dello yen. I risultati del diktat a Tokyo furono benefici per gli Stati Uniti. Grazie al dollaro debole gli americani rilanciarono la propria crescita e riuscirono a ridurre il loro deficit pubblico. Il Giappone a quei tempi era l'unica potenza economica asiatica e non aveva altra scelta se non quella di piegarsi e collaborare. Oggi il peso dell'Asia è ben diverso. "La Cina è insensibile alle pressioni esterne - dice Jeffrey Frieden dell'università di Harvard - se un giorno deciderà di rivalutare la sua moneta lo farà solo perché le conviene, non certo per una concessione all'Occidente, neppure in nome della cooperazione". Per capire quanto l'Asia possa ormai fare da sola, sganciandosi dai destini dell'Occidente, il Wall Street Journal rispolvera un testo sacro dell'economia monetarista. E' lo studio di Milton Friedman "A Monetary History of the United States", indispensabile per capire la Grande Depressione, e non solo quella. Dal 1921 al 1929, quando lo strumento di pagamento mondiale era l'oro, l'America nella sua ascesa economica aumentò del 50% le sue riserve aurifere. Oggi il ruolo dell'oro è svolto dal dollaro, e il Wall Street Journal conclude: "La Cina è come l'America degli anni Venti, dunque fa parte della sua ascesa l'accumulazione di crescenti riserve di dollari. E tutta l'Asia segue il modello cinese". In effetti non è solo a Pechino che si costituiscono colossali riserve monetarie ma anche a Tokyo, Seul, Taipei. Nel 1997 le fluttuazioni selvagge dei cambi furono lo strumento di contagio dell'ultima crisi asiatica verso il resto del mondo. Oggi l'Asia ha imparato la lezione e l'applica a rovescio: accumulando attivi commerciali e riserve valutarie vuole isolarsi dal contagio delle debolezze occidentali. Alla guerra delle valute se ne affianca un'altra, parallela. E' la guerra delle tecnologie. Nella sua triplice accusa alla Cina, il segretario al Tesoro Geithner è quasi reticente quando dice che la Repubblica Popolare "tollera il furto di tecnologie straniere". Ormai si è aperta un'altra fase: il governo cinese quel furto lo organizza, attraverso un esproprio di Stato. E' significativo quel che sta accadendo nell'industria dell'automobile. Le autorità di Pechino stanno per varare una nuova normativa che imporrà alle case automobilistiche straniere di divulgare le loro tecnologie "verdi" - motori elettrici e ibridi - se vogliono mantenere l'accesso al mercato cinese. La nuova legislazione fa parte di un piano decennale preparato dal ministero dell'Industria cinese per "conquistare la leadership mondiale" nella nuova generazione di auto a zero emissioni. Il governo potrà costringere qualsiasi produttore estero ad avere un socio locale col 51% del capitale, in modo da rendere l'industria nazionale partecipe di tutte le innovazioni tecnologiche elaborate all'estero. Dal punto di vista ambientale la notizia è positiva, conferma l'impegno della Cina per lo sviluppo della Green Economy: Pechino ha già investito 1,5 miliardi di dollari in questo settore negli ultimi cinque anni. Ma il ricatto alle case automobilistiche straniere indica anche che la Repubblica Popolare vuole emanciparsi da qualsiasi forma di dipendenza dall'Occidente. Ha gli strumenti di pressione adatti: entro il 2020 il mercato cinese delle auto raggiungerà i 40 milioni di immatricolazioni all'anno, cioè il doppio dei livelli che raggiunse l'America pre-crisi (oggi le vendite negli Usa sono scese a 12 milioni annui). Chi non si piega al diktat di cedere le sue innovazioni tecnologiche ai soci cinesi, sarà tagliato fuori dal più vasto mercato mondiale. Questo tipo di guerra tecnologica non si limita al settore dell'auto. Lamentele analoghe sul comportamento di Pechino si sono sentite in altri settori, da parte di multinazionali americane come General Electric ma anche tedesche come Siemens e Basf. La classe dirigente cinese non si accontenta più del ruolo di "fabbrica del pianeta", progetta la trasformazione della Repubblica Popolare in un'economia hi-tech. E per strappare all'America la leadership nell'innovazione tutti i colpi sono permessi. Vista dall'Estremo Oriente la prospettiva di "Asia Alone" è ben diversa. Il Quotidiano del Popolo, organo ufficiale del partito comunista cinese, in un editoriale annuncia "un età dell'oro per lo sviluppo asiatico". Per un occidentale questa può sembrare propaganda. Nel resto dell'Asia è semplicemente un dato di fatto. Nel secondo trimestre di quest'anno la crescita della Cina (+10,3% del Pil), ha trascinato dietro di sé India (8,8), Indonesia (6,2), Malesia (8,9), Singapore (18,8), Corea del Sud (7,2), Taiwan (12,5). Perfino la Thailandia malgrado le turbolenze politico-militari è cresciuta del 9,1. E il Giappone, unica area "depressa" che sembra avere problemi analoghi all'Occidente, con una crescita del 2,4% va molto meglio dell'Eurozona: l'unica ragione è la sua vicinanza e integrazione con l'economia cinese. Lo scenario di un'Asia che "fa da sé", si estende in campi diversi da quello economico-monetario. Quando il premio Nobel dell'Economia Amartya Sen ha lanciato il progetto di una università pan-asiatica nella sua India (a Nalanda, nello Stato del Bihar) non immaginava il successo di quell'iniziativa: dalla Cina al Giappone, passando per Singapore, ben 16 governi asiatici hanno deciso di finanziare quel progetto. Che non a caso avrà sede nello stesso luogo dove diecimila studenti da tutto l'Oriente andavano a formarsi cinque secoli prima che nascesse l'università di Oxford in Inghilterra. Per gli americani è difficile rassegnarsi a un futuro asio-centrico. Eppure quel futuro è ormai visibile anche nel loro "cortile di casa". La settimana scorsa la compagnia petrolifera brasiliana Petrobras ha dovuto aumentare fino a 78 miliardi di dollari la sua offerta di azioni sul mercato. E' il più grande collocamento in Borsa del mondo. La ragione di tanto successo: l'interesse dei fondi sovrani asiatici per le risorse energetiche del Brasile. Quest'anno la Cina è già diventata il più grosso investitore estero nell'economia brasiliana. Quel subcontinente latinoamericano che un tempo era saldamente nella sfera d'influenza degli Stati Uniti, ha già capito da che parte tira il vento. La crisi del 2008-2009, poiché ha arrestato l'Occidente mentre l'Asia ne usciva immune, ha dato un colpo d'acceleratore ai processi che erano già in atto. E' quello che Simon Tay da Singapore definisce "the Post-Crisis Divide", una faglia che si è allargata rapidamente dopo la crisi. (20 settembre 2010) © Riproduzione riservata http://www.repubblica.it/economia/2010/09/20/news/monete_asia-7239443/?ref=HREC1-3 Titolo: FEDERICO RAMPINI. Ecco il nuovo mappamondo le alleanze ridisegnano la geografia Inserito da: Admin - Ottobre 01, 2010, 09:52:54 am IL CASO
Ecco il nuovo mappamondo le alleanze ridisegnano la geografia L'idea di uno studioso che riscrive i confini attraverso gli interessi comuni e i legami "tribali". Niente più Eurozona e Medioriente. E l'Italia fa parte delle "Repubbliche dell'Olivo" dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI NEW YORK - Addio illusioni di appartenere all'Eurozona, o a qualcosa di ancora più vasto come l'Occidente. Più modestamente l'Italia deve rassegnarsi a far parte delle Repubbliche dell'Olivo, per affinità storico-culturali con Grecia e Bulgaria, Macedonia e Portogallo. Mentre la Germania guida una nuova Lega anseatica che si spinge fino al Baltico. Per l'America sette anni di guerra in Iraq non sono bastati a impedire che questo paese finisca risucchiato nell'Iranistan, com'era suo destino, insieme a Libano Siria e striscia di Gaza. I Nuovi Ottomani dilagano da Istanbul fino a riprendersi l'Uzbekistan e il Turkmenistan. È questa la mappa del mondo reale, non quello immaginario costruito attraverso guerre e trattati, diplomazie e accordi tra governi. Lo colora a tinte forti un'autorità della materia. Joel Kotkin è il più celebre geografo-economista-demografo degli Stati Uniti. Ha pubblicato opere di riferimento sul ruolo delle metropoli nell'era post-moderna, e sull'impatto dell'immigrazione nel futuro dell'America. Oggi è Distinguished Presidential Fellow alla Chapman University in California. Originale, visionario, oggi Kotkin lancia molto più di una provocazione. La sua nuova mappa del mondo assomiglia alla rivoluzione del cinema 3-D. I rapporti tra le nazioni acquistano una rilievo tridimensionale, si ricongiungono con il Dna dei loro popoli. Per disegnarla Kotkin ha messo al lavoro il Legatum Institute di Londra. Con risultati sconcertanti e controversi. È ora di liberarci delle visioni convenzionali, quelle secondo cui i confini sono decisi solo dalla politica. "Nel mondo intero - sostiene Kotkin in un saggio su Newsweek - una rinascita di legami tribali sta creando nuove reti di alleanze globali, più complesse. Se una volta la diplomazia aveva l'ultima parola nel tracciare le frontiere, oggi sono la storia, la razza, la religione e la cultura a dividere l'umanità in nuovi gruppi in movimento". C'entra qualcosa il declino delle ideologie, che avevano funzionato da collante transnazionale. Ambientalisti, progressisti, liberisti: questi sono valori che possono animare le élite, ma per i popoli il concetto di "tribù" è decisamente più potente. Lo sosteneva il grande storico arabo Ibn Khaldun: "Nel deserto sopravvivono solo le tribù, tenute insieme da un forte senso di appartenenza". Storia antica, e sorprendentemente moderna. Torna di attualità adesso che il pianeta cerca un'identità dopo il secolo delle grandi ideologie, dei totalitarismi. Non appena finita la guerra fredda hanno iniziato a disgregarsi i blocchi tradizionali: non solo quello sovietico ma anche quello occidentale, e perfino l'idea di Terzo mondo che era nata per definire il movimento dei "non allineati". Gli economisti della Goldman Sachs oltre dieci anni fa coniarono con successo l'abbreviazione Bric, per designare le quattro potenze emergenti Brasile Russia India Cina. Ma è ovvio che quei quattro giganti hanno pochi valori in comune. Metterli nello stesso paniere è un'operazione astratta, da speculatori di Borsa, non descrive le dinamiche geopolitiche in azione. I veri confini del nuovo mondo sono altri. Tra le tendenze trainanti c'è la rinascita delle città-Stato: non solo Singapore che è davvero un'entità politica autonoma, ma anche Londra e Parigi sono "metropoli globali", i cui interessi si separano da quelli delle loro provincie. Il Nordamerica è molto più di un'espressione geografica: tra Stati Uniti e Canada non c'è soluzione di continuità nei sistemi economici, nella cultura. E poi ecco un altro fattore in comune tra Usa e Canada: è l'immensa riserva di terre arabili e di acqua, quattro volte più risorse idriche di Europa e Asia, un punto di forza nelle "guerre alimentari" del futuro. La Cina da parte sua ha già di fatto ricostituito la Terra di Mezzo come ai tempi dell'Impero celeste: Taiwan è sempre meno un'isola ribelle, viene attirata nell'orbita economica della madrepatria. La Terra di Mezzo cinese rappresenta "il più vasto insieme mondiale popolato da un ceppo etnico omogeneo, gli Han". Questo dà alla Cina e ai suoi satelliti "una straordinaria coesione" ma ne fa anche un mercato di difficile penetrazione per gli stranieri. La Grande India sta risucchiando nel suo dinamismo economico il Bangladesh e così chiude un pezzo della lacerazione post-coloniale del 1947. La Cintura del Caucciù tiene insieme nazioni del sudest asiatico che hanno ricche dotazioni di risorse naturali: dalla penisola indocinese a Indonesia, Malesia e Filippine. The Wild East, l'Oriente selvaggio che include Afganistan, Pakistan e le vicine repubbliche ex-sovietiche, "resta una posta in palio nello scontro di potere tra Cina, India, Nordamerica". La Grande Arabia spazia dal Golfo Persico fino a includere Egitto e Giordania: un'area resa compatta dal collante religioso ma per la stessa ragione "destinata a un rapporto problematico con il resto del mondo". L'Arco del Maghreb corre dall'Algeria alla Libia lungo le coste atlantico-mediterranee. L'impero sudafricano unisce paesi che hanno simili storie coloniali, dotazioni di infrastrutture migliori rispetto al resto dell'area subsahariana, e la prevalenza della religione cristiana. Anche in America latina è possibile trovare delle faglie negli orientamenti culturali che dividono due grandi famiglie. Da una parte ci sono i Liberalisti, campioni di una versione locale dell'economia di mercato e del pluralismo: dal Messico al Cile. Dall'altra le Repubbliche di Bolivar, dove i populismi in versione marxista o peronista hanno messo radici profonde: Cuba e Bolivia, Argentina e Venezuela. In mezzo a queste grandi famiglie spiccano anche gli isolati. Sono quelle nazioni che per un forte senso d'identità non possono "sciogliersi" in un'appartenenza più vasta: a titoli diversi questo è il destino del Brasile in Sudamerica, della Francia in Europa, del Giappone in Asia. Ci sono gruppi in bilico: per esempio le due Lucky Countries, nazioni fortunate, Australia e Nuova Zelanda, che hanno un Dna etnico-culturale anglosassone ma sentono l'attrazione economica dell'Asia con cui le loro economie sono complementari. L'Unione europea, vivisezionata da Kotkin e dagli esperti del Legatum Institute, ne esce letteralmente a pezzi. La Lega anseatica germanico-nordica ritrova "quel comune destino creato dal commercio" che lo storico Fernand Braudel le attribuì datandolo al XIII secolo; oggi rinasce in una proiezione globale, perché sono quelli i paesi che si sono meglio inseriti nei mercati asiatici. Le Aree di Confine sono Belgio e Repubblica Ceca, Irlanda e Paesi baltici, Polonia e Romania, più il Regno Unito senza Londra: sono paesi intrinsecamente instabili, in bilico tra zone d'influenza rivali, esposti talvolta alla disunione. In quanto alle nostre Repubbliche dell'Olivo, hanno nobili radici in comune nell'antichità greco-romana. "Ma sono nettamente distanziate dall'Europa settentrionale in ogni categoria: i tassi di povertà sono due volte più alti, la popolazione attiva dal 10% al 20% inferiore, i debiti pubblici più elevati, e i tassi di natalità più bassi del pianeta". Per quanto l'Italia possa progettare barriere per fermare i flussi migratori dalle nazioni "affini", vista da un geografo americano la sua collocazione è chiara. Non c'è verso che l'Italia possa integrarsi con una Lega anseatica proiettata a distanze stratosferiche: non solo nell'Indice di Prosperità, ma anche su altri terreni perfino più importanti per il futuro. "Istruzione e innovazione tecnologica" nell'Europa tedesco-scandinava hanno raggiunto "punte avanzate impressionanti". È un altro pianeta, i cui ambasciatori occasionalmente s'incontrano a Bruxelles. Che forse non sarà più a lungo la capitale del Belgio. (01 ottobre 2010) © Riproduzione riservata http://www.repubblica.it/esteri/2010/10/01/news/nuovo_mappamondo-7603989/?ref=HREC1-6 Titolo: FEDERICO RAMPINI - ELEZIONI DI MID-TERM Inserito da: Admin - Ottobre 29, 2010, 11:37:46 am ELEZIONI DI MID-TERM
Obama s'immola al re della satira per riconquistare il voto dei giovani Il presidente è il primo a partecipare al popolare Daily Show di Jon Stewart. Che lo incalza con domande e battute fulminanti. E sabato ha dato appuntamento ai suoi fan per la manifestazione "restauriamo la salute mentale dell'America" dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI NEW YORK - "Yes we can, but...". È uno degli slogan più celebri nella storia della politica americana quello che trascinò Obama alla vittoria nel 2008. Ecco che con l'aggiunta di quel "ma..." si tinge improvvisamente di scetticismo e autocritica. È Obama in persona che fa il controcanto a se stesso, sul palcoscenico del più celebre talkshow di satira politica. Ha di fronte Jon Stewart, della scuderia di Comedy Central, al Daily Show. Obama scende nell'arena per un esercizio ad alto rischio: fare dell'autoironia per riconquistare il voto dei giovani (l'audience dominante del Daily Show), senza regalare punti ai repubblicani a cinque giorni dalle legislative. "Per farmi eleggere nel 2008 - dice il presidente, per la prima volta sul set di Comedy Central da quando è stato eletto - vi ho promesso un cambiamento in cui potete credere. Non ho promesso il cambiamento in 18 mesi". Dà lezione di realismo, ricorda che "questa Amministrazione ha ereditato la crisi più grave dopo la Grande Depressione". Il pubblico gli è amico, lo dimostra l'applauso interminabile che accoglie il suo ingresso. Ma Stewart non gli fa sconti, lo incalza interpretando una diffusa delusione: "La vostra agenda di riforme è stata timida". Quando Obama ribatte "abbiamo fatto più di quello che credete" il conduttore lo infilza implacabile: "Davvero? Allora lei sta per organizzare una festa a sorpresa, offrendo posti di lavoro in abbondanza?". Obama ha rischiato e forse non ha raccolto molto, accettando l'invito del temibile Stewart. Non aveva altra scelta. L'ultimo sondaggio di New York Times e Cbs, a ridosso delle elezioni di mid-term, preannuncia per il suo partito una sconfitta di proporzioni notevoli. Donne, cattolici, elettori indipendenti, ceti medio-bassi: intere fasce di elettorato che diedero un appoggio decisivo a Obama nel 2008 oggi voltano le spalle ai democratici. È un duro colpo alle speranze del partito di contenere le perdite martedì. Lo spostamento di consensi è pesante: per esempio è la prima volta che le donne sono a maggioranza intenzionate a votare repubblicano, da quando viene fatta questa rilevazione (1982). Su tutto domina la situazione economica. L'alta disoccupazione è ormai imputata in parte alla stessa politica economica di Obama. La destra è premiata perché viene considerata più capace di ridurre il deficit. Andando al Daily Show il presidente fa un ultimo tentativo di rimobilitare i giovani, altra constituency che per lui fu decisiva nel 2008. Il rischio non è tanto che i "suoi" ventenni passino ai repubblicani, ma che restino a casa. Le elezioni legislative hanno tradizionalmente una partecipazione più bassa delle presidenziali. Stavolta l'assenteismo dalle urne rischia di colpire in modo prevalente la sinistra. Per le nuove generazioni l'incontro Stewart-Obama è un happening eccitante: il conduttore che scortica vivi i politici, finalmente a tu per tu col presidente che ha fatto sognare chi si affacciava per la prima volta all'età del voto. "È la nascita di Stewart come leader politico?", si chiede il Washington Post. Il sospetto è legittimo. Per domani il conduttore ha convocato a Washington la manifestazione dallo slogan "Restauriamo la Salute Mentale dell'America" (con la contro-manifestazione del suo alter ego e finto rivale Stephen Colbert che invece vuole "Promuovere la Paura"). È solo satira politica portata al livello più sublime? È uno sberleffo geniale contro questa campagna elettorale dominata da faziosità, estremismi, demagogia urlata e viscerale come quella del Tea Party? Forse sì, ma perfino lo smaliziato blog Politico. com non esclude che Stewart possa diventare "il Glenn Beck della sinistra": un'allusione all'anchorman di Fox che arringò le folle del Tea Party a Washington ad agosto. È significativo che sia Stewart, con la sua popolarità tra i giovani, a cercare di "abbassare i toni, riportare il confronto su un terreno civile, con argomenti ragionevoli". Mentre nella destra movimentista domina un ceto medio dai capelli grigi, mai sazio di slogan incendiari e bellicosi. I giovani che finiscono l'università sanno che li aspetta un mercato del lavoro con punte del 15% di disoccupati per la loro generazione: forse questo li rende più realisti. Ma non è detto che li spinga a votare martedì. (29 ottobre 2010) © Riproduzione riservata http://www.repubblica.it/esteri/elezioni-usa/2010/10/29/news/obama_daily_show-8536051/?ref=HREC1-4 Titolo: FEDERICO RAMPINI. C’è l’inflazione dietro i “tassi negativi” sui BoT americani Inserito da: Admin - Ottobre 30, 2010, 12:35:59 am 29 ott 2010 Federico RAMPINI C’è l’inflazione dietro i “tassi negativi” sui BoT americani La minaccia di una ripresa dell’inflazione non è solo un problema italiano. All’inizio della settimana l’allarme inflazione si è riaffacciato di colpo negli Stati Uniti. E’ l225px-Ben_Bernanke_official_portrait‘anomalìa segnalata dal comportamento degli investitori sul mercato dei buoni del Tesoro Usa: per la prima volta a un’asta di Treasury Bonds il rendimento è sceso sotto lo zero. Cioè in effetti gli investitori “pagano” un interesse allo Stato per potergli prestare dei soldi. A prima vista è un segnale di deflazione, in realtà questi sono i Bot indicizzati sui prezzi e quindi il rendimento sottozero segnala un’altra novità: se ora siamo in clima deflazionistico, per il futuro gli investitori prevedono un ritorno d’inflazione e sono disposti a strapagare questi Bot che li proteggono dagli aumenti dei prezzi. I Buoni in questione sono di una categoria particolare: indicizzati sul costo della vita (Treasury Inflation-Protected Securities o Tips). All’inizio di questa settimana in occasione di un’asta pubblica il loro rendimento è sceso a meno 0,55%. L’anomalìa significa che mentre oggi c’è una semi-deflazione, per il futuro invece i mercati vedono il rischio di un ritorno d’inflazione, a causa della creazione di liquidità. L’attesa generosità della Fed nello stampar moneta è la causa di tutto. Ma quanto generosa sarà la Fed? E se Ben Bernanke non fosse Babbo Natale? Il dubbio è nato da un’anticipazione del Wall Street Journal sulla riunione della Federal Reserve prevista martedì e mercoledì della prossima settimana. In quell’occasione la banca centrale americana, subito dopo le elezioni legislative di mid-term, dovrebbe varare una nuova ondata di acquisti di titoli del Tesoro: il cosiddetto “quantitative easing”, creazione di liquidità per rilanciare la crescita. Fin qui tutto previsto. Ma secondo il quotidiano economico il presidente della Fed Bernanke opterebbe per una strategia molto graduale. “Solo poche centinaia di miliardi di dollari di acquisti all’inizio”, per saggiare il terreno. Una terapia minimalista, almeno se la si raffronta con i quasi 2.000 miliardi di dollari che la stessa Fed rovesciò sui mercati a partire dal dicembre 2008, nella prima applicazione del “quantitative easing”. Che stavolta la Fed voglia essere più gradualista non è strano: le condizioni dell’economia americana erano decisamente peggiori nel dicembre 2008, in piena recessione. Oggi invece non mancano le perplessità sui rischi di un’eccessiva creazione di liquidità, che può generare inflazione e “bolle speculative”. Scritto venerdì, 29 ottobre 2010 alle 14:04 nella categoria America economia, consumatori, finanza. Puoi seguire i commenti a questo post attraverso il feed RSS 2.0. Puoi lasciare un commento, o fare un trackback dal tuo sito. http://rampini.blogautore.repubblica.it/2010/10/29/ce-linflazione-dietro-i-tassi-negativi-sui-bot-americani/?ref=HREC1-2 Titolo: FEDERICO RAMPINI. Come va l'America? Malissimo Per questo Obama perderà Inserito da: Admin - Novembre 01, 2010, 11:59:29 am ELEZIONI DI MIDTERM
Come va l'America? Malissimo Per questo Obama perderà Dall'ultima edizione del grande sondaggio sullo stato degli Usa redatto dal Brookings Institution emerge un clima di forte pessimismo sul futuro della nazione, e dati concreti di forte crisi economica e sociale. "Questo paese che sembrava convinto di riuscire in ogni sfida oggi sembra convinto che non ce la farà" dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI NEW YORK - Lasciate stare i sondaggi dell'ultima ora, le proiezioni seggio per seggio, Camera e Senato, sulle perdite previste dei democratici. Per capire il terremoto politico preannunciato per domani in America è fuori dalla politica che bisogna andare. La più completa rassegna dello stato reale della nazione è contenuta in un indice. "How We Are Doing Index": è il misuratore del "come stiamo andando". Lo ha messo a punto la Brookings Institution, autorevole think tank vicino al governo, ed è giunto alla sesta edizione. Ieri è uscito l'ultimo verdetto. Un ritratto angosciante: se l'America ha cessato di essere la terra dell'ottimismo ha le sue buone ragioni, radicate nello stato reale delle cose. Sono 14 statistiche ben selezionate, che misurano il polso della situazione economica e sociale. Debolissima la crescita del Pil, appena il 2%, un'anomalia storica rispetto agli altri periodi post-recessione. Ancora più significativo è lo stato del mercato del lavoro: il vero tasso di disoccupazione raggiunge il 16,8%, se si sommano i disoccupati ufficiali e quelli che hanno smesso di cercar lavoro per la disperazione, o sono rassegnati a part-time e lavoretti precari mentre vorrebbero un'attività vera. Ben 23 Stati Usa, quasi la metà del totale, continuano ad avere un aumento della disoccupazione. Le case, principale deposito del risparmio familiare, hanno perduto il 33% del loro valore. Lo stato d'animo dei consumatori, misurato da Reuters e University of Michigan, è ridisceso al livello dell'autunno 2009, cioè quando ci si sentiva ancora in piena crisi. Idem per il barometro di ottimismo-pessimismo dei piccoli imprenditori, di nuovo in discesa rispetto a quest'estate. I dati conclusivi riguardano la percezione generale degli americani, e la loro visione del futuro. È qui che si misura un cambiamento eccezionale: la nazione che per generazioni stupì il mondo intero per la sua capacità di "pensare positivo", di nutrire un'illimitata fiducia nelle proprie capacità, è irriconoscibile. Solo il 20% dei cittadini è soddisfatto di quel che l'America è oggi. E appena il 39% "sente che le cose si stanno evolvendo nella direzione giusta". I tre ricercatori che hanno diretto l'indagine della Brookings Institution, Karen Dynan, Ted Gayer e Darrell West, sintetizzano così i sentimenti degli elettori che domani vanno alle urne: "Domina l'incertezza sull'economia, la fiducia dei consumatori frana, le prospettive di una ripresa sono grigie. Non c'è chiarezza sul futuro delle tasse. Non c'è un piano per ridurre deficit e debito pubblico nel lungo termine. Nessuno sa se e come affronteremo problemi strutturali come la dipendenza energetica, l'ambiente, l'immigrazione". Inevitabile che una simile sindrome si traduca nella voglia di castigare chi governa. Il livello di consensi verso Barack Obama è sceso dal 54% di un anno fa al 45% oggi. Non gli viene riconosciuto neppure il merito di avere arrestato la recessione, al contrario. "Meno di un terzo degli elettori - spiegano i ricercatori della Brookings - pensa che sia servita a qualcosa la sua manovra di spesa pubblica anti-crisi. Il 68% è convinto che quei soldi sono stati buttati via". Il Washington Post, un giornale tutt'altro che ostile all'Amministrazione Obama, riassume così l'atmosfera dominante in questa vigilia di legislative: "Anzitutto siamo in guerra, e sconfiggere i nostri nemici richiederà un impegno di lungo termine in Afghanistan, Pakistan, Iraq, al quale il presidente non ha preparato abbastanza gli americani. Poi ci stiamo avvitando pericolosamente nel debito pubblico, che deprimerà il nostro tenore di vita e indebolirà la leadership degli Stati Uniti nel mondo. Infine ci sono problemi come la povertà cronica tra i neri sotto-istruiti, un'alta disoccupazione che forse non è solo ciclica, la decadenza delle nostre infrastrutture, gli insufficienti investimenti nella scuola, il cambiamento climatico". Un elenco drammatico, più che sufficiente per giustificare lo stato depressivo - in senso clinico - dell'umore nazionale. Il magazine Time sceglie di dedicare la copertina all'ottimismo della ragione. Il titolo è "Come ricostruire il Sogno Americano". Ma la speranza si esaurisce nel titolo. Già l'immagine che gli fa da sfondo lancia il messaggio contrario: è la foto di una casa circondata da erbacce e una cinta di paletti in disfacimento, il simbolo dei milioni di abitazioni abbandonate, per la crisi dei mutui e i pignoramenti giudiziari dei debitori insolventi. L'apertura del reportage su Time è affidata all'editorialista più prestigioso, Fareed Zakaria, una grande firma del giornalismo americano ma di origine indiana. Ed ecco cosa scrive Zakaria: "Quando viaggio dall'America all'India in questi giorni mi sembra che il mondo si sia capovolto. Sono gli indiani a brillare di speranza e fiducia nel loro futuro. Il 63% degli americani invece è convinto che non riuscirà a mantenere il proprio tenore di vita attuale. Ma quel che è ancora più inquietante, è che gli americani sono diventati terribilmente fatalisti sulle loro prospettive future. Questa nazione che sembrava convinta di poter sempre riuscire in ogni sfida, ora è convinta che non ce la farà". Fatalismo? Non era un termine che associavamo al Dna degli Stati Uniti d'America. È il rovesciamento brutale del più celebre slogan lanciato da Obama nella sua trionfale campagna del 2008: "Yes We Can". Quella descritta dalla Brookings Institution, dal Washington Post e da Time è l'America del "No, We Can't", una nazione stravolta in un solo biennio. Di fronte a un cambiamento di atmosfera così profondo e radicale, il processo a Obama è inevitabile e infatti è già iniziato. Le accuse sono diametralmente opposte, inconciliabili. Da sinistra gli rimproverano i troppi compromessi, che avrebbero tradito gli ideali di cambiamento: riforma sanitaria, nuove regole per Wall Street, Afghanistan, altrettante delusioni. La destra lo descrive come un ideologo radicale dell'intervento pubblico, che ha dissipato risorse, ingigantito la burocrazia federale, ipotecando il futuro del paese sotto una montagna di debiti. Sentiremo ripetere questi argomenti nei prossimi giorni, fino alla nausea. Ma il processo agli ultimi due anni non è necessariamente il modo migliore per capire i prossimi due. Mercoledì mattina, appena chiariti i risultati delle elezioni di mid-term, sarà di fatto il primo giorno della campagna elettorale per le presidenziali del 2012. Una battaglia dove ancora una volta tutto si giocherà sull'economia. Il premio Pulitzer David Broder la riassume così: "Se Obama non riesce a rilanciare la crescita prima del 2012, non sarà rieletto. La stessa recessione che ebbe un ruolo determinante per portarlo alla Casa Bianca nel 2008, ha lasciato un'eredità che può costargli la riconferma tra due anni. Il guaio è che nessun governo ha il potere di controllare il ciclo economico. L'economia non si lascia comandare dalla politica. Su questo terreno, anche se Obama sembra molto superiore ai suoi potenziali avversari di ambedue i partiti, non ha dei vantaggi: può analizzare correttamente le forze d'inerzia dell'economia, non può dominarle". Ma gli stessi repubblicani devono guardarsi dal sopravvalutare la vittoria di domani. L'indagine della Brookings è chiara: gli americani "sfiduciano" l'intero Congresso (destra e sinistra) ancor più del presidente: solo il 19% dà un giudizio positivo dei parlamentari nel loro insieme. E dopodomani? "Gridlock" ovvero "paralisi di governo" è lo scenario prevalente per il prossimo biennio: una partita di veti incrociati tra democratici e repubblicani sempre più polarizzati verso le ali estreme. Non una ricetta ideale per il paese che ha perso la fede nel suo futuro. (01 novembre 2010) © Riproduzione riservata http://www.repubblica.it/esteri/elezioni-usa/2010/11/01/news/midterm_vigilia-8627600/ Titolo: FEDERICO RAMPINI. Comincia l'Obama 2 con l'incognita società civile Inserito da: Admin - Novembre 03, 2010, 10:02:41 pm L'ANALISI
Comincia l'Obama 2 con l'incognita società civile Il presidente evita l'umiliazione in Senato ma la catastrofe della Camera lo inchioda a pesanti responsabilità. Nell'analisi del voto giocano due forze contrastanti: giovani e donne hanno tradito il sogno obamiano, accusato di eccessiva cautela. Ma anche i repubblicani devono fare i conti con una radicalizzazione a destra dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI NEW YORK - Barack Obama incassa una dura sconfitta, evita una débacle irrimediabile. Il partito democratico perde nettamente la maggioranza alla Camera ma la conserva al Senato. Il presidente può tirare un sospiro di sollievo perché ha subìto un rovescio che rientra nel tradizionale ciclo politico americano. Andò peggio a Ronald Reagan, Bill Clinton, George W. Bush: tutti alle elezioni di mid-term persero la maggioranza in ambedue i rami del Congresso. Ma i precedenti storici non bastano ad evitare lo choc. Perché alla Camera le dimensioni dell'avanzata repubblicana sono travolgenti: è il più grosso ribaltamento dei rapporti di forze dal 1948. In due anni Obama sembra avere dilapidato gran parte del patrimonio di consensi, l'aureola di carisma, l'alone di speranza che avevano circondato la sua vittoria nel 2008. Significativo è il fatto che gli abbiano voltato le spalle molte donne, che erano state una colonna portante nella sua elezione alla Casa Bianca. Da oggi comincia una fase che si può definire Obama 2. Parte di fatto un'altra campagna elettorale: a destra come a sinistra, si aprono le grandi manovre per la corsa alla Casa Bianca nel 2012. Per Obama, che darà una conferenza stampa a Washington alle ore 13 (le 18 in Italia), non è facile "interpretare" il risultato elettorale e la lezione da trarne. Nell'emorragìa di voti che ha penalizzato il partito democratico confluiscono infatti due spinte contraddittorie. Da una parte lo hanno disertato quelle fasce di "nuovo voto" - giovani, minoranze etniche, ambientalisti, pacifisti - che rimproverano a Obama di non essere stato abbastanza audace nelle riforme. D'altra parte si sono spostati a destra molti elettori centristi, moderati e indipendenti, sensibili alla propaganda del Tea Party: convinti cioè che Obama abbia fatto fin troppo, con manovre di spesa pubblica anti-crisi che hanno scavato una voragine nel deficit pubblico. Nel rimpasto della sua squadra di governo Obama dovrà fare una scelta: andare verso un secondo biennio più moderato, alla ricerca di compromessi con la maggioranza repubblicana alla Camera; o al contrario impostare la seconda metà del suo mandato su un "muro contro muro", abbandonando l'illusione di un dialogo bipartisan. Sul fronte opposto, i repubblicani devono evitare di essere inebriati da questa vittoria. Certo il Tea Party emerge come la grande novità del momento. Questo movimento ha studiato a perfezione proprio il "modello Obama", ha usato la mobilitazione della società civile per scardinare l'establishment di partito. E' una "insurgency", un'insurrezione della società civile che vuole riappropriarsi della propria sovranità. Ma queste mobilitazioni possono essere fiammate brevi, se vengono catturate e dirottate da un ceto politico tradizionale. Di qui al 2012 sarà l'economia a decidere tutto. Se Obama non trova la terapia giusta per accompagnare l'America verso una ripresa che crei posti di lavoro, la sua figura di leader resterà associata a una fase di declino e di impoverimento della nazione. In quanto alla destra populista, sogna lo Stato minimo e tagli alla spesa pubblica drastici almeno quanto quelli proposti da David Cameron in Inghilterra. Una visione dottrinaria che rischia di aggravare la crisi precipitando l'America in una nuova depressione. (03 novembre 2010) © Riproduzione riservata http://www.repubblica.it/esteri/elezioni-usa/2010/11/03/news/analisi_rampini-8689903/?ref=HREA-1 Titolo: FEDERICO RAMPINI. L'ultima tentazione liberal "Barack non si ricandidi" Inserito da: Admin - Novembre 23, 2010, 09:56:32 am USA
L'ultima tentazione liberal "Barack non si ricandidi" Il Washington Post: governi, niente campagna elettorale. Il presidente non sarebbe più un bersaglio da abbattere per i repubblicani dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI NEW YORK - Fino a qualche tempo fa era un obiettivo galvanizzante per la destra. Mitch McConnell, capogruppo repubblicano al Senato, lo aveva detto all'indomani della vittoria elettorale, in modo brutale: "Il nostro obiettivo più importante è che il Presidente Obama faccia un mandato solo". I sondaggi alimentano questa speranza. Secondo il Quinnipiac Poll, "il 49% degli americani pensa che il presidente non meriti un secondo mandato, solo il 43% vuole vederlo rieletto nel 2012". Di questo tema si è impadronito improvvisamente uno storico giornale liberal, rovesciandolo in maniera inaspettata. Sul Washington Post, gli editorialisti Douglas Schoen e Patrick Caddell hanno lanciato una "bomba" nel dibattito interno al partito democratico. La loro proposta: Barack Obama dichiari al più presto che non si ripresenterà nel 2012, e il grande sacrificio lo renderà più forte. Il quotidiano avverte: "Se il presidente si avvia verso la campagna elettorale, abbiamo la certezza che il governo sarà paralizzato per due anni". E' quel che minacciano i repubblicani: gridlock, blocco totale. Sono convinti che a loro conviene essere "il partito del no", usare la loro fresca maggioranza alla Camera per bocciare ogni iniziativa del presidente. "L'America - prosegue il Washington Post -non può permettersi la paralisi. Se invece annuncia che sarà presidente per un solo mandato, Obama può realizzare la promessa della sua campagna del 2008: può disintossicarci da una politica polarizzata, può mettere fine al risentimento, alle lacerazioni che hanno indebolito la nostra identità nazionale e il senso di uno scopo comune". Il precedente evocato è Lyndon Johnson, un altro presidente democratico impantanato in una escalation militare. Dopo che la sua popolarità era crollata per la guerra del Vietnam, Johnson ritirò la candidatura per un secondo mandato nel '68. Anche per Obama una considerazione è legata alla guerra: non essere candidato nel 2012 gli consentirebbe di affrontare senza calcoli elettorali la decisione sul da farsi in Afghanistan. Ma per il Washington Post prevale un altro vantaggio. Liberato dall'immagine del futuro candidato, Obama non sarebbe più il bersaglio da abbattere per i repubblicani. Le sue offerte di accordi bi-partisan con la destra riceverebbero un'accoglienza meno ostile. La sua Amministrazione - magari integrata con esponenti repubblicani dopo un rimpasto - potrebbe finalmente affrontare le grandi emergenze: tagliare il deficit pubblico, rilanciare la crescita e l'occupazione. L'idea del mandato unico è rafforzata dalle conclusioni della commissione bipartisan che su incarico dello stesso Obama ha appena consegnato le sue conclusioni sul risanamento dei conti pubblici. Le ricette sono drastiche: vanno dai tagli alle prestazioni sanitarie per gli anziani (Medicare) alla riduzione delle pensioni. Non basta: per riportare il deficit sono controllo bisogna introdurre una tassa federale sui consumi (equivalente dell'Iva europea) e abolire sgravi fiscali popolarissimi come la deducibilità degli interessi passivi sui mutui. Tutte riforme impossibili nell'attuale clima politico di totale contrapposizione. Se invece Obama annuncia il nobile gesto del ritiro nell'interesse del paese, da qui al 2012 il suo diventa l'equivalente di un "governo tecnico", che può invocare scelte di unità nazionale dettate dall'emergenza. A dare credibilità a questo scenario, durante il vertice della Nato a Lisbona il tema del "mandato unico" era ben più dibattuto dello scudo anti-missili tra la stampa al seguito del presidente e lo staff della Casa Bianca. E appena tornata da Lisbona, Hillary Clinton si è precipitata a smentire alla Cbs che si sarebbe candidata nel 2012: il suo nome infatti è il primo della lista, se Obama dovesse rinunciare. Ora però sono i repubblicani a tacere. Loro hanno un sospetto: che il grande gesto della rinuncia sia solo una mossa tattica, per attirarli nella trappola della cooperazione. E poi beffarli con un altro colpo di scena fra due anni. (23 novembre 2010) © Riproduzione riservata http://www.repubblica.it/esteri/2010/11/23/news/l_ultima_tentazione_liberal_barack_non_si_ricandidi-9398636/?ref=HREC1-9 Titolo: FEDERICO RAMPINI. "Viziosi, maniaci, deboli, pericolosi" ecco i leader visti... Inserito da: Admin - Novembre 29, 2010, 12:03:09 pm L'ANALISI "Viziosi, maniaci, deboli, pericolosi" ecco i leader visti da Washington Da Berlusconi a Gheddafi, i ritratti "non censurati" di alleati e nemici. A molti statisti le informative segrete delle ambasciate non fanno sconti. Nelle radiografie segrete i limiti, i difetti, la caratura e le strategie dei capi. Emerge la visione di un mondo difficilmente governabile e denso di minacce dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI NEW YORK - Silvio Berlusconi "politicamente debole, inefficace come leader europeo moderno", più vicino a Vladimir Putin e Gheddafi che ad alleati come la Merkel o Netanyahu. Non è pettegolezzo, non è voyeurismo: le 250.000 comunicazioni confidenziali rivelate da Wikileaks sono un documento storico di eccezionale importanza. Per la prima volta, suo malgrado, chi governa l'America vede rivelati i suoi giudizi integrali sui leader stranieri. Ecco come la superpotenza mondiale classifica, analizza, gerarchizza i suoi interlocutori: è uno straordinario squarcio di verità su "intelligence gathering" e "decision-making", i due momenti-chiave - raccolta delle informazioni e processo decisionale - che guidano la Casa Bianca e il Dipartimento di Stato. Capi di governo di nazioni sorelle, alleati di lunga data, fiancheggiano i nemici pubblici numero uno come Ahmadinejad. E' una cornice impressionante, una sfilata di leader che nei dispacci riservati vengono vivisezionati dalla rete diplomatica, perché Washington deve sapere esattamente con chi ha a che fare. Vizi personali, difetti politici, caratura, strategie, scheletri negli armadi: ecco le radiografie top secret degli statisti, a portata di tutti. Così Elizabeth Dibble, incaricata d'affari all'ambasciata americana a Roma, si sente in dovere di informare il Dipartimento di Stato che il presidente del Consiglio italiano per le "frequenti lunghe nottate e l'inclinazione ai party" è affaticato anche fisicamente, oltre a risultare "incapace". L'informativa sulle "feste selvagge" non fa che rafforzare la preoccupazione strategica. Insospettisce gli americani la relazione troppo stretta tra il premier italiano e quello russo, Vladimir Putin, che viene descritta a base di "regali opulenti", "lucrosi contratti energetici", con un "intermediario-ombra". Il risultato è che Berlusconi, nel giudizio dell'ambasciata, "appare sempre più come il portavoce di Putin" in Europa. Un ruolo allarmante, per gli Stati Uniti, che non possono tollerare il doppio gioco da un partner storico della Nato. La profonda sfiducia verso Berlusconi è tanto più grave se affiancata a quel che l'ambasciata di Mosca scrive su Putin: un "alpha-dog", cioè capo-branco, che domina su una Russia che "virtualmente è uno Stato della mafia" . Al suo confronto il presidente Dmitri Medvedev, cioè colui che Barack Obama ha scelto come suo interlocutore (dal disarmo nucleare alle sanzioni sull'Iran), pur essendo ufficialmente di rango superiore a Putin, in realtà "è come Robin verso Batman", cioè il cadetto, la figura più debole. Su Gheddafi, altro personaggio cruciale nel Pantheon delle frequentazioni berlusconiane, le informazioni frugano nell'intimo. "Ipocondriaco, fa filmare i suoi controlli medici. Usa il Botox contro le rughe. Ha paura dei lunghi voli, e dei piani alti. Non può viaggiare senza avere al suo fianco l'infermiera ucraina Galyna Kolotnytska, una bionda voluttuosa". Al punto che un volo speciale solo per la donna ucraina fu organizzato in fretta e furia per ovviare a un ritardo nella concessione del visto, in occasione dell'assemblea dell'Onu. Ogni debolezza personale è passata ai raggi X, è materiale prezioso per guidare l'approccio dell'Amministrazione Usa verso i leader stranieri. I giudizi su Berlusconi sono eccezionalmente duri ma non per una "congiura", visto che anche ad altri statisti le informative segrete delle ambasciate non fanno sconti. Nicolas Sarkozy ha diritto a un ritrattino poco lusinghiero: "l'imperatore nudo" lo descrivono nelle missive indirizzate a Washington, per via del "carattere permaloso, lo stile personale autoritario", l'abitudine di sconfessare pubblicamente il suo primo ministro e altri membri del governo. In Europa si salva Angela Merkel, definita "teflon" come il materiale per le pentole dove il cibo non si attacca. Era una celebre definizione di Ronald Reagan, perché le sconfitte gli scivolavano sulla pelle. Una cancelliera "tenace quando è in difficoltà", però anche "avversa al rischio, raramente creativa". Più severa è la pagella sul ministro degli Esteri Westerwelle: "anti-americano e poco competente". Ne esce comunque l'immagine di un'Europa rimpicciolita nell'attenzione e soprattutto nella stima dei leader americani. Le date dei rapporti diplomatici indicano che la marginalizzazione degli europei era già avanzata sotto l'Amministrazione Bush, prima ancora che arrivasse Obama con la sua visione rivolta all'Asia Pacifico. Le rivelazioni su ciò che la diplomazia Usa pensa degli avversari sono importanti perché dipingono un mondo ancora più pericoloso, ingovernabile e denso di minacce, di quanto Washington non ammetta nella sfera pubblica. Il presidente Ahmadinejad è paragonato a Hitler oppure definito "un nuovo Pinochet", della cui elezione "il popolo iraniano si pentirà amaramente". Il dittatore nordcoreano Kim Jong-il, che in questi giorni ha messo l'America di fronte a una grave crisi internazionale, è "un vecchio rimbecillito dopo l'ictus". I leader della Cina sono "i veri mandanti del cyber-attacco contro Google". E' dal 2002, secondo i dispacci riservati dell'ambasciata Usa a Pechino, che provengono direttamente dal Politburo del partito comunista cinese le direttive per "una campagna coordinata di sabotaggio informatico a danno del governo americano e dei suoi alleati europei". Nei teatri più caldi del Medio oriente e dell'Asia centrale, gli interlocutori privilegiati di Washington si rivelano inaffidabili o peggio. Sul premier israeliano Benjamin Netanyahu il giudizio è in apparenza positivo ("elegante e seducente"), seguito però dall'osservazione che "non mantiene mai le promesse". Ed è l'uomo su cui Obama deve appoggiare il suo dialogo di pace. Disastroso il ritratto di Ahmid Karzai, il presidente dell'Afghanistan a cui Obama dovrebbe trasferire progressivamente le responsabilità della guerra contro i talebani. "Un paranoico, circondato dalla corruzione, con un fratellastro a capo del narcotraffico". Ieri Hillary Clinton ha passato la giornata al telefono con molti di questi capi di Stato stranieri, per ricucire le ferite aperte da Wikileaks. Ma ci vuol altro che il lavoro della diplomazia tradizionale, per rimediare a un cataclisma che ha sconvolto il ruolo stesso della diplomazia. Né basteranno in futuro nuove regole, nuovi circuiti di comunicazione, nuove barriere anti-incursioni. In questo choc bisognerà anche spiegare all'opinione pubblica americana lo scarto immenso, tra il galateo dei vertici e quel che Washington pensa davvero di amici, alleati, avversari. (29 novembre 2010) © Riproduzione riservata http://www.repubblica.it/esteri/2010/11/29/news/rampini_wiki-9628964/?ref=HREA-1 Titolo: FEDERICO RAMPINI. giudizi sul presidente del Consiglio non sono pareri personali Inserito da: Admin - Novembre 30, 2010, 05:19:20 pm WIKILEAKS
Ma il Dipartimento dà torto al Cavaliere la Dibble guida la diplomazia nella Ue Uomini vicini al premier fornivano informazioni all'ambasciata. A differenza delle altre cancellerie, la Farnesina sembra destabilizzata dai file di Assange. I duri giudizi sul presidente del Consiglio non sono pareri personali dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI NEW YORK - Silvio Berlusconi da Tripoli l'ha definita "una funzionaria di terzo grado". In realtà Elizabeth Dibble a Roma era di fatto l'ambasciatore in carica. L'autrice e firmataria dei pesanti rapporti al Dipartimento di Stato, in cui il premier italiano viene definito "politicamente debole, inefficace come leader europeo moderno", incapacitato dai "selvaggi party notturni", nonché "portavoce di Putin", oggi è tornata a Washington. Dopo oltre due anni trascorsi alla guida della sede italiana - dalla nascita dell'attuale governo Berlusconi fino a ottobre - lei è stata promossa. Il suo incarico odierno: Deputy Assistant Secretary di Hillary Clinton. Da un mese la Dibble dirige al Dipartimento di Stato la sezione European and Eurasian Affairs. Ora fanno riferimento alla Dibble tutte le ambasciate Usa nell'Unione europea. Perciò il Dipartimento di Stato, sia pure in una giornata che vede la Clinton sulla difensiva per il ciclone-WikiLeaks, deve confermare che le valutazioni di Berlusconi sono state espresse "dalle fonti diplomatiche di massimo livello". C'è di più. Quei giudizi gravi, dai sospetti sulla vera natura dell'amicizia con Putin alla salute fisica del presidente del Consiglio, non sono pensieri personali della Dibble. Proprio come ha precisato l'ambasciatore David Thorne, quelle sono "analisi" (da non confondersi con le "politiche" elaborate a Washington). Ecco come definiscono il metodo seguito nella compilazione delle "analisi" al Dipartimento di Stato: "Informazioni e valutazioni sono state raccolte consultando anche membri del governo italiano, esponenti della coalizione di maggioranza, nonché gli ambienti imprenditoriali". La Dibble è un personaggio molto noto a chiunque abbia frequentato l'ambasciata di Via Veneto. Nella sua permanenza dal 2008 al 2010 la sua carica ufficiale era Chief of Mission and Chargé d'Affaires. Cioè la più alta diplomatica di carriera a Roma, visto che gli ambasciatori americani sono di nomina politica e vengono scelti fuori dai ranghi del Dipartimento di Stato. Dunque lei era l'ambasciatore-vicario. Come spiega il suo profilo sul sito ufficiale del Dipartimento di Stato, la Dibble aveva "la direzione operativa di una sede con 800 dipendenti". Nel lungo interregno (6 mesi) fra la partenza dell'ambasciatore repubblicano Ronald Spogli il 6 febbraio 2009, e l'arrivo del democratico Thorne il 17 agosto dello stesso anno, la Dibble fu anche formalmente la numero uno dell'ambasciata, l'interlocutrice primaria della Casa Bianca e della Clinton sugli affari italiani. Lei proveniva da un altro compito importante al Dipartimento di Stato: era stata ai vertici del Bureau of Economic, Energy and Business Affairs dal 2006 al 2008. Questo spiega la sua particolare sensibilità verso la politica energetica italiana, e la sua attenzione per quella "amicizia personale con risvolti d'affari" tra Berlusconi e Putin. Ma l'intelligence che Elizabeth Dibble raccoglieva e trasmetteva puntualmente a Washington, era il frutto di una sistematica consultazione di interlocutori italiani del più alto livello: ministri in carica, leader delle forze politiche di maggioranza e opposizione, l'establishment industriale e finanziario. E' da quei contatti quotidiani che la Dibble "distillava" le sue informative sul premier. L'esistenza di queste "gole profonde" nell'entourage di Berlusconi, è sufficiente a spiegare le reazioni del premier da Tripoli? Al Dipartimento di Stato sia pure nel bel mezzo di un "perfect storm", una tempesta storica, non sfugge l'anomalia del caso italiano nel "giorno dopo". Altri governi di nazioni alleate di fronte alla prima ondata di rivelazioni da WikiLeaks hanno avuto un comportamento uniforme: analizzare il contenuto dei dispacci; capire se celano dei problemi di sostanza nei rapporti con gli Stati Uniti; quindi sdrammatizzare per tentare di tornare al più presto alla normalità. La vera preoccupazione delle altre capitali alleate è quella di mostrare un fronte comune contro WikiLeaks. Così il portavoce dell'Eliseo, François Baroin, non ha reagito alla descrizione di Nicolas Sarkozy ("permaloso e autoritario") bensì ha sottolineato che Francia e Stati Uniti sono d'accordo per contrastare queste fughe di notizie. "Diamo il massimo sostegno all'Amministrazione americana - ha detto Baroin - nei suoi sforzi per evitare ciò che danneggia il lavoro dei suoi funzionari". Il ministro degli Esteri tedesco, Guido Westerwelle, in risposta ai contenuti di WikiLeaks sul governo Merkel (la "signora Teflon, tenace ma poco creativa") ha detto che "le relazioni tra gli Stati Uniti continueranno ad essere strette e amichevoli". Perfino Putin ("il capo-branco", alla guida di uno "Stato di tipo mafioso" secondo i comunicati della diplomazia Usa), attraverso il suo portavoce ha fatto sapere che "aspetterà di verificare il testo originale, e la traduzione di certe parole o espressioni". Sono reazioni che il Dipartimento di Stato considera prevedibili. Dopotutto è l'Amministrazione degli Stati Uniti la "vittima" di WikiLeaks, è il Dipartimento di Stato ad aver subìto questa intrusione e questa fuga di 250.000 comunicati a carattere confidenziale. Osservato da Washington spicca perciò il tono singolare di certe reazioni italiane, con il ministro degli Esteri Franco Frattini che dopo aver parlato a caldo di un "11 settembre della diplomazia" (quando ancora non era uscita neppure la prima ondata di rivelazioni) ieri è tornato sull'argomento accusando WikiLeaks di voler "distruggere il mondo". Gli americani si chiedono perché l'Italia sia l'unico paese a sentirsi destabilizzato, almeno dentro l'arco degli alleati e amici. La spiegazione di questa anomalìa la cercano proprio nelle "analisi" della Dibble, e nelle sue fonti. (30 novembre 2010) © Riproduzione riservata http://www.repubblica.it/esteri/2010/11/30/news/usa_italia-9666091/?ref=HRER3-1 Titolo: FEDERICO RAMPINI. Ecco come vive il "James Bond della contronformazione". Inserito da: Admin - Dicembre 01, 2010, 05:38:25 pm WIKILEAKS
Tutti i segreti di Julian Assange l'uomo che fa tremare il potere Viaggia sotto falso nome, usa telefoni criptati, paga solo in contanti. Ecco come vive il "James Bond della contronformazione". Con lui giornalisti e hacker, che lavorando davanti a computer in bunker atomici grazie a finanziamenti da donazioni volontarie dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI NEW YORK - Ottantamila lettori di Time vogliono che sia Julian Assange l'"uomo dell'anno" da mettere in copertina. "Va braccato come Osama Bin Laden", intima invece la leader della destra americana Sarah Palin. "Condanniamo a morte tutte le gole profonde", invoca sulla Fox News l'anchorman Bill O'Reilly mentre il deputato repubblicano Peter King propone "il reato di terrorismo" per le fughe di notizie. Ma chi c'è davvero dietro WikiLeaks? A chi giova politicamente il cataclisma diplomatico orchestrato dal suo capo Assange? Come funziona il suo universo parallelo, che usa un'impenetrabile segretezza interna per imporre il massimo della trasparenza ai governi di tutto il mondo? A meno di protettori potenti, solo un genio può sottrarsi alla caccia all'uomo planetaria, e resuscitare il suo sito dopo formidabili attacchi informatici. Questo australiano di 39 anni si è già conquistato un posto nel Pantheon dei grandi dell'èra Internet. Come Bill Gates (Microsoft), Larry Page (Google) o Mark Zuckerberg (Facebook) anche Assange è un innovatore rivoluzionario, usando le nuove tecnologie ha scardinato consuetudini diplomatiche antiche di secoli. Un "gigante dell'informatica" lo definiscono anche quegli ex collaboratori che hanno deciso di abbandonarlo per divergenze politiche o etiche. E' un giustiziere o un criminale, angelo o Mefistofele? Daniel Ellsberg, la gola profonda che nel 1971 rivelò al New York Times le bugie di Stato sul Vietnam (i Pentagon Papers), considera Assange l'eroe del nostro tempo: "Ho aspettato 40 anni - dice - per vedere qualcuno che abbattesse i segreti di Stato in modo da cambiare il corso della storia". Le defezioni polemiche di tanti suoi collaboratori possono dipingere un altro personaggio: ambiguo, irresponsabile, o manipolato. Dalla clandestinità, rispondendo per email alle interviste, Assange sfida i suoi avversari: "Quel che abbiamo fatto finora è una millesima parte della nostra missione". A Hillary Clinton che lo accusa di mettere in pericolo vite umane: "Da 50 anni questo è l'alibi usato da ogni governo americano, per impedire che l'opinione pubblica sappia ciò che fanno. Ma il coraggio è contagioso: più dimostriamo che la verità è vincente, più avremo nuove rivelazioni". Conduce "una vita da James Bond della contro-informazione", come la definisce lui stesso. Viaggia sotto falso nome, evita gli alberghi, si tinge i capelli, cambia continuamente telefonino (criptato) e impone ai suoi collaboratori di fare lo stesso. Paga solo in contanti (le carte di credito lasciano tracce) e anche quelli deve farseli prestare per non usare il Bancomat. Eppure l'inizio di questa storia è ben diverso, il che infittisce il mistero di WikiLeaks. Catalogata al suo battesimo nel 2006 come un "organo d'informazione internazionale non-profit", si autodefinisce così: "Un sistema a prova di censura, per generare fughe massicce di documenti riservati senza tradirne l'origine". Tra le regole statutarie: "Accetta solo materiali segreti", e i documenti devono avere "rilevanza politica, diplomatica, storica, etica". Un anno dopo il suo lancio, sul sito WikiLeaks c'erano già 1,2 milioni di documenti. Assange non figura subito come il capo. Alle origini l'organizzazione si descriveva come un collettivo, animato da noti dissidenti cinesi come Xiao Qiang, Wang Youcai e Wang Dan; giornalisti in lotta contro le dittature; matematici ed esperti informatici che cooperavano da Stati Uniti, Europa, Australia, Taiwan, Sudafrica. La componente cinese nel nucleo fondatore è importante: quei dissidenti si sono allenati a "bucare" un muro impenetrabile, la Grande Muraglia di Fuoco, la censura informatica della Repubblica Popolare. La loro presenza è anche all'origine di velenosi sospetti - probabilmente infondati - sull'infiltrazione dei servizi segreti di Pechino in WikiLeaks. Nei primi anni la battaglia è rivolta soprattutto contro i regimi autoritari, i genocidi, la repressione del dissenso. Nel 2008 WikiLeaks si guadagna un riconoscimento da Amnesty per le rivelazioni sulle esecuzioni sommarie della polizia in Kenya. The Economist assegna al sito il premio New Media Award. Tutto cambia di colpo nell'aprile di quest'anno, quando su WikiLeaks appare il video di una strage di civili iracheni da parte dei soldati americani. Poi a luglio esce la prima infornata di 76.900 documenti segreti sulla guerra in Afghanistan. Seguita da 400.000 comunicazioni confidenziali sul conflitto in Iraq. Per arrivare al grande botto che domenica scorsa ha sparpagliato alla luce del sole 250.000 dispacci diretti al Dipartimento di Stato dalle ambasciate Usa. L'America di Barack Obama diventa il bersaglio numero uno. In coincidenza con questa svolta, aumenta a dismisura la visibilità di WikiLeaks. Emerge come leader l'australiano Assange, con un passato di pirata informatico. La novità sconvolge alcuni sostenitori del "primo" WikiLeaks. L'agenzia stampa Associated Press, il Los Angeles Times, la federazione degli editori di giornali Usa, che avevano finanziato il sito, ci ripensano. Amnesty International e Reporters senza frontiere criticano Assange con lo stesso argomento della Clinton, "per avere messo in pericolo vite umane" (divulgando nomi di informatori afgani della Cia, ora esposti alla vendetta dei Taliban). Alla ritirata dei grandi sostenitori Assange reagisce appoggiandosi su una miriade di simpatizzanti, i micro-pagamenti affluiscono dal mondo intero usando il sistema Paypal. Più inquietanti sono le defezioni tra gli amici e i collaboratori più stretti. Un vero e proprio "scisma", accelerato dopo le accuse di molestie sessuali da parte di due donne svedesi contro Assange (lui nega, sostiene che i rapporti furono consensuali). Almeno una dozzina di volontari del nucleo originario di WikiLeaks sono partiti. Alcuni parlano. Come il 25enne islandese Herbert Snorrason che di Assange dice: "Ormai è fuori di testa". Birgitta Jonsdottir, una parlamentare islandese che era stata anche lei tra gli attivisti fondatori, accusa Assange di aver deciso tutto da solo sui segreti militari americani in Afghanistan. Altri, dietro l'anonimato, lo accusano di essere diventato "megalomane, dittatoriale". Non lo abbandonano però i fedelissimi: 40 volontari, 800 aiutanti esterni. Un miracolo economico, per un'organizzazione che sopravvive con un budget di soli 200.000 euro all'anno. Senza una sede fisica. Spostandosi virtualmente in quelle "piazze giuridiche off-shore" dalle leggi più tolleranti per la libertà di espressione. Un prodigio tecnologico, soprattutto: "Com'è possibile - hanno chiesto le autorità inglesi in questo weekend di attese isteriche - che il Pentagono con tutta la sua potenza nella guerra elettronica non riesca a oscurare per sempre WikiLeaks?". La risposta è tutta nel genio di Assange. In fuga perpetua dall'Australia alla Svezia, da Berlino a Londra, forse in procinto di chiedere asilo alla Svizzera, anche per i "server" di Internet lui usa lo stesso metodo, cambia costantemente i propri snodi di comunicazione. E ha un'arma segreta, quella che lui definisce la sua "polizza vita": molti documenti riservati in suo possesso sono già stati "scaricati" via Twitter in forma criptata sui computer di decine o forse centinaia di simpatizzanti. "Se succede qualcosa a me - minaccia Assange - o al sito principale, scatta automaticamente la divulgazione della password che consentirà di diffondere tutto questo materiale". Bluff o verità? Tutto ciò che riguarda Assange si presta a doppie letture, è circondato da un alone di mistero. Lo stesso uso politico che ne viene fatto: la destra americana lo denuncia come un terrorista, ma al tempo stesso strumentalizza le fughe di notizie contro l'Amministrazione Obama. I mass media hanno imparato quanto Assange possa essere implacabile: il New York Times è stato messo "in quarantena" per non avere accettato a scatola chiusa i diktat di WikiLeaks, il Wall Street Journal e la Cnn sono stati messi al bando dalle rivelazioni. Braccato da polizie e magistrature, bersagliato dagli hacker, la primula rossa che ha abbattuto ogni regola dei segreti di Stato si fa beffe dell'annuncio che la Casa Bianca e il Dipartimento di Stato rivedranno tutti i sistemi di comunicazione: "Il nuovo volto della censura moderna è impedire le fughe di notizie riservate. Ma per quanto inventino nuove protezioni, sarà sempre possibile escogitare i sistemi per aggirale". (01 dicembre 2010) © Riproduzione riservata http://www.repubblica.it/esteri/2010/12/01/news/rampini_segreti_wikileaks-9707843/?ref=HREA-1 Titolo: FEDERICO RAMPINI. E Washington ora puntella l'alleato "Troppi rischi da ... Inserito da: Admin - Dicembre 02, 2010, 12:25:55 pm IL RETROSCENA
E Washington ora puntella l'alleato "Troppi rischi da una crisi in Italia" L'allarme economico-finanziario spiega l'urgenza per il segretario di Stato di rassicurare Berlusconi. Obama teme l'euro-crac: "Non alla destabilizzazione" dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI NEW YORK - Mentre Hillary Clinton è impegnata all'estero nel suo "apology tour", le scuse che rivolge a Silvio Berlusconi sono giustificate anche da un'emergenza nuova, che si affianca allo choc WikiLeaks. Perché in America la crisi italiana fa irruzione sulle prime pagine dei maggiori giornali. Una rara sintonia appaia New York Times e Wall Street Journal, il più grande giornale liberal e il massimo organo conservatore. Tutt'e due hanno in prima pagina grandi foto degli scontri tra studenti e polizia, a Roma e Bologna. A fianco la notizia principale è l'allargamento della crisi dell'eurozona che lambisce l'Italia. "La paura si estende fino a coinvolgere Italia e Belgio", per il New York Times. "Gli investitori esigono tassi record per compensare il rischio su Spagna e Italia", secondo il Wall Street Journal. "E' già abbastanza grave se tocca alla Spagna, ma ora l'Italia...." osserva il Nobel dell'Economia Paul Krugman. Tensioni sociali, politiche ed economiche si sovrappongono nella rappresentazione che l'establishment americano dà dell'Italia. L'acuirsi di un allarme economico-finanziario sull'Italia spiega l'urgenza per il segretario di Stato di rassicurare il presidente del Consiglio. Dopo avere definito "iperbole, esagerazione" la definizione data dal ministro degli esteri Franco Frattini di un "11 settembre della diplomazia", il vice della Clinton Philip Crowley a una domanda di Repubblica conferma "l'importanza dell'incontro bilaterale del segretario di Stato con Berlusconi per affrontare gli interessi comuni". In cima ai quali ora si è aperto un fronte che Washington considera d'importanza strategica, la crescente destabilizzazione dell'eurozona. La fragilità dell'Italia diventa un caso a parte, compare di colpo sugli schermi radar del governo americano, ma in una categoria diversa. Non è più solo una questione che riguarda il Dipartimento di Stato, coinvolge la Casa Bianca e il Tesoro. Se tremano non solo i "piccoli" alla periferia dell'eurozona ma anche un pezzo grosso come l'Italia, l'Amministrazione Obama calcola che i fondi mobilitati per i salvataggi non basteranno. Le conseguenze dell'effetto-domino si farebbero sentire fino negli Stati Uniti, con l'apertura di una "terza fase" nella grande crisi globale. E un giallo circonda il viaggio di un alto esponente del Tesoro Usa per consultare gli europei sulla crisi finanziaria: sono previste tappe a Berlino Parigi e Madrid ma è assente Roma dall'itinerario. A lanciare l'allarme per primo sul sito del New York Times era stato il premio Nobel Krugman con un intervento intitolato "The Italian Job". Illustrato da un grafico che mostra l'impennata dei tassi sui Btp decennali rispetto ai buoni del tesoro tedeschi, l'intervento di Krugman ha segnalato la nuova frontiera del "contagio" dopo Grecia, Irlanda, Portogallo. Lo scenario di una disgregazione della moneta unica, con l'uscita dell'Italia dall'eurozona, prefigura per Krugman una "Europa germanica" che l'economista considera inaccettabile. Gli fa seguito l'inchiesta di prima pagina del New York Times che conferma: "L'attenzione si è spostata verso i titoli di Stato italiani". "Sale la paura - scrive invece il Wall Street Journal - che nazioni finanziariamente instabili come Portogallo Spagna Italia possano fare la stessa fine di Grecia e Irlanda, cioè avere bisogno di un salvataggio dall'estero". Proprio di questo salvataggio dall'estero discute a partire da oggi l'inviato speciale del Tesoro Usa nell'eurozona. E' Lael Brainard, sottosegretario agli affari internazionali, numero due del segretario al Tesoro Tim Geithner. E' partito per una missione speciale, a riprova di quanto Washington consideri pericolosa la febbre di sfiducia verso l'euro. "Arriva proprio mentre sono sotto tiro i titoli pubblici di Italia e Spagna", commenta l'agenzia finanziaria Bloomberg. Il segno della missione lo dà questa dichiarazione del Tesoro Usa: "Siamo pronti a sostenere un maggiore intervento del Fondo monetario internazionale, attraverso lo speciale fondo europeo". Dunque l'Amministrazione Obama è disposta perfino a ri-metterci del suo - essendo il primo azionista relativo del Fmi - pur di arrestare il contagio delle insolvenze verso gli anelli deboli dell'eurozona. Il mistero però riguarda le tappe della missione di Brainard. Il sottosegretario al Tesoro infatti sarà ricevuto dai governi di Germania, Francia e Spagna. Manca nel suo programma una sosta in Italia, proprio il paese che occupa le prime pagine dei giornali Usa per l'emergenza sociale e finanziaria. Allargare i mezzi finanziari messi a disposizione del fondo speciale salva-euro, con un'ulteriore partecipazione del Fmi e quindi degli Stati Uniti, pone problemi che ancora nessuno è preparato ad affrontare. Nei tesi rapporti con la maggioranza repubblicana alla camera, Obama deve negoziare una cura di rigore anti-deficit pubblico. Non si sa come la destra americana reagirebbe a nuove richieste rivolte ai contribuenti Usa per salvare degli Stati europei. (02 dicembre 2010) © Riproduzione riservata http://www.repubblica.it/esteri/2010/12/02/news/usa_italia-9746403/?ref=HREA-1 Titolo: FEDERICO RAMPINI. Così Berlusconi ha usato l'Eni ... Inserito da: Admin - Dicembre 03, 2010, 04:12:57 pm DOSSIER WIKILEAKS
Così Berlusconi ha usato l'Eni "Con Putin la politica estera è business" Oltre le scuse di rito, il giudizio della diplomazia Usa sulla relazione speciale con Mosca rimane negativo. L'ex ambasciatore Spogli: "Le forniture energetiche possono compromettere la sicurezza dell'Italia" dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI NEW YORK - "Due tycoon-oligarchi, con un rapporto personale che scavalca le istituzioni dei loro paesi, Silvio Berlusconi e Vladimir Putin hanno trovato nell'energia il terreno per un business condiviso. Eni e Gazprom sono diventati il centro dei loro interessi comuni". L'accusa è dettagliata nei rapporti dell'allora ambasciatore Usa Ronald Spogli da Roma. Coincideva con le informative che partivano dall'ambasciata americana di Mosca, ora divulgate da WikiLeaks. E su queste analisi non c'è oggi nessuna scusa ex-post, nessuna smentita: corrispondono con la diagnosi che tuttora a Washington viene fatta sull'anomalo rapporto personale tra i premier italiano e russo. "Affaristi più che statisti, hanno trasformato la politica estera in un business, e le aziende di Stato vanno piegate ai loro fini", è il sunto che viene confidato da uno dei massimi esperti di politica energetica al Dipartimento di Stato. È il 26 gennaio 2009, manca poco alla sua partenza da Roma, quando l'ambasciatore Spogli nominato da George Bush consegna il suo lungo rapporto classificato "segreto" con il titolo "Italia-Russia, la relazione vista da Roma". Una relazione che Spogli vede "dominata dalle forniture energetiche", anche a costo di "compromettere la sicurezza dell'Italia". Un'analisi preveggente visto che Putin un anno e mezzo dopo nel ventilare la possibilità di ricandidarsi alla presidenza evocherà il disegno di "dominare l'Europa occidentale con le forniture di gas". Nella relazione dell'ambasciatore Usa si legge che "rispetto all'influenza del ministero degli Esteri e dell'Eni, a determinare la politica dell'Italia verso la Russia il fattore di gran lunga più importante è l'attenzione personale che Putin dedica alla sua relazione con Berlusconi". Spogli dipinge un quadro in cui Eni e Gazprom vengono spremute e manipolate dai due capi di governo. L'ambasciatore si rifà a fonti dello stesso Polo delle Libertà, oltre che dell'opposizione: "Sono convinti che Berlusconi e i suoi accoliti traggano cospicui profitti personali da molti contratti di fornitura energetica tra Italia e Russia". Poi cita l'ambasciatore georgiano a Roma: "Il suo governo ritiene che Putin ha promesso a Berlusconi una percentuale dei profitti da ogni gasdotto sviluppato da Gazprom in coordinamento con l'Eni". L'allusione è ai progetti delle reti Nord Stream e South Stream, per trasportare gas russo verso l'Europa occidentale e meridionale bypassando Ucraina e Bielorussia. Entrambe osteggiati dagli americani che li dipingono come un cappio al collo dell'Europa. Su scelte che toccano il futuro energetico dell'Italia e quindi gli interessi vitali del paese, Spogli riferisce che tutti i suoi interlocutori "alla Farnesina, tra i collaboratori del premier, nel suo partito, e perfino l'Eni, sostengono che Berlusconi decide sulle politiche verso la Russia di testa sua, senza cercare né ascoltare consigli". Tutto si gioca in quel filo diretto con il tycoon-oligarca Putin, con sullo sfondo i sospetti sui rispettivi tornaconti. Eppure l'Eni, per quanto "usato" da Berlusconi per i suoi interessi personali secondo quei comunicati, nel rapporto dell'ambasciatore viene descritto come una potenza. Diversi paragrafi sono dedicati a sottolineare "il suo immenso potere politico", la "sua rete di lobby" più ricca di molte strutture governative, "l'accesso diretto dell'amministratore delegato Paolo Scaroni a Berlusconi, almeno equivalente a quello che il premier concede al suo ministro degli Esteri". Il direttore delle relazioni istituzionali dell'Eni si vanta con l'ambasciatore Usa di vedere Gianni Letta una volta alla settimana. L'azienda "secondo esponenti di tutti i partiti è uno dei principali finanziatori dei think tank che organizzano dibattiti sulle relazioni Italia-Russia". C'è anche il sospetto, riferisce Spogli al Dipartimento di Stato "che l'Eni mantenga dei giornalisti a libro-paga". In quanto alla rappresentanza Eni a Mosca, "è superiore all'ambasciata italiana". Spogli lamenta il fatto che "i leader di tutti gli schieramenti politici italiani sembrano stranamente indifferenti rispetto alla dipendenza energetica verso la Russia", un'allusione al fatto che l'accordo Eni-Gazprom per il gasdotto South Stream era stato firmato quando era presidente del Consiglio Romano Prodi, durante una visita a Mosca dello stesso Prodi il 22 novembre 2007. Ma è Berlusconi quello che sembra trattare l'Eni come roba sua, e al Dipartimento di Stato ancora oggi ricordano la sorpresa del 10 ottobre 2008, quando al culmine della crisi finanziaria globale e con le Borse mondiali in picchiata, Berlusconi in una conferenza stampa distribuì "consigli d'acquisto" dicendo che era il momento di comprare azioni Eni, "che quest'anno farà profitti eccezionali". Oggi Washington ci tiene a distinguere le divergenze "storiche" e "fisiologiche" tra gli Stati Uniti e l'Eni, dalla gestione berlusconiana della politica energetica italiana in stretta sintonia con Putin. Con l'Eni, ammettono i miei interlocutori di Washington, i conflitti geoeconomici risalgono all'èra di Enrico Mattei, per arrivare fino alla partecipazione di Gheddafi nel capitale. C'è un'antica rivalità tra l'Eni e la sua proiezione d'interessi verso l'Africa, l'Asia, l'America latina, e le compagnie petrolifere Usa. Su questo fronte l'Amministrazione Obama considera un successo l'impegno che l'Eni abbandonerà ogni nuovo progetto in Iran e si limiterà a recuperare gli investimenti già compiuti in passato (ne restano 1,4 miliardi di dollari). E' sempre WikiLeaks ad avere diffuso il resoconto di un incontro di Scaroni a Washington il 16 settembre 2009 in cui ha promesso agli americani "l'abbandono dei piani di sviluppo per la terza fase del giacimento petrolifero iraniano di Darquain". Per Washington resta invece da indagare il ruolo dei due premier. Con i ribassi nelle quotazioni dell'energia dopo la recessione, tutti i calcoli di lungo periodo sul mercato del gas sono stravolti. Due esperti indipendenti come Julia Nanay di Pfc Energy e Jonathan Stern dell'Oxford Institute for Eenergy Studies concordano che nei grandi investimenti sui gasdotti dalla Russia c'è più politica che logica economica. E Hillary Clinton fino alla vigilia della bomba-WikiLeaks non ha smesso di premere sulle sue ambasciate: per saperne di più sulla dimensione privata in quel business energetico tra Berlusconi e Putin. (03 dicembre 2010) © Riproduzione riservata http://www.repubblica.it/esteri/2010/12/03/news/rampini_gas-9786369/?ref=HREA-1 Titolo: FEDERICO RAMPINI. Wikileaks, la verità americana Silvio un leader inaffidabile Inserito da: Admin - Dicembre 05, 2010, 11:41:11 am Wikileaks, la verità americana "Silvio, un leader inaffidabile"
Mai avevamo saputo così tanto e così presto quello che gli Stati Uniti pensano di noi. L'ambasciata descrive Letta e Frattini "sgomenti davanti alla raffica di berlusconismi...". "È il portavoce di Vladimir. Il suo desiderio è rimanere nelle grazie del russo". L'avvertimento a Obama: "È inetto, vanitoso, incapace come statista europeo moderno" dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI Uno dei cablo era indirizzato al presidente Usa Barack Obama NEW YORK - Due Amministrazioni Usa, George Bush e Barack Obama, due ambasciatori in Italia, un repubblicano e un democratico. Cinque anni di comunicazioni dall'Ambasciata americana di Roma al Dipartimento di Stato. Mai avevamo saputo così tanto e così presto, su quello che l'America pensa di noi. A una settimana dall'avvio del ciclone WikiLeaks, i rapporti Italia-Usa e soprattutto la posizione di Washington su Silvio Berlusconi sono messi a nudo da 3.012 dispacci confidenziali. Un pezzo di storia contemporanea disvelato senza censure, senza il velo delle cortesie diplomatiche. Il linguaggio è così crudo che questa settimana Hillary Clinton ha già fatto opera di ricucitura, elogiando l'alleanza tra i due paesi al vertice nel Kazakistan. È la stessa attenzione per un'amicizia strategica dimostrata dal precedente ambasciatore, Ronald Spogli ("la relazione tra Stati Uniti e Italia è eccellente, una cooperazione formidabile su molti fronti") prima di aggiungere: "Sfortunatamente gli sforzi di Berlusconi per aggiustare in proprio le relazioni tra Occidente e Russia minano la sua credibilità e sono un vero disturbo per i nostri rapporti". Spogli è l'uomo di Bush a Roma per ben quattro anni. Viene dall'alta finanza (è co-fondatore di una società di private equity), solido conservatore, al suo insediamento nel 2005 parte con un opinione favorevole su Berlusconi. Al punto da appoggiare presso la Casa Bianca l'insistente richiesta del premier italiano che vuole un supporto da Washington in vista delle elezioni del 2006 (poi vinte da Romano Prodi). In un dispaccio "secret" del 26 ottobre 2005 dal titolo lusinghiero ("Il più forte alleato dell'Europa continentale") l'ambasciatore Usa riferisce che Berlusconi vuole essere ricevuto da Bush e poi fare un discorso al Congresso americano "per aumentare le sue chance di essere rieletto". A Washington, spiega Spogli, Berlusconi vuole andare ad accreditarsi come più filo-americano di Prodi "in una fase in cui il premier è sotto di otto punti nei sondaggi e con il suo governo l'economia ristagna". Il tono è irriconoscibile nel dispaccio che lo stesso Spogli invia due anni e dieci mesi dopo. È il 12 agosto 2008, l'ambasciatore prepara la visita in Italia del vicepresidente Dick Cheney. Un altro superconservatore, pregiudizialmente favorevole a un leader di destra come Berlusconi (nel frattempo tornato al governo). Spogli ora sente di dover mettere in guardia Cheney. Anzitutto sull'Iran dove "l'aderenza dell'Italia alle sanzioni Onu è complicata dagli interessi commerciali". Ma soprattutto c'è nel dialogo tra Washington e Roma il macigno-Putin. "Se in passato l'esistenza di un forte partito comunista in Italia ha dato alla Russia un livello d'influenza mai visto in altri paesi dell'Europa occidentale - scrive l'ambasciatore al vicepresidente - di recente il motore della relazione è il rapporto personale tra Berlusconi e Putin, basato su rispettivi interessi commerciali e la preferenza che Berlusconi ha per i leader dal polso duro". Sul dossier del gas: "Le azioni dell'Eni - avverte Spogli - stanno rafforzando la presa della Russia sugli approvvigionamenti energetici di tutta l'Europa occidentale". La situazione si distende nei dispacci successivi, grazie all'invio di carabinieri italiani in Afghanistan, e alle uscite filo-israeliane del ministro degli Esteri Franco Frattini, registrate dall'ambasciata Usa con toni compiaciuti. Poi la diffidenza riesplode, in maniera ancora più acuta. La ragione è sempre Putin. Stavolta i sospetti diventano gravi. E fanno la comparsa le "gole profonde" nell'entourage di Berlusconi. E' il 15 novembre 2008, quando dall'ambasciata di Via Veneto parte un rapporto allarmato. Tre giorni prima il premier italiano ha dato spettacolo a una conferenza stampa in Turchia. "Ha accusato gli Stati Uniti di avere provocato la Russia con il riconoscimento del Kosovo, lo scudo anti-missili, l'invito a Ucraina e Georgia ad avvicinarsi alla Nato". Il rapporto al Dipartimento di Stato indica che siamo "al culmine di un'escalation di commenti incendiari e dannosi a favore della Russia da quando Berlusconi è tornato al governo". L'ambasciata descrive Gianni Letta e Frattini "sgomenti davanti all'ultima raffica di berlusconismi (sic)". I fedelissimi del premier confidano alla diplomazia americana: "Non ci ascolta, sulla Russia fa da solo". Il dispaccio segreto raccoglie per la prima volta questo elemento nuovo: "Molti suoi collaboratori sospettano che Berlusconi e i suoi accoliti abbiano rapporti di guadagno personale con l'interlocutore russo". Le ragioni della profonda sfiducia americana vengono ricapitolate in una lunga relazione a firma Spogli. E' il rapporto più approfondito di tutti, un bilancio finale prima che l'ambasciatore repubblicano lasci la sede di Roma. Data: 26 gennaio 2009. Le imprevedibili uscite di Berlusconi vengono spiegate col fatto che il premier italiano "desidera essere visto come un attore importante nella politica estera europea". L'ambasciatore torna a insistere sul tema della "torbida connection Berlusconi-Putin" e le fonti su "profitti personali". Appare Valentino Valentini come agente nell'ombra, che a Mosca cura gli interessi personali del premier. Spogli avverte il nuovo presidente degli Stati Uniti, Obama, che Berlusconi vorrebbe addirittura "educare il giovane ed inesperto leader americano" sui rapporti con la Russia. Che Obama stia in guardia, scrive l'ambasciatore: "Berlusconi cercherà di promuovere gli interessi della Russia". Qui spunta quella definizione feroce: "E' il portavoce di Putin. Il suo desiderio dominante è rimanere nelle grazie del russo". Nell'interregno tra i due ambasciatori americani, la sede di Via Veneto è guidata da Elizabeth Dibble, la più alta diplomatica di carriera (oggi promossa a Washington come capo di tutta la sezione europea al Dipartimento di Stato). È quella che Berlusconi definirà "funzionaria di terzo grado" dopo il ciclone-WikiLeaks. La Dibble viene sollecitata direttamente da Hillary Clinton, che il 9 giugno 2009 sull'asse preferenziale con Putin le manda a chiedere: "Cambierebbero le cose se Berlusconi non fosse più il premier?". E' la Dibble a preparare l'arrivo di Obama in Italia per il G8 dell'Aquila. L'ambasciatrice vicaria mette in guardia il suo presidente: Berlusconi è "inetto, vanitoso, incapace come leader europeo moderno". Avere a che fare con lui, ammonisce l'alta diplomatica, "richiede molta prudenza". Nessuno a Via Veneto né tantomeno a Washington ha dato importanza alla celebre gaffe di Berlusconi su Obama "abbronzato". I problemi sono più seri. Gli americani sospettano che dietro la sistematica azione filo-russa del presidente del Consiglio ci siano motivazioni extra-politiche. Di un alleato storico come l'Italia, preoccupa questa gigantesca zona d'ombra su ciò che guida la nostra politica estera. E' datato il 27 ottobre 2009 il primo rapporto importante a firma del nuovo ambasciatore, il democratico David Thorne. Bostoniano, legato alla tradizione liberal kennedyana, cognato di John Kerry che presiede la commissione Esteri del Senato. Thorne dipinge una fase che ha tutti i sintomi del disfacimento. Il titolo del suo rapporto segreto al Dipartimento di Stato è esplicito: "Gli scandali pesano sulla salute fisica e sulla forza politica di Berlusconi". E' ancora Gianni Letta, stavolta insieme a Giampiero Cantoni, a descrivere a Thorne un premier "fiaccato dai party notturni, senza energie, con esami medici disastrosi". (L'ambasciatore lo vedrà poi assopirsi durante un loro incontro). E' preoccupato di dover restituire 750 milioni per la sentenza sul Lodo Mondadori. E' assillato dal costo del divorzio da Veronica Lario. Lo preoccupa la sentenza del processo per mafia a Dell'Utri. Thorne descrive "la paranoia dei complotti, l'idea che contro di lui stiano congiurando Confindustria, servizi segreti, Vaticano, Stati Uniti". Racconta l'offesa del vertice cancellato col re di Giordania perché Berlusconi "è andato a un party privato nella dacia di Putin, a festeggiare il suo compleanno, forse per sfuggire alla curiosità dei paparazzi attorno ai suoi party italiani". E' un quadro da Basso Impero, che Thorne completa però con un'avvertenza a Washington: non bisogna mai sottovalutare la capacità di sopravvivenza politica di Berlusconi. All'inizio di quest'anno (28 gennaio 2010) è la Clinton a tornare alla carica, stavolta premendo sulle due ambasciate Usa di Roma e Mosca: su Berlusconi e Putin chiede più indagini, vuole sapere "quali investimenti personali hanno, che possono guidare le loro scelte politiche". Nel dopo-WikiLeaks è la diplomazia americana sulla difensiva. La Clinton è impegnata nel defatigante "apology tour", la tournée mondiale per chiedere scusa a tutti. Ma per nessun altro capo di governo di una democrazia occidentale, partner della Nato, i messaggi segreti della diplomazia americana hanno un carattere così esplosivo. Per Nicolas Sarkozy o Angela Merkel, sia pure oggetti di ritratti personali graffianti, non c'è ombra di quel sospetto gigantesco che incombe su tutta la politica estera italiana: di essere stata catturata nel rapporto ambiguo e inquietante fra una coppia di leader molto speciali. (05 dicembre 2010) © Riproduzione riservata http://www.repubblica.it/esteri/2010/12/05/news/wikileaks_la_verit_americana-9850389/?ref=HREC1-1 Titolo: FEDERICO RAMPINI. Per Fiat massima flessibilità e contratti italiani fuori linea Inserito da: Admin - Dicembre 08, 2010, 05:29:56 pm L'ANALISI
Il Lingotto a stelle e strisce Diktat dei mercati a Marchionne Per Fiat massima flessibilità e contratti italiani fuori linea. Servono nuovi fondi e un piano credibile agli occhi del sindacato-azionista di Chrysler. Perché il destino dell'azienda italiana ormai è in gran parte una storia americana dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI NEW YORK - Fiat Auto esce da Confindustria e abbandona il contratto dei metalmeccanici. Sono i simboli di un'èra che si chiude. Un pezzo di storia dell'industria manifatturiera italiana giunge a una svolta. Ma ormai non è una vicenda tutta italiana, né tantomeno una partita solo sindacale. E' significativo che uno dei prossimi atti si svolga a New York: in settimana ne parleranno qui Emma Marcegaglia e Sergio Marchionne. L'ambientazione geografica è un po' casuale (si tiene qui la riunione annua del Consiglio per le relazioni Italia-Usa), tuttavia serve a sottolineare quanto il futuro di Mirafiori, Pomigliano e altri stabilimenti si giochi proprio negli Stati Uniti. In una sfida dove gli attori principali diventano l'Amministrazione Obama, Wall Street, e ancor più il sindacato metalmeccanico United Auto Workers (Uaw). Quella flessibilità che l'amministratore delegato di Chrysler-Fiat chiede ai suoi operai italiani, da lui la pretendono i mercati finanziari. Paradossalmente nella parte dell'azionista esigente c'è proprio il sindacato americano, che non può ratificare "favoritismi" o rigidità particolari nella parte italiana dell'azienda. Le scelte di Marchionne, da cui dipenderà la sopravvivenza di questo gruppo, sono comprensibili solo in questo scenario. Visto dagli Stati Uniti, e con un'attenzione alle tendenze globali del mercato dell'auto. Perché la stessa industria americana è tutt'altro che certa di poter uscire dal tunnel conservando delle dimensioni significative. In un mercato mondiale che tra il 2008 e il 2009 ha visto "scomparire" ben dieci milioni di autovetture vendute, dove la Cina ha bruciato i tempi ed è balzata di prepotenza al primo posto tra i produttori, dove un'auto europea su quattro ormai è prodotta nei paesi dell'Est (perfino i cinesi sono andati a investire in Serbia), la velocità del cambiamento dà le vertigini. Un sistema paese che non può adottare il modello cinese o indiano (perché non ha quella competitività sui costi), non riesce a inseguire il modello tedesco, dove alti salari e forte sindacalizzazione sono consentite da una straordinaria leadership tecnologica. Accadono così vicende come quella che sta agitando in queste ore la svedese Volvo: ceduta dalla Ford ai cinesi della Geely, si vede spalancare la possibilità di vendere 300.000 auto in più in Cina, ma a condizione di costruire là i prossimi tre stabilimenti. L'Amministrazione Obama per salvare pezzi importanti di industria manifatturiera ha seguito fin qui una strategia bipolare. Da una parte tenta di "fare la Germania", per esempio investendo sull'auto elettrica con General Motors (Volt) e Tesla. Dall'altra tenta di "fare un po' anche la Cina", con i sindacati costretti ad accettare per i nuovi assunti a Detroit un salario dimezzato (14 dollari l'ora), portandoli cioè allo stesso livello della manodopera non sindacalizzata degli Stati del Sud (Alabama, Mississippi) dove ci sono molte fabbriche giapponesi e tedesche. La via bipolare è complicata, siamo a metà del guado, lo stesso Obama è tutt'altro che sicuro di farcela. Chrysler-Fiat è un pezzetto di questa strategia del sistema-America. Ne subisce tutti i vincoli. Non solo perché Marchionne è un canadese-americano per cultura e formazione, ma perché precisi accordi guidano le sue prossime mosse. Fiat Auto al momento ha il 20% della Chrysler. Nel 2011 potrà ottenere "gratis" un ulteriore 15%, poi avrà l'opzione di salire fino al 51%. Il "gratis" è molto relativo, però. Occorre prima che Chrysler rimborsi interamente i debiti contratti con i governi americano e canadese all'epoca della bancarotta. Quindi servono nuovi capitali. Uno studio diffuso a Wall Street dalla Barclays indica il possibile tracciato. Marchionne negozia con le banche nuovi finanziamenti che gli consentano di ridurre gli oneri del debito (alcuni dei vecchi prestiti avevano tassi fino al 20%). Vende l'Alfa Romeo, o più probabilmente quota in Borsa la Ferrari. Qui un'ipotesi interessante è il collocamento alla Borsa di Hong Kong, la piazza finanziaria più importante per l'accesso ai capitali cinesi. Quotarsi a Hong Kong può consentire un prezzo "di favore" perché vista dall'Estremo Oriente la Ferrari verrebbe valutata più come un'impresa del settore lusso che non come una casa automobilistica. E' uno squarcio interessante su quel che resta una possibile vocazione manifatturiera italiana: nell'altissima qualità. In ogni caso, alla fine Fiat Auto raccoglierebbe i fondi necessari a diventare l'azionista di maggioranza della Chrysler. E' quello che desidera. Il noto "teorema Marchionne" era nato prima ancora della recessione, a maggior ragione lui lo sostiene adesso: in questo mondo una casa automobilistica non sopravvive sotto i sei milioni di unità prodotte all'anno. L'America gli è necessaria. Anche Obama non vede l'ora che Marchionne diventi l'azionista di controllo, vuole vendere la sua quota e ripetere così l'operazione Gm: quel collocamento in Borsa è andato bene e il governo ha potuto dimostrare al contribuente americano che il salvataggio si è concluso senza costi, addirittura con un profitto. Per reperire i nuovi finanziamenti, Marchionne deve convincere i mercati che la sua strategia è sostenibile. Ivi compresa per la parte italiana. E' qui che lo scorporo dei vari stabilimenti, la loro trasformazione in tante Newco (nuove società) "vergini", l'uscita dalla Confindustria e quindi la non applicazione del contratto nazionale metalmeccanici, diventano mosse obbligate. In questo caso i diktat dei mercati finanziari hanno una dimensione sorprendente, se vista dall'Italia. Il maggiore vincolo su Marchionne non è qualche gigante cattivo della speculazione. No, il peso massimo qui è proprio il sindacato Uaw. Che continua a detenere ad oggi il 68% delle azioni ordinarie Chrysler. E non vede l'ora di venderle, sperando anche lui di ripetere l'ottima uscita dalla Gm: in quel caso la confederazione Uaw ha incassato una plusvalenza di 2,9 miliardi di dollari. Il sindacato dei metalmeccanici americani ha accettato di fare sacrifici pesantissimi per salvare Chrysler. Oltre ai salari dimezzati per i nuovi assunti, anche pensioni e assistenza sanitaria hanno subìto tagli dolorosi. Ha perfino sottoscritto l'impegno vincolante a non fare una sola ora di sciopero fino al 2014. Questo sindacato-azionista considera impresentabile per i suoi iscritti un progetto strategico che conceda ai metalmeccanici italiani garanzie e rigidità abbandonate qui negli Usa. La via delle Newco, l'addio al contratto nazionale, sono strappi traumatici alla luce della cultura sindacale italiana, della storia del nostro movimento operaio, della nostra tradizione politica. Ma ormai la Fiat Auto è in gran parte una storia americana, le cui regole si decidono qui. (06 dicembre 2010) © Riproduzione riservata http://www.repubblica.it/economia/2010/12/06/news/rampini_fiat-9871546/?ref=HREC1-4 Titolo: FEDERICO RAMPINI. Usa: sotto l’albero meno tasse per tutti! Inserito da: Admin - Dicembre 18, 2010, 11:04:05 am 17 dic 2010 FEDERICO RAMPINI Usa: sotto l’albero meno tasse per tutti! I mal di pancia della sinistra democratica non hanno impedito il sì finale della Camera alla maximanovra fiscale “Obama-Bush”. L’etichetta scomoda si giustifica con il fatto che le legge contiene, fra l’altro, la proroga di tutti gli sgravi fiscali che George Bush diede senza distinzione di reddito, quindi beneficiando anche gli straricchi. Come si è arrivati a questo? Inizialmente Obama si era battuto – in coerenza con la sua posizione di sempre – per escludere dalla proroga i redditi del 2,9% di contribuenti più benestanti: cioè sopra la soglia di 200.000 dollari di reddito imponibile individuale o di 250.000 dollari annui per nucleo familiare. Aveva provato a spostare la soglia anche più in alto, per colpire almeno i milionari e miliardari. I repubblicani si sono impuntati. Con un ricatto odioso: sgravi estesi a tutti, milionari e miliardari inclusi, oppure la destra avrebbe votato contro l’estensione delle indennità di disoccupazione che in questo mese scadono per due milioni di disoccupati di lunga durata. Alla fine Obama ha optato per quello che la sinistra democratica considera una capitolazione indecente. Ha detto sì agli sgravi di Bush, inclusa un’esenzione totale dalla tassa di successione per i patrimoni fino a 5 milioni, e sopra quella soglia la riduzione dell’aliquota dal 55% al 35% (un bel risparmio sulla tassa di successione per diverse dinastie miliardarie come i Walton della Wal-Mart, come denunciato dai progressisti su Msnbc). Obama però porta a casa dei risultati importanti. Oltre all’estensione dei sussidi di disoccupazione, nella manovra fiscale c’è il calo immediato di due punti (dal 6 al 4%) degli oneri sociali prelevati dalla Social Security tramite ritenuta alla fonte sulle buste paga dei lavoratori dipendenti. Per un reddito da 50.000 dollari annui vale circa 1.000 dollari netti. In totale questa legge immette nell’economia americana 900 miliardi di potere d’acquisto in un biennio. E’ un secondo “stimolo” alla crescita, perfino più potente di quello varato in piena recessione con la manovra di spesa pubblica del gennaio 2009 (che fu di circa 800 miliardi). In quanto al realismo tattico di Obama, non fa una piega: il presidente è riuscito a strappare in extremis questo voto bipartisan finché è riunito il “vecchio” Congresso nella sessione pre-natalizia. A gennaio si insediano i nuovi deputati e senatori, usciti dalle elezioni del 2 novembre: i numeri saranno molto più favorevoli ai repubblicani, e qualsiasi compromesso negoziato a gennaio sarebbe stato probabilmente più sfavorevole. Alla fine il vero test di questa scelta sarà se nel 2011 riparte sul serio la crescita dell’occupazione, finora mancata all’appello. I primi sondaggi sull’elettorato democratico – anche sulla Msnbc, la tv più di sinistra – indicano che la base del suo partito è meno critica verso Obama di quanto lo siano gli opinionisti liberal. Infine si è aperta una contraddizione in seno al partito repubblicano. L’ala oltranzista del Tea Party, e non solo quella, si presenta come la paladina del rigore di bilancio. Ma con questa legge ha ratificato un robusto aumento del deficit pubblico. Come lo spiegherà alla sua base? http://rampini.blogautore.repubblica.it/?ref=HREC1-11 Titolo: FEDERICO RAMPINI. Svolta di San Francisco un sindaco cinese nella Silicon Valley Inserito da: Admin - Gennaio 08, 2011, 03:24:44 pm IL CASO
La svolta di San Francisco un sindaco cinese nella Silicon Valley Primo asiatico alla guida di una metropoli Usa, Ed Lee è il figlio di immigrati sbarcati sulla West Coast per sfuggire alla fame. La conferma della supremazia cinese negli equilibri economici dell'area dal nostro inviato FEDERICO RAMPINI SAN FRANCISCO - Dopo la delocalizzazione delle sue fabbriche, la California si affida al "made in China" dove meno te l'aspetti: nel governo delle sue città. San Francisco e Oakland scelgono due cinesi come sindaci. La notizia ha raggiunto Ed Lee mentre era all'aeroporto di Hong Kong, pronto a imbarcarsi in volo per una breve vacanza nelle terme di Yangmingshan. È nella terra dei suoi avi che Lee ha saputo di essere entrato nella storia. Sarà il primo sindaco cinese di San Francisco. Il primo asiatico ad amministrare una delle più grandi metropoli degli Stati Uniti. La storia di Lee, 58 anni, figlio d'immigrati che sbarcarono sulla West Coast per sfuggire alla fame, corona l'ascesa dei cinesi d'America: demografica, economica, politica. A San Francisco i primi arrivarono con la febbre dell'oro del 1848. Erano la manovalanza per costruire la grande ferrovia intercontinentale: furono loro, "fisicamente", a fare gli Stati Uniti unendo le due coste con il nuovo mezzo di trasporto. Morirono a migliaia in quell'opera titanica, il cimitero sulla spiaggia Baker Beach di fronte al Pacifico ricorda l'ecatombe. Vivevano a Chinatown come in un ghetto, un cordone sanitario circondava il quartiere per impedire il contagio di epidemie (l'ultima peste bubbonica arrivò da Hong Kong nel 1900). Furono il bersaglio della più feroce legge xenofoba, il Chinese Exclusion Act del 1882, in piena psicosi da "pericolo giallo". 160 anni dopo la rivincita è totale. A San Francisco i cinesi sono 170.000, il 20% della popolazione. Un terzo delle imprese hi-tech create nella Silicon Valley appartengono a fondatori asiatici. È anche grazie a loro che questa città ha livelli d'istruzione, di occupazione e di reddito nettamente superiori alla media americana: oltre il 44 per cento della popolazione adulta ha una laurea, e San Francisco con soli 850.000 abitanti è l'ottava città del mondo per numero di miliardari. Chinatown, oltre che un'attrazione mondiale per turisti, è diventata una potenza economica. La regìa della nomina di Lee ha l'impronta della signora Rose Pak, la madrina del business cinese. Presidentessa della Chinatown Chamber of Commerce, la Pak è un'eminenza grigia che tutti devono consultare prima di prendere decisioni. Rosa Pak ha festeggiato l'ascesa del suo beniamino Lee con un pranzo a base di dim sum al New Asia Restaurant, poi una serata di cocktail al Chinatown Hilton. "Gioco alla politica - ha detto gongolando - come a uno sport marziale". Sa destreggiarsi nei rapporti d'affari con la Repubblica Popolare - Chinatown è diventata negli anni sempre meno anticomunista e sempre più filo-Pechino - ma al tempo stesso conosce le regole della democrazia americana. Il suo protetto Lee è un vero liberal, che si fece le ossa in politica difendendo i diritti delle minoranze, neri inclusi. Cinque giorni prima di San Francisco, sull'altra sponda della Baia la "gemella povera" Oakland ha aperto la strada. Lunedì ha prestato giuramento il nuovo sindaco, la cinese Jean Quan. La Quan ha una storia simile a quella di Lee: a 61 anni, discende da una famiglia immigrata 104 anni fa. Orfana di padre dall'età di cinque anni, con la madre che non ha mai imparato una parola di inglese, la Quan ha sgobbato nei turni di notte delle lavanderie cinesi per conquistarsi una borsa di studio all'università di Berkeley. Il giorno dell'inaugurazione ha reso omaggio alla memoria dei suoi antenati visitando il tempio buddista Lung Kong Tin Yee. Ora deve vedersela con un degrado sociale che nessuno dei suoi predecessori ha saputo debellare: Oakland ha il primato nazionale degli omicidi. "Voglio farne la protagonista di una rinascita epica, come quella che ha vissuto la mia famiglia", ha detto. Lee ha altri problemi da affrontare - la cronica invasione dei senzatetto che da tutti gli Stati Uniti arrivano a San Francisco, attirati dal welfare più generoso - e ha meno tempo a disposizione. La sua nomina è pro tempore. Il consiglio comunale di San Francisco deve nominare il sostituto del sindaco uscente Gavin Newsom (eletto vicegovernatore della California), mentre l'elezione diretta del suo successore avverrà solo a novembre. Anche tra dieci mesi, comunque, è probabile che sia sempre un cinese il primo cittadino di San Francisco. I principali candidati in lizza infatti sono altri due notabili di Chinatown: David Chiu, presidente del consiglio comunale; e Leland Yee, medico pediatra, attualmente senatore nell'assemblea legislativa della California. Le amministrazioni locali sono alle prese con problemi drammatici: il crollo del gettito fiscale negli anni della recessione ha scavato voragini di debiti, la bancarotta incombe su diverse città. I cinesi-americani hanno dei vantaggi: il senso del business, la disciplina, e la capacità di tessere alleanze. Per la nomina di Lee la signora Rosa Pak ha mobilitato l'ex sindaco nero di San Francisco, Willie Brown, e la maggiorente degli italo - americani Michela Alioto. Con la forza del denaro e della demografia, Chinatown sta fagocitando lentamente North Beach, l'antica Little Italy dove insegne e commercianti parlano sempre più spesso il mandarino o il cantonese. (08 gennaio 2011) © Riproduzione riservata http://www.repubblica.it/esteri/2011/01/08/news/rampini_san_francisco-10969098/?ref=HREC1-4 Titolo: FEDERICO RAMPINI. Davos, processo all'Italia "Marginale e in declino" Inserito da: Admin - Gennaio 29, 2011, 06:03:12 pm IL FORUM
Davos, processo all'Italia "Marginale e in declino" Esplicito il timore che il Paese possa diventare la palla al piede dell'Eurozona: "Paralizzata da Berlusconi" dall'inviato FEDERICO RAMPINI DAVOS - Gli altri leader europei vengono qui per "dare la linea" al World Economic Forum. In 48 ore si succedono a Davos Nicolas Sarkozy, David Cameron, Angela Merkel: espongono una visione dell'Europa, le loro ricette per la ripresa, le strategie verso l'America e i paesi emergenti. All'Italia tocca un ruolo diverso a Davos: quello dell'imputata. Il campionario di dirigenti mondiali che si riunisce in questo summit - statisti, grandi imprenditori, opinion leader - riserva al nostro paese una sessione a porte chiuse. Intitolata "Italia, un caso speciale". La riunione viene presentata così dagli organizzatori nel documento introduttivo: "Malgrado la sua storia, il suo patrimonio culturale, la forza di alcuni settori della sua economia, il paese ha difficoltà di governance e un'influenza sproporzionatamente piccola sulla scena globale. Le sue prospettive economiche e sociali appaiono negative". A istruire il processo, l'establishment di Davos delega alcuni esperti e opinionisti autorevoli. Di fronte a loro, sul versante italiano, un parterre di imprenditori e banchieri. Nessun rappresentante di governo è all'appello: il ministro dell'Economia Giulio Tremonti, pur presente a Davos, fissa una conferenza stampa altrove, nello stesso orario. Tocca a Michael Elliott, direttore del magazine Time, aprire il fuoco: "Contate molto meno di quel che dovreste nell'economia internazionale, i problemi del vostro governo vi precludono di svolgere il ruolo che vi spetta". Segue l'economista Nouriel Roubini, una star di Davos da quando nel 2007 fu l'unico a prevedere con precisione la crisi mondiale: "Di solito parlo solo di economia ma nel vostro caso il problema del governo è diventato grave, è una vera distrazione che v'impedisce di fare quello che dovreste. Siete di fronte ad accuse di una vera e propria prostituzione di Stato, orge con minorenni, ostruzione alla giustizia. Avete un serio problema di leadership che blocca le riforme necessarie". Roubini dà atto sia a Tremonti che a Mario Draghi di avere limitato i danni sul fronte della finanza pubblica e del sistema bancario. "Ma un contagio della sfiducia dei mercati è ancora possibile - aggiunge - perché il divario è enorme tra le riforme strutturali di cui avete bisogno, e ciò che è stato fatto". Un altro economista, Daniel Gros che dirige a Bruxelles il Centre for European Policy Studies, invita a non illudersi sul fatto che l'Italia possa a lungo sottrarsi al destino di Grecia, Portogallo, Irlanda: "La vostra situazione è preoccupante. Siete il paese più direttamente in competizione con la Cina, per la tipologia dei prodotti. Da dieci anni si sa quali riforme andrebbero fatte. Di questo passo l'Italia potrebbe diventare il prossimo grosso problema dell'eurozona". Josef Joffe, editore e direttore del giornale tedesco Die Zeit: "Da dieci anni crescete meno della media europea, questo è il problema numero uno". Segue Matthew Bishop, capo della redazione americana del settimanale The Economist, che nel 1997 fu l'autore di un rapporto sui nostri "esami d'ingresso" nella moneta unica: "Da allora - dice - il paese è rimasto troppo immobile. Le tendenze dell'economia globale rischiano di trasformarvi nell'anello debole dell'Unione europea. Se l'Italia non usa i prossimi cinque anni per un reale cambiamento, vi ritroverete dalla parte perdente dell'eurozona". Quindi Bishop lancia la palla nel campo degli italiani: "I gravi reati di cui Silvio Berlusconi è accusato sono ben noti. Ma a voi sta bene lo stesso? E' questo il governo che volete?" La presidente di Confindustria Emma Marcegaglia nel replicare sottolinea quanto la forza del tessuto produttivo resti notevole: "Siamo il secondo esportatore europeo dietro la Germania, il quinto nel mondo, con punte di eccellenza non solo nei settori tradizionali ma nella meccanica, nella robotica, nei macchinari elettronici". Anche lei però descrive un'Italia "introversa, ripiegata su se stessa, distratta rispetto a quel che accade nel resto del mondo, soprattutto per colpa dei suoi politici". E conferma che "il mondo di Davos, quello delle nuove potenze come l'India e l'Indonesia, è ignoto ai nostri politici, perciò siamo assenti dai tavoli dove si decide il futuro". Corrado Passera di Banca Intesa elenca gli handicap: "Scuola, infrastrutture, giustizia, burocrazia, bassa mobilità sociale, poca meritocrazia". Voci ancora più critiche si levano tra i nostri top manager che hanno scelto una carriera all'estero. A loro il pianeta-Davos è familiare, nei nuovi scenari della competizione globale si muovono con sicurezza. Ma sono qui per conto di multinazionali straniere. (29 gennaio 2011) © Riproduzione riservata http://www.repubblica.it/economia/2011/01/29/news/davos_processo_all_italia_marginale_e_in_declino-11798757/?ref=HREC1-2 Titolo: FEDERICO RAMPINI. Studio Usa rivela il trend delle assunzioni fino al 2018. Inserito da: Admin - Febbraio 14, 2011, 03:50:42 pm OCCUPAZIONE
Giardinieri, muratori, cuochi le dieci professioni del futuro Studio Usa rivela il trend delle assunzioni fino al 2018. Con qualche sorpresa. Le attività emergenti richiederanno comunque un alto livello di studi e specializzazione. In crescita tutti i mestieri legati alla cura alla persona dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI NEW YORK - È la Top Ten delle professioni del futuro, una guida indispensabile per capire le opportunità di lavoro che si offrono alle nuove generazioni. Ahinoi, non entrano ai piani alti della classifica né il medico né l'avvocato, non ci sono l'ingegnere o l'architetto. Al primo posto troviamo cuochi e camerieri. Leader per la percentuale di aumento: le badanti. Ma anche vigilantes, camionisti, giardinieri, infermieri. Una caratteristica unifica i mestieri che "tirano": i servizi alla persona. La sfera del benessere individuale, dell'assistenza, dell'aiuto, avrà un boom con l'invecchiamento della popolazione. Inoltre sono le uniche attività per le quali è impossibile la delocalizzazione nei paesi emergenti (salvo che con il fenomeno inverso: l'importazione di immigrati). Ma sono questi i mestieri per i quali stanno studiando i nostri figli? Dipende: come status e come remunerazione rischiano di essere al di sotto delle aspettative dei giovani. Ma attenzione: per quanto possano sembrare sotto-qualificate, le professioni del futuro richiederanno comunque studi universitari. Sono queste le conclusioni-choc di uno studio fatto in America per il periodo che arriva fino al 2018. La base di partenza è un'importante indagine del U. S. Bureau of Labor Statistics, una miniera di dati ufficiali rielaborata dal Georgetown University Center on Education and the Workplace (è pubblicata sotto il titolo "Help Wanted: Projections of Jobs and Education Requirements through 2018"). Queste proiezioni sono valide per l'America, dunque. Ma è difficile non vedervi prefigurato il futuro di tutte le società occidentali, sottoposte a trend molto simili. Gli Stati Uniti sono il laboratorio d'avanguardia che l'Europa prima o poi finisce per imitare. La ripresa economica è iniziata prima qui che sul Vecchio continente. E anche se restano 15 milioni di disoccupati da riassorbire, i segni di vitalità cominciano a moltiplicarsi sul mercato del lavoro. Da qui al 2018 l'economia americana sembra in grado di tornare a creare oltre un milione di nuovi posti di lavoro all'anno (saldo netto fra assunzioni e licenziamenti). Il problema sta tutto nella qualità. L'America ha appena riconquistato il primato tra i grandi esportatori d'Occidente, strappandolo alla Germania e tornando così al secondo posto mondiale dietro la Cina. Ma l'exploit del made in Usa è tutto affidato a settori industriali hi-tech come la chimica fine, le macchine utensili, che hanno un'avanzato livello di automazione e assorbono poca manodopera. Già oggi quei settori tecnologici che assumono i laureati nelle cosiddette facoltà "STIM" (Scienze, Tecnologie, Ingegneria, Matematica) hanno 4,8 milioni di addetti mentre i titolari di quelle lauree sono 15,7 milioni. I due terzi devono cercarsi un posto altrove. Cresce così il fenomeno della "sovra-qualificazione". Già oggi sono laureati il 17% dei baristi, il 32% delle massaggiatrici, il 26% delle indossatrici. E il divario tra formazione universitaria e attività lavorativa non farà che ingigantirsi in futuro. Perché da oggi al 2018 l'economia assorbirà solo 300.000 ingegneri di software, contro 500.000 baristi. I settori trainanti per le assunzioni sono tutti in quella sfera di attività "ancillari", di servizio, che per tradizione non consideriamo nobili né particolarmente remunerative. Con un'operazione molto "politically correct", la definizione dei mestieri viene promossa usando parafrasi lusinghiere. L'economia americana assorbirà il 18% in più di addetti alla "paesaggistica degli spazi verdi": sono giardinieri. Ci vorranno 825.651 "assistenti domestici per la salute": sono le badanti. Come effetto collaterale della crescita delle vendite su Internet ci vorranno per le consegne a domicilio 1,8 milioni di camionisti. Due milioni e settecentomila in più saranno "rappresentanti del servizio alla clientela": è il vasto esercito del telemarketing, più tutti coloro che al telefono smistano le chiamate per reclami, guasti, richieste d'informazioni. Ma per selezionarli le imprese alzeranno sempre di più la barra: "ci vogliono 22 milioni di laureati in più entro il 2018". La spiegazione? "Per gli uffici delle risorse umane, chiedere titoli di studio superiori semplifica la selezione, eliminando automaticamente una parte dei candidati. Inoltre la laurea dà un'infarinatura di cultura generale che sarà obbligatoria anche nei lavori più umili". (14 febbraio 2011) © Riproduzione riservata da repubblica.it/economia Titolo: FEDERICO RAMPINI. Inflazione, quel piccolo sporco segreto degli economisti Inserito da: Admin - Marzo 02, 2011, 03:32:06 pm 1 mar 2011 Inflazione, quel piccolo sporco segreto degli economisti Tra poche ore sul pericolo-inflazione si pronuncerà anche Ben Bernanke, il presidente della Federal Reserve. Oggi infatti è attesa l’audizione al Senato del banchiere centrale americano, e col petrolio a questi livelli (più il dollaro debole) la questione dello choc sui prezzi sarà in primo piano. Fino a ieri però dalla Fed sono arrivati segnali rassicuranti: l’inflazione non fa paura, tanto che la banca centrale prevede di continuare fino ad agosto a “pompare liquidità” (cioè stampar moneta) comprando titoli di Stato, per sostenere la ripresa dell’economia americana. Ma perché il rialzo del petrolio lascia così sereni i banchieri centrali? Gli economisti distinguono tra le voci dell’inflazione da una parte le “componenti volatili” come energia e alimenti, e dall’altra parte tutto il resto. Finché i rincari riguardano solo le “componenti volatili” non c’è da preoccuparsi, questa è la dottrina ortodossa. Che va decifrata, perché nasconde una notizia non proprio gradevole per i lavoratori dipendenti. L’inflazione diventa tale, e quindi è un pericolo da combattere per le banche centrali, solo quando i rincari vengono recuperati da aumenti salariali. Allora gli choc sui prezzi si diffondono a tutti i costi di produzione, e la spirale rischia di sfuggire al controllo. Ma con il 9,4% dei disoccupati in America (e livelli analoghi in Europa) il potere contrattuale dei lavoratori è bassissimo. Aumenti salariali non sono in vista. Quindi l’inflazione si blocca sul nascere. Perché la paghiamo solo noi, con un potere d’acquisto decurtato, ma siamo incapaci di trasmetterla e di generalizzarla. Senza scala mobile, senza sindacati forti, senza ondate di rivendicazioni, niente spirale. Tutto tranquillo sul fronte occidentale. Scritto martedì, 1 marzo 2011 alle 15:09 da - rampini.blogautore.repubblica.it Titolo: FEDERICO RAMPINI. Lo shock tsunami fa tremare le Borse Inserito da: Admin - Marzo 12, 2011, 10:44:44 am Il simbolo piegato del gigante fragile Lo shock tsunami fa tremare le Borse Si inclina la torre del business. "Tempesta perfetta" sull'economia globale. Dopo le rivoluzioni del mondo arabo e il disastro giapponese aumenta la preoccupazione delle grandi potenze. dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI NEW YORK - Perfino la Torre di Tokyo non ha retto lo shock e si è piegata. La freccia di acciaio puntata verso il cielo adesso è un emblema triste della tecnologia sconfitta. Con la Tokyo Tower si è piegata l'illusione di prevenire le catastrofi e proteggersi grazie alla ricchezza. Il mondo intero assiste sgomento alla sofferenza del paese più evoluto, più sofisticato nelle tecniche antisismiche e nella protezione civile. La Tokyo Tower, quell'antenna tv di 330 metri che manda i segnali della rete Nhk, non è solo la torre Eiffel dei giapponesi e la loro risposta all'Empire State Building. E' il simbolo di una nazione che "si piega ma non si spezza", che ha assorbito la tragedia unica nella storia umana di due olocausti nucleari. Da ieri il Giappone ha capito che non basta sapersi "piegare", la flessibilità delle nuove tecnologie di costruzione non lo ha salvato dalla tragedia. La modernità è sconfitta e molti abitanti della capitale d'istinto ieri sono fuggiti verso le piazze e i parchi antistanti il Palazzo imperiale: è l'unica zona di Tokyo dov'è proibito costruire grattacieli, e tutti gli edifici sono bassi. Per chiamare parenti e amici si sono gettati verso i vecchi telefoni a gettoni, i soli risparmiati dal grande black-out delle comunicazioni che per ore ha ammutolito i cellulari. Hanno dato l'assalto ai negozi di biciclette: il mezzo di trasporto più antico era l'unico a poterli riportare a casa, nel caos immane degli ingorghi stradali e della paralisi di treni e metro. Tutto ciò che il Giappone ha costruito di più avanzato, ieri era al collasso: come le centrali nucleari da cui dipende un terzo della sua energia elettrica. E' dovuta intervenire la US Air Force dalle basi militari americane per rifornirle d'urgenza con il "liquido refrigerante" dopo che i sistemi di raffreddamento del reattore atomico di Fukushima si erano guastati. "Emergenza nucleare", ha proclamato il governo, e un altro allarme si è aggiunto al sisma, nonostante i decenni di esercitazioni per garantire che le centrali atomiche giapponesi erano a prova di terremoto. E' uno spettacolo a cui assiste sgomenta la superpotenza amica sull'altra sponda dell'oceano. L'America si è svegliata col terrore che lo tsunami travolgesse le Hawaii, poi la West Coast. Intere città della California sono state evacuate ma le onde gigantesche hanno fatto una vittima in mare a Crescent City, e danni in diverse zone costiere. Ma è soprattutto l'immagine del disastro giapponese seguito in diretta dagli americani col fiato sospeso, ad accentuare il senso d'impotenza. "Il Giappone ha le leggi antisismiche più rigorose del mondo - osserva il New York Times - lo stesso sisma in qualsiasi altra nazione del mondo, anche le più ricche, avrebbe già fatto decine di migliaia di morti in poche ore". Gli americani lo sanno, neppure la California ha investito tanto quanto il Giappone: nei grattacieli costruiti per "piegarsi e non spezzarsi" assorbendo l'impatto; nelle dighe costiere anti-tsunami; nei sensori digitali che collegano perfino le abitazioni individuali col più vasto sistema elettronica di allerta. Di certo avrà limitato il bilancio delle vittime, ma è pur sempre una tragedia. Quando prende la parola Barack Obama promettendo "tutti gli aiuti che il governo giapponese ci sta chiedendo", l'America sente che questa tragedia è un segno di vulnerabilità globale. E' un altro "cigno nero", uno di quegli eventi che gli statistici definiscono "a bassissima probabilità, e altissimo potenziale di danno". Come la crisi dei mutui che precipitò il mondo nella recessione del 2008-2009. Di nuovo l'America teme che si addensi all'orizzonte una "tempesta perfetta". Il doppio shock terremoto-tsunami in Giappone è l'ultimo dei colpi all'economia globale che si sono susseguiti improvvisamente in poche settimane, oscurando un orizzonte che sembrava volgere al bello. Prima c'era stata l'onda delle rivoluzioni anti-autoritarie del mondo arabo, con il suo impatto collaterale sui prezzi petroliferi "che da solo è già una pesante tassa sulla crescita" secondo il banchiere centrale Ben Bernanke. Legato al caro-petrolio c'è il ritorno delle aspettative inflazioniste. Il più grande fondo obbligazionario mondiale, Pimco, ha venduto tutto il suo portafoglio di Buoni del Tesoro, talmente è certo che le banche centrali dovranno rialzare i tassi presto (in quel caso i vecchi Bot si deprezzano brutalmente). Poi è arrivata una sorpresa dalla Cina: le sue esportazioni sono cresciute solo del 2,4% negli ultimi dodici mesi. Si teme che la cura anti-inflazione della banca centrale cinese cominci a "mordere", ma se rallenta la locomotiva asiatica tutto il mondo ne sentirà le conseguenze. Il terzo shock simultaneo è venuto dall'agenzia di rating Moody's con il declassamento del debito sovrano della Spagna. "L'Europa torna ad essere una bomba a orologeria", è il commento di Desmond Lachman dell'American Enterprise Institute sul Washington Post. L'ultimo shock è la calamità che mette in ginocchio il Giappone, terza economia del pianeta. Una catastrofe paradossalmente "amplificata" proprio dalla modernità e dalla ricchezza: perché il Giappone in quanto paese avanzatissimo è iper-assicurato (a differenza dell'Indonesia) e quindi i danni si ripercuotono immediatamente sui bilanci delle compagnie assicurative mondiali. Se il disastro di Kobe nel 1995 costò 100 miliardi, a 15 anni di distanza l'impatto non può che essere moltiplicato. Il "battito d'ali di farfalla dall'altra parte del pianeta che genera un uragano" non è un'immagine letteraria, è la teoria del caos che studiano i matematici. Tre, quattro farfalle in simultanea, possono piegare non solo la Torre di Tokyo ma un mondo senza paratìe né compartimenti stagni, dove il contagio delle crisi viaggia alla velocità della luce. (12 marzo 2011) © Riproduzione riservata da - repubblica.it/esteri Titolo: FEDERICO RAMPINI. Lo yen e il patriottismo per rialzare la testa Inserito da: Admin - Marzo 13, 2011, 05:16:53 pm L'ANALISI
Lo yen e il patriottismo per rialzare la testa di FEDERICO RAMPINI SONO tornati al lavoro subito, poche ore di shock e la ricostruzione è già cominciata: eccoli, i friulani d'Estremo Oriente. I servizi pubblici essenziali sono stati riattivati in tempi-record, salvo naturalmente che per le zone vicine all'epicentro dove le distruzioni sono immani. Anche da là però arriva un'immagine-simbolo che è positiva: fa il giro del mondo la foto del giovane soldato occhialuto in tuta mimetica che trasporta un vecchietto sorridente sulle spalle: Enea e Anchise nella prefettura di Miyagi. Un'immagine che parla di confuciano rispetto degli anziani, proietta l'idea antica di una società coesa, solidale, insieme con l'efficienza moderna delle tecnologie antisismiche che hanno limitato certamente il bilancio dei morti. Perfino la logica spietata della finanza deve inchinarsi: come primo riflesso dopo il terremoto e lo tsunami lo yen si è rafforzato su tutte le altre monete mondiali. Sembra assurdo? No, accadde lo stesso dopo il sisma di Kobe nel 1995 (seimila morti, 100 miliardi di danni), quando in pochi mesi la valuta si rafforzò addirittura del 20% sul dollaro. "Sono i capitali giapponesi che rientrano dall'estero - spiegano a Wall Street - per partecipare alla ricostruzione". Capitalismo e patriottismo, in Giappone anche questo è possibile. Perfino la politica si riscatta, è tutto dire. Tokyo stava ancora ondeggiando paurosamente per i tremori del primo shock e già alla tv il premier Naoto Kan parlava alla nazione, in tuta blu della protezione civile. "Appello alla calma", e "unità nazionale per salvare il paese". Non sono slogan retorici. Una delle classi politiche più rissose e screditate del mondo si è ricompattata all'istante: polemiche zero, ci si rimbocca le maniche e tutti al lavoro. In quanto all'appello alla calma, era superfluo. Un'altra immagine emblematica è quella dei distributori di benzina con le file chilometriche di automobilisti per fare il pieno (le infrastrutture per gli approvvigionamenti sono colpite, e non solo nell'epicentro): anche lì regna l'ordine, la compostezza, la pazienza. Il colpo all'economia è duro, nessuno lo sottovaluta. Oltre alle vite umane, comunque troppe, i danni si estendono ben al di là della zona più devastata. L'efficienza delle multinazionali giapponesi è legata ai metodi "just-in-time", stock ridotti al minimo essenziale, flussi tesi e velocissimi tra i produttori di componenti, le fabbriche di assemblaggio finale, la distribuzione. Se si spezzano dei nodi nelle infrastrutture di trasporto, l'ingranaggio a orologeria si ferma: e il Sol Levante resta un colosso mondiale in settori-chiave come l'automobile, l'elettronica, l'acciaio, la chimica. Una grossa raffineria petrolchimica vicino a Tokyo è andata in fiamme, la Cosmo di Chiba. Sony, Panasonic, Toshiba hanno dovuto chiudere molte fabbriche: si è fermata la produzione di apparecchi elettronici ma anche di microchip per i computer, batterie. Honda, Nissan, hanno diversi stabilimenti bloccati. Ma c'è anche chi prende questi provvedimenti per dare un contributo allo sforzo nazionale dei soccorsi. La Toyota ha sofferto danni relativamente contenuti alle sue dodici fabbriche eppure annuncia che lunedì tutte saranno chiuse: "Per consentire ai nostri dipendenti di partecipare alle operazioni di aiuti, curare familiari e amici, ricercare i dispersi". Eppure l'impatto di questa catastrofe sull'economia, giapponese e mondiale, è ancora incerto e controverso. I mercati dell'energia hanno reagito in modo apparentemente schizofrenico: il prezzo mondiale del petrolio è andato giù, quello del gas naturale invece è aumentato. Sul mercato del petrolio, ha prevalso la previsione di una battuta d'arresto dell'economia nipponica, e poiché il Giappone resta il terzo consumatore mondiale questo dovrebbe far scendere la domanda. Ma l'allarme nucleare ha scatenato la previsione opposta sul gas naturale: un aumento dei consumi di gas per le centrali, nel caso che diversi reattori atomici restino fermi almeno temporaneamente. Domattina avremo un responso più preciso perché la Borsa di Tokyo sarà la prima del mondo a riaprire questo lunedì, grazie al fuso orario. Il sisma più potente nella storia del Sol Levante non avrà fatto perdere neppure mezza giornata lavorativa. Perfino sulla crescita, non è detto che l'impatto finale di questa tragedia sia tutto negativo. Il Giappone era appena ricaduto nella sindrome del ristagno, con una ripresa quasi impercettibile. Colpa anche della struttura demografica con il tasso d'invecchiamento più pronunciato del mondo. Da quella semi-depressione non poteva tirarsi fuori a furia di investimenti pubblici, perché il rapporto debito-Pil è già oggi più elevato di quello italiano. Ora però la ricostruzione è un imperativo che fa passare in secondo piano i vincoli di bilancio. Gli Stati Uniti prevedono un rilancio della crescita giapponese, per effetto di una maxi manovra di lavori pubblici nelle infrastrutture. Dalle macerie di Hiroshima e Nagasaki, dall'annientamento di Tokyo nei bombardamenti americani che la trasformarono in un gigantesco rogo, i giapponesi sanno cosa vuole dire la ricostruzione. (13 marzo 2011) © Riproduzione riservata da - repubblica.it/economia Titolo: FEDERICO RAMPINI. AT&T compra T-Mobile (non provate mai più a telefonarmi) Inserito da: Admin - Marzo 21, 2011, 11:29:03 am Federico Rampini
20 mar 2011 AT&T compra T-Mobile (non provate mai più a telefonarmi) Ci risiamo con la corsa verso il capitalismo monopolistico privato. E ancora una volta avviene nel settore-simbolo dei misfatti della concentrazione: la telefonìa mobile Usa, ormai una delle più scassate del pianeta. Ho già raccontato altre volte che nel cuore di Manhattan, o a San Francisco, è impossibile finire una conversazione sul cellulare senza che cada la linea due o tre volte. La spiegazione? Il settore è in mano a pochi giganti, che quindi se ne fregano di noialtri utenti, tanto non abbiamo scelta. La capacità delle reti è stressata dall’arrivo di smart-phone sempre più potenti: le bollette “pesanti” degli iPhone ingrassano i profitti delle telecom, ma quelle mica li reinvestono per potenziare le reti e migliorare il servizio. Ora le cose peggioreranno. Ecco l’annuncio di un nuovo accorpamento. AT&T si pappa la T-Mobile, che apparteneva alla Deutsche Telekom, pagandola 39 miliardi. E’ una delle più grosse fusioni dalla crisi del 2008. Ma chissene importa di questi record finanziari, che ingrassano le commissioni delle banche di Wall Street (ovviamente ingaggiate come consulenti) e domani ingrasseranno profitti e superbonus dei dirigenti AT&T. Per il consumatore la realtà è la stessa, in peggio: scompare un altro concorrente, la scelta si riduce. La AT&T, di cui sono da anni un cliente esasperato, si conquista altri 46,5 milioni di abbonati. Non mi chiamate più, tanto cadrà la linea. (Ah già, ci sarebbe sempre la speranza di un no dell’antitrust… Ma è sempre più raro che le authority americane facciano seriamente il loro mestiere). da - rampini.blogautore.repubblica.it/2011/03/20/?ref=HREC1-9 Titolo: FEDERICO RAMPINI. Se chiude per crisi la Statua della Libertà Inserito da: Admin - Aprile 08, 2011, 10:35:12 pm USA Se chiude per crisi la Statua della Libertà Il braccio di ferro tra Obama, il suo partito e la destra sul budget federale è uno psicodramma. E il movimento anti-stato del Tea Party denuncia la "Washington ladrona" dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI WASHINGTON - Volevate passare Pasqua qui in America? Ripensateci, potreste trovare chiusa la Statua della Libertà. Niente gita neanche da Manhattan a Ellis Island per visitare il celebre museo dell'immigrazione. Accesso vietato all'isola (ex-penitenziario) di Alcatraz nella Baia di San Francisco. Off-limits i monumenti nazionali di Washington, compresi i musei dello Smithsonian. Niente parchi nazionali. Poveretti i turisti asiatici: ogni anno a decine di migliaia si sobbarcano 12 ore di volo sul Pacifico per assistere alla Festa della fioritura dei ciliegi a Washington; anche quella salterà, perché è organizzata dal National Park Service. Ma forse per molti non-europei sarà impossibile arrivare in America, se le ambasciate Usa devono chiudere gli uffici visti. Sono queste alcune delle misure che possono scattare fin da sabato all'alba, se in queste ore di febbrile negoziato non si sarà trovato un accordo sui tagli al bilancio statale. Il braccio di ferro tra Barack Obama, il suo partito democratico, e la destra repubblicana sul budget federale non è solo un grande scontro politico con implicazioni economiche importanti. E' anche uno psicodramma nazionale che improvvisamente rivela all'America quanto la sua vita quotidiana dipende dai servizi pubblici. Hai voglia a denunciare "Washington ladrona", come fa il movimento anti-Stato del Tea Party. Ma poi che succede se si ferma la raccolta della spazzatura, se il fisco smette di pagare i crediti d'imposta, e perfino i militari che soccorrono i terremotati in Giappone restano senza paga? Se passa la scadenza per l'approvazione del budget senza un compromesso in extremis, e quindi scatta l'impossibilità legale di erogare certe spese, di colpo l'America intera sarà messa di fronte a un'emergenza che va oltre la sfera della politica e dell'economia, investe la qualità della vita, tante piccole abitudini quotidiane che fanno l'identità di una nazione. Fino a ieri si è scherzato sugli 800.000 dipendenti federali che verrebbero lasciati a casa senza stipendio. O tutti gli altri, che pur continuando a lavorare si vedrebbero "spegnere" i loro Blackberry con tutte le email: perché gli smart-phone di servizio non rientrano nella categoria delle "spese essenziali" protette da fondi di riserva nel bilancio. I burocrati non godono di una bella immagine, soprattutto nella destra anti-Stato del Tea Party c'è chi gongola all'idea di castigare il pubblico impiego. Salvo scoprire, nella lunga lista dei servizi federali che sono a rischio di sospensione, che qualcosa tocca ciascuno di noi. Il servizio meteo si è attrezzato per garantire gli allarmi in caso di uragano; dovrà fare a meno delle previsioni del tempo "a cinque giorni" seguite da milioni di telespettatori. La Social Security promette che continuerà a pagare 53 milioni di pensioni mensili, però non potrà smaltire le pratiche per i neo-pensionati, neppure per invalidità. L'Istituto della Sanità dovrà sospendere i test per l'approvazione di nuovi medicinali e apparecchiature biomediche. La Federal Housing Administration smetterà di erogare garanzie sui mutui-casa. Il trattamento peggiore è destinato proprio a Washington. In virtù del suo statuto speciale, la capitale è trattata come un'agenzia federale. Quindi anche quelli che in altre metropoli sono dei servizi locali, pagati coi bilanci dei Comuni, a Washington si fermerebbero: la raccolta dei rifiuti, le biblioteche municipali, l'ufficio della motorizzazione civile (rilascio delle patenti), perfino la University of the District of Columbia. Unica consolazione: la paralisi nelle multe per la sosta vietata, un piccolo regalo per compensare gli automobilisti. A funzionare regolarmente saranno, per legge, tutti i servizi di emergenza e per la tutela dell'ordine pubblico, ma certi tribunali lavoreranno a scartamento ridotto. I disagi, se scatta la chiusura dei servizi federali non-essenziali, si diffonderanno nel mondo intero. Il segretario alla Difesa Robert Gates, in visita a Bagdad, è stato costretto ad ammetterlo rispondendo alla domanda di un soldato: anche le paghe dei militari rischiano sospensioni o almeno ritardi di diverse settimane. Alla fine il segno politico di questa vicenda può cambiare. La rivincita della destra, che ha conquistato la maggioranza alla Camera nel novembre scorso, è alimentata dalla visione ideale di uno "Stato minimo". Vai a sapere come reagirà la maggioranza degli americani, quando lo Stato si renderà introvabile. (08 aprile 2011) © Riproduzione riservata da - repubblica.it/esteri/2011/04/08/news/ Titolo: RAMPINI. Gli Stati Uniti evitano la paralisi accordo in extremis sul budget Inserito da: Admin - Aprile 09, 2011, 12:21:53 pm IL CASO
Gli Stati Uniti evitano la paralisi accordo in extremis sul budget Obama riesce a mediare fra Democratici e Repubblicani in Congresso e supera l'incubo del blocco dei servizi pubblici anche se i tagli alla spesa pubblica sono di 38,5 miliardi. "Solo così aiutiamo l'America a creare nuovi posti di lavoro" dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI NEW YORK - Il grande mediatore ce l'ha fatta ancora una volta. Erano ormai passate le 23 (le 5 del mattino in Italia) quando Barack Obama è apparso in tv dalla Casa Bianca, davanti a una finestra dove si vede sullo sfondo il Washington Monument, e ha annunciato: "Domattina quel monumento sarà aperto ai visitatori, e tutti i servizi dello Stato continueranno a funzionare". A meno un'ora dalla mezzanotte fatale in cui il Tesoro avrebbe dovuto sospendere i finanziamenti per molte agenzie federali e lasciare a casa senza stipendio 800.000 dipendenti pubblici, la paralisi è stata scongiurata in extremis. Resteranno aperte la Statua della Libertà, l'isola-museo di Alcatraz, i parchi nazionali di Yellowstone e Yosemite. Continueranno a funzionare la raccolta dei rifiuti a Washington, l'emissione dei visti nelle ambasciate Usa. I soldati in Iraq e in Afghanistan riceveranno regolarmente lo stipendio. "Dopo settimane di lunghi e difficili negoziati sul bilancio pubblico - ha detto il presidente - i due partiti hanno trovato l'intesa per tagliare le spese e investire nel futuro". Di colpo il clima politico è cambiato: fino a quell'ora la giornata di venerdì aveva avuto un segno ben diverso, con democratici e repubblicani impegnati a lanciarsi accuse velenose, ciascuno intento a scaricare con virulenza sull'avversario la responsabilità della chiusura dei servizi pubblici. Anche stavolta è stato decisivo il ruolo di Obama: proprio come a fine dicembre, quando il presidente era riuscito a costruire il consenso bipartisan su una legge fiscale con ampi sgravi d'imposte su tutti i contribuenti. Nei due casi Obama si è ritagliato un ruolo quasi super partes, vestendo i panni del mediatore. Stavolta il risultato della mediazione sono 38,5 miliardi di dollari di tagli immediati alla spesa pubblica, che consentono di arrivare fino a giovedì, quando è fissata una votazione finale al Congresso (la Camera a maggioranza repubblicana e il Senato a maggioranza democratica). In tutto, rispetto alla prima versione del bilancio che Obama aveva appoggiato l'anno scorso, i tagli accettati dai democratici arrivano a 78 miliardi. La sinistra è riuscita a evitare le misure più indigeste che i repubblicani avevano tentato di introdurre nella legge di bilancio, cioè i tagli ai servizi sanitari per le donne meno abbienti (voluti dagli antiabortisti), e il ridimensionamento dei poteri dell'agenzia per l'ambiente. Tuttavia la sinistra mastica amaro: ha la sensazione che Obama in nome del pragmatismo faccia troppe concessioni al partito repubblicano. Se a dicembre il presidente aveva ceduto sugli sgravi fiscali ai ricchi (gli stessi dell'Amministrazione Bush, prorogati), con l'accordo di ieri è tutto il dibattito sulla spesa pubblica che continua a spostarsi sul terreno prediletto dei repubblicani: niente aumenti di tasse, ridimensionamento drastico del Welfare. Per la destra questo è solo un assaggio. Il suo progetto strategico è quello presentato la settimana scorsa: 6.000 miliardi di tagli in dieci anni, con la privatizzazione del Medicare (l'assistenza sanitaria agli over-65) e un pesante ridimensionamento della Social Security (pensioni). E' lo smantellamento di conquiste sociali che risalgono al New Deal di Franklin Roosevelt, il piano di lungo termine della destra. Lo Stato minimo, è quel che vogliono i militanti della sua ala più radicale, il tea Party. Nel suo discorso di ieri sera Obama si è "impadronito" dei temi dell'avversario. Ha parlato con approvazione del "più grande taglio di spesa nella storia del paese". Pur riconoscendo che sono stati fatti sacrifici sgradevoli - "saranno rinviati progetti d'investimento in infrastrutture, una scelta che non avrei fatto in circostanze migliori" - ha sottolineato però che "vivere all'altezza dei nostri mezzi è l'unico modo per proteggere gli investimenti che aiuteranno l'America nella competizione per creare nuovi posti di lavoro". Obama guarda ormai alla campagna per le presidenziali del 2012. E' partito alla riconquista dei consensi che aveva perduto nel primo biennio - gli elettori moderati, la fascia fluttuante degli indipendenti di centro. Per questo gli è indispensabile far proprio il tema del risanamento dei conti pubblici, perché l'escalation del deficit (1.400 miliardi, quasi il 10% del Pil) è diventata una preoccupazione dominante in quella parte dell'opinione pubblica. E per quanto sia sgradevole alla sinistra, a Obama conviene anche vestire i panni dell'arbitro, che si pone al di sopra degli scontri tra le fazioni al Congresso: è in quel ruolo che la maggioranza degli elettori ama vedere il presidente. (09 aprile 2011) © Riproduzione riservata da - repubblica.it/esteri/2011/04/09/news/ Titolo: FEDERICO RAMPINI. Più difficile il negoziato tra Germania, Ue e Bce Inserito da: Admin - Maggio 20, 2011, 08:48:57 am ANALISI Se la crisi economica perde il suo regista e in Europa torna l'incubo del crac greco Le ripercussioni dell'arresto di Strauss-Kahn. Cancellato il vertice con la Merkel. Schauble: "Non si ferma la ricerca di una soluzione". Più difficile il negoziato tra Germania, Ue e Bce dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI NEW YORK - UN IMMENSO vuoto si apre al vertice del Fondo monetario internazionale. Proprio in un momento cruciale per il salvataggio della Grecia e la stabilità dell'eurozona. Viene distrutto dallo scandalo un personaggio-chiave per le operazioni di "pronto intervento" sulle crisi di Stati sovrani che minacciano l'economia globale. Il ruolo del Fmi è stato ingigantito grazie a Dominique Strauss-Kahn detto Dsk. E ora il Fmi deve affrontare un'emergenza interna mai vista. L'esito finale potrebbe essere l'arrivo di un cinese o un brasiliano. A sancire l'egemonia delle nuove potenze emergenti, la fine del "diritto europeo" a nominare il capo del Fmi. Sarebbe un prezzo altissimo pagato dall'intera Unione europea per la caduta ingloriosa di uno dei suoi leader più promettenti. Lo shock è poderoso: cancellato ieri il vertice tra Dsk e Angela Merkel che doveva sciogliere dissensi pericolosi sulla crisi greca; convocato d'urgenza il board del Fondo a Washington; sancita la direzione ad interim del numero due americano John Lipsky. Oggi la delegazione del Fondo si presenta decapitata del suo ex-leader, alla riunione dell'Eurogruppo che deve decidere terapie urgenti sulla Grecia, oltre a dare il primo via libera per Mario Draghi alla Bce. In Germania è dovuto intervenire il ministro dell'Economia Wolfgang Schaeuble per rassicurare i mercati prima della riapertura: "La soluzione del problema greco non si ferma, l'arresto di Strauss-Kahn non peserà sui negoziati". E' presto per dirlo. La gravità della perdita, per l'economia globale, affiora dietro le reazioni più estreme dalla Francia. In piena paranoia da teoria del complotto, la dirigente socialista Michéle Sabban, non ha dubbi: "Hanno voluto colpire il Fmi alla vigilia del possibile crac greco e del G20, è una trama internazionale". E giù a collegarla con "l'affaire ungherese", la relazione extraconiugale tra Dsk e l'economista del Fondo Piroska Nagy. Una ungherese, guarda caso, proprio in un'epoca in cui erano i paesi dell'Europa centro-orientale i più colpiti dalla speculazione che annusava o pianificava bancarotte di Stato. La ricerca di occulti registi dà semplicemente la misura di quale personaggio straordinario fosse divenuto Dsk, nella sua vita professionale, s'intende. Nel 2007 eredita la guida di un Fmi che sembra in via d'estinzione. Nella prima metà di quell'anno, quando i mercati ancora ignorano la catastrofica bolla dei mutui subprime, la Turchia rimborsa "l'ultimo prestito" erogato dal Fondo che così rimane disoccupato. Tutto va troppo bene. Nessun paese ha più bisogno di aiuti. Poi in pochi mesi arriva l'Apocalisse, il mondo precipita in una crisi finanziaria senza precedenti dalla Grande Depressione. Dsk diventa quasi un uomo della Provvidenza. Guida con energia il Fmi alla riscoperta di una vocazione interventista. Si precipita a tamponare una crisi dopo l'altra: Pakistan, Ucraina, Islanda. E' indispensabile per spegnere incendi alla periferia dell'Ue, superando le gelosie di Bruxelles e di alcuni Stati membri. Irlanda, Portogallo, Grecia, diventano le tappe del pendolarismo di Dsk. Impone una svolta al pensiero unico neoliberista: vuole controlli sui movimenti dei capitali, nuove regole per il sistema bancario. Denuncia le diseguaglianze sociali. Sceglie un cinese come numero due. Potenza della grande crisi: perfino l'America ringrazia che ci sia un socialista francese al vertice del Fondo, con una visione delle riforme necessarie per curare gli eccessi del mercatismo. A maggior ragione devono benedirlo gli europei. Per 18 mesi i rapporti personali che lui ha da lunga data con Sarkozy, Trichet e Papandreou, la credibilità che si conquista con la Merkel e Obama, sono armi preziose per sanare le tensioni sulle terapie da adottare contro la disgregazione dell'eurozona. Non fosse per la sciagurata vicenda del Sofitel di Manhattan, oggi tutti aspettavano Dsk a Bruxelles come un mediatore tra Germania, Bce, Commissione europea. Per preparare altri 60 miliardi di aiuti alla Grecia e scongiurare una ristrutturazione del suo debito pubblico (pudico eufemismo che indica una bancarotta concordata coi creditori). I mercati sono di nuovo in allarme: dopo la Grecia si teme il Portogallo, ancora l'Irlanda, e poi, e poi... E' un copione già visto, per un anno e mezzo è stato evitato il peggio. Si è guadagnato tempo, anche se Dsk avvertiva il pericolo più grave: le terapie d'urto chieste ai governi dei Pigs li spingono verso la recessione, con la Grecia già avviata a perdere quattro punti di Pil. Non si riducono i debiti pubblici sulle macerie di una calamità sociale. Dsk lavorava per una soluzione socialmente sostenibile. Un vero "micro-manager", lo definivano con ammirazione gli americani, per indicare la dedizione con cui si applicava a studiare ogni dettaglio dei dossier di crisi. "Micro-manager" esemplare di tutto, fuorché di se stesso. Ricordo, all'ultima intervista che mi ha dato un mese fa, la foto di sua moglie sulla scrivania. E l'incertezza sincera sulla candidatura all'Eliseo: come capo del Fmi forse aveva già più potere di un presidente. Ora quell'imbarazzo della scelta non lo assilla più. E il Fmi naviga verso un approdo molto diverso. (16 maggio 2011) © Riproduzione riservata da - http://www.repubblica.it/economia/2011/05/16/news/analisi_strauss_kahn-16298594/?ref=HREA-1 Titolo: FEDERICO RAMPINI. La pazza corsa dei titoli Internet la seconda bolla pronta ... Inserito da: Admin - Maggio 23, 2011, 04:51:50 pm FINANZA E WEB
La pazza corsa dei titoli Internet la seconda bolla pronta a scoppiare La super valutazione per le nuove star delle rete spaventa Wall Street. A guidare la speculazione Linkedin. Acquisizioni e alleanze per reclutare nuovi talenti e far salire il valore delle società dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI NEW YORK - I sintomi dell'impazzimento ci sono. Nello stesso articolo del New York Times, l'inaudito rialzo in Borsa del sito Linkedin (+110% in un giorno) viene trattato come un fenomeno chiaramente sospetto e patologico: "L'azienda è fragile". "Il suo modello di business deve ancora fare le prove. Dovrebbe crescere in modo incredibile per giustificare un simile prezzo". Linkedin è una versione su scala ridotta di Facebook, usato soprattutto per contatti professionali. Sono davvero tanti 11 miliardi di dollari di valore in Borsa, per una società che ha appena 240 milioni di fatturato. Ma poche righe sopra, nello stesso articolo del New York Times le banche vengono criticate per avere fissato un prezzo di collocamento troppo basso, negando così ai fondatori di Linkedin un guadagno ancora più colossale giovedì scorso nel giorno del primo collocamento. E' la schizofrenia tipica delle bolle speculative: s'intuisce che i prezzi sono insensati, ma quel che dà oltremodo fastidio è se qualcuno ne approfitta più di altri. Da mesi ormai si parla di una nuova bolla speculativa, creata attorno a tutte le neonate società che sfruttano nuove potenzialità di Internet: Facebook, Twitter, Skype, e tanti altri nomi meno noti. Anche nel 1999 la stampa abbondava di titoli che mettevano in guardia: "bolla", "euforìa di massa", "febbre speculativa", "esuberanza irrazionale" erano termini usati generosamente. Eppure il Nasdaq continuò la sua ascesa verso la stratosfera, il crollo arrivò solo nel marzo 2000: e fu una prova generale dell'altra grande bolla, quella dei mutui subprime nel 2007. Anche adesso gli investitori preferiscono ignorare gli avvertimenti. Al culmine delle bolle vale sempre la "teoria dello stupido più stupido": approfittiamo della bengodi, ci dev'essere qualcun altro ancora meno avveduto di me, a cui alla fine lascerò in mano il cerino acceso. L'elenco delle valutazioni da capogiro è lungo ma deve partire per forza da Facebook. Il sito sociale più celebre del mondo, che ha superato il mezzo miliardo di frequentatori, viene valutato a 50 miliardi (la data del suo collocamento in Borsa non è stato deciso). Nessuno nega che Facebook sia uno dei fenomeni che hanno segnato la nostra èra della socializzazione digitale. Ma questo giustifica che valga più della Boeing, il colosso che produce jet su cui viaggia da generazioni il mondo intero? Twitter vale più della Ford. Groupon, che offre voucher online per sconti su acquisti, ha rifiutato i 6 miliardi che offriva Google per acquistarla: preferisce quotarsi in Borsa dove è convinta di valere almeno 15 miliardi, anche se il suo fatturato è di soli 760 milioni. Tra i sintomi dell'euforìa si moltiplicano i fenomeni di "acq-hire", gioco di parole che si può tradurre in "compr-assumi": società come Facebook acquistano sul mercato concorrenti molto più piccoli, al solo scopo di reclutare i talenti che ci lavorano dentro. E' una bella conferma che il fattore umano è fondamentale nella Silicon Valley, ma questo contribuisce a far lievitare i prezzi di tutto. Gli ottimisti sottolineano che è sbagliato far paragoni con l'altra bolla della Silicon Valley, quella scoppiata nel marzo 2000. I cambiamenti principali da allora sono tre. Il primo è il prodigioso balzo in avanti delle tecnologie. Oggi un semplice telefonino incorpora più potenza del personal computer di dieci anni fa. E le sue capacità sono esaltate dall'accesso alla "nuvola": così vengono chiamati i servizi digitali disseminati su vari server, ai quali ogni utente ha facilmente accesso. Un esempio di "nuvola tecnologica" è la discoteca-libreria digitale iTunes della Apple. Le applicazioni proliferano all'infinito e così le opportunità di guadagno per chi sa sfruttare queste piattaforme, tenuto conto che si vendono ormai 450 milioni di smartphone all'anno. Un'altra novità è l'ingresso in campo di nuovi investitori: al tradizionale venture capital (22 miliardi di investimenti l'anno scorso) e agli "angeli" che accudiscono gli incubatori di nuove imprese (20 miliardi l'anno) si affiancano hedge fund, private equity, e anche le grandi banche di Wall Street come Goldman sachs e JP Morgan. Infine a differenza dal 2000 il gioco stavolta è diventato planetario. Alcuni dei più spettacolari collocamenti di Borsa hanno avuto per protagoniste delle aziende Internet cinesi, come il sito sociale Renren. La Cina sfiora ormai il mezzo miliardo di utenti Internet e salirà a 700 milioni entro cinque anni. Il commercio online cinese è destinato a quadruplicare, dai 70 miliardi di dollari attuali a 300 miliardi. Ma è proprio dalla Borsa di Shanghai che è arrivato un segnale allarmante: dopo un collocamento strepitoso, il sito Renren ha già perso 20% del suo valore in Borsa. A Wall Street, Goldman Sachs ha già venduto la sua quota in Linkedin e incassato la plusvalenza. Si rischia forse di assistere a un fenomeno simile al boom delle materie prime: la punta massima è già dietro le spalle, un grande investitore come George Soros è "uscito" dall'oro con lauti profitti e ora sta alla larga dal metallo giallo. Proprio mentre tanti piccoli risparmiatori saltano sul carro, forse all'ultima curva? (22 maggio 2011) © Riproduzione riservata da - repubblica.it/economia/2011/05/22/news/ Titolo: FEDERICO RAMPINI. Obama ringrazia, Marchionne ora cammini da solo Inserito da: Admin - Maggio 25, 2011, 05:10:12 pm 24
mag 2011 Federico RAMPINI Obama ringrazia, Marchionne ora cammini da solo “Storico, una pietra miliare”, Obama definisce così l’addio dell’azionista pubblico alla Chrysler. Per lui è un successo importante, sul piano economico sociale e politico. Bisogna ricordarsi le valanghe di accuse rovesciategli addosso dalla destra, per il salvataggio pubblico di Chrysler (e della ben più grossa General Motors che venne ribattezzata Government Motors). Quell’intervento coi soldi dei contribuente, più l’inedita partnership col sindacato metalmeccanico entrato lui stesso in consiglio d’amministrazione tramite l’investimento maggioritario del suo fondo sanitario-previdenziale: tutto ciò era stato sbandierato dalla destra americana come una prova evidente della “statalizzazione” dell’economia, del “socialismo” di Obama. Il bilancio è ben diverso. Lo Stato si ritira, come preannunciato, perché Obama non ha mai avuto voglia di vestire i panni dell’imprenditore pubblico. Il contribuente ci guadagna, anziché perderci. La continua emorragìa di occupazione a Detroit si è arrestata, sia pure con pesantissimi sacrifici operai (salario dimezzato ai nuovi assunti, rinuncia per qualche anno al diritto di sciopero), e si scorgono i primi segni di una parziale re-industrializzazione degli Stati Uniti. Se Obama ha fatto politica industriale “dirigista”, è stato per spingere le case di Detroit a produrre più auto verdi e meno “eco-mostri” come i Suv. Il resto torna ad essere una vicenda tutta Chrysler-Fiat, cioè Marchionne. Senza stampelle pubbliche, dovrà dimostrare che la sua scommessa non è solo abile ingegneria finanziaria ma vero progetto industriale. Possibilmente non giocato solo sull’asse Detroit-Torino ma allargato ai veri mercati del futuro, cioè Cindia. da - rampini.blogautore.repubblica.it/2011/05/24/ Titolo: FEDERICO RAMPINI. L’avviso di Moody’s sul debito italiano e la credibilità ... Inserito da: Admin - Giugno 20, 2011, 05:07:06 pm Addio lavori estivi, un altro sogno americano se ne va
19 giu 2011 L’avviso di Moody’s sul debito italiano e la credibilità dei “rating” Dobbiamo credere alle agenzie di rating? I loro giudizi sulla solvibilità di uno Stato sovrano – i “voti” al debito pubblico greco o italiano – hanno valore di un diktat sui mercati. E’ giusto che sia così? Il grave annuncio di Moody’s sul possibile declassamento del debito italiano riporta in primo piano il potere dei “signori del rating”, già al centro di furiose controversie in passato. Larry Summers da ministro del Tesoro degli Stati Uniti era considerato uno degli uomini più potenti del mondo eppure soleva dire: “Se esiste la reincarnazione, quando rinasco vorrei essere il mercato obbligazionario”. Più potente del ministro del Tesoro americano, è quel mercato da cui dipende il finanziamento dei suoi T-Bonds, i titoli del debito pubblico. Il mercato a sua volta chi ascolta? Le agenzie di rating. Tre in particolare, tutte americane: Standard & Poor’s e Moody’s, che controllano ciascuna circa il 40% del business, Fitch con un altro 15%. Il loro potere è enorme: un downgrading o declassamento del voto di solvibilità di uno Stato, cambia la percezione di rischio degli investitori che di conseguenza chiederanno rendimenti più elevati sui titoli per compensare la minore sicurezza. Più alti tassi comportano un peggioramento dei conti pubblici, quindi tagli ai servizi sociali o aumento delle imposte. L’intera agenda politica di un governo, e il consenso dell’opinione pubblica, subiscono effetti profondi dai rating. Non è stato sempre così. Anche se le agenzie di rating esistono da 150 anni (la prima fu S&P, nacque nel 1860 per valutare le finanze delle compagnie ferroviarie americane), il loro ruolo si è imposto lentamente. Dal crac del 1929 in poi le tante crisi, le successive riforme a tutela del risparmio, hanno assegnato un ruolo maggiore alle “pagelle” di solvibilità sulle aziende private. I voti ai governi hanno una storia più recente, è dagli anni Settanta che il finanziamento del debito pubblico ha cominciato ad avvenire in modo consistente sui mercati internazionali. Il mondo del credito è cambiato vorticosamente, è diminuita l’intermediazione delle banche (che in passato facevano in proprio l’analisi dei rischi sui debitori) mentre è aumentato il ruolo dei bond, le obbligazioni, comprate e vendute da vaste categorie di investitori. Questi investitori non sono solo gli squali di Wall Street, gli gnomi di Zurigo, gli sceicchi arabi, o i predoni degli hedge fund: ci sono anche fondi pensione e compagnie assicurative, da cui dipende il tenore di vita di intere generazioni di pensionati. Perciò le autorità di vigilanza hanno introdotto in molti paesi il divieto agli investitori istituzionali di comprare titoli che non abbiano un “buon voto”, a garanzia che non faranno crac. Le agenzie di rating offrono davvero questo genere di garanzia? Le critiche contro il loro operato sono severe, in particolare dopo la grande crisi del 2007–2009. Però il tenore di queste critiche è di segno opposto, rispetto al malumore che emana dai governi “bocciati” o minacciati di declassamento. Non troppo severe, anzi troppo indulgenti: questo è stato il rimprovero rivolto alle agenzie di rating. Per anni avevano etichettato con “tripla A” (massimo voto) i titoli tossici che contenevano i famigerati mutui subprime. Ancora prima di quel disastro c’erano stati antecedenti ignobili: Enron, Parmalat, anche lì le agenzie erano state colpevoli di non avere avvistato i segnali delle bancarotta. Quegli errori sempre dello stesso segno, sempre per eccessiva indulgenza, erano causati dal conflitto d’interessi alla base del loro mestiere: gli esperti dei rating vengono pagati quasi sempre da chi emette i titoli. Hanno quindi un forte motivo per “chiudere un occhio” sulle magagne dei loro clienti. Lo disse in modo colorito, in una celebre email del 2006, un dirigente di S&P: “Siamo vittime della sindrome di Stoccolma”, cioè simpatizzanti con chi le tiene in ostaggio, i clienti che emettono titoli. Dopo la crisi del 2007–2009 una commissione d’inchiesta del Congresso Usa ha tratto questa lezione: “Le tre agenzie di rating sono state un ingranaggio essenziale nella macchina della distruzione finanziaria”. Da allora le proposte per cambiare le regole non sono mancate. L’Unione europea ha sottoposto le agenzie a vigilanza. La Sec, l’authority di controllo sulla Borsa americana, studia la possibilità di dare “un rating alle agenzie di rating”, chiamandole a rispondere dei loro errori. Il più grande fondo pensione del mondo, quello degli statali della California, ha in corso una causa giudiziaria per rimborso danni contro le agenzie. Altri si sono mossi per ridurre il monopolio americano delle tre sorelle, viste come le guardiane di un’agenda neoliberista. Il caso più importante è la Cina, con la sua agenzia di rating Dagong che ha “declassato” per prima il debito sovrano degli Stati Uniti (oltre che di Inghilterra e Francia). Tuttavia i mercati non prendono molto sul serio la promessa del presidente cinese Hu Jintao secondo cui Dagong userà “solo criteri oggettivi”. Lo scarso peso di Dagong dimostra che non è facile costruire un’alternativa. Il Parlamento europeo ha discusso l’ipotesi di creare agenzie pubbliche, da opporre alle tre private americane. Quanti investitori si fiderebbero di agenzie manovrate dai governi? Sarebbero più credibili, o al contrario i loro giudizi sarebbero “politici”, viziati da conflitti d’interessi ancora più vistosi? Il ministro delle Finanze tedesco, Wolfgang Schaeuble, due anni fa disse che “i mercati non dovrebbero prendere troppo sul serio i rating”. Ora lo stesso Schaeuble si guarda bene dal ripetere quella frase. I severi giudizi delle agenzie di rating sono i benvenuti oggi, quando la Germania deve fare pressione sul governo di Atene perché tenga fede alle sue promesse di rigore nella spesa pubblica, privatizzazioni, tagli alle prebende assistenziali. E se domani la crisi greca si allargherà alla Spagna, poi all’Italia? Il contribuente tedesco sarà ben più allarmato, sempre più restìo a finanziare aiuti ai paesi in difficoltà. Le agenzie di rating saranno issate su un piedistallo, esortate a fare il loro mestiere senza remore e senza indulgenze verso i governi dei paesi a rischio. da - rampini.blogautore.repubblica.it/2011/06/19/lavviso-di-moodys-sul-debito-italiano-e-la-credibilita-dei-rating/?ref=HROBA-1 Titolo: FEDERICO RAMPINI. Debito Usa, stop a colloqui i repubblicani bloccano tutto Inserito da: Admin - Luglio 23, 2011, 05:44:18 pm ECONOMIA Debito Usa, stop a colloqui i repubblicani bloccano tutto L'annuncio di John Boeher, leader del Great Old Party: "Il presidente non vuole fare ciò che è necessario". La replica: "Non si possono solo fare tagli, servono nuove entrate". Al centro del dissenso le agevolazioni fiscali per i più ricchi. Si avvicina il rischio default del debito statunitense. E gli Stati si preparano. Oggi incontro alle 11 (le 17 ora italiana) tra Obama e i leader democratici e repubblicani dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI NEW YORK – Un weekend di paura, con lo spettro di una riapertura dei mercati lunedì mattina che potrebbe avvenire nell’angoscia di un imminente “default” degli Stati Uniti d’America, o quantomeno di un declassamento del loro rating sovrano, con effetti a cascata sul costo del denaro e su tutta l’economia mondiale. E’ il risultato del drammatico colpo di scena che ha mandato in fumo l’ultima ipotesi di accordo bipartisan tra il presidente e la maggioranza repubblicana alla Camera. “Il presidente della Camera mi ha chiamato mezz’ora fa per annunciarmi che abbandona il tavolo del negoziato”. Erano le 18 di ieri a Washington, mezzanotte in Europa, quando Barack Obama ha esordito all’improvviso in una conferenza stampa dal contenuto drammatico. Dalla sua prima frase, è chiaro che la speranza di un accordo imminente sul debito Usa era tornata in alto mare. “Il downgrading, il declassamento degli Stati Uniti diventa più probabile”, ha dovuto annunciare il presidente. Il suo tono era grave: “Il tempo è scaduto”. L’ipotesi di compromesso bipartisan è stata affondata perché John Boehner, che alla Camera guida la maggioranza repubblicana, è stato preso in ostaggio dalla destra più intransigente: quella settantina di eletti che hanno giurato fedeltà al Tea Party e al dogma anti-tasse. Obama ha rivelato per la prima volta la portata delle sue concessioni: “Mille miliardi di tagli alle spese, più altri 600 di tagli ai diritti acquisiti di pensioni e sanità, contro solo 1.200 miliardi di aumenti di entrate ottenuti non alzando le aliquote ma eliminando privilegi e deduzioni per i più ricchi”. Obama ha sottolineato che quelle concessioni erano state accolte da dure critiche all’interno del suo partito: per i democratici il presidente stava offrendo troppo, sacrifici pesanti per la sua base elettorale. “Cosa vogliono i repubblicani? Ancora più tagli alla scuola e alla salute, pur di non toccare i jet privati o le detrazioni per i benestanti come me”. Il tono di Obama era teso, con una convocazione-ultimatum: “Domattina alle 11 (oggi alle 17 in Europa, ndr) voglio qui tutti i leader repubblicani e democratici del Congresso”. E’ il preannuncio di un weekend al cardiopalmo, con un rilancio in extremis di negoziati per arrivare lunedì alla riapertura dei mercati con un’ipotesi-ponte, che consenta di votare un rialzo del tetto del debito ed evitare l’Armageddon, l’apocalisse finanziaria di una bancarotta di Stato. Mancano nove giorni al baratro, e l’America è costretta a prepararsi all’impensabile. Il banchiere centrale Ben Bernanke ieri aveva già incontrato il segretario al Tesoro Tim Geithner per i “preparativi” del caso: che fare se tra dieci giorni, il 2 agosto, Washington si trovasse in “default” tecnico, cessazione dei pagamenti federali per esaurimento del limite massimo di debito pubblico autorizzato dal Congresso. Alcuni Stati Usa già vivono una pre-crisi: dopo che Moody’s ha annunciato la possibilità di declassamenti generalizzati nei suoi rating, la California e il Maryland sono costretti a rinviare emissioni di titoli pubblici locali. Barack Obama non vuol crederci: “Il default non è un’opzione”. “Non voglio punire i ricchi – dice il presidente – ma i sacrifici devono essere condivisi da tutti”. Obama ricorda che “nessuno è immune da colpe, l’ultimo bilancio in pareggio l’America lo conobbe sotto un presidente democratico, Bill Clinton”. Come dire: dov’eravate voialtri repubblicani intransigenti quando George Bush sfasciava la finanza pubblica con gli sgravi ai ricchi e il salasso di due guerre? “Combattere il deficit senza nuove entrate sarebbe ingiusto verso le classi lavoratrici e il ceto medio”, dice il presidente. Com’era prevedibile, il Senato ha bocciato (51 no contro 46 sì) la legge passata alla Camera che avrebbe imposto il pareggio di bilancio nella Costituzione, e un tetto di spesa pubblica al 18% del Pil. Una legge-simbolo, votata dalla destra come un manifesto ideologico. La stessa destra ora vuole costringere il presidente a uno strappo istituzionale: che si prenda lui la responsabilità di alzare unilateralmente il tetto del debito pubblico per evitare il default. La destra non vuole compromettersi dando l’avallo a una manovra bipartisan. Ma Obama non vuole rimanere col cerino in mano: “Ho consultato i legali della Casa Bianca, quell’ipotesi è impraticabile”. Perciò oggi vuole mettere tutti con le spalle al muro: convocando i quattro leader repubblicani e democratici di Camera e Senato gli chiederà: “Cos’avete da proporre al popolo americano, per evitare la bancarotta?” La scadenza vera arriva prima ancora del 2 agosto. Lunedì è l’ultimo giorno utile, perché il Tesoro e la banca centrale possano prendere tutti gli accorgimenti necessari ad evitare l’arresto della macchina dei pagamenti: stipendi pubblici, pensioni. E lunedì è anche il giorno del verdetto dei mercati, che potrebbe essere pesante. (23 luglio 2011) © Riproduzione riservata da - http://www.repubblica.it/economia/2011/07/23/news/debito_usa_stop_a_colloqui-19492510/?ref=HREC1-3 Titolo: FEDERICO RAMPINI. Debito, Obama parla alla nazione Convincete i vostri deputati Inserito da: Admin - Luglio 26, 2011, 11:20:16 am STATI UNITI
Debito, Obama parla alla nazione "Convincete i vostri deputati ad agire" Il presidente americano rivolge un appello solenne per risolvere lo stallo delle trattative con i repubblicani: "Rischiamo una profonda crisi economica". E il sito della Camera va in tilt. Ma il presidente della Camera Boehner dice no: "Niente tasse" dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI NEW YORK - NEW YORK - "Rischiamo una profonda crisi economica se non si sblocca lo stallo sul debito, chiamate i vostri rappresentanti al Congresso per convincerli ad agire". Barack Obama sceglie il discorso alla nazione, un appello solenne riservato alle emergenze, per uscire dalla paralisi drammatica che può "provocare il primo default degli Stati Uniti nella storia". Invoca un compromesso bipartisan, ma non tira fuori dal cappello una soluzione nuova. E due minuti dopo la fine del suo discorso, su tutte le reti tv gli risponde a muso duro il presidente della Camera, John Boehner, che guida la maggioranza repubblicana: è un no secco, la destra rifiuta di cooperare, insiste su una manovra fatta solo di tagli alla spesa sociale. Ma il richiamo di Obama ai cittadini non è stato inutile: un'ora dopo il suo discorso, la rete tv Msnbc ha segnalato che il sito Internet della Camera era andato in tilt, per le troppe email dei cittadini ai parlamentari. Il discorso di Obama ha il tono pedagogico che il presidente predilige. Parte dalla storia di questa immenso debito pubblico, 14.300 miliardi di dollari. Chi lo ha costruito? Non lui ma il suo predecessore di destra. "Nel 2000 il bilancio pubblico era in attivo, poi sono venute due guerre pagate con la carta di credito, e mi sono trovato con un deficit corrente di mille miliardi solo nell'anno in cui sono entrato alla Casa Bianca". Alzare il tetto del debito, spiega Obama, è un atto dovuto per consentire che il Tesoro continui a rifinanziarsi, "non è un lasciapassare per continuare a spendere di più". Non alzare quel tetto del debito, significa che il 2 agosto l'America non sarà più in grado di onorare i suoi obblighi: con i pensionati, i dipendenti pubblici, i creditori nazionali e stranieri. "Aumenterebbero i tassi d'interesse, il costo dei mutui e dei prestiti agli studenti, del credito alle piccole imprese, e alla fine si perderebbero posti di lavoro". Obama adotta un linguaggio misurato, ricorda che "nessun partito è al di sopra delle critiche, nessuna parte è immune da responsabilità". Illustra il suo approccio, che coincide col piano di risanamento presentato al Senato dove i democratici hanno la maggioranza: "Ridurre il deficit operando tagli dolorosi anche alla sanità e alle pensioni, portando le spese sociali al livello più basso dagli anni Cinquanta, ma al tempo stesso chiedendo a tutti di contribuire, con l'eliminazione di privilegi fiscali per i più ricchi e le grandi imprese, perché non è tollerabile che i chief executive degli hedge fund paghino meno tasse delle loro segretarie". E' l'approccio "bilanciato, equilibrato, equo" che Obama sostiene di aver condiviso inizialmente con Boehner, fino a quando il presidente della Camera è stato bloccato dai veti di una "fazione". E' l'unico momento polemico nel discorso presidenziale: dà atto a Boehner di essere in buona fede, scarica le colpe sui fanatici del Tea Party, quei parlamentari della destra estrema che hanno giurato di non aumentare le tasse di un centesimo neanche sui miliardari. "Nel mio piano - ricorda Obama - il 98% degli americani non subirebbero aumenti d'imposte". Cita un illustre predecessore che disse: "Non preferireste ridurre il deficit chiamando a contribuzione quelli che non pagano abbastanza?" Quel predecessore era Ronald Reagan, il padre storico del movimento neoconservatore. Lo stesso Reagan che "alzò il tetto del debito pubblico 18 volte". Obama conclude ricordando i costi immensi a cui andrebbe incontro l'America "se subirà il primo downgrading della sua storia". Ribadisce che è inaccettabile il piano Boehner, che alzerebbe il tetto del debito solo per pochi mesi: "I mercati non ci crederebbero, è un gioco pericoloso, che nessuno ha mai osato prima di oggi". Si appella ai cittadini che lo ascoltano: "Se siete a favore del mio approccio equo ed equilibrato, chiamate i vostri rappresentanti al Parlamento, fate sentire la vostra voce. Il mondo ci guarda, facciamo vedere che l'America è ancora capace di unirsi come una nazione sola". Ma appena prende la parola Boehner ogni speranza si dissolve. In sette minuti d'intervento il presidente della Camera passa in rassegna tutti i luoghi comuni della retorica anti-tasse e anti-Stato. Ricorda di essere "un piccolo imprenditore dell'Ohio", cioè uno che capisce la logica dei numeri, a differenza dei politicanti di Washington. Sottolinea che "più lo Stato diventa grosso, più diventano piccoli gli americani". E' ora che il governo "smetta di vivere al di sopra dei suoi mezzi, spendendo più di quanto incassa". Rilancia il suo piano fatto di soli tagli alle spese (1.000 miliardi), con in più l'emendamento costituzionale che imponga il pareggio di bilancio. E' un piano che Obama ha già bocciato annunciando che vi porrà il suo veto se mai arrivasse sulla scrivania presidenziale. Le due parti sono distanti come prima. Obama non anticipa quel che potrebbe escogitare, da qui al fatidico 2 agosto, se la situazione rimarrà quella fotografata dai due discorsi contrapposti. (26 luglio 2011) © Riproduzione riservata da - http://www.repubblica.it/economia/2011/07/26/news/obama_default-19617943/ Titolo: FEDERICO RAMPINI. Soros chiude il suo fondo Inserito da: Admin - Luglio 27, 2011, 11:00:48 am IL PERSONAGGIO
Soros chiude il suo fondo "Restituisco i soldi, ho sbagliato" Il finanziere che 20 anni fa affossò lira e sterlina liquida gli investitori e trasforma il suo Quantum Fund in una società di gestione degli affari di famiglia con un patrimonio di 24,5 miliardi di dollari dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI NEW YORK - "Sono ricco solo perché capisco quando sbaglio". A volte George Soros riesce perfino a essere modesto. Di fronte agli elogi per il suo libro Il nuovo paradigma della finanza uscito nel maggio 2008 con una profezia sulla "super-bolla" che stava per scoppiare, si schernì: "Avevo gridato al lupo al lupo tante volte, tre libri nell'arco di vent'anni, solo alla fine il lupo è arrivato". La parola fine, a 81 anni Soros la vuole scrivere davvero. Ha annunciato che chiude il suo hedge fund. Restituirà il capitale a tutti gli investitori esterni, si limiterà ad amministrare il patrimonio familiare (una delle massime fortune del pianeta: 14,5 miliardi di dollari). Si ritira dal mestiere che lo ha reso ricco il "trader" più celebre, più ammirato e più odiato del pianeta. Ed anche uno dei filantropi più generosi, capace di donare finora oltre 7 miliardi di dollari. Inviso a tanti critici di sinistra per il suo ruolo di grande burattinaio della speculazione. Stimato, e dagli stessi ambienti!, per l'appoggio prezioso ai dissidenti e ai movimenti democratici di tutte le latitudini. Soros è riuscito ad attirarsi contemporaneamente gli strali del premio Nobel Paul Krugman, maitre-à-penser dei progressisti americani; e quelli di George Bush. Il primo ha coniato addirittura un neologismo, "Soroi" (plurale), per condannare "quegli investitori che non solo muovono capitali per anticipare una crisi valutaria, ma di fatto operano attivamente per scatenare quella crisi, per profitto e per divertimento". In quanto a Bush, Soros inondò di finanziamenti il suo avversario John Kerry nel tentativo di cacciare il presidente repubblicano dalla Casa Bianca. Il credo democratico e progressista, Soros ce l'ha incollato addosso fin dalla più tenera infanzia: quando da adolescente nella natìa Budapest assiste angosciato alle persecuzioni contro gli ebrei. Emigrato in Inghilterra, studia alla London School of Economics e ha tra i suoi docenti il teorico della "società aperta" Karl Popper. Fin da giovane ha passione per la teoria matematica pura, e un'abilità fenomenale nelle applicazioni sui mercati finanziari. La sua fama diventa mondiale nel 1992, quando è "l'uomo capace di spezzare la Banca d'Inghilterra". E' il primo a capire in quell'anno che Gran Bretagna e Italia non possono reggere dentro il Sistema monetario europeo per il dissesto delle finanze pubbliche e il deficit di competitività. Le sue puntate speculative accelerano i tempi del tracollo di lira e sterlina. Ripete l'exploit nel 1997 quando è il primo ad avvistare - a provocare, diranno i suoi critici - la grande crisi finanziaria del sudest asiatico. Altre volte prende le sue cantonate: nel 2000 è anche lui fra le vittime del crollo del Nasdaq quando scoppia la prima "bolla di Internet". L'unica battaglia dove non ha mai voluto ammettere sconfitte, è quella in difesa dei diritti umani. Dopo Helmut Kohl forse nessun altro europeo al di qua della cortina di ferro ha svolto un ruolo così importante durante e dopo la caduta del Muro di Berlino. I fondi di Soros sono stati generosi verso tutti i movimenti democratici nell'Europa dell'Est, è sua la più grande donazione privata mai ricevuta nella storia da una università europea (Budapest). C'è ancora lo zampino della sua fondazione politica, l'Open Society Institute, dietro le "rivoluzioni arancioni" in Georgia e in altre repubbliche ex-sovietiche. Il governo di Pechino lo teme, vede "congiure" di Soros dietro ogni protesta dei dissidenti come la Carta 08. Con filiali in 60 nazioni, e 600 milioni di donazioni all'anno, l'Open Society Institute è presente anche nel mondo arabo dove aiuta la nascita di nuovi partiti democratici. Negli Stati Uniti si è distinto nuovamente come sponsor principale (un milione di dollari) della Proposition 19, il referendum per la liberalizzazione della marijuana in California. Ovviamente è stato uno dei primi a puntare, con dovizia di mezzi, su un certo Barack Obama. Ironia della sorte, è proprio a causa delle riforme finanziarie di Obama che Soros si vede costretto a chiudere il suo hedge fund: troppa trasparenza con le nuove regole, che lo costringerebbero a registrarsi presso la Sec, l'organo di vigilanza. Gli scettici non mancano, però, di fronte a questo pensionamento. Il Wall Street Journal avverte: "Soros ha annunciato il suo ritiro altre volte. A 81 anni, è pronto a tornare sulla scena con un poderoso ruggito. Immaginarselo che cura solo il patrimonio domestico? E' come se Mike Tyson si desse all'uncinetto". (27 luglio 2011) © Riproduzione riservata da - http://www.repubblica.it/economia/2011/07/27/news/soros_fondo-19666626/?ref=HREC1-2 Titolo: FEDERICO RAMPINI. Uno schiaffo clamoroso per Obama Inserito da: Admin - Agosto 07, 2011, 11:10:24 pm L'ANALISI
Uno schiaffo clamoroso per Obama Dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI NEW YORK - L'America è umiliata e offesa. Il mondo s'interroga sulle conseguenze. La Cina chiede garanzie con toni minacciosi. Il G7 dovrà occuparsene. Il downgrading del debito pubblico Usa è uno shock globale. Il clamoroso annuncio dato da Standard&Poor's nella tarda serata di venerdì (la notte di sabato in Europa) è uno schiaffo senza precedenti per la più grande economia mondiale. Rischia di trasformarsi in un "declassamento di Barack Obama". La destra repubblicana ha immediatamente interpretato la perdita della "tripla A" sui titoli di Stato come un verdetto sul presidente e sul bilancio del suo governo. "Va licenziato subito il segretario al Tesoro Tim Geithner": all'unisono questa richiesta è stata lanciata dai maggiori candidati repubblicani alla nomination per le presidenziali del 2012, Mitt Romney e Michele Bachmann. E proprio dal Tesoro è uscita la prima reazione ufficiale, stizzita. Geithner ha accusato S&P di macroscopiche inesattezze nei suoi conti: "Un giudizio fondato su errori di calcolo dell'ordine di 2.000 miliardi di dollari si commenta da solo". L'attacco a S&P rivanga il passato: le agenzie di rating avviluppate nei conflitti d'interesse non furono capaci di prevedere i disastri dei mutui subprime e i crac bancari del 2008. Tuttavia una lettura attenta del documento di S&P che motiva il downgrading rivela singolari analogie con quanto disse Obama quattro giorni prima, al termine del defatigante negoziato coi repubblicani per alzare il tetto legale del debito pubblico e scongiurare in extremis il default. "La nostra economia reale merita la tripla A ma il nostro sistema politico non è all'altezza di quel voto": parola del presidente, che martedì esprimeva così la sua frustrazione per essere stato tenuto in ostaggio dalla destra. Frasi analoghe sulla "inefficienza della risposta istituzionale al deficit pubblico", compaiono nel rapporto S&P. Dunque Obama e l'agenzia di rating sono d'accordo che qualcosa si è rotto nel dialogo bipartisan. In passato, dalle situazioni di stallo fra un presidente e un Congresso di opposte tendenze, l'America usciva con compromessi e convergenze di segno moderato. Nello psicodramma sul debito invece si è verificata una situazione inedita: un pezzo del partito repubblicano, legato al movimento anti-Stato del Tea Party, avrebbe preferito senz'altro il default a qualsiasi concessione. L'accordo di Washington che lunedì ha evitato il peggio ha due difetti dal punto di vista del rigore. I tagli di spesa "immediati" sono in realtà scadenzati per il 2013, dopo l'elezione presidenziale. Le riforme strutturali per fermare l'ascesa del debito sono poi affidate a una commissione bipartisan (sei democratici e sei repubblicani): nel caso fallisca, scatterebbero dei tagli automatici alle spese militari e alla sanità. Le incognite sono troppe, a giudizio dell'agenzia di rating. Chi trasforma il downgrading in una bocciatura della politica economica di Obama finge di dimenticare che il debito pubblico è il risultato finale di decisioni di spesa accumulate per molti anni, sotto Amministrazioni precedenti e con maggioranze parlamentari diverse. Il gesto inaudito di S&P è in realtà la registrazione "notarile" di un disastro finanziario che è in larga parte attribuibile a George Bush: due guerre, i dissennati sgravi fiscali ai ricchi che hanno abbassato il prelievo ai minimi storici, e infine la più grave recessione degli ultimi 70 anni che ha ulteriormente depauperato le risorse pubbliche. Ora si addensano nuovi interrogativi sul futuro. La presa di posizione cinese segnala un'altra tappa nel declino di lungo periodo dell'egemonia americana: in prospettiva il ruolo "imperiale" del dollaro verrà ulteriormente ridimensionato sulla scena mondiale. Ma nell'immediato le preoccupazioni riguardano le ricadute sull'economia reale. La decisione di S&P era attesa dai mercati, ciononostante si ripercuoterà a cascata su altri downgrading di enti pubblici, con un possibile aumento dei tassi sui mutui e sul credito al consumo. Questo accade mentre l'America s'interroga sulla possibile ricaduta in una recessione dalla quale in realtà non è mai uscita (se invece del Pil si guardano i dati su salari, consumi, occupazione). E' il duro avvertimento di Kenneth Rogoff, ex chief economist del Fondo monetario, che ricorda come "le recessioni nate da crac finanziari sono molto più lunghe, in media ci vogliono sette anni per smaltirne le conseguenze". Oltre a curare l'orgoglio ferito di una nazione leader che si scopre "retrocessa" dietro la Francia e l'Inghilterra (almeno nella tripla A di S&P) Obama deve soprattutto rispondere al profondo disagio di una middle class impoverita. "Appena il Congresso torna dalle vacanze voglio sottoporgli nuove misure per occupazione, cominciando dalla creazione di una banca per gli investimenti in infrastrutture": così Obama è ripartito ieri all'offensiva sull'emergenza-lavoro. Il downgrading lo costringerà però a tornare anche sulle riforme strutturali che riportino sotto controllo la spesa del welfare state: un terreno ostico perché lo scontro non è sui numeri, è sulla ripartizione sociale dei sacrifici. (07 agosto 2011) © Riproduzione riservatA DA - http://www.repubblica.it/economia/2011/08/07/news/uno_schiaffo_clamoroso_per_obama-20128616/ Titolo: FEDERICO RAMPINI. Rischio recessione come nel ‘37: causata da errori politici Inserito da: Admin - Agosto 18, 2011, 10:59:25 pm Contro Standard & Poor’s la vendetta di Obama
18 ago 2011 Federico RAMPINI Rischio recessione come nel ‘37: causata da errori politici Dalla manovra Berlusconi-Tremonti a quella di Nicolas Sarkozy, fino ai tagli di Barack Obama: stiamo per “rifare un 1937”? L’allarme viene lanciato da due premi Nobel dell’Economia, Paul Krugman e Joseph Stiglitz, più un ex ministro economico di Bill Clinton, Robert Reich, e l’ex consigliera di Obama Christina Romer: i governi occidentali sposando all’unisono la linea del rigore di bilancio accelerano la ricaduta nella recessione. Infliggere tagli di spesa e aumenti di tasse a un’economia già debole, è la ricetta sicura per una catastrofe. Fu proprio questo l’errore più grave di Franklin Delano Roosevelt, la lezione del 1937: in quell’anno il presidente del New Deal credette di avere debellato definitivamente la Grande Depressione e cambiò segno alle sue politiche economiche, tagliando le spese e alzando il prelievo fiscale. Il 1937 segnò la ricaduta in una recessione grave. Una lezione dimenticata, salvo che da pochi esperti: tutti sanno cos’è stato il 1929, l’anno del crac di Wall Street che segnò l’inizio di una crisi decennale, mentre il 1937 non è un anno-simbolo noto alla cultura di massa. Faremmo meglio a cominciare a studiarlo? Il New York Times dà voce a un esperto di quell’epoca, lo storico della Grande Depressione Robert McElvaine. “Analogie e parallelismi con quanto accade oggi sono forti – dice McElvaine – perché allora come oggi i governi dovevano decidere se e quando invertire le politiche di spesa e di moneta facile usate per combattere la crisi iniziale”. Perfino la Federal Reserve, la banca centrale americana, ha deciso di pubblicare uno studio intitolato “La recessione del 1937, una parabola istruttiva”. Elaborato dall’economista François Velde di Chicago, il rapporto della Fed si apre constatando che “la recessione del 1937 è una lezione da meditare, interruppe brutalmente la ripresa dopo la Grande Depressione del 1929-33”. Lo stesso presidente della Fed, il banchiere centrale Ben Bernanke, si è fatto le armi all’università studiando la Grande Depressione. Gli avvenimenti della scorsa settimana, in rapida successione, hanno visto susseguirsi la paralisi politica a Washington per lo scontro Obama-Congresso sul debito, il downgrading degli Stati Uniti, i timori sulla solvibilità di diversi Stati membri dell’eurozona, tracolli di Borsa seguiti da recuperi mozzafiato (ma con un saldo netto negativo). Le analogie con il 1937 sono numerose. Allora l’indice Dow Jones della Borsa di New York cadde del 49% in un anno rispetto ai suoi massimi. La produzione industriale ebbe un crollo del 37%. La disoccupazione salì dal 14% al 19%. La debolezza della domanda di consumo portò a una discesa generalizzata dei prezzi: il fenomeno della deflazione. A lanciare l’allarme sul rischio di “rifare il 1937” non sono solo autorevoli economisti di sinistra (Krugman, Reich, Stiglitz) ma anche delle voci molto ascoltate a Wall Street: come David Bianco che è il capo delle strategie d’investimento di Bank of America-Merrill Lynch, la più grossa banca Usa. Secondo Bianco le probabilità che l’economia americana ricada in una recessione sono salite all’80%. “La fiducia è scossa, sta cadendo molto velocemente”, dice Bianco. La somiglianza principale con il 1937 riguarda proprio il segno della politica economica dei governi. Fino a quell’anno, Roosevelt aveva adottato delle politiche fortemente espansive, il cui simbolo più noto sono le grandi opere pubbliche lanciate all’insegna del New Deal. La strategia rooseveltiana ricalcava la teoria dell’economista britannico John Maynard Keynes: quando la crescita è paralizzata per mancanza di domanda (consumi, investimenti), allora lo Stato deve svolgere un ruolo di supplenza, deve intervenire con le sue spese a riempire il vuoto di domanda privata, senza preoccuparsi dei deficit. Roosevelt aveva anche inaugurato un “cantiere sociale”, la costruzione del primo sistema previdenziale garantito dallo Stato a tutti gli americani (Social Security), un pilastro del Welfare fino ad oggi. Per effetto delle sue manovre energiche di spesa pubblica, il debito federale degli Stati Uniti era aumentato dal 16% del Pil nel 1929 al 40% del Pil nel 1936 (ancora basso rispetto ai livelli attuali, ma la progressione rispetto al punto di partenza era stata formidabile). La ricetta keynesiana applicata da Roosevelt aveva funzionato: tra il 1933 e il 1936 la crescita americana era ripartita alla grande, con tassi di aumento del Pil del 9% annuo, che oggi diremmo “cinesi”. Ma nel 1937 gran parte della classe politica americana – repubblicani e democratici – incitava il presidente a togliere il piede dal pedale dell’acceleratore. Avendo ritrovato la crescita, era ora che l’Amministrazione si occupasse di rimettere in ordine i conti pubblici. Roosevelt cedette a quelle pressioni, proprio come Obama ha dovuto scendere a patti con la destra che oggi ha la maggioranza alla Camera. Improvvisamente la Casa Bianca cambiò le sue priorità. Nel 1937 decise di tagliare di colpo le spese pubbliche, interrompendo molti programmi del New Deal. Aumentò le tasse, istituendo anche un’addizionale per la Social Security. Il gettito fiscale aumentò in misura spettacolare, del 66% in un anno. Una stangata senza precedenti, anche se con elementi di equità sociale molto pronunciati: l’aliquota sui redditi oltre un milione di dollari salì dal 59% al 75% (mentre nell’America di oggi, grazie a George Bush, è al 35%). L’effetto sull’economia reale fu immediato e nefasto: l’America ripiombò di colpo nelle sofferenze della Grande Depressione. Ne sarebbe uscita solo due anni dopo, e forse per il contributo decisivo dato dal boom delle spese militari nella seconda guerra mondiale. Non tutti danno la stessa interpretazione di quella fatidica annata, il 1937. Anche in questo caso c’è una lettura di sinistra e una di destra. I repubblicani, rispolverando le opere del loro profeta Milton Friedman, sostengono che la vera colpevole della ricaduta fu la Fed: la banca centrale avviò una stretta monetaria per paura dell’inflazione, le banche razionarono il credito. Se anche fosse vero, la Fed di oggi è al riparo da questa accusa. La banca centrale americana, come la sua consorella Bce, mantengono dei tassi d’interesse molto bassi. La Fed ha promesso ai mercati che terrà addirittura il “tasso zero” fino al 2013; la Bce ha avviato la settimana scorsa acquisti di titoli pubblici italiani e spagnoli, che oltre a combattere la paura del default hanno come effetto la creazione di liquidità. Dunque, almeno i banchieri centrali non stanno operando contro la ripresa, non è colpa loro se “rifacciamo il 1937”. Gli studiosi più autorevoli della Grande Depressione sono comunque convinti che il 1937 ebbe un’altra causa. “E’ chiaro – dice McElvaine – che la causa della ricaduta in recessione furono i tagli di spesa decisi anzitempo da Roosevelt”. Un’altra esperta di quel periodo storico è Christina Romer, che oggi è tornata a insegnare all’università di Berkeley dopo essere stata alla guida del Council of Economic Advisors, il gruppo di economisti consiglieri di Obama. “Dopo una crisi economica – dice la Romer – è forte la voglia di dichiarare vittoria e tornare alla normalità. Ma bisogna resistere a quella tentazione”. In realtà la Romer ha lasciato la Casa Bianca perché la sua linea è stata sconfitta dai “rigoristi”. Quasi nessuno oggi nel ceto politico americano vuole ascoltare i moniti sulla lezione del 1937. Da quando nell’opinione pubblica ha iniziato a soffiare il vento di destra del Tea Party, le parole d’ordine sono “dimagrire lo Stato”. La sinistra democratica accusa Obama di essere un leader debole, troppo incline al compromesso con l’avversario. Ma chi invoca l’esempio di Roosevelt – riesumato da molti progressisti come “l’anti-Obama” – dimentica che il padre del New Deal era un pragmatico, pronto a cambiare le sue politiche. Anche troppo, come dimostra l’errore fatale del 1937. La destra repubblicana ha dalla sua un argomento forte: il “New Deal di Obama”, oltre 700 miliardi di spesa pubblica varati nel gennaio 2009 per sostenere la crescita, non ha impedito un tasso di disoccupazione del 9%. La spesa pubblica ha perso l’efficacia che aveva ai tempi di Roosevelt, quando si partì da livelli di debito molto più bassi? A sinistra i Krugman, Stiglitz e Reich, così come la Romer, sostengono l’esatto contrario: lo stimolo alla crescita varato nel 2009 fu insufficiente, e oggi ce ne vorrebbe un altro. Su Obama, così come su tutti i governanti europei che stanno facendo scelte analoghe, pesa anche il vincolo dei mercati. Dal downgrading di Standard & Poor’s fino ai sussulti di paura su Italia e Francia, l’opinione dominante era che i mercati chiedessero austerità e tagli ai deficit. Poi improvvisamente sulle Borse si è allungata minacciosa l’ombra del “double dip”, il doppio tuffo nella recessione. Il dilemma attuale se siano più urgenti le stangate fiscali, o la lotta alla disoccupazione, non dovrebbe comunque essere lasciato al giudizio dei mercati finanziari. da - http://rampini.blogautore.repubblica.it/2011/08/18/rischio-recessione-come-nel-37-causata-da-errori-politici/?ref=HREA-1 Titolo: FEDERICO RAMPINI. Obama e la Ue non frenano l'emorragia Inserito da: Admin - Agosto 19, 2011, 11:40:32 am L'ANALISI
Obama e la Ue non frenano l'emorragia Inizia il lungo inverno dell'economia I pessimi dati sulla crescita di Brasile e Germania e i bassi rendimenti dei titoli di Stato, tutti indicatori di una possibile recessione, spingono aziende e consumatori a proteggersi. L'economia è di nuovo a rischio, nonostante le assicurazioni del presidente Usa e di Van Rumpuy di FEDERICO RAMPINI "L'AMERICA non ricadrà nella recessione", promette Barack Obama. "Non ci sarà recessione in Europa", gli fa eco un certo Herman Van Rompuy che porta il titolo ambizioso di presidente dell'Unione. Due smentite fanno una conferma? Sulle Borse in caduta pesano i bollettini catastrofici che arrivano dall'economia reale. Il Brasile segnala per la prima volta da anni una decrescita (meno 0,2% il Pil del trimestre), la Germania si sta arenando: è la fine di due "miracoli" gemelli, un gigante emergente e la più solida delle vecchie economie industrializzate. Due macchine da guerra dell'esportazione, che non possono crescere se i loro mercati di sbocco sono fermi. Primo fra tutti quello americano, dove in un sol giorno arrivano dati pessimi sulla disoccupazione Usa che risale, le vendite di case sempre più giù, la produzione industriale in sofferenza su tutta la East Coast. Che la recessione sia alle porte lo dice un altro indicatore attendibile: i rendimenti dei titoli pubblici precipitano, per effetto di una corsa verso investimenti tornati improvvisamente "sicuri" (in mancanza di meglio). Ecco il Bund tedesco decennale al 2,17%. Il Treasury bond americano a dieci anni scende addirittura sotto il 2%. Più basso di così c'è solo il titolo del Tesoro giapponese, all'1%, e non a caso si tratta di un paese dove la crescita è sparita ormai dagli anni Novanta. Quei tassi lanciano un messaggio all'unisono: per accettare dei rendimenti così bassi gli investitori non vedono né inflazione né crescita all'orizzonte. Prestare i propri soldi allo Stato - almeno a questi tre: Germania Stati Uniti Giappone - è metterli in cassaforte preparandosi a un lungo inverno. Questa corsa ai buoni del Tesoro decennali americani è una nuova smentita della Standard & Poor's, del suo "downgrading" che metteva in cima ai problemi del momento la salute del debito pubblico degli Stati Uniti. Per una beffarda coincidenza, il vero schiaffo che S&P riceve dai mercati giunge nello stesso giorno in cui il Dipartimento di Giustizia di Washington apre un'indagine su quest'agenzia di rating. L'inchiesta è sacrosanta, riguarda le gravi responsabilità di tutte le agenzie di rating che per incompetenza, collusione e conflitti d'interessi regalarono la "tripla A" ai titoli tossici che contenevano crediti inesigibili sui mutui subprime. Una vicenda criminale ma vecchia ormai di quattro anni; ricordarsi solo ora dei danni enormi creati da quei rating truccati ha il sapore di una rappresaglia dell'Amministrazione Obama dopo l'onta del declassamento. Acqua passata, anche se il problema del debito costringe Obama a mandare a Pechino il suo vicepresidente Joe Biden, in una delicata missione presso il "creditore sovrano" degli Stati Uniti. Biden incontra Xi Jinping, anche lui vicepresidente, ma soprattutto erede al trono di Hu Jintao, destinato al comando supremo della Repubblica Popolare. Questa visita a Pechino in un momento di massimo allarme sui mercati globali "fotografa" un'impasse senza risolverla. Biden registra dal suo interlocutore Xi la preoccupazione più grave che assilla il governo cinese: lo spettacolo di totale assenza di leadership in Occidente. Perfino nel 2008, all'apice della grande crisi sistemica, sul versante politico la reazione fu migliore di quella attuale. Nel 2008 e 2009, tra il piano Paulson salva-banche e i vari summit G8 e G20 promossi da Gordon Brown e poi Obama, si ebbe il tentativo di costruire una regìa, un abbozzo di global governance per trainare l'Occidente fuori dalla tempesta perfetta. Oggi, neanche quello. Perfino una mossa a lungo auspicata e sollecitata come la rivalutazione del renminbi, diventa un'arma a doppio taglio. Per anni l'Occidente chiese alla Cina di fare la sua parte per sanare i macro-squilibri globali, rivalutando la moneta per importare di più. Il gesto di allargare la banda di fluttuazione del renminbi, annunciato a Pechino, oggi ha un sapore ambiguo. Può accelerare il deprezzamento congiunto di dollaro ed euro, la corsa verso beni rifugio come l'oro, in ultima istanza il disordine monetario può aggiungersi al pericolo di recessione e aggravarlo. Ad accentuare il nervosismo arriva la decisione della Federal Reserve di avviare un esame della vulnerabilità delle banche americane ai default possibili nell'eurozona. Nessuno ha più fiducia in nessuno. Una situazione simile si verificò nell'autunno 2008 con il crac della banca Lehman, quando il sospetto dilagò fra tutti gli attori del sistema finanziario, che il proprio partner fosse "il prossimo della lista". Un sospetto mortale, la cui conseguenza fu il congelamento del credito all'economia. Il tracollo dei mercati ieri è una sentenza spietata sul vertice di martedì fra Angela Merkel e Nicolas Sarkozy. Non si è fatto un millimetro di progresso su temi ambiziosi come la creazione di eurobond, quei "titoli pubblici dell'eurozona" che forse sarebbero un argine al contagio della sfiducia, darebbero finalmente al mercato unico europeo una solidità finanziaria e il rispetto degli investitori. Ancora più grave è il fatto che da quel vertice non è uscito un frammento d'idea per rilanciare la crescita, nessuna strategia anti-recessione, l'unico "scudo" davvero essenziale in questa fase. Ci sta provando da parte sua Obama: il presidente americano ieri è partito per una finta vacanza sull'isola Martha's Vineyard, che passerà consultando i suoi consiglieri economici per preparare "l'annuncio del Labor Day". Subito dopo la festa del lavoro (5 settembre) Obama lancerà un piano per la crescita e per l'occupazione. E' un rovesciamento di priorità rispetto alle ultime due settimane che lo hanno visto completamente appiattito sul tema del debito (anche grazie a S&P). Il presidente americano ha in mente una "strategia dei due tempi": prima bisogna rimettere in moto l'economia, rilanciare le assunzioni, ridare fiducia e potere d'acquisto; contestualmente bisogna mettere a punto dei tagli al deficit pubblico più severi di quelli annunciati finora, ma la cui entrata in vigore deve essere rinviata, a quando sarà sventato il rischio di ricaduta nella recessione. E' l'unico percorso per evitare di "rifare il 1937": l'anno terribile in cui Franklin Roosevelt interruppe prematuramente le politiche di spesa pubblica del New Deal, e l'America ricadde nella Grande Depressione. L'intuizione di Obama si snoda su un sentiero strettissimo, per ragioni non finanziarie bensì politiche: i dibattiti tra i candidati repubblicani alle presidenziali hanno visto il trionfo della demagogia anti-Stato. Tutti i leader repubblicani hanno annunciato che rifiuterebbero ogni compromesso che contenga nuove tasse, perfino quelle tasse sui miliardari auspicate a gran voce dal più ricco (e meno tassato) di tutti, Warren Buffett. In questo vuoto di leadership è inefficace la supplenza delle banche centrali. Fed e Bce continuano a pompare liquidità nei mercati, con il tasso zero Usa o con gli acquisti di titoli pubblici. Ma nella paura che paralizza l'economia, quella liquidità non rifluisce dove servirebbe. Le imprese accumulano montagne di cash, o investono solo in maxifusioni alla Google - Motorola, o esportano capitali nei pochi paesi emergenti ancora sicuri. I consumatori che possono farlo tesaurizzano, riducono i debiti, accantonano risparmi, per prepararsi al peggio. (19 agosto 2011) © Riproduzione riservata da - http://www.repubblica.it/economia/2011/08/19/news/inverno_economia-20602830/?ref=HREA-1 Titolo: Federico Rampini. Gli “indignados” americani di Occupy Wall Street Inserito da: Admin - Ottobre 16, 2011, 10:17:40 am Gli “indignados” americani di Occupy Wall Street
di Federico Rampini, da Affari & Finanza di Repubblica, 10 ottobre 2011 Se c’è un posto da dove cominciare la prossima rivoluzione, è Wall Street. I potentati della finanza hanno cacciato l’America e il mondo intero nella più grave crisi dagli anni Venti. Poi le stesse lobby bancarie hanno tenacemente ostacolato i progetti di grandi riforme, con discreto successo. Non c’è da stupirsi se proprio Wall Street è l’epicentro del minimovimento degli "indignados" americani, che alla terza settimana di lotta ha cominciato a estendersi verso la West Coast (Los Angeles, San Francisco), il Midwest (Chicago), il Nord (Boston, Canada) e perfino l’America profonda del Kansas. È presto per parlare di un ritorno del conflitto sociale – o della "lotta di classe" che la destra accusa Barack Obama di fomentare – negli Stati Uniti, dove il vuoto di movimenti sociali dura da più di trent’anni. Le piazze si sono riempite talvolta anche negli anni recenti, è vero. Ma quando a mobilitarsi era la sinistra – vedi le manifestazioni pacifiste contro la guerra in Iraq durante la presidenza Bush – lo faceva su temi tipicamente "postindustriali", valoriali, tipici di una società che si autorappresenta senza classi. L’ultima grande manifestazione coi sindacati fu nel 1999 a Seattle, contro il Wto, e l’incrocio con la violenza dei noglobal ne segnò di fatto la sconfitta. Solo giovedì scorso i sindacati hanno deciso di unire nuovamente le proprie forze a quelle di una protesta spontanea e prevalentemente giovanile, unendosi a "Occupy Wall Street". Fino a quel momento era stata la destra a occupare le piazze, con il Tea Party, a dimostrazione che l’egemonia conservatrice su una robusta fetta dell’opinione pubblica americana resiste dai tempi di Ronald Reagan. Il movimento "Occupy Wall Street" ha ricevuto un’attenzione elevata dai media perché ha scelto di localizzarsi nell’epicentro del nuovo Impero del Male. Anche gli americani che votano a destra sono generalmente consapevoli che questa crisi è stata innescata dalle malefatte dei banchieri, con i mutui subprime e la finanza tossica. Quello che a destra non è affatto chiaro, invece, è che dopo il 2009 una malefica convergenza tra il populismo antiStato del Tea Party e le lobby di Wall Street ha impedito di mettere i banchieri in condizione di non nuocere. E’ fondamentale ricordare cos’è accaduto attorno alla legge Dodd-Frank, nota anche come Wall Street Reform and Consumer Protection Act. Quella legge, firmata da Barack Obama il 21 luglio 2010, porta il nome dei due principali firmatari, il senatore Chris Dodd e il deputato Barney Frank, ambedue democratici. Fu l’esito finale di una lunga battaglia legislativa, iniziata per impulso di Obama quando ancora i democratici avevano la maggioranza in ambedue i rami del Congresso, e quando ancora fra i loro ranghi era vivo l’impeto riformatore provocato dal disastro di Wall Street. Ma già nell’iter legislativo l’azione sistematica delle lobby aveva indebolito quella che doveva essere la grande riforma dei mercati. Due sono gli esempi più importanti. Primo: le agenzie di rating sono riuscite a tutelarsi da ogni tentativo di regolamentarle in maniera stringente; un risultato non da poco, alla luce dell’enorme conflitto d’interessi esploso in occasione della crisi dei mutui subprime (molti titoli strutturati avevano ricevuto rating "tripla A", naturalmente dietro pagamento di commissione da parte degli emittenti). Secondo esempio: è stata rintuzzata dalle lobby di Wall Street l’ipotesi di introdurre la Volcker Rule, dal nome di Paul Volcker. Questo ex governatore della Federal Reserve, che era stato uno dei consiglieri più ascoltati di Obama in campo economico (ma ahimé solo durante la campagna elettorale e poco dopo) aveva suggerito inizialmente non solo un divieto onnicomprensivo alle banche di speculare su mezzi propri, ma perfino un ritorno alla legge GlassSteagall del 1933 che aveva creato una robusta separazione di mestieri fra banche di deposito e banche d’investimento. La prima parte della Regola Volcker è entrata nella legge Dodd-Frank in misura annacquata; di reintrodurre la separazione stile GlassSteagall non si è più parlato. Ma l’indebolimento della Dodd-Frank rispetto all’ispirazione iniziale è ancora poca cosa, in confronto a quel che le lobby di Wall Street sono riuscite a fare in seguito. Una volta varata quella legge, le lobby si sono ingegnate per svuotarne l’applicazione. Qui la battaglia più importante è stata quella contro la nuova agenzia per la protezione del depositante e dei consumatori di servizi finanziari. Quell’agenzia doveva essere uno dei capisaldi della riforma. Prima le banche hanno ottenuto che non fosse un’authority indipendente bensì sotto la tutela della Federal Reserve (dove gli stessi banchieri sono ben rappresentati soprattutto a livello locale). Poi è partita la formidabile guerra di Wall Street contro Elizabeth Warren, la coraggiosa docente di Harvard che era stata la vera e propria "madrina" dell’agenzia e che Obama voleva nominare alla sua testa. L’hanno spuntata le lobby, la Warren non è riuscita ad ottenere il via libera al Senato. Decisiva, in tutti questi casi, è stata la convergenza fra Wall Street e la destra repubblicana. Nel frattempo il capitalismo americano non ha fatto nulla per emendarsi dei propri eccessi. Lo scandalo più eclatante rimane quello della superpaghe ai top manager. L’ultimo caso è quello di Léo Apotheker, il disastroso chief executive di HewlettPackard defenestrato dal consiglio d’amministrazione il mese scorso. Tutti sembravano d’accordo: il top manager aveva condotto il colosso informatico della Silicon Valley sull’orlo del baratro, andava cacciato al più presto. Risultato: il board della società lo ha "ringraziato" con un "premio di licenziamento" di 13 milioni di dollari. Se si aggiungono a quello che lui aveva guadagnato di stipendio"normale" (10 milioni), Apotheker ha stabilito un nuovo record. Perché il suo periodo alla guida di Hp è durato appena 11 mesi. In questi tempi di crisi economica acuta, con 25 milioni di disoccupati, c’è un’America dove qualcuno viene licenziato per scarso rendimento e si ritrova con 23 milioni di dollari in tasca. Lo scandalo dei superstipendi per i top manager ormai ha prodotto quasi una sorta di assuefazione: una vicenda come quella di Apotheker vale un titolo in evidenza sui giornali per un paio di giorni al massimo. Poi si passa al successore, anzi la successora: Meg Whitman, ex chief executive di EBay, che è stata chiamata a sostituire Apotheker al vertice di Hp. Naturalmente con un contratto di assunzione blindatissimo, che anche a lei garantisce somme favolose a prescindere dal rendimento. Hp non è un’eccezione, è la regola. Sapevamo di Wall Street, dove i banchieri colpevoli del tracollo sistemico del 2008 sono ancora ai loro posti oppure si godono una pensione dorata con dei bonus stratosferici. Ma anche la Silicon Valley, tanto decantata per la sua cultura dell’innovazione e del rischio imprenditoriale, in realtà rischia poco quando si tratta dei chief executive. Quello di Amgen (biotecnologie) se n’è andato con 21 milioni di stipendio annuo dopo che il valore dell’azienda in Borsa era caduto del 7% e lui aveva licenziato 2.700 dipendenti. E nessuno che tenti di stracciare i contratti blindati dei capi. Nell’America dove gli operai di Gm e Chrysler si son visti dimezzare lo stipendio e decurtare le pensioni, l’unica categoria che ha dei "diritti acquisiti" rigidissimi è l’oligarchia manageriale. Com’è possibile? Finalmente uno studio rivela il perché. Anzi, tre studi, perché del tema scottante si sono occupate tre équipe di ricercatori universitari, guidate rispettivamente da Michael Faulkender (University of Maryland), Jun Yang (Indiana University) e John Bizjak (Texas Christian University). Usando la documentazione raccolta dalla Sec gli studiosi hanno raggiunto la stessa conclusione. Dietro l’aberrazione delle supergratifiche c’è il fenomeno del "peer benchmarking". Per "benchmarking" si intende un metodo che fissa degli obiettivi standard che un’azienda deve raggiungere o superare (è molto usato nel marketing). "Peer" sta per "pari grado". Dunque, i ricercatori hanno scoperto che il 90% dei consigli d’amministrazione delle grandi aziende Usa al momento di assumere un amministratore delegato fissano la sua paga guardando alle paghe dei suoi simili. E con una regola precisa: invocando il pretesto che bisogna "attirare i migliori", le paghe dei neoassunti devono essere "superiori al compenso mediano" (la mediana, in statistica, è il valore più frequente in un gruppo). Quindi la spirale perversa che spinge sempre più su le paghe dei top manager ha una causa semplice: il tuo chief executive va pagato più di quello della porta accanto. E’ così che dagli anni Settanta i compensi dei top manager sono più che quadruplicati (in potere d’acquisto reale) mentre nello stesso periodo lo stipendio medio dei dipendenti è arretrato del 10% in termini reali. L’hanno battezzata anche la "sindrome del Lago Wobegon", nome del luogo immaginario inventato dall’animatore radiofonico Garrison Keillor, "dove tutti i bambini sono superiori alla media". Peccato che non possa dirsi altrettanto per la maggioranza degli americani. (11 ottobre 2011) da - http://temi.repubblica.it/micromega-online/gli-indignados-americani-di-occupy-wall-street/ Titolo: FEDERICO RAMPINI. In Medio Oriente vince la dottrina Obama (per ora) Inserito da: Admin - Ottobre 23, 2011, 05:43:45 pm 23
ott 2011 RAMPINI In Medio Oriente vince la dottrina Obama (per ora) “Dopo quasi nove anni la guerra in Iraq è finita”. A 24 ore dalla morte di Gheddafi, Barack Obama annuncia il “ritiro totale entro la fine dell’anno” dall’altra guerra, quella di George Bush. Mentre tutti s’interrogano su “chi sarà il prossimo” – e già iniziano le pressioni perché sia la Siria, o l’Iran, il nuovo bersaglio nell’effetto domino – è già tempo di bilanci per la “dottrina Obama sul Medio Oriente”. Controversa, criticatissima, perfino sbeffeggiata, soprattutto dalla destra americana. Proprio sulla Libia i suoi avversari avevano fatto una caricatura di questa strategia della “guerra minima”, dipingendo un presidente “che guida dalle retrovie” lasciando a Francia e Inghilterra un ruolo di punta nelle operazioni militari. E’ vero che sembrava esserci un tono rinunciatario, in quella presa d’atto che l’America non può più essere il gendarme del mondo, che gli interventi militari vanno commisurati a un’economia in declino, che le sue responsabilità all’estero devono esercitarsi in modo condiviso. Ora però il bilancio della dottrina Obama appare di tutto rispetto, e il ritiro dall’Iraq ne arricchisce l’ultimo dividendo. Non gliene darà atto la destra – siamo ormai in campagna elettorale, il fair-play è escluso – ma sui mass media indipendenti il verdetto è unanime e positivo. Anche se è già cominciato l’esercizio successivo: prevedere quale sarà il prossimo test, il teatro di crisi del mondo arabo che presenterà le sfide più urgenti. La dottrina Obama di cui oggi si trae un bilancio non è solo quella della “guerra minima” applicata alla Libia, anche se questa si presta a confronti esemplari: quanto tempo ci volle a Bush per far fuori Saddam Hussein, con quale dispendio di risorse umane ed economiche, in confronto alla liquidazione del raìs di Tripoli? L’annuncio del ritiro dall’Iraq serve a sottolineare questa sproporzione: eliminare il carnefice di innocenti passeggeri americani sul volo Pan Am sopra Lockerbie è costato circa l’uno per mille rispetto al budget del conflitto iracheno. Ma la dottrina Obama è molto di più. Viene inaugurata dal discorso all’università del Cairo (4 giugno 2009) che segna l’apertura di un dialogo a tutto campo, anche sui valori, e una svolta rispetto ai toni da crociata di Bush. Non a caso per la destra il discorso del 2009 è un simbolo di “cedimento, arrendevolezza”. A posteriori, invece, proprio in quelle parole alcuni hanno visto i germi degli eventi di Tunisi e del Cairo: perché le opinioni pubbliche del Nordafrica hanno intuito che l’America non avrebbe puntellato per sempre le dittature alleate. Quello è il tassello successivo della dottrina Obama: la rapidità con cui la Casa Bianca abbandona al loro destino i despoti contestati dai popoli. Una scelta ben diversa rispetto all’ostinazione con cui un altro presidente democratico pur sensibile ai diritti umani, Jimmy Carter, aveva puntellato il regime dello Scià di Persia (poi pagando un prezzo altissimo per quell’errore). Ma anche questo aspetto della dottrina Obama è tutt’altro che pacifico: da Netanyahu ai falchi repubblicani, molti continuano a rimproverargli di avere mollato Mubarak consegnando l’Egitto a un destino incerto e forse anti-israeliano. Perciò ora il presidente viene strattonato in più direzioni. La sinistra considera che il prossimo obiettivo deve essere Damasco perché in Siria vede una tragedia umanitaria simile a quella libica. Per la destra repubblicana e il governo Netanyahu invece il nemico più serio da affrontare è l’Iran. Obama però sa che non verrà giudicato solo sugli eventi futuri in Siria, Iran, Yemen, ma anche sugli sviluppi in quei paesi dove ha raccolto successi molto provvisori. Per Tunisia ed Egitto il presidente aveva proposto un piano Marhsall, al G8 di Deauville: per incanalare la transizione democratica, offrendo concrete prospettive di sviluppo economico. Quel cantiere è rimasto fermo, i rischi di instabilità e l’avvento di forze islamiche ostili all’Occidente sono ancora degli esiti possibili in ognuno di quei paesi. da - http://rampini.blogautore.repubblica.it/2011/10/23/in-medio-oriente-vince-la-dottrina-obama-per-ora/?ref=HROBA-1 Titolo: FEDERICO RAMPINI. Urge la Tobin Tax per frenare la finanza impazzita Inserito da: Admin - Novembre 01, 2011, 11:19:06 am Gli ostacoli a un “piano B” per salvare l’Italia con aiuti Fmi
31 ott 2011 Federico RAMPINI Urge la Tobin Tax per frenare la finanza impazzita La Germania rilancia la Tobin Tax, cioè una tassa sulle transazioni finanziarie, che porta il nome dello scomparso premio Nobel dell’economia che preconizzava la necessità di mettere un “granello di sabbia” nell’ingranaggio dei mercati finanziari. I tedeschi hanno ragione, ma rischiano di essere bloccati come altre volte dal veto anglo-americano, cioè dei due paesi che hanno le più importanti piazze finanziarie del mondo. Dove la finanza impazza più che mai, come dimostra questa notizia recente sulla “posa del cavo”. E’ il primo cavo sottomarino a fibre ottiche ad essere installato sul fondo dell’oceano Atlantico da dieci anni a questa parte. Ma a differenza di quelli che venivano inaugurati sul finire degli anni 90 e all’inizio del millennio, il nuovo cavo transatlantico non servirà a trasportare la voce, le telefonate, e neppure il collegamenti. Questo nuovo super-cavo sottomarino tra New York e Londra, costruito a cura della società Hibernian Atlantic, è riservato esclusivamente alle transazioni finanziarie. Servirà a far guadagnare “ben” cinque milli-secondi ai trader delle due principali piazze finanziarie del globo. Cinque milli-secondo sono un’eternità, nel mondo delle transazioni computerizzate. Ma siamo sicuri che sia un’investimento utile ai mercati? L’inaugurazione da parte della Hibernian Atlantic avviene proprio mentre sono nel mirino dei governi le transazioni super-veloci e automatizzate, programmate attraverso appositi software informatici, e note come “high-frequency” o “high-speed” trading. Stati Uniti, Unione europea, Canada: sulle due sponde dell’Atlantico gli organi di vigilanza e le autorità di controllo sospettano che ci sia qualcosa di marcio nel mondo delle transazioni ad alta frequenza, che per comodità abbrevieremo d’ora in avanti come Hft. O quantomeno, vogliono più trasparenza e regole chiare, per impedire che la diffusione dell’Hft accentui a dismisura la volatilità dei mercati, con la possibilità di incidenti seri. La vittima inconsapevole dell’alta frequenza, infatti, siamo tutti noi: ovvero i risparmiatori che affidano in gestione i propri soldi a banche, fondi comuni, assicurazioni, le cui strategie d’investimento vengono travolta dai predatori dell’Hft. Sanzioni, multe e indagini si stanno moltiplicando, prima ancora dell’arrivo di nuove regole. Dagli Usa all’Europa diversi trader sono stati già puniti per manipolazione illegale dei prezzi. Il trucco più frequente, il più facile e meno rischioso: approfittando proprio dei milli-secondi di vantaggio che hanno sugli investitori normali (anche grossi investitori istituzionali come i fondi comuni, le banche), gli operatori dell’Hft piazzano i propri ordini in anticipo sull’arrivo di grosse transazioni, e così lucrano il vantaggio di chi conosce in anticipo la direzione in cui si muoveranno la domanda e l’offerta, l’aumento o la discesa dei prezzi. Ma ci sono altre dinamiche, più complicate e più sottili, che gli stessi operatori non controllano fino in fondo, e il pericolo lo si è visto ad esempio nella famigerata seduta del 6 maggio 2010, passata alla storia per l’improvviso tracollo di 700 punti dell’indice Dow Jones, senza una ragione precisa se non “l’impazzimento” dei programmi ad alta frequenza. Da allora non si è ripetuto un evento di quella drammaticità, e tuttavia negli ultimi tre mesi di quest’anno la volatilità del mercato è aumentata in misura inquietante, con alternanze di rialzi e ribassi da 200 o 300 punti del Dow Jones che sembrano essere diventate “la nuova normalità”. Gli operatori di Wall Street e della City di Londra naturalmente respingono le accuse, ribattono che la stragrande maggioranza delle transazioni sono perfettamente legittime, difendono l’Hft come un fattore di efficienza dei mercati, che li rende più liquidi e quindi abbassa il costo del singolo investimento. Questa è la classica autodifesa che attinge all’armamentario ideologico del neoliberismo: è un leitmotiv ricorrente dall’epoca di Milton Friedman e della scuola di Chicago che posero le fondamenta teoriche per il grande matrimonio fra le Borse e le tecnologie informatiche fin dagli anni70. Di questo Verbo neoliberista fa parte anche la convinzione che gli operatori del mercato sono i primi ad avere interesse alla regolarità delle transazioni, e quindi sono motivati ad autodisciplinarsi. (Qualcuno potrebbe ricordare che Alan Greenspan diceva la stessa cosa a proposito dei banchieri fino al 2007). A sostegno della loro autodifesa, i grandi hedge fund sono pronti a esibire qualche studio accademico che dimostrerebbe i presunti benefici dell’alta frequenza degli scambi automatizzati. Ma una recente analisi compiuta sull’indice delle 500 maggiori società quotate (Standard & Poor’s 500 Index) ha dimostrato una formidabile crescita della volatilità, con oscillazioni sempre più alte all’insu e all’ingiù da quando esiste l’Hft elettronico. Tutto questo in coincidenza con un potenziamento tecnologico che ha ridotto nell’angolo l’elemento “umano” che opera sui mercati. La leva dell’Hft è decisiva per capire l’aumento nel volume delle transazioni: ancora nei primi mesi del 2007 , prima della recessione e quindi con un’economia reale ben più florida di quella attuale, il volume degli scambi quotidiani sulle Borse Usa coinvolgeva 6 miliardi di azioni. Oggi siamo a quota 8 miliardi. L’aumento dell’incidenza dell’Hft è tale che oggi due azioni su tre vengono scambiate attraverso quei programmi ad alta velocità, in America. E sempre più spesso ciò avviene anche in altre Borse del mondo, a cominciare da quella di Londra. I casi di flagranza di reato sono ancora pochi, perché gli strumenti per indagare sono rudimentali. E’ un classico esempio in cui la caccia guardie e ladri si svolge in modo asimmetrico: è sempre il ladro ad avere una lunghezza di vantaggio in termini di know how tecnologico. Ma è interessante ricordare alcune punizioni. A Londra le autorità di vigilanza hanno multato per 8 milioni di sterline una società di trading canadese, la Swift Trade, per l’uso di una tecnica chiamata “layering”. Si tratta dell’emissione di massicci ordini di acquisto o vendita, che poi vengono cancellati una frazione di secondo prima che vengano effettivamente eseguiti. La tecnica è molto in voga, si direbbe, perché poco dopo il caso londinese anche a New York la Financial Industry Regulatory Authority ha incastrato un reprobo. IN quel caso si trattava della Trillium Brokerage Services, multata per 2,3 milioni di dollari. Stessa tecnica di “layering” anche per lei. La pratica della cancellazione repentina di migliaia di ordini poco prima che vengano eseguiti, è molto diffusa. E’ chiaro a cosa serve: prima i trader dell’Hft “sparano” sul mercato questi ordini voluminosi, sapendo che avranno l’effetto di spostare i prezzi, poi li cancellano e piazzano altre transazioni per lucrare sui movimenti di prezzi che loro stessi hanno provocato. Tutto questo è molto più raffinato e sottile dell’aggiotaggio vecchio stile, ed è possibile solo grazie alla tecnologia. Ma anche grazie alle evidenti lacune nella normativa. Per questo le norme stanno cercando di recuperare il ritardo. Negli Stati Uniti la Securities and Exchange Commission (Sec) ha varato requisiti di trasparenza più severi su tutti i trader di larghe dimensioni, chiedendo in particolare informazioni dettagliatissime sulle transazioni elettroniche ad alta velocità. In Europa la Commissione di Bruxelles ha presentato la proposta di direttiva “Mifid II” che va nella stessa direzione. Il commissario europeo al mercato unico, Michel Barnier, ha preso di mira in particolare i “dark pool” o “bacini oscuri”, vere e proprie Borse parallele dove si stanno spostando molte transazioni Hft per sfuggire alla curiosità degli organi di vigilanza. Come le nuove regole della Sec, anche la direttiva Mifid II della Commissione europea si applicherebbe alle transazioni su ogni tipo di attività finanziaria: azioni, titoli pubblici, obbligazioni private, futures e derivati. Sarebbe un limite serio, per la prima volta da anni, al dilagare dei nuovi strumenti tecnologici. Ma di tutte le proposte di riforma in circolazione, la più efficace resta la Tobin Tax, cioè l’imposizione di un prelievo fiscale su ogni transazione finanziaria. La Tobin Tax avrebbe un’aliquota molto bassa, sicché l’impatto sul risparmiatore sarebbe insignificante. Ma essendo una tassa che scatta ad ogni operazione, il suo costo sarebbe invece tutt’altro che trascurabile per i colossi dell’Hft. Di fatto la Tobin Tax colpirebbe in modo spoporzionato proprio loro, i grandi squali delle transazioni alla velocità della luce, quelli che non hanno bisogno di fare insider trading perché ci bruciano sul traguardo pur sapendo già quel che facciamo noi. Guarda caso, il dibattito sulla Tobin Tax appare e scompare, ma finisce sempre su un binario morto. E’ forse l’unico caso di una tassa che piacerebbe “al 99%”, ma l’1% che ne blocca l’approvazione ha dimostrato di avere un potere di veto finora insormontabile. da - http://rampini.blogautore.repubblica.it/2011/10/31/urge-la-tobin-tax-per-frenare-la-finanza-impazzita/?ref=HROBA-1 Titolo: FEDERICO RAMPINI. "Così l'Italia eviterà il baratro". Inserito da: Admin - Novembre 13, 2011, 10:51:25 am IL RITRATTO
Il "bocconiano" europeista che punta sulla crescita "Così l'Italia eviterà il baratro". Il programma anti-default di Monti: via i privilegi, riforme severe, più tasse sulle rendite. Ecco chi è il nuovo senatore e vita e forse prossimo premier di FEDERICO RAMPINI MARIO MONTI era a Berlino ieri, quando lo ha raggiunto la chiamata di Giorgio Napolitano. Lo ha ringraziato, si è detto onorato. Poi ha fatto una di quelle cose che gli riescono alla perfezione: si è chiuso in un riserbo rigoroso. Nella giornata di tutte le paure, mentre i mercati mondiali da Francoforte a Wall Street si avvitavano disperatamente al ribasso, risucchiati dalle incertezze sull'Italia, Monti si è comportato come se quella telefonata fosse "solo" per nominarlo senatore a vita. Al presidente lo lega un'antica familiarità europea (Napolitano fu europarlamentare dal 1999 al 2004, durante tutto il secondo mandato di Monti a Bruxelles) e i due hanno un'altra cosa in comune: forse sono i più "anglosassoni" tra i leader italiani, nel senso dell'aplomb, dello stile, della compostezza. Ora, se a Monti toccherà l'incarico di formare un nuovo governo, sarà finita davvero quella "commedia all'italiana" che lui stesso deprecava il 14 luglio scorso, così come la "tendenza ad andare alle calende greche". Dalla prima tempesta estiva sui mercati, il linguaggio di Monti ha avuto una vera e propria escalation: perché la rete di contatti di altissimo livello che ha coltivato in Europa lo hanno convinto prima di tanti altri che il pericolo era "urgente e grave". Fino all'appello lanciato il 23 settembre a Genova: "Bisogna attuare riforme impopolari mettendo insieme pro tempore le parti più sensibili di ciascuna parte politica". Un'autocandidatura? "Non partecipo al dibattito sui governi tecnici - si è schermito ancora pochi giorni fa - però credo che una certa conoscenza dei problemi non guasti". Ecco, sulla "conoscenza dei problemi" è difficile trovare in Italia un altro curriculum all'altezza del suo. Laureato alla Bocconi nel 1965, specializzato all'università di Yale studiando col Nobel dell'Economia James Tobin (sì, proprio quello della Tobin Tax sulle transazioni finanziarie), Monti si fa rispettare come giovane economista fin dal suo ritorno in Italia per la sua competenza su moneta, banche, finanza. Già nella prima parte della sua carriera colpisce il contrasto fra il carattere sobrio, la pacatezza dei modi, e il coraggio di prendere in contropelo i vizi nazionali: si guadagna la fama di "governatore ombra" della Banca d'Italia perché - a un'epoca in cui Via Nazionale è un'istituzione sacra e intoccabile (negli anni Settanta e Ottanta) - osa contestarne alcune politiche. Esempio: l'eccessiva acquiescenza alle nomine politiche ai vertici delle banche (allora di Stato); e una politica monetaria accomodante verso la spesa facile, all'origine del boom del debito. La stessa grinta, la stessa capacità di non guardare in faccia nessuno, Monti la sfodera a Bruxelles. Dove arriva e rimane grazie a un profilo tecnico al 100%, prima nominato dal governo Berlusconi (18 gennaio 1995) poi confermato dal governo D'Alema nella Commissione europea presieduta da Romano Prodi (dal 1999 al 2004). Come commissario, prima al mercato interno e poi alla concorrenza, Monti osa sfidare quello che all'epoca è "il potere forte" per eccellenza, nella New Economy: la Microsoft di Bill Gates, affrontata in una dura battaglia antitrust. Già allora Monti si fa carico anche del ruolo di "vigilante speciale" sull'Italia. Nella fase degli esami di Maastricht, quando non è affatto scontato che Helmut Kohl e la Bundesbank ci accettino nella nuova Unione monetaria, gli interventi di Monti frustano Roma perché raggiunga il traguardo. E al tempo stesso, giocando di sponda con Carlo Azeglio Ciampi, lui offre ai leader europei il volto di un Italia diversa. Credibile. Capace di mantenere gli impegni presi. La passione europea diventa per lui una sublimazione del patriottismo nazionale: "L'Europe puissance cara ai padri fondatori" è un'espressione che usa spesso. Anche per ricordare che nei trattati del 1957 voluti da Monnet, Schumann, Adenauer, c'era quella "economia sociale di mercato" che resta il suo faro, un modello più valido del neoliberismo nato negli Usa. E' la componente "di sinistra" di Monti - uomo di centro che più di centro non si può - a fargli pronunciare parole che oggi piacerebbero agli "indignati": "La pressione fiscale si è spostata sproporzionatamente sul reddito da lavoro e d'impresa, alleggerendosi invece sulle rendite finanziarie". Monti non esita a denunciare un "mercatismo" che sembra volere imporre ieri alla Grecia e alla Spagna, oggi all'Italia e domani alla Francia, aggiustamenti fatti solo di tagli e austerità. "Il problema è la crescita", ha ricordato di recente. Ma per poter parlare di crescita bisogna prima spegnere l'incendio da panico, ricostruire una fiducia distrutta da Berlusconi. Monti non ha simpatia per un direttorio franco-tedesco. Proprio perché ha mantenuto sempre incarichi di alto livello - la Commissione Attali a Parigi, il think tank Bruegel a Bruxelles, la Trilaterale, il Libro Bianco sul mercato unico per la Commissione Barroso - non soffre complessi d'inferiorità verso le eurocrazie. Sa però che ci siamo cacciati da soli alla periferia: con lo stallo delle riforme, e infine con la nuova tentazione dell'anti-europeismo da campagna elettorale. E' scattato con decisione, non appena ha sentito un Berlusconi pronto a dare la colpa all'euro per la deriva dell'Italia. "L'euro non è in crisi. Ha bassa inflazione ed è stabile, perfino forte, verso il dollaro. Gli attacchi speculativi ci sono, ma non contro l'euro. Se l'Italia ne fosse fuori, emettere titoli italiani in lire sarebbe un'impresa ancora più ardua". Il consenso facile, non è il suo genere. Se ci sarà da "rendere un po' infelice ogni italiano limando i privilegi" lui non si tirerà indietro. La missione, se arriverà, è risalire da un baratro: "L'Italia non è mai stata così decisiva sull'avvenire dell'Europa, e così estranea alle decisioni sull'avvenire dell'Europa". (10 novembre 2011) © Riproduzione riservata da - http://www.repubblica.it/economia/2011/11/10/news/ritratto_monti-24758405/ Titolo: FEDERICO RAMPINI. Intervista a Slavoj Zizek Inserito da: Admin - Novembre 13, 2011, 11:35:12 am Zizek: Crisi del capitalismo, rischi autoritari e utopie possibili
Intervista a Slavoj Zizek di Federico Rampini, da "D", 12 novembre 2011 "Mi vergogno a chiederlo, ma adesso avrei proprio bisogno di zucchero, zucchero puro". Sfido io! È da un'ora che Slavoj Zizek sta seduto davanti a me, nel mio ufficio su Broadway, e praticamente non ha ripreso il fiato. "I francesi mi chiamano scherzosamente Fidel Castro, perché se sono un po' giù di forma parlo tre ore senza interruzione, altrimenti vado avanti per cinque ore". È un fiume in piena, un ciclone, una forza della natura. Ha il senso della battuta, mi provoca osservando che "i giornalisti più bravi sono quelli capaci di farmi dire l'esatto contrario di quel che penso, ma senza cambiare una sola sillaba delle mie parole". Sfodera un sarcasmo pungente, soprattutto quando osserva con distacco la propria vicenda personale e politica: "Quando c'era il comunismo in Jugoslavia mi mettevano al bando dicendo che non ero comunista. Oggi gli stessi comandano in Slovenia, dopo aver cambiato casacca, e a questo punto mi accusano di essere comunista". Passa in rassegna tutti i libri sulla Cina che vede sugli scaffali della mia biblioteca, e d'improvviso vuole sapere se, tra le star del cinema femminile, trovo più sexy Gong Li o Zhang Ziyi. Eccolo qui davanti a me, larger than life (più grande della vita) come direbbero gli americani, l'enfant terrible della filosofia contemporanea Slavoj Zizek. 62 anni, nato a Lubiana, umanista, sociologo, studioso di psicanalisi, ex candidato alle presidenziali in Slovenia, le sue opere sono tradotte nel mondo intero. Lo hanno battezzato un "filostar", con un pizzico di cattiveria, per metterlo nella categoria dei filosofi che sono anche delle star dei media. Filostar è l'ultima versione di quelli che - quand'ero ragazzo - furono i nouveaux philosophes francesi, capaci di unire le dissertazioni colte sulla psicoanalisi lacaniana, l'impegno politico militante, il protagonismo nei talk show televisivi. Però Zizek, proprio contro uno degli ex nouveaux philosophes, Bernard-Henri Lévy, è stato protagonista qui a New York di memorabili scontri nei dibattiti pubblici. Perché lui può essere un polemista formidabile, capace di prendere di petto le mode culturali, sbeffeggiare i suoi colleghi, sconcertare i suoi numerosissimi seguaci. È vulcanico - "Ho appena finito un saggio di mille pagine su Hegel", mi dice dopo avere ingerito qualche bustina di zucchero - alterna la sua vita tra Lubiana (la parte più privata: per stare coi figli, "nessuna vita sociale"), Londra e New York dove ha due incarichi di docente - ma i suoi itinerari sono ben più complicati. Quando lo incontro è appena tornato da Stanford, in California, per un ciclo di conferenze. Qui a Manhattan, oltre a insegnare alla New York University (NYU), è praticamente di casa a Zuccotti Park, dove campeggiano da un mese e mezzo i manifestanti di Occupy Wall Street. Essendo uno dei più autorevoli esponenti del revival mondiale del marxismo, Zizek è considerato un padre teorico del movimento degli "indignati". Eppure, come su ogni altro tema, anche su questo le sue opinioni non sono mai scontate. Anzi, quando lo interpello su questo movimento le sue prime parole sono di pessimismo: "Sì, in questo momento mi definirei moderatamente pessimista. Non vedo alcuna rivoluzione all'orizzonte. Chissà che al contrario non stia per spuntare qualche forma nuova di regime autoritario". Qui in America tornano a fiorire gli studi marxisti, si pronuncia l'espressione "lotta di classe" che era diventato tabù da decenni. Dopo una lunga egemonia della destra culminata col movimento anti-stato del Tea Party, finalmente la piazza torna a essere occupata da un movimento di sinistra. Per lei non è il momento di celebrare? "Partiamo dall'origine di questo movimento, cioè dagli indignados spagnoli. Loro proclamano una totale sfiducia nei politici, ma al tempo stesso usano un linguaggio rivendicativo molto tradizionale. Questo mix di sfiducia e protesta può essere pericoloso. Può spuntare la voglia di un nuovo leader, un capo supremo. Viviamo un'epoca pericolosa, io non appartengo alla sinistra ingenua". Colpisce il consenso raccolto dal movimento Occupy Wall Street: i due terzi dell'opinione pubblica americana si riconoscono nelle ragioni generali della protesta, contro le diseguaglianze, contro le oligarchie della finanza. "L'opinione pubblica capisce che non siamo di fronte soltanto a un problema di corruzione di individui o di alcune categorie, ma che l'intero sistema economico non funziona. E non è solo una crisi del modello neoliberista, esso stesso in larga parte un mito: da Ronald Reagan a George W. Bush il neoliberismo puro non è mai esistito, ciascuno di questi presidenti ha fatto ampio ricorso allo stato quando era necessario". Di fronte a questa crisi sistemica, c'è una riscoperta dei "classici": si torna a parlare di eguaglianza sociale, di giustizia, perfino di socialismo, in una nazione come l'America dove la sinistra era in ritirata da decenni. "È qui che dico che io non appartengo a una vecchia sinistra. Non m'illudo che si possa affrontare questa crisi con un ritorno a ricette del passato. Il XX secolo è davvero finito per sempre, il comunismo appartiene a quel secolo. La fase che attraversiamo mi ricorda un celebre detto di Antonio Gramsci, che si può parafrasare così: il vecchio ordine sta morendo, ma un nuovo ordine non è ancora nato, questo è il momento in cui possono apparire dei mostri. Ecco, io non ho un'idea chiara di quel che sarà il nuovo ordine. Qualcosa di nuovo nascerà, ma non possiamo sapere quali caratteristiche avrà. La mia diagnosi è pessimista: il capitalismo è in una crisi vera. Ma ho osservato con preoccupazione ciò che può accadere come reazione alle crisi, per esempio l'orribile ascesa di una destra xenofoba in tutta l'Europa dell'est. In questi tempi di confusione c'è bisogno di qualche ancora di stabilità morale. Vedo che l'Europa tecnocratica sta franando, ed è accerchiata da ambo i lati: l'ascesa della destra, e i nuovi movimenti di sinistra. Ma se la sinistra non propone un nuovo progetto, vedremo nuove forme di capitalismo autoritario. Non penso al ritorno dei fascismi, semmai a delle forme di edonismo liberale, autoritarismo soft alla Berlusconi, ammantate di una sorta di buddismo occidentale". Lei prende le distanze da ogni nostalgia del XX secolo, e tuttavia le è capitato di definirsi ancora comunista. In che senso? "Poiché sono stato disoccupato per sei anni nel mio paese, a causa delle mie idee, quando ancora c'era un regime comunista in Jugoslavia, non mi faccio alcuna illusione. Credo che il comunismo oggi vale in quanto "la definizione del problema". Il grande problema che la società ha di fronte è il destino dei beni comuni, come l'ambiente. In questo senso mi riconosco nell'interesse che Toni Negri ha per tutta la tematica dei commons, anche se divergo da molte sue affermazioni. Alla sinistra ho tante critiche da fare. In Grecia, per esempio, non perdono alla sinistra di giocare la carta dell'anti-europeismo, e di ignorare le proprie responsabilità nell'avere usato per tanti anni il clientelismo assistenziale. Ma non amo particolarmente neppure la happening hippy left, la sinistra hippy che ama gli happening, di cui c'è qualche componente qui nel movimento Occupy Wall Street: la sinistra deve anche porsi il problema dell'efficienza, deve trasformare questa crisi nell'occasione per costruire un nuovo ordine positivo". Questa è la critica che viene anche dai riformisti più tradizionali. Bill Clinton ha detto del movimento Occupy Wall Street che deve definire al più presto un programma, una lista di obiettivi concreti. "Se la critica è formulata in questi termini, non sono d'accordo. Siamo nella fase iniziale di un movimento, è legittimo che i suoi sbocchi restino aperti. Se lo si incalza troppo, si finisce in una di queste due direzioni: o nell'utopia pura, oppure in una pragmatica richiesta di ottenere più soldi per il welfare state. Né l'una né l'altra strada ci tirerebbero fuori da questa crisi. Io penso che il momento più interessante sarà il day after, il giorno dopo la stagione degli "indignati", quando l'entusiasmo sarà svanito. È allora che vedremo cosa resta, come traghettare verso un nuovo ordine che renda la nostra vita migliore. Per adesso non vedo affiorare idee nuove, certo non dalla Spagna e nemmeno dalla Grecia. La vecchia sinistra non ha risposte, il pragmatismo alla Clinton neppure. Alla fine c'è una sinistra che funziona meglio delle altre ed è quella cinese. Terribile segnale, perché in Cina c'è il divorzio tra democrazia e capitalismo, la prima forma veramente efficiente di capitalismo autoritario. Io mi chiedo spesso se sappiamo cosa sia la Cina: è una nuova forma di capitalismo? Una volta ci ho scherzato sopra, parlando con Francis Fukuyama, che scrisse della "fine della storia" dopo la caduta del Muro di Berlino. "Ha ragione", ho detto a Fukuyama, "il capitalismo ha vinto, però la sua versione più forte è governata da comunisti". Lo sa cosa mi hanno raccontato della Cina? Non so se sia vero, ma sarebbe bello se fosse vero: che tra i vari tabù della censura di Stato, le autorità di Pechino cercano di proibire su internet le "realtà alternative", le società virtuali, e al cinema i censori non amano che la fantascienza raffiguri i viaggi nel tempo. Sarebbe bello in questo senso: vorrebbe dire che almeno i leader cinesi hanno ancora paura che la gente possa sognare". Quando oggi parla del nuovo ordine che può emergere da questa crisi, ma ancora non c'è e si stenta a immaginarne i contorni, si capisce che noi facciamo una gran fatica a sognare. "Eccole una battuta che ho fatto altre volte: noi siamo capaci di immaginare molto facilmente la fine del mondo, un asteroide che colpisce la terra e la distrugge, l'abbiamo vista tante volte al cinema. E invece non riusciamo a concepire un cambiamento sociale anche piccolo. Tutto ci sembra possibile, ma non che si possano dedicare più risorse al welfare. Strano, no? Poi uno va nei paesi scandinavi e scopre un contratto sociale molto diverso dal nostro. Per esempio, là il divario medio tra lo stipendio del chief executive e quello di un dipendente dentro la stessa azienda è di sei a uno, non 600 a uno come negli Stati Uniti. Eppure funziona, la gente lo accetta, non è certo egualitarismo comunista se il capo azienda può guadagnare sei volte più dell'operaio. E le economie dei paesi scandinavi sono competitive. Allora questo ci costringe a interrogarci: che cosa rende socialmente accettabile un certo livello di diseguaglianze? Quello che viene considerato "normale", o addirittura viene presentato come una "legge di mercato" in un paese, è il frutto delle aspettative sociali, dei rapporti di forze, delle battaglie". Quindi la Scandinavia è un'utopia possibile, dove si verifica quotidianamente la praticabilità di una società più equa e solidale. Ma nei suoi discorsi affiora anche un altro esito possibile di questa crisi, una soluzione di tipo autoritario. Siamo ad un remake degli anni Venti e Trenta, quando la Grande Depressione fu affrontata in alcuni paesi con risposte di sinistra (il New Deal di Roosevelt e il Fronte Popolare in Francia, più alcune socialdemocrazie nordiche) ma in Germania portò al potere Hitler? "L'autoritarismo del futuro io lo immagino più simile al vostro Berlusconi, una sorta di Groucho Marx al potere, una commedia ridicola e tuttavia autoritaria. Se cerco una rappresentazione di fantasia, mi viene in mente Brazil, il film di fantapolitica che Terry Gilliam diresse nel 1985. Immagino un autoritarismo berlusconiano nel senso che vedo la possibilità di un assetto politico-sociale molto permissivo verso i piaceri privati, pronto a chiudere un occhio su ogni sorta di orge, pur di favorire la spoliticizzazione". E di Barack Obama, che cosa pensa? "È il primo presidente socialdemocratico degli Stati Uniti. Per questo le reazioni contro di lui sono state così paranoiche. Ma non credo ci sia spazio per un riformismo graduale. Oggi forse la vera utopia - nel senso letterale di un'utopia che non ha luogo, irrealistica - è pensare che le cose possano andare avanti con degli aggiustamenti, senza un cambiamento profondo e radicale". (12 novembre 2011) da - http://temi.repubblica.it/micromega-online/zizek-crisi-del-capitalismo-rischi-autoritari-e-utopie-possibili/ Titolo: FEDERICO RAMPINI. Lettera alla sinistra Inserito da: Admin - Novembre 16, 2011, 11:56:42 am Franco Bianco, 04 novembre 2011, 13:40
Rampini, lettera alla sinistra Dibattito "Pre-recensione" al libro di Federico Rampini uscito due giorni fa, "Alla mia sinistra"; ma sostanzialmente, in queste note, viene sollevato un problema tutto politico: le responsabilità della sinistra (di tutti noi) nell'aver capito tardi e male dove andava a parare la "globalizzazione", ed il problema che essa ha (che tutti noi abbiamo) in ordine alle modalità - se esistono - di uscita dalla crisi Appartengo alla stessa generazione di cui fa parte Federico Rampini. Lui, per la verità, è nato alcuni anni dopo di me, ma in quegli anni fra la seconda metà dei '40 e la metà dei '50 non ci furono discontinuità decisive, il mondo non cambiò molto, e nemmeno l'Italia. Perciò le cose di cui Rampini parla nel suo ultimo libro, ''Alla mia sinistra'', (appena uscito per i tipi di Mondadori: 228 pagg., 18 euro), mi riguardano da vicino, raccontano una storia che la mia (la nostra) generazione ha vissuto con larga partecipazione dei suoi componenti. Di quel libro Rampini ha detto: «Ho voluto sfogliare il mio album di famiglia, la storia che ho vissuto con un pezzo della sinistra italiana, per capire le ragioni delle nostre sconfitte» (giova ricordare, per inquadrare la storia personale, che Rampini, che aveva studiato in luoghi di eccellenza, cominciò a scrivere per ''Città Futura'', che era il settimanale della FGCI, e poi per ''Rinascita'', che era l'organo ''ideologico'' del PCI). Quello che Rampini dichiara di aver voluto fare, con questo suo ultimo testo, è un compito che competerebbe a molti di noi, non possiamo tirarci indietro da una sorta di ''outing collettivo''. Ce lo impone l'onestà verso noi stessi ed il fatto che, come ha scritto Rampini, abbiamo (più o meno) «figli che affrontano, come tutti i loro coetanei, il mercato del lavoro più difficile dai tempi della Grande Depressione», e quindi le vicende che viviamo ancora ci coinvolgono, direttamente ed indirettamente, nel senso che riguardano sia le generazioni ''in uscita'' che quelle che si trovano oggi ad affrontare le condizioni del mondo per costruire il loro futuro; inoltre, non possiamo negare, né a noi stessi né a loro, che di quelle condizioni portiamo, in maggiore o minore misura a seconda delle storie personali, una qualche responsabilità: siamo, come ha scritto Rampini, «una generazione della sinistra occidentale che ha creduto di poter migliorare la società usando il mercato e la globalizzazione». Qualcuno dirà che non è vero, rifiuterà di sentirsi coinvolto, dirà di essere sempre stato contrario a quello che avveniva (la ''mondializzazione'', o ''globalizzazione'', come la si vuol chiamare): francamente non è vero, la contrarietà è venuta dopo, quando ne abbiamo visto (e finalmente capito, con non poco ritardo - su questo anche studiosi di valore, ad esempio Marco Revelli, sono d'accordo) gli approdi, ma c'è stato tutto un lungo tempo nel quale tutti noi, o larga parte, anche a sinistra ed anche nella sinistra che al tempo si definiva ''radicale'', pensavamo che fosse quello lo sviluppo naturale, che in esso consistessero la modernità ed il progresso; ci sembrava che ad esso corrispondesse lo ''sviluppo delle forze produttive'', un concetto che faceva parte della formazione culturale (o ''ideologica'', se si preferisce) di molti di noi: uno sviluppo che eravamo sicuri - lo avevamo letto, lo avevamo introiettato, ce ne eravamo convinti - ci avrebbe condotti verso albe gloriose di ''liberazione'' e di uguaglianza. La storia faceva il suo corso, pensavamo, e la cosa ci tranquillizzava perché eravamo convinti che l'approdo fosse già scritto, che il senso del cambiamento non potesse che andare verso l'avanzamento, e così la vita dei nostri figli sarebbe stata certamente migliore della nostra. Non è stato così, e dobbiamo cercare di capire perché anche per individuare le possibili vie d'uscita dalle difficoltà che ci affliggono: è questo, credo, che Rampini prova a fare nel suo libro. Ci riguarda. Credo che varrà la pena di leggerlo, e tornarci poi su per ragionare sulle risposte che esso fornisce. da - http://www.paneacqua.eu/notizia.php?id=18956 Titolo: RAMPINI. Dalla Casa Bianca un messaggio a Barroso: L'austerità non serve Inserito da: Admin - Novembre 28, 2011, 07:25:34 pm RETROSCENA
Obama e lo spettro di una Lehman mondiale "Subito liquidità illimitata dalla Bce" Dalla Casa Bianca un messaggio a Barroso: "L'austerità non serve". Gli Usa contrari a nuovi aiuti dall'Fmi se non cambia il ruolo dell'istituto di Francoforte dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI NEW YORK - Che la Bce intervenga a offrire liquidità illimitata, per garantire le banche europee più fragili, onde evitare un crac che sarebbe "una bancarotta Lehman all'ennesima potenza". È una raccomandazione che oggi Barack Obama intende consegnare ai rappresentanti dell'Unione europea giunti a Washington. Lo farà con discrezione, per rispetto dell'autonomia della banca centrale. Ma difficilmente l'eurozona otterrà nuovi aiuti dal Fondo monetario internazionale (di cui gli Stati Uniti sono l'azionista di maggioranza relativa) se non cambia qualcosa nel ruolo della Bce. Arginare il credit crunch, lo schiacciamento del credito bancario, per Obama è una priorità da perseguire con la massima urgenza. Lui ricorda bene il pericolo scampato nel 2008 in America: fu il suo battesimo di fuoco, quella bancarotta Lehman, in seguito alla quale le banche smisero di farsi credito tra loro, rischiando così di asfissiare l'economia reale. Obama era ancora un semplice candidato alla Casa Bianca quando si prese la responsabilità di appoggiare il piano Paulson, 700 miliardi di dollari per creare un cordone sanitario attorno alle banche. Ora è convinto che i leader europei devono osare altrettanto. Lo farà capire stamane a Herman van Rompuy e Jose Barroso, accogliendoli alla Casa Bianca per il vertice annuo Usa-Ue. Userà i suoi due ospiti come "messaggeri", perché riferiscano a chi di dovere: Angela Merkel, l'unica che può sbloccare l'impasse europea. Obama teme che la Merkel e gli altri leader non abbiano ancora colto tutta la gravità della situazione, ha l'impressione che sottovalutino la velocità con cui una crisi di sfiducia dei mercati può precipitare verso esiti irrimediabili. Gli eventi delle due ultime settimane lo hanno allarmato. Obama aveva salutato - dal vertice Apec di Honolulu, il 12 novembre - i "positivi sviluppi in Italia e in Grecia", l'avvento dei governi Monti e Papademos. La settimana scorsa ha osservato con costernazione le nuove convulsioni di sfiducia: i tassi record sui bond italiani e spagnoli, il downgrading del Belgio, i tremori che lambiscono Austria, Francia, la stessa Germania. I progetti di Europa a due velocità, revisioni dei trattati, sanzioni fiscali automatiche sui paesi indisciplinati, tutto questo a Washington appare irrilevante nell'immediato: le risposte vanno date subito, entro pochi giorni o al massimo settimane, non mesi o anni. Ora Obama ha un potere contrattuale per far leva sulla Merkel. E' proprio la Germania ad avere chiamato indirettamente in gioco il presidente americano. Venerdì a Berlino i tre ministri delle Finanze tedesco olandese e finlandese (guarda caso i tre paesi che la speculazione vede come candidati a una "mini-unione" dei forti) hanno firmato un comunicato congiunto per chiedere al Fmi di giocare un ruolo più importante nella costruzione della "muraglia anti-incendio" che deve impedire la disgregazione dell'euro. E' l'ammissione implicita che il fondo salva-Stati dell'eurozona (Efsf) non basta già più. Ma per mettere in campo la potenza di fuoco del Fmi è indispensabile il via libera degli Stati Uniti. Un passo non facile, in piena campagna elettorale: Obama dovrà spiegare ai suoi contribuenti perché l'America deve contribuire a finanziare il salvataggio dell'euro, mentre in casa propria è l'ora dei tagli di bilancio. Obama ha cominciato a preparare il terreno, dichiarando che "non ci sarà crescita negli Stati Uniti e nell'economia globale, finché l'eurozona non avrà risolto i suoi problemi". L'emergenza euro dunque tocca gli interessi vitali degli Stati Uniti, minacciando la ripresa. Ma cosa chiederebbe Washington agli europei, come contropartita per un via libera a nuovi aiuti del Fmi? Il ruolo della Bce è uno degli aspetti cruciali per Obama: nella banca centrale lui vede un possibile argine contro i default a catena che possono travolgere gli istituti di credito europei. Per vincere le resistenze tedesche, gli americani agitano scenari da Apocalisse: i crac bancari porterebbero a una deflagrazione sistemica, una nuova paralisi dei mercati finanziari perfino peggiore di quella avvenuta nel 2008. L'intero commercio mondiale subirebbe un colpo durissimo. Non parliamo poi della disgregazione dell'euro: i grandi studi legali di New York e Londra hanno già cominciato a "simulare" il boom del contenzioso giuridico che si aprirebbe all'indomani dell'uscita di questo o quel paese, per stabilire come andrebbero convertiti tutti i contratti denominati in euro. Sarebbe la fine del mercato unico europeo, un ritorno delle restrizioni valutarie, un balzo indietro con effetti disastrosi per i maggiori partner commerciali dell'Europa, America e Cina. Ma non è solo di finanza che Obama vuol parlare con i rappresentanti Ue. Ha un messaggio che riguarda la crescita: non c'è risanamento possibile dei conti pubblici, se si ricade nella recessione. Quando l'economia decresce, l'unico valore che sale sono i debiti. La Casa Bianca addita l'esempio dell'Irlanda: virtuosa nell'applicare le ricette rigoriste dettate da Berlino e Bruxelles, ha visto la disoccupazione salire al 14%, e i tassi sui suoi bond sono tuttora all'8%, superiori a quelli italiani. (28 novembre 2011) © Riproduzione riservata http://www.repubblica.it/economia/2011/11/28/news/obama_liquidit_bce-25708542/ Titolo: FEDERICO RAMPINI. C’è un futuro per il capitalismo: ma quale? Inserito da: Admin - Febbraio 06, 2012, 08:52:42 am C’è un futuro per il capitalismo: ma quale?
di Federico Rampini, da http://rampini.blogautore.repubblica.it Il capitalismo ha un deficit mortale: di autostima. La crisi di fiducia in se stesso traspare dai dibattiti che animano due dei più influenti media economico-finanziari. Il Financial Times e The Economist dedicano inchieste, dibattiti e analisi a un interrogativo esistenziale: quella che viviamo è una crisi “terminale” o è ancora curabile all’interno delle regole di un’economia di mercato? Ha più probabilità di sopravvivenza il capitalismo di Stato che governa i Bric, cioè Cina India Brasile Russia? Martin Wolf, l’economista più autorevole del Financial Times, ammette che l’idea di una “estinzione” del capitalismo oggi ha ancora più peso di quanto ne avesse quattro anni fa nell’epicentro della recessione. “Nel 2009 – osserva Wolf – dedicavamo una serie di inchieste al futuro del capitalismo, oggi abbiamo cambiato il titolo e il dibattito ruota sul capitalismo in crisi”. La ragione: cinque anni dopo il disastro sistemico del 2008, non ne siamo ancora usciti. Tramonta ogni illusione di avere a che fare con un normale evento ciclico, nella fisiologica “distruzione creatrice”. Chiamando a raccolta i migliori intelletti del mondo angloamericano, il Financial Times conclude che per sopravvivere il capitalismo deve affrontare sette sfide. Sono sette temi familiari, in cima alle preoccupazioni dell’opinione pubblica, presenti nell’agenda dei governi e sugli schermi radar degli espertti. Al primo posto c’è la questione sociale: lavoro e diseguaglianze. Questo capitalismo ha generato società sempre più ineguali e la sua capacità di creare occupazione declina paurosamente. Le cause sono state individuate in passato nella globalizzazione e nel progresso tecnologico; più di recente si è rafforzata la scuola di pensiero secondo cui le diseguaglianze sono “fabbricate” da un sistema politico dove le oligarchie esercitano un’influenza spropositata. A questo sono collegati altri tre temi. La questione fiscale, che ieri Barack Obama ha messo al centro del suo discorso sullo Stato dell’Unione: il finanziamento della spesa pubblica si è spostato in modo anomalo sul lavoro dipendente, alleggerendo il capitale. Il dinamismo dell’economia di mercato necessita di profonde riforme fiscali, tanto più in una fase di shock demografico per l’arrivo all’età pensionabile delle generazioni più popolose. Terza questione, il rapporto fra democrazia e denaro; non è solo politica ma anche economica, perché la deriva oligarchica è una “inefficienza” che distorce sistematicamente le decisioni collettive, vedi le lobby scatenate contro le riforme del governo Monti. Quarto tema nell’elenco del Financial Times è la riforma del sistema finanziario, un cantiere ancora largamente bloccato nonostante lo shock del 2008. La finanza ha sempre avuto una tendenza degenerativa, analizzata dal grande economista Hyman Minsky: dall’arbitraggio delle opportunità si scivola verso la speculazione, da questa si precipita nella frode. E’ una storia antica ma le potenzialità distruttive sono amplificate dalla dimensione e interconnessione dei mercati finanziari moderni. E’ impossibile aggredire le patologie del sistema bancario senza affrontare la questione della corporate governance (numero cinque): l’azienda moderna ha tradito i principi di responsabilità e di controllo, nel momento in cui l’élite manageriale si è affrancata dagli azionisti, per esempio fissando paghe sempre più stratosferiche e inappellabili. Il problema numero sei è la questione dei “beni pubblici” in una economia globale: il mercato si è rivelato un meccanismo inadeguato a gestire beni universali ma scarsi come l’acqua, l’aria, le risorse naturali; la sicurezza o l’accesso all’istruzione. Infine, la settima emergenza riguarda la gestione delle “macro-instabilità” e la concorrenza tra sistemi-paese. Il mercato rischia di incoraggiare una competizione al ribasso: in cui tutti i problemi elencati sopra (diseguaglianze, bassa tassazione dei capitali, saccheggio ambientale) si risolvono in una rincorsa del peggiore, verso il minimo comune denominatore. Ci sono però indicazioni contrarie: per esempio società fortemente egualitarie o meno ingiuste della media (Germania e paesi nordico-scandinavi) che si dimostrano competitive nella globalizzazione. La questione della concorrenza tra sistemi è quella evocata dall’Economist nell’inchiesta sul ritorno del capitalismo di Stato. La Cina è un modello alternativo la cui forza contribuisce al crollo di autostima dell’Occidente. Anche India Brasile e Russia hanno governi in vario modo dirigisti. L’Economist approda a una conclusione consolatoria: nella storia del capitalismo, la formula statalista ha sempre avuto fortuna nelle fasi di decollo iniziale (dalla Prussia al Giappone, all’Italia dell’Iri), poi con l’arrivo alla maturità le crepe del modello dirigista diventano evidenti. In passato però la crisi dei capitalismi di Stato si confrontava con la forza del paradigma “puro”, quello americano: oggi invece anche nel cuore di questo modello originario il dubbio esistenziale ha messo radici. (2 febbraio 2012) da - http://temi.repubblica.it/micromega-online/c%E2%80%99e-un-futuro-per-il-capitalismo-ma-quale/ Titolo: FEDERICO RAMPINI. Occupazione Usa: ancora meglio di quanto sembra. Inserito da: Admin - Marzo 10, 2012, 04:20:33 pm 10
mar 2012 Occupazione Usa: ancora meglio di quanto sembra. Federico RAMPINI 227.000 posti di lavoro “netti” creati a febbraio, ma forse una notizia ancora migliore è quella nascosta dietro un numero che è rimasto fermo: il tasso di disoccupazione pari all’ 8,3% della forza lavoro. Come può restare invariata quella percentuale, se l’occupazione cresce? La spiegazione sta nel fatto che finalmente tornano a presentarsi sul mercato del lavoro i “disoccupati scoraggiati”, cioè tutti coloro che nella fase più dura della crisi avevano smesso di cercare un posto e quindi erano scomparsi dal conteggio della forza lavoro. Lo conferma il fatto che la partecipazione alla forza lavoro è salita dal 63,7% al 63,9% della popolazione attiva, a sua volta in crescita perché gli Stati Uniti continuano ad avere un saldo demografico positivo (nascite più immigrazione). Un altro dato interessante riguarda la composizione per sessi: nel corso degli ultimi due mesi la ripresa è decisamente “rosa”. Dall’inizio dell’anno le assunzioni aggiuntive hanno riguardato due volte più donne che uomini. In totale gli occupati maschi sono oggi 75,3 milioni, le donne sono 66,7 milioni. L’andamento positivo dell’occupazione si aggiunge ad altri indicatori tutti convergenti: la fiducia dei consumatori migliora da mesi, come pure l’attività manifatturiera. Resta debole invece la dinamica delle retribuzioni, col salario medio che è cresciuto in modo impercettibile da un mese all’altro (da 23,28 dollari l’ora a 23,31) ma la moderazione salariale può contribuire a invogliare le assunzioni da parte delle imprese. Complessivamente, nell’arco degli ultimi due anni l’economia americana ha aggiunto 3,9 milioni di posti di lavoro, al netto dei licenziamenti. E’ finalmente fugato lo spettro della “jobless recovery”, cioè la ripresa senza creazione di nuova occupazione, così com’era apparsa nella prima fase post-recessione. Qualcosa può ancora far deragliare questa locomotiva americana? Nessuno ha dimenticato quel che accadde esattamente un anno fa, quando ci fu una “finta ripresa”, poi abortita. I mesi di febbraio, marzo e aprile del 2011 registrarono tutti degli aumenti netti di occupazione superiori alle 200.000 unità. Poi però ci furono lo tsunami in Giappone e la crisi dell’eurozona, il pessimismo contagiò gli Stati Uniti, e la seconda metà dell’anno fu segnata da un rallentamento. Ora all’orizzonte c’è un altro tipo di minaccia, un possibile conflitto tra Israele e l’Iran che coinvolgerebbe gli Stati Uniti e potrebbe far schizzare ancora più su il prezzo del petrolio. Fatta salva questa incognita, è ovvio che i dati dell’occupazione hanno un impatto politico favorevole a Barack Obama e contrario ai suoi avversari repubblicani. Pur evitando il trionfalismo, ieri il presidente ha salutato il fatto che “stiamo uscendo dalla più grave crisi economica della nostra generazione”. da - http://rampini.blogautore.repubblica.it/2012/03/10/occupazione-usa-ancora-meglio-di-quanto-sembra/ Titolo: FEDERICO RAMPINI. La caduta di Bo Xilai e la connection americana Inserito da: Admin - Aprile 21, 2012, 03:45:31 pm 21
apr 2012 La caduta di Bo Xilai e la connection americana Federico RAMPINI La caduta del potente Bo Xilai “sfiora” perfino Barack Obama, getta nell’imbarazzo il Dipartimento di Stato, la destra americana vuole saperne di più sul ruolo avuto dall’ambasciata Usa di Pechino. Su Newsweek un celebre sceneggiatore di Broadway vede in questa storia un musical più affascinante di “Evita”, con tanto di donna-drago, la crudele assassina Gu Kailai nei panni della co-protagonista. New York Times e Wall Street Journal sbattono la storia in prima pagina da diversi giorni. L’America è ipnotizzata dal “thriller” cinese che di colpo mette a nudo i segreti di un regime impenetrabile, i vizi dell’oligarchia comunista più potente del mondo, insieme con una trama esotica di amori proibiti, lusso sfrenato, omicidi con avvelenamento. E spionaggio? Una coda dello scandalo lambisce perfino la reputazione della più prestigiosa università americana, Harvard. E’ in questa università di eccellenza, nella più esclusiva delle sue facoltà – la John Kennedy School of Government dove si applicano le teorie di management alla governance e all’amministrazione pubblica – che studia il figlio del deposto gerarca comunista. A 24 anni, Bo Guaga è su tutti i giornali e rotocalchi americani, fotografato in pose che non farebbero troppo scandalo se lui fosse un qualsiasi figlio di papà: lo si vede in party notturni, o al tavolo di lussuosi ristoranti, abbracciato da bionde avvenenti. Ma Bo è “figlio di papà” in un paese dove quelli come lui li chiamano “principini”, con un misto di invidia e di indignazione. La stampa comunista di Pechino si è impadronita delle sue gesta notturne – compreso quando ha “urinato su un recinto universitario”, in stato di ubriachezza – e della sua pagina Facebook, come esempio di uno stile di vita decadente. Il padre ha tentato di difendersi: “Non è vero che mio figlio gira in Ferrari, in quanto alla retta di Harvard non la pago io, perché si è meritato una borsa di studio”. Già, 90.000 dollari l’anno è il costo complessivo per frequentare la School of Government, un po’ troppo per lo stipendio ufficiale di un funzionario comunista, sia pure di alto grado. Sulla borsa di studio, le autorità accademiche di Harvard si chiudono in un silenzio imbarazzato. Rispetto della privacy, dicono. Aggiungono che nell’erogare borse agli studenti la super-facoltà adotta un approccio “olistico” che tiene conto non solo del talento accademico ma anche delle “potenzialità di leadership”. Altrove questo approccio “olistico” si chiamerebbe opportunismo, o servilismo verso i rampolli di Vip stranieri che hanno delle “connection” da offrire. In quanto alla Ferrari: per la precisione Bo Guaga la guidava a Pechino, la sera che andò a prelevare la figlia dell’ambasciatore americano per un appuntamento galante. A Harvard, dicono i suoi compagni, lo si vedeva al volante di una Porsche. Dettagli scomodi, nella posizione in cui si trova suo padre oggi. Tanto più che nella stessa Harvard ci sono altri “principini” cinesi che hanno un profilo più basso. La più importante è Xi Mingze, la figlia di Xi Jinping che alla fine di quest’anno salirà al trono della Cina comunista, sostituendo l’attuale leader Hu Jintao nelle massime cariche del paese. La ragazza è decisamente più prudente: usa quasi sempre un falso nome. E non ha mai avuto una pagina su Facebook. Harvard è solo una parte della “connection americana” nel più grave scandalo cinese da molti decenni. In realtà tutto “il caso Bo Xilai” diventa visibile solo quando, il 6 febbraio scorso, il consolato Usa di Chengdu nella provincia del Sichuan accoglie un “rifugiato politico” molto particolare. A chiedere asilo ai diplomatici americani quel giorno è Wang Lijun, vicesindaco della megalopoli di Chongqing ed ex braccio destro di Bo Xilai che all’epoca è ancora (o sembra essere) all’apice della sua potenza. Wang è soprattutto il vero capo della polizia di Chongqing, l’uomo che per anni ha assecondato Bo nei suoi metodi feroci per la scalata a potere e ricchezza: arresti arbitrari, violenze poliziesche, ricatti ed estorsioni contro i capitalisti locali o gli avversari politici. Ma quel che accadde “dentro” il consolato Usa di Chengdu, è un mistero che appassiona gli americani e si trasforma in una controversia politica. Perché il consolato il 6 febbraio avvertì immediatamente l’ambasciata a Pechino; e da lì la vicenda fu riferita alla Casa Bianca. Dunque Obama sapeva. Al Congresso di Washington è stato paragonato al film di fanta-spionaggio “Bourne Supremacy”. I repubblicani ora incalzano: “Perché Wang fu riconsegnato alla polizia cinese? Quali informazioni poteva fornire agli Stati Uniti sulle lotte al vertice del regime di Pechino? Quali passi sono stati compiuti, oppure omessi, per meglio tutelare la sicurezza degli Stati Uniti e anche l’incolumità di Wang?” Sono domande contenute nell’interrogazione di Ileana Ros-Lehtinen, la potente deputata repubblicana della Florida che presiede la commissione Esteri della Camera. Domande rivolte a Hillary Clinton. Il segretario di Stato finora ha evitato di rispondere. Ad accrescere l’imbarazzo c’è una coincidenza di date: quel 6 febbraio in cui il superpoliziotto Wang andò a consegnarsi alla diplomazia americana, mancava solo una settimana alla visita di Stato del futuro numero uno cinese a Washington, Xi Jinping. La destra Usa insinua che Obama avrebbe “svenduto” un disertore di altissimo rango e di interesse strategico per gli americani, al fine di non compromettere il summit con Xi. La diplomazia Usa lascia filtrare una versione diversa: Wang in realtà non puntava a essere estradato negli Stati Uniti bensì voleva arrendersi alla polizia centrale di Pechino. Altrimenti sarebbe finito nelle mani degli agenti fedeli a Bo e alla diabolica consorte. E rischiava di fare la stessa fine del businessman inglese Neil Heywood: l’ex amante che la First Lady di Chongqing avrebbe fatto uccidere da un domestico col veleno. A proposito: Heywood fu anche l’uomo chiave per le “promozioni” accademiche del figlio… “Madame Butterfly si mescola con Agatha Christie: è una trama stupenda”: lo sceneggiatore David Henry Hwang, unico sino-americano che ha sfondato a Broadway, si dice pronto a portare questa storia sulle scene. “Stranger than Fiction”, intitola Newsweek, la fantasia narrativa fatica a tenere il passo con il ritmo di questi colpi di scena. da - http://rampini.blogautore.repubblica.it/?ref=HROBA-1 Titolo: FEDERICO RAMPINI. Wall Street sotto accusa: i soliti noti colpiscono ancora Inserito da: Admin - Maggio 13, 2012, 05:52:51 pm 12
mag 2012 Wall Street sotto accusa: i soliti noti colpiscono ancora Federico RAMPINI Torna la rivolta contro i banchieri, dopo il buco di 2 miliardi alla JP Morgan. Prima di Occupy, stavolta si muovono i leader democratici: basta con la lobby di Wall Street che sabota le riforme. Il capo di JP Morgan Jamie Dimon (foto in basso a destra) fu alla testa degli sforzi per svuotare di contenuti la nuova normativa dei mercati, e ritornare alle speculazioni azzardate del 2008. Lo scandalo gioca in favore di Obama, perché Romney ha fatto fortuna proprio nel mondo della finanza e continua a difendere l’approccio liberista che vede nelle regole e nei controlli un freno alla crescita. E’ difficile immaginare che esista una giustizia divina sui mercati finanziari, però qualcosa di molto simile a un fulmine provvidenziale ha colpito Dimon, il chief executive di JPMorgan Chase. E’ la stessa “sentenza del fato” che ha riscattato trionfalmente Paul Volcker (foto in basso a sinistra), l’ex presidente della Federal Reserve trasformatosi nel più feroce castigatore di Wall Street. Il weekend si è chiuso, provvisoriamente, sull’uno a zero nel match tra Dimon e Volcker. Il disastro in cui è incappata la JP Morgan Chase, che è la più grande banca americana e forse mondiale (a meno di prendere sul serio certe ipervalutazioni di Borsa delle cinesi), ha una valenza politica fortissima qui negli Stati Uniti. Dimon, anche se gioca il ruolo del “banchiere gentile” perché ha un certo dono per la comunicazione e una parlata molto soft, si è distinto dopo la crisi del 2008 per la sua accanita resistenza contro le riforme dei mercati finanziari. In particolare, Dimon ha preso di mira la “regola Voclker”, quella cioè che dovrebbe impedire alle grandi banche americane di fare scommesse speculative usando mezzi propri. Questa regola è al centro di una battaglia politica furibonda. In linea di principio, è stata accolta nella legge Dodd-Frank approvata dal Congresso su spinta di Barack Obama. In pratica, come molti contenuti della Dodd-Frank, la regola Volcker attende di essere precisata attraverso i regolamenti interpretativi a cui stanno lavorando diverse authority dei mercati. Ed è in questa fase che la lobby bancaria ha scatenato un’offensiva poderosa, guidata proprio da Dimon, per svuotare di fatto la regola Volcker. Dandone un’interpretazione molto elastica, perfino vaga, si può consentire che i grossi investimenti speculativi passino “sotto” i radar e i divieti, presentandosi come “coperture dal rischio”. Ahi! Guarda caso, “copertura dal rischio” è proprio la definizione dell’attività che ha creato il buco di 2 miliardi di dollari nel bilancio JP Morgan. Non è un incidente dovuto a qualche “trader-canaglia”, no: le operazioni compiute sul mercato di Londra dallo “squalo” Bruno Iksil, com’era stato battezzato dai colleghi, erano tutte ben note al top management di JP Morgan, incluso Dimon. Erano proprio quelle operazioni che la regola Volcker, se definita e applicata nel modo più rigoroso, renderebbe illegali e vietate alle grandi banche. Come dire: la JP Morgan si è “sparata su un piede” proprio mentre la sua battaglia politica era vicina alla vittoria: passata la grande crisi bancaria, l’opinione pubblica si è distratta, e fino a venerdì scorso il clima era favorevole per l’offensiva delle lobby che sono maestre nell’arte di “lavorare ai fianchi” i parlamentari e le authority. Ora di colpo il partito dei riformatori si è risvegliato, ha ripreso vigore. Il senatore Carl Levin, un democratico del Michigan che segue da vicino l’attuazione della Dodd-Frank, ha dichiarato: “L’enorme perdita della JP Morgan è la prova che quella che i banchieri chiamano la copertura del rischio in realtà nasconde operazioni rischiose, che devono essere proibite a quelle aziende di credito che sono troppo grosse per essere lasciate fallire”. E pensare che poco tempo fa Dimon si permetteva di dileggiare Volcker: “Non capisce niente dei mercati di capitali”, dichiarò il chief executive di JP Morgan in una recente intervista alla rete Fox Business. Dimon ricamava così sulla famosa battuta di Volcker secondo lui “l’ultima innovazione bancaria di qualche utilità fu il Bancomat”. Sante parole, di uno che i mercati finanziari li capisce fin troppo bene. da - http://rampini.blogautore.repubblica.it/?ref=HROBA-1 Titolo: FEDERICO RAMPINI. Crescita zero e banche centrali umiliate Inserito da: Admin - Luglio 07, 2012, 11:15:09 am Lo scenario
Crescita zero e banche centrali umiliate L'intervento congiunto sui tassi di giovedì non è bastato a ridare fiducia alle Borse. L'euforia per il summit Ue è scomparsa in 48 ore. Ora occhi puntati sulla Fed. E sul motore bloccato da cui tutto parte: l'economia reale dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI NEW YORK - Crescita "anemica" in America col tasso di disoccupazione inchiodato all'8,2%. La Triplice delle banche centrali umiliata dai mercati. Il nodo delle banche spagnole torna a dominare le paure: ormai all'ordine del giorno c'è un salvataggio della Spagna come Stato sovrano, non dei singoli istituti. Il Fondo monetario estende l'allarme per un rallentamento a tutte le ex-locomotive emergenti, dalla Cina all'India. Quattro colpi duri, quattro sviluppi nefasti in sole 48 ore. La settimana si è chiusa in un clima completamente rovesciato rispetto all'euforia del 29: ogni illusione suscitata da quel summit Ue si è già dissipata da tempo. L'ultimo venerdì di giugno sembra una data lontanissima nella storia, per il ritmo convulso degli eventi. La realtà si è presa la sua rivincita, e dice che nulla è cambiato nell'eurozona otto giorni fa. La Spagna per collocare tra gli investitori i suoi titoli del Tesoro è costretta di nuovo a offrire rendimenti vicini al 7%: cioè insostenibili nel medio-lungo periodo. Avevano ragione dunque quei "maligni" del fronte euroscettico angloamericano, dai grandi media Usa agli uffici studi delle banche di Wall Street e di Londra, che non credettero alla versione del trionfo di Mario Monti su Angela Merkel. Lo scudo anti-spread si è già arenato di fronte alla minaccia di un veto della Finlandia e a quella - ben più sostanziale - della Csu bavarese che è parte della coalizione di governo a Berlino. Dunque non ci saranno i massicci e risolutivi acquisti di bond italiani e spagnoli per arginare l'escalation dei rendimenti. Peggio: neppure l'operazione-salvataggio delle banche spagnole va in porto come si era sperato e creduto al summit del 29. La novità risolutiva in quel caso doveva essere la ricapitalizzazione diretta: fondi travasati dall'Europa alle banche stesse, senza passare attraverso il Tesoro di Madrid. Era indispensabile quel passaggio diretto, per spezzare "il circolo vizioso tra debiti bancari e debiti sovrani", così era stato spiegato a Bruxelles otto giorni fa. Chiaro: bisognava evitare cioè l'effetto perverso di un'esplosione del debito pubblico spagnolo, che è automatica se gli aiuti transitano prima sul bilancio dello Stato. E invece il "circolo vizioso" è vivo e vegeto, più funzionante che mai. Con una giustificazione iper-tecnicistica: l'attuale fondo salva-Stati Efsf non può ricapitalizzare direttamente le banche, potrà farlo solo il suo successore Esm quando sarà nato, in futuro. Arrivarci, al futuro. La ragione vera è politica. Angela Merkel ha detto sì alla ricapitalizzazione diretta delle banche spagnole solo "dopo" che sarà creata una vera vigilanza europea su tutti gli istituti di credito. Richiesta logica e ragionevole. Ma i mercati hanno capito subito che ciò equivale a rinviare tutto verso orizzonti lontani: della vigilanza europea si parla da tempo, le resistenze nazionali sono enormi, quella European Banking Authority che doveva esserne l'embrione è una patetica e impotente caricatura. La Bce di Mario Draghi ha le sue reticenze e riserve sull'argomento, per non essere in conflitto d'interessi chiede una separazione rigida, una "muraglia cinese" fra i due mestieri di prestatore di ultima istanza e di guardiano dei suoi "clienti" (i banchieri). Insomma ci vorranno ancora mesi, se non anni, perché qualcosa di concreto appaia. Nel frattempo gli investitori stanno suonando le campane a morto per la Spagna, i rendimenti che esigono per sottoscrivere i suoi bond la spingono inesorabilmente verso il default. Ora si torna a parlare di un vertice "risolutivo", stavolta è l'Ecofin di questo lunedì: ma ormai l'eurozona ha speso le ultime riserve di credibilità, a furia di evocare la sua "ultima spiaggia" forse ci sta arrivando davvero. Il disastro dell'eurozona ha già contagiato ampiamente il resto del mondo. Non lo dice solo la direttrice del Fmi Christine Lagarde che ammonisce sul rallentamento generalizzato dagli Stati Uniti ai Brics. Lo dicono soprattutto le reazioni dei mercati al "giovedì della Triplice", la giornata in cui Bce, banca centrale inglese e cinese sono intervenute simultaneamente con tagli dei tassi d'interesse e pompaggio di liquidità d'emergenza. Un flop micidiale, un buco nell'acqua, che non ha ricostituito la fiducia neanche per pochi minuti. Uno spettacolo d'impotenza disarmante, che si riverbera adesso anche sulla più potente e rispettata delle banche centrali, la Federal Reserve americana. Saprà essere efficace lei, dove le altre hanno fallito? Le attese di un intervento salvifico della Fed si sono rafforzate ieri, dopo un altro dato deludente sul mercato del lavoro americano. Appena 80.000 posti di lavoro in più, il saldo netto del mese di giugno fra nuove assunzioni e licenziamenti: pochi, troppo pochi per un'America che è uscita dalla recessione con 15 milioni di disoccupati (reali). E infatti con una crescita così debole il tasso di disoccupazione resta inchiodato all'8,2%, un record storico per un periodo così prolungato dal dopoguerra. La Fed ha il dovere istituzionale di agire contro la disoccupazione, questo ne ha sempre fatto una banca centrale più interventista e risoluta di altre. Ha anche interesse a non lasciare che s'indebolisca troppo l'euro, perché già ieri a quota 1,22 era avviato su un piano inclinato che non piace all'industria esportatrice americana. Ma la Fed è entrata da tempo nel suo "semestre bianco": il banchiere centrale Ben Bernanke deve meditare se gli convenga agire troppo energicamente quando manca così poco all'elezione presidenziale. Il 6 novembre potrebbe vincere il repubblicano Mitt Romney, che al momento del rinnovo dei vertici della Fed forse si vendicherebbe contro chi ha aiutato troppo Barack Obama. Più ancora dell'elezione, un'altra angoscia esistenziale attanaglia Bernanke: e se la Fed dovesse fallire, come hanno fallito le sue consorelle dall'Europa alla Cina? Il tasso d'interesse negli Usa è già a quota zero: da tre anni e mezzo. Le precedenti operazioni di massiccia iniezione di liquidità hanno fornito una "droga leggera" a Wall Street e alle banche Usa, ma non hanno sostanzialmente rinvigorito l'economia reale. La politica monetaria ha dei limiti, conosciuti fin da quando li studiò John Maynard Keynes durante la Grande Depressione. Esiste una "trappola della liquidità", nella quale la moneta viene inghiottita e scompare: se manca fiducia tra i consumatori e le imprese, il denaro può anche costare zero ma nessuno lo prende e lo spende. Draghi lo ha ricordato usando un'altra immagine: "Non si può spingere con una corda". Un suo predecessore alla Banca d'Italia, Guido Carli, aveva coniato l'espressione "il cavallo non beve". Negli Stati Uniti uno studioso della Depressione come Bernanke ha immaginato ogni possibile "offensiva anti-convenzionale" fino a ipotizzare una Fed che manda elicotteri a lanciare banconote su tutti gli Stati Uniti: resta da verificare che i consumatori beneficiati dalla manna celeste la vadano a spendere, non a tesaurizzare per accumulare un risparmio precauzionale (o per ripagare i propri debiti). Il Fondo monetario evoca un altro Armageddon entro la fine dell'anno: nella stasi tra Obama e la Camera a maggioranza repubblicana, scatterebbero degli aumenti automatici d'imposte riducendo ulteriormente il reddito disponibile e il potere d'acquisto delle famiglie. È quello il motore bloccato su cui il Fmi attira l'attenzione: l'economia reale, a cui nessuno sta rifornendo il carburante. (07 luglio 2012) © Riproduzione riservata da - http://www.repubblica.it/economia/2012/07/07/news/crescita_zero_banche_centrali_umiliate_cos_la_crisi_dell_euro_contagia_il_mondo-38669105/?ref=HRER2-1 Titolo: FEDERICO RAMPINI. Obama blocca progetto eolico di Pechino "Questione di ... Inserito da: Admin - Settembre 30, 2012, 02:06:01 am STATI UNITI
Obama blocca progetto eolico di Pechino "Questione di sicurezza nazionale" Il presidente si avvale di un raro potere di veto per fermare l'acquisto di impianti da parte dell'azienda cinese Ralls. Intanto Romney lo accusa di non essere stato abbastanza duro nei confronti della concorrenza sleale dei progetti "made in China" dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI NEW YORK - Niente eolico, siete cinesi. Barack Obama sfodera un raro veto presidenziale per bloccare l'acquisizione di impianti di energia eolica da parte della Ralls, azienda cinese. Anzi, per cacciarla, visto che la Ralls l'investimento lo aveva già fatto: all'inizio dell'anno era diventata proprietaria di quattro centrali eoliche nell'Oregon. E' da 22 anni che un presidente americano non usava questo potere. La vicenda è complicata da ramificazioni militari, e dalla coincidenza con la campagna elettorale. Obama ha invocato l'interesse strategico, per costringere la Ralls a "disinvestire", espropriandola. Il sospetto che i cinesi avessero altre finalità, oltre alla produzione di energia eolica, nasce dal fatto che quelle centrali si trovano vicino a una base della U. S. Navy. E non una base qualsiasi: dalla Naval Weapons Systems Training Facility di Broadman vengono effettuati voli di addestramento per i droni e altri velivoli ad alta capacità tecnologia. I cinesi usavano l'eolico come copertura per spiare? Forse. L'intervento di Obama, pur se inusuale, rientrerebbe nella stessa logica per cui il Congresso sbarrò la strada a Cnooc (petrolio) e Huawei (elettronica e telecom) nei loro progetti di investimento. Ma l'altra coincidenza è quella con il voto. In campagna elettorale, guai a chi presta il fianco all'accusa di "intesa con la Cina". Mitt Romney attacca Obama per non essere duro con i cinesi per la loro concorrenza sleale. I democratici ribattono con accuse altrettanto pesanti: nel periodo in cui dirigeva Bain Capital, Romney sarebbe stato protagonista di diverse operazioni di delocalizzazione in Cina. (28 settembre 2012) © Riproduzione riservata da - http://www.repubblica.it/esteri/2012/09/28/news/cina-43495850/?ref=HREC2-4 Titolo: FEDERICO RAMPINI. Bitcoin, la moneta virtuale rischia di scoppiare Inserito da: Admin - Aprile 13, 2013, 11:21:06 pm Bitcoin, la moneta virtuale rischia di scoppiare
Nessuna autorità controlla, quotazioni in altalena. Il valore circolante supera il miliardo di dollari e molti siti la accettano per i pagamenti. Le banche centrali, le uniche abilitate all'emissione, spiazzate dai guru del web dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI NEW YORK - Una nuova bolla speculativa eccita la fantasia degli americani: dopo le case, dopo l'oro, ecco il boom delle Bitcoin, cioè monete digitali. E' nata come un gioco virtuale, ma ha preso piede rapidamente nella Silicon Valley e ora cresce il numero di esercizi commerciali e società online che l'accettano come mezzo di pagamento. I "re" di questa speculazione sono i celebri gemelli Cameron e Tyler Winklevoss già soci di Mark Zuckerberg alla fondazione di Facebook, immortalati dal film The Social Network. C'è chi paragona il fenomeno alla "febbre dei tulipani", la prima bolla speculativa narrata nelle cronache del capitalismo mercantile, nell'Olanda del Seicento. Ma dovrebbe preoccuparsi la Federal Reserve, che sta perdendo il monopolio nell'emissione di moneta? La prerogativa delle banche centrali, sotto il controllo dello Stato sovrano, è proprio quella di essere le uniche abilitate a stampar moneta. Fin qui avevano a che fare con concorrenti minori come i falsari. O con quella funzione di amplificazione della base monetaria legata alle carte di credito, facilmente governabile. Come reagiranno, se si afferma come un fenomeno di massa la "moneta Internet"? I gemelli Winklevoss vengono intervistati dal New York Times e sbattuti in prima pagina, perché sono personaggi ad alta visibilità: il film sulla storia di Facebook (dove i due sono impersonati da un solo attore) ce li rivelò anche nella loro altra passione, i campionati di canottaggio (furono nella selezione olimpica Usa). Ma restano due patiti dell'innovazione hi-tech. In questo caso sono saltati su un treno in corsa. Bitcoin non è invenzione loro. Nessuno sa bene come sia nata la moneta virtuale, i suoi esordi risalgono al 2009 e i programmatori che l'inventarono non sono stati rintracciati neppure dal New York Times. Sta di fatto che oggi il mercato finanziario dei Bitcoin vale già 1,3 miliardi di dollari. E' caratterizzato da fluttuazioni folli, vere montagne russe: fino al 60% di variazione del valore in una sola seduta. E' un mercato ancora ristretto perché la creazione di nuovi Bitcoin è sottoposta a limitazioni severe. Chi ha immaginato il sistema, all'origine, riservò la potestà di "battere" moneta ai patiti di informatica capaci di risolvere complessi enigmi matematici. Al momento sono in circolazione (si fa per dire) solo 11 milioni di queste cyber-monete. Le possibilità di spenderle restano ancora ridotte. Ci sono dei siti online che le accettano come mezzi di pagamento, alcuni di dubbia fama come per esempio Silk Road dove si dice vengano spacciati stupefacenti. A Berlino è apparso uno dei primi annunci sulla porta di un pub: qui si accettano Bitcoin. La zona del mondo che dovrebbe essere più ricettiva a questo genere di esperimenti è naturalmente la Silicon Valley californiana e qualcuno già immagina che a Palo Alto o a Cupertino si comincerà a pagare in Bitcoin il cappuccino da Starbucks. Per adesso i gemelli Winklevoss sono riusciti a convincere un giovane talento informatico dall'Ucraina a lavorare per loro pagandolo in Bitcoin. E' facile fare dell'ironia su questo nuovo gioco, che per certi aspetti ricorda la "società virtuale" di Second Life, quell'universo parallelo in 3-D dove i patiti possono costruirsi un'identità alternativa, una vita immaginata. Ma nella Silicon Valley Bitcoin comincia a essere presa sul serio da alcuni veterani del venture capital come la società Andreessen Horowitz. Hanno imparato a non disdegnare le innovazioni più stravaganti: troppe volte ciò che cominciò come un gioco per fanatici dell'informatica ebbe poi un balzo dimensionale fino a diventare mercato di massa. In Giappone c'è una società, la Mt. Gox, che si è specializzata nel trading di Bitcoin e sostiene di gestire l'80% delle transazioni. A Malta è stato creato perfino uno hedge fund che investe in questa "moneta Internet". Può sembrare quasi una nemesi storica: la cyber-valuta fa notizia proprio quando i padroni delle monete reali, i banchieri centrali, sono impegnati in un esperimento senza precedenti per dilatare la creazione di liiquidità. Dalla Federal Reserve di Ben Bernanke alla Banca del Giappone, la gara è a chi immette più circolante per rianimare l'economia reale. Forse non c'è da stupirsi se qualcuno si rifugia in un conio immaginario, nell'attesa che un'Apocalisse monetaria risvegli i demoni dell'inflazione e sminuisca il valore delle banconote "reali". Se dietro la strategia delle banche centrali c'è il progetto di lungo periodo di monetizzare il debito pubblico deprezzandone il valore reale, Bitcoin potrebbe trasformarsi perfino in un bene-rifugio? (13 aprile 2013) © Riproduzione riservata da - http://www.repubblica.it/economia/2013/04/13/news/bitcoin_rischio-56525771/?ref=HREC2-9 Titolo: Intervista di Federico Rampini a Joseph Stiglitz, da la Repubblica, 12/4/2013 Inserito da: Admin - Aprile 16, 2013, 03:09:12 pm Più Europa o meno euro: l’Italia non può restare a metà del guado
In assenza di una svolta radicale e strutturale delle politiche economiche europee, è probabile che l’Italia sia condannata a rimanere a lungo in recessione. L'austerity è come la medicina medievale che pretendeva di curare i malati a furia di salassi, togliendogli sempre più sangue. Se le cose non cambiano non va esclusa l'opzione estrema di un'uscita dall'euro. Intervista di Federico Rampini a Joseph Stiglitz, da la Repubblica, 12 aprile 2013 «L'Italia è vittima di un fallimento dell'austerity europea, state pagando un prezzo più elevato della Grande Depressione, le vostre imprese sono penalizzate a tutto vantaggio di quelle tedesche. Non accusate Beppe Grillo di populismo: i temi che solleva sono legittimi, compresa l'opzione estrema di un'uscita dall'euro. Niente governissimo Pd-Pdl, per salvarsi l'Italia deve tagliare i ponti con la corruzione dell'era Berlusconi». Joseph Stiglitz, premio Nobel dell’economia, parla nel suo “tempio”, alla Columbia University di New York. L’occasione è una conferenza molto dotta, patrocinata dalla Italian Academy e dal nostro Istituto di cultura. Il tema è impegnativo e attuale: Stiglitz smonta uno per uno tutti i dogmi del pensiero economico neoclassico, o delle sue versioni neoliberiste. Se c’è uno che ha le carte in regola per istruire questo processo, è lui. Già consigliere di Bill Clinton alla Casa Bianca, iniziò a contestare il pensiero unico sulla globalizzazione negli anni Novanta; fu licenziato da vicepresidente della Banca mondiale per le sue critiche all’istituzione; più di recente fu uno dei primi a solidarizzare con gli “indignados” spagnoli e a giustificare le rivolte anti-austerity. Con rigore teorico implacabile, fa a pezzi l’idea di un homo economicus razionale, di un mercato capace di auto-regolarsi. Espone l’inutilità del Pil come misuratore di benessere (lui stesso ha ispirato molti governi e organismi internazionali nella ricerca di indicatori alternativi). Stigmatizza l’avidità dei banchieri e lo strapotere delle oligarchie capitalistiche. Finita la conferenza, Stiglitz accetta di parlare di noi: l’Italia nella trappola del-ìl’austerity, e come uscirne. Il premio Nobel sa di essere diventato il massimo “guru” economico del Movimento 5 Stelle. E non si tira indietro. Conosce la situazione politica italiana, risponde a tutte le domande, anche le più delicate. Difende Grillo, pur spingendolo nella direzione di un accordo con il Pd. Grillo ha proposto un referendum sull’euro, le sembra concepibile agitare la possibilità di una nostra uscita dalla moneta unica? «L’eurozona deve cambiare le sue politiche di austerity. Perché l’euro funzioni occorrono una vera unione bancaria con regole comuni, un’assicurazione unica per i depositi dei risparmiatori, una vigilanza europea; poi ci vuole la vera unione fiscale, l’emissione di euro-bond. Il sistema attuale è instabile, incompiuto. Ci vuole più Europa oppure meno euro, non si può restare a metà del guado. Alcune posizioni del M5S sono fondate: un Paese come l’Italia potrebbe arrivare fino al punto di dover abbandonare l’euro per salvare l’Europa. Sarebbe preferibile di no, sarebbe meglio che fosse l’Europa ad abbandonare l’austerity». Perché ritiene che per l’Italia possa diventare insostenibile l’appartenenza a questa unione monetaria? «Le regole attuali dell’Unione europea restringono la vostra possibilità di fare una politica industriale, di cui avete gran bisogno. Il mercato unico all’origine doveva creare condizioni eque di competizione, una concorrenza leale. E’ fallito. Anzi: la competizione fra nazioni europee non è mai stata così diseguale. Le imprese italiane oggi devono pagare tassi d’interesse molto più alti delle imprese tedesche, anche ammesso che riescano ad avere accesso al credito bancario. Questa non è concorrenza leale, è un mercato squilibrato, altamente instabile. Se non cambia, non vedo via d’uscita». Per il momento non c’è segnale che l’eurozona voglia cambiare rotta in modo sostanziale, rinnegando l’austerity voluta dalla Germania. «In assenza di una svolta radicale e strutturale delle politiche economiche europee, è probabile che l’Italia sia condannata a rimanere a lungo in recessione. Oggi il vostro reddito nazionale è inferiore a quello del 2007, il danno economico che subite è superiore perfino a quello della Grande Depressione degli anni Trenta. Questo non è l’effetto ineluttabile di un terremoto o di uno tsunami, è un fallimento economico determinato da politiche sbagliate. L’Unione europea deve ammetterlo, deve rilanciare la crescita, e allora anche il vostro debito pubblico diventerà governabile». Dunque lei difende un referendum sull’euro, che viene considerato una fuga in avanti populista. «Gli italiani devono poter valutare, e mi rendo conto che questa valutazione è molto complessa. Dovete soppesare da una parte le possibilità concrete di ottenere un cambiamento drastico nelle attuali politiche europee; dall’altra, gli eventuali costi di una uscita dall’euro. Dibattere queste idee non è populismo, è democrazia. Si tratta di restituire sovranità ai cittadini, che hanno il diritto di volere un futuro migliore. Affermare che le politiche economiche hanno peggiorato le vostre condizioni di vita non è populismo». Nell’immediato, dati i vincoli della nostra appartenenza all’euro, cosa può fare un governo italiano? «Voi avete rinunciato a gran parte della vostra sovranità entrando nell’euro, la vostra libertà è limitata. Ma ci sono cose che potete fare. Rendere il vostro sistema bancario più efficiente per stimolare la crescita. Passare al setaccio le voci della spesa pubblica. Riformare la corporate governance del vostro capitalismo. Aggredire quei problemi di corruzione di cui Silvio Berlusconi è una manifestazione». Vasto programma, per il quale bisognerebbe avere un governo. A cinquanta giorni dalle elezioni non si è trovato un nuovo governo. Le posizioni sembrano inconciliabili, il M5S non ha accettato compromessi. «In ogni democrazia è necessario che ci siano dei compromessi. Si parte da posizioni diverse, ma bisogna lavorare assie- me. Capisco la preoccupazione di non cedere sulle questioni di principio. Io credo che una maggioranza di italiani abbia alcune esigenze comuni: una riforma dello Stato; far ripartire la crescita; di conseguenza cambiare le politiche di austerità». Cosa pensa dell’ipotesi di un governissimo tra Pd e Pdl? «Questo mi sembra il compromesso più difficile da raggiungere. Il livello di corruzione associato a Berlusconi e al suo partito non è compatibile con i programmi di governo di quelle forze che si battono contro la corruzione. Vedo più naturale una convergenza con Grillo». Tra le proposte considerate demagogiche c’è quella di un salario di cittadinanza garantito a tutti. «L’India, che resta una nazione povera, ha introdotto un sistema di occupazione garantita per le popolazioni rurali. Bisogna partire dal principio che la disoccupazione è il fallimento di una società. E la società deve assumersi la sua responsabilità, deve riuscire a generare una forma di sostegno, commisurata alle sue risorse. Non è populismo affermare che il 12% di disoccupazione è un fallimento dell’Europa. Non c’è dramma più grave di questo, di quando ci sono venti disoccupati che si presentano per un solo posto di lavoro». Lei è stato uno dei pionieri nell’elaborazione di nuovi indicatori del benessere collettivo. Dal Prodotto interno lordo si è passati al Fil (felicità interna lorda) e altri misuratori alternativi come l’indice di sviluppo sociale. Qual è l’utilità di questa ricerca? «Il Pil non ci dà una misura delle cose che contano davvero per noi: per esempio la qualità dell’ambiente, la sostenibilità dello sviluppo, la diseguaglianza, la giustizia sociale. Per fare due esempi ispirati dagli Stati Uniti: abbiamo un sistema sanitario molto inefficiente e molto costoso, ma proprio i suoi alti costi contribuiscono a “gonfiare” il valore del Pil; abbiamo degli Stati Usa che spendono per le prigioni più di quanto stanziano per le loro università, ma anche la spesa carceraria va a contribuire al Pil. Sul tema della giustizia sociale un tempo la dottrina economica prevalente diceva che la distribuzione del reddito è irrilevante, anzi arrivava a sostenere che le diseguaglianze contribuiscono a rendere efficiente un’economia di mercato. Invece oggi anche il Fondo monetario internazionale ammette che esiste una correlazione fra diseguaglianze e instabilità». Ai leader europei che continuano a pensare che l’austerity ci tirerà fuori dalla crisi, lei cosa dice? «E’ come la medicina medievale che pretendeva di curare i malati a furia di salassi, togliendogli sempre più sangue. Questa gente seleziona solo le informazioni che conferma le loro idee preconcette. L’austerity non funziona neppure per l’obiettivo che si prefigge, di ridurre il debito pubblico. Se non abbiamo la capacità di trarre le lezioni di questa crisi, come fu fatto dopo la crisi del 1929, temo che saremo condannati ad un’ulteriore ricaduta». (12 aprile 2013) da - http://temi.repubblica.it/micromega-online/piu-europa-o-meno-euro-litalia-non-puo-restare-a-meta-del-guado/ Titolo: FEDERICO RAMPINI. Intercettazioni e ragion di Stato nell’era Obama Inserito da: Admin - Giugno 11, 2013, 11:29:47 am 6 giu 2013 Intercettazioni e ragion di Stato nell’era Obama Federico RAMPINI Lo scandalo dello spionaggio telefonico di massa ai danni di milioni di utenti americani, segue a breve distanza le varie “affaires” di giornalisti intercettati dal Dipartimento di Giustizia. Conferma una inquietante tendenza di questa Amministrazione a prendersi delle liberta` con… le liberta` fondamentali della Costituzione. In nome della sicurezza nazionale, della lotta al terrorismo, naturalmente. Ma a sinistra e tra le associazioni per i diritti civili, in molti si chiedono se il confine tra Obama e le logiche di Bush non stia diventando pericolosamente sottile. All’inizio, gli scandali sembravano colpire dei settori ben definiti. Da una parte, I giornalisti dell’Associated Press e della Fox soggetti a sorveglianza delle telefonate; l’Agenzia delle Entrate (Internal Revenue Service) impegnata a fare accertamenti mirati verso organizzazioni politiche di destra. Le proteste sembravano venire solo da interessi “di parte”, i giornalisti o la destra repubblicana. Ma adesso si scopre che milioni di utenze telefoniche dell’operatore Verizon erano sotto sorveglianza. L’ex direttore del New York Times, il liberal Bill Keller, si trova fianco a fianco con la destra nell’impugnare i diritti costituzionali. da - http://rampini.blogautore.repubblica.it/2013/06/06/intercettazioni-e-ragion-di-stato-nellera-obama/?ref=HREA-1 Titolo: FEDERICO RAMPINI. E ora i mercati temono il terremoto Inserito da: Admin - Giugno 15, 2013, 08:36:48 am E ora i mercati temono il terremoto
di Federico Rampini, da Repubblica, 13 giugno 2013 E' finita davvero l'èra dei tassi calanti. La svolta avviene dove conta di più: qui in America. Contagia il mondo intero, con effetti a cascata che possono preludere a una nuova "tempesta perfetta" sui mercati finanziari. Il titolone del Wall Street Journal in prima pagina è allarmante: "Un tumulto globale s'impadronisce dei mercati". Nell'articolo del quotidiano economico si evoca uno "spostamento tettonico dell'economia mondiale", come quelle dislocazioni della crosta terrestre che possono preludere a terremoti, creazioni di catene montuose, e altri cataclismi geologici. Una dopo l'altra stanno crollando le certezze degli ultimi anni: si dava per scontato il proseguimento di una politica monetaria ultra-generosa (abbondanza di liquidità fornita dalle banche centrali a tassi minimi), così come una crescita vigorosa delle nazioni emergenti, Cina in testa. Contrordine, su ogni fronte. Tutti i punti cardinali che davano stabilità ai mercati, sono in movimento. E soprattutto, gli investitori hanno di colpo la sensazione che le banche centrali abbiano perso il controllo degli eventi. Questa è la novità più inquietante. La Federal Reserve non riesce più a "comunicare certezze" sulla sua azione futura. La Banca del Giappone è impotente davanti a un indice Nikkei che viaggia impazzito sulle montagne russe, con rialzi e tracolli eccessivi. Le banche centrali dei paesi emergenti subiscono una fuga di capitali, le loro monete fino a ieri sopravvalutate stanno perdendo a rotta di collo sul dollaro. Da New Delhi a Brasilia a Johannesburg, tutte cercano di correre ai ripari rialzando i tassi. Si conferma così quella che potrebbe essere la vera "dislocazione tettonica" di lungo termine: si torna ai tassi d'interesse in risalita. Un grafico del New York Times, depurando dalle fluttuazioni di breve periodo, dimostra che siamo stati dentro un "ciclo lungo" addirittura trentennale, di calo dei rendimenti. L'impressione è che stia volgendo al termine, e tutti cercano di correre ai ripari, o quantomeno di capire come sopravvivere nel nuovo mondo che verrà. A scatenare il tumulto, almeno all'origine c'è un fatto positivo: l'America è ormai fuori dal tunnel della crisi. L'uscita dalla recessione Usa compie ormai quattro anni; e da tre anni questa ripresa genera occupazione a ritmi fra i 150.000 e i 200.000 posti al mese. In queste condizioni, il presidente della Fed Ben Bernanke ha fatto capire che prima o poi toglierà la "droga" ai mercati. La cura da cavallo che la sua banca centrale ha usato per uscire dalla crisi - tasso zero e massicci acquisti di bond, ultimamente 85 miliardi di dollari ogni mese - perderà la sua ragion d'essere. Buona notizia, dunque, anche se "comunicata" con tali riserve e cautele che provocano incertezza. Bernanke non ha detto esattamente "quando". I mercati però giocano d'anticipo, si comportano come se la cura fosse agli sgoccioli. E come un drogato in crisi d'astinenza, hanno dei momenti di vero panico. Devono ripensare il mondo intero attorno a sé. Un universo di tassi in risalita, rovescia tutti i calcoli rispetto al passato. I rendimenti in ripresa risucchiano capitali verso gli Stati Uniti sottraendoli a quei mercati che erano stati beneficiati dalla speculazione: gli emergenti. La fuga di capitali non risparmia nessuno: in Indonesia, Filippine e Thailandia, qualcuno teme addirittura il replay della tremenda crisi asiatica del 1997. Cadono le materie prime, dal petrolio ai metalli, trascinando monete come il dollaro australiano. La Cina rallenta vistosamente e non si capisce se sia per ritrovare un equilibrio di crescita più sostenibile, o invece qualcosa di peggio. Anche in America, le "profezie che si autoavverano" stanno facendo danni. A furia di anticipare le prossime mosse della Fed si è innescata una vendita di bond che coinvolge tutti: buoni del Tesoro e obbligazioni private delle aziende. Perdite importanti colpiscono i fondi comuni obbligazionari, i più usati dal risparmio popolare e dalla previdenza. Mentre all'inizio sembrava una Grande Rotazione ordinata (il deflusso dai bond, a favore degli investimenti azionari) ora anche la Borsa scende insieme con il valore capitale dei portafogli di titoli di Stato. La volatilità di Wall Street non è ai livelli di Tokyo ma è comunque anomala: una seduta ogni tre si chiude con l'indice Dow Jones al rialzo o (più spesso) al ribasso con punteggi a tre cifre. Potrebbe essere solo una fase di assestamento, turbolenta come tutte le transizioni. Purché i mercati tornino ad avere l'impressione che c'è un timoniere al comando: almeno della Fed. (13 giugno 2013) da - http://temi.repubblica.it/micromega-online/e-ora-i-mercati-temono-il-terremoto/ Titolo: FEDERICO RAMPINI Il conto alla rovescia di Obama, Nato e Lega araba come alleati Inserito da: Admin - Agosto 27, 2013, 11:50:30 pm Il conto alla rovescia di Obama, Nato e Lega araba come alleati
Ma il no di Mosca apre un fronte al G20 tra una settimana dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI NEW YORK - Barack Obama è ormai pronto a lanciare l'attacco alla Siria. Il presidente manda avanti il suo segretario di Stato, John Kerry, con un discorso inequivocabile: nel tono e nei contenuti. Il tono è quello delle occasioni solenni, drammatiche. Kerry ha il compito di preparare l'opinione pubblica americana, fin qui molto distratta (la prova sta nel 60% di contrari all'intervento militare, sondaggio Reuters/Ip sos del weekend). La durezza del linguaggio serve ad allertare l'America: siamo di fronte a una "oscenità morale", un crimine contro l'umanità, ma anche una violazione di tutte le norme internazionali che da decenni vietano l'uso di armi chimiche. Per questo l'interesse vitale degli Stati Uniti è in gioco. Oltre che la credibilità di un presidente che parlò di "linea rossa da non varcare" (le armi chimiche) ormai un anno fa. La reazione di Mosca non si fa attendere, e anche dalla durezza dei toni russi ("dall'intervento ci saranno conseguenze gravissime") si capisce che Vladimir Putin non si fa più illusioni. Rischia di saltare tutta l'agenda del vertice G20, inprogramma tra una settimana a San Pietroburgo. Nel febbrile conto alla rovescia, molti a Washington si chiedono se Obama vorrà aspettare il G20 e fare un ultimo tentativo - senza illudersi affatto - di ottenere una neutralità russa. Oppure se i tempi stanno precipitando e il G20 si aprirà con l'intervento militare in corso. Sarebbe un summit di fuoco, a casa del più potente alleato della Siria. Sui contenuti la svolta di Kerry è questa: l'America non aspetta più i risultati dell'ispezione Onu. Assad ha avuto tutto il tempo di far sparire le prove, in quei 5 lunghissimi giorni durante i quali ha negato l'accesso agli ispettori Onu e al tempo stesso la sua artiglieria ha continuato a bombardare le stesse zone già martoriate dall'attacco chimico. "C'è una ragione molto chiara - spiega Kerry - per cui Obama avvisò Assad che una violazione delle leggi sulle armi chimiche avrebbe avuto conseguenze. È la stessa ragione per cui quellearmi furono messe al bando dal mondo civile molto tempo fa, con l'accordo di nazioni che su poche altre cose sono d'accordo " (allusione alla Russia). Dunque il presidente "prenderà una decisione informata" dopo avere concluso le consultazioni di molti leader internazionali. Ma "nessuno si illuda, ci saranno conseguenze". Obama esamina nei dettagli la lista dei possibili bersagli perun attacco missilistico. Sul tavolo del presidente dallo scorso weekend ci sono i principali arsenali di armi chimiche di Assad, e altri obiettivi militari da colpire. Per quanto riguarda la legittimazione internazionale, scontando che fallirà il tentativo di ottenere una risoluzione Onu (sicuramente bloccata dal veto di Putin) Obama può cercarla con due altri organismi internazionali: da una parte la Nato, dall'altra la Lega araba. Per quanto riguarda la Nato come "seconda opzione" in mancanza di una risoluzione Onu, il precedente è il Ksovo nel 1999 (primo test del "dovere d'ingerenza umanitaria"). Nel mondo arabo, decisivo è il ruolo del principe saudita Bandar, eminenza grigia di una potente coalizione anti-Assad che ha la sua cabina di regìa a Ryad. Ma non chiamatela "guerra". Bensì "colpo". La distinzione la traccia il presidente del Council of Foreign Relations, Richard Haass, e prepara il terreno alla giustificazione che Obama potrebbe dare: non si tratta di iniziare un intervento militare per deporre Assad ma di "castigarlo" con un colpo mirato. Una serie di lanci missilistici, con missili di crociera Tomahawk in dotazione ai quattro incrociatori della Sesta Flotta che la U. S. Navy ha dispiegato nel Mediterraneo al largo delle coste siriane. Più eventuali lanci da cacciabombardieri pronti a decollare da varie basi "in Europa e in Medio Oriente". Un'azione che infligga danniseri ad Assad, ma non l'inizio di un conflitto vero e proprio. Qui il precedente è del 1986: il bombardamento aereo ordinato da Ronald Reagan sulla Libia, per punire Gheddafi di alcuni attentati terroristici (in particolare la bomba esplosa in una discoteca a Berlino), nonché delle sue intenzioni di costruirsi armi nucleari. L'attacco aereo, in codice Operazione El Dorado Canyon, fece 40 morti in Libia ma fallì nell'obiettivo di uccidere lo stesso Gheddafi. Haass sottolinea che "è importante distinguere tra una risposta all'uso di armi chimiche, e un intervento vero e proprio nel conflitto siriano". Sempre il presidente del Council of Foreign Affairs sottolinea che Obama non può più sottrarsi ad un colpo, sia pure limitato: "Un presidente degli Stati Uniti non può annunciare la linea rossa, e poi non fare nulla contro chi l'ha varcata. La sua credibilità è in gioco anche verso altri attori, come l'Iran". (27 agosto 2013) © Riproduzione riservata DA - http://www.repubblica.it/dal-quotidiano/reportage/2013/08/27/news/il_conto_alla_rovescia_di_obama_nato_e_lega_araba_come_alleati-65351977/?ref=HREA-1 Titolo: FEDERICO RAMPINI. Il volo del Bitcoin e la sfida alla volatilità. Inserito da: Admin - Novembre 25, 2013, 04:31:07 pm Il volo del Bitcoin e la sfida alla volatilità.
Così la moneta virtuale è diventata reale Nata nel 2009 è caratterizzata dalla modalità di creazione della "base monetaria". A differenza delle valute tradizionali, non esiste una banca centrale con il potere esclusivo di stampare moneta: chiunque può "coniarla", a condizione di saper risolvere problemi matematici complessi perché la liquidità non può essere infinita. La settimana scorsa il debutto al Congresso Usa dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI NEW YORK - Qualcuno storcerà il naso nell'apprendere che tra le prime istituzioni non americane ad accettare Bitcoin come moneta di pagamento c'è l'università (privata) di Nicosia. Poiché l'isola di Cipro è associata all'idea di bancarotta, come sponsor forse non è il massimo. E tuttavia Christos Vlachos, direttore amministrativo della University of Nicosia, è convinto che questa scelta metterà l'ateneo all'avanguardia. Non solo Bitcoin può essere usata per pagare le rette, ma ben presto diventerà materia d'insegnamento. Vlachos considera la moneta digitale come "uno sviluppo inevitabile" che trascinerà con sé altre innovazioni nel commercio online, nei pagamenti internazionali, nelle relazioni economiche globali. Chiamarla moneta "virtuale" ormai è riduttivo. Quattro anni dopo la nascita di questa valuta digitale (2009), negli Stati Uniti ormai si moltiplicano gli esercizi commerciali "fisici", che esibiscono in vetrina l'annuncio "Bitcoin accepted here". Hanno cominciato a proliferare nella Silicon Valley californiana, poi si sono diffusi in tutta la West Coast, infine in altre zone degli Stati Uniti. Si tratta ancora di una minoranza, e per lo più sono dei locali che si rivolgono a una clientela giovane, tecnologica. Accettare i Bitcoin, come minimo, è una discreta trovata pubblicitaria per far parlare di sé e attirare l'attenzione. Poi si vedrà. Un altro sintomo del successo di Bitcoin è il boom delle imitazioni. Un'inchiesta del Wall Street Journal dedicata a queste "cripto-valute" ne ha contate 80. La più antica, Litecoin, nacque nel 2011 quindi appena due anni dopo Bitcoin. Ma è in tempi molto più recenti che il successo di Bitcoin e la pubblicità sui media hanno provocato il boom dei "cloni". A ottobre e novembre di quest'anno sono nate Gridcoin, Fireflycoin, Zeuscoin. Si sono aggiunte alle pre-esistenti Worldcoin, Namecoin, Hobonickels. La febbre delle imitazioni ha un nome: si parla ormai di "criptomania". Un altro momento di gloria per le cripto-valute c'è stato questa settimana, quando la loro regina ha fatto il suo ingresso al Congresso. I parlamentari di Washington per la prima volta hanno dibattuto molto seriamente sul fenomeno Bitcoin. A far scattare le audizioni congressuali, per la verità, era stato un campanello d'allarme. Di recente l'Fbi ha chiuso un sito, Silk Road, che faceva pagare in Bitcoin gli acquisti online di droga. Al termine delle audizioni, dopo aver sentito il parere delle forze dell'ordine e dell'autorità monetaria, il Congresso è arrivato ad una conclusione piuttosto rassicurante per i fautori della cripto-valuta: Bitcoin è una moneta legittima, anche se ha bisogno di essere regolata e sottoposta a controlli onde evitare che sia usata per business criminali. Bitcoin fu creata nel 2009 da un collettivo che si nasconde sotto uno pseudonimo giapponese: Satoshi Nakamoto. La sua caratteristica più originale è la modalità di creazione della "base monetaria" o liquidità digitale. A differenza delle valute tradizionali, non esiste una banca centrale con il potere monopolistico ed esclusivo di stampare moneta. Chiunque può "coniare" Bitcoin, ma a condizione che sappia risolvere con l'ausilio del suo computer dei problemi matematici complessi. Il numero di Bitcoin che può essere creato ha un limite, dunque la "liquidità" non può essere aumentata all'infinito... a differenza di quel che la Federal Reserve sta facendo con i dollari. I Bitcoin possono essere scambiati solo nel formato digitale, non esistono "su carta". Il loro valore viene fissato in tempo reale su delle vere e proprie Borse globali, dove gli investitori comprano e vendono il bene raro. E qui s'incontra un primo problema serio che può compromettere il futuro di Bitcoin. E' la sua eccessiva volatilità. Per fare un esempio: nel gennaio di quest'anno Bitcoin valeva 13 dollari, questa settimana durante le ore di massima visibilità e attenzione collegate all'audizione al Congresso, il suo valore ha toccato i 900 dollari. La quotazione media della settimana, a 548 dollari, corrisponde a una circolazione globale di Bitcoin pari a 6,6 miliardi di dollari. Per altri beni d'investimento la volatilità può essere un effetto collaterale della febbre speculativa: abbiamo visto l'oro andare su e giù sulle montagne russe negli ultimi anni. Ma una moneta, usata come mezzo di pagamento nelle transazioni commerciali di tutti i giorni, deve avere una certa stabilità. Sappiamo che i periodi di iperinflazione, quando il potere di acquisto delle monete era aleatorio, fecero gran danno all'economia, ai risparmi, alle tasche dei consumatori. Lo stesso può valere per la deflazione, quando la moneta si rivaluta troppo. Una moneta troppo soggetta alla speculazione non è rassicurante, né per noi consumatori né per i commercianti, se con essa dobbiamo andare a fare la spesa. Alcuni stanno cercandosi delle soluzioni rudimentali, per poter continuare a usare Bitcoin proteggendosi dalle fluttuazioni selvagge. E' il caso di un'agenzia viaggi online basata a Los Angeles, CheapAir.com, che nel suo settore è la prima ad accettare i Bitcoin come pagamento per l'acquisto di biglietti aerei. Jeff Klee, chief executive di CheapAir, ha deciso di affidarsi a un intermediario, la società Coinbase, che gli gestisce il sistema di pagamenti e "isola" il suo business dal rischio di cambio: cioè dal rischio che improvvisamente i Bitcoin che lui ha accettato perdano una parte del loro valore. La vicenda di CheapAir è un caso da manuale che illustra le contraddizioni della moneta digitale. Non c'è dubbio che una delle attrattive di Bitcoin sta nel fatto di fare a meno delle banche: sia le banche centrali, sia quelle di deposito. In un'epoca in cui i banchieri sono odiati per i danni inflitti all'economia mondiale e alle condizioni di vita di ciascuno, una moneta non-bancaria esercita un fascino indubbio. E tuttavia l'accorgimento adottato da CheapAir per tutelarsi dall'eccessiva volatilità, in qualche modo equivale a dare spazio a una nuova forma di intermediazione bancaria. L'operazione che fa la società Coinbase per il suo cliente, è quello che nel gergo dei trader si chiama "hedging" ovvero copertura del rischio, in questo caso il rischio di cambio. Manca poco, e sentiremo parlare di boom dei derivati di Bitcoin. E' una strada inclinata, e sappiamo già a quali aberrazioni può condurre... (23 novembre 2013) © Riproduzione riservata Da - http://www.repubblica.it/economia/2013/11/23/news/bitcoin_moneta_virtuale_internet-71714714/?ref=HRLV-4 Titolo: FEDERICO RAMPINI. Billie King, la tennista lesbica che Obama manda a Putin Inserito da: Admin - Dicembre 24, 2013, 05:57:50 pm 19
dic 2013 Billie King, la tennista lesbica che Obama manda a Putin Sarà una lesbica dichiarata e molto famosa, Billie Jean King, a guidare la delegazione olimpica americana ai Giochi d’Inverno di Sochi. E’ lo schiaffo di Barack Obama a Vladimir Putin, il persecutore dei gay. “Un colpo di genio”, lo definisce Usa Today che dedica alla King l’intera prima pagina. Scelta magistrale, perché l’ex campionessa di tennis non è solo una militante gay, a 70 anni è una leggenda dello sport americano. E’ una combattente nata, già sfida Putin prima ancora di partire. “Abbiamo bisogno – dichiara la King – di un gesto alla John Carlos”. Allude alla clamorosa protesta del velocista americano che segnò le Olimpiadi di Città del Messico nel 1968. Il campione Carlos fu espulso perché, dal podio olimpico, mentre riceveva la medaglia alzò il pugno chiuso (insieme a Tommie Smith) per protestare contro le discriminazioni razziali. Per Putin la dichiarazione della King equivale a un’istigazione sovversiva, un invito agli sportivi gay perché usino Sochi come platea per le proteste. E non è solo la capa-delegazione ad essere una lesbica dichiarata (dal 1981). Della rappresentanza ufficiale selezionata da Obama fa parte anche Caitlin Cahow, ex-olimpica di hockey su ghiaccio, anche lei dichiaratasi apertamente omosessuale e militante per la parità dei diritti. Obama non fa mistero del messaggio che vuole mandare al leader russo. “Spero proprio – dice il presidente americano – che qualche atleta gay o lesbica porti a casa una medaglia, il che aiuterebbe a contrastare gli atteggiamenti ostili che ci sono in Russia. Se la Russia non vuole avere atleti omosessuali nelle sue squadre, avrà squadre meno competitive”. La figura che domina per il suo potenziale dirompente è la King. La sua carriera sportiva fu un susseguirsi di provocazioni. Nata nel 1943 a Long Beach, in California, è stata la più grande campionessa di tennis dei suoi tempi: vinse 39 Grand Slam, fu tre volte capitana della squadra Usa alla Federation Cup. Per una donna, ai suoi tempi segnò il record delle vincite: oltre due milioni di dollari di premi, somma considerevole nell’èra pre-Navratilova. Il centro nazionale di tennis di New York è stato ribattezzato col suo nome. E’ stata nominata nella Hall of Fame, tra le “persone dell’anno” di Time magazine, e ha ricevuto la Presidential Medal of Freedom. Le sue battaglie sessuali e politiche sono altrettanto importanti dei trofei sportivi. Nel 1971 fece scalpore per un aborto pubblicizzato: lei era ancora sposata con il tennista Larry King, ma aveva già una relazione stabile con la sua segretaria Marilyn Barnett. Nel 1973 la King vinse la “Battaglia dei sessi”, uno dei match di tennis più controversi della storia. In piena epoca di femminismo militante, il 55enne ex campione Bobby Riggs voleva dimostrare la superiorità innata dei maschi sul terreno della forza fisica e delle prestazioni sportive. Accettò di affrontare la King, di 26 anni più giovane. Il campione fu umiliato, lei stravinse in tre set con un punteggio netto: 6-4, 6-3, 6-3. Già allora Billie Jean aveva un gusto pronunciato per le provocazioni: nel giorno del match, 20 settembre 1973, fece il suo ingresso all’Astrodome di Houston (Texas) come una moderna Cleopatra, su una portantina sollevata da quattro uomini seminudi, come schiavi egizi. Anche come militante gay la King fu pioniera. Il suo “outing” risale al 1981, un’epoca in cui la stragrande maggioranza degli atleti gay erano costretti a nascondere la propria sessualità. In parte la sua scelta fu precipitata dalla separazione: la sua partner Marilyn Barnett le fece causa per ottenere gli alimenti, il primo processo di quel genere ad avere ampia pubblicità negli Stati Uniti. Forse la King avrebbe potuto evitare lo scandalo, pagando tanto e subito, per patteggiare con la sua ex ottenendo in cambio clausole di riservatezza. Ma lo scandalo non le ha mai fatto paura. Secondo alcune versioni un’altra tennista gay, Martina Navratilova, decise di uscire dalla clandestinità grazie all’esempio della King. “Io penso – dice la King – che ci sono momenti di svolta, che diventano dei punti di riferimento. Spero che la maggioranza degli atleti gay si manifestino apertamente. I Giochi invernali di Sochi sarebbero un palcoscenico formidabile. Mi piacerebbe avere 21 anni, ed essere lì per gareggiare…” Anche il resto della delegazione è frutto di una selezione accurata di Obama. In Russia non andranno né il presidente né il suo vice né alcun ministro. Zero esponenti dell’Amministrazione: si avvicina quasi a un boicottaggio della cerimonia ufficiale di apertura. A guidare la delegazione non-sportiva sarà Janet Napolitano, donna single, femminista militante, ex ministro e attualmente presidente della University of California. I Giochi di Sochi diventano così l’ultimo capitolo della tormentata saga Obama-Putin. Appena eletto per il suo primo mandato, nel 2009 Obama ebbe una sorta di idillio con la Russia, ma col leader “sbagliato”… l’allora presidente Dmitri Medvedev con cui firmò il trattato di disarmo nucleare Start 2. Con Putin i rapporti sono stati gelidi. Ultimo il G20 di San Pietroburgo dove il presidente russo manovrò per isolare Obama sulla Siria. In seguito forse Obama deve averlo ringraziato in cuor suo: la proposta di Putin sulle armi chimiche ha evitato all’America un intervento militare molto controverso, osteggiato dal Congresso e dall’opinione pubblica. I rapporti con Putin sono di nuovo in tensione sull’Ucraina, dove la Casa Bianca denuncia le interferenze russe. Sullo sfondo c’è anche la sfida energetica, con l’America che ha superato la Russia nella produzione di gas naturale e presto comincerà a esportarlo riducendo i prezzi mondiali e le entrate di Mosca. Sui diritti dei gay, Putin ha forse sottovalutato l’importanza che hanno nell’America di oggi: Obama considera la parità come uno dei lasciti più simbolici della sua presidenza, e spesso traccia un parallelo con le lotte dei neri per i diritti civili negli anni Sessanta. Scritto in diritti umani, Olimpiadi, Politica estera Usa | Nessun Commento » Da - http://rampini.blogautore.repubblica.it/?ref=HROBA-1 Titolo: FEDERICO RAMPINI. La sorpresa di Natale della Fed. E la borsa festeggia Inserito da: Admin - Dicembre 24, 2013, 06:14:29 pm La sorpresa di Natale della Fed. E la borsa festeggia
dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI NEW YORK - La sorpresa di Natale infiamma l'entusiasmo di Wall Street, con l'indice Dow Jones che chiude in rialzo di quasi 300 punti, il migliore guadagno dell'anno in una singola seduta. La sorpresa di Natale è che la Federal Reserve comincia a crederci: a una ripresa americana capace di reggersi sulle proprie gambe. La banca centrale anticipa - rispetto alle attese dei mercati - l'inizio della fine della "droga monetaria". La maggioranza degli investitori si aspettavano questa mossa a marzo, invece avverrà fin da gennaio. Lo ha annunciato Ben Bernanke nella sua ultima conferenza stampa, anche per lui gennaio 2014 è "l'inizio della fine". Il suo mandato giunge a conclusione e Barack Obama ha designato a succedergli la prima donna banchiere centrale, Janet Yellen. A coronamento di una carriera eccezionale ("ma spero di vivere abbastanza per leggere cosa ne diranno i manuali di storia", ironizza lui) Bernanke ha ottenuto di anticipare questo gesto simbolico. L'esperimento che lui ha condotto per quasi quattro anni, chiamato "quantitative easing", ha dispiegato nuovi strumenti per rianimare la crescita dopo lo shock sistemico del 2008. La Fed sta tuttora acquistando bond sul mercato aperto al ritmo di 85 miliardi al mese. E' un intervento senza precedenti, per dare credito all'economia a tassi storicamente bassi. E' anche servito - senza dichiararlo - a favorire una svalutazione competitiva del dollaro. Ma la cura o "droga" monetaria ha contribuito a una ripresa che ormai supera il terzo anno di durata. In particolare Bernanke prende atto che il miglioramento è sensibile su quello che definisce "l'indicatore economico più importante": il tasso di disoccupazione, sceso dal 12% della recessione al 7% di oggi. Ecco allora la decisione: già a gennaio la Fed ridurrà i suoi acquisti di bond (titoli di Stato e obbligazioni bancarie legate ai mutui) di 10 miliardi, scendendo così dagli 85 miliardi a 75 mensili. Si tratta di una riduzione modesta, all'insegna della cautela e del gradualismo. E' comunque l'inizio di quello che in gergo viene definito il "tapering": riduzione graduale, fino a esaurimento. Tuttavia lo stesso Bernanke ha rassicurato i mercati sul fatto che non siamo ancora a una svolta restrittiva nel senso classico. Non solo perché "lima" di 10 miliardi gli acquisti di bond, non una riduzione drastica. Inoltre i tassi direttivi della banca centrale resteranno inchiodati a quota zero per un periodo lungo, almeno fino al 2015. "Occorre che la disoccupazione scenda sotto il 6,5%". La Fed vuole anche vedere rianimarsi l'inflazione, che oggi è dello 0,7%, fino al 2%. Un indice dei prezzi così piatto come quello attuale continua a far temere il rischio-deflazione. Proprio mentre la Fed celebra il centesimo anniversario dalla sua nascita (venne istituita dal presidente Woodrow Wilson il 23 dicembre 2013), l'annuncio di ieri ha il sapore di una semi-vittoria. Usando risorse senza precedenti - oltre 3.100 miliardi di dollari gettati sui mercati per comprare bond - e tenendo i tassi a zero per cinque anni, la banca centrale sotto Bernanke ha interpretato in modo audace il proprio mandato: che impone non solo di vigilare sulla stabilità dei prezzi ma anche di sostenere la crescita e l'occupazione. I più generosi vedono nelle scelte della Fed un fattore decisivo per l'uscita dell'America dalla crisi con almeno tre anni di anticipo sull'Europa. I mercati hanno reagito bene, con l'indice Dow Jones in salita di 280 punti. In parte la Borsa Usa ha accolto bene il messaggio positivo di Bernanke su una ripresa economica in grado di camminare da sola. In parte ha festeggiato l'altra metà del messaggio: su una politica monetaria che resta comunque espansiva, visto che non c'è segnale di rialzo dei tassi all'orizzonte di breve-medio periodo. Il mercato dei titoli del Tesoro ha dato retta soprattutto al primo aspetto del messaggio, quello sulla ripresa, tant'è che i tassi sui buoni pubblici sono risaliti, com'è normale in un contesto di ripresa economica. (18 dicembre 2013) © Riproduzione riservata Da - http://www.repubblica.it/economia/rubriche/il-commento/2013/12/18/news/la_sorpresa_di_natale_della_fed_e_la_borsa_festeggia-73986321/?ref=HREC1-6 Titolo: FEDERICO RAMPINI. Il buon esempio di Obama sui redditi bassi Inserito da: Admin - Gennaio 29, 2014, 04:55:14 pm 28
gen 2014 Il buon esempio di Obama sui redditi bassi Federico RAMPINI Obama dà l’esempio, aumenta il salario minimo per i lavoratori impiegati da tutte le imprese che lavorano per l’Amministrazione federale. E’ un piccolo passo in quella strategia di lotta alle diseguaglianze che Obama annuncia stasera (stanotte in Italia) nel discorso sullo Stato dell’Unione. Per alzare il salario minimo in tutti i settori occorre una legge del Congresso, e su quel fronte come al solito il presidente si scontra con i veti della destra. Ma l’aumento del salario nell’indotto della pubblica amministrazione è un messaggio che serve a orientare la campagna elettorale d’autunno: Obama “in salsa de Blasio”, rilancia una strategia progressista perché l’uscita dalla crisi porti benefici a tutta la middle class e ai lavoratori. Fra gli altri annunci di stasera ci sarà un rilancio della scuola pubblica con investimenti per scuole materne, asili nido. Tuttavia c’è una sottile differenza tra Obama e il neosindaco di New York. Il presidente, spinto dai suoi consiglieri e dai moderati del partito democratico, non vuole mettere troppo l’accento sul tema delle diseguaglianze. Sia perchè questo argomento viene considerato “accademico” (occorre citare troppi dati e statistiche per dimostrarlo, il telespettatore medio stasera rischia di cambiare canale…) sia perché resta ben radicata in una maggioranza degli americani l’idea che dare la caccia agli straricchi è “lotta di classe”, “socialismo”, ricette fallite in passato. Meglio allora affrontare la questione sul lato positivo, cioè con gesti concreti che aiutano i lavoratori a basso reddito. Meglio sospingere verso l’alto la fascia più debole della società americana, che parlare di distanze tra ricchi e poveri. Sia il salario minimo, sia il potenziamento di servizi sociali come la scuola materna per tutti, sono aiuti concreti per le famiglie a basso reddito, non battaglie ideologiche in nome dell’egualitarismo. Tutto questo corrisponde anche a un “posizionamento” strategico che Obama cercherà di indicare ai democratici in vista delle elezioni di mid-term. Nel novembre di quest’anno, come di consueto quando si arriva a metà del mandato presidenziale, si rinnova la Camera e un terzo del Senato. Al momento queste legislative appaiono in salita per i democratici. Da - http://rampini.blogautore.repubblica.it/?ref=HRER1-1 Titolo: FEDERICO RAMPINI. L’insulto all’Europa della vice di John Kerry Inserito da: Admin - Febbraio 07, 2014, 11:28:09 pm 7
feb 2014 L’insulto all’Europa della vice di John Kerry C’è qualcosa di incomprensibile, surreale, nella gaffe della vice di John Kerry, Victoria Nuland, “mandata in onda” da Putin su YouTube mentre insultava l’Unione europea. Due gli aspetti sconcertanti, o esilaranti: 1) questi diplomatici americani, incluse le Ladies, sembrano non aver saputo nulla di WikiLeaks ne` di Edward Snowden, continuano a parlarsi a telefono come se non esistessero le intercettazioni, le fughe di notizie ecc. Sembrano personaggi di un’altra epoca, convinti che il telefono tra il Dipartimento di Stato e l’ambasciata Usa a Kiev sia un mezzo sicuro e riservato. 2) In quanto a Putin, dimostra di non avere bisogno della NSA ne` del pentito Snowden, per poter intercettare chi vuole lui. Poi, nel merito, la sottosegretaria Nuland ha mille volte ragione sull’inefficacia dell’Unione europea nella crisi ucraina, ma l’autogol di quella telefonata resa pubblica, la mette dalla parte del torto. Scritto in Europa, Politica estera Usa Da - http://rampini.blogautore.repubblica.it/2014/02/07/linsulto-alleuropa-della-vice-di-john-kerry/?ref=HREA-1 Titolo: FEDERICO RAMPINI. Sulla Crimea Obama ha poche opzioni Inserito da: Admin - Marzo 01, 2014, 07:42:45 pm 1
mar 2014 Sulla Crimea Obama ha poche opzioni Federico RAMPINI Tutta la stampa Usa sottolinea la nuova impasse della politica estera americana. Questi i punti principali: 1) Fino a ieri Obama aveva coltivato l’illusione di poter cooperare con Putin per una soluzione pacifica, oggi ovviamente non ci crede piu`. 2) E’ tuttavia innegabile che l’Ucraina o almeno la Crimea facciano parte di una “sfera d’influenza” russa, ancorche` non dichiarata (e ancor meno condivisa dalla maggioranza della popolazione ucraina). La base navale di Sebastopol sta li` a ricordarlo. 3) E’ anche vero che il filo-russo Yanukovych fu eletto democraticamente, poi e` stato deposto da moti di piazza. Una situazione non prorio limpida neanche sul fronte delle forze filo-occidentali. 4) Infine e soprattutto, gli strumenti di pressione dell’America sono limitati. Guai se Obama lanciasse minacce a vuoto, non seguite dai fatti: sarebbe un bis della Siria. Interventi militari non sono immaginabili, ma anche sanzioni politico-economiche avrebbero scarsissimo effetto su Putin. 5) Alla fine Washington ritiene che gli europei abbiano un po’ piu` influenza (ma non moltissima), per il maggior peso di rapporti economici sia con l’Ucraina sia con la Russia. Scritto in diritti umani, Europa, Politica estera Usa, strategia e armamenti | DA - http://rampini.blogautore.repubblica.it/?ref=HREA-1 Titolo: FEDERICO RAMPINI. Neoconservatori Usa alla riscossa sull’Iraq Inserito da: Admin - Luglio 03, 2014, 07:21:28 pm 2 lug 2014 Neoconservatori Usa alla riscossa sull’Iraq Una vittoria per i neoconservatori arriva da Bagdad? Come sostituto dello screditato premier al-Maliki (che Obama considera incapace di ricucire con i sunniti) ora spunta il nome di Ahmad Chalabi, l’uomo forte che piaceva a George W. Bush e ai suoi. Corrotto, screditato già nel 2003, ma legato a doppio filo alla destra americana. E intanto i neocon dilagano nei talkshow come ai tempi del loro massimo potere. Sull’onda del disastro iracheno sono tornati in primo piano tutti gli artefici della politica estera di George W. Bush e intonano un coro: l’America era più forte, più credibile e rispettata nel mondo, quando c’eravamo noi. Sei uomini e una donna sono la punta di diamante di quest’offensiva. L’ex vicepresidente Dick Cheney e la figlia Liz. L’ex ambasciatore all’Onu John Bolton, a cui si attribuiscono ambizioni presidenziali. L’ex sottosegretario nonché` presidente della Banca mondiale, Paul Wolfowitz. E poi i tre teorici più autorevoli del pensiero neocon: Robert Kagan, William Kristol, Richard Perle, riuniti sotto le bandiere di un think tank storico, il Project for the New American Century. I due Cheney padre e figlia usano il giornale più “organico”, il Wall Street Journal di Rupert Murdoch, per scrivere a due mani una requisitoria durissima contro Barack Obama: “Raramente un presidente americano ha avuto torto così tanto e così spesso, a spese di così tante persone”. Wolfowitz accusa Obama di “non prendere sul serio la marcia dei fondamentalisti sunniti su Bagdad”. Kristol rivendica che “l’invasione del 2003 fu la cosa giusta da fare”. L’ex segretario alla Difesa Ronald Rumsfeld si è già distinto per un libro autobiografico e un documentario dove non c’è un briciolo di autocritica, bensì l’orgogliosa rivendicazione delle avventure militari in cui i neocon trascinarono l’America e tanti alleati occidentali. Nella raffica di attacchi contro la politica estera di Obama, i neocon non fanno mancare niente: questo presidente e` accusato di aver “perso” sia la Crimea che l’Iraq, ben presto anche l’Afghanistan e l’Egitto; di non avere capito nulla delle cosiddette “primavere arabe”; di avere incoraggiato con la sua pavidità gli espansionismi russo e cinese. Dalla Siria all’Ucraina fino al Mar della Cina, è un lungo elenco di arretramenti strategici, a cui i neocon imputano un’accelerazione del declino Usa. L’Iraq resta il tema più dibattuto. I più arditi tra i neocon insinuano che la ritirata delle truppe americane sia stata un errore marchiano, fingendo di dimenticare che fu Bush a deciderne la data: 2011. I più sottili accusano Obama di non aver saputo negoziare con il premier iracheno al-Maliki quelle garanzie politico-giuridiche (immunità per i soldati Usa) che avrebbero consentito di lasciare a Bagdad un dispositivo militare leggero, ma sufficiente e condizionare il governo e impedire la disintegrazione tra fazioni sciita, sunnita, curda. Ricordano le sue parole del 2011, alla partenza delle ultime truppe Usa da Bagdad: “Lasciamo dietro di noi – disse Obama – un Iraq sovrano, stabile e autosufficiente”. Più in generale i neocon istruiscono un processo all’intera “dottrina Obama” come fu esposta dal presidente nel discorso all’accademia militare di West Point un mese fa. Salutando i cadetti con la constatazione che “siete la prima generazione di laureati di West Point che non verrà mandata a combattere in Iraq e Afghanistan”, il presidente illustrò le sue ricette per un mondo multipolare, instabile e complicato, dove gli interventi militari hanno spesso aggravato le crisi anziché risolverle, e quindi devono essere uno strumento di ultima istanza, da usare solo quando via sia la certezza di una minaccia alla sicurezza degli Stati Uniti. Parole insopportabili per i fautori di una politica estera imperiale. E tuttavia Obama non è l’unico bersaglio dei neocon. Forse neppure il principale. Per capire il ritorno di visibilità della squadra di Bush, bisogna guardare alla battaglia politica per il controllo del partito repubblicano. Le cui correnti rivali sono in fibrillazione perchè sentono “profumo di vittoria”. Già oggi il cosiddetto Grand Old Party (Gop) controlla gran parte del potere politico e amministrativo: governa 29 Stati Usa contro i 21 dei democratici; ha la maggioranza dei seggi alla Camera; ha la maggioranza dei giudici costituzionali. Stando ai sondaggi attuali potrebbe fare l’en plein fra quattro mesi, strappando sul filo di rasoio anche il Senato, alle elezioni legislative di mid-term. A quel punto la Casa Bianca sarebbe davvero un fortino assediato. Ma quale “anima” del partito repubblicano avrà il controllo di tutto questo potere? Il revival dei neocon è un tentativo di reagire alla loro emarginazione. Solo il 18% degli americani pensa che i costi umani ed economici dell’invasione dell’Iraq nel 2003 siano stati giustificati. E solo il 19% appoggerebbe l’invio di nuove truppe. Più in sintonia con l’anima del popolo della destra, è un leader isolazionista come Rand Paul che ai neocon riserva parole sferzanti: “Dov’erano le armi di distruzione di massa che loro attribuirono a Saddam? E si dimenticano di averci raccontato che quella guerra l’avevamo vinta già nel 2005?” La vittima collaterale delle polemiche dei neocon rischia di essere Jeb Bush, il fratello di George. Jeb sarebbe un candidato forte per sfidare Hillary Clinton nel 2016, è un moderato, ma qualsiasi polemica che rivanghi i ricordi infausti della presidenza di suo fratello non può che nuocergli. Scritto in America e Medio Oriente, destra Usa, Politica estera Usa | Nessun Commento» Da - http://rampini.blogautore.repubblica.it/?ref=HROBA-1 Titolo: FEDERICO RAMPINI. Elezioni Usa di midterm: bambini protagonisti Inserito da: Admin - Novembre 09, 2014, 11:25:53 am Elezioni Usa di midterm: bambini protagonisti
Rampini In quanto a Obama, al momento la sua presidenza si avvia a un crepuscolo mesto. I sondaggi misurano da molti mesi un tracollo di popolarità. Lo stesso presidente appare quasi demotivato, disilluso, consapevole di non essere riuscito a sfondare nella sua missione più ardua: riformare il sistema politico stesso. Il blocco delle istituzioni peggiora, così come si aggrava la commistione tra denaro e politica: sono state le elezioni midterm più costose della storia. Ma il presidente resterà pur sempre il dominus della politica estera nella superpotenza mondiale. Guerra e diplomazia restano essenzialmente delle prerogative della Casa Bianca, in quel campo l’influenza del Congresso è più modesta. Le grandi crisi del momento, dalla Siria all’Ucraina, continueranno ad assorbire molte energie e molta attenzione di Obama. Infine il presidente potrebbe accentuare una scelta già fatta negli ultimi mesi: usare di più i poteri esecutivi anche sul terreno dell’ambiente. Di fronte a una destra negazionista, che rifiuta perfino l’evidenza scientifica sul cambiamento climatico, non c’è intesa possibile sulla carbon tax o altri limiti alle emissioni di CO2. Perciò Obama ha già sperimentato un’opzione alternativa: intervenire aggirando il Congresso, con l’uso estensivo dei poteri regolamentari della Environmental Protection Agency. Se riuscisse a lasciare un’eredità positiva sull’ambiente, insieme con i matrimoni gay e la riforma sanitaria, Obama potrà sperare che il giudizio della storia verso di lui sia meno severo di quello dei suoi contemporanei. E magari alla fine qualcuno ricorderà che sotto di lui l’America è uscita dalla più grave crisi dopo la Grande Depressione degli anni Trenta. © Riproduzione riservata 05 novembre 2014 Da - http://www.repubblica.it/esteri/elezioni-usa/midterm2014/2014/11/05/news/elezioni_usa_la_sconfitta_di_obama_il_congresso_nelle_mani_dei_repubblicani-99785273/?ref=HREA-1 Titolo: FEDERICO RAMPINI. Caso Google, ora gli Usa temono l'Europa Inserito da: Admin - Dicembre 01, 2014, 04:23:24 pm Caso Google, ora gli Usa temono l'Europa
Il "Wall Street Journal" dà voce ai timori della Silicon Valley: l'Antitrust Ue vuol colpire le aziende digitali americane. Coinvolti anche Amazon, Facebook e Apple Dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI 29 novembre 2014 NEW YORK - Sarà la vecchia Europa a mettere seriamente in difficoltà i Padroni della Rete? Le offensive più temibili contro i nuovi monopolisti dell'economia digitale arrivano dal Vecchio continente. Anche perché l'Europa non ha campioni nazionali da difendere in questo settore, e quindi i suoi governi e le sue istituzioni federali sono più sensibili agli interessi del consumatore. Il Wall Street Journal dà voce alle preoccupazioni della Silicon Valley, con un titolo in prima pagina: "L'Europa prende di mira le aziende digitali americane". I terreni di questa offensiva sono molteplici, si va dalle accuse di elusione fiscale alle iniziative per la tutela della privacy ("diritto all'oblìo") per finire con le procedure antitrust. Su quest'ultimo terreno l'Europa ha dei precedenti illustri. Fu la Commissione Ue ad assestare un colpo al semi-monopolio di Microsoft quando il responsabile della concorrenza era Mario Monti. Anche a quell'epoca, gli americani videro in quell'offensiva una sorta di complotto anti-Usa: sta di fatto che l'Antitrust di Washington era stato fin troppo timido nei confronti del colosso di Bill Gates. Oggi una procedura analoga dell'Antitrust europea potrebbe colpire il potere semi-monopolistico di Google e forse smantellarlo: se passasse il principio della "neutralità delle piattaforme", caro soprattutto alla Francia, Google sarebbe costretta a facilitare l'uso di motori di ricerca diversi dal suo. In generale quello che il Wall Street Journal mette in risalto è una convergenza di iniziative tra i due maggiori Stati membri dell'Unione, Germania e Francia, insieme con le azioni promosse dall'Europarlamento: quest'ultimo ha preso in esame una risoluzione che "scioglierebbe" i motori di ricerca dagli altri servizi offerti dai padroni della Rete (o come vengono chiamati a Parigi "les Gafas", plurale dell'acronimo che sta per Google Apple Facebook Amazon). La questione dell'elusione fiscale è emblematica delle differenze tra Usa e Ue. In realtà fu il Congresso di Washington ad aprire per primo una indagine sul comportamento fiscale di questi colossi. Memorabile fu l'audizione di Tim Cook, chief executive di Apple, nel corso della quale i parlamentari divulgarono dati scandalosi: l'azienda fondata da Steve Jobs sfrutta ogni possibile cavillo delle legislazioni fiscali per spostare i suoi profitti da un paese all'altro. Alla fine la massima parte dei profitti viene fatta "figurare", in modo del tutto artificioso, a capo delle filiali irlandesi, con fisco più generoso. La pressione fiscale effettiva che Apple subisce sui propri profitti è dello 0,2% secondo le conclusioni di quell'indagine parlamentare. Le sedute del Congresso Usa ebbero grande pubblicità e risonanza. Poi però non se ne fece nulla. Perché? I Padroni della Rete qui a casa loro sono quasi inattaccabili. La destra, che ha la maggioranza al Congresso, è per principio contraria ad ogni aumento di pressione fiscale sulle imprese. I democratici a loro volta sono i beneficiari delle generose donazioni elettorali della Silicon Valley, da sempre "liberal" e progressista su temi come l'ambiente e i matrimoni gay. Ecco perché alla fine è più probabile che la lotta all'elusione fiscale dei monopolisti digitali faccia qualche passo avanti nella Ue, dove il loro potere di condizionamento è meno forte. Se ne sono resi conto i vertici di Google: il presidente Eric Schmidt e il chief executive Larry Page di recente hanno moltiplicato i loro viaggi "diplomatici" a Bruxelles, Berlino e Parigi, per intensificare un attività di lobbying fin qui non abbastanza efficace. © Riproduzione riservata 29 novembre 201 Da - http://www.repubblica.it/economia/2014/11/29/news/caso_google_ora_gli_usa_temono_l_europa-101679456/?ref=HRER2-1 Titolo: FEDERICO RAMPINI. Usa, cyber-attacco cinese: sono 18 milioni le identità rubate Inserito da: Admin - Giugno 25, 2015, 10:36:45 am Usa, cyber-attacco cinese: sono 18 milioni le identità rubate
Si era parlato di 4,2 milioni di dati trafugati ma il danno del blitz compiuto dagli hacker è di gran lunga più grave, secondo quanto riferito dalla Cnn. L'amministrazione Obama non ha dubbi: dietro c'è la mano di Pechino Dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI 23 giugno 2015 NEW YORK - Se queste sono le prove generali della cyber-guerra, siamo a una specie di Pearl Harbor. Coi cinesi al posto dei giapponesi. E' una debacle americana, le cui dimensioni si sono improvvisamente ingigantite. Più del quadruplo rispetto alle rivelazioni della scorsa settimana. Non 4,2 milioni bensì 18 milioni di identità sono state rubate dagli hacker, che l'Amministrazione Obama riconduce alla Cina. Si tratta di dati personali, riservati, su altrettanti dipendenti dell'Amministrazione federale, nonché ex dipendenti, oppure candidati all'assunzione che hanno mandato i propri curriculum agli uffici del personale. E non è neanche sicuro che il bilancio sia definitivo. Secondo l'ultima rivelazione della Cnn che riferisce quanto detto dal direttore dell'Fbi James Comey al Senato, l'entità del furto alla fine potrebbe risultare ancora più vasta. L'Fbi a sua volta ha ripreso le informazioni dell'Office of Personnel Management, l'ufficio del personale e risorse umane a cui fanno capo i dipendenti della burocrazia federale. I punti di accesso che gli hacker cinesi hanno usato sarebbero molteplici, incluse alcune società di reclutamento del personale a cui l'Amministrazione federale subappalta l'esame dei candidati all'assunzione. Questa cyber-intrusione è considerata la peggiore della storia. Una ragione per cui il numero delle vittime continua a dilatarsi, è che gli hacker hanno violato un database governativo usato per i controlli di sicurezza sui dipendenti (fedina penale pulita, casellario giudiziale ecc.). In quel database per garantire che i dipendenti federali non abbiano precedenti penali, non siano bancarottieri, ricattabili per debiti, ecc., vengono custodite anche informazioni sui loro familiari. Quindi ogni singola identità violata dagli hacker può corrispondere a un intero nucleo familiare. L'Amministrazione Obama ora è nella bufera: il Congresso l'accusa di non avere rispettato gli standard di sicurezza informatica che lei stessa si era dati. © Riproduzione riservata 23 giugno 2015 Da - http://www.repubblica.it/esteri/2015/06/23/news/usa_cyber-attacco_cinese_sono_18_milioni_le_identita_rubate-117476892/?ref=HREC1-1 Titolo: FEDERICO RAMPINI. Grecia, i nuovi equilibri del Fondo e la corsa alla rielezione Inserito da: Admin - Giugno 27, 2015, 10:16:29 am Grecia, i nuovi equilibri del Fondo e la corsa alla rielezione hanno irrigidito la Lagarde
C'è il numero uno dell'Fmi dietro le ultimi condizioni poste ad Atene. Ieri si è detta disponibile a un nuovo mandato al vertice. Ed è diventata il falco della trattativa Dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI 25 giugno 2015 NEW YORK. Dietro le ultime condizioni poste dai creditori della troika alla Grecia, c'è la mano di Christine Lagarde: "l'altra donna più potente del mondo", che con Angela Merkel ha avuto un peso determinante nella crisi greca. Tagli più sostanziosi alle pensioni, con l'allungamento dell'età pensionabile a 67 anni entro il 2022 (sia pure salvaguardando i pensionati più poveri). Un ridimensionamento drastico di quella stangata fiscale sulle imprese a cui il governo Tspiras voleva affidare il risanamento dei conti pubblici. Tutto questo era contenuto nelle richieste avanzate dai tecnici del Fmi. Le aveva ribadite il capo economista Olivier Blanchard, francese come Lagarde, nel suo blog una settimana fa: "Occorre una riduzione della spesa pensionistica per l'1% del Pil". Ieri la direttrice generale ha annunciato che sarà disponibile per un nuovo mandato al vertice del Fmi, se glielo chiederanno i membri dell'organizzazione. A questo punto i giochi per l'elezione al vertice del Fmi diventeranno anche un giudizio degli Stati membri su come è stata gestita la crisi greca. Gli equilibri geopolitici in seno al Fondo aiutano a capire l'irrigidimento evidente che c'è stato verso Atene. Le "due Washington" si sono mosse quasi sempre in sintonia: da una parte la capitale federale degli Stati Uniti, dall'altra la sede del Fondo stesso che si trova a pochi isolati dalla Casa Bianca e dal Tesoro Usa. La sintonia si spiega anche col fatto che l'America rimane l'azionista di maggioranza relativa dell'organismo. Sulla Grecia si era partiti con una diversa ripartizione dei compiti tra americani ed europei. All'inizio di una crisi che gli americani giudicano folle nella sua durata (cinque anni per un paese che pesa meno del 2% del Pil dell'eurozona), Barack Obama e i suoi ministri del Tesoro erano le "colombe". Toccava a loro il compito di criticare l'euro-austerity, e non esitavano a farlo a gamba tesa. Ci furono dei summit europei in cui il precedente segretario al Tesoro Tim Geithner si "auto-invitò" per portarvi le pressioni di Obama, preoccupato che la Grecia potesse scivolare tra le braccia di Putin. In quanto all'altra Washington, i tecnici del Fmi davano sostanzialmente ragione a Obama. Uno studio del Fondo che fece scalpore dimostrava in modo irrefutabile gli effetti dannosi dell'austerity. Col passare del tempo le due Washington sono diventate meno comprensive verso Atene. Hanno giocato anche dei fattori personali: all'ultimo meeting del Fondo sia gli uomini di Obama che Lagarde hanno avuto un pessima impressione del ministro dell'economia greco Varoufakis, più impegnato a cercare applausi nei convegni che a studiare i dossier. Ma soprattutto è cresciuta la fronda dei paesi emergenti in seno al Fmi, esasperati per il troppo tempo e le troppe risorse dedicate alla Grecia, in confronto a quanto fatto quando a trovarsi in difficoltà furono paesi veramente poveri. Il malumore degli emergenti ha incrociato un'altra vicenda che ha messo in allarme Obama: la creazione da parte della Cina della Asian Infrastructure Investment Bank (Aiib), in palese concorrenza con la Banca Mondiale. Un nuovo organismo nel quale Pechino è riuscita ad attirare non solo molti paesi asiatici ma anche nazioni europee alleate dell'America, dall'Inghilterra alla Germania all'Italia. Con questo gesto la Cina ha lanciato una sfida all'ordine di Bretton Woods e alle sue istituzioni. Ha interpretato il malumore di tutti gli emergenti, esasperati per l'evidente "occidento-centrismo" del Fmi. Un problema annoso, con le quote di "azionariato" del Fmi che non riflettono più i veri equilibri e rapporti di forze tra le nazioni. Questo ha accelerato l'irrigidimento verso Atene, sia da parte di Obama che di Lagarde. Ciascuno ha prospettive diverse, e Obama resta preoccupato che Tsipras vada verso la Russia. Lagarde è più esposta di lui, di fronte all'ira degli emergenti, tanto più se inizia per lei una campagna per la rielezione. Come ha dimostrato quella sfida cinese, le due Washington non possono più permettersi di dare alla Grecia un'attenzione così smisurata a scapito di tanti altri paesi che contano. © Riproduzione riservata 25 giugno 2015 Da - http://www.repubblica.it/economia/2015/06/25/news/lagarde-117632947/?ref=HREC1-5 Titolo: FEDERICO RAMPINI. La seduzione del caos globale Inserito da: Arlecchino - Settembre 15, 2015, 04:31:17 pm La seduzione del caos globale La "distruzione creatrice" di Silicon Valley è alimentata da tattiche di guerriglia. Nel mondo di Internet la parola "virale" è utilizzata sempre in senso positivo. Dalle teorie matematiche alla geopolitica: l'analisi del disordine nel saggio di Federico Rampini Di FEDERICO RAMPINI 15 settembre 2015 Vista dagli Stati Uniti l'Italia fa notizia quando vi approdano ondate di disperati, costretti ad attraversare il Mediterraneo. La Germania è un colosso economico dai piedi d'argilla, non riesce a dare all'Europa un progetto nuovo, forte e convincente. Un altro paese era il simbolo del miglior modello europeo: il politologo americano Francis Fukuyama ha coniato l'espressione "diventare Danimarca", per illustrare la transizione a una liberaldemocrazia esemplare; ebbene, anche la Danimarca non è più sicura di voler essere Danimarca, a giudicare dall'ascesa di partiti xenofobi, dal diffondersi di nuove paure in un paradiso scandinavo che si sente sotto assedio. La Nato si riarma per far fronte a Putin, ma le opinioni pubbliche europee distolgono gli sguardi dal rullare dei tamburi di guerra. Gli europei hanno altro a cui pensare: i figli senza lavoro o sottopagati; i tagli alle pensioni; i servizi pubblici in declino. Non sta molto meglio la mia America. Per essere la nazione più dinamica sotto molti aspetti - economia, demografia, energia, scienza, tecnologia - soffre di un'insicurezza sorprendente: dopo sei anni di crescita dell'occupazione, una maggioranza di americani continua pensare che "il paese è sulla strada sbagliata". Anche qui molti giovani, pur avendo sbocchi professionali migliori che in Europa, non possono aspirare al tenore di vita dei propri genitori. La prossima rivoluzione tecnologica - il balzo in avanti nella robotica e nell'intelligenza artificiale - minaccia di rendere inutili o subalterne molte professioni intellettuali. La più grave crisi economica dopo la Depressione degli anni Trenta lascia delle ferite aperte. Questa crisi è stata "sprecata", non ha portato a cambiamenti risolutivi; si parla apertamente di una stagnazione secolare. Pesa anche la perdita di una missione. L'America, anche quella parte che rimane convinta della propria "eccezionalità", non crede più che sia possibile una Pax Americana nel mondo. Siamo le prime generazioni testimoni di un evento inaudito, la chiusura di una fase storica durata mezzo millennio, quel dominio dell'uomo bianco sul pianeta che si aprì con l'epoca delle grandi scoperte, a cui seguirono le conquiste coloniali. Il pendolo della storia torna inesorabilmente dove lo avevamo lasciato cinque secoli fa, almeno dal punto di vista delle gerarchie e dei rapporti di forze: quando era Cindia il baricentro del mondo, l'area più ricca e avanzata, oltre che la più popolosa. Ma il pendolo è lento. Siamo nella transizione, in uno di quei periodi instabili e pericolosi: dove l'ordine antico sta franando, di un ordine nuovo non c'è neppure una traccia. Il declino relativo dell'America, non è compensato dal sorgere di un avvenire radioso sotto altri egemoni. Chi di noi brama di vivere sotto una Pax Cinese o Russa? Modelli alternativi non ce n'è in circolazione; prevalgono coalizioni occasionali fra risentimenti anti-occidentali. Cinesi o russi, arabi o africani, possono elencare facilmente i lunghi torti storici che hanno subito dall'Occidente. Non hanno elaborato la visione di un altro mondo da costruire. L'Età del Caos esplora le linee di frattura che attraversano il mondo in cui viviamo, ne traccia le frontiere più aggiornate, le forze che lo stanno plasmando. Dalla geopolitica all'economia, dall'ambiente alla crisi delle democrazie, dalla rivoluzione tecnologica al futuro di Cina e India. Conoscere il Caos, è la condizione essenziale per padroneggiarlo... o almeno galleggiare, sopravvivere, adattarsi? C'è una seduzione del Caos. La sua attrazione fatale, malefica e demoniaca, l'avvertiamo in un sottile slittamento del linguaggio. Prendete la parola virus. Virale è diventato un segno di successo. Se un video su YouTube attira un pubblico immenso definiamo virale la sua diffusione. Se una start-up lancia una app per cellulari che conquista gli utenti, tipo Uber o Instagram o Whatsapp, è promossa a fenomeno virale. C'è chi estende il vocabolario medico-biologico alla geopolitica e alla religione. L'avanzata dello Stato Islamico per la sua rapidità viene descritta come un "contagio". Autorevoli esperti fanno parallelismi con le epidemie. Ancora i virus. Il Caos come principio dinamico. Da una parte ci sono delle classi dirigenti, l'establishment, i governanti, la cui formazione è radicata nel passato, incapaci di capire il futuro. Questi tendono a pensare in modo "lineare"; come se fosse possibile ripristinare qualche tipo di status quo, di stabilità. Dall'altra parte ci sono le nuove élite, i veri protagonisti del futuro: guerriglieri o imprenditori delle start-up, vedono nell'instabilità la nuova norma, pensano al Caos come a un'opportunità. La "distruzione creatrice" della Silicon Valley californiana è alimentata da tattiche di guerriglia: gli innovatori sono minuscoli, quando partono all'assalto dei poteri costituiti. In quel mondo dell'imprenditorialità più dinamica, a San Francisco, il vocabolo in voga è "disruptive". Per essere un protagonista devi essere dirompente, devastante, distruttivo. Il Caos può diventare per noi un'opportunità? Che cosa possiamo imparare dalla mappatura del Disordine dominante? Crisi e opportunità sono una parola sola, in mandarino. Il filosofo greco Socrate, nel ritratto che ci tramanda Aristofane con la commedia Le Nuvole, considerava il Caos come una divinità. Più vicina a noi, è la matematica post-newtoniana ad avere fatto della Teoria del Caos uno dei suoi sviluppi più importanti. La direzione imboccata dagli scienziati è assai diversa dall'accezione negativa e catastrofista del disordine, dell'anarchia e dell'assenza di regole "lineari". Chiedo aiuto al matematico Leonard Smith, docente alla London School of Economics. "Uno dei miti del caos che va denunciato - dice - è che esso renda inutile il tentativo di fare previsioni. Il caos riflette dei fenomeni nella matematica e nelle scienze: dei sistemi dove delle piccole differenze nel modo in cui sono le cose oggi, possono avere conseguenze enormi su come le cose saranno in futuro". Lo studio del caos si è allargato all'astronomia, alla meteorologia, alla biologia, e ovviamente all'economia. La differenza rispetto alla matematica e alla fisica di Newton? "In base alle leggi di Newton, il futuro del sistema solare è completamente determinato dal suo stato attuale... Un mondo è deterministico se la sua situazione attuale definisce compiutamente ciò che sarà il suo futuro". Non c'è da stupirsi, se i più giovani, i più trasgressivi, i più creativi tra di noi sentono nel Caos una promessa di illimitate possibilità. Un mondo non-determinato, un mondo dove minuscoli cambiamenti oggi possono produrre grandi conseguenze domani: perché mai dovremmo vederne solo il negativo? © Riproduzione riservata 15 settembre 2015 Da - http://www.repubblica.it/cultura/2015/09/15/news/l_a_seduzione_del_caos_globale-122893594/?ref=HRER2-1 Titolo: FEDERICO RAMPINI Primarie Usa, sorpresa in Iowa: Cruz batte Trump, Hillary ... Inserito da: Arlecchino - Febbraio 04, 2016, 05:01:20 pm Primarie Usa, sorpresa in Iowa: Cruz batte Trump, Hillary vince di misura su Sanders
Il voto nel piccolo Stato del Midwest. Sondaggi smentiti. A destra il favorito Trump scivola quasi terzo, nel voto democratico un pareggio virtuale Dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI 02 febbraio 2016 DONALD Trump si affloscia, superato da Ted Cruz. Hillary Clinton è già in difficoltà di fronte a Bernie Sanders. Le primarie dell'Iowa offrono le prime sorprese nella corsa per la nomination all'elezione presidenziale. In tutti e due i partiti, i sondaggi della vigilia vengono smentiti. Lo shock più clamoroso è a destra, dove Donald Trump veniva dato come un vincitore con ampio margine e invece rischia quasi di finire al terzo posto. Hillary Clinton che era partita all'inizio della campagna con un vantaggio che sembrava incolmabile, soffre l'umiliazione di una vittoria di misura con il 49,9% contro l'unico politico d'America che osa definirsi un "socialista", che si attesta al 49,6%. In tutti e due gli schieramenti, vincono candidati anti-establishment, in rotta di collisione con i rispettivi partiti. Il discorso della vittoria di Ted Cruz ha offerto un riassunto di questo candidato, per molti aspetti più estremista di Donald Trump. Con continue citazioni della Bibbia, Cruz ha annunciato che la sua presidenza sarà "la vittoria dei valori giudeo-cristiani, dopo anni in cui Obama ha rovinato l'America". Ha polemizzato apertamente con i vertici del partito repubblicano. "Questa - ha detto il senatore del Texas - è una vittoria della base. L'establishment del partito aveva puntato su altri". Ha ringraziato i 12.000 volontari che hanno animato la sua campagna nell'Iowa, "e i 150 pastori". Sono due elementi chiave per spiegare la sua vittoria col 28% dei voti: Cruz ha saputo dispiegare una formidabile organizzazione sul terreno, capillare e moderna. Ha potuto contare anche sull'appoggio di buona parte degli evangelici, fondamentalisti protestanti che sono una componente decisiva dell'elettorato repubblicano soprattutto nelle aree rurali. Trump ha concesso la vittoria con fair-play: "Quando annunciai la mia candidatura il 16 giugno 2015 - ha detto il magnate immobiliare newyorchese - mi dissero che nell'Iowa non dovevo neppure presentarmi perché non sarei arrivato neanche tra i primi dieci. Sono onorato di essere arrivato secondo, congratulazioni a Ted Cruz, e ci rivediamo la settimana prossima nel New Hampshire". Buon incassatore, tuttavia Trump col suo 24% ha pagato una campagna tutta puntata sui media nazionali, senza un vero esercito di volontari di base. Bisogna vedere quali conseguenze avrà sulla dinamica delle prossime primarie, il fatto che Trump abbia perso l'aureola dell'invincibilità che negli ultimi mesi era diventata parte del suo personaggio. L'ottimo risultato di Marco Rubio, che ha quasi eguagliato Trump al 23%, è la speranza dell'establishment. Affondato Jeb Bush, rimane Rubio come candidato relativamente moderato su cui puntare. E infatti Rubio ha fatto un discorso trionfale, da quasi-vincitore, dopo una serata che lo consacra nel trio di testa. Con ogni probabilità cominceranno a riversarsi su di lui i fondi dei ricchi finanziatori che finora sostenevano Bush. Tra i democratici il discorso della quasi-vittoria lo ha potuto fare Sanders. "All'inizio della mia campagna - ha detto il senatore del Vermont - ero staccato di 40 punti. Ho fatto una campagna senza mezzi, senza grandi finanziatori". E' uno dei suoi cavalli di battaglia, una delle ragioni per cui affascina una parte della base democratica e tanti giovani: la sua denuncia della corruzione implicita nel sistema democratico americano, per l'affluire quasi illimitato di donazioni private ai candidati. Hillary Clinton da mesi si sta spostando più a sinistra per tenere conto dell'offensiva Sanders. Anche lei adesso propone più tasse sugli straricchi e più limiti alla speculazione di Wall Street. È riuscita a scongiurare in extremis un bis del 2008, quando proprio l'Iowa le inflisse una batosta e lanciò in orbita Barack Obama. Ma per la Clinton, che nell'Iowa disponeva di una macchina organizzativa molto più strutturata e vasta, il risultato di pareggio è già un segnale d'allarme. © Riproduzione riservata 02 febbraio 2016 Da - http://www.repubblica.it/esteri/elezioni-usa/primarie2016/2016/02/02/news/iowa_e_gia_terremoto_cruz_batte_trump_hillary_prima_ma_in_difficolta_con_sanders-132529787/?ref=nl-Ultimo-minuto-ore-13_02-02-2016 Titolo: FEDERICO RAMPINI. Primarie Usa, in New Hampshire vincono Sanders e Trump Inserito da: Arlecchino - Febbraio 11, 2016, 05:07:24 pm Primarie Usa, in New Hampshire vincono Sanders e Trump
Schiacciante il vantaggio del 74enne senatore del Vermont su Hillary Clinton. Tra i repubblicani la novità è il secondo posto del governatore dell'Ohio Kasich. In entrambi i campi la battaglia per la nomination si prospetta comunque complessa Dal nostro inviato FEDERICO RAMPINI 10 febbraio 2016 MANCHESTER (New Hampshire) - Vincono i due outsider, Bernie Sanders a sinistra e Donald Trump a destra. Si rilanciano nella primaria del New Hampshire, e questo promette una battaglia lunga e complicata per la nomination, visto che né l'uno né l'altro godono dei favori dell'establishment dei rispettivi partiti. … Più netta e schiacciante è l'affermazione tra i democratici del senatore del Vermont: il 74enne Sanders riesce a infliggere a Hillary Clinton un distacco enorme, dell'ordine di venti punti. Lei incassa la sua prima disfatta, la riconosce con fair-play e dichiara: "Sono abituata a cadere, per questo capisco la sorte di tanti americani, come loro mi rialzerò". Per Sanders invece "è cominciata una rivoluzione politica, con la partecipazione di cittadini che non avevano mai fatto politica prima, il messaggio è che il governo del Paese appartiene a tutti i cittadini, non a un pugno di miliardari". Gli risponde in diretta Trump, a pochi minuti di distanza: "Congratulazioni a Bernie. Ma lui vuole svendere la nostra America. E invece noi rifaremo l'America grande, batteremo la Cina, daremo una lezione al Messico, tutti dovranno rispettarci. Avremo frontiere forti, protette dal Muro. Rinegozierò tutti i trattati commerciali in nostro favore, basta con le concessioni ai cinesi e a tutti gli altri. Sarò il più grande presidente che Dio ha mai dato all'America". Ne approfitta per ingraziarsi la lobby delle armi e tutti quelli che respingono ogni restrizione, con un richiamo alla strage del 13 novembre a Parigi: "I francesi hanno le leggi più severe contro le armi, poi lasciano entrare quegli animali, e quelli fanno 130 morti". A destra emerge una novità per il fronte moderato, è l'affermazione di John Kasich, governatore dell'Ohio. Piazzandosi al secondo posto, Kasich può aspirare a coagulare su di sé i voti dei repubblicani tradizionalisti, quelli che sono inorriditi dalle sparate di Trump. Marco Rubio invece viene umiliato, finisce al quinto posto, probabilmente una sanzione per la sua disastrosa performance nell'ultimo dibattito televisivo. Ma è l'affermazione di Sanders il dato più eclatante in termini numerici, per il distacco abissale che infligge all'ex segretario di Stato. La Clinton aveva preparato il terreno per incassare bene questa batosta, visto che da qualche mese ormai i sondaggi davano Sanders favorito in questo piccolo Stato del New England vicino al suo Vermont. Ora per Hillary diventano davvero cruciali gli appuntamenti del Nevada e del South Carolina: là c'è un elettorato etnicamente più variegato, con una maggiore incidenza di ispanici e afroamericani, due gruppi con i quali la Clinton ha coltivato legami da molto tempo. E tuttavia non potrà più dare nulla per scontato. Il fascino di Sanders tra i giovani sembra ormai estendersi anche alle nuove generazioni di immigrati. La Clinton è inseguita dallo spettro del 2008, un'altra campagna che lei cominciò come favorita, "ineluttabile", con l'appoggio massiccio della macchina del suo partito, per poi vedersi sgretolare il suo bacino di consensi. Sanders ha fatto ieri sera un discorso "presidenziale", un vero programma di governo. Comincia a credere che sia possibile. Tanto che sul suo sito ora è ben visibile una precisazione: il senatore Sanders "non è un socialista, è un socialdemocratico". Non bisogna esagerare, insomma. © Riproduzione riservata 10 febbraio 2016 Da - http://www.repubblica.it/esteri/elezioni-usa/primarie2016/2016/02/10/news/primarie_usa_new_hampshire-133084078/?ref=HREA-1 Titolo: FEDERICO RAMPINI. La partnership allenterebbe le barriere protezionistiche. Inserito da: Arlecchino - Febbraio 21, 2016, 11:19:22 pm Ma quell’accordo può segnare il destino del falso “parmeggiano” che piace agli Usa
La partnership allenterebbe le barriere protezionistiche. Gli ostacoli: le multinazionali e la debolezza di Obama. Per l’Italia un mercato da 30 miliardi. Gentiloni ne parlerà con Kerry martedì. I repubblicani, pur a favore del libero mercato, sono tentati dal boicottaggio Dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI 05 dicembre 2014 NEW YORK. Da consumatore italiano che fa la spesa nei supermercati americani, forse mi verrà risparmiata un giorno l'offesa del "Parmesan" o del "Parmeggiano" (sic)? La smetterà un allevatore dell'Iowa di rifilare agli ipermercati Whole Foods un prosciutto crudo che si pretende uguale al nostro? L'America riserva tante sorprese: tra queste c'è il protezionismo. Perciò la Transatlantic Trade and Investment Partnership (Ttip), il nuovo trattato Usa-Ue per liberalizzare gli scambi, potrebbe anche rappresentare un progresso per noi. Potrebbe - ammesso che vada in porto, e per il verso giusto - smantellare delle barriere occulte che gli americani usano contro il made in Italy. Non se ne accorge certo il turista italiano che passeggia sulla Quinta Avenue addobbata per il Natale: lì non mancano Armani e Prada, Dolce&Gabbana o Bottega Veneta. Il protezionismo ci colpisce altrove, con dazi, tariffe doganali, ostacoli regolamentari: dall'agroalimentare ai gioielli, dal tessile ai macchinari. "Gli americani - mi conferma il viceministro Carlo Calenda - non hanno mai riconosciuto i marchi locali, come la denominazione del prosciutto di Parma; per loro esistono solo marchi aziendali". Fino alla "circonvenzione d'incapace" che è l'uso del cosiddetto Italian Sounding, cioè nomi che suonano italiani, assomigliano agli originali, e traggono in inganno la massa dei consumatori meno avveduti. Ma ci sono cascato anch'io, confesso: nella fretta mi è capitato di scambiare l'infame "Parmeggiano" per il prodotto vero. Sta succedendo qualcosa di nuovo nel maxi-negoziato Usa-Ue. Fino a pochi mesi fa erano gli Stati Uniti a premere dall'alto, e l'opinione pubblica europea a resistere dal basso. Ai summit del G7 e G20, Barack Obama ha presentato il Ttip come "una spinta alla crescita e all'occupazione, su ambedue le sponde dell'Atlantico ". In Europa si denunciavano i pericoli, soprattutto per la salute dei consumatori: il Ttip veniva visto come il cavallo di Troia delle multinazionali Usa per invadere il Vecchio continente con Ogm, manzo agli ormoni, pollo alla clorina. Altra paura: un assalto dall'America ultra-liberista contro i servizi pubblici. O contro "l'eccezione culturale" cara ai francesi. Si denunciava la segretezza delle trattative, un tema fatto proprio anche dal Nobel americano Joseph Stiglitz. A qualcosa l'allarme è servito. L'Unione europea ha reso pubblico il "mandato negoziale", accogliendo le richieste di trasparenza. Il principio di precauzione europeo resterà in piedi contro gli Ogm. Eccezione culturale e servizi pubblici resteranno fuori dal Ttip. Resta una clausola molto controversa, l'Investor to State Dispute Settlement (Isds), che consentirebbe alle imprese private di far causa agli Stati davanti a una corte arbitrale per annullare provvedimenti considerati discriminatori. Sul New York Times un esperto latinoamericano, Manuel Perez-Rocha, spiega il pericolo di questa clausola: impugnata dalle multinazionali, può interferire con la sovranità degli Stati, soprattutto i Paesi emergenti. C'è un rovescio della medaglia, spiega Calenda: "Le imprese italiane che si sentono discriminate dal protezionismo di Stato in Cina, per esempio, da questa clausola già esistente nei trattati hanno l'unica speranza di tutela". L'Italia è diventata una sostenitrice del Ttip, perché potrebbe aprirci nuovi sbocchi su un mercato Usa che vale già oggi 30 miliardi di euro all'anno per il made in Italy. Il ministro degli Esteri Gentiloni ne parlerà col suo omologo John Kerry a Washington martedì prossimo. Nel frattempo è qui in America che il vento gira contro il Ttip. La disfatta dei democratici alle elezioni di novembre ha peggiorato lo stallo. I repubblicani, che ora controllano l'intero Congresso, sono liberoscambisti e potrebbero votare sì al Ttip: ma sono anti-Obama in modo così viscerale che difficilmente approveranno un'iniziativa del presidente. La minoranza democratica è sensibile alle resistenze dei sindacati, che nell'altro trattato verso il Pacifico vedono nuovi rischi per i lavoratori. E Washington si accorge che questi trattati sono a doppio taglio: il Canada sta facendo una battaglia legale contro Buy American, la clausola protezionista che ha bloccato l'accesso agli stranieri nel business delle commesse pubbliche e grandi opere. © Riproduzione riservata 05 dicembre 2014 DA - http://www.repubblica.it/economia/2014/12/05/news/ma_quellaccordo_pu_segnare_il_destino_del_falso_parmeggiano_che_piace_agli_usa-102158372/?ref=search Titolo: F. RAMPINI. Zuckerberg lancia il suo manifesto politico: "Speranza, non muri". Inserito da: Arlecchino - Aprile 14, 2016, 10:55:41 am Zuckerberg lancia il suo manifesto politico: "Speranza, non muri"
Il fondatore di Facebook traccia il piano decennale dell'azienda, attacca Trump sui migranti e indica "la condivisione" come via da seguire Dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI 14 aprile 2016 NEW YORK - Condanna nazionalismi e xenofobia, invoca la comprensione per l'altro e la solidarietà. Attacca esplicitamente Donald Trump. Non è papa Francesco, è Mark Zuckerberg che da San Francisco lancia il suo manifesto politico. Il 31enne fondatore e chief executive di Facebook ha illustrato un piano decennale per lo sviluppo strategico del social media, che è anche un condensato della filosofia e dei valori della sua azienda. Un social network da 1,6 miliardi di utenti, che a Zuckerberg "va stretto": la sua ambizione è collegare a Internet tutti i 7 miliardi di abitanti del pianeta. Di qui discende anche una visione politico-morale: "Siamo una comunità globale unica, nell'accogliere i rifugiati che tentano di salvarsi da una guerra, o gli immigrati in cerca di opportunità; nell'unirci per combattere un'epidemia o il cambiamento climatico". Ha polemizzato contro "l'attuale tendenza di molte nazioni a ripiegarsi su se stesse". Ha accusato "le voci della paura che invitano a costruire muri e a prendere le distanze dalle persone descritte come diverse da noi". Zuckerberg parlava a San Francisco nell'ambito della conferenza annuale F8 in cui riunisce tutti i developer che scrivono nuovi programmi di software per le app di Facebook. Ad ascoltarlo c'era una folla di 2.600 collaboratori interni o esterni, venuti dal mondo intero. Al centro del suo messaggio Zuckerberg ha messo uno slogan: "Dare a ciascuno il potere di condividere con tutti gli altri". Verbo-chiave, to share, indica la "condivisione" di messaggi, foto, esperienze e commenti che ciascuno fa con gli amici sulle proprie pagine di Facebook. Ma è anche allusione a un altro tipo di condivisione, la diffusione delle opportunità, la distribuzione delle ricchezze. Zuckerberg si appropria così di una tradizione antica, almeno per i tempi storici della giovane Silicon Valley e di tutta la West Coast americana: un luogo dove gli imprenditori hanno spesso cavalcato visioni progressiste, utopie sociali, il sogno di rifare il mondo. Da Bill Gates a Steve Jobs, da Larry Page a Elon Musk, molti pionieri dell'innovazione tecnologica hanno anche proposto un credo ideologico libertario, ambientalista, inclusivo, multietnico. Il modello economico della Silicon Valley alla prova dei fatti resta un moltiplicatore delle diseguaglianze, ma questo non impedisce ai suoi leader di sfornare nuove utopie. Zuckerberg si candida in questo caso a rubare il ruolo a Google, che agli albori fu celebre per il motto "Don't be evil", non essere cattivo o non fare del male. "Ci vuole coraggio oggi - ha detto Zuckerberg - per scegliere la speranza al posto della paura. Se lo fate, qualcuno vi definirà ingenui ma ogni passo avanti nel progresso è stato consentito da questa speranza e da questo ottimismo". Un passaggio in perfetto stile "obamiano", anche se le relazioni fra il fondatore di Facebook e il presidente hanno conosciuto alti e bassi. Nell'attuale campagna elettorale Zuckerberg è attivo tramite un'organizzazione bipartisan, Fwd.Us (dall'abbreviazione di forward cioè "in avanti") che ha sostenuto singole campagne tematiche: per esempio la battaglia per una riforma delle leggi sull'immigrazione, allineata con le posizioni dei democratici; invece ha caldeggiato l'oleodotto XL Keystone, combattuto dagli ambientalisti e bocciato da Obama. Alla conferenza F8 non è mancata la parte dedicata al business: Zuckerberg ha lanciato un nuovo canale di comunicazione, dei "Chat bots", messaggerie che creano un collegamento diretto tra gli utenti di Facebook e le aziende che vi fanno pubblicità. © Riproduzione riservata 14 aprile 2016 Da - http://www.repubblica.it/tecnologia/social-network/2016/04/14/news/mark_zuckerberg_manifesto_politico-137581464/?ref=HREC1-19 Titolo: FEDERICO RAMPINI. Usa, Microsoft fa causa al governo: "Gli utenti devono ... Inserito da: Arlecchino - Aprile 16, 2016, 05:34:45 pm Usa, Microsoft fa causa al governo: "Gli utenti devono conoscere quando si vìola la loro privacy"
Il dossier della multinazionale denuncia la frequenza crescente con cui polizia e autorità giudiziaria esigono di mettere le mani sui "nostri" dati: email e altro. Con in più, la richiesta-imposizione all'azienda di tenere all'oscuro il cliente Dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI 14 aprile 2016 NEW YORK - Dopo la guerra (mai conclusa) tra Apple e Fbi, si apre quella tra Microsoft e il Dipartimento di Giustizia americano. Si allarga il fronte che oppone i colossi dell'economia digitale all'Amministrazione Obama, con al centro un tema unico: quale equilibrio trovare tra il diritto alla privacy da una parte, gli imperativi della sicurezza nazionale e della lotta al terrorismo (o al crimine) dall'altra. Microsoft è scesa in campo oggi facendo causa al Dipartimento di Giustizia. Il voluminoso dossier presentato dalla multinazionale che fu fondata da Bill Gates, denuncia la frequenza crescente con cui polizia e autorità giudiziaria esigono di mettere le mani sui "nostri" dati: email e altro. Con in più, la richiesta-imposizione alla Microsoft di tenere all'oscuro il cliente, quando i suoi dati personali sono stati violati per passarli agli inquirenti. Il fascicolo presentato dai legali di Microsoft è ricco di numeri. Solo nell'ultimo anno e mezzo, la multinazionale che ha sede vicino a Seattle avrebbe ricevuto ben 5.624 richieste di accesso ai dati dei suoi clienti, presentate dalle autorità federali (generalmente l'Fbi che agisce come polizia giudiziaria alle dipendenze del dicastero di Giustizia). Su queste quasi la metà (2.576) erano accompagnate da un ulteriore ingiunzione del giudice: non far sapere al cliente che c'è stata la "perquisizione digitale". In molti casi (1.752) questo diktat di segretezza è a tempo indeterminato. Il cliente non deve sapere né ora né mai che la Microsoft ha collaborato con gli inquirenti dando accesso alle sue email o altre informazioni. L'argomentazione dei legali di Microsoft, che prende di mira proprio quest'ultimo aspetto, fa leva sulla differenza rispetto alle normali indagini di polizia nel mondo "fisico": se gli inquirenti fanno irruzione a casa tua con un mandato di perquisizione, almeno ti accorgi che la porta è stata aperta e i cassetti della tua camera sono sottosopra. Nella causa contro il governo avviata oggi da Microsoft l'accusa di incostituzionalità prende di mira proprio questo, il divieto di informare il cliente quando i suoi dati sono stati consegnati a polizia e magistratura. Secondo la Microsoft questo ordine viene impartito troppo spesso, con leggerezza, a prescindere se sia davvero essenziale ai fini delle inchieste o della sicurezza nazionale. I legali dell'azienda chiamano in causa il Primo e il Quarto emendamento della Costituzione, dove si stabiliscono principi come il diritto all'informazione e il dovere di avvisare i cittadini che subiscono perquisizioni. Per il Dipartimento di Giustizia la contro-argomentazione farà leva sul pericolo che i soggetti inquisiti (per esempio presunti terroristi) cambino le loro modalità di comunicazione per mettersi al riparo. La scesa in campo di Microsoft conferma che si sta compattando il fronte delle grandi aziende hi-tech. Il caso precedente più celebre fu la richiesta dell'Fbi rivolta ad Apple, perché violasse lo smartphone usato dai terroristi autori della strage di San Bernardino (California) a dicembre. Quella battaglia si è esaurita da quando il Dipartimento di Giustizia ha trovato altri modi per penetrare lo smartphone, con l'aiuto di hacker. All'inizio Bill Gates prese le distanze dalla posizione di Apple, che opponeva un netto rifiuto alle richieste dell'Fbi, ora la sua Microsoft ha scelto di serrare i ranghi con gli altri big dell'industria tecnologica. © Riproduzione riservata 14 aprile 2016 Da - http://www.repubblica.it/tecnologia/sicurezza/2016/04/14/news/usa_microsoft_fa_causa_al_governo_gli_utenti_devono_conoscere_se_si_viola_la_loro_privacy_-137644659/?ref=HRER3-1 Titolo: FEDERICO RAMPINI. Zuckerberg lancia il suo manifesto politico: "Speranza, non... Inserito da: Arlecchino - Aprile 16, 2016, 05:49:59 pm Zuckerberg lancia il suo manifesto politico: "Speranza, non muri"
Il fondatore di Facebook traccia il piano decennale dell'azienda, attacca Trump sui migranti e indica "la condivisione" come via da seguire Dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI 14 aprile 2016 NEW YORK - Condanna nazionalismi e xenofobia, invoca la comprensione per l'altro e la solidarietà. Attacca esplicitamente Donald Trump. Non è papa Francesco, è Mark Zuckerberg che da San Francisco lancia il suo manifesto politico. Il 31enne fondatore e chief executive di Facebook ha illustrato un piano decennale per lo sviluppo strategico del social media, che è anche un condensato della filosofia e dei valori della sua azienda. Un social network da 1,6 miliardi di utenti, che a Zuckerberg "va stretto": la sua ambizione è collegare a Internet tutti i 7 miliardi di abitanti del pianeta. Di qui discende anche una visione politico-morale: "Siamo una comunità globale unica, nell'accogliere i rifugiati che tentano di salvarsi da una guerra, o gli immigrati in cerca di opportunità; nell'unirci per combattere un'epidemia o il cambiamento climatico". Ha polemizzato contro "l'attuale tendenza di molte nazioni a ripiegarsi su se stesse". Ha accusato "le voci della paura che invitano a costruire muri e a prendere le distanze dalle persone descritte come diverse da noi". Zuckerberg parlava a San Francisco nell'ambito della conferenza annuale F8 in cui riunisce tutti i developer che scrivono nuovi programmi di software per le app di Facebook. Ad ascoltarlo c'era una folla di 2.600 collaboratori interni o esterni, venuti dal mondo intero. Al centro del suo messaggio Zuckerberg ha messo uno slogan: "Dare a ciascuno il potere di condividere con tutti gli altri". Verbo-chiave, to share, indica la "condivisione" di messaggi, foto, esperienze e commenti che ciascuno fa con gli amici sulle proprie pagine di Facebook. Ma è anche allusione a un altro tipo di condivisione, la diffusione delle opportunità, la distribuzione delle ricchezze. Zuckerberg si appropria così di una tradizione antica, almeno per i tempi storici della giovane Silicon Valley e di tutta la West Coast americana: un luogo dove gli imprenditori hanno spesso cavalcato visioni progressiste, utopie sociali, il sogno di rifare il mondo. Da Bill Gates a Steve Jobs, da Larry Page a Elon Musk, molti pionieri dell'innovazione tecnologica hanno anche proposto un credo ideologico libertario, ambientalista, inclusivo, multietnico. Il modello economico della Silicon Valley alla prova dei fatti resta un moltiplicatore delle diseguaglianze, ma questo non impedisce ai suoi leader di sfornare nuove utopie. Zuckerberg si candida in questo caso a rubare il ruolo a Google, che agli albori fu celebre per il motto "Don't be evil", non essere cattivo o non fare del male. "Ci vuole coraggio oggi - ha detto Zuckerberg - per scegliere la speranza al posto della paura. Se lo fate, qualcuno vi definirà ingenui ma ogni passo avanti nel progresso è stato consentito da questa speranza e da questo ottimismo". Un passaggio in perfetto stile "obamiano", anche se le relazioni fra il fondatore di Facebook e il presidente hanno conosciuto alti e bassi. Nell'attuale campagna elettorale Zuckerberg è attivo tramite un'organizzazione bipartisan, Fwd.Us (dall'abbreviazione di forward cioè "in avanti") che ha sostenuto singole campagne tematiche: per esempio la battaglia per una riforma delle leggi sull'immigrazione, allineata con le posizioni dei democratici; invece ha caldeggiato l'oleodotto XL Keystone, combattuto dagli ambientalisti e bocciato da Obama. Alla conferenza F8 non è mancata la parte dedicata al business: Zuckerberg ha lanciato un nuovo canale di comunicazione, dei "Chat bots", messaggerie che creano un collegamento diretto tra gli utenti di Facebook e le aziende che vi fanno pubblicità. © Riproduzione riservata 14 aprile 2016 Da - http://www.repubblica.it/tecnologia/social-network/2016/04/14/news/mark_zuckerberg_manifesto_politico-137581464/?ref=HREC1-19 Titolo: FEDERICO RAMPINI. Obama in Arabia Saudita, missione ad alta tensione Inserito da: Arlecchino - Aprile 21, 2016, 05:45:10 pm Obama in Arabia Saudita, missione ad alta tensione
La settantennale 'amicizia' con Ryad vacilla davanti ai temi sul tavolo dell'incontro bilaterale: dalla posizione Usa sull'Iran ai disaccordi sul Medio Oriente fino alle richieste di danni dalle vittime dell'11 settembre. Ma Washington ha bisogno dell'alleato per la guerra all'Is sul terreno Dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI 20 aprile 2016 NEW YORK - Accordo nucleare con l'Iran; petrolio; lotta all'Is; Siria e Libia. Ci mancava solo l'11 settembre. L'agenda è densa, i disaccordi sono tanti tra due ex-alleati di ferro, ufficialmente tuttora amici. E' cominciata oggi la missione di Barack Obama in Arabia saudita, una visita ad alta tensione. L'occasione è un summit che riunisce tutti i paesi del Golfo persico (fuorché il vicino più ingombrante che è l'Iran), ma l'attenzione si concentra sul bilaterale saudita-americano: un asse che un tempo era un pilastro della politica americana in Medio Oriente, e oggi vacilla paurosamente. Tra i dossier più scottanti c'è il processo di alcuni familiari delle vittime dell'11 settembre per ottenere che l'Arabia saudita paghi i danni (sia per la nazionalità dei terroristi, sia per i finanziamenti sauditi ad Al Qaeda). La Casa Bianca si oppone a quella richiesta dei familiari per ragioni pragmatiche (chissà quanti nel resto del mondo potrebbero usare un simile precedente per chiedere danni agli Stati Uniti) e tuttavia sta crescendo il partito dei favorevoli al Congresso di Washington. Il parere favorevole di Obama per pubblicare le pagine degli "omissis" nel rapporto sull'11 settembre accentua l'allarme dei sauditi. Poi c'è l'accordo con l'Iran, che minaccia l'asse Washington-Ryad. Ma Obama ha bisogno dei sauditi per la coalizione sunnita che deve mettere "scarponi sul terreno" nella lotta contro l'Is. C'è anche la crisi petrolifera sullo sfondo di questa visita: per la prima volta da un quarto di secolo l'Arabia è costretta a indebitarsi per far fronte al crollo delle sue riserve valutarie. Simon Henderson, del Washington Institute for Near East Policy, sulla rivista Foreign Policy ha sintetizzato così il paradosso di questo viaggio: "Per Obama il problema cruciale in Medio Oriente è la lotta allo Stato Islamico. Per la monarchia saudita, il problema numero uno è l'Iran". L'Arabia saudita e l'Iran si affrontano da anni come due potenze regionali in rotta di collisione. Sono molteplici le ragioni di questa rivalità: religiosa (sunniti contro sciiti), economica (produttori di petrolio concorrenti), militare e spionistica, con ciascuno dei due regimi impegnato a sostenere fazioni avverse ivi compresi i terroristi. Poche settimane prima che Obama partisse per il Golfo, una sua lunga intervista alla rivista The Atlantic aveva fatto infuriare i sauditi. In quell'intervista il presidente americano diceva tra l'altro che Riad deve imparare a "condividere il Medio Oriente" con i rivali persiani, come unica via d'uscita dai conflitti regionali "per procura" che stanno divampando in Siria, Iraq, Yemen. Dichiarazioni che hanno ravvivato tra i sauditi la ferita per lo "strappo" compiuto da Obama quando ha sdoganato l'Iran ed ha avviata la levata parziale delle sanzioni togliendolo da un isolamento ultradecennale. Più in generale, è quando ebbero inizio le "primavere arabe" che i dissensi fra Washington e Riad divennero sempre più visibili ed espliciti. I dirigenti sauditi denunciarono come un errore strategico di Obama l'avere accelerato la caduta di alcuni regimi autoritari. L'Arabia ha criticato anche il ripensamento di Obama quando dopo avere intimato ad Assad di non oltrepassare la "linea rossa" (l'uso di armi chimiche) rinunciò all'intervento militare in Siria. Sul fronte iraniano, viceversa, a Teheran si è spesso sottolineato come le Amministrazioni Usa abbiano adottato due pesi e due misure, condannando gli abusi contro i diritti umani da parte del regime degli ayatollah, e chiudendo un occhio sui comportamenti liberticidi della monarchia saudita. Su quest'ultimo punto qualcosa è cambiato con Obama che ha cominciato a criticare più che in passato le condanne a morte ed altri abusi sauditi contro le libertà. Per Obama questo è il quarto viaggio in Arabia saudita dall'inizio della sua presidenza. L'alleanza con l'Arabia saudita dura ormai da oltre 70 anni. E nonostante le tensioni e incomprensioni più recenti, c'è una costante immutabile: le colossali forniture di armi made in Usa ad una monarchia armata fino ai denti. L'Arabia saudita contraccambia con un ruolo di punta nella coalizione anti-Is a guida americana. Una delle richieste di Obama è che i paesi a religione sunnita mandino più "scarponi sul terreno" nelle zone ancora controllate dai jihadisti del Grande Califfato. © Riproduzione riservata 20 aprile 2016 Da - http://www.repubblica.it/esteri/2016/04/20/news/obama_in_arabia_saudita-138080653/?ref=HREC1-38 Titolo: FEDERICO RAMPINI La Grande metamorfosi lobbisti e discorsi scritti così Trump... Inserito da: Arlecchino - Aprile 23, 2016, 12:01:53 pm La Grande metamorfosi: lobbisti e discorsi scritti, così Trump si converte allo stile presidenziale
The Donald cambia stile per compiacere l’establishment repubblicano in vista della convention Dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI 22 aprile 2016 NEW YORK - "You are fired!". La celebre frase che Donald Trump urlava ai concorrenti eliminati nello show televisivo The Apprentice, adesso incombe sui suoi consiglieri. Sei licenziato! Inizia così la Grande Metamorfosi, nuovo colpo di scena nell'avventura politica di The Donald. Accelerata dal trionfo nella primaria casalinga di New York, è la conferma di una dote che i suoi amici gli conoscono da tempo: Trump è un camaleonte. La versione 2.0 che sta adottando, lo presenta più moderato, rassicurante, presidenziale. Per placare le ansie dell'establishment repubblicano. Per siglare una pace coi vertici del partito in vista della convention. E per ridurre l'alta percentuale di elettori ed elettrici ostili, in vista della sfida finale con Hillary. Contrordine su tutta la linea, ora Trump licenzia fedelissimi e assume vecchie volpi della politica, recluta lobbisti, si fa scrivere discorsi, legge dal teleprompter. Abbandona la tradizionale tirchieria e accetta di spendere 20 milioni di tasca sua per le primarie in Pennsylvania tra una settimana, poi Indiana, infine California. Un cambiamento totale. O quasi. "You are fired!". La vittima più illustre finora è Stuart Jolly, direttore delle sue operazioni sul terreno, regista organizzativo e logistico della campagna elettorale. "Avevamo una formula vincente", ha scritto con rimpianto nella lettera di dimissioni in cui prende atto del nuovo corso. Jolly era un uomo del clan di Corey Lewandowski, fino a ieri potentissimo campaign manager, la cui influenza rimpicciolisce di ora in ora. Il nuovo uomo forte, assunto di recente, è Paul Manafort. Guarda caso, un veterano della politica che ha lavorato nelle convention repubblicane per Gerald Ford, George Bush padre, Bob Dole. (È anche stato consulente di Vladimir Putin). Attenzione all'anagrafe. Lewandowski, caduto in disgrazia, ha 42 anni. L'astro nascente Manafort ne ha 67. È il ritorno in auge dei vecchi mestieranti della politica. Un ricambio non solo di personale, ma di filosofia. Dopo essersi vantato di fare una campagna "da outsider, contro l'establishment che mi odia, contro i politici corrotti di Washington", ecco The Donald intento ad assumere proprio quel personale. Manafort a sua volta ha reclutato due vecchie volpi del sottobosco repubblicano, Rick Wiley e William McGinley. Missione: tranquillizzare le lobby e le correnti del partito, portare ramoscelli d'ulivo ai notabili del Senato e del Congresso, offrire posti in un futuro esecutivo Trump. Hanno avvicinato anche Colin Powell, l'ex segretario di Stato di George W. Bush. Insomma l'annuncio è chiaro: "Open for Business", siamo aperti a fare affari assieme. L'insurrezione è finita, le grandi manovre fervono per riconciliare Trump con chi gli ha fatto guerra finora. The Donald è fatto così, da sempre. Michael Kruse in un'inchiesta per Politico Magazine, e un reportage di BuzzFeed, ricordano questa costante della sua vita: Trump è un uomo per tutte le stagioni, capace di cambiare amici, opinioni politiche, immagine personale, a seconda delle opportunità. Dopo aver vinto più di venti primarie, ma senza agguantare la maggioranza assoluta di delegati, il suo problema oggi è farsi accettare, scongiurare le trame dell'establishment che vuole scippargli la nomination alla convention di Cleveland a luglio. Nel tono e nello stile, la Grande Metamorfosi si è vista in diretta la sera di martedì a New York. Dopo avere stracciato i rivali, con il 60% dei voti e la quasi totalità dei delegati, Trump ha fatto un discorso breve e sobrio. Ha parlato del "senatore Ted Cruz" invece di chiamarlo come al solito "Bugiardo Cruz". I suoi tweet si stanno diradando. Non appare in un talkshow da giorni, lui che ne faceva maratone quotidiane. Ha annunciato che terrà un discorso programmatico di politica estera, ma seguirà un testo scritto da altri usando il teleprompter (il leggìo elettronico per il quale lui sbeffeggiava Obama). Prima del prossimo Supermartedì del Nord-Est (Pennsylvania, Maryland, Rhode Island, Connecticut, Delaware) tira fuori 20 milioni, lui che finora contava su pubblicità gratuita grazie alle sue "sparate" in tv. Una spacconata gli sfugge lo stesso: "Per comprare i delegati della convention ho i giocattoli più belli. Li faccio viaggiare sul mio Boeing, li porto in Florida nei miei resort, club di golf e beauty spa". I media di destra sono affascinati dalla Grande Metamorfosi. Il Washington Post si chiede se non sia "troppo poco e troppo tardi" per sgonfiare l'immenso serbatoio di ostilità nell'elettorato. © Riproduzione riservata 22 aprile 2016 Da - http://www.repubblica.it/esteri/elezioni-usa/primarie2016/2016/04/22/news/la_metamorfosi_di_trump-138177567/?ref=HREC1-7 Titolo: FEDERICO RAMPINI. G7 con l'incubo populismi: Obama inseguito dall'ombra di Trump Inserito da: Arlecchino - Maggio 28, 2016, 11:52:59 am G7 con l'incubo populismi: Obama inseguito dall'ombra di Trump
Dal nostro inviato FEDERICO RAMPINI 26 maggio 2016 ISE SHIMA – Al di là dell’agenda dei lavori, è l’assedio dei populismi il fenomeno che segna questo G7. Al punto da dirottare una parte del tempo e dell’attenzione di Barack Obama, alla vigilia della sua storica visita a Hiroshima. Un tempo sembrava una maledizione dei leader italiani, rincorsi dalla politica interna anche quando partecipavano a summit internazionali. Ma ora tocca a Obama, occuparsi di "quell'ignorante di Donald Trump" nel bel mezzo di un summit in Giappone fra i potenti della terra. Non importa se l'agenda del G7 presieduto dal premier Shinzo Abe è su ben altri temi: terrorismo, flussi migratori, debolezza della ripresa economica mondiale, o l’espansionismo della Cina nei mari di quest’area. Nelle pause dei lavori ufficiali tutti i leader vogliono sapere da Obama "le ultime su The Donald", ora che le chances di vittoria del tycoon appaiono (dagli ultimi sondaggi) alla pari con quelle di Hillary Clinton. Obama non si tira indietro e nella conferenza stampa riassume così quel che ha detto agli altri leader: "Gran parte delle cose che dice rivelano o un'ignoranza della realtà internazionale, o un atteggiamento spavaldo". Obama ha confermato che gli altri leader seguono con "attenzione e apprensione" la campagna elettorale americana. "Non sanno se prenderlo sul serio, ma sono turbati dalle cose che dice". Obama ha fatto del suo meglio per rassicurarli, ripetendo che secondo lui Trump non vincerà. Il capogabinetto del presidente della Commissione europea Jean Claude Juncker (anche lui presente qui al G7) ha riassunto a modo suo il clima del vertice con questo tweet: “Il G7 del 2017 con Trump, Le Pen, Boris Johnson, Beppe Grillo? Uno scenario horror che fa capire bene perché vale la pena combattere il populismo”. © Riproduzione riservata 26 maggio 2016 Da - http://www.repubblica.it/esteri/2016/05/26/news/obama_trump_g7_analisi_rampini-140643055/?ref=HRER3-1 Titolo: FEDERICO RAMPINI. Globalizzazione addio: il mondo che rivuole le frontiere. Inserito da: Arlecchino - Luglio 01, 2016, 05:45:05 pm Globalizzazione addio: il mondo che rivuole le frontiere.
La crisi del Mercato unico L'inchiesta. L'ordine economico degli ultimi 25 anni rimesso in discussione dal dilagare dei movimenti populisti. Prima puntata di cinque Dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI 27 giugno 2016 NEW YORK. La competizione globale - dice Barack Obama - dà a molti lavoratori la sensazione che li abbiamo abbandonati. Provoca diseguaglianze ancora maggiori. I privilegiati accumulano straordinarie ricchezze e potere. L'angoscia è reale. Quando la gente è spaventata, ci sono politici che sfruttano queste frustrazioni". Pronunciate poche ore dopo il risultato del referendum inglese, queste parole del presidente degli Stati Uniti abbracciano fenomeni comuni a tutto l'Occidente. Da Brexit a Donald Trump, forti correnti dell'opinione pubblica appoggiano i politici che promettono un ritorno all'indietro, verso un'Età dell'Oro pre-globalizzazione. È un vasto rigetto delle frontiere aperte, dei mercati comuni, dei trattati di libero scambio, oltre che dell'immigrazione. Viene rimesso in discussione tutto ciò che sotto il termine di globalizzazione ha segnato l'ordine economico mondiale nell'ultimo quarto di secolo. Una storia che ha origini in due trattati. Il primo è l'Atto che crea nel 1992 il grande Mercato unico europeo. Il secondo è il Nafta (North American Free Trade Agreement) negoziato nel '92 e ratificato nel 1994 tra Stati Uniti, Canada e Messico. Parte da quei due cantieri la costruzione di un sistema che in seguito si estenderà fino ad abbracciare Cina e altre nazioni emergenti. Ma dall'inizio Mercato unico e Nafta avevano in embrione i problemi destinati a esplodere oggi. Le riforme di mercato degli anni 90 arrivano al termine di un'offensiva neoliberista travolgente: gli anni Ottanta con Ronald Reagan e Margaret Thatcher hanno delegittimato l'economia mista, il capitalismo di Stato, la pianificazione, la concertazione sindacale. Il crollo del Muro di Berlino ha sancito il fallimento dei sistemi comunisti. L'implosione dell'Urss e dei suoi satelliti è l'altra faccia di una storia di successo: di qua dal Muro, l'America e l'Europa occidentale hanno conosciuto decenni di sviluppo e diffusione del benessere, che hanno coinciso con i primi smantellamenti di barriere doganali. Dal 1947 al 1995 il Gatt e la Cee sono stati i primi esperimenti di libero scambio. Con gli anni Novanta la parola d'ordine diventa: andare più avanti, molto più avanti. Reagan-Thatcher sposano le teorie di Milton Friedman, premio Nobel dell'economia, capo della "scuola di Chicago". Qualsiasi laccio che freni il mercato va abolito perché impedisce il dinamismo e la creazione di ricchezza. Senza più barriere e protezionismi ciascun paese può specializzarsi nelle cose che fa meglio e sfruttare i "vantaggi comparativi". Fin da allora si levano alcune voci critiche. Jacques Delors, socialista e cattolico, è il presidente della Commissione europea che gode dell'appoggio di François Mitterrand. Delors vede la necessità che il Mercato unico sia accompagnato da una "carta sociale" dei diritti: per evitare che la competizione fra paesi di livello diverso si trasformi in una "rincorsa al ribasso" verso il minimo comune denominatore. Nel Mercato unico c'è qualcosa dell'idea di Delors. Tant'è che i conservatori inglesi allora denunciano un'Europa "socialista" che impone rigidità al mercato del lavoro. E' di quegli anni un progresso nelle tutele dei consumatori, terreno sul quale l'Europa parte tardi ma sorpassa rapidamente gli Stati Uniti. Il Mercato unico è più di un'area di libero scambio. Elimina barriere occulte all'esportazione di beni e anche di servizi; abolisce ostacoli alla circolazione di tutti i fattori di produzione: dà libertà ai movimenti di capitali e all'emigrazione di manodopera. Coordina politiche fiscali, industriali, agricole. Crea regole standard in quasi tutti i settori. Apre il mercato dei lavori pubblici. Vieta gli aiuti di Stato. Il celebre Rapporto di Paolo Cecchini (eseguito su richiesta di Delors) prevedeva, tra i benefici del Mercato unico, due milioni di posti di lavoro. Il Nafta dal primo gennaio 1994 estende un esperimento simile a tutto il Nordamerica: un'area che oggi include 480 milioni di abitanti. Lo firma un presidente democratico, Bill Clinton, con una dichiarazione scolpita nella pietra, che ancora oggi viene rinfacciata a Hillary. "Il Nafta - dice Bill firmando il trattato - significa lavoro. Nuovi posti per gli americani, ben pagati". Fin dall'inizio ci furono resistenze. I sindacati, e non solo. Clinton aveva conquistato la Casa Bianca perché nell'elezione del 1992, a rubare voti al presidente uscente George Bush Senior era sceso in campo un terzo candidato indipendente, un Trump ante litteram: l'industriale Ross Perot. Il suo slogan più celebre, contro Bush che aveva negoziato il Nafta: "Quel trattato è un gigantesco aspirapolvere, succhierà fabbriche e occupazione dagli Usa al Messico". Perot puntava il dito sul divario salariale: la paga oraria di un operaio messicano arrivava a stento a un decimo di quella Usa. Oggi Trump riprende gli stessi argomenti. Oltre al Muro contro l'immigrazione promette pesanti ritorsioni e multe contro le imprese Usa che delocalizzano nei paesi a basso salario. Il bilancio del Nafta che "perseguita" Hillary è meno brillante di quanto prometteva suo marito nel firmarlo. Uno studio indipendente del Congressional Research Service un quarto di secolo dopo definisce "modesti" i benefici del Nafta. L'organismo confindustriale U.S. Chamber of Commerce lo difende attribuendogli il boom di scambi: quintuplicati nel mercato nordamericano. Ma la confederazione sindacale Afl-Cio ha censito oltre 700.000 posti di lavoro trasferiti dagli Usa al Messico. Se si allarga lo sguardo oltre il Messico, si arriva a tre milioni di posti operai eliminati nella vecchia Rust Belt, la "cintura della ruggine", gli Stati industriali del Midwest che furono il centro della potenza industriale Usa per due secoli. E' lì che si gioca a novembre la sfida decisiva tra la Clinton e Trump. La decideranno elettori come Joe Shrodek, metallurgico in pensione, nella cittadina di Warren, Ohio. Ha sempre votato democratico. Ma oggi indica l'altoforno siderurgico dove lui lavorava: "Lì quando cominciai eravamo in diecimila operai. Oggi? Zero. Impianto chiuso. Trump dice le cose giuste. Al cento per cento". © Riproduzione riservata 27 giugno 2016 Da - http://www.repubblica.it/esteri/2016/06/27/news/che_rivuole-142887461/?ref=HRER3-1 Titolo: FEDERICO RAMPINI. Usa, Hillary accetta la nomination: Comincia un nuovo capitolo Inserito da: Arlecchino - Luglio 30, 2016, 10:58:00 am Usa, Hillary accetta la nomination: "Comincia un nuovo capitolo"
Nel discorso che chiude la convention democratica Clinton insiste molto sullo slogan "Stronger Together" ("più forti insieme"). Attacca pesantemente Trump, "il signor risolvo-tutto-io". E cerca di conquistare i sostenitori di Sanders Dal nostro inviato FEDERICO RAMPINI 29 luglio 2016 PHILADELPHIA - Sono le 22.47 sulla East Coast, Hillary Clinton ha cominciato a parlare da un quarto d'ora, quando arriva alla fatidica frase: "Con umiltà e determinazione, e con la massima fiducia nel futuro dell'America, io accetto la vostra nomination. Per la prima volta nella storia un grande partito ha designato una donna per la presidenza degli Stati Uniti. Sono felice per le nostre nonne e le nostre bambine. Anche per i ragazzi: quando cade una barriera si aprono nuove strade per tutti, e il cielo è l'unico limite". Hillary entra nella storia, e promette di fare la storia: "Sono qui per dirvi che il progresso è possibile. Da oggi cominciamo a scrivere un nuovo capitolo. Tutti insieme". Stronger Together, più forti insieme, è lo slogan che la Clinton ha voluto per questa convention. Forse non è originale come l'audacia della speranza o Yes We Can di Barack Obama. Ma rende l'idea di una donna che vuole costruire una società più solidale, ed è un bel contrasto con il suo avversario Donald Trump che conosce solo la prima persona: "Io, io, io". In una serata festosa e ben orchestrata, Hillary viene "lanciata" per la sua performance storica dalla figlia Chelsea. Né l'una né l'altra hanno carisma, le emozioni palpitanti e le lacrime di nostalgia sono state riservate alla serata precedente con Barack Obama. Ma Hillary la secchiona, la lavoratrice, supplisce con diligenza. E tanta intelligenza politica. Buona parte del suo discorso (60 minuti in tutto) è riservata a conquistare i sostenitori di Bernie Sanders, la cui adesione sarà essenziale per sconfiggere Trump l'8 novembre. "Voglio ringraziare Bernie - dice lei - perché ha ispirato milioni di persone, tanti giovani ci hanno messo il cuore e l'anima. A tutti i tuoi sostenitori voglio dire: la vostra battaglia di giustizia sociale è la nostra, il paese ha bisogno di voi, delle vostre idee e della vostra energia, ora la vostra piattaforma deve diventare il cambiamento reale". Elenca puntigliosamente tutte le riforme che ha concordato con Sanders: aumento del salario minimo legale, no a trattati di libero scambio "iniqui", università gratuita per gli studenti meno abbienti, sovratasse sui ricchi, una stangata fiscale sulle multinazionali che delocalizzano, un giro di vite contro Wall Street. E la madre di tutte le riforme, lei l'annuncia con un vigoroso omaggio a Sanders: "La nostra economia è squilibrata perché la nostra democrazia è malata. Troppo denaro alla politica. Nominerò un giudice alla Corte suprema che s'impegni per abolire la sentenza Citizen United (quella che ha allargato a dismisura la possibilità di finanziare le campagne elettorali, ndr). Se necessario farò passare un emendamento alla Costituzione". La Clinton fa da raccordo tra la presidenza Obama - "ci ha salvato dalla più grave crisi economica dopo la Grande Depressione degli anni Trenta, sotto di lui sono stati creati 15 milioni di posti" - e l'insoddisfazione della base di Sanders. "Non mi soddisfa lo status quo, da presidente mi batterò per creare più posti di lavoro, meglio pagati, perché tutti abbiano le opportunità che meritano. Mi dedicherò ai dimenticati, a quelli che non hanno visto i frutti della crescita, agli operai delle fabbriche chiuse e delocalizzate, a chi si sente abbandonato". Promette, nei suoi primi 100 giorni alla Casa Bianca, "il più grande programma di investimenti per l'occupazione mai varato dalla seconda guerra mondiale". Stronger Together, è l'occasione per segnare l'enorme distanza dall'America di Trump, dal messaggio "di divisione, di paura". La risposta la prende a prestito dal più grande dei presidenti democratici, Franklin Delano Roosevelt: "L'unica cosa di cui dobbiamo avere paura, è la paura stessa". Sottolinea le umili origini dei propri genitori, "che costruivano un futuro migliore per i propri figli, ma non avevano il proprio nome in bella vista su palazzi come altri costruttori". È dalla storia di sofferenza della madre che trae ispirazione per la sua etica del servizio pubblico, l'impegno di una vita sulle riforme per l'infanzia, la scuola, la sanità. Il contrasto con Trump, "il signor risolvo-tutto-io" è l'occasione per segnalare la divaricazione estrema tra le due Americhe di Cleveland (convention repubblicana) e di Philadelphia. "Io non costruirò Muri, ma un percorso per la cittadinanza degli immigrati che arricchiscono il nostro paese. Io non metterò al bando un'intera religione, per battere il terrorismo lavorerò coi nostri alleati". Riprende l'allarme su Trump che il giorno prima è stato lanciato con toni durissimi da Obama. "Abbiamo sbagliato a sottovalutarlo, a ridere delle sue sparate. Uno che insulta donne e stranieri, che umilia i disabili, che aggredisce un giudice, è un bullo al quale bisogna opporsi. Qualcuno si è illuso che fosse solo spettacolo, e ha pensato che prima o poi sarebbe venuto fuori un altro Trump. Non esiste un altro Trump". L'America e il mondo sarebbero in pericolo, "se l'arma nucleare finisse nelle mani di un uomo che può essere provocato con un semplice messaggio su Twitter, uno che ha perso le staffe per qualche domanda di una giornalista". E se alla sicurezza degli americani crediamo sul serio, "non possiamo eleggere uno che è al soldo della lobby delle armi". La serata si chiude con la coreografia abituale: fuochi d'artificio e diluvio di palloncini colorati a stelle e strisce. Sul palco la raggiungono Bill e Chelsea, il vice Tim Kaine e la moglie. È stata una performance onorevole, per una serata storica. La scommessa che si possa fare ancora politica in modo "normale": costruendo alleanze sociali, proponendo un progetto positivo, elaborando programmi di riforme. Dall'altra parte c'è un improvvisatore diabolico e geniale, un teorico del caos. Uno dei due ha sbagliato epoca. La posta in gioco è immensa, e non solo per l'America. © Riproduzione riservata 29 luglio 2016 Da - http://www.repubblica.it/esteri/elezioni-usa/primarie2016/2016/07/29/news/usa_convention_democratica_hillary_clinton-145000399/?ref=HREC1-1 Titolo: FEDERICO RAMPINI. Intervista a Obama: "L'austerità blocca la crescita europea" Inserito da: Arlecchino - Ottobre 21, 2016, 12:48:50 pm Intervista a Obama: "L'austerità blocca la crescita europea"
Il capo della Casa Bianca incontra oggi a Washington il presidente del Consiglio italiano. "Voi siete in prima linea e avete un ruolo di leadership nell'affrontare la crisi dei rifugiati, che è una catastrofe e rappresenta un test della nostra comune umanità". La sfida. "Occorrono politiche economiche inclusive, che investano fortemente nei nostri cittadini dando loro istruzione, competenze e la formazione necessaria per aumentare gli stipendi e ridurre le disuguaglianze" Dal nostro inviato FEDERICO RAMPINI 18 ottobre 2016 WASHINGTON - "L'AUSTERITY ha contribuito a rallentare la crescita europea". Barack Obama parla in quest'intervista esclusiva a La Repubblica in occasione dell'arrivo del premier italiano. Affronta il fenomeno Trump e tutti i populismi, indicando come risposta una politica economica che "riduca le diseguaglianze, aumenti i salari, investa nell'istruzione". Rende omaggio al ruolo dell'Italia nell'affrontare l'emergenza profughi nel Mediterraneo ma avverte che "un piccolo numero di Paesi non possono sostenere quest'onere da soli". Invoca più collaborazione tra i servizi segreti occidentali "per prevenire gli attacchi terroristici". E offre un "pieno sostegno alle riforme di Renzi". Signor Presidente, all'inizio del suo primo mandato l'economia americana e quella europea erano in una profonda recessione. Da allora l'economia Usa ha goduto di 7 anni di crescita, mentre l'Europa soffre ancora: bassa crescita e alta disoccupazione. È ora di rivalutare il ruolo della politica fiscale, gli investimenti pubblici? In altri termini, hanno fallito le politiche di austerità? "Prima di tutto, vorrei dire quanto io e Michelle siamo lieti di ospitare il primo ministro Renzi e la signora Landini. L'Italia è da lungo tempo uno degli alleati più forti e vicini dell'America. Credo che l'esperienza degli Stati Uniti nel corso degli ultimi otto anni dimostri la saggezza del nostro approccio. Poco dopo il mio insediamento, abbiamo passato il Recovery Act, (la manovra di investimenti pubblici, ndr) per stimolare l'economia. Ci siamo mossi rapidamente per salvare la nostra industria automobilistica, stabilizzare le nostre banche, investire in infrastrutture, aumentare i prestiti alle piccole imprese e aiutare le famiglie a non perdere le loro case. I risultati sono chiari. Le imprese americane hanno creato oltre 15 milioni di nuovi posti di lavoro. Il tasso di disoccupazione è stato dimezzato. Abbiamo ridotto il deficit. I lavoratori stanno finalmente vedendo un aumento nelle loro retribuzioni. I redditi sono aumentati, e i tassi di povertà sono caduti. Abbiamo ancora molto da fare per aiutare i lavoratori e le famiglie a migliorare, ma ci stiamo muovendo nella giusta direzione. "Altri Paesi hanno adottato un approccio diverso. Credo che le misure di austerità abbiano contribuito al rallentamento della crescita in Europa. In certi Paesi, abbiamo visto anni di stagnazione, che ha alimentato le frustrazioni economiche e le ansie che vediamo in tutto il continente, soprattutto tra i giovani che hanno più probabilità di essere disoccupati. Ecco perché penso che la visione e le riforme ambiziose che il primo ministro Renzi sta perseguendo siano così importanti. Lui sa bene che Paesi come l'Italia devono proseguire il loro percorso di riforme per aumentare la produttività, stimolare gli investimenti privati e scatenare l'innovazione. Ma mentre i Paesi si muovono in avanti con le riforme che renderanno le loro economie sostenibili a lungo termine, lui riconosce che hanno bisogno di spazio per effettuare gli investimenti necessari a sostenere la crescita e l'occupazione e ampliare opportunità. L'economia italiana ha ricominciato a crescere. Più italiani stanno lavorando. Matteo sa bene che il progresso deve essere ancora più veloce, e un tema centrale delle nostre discussioni sarà come i nostri Paesi possano continuare a lavorare insieme per creare più crescita e occupazione su entrambe le sponde dell'Atlantico". Il "fenomeno Trump" negli Stati Uniti è stato prefigurato dai movimenti populisti e nazionalisti in Europa. Qual è il suo suggerimento per i suoi alleati europei, su come affrontare lo scenario post- Brexit? Come rispondere ai movimenti che vogliono isolare l'Europa, costruire muri, ridurre l'immigrazione, limitare la nostra esposizione al commercio internazionale? "Nei nostri Paesi, le stesse forze della globalizzazione che hanno portato tanto progresso economico e umano nel corso dei decenni, pongono anche sfide politiche, economiche e culturali. Molte persone ritengono di essere svantaggiate dal commercio e l'immigrazione. Lo abbiamo visto con il voto nel Regno Unito per lasciare l'Unione Europea. Lo vediamo nella crescita dei movimenti populisti, sia a sinistra che a destra. In tutto il continente, vediamo mettere in discussione il concetto stesso di integrazione europea, insinuando che i Paesi starebbero meglio fuori dall'Unione. "In momenti come questi, anche se riconosciamo le vere sfide che abbiamo di fronte, è importante ricordare quanto i nostri Paesi e le nostre vite quotidiane traggono vantaggio dalle forze di integrazione. La nostra economia globale integrata, incluso il commercio, ha contribuito a rendere la vita migliore per miliardi di persone in tutto il mondo. La povertà estrema è stata drasticamente ridotta. Grazie alle collaborazioni internazionali nel campo della scienza, della salute e della tecnologia, le persone vivono più a lungo e hanno più opportunità rispetto al passato. L'Unione Europea rimane uno dei più grandi successi politici ed economici dei tempi moderni. Nessun Paese dell'Unione ha alzato le armi contro un altro. Le famiglie in Africa e nel Medio Oriente rischiano la vita per dare ai loro figli la qualità della vita e i privilegi di cui godono gli europei, e che non dovrebbero mai essere dati per scontati. "La nostra sfida, quindi, è quella di fare in modo che i benefici dell'integrazione siano condivisi più ampiamente e che eventuali problemi economici, politici o culturali, siano affrontati correttamente. Ciò richiede politiche economiche inclusive, che investano fortemente nei nostri cittadini dando loro istruzione, competenze e la formazione necessaria per aumentare gli stipendi e ridurre le disuguaglianze. Richiede un sistema di scambi commerciali che protegga i lavoratori e l'ambiente. Richiede di tenere alti i nostri valori e tradizioni in quanto società pluraliste e diverse; e di rifiutare una politica di "noi" contro "loro" che cerca di fare di immigrati e minoranze un capro espiatorio". Su entrambi i lati dell'Atlantico, i negoziati per il trattato Ttip sono in fase di stallo. Il protezionismo è in aumento in tutto il mondo. Conosce bene le obiezioni americane sul libero scambio, ma la prospettiva europea è leggermente diversa: molti dei nostri cittadini, anche in Paesi come la Germania, che hanno goduto di enormi surplus commerciali, ritengono che un nuovo trattato con gli Stati Uniti abbasserebbe la protezione dei nostri consumatori, i nostri lavoratori, la nostra salute. Per molti europei, il suo Paese è diventato un simbolo di un capitalismo senza freni in cui le multinazionali dettano le regole. Qual è la sua risposta a queste preoccupazioni europee? "Sì, nei nostri Paesi è complicata la politica in materia di commercio. Ma la storia dimostra che il libero mercato e il capitalismo sono forse la più grande forza per la creazione di opportunità, stimolando l'innovazione e alzando il tenore di vita. Lo abbiamo visto nell'Europa occidentale nei decenni dopo la seconda guerra mondiale. Lo abbiamo visto nell'Europa centrale e orientale dopo la fine della guerra fredda. E lo abbiamo visto in tutto il mondo, dalle Americhe all'Africa all'Asia. Allo stesso tempo, abbiamo anche visto come la globalizzazione possa indebolire la posizione dei lavoratori, rendendo più difficile la possibilità di guadagnare uno stipendio decente, e causare il trasferimento di posti di lavoro nell'industria manifatturiera in Paesi con costi di manodopera più bassi. E ho messo in guardia contro un capitalismo senz'anima che avvantaggia solo i pochi in alto e che contribuisce alla disuguaglianza e a un gran divario tra ricchi e poveri. "Nella nostra economia globale in cui molto del nostro benessere dipende dagli scambi tra i nostri Paesi, non è possibile tirarsi indietro e alzare il ponte levatoio. Il protezionismo rende le nostre economie più deboli, danneggiando tutti, in partico- lare i nostri lavoratori. Invece, dobbiamo imparare dal passato e fare commercio nel modo giusto in modo che l'economia globale sia in grado di offrire vantaggi a tutta la popolazione e non solo i pochi in alto. Gli imprenditori hanno bisogno di sostegno per aiutare a trasformare le loro idee in un business. Abbiamo bisogno di forti reti di sicurezza per proteggere le persone in tempi di difficoltà. E dobbiamo continuare a lavorare per frenare gli eccessi del capitalismo adottando standard più severi per il settore bancario e in materia fiscale, e una maggiore trasparenza, per aiutare a prevenire le ripetute crisi che minacciano la nostra prosperità condivisa. "Abbiamo anche bisogno di accordi commerciali di alta qualità come il Trans-Atlantic Trade and Investment Partnership. Anche se l'interscambio tra gli Stati Uniti e l'Unione Europea sostiene circa 13 milioni di posti di lavoro nei nostri Paesi, ci sono una serie di tariffe e regolamenti diversi, regole e standard che impediscono di aumentare gli scambi, investimenti e posti di lavoro. Eliminando le tariffe e le differenze nelle normative, renderemo il commercio più facile, soprattutto per le nostre piccole e medie imprese. Il TTIP non abbasserà gli standard. Al contrario, alzerà gli standard in materia di protezione dei lavoratori e dei consumatori, tutela dell'ambiente e garantirà una rete Internet aperta e gratuita, elemento essenziale per le nostre economie digitali. Per tutte queste ragioni, gli Stati Uniti rimangono impegnati a portare a conclusione i negoziati sul Ttip, e ciò richiederà la volontà politica di tutti i nostri Paesi". Stiamo vincendo la guerra contro l'Isis in Iraq e in Siria? E per quanto riguarda l'"altra" guerra contro l'Isis, la prevenzione di attacchi terroristici all'interno dei nostri Paesi? "La nostra coalizione continua ad essere implacabile contro l'Isis su tutti i fronti. I raid aerei della coalizione continuano a martellare obiettivi dell'Isis. Continuiamo ad eliminare alti dirigenti e comandanti Isis in modo da impedire loro di minacciarci di nuovo. Continuiamo a colpire le loro infrastrutture petrolifere e reti finanziarie, privandoli del denaro per finanziare il loro terrorismo. Sul terreno in Iraq, l'Isis ha perso oltre la metà del territorio popolato che controllava una volta, e le forze irachene hanno iniziato le operazioni per liberare Mosul. È da più di un anno che l'Isis non è riuscita a portare avanti una grande operazione di successo in Iraq o in Siria. Insomma, l'Isis rimane sulla difensiva, la nostra coalizione è sull'offensiva, e anche se questa continuerà ad essere una lotta molto difficile, io ho fiducia che vinceremo e l'Isis perderà. "L'Italia è un partner essenziale della nostra coalizione. L'Italia da uno dei più grossi contributi in formatori e consulenti sul terreno in Iraq. I carabinieri italiani stanno addestrando migliaia di poliziotti iracheni che contribuiranno a stabilizzare le città irachene una volta liberate dall'Isis. Inoltre, l'Italia è un partner indispensabile per quanto riguarda la Libia. La diplomazia italiana ha avuto un ruolo importante nel processo che sta portando alla creazione del Libyan Government of National Accord. Gli Stati Uniti e l'Italia stanno lavorando per aiutare il governo libico a rafforzare la sua capacità di respingere le forze dell'Isis e riprendere possesso del suo Paese. "Detto questo, anche se l'Isis continua a perdere terreno in Iraq, Siria e Libia, ha ancora la capacità di condurre o ispirare attentati, come abbiamo visto nel Medio Oriente, Nord Africa, negli Stati Uniti e in Europa. Prevenire gli individui solitari e le piccole cellule di terroristi che progettano di uccidere persone innocenti nei nostri Paesi rimane una delle nostre sfide più difficili. Anche se all'interno di ognuno dei nostri Paesi si lavora per sventare possibili attentati, dobbiamo fare di più insieme: condividere informazioni e intelligence, prevenire gli spostamenti dei terroristi stranieri e rafforzare la sicurezza alle frontiere". A volte sembra che il nostro Paese sia quasi lasciato solo ad affrontare l'emergenza profughi nel Mediterraneo. Come valuta l'importanza della solidarietà europea su questo tema? "L'Italia è in prima linea nell'affrontare la crisi dei rifugiati, che è una catastrofe umanitaria e un test della nostra comune umanità. Le immagini di tanti migranti disperati, uomini, donne e bambini che affollano piccole imbarcazioni e annegano nel Mediterraneo, sono più che strazianti. L'Italia continua a svolgere un ruolo di leadership. La forza navale europea nel Mediterraneo, comandata dall'Italia, ha salvato la vita di centinaia di migliaia di migranti. Renzi si adopera per arrivare ad una risposta compassionevole e coordinata alla crisi, mettendo in evidenza la necessità di dare assistenza ai Paesi africani dai cui tanti di questi migranti provengono. Molti italiani hanno dimostrato la loro generosità accogliendo i rifugiati nelle loro comunità. Ma come ho detto al vertice dei rifugiati che ho convocato alle Nazioni Unite il mese scorso, poche nazioni in prima linea non possono sopportare da solo questo peso enorme. È per questo che la Nato ha accettato questa estate di aumentare il nostro supporto alle operazioni navali dell'Unione Europea nel Mediterraneo. È il motivo per cui gli Stati Uniti ritengono che l'accordo tra l'Unione Europea e la Turchia sia importante per condividere i costi di questa crisi e garantire un approccio coordinato che rispetti i diritti umani dei migranti e garantisca una politica migratoria ordinata e umana. Ed è il motivo per cui gli Stati Uniti continueranno ad essere il più grande donatore di aiuti umanitari in tutto il mondo. Lo saranno anche nei confronti dei rifugiati con il nostro nuovo impegno di accogliere e reinsediare 110.000 profughi nel corso dei prossimi dodici mesi. "Data l'enormità di questa crisi, tutto il mondo deve fare di più. Il vertice dei rifugiati del mese scorso è stato un importante passo avanti. Quest'anno più di 50 nazioni e organizzazioni hanno aumentato di circa 4,5 miliardi di dollari i loro contributi all'Onu e alle Ong. Collettivamente le nostre nazioni stanno raddoppiando il numero di rifugiati accolti nei nostri Paesi, arrivando quest'anno a più di 360.000. Aiuteremo più di un milione di bambini rifugiati ad andare a scuola, e aiuteremo un milione di profughi ad ottenere una formazione e trovare un lavoro. Però abbiamo bisogno che ancora più nazioni diano assistenza e accettino più rifugiati. E abbiamo bisogno di riaffermare il nostro impegno verso la diplomazia, lo sviluppo e la tutela dei diritti umani, contribuendo in tal modo a porre fine ai conflitti, alla povertà e all'ingiustizia che portano così tante persone ad abbandonare la propria casa. In questo lavoro cruciale, siamo grati per l'importante collaborazione dei nostri amici e alleati italiani". * (Traduzione dall'inglese di Daria Masullo) © Riproduzione riservata 18 ottobre 2016 Da - http://www.repubblica.it/esteri/2016/10/18/news/obama_intervista-150003856/?ref=HREA-1 Titolo: FEDERICO RAMPINI. Usa, Clinton e le mail segrete: inquietante che ... Inserito da: Arlecchino - Ottobre 31, 2016, 06:49:50 pm Usa, Clinton e le mail segrete: inquietante che Fbi riapra indagini a poca distanza dal votoUsa, Clinton e le mail segrete: inquietante che Fbi riapra indagini a poca distanza dal voto
Lettere riguardano Anthony Weiner, ex marito dell'assistente di Hillary che ha il vizietto di mandare selfie erotici a signore e ragazzine. Ma come i guai della coppia possano danneggiare la candidata non è chiaro. Ora Trump gongola: notizia-shock è nuovo elemento di suspense proprio in dirittura d'arrivo di campagna elettorale Dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI 28 ottobre 2016 NEW YORK - Ci aspettavamo sorprese da WikiLeaks, ma lo shock arriva dall'Fbi. Che non prende ordini da Vladimir Putin. Un brivido di paura è percepibile nel campo democratico. A 11 giorni dal voto, improvvisamente il capo della polizia federale James Comey in una lettera al Congresso annuncia di avere riaperto il caso delle email segrete di Hillary Clinton. Trapelano pochi elementi, per adesso. Si sa che le email in questione non sono state mandate dalla Clinton, riguardano invece Anthony Weiner. Chi è costui? E' un politico democratico di New York, ex-marito dell'assistente di Hillary (Huma Abedin), che ha il vizietto di mandare selfie erotici a signore e ragazzine. Ma come i guai di Anthony e Huma Abedin possano danneggiare Hillary, non è affatto chiaro. Di certo è irrituale, inatteso, inquietante che l'Fbi prenda una decisione così grave a poca distanza dal voto. A luglio la stessa Fbi aveva chiuso la sua istruttoria decidendo che non c'erano estremi di reato. Quella decisione fu criticata da Donald Trump e da tanti altri repubblicani. Ora, come si vede, almeno una critica era ingiusta: l'Fbi non si comporta come un docile strumento dell'Amministrazione Obama, la sua funzione di polizia giudiziaria prevede ampi spazi di autonomia dall'esecutivo, anche se in ultima istanza dipende dal Dipartimento di Giustizia. Ora Trump gongola: vedete, posso ancora vincere le elezioni. Ha ragione. Anzitutto perché questa notizia-shock dall'Fbi arriva in una fase in cui già Trump stava rimontando nei sondaggi. Non una rimonta formidabile, ma sufficiente a ridurre un po' il margine di vantaggio di Hillary, reintroducendo un elemento di suspense e di incertezza proprio in dirittura d'arrivo in questa campagna elettorale. Trump appena è uscita la notizia ha interrotto un comizio per dire: "Applaudo la decisione dell'Fbi, che torna ad occuparsi delle azioni criminali di Hillary". L'esultanza in campo repubblicano è comprensibile. La tempistica dell'annuncio di Comey è sconcertante: per riaprire un caso chiuso tre mesi fa, e farlo a 11 giorni dall'elezione presidenziale, l'Fbi deve avere dei motivi solidi. Se lo scandalo è grosso, quanto voti può ancora spostare? A questo punto del calendario la percentuale di elettori indecisi è piuttosto ridotta, ma una rivelazione che inchiodi la Clinton a responsabilità gravi può influire sul morale della base democratica e ridurre l'affluenza alle urne. Vale la pena di ricordare qual è il nucleo della questione. Hillary commise un'imprudenza ed anche una grave scorrettezza - ma non un reato, almeno secondo quanto detto dall'Fbi fino a ieri - usando un indirizzo privato di email anziché quello governativo. WikiLeaks, diffondendo alcune di quelle email segrete, ha messo a fuoco un conflitto d'interessi reale: quando era segretario di Stato, Hillary alternava e confondeva spesso le sue funzioni governative con le attività della Fondazione filantropica di famiglia. Certo le donazioni alla Fondazione servivano ad opere benefiche, e tuttavia chi staccava grossi assegni per la Fondazione aveva anche un accesso preferenziale al Dipartimento di Stato. © Riproduzione riservata 28 ottobre 2016 Da - http://www.repubblica.it/speciali/esteri/presidenziali-usa2016/2016/10/28/news/email_segrete_di_clinton_inquietante_che_fbi_riapra_indagini_a_poca_distanza_dal_voto-150816080/?ref=HREA-1 Titolo: FEDERICO RAMPINI. Obama si schiera contro l'Fbi Inserito da: Arlecchino - Novembre 03, 2016, 12:03:30 pm Obama si schiera contro l'Fbi
Il presidente Usa sconfessa l'operato di Comey: "C'è una regola per cui quando ci sono delle indagini, non operiamo per allusioni, non operiamo sulla base di informazioni incomplete" Dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI 02 novembre 2016 NEW YORK - Scende in campo perfino Barack Obama, con una stoccata all'Fbi. "C'è una regola - dice il presidente in un'intervista - per cui quando ci sono delle indagini, non operiamo per allusioni, non operiamo sulla base di informazioni incomplete". E' una sconfessione pacata ma dura, nei confronti dell'operato di James Comey. L'ultima che ha combinato il capo dell'Fbi? Ieri sera ha tirato fuori carte inedite perfino da uno scandalo di 15 anni fa, relativo a Bill Clinton. Che tempismo. L'Fbi è diventata un attore ingombrante di questa campagna elettorale. Il New York Times in prima pagina sottolinea la contraddizione stridente fra la decisione presa a luglio - quando l'Fbi decise di accantonare due inchieste, una su Hillary l'altra sui legami Trump-Russia (più precisamente fra il direttore della campagna elettorale di Trump e il partito filo-russo in Ucraina) - proprio per non influenzare la campagna; e l'improvvisa riapertura di una sola indagine, quella su Hillary, proprio a ridosso del voto. Il Washington Post sottolinea con sconcerto l'altro gesto inspiegabile, la pubblicazione di 129 pagine di documenti interni sull'inchiesta relativa al perdono presidenziale che Bill Clinton concesse al suo finanziatore Marc Rich, una storia vecchia di 15 anni fa. Rich era un finanziere lestofante, costretto a fuggire all'estero. Fu molto discusso all'epoca il gesto di Bill che lo perdonò, in ringraziamento delle donazioni ricevute. E' rimasta come una delle tante macchie nella reputazione di Bill. Però perché riesumarla proprio adesso? A sei giorni dal voto? IL PERSONAGGIO. CHI È JAMES COMEY Molti ormai tracciano dei paralleli non proprio lusinghieri fra l'attuale capo dell'Fbi James Comey e il suo leggendario (famigerato) predecessore Edgar Hoover negli anni Cinquanta-Sessanta, celebre per le sue persecuzioni contro sospetti simpatizzanti del comunismo o militanti dei diritti civili come Martin Luther King. Ecco un profilo di Comey, repubblicano nominato da Obama, che sta diventando un "convitato di pietra" in questa campagna. O forse no, il "convitato di pietra" nel Don Giovanni viene indicato come una "muta presenza inquietante e minacciosa", ma Comey è insolitamente loquace... © Riproduzione riservata 02 novembre 2016 Da - http://www.repubblica.it/esteri/2016/11/02/news/fbi_clinton_comey-151167542/?ref=HREA-1 Titolo: FEDERICO RAMPINI. Campagna Usa, il momento della nausea Inserito da: Arlecchino - Novembre 08, 2016, 10:51:21 pm 4 nov 2016 Campagna Usa, il momento della nausea Di Federico RAMPINI "L'elezione del disgusto". Lo sospettavamo da tempo ma ora ce lo conferma l'ultimo sondaggio del New York Times: gli elettori sono proprio schifati da questa campagna. Ma la nausea è equamente ripartita? Non proprio, a quanto parte nelle rilevazioni sul livello di "entusiasmo" se la cavano meglio i repubblicani dei democratici. A conferma che alcune constituency cruciali per Hillary - neri, Millennial - rischiano di avere una bassa affluenza alle urne. In controtendenza positiva: gli ispanici stanno votando più che in passato. Poiché nello sforzo finale bisogna soprattutto combattere l'assenteismo tra i propri ranghi, può essere utile ricordare i grandi numeri di questa elezione: nel 2012 votarono circa 127 milioni di elettori cioè un modesto 55% degli aventi diritto. E qui è utile introdurre delle distinzioni rispetto ai sistemi elettorali che prevalgono in Europa. Gli "aventi diritto" teoricamente sarebbero tutti i cittadini americani maggiorenni. Però, però. Anzitutto, chi ha subito una condanna penale spesso viene anche punito con la privazione del diritto di voto. E nel paese che ha il record di popolazione carceraria, sono numeri grossi. Poi, a differenza che in Italia e altri paesi europei, qui oltre ad essere cittadino, maggiorenne, bisogna iscriversi al registro elettorale, in certi Stati precisando la propria appartenenza (democratico, repubblicano, indipendente: peraltro questa affiliazione non impedisce di votare per chi si vuole). E' un piccolo passaggio burocratico, ma non tutti lo fanno anche perché significa spesso recarsi in un ufficio pubblico, tipicamente lo stesso che rilascia patenti di guida, fare file, perdere ore di lavoro ecc. ecc. Scritto in Donald Trump, Hillary Clinton, politica partiti elezioni Usa | 5 Commenti» Da - http://rampini.blogautore.repubblica.it/ Titolo: FEDERICO RAMPINI. Trump sulle orme di Berlusconi lancia il "Contratto con gli... Inserito da: Arlecchino - Novembre 12, 2016, 12:22:58 pm Trump sulle orme di Berlusconi lancia il "Contratto con gli americani"
Sul suo sito, include il programma dei primi cento giorni. Ma già alle prime letture si scoprono evidenti effetti-annuncio. E già in una intervista al WSJ il neoeletto presidente frena sulla modifica solo di parte dell'Obamacare Dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI 11 novembre 2016 NEW YORK - Le analogie con Silvio Berlusconi continuano ad aumentare. Donald Trump lancia il suo “Contratto con l’elettore americano”, che include il suo piano per i 100 giorni. Ben visibile sul suo sito, il Contratto elenca provvedimenti che il neo-presidente intende varare non appena s’insedierà alla Casa Bianca (l’Inauguration Day è il 20 gennaio). Molti di questi erano già stati anticipati sull’edizione cartacea di Repubblica ieri e oggi. Cancellate le restrizioni all’estrazione di petrolio, gas naturale. Ritiro o ri-negoziazione dal trattato Nafta che un quarto secolo fa creò il mercato unico con Canada e Messico. Denuncia formale della Cina per manipolazione della valuta (preludio a sanzioni commerciali). Avvio delle procedure di espulsione per due milioni di “immigrati criminali”. Congelamento di tutte le assunzioni nel pubblico impiego (federale ovviamente, gli Stati fanno quello che vogliono). Stop a qualsiasi versamento all’Onu per la lotta al cambiamento climatico. Segue una seconda parte, spalmata sui 100 giorni, e fatta per lo più di iniziative che Trump intende lanciare ma che poi andranno approvate dal Congresso. E’ in questa parte che si trova l’abrogazione di Obamacare, la riforma sanitaria del suo predecessore. Così come i 1.000 miliardi di dollari di investimenti per l’ammodernamento delle infrastrutture. Ovvero la riforma fiscale che dovrebbe ridurre il prelievo su tutti, persone fisiche e imprese. Una lettura attenta rivela che ci sono molti effetti-annuncio. Per esempio: la ri-negoziazione del Nafta è un processo lungo nel quale intervengono i tre paesi firmatari, non basta la volontà del presidente americano; poi qualsiasi nuova formulazione di quel trattato andrà sottoposta a ratifica del Congresso, dove una parte dei repubblicani legati alle lobby industriali restano liberoscambisti. Ancora: per abrogare Obamacare bisogna prevedere un sistema sanitario alternativo; l’esperienza insegna che disegnare la sanità americana è un cantiere su cui i parlamentari si cimentano su tempi lunghi (anche lì intervengono le lobby: assicurazioni, Big Pharma, ospedali privati, medici). A riprova: in un’intervista appena uscita sul Wall Street Journal, Trump sta già facendo una parziale marcia indietro su Obamacare, invece dell’abrogazione totale accenna alla possibilità di modificare solo parte di quella riforma sanitaria. In quanto al piano delle infrastrutture, per aggirare la resistenza dei repubblicani ortodossi che non amano la spesa pubblica, Trump proporrà che i 1.000 miliardi ce li mettano i privati. Ma con sgravi fiscali che di fatto li finanzierebbero fino all’82%. Il compito più facile per Trump sarà abrogare quelle riforme che Obama aveva varato attraverso atti esecutivi: ricadono in questa categoria diverse normative ambientaliste dell’Environmental Protection Agency. © Riproduzione riservata 11 novembre 2016 Da - http://www.repubblica.it/esteri/2016/11/11/news/trump_sulle_orme_di_berlusconi_lancia_il_contratto_con_gli_americani_-151832771/?ref=HREA-1 Titolo: FEDERICO RAMPINI. Trump, marcia indietro che gela i sostenitori Inserito da: Arlecchino - Novembre 26, 2016, 09:10:40 pm Trump, marcia indietro che gela i sostenitori
Il presidente Usa prende le distanze da tante promesse fatte in campagna elettorale soprattutto quella relativa alla riabilitazione delle energie fossili Dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI 22 novembre 2016 NEW YORK - Marcia indietro tutta, anche su Parigi? Donald Trump sta infliggendo una doccia fredda ai suoi sostenitori, prendendo le distanze da varie promesse della campagna elettorale. Già diversi siti e commentatori della destra radicale sono furiosi perché ha detto di non voler continuare le indagini su Hillary Clinton. Nei comizi le folle urlavano entusiaste "Lock her up" (mettetela in carcere), e perfino in un duello televisivo lui glielo disse in faccia, che avrebbe nominato uno "special prosecutor" per incriminarla. Scherzava. Ma fin qui, la retromarcia è comprensibile, perfino prevedibile. Si possono dire cose durissime in campagna elettorale, poi quando uno ha vinto volta pagina, e sotterra l'ascia di guerra. Tanto più che Hillary agli ultimi conteggi ha preso due milioni di voti in più di lui, accanirsi con inchieste giudiziarie contro di lei oltre che una brutta vendetta sarebbe un gesto che acutizzerebbe le divisioni di una nazione già lacerata. Ma Parigi? Qui la questione è molto più delicata. Non solo Trump ha più volte detto di considerare il cambiamento climatico "una bufala" (o addirittura "un'invenzione dei cinesi per danneggiare la competitività dell'industria americana"); non solo ha promesso più volte di stracciare quegli accordi; inoltre ha inserito quelle promesse in un più generale piano di riabilitazione delle energie fossili, petrolio e carbone. Oltre ad essere perfettamente in linea con la tradizione repubblicana (i Bush padre e figlio erano espressione della lobby Big Oil), quelle promesse gli valsero voti cruciali, ad esempio tra i minatori delle montagne Appalachian. Wall Street sale dalla sua elezione, anche perché le multinazionali energetiche festeggiano. La Famiglia Koch, potentato petrolchimico di destra che aveva avuto una certa freddezza verso Trump, ora lo appoggia. Insomma retrocedere sull'anti-ambientalismo non gli sarà facile. Un'avvertenza ulteriore. La frase "possibilista" su Parigi, Trump l'ha pronunciata in queste ore nel corso di un incontro con la direzione e redazione del New York Times, quotidiano liberal che lo ha osteggiato e continua ad essere fortemente critico verso di lui. Trump - anche in questo fedele al suo modello Berlusconi? - ha una certa tendenza a plasmare la sua oratoria sui gusti di chi lo sta ascoltando. Gli piace piacere. Adora accattivarsi l'audience che ha davanti. Se domani sera lo intervistasse un giornalista alla O'Reilly o alla Hannity su Fox News, sarebbe capace di dire cose molto diverse da quelle che ha appena detto al New York Times. © Riproduzione riservata 22 novembre 2016 Da - http://www.repubblica.it/esteri/2016/11/22/news/trump_parigi_accordo_distanza_da_promesse_campagna_elettorale-152581933/?ref=fbpr Titolo: FEDERICO RAMPINI. Attacco campus Ohio, polizia: "Non escludiamo pista terrorismo Inserito da: Arlecchino - Novembre 30, 2016, 08:53:18 pm Attacco campus Ohio, polizia: "Non escludiamo pista terrorismo"
L'assalitore ha colpito con modalità che ricordano assalti avvenuti in Paesi europei: vittime investite con l'auto, altre accoltellate. I network tv ora intitolano i notiziari sulla pista jihadista, una sorta di "benvenuto" al presidente-eletto Donald Trump, che del pericolo fece un cavallo di battaglia in campagna elettorale Dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI 28 novembre 2016 NEW YORK - "Gli dava la caccia con la sua auto, investendo pedoni sui marciapiedi, poi li aggrediva con un coltello da macellaio". È la descrizione dei primi testimoni, come la riferisce alla Cnn il presidente dell'Ohio State University, Michael Drake, sull'attacco che ha sconvolto stamattina quel campus universitario: il bilancio è di dieci feriti, tra cui uno in gravi condizioni. L'assalitore è morto, ucciso dalle forze dell'ordine, e "il campus ora è sicuro", secondo le autorità locali. "Se non avete un'arma da fuoco usate un coltello, o un'automobile". Quelle "istruzioni" dell'Isis ai jihadisti su come colpire l'Occidente, vengono rievocate ora dalla polizia dell'Ohio. "Le indagini non escludono la pista terrorista", dice la portavoce della polizia. L'aggressore viene descritto dalla stessa polizia come un giovane di origini somale: secondo fonti anonime raccolte da Nbc avrebbe avuto regolare permesso di soggiorno, ma a suo tempo accolto come rifugiato. Ha colpito con modalità che ricordano alcuni attacchi avvenuti in Paesi europei: alcune vittime le ha investite con la sua auto, altre accoltellate. La città di Columbus ospita una vasta comunità di rifugiati dalla Somalia. Tra i primi testimoni, studenti che hanno visto da vicino la scena dell'attacco, nessuno però ha sentito l'aggressore rivendicare o spiegare il suo gesto. Uno di questi studenti, Jacob Bower, ha detto alla Cnn: "Era silenzioso, ma aveva uno sguardo da folle. Il poliziotto che lo ha abbattuto ha dovuto sparare tre volte per fermarlo". Tutti i network tv ora intitolano i notiziari sulla pista terrorista e di colpo l'attacco può apparire come una sorta di "benvenuto" al presidente-eletto Donald Trump, che del pericolo del terrorismo islamista fece un cavallo di battaglia in campagna elettorale. Dall'inizio delle primarie fino al voto, l'America subì due attacchi terroristici a San Bernardino (California) e Orlando (Florida), e fu anche sconvolta dall'eco delle stragi di Parigi e Bruxelles. Trump attaccò Barack Obama e Hillary Clinton per la loro reticenza a usare il termine di "terrorismo islamico". © Riproduzione riservata 28 novembre 2016 Da - http://www.repubblica.it/esteri/2016/11/28/news/ohio_rampini-153040500/?ref=HREA-1 Titolo: FEDERICO RAMPINI. Se Trump incita a uscire dall'Ue Inserito da: Arlecchino - Gennaio 17, 2017, 11:27:58 am Se Trump incita a uscire dall'Ue
Dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI 16 gennaio 2017 NEW YORK – Se qualcuno ancora s’illudeva che Donald Trump potesse moderarsi con la vicinanza del potere; oppure che la sua carica dirompente potesse rimanere relativamente circoscritta dentro gli Stati Uniti… questa intervista al Sunday Times e a Bild è un brutale richiamo alla realtà. Trump non vi dice nulla di veramente nuovo rispetto alla sue sparate di campagna elettorale, certo, però la tempistica e la virulenza impressionano. A soli quattro giorni dall’Inauguration Day il presidente-eletto fa un intervento “a gamba tesa” negli affari europei. Inneggia a Brexit, vuole un rapporto privilegiato con Londra proprio in quanto secessionista, e prevede-auspica che altri Stati seguiranno il suo esempio. Rompe cioè con una tradizione bipartisan che risale a John Kennedy, una lunga sequenza di Amministrazioni americane decisamente favorevoli al progetto europeo. Mai nessun altro presidente degli Stati Uniti, da quando nacque la Comunità europea, ne aveva augurato apertamente il fallimento e la disintegrazione. Non è davvero una novità da poco, avere a Washington un leader che esorta gli europei ad andarsene dalla loro casa comune. Tra l’altro questo è un magnifico regalo a Vladimir Putin: un’Europa spappolata è una preda ben più facile per chi intende ripristinare influenze egemoniche. Il discorso filo-Brexit e anti-Ue si completa perfettamente con quel distacco dalla Nato, che l’intervista riconferma. A poco serve consolarsi sperando che i tanti generali di cui Trump si circonda lo convinceranno che il Patto Atlantico non è proprio un inutile ferrovecchio. In politica estera è il presidente ad avere l’ultima parola. Anche la prima, del resto. Certe parole pronunciate oggi possono già scatenare effetti incalcolabili, offrendo una sponda e una legittimità nuova a tutti i movimenti anti-europei. © Riproduzione riservata 16 gennaio 2017 Da - http://www.repubblica.it/esteri/2017/01/16/news/se_trump_incita_a_uscire_dall_ue-156109492/?ref=HREA-1 Titolo: FEDERICO RAMPINI. Nazionalismo e populismo nel discorso-comizio di Trump... Inserito da: Arlecchino - Gennaio 24, 2017, 06:08:08 pm Nazionalismo e populismo nel discorso-comizio di Trump: chi sperava in un nuovo Reagan è deluso
L'analisi sull'Inauguration Day. Il nuovo presidente ha sciorinato tutti i temi ascoltati ossessivamente in campagna elettorale, che oggi suonano ancora più falsi. E non una parola sul programma dei cento giorni Dal nostro inviato FEDERICO RAMPINI 20 gennaio 2017 WASHINGTON - "Questo non è un normale passaggio di consegne da un presidente a un altro. Oggi il potere passa a voi, al popolo". E' il classico tema populista, l'apertura che Donald Trump sceglie per il suo discorso inaugurale: io non sono un politico, mi avete eletto perché volevate un vero outsider, io rappresento la rottura con l'establishment. E' uno dei temi forti della sua campagna elettorale - oltre che di tutti i populismi - ma in questo venerdì 20 gennaio 2017 qualcosa suona falso, ancora più falso che in campagna elettorale. Fino a novembre, si poteva obiettare che Trump - come Silvio Berlusconi in Italia - è un membro dell'establishment capitalistico, quindi sfoggia una notevole ipocrisia quando si presenta come "uno di noi". La sua risposta classica, sulla falsariga di Berlusconi: ma io da imprenditore ho creato vera ricchezza, mentre i politici la prelevano dai contribuenti e la dilapidano; io perché sono già ricco non ho bisogno di rubare, sono incorruttibile; io ho senso pratico e risanerò l'America così come ho fatto fiorire le mie aziende. Tutto molto discutibile, per esempio alla luce delle sue varie bancarotte. Ma dal 9 novembre ad oggi, quel discorso è stato compromesso dallo stesso Trump per un'altra ragione: le nomine. Avendo selezionato ben tre banchieri di Goldman Sachs, un ex chief executive di Exxon Mobil ed altri lobbisti legati al petrolio, Trump si è avviluppato in un rete di affaristi e intrallazzatori che sono puro establishment. Oggi molto più di due mesi fa, la sua promessa di segnare il ritorno del potere al popolo, già suona come una beffa. L'altro tema forte di questo discorso inaugurale è il nazionalismo. A cui Trump vuole dare dignità ideologica erga omnes, captando l'atmosfera del nostro tempo ci vede il filo comune che lega tante rivolte anti-globali. Rifarò l'America grande. E non solo l'America, ma tutti i paesi hanno il diritto-dovere di rimettere al centro l'interesse nazionale. Poi questo si declina soprattutto sul versante economico: compriamo americano, assumiamo americani. E' un tema popolare, piace anche a sinistra, dove Bernie Sanders fu altrettanto feroce di Trump contro i trattati di libero scambio. Quindi Trump vuole anzitutto restituire il favore a quella classe operaia bianca degli Stati più colpiti dalle delocalizzazioni industriali. E' a loro che promette aiuto e protezione. E qualcosa ha già cominciato a fare, ancorché a livello "micro", prevalentemente simbolico, salvando una fabbrica di condizionatori d'aria e convincendo la Ford a dirottare nel Michigan un investimento che era destinato al Messico. Ma siamo comunque fermi a temi e slogan della campagna elettorale. Trump ci ha rifatto un comizio, come ne avevamo ascoltati a dozzine prima dell'8 novembre. Se voleva suonare come un novello Ronald Reagan, non c'è riuscito. Gli manca la fantasia retorica, il pathos. Ed è troppo presuntuoso per farsi aiutare da speech writer più bravi di lui. Poche le immagini forti, e quasi tutte riciclate. L'altra mancanza: il programma dei cento giorni. Non è obbligatorio inserire un vero piano di governo nel discorso dell'Inauguration Day. Però molti suoi predecessori lo fecero. E' ora che dagli slogan dei comizi Trump passi allo stadio successivo, dicendo come li realizzerà. Oggi siamo rimasti ancora una volta a digiuno. © Riproduzione riservata 20 gennaio 2017 Da - http://www.repubblica.it/esteri/2017/01/20/news/nazionalismo_e_populismo_nel_discorso-comizio_di_trump_chi_si_attendeva_un_nuovo_reagan_e_deluso-156503958/?ref=fbpr Titolo: FEDERICO RAMPINI. Usa, Trump annuncia il via alla costruzione del Muro. Inserito da: Arlecchino - Gennaio 26, 2017, 12:20:53 pm Usa, Trump annuncia il via alla costruzione del Muro. Stop all'ingresso di rifugiati Al via oggi l'ordine esecutivo per l'edificazione, al confine meridionale. Verrà firmata anche una direttiva per bloccare l'arrivo di profughi dalla Siria, oltre che da altre "nazioni esposte al terrorismo" Dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI 25 gennaio 2017 INSTANCABILE, Donald Trump continua a macinare decisioni che realizzano le sue promesse elettorali. E' la volta del Muro col Messico. Al terzo giorno di governo, arriva anche la sua promessa più simbolica e controversa, quella fortificazione di frontiera che fu il segno distintivo della sua campagna. E' annunciato per questo mercoledì l'ordine esecutivo - l'equivalente di un decreto presidenziale - in cui "orienterà fondi pubblici federali per l'edificazione di un muro al confine meridionale". Nella stessa occasione firmerà anche una direttiva per bloccare l'arrivo di profughi dalla Siria, oltre che da altre "nazioni esposte al terrorismo". Prende corpo così la sua proclamata intenzione di svoltare rispetto a Barack Obama anche sul fronte dell'immigrazione: da un lato il giro di vite contro l'immigrazione "economica" che viene dal Sud, d'altro lato si tratta di sigillare i confini rispetto all'afflusso dai paesi islamici. E' quest'ultima la parte più controversa, perché in diverse occasioni durante la campagna elettorale Trump evocò degli "esami di religione" all'ingresso, che sarebbero contrari ai principi costituzionali. Lui stesso, allargando l'area di rischio a tutti i paesi "bersagli di attentati terroristici", più volte auspicò anche delle restrizioni sugli ingressi dall'Europa, che potrebbero cancellare il sistema Esta di visti online concessi anche ai turisti italiani. Sapremo fra poche ore se anche questa parte delle sue proposte sarà inclusa nei decreti anti-immigrati. In quanto al Muro, resta invece da verificare quanto sarà ampio: in realtà una barriera fortificata esiste già, al confine californiano tra San Diego e Tijuana, e fu costruita nientemeno che da Bill Clinton. Bisognerà vedere se Trump si limiterà ad un'operazione simbolica che allunghi la muraglia già esistente. Da verificare anche se riuscirà a "farlo pagare ai messicani", come promesso nei comizi elettorali. Di certo il ritmo con cui legifera il neo-presidente è sostenuto. Venerdì sera, poche ore dopo la cerimonia dell'Inauguration Day, aveva firmato un primo decreto per intaccare la riforma sanitaria Obamacare. Poi lunedì mattina ha cancellato il trattato di libero scambio con l'Asia-Pacifico (Tpp). Martedì è stata la volta dell'ambiente, con la decisione di autorizzare gli oleodotti Keystone XL e quello del Dakota, rovesciando le ultime decisioni di Obama. L'annuncio sul Muro arriva al termine di una giornata densa di polemiche. Trump infatti martedì pomeriggio nel corso di un incontro coi parlamentari ha ribadito la sua accusa - palesemente falsa - su "tre o cinque milioni di immigrati clandestini che hanno votato per Hillary". Le smentite dei media lo lasciano indifferente. Così come le critiche che vengono dal suo stesso partito: il senatore repubblicano Lindsay Graham è stato uno dei più autorevoli, nell'accusare il presidente di screditare la democrazia americana con la menzogna sui brogli. © Riproduzione riservata 25 gennaio 2017 Da - http://www.repubblica.it/esteri/2017/01/25/news/usa_trump_annuncia_il_via_alla_costruzione_del_muro_stop_all_ingresso_di_rifugiati-156812606/?ref=HRER3-1 Titolo: FEDERICO RAMPINI. Perché l'ultima bugia di Trump è grave Inserito da: Arlecchino - Gennaio 26, 2017, 12:30:12 pm 24 genaio 2017
Perché l'ultima bugia di Trump è grave Federico RAMPINI Continua la tempesta suscitata dalla sua ultima sparata menzognera, quella sui "tre o cinque milioni di immigrati illegali che hanno votato per Hillary". Che sia una bugia glielo stanno dicendo in tutte le salse anche i repubblicani: molti di loro sono governatori degli Stati, hanno quindi avuto il potere/dovere di vigilare sulla regolarità del voto. I brogli, è bene ripeterlo perché è verità appurata e bipartisan, in America sono così rari da rappresentare percentuali infinitesimali. Nei seggi elettorali hanno controllato lo scrutinio tantissimi repubblicani. Un appello particolarmente accorato al neopresidente viene dal suo compagno di partito Lindsay Graham, che lo esorta a non infangare il processo elettorale e la democrazia americana. Proprio perché qui i brogli sono pressoché inesistenti, far credere che ve ne siano su scala massiccia è una menzogna davvero grave. Molti in queste ore stanno osservando che un broglio su simile scala (milioni!) esigerebbe che il presidente non ne parli buttando lì una battutella, ma faccia immediatamente partire delle indagini sulla terribile perturbazione della consultazione elettorale. Ovviamente non lo fa perché qualsiasi indagine federale confermerebbe che lui è un bugiardo. Ma di menzogna in menzogna, è la fiducia nelle istituzioni, la tenuta del tessuto civile, il rispetto della nazione per se stessa, ciò che lui ferisce quotidianamente. L'aspetto più vergognoso è che questa bugia ha come unica motivazione l'amor proprio ferito di un egomaniaco patologico, che non può sopportare di essere stato superato da Hillary nel voto popolare. N.B. Un'ultima notazione, che nell'attuale contesto e visti i rapporti di forze è pura fanta-politica: se mai un giorno i democratici dovessero riconquistare la maggioranza al Congresso, una bugia come questa sui brogli sarebbe più che sufficiente ad avviare la procedura di impeachment. Scritto in destra Usa, Donald Trump, immigrazione, politica partiti elezioni Usa Da - http://rampini.blogautore.repubblica.it/2017/01/24/perche-lultima-bugia-di-trump-e-grave/?ref=HROBA-1 Titolo: FEDERICO RAMPINI. Caso Flynn, la causa è "Rottura della fiducia". Tensioni ... Inserito da: Arlecchino - Febbraio 17, 2017, 12:19:59 am Caso Flynn, la causa è "Rottura della fiducia". tensioni Usa-Russia: scoppia la Putin-connection Il generale Michael Flynn, consigliere per la Sicurezza Nazionale dimissionario (ansa) A Washington giornata dominata dalle ripercussioni dello scandalo sui contatti illeciti con l’ambasciatore russo del consigliere di Trump più importante per questioni di politica estera, difesa e anti-terrorismo. Non soltanto i democratici ma anche qualche repubblicano vogliono andare a fondo con un’indagine che potrebbe chiamare in causa lo stesso presidente Dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI 14 febbraio 2017 NEW YORK - “Rottura della fiducia”: è la ragione ufficiale per cui Donald Trump ha cacciato quello che si era scelto poche settimane fa come il massimo consigliere strategico, il generale Michael Flynn. Dietro spunta la vera motivazione ben più inquietante: “Era ricattabile dai russi”. Lo dice lo stesso Dipartimento di Giustizia. In un clima torbido, tra congiure di palazzo e caccia alle spie, casca la prima testa nel nuovo esecutivo, ed è una testa importante. Inoltre le dimissioni del generale giungono sulla scorta di un’accusa infamante: intesa col nemico; aggravata dalla bugia ai propri capi, per coprirsi. Di che rendere inevitabile un’indagine del Senato su Flynn, rischiosa per lo stesso Trump. In quanto al generale, potrebbe rischiare perfino il carcere. Dimissioni Flynn, Rampini: "Trump vittima della maledizione di Putin" Si scopre infatti che mentì perfino all’Fbi quando lo interrogò sui suoi contatti coi russi. Ma la giornata dei veleni si è conclusa con una rivelazione-shock del New York Times. Secondo il quotidiano – che cita intercettazioni, fonti d'intelligence e magistratura – diversi collaboratori di Trump durante la campagna elettorale “ebbero ripetuti contatti con dirigenti dei servizi segreti russi”. Il quotidiano basa le sue affermazioni clamorose su “quattro fonti ufficiali”, in seno alle agenzie del contro-spionaggio e alla Giustizia americana, “allarmate per la quantità di contatti” che le intercettazioni hanno rivelato, fra gli uomini più vicini a Trump e i vertici dello spionaggio di Putin. La caduta del generale segna una nuova ferita nell’idillio fra Trump e Vladimir Putin, un’amicizia a distanza che ha già provocato problemi al presidente americano, e che ora incappa in turbolenze serie. Non bastano le dimissioni del National Security Adviser per placare il “caso Flynn”. Non soltanto l’opposizione democratica ma anche i repubblicani vogliono andare a fondo, con un’indagine che potrebbe chiamare in causa lo stesso presidente. Intanto Mosca non fa nulla per rasserenare il clima. Secondo il Pentagono la Russia avrebbe dispiegato in segreto nuovi missili di crociera che violano i trattati bilaterali sul controllo degli armamenti. La Fox News ieri ha lanciato l’allarme sull’avvistamento di una nave spia russa al largo della East Coast degli Stati Uniti, all’altezza del Delaware. Altro episodio di tensione: nel Mar Nero il 10 febbraio diversi cacciabombardieri russi si sono avvicinati “pericolosamente”, secondo il Pentagono, ad una nave militare americana. Ma a Washington la politica resta dominata dalle ripercussioni dello scandalo Flynn: lui fino a lunedì sera era di fatto il consigliere più importante del presidente per politica estera, difesa, anti-terrorismo, poiché dirigeva il National Security Council che assiste direttamente il presidente. Flynn ha dovuto abbandonare per avere avuto contatti illeciti con l’ambasciatore russo (sul tema sanzioni) e poi per avere mentito alla Casa Bianca sul tenore di quei contatti. Affondato dunque dalla Putin-connection che già addensò sospetti su Trump per il ruolo degli hacker russi negli attacchi a Hillary Clinton durante la campagna elettorale. La pesantezza dei sospetti sta costringendo la Casa Bianca a rivedere i suoi propositi di disgelo con Mosca: ieri il portavoce del presidente, Sean Spicer, ha improvvisamente sposato la linea Obama su Crimea e Ucraina. Adesso Washington si aspetta “una de-escalation in Ucraina e la restituzione della Crimea”. Temi sui quali in campagna elettorale Trump era stato molto indulgente verso Putin. Trump vuole dare l’impressione di avere agito con fermezza e decisionismo. Scatena una caccia alla gola profonda dentro la Casa Bianca, si chiede come sia trapelata all’esterno la notizia delle intercettazioni che l’intelligence Usa aveva compiuto sulle telefonate tra Flynn e l’ambasciatore russo. Ma al Congresso la vicenda Flynn ha altri strascichi. Il capo della maggioranza repubblicana al Senato, Mitch McConnell, giudica “molto probabile” un’inchiesta parlamentare su Flynn. Prevale quella destra classica (alla John McCain) che non vuole dare tregua sulla Putin-connection. L’incognita di un’inchiesta parlamentare, è che prima o poi finirà per porre la domanda più destabilizzante: che cosa sapeva esattamente Trump? Ieri lo stesso portavoce Spicer ha ammesso che il presidente era al corrente da settimane delle bugie di Flynn sui suoi contatti col diplomatico russo. L’impressione è che Trump non ha agito fino a quando non vi è stato costretto da uno scoop del Washington Post. Altra domanda imbarazzante: fino a che punto Flynn si era mosso da solo nel sondare i russi e nel promettergli una levata delle sanzioni, in che misura invece agiva con il beneplacito del presidente? Nel frattempo Trump deve sbrigarsi a riempire il ruolo lasciato vacante da Flynn, e sta sondando fra gli altri l’ex capo della Cia, generale David Petraeus. Peraltro travolto anche lui da uno scandalo, sotto Obama. © Riproduzione riservata 14 febbraio 2017 Da - http://www.repubblica.it/esteri/2017/02/14/news/caso_flynn_e_tensioni_con_la_russia-158319999/?ref=nl-Ultimo-minuto-ore-13_15-02-2017 Titolo: FEDERICO RAMPINI. Guardia nazionale contro gli immigrati illegali: ... Inserito da: Arlecchino - Febbraio 28, 2017, 11:29:38 pm Guardia nazionale contro gli immigrati illegali: un'ipotesi estrema per uscire dall'impasse
La notizia di una simile iniziativa da parte della Casa Bianca è stata diffusa dall'Associated Press. L'amministrazione Trump smentisce, ma l'autorevole agenzia ribatte: abbiamo un documento interno Dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI 17 febbraio 2017 NEW YORK – E’ arrivata in un lampo la smentita della Casa Bianca alla notizia dell'Associated Press: quella sulla mobilitazione della Guardia nazionale (riservisti dell’esercito) per le retate degli immigrati illegali in vista della loro espulsione. L’Associated Press sostiene però di avere ottenuto un “memo” – documento interno – dell’Amministrazione in cui quell’ipotesi veniva contemplata. Può darsi che sia una delle tanti ipotesi di lavoro, simulazioni, opzioni, che il presidente vuole avere sul suo tavolo prima di decidere il da farsi. Può darsi che sia stata esaminata e poi scartata. Può darsi che la smentita della Casa Bianca valga oggi, e non domani. Tutto è possibile con un’Amministrazione di cui negli ultimi 20 giorni abbiamo verificato lo stile caotico. Per capire la portata enorme che avrebbe l’uso delle forze armate, ecco i quattro punti essenziali. 1) Non sarebbe la prima volta che la Guardia Nazionale viene usata per funzioni di ordine pubblico (la vidi in azione ancora di recente a Ferguson, Missouri, per le proteste anti-razzismo che la polizia non riusciva a contenere), e tuttavia è inevitabile ricordare quante volte ebbe un utilizzo "progressista": per esempio per difendere i diritti civili dei neri nel profondo Sud quando governatori, sindaci e polizie locali li calpestavano. Qualora la usasse come ipotizzato dall’Associated Press, Trump rovescerebbe questa tradizione nel suo contrario. 2) Se mai dovesse arrivare a tanto, Trump sarebbe spinto a questo gesto estremo da un'impasse in cui si è cacciato lui. Il bando anti-musulmani è bloccato dai tribunali federali, il Muro col Messico è di là da venire e non può certo dare il senso di un'azione immediata contro i clandestini. Le espulsioni dei giorni scorsi fanno chiasso ma sono numeri piccoli (centinaia), analoghi a quelli di Obama. 3) Mettere in campo la Guardia nazionale sarebbe un modo per by-passare il sabotaggio attivo delle 30 città-santuario, da New York a Chicago a San Francisco, dove le polizie locali hanno l'ordine di non collaborare con gli agenti federali dell'Immigration nelle retate. Si aprirebbe quindi uno scontro ai massimi livelli, anche di tipo costituzionale, tra il governo centrale e la logica del federalismo. 4) C’è un ostacolo operativo che può spiegare la rinuncia della Casa Bianca, se il progetto è stato esaminato e poi accantonato. Per aver visto da vicino la Guardia nazionale mobilitata in alcune città d’America durante le proteste razziali degli anni scorsi, ricordo distintamente una caratteristica: i soldati venivano regolarmente tenuti “un passo indietro” rispetto ai poliziotti, i loro reparti e le loro autoblindo facevano una difesa statica di punti nevralgici, coprivano le spalle alle forze dell’ordine, ma si guardavano bene dall’entrare in contatto coi manifestanti. Una delle ragioni: i soldati non hanno addestramento per operazioni di polizia, né tantomeno hanno i poteri tipici della polizia giudiziaria. Non sono, per intenderci, “polizia militare” come i carabinieri italiani. Perciò sarebbe problematico usarli per effettuare arresti di immigrati. Trump rischierebbe un altro fiasco legale come con l’ordine esecutivo sigilla-frontiere. © Riproduzione riservata 17 febbraio 2017 Da - http://www.repubblica.it/esteri/2017/02/17/news/usa_casa_bianca_guardia_nazionale_immigrati-158554708/?ref=HREA-1 Titolo: FEDERICO RAMPINI. E' nato in Siria il "nuovo Trump"? Inserito da: Arlecchino - Aprile 09, 2017, 04:43:50 pm 8APR2017
E' nato in Siria il "nuovo Trump"? Federico RAMPINI Una presidenza giunta al terzo mese sembrava già impantanata in una serie di crisi interne, ma l'intervento in Siria consente a Trump di aprire una pagina nuova: 1) Ritrova un Nemico esterno, il più chiaro e tradizionale che ci sia, in Vladimir Putin. Tutta la storia del Russia-gate improvvisamente può sbiadire nel passato, di fronte alla durezza dello scontro con la Russia che assume toni da guerra fredda. 2) Mette sulla difensiva la Cina, che deve decidere il da farsi sulla Corea del Nord. Xi Jinping non può più escludere che Trump sia davvero disposto a un attacco contro Pyongyang, un'opzione che era sempre stata impossibile con i presidenti americani che lo hanno preceduto. 3) E inaspettatamente Trump fa l'unità tra gli alleati europei, ritrovando anche qui un ruolo "naturale" dell'America che finora sembrava non interessargli affatto. 4) Anche se non c'entra con la politica estera, tuttavia è interessante che il nuovo capitolo della presidenza Trump coincida con la nomina del suo candidato alla Corte suprema, il giudice conservatore Gorsuch, passato ieri al Senato dopo una modifica del regolamento per superare l'ostruzionismo democratico. DA - http://rampini.blogautore.repubblica.it/2017/04/08/e-nato-in-siria-il-nuovo-trump/?ref=RHPF-WB Titolo: FEDERICO RAMPINI. Usa-Corea tra giallo e farsa: Trump si è "perso" l'Invincibile Inserito da: Arlecchino - Aprile 21, 2017, 11:55:14 pm Usa-Corea tra giallo e farsa: Trump si è "perso" l'Invincibile Armada
La flotta ha continuato a navigare, per una settimana, nella direzione opposta. Allontanandosi sempre di più dal paese che doveva intimidire Dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI 19 aprile 2017 NEW YORK - Dov'è finita l'Invincibile Armada che Donald Trump stava mandando al largo della Corea del Nord? Ha continuato a navigare, per una settimana, nella direzione opposta. Allontanandosi sempre di più dal paese che doveva minacciare, intimidire, indurre alla ragione. Si tinge di giallo, o di farsa, il gesto imperioso con cui il presidente voleva mandare un messaggio a Kim Jong-un per costringerlo a rinunciare a nuovi test nucleari. Lo stesso Trump aveva dato l'annuncio l'8 aprile, usando proprio quel termine, "armada", evocando gloriose gesta navali. Era passato poco tempo dal lancio di 89 missili Tomahawk su una base militare siriana. La decisione di reagire all'escalation nucleare nordcoreana con l'invio di una poderosa flotta militare - inclusa la mega-portaerei Uss Carl Vinson - era stata recepita nel mondo intero come una conferma del "nuovo corso" trumpiano, da isolazionista a interventista in politica estera. Gli unici a non avere ricevuto quel messaggio, a quanto pare, sono stati proprio gli ammiragli della U.S. Navy e tutti gli equipaggi della flotta in questione. Che ha continuato per una settimana a navigare nella direzione opposta. Dirigendosi, imperterrita, verso la sua destinazione "normale", puntando cioè verso quei mari dell'Australia dov'era attesa per un'esercitazione. I primi ad accorgersi della sconcertante situazione sono stati i cronisti dello Huffington Post. Poi la vicenda è stata confermata ai massimi livelli, al punto che il New York Times ne ha fatto il titolo di apertura del suo sito. Tardivamente, la flotta ha finito per seguire gli ordini del presidente. Ma con un tale ritardo, da mettere a dura prova la credibilità della Casa Bianca. Il gesto che doveva intimorire Pyongyang non c'era stato, o non era stato trasmesso "per li rami" ai vari livelli della gerarchia militare? O qualcuno non aveva preso sul serio quell'annuncio, all'interno del Pentagono? Secondo le ricostruzioni dei media americani è stata la stessa U.S. Navy a sbugiardare involontariamente il proprio presidente, avendo messo sul proprio sito ufficiale le foto della portaerei Ccarl Vinson mentre attraversava lo stretto che separa le isole indonesiane di Giava e Sumatra, ben quattro giorni dopo l'annuncio della spedizione al largo della Corea del Nord. Rivelando così che in quei quattro giorni la flotta si era allontanata, non avvicinata alla penisola coreana. Forse ha portato sfortuna l'uso della metafora storica. Come sanno gli appassionati di storia navale, l'Invincibile Armada spagnola nonostante il nome altisonante fece una brutta fine. Salpata nel 1588, doveva partecipare all'invasione spagnola dell'Inghilterra, scortando un esercito dalle Fiandre. Dopo una serie di disavventure e soprattutto un terribile uragano nel Mare del Nord, la flotta dovette battere in ritirata con un terzo delle navi colate a picco. © Riproduzione riservata 19 aprile 2017 Da - http://www.repubblica.it/esteri/2017/04/19/news/_trump_si_e_perso_l_invincibile_armada-163332866/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P4-S1.8-T1 Titolo: FEDERICO RAMPINI. Corea del Nord, l'ipotesi dell'intelligence dietro ai flop... Inserito da: Admin - Maggio 02, 2017, 11:42:20 am Corea del Nord, l'ipotesi dell'intelligence dietro ai flop dei test missilistici
Il secondo esperimento consecutivo fallito da Pyongyang alimenta le dietrologie: qualcuno tra Cina e Usa potrebbe aver avuto un ruolo. Ma potrebbero anche essere stati entrambi Di FEDERICO RAMPINI 29 aprile 2017 NEW YORK – E’ già il secondo test consecutivo di un missile nordcoreano che fallisce. Proprio quando fa comodo a molti che fallisca: Washington e Pechino in primis. E allora si capisce che questo rilanci le dietrologie. Qualcuno li fa fallire? E’ già stata evocata in precedenza l’ipotesi di un sabotaggio elettronico, forse a distanza. E’ un’operazione che potrebbe far capo all’intelligence militare cinese, o a quella americana o infine (ipotesi ancora più avvincente) a tutt’e due. Quest’ultima è decisamente la più improbabile perché non c’è fra le due intelligence il livello di affinità politica che caratterizza, ad esempio, americani e israeliani (protagonisti di un celebre sabotaggio elettronico del programma nucleare iraniano). Il flop del missile nordcoreano ha concluso una giornata dove il centro dell’azione era stato qui a New York, al Palazzo di Vetro. “L’intera comunità mondiale deve aumentare drasticamente le sue pressioni sulla Corea del Nord, altrimenti si va verso una catastrofe. E l’America è pronta a intervenire militarmente se necessario”. Lo ha detto venerdì il segretario di Stato Usa, Rex Tillerson, alle Nazioni Unite. Il capo della diplomazia Usa si è allineato con l’avvertimento che il suo presidente aveva lanciato la sera prima in un’intervista all’agenzia Reuters. “C’è una possibilità – aveva detto Donald Trump – che finiamo in una grande, grande guerra con la Corea del Nord. Assolutamente”. Tillerson ha specificato le azioni che la comunità internazionale deve prendere immediatamente: primo, applicare con la massima severità le sanzioni già approvate dall’Onu e in vigore contro la Corea del Nord; secondo, sospendere o ridimensionare le relazioni diplomatiche con quel paese (per chi ne ha ancora: non è il caso degli Usa); terzo, aumentare l’isolamento finanziario e tecnologico di Pyongyang applicando sanzioni anche contro quei paesi terzi che continuino in qualche modo a sostenere il programma missilistico e nucleare di Kim Jong-un. Primo destinatario di queste tre proposte è sempre la Cina, il paese che ha le maggiori relazioni politiche ed economiche con il suo “vassallo” nord-orientale. L’Amministrazione Trump, in continuità con quelle che l’hanno preceduta alla Casa Bianca, è convinta che la Cina non abbia usato tutte le leve di cui dispone per costringere la Corea del Nord a rinunciare ai suoi test illegali. Tillerson ha riproposto anche l’opzione di un dialogo diretto fra Washington e Pyongyang. Ma lo ha fatto ponendo come condizione preliminare che la Corea del Nord smantelli il suo programma nucleare prima ancora che il dialogo cominci. Diverse Amministrazioni Usa nel passato esplorarono anche questa strada, con risultati modesti: un contatto diretto fra i governi dei due paesi è di per sé un grosso successo d’immagine per la Corea del Nord che ne ricava una legittimazione; quando questi contatti ci furono ebbero il risultato di congelare i test nucleari e missilistici ma solo temporaneamente; non appena la Corea del Nord ritenne di non ricavarne concessioni sufficienti (per esempio aiuti economici) i test ripresero. Da parte sua Trump è tornato anche a esercitare pressione sul suo alleato, la Corea del Sud. Riecheggiando la stessa polemica che lui ha con gli europei sulle spese della Nato, il presidente ha rilanciato la richiesta che Seul paghi il costo del sistema avanzato di difesa missilistica, che lui stima sia di un miliardo di dollari. Quel sistema è lo “scudo” con cui gli americani tenterebbero di proteggere la Corea del Sud da eventuali attacchi missilistici di Kim Jong-un. © Riproduzione riservata 29 aprile 2017 Da - http://www.repubblica.it/esteri/2017/04/29/news/corea_del_nord_ipotesi_dell_intelligence_dietro_ai_flop_dei_test_missilistici-164157964/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P8-S1.8-T2 Titolo: FEDERICO RAMPINI. Trump ordinò all'Fbi di insabbiare il Russiagate Inserito da: Arlecchino - Maggio 17, 2017, 06:33:30 pm Trump ordinò all'Fbi di insabbiare il Russiagate
James Comey, capo del Federal Bureau of Investigation fino alla scorsa settimana e licenziato in tronco dal presidente, rivela che a febbraio Donald gli chiese di fermare le indagini sul generale Michael Flynn e sui suoi contatti con Mosca. La Casa Bianca smentisce Dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI 17 maggio 2017 NEW YORK - La vendetta di James Comey arriva in un "memo", abbreviazione per memorandum. Un dossier, insomma, in cui l'ex-capo dell'Fbi licenziato in tronco la settimana scorsa vuota il sacco e inchioda il presidente. L'accusa è grave: in un incontro fra i due a febbraio, Donald Trump chiese al capo dell'Fbi d'insabbiare l'indagine sul Russia-gate. In particolare l'inchiesta che la polizia federale (che ha anche responsabilità di contro-spionaggio) stava svolgendo sul generale Michael Flynn. Il ruolo di Flynn nel Russiagate. Quest'ultimo è una figura centrale nel Russia-gate. Trump nominò Flynn come suo massimo consigliere per la sicurezza nazionale, cioè capo del National Security Council che all'interno della Casa Bianca è la cabina di regìa di politica estera, difesa, anti-terrorismo. Ma Flynn aveva nascosto una serie di rapporti con la Russia, incontri clandestini con l'ambasciatore di Vladimir Putin durante la campagna elettorale, perfino pagamenti ricevuti. Di fronte alle rivelazioni Trump dovette cacciarlo. La posizione di Flynn ha continuato ad aggravarsi, ora è stato convocato dalla commissione d'inchiesta parlamentare e su di lui pende un "sub-poena" cioè l'obbligo di testimoniare sotto giuramento. Il timore della Casa Bianca, si presume, è che dalla testimonianza di Flynn possano uscire altre rivelazioni compromettenti. Per esempio sul fatto che Trump fosse al corrente dei contatti coi russi in campagna elettorale? (Va ricordato che la stessa campagna fu contrassegnata da ripetuti attacchi di hacker russi contro Hillary Clinton). Ora arriva l'ultimo colpo di scena. Già si sapeva - lo stesso Trump non ne ha fatto mistero - che dietro il licenziamento di Comey c'era l'esasperazione del presidente per l'indagine dell'Fbi sul Russia-gate, tuttora in corso e che genera prove utilizzabili nell'ambito della commissione parlamentare. La soffiata al New York Times indica che il presidente aveva tentato d'interferire pesantemente nel lavoro della polizia federale, che è indipendente dalle direttive dell'esecutivo. Quella richiesta d'insabbiare l'indagine sul Russia-gate che a febbraio Comey respinse, "firmando" così la propria uscita di scena, è ai limiti dell'abuso di potere. I colloqui tra Trump e Comey. Comey, rivela il Nyt, creò un memorandum - inclusi alcuni appunti che sono classificati - su ognuna delle telefonate e gli incontri avuti con il presidente. Non è chiaro se Comey denunciò al ministero della Giustizia, da cui dipende, la conversazione avuta con Trump e la sua richiesta e l'esistenza degli appunti. Comey vide Trump il 14 febbraio, il giorno dopo le dimissioni di Flynn, costretto a lasciare l'incarico perchè, si era scoperto, aveva mentito al vicepresidente Mike Pence assicurandogli che non c'era nulla di male nella telefonata con l'ambasciatore russo. Quel giorno, ricostruisce il Times, Comey era nello Studio Ovale con Trump ed altri vertici della sicurezza nazionale per un briefing sul terrorismo. "Quando la riunione si concluse Trump disse ai presenti, incluso Pence ed il ministro della Giustizia Jeff Session, di lasciare la stanza per restare da solo con Comey". Una volta solo Trump iniziò un filippica contro le fughe di notizie suggerendo a Comey di "considerare (l'opzione) di mettere in prigione i reporter per pubblicare informazioni classificate prima di affrontare l'argomento Flynn" riferisce una delle due persone vicine a Comey, che hanno parlato con il Times. Comey "si consultò con i suoi più stretti consiglieri sull'accaduto e tutti condivisero l'impressione che Trump avesse cercato di influenzare l'indagine (un accusa che ove mai trovasse una conferma indipendente potrebbe configurare il gravissimo delitto di 'intralcio della giustizia', per cui in questo caso Trump rischierebbe la presidenza, ndr) ma tutti decisero che avrebbero cercato di mantenere segreta la conversazione (con Trump), anche agli stessi agenti dell'Fbi che stavano conducendo l'inchiesta sul Russiagate, in modo che la richiesta del presidente non influenzasse il loro lavoro". Il pezzo del Times sembra suggerire che l'avvertimento minaccioso di Trump a Comey, all'indomani del suo licenziamento, di stare attento a cosa avrebbe deciso di far filtrare alla stampa perché potrebbero esserci "registrazioni degli incontri", non preoccupi affatto Comey. Da sottolineare anche il fatto che il New York Times rivela la sua fonte: uno stretto collaboratore di Comey. La guerra dell'intelligence contro il presidente, a colpi di dossier e fughe di notizie, diventa sempre più spietata. La risposta della Casa Bianca. La Casa Bianca nega che il presidente Donald Trump abbia chiesto all'ex capo dell'Fbi, James Comey, licenziato in tronco lo scorso 9 maggio, di fermare l'indagine sul suo ex consigliere per la sicurezza nazionale, Michael Flynn. "Il presidente non ha mai chiesto a Comey o a chiunque altro di porre fine ad alcuna indagine, compresa ogni indagine relativa al generale Flynn", si legge nella nota della Casa Bianca. Trump "ha il più alto rispetto per le nostre agenzie delle forze dell'ordine e per tutte le inchieste - si sottolinea nel comunicato - questa non è una presentazione vera o accurata della conversazione tra Trump e Comey". Repubblicani spaccati. Il presidente della commissione di vigilanza della Camera, il repubblicano Jason Chaffez, chiede all'Fbi di consegnare tutti i documenti e le registrazioni delle comunicazioni fra l'ex direttore dell'Fbi, James Comey, e il presidente Donald Trump. La richiesta mostra la spaccatura all'interno del partito repubblicano, all'interno del quale solo in pochi difendono Trump. Molti preferiscono tacere. Per gli esperti questo è il 'momento della verità' nel partito. Democratici all'attacco. E insorgono i democratici, dopo questa nuova tegola sulla testa del presidente Usa. ''Quando è troppo è troppo'' sbotta il parlamentare democratico, Adam Schiff. ''Il paese viene messo sotto esame in un modo senza precedenti. La storia ci sta a guardare'' tuona Chuck Schumer, il leader della minoranza democratica in Senato. ''Servono i mandati per ottenere i documenti legati a Flynn'' dice il parlamentare Elijah Cummings. Nancy Pelosi, leader dei democratici alla Camera, parla di ''assalto alla legge'': se la ricostruzione di Comey è vera, il presidente ''ha commesso un grave abuso del suo potere esecutivo. Nel peggiore dei casi si è trattato di ostruzione alla giustizia''. © Riproduzione riservata 17 maggio 2017 Da - http://www.repubblica.it/esteri/2017/05/17/news/trump_ordino_all_fbi_di_insabbiare_il_russiagate-165619197/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P1-S1.8-T1 Titolo: Viaggio in Arabia, da Trump mano tesa all'Islam: Guerra al terrore non è guerra Inserito da: Arlecchino - Maggio 22, 2017, 11:55:50 am Viaggio in Arabia, da Trump mano tesa all'Islam: "Guerra al terrore non è guerra di religione"
A Riad, davanti ai leader musulmani, il presidente statunitense conferma le distanze da Obama ma non insiste sui toni razzisti della campagna elettorale: "Non sono qui per darvi lezioni" Dal nostro inviato FEDERICO RAMPINI 21 maggio 2017 RIAD - "Non sono venuto qui a darvi lezioni, non sono io a dirvi come dovete vivere. Ma occorre una coalizione internazionale contro il terrorismo. Le nazioni del Medio Oriente non possono aspettare che sia l'America a sconfiggerlo. Dovete battere voi questo nemico che uccide in nome della fede". E' l'atteso discorso di Donald Trump sull'Islam. Lo pronuncia a Riad davanti ai leader del Gulf Cooperation Council (Gcc) che riunisce gli Stati del Golfo Persico con l'ovvia eccezione del nemico Iran. C'è dentro il discorso un elemento di rottura col suo predecessore: "realismo fondato sui principi", che Trump declina così: "la sicurezza si costruisce nella stabilità, noi non molleremo i nostri alleati". E' un chiaro riferimento all'accusa che la destra americana ha rivolto a Barack Obama per quel periodo in cui appoggiò le primavere arabe, contribuendo alla caduta di Mubarak in Egitto. Trump è chiaro: non rifarebbe quella scelta. Parlando qui a Riad nella capitale di uno dei regimi più reazionari, si guarda bene dall'evocare il tema delle libertà, della democrazia. C'è però un passaggio sulla "oppressione delle donne" e sulla persecuzione delle minoranze religiose (ebrei, cristiani) che indirettamente può suonare critico verso l'Arabia saudita che lo ospita. Subito contraddetto, o almeno fortemente attenuato, dalla sua invocazione di un realismo politico e di un appoggio incondizionato agli alleati. Il suo sostegno ai regimi dell'area è totale, purché si uniscano all'America nella battaglia al terrorismo, condannandolo anche in nome della fede musulmana. In questo senso il discorso pronunciato davanti al Consiglio dei paesi del Golfo soddisfa le attese: era previsto che fosse un-anti Obama, con riferimento al celebre e controverso intervento che il predecessore fece all'università del Cairo nel giugno 2009. Quello conteneva un appello a valori universali comuni. Venne interpretato a posteriori, forse esagerandone la portata, come uno dei fattori che avrebbero contribuito a innescare le primavere arabe. Trump dice l'esatto contrario: non m'interessa sapere come trattate i vostri cittadini (sudditi, nel caso della monarchia saudita ed altre) in casa vostra, purché siate dalla nostra parte nella lotta al terrorismo. C'era attesa anche perché Trump si presentava qui (ieri l'accordo per la fornitura miliardaria di armi) dopo che tra i primissimi atti della sua amministrazione figuravano due decreti sigilla-frontiere - poi bloccati dalla magistratura - che impedivano l'ingresso da sei paesi a maggioranza islamica. E a scrivere il discorso di oggi sull'Islam il presidente ha chiamato proprio il suo consigliere più coinvolto nella stesura dei decreti anti-islamici, Stephen Miller. Ma non ci sono asperità o provocazioni nel testo pronunciato a Riad. E' netto l'appoggio agli alleati storici dell'America in quest'area, Arabia saudita in testa, con la quale Obama ebbe rapporti tesi a causa dell'accordo con l'Iran sul nucleare. "I nostri amici - dice Trump - non dovranno mai dubitare del nostro appoggio. Le alleanze migliorano la sicurezza attraverso la stabilità, non gli strappi radicali. Prenderemo le nostre decisioni basandoci sul mondo reale, non su ideologie inflessibili. Quando sarà possibile, cercheremo riforme graduali, non interventi improvvisi". L'appello di Riad è per la costruzione di una "coalizione di nazioni che condividano l'obiettivo di sradicare l'estremismo, e dare ai nostri figli un futuro di speranza che onori Dio". E' espresso in termini un po' diversi, ma non dissimile dalla "coalizione dei volenterosi" di George W. Bush dopo l'11 settembre 2001. Peraltro anche Obama ha sempre lavorato a tenere unita una coalizione di paesi arabi, per esempio coinvolgendola in azioni militari contro l'Isis in Siria. Nel discorso di Trump c'è un forte richiamo alle responsabilità primarie dei paesi arabi nel combattere il terrorismo: "Possiamo prevalere su questo male solo se le forze del bene sono unite e forti - e se ciascuno in questa stanza fa’ la sua parte e si prende carico della sua responsabilità. Il terrorismo si è diffuso nel mondo intero. Ma il cammino verso la pace comincia qui, in questa terra antica e sacra. L'America è pronta a stare dalla vostra parte, in nome degli interessi comuni e della sicurezza. Ma le nazioni del Medio Oriente non possono aspettare che sia la forza dell'America a schiacciare questo nemico per loro. Le nazioni del Medio Oriente devono decidere che futuro vogliono per se stesse, per i propri figli". Trump arriva qui dopo una campagna elettorale in cui aveva lanciato accuse indistinte, generalizzate, contro l'Islam. "Gli islamici ci odiano", aveva ripetuto più volte. Tra i suoi bersagli c'era stata anche l'Arabia Saudita che lui accusò apertamente di essere responsabile per l'attacco dell'11 settembre alle Torri Gemelle. I leader arabi riuniti qui a Riad non gliene tengono rancore: hanno imparato a non prendere troppo sul serio le parole del nuovo presidente americano, si fidano del fatto che lui non fa prediche sui diritti umani e non ha critiche da muovere ai regimi liberticidi. Sul piano militare, poi, l'accordo per la fornitura di armi ai sauditi (110 miliardi subito, 300 miliardi in dieci anni), è il tipo di segnale che piace ai governanti dell'area. Dove Trump non fa marcia indietro rispetto al suo passato, è nel pronunciare la definizione "terrorismo islamista, estremismo islamista" che Obama preferiva evitare per non offendere le sensibilità religiose. Su questo era atteso al varco dal suo elettorato di destra, che non sopporta il "politically correct" dei democratici. "Questa - dice Trump - non è una battaglia tra fedi o tra civiltà. E' una battaglia tra barbari criminali che cercano di distruggere la vita umana, e le persone oneste di tutte le religioni che cercano di proteggerla. E' una battaglia tra il bene e il male. Questo implica affrontare onestamente la crisi dell'estremismo islamico e dei gruppi di terroristi islamici che esso ispira. Significa essere uniti nella condanna contro l'uccisione di innocenti musulmani, l'oppressione delle donne, la persecuzione degli ebrei, il massacro dei cristiani. I leader religiosi devono essere chiari: la barbarie non vi darà alcuna gloria, se scegliete il terrorismo la vostra vita sarà vuota, sarà breve, la vostra anima sarà condannata". © Riproduzione riservata 21 maggio 2017 Da – repubblica.it Titolo: Trump in Israele, Kushner-Greenblatt: i due uomini che hanno la chiave ... Inserito da: Arlecchino - Maggio 24, 2017, 11:43:17 am Trump in Israele, Kushner-Greenblatt: i due uomini che hanno la chiave del viaggio
Al genero fra i tanti incarichi affidò quello di preparare il grande accordo di pace con i palestinesi. Il secondo per molti anni fu l'avvocato d'affari della sua azienda Dal nostro inviato FEDERICO RAMPINI 22 maggio 2017 GERUSALEMME - Attenti a quei due: Jared Kushner e Jason Greenblatt. Due ebrei ortodossi potrebbero creare la sorpresa in questa seconda tappa del viaggio di Donald Trump, giunto oggi in Israele? Kushner è il Primo Genero, gode della massima fiducia di Trump che fra i tanti incarichi delicati gli affidò proprio quello di "preparare il grande accordo di pace tra Israele e i palestinesi". Greenblatt per molti anni fu l'avvocato d'affari della ditta Trump, poi il presidente lo nominò consigliere speciale per i rapporti con Israele. Greenblatt non ha mai fatto mistero di essere a favore di una soluzione definitiva basata sull'esistenza di due Stati, Israele e Palestina, principio che invece Trump era sembrato disposto ad abbandonare. È il duo Kushner-Greenblatt che ha le chiavi di questa tappa in cui Trump incontrerà sia Benjamin Netanyahu che il capo dell'autorità palestinese Mahmoud Abbas. Paradossalmente, è proprio Abbas ad avere generato un po' di ottimismo. Dopo essere stato ricevuto da Trump alla Casa Bianca, il leader palestinese ne ricavò un'impressione positiva. Dal lato degli israeliani c'è stata invece una serie di delusioni recenti. Trump li aveva colmati di attenzioni. Quando era presidente-eletto, ma non ancora in carica, attaccò duramente Barack Obama per il voto americano all'Onu di condanna degli insediamenti illegali di coloni nei territori occupati. All'epoca il presidente-eletto mandò dalla Trump Tower un tweet di inequivocabile sostegno a Netanyahu: tieni duro che tra un po' arrivo io e cambia tutto. Più di recente però è successo l'increscioso incidente dello Studio Ovale: quando Trump ha rivelato al ministro degli Esteri russo Lavrov segreti sull'Isis che gli erano stati forniti dall'intelligence israeliana (senza il permesso di quest'ultima). La Casa Bianca inoltre ha fatto sapere che non ci sarà in questa occasione l'annuncio dello spostamento dell'ambasciata Usa da Tel Aviv a Gerusalemme. Un gesto di alta valenza diplomatica, che Trump in passato aveva promesso in modo avventato, senza valutare l'impatto dirompente che avrebbe sul mondo arabo. La stessa posizione tradizionale degli Stati Uniti, anche sotto precedenti Amministrazioni repubblicane, escludeva di riconoscere Gerusalemme come capitale d'Israele a pieno titolo, fino a quando non sia risolto attraverso un negoziato coi palestinesi lo status della parte orientale della città. Infine, la fornitura di armamenti hi-tech ai sauditi per 110 miliardi non è stata vista di buon occhio da Israele. L'Arabia saudita è sì un alleato storico degli Stati Uniti, ma è anche uno dei massimi sostenitori dei palestinesi. I palestinesi - dopo l'incontro di Abbas alla casa Bianca - hanno diffuso l'aspettativa che il presidente americano a Gerusalemme rilancerà i negoziati di pace con l'obiettivo di arrivare a un accordo entro un anno. Nientemeno. Il Big Deal, insomma, come lo aveva definito Trump ricorrendo al suo gergo da businessman. Su quale base possa accadere il miracolo, lo sanno (forse) Kushner e Greenblatt. © Riproduzione riservata 22 maggio 2017 Da - http://www.repubblica.it/esteri/2017/05/22/news/trump_israele_viaggio-166069420/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P1-S1.8-T2 Titolo: FEDERICO RAMPINI. Il Papa politico regala a Trump un libro sull'ambiente, ... Inserito da: Arlecchino - Maggio 26, 2017, 05:04:28 pm Il Papa politico regala a Trump un libro sull'ambiente, "per la cura della nostra casa comune"
Bergoglio anticipa le pressioni del G7 sul presidente Usa sugli accordi di Parigi, che lui ha criticato ed è pronto a rinnegare Dal nostro inviato FEDERICO RAMPINI 24 maggio 2017 CITTÀ DEL VATICANO - Papa Francesco ha regalato a Donald Trump tre libri che trattano, sono le sue parole, "i temi della famiglia, la gioia del Vangelo, e la cura della nostra casa comune che è l'ambiente". Quest'ultimo è il regalo più carico di una valenza politica. Papa Bergoglio ha ripreso la tradizione francescana del Cantico delle Creature per caratterizzarsi come il pontefice più ambientalista della storia (l'enciclica). La Chiesa è decisamente schierata per il rispetto degli accordi di Parigi sul cambiamento climatico. Il presidente americano in campagna elettorale denunciò quegli accordi e sposò invece le tesi negazioniste che da anni sono il credo della destra americana, ben foraggiate dalla lobby petrolifera. Trump arrivò a dire che il cambiamento climatico sarebbe "una bufala inventata dai cinesi per rovinare l'industria americana". Alla vigilia di questo suo primo viaggio all'estero, Trump ha accennato ad una vaga disponibilità a ricredersi. Poco prima di partire da Washington ha detto, sull'accordo di Parigi, che "ascolterà quel che gli europei avranno da dirgli". Si riferiva al G7 di Taormina evidentemente, dove il tema è all'ordine del giorno. Papa Francesco ha bruciato i tempi e lo ha anticipato. È possibile che anche sul clima Trump faccia qualche giravolta, come su tanti altri temi. L'incontro in Vaticano per lui è stato un successo d'immagine, ha cancellato il ricordo degli scambi infuocati che ebbe con il papa in campagna elettorale. È nello stile del personaggio, che già si è rinnegato su altri temi come la Nato, prima vituperata e poi rivalutata. Non bisogna illudersi sulla sostanza, però. Quand'anche Trump dovesse decidere di non strappare formalmente gli accordi di Parigi - firmati da un vasto arco di nazioni inclusa la Cina - le sue azioni da quando è alla Casa Bianca sono la demolizione sistematica delle politiche ambientaliste di Barack Obama. Sui limiti delle emissioni carboniche imposti dal suo predecessore alle auto e alle centrali elettriche questa Amministrazione ha già fatto marcia indietro. Ha autorizzato trivellazioni in aree naturali protette. Ha autorizzato la costruzione di grandi oleodotti che Obama aveva vietato. Ha messo a capo dell'authority federale per l'ambiente (Environmental Protection Agency) un politico che ha fatto la sua carriera al servizio dei petrolieri. Ha tagliato i fondi alla ricerca, inclusi perfino i satelliti meteorologici. Queste sono scelte che contano e che rimangono, al di là delle parole formali su Parigi. © Riproduzione riservata 24 maggio 2017 Da - http://www.repubblica.it/esteri/2017/05/24/news/il_papa_politico_regala_a_trump_un_libro_sull_ambiente_per_la_cura_della_nostra_casa_comune_-166264582/?ref=RHPPTP-BH-I0-C12-P1-S1.12-T2 Titolo: FEDERICO RAMPINI. G7, i risultati operativi saranno modesti. Inserito da: Arlecchino - Maggio 26, 2017, 05:07:11 pm G7, i risultati operativi saranno modesti G7.
"Sovranismo", spostamento del baricentro dell'economia mondiale verso i paesi emergenti, Trump e May intenzionati a non concordare decisioni comuni, questi gli ostacoli per i "Grandi" riuniti a Taormina. Dal nostro inviato FEDERICO RAMPINI 26 maggio 2017 ITALIA ECLISSATA. La presidenza italiana fa tutto quello che può ma non gliene viene dato atto: i media mondiali parlano di un asse Merkel-Macron per un pressing finale su Trump sul tema dell'ambiente, è come se Gentiloni non esistesse. Non è una gran novità, ma dispiace sempre constatarlo. CONCLUSIONI OPERATIVE? L'esito di questo G7 sarà comunque modesto, non certo per demerito dell'Italia che lo ospita e gestisce l'agenda; neppure per colpa di Trump da solo. E' il formato del G7 ad essere profondamente superato in un'era contrassegnata da tre fenomeni che sono il "sovranismo" (una parte dell'opinione pubblica vuole un ritorno alla centralità dello Stato-nazione); l'identificazione delle istituzioni sovranazionali con gli interessi delle élite e dell'establishment; infine lo spostamento di baricentro dell'economia mondiale verso i paesi emergenti. Gli elettori di Trump e della May vogliono dei leader che vadano ai vertici a fare il muso duro, non a concordare decisioni comuni. STORIA DI UN ESPERIMENTO. Il G7 nacque - in realtà come G5 a un'epoca in cui non c'erano ancora Italia e Canada - dopo i primi due shock petroliferi, per concordare una risposta dei paesi industrializzati a un problema comune. Metà anni Settanta, dunque. Con differenze enormi rispetto ad oggi. Problemi globali ce ne sono anche oggi ovviamente, dal cambiamento climatico all’emergenza-profughi. Ma c'era negli anni Settanta un'apertura di credito verso la governance globale, anche nelle opinioni pubbliche. C'era un'Europa più piccola ma più coesa, con un binomio franco-tedesco (Giscard-Schmidt) che addirittura ebbe un ruolo di supplenza rispetto ad un presidente americano debole (Carter). I paesi emergenti avevano un peso molto ridotto nell'economia globale, anche se stava iniziando uno spostamento di risorse Nord-Sud, limitato ai paesi Opec; e di lì a poco l'avvento della teocrazia khomeinista in Iran che avrebbe aperto per la prima volta il problema islamico. BILANCI E RIFLUSSO ANTI-GLOBAL. E' in questo contesto che va inquadrato l'esperimento dei G7, poi G8, infine con l'aggiunta dei G20. Sono stati per una certa fase la cabina di regia della globalizzazione. Il G8 con Eltsin per esempio ebbe un ruolo di punta dopo la caduta del Muro di Berlino per indirizzare la Russia verso le privatizzazioni (con esiti non particolarmente brillanti). Fu sempre in quell'ambito che l'America di Bush padre e Bill Clinton progettò il passaggio al Wto e la cooptazione della Cina nell'economia globale. Tutto il bilancio di quelle scelte oggi è sotto attacco, gran parte dell'opinione pubblica occidentale (e non solo gli elettori dei partiti populisti) rivede tutta quell'epoca come una grande delusione. Inevitabile quindi che le architravi istituzionali come il G7 subiscano un invecchiamento e siano avvolte in una diffidenza che le rende impotenti. EFFETTI SU TRUMP. In questa situazione ci si potrebbe accontentare per Taormina di un obiettivo minimalista: educare Trump. E' un fatto che lui era partito da posizioni molto più estreme in campagna elettorale (sulla Nato, sul commercio estero) ma via via che incontra leader stranieri e questi gli rendono il dovuto omaggio, la sua vanità viene appagata e in qualche modo lui si accomoda nella scenografia di leader di una superpotenza che deve gestire una vasta rete di alleati e partner. Non cambia l'orientamento di fondo della sua politica però ne smussa le asperità. L'educazione di Mr Trump all'estero sarà forse l'unico risultato: è già sorprendente che abbia cominciato a leggere i discorsi che gli preparano, un gesto di umiltà che in America non gli era consueto. © Riproduzione riservata 26 maggio 2017 Da - http://www.repubblica.it/esteri/2017/05/26/news/g7_risultati_operativi_saranno_modesti-166448773/ Titolo: FEDERICO RAMPINI. Trump-Tillerson dilettanti allo sbaraglio? Inserito da: Arlecchino - Luglio 11, 2017, 10:02:27 am 7LUG2017
Trump-Tillerson dilettanti allo sbaraglio? Il match del giorno, inizio previsto alle 15.45, durata 30 minuti, oppone Trump e il suo segretario di Stato Rex Tillerson alla coppia formata da Vladimir Putin e dal suo ministro degli Esteri Sergei Lavrov. Cioè, visto dalla stampa americana: due neofiti, due dilettanti allo sbaraglio, contro due vecchie volpi che li surclassano per esperienza, astuzia, competenza. Putin si è formato da giovane nel servizio segreto Kgb, e fa il presidente da molti anni; Lavrov ha fatto le sue prove in una diplomazia sovietica che è sempre stata una palestra strategica di alto livello. I due americani vengono da professioni diverse, uno ha fatto il palazzinaro e lo showman, l'altro il top manager della multinazionale petrolifera Exxon. La maggiore debolezza di Trump forse non è neppure l'inesperienza ma la sconfinata presunzione: lui stesso si vanta d'improvvisare, di non studiare i dossier, di arrivare agli incontri senza un'agenda precisa. Il primo rischio, il più banale, è che Putin rubi il tempo all'interlocutore, che abbia già pronto un lungo discorso infarcito di lamentele e di accuse per le presunte scorrettezze dell'America nei suoi confronti (dall'Ucraina alla Siria). Molti osserveranno con curiosità maniacale anche il "body-Language" tra i due leader, che hanno investito su una immagine "macho" e curano molto le apparenze. Ricordo a questo proposito che durante la campagna elettorale nei duelli tv sia contro i candidati repubblicani alla nomination, sia contro Hillary, alcuni esperti suggerivano di seguire i dibattiti spegnendo il volume, per concentrarsi sull'impressione di "dominio fisico dell'avversario" che Trump riusciva a trasmettere. In conclusione, molti americani questo pomeriggio si accontenterebbero di uno striminzito pareggio... Scritto in Donald Trump, Politica estera Usa, Primarie 2016, Putin | Nessun Com Da - http://rampini.blogautore.repubblica.it/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P3-S1.8-L Titolo: FEDERICO RAMPINI. La lunga campagna elettorale del non candidato Zuckerberg Inserito da: Arlecchino - Agosto 08, 2017, 06:21:41 pm La lunga campagna elettorale del non candidato Zuckerberg
Mr. Facebook: "Niente politica". Ma visita 30 Stati per "conoscere meglio gli americani" E assume i consiglieri di Obama e Hillary. La sua popolarità però è solo al 24 per cento Dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI 08 agosto 2017 MARK ZUCKERBERG for President? La sinistra americana, tuttora depressa e disorientata nonostante il caos-Trump, sogna un cavaliere bianco che arrivi al galoppo per salvarla. Chi meglio del giovane che ha inventato il social media da due miliardi di utenti? Il padrone di Facebook smentisce: "Non sarò candidato". Ma dicono tutti così, fino a un minuto prima del fatidico annuncio. Sui piani di Zuckerberg per scalare la Casa Bianca - e scalzare The Donald il più presto possibile - è lui stesso ad aver seminato indizi. E' partito per un tour nazionale in 30 Stati Usa con lo scopo dichiarato di "conoscere meglio gli americani". Ha cominciato dall'Iowa dove hanno inizio ogni quattro anni le primarie per la nomination. Poi il Michigan dove ha incontrato a Detroit gli operai della Ford, una constituency che fu decisiva per l'elezione di Trump. E' passato nell'Ohio, altro Stato-chiave per conquistare la presidenza. Prima di partire aveva assunto nella propria Fondazione uno degli strateghi delle vittorie di Barack Obama, David Plouffe, considerato un genio del marketing elettorale. Pochi giorni fa un altro reclutamento, Joel Benenson: pure lui lavorò con Obama come esperto di analisi demoscopiche, poi fu il chief strategist della campagna di Hillary Clinton. Alle dietrologie su queste due assunzioni, Zuckerberg risponde: Plouffe e Benenson sono talenti al servizio dell'impegno umanitario. Quei due aiutano la Fondazione Chan Zuckerberg (il primo cognome è della moglie) nei progetti per "curare malattie, migliorare l'istruzione, dare voce a tutti coloro che vogliono costruire un futuro migliore". Non bastano queste smentite a placare i sospetti. La Fondazione può diventare un ideale trampolino per la candidatura. Nell'azione umanitaria c'è un condensato dei valori che Zuckerberg propone agli americani, un suo identikit etico e politico. Non è detto che un suo ingresso in politica debba avvenire attraverso uno dei due partiti tradizionali. Altri imprenditori si candidarono da indipendenti: Ross Perot che fu battuto alle presidenziali del 1992 ma ebbe un seguito superiore alle previsioni e prefigurò il protezionismo di Trump; Michael Bloomberg con più successo come plurieletto sindaco di New York. Tuttavia se c'è un partito che in questo momento ha un gran bisogno di volti e idee nuove, ricambio generazionale e progettuale, è il partito democratico. "Missing in action", come i soldati scomparsi in guerra: per quanti disastri abbia combinato Trump nei primi 200 giorni, si parla solo di lui. Cosa faccia l'opposizione democratica, lo sanno in pochi. E sul partito incombe ancora il potere dei Clinton che non hanno mollato la presa. La selezione di una nuova classe dirigente urge: già tra 15 mesi si vota per le legislative di mid-term, la prima occasione di rivincita contro Trump. Guai ad arrivarci senza messaggi chiari e candidati convincenti. Zuckerberg ha delle qualità evidenti. E' giovane: 32 anni. E' un outsider. Ha costruito un'impresa che vale cento volte quella di Trump: 45 miliardi di dollari la capitalizzazione di Facebook. E non è un'impresa qualsiasi, è la nuova "piazza virtuale" dove quasi un terzo della popolazione mondiale dialoga e socializza, si scambia informazioni, emozioni, amicizie. E' disinteressato: donerà alla sua Fondazione il 99% della ricchezza. E' progressista... ma su quest'ultima affermazione si apre un problema. I liberal della Silicon Valley sono fin troppo di sinistra - rispetto al baricentro politico della nazione - su temi come l'ambiente, i matrimoni gay o la marijuana. Ma hanno costruito un'alleanza malefica con Wall Street e un capitalismo diseguale, afflitto da problemi sociali enormi. Che non si risolvono a colpi di beneficenza: proprio Zuckerberg è incappato in un disastro quando ha donato 100 milioni per risanare le scuole pubbliche di Newark (New Jersey) con risultati fallimentari. E così dal sito Politico.com parte una messa in guardia, dell'opinionista Bill Scher: "Zuckerberg, stai attento. Non confondere la popolarità di Facebook con la tua personale ". In effetti solo il 24% degli americani ha un'opinione positiva di lui. La sinistra rischia di credere che dopo Trump qualsiasi imprenditore può vincere. Dimenticando due cose. Primo, Trump si è allenato per decenni come figura pubblica, protagonista di controversie e polemiche feroci (per esempio su "Obama nato all'estero") per saggiare i suoi potenziali elettori. Secondo: una regola d'oro è che gli americani dopo un presidente vogliono un successore che sia l'estremo opposto. Vedi la sequenza Bush-Obama-Trump. Il multimiliardario forse deve saltare un turno. © Riproduzione riservata 08 agosto 2017 Da - http://www.repubblica.it/esteri/2017/08/08/news/la_lunga_campagna_elettorale_del_non_candidato_zuckerberg-172612628/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P6-S1.8-T1 Titolo: FEDERICO RAMPINI. E nell'era di Donald la finanza riconquista la libertà di ... Inserito da: Arlecchino - Agosto 16, 2017, 07:56:17 am E nell'era di Donald la finanza riconquista la libertà di fare danni
I motori dello sviluppo non sono ripartiti e la deregulation potrebbe favorire nuovi incidenti Dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI 09 agosto 2017 DIECI anni fa si accendevano segnali di allarme per il crac dei mutui subprime: l'inizio della Grande Crisi. È una storia dalla quale non siamo veramente usciti. Le cause profonde di quell'evento non sono state curate. Un altro shock, magari innescato da un detonatore diverso, non si può affatto escludere. La finanza domina il mondo più che mai, anche grazie ad un'alleanza di ferro con i giganti delle tecnologie digitali. Inoltre la Grande Crisi ci ha lasciato in eredità una svolta politica inaudita. Donald Trump non sarebbe alla Casa Bianca, se quella maxi-recessione non avesse generato disastri economici, sofferenza sociale, un profondo senso di ingiustizia mescolato a risentimento, che il populismo di destra ha cavalcato con efficacia. L'antefatto? La crescita americana era già segnata dalle diseguaglianze sociali (una patologia in peggioramento costante da 30 anni); classe operaia e ceto medio faticavano a mantenere il tenore di vita. Il sistema bancario "curò" quegli squilibri a modo suo: speculandoci sopra. Wall Street facilitò l'accesso alla casa in modo scriteriato. Mutui ad alto rischio venivano concessi a debitori in situazioni precarie, che al primo shock congiunturale sarebbero diventati insolventi. I banchieri si disinteressavano degli enormi rischi accumulati, spalmandoli sul mercato, nascondendoli dentro complicati titoli strutturati. Sullo sfondo, altri macro-squilibri: l'eccesso di risparmio in paesi esportatori come Cina e Germania, protagonisti di un vasto "riciclaggio" dei surplus commerciali. Episodi di iperinflazione delle materie prime. In un clima torbido, con controlli inadeguati e conflitti d'interessi a gogò, arrivò il Dies Irae: prima il crac di alcuni fondi immobiliari Bnp (9 agosto 2007), qualche mese dopo l'insolvenza di Bear Stearns, un anno dopo il crac di Lehman. Una spirale di panico, seguita dal contagio all'economia reale in tutto l'Occidente. Si salvò solo la Cina, irrobustendo il dirigismo di Stato. Dieci anni dopo, il paesaggio sembra irriconoscibile. L'economia americana è nell'ottavo anno di crescita consecutiva, il pieno impiego è vicino. Eppure l'8 novembre ha prevalso la narrazione trumpiana su un paese allo sfascio. Il candidato più catastrofista della storia ha conquistato i voti dei metalmeccanici, i cui posti di lavoro erano stati salvati da Barack Obama. Una volta al potere, Trump ha riempito la sua Casa Bianca di uomini (e una donna) della Goldman Sachs. E sta lavorando per smantellare i controlli su Wall Street introdotti dal suo predecessore, la legge Dodd-Frank. Le banche si riconquistano un pezzo alla volta la libertà di far danno. Non che fossero veramente rinsavite negli ultimi anni. Malgrado le multe miliardarie la propensione della finanza a delinquere non è diminuita: alcuni degli scandali più gravi (come la manipolazione del Libor di Londra) sono avvenuti diversi anni dopo il 2007. Dalla Deutsche Bank alla Popolare di Vicenza e Banca Etruria, l'Europa non si è dimostrata migliore. Certo alcune falle del sistema sono state tappate, i requisiti di capitalizzazione (leggi: solidità) delle banche sono più severi. Tuttavia Obama dovette ammettere che "nessun banchiere è finito in prigione" per i disastri del 2009, e la causa la indicò nelle leggi sbagliate, piegate agli interessi delle lobby. Ma lo stesso Obama appena è andato in pensione si è adeguato al vizietto di Hillary Clinton: conferenze a Wall Street lautamente pagate (centinaia di migliaia di dollari "all'ora") dagli stessi banchieri. Le élite progressiste sono apparse troppo spesso organiche agli interessi della finanza. Fu proprio questa una scintilla iniziale dell'ondata di populismo. Precursore di Trump fu il Tea Party. Movimento radicale di una destra anti-tasse e anti-Stato, nacque nel 2009 per protestare contro il maxi- salvataggio delle banche di Wall Street: 800 miliardi sborsati dai contribuenti. È vero che quell'operazione si saldò in pareggio e perfino con un piccolo guadagno per le finanze pubbliche, molti anni dopo. Ma nel 2008-2009 ci fu un'ecatombe di piccole imprese, una carneficina di posti di lavoro, e con loro lo Stato non fu così solerte e generoso. Poi arrivò una terapia d'eccezione: il "Quantitative easing" della banca centrale, quando la Federal Reserve comprò titoli in quantità enormi per inondare l'economia di credito a buon mercato. Un'alluvione da 4.000 miliardi solo negli Stati Uniti; in ritardo, la ricetta fu copiata dalla Bce. Ha funzionato a metà. La crescita rimane "sub-ottimale", nettamente inferiore rispetto all'Età dell'Oro tra gli anni Cinquanta e gli anni Ottanta. La finanza continua a esercitare un peso eccessivo, prelevando rendite parassitarie dall'economia reale. Il mondo galleggia sulla liquidità creata dalle banche centrali. Gli stessi Padroni della Rete, le "cinque sorelle" Facebook, Apple, Amazon, Netflix, Google privilegiano la finanza sull'innovazione. (Le diseguaglianze più estreme si registrano proprio nella Silicon Valley). Ci sono gli ingredienti di una stagnazione secolare perché si sono guastati i motori storici dello sviluppo capitalistico: demografia, diffusione di potere d'acquisto, progresso della produttività, decollo di paesi emergenti. E ora che i repubblicani al potere a Washington lanciano ai banchieri il segnale del "liberi tutti" con la deregulation finanziaria, un nuovo incidente non è davvero da escludere. © Riproduzione riservata 09 agosto 2017 Da - http://www.repubblica.it/economia/2017/08/09/news/e_nell_era_di_donald_la_finanza_riconquista_la_liberta_di_fare_danni-172679632/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P4-S1.8-T1 Titolo: FEDERICO RAMPINI. Usa, Trump licenzia lo stratega Bannon. Inserito da: Arlecchino - Agosto 26, 2017, 11:30:08 am Usa, Trump licenzia lo stratega Bannon. E lui commenta: "È finita la presidenza per cui abbiamo lottato"
L'ennesimo rimpasto porta all'uscita di scena del collaboratore più legato all'estrema destra. Un prezzo che il presidente paga per la disastrosa gestione delle violenze di Charlottesville Dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI 18 agosto 2017 NEW YORK - Salta un'altra testa alla Casa Bianca, tra le più prestigiose ma anche controverse. A lasciare lo staff presidenziale è Stephen Bannon, di tutto l'entourage trumpiano l'uomo più chiaramente legato agli ambienti dell'estrema destra. Il nuovo rimpasto - l'ultimo di una lunga serie in soli sette mesi di governo - vista la tempistica appare come il prezzo politico che Donald Trump paga per il disastro di Charlottesville, con le violenze dei suprematisti bianchi e neonazisti sono state trattate con indulgenza e perfino comprensione dallo stesso presidente. Le reazioni indignate, non solo a sinistra ma dentro il partito repubblicano e nell'establishment economico, non accennano a placarsi. Bannon sembra quindi l'agnello sacrificale che Trump decide di offrire in pasto all'opinione pubblica e al suo partito per spegnere un incendio che lui stesso ha appiccato. E da Bannon arriva un commento amaro: "La presidenza Trump per cui abbiamo lottato, e vinto, è finita", ha detto in una intervista concessa al Weekly Standard dopo il licenziamento. "Abbiamo ancora un enorme movimento - ha aggiunto - e faremo qualcosa di questa presidenza Trump. Ma quella presidenza è finita. Sarà qualcos'altro". Confermando poi il suo ritorno alla guida del sito di destra Breitbart, Bannon ha aggiunto: "Adesso sono libero". E' Maggie Haberman del New York Times a firmare per prima lo scoop sul sito del giornale, poi arriva la conferma della Casa Bianca: Bannon e il generale John Kelly che è il capo di gabinetto del presidente, hanno concordato la partenza fissandola per oggi stesso. E' quindi l'ultimo giorno di Bannon alla Casa Bianca. Nello stesso articolo del New York Times si ricorda che Bannon sostiene di aver già offerto al suo capo le dimissioni il 7 agosto, cioè prima di Charlottesville. Da tempo Bannon è nel mirino. Ex direttore del sito di estrema destra Breitbart specializzato in fake news, era considerato uno degli strateghi della campagna elettorale di Trump. Ma già fece storcere il naso la decisione del presidente di inserirlo nel National Security Council (Nsc), importante organo che è la cabina di regìa della politica estera e militare. Quando Trump dovette cacciare dalla guida del Nsc il generale Michael Flynn, in odore di Russiagate, e sostituirlo con il generale McMaster, quest'ultimo chiese e ottenne la rimozione di Bannon da quell'organo. Tuttavia Bannon rimaneva a pochi metri dallo Studio Ovale, spesso inserito nelle delegazioni di alto livello e nei viaggi all'estero di Trump. Ancora ieri ha fatto scalpore una sua intervista in cui teorizzava una "guerra economica contro la Cina". Il caos post-Charlottesville gli è stato fatale. L'uomo della "alt-right" paga per le parole con cui il suo presidente si è messo nei guai da solo, equiparando i razzisti del Ku Klux Klan a quelli che gli manifestavano contro. © Riproduzione riservata 18 agosto 2017 Da - http://www.repubblica.it/esteri/2017/08/18/news/usa_bannon_trump-173337020/?ref=RHPPTP-BL-I0-C12-P1-S1.12-T1 Titolo: FEDERICO RAMPINI. Usa, McCain resiste su Obamacare: "Non voto il nuovo testo" Inserito da: Arlecchino - Settembre 24, 2017, 12:12:33 pm Usa, McCain resiste su Obamacare: "Non voto il nuovo testo"
Il senatore dell'Arizona conferma il proprio no al provvedimento proposto dai repubblicani e potrebbe essere nuovamente decisivo nell'allontanare l'abolizione della riforma della sanità dell'ex presidente Obama, che era uno dei punti salienti del programma di Donald Trump Dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI 22 settembre 2017 NEW YORK - Per Donald Trump sta diventando un incubo la libertà di giudizio di John McCain, il senatore repubblicano dell'Arizona. Ha appena dato un annuncio gravido di conseguenze: non voterà il disegno di legge del suo stesso partito, che dovrebbe cancellare la riforma sanitaria di Barack Obama ("Obamacare"). Con ogni probabilità questo annuncio affonda i piani per voltare pagina sulla sanità, e portare a casa un obiettivo che la destra va promettendo da ben sette anni, cioè l'abrogazione di una riforma bollata come "statalista". Breve stacco: se vi sembra di avere già letto quest'articolo, è perché siamo al bis. Lo stesso film andò in scena prima dell'estate. Per ben due volte i repubblicani - pungolati da Donald Trump - hanno tentato di cancellare Obamacare e per due volte hanno fallito. La loro maggioranza, comoda sulla carta, si è disintegrata al momento di entrare nei dettagli su come sostituire Obamacare. E in uno di quei fallimenti, fu già lo stesso McCain ad avere un ruolo decisivo. Non lo convince una controriforma che lascerebbe milioni di americani senza un'assistenza medica. Non si sente di votare un provvedimento che fa tabula rasa del sistema precedente e al suo posto lascia un'enorme libertà al mercato, oltre che una frammentazione fra Stati in nome del federalismo. Il senatore dell'Arizona - che fra l'altro sta sperimentando sulla sua pelle il sistema sanitario, essendo in cura per un tumore al cervello - ha pure una lunga serie di conti da regolare con Trump e col suo stesso partito. Fu bocciato dai suoi compagni repubblicani nel 2000 quando la corsa alla nomination lo oppose a George W. Bush, in una campagna piena di calunnie (già allora). Poi riuscì a strappare la candidatura nel 2008 contro Obama e lì fu sconfitto, ma battendosi da galantuomo e rifiutando sempre la tentazione del razzismo quando affiorava tra alcune frange dei suoi elettori. Nel 2016 Trump lo sbeffeggiò, dileggiando il suo passato di eroe militare (McCain, pilota nella guerra del Vietnam, fu abbattuto e preso prigioniero). Ora McCain si sta centellinando il piacere della rivincita. Senza il suo voto, e visto che altri repubblicani hanno la tentazione di defilarsi, il terzo tentativo di abrogare Obamacare sembra già destinato a schiantarsi. Un disastro d'immagine perché la destra ne aveva fatto un trofeo ambitissimo, e ora che controlla tutti i rami del potere (Casa Bianca, Congresso, Corte suprema) è vittima delle proprie divisioni interne. Intanto Obamacare continua a funzionare, ma con tutte le sue pecche. Anche quest'anno le compagnie assicurative hanno annunciato poderosi rialzi. Per far passare la sua riforma nel 2010 Obama fece un patto diabolico con i grandi gruppi privati - dalle assicurazioni a Big Pharma - e i difetti di quella legge sono enormi. In particolare non esiste un potere di controllo sull'iperinflazione delle tariffe sanitarie, che si tratti dei medicinali o delle polizze assicurative. E il sistema, con l'eccezione di Medicare (ultra65enni) e Medicaid (assistenza ai poveri) continua ad essere privatistico. Non a caso Bernie Sanders ha rilanciato in questi giorni la sua proposta di un sistema sanitario pubblico sul modello europeo. © Riproduzione riservata 22 settembre 2017 Da - http://www.repubblica.it/esteri/2017/09/22/news/mccain_boccia_la_controriforma_sanitaria-176238398/?ref=RHPPLF-BH-I0-C4-P9-S1.4-T1 Titolo: FEDERICO RAMPINI. Usa, Obama torna in tournée elettorale: "America sveglia:... Inserito da: Arlecchino - Ottobre 21, 2017, 11:52:14 am Usa, Obama torna in tournée elettorale: "America sveglia: respingiamo la politica della paura"
L'ex presidente in New Jersey e Virginia per sostenere i candidati governatori democratici. Comizi sferzanti: "Siamo nel XXI secolo, non nell'Ottocento" Dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI 20 ottobre 2017 NEW YORK - "Sveglia, siamo nel XXI secolo, non nell'Ottocento. La politica di oggi è incredibile, dovevamo essercene sbarazzati da tanto tempo!". La sferzata viene da un grande protagonista che non ha perso il suo carisma. Sorpresa, Barack Obama torna a fare comizi. Appare brevemente, ma quanto basta per mandare in delirio la base democratica: nel New Jersey e in Virginia. La sua mini-tournée elettorale serve ad altri, in quei due Stati si vota martedì 7 novembre, quasi a un anno esatto dall'elezione presidenziale. Non c'è una consultazione nazionale stavolta (quella sarà l'anno prossimo, le legislative di mid-term), però i due seggi di governatori sono una posta cruciale. Per tante ragioni. Da troppo tempo i democratici non vincono a livello locale, la mappa dei governatori e delle assemblee locali pende fortemente in favore della destra. Perfino le elezioni suppletive che si sono tenute quest'anno, dopo l'elezione di Trump, hanno premiato i repubblicani quando bisognava riempire seggi di senatori o deputati rimasti vacanti. Infine il New Jersey è anche uno Stato importante per la vicinanza a New York, per i business che Trump vi possiede, e perché il governatore uscente è un suo sostenitore, Chris Christie. Per questo Obama esce dal riserbo che caratterizza gli ex presidenti. Non menziona mai il nome del suo successore ma sottolinea che "si può mandare un messaggio al Paese e al mondo, quello che respingiamo la politica delle divisioni, respingiamo la politica della paura". Per la base democratica ha un effetto galvanizzante ritrovare Obama, l'uomo che conquistò la Casa Bianca per ben due volte, un campione quando scende nell'agone elettorale. E c'è perfino chi rilancia scenari di fanta-politica: su un ritorno di Obama con una terza candidatura nel 2020, una possibilità remota che solo alcuni costituzionalisti avallano, con un'interpretazione audace delle regole (l'emendamento alla Costituzione che fissò il limite dei due mandati, approvato dopo le quattro elezioni di Franklin Roosevelt, si potrebbe intendere come un divieto di due mandati "consecutivi"). Di certo il ritorno in scena di Obama - che finora aveva preso posizione solo una volta contro Trump, per denunciare la minaccia di deportazione dei giovani "dreamers", immigrati da bambini - rappresenta una variante rispetto a un altro revival: quello di Hillary. La candidata dell'anno scorso gira l'America per promuovere il suo libro, anche su di lei si ipotizzano velleità di rivincita: ma la sua onnipresenza conferma il deficit di volti nuovi e idee nuove che affligge il partito democratico. Un altro ex che riappare a sorpresa, pure lui per attaccare Trump, è George W. Bush. Discreto fino all'eccesso, l'ultimo presidente repubblicano si è fatto notare per un discorso di denuncia contro il "nazionalismo che degenera in nativismo" e di difesa dell'immigrazione. Ha pure diretto uno strale contro l'ingerenza russa nella campagna elettorale. Non ha mai nominato l'attuale inquilino della Casa Bianca ma nessuno ha avuto dubbi su chi fosse il bersaglio delle sue parole. © Riproduzione riservata 20 ottobre 2017 Da - http://www.repubblica.it/esteri/2017/10/20/news/usa_obama_torna_in_tourne_e_elettorale_america_sveglia_respingiamo_la_politica_della_paura_-178778651/?ref=RHPPLF-BH-I0-C4-P5-S1.4-T1 Titolo: FEDERICO RAMPINI. Ora e sempre The Donald. Inserito da: Arlecchino - Novembre 04, 2017, 11:15:54 am Ora e sempre The Donald
Viaggio negli Stati che hanno scelto il loro presidente, per rispondere a una domanda: che cosa pensano oggi? La risposta: lo rivoterebbero. E le promesse mancate? Colpa dei politici L’inquilino della Casa Bianca è malconcio nell’immagine all’estero, ma la sua base tiene Dal nostro inviato FEDERICO RAMPINI, FOTOGRAFIE DI LUCA MARFÉ 27 ottobre 2017 Ho fatto novemila chilometri, a tappe, per trovare risposte a questa domanda: che cosa pensano di Donald Trump quelli che lo hanno votato, un anno dopo? Degli altri sappiamo tutto. La maggioranza degli americani lo boccia, i sondaggi lo danno sotto il 40% dei consensi. La sinistra lo accusa di avere sdoganato il Ku Klux Klan, di aizzare xenofobia e islamofobia, di sguazzare nei conflitti d’interessi, di sabotare le indagini sulle manovre di Vladimir Putin in campagna elettorale. Come dimostrano due ex presidenti (Barack Obama e George W. Bush) uscendo dal riserbo tradizionale, cresce il timore che l’ex tycoon e showman televisivo stia infliggendo ferite gravi al costume democratico, alla civiltà del dibattito pubblico, al rispetto delle istituzioni. Tutto questo però non scalfisce lo zoccolo duro della sua base elettorale. Non ancora. È il verdetto che riporto da questo lungo viaggio nell’America che lo ha voluto presidente un anno fa. Ho traversato Stati industriali dal Michigan alla Pennsylvania, dall’Ohio alla West Virginia. Ho ascoltato le loro paure, le sofferenze, l’angoscia e la rabbia. Se sono delusi per le promesse finora disattese – il Muro con il Messico, il protezionismo contro la Cina, l’abolizione del sistema sanitario di Obama – danno la colpa ai politici di mestiere, al Congresso. La rinuncia agli accordi di Parigi sul cambiamento climatico piace alla sua base. Applaude il linguaggio bellicoso contro la Corea del Nord e l’Iran. La mia puntata al confine con il Messico, mette a dura prova un teorema della sinistra: che l’ispanizzazione etnica conduca inevitabilmente verso un declino dei repubblicani anche nella roccaforte del Texas. Se l’immagine di Trump è sempre più malconcia all’estero e fra quelli che gli erano già contrari un anno fa, non bisogna sottovalutare il suo fiuto: tutto ciò che lui fa, punta a rendere possibile una rielezione “di minoranza”, seguendo la stessa geografia elettorale dell’8 novembre 2016. Trump non fa nulla per conquistare gli altri, lavora a consolidare quella minoranza fedele che – con queste regole elettorali – gli è bastata già una volta. DETROIT, MICHIGAN: GLI OPERAI TOLEDO, OHIO: LA CRISI WEIRTON, WEST VIRGINIA: LE DISEGUAGLIANZE LAREDO, TEXAS: I MIGRANTI Detroit, Michigan: gli operai A che punto è la notte? Un anno dopo l’elezione-shock di Donald Trump, l’America liberal non ha dubbi sul bilancio di una presidenza mostruosa: fallimento totale, tante offese ai valori della democrazia e della Costituzione, pochissimi risultati concreti (e brutti pure quelli). Ma gli elettori di destra, che cosa ne pensano? Sono delusi? Pentiti? Se le promesse non vengono mantenute, con chi se la prendono? Questo viaggio in Trumplandia percorre gli Stati-chiave dove si è giocata la sua “rapina” di collegi elettorali e la beffa ai danni di Hillary Clinton. La mia traversata inizia dal Midwest nella regione dei Grandi Laghi al confine col Canada e si conclude al Sud sulla linea di frontiera Texas-Messico lungo il Rio Grande. In tutto 9.000 km a tappe, fra autostrade e tratte in aereo. Parto da Detroit, Michigan. Dove mi ricongiungo anche ad alcuni personaggi che avevo già incontrato dopo i primi cento giorni dall’Inauguration Day. Super 8, Rampini tra gli elettori di Trump un anno dopo Classe operaia di destra. Talvolta ex-democratici convertiti. Metalmeccanici, per lo più. Uomini e donne, bianchi di mezza età. L’elettorato decisivo che un anno fa ha spostato per pochi millimetri l’ago della bilancia è in quest’area del Paese. Lo ritrovo in un’occasione molto speciale. Brian Pannebecker, 57 anni, operaio della Fiat Chrysler, mi dà appuntamento a metà ottobre una domenica mattina davanti allo stadio cittadino di football: il Ford Field dove gioca la squadra locale dei Detroit Lions. Brian è un agnostico del football, infatti mi promette uno spettacolo di tutt’altra natura. Prima della partita, fuori dal campo di gioco. Vuole che io sia testimone di una protesta contro la protesta. “Boycott Nfl!” è la parola d’ordine. Coi suoi compagni di lavoro e altri amici repubblicani, lui contesta i campioni afroamericani di football che in tutta l’America inginocchiandosi all’inizio delle partite hanno inscenato una clamorosa protesta. Quando tutti gli altri stanno in piedi sull’attenti e cantano l’inno nazionale, alcuni giocatori si dissociano. È una ribellione nata all’origine per solidarietà con BlackLivesMatter, il movimento che denuncia le violenze della polizia sui neri. Le immagini di quei gesti di sfida hanno fatto il giro del mondo, è intervenuto Trump a dire che i padroni delle squadre della National Football League (Nfl) dovrebbero punire o licenziare i sediziosi. È una bella mattinata di sole a Detroit, quando all’incrocio tra la Brush Street e la Madison si rovesciano fiumane di spettatori diretti allo stadio. I Detroit Lions ricevono in casa i Carolina Panthers. Le due tifoserie si mescolano bonariamente, fra canti e risate. Le partite di football qui sono uno happening gioioso e pacifico, grandi mangiate e tifo sportivo radunano un pubblico familiare per l’intera domenica. Tra gli amici di Brian, il baffuto Trucker Randy accoglie i tifosi al passaggio con una bandiera americana e uno striscione: “Stand By The Anthem, Kneel To The Cross”. In piedi per l’inno, in ginocchio davanti alla croce. Così deve comportarsi un vero americano. «Che c’è di male — mi dice — se una volta alla settimana per due minuti ci raccogliamo davanti alla bandiera nazionale? Non possiamo unirci almeno per cantare l’inno, e smetterla per un attimo di essere faziosi?». Pannebecker aggiunge: «Sono un reduce dell’esercito, ho servito la patria sotto le armi e adesso è mio figlio che fa il militare. Quelli che rifiutano l’omaggio alla bandiera ci offendono, è una mancanza di rispetto». Interviene un terzo contro-manifestante, il più pittoresco: Rob Cortis, che nel tempo libero gira l’America con un camion-rimorchio intitolato “TrumpUnity- Bridge”. Sembra un carro di carnevale, ma carico di foto e slogan pro-Trump, tipo “Una Bandiera Una Nazione Un Dio”, “Legge e Ordine”, e il classico “MAGA” che sta per Make America Great Again. Madre tedesca, padre siciliano, Rob ha osato sfidare col suo camion di propaganda repubblicana la manifestazione oceanica delle donne anti- Trump a Washington il giorno dopo l’Inaugurazione presidenziale. A Detroit è venuto pure lui per l’anti-protesta contro i campioni neri del football: «Quegli atleti sono dei multimilionari, delle star che guadagnano cento volte più di noi comuni cittadini. E osano mancare di rispetto ai simboli dell’unità nazionale, dissacrano una bandiera che avvolge le bare dei nostri caduti in guerra». Sono solo un manipolo, forse una dozzina, questi protagonisti della contro-manifestazione. In un momento in cui tanti media nazionali santificano le gesta degli atleti neri contestatori, l’impressione che hai leggendo il New York Times o guardando la Cnn è che la gente stia con i campioni sportivi. Pannebecker, a scanso di rischi, è arrivato allo stadio con un giubbotto antiproiettile. «Mia moglie è preoccupata — dice — e allora ho preso questa precauzione. Comunque la maglia anti-pallottole non mi proteggerà dai cazzotti, se qualcuno mi aggredisce. Non sono un picchiatore, malgrado l’addestramento militare non ho mai fatto a botte in vita mia». Timori infondati. Non solo l’atmosfera nella folla che affluisce allo stadio è scanzonata e gentile, ma molti simpatizzano proprio con questi contro- manifestanti di destra. La scena si ripete più volte: quando un gruppetto di spettatori bianchi intravede questi operai ed ex-militari coi loro striscioni in difesa dell’inno e della bandiera, gli si avvicinano e li applaudono, li salutano con le cinque dita alzate, o pugno contro pugno: “God bless our veterans”, che Dio benedica i nostri reduci. No, da questo spicchio di tifoseria da stadio che vedo nella capitale dell’automobile, nella città più operaia d’America, la Cnn e il New York Times e il partito democratico non hanno capito cosa sta succedendo. Ancora una volta, l’istinto viscerale di Trump è più in sintonia con gli umori profondi della classe operaia. «Milionari viziati che insultano la bandiera e l’inno», è la frase che sento ripetere da tanti. Quelli che tv e stampa liberal hanno osannato come eroi, nella middle class bianca suscitano solo repulsione. Trump ha capito subito da che parte stare, twittando furiosamente contro i campioni contestatori ha cavalcato e ingigantito una polemica che sembra fatta su misura per lui. (In Europa, con tutte le differenze del caso, immaginatevi se Cristiano Ronaldo entrando in campo indossasse una maglietta con slogan in favore degli immigrati: forse toglierebbe voti alle destre xenofobe? O confermerebbe che il buonismo è un lusso delle élite?). La sinistra americana a volte sembra credere che le elezioni le vince chi ha l’appoggio dello star-system, chi ha più celebrity dalla sua parte. Ma su quel conteggio Hillary vinceva mille a uno. Diversioni, distrazioni. Quando le cose gli vanno male, Trump è un maestro nel cambiare discorso, inventare polemiche, distogliere l’attenzione. E gli avversari ci cascano sempre. La sua polemica sulla National Football League è da manuale, lui ci si è infilato quando la sua agenda di governo stava girando a vuoto, dopo molteplici tentativi falliti di varare una contro-riforma sanitaria, che cancelli Obamacare e lo sostituisca con qualcos’altro. Dunque, parliamo di cose serie. A fine partita — persa dai padroni di casa, i Lions sono stati sgominati dai Carolina Panthers — raduno alcuni di quei contro-manifestanti trumpiani attorno a un hamburger, nella piazza dello Eastern Market di Detroit. Gli cito un sondaggio nazionale di Usa Today secondo cui per il 57% degli americani Trump “non sta mantenendo le promesse fatte in campagna elettorale”. Un anno dopo il voto, non vi sembra che il bilancio sia poverissimo, che tra le intenzioni e le cose fatte il divario sia spaventoso? Sheri Townsend, 55 anni, è un’ex operaia che si è messa in proprio come artigiana. «Il nostro problema è il Congresso — dice — non il presidente. Per sette anni i repubblicani ci hanno promesso che avrebbero cancellato la pessima riforma sanitaria di Obama, che ci avrebbero dato una sanità meno statalista, meno costosa. Ora hanno tutto il potere in mano: Casa Bianca, Congresso, Corte suprema. E non riescono a mettersi d’accordo fra loro sulla nuova sanità. Questi parlamentari tradiscono Trump. Alle prossime primarie, per le legislative del 2018, dovremo mobilitarci per eleggere tra i repubblicani solo quelli leali, fedeli al presidente». Attorno al tavolo approvano tutti. Interviene Gary Frank, 49 anni, ex-metalmeccanico che ora si occupa di formazione: «Senatori e deputati, politici di professione, vogliono che Trump fallisca perché non è uno di loro. Lui è una minaccia per l’establishment, non segue le loro regole». Delle promesse finora mancate, la non-distruzione di Obamacare è cocente. La sanità in questo paese è un problema enorme nella vita di tutti i giorni; è anche un simbolo potente, un discrimine ideologico fra le tribù della politica. Il revival del populismo di destra che preparò il fenomeno Trump, viene da lontano e ha inizio dal Tea Party: quel movimento nasce nel 2009 per protestare contro i salvataggi delle banche di Wall Street, s’ingigantisce nel 2010 quando la battaglia numero uno diventa demolire l’odiata riforma sanitaria. In ambedue i casi il populismo di destra semplifica delle cose molto complicate. Il salvataggio delle banche fu gestito abbastanza bene dall’Amministrazione Obama, alla fine il Tesoro recuperò le spese, per i contribuenti l’operazione finì in pareggio. Il Tea Party campa di rendita denunciando un gigantesco regalo a Wall Street da una parte, e ai debitori poveri dall’altra: cioè neri o altre minoranze etniche. Tra gli atti fondatori del Tea Party nel 2009 c’è una memorabile sfuriata dell’anchorman Rick Santelli sulla tv Cnbc, contro «i vicini di casa irresponsabili, quelli che vivono al di sopra dei loro mezzi, a cui dobbiamo ripagare i mutui noi». L’idea di una sanatoria generalizzata dei mutui insolventi per le famiglie troppo indebitate, che fu accarezzata a sinistra, in realtà non si è mai materializzata. Milioni di famiglie dopo il crack del 2008 subirono pignoramenti giudiziari e perdettero le case. Ma nel popolo di destra la convinzione è tenace: quando la sinistra è al governo, il ceto medio paga, i poveri (soprattutto se di colore) vivono a sbafo, rovesciano sulla collettività il costo dei loro errori. Lo schema si ripete su Obamacare. Quella riforma è piena di difetti gravi; non cura il vizio originario di un sistema troppo privatistico, dove dettano legge le compagnie assicurative e Big Pharma. Però Obamacare ha esteso l’assistenza medica a venti milioni di americani che ne erano sprovvisti, dandogli delle sovvenzioni perché si possano comprare le polizze private. Questo ha coinciso — come Trump denuncia — con tremendi rincari delle tariffe assicurative: un po’ pagati dal contribuente, un po’ dai pazienti del ceto medio. Ecco, di nuovo, la semplificazione: Obamacare è statalismo che aiuta neri, minoranze etniche, immigrati, “gli altri”. Il conto lo paghiamo “noi”. «Mille dollari al mese di assicurazione sanitaria sono troppi — dice Sheri — sono soldi che una famiglia del ceto medio deve togliere da altre spese, rinunciare all’università del figlio, non comprare la macchina nuova». La parola d’ordine “abrogare Obamacare” è irresistibile, unificante, una di quelle bandiere identitarie su cui la tribù della destra si compatta. Salvo scoprire, quando il Congresso si mette a votare un progetto alternativo, che la maggioranza repubblicana si sfascia. È accaduto tre, quattro, cinque volte in un anno di presidenza Trump. Non è colpa sua, mi ripetono i suoi elettori del Michigan. Quando usciamo dal bar-ristorante delle interviste con hamburger, si avvicina un’altra fan del presidente. Attirata dal taccuino del cronista e dalla videocamera del fotografo, la bionda platinata Cheryl Hadzik ha un diploma d’ingegneria e insegna matematica all’università. Non si chiede l’età a una signora, ma lei dichiara tre figlie ventenni e ha l’aria di essere una mia coetanea. Ha votato Trump e non è pentita neanche un po’. Semmai ce l’ha con la sinistra che vuole «cambiare la demografia, inondare l’America di stranieri che voteranno per sempre democratico, per vivere di Welfare». I fan del presidente ripetono gli argomenti che sento nei talkshow dell’unica tv che «non calunnia Trump, non semina zizzania, non diffonde fake news»: la Fox. Sulla Corea del Nord «lui cerca di risolvere un problema che gli hanno scaricato addosso i tre presidenti venuti prima». Sull’Iran e su Cuba? «Finalmente un leader che si fa rispettare, non cede alle dittature». Si discute in piazza, l’Eastern Market è pieno di bancarelle, affluiscono famiglie di tifosi nel dopo-partita. Se dentro la cinta dello stadio non si vende birra, qui il tasso alcolico è salito. Cadono freni inibitori, al camion “TrumpUnityBridge” di Rob Cortis si avvicina un gruppetto di afroamericani. Scherzando, s’inginocchiano proprio lì di fronte, esigono di essere fotografati mentre imitano il gesto dei “loro” campioni di football. Uno mi si avvicina, si chiama Vince Butler, chiede una sorta di par condicio: visto che sto intervistando dei repubblicani, devo sentire anche lui. «Sono un operaio metalmeccanico come alcuni di loro — dice Butler — e credo che sotto sotto siano delusi. Si aspettavano che il loro presidente gli rivoltasse l’America. Capisco anche alcuni dei loro risentimenti. Noi afroamericani negli ultimi decenni abbiamo lottato, abbiamo avuto le nostre conquiste, loro si sono sentiti sotto pressione. Ma gli stereotipi sono sbagliati. Io vivo in un quartiere di Detroit prevalentemente nero. Il luogo comune su noi afroamericani che viviamo di welfare non è quello che vedo tutti i giorni. Io e i miei vicini di casa ci alziamo ogni mattina per andare al lavoro, come loro. Se la facciata di casa ha bisogno di riparazioni, ci rimbocchiamo le maniche e passiamo il weekend ad aggiustarla, proprio come loro». Un intellettuale nero radicale, Ta-Nehisi Coates, ha sintetizzato lo stato della questione razziale in America con una definizione provocatoria. Lui chiama Trump “il primo presidente bianco”. Cioè la cui elezione è segnata in modo determinante dal colore della pelle. Toledo, Ohio: la crisi Un grupp di tifosi afroamericani allo stadio di Detroit: loro sono contro Trump e scelgono provocatoriamente un furgone di supporter del presidente per inscenare una protesta come quella dei giocatori della Nfl: in ginocchio all’inno nazionale «Sì, certo, sarebbe bello se Amazon venisse a costruire la sua nuova sede qui, porterebbe lavoro e soldi, ce n’è un gran bisogno». Sue Depew ha cinquant’anni e ne mostra dieci di più. Ha occhi celesti chiarissimi che le vengono dai genitori di origine polacca. Sono occhi affettuosi, tristi e rassegnati, circondati di rughe, comunicano pazienza e sottomissione. Questa storia di Toledo che sogna di attirare il nuovo quartier generale di Amazon l’avevo letta prima di arrivare. Qui nella Rust Belt — “cintura della ruggine” — gli anni d’oro sono lontani, quando l’economia prosperava grazie al trio carbone-acciaio-auto. Tante fabbriche, tanti operai, sindacati forti. Un ricordo lontano. Adesso nel centro di Toledo lungo il fiume Maumee il grattacielo più appariscente ospita Blue Shield-Blue Cross, compagnia di assicurazione sanitaria. La speranza è che un gigante dell’economia digitale voglia rianimare questa città decaduta. Speranza o miraggio, perché tra i cinquantamila posti promessi da Amazon nel futuro quartier generale-bis ci saranno anche fattorini che guadagnano metà di un metalmeccanico. E poi sono molte le città in gara, in tutti gli Stati Uniti, che stendono tappeti rossi di esenzioni fiscali per attirare Jeff Bezos. Qui vicino anche Cleveland si è candidata come sede Amazon. Con maggiori chance, presumo, perché Cleveland è più grande (390.000 abitanti contro i 280.000 di Toledo), ha buone università e un aeroporto internazionale. Ho buttato lì una domanda sul tema del giorno in città, per spezzare il ghiaccio e fare un po’ di conversazione. Sue ha tutto il tempo per parlare. Anche se su Amazon ha idee vaghe, non vuole deludermi. Risponderà a tutto, volentieri. D’altronde Luca ed io oggi siamo gli unici clienti che deve servire a mezzogiorno, al bancone del Mad Dog Saloon. Periferia di Toledo, squallore e solitudine. Mi vengono in mente altri saloon immaginari situati in qualche deserto americano, quelli dei film “Paris, Texas” di Wim Wenders e “Bagdad Cafe” di Percy Adlon, ma questo è reale ed è in un deserto urbano. L’ingresso del saloon è poco invitante. Dalla strada l’insegna al neon si nota a stento. La finestra del locale è protetta da assi di legno inchiodato. Dentro, in pieno giorno è quasi buio, non fosse un grande schermo tv sempre acceso. A mezzogiorno l’unica altra presenza al bancone è quella di John Gyuras, fratellastro di Sue che le dà una mano nella gestione del bar e a quest’ora ha già l’aria di aver bevuto parecchio. Proprietaria è l’anziana madre, che non si vede. Ordiniamo scegliendo tra le specialità del posto, che sono esattamente due. Per me ali di pollo fritte, per Luca un hot dog “impanato” in una farina di mais e molto fritto pure quello. Sue si occupa di tutto, è cameriera al bar e anche cuoca. L’olio della friggitrice deve avere anni di carriera alle spalle. Rischiamo l’avvelenamento, ma bisogna pur dare un po’ di lavoro a questo Mad Dog Saloon così vuoto e deprimente malgrado il juke-box, il biliardo, perfino un mini-bowling. Sue faceva la baby-sitter — lo sguardo dolce tradisce una gran nostalgia quando ricorda il contatto coi bambini — prima di venire a lavorare nel bar comprato dalla mamma tre anni fa. «Quelli che glielo hanno venduto non ce la facevano più a tirare avanti. Usciva più denaro di quanto ne entrasse. Qua attorno la gente ha poco da spendere. Altri tre locali come questo hanno chiuso, sono in vendita da mesi e non trovano compratori». Mentre consumiamo e le teniamo compagnia, passa velocemente un ragazzo alto e bruno, un bel mulatto dai capelli ricci e neri. Lo sguardo di Sue è tutto tenerezza: «Mio figlio Ronald». Appena lui esce e scompare dalla vista, lei racconta la sua storia. «Il padre è sparito, è in prigione da quando Ronald aveva due anni. Il ragazzo aveva un buon lavoro come taglialegna, ben pagato. Poi c’è stato l’incidente: la caduta di un tronco d’albero lo ha ferito. Ha cominciato a prendere pillole contro il dolore. Da lì è passato all’eroina. Si è spaventato quando ha avuto un’overdose ed è arrivata l’ambulanza, credeva di morire. Sono riuscita a convincerlo di entrare in terapia, in un gruppo di disintossicazione. Adesso è pulito, da tre mesi. È un bravo ragazzo davvero, mi creda, altrimenti io da sola non sarei riuscita a tirarlo fuori con le mie forze. Ci ha messo del suo, per ritrovare la retta via». Qui attorno al bar, Sue mi descrive un quartiere-fantasma di giorno, dove al tramonto cominciano ad affluire «prostitute drogate ad ogni angolo, quelle si fanno soprattutto di oppioidi». Racconta una rapina a mano armata, e la sua paura che facessero del male a Ronald, che era dentro il Saloon quella sera. Parlare di politica con uno sconosciuto non la disturba affatto, è solo stupita che possa interessarmi il suo parere. Trumpiana? «No di certo. Quando lo vedo penso che la politica non è il suo mestiere. È come se mia madre si candidasse alla presidenza». Da un anno in qua lei non ha visto miglioramenti nell’economia locale, ma non ha idea se il presidente possa fare qualcosa. Non ha idea, per la verità, se stia facendo qualcosa. E comunque si sente lontanissima da tutto questo. Anti-trumpiana? Boh. «Né io né mio fratello abbiamo votato. Mai. Non ci siamo neppure iscritti (in America non è automatico essere sui registri degli elettori, ndr). Nessuno mi ha mai convinto». Le chiedo: ricorda se Trump un anno fa ha vinto qui nell’Ohio? La vedo incerta. Guarda il fratello, smarrito quanto lei. «Non sono sicura. Forse sì». (Trump vinse in questo Stato col 52% e otto punti di vantaggio su Hillary). Non vede perché la politica dovrebbe riguardarla. È una cosa che ogni tanto appare sullo schermo tv del bar, quelle rare volte in cui non è sintonizzato sul canale tutto- sport della Espn. I suoi clienti, quando ne ha, non parlano di politica. Probabilmente non votano neanche loro. Perfino all’elezione presidenziale — un appuntamento che attira molta più attenzione e affluenza rispetto alle legislative o alle amministrative — qui nell’Ohio si è astenuto quasi un terzo degli elettori già iscritti al registro dei votanti (e molti altri come la Depew non s’iscrivono neppure). Sue non si è mai occupata di politica perché dà per scontato che la politica non si occupa di quelli come lei. Sue ha problemi più pressanti. «Mia madre si è presa un bel rischio comprando questo bar. Non può permettersi di pagarmi più del salario minimo legale, che qui a Toledo è otto dollari e dieci centesimi l’ora. E io ho bisogno di traslocare, sto cercando un appartamento in un quartiere diverso, lontano da qui. Non posso lasciare che mio figlio abiti in una zona dove tutti gli spacciatori lo conoscono. Ma il minimo che riesco a trovare è un affitto da 675 dollari al mese. Sono troppi per quel che guadagno». Dopo un’ora lasciamo il Mad Dog Saloon con l’odore di frittura che aleggia nell’aria. Sue e il fratello escono e si siedono sul marciapiedi a fumare, ci salutano mentre partiamo in macchina. La strada è sempre vuota, come il loro bar. L’intermezzo in questa no man’s land desolata alla periferia di Toledo mi porta un po’ fuori tema: il mio viaggio nel Midwest è dedicato a tastare il polso di quelli che un anno fa votarono Trump. Al Mad Dog Saloon ho incontrato un paio di americani che non lo amano né lo stimano neanche un po’, se costretti a pronunciarsi su di lui alternano scetticismo, sarcasmo, diffidenza, ostilità. Ma la sinistra non è riuscita neppure a catturare la loro attenzione; per non parlare di fiducia. Weirton, West Virginia: le diseguaglianze «Non ho mai sparato un solo colpo in vita mia, neanche al tiro a segno. Sei mesi fa, all’età di 48 anni, per la prima volta da quando sono nato ho deciso di entrare in un’armeria. Per 900 dollari ho comprato un AR-15, un fucile semi-automatico, simile a quello che i nostri soldati hanno al fronte. Più 500 pallottole. Non avrei mai creduto di arrivare a tanto». Chi parla non è un fanatico, non ha l’identikit del paranoico. Tutt’altro. Louie Retton, in realtà si chiamerebbe Luigi Redondo, «ma quando immigravano qui i nostri genitori italiani, dovevano cambiarsi i nomi per non farsi riconoscere, per sembrare come gli altri, farsi accettare, perché all’inizio gli italiani non li assumevano neppure in miniera». Di mestiere fa il preside di liceo, sente sulle spalle la responsabilità per il futuro di tanti giovani. È sinceramente preoccupato, addolorato, perché attorno a sé vede «una società sempre più diseguale», nella sua cittadina di Weirton «pochi benestanti come me abitano qui in cima alla collina, tutti gli altri sono a fondo valle e stanno male, molto male». A differenza di certi militanti dell’ultra-destra che hanno il culto delle armi, che vaneggiano nostalgie assurde di milizie popolari contro i “federali”, lui si è rassegnato a comprare quell’AR-15 solo per paura. «Non ho certo incubi sull’arrivo di un invasore straniero, tantomeno che il governo venga a disarmarmi. Se un giorno scoppia la guerra sarà tra noi, americani contro americani. Quelli che non hanno niente contro quelli che hanno qualcosa. Guarda le immagini in tv dopo ogni uragano, da Katrina all’ultima inondazione di Houston o di Tampa: appena la forza dello Stato scompare dalle strade cominciano gli assalti ai supermercati, i saccheggi, le rapine di massa. Un giorno potrebbe succedere qui. E c’è una sola via di fuga. Se quelli che stanno giù a fondo valle salgono per prenderci la roba nelle nostre case, l’unica uscita è questa strada che porta verso di loro. Per loro siamo i ricchi, perché le nostre case valgono mezzo milione. Quando verrà il giorno in cui vorranno prendersi la nostra roba, io devo essere pronto a difendermi». Prima di arrivare fino a questo angolo della West Virginia dove Trump ha stravinto col più ampio margine della storia (68,5% contro il 26,4% di Hillary), prima di raggiungere la casa del suo elettore Louie Retton, ho attraversato il paese del carbone e dell’acciaio. Ho fatto avanti e indietro tra Pittsburgh, capitale decaduta degli altiforni e delle dinastie industriali che dominarono la Pennsylvania e l’America un secolo fa (i Carnegie, Mellon, Frick), e Steubenville nella valle dell’Ohio, città siderurgica che diede i natali a un altro immigrato italiano, il cantante Dean Martin. Ho già raccontato in un altro reportage su Repubblica la mia visita a un porto del carbone, Bellaire sul fiume Ohio, che benedice Trump e la sua deregulation anti-ambientalista. Ed Spiker, un manager dell’azienda carbonifera Westmoreland Resources, mi ha dato una valutazione realistica sull’effetto-Trump. «Per la prima volta dopo otto anni di Obama, c’è un presidente che rivaluta il carbone, e per l’economia di questa zona è importante. Annunciando l’uscita dagli accordi di Parigi, lui ha mantenuto le promesse che fece ai minatori in campagna elettorale, mentre Hillary parlava di un futuro fatto solo di energie rinnovabili, e a noi in sostanza prometteva disoccupazione. Però non ci facciamo illusioni. Il 2018 sarà un anno eccezionale, il carbone tornerà a sorpassare il gas naturale come energia per le centrali elettriche. Ma molte utility hanno già avviato una riconversione, le grandi aziende elettriche cominciarono anni fa i piani di lungo termine per abbandonare il carbone, è solo questione di tempo». Qualche anno in più, per tanti minatori significa arrivare alla pensione. Hanno votato Trump, in massa. A loro è andata bene, per adesso. Disfacendo le regole di Obama, questo presidente ha tolto tutti i limiti alle emissioni carboniche delle centrali. “Coal country”, il paese del carbone, vede allontanarsi il giorno del giudizio. Viaggiando lungo la valle del fiume Ohio, la vera sorpresa non è trovare ancora le chiatte cariche di carbone, le miniere, gli impianti siderurgici e le centrali fumanti. La sorpresa sono i boschi. Com’è verde questa vallata! A perdita d’occhio. Un manto di foreste quasi ininterrotto copre le colline intorno al fiume. Questa stagione regala lo spettacolo autunnale del “foliage”, l’esplosione di colori giallo arancione oro rosso verde delle foglie. È questo che frega l’America, in un certo senso. È questa la maledizione paradossale che colpisce tanti americani, li rende ciechi di fronte al disastro ambientale che avanza, ai danni del cambiamento climatico, all’inquinamento che uccide. Hanno ancora “troppa natura” in casa, perfino in aree di antica industrializzazione come Pennsylvania, Ohio, West Virginia. Tanti spazi disabitati o quasi, le distese infinite di verde, danno la falsa impressione che le risorse siano illimitate, che guidare Suv energivori o tenere l’aria condizionata a temperature polari o surriscaldare le case d’inverno siano comodità innocue, lussi legittimi. È in mezzo al verde anche la villetta di Michael Arlia, amico e vicino di Louie Retton. Sua moglie sta potando gli alberi in giardino, mentre noi ci riuniamo attorno al tavolo della cucina e a un bicchiere di vino. Italo-americano pure lui, Michael incarna l’American Dream di una volta, quando le cose in questo paese andavano per il verso giusto. «I miei genitori immigrarono qui da Belmonte, Calabria. Mio padre si è fatto strada da solo, in un’epoca in cui non era facile essere italiani qui. Ha lavorato sodo, miniere e acciaierie. Ha pagato gli studi a due figli. In confronto ai suoi tempi, l’America di oggi è piena di bambini viziati, che pretendono tutto, si offendono per qualsiasi cosa. Mio padre ci insultava, proprio come Trump insulta tanti connazionali oggi. Mi piace la sua retorica dura, aggressiva. Questa nazione si è adagiata, ha bisogno di essere presa a calci nel sedere, per darsi una svegliata». Michael era stato democratico per tutta la vita, solo un anno fa ha deciso di cambiare e ha votato per Trump. La ragione? Per disperazione. «Non disperazione per me stesso, no, tutt’altro. Io ce l’ho fatta. Mi hanno licenziato, ho perso il lavoro, mi sono messo in proprio e oggi possiedo tre imprese. In confronto alla gente che abita qui vicino, appaio perfino straricco. Ma non mi godo questo benessere solitario. La cittadina intorno a me è irriconoscibile. Negli anni Quaranta, quando questo posto a furia d’immigrazione si conquistò il nome di Little Calabria, c’era un acciaieria a fondo valle che dava lavoro a 27.000 operai, mio padre incluso. Lavoro sicuro e ben pagato. Oggi lo sai quanti ne sono rimasti? 800. Ot-to-cen-to! La middle class non esiste più. Il benessere lo abbiamo lasciato fuggire con le fabbriche, verso il Messico o la Cina». Il preside Louie racconta la stessa storia vista attraverso il mondo della scuola: «Quando eravamo ragazzi noi, figli d’immigrati dal Mezzogiorno, avevamo delle famiglie solide che puntavano sui nostri studi. Oggi nel liceo che dirigo gli insegnanti non possono dare compiti a casa. Le famiglie sono sfasciate, i ragazzi quando tornano a casa non hanno genitori che li aiutano o li sorvegliano. Il 75% ha diritto alla mensa gratuita per povertà, roba che ai nostri tempi non ricordo. Eroina e spaccio dilagano. Quella di oggi non ha più niente in comune con la cittadina in cui eravamo cresciuti noi». Trump per loro è l’elettroshock che potrebbe smuovere un pezzo d’America condannato al declino. Qui in questo triangolo fra West Virginia, Ohio e Pennsylvania, siamo nel cuore di un mistero. L’economia americana cresce da otto anni, la ripresa trumpiana prolunga quella obamiana. Dalla fine della crisi nel 2009, a livello nazionale sono stati creati 16 milioni di nuovi posti di lavoro. Il tasso di disoccupazione, che aveva raggiunto livelli europei superando il 10% nel 2009, è ricaduto vicino al 4%. Se continua così potrebbe riavvicinarsi a quel 3% che gli esperti definiscono “pieno impiego”. Però, però. Quest’America operaia che compra armi per proteggersi dalla rabbia del vicino troppo povero, non è in preda ad allucinazioni. Le statistiche ufficiali non descrivono quel che accade qui. Il tasso di disoccupazione è ai minimi, tuttavia sono spariti dagli schermi radar un milione e mezzo di ex-lavoratori. Dispersi, “missing in action”. Hanno smesso di cercarsi un lavoro, e quindi sono stati cancellati dalle rilevazioni: non fanno più parte della popolazione attiva. Il nuovo mondo del lavoro non li vuole, non sa che farsene, e loro ne prendono atto. Una ricerca di Alan Krueger, economista dell’università di Princeton, rivela che metà di quegli uomini spariti dalle statistiche, stanno prendendo quotidianamente medicinali anti- dolorifici. In mezzo a loro si è infilata un’epidemia di massa, la tossicodipendenza da oppioidi. I più “fortunati” ne escono per poi sopravvivere con pensioni d’invalidità. I più deboli vanno ad aumentare le statistiche dei suicidi. In quel buco nero che è la condanna all’inutilità sociale, gli ultimi minatori del carbone erano convinti che ci sarebbero finiti anche loro: se avesse vinto Hillary Clinton. Anche per chi il lavoro lo ha conservato, o ritrovato, l’American Dream non è più quello dei genitori di Louie e Michael. Quando chiude un’acciaieria che i padroni spostano in Cina, qui scompaiono posti di lavoro che pagavano dai 18 ai 25 dollari l’ora. Quando al suo posto apre un ipermercato discount, assume per 13 dollari all’ora. Trump ha promesso di riportare le fabbriche qui, di rinegoziare trattati commerciali, di combattere la concorrenza sleale del Messico o della Cina. Risultati, per ora: quasi nulla. Qualche segnale di reindustrializzazione degli Stati Uniti c’è, ma bisogna sapere di cosa si parla. Anzitutto, un principio di rinascita manifatturiera c’era stato già sotto Obama, aiutato dai bassi costi dell’energia e da una strisciante svalutazione del dollaro. Piccole cose in termini di occupazione, perché le fabbriche che riaprono oggi hanno tanti robot (comprese le stampanti 3D) e pochissimi operai. In quanto alle buste paga, l’aumento medio del 2,9% in un anno è davvero mediocre in un paese vicino al pieno impiego. Con la quasi-scomparsa dei sindacati, gli aumenti salariali di una volta sono introvabili. Un calcolo fatto dall’Economic Policy Institute rivela questo: il salario medio per l’80% della forza lavoro americana nel 1972 era di 739 dollari a settimana; fatti i dovuti adattamenti per l’inflazione e il potere d’acquisto, oggi quel salario medio vale solo 724 dollari di allora. L’80% degli americani, in sostanza, guadagna meno di 45 anni fa. I figli guadagnano meno dei genitori. E in questi 45 anni si sono alternati a parità repubblicani e democratici, alla Casa Bianca abbiamo avuto tre presidenze di destra (Nixon e due Bush) e tre di sinistra (Carter, Clinton, Obama). Nessuno ha invertito la tendenza. «Non so se Trump ce la farà — dice Michael — e non so se gli lasceranno il tempo. Ma è da tanto che non avevamo un leader così, uno che pensa fuori dagli schemi. È diverso da tutti gli altri». Le élite delle due coste non possono capire cosa sta succedendo qui, dice Louie. Le élite non capiscono tante cose, insiste, su Trump hanno detto sciocchezze enormi. «I media liberal, i cosiddetti esperti, hanno detto che se vinceva lui sarebbe crollata la Borsa e sarebbero fuggiti i capitali. Invece a un anno dal voto la Borsa è ai massimi storici, l’economia cresce, l’occupazione pure. Hanno previsto che avrebbe fatto cose orrende, per esempio deportazioni di massa, e neanche questo è successo. Non è presidenziale? Certo che no. È un populista. Lo sapevamo quando lo abbiamo eletto. A me piace quando va alla Nato e dice agli europei che non possono sempre dipendere da noi per difendersi dalla Russia. Mi piace quando dice che il nostro confine meridionale va rispettato. Non è possibile che entrino qui sei milioni di clandestini, che vengano a profittare del nostro welfare, e noi stiamo a guardare. Se io voglio andare in Canada a farmi curare, quelli mica me lo lasciano fare». Michael: «Lo sai perché io non so parlare l’italiano? Perché a casa mia era proibito. Dovevamo passare il test d’inglese per la cittadinanza. E quindi mio padre ci costringeva tutti a parlare inglese, la sera a cena. Quella era l’America dove l’immigrazione funzionava, era regolata». Louie mi congeda con questa osservazione, sull’8 novembre di un anno fa: «Sai che ti dico? Che se i democratici avessero candidato Bernie Sanders, io lo votavo». Un cantiere a Laredo, Texas, al confine con il Messico Volo da New York a San Antonio, poi tre ore di autostrada, ed ecco il confine col Messico. Laredo-Texas da una parte, Nuevo Laredo dall’altra. In mezzo: il Rio Grande. Dopo una lunghissima estate calda prolungata fino a fine ottobre, è un fiumiciattolo poco impressionante. Eccoci di fronte al Muro. Cioè: il non-Muro, la madre di tutte le promesse mancate. Perché di Muro qui non c’è l’ombra. Eppure poche cose scatenavano le urla di entusiasmo nei comizi elettorali, quanto questo annuncio ripetuto a oltranza: «Costruirò un Muro e lo farò pagare ai messicani, perché una nazione non è una nazione se non riesce a controllare i suoi confini». Seguendo le vie ufficiali, il mio primo contatto a Laredo è con la Border Patrol-South Laredo Station. La polizia di frontiera (specializzata nella caccia ai clandestini) è abituata ai giornalisti, e ci considera una seccatura: sa di essere al centro dell’attenzione, noi veniamo a sfrugugliare, il tema è rovente. Hanno procedure lunghe e tortuose per le interviste, bisognare passare dai loro uffici centrali di Washington, che insabbiano le nostre richieste. La South Laredo Station è circondata da un alto recinto di filo spinato. L’unico Muro visibile: sembra rinchiudere loro, i poliziotti a guardia del confine. Dopo un lungo negoziato via interfono, mi viene incontro l’agente W. Taylor. Resta di là dalla barriera, non mi apre, il colloquio è breve ma cordiale. Sorprendente, anzi. Perché l’agente W. Taylor tra sorrisi e ammiccamenti mi fa capire di non essere davvero trumpiano. «Muro? Ma quale muro? Giusto qualche cinta, qua e là, in alcuni tratti del confine. L’ingresso degli uffici della Border Patrol-South Laredo la stazione della polizia di frontiera (specializzata nella caccia ai clandestini) della cittadina texana Una recinzione l’abbiamo dovuta costruire vicino al Rio Grande perché qualche clandestino fu visto passare sotto le finestre di un college, disturbava le lezioni, distraeva gli studenti. No, mi creda, qui siamo tranquilli. Tutto bene, insomma. Non so come la pensiate voi…». In realtà lo sa benissimo, un giornalista che arriva da New York è automaticamente classificato liberal, simpatizzante dei democratici, sta dalla parte degli immigrati. Il mio breve colloquio con l’agente in divisa verde sembra confermare una teoria del complotto molto in voga alla Casa Bianca e in tutti gli ambienti della destra radicale: contro Trump è in azione il Deep State, lo “Stato profondo”, una sorta di cupola dell’Amministrazione federale infarcita di obamiani, una burocrazia che boicotta ostinatamente questo presidente. Qualcosa di vero c’è, le burocrazie sono sempre in favore dello status quo, il “rivoluzionario” Trump ha già scatenato contro di sé tanti giudici che lo considerano un nemico della Costituzione. Gli hanno bocciato, forse perfino con un eccesso di zelo, tutte le versioni dei suoi Muslim Ban, anche l’ultimo decreto in cui lui bloccava gli ingressi da Paesi non solo islamici, con l’inclusione di Corea del Nord e Venezuela. C’è un pezzo delle istituzioni che si mobilita a oltranza, crede nei “checks and balance”, poteri e contropoteri che impediscono una prevaricazione dell’esecutivo. Se tornano in campo due ex presidenti, non solo Obama ma anche George Bush, per mettere in guardia gli americani contro il “nazionalismo becero”, vuol dire che l’allarme è diffuso e il Deep State lo ha raccolto. L’altra sorpresa, di segno opposto, mi aspetta nel centro di Laredo. A poche centinaia di metri da quell’International Bridge dove scorre un flusso continuo di passaggio tra Stati Uniti e Messico, con tanti transfrontalieri che vanno avanti e indietro dalla sera alla mattina. A fianco alla stazione degli autobus Greyhound, entro nel ristorante Juano’s. Il proprietario è Juan Alonso, 54 anni, nato a Monterrey in Messico. «Sono entrato negli Stati Uniti nel 1989 — racconta — e ho vissuto un po’ dappertutto, ho fatto ogni mestiere. Laureato in ingegneria, ho lavorato nelle fonderie dell’Indiana, nell’industria tessile del Michigan. Qualche anno fa mi sono trasferito qui, e ho cominciato questa nuova carriera da ristoratore». Nel suo ristorante non c’è una sola scritta in inglese, anche il menù è solo in spagnolo. Si avvicina Halloween, ma qui le maschere sono quelle tradizionali della Festa dei Morti, antichissimo rito messicano. Le statistiche federali dell’Immigration and Customs Enforcement dicono che dall’insediamento di Trump è scattato il pugno duro verso l’immigrazione illegale, le retate e le espulsioni sono in forte aumento rispetto agli anni di Obama, da pochi giorni la Homeland Security ha annunciato la costruzione di nuove carceri speciali. Gli arresti di clandestini da gennaio a settembre sono stati 97.482, in aumento del 43% rispetto all’Amministrazione Obama. Ma Juan Alonso racconta un’altra storia, più simile alla realtà sonnacchiosa che ho osservato a poca distanza dal suo ristorante, lungo il Rio Grande: placido fiumiciattolo, facile da attraversare, dove le pattuglie su motoscafo passano raramente. «Qui da noi niente retate, niente espulsioni di massa. C’è un po’ di Muro tecnologico, fatto di droni e raggi infrarossi. Ma c’era anche prima». Questa storia del Muro è una commedia degli equivoci che dura da anni. I democratici denunciano la promessa di Trump come un’infamia, eppure fu uno di loro (Bill Clinton) a costruire l’unica fortificazione davvero imponente, al confine californiano tra San Diego e Tijuana. La destra dice di volerlo, ma qui nel Texas sono i proprietari terrieri di fede repubblicana l’ostacolo maggiore. Il Muro andrebbe costruito espropriando dei loro appezzamenti. Orrore: l’esproprio è statalismo, socialismo, i ricorsi in tribunale dei latifondisti bloccano continuamente i progetti di Trump. In quanto a Juan Alonso, lui di questo presidente si è innamorato. Il colpo di fulmine è accaduto per una ragione molto semplice. Il ristoratore ha ottenuto la cittadinanza americana. È una procedura automatica, per chi la richiede dopo cinque anni di Green Card. Ma il caso ha voluto che per lui il diritto sia maturato proprio pochi mesi fa, sotto questa Amministrazione. «E tutti i miei amici mi dicevano: povero illuso, non hai capito che è cambiato tutto? Trump non vuole messicani. Quando ti presenterai per la cittadinanza ti tratteranno male, ti cacceranno. E invece no! Sono stati gentilissimi, mi hanno dato il passaporto». Forse Alonso non ha le idee chiare sullo Stato di diritto, sul fatto che questa cittadinanza ormai gli spettava, e neppure un presidente può commettere l’arbitrio di cancellare la legge. Ma Trump gli piace, e non solo per questo. Quando gli dico che voglio percorrere il fatidico ponte e passare a Nuevo Laredo, Messico, inorridisce: «Non ci andate. Vi riconoscono subito, vi prendono di mira. Rapiscono gli americani, per ottenere un riscatto immediato». (Il mio sospetto che lui stia esagerando viene contraddetto dal sito del Dipartimento di Stato: mette in guardia i turisti americani, sconsiglia di mettere piede a Nuevo Laredo, i rapimenti ci sono stati davvero). Strana frontiera. Da una parte e dall’altra sono tutti messicani. È come se la guerra del 1846-48 tra Stati Uniti e Messico, che sancì l’appartenenza del Texas alla potenza settentrionale, fosse stata lentamente ribaltata. Un’attrazione etnica più profonda, una forza d’inerzia demografica restituisce al Messico i suoi ex-territori a Nord del Rio Grande. È di origine messicana la capa della Border Patrol che incrocio per tentare un’ennesima intervista (negata), Sarah Melendez; sono di origini messicane i due agenti in divisa che la scortano. La città Usa, Laredo- Texas, ha il 95,61% di ispanici nel censimento ufficiale della sua popolazione. Nuevo Laredo è la sua gemella siamese, l’International Bridge tiene incollate le due metà. «Ma gli stessi messicani che a Nuevo Laredo sono dei delinquenti — dice Juan Alonso — appena passano di qua rigano dritto, stanno attenti a non violare le leggi americane. Di qua c’è l’ordine, di là dalla frontiera in Messico c’è corruzione e violenza. Questa è la differenza. Ha ragione Trump a volere imporre il rispetto delle regole. A me mi hanno dato la cittadinanza perché pago le tasse. Quelli che non lo amano, sono di un’altra categoria. Quelli bisogna tenerli fuori». © Riproduzione riservata 27 ottobre 2017 Da - http://www.repubblica.it/super8/2017/10/27/news/ora_e_sempre_the_donald-179461879/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P6-S3.4-T1 Titolo: FEDERICO RAMPINI. Riapre Wall Street ma tornano al lavoro solo pochi operatori Inserito da: Arlecchino - Maggio 29, 2020, 02:12:41 pm Approfondimento
Riapre Wall Street ma tornano al lavoro solo pochi operatori 26 Maggio 2020 Dopo due mesi di fermo ripartono le negoziazioni sul “floor”. Su 500 agenti di Borsa opereranno in 80, sottoposti a rigidissime misure sanitarie Dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI NEW YORK - Festa grande a Wall Street: ma per pochi intimi. Dopo due mesi di chiusura che sembrano eterni, un’interruzione superata solo durante la prima Guerra mondiale, riapre la Borsa più celebre del mondo. Alle 8.30 del mattino c’è la coda per entrare al New York Stock Exchange (NYSE), al numero 11 di Wall Street. Proprio lì dove una statua di bronzo raffigura la bambina che sembra sfidare la potenza del capitalismo finanziario. Alle 9.30 il governatore dello Stato di New York, Andrew Cuomo, suona il rituale campanello d’apertura delle contrattazioni: cerimonia frettolosa, cinque minuti dopo è già in auto, via di corsa. Per molto tempo il suo gesto non avrà emuli, le restrizioni d’accesso proibiscono i visitatori, addio alle feste che si svolgevano in occasione di nuovi collocamenti in Borsa. A fare la coda un’ora prima che arrivasse Cuomo c’erano pochi trader: 80 sui 500 che lavoravano nel palazzo fino al 23 marzo. A casa tutti gli altri colleghi. Perfino le televisioni finanziarie che seguono i mercati minuto per minuto sono espulse sine die, qualcuna si accampa sul marciapiedi di fronte. Le nuove misure di sicurezza sono drastiche, e molto controverse. I pochi trader selezionati hanno dovuto sottoporsi a controlli estenuanti: temperatura, divieto di portare cibo, solenne garanzia di non aver usato mezzi pubblici. Perfino marciapiedi e corridoi interni cambiano fisionomia: alle transenne di sicurezza già apparse dopo l’11 settembre 2001, ora si sono aggiunte le strisce sui sensi unici pedonali e le distanze di sicurezza sanitaria. Soprattutto, gli operatori di Borsa hanno dovuto firmare quel documento inquietante che è stato definito “il permesso della morte”. E’ un lungo contratto legale con cui esonerano lo Stock Exchange da qualsiasi responsabilità civile e penale se si ammalano sul luogo di lavoro; anzi si caricano in proprio la responsabilità qualora contagino dei colleghi. Tempestata di critiche, la presidente del NYSE Stacey Cunningham si giustifica così: «Questi trader non sono nostri dipendenti. Non abbiamo il potere di vietargli l’ingresso. Quel documento è un modo perché riconoscano l’obbligo di seguire regole precise a tutela della loro salute». Una volta entrati al “floor” – letteralmente il pavimento, la sala contrattazioni – i trader devono osservare distanze di sicurezza di due metri da ogni collega. Lavorano il più possibile all’interno di gabbiotti trasparenti individuali, protezioni di plexiglass. Uno dei pochi che si sono soffermati a parlare coi giornalisti prima di entrare nel luogo proibito è Jonathan Corpina della Meridian Equity. «È stato un adattamento difficile – ha detto – ora ci muoveremo poco. Ma non mi preoccupo. La priorità è la salute e la sicurezza della comunità che lavora qui». Muoversi poco? È un controsenso per la Borsa. Il mondo intero ricorda le immagini che da Wall Street hanno scandito i boom e i crac del mercato azionario: da Tokyo a Milano, da Shanghai a Zurigo, ogni investitore osservava sullo schermo le riprese dirette dalla capitale della finanza globale con l’agitazione dei trader, le urla, la frenesia. Il balletto euforico o tragico degli intermediari newyorchesi era uno spettacolo di risonanza planetaria. Ora il “floor” è semivuoto, si agitano solo grandi schermi luminosi. È l’atto finale di un’evoluzione cominciata negli anni Settanta, accelerata negli anni Novanta: l’ascesa delle contrattazioni gestite da programmi informatici, a distanza. Più la concorrenza fra Borse. Il NYSE ormai ha solo il 20% degli scambi americani, e solo l’1% sul “floor”, con esseri umani come protagonisti. La pandemia ha dato il colpo finale agli umani. Arrivare fino alla Borsa, dalla parte settentrionale di Manhattan, significa traversare una città ancora convalescente e semideserta. Il traffico un po’ è ripreso, i cantieri edili funzionano. Ma negozi aperti ce n’è pochi e il pullulare di cartelli “affittasi” è un segnale sinistro: l’ecatombe di fallimenti ha già stravolto la fisionomia urbana. Eppure la finanza esulta, la giornata si chiude con forti rialzi. Donald Trump twitta: «Dow Jones oltre 25.000, la transizione verso la Grandezza è cominciata in anticipo». Trump è convinto, o vuole convincersi, che Wall Street ha potere profetico e già avvista all’orizzonte una ripresa economica. All’indice Dow Jones lui appende le sue speranze di rielezione a novembre. Ma i mercati finanziari sono davvero il riflesso dell’economia reale? La sensazione è un déjà vu, come ai tempi in cui qui vicino, a Zuccotti Park, erano accampati i contestatori di Occupy Wall Street. “Assieme siamo forti” dice il grande striscione bene in vista sull’ingresso della Borsa. Ma il rialzo del mercato azionario arricchisce a dismisura i grandi azionisti di Big Tech e Big Pharma, mentre il resto del Paese conta i caduti: centomila per il virus, 40 milioni di disoccupati. ©RIPRODUZIONE RISERVATA Da - https://rep.repubblica.it/pwa/generale/2020/05/26/news/riapre_wall_street_ma_tornano_al_lavoro_solo_pochi_operatori-257698378/?ref=nl-rep-a-bgr Titolo: FEDERICO RAMPINI. Il regno degli adolescenti Tik Tok come inedito teatro della.. Inserito da: Arlecchino - Agosto 02, 2020, 05:42:21 pm ApprofondimentoStati Uniti - Usa
Il regno degli adolescenti Tik Tok come inedito teatro della nuova Guerra Fredda 01 AGOSTO 2020 Il presidente statunitense Donald Trump insiste nel volere giocare la carta anti-cinese in campagna elettorale: vuole vietare il social e si oppone alla cessione a Microsoft DI FEDERICO RAMPINI L'ultimo capitolo della Guerra Fredda Usa-Cina investe un social media a cui probabilmente sono affezionati vostra figlia o vostro nipote. TikTok ha centinaia di milioni di utenti nel mondo, decine di milioni soltanto negli Stati Uniti. Per lo più adolescenti, troppo giovani per votare a novembre, altrimenti forse Donald Trump sarebbe meno drastico. L'offensiva del presidente americano contro questo social apparentemente innocuo - vi circolano soprattutto video musicali e balletti improvvisati, ma ha visto nascere vere e proprie star - ha la stessa logica di quella scatenata nei riguardi di Huawei per la telefonia di quinta generazione. TikTok fa capo a una proprietà cinese, il gruppo ByteDance. Come per il 5G, il sospetto è che una tecnologia made in China invada il nostro universo digitale e serva da cavallo di Troia per saccheggiare i nostri dati, depredare la nostra privacy, oppure censurare e manipolare la comunicazione. Può sembrare cattiva fanta-politica, dietrologia paranoica agitata da un presidente in caduta di consensi. Però quel che accade a Hong Kong consiglia di non sottovalutare la prepotenza di Xi Jinping, né l'implacabile determinazione del Grande Fratello cinese nel soffocare il dissenso. Un'azienda di proprietà cinese non è in grado di disobbedire alle direttive del governo di Pechino, di qualunque natura esse siano. A risolvere l'ennesimo scontro di natura geopolitica ci prova un gigante capitalista, la Microsoft fondata da Bill Gates. Se Microsoft comprasse TikTok, il passaggio sotto una proprietà americana risolverebbe il casus belli. Ma altre mine sono destinate a esplodere, poiché il mondo ne è disseminato. Dopo trent'anni di integrazione Usa-Cina, il "decoupling" o divorzio è traumatico. La nuova guerra fredda ha continuato la sua escalation nelle ultime settimane. Washington ha varato nuove sanzioni contro dirigenti cinesi responsabili degli abusi nei confronti della minoranza islamica degli uiguri nello Xinjiang; ha dichiarato illegali le pretese territoriali di Pechino nel Mare della Cina meridionale; ha tolto a Hong Kong tutti i privilegi commerciali fiscali e diplomatici; ha chiuso il consolato della Repubblica Popolare a Houston, Texas, sospettato di essere un covo di spie (tra le altre cose i diplomatici cinesi di stanza a Houston avrebbero tentato di carpire segreti sulle ricerche di vaccini anti-coronavirus). Il capitalismo globalista si adatta al nuovo scenario geopolitico. Ormai si è convertito alla Guerra Fredda perfino Mark Zuckerberg, fondatore e chief executive di Facebook. Ancora pochi anni fa Zuckerberg si era distinto per un corteggiamento sfrenato verso Xi Jinping. Sperando di farsi aprire il mercato cinese da cui Facebook è bandito, Zuckerberg aveva moltiplicato i gesti di piaggeria: in una cena di Stato offerta da Obama in onore di Xi Jinping, il giovane padrone di Facebook era arrivato a chiedere al presidente cinese un nome in mandarino per sua figlia allora neonata. Adesso, sotto inchiesta al Congresso di Washington per ragioni di antitrust, Zuckerberg chiede comprensione al governo degli Stati Uniti presentandosi come un'azienda patriottica, un condensato di valori americani. Nell'ostilità totale tra America e Cina si aggiunge un elemento nuovo. È l'idea contenuta nel recente discorso di Mike Pompeo secondo cui "il dialogo va condotto con il popolo cinese, con chi ama la libertà, perché il partito comunista non rappresenta quel popolo di un miliardo e 400 milioni". Come ai tempi dell'Unione Sovietica, il conflitto tra le due superpotenze diventa ideologico, a tutto campo. Dopo le tante offensive già aperte nel campo economico e tecnologico, diplomatico e militare, l'appello ai cinesi perché rovescino la "tirannide" era l'ultimo tassello che mancava. Trump userà la Cina nella sua campagna contro Biden, cercando di descrivere il suo rivale democratico come un esponente del vecchio establishment che firmò accordi di libero scambio ai danni della classe operaia americana, e fece concessioni fatali al regime di Pechino. Ma Biden ha indossato a sua volta i panni del falco. Lungi dal promettere un disgelo, il democratico preannuncia che sarebbe più duro di Trump sui diritti umani, più credibile di Trump nel chiamare a raccolta gli alleati per fare fronte unito contro Pechino, più efficace di Trump nell'attuare una politica industriale che recuperi il ritardo americano nella tecnologia 5G. A proposito di 5G, incassa vittorie la pressione americana per dissuadere gli alleati dal comprare la nuova generazione di infrastrutture telecom dai cinesi. Il Regno Unito ha ceduto di recente, l'India sta per fare lo stesso. Il mondo si divide in sfere, la logica del bipolarismo impone di scegliere da che parte stare. Gli adolescenti catturati da TikTok fanno fatica a capire, ma anche il loro divertimento è un terreno conteso fra superpotenze. da repubblica.it Titolo: Federico Rampini. "Peace deal", a Washington la firma degli Accordi Abramo Inserito da: Admin - Settembre 20, 2020, 07:08:45 pm Outlook | "Peace deal", a Washington la firma degli Accordi Abramo Posta in arrivo x Federico Rampini - La Repubblica <rep@repubblica.it> mar 15 set, 19:24 (5 giorni fa) a me Le immagini non sono visualizzate. Visualizza immagini sottostanti - Visualizza sempre le immagini inviate da rep@repubblica.it Rep: Outlook di Federico Rampini Se non leggi correttamente questo messaggio, clicca qui Image 15 settembre 2020 IN SINTESI Scrivo questa newsletter da Washington dove sto seguendo la firma degli Accordi Abramo detti “accordi di pace” fra Israele, Emirati Arabi Uniti e Bahrain. Donald Trump li paragona a quelli che vennero firmati tra Israele e l’Egitto. In realtà in questo caso non si tratta di una pace visto che i paesi coinvolti non erano in guerra. Più giusto parlare di “peace deal” ovvero “contratto di pace”, nel senso che spiana la strada a una collaborazione economica intensa. La svolta geopolitica è comunque notevole. Si tratta forse del più grosso successo di Trump in politica estera. Si consolida un asse tra Israele da una parte, le monarchie arabe sunnite e conservatrici del Golfo dall’altra. Con la benedizione dei sauditi ovviamente. C’è chi prevede una specie di “febbre dell’oro”, una corsa di altri paesi dell’area a firmare accordi simili per non rimanere tagliati fuori dalla creazione di una nuova area di business. I grandi sconfitti sono i palestinesi e soprattutto il regime iraniano che vede accentuarsi il suo accerchiamento. Di contorno l’America potrebbe pure incassare un contratto per l’acquisto di F-35 da parte degli Emirati, anche se Benjamin Netanyahu non è così tranquillo sul riarmo dei suoi nuovi amici. Notazione atmosferica: qui a Washington il cielo è coperto da uno strato grigio, i metereologi assicurano che non è foschia né nebbia né nuvole né inquinamento locale, è il fumo degli incendi della West Coast che arriva fin qui, dopo aver attraversato l’intero continente. Da San Francisco a Washington la distanza in linea d’aria è di quattromila chilometri. Da quando sono venuto a vivere negli Stati Uniti, vent’anni fa e proprio a San Francisco, non ricordo sia mai accaduto qualcosa di simile, cioè che i fumi di incendi californiani raggiungessero l’altra costa. L'offerta delle newsletter di Repubblica è cresciuta. Scopri tutte le nuove newsletter dedicate agli abbonati: dalla politica all'economia digitale, dalla scuola al tennis. Sono incluse nel tuo abbonamento. STATI UNITI Mancano 50 giorni al voto americano (fatto salvo che forse una maggioranza voterà prima, per posta), e il numero di indecisi sembra sia sceso ai minimi storici: diversi sondaggi li stimano al 3%. Perciò le due campagne sono più impegnate a mobilitare i “già decisi”, perché vadano davvero a votare o spediscano le schede con largo anticipo. Ma quel 3% alla fine potrebbe rivelarsi decisivo. Joe Biden si scopre un punto debole in Florida: ha meno consenso tra gli ispanici, rispetto a Hillary Clinton 4 anni fa. Alcune spiegazioni chiamano in causa la radicalizzazione del partito democratico, che consente a Trump di agitare i fantasmi di Castro e Chavez nella comunità ispanica. Cubani e venezuelani hanno una presenza rilevante in Florida. “Incendiario, piromane del cambiamento climatico”, così ieri Biden ha definito Trump, mentre il presidente era in visita nella California devastata dalle fiamme. Per la prima volta in tre settimane, da quando è iniziata questa nuova ondata di roghi che assedia tutta la West Coast (bruciano anche foreste nell’Oregon e nello Stato di Washington), Trump si è avventurato nella “tana del leone”. La California è territorio ostile, essendo il più grosso serbatoio di voti democratici. E’ anche il collegio elettorale della senatrice Kamala Harris, candidata vicepresidente. A fare gli onori di casa, è stato il governatore Gavin Newsom, anche lui democratico. Non è stato tenero con il presidente, lo ha subito affrontato sul terreno del negazionismo climatico: “Le estati calde diventano sempre più torride, le siccità diventano sempre più aride. Qualcosa colpisce l’impianto idraulico del nostro pianeta. Noi affermiamo la scienza: il cambiamento climatico è reale”. Roccaforte dell’ambientalismo, la California ha proclamato la sua fedeltà agli accordi di Parigi e ha trascinato dietro di sé metà degli Stati Usa, continuando ad applicare normative che impongono le riduzioni di CO2 proprio mentre l’Amministrazione Trump abbracciava la deregulation dell’energia fossile. Una guerra infinita ha opposto “le due Americhe” in questi quattro anni, con tanto di strascichi giudiziari per impugnare le normative di Washington o quelle di Sacramento (capitale californiana). Trump ieri è tornato a sostenere la sua versione preferita sulle cause degli incendi: “Sono dovuti alla cattiva gestione locale delle foreste. Ho visitato paesi stranieri che hanno tante foreste e mi hanno spiegato quali errori non bisogna commettere, come si fa la prevenzione dei roghi”. Il governatore Newsom gli ha ricordato che il 56% del territorio forestale della California è di proprietà federale o sotto la diretta competenza delle autorità centrali. Tuttavia è noto che dietro gli incendi ci sono anche errori locali, per esempio una politica urbanistica dissennata: sotto governi locali di ogni colore, spesso di sinistra, i californiani hanno costruito abitazioni in zone che sono ineluttabilmente esposte al fuoco, e che semmai andrebbero lasciate libere, per effettuarvi quelle “deforestazioni mirate” che servono a costruire barriere anti-fiamme. Altro tasto dolente è il ruolo nefasto di Pacific Gas & Electricity (PG&E), la utility elettrica locale che da decenni accumula ritardi criminali nell’interrare le linee dell’energia elettrica: i suoi tralicci sono stati spesso all’origine di roghi, l’azienda è stata condannata in sede penale e civile, ma lo scandalo continua. Continuo il mio esame dei programmi di governo di Biden e oggi mi occupo di ambiente, energia. Gli Stati Uniti sotto Donald Trump sono stati il teatro di una “restaurazione fossile” più apparente che reale, più proclamata nella sfera politica che applicata dagli operatori economici. Da un lato è innegabile che l’America abbia ottenuto una flessibilità e una forza strategica senza precedenti grazie alla sua nuova autosufficienza energetica, che ne ha fatto addirittura un’esportatrice netta di greggio e la più grande produttrice mondiale di gas naturale. Tuttavia alla deregulation di Trump non ha corrisposto un’adesione altrettanto entusiastica da parte dei produttori di energia: il carbone, per esempio, continua il suo declino malgrado gli aiuti della Casa Bianca. Ora Biden nel suo piano “Equitable Clean Energy Future” promette 2.000 miliardi di dollari di investimenti per raggiungere il traguardo di “zero emissioni carboniche nette” entro il 2050 (ma già entro il 2035 per le centrali elettriche). E’ un piano ambizioso visto che oggi vento e sole forniscono il 4% dell’energia consumata dagli Stati Uniti, mentre le fossili sono l’80%. ASIA La ripresa cinese comincia ad avere una base più larga e autosufficiente. All’inizio fu trainata da investimenti in infrastrutture, immobiliare, ed export. Ma agosto ha visto un rimbalzo dei consumi anno su anno: +0,5% rispetto all’agosto 2019. Sullo sfondo della guerra tecnologica Usa-Cina e delle barriere innalzate da Washington, Xi Jinping presiede una riunione di scienziati e lancia un appello perché vengano superati ritardi e debolezze che “ci strangolano” (sue parole testuali), cioè rendono l’economia della Repubblica Popolare troppo dipendente dalle forniture di hi-tech occidentale. Scatta l’ora della verità per Huawei. Da oggi il colosso cinese delle telecom non può più acquistare microchip made in Usa, le sanzioni decise da Washington entrano in vigore e rischiano di creare serie difficoltà ad un campione nazionale che sta già perdendo molte commesse estere sul 5G. Intanto si fa sempre più ingarbugliata un’altra partita tecnologica, quella di TikTok, app popolarissima tra gli adolescenti di tutto il mondo, americani inclusi. Il proprietario di TikTok è il gruppo cinese Byte Dance. L’Amministrazione Trump gli ha intimato di cedere il controllo di quella app entro il 20 settembre, altrimenti TikTok verrà chiusa, almeno per gli utenti americani. Un’opzione sul tavolo da settimane è la vendita a un’azienda americana ma il governo di Pechino ha messo il veto a Microsoft. Di fatto Xi sta vietando la vendita di TikTok agli americani, punto e basta. Si è candidata Oracle per una soluzione intermedia. Oracle di Larry Ellison, che non ha alcuna esperienza nel campo delle app, può offrire un compromesso che preveda il trasferimento negli Stati Uniti del quartier generale di TikTok, la creazione di ventimila posti di lavoro in America,e probabilmente lo spostamento dei dati sugli utenti in una “nuvola” sotto controllo americano. Ellison è uno dei pochi imprenditori californiani in buoni rapporti con Trump, per il quale ha fatto raccolte di fondi elettorali. Nuove sanzioni americane contro la Cina, stavolta sono presi mira tessili e abbigliamento prodotti nello Xinjiang, la regione abitata dalla minoranza etnica degli uiguri di religione musulmana. La misura vuole punire la Cina per gli abusi contro i diritti umani degli uiguri. La maggioranza dell’export cinese di cotone viene dallo Xinjiang. Nel contenzioso tra India e Cina si aggiunge un nuovo elemento: le forze armate di Delhi accusano quelle cinesi di installare linee a fibre ottiche lungo la frontiera contesa, teatro di scontri recenti. Secondo gli indiani quelle linee devono servire alle truppe cinesi al confine per comunicare più velocemente con il quartier generale in caso di conflitto; è un nuovo ostacolo per i negoziati bilaterali che tentavano di ridurre le tensione. EUROPA In Europa i vincitori della crisi potrebbero essere i piccoli paesi della periferia che offrono alternative interessanti alla Cina: costo del lavoro basso, buona qualità della manodopera. Dal Portogallo alla Romania, insomma, c’è chi potrebbe lucrare dai nuovi trend che sono la de-globalizzazione e l’arroccamento difensivo dentro aree regionali più omogenee e compatte. Al riparo dai dazi e da tutte le incognite della nuova guerra fredda, le nuove delocalizzazioni di attività produttive si faranno “nel cortile di casa”. Potrebbero beneficiarne anche paesi come il Marocco che fanno parte di accordi commerciali e doganali con l’Unione europea. Riprendo un’analisi della Natixis. Che cosa può spiegare le performance diverse delle Borse americane ed europee? Il peso specifico dei titoli Big Tech in America è una parte consistente della spiegazione, ma non basta. Le prospettive della ripresa non sono sostanzialmente diverse tra le due sponde dell’Atlantico. Le politiche monetarie sono accomodanti, anche se quella americana lo è sempre un po’ di più e questo spinge al ribasso il dollaro, offrendo uno sconto a chi acquista titoli Usa. Ma c’è anche un fatto strutturale, culturale: investitori e risparmiatori in America sono più propensi al rischio e più inclini ad avere una percentuale medio-alta del proprio portafoglio in azioni. Questo crea un divario pressoché permanente tra Stati Uniti ed Europa, che a sua volta tende ad attirare i capitali stranieri. Salvo quando l’incantesimo si spezza, e subentra il panico: in quei casi però non è detto che l’Europa sia un rifugio sicuro. OUTLOOK Tutti stiamo cercando di immaginare il mondo post-covid, e nell’ambito delle aziende non manifatturiere un dato si sta affermando: lo smartworking è destinato a prolungarsi così a lungo, che sarà impossibile tornare indietro alla situazione di partenza quand’anche avessimo una vaccinazione di massa ed efficace. Ma uno scenario macroeconomico ormai deve includere uno “shock negativo dal lato dell’offerta”, su periodi lunghi. Le misure di distanziamento e sicurezza sanitaria riducono la produttività e aumentano i costi. Non solo la crescita reale ma anche la crescita potenziale del Pil verrà ridotta in modo permanente o comunque per periodi prolungati. Si porrà la questione di “distribuire la nuova scarsità”, in particolare tra profitti e redditi da lavoro. Se a pagare il grosso della crisi saranno i salari questo ridurrà ulteriormente i consumi, i profitti si salveranno o avranno riduzioni meno dolorose, ma solo nel breve termine. E si tornerà a parlare di “stagnazione secolare”. Un tema che fu assai popolare tra gli economisti negli anni Venti e Trenta del secolo scorso, poi fu rilanciato nel 2008. Titolo: Elezione dell’Apocalisse in vista del 3 novembre Inserito da: Admin - Settembre 20, 2020, 07:57:03 pm Outlook | Elezione dell’Apocalisse in vista del 3 novembre
Posta in arrivo x me Federico Rampini - La Repubblica <rep@repubblica.it> 14 settembre 2020 IN SINTESI Armageddon election, elezione dell’Apocalisse, la definisce John Zogby che è uno dei più autorevoli sondaggisti americani. Si spiega così: "E’ la prima elezione in cui metà degli elettori potrebbe rifiutarsi di riconoscere come legittimo il risultato di un voto democratico". Questo è l’effetto di una polarizzazione del paese che peggiora da almeno vent’anni e cominciò ad essere ben visibile nell’elezione Bush-Gore. Però i fattori aggravanti sono legati, oltre che a Trump, anche alla pandemia: per la prima volta nella storia ci saranno più voti per corrispondenza che voti ai seggi e questo è un ulteriore fattore di caos, contestazioni. Milioni di schede arriveranno dopo il 3 novembre, visto che in molti Stati è considerata regolare una scheda che abbia il timbro postale del giorno stesso. Aggiungiamo che c’è una chiara divaricazione tra i due elettorati anche sulle modalità di voto. Il 60% degli americani vorrebbe votare per posta. Ma la percentuale è più alta fra i democratici, forse perché più concentrati nelle metropoli e più preoccupati dai rischi di contagio; la percentuale è più bassa tra i repubblicani. Trump denuncia preventivamente brogli sui voti per corrispondenza. Ecco come potrebbe svolgersi lo scenario apocalittico, dunque. La sera del 3 novembre i risultati degli spogli nei seggi danno un leggero margine a Trump, il quale la sera stessa si dichiara vincitore e proclama che avrà inizio un secondo mandato. Per aspettare i dati finali, che darebbero la vittoria ai democratici, passa una settimana, forse anche di più. Nel frattempo il paese vive sotto il bombardamento di messaggi trionfali di Trump; pronto peraltro a denunciare come false le schede spedite per corrispondenza se danno un risultato diverso. Nel frattempo le piazze si riempiono di opposte fazioni, alcune anche armate. Le forze dell’ordine possono rispondere – o non rispondere – in vari modi a seconda di chi dà gli ordini (sindaci, sceriffi, governatori di obbedienze politiche diverse). In questo caso il termine Apocalisse non è del tutto fuori luogo. Alla fine, in uno scenario di protratta incertezza, fra ricorsi giudiziari a non finire, il vero ago della bilancia potrebbe essere il chief justice John Roberts, cioè il presidente della Corte suprema. E’ repubblicano. Però ultimamente sembra aver preso le distanze da Trump, più di una volta ha aggiunto il suo voto a quello della minoranza democratica. Donald Trump presidente degli Stati Uniti d'America e Joe Biden candidato democratico alle presidenziali (Photos by MANDEL NGAN and JIM WATSON / AFP) Gli scandali non danneggiano Trump, per questo presidente è stata riesumata una battuta che era stata coniata per Ronald Reagan: è come le pentole al Teflon, lo sporco non attacca. Lui, Trump, se ne vantò quattro anni fa dicendo: “Potrei sparare a qualcuno sulla Quinta Avenue, e i miei fan non mi mollerebbero”. Dunque, è poco probabile che la base repubblicana sia stata impressionata dalle rivelazioni delle ultime due settimane. Prima quelle del magazine The Atlantic sugli insulti del presidente ai militari caduti per la patria. Poi quelle del libro “Rage” di Bob Woodward, dove Trump stesso in diverse interviste ammette di aver minimizzato il pericolo del coronavirus perché non voleva creare panico. Il fatto che i repubblicani siano impermeabili, però, non significa che questi scandali siano del tutto irrilevanti. A 50 giorni dal voto, per un candidato che è in svantaggio nei sondaggi, ogni giorno impiegato a rincorrere le notizie anziché a imporre la propria agenda, è un giorno perduto. I due scandali di cui sopra hanno costretto Trump a smentite che non gli hanno consentito di dettare i temi del giorno. Trump potrebbe risolvere la partita con un KO ai duelli televisivi? Il timore in campo democratico è diffuso. Biden non è mai stato brillante, è capace di fare gaffes, di impappinarsi, dimostra più dei suoi 77 anni, e già in campo repubblicano si fanno circolare voci velenose su una presunta demenza senile. Però l’idea che i tre duelli tv possano decidere tutto, è azzardata. In passato, rarissimi furono gli scambi televisivi che crearono delle svolte, che impressero una dinamica nuova alla campagna. I verdetti della tv a volte vengono dimenticati in pochi giorni. Obama perse in modo clamoroso il primo duello contro Mitt Romney nel 2012. Hillary Clinton veniva data vincitrice da quasi tutti i sondaggi, dopo i duelli con Trump. Infine gli strateghi democratici lavorano da tempo ad abbassare le aspettative, e a questo punto molti si accontenterebbero che Biden abbia ancora un battito cardiaco al termine dei dibattiti. La “sorpresa di ottobre”, il colpo di scena che secondo alcuni Trump ha in serbo per modificare la dinamica, potrebbe essere uno scandalo cinese contro Biden? Esce proprio ora un documentario tv intitolato “Cavalcando il dragone: i segreti cinesi dei Biden”. Dove si accusa il figlio del candidato, Hunter Biden, di aver intascato milioni in affari cinesi quando il padre era il vice di Barack Obama. Il contrattacco di Biden è arrivato con la presentazione di un nuovo piano economico. Per scrollarsi di dosso l’accusa di essere stato corresponsabile dei trattati di libero scambio e quindi delle delocalizzazioni, il democratico promette una sovrattassa del 10% sui profitti realizzati da multinazionali Usa nelle loro fabbriche estere, e un credito fiscale del 10% sugli investimenti fatti sul territorio nazionale. “Fabbricate nel Michigan, fabbricate in America”, dice Biden. Il suo nuovo slogan è Buy American, comprate americano, non molto diverso dal Make America Great Again del suo avversario. Sull’economia finora Trump conserva un leggero vantaggio – è l’unico terreno nel quale una sottile maggioranza di elettori lo giudica più competente – però è andato riducendosi. Sul rettifilo finale degli ultimi 50 giorni i due messaggi convergono: nella Rust Belt il nazionalismo economico è vincente. Titolo: FEDERICO RAMPINI. “La recessione della pandemia è appena cominciata” Inserito da: Admin - Ottobre 06, 2020, 07:57:51 pm Rep: Outlook di Federico Rampini
5 ottobre 2020 “La recessione della pandemia è appena cominciata”, è il titolo del lungo scenario firmato da Neil Irwin sul New York Times. Fra i dati che segnala, l’inizio dei licenziamenti ai piani alti delle aziende americane, un calo del 4% nei ranghi del top management e nei quartieri generali delle aziende. Secondo Irwin dobbiamo prepararci a una crisi di lunga durata e a una ripresa lenta, fiacca, con settori che forse resteranno segnati per sempre. Dall’inizio della pandemia, gli Stati Uniti avranno speso più fondi pubblici per aiutare le imprese, di quanto abbiano speso per l’intera guerra in Afghanistan che dura da 18 anni. STATI UNITI La ripresa americana segue quella cinese ma precede quella europea, a giudicare dalla severità della recessione. Nessuno s’illuda di farsi trainare dall’export verso i mercati altrui. S&P Global Ratings stima che l’anno si chiuderà con una decrescita del 4% negli Stati Uniti e del 7% in Europa mentre la Cina sarà l’unica fra le maggiori economie a chiudere con un segno più davanti al Pil. Pechino non ha l’intenzione di fare da locomotiva per trainare gli altri, anzi spinge sulle proprie esportazioni. L’America ha ritrovato lo stesso livello di un anno fa nelle sue importazioni dall’estero, ma gli esportatori sono in difficoltà. Boeing ha consegnato all’estero quattro aerei nel mese di agosto contro gli 11 dell’agosto 2019. Caterpillar, fabbricante di macchine agricole e movimento terra, sta vendendo il 20% in meno. L’export dell’industria chimica americana è sceso del 16%. Se il futuro appartiene all’auto elettrica, le case produttrici non vogliono dipendere da fornitori esterni per l’anima del prodotto, la batteria. In passato la tendenza era a fidarsi di specialisti delle batterie, come la Panasonic. Ora la Tesla vuole padroneggiare la tecnologia delle batterie e controllarne la produzione, sul territorio degli Stati Uniti. General Motors fa la stessa cosa e costruisce una fabbrica di batterie nell’Ohio. Anche New York è costretta a ingranare la retromarcia di fronte alla nuova ondata di contagi: il sindaco De Blasio ordina la chiusura di scuole e attività non essenziali in diverse zone di Brooklyn. ASIA Le Borse cinesi superano quelle americane dall’inizio dell’anno, e la performance riflette la divaricazione sulle aspettative di crescita delle due economie: il Pil cinese ha già ripreso a crescere nel secondo trimestre e a fine anno, secondo il Fondo monetario, chiuderà a +1%, mentre quello globale finirà l’anno a meno 5%. L’indice azionario delle 300 maggiori società quotate in Cina è a +12% dall’inizio dell’anno contro +4% dell’indice americano S&P500. Ma il mercato dell’automobile in Cina non vede segnali di ripresa. Il Salone dell’auto di Pechino è stato l’occasione per fare il punto. Le vendite nei primi otto mesi dell’anno sono inferiori del 15% rispetto allo stesso periodo del 2019. Il lockdown c’entra poco, perché le vendite di auto calano da due anni. Troppi ingorghi nelle grandi città, troppo alto il costo del parcheggio, e la competizione dell’Uber cinese che si chiama Didi, stanno allontanando i giovani cinesi dall’acquisto dell’auto privata. L’India potrebbe essere la beneficiaria dell’ultima restrizione di Donald Trump sui visti. Il giro di vite più recente ha colpito i visti H1-B, di cui fanno ampio uso le aziende tecnologiche americane. Una delle categorie più richieste sono gli informatici indiani. Ora diventa più conveniente impiegarli a distanza, dall’India. L’outsourcing a favore delle aziende indiane di software fu l’inizio di un boom del settore un quarto di secolo fa, quando si temeva il Baco del Millennio col passaggio all’anno 2000. EUROPA Anche la Germania si piega alle pressioni di Mike Pompeo e prende le distanze dal 5G made in China. Il governo Merkel non farà ricorso a un vero e proprio embargo, ma metterà in piedi un sistema di selezione e controlli dei fornitori Telecom tale da escludere nei fatti la Huawei. Tra i beneficiari, oltre alle due aziende europee Ericsson e Nokia, si affaccia anche la Samsung sudcoreana. A sorpresa le università inglesi mettono a segno un aumento del 9% nelle iscrizioni. Gli studenti stranieri non sono stati spaventati dal rischio di restrizioni ai visti per effetto di Brexit. E comunque il business universitario è una fonte di entrate così importante che Boris Johnson oggi ha annunciato regole apposite per i visti. CONCLUSIONE Per Paul Hannon sul Wall Street Journal le economie aspettano un’iniezione di fiducia dall’iniezione del vaccino. Ma non subito. Il Center for Global Development stima al 50% la probabilità che un vaccino sicuro ed efficace diventi disponibile entro l’aprile prossimo, 85% le probabilità che questo accada entro la fine del 2021. La Cina però sta già effettuando vaccinazioni di massa su centinaia di migliaia di persone, usando due vaccini sperimentali che non hanno ancora superato la fase tre dei test clinici. Da - https://mail.google.com/mail/u/0/?hl=it&shva=1#inbox/FMfcgxwJZJZkXLQgCDhgVmTxtJRrhMpq Titolo: FEDERICO RAMPINI. Usa, chi fa campagna sulla pelle dei disoccupati? Inserito da: Admin - Ottobre 12, 2020, 12:37:42 pm Outlook | Usa, chi fa campagna sulla pelle dei disoccupati?
mer 7 ott, 21:40 (13 ore fa) Le immagini non sono visualizzate. Visualizza immagini sottostanti - Visualizza sempre le immagini inviate da rep@repubblica.it Outlook di Federico Rampini Chi fa campagna sulla pelle dei disoccupati? Trump martedì sera annunciava la fine di ogni trattativa con il Congresso sulla nuova manovra di spesa pubblica che doveva aiutare famiglie e imprese in difficoltà. Se ne riparlerà solo quando lui sarà rieletto... Lo stesso presidente della Federal Reserve dice che la cosa è grave, perché la situazione richiede interventi immediati. I democratici gridano al ricatto: il presidente specula sulla sorte dei disoccupati. La situazione è un po' più ingarbugliata perché anche la presidente della Camera Nancy Pelosi ha giocato allo sfascio, comunque è una pessima notizia per l'economia americana. Ora Trump sembra avere qualche ripensamento, propone una serie di interventi settoriali: un aiuto alle compagnie aeree, un nuovo assegno ai disoccupati. La Pelosi mette in dubbio la sua sanità mentale e dice che "gli interessa solo spedire un assegno col suo nome sopra". I tempi sono così stretti - qualsiasi manovra di bilancio deve passare al vaglio di Camera e Senato - che trovare l'accordo nelle quattro settimane prima del voto è sempre più improbabile. Alla fine le compagnie aeree potrebbero farcela in extremis, i disoccupati no? STATI UNITI Il Wall Street Journal descrive come il settore del commercio negli Stati Uniti si sta riorganizzando per sopravvivere con un numero ridotto di punti vendita. Il traffico umano nei negozi, supermercati, grandi magazzini, continua a essere basso (meno 14% a settembre rispetto allo stesso mese nell’anno prima); il commercio online si è ritagliato una quota del 16% di tutte le vendite; e le carte di credito hanno soppiantato definitivamente il contante o gli assegni con un boom di pagamenti del +88%. Cinquemila negozi piccoli o grandissimi sono spariti da aprile. Boeing prevede un ammanco di 200 miliardi di dollari di fatturato nell’arco dei prossimi dieci anni, per i tagli di acquisti da parte delle compagnie aeree. La prossima settimana Apple presenta il suo iPhone progettato per il 5G. L’evento è annunciato martedì 13 ottobre alle dieci del mattino di Cupertino, California, l’una del pomeriggio sulla East Coast e le 19 in Italia. Sono dure le conclusioni dell’indagine parlamentare su Big Tech. La Commissione antitrust della Camera di Washington ha rilasciato il suo rapporto finale sul potere di mercato di Amazon, Alphabet-Google, Apple e Facebook. Il rapporto di maggioranza firmato dai democratici denuncia i danni di un oligopolio e sostiene che bisogna smembrare i colossi separando le loro piattaforme da altre linee di business. La minoranza repubblicana nelle sue conclusioni separate insiste su un approccio duro dell’antitrust senza condividere la ricetta democratica; di suo aggiunge un attacco alla faziosità politica dei giganti digitali che accusa di essere ostili ai conservatori. Nessuno si aspetta conseguenze immediate sul piano legislativo, tutto dipenderà dai prossimi equilibri politici nel Congresso che uscirà dalle elezioni: il 3 novembre infatti non votiamo solo per il presidente, rinnoviamo l’intera Camera e un terzo del Senato. Escono nuovi dettagli sul giro di vite dell’Amministrazione Trump contro i visti H1-B, permessi di lavoro a durata determinata (generalmente 4 anni rinnovabili), molto usati dalle aziende che assumono personale qualificato: per esempio gli informatici della Silicon Valley. Ci sono attualmente 583 mila titolari di questi visti, il 70% viene dall’India, il 15% dalla Cina. Il governo federale motiva le restrizioni con l’obiettivo di cessare l’importazione di manodopera qualificata a danno degli americani. “Milioni di americani sono senza lavoro, bisogna proteggerli dal rischio che le aziende preferiscano importare manodopera straniera pagandola meno”, spiega il sottosegretario al Lavoro Patrick Pizzella. Testo alternativo La speaker della Camera americana Nancy Pelosi, intervistata al Campidoglio di Washington. 7 ottobre 2020 L'offerta delle newsletter di Repubblica è cresciuta. Scopri tutte le nuove newsletter dedicate agli abbonati: dalla politica all'economia digitale, dalla scuola al tennis. Sono incluse nel tuo abbonamento. ASIA Che Trump abbia torto o ragione a chiamarlo “China virus”, la Cina sta pagando un prezzo a livello mondiale per il suo comportamento all’origine della pandemia. Continua a degradarsi l’immagine della Repubblica Popolare cinese nel resto del mondo. Lo rivela un’indagine demoscopica del Pew Research Center condotta in 14 Paesi industrializzati. Il 73% degli intervistati ha una visione negativa della Cina. Solo un’altra nazione ha un’immagine altrettanto negativa: gli Stati Uniti. Si rafforza la campagna del governo cinese per educare la popolazione a sprecare meno cibo. Dietro c’è un problema acuto, la scarsità di diversi generi alimentari provocata dalla febbre suina e dalle inondazioni che hanno danneggiato i raccolti, a cui segue una forte inflazione nei prezzi alimentari. CONCLUSIONE Il mondo de-globalizzato del futuro sarà così fatto: le grandi aziende, o comunque tutte quelle che hanno una proiezione globale, dovranno ripensare le proprie catene produttive e logistiche sdoppiandole. Una per la Cina, una per il resto del mondo. Più semplice a dirsi che a farsi, ma probabilmente non c’è alternativa. Siamo alla vigilia di un cambiamento di paradigma di grande portata, equivalente a quello che accadde negli anni Novanta quando tutte le aziende dell’Estremo Oriente (giapponesi, taiwanesi, coreane) cominciarono a spostare produzioni in Cina. Distillo questo scenario dall’ultima puntata dell’inchiesta del Financial Times sulla nuova guerra fredda… che era anche il titolo del mio libro uscito esattamente un anno fa. Da - Outlook di Federico Rampini Titolo: FEDERICO RAMPINI. Il vantaggio cinese Inserito da: Admin - Ottobre 24, 2020, 06:51:42 pm Outlook | Il vantaggio cinese
Federico Rampini - La Repubblica <rep@repubblica.it> Annulla iscrizione 16 ott 2020, 21:40 (2 ore fa) Chi vende sui mercati asiatici, e soprattutto in Cina, oggi ha una marcia in più. Lo dimostra il gigante giapponese dell’abbigliamento Fast Retailing, che possiede il marchio Uniqlo. La veloce ripresa delle sue vendite in Cina consente a questo gruppo di prevedere un aumento del fatturato del 10% e un balzo dei profitti dell’83%. Uniqlo ha aperto in Cina 59 nuovi negozi, oltre agli 800 che aveva già, e prevede di aprirne altri 100 entro la fine di quest’anno. L’obiettivo della marca giapponese è di arrivare a 3.000 punti vendita in Cina. Ma non è l’unica azienda nipponica a farsi trainare dalla locomotiva cinese: Toyota, Nissan, Shiseido e Kose sono tra i gruppi che hanno annunciato forti performance grazie alle vendite sul mercato cinese. L'offerta delle newsletter di Repubblica è cresciuta. Scopri tutte le nuove newsletter dedicate agli abbonati: dalla politica all'economia digitale, dalla scuola al tennis. Sono incluse nel tuo abbonamento. STATI UNITI La ripresa americana rallenta: è quel che dice l’ultimo dato sul mercato del lavoro, le nuove richieste settimanali d’indennità di disoccupazione sono risalite a 898.000. Tuttavia ci sono anche settori in preda a una frenesia di nuove assunzioni, e non solo quelli che tutti hanno in mente. Accanto ad Amazon che ha assunto 175.000 nuovi dipendenti e prevede di reclutarne altri 100.000 fra Stati Uniti e Canada, un settore dove l’occupazione sta aumentando è quello dei mutui per la casa, dove l’attività è ai massimi grazie ai bassi tassi d’interesse. Nella finanza assume anche il gigante dei fondi comuni d’investimento, Fidelity: 4.000 venditori. Ripresa vivace per le vendite al dettaglio: +1,9%. Automobili, abbigliamento, articoli sportivi trainando l'aumento dei consumi. Record storico per il deficit pubblico federale: 3.100 miliardi di dollari. Pari al 16% del Pil, è il deficit più elevato dalla seconda guerra mondiale. Il nuovo iPhone 12 di Apple abilitato al 5G riceve un’accoglienza tiepida sui media americani. Lo scetticismo deriva da questo: la rete 5G al momento è una promessa, non una realtà. Checché ne dicano il chief executive di Apple Tim Cook, e il gruppo Telecom Verizon che ha partecipato al lancio, avere un iPhone 12 forse sarà utile fra un paio d’anni. ASIA Per la prima volta nella storia il Tesoro cinese vende bond direttamente agli investitori americani. A fronte di un’offerta di bond denominati in dollari pari a 6 miliardi, la domanda ha raggiunto 27 miliardi. I bond avevano scadenze di 3, 5, 10 e 30 anni con cedole nominali dallo 0,40% al 2,25%. Il rendimento del bond decennale era quindi superiore di 50 punti base rispetto a un Treasury Bond americano. Il collocamento è l’ultima conferma del fatto che la guerra fredda tra le due superpotenze per il momento non ha intaccato la forte integrazione finanziaria. EUROPA Gli ultimi risultati del gruppo francese Lvmh, suddivisi per marchi, danno un’idea di come i lockdown stanno colpendo – oppure no – le vendite del lusso. Louis Vuitton e Dior se la cavano magnificamente con vendite in aumento del 12%. I cognac Hennessy sono stabili grazie alla tenuta del mercato americano. I marchi più penalizzati sono lo champagne Moet Chandon, la divisione vendite nei duty free degli aeroporti, Bulgari e Tag Heuer, tutti segnati dalla scomparsa del turismo asiatico. L’Europa è un po’ meno virtuosa di quel che dice, nella lotta al cambiamento climatico. I prezzi del carbone salgono ai massimi degli ultimi 12 mesi, in aumento del 50% rispetto ai minimi di maggio. A trainare la domanda di carbone è la Germania. Un rialzo nei prezzi del gas naturale lo rende competitivo per le centrali elettriche. Da: repubblica.it Titolo: FEDERICO RAMPINI. “Si possono resuscitare le città-fantasma?” Inserito da: Admin - Ottobre 24, 2020, 06:53:04 pm Rep: Outlook di Federico Rampini
15 ottobre 2020 “Si possono resuscitare le città-fantasma?” La risposta è forse sì, se lo decidono i giganti di Big Tech. L’interrogativo è il tema di un’inchiesta del Financial Times che parte dall’attuale spopolamento – fisico, economico, culturale – di molti centri urbani. New York e Londra sono le metropoli che hanno subito il peggiore crollo di “traffico pedonale”, un indicatore che riassume tante altre cose: shopping, frequentazione di ristoranti e spettacoli, e così via. Lo smart working è la ragione principale per cui molti prevedono uno spopolamento durevole, e il problema riguarda anche San Francisco, Toronto, Parigi, Bruxelles e tante altre città. Però un segnale in controtendenza è visibile proprio qui a Manhattan. Apple, Amazon, Google e Facebook stanno investendo in uffici nel cuore di New York. Per esempio Facebook ha rilevato la storica sede delle Poste vicino a Penn Station; Amazon per un miliardo ha comprato il palazzo sulla Quinta Avenue che fu dei grandi magazzini Lord & Taylor, per sistemarci 4.000 nuovi assunti. Visto che Big Tech ha quasi “previsto” questa crisi – in senso figurato, perché ha predisposto tutti gli strumenti per sopravvivere in un lockdown – il fatto che punti su New York dovrebbe rincuorarci. L'offerta delle newsletter di Repubblica è cresciuta. Scopri tutte le nuove newsletter dedicate agli abbonati: dalla politica all'economia digitale, dalla scuola al tennis. Sono incluse nel tuo abbonamento. STATI UNITI Amazon sta “sondando” la nostra preferenza tra privacy e comodità. Amazon One è una nuova tecnologia di riconoscimento biometrico, che identifica il palmo della nostra mano. A distanza, senza bisogno di appoggiare il polpastrello delle dita come si usava per le impronte digitali. Con Amazon One in futuro potremmo fare la spesa – e tante altre cose – senza aver in tasca il portafoglio, né una carta di credito, e neppure lo smartphone. Già ora viene sperimentato in alcuni negozi Amazon Go. Come sempre, la scelta sta a noi, se vorremo semplificarci la vita a costo di un’ulteriore cessione dei nostri dati personali. Il nuovo iPhone 12 di Apple abilitato al 5G riceve un’accoglienza tiepida sui media americani. Lo scetticismo deriva da questo: la rete 5G al momento è una promessa, non una realtà. Checché ne dicano il chief executive di Apple Tim Cook, e il gruppo Telecom Verizon che ha partecipato al lancio, avere un iPhone 12 forse sarà utile fra un paio d’anni. ASIA La Cina si prepara al dopo elezioni americane con molto pessimismo. Chiunque vinca noi ci perdiamo, è l’analisi ricorrente a Pechino. In sostanza, gli esperti cinesi di geopolitica vedono con Trump una continuazione delle tensioni attuali. Biden porterebbe almeno all’inizio ad un clima un po’ meno burrascoso; ma nel medio termine sarebbe in grado di costruire una coalizione di alleati per cercare di ottenere dalla Cina altrettanto se non di più. Xi Jinping sulle orme di Deng Xiaoping. Il presidente cinese ha ripetuto 28 anni dopo il celebre “viaggio al Sud” in cui Deng rilanciò la transizione al capitalismo dopo il trauma di Piazza Tienanmen. Xi ha segnalato la sua intenzione di privilegiare la città di Shenzhen come piattaforma del commercio globale. Il che non è una buona notizia per Hong Kong. La capitalizzazione complessiva delle Borse cinesi ha superato per la prima volta i dieci trilioni, diecimila miliardi di dollari. La corsa delle azioni cinesi è stata sorretta dalle previsioni sulla crescita, che fanno della Cina il campione mondiale. Al tempo stesso però la Cina è affollata di giganti malati, come il gruppo immobiliare Evergrande con 120 miliardi di dollari di debiti. Evergrande ha avuto l’abilità di collocare il suo debito soprattutto all’estero, per cui un eventuale crac farebbe più male agli investitori occidentali che ai cinesi. EUROPA L’Europa ha ri-sorpassato gli Stati Uniti nel numero di contagi di coronavirus, tornando nella posizione del marzo scorso, cioè in testa a questa tragica gara. Il debito pubblico globale è ormai vicino al 100% del Pil aggregato di tutte le nazioni. Questo balzo del debito è stato provocato da manovre di spesa statale anti-crisi del valore complessivo di 11.700 miliardi di dollari, pari al 12% del Pil mondiale. Nonostante queste cifre da capogiro il Fondo monetario internazionale manda un messaggio forte ai governi: non sarà necessario tornare a politiche di austerity, basterà la crescita a risanare i conti pubblici. E’ una svolta rispetto alla dottrina ortodossa che il Fmi difendeva ancora pochi anni fa. Tra le ragioni, c’è il bassissimo costo dell’indebitamento, coi tassi vicini allo zero. Bisogna “uscire dalla recessione a furia di investimenti”, è un’espressione usata dal Fondo. Da: repubblica.it Titolo: FEDERICO RAMPINI. Immaginando l'agenda di un'Amministrazione Biden Inserito da: Arlecchino - Novembre 05, 2020, 11:20:10 am Outlook | Immaginando l'agenda di un'Amministrazione Biden
Posta in arrivo Federico Rampini - La Repubblica lun 2 nov, 23:05 (3 giorni fa) a me 2 novembre 2020 Oggi questa newsletter è dedicata a un esercizio futurologico ad alto rischio. Questa campagna elettorale, pur nella sua totale anomalia (dall’impeachment al Covid alle proteste razziali alla maxi-recessione ha accumulato più shock di quanti ne accadono in vent’anni) ha avuto una sorprendente stabilità: dall’inizio alla fine Joe Biden è sempre rimasto in testa ai sondaggi. Dunque, ammesso che i sondaggisti non stiano per coprirsi un’altra volta di disonore, lavoro su questa ipotesi. Provo a immaginare l’agenda di un’Amministrazione Biden. Biden ha generato aspettative enormi: dentro il suo partito “conteso” fra più anime; nel resto del mondo, dove alleati e avversari si attendono una politica estera molto diversa. Green New Deal o sanità pubblica, aiuti ai disoccupati o riforma dell’immigrazione, che cos’avrà la precedenza? La gerarchia d’importanza conta molto, perché un nuovo presidente ha un “capitale politico” limitato da spendere, la Storia insegna che spesso deve concentrarsi su una o due grandi riforme. E non sempre gli è data la libertà di scegliere. In questo caso il primo dossier che attende il presidente è già sulla sua scrivania: è la seconda (o terza?) ondata del Covid. Biden ha già indicato che intende varare una legge federale con l’obbligo d’indossare la maschera; darà aiuti agli Stati che sono in prima linea nell’affrontare le spese sanitarie di emergenza; aumenterà il coordinamento federale per i test e il tracciamento di massa; riporterà gli Stati Uniti dentro l’Organizzazione mondiale della Sanità per rafforzare la cooperazione con gli altri Paesi. La seconda emergenza è l’economia. Biden ha promesso una nuova manovra di spesa pubblica (la quinta) dell’ordine di duemila miliardi di dollari, tutta da fare in “deficit-spending”, con aumento dell’indebitamento federale, perché solo così ha il massimo effetto anti-recessivo. Questa sarebbe composta di nuovi sussidi di disoccupazione (gli ultimi sono scaduti a fine luglio) che intervengono con un aiuto immediato per gli 11 milioni di senza lavoro; nuove erogazioni a fondo perduto per le piccole imprese a rischio di fallimento; e un corposo trasferimento dal Tesoro di Washington verso la finanza locale (Stati, città), visto che il grosso dei servizi sociali è gestito a livello decentrato. Questa maxi-manovra però non sarebbe molto dissimile da quelle che Trump concordò con la maggioranza democratica alla Camera. La vera impronta riformista di un'Amministrazione Biden sarebbe affidata alla seconda manovra di spesa pubblica, quella da varare nel medio termine. Anche questa viene stimata sui duemila miliardi di dollari. È qui che si collocano i progetti per le energie rinnovabili, gli investimenti in infrastrutture. Il segno ambientalista lo si vedrebbe nella selezione delle opere pubbliche: priorità ai trasporti collettivi, alle ferrovie, all’auto elettrica (quest’ultima da sostenere anche con un potenziamento capillare della rete di ricarica). Nel totale di duemila miliardi dovrebbero trovare posto anche un piano da 775 miliardi per migliorare le cure mediche all’infanzia e agli anziani; possibilmente “l’opzione statale” del servizio sanitario, da affiancare in concorrenza con le assicurazioni private. Un’altra voce da 700 miliardi dovrebbe essere il piano “Made in America”, che garantisca una priorità ai produttori nazionali per ogni commessa pubblica (è l’equivalente democratico del protezionismo di Trump). La seconda maxi-manovra di spesa non verrebbe finanziata in deficit. Qui subentra la manovra fiscale. Biden ha promesso di non aumentare le tasse su chi guadagna meno di 400.000 dollari annui per nucleo familiare, e farà fatica a reperire i 1.400 miliardi di nuovo gettito a cui punta, prelevandoli unicamente dai più ricchi. L’obiettivo comunque è questo: una contro-riforma rispetto a quella varata da Trump, per tornare a spostare il peso dell’imposizione sulle grandi imprese e sui ceti più ricchi. La tassa sugli utili societari dovrebbe salire dal 21 al 28%. In aumento anche le aliquote sui redditi personali sopra i 400.000 dollari, le tasse sul capital gain (39,6% sui redditi sopra il milione), i contributi sociali sui salari molto alti. Tra le altre riforme sociali di segno perequativo dovrebbe esserci il diritto a 12 settimane di congedo parentale e un allargamento del diritto all’assenza per malattia remunerata. In omaggio a Bernie Sanders: aumento del salario minimo legale, da 7,25 a 15 dollari l’ora. In omaggio a Elizabeth Warren: un ritorno a regole più stringenti su Wall Street, e il potenziamento dell’authority per la protezione dei piccoli risparmiatori. Non c’è solo l’economia, nell’albo dei cambiamenti da infilare nei primi cento giorni. Biden fin dal giorno zero potrebbe disfare con un tratto di penna molti dei “decreti esecutivi” del suo predecessore: in particolare tutti gli atti amministrativi con cui la Casa Bianca negli ultimi quattro anni ha smantellato le regole a tutela dell’ambiente, ha liberalizzato le trivellazioni petrolifere, ha restituito massima libertà di azione all’industria del petrolio, del gas, del carbone. Una particolare categoria d’immigrati tornerebbe a ricevere una protezione federale: sono i Dreamers, come vengono chiamati gli stranieri che arrivarono negli Stati Uniti quando erano bambini, e vivono sotto la minaccia dell’espulsione verso Paesi d’origine nei quali non hanno radici. Un’altra promessa urgente è quella di ricongiungere le famiglie separate durante gli arresti alla frontiera col Messico. Cesserebbero anche i ricorsi del Dipartimento di Giustizia contro le città-santuario che proteggono gli immigrati clandestini; verrebbero interrotte le azioni giudiziarie in atto per svuotare la riforma sanitaria Obamacare. In politica estera, uno dei primi annunci sarà il ritorno degli Stati Uniti dentro gli accordi di Parigi per la lotta al cambiamento climatico. E con ogni probabilità un neo-presidente democratico metterebbe in agenda un primo viaggio all’estero con destinazione l’Europa: gli alleati atlantici tornerebbero a godere di un’attenzione speciale, anche ai fini di costruire una coalizione d’interessi comuni per contrastare l’espansionismo della Cina. I cento giorni di Biden sono un libro dei sogni, avranno una dura verifica con la realtà. Anzitutto, la fattibilità di quelle riforme dipende dai rapporti di forze alla Camera e al Senato; nonché dal possibile “sabotaggio” di alcuni provvedimenti da parte della Corte suprema. Poi bisogna fare i conti con le differenze interne al partito democratico, tra l’ala ultra-radicale, che vuole un New Green Deal molto ambizioso e una politica dell’immigrazione “no-border”; e la pancia moderata del partito che vuole riportare l’attenzione verso il mondo del lavoro. Infine c’è la lezione del primo New Deal: cambiò l’America ma non curò la Depressione, che fu sconfitta solo con la spesa bellica della seconda guerra mondiale. da repubblica.it Titolo: FEDERICO RAMPINI. Chi ha votato per il capitalismo Inserito da: Admin - Novembre 05, 2020, 11:18:46 pm Outlook | Chi ha votato per il capitalismo
Posta in arrivo Federico Rampini - La Repubblica 19:48 (3 ore fa) a me 5 novembre 2020 Il risultato finale dell’elezione è appeso al conteggio finale di alcuni Stati, nonché ai ricorsi che Donald Trump ha presentato per trascinarci ai tempi supplementari con le battaglie legali. Però ci sono già delle lezioni importanti da questo voto, utili anche per capire l’America e gli scenari del nostro futuro. Ieri ho dedicato questa rubrica ad alcune divergenze strutturali, sistemiche, fra Stati Uniti e Cina. Oggi vi ripropongo questo esercizio con uno sguardo all’Europa. Questa elezione conferma alcune differenze valoriali e culturali tra le due sponde dell’Atlantico. Ne anticipo una, che non dovrebbe sorprenderci ma viene spesso sottovalutata: l’America ha una diffusa cultura capitalista, molti cittadini qui (non necessariamente ricchi) riconoscono la centralità dell’impresa come motore del benessere collettivo. Se si vuol capire quella metà di America – o quasi – che vota repubblicano, questo è un dato importante. A prescindere da chi vincerà, questa tornata elettorale ha smentito una rappresentazione dell’America che da quattro anni prevale sui media di riferimento (come Cnn, New York Times, Washington Post). Ci hanno raccontato una vasta reazione di rigetto verso il “mostruoso” Trump, che non c’è stata. Ci hanno annunciato svolte epocali, ciascuna delle quali doveva affondare questo presidente. Prima lo scandalo del Russiagate, poi l’impeachment, poi ancora il coronavirus e la recessione conseguente, poi le proteste contro il razzismo dopo l’uccisione di George Floyd, infine gli scandali fiscali e lo scontro sulla Corte suprema. La geografia elettorale che esce dalle urne invece è di una eccezionale stabilità. Grosso modo i rapporti di forze dei due schieramenti sono rimasti al 2016, come se nulla fosse accaduto da allora. Trump è sempre rimasto un presidente di minoranza, con i suoi consensi che oscillano attorno al 45% a livello nazionale o poco sopra, ma quel patrimonio di consensi è intatto. Gli spostamenti, dove ci sono stati, sono modesti. Il più significativo, perché potrebbe assegnare la Casa Bianca a Joe Biden, è la parziale riconquista di voti operai nell’Upper Midwest: Wisconsin e Michigan. E’ la “missione compiuta” del vecchio Joe, forse la ragione principale per cui molti hanno visto in lui il salvatore dopo la sconfitta di Hillary Clinton. Non va dimenticato però che la maggioranza degli operai ha continuato a votare Trump, e questo spiega per esempio perché nel Midwest il presidente ha conservato l’Ohio, dove il 56% degli operai iscritti al sindacato ha votato per lui. Quella quasi mezza America che lo vota condivide la sua narrazione sul coronavirus: la pandemia non è colpa sua, se ha fatto degli errori non sono più gravi di quelli fatti da certi governatori democratici (o governanti stranieri), in compenso ha ragione a non voler paralizzare l’economia nazionale a oltranza perché i danni dei lockdown rischiano di essere ancora più micidiali del bilancio della pandemia. Un dato importante riguarda il voto etnico, che etnico non è affatto. La narrazione di un’America anti-razzista che vota a sinistra contro un’America razzista che vota a destra, è una caricatura. Trump ha avuto un successo decisivo tra gli ispanici in Florida, è questa la ragione per cui quello Stato-chiave non è andato ai democratici. L’idea che gli ex-immigrati siano “naturalmente” di sinistra è una delle illusioni del partito democratico. Gli ex-immigrati venuti da Cuba ma anche dal Messico o da Portorico, se hanno avuto qualche successo economico, diffidano di una sinistra che istintivamente “cura” ogni problema a colpi di tasse e spesa pubblica. Se hanno ottenuto la cittadinanza americana nel rispetto delle leggi, diffidano di una sinistra radicale che vuole aprire le frontiere a tutti. Trump è andato meglio del previsto anche tra gli afroamericani, a dispetto di tutta la retorica sulla “rivoluzione anti-razzista” di Black Lives Matter. Certi afroamericani, come tanti ispanici e tanti bianchi, hanno considerato molto positivo il bilancio economico dei primi tre anni di Trump, e non gli addebitano il disastro della recessione post-pandemia, anzi pensano che le sue ricette siano più adatte a tirare fuori l’economia americana da questa crisi (come sembra dimostrare il rimbalzo del Pil nel terzo trimestre). In quanto alle proteste anti-razzismo, si sono rivelate un autogol per la sinistra. Se sei afroamericano e commerciante, o piccolo imprenditore, o proprietario di ristorante, e hai visto gli spacciatori e i capi-gang del tuo quartiere mettersi le magliette di Black Lives Matter, impugnare le mazze da baseball, spaccare le vetrine per svuotare i negozi, il giorno dell’elezione voti per chi sta dalla parte della polizia. Lo slogan "togliamo fondi alla polizia", pur sconfessato da Biden, è stato gridato nelle piazze per mesi, ha l’appoggio della sinistra radicale, ed è diventato realtà nelle due maggiori metropoli americane grazie ai loro sindaci democratici: Bill de Blasio a New York, Eric Garcetti a Los Angeles. Perfino nella ultra-democratica California, che continua a votare a sinistra, tre referendum hanno dato dei segnali in controtendenza rispetto all’immagine progressista di quello Stato. Ha vinto la flessibilità del lavoro nella Proposition 22: Uber e altre aziende simili (come Instacart, che fa consegne a domicilio della spesa alimentare) non saranno tenute a trattare i propri lavoratori come dei dipendenti stabili. Ha perso un altro referendum che voleva reintrodurre la affirmative action nelle università, cioè le ammissioni preferenziali in base a quote etniche, per favorire minoranze come gli afroamericani (ha vinto qui la resistenza degli asiatici-americani, di gran lunga la percentuale maggiore di studenti). È quindi sconfitta la politica "identitaria" di una sinistra che pensa di governare l’America sfruttando il risentimento razziale, la pretesa di un risarcimento per tutti i torti subiti da due secoli. È in bilico, ma rischia di perdere, anche un referendum che puntava ad aumentare la pressione fiscale sugli immobili. Perfino la California dunque mostra qualche dubbio sui dogmi della sinistra di governo. California e New York sotto i governanti democratici hanno raggiunto livelli di pressione fiscale europei (o anche superiori, se s’includono le tasse sulle case); eppure hanno il record dei senzatetto, e hanno servizi sociali scadenti. Hanno continuato ad aumentare le tasse ma non sono paradisi scandinavi. Prima ancora che dilagasse lo smartworking da pandemia, molti californiani e newyorchesi avevano cominciato a emigrare verso Stati con minore pressione fiscale. I media, i sondaggisti, i dirigenti democratici come la presidente della Camera Nancy Pelosi avevano alimentato il sogno di un’Onda Blu che doveva consegnare ai democratici la Casa Bianca, la maggioranza al Senato, un ulteriore aumento di seggi alla Camera, e magari espugnare il Texas. Questo dimostra quanto fossero incapaci di capire la realtà del Paese. Ora i mercati festeggiano lo scenario di una presidenza Biden con un Senato repubblicano: è un equilibrio che impone compromessi permanenti, obbliga a governare al centro. Per tradurlo nel linguaggio della politica europea, è quasi l’equivalente di un governo di coalizione. L’America che crede nella centralità delle imprese, chi pensa che sarà l’iniziativa privata a trainarci fuori da questa depressione, chi non vuole più tasse e più burocrazia, terrà sotto controllo una presidenza democratica. La sinistra del partito, la sinistra delle università e dei media, continuerà a descrivere questa mezza America come una tribù di fascisti, ignoranti, razzisti. Dopo la sconfitta dei suoi sogni di Onde Blu e di grandi New Deal, si consolerà cullandosi nella certezza di una superiorità morale. Trump, se si conferma la sua sconfitta, griderà al golpe e si trasformerà nel capo di un’opposizione bellicosa, incivile, preparandosi a una campagna per il 2024. Non sono ottimista sulla qualità della democrazia americana e del dibattito civile in questo Paese. La forza dell’economia americana però è fatta di altri ingredienti, ed è saggio non sottovalutarli. Non considero particolarmente significativo l’aumento delle Borse, certo non riflette l’economia reale. Però qualcosa gli investitori hanno intuito, sul fatto che in questa elezione chi ha votato Trump e ha difeso la sua maggioranza al Senato, ha votato per il capitalismo. New York, 5 novembre 2020 Titolo: FEDERICO RAMPINI. Se il vaccino serve alle aziende a rifarsi l'immagine Inserito da: Admin - Novembre 14, 2020, 03:17:36 pm Outlook | Se il vaccino serve alle aziende a rifarsi l'immagine
Federico Rampini - La Repubblica 13 nov 2020, 21:44 (17 ore fa) A me Dopo l’annuncio della Pfizer sul suo vaccino “efficace al 90%”, l’attesa di una svolta e le ripercussioni positive che avrebbe sull’economia, aumenta l’attenzione su tutto ciò che deve funzionare adeguatamente per la vaccinazione di massa. Pfizer, che produrrà il vaccino messo a punto dal laboratorio tedesco BioNTech, prevede di consegnarne già 50 milioni di dosi entro la fine di quest’anno. La metà andrà agli Stati Uniti. Poiché è un vaccino bi-dose (bisogna fare il richiamo dopo tre settimane), questo significa che saranno immunizzati 12,5 milioni di americani entro la fine dell’anno, su una popolazione di 325 milioni. Priorità, naturalmente, al personale sanitario e ai soggetti più a rischio. Pfizer però – come le altre multinazionali farmaceutiche che potrebbero mettere a punto vaccini alternativi – ha un ruolo solo nella produzione. Trasporto, distribuzione, inoculazione, dipendono da altri soggetti: qui negli Stati Uniti una rete di attori pubblici, federali e statali, più i protagonisti della sanità privata. In parallelo bisogna rifornire ospedali, cliniche, ambulatori e farmacie con una quantità adeguata di siringhe, aghi, tutto l’occorrente per le vaccinazioni. Bisogna anche persuadere una maggioranza di americani che la vaccinazione è indispensabile e sicura. Il trasporto e la conservazione pongono problemi particolari perché il vaccino Pfizer va conservato a temperature polari e non tutti gli ambulatori dispongono di congelatori adeguati. La logistica delle vaccinazioni di massa però in passato ha funzionato abbastanza bene negli Stati Uniti. La vaccinazione contro l’influenza stagionale è praticata da anni e raggiunge una percentuale elevata di americani; quest’anno era pronta in largo anticipo (all’inizio di settembre), gratuita come sempre, e disponibile anche nelle farmacie. L’impatto del coronavirus sull’industria farmaceutica mondiale, ben al di là del caso Pfizer, sarà positivo anche se non così redditizio come si crede. I vaccini non sono mai stati tra i business più importanti per Big Pharma, che guadagna molto di più su altri prodotti. Anche perché l’obbligatorietà di molte vaccinazioni, e le campagne di massa sotto impulso dei governi, ne fanno un settore molto regolato anche nei prezzi, il che riduce i margini di profitto. Gli Stati Uniti hanno contribuito con generosità alle spese per la ricerca del vaccino anti-Covid, erogando due miliardi di dollari a testa alle aziende Pfizer, Moderna, Sanofi (quest’ultima è francese), 1,6 miliardi a Novavax, 1,5 a Johnson&Johnson, 1,2 ad AstraZeneca. Questo ha fatto dire ad alcune associazioni di difesa dei consumatori che vengono socializzati i rischi (nel senso che le spese di ricerca sono in gran parte a carico del contribuente) mentre i profitti restano privati. Comunque, per avere un’idea del business dei vaccini, quello anti-influenzale rappresenta un mercato da 5 miliardi di dollari annui, una frazione modesta del business farmaceutico. Per molte aziende di questo settore l’opportunità più interessante è un’altra: rifarsi l’immagine. Il coronavirus – esaltando il ruolo salvifico dell’industria farmaceutica – potrebbe rappresentare la più importante operazione di relazioni pubbliche da molti decenni. Infine va ricordato che Big Pharma non è solo un business occidentale. Un altro effetto collaterale di questa pandemia sarà che avremo scoperto l’importanza globale dell’industria farmaceutica cinese. Ai grandi nomi come Sinovac si sono affiancate oltre 60 società che hanno approfittato del boom di attività per quotarsi in Borsa raccogliendo 16,3 miliardi di dollari dall’inizio di quest’anno. L’indice azionario delle aziende farmaceutiche cinesi è in rialzo del 32% dall’inizio dell’anno. Da - Repubblica New York, 13 novembre 2020 Titolo: FEDERICO RAMPINI. Il migliore dei mondi si trova in Estremo Oriente, almeno ... Inserito da: Admin - Novembre 14, 2020, 05:35:02 pm Rep: Outlook di Federico Rampini
12 novembre 2020 Il migliore dei mondi si trova in Estremo Oriente, almeno dal punto di vista economico. Un’altra prova del dinamismo cinese è il record di vendite segnato dal gigante del commercio online Alibaba: nel “giorno dei single”, una festa inventata a scopi puramente commerciali, l’Amazon cinese ha venduto online per l’equivalente di 75 miliardi di dollari. Il Singles’ Day fu inventato da Jack Ma, fondatore di Alibaba, come risposta al Cyber Monday americano, il giorno dei supersaldi online che segue il Thanksgiving. Ma l’allievo ha superato il maestro e ormai le vendite del Singles’ Day cinese sono superiori a quelle dei saldi digitali americani. L’Estremo Oriente è assai meno felice se dall’economia si allarga lo sguardo alla politica e ai diritti umani. Hong Kong sotto il tallone di Xi Jinping continua a perdere libertà, come si è visto nell’attacco ai pochi esponenti democratici regolarmente eletti nella legislatura locale. Un’altra prepotenza cinese si consuma ai danni di Taiwan. L’isola è un modello davvero esemplare per il successo con cui ha bloccato la pandemia. Eppure il governo di Pechino riesce a impedire – per motivi politici – la sua inclusione nell’Organizzazione mondiale della sanità. Un abuso assurdo, perché il mondo intero avrebbe bisogno di studiare i metodi applicati da Taipei. STATI UNITI Il vaccino anti-Covid della Pfizer ha già fatto un miracolato. È il chief executive della Pfizer. In un solo giorno ha guadagnato 5,6 milioni di dollari. Albert Bourla, amministratore delegato della casa farmaceutica americana dal 2019, come molti top manager statunitensi usa un programma automatico di vendite quando le azioni che ottiene come bonus e stock option superano un certo livello di prezzo. All’annuncio di lunedì secondo cui il vaccino sarebbe efficace al 90%, l’azione Pfizer ha guadagnato il 15% e Bourla ne ha vendute 132.508 al prezzo di 41,94 dollari. I risparmi degli americani continuano ad aumentare, ma possono fidarsi di chi li gestisce? Ancora una volta le cosiddette “gestioni attive” perdono la gara con i fondi d’investimento che seguono automaticamente e passivamente degli indici. È ormai da molti anni che questa gara continua a dare lo stesso risultato: i gestori dei fondi e le gestioni patrimoniali prelevano commissioni esose, e spesso questo basta a fare la differenza. Di conseguenza continuano a salire i fondi amministrati da gruppi come Vanguard la cui specialità sono fondi-indice, agganciati a una media-paniere, che seguono automaticamente il mercato e hanno commissioni irrisorie visto che non devono comprare e vendere continuamente. Oggi torna sul tema il Financial Times con un lungo confronto tra le performance. ASIA Altro segnale della ripresa cinese: il rialzo nelle quotazioni del caucciù o gomma naturale: +50% dai minimi dell’anno sulla Borsa delle materie prime di Singapore. Questo materiale beneficia della ripresa del mercato dell’automobile in Cina (la gomma naturale è ancora usata nella produzione di pneumatici), oltre che per i guanti usati dal personale sanitario. Ma c’è almeno un segnale che la Cina subisce tensioni sociali: si moltiplicano gli scioperi spontanei tra i fattorini delle consegne. Il boom del commercio online, in Cina come altrove, si basa non solo sulla tecnologia ma anche sulla manodopera umana. Nel Paese le condizioni di lavoro, i salari, i diritti di queste categorie sono ancora peggiori del precariato americano ed europeo. Uno degli epicentri della rivolta è la provincia dello Hunan dove i fattorini delle consegne hanno smesso di recapitare i pacchi per protesta, denunciando di non aver ricevuto salari arretrati. EUROPA Il Regno Unito si doterà di una nuova normativa per bloccare le acquisizioni straniere in 17 settori strategici tra cui energia, trasporti, difesa, intelligenza artificiale. Le barriere inglesi sono rivolte soprattutto agli investimenti cinesi. Londra si adegua alle nuove restrizioni già adottate da Germania, Francia e Italia, con un regime che si avvicina a quello già in vigore negli Stati Uniti dove le acquisizioni da parte di aziende estere vanno sottoposte al vaglio del Committee on Foreign Investment in the US, un organo in cui sono rappresentati Casa Bianca e Congresso. Nella pancia delle banche europee si sta accumulando una quantità enorme di “bad loans”, crediti incagliati o inesigibili. Per il momento gli aiuti pubblici e la liquidità fornita dalla BCE stanno nascondendo il problema, che rischia di esplodere a scoppio ritardato. Ma intanto la normalizzazione delle politiche economiche europee è rinviata sempre più in là: le regole del Patto di stabilità non torneranno in vigore prima del 2022. CONCLUSIONE Nonostante sia anch’essa colpita dalla seconda ondata della pandemia, la Germania resta la prima della classe in Europa. Il dato che conta è la mortalità da coronavirus, la tabella più aggiornata con i confronti internazionali è della Johns Hopkins University di Baltimora. Regno Unito, Stati Uniti e Italia hanno livelli di mortalità simili, sopra i 70 decessi per centomila abitanti. La Francia è poco sotto con 63. La Germania è molto al di sotto con 14 morti di Covid ogni centomila residenti. I decessi tedeschi in proporzione alla popolazione sono un quinto di quelli italiani, inglesi o americani. Uno degli indicatori che distinguono nettamente la Germania dalle altre grandi nazioni europee è la disponibilità di posti ospedalieri attrezzati per emergenze e casi gravi, camere di rianimazione dotate di apparecchi respiratori. La Germania ne ha il doppio rispetto alla Francia e il dislivello è ancora superiore rispetto all’Italia. Poco prima che scoppiasse la pandemia, uno dei più autorevoli think tank tedeschi, la Bertelsmann Foundation, aveva denunciato l’eccesso di capacità inutilizzata della sanità tedesca come uno spreco enorme, proponendo tagli. Per fortuna i politici tedeschi decisero di non ascoltarla. Da notare infine che lo stesso indicatore sulle camere ospedaliere attrezzate per le emergenze vede due Paesi al mondo in condizioni ancora migliori della Germania: il Giappone e la Corea del Sud. Guarda caso i loro tassi di mortalità sono un decimo di quelli tedeschi: un decesso su centomila abitanti. Da repubblica.it Titolo: FEDERICO RAMPINI. Navigare la crisi, essere pronti a sfruttare tutte le ... Inserito da: Admin - Novembre 14, 2020, 05:40:38 pm Outlook di Federico Rampini
11 novembre 2020 Navigare la crisi, essere pronti a sfruttare tutte le opportunità della ripresa: le imprese e chiunque abbia responsabilità economiche deve cogliere a gran velocità i segnali di una svolta. I vincitori della prima fase li conosciamo: da una parte tutto l’universo Big Tech, dall’altro i produttori di quei beni di consumo di cui facciamo incetta quando dobbiamo tapparci in casa (dal +20% al +50% i consumi di farina; +30% quelli di tinture per i capelli visto che molte signore stanno tornando a fare le parrucchiere di se stesse). Unilever, Nestlé, Procter & Gamble, L’Oréal, figurano nell’elenco dei vincitori dietro quella prima fila in cui spiccano Amazon, Microsoft, Google, Apple, Netflix. Però basta l’annuncio di un vaccino in arrivo per diffondere la sensazione che tutto potrebbe cambiare. Ecco un segnale: alcuni tra gli sconfitti di ieri si precipitano a monetizzare l’ottimismo raccogliendo capitali in Borsa. American Airlines e Lufthansa, la compagnia di crociere Carnival, stanno attingendo ai mercati con emissioni di azioni o vendite di obbligazioni. Vogliono essere pronte a scattare appena l’arrivo di un vaccino apre una fase nuova. La flessibilità per prepararsi a cogliere opportunità nella ripresa non caratterizza solo gli imprenditori ma anche i dipendenti o futuri dipendenti. Ecco un segnale interessante dagli Stati Uniti: sono in forte aumento le iscrizioni ai Master in Business Administration, +21%, un dato che segna un’inversione di tendenza rispetto agli ultimi cinque anni. Non è strano, anzi è tipico delle grandi crisi economiche: negli Stati Uniti chi perde il lavoro, o tarda a trovare il suo primo lavoro, investe nella propria formazione per avere un curriculum più appetibile non appena ripartono le assunzioni. STATI UNITI Fra le tante previsioni, congetture e speculazioni sulle conseguenze economiche della presidenza Biden, molti mettono Big Tech tra i perdenti. Il presidente eletto condivide l’atteggiamento critico del partito democratico verso i giganti digitali. Ci si può attendere un antitrust più severo verso i comportamenti monopolistici di Amazon, Google e Facebook in particolare. Certo, per varare grandi riforme nella normativa che si applica ai business digitali bisogna sempre tenere conto della necessità di trovare intese con i repubblicani, visto che con ogni probabilità conserveranno la maggioranza al Senato. I repubblicani sono per tradizione allergici agli interventi dello Stato; sotto le loro Amministrazioni l’antitrust è stato depotenziato. Però ultimamente la destra ha maturato un’avversione verso la Silicon Valley, accusata di ingerenze anti-Trump per esempio con le censure dei social media. Inoltre un cambiamento immediato che Biden può imprimere da solo, passa attraverso le nomine nelle authority regolatrici. Da notare che il giro di vite verso i colossi digitali sembra essere una tendenza globale. Due notizie da Bruxelles e da Pechino vanno nella stessa direzione. La commissaria alla concorrenza europea ha aperto un procedimento antitrust contro Amazon per abuso di potere monopolistico nei confronti dei 150.000 piccoli fornitori che usano la piattaforma digitale per raggiungere i clienti finali. In Cina l’antitrust locale ha varato una bozza delle nuove regole sulla concorrenza nel settore digitale, pochi giorni dopo che il governo di Pechino ha bloccato il collocamento in Borsa di Ant, la filiale di Alibaba che gestisce pagamenti digitali. Big Tech ha stravinto la sfida della pandemia ma, come spesso succede, il troppo successo attira invidie, gelosie, timori e attenzioni particolari. Negli Stati Uniti la parola lockdown ha un significato diverso che in Italia. Non abbiamo mai avuto lo stesso livello di restrizioni alla nostra mobilità personale, né conosciamo l’invadenza burocratica dei Dpcm che regolano aspetti minuti della vita quotidiana in Italia. Però c’è una reazione spontanea all’aumento dei contagi, che ha ricadute economiche non molto dissimili. Anche se nessuno Stato Usa intende introdurre o ripristinare chiusure a tappeto, sta di fatto che gli americani reagiscono al pericolo uscendo meno. I dati che Apple raccoglie attraverso gli iPhone sulla mobilità degli utenti rivelano che, con la risalita dei contagi dall’inizio di ottobre, i tragitti in auto sono scesi del 9% e le passeggiate a piedi si sono ridotte del 7%. Google ha dati analoghi e conferma un calo delle visite a negozi e ristoranti anche in quegli Stati repubblicani dove gli elettori di Trump sono contrari ai lockdown. Usano meno la maschera che a New York o in California, però anche nell’Iowa, North e South Dakota, Montana, la gente esce di meno da quando è cominciata la seconda ondata. Di riflesso, continuano a crescere i risparmi degli americani: +20% da aprile. Per vedere il bicchiere mezzo pieno, tutti quei risparmi aggiuntivi sono consumi potenziali, pronti a servire da carburante per la ripresa. Gli americani non sono dei buongustai del caffè come noi, però sono dei caffeinomani e rappresentano il più grande mercato mondiale per questa bevanda (inclusi i segmenti più evoluti e raffinati, cioè i consumatori che hanno scoperto le virtù del vero espresso italiano). Ma la desertificazione delle città e l’agonia della vita sociale hanno prodotto anche qui una rivoluzione. Si beve molto meno nei locali pubblici (Starbucks ha registrato un calo del 9% rispetto al fatturato di un anno fa) e molto di più a casa propria. I beneficiari al momento sono soprattutto i produttori di miscele per caffè-filtro all’americana, come Nestlé e Keurig Dr Pepper. La Nestlé gioca su più segmenti di mercato perché produce miscele di caffè-filtro all’americana in joint venture con Starbucks, ma anche Nespresso. I nostri Illy, Lavazza, dovrebbero approfittarne per entrare di più nelle case degli americani. ASIA +8% le vendite di automobili in Cina nel mese di ottobre: è un’altra conferma della ripresa dei consumi. Tra i beneficiati, in questo e altri settori, ci sono le multinazionali americane con un radicamento storico nel mercato cinese: General Motors, Coca Cola, Estée Lauder e Marriott hanno già avuto un miglioramento negli ultimi bilanci trimestrali grazie alla spinta dei consumi cinesi. Interessante inchiesta del Financial Times sul punto debole della crescita cinese: i colossi della costruzione immobiliare, indebitati fino al collo, con in testa il controverso gruppo Evergrande. È la bolla sempre destinata a scoppiare ma che non scoppia mai. Fino al giorno in cui scoppierà davvero. Il Paese che ha varato la manovra anti-recessione più potente di tutte è il Giappone. Se misurato in percentuale del suo Pil, il programma di aiuti pubblici giapponesi per le piccole imprese supera quello americano: vale l’equivalente di 250 miliardi di dollari in sei mesi. L’indice di Borsa giapponese Nikkei 225 è ai massimi da 29 anni. L’Oriente vicino è il più fragile e turbolento. La Turchia continua a dibattersi in una crisi valutaria e finanziaria. Però oggi Erdogan è riuscito a frenare la sfiducia degli investitori esteri, almeno per un giorno. Ha accettato le dimissioni di suo genero da ministro delle Finanze, ha cambiato anche il governatore della banca centrale, ha promesso una cura di austerity. La lira turca ha recuperato un po’ del terreno perduto rovinosamente nelle scorse settimane. Da repubblica.it New York, 11 novembre 2020 Titolo: FEDERICO RAMPINI. La madre di tutti i collocamenti di Borsa avviene in Cina, ... Inserito da: Admin - Novembre 14, 2020, 07:42:34 pm Rep: Outlook di Federico Rampini
27 ottobre 2020 IN SINTESI La madre di tutti i collocamenti di Borsa avviene in Cina, è un’azienda ai confini tra la tecnologia digitale e la finanza. Più di 730 milioni di persone usano Alipay per pagare un conto al ristorante, fare acquisti e perfino per trasferire fondi dal proprio conto corrente a un conto titoli dove investono in Borsa. La app Alipay della società Ant è la creatura di Alibaba, l’Amazon cinese che in realtà è perfino più ubiquo e versatile di Amazon. Il fondatore di Alibaba oggi in pensione, Jack Ma, è riuscito in Cina a invadere anche il territorio delle banche e carte di credito, con successo molto maggiore rispetto a quanto Amazon riesca a fare con i suoi sistemi di pagamento in America. Alipay è diventato così grosso da attirarsi le attenzioni non proprio amichevoli delle autorità cinesi di regolazione dei mercati finanziari, com’è normale per una “banca impropria”. Intanto, scorporata dalla casa madre Alibaba, Ant si appresta a quotarsi in Borsa da sola, con una vendita-record: 34 miliardi di dollari, di che superare il record precedente che apparteneva alla compagnia petrolifera saudita Aramco. Ant per adesso colloca sul mercato solo l’11% del suo capitale. Il suo valore totale è stimato a 313 miliardi. Si quota in contemporanea a Hong Kong e Shanghai. La domanda ha superato 284 volte l’offerta. L’approdo sui listini è fissato per il 5 novembre. Su un altro versante, la lotta alla pandemia, ecco un nuovo segnale della forza cinese: 4,5 milioni di test effettuati in due giorni. E’ bastato che nella regione dello Xinjiang venissero segnalati 164 pazienti positivi, per far scattare questa gigantesca operazione-tamponi. Non entro nel merito dell’agenda occulta di Xi Jinping, che tende a circondare lo Xinjiang di attenzioni opprimenti. Però fare 4,5 milioni di test in due giorni comporta una potenza logistica e organizzativa notevole. E’ la stessa che – su scala più ridotta, ma in regimi democratici – ha funzionato in Giappone e Corea. Erroneamente i media italiani continuano ad attribuire alla tecnologia avanzata i miracoli giapponese e coreano, due Paesi dove il Covid è passato quasi senza fare vittime. In realtà è la forza lavoro umana – eserciti di tracer e una burocrazia efficiente – a fare la differenza. E’ quel che con grande ritardo hanno capito le autorità di New York, dove si fanno oggi più test quotidiani che in tutta l’Italia. Anche qui la svolta è arrivata quando sono stati reclutati, addestrati, dispiegati sul territorio diecimila tracer. STATI UNITI Dall’America un altro esempio di innovazione vincente legata al coronavirus. E’ la app Seesaw, inventata apposta per l’insegnamento a distanza. E’ la creatura di una start-up di San Francisco. Il numero di studenti che la usano è decuplicato da marzo a maggio. La sua utilità principale: consente agli studenti di presentare un commento audio o un disegno digitale all’insegnante, subito dopo un corso. La start-up aveva solo 60 dipendenti quando improvvisamente si trovò a competere con piattaforme come Google Classroom. Oggi ha dovuto assumere altri 15 dipendenti a tempo pieno e cento collaboratori esterni. Seesaw è stata adottata da più di tre quarti delle scuole americane. Rallenta l’ondata di fallimenti tra le aziende americane. A fine settembre la percentuale di default tra emittenti private di obbligazioni era dell’8,5%, in leggero calo rispetto al mese precedente, e molto al di sotto rispetto alla previsioni. Ma l’avidità dei top manager non si ferma davanti alla bancarotta. Un’inchiesta del Washington Post rivela che almeno 18 grandi aziende hanno elargito bonus milionari ai chief executive ed altri dirigenti, subito prima di portare i libri in tribunale per il fallimento. Tra queste figurano Hertz, J.C. Penney, Neiman Marcus. La città di New York è un “buco nero” nella crisi americana, è in assoluto la più colpita fra le metropoli statunitensi. Un milione di newyorchesi sono senza lavoro, il tasso di disoccupazione è il doppio della media nazionale. Pesano il crollo del turismo e delle attività culturali, due attrazioni per le quali New York era leader mondiale. Dalla Florida all’Ohio sono cominciati i licenziamenti anche nelle università. Non sono al riparo dai tagli del personale neppure i docenti con cattedra. La Cina non sta rispettando gli impegni firmati con l’Amministrazione Trump all’inizio dell’anno per aumentare le sue importazioni di prodotti made in Usa. A fine settembre aveva importato 59 miliardi di prodotti inclusi in quell’accordo, a fronte di un obiettivo fissato a 140 miliardi. E’ una delle promesse mancate da Trump, anche se il Covid ci ha messo lo zampino. ASIA La Cina è ben piazzata per diventare leader mondiale dell’auto elettrica. Non riuscì mai a diventare un attore dominante nella produzione di auto tradizionali: esporta solo un milione di vetture, per lo più a Paesi emergenti, pur avendo un mercato interno da 28 milioni di auto all’anno, il più grosso del mondo. Ma ora sta cogliendo l’opportunità offerta dalla rivoluzione verde. E lo fa anche grazie a marche straniere. Tra queste la Tesla, che ha cominciato a esportare in Europa il Modello 3 fabbricato nel suo stabilimento cinese; e la Bmw che vende nel mondo intero l’auto elettrica iX3 prodotta in collaborazione con il gruppo Brilliance China Automotive. I vertici del regime cinese sono in clausura per discutere le nuove strategie economiche di medio-lungo termine. Tra le loro preoccupazioni: l’urgenza di dotare la Cina di un’industria autosufficiente nei semiconduttori, uno dei settori tecnologici dove imperversa la guerra fredda, tra sanzioni americane e forme di embargo. La Cina finora è solo il quinto produttore mondiale di semiconduttori, dietro Corea del Sud, Taiwan, Giappone e Stati Uniti. Intanto lo stesso settore è al centro di una nuova operazione di consolidamento negli Stati Uniti, dove il gruppo American Micro Devices (Amd) ha appena raggiunto un accordo per acquistare il rivale Xilinx per 35 miliardi di dollari. Anche Pechino maneggia le sanzioni a fini geopolitici. Sulla lista nera del governo cinese finiscono i tre maggiori produttori americani di armamenti – Boeing Lockheed e Raytheon – come castigo per un recente accordo di forniture militari a Taiwan. Chi ha più da perdere sono Boeing e Raytheon, presenti sul mercato cinese dell’aeronautica civile. Lo Zambia si avvia ad avere il primo default sovrano legato alle Nuove Vie della Seta o Belt and Road Initiative. Il nuovo premier giapponese, Yoshihide Suga, lancia la proposta di offrire alle donne giapponesi la fecondazione in vitro gratis, a spese del sistema sanitario nazionale, come ricetta contro la denatalità. Scontro fra titani in India per il controllo del mercato locale del commercio online. Amazon contrasta il gruppo Reliance del magnate indiano Mukesh Ambani, tutti e due si contendono il controllo di Future Retail. Amazon e Walmart (quest’ultimo attraverso la filiale Flipkart) finora controllano il 70% del commercio online in India. Reliance invece è il più grande operatore di supermercati tradizionali, con 11 mila punti vendita. Ma Reliance si sta lanciando nel digitale con Reliance Jio. Si stima che il commercio online varrà 86 miliardi di dollari all’anno entro il prossimo quadriennio. EUROPA La Spagna batterà l’Italia sul traguardo del Recovery Fund? Il governo di Madrid sta cercando di ottenere un pre-finanziamento di 27 miliardi di euro, di fatto un anticipo sulla quota di 140 miliardi a cui avrebbe diritto. I progetti di spesa per 27 miliardi da finanziare con l’anticipo del Recovery Fund sono già stati inseriti nella legge di bilancio che verrà presentata in Parlamento a breve. CONCLUSIONE Occhio che il 3 novembre non votiamo solo per eleggere il presidente degli Stati Uniti più la Camera più un terzo del Senato (e molte altre cariche locali). In molti Stati si vota anche per dei referendum. Quello che muove più interessi economici è la Proposition 22 della California: in ballo c’è il futuro della Gig Economy o nuovo precariato, cioè lo status di aziende come Uber, Lyft, o le tante società di consegna a domicilio proliferate durante il lockdown. Queste aziende hanno speso 200 milioni nella campagna elettorale. Il referendum lo hanno promosso loro, per “consentire” ai loro collaboratori di non figurare come dipendenti e quindi di non essere soggetti alle stesse normative e tutele del lavoro dipendente. Una parte degli autisti di Uber, quelli che lo fanno come secondo o terzo lavoro, sono d’accordo con l’azienda perché vogliono mantenere flessibilità. I sondaggi dicono che l’esito è incerto. Ricevi questa e-mail perché hai prestato a GEDI Digital S.r.l., Società controllata del Gruppo GEDI S.p.a., il consenso al trattamento dei dati. Se non vuoi più ricevere questa email, clicca qui Facebook Twitter Instagram da repubblica.it Titolo: FEDERICO RAMPINI. La ripresa americana Inserito da: Admin - Novembre 16, 2020, 07:10:22 pm Outlook/ La ripresa americana Posta in arrivo Federico Rampini - La Repubblica Annulla iscrizione gio 29 ott, 18:56 a me Rep: Outlook di Federico Rampini 29 ottobre 2020 STATI UNITI Questa newsletter oggi è tutta sulla ripresa americana: è la notizia del giorno, anche per le possibili conseguenze sulla campagna elettorale a cinque giorni dal voto “nominale” (il voto reale è già in corso, una maggioranza di americani si sono pronunciati prima di conoscere l’ultimo dato economico). +7,4% il Pil del terzo trimestre (rispetto al secondo), che equivale a +33% se proiettato su base annua. E’ un rimbalzo vigoroso, la conferma che l’economia americana si sta riprendendo a gran velocità. E’ l’ultima buona notizia che arriva in tempo utile per finire nei comizi di Donald Trump: la conferma di quanto lui va dicendo da tempo e cioè che il peggio è passato. Lui aggiunge che è grazie alla sua capacità di governo, se l’impatto del coronavirus e dei lockdown è stato relativamente breve; accusa il suo rivale Joe Biden di voler prolungare la sofferenza con un accanimento sui lockdown a oltranza. Questo dato va inquadrato nella giusta prospettiva. In particolare il +33% annuo è un’illusione ottica legata alla caduta del trimestre precedente. (Ricordo la ragione fondamentale per cui le percentuali al ribasso e al rialzo sono asimmetriche: se ho 100 dollari di reddito e ne perdo il 50% mi ritrovo con 50 dollari, se poi recupero il 50% salgo solo a 75 dollari). Dunque, il dato di oggi va letto in sequenza con quello del secondo trimestre, in cui il Pil era sceso del 9% rispetto al primo e del 31,4% su base annua. Alla fine, il rimbalzo registrato dal primo luglio al 30 settembre lascia l’economia americana del 3,5% più povera rispetto alla fine del 2019 il che in tempi normali sarebbe una pesante recessione, e a tutti gli effetti va considerata tale. Il quarto trimestre dovrebbe essere ancora positivo, ma non abbastanza da evitare che il 2020 si chiuda con un segno meno davanti al Pil annuo. Image Sostenitori di Trump in Florida (EPA / Peter Foley) Un altro indicatore, relativo al mercato del lavoro, dice che sui 22 milioni di posti di lavoro eliminati dall’inizio di questa crisi, ne sono già stati recuperati la metà. E’ il classico caso del bicchiere mezzo vuoto o mezzo pieno: la ripresa c’è, ma per 11 milioni di disoccupati è un evento ancora del tutto virtuale. E’ di ieri la notizia di nuovi licenziamenti alla Boeing, altri 11.000 posti di lavoro saranno eliminati come conseguenza della crisi del trasporto aereo. Sul fronte dei consumi, stesso discorso. Le carte di credito, che registrano velocemente i cambiamenti nel comportamento di spesa, dicono di aumenti contrastati. A ottobre American Express ha registrato +32% negli acquisti online e meno 10% nelle spese tradizionali. Un altro gestore di carte di credito, Discover, a ottobre ha visto aumentare del 16% le spese alimentari e del 26% i consumi al dettaglio, mentre crollavano del 19% e del 49% rispettivamente gli acquisti di benzina e le spese per viaggi. E’ proprio la spesa per consumi ad aver trainato la ripresa dell’economia americana nel terzo trimestre. I consumi rappresentano oltre i due terzi del Pil. Dal primo luglio al 30 settembre hanno segnato un aumento del 40,7% su base annua. Tra le voci più dinamiche c’è l’acquisto di automobili. Sempre depressa invece la spesa per servizi, viste le chiusure di ristoranti, dell’industria dello spettacolo, e la paralisi del turismo. Non si riprendono le esportazioni, penalizzate dalla crisi della domanda globale. Quanta parte di questi dati può aiutare Trump a innescare una rimonta finale? Il messaggio del presidente è chiaro, lo ha ripetuto all’ultimo duello televisivo con Joe Biden: con la mia politica economica io avevo generato una crescita eccezionale, raggiungendo il pieno impiego; poi è arrivato dalla Cina un virus che ha sfasciato tutto; ma la salute fondamentale dell’economia americana è così sana che stiamo risollevandoci a gran velocità; guai se eleggete un democratico che ucciderà la ripresa a colpi di nuove tasse. Il bilancio dei primi tre anni di governo è un po’ meno favoloso di quanto lui lo descriva. Tra gli aspetti controversi c’è il risultato delle politiche racchiuse sotto lo slogan Make America Great Again. C’è di tutto lì dentro: i dazi contro le importazioni cinesi, ma anche la riforma fiscale che ha favorito il rientro di capitali esteri delle multinazionali, gli aiuti all’energia fossile e gli incentivi alla reindustrializzazione. La partita con la Cina non ha dato i risultati promessi, ma anche qui c’è lo zampino del covid: gli impegni di Pechino per aumentare le importazioni di prodotti made in Usa erano freschi di firma a gennaio, quando la Cina si è chiusa in lockdown. La reindustrializzazione degli Stati Uniti si è fermata a qualche episodio, non è diventata una tendenza impetuosa; certe multinazionali hanno preferito spostare investimenti dalla Cina al Vietnam o dalla Cina al Messico (tornato ad essere attraente in particolare dopo la firma del nuovo trattato sul mercato unico nordamericano). C’è poi il bilancio delle Borse, positivo, ma con una concentrazione sui titoli Big Tech che hanno vinto alla lotteria del coronavirus. Se si fosse votato a febbraio, la credibilità di Trump nel governo dell’economia poteva risultare decisiva. Tuttora questo è l’unico terreno sul quale lui gode di un leggero vantaggio nei sondaggi. Non sufficiente per trasformarsi in un giudizio positivo su tutta la presidenza. Ma non c’è dubbio che nei comizi delle prossime ore – lui ne sta facendo in media tre al giorno e tutti affollati – sentiremo parlare molto di un boom economico in atto. Image Repubblica da ascoltare: visita la sezione dedicata ai contenuti audio e ai podcast Ricevi questa e-mail perché hai prestato a GEDI Digital S.r.l., Società controllata del Gruppo GEDI S.p.a., il consenso al trattamento dei dati. Se non vuoi più ricevere questa email, clicca qui Facebook Twitter Instagram Titolo: FEDERICO RAMPINI. Oggi mi occupo solo della Cina, su cui il nostro livello ... Inserito da: Admin - Novembre 16, 2020, 07:30:16 pm Federico Rampini - La Repubblica
ven 30 ott, 22:03 a me Rep: Outlook di Federico Rampini 30 ottobre 2020 Oggi mi occupo solo della Cina, su cui il nostro livello di informazione è sempre più palesemente inadeguato. Si è appena concluso il plenum del comitato centrale del Partito comunista cinese, con indicazioni importanti anche per l’economia. Anzitutto, la Cina proietta un’immagine di stabilità politica nel lunghissimo termine, che noi chiamiamo autoritarismo ma che può consentire di fare programmi e poi realizzarli. Lo spettacolo della campagna elettorale americana, o dell’Europa che torna ai lockdown, è in contrasto con le immagini da Pechino. A cominciare dal dettaglio che al vertice comunista nessuno indossava la maschera. Mentre negli Stati Uniti Trump e i suoi seguaci ostentano di non usarla per segnalare che il coronavirus non deve essere la loro priorità, i leader cinesi sono a volto scoperto per ricordare a tutti che il virus è stato sconfitto. Il comitato centrale infatti ha celebrato la vittoria contro la pandemia come “un successo strategico di primaria importanza”. Xi Jinping ha usato il plenum per consolidare la sua immagine di leader unico e incontrastato. La questione della successione era già stata accantonata quando fu tolto il limite del secondo mandato nella Costituzione. Lui sta rafforzando l’attesa che dal 2022 avrà inizio un terzo mandato. Massima stabilità, massima prevedibilità, questa è la facciata che viene presentata all’interno e all’estero. Al termine di un terzo mandato Xi sarebbe il più longevo dei leader cinesi dopo Mao Zedong. Intanto questo soffoca ogni speculazione-illazione sui futuri assetti del vertice, l'eternità apparente di Xi è un tappo sopra ogni fremito di dissenso interno. L’esibito trionfo del modello cinese, in un mondo stremato dalla pandemia, non deve nascondere gli enormi problemi che questa leadership deve affrontare. La crescita è rallentata anche in Cina, benché meno che altrove. Le tensioni sociali interne possono esplodere in qualsiasi momento, visto il peso della crisi sui più poveri, in particolare i migranti dalle campagne. I rapporti con gli Stati Uniti sono ai minimi dai tempi di Nixon-Mao 1972 e questo rende più problematico un modello di sviluppo trainato dalle esportazioni. L’immagine della Cina ha subito dei danni notevoli – per le responsabilità iniziali sulla pandemia, Hong Kong, lo Xinjiang – e nel nuovo clima da guerra fredda anche i vicini asiatici e l’Australia sono in allerta. La questione dell’immagine esterna però non va letta con occhiali occidentali. Vista da Pechino questa crisi d’immagine è davvero poca cosa rispetto a quella che colpì la Cina dopo il massacro di Piazza Tienanmen nel 1989: eppure quella tragedia segnò l’inizio di un boom trentennale. Sul fronte economico, questa Cina sa di dover affrontare dei potenti venti contrari. Le sanzioni americane stanno privando i suoi campioni nazionali come Huawei sia di sbocchi sui mercati esteri, sia di accesso a tecnologie importanti (semiconduttori). Xi Jinping accentua l’importanza dell’autosufficienza, vuole un ulteriore salto di qualità nelle tecnologie avanzate. Non si fa illusioni su un ritorno dell’America a posizioni più amichevoli, neanche nell’ipotesi di una vittoria di Biden. Di fatto il presidente cinese dis-investe dalla relazione con gli Stati Uniti, prescinde da quel che Washington farà o non farà. Si prepara a una lunga marcia verso la supremazia della Cina, da amministrare con prudenza. Non è detto che sarà in grado di raggiungere l’obiettivo, ma è chiaro che punta a quello: un mondo dove l’America non sarà più in grado di dettare condizioni in nessun campo. C’è anche una dimensione militare, pochi giorni fa Xi ha celebrato il 70esimo anniversario dell’entrata in guerra delle forze cinesi in Corea contro gli Stati Uniti. I toni nazionalisti erano forti. Il messaggio è che questa Cina non esiterà a combattere quando sarà inevitabile. Due contraddizioni apparenti in questo quadro di riposizionamento strategico. Anzitutto, proprio mentre vuole rendersi meno dipendente dai mercati esteri, la Cina sta in realtà aumentando la sua quota di esportazioni nel mondo. In parte questo è legato al fatto che è uscita per prima dai lockdown, ma comunque non sarà facile svezzarsi da un modello di crescita trainato dall’export. Secondo, è in piena fioritura l’idillio con Wall Street, ultima prova l’elenco delle istituzioni finanziarie americane che investono nel collocamento in borsa di Ant, filiale di Alibaba. Qui Xi Jinping fa due calcoli, anzitutto attinge ai capitali americani finché può; e poi cerca di tener buona la lobby di Wall Street a fini di pressioni interne verso la prossima Amministrazione americana. A Washington infatti è già cominciato il braccio di ferro sulla squadra che dovrà gestire i rapporti con la Cina in caso di vittoria di Biden. Per ora sembra prevalere l’ala sinistra, che vuole lo scontro ancor più di Trump. Ricordo che dentro il partito democratico il rigetto verso i grandi accordi globali di libero scambio si era già consumato alla fine del secondo mandato di Barack Obama, tant’è che Hillary Clinton dovette rinnegare il proprio appoggio al trattato dell’area Pacifico, il Tpp. Titolo: FEDERICO RAMPINI. Acquisti online battono la Pandemia in Usa. Inserito da: Admin - Novembre 18, 2020, 09:29:46 pm Rep: Outlook di Federico Rampini
17 novembre 2020 Non è sfuggito a nessuno il grande assente dalla prima conferenza stampa che Joe Biden ha dedicato all’economia da quando è stato eletto: è il termine lockdown. Il presidente-eletto si è dilungato sull’urgenza di varare una nuova manovra di spesa pubblica per erogare aiuti ai disoccupati e alle imprese. Non ha voluto evocare nessuna nuova chiusura generalizzata. Questo riconduce a uno dei messaggi ambigui del verdetto elettorale. Contrariamente alle previsioni dei sondaggi. Trump non è stato danneggiato dal suo atteggiamento sul coronavirus. Tra i 72 milioni di americani che hanno votato Trump è diffusa la convinzione che i lockdown creino danni peggiori della pandemia. Biden ha deciso di muoversi con la massima cautela su questo terreno. Tanto più che le restrizioni sono di competenza dei governatori e il capo dell’esecutivo federale ha solo un potere d’indirizzo. Tre americani su quattro hanno sperimentato durante la pandemia nuove forme di acquisto online. Più di metà intendono continuare a fare la spesa alimentare online, o a usare il servizio di prenotazione dei prodotti online e prelievo all’esterno del negozio. Il 70% si è convertito in modo permanente a queste nuove forme di acquisto e le praticherà anche quando l’emergenza sanitaria sarà finita. Sono i risultati di un’indagine McKinsey sull’evoluzione del comportamento dei consumatori. Non c’è solo il commercio: la tele-medicina (consultazioni a distanza) sta conquistando un pubblico crescente; perfino gli esercizi di yoga e pilates, una volta provati con l’istruttore collegato in video, tendono a consolidarsi come abitudini permanenti. Idem per le forme di istruzione a distanza dedicate a un pubblico di adulti. La conclusione è che "la pandemia ha creato in pochi mesi cambiamenti che avrebbero richiesto dieci anni". Un dato generale sullo shopping degli americani: nell’ultimo trimestre gli acquisti online sono cresciuti del 79% mentre il traffico fisico di consumatori negli esercizi commerciali è calato del 14% e la spesa media nei negozi “in carne ed ossa” è diminuita del 24%. C’è chi ne approfitta perché è pronto a cogliere tutte le opportunità. Tanto per parlare del vincitore numero uno, ecco il solito Amazon che annuncia l’ultima novità: vuole diventare anche il nostro farmacista di fiducia. Il numero uno del commercio online lancia una nuova piattaforma per la fornitura di medicine che richiedono la ricetta medica (le altre essendo già disponibili sul sito). Non a caso l’annuncio ha già fatto calare in Borsa i titoli di tutte le grandi catene di farmacie come Cvs, Walgreens, Rite Aid. Il nuovo servizio si chiamerà Amazon Pharmacy. Non è la prima volta che Amazon prova a espandersi nel settore sanitario, già due anni fa comprò la società PillPack specializzata nel fornire medicinali a pazienti con malattie croniche che devono essere riforniti con frequenza. La pandemia ha creato anche qui dei comportamenti nuovi, costringendo le catene di farmacie tradizionali a rafforzare i loro servizi di consegne a domicilio. Walmart Supercenter a Burbank, California, USA, 15 luglio 2020 (ristampato il 17 novembre 2020) La convalescenza del consumatore americano continua ma è meno brillante di prima. Le vendite al dettaglio nel mese di ottobre sono cresciute dello 0,3% cioè meno delle previsioni. A settembre la ripresa dei consumi era stata +1,6%. A raffreddare la crescita intervengono le nuove paure create dalla seconda ondata del covid e le nuove restrizioni adottate in alcuni Stati Usa. Ma le medie sono ingannevoli perché all’interno della vasta categoria dei consumi ci sono vincitori e perdenti. Una delle beneficiate del coronavirus è l’industria dell’auto le cui vendite sono ripartite, un altro è il settore delle attrezzature per palestre (chi può si allestisce una mini-fitness in casa propria). Un termometro importante è dato dal gruppo Walmart, numero uno degli ipermercati americani ma anche concorrente di stazza di Amazon nel commercio elettronico. Walmart ha messo a segno +6,4% nel trimestre concluso a ottobre. E’ il suo terzo trimestre consecutivo in crescita. Ma gran parte della performance viene dalle vendite sul suo sito Internet. Tra gli altri segnali della convalescenza, continua da una settimana all’altra la ripresa delle assunzioni e il calo della disoccupazione. Le sanzioni americane contro Huawei continuano a infliggere danni al campione cinese delle telecom. Ultimo segnale: Huawei è costretto a vendere una delle sue marche di smartphone, la Honor. L’acquirente è un ente pubblico cinese, che sborsa l’equivalente di 15 miliardi di dollari. La marca Honor rappresentava da sola un quarto di tutte le vendite di apparecchi cellulari che la Huawei effettua in tutto il mondo (il volume totale di smartphone venduti dal gruppo è di 156 milioni all’anno). Il brand Honor è molto presente in particolare sui mercati dell’Europa centro-orientale. Due le possibili interpretazioni di questa dismissione. La prima la vede come un tentativo di mettere al riparo la marca Honor dalle sanzioni americane, che hanno chiuso molti mercati esteri ai prodotti Huawei. Un’altra interpretazione vede la mossa come un segnale di difficoltà finanziaria e un modo per fare cassa. da La Repubblica Titolo: FEDERICO RAMPINI. Le buone notizie, almeno sul fronte macroeconomico, vengono... Inserito da: Admin - Novembre 21, 2020, 06:55:26 pm Rep: Outlook di Federico Rampini
28 ottobre 2020 IN SINTESI Le buone notizie, almeno sul fronte macroeconomico, vengono tutte dall’Estremo Oriente. Oggi è la volta della Corea del Sud, ufficialmente uscita dalla recessione: +1,9% la crescita del suo Pil nel terzo trimestre. La quarta economia asiatica si accoda alla tendenza della Cina (+4,9%), del Vietnam (+2,6%) e di Taiwan (+2,2%). Da notare che, salvo la Cina, nessuna di queste nazioni ha fatto ricorso ai lockdown. A proposito di uscite dalla crisi, sul fronte sanitario ho raccontato come New York City abbia studiato il modello asiatico: dove la vera forza di Tokyo o Seul non va cercata nella tecnologia bensì nell’organizzazione umana, nella burocrazia efficiente, nel dispiegamento di tracer sul territorio. Lo stesso modello è stato studiato anche dalla città più tecnologica degli Stati Uniti, cioè San Francisco. La tecnopoli californiana sta allentando le restrizioni dopo aver visto scendere in modo sostanziale i contagi. Anche lì, non crediate che sia merito di qualche app miracolosa. No, come a New York anche a San Francisco la svolta c’è stata quando è aumentata in modo netto la capacità di effettuare tamponi, e poi di identificare, sorvegliare, assistere i positivi con una vasta forza lavoro umana, i tracer. STATI UNITI I dati sul Pil americano nel terzo trimestre escono domani. Le previsioni indicano che sarà un rimbalzo apparentemente favoloso: +7% rispetto al secondo trimestre, +30% su base annua. Sarebbe la crescita più forte dalla seconda guerra mondiale. Gli esperti raccomandano cautela, però: c’è un effetto ottico che amplifica le oscillazioni, legato alla pesante caduta precedente. Non aiuta l’asimmetria del calcolo percentuale: com’è noto, lo stesso 50% è ben diverso in discesa da una cifra alta o in risalita da una cifra bassa (se perdi il 50% di 100 dollari te ne rimangono 50, se poi recuperi il 50% ti ritrovi solo con 75 dollari). Unico dato indiscutibilmente positivo: molte famiglie americane, almeno quelle che non hanno perso ogni reddito, hanno potuto aggiustare l’equilibrio tra risparmi e consumi. La chiusura di negozi ha ridotto la capacità di spendere ed è automaticamente risalita la propensione al risparmio. Solo nel mese di aprile si calcola che siano stati messi da parte 6.400 miliardi di dollari, per mancanza di opportunità di spenderli. Fra i tanti referendum locali che si aggiungono all’elezione presidenziale di martedì prossimo, uno rimette in discussione la riforma-madre del neoliberismo reaganiano, nella sua culla originaria, la California. Correva l’anno 1978 quando i californiani approvarono la Proposition 13, per mettere un tetto costituzionale alle imposte sulle proprietà immobiliari. Questo 3 novembre tornano a votare per togliere quel limite, anche se soltanto sulle proprietà di tipo commerciale (cioè immobili affittati per uso ufficio o negozio). La Proposition 15 quest’anno è uno dei cavalli di battaglia della sinistra. La California tassa i beni immobiliari in base ai loro valori storici, non di mercato. I repubblicani e tutti coloro che si oppongono al cambiamento, obiettano che la California è già lo Stato con la più alta pressione fiscale sui redditi, insieme con New York. Idee vincenti, storie di successo in mezzo alla pandemia: oggi segnalo la start-up Notarize che consente l’autenticazione notarile a distanza, digitale (+400% di fatturato da marzo); e la start-up Latchable che ha inventato un sistema per aprire-chiudere le porte di uffici senza contatto fisico, in modo da evitare contaminazioni. Amazon continua ad aumentare la sua forza lavoro: assume altri centomila dipendenti per la stagione delle festività (che qui comincia di fatto sabato con Halloween, seguito da Thanksgiving a fine novembre che apre i saldi pre-natalizi). Al termine Amazon avrà più di 700.000 dipendenti solo negli Stati Uniti. Sul mercato americano Amazon cattura più di un terzo delle vendite online. ASIA I capitali credono nella Cina: è il paese che ha retto meglio di tutti come capacità di attrazione degli investimenti stranieri. Nel primo semestre del 2020 gli investimenti esteri diretti negli Stati Uniti sono crollati del 61%, in Europa sono scesi del 29%, mentre in Cina hanno perso solo il 4%. Da gennaio a fine giugno la Cina ha attirato 76 miliardi di dollari di investimenti diretti (esclusi cioè gli investimenti finanziari, gli acquisti di titoli), contro i 51 miliardi che sono affluiti negli Stati Uniti. Prosegue l’avvicinamento strategico fra India e Stati Uniti in chiave anti-cinese: l’ultimo gesto è la firma di un accordo bilaterale per la cooperazione nello spionaggio geospaziale fra Washington e Delhi. EUROPA Verso una svolta radicale nella politica fiscale spagnola, con un forte segno redistributivo. I piani del governo di Madrid includono un aumento della pressione fiscale sui dividendi, sui redditi oltre 300.000 euro annui, sulla successione oltre i 10 milioni di patrimonio. E’ prevista anche una stangata sulle “pensioni d’oro”. CONCLUSIONE Anche nella crisi la Francia non rinuncia a pensare in grande. Vi suggerisco la lettura di un dossier del Financial Times sulla “Françafrique”, il progetto di Macron di rilanciare i legami storici con l’Africa francofona. Da notare che il continente nero finora ha resistito bene al contagio del coronavirus, smentendo le previsioni degli esperti. Da – repubblica.it Titolo: FEDERICO RAMPINI. È boom delle Borse, ma l'Europa è tagliata fuori Inserito da: Admin - Novembre 21, 2020, 09:10:53 pm Outlook | È boom delle Borse, ma l'Europa è tagliata fuori
Posta in arrivo Federico Rampini - La Repubblica ven 20 nov, 19:11 (1 giorno fa) a me Le immagini non sono visualizzate. Visualizza immagini sottostanti - Visualizza sempre le immagini inviate da rep@repubblica.it Rep: Outlook di Federico Rampini Se non leggi correttamente questo messaggio, clicca qui Rep: Outlook di Federico Rampini 20 novembre 2020 Molte Borse sono ai massimi storici. In particolare quelle asiatiche e quelle americane, in una nazione che supera i 250mila morti e dove la seconda ondata impone nuovi lockdown. Il valore complessivo di tutte le Borse del pianeta punta verso i 95mila miliardi di dollari. Per avere un ordine di grandezza questo valore è superore al Pil aggregato di tutte le nazioni che raggiunge gli 83mila miliardi (è chiaro che le due grandezze non sono commensurabili: la capitalizzazione di Borsa misura il prezzo di uno stock di ricchezza in un preciso istante, i Pil misurano i flussi di reddito generati in un anno). L’Europa finora è rimasta tagliata fuori dall’euforia finanziaria. Che significato ha tutto questo? La spiegazione più facile riguarda il versante asiatico. Dove si è risvegliata perfino la Borsa di Tokyo, leggendaria per la sua interminabile depressione: quest’anno è risalita al punto tale da raggiungere il suo record trentennale. Il Giappone è uno dei nuovi “miracoli asiatici”: rientra in quel gruppo di Paesi – mai abbastanza studiati da noi occidentali – che hanno sconfitto in modo magistrale il coronavirus, senza ricorrere a lockdown, con interventi mirati, precisione chirurgica, efficacia massima nell’isolare i focolai sul nascere. Il Giappone è un maestro nel rinascere dopo le crisi, come racconto nel mio libro I cantieri della storia. Oggi partecipa a una ripresa economica che coinvolge Estremo Oriente e Sud-est asiatico, con al centro la locomotiva cinese. La Repubblica Popolare cinese chiuderà l’anno con una crescita del 2% del Pil. Vietnam e Taiwan la inseguono da vicino, e tutta quell’area oggi rappresenta la parte del mondo che è già fuori dalla crisi. Che i flussi dei capitali scommettano su quelle Borse è logico. La festa di Wall Street ha spiegazioni un po’ meno intuitive. Qui il divario di percezione tra l’economia reale e i mercati finanziari è stridente. L’economia americana chiuderà l’anno con un Pil pesantemente negativo e un tasso di disoccupazione più che raddoppiato rispetto a febbraio. La ripresa è cominciata e il terzo trimestre diede un risultato abbastanza spettacolare (in apparenza, perché il rimbalzo del +33% nel Pil non bastava a compensare il crollo precedente). Però nell’ultimo mese la forte impennata dei contagi, il ritorno di misure restrittive che stanno avvicinandosi a veri e propri lockdown, ha avuto la conseguenza di rallentare la ripresa. Lo si vede sul mercato del lavoro dove la convalescenza si è interrotta e le richieste di indennità di disoccupazione sono tornate a salire. New York Stock Exchange e Nasdaq sono un universo parallelo, sconnesso dalle sofferenze della maggior parte degli americani? Non è proprio così. La performance stellare di alcuni indici azionari ha spiegazioni razionali. Nel periodo più recente i rialzi delle Borse Usa sono stati alimentati dalle notizie sui vaccini. Non solo i due vaccini più prossimi al traguardo sono prodotti da multinazionali americane (Pfizer e Moderna), ma soprattutto la tabella di marcia per la loro approvazione, fabbricazione di massa, distribuzione, si sta facendo più ravvicinata di quanto si poteva prevedere. L’impatto di una vaccinazione di massa sarebbe molto positivo per la crescita economica, questo è indiscutibile. Gli investitori, dunque, pur vedendo che nel breve termine la situazione sanitaria ed economica peggiora, sono fiduciosi sul medio termine. Qualcosa di simile del resto sta accadendo sul mercato immobiliare, molto vivace negli Stati Uniti: tante famiglie stanno comprando casa, il volume di compravendite è ai massimi da 14 anni, anche questo è un segnale di fiducia (nel boom immobiliare si mescola anche qualche cambiamento strutturale, migrazioni interne, esodi dalle metropoli, o ricerche di abitazioni più ampie che fungano da casa-ufficio, investimenti spinti da prospettive di smartworking a lungo termine). L’altra spiegazione della performance di indici come S&P 500 e Nasdaq è legata alle fortune di Big Tech. Un trio di colossi digitali come Amazon, Apple e Microsoft ha avuto rialzi superiori al 30% dall’inizio dell’anno. Questi sono i colossi, insieme ad Alphabet-Google e Facebook. Poi dietro di loro c’è una miriade di aziende meno grandi ma ugualmente protagoniste di performance spettacolari: da Netflix a Logitech a Zoom, solo per citarne qualcuna. È un mondo che esce vincitore dalla pandemia. Tutta l’economia digitale, che ha in America i più importanti campioni mondiali o almeno occidentali (la Cina ha i suoi), assapora dall’inizio dei lockdown il trionfo che sappiamo. È come se i grandi innovatori concentrati sulla West Coast degli Stati Uniti avessero cominciato a prepararsi vent’anni fa per questa pandemia. Non è così – anche se a Bill Gates bisogna riconoscere virtù profetiche in questo campo – ma semplicemente l’economia digitale ha progettato e reso possibile un universo funzionale ai lockdown. Tutto ciò che ci consente di lavorare in smartworking, socializzare a distanza, occupare il tempo libero con serie tv e videogame, tutto esisteva già grazie alla Silicon Valley. Poiché queste stesse aziende avevano già raggiunto un peso dominante sugli indici di Borsa, i rialzi di Big Tech pesano in modo enorme sulla performance degli indici. Anche sotto questo profilo, non c’è nulla di irrazionale nel boom dei mercati. Naturalmente va ricordato che se Big Tech ha profittato in modo smisurato dei lockdown, qualche aggiustamento al ribasso sarà inevitabile quando i vaccini ci consentiranno di uscire dal confinamento. Tuttavia, alcune abitudini si saranno incrostate, sarà difficile cancellare il 2020 e tornare indietro al 100% a modalità di lavoro e stili di vita pre-pandemia. Alcuni cambiamenti strutturali sono irreversibili: tanti librai indipendenti, falliti sotto il rullo compressore della crisi e di Amazon, non rinasceranno. Amazon promette un attacco simile alle farmacie, dopo aver invaso e sconvolto tanti altri settori della distribuzione tradizionale. Un ultimo fattore dietro i rialzi delle Borse sono le politiche monetarie e di bilancio. Dal Giappone agli Stati Uniti le manovre di spesa pubblica per sostenere la ripresa hanno raggiunto livelli mai visti dalla Seconda guerra mondiale; nell’Eurozona questo sarà ancora più vero quando si sbloccherà il Recovery Fund. La politica monetaria è eccezionalmente espansiva nel mondo intero. Con i titoli pubblici che rendono poco o addirittura offrono interessi negativi, una parte di quella liquidità tende per forza a cercare investimenti più rischiosi, come le azioni. Purtroppo questo mix di politiche monetarie e rialzi di Borsa ha un effetto collaterale inquietante: tornano ad aumentare le diseguaglianze. Poiché i più ricchi, e soprattutto gli straricchi, possiedono una quota soverchiante dei capitali azionari, il boom delle Borse scava il divario con la maggioranza della popolazione. Non era scontato e non accadde in passato: le grandi calamità, come la Depressione o le guerre mondiali, tendevano a ridurre le diseguaglianze, non a peggiorarle. da - Repubblica.it Titolo: FEDERICO RAMPINI. Thanksgiving, un termometro di salute economica Inserito da: Admin - Novembre 25, 2020, 07:22:12 pm Outlook | Thanksgiving, un termometro di salute economica
Posta in arrivo Federico Rampini - La Repubblica Annulla iscrizione lun 23 nov, 18:55 (2 giorni fa) a me Le immagini non sono visualizzate. Visualizza immagini sottostanti - Visualizza sempre le immagini inviate da rep@repubblica.it Rep: Outlook di Federico Rampini Se non leggi correttamente questo messaggio, clicca qui Rep: Outlook di Federico Rampini 23 novembre 2020 Oggi vi scrivo dalla Left Coast, come ironicamente chiamiamo la West Coast, viste le sue preferenze politiche di sinistra. Credevo di essere un temerario, perché ho ignorato i ripetuti avvertimenti del dottor Anthony Fauci e di tutte le autorità sanitarie, mettendomi in viaggio. Questa è la settimana di Thanksgiving, “l’altro Natale” degli americani: giovedì 26 celebriamo una festa nazionale molto sentita, tradizionalmente l’occasione per riunire famiglie sparpagliate e distanti. L’America è grande, per raggiungere mia figlia che sta in California ieri ho volato per sei ore (in Europa neppure per andare dalla Finlandia alla Sicilia o da Lisbona a Varsavia si percorre una distanza lunga come da New York a San Francisco). Fauci e tanti altri ci hanno detto: quest’anno non viaggiate, state a casa, e possibilmente non invitate nessuno per il Thanksgiving, onde evitare nuovi picchi di contagio. La mia disobbedienza ha una giustificazione: il Covid l’ho avuto e quindi dovrei avere un’immunità almeno per qualche mese. Questo mi fa sentire il mio viaggio molto meno pericoloso, per me stesso e per gli altri. C’è anche l’esenzione che il governatore di New York Andrew Cuomo concede a noi giornalisti per trasferte di lavoro, e questa per me è anche una trasferta di lavoro. Sono nel cuore della Silicon Valley, la grande vincitrice dei lockdown, dove le aziende digitali più potenti del mondo galleggiano su una nuvola di profitti alta fino alla stratosfera. In effetti fin dalle prime ore questo viaggio mi ha dato informazioni interessanti. Comincio dal volo. United Airlines UA1978, da Newark a San Francisco: strapieno fino all’inverosimile, nessun distanziamento a bordo. L’obbligo di mascherina è rispettato, ma la compagnia non tiene più dei sedili vuoti come all’inizio della pandemia. Il conto economico pesa più delle precauzioni sanitarie. Malgrado le molte decine di miliardi ricevuti dai contribuenti per salvarle, la United e le altre compagnie aeree americane continuano a seguire una logica privatistica. A bordo ci hanno fatto vedere un video di auto-propaganda dove si sostiene che gli aerei sono l’ambiente più sicuro contro il contagio. Atterrato a San Francisco, roccaforte della sinistra più radicale, ho trovato l'aeroporto come ai bei tempi: brulicante di passeggeri, caotico, con il classico affollamento da Thanksgiving, pre-Covid. Nella Silicon Valley, che ha praticamente brevettato lo smartworking, lucrando un boom di profitti, il "rispetto per la scienza" non è così forte come si raccontava in campagna elettorale, quando i disobbedienti sembravano tutti da una parte sola. Al terminal United di San Francisco nessuno rispettava i distanziamenti. C’erano famiglie in partenza per le Hawaii per andare a fare il pieno di sole, raggi ultravioletti e vitamina D, che pare rafforzino le difese immunitarie. C’erano viaggiatori sbarcati come me dalla East Coast per ricongiungersi con familiari, e altri che stavano iniziando il percorso inverso. Nella lunga navetta tra le due metropoli più di sinistra degli Stati Uniti, ho visto con i miei occhi un’insubordinazione di massa. La buona notizia è questa: le due Americhe, democratica e repubblicana, almeno in questo sono meno polarizzate di quanto si dica. Thanksgiving qui è anche un termometro di salute economica. Essendo a tutti gli effetti la festa gemella del Natale, è il primo test per le grandi campagne dei saldi, promozioni e sconti. Black Friday e Cyber Monday sono stati inventati qui e poi esportati nel resto del mondo. Presumo che avremo un’altra orgia di successo per Amazon e compagnia. Le dimensioni esatte del rimbalzo di consumi ci diranno quale ripresa erediterà Joe Biden. Se tanto mi dà tanto, dall’affollamento del mio volo e dell’aeroporto di San Francisco direi che la voglia di ritornare alla normalità è visibile, trasversale, bipartisan. Lo spettacolo della Silicon Valley però costringe a riflettere. Lungo le due autostrade parallele 101 e 280 che congiungono le due tecnopoli digitali di San Francisco e San Jose, i “campus” delle aziende digitali assomigliano a dei templi Maya abbandonati. La conversione in massa allo smartworking è stata facile per un mondo che lo aveva inventato e già lo praticava prima del Covid, sia pure in maniera più selettiva. Molte aziende digitali hanno deciso che far tornare la manodopera in ufficio non sarà una buona idea neanche quando le vaccinazioni di massa avranno debellato il virus. Tutto un insieme di equazioni economiche non reggono più. Gli immobiliaristi che avevano speculato su ogni metro quadro della Silicon Valley rischiano di saltare per aria. Ma la stessa sorte minaccia le università più care del mondo, tipo Stanford. E’ evidente che la qualità dello studio in remoto non è paragonabile, e non giustifica rette sopra i 60.000 dollari annui. In alcuni settori il cambiamento forse è reversibile, in altri non si tornerà più indietro. Capirlo per tempo è indispensabile per chi non voglia essere travolto da questa crisi. P.S. Per non dare l’impressione di essere un irresponsabile, aggiungerò che una volta concluso il viaggio, qui in California le mie interazioni sociali sono limitate. E niente festini a Thanksgiving a casa di Costanza. Santa Cruz, 23 novembre Ricevi questa e-mail perché hai prestato a GEDI Digital S.r.l., Titolo: FEDERICO RAMPINI. L’Europa ha deciso di perdere la gara dei vaccini, per ... Inserito da: Admin - Dicembre 04, 2020, 09:24:37 pm Rep: Outlook di Federico Rampini
2 dicembre 2020 L’Europa ha deciso di perdere la gara dei vaccini, per troppa cautela? È l’allarme lanciato dal Financial Times, confrontando i tempi di approvazione dei due vaccini in pole position, quelli della Pfizer e della Moderna. Fulminea l’approvazione del primo da parte delle autorità inglesi, è già avviata in una corsia veloce quella americana, mentre la European Medicines Agency ha deciso di non pronunciarsi prima del 29 dicembre, dopodiché toccherà alle autorità nazionali. Se la ripresa dipende dalle vaccinazioni di massa, la lentezza europea rischia di accentuare il ritardo già evidente sul fronte economico. Infatti le previsioni Ocse per la fine del 2020 e il 2021 confermano che siamo in un mondo a tre velocità: la crescita è ripresa alla grande e continua ad accelerare in Estremo Oriente e in tutta l’area trainata dalla Cina; a metà strada c’è l’America; in coda c’è l’Europa. Di questo passo l’anno prossimo un terzo di tutta la crescita mondiale avverrà nella sola Cina. Fra le tre grandi economie dell’Unione europea, l’Italia si conferma la più debole; anche Germania e Francia però chiuderanno il 2021 in rosso, cioè senza aver recuperato le perdite del biennio, secondo l’Ocse. Incrociando questo scenario con i dati del Fondo monetario internazionale sulla spesa pubblica, si scopre che i Paesi dove la ripresa è più dinamica non sono necessariamente i più spendaccioni. In Occidente la manovra di spesa pubblica più energica è quella del Canada (16% del Pil) e tuttavia la ripresa canadese non è robusta come quella degli Stati Uniti. Inghilterra e Italia hanno una spesa pubblica superiore a Germania e Francia in percentuale sul Pil, ma crescono meno. La crisi degli uffici cambia l’abbigliamento femminile. Ecco un dato recente sullo spopolamento dei luoghi di lavoro nei centri urbani. Nelle dieci maggiori metropoli americane solo il 25% della manodopera è tornata in ufficio, e questo segna un peggioramento rispetto a ottobre quando era tornata a lavorare in azienda il 27%. Tra le conseguenze, il settore moda-abbigliamento sta cercando di adattarsi velocemente al nuovo stile casual dei consumi femminili. Anche le donne che in smartworking cercano di non trascurare troppo il proprio aspetto, evitando cioè di stare in pigiama o tuta da jogging, hanno tuttavia abbandonato i tacchi alti e altre divise da ufficio in città. Gli stilisti Usa stanno riesaminando tutta la gamma dei prodotti che offrono, in chiave smartworking. Più drammatica è la questione della riqualificazione per la forza lavoro nei settori maggiormente colpiti dalla crisi. Un’inchiesta del New York Times segnala iniziative come quelle del sindacato dello spettacolo che offre ai tecnici del cinema e del teatro corsi professionali per elettricisti. L’addestramento tecnico non è mai stato abbastanza sviluppato negli Stati Uniti eppure è proprio quello di cui oggi c’è un acuto bisogno. Intere categorie professionali sono in disarmo, dai tassisti agli addetti del vasto settore turismo-alberghi-ristorazione; mentre c’è sempre un deficit di idraulici, falegnami, per non parlare degli infermieri. Le ultime previsioni sul turismo d’affari citate dal Wall Street Journal indicano che la pandemia potrebbe ridimensionarlo di un terzo, praticamente per sempre: fino al 36% dei viaggi per business non torneranno più neanche dopo la fine della pandemia, perché sostituiti dalla routine delle videoconferenze che avremo tutti imparato a rendere più produttive, oltre che più economiche. L’aeroporto JFK di New York non prevede un ritorno alla normalità prima del 2024, e congela i progetti di ristrutturazione-ammodernamento. Per la prima volta nella storia la pubblicità digitale supera il totale di tutte le altre forme di pubblicità. GroupM, filiale di Wpp che gestisce investimenti pubblicitari per le aziende, calcola che negli Stati Uniti il totale del mercato pubblicitario a fine anno raggiungerà i 215 miliardi di dollari, di cui 110 miliardi di dollari saranno pubblicità digitale: quest’ultima sorpasserà per la prima volta la soglia del 50%. L’anno prossimo dovrebbe raggiungere il 54% del totale. Ancora tre anni fa la pubblicità digitale era solo un terzo del totale. Questo significa che Google e Facebook faranno sempre di più la parte del leone sul mercato pubblicitario, a scapito di tv e giornali. ASIA Le agenzie di rating cinesi resistono alle pressioni del loro stesso governo, che vorrebbe dei downgrading sui rating delle aziende pubbliche troppo indebitate. Le aziende cinesi – pubbliche e private – siedono su una montagna di debiti dell’ordine di 4.000 miliardi di dollari. Di recente ci sono stati default di importanti enti di Stato, che hanno creato allarme ai vertici del governo. E tuttavia le agenzie locali di rating continuano a confermare la tripla A anche per gruppi di dubbia solvibilità, confermando che la qualità della governance aziendale e la trasparenza dei bilanci hanno ancora dei progressi da fare. Accade molto lontano da noi, ma non dovremmo sottovalutare il braccio di ferro che oppone la Cina e l’Australia. L’economia australiana è strettamente integrata con quella cinese e dalla crescita asiatica ha ricavato grandi vantaggi. Di recente però il governo australiano non ha esitato a prendere posizioni dure verso Pechino: sul fronte dei diritti umani, di Hong Kong, nonché vietando a Huawei il mercato della telefonia 5G. La vendetta di Pechino è implacabile, tra gli altri prodotti australiani colpiti con superdazi c’è il vino che aveva proprio in Cina il suo sbocco più importante. Pechino sta usando l’Australia come una cavia per capire se le tattiche d’intimidazione funzionano per zittire le critiche. Cosa cambierà nella relazione bilaterale più importante di tutte, cioè quella fra gli Stati Uniti e la Cina? I primi segnali che vengono dalla squadra Biden confermano che la guerra fredda continuerà, però con toni e metodi diversi. Il primo test, non appena Biden s’insedierà alla Casa Bianca il 20 gennaio, sarà l’atteggiamento verso la tregua commerciale che Trump firmò nel gennaio 2019: Biden vorrà confermarla o meno? La sua segretaria al Tesoro designata, Janet Yellen, in passato fu molto critica verso la Cina e al tempo stesso scettica sull’utilità dei dazi. La Yellen sostiene che l’effetto dei dazi di Trump sulla competitività del made in China è stato cancellato in passato dalla svalutazione del renminbi. Da ex presidente della Federal Reserve, la Yellen potrebbe spostare l’accento nei negoziati con la Cina, insistendo sulla dimensione monetaria: meno dazi, se Pechino pilota il renminbi al rialzo. Un gesto molto atteso dagli europei, è la fine della guerra dei dazi su acciaio e alluminio made in UE. Occhio alla poltrona ancora vacante nella squadra economica di Biden, quella del negoziatore per il commercio estero. Intanto il Congresso di Washington preme già su Biden con proposte bipartisan in favore di barriere più efficaci contro gli investimenti cinesi, e in favore della promozione di standard tecnologici made in Usa nel 5G. La gara a chi impone i propri standard a livello mondiale è sempre stata una misura della leadership. Non a caso i cinesi stanno aumentando la propria influenza nelle sedi internazionali dove si decidono gli standard. New York, 2 dicembre 2020 ... Ricevi questa e-mail perché hai prestato a GEDI Digital S.r.l., Società controllata del Gruppo GEDI S.p.a., il consenso al trattamento dei dati. Titolo: FEDERICO RAMPINI. Nuove forme di globalizzazione nel mondo post-Covid Inserito da: Admin - Dicembre 04, 2020, 09:28:45 pm Outlook | Nuove forme di globalizzazione nel mondo post-Covid
Posta in arrivo Federico Rampini - La Repubblica 20:57 (28 minuti fa) a me Rep: Outlook di Federico Rampini 4 dicembre 2020 L’Asia ci stacca sempre di più in tanti settori, aggiungiamoci pure la scuola. Mentre in Italia (e in parte anche qui negli Stati Uniti), tanti giovani hanno subito un degrado nella qualità dell’istruzione, causa lockdown e insegnamento in remoto, attenzione a questa notizia che viene dalla Corea del Sud. Ieri quel Paese di 52 milioni di abitanti si è quasi fermato per otto ore, non per qualche emergenza sanitaria (il contagio è stato bloccato a livelli microscopici rispetto all’Occidente), ma per consentire a mezzo milione di studenti di affrontare nella massima concentrazione l’esame di ammissione all’università. Non in remoto, sia chiaro. Perfino i pochi casi di studenti positivi al coronavirus dovevano recarsi di persona nelle apposite aule allestite per l’esame; per loro erano previsti accorgimenti di massima sicurezza, dal distanziamento all’assistenza di personale medico. Talvolta i positivi hanno avuto a disposizione aule speciali attrezzate dentro reparti ospedalieri; purché partecipassero di persona all'esame, con tutti i controlli in presenza. La Corea del Sud, come il Giappone, Singapore, Taiwan e la stessa Cina comunista, eredita una cultura confuciana al cui centro c’è il valore dell’istruzione. Lo studio è sacro, i giovani vengono educati al rispetto degli insegnanti. Le famiglie sanno che una buona università frequentata con la massima applicazione dischiude le porte del mercato del lavoro. La meritocrazia è rigorosa. Ieri per consentire la puntualità assoluta all’inizio dell’esame, il silenzio e la concentrazione durante le otto ore di prove, ci sono aziende che hanno rinviato l’apertura onde evitare che coincidesse con il tragitto degli esaminandi; i mezzi pubblici andavano riservati con priorità agli studenti; la Borsa di Seul ha rinviato l’apertura delle contrattazioni sempre per non interferire con l’orario di avvio del grande esame nazionale; perfino decolli e atterraggi degli aerei sono stati ridotti e regolati per attenuare il rumore. Vale la pena anche ricordare che le più importanti multinazionali sudcoreane – da Samsung a Hyundai – devono competere sul mercato del lavoro con un altro datore di lavoro che può rubargli i giovani più qualificati: lo Stato. L’amministrazione pubblica sudcoreana è circondata di rispetto per la sua efficienza, ed è uno dei traguardi ambiti per i migliori neolaureati. L’Occidente intero, sempre più incupito nel fissare le proprie sciagure, troppo spesso provinciale ed autoreferenziale, dovrebbe dedicare un po’ di attenzione al mondo che avanza e che in questa pandemia allunga il suo vantaggio competitivo. STATI UNITI Preoccupante rallentamento della ripresa dell’occupazione negli Stati Uniti, solo 245.000 assunzioni a novembre. In compenso segnali positivi vengono dal settore dei servizi, che mette a segno il sesto mese consecutivo di crescita. Tra i settori rivoluzionati dalla pandemia aggiungiamoci il cinema, con questo annuncio: la venerabile Warner Brothers, la major di produzione cinematografica di Hollywood nata nel 1903 e celebre dai tempi del film “Casablanca”, ha deciso che tutti i nuovi film del 2021 usciranno simultaneamente nei cinema (quelli che saranno aperti) e sul suo servizio streaming Hbo Max. E’ la fine di un’epoca. La Warner prende atto che il futuro del cinema è a casa nostra. E la materia prima del futuro è il diossido di carbonio surgelato. Lo conosciamo tutti, sotto nomi più comuni: ghiaccio chimico o ghiaccio secco. La domanda sta esplodendo perché serve a conservare i vaccini a temperature polari. E’ un sottoprodotto nel ciclo dell’etanolo. I grandi produttori americani si stanno dando da fare per rafforzare la capacità. Ma cominciano a produrlo in proprio anche gli spedizionieri come UPS, e la stessa casa farmaceutica Pfizer che ha messo a punto uno dei primi vaccini. Questo sabato sera (ore 21 East Coast, 3 di notte di domenica in Italia) riappare Trump per il suo primo bagno di folla post-elettorale: in Georgia. Il comizio avrà come effetto quello di aumentare l'attenzione nazionale sulla posta in gioco in quello Stato. Si rivota in Georgia il 5 gennaio per eleggere due senatori: dal risultato dipende la maggioranza del Senato. L'esito più probabile sono due vittorie repubblicane e quindi una maggioranza di destra 52 a 48. Un miracolo democratico porterebbe alla parità assoluta, 50 a 50, nel qual caso la vicepresidente Kamala Harris ha la prerogativa di aggiungere il voto dello spareggio. Questo aprirebbe uno scenario un po' diverso aumentando la libertà di manovra di Biden. Resta da vedere che effetto avrà Trump su questa campagna, se il suo intervento può mobilitare la base e aiutare il suo partito a conservare un bastione di potere importante. La sua base continua a versare donazioni a Trump: ha raccolto 495 milioni di dollari in un mese e mezzo. Dovevano servire ad alimentare la battaglia giudiziaria per ribaltare l'esito del voto. Ora quel tesoro di guerra torna utile per altri scopi. La corsa al 2024 è già cominciata? Si moltiplicano le illazioni su quali siano i piani segreti di un uomo che farà di tutto per evitare la parola che lo ossessiona dai tempi del suo reality tv: "Loser", perdente. I notabili del partito repubblicano attendono nervosamente il suo primo comizio post-elezioni: il timore è che la sua insistenza sulla teoria del complotto, le frodi, le elezioni truccate, possa creare disaffezione e assenteismo proprio a destra. "Lady Huawei" potrebbe tornare presto in libertà e nel suo paese. Improvvisa svolta in un dossier che ha contribuito ad avvelenare i rapporti tra Washington e Pechino per due anni. La direttrice finanziaria di Huawei, Meng Wanzhou, che è anche la figlia del fondatore e presidente di quel colosso tecnologico, fu arrestata all'aeroporto di Vancouver esattamente 2 anni fa, il 5 dicembre 2018. L'arresto fu eseguito dai canadesi su richiesta della giustizia americana, con accuse pesanti: frodi bancarie per violare l'embargo sull'Iran. Da due anni la signora Meng vive in un esilio dorato, agli arresti domiciliari in una villa sontuosa, ma per i cinesi è una prigioniera politica. Pechino ha reagito con rappresaglie feroci contro il Canada, arrestandone due diplomatici che sono stati detenuti in tutt'altre condizioni: carcere duro. Ora lei sarebbe disposta a patteggiare riconoscendo qualche colpa in cambio della libertà. L'improvvisa svolta può forse preannunciare una nuova stagione nei rapporti tra le due superpotenze, anche se Biden sarà molto attento a non dare l'impressione di abbassare la guardia verso la Cina. Questa vicenda giudiziaria per due anni ha intersecato la grande battaglia contro Huawei da parte dell’Amministrazione Trump, che accusa il gigante telecom di vendere una tecnologia 5G pericolosa per la sicurezza dei Paesi clienti. Gli Stati Uniti hanno esercitato pressioni sugli alleati europei – con successo – affinché chiudano le porte al 5G made in China. Sempre per arginare l’espansione tecnologica di Huawei, il governo Usa ha imposto un embargo sulle forniture di tecnologie americane – si va dai semiconduttori al software Android di Google – che sta provocando dei problemi al gruppo cinese. L’arresto di Meng Wanzhou avvenne all’aeroporto di Vancouver proprio mentre si teneva un G20 a Buenos Aires e tra Xi Jinping e Donald Trump saliva la tensione per la guerra dei dazi. ASIA I vecchi scandali per corruzione sono un’ombra sul gigante cinese dei vaccini secondo il Washington Post. Il quotidiano americano ricorda le tangenti pagate dal capo della Sinovac, la più grande azienda di Stato cinese produttrice di vaccini anti-Covid. Gli scandali si riferiscono all'era pre-Covid, ma indicano una costante: ogni volta che Sinovac lanciò sul mercato un vaccino (dalla Sars nel 2003 all'influenza detta febbre suina 2009) pagò sempre tangenti all'authority cinese dei farmaci per farsi approvare il prodotto in tempi record. Contro la Cina può crearsi una nuova alleanza Usa-Ue all’insegna del protezionismo ambientalista. Ne è convinta la ministra francese dell’ambiente, Barbara Pompili. In un’intervista al Financial Times la ministra prevede un’intesa facile tra le proposte di Biden sull’ambiente, e l’idea già in cantiere a Bruxelles di una tassa carbonica alla frontiera. La tassa carbonica è un dazio mascherato, sia pure motivato da nobilissimi intenti. Colpisce le importazioni da Paesi con alte emissioni carboniche. La Cina è il bersaglio numero uno. Per Biden sarebbe l’occasione ideale di mantenere i dazi di Trump rivestendoli con un abito ideologico diverso. E concordando una linea comune con l’Unione europea. CONCLUSIONE Gli scenari troppo generici sulla fine della globalizzazione sono poco utili alle imprese. Bisogna entrare nel dettaglio, capire esattamente quali forme e manifestazioni della globalizzazione dell’ultimo trentennio hanno subito dei colpi fatali e irrimediabili dalla guerra fredda Usa-Cina e dal Covid; quali forme di globalizzazione invece si stanno trasformando per sopravvivere nel mondo post-Covid. Solo questo tipo di analisi ha qualche utilità per chi deve prendere decisioni. Tre documenti interessanti: uno studio della New York University commissionato dal gigante della logistica Dhl; un rapporto McKinsey e uno della Hsbc sul futuro della globalizzazione. Li riassume in un articolo di oggi la mia collega Gillian Tett della redazione newyorchese del Financial Times. L’indagine della banca Hsbc fatta tra 10.000 multinazionali rivela che il 93% sono preoccupate dalla vulnerabilità delle loro catene produttive e logistiche; quella di McKinsey ci dice che la maggioranza delle multinazionali incorpora nei propri scenari l’idea che degli shock destabilizzanti potranno avvenire in media ogni 3,7 anni. Il Covid ha aperto gli occhi a molti. Più che riportare a casa le proprie attività, mettendole al sicuro dentro le frontiere del proprio Paese d’origine, molte aziende globali cercano di correre ai ripari diversificando le proprie catene di approvvigionamento, assemblaggio, distribuzione. Questo significa – semplificando molto – che bisogna produrre in Cina per la Cina; ma se lo sbocco è in Europa o negli Stati Uniti ha più senso produrre in Vietnam o in Bangladesh, in Messico o in Romania. In certi casi un po’ di autarchia sarà inevitabile: non vogliamo dipendere dall’India e dalla Cina per i principi attivi dei nostri antibiotici e altri farmaci salva-vita. Il commercio globale chiuderà il 2020 in fortissimo calo; probabilmente anche il 2021. Ma al di là delle statistiche generali sarà più importante seguire la ricomposizione dei flussi. Infine un aspetto della globalizzazione che non s’indebolisce ma anzi viene esaltato da questa crisi – sostiene lo studio della New York University – è la circolazione dell'informazione. Il fenomeno Zoom & company, l’aumento esponenziale del nostro smartworking in videoconferenza su tutte le piattaforme digitali, ha reso più facile e meno costoso collegarsi in diretta con l’Asia, l’America, l’Europa. Chi sa usare questo accesso per migliorare la propria competitività e allargare lo spettro delle proprie opportunità, avrà usato bene questa crisi. ... Ricevi questa e-mail perché hai prestato a GEDI Digital S.r.l., Società controllata del Gruppo GEDI S.p.a., il consenso al trattamento dei dati. Titolo: FEDERICO RAMPINI. Per la Via della Seta il futuro è incerto Inserito da: Admin - Dicembre 10, 2020, 05:45:28 pm Outlook | Per la Via della Seta il futuro è incerto
Posta in arrivo Federico Rampini - La Repubblica Annulla iscrizione mar 8 dic, 21:34 (2 giorni fa) A me Rep: Outlook di Federico Rampini 9 dicembre 2020 La Via della Seta inciampa nella sua prima crisi? In apparenza è così (e il covid non c'entra). Il progetto titanico e "imperiale" di Xi Jinping, ufficialmente chiamato Belt and Road Initiative, sta tagliando brutalmente i suoi finanziamenti alle grandi opere fuori dalla Cina. L'erogazione di prestiti ad altri Stati per la costruzione di nuove infrastrutture raggiunse un picco di 75 miliardi di dollari nel 2016; l'anno scorso si è rattrappita a 4 miliardi di dollari soltanto. È una ritirata strategica, o un ridimensionamento tattico? Sembra che Xi Jinping pur con tutti i difetti tipici di un autocrate abbia la capacità di ascoltare le critiche. Di critiche, la Belt and Road Initiative ne ha collezionate tante: scarso rispetto per l'ambiente, per i diritti dei lavoratori, o per i diritti umani tout court. Soprattutto, scarsa sostenibilità finanziaria, come dimostrano i primi default di Stati debitori sia in Asia che in Africa. Quello che è stato giustamente paragonato al Piano Marshall del terzo millennio, si concluderà con un fallimento? Non è proprio così. Un anno fa spiegavo nel mio saggio "La seconda guerra fredda" che la Cina sta facendo un apprendistato: impara, anche sbagliando, come si diventa (o meglio si torna ad essere) una superpotenza globale con una capacità di leadership o influenza egemonica. Nella curva d'apprendimento la Belt and Road Initiative è essenziale: nel disseminare nuove infrastrutture nel resto del mondo, la Cina ha fatto molti sbagli e ha suscitato contro-reazioni; sta cercando di correggerne almeno alcuni, ma in questo modo acquisisce un know how che le tornerà utile. Assistiamo a un tirocinio imperiale su scala planetaria. Non è un esercizio che si conclude in pochi anni. Per i nostalgici del tempo che fu: addio al catalogo cartaceo di Ikea, travolto dai lockdown e dalla digitalizzazione sempre più spinta. Leggenda vuole che il catalogo di Ikea fosse in competizione con Bibbia e Corano per il record della diffusione mondiale. La casa svedese smette di stamparlo. La Silicon Valley è il luogo che ha stravinto la pandemia, per il boom di fatturato di Big Tech. Ma ospita anche un perdente designato: Airbnb, la app che per oltre un decennio ha cannibalizzato nel mondo intero il settore degli alberghi e il mestiere delle agenzie di affitto per seconde case. Con la paralisi del turismo, il crollo dei viaggi, Airbnb oggi potrebbe essere fallita. La storia di come sia riuscita a risollevarsi da un colpo tremendo, è ricca di lezioni per tutti. La Silicon Valley forse ha qualcosa da insegnare anche nella resilienza agli shock, nella rinascita degli sconfitti. La ricetta incorpora sempre una robusta dose d’innovazione. È la ragione per cui il collocamento in Borsa di Airbnb sarà al centro dell’attenzione dei mercati finanziari. Per la prima volta sono in vendita al pubblico 50 milioni di nuove azioni. Il prezzo di partenza è in una forchetta da 44 a 50 dollari per azione, ma si prevede che la forte domanda consentirà di salire verso i 56-60 dollari. È lo sbarco in Borsa di un’avventura cominciata nel 2008 a San Francisco, quando il trio dei fondatori – Joe Gebbia, Brian Chesky e Nathan Blecharczyk – si lanciò nell’affitto di posti letto in una delle città più care del mondo, dove la forza lavoro di Big Tech è sempre afflitta dalla penuria di case. Oggi Airbnb ha quattro milioni di “ospiti” – cioè i proprietari che offrono sul mercato stanze o appartamenti o intere case in affitto per brevi durate – e un catalogo di oltre 7 milioni di immobili. Intere zone del mondo sono state investite e sconvolte, nel bene e nel male, dal ciclone Airbnb. Italia inclusa. Città d’arte come Roma Firenze Venezia, la costiera amalfitana o quella ligure, hanno visto moltiplicarsi le offerte che transitano su questa piattaforma digitale americana, versandole una commissione cospicua. Si è allargata fino a insidiare altri business turistici, con l’offerta di viaggi gastronomici, corsi di yoga, in parallelo al business principale. Poi è arrivato il Covid. Ha chiuso molte frontiere, ha svuotato gli aeroporti. Ha colto Airbnb vulnerabile come ogni albergatore o affittacamere. Lo shock iniziale è stato effettivamente tremendo. Nel secondo trimestre dell’anno, aprile-giugno, il fatturato è precipitato del 72%, le perdite sono quasi raddoppiate. La valutazione di Airbnb, che aveva superato i 30 miliardi di dollari nel 2017, è scesa a 18 miliardi quando l’azienda ha dovuto chiedere aiuto alle banche. Ma già alla fine del trimestre successivo, il 30 settembre Airbnb chiudeva con 220 milioni di utile e la caduta del fatturato si era ridimensionata. La sua valutazione è risalita oltre i 40 miliardi. Com’è stato possibile? Flessibilità, rapidità nell’adattare l’offerta al contesto stravolto dalla pandemia. La risposta decisiva è stata questa: Airbnb ha visto cambiare il mercato immobiliare in poche settimane, e si è riconvertita per inseguire i nuovi bisogni. Sono crollate le vacanze all’estero, e in generale gli spostamenti su lunghe distanze. In compenso molti abitanti delle metropoli hanno cominciato a cercare soluzioni adatte a uno smart working di medio lungo periodo. È esploso un mercato degli affitti di vicinato, per esempio con l’esodo da Manhattan verso gli Hamptons, per i più ricchi, o verso le località sparpagliate lungo la valle dello Hudson fino all’Upstate New York: posti dove ritirarsi con la famiglia, continuare il lavoro a distanza per gli adulti e lo studio in remoto per i giovani, riducendo sia i costi sia i rischi di contagio. Airbnb ha saputo adattare velocemente algoritmo e configurazione del sito, per proporre al cliente affitti in un raggio di cento chilometri da casa propria anziché i Caraibi o la Costa Azzurra. A fianco a questo lavoro c’è stato anche il classico taglio dei costi: un quarto dell’organico licenziato, meno 54% gli investimenti di marketing. L’azienda continua a perdere, però questo fa parte del “paradigma” delle start-up. Uber perde molto di più. Amazon ha ignorato il profitto per moltissimi anni, inseguendo invece la quota di mercato e il potere monopolistico. Airbnb avrà altre sfide da vincere: dalle regolamentazioni sempre più restrittive varate in molte città d’America e del mondo, agli ostacoli che il governo cinese potrebbe frapporre contro la sua espansione. Nell’immediato, gli investitori diranno quanto la resurrezione ha conquistato la loro fiducia. In un comparto separato ma concorrente di Airbnb, segnalo questo segnale di ottimismo sul futuro del turismo in Europa: la catena americana di alberghi Hyatt vara il suo piano d'investimenti più ambizioso proprio in Europa: in un triennio vuole espandere di almeno un terzo la sua capacità ricettiva sul Vecchio Continente. Nelle crisi, chi riesce a spingere lo sguardo molto lontano prepara la rinascita con una lunghezza di anticipo sugli altri. Ricevi questa e-mail perché hai prestato a GEDI Digital S.r.l., Società controllata del Gruppo GEDI S.p.a., il consenso al trattamento dei dati. Da repubblica.it Titolo: FEDERICO RAMPINI. La vera sfida di Biden: far emergere una nuova élite Dem Inserito da: Admin - Dicembre 10, 2020, 05:48:37 pm Outlook | La vera sfida di Biden: far emergere una nuova élite Dem
Federico Rampini - La Repubblica mer 9 dic, 21:14 (13 ore fa) A me Rep: Outlook di Federico Rampini 9 dicembre 2020 Nella gara planetaria dei vaccini, che è il nuovo fronte della “seconda guerra fredda”, anche la Cina segna dei punti. Uno dei vaccini cinesi, quello dell’azienda di Stato Sinopharm, ha ottenuto l’approvazione dall’authority sanitaria degli Emirati arabi uniti. La strategia cinese sta puntando soprattutto all’esportazione dei vaccini verso i paesi emergenti. Nella gara tra le due Americhe, la scelta di Elon Musk segna un punto a favore di quella trumpiana. Il fondatore e chief executive della Tesla abbandona la California e si trasferisce in Texas. Non è il primo nel mondo del business a denunciare che la California governata dai democratici sta diventando una terra ostile all’imprenditorialità: troppe tasse, troppa burocrazia, costi della vita altissimi, infrastrutture decadenti, carenza di alloggi. Non è più l’ambiente ideale per favorire l’innovazione, sostiene Musk. La fuga dalla California, come la fuga da New York, è un tema ricorrente della storia americana. Talvolta si è rivelato più leggenda che realtà. Però questo è un Paese dove gli esodi di massa accadono davvero, e la mobilità geografica interna rimane un tratto distintivo degli americani. Nella gara tra le due Europe – quella centripeta e quella centrifuga – Londra azzarda una mossa per ingraziarsi Joe Biden prima ancora che il presidente-eletto si sia insediato. Il governo del Regno Unito annuncia che cancellerà i dazi sul made in Usa varati nell’ambito del contenzioso sui sussidi aeronautici Boeing-Airbus. È un gesto di buona volontà per aprire i negoziati a due su un trattato di libero scambio fra Washington e Londra. Biden per adesso non ha fretta e non vuole fare fughe in avanti bilaterali che offendano l’Unione europea. Fuggi fuggi dai vertici della Shell: a lasciare la multinazionale anglo-olandese sono i top manager delle energie rinnovabili, una parte di loro se ne vanno perché apertamente delusi dalla lentezza della transizione alla sostenibilità. L’economia ha bisogno di visibilità sul futuro. I “cigni neri” della pandemia, del lockdown e della depressione economica che hanno segnato il 2020 si dilegueranno nell’anno che viene? Outlook, il titolo di questa newsletter, significa scenario. Comincio quindi a interrogarmi sullo scenario americano per l’anno che verrà. Segnale premonitore: il 2021 appena nato si aprirà subito con un’elezione. Altro che anno post-elettorale, il 5 gennaio si torna subito a votare, sia pure solo in Georgia. La posta in gioco è altissima: la maggioranza al Senato, quindi l’agibilità politica di Joe Biden. Ma anche se il presidente dovesse vincere al Jackpot – due vittorie democratiche gli darebbero un Senato 50-50 col voto dello spareggio in mano alla vice Kamala Harris – i suoi margini di manovra saranno ridotti. Un pezzo del partito democratico non condivide quasi nulla delle promesse dell’ala sinistra: Green New Deal, legalizzazione degli immigrati clandestini, forte aumento delle tasse sulle imprese. Lo stesso Biden si era convertito in modo tiepido all’agenda più radicale solo per tenere insieme il suo partito. Negozierà compromessi con il centro politico – i moderati dei due partiti – per rilanciare la crescita economica e ridurre la disoccupazione. Pragmatismo rooseveltiano, stile New Deal ma senza riforme di quella audacia: Biden dovrà sperimentare tutto il possibile per uscire da un tunnel che è quello della pandemia+recessione. Al tempo stesso l’America ha bisogno di uscire da altri tunnel. Quello di una campagna elettorale isterica da ambo le parti, che ha lasciato rancori, voglia di vendette. Una campagna elettorale interminabile e sempre sul punto di ricominciare, quasi uno scenario da Groundhog Day (il film Ricomincio da capo con Bill Murray, del 1993). Fra meno di due anni arrivano le elezioni di mid-term, in cui sarà di nuovo in palio la maggioranza al Congresso. E se Trump conferma la sua candidatura per il 2024 possiamo già considerare iniziata la prossima campagna presidenziale. Mentre l’America cerca di uscire dal clima di “guerra civile a bassa intensità” che assorbe tanta parte delle sue energie, è costretta a prendere atto che il mondo non aspetta. Una parte del mondo è partita in una fuga in avanti, in ripresa dall’estate scorsa, e questa è la prima sfida che attende Biden: mentre lui duellava con Trump, la Cina si rafforzava come portatrice di un’alternativa globale e sistemica. Una vasta area del pianeta, con la Cina al suo centro, e nei primi cerchi concentrici l’Estremo Oriente e il sud-est asiatico, ha “profittato” della pandemia per una fuga in avanti che distacca l’America. Per quanto Biden sia un atlantista legato alla vecchia Europa, la logica geostrategica è stringente: si occuperà molto dell’Asia-Pacifico, dove si gioca il futuro e dove l’America rischia di rappresentare il passato. Una parte delle energie del nuovo governo andranno a ridefinire una strategia di contenimento della Cina: senza liquidare frettolosamente l’arsenale trumpiano (dazi, embargo su certe tecnologie, sanzioni), ma cercando di unirvi l’attenzione ai diritti umani. Il rischio è di adagiarsi su una riposta “default”, attingendo alla tradizione dell’establishment: con Biden è tornato al potere il vecchio establishment, ma furono le politiche di quella classe dirigente (trattati di libero scambio troppo favorevoli alle multinazionali e alla finanza) ad alimentare il trumpismo. Il vero test di Biden sarà la sua capacità di far emergere una nuova classe dirigente democratica, anagraficamente e culturalmente giovane. Lo aiuta il fatto che il capitalismo americano conserva risorse formidabili, “spiriti animali” capaci di alimentare la ripresa, se le politiche economiche non si mettono di traverso. L’insidia è che la crisi ha rafforzato in modo esponenziale Big Tech e Wall Street, due potentati economici che hanno avvelenato i valori della nazione e il suo codice etico. La rinascita dell’America sarà il tema dell’anno ma non basterà una rinascita della “vecchia” America, dello status quo ante. A proposito di Big Tech: è in arrivo una poderosa offensiva antitrust contro Facebook: la promuovono 40 ministri della Giustizia di altrettanti Stati Usa, insieme con l’authority nazionale della concorrenza Federal Trade Commission (Ftc). L’accusa sostiene che il gigante dei social media ha sistematicamente violato la legge per acquisire o eliminare dal mercato i propri rivali, ha abusato del proprio potere assicurandosi così una posizione dominante. Tra le operazioni nel mirino ci sono due delle acquisizioni più importanti, il social Instagram e la messaggeria WhatsApp. In ambedue i casi, secondo i promotori dell’azione legale, sarebbe chiaro il comportamento lesivo dei diritti degli utenti: al consumatore sono state sottratte le opzioni alternative, non ha avuto altra scelta se non di muoversi dentro l’universo chiuso di Facebook. Il social media creato e diretto da Mark Zuckerberg avrebbe anche trasformato il proprio controllo dei dati personali degli utenti in un’arma formidabile per schiacciare la concorrenza. L’offensiva legale è bipartisan, coinvolge Stati governati dai democratici e dai repubblicani, nonché una Ftc dove prevalgono i membri di nomina repubblicana. Tra gli obiettivi dell’azione giudiziaria ci sarebbe l’opzione di costringere Facebook a dismettere alcune delle sue acquisizioni per ripristinare una certa concorrenza sul mercato. L’annuncio dell’apertura di questo procedimento legale è stato anticipato dal Washington Post. Si tratterebbe della conclusione di un’istruttoria avviata un anno fa. Ricevi questa e-mail perché hai prestato a GEDI Digital S.r.l., Società controllata del Gruppo GEDI S.p.a., il consenso al trattamento dei dati. Da La Repubblica Titolo: FEDERICO RAMPINI. Un’arma segreta di Joe Biden per combattere il cambiamento ... Inserito da: Admin - Dicembre 15, 2020, 04:51:54 pm Rep: Outlook di Federico Rampini
14 dicembre 2020 Un’arma segreta di Joe Biden per combattere il cambiamento climatico sarà la finanza. E’ una legge varata dopo l’ultima grande crisi, il crac finanziario del 2008-2009, a consentire al prossimo presidente un margine di manovra ampio per una sterzata sulla sostenibilità: la legge si chiama Dodd-Frank, fu varata nel 2010 quando Biden era vicepresidente di Barack Obama. Limita la speculazione e impone i famosi stress test sulla stabilità delle grandi banche. Applicata da un’Amministrazione ambientalista includerà gli shock climatici in prima fila tra i grandi rischi per il sistema finanziario, e quindi proibire il finanziamento di attività legate alle emissioni carboniche. E’ questa oggi una delle speranze degli ambientalisti americani, per aggirare gli ostruzionismi del “partito carbonico” al Congresso. Biden è convinto dell’importanza di questa sfida. Ne vede anche la dimensione geostrategica. Ancora pochi giorni fa, in occasione del quinto anniversario degli accordi di Parigi, i media internazionali hanno fatto da amplificatore per la propaganda di Xi Jinping. Il presidente cinese, proprio mentre confermava gli obiettivi di zero emissioni su un orizzonte lontanissimo (2060), si è presentato come il leader mondiale dell’ambientalismo: “La Cina rispetta sempre gli impegni presi”, ha detto con un evidente allusione al ritiro di Trump dagli accordi di Parigi. Biden appena insediatosi il 20 gennaio annuncerà subito il ritorno degli Stati Uniti negli accordi di Parigi, ma sa che dovrà continuare a vedersela con l’offensiva ambientalista di Xi, per metà propaganda e per metà reale. Non aiuta a capire il ruolo della Cina la superficialità con cui i media occidentali avallano la retorica di Xi Jinping. La Cina in realtà continua ad aumentare le proprie emissioni carboniche; il suo impatto sul cambiamento climatico è quasi il doppio rispetto agli Stati Uniti; inoltre continua a crescere mentre quello americano diminuisce. Oggi la Cina genera il 28% delle emissioni carboniche mondiali contro il 15% per gli Stati Uniti. L’impronta ambientale cinese inoltre non tiene conto del fatto che la Cina continua a costruire centrali elettriche a carbone lungo le Vie della Seta, cioè nell’ambito della sua Belt and Road Initiative. L’impatto carbonico della Cina dovrebbe quindi includere le centrali a carbone che ha costruito, sta costruendo e costruirà nel resto dell’Asia e in Africa. Un’ulteriore divaricazione tra la Cina e l’Occidente deriva dall’impatto del Covid e dei lockdown: la Cina ha ripreso a crescere e ad aumentare l’inquinamento mentre l’Occidente attraversa una profonda recessione che abbatte drasticamente le emissioni di CO2. Il legame recessione-clima merita un’attenzione speciale per le potenziali ricadute politiche. Alla fine di quest’anno, a livello planetario le emissioni di CO2 saranno scese di 2,6 miliardi di tonnellate. È la più forte riduzione di emissioni carboniche dalla seconda guerra mondiale e questo dà la misura della durezza della crisi. Il declino è stato finora perfino più pronunciato negli Stati Uniti che in Europa. Gli obiettivi degli accordi di Parigi 2015 erano di tagliare le emissioni tra uno e due miliardi di tonnellate all’anno. La crisi attuale sta facendo di più. Rischia però di consolidare in alcune fasce della popolazione – le più colpite dalla disoccupazione – l’equazione tra ambientalismo e impoverimento. Terreno esplosivo sul quale già entrò in crisi Emmanuel Macron all’epoca della contestazione dei gilet gialli. La sostenibilità ambientale deve coniugarsi con la sostenibilità sociale. Nel frattempo la Cina è uscita dalla recessione nell’estate scorsa, ha ripreso a crescere e quindi ad aumentare le proprie emissioni. Xi Jinping è capace di vestire i panni di Mr Crescita e di Mr Ambiente, perché le dimensioni della Cina rendono possibili due realtà contraddittorie. Da una parte il suo impatto ambientale continua ad appesantirsi. Dall’altra parte è vero che la Cina persegue una leadership mondiale nelle energie rinnovabili, ha già conquistato una posizione dominante nel solare, punta ad essere numero uno nella produzione di auto elettriche. Gioca su due terreni, continua ad avere il capitalismo più carbonico del pianeta ma vuole anche dominare le tecnologie verdi. L’America senza dubbio ha perso terreno negli anni di Trump; e non solo per colpa del presidente uscente. Esiste una lobby carbonica anche nel partito democratico, in particolare quei politici eletti in Stati dove l’industria del gas, petrolio, carbone ha ancora un ruolo significativo. Pesa anche il ruolo di alcune grandi aziende petrolifere che hanno deciso di rimanere la retroguardia mondiale. In questo la divergenza tra Europa e Stati Uniti negli ultimi anni è stata anche sul terreno industriale. Exxon è stata la punta di lancia di una resistenza fossile; mentre compagnie petrolifere europee come Shell e Bp hanno accelerato la loro diversificazione sulle energie rinnovabili. I mercati finanziari però hanno premiato le rinnovabili e castigato gli affezionati al petrolio. Un grafico del Wall Street Journal è istruttivo, perché mette a confronto la capitalizzazione di Borsa di due categorie di aziende nell’ultimo decennio. Da una parte ci sono i big del petrolio: Exxon, Shell, Chevron, Bp. Dall’altra ci sono tre big delle energie rinnovabili: Enel, Iberdrola, NextEra. Nel 2010 queste tre ultime erano delle nane in confronto a Big Oil. Exxon dieci anni fa capitalizzava 364 miliardi di dollari contri i 47 di Enel. Oggi Exxon è caduta a 145 miliardi mentre Enel è quasi raddoppiata a 88. Ancora più spettacolare è stata la crescita di valore del leader Usa nella rinnovabili, NextEra, che valeva solo 22 miliardi dieci anni fa e oggi tallona Exxon a quota 136 miliardi. Nel frattempo Exxon è stata tolta dall’indice Dow Jones, un segnale non solo simbolico: certi fondi-indice, che amministrano una quota importante di risparmio, sono automaticamente dirottati verso altri titoli. In generale il mondo della finanza sta spostandosi a favore della lotta al cambiamento climatico. Era già vero in Europa ma lo diventa anche negli Stati Uniti. Due importanti fondi pensione americani – quello che gestisce le pensioni degli insegnanti in California, quello del pubblico impiego nello Stato di New York – disinvestono sistematicamente dalle energie fossili. Le banche JP Morgan Chase e Morgan Stanley hanno aderito all’obiettivo di raggiungere zero emissioni nette sul totale delle attività da loro finanziate entro il 2050. Un vento contrario, una novità in controtendenza, negli Stati Uniti si verifica sul cosiddetto sistema fiscale del “tax equity”, che consente di dedurre dai profitti delle banche e di tutti gli investitori gli investimenti in energie rinnovabili. Quando calano i profitti o addirittura i bilanci vanno in rosso, ovviamente si riduce l’incentivo. Il “tax equity” muove annualmente almeno 12 miliardi di investimenti ed è possibile che quest’anno conosca un ridimensionamento. In prospettiva però l’avvento della squadra Biden dovrebbe cambiare molte cose. Non bisogna aspettarsi il Green New Deal nella versione che piace all’ala sinistra del partito democratico. Quello che venne proposto da Bernie Sanders, Elizabeth Warren, Alexandria Ocasio-Cortez, puntava a un colossale piano d’investimenti in infrastrutture (mille miliardi di dollari) quasi tutto all’insegna della sostenibilità, risparmio energetico, auto elettrica, trasporti pubblici. Se i repubblicani conservano la maggioranza al Senato quel Green New Deal non passerà. Forse non passerebbe nemmeno con una maggioranza democratica, visto il peso dei moderati che non condividono quel progetto. Le grandi leggi di bilancio, i mega-piani di spesa pubblica, sono i più difficili da approvare con questi equilibri politici. Però c’è molto che la squadra Biden può fare senza passare dal Congresso. Larga parte della deregulation di Trump in favore delle energie fossili fu attuata con lo strumento degli “executive order”, cioè decreti presidenziali; Biden userà lo stesso strumento per disfare la deregulation. Tra i grandi operatori economici che già prendono atto di questa svolta c’è General Motors che si è ritirata dalla causa legale contro la California: ricordo che la California ha guidato la fronda anti-Trump da parte di una dozzina di Stati Usa, continuando a imporre i tagli di emissioni carboniche compatibili con gli accordi di Parigi su auto, camion, utility. Potrà essere decisivo il fatto che Biden ha designato due ambientalisti alla guida della sua squadra economica: Janet Yellen al Tesoro e Brian Deese alla direzione del National Economic Council. Questi due possono influire molto sul modo in cui vengono applicate le regole sulla vigilanza bancaria, imponendo ai grandi investitori gli stress test sul cambiamento climatico. Nella regolazione quotidiana del sistema bancario l’Amministrazione può fare molto per dissuadere banche e fondi d’investimento dal finanziare petrolio, gas e carbone. La transizione dunque dovrebbe accelerare, creando anche nuovi terreni di convergenza tra Stati Uniti e Unione europea. New York, 14 dicembre 2020. Ricevi questa e-mail perché hai prestato a GEDI Digital S.r.l., Società controllata del Gruppo GEDI S.p.a., il consenso al trattamento dei dati. da repubblica.it Titolo: FEDERICO RAMPINI. Anche il lusso si converte al digitale Inserito da: Arlecchino - Dicembre 17, 2020, 03:23:47 pm Outlook | Anche il lusso si converte al digitale
Posta in arrivo Federico Rampini - La Repubblica Annulla iscrizione lun 30 nov, 18:16 a me STATI UNITI E MONDO Le scene italiane di affollamento nei centri commerciali per lo shopping un tempo erano una modesta imitazione di quel che avveniva qui, negli Stati Uniti. Ma quest’anno è diverso. Le visite “fisiche” nei centri commerciali americani il giorno dei saldi di Black Friday sono crollate a metà dei livelli del 2019. Ha stravinto il commercio online con un balzo del 22% nel solo giorno di Black Friday: il secondo maggior afflusso online di tutti i tempi. Il lusso è un nuovo terreno di scontro mondiale fra Amazon e la cinese Alibaba, più un terzo protagonista che è la piattaforma Farfetch (in cui però Alibaba ha una partecipazione). Pinault ha già deciso da che parte stare, mentre Lvmh e alcuni marchi italiani sono ancora in ritardo. Diversi stilisti ed altre griffe esclusive hanno pensato per anni di poter fare a meno del commercio online, e soprattutto hanno considerato un errore strategico mescolarsi ai prodotti di massa venduti su Amazon. Oggi quei pregiudizi sono anacronistici, chi non si evolve è condannato, anche per il lusso è chiaro che sopravvive chi si converte velocemente al digitale. La geografia attuale vede una competizione fra tre poli, nessuno dei quali ha conquistato una posizione dominante (a differenza di quanto avviene in altri mercati dov’è emerso con chiarezza il numero uno: Spotify per la musica o Booking.com per gli hotel). La holding Richemont (che possiede tra gli altri Cartier, Van Cleef, Patek Philippe, Buccellati, Mont Blanc), pur avendo già la sua piattaforma Yoox Net-à-Porter per il commercio online, ha deciso di investire congiuntamente con Alibaba in un’altra azienda specializzata nelle vendite online del lusso, la Farfetch. Richemont e Alibaba investono ciascuna oltre mezzo miliardo di dollari per acquistare quote del 25% in Farfetch e nella sua filiale Farfetch China. Dietro di loro arriva il gruppo Pinault (che fra l’altro controlla Gucci e Yves Saint Laurent) con un investimento di 50 milioni di dollari in Farfetch. Così come Richemont con Yoox Net-à-Porter, anche Alibaba non esita a far concorrenza a se stessa visto che il colosso cinese ha già un suo ramo specializzato nel lusso, Luxury Pavilion. È la strada seguita da Amazon che ha lanciato una app, Luxury Stores, riservata ai clienti Amazon Prime. Jeff Bezos si è alleato con Vogue e ha già l’appoggio di alcuni marchi come Oscar de la Renta. È più indietro l’altro gigante francese, Lvmh, la cui piattaforma di vendita online 24 Sèvres, lanciata nel 2017, non ha mai veramente raggiunto il successo e continua a perdere soldi. Il consumatore cinese continua ad aumentare la sua importanza in questo settore: uno studio di Bain-Altagamma prevede che entro il 2025 la metà dei prodotti di lusso saranno venduti in Cina, rispetto al livello di un terzo che era stato raggiunto nel 2019. Un’analisi del Financial Times individua tra i gruppi più vulnerabili gli italiani Ferragamo e Tod’s, perché più piccoli e meno attrezzati sul commercio online. L’espansione di Amazon avviene anche sul mercato immobiliare, dove rappresenta una spinta positiva in contro-tendenza rispetto alla fuga dagli uffici. Proprio mentre altre aziende devono ridimensionare la propria “impronta” immobiliare per adeguarsi a uno smart-working di medio-lungo periodo, Amazon subentra comprando o affittando spazi in tutte le città d’America. Nella sola New York ha affittato enormi locali a Queens, nel Bronx, e a Staten Island, aumentando la propria presenza fisica di 130mila metri quadri aggiuntivi in pochi mesi. Molti di questi spazi sono magazzini per lo smistamento della merce e la gestione delle consegne nelle vicinanze, quello che nel nuovo gergo poetico del commercio online si chiamano i “fulfillment center” ovvero centri per la soddisfazione e l’appagamento della clientela. Offrono anche l’opzione di andare a ritirare la merce ordinata. Pure su questo terreno la distribuzione tradizionale fa del suo meglio per imitare Amazon. I grandi magazzini Macy’s hanno trasformato due dei loro centri commerciali nel Colorado e nel Delaware in “fulfillment center” per gestire il traffico online. ASIA L’economia cinese continua ad accelerare, la ripresa segna nuovi record anche rispetto alla situazione pre-Covid. L’indice dell’attività manifatturiera cinese è ai massimi da tre anni, quello per il settore dei servizi è al livello più alto addirittura da otto anni. Prima ancora che l’America celebrasse il “ponte consumista” tra Black Friday e Cyber Monday, i consumatori cinesi avevano goduto di una “maratona dei saldi” lunga 11 giorni a partire dal Singles’ Day. I dati di Alibaba, l’equivalente di Amazon, indicano un aumento del 26% degli acquisti online rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso. Tutto questo giustifica l’ottimismo dell’ultima previsione di Morgan Stanley: nel 2021 la banca americana punta su un ritorno della Cina ai ritmi di crescita di una volta: +9% di aumento del Pil, trainato soprattutto dai consumi che l’anno prossimo dovrebbero crescere del 13%. L’Occidente impari dal Giappone come si raggiunge una “denatalità felice”. Un editoriale del Financial Times rilancia il modello nipponico al quale ho dedicato più volte delle analisi. Nel giorno in cui tanti si stracciano le vesti per l’ennesimo calo della natalità, un’attenzione speciale a Tokyo ci renderebbe meno depressi. Il Giappone ha conosciuto per primo i problemi della denatalità e dell’invecchiamento, e ci dimostra che non sono così catastrofici come crediamo. La presunta “stagnazione” dell’economia giapponese è in gran parte un’illusione ottica: quando la popolazione declina, anche se il Pil non cresce il reddito il tenore di vita dei singoli abitanti migliora. È proprio l’attenzione alla qualità della vita, all’ambiente, insieme con gli investimenti per il miglioramento della produttività, il mix giapponese che occorre studiare. ITALIA Concludo su una nota lieve, a proposito dei troppi ritardi italiani nell’affrontare la nuova fase della rivoluzione digitale scatenata dalla pandemia. Un minuscolo esempio, aneddotico, tratto dalla mia esperienza. Come tutti voi, passo una parte delle mie giornate in video-conferenze di ogni tipo. Mi collego continuamente con gli Stati Uniti, con l’Asia, con l’Europa. Ma solo quando devo lavorare in video-conferenza con l’Italia, mi viene imposto un rito arcaico, una liturgia d’altri tempi: le "prove tecniche". 24 ore prima, o 48 ore prima di fare una normalissima video-conferenza su Zoom, Microsoft Teams, StreamYards, Webex o una delle tante altre piattaforme, l’interlocutore italiano mi chiede di fare la “prova”. Solo in Italia si usano, come se queste videoconferenze fossero l'equivalente di un lancio nello spazio della navicella orbitante. Zoom e tutte le altre piattaforme per teleconferenze sono ormai banali come le telefonate. In America le sto facendo al ritmo di tre al giorno. Se ci aggiungessi ogni volta la "prova tecnica" non avrei più neanche il tempo di respirare. Quando ci dobbiamo sentire al telefono o dobbiamo mandarci una mail facciamo una "prova tecnica" il giorno prima? Ricevi questa e-mail perché hai prestato a GEDI Digital S.r.l., Società controllata del Gruppo GEDI S.p.a., il consenso al trattamento dei dati. Titolo: FEDERICO RAMPINI. Si addensano le nubi tra Europa e Usa Inserito da: Admin - Gennaio 01, 2021, 06:54:26 pm Outlook | Si addensano le nubi tra Europa e Usa Federico Rampini - gio 31 dic 2020, 19:19 (23 ore fa) A me Rep: Outlook di Federico Rampini 31 dicembre 2020 Può sembrare un luogo comune dire che la rinascita si prepara e si costruisce nel periodo più buio, quando attorno tutto sembra indurre alla disperazione. Ma i dati dicono che sta già accadendo: in molti Paesi è ai massimi la creazione di nuove imprese, proprio in questa fine d’anno 2020. La nascita di start-up ha segnato un’impennata formidabile, in coincidenza con la seconda ondata di contagi e lockdown. Gli Stati Uniti guidano la classifica in questo che possiamo considerare un ottimo indicatore di fiducia nella ripartenza. I dati americani sono completi per il terzo trimestre dell’anno, concluso a fine settembre, quando già il Paese stava scivolando verso un netto peggioramento di tutti gli indicatori sanitari e tornavano molte restrizioni alle attività: in quel periodo le creazioni di nuove aziende hanno registrato un crescita dell’82% rispetto allo stesso trimestre del 2019. Il fenomeno si estende ad altre grandi economie. Nel Regno Unito sono disponibili dati ancora più recenti: a metà dicembre le creazioni di nuove imprese erano in aumento del 30% sull’anno prima. In Francia sono nate 84mila nuove imprese nel solo mese di ottobre, +20% rispetto all’ottobre 2019. In Giappone a settembre lo stesso indicatore segnava un rialzo del 14%. Oltre al fenomeno start-up, negli Stati Uniti l’ondata di ottimismo sulla rinascita prossima ventura si estende alle nuove quotazioni in Borsa, gli Initial Public Offerings: il mercato azionario americano ha registrato un record di nuovi collocamenti, 454 dal primo gennaio a Natale, con una raccolta complessiva di capitale di rischio pari a 167 miliardi di dollari. E’ stato battuto largamente il record precedente che risaliva al 1999, l’anno dell’euforìa legata alla New Economy, la prima rivoluzione di Internet. Poiché mi preparavo a far le valigie da Milano a San Francisco in quel Capodanno di 21 anni fa, non posso non ricordare che tre mesi dopo ci fu il crac del Nasdaq, l’euforìa fu seguita da un crollo. Però la New Economy continuò a generare campioni mondiali, ondate di innovazioni, e dall’euforìa di 21 anni fa nacquero gli embrioni dei vincitori della pandemia, i colossi di Big Tech. Parlando di rinascita, ricostruzione, ripartenza, cioè i temi "storici" del mio ultimo libro: la gara mondiale di velocità a chi esce per primo dai lockdown è stata stravinta dalla Cina nella prima fase ma ora se ne apre una seconda, legata alla capacità di gestire con la massima efficienza e rapidità le vaccinazioni di massa. Il Regno Unito sta cercando di conquistare il primato con due mosse audaci: il riconoscimento precoce del vaccino AstraZeneca (meno caro di tutti, e di più facile conservazione visto che può essere immagazzinato in frigoriferi normali), e la decisione di dilazionare di due o tre mesi la seconda dose del vaccino Pfizer, il che automaticamente raddoppia la popolazione a cui si può somministrare la prima dose. Il Regno Unito ha avuto una buona partenza: con oltre 625mila vaccinati fino a ieri, ha inoculato quasi l’un per cento della sua popolazione. Un livello proporzionalmente equivalente agli Stati Uniti, che ieri avevano superato la soglia dei tre milioni di vaccinati. Israele è campione mondiale con il 7% della popolazione vaccinata. I paesi dell’Unione europea sono tutti molto indietro in classifica, causa la ritardata approvazione dei vaccini, ma al loro interno già si scava un divario preoccupante tra i primi della classe (Danimarca, Germania) e l’Italia. Nella corsa mondiale la Cina finora non ha brillato con un milione di vaccinati pari allo 0,07% della sua popolazione, dato peraltro fermo al 19 dicembre. La Cina può accelerare da oggi, visto che è arrivata finalmente l’approvazione ufficiale del suo primo vaccino, prodotto dall’azienda di Stato Sinopharm. Gli esperti occidentali non sono convinti, lamentano la scarsa trasparenza nei dati sui test e quindi sull’efficacia di quel vaccino. Si conferma la sfida geopolitica mondiale visto che i cinesi hanno comunque piazzato i loro vaccini a grandi Paesi come il Brasile e l’Indonesia. In casa propria, ogni leader sta facendo delle vaccinazioni di massa un obiettivo strategico. Xi Jinping proclama che vuole vaccinare 50 milioni di cinesi entro metà febbraio, anche per prevenire un’ondata di contagi in occasione dei grandi viaggi per le feste del Capodanno lunare. Joe Biden ha promesso 100 milioni di vaccinati nei primi cento giorni del suo governo, cioè a partire dal 20 gennaio: per farcela dovrà incrementare in modo sostanziale la velocità di crociera attuale, visto che per i primi tre milioni di vaccinati ci sono voluti dieci giorni. In sostanza Biden deve triplicare la capacità. Altro che idillio fra Biden e l’Europa, continuano ad addensarsi le nubi. Ho già spiegato che l’accordo di principio Ue-Cina sugli investimenti, annunciato ieri, è uno schiaffo degli europei a Biden. Peraltro anche in seno all’Unione europea non mancano le critiche. Segnalo quella di Reinhard Buetikofer, che presiede la delegazione dell’Europarlamento per le relazioni con la Cina. L’influente eurodeputato tedesco, che appartiene al partito dei Verdi, definisce l’accordo “un errore strategico”, e in particolare considera “ridicolo” descrivere come un successo le promesse non vincolanti di Pechino sui diritti dei lavoratori. Non sarà facile la ratifica all’Europarlamento l’anno prossimo. Ma intanto nuove tempeste si preannunciano nei rapporti Bruxelles-Washington, o più precisamente il rischio che riesplodano dei conflitti temporaneamente sopiti: su digital tax e dazi. La Francia ha messo fine alla tregua sulla digital tax e torna a prelevarla su Amazon, Apple, Google, Facebook. Come rappresaglia sono già pronti nuovi dazi americani su oltre mille miliardi di euro di importazioni dalla Francia, soprattutto nel settore del lusso. Ma anche l’Italia compare in un successivo elenco di dazi americani pronti a scattare. Si aggiungono a quelli annunciati ieri – contro la Francia – nell’ambito dell’annosa disputa sui sussidi Boeing-Airbus. Insomma, Biden dovrà pensare a spegnere incendi, prima ancora di ricostruire una santa alleanza delle democrazie occidentali. Le questioni della digital tax e di Boeing-Airbus non sono peraltro delle eredità del protezionismo di Trump: la prima affonda le radici nell’era di Barack Obama, la seconda risale addirittura agli anni di George W. Bush. Infine, per aggiungere un altro elemento di conflittualità potenziale tra le due sponde dell’Atlantico, è diffusa la previsione di un'ulteriore svalutazione del dollaro, che ridurrebbe ancora la competitività degli esportatori europei. Oggi torna a parlarne uno scenario del Wall Street Journal, che sottolinea come la politica monetaria della Federal Reserve sia nettamente orientata a un dollaro debole. Intanto Xi Jinping continua a chiarire che cosa significa il “capitalismo politico” in Cina. Il primato della politica sull’imprenditoria privata si sta manifestando in modo spettacolare ai danni di Jack Ma, fondatore di Alibaba. Fra i tanti attacchi di Xi contro l’uomo più ricco della Cina, reo di aver criticato il governo, il più interessante si sviluppa nei confronti di Ant, la filiale del gruppo Alibaba che gestisce la finanza e i pagamenti digitali con la app Alipay. Xi Jinping era intervenuto pesantemente un mese fa, cancellando in extremis la quotazione in Borsa di Ant. Poi ha scatenato la sua banca centrale, che rimprovera ad Ant-Alipay di svolgere attività bancaria senza soggiacere a tutte le regole del settore. L’atto conclusivo è questo: la banca centrale costringe Ant ad accantonare riserve come se fosse una banca, e per questa ricapitalizzazione si fanno avanti dei grossi investitori istituzionali che appartengono allo Stato. Insomma si sta profilando all'orizzonte una nazionalizzazione della regina dei pagamenti digitali, che verrebbe così sottratta al controllo di Ma. Concludo ricordandovi un anniversario da brivido che si avvicina. Il 3 gennaio scorso io ero a Istanbul, quindi particolarmente attento alle notizie sul Medio Oriente, quando un drone americano uccise il generale Qasem Soleimani, leader delle forze iraniane Quds, mentre si trovava sul territorio iracheno. Fra tre giorni l’Iran (che nel frattempo ha subito un’altra perdita strategica, quella dello scienziato “padre” del suo programma nucleare, probabilmente assassinato dai servizi israeliani) potrebbe voler segnare l’anniversario con una rivincita. In previsione, il Pentagono ha mandato dei bombardieri B-52 a sorvolare il Golfo Persico. E’ un’altra dote che Biden eredita, a 20 giorni dal suo insediamento. Buon 2021. Ricevi questa e-mail perché hai prestato a GEDI Digital S.r.l., Società controllata del Gruppo GEDI S.p.a., il consenso al trattamento dei dati. Titolo: FEDERICO RAMPINI. Perché le Borse non hanno reagito all'assalto al Congresso? Inserito da: Arlecchino - Gennaio 11, 2021, 09:26:21 pm Outlook | Perché le Borse non hanno reagito all'assalto al Congresso? Posta in arrivo Federico Rampini - La Repubblica Annulla iscrizione 20:47 (36 minuti fa) a me Rep: Outlook di Federico Rampini 11 gennaio 2021 Bisogna sempre chiedersi perché “il cane non ha abbaiato”, come nel racconto di Arthur Conan Doyle. Tra le reazioni all’assalto del 6 gennaio contro il Congresso di Washington, il rumore assordante sui media e nel mondo politico rischia di nascondere alcune assenze di reazione e alcuni silenzi, almeno altrettanto significativi. Ho già osservato che non ci sono state grandi manifestazioni popolari della sinistra in difesa della democrazia (solo qualche sparuta protesta davanti alle Trump Tower, nulla di significativo). La Borsa va aggiunta alla schiera degli “indifferenti”. Il 6 gennaio è stato un non-evento per i mercati dei capitali. Come spiegarlo? Ci sono tante opzioni. Si può invocare il cinismo. I mercati azionari non assegnano un particolare valore alla democrazia, basta vedere la performance stellare delle Borse cinesi nel 2020. Si può invocare la saggezza: forse chi opera sui mercati dei capitali ha considerato l’aggressione a Capitol Hill come un evento grave ma sostanzialmente “folcloristico”, espressione di frange violente che sono sempre esistite ma che nel lungo periodo non incidono sul governo della nazione né sui destini dell’economia. Infine c’è l’interpretazione che privilegia il pragmatismo ed è quella che sceglie Rana Foroohar sul Financial Times. In questa lettura ci sono elementi positivi a fianco di elementi inquietanti. Il pragmatismo induce gli investitori a concentrare l’attenzione sui nuovi equilibri politici post-elettorali. Dopo il voto della Georgia di una settimana fa, l’esile maggioranza democratica nei due rami del Congresso può tradursi in nuove manovre di spesa pubblica a favore della ripresa, in aree importanti come la ricostruzione delle infrastrutture (un tema molto caro a Biden), la sanità, l’istruzione, gli aiuti alla finanza locale. Questi ultimi sono cruciali se Biden vuole vincere la sua sfida sulle vaccinazioni: 100 milioni di americani vaccinati nei primi 100 giorni del suo governo. Ho appena finito di ascoltare uno degli esperti che Biden ha riunito nella sua task force anti-covid, il medico Michael Osterholm. Secondo lui una spiegazione dietro l’attuale lentezza nelle vaccinazioni è proprio che i principali attori responsabili per la distribuzione sul territorio, cioè gli Stati, sono afflitti da una drammatica mancanza di fondi (ricordo che l’America sta facendo meglio dell’Europa avendo già vaccinato il 2,5% della popolazione; ma non basta). Insomma, se le Borse guardano al sodo, la sostanza è che tra dieci giorni si apre una fase nuova nella politica economica americana. Ma quanto nuova? Ricordo che nella primavera-estate del 2020 l’Amministrazione Trump contribuì all’approvazione di tre maxi-manovre di spesa pubblica; l’iniezione di potere d’acquisto fu vigorosa. Bisogna dunque sperare che la squadra Biden azzecchi una composizione più efficiente, foriera di benefici superiori. E’ più azzardato scommettere sull’ipotesi che Biden riesca a varare manovre quantitativamente superiori a quelle dell’anno scorso. Bisogna ricordare che al Senato le leggi più importanti continuano ad essere soggette al “filibustering” (noi diremmo ostruzionismo), per cui l’approvazione richiede 60 voti, ovverosia almeno 9 repubblicani “collaborazionisti”. Può darsi che un effetto collaterale benefico dell’assalto al Congresso sia quello di attirare un’ala moderata del partito repubblicano verso una stagione di intese bipartisan. E’ tutto da verificare, però. Condivido la visione pessimista dello studioso Michael Lind, secondo cui l’orribile vicenda del 6 gennaio è la manifestazione di una larvata guerra civile a cui contribuiscono da decenni sia la destra che la sinistra. Da ambo le parti ci sono delle élite che si sono costruite una rendita di posizione – politica ed economica – sull’istigazione all’odio, la faziosità, la cultura tribale. Tornando alle Borse, “il cane che non ha abbaiato” si spiega anche così: questo mercato dei capitali campa benissimo su una società sempre più dilaniata, afflitta da diseguaglianze che si sono allargate ulteriormente durante la pandemia. Non mi riferisco solo ai soliti sospetti come Jeff Bezos, quelli che in pochi mesi hanno aggiunto molte decine di miliardi al proprio patrimonio già cospicuo. Dietro le punte estreme dei Padroni della Rete, tutta la società americana è divisa tra vincitori e perdenti, lo si vede perfino sul mercato delle automobili: vanno benissimo le vendite dei modelli sopra 50mila dollari di prezzo, vanno male quelli sotto i 30mila. Le professioni privilegiate non hanno perso un centesimo di reddito grazie allo smart-working. Molti degli elettori di Trump appartengono a quell’America “senza laurea” dove si sono concentrati i danni economici dei lockdown. Gli assalitori del Congresso sono dei ribelli marginali e impotenti di fronte a una macchina del denaro che si sta coalizzando in modo implacabile contro di loro: la censura di Twitter, Facebook, Google, Amazon contro i social della destra, è la conferma che agli occhi dei grandi capitalismo americano questi “disturbatori della quiete” sono dei bifolchi irrilevanti. Ciò che conta per i vincitori della pandemia è altro. Cito i recenti annunci delle banche di Wall Street che lanciano una nuova ondata di buyback, con l’obiettivo di ricomprarsi il 15% di azioni proprie in un biennio. E’ un altro potente sostegno alla Borsa, che viene ad aggiungersi a quello semi-onnipotente della banca centrale. La Federal Reserve mantiene la politica monetaria più espansiva della storia. Uno dei grandi saggi che analizzano i trend dei mercati, Jeremy Grantham, di recente ha scritto quanto segue: “Il lunghissimo Toro di Borsa che dura dal 2009 si è ormai trasformato, è maturato a tutti gli effetti, in una bolla di proporzioni epiche. Le sue caratteristiche sono sopravvalutazioni estreme, aumenti di prezzi esplosivi, frenesia di nuove emissioni di titoli, un comportamento degli investitori istericamente speculativo. Io credo che questo evento verrà ricordato come una delle più grandi bolle della storia finanziaria, a fianco del 1929”. Rana Foroohar aggiunge che l’euforia delle Borse non ha alcuna ricaduta benefica sugli investimenti nell’economia reale. Il debito totale degli Stati Uniti – pubblico e privato – è cresciuto dal 142% del Pil nel 1980 al 254% nel 2019, alla vigilia del covid che ne ha provocato un ulteriore e poderoso aumento. Nello stesso arco di tempo gli investimenti produttivi in proporzione al Pil sono diminuiti, non aumentati. Tutto questo potrebbe preludere a un tracollo di Borsa, o per lo meno a un “aggiustamento”, termine pudico che indica un ribasso sostanziale? Biden se vuole finanziare le sue spese dovrà riuscire ad aumentare le tasse sulle imprese. E’ possibile che faccia rinascere anche un po’ d’inflazione e infatti da qualche giorno i tassi d’interesse su alcuni bond sono in risalita. Tutto questo converge a dipingere uno scenario in cui gli investitori azionari rimpiangeranno gli anni di Trump come l’ultima età dell’oro? Gli altri possono consolarsi così: la Borsa è talmente dissociata dall’economia reale, che un suo calo potrebbe essere perfino l’annuncio di tempi migliori per tanti americani. In Asia oggi voglio concentrarmi su un attore piccolo: Taiwan. Taiwan è un osservatorio importante sulla Cina. Quando io cominciai a esplorare la Cina più di vent’anni fa, mi resi conto del ruolo strategico dei taiwanesi. Erano stati i primi a capire la svolta di Deng Xiaoping, a cogliere le opportunità d’investimento in un Paese che si apriva. Noncuranti delle tensioni politiche fra Pechino e Taipei, gli imprenditori taiwanesi facevano la spola, erano i pendolari della delocalizzazione, aprivano fabbriche nella madrepatria continentale, trapiantavano sulla terraferma capitali, tecnologie, cultura del marketing. Furono l’avanguardia dei grandi flussi globali di investimenti verso la Cina a cui si accodarono più tardi gli americani e gli europei. Solo giapponesi e coreani erano stato quasi altrettanto preveggenti e veloci, mai quanto i taiwanesi però: non foss’altro che per il fatto di parlare la stessa lingua, di appartenere alla stessa etnìa e civiltà, i taiwanesi hanno sempre avuto una marcia in più. Dagli anni Ottanta in poi lo stock complessivo di investimenti taiwanesi accumulati in Cina è dell’ordine di 200 miliardi di dollari. E’ di proprietà taiwanese la fabbrica che assembla i prodotti di Apple in Cina, la Foxconn con base a Shenzhen nel Guangdong. Grazie alla sua scelta di localizzare le sue fabbriche sul continente, la Foxconn ha avuto uno sviluppo strabiliante, dalla quotazione in Borsa del 1991 in un decennio il suo fatturato fu moltiplicato per 65. E’ diventata la più grande fabbrica di prodotti elettronici del mondo. Perciò oggi è significativo che proprio i taiwanesi abbiano intrapreso un cammino in senso inverso. Non è una fuga precipitosa dalla Cina, ma è un ridimensionamento, una smobilitazione. E’ già in corso da qualche anno questa ritirata dei taiwanesi dalla Cina, e vi ha contribuito il protezionismo di Trump, la barriera dei dazi sul made in China. Altri fattori erano pre-esistenti: il costo del lavoro sale da molti anni in Cina riducendo i vantaggi competitivi; il governo di Pechino ha smesso di offrire gli incentivi fiscali o i sussidi con cui un tempo attirava gli investitori stranieri. L’anno scorso, il flusso totale di investimenti da Taiwan alla Cina si è dimezzato. Molti spostano le attività verso altre nazioni asiatiche: dall’India al Bangladesh al Vietnam. Qualcuno la riporta in patria, nonostante i costi di produzione siano più elevati. E’ un segnale che le imprese di altri Paesi dovranno studiare, visto il ruolo di Taiwan come pesce-pilota. Repubblica da ascoltare: visita la sezione dedicata ai contenuti audio e ai podcast Ricevi questa e-mail perché hai prestato a GEDI Digital S.r.l., Società controllata del Gruppo GEDI S.p.a., il consenso al trattamento dei dati. Titolo: FEDERICO RAMPINI. È il grafico che un italiano non vorrebbe mai vedere. Inserito da: Admin - Gennaio 20, 2021, 12:02:54 am Rep: Outlook di Federico Rampini
19 gennaio 2021 È il grafico che un italiano non vorrebbe mai vedere. È in prima pagina sul Wall Street Journal di oggi. Illustra la crescita economica nel 2020, per le 12 economie più ricche del pianeta. Annus Horribilis visto che il Pil mondiale è sceso del 4,4%. Però le performance delle varie economie divergono. E l’Italia è proprio l’ultima, 12esima su 12, dietro l’India. La Cina è prima ed è l’unica a finire col segno più, in crescita del 2,3%. È la vincitrice del 2020 e questo continua ad avere conseguenze economiche e geopolitiche rilevanti, sullo scenario della nuova guerra fredda tra le due superpotenze. Dietro la Cina, altre due nazioni dell’Estremo Oriente, Corea del Sud e Giappone figurano nel quintetto di testa, nel 2020 hanno avuto Pil negativi ma sono riuscite a contenere i danni. In parte lo devono alla loro efficienza sanitaria nel contenere il Covid, in parte alla loro integrazione con l’economia cinese. Gli Stati Uniti se la cavano meno peggio di tutte le altre economie occidentali, Canada incluso. Il Pil americano ha perso il 4,3% nel 2020, il che significa una performance di quasi 7 punti inferiore alla Cina. Però l’America è quarta in classifica e distanzia tutti gli europei. La Germania, prima della classe in Europa, ha avuto due punti di crescita in meno degli Stati Uniti. Non vi è una ragione unica per cui l’America è riuscita a subire un danno meno pesante dell’Europa. L’economia Usa viene da un lungo periodo di maggiore dinamismo, seppe riprendersi prima e meglio dell’Europa dalla crisi del 2008; ha un ambiente fiscale e normativo più favorevole all’attività d’impresa e alla creazione di lavoro; ha una politica monetaria più aggressiva in favore della crescita. L’altro fattore che ha contribuito senza dubbio nel 2020 è stato il vigore delle manovre di spesa pubblica, concordate fra Donald Trump, la Camera a maggioranza democratica, il Senato a maggioranza repubblicana. Le stime quantitative sulle dimensioni precise di quelle manovre variano molto, a seconda di quello che si vuole considerare dentro o fuori, quello che si considera spesa d’emergenza o spesa ordinaria. Io in questa newsletter ho adottato una stima molto larga, fatta dal Congressional Budget Office, che arriva a 5.400 miliardi di dollari, pari al 25% del Pil. Altri considerano che le manovre di spesa veramente extra, anti-Covid e anti-recessione, sono state la metà. Resta un dato incontestabile, e cioè l’eredità sui conti pubblici: l’indebitamento complessivo (a cui ha contribuito anche il calo di gettito fiscale) è aumentato facendo salire l’ammontare di titoli del Tesoro di 7 trilioni, ovvero 7.000 miliardi di dollari in un anno. Lo stock di titoli del debito federale ha raggiunto 21,6 trilioni o 21.600 miliardi cioè il 100% del Pil. Non è un livello allarmante per un’economia come quella degli Stati Uniti, visto che Paesi come Italia e Giappone sono da molti anni ben al di sopra di quella soglia, e non hanno neppure l’appannaggio imperiale che ha l’America, cioè la facoltà di emettere titoli in una moneta universale, che il mondo intero considera la più liquida, la più sicura. E tuttavia il debito eguale al Pil per gli americani è una soglia politicamente significativa. In queste ore Janet Yellen, designata da Joe Biden come la futura segretaria al Tesoro, passa gli esami al Senato per la conferma della sua nomina. La stessa Yellen incarna nella sua persona una parabola ideologica molto emblematica. Quando fu la capa dei consiglieri economici della Casa Bianca, sotto Bill Clinton, lei era l’esponente tipica di una sinistra convertita al neoliberismo, favorevole ai trattati di libero scambio, e al rigore nei conti pubblici. Quando Barack Obama la nominò alla guida della Federal Reserve aveva già cominciato una correzione ideologica, un pentimento: riassorbire la disoccupazione creata dalla crisi del 2008 era diventata la priorità, il pareggio dei disavanzi e la lotta all’inflazione passavano in secondo piano. Adesso la Yellen si appresta a guidare il Tesoro in pieno revisionismo: al diavolo l’equilibrio delle finanze pubbliche, bisogna curare una depressione con ogni mezzo possibile. Delle tesi che ancora pochi anni fa erano sostenute solo dalle frange più radicali della sinistra, come Bernie Sanders e i fautori della Modern Monetary Theory, ora sono accettate da tanti democratici più moderati. Non necessariamente da tutti, però. E bisogna vedere quanti repubblicani continueranno a sostenere maxi-manovre di spesa anche ora che non c’è più Trump alla Casa Bianca. Il presidente uscente, infatti, dal punto di vista dell’ideologia economica era più vicino ai democratici che non ai conservatori tradizionali. Il 2021 si apre all’insegna di un “monocolore democratico” visto che il partito di Biden ha conquistato la Casa Bianca e di strettissima misura anche il Senato, oltre a conservare una risicata maggioranza alla Camera. Però per passare grandi manovre di spesa pubblica quelle maggioranze esili rischiano di non bastare. Sono vulnerabili alle defezioni di democratici moderati. E le procedure parlamentari, soprattutto al Senato, rendono molto più agevole l’approvazione di leggi di bilancio con una maggioranza qualificata di 60 senatori su 100. La Yellen dovrà allargare la platea dei convertiti alla bontà dei maxi-deficit. L’altra superpotenza guarda il mondo intero dall’alto in basso, ma non può ignorare i propri problemi interni. Dietro l’ottima crescita del 2020 affiora una debolezza strutturale pre-esistente, la bassa produttività dell’economia cinese in generale. E quest’ultima si è aggravata via via che Xi Jinping ha aumentato il peso delle grandi imprese pubbliche. I dati che cito sono in un rapporto del Fondo monetario internazionale, secondo cui la produttività media dell’economia cinese è solo il 30% di quella delle altre grandi economie mondiali, cioè Stati Uniti, Giappone e Germania. Certo, in questo dislivello enorme si vede la traccia della storia: la Cina è ancora in parte un’economia emergente, il che significa che alcuni pezzi del suo settore produttivo ereditano arretratezze, capitali insufficienti, macchinari e metodi di produzione basati sulla disponibilità di manodopera a buon mercato. L’agricoltura ha ancora un peso superiore a quello di Paesi di più antica industrializzazione. Ma l’altra causa del notevole ritardo della Cina in termini di produttività è legata al suo modello di sviluppo che Xi ha ulteriormente rafforzato: il ruolo enorme delle grandi imprese di Stato. I calcoli del Fmi dicono che questi conglomerati pubblici in media hanno una produttività che è solo l’80% di quella delle imprese private cinesi. Negli ultimi anni la Cina ha addirittura rallentato i suoi progressi in termini di efficienza aziendale, la crescita della produttività era stata del 3,5% annuo dal 2008 al 2012 ed è calata allo 0,6% dal 2012 al 2017. Questo è legato al fatto che con Xi Jinping – al timone proprio dal 2012 – le grandi aziende di Stato sono tornate al centro delle attenzioni del governo, e il loro peso sull'economia è aumentato. Nel 2018 gli attivi totali delle aziende di Stato valevano il 194% del Pil, più di quanto valessero vent’anni prima e molto più che in qualsiasi altra economia sviluppata. Il modello di “capitalismo politico” che caratterizza la Cina – primato della politica sull’economia, dirigismo, forte ruolo dello Stato – non è solo criticabile dal punto di vista occidentale perché esercita una concorrenza sleale. Per la stessa ragione per cui un’impresa italiana o americana si sente svantaggiata a competere con un’azienda cinese che ha accesso a sussidi pubblici e credito agevolato, anche un’impresa privata cinese subisce la stessa concorrenza sleale. È all’interno della stessa Cina che si svolge una competizione ad armi impari, fra chi gode della benevolenza governativa e chi no. Washington, 19 gennaio 2021 Ricevi questa e-mail perché hai prestato a GEDI Digital S.r.l., Società controllata del Gruppo GEDI S.p.a., il consenso al trattamento dei dati. Titolo: FEDERICO RAMPINI. Un mondo a tre velocità Inserito da: Arlecchino - Marzo 02, 2021, 09:02:12 pm Outlook | Un mondo a tre velocità
Posta in arrivo Federico Rampini - La Repubblica Annulla iscrizione ven 5 feb, 17:10 a me C’è chi cresce troppo poco, e chi cresce troppo. In Cina molte grandi fabbriche stanno offrendo premi salariali speciali alla manodopera perché accetti di rinunciare alle vacanze del Capodanno Lunare. Il boom dell’export è tale che grandi stabilimenti come quelli della Foxconn, Pegatron e Luxshare che assemblano prodotti Apple non riescono a star dietro agli ordinativi. Accelerano i tempi della nuova manovra anti-crisi a Washington, forse sarà varata stasera stessa. È la prima manovra di bilancio dell’era Biden. Vale 1.900 miliardi di dollari e interviene su tre fronti principali: aiuti diretti ai cittadini, nuovi fondi alla campagna vaccinazioni e trasferimenti dal Tesoro federale nelle casse degli Stati che hanno sopportato spese-extra e caduta di gettito fiscale. La svolta è venuta con la decisione di non cercare consensi repubblicani e usare il voto di Kamala Harris per avere la maggioranza al Senato. Questo consente di varare la manovra di spesa pubblica nella sua dimensione più elevata. La Camera potrebbe votare l'approvazione definitiva sul testo approvato stamattina al Senato. L’accelerazione giunge insieme a un dato sul mercato del lavoro: creati solo 49.000 nuovi posti (assunzioni aggiuntive al netto dei licenziamenti) nel mese di gennaio: la ripresa si conferma ma resta ancora troppo lenta rispetto alle necessità, rallentata dai lockdown che paralizzano tante attività di servizio. Nella manovra Biden il pezzo forte è un nuovo trasferimento diretto sul modello di quelli effettuati nel 2020 e ancora all’inizio del 2021 (manovra di Natale): tutti gli americani sotto i 50.000 dollari di reddito annuo riceveranno un altro bonifico bancario o assegno da 1.400 dollari, ovvero 2.800 dollari per le coppie sotto i centomila di reddito annuo. Al di sopra di quelle soglie di reddito ci saranno aiuti decrescenti fino a scomparire. Si stima che il 70% degli americani riceverà questo sussidio pieno e il 17% lo riceverà in misura ridotta. E tre. La Johnson&Johnson vuole seguire il percorso-turbo che ha già consentito a Pfizer e Moderna di offrire il vaccino in tempi record. La terza multinazionale americana che è pronta a tagliare il traguardo chiede lo stesso trattamento: la “procedura di emergenza”, cioè la corsia superveloce per l’esame finale e l’approvazione da parte dell’authority americana dei farmaci, la Food and Drugs Administration (Fda). Se l’operazione scorciatoia si ripete per la terza volta, la Johnson&Johnson è già pronta ad avviare la produzione industriale su larga scala. Sarebbe un risultato prezioso per l’Amministrazione Biden: dalle due fabbriche situate a Baltimora e in Olanda, la J&J potrebbe fornire 30 milioni di dosi già ad aprile e 100 milioni entro la fine di giugno. Poiché il vaccino J&J è mono-dose, ai fini della popolazione da inoculare “vale il doppio” rispetto ai quantitativi dei vaccini Pfizer e Moderna, che richiedono due dosi. Il prodotto J&J inoltre facilita la distribuzione perché non richiede la conservazione a temperature così basse come i due concorrenti che lo hanno preceduto. È meno efficace, però: nei test risulta efficace al 72% sui pazienti statunitensi (contro un'efficacia leggermente superiore al 90% per Pfizer e Moderna), e solo al 57% per la variante sudafricana del Covid. L’avvicinarsi del terzo vaccino giunge in una fase in cui la campagna delle immunizzazioni accelera negli Stati Uniti. Gli americani che hanno già ricevuto almeno una dose sono 36,7 milioni, pari all’8,7% della popolazione. L’America continua ad allargare il divario rispetto all’Europa, la sua percentuale di popolazione inoculata è più del triplo di quella europea. Il ritmo delle vaccinazioni Usa ormai supera 1,3 milioni al giorno e quindi si sta avvicinando all’obiettivo fissato da Biden che è 1,5 milioni. Al tempo stesso si accentua la competizione geo-sanitaria fra quattro superpotenze: Cina, Russia e India continuano ad allargare l’offerta dei loro vaccini ad altri paesi. La Cina e l’India avanzano in Asia Africa e Sudamerica; la Russia ha fatto breccia anche in Europa dopo la disponibilità della Germania ad acquistare il suo vaccino Sputnik. Il ritardo dell’Europa si riflette pesantemente nelle performance economiche: il Fondo monetario internazionale vede nel 2021 un mondo a tre velocità, con la Cina che guida la ripresa più vigorosa trainando alcuni paesi asiatici, in un secondo gruppo c’è l’America, mentre ultima arriva l’Eurozona che sta rischiando di scivolare verso una seconda recessione. New York, 5 febbraio 2021 Ricevi questa e-mail perché hai prestato a GEDI Digital S.r.l., Società controllata del Gruppo GEDI S.p.a., il consenso al trattamento dei dati. Titolo: FEDERICO RAMPINI. Gli Usa, tra prove tecniche di normalità e il fantasma ... Inserito da: Admin - Marzo 07, 2021, 07:10:53 pm Outlook | Gli Usa, tra prove tecniche di normalità e il fantasma dell'inflazione Posta in arrivo Federico Rampini - La Repubblica Annulla iscrizione ven 5 mar, 19:46 (2 giorni fa) a me Rep: Outlook di Federico Rampini 5 marzo 2021 Gli occupati americani fanno segnare un +379.000 a febbraio, il dollaro si rafforza e i mercati vedono una ripresa americana sempre più robusta. Ottima notizia per un presidente in carica da poco più di un mese, che viene baciato dalla congiuntura economica e potrà appropriarsi il merito di una crescita che riduce la disoccupazione (anche se la ripresa era già in atto da molti mesi). Tuttavia questo pone anche un problema a Joe Biden, che vorrebbe incassare durante il weekend l’approvazione definitiva del Congresso per la sua maxi-manovra di spesa pubblica da 1.900 miliardi di dollari. Era nata come una manovra anti-recessione, quando lui la annunciò in campagna elettorale, ma la recessione è un ricordo del 2020. Attaccata da più parti come eccessiva, la manovra ha già perso alcuni pezzi e questo attira un coro crescente di critiche contro Biden. Prima il Presidente ha dovuto rinunciare a inserire in quel disegno di legge il raddoppio del salario minimo federale da 7,25 a 15 dollari orari, facendo infuriare l’ala sinistra del suo partito. Poi ha accettato che i versamenti diretti dal Tesoro ai cittadini, pari a 1.400 dollari, siano meno generosi sulle fasce di reddito medie. Nella nuova versione il versamento pieno di 1.400 dollari spetta solo a chi guadagna meno di 75.000 dollari annui, o alle coppie fino a 150.000 dollari (che ricevono il doppio, cioè 2.800 dollari). Sopra quella soglia di reddito l’aiuto decresce rapidamente e si esaurisce per il single che guadagna 100.000 annui o la coppia che ha un reddito di 200.000. In una versione precedente la platea era ancora più vasta. Però anche in questa nuova versione ridotta gli aiuti arriveranno comunque a tre quarti della popolazione americana. E questo nonostante a gennaio il reddito delle famiglie sia aumentato del 10%. Non stupisce che stia crescendo il coro dei critici – dall’economista democratico Larry Summers fino alla totalità del partito repubblicano – che accusa Biden di regalare aiuti non più necessari, col rischio di far esplodere il deficit federale e di rilanciare l’inflazione. E’ significativo che a questo coro di critici si sia aggiunto uno dei massimi responsabili della politica monetaria cinese. Da Pechino Guo Shuqing, capo della vigilanza bancaria, e uno dei massimi dirigenti della Banca Centrale, ha messo in guardia contro i pericoli insiti in un mix troppo espansivo tra politica di bilancio e politica monetaria della Federal Reserve. La Cina teme un contagio, stavolta di natura finanziaria, se l’euforia per la ripresa americana dovesse lasciare il posto a un’instabilità dei mercati. In effetti gli investitori americani continuano a credere che l’inflazione sia dietro l’angolo, questo spiega la non-reazione alle parole di ieri di Jerome Powell. Il presidente della Federal Reserve ha assicurato che la politica monetaria non cambia, continuano sia i tassi zero sia gli acquisti di bond sul mercato (al ritmo di 120 miliardi al mese). Nonostante queste rassicurazioni i rendimenti di mercato continuano a salire: è un segnale di fiducia nella crescita, ma anche di scetticismo sulle parole di Powell. Da parte loro sia la Fed, che il Tesoro, ribadiscono che il mercato del lavoro avrà ancora una lunga convalescenza davanti a sé, perché c’è tanta disoccupazione nascosta, tanta sottoccupazione creata dalla crisi dell’anno scorso. Ma la manovra Biden ha anche un’altra motivazione, tutta politica. Dopo essersi appropriato del sovranismo di Trump, con lo slogan Buy American, ora Biden si appropria anche del populismo. Distribuire soldi a tre quarti della popolazione americana significa mantenere l’ultima promessa di Trump, che voleva erogare le stesse somme nell’ultima manovra natalizia, e non ci riuscì. Mancano solo venti mesi alla prossima tornata elettorale, le legislative di mid-term in cui si rinnova tutta la Camera e un terzo del Senato. Viste le maggioranze risicate di cui gode nei due rami del Congresso, Biden rischia di esaurire presto il suo capitale politico. Il ciclo elettorale, non quello economico, sta diventando la motivazione principale di questa manovra. L’ala sinistra del suo partito può attaccarlo quanto vuole, il vecchio Joe sta facendo quel che può per non diventare un presidente di minoranza come accadde a Barack Obama appena due anni dopo la sua elezione nel 2008. Oggi riaprono i cinema a New York, e ci andrò subito. E' un passo simbolico ma anche importante, tra un mese tocca a teatri e concerti; finalmente l'industria culturale rinasce. Insieme con la netta accelerazione nella distribuzione dei vaccini (25% della popolazione inoculata, il ritmo supera i 2 milioni al giorno, ed è in costante aumento), il ritorno alla normalità dell'America sta cambiando la vita della nazione. Come si addice al sistema federale, ogni Stato ha i suoi calendari, ci sono le "fughe in avanti" come quella del Texas dove quasi tutto è già riaperto e il governatore toglie perfino l'obbligo di mascherina (però molte aziende private lo mantengono per dipendenti e clienti). Non mancano le polemiche come quella di Biden contro il "pensiero di Neanderthal" del governatore texano. Malgrado i dubbi degli esperti e le inevitabili controversie, la direzione di marcia è chiara, verso l'uscita dalle restrizioni. Altro dato interessante: New York per i viaggiatori vaccinati abolisce l'obbligo di test e quarantena. È un embrione di passaporto sanitario. Se tutto dovesse andare per il meglio, da una parte e dall'altra dell'Atlantico, quel che sta accadendo qui potrebbe essere una "roadmap" che prefigura il lieto fine anche per l'Europa, quando i ritardi nei vaccini saranno superati. Nonostante le riserve di molti esperti non siamo di fronte a un bis di altre riaperture fallite nel 2020. Anzitutto perché c’è la grossa novità dei vaccini, che offrono un’immunità come alternativa concreta al lockdown. Poi perché il tasso di ideologia sta diminuendo. Lo scontro fra Biden e il governatore del Texas fa parte del “teatro Kabuki” della politica americana, ma la mappa delle riaperture non segue la divaricazione tra Stati democratici e Stati repubblicani. La California, roccaforte della sinistra, dopo avere avuto i lockdown più severi d’America adesso sta riaprendo molto rapidamente: il governatore Gavin Newsom vuole tutti i bambini a scuola dal primo aprile, e sta allentando molte altre regole. Il Connecticut governato dai democratici (e dove abitano molti pendolari che lavorano a New York), pur mantenendo l’obbligo delle mascherine, per il resto ha deciso una riapertura di tipo texano: quasi tutto torna alla normalità, anche i parchi divertimento, le competizioni sportive, feste e festival. Il governatore democratico del Connecticut toglie le restrizioni anche sulla quantità di clienti ammessi nei ristoranti e negozi. Se Texas e Florida hanno fatto da apripista con largo anticipo, altri Stati cominciano a imitarlo anche perché i dati non supportano la tesi che i lockdown più duri, stile California, abbiano portato a un divario sostanziale nei contagi, nei ricoveri, nei decessi. Inoltre la liberalizzazione del Texas può aver contribuito a rafforzare l’esodo di aziende, manodopera e famiglie dalla California: attirate da un clima più favorevole all’attività economica, oltre che dalla pressione fiscale inferiore. Comunque la differenza texana non è così estrema come sembra dai proclami politici sulle mascherine. L’obbligo di indossare maschere, benché abolito dal governatore repubblicano, viene mantenuto dalle sale cinematografiche multiplex Amc, dagli alberghi Hyatt, dai caffè Starbucks, dai supermercati Target, dalle catene di farmacie drugstore Cvs. Il comportamento del settore privato sarà cruciale anche su un altro fronte: il ritorno dei dipendenti negli uffici. Al momento si stima che solo il 25% della forza lavoro impiegatizia stia andando regolarmente in ufficio, con punte di oltre un terzo in Texas, e dei minimo sotto il 20% a New York, San Francisco, Chicago. Quante aziende vorranno rinunciare rapidamente allo smart working e richiamare i dipendenti in massa negli uffici? Le risposte saranno molto varie da un settore all’altro. Già si segnalano casi di aziende che offrono premi e incentivi ai dipendenti che si fanno vaccinare. In questo clima di ritorno alla normalità, si segnala il disaccordo di molti esperti. La principale autorità sanitaria federale, i Centers for Disease Control and Prevention (Cdc), ammonisce che si stanno levando le restrizioni troppo presto. Dal Cdc arriva un allarme perché il forte calo dei contagi, dei ricoveri e dei decessi, che era in corso da un paio di mesi, sembra dare segni di stallo e forse preannuncia un’inversione di tendenza. Potrebbe essere in arrivo la quarta ondata, insomma, nel qual caso la fine dei lockdown sarebbe un errore. Però non siamo più nell’era di Donald Trump, quando questo tipo di pareri della comunità scientifica diventavano armi da usare nello scontro politico. Con i governatori democratici decisi a togliere le restrizioni, quasi quanto i repubblicani, l’equilibrio politico è cambiato. E soprattutto c’è la novità della campagna vaccinazioni, che continua ad accelerare con l’apertura di nuovi centri. In Asia tutti gli occhi sono puntati sul grande raduno politico di Pechino, ma non bisogna sottovalutare quel che sta accadendo in India. Il premier Narendra Modi ha presentato un vasto piano di privatizzazioni e di incentivi alla creazione di nuove imprese. Si aggiunge a una politica fortemente protezionista, a base di dazi. Il messaggio alle imprese straniere è questo: la seconda maggiore nazione del mondo è un vasto mercato, destinato a diventare più aperto alla competizione privata, ma per chi viene a produrre sul territorio indiano. E’ un tentativo di candidare l’India a catturare investimenti da parte di aziende che vogliono diventare meno dipendenti dalla Cina. New York, 5 marzo 2021. Ricevi questa e-mail perché hai prestato a GEDI Digital S.r.l., Società controllata del Gruppo GEDI S.p.a., il consenso al trattamento dei dati. Titolo: FEDERICO RAMPINI. In perfetta controtendenza con gli Stati Uniti, in Cina ha ... Inserito da: Admin - Marzo 20, 2021, 12:08:24 pm Outlook | "Help Is Here" - ripetizione corretta
Posta in arrivo Federico Rampini - La Repubblica lun 15 mar, 22:59 (5 giorni fa) a me Rep: Outlook di Federico Rampini 15 marzo 2021 In perfetta controtendenza con gli Stati Uniti, in Cina ha inizio l’austerity. E’ difficile trovare un altro periodo recente in cui le politiche economiche delle due superpotenze siano state così divergenti. Il governo di Pechino ha deciso che è il momento di ridurre il sostegno – già modesto – che la spesa pubblica fornì alla ripresa economica nel 2020. L’obiettivo ufficiale è tornato ad essere quello del risanamento del deficit pubblico, che il governo di Xi Jinping intende ridurre dal 3,6% del Pil (dato 2020) al 3,2% alla fine di quest’anno. Fra le preoccupazioni della squadra di governo guidata dal premier Li Keqiang c’è la bolla speculativa del mercato immobiliare, favorita dalle facilitazioni creditizie offerte nel 2020. Ma complessivamente le manovre di spesa pubblica decise l’anno scorso dalla Cina non arrivarono all’equivalente di mille miliardi di dollari, contro i 4.000 miliardi degli Stati Uniti, i 2.200 del Giappone, i 1.500 della Germania (i dati omogenei sono del Fondo monetario internazionale). La divergenza con gli Stati Uniti diventa ancora più macroscopica dopo il varo della manovra Biden da 1.900 miliardi la scorsa settimana. Nel 2020 la Cina aveva stanziato solo il 6% del suo Pil per manovre di spesa a sostegno della ripresa, contro il 19% del Pil Usa della manovre varate da Donald Trump. Con la prima manovra dell’era Biden il sostegno alla crescita dal deficit spending americano raggiungerà almeno il 27% del Pil. La divergenza Usa-Cina può essere motivata solo in parte dalla sfasatura ciclica: è vero che la recessione cinese è durata pochissimo e la crescita è ripartita già nell’estate scorsa. Però anche la crescita americana era ripartita presto, nell’autunno, e ciò non ha impedito di prolungare politiche di bilancio molto espansive. Image Bandiera della Repubblica Popolare Cinese (REUTERS) “Help Is Here”, l’aiuto è arrivato: Joe Biden lancia il nuovo slogan, il tema della sua prima tournée “in carne ed ossa” tra gli americani dopo la sua elezione. “Help Is Here”, letteralmente è vero: nel weekend molte famiglie hanno già ricevuto i primi versamenti da 1.400 dollari pro capite. Nel caso di una famiglia di quattro persone, con due figli minori a carico, il bonifico o l’assegno è quadruplicato e raggiunge 5.600 dollari. I versamenti raggiungono tutti coloro che hanno meno di 75.000 dollari di reddito annuo (il doppio per le coppie), decrescono fino a 80.000 e vengono a cessare sopra quella soglia di reddito. In più arriveranno i 300 dollari settimanali di aggiunta alle indennità di disoccupazione già fornite dai singoli Stati, e molti altri aiuti ad personam (crediti fiscali, assegni familiari, sgravi sui debiti studenteschi), senza contare i finanziamenti per sanità, scuola, enti locali. I versamenti già accreditati dal Tesoro sui conti bancari nel weekend sono quindi il primo assaggio della manovra di spesa pubblica da 1.900 miliardi approvata dal Congresso e firmata da Biden. Come il presidente spiegherà nei suoi incontri con i cittadini, questa pioggia di trasferimenti è molto più di un aiuto per superare i danni della pandemia. Biden è deciso a realizzare quel che lui e Obama non riuscirono a fare nel 2009: "usare" una crisi per risolvere problemi strutturali antecedenti. Quella attuale è una grande operazione redistributiva, per invertire decenni di peggioramento delle diseguaglianze. Non aiuta solo i poveri ma anche il ceto medio: la soglia di reddito per avere diritto ai versamenti è quasi il quadruplo della soglia di povertà, perciò ben tre quarti della popolazione riceveranno aiuti immediati. Da oggi lui e Kamala Harris faranno una tournée di Stati che furono tra quelli decisivi nell'elezione di novembre, Georgia Pennsylvania e Nevada, per "vendere" il grande piano. Che arriva in una fase in cui già l’economia americana era in forte crescita, anche grazie al sostegno della spesa pubblica nel 2020. Per effetto delle manovre di spesa precedenti, quelle varate nel 2020 sotto l’Amministrazione Trump, a fronte di una perdita di redditi pari a 490 miliardi di dollari le famiglie americane avevano ricevuto trasferimenti pubblici per 1.300 miliardi. C’era stata quindi una sovra-compensazione del danno e paradossalmente molti americani si sono scoperti un po’ più ricchi per effetto della pandemia. A questo ora viene ad aggiungersi il pacchetto di aiuti da 1.900 miliardi che è prevalentemente indirizzato agli individui, a differenza delle manovre Trump dove c’erano anche molti aiuti alle imprese. Si calcola che alla fine di marzo le famiglie americane avranno accumulato 2.100 miliardi di risparmi. Questa è la ragione per cui i repubblicani – più qualche autorevole economista democratico – hanno considerato eccessivo il “deficit spending” di Biden. La critica è fondata solo se si continua a considerarla una spesa pubblica in funzione anti-crisi, il classico intervento keynesiano anti-ciclico. Ma Biden non nasconde che il suo è un piano ben più ambizioso per cambiare la distribuzione dei redditi. Joe Biden (REUTERS) Il Wall Street Journal parla di una “scommessa audace quanto quella di Ronald Reagan nel 1981”, ma di segno opposto. Reagan lanciò la sua rivoluzione neoliberista con una massiccia riduzione della pressione fiscale e un parallelo boom della spesa militare per il riarmo contro l’Unione sovietica. Biden vuole capovolgere il segno fiscale della rivoluzione reaganiana, che influenzò quasi tutti i presidenti successivi incluso il democratico Bill Clinton autore di tagli drastici al Welfare. Biden ha riflettuto a lungo sugli errori commessi da lui e Barack Obama nel 2009, quando furono troppo timidi sia nell’entità delle manovre anti-crisi proposte al Congresso, sia nel “venderle” all’opinione pubblica. Il presidente spera che questa elargizione di denaro pubblico a pioggia lo aiuterà anche a consolidare la fragile maggioranza democratica al Congresso nelle elezioni legislative di mid-term che si tengono fra meno di 20 mesi. E vuole rispondere con i fatti alla sfida politica lanciata dalla Cina: dimostrare che la democrazia può essere più efficace di un sistema autoritario. E la fase due? Biden non rinuncia al secondo piano di spesa: dopo l’assistenza, gli investimenti. E’ il progetto da duemila miliardi con cui intende ammodernare le infrastrutture, e conquistare una leadership nelle energie rinnovabili. Per questa seconda manovra, anziché fare deficit-spending i democratici stanno pensando a una copertura tramite nuove tasse redistributive. Due le idee più visibili in questo momento. Da una parte la segretaria al Tesoro Janet Yellen lancia la proposta di una “global minimum tax” per ridurre l’elusione fiscale delle multinazionali, recuperare gettito sul fronte delle imprese, e rovesciare la politica di Trump che abbassò il prelievo sugli utili societari dal 35% al 21%. D’altro lato tra i democratici al Congresso sono in discussione proposte di imposte patrimoniali sui ricchi, come quella della senatrice Elizabeth Warren che vorrebbe un prelievo del 2% sui patrimoni oltre i 50 milioni, più un’addizionale dell’1% sui patrimoni oltre il miliardo. Secondo alcune stime che circolano in campo democratico – forse un po’ ottimiste – questa patrimoniale da sola sarebbe più che sufficiente a finanziare il piano d’investimenti in infrastrutture ed energie rinnovabili, poiché potrebbe fruttare un gettito di 3.000 miliardi di dollari. New York, 15 marzo 2021 Ricevi questa e-mail perché hai prestato a GEDI Digital S.r.l., Società controllata del Gruppo GEDI S.p.a., il consenso al trattamento dei dati. Se non vuoi più ricevere questa email, clicca qui Titolo: Non sottovalutiamo la crisi cinese: ci riguarda. Se la Cina va in crisi il mondo Inserito da: Arlecchino - Maggio 21, 2022, 09:07:56 pm 21 MAGGIO 2022 Versione web
Benvenuti alla newsletter che è il nostro appuntamento settimanale, ogni sabato mattina. Vi prometto una lettura molto personale di alcuni eventi globali che selezionerò come "la chiave" per dare un senso alla settimana. Con una particolare attenzione alle mie due sedi di lavoro, attuale e recente: New York e Pechino. "The place to be, and the place to look at"... Non esitate a scrivermi: commenti o domande, contestazioni e proposte. E in questa puntata (che scrivo in viaggio verso Torino dove sarò al Salone del Libro) vi ricordo che è disponibile l'undicesimo volume dei testi di geopolitica venduti in edicola con il Corriere, il mio best-seller "L'impero di Cindia". Dove raccontavo già 16 anni fa lo spostamento del baricentro della storia nell'Indo-Pacifico: lì dove si trova in queste ore Joe Biden per ribadire ai governi di Seul e Tokyo che la guerra in Ucraina non lo distoglie dalle vere priorità. Non sottovalutiamo la crisi cinese: ci riguarda. Se la Cina va in crisi il mondo trema? Tanto tempo fa si diceva: se l’America si prende il raffreddore, l’Europa rischia la polmonite. Era prima della pandemia e questa metafora veniva maneggiata con disinvoltura per parlare di economia. Il peso degli Stati Uniti era tale che il contagio era assicurato, nel bene e nel male: traino di crescita quando gli Usa facevano da locomotiva, oppure focolaio originario di recessione. L’ultimo esempio drammatico fu il 2008. Oggi però dobbiamo adattare le metafore a un mondo in cui l’economia cinese è diventata quasi grande quanto quella americana. E malgrado tutti i discorsi sulla de-globalizzazione, decoupling, divorzio, siamo ancora tutti enormemente interconnessi con la Cina. La quale sta rallentando di brutto. La cosa non può lasciarci indifferente, oggi la frenata cinese si ripercuote nel mondo intero. L'Amministrazione Biden dà risalto a un'analisi dell'agenzia Bloomberg secondo cui quest'anno la crescita americana potrebbe sorpassare quella cinese per la prima volta dal 1976. Ma è un sorpasso in frenata per tutt'e due visto che Bloomberg taglia al 2% la sua previsione di crescita del Pil cinese e al 2,8% quello americano. Giù consumi, produzione, tassi d'interesse L’ultimo segnale che a Pechino le cose vanno male viene dagli indicatori del governo, e dalle mosse della banca centrale. Le statistiche ufficiali (quelle che di solito tendono ad attenuare le brutte notizie) dicono che ad aprile le vendite al consumo in Cina sono scese dell’11% sullo stesso mese dell’anno prima, un calo in buona parte dovuto ai nuovi lockdown. La produzione industriale è scesa del 2,9%. La paura di una crisi seria costringe Xi Jinping a cambiare drasticamente il segno della sua politica economica. Ancora pochi mesi fa l’obiettivo principale era la riduzione del debito – sia pubblico che privato – per sgonfiare bolle speculative disseminate in tutta l’economia e in particolare nel settore immobiliare. Per ridurre i debiti la politica monetaria aveva un segno moderatamente restrittivo. Contrordine compagni, viva i debiti Ora viene capovolta, con una inattesa riduzione del costo del denaro, che si aggiunge ad altre misure volte a dare liquidità alle banche e alle imprese. Si ritorna a una politica del credito facile, e tra i primi beneficiari c’è il mercato immobiliare ormai in forte difficoltà. Però per adesso non siamo ancora tornati a una manovra espansiva (moneta+spesa pubblica) paragonabile a quella che fu adottata all'inizio della pandemia nel 2020. Svalutazione competitiva del renminbi e fuga di capitali La sterzata della politica monetaria cinese accentua la svalutazione del renminbi, e questo aiuta l’economia in un altro modo: riduce i prezzi delle merci made in China sui mercati mondiali. Torna quindi l’antica ricetta che consiste nello spingere la crescita cinese facendola trainare dal resto del mondo attraverso le esportazioni. Il gioco della svalutazione competitiva però oggi affronta nuove incognite e nuovi rischi. Un renminbi che si indebolisce agevola gli esportatori, però spaventa gli investitori, che ritirano capitali dalla Cina. E’ quel che accade già da mesi. Nel primo trimestre di quest’anno le fughe di capitali finanziari, sia dal mercato dei bond che dalle Borse cinesi, hanno raggiunto i 43 miliardi di dollari. Per aprile e maggio non ci sono ancora dati definitivi ma sembra che la fuga di capitali stia continuando e forse accelerando. Va ricordato che Pechino ha un regime ibrido sui movimenti di capitali, il renminbi non è una moneta pienamente convertibile, però i mercati dei capitali sono semi-aperti e quindi reagiscono alle oscillazioni della fiducia degli investitori. Sua maestà il dollaro, non ancora deposta Pechino si ritrova alle prese con il dilemma del dollaro. Per quanto sia in relativo declino, la moneta americana continua ad avere una centralità ineguagliata sui mercati mondiali. Poiché la Federal Reserve aumenta i tassi e i rendimenti del dollaro salgono, la moneta Usa torna a svolgere un ruolo di bene rifugio, accentuato dalle turbolenze geopolitiche legate alla guerra in Ucraina. I capitali che fuggono dalla Cina vanno a investirsi soprattutto negli Stati Uniti. Le riserve ufficiali della banca centrale cinese si riducono. I margini di manovra di Pechino non sono infiniti. Più usa la politica monetaria per sostenere una crescita che langue, più riduce l’appetibilità degli investimenti in Cina e fa fuggire capitali all’estero. E’ un sentiero molto stretto quello che la People’s Bank of China deve percorrere. Stop ai conti esteri per i dirigenti comunisti A margine di questo scenario è interessante la notizia che Xi Jinping (foto) sta torchiando quei dirigenti del partito comunista che hanno capitali all’estero. La repressione colpisce i gerarchi che hanno conti bancari e titoli in Occidente, magari giustificandoli con il fatto che hanno figli iscritti a qualche università americana. (Da notare che anni fa lo stesso Xi mandò sua figlia a studiare a Harvard). Ora Xi li costringe a liquidare gli investimenti esteri, minacciando pene pesanti. Alcuni sono già stati sanzionati. La nuova campagna per disciplinare i funzionari di partito sarebbe stata lanciata a marzo ma è trapelata ora. Gli obiettivi sembrano molteplici. Xi vuole evitare che in un peggioramento dei rapporti con gli Stati Uniti la sua nomenclatura possa essere vulnerabile a delle sanzioni “ad personam” come quelle che colpiscono gli oligarchi russi. Un altro obiettivo è quello classico che ha accompagnato altre campagne anticorruzione: questo genere di controlli sui patrimoni privati rendono i dirigenti del partito ricattabili, diffondono paura; quindi, facilitano il compito di Xi che da qui al congresso di ottobre vuole incassare nomine di fedelissimi per rendere ancora più stringente il suo controllo su tutto l’apparato. L'appuntamento di ottobre è quello in cui Xi vuole il terzo mandato, di fatto una investitura a vita (con un ripristino di status imperiale che ha un solo precedente nella RPC: Mao). Infine, è un piccolo segnale che anche la Cina si prepara a una de-globalizzazione, o a una nuova geografia della globalizzazione per blocchi contrapposti in cui conviene minimizzare le relazioni economiche con l’avversario. E’ il senso della “circolazione duale”, lo slogan con cui Xi descrive il futuro dell’economia cinese affidato a due motori: da una parte il tradizionale traino delle esportazioni, dall’altra un ruolo crescente per il motore della domanda interna. Quest’ultima però l’ha rallentata proprio lui con le politiche “zero covid”. Wall Street non chiude al capitalismo cinese (e viceversa) Infine, sempre a proposito del divorzio finanziario Cina-Usa, in controtendenza le autorità di Pechino e Washington stanno tentando di salvare la quotazione di grandi società cinesi sulle Borse americane. Il rischio di espulsione dal mercato Usa è legato al fatto che queste grandi aziende, soprattutto pubbliche, si fanno certificare i bilanci “in casa”, cioè da revisori dei conti cinesi di cui le autorità Usa non si fidano. Una legge ha messo le aziende cinesi di fronte a un aut-aut, o si fanno certificare i bilanci da società di audit occidentali, oppure devono lasciare le Borse Usa. Per Pechino questo sarebbe un “cavallo di Troia” con cui gli americani cercherebbero di ottenere informazioni riservate. Più probabilmente la mancanza di trasparenza può nascondere problemi reali di gestione e correttezza dei bilanci. I negoziati sono in corso per trovare un compromesso. I divorzi sono spesso dolorosi e faticosi per entrambe le parti e questo non fa eccezione. Le grandi imprese cinesi non vogliono rinunciare all’accesso al più grande e liquido mercato dei capitali del mondo (per questo non si rassegnano a quotarsi solo a Shanghai e Hong Kong), le Borse americane non si rassegnano alla perdita di clienti così grossi. Come ho raccontato nel mio libro “Fermare Pechino”, esiste una lobby filo-cinese nel capitalismo americano ed una filo-americana nel capitalismo cinese, che cercano di contrastare la separazione dei beni. Un lettore scrive su Occidente, valori, religione. Io risponderò oggi alle 13.45 al Salone del Libro di Torino (Auditorium). Scrive il lettore Claudio Nardi: Alcune osservazioni sul suo articolo in cui afferma che in realtà è l’Occidente (cioè Stati Uniti ed Europa) ad essere isolato dal resto del mondo. In realtà si può essere isolati in due modi, dato che, per definizione, il grosso non è mai isolato, cioè si può essere o all’avanguardia o alla retroguardia (in latino sarebbe un aut aut dato che non si può essere contemporaneamente in due posizioni diverse), quindi mi viene spontanea la domanda: l’Occidente è all’avanguardia o alla retroguardia del mondo? La mia risposta istintiva è di dire che l’Occidente è all’avanguardia, ma vorrei analizzare un po’ più a fondo questa risposta. Se guardiamo solo il PIL mondiale l’Occidente sarebbe certamente all’avanguardia, ma, dato che non si vive di solo pane, il PIL può essere un indicatore fasullo, e si possono cercare altri indicatori che, forse, sono più significativi. In particolare l’Occidente deve i suoi valori liberali (anche se ormai si tende a negarlo) alla sua tradizione giudaico-cristiana, che viene costantemente negata dagli stati che si richiamano alla “laicità” cioè all’indipendenza dello stato da qualsiasi religione, che mi appare come un grosso torto a tutta la storia Occidentale, fatta anche di guerre di religione, che, pur essendo state devastanti (basta pensare alla Guerra dei Trent’Anni) tuttavia hanno permesso all’Europa di sviluppare una filosofia che ha portato allo stato liberale ed alla Rivoluzione Francese del 1789. Conosco l’obiezione al fatto che queste evoluzioni sono avvenute “nonostante” la religione e quindi non siano legate ad essa, tuttavia l’evoluzione del pensiero occidentale, almeno fino all’Illuminismo, è avvenuta con uno stretto collegamento con la religione. F.R. : oggi al Salone del Libro di Torino (ore 13.45, Auditorium) in parte risponderò anche a lei. Presentando il mio libro "Suicidio occidentale" parlerò anche della guerra in corso sui modelli culturali e sui valori, che ha preceduto e preparato la guerra vera e propria. DA IERI È IN VENDITA IN EDICOLA CON IL CORRIERE L'UNDICESIMO VOLUME DELLA SERIE DI GEOPOLITICA CHE CURO: "L'IMPERO DI CINDIA". In viaggio da New York a Torino, 21 maggio 2022. Federico Rampini Sul Corriere ho parlato anche di... L’America di Biden, gendarme riluttante Non solo Cina: quel mondo che tifa per Putin (e odia l’America) Putin, le reazioni di un leader che sente vacillare il potere Perché l’Occidente è arrivato impreparato all’invasione di Putin? Il piano B degli oligarchi russi: tutti nel paradiso Dubai. Qui Putin è ancora influente Ora le illusioni sono cadute: la svolta della difesa europea L'America cerca l’intesa con la Cina per isolare Mosca Video commento Come Putin può sopravvivere alle sanzioni? Editoriale I calcoli di Pechino e i tormenti di Xi Jinping Gli Usa traggono vantaggio dalla guerra in Ucraina? Gli «equivoci pacifisti» sull’America Il mondo diviso di nuovo in due blocchi (su Putin) La globalizzazione «solo tra amici», rischi e opportunità per la nuova era Ombre americane: c’è un fronte anti-Ucraina Gli errori cinesi Il feedback dei lettori è importante, la vostra "raccomandazione" pure. Se questa newsletter vi è piaciuta, dite agli amici di abbonarsi! Se volete scrivermi, questa è la mia e-mail: frampini@corriere.it Ricevi questa email in quanto iscritto alla newsletter. Titolare del Trattamento Dati è RCS MediaGroup S.p.A. Se intendi disiscriverti da "Newsletter Global" fai click qui. Se desideri rettificare, modificare, consultare i tuoi dati o comunque esercitare i diritti riconosciuti ai sensi degli artt. 15-22 del Regolamento UE 2016/679 scrivi a privacy@rcsdigital.it Da - Newsletter Global di Federico Rampini - Corriere della Sera Titolo: FEDERICO RAMPINI. L'America si spacca, una buona notizia per Mosca e Pechino Inserito da: Admin - Maggio 22, 2022, 12:08:40 am 1.484
L'America si spacca, una buona notizia per Mosca e Pechino Posta in arrivo Newsletter Global di Federico Rampini - Corriere della Sera Annulla iscrizione 7 mag 2022, 07:06 (1 giorno fa) a me 07 MAGGIO 2022 Versione web Benvenuti alla newsletter che è il nostro appuntamento settimanale, ogni sabato mattina. Vi prometto una lettura molto personale di alcuni eventi globali che selezionerò come "la chiave" per dare un senso alla settimana. Con una particolare attenzione alle mie due sedi di lavoro, attuale e recente: New York e Pechino. "The place to be, and the place to look at"... Non esitate a scrivermi: commenti o domande, contestazioni e proposte. E in questa puntata vi ricordo che è disponibile il nono volume dei testi di geopolitica venduti in edicola con il Corriere, "I cantieri della storia - Ripartire, ricostruire, rinascere", ovvero alcune ispirazioni dal passato su come progettare un futuro migliore quando ci si trova nel mezzo di una tragedia. L'America si spacca, una buona notizia per Mosca e Pechino L'aborto pesa più dell'Ucraina Da tre giorni l’aborto ha quasi superato l’Ucraina nell’attenzione degli americani, o per lo meno nella visibilità sui media. Il tema è importante perché può condizionare le elezioni di metà mandato (novembre), la forza di Joe Biden, quindi indirettamente anche la continuità della politica estera americana nel medio-lungo termine. Ricapitolando l’accaduto, una fuga di notizie ha rivelato ciò che era già nell’aria: la Corte suprema (foto), che ha una maggioranza di giudici conservatori, si appresterebbe a revocare il diritto costituzionale all’aborto. Questo non significa vietare l’aborto. La maggioranza dei giudici si limiterebbe a sostenere che quel diritto non ha basi nella Costituzione, va regolato per legge. Limiti all'interruzione di gravidanza Questo significa che sulla materia devono legiferare il Congresso federale o i singoli Stati. Se questa sentenza verrà confermata sarà una vittoria per la lunga battaglia degli anti-abortisti. Il movimento “pro-life” (“diritto alla vita”) si batte da quasi mezzo secolo per rovesciare la sentenza “Roe vs Wade” che nel 1973 affermò il diritto costituzionale all’interruzione di gravidanza. Diversi Stati Usa hanno già legiferato o sono pronti a farlo per limitare il periodo in cui è consentito l’aborto alle prime settimane di gravidanza; Texas e Florida hanno spianato la strada. Quali le conseguenze elettorali Quali effetti sugli equilibri elettorali? I democratici sperano che l’attacco al diritto di abortire mobiliti la loro base, facendo salire l’affluenza alle urne, in particolare fra le donne. In una elezione di mid-term tradizionalmente il partito del presidente è il meno motivato, l’affluenza dei suoi è bassa, e le perdite di seggi sono frequenti. Prima della fuga di notizie dalla Corte, un sondaggio Fox News attribuiva un “forte interesse” per le elezioni di metà mandato fra il 52% dei repubblicani contro il 41% dei democratici. L’aborto potrebbe cambiare le cose arroventando l’atmosfera a sinistra. I repubblicani sono convinti del contrario. Pensano che la sentenza della corte semmai galvanizzerà la loro base elettorale dove la componente religiosa è più forte: dai cattolici conservatori ai protestanti evangelici. Inoltre, pensano che a novembre l’elettorato avrà altre ragioni per bocciare i democratici: l’inflazione in aumento, il rincaro del costo del denaro provocato dai rialzi dei tassi, l'immigrazione illegale, l’insicurezza e l’aumento della criminalità legati anche alla delegittimazione delle forze dell’ordine, le controversie sull’indottrinamento “politicamente corretto” nelle scuole. Perché il Congresso non legifera Un paradosso nella diatriba dell’aborto, è che la strada maestra per risolverla sarebbe una legge approvata dal Congresso. I giudici conservatori infatti non potrebbero opporsi, loro si limitano a sostenere che il diritto all’interruzione di gravidanza non ha appigli dentro la Costituzione, ma è materia su cui devono decidere i legislatori. I democratici sottolineano che l’opinione pubblica è favorevole all’aborto con percentuali fra il 60% e il 70% a seconda dei sondaggi. Eppure non esiste una maggioranza parlamentare per legiferare in tal senso, anche perché alcuni senatori e deputati democratici sono sensibili agli argomenti del fronte anti-abortista. Inoltre i sondaggi danno risultati diversi se gli elettori e le elettrici vengono interrogati sulle norme che limitano l’aborto alle prime 15 settimane di gravidanza: qui esiste una maggioranza relativa a favore. Una conferma per gli autocrati In qualunque senso l’aborto possa influire, la campagna elettorale da qui a novembre darà ancora una volta l’immagine di una società americana dilaniata da contese esistenziali, valoriali. Uno “scontro di civiltà” che si estende a questioni morali di fondo. Benché esista un centro moderato, che anche sull’aborto è disponibile a soluzioni di compromesso, i social media amplificheranno le scomuniche incrociate, la demonizzazione dell’avversario. I regimi autoritari ne ricaveranno conferma della loro tesi secondo cui l’America è una nazione decadente, in guerra contro se stessa. Mosca e Pechino si augureranno che questa divisione finisca per indebolire anche la politica estera. Lockdown e appoggio a Putin, Xi fa paura La Cina sta allontanando da sé l’Occidente? Due segnali degli ultimi giorni riguardano gli effetti controproducenti dei lockdown da una parte, dell’appoggio a Putin dall’altra. Sul primo fronte, la politica “zero Covid” sembra scatenare un ripensamento delle imprese europee sull’opportunità d’investire in Cina. Una recente indagine della Camera di commercio europea a Pechino, fra 372 aziende associate, rivela che i lockdown duri hanno reso queste imprese pessimiste sul proprio futuro nella Repubblica Popolare. Il 92% degli imprenditori e manager europei che hanno risposto all’indagine si sono detti danneggiati nelle catene produttive e logistiche, per effetto dei lockdown. Una maggioranza di loro ha la base principale di attività in Cina nella regione di Shanghai, colpita pesantemente dall’ultima ondata di restrizioni (foto). Il presidente della Camera di commercio europea ha dichiarato che le autorità cinesi sono “prigioniere della propria narrazione”, credono alla loro stessa propaganda sull’efficacia della politica “zero Covid”. La Germania si gira verso il Giappone L’altro segnale è stata la recente visita del cancelliere tedesco Olaf Scholze a Tokyo, senza tappa a Pechino. Ai tempi di Angela Merkel la Cina era l’interlocutore privilegiato della Germania in Asia. Il fatto che Scholze abbia preferito puntare su un asse con il Giappone è la diretta conseguenza della scelta fatta da Xi Jinping di appoggiare l’aggressione russa all’Ucraina. La ministra degli Esteri tedesca Annalena Baerbock ha lanciato un implicito attacco alle Nuove Vie della Seta (Belt and Road Initiative) di Xi Jinping, quando ha ammonito l’Europa con queste parole: “Nel XXI secolo la vulnerabilità può consistere nel fatto che regimi autoritari investono miliardi di euro in autostrade europee, reti elettriche e porti”. Questo tipo di linguaggio un tempo lo usavano gli americani per dissuadere la Merkel dalla sua politica estera mercantilista che aveva intensificato i rapporti con Pechino. Anche la comunità industriale tedesca – per anni beneficiaria dell’interscambio con la Cina – sembra avere dei ripensamenti: secondo un’indagine dell’istituto Ifo di Monaco il 45% delle imprese manifatturiere tedesche e il 55% delle aziende nella distribuzione puntano a ridurre le loro importazioni dalla Cina. Le scelte di Xi sembrano quindi spingere perfino i tedeschi a considerare quello scenario di “divorzio” verso il quale erano i più refrattari. Ma divorziare dal solare made in China è impossibile? Passare dalle intenzioni ai fatti però può rivelarsi molto difficile. Un esempio lo offrono gli Stati Uniti con una crisi che colpisce l’energia solare. Tutto il settore delle centrali fotovoltaiche è sconvolto. All’origine, c’è la denuncia presentata da alcuni produttori locali di pannelli solari al ministero del Commercio. La sostanza del procedimento è questa: già ai tempi di Barack Obama (quindi prima dei dazi di Trump), gli Stati Uniti avevano introdotto tasse doganali contro i pannelli solari o i loro componenti made in China per castigare la concorrenza sleale delle aziende cinesi. Sussidi pubblici e vari tipi di aiuti statali, avevano consentito alle aziende cinesi di vendere sottocosto, in dumping, e di far fallire concorrenti americane. Da allora le importazioni di pannelli fotovoltaici o componentistica dalla Cina agli Stati Uniti si sono ridotte. Però sono state sostituite con le importazioni da Malesia, Thailandia, Vietnam e Cambogia, che in realtà fanno capo ad aziende cinesi. Quei paesi, secondo la denuncia, vedono transitare prodotti cinesi di cui viene mascherata la vera provenienza. Nel momento in cui le autorità americane hanno aperto l’indagine, le importazioni si sono bloccate. E gran parte delle aziende americane dell’energia solare sono semi-paralizzate, perché non riescono a produrre senza i componenti cinesi. Il “friend-shoring” o “ri-localizzazione fra amici” di cui parla l’Amministrazione Biden, e di cui mi ero occupato in questa newsletter, ha parecchi ostacoli da superare. Dialogo con i lettori su Russia e Cina, i colonialismi altrui. E l'importanza dei "Cantieri della storia" Scrive Enrico Lugli: Lavrov & C. accusano l'Occidente di "colonialismo". Ribattetegli per favore a titoli cubitali che l'unica potenza "colonialista" ad oggi rimane la Russia. Infatti, cos'altro sono se non colonie tutti quei territori abitati da etnie diverse dai russi bianchi (Cecenia, ecc....)?, territori conquistati dagli zar nel 7/800 e non mollati dall' URSS ? Non si vede perché non c'è il mare di mezzo, ma di fatto sono colonie. Illuminante mi fu a suo tempo il libretto "Riuscirà l'Unione Sovietica a sopravvivere al 1984?" del dissidente ebreo-russo Andrej Amalrick: profetico. Sassolino: sempre perché loro non sono razzisti e sono buoni, a fare i cattivi contro gli Ucraini biondi con gli occhi azzurri mandano gli asiatici della Siberia e i musulmani ceceni, i quali son ben contenti di fare i cattivi contro bianchi biondi con gli occhi azzurri e cristiani, specie quando glielo ordina/permette un bianco biondo con gli occhi azzurri e cristiano. È lecito pensare che quegli asiatici e quei ceceni disprezzano sia gli ucraini che i russi.... (Mi permetto di aggiungere che anche la Cina è un impero coloniale: un terzo del suo territorio è fatto di nazioni/civiltà straniere, soggiogate e occupate: Tibet, Xinjiang, Mongolia Interiore. FR). Scrive Anvilon 1. Cina e d'intorno. È beneaugurante il massimo ridimensionamento dell'economia cinese, i cui containers - pieni di roba abbastanza inutile se non superflua - sono fermi da mesi; così finalmente - loro che pensano diversamente - proveranno "sì come sa di sale lo pane altrui, e com’è duro calle lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale.” Scale che per nostro comodo abbiamo reso mobili. La "roba" che serve ha altre strade a scorrimento veloce. 2. Costo Ucraina. Gli Usa (e, questa volta, non getta) stanno facendo il più grande investimento politico-economico della loro storia riposizionando sulla scacchiera del mondo (che stava diventando quella per il "GO") i due pezzi strategici: Cavallo e Alfiere. A parte il riciclo dell'enorme magazzino militare ... la cui quantificazione sfugge agli analisti che pensano di conoscere il tutto sul visibile. (L'ultimo dato sul deficit commerciale degli Stati Uniti, in forte aumento, rivela però che l'emancipazione dal made in China è ancora un'aspirazione, un progetto, non una realtà. In quanto all'industria degli armamenti, non esiste solo quella americana. Così fan tutti: insieme agli Stati Uniti i maggiori esportatori sono Cina e Russia, seguiti da tutti i paesi europei Italia inclusa. FR) ^^^^^^^^^^^^^^ Nella mia prefazione al libro "I cantieri della storia" scrivo: Qui troverete tante storie di rinascite, ricostruzioni, ripartenze: esempi dal passato a cui attingere per avere speranza nel futuro. Dall’antichità all’era contemporanea, dall’Europa all’America all’Asia, questi incoraggianti precedenti ci ricordano che la specie umana ha una straordinaria capacità di risollevarsi. Un giorno dovremo aggiungere dei capitoli nuovi scrivendoli con i fatti, con i nostri comportamenti. Tra i cantieri da aprire in futuro vorrei includere un’Europa meno ingenua, capace di garantire la sicurezza dei propri popoli; la ricostruzione dell’Ucraina; la rifondazione della Russia su basi sane, che ispirino fiducia ai suoi vicini. Mentre scrivo infuria la guerra e quindi l’elenco di questi progetti sembra prematuro, perfino velleitario. Ma i dopo-guerra si preparano mentre ancora infuriano i combattimenti. Il presidente Franklin Roosevelt e la classe dirigente americana cominciarono a disegnare il nuovo ordine mondiale alla conferenza di Bretton Woods, nell’anno 1944, quando ancora non erano affatto sicuri di vincere la guerra contro Hitler, l’imperatore Hirohito e Mussolini. Spingere lo sguardo verso l’orizzonte più lontano può aiutarci anche a sopportare le tragedie del presente. F.R. DA IERI E' IN VENDITA IN EDICOLA CON IL CORRIERE IL NONO VOLUME DELLA SERIE DI GEOPOLITICA CHE CURO: "I CANTIERI DELLA STORIA". New York, 6 maggio 2022. Federico Rampini Da - Newsletter Global di Federico Rampini - Corriere della Sera |