LA-U dell'OLIVO

Forum Pubblico => GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. => Discussione aperta da: Admin - Luglio 17, 2007, 04:21:14 pm



Titolo: MASSIMO FRANCO
Inserito da: Admin - Luglio 17, 2007, 04:21:14 pm
LA NOTA

Una corrente cattolica circondata dai dubbi

La subalternità alla sinistra e i limiti culturali della Margherita 

 
La «corrente cattolica» del partito democratico continua ad aleggiare come un'ambizione destinata ad essere frustrata. E non tanto per un qualche boicottaggio da parte degli alleati. Più banalmente, il progetto deve fare i conti con una realtà mutata. Il microcosmo cattolico è frantumato dai personalismi; incapace di offrire leader alternativi. Ed è guardato con immutata diffidenza dalle gerarchie ecclesiastiche. L'incontro che sarebbe avvenuto giorni fa tra Dario Franceschini, vice di Veltroni nel Pd, il ministro Giuseppe Fioroni e il presidente della Cei, Angelo Bagnasco, non ha cambiato di molto le cose.

In questa fase, agli occhi dei vescovi appare più affidabile il ministro della Giustizia, Clemente Mastella. La «mescolanza delle identità» che viene proposta come cifra del Pd, produce una perplessità di fondo. Non sono in discussione il concetto in sé, né le buone intenzioni dei singoli. Ma le gerarchie contestano ai cattolici del futuro Pd mediazioni culturali che, a loro avviso, spesso soddisfano solo la cultura altrui.

La durezza con la quale è stata accolta la variante della legge sui Dico, i cosiddetti Cus (contratti di unione solidale), lascia poco spazio a mediazioni. Fra l'altro, non è chiaro se per capire le possibili reazioni della Chiesa, i proponenti diessini dei Cus si siano rivolti direttamente all'episcopato: come se la tendenza all'arroccamento, che esponenti come Fioroni cercano goffamente di negare, delegittimasse la Margherita. Non a caso, uno degli intellettuali più accreditati in Vaticano, Andrea Riccardi, fondatore della comunità di Sant'Egidio, definisce i cattolici del Pd «una minoranza che rischia di ridursi a pura testimonianza».

Riccardi arriva a dire che Walter Veltroni è meno autoreferenziale e più moderno come interlocutore di un certo mondo; e già vede la calamita berlusconiana risucchiare un pezzo di elettorato cattolico moderato. Pazienza se all'opposizione «declinano il linguaggio dei cattolici come una lingua straniera», aggiunge caustico Riccardi, intervistato di recente dall'Indipendente. Per il leader di Sant'Egidio, il bilancio del governo di Romano Prodi è fortemente deficitario. Non bastasse, si assiste alla competizione virtuale e alle polemiche vistose per la vice- leadership fra almeno cinque candidati della Margherita.

Queste tensioni sono vissute come l'emblema della divisione e della subalternità alla sinistra. Lo conferma lo scontro fra prodiani ed ex popolari sull'opportunità di dare vita alla «corrente cattolica». Si tratta di uno spettacolo litigioso che suona imbarazzante di fronte alla compattezza, seppure solo di facciata, offerta dai Ds intorno a Veltroni. Dietro si indovina un ritardo culturale, se non una vera inadeguatezza, che precede gli aspetti politici. E deriva dalla pretesa di rappresentare una realtà che non si riconosce né accetta di rientrare in schemi vecchi.

Massimo Franco
14 luglio 2007
 
da corriere.it


Titolo: Massimo Franco - Marini aspetta le ultime risposte ma se fallisce ...
Inserito da: Admin - Febbraio 02, 2008, 08:49:38 pm
LA NOTa

Già si parla di un ritorno di Prodi

Marini aspetta le ultime risposte ma se fallisce si sciolgono le Camere.

Data prevista: mercoledì


L’insistenza sul «piccolo margine» di riuscita è doverosa, anche se suona quasi d’ufficio. Franco Marini finirà le sue consultazioni lunedì, e poi riferirà al capo dello Stato, Giorgio Napolitano. Ma le ultime ore confermano che il compito del presidente del Senato è tanto tenace quanto disperato: al punto che si parla di scioglimento delle Camere mercoledì. Lo stesso Marini gela chi sarebbe pronto a tutto pur di evitare le elezioni. Andrà avanti, perché bisogna accertare ogni possibilità prima di rinunciare; e verificare chi alla fine dirà no al suo tentativo. Ma il «lavoro non sarà lungo», assicura. E «non ci sono né scorciatoie, né sotterfugi né furbizie». Si tratta di un doppio messaggio: ad una parte dell’ex Unione, perché si rassegni ad un percorso lineare; e all’opposizione, affinché smetta di diffidare. Rimangono gli incontri più importanti, con Pd e FI. Ritenere che arrivino sorprese da Silvio Berlusconi, però, proiettato verso il voto anticipato e ieri al capezzale della madre, sarebbe da ingenui: e Marini non lo è.

Il presidente del Senato sa che la pressione di An e Lega sul Cavaliere accentua la sua determinazione a volere le elezioni. Per questo, l’attenzione si proietta sulla prossima settimana. L’ipotesi che il presidente del Senato formi un governo che va alle Camere e si fa bocciare, a questo punto appare inverosimile. Napolitano e Marini si sono mossi in modo istituzionalmente perfetto. Dunque, è da escludersi uno scarto rispetto a questa scelta di dialogo con il centrodestra, destinato a prolungarsi nella prossima legislatura: almeno nelle loro intenzioni. È la conferma di un compito che la seconda carica dello Stato sta conducendo senza sbavature; e smentendo la tesi secondo la quale mirerebbe solo a prendere tempo. Resta da capire chi porterà il Paese alle urne. Nel silenzio significativo e quasi totale dell’ex Unione, il fronte berlusconiano insiste perché sia Romano Prodi.

 La motivazione è insieme corretta e interessata. Il premier dimissionario è quello indicato dagli elettori dell’Unione nel 2006, ha ricordato Berlusconi. In più, il centrodestra fa notare che Prodi è presidente del Pd: prescindere dal suo governo, per gli alleati, risulterebbe complicato. Nel ragionamento si indovina il calcolo di poter usare contro l’ex Unione l’impopolarità cresciuta intorno a palazzo Chigi; e la litigiosità che ha portato alla crisi. Va aggiunto il potenziale dualismo con il Professore, che i vertici del Pd temono. Ma l’ipotesi Prodi ha il vantaggio di apparire fisiologica. E non sgradita all’opposizione, anzi. «Nessuno avrebbe difficoltà» ad accettare che sia l’ex premier a portare l’Italia fino al voto, ha spiegato il leader dell’Udc, Pier Ferdinando Casini. «Che rimanga Prodi è la cosa più logica». Sembra farlo capire anche Walter Veltroni. Il segretario del Pd adesso loda il premier. Lo presenta come vittima dei ministri dell’estrema sinistra che sono andati in piazza. «Più il governo faceva cose buone, più aumentava la confusione, e l'opinione pubblica non percepiva quanto di buono veniva realizzato», accusa Veltroni. È la conferma di un asse forse più obbligato che cercato; ma senza alternative, se Marini fallisce e il Quirinale è costretto a prendere atto che bisogna sciogliere le Camere.

Massimo Franco
01 febbraio 2008(ultima modifica: 02 febbraio 2008)

da corriere.it


Titolo: MASSIMO FRANCO
Inserito da: Admin - Febbraio 05, 2008, 09:10:51 am
La nota

Il Polo parte favorito

Ma c'è l'ipoteca della frammentazione


Si è chiuso lo spiraglio intravisto testardamente per giorni da Franco Marini. E di rimbalzo sta per finire la legislatura. Il presidente del Senato ieri sera ha rinunciato al proprio incarico, consegnando al Quirinale la presa d'atto che non si può andare avanti: non c'è spazio per altri governi degni di questo nome. Domani Giorgio Napolitano scioglierà le Camere. Il premier dimissionario Romano Prodi quasi certamente rimarrà a Palazzo Chigi per portare il Paese alle urne. E il referendum elettorale che doveva tenersi in primavera sarà indetto oggi e celebrato fra un anno, perché il voto lo farà slittare. Ormai, i timori del centrodestra su un governo aggrappato alla speranza di un rinvio si sono rivelati infondati. Né Napolitano né Marini hanno offerto sponde al centrosinistra. Lo stesso tentativo del Pd di arrivare a giugno, adesso appare in tutta la sua dimensione tattica: serviva a fare emergere la responsabilità finale della rottura, e a sottolineare negativamente la fretta berlusconiana. Il «no» del Cavaliere è arrivato alla fine della consultazione di ieri a palazzo Madama. La sensazione diffusa, però, è che i margini in realtà si fossero quasi azzerati nel momento in cui Prodi aveva deciso di farsi sfiduciare dal Senato. Quanto è accaduto dopo, è stato uno sforzo generoso e inutile di allontanare un epilogo inevitabile. Può darsi che la caduta del governo per il ritiro dell'Udeur di Clemente Mastella non permettesse soluzioni diverse. Il presidente del Consiglio, tuttavia, ha bruciato in anticipo qualunque subordinata.

Al momento, il centrodestra risulta in netto vantaggio: tanto che la discussione al suo interno riguarda non soltanto le elezioni, ma addirittura il governo che Silvio Berlusconi potrà formare dopo il voto, fissato probabilmente per il 13 aprile. È la conferma di una campagna elettorale che la Cdl considera già vinta. La rapidità con la quale alleati come Gianfranco Fini e Pier Ferdinando Casini hanno abbandonato qualunque distinguo rispetto al Cavaliere, nasce dalla consapevolezza di non avere più margini; e di non poter riproporre dualismi nel momento in cui la rivincita sembra a portata di mano. Ma l'incognita su quanto accadrà nelle prossime settimane e dopo il voto non è da sottovalutare. I contrasti che hanno minato il centrodestra alla fine della scorsa legislatura e nel primo anno e mezzo dell'attuale, ora sono diplomatizzati; ma rimangono. E il centrodestra promette di presentarsi più frammentato di prima, come l'Unione del 2006. La determinazione di Berlusconi ad andare al voto anticipato quanto prima nasce dalla volontà di incassare politicamente la delusione dell'elettorato nei confronti del governo Prodi; ma anche di evitare manovre che possano dividere di nuovo i propri alleati. Le miniscissioni che si registrano in queste ore mostrano un'opposizione compatta sulle urne, eppure non ancora stabilizzata e amalgamata. Il passaggio di esponenti di FI nell'Udc, e viceversa, non prelude ad uno scambio concordato ma a nuove tensioni. Il partito di Casini avverte fin d'ora: «Saremo comunque determinanti, alla Camera e al Senato», evocando un braccio di ferro con i compagni di strada. L'ammissione di un'alleanza «dettata dalla legge elettorale», evoca una scelta obbligata, ma non agognata. Ed implica l'azzardo di far coesistere almeno otto formazioni, molte di piccole dimensioni. Vedendo la fine che ha fatto il governo Prodi per il deragliamento degli alleati minori, la stabilità rimane una scommessa anche per Berlusconi. I calcoli che girano in questi giorni assegnano alla Cdl un vantaggio sulle sinistre fra i dodici e i venti parlamentari in Senato. Potrebbero essere molti, o molto pochi. E poi, la campagna elettorale è lunga.

Il centrosinistra non ha ancora svelato con quale tipo di aggregazione si presenterà. Ma l'insistenza del Pd veltroniano sulla coerenza dei programmi sembra fatta apposta per mostrare le contraddizioni del centrodestra. Non è scontato che l'operazione riesca. Ma la volontà del Cavaliere di tenere aperto il dialogo istituzionale dopo il voto risponde ad una scelta calcolata. Berlusconi non esclude un governo di unità nazionale, negoziato da posizioni di forza. In più, sa che fra due mesi e mezzo potrebbe essere obbligato a tendere la mano all'opposizione: sperando di avere ancora di fronte interlocutori non indeboliti da un'eventuale sconfitta.

Massimo Franco
05 febbraio 2008

da corriere.it


Titolo: Massimo Franco. Il caso Alitalia
Inserito da: Admin - Marzo 26, 2008, 04:27:39 pm
IL commento

La cordata del silenzio

Il caso Alitalia


Per giorni, la lente del centrodestra ha ingrandito la vicenda Alitalia come l’ennesimo fallimento annunciato del governo di Romano Prodi. Voleva mostrare un Walter Veltroni nell’angolo, esaltando il suo imbarazzo e le sue distanze dal premier.

Ma l’esito dell’offensiva adesso non è così scontato. Il fatto che ieri il segretario del Pd abbia mostrato di «scegliere» Air France lascia capire che un accordo, seppure difficile, alla fine potrebbe spuntare. E il silenzio improvviso di Silvio Berlusconi, teorico di una fantomatica «cordata italiana », si abbina all’esaltazione che il centrodestra fa delle proprie pressioni, decisive per riaprire la trattativa.

Sulla vendita dell’Alitalia, Silvio Berlusconi e la Sinistra Arcobaleno, Fausto Bertinotti in testa, hanno interessi comuni. Non economici, naturalmente: ad avvicinarli sono obiettivi puramente elettorali. Per motivi diversi, il candidato a Palazzo Chigi del centrodestra e l’ex presidente della Camera spargono scetticismo sulla soluzione Air France. Additano le responsabilità di Romano Prodi. Ed evocano quotidianamente il premier dimissionario.

Farlo, significa insieme «oscurare » il segretario del Pd, e costringerlo sulla difensiva. Veltroni si sgola contro «l’uso elettorale » della vicenda Alitalia. Tutto inutile: quella trattativa in bilico è una manna per un Pdl deciso a risucchiarlo nell’orbita prodiana; a cancellare la discontinuità che l’ex sindaco di Roma ha cercato di sottolineare fin dall’inizio; e a mettergli contro il nord. Quanto a Bertinotti ed al suo partito, ricordare che «nei Paesi europei i governi aiutano le compagnie di bandiera», serve a schiacciare il Pd su un profilo liberista; a presentarsi come unica sinistra senza aggettivi; ed a creare una tenaglia con la Cgil contro Prodi e, di rimbalzo, Veltroni.

Ieri Bertinotti ha definito «stupidaggini » le accuse di un asse con Berlusconi. E in effetti, se qualcuno pensasse che si tratti di una regìa concordata, andrebbe fuori strada. La convergenza è oggettiva. Per questo, si avverte una sintonia fra il vicepresidente di FI, Giulio Tremonti che vede nell’atteggiamento verso Alitalia «un Prodi al terzo mandato all’Iri», e gli attacchi del Prc. Ma non è una sintonia esclusiva. Basta registrare la posizione del ministro Antonio Di Pietro, che pure è alleato del Pd, o dei sindacati. Si tratta di uno schieramento nel quale i calcoli elettorali si incrociano e si mescolano con una virata anche in termini di cultura economica.

È quella che fa scrivere al «Wall Street Journal»: Berlusconi è «un corporativo avverso alla libera concorrenza di mercato». Il contrario, secondo il quotidiano newyorchese del magnate australiano Rupert Murdoch, di «un liberale economico che intende fare quello di cui l'Italia ha bisogno per rilanciare l'economia barcollante ». Ma sul versante italiano, a condizionare la scelta sono le urne ed il rischio di licenziamenti. Esiste la prospettiva concreta di un fallimento, che però «a Berlusconi non interessa», accusa il vicepremier, Massimo D’Alema. Ma il centrodestra è aiutato dalla riapertura della trattativa fra AF-Klm e sindacato. Gli permette di accusare Prodi di voler «svendere» Alitalia.

È un modo per difendersi dalla critica di immobilismo che il Pd fa a Berlusconi, riferendosi ai cinque anni in cui governava. Anche allora - fra 2001 e 2006 - Alitalia perdeva, ma il Cavaliere non si impegnò a venderla: gliel’ha ricordato il leader centrista Pier Ferdinando Casini. La replica, affidata a Gianfranco Fini, è che «il centrodestra non mise sul mercato Alitalia, perché il mercato era fermo dopo gli attentati dell'11 settembre 2001: l'avremmo svenduta». Il fronte berlusconiano chiama a testimone delle proprie ragioni, di nuovo, il sindacato. «Il governo Prodi», dice Fini, «ha condotto le trattative in modo tale da far dire persino a Cgil, Cisl e Uil (e sottolineo Cgil): 'vergognatevi’... ».

Di nuovo, Prodi viene messo in primo piano. E pensare che qualcuno si illudeva che Veltroni sarebbe riuscito a farlo scomparire, e perfino dimenticare all’elettorato.

Massimo Franco
26 marzo 2008

da corriere.it


Titolo: Massimo Franco. Una logica sbagliata
Inserito da: Admin - Aprile 10, 2008, 04:05:30 pm
IL COMMENTO

Una logica sbagliata


Infiocchettata come «ipotesi di scuola», è arrivata la seconda puntura berlusconiana nei confronti del Quirinale. Come quella dei giorni scorsi, nasce da una polemica con l’Unione e non con Giorgio Napolitano; e sarebbe curioso se fosse il contrario.

Ma il modo ruvido, per usare un eufemismo, col quale il Cavaliere la affronta, finisce per alimentare la tensione con la presidenza della Repubblica. La sostanza è prosaica: se vince, Silvio Berlusconi non vuole dare la presidenza di una Camera all’opposizione, «quando tutte le cariche sono nelle mani della sinistra». Solo se «per ipotesi fosse eletto un altro capo dello Stato della nostra parte politica », ha detto, «riterrei un dovere dare la guida del Senato» agli avversari.

La questione non può essere liquidata come una semplice provocazione o una gaffe. In linea di principio, i vertici delle istituzioni dovrebbero riflettere un equilibrio fra maggioranza e opposizione, e non essere considerate solo la protesi delle coalizioni di governo. Il modo in cui l’Unione decise di presidiarle dopo le elezioni del 2006, irritò il centrodestra: sebbene si trattasse della replica di quanto aveva fatto nel 2001 la Cdl nei confronti dell’Ulivo. I veleni di questi giorni sono insomma il risultato di un avvitamento progressivo che però lambisce per la prima volta anche il Quirinale. Ed evoca il fantasma di manovre che Berlusconi non riesce a cancellare del tutto giurando subito dopo l’attacco: «Lunga vita a Napolitano ».

Pesa l’elezione del presidente della Repubblica con un numero di voti che rifletteva più o meno la consistenza del centrosinistra: un margine risicato come non avveniva da molti anni. Nell’ottica berlusconiana, sembra passare in secondo piano il fatto che il centrodestra si è rifiutato di appoggiare Napolitano; e che finora il capo dello Stato ha tenuto un comportamento di ineccepibile garanzia per tutti: basti pensare al modo in cui ha gestito l’approdo alle elezioni anticipate dopo la crisi del governo di Romano Prodi. Ma soprattutto, proprio mentre la afferma, il Cavaliere finisce per smentire la regola condivisibile di slegare gli equilibri istituzionali da quelli governativi.

Il modo in cui accenna «per ipotesi di scuola» ad un baratto Quirinale-Palazzo Madama ripropone proprio la logica che Berlusconi imputa, con qualche ragione, al centrosinistra. E sembra non rendersi conto che un’istituzione di garanzia come la presidenza della Repubblica non può essere valutata comunque con gli stessi criteri delle altre cariche dello Stato: non a caso dura sette e non cinque anni. Per questo i suoi attacchi ad intermittenza, per quanto destinati ai grandi elettori di Napolitano, e non al capo dello Stato, rischiano di apparire l’inizio di un conflitto deciso a tavolino; e mirato a destabilizzare il Quirinale come simbolo e apice di quell’«occupazione delle istituzioni» alla quale il candidato del Pdl a palazzo Chigi allude da mesi.

È possibile che l’argomento riemerga come concessione ad una platea elettorale e ad un centrodestra che sentono acutamente la questione. E che venga evocato anche per il timore inconfessato di ritrovarsi al Senato con una maggioranza tutt’altro che consolidata, come è successo a Prodi: magari più abbondante numericamente, ma politicamente altrettanto infida. Sarebbe a dir poco discutibile, tuttavia, la tentazione di scaricare sul Quirinale i difetti di una legge elettorale dolosamente macchinosa; e le conseguenze di un voto che anche i candidati alla vittoria sembrano ritenere almeno in parte imprevedibili. Significherebbe un pessimo inizio di legislatura: un’avventura nella quale sarebbe difficile intravedere un lieto fine.

Massimo Franco
10 aprile 2008

da corriere.it


Titolo: Vincenzo Vasile «No comment». L’ira fredda del Quirinale
Inserito da: Admin - Aprile 10, 2008, 10:57:33 pm
«No comment». L’ira fredda del Quirinale

Vincenzo Vasile


Non una parola. L’ira fredda del presidente scende come una coltre sull’ultimo delirio di onnipotenza di Silvio Berlusconi. Schiocca come uno schiaffo il rigoroso «no comment» di Giorgio Napolitano all’assalto del leader del Pdl di fine campagna elettorale. Ma non è solo per evitare interventi in questa fase di incandescente calore politico che Napolitano stavolta ha scelto di tacere. Si può intuire che con il silenzio più gelido si voglia anche in qualche modo sottolineare l’insussistenza e la povertà delle argomentazioni addotte: «... avendo loro il Quirinale... », è già questa premessa di Berlusconi - prima ancora dell’ipotesi che Napolitano si dimetta - che ha fatto saltare la mosca al naso del presidente, inducendolo a rispondere con un altero silenzio.

Un cambio di passo considerevole, rispetto al precedente rapporto tra Colle e Berlusconi, che sinora era apparso generalmente improntato - per volontà di Napolitano - a scongiurare pericoli di rotture e a ricondurre eventuali polemiche nell’alveo delle sottigliezze diplomatiche e dei distinguo. Il senso è che il presidente della Repubblica non degna, insomma, di una sillaba l’ex premier che pretenderebbe di farlo sloggiare dal palazzo più alto della Repubblica in nome di una concezione proprietaria e privatistica delle istituzioni. Quel che doveva essere detto è stato, infatti, già detto, e messo nero su bianco. Anche recentemente. Quando in un forum con la redazione del Tempo Berlusconi si era già lasciato andare a questa tiritera della presidenza appannaggio «dell’altra parte» e al pronostico della condanna conseguente del suo eventuale prossimo governo alle «forche caudine», c’erano state - era il primo aprile - tre-righe-tre di algida e sferzante replica quirinalizia: «La Presidenza della Repubblica - chiunque ne fosse il titolare - ha sempre esercitato una funzione di garanzia nell’ambito delle competenze attribuitele dalla Costituzione senza mai sottoporre a interferenze improprie le decisioni di alcun governo, e considera grave che le si possano attribuire pregiudizi ostili nei confronti di qualsiasi parte politica».

Detto per il passato (in difesa di Ciampi, su cui la solita precisazione di Berlusconi aveva addensato il grosso delle critiche), per il presente, e preventivamente per il futuro. Per chi voglia ripassare il pensiero di Napolitano sulle istituzioni, c’è un testo, anch’esso recente, di riferimento: la nuova prefazione alla sua autobiografia politica ripubblicata da Laterza. Con una certa amarezza, ma prospettando la possibilità di una ritrovata convergenza, Giorgio Napolitano qui rivendica l’iniziale confluenza bipartisan sulla sua candidatura al Quirinale, e rivive il voltafaccia finale del centrodestra: c’era stato - rievoca - un «affidamento» quasi corale sul suo nome, che non si concretizzò nel voto unitario dei due schieramenti, ma che conferma come la sua elezione al Quirinale non sia stata politicamente e istituzionalmente uno strappo. Il 10 maggio 2006 al quarto scrutinio le Camere lo elessero, infatti, presidente della Repubblica, un voto che divise il Parlamento in due parti. Napolitano fu il primo ex pci ad assumere questa carica, ma non ebbe un’investitura unanime. Al primo scrutinio aveva avuto un classico risultato da outsider: 8 voti su 984, al secondo 15 su 973, al terzo 16 su 976, al quarto prevalse con 543 su 990. Eppure il cruccio di una mancata indicazione bipartisan rimane. Anche perché - nel retroscena - la candidatura aveva trovato un appoggio impegnativo dal centrodestra, in particolare con pubbliche dichiarazioni di Fini e di Casini. Eppure all’ultimo momento Berlusconi tolse il timbro della Cdl.

La nuova introduzione del libro riconferma, dunque, la vocazione super partes del capo dello Stato: infatti, Napolitano vi sostiene che sarebbe ben grave l’assenza di un «supremo moderatore e garante di una corretta dialettica istituzionale», eletto dal Parlamento. E l’assimilazione del Capo dello Stato al leader di una maggioranza politica, «investito col voto popolare da una parte del paese in contrapposizione all’altra», finirebbe per «alimentare tensioni incontrollabili nel tessuto istituzionale e nella compagine nazionale». No, non si può, non si deve sostenere che il presidente - anzi la presidenza come la intende napolitano - stia «dall’altra parte». In quel testo il capo dello Stato si diffonde «sull’ardua difficoltà nel perseguire il superamento del clima di pura contrapposizione e di incomunicabilità a scapito della ricerca di possibili terreni di impegno comune, instauratosi nei due schieramenti in gara per la guida del paese». E riconferma di avere «la serena coscienza di aver agito secondo lo spirito e la lettera della Costituzione, senza pregiudizi di favore o di sfavore verso chicchessia, senza ombre o tentazioni di faziosità». Per Napolitano «la collocazione del Presidente della Repubblica al di sopra delle parti, al di fuori della contesa politica e delle competenze di governo, comporta naturalmente una sostanziale limitazione dei poteri del Capo dello Stato». Anzi: «È peraltro importante - scrive - che il richiamo all’interesse generale e al comune quadro di riferimento costituzionale si cali nel vivo di quel rapporto con la società che il Capo dello Stato deve saper coltivare: un rapporto di ascolto e di dialogo con la società intesa non solo nelle sue espressioni politiche, ma anche nella così variegata molteplicità delle sue componenti, delle sue forze, delle sue dimensioni. È così che ogni azione di persuasione può aver ragione di molte sordità e risultare efficace».


Pubblicato il: 10.04.08
Modificato il: 10.04.08 alle ore 8.24   
© l'Unità.


Titolo: Massimo Franco. La grande occasione
Inserito da: Admin - Aprile 15, 2008, 04:10:50 pm
La grande occasione

di Massimo Franco


In neppure due anni, Silvio Berlusconi e il centrodestra si sono ripresi il governo del Paese. E con una nettezza che ha, se non smentito, certo dimostrato esagerate le previsioni diffuse di un testa a testa. Messo di fronte alla responsabilità di una scelta, l’elettorato ha risposto consegnando le chiavi del potere all’uomo che dal 1994 ha plasmato il fronte moderato e la stessa opposizione. È vero che il numero dei votanti è calato. Ma il fatto che non sia sprofondato sotto il muro dell’80 per cento conta non solo simbolicamente.

Si conferma il malessere nei confronti della classe politica, senza tuttavia renderlo allarmante. E per Berlusconi si tratta di un successo doppio. Non si assiste soltanto al suo ritorno prevedibile a Palazzo Chigi. La novità è che la reinvestitura avviene dopo una campagna elettorale nella quale non ha promesso miracoli; né lasciato intravedere soluzioni indolori in economia. Seppure fra le solite battute e battutacce, si è presentato nella veste dell’imprenditore chiamato a fronteggiare un periodo di grave crisi.

Il suo miracolo è stato quello di farsi accettare anche nella nuova veste di premier senza bacchetta magica; e di interpretare una voglia prepotente di sicurezza. L’affermazione vistosa della Lega la riflette, senza tuttavia averne l’esclusiva. Ma la metamorfosi del Cavaliere ha avuto successo per i suoi meriti e, in buona parte, grazie ai limiti degli avversari. Per il Pd la sconfitta è netta quanto la vittoria berlusconiana. Walter Veltroni ha svuotato l’estrema sinistra; ma non è riuscito a sottrarre consensi al centro, mancando la scommessa di conquistare i voti moderati.

La rimonta, che c’è stata, finisce così per sottolineare la misera base di partenza del centrosinistra. Per questo, già si intravede la domanda drammatica e forse lacerante che da oggi aleggerà nella nuova opposizione: ha perso Romano Prodi o Veltroni? Certamente, il segretario del Pd non è riuscito a far dimenticare del tutto il governo dell’Unione. Ma questo rinvia a Prodi. La sua autoesclusione dalla sfida non è bastata a cancellare i danni accumulati giorno dopo giorno per una lettura sbagliata del risultato del 2006, per le scelte economiche e per le liti nella sua coalizione. Il saldo è un radicale riflesso d’ordine, che il berlusconismo è riuscito ad intercettare, come nel 1994 e nel 2001.

Ma stavolta il centrodestra non avrà alibi, né potrà regalare illusioni; e lo sa. La maggioranza che gli italiani gli consegnano è a prova di ribaltoni, pasticci e scaricabarile. Il problema è di legittimarla con provvedimenti seri ed incisivi. Con una consapevolezza in più: non solo l’elettorato ma la comunità internazionale osservano l’Italia tornata berlusconiana con una miscela di scetticismo, allarme e attesa. Ed i primi due, finora, hanno prevalso.

15 aprile 2008

da corriere.it


Titolo: Massimo Franco. La vittoria di Alemanno
Inserito da: Admin - Aprile 29, 2008, 05:18:53 pm
La vittoria di Alemanno

Non solo Roma


di Massimo Franco


Il significato storico della vittoria di un esponente della destra ex missina nella capitale d’Italia non va sottovalutato. Gianni Alemanno sindaco di Roma rappresenta uno spartiacque che legittima pienamente l’arco costituzionale della Seconda Repubblica: postfascista, più che antifascista; almeno non nel senso un po’ ossificato e molto strumentale nel quale una parte della sinistra ha continuato a rappresentare e svilire un valore fondante come l’antifascismo. Ma proprio per questo, accreditare una continuità fra il Gianfranco Fini avversario perdente di Francesco Rutelli nel 1993, e l’Alemanno vincente di ieri, può risultare fuorviante. Si tratta di una continuità indubbia e insieme parziale.

Alemanno non ha vinto solo in quanto uomo con un marcato profilo di destra, ma come candidato di una coalizione capace di parlare insieme alle periferie capitoline ed al ceto medio; e di riscuotere consensi al Nord come al Centro e al Sud. In questo senso, riequilibra l’impronta «nordista» e leghista del voto politico. Forse, a spiegare meglio la conquista del Campidoglio da parte del Pdl è il fatto che il centrosinistra abbia presentato lo stesso volto del 1993: un ex sindaco che pure in passato aveva fatto bene. Ma che evidentemente appariva «vecchio », espressione di un modello amministrativo datato. Per questo è stato ritenuto incapace di captare i cambiamenti avvenuti non solo nel Paese ma nella stessa capitale, governata ininterrottamente prima da lui e poi da Walter Veltroni.

Il Pd sperava di arginare la marea berlusconiana del 13 e 14 aprile proprio nel ballottaggio a Roma. L’onda, invece, è diventata ancora più potente e distruttiva. La voglia di ordine, sicurezza e cambiamento da parte dell’elettorato ha spazzato via l’equilibrio impossibile di una capitale in bilico fra magìe cinematografiche e periferie abbandonate a se stesse. Si può anche ammettere che sul voto ad Alemanno abbiano pesato la paura e l’indignazione per i recenti stupri di donne. Ma questa è un’aggravante, non un’attenuante per l’amministrazione uscente. La verità è che il Pd e la sinistra in generale non sono riusciti ad opporre alla candidatura del nuovo sindaco nulla che non fosse già sentito e, alla fine, stantìo: le foto in bianco e nero di Alemanno «picchiatore» negli anni Settanta; l’indignazione per l’incontro fra Silvio Berlusconi ed il senatore del Pdl Giuseppe Ciarrapico, «fascista non pentito », proprio il 25 aprile; l’evocazione dello spettro leghista e antiromano. E via di questo passo. Il risultato paradossale è stato quello di dilatare la sensazione del vuoto strategico del centrosinistra; di mostrare in bianco e nero non il Pdl ed il suo «uomo senza qualità», ma un Pd che invece pretendeva di presentarsi nuovo di zecca, ed invincibile nella sua roccaforte capitolina.

A questo punto, il problema non è più soltanto l’eredità governativa di Romano Prodi. Di fatto, il risultato del ballottaggio per il Campidoglio lesiona la leadership veltroniana e di tutto il «gruppo romano» che ha costruito il Pd e la sua strategia solitaria. Ma soprattutto, lascia indovinare una crepa in quel «partito dei municipi » che ha sempre rappresentato il cuore duro del potere del centrosinistra in Italia; e che sembrava al riparo da qualunque sconvolgimento nazionale. È come se di colpo il gruppo dirigente si svegliasse da un lungo sonno. E scoprisse che la realtà, dispettosamente, non ha assecondato le loro convinzioni. Si tratta di una sorta di «sindrome di Ecce bombo» collettiva: la stessa di quei ragazzi di sinistra immortalati nel 1978 dal regista Nanni Moretti nel film omonimo. Raccontava la storia di un gruppo di amici che erano andati a dormire sulla spiaggia aspettando l’alba; e che alla fine si accorgevano che il sole era spuntato non dove credevano, ma alle loro spalle: una metafora degli abbagli culturali, prima che politici, della sinistra. L’immagine di un Pd convinto di tenere Roma, il quale assiste invece al trionfo di Alemanno ed ai caroselli selvaggiamente gioiosi dei tassisti, fa impressione più che se fosse diventato sindaco Umberto Bossi. In fondo, il leader dei lumbard poteva essere considerato un invasore. Alemanno, invece, incarna la rivolta delle viscere della capitale contro chi l’ha governata negli ultimi anni: e neppure così male. È un monito per gli sconfitti, e per i vincitori.

29 aprile 2008

da corriere.it


Titolo: Massimo Franco. Scontro frontale
Inserito da: Admin - Luglio 01, 2008, 04:05:33 pm
Scontro frontale


di Massimo Franco


Sta prendendo forma una nuova fase. Vede una maggioranza compatta in un'offensiva di ridimensionamento del potere giudiziario; ed il Quirinale chiamato ad una mediazione delicata. Oggi si riunisce il Consiglio superiore della magistratura con gli occhi del governo puntati addosso. Il centrodestra ritiene che il Csm sia andato oltre le sue funzioni denunciando l'incostituzionalità della norma del governo che sospende alcuni processi, fra cui quello al premier. Giorgio Napolitano, che del Consiglio è presidente, non ci sarà. Ma indirettamente verrà investito di una questione che per Silvio Berlusconi sta diventando vitale.
La virulenza delle polemiche sulla giustizia lascia indovinare scenari gonfi di incognite. Anche perché di fronte alla determinazione a regolare i conti con quella che il premier chiama «magistratura politicizzata» c'è un'opposizione divisa; di più, risucchiata dal radicalismo di Antonio Di Pietro. Il Pd veltroniano prova disperatamente a sottrarsi all'abbraccio. Eppure rischia di subirlo, perché l'istinto antiberlusconiano del suo elettorato viene messo a nudo e stimolato dall'aggressività del Cavaliere.

Il risultato è che Di Pietro tenta di accreditarsi come unico vero avversario. E inasprisce lo scontro, in modo simmetrico ed opposto a Berlusconi. Calamita il plauso della sinistra antagonista, spingendo il fronte nel recinto dei movimenti extraparlamentari. E non nasconde di voler creare una sorta di «Lega dei valori », versione moralista e ambigua della Lega di Umberto Bossi, chiamata a usare la giustizia come spartiacque. Insomma, sta plasmando un contenitore funzionale alla sua cultura, prima che alle sue ambizioni; ma, per paradosso, utile anche ai piani del capo del governo.
In questo schema manicheo, buoni contro cattivi, prevedere un rafforzamento di Berlusconi non è azzardato. Il centrodestra avverte che la debolezza del Pd è solo il riflesso di quella di altri centri di potere. E li incalza, a partire dalla magistratura, convinto che possa essere la volta buona per piegarli ad una normalità che a molti appare una normalizzazione. Ma, per quanto discutibile, il modo in cui il premier addita gli sconfinamenti dell'ordine giudiziario poggia su un malessere diffuso, alimentato anche da errori.
Non stiamo assistendo al ritorno di un vecchio conflitto. È in atto uno scontro che Berlusconi oggi ritiene di poter affrontare da posizioni di forza: per questo ha fretta di chiuderlo. Lo drammatizza scommettendo sull'estremismo di avversari che gareggiano con lui in eccessi verbali, riuscendo perfino a batterlo. Nella loro furia polemica, gli antiberlusconiani alla Di Pietro promettono di colpire chiunque non appaia abbastanza nemico del Cavaliere. Nessuno si meraviglierebbe se alla fine scaricassero la loro frustrazione politicamente suicida perfino sul Quirinale.


01 luglio 2008

da corriere.it


Titolo: Massimo Franco. Il Cavaliere sta vincendo
Inserito da: Admin - Luglio 02, 2008, 06:38:37 pm
LA NOTA

Il Cavaliere sta vincendo

L’obiettivo finale è piegare i magistrati



Il miracolo di equilibrio compiuto da Giorgio Napolitano forse non basterà.

Il capo dello Stato è riuscito a mettere d’accordo quasi tutti, con una lettera calibratissima inviata ieri al Csm poco prima dell’inizio della seduta. Ma Silvio Berlusconi si prepara ad andare in tv domani sera per dire «pacatamente e serenamente» che «la giustizia è una vera emergenza».

E, con parole quasi offensive, ha ridotto l’iniziativa del Quirinale ad un sì alle pressioni dei presidenti di Senato e Camera. Risultato: Napolitano ha dovuto precisare che si è mosso in autonomia; ed il fronte rimane apertissimo, perché la gaffe istituzionale rivela la strategia berlusconiana di marcare il confine fra potere politico e sistema giudiziario. Si tratta di segnali che fanno prevedere tensioni crescenti. Il presidente della Repubblica ha fatto molto per arginarle. Gli è arrivato il plauso del Pdl per avere «invitato il Csm a non esprimersi sulla costituzionalità delle leggi», riconosce il ministro della Giustizia, Angelo Alfano. Walter Veltroni ha avallato «le parole e lo spirito della sua lettera», nonostante l’imbarazzo del Pd. L’unico a masticare amaro è sembrato Antonio Di Pietro, convinto che Napolitano non dovrebbe firmare la legge con cui si sospendono alcuni processi. «Ma», concede, «rispetterò qualunque sua decisione». Sono parole un po’ d’ufficio: anche perché fra Di Pietro e il Pd si è aperto il fronte della manifestazione dell’8 luglio, bollata da Veltroni come «un regalo al premier». La loro alleanza è visibilmente in crisi. Ma il vero contrasto, seppure larvato, si delinea fra palazzo Chigi e Quirinale.

Le parole di Berlusconi sull’accoglimento da parte di Napolitano delle richieste fattegli lunedì da Renato Schifani e Gianfranco Fini, tendono a mostrare un capo dello Stato accerchiato. È come se le alte cariche parlamentari adesso si muovessero apertamente come portavoci della maggioranza.
E nella sua conferenza stampa ad Acerra per l’emergenza dei rifiuti, Berlusconi ieri ha accreditato le pressioni sul capo dello Stato. Ci sarebbe stato una sorta di «avvertimento» sulle conseguenze di un parere di incostituzionalità da parte del Csm: sia sul decreto che sospende alcuni processi, compreso quello che vede imputato il premier; sia sulla norma che vieta la pubblicazione delle intercettazioni telefoniche: l’argomento che Berlusconi vuole affrontare domani in tv. Per di più, il Cavaliere ipotizza un decreto da fare entrare in vigore subito: ipotesi che per il Pd è una provocazione, ma porta acqua al mulino di Di Pietro, secondo il quale il Cavaliere ha fretta perché conosce il contenuto di alcune telefonate. Così, il Csm accoglie quasi all’unanimità i suggerimenti di Napolitano; e in serata boccia il cosiddetto «blocca-processi» come «irrazionale», senza pronunciarsi sulla sua costituzionalità. Ma il conflitto lievita ugualmente. Il sospetto fondato è che Berlusconi non voglia chiuderlo: almeno fino a quando non riterrà di avere vinto la resa dei conti.

Massimo Franco
02 luglio 2008

da corriere.it


Titolo: Vittorio Emiliani. Il bavaglio ai giornali
Inserito da: Admin - Luglio 03, 2008, 07:23:13 pm
Il bavaglio ai giornali

Vittorio Emiliani


Editori e giornalisti insieme per protestare con forza, con la massima forza pacifica possibile, e con creatività, contro il bavaglio che Silvio Berlusconi, ossessionato dalla pubblicazione di nuovi colloqui telefonici hard, vuole ora imporre, in tutta fretta, per decreto legge, all’intero pianeta dell’informazione e alla magistratura in materia di intercettazioni. Anche a costo di mettere in ginocchio, con sanzioni pecuniarie inusitatamente pesanti, le stesse aziende editoriali. Non accadeva da non so quanto tempo e sembrava improbabile che accadesse fra due categorie, editori e giornalisti, fra due sindacati, Fieg e Fnsi, che da oltre tre anni non riescono a trovare - grazie alla ostinazione degna di miglior causa di alcuni grandi editori di giornali - una linea di intesa per il nuovo contratto degli operatori dell’informazione. Contratto che metta al riparo dal precariato, dall’insicurezza e quindi dalla perdita di autonomia i giornalisti italiani, i più giovani in specie.

Evidentemente anche gli editori avvertono che il clima si va facendo nel nostro Paese particolarmente duro e illiberale, un clima da leggi speciali, da criminalizzazione dell'informazione non allineata, con la concomitante caduta di garanzie che sono state finora il fondamento stesso della Costituzione. Non era successo neppure negli anni più bui del terrorismo di destra e di sinistra che tante e così strategiche garanzie venissero depotenziate e, di fatto, sterilizzate. Per decreto, per giunta. All’epoca i tentativi posti in essere furono contrastati da un'opinione pubblica attenta e presente, dalle forze garantiste che la interpretavano. Quando l’allora direttore del Corriere della Sera, Franco Di Bella, poi finito nelle liste P2 (dove figurava pure Silvio Berlusconi, uno dei rari imprenditori privati in verità), propose pubblicamente il “black-out” sulle notizie riguardanti il terrorismo, ricevette assai pochi consensi (quello di Gianni Letta allora direttore del Tempo) e molti dissensi radicali: noi avremmo continuato a dare tutte le notizie su fatti e fenomeni terroristici evitando rigorosamente di enfatizzarne i personaggi e le forme di espressione con una forma seria di autodisciplina (pure oggi, va sottolineato, necessaria). Il “black-out” venne dunque respinto dalla grande maggioranza dei direttori e dei giornalisti italiani i quali temevano, giustamente, che dietro quel silenzio passassero degenerazione e svuotamento della democrazia.

Oggi il sindacato dei giornalisti e quello degli editori trovano dunque un punto strategico di convergenza, del resto anticipato il 9 giugno scorso da Boris Biancheri, presidente della Fieg: «Limitare le intercettazioni alle indagini relative a reati di terrorismo e criminalità organizzata non mi sembra affatto una buona idea. Un sequestro di persona o la corruzione di pubblico ufficiale che non hanno connessioni con mafia e camorra non sono meno gravi per questo». Vedremo quanti fra i maggiori giornali e quanti fra i telegiornali coglieranno davvero il valore strategico di questa intesa e l'appoggeranno condividendola a fondo. Trovo ben pensata la proposta avanzata dal segretario della Federstampa, Franco Siddi: fare cioè, inizialmente, una sorta di sciopero “a rovescio”, informando di più (finalmente!) i lettori, e uscire con pagine a scacchiera, quelle libere e quelle nei fatti imbavagliate. Dopo, si potrà, probabilmente si dovrà andare, insieme, in piazza avendo cercato di formare una opinione pubblica più avvertita.

In queste ore è fin troppo scoperto il tentativo di ridurre la mole delle intercettazioni giudiziarie ad un fiume di pettegolezzi, a volte di sapore pecoreccio o boccaccesco (peraltro espressivi del malcostume di chi fa certe inqualificabili telefonate). In realtà anche la frenetica attività del presidente Berlusconi nel telefonare in Rai al direttore della fiction Agostino Saccà per raccomandare, nel modo più pressante e imbarazzante, questa o quella show-girl o stellina (magari appannata), ha ribadito alcuni dati di fatto: nell’azienda pubblica vi sono quadri berlusconiani pronti e proni a ricevere dal capo raccomandazioni e magari ordini di servizio; la Rai viene considerata da Berlusconi e pure da Confalonieri del tutto subalterna, una sorta di succursale di Mediaset. Altro che gossip. Qui ci sono di mezzo il ruolo strategico del servizio pubblico, il grado di concorrenza effettiva fra le due emittenti, il pluralismo stesso dell’informazione, la meritocrazia nelle scelte artistiche, sopraffatta da un clientelismo peloso e penoso. Valori essenziali sporcati e travolti, spesso, da questa fiumana fangosa di telefonate e di trame, per esempio contro l'attuale direttore generale della Rai, Claudio Cappon, manager pubblico di indubbia moralità e trasparenza. Adesso, ad esempio, capiamo meglio perché e percome, subito dopo la vittoria elettorale del Cavaliere, vi fu chi dall’interno di Viale Mazzini chiese la pronta, anzi immediata “riabilitazione” di Saccà: avevano messo in piedi la trama per un nuovo direttore generale. Adesso capiamo meglio perché si avanzano nomi per i nuovi possibili componenti del CdA etichettati quali “bipartisan”, in realtà berlusconiani di ritorno che il Pd farà bene a non avallare se non vorrà alienarsi altre simpatie fra i suoi sostenitori più decisi, e quindi più utili, anche fra i giornalisti che fanno opinione e che dai vari governi Berlusconi hanno patito emarginazioni gravi tenendo, loro, la schiena diritta.

Inoltre, conviene ripetere fino alla noia che le intercettazioni hanno consentito la cattura di Riina, di Provenzano, di Lo Piccolo, di Busca. Obiezione immediata: quelle saranno ancora possibili. Già, ma non ci saranno intercettazioni per i reati-satellite, per le estorsioni, le richieste di “pizzo”, lo sfruttamento della prostituzione, la bancarotta fraudolenta, ecc. «Talvolta si arriva ad una indagine di mafia proprio partendo da un reato minore. Non sarà più possibile farlo». Così Antonio Ingroia, pm antimafia a Palermo. Tutti reati che - per effetto dell’altro devastante provvedimento berlusconiano, il blocca-processi - finiranno in una sorta di limbo per un anno, da aggiungere ai tanti anni di attesa per la giustizia ordinaria che ordinaria non è più nella sua inaccettabile lentezza. Su questo terreno - che ci ha visti più volte messi in mora dall’Unione Europea - l’Associazione Nazionale Magistrati aveva avanzato proposte costruttive al presidente del Consiglio. Messe da lui seccamente da parte, come ogni forma di possibile dialogo sulle riforme, per porre tutta la politica, tutta l’attività parlamentare, già palesemente ingolfata, al servizio dei suoi personali casi e interessi. Anche a colpi di decreto. La nostra Costituzione, per ora, dice: «la giustizia è amministrata in nome del popolo». Fino a quando?

Pubblicato il: 03.07.08
Modificato il: 03.07.08 alle ore 8.31   
© l'Unità.


Titolo: Massimo Franco In difesa dell'Europa...
Inserito da: Admin - Agosto 01, 2008, 12:09:54 pm
Editoriali

I CONTRASTI CON L’ITALIA


In difesa dell'Europa


di Massimo Franco


Un tempo si diceva che gli italiani erano europeisti ma non europei. Adesso, sembrerebbe che il nostro amore per il Vecchio Continente si stia progressivamente raffreddando; e che le istituzioni di Bruxelles e Strasburgo, alle quali si guardava come fonte di sostegno e perfino di identità, siano diventate distanti e ostili: il sospetto dichiarato del governo è che stiano congiurando contro il Bel Paese berlusconiano. Il risultato è una sorta di braccio di ferro permanente fra Roma e Ue. Si tratti di Parlamento, Commissione o Consiglio d’Europa, che pure non ha legami istituzionali con i primi due e si occupa di diritti umani, lo scontro è garantito.

Da quando il centrodestra è tornato al potere in Italia, sta calando una coltre di diffidenza reciproca alimentata dai primi provvedimenti in materia di immigrazione e di sicurezza. In passato, anche con la coalizione di Romano Prodi, i contrasti si consumavano in prevalenza sui temi economici. Ora si registrano su un piano più delicato e scivoloso perché mettono in discussione il livello di democrazia del nostro Paese. A volte, le critiche riflettono un buon tasso di pregiudizio. Vengono suggerite e gonfiate da alcuni settori della sinistra, che brandiscono l’antiberlusconismo come una bandiera della libertà. Ma liquidare il problema così sarebbe miope. Anche perché le reazioni indignate del governo italiano alla reprimenda del Consiglio d’Europa sul trattamento riservato ai rom si sono indirizzate subito ai «burocrati di Bruxelles». Che si tratti della Corte europea dei diritti dell’uomo, della Commissione o del Parlamento, evidentemente basta la parola «Europa» a far scattare nella maggioranza una reazione che finisce per risultare pregiudiziale almeno quanto alcune delle critiche rivolte al governo di Roma.

È come se l’Italia fosse convinta di essere diventata una sorta di capro espiatorio continentale. Forse nelle file dell’opposizione qualcuno vede in questo pericoloso avvitamento una prospettiva da incoraggiare: la quarantena italiana sarebbe la conferma del «male» rappresentato dal Cavaliere. E chissà, magari un calcolo simile viene fatto anche in settori della maggioranza: si pensa che fomentare l’ostilità contro l’Europa serva a costruire un’identità conflittuale con un potere sovranazionale ritenuto incombente e impopolare. Ma di tensione in tensione, si perde la dimensione europea dei problemi. Si pratica un’autarchia legislativa che ha come unico referente e giudice il consenso elettorale. Il risultato è che lo status di Paese «sorvegliato speciale» viene alimentato proprio dal modo sbrigativo col quale è rifiutato dal governo italiano. Pochi sembrano consapevoli che uno scontro del genere può delegittimare l’Europa; ma indebolisce soprattutto l’Italia, non riducendo ma dilatando la percezione di una nostra «anomalia». Per questo, conviene ancorarsi all’Ue nonostante le difficoltà vistose; e tentare di ricucire strappi politici e insieme culturali, figli di stereotipi inaccettabili ma anche di scelte discutibili che non si possono difendere solo con l’idea del complotto antiitaliano. Altrimenti, si risponde ad un’immagine falsata dell’Italia con luoghi comuni speculari.

31 luglio 2008


da corriere.it


Titolo: Massimo Franco. Si è consumata ogni prospettiva di intesa (sicuro? ndr).
Inserito da: Admin - Settembre 01, 2008, 11:40:45 am
LA NOTA

Si è consumata ogni prospettiva di intesa

Giustizia, si rafforza l’ipoteca di Di Pietro sulla politica del Pd



L’ipotesi di un accordo in Parlamento sulle intercettazioni, da ieri è ancora più illusoria.
Le telefonate di Romano Prodi pubblicate dal settimanale Panorama hanno rafforzato i settori del centrosinistra più ostili a qualunque intesa col governo. La solidarietà offerta da Silvio Berlusconi all’ex premier dell’Unione è stata considerata dagli avversari troppo tempestiva per non apparire un gesto strumentale: «evidentemente falso», lo ha bollato il segretario del Pd, Walter Veltroni.

L’opposizione tende a vedere nella vicenda soltanto un tranello ordito dal presidente del Consiglio. L’obiettivo berlusconiano sarebbe quello di piegare le resistenze dell’opposizione contro la legge. Che la tesi sia fondata o no, conta relativamente. Pesa di più la risposta scelta in modo piuttosto compatto dal Pd, in piena sintonia con l’alleato Antonio Di Pietro; e favorita dal rifiuto prodiano alla proposta del Cavaliere di approvare «subito» il provvedimento. «Non vorrei », ha detto il Professore, «che l’artificiale creazione di questo caso politico alimentasse il tentativo di dare vita nel tempo più breve possibile a una legge sulle intercettazioni».

Il rischio, a suo avviso, potrebbe essere quello di «sottrarre alla magistratura uno strumento che, in molti casi, si è dimostrato indispensabile...». Traspare un’irritazione profonda, per un ritorno intossicato dai veleni, dopo la sconfitta elettorale ed un’estate di distacco ostentato dal «suo» Pd. Ma il no procura a Prodi il plauso del partito; e soprattutto l’approvazione di Di Pietro. È il leader dell’Italia dei Valori ad apprezzare dalla «Festa democratica » di Firenze il fatto che il fondatore dell’Ulivo non sia «caduto nel trabocchetto della solidarietà di Berlusconi». Ma Di Pietro va oltre. Coglie al volo l’episodio per rafforzare l’ipoteca negativa su qualunque dialogo col governo. Bacchetta il Pd per non avere appoggiato i suoi referendum sulla giustizia.

Evoca i fantasmi della P2 di Licio Gelli, definendo Berlusconi l’esecutore del suo progetto contro la magistratura. Mostrando una fiducia assai limitata nelle capacità negoziali alleate, aggiunge che se l’opposizione trattasse col premier, farebbe come «l’agnello che si siede a tavola col lupo». Sono le premesse di uno scontro che scomunica qualunque confronto con la maggioranza di governo. E può risucchiare il centrosinistra in un bunker antiberlusconiano rassicurante ma anche senza via d’uscita. La difesa dei giudici contro quelli che vengono visti solo come progetti di normalizzazione, finisce per apparire un obiettivo limitato, quasi di ripiego: soprattutto nel momento in cui vicende come Alitalia mostrano la capacità del governo di calamitare pezzi importanti del mondo imprenditoriale.

Il Pd sembra irretito da un centrodestra capace di decisioni magari controverse sul piano economico, ma paganti su quello politico e del consenso. Per Rosy Bindi, «Berlusconi ha conquistato mente, cuore degli italiani, e quindi si deve fare un lavoro culturale di lungo periodo». Ma per il momento non ce n’è traccia. Il centrosinistra tende a ripiegarsi su se stesso, coltivando i pregiudizi più logori contro il premier. Il risultato è di aggravare la subalternità non solo al berlusconismo, ma ad un Di Pietro che incalza e alza la posta: una deriva culturale destinata a trascinare l’opposizione su terreni sempre più impervi e minoritari; e foriera di ulteriori ritardi e di nuove delusioni.

Massimo Franco
30 agosto 2008

da corriere.it


Titolo: Massimo Franco. Crepe di governo
Inserito da: Admin - Settembre 09, 2008, 10:12:12 am
Crepe di governo


di Massimo Franco


Probabilmente è tutta colpa del « vento del Nord». Ha soffiato troppo forte, alle elezioni del 13 e 14 aprile. Ha gonfiato le bandiere verdi della Lega in un modo così vistoso da mettere in tensione i rapporti fra Silvio Berlusconi ed il partito di Umberto Bossi. La «luna di miele» del premier con l’Italia fa concorrenza a quella che il capo dei lumbard vuole perpetuare con la «sua» Padania. Il risultato è un braccio di ferro a intermittenza, che finisce per trasmettere l’immagine di una coalizione senza avversari esterni, eppure litigiosa; percorsa da nervosismi che si proiettano su tutto il centrodestra.

Non ci sono segnali di rottura, ma di confusione sì. Qualcuno prevede che possano sparire d’incanto entro qualche giorno: quando palazzo Chigi, si dice, licenzierà il provvedimento sul federalismo fiscale che sta a cuore a Bossi ed ai suoi amministratori locali. A quel punto, forse, finiranno le critiche leghiste al ministro berlusconiano dell’Istruzione, Maria Stella Gelmini, ricambiate duramente. Si chiariranno del tutto i malintesi sul «braccialetto » per i detenuti. E magari la Padania smetterà di evocare un Carroccio costretto a «mettere pace fra i duellanti» Roberto Formigoni, Letizia Moratti e Giulio Tremonti sull’Expo del 2015 a Milano.

Ma nel cuore geografico del potere berlusconiano, lungo l’asse lombardo- veneto che ha rappresentato l’avanguardia anche culturale del primato del centrodestra, gli equilibri stanno cambiando. Anzi, col suo atteggiamento aggressivo la Lega sembra dire che si sono già modificati a proprio favore. Dietro gli scarti di Bossi, dietro un’insoddisfazione ora trattenuta, ora esagerata, si intravede il calcolo di affermare non tanto la propria identità, ma il proprio potere contrattuale; e di vederlo riflesso nelle decisioni del Parlamento. È una sfida formalmente a «Roma», in realtà ad un presidente del Consiglio che dal 1994 si è affermato come una sorta di «leghista nazionale»: alleato e insieme garante di un movimento che aveva bisogno di Berlusconi non solo per prendere voti ma per farli pesare.

La sensazione, però, è che ormai la Lega si senta abbastanza forte e radicata nel suo territorio da rivendicare una visibilità che si legittima da sola. Bossi sembra ritenere di non avere più bisogno di garanti. La sua insistenza sulle «mani libere» ha senz’altro un risvolto tattico: vuole piegare le resistenze alleate. Ma riflette anche un’inquietudine verso il governo, che non si placherà facilmente perché tocca interessi finora convergenti; e oggi, invece, per la prima volta in larvata competizione. Sono significativi i commenti provenienti dal versante berlusconiano, che pongono il problema del «partito- guida» del centrodestra nel Nord del Paese. Senza volerlo, offrono una traccia che permette di risalire ai motivi veri del contrasto: anche se non è detto che l’elettorato li riconosca come tali; e soprattutto che li apprezzi.

09 settembre 2008

da corriere.it


Titolo: Massimo FRANCO La vittoria del «tanto peggio tanto meglio»
Inserito da: Admin - Settembre 19, 2008, 10:27:09 am
COMMENTO

La vittoria del «tanto peggio tanto meglio»



Un presidente del Consiglio che si dichiara «sorpreso». Un capo dell’opposizione che, casualmente, si trova negli Stati Uniti mentre Alitalia affonda.
I dipendenti della compagnia aerea in agonia che plaudono alla notizia della rottura della trattativa; e Cgil e piloti, tetragoni avversari dell’accordo, lesti a scaricare le responsabilità sul governo.

Se si cercava una sequenza in grado di fotografare il difetto di leadership del Paese ed il trionfo del «tanto peggio tanto meglio», quella appena descritta forse è la più calzante. Ma si tratta solo dei contraccolpi immediati, a caldo, di un disastro che sembra tuttora troppo annunciato per essere possibile; e troppo devastante per non far sperare in un qualche rimedio in extremis. Se il fallimento di Alitalia ci sarà davvero, l’«effetto domino» promette di essere più profondo e duraturo. Potrebbe esserlo per Silvio Berlusconi, che ha investito il proprio prestigio sul successo della cordata di imprenditori italiani; ed ha legittimamente alimentato le speranze di un accordo presentato come una sorta di «secondo tempo» virtuoso del decisionismo di palazzo Chigi, dopo l’emergenza dei rifiuti a Napoli.

Adesso che l’intesa sfugge, la sua scommessa gli viene imputata come un azzardo. L’attuale presidente del Consiglio può elencare molte attenuanti: a cominciare da quella che non solo lui ma anche gli altri sindacati additano come irresponsabilità della Cgil e della corporazione dei piloti. Sono loro, si dice, i primi colpevoli del disastro. Lo stupore berlusconiano di ieri pomeriggio, tuttavia, mostra anche un calcolo troppo ottimistico delle probabilità di successo del negoziato. Senza una soluzione di ricambio, o un problematico cambio di strategia, la maggioranza rischia di dare ragione a quella che viene definita «la maledizione di Romano Prodi».

Ai tempi del negoziato controverso e poi abortito con Air France, l’allora premier aveva scolpito: o questo, o il fallimento di Alitalia. Berlusconi ha fatto di tutto per smentirlo; e sembrava esserci riuscito mettendo in piedi un’alleanza di sedici imprenditori pronti a investire sul salvataggio: un risultato insperato. Ma ora che la cordata si è rotta, il dito puntato contro chi ha tirato troppo la corda risolve poco. Lascia intatto il problema dei ventimila dipendenti, senza contare quelli dell’indotto, che rischiano di ritrovarsi presto senza lavoro. E non cancella altre due potenziali conseguenze del «domino», insieme sociali e politiche. Intanto, si profila una frattura sindacale foriera di tensioni crescenti, e frutto di nuovo di leader in balìa delle minoranze.

E prende corpo uno scenario di disoccupazione che proietta una luce sinistra sulla realtà di città come Milano e Roma, ma non solo. L’allarme e gli scambi di accuse risuonati ieri in Campidoglio già lasciano intravedere il dramma di giunte appena elette, chiamate forse a gestire la perdita di migliaia di posti di lavoro. Probabilmente, però, l’«effetto domino» più inquietante è quello che colpisce il sistema ed il Paese nel suo insieme: anche perché regala spazio a chi ha sperato nel fallimento, pronto a costruire il proprio successo sulle macerie.

Massimo Franco
19 settembre 2008

da corriere.it


Titolo: MASSIMO FRANCO. Veltroni si rafforza grazie anche ai passi falsi del governo
Inserito da: Admin - Settembre 23, 2008, 04:32:19 pm
Il richiamo dei vescovi


di Massimo Franco


Il lessico usato dal cardinale Angelo Bagnasco riflette tutta la diffidenza dei vescovi italiani per il modo in cui è stato riempito finora il vuoto legislativo sul testamento biologico. Chiedere al Parlamento «una legge sul fine vita» tende a sollecitare una riflessione nuova; e a prevedere una serie di paletti legali che dovrebbero impedire «forme mascherate di eutanasia ». In sé il tema viene dibattuto da tempo. E Cei e Vaticano hanno scelto posizioni così nette da comportare anche polemiche laceranti. Ma l’accenno di Bagnasco ad alcuni recenti «pronunciamenti giurisprudenziali» sembra un riferimento alla sentenza della Corte di Cassazione sul caso di Eluana Englaro, la ragazza di Lecco in coma dal 1992. È quel dramma ancora dolorosamente sospeso ad avere suggerito una pressione esplicita sul potere legislativo. Alcune decisioni della magistratura, è la tesi del presidente della Cei, avrebbero «inopinatamente aperto la strada all’interruzione legalizzata del nutrimento vitale»; e dunque condannato «queste persone a morte certa». Si tratta di critiche indirette, ma chiare; e del rifiuto di avallare una situazione che per Bagnasco può portare a «esiti aberranti ». Il suo appello alle Camere è un tentativo di esorcizzare quelle che le gerarchie cattoliche considerano interpretazioni inaccettabili.

L’impressione è che i vescovi confidino in una legge approvata a grande maggioranza: anche da quei cattolici che sono stati eletti nelle liste del centrosinistra. Per questo non è da escludersi qualche tensione soprattutto nel Pd. Ma nelle parole di Bagnasco si avverte la convinzione che in Parlamento esistano i numeri e la volontà trasversale per arrivare al risultato sperato. Sebbene la Cei continui a non mostrarsi particolarmente «governativa».

I giudizi sulla maggioranza sono in chiaroscuro. Si dà atto al centrodestra guidato da Silvio Berlusconi di avere fatto qualcosa in materia di riforme: scuola, federalismo fiscale, giustizia. E di avere affrontato alcune emergenze. Ma si tratta di riconoscimenti espressi con cautela, senza trascurare i rischi che comportano alcune misure e l’inadeguatezza di altre. Proprio in materia di famiglia le richieste al governo rimangono incalzanti, esigenti, critiche. Rappresentano la parte più puntuta di un discorso che non trascura di insistere sull’impoverimento di chi ha un solo reddito; e sui segnali pericolosamente negativi che comincia a dare il Paese nel rapporto con gli immigrati. Sono richiami che qualcuno può ritenere prevedibili e quasi di maniera. Eppure appaiono significativi, dopo i recenti episodi di violenza a Milano e in Campania, nei quali è difficile non scorgere anche germi di razzismo. Affiora l’immagine di un’Italia non bella, ma che la Cei si rifiuta di considerare «da incubo ». Forse, perché la vede come l’estrema diga contro una «cristianofobia» annidata perfino nelle pieghe dell’Europa e di alcune leggi italiane: un incubo da scacciare, a costo di essere accusata di ingerenza.

23 settembre 2008

da corriere.it


Titolo: MASSIMO FRANCO. Veltroni si rafforza grazie anche ai passi falsi del governo
Inserito da: Admin - Ottobre 27, 2008, 03:57:18 pm
LA NOTA

Successo per il leader Ora la sfida è sfruttare la spinta della protesta

Veltroni si rafforza grazie anche ai passi falsi del governo


In un certo senso, sono state le seconde elezioni primarie di Walter Veltroni, ad un anno dalle precedenti. E la folla composta e civile del Circo Massimo gliele ha fatte vincere con facilità, ridimensionando i suoi critici e lo spauracchio di Antonio Di Pietro. Ma si è trattato di una vittoria che va tarata sulla lunghezza d'onda del comizio, per quanto «oceanico»; e che ha privilegiato l'autoreferenzialità della sinistra, incluse le lodi postume al governo Prodi, rispetto all'ambizione di rappresentare il Paese. Si può anche sostenere, come ha fatto ieri il segretario del Pd, che l'Italia è migliore della destra che la governa. L'affermazione, però, rimuove la sconfitta di aprile.

Soprattutto, finisce per riproporre una «diversità» virtuosa del centrosinistra, ed in primo luogo del Pd, che può apparire pretenziosa; ed incoraggiare quel filone dell'opposizione convinto di essere superiore allo schieramento berlusconiano. La richiesta veltroniana al premier di ritirare o almeno sospendere il decreto sulla riforma dell'istruzione è una delle poche proposte concrete emerse dalla manifestazione. Ma non si capisce se riaprirà davvero il dialogo, o porterà ad un nuovo rifiuto. La reazione liquidatoria del presidente del Consiglio, in visita a Pechino, non lascia prevedere spiragli.

«Non ci sarà nessun cambiamento nell'azione del governo», ha affermato Berlusconi, «perché questa è una manifestazione per uso interno alla sinistra.

Interna corporis, per le loro divisioni e per marciare contro il governo». Probabilmente l'analisi contiene una parte di verità. Ma trascura l'aiuto oggettivo che le ultime uscite del capo del governo hanno dato alla riuscita dell'adunata al Circo Massimo; forse abbinate alla scelta di palazzo Chigi di affidare ad un semplice decreto legge un cambio radicale del sistema scolastico e universitario. Come è già accaduto in altri momenti del passato, è stata la tendenza berlusconiana all'eccesso a favorire i suoi avversari; e a ricompattarli a dispetto di personalismi e contrasti politici.

Per quanto, non si può prevedere. Nell'immediato, tuttavia, la manifestazione è riuscita ad innervosire una parte del centrodestra; e, dicono i maligni, lo stesso Di Pietro, costretto al ruolo di comprimario con la sua raccolta di firme referendarie contro il «decreto Alfano» sull'immunità delle quattro alte cariche dello Stato: un'iniziativa dalla quale il Pd si è sempre dissociato. La polemica del Pdl sul numero dei manifestanti segnala una punta di sorpresa e di stizza. La cifra di due milioni e mezzo accreditata dagli uomini di Veltroni suona esagerata. La Questura di Roma parla di duecentomila manifestanti: una valutazione giudicata polemicamente dal Pd un po' al ribasso.

Fa comunque apparire smisurata anche quella di due milioni accreditata dal Pdl a proposito del corteo del centrodestra di due anni fa. Quali che siano i veri numeri, rimane l'incognita di come i vertici del Pd useranno il successo nelle trattative con Berlusconi sulla commissione di vigilanza sulla Rai e sulle altre scadenze. In apparenza, il centrosinistra si presenta meno diviso. Ma bisogna vedere se questa unità ritrovata reggerà all'urto delle prime scelte. Raffigurando un partito libero che non teme di apparire né moderato, né estremista, Veltroni ha fotografato un'identità oscillante: un'ambiguità necessaria per cercare alleati, dopo la fase dell'autarchia elettorale segnata dalla sconfitta e dalla coabitazione forzata con Di Pietro.

Massimo Franco
26 ottobre 2008

da corriere.it


Titolo: Massimo FRANCO Il triangolo
Inserito da: Admin - Novembre 19, 2008, 06:08:29 pm
il caso vigilanza rai

Il triangolo


di Massimo FRANCO


L’idea di chiudere la guerra sulla presidenza della commissione parlamentare di vigilanza sulla Rai ricorrendo al nome di Sergio Zavoli, dice a che punto fosse arrivato lo scontro. Il senatore della tv di Stato, prima ancora che del Pd, è un «grande vecchio » con connotazioni professionali più che politiche.

Proprio per questo sembra l’unico in grado di rimettere d’accordo tutti, almeno in teoria; e di accreditare un simulacro di tregua fra governo e opposizione. Serpeggia la tentazione di considerarlo un parafulmine istituzionale che mette fine ad una vicenda seguìta con fastidio crescente dall’opinione pubblica. Ma forse la sua scelta di garanzia rappresenta qualcosa di più. È la vittoria in extremis di quanti hanno preferito tentare la strada della stabilità piuttosto che rassegnarsi al tanto peggio tanto meglio; e di un Walter Veltroni che fino a ieri mattina sembrava schiacciato in un angolo: anche se la soluzione appare più il frutto della disperazione del Pd che di una sua strategia.

La candidatura è emersa dopo l’udienza concessa ieri dal capo dello Stato, Giorgio Napolitano, al leader dell’opposizione; dopo le dimissioni degli uomini di Antonio Di Pietro dalla commissione; e dopo una mediazione del solito Gianni Letta, sottosegretario alla presidenza del Consiglio di Silvio Berlusconi. Ora ognuno potrà dire di avere vinto: sebbene non sia esattamente così. L’indicazione di Zavoli al posto del «reprobo» del centrosinistra Riccardo Villari, scelto dal Pdl e da due commissari dell’opposizione, indebolisce di colpo manovre che con la vicenda avevano ormai poco a che fare.

Il compromesso si può considerare il frutto di una triangolazione fra Veltroni, Quirinale e Letta: almeno nel senso che gli schieramenti conoscevano la preferenza di Napolitano per una soluzione condivisa da tutti. Per il segretario del Pd si trattava di uscire da una trappola, e in qualche misura ci è riuscito. Il suo partito era in tensione e tentato, in alcuni settori, di offrire sponde contro di lui; l’Idv gridava studiatamente contro i «no» berlusconiani; e Villari si era rifiutato di gettare la spugna anche dopo avere incontrato Veltroni. Ma Zavoli è il candidato ecumenico che il neopresidente chiedeva come condizione per fare un passo indietro.

Le sue dimissioni, prima come minimo discutibili, ora appaiono motivate e attese. Non sono da escludersi ostacoli residui. La situazione, però, si è svelenita. Se davvero il Pdl ha eletto Villari con l’intenzione di sbloccare lo stallo, può considerarsi soddisfatto. E se Berlusconi, come ha ripetuto ieri, voleva che l’opposizione «cambiasse cavallo», è stato accontentato. Il rammarico è che per arrivarci siano state necessarie tante asprezze: l’identikit di Zavoli probabilmente si poteva indovinare già due settimane fa. Pochi, però, volevano vederlo, forti delle proprie ragioni pretestuose: nel governo, e soprattutto in una parte del centrosinistra.

19 novembre 2008

da corriere.it


Titolo: MASSIMO FRANCO Democratici prigionieri della strategia imposta da Di Pietro
Inserito da: Admin - Novembre 25, 2008, 12:33:02 pm
LA NOTA

Democratici prigionieri della strategia imposta da Di Pietro


E’un colpo di mano annunciato da parte della maggioranza; ed un autogol altrettanto previsto del centrosinistra. L’elezione di un esponente del Pd alla presidenza della Commissione di vigilanza sulla Rai coi voti del Pdl e due «sì» dell’opposizione risolve formalmente uno stallo durato tre mesi.

In parallelo, però, acuisce la tensione fra Silvio Berlusconi e Walter Veltroni. Ma soprattutto, sottolinea l’impotenza e le divisioni del Partito democratico, e la sua subalternità ad Antonio Di Pietro. La reazione indignata della minoranza per la scelta del «suo» Riccardo Villari non cancella questa impressione. Anzi, il tentativo di farlo dimettere finisce per rafforzarla. Le accuse di «golpe», di gesto da dittatura sudamericana rivolte a palazzo Chigi suonano esagerate. Se il centrodestra ha potuto mettere a segno la sua provocazione, scegliendo il presidente della Commissione Rai nelle file avversarie, lo deve alla paralisi decisionale del Pd. L’insistenza su Leoluca Orlando, candidato di Di Pietro, alla fine è diventata un boomerang: al punto che lo stesso Veltroni, insieme con Casini dell’Udc, hanno chiesto in extremis a Di Pietro una rosa di nomi: senza ottenerla. Ma la difesa tetragona di Orlando ha dato un’ulteriore vantaggio alla manovra berlusconiana, lasciando il Pd sconfitto e infuriato.

Non c’è soltanto la critica impietosa di Enzo Carra sulla strategia «da kamikaze» del proprio schieramento. C’è anche la caccia ai due «traditori» che votando Villari hanno permesso al Pdl di additare le divisioni della sinistra. Ci sono le pressioni ed i sarcasmi sul neopresidente perché si dimetta subito; e le accuse al premier di «mettere le mani sulla Rai»: senza rendersi conto dell’effetto che hanno parole del genere mentre a guidare la Commissione va un esponente del Pd. Non sarà facile cancellare il sospetto che il centrosinistra tenda a scaricare sulla Rai i problemi interni.

Tanto più che, se pure Villari fosse costretto a gettare la spugna, una soluzione di ricambio mancherebbe.
La trincea orlandiana ormai risulta indifendibile, perché non viene presidiata neppure dall’intera opposizione. Quanto all’accusa al Pdl di non aver votato il candidato indicato dalla minoranza, mentre quest’ultima ha votato per quello berlusconiano alla Corte costituzionale, l’argomento regge solo in parte: il «sì» è passato per la rinuncia del Pdl a sostenere a tutti i costi Gaetano Pecorella, avvocato del premier. Adesso, voci isolate come Marco Follini accennano all’«alleanza onerosa con Di Pietro».

Ma silenziosamente, forse la pensa così una parte non piccola del Pd. Berlusconi si gode lo spettacolo, con l’aria del passante ignaro. «Io sono estraneo all’elezione di Villari», dichiara. «È stata una scelta autonoma dei gruppi parlamentari». Insomma, il pasticcio è servito. E obbligare Villari a rinunciare promette di peggiorare le cose, riportandole al punto di partenza.

Capita, quando si va all’attacco senza misurare bene le forze, e soprattutto non si è abbastanza uniti.

Massimo Franco
14 novembre 2008

da corriere.it


Titolo: Massimo Franco. Un messaggio severo alle classi dirigenti che imbarazza il Pd
Inserito da: Admin - Dicembre 03, 2008, 08:39:33 am
LA NOTA

Un messaggio severo alle classi dirigenti che imbarazza il Pd

Ma il capo dello Stato chiede anche al governo più attenzione e soldi per il Sud


In apparenza sono parole che disorientano. Arrivano mentre il Pd si contorce sul proprio «nordismo», e l'ipoteca leghista sul governo rimane forte. In realtà, rappresentano un richiamo chiaro fin quasi alla brutalità alla vera emergenza del Paese: il Sud. Ieri Giorgio Napolitano ha rovesciato i termini della crisi italiana. Si è rivolto al Paese perché guardi al proprio Mezzogiorno per arginare una deriva dai contorni ormai strutturali. Ma quella del capo dello Stato non è una difesa d'ufficio del Meridione. Anzi: l'atto d'accusa contro la politica degli «ultimi quindici anni» nel Sud si rivela uno schiaffo anche per le amministrazioni locali, del Pdl e di centrosinistra.

La loro incapacità di usare i soldi dell'Ue, di contrastare la corruzione e la criminalità è stata sottolineata dal fatto che il presidente della Repubblica parlasse a Napoli. È una metropoli dominata da anni dalla sinistra; e teatro di un malgoverno che nei giorni scorsi ha portato al suicidio di un ex assessore indagato e ieri all'ennesimo omicidio; e che ha prodotto l'emergenza dei rifiuti. Nell'analisi impietosa di Napolitano, uno dei pochi riconoscimenti è al modo in cui il governo ha cercato di rimediare. Risultati «da consolidare». Ma si dà atto a palazzo Chigi di avere impostato «soluzioni esaurienti e durevoli». La spola del premier fra Roma e Napoli, le riunioni del Cdm nel capoluogo campano si sono rivelate un segnale importante. Ma il Quirinale ne aspetta altri, e non solo da Silvio Berlusconi. La preoccupazione nasce dalla riduzione delle risorse per le aree sottoutilizzate, deciso dal governo. Chiedendo a Parlamento e Regioni di «vigilare» perché il Sud continui a ricevere fondi soprattutto per le infrastrutture, Napolitano dà voce ad un malessere trasversale. Fra 2007 e 2013, saranno sottratti oltre 11 miliardi di euro, di cui 10 al Mezzogiorno: a conferma della disattenzione verso quest'area del Paese.

È una trascuratezza considerata a dir poco miope. Citando il governatore di Bankitalia, Mario Draghi, Napolitano rammenta che i margini di sviluppo sono «molto più alti» al Sud; e che sfruttarli significa rilanciare l'economia nazionale. Ma si tratta di una correzione di rotta che impone una calibratura diversa dei tagli decisi dal ministero dell'Economia; e avvertiti in qualche caso come indiscriminati e punitivi. E rimanda ad una «qualità della politica» meridionale così scadente, secondo il capo dello Stato, da moltiplicare i danni ed alimentare in parallelo i pregiudizi più vieti.

Massimo Franco
02 dicembre 2008

da corriere.it


Titolo: MASSIMO FRANCO La guerra delle tv mette il Cavaliere sulla difensiva
Inserito da: Admin - Dicembre 04, 2008, 11:28:17 pm
LA NOTA

La guerra delle tv mette il Cavaliere sulla difensiva

Più che l’Iva raddoppiata a Sky, pesa il nodo del conflitto di interessi


È difficile ignorare che il problema non è il raddoppio dell’Iva per le tv satellitari come Sky, ma il conflitto di interessi di Silvio Berlusconi. A rendere incandescente un provvedimento del governo giustificato dalla normativa europea è la posizione del premier, proprietario di un impero mediatico; e dunque sospettato dagli avversari di favorire le sue aziende. L’unica verità politica su quanto accade sembra questa. Il resto è polemica strumentale: tanto più che non si capisce dove finisca l’immobilismo oggettivamente a favore di Sky del governo Prodi; e dove cominci l’iniziativa dell’attuale, considerata punitiva verso il gruppo di Rupert Murdoch. Il risultato è in chiaroscuro, per il Pdl ma un po’ anche per l’opposizione. Palazzo Chigi appare in imbarazzo: lo ha fatto capire lo stesso Berlusconi. Prima dicendo che non c’entrava nulla col decreto su Sky; poi avvertendo che se non si porta l’Iva dal 10 al 20 per cento, bisogna abbassarla a tutte le tv, Mediaset compresa; e alla fine assicurando che non ci sarà retromarcia del governo: una vittoria del titolare dell’Economia, Giulio Tremonti. Non solo. Ministri come Ignazio La Russa si sono smarcati, spiegando che il provvedimento andava preso magari dopo Natale: una smentita indiretta alla tesi che l’Ue stesse per aprire una procedura di infrazione. Al Pd è stato facile puntare il dito contro un conflitto di interessi caduto in oblìo; non risolto neppure dal centrosinistra; ma risuscitato dalla decisione berlusconiana. Con qualche imbarazzo parallelo a quello governativo, però. A Tremonti che ricordava un impegno preso da Prodi con l’Europa per eliminare l’anomalia di un’imposta diversa fra le tv, Pier Luigi Bersani ha risposto in modo singolare. Per Tremonti «la colpa è sempre degli altri», ha ironizzato. «Non vado neanche a controllare». Una maniera per bollare il conflitto di interessi, ed eludere il merito: un chiarimento chiesto a Prodi nel 2007 dalla Commissione Ue, dopo un esposto di Mediaset.

Ma la sensazione è che palazzo Chigi abbia fatto una mossa destinata a metterlo sulla difensiva e ad innervosirlo: a prescindere dalla giustezza delle misure prese. Ogni volta che sfiora materie legate alle televisioni, scatta automaticamente il sospetto che voglia avvantaggiare Mediaset. E parte l’offensiva di avversari che pure, quando erano al governo, non hanno saputo o voluto risolvere il conflitto di interessi; e magari potrebbero anche avere silenziosamente favorito Sky, non rispondendo alle sollecitazioni europee. Sembra di assistere ad una nemesi della storia: una multinazionale mediatica che si ribella a Berlusconi usando gli strumenti utilizzati in passato dal Cavaliere contro le leggi «punitive» del centrosinistra sulle sue tv. «Io Sky la capisco, perché è un'azienda. Ha avuto un privilegio...», ha detto ieri il presidente del Consiglio, accusando la sinistra di avere «un rapporto privilegiato» con l’emittente di Murdoch.

Ma forse non si è ancora reso conto che il conflitto di interessi è il miglior alibi per i suoi avversari. Permette al Pd di sostenere che con l’Iva doppia per Sky, il governo tasserà e danneggerà milioni di famiglie italiane; e di velare la sua porzione di responsabilità.

Massimo Franco
03 dicembre 2008

da corriere.it


Titolo: MASSIMO FRANCO Spallate e macerie. (Franco non la racconti giusta. ndr).
Inserito da: Admin - Dicembre 16, 2008, 11:10:25 pm
Spallate e macerie


di Massimo Franco


Il fatto che Antonio Di Pietro gioisca perché il suo partito ha quasi sestuplicato i voti ufficializza il cannibalismo in atto nel centrosinistra.

È, almeno nelle sue intenzioni, l'inizio di una lunga spallata che dovrebbe avere come traguardo un riequilibrio col Pd alle europee di primavera.

Nelle elezioni regionali in Abruzzo la scommessa non era tanto su chi avrebbe vinto fra i due schieramenti: il successo del centrodestra era previsto, anche per lo scandalo che a luglio aveva portato all'arresto del governatore Ottaviano Del Turco, del Pd. L'incognita riguardava i contraccolpi nel campo dei perdenti.

Il Partito democratico poco sopra al 20% e l'Idv intorno al 15 porterebbe a rispondere che la geografia dell'opposizione cambia: l'esercito di Veltroni si sta rapidamente logorando, e quello di Di Pietro ingrassando. Ma l'astensione che sfiora la metà del totale, quasi 30 punti meno delle politiche, allunga su tutto il sistema l'ombra della sconfitta: perfino sul Pdl berlusconiano che ha vinto. E rende la soddisfazione dipietrista vagamente autoconsolatoria.

Dietro il trionfo del non voto non c'è soltanto un giudizio negativo sul malaffare nella regione, ma sull'insieme dei partiti.

Neppure il candidato preteso e ottenuto dall'Idv è riuscito a convincere i delusi; a mobilitarli e a portarli alle urne. La traduzione elettorale di una politica vista come una variante di «guardie e ladri» ha rivelato ancora una volta tutti i suoi limiti. Ridimensiona il centrosinistra; non gli evita un tracollo; drena una parte consistente del consenso del Pd, ma radicalizzandolo e dunque rendendolo meno spendibile. Insomma, Di Pietro canta vittoria su un panorama di macerie; e da oggi i suoi rapporti con gli alleati diventeranno, se possibile, ancora più avvelenati.

Ironizzare sui «ma anche » veltroniani ed esaltare la propria affermazione ai danni del Pd significa dichiarare la guerra dentro l'opposizione. Un simile atteggiamento dice che Di Pietro considera, o comunque vuole vedere la «sindrome abruzzese» come una tendenza non locale ma nazionale; e che ha una spietata determinazione ad approfittarne. Si candida come leader non solo dell'Idv ma anche degli spezzoni dell'estrema sinistra esclusi dal Parlamento, che hanno in odio il Pd; e come campione di un antiberlusconismo irriducibile.

Il sogno sempre meno nascosto è quello di trasformarsi in una sorta di Umberto Bossi del centrosinistra: il capo di una «Lega nazionale», pronta a succhiare voti alleati. Ma non sarebbe giusto additare l'ex pm di Mani pulite come la causa dei problemi del Pd. Semmai ne è il sintomo. Sottolinea ed esaspera l'identità indefinita della creatura veltroniana. E ripropone la domanda sui motivi veri che hanno indotto il Pd a sceglierlo come alleato.

Sono più comprensibili le ragioni per le quali Berlusconi lo ama come avversario: l'antiberlusconismo di Di Pietro infiamma i cuori di una parte dell'opposizione; e in parallelo contribuisce a farla perdere.


16 dicembre 2008
da corriere.it


Titolo: FRANCO La prudenza e la speranza del Quirinale (vediamo sin dove arrivi. ndr)
Inserito da: Admin - Dicembre 21, 2008, 07:24:59 pm
Politica     


La prudenza e la speranza del Quirinale

Il premier rilancia il presidenzialismo sognando una sponda nel Pd


Forse non è stato proprio dimesso. Ma prudente sì, e molto: attento a non dire una sola parola in più sulle questioni che potevano creare preoccupazione, o polemiche. In fondo, la novità del Silvio Berlusconi di ieri è l’avarizia studiata di promesse e di annunci. Non sul piano politico, perché affermare che il Paese è maturo per una riforma presidenzialista farà rumore. E nemmeno sulla politica internazionale, nella quale il premier italiano continua a vedersi nei panni molto ambiziosi del mediatore fra Usa e Russia. Ma la sensazione è che abbia un’idea chiara del panorama economico del 2009; e preferisca allineare i risultati ottenuti sui rifiuti e su Alitalia, più che addentrarsi nelle incognite della crisi. Si tratta di una scelta responsabile, per chi deve arginare un clima di sfiducia. Se si diffonde, Palazzo Chigi potrebbe trovarsi ad affrontare una flessione dei consumi foriera di guai per le industrie e, alla fine, per l’occupazione.

È stata la cautela selettiva nella conferenza stampa di fine anno a Villa Madama, sulle pendici di Monte Mario, a dare la misura della centralità che la politica economica occupa oggi nella strategia di Berlusconi. Non mancano i riferimenti di sempre alla giustizia: in primo luogo la volontà di arrivare ad una distinzione fra magistrati giudicanti e pm, definiti «avvocati dell’accusa». E si ribadisce il progetto di limitare il più possibile le intercettazioni telefoniche. Ma al di là della polemica contro il Pd «giustizialista », e l’esortazione ad abbandonare l’alleanza con Antonio Di Pietro, si coglie un allarme più profondo. il premier vuole evitare che rispuntino i fantasmi del passato; e si saldino a nuove paure. Per questo non interviene sul governo disastrato di Napoli. Esorcizza «una Tangentopoli rossa», e non solo in nome del garantismo: paventa un crollo destinato a scaricarsi sull’intero sistema politico. Gli scandali stanno esplodendo alla vigilia di un anno difficile. Le previsioni sul calo dei posti di lavoro sono fornite con pudore.

È indicativo l’impegno ad aumentare gli «ammortizzatori sociali»; e ancora di più l’ipotesi di concedere la cassa integrazione alle imprese, stando attenti che non approfittino della crisi per licenziare. Sono messaggi che vogliono comunicare l’impegno a garantire non un progresso, ma almeno la conservazione delle posizioni attuali per la massima parte della popolazione. L’invito a non alimentare sfiducia e polemiche; l’accusa ad alcune trasmissioni tv di fomentare divisioni e pessimismo: sono tutti riflessi della paura oscura del premier che la situazione sfugga di mano; che le sue iniezioni di ottimismo vengano vanificate. In questa fase, Berlusconi non ha avversari che lo insidino. Sentirgli dire che preferisce un’opposizione anche violenta alla sua assenza, conferma la voglia di condividere le responsabilità. Se riesce a pilotare la crisi senza traumi, il suo orizzonte personale sembra già tracciato.

Il presidente del Consiglio continua a dichiarare percentuali di popolarità oltre il 70 per cento. Ed è difficile non vedere la sua silhouette dietro il rilancio del presidenzialismo. «È auspicabile una riforma della Costituzione», sostiene. «Il capo del governo deve almeno avere gli stessi poteri che hanno gli altri premier europei», aggiunge sognando la sponda del Pd. Ma un cambiamento così radicale provocherebbe una modifica degli equilibri istituzionali; ed avrebbe riflessi anche sui rapporti fra Palazzo Chigi e Quirinale.

E comunque, usare il condizionale è obbligatorio: sono scenari che per il momento dovranno fare i conti con emergenze più immediate.

Massimo Franco
21 dicembre 2008


da corriere.it


Titolo: MASSIMO FRANCO Le difficoltà del dialogo
Inserito da: Admin - Febbraio 05, 2009, 05:09:21 pm
Le difficoltà del dialogo


di Massimo Franco


Fragile, circoscritta e senza ambizioni di sistema; e così sottile che definirla «dialogo» suona improprio, tanto il termine è usurato. Ma la trama che governo e opposizione stanno imbastendo segnala una novità. Le intese su Rai e legge elettorale europea e i passi avanti sul federalismo sono indizi non di un progetto di riforme comuni, ma certo di una convergenza di interessi. È il trionfo di una sorta di carpe diem istituzionale, basato sulle convenienze reciproche; e cementato dal tentativo di Pdl e Pd di marcare il proprio primato ridimensionando gli avversari interni.

Il rischio che questa evoluzione appaia come un armistizio di puro potere non va sottovalutato. La sofferenza di alcuni settori del centrosinistra per le ultime accelerazioni veltroniane rappresenta un indizio. E il modo in cui Antonio Di Pietro cerca di accentuare il profilo di oppositore unico, continuando a sparacchiare contro il Quirinale, segnala un vittimismo calcolato; e forse redditizio in termini elettorali.

Eppure, per quanto prosaici, gli accordi che stanno prendendo corpo sono l'unico gancio al quale appendere le speranze di una legislatura meno avvelenata.

Le caute aperture che stanno affiorando dall'opposizione perfino su un tema- tabù come la giustizia contribuiscono a dare la sensazione di rapporti meno tesi. Solo una sensazione, però: pensare che la mano tesa di una parte del centrosinistra preluda a un voto con la maggioranza è azzardato. Il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, comincia a sperare in una «riforma condivisa»; assecondata da un Pd colpito dalle inchieste giudiziarie.

Ma la preoccupazione di non irritare la magistratura continua ad apparire prevalente, rispetto alla tentazione di emanciparsi dall'alleanza con Di Pietro.
Le critiche del potere giudiziario contro la legge che vuole limitare le intercettazioni sono radicali; e ad oggi è difficile immaginare che il partito di Veltroni possa prescinderne. Tanto più in presenza dell'offensiva provocatoria del leader dell'Idv contro Giorgio Napolitano: un atteggiamento che mira a far saltare qualunque compromesso. Il Pd mostra di considerare l'iniziativa dell'alleato almeno come una forzatura.

Ma l'argomento rimane controverso un po' per tutti.
Anche l'intesa nel centrodestra sulle intercettazioni, annunciata nei giorni scorsi, in realtà è in fieri.

Scivoloni parlamentari come quello di ieri sera al Senato sulla sicurezza proiettano un'ombra di precarietà perfino su una maggioranza schiacciante come quella berlusconiana. L'irritazione della Lega annuncia tensioni nel centrodestra. E tanta incertezza spiega perché qualunque avvicinamento al fronte avversario viene salutato come un progresso; e in parallelo osservato con diffidenza. Il minimalismo riformista rappresenta un'occasione, e insieme una conferma dei limiti nei quali è costretto il confronto fra vincitori e vinti delle elezioni del 2008.

Per avere futuro, gli accordi debbono essere sostenuti da schieramenti compatti e strategie chiare.
Altrimenti, rischiano di diventare piccoli capolavori tattici; ma dal respiro corto.


05 febbraio 2009
da corriere.it


Titolo: MASSIMO FRANCO Eluana è diventato una questione politica
Inserito da: Admin - Febbraio 06, 2009, 12:50:25 pm
IL CASO

Eluana è diventato una questione politica

La tragedia e la rissa

Le bordate di Fini e Lega mostrano le difficoltà del partito unico nel centrodestra


Sembra quasi che non sia più «il caso Eluana». Da ieri la tragedia è diventata una questione politica: con tutte le implicazioni sgradevoli delle polemiche strumentali e dei giochi di sponda; con qualche rischio di un braccio di ferro fra istituzioni.

Le motivazioni di principio della Chiesa cattolica contro la scelta di non dare più da mangiare e da bere ad Eluana Englaro si sono riversate sull'atteggiamento di gran parte del governo; e di rimbalzo hanno schierato quasi tutta l'opposizione su un altro versante culturale, presidiato dai radicali. Il «no» alle misure in extremis tentate da Palazzo Chigi si è caricato di altri significati. È diventato difesa delle sentenze della magistratura, perché secondo il centrosinistra il decreto ipotizzato da Silvio Berlusconi per impedire la morte della ragazza aveva il sapore di un'usurpazione delle decisioni della Cassazione. Nel frastuono della triangolazione polemica Vaticano-governo-opposizione, sono state accreditate perplessità da parte di Giorgio Napolitano. Il capo dello Stato sarebbe apparso poco convinto dello strumento ipotizzato dal premier per fermare le procedure che porteranno alla morte di Eluana. Ma si tratta di voci che il Quirinale cerca di schivare. La rissa scatenatasi intorno alla tragedia ha rivelato la tentazione irrefrenabile di usarla come un qualunque altro argomento. Berlusconi, incalzato dalla Chiesa, ha dovuto fare i conti con la contrarietà esplicita del presidente della Camera, Gianfranco Fini. «Il decreto sarebbe un grave errore», ha scolpito Fini.

Ma il capo del governo si è anche scontrato con le resistenze della Lega. Roberto Maroni ha commentato gelidamente il provvedimento che il Consiglio dei ministri dovrebbe discutere oggi. È difficile non indovinare distanze di principio; e insieme contrasti interni al Pdl. La bordata di Fini induce a pensare che esistano tuttora problemi aperti sul partito unico del centrodestra. Si nota una vistosa sintonia fra le sue parole ed il «passo indietro della politica » invocato dal segretario del Pd, Walter Veltroni. Non bastasse, le norme approvate ieri con le quali i medici debbono denunciare gli immigrati clandestini in cura da loro, trovano ostacoli ben oltre i confini dell'opposizione. La Cei fa sapere che non denuncerà nessuno, riproponendo uno scontro culturale fra gerarchie cattoliche e Lega. Su questo sfondo convulso, il «caso Eluana» rischia di ridursi a pretesto scelto dalle forze politiche per regolare altri conti. In un clima così precario, non è neppure sicuro che alla fine si concordi una legge sulla «fine della vita» per scongiurare altri conflitti e forzature. Il dialogo parlamentare sembra riuscire solo quando coincide con interessi concreti di potere.

Massimo Franco
06 febbraio 2009

da corriere.it


Titolo: MASSIMO FRANCO. Dietro lo scontro: i perché di un affondo
Inserito da: Admin - Febbraio 08, 2009, 06:16:38 pm
L'analisi

Dietro lo scontro: i perché di un affondo

Non si tratta più soltanto di uno scontro istituzionale, ma è diventata un'offensiva in piena regola


Non è più un conflitto istituzionale, ma un'offensiva in piena regola. Silvio Berlusconi non si ferma. Anzi, avanza e alza il tiro. Continua a bersagliare Giorgio Napolitano, e intanto punta sulla Costituzione «approvata con i filo-sovietici»: quel Pci di cui il capo dello Stato è un figlio.

I toni lasciano capire che lo scontro con il Quirinale si incattivirà. Nella scia del «caso Eluana» Napolitano si limita a replicare che nessuno ha «un monopolio» della vicinanza ai malati e che comunque lui «confida nei cittadini». Sembra una risposta al premier e alle critiche del Vaticano. Ma appare sulla difensiva; e con lui le sinistre e i radicali che lodano il suo «no» al decreto del governo. Il «caso Englaro» si sta rivelando l'occasione scelta da Berlusconi per riequilibrare a proprio favore i poteri fra Palazzo Chigi e presidenza della Repubblica. Importa relativamente la virulenza con la quale tende a delegittimare la Carta fondamentale. È più interessante chiedersi perché lo faccia; perché abbia deciso l'affondo contro il presidente della Repubblica.

A favorire l'accelerazione è stato probabilmente l'uso politico della lettera dal Quirinale che anticipava la bocciatura del decreto sul «caso Eluana» mentre il Consiglio dei ministri stava ancora decidendo; e forse, la convinzione che il Paese sia più diviso di quanto non appaia su una vicenda inizialmente sottovalutata. La campagna della Chiesa cattolica ha modificato la percezione dell'agonia della ragazza in coma da diciassette anni. Ha seminato dubbi sulle sentenze della Cassazione e sulle procedure scelte. E Berlusconi ha colto questi umori e deciso di cavalcarli, sicuro di avere dietro il Vaticano e i vescovi italiani; e di potere con un colpo solo spiazzare Napolitano, opposizione, avversari interni e magistratura. Sostenere che la prassi delle lettere preventive del Colle al governo «è ridicola» significa liquidare una prassi mal sopportata; e vedere «un'implicazione dell'eutanasia» nella nota arrivata venerdì accentua il fossato fra governo e presidenza della Repubblica.

Il risultato è quello di accreditare uno schema bipolare non solo in termini politici, ma quasi esistenziali. Berlusconi sembra deciso a intensificare una pressione insieme culturale e istituzionale; a contrapporre «cultura della vita e della morte», nelle sue parole. Da una parte il centrodestra, appoggiato dalle gerarchie cattoliche. Dall'altra la sinistra, sulla quale Palazzo Chigi cerca di schiacciare Napolitano e il suo profilo di imparzialità; e i radicali, con le loro posizioni a favore dell'eutanasia. Affiora qualche ammissione sulla debolezza della sinistra e della cultura laica come una delle cause di quanto sta accadendo. Ma prevale la polemica contro le «ingerenze vaticane». È un fantasma evocato a intermittenza: fra l'altro, i vescovi italiani hanno attaccato il governo di recente per la legge che permette ai medici di denunciare gli immigrati clandestini in cura da loro; ma nessuno ha protestato. Eppure, l'intervento doveva rientrare nella tesi dell'ingerenza. Probabilmente, nel «caso Eluana» lo scontro fra Palazzo Chigi e Quirinale ha reso inevitabile un'attenzione inedita; e ha portato a rimarcare la convergenza fra governo e Santa Sede e il contrasto inaspettato con Napolitano.

Comincia a prendere corpo il sospetto che sia lui o meglio la Presidenza della Repubblica, il bersaglio grosso berlusconiano. Se è così, le polemiche di questi giorni sono destinate ad avere un lungo seguito. E, purtroppo, ad accompagnare la vicenda di Eluana Englaro come una colonna sonora stonata, modulata inevitabilmente su massicce dosi di strumentalità da entrambe le parti. A fermare l'offensiva del premier potrebbe essere solo un difetto nella tenuta del centrodestra. Ma osservando l'esito del Consiglio dei ministri di venerdì che ha confermato il decreto, per ora Berlusconi sembra in grado di governare la propria maggioranza: con la carota o col bastone.

Massimo Franco

08 febbraio 2009
da corriere.it


Titolo: Massimo FRANCO. L'onda lunga
Inserito da: Admin - Febbraio 17, 2009, 09:21:30 am
L'onda lunga


di Massimo Franco



Dire che è un risultato locale suona scontato e, insieme, molto riduttivo. La tesi sarebbe convincente se la sconfitta del Pd in Sardegna arrivasse come una parentesi inaspettata ed isolata. Ma segue di nemmeno un anno le elezioni politiche; di due mesi la disfatta in Abruzzo; e arriva in coincidenza con le primarie fiorentine, nelle quali è stato scelto come candidato sindaco del centrosinistra l’esponente che si opponeva al vertice nazionale del partito.

I fattori regionali c’entrano poco, dunque. E pesa molto, invece, l’onda lunga del voto dell’aprile scorso. È la conferma che quel risultato non ha rappresentato solo una vittoria, ma uno spartiacque nel Paese. Il «domino» che sta travolgendo ad una ad una le roccheforti dell’opposizione appare una conseguenza di quanto è accaduto allora; e dell’incapacità degli avversari di Silvio Berlusconi di capirlo e di affrontare una stagione nuova. Per questo lo schiaffo sardo ha un’eco dolorosamente nazionale, per Walter Veltroni. E porta a chiedersi se non abbia funzionato «l’effetto Soru»; oppure se il governatore uscente della Sardegna sia vittima della maledizione di un Pd ormai incapace di leggere le pulsioni più profonde dell’Italia. Gli indizi mostrano un elettorato d’opposizione in lenta erosione; e avviato ad un voto europeo che si profila ogni giorno di più come una disfatta.

La crisi economica comincia a mordere il Paese. Il paradosso è che le responsabilità non si scaricano sul governo, ma sui suoi avversari. Merito, senz’altro, di un presidente del Consiglio che continua a macinare consensi, nonostante tutto; e che sulla Sardegna ha investito con una campagna martellante quanto invadente. Ma anche demerito del centrosinistra, che non è stato capace di opporre alla «politicizzazione» del voto regionale un antidoto credibile. Si possono evocare come scusante la guerra di logoramento all’interno del Pd; e le voci velenose su un Soru futuro leader nazionale. Tanto che all’inizio, mentre i dati affluivano con lentezza esasperante, lunare per un Paese occidentale, veniva accarezzata l’illusione di una sua vittoria. Tutto questo, però, non basta a cancellare il sospetto di un’implosione che coinvolge la nomenklatura del centrosinistra e la sua cultura politica.

Ormai non serve sottolineare neppure l’inutilità di un antiberlusconismo che mobilita porzioni sempre più minoritarie. Il problema del Pd e dei suoi alleati è la mancanza di un’analisi seria della vittoria berlusconiana del 13 e 14 aprile del 2008. La domanda da porsi è se il centrosinistra non abbia avuto il coraggio di farla; o se più banalmente non ne sia stato capace. Qualunque sia la risposta, viene da pensare che sia stato sciupato quasi un anno. E la lotta per la successione a Veltroni, che già si intravede, non promette recuperi miracolosi.

17 febbraio 2009
da corriere.it


Titolo: MASSIMO FRANCO. L'onda lunga
Inserito da: Admin - Febbraio 17, 2009, 05:45:41 pm
L'onda lunga


di Massimo Franco



Dire che è un risultato locale suona scontato e, insieme, molto riduttivo. La tesi sarebbe convincente se la sconfitta del Pd in Sardegna arrivasse come una parentesi inaspettata ed isolata. Ma segue di nemmeno un anno le elezioni politiche; di due mesi la disfatta in Abruzzo; e arriva in coincidenza con le primarie fiorentine, nelle quali è stato scelto come candidato sindaco del centrosinistra l’esponente che si opponeva al vertice nazionale del partito.

I fattori regionali c’entrano poco, dunque. E pesa molto, invece, l’onda lunga del voto dell’aprile scorso. È la conferma che quel risultato non ha rappresentato solo una vittoria, ma uno spartiacque nel Paese. Il «domino» che sta travolgendo ad una ad una le roccheforti dell’opposizione appare una conseguenza di quanto è accaduto allora; e dell’incapacità degli avversari di Silvio Berlusconi di capirlo e di affrontare una stagione nuova. Per questo lo schiaffo sardo ha un’eco dolorosamente nazionale, per Walter Veltroni. E porta a chiedersi se non abbia funzionato «l’effetto Soru»; oppure se il governatore uscente della Sardegna sia vittima della maledizione di un Pd ormai incapace di leggere le pulsioni più profonde dell’Italia. Gli indizi mostrano un elettorato d’opposizione in lenta erosione; e avviato ad un voto europeo che si profila ogni giorno di più come una disfatta.

La crisi economica comincia a mordere il Paese. Il paradosso è che le responsabilità non si scaricano sul governo, ma sui suoi avversari. Merito, senz’altro, di un presidente del Consiglio che continua a macinare consensi, nonostante tutto; e che sulla Sardegna ha investito con una campagna martellante quanto invadente. Ma anche demerito del centrosinistra, che non è stato capace di opporre alla «politicizzazione» del voto regionale un antidoto credibile. Si possono evocare come scusante la guerra di logoramento all’interno del Pd; e le voci velenose su un Soru futuro leader nazionale. Tanto che all’inizio, mentre i dati affluivano con lentezza esasperante, lunare per un Paese occidentale, veniva accarezzata l’illusione di una sua vittoria. Tutto questo, però, non basta a cancellare il sospetto di un’implosione che coinvolge la nomenklatura del centrosinistra e la sua cultura politica.

Ormai non serve sottolineare neppure l’inutilità di un antiberlusconismo che mobilita porzioni sempre più minoritarie. Il problema del Pd e dei suoi alleati è la mancanza di un’analisi seria della vittoria berlusconiana del 13 e 14 aprile del 2008. La domanda da porsi è se il centrosinistra non abbia avuto il coraggio di farla; o se più banalmente non ne sia stato capace. Qualunque sia la risposta, viene da pensare che sia stato sciupato quasi un anno. E la lotta per la successione a Veltroni, che già si intravede, non promette recuperi miracolosi.

17 febbraio 2009
da corriere.it


Titolo: MASSIMO FRANCO Oltre al nucleare si intravede un’integrazione militare.
Inserito da: Admin - Febbraio 25, 2009, 11:30:09 pm
LA NOTA

Un patto strategico che può accelerare la riforma delle regole Ue

Oltre al nucleare si intravede un’integrazione militare.

L’ostilità dell’opposizione


Limitarsi a definirlo incontro bilaterale significherebbe ridurne la portata. Le stesse reazioni ostili dell’opposizione sottolineano implicitamente i risultati e le potenzialità dei colloqui romani del presidente francese Nicolas Sarkozy con Silvio Berlusconi. Se ne intravede l’impatto strategico non soltanto per la decisione di costruire quattro centrali nucleari in Italia con l’aiuto francese: un tentativo di assicurare una fonte di energia venuta meno dopo il referendum del 1987. Dopo l’accordo Cai-Air France, prende corpo un rapporto che prelude anche all’integrazione di alcune missioni militari all’estero.

L’asse è cementato da interessi economici e strategie europee: a cominciare da una modifica delle regole Ue «dell’altro secolo». Pesa la relazione fra Berlusconi e Sarkozy, alla guida di due Paesi governati dal centrodestra. I complimenti che si sono scambiati in pubblico hanno trasmesso la sensazione di un’intesa profonda; e il più prodigo di riconoscimenti è stato il presidente francese. Si intravede la competizione fra Germania e Francia; ed il ruolo che Roma e Parigi azzardano fra Russia e Usa.

Le implicazioni del ritorno al nucleare non sono del tutto chiare. Lasciano prevedere un adattamento rapido della legislazione italiana al modello francese, superando i ritardi del Parlamento; e il superamento delle resistenze di quella parte della sinistra che non vuole il progetto. La linea del premier italiano per convincere l’opinione pubblica sembra già pronta. Addita «il fanatismo ideologico» che negli anni Settanta impedì la costruzione di due centrali quasi terminate. E fa notare che, grazie al nucleare, i francesi pagano l’energia la metà di noi.

Ma i contrasti del passato fra governo e poteri locali sullo smaltimento delle scorie e sull’individuazione dei siti rimangono come un memorandum degli ostacoli da superare. Nel governo si fa presente che non bisogna perdere tempo fra scelta del luogo dove costruire le centrali e inizio dei lavori. Si parla di interesse nazionale, contrapponendolo al «potere di veto» dei sindaci: un conflitto istituzionale che ha frenato la realizzazione della linea ad alta velocità Torino-Lione, rilanciata ieri a Roma.

È a questa percezione di avere perso tempo che Berlusconi punta per trasformare l’intesa in un piano di opere pubbliche. L’estrema sinistra considera l’operazione una follia. La radicale Bonino dice che è un favore alla Francia. Il Pd, cauto, chiede che il Parlamento venga informato. Il processo, però, sembra a prova di obiezioni. La prontezza con la quale il ministro della Difesa, Ignazio La Russa, ha detto sì all’idea di un battaglione misto italo-francese conferma l’accelerazione. E Giorgio Napolitano, dopo avere incontrato Sarkozy, ha salutato gli ottimi rapporti fra i due Paesi. Il futuro dirà chi ne saprà trarre maggiori vantaggi.

Massimo Franco

25 febbraio 2009
da corriere.it


Titolo: MASSIMO FRANCO Uno scontro duro che rischia di creare un clima da referendum
Inserito da: Admin - Marzo 02, 2009, 06:34:23 pm
LA NOTA

Uno scontro duro che rischia di creare un clima da referendum


Il percorso della legge sul cosiddetto «bio-testamento » sembra condannato a risentire del clima avvelenato delle scorse settimane. La maggioranza si sente «tirata per i capelli» dall’esito contestato del caso di Eluana Englaro, la ragazza morta dopo diciassette anni di coma. E vuole coprire subito un vuoto riempito arbitrariamente, a suo avviso, dalla magistratura. Le schermaglie procedurali al Senato e le accuse di ostruzionismo al centrosinistra sono ingredienti che sembrano preludere ad una vittoria degli estremisti in entrambi gli schieramenti. I tentativi di mediazione e i distinguo possono rallentare le cose; ma non appaiono in grado di cambiare la rigidità crescente delle posizioni. Se c’è un dissenso, tende paradossalmente a rendere qualunque accenno di dialogo ancora più proibitivo.

Le correzioni proposte da Francesco Rutelli sono state accolte con irritazione dall’Idv e da alcuni settori del suo Pd: vengono tacciate sbrigativamente di eccessiva contiguità con il Vaticano. Non solo. Dalle colonne della rivista Micro- Mega è arrivata una lettera a Dario Franceschini, che somiglia ad un ruvido altolà. Il neosegretario del Pd viene accusato di arrendevolezza. Personaggi come l’oncologo Umberto Veronesi e il giurista Stefano Rodotà gli chiedono che il Pd non conceda «libertà di coscienza» ai parlamentari: non sarebbe ammissibile di fronte ad una legge che reputano «liberticida ». È una conferma delle tensioni, sebbene Franceschini replichi che nessuno può «dettare la linea» al Pd.

Ma anche il centrodestra tende ad analizzare con scetticismo, se non con fastidio, la dissidenza interna: per motivi opposti a quelli degli avversari. Il presidente dell’Antimafia, Giuseppe Pisanu, ha annunciato che non voterà la legge. E la sortita gli ha procurato bacchettate dal governo e da Avvenire, il quotidiano della Cei. E ieri è arrivato un documento di una cinquantina di parlamentari del Pdl, più quattro sottosegretari e l’ex capo dello Stato, Francesco Cossiga, con la richiesta di norme ancora più restrittive: ritengono che il disegno di legge sul testamento biologico non sia abbastanza «pro vita». Insomma, fra dubbi di costituzionalità e voglia di decidere in fretta, ci si avvia ad uno scrutinio con le peggiori premesse. La preoccupazione è confermata dalla riunione dei senatori del Pdl alla quale ieri ha partecipato anche Gianni Letta, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio.

La presenza del braccio destro di Silvio Berlusconi segnala l’interesse e l’allarme di Palazzo Chigi per una soluzione caldeggiata apertamente dal Vaticano. La sottolineatura che Letta ha fatto sull’identità di vedute fra il governo e la propria maggioranza sul testamento biologico lascia intravedere le perplessità emerse nel gruppo del Pdl a Palazzo Madama. Il timore è che prevalga in Parlamento una strategia di scontro, foriera di tensioni esterne e forse di tentazioni referendarie. Per il momento il tema è appena abbozzato, ma se ne intravede già il possibile approdo. Il centrodestra vuole scongiurare altri «casi Eluana»; e dunque evitare che qualcuno possa di nuovo sospendere di nutrire e dar da bere ad un malato nelle sue condizioni. In sintonia con la Chiesa cattolica, considera quanto è successo una tappa verso l’eutanasia. Il fronte opposto, invece, vede nella legge un attentato ai diritti individuali, da respingersi a tutti i costi.

Schiacciate da questo braccio di ferro, le «questioni di coscienza » vengono osservate come malcelati sabotaggi o tradimenti: sebbene il linguaggio ufficiale le ammetta e le consideri legittime. D’altronde, il tema ha assunto contorni così politicizzati da impedire un’analisi pacata e condivisa del problema. Prevalgono tesi sovrastate da una miscela di valori, ideologia e calcolo. E, a qualunque soluzione si approdi, è verosimile che i perdenti cercheranno il modo più rapido e plateale per rovesciarla: per questo nel Pdl sembra spuntare una voglia in più di mediazione; e nel Pd le questioni etiche diventano la frontiera dell’identità futura. Non si parla di referendum, ma i toni sono quasi da campagna referendaria virtuale.

Massimo Franco

26 febbraio 2009
da corriere.it


Titolo: MASSIMO FRANCO Per l’Udc ambizioni e incognite
Inserito da: Admin - Marzo 10, 2009, 11:55:25 am
LA NOTA

Per l’Udc ambizioni e incognite

La crisi del Pd apre un varco elettorale ma c’è lo scoglio del centrodestra


Ha sempre detto che la sua unica strategia poteva essere quella dell’attesa: aspettare che il bipolarismo si squagliasse, e restituisse qualche speranza all’Udc. Pier Ferdinando Casini è riuscito a sopravvivere alle politiche del 2008, e poi ai voti locali degli ultimi mesi. Ma la crisi del Pd sta offrendo ai centristi ambizioni ed illusioni inimmaginabili fino a qualche settimana fa. Non è soltanto la mano tesa di Enrico Letta, secondo il quale l’Udc rappresenta un alleato migliore di Antonio Di Pietro. La crisi economica è vista come un imprevisto che può accorciare i tempi lunghissimi ai quali Casini sembrava rassegnato.

I suoi attacchi al governo ed al centrosinistra sono un investimento in vista del voto europeo. Per questo le proposte di Dario Franceschini sull’assegno di disoccupazione vengono bollate come «slogan»; e si contesta l’idea attribuita al Pd di «sedersi sulla riva del fiume aspettando che il cadavere del governo passi». La sensazione è che Casini veda il disagio della scheggia moderata che votava a sinistra; e speri di calamitare i voti «liberati » dalla sconfitta del veltronismo e dall’involuzione che ne è seguita.

Il suo problema sarà comunque come spenderli. La polemica col centrodestra sul partito unico tende a fotografare in modo provocatorio un dato di fatto; ma segnala anche un limite della strategia dell’Udc. Sostenere che il Pdl è un progetto legato solo alla leadership berlusconiana, significa dire una cosa abbastanza vera. L’irritazione di An ed il suo invito perentorio all’Udc perché «scelga» confermano vecchi nervi scoperti. E Casini ha gioco facile a replicare che il centrismo in realtà è una scelta «scomoda».

Ma la polemica conferma anche un’altra verità: fino a che l’area moderata è presidiata dal Cavaliere, l’Udc è destinata a giocare su un perimetro stretto. Lo scongelamento del Pd può portare ai neocentristi consensi ma non una strategia. Sulla collocazione internazionale, sui temi etici e sull’economia, il partito di Casini è in sintonia più col centrodestra che col resto dell’opposizione: anche se ora punzecchia il governo sul testamento biologico perché lo definisce non urgente dopo avere proposto un decreto nei giorni roventi del caso Eluana.

Senza uno smottamento del perno del sistema bipolare, e cioè del berlusconismo, il rimescolamento sarà parziale. A meno che la crisi economica non faccia saltare gli equilibri emersi nel 2008. Sono indicative le ironie dell’Udc sul «gruzzoletto» evocato dal ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, per affrontare le difficoltà. Viene paragonato al «tesoretto » di cui parlava Tommaso Padoa Schioppa ai tempi dell’Unione prodiana. Ma c’è un’incognita, per Casini: il referendum elettorale di giugno. Se vincesse la spinta bipolare, l’Udc dovrebbe rassegnarsi a tornare ad una lunga attesa.

Massimo Franco

06 marzo 2009
da corriere.it


Titolo: MASSIMO FRANCO Il commento al discorso di Fini
Inserito da: Admin - Marzo 23, 2009, 11:18:32 am
Il commento al discorso di Fini

La nuova partita aperta dal leader


Non c'è soltanto assenza di nostalgia per la fine di An: le parole di Gianfranco Fini ieri trasudavano l'impazienza di voltare pagina, di lasciarsi alle spalle una vita e di cominciarne un'altra. Il capo della destra si è proposto non come concorrente di Silvio Berlusconi alla guida del Pdl, ma come leader di un futuro «partito della Nazione»: più trasversale del Cavaliere; laico; tollerante con gli immigrati; e attento al ruolo del Parlamento per bilanciare il presidenzialismo.

La sensazione è che nell'ottica del presidente della Camera il passato sia archiviato da tempo; ed il presente vada filtrato con un binocolo che guarda l'Italia di qui a dieci anni. È un'ottica che relativizza l'esistente: il Pdl, l'era berlusconiana, le vecchie identità. Il passo d'addio è una miscela di orgoglio e solitudine. Se pure Fini non ha detto esplicitamente ai suoi: «Da oggi, ognuno per sé», il suo lascito ad An è proprio in questi termini. Il ponte simbolico scelto per l'ultimo congresso non traghetta nel continente del Cavaliere un partito, ma una folla di singoli che dovranno guadagnarsi il proprio spazio vitale. Si tratta di una condizione politica scomoda, per una forza abituata a percepirsi in termini di diversità; e tuttavia è l'unica che Fini ritenga possibile e, forse, in grado di favorire le sue ambizioni.

In fondo, da quando guida l'assemblea di Montecitorio, lui stesso è diventato un solitario per antonomasia: in primo luogo nella propria maggioranza. Dandosi un profilo istituzionale autonomo, per il quale è stato accusato di ingratitudine, negli ultimi dodici mesi ha costruito una legittimazione ed una rete di alleanze esterne al centrodestra; più orientate verso il Quirinale che verso Palazzo Chigi; e più attente alle prerogative del Parlamento che alle esigenze del governo. Adesso che entra nel Pdl le rivendica e quasi le accentua. Si presenta non come un alleato che deve gratitudine a Berlusconi, ma come un aspirante leader pronto ad accettarne la guida; temporaneamente, però, e ad alcune condizioni. Il suo rifiuto orgoglioso del termine «sdoganamento» è un no alla lettura di An come un movimento postfascista che il Cavaliere ha tolto dal ghetto della storia. E le critiche al culto della personalità e al pensiero unico sono avvertimenti indirizzati, di nuovo, all'azionista di maggioranza del Pdl. Insomma, Fini ha l'aria di chi entra nel nuovo partito protetto dall'armatura del ruolo parlamentare; ed è deciso a non farsi accecare e bruciare dalla stella del berlusconismo.

 Ma è difficile capire se la scelta prelude alla sua emancipazione ed ascesa politica; o se il presidente della Camera fa solo di necessità virtù: nel senso che ha assecondato la fusione fra An e FI perché non aveva alternativa. La sensazione è che la destra non sia più «sua» da tempo; e lui non sia più la destra: o almeno, non la controlla e non la rispecchia come prima. Si è visto in occasione del contrasto fra Palazzo Chigi e Quirinale sulla bioetica, poche settimane fa. Con il presidente della Camera che dava ragione al capo dello Stato, Giorgio Napolitano; e Berlusconi che invece lo criticava e faceva appello al proprio governo, ottenendo un'unanimità garantita anche dai ministri di An. Il suo distacco dal partito d'origine, insomma, è stato se non preceduto, accompagnato da quello di An da lui. Dire di no all'idea di guidare la «corrente di destra» del Pdl significa prendere atto della realtà, più che determinarla. Da oggi la figura di Berlusconi, esorcizzata nei due giorni del congresso, si materializzerà con il suo sorridente, inesorabile abbraccio. E renderà evidente che An aveva attraversato e bruciato il ponte alle proprie spalle ben prima di ieri. Non avere paura, come invita a fare Fini, significa trarne tutte le conseguenze senza guardare indietro.

Massimo Franco

23 marzo 2009
da corriere.it


Titolo: MASSIMO FRANCO Il Governo su Tutto
Inserito da: Admin - Marzo 28, 2009, 12:12:32 pm
Il Governo su Tutto


di Massimo Franco


L'ostentazione di forza era prevedibile, quasi obbligata. Silvio Berlusconi doveva consegnare un rosario di trionfi quindicennali per celebrare la nascita di un partito grande, e con ambizioni quasi smisurate. D'altronde, il presidente del Consiglio sapeva di avere sbaragliato gli avversari. Ormai non li vede più nemmeno nella sinistra, definita brutalmente «senza volto»: priva di leadership e perfino di valori democratici. Ma la celebrazione non è fine a se stessa. Il premier allinea davanti al Paese il «Popolo della libertà », il suo governo e poi il deserto, per avvertire che oggi l'unico nemico è la crisi economica. Si offre dunque come pivot del sistema; come trincea dietro la quale vuole che si allinei l'Italia intera. Non allude tanto all'elettorato: quello pensa di averlo già in maggioranza dalla propria parte, e di poterne conquistare altre porzioni. Il 43,2% che i «sondaggi veri» attribuiscono al Pdl, viene citato come punto di partenza, non di arrivo. E la corona di leader di ex partiti veri e fittizi dai quali ieri si è fatto circondare alla fine del discorso alla Fiera di Roma, dovrebbe certificare l'autosufficienza del centrode-stra: con una sola concessione di autonomia, alla Lega. La sfida adesso si sposta nel cuore del sistema. Nella visione di Berlusconi, il consenso ancora da conquistare è quello delle istituzioni.

Il baricentro della resistenza contro il declino ormai si trova a Palazzo Chigi: anche perché, e almeno su questo è difficile dare torto al premier, non esistono alternative al governo attuale. La conseguenza è che tutti, a cominciare dalle Camere, dovrebbero prenderne atto; e capire che i tempi rapidi delle decisioni non possono essere frustrati, rallentati da regole inadeguate all'urgenza della «politica del fare» sublimata dal berlusconismo: tesi che forse spiega l'impassibilità del presidente della Camera, Gianfranco Fini, destinatario peraltro di molti elogi. L'idea è quella di ottenere una torsione dell'unità nazionale in direzione del governo: uno sforzo istituzionale collettivo, chiesto e anzi quasi preteso in nome dell'emergenza globale. In questo schema, destra e sinistra sono categorie datate, nebulose, svuotate dalla gravità dei problemi. Il «riformismo liberale» che impregnerebbe il Pdl garantisce risposte a qualunque schieramento che escluda una sinistra considerata irrimediabilmente ex comunista; e il sistema ha il dovere di adattarsi. Per Berlusconi è il momento di una nuova Costituzione materiale, sinonimo soprattutto di popolo; e dunque docile agli impulsi dell'Esecutivo. Il vero patriottismo sarebbe questo, nella traiettoria mentale berlusconiana. Come fonte di legittimazione vengono evocati i successi elettorali inanellati nell'ultimo anno, e la debolezza patologica degli avversari. Il cerchio si chiude accreditando il Pdl come «partito degli italiani», al quale diventa difficile opporsi senza diventare teoricamente sabotatori della lotta alla crisi. Sembra un nuovo partito- Stato, erede elettorale della Dc; ma così tagliato su misura del leader da rappresentarne la metamorfosi moderata. Di più: la sua antitesi culturale, prima ancora che politica.

28 marzo 2009
da corriere.it


Titolo: MASSIMO FRANCO La paura che la Ue accentui senza volerlo la sindrome della crisi
Inserito da: Admin - Aprile 02, 2009, 03:46:04 pm
LA NOTA

La paura che la Ue accentui senza volerlo la sindrome della crisi


La parola da esorcizzare è «paura». Esercizio difficile, se mentre il governo prova disperatamente a iniettare fiducia, le previsioni parlano di un calo del prodotto interno lordo del 4,3 per cento nel 2009; e senza tracce di miglioramento per il successivo. L’irritazione con la quale ieri Silvio Berlusconi ha accolto il rapporto dell’Ocse (l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) si spiega con la voglia frustrata di ridimensionare ed abbreviare la crisi economica.

Il presidente del Consiglio sa bene che ci sono davanti due anni e forse più di recessione. Ma nella sua ottica, la china può diventare pericolosa o percorribile a seconda dell’atteggiamento psicologico col quale i Paesi la affrontano. Per questo, invita i commissari europei a «stare zitti » e a non creare allarmismi. E sembra farsi portavoce di un malumore diffuso quando protesta contro le loro dichiarazioni «da cui partono attacchi ai governi che lavorano».

Sullo sfondo si indovina l’allarme per l’atmosfera creatasi ieri al vertice sul lavoro del G8; e il disappunto nei confronti di organismi accusati di non avere previsto il disastro finanziario in arrivo; e adesso di fare «previsioni sbagliate e negative». In entrambi i casi, l’atteggiamento del governo italiano è quello di non rassegnarsi ad una deriva che potrebbe portare con sé gravi tensioni sociali.

L’obbligo di non sfondare i limiti del deficit e del debito pesa come un monito. Eppure, in una situazione che promette disoccupazione, finisce per diventare meno assoluto: da interpretare politicamente. «L’ho detto anche al ministro dell’Economia, Giulio Tremonti. Non sono spaventato» se si dovrà spendere per «non lasciare nessuno da solo», spiega il premier dicendo di volere tradurre in economia la dottrina sociale della Chiesa.

La sfida non facile è quella di impedire che il Paese cambi stili di vita; che interiorizzi la sindrome della crisi e finisca involontariamente per alimentarla. Il fondo di garanzia di circa 30 milioni di euro che i vescovi italiani hanno messo a disposizione delle famiglie in difficoltà serve a produrre prestiti bancari dieci volte superiori. E rappresenta di per sé la conferma di una fase cruciale, che richiede misure in qualche modo eccezionali.

Massimo Franco
01 aprile 2009

da corriere.it


Titolo: MASSIMO FRANCO Assenti illustri e vecchie glorie
Inserito da: Admin - Aprile 22, 2009, 12:50:24 pm
PD, IL NODO DELLE CANDIDATURE

Assenti illustri e vecchie glorie


di Massimo Franco


Non si può dire che sia una mac­china da guerra perfetta; e neppu­re una «nazionale» elettora­le candidata a vincere il cam­pionato europeo. Le liste del Pd danno piuttosto l’idea di una squadra d’emergenza, fatta di ex no­tabili e giovani «promes­se »: una formazione pena­lizzata non solo dal rifiuto di personalità più o meno note, ma dall’assenza totale e calcolata della nomenkla­tura. Dire che nel centrosini­stra qualcuno gioca a perde­re la partita del 7 giugno sa­rebbe ingiusto. Ritenere che però molti la consideri­no già persa, e dunque mar­chino le distanze dall’attua­le vertice, per quanto mali­gno è un sospetto legittimo. È come se la segreteria di Dario Franceschini, salutata esattamente due mesi fa co­me un toccasana dopo la sta­gione di Walter Veltroni, fosse di colpo circondata dal deserto: degli alleati, pri­ma che degli avversari. So­stenitori entusiasti sono di­ventati in poche settimane spettatori distaccati; e scetti­ci sulle capacità del segreta­rio di evitare una sconfitta bruciante quanto quella alle politiche dello scorso anno. Non c’è dubbio che alcune diserzioni segnalino una mancanza di generosità po­litica. Ma forse va captato un malessere più profondo, che riguarda la fiducia nella stessa esistenza del Partito democratico.

Le elezioni europee non saranno una resa dei conti fra Silvio Berlusconi e il cen­trosinistra. Quella c’è già sta­ta nel 2008, e poi in Abruz­zo e in Sardegna: stavolta bi­sognerà semmai misurare quanto è aumentata la di­stanza fra maggioranza ed opposizione. L’appuntamen­to, dunque, è del Pd con se stesso. E l’impressione è che possa perdere altri voti, e in più direzioni: a benefi­cio dell’astensione, dell’Idv di Antonio Di Pietro, magari dell’Udc e della Lega. Ma la vera incognita si presenterà dopo il 7 giugno. L’epilogo che la segreteria sta cercan­do di scongiurare è una sor­ta di esplosione silenziosa, consensuale, rassegnata, nella scia di un altro risulta­to negativo.

Uno scenario così pessi­mistico potrebbe essere smentito da qualche avveni­mento per ora imprevedibi­le. Ma è alimentato senza vo­lerlo da candidature che stri­dono con quelle «politica­mente scorrette» eppure astute di alleati e avversari. Berlusconi e Di Pietro si pre­sentano. Franceschini no; e nemmeno gli altri capi del Pd. Il rifiuto nasce da un’or­gogliosa rivendicazione di diversità nei confronti del premier e degli altri leader, i quali anche se eletti non andranno a Strasburgo: le cariche sono incompatibili. È una prassi discutibile e non molto educativa, che il Pd ha evitato perché perpe­tua l’idea del Parlamento eu­ropeo come «seconda scel­ta » rispetto a quello nazio­nale.

Ma se alle assenze eccel­lenti dalle liste del Pd si somma la stranezza di can­didature che a volte ricorda­no vecchie glorie, il risulta­to appare sconcertante. Ac­credita un partito nel quale la collegialità tende a sconfi­nare nell’anarchia interna; e la determinazione a non pre­sentare nomi di primo pia­no può trasformarsi in un segno non di forza, ma di imbarazzo di fronte alla sfi­da berlusconiana. Eppure, stavolta sarà difficile scarica­re la colpa solo sul successo­re di Veltroni. Le tensioni in­terne degli ultimi giorni non cancellano le responsa­bilità collettive: anche di chi ha deciso di aspettare sulla riva del fiume un fallimento che in realtà non risparmie­rebbe quasi nessuno.


22 aprile 2009
da corriere.it


Titolo: MASSIMO FRANCO La scelta del Cavaliere
Inserito da: Admin - Aprile 26, 2009, 05:17:02 pm
IL DISCORSO APRE UNA FASE NUOVA

La scelta del Cavaliere

Il 25 aprile


Le polemiche non si potevano esorcizzare. Eppure sono risultate minoritarie; e non hanno scalfito il clima di «rinnovata unità nazionale» evocato da Giorgio Napolitano. L'esordio alla Festa della Liberazione del capo del governo, Silvio Berlusconi, esortato a partecipare dal segretario del Pd, ha colmato una lacuna che durava da 14 anni. Ma soprattutto, ha marcato un'adesione inedita e non solo formale a ciò che il 25 aprile esprime. Di fatto, il capo del governo ha aperto una fase nuova. Il riferimento alla Resistenza come «uno dei valori fondanti» dell'Italia non era scontato; né una rilettura della guerra civile fra il 1943 ed il 1945 nella quale il presidente del Consiglio ha espresso rispetto e pietà per tutte le vittime. Ma criticando «le colpe anche di chi era dalla parte giusta», ha negato l'equiparazione fra partigiani e Repubblica sociale di Salò imputatagli in passato: a volte a causa di qualche reticenza e ambiguità. Ieri, col discorso a Onna, nel cuore dell'Abruzzo terremotato, il premier ha voltato pagina e cercato di cambiare il proprio profilo di fronte al Paese.

Con parole misurate, Berlusconi ha reso stantìe le recriminazioni di alcune frange della sinistra e dell'Idv contro la sua adesione alle manifestazioni. Il suo accenno a quella della Liberazione come «festa della Libertà» ha fatto scattare il sospetto che voglia cambiarle nome. Gli avversari hanno intravisto un tentativo inaccettabile di revisionismo storico. Ma, per quanto guardingo, Franceschini ha ammesso che il premier ha detto «cose importanti»: sebbene gli chieda di far ritirare una proposta di legge del Pdl tesa ad equiparare le pensioni di partigiani e «repubblichini». Si tratta di una richiesta che riflette una lunga stagione di tensione, ma forse non prelude a nuovi scontri ideologici: quelli, ieri sono stati finalmente messi in ombra, sebbene non archiviati. Non sono bastate a resuscitarli neppure le contestazioni a Milano contro il governatore della Lombardia, Roberto Formigoni, e la «Brigata ebraica»; né le minacce dei «centri sociali» romani che hanno indotto il sindaco di destra capitolino, Gianni Alemanno, a non partecipare al corteo.

Inutilmente Antonio Di Pietro ha ripetuto: «Non è la festa di tutti, è ipocrita il "volemose bene"»; ed ha ironizzato su «Berlusconi novello partigiano», mentre i reduci della Brigata Majella annodavano il loro foulard intorno al collo del premier. La sensazione è che il capo dello Stato, e questa volta anche il presidente del Consiglio, abbiano interpretato una chiara, anche se ancora indefinita, voglia di unità e di valori condivisi. E centrodestra e centrosinistra hanno cercato di assecondare l'umore popolare, nonostante la loro zavorra di storie così diverse. E' una riconciliazione che qualcuno, a sinistra, considera temporanea e addirittura «melmosa», come Nichi Vendola, governatore della Puglia. La presenza di Berlusconi viene sminuita, mentre si riafferma una interpretazione della Resistenza un pò ossificata dall'ideologia. Eppure, nello stesso Pd si accetta una lettura meno mitica di quel periodo: una fase eroica nella lotta ai nazisti e ai fascisti, intorbidata da episodi gravi di violenza. Alla fine, la schiera di quanti sottolineano con favore la svolta, bilancia e sopravanza quella degli scettici. Insomma, anche se ancora fragile la nuova unità nazionale ieri ha fatto un passo avanti. Ma i suoi avversari, sconfitti e minoritari, aspettano solo un'occasione di rivincita: il pretesto per un ritorno al passato, che soprattutto Berlusconi ha la responsabilità di non rendere possibile.

Massimo Franco
26 aprile 2009

da corriere.it


Titolo: MASSIMO FRANCO C’è una filiera interna che vuole confermare l’attuale segretario
Inserito da: Admin - Maggio 03, 2009, 11:41:34 am
LA NOTA


C’è una filiera interna che vuole confermare l’attuale segretario


C’è una filiera ancora parzialmente sommer­sa che punta alla conferma di Dario Fran­ceschini: nonostante l’attuale leader del Pd abbia detto e ripetuto di non volersi ricandidare. È uno schieramento interno deciso a trasformare questo segretario di transizione in un segretario-ponte; ed in grado di diventa­re maggioranza interna a seconda del risultato delle europee di giugno e delle amministrative. Qualcuno vede in alcune polemiche recenti sul congresso, ufficialmente fissato ad ot­tobre, proprio il nervosismo di quanti cominciano a temere il rafforzamento di Franceschini; e magari un rinvio. All’opposto, a prolungare la transizione sono quelli che vedono la sua segrete­ria come ultima spiaggia del par­tito. In privato, oltre a Walter Vel­troni sostengono questa ipotesi l’altro ex segretario, Piero Fassi­no, e molti dirigenti della ex Margherita.

Ma ogni scenario è subordinato al risultato del 7 giugno: appuntamento al quale nel centrosinistra si guarda con un’apprensione giustificata. L’ipotesi che il Pd confermi il 33 e rotti per cento dello scorso anno alle politiche è considerata poco credibile. Il problema è, se si dovesse davvero registrare un calo, arginarlo il più possibile; e cioè incassare percentuali in grado di non rimettere in discussione il progetto nato con la segreteria Veltroni: una soglia «dignitosa» che molti indica­no intorno al 27 per cento. Si tratta di un calcolo comunque arbitrario, perché va cali­brato sui risultati degli avversari e sull’esito delle amministra­tive in programma nello stesso giorno delle europee. Anche in questo caso, il Pd parte svantaggiato: nel senso che cinque anni fa ottenne risultati positivi in gran parte delle province, rispetto ad un centrodestra allora in seria difficoltà. Dunque, l’incognita riguarderà non solo la dimensione ma la qualità di un’eventuale sconfitta.

Vincere a Bologna, Firenze e maga­ri Bari, e nelle provincie di Milano, Bergamo, Pavia, Cremo­na, Torino, attenuerebbe la sensazione della disfatta. Evoche­rebbe una strategia della resistenza capace di evitare il collas­so del Pd. In quel caso, cambiare leadership diventerebbe rischioso, lasciano capire i sostenitori di Franceschini; ed affrettare la scelta degli alleati, dividendosi magari tra fautori dell’asse con l’Idv, o con l’Udc di Casini, o con l’estrema sinistra, si rive­lerebbe un azzardo inutile. Sulla consistenza degli eredi di Fau­sto Bertinotti e di Oliviero Diliberto, infatti, i giudizi sono con­trastanti. C’è chi pensa che quel bacino elettorale sia ancora consistente, per quanto sbandato; e chi invece lo considera residuale, alla fine di un ciclo non dissimile da quello di altre sinistre comuniste europee. Quanto ai rapporti con Antonio Di Pietro, l’irritazione monta; ma in maniera confusa. E gli scambi di accuse fra esponenti del Pd come Enrico Letta e Goffredo Bettini sulla «guerra fra bande» contro i se­gretari di turno, suggeriscono un’atmosfera interna intossica­ta almeno dai sospetti. Franceschini è riuscito ad allentare la tensione almeno su un fronte: le polemiche sul profilo delle candidature alle europee. Il tema è stato ridimensionato e oscurato dalla lite in pubblico fra Silvio Berlusconi e la mo­glie, Veronica Lario, in materia di «veline». Ma il 7 giugno rimane. Ed un contenimento delle perdite potrebbe non ba­stare a puntellare l’attuale segretario, ed il Pd come è stato finora.

Massimo Franco
01 maggio 2009

da corriere.it


Titolo: MASSIMO FRANCO Un caso destinato a rinfocolare l’antiberlusconismo
Inserito da: Admin - Maggio 05, 2009, 11:17:32 am
LA NOTA

Un caso destinato a rinfocolare l’antiberlusconismo

Pd e Idv puntano il dito contro il pubblico e privato del premier


Definirla una questione privata, ormai, è impossibile. Il problema è per quanto tempo rimarrà un caso politico; e se in prospettiva possa assumere altri risvolti. Sebbene deprimente, la lite coniugale fra il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, e la seconda moglie, Veronica Lario, rappresenta la nuova frontiera dello scontro fra governo e opposizione. E vede, forse per la prima volta, un premier preoccupato dai contraccolpi della vicenda. Il sottosegretario a Palazzo Chigi, Gianni Letta, cita Niccolò Machiavelli per sostenere che in politica bisognerebbe evitare «disprezzo e odio». Ma i veleni lievitano.

Il dopoterremoto in Abruzzo, sul quale Berlusconi ha scommesso parte della propria credibilità, viene oscurato dalle cronache del suo matrimonio pubblicamente in pezzi. Le parole imbarazzanti della moglie sulla frequentazione di ragazze minorenni sono diventate materia di interrogazioni parlamentari. Nel Pd si parla di «perversioni morali» che sarebbero riflesse dalla cultura berlusconiana.

Cade nel vuoto l’appello di esponenti come Umberto Ranieri, a non colpire «nella sfera privata »: anche perché il Cavaliere insiste sul «complotto mediatico » orchestrato dalla sinistra. E dopo l’autodifesa iniziale sembra oscillare fra strategia del silenzio e controffensiva dura. Gli avversari hanno capito che la storia potrebbe durare a lungo; e che offre una forte tentazione di rivincita sugli ultimi successi berlusconiani. La sensazione è che il centrosinistra si renda conto di avere trovato un punto debole del premier.

E adesso addita e mescola pubblico e privato di Berlusconi, usando la sponda offerta dalla moglie. Si tratta di un filone scivoloso: anche se lui continua a ripetere che la sua popolarità non è intaccata dalle disavventure familiari. Ma rimane l’incognita, adombrata da Idv e Pd, dei contraccolpi extrapolitici delle allusioni della consorte alle frequentazioni con minorenni: un argomento imbarazzante, che può oscurare l’attività di governo.

Alla tesi del «complotto della sinistra», accreditata dal premier, il segretario del Pd, Dario Franceschini, replica definendola assurda. Come minimo, appare riduttiva. Ma anche sentir dire ai legali della signora Berlusconi che la pratica di divorzio «non è materia che va gestita sui giornali» fa un po’ sorridere: soprattutto dopo che ogni mossa è sembrata mirata a dare la massima eco ad una lite di famiglia, scaricandola inopinatamente sul Paese.

Massimo Franco
05 maggio 2009

da corriere.it


Titolo: MASSIMO FRANCO Sottili equilibri
Inserito da: Admin - Maggio 06, 2009, 05:56:25 pm
Sottili equilibri


di Massimo Franco


Si avverte una misce­la di disagio e re­alpolitik nelle rea­zioni delle gerar­chie cattoliche alla saga fa­miliare dei coniugi Berlu­sconi. Disagio non tanto per l’annuncio del divor­zio, ma per il modo spetta­colare, per usare un eufe­mismo, con il quale è stato comunicato. Quanto alla realpolitik si scorge dietro l’assoluto silenzio vaticano e nelle parole sobrie con le quali il presidente dei ve­scovi italiani, Angelo Ba­gnasco, ha commentato e avallato a posteriori la pre­sa di posizione del quoti­diano Avvenire, vicino alla Cei: un articolo forse più dovuto che voluto, perché intervenire su questioni di vita privata declassate di fatto a pettegolezzo crea un imbarazzo evidente.

Tanto più perché i prota­gonisti della vicenda sono un presidente del Consi­glio considerato l’interlo­cutore principale del Vati­cano, e sua moglie. E qua­lunque parola di troppo ri­schia di alimentare una spi­rale di pettegolezzi in bili­co fra politica, etica, mora­lismo e soldi. L’apparente distacco dalla lite fra Silvio Berlusconi e Veronica La­rio nasconde la speranza impossibile di vedere il ca­so archiviato al più presto; e la realtà di un disappun­to e di una richiesta di tene­re atteggiamenti più re­sponsabili, rivolta tacita­mente ad entrambi. A que­sto si aggiunge il timore di un uso politico della vicen­da in un momento delica­to della vita del Paese. Ber­lusconi sembra consapevo­le di dovere affrontare una situazione scivolosa. La ri­vendicazione di rapporti ottimi con la Santa Sede, ri­petuta ieri sera in tv, riflet­te un dato di fatto ma forse va completata. Assume un significato diverso se vie­ne letta insieme alla sua certezza di non perdere «la simpatia» del mondo catto­lico a causa delle tensioni con la moglie: parole che in realtà tradiscono l’oscu­ro timore di essere danneg­giato politicamente ed elet­toralmente da quello che si ostina a considerare in modo un po’ troppo sbriga­tivo un gigantesco malinte­so. Ma si tratta di un peri­colo che in realtà non ri­guarda solo quell’univer­so. L’opinione pubblica sembra sconcertata e divi­sa senza distinzioni.

Non significa automati­camente che si prepari ad abbandonare il centrode­stra. Anzi, le polemiche che alcuni esponenti del­l’opposizione stanno facen­do contro gerarchie accusa­te di essere «governative», potrebbero rivelarsi a dop­pio taglio. Invece di far ri­saltare una sorta di incom­patibilità morale prima an­cora che politica fra valori cattolici e berlusconismo, rischiano di accentuare la distanza fra centrosinistra e Vaticano. Sarebbe un ri­sultato paradossale, nel momento forse più diffici­le del premier da quando ha vinto le elezioni nel 2008. Eppure, quanto è ac­caduto e può succedere nelle prossime settimane suona come un monito per Berlusconi.

Dovrebbe fargli capire che non bastano i limiti po­litici degli avversari a scon­giurare le critiche, i malin­tesi e alla fine un logora­mento, alimentati in buo­na misura anche da certi suoi comportamenti. Di colpo, potrebbe ritrovarsi appesantito da una zavor­ra di voci che finora hanno contribuito in modo discu­tibile ad alimentare i suoi successi.


06 maggio 2009
da corriere.it


Titolo: MASSIMO FRANCO Dietro il caso Italia si delinea una sfida che tocca l’Europa
Inserito da: Admin - Maggio 13, 2009, 10:44:43 am
LA NOTA

Dietro il caso Italia si delinea una sfida che tocca l’Europa

Il governo di Roma manda un segnale oltre il Mediterraneo ma anche a Bruxelles


L’idea è quella del «tam tam alla rovescia»: fare in modo che al di là del Mediterraneo l’Italia non appaia più accessibile ai trafficanti di emigranti come nel passato; e che i disperati dei barconi intercettati in acque internazionali e rispediti in Nord Africa portino questo messaggio. Ma l’avvertimento è destinato a salire anche verso nord, alla Commissione Ue ed al Parlamento di Strasburgo. Esalta la solitudine dell’Italia non tanto per le accuse di razzismo, ma per il disinteresse degli altri Paesi di fronte ad un problema che in realtà è europeo; e non sembra prevedere risposte immediate, facili e indolori.

Anzi, la soluzione apparente risulta drastica fino alla brutalità. L’autocompiacimento della Lega può rendere le misure odiose e svilirle. E tuttavia il problema esiste, perché la frontiera mediterranea dell’Ue è stata abbandonata. E la sua dimensione continentale è ammessa dallo stesso Consiglio d’Europa: un’organizzazione esterna alle istituzioni dell’Unione, che pure attacca il governo di Silvio Berlusconi. Su questo sfondo, la decisione di respingere gli immigrati è un s.o.s. a Bruxelles.

Non è detto che venga ascoltato. I governi esitano ad assecondare scelte che sollevano le proteste dell’Onu e del Vaticano. Per il commissario Ue alla Giustizia, Jacques Barrot, respingere i clandestini è «normale» se viene fatto in acque internazionali. Ma l’imbarazzo è palpabile, perché il caso fa emergere la contraddizione fra esigenze di sicurezza di alcuni Paesi come Italia e Malta, e diritto d’asilo.

In assenza di una decisione a livello europeo, l’emergenza umanitaria e strategica viene gestita dalle nazioni coinvolte; e sovrastata da preoccupazioni elettorali. Misura l’escalation polemica fra Umberto Bossi e Gianfranco Fini, ieri cofirmatari di una legge sull’immigrazione ed oggi su posizioni divergenti. Rilancia la sfida fra Pdl e Lega, con il premier che rivendica i provvedimenti di «tutta la coalizione». Ma ravviva anche le tensioni nel Pd, diviso fra chi accusa di razzismo il Pdl e chi invita ad evitare la propaganda demagogica.

Colpisce la durezza con la quale Rutelli ma anche Fassino si dissociano dagli attacchi del vertice del Pd. Né deve sorprendere la determinazione della maggioranza berlusconiana, nonostante gli attacchi di Vaticano e Cei. La sensazione è che almeno su questo il centrodestra ritenga di rappresentare gli umori del Paese più dei vescovi. E forse le stesse gerarchie cattoliche cominciano ad esserne consapevoli e preoccupate: ma non possono rinunciare a ribadire i propri princìpi.

Massimo Franco
12 maggio 2009

da corriere.it


Titolo: MASSIMO FRANCO La ricetta «legge e ordine» ricompatta la maggioranza
Inserito da: Admin - Maggio 14, 2009, 04:51:49 pm
LA NOTA

La ricetta «legge e ordine» ricompatta la maggioranza

Congelate le tensioni interne, restano aperti il fronte con l’Onu e il mondo cattolico


Si rafforza l’impressione che il centrodestra stia organizzando la replica dell’operazione «legge e ordine» del 2008. Annunciare che le nuove norme sulla sicurezza saranno approvate in via definitiva a fine maggio, significa che entreranno in vigore a ridosso del voto europeo del 6 e 7 giugno. E definire, come ha fatto Umberto Bossi in polemica con Gianfranco Fini, un po’ di propaganda come sale di qualunque campagna elettorale, spiega meglio la strategia del governo. Il «sì» di ieri alla Camera è il primo passo di un’operazione che il centrodestra si prepara a completare con tempismo; e con una competizione interna che però nessuno degli alleati vuole esasperare: anche se i conciliaboli e gli incontri fra Silvio Berlusconi, Bossi, Fini, e il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, hanno spalmato una patina di compattezza dopo giorni di tensione.

Riconsegnano l’immagine di una coalizione tutto sommato unita; comunque decisa a coprire gli spazi, lasciando all’opposizione un ruolo tendenzialmente minore. Si trattava di chiudere due potenziali crepe: il contrasto fra Bossi e Fini sull'immigrazione clandestina; e le voci di dissapori fra il premier e Tremonti sui soldi per il dopo-terremoto in Abruzzo. Almeno a breve termine, la manovra sembra riuscita. Il presidente della Camera aveva invitato ad evitare «eccessi propagandistici ». Ma il colloquio di ieri con il capo leghista avrebbe soddisfatto entrambi: nel senso che le divergenze sono state accantonate sull’altare della sicurezza.

Quanto ai fondi per i terremotati, è stato lo stesso Berlusconi a dichiarare che l’intesa con Tremonti sarebbe totale; e dunque anche il secondo fronte è stato rapidamente sigillato. Bisogna capire quanto durerà la tregua, infragilita dalla concorrenza per il voto europeo. La linea dura, tuttavia, non si tocca: anche perché a sentire il ministro dell’Interno, Roberto Maroni, sta facendo proseliti a sinistra. A rafforzarla è l’insicurezza diffusa e la paura nei confronti della criminalità: un umore che parte del Paese tende a scaricare sbrigativamente sugli immigrati.

Nel 2008, anno di elezioni politiche, l’allarme fu segnalato ed esasperato per dare la spallata finale al governo dell’Unione: un centrosinistra già minato dalla litigiosità interna e dall’emergenza dei rifiuti in Campania. Adesso, più che a delegittimare un’opposizione debole dovrebbe diventare una fonte di ulteriore legittimazione per Berlusconi e gli alleati: un moltiplicatore di consensi da spendere per accelerare alcune riforme e vincere le regionali del prossimo anno. Che Maroni neghi la manovra elettorale, ritenendo la tesi «insultante e offensiva», è legittimo; come è verosimile che, fosse stato per la Lega, i «respingimenti sarebbero cominciati un anno fa».

Ma la coincidenza con la vigilia delle elezioni per il Parlamento di Strasburgo è vistosa. D’altronde è lo stesso Bossi a spiegare che «la propaganda, se non la fai sotto elezioni quando la fai?». Rimangono due incognite: l’atteggiamento di Onu e Ue; e l’ostilità del mondo cattolico al nuovo reato di immigrazione clandestina, criticato ieri dai vescovi italiani, dalla Comunità di Sant’Egidio e dalle Acli. Ma probabilmente non cambierà nulla. Secondo Berlusconi, il governo sta agendo nel rispetto degli accordi internazionali; e l’Europa si muove con imbarazzo. E comunque, per ora il centrodestra confida in un sostegno dell’opinione pubblica, che è convinto di tradurre in voti: anche grazie ai barconi dei disperati rispediti in Libia.

Massimo Franco
14 maggio 2009

da corriere.it


Titolo: MASSIMO FRANCO Vittoria amara
Inserito da: Admin - Maggio 15, 2009, 11:07:03 am
Vittoria amara


L’Italia ha deciso di svolgere il ruolo di battistrada della guerra all’immigrazione clandestina. È un compito scomodo, perché viene affidato a leggi che riflettono una visione del fenomeno agli antipodi rispetto al passato; rompe una cultura dell’inclusione mai messa in discussione fino a che i flussi hanno assunto una fisionomia tale da destare allarme; ed è accompagnato dal silenzio assordante e colpevole dell’Europa.

Ma l’approvazione del provvedimento che trasforma in reato l’ingresso irregolare nel nostro Paese costituisce un’incognita anche perché non si capisce se risolverà i problemi. Di certo si tratta di uno spartiacque, sul piano dei valori prima che su quello della politica sottolineato dalle riserve delle organizzazioni cattoliche. Rimane da chiedersi se il giro di vite sia stato deciso dal centrodestra assecondando gli umori profondi del Paese; o magari esasperandoli. Il fatto che sia il premier, Silvio Berlusconi, sia il capo della Lega, Umberto Bossi sventolino il consenso schiacciante della «gente », non va sottovalutato. Conferma un malessere figlio dell’inerzia, che ha silenziosamente trasformato la tolleranza in un istinto di rifiuto alimentato dal timore della criminalità. Dunque, è probabile che la linea dura non sia soltanto formalmente legittima, ma sostenuta dal grosso del Paese.

Forse per questo nel governo emerge la tentazione di ritenere ogni critica oziosa e strumentale, e sotto sotto vagamente elitaria: e di certo qualcuna lo è.
Sarebbe miope, tuttavia, non riconoscere una realtà che ad intermittenza assume i contorni odiosi del razzismo; ed escludere che le ragioni della maggioranza siano state incoraggiate dalle prossime scadenze elettorali. A seminare perplessità è l’ombra di trionfalismo che accompagna il «sì» alle misure sulla sicurezza. Si può anche tacere il contraccolpo sul piano dei diritti umani, che pure pesa. Ma sa di rimozione negare l’esistenza di una «retorica pubblica» impregnata di «accenti di intolleranza o xenofobia », evocata ieri dal capo dello Stato.

Come sempre, Giorgio Napolitano ha affidato il suo monito a parole calibrate e misurate. Eppure ha provocato reazioni troppo sbrigative: come se avesse sfiorato nervi intoccabili nel momento di un successo parlamentare che in realtà è una vittoria un po’ amara per tutti. Sembra il prodotto italiano ed europeo di un difetto di lungimiranza e di prevenzione. Su questo sfondo il Paese appare l’avanguardia di un’esasperazione che presto sarà continentale. Ed anticipa soluzioni dettate da una deriva culturale giustificata dall’emergenza; ma priva di coordinamento con la Ue. Nessuno è in grado di presidiare la «nuova frontiera» mediterranea da solo.

A ben vedere, per quanto discutibile nel metodo, il tentativo del governo di difenderla è una richiesta, quasi un grido d’aiuto.

Massimo Franco
15 maggio 2009

da corriere.it


Titolo: MASSIMO FRANCO L’offensiva leghista accentua lo scontro con il resto d’Europa
Inserito da: Admin - Maggio 17, 2009, 12:17:33 am
LA NOTA

L’offensiva leghista accentua lo scontro con il resto d’Europa

Bossi replica al Colle sulla xenofobia e avverte il premier sul referendum


Nel terzo anniversario dell’elezione di Giorgio Napolitano al Quirinale, Umberto Bossi spedi­sce al capo dello Stato un biglietto d’auguri molto lumbard: l’«invito» a non temere che le misure sulla sicurezza aprano la strada ad una deriva razzista. Anzi, a senti­re il capo della Lega lo scongiurerebbero. Ma partono avverti­menti anche per palazzo Chigi, magistratura, sindacati: a con­ferma che il «partito del Nord» vuole arrivare al voto europeo di giugno con un profilo ben marcato e distinto dal Pdl. È un’offensiva che fa apparire le norme sull’immigrazione clan­destina già archiviate: agli occhi di Bossi si tratta solo di una tappa in vista di altri traguardi, più ambiziosi e laceranti; e gonfi di implicazioni non solo sulla politica italiana ma nei rapporti col resto dell’Europa.

Non significa che la tregua nel centrodestra si sia spezzata. Semplicemente, la coalizione dovrà coabitare con una concor­renza che prevede un protagonismo leghista a tutto tondo; e non esclude neppure una tensione sempre meno strisciante con l’«amico» Berlusconi sul referendum elettorale del 20 giu­gno. Le parole dette ieri da Bossi in campagna elettorale con­tengono una velata minaccia al presidente del Consiglio do­po la sua scelta di votare sì. «Il referendum è stato fatto con­tro la Lega», sostiene. «E io non farei mai una cosa contro Berlu­sconi. Spero che ci pensi su».

Il messaggio va letto insieme a quello alla sinistra, affinché cambi una posizione che favori­rebbe il primato del Pdl. Fa emergere il profilo di un Carroc­cio che si sente forte, eppure ri­mane inquieto. Il timore di una vittoria schiacciante berlusco­niana il 6 e 7 giugno potrebbe alimentare il progetto del pre­mier di chiudere i giochi anche nel centrodestra: operazione che un successo referendario fi­nirebbe per rendere possibile. Pochi prevedono il quorum della metà più uno dei votanti: la soglia per renderlo valido.

Bisogna vedere, tuttavia, quali contraccolpi provocherà il voto per Strasburgo. Bossi rilancia le parole d’ordine nordi­ste: dal «salario territoriale» adeguato al costo della vita, per dare più soldi alle regioni settentrionali; ai giudici «eletti dal popolo» locale. Sa che soltanto con il pieno dei consensi la Lega può fare avanzare i piani federalisti. Ma l’avvitamento su posizioni sempre più estreme rende il fronte internaziona­le pericolosamente aperto ed esposto. Ieri il ministro dell’In­terno, Roberto Maroni, ha incontrato il delegato dell’Alto commissariato per i rifugiati dell’Onu, Laurens Jolles. Ed è riemersa con durezza l’accusa all’Italia di violare le norme sui migranti.

La responsabilità è stata respinta con altrettanta decisione. Il ministro leghista ha ribadito che l’Italia non smetterà di ri­spedire in Libia i barconi. E in parallelo il ministro degli Esteri, Franco Frattini, ha invocato la collaborazione dell’Ue. La tensio­ne con le istituzioni continentali, insomma, rimane. La stessa Commissione europea ieri ha ammonito ad «evitare ogni deri­va verso un'Europa-fortezza»; a non alimentare l’immagine de­gli immigrati come un pericolo. Critiche che sembrano fatte su misura per l’Italia del centrodestra; e per essere respinte, am­miccando ad un elettorato spaventato e plaudente.

Massimo Franco
16 maggio 2009

da corriere.it


Titolo: MASSIMO FRANCO Il crinale scivoloso del muro contro muro
Inserito da: Admin - Maggio 22, 2009, 06:22:55 pm
Berlusconi e opposizione

Il crinale scivoloso del muro contro muro

Il premier parla non alle istituzioni ma al Paese e sembra volere un affondo che radicalizza i consensi


Il caso Mills sta proiettando le sue ombre velenose su tutte le cariche dello Stato. La condanna per corruzione dell’avvocato inglese a Milano ha riaperto un conflitto violento fra il capo del governo e la magistratura. Ma il fronte si sta allargando. Ieri, davanti alla Confindustria, l’attacco di Silvio Berlusconi ai giudici «estremisti» è stato rimpinguato da nuove critiche contro un Parlamento «pletorico, dannoso e inutile». Ha fatto riaffiorare la frustrazione per i limiti imposti dalla Costituzione al potere del presidente del Consiglio: un tema che già in passato ha messo in tensione i rapporti istituzionali.

E sullo sfondo, come un dettaglio incongruo, rimangono le vicende private del premier. Si tratta di una miscela tossica, che Berlusconi cerca di scansare ed esorcizzare. Eppure, finisce per usarla e subirla, comunicando un’immagine aggressiva e insieme nervosa. Probabilmente è un atteggiamento che non avrà grandi conseguenze sul piano elettorale. Semina tuttavia briciole indigeste nei rapporti coi vertici del Parlamento. Può rafforzare in una magistratura già sulla difensiva i settori più ostili al berlusconismo. E consente agli avversari di additare come uno scandalo il «lodo Alfano» che esclude dai processi i vertici istituzionali. Il risultato è che le polemiche investono palazzo Chigi; ma la loro eco si irradia su chiunque non appaia abbastanza nemico del premier.

È significativo che ieri il Quirinale abbia deciso di diramare una precisazione contro le domande-accuse rivolte in modo provocatorio dal comico Beppe Grillo al capo dello Stato, Giorgio Napolitano; e proprio sul lodo Alfano. Il solo fatto che il presidente della Repubblica abbia firmato quella legge proposta dal ministro della Giustizia, Angelino Alfano, per i «blog» girotondini è uno scandalo. E si può essere sicuri che non cambieranno idea di fronte alla spiegazione ineccepibile ribadita dal Quirinale: e cioè che Napolitano ha firmato il «lodo» perché la legge rispondeva alle condizioni chieste dalla Corte Costituzionale nel 2004, unico suo «punto di riferimento».

Per paradosso, quella Costituzione che Berlusconi è accusato di deformare e stravolgere, appare un ingombro anche ai suoi avversari nel momento in cui il capo dello Stato la addita come bussola neutrale, oggettiva. Davanti ad un premier raffigurato nei panni del dittatore, l’opposizione si compatta e tende a saldarsi con le sue frange più radicali. E mal sopporta i tentativi di non esacerbare lo scontro: anche quando vengono da un garante come il presidente della Repubblica. Eppure, Napolitano non polemizza con palazzo Chigi ma non condivide affatto l’attacco al Parlamento. Lo conferma la difesa che ne fa Gianfranco Fini, da tempo in sintonia istituzionale col Quirinale e in disaccordo con Berlusconi.

Ma è un crinale sottile e scivoloso da percorrere, di fronte ad un’offensiva così virulenta. Il presidente del Consiglio parla non alle istituzioni ma al Paese; e sembra volere un affondo che radicalizza le scelte ed i consensi. Il centrosinistra accetta la sfida, quasi sollevato nel vedere che Berlusconi si presta alla descrizione inquietante dell’opposizione. Per condannare l’attacco al Parlamento rispunta anche l’ex premier Romano Prodi. Si tratta di un muro contro muro che apparentemente fa comodo ad entrambi, in vista delle elezioni. Alla fine, tuttavia, si potrebbe scoprire che questo schema era truccato; e che almeno uno dei due contendenti ha inseguito un’immagine ingannevole del Paese.

Massimo Franco

22 maggio 2009
DA CORRIERE.IT


Titolo: MASSIMO FRANCO Un bilancio poco esaltante
Inserito da: Admin - Giugno 07, 2009, 11:53:06 am
Un bilancio poco esaltante


Èstata una campagna elettorale europea solo formalmente; in realtà, anche troppo italiana. Ruvida fino a risultare greve. Autolesionistica e logorante nella sua tendenza all’esagerazione polemica. Segnata dalla volontà berlusconiana di fare un pieno di voti anche personali, tale da blindarlo nella maggioranza, prima ancora che a Strasburgo; e dal tentativo del centrosinistra di approfittare delle sue vicende familiari per delegittimarlo moralmente, logorarlo, e frenarne le ambizioni trionfali. L’esito di questo duello dai contorni un po’ patologici sarà deciso fra oggi pomeriggio e domani sera, quando si saprà chi ha vinto e chi ha perso anche nelle amministrazioni di alcune città.

Fin d’ora, però, il bilancio non appare esaltante. La distanza non solo dai temi dell’Europa ma da uno scontro civile comporterà un prezzo. Il riferimento non è tanto alla pioggia di querele annunciate da Berlusconi nelle ultime ore contro i giornali, italiani e stranieri, che hanno pubblicato le foto proibite scattate mesi fa in una delle sue ville sarde. Il logoramento prodotto dal fango di queste settimane è provato dall’annuncio fatto ieri dal premier: una campagna per indurre la stampa estera a raccontare un’Italia meno caricaturale di quella che, secondo Berlusconi, viene descritta.

Evidentemente, il premier avverte che la sua immagine può essersi scalfita a livello internazionale.

E vuole rimediare, sapendo che fra appena un mese l’Italia e lui personalmente saranno sovraesposti dal G8 all’Aquila. Su questo sfondo, la vittoria probabile del centrodestra sarebbe un balsamo, non un antidoto. E comunque, bisognerà vedere quali rapporti di forza emergeranno: non solo fra maggioranza ed opposizione, ma all’interno dei due schieramenti. L’idea del «derby padano » rivela una competizione feroce fra Pdl e Lega; e forse un gioco delle parti fra Silvio Berlusconi e Umberto Bossi, tesi a convincere gli elettori che la partita si gioca solo nel centrodestra: un tentativo di presentare l’opposizione come una comprimaria.

Conta di mobilitare i sostenitori berlusconiani, solitamente un po’ abulici alle consultazioni europee. Il voto è anche amministrativo, e questo dovrebbe garantire una partecipazione maggiore almeno in alcune città. Ma Bossi ha già detto che in caso di ballottaggi chiederà di disertare le urne per boicottare il referendum del 21 giugno: produrrebbe un bipartitismo che la Lega giudica una minaccia alla propria sopravvivenza. Per quanto «referendario», Berlusconi asseconderà l’alleato. Tutte le sue mosse degli ultimi giorni sembrano di tipo preventivo e insieme distensivo. L’offerta pubblica della presidenza del Veneto al Carroccio conta più della correzione di rotta delle ore successive.

D’altronde, se ne parla da oltre un anno. Fotografa un rapporto di forza che ha mutato i numeri e la qualità dell’alleanza di centrodestra nella principale regione del Nordest. Soprattutto, ha l’aria di un obolo alla stabilità del governo: il tentativo di mettere al sicuro la legislatura da eventuali scosse centrifughe. Berlusconi sa che il pericolo può venire soprattutto dalle file della maggioranza. La crisi del Pdl in Sicilia è un segnale allarmante, per palazzo Chigi. Sicuramente il capo del governo riuscirà a rimettere insieme i cocci dopo le europee. L’implosione della giunta regionale, però, è in sé un indizio negativo. Rivela le tensioni in una coalizione priva di avversari esterni.

L’opposizione è consapevole di essere al massimo «un argine al padrone assoluto», come ripete Dario Franceschini. Sia il segretario del Pd che l’Idv di Antonio Di Pietro possono sperare più su uno sfaldamento del centrodestra che sulla propria forza. Vivono in trincea, non all’attacco. Franceschini deve dimostrare che il Pd può sopravvivere alle proprie contraddizioni e alla spregiudicatezza di Di Pietro; e definire un’identità per ora ambigua anche nella collocazione dentro la galassia del socialismo europeo. L’incognita è l’astensionismo, con il pericolo di vedere evaporare le giunte di sinistra, ultimo retaggio dell’Unione prodiana; e modello superstite di un sistema di alleanze che il Pd dovrà riplasmare.

Sia per il governo che per i suoi avversari, insomma, comincia una fase difficile. L’Europa e gli intrecci internazionali, sottovalutati se non ignorati, presenteranno il conto molto presto: e con gli interessi.

Massimo Franco
06 giugno 2009

da corriere.it


Titolo: MASSIMO FRANCO Il voto locale offre la vera dimensione dei rapporti di forza
Inserito da: Admin - Giugno 09, 2009, 06:12:30 pm
LA NOTA


Il voto locale offre la vera dimensione dei rapporti di forza


Per una manciata di ore, la battuta d’arresto del Pdl ha velato la sconfitta del centrosinistra alle europee. Le attese di un’affermazione clamorosa del governo, alimentate da Silvio Berlusconi, hanno permesso al partito di Dario Franceschini di additare lo scarto fra quelle ambizioni e la realtà. La soglia psicologica del 40 per cento dei voti, mancata ampiamente dal presidente del Consiglio, ha nascosto quella che sotto voce il Pd si era riproposto di raggiungere: fra il 27 ed il 28, comunque ben sotto il 33,2 del 2008. Non solo: il panorama di macerie offerto da gran parte della sinistra europea ha contribuito al sollievo del Pd, deciso ad accreditarsi come uno dei grandi superstiti del 6 e 7 giugno. E da questo punto di vista lo è. Ma il calo dei suoi consensi, non compensato del tutto dal successo dell’Idv di Antonio Di Pietro, sta emergendo nelle sue dimensioni reali. A renderlo vistoso è la geografia politica che lentamente affiora dalle amministrative celebrate insieme alle europee: un quadro a dir poco in chiaroscuro, tale da ridimensionare gli entusiasmi sulla tenuta del progetto del Pd. I primi risultati trasmettono l’immagine di una ragnatela di interessi e nomenklature locali, nella quale non esistono più rendite di posizione: per il fronte berlusconiano, ma soprattutto per i suoi avversari che detenevano da decenni il potere in alcune zone del Paese. Oltre tutto, il centrosinistra partiva da posizioni di forza, che dopo cinque anni appaiono intaccate; ed accentuano la sensazione di uno smottamento progressivo nelle giunte. Alcuni dei feudi governati storicamente dall’Unione prodiana mostrano smagliature.

Il richiamo di quello che la Lega ha definito «laburismo padano» spiega come mai il centrodestra si infiltri in Emilia Romagna e Toscana, conquistando consensi in classi sociali finora monopolio della sinistra. In realtà come l’Umbria, regione di «giunte rosse», il Pdl fa registrare un successo imprevisto. E i dati diffusi ieri dall’«Istituto Carlo Cattaneo» di Bologna offrono uno spaccato impietoso dei nuovi rapporti di forza. Dicono che alle europee il Pd ha perso oltre 2,1 milioni di voti rispetto al 2004 (-21 per cento), e 4,1 milioni nel confronto con le politiche dell’anno scorso. Il partito di Franceschini risponde ricordando che non contano solo i numeri, ma la tentazione berlusconiana di trasformare la consultazione in un referendum su di sé: un’operazione risoltasi in «una musata», secondo l’espressione colorita di Piero Fassino. Si aggiunge che lo stesso Pdl perde circa 3 milioni di voti sulle politiche; e si fa presente che nel 2008 c’erano in lista col Pd anche alcuni esponenti radicali. Ma lo scambio di accuse fra i due maggiori partiti tende ad interpretare con lenti bipolari una situazione dalla quale il bipolarismo esce un po’ indebolito. La vittoria parallela della Lega e dell’Idv rende il problema delle alleanze particolarmente acuto. Bossi è fondamentale per la strategia berlusconiana: tanto più in vista delle regionali del prossimo anno. Il fatto che il ministro Roberto Calderoli dica che i voti leghisti «si pesano e non si contano» anticipa la trattativa per la presidenza di alcune regioni del nord: sebbene riveli l’ammissione del mancato sorpasso sul Pdl in Veneto. Per il Pd, in parallelo, non solo rimane cruciale l’intesa con Di Pietro. Si ripropone anche il rompicapo di un collegamento con l’estrema sinistra. Per tutti, rimane l’incognita del ruolo dell’Udc centrista di Pier Ferdinando Casini, per ora paga di avere aumentato i voti su una linea difficile. Eppure, i due schieramenti non sembrano sul punto di rompersi: al massimo, rifaranno i conti al proprio interno.

Massimo Franco
09 giugno 2009
da corriere.it


Titolo: MASSIMO FRANCO Un patto nero su bianco per ufficializzare il duopolio Pdl-Lega
Inserito da: Admin - Giugno 10, 2009, 03:51:10 pm
LA NOTA

Un patto nero su bianco per ufficializzare il duopolio Pdl-Carroccio


Affidare ad una nota di Palazzo Chigi i canoni dell’accordo fra Pdl e Lega è inusuale. Lo è ancora di più il dettaglio di un annuncio fatto a poche ore dalle elezioni europee ed amministrative, e da una cena fra Silvio Berlusconi e Umberto Bossi. Ma la logica delle parole pronunciate ieri è ferrea. Riflette fedelmente, quasi brutalmente i nuovi rapporti di forza sanciti nel centrodestra dall’esito del voto. Il governo ha tenuto, e la Lega vinto. E il premier ora ritiene «non opportuno» sostenere il referendum del 21 giugno, boicottato dalla Lega perché prefigura il bipartitismo. In cambio, Bossi appoggia i ballottaggi.

È un «do ut des» senza veli. E sembra ufficializzato e solennizzato perché tutti, nella maggioranza, aggiornino la strategia nata dal duopolio Pdl-Lega; e sappiano che va considerata la polizza di assicurazione per la stabilità. Si tratta di un contraccolpo probabilmente inevitabile dopo quanto è avvenuto il 6 ed il 7 giugno. Conferma l’impressione di un patto di potere ricontrattato sullo sfondo del successo leghista e del ridimensionamento del partito del presidente del Consiglio: almeno rispetto alle ambizioni dichiarate; e la conferma di un’alleanza a due.

È consolidata da tempo. Ma ora si rivela più obbligata di prima, visto il peso specifico che il Carroccio ha assunto. Con le percentuali di oggi, anche l’apertura di un dialogo con l’Udc non ha più il segno del passato. Berlusconi cerca l’alleanza con Pier Ferdinando Casini con intenti che Bossi condivide solo in parte. L’intesa con l’Udc dovrebbe garantire un allargamento del centrodestra alle Regionali del 2010; e un raccordo si potrebbe tentare fin dal 21 giugno.

Ma riassorbire quella che al Pdl appare l’anomalia centrista richiede tempo. I toni ruvidi di alcuni berlusconiani hanno provocato la reazione dura di una Udc capace finora di resistere al bipolarismo e di crescere. E comunque, nell’immediato il problema per il presidente del Consiglio è di far digerire un primato a mezzadria con la Lega ad una parte del Pdl. Il riferimento non è soltanto a governatori e sindaci preoccupati di diventare l’agnello sacrificale del patto Berlusconi-Bossi. La vera resistenza a prendere atto delle conseguenze del voto europeo riemerge nel presidente della Camera, Gianfranco Fini. Intanto, l’ex leader di An è un referendario convinto. Ed ha annunciato che andrà alle urne nonostante le indicazioni del premier e le minacce di Bossi. Ma soprattutto, Fini conta sui malumori creati nel Pdl dall’ipoteca leghista sull’agenda del governo: una tendenza destinata ad accentuarsi. La strategia che Bossi accarezza per marcare ulteriormente la diversità fra Nord e Sud può diventare un terreno di scontro naturale con un berlusconismo radicato elettoralmente anche lì. Su questo sfondo, il contrasto sul referendum sarà soltanto il primo di molti che Berlusconi dovrà cercare di mediare e sedare.


Massimo Franco
10 giugno 2009

da corriere.it


Titolo: Re: MASSIMO FRANCO
Inserito da: Admin - Giugno 23, 2009, 10:15:03 am
Le radici del Pdl e il peso di Bossi


Il fatto che la Lega gridi alla vittoria per il fallimento storico del referendum elettorale può apparire esagerato: è difficile attribuire al partito di Umberto Bossi il merito o la colpa principali del mancato raggiungimento del quorum. Ma la soddisfazione del Carroccio va analizzata con un occhio ai rapporti di forza nel centrodestra. Il risultato fa lievitare il ruolo leghista nel governo. Accentua un potere già cresciuto con le europee del 6 e 7 giugno. Consegna ai lumbard un ruolo decisivo come alleati del Pdl in vista delle regionali del 2010 e oltre.

Lo scandalismo che aleggia intorno a Silvio Berlusconi e che può scheggiarne l’immagine, presenta Bossi come un baluardo a difesa di Palazzo Chigi. E rende verosimile la tesi secondo la quale i consensi leghisti oggi non solo si contano, ma si pesano. Presentare il non voto come un successo del Carroccio risponde in parte alla realtà; in parte serve a puntellare la «verità politica» di una forza capace di interpretare gli umori del Paese: capacità che gli altri, alleati compresi, avrebbero in misura minore.

Non a caso la Lega ricorda che Bossi è stato il primo avversario della consultazione; e demolisce la teoria di un referendario come il presidente della Camera, Gianfranco Fini, che vede nell’astensione da record solo un gesto di sfiducia nella politica. Piuttosto, sembra un segnale contro l’abuso di uno strumento di democrazia diretta in affanno da tempo: forse anche perché la classe politica è meno delegittimata del 1995, quando l’ultimo referendum raggiunse il quorum.

Il vertice dei lumbard l’ha capito. E con determinazione ora chiede che il governo si riunisca per definire il programma dei prossimi 12 mesi. Bossi sa che il suo potere contrattuale nei confronti di Berlusconi si è gonfiato; e che può usarlo per consolidare un profilo centrale, da vero perno, sia per la continuazione dell’alleanza, sia per sviluppi oggi imprevedibili. La conferma è offerta dal modo curioso in cui saluta il risultato delle provinciali aMilano. Per il ministro leghista, si tratta di una sfida che nessuno ha perso; e insieme di una vittoria condivisa con il premier. Il successo di misura compensa risultati che nei ballottaggi sono stati meno clamorosi del previsto. Il centrosinistra mantiene i suoi baluardi tradizionali; ma il Pdl conquista posizioni radicandosi nel territorio. E la scelta dell’Udc di Pier Ferdinando Casini, alleato ora col Pdl ora col Pd, è stata premiata dagli elettori, nonostante attacchi feroci. Merito di coerenza o di abilità manovriera, l’Udc dimostra una capacità di sopravvivenza, nella morsa del bipolarismo, sulla quale pochi scommettevano.

Massimo Franco
23 giugno 2009

da corriere.it


Titolo: MASSIMO FRANCO Alleanze rimescolate ma con il rischio del regolamento di conti
Inserito da: Admin - Giugno 25, 2009, 11:12:11 am
LA NOTA

Alleanze rimescolate ma con il rischio del regolamento di conti


Il rischio palpabile è quello di osservare i candidati alla segreteria del Pd come controfigure dei leader fuori gioco: parafulmini dei loro odii reciproci ed irriducibili. Il modo in cui Dario Franceschini ha deciso di rifarsi avanti è stato visto dagli avversari come un gesto «veltroniano». Si sono insospettiti per la sua volontà dichiarata di non «riconsegnare il partito a quelli che c’erano prima di me, molto prima di me». Allusione non a Walter Veltroni, dimessosi pochi mesi fa, ma probabilmente a Massimo D’Alema. E la reazione stizzita dei sostenitori di Pierluigi Bersani ha evocato proprio l’irritazione dell’ex ministro degli Esteri di Romano Prodi.

In realtà, nonostante la riunione dei suoi convocata il 2 luglio a Roma, Veltroni sembra meno coinvolto di D’Alema nei giochi congressuali. E la sfida sia di Franceschini, ufficializzata ieri, sia di Bersani è sostenuta da schieramenti interni che non riflettono la divisione fra ex ds ed ex Margherita; né le alleanze e le cordate del passato. È una novità da registrare come un fatto positivo. Dimostra che in teoria dovrebbero essere più difficili accordi cementati dall’ambiguità; e condannati a saltare non appena le cose vanno male, o il segretario di turno prova a liberarsi dall’ipoteca dei capicorrente. La parabola veltroniana è rivelatrice.

Le stesse primarie, si ammette adesso, sono state plasmate e pilotate seguendo uno schema unanimistico e reticente: tanto che non appena il leader si è appellato a quei consensi per puntellarsi internamente, è stato travolto. Si trattava infatti di una mobilitazione in buona misura guidata dall’alto. Sarà interessante vedere se quel meccanismo reggerà o verrà archiviato. Franceschini ha il vantaggio di riemergere da un risultato elettorale europeo molto negativo, ma paradossalmente meno disastroso delle attese: anche se si ricandida dopo avere detto di essere a tempo.

Ma il suo problema è un altro. L’idea di un Pd teso a non ricontrattare i cartelli elettorali che hanno portato alla vittoria dimezzata del 2006 e poi alla caduta di Prodi nel 2008 e alla sconfitta, lacera il partito. E infatti Bersani sembra puntare alla riedizione di un centrosinistra che guarda in parallelo alle frange comuniste e all’Udc di Pier Ferdinando Casini. L’alleanza somiglia ad un aggiornamento dell’Unione, sperimentata con qualche successo alle ultime Amministrative; ed appoggiata a distanza dallo stesso Prodi. Ma una disponibilità di Casini a schierarsi col Pd è tutta da vedere: tanto più in una fase di evoluzione dei rapporti nel centrodestra.

Rimane poi un limite comune ai due candidati alla segreteria. Non riguarda tanto le persone, quanto le filiere che le sostengono. Sia dietro Franceschini, sia dietro Bersani si intravedono profili contraddittori. La sensazione è che dal punto di vista del programma e della concezione del partito, qualcuno si sarebbe indovinato sul fronte opposto rispetto a quello in cui è. Può darsi sia la conferma di un rimescolamento virtuoso, o di un mutamento di opinioni. Tuttavia, non si può scansare il dubbio di un congresso ridotto a regolamento di conti. Sarebbe un’occasione perduta, per il Pd; ed un messaggio di tregua involontaria, per il governo.

Massimo Franco
25 giugno 2009
da corriere.it


Titolo: MASSIMO FRANCO E Barack dissolve il fantasma dell’assedio
Inserito da: Admin - Luglio 09, 2009, 12:15:23 pm
LA NOTA


E Barack dissolve il fantasma dell’assedio

Il colloquio sembrava destinato ad avere un’importanza laterale sul palcoscenico del G8. Invece, la visita di cortesia di Obama a Napolitano è diventata uno snodo decisivo del vertice. Il riconoscimento non rituale, perfino caloroso verso il capo dello Stato da parte del presidente statunitense si è proiettato sullo stesso governo. E le parole di amicizia e di stima reciproca hanno permesso a Silvio Berlusconi di ricevere i suoi ospiti preceduto dai complimenti di Obama sulla forte leadership italiana: un aiuto prezioso per ridimensionare le polemiche della stampa britannica e americana, soprattutto; e per esorcizzare i fantasmi di un accerchiamento internazionale.

E pensare che l’incontro non era neppure dovuto. In teoria, i tempi stretti e gli spostamenti all’Aquila avrebbero consentito di saltare il faccia a faccia senza imbarazzi reciproci. Ma averlo voluto sembra essersi rivelato una scelta felice per entrambi. I due presidenti sono riemersi dai quarantacinque minuti insieme con dichiarazioni stringate ma assai poco formali. E la sottolineatura della «straordinaria reputazione» di cui, ha detto Obama, il capo dello Stato gode presso il popolo italiano è stata rafforzata da espressioni più lusinghiere. Napolitano è «un grande leader e rappresenta al meglio il vostro Paese»; e non solo per il suo profilo politico ma per la sua «integrità e finezza».

In una fase in cui gli alleati si mostrano avari di riconoscimenti all’Italia, le parole sono apparse ancora più sentite. E il richiamo all’integrità del capo dello Stato ha provocato un’eco particolare. Ma l’attestato al governo Berlusconi per il modo in cui ha preparato il G8 all’Aquila, è servito a dissolvere l’imbarazzo creatosi nelle ultime ore: un nervosismo alimentato dalle voci di una Casa Bianca spazientita per una presunta confusione nell’organizzazione dei lavori; e pronta a prenderne le redini. Per paradosso, le critiche liquidatorie arrivate da oltre Atlantico hanno finito per rendere vistoso e quasi obbligato lo smarcamento di Obama. È possibile che nei suoi giudizi, ribaditi all’Aquila da altri capi di Stato e di governo, abbiano pesato anche i doveri diplomatici nei confronti del Paese ospitante; e la gratitudine per gli impegni che Berlusconi ha assunto nella sua visita recente a Washington sull’Afghanistan e sul trasferimento in Italia di alcuni detenuti per terrorismo nel carcere Usa di Guantanamo, a Cuba.

L’effetto delle dichiarazioni congiunte al Quirinale ha permesso comunque a palazzo Chigi di rintuzzare le accuse piovute sul governo; e di puntare il dito contro quelli che sono stati definiti «guastatori mediatici». È il segno di un sollievo, dopo una vigilia vissuta in modo a dir poco teso. Ma l’insistenza nella polemica con alcuni quotidiani dice anche che il capitolo non è chiuso.

La giornata di ieri è stata utile per riequilibrare un’immagine dell’Italia sbilanciata in modo negativo ed esagerato; e le prime intese sull’economia e il clima mettono fra parentesi l’impressione diffusa di un G8 prigioniero di limiti di rappresentatività. Le incognite, tuttavia, rimangono; e così i rischi che le vicende private del premier italiano si riaffaccino, a prescindere dall’andamento dei lavori all’Aquila. È una prospettiva che palazzo Chigi e il Quirinale vogliono contrastare: Berlusconi come capo di un governo che rivendica i progressi fatti dopo il terremoto; e Napolitano offrendo il proprio ruolo di garante, e se necessario quasi di «supplente»

Massimo Franco
09 luglio 2009

da corriere.it


Titolo: MASSIMO FRANCO Il premier parte all’attacco anticipando l’offensiva di Pd e Idv
Inserito da: Admin - Luglio 11, 2009, 04:08:48 pm
LA NOTA

Ritornano gli insulti fra gli schieramenti

La tregua in pericolo

Il premier parte all’attacco anticipando l’offensiva di Pd e Idv


E’riemerso più che indenne da un G8 che poteva destabilizzarlo. Per paradosso, lo conferma l’appello di Antonio Di Pietro alla stampa estera perché tenga i riflettori accesi su Silvio Berlusconi: come se sapesse che l’odiato avversario è riuscito a sottrarsi al tracollo. Sul piano internazionale, il più esposto, il presidente del Consiglio ha in qualche modo riequilibrato la propria immagine appannata dalle frequentazioni femminili.

Ieri ha negato di avere goduto di una tregua: quella chiesta a stampa e opposizione, e di fatto ottenuta dal capo dello Stato, Giorgio Napolitano: una reazione di orgoglio e di autosufficienza forse eccessiva, da parte del Cavaliere. Berlusconi probabilmente è consapevole della copertura preziosa che gli ha offerto il Quirinale, nell’interesse del Paese.

Ma si sente, e sa di essere meno debole, dopo il summit dell’Aquila; legittimato dal successo dell’organizzazione, dai risultati conseguiti e dai rapporti instaurati con alcuni dei leader, a cominciare da Barack Obama. E’ arrivato a dichiarare con una certa disinvoltura in conferenza stampa di avere discusso col presidente degli Stati uniti anche delle rispettive vite private.

Eppure, Berlusconi sembra aspettarsi una ripresa dell’offensiva che tende e può logorarlo; e si prepara a combatterla, protetto dalla corazza dei riconoscimenti all’Italia e al governo, arrivati nelle ultime quarantotto ore. Il centrosinistra ha già avvertito che da oggi dirà chiaramente che cosa pensa del premier e del G8 appena finito. Ma Berlusconi sta già anticipando l’offensiva. Gioca d’attacco mettendo nello stesso mazzo stampa estera e nemici interni. Senza concedere nulla.

Sostiene che gli avversari non sono interlocutori; che il loro modo di criticarlo in alcuni casi va ben oltre. A sentire il premier, le polemiche potranno finire solo «se cambierà l’opposizione». E’ la conferma che sta per ricominciare una fase di tensione e di veleni: accentuata dalla competizione congressuale nel Pd e dalla concorrenza che gli fa Di Pietro. La pagina acquistata sull’International Herald Tribune per gridare alla dittatura incipiente è un assaggio di quello che sta arrivando.

Il tentativo è quello di tenere aperto un fronte internazionale. Franceschini teme un premier di nuovo in guerra con i giornali, oltre che con il centrosinistra; e destinato ad entrare in rotta di collisione anche con una parte delle istituzioni, e non solo italiane. E’ vistosa la distanza fra la lettura encomiastica che il Pdl ma anche la Lega fanno del G8 e del ruolo berlusconiano; e le polemiche dell’Idv contro un premier «venditore di fumo». La tregua non è solo finita, ma quasi dimenticata. E rispunta l’incognita non solo di nuove tensioni, ma di altre ondate di fango.

Massimo Franco
11 luglio 2009

da corriere.it


Titolo: MASSIMO FRANCO (legittimo sostenere il governo ma non travisare la realtà ndr)
Inserito da: Admin - Luglio 13, 2009, 09:24:47 am
I DESTINATARI DEL MESSAGGIO DEL COLLE

La pedagogia della normalità


Proiettare «lo spirito dell'Aquila» sul Paese significa tentare di cancellare l'eccezionalità della tregua interna siglata tacitamente per il G8. Quei pochi giorni di astensione dalla dose di veleni reciproci hanno prodotto un successo che Giorgio Napolitano chiede di non considerare una parentesi. E non perché il principale regista sia stato lui, ma perché in quel limbo sono stati sconfitti molti fantasmi. E alla fine ha vinto l'Italia: su se stessa, in primo luogo. E' questa prevalenza, seppure congiunturale, dell'interesse comune che ieri sulle colonne del Corriere ha fatto chiedere al presidente della Repubblica un approccio più civile. Non una pace fra gli schieramenti, che sarebbe impossibile ed apparirebbe sospetta. Il Quirinale pensa a qualcosa di meno, perché sa che rappresenterebbe comunque un di più rispetto al passato: la trasformazione della tregua da sacrificio «una tantum» in opportunità. Quella che Napolitano addita è una sorta di pedagogia della normalità come esercizio e sforzo quotidiani. Si tratta di una proposta insidiosa, per chi ha sognato la spallata contro il governo, magari sulle macerie del summit abruzzese.

E soprattutto per quanti, nell'opposizione, ritengono che il crollo di Silvio Berlusconi sia una prospettiva non solo da auspicare ma da provocare con ogni mezzo: anche dopo essersi dovuti rendere conto che l'Italia rimane nel G8, ed è uscita puntellata nel suo sistema di alleanze; e nonostante il pericolo di un vuoto di potere in caso di crisi.
Il «no» arrivato da Antonio Di Pietro e dall'estrema sinistra con una puntualità fin troppo prevedibile, conferma la fretta di bloccare l'operazione sul nascere; di impedire che avanzi e faccia proseliti nel centrosinistra, primo destinatario di un'offerta a ben guardare non di resa ma di salvezza. Respingere una pacificazione mentale, prima che politica, mira a condizionare i giochi congressuali di un Pd che plaude a Napolitano ma è guardingo; ed a far capire che chiunque dirà sì al capo dello Stato si ritroverà nel mirino di Di Pietro. Su questo sfondo, diventa chiaro l'obiettivo di chi vuole archiviare rapidamente lo «spirito dell'Aquila». Formalmente, rimane Berlusconi. In realtà è Napolitano.

È lui, infatti, il promotore di una strategia che toglierebbe capacità di attrazione a chi sembra perseguire una politica che porta allo sfascio; e con il suo radicalismo legittima le reazioni più sbrigative del centrodestra, eludendo gli appelli autorevoli a tradurre il consenso in riforme. Per questo, nel «no» di Di Pietro si intravede l'altolà al Pd; ma anche un ammiccamento a chi nel governo preferisce il muro contro muro, ed un centrosinistra confinato in un recinto estremista e minoritario. Ma sono atteggiamenti simmetrici nella loro miopia, che Napolitano invita implicitamente a sconfiggere: soprattutto perché perpetuano conflitti ed incognite artificiosi quanto frustranti per il Paese.

di Massimo Franco
13 luglio 2009

da corriere.it


Titolo: MASSIMO FRANCO Un sintomo dell’ostilità a Di Pietro e delle perplessità sulle...
Inserito da: Admin - Luglio 14, 2009, 11:31:24 pm
LA NOTA

Una provocazione che smaschera disagi e tensioni

Un sintomo dell’ostilità a Di Pietro e delle perplessità sulle primarie


L’aspetto provocatorio, ed anche quello grottesco, sono fuori discussione. Rappresentano anche il lato più vistoso della candidatura del comico- predicatore Beppe Grillo alla segreteria del Pd. Eppure, per paradosso, l’episodio finisce per legittimare il partito guidato oggi da Dario Franceschini come lo snodo strategico di qualunque opposizione. Grillo, sostenitore e sodale di Antonio Di Pietro, che lo ha subito appoggiato, non si è neppure sognato di correre per la leadership dell’Idv. Il suo tentativo è quello di creare nel Pd una sponda dipietrista che soddisfi l’antiberlusconismo «di pancia» della sinistra; e diffonda il contagio di un’opposizione tanto radicale quanto, finora, minoritaria.

Nonostante le critiche, alcune giustificate, ad un partito disorientato e diviso, sarà la nuova leadership del Pd a dettare l’agenda del centrosinistra e le sue alleanze.

Per questo, dietro l’autocandidatura provocatoria di Grillo si intravedono questa oscura consapevolezza, ed i timori di un’archiviazione progressiva dell’alleanza con l’Idv. L’imbarazzo ed il nervosismo dei vertici democratici sono speculari. Evidenziano la contraddizione di primarie gestite finora in base ad accordi oligarchici; fatte su misura prima per lanciare la candidatura a palazzo Chigi di Romano Prodi, poi di Walter Veltroni. E infatti, lo schema va in crisi quando si tratta di eleggere «solo» un segretario.

È probabile che alla fine l’adesione di Grillo al Pd venga respinta in base ad obiezioni tecniche, usate per puntellare resistenze politiche. Si insinua il sospetto che il comico sia un «ca vallo di Troia» dell’alleato-coltello Di Pietro. Di nuovo, si tratta di fantasmi che fanno paura non in sé, ma per le condizioni di debolezza del Pd, per le sue incertezze strategiche. Il problema non è dunque l’atteggiamento storicamente ostile di un giullare incattivito contro la forza che vorrebbe guidare. A far saltare i nervi al Pd è un’iniziativa che scopre la difficoltà di pilotare elezioni primarie in passato sempre addomesticate, nel momento in cui evocano uno scontro interno vero.

La sensazione è che il «no» nasca dalla consapevolezza di una situazione senza rete; e segnali la paura di incursioni ed inquinamenti dall’esterno. Si tratta di un incubo di cui Grillo è soltanto la caricatura. Non a caso Filippo Penati, coordinatore della candidatura di Pier Luigi Bersani, spiega quanto sta accadendo come il risultato di «regole contraddittorie e confuse»: sebbene non arrivi ad ammettere che finora le primarie sono state pilotate dall’alto per benedire col voto del «popolo del Pd» i pretendenti del centrosinistra a palazzo Chigi. Ma l’obiezione di Penati fa capire che il congresso rimetterà in discussione anche la procedura di investitura del leader.

Per questo il «no» risulta tutt’altro che unanime. Rivela non diversi gradi di idiosincrasia verso un personaggio detestato da gran parte del corpo del Pd. Semmai, segnala ed anticipa una concezione diversa del partito. E misura la determinazione a respingere il richiamo del dipietrismo: anche se nel 2008, ed anche alle ultime Amministrative, l’Idv è stato l’unico alleato ufficiale del Pd. Dire «no» a Grillo e continuare a dire «sì» a Di Pietro sarà un equilibrismo difficile: significherà tirarsi addosso le critiche di entrambi. A meno che non maturi un’altra strategia, in grado di ridimensionare e riassorbire fenomeni che sono solo sintomi chiassosi ed estremi del malessere del Pd.

Massimo Franco
14 luglio 2009

da corriere.it


Titolo: MASSIMO FRANCO Le ragioni del Colle
Inserito da: Admin - Luglio 16, 2009, 11:44:05 am
Le ragioni del Colle


La promulgazione delle norme sulla sicurezza era abbastanza scontata; un po’ meno la lunga lettera spedita dal Quirinale al governo e ai presidenti delle Camere con una serie di obiezioni di fondo. Le «perplessità e preoccupazioni» espresse da Giorgio Napolitano danno voce alle critiche dell’opposizione, e non solo. Ma il capo dello Stato non vuole bloccare un disegno di legge che prevede anche un indurimento del carcere per i mafiosi; e contrasta le loro infiltrazioni nelle gare d’appalto.

L’obiettivo è piuttosto quello di mediare fra la volontà «ampiamente condivisa» della maggioranza parlamentare; e l’esigenza di impedire distorsioni e pasticci in nome della legge. D’altronde, per settimane si è discusso con asprezza sull’opportunità di definire l’immigrazione clandestina come reato; e sull’istituzione di «ronde» chiamate di fatto ad un compito di supplenza rispetto alle forze dell’ordine: provvedimenti invocati da gran parte dell’opinione pubblica, e voluti fortemente dalla Lega per il loro significato anche simbolico. Ma il modo sbrigativo con il quale sono stati perseguiti ha impedito di valutare fino in fondo gli effetti paradossali che possono avere.

Il risultato sono «norme fra loro eterogenee» e «di dubbia coerenza»: un modo garbato ma netto per far capire che, una volta applicate, potrebbero provocare una gran confusione. L’analisi puntigliosa di Napolitano non riguarda tanto i profili costituzionali, ma gli effetti pratici della legge. Il presidente della Repubblica vede in alcune disposizioni un arretramento nel contrasto all’immigrazione clandestina: contraddizioni che potrebbero peggiorare il problema, invece di risolverlo. Sono indicativi il sollievo ed il rispetto con i quali il governo ha accolto il sì del Quirinale ed accettato i suoi rilievi. Palazzo Chigi fa sapere di essere soddisfatto della promulgazione; e che terrà conto delle «notazioni e dei suggerimenti» del capo dello Stato.

Si indovina la disponibilità a correggere una legge che Napolitano considera difficile anche solo da interpretare. Nelle stesse file del Pdl gli uomini vicini al presidente della Camera, Gianfranco Fini, annunciano di condividere da tempo le obiezioni del Colle. Fra l’altro, su questo continua il braccio di ferro fra alcune istituzioni europee e delle Nazioni unite, ed il governo italiano. E, seppure in modo tormentato, la Chiesa cattolica ha tentato di smarcarsi dalla legislazione sugli immigrati clandestini e le «ronde». La lettera rappresenta un richiamo esplicito e duro a riflettere sui suoi «effetti imprevedibili». Solo Antonio Di Pietro la considera una dimostrazione di «titubanza». Il leader dell’Idv sostiene che Napolitano non avrebbe dovuto firmare la legge, dal momento che la critica: quasi non capisse che i rilievi possono essere radicali proprio perché preceduti da un «sì».

Di Pietro vuole «il tanto peggio tanto meglio», lo bacchetta il Pd per attacchi ritenuti stucchevoli nella loro ripetitività. Si ostina a trasmettere l’immagine di un capo dello Stato subalterno al governo anche quando, come in questo caso, gli rivolge rilievi severi: al punto da far dire a qualcuno del Pdl che ha esagerato. Il ministro della Giustizia, Angelo Alfano, però, non esclude modifiche: benché tutti sappiano che le decisioni della maggioranza dipenderanno soprattutto dalla volontà della Lega.

Massimo Franco
16 luglio 2009
da corriere.it


Titolo: MASSIMO FRANCO Il premier torni a fare il premier (che caldo invito...).
Inserito da: Admin - Luglio 24, 2009, 11:19:16 pm
Il premier torni a fare il premier

I rumori di fondo ri­mangono. Ma appaio­no un po’ indeboliti dall’assuefazione alla vita privata assai poco san­ta del presidente del Consi­glio; e soprattutto bilancia­ti e sovrastati da problemi politici ed economici me­no vistosi e più seri per il futuro del governo. Per Sil­vio Berlusconi le tensioni possono venire da lì. Si comprende la sua tesi se­condo la quale il resto gli scivola addosso come ac­qua. La crisi, però, promet­te di rimanergli attaccata e di logorarlo, se non la af­fronta con dedizione anco­ra maggiore.

Finora, il premier ha da­to l’impressione di occu­parsene con uno sguardo distratto dall’esigenza di difendersi sul piano perso­nale e a livello internazio­nale. Ma può diventare un’ubiquità impossibile. L’opinione pubblica si aspetta una concentrazio­ne sulle emergenze vere e un impegno costante, pa­ziente, fattivo: una presen­za anche fisica del pre­mier che privilegi simboli­camente più palazzo Chigi e meno palazzo Grazioli, a Roma; e più L’Aquila e le zone terremotate e meno le ville da sogno e da gos­sip in Sardegna. È probabi­le che Berlusconi ritenga di fare già il massimo.

Il richiamo reiterato a quelli che chiama i «mira­coli » del governo riflette un’autopercezione quasi religiosa della propria lea­dership .

Il controllo sulla maggioranza, tuttavia, è intermittente. Un centro­destra tagliato su misura per lui, tende a smagliarsi e ad entrare in sofferenza appena Berlusconi ha la te­sta altrove o comunque non è presente. Le frizioni fra governo e presidenza della Camera sui decreti d’urgenza e sulla fiducia, il conflitto fra palazzo Chi­gi e spinte localiste, e il nervosismo fra ministri sono indizi di una pulsio­ne centrifuga.

Si tratta di fenomeni cir­coscritti quando prevalgo­no le capacità berlusconia­ne di amalgamare interes­si contrastanti; sull’orlo dello strappo politico, in­vece, se vengono lasciati lievitare senza mediazio­ne. Il risultato è un senso di precarietà attribuibile per intero alla maggioran­za; e giustificato ma non compensato dalla debolez­za che l’opposizione dimo­stra in questa fase. L’assen­za di alternative provoca una sicurezza a doppio ta­glio. Accentua l’illusione di poter procedere senza veri pericoli di caduta. E trascura il rischio del logo­ramento, perfino più insi­dioso.

Forse, archiviare con nettezza una stagione e iniziarne un’altra con me­no miracoli e distrazioni, e maggiore assiduità nel lavoro governativo, non sarebbe male. Può darsi non basti a invertire una parabola discendente che gli avversari sembrano da­re per inevitabile, e alcuni alleati di Berlusconi intra­vedono e temono. Servi­rebbe però a rassicurare il Paese sulla volontà di fare il possibile per aggredire la crisi economica e argi­narne i probabili contrac­colpi autunnali: magari co­minciando proprio con un «piccolo summit» del governo in Abruzzo, luo­go- simbolo delle promes­se da mantenere e da non deludere.


Massimo Franco
24 luglio 2009
da corriere.it


Titolo: MASSIMO FRANCO Il Pdl e l'inizio della deriva localista
Inserito da: Admin - Luglio 29, 2009, 05:11:52 pm
IL COMMENTO

Il Pdl e l'inizio della deriva localista

Convergenza oggettiva fra le pulsioni localiste di pezzi di Nord e di Sud per regolare i conti con Roma



Probabilmente non siamo alla vigilia della crisi del centrodestra. Ma certo sta entrando in tensione «un» centrodestra: quello che riusciva a tenere insieme tutto. In apparenza sembra la metafora della coperta troppo corta, o di un’Italia troppo lunga per accontentare ogni sua porzione. Ma gli interessi sono sempre stati contrastanti.

La vera novità è che il governo di Silvio Berlusconi non si mostra più in grado di conciliarli come ha fatto in passato. L’ipoteca della Lega nord sulla maggioranza sta assumendo un peso schiacciante. L’ipotesi di un ritiro italiano dall’Afghanistan, la polemica contro il Pd, gli esami di dialetto per gli insegnanti sono pezzi della stessa strategia. Anzi, suonano come anticipi della campagna elettorale per le regionali del 2010. Si tratta di un braccio di ferro a tavolino con gli alleati del Pdl, prima che col centrosinistra. Ed ha come trofeo le presidenze di Veneto, o Lombardia, o di entrambe.

Il partito di Umberto Bossi osserva con freddezza le difficoltà berlusconiane; e ne trae le conseguenze. La sua spregiudicatezza è simmetrica a quella dei teorici del «partito del Sud», che hanno costretto palazzo Chigi a scendere a patti; e additato polemicamente l’«asse del Nord» fra Lega e ministro dell’Economia, Giulio Tremonti. Il risultato, per il momento, sono la paralisi decisionale ed un’immagine deprimente della maggioranza.

In parte, probabilmente, è una spia della crisi di leadership di Berlusconi, della quale le vicende private sono il sintomo più che la causa. È bastato che il premier garantisse soldi alla Sicilia, perché il Carroccio riaprisse quasi di rimbalzo una serie di fronti conflittuali «padani»; ed il premier non ha saputo fare argine. Ma in questa difficoltà personale si intravedono implicazioni più di fondo: un cambio di fase, e la conferma che la vera insidia per la maggioranza viene dalla crisi economica. Nel momento in cui gli spazi di mediazione ed i finanziamenti si inaridiscono, rischia di scheggiarsi il blocco sociale che ha rispedito Berlusconi a palazzo Chigi nel 2008. È come se di colpo fosse saltato l’armistizio nazionale stipulato appena un anno fa tra leghismo nordista ed autonomismo siciliano all’ombra del Cavaliere. Al suo posto rimangono le rivendicazioni corporative e territoriali; e di riflesso una difficoltà crescente a legiferare. Si indovina una sorta di «si salvi chi può» che in realtà promette solo di mandare un po’ più a fondo il Paese, e soprattutto le sue aree più deboli. E in questo scenario inquietante, la Lega è decisa a far valere il suo potere contrattuale. Non vuole perdere il controllo dell’agenda governativa. Ed è intenzionata a monetizzare politicamente un ruolo crescente, consacrato dal voto europeo di giugno.

Le conseguenze sono paradossali e assai poco incoraggianti. Un’Italia che ritiene, magari con qualche ragione, di potere affrontare la crisi meglio di altri Paesi, mostra il volto della precarietà: nonostante i numeri parlamentari mettano in teoria la coalizione al riparo da qualunque pericolo. Ma, paradosso nel paradosso, un modello di centrodestra entra in crisi anche perché non ha avversari in grado di proporsi come alternativa: non per ora, almeno. Così, riemergono gli istinti di una Lega «di lotta e di governo», come è stato detto; e simmetricamente di una Sicilia conquistata e dominata dal Pdl, ma pronta ad andare all’opposizione di palazzo Chigi per avere più soldi. C’è da chiedersi chi possa fermare questo inizio di deriva, e come. Per ora, l’impressione è che prevalgano quelli che la vogliono non bloccare ma sfruttare per i propri calcoli di potere. Si indovina una convergenza oggettiva fra le pulsioni localiste, quasi isolazioniste di pezzi di nord e di sud per regolare i conti con «Roma»; per svuotarne stavolta dall’interno la legittimità di luogo del governo e dell’unità nazionale, per quanto contestati. Si tratta di una manovra in incubazione, della quale è bene essere consapevoli

Massimo Franco
29 luglio 2009

da corriere.it


Titolo: MASSIMO FRANCO Fini e la scelta di un percorso ai margini del Pdl
Inserito da: Admin - Agosto 28, 2009, 11:19:31 am
L'ANALISI

Fini e la scelta di un percorso ai margini del Pdl

Le reazioni del centrodestra alle parole di Fini materializzano la terra bruciata



La schiettezza e l’eterodossia di Gianfranco Fini lo stanno facendo diventare un’icona davvero trasversale. Gli applausi del centrosinistra al presidente della Camera, durante la festa del Pd a Genova dell’altro ieri, erano sinceri. E le sue critiche alle rudezze xenofobe e antivaticane di alcuni esponenti della Lega, in teoria potevano ricevere il consenso di gran parte del Pdl. Ma l’ex leader di An sta assumendo un ruolo da battitore così libero da sorprendere tutti e da correre il rischio dell’isolamento.

In bilico fra ruolo istituzionale e convinzioni politiche, Fini sembra disposto ad accettare anche l’eventualità di un progressivo distacco dalla maggioranza che lo ha eletto ai vertici di Montecitorio.

Probabilmente, se le sue durezze si fossero limitate al partito di Umberto Bossi, Fini avrebbe riscosso applausi da gran parte del Pdl. Ma il di più polemico riservato ad una subalternità del governo alla Lega sull’immigrazione, e l’ennesima stoccata al Vaticano hanno dilatato la sensazione di un percorso coraggiosamente solitario. E, almeno agli occhi degli alleati, rischiano di inchiodarlo al cliché del bastian contrario: il potenziale destabilizzatore di una coalizione forte ma anche nervosa, in questa fase. Si tratta di un profilo che finisce per depotenziare l’impatto delle sue critiche. Il modo in cui il centrodestra ha accolto l’ultima esternazione materializza la terra bruciata.

Le parole sarcastiche con le quali ieri i vertici parlamentari del Pdl al Senato hanno respinto la «lezione di laicità» di Fini sono un indizio; e non il solo. La Chiesa si sta affidando ad un gelo che rivela una punta di delusione verso un leader osservato a lungo come interlocutore e referente. E l’incontro fra Silvio Berlusconi ed il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, ieri si è concluso con una nota che ribadisce in modo perfino sospetto la solidità dei rapporti con la Lega. Di fatto, rappresenta la smentita di palazzo Chigi alle tesi finiane e tende a sottolinearne la solitudine.

D’altronde, è un braccio di ferro in atto da mesi, e che riflette una percezione diversa della coalizione.

L’idea del presidente della Camera di un centrodestra «plurale» racchiude quella, rivelatasi finora infondata, di un premier avviato ad un rapido logoramento; e dunque incapace di rappresentare tutta la maggioranza. Può darsi che fra qualche anno l’approccio di Fini si riveli quasi profetico. Per il momento, però, può dare l’impressione, vera o sbagliata che sia, di una figura istituzionale a metà strada fra rigore e impazienza. E, se pure è difficile ignorare alcune sue considerazioni sulla politica governativa verso gli immigrati, l’accoglienza entusiastica che riceve nel Pd lo sovraespone; ed aumenta i sospetti della coalizione.

Le conseguenze sono paradossali. Un Fini trasversale e pronto a rivendicare il proprio ruolo non fazioso, rispettoso delle ragioni del Parlamento e degli avversari, viene percepito come uomo di parte sui temi etici; e come avversario se non del governo, dell’asse fra Pdl e Lega che riflette fedelmente i rapporti di forza interni. E si tira addosso gli strali non solo degli alleati, ma di un’Udc pronta ad imputargli una sintonia col Pd ed i radicali sul biotestamento: un’irritazione che dà voce alle preoccupazioni vaticane. Eppure, difficilmente Fini tornerà indietro. Per quanto scomoda e tale da ridurre il suo peso politico, la silhouette che si è scelto sembra piacergli. Non è chiaro dove lo porterà. Per ora, lo colloca ai confini, se non ai margini di un centrodestra col quale si identifica sempre più ad intermittenza.

Massimo Franco
28 agosto 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it


Titolo: MASSIMO FRANCO Il colpo a sorpresa di un dialogo difficile
Inserito da: Admin - Agosto 29, 2009, 10:33:55 pm
Il colpo a sorpresa di un dialogo difficile


Se esisteva un tentativo di ricucitura con il Vaticano, almeno per ora si è dovuto fermare. La cena in programma ieri sera all’Aquila fra Silvio Berlusconi ed il segretario di Stato, cardinale Tarcisio Bertone, è stata diplomaticamente annullata: dalla Santa Sede, non da Palazzo Chigi.

Il premier ha deciso di farsi rappresenta­re dal sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Gianni Letta. «Per evitare stru­mentalizzazioni », ha precisato il governo con una punta di imbarazzo. L’articolo del Giornale contro il direttore di Avvenire , Di­no Boffo, evoca un braccio di ferro violen­to; cercato strumentalmente e voluto, seb­bene possa trasformarsi in un boomerang per tutti. Nell’immediato, promette di complicare una strategia che puntava a calmare le ac­que dopo le critiche cattoliche alla vita priva­ta di Berlusconi. E indebolisce proprio il fronte che all’interno della Santa Sede cerca di ridimensionare le proteste contro il capo del governo: si tratti di questioni personali o di immigrazione. La decisione presa ieri mattina lo conferma.

Bertone, uno dei soste­nitori più tenaci della politica della mano te­sa, non ha potuto far altro che rinunciare ad un incontro che sembrava preludere alla tre­gua. Insomma, l’impressione è che Berlusco­ni sia al centro di un’operazione con riper­cussioni politiche non ancora prevedibili. La sua dissociazione dal Giornale «per una questione di principio» ha il sapore di uno smarcamento solo d’ufficio; e dunque non sembra destinata a colmare il fossato creatosi nelle ultime ore con i vescovi italia­ni e le gerarchie vaticane. La Cei ha diffuso una nota di totale solidarietà con Boffo, lo­dandone fra l’altro «la prudenza»: come di­re che, secondo l’episcopato, Avvenire non ha mai calcato i toni quando ha affrontato il tema del governo e di Berlusconi. D’altron­de, nelle scorse settimane era stato accusa­to da alcuni lettori proprio del contrario: di usare un’eccessiva cautela con il leader del centrodestra. Ma la vicenda minaccia di ave­re implicazioni più durature. Non c’è soltanto la solidarietà al giornale della Cei di esponenti della stessa Pdl, oltre che di alcuni settori del Pd e dell’Udc. L’epi­sodio finisce involontariamente per accen­tuare l’impressione di un Berlusconi nervo­so; e deciso a reagire agli attacchi con ogni mezzo, al punto da confondere gli avversa­ri. Ma se le incomprensioni con Vaticano e Cei dovessero continuare o addirittura ag­gravarsi, si incrinerebbe una sintonia costru­ita inizialmente fra mille difficoltà; e conso­lidatasi negli anni. Sarebbe un segnale che la rete delle alleanze berlusconiane comin­cia a smagliarsi dentro la maggioranza e nel­le sue ramificazioni esterne.

Le frizioni fra Lega e Vaticano sull’immi­grazione; gli attacchi di Gianfranco Fini al­la Santa Sede sulle questioni bioetiche; le traversie politiche e non del premier: sono altrettanti frammenti di un centrodestra agitato dalla competizione interna; e che su alcuni temi finisce per scontrarsi con la Chiesa cattolica, sotto gli occhi di un’oppo­sizione ridotta per ora al ruolo di spettatri­ce. È una situazione confusa ed in bilico, che vede una Santa Sede indecisa fra l’ab­braccio e la denuncia; e mostra più di una discrepanza fra l’approccio della Segreteria di Stato, più istituzionale e «governativa», e quello della Cei. L’impressione è che Berlusconi abbia messo nel conto anche questo; e che dun­que, nonostante tutto, i rapporti con il Vati­cano si manterranno su un piano di cordiali­tà e di collaborazione. Basta leggere le paro­le con le quali l’Osservatore Romano difen­de l’incontro, poi saltato, fra il premier e Ber­tone; e rifiuta le «polemiche contingenti». La presenza di Gianni Letta ieri sera all’Aqui­la rappresenta, in sé, un segnale distensivo. Ma il Cavaliere si illude, se pensa di rinsalda­re l’intesa imponendo un appoggio incondi­zionato e silenzioso. Perfino se volesse, l’epi­scopato non potrebbe farlo: perderebbe pez­zi del proprio mondo. E probabilmente li perderebbe lo stesso Berlusconi.

Massimo Franco
29 agosto 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it


Titolo: MASSIMO FRANCO Rapporti sospesi tra governo e Vaticano
Inserito da: Admin - Agosto 30, 2009, 10:32:19 pm
LA NOTA

Il Carroccio si inserisce nel gelo provocato dalla crisi con i vescovi

Rapporti sospesi tra governo e Vaticano

Incognite sul futuro del biotestamento


Si nota un filo di imbarazzo e di preoccupazione, in alcuni settori del centrodestra. Come se nella cerchia berlusconiana almeno qualcuno cominciasse a domandarsi quale sarà il saldo politico dello scontro con la Cei ed il Vaticano. E l’annuncio della visita di Umberto Bossi in Vaticano per «un chiarimento», lascia capire che nel centrodestra si è aperto un vuoto; e che la Lega prova a riempirlo. L’ipotesi che le cose si rimettano a posto da sole sembra remota: basta registrare il commento durissimo rilasciato ieri dal capo dei vescovi. Il direttore di Avvenire , Dino Boffo, ha detto il cardinale Angelo Bagnasco, è stato vittima di «un attacco disgustoso e molto grave». Eppure non sembrano in vista ripensamenti e correzioni di rotta neppure da parte berlusconiana. Le critiche del mondo cattolico ad alcuni comportamenti privati del premier sono state accolte malamente dal capo del governo; e gli hanno suggerito risposte irate quanto prive di lucidità. Dopo l’annullamento della cena di venerdì all’Aquila con il segretario di Stato vaticano, Tarcisio Bertone, i rapporti sono come sospesi. All’ombra di una vicenda destinata a lasciare un segno livido fra governo e Santa Sede, rimane comunque la consapevolezza di dover riprendere un filo. Il problema è da dove ripartire.

In questi mesi, Cei e Vaticano hanno corretto le tesi strumentali di una parte dell’opposizione, secondo le quali erano appiattiti su Berlusconi. Su immigrazione, sicurezza, questioni etiche, invece, ultimamente hanno espresso un punto di vista critico anche a costo di irritare il centrodestra: sebbene siano stati attenti a non confondersi con un’opposizione che, Udc a parte, sentono estranea. Ma i distinguo sono stati vissuti come uno smarcamento inaccettabile da un governo convinto di avere la Chiesa comunque alleata. I contrasti nel Pdl sul biotestamento in discussione alla Camera fanno intravedere quale potrebbe essere il primo contraccolpo della polemica: l’insabbiamento di una legge nella quale il Vaticano confida. Ma è difficile che l’episcopato scivoli verso l’opposizione: sa di dovere evitare l’abbraccio di un antiberlusconismo mai condiviso: anche perché teme un vuoto di potere che nessuno oggi sarebbe in grado di riempire. Così, per ora sia Berlusconi che la Chiesa appaiono soltanto più soli e distanti fra loro. E la Lega si offre, con generosità interessata, come sponda di un Vaticano col quale si è scontrata appena qualche giorno fa: d’intesa e insieme in concorrenza con un Cavaliere che mai come ora non può dare per scontati i buoni rapporti con i potenti di oltre Tevere.

Massimo Franco
30 agosto 2009
da corriere.it


Titolo: MASSIMO FRANCO Santa Sede e Cei serrano le fila e aprono alla Lega
Inserito da: Admin - Settembre 02, 2009, 04:02:32 pm
LA NOTA

Tentativi paralleli di scongiurare i rischi di incrinatura

Santa Sede e Cei serrano le fila e aprono alla Lega

E il premier rilancia il dialogo


La telefonata di Benedetto XVI al presidente della Cei, Angelo Bagnasco, cerca di archiviare qualun­que voce di tensioni fra Segreteria di Stato vatica­na e vescovi italiani. Silvio Berlusconi, invece, nega qualun­que «distanza» fra governo e Santa Sede accreditando un «dia­logo pressoché quotidiano, come sempre». I due atteggiamen­ti evocano le posizioni dalle quali potrebbe partire una ricuci­tura. Con una Chiesa preoccupata di blindare i propri vertici, esorcizzando qualunque divisione; e decisa a respingere le di­missioni offerte dal direttore di Avvenire , Dino Boffo, dopo gli attacchi del Giornale berlusco­niano.

Ma è come se ognuno occu­passe le proprie trincee cercan­do la tregua. La disponibilità va­ticana ad incontrare la Lega è un cauto segnale di disgelo. Il capo della sala stampa, padre Lombar­di, non esclude un colloquio con Bossi e Calderoli. E’ il segno del­la volontà di ridimensionare le polemiche sul Concordato e sul­l’immigrazione. Anche se la poli­tica del governo sui clandestini rimane un tema scivoloso: lo di­mostra l’altolà di Berlusconi alla Commissione Ue dopo le ri­chieste di chiarimento di alcuni portavoce.

La sensazione è che le diplomazie di Stato e Chiesa stiano cercando di riprendere in mano la situazione. Ma c’è la consa­pevolezza che possano filtrare nuovi veleni; e che, anche dopo avere ripreso il dialogo, rimangano i lividi di quella che la Cei considera un tentativo di intimidazione del governo per le cri­tiche di Avvenire alla vita privata del premier. Più che col Vati­cano, a rischio di incrinatura sono infatti i rapporti fra palazzo Chigi e Cei, fino a qualche tempo fa più che buoni: al punto che il direttore del quotidiano cattolico, Dino Boffo, veniva accusato da una parte dei lettori di indulgenza verso Berlusco­ni.

Il presidente del Consiglio sa di dover chiudere il fronte che si è aperto con quel mondo. È uno spezzone di elettorato mo­derato che preoccupa più degli attacchi della sinistra. Le vota­zioni sul biotestamento si profilano come la prima occasione di tregua almeno con i vertici episcopali. La libertà di coscien­za dei deputati del Pdl viene teorizzata anche per neutralizzare un eventuale orientamento antivaticano di Gianfranco Fini, presidente della Camera. Berlusconi vuole riaffermarsi come interlocutore principale, se non esclusivo, agli occhi delle ge­rarchie cattoliche: un altro tassello della sfida nel centrodestra con una Lega a caccia di legittimazione oltre Tevere.

Massimo Franco
02 settembre 2009
da corriere.it


Titolo: MASSIMO FRANCO L'aggressione e la ferita
Inserito da: Admin - Settembre 05, 2009, 05:05:52 pm
L'aggressione e la ferita


Non capita spesso che il direttore del giornale dei vescovi italiani si dimetta per un attacco del quotidiano di proprietà del fratello del premier. Eppure è quanto è avvenuto ieri, al termine di una settimana che si può definire eufemisticamente concitata e torbida. E sarà difficile, nonostante gli sforzi imbarazzati e francamente un po’ penosi di alcuni esponenti del centrodestra, cancellare l’impressione di un’intimidazione contro i vertici di Avvenire per le critiche alla vita privata di Silvio Berlusconi.

Il tentativo di dirottare la responsabilità sull’offensiva martellante degli avversari contro le vicende personali del presidente del Consiglio è comprensibile. Ma finisce per rendere ancora più evidente la gravità e la miopìa dell’aggressione a Dino Boffo e al suo giornale, di certo non catalogabili come esponenti di una stampa militarizzata; né tanto meno prevenuti verso Berlusconi e il suo governo. Al di là dei rilievi che si possono muovere al modo in cui il direttore di Avvenire si è difeso da accuse mescolate al fango delle lettere anonime, prevale la sensazione di un’operazione politicamente poco lucida, oltre che inquietante. Fra le righe amare della lettera di dimissioni si intravede un filo di sarcasmo verso un’aggressione «vittoriosa » che potrebbe rivelarsi un boomerang per palazzo Chigi.

Certo non oggi, né domani, perché ha ragione Berlusconi a dire che i rapporti con la Santa Sede rimangono eccellenti; e quelli con la Cei non potranno non rimanere di collaborazione. Ma una ferita si è prodotta. E per una parte di quel mondo, a torto o a ragione, si tratta di uno strappo violento e inaspettato. Fermarsi a questo significherebbe tuttavia offrire una fotografia incompleta di un brutto capitolo: per la politica, per il giornalismo. E per la Chiesa cattolica. Non si può trascurare l’immagine di confusione e di ambiguità offerta, soprattutto nella fase iniziale, dalle gerarchie ecclesiastiche. I distinguo, le ipocrisie, il senso di sbandamento e il cinismo, trasmessi da chi oltre Tevere ha dato l’impressione di utilizzare la vicenda per regolare vecchi e nuovi conti, sono apparsi a dir poco sconcertanti.

Lo scontro sembra aver svelato, più che provocato, lo sgretolamento di una sorta di Prima Repubblica cattolica. Solo nelle ultime ore si è ricomposta un’unità che ha attenuato il sospetto di una lotta di potere fra Segreteria di Stato e Cei, e non solo. Anche lì, dunque, la vicenda lascia indovinare una ferita aperta. D’altronde, al ringraziamento ai vescovi ed alla Santa Sede, Boffo affianca una bordata a «qualche vanesio irresponsabile che ha parlato a vanvera»: un atto d’accusa a chi, in Vaticano, ha attaccato Avvenire e difeso il governo nei momenti più drammatici dello scontro. Boffo esce di scena pagando un prezzo ben superiore a qualunque responsabilità; e con la consapevolezza di un giornalista più che corretto ma convinto di non potere restare al timone come un’«anatra zoppa ». In realtà, a uscire lesionati sono in molti, anche se forse non se ne rendono conto.

Massimo Franco

04 settembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
  da corriere.it


Titolo: La pax berlusconiana non riesce a piegare il presidente della Camera (ma vaaa).
Inserito da: Admin - Settembre 10, 2009, 05:41:26 pm
LA NOTA

La pax berlusconiana non riesce a piegare il presidente della Camera


C’ è uno iato vistoso fra le profezie di declino di Silvio Berlusconi, e il fatto che sia diventato da due giorni il presidente del Consiglio più longevo del dopoguerra.
È come se in tutto questo tempo gli avversari non fossero ancora riusciti non solo a contrastarlo, ma ad analizzare correttamente i suoi punti di forza e di debolezza.
Come risultato, si oscilla fra giudizi che vedono la sua stella in caduta libera; e altre che sottolineano un primato più prepotente che mai. In fondo, le parole di Massimo D’Alema che accusano il premier di avere fatto «il deserto nel centrodestra», ridimensionando gli altri leader, sono un complimento involontario: sebbene il premier mostri qualche incertezza e fragilità mostrandosi ipersensibile, se non insofferente nei confronti dei giornali. D’altronde, i giudizi aspri di D’Alema probabilmente contengono anche una punta di esagerazione. Definire Umberto Bossi «un pretoriano» di Berlusconi suona fuorviante: la Lega è un alleato non solo «d’acciaio» ma esigente di palazzo Chigi; e poco addomesticabile. Rispetto a Gianfranco Fini, invece, ieri è stata confermata l’impressione di un rapporto incrinato. Il premier ha provato a liquidare i contrasti col presidente della Camera come un «fraintendimento». Ha espresso rispetto per le «posizioni diverse» di Fini. È stato lui, ieri, a telefonargli e ad annunciare che lo incontrerà presto: un segno della determinazione a riassorbire i contrasti. Ma il gelo rimane; e filtra nonostante le versioni ufficiali rassicuranti.

A sgualcire un po’ l’immagine berlusconiana di un Popolo delle libertà unito intorno al premier e insieme gioiosamente «anarchico» è stato proprio Fini. Mentre il presidente del Consiglio era ancora sul palco della festa dei giovani del Pdl, da Montecitorio è arrivata una nota che ironizzava sull’ «ottimismo proverbiale di Berlusconi ». Per Fini, «definire "fraintendimento" le tante valutazioni di carattere politico su cui nel Pdl è necessario discutere, è non soltanto riduttivo ma soprattutto rischia di non contribuire a risolvere i problemi».

Si tratta di una precisazione in tempo reale, pignola e irritata dopo che il capo del governo aveva liquidato la polemica alla sua maniera: sostenendo cioè che Fini aveva «interpretato in maniera diversa dalla realtà» alcune sue frasi sull’immigrazione. Non solo: all’accusa di trasformare il centrodestra in una caserma il premier ha replicato: «Il nostro movimento è il contrario di una caserma». Poi ha attaccato l’immigrazione clandestina e il modello di una «società multietnica » con una durezza da fare invidia alla Lega; ed è apparso un altro modo per prendere le distanze dall’ex leader di An. L’unica concessione a Fini, non irrilevante, è arrivata sul biotestamento: Berlusconi ha confermato che ci sarà libertà di coscienza nel voto parlamentare. Ma alla maggioranza non va giù il modo in cui l’opposizione tende ad incoronare il presidente della Camera, contrapponendolo a Berlusconi. Le parole brutali contro «comunisti e cattocomunisti» rilanciate ieri dal premier sembrano un altolà alle aperture al centrosinistra provenienti da Fini in nome del suo ruolo istituzionale. L’attacco del Cavaliere ai giornali stride, tuttavia, con la sua ostentazione di sicurezza e con la voglia di presentarsi come leader tranquillo. L’esasperazione berlusconiana contro gli attacchi avversari porta il premier a individuare nella stampa una nemica; ad imputarle il ruolo di sabotatrice dell’economia italiana, spargendo allarmismo in tempi di crisi: un’arma in mano ai «missionari della crisi, e dunque del male».

E dopo questo crescendo, Berlusconi arriva ad invitare i giovani a non leggere i giornali: «Se posso darvi un consiglio», ha detto, «non sprecate il vostro tempo...». Eppure, criticandola così radicalmente attribuisce alla stampa un peso che forse neppure ha.

Massimo Franco
10 settembre 2009
da corriere.it


Titolo: MASSIMO FRANCO Il muro dell'incomprensione
Inserito da: Admin - Settembre 12, 2009, 11:21:20 am
L'analisi

Il muro dell'incomprensione


Più che da contrasti politici, Sil­vio Berlusconi e Gianfranco Fi­ni appaiono divisi da un muro di incomprensione: lessicale, culturale, istituzionale. E personale. Per questo è un ostacolo che non si ri­muove con semplici compromessi di potere. Lo sfogo che ieri il presidente della Camera ha fatto davanti alla pla­tea della scuola di formazione del Pdl, a Gubbio, è stato impietoso, viscerale, esasperato: quasi volesse azzerare la tesi minimalista del «malinteso», ac­creditata il giorno prima dal premier. Eppure, probabilmente ad irritare gli alleati non sono state le critiche sul­l’immigrazione, i rapporti con la Lega, il biotestamento. A bruciare è stato il tono generale.

La denuncia dell’«indegno stillici­dio » al quale Fini si sente sottoposto dall’interno del Pdl, evoca un’incomu­nicabilità con Palazzo Chigi che sfiora la patologia. E la reazione dei berlu­sconiani la riflette. Non si avverte sol­tanto irritazione: si indovina uno stu­pore risentito nei confronti del presi­dente della Camera. Riaffiora, irrisol­to, il contrasto su quello che dovreb­be essere il Popolo della libertà. Per il Cavaliere, una forza libera e insieme caotica, modellata sulla sua leader­ship ; per Fini, «un partito e non un or­ganigramma ». Ma proprio per que­sto, il suo appello ad un «cambio di marcia» del Pdl suona irricevibile.

E non perché Berlusconi non sia pronto a tacitare l’ex leader di An con qualche concessione. Il problema è che fra i due si è cementato un impa­sto di malintesi e diffidenza. La sensa­zione è che Fini si senta sempre più subalterno e quasi estraneo ad un pro­getto e ad una logica non suoi; e inve­stito di un ruolo istituzionale che lui interpreta agli antipodi rispetto agli al­leati. Per questo i suoi scarti ostentati e rivendicati quasi come un dovere vengono registrati con sconcerto; e av­vertiti come bordate che alla lunga po­trebbero destabilizzare la maggioran­za, per quanto solida come quella di centrodestra.

Il Pdl è plasmato per assecondare Berlusconi, non per criticarlo. Può ac­cettare verità complementari a quelle del capo del governo. Ma le tesi soste­nute da Fini rappresentano una sorta di controverità. Di fatto, finiscono per delegittimare l’ottimismo che Berlu­sconi dispensa con un’abbondanza perfino esagerata. Smontano le accu­se di disfattismo che il premier rivol­ge a chi martella sulla crisi economi­ca. Insomma, rifiutano non solo l’ana­lisi ma la filosofia con le quali il Cava­liere ha combattuto gli avversari in questi mesi. E finiscono per essere percepite, a torto o a ragione, come un distillato di antiberlusconismo. Agli occhi degli alleati, si tratta di una provocazione incomprensibile, prima che inaccettabile.

Ad aggravare il sospetto di un’ostilità profonda rischia di contribuire l’omaggio di Fini al presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, presentato come «una delle poche garan­zie che ci sono in questo momento»: precisazione letta nel Pdl come ennesima stoccata a Berlusconi. Ma soprattutto, promet­te di lasciare qualche livido l’accenno di Fini alle stragi di ma­fia e all’esigenza di «non dare neanche il lontano sospetto di non volere accertare la verità»: sebbene il passaggio sia stato preceduto e bilanciato dalla solidarietà al Cavaliere per l’«acca­nimento giudiziario» di alcune Procure.

Ma il Pdl non è lo stesso di sei mesi fa. Si sono cristallizzati nuovi rapporti di forza interni, e la disponibilità a sopportare gli attacchi è calata. Oltre tutto, la controverità di Fini arriva proprio mentre Berlusconi non esita a definirsi il miglior capo del governo «degli ultimi 150 anni»; e viene bersagliato dai giornalisti stranieri sulla sua vita privata al vertice Italia-Spa­gna. Probabilmente, il premier si aspettava applausi e solida­rietà da tutto il Pdl. Il presidente della Camera, però, non pote­va concederglieli senza contraddire una traiettoria dagli appro­di ormai imprevedibili.

Massimo Franco
11 settembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it


Titolo: MASSIMO FRANCO Sentenza destinata a far nascere comunque un partito di scontenti
Inserito da: Admin - Ottobre 07, 2009, 04:13:19 pm
LA NOTA

Una sentenza destinata a far nascere comunque un partito di scontenti

Un’attesa nervosa per la decisione della Corte costituzionale


La sentenza della Corte costituzionale arriverà stasera o domani. E già l’attesa nervosa, quasi la sospensione della vita politica del Paese trasmette la sensazione di una vicenda patologica. Ma soprattutto, che il «lodo Alfano» sia dichiarato legittimo, o sia in qualche modo rimesso in discussione, difficilmente la tensione si allenterà. Il rapporto fra politica e giustizia sembra destinato a continuare sotto il segno del conflitto. E le elezioni regionali del prossimo anno promettono di intensificare le polemiche ed i veleni. La maggioranza di governo oscilla fra la presa d’atto rispettosa di quanto deciderà la Consulta, e l’insofferenza per qualunque sorpresa sgradita.

L’insistenza sul primato del «popolo sovrano», comunque vada a finire, serve ad esorcizzare una crisi di governo; e a riaffermare l’investitura di Silvio Berlusconi attraverso le urne. Se il presidente del Consiglio dovesse affrontare i processi sospesi dalla legge che protegge le prime quattro cariche dello Stato, la situazione diventerebbe pesante. Ma anche in caso contrario, il «lodo Alfano» è destinato a diventare il pretesto di un conflitto senza fine. La virulenza con la quale Antonio Di Pietro continua a lanciare avvertimenti alla Corte in vista della sentenza, è almeno speculare alle voci più estreme del centrodestra.

La sua minaccia di indire un referendum per abolire il provvedimento prefigura mesi nei quali Berlusconi sarà additato come un imputato privilegiato. L’accusa di godere di un’immunità tanto speciale quanto inaccettabile è condivisa da tutti, nell’universo dipietrista e in buona parte del centrosinistra: anche se alcuni costituzionalisti mettono in evidenza che si tratta non di immunità ma di una sospensione dei processi. Su questo sfondo, l’atteggiamento di Pdl e opposizione verso la Consulta tende a coincidere negativamente: nel senso che accettano solo in teoria la decisione che sarà presa nelle prossime ore.

Per quanto emessa in base a considerazioni di legittimità costituzionale, la sentenza sarà letta come il riflesso di un orientamento politico; e dunque scontenterà comunque qualcuno. Con le elezioni regionali nel marzo del 2010, c’è da scommettere che i delusi brandiranno il «lodo Alfano», e non solo, come arma elettorale. Gli avvocati di Berlusconi spiegano gli attacchi di cui sono oggetto come tentativi di condizionare la Corte. E le critiche al limite del vilipendio che Di Pietro ha rivolto a Giorgio Napolitano potrebbero, si dice, far partire un’inchiesta della Procura di Roma. Ma l’ex magistrato e leader dell’Idv rivendica le parole dure contro il Quirinale.

Anzi, sembra convinto che un’inchiesta del genere possa rafforzare il suo ruolo di oppositore-principe di un sistema ritenuto subalterno al capo del governo, arginando la concorrenza interna di De Magistris. I giudizi sferzanti contro il presidente della Repubblica, reo di aver firmato lo «scudo fiscale»; gli altolà alla Consulta sul «lodo Alfano»; la minaccia di referendum: sono tappe di una strategia che mette in conto un crescendo polemico funzionale alla crescita elettorale di un’area minoritaria, convinta che l’offensiva contro il premier e le presunte debolezze di Napolitano e del Pd moltiplicheranno i suoi consensi.

Massimo Franco

07 ottobre 2009
da corriere.it


Titolo: MASSIMO FRANCO I danni di un conflitto
Inserito da: Admin - Ottobre 08, 2009, 11:36:30 am
LA SENTENZA DELLA CORTE COSTITUZIONALE

I danni di un conflitto


Per quanto tormen­tata e contestata, la decisione della Corte costituzio­nale ha avuto il merito della chiarezza. Forse troppa, perché Silvio Ber­lusconi potesse incassare un verdetto di illegittimi­tà del «Lodo Alfano» sen­za reagire. I suoi giudizi li­quidatori e irrispettosi sulla Consulta «di sini­stra » e sul presidente del­la Repubblica, Giorgio Na­politano, tacciato di esse­re di parte, non hanno nulla di emotivo né di estemporaneo. Il capo del governo ha deciso di contrapporre la propria legittimazione elettorale a quelle istituzioni che, nella sua ottica, lo delegit­timano senza avere die­tro «il popolo». Si tratta di una sfida al rialzo, fi­glia di un azzardo calcola­to.

Il paradosso è che fa di­ventare il Quirinale il pa­rafulmine del premier e del suo più acerrimo av­versario, Antonio Di Pie­tro. Ed ha come contrac­colpo un conflitto istitu­zionale aggravato dalla frustrazione di un Berlu­sconi che sostiene di sen­tirsi preso in giro: come se avesse confidato fino all’ultimo in una senten­za favorevole. Sui prossi­mi mesi si proietta il peri­colo di fratture a ripetizio­ne fra le massime cariche del Paese. È come se insie­me al «Lodo Alfano» che sospendeva i processi per le prime quattro, fos­se stata spazzata via an­che la tregua, se non la concordia, che aveva ret­to in questi mesi fra palaz­zo Chigi e Quirinale. Inve­ce di far dimenticare le parole in libertà dette da maggioranza e opposizio­ne negli ultimi giorni, la decisione della Consulta le moltiplica.

Non è l’epilogo di una stagione, però. L’offensi­va segna l’inizio dell’en­nesimo scontro dopo una sentenza non attesa, ma certamente temuta: un conflitto che Berlusco­ni ritiene di poter affron­tare da posizioni magari disperate ma di forza. Co­stringe il centrodestra a guardare in faccia la real­tà di una maggioranza scossa da una decisione che colpisce il suo presi­dente del Consiglio. Se pure non sarà facile go­vernare e affrontare i pro­cessi sospesi dal «Lodo Alfano», già in passato Berlusconi lo ha fatto. No­nostante la sua ira fred­da, il sentiero che deve percorrere appare obbli­gato anche adesso. Perfi­no più di prima: se non al­tro per l’investitura che il centrodestra ha ricevuto nel 2008; e che le Euro­pee della primavera scor­sa hanno puntellato.

Il paradosso di un lea­der consacrato dal voto popolare e a rischio di lo­goramento per una sen­tenza che gli riapre le por­te dei tribunali è destina­to a pesare sul futuro poli­tico dell’Italia.

L’eco internazionale, spesso malevo­la, che circonda la saga berlusconiana, promette di crescere fino a diventare as­sordante. Ma se vengono lette corretta­mente, le sconfitte si possono gestire. Il presidente del Consiglio rimane l’unico punto di equilibrio non solo della mag­gioranza, ma del sistema. Non c’è trac­cia di un’opposizione in grado di candi­darsi alla guida del Paese. E nel governo c’è piena consapevolezza che i rapporti di forza saranno verificati alle Regionali del 2010; e d’accordo con Berlusconi, non contro di lui.

Per questo non esiste altra strada che andare avanti; e concentrarsi ancora di più sull’attività di governo, pur con il Ca­valiere nella doppia veste di presidente del Consiglio e di imputato. Non signifi­ca esorcizzare la battuta d’arresto di ieri, né sottovalutarne l’impatto politico e psicologico. Si tratta semmai di capire che il suo peso è stato esagerato dal so­vraccarico di significati più o meno stru­mentali che parte della maggioranza e dei suoi avversari hanno voluto assegna­re alla sentenza. In più, la decisione è ar­rivata dopo l’approvazione dello «scudo fiscale», per il quale è stato criticato lo stesso Quirinale. Insomma, l’impressio­ne è che le chiavi della stabilità continui­no a essere nelle mani di Berlusconi e dei suoi alleati: della Lega, soprattutto.

I segnali arrivati da Umberto Bossi, quando ancora non era stata comunica­ta la sentenza della Corte costituzionale sul «lodo Alfano», sono stati ambigui: una miscela di aggressività demagogica e di cautela politica.

Minacciare, come ha fatto il ministro, «l’ira del popolo» in caso di bocciatura, è apparso un gesto ai limiti dell’irre­sponsabilità. In parallelo, però, Bossi e con lui il presidente della Camera, Gian­franco Fini, hanno escluso il voto antici­pato, riconoscendo il dovere di governa­re; e confermando che saranno le Regio­nali a dire quanto non solo Berlusconi ma l’intera coalizione siano ancora forti. D’altronde, a volere la scorciatoia eletto­rale in un momento come questo posso­no essere soltanto i teorici del «tanto peggio tanto meglio». L’incognita è se, pur senza volerlo, il centrodestra finirà per assecondare la deriva.

Massimo Franco

08 ottobre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it


Titolo: MASSIMO FRANCO Riemerge l’asse del Nord ma non riesce a spezzare l’assedio ...
Inserito da: Admin - Ottobre 24, 2009, 06:22:52 pm
LA NOTA

Riemerge l’asse del Nord ma non riesce a spezzare l’assedio all’Economia

Bossi avverte che difenderà Tremonti ma il Pdl cerca di ridimensionarlo


Lo scudo di Umberto Bossi continua a proteggerlo senza crepe visibili. Ma il solo fatto che il capo del­la Lega debba spendere tutto il proprio peso politi­co a difesa di Giulio Tremonti sottolinea un’anomalìa. Accredi­ta, anzi esagera l’immagine di un ministro dell’Economia asse­diato da una parte della maggioranza: quella dello stesso Pdl. Materializza un tentativo almeno di ridimensionarlo, se non di costringerlo alle dimissioni. E finisce per fare emergere più an­cora di prima un «asse del Nord» con il Carroccio, che dà fiato a quanti nel centrodestra additano uno sbilanciamento «leghi­sta » di Tremonti, ed invocano una politica più equilibrata: an­che se rimane da capire fino a che punto Silvio Berlusconi vo­glia dare corda ai malumori diffusi contro la politica finanziaria del ministro, e correggerne l’impostazione.

La fioritura di documenti economici all’interno del Pdl sem­bra fatta apposta per innervosire Tremonti e dare l’impressione dell’accerchiamento. E pazienza se alcune proposte sono consi­derate condivisibili ma altre assumono contorni sconcertanti come quella attribuita al ministro Renato Brunetta, corredata da schemi calcistici. Come risultato si offre comunque un’im­magine della maggioranza che le versioni benevole raffigurano dedita ad un braccio di ferro tra politiche economiche contra­stanti; e le più maliziose, prigioniera di una confusione senza sbocchi. Perfino il ritardo col quale ieri il presidente del Consi­glio è rientrato da San Pietroburgo dopo i colloqui col premier russo Putin è stato letto in chiave tutta interna.

Proprio da Tremonti che in Consiglio dei ministri avrebbe at­tribuito ironicamente il mancato arrivo non al maltempo ma «ad una nebbia fitta, molto fitta». Una nebbia velenosa, a sentire Bossi. «C’è un tentativo di fare fuori Tremonti, ma io lo proteg­go », ha detto ieri mattina, senza giri di parole. Un modo per de­nunciare la manovra e dramma­tizzarla; e costringere il centrode­stra a misurare fino in fondo i contraccolpi di una destabilizza­zione del ministro dell’Economia. La sensazione, tuttavia, è che non esista nessun piano per scalzare Tremonti. Il tentativo è semmai di piegare quelle che il collega di governo, Claudio Scajola, definisce «spigolosità».

Riaffiora la vecchia accusa di impedire scelte collegiali; di te­nere i cordoni della borsa troppo stretti; e di non «fare squa­dra » con altri esponenti governativi. Un malumore che adesso diventa pressione non tanto su Tremonti, ma su Berlusconi. La richiesta implicita è a riprendere in mano i fili strategici della politica economica in vista della campagna elettorale; che con­ceda almeno parte di quegli stanziamenti resi impossibili dai vincoli di bilancio imposti dal Tesoro. Da questo punto di vista, è vero che Tremonti ha avuto ed ha un ruolo difficilmente inter­cambiabile. La sua tutela arcigna dei conti pubblici, per quanto irritante agli occhi di alcuni colleghi di governo, finora non ha avuto alternative: anche se ha accontentato perfino alcuni setto­ri leghisti, timorosi di vedere un federalismo sacrificato sull’al­tare della crisi.

La sicurezza con la quale ieri Tremonti ha spiegato ai «gover­natori » regionali che la riduzione dell’Irap sarà decisa rispettan­do il federalismo fiscale è indicativa. Significa declassare ad an­nuncio la proposta avanzata il giorno prima da Berlusconi. D’al­tronde, lo stesso sottosegretario a palazzo Chigi, Gianni Letta, ha confermato una riforma non immediata ma graduale e com­patibile con l’equilibrio del bilancio. Sono segni di «grande con­fusione sulle scelte economiche», ne deduce Pier Ferdinando Casini, leader dell’Udc. Anche se nello scontro apertosi nel cen­trodestra l’opposizione è cauta. «Ho stima del ministro dell’Eco­nomia », dice di Tremonti Massimo D'Alema, del Pd. «Ma riten­go che abbia affrontato la crisi come una parentesi, badando più al controllo della finanza pubblica che alle riforme; e dicen­do troppo presto che era finita». Il centrosinistra non capisce bene come andrà a finire. E nel limbo fra le primarie e lo scanda­lo che sta travolgendo il suo governatore nel Lazio, Piero Mar­razzo, osserva: da spettatore interessato ma soprattutto preoc­cupato.

Massimo Franco

24 ottobre 2009
da corriere.it


Titolo: MASSIMO FRANCO La tentazione della scorciatoia
Inserito da: Admin - Novembre 18, 2009, 10:10:47 am
L'analisi

La tentazione della scorciatoia


La minaccia di elezioni anticipate co­mincia ad assumere contorni più corposi. Ed anche discutibili. Il modo in cui il presidente del Senato, Renato Schifani, ieri ha posto agli alleati l’aut aut fra compattezza della maggioranza ed interruzione della legislatura non può essere sottovalutato.

Il prestigio del suo ruolo impone di analizzare le parole seriamente, nonostante si inseriscano in uno sfondo di nervosismo e di confusione della maggioranza; e sembrino rivolte più all’interno del centrodestra che al Paese.

La prima osservazione è che l’iniziativa è stata presa mentre Giorgio Napolitano si trova in visita ufficiale in Turchia. Si sa che il potere di sciogliere le Camere spetta al presidente della Repubblica. Il fatto che la seconda carica istituzionale ipotizzi uno scenario così traumatico in sua assenza, fa pensare che lo scarto rifletta gli umori di palazzo Chigi; e finisca per alimentare il gelo fra premier e capo dello Stato. Schifani dà voce ai brontolii della «pancia» di un universo berlusconiano spaventato dalla piega che stanno prendendo le cose.

Di fronte alle spinte centrifughe nel centrodestra e alle ombre giudiziarie che si proiettano sul capo del governo, evidentemente cresce la tentazione della scorciatoia. Si tratta di un piano arrischiato. Ed è singolare che a evocarlo sia il presidente del Senato: tanto più che Gianfranco Fini aveva appena spiegato perché votare sarebbe un mezzo suicidio. La stessa Lega non vuole le elezioni anche se tecnicamente il federalismo fiscale sopravvivrebbe alla caduta del governo. Per una maggioranza alla quale neppure due anni fa gli italiani hanno assegnato il diritto ed il dovere di governare, rispedire il Paese alle urne certificherebbe un fallimento. È vero che l’opposizione sta appena cominciando a riorganizzarsi, ma politicamente il voto anticipato equivarrebbe ad una manifestazione di impotenza.

Lo scontro fra una parte della maggioranza e della magistratura, alleata con pezzi di opposizione, è radicalizzato da pregiudizi reciproci che hanno un sapore rancido. Ma non può essere risolto dagli elettori: anche perché lo hanno già fatto nel 2008 consegnando palazzo Chigi a Berlusconi. Adesso tocca al governo ed al Parlamento dare seguito agli impegni presi; e possibilmente anche ad un centrosinistra che fatica ad emanciparsi dalle pressioni più estremiste. Non c’è solo la riforma della giustizia in una fase di crisi che impone risposte, non paralisi.

È possibile che la fine della legislatura sia stata additata per indurre gli scettici del centrodestra, Fini in testa, ad abbandonare ogni esitazione e remora; e ad approvare quanto prima la legge sul «processo breve» che dovrebbe permettere a Berlusconi di affrontare in modo più tranquillo i suoi impegni di premier. Ma è legittimo dubitare che le parole di Schifani aiuteranno a rasserenare il clima. Per paradosso, rischiano di avvelenarlo ulteriormente.

Il risultato è di mostrare un Pdl caricaturale, in preda ad una specie di «sindrome dell’Unione»: un istinto autodistruttivo che nel caso della coalizione prodiana almeno era giustificato dall’assenza di una vera maggioranza e di un progetto comune.


Massimo Franco

18 novembre 2009
© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it


Titolo: MASSIMO FRANCO Una tregua improvvisa che conferma la Lega perno della stabilità
Inserito da: Admin - Novembre 20, 2009, 11:47:28 am
LA NOTA

Una tregua improvvisa che conferma la Lega perno della stabilità

Dopo il caso Schifani uno scenario di tensioni tra Pdl e Quirinale


La tregua si è imposta con una tale rapidità che viene osservata con una comprensibile dose di cautela. Un presidente del Senato che prima evoca elezioni anticipate e poi, di fronte alla correzione di rotta di Silvio Berlu­sconi, assicura che «la maggioranza è coesa e si va avanti senza il voto», fa riflettere. Deve avere convinto a metà un po’ tutti, nono­stante il coro di pacificazione che arriva da gran parte del Pdl e da palazzo Chigi. Lo stesso Giorgio Napolitano, dopo aver liquidato con flemma l’uscita di tre giorni fa di Renato Schifani, lascia capi­re che al ritorno dalla Turchia «probabilmente» lo incontrerà.

Segno che c’è ancora qualche aspetto da chiarire. Ma a mante­nere la situazione confusa è soprattutto l’impressione che i rap­porti nel centrodestra restino tesi. «Ovvio che se si rompe il patto elettorale si va al voto», conferma il coordinatore del Pdl, Sandro Bondi. Dietro l’ufficialità, premier e Lega continuano a diffidare di Gianfranco Fini. L’ultimo episodio è di ieri. Fini ha detto in un convegno che «democrazia non signi­fica solo fare le elezioni... Anche Hit­ler è andato al potere con un plebisci­to ». Allusione innocua ma potenzial­mente esplosiva. «Se lo riferite all’Ita­lia vi porto in tribunale», ha scherza­to. Ma la precisazione dà il segno di un rapporto in bilico con Berlusconi. Se a questo si aggiungono le «grosse difficoltà» che Napolitano intravede in Parlamento insieme a «qualche spi­raglio » sulle riforme, ritorna un’om­bra spessa fra governo e Quirinale. «Attendiamo con la massima atten­zione i rilievi» del capo dello Stato, annuncia a nome del Pdl, Fa­brizio Cicchitto: parole che suonano come atto di omaggio e insie­me di sfida.

Si ricorda che la maggioranza si sarebbe sobbarcata il peso del­la crisi economica e dell’eredità di «esperienze passate». Insom­ma, gli appunti del capo dello Stato sono accolti con una punta di irritazione. Per ora la scorciatoia elettorale non è stata imboccata. Ma sulle ragioni della frenata rimane un alone di mistero. Influi­sce senz’altro il silenzio pesante del Colle, stupito dal modo irri­tuale col quale se n’è parlato: la mossa di Schifani dava per sconta­ti passaggi parlamentari che non lo sono affatto. E forse è stata sottovalutata l’«ala finiana».

Ma la stessa Lega sembra perplessa, confermandosi in questa fase il perno della stabilità. Il leader Umberto Bossi e Roberto Ca­stelli ritengono che interrompere la legislatura possa essere solo «l’ultima spiaggia»: un estremo atto di lealtà al premier. E poi, esiste un «partito del 2013» trasversale e contrario al «tutti a ca­sa » anticipato. Dettaglio ulteriore: il vicesegretario del Pd, Enrico Letta, avverte che in caso di crisi Napolitano dovrebbe cercare un’altra maggioranza parlamentare. Per il Pdl, significa analizzare ogni scenario da una inedita posizione di incertezza.

Massimo Franco

20 novembre 2009
da corriere.it


Titolo: MASSIMO FRANCO Si conferma l’asse Lega-premier
Inserito da: Admin - Novembre 25, 2009, 03:42:44 pm
LA NOTA

Il paradosso del governo Avanti sull’economia bloccato sui processi

Aumenta la confusione sul «processo breve».

Si conferma l’asse Lega-premier


Le convulsioni sui rapporti fra governo e magi­stratura, e la cauta soddisfazione sull’andamen­to dell’economia, fotografano il paradosso di una coalizione che sembra in bilico eppure non può cadere. La legge sul «processo breve» rimane assediata dall’incertez­za e dai veleni. E ieri il presidente della Camera, Gianfranco Fini, ha invitato a non confonderla con la riforma della giu­stizia. Ma intanto il ministro dell’Economia, Giulio Tremon­ti, rivendica come un risultato straordinario che siano state fatte «cose normali in un periodo non propriamente norma­le ». La cena di ieri da Silvio Berlusconi, con Tremonti e con Umberto Bossi, conferma un’alleanza imperniata sul rappor­to fra Pdl e Lega.

Si tratta di una mezzadrìa politica che tende a dare comun­que una soluzione al problema della durata dei processi nei quali è coinvolto il presidente del Consiglio: la considera il miglior antidoto contro l’instabilità e contro la tentazione di interrompere la legislatura. Non a caso ieri il Carroccio ha sostenuto che non è la politica a voler mettere sotto tutela i magistrati ma semmai il contrario: almeno da parte di «alcu­ni pm». In realtà, non c’è ancora un testo capace di mettere d’accordo l’intera maggioranza e di ottenere almeno la neu­tralità dell’opposizione. Esiste un’intesa da riempire.

In parte pesa il voto di prima­vera per le regionali, che rende Pd e Udc ancora più duri verso Berlusconi, avvicinandoli al­l’estremismo dipietrista. Ma la confusione nel centrodestra contribuisce a rendere i prossi­mi giorni estremamente nervo­si. Per come è stata formulata fi­nora, la legge sul «processo bre­ve » semina perplessità trasver­sali. Il pericolo che vengano pre­scritti molti processi è reale, al di là della guerra di percentuali fra Anm e governo.

Il timore di palazzo Chigi è che le proposte di mediazione arrivate sia da Pier Ferdinando Casini, sia dallo stesso presi­dente della Camera, Fini, rischino di intrappolare il premier; di costringerlo ad una trattativa logorante. «Mi metto a ride­re quando leggo che penserei ad un complotto», si è difeso ieri Fini a Milano. Presentando il suo libro nella sede del Cor­riere , ha rifiutato i panni di «eretico» del Pdl, rivendicando il diritto a chiedere equilibrio fra rafforzamento di governo e Parlamento. Poi ha aggiunto che non sarebbe andato ad Ar­core. «Ceno con le mie figlie», ha glissato sull’incontro Berlu­sconi- Bossi-Tremonti, confermando un asse che lo esclude.

Il fatto che il segretario del Pd, Pierluigi Bersani, abbia su­bito accolto l’idea finiana di discutere la durata dei processi ripartendo da una vecchia proposta di Luciano Violante, non cancellerà la diffidenza degli alleati. Anzi, sembra destinato a farla lievitare. L’insistenza della Lega sulla necessità di go­vernare e di completare le riforme lascia capire che non ci sono alternative rispetto a quella di andare avanti; e di trova­re una qualche via d’uscita per le vicende processuali del pre­sidente del Consiglio. Ma più passano i giorni, più cresce la consapevolezza delle difficoltà. Problemi oggettivi, legati al­la complessità della materia e all’impopolarità che una legge incostituzionale potrebbe rappresentare per il governo. Ma anche ostacoli strumentali, seminati da chi indovina una si­tuazione confusa; e in fondo vuole che rimanga tale.

Massimo Franco

25 novembre 2009
da corriere.it


Titolo: MASSIMO FRANCO Campagna d'inverno che rompe l'assedio e cerca di isolare Fini
Inserito da: Admin - Novembre 27, 2009, 11:10:21 am
LA NOTA

Campagna d'inverno che rompe l'assedio e cerca di isolare Fini


La parola più usata è stata «processo»: in senso lette­rale e metaforico. Ma Silvio Berlusconi ieri l’ha evo­cata per uscire dal bunker nel quale il centrodestra è stato spinto dal braccio di ferro con la magistratura e l’opposizio­ne. In parte, il Pdl c’è riuscito, riproponendo come legge costituzio­nale il «lodo Alfano» bocciato dalla Consulta; e insistendo sull’ac­corciamento dei tempi processuali. Le tensioni, però, non diminui­scono, anzi. Il presidente del Consiglio accusa alcuni giudici di «de­riva eversiva». Vede una sorta di «guerra civile fra poteri dello Sta­to », anche se l’espressione è stata smentita da palazzo Chigi.

La tesi berlusconiana è che si punti a far cadere il governo. Ma il premier conferma anche l’irritazione verso alcuni alleati. «Il parti­to decide a maggioranza», ha detto. «Chi non si adegua è fuori». Il riferimento sembra in primo luogo al presidente della Camera. I distinguo di Gianfranco Fini sulla giustizia, sull’immigrazione, sui rapporti Governo-Parlamento ap­paiono indigesti. Per palazzo Chi­gi, a giustificarli non basta il ruolo istituzionale. La sensazione è che il premier voglia esasperare i contrac­colpi politici che le inchieste sicilia­ne e le rivelazioni di alcuni pentiti stanno provocando. L’obiettivo ap­pare doppio: ricompattare una coa­lizione slabbrata, e dare un segnale a quella parte dell’opposizione non ostile in modo pregiudiziale alla ri­forma della giustizia. Accettare il percorso costituzionale per la leg­ge che esclude dai processi le prime cariche dello Stato serve a rom­pere l’assedio.

Ma non è scontato che la manovra riesca. La reazione del Pd, e dell’Idv che parla di scenari golpisti, conferma un clima avvelena­to; e l’atteggiamento di Fini resta un’incognita. Ma dopo un lungo silenzio Berlusconi ha deciso la sua «campagna d’inverno», con toni allarmati e ultimativi: tipici di chi chiede di serrare i ranghi. È un ultimatum per ottenere dalla coalizione un «sì» senza condizio­ni al «processo breve» che dovrebbe sottrarlo alle inchieste nelle quali è imputato. C’è da chiedersi, tuttavia, che cosa accadrà se continueranno i distinguo di una parte del Pdl. La minaccia neppu­re troppo velata di espulsione dei dissidenti è facile in linea teori­ca, meno in concreto. Forse, potrebbe avere una sua logica se pren­desse corpo il voto anticipato, che impone la disciplina di partito. L’aut aut di ieri assumerebbe il sapore di un appello preelettorale. Ma non si è ancora a questo punto; né è detto che ci si arrivi.

Massimo Franco

27 novembre 2009
da corriere.it


Titolo: MASSIMO FRANCO Lo scontro tra Lega e Tettamanzi
Inserito da: Admin - Dicembre 09, 2009, 04:35:53 pm
LO scontro tra Lega e Tettamanzi

Cattolici senza casa


Le tensioni fra parti­ti e mondo cattoli­co segnalano una novità che travali­ca i singoli episodi. Non si tratta della diaspora politi­ca. Quella è cominciata da anni, ormai: da prima anco­ra che finisse la Dc. La cesu­ra è rappresentata dall’irri­levanza crescente dei politi­ci che si presentano come «cristiani» nelle file della maggioranza e dell’opposi­zione; ma anche dalla diffi­coltà dei vescovi italiani e del Vaticano a pesare sulle scelte del governo e sugli equilibri di potere. È il risul­tato della parabola iniziata­si con la Seconda Repubbli­ca; passata attraverso tenta­tivi tormentati di equidi­stanza fra gli schieramenti; e conclusasi con una situa­zione nella quale il ceto po­litico cattolico in quanto ta­le, dovunque stia, tende ad essere sempre meno rap­presentativo e a non sentir­si rappresentato: quasi sfrattato e senza casa. Si tratta di un’evoluzione che ha vissuto momenti trau­matici e non sempre limpi­di; ma che per paradosso può costituire un elemento di chiarezza.

Nel centrodestra, questa caduta di influenza è avva­lorata da due fatti recenti. Il primo è stato l’aggressio­ne a Dino Boffo, direttore di «Avvenire», che alla fine si è confermata solo un’operazione per intimidi­re la Chiesa. Il secondo è la polemica ruvida della Lega contro l’arcivescovo di Mi­lano, Dionigi Tettamanzi, accusato di «clericalismo di sinistra». Al di là delle differenze, i due episodi ri­velano un centrodestra che si sente abbastanza forte da sostenere un braccio di ferro con il Vaticano ed i ve­scovi italiani. Pensa di poterlo fare in base ad un’analisi fredda dei rapporti di forza. Sa in­fatti che la Chiesa è divisa, e soprattutto che non orien­ta più come prima l’eletto­rato. Silvio Berlusconi e Umberto Bossi hanno iden­tità e consensi in proprio: dal 1994 hanno vinto da so­li. Un asse con le gerarchie cattoliche, se esiste, funzio­na soltanto fino a che non confligge con l’agenda non solo vaticana, ma governa­tiva. E infatti, nel momen­to dello scontro Pdl e Lega non hanno esitato a far pre­valere le loro priorità.

Nel centrosinistra, si chiude il cerchio di un al­lontanamento progressi­vo. La mini-scissione di Francesco Rutelli e l’uscita di singoli «cattolici a disa­gio » dilatano la sensazione di un Pd inospitale. In real­tà, l’elezione del segretario Pierluigi Bersani non è la causa dell’irrilevanza degli ex popolari: sembra piutto­sto la presa d’atto della lo­ro scarsa incidenza. Si stan­no dunque esaurendo un filone ed una presenza. E l’Udc, sulla quale il mondo cattolico nutre qualche dubbio, appare in grado magari di arginare, ma cer­to non di invertire il pro­cesso.

Questo, però, dovrebbe permettere alla Chiesa di ri­prendere possesso di spazi che le sono propri, senza essere frenata da malintesi collateralismi. Gli indizi di un ruolo ritrovato si intra­vedono in materia di immi­grazione, politica della fa­miglia, rapporti fra etica e informazione, coesione na­zionale. Anticipano una fa­se più appartata sul piano politico e meno ipotecata dal timore di turbare equili­bri di governo sui quali Santa Sede e Cei possono influire meno del passato: sebbene forse se ne renda­no conto solo ora.

Massimo Franco

09 dicembre 2009
© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it


Titolo: MASSIMO FRANCO centrodestra nervoso accentua le incognite nel rapporto con i pm
Inserito da: Admin - Dicembre 10, 2009, 10:28:47 am
LA NOTA

Un centrodestra nervoso accentua le incognite nel rapporto con i pm

Scontro duro tra Alfano e l’Anm. Crescono i dubbi sul «processo breve»


Il fronte fra governo e magistratura rimane aperto, e per­corso dal nervosismo. La legge sul «processo breve» ri­mane sullo sfondo come motivo di scontro e di polemi­che. Eppure, nonostante il centrodestra continui a sostenerlo, crescono i dubbi sulla sua fattibilità: troppo complicato da scrive­re; troppo dirompente per le ricadute che potrebbe avere sul si­stema giudiziario; e bollato proprio ieri come incostituzionale da un parere del Csm. Il Pd chiede al governo di ritirarlo, conferman­do che rimane un’arma polemica. Per questo, si ha la sensazione che al provvedimento si affianchi l’opzione del «legittimo impe­dimento » .

È la norma con la quale Silvio Berlusconi potrà sottrarsi alle udienze nei processi che lo riguardano, a meno che la convocazio­ne non confligga con i suoi impegni istituzionali. Ma l’ipotesi che possa ricevere il «sì» del Parlamento entro dicembre è improbabi­le. Ieri il presidente della commis­sione Giustizia, Giulia Bongiorno, ha parlato di gennaio. Il fatto che esistano diverse proposte «dimo­stra che il problema va affrontato», secondo la parlamentare del Pdl. L’Udc di Casini sembra disponibile a discuterne. Dal Pd arrivano segna­li ostili ma non pregiudiziali.

Ad avvelenare lo sfondo rimango­no però le inchieste di mafia e lo scontro fra Angelino Alfano e l’Asso­ciazione nazionale magistrati. Al mi­nistro della Giustizia che chiedeva ai pm di lavorare di più e andare meno in tv, l’Anm replica defi­nendo «legittima» la «presenza pubblica dei magistrati»; e soste­nendo che sono le aule giudiziarie e le sentenze a parlare per loro. Dal 20 al 27 gennaio hanno deciso di mobilitarsi: apriranno i tribu­nali per mostrare in quali condizioni difficili lavorano.

«L’Anm si comporta da partito politico», accusa il Pdl. E rilan­cia i sospetti sul modo in cui alcune procure siciliane usano i pentiti di mafia. Si tratta di un braccio di ferro destinato a dura­re; ed a riservare altri picchi di tensione. Ieri il procuratore gene­rale antimafia, Piero Grasso, ha replicato indirettamente ad Alfa­no e a Berlusconi, avvertendo che la legge sui pentiti non può essere toccata. In più, rimane acuta la polemica sulle sedi disa­giate. Ma ad alimentare la confusione sono i contrasti nel Pdl.

Le diffidenze fra palazzo Chigi e presidenza della Camera non sono superate. La decisione del centrodestra di rinviare a gennaio la legge sulla cittadinanza agli immigrati è stata letta come uno sgarbo a Fini. E la notizia di una «bonifica» anti-intercettazioni nell’appartamento del presidente della Camera non rasserena il clima. Ogni passaggio sottolinea l’affanno della coalizione; e fa crescere il sospetto di una resa dei conti solo rinviata. Il voto di oggi sul sottosegretario Cosentino, per il quale i magistrati di Na­poli chiedono l’arresto, può diventare un termometro indicativo.

Massimo Franco

10 dicembre 2009
da corriere.it


Titolo: MASSIMO FRANCO Cattolici senza casa
Inserito da: Admin - Dicembre 10, 2009, 10:31:51 am
Lo scontro tra lega e Tettamanzi

Cattolici senza casa


Le tensioni fra parti­ti e mondo cattoli­co segnalano una novità che travali­ca i singoli episodi. Non si tratta della diaspora politi­ca. Quella è cominciata da anni, ormai: da prima anco­ra che finisse la Dc. La cesu­ra è rappresentata dall’irri­levanza crescente dei politi­ci che si presentano come «cristiani» nelle file della maggioranza e dell’opposi­zione; ma anche dalla diffi­coltà dei vescovi italiani e del Vaticano a pesare sulle scelte del governo e sugli equilibri di potere. È il risul­tato della parabola iniziata­si con la Seconda Repubbli­ca; passata attraverso tenta­tivi tormentati di equidi­stanza fra gli schieramenti; e conclusasi con una situa­zione nella quale il ceto po­litico cattolico in quanto ta­le, dovunque stia, tende ad essere sempre meno rap­presentativo e a non sentir­si rappresentato: quasi sfrattato e senza casa. Si tratta di un’evoluzione che ha vissuto momenti trau­matici e non sempre limpi­di; ma che per paradosso può costituire un elemento di chiarezza.

Nel centrodestra, questa caduta di influenza è avva­lorata da due fatti recenti. Il primo è stato l’aggressio­ne a Dino Boffo, direttore di «Avvenire», che alla fine si è confermata solo un’operazione per intimidi­re la Chiesa. Il secondo è la polemica ruvida della Lega contro l’arcivescovo di Mi­lano, Dionigi Tettamanzi, accusato di «clericalismo di sinistra». Al di là delle differenze, i due episodi ri­velano un centrodestra che si sente abbastanza forte da sostenere un braccio di ferro con il Vaticano ed i ve­scovi italiani. Pensa di poterlo fare in base ad un’analisi fredda dei rapporti di forza. Sa in­fatti che la Chiesa è divisa, e soprattutto che non orien­ta più come prima l’eletto­rato. Silvio Berlusconi e Umberto Bossi hanno iden­tità e consensi in proprio: dal 1994 hanno vinto da so­li. Un asse con le gerarchie cattoliche, se esiste, funzio­na soltanto fino a che non confligge con l’agenda non solo vaticana, ma governa­tiva. E infatti, nel momen­to dello scontro Pdl e Lega non hanno esitato a far pre­valere le loro priorità.

Nel centrosinistra, si chiude il cerchio di un al­lontanamento progressi­vo. La mini-scissione di Francesco Rutelli e l’uscita di singoli «cattolici a disa­gio » dilatano la sensazione di un Pd inospitale. In real­tà, l’elezione del segretario Pierluigi Bersani non è la causa dell’irrilevanza degli ex popolari: sembra piutto­sto la presa d’atto della lo­ro scarsa incidenza. Si stan­no dunque esaurendo un filone ed una presenza. E l’Udc, sulla quale il mondo cattolico nutre qualche dubbio, appare in grado magari di arginare, ma cer­to non di invertire il pro­cesso.

Questo, però, dovrebbe permettere alla Chiesa di ri­prendere possesso di spazi che le sono propri, senza essere frenata da malintesi collateralismi. Gli indizi di un ruolo ritrovato si intra­vedono in materia di immi­grazione, politica della fa­miglia, rapporti fra etica e informazione, coesione na­zionale. Anticipano una fa­se più appartata sul piano politico e meno ipotecata dal timore di turbare equili­bri di governo sui quali Santa Sede e Cei possono influire meno del passato: sebbene forse se ne renda­no conto solo ora.

Massimo Franco

09 dicembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it


Titolo: MASSIMO FRANCO Veleni e rischi
Inserito da: Admin - Dicembre 11, 2009, 04:29:15 pm
L'EDITORIALE

Veleni e rischi


La chiave per capi­re lo sfogo di Sil­vio Berlusconi da­vanti alla platea del Ppe, ieri a Bonn, è certa­mente l’esasperazione.
Troppi veleni e troppe ten­sioni, anche nel centrode­stra; e troppa incertezza. Al­trimenti, non si capirebbe come un presidente del Consiglio dotato di una maggioranza schiacciante possa dire che «la sovrani­tà è passata dal Parlamen­to al partito dei giudici». Lo stupore della platea fa pensare che il discorso sia stato iscritto più nella cate­goria delle stranezze italia­ne che in quella degli attac­chi alla democrazia, come sostiene l’opposizione: an­che se la scelta di parlare ad un congresso interna­zionale accentua l’imbaraz­zo. È come se da giovedì le ano­malie del Belpaese fossero state offerte al giudizio del­l’Europa. Le nazioni alleate sono state informate del rapporto tormentato fra magistratura e potere poli­tico; fra i processi e l’inve­stitura popolare di un capo di governo.

Il sospetto, pe­rò, è che il problema sia as­sai poco sentito fuori dai nostri confini; e che l’esportazione di un conflit­to istituzionale in una fase di crisi economica e finan­ziaria generalizzata sia ac­colta come un tema stacca­to dalla realtà. I contraccol­pi interni, però, ci sono: so­prattutto per il nuovo attac­co alla Consulta. Berlusconi, l’uomo che ha forgiato e dominato la Seconda Repubblica, sem­bra diventato il suo invo­lontario picconatore. Eppu­re, è convinto di non esse­re lui a sferrare i colpi che rischiano di lesionare il Pa­ese: si considera la vittima di una serie di sabotatori annidati in un potere sen­za legittimazione popola­re; e senza diritto di repli­ca. Ma in una lotta che ap­pare sempre più di soprav­vivenza, i rischi si moltipli­cano. Per questo il presi­dente della Repubblica, Giorgio Napolitano, e quel­lo della Camera, Gianfran­co Fini, non potevano tace­re; e infatti la cosa più ru­morosa è il silenzio della seconda carica dello Stato, Renato Schifani. La «preoccupazione» ed il «rammarico» espressi da Napolitano fotografano una situazione in bilico.

Il fatto che Berlusconi abbia scelto di non replicargli di­mostra che la sua offensi­va non risponde ad una strategia a tavolino; che non c’è la volontà di rom­pere con il Quirinale, seb­bene le critiche del Pdl al presidente della Repubbli­ca segnalino un’ostilità strisciante. La prospettiva di un governo costretto a procedere per altri tre anni in un clima di conflittuali­tà così accentuata fa venire i brividi. Promette un logo­ramento ed una paralisi de­cisionale dei quali paghe­rebbe il prezzo il Paese, ol­tre che Berlusconi. Il premier ribadisce la volontà di rivoluzionare le istituzioni. Ma se davvero ne è convinto, non si spie­ga il senso di impotenza che filtra dalle sue parole sui giudici. Mai come in questi giorni si ha l’impres­sione di un Berlusconi combattuto fra voglia di uscire dall’accerchiamento tornando davanti al corpo elettorale, e consapevolez­za che il Paese gli chiede di governare. Per quanto giu­stificata da un contorno di veleni, l’esasperazione non è il consigliere migliore. E gli annunci non seguiti da scelte conseguenti posso­no rafforzare gli avversari.

Massimo Franco

11 dicembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it


Titolo: MASSIMO FRANCO Pd e Fini difendono Napolitano...
Inserito da: Admin - Dicembre 12, 2009, 03:40:33 pm
LA NOTA

Sul ruolo del Quirinale si riapre il duello fra premier e presidente

Pd e Fini difendono Napolitano. Dura replica di Berlusconi


Lo scontro è sull’«arbitro». E sembra destinato a rimettere l’uno di fronte all’altro Giorgio Na­politano e Silvio Berlusconi. L’altro ieri il capo del governo aveva criticato oltre alla Corte costituzionale e la magistratura anche il presidente della Repubblica. Ma di fronte alla risposta netta di Napolitano non aveva controre­plicato, evitando l’inasprimento di un contrasto già laten­te. Ieri, invece, Berlusconi ha consegnato il suo messaggio di ghiaccio sulle preoccupazioni che il Quirinale aveva espresso per lo scontro istituzionale. «In realtà ci si dovreb­be preoccupare per l’uso politico della giustizia», ha detto. «C’è una situazione di violenza solo nei miei confronti».

Il senso è chiaro: palazzo Chigi non farà nessuna marcia indietro rispetto alle dichiarazioni rilasciate al congresso del Ppe a Bonn, nonostante fossero dettate dall’esaspera­zione. Non solo. Nell’invito a Napolitano a difenderlo dai magistrati si indovina l’irritazione per l’isolamento anche istituzionale che il presidente del Consiglio ritiene di avere avvertito intorno a sé. Il riferimento è alla recente udienza del pentito di mafia Gaspare Spatuzza, che ha chiamato in causa Berlusconi ed il senatore Marcello Dell’Utri: un’accu­sa smentita dal mafioso Filippo Graviano al processo di Palermo. Per Berlusconi «siamo alle comiche». Ma lo dice con un sorriso amarissimo.

La scia di veleni lasciata da quelle deposizioni sta inve­stendo i vertici dello Stato. Gianfranco Fini sostiene che proprio le parole di Graviano dovrebbero indurre alla fidu­cia nei giudici. Ed invita impli­citamente il premier a ricono­scersi nel presidente della Re­pubblica, «arbitro imparziale anche quando sbaglia». È quanto ripetono gli esponenti dell’opposizione, per i quali Napolitano rappresenta un punto di resistenza agli attac­chi berlusconiani alla Costitu­zione. Lo schema che si va deli­neando, però, rischia di ottene­re effetti indesiderati, alimen­tando l’offensiva berlusconia­na su un presidente «di sinistra».

Non a caso il ministro degli Esteri, Franco Frattini, repli­ca a Fini che «primo arbitro è il popolo»: riproponendo la dicotomia fra la legittimazione costituzionale del capo del­lo Stato, e quella «di fatto» di un premier mandato al gover­no dagli elettori. E annuncia una lettera all’Ue per «spiega­re che cosa sia la magistratura in Italia». Il pericolo insito in questa diatriba è che senza volerlo, il centrosinistra tiri troppo a sé il Quirinale: un’operazione accentuata dalla so­lidarietà a Napolitano da Fini, in rotta di collisione sempre più evidente col Cavaliere. Pier Ferdinando Casini, del­­l’Udc, cerca una mediazione. «Contro Berlusconi», ammet­te, «c'è sicuramente accanimento di una certa magistratu­ra. Ma la sua reazione deve essere composta».

L’aspetto positivo è che, nonostante tutto, il presidente della Repubblica non si stanca di sottolineare l’esigenza di ritrovare un filo di serenità. Eppure, se la campagna per riformare la Costituzione «vecchia di decenni» continua con i toni che segnano questi giorni, fra capo del Governo e dello Stato le tensioni promettono di continuare; e forse di inasprirsi. Ed anche Napolitano, indietro non torna. A che cosa porti tutto questo continua a non essere chiaro. Ma il fantasma del voto anticipato incombe, sebbene ieri Berlusconi abbia assicurato di non avere pensato «nean­che una sola volta» ad elezioni: parole sottoscritte dalla Le­ga, a conferma che il partito di Umberto Bossi faticherebbe ad assecondare una scelta così traumatica. Il vicesegreta­rio del Pd, Enrico Letta, avverte che naufragherebbe il fede­ralismo. Ma non sembra sufficiente a fermare la deriva.

Massimo Franco

12 dicembre 2009
da corriere.it


Titolo: MASSIMO FRANCO Superare la sindrome di Piazza Duomo
Inserito da: Admin - Dicembre 15, 2009, 03:55:20 pm
LA NOTA


Superare la sindrome di Piazza Duomo

Più che uno spartiacque, rischia di diventare un muro divisorio: una barriera di odio che può accentuare, invece di ridurre la distanza fra ciò che è percepito come berlusconiano e tutto quello che gli si oppone. L’aggressione di domenica in Piazza Duomo al presidente del Consiglio non ha calmato gli animi. Per questo ieri Giorgio Napolitano ha deciso di ritornare sul ferimento di Berlusconi; e di restituirlo alle sue dimensioni gravi e allarmanti.

Il centrodestra sembra di colpo placato dopo le tensioni delle ultime settimane fra Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini. Ma la rabbia e la voglia di puntare il dito contro gli avversari è prepotente. E l’opposizione deve fare i conti con se stessa.

Il segretario del Pd, Pierluigi Bersani, di­ce parole nette e coraggiose contro la vio­lenza e va a trovare il premier in ospedale.
Ma deve guardare in faccia la realtà di un pezzo del partito, che condanna il ferimen­to del premier fra mille distinguo; e di un’Idv,
l’alleato-concorrente, che rivendica il proprio diritto ad un antiberlusconismo senza solidarietà né pentimenti. È come se la «sindrome di Piazza Duomo» continuas­se a gravare su un Paese dominato dall’ipo­teca delle minoranze; e rallentasse la capa­cità di reazione contro un episodio «folle» che si sta rivelando il sintomo di una nor­malità avvelenata. Sembra si faccia fatica a comprendere fino in fondo quanto è acca­duto.

Le logiche conflittuali minacciano di raf­freddare l’emozione e l’allarme per qualco­sa che invece deve preoccupare. «È stato colpito e ferito il presidente del Consi­glio », avverte Napolitano in un’intervista al Tg2. «E anche se verrà verificato che si è trattato del gesto di uno sconsiderato, dob­biamo essere tutti egualmente allarmati. E quando dico tutti, intendo tutti gli italiani che credono nella democrazia e hanno a cuore che venga garantita la pacifica convi­venza civile». Sono parole che chiedono chiarezza e coerenza di comportamenti; ed invitano ad assumere un atteggiamento di­verso dall’esasperazione pericolosa delle polemiche. È un’insistenza figlia di una grande preoccupazione.

Motivata, verrebbe da dire dopo la reazio­ne di Antonio Di Pietro, che finge di non essere uno dei principali destinatari dell’ap­pello; ed invita la maggioranza a seguire i consigli di Napolitano. In realtà, il capo del­lo Stato sembra indovinare le potenzialità ed insieme i pericoli che si presentano do­po l’aggressione a Berlusconi. Quando insi­ste sull’esigenza di non vedere «complot­ti », parla al governo. E quando avverte che c’è una maggioranza votata per guidare il Paese per cinque anni, e dunque non biso­gna inseguire «scorciatoie», si rivolge al­l’opposizione. L’impressione è che sia un’esortazione simmetrica a non accarezza­re l’idea di elezioni anticipate.

Segno che il pericolo di rotture è tutt’al­tro che scongiurato; e che per il momento è difficile calcolare i contraccolpi che l’ag­gressione in Piazza Duomo produrrà. L’idea di una manifestazione di solidarietà a Berlu­sconi organizzata dal Pdl a febbraio fa pen­sare ad un’onda lunga ed emotiva. E l’insi­stenza dell’Idv nell’attaccare il presidente del Consiglio evoca un progetto di esaspera­zione dei contrasti: un «tanto peggio, tanto meglio» che si salda con la voglia di vendet­ta di qualche minoranza esagitata del cen­trodestra. Napolitano addita dunque una ri­composizione difficile, eppure obbligata: l’unica in grado di esorcizzare il fantasma di violenze vecchie e nuove.

Massimo Franco

15 dicembre 2009
da corriere.it


Titolo: MASSIMO FRANCO Il realismo necessario
Inserito da: Admin - Dicembre 22, 2009, 09:51:40 pm
L'analisi

Il realismo necessario

Quell’approccio ispirato al realismo


Dire che Giorgio Napolitano osserva con ottimismo la situazione significherebbe travisarne il pensiero, oltre che le parole.
Il suo discorso di ieri alle autorità dello Stato riflette piuttosto la consapevolezza che l’Italia oggi vive una fase tormentata, dominata da molte incognite e quasi in bilico fra stabilità ed elezioni anticipate e fra coesione nazionale e derive violente. L’agguato subito da Silvio Berlusconi a Milano, il 13 dicembre scorso, è stato un «fatto assai grave». Il presidente della Repubblica lo considera come l’epilogo di un imbarbarimento che aveva intravisto e sottolineato più volte. La sua lungimiranza, tuttavia, è una soddisfazione amara.

Per questo Napolitano si sforza di riproporre una lettura che assecondi, se non un clima da riforme condivise, tuttora improbabile, almeno un atteggiamento più ragionevole; e che analizzi rischi e potenzialità, optando per le seconde. Soprattutto, il suo invito è a non aggiungere fattori di divisione artificiosi ad elementi già seri di preoccupazione. Il cuore del suo ragionamento parte dalla presa d’atto che siamo in una legislatura «ancora nella fase iniziale». Il governo farebbe torto a se stesso e alla Costituzione se temesse complotti impossibili quando si ha la fiducia della maggioranza del Parlamento. Non si tratta di esaltare la stabilità in quanto tale: in gioco c’è qualcosa di più.

È «quel fondo di tessuto unitario » che il capo dello Stato teme sia lacerato da una nuova rottura politica e istituzionale. In fondo, il timore espresso nelle scorse settimane di una spirale crescente di veleni ha finito per dare frutti avvelenati anche «con la brutale aggressione al presidente del Consiglio ». Ma quello è solo il punto di arrivo, la «degenerazione verso un clima di violenza» con radici più profonde e lontane. La scommessa di Napolitano è che proprio l’episodio di piazza Duomo diventi l’inizio di un «ripensamento collettivo». Per tutti: per una magistratura della quale critica eccessi di protagonismo e la tentazione di darsi missioni improprie, e per lo stesso governo.

Il capo dello Stato vede incrinato il rapporto fra il Parlamento e Palazzo Chigi. Ritiene che il modo in cui negli anni scorsi le maggioranze hanno imposto le proprie priorità abbia compresso il ruolo delle Camere e peggiorato la qualità delle leggi. La critica non si limita al centrodestra berlusconiano.

Napolitano risale più indietro nel tempo, coinvolgendo in questo giudizio negativo anche altre coalizioni. Ma certamente fra 2008 e 2009 il fenomeno ha assunto contorni nitidi, al punto da evocare l’esistenza di un «sistema parallelo» a quello parlamentare di formazione delle leggi: una distorsione ormai così consolidata che per spezzarla non basta più il galateo istituzionale. Al capitolo delle riforme, tuttavia, il presidente della Repubblica si avvicina con decisione e insieme circospezione: nel senso che l’unico approccio possibile gli sembra quello magari non proprio minimalista ma certamente dettato da un sano realismo. Napolitano torna a suggerire poche proposte, e ben mirate: le uniche che, forse, potrebbero produrre risultati e non ulteriori frustrazioni nell’attuale legislatura. Ed aggiunge il proprio atto di fedeltà al sistema parlamentare, proclamando la sua contrarietà all’idea che esistano riforme costituzionali «di fatto e dunque operanti». Una Costituzione non cambia perché è mutato il sistema politico o è stata modificata la legge elettorale, secondo il capo dello Stato. Si tratta di un ammonimento chiaro: chiunque pensasse di forzare gli equilibri fra i poteri, di cercare scorciatoie magari per tornare alle urne, dovrà fare i conti con passaggi che la Carta prevede come obbligati e inviolabili. Ma se si arrivasse a quel punto, significherebbe che nessuno è stato in grado di governare i conflitti; e che invece del Paese più unito di quanto appaia, raffigurato da Napolitano, ha prevalso una strategia della lacerazione tale da evocare altri strappi: una specie di follia di piazza Duomo come normalità.

Massimo Franco

22 dicembre 2009
© RIPRODUZIONE RISERVATA
DA CORRIERE.IT


Titolo: MASSIMO FRANCO Professione incendiario
Inserito da: Admin - Dicembre 24, 2009, 09:57:58 am
LA NOTA

Professione incendiario

La letterina natalizia consegnata da Antonio Di Pietro al suo Gesù Bambino via Internet è il frutto un po’ andato a male dell’antiberlusconismo. Forse è anche frutto del timore che il confronto fra governo e centrosinistra faccia davvero qualche passo avanti.

La raffigurazione del Cavaliere come «il diavolo» non è nuova. Rilanciarla alla vigilia di Natale, però, inaugura un nuovo filone: quello della «teologia della demonizzazione». Il capo dell’Italia dei valori si candida ad esserne il capofila, maneggiando con scaltrezza, verrebbe da dire diabolica, lo strumento dell’innocenza infantile per antonomasia. Di solito si scrive a Gesù per promettere di essere buoni, ed avere in cambio buona salute per sé ed i propri cari, e piccoli grandi regali. Di Pietro usa invece il Bambinello come fantoccio per parlare in realtà a Pier Luigi Bersani, segretario del Pd; per accusarlo di «fare inciuci » col Satana nostrano, nella persona del presidente del Consiglio; e per dare legittimità quasi religiosa, in modo che vorrebbe essere faceto, alla propria opposizione.
«Caro Gesù bambino, tu lo sai bene com’è fatto il diavolo, e che non ci si può fidare di lui», scrive sul suo blog. «Con alcune persone, soprattutto con il diavolo, non si può dialogare ».

È un’operazione astuta e disinvolta fino al cinismo, non fosse altro per il modo col quale Di Pietro strumentalizza certe tradizioni: viene da chiedersi che cosa avrebbe detto lui, se Berlusconi avesse fatto una cosa del genere. Ma politicamente, il pensierino è ben congegnato. Si tratta di un panettone al cianuro posato sotto l’albero di quelli che formalmente rimangono i suoi alleati. D’altronde, Di Pietro ha un bisogno assoluto dell’inferno berlusconiano. Per paradosso, deve additarlo ed evocarlo soprattutto in una fase nella quale il premier riemerge dall’aggressione del 13 dicembre a Milano con un alone di compassione e di solidarietà che avversari come lui non possono tollerare. Fra l’altro Berlusconi ha cominciato a parlare di perdono, e scritto al Papa per ringraziarlo e promettere pace sociale: come se il ferimento di piazza Duomo lo avesse spinto a presentarsi con un volto incerottato ma più ecumenico, meno «bipolarista» e lacerante di quanto sia stato storicamente. Ha pure ricucito i rapporti con il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, col quale erano scesi due mesi di gelo dopo il no della Corte costituzionale al «lodo Alfano» sui processi alle alte cariche dello Stato. Insomma, troppi indizi preoccupanti di tregua, troppa crisi di astinenza da veleno per non suggerire un immediato riequilibrio.

La mossa dipietrista usa il Natale per inviare un messaggio non di pace, ma di conflitto. Chiama a raccolta l’estremismo che non solo non crede alle tregue, ma non le vuole perché significano mettersi in discussione, misurare i propri limiti oltre che le diavolerie altrui; di fatto, assumersi la responsabilità di non chiudersi nel proprio recinto autoreferenziale. Confrontarsi dovrebbe essere l’abc di qualunque formazione politica che aspiri a diventare, prima o poi, forza di governo. Dire che l’avversario è «il diavolo» equivale, al contrario, a presumersi angeli; e dunque a mettersi pregiudizialmente dalla parte di una ragione morale, assoluta. E astratta. Di Pietro sembra avere fretta, e svela la speranza che nel 2010 si rompa tutto e si torni a votare. Il centrosinistra magari perderebbe, ma lui crescerebbe nei rapporti di forza di un’opposizione sempre più minoritaria. Avere come nemico «il diavolo» offre posizioni di rendita rassicuranti.

Permette perfino di poter aspettare un decennio nel quale «per motivi anagrafici» il comico- predicatore Beppe Grillo prevede di togliersi dalle scatole «Andreotti, Cossiga, Berlusconi, Napolitano e Gianni Letta ». È questa, l’illusione collettiva che un certo radicalismo coltiva: senza rendersi conto che demonizzare gli avversari, soprattutto in politica, contribuisce a rafforzarli, se non a renderli eterni.

Massimo Franco

24 dicembre 2009
da corriere.it


Titolo: MASSIMO FRANCO Professione incendiario
Inserito da: Admin - Gennaio 02, 2010, 12:26:21 am
LA NOTA

Professione incendiario

La letterina natalizia consegnata da Antonio Di Pietro al suo Gesù Bambino via Internet è il frutto un po’ andato a male dell’antiberlusconismo. Forse è anche frutto del timore che il confronto fra governo e centrosinistra faccia davvero qualche passo avanti. La raffigurazione del Cavaliere come «il diavolo» non è nuova. Rilanciarla alla vigilia di Natale, però, inaugura un nuovo filone: quello della «teologia della demonizzazione». Il capo dell’Italia dei valori si candida ad esserne il capofila, maneggiando con scaltrezza, verrebbe da dire diabolica, lo strumento dell’innocenza infantile per antonomasia. Di solito si scrive a Gesù per promettere di essere buoni, ed avere in cambio buona salute per sé ed i propri cari, e piccoli grandi regali. Di Pietro usa invece il Bambinello come fantoccio per parlare in realtà a Pier Luigi Bersani, segretario del Pd; per accusarlo di «fare inciuci » col Satana nostrano, nella persona del presidente del Consiglio; e per dare legittimità quasi religiosa, in modo che vorrebbe essere faceto, alla propria opposizione. «Caro Gesù bambino, tu lo sai bene com’è fatto il diavolo, e che non ci si può fidare di lui», scrive sul suo blog. «Con alcune persone, soprattutto con il diavolo, non si può dialogare ».

È un’operazione astuta e disinvolta fino al cinismo, non fosse altro per il modo col quale Di Pietro strumentalizza certe tradizioni: viene da chiedersi che cosa avrebbe detto lui, se Berlusconi avesse fatto una cosa del genere. Ma politicamente, il pensierino è ben congegnato. Si tratta di un panettone al cianuro posato sotto l’albero di quelli che formalmente rimangono i suoi alleati. D’altronde, Di Pietro ha un bisogno assoluto dell’inferno berlusconiano. Per paradosso, deve additarlo ed evocarlo soprattutto in una fase nella quale il premier riemerge dall’aggressione del 13 dicembre a Milano con un alone di compassione e di solidarietà che avversari come lui non possono tollerare. Fra l’altro Berlusconi ha cominciato a parlare di perdono, e scritto al Papa per ringraziarlo e promettere pace sociale: come se il ferimento di piazza Duomo lo avesse spinto a presentarsi con un volto incerottato ma più ecumenico, meno «bipolarista» e lacerante di quanto sia stato storicamente. Ha pure ricucito i rapporti con il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, col quale erano scesi due mesi di gelo dopo il no della Corte costituzionale al «lodo Alfano» sui processi alle alte cariche dello Stato. Insomma, troppi indizi preoccupanti di tregua, troppa crisi di astinenza da veleno per non suggerire un immediato riequilibrio.

La mossa dipietrista usa il Natale per inviare un messaggio non di pace, ma di conflitto. Chiama a raccolta l’estremismo che non solo non crede alle tregue, ma non le vuole perché significano mettersi in discussione, misurare i propri limiti oltre che le diavolerie altrui; di fatto, assumersi la responsabilità di non chiudersi nel proprio recinto autoreferenziale. Confrontarsi dovrebbe essere l’abc di qualunque formazione politica che aspiri a diventare, prima o poi, forza di governo. Dire che l’avversario è «il diavolo» equivale, al contrario, a presumersi angeli; e dunque a mettersi pregiudizialmente dalla parte di una ragione morale, assoluta. E astratta. Di Pietro sembra avere fretta, e svela la speranza che nel 2010 si rompa tutto e si torni a votare. Il centrosinistra magari perderebbe, ma lui crescerebbe nei rapporti di forza di un’opposizione sempre più minoritaria. Avere come nemico «il diavolo» offre posizioni di rendita rassicuranti. Permette perfino di poter aspettare un decennio nel quale «per motivi anagrafici» il comico- predicatore Beppe Grillo prevede di togliersi dalle scatole «Andreotti, Cossiga, Berlusconi, Napolitano e Gianni Letta ». È questa, l’illusione collettiva che un certo radicalismo coltiva: senza rendersi conto che demonizzare gli avversari, soprattutto in politica, contribuisce a rafforzarli, se non a renderli eterni.

Massimo Franco

24 dicembre 2009
da corriere.it


Titolo: MASSIMO FRANCO Riforme sì ma vere
Inserito da: Admin - Gennaio 12, 2010, 09:52:07 pm
Riforme sì ma vere

Per la coralità con la quale è stato discusso e presentato, il programma emerso ieri dal vertice del centrodestra a palazzo Grazioli ha
l’ambizione di un piano per il resto della legislatura. Ma se non decollasse, non è escluso che alla fine possa rivelarsi anche una buona piattaforma elettorale. L’apertura ostentata all’opposizione in materia di giustizia è, almeno nelle intenzioni, un tentativo di disarmare le resistenze sul «processo breve» ed il legittimo impedimento: le misure che riguardano il presidente del Consiglio, sulle quali in realtà le divergenze rimangono, sottolineate dal centrosinistra con toni più o meno immutati.

Ma la maggioranza che ritrova Silvio Berlusconi dopo l’aggressione subita il 13 dicembre scorso in piazza Duomo, a Milano, ha avuto
l’accortezza di allargare i propri orizzonti. L’abbinamento con le riforme costituzionali e gli accenni ad una riforma del fisco entro il 2010 hanno l’obiettivo di dare spessore all’iniziativa; e in parallelo di diluire l’impatto dei provvedimenti che peseranno sulla sorte processuale del presidente del Consiglio. La novità è che dopo le tensioni interne dei mesi scorsi, il centrodestra mostra o almeno accredita una nuova compattezza.

Si tratta di una tregua che dovrebbe avere effetti a cascata: gli ultimi accordi per le candidature alle regionali; l’incontro, rinviato da tempo, fra Berlusconi ed il presidente della Camera, Gianfranco Fini; e un rapporto meno rissoso con la minoranza. Il Guardasigilli, Angelo Alfano, rilancia la riforma costituzionale sulla giustizia parlando di «consueta coesione» della coalizione. E indica tempi rapidi per proporla al Parlamento. In realtà, al di là delle ottime intenzioni, le incognite non sono del tutto scomparse.
La situazione, pacificata in apparenza, rimane in bilico.

La reazione di Fini all’ipotesi di una riforma delle tasse, fatta dallo stesso Berlusconi, è agrodolce.
Sottolineando che senza una copertura finanziaria l’idea si riduce a propaganda, il presidente della Camera offre l’ennesima sponda alle critiche dell’opposizione; e proietta un alone di suspense sul suo vertice con il premier. Ma l’ostacolo-principe rimane la giustizia.
Le modifiche offerte da Pdl e Lega sono ritenute dagli avversari inaccettabili. Il fatto che siano state ratificate a palazzo Grazioli e la volontà del governo di approvarle presto, acuiscono le diffidenze.

Il duello in latino fra il Pd che denuncia le «leggi ad personam» e Berlusconi che le definisce «ad libertatem » marca le distanze.
L’intenzione del governo di procedere comunque di fronte ad una «melina» parlamentare, è anche un invito a superare i veti di una parte dell’opposizione. Difficile non temere la continuazione delle convulsioni del 2009. L’incontro di ieri al Quirinale fra Berlusconi e il capo dello Stato, Giorgio Napolitano, fa pensare che rispetto al recente passato esista un margine di mediazione. Il problema è riuscire a conciliare l’esigenza della stabilità con quella di approvare riforme vere che valgano per tutti; che non solo siano di interesse generale, ma vengano percepite come tali.

Massimo Franco

12 gennaio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it


Titolo: MASSIMO FRANCO Una pace di interesse pensando alle regionali e alle inchieste...
Inserito da: Admin - Gennaio 15, 2010, 07:03:53 pm
LA NOTA

Una pace di interesse pensando alle regionali e alle inchieste del premier

Una colazione tesa che però segna il tramonto della «guerra civile» nel Pdl

Definire positivo l’incontro di ieri perché Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini hanno stipulato una sorta di patto di consultazione sa di paradosso. Rischia di fotografare più le distanze che la ripresa della collaborazione, per quanto guardinga e da consolidare, tra fondatore e cofondatore del Pdl. L’idea che esponenti di vertice di una stessa coalizione debbano promettere di vedersi più spesso dice quanto i percorsi del presidente del Consiglio e della Camera si fossero allontanati; e quanto in parte lo siano ancora. L’accenno ai «danni del fuoco amico», fatto dagli esponenti del centrodestra presenti alle due ore di colloquio, confermano le ferite provocate dalla guerra civile di carta alimentata dai giornali vicini al Pdl.

Ma la sensazione è che nonostante le tossine accumulate in questi mesi, e riemerse nel pranzo aMontecitorio, Berlusconi e Fini sappiano di dover tentare una tregua; e non soltanto perché c’è la campagna elettorale per le regionali. Anche l’allusione al «fuoco amico» è un modo indiretto per concordare l’archiviazione dello scontro fra palazzo Chigi e terza carica dello Stato. Con uno snodo delicato e fondamentale, nella strategia berlusconiana: l’esito parlamentare della legge sul «processo breve». Per il capo del governo, la disponibilità di Fini a non intralciarla, seppure fra qualche dubbio residuo, sarebbe la prova che i distinguo e le critiche seminati da mesi nei confronti del governo non erano atti di sabotaggio.

Su questo punto, sembra che alla fine le preoccupazioni dei due interlocutori, scortati dal sottosegretario Gianni Letta e da Ignazio La Russa e Italo Bocchino, si siano avvicinate più del previsto. La tesi secondo la quale Fini ha sempre e solo voluto rivendicare l’autonomia della Camera davanti al governo, è stata accettata dal premier anche perché preluderebbe ad un compromesso sul «processo breve». In realtà, commenti sull’esito del colloquio variano leggermente fra gli ex di An ed i berlusconiani. I primi appaiono cauti, non vogliono dare l’impressione che dopo settimane di scontri sia esplosa una pace sospetta: quella che fa parlare di «inciucio» ad Antonio Di Pietro.

Gli altri, invece, concordano sulla versione di una colazione interlocutoria ma non esitano a definirla positiva. «Si è ripresa una strada comune», sostiene il ministro Sandro Bondi, «anche se è giusto non dare tutto per risolto». È una prudenza obbligata, viste le polemiche che accompagnano il percorso parlamentare della riforma della giustizia; le tensioni con la magistratura, che col Consiglio superiore ha aperto un fascicolo dopo le accuse di Berlusconi ai pubblici ministeri che lo processano; e qualche differenza di vedute sull’alleanza con l’Udc. Il premier è irritato dalla «strategia dei due forni» dei centristi. «Quelli mi hanno stufato», avrebbe detto al presidente della Camera. «Pensano di allearsi con noi solo dove si vince? Allora basta intese con loro». Fini, invece, appare più attento a non rompere con il partito di Pier Ferdinando Casini in vista delle regionali. Nel Lazio, ritiene che la candidata del Pdl, la sindacalista Renata Polverini, possa vincere se rimane alleata dell’Udc.

Nelle file berlusconiane, tuttavia, c’è qualche malumore non solo su Casini, ma sulla scelta della stessa Polverini, sebbene Fini condivida le perplessità del premier sulla politica dei «due forni». Non è chiaro se la tregua dei vertici del Pdl reggerà. Ma l’incontro potrebbe implicare qualcosa di più di una riconciliazione forzata fra Berlusconi e Fini: magari il tramonto di una lunga offensiva partita dall’interno della maggioranza oltre che dal centrosinistra, che a tratti ha mostrato il governo in bilico. Il pranzo con Fini, percepito dall’opposizione come sponda contro Berlusconi, simboleggia la crisi di questa strategia. In realtà, la manovra si era bloccata già il 13 dicembre a Milano, appena la statuetta del Duomo lanciata da uno squilibrato ha colpito in faccia il premier. Non significa che nel Pdl le polemiche scompariranno. Ma cambia lo sfondo nel quale si inseriscono.

Massimo Franco

15 gennaio 2010
da corriere.it


Titolo: MASSIMO FRANCO L’intesa premier-Fini salda un’opposizione costretta alla durezza
Inserito da: Admin - Gennaio 22, 2010, 09:29:24 am
LA NOTA

L’intesa premier-Fini salda un’opposizione costretta alla durezza

Un fronte che va da Pd e Idv alla Cgil e all’Anm Ma Bossi dice: non ci fermiamo


Si è compattata anche l’opposizione. Con una risposta senza sbavature alla legge sul «processo breve» approvata mercoledì in Senato.
Non si avvertono più grandi distinzioni fra il Pd di Pier Luigi Bersani e l’Idv di Di Pietro e De Magistris. Guglielmo Epifani, segretario della Cgil, schiera anche il suo sindacato contro il provvedimento. E l’Anm e le altre magistrature insistono sulle conseguenze «gravemente dannose e negative» su migliaia di procedimenti in corso.

Eppure, lo scontro non sembra scalfire la determinazione del governo. A certificarla è Umberto Bossi, capo della Lega: «Sulla giustizia il percorso è avviato, non ci fermeranno». Sono parole che formalizzano la tregua fra Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini; e riducono le probabilità di una frattura quando la legge sul «processo a data certa», come preferisce definirlo il Guardasigilli, Angelo Alfano, approderà alla Camera. Palazzo Chigi si sente più forte, in primo luogo nella propria coalizione. Per questo non intende forzare i tempi a Montecitorio. Si limita a sottolineare con Fabrizio Cicchitto la subalternità del Pd a Di Pietro. D’altronde, il compattamento del centrodestra ottiene di rimbalzo quello avversario.

E la sollevazione dei magistrati non lascia al Pd margini di manovra: le Regionali di primavera sono un ostacolo al confronto. La sinistra politica deve fare i conti con quella sindacale e giudiziaria; e con quella parte dell’opinione pubblica convinta che sia stata approvata l’ennesima legge ad personam destinata ad affossare la giustizia. «Sarà il trionfo della tecnica di Erode», profetizza il procuratore di Torino, Caselli. La sua tesi è che si «farà strage di una massa di processi innocenti», come effetto collaterale dell’estinzione di quelli che riguardano il premier o i «colletti bianchi».

È l’accusa che ripetono Epifani, Pd, e un’Idv che con De Magistris paragona il «processo breve» a un’«amnistia veloce». Ma nella foga delle critiche, l’Anm ieri è stata costretta a una correzione di rotta. Dopo che il suo segretario aveva parlato di «resa dello Stato alla criminalità», il presidente, Luca Palamara, ha precisato che le valutazioni dell’Anm sono soltanto «di carattere tecnico». La puntualizzazione è stata apprezzata dal governo, che aveva chiesto maggiore serenità e distacco. Ma il braccio di ferro è in pieno svolgimento. Le parole berlusconiane contro le procure «plotoni d’esecuzione» hanno avuto l’effetto di ingrossare il fascicolo del Csm che raccoglie gli attacchi del premier. Come dice Bossi, il percorso è tracciato. Ma potrebbe riservare altre sorprese. E sullo sfondo rimangono i fantasmi dell’incostituzionalità e di un referendum.

Massimo Franco

22 gennaio 2010
da corriere.it


Titolo: MASSIMO FRANCO Nel centrodestra ora si profila una resa dei conti
Inserito da: Admin - Marzo 03, 2010, 11:33:05 am
LA NOTA

Nel centrodestra ora si profila una resa dei conti

Il pasticcio delle liste accentua le distanze tra Fini, premier e Lega


Non si sa ancora se il Pdl avrà una lista alle regionali nella provincia di Roma: l’ufficio elettorale dirà oggi se verrà riammessa dopo che sabato scorso era stata presentata fuori tempo massimo. È chiaro, invece, che il centrodestra si prepara a reagire ad una seconda bocciatura parlando di «grave vulnus politico»: tesi sostenuta dai tre coordinatori nazionali Bondi, Verdini e La Russa. Definisce i radicali «agenti provocatori».

E adombra un complotto politico-giudiziario per impedire la presentazione delle liste del Pdl in Lazio e Lombardia. Eppure proprio La Russa aveva parlato di «grave leggerezza». E ieri Umberto Bossi ha ironizzato sui «dilettanti allo sbaraglio». Un innalzamento dei toni così brusco, al quale tra l’altro ha fatto da sponda il presidente del Senato, Renato Schifani, suggerisce qualche domanda. Più si procede verso il voto del 28 e 29 marzo, più cresce la sensazione che quegli episodi non siano la sola causa dell’inquietudine nella coalizione berlusconiana.

C’è una fragilità vistosa del corpo del partito nato dalla fusione tra FI e An; e viene accentuata dalla marcia in ordine sparso dei leader della maggioranza. Silvio Berlusconi fa del suo meglio per accreditare un Pdl unito. Annuncia una campagna nella quale «la scelta di campo» dovrebbe surrogare candidature non sempre felici. Ma intorno non ha né alleati, né generali docili. Ad appena quattro settimane dal voto, proprio ieri Gianfranco Fini ha dichiarato in pubblico che «così com’è adesso il Pdl non mi piace». E il ministro dell’Interno Roberto Maroni, numero due della Lega, ha esaltato l’esperienza del Carroccio rispetto al pressappochismo dimostrato dal Pdl.

La bocciatura nel Lazio, che per il momento coinvolge anche la lista della candidata Renata Polverini, catalizza ironie e contrasti. Quando Maroni taglia la strada ad una «leggina» per rimediare agli errori del Pdl laziale, parla come responsabile del Viminale; ma è guardato da alcuni berlusconiani come il leghista che si rifiuta di circoscrivere il pasticcio. Sono indizi di un nervosismo crescente; e del timore che il riequilibrio dei governi regionali nei confronti del centrosinistra non sia più così scontato. Ieri la Polverini, data finora per sicura vincente, ha dovuto ribadire in un comizio: «Io rimango candidata, smentisco chi dice che non lo sono più». Inquieta la prospettiva di uno smottamento dei consensi sull’onda della delusione.

Antonio Di Pietro alimenta questa guerra dei nervi, evocando il fantasma che Berlusconi teme di più: la vittoria «del partito di maggioranza relativa dell’astensionismo». Berlusconi teme che il Pdl, considerato dal premier «un punto di forza» a dispetto di Fini, stia diventando di nuovo un bersaglio intermedio per destabilizzare il governo. È un gioco autolesionista del quale l’incidente delle liste finisce per diventare il simbolo involontario: la prova che le cose non funzionano. Ma c’è qualcosa di peggio che fa capolino in queste ore convulse. È come se alcuni settori del centrodestra ormai fossero proiettati oltre le regionali, oltre la vittoria e la sconfitta: tutti concentrati sulla resa dei conti che sembrano sicuri ne seguirà.

Massimo Franco

03 marzo 2010
da corriere,it


Titolo: MASSIMO FRANCO Quella soluzione «all’italiana»
Inserito da: Admin - Marzo 07, 2010, 11:40:06 pm
IL DECRETO PER LE ELEZIONI REGIONALI

Quella soluzione «all’italiana»


Il governo ha optato per una soluzione molto «all’italiana»: un decreto che dice di interpretare la legge elettorale, senza cambiarla.
Ma ottiene comunque l’effetto desiderato: far rientrare le liste del Pdl per le regionali in Lazio e Lombardia, bocciate dalla magistratura. È l’unico modo col quale il centrodestra può sperare di ottenere non il «placet» impossibile dell’opposizione, ma la non ostilità del Quirinale; e riemergere comunque ammaccato, senza però perdere due regioni-chiave. È il risultato di una mediazione affannosa e difficile, per la quale Silvio Berlusconi e la sua maggioranza sanno di dover ringraziare Giorgio Napolitano.

Senza le obiezioni di un presidente della Repubblica comprensivo e insieme irremovibile su alcuni punti, a pastrocchio si sarebbe aggiunto pastrocchio; e la scelta del decreto sarebbe apparsa ancora più grave e inaccettabile di quanto già non sia. La soluzione che sembra a portata di mano si lascia dietro comunque una scia di polemiche, proteste e quasi certi ricorsi, perché è «tagliata» per riammettere la lista di Roberto Formigoni e quella del Pdl in provincia di Roma. Il fatto che non modifichi la legge, limitandosi a «leggerla» a favore della maggioranza, rende il testo meno indigesto al Quirinale solo sotto il profilo costituzionale. Insomma, il provvedimento cerca di somigliare a quel «male minore» che rappresenta l’unico sbocco plausibile di una vicenda figlia del pressappochismo dei dirigenti del Pdl.
D’altronde, le alternative promettono di risultare più traumatiche. Il rischio è quello di una forzatura da parte di palazzo Chigi, che tenderebbe i rapporti con l’opposizione e con Napolitano, costringendo il capo dello Stato a non firmare il decreto: una prospettiva tale da aprire un conflitto istituzionale in piena campagna elettorale. Oppure si arriverebbe all’esclusione definitiva del centrodestra in due regioni- chiave: un esito formalmente ineccepibile, ma che dal punto di vista politico falserebbe il voto del 28 e 29 marzo.

Si tratta di un salvataggio in extremis per il quale la coalizione berlusconiana paga un prezzo politico e d’immagine alto. E questo nonostante sia un contributo ad evitare una delegittimazione delle elezioni; e lacerazioni peggiori in Parlamento e nel Paese.

Il Pd e l’Udc denunciano, e non gli si può dare torto, «il precedente gravissimo che si crea». Non è scontato che sia un annuncio di barricate, pure evocate dall’Idv di Antonio Di Pietro e dai radicali. L’impressione è che serva a ribadire che del pasticcio e della sua soluzione rabberciata è responsabile solo lo schieramento berlusconiano. Ad altri tocca il compito ingrato di limitare i danni, per quanto è possibile.

Massimo Franco

06 marzo 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it


Titolo: MASSIMO FRANCO Pasticcio (parte seconda)
Inserito da: Admin - Marzo 09, 2010, 02:27:56 pm
Pasticcio (parte seconda)


La sensazione sconfortante è che il decreto sulle liste elettorali alla fine rischi di non servire a nulla. Finora non ha salvato quella del Pdl in provincia di Roma; e le altre due, di Roberto Formigoni in Lombardia e di Renata Polverini nel Lazio, sono state riammesse comunque dalla magistratura dopo i ricorsi. Insomma, la forzatura voluta dal centrodestra si è scontrata con il primato della legge regionale. La decisione presa ieri dal Tribunale amministrativo del Lazio complica la strategia di palazzo Chigi. Non è da escludersi per oggi un colpo di scena all’Ufficio elettorale di Roma, in attesa del Consiglio di Stato. Ma rimane la somma di pasticci giuridici e politici che la maggioranza è riuscita ad accumulare nella sua fretta di rimediare agli errori. L'obiettivo di far votare tutti era e rimane giusto. Il modo in cui Silvio Berlusconi e la sua coalizione hanno cercato di perseguirlo si è rivelato subito così segnato dall'affanno da diventare scomposto. Il provvedimento è stato chiesto e ottenuto dal Quirinale dopo un duro braccio di ferro, scartando soluzioni condivise arrivate anche su queste colonne. Il risultato accresce confusione e tensioni; e rispedisce intatta la questione ai mittenti. Le conseguenze più gravi, però, probabilmente sono altre. Intanto, il centrodestra non è riuscito ancora a garantire che ognuno possa esercitare il proprio diritto di voto: sebbene si tratti in primo luogo di sostenitori del Pdl. In più, questa vicenda a metà strada fra disprezzo delle regole e farsa ha l'effetto di dilatare l'immagine di una nomenklatura a dir poco pasticciona: incapace di dare soluzioni accettabili anche a problemi che dovrebbero essere i «fondamentali » delle sue competenze. Ormai non si tratta più soltanto delle liste respinte per irregolarità e ritardi. C'è anche il decreto legge fortemente voluto da Berlusconi e controfirmato dopo molte resistenze e limature dal presidente della Repubblica. Quando esponenti del governo rivelano con un candore sconcertante che non si aspettavano la decisione presa dal Tar, aggiungono perplessità a perplessità sulla strategia adottata dalla maggioranza. E questo mentre cominciano a circolare voci su un possibile rinvio delle elezioni regionali nel Lazio: indizi di una situazione che si cerca di riportare sotto controllo. Ma a dover preoccupare non è tanto l'eccesso di potere sfoggiato dal governo: il «golpe» inesistente evocato da un'opposizione rapida solo a imboccare la scorciatoia della «piazza» rivela in realtà un'imprevista fragilità del centrodestra. A colpire, semmai, è il vuoto che accomuna gli schieramenti; e la difficoltà a ritrovare un baricentro che rassicuri l'opinione pubblica. Il disorientamento nasce dalla sproporzione fra il problema tutto sommato minore delle liste e l'enormità del caos che ne è scaturito. Nessun nemico della Seconda Repubblica sarebbe riuscito ad inventare un piano per delegittimarla più perfetto di questa manifestazione involontaria di dilettantismo.

Massimo Franco

09 marzo 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it


Titolo: MASSIMO FRANCO E adesso il Cavaliere vuole a tutti costi la «sua» manifestazione
Inserito da: Admin - Marzo 14, 2010, 03:24:50 pm
LA NOTA

E adesso il Cavaliere vuole a tutti costi la «sua» manifestazione

Regge la tregua Pd-Idv sul Quirinale, ma in piazza il leader è Di Pietro


Almeno per un giorno il centrosinistra è riuscito a non dividersi su Giorgio Napolitano. Per l’opposizione è una buona notizia.
Forse perfino migliore della panoramica di piazza del Popolo, a Roma, gremita e sovrastata dalla doppia leadership di Pier Luigi Bersani e Antonio Di Pietro; ma circondata da una folla che ricordava troppo il reducismo dell’Unione di Romano Prodi. Gli organizzatori parlano di duecentomila persone, la questura di venticinquemila. In qualche misura, sembra già scattato il confronto con la manifestazione voluta da Silvio Berlusconi per sabato prossimo, sempre nella capitale, a piazza San Giovanni: anche se alleati come la Lega ancora ieri speravano in un annullamento.

Umberto Bossi contava su una risposta positiva del Consiglio di Stato alla richiesta del Pdl di riammettere la lista esclusa nella provincia di Roma. Se fosse accaduto, il capo del Carroccio avrebbe suggerito al presidente del Consiglio di ripensarci. Il Consiglio di Stato, invece, si è pronunciato per il «no». Ha ritenuto di non potere neanche procedere all’appello presentato dal centrodestra. È la conferma di una bocciatura provocata dagli errori dei presentatori, più che da una congiura.

Ma questo non può far sottovalutare le conseguenze negative che l’assenza avrà sul voto regionale a Roma. Il Pdl accoglie il verdetto come ulteriore conferma di un’ingiustizia. «Il secco no pronunciato dal Consiglio di Stato significa soltanto una cosa: che in Italia le regole variano da regione a regione», fa sapere il partito di Berlusconi. L’allusione è al «nulla osta» ricevuto nella stessa giornata dalla lista di Roberto Formigoni. Ma questa disparità smentisce la tesi di una manovra dei magistrati.

Eppure, nonostante le critiche dell’Udc e le ironie del resto dell’opposizione, sarà la protesta contro i giudici a dettare le parole d’ordine di sabato prossimo a piazza San Giovanni. D’altronde, il premier deve additare una congiura contro il suo movimento. Se il calcolo è quello di scuotere gli indifferenti, il complotto politico e giudiziario dovrebbe mobilitare; e la vicenda oscura dell’inchiesta su Berlusconi a Trani può dargli una mano. Per questo il presidente del Consiglio sottolinea insieme quelle che ritiene le sbavature della giustizia, e l’antiberlusconismo che domina il centrosinistra.

È «grottesco che si manifesti per la perdita di libertà quando è a noi che si cerca di togliere libertà di voto», protesta il capo del governo. Ma, tanto più nel momento in cui Pd e Idv si sono accordati per non attaccare il Quirinale, Berlusconi è il bersaglio naturale e unificante. Alternativa e unità delle sinistre hanno come premessa la guerra totale al Cavaliere. Ed il radicalismo dipietrista diventa protagonista, sebbene Massimo D’Alema cerchi di sminuirlo, ricordando con malizia che il Pd veleggia verso il 30 per cento, l’Idv sarebbe intorno al 6.

Massimo Franco

14 marzo 2010
da corriere.it


Titolo: MASSIMO FRANCO Così nasce la diarchia verde-azzurra (ecco una penna di regime).
Inserito da: Admin - Marzo 21, 2010, 04:26:33 pm
LA NOTA

Così nasce la diarchia verde-azzurra

Così tratterà da posizioni di forza con Fini e l’opposizione

Sul palco di piazza San Giovanni, a Roma, ieri è spuntata una coalizione che almeno fino alle regionali prefigura una diarchia fra Silvio Berlusconi e Umberto Bossi. Gianfranco Fini non c’è più. La sua assenza per «motivi istituzionali» è diventata qualcosa di diverso.

Il Pdl la vive quasi alla stregua di una diserzione. Il premier non ha mai citato il presidente della Camera: come se ormai toccasse a Fini chiarire se si sente ancora parte di quella piazza, e cofondatore del partito. Il successo numerico ed il segnale di vitalità offerti dalla manifestazione sono indiscutibili; ma per gli effetti politici occorrerà aspettare le elezioni del 28 e 29 marzo. Gli organizzatori parlano di un milione di persone: 150 mila per la Questura. Se però l’obiettivo era quello di correggere l’immagine sfuocata della maggioranza negli ultimi mesi, l'operazione sembrerebbe riuscita. Rimane un margine di ambiguità inevitabile. Nella decisione di dare una prova di forza è sempre insito il pericolo di rivelare una debolezza inconsapevole. Né basta la volontà di «reagire a due mesi di attacchi della sinistra e dei suoi giudici», come ha detto Silvio Berlusconi nel suo discorso, per compensare il paradosso di un governo in piazza: una scelta che l’opposizione definisce contraddittoria, additando un populismo del premier. Ma si tratta di un populismo studiato.

Il capo del governo ha presentato Bossi come «uomo del popolo». E Pdl e Carroccio sono presentati come simboli di un potere che vuole dimostrare di essere ancora intatto. Si tratta di un’alleanza fra uguali, perché Bossi ha rivendicato la propria indipendenza da Berlusconi: al punto da ricordare alla piazza di essere «l’unico a non avere mai chiesto una lira» al Cavaliere. Non solo. Mentre Berlusconi attaccava «la sinistra ammanettata a Di Pietro», da Vedano Olona, vicino Varese, il ministro dell’Interno Roberto Maroni ha confermato la strategia della Lega: essere «la forza di riferimento di tutte le regioni del nord». La divisione dei compiti è abbozzata, dunque.

Se i risultati di domenica e lunedì prossimi daranno davvero un’ulteriore spinta ai «lumbard», il premier dovrà tenere ancora più conto dell’«asse del Nord»; ed in parallelo cercare di non perdere il consenso nel resto del Paese. Insomma, la sensazione è che i rapporti nel centrodestra si stiano ridisegnando perfino in anticipo rispetto alle elezioni. Si tratta di un processo in apparenza inesorabile. Eppure, saranno le regioni vinte o perse fra una settimana ed il computo nazionale dei voti a confermare o modificare non tanto l’istantanea della folla in piazza San Giovanni, ma l’uso che Berlusconi ne potrà fare; e probabilmente la stessa configurazione del centrodestra emersa ieri pomeriggio. Solo un responso delle urne pari alle ambizioni espresse ieri dal centrodestra dimostrerà l’efficacia dell’iniezione di energia tentata dal premier.

E gli permetterà di trattare da posizioni di forza con Fini, con l’opposizione, e con quanti pensano o si illudono che la sua stella sia declinante.

Altrimenti, le ambizioni di riforma presidenziale e della giustizia possono diventare frustrazioni; e complicare il «mandato pieno» chiesto per i prossimi tre anni. La «piazza dei moderati» finirebbe per apparire il palcoscenico di una prova muscolare possente ma politicamente sterile. L’ultimo «no» del Consiglio di Stato alla lista del Pdl a Roma, e la conferma che anche nel Lazio si voterà il 28, in fondo è un richiamo agli errori commessi.

Massimo Franco

21 marzo 2010
da corriere.it


Titolo: MASSIMO FRANCO Una mossa obbligata rivolta ai cattolici tentati dai radicali
Inserito da: Admin - Marzo 23, 2010, 06:02:10 pm
LA NOTA

Una mossa obbligata rivolta ai cattolici tentati dai radicali

Ma nel discorso del presidente Cei Bagnasco le critiche sono a 360 gradi


È difficile leggere le parole del cardinale Angelo Bagnasco ignorando la candidatura di Emma Bonino alla presidenza della Regione Lazio. L’appello del capo dei vescovi italiani alla cittadinanza perché «inquadri con molta attenzione il proprio voto» appare un po’ irrituale: se non altro perché avviene a meno di una settimana dalle elezioni regionali di domenica e lunedì prossimi. E rimanda in modo trasparente alla possibilità che l’esponente radicale scelta dal Pd prevalga su Renata Polverini. Riproporre difesa della vita e no all’aborto come «temi non eludibili», è un segnale di allarme. E forse va letto anche come un altolà a qualche cattolico disorientato. È una conferma implicita dell’eventualità di una vittoria della Bonino. La Cei sembra ritenerla plausibile e la teme: al punto da adombrare un’indicazione di voto che può creare polemiche ed avere contraccolpi imprevedibili.

È possibile che aiuti la candidata del centrodestra; ma non si può escludere, per paradosso, l’effetto opposto. Forse Bagnasco l’ha messo nel conto. E vuole ribadire fin d’ora che la Conferenza episcopale vedrebbe la Bonino al vertice del Lazio come un governatore ostile ai principi ed ai valori cattolici. D’altronde, lo stesso Silvio Berlusconi sabato scorso a piazza San Giovanni aveva accennato all’argomento. Adesso, alla sua inquietudine si somma quella dei vescovi: anche perché, per motivi diversi, sia il Pdl che il Vaticano temono un effetto-domino nello spazio di tre anni. Una vittoria della Bonino potrebbe anticipare la perdita del Campidoglio. Il segretario del Pd, Pier Luigi Bersani lo dice. A suo avviso il risultato del Lazio sarebbe «il fatto politico più rilevante. Qui c’è il primo piatto che aspetta poi il secondo. Non si può lasciare Roma in mano al sindaco Giorgio Alemanno».

Ma se per il Pdl il problema è politico, per Bagnasco riguarda l’approccio culturale delle giunte locali. Quando il presidente della Cei chiede alle Regioni di tutelare «le strutture sanitarie di ispirazione cristiana», tocca uno dei nervi più delicati. Il timore è che un governatore radicale ingaggi un braccio di ferro con gli ospedali cattolici. La Bonino liquida il discorso come una non-novità. Bersani mostra più attenzione, perché contiene critiche a tutto campo, richiamando la politica alla moralità e non delegittimando le inchieste della magistratura. In questo senso, esiste un problema anche per il Pdl, che tende a presentarsi come garante dei valori cristiani. Ma la presa di posizione è un’incognita soprattutto per la Cei. Il rischio è che l’elettorato si pronunci in modo tale da trasformare una sconfitta del centrodestra in Lazio in qualcosa di diverso: magari dia la sensazione che i vescovi abbiano sempre meno voce in capitolo sugli orientamenti dell’opinione pubblica. Probabilmente non è proprio così; né si dovrebbe pensare il contrario qualora la Bonino fosse sconfitta. Di certo, da ieri il Lazio assume, suo malgrado, una rilevanza che non gli aveva dato neppure il pasticcio delle liste del Pdl bocciate dalla magistratura.

Massimo Franco

23 marzo 2010
da corriere.it


Titolo: MASSIMO FRANCO Una Lega spavalda promette stabilità e ignora il non-voto
Inserito da: Admin - Marzo 25, 2010, 11:06:06 am
LA NOTA

Una Lega spavalda promette stabilità e ignora il non-voto

L’attenzione è ad una percentuale ormai quasi dimenticata: quel 71,4 per cento degli elettori che votarono alle regionali del 2005. E la scommessa è di non scendere troppo sotto il 70 per cento; insomma, di smentire un’Italia avviata a replicare nelle urne di domenica e lunedì quella «sindrome francese» che ha appena portato la Francia a minimi storici di partecipazione. Il martellamento del centrodestra, e quello meno vistoso del Pd, cerca di invertire se non una tendenza inesorabile, una grande paura. L’ipotesi di un astensionismo patologico significherebbe non solo decidere il risultato delle regioni in bilico: delegittimerebbe la classe politica, associando il crollo a scandali e irregolarità. Silvio Berlusconi sta alzando i toni in modo esagerato per trasmettere al proprio elettorato la consapevolezza di un voto politico gravido di conseguenze. La cosa singolare è che negli ultimi giorni il premier è affiancato in questa «strategia dell’allarme» da Umberto Bossi, mentre Gianfranco Fini si tiene a distanza. Anche il capo leghista adesso ribadisce che il 28 e 29 marzo si esprimerà un giudizio destinato a pesare sulle sorti del governo. Dà ragione a Berlusconi sul «no» al faccia a faccia col segretario del Pd, Pierluigi Bersani; lo definisce l’uomo che ha salvato il Paese «dai matrimoni fra omosessuali»; lo loda per la «sensibilità popolare ». Insomma, santifica l’asse Pdl-Lega.

Ma con un’ulteriore novità: la maggioranza sembra sempre più convinta, o forse vuole credere che sia in atto un’inversione di tendenza. Le regionali sono diventate elezioni di metà legislatura, e l’astensionismo sarebbe un fantasma meno spaventoso di un paio di settimane fa. È ancora Bossi a spargere parole alla camomilla, sostenendo che il fenomeno del non voto «è destinato a pesare meno rispetto a quanto sembrava» all’inizio. E di «francese» non ci sarebbe neppure la vittoria della sinistra che ha umiliato il presidente di centrodestra Nicolas Sarkozy. «Il vento di sinistra non arriverà, si fermerà sul Moncenisio, contro le Alpi», proclama Bossi. Non si azzarda ad andare oltre, e a dire chi sarà colpito maggiormente dall’astensione, se la destra o la sinistra. Gli basta sognare ad occhi aperti un nord leghizzato con la conquista del Piemonte, dando per scontata la vittoria in Lombardia e Veneto. Fiutando percentuali sopra il 10 per cento nazionale per il Carroccio, è più facile sottolineare l’abbraccio e l’intesa con Berlusconi. Oltre tutto, la sensazione è che ai vertici della coalizione governativa stia circolando l’idea di una qualche ripresa della partecipazione, confortata cautamente dai sondaggi. Si dà per scontato un calo dei votanti, collocandolo però fra un 4 e un 5 per cento.

Se le cifre fossero confermate domenica e lunedì, si potrebbe sostenere che è una disaffezione quasi fisiologica, dopo i pasticci delle liste del Pdl bocciate, ripescate e, nel Lazio, escluse definitivamente dalla magistratura; le inchieste giudiziarie sul premier e sulla giunta di centrosinistra in Puglia; il black out televisivo nel servizio pubblico; e la violenza verbale che ha accompagnato tutta la campagna elettorale. Resta da capire se il governo potrebbe tirare il fiato. Il modo in cui la Lega si muove lascia intuire che conta su una continuità blindata dalla propria ascesa. Sostenere, come fa Bossi, che il sorpasso sul Pdl nel nord è naturale; di più, che a Berlusconi non dispiace perché i lumbard sono un fattore di stabilità, significa prefigurare equilibri di governomodificati a favore del «partito padano»; ed un’agenda del governo sempre più concordata fra Pdl e Lega, con un Fini relegato e quasi imprigionato nel suo ruolo istituzionale di presidente della Camera. Dopo il 29 marzo «non cambia niente», dice Bossi, «i patti li abbiamo già fatti anni fa». È il linguaggio di un vincitore «in pectore», pronto a puntellare il centrodestra con un travaso di voti a proprio favore. E in fondo, convinto che, comunque vada agli alleati, la Lega potrà giocare un ruolo strategico nel cuore del nord.

Massimo Franco

25 marzo 2010
da corriere.it


Titolo: MASSIMO FRANCO Tre anni senza alibi
Inserito da: Admin - Marzo 30, 2010, 08:21:00 pm
Tre anni senza alibi


La diarchia fra Silvio Berlusconi e Umberto Bossi esce consacrata dalle urne regionali. Il timore dell’astensionismo si è rivelato almeno in parte fondato. Il 7 per cento in meno di elettori rispetto al 2005 rappresenta un avvertimento da non sottovalutare. Ma l’«imparzialità » con la quale il fenomeno ha colpito maggioranza e opposizione dice che si tratta di una disillusione verso entrambi gli schieramenti.

Da questo punto di vista, per il governo i risultati sono un successo; e per la Lega addirittura un trionfo. Per il premier il pericolo scampato non nasce soltanto dal fatto che il centrodestra è passato a guidare sei regioni su tredici, da due che ne aveva: si tratta di realtà che «pesano» in termini di popolazione. La vittoria in Campania, e soprattutto in Lazio e Piemonte dove l’incertezza era totale, ribalta gli equilibri. A rendere più netto il responso sono una consultazione insidiosa per la maggioranza; l’esclusione della lista del Pdl a Roma; e la crisi economica del Paese, simile al resto dell’Ue.

Il governo riemerge dunque indenne da una fase confusa anche per sua responsabilità. Forse è esagerato parlare del «mandato pieno» chiesto da Berlusconi; ma certamente la maggioranza ha avuto una nuova legittimazione, e non la sconfessione che gli avversari speravano di veder spuntare fra scandali e inchieste giudiziarie. Il trionfo del Carroccio e la sua penetrazione nelle regioni «rosse» è compensato da quello del Pdl a sud. Per la coalizione, insomma, non si scorgono problemi immediati. L’asse fra Bossi e Berlusconi stabilizza l’alleanza; e semmai limita gli spazi di manovra degli oppositori interni: a cominciare da Gianfranco Fini.

Il sorpasso netto dei lumbard nel Veneto anticipa una trattativa nel governo. E i commenti di Bossi sono scevri da trionfalismi verso gli alleati, puntando solo sul cannibalismo leghista ai danni della sinistra. L’approccio conferma la linea astuta del Carroccio, ma non reprime il malumore del Pdl. Inoltre, i tre anni che il governo ha davanti non offrono più alibi da accampare per l’incapacità di fare le riforme o per le decisioni non prese: il centrodestra deve governare davvero. Eppure, per paradosso è l’opposizione a gestire una fase difficile, nonostante la prevalenza numerica.

Le regioni appenniniche somigliano a una ridotta delle giunte rosse assediate a nord dal leghismo e al sud dal berlusconismo. Il Pd non ha ancora trovato un equilibrio fra Udc e Idv. E sembra costretto a guardare a una sinistra estrema che clona spezzoni radicali, come le liste del comico Grillo. È l’opposizione che Berlusconi sogna e che contribuisce a plasmare, con la collaborazione involontaria degli avversari e delle loro pulsioni di retroguardia.

Massimo Franco

30 marzo 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it


Titolo: MASSIMO FRANCO DOPO UNA CAMPAGNA DI ERRORI E VELENI
Inserito da: Admin - Marzo 30, 2010, 08:25:06 pm
DOPO UNA CAMPAGNA DI ERRORI E VELENI

Il valore di un voto


Una campagna elettorale segnata dalla confus i o n e e d a un’inutile violenza verbale si chiude con torbide manovre eversive contro il premier, la Lega e il governatore di centrosinistra della Puglia. Si tratta dell’appendice coerente di uno spettacolo mediocre: uno scontro che avrà appassionato i militanti, lasciando però interdetti molte elettrici ed elettori.

Gli appelli unanimi a non disertare le urne appaiono dunque giustificati. Nascono dal timore di avere insinuato più di un dubbio in un Paese affezionato alle urne, nonostante tutto. Ad importare ulteriore incertezza è l’alto tasso di astensioni alle Regionali francesi di metà marzo. Ma l’Italia elettorale ha dimostrato ripetutamente di essere più concreta e smaliziata di quanto credesse la classe politica; ed assai poco suggestionabile sia da quello che avviene oltre i propri confini, sia da una conflittualità artificiosa. Per questo, qualunque esito andrà analizzato con il rispetto dovuto ad un responso popolare più prezioso, stavolta, perché è stato involontariamente scoraggiato.

La tentazione di restare a casa è stata alimentata dal pasticcio delle liste del Pdl escluse dalla magistratura; dalle inchieste giudiziarie deflagrate mentre erano in corso i comizi; e dalla sospensione delle trasmissioni politiche della Rai. La schiuma tossica delle polemiche, tuttavia, non può velare l’importanza del voto di oggi e domani in tredici regioni. A prima vista è soprattutto un maxi-sondaggio sul governo di Silvio Berlusconi a due anni da quel 2008 che gli ha dato una maggioranza indiscussa per governare. Registrerà quanto sta pesando sui suoi consensi la crisi economica. Misurerà i rapporti di forza nel centrodestra, dove la Lega sente il profumo di una vittoria che la renderebbe il baricentro degli equilibri del Nord: non solo politici ma economici.

E, in base al risultato del Pd e dell’Idv, ma anche di un’Udc a caccia di consensi a spese del bipolarismo, dirà con quale opposizione il governo avrà a che fare. Insomma, da lunedì si comincerà a capire meglio come andranno i prossimi tre anni di legislatura. Ma i riflessi nazionali non possono mettere in ombra le conseguenze del voto in ogni singola regione. Le spese degli enti locali e le competenze in materia di sanità, per citare un esempio eclatante, prefigurano una gestione che potrà essere fonte di scelte difficili, a Nord come al Centro e al Sud; e, purtroppo, come si è già visto, con scandali dai riflessi destabilizzanti. Ed il microcosmo del Lazio rischia di diventare l’imbuto degli errori, del caos e del nervosismo accumulati nell’ultimo mese dai due schieramenti.

Il controverso monito della Cei sull’aborto rimanda alla candidatura di Emma Bonino alla presidenza della Regione per conto del centrosinistra: una prospettiva che, a torto o a ragione, il Vaticano non ha esitato a definire un pericolo. Ma si teme anche una coda avvelenata della rissa sulla lista del Pdl di Roma, esclusa perché è stata presentata fuori tempo massimo. Preoccupa la voce di una possibile «guerra delle schede» fra scrutatori al momento di contare i voti. Sarebbe l’ultimo insulto ad un elettorato che, dopo tanto chiasso, ha il diritto di andare ai seggi senza dover subire spettacoli gladiatori a porte chiuse, estranei alla democrazia.

Massimo Franco
28 marzo 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it


Titolo: MASSIMO FRANCO La strategia della Lega per i cattolici
Inserito da: Admin - Aprile 02, 2010, 08:58:54 pm
DOPO LE REGIONALI

La strategia della Lega per i cattolici


Era prevedibile che uno degli effetti collaterali della vittoria leghista alle regionali fosse l’accentuazione della sua strategia cattolico-padana. I veti sulla pillola abortiva lanciati ieri da Roberto Cota e Luca Zaia, neogovernatori di Piemonte e Veneto, sorprendono solo in parte; e altrettanto prevedibile era la «benedizione» di monsignor Rino Fisichella. Si tratta di un asse impostato e rinsaldato da mesi, più o meno sotto traccia. Umberto Bossi e il suo partito l’hanno coltivato cancellando i ricordi di un paganesimo leghista che associava i papi e i vescovi a «Roma ladrona» e preferiva i riti celtici a quelli cristiani.

E la Chiesa cattolica da tempo osserva compiaciuta questa conversione, perché è a caccia di sponde politiche che sostengano la sua agenda. Basta pensare ai colloqui che il ministro e capo leghista aveva avuto nell’autunno scorso prima col presidente della Cei, Angelo Bagnasco, e poi col segretario di Stato vaticano, Tarcisio Bertone: mosse che il quotidiano la Padania aveva celebrato come l'ufficializzazione di un legame identitario. Allora, si indovinò la voglia di Bossi di entrare in competizione con Silvio Berlusconi su un terreno che era stato sempre monopolio del presidente del Consiglio; e di riempire lo spazio lasciato libero da Gianfranco Fini, un interlocutore dal quale la Santa Sede si è sentita trascurata, se non tradita. Ma l'iniziativa controversa di Cota e Zaia sembra aprire la seconda fase della strategia cristiana della Lega: una battaglia «sui valori» giocata di nuovo dentro il centrodestra, con il supplemento di potere dato al Carroccio dal voto regionale; ma rivolta anche ad insidiare le sacche cattoliche residue nell’opposizione.

È come se Bossi applicasse la tecnica del partito pigliatutto anche nei rapporti con il Vaticano. In fondo, Cota non si è lasciato sfuggire l'appoggio dell'Udc di Pier Ferdinando Casini e di Rocco Buttiglione alla candidata piemontese del centrosinistra, Mercedes Bresso: una delle bestie nere dei vescovi proprio sulla pillola Ru486. È stato un passo falso che ha finito per mettere l’Udc sulla difensiva soprattutto per il successo del Carroccio. Quanto ad Emma Bonino, sconfitta nel Lazio, il centrosinistra ha tentato un po’ goffamente di escludere l'esistenza di un caso fra l'esponente radicale e il Vaticano: anche dopo il monito duro e ai confini dell'ingerenza di Bagnasco alla vigilia delle elezioni. La stessa Bonino ha cercato di accreditare questa tesi, tranne poi spiegare di essere stata battuta perché nelle province laziali il peso della Chiesa cattolica è molto forte: una spiegazione che ha un po’ il sapore dell'alibi. C'è dunque un secondo vuoto che la Lega si ripropone di coprire nei rapporti con il mondo cattolico, ed è quello lasciato da alcune scelte contraddittorie del Pd. L'operazione, dunque, è a tutto campo. Bossi sfrutta le difficoltà attuali delle gerarchie ecclesiastiche.

E cerca di piegare le posizioni della Cei alle priorità leghiste in materia di lotta alla diffusione dell'islamismo; all’immigrazione clandestina; e di competizione sia col Pdl che con la sinistra. Per raggiungere lo scopo non esita a bacchettare i cardinali che ritiene «fuori linea», come avvenne nel dicembre scorso contro l'arcivescovo di Milano, Dionigi Tettamanzi, considerato dai leghisti troppo «filo-islamico». L'offensiva di Cota e Zaia riflette un leghismo popolare, cristiano e padano che offre i propri «crociati» alla Chiesa cattolica; ma in cambio pretende un collateralismo senza cedimenti sui temi che interessano al partito. Al Carroccio il Vaticano serve per accentuare il suo ruolo di perno del centrodestra e, in prospettiva, del sistema. E ai vescovi, in questa fase convulsa, l'appoggio astuto di Bossi è utile forse perfino di più per arginare la sensazione di una solitudine inedita.

Ma il «federalismo della pillola abortiva» è una di quelle iniziative destinate a dimostrare quanto sia complicato e discutibile bloccare una legge dello Stato; e come l’alleanza Lega-Vaticano abbia confini geografici e politici che finiscono per esaltarne non la forza ma i limiti e l’ambiguità.

Massimo Franco

02 aprile 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it


Titolo: MASSIMO FRANCO La cabina c’è, la regia no
Inserito da: Admin - Aprile 11, 2010, 08:55:47 am
L'ANALISI

La cabina c’è, la regia no


Il ricordo di quindici anni di frustrazioni istituzionali non sta portando consiglio; né l’«autostrada» di un triennio di legislatura sembra una garanzia sufficiente che le riforme si faranno. I primi passi di una maggioranza rilegittimata dal voto regionale di fine marzo tendono ad essere confusi e non sincronizzati. Anzi, si sarebbe tentati di dire che all’ombra dei disegni di cambiamento rischiano di riproporsi veti reciproci e competizioni fra alleati; e, come risultato non voluto, un nulla di fatto. L’invito pressante di Giorgio Napolitano a far tesoro dei fallimenti del passato sul presidenzialismo arriva in una giornata segnata dalla sensazione di un approccio poco meditato; e dalla conferma di una divergenza intatta fra Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini: con il Pd schierato accanto al presidente della Camera.
È il segno che la cosiddetta «cabina di regìa» risulta insieme affollata e caotica; e che ritenere di modificare la Costituzione senza discutere e magari dividersi almeno su alcune regole fondamentali, potrebbe dare corpo a progetti velleitari e ad aspettative ambigue.
La Lega fa capire che i primi risultati forse arriveranno già a fine anno, col Carroccio nel ruolo di «motore». Ma i messaggi contrastanti di ieri suggeriscono prudenza. Cogliendo l’occasione dell’incontro a Parigi col presidente francese Nicolas Sarkozy, Berlusconi ha abbracciato ed italianizzato il sistema francese: l’elezione del capo dello Stato e del Parlamento in un unico turno. Poche ore dopo, però, Fini ha voluto smontare l’impalcatura del premier. Ha usato parole dure sulla «differenza tra politica e propaganda»; e contro un «approccio di parte di questa o quella forza politica».

Nella maggioranza il distinguo è stato accolto come l’ennesimo scarto finiano contro Berlusconi: un atteggiamento ostile che si pensava archiviato col risultato elettorale. Ma le critiche del presidente della Camera si saldano non solo con la diffidenza di un centrosinistra incline al pessimismo. In qualche modo incrociano la determinazione di Umberto Bossi ad approdare ad una nuova Costituzione che legittimi un’Italia federalista, d’intesa con l’opposizione. Coinvolgere almeno il Pd, per la Lega è importante. Lo considera l’antidoto contro l’eventualità che le riforme siano cancellate con un referendum, se fra qualche anno vince un’altra maggioranza: è quanto successe dopo la legislatura dal 2001 al 2006 guidata dal centrodestra. Per questo Berlusconi teme che i suoi progetti siano ostacolati anche dall’interno della coalizione: nonostante la tenuta dell’asse di ferro con Bossi.

Su questo sfondo in movimento, si inseriscono i suggerimenti e gli inviti alla moderazione provenienti da Napolitano. La preoccupazione del Quirinale è che le riforme siano evocate come «una formula magica»: un vessillo sventolato nell’illusione che, da solo, basti a produrre risultati. Se la magìa non riesce, il contraccolpo sarebbe quello di terremotare il sistema, senza approdare a nulla. Per questo il capo dello Stato insiste sulla necessità di dare certezze e stabilità alle istituzioni. Ed inserisce fisco, sicurezza sociale e giustizia fra le riforme da approvare insieme a quelle sulla forma del governo. Senza ostentarlo, il presidente della Repubblica offre insomma la propria «regìa», nel tentativo di accompagnare un progetto scontato solo sulla carta. La affianca a quelle rivendicate dallo stesso Berlusconi e da Bossi, alleati e insieme concorrenti nella costruzione di una possibile «Terza Repubblica».

Si tratta di una sfida che richiede determinazione, volontà di collaborazione, pazienza. E tempo. Il primo e l’ultimo elemento ci sono; gli altri due, almeno per ora, esistono solo nelle intenzioni. Il presidente del Consiglio è quasi certo del rifiuto del centrosinistra a concedergli un’apertura di credito: lo vede diviso e condizionato da Antonio Di Pietro. Dunque, al di là delle offerte formali di tregua con l’opposizione, si prepara ad affrontare il Parlamento forte soprattutto dei voti della propria coalizione. Ma sa che anche nell’alleanza potrebbe spuntare un «partito della sponda» ai suoi avversari. D’altronde, è evidente che chiunque riuscirà ad avvicinare e cucire posizioni oggi conflittuali, oltre che diverse, si candiderà di fatto a perno del sistema. E potrà mettere un’ipoteca pesante sull’epilogo della legislatura e sulla successione al Quirinale, nel 2013.

Massimo Franco

10 aprile 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it


Titolo: MASSIMO FRANCO Nella confusione la Lega punta sul Quirinale
Inserito da: Admin - Aprile 11, 2010, 09:05:39 am
LA NOTA

Nella confusione la Lega punta sul Quirinale

Aumenta l’incertezza sull’agenda e sulla fattibilità delle riforme

La Lega insiste a ritagliarsi il ruolo di «motore delle riforme»; e per puntellare le sue ambizioni giura che il presidente della Repubblica è dalla sua parte. È un modo eccessivo e un po’ affannoso di accreditare un asse privilegiato fra Carroccio e Quirinale. Sembra fatto per tenere il punto di fronte agli alleati del centrodestra, che contestano il primato del Carroccio. In realtà, il profilo delle riforme istituzionali rimane incerto e, se possibile, ancora più confuso di qualche giorno fa. Non si capisce chi sarà riconosciuto come regista di questa strategia; né se riuscirà a coinvolgere l’opposizione; e nemmeno quali risultati otterrà in concreto.

C’è soltanto una parola d’ordine, dietro la quale si affollano i vincitori delle regionali del 28 e 29 marzo. Pdl e Lega tendono ad utilizzare la nuova priorità della maggioranza per misurare la forza raggiunta nelle urne. Ma gli obiettivi e gli strumenti appaiono tuttora non coincidenti. Le stesse aperture all’opposizione, fatte sia da Silvio Berlusconi che dai vertici dei lumbard, sembrano dettate dall’esigenza di ridisegnare i rapporti interni. Diventare interlocutori del Pd è uno dei modi per dimostrare la propria centralità. Umberto Bossi afferma: «Con l’opposizione trattiamo noi». Ed il ministro dell’Interno Roberto Maroni avverte che il contributo del partito di Pier Luigi Bersani è «indispensabile».

Una ragione non dissimile spinge il neo-governatore leghista del Veneto, Luca Zaia, ad accogliere il capo dello Stato in visita a Verona e poi a dichiarare che «il presidente è dalla nostra parte. Mi ha confermato come il federalismo sia l’unica via per uscire dall’impasse della crisi. Per noi significa vedere il sole». In realtà, il Quirinale osserva il fermento nella coalizione governativa con una miscela di interesse e di cautela. Il timore di assistere ad un dibattito inconcludente o, peggio, rissoso, è più diffuso di quanto non appaia in questa prima fase di ostentato entusiasmo. Bisogna conciliare federalismo, presidenzialismo, riforme della giustizia; e convincere l’opinione pubblica.

Non solo. L’idea di arrivare ad una decisione rapida senza passare attraverso un dibattito indolore all’interno e fra i due schieramenti, rischia di rivelarsi illusoria. Nelle poche parole dette ieri in proposito da Napolitano si indovinano la speranza ed insieme una prudenza di fondo. «La fine di questa legislatura coinciderà con la fine del mio mandato al Quirinale», ha ricordato il presidente della Repubblica. «Facciamo che non sia una legislatura sprecata per le riforme. Discutiamo quali sono effettivamente necessarie e realizziamole». È un invito alla concretezza, a non inseguire modelli e formule che storicamente non hanno portato a nulla se non ad una crescente frustrazione.

Gianfranco Fini ha messo in guardia dal rischio della superficialità: soprattutto in materia di presidenzialismo. L’ipotesi peggiore è che affastellando le proposte si arrivi alla constatazione di un sistema irriformabile; e di una classe politica incapace di accordarsi sui valori fondamentali. Per quanto un po’ sterilizzato dalla legge sul «legittimo impedimento», sullo sfondo rimane il conflitto fra politica e magistratura; spuntano prospettive, subito smentite, di nuove tasse. E si intravede un’opposizione più debole dopo il voto regionale; ostaggio delle pregiudiziali «dipietriste » contro Berlusconi; e per questo ancora più esitante a sbilanciarsi: almeno fino a che dalla maggioranza arriverà una proposta in grado di aprire qualche varco.

Massimo Franco

09 aprile 2010
da corriere.it


Titolo: MASSIMO FRANCO Ormai il Leader ha scelto Bossi
Inserito da: Admin - Aprile 16, 2010, 03:59:24 pm
LA NOTA

Ormai il Leader ha scelto Bossi


Il premier ritiene che se il Pdl ha perso qualcosa al Nord, è soprattutto per le tesi di Fini sull’immigrazione

La crisi fra Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini è ancora virtuale. Ma difficilmente potrà essere smaltita, dopo il pranzo di ieri che doveva ritentare una tregua. È una conseguenza delle elezioni regionali del 28 e 29 marzo, che hanno cementato il rapporto fra il premier e Umberto Bossi.

Era lo scenario che Fini sperava più o meno segretamente di vedere sconfitto dalle urne. L’asse è diventato così vistoso da dare corpo ad una diarchìa nella quale la Lega rivendica il ruolo di vincitore; ed il centrodestra sembra indifferente al pungolo del presidente della Camera. Il suo scarto appare dunque come il tentativo estremo, e probabilmente fuori tempo massimo, di spezzare una dinamica non creata ma certificata dal voto. Il riserbo iniziale ostentato dai due commensali aveva già alimentato molti sospetti; la dichiarazione ufficiale resa nel pomeriggio da Fini li ha rafforzati. Quando ricorda che il Pdl deve avere «piena coscienza di essere un grande partito nazionale», l’ex capo di An polemizza con i «diarchi»: in particolare con i cedimenti che a suo avviso Berlusconi colleziona per placare il protagonismo del «padano» Bossi. Le sue parole lasciano intuire una richiesta di ruolo e di spazio nel Pdl, che un anno di partito unico ha brutalmente ridimensionato. E rilanciano l’idea dell’«altro centrodestra», coltivato in modo sempre più solitario da Fini; e reso evanescente dall’esito delle regionali. Il progetto viene riproposto adesso con un forte carica polemica; e con un’analisi del voto che accredita un Pdl perdente a vantaggio della Lega, e dunque indebolito: un’impostazione agli antipodi con quella di Berlusconi che invece rivendica comunque un netto successo del governo. Il premier ritiene che se il partito ha perso qualcosa nel Nord, è soprattutto per le tesi di Fini in materia di immigrazione. Pensare dunque che il recupero possa partire da una competizione con Bossi su quei temi viene considerato velleitario, se non suicida. Il presidente della Camera dice di «attendere serenamente» le valutazioni berlusconiane: gli ha consegnato una sorta di penultimatum di 48 ore. Ma si tratta di una serenità contraddetta dalla minaccia finiana di dare vita ad un gruppo parlamentare autonomo. La sola evocazione di un’iniziativa del genere costituisce uno strappo, almeno psicologico. Berlusconi avverte che se Fini abbandona, di fatto, la maggioranza, dovrebbe lasciare anche la presidenza della Camera. Siamo ancora ai «se». Ed i tempi che i capi del Pdl si sono concessi per decidere lascia in teoria qualche margine. Ma se davvero si dovesse arrivare alla rottura, non si possono escludere contraccolpi traumatici: il presidente del Senato Renato Schifani parla di elezioni anticipate. Sarebbe il paradosso di un centrodestra che vince e poi implode, scaricando i suoi conflitti interni sul Paese.

Massimo Franco

16 aprile 2010
da corriere.it


Titolo: MASSIMO FRANCO I costi della guerriglia
Inserito da: Admin - Aprile 23, 2010, 12:03:39 pm
I costi della guerriglia

E’ finita un’epoca: non solo per il Pdl ma per il centrodestra. L’immagine di Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini che si accusano in pubblico, sotto gli occhi dei dirigenti del partito e del Paese, è a suo modo storica. Archivia sedici anni di sodalizio politico, perché quello personale si era guastato da tempo. E getta un’ombra sul futuro della maggioranza, del governo e della stessa legislatura.
Da oggi comincia un rapporto che chiamare coabitazione è eufemistico: siamo alla vigilia di una guerriglia quotidiana, anche in Parlamento, capace di destabilizzare il Paese.

Quella a cui si è assistito ieri a Roma, durante la direzione del Pdl, è stata una rottura esasperata, viscerale fino a sfiorare lo scontro fisico. È la conseguenza di un dialogo impossibile fra due visioni e due personalità ormai agli antipodi, non più complementari. E produce una frattura che Berlusconi vuole certificare, perché rifiuta l’idea di un Pdl lacerato dalle correnti; e che Fini cerca di tamponare, per non farsi spingere fuori dal partito e dalla presidenza della Camera: forse anche per dimostrare che il Cavaliere non è più così onnipotente.

Può darsi che l’ex leader di An ottenga almeno questo risultato: a carissimo prezzo, però. Ieri mattina, le sue parole sono calate su una direzione del Pdl insieme nervosa e ostile: umori che si riflettevano fedelmente nei gesti impazienti del premier. Per il modo polemico col quale sono state allineate, le critiche finiane hanno mostrato non tanto le sue ragioni, ma la distanza ormai siderale da un partito nel quale dopo le Regionali di marzo si sono creati equilibri dai quali è escluso. Il Pdl ha ascoltato e osservato Fini con una diffidenza e un pregiudizio radicati, perché ormai viene percepito dal centrodestra come un apolide.

Il suo scarto sembra soprattutto la reazione a un’alleanza con la Lega che lui subisce, e alla quale reagisce con uno smarcamento plateale ed esagerato: quello che in gergo calcistico si chiama fallo di frustrazione. L’irritazione berlusconiana fa capire che si tratta di un colpo doloroso, anche per le allusioni pesanti sulla giustizia. Quando il premier accusa i finiani di esporre il Pdl al ludibrio pubblico, dà voce a una preoccupazione diffusa. Dopo una vittoria elettorale netta, è difficile spiegare la rissa nello schieramento vincente mentre c’è una crisi economica grave: suona come un comportamento irrazionale e irresponsabile.

Ma la minoranza sembra seguire una logica che ignora l’accusa di puntare al «tanto peggio tanto meglio ». Fini certifica col suo s t r a p p o l a p r o p r i a marginalità nel Pdl, pur di lesionare l’immagine del Cavaliere come amalgama della maggioranza: anche se per paradosso rafforzerà la Lega che vorrebbe arginare. Sono i frutti di un antiberlusconismo di destra che per ora rimane annidato nelle pieghe del Pdl; ma che difficilmente può sopravvivere in un contesto che logora tutti. A questo punto, Fini non ha nulla da perdere; Berlusconi e il Paese, molto di più.

Massimo Franco

23 aprile 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it


Titolo: MASSIMO FRANCO Bossi attacca e media temendo che la rissa affossi il federalismo
Inserito da: Admin - Aprile 24, 2010, 10:34:25 am
LA NOTA

Bossi attacca e media temendo che la rissa affossi il federalismo

Il Pdl teme la guerriglia della squadra finiana in Parlamento


La voglia prepotente è di mettere in pratica da subito la «strategia della terra bruciata» intorno a Gianfranco Fini ed al suo piccolo drappello di dissidenti. Ma le scadenze parlamentari suggeriscono di aspettare e vedere quale sarà il comportamento del presidente della Camera. Non c’è, però, nessuna quiete dopo la tempesta della direzione del Pdl di giovedì. I rapporti fra Silvio Berlusconi ed il cofondatore rimangono tesissimi, sebbene si cerchi un modo per non far precipitare la situazione del governo. La durezza con la quale Umberto Bossi ha attaccato lo strappo finiano sulla Padania di ieri conferma che sulla legislatura si può allungare l’ombra delle elezioni anticipate. Formalmente, la Lega ha dichiarato guerra all’ex leader di An: un «gattopardo democristiano », nelle parole di Bossi, ostile al Nord ed al federalismo.

Ci sarebbe «un crollo verticale del governo e probabilmente della fine di un’alleanza». E Berlusconi avrebbe dovuto «sbattere fuori Fini subito», secondo il gran capo leghista. Ma l’attacco non è al presidente del Consiglio, né tende ad accelerare una crisi. Anzi, si ha l’impressione che l’avvertimento del Carroccio sia destinato per il momento a puntellare Berlusconi; a coprire le sue prossime mosse; ed a spingere affinché si vada avanti con le riforme. Solo se si fermano quelle, spiega Bossi, c’è il rischio che la legislatura non duri. Non a caso Bossi aggiunge che se si dovesse andare alle urne «Berlusconi diventerà l’unico baluardo anticomunista. E prevedo che raccoglierà molti consensi».

Si tratta di una preoccupazione espressa ed estremizzata per aiutare la stabilità, almeno nell’immediato. I lumbard vogliono evitare che la rottura provocata da Fini affossi il federalismo, oltre alle altre riforme. Per questo, si tenta di capire se il gruppetto antiberlusconiano di An voglia iniziare una guerriglia parlamentare contro i provvedimenti del governo; oppure se esistano margini per avere garanzie che la maggioranza non sarà affossata o comunque insidiata ad ogni votazione importante. Misure come il legittimo impedimento o, appunto, la «carta delle autonomie» cara alla Lega, sono a rischio. E qualche contraccolpo della guerra interna del Pdl si avverte nella stessa formazione di giunte di centrodestra come il Lazio, crocevia delle tensioni di vertice. Ogni parola della coalizione berlusconiana gronda diffidenza nei confronti di Fini.

Bossi ripete, moderandole, le perplessità di Palazzo Chigi sulla sua permanenza alla presidenza della Camera, dicendo che «è un problema». Ed il capogruppo al Senato, Maurizio Gasparri, avverte che se «qualcuno del Pdl boicottasse l'azione del governo, tradirebbe non solo il partito ma gli elettori». Sono messaggi minacciosi ed insieme segnali di temporeggiamento: perché è difficile cercare la spallata nell’immediato. Le riunioni di minoranza che Fini sta tenendo e programmando prefigurano un piano per costringere Berlusconi ad accettare il fatto compiuto della corrente: una situazione che il premier fatica ad ammettere anche solo in linea di principio. E le apparizioni in tv del presidente della Camera servono a bilanciare l’immagine di isolamento offerta durante la Direzione; a spiegare un gesto di rottura che l’elettorato di centrodestra sembra non avere capito né approvato; ed a rilegittimare il profilo politico di Fini: sebbene a scapito di quello istituzionale, un po’ sgualcito.

Massimo Franco

24 aprile 2010
da corriere.it


Titolo: MASSIMO FRANCO Chiarire subito
Inserito da: Admin - Maggio 04, 2010, 10:29:38 am
Chiarire subito

Non si possono ancora dare per scontate le dimissioni del ministro dello Sviluppo economico, Claudio Scajola. Ma i tempi per decidere la sua sorte si stanno brutalmente accelerando. A pesare non è solo la saldatura delle opposizioni che con qualche ragione pretendono le sue spiegazioni di fronte al Parlamento. Il ministro appare sempre più in bilico all’interno della propria maggioranza. Il fatto che ieri sera sia tornato precipitosamente dalla Tunisia, dove doveva rimanere in missione per due giorni, segnala l’aggravamento della sua posizione.

Per paradosso, finora il governo di Silvio Berlusconi lo ha appoggiato più o meno tacitamente perché quasi non voleva credere alle accuse nei confronti di Scajola. Se confermate, dimostrerebbero infatti un comportamento non solo illecito ma così imprudente e maldestro da lasciare allibiti. L’unica spiegazione plausibile sarebbe quella di un senso di impunità tale da far dimenticare al ministro, al di là di ogni altra considerazione, qualunque cautela; e da trascinarlo ad acquistare un appartamento con aiuti finanziari al di sotto di ogni sospetto.

Si tratta di una questione che presenta profili politici insidiosi, per il centrodestra. Mette in pericolo non la sua tenuta ma la sua popolarità: bene assai più prezioso in un momento di incertezza economica e di tensioni vistose fra il premier e l’ex alleato Gianfranco Fini. Sembrava che la difesa ad oltranza di Scajola potesse servire a puntellare la tesi del complotto antiberlusconiano. La nettezza e la foga con le quali il ministro continua a respingere le accuse sembravano legittimare una doverosa presunzione di innocenza (confortata anche dal fatto che il ministro finora non è indagato); ed hanno spiegato l’esitazione di Palazzo Chigi, almeno fino a ieri.

Ma nelle ultime ore qualcosa deve avere incrinato la certezza della coalizione di trovarsi di fronte ad un «processo mediatico » senza fondamento. E soprattutto, ha fatto capire che i tempi scelti da Scajola per andare dal magistrato come «persona informata dei fatti» il 14 maggio, e poi in Parlamento, risultano biblici: troppo lunghi rispetto allo stillicidio di notizie che filtrano quotidianamente; e capaci di rivelarsi controproducenti per la credibilità di un governo reduce dalla vittoria alle regionali di fine marzo ma in balìa delle tensioni interne.

C’è da sperare che, oltre alle minacce di querele, il ministro offra una versione convincente e decisiva del suo operato: ai propri alleati, in primo luogo. Sta diventando sempre più chiaro che qualche dubbio corposo ormai si è insinuato nello stesso centrodestra. Il destino politico di Scajola dipende dalla sua residua credibilità nel governo.

C’è solo da augurarsi che un suo eventuale passo indietro, spontaneo o forzato, aiuti la verità: senza violare il garantismo, ma anche senza sgualcirlo, usandolo come alibi per coprire un errore individuale e per non guardare in faccia la realtà.

Massimo Franco

04 maggio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it


Titolo: MASSIMO FRANCO Dietro le dimissioni altri focolai di tensioni nel Pdl
Inserito da: Admin - Maggio 05, 2010, 04:29:08 pm
LA NOTA

Dietro le dimissioni altri focolai di tensioni nel Pdl

Le ombre del G8 e la paura di una saldatura tra finiani e opposizione


Le parole di stima di Silvio Berlusconi addolciscono un po’ l’uscita di scena del ministro dello Sviluppo economico, Claudio Scajola. Anche se le dimissioni annunciate ieri mattina in una conferenza stampa che non contemplava domande, hanno finito per sottolineare l’imbarazzo. E l’ammissione di Scajola sull’inopportunità per un ministro di abitare in una casa che si sospetta pagata da altri, ha dato all’epilogo della vicenda aspetti un po’ surreali. La sensazione è che il governo voglia voltare pagina. Si rende l’onore delle armi a quelli che il premier definisce «sensibilità istituzionale ed alto senso dello Stato»; e si evoca la «gogna mediatico- giudiziaria».

Berlusconi arriva a dire che in Italia ci sarebbe «troppa libertà di stampa». Dietro si intravede il timore che il caso Scajola non sia una brutta parentesi isolata. Se pure si riuscisse a dimostrare «la totale estraneità ai fatti» del ministro, come sostiene Palazzo Chigi, il futuro è nebuloso. L’incognita è lo scandalo per i lavori del G8 alla Maddalena. Le ramificazioni dei favori elargiti ai beneficiari degli appalti governativi allungano ombre che rappresentano un fattore di incertezza. Il presidente del Consiglio non nasconde di essere preoccupato. E torna a puntare il dito contro la magistratura che si «accanirebbe» contro il suo governo. E teme un tentativo della minoranza del Pdl di cavalcare la «questione morale», convergendo con spezzoni dell’opposizione. I finiani criticano il fatto che i vertici del partito non abbiano accelerato la discussione della legge contro la corruzione. E la frantumazione degli ex di An fra seguaci del presidente della Camera e di Ignazio La Russa, alleato del premier, accentua la confusione.

Per bilanciare la corrente di Fini, il ministro della Difesa ha dato vita a circoli che indirettamente legittimano l’altra iniziativa. E la saldatura in Sicilia fra il governatore Lombardo e il Pdl ostile al capo del governo apre un altro fronte: col «sudismo» come reazione di Fini e dei suoi contro il presunto «nordismo» dell’asse Berlusconi- Tremonti-Bossi. Sono indizi di uno scollamento che la vittoria alle regionali di marzo, paradossalmente, accentua. L’assenza di un’alternativa sembra incoraggiare gli alleati ad una conflittualità perpetua, perché il governo «non può» cadere. Perfino sulla gestione del dopo-terremoto all’Aquila, considerata a lungo un fiore all’occhiello del governo, riaffiora la polemica. L’occasione è il rapporto dell’OCSE (l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo in Europa), che riconosce il valore della Protezione civile italiana, affidata al sottosegretario Guido Bertolaso. Berlusconi ringrazia. E respinge le critiche piovute sul governo per la lentezza nella rimozione delle macerie all’Aquila. Era il Comune che pensava di guadagnarci, dice, e ci aveva chiesto di non occuparcene. A tre mesi e mezzo di distanza, il presidente del Consiglio riapre anche il capitolo dell’intervento Usa dopo il terremoto ad Haiti, nelle Antille. Le perplessità che Bertolaso aveva espresso erano «assolutamente fondate », secondo Berlusconi: allora, crearono un mezzo incidente diplomatico con la Casa Bianca.

Massimo Franco

05 maggio 2010
http://www.corriere.it/politica/nota/10_maggio_05/nota_f0485700-5804-11df-b44b-00144f02aabe.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO Il Cavaliere tenta di gestire i contraccolpi delle indagini
Inserito da: Admin - Maggio 14, 2010, 06:09:18 pm
LA NOTA

Il Cavaliere tenta di gestire i contraccolpi delle indagini

L’approccio sta diventando più guardingo, e aperto a tutti gli scenari: anche i più insidiosi per il governo. Il modo in cui Silvio Berlusconi parla delle inchieste giudiziarie, almeno in privato, tende a non escludere nulla. La parola d’ordine ufficiale è che l’Esecutivo va avanti; e che lo scandalo del G8 non somiglia a Tangentopoli, l’indagine che terremotò la classe politica all’inizio degli anni Novanta del secolo scorso. Ma il presidente del Consiglio sembra consapevole che una nuova fase si è comunque aperta. E tenta di pilotarla, non soltanto di subirla. Per questo avrebbe ammesso durante una cena che «se qualcuno ha sbagliato pagherà le conseguenze». È il segno di un momento di attesa. Il premier non esclude che possano arrivare altre rivelazioni o provvedimenti riguardanti esponenti del centrodestra o addirittura membri del governo. Anche per questo non ha ancora sostituito il ministro dello Sviluppo economico Claudio Scajola, costretto alle dimissioni per alcuni favori ricevuti nell’acquisto di una casa. Ma il solo fatto che Berlusconi lasci filtrare l’irritazione per il modo in cui si è mosso Scajola, costituisce una novità. È come se Palazzo Chigi si aspettasse e quasi sperasse di vedere emergere i nomi di chi «ha sbagliato»: per capire se può andare avanti con gli equilibri odierni, o se deve voltare pagina. Si tratta di una preoccupazione che il presidente del Consiglio condivide con Umberto Bossi. Anche il capo della Lega osserva con sospetto quanto accade. L’inchiesta gli appare «un po’ strana, un po’ preparata».

Non ci sarà crisi, a meno che non «si portino via tutti i ministri ». Ribadisce che il governo non rischia «fin quando ci siamo io, la Lega e Tremonti». Ma concede che «la situazione è brutta». Quanto brutta lo diranno i prossimi giorni. Rispetto alla tesi del «complotto», però, il linguaggio è cambiato. È verosimile che i rapporti con Gianfranco Fini, tuttora pessimi, si evolveranno con lo sviluppo delle inchieste. Il presidente della Camera giura di non pensare ad imboscate parlamentari. Ma la diffidenza reciproca rimane intatta, anzi aumenta per l'assestamento progressivo della corrente finiana. L’eventualità di una rottura irrimediabile ora viene ammessa apertamente. Con quali contraccolpi, tuttavia, non è chiaro. Fini ieri ha confermato che, pur essendo «pro tempore», comunque non rinuncerà al ruolo di terza carica dello Stato. Se però davvero Berlusconi sta pensando ad un appello a Pier Ferdinando Casini, qualcosa potrebbe muoversi. Il Pdl cerca un nuovo baricentro, e arriva a definire l’Udc «una costola separata del centrodestra» con il ministro Ignazio La Russa, ex di An. Ma è difficile che l’Udc accetti di entrare nella maggioranza in questa logica. Solo se Berlusconi prendesse atto che la crisi economica richiede un coinvolgimento di tutti, Casini sarebbe pronto a spingere per una collaborazione delle opposizioni col governo. Ma l’«asse del Nord» non la pensa così: alle Regionali il partito di Bossi e quello di Casini si sono azzuffati. È vero che le Regionali sembrano lontane. Ma finora più che una soluzione si intravede solo tanta confusione.

Massimo Franco

14 maggio 2010
http://www.corriere.it/politica/nota/10_maggio_14/nota_a5bb1f86-5f18-11df-8c6e-00144f02aabe.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO Con l’«incidente americano» il caso oltrepassa i confini
Inserito da: Admin - Maggio 23, 2010, 05:28:26 pm
LA NOTA
Con l’«incidente americano» il caso oltrepassa i confini

Il governo deciso a ricorrere alla fiducia ma l’opposizione farà ostruzionismo


E’comprensibile che la maggioranza minimizzi le critiche fatte ieri a Roma alla legge sulle intercettazioni in Italia dal sottosegretario Usa alla Giustizia. La stessa ambasciata statunitense, d’altronde, le ha ridimensionate con una nota ufficiale, per evitare un incidente diplomatico. In una conferenza stampa il sottosegretario Lanny Breuer aveva detto che «le intercettazioni sono uno strumento essenziale per le indagini»; e che la magistratura deve continuare «l’ottimo lavoro svolto finora. Avete ottimi magistrati e ottimi investigatori. La legislazione in vigore è stata molto efficace ».

E le sue parole avevano giustamente creato imbarazzo nel governo e reazioni entusiaste nell’opposizione.

Per questo, poco dopo è arrivata la marcia indietro. «Non conosco i provvedimenti legislativi», ha precisato Breuer. «Non spetta a me entrare nel merito ». È significativo che nella stessa mattinata di ieri fosse arrivato anche il «no comment» della Commissione Ue.
Il governo europeo aveva fatto sapere che non dirà nulla: almeno fino a quando il provvedimento non sarà approvato da Senato e Camera, ma i due segnali, pur nella loro diversità, confermano che la questione difficilmente potrà essere liquidata come un problema interno italiano. Avrà, sta già avendo un’eco internazionale. Rappresenta uno dei test sui quali non tanto l’opposizione e le imprese editoriali, ma l’opinione pubblica riterrà di misurare, a torto o a ragione, il livello della democrazia in Italia. Insomma, per quanto inopportune, le parole di Breuer sottolineano il rischio dei contraccolpi negativi che la legge promette di avere, al di là del suo reale contenuto.
Il centrosinistra ha rilanciato le critiche dell’esponente dell’Amministrazione di Barack Obama come una sorta di spot anti-governativo, in grado di alimentare una polemica già rovente.

È chiaro che la preoccupazione non riguarda le sanzioni che il disegno di legge del governo prevede per i giornali: almeno nella forma in cui si presenta finora. Il sospetto è che le norme finiscano per avere conseguenze più allarmanti: ad esempio sulle indagini che riguardano mafia e terrorismo. A Palazzo Chigi liquidano l’incidente come l’uscita di un «signore che passava per Roma e non conosce i problemi.
Anche perché altrimenti la cosa sarebbe grave». E il ministro della Giustizia, Angelo Alfano, riafferma che la collaborazione Italia-Usa contro la criminalità è «eccellente ». Ed ha voluto precisare che «non è stata prevista alcuna restrizione per i reati di mafia e terrorismo». La sovrapposizione fra tensioni italiane e malintesi internazionali complica però la possibilità di trovare un compromesso. Alfano ripete che il disegno di legge garantirà i tre diritti previsti dalla Costituzione: privacy, libertà di espressione, obbligo dell’azione penale da parte del pubblico ministero. E la sensazione è che il Guardasigilli si rivolga, a nome del governo, anche ad un Quirinale perplesso dai contorni che il provvedimento ha assunto: al punto che Giorgio Napolitano non avrebbe ancora deciso se firmarlo o no.

La determinazione di Palazzo Chigi ad approvarlo così com’è, perfino ricorrendo alla fiducia, acuisce il confitto con il centrosinistra, con i mass media e con la magistratura . La prospettiva è quella di un braccio di ferro prolungato dal ricorso all’ostruzionismo, considerato inevitabile dal Pd di fronte all’atteggiamento di Palazzo Chigi. L’Idv di Antonio Di Pietro minaccia addirittura di leggere in aula le intercettazioni vietate: una sorta di «disubbidienza civile» contro quella che viene definita «legge bavaglio». Ma l’ipotesi della fiducia non nasce dalla paura delle resistenze dell’opposizione. A suggerirla sembra soprattutto la tensione permanente fra il presidente del Consiglio e quello della Camera, Gianfranco Fini, che sarebbe tentato da un’esplicita presa di distanze dalla legge. «Quando la ragione cede, prevale la forza», commenta il capo dei senatori del Pd, Anna Finocchiaro. L’impulso a radicalizzare lo scontro, tuttavia, è simmetrico. L’unica speranza è che veli una trattativa destinata a svelenire non solo il clima, ma un provvedimento che l’opposizione chiama «legge bavaglio».

Massimo Franco

22 maggio 2010
http://www.corriere.it/politica/nota.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO contrasti nel governo sulla strada per ridurre il debito pubblico
Inserito da: Admin - Maggio 26, 2010, 08:37:24 am
LA NOTA

Una trattativa tormentata che indica il peso di misure impopolari

I contrasti nel governo sulla strada per ridurre il debito pubblico


La citazione in latino di Giulio Tremonti, «Primum vivere, deinde philosophari», prima si deve vivere, poi fare filosofia, è la stessa che regalò ai suoi l’allora segretario del Psi Bettino Craxi nel 1976, quando il loro partito rischiava di scomparire. Averla dissepolta ieri incontrando sindacati e imprenditori, lascia capire quanto il ministro dell’Economia consideri in bilico la situazione; e con quale fastidio ascolti le proteste che la sua manovra sta provocando: sebbene sia considerata obbligata dalla crisi europea, e non sia scontato che basti ad arginare la speculazione finanziaria.

L’ostilità viene dalle opposizioni, ma sembra affiorare nella stessa maggioranza. Si è parlato di un Silvio Berlusconi inquieto di fronte a sacrifici che Tremonti considera irrinunciabili; ma ridimensionano settori dell’amministrazione intoccabili per palazzo Chigi.
Le voci sono diventate così fitte che Bossi si è candidato a mediare i contrasti. «Li incontrerò e getterò acqua sul fuoco» ha assicurato senza avvertire il paradosso.

Il colloquio di ieri a palazzo Chigi fra Berlusconi, il suo ministro ed il sottosegretario Gianni Letta prima del Consiglio dei ministri dà il senso di una trattativa serrata. E fotografa la preoccupazione di offrire all’opinione pubblica un piano che non alimenti tensioni sociali. Ma per quanto annacquata, la manovra approvata in serata scontenta comunque qualcuno. Si è già avuto un assaggio con l’annuncio del taglio di un miliardo e mezzo di euro agli enti locali: Tremonti ha avvertito che altrimenti l’Ue ridurrà comunque i contributi.

Ma per il Pd l’unico risultato sarà un aumento delle tasse locali. L’accusa che esponenti dell’opposizione rivolgono al governo è di farsi schermo dei vincoli europei per colpire «i soliti noti». Tremonti ha invitato i propri interlocutori a «gestire insieme quella che non è una finanziaria qualsiasi». Ma l’ipotesi di un «sì» del centrosinistra rimane improbabile. Il capo dello Stato, Giorgio Napolitano, ha chiesto senso di responsabilità di fronte a «sacrifici equi». Il contorno, tuttavia, rimane confuso.

Non è chiaro se manchi la consapevolezza della gravità della situazione; oppure se, pur intuendola, prevalga la diffidenza verso un ministro dell’Economia stimato a livello europeo ma ritenuto da alcuni alleati troppo «rigorista». Il sospetto più forte è che il centrodestra berlusconiano abbia difficoltà a chiedere al Paese di tirare la cinghia, ed a sfidare l’impopolarità. La discussione a dir poco animata di ieri sera in Consiglio dei ministri forse è lo specchio di un limite culturale, prima ancora che politico.

Massimo Franco

26 maggio 2010
http://www.corriere.it/politica/nota/10_maggio_26/nota_33fe7850-6884-11df-9742-00144f02aabe.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO La mossa preventiva
Inserito da: Admin - Maggio 31, 2010, 10:03:41 am
La mossa preventiva


La tentazione di parlare di scontro fra Quirinale e Palazzo Chigi è comprensibile. Il fatto che Giorgio Napolitano abbia rinviato a oggi la firma sul decreto legge con la manovra finanziaria è una notizia. Ma analizzando con attenzione il linguaggio usato per consigliare alcune modifiche, si ricava un'impressione diversa, quasi opposta. La nota diffusa ieri lascia capire che i rilievi del capo dello Stato servono ad evitare contrasti col governo; e soprattutto a scongiurare che, per colpa di «delimitati aspetti» di tipo giuridico e istituzionale, la legge possa correre pericoli.

Il presidente della Repubblica è attento a non dare adito a qualunque accusa di invasione di campo. Per questo sottolinea di non volere entrare nel merito di scelte che appartengono all'«esclusiva responsabilità» dell'Esecutivo. E la rapidità con la quale Palazzo Chigi ha risposto fin da ieri sera conferma un'interpretazione corretta dell'iniziativa. Il governo sceglie di esaminare separatamente le misure che non rispondono ai criteri in assenza dei quali Napolitano avrebbe difficoltà a firmare. In quel caso il rischio che decada la manovra da 24 miliardi di euro per ridurre la spesa pubblica in due anni diventerebbe concreto. Sarebbe già un contraccolpo grave la certificazione di un conflitto istituzionale al vertice dello Stato. Ma la conseguenza più inquietante che si vuole evitare è di rimettere in forse un'operazione finanziaria difficile ed inevitabilmente impopolare; e concordata dal ministro dell' Economia, Giulio Tremonti, con gli altri governi europei: almeno negli obiettivi di fondo.

In più, il contrasto si sarebbe sovrapposto alle considerazioni finali del Governatore della Banca d'Italia, Mario Draghi, attese per oggi. Per questo il capo dello Stato ha consigliato di prevenire qualunque sbavatura che potesse assumere un rilievo costituzionale.
Lo ha fatto sapendo che le sue «osservazioni », termine volutamente discreto e neutro, non sono vincolanti.
Il governo era libero di accettarle o meno: sulla strategia «politica, finanziaria, sociale ed economica», nell'elenco puntiglioso del Quirinale, il potere di decidere è soltanto di Palazzo Chigi.

Inutile nascondersi, però, che questi suggerimenti hanno assunto i contorni di un monito. D'altronde, le frizioni in materia non sono nuove. Anche di recente Napolitano ha espresso la sua contrarietà al modo in cui il governo ingrossa il contenuto dei decreti senza andare per il sottile: metodo ritenuto discutibile per ragioni costituzionali e politiche. Il tentativo è di evitare malintesi e perdite di tempo; e di scoraggiare chi può cercare di usare le «osservazioni» presidenziali sulla manovra finanziaria per accreditare un braccio di ferro fra Palazzo Chigi e Quirinale: senza intendere che non è il momento delle prove di forza, ma della ragionevolezza.

Pericolo scampato, sembra di capire.

Massimo Franco

31 maggio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_maggio_31/franco_611a9be2-6c72-11df-b7b4-00144f02aabe.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO La sindrome dei panda
Inserito da: Admin - Giugno 07, 2010, 06:04:27 pm
La sindrome dei panda


L’assassinio di monsignor Luigi Padovese in Turchia e l’attacco di Israele alla nave di aiuti che faceva rotta su Gaza hanno avuto la conseguenza imprevista di svelare una rimozione collettiva dell’Occidente: il destino delle minoranze cristiane nel Medio Oriente. Si tratta di comunità ormai minuscole, asserragliate nei loro quartieri, se non nelle loro case: si tratti di Turchia, Iraq, Egitto o Siria. Sono i capri espiatori degli errori di Usa ed Europa e dei problemi irrisolti fra israeliani e palestinesi.

Rischiano a tal punto l’estinzione che per loro si parla di «sindrome dei panda»: quegli orsetti bianchi e neri, innocui e vegetariani, che ormai riescono a riprodursi solo in ambienti iperprotetti. Benedetto XVI ha detto a Cipro che quelle minoranze debbono continuare a poter vivere nei Paesi dove abitano da due millenni. Eppure, il Vaticano sa che chi resta è in pericolo. L’omicidio di Padovese, che segue quello di quattro anni fa di don Andrea Santoro sempre in Turchia, non va sottovalutato.

Conferma che l’habitat cristiano si è progressivamente inaridito fino a circondare le comunità mediorientali con un deserto ostile. Ancora qualche anno fa la perdita di fedeli non sembrava irreversibile. Poi è diventata quasi inarrestabile, con la guerra angloamericana in Iraq come acceleratore di persecuzioni ed esodo. L’identificazione spesso strumentale fra cristianesimo e Occidente ha finito per favorire la propaganda del fondamentalismo musulmano e le sue violenze. Ma il fondamentalismo è solo un aspetto. È vero che anche le chiese di mezza Europa, soprattutto cattoliche, stanno perdendo fedeli. Le istituzioni religiose additano l’infezione della secolarizzazione, alimentata dal declino dei valori spirituali e delle strutture sociali tradizionali; con l’aggiunta recente dello scandalo dei preti pedofili, che compromette la credibilità del Vaticano. In Medio Oriente, però, la situazione è diversa. L’effetto panda non è figlio di un difetto ma di un eccesso di religiosità: la presenza pervasiva e sottilmente discriminante dell’Islam.
Esiste un problema di libertà religiosa, segnalato da tempo senza grandi successi. Eppure, il pericolo del «bagno di sangue» che minaccia di sancire la deriva dell'occupazione dei territori palestinesi in Terra Santa, evocato ieri dal Papa, non sembra allarmare più di tanto l’Occidente. Il risultato è che in una regione, già destabilizzata, l’alternativa è fra martirio, assimilazione musulmana o emigrazione: soprattutto in Iraq, dove l’idea di creare «ghetti cristiani» protetti dagli Usa incontra resistenze.

Sarebbe l’ammissione dell’isolamento di comunità per lo più arabe, che sono state un ponte culturale storico fra Oriente e Occidente. La convocazione di un Sinodo per il Medio Oriente a ottobre con l'assistenza del gesuita egiziano Samir Khalil Samir, suona come il tentativo estremo di contrastare una situazione disperata.

Si cerca di evitare che in quei Paesi i santuari del cristianesimo si riducano, come ha predetto nel 1994 un diplomatico europeo pessimista o forse solo profetico, a «Disneyland spirituali».

Massimo Franco

07 giugno 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_giugno_07/franco_9e4ed1be-71f3-11df-9357-00144f02aabe.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO Nel centrodestra voglia di archiviare il braccio di ferro
Inserito da: Admin - Giugno 11, 2010, 12:01:58 pm
LA NOTA

Nel centrodestra voglia di archiviare il braccio di ferro


Il primo ostacolo è stato superato, secondo le previsioni. E adesso si intuisce una gran fretta di archiviare la legge sulle intercettazioni. Il governo la difende come miracolo di equilibrio. Il Pd, che al momento della votazione di ieri mattina al Senato ha lasciato l’aula per protesta, rinvia lo scontro al prossimo mese, quando approderà alla Camera. E l’Idv insiste nell’appello alla «resistenza» e chiama in causa il Quirinale, ricevendo una risposta abrasiva. «I professionisti della richiesta al presidente della Repubblica di non firmare spesso parlano a vanvera», risponde Giorgio Napolitano al partito di Antonio Di Pietro, che gli replica con parole stizzite. Ma le proteste più dure arrivano dalla magistratura, dagli editori e dai giornalisti che pensano ad una «giornata del silenzio» il 9 luglio. Per il centrodestra, tuttavia, i problemi sono altri. A preoccupare è la manovra finanziaria, sulla quale piovono altolà e distinguo. È quella la vera fonte dei contrasti nella maggioranza. Anche i colloqui come quelli di mercoledì tra il presidente della Camera Gianfranco Fini, il ministro dell’economia Tremonti ed il leader dell’Udc, Pier Ferdinando Casini, riguardavano la manovra.

La minoranza finiana del Pdl sa di non poter rompere con Berlusconi; e non vuole offrire pretesti al grosso del partito per arrivare alla resa dei conti. Non solo. Se Fini vuole arginare il principale alleato di Umberto Bossi nel governo, il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, non può prescindere dal Cavaliere. Si spiega anche così il «sì» alla legge sulle intercettazioni, che l’opposizione rimprovera a Fini come un cedimento. D’altronde, qualunque manovra per destabilizzare il governo sa di velleità, in questa fase. I vincoli europei impongono misure possibili in una cornice di stabilità. Il timore non è quello di un complotto ordito dagli avversari interni del Cavaliere. Si tratta semmai di recuperare il controllo di una situazione confusa; e che moltiplica le incognite sui provvedimenti economici. Tra Fini e Tremonti, in filigrana si intravedono più che giochi di sponda uno scontro di potere. Il presidente della Camera che chiede la vigilanza sulle fondazioni bancarie affidate al Parlamento oltre che al ministero dell’Economia, invade una riserva tremontiana. Ed invocando certezza sui costi del federalismo, incalza e punzecchia una Lega già nervosa per il destino incerto della riforma: i malumori di leghisti e Pdl nei confronti di Tremonti per i tagli di spesa negli enti locali ieri sono apparsi vistosamente.

Fini confida nella voglia di Palazzo Chigi di circoscrivere il ruolo del superministro dell’Economia. Su questo sfondo, le intercettazioni sono qualcosa che appartiene ai rapporti «esterni » della maggioranza: un aspetto che, a torto o a ragione, Berlusconi e la stessa Lega considerano meno insidioso della manovra. Il vicesegretario del Pd, Enrico Letta, ritiene che alla Camera esistano «margini perché il governo venga battuto» quando arriverà il disegno di legge approvato ieri dal Senato. Ma la discussione comincerà fra un mese e più: un tempo assai breve, che con le accelerazioni possibili nei prossimi giorni potrebbe però rivelarsi lunghissimo.

Massimo Franco

11 giugno 2010
http://www.corriere.it/politica/nota/10_giugno_11/nota_a6c5f4ac-7519-11df-b7f2-00144f02aabe.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO Tramonta la sponda tra finiani e sinistra. (gufa pro-silvio).
Inserito da: Admin - Giugno 12, 2010, 11:15:09 am
LA NOTA

Tramonta la sponda tra finiani e sinistra.

Ma l’esito resta incerto


Per il momento, l’unico risultato politico dopo il «sì» alla legge sulle intercettazioni sembra il tramonto del gioco di sponda tra il centrosinistra e Gianfranco Fini. Anzi, il modo in cui alcuni esponenti del Pd danno l’altolà al presidente della Camera fa capire che la grande sintonia del recente passato può diventare presto grande freddo. La maggioranza vuole che l’assemblea di Montecitorio discuta alla fine di giugno il provvedimento approvato tre giorni fa al Senato: servirebbe a renderlo definitivo entro il mese successivo. Ma l’opposizione chiede a Fini di rispettare il regolamento, discutendo la legge a settembre; e comunque di non compiere forzature. Sei la terza carica dello Stato e non il capo della minoranza del Pdl, gli ricorda il capogruppo del Pd, Dario Franceschini.

E pensare che da quando il 22 aprile scorso Fini aveva attaccato Silvio Berlusconi al vertice del Pdl, il centrosinistra aveva sempre difeso le sue esternazioni, anche le meno istituzionali. Le definiva fisiologiche per un leader politico. In realtà, a renderle accettabili era la polemica finiana contro il Cavaliere; e la speranza che diventassero un grimaldello per destabilizzare il governo. La speranza, però, si sta rivelando illusoria. Fini è rientrato nei ranghi, sebbene allineamento non significhi automaticamente sostenere la blindatura del provvedimento alla Camera; e l’opposizione gli spedisce messaggi dai quali trasuda la delusione. Ma il risultato involontario è di sottolineare il ricompattamento del governo, almeno sulle intercettazioni; e di mostrare un centrosinistra diviso. La rincorsa fra Pd e Idv a chi è più duro contro quella che viene definita «legge bavaglio» ripropone una competizione nella minoranza. E presto lo scontro rischia di toccare i rapporti con il Quirinale. L’atteggiamento di Antonio Di Pietro nei confronti del capo dello Stato è critico ai limiti dell’insulto. E Giorgio Napolitano nasconde sempre meno il proprio fastidio per gli attacchi dell’Idv. Se a giugno la legge sulle intercettazioni arriverà alla Camera in un clima bellico, è possibile che qualche scheggia lambisca il Quirinale. «Daremo battaglia», anticipa il segretario del Pd, Pier Luigi Bersani.

Di Pietro minaccia un’altra occupazione dell’Aula parlamentare. Sia l’opposizione, Udc compresa, sia i finiani frustrati dal voto al Senato contano sul presidente della Repubblica per fermare il testo; o almeno per costringere il governo a modificarlo. Ma Berlusconi vuole rendere definitiva la legge al più presto. Per quanto pasticciata e considerata pericolosa da magistrati, editori e giornalisti, il governo punta ad un «sì» definitivo entro luglio. Confida nel via libera, seppure tormentato, del presidente della Camera. E sa che Napolitano non si lascerà trascinare nelle polemiche da chi, nell’opposizione, è pregiudizialmente ostile al governo. La partita, però, rimane aperta, anche perché incrocia la manovra finanziaria. L’aderenza alla Costituzione rappresenta l’unica bussola delle decisioni presidenziali. Ma è una bussola che Napolitano guarderà solo alla fine, senza farsi condizionare né usare da nessuno: né dal governo né dai suoi avversari.

Massimo Franco

12 giugno 2010
http://www.corriere.it/politica/nota/10_giugno_12/nota_23a98db4-75e0-11df-9eaf-00144f02aabe.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO Il cartellino rosso del Quirinale
Inserito da: Admin - Giugno 26, 2010, 06:20:12 pm
Il commento

Il cartellino rosso del Quirinale


L’altolà di Giorgio Napolitano ufficializza l’esistenza di un «caso Aldo Brancher». E sanziona la strategia di usare la nomina a ministro solo per chiedere il legittimo impedimento e non presentarsi al processo nel quale è imputato. Per il capo dello Stato, la promozione di Brancher ha assunto contorni diversi da quelli previsti e promessi. La nota uscita ieri dal Quirinale va considerata soprattutto come una presa di distanza dall’uso strumentale di una legge già di per sé controversa; e sfruttata in questi giorni in modo a dir poco disinvolto. A provocarla sono state le affermazioni a ruota libera del neoministro, a lungo uomo- cerniera fra Pdl e Lega; ma anche la volontà di fermare una deriva.

Umberto Bossi da a Napolitano conferma l’asse fra Carroccio e Quirinale. E induce Brancher ad arretrare dicendosi pronto a presentarsi dal giudice entro luglio. Silvio Berlusconi, in Canada per il G8, deve maneggiare un’altra spina istituzionale proprio mentre cerca di forzare i tempi sulle intercettazioni. Da ieri, Brancher si trova nella condizione scomoda di chi è delegittimato dal capo dello Stato davanti al quale ha giurato pochi giorni fa; e che non vuole avallare un legittimo impedimento a suo avviso infondato. «Non c’è nessun nuovo ministero da organizzare », spiega lapidario il Quirinale riferendosi alle giustificazioni di Brancher. «È stato nominato semplicemente ministro senza portafoglio».

Non è detto che la presa di posizione porti alle dimissioni, richieste all’unisono dall’opposizione: gli avvocati difensori del ministro accolgono la precisazione di Napolitano quasi fosse un dettaglio fra tanti. Dicono infatti che «sarà valutata in sede giudiziaria come ogni altro elemento». È un minimalismo che cerca di azzerare il rilievo politico che l’iniziativa presidenziale promette di avere: i contraccolpi che sta provocando sono già vistosi. Le parole del capo dello Stato suonano infatti come un sostegno oggettivo ai magistrati che dovranno valutare se il legittimo impedimento è tale; e come un avvertimento al governo a non abusare di una misura che ha già sollevato dubbi di costituzionalità.

Palazzo Chigi coglie le implicazioni della mossa. Ufficialmente tace. Ma le dichiarazioni di alcuni esponenti berlusconiani tradiscono l’irritazione nei confronti di Napolitano. Il presidente della Repubblica è accusato di essersi mosso in modo irrituale; o, peggio, di adottare uno stile presidenzialista che tenta di commissariare il governo. Non sono ancora avvisaglie di un conflitto, perché Berlusconi fino a ieri sera non si è pronunciato; e perché in questa fase non ha nessuna voglia né interesse ad alimentare la polemica col capo dello Stato: tantomeno di litigare con la Lega. Nel centrodestra, però, la vicenda può essere sfruttata da chi in questa fase contesta il premier.

Il presidente della Camera, Gianfranco Fini, ha già espresso le sue perplessità sul ricorso al legittimo impedimento. Il commento di Bossi su un Brancher «poco furbo» è uno smarcamento netto. Il nervosismo e l’imbarazzo del Carroccio non nascono soltanto dalla scelta iniziale di affidargli il «ministero del federalismo»: definizione che ha fatto infuriare Bossi e costretto Berlusconi a cambiarlo in fretta. Per i lumbard non è facile avallare una nomina sfruttata immediatamente per evitare il tribunale. La richiesta dell’Idv a Bossi di firmare col centrosinistra una mozione di sfiducia è il tentativo di inserire un cuneo più profondo in un centrodestra disorientato. Probabilmente la manovra non riuscirà. Ma il «caso Brancher» lastrica il futuro della maggioranza di ulteriori incognite.

Massimo Franco

26 giugno 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/politica/10_giugno_26/franco-cartellino-rosso-quirinale_bb0a2e00-80eb-11df-9a47-00144f02aabe.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO Il cortocircuito
Inserito da: Admin - Luglio 02, 2010, 09:40:33 pm
Il cortocircuito


Il cortocircuito istituzionale sta prendendo pericolosamente corpo. Le parole perfino inusuali nella loro durezza dette ieri da Giorgio Napolitano sulla legge contro le intercettazioni non sono soltanto una bocciatura dell’accelerazione del governo, ed un invito a cambiare il provvedimento per evitare che il Quirinale lo respinga. Si avverte anche l’allarme per la confusione che trasuda dalle mosse della maggioranza. Quando il capo dello Stato si lamenta di non essere stato ascoltato neppure sulla manovra economica, dà sfogo ad una sensazione diffusa: sebbene il centrodestra gli risponda che temporalmente il suo consiglio è stato seguito.

Una tensione così evidente si spiega con la volontà di scongiurare un pericolo: che il centrodestra finisca per scaricare sul Paese i suoi contrasti interni. È nel recinto della coalizione berlusconiana che le cose non funzionano. Invece di essere luogo di mediazione e di decisione, confortato dai numeri parlamentari, la maggioranza sembra diventata un moltiplicatore di conflitti. Il «controcanto » rivendicato anche ieri da Gianfranco Fini, le oscillazioni di Umberto Bossi, le tensioni nello stesso Pdl sui tagli alle Regioni sottolineano una sfasatura crescente. Il centrodestra può pure minimizzare. Ma la mancanza vistosa di una strategia e la proliferazione di correnti allo stato embrionale certifica l’affanno della leadership berlusconiana: rispettata ed eternizzata nella forma, messa in mora nei fatti. Dietro lo schermo della lealtà nei confronti del presidente del Consiglio, si indovinano prove e ambizioni più o meno sotterranee di scenari alternativi. Non importa che i calcoli sul dopo-Berlusconi si siano già rivelati inesatti in passato: la debolezza di palazzo Chigi li alimenta oggettivamente.

Né va sottovalutato lo scricchiolio, subito esorcizzato, che si registra nel monolite della Lega. Quando perfino nel Carroccio vincente e sornione si invoca la collegialità in polemica con Umberto Bossi, bisogna chiedersi che cosa sta succedendo. Il sospetto è che il governo abbia sottovalutato l’impatto della legge sulle intercettazioni non solo nel Paese ma al proprio interno; le resistenze alle riduzioni di spesa chieste dal ministro dell’Economia, Giulio Tremonti; e un’istintiva diffidenza per la nebulosità del federalismo e dei suoi costi. È questa situazione sfrangiata a spingere Napolitano a parlare; e a mettere il governo di fronte ai rischi che corre inseguendo scorciatoie parlamentari molto simili a forzature. Al punto che il presidente del Senato, Renato Schifani, assicura che la legge sarà votata dopo l’estate. Il rifiuto del capo dello Stato di indicare modifiche al provvedimento restituisce la responsabilità della scelta a palazzo Chigi. E la richiesta di correzioni «adeguate» e la riserva di «una valutazione finale nell’ambito delle nostre prerogative» riflettono la determinazione di Napolitano a non avallare, di più, ad opporsi a pasticci ritenuti pericolosi.

Massimo Franco

02 luglio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_luglio_02/cortocircuito_franco_3372600a-8598-11df-adfd-00144f02aabe.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO Lotte intestine
Inserito da: Admin - Luglio 04, 2010, 06:34:11 pm
Lotte intestine


Il «ci penso io» sorridente e rassicurante di appena qualche ora fa adesso trasmette allarme e ansia. La sensazione è che il ritorno in Italia dagli incontri internazionali abbiamostrato a Silvio Berlusconi una situazione più grave del previsto. Più che essere in ebollizione, il suo centrodestra rischia di evaporare per i contrasti che lo stanno lacerando; e ai quali il presidente del Consiglio non sembra in grado di porre rimedio: non almeno come in passato.

Aveva detto che si sarebbe occupato di tutto a partire da domani: come se i problemi non fossero così urgenti da compromettere il fine settimana. La durezza con la quale il capo del governo è dovuto intervenire anche ieri racconta invece una verità meno rosea: una storia non solo di confusione, ma di incertezza crescente della coalizione berlusconiana. Con un incubo che comincia a preoccupare: l’impopolarità. Le regioni meridionali in rivolta contro il ministro dell'Economia, Giulio Tremonti, sono il secondo avvertimento dopo il trasversale degli enti locali ai tagli di spesa contenuti nella manovra.

Riflessi corporativi, probabilmente; ma così potenti da spaventare la maggioranza. E la fretta e la nettezza con le quali Berlusconi smentisce una riduzione della tredicesima per le forze dell’ordine serve a tamponare affannosamente una notizia dal sapore, appunto, impopolare. Ma la conseguenza non voluta è di confermare misure economiche minacciate da «refusi » che riflettono una sgrammaticatura strategica. Le critiche a un’opposizione che, se al potere, avrebbe portato l'Italia alla «sindrome greca », sono comprensibili: come lo sono gli attacchi a magistratura e giornali che boicotterebbero la legge contro le intercettazioni.

Si tratta di messaggi in bottiglia che il presidente del Consiglio vuole fare arrivare al proprio elettorato per additare i «nemici». Eppure, risulta sempre più evidente che si assiste a un conflitto soprattutto nel centrodestra: i «nemici» in questa fase sono lì. Lo conferma l’insistenza con la quale il Pdl avverte Gianfranco Fini con ultimatum sempre più ravvicinati di non fare giochi di sponda con l’opposizione sulle intercettazioni. E lo lascia intuire la resistenza di Umberto Bossi ad assecondare strappi fra Palazzo Chigi e Quirinale.

Ma confondere la severità di Giorgio Napolitano con manovre e giochi che altri probabilmente stanno accarezzando può essere un abbaglio pericoloso. Davanti a Berlusconi si intravede un sentiero stretto. Rimane da capire se accetterà di percorrerlo con pazienza e sofferenza, o se preferirà lo scarto: sebbene si renda conto che le incognite sono aumentate perfino per lui, il futuro del centrodestra dipende più che mai dalle sue scelte.

Massimo Franco

04 luglio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_luglio_04/lotte_intestine_massimo_franco_fa39f030-8738-11df-95fd-00144f02aabe.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO tensioni dentro il Pdl allungano ombre su tutto il centrodestra
Inserito da: Admin - Luglio 07, 2010, 05:06:40 pm
LA NOTA

Le tensioni dentro il Pdl allungano ombre su tutto il centrodestra

Lo scontro Fini-Berlusconi è il sintomo di un progetto in affanno

In questi giorni non si sta esaurendo soltanto l’ultimo legame politico e personale fra Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini. Più passa il tempo, più appare in affanno il progetto del Popolo delle libertà, come movimento che doveva unire e contaminare le identità del centrodestra diverse dalla Lega. Dal punto di vista numerico, è vero quanto ha affermato ieri il sottosegretario a Palazzo Chigi, Paolo Bonaiuti: «Il dissenso all’interno del Pdl fa capo solo ad una piccola minoranza», rispetto ad un’«enorme maggioranza». Ma politicamente, il partito del premier sta subendo colpi che presto potrebbero comprometterne l’identità e suggerire nuove soluzioni. Berlusconi lo sa bene. Per questo ieri ha riunito solo i vertici degli ex di Fi. Ed ha ribadito che il Pdl è nato per «sconfiggere la vecchia logica delle correnti e della partitocrazia, da qualunque parte provengano». Ma la moltiplicazione dei gruppi è un sintomo. Conferma la sensazione che il centrodestra sia abitato da progetti e ambizioni troppo diversi per convivere ancora a lungo.

Lo scontro sulle intercettazioni; le faide siciliane dentro il centrodestra; la ribellione contro la manovra economica e il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, da parte dei governatori, guidati da Roberto Formigoni; l’ipotesi, o forse la speranza che Fini possa approdare altrove: sono tutti indizi di una scommessa unitaria in bilico. Nel centrodestra ci si affronta senza il timore che l’alleanza si rompa perché l’opposizione è debole e l’alternativa non si vede; ma anche perché cresce il sospetto che il Pdl sia un contenitore temporaneo, vittorioso alle elezioni politiche del 2008 e tuttavia precario nella percezione dei suoi stessi fondatori. È come se il patto sul quale è stato fondato fosse stato rimesso in discussione, perché le cose sono andate diversamente dalle aspettative. Berlusconi sembra convinto di poter fare a meno di Fini: di «questo» Fini, come in passato ha dimostrato di poter prescindere dai centristi dell’Udc. E l’ex leader di An conferma senza volerlo la deriva accentuando ogni distanza e resistendo al tentativo di cacciata. Ormai la domanda non è più se presidente del Consiglio e della Camera prenderanno strade diverse, ma quando e come celebreranno l’addio.

L’effetto di questa bomba a tempo è di trasformare un partito pensato come il perno della stabilità in un moltiplicatore di tensioni e di spinte centrifughe. Al punto che la rivolta degli enti locali contro la cura drastica proposta da Tremonti con il sostegno delle istituzioni e degli altri governi europei assume significati ambigui. Non si capisce fino in fondo se nasca soltanto dall’impossibilità di sostenere riduzioni di spesa così rilevanti; oppure se alle difficoltà oggettive si saldi il calcolo di marcare un territorio politico limitato per proteggersi da un quadro nazionale sfilacciato. Quando Formigoni minaccia la restituzione delle deleghe al governo, ufficializza uno scontro con Palazzo Chigi e soprattutto con Tremonti che non è facile governare; e proprio dalla Lombardia che è il cuore del potere berlusconiano e leghista. La richiesta di fiducia decisa da Berlusconi sulla manovra può essere letta anche come il tentativo di neutralizzare questi calcoli dettati dagli interessi locali; e di spostare nel tempo qualunque esito traumatico di uno scontro politico e di leadership che all’elettorato deve apparire lunare nel suo autolesionismo. Ma le piccole crisi virtuali che si susseguono senza sbocco, e a distanza sempre più ravvicinata, testimoniano il baricentro perduto dal centrodestra. E la riunione di ieri con gli ex «azzurri» evoca senza volerlo anche l’esistenza di una corrente berlusconiana. È una situazione che consente a governo e Pdl di galleggiare; ma, almeno finora, non di affrontare con fiducia e determinazione il resto della legislatura.

Massimo Franco

07 luglio 2010
http://www.corriere.it/politica/nota/10_luglio_07/la_nota_massimo_franco_d19db0be-8984-11df-9331-00144f02aabe.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO Il premier isola Fini e mette il governo al riparo da sorprese
Inserito da: Admin - Luglio 08, 2010, 11:23:09 pm
LA NOTA

Il premier isola Fini e mette il governo al riparo da sorprese

Nota congiunta con Tremonti per dire no alle Regioni e imporre la fiducia


Passo dopo passo, la marcia di allontanamento fra il Pdl e Gianfranco Fini continua: senza che però si intraveda ancora il momento in cui si consumerà la rottura formale. «Fini non esiste più», ha liquidato la questione Silvio Berlusconi negli incontri avuti ieri con i vertici del centrodestra. Ma l’esigenza di non acuire le tensioni col Quirinale ritarda una resa dei conti. La tabella di marcia di Palazzo Chigi per le prossime settimane è obbligata e non prevede distrazioni. Il premier deve fare approvare una manovra economica cercando di attenuarne gli aspetti più impopolari. E, nonostante la legge contro le intercettazioni sia quasi certamente destinata a slittare all’autunno, insegue un «sì» entro l’inizio di agosto. In realtà, la probabilità che passi diminuisce ogni giorno di più: anche perché ormai si parla apertamente di correzioni a un testo contestatissimo.

La giornata di ieri è emblematica, da questo punto di vista. I tafferugli fra i terremotati abruzzesi e la polizia a Roma, e una rissa alla Camera dei deputati; il pellegrinaggio di fatto inutile a Palazzo Grazioli, i presidenti delle Regioni di centrodestra, infuriati con Giulio Tremonti; la nota congiunta con la quale Berlusconi e il ministro dell’Economia annunciano la fiducia sulla manovra sia alla Camera che al Senato; e infine il nuovo attacco del presidente della Camera proprio a Tremonti: sono tutti fotogrammi di una coalizione della quale il capo del governo sembra non più il padrone assoluto, ma quasi un ostaggio costretto a tamponare le spinte centrifughe. Con esiti almeno controversi.

La trattativa con le Regioni ha partorito un incontro a Palazzo Chigi che dovrebbe tenersi domani: un modo per accontentare governatori che appartengono alla maggioranza di centrodestra ma contestano le riduzioni di spesa proposte da Tremonti. Le concessioni che Berlusconi può garantire, però, appaiono quasi azzerate dal comunicato diramato ieri insieme al suo ministro. Quasi a chiarire in modo preventivo che il premier ha le mani legate, vi si legge che la manovra è «un provvedimento fondamentale per la stabilità finanziaria ». E dunque, se non intangibile comunque non si può cambiare. Tremonti lo ha ripetuto ai quattro presidenti di Regione incontrati nella residenza di Berlusconi.

«La nostra strada è obbligata», ha detto il titolare dell’Economia. «Non c’è spazio per cambiamenti», anche perché il debito nel settore sanitario accumulato in Campania, Lazio, Calabria e Molise è impressionante. Si tratta di una durezza che a Berlusconi probabilmente non piace, ma che non può non sottoscrivere. È improbabile, infatti, che all’incontro di domani il presidente del Consiglio possa aggirare i paletti conficcati da Tremonti. L’ennesimo attacco di Fini al titolare dell’Economia e alla Lega per paradosso rafforza entrambi, vista l’insofferenza verso il presidente della Camera. «Non si può vivere di sola finanza», ha detto Fini, «e men che meno può vivere di sola contabilità l’economia». Ma di fronte alla decisione di ricorrere alla fiducia in entrambi i rami del Parlamento, le critiche finiane non hanno uno sbocco.

Il silenzio del presidente della Camera di fronte alla nota congiunta di Berlusconi e di Tremonti tradisce l’irritazione; e la consapevolezza che la richiesta di fiducia fatta anche all’assemblea di Montecitorio rappresenta una sfida proprio a lui. Il governo lo mette di fronte alla contraddizione che gli ha rimproverato nelle ultime settimane: quella di essere insieme capo della minoranza interna del Pdl e terza carica istituzionale; e dunque di dover scegliere. Come minimo, l’iniziativa tende a farlo apparire isolato e irrilevante. Gli spazi in Parlamento sono azzerati, e infatti il centrosinistra protesta per lo svuotamento della discussione. Il voto di fiducia è previsto nella giornata di giovedì 15 al Senato. Poi toccherà all’aula di Montecitorio. E in quell’occasione sarà possibile misurare per intero le distanze che separano il presidente della Camera da quella che sente sempre meno come la sua maggioranza: ricambiato gelidamente dal Pdl.

Massimo Franco

08 luglio 2010
http://www.corriere.it/politica/nota/10_luglio_08/nota_e7ffce44-8a4e-11df-966e-00144f02aabe.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO Il lato mancante
Inserito da: Admin - Luglio 13, 2010, 10:05:02 am
Il lato mancante


È comprensibile la tentazione del centrodestra di reagire all’inchiesta che riguarda il coordinatore del Pdl, Denis Verdini, facendo quadrato. Corrobora la tesi del complotto antigovernativo della magistratura. Serve a serrare i ranghi, a costo di additare i dubbiosi come sabotatori, assimilabili agli avversari. Eppure, vicende del recente passato hanno reso applicabile al centrodestra la massima che l’ex premier Giulio Andreotti aveva dedicato ai «quadrati» che la Dc costruiva per difendere i suoi uomini sotto accusa: alla fine, al quadrato mancava sempre un lato. Il lato mancante dipendeva dalla spregiudicatezza politica di chi contava sulle disgrazie altrui; ma anche dal fatto che alcuni personaggi erano indifendibili.

Non è ancora chiaro a quale categoria appartenga Verdini: se di vittima delle congiure e del cinismo altrui, o di artefice della propria disgrazia giudiziaria. L’effetto che le sue vicende stanno producendo sul centrodestra, tuttavia, comincia ad assumere contorni chiari. Silvio Berlusconi è portato quasi d’istinto a difendere ad oltranza esponenti discussi, e magari imputati, ritenendolo il primo dovere di un leader politico: a costo di pagare un prezzo sempre più alto. Si è visto con i casi del ministro Scajola, del neoministro Brancher, del sottosegretario Cosentino; e adesso del coordinatore del partito, risucchiato nell’inchiesta della Procura di Roma sugli appalti per l’energia eolica in Sardegna accanto, fra gli altri, proprio a Cosentino. Si può magari ironizzare sul sottobosco di logge e lobby segrete che incorniciano questo nuovo spaccato della nomenklatura: sono un tocco aggiuntivo che rischia di sviare l’attenzione.

L’effetto dei primi risultati delle indagini è però quello di schiacciare e velare anche quanto di buono, poco o tanto che sia, il governo cerca di fare. Vengono messi in ombra alcuni successi indubbi del Viminale nella lotta alla criminalità, una manovra economica ambiziosa e contestata e il tentativo tormentato di riforma dell’Università. E si finisce per concentrare l’attenzione un po’ disgustata dell’opinione pubblica soltanto sul binomio politica-malaffare. Può darsi che ci sia chi vuole esagerare questi intrecci inquietanti; trarne conseguenze definitive e liquidatorie, e ricavarne vantaggi. Ma il modo in cui Palazzo Chigi e la maggioranza difendono se stessi e coprono anche gli angoli bui dove invece sarebbe bene fare entrare qualche lama di luce non sembra di buon auspicio. È rischioso lanciare ipotesi improbabili di unità nazionale mentre il Pdl vive in trincea.

Lo scarto fra presente e futuro accentua solo l’affanno in cui vive oggi la coalizione berlusconiana, prigioniera in un cul de sac politico-giudiziario. Si sta rivelando illusorio riuscire a tenere dentro tutto, rami secchi e marci compresi: al punto che c’è da chiedersi se Berlusconi possa andare avanti senza reciderli, condannandosi all’immobilismo e ad un’agenda dettata dall’esterno. L’impressione è che «la strategia del quadrato» non basti più. Manca sempre una sponda: oggi Fini; domani, magari, Bossi. E alla fine, il lato mancante potrebbe essere un elettorato che appena due anni fa ha consegnato il Paese al centrodestra.

Massimo Franco

13 luglio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_luglio_13/Il_lato_mancante_massimo_franco_f1eda39a-8e3b-11df-864f-00144f02aabe.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO Passaggi obbligati (anche i tifosi ammetto i suoi sbagli)
Inserito da: Admin - Luglio 15, 2010, 12:31:51 pm
Passaggi obbligati

Bisogna dare atto a Silvio Berlusconi di avere compiuto la scelta giusta facendo dimettere il sottosegretario all’Economia, Nicola Cosentino: sebbene lasci perplessi la sua permanenza nel Pdl come coordinatore della Campania. Il presidente del Consiglio sapeva di non potere indugiare. Rischiava di ritrovarsi con una maggioranza in bilico, incalzata da Gianfranco Fini e dal centrosinistra. Ed ha preso una decisione obbligata e saggia, anche se tardiva. Evidentemente, il premier ha tempi di reazione dettati da una vistosa dose di diffidenza verso la magistratura. Una parziale spiegazione è che forse deve tener conto di rapporti di forza interni nei quali l’impasto di politica e zone oscure è più vischioso di qualunque buona intenzione di pulizia. Eppure, la moltiplicazione dei casi singoli non può non colpire. Il fatto che il centrodestra continui a perdere pezzi sull’onda di vicende estranee alla sua volontà ed alla politica segnala una stortura di fondo. È come se nella penombra del grande albero berlusconiano si fossero annidati segmenti di società che usano il governo come guscio dentro il quale ingrassare i loro comitati d’affari. Si tratta di un problema che sarebbe ingeneroso considerare un’esclusiva del Pdl. Ma, anche per il modo in cui reagisce, la coalizione berlusconiana tende ad apparire più coinvolta di altri. La difesa a oltranza dei suoi esponenti chiamati in causa nelle inchieste la sovrespone fino a schiacciarla su una questione morale che ha delegittimato la Prima Repubblica; e che alla lunga non può non logorare l’attuale, sebbene abbia sempre rivendicato una diversità virtuosa dal passato. Il fatto che proprio il dimissionario Cosentino additi il pericolo di un ritorno allo «spirito di Tangentopoli » è il tentativo maldestro di eludere le proprie responsabilità; e di evocare un finale drammatico non scontato. Sarà un caso, ma ieri sono stati i ministri Umberto Bossi e Roberto Maroni i primi ad avvertire che la posizione del sottosegretario era indifendibile, anticipando l’esito del colloquio con Berlusconi. Nella Lega cresce la consapevolezza che vicende come quelle che riguardano Cosentino e il coordinatore del Pdl, Denis Verdini, per il quale le dimissioni sembrano rinviate, azzerano qualunque successo del governo. Macchiano il profilo della maggioranza ed oscurano operazioni come quella contro la ’ndrangheta a Milano. Soprattutto, rischiano di trasmettere un’immagine di impunità che può ricreare le condizioni per «processi di piazza» ambigui. È un’involuzione da evitare, leggendo con freddezza quanto accade; rendendosi conto che in una fase di crisi così acuta si richiede un supplemento di serietà e di chiarezza; e accettando l’idea che i comportamenti illegali nella vita politica vanno riconosciuti e sanzionati prima che diventino casi giudiziari. La notizia che Berlusconi vuole dedicare il mese di agosto a riorganizzare il Pdl è la controprova indiretta di una situazione sfuggita di mano. Senza una reazione a questa deriva, il governo è destinato a galleggiare fra gli avvisi di garanzia, con l’acqua sempre più alla gola.

Massimo Franco

15 luglio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_luglio_15/franco-passaggi-obbligati_94a6a37e-8fcd-11df-b54a-00144f02aabe.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO Una banca vale più degli elettori?
Inserito da: Admin - Luglio 27, 2010, 09:37:08 am
LA NOTA

Una banca vale più degli elettori?

Non è facile capire la logica che ha spinto Denis Verdini a dimettersi da presidente della Banca del Credito Cooperativo Fiorentino, e a non lasciare la carica di coordinatore del Pdl. È come se si sentisse più responsabile nei confronti degli azionisti che degli elettori; o comunque ritenesse i primi più severi e temibili dei secondi. Ma la sua scelta non può non lasciare interdetti. Se ritiene che la magistratura lo abbia indagato ingiustamente, è comprensibile la resistenza alle richieste dell’opposizione e della minoranza di Fini.

Nel momento però in cui getta la spugna come banchiere, non si comprende perché ritenga di poterla tenere in mano da dirigente politico. Si tratta di un cortocircuito fra sfera pubblica e privata che finisce per privilegiare la seconda; e per offrire agli elettori del centrodestra un’immagine sghemba di un loro rappresentante. Non si tratta di accreditare un suo coinvolgimento nei fatti dei quali viene sospettato; né di assecondare sentenze preventive; né, ancora, di sottovalutare gli aspetti strumentali degli attacchi di cui è destinatario: sono anche pezzi della faida nel Pdl in atto da mesi. Ma nello stesso tempo è difficile liquidare la questione sostenendo semplicemente di credere a Verdini, alle sue assicurazioni di non avere commesso nulla di illegale.

Questa tesi, esposta ieri ad esempio dal ministro della Difesa, Ignazio La Russa per puntellare il «no» alle dimissioni dall’incarico nel Pdl, è un segno di amicizia e di solidarietà fra coordinatori. Eppure rischia di apparire anche la dimostrazione di un’incomprensione, e di una involontaria mancanza di rispetto per l’elettorato: soprattutto dopo la decisione di Verdini di lasciare la banca per motivi di opportunità. A questo punto, la stessa preoccupazione dovrebbe suggerire un passo indietro dal vertice del partito.

Certo non è facile, in un momento in cui la rissa fra berlusconiani e finiani ha imboccato un tornante pericoloso e probabilmente senza ritorno. L’esigenza di tenere unite le forze nel conflitto dentro il Pdl fa apparire anche la scelta più ragionevole come un gesto di debolezza, di cedimento alle ragioni nemiche. Il risultato è un irrigidimento, quasi un arroccamento su posizioni che a prima vista sono obbligate; ma alla lunga potrebbero rivelarsi imprudenti.

Anche perché in politica le contraddizioni hanno un prezzo. E più a lungo vengono eluse, più si prendono una rivincita rapidissima nelle sue conseguenze. Un elettore non chiede o suggerisce, come un consiglio di amministrazione, di uscire di scena in attesa magari di tempi migliori. È più indifeso, e forse disposto a dare credito alla persona ed allo schieramento che ha votato e contribuito a portare in Parlamento. Proprio per questo merita una considerazione se non superiore, uguale a quella verso una banca.

Massimo Franco

27 luglio 2010
http://www.corriere.it/politica/nota/10_luglio_27/nota_cdbac348-9941-11df-882f-00144f02aabe.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO Prima la manovra poi l'addio a Fini
Inserito da: Admin - Luglio 28, 2010, 11:04:25 am
LA NOTA

Prima la manovra poi l'addio a Fini

Il divorzio è questione di giorni anche se gli effetti sono imprevedibili

Le cronache giudiziarie tendono ad intrecciarsi con le convulsioni politiche del centrodestra. E la reazione del Pdl fa capire che Silvio Berlusconi cercherà fino all’ultimo di non perdere altri pezzi; ma è intenzionato a ratificare dopo oltre sedici anni di alleanza la rottura con il presidente della Camera, Gianfranco Fini. Il capo del governo non vuole le dimissioni né del coordinatore Denis Verdini, né del sottosegretario alla Giustizia, Giacomo Caliendo, indagato ieri per appartenenza ad associazioni segrete, né del coordinatore della Campania, Nicola Cosentino. La priorità è l’approvazione della manovra economica, per la quale occorre una coalizione parlamentare blindata. Dopo il «sì» a quella che il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, chiama «una finanziaria comune dell’Europa», il rischio di una deriva «alla greca» sarà parzialmente scongiurato.

E da quel momento, lo scenario cambierà. Berlusconi prenderà di petto i rapporti fra la maggioranza e quella che definisce «giustizia politica»: probabilmente con un discorso al Parlamento. E quasi in parallelo cercherà di liquidare la questione di Fini. La rottura potrebbe essere sancita entro qualche giorno. Psicologicamente, ma sembra anche politicamente, Berlusconi ha deciso. Anzi, la novità è che mentre fino ad un paio di settimane fa tentava di trovare motivi per una ricucitura, adesso non la cerca più. L’urgenza improvvisa con la quale la minoranza invoca un incontro tra fondatore e cofondatore del Pdl nasce dalla percezione di un pericolo imminente. L’alternanza fra parole rissose e appelli in extremis segnala un epilogo difficilmente evitabile; e dalle conseguenze imprevedibili per lo stesso governo: anche perché i finiani non vogliono abbandonare il Pdl e daranno battaglia per rimanerci.
È evidente, d’altronde, che l’uscita di scena della minoranza indebolisce numericamente la maggioranza. I dati sui gruppi parlamentari che Palazzo Chigi ha esaminato, offrirebbero margini di sicurezza ambigui, se non esigui. Ma i vertici del Pdl appaiono convinti che sia preferibile un esercito meno numeroso e più responsabile e compatto, rispetto ad uno stillicidio quotidiano di polemiche e di distinguo, quando non di attacchi devastanti. Non solo. Ormai Berlusconi e lo stesso Umberto Bossi, capo della Lega Nord, ritengono la situazione irrecuperabile; e dunque sono d’accordo ad agire prima che le inchieste giudiziarie e le frustrazioni nel Pdl rimpolpino la pattuglia finiana. Ormai non si parla più di «se» ma di «come» si consumerà lo strappo.

Il conflitto ha implicazioni pesanti anche sul piano istituzionale. Come presidente della Camera, Fini è la terza carica dello Stato. Il fatto di essere diventato leader della minoranza del Pdl ha un po’ modificato il suo profilo. Nel momento in cui l’addio con Berlusconi ed il suo partito fosse ufficializzato e sanzionato, la situazione diventerebbe paradossale. Non a caso negli ultimi giorni alcuni ex di An hanno invitato Fini ad abbandonare il vertice di Montecitorio e ad entrare nel governo: una provocazione, perché offriva implicitamente la resa in alternativa allo scontro finale. E in un momento in cui i richiami finiani alla legalità sono stati bollati come «dipietristi».

Fa riflettere la possibilità che la separazione possa avvenire nel momento in cui è virulenta la contrapposizione tra governo e magistratura. Si profila una rottura sullo sfondo delle inchieste sulla cosiddetta P3, col presidente della Camera che martella sulla «questione morale» e insiste sull’ «opportunità» delle dimissioni di tutti gli indagati; insomma, cavalca tutti i temi considerati inaccettabili da Berlusconi. È una situazione che può aprire scenari oggi impensabili: perfino quello di una convergenza di fatto fra l’attuale minoranza del Pdl e quei settori dell’opinione pubblica e dell’opposizione che vengono definiti «giustizialisti». Bisogna prepararsi ad una separazione cattiva, fitta di trappole. E sovrastata dall’incognita del comportamento della Lega, oggi in totale sintonia con Berlusconi ma percorsa da tensioni interne inedite.

Massimo Franco

28 luglio 2010
http://www.corriere.it/politica/nota/10_luglio_28/nota_75dee018-9a0a-11df-8339-00144f02aabe.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO Divorziati in casa
Inserito da: Admin - Settembre 06, 2010, 06:06:51 pm
Divorziati in casa


Non si capisce se Gianfranco Fini abbia offerto a Silvio Berlusconi un patto di legislatura, o aperto la campagna elettorale. L’impressione è che abbia fatto le due cose insieme. La scelta di rimanere nel centrodestra è netta; e anche la disponibilità a dare a Berlusconi uno scudo contro qualche tentazione di scorciatoia giudiziaria. Ma detta le proprie condizioni come «terzo alleato» accanto al partito del presidente del Consiglio e alla Lega di Umberto Bossi. Per questo le incognite sul futuro del governo e della legislatura rimangono intatte.

Bisogna capire se la maggioranza riuscirà a sopportare una metamorfosi così traumatica, o si spezzerà ai primi appuntamenti parlamentari. Formalmente, Palazzo Chigi non può etichettare il discorso di ieri a Mirabello come una rottura. Non c’è neppure la nascita ufficiale del partito di Futuro e libertà. Pesano però la dichiarazione di morte del Pdl, che a detta di Fini «non c’è più»; un giudizio demolitorio e velenoso sul berlusconismo; e un cenno alla riforma elettorale che fa pensare a governi diversi dall’attuale. In altri tempi sarebbe bastato per la scomunica. Ma la cronaca recente dimostra che la fase «padronale» del Pdl è finita.

Anzi, se Fini ieri ha potuto ribadire i suoi attacchi al Cavaliere, deve almeno in parte ringraziare la campagna di cui è stato oggetto e che tendeva a riaffermare forzatamente il primato del Cavaliere. Operazione impossibile, di fronte a una destra finiana che sembra ormai avere interiorizzato l’antiberlusconismo. Gli applausi più potenti sono arrivati nei passaggi nei quali Fini ha attaccato il premier. Il partito in incubazione di Futuro e Libertà si considera portatore di valori e metodi alternativi a quelli del Pdl, definito ripetutamente «una Forza Italia allargata».

Non esce dal centrodestra soprattutto per incalzarlo, modificarne la strategia, e alla fine sostituirne la leadership. Il riconoscimento del primato berlusconiano è d’ufficio. Fini polemizza e insieme lancia segnali al ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, e a una Lega evocata con toni agrodolci. Il Pdl è trattato invece come una realtà dalla quale la terza carica dello Stato vuole emanciparsi al più presto: forse perché gli ricorda troppo l’errore politico che sente di avere commesso consegnando An a Berlusconi; e le frustrazioni accumulate negli ultimi due anni.

Probabilmente Fini si rende conto che archiviando la forza che ha contribuito a fondare, e rivestendo i panni del leader di parte, piccona anche il proprio ruolo di presidente della Camera. Ma nelle convulsioni della maggioranza le anomalie tendono a diventare normalità. Per questo l’ipotesi che il governo possa andare avanti rimane una possibilità: sebbene l’offerta del patto di legislatura, per come è stata confezionata, rischi di rivelarsi non l’occasione per una ricucitura vera ma l’ultima spallata tattica a una coalizione che non ritrova il baricentro.

Massimo Franco

06 settembre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_settembre_06/franco_d55df28e-b974-11df-90df-00144f02aabe.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO Il miraggio (svanito) della tregua
Inserito da: Admin - Settembre 19, 2010, 06:22:15 pm
LA NOTA

Il miraggio (svanito) della tregua

C’è da chiedersi se la tregua fra Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini sia finita, o se in realtà non fosse mai cominciata.

Il sospetto che i toni più bassi fossero soltanto un miraggio al quale entrambi fingevano di credere non è mai scomparso. L’attacco del presidente del Consiglio a quella che definisce «l’operazione dissennata di fine luglio » ribadisce un conflitto insanabile. Sembra un passo indietro rispetto all’atteggiamento degli ultimi giorni; e un gesto di sfida alla minoranza finiana in vista del voto parlamentare del 28 settembre prossimo.

Ma forse è solo l’evoluzione di un premier che si sente rinfrancato almeno da «una» Sicilia: quella dei parlamentari dell’Udc tentati di saltare nelle file della maggioranza, e delle truppe della Destra di Francesco Storace in attesa di posti nel governo. Non sono solo sintomi di piccoli trasformismi italici. Quanto accade, per paradosso, sottolinea la debolezza complessiva del centrodestra: o almeno del Pdl emerso dalle elezioni trionfali del 2008. La scissione che sempre in Sicilia ha deciso uno dei sottosegretari a Palazzo Chigi, Gianfranco Micciché, per far nascere un fantomatico «partito del Sud», accentua la sensazione di un berlusconismo che fatica a tenere unito un blocco sociale nazionale.

La competizione con la quale deve fare i conti al Nord e nel Mezzogiorno rende ogni passo più faticoso e arrischiato. La fronda di Fini, e poi la sua espulsione, hanno solo accelerato e aggravato questa deriva. È giusto aggiungere che, nell’affanno generale del sistema, probabilmente il centrodestra rimane meno mal messo dei propri avversari. Ma il punto ormai non è più questo. L’aspetto preoccupante non riguarda tanto il presidente della Camera: riguarda l’Europa. Con parole sincere fino alla brutalità, ieri Berlusconi ha raccontato che al recente vertice di Bruxelles gli altri capi di governo lo guardavano «con un punto interrogativo»: come se fosse sul punto di dimettersi.

L’Italia, ha ammesso, non è più vista come «il Paese solido» che secondo il premier era fino alla rottura di Fini. La ricostruzione è molto autoindulgente, e sorvola sugli eccessi polemici che anche il Pdl aveva riconosciuto di aver commesso nei confronti della corrente finiana. Serve però a scaricare sui nemici interni l’immagine negativa dell’Italia a livello continentale; e a rincuorare una platea non solo siciliana che considera il presidente della Camera un traditore e una banderuola; e che si abbevera ai misteri dell’appartamento di Montecarlo abitato dal cognato di Fini, pregustando la vendetta. Il Berlusconi di ieri è il capo di un governo che di fatto archivia gli equilibri del centrodestra di questi due anni e mezzo. E si prepara a resistere a Palazzo Chigi con il suo Pdl, la Lega e i nuovi compagni di strada.

Vuole riuscirci per i prossimi tre anni, continua a ripetere, blindato dai consensi che conta di raccogliere in Parlamento a fine mese. Ma non è da escludersi che sia pronto ad affrontare una campagna elettorale nella quale la sua «legione straniera», se si materializzerà, servirà a certificare la tesi di un universo moderato calamitato naturalmente nella sua orbita; e pronto a seguire Berlusconi contro la «dissennatezza» di alcuni alleati. Dicono che Fini la consideri una provocazione alla quale non è il caso di rispondere. Ma l’aut-aut drammatizza il voto parlamentare di fine settembre; e rende la tregua un miraggio al quale d’ora in poi neppure lui potrà fingere di credere.

Massimo Franco

19 settembre 2010
http://www.corriere.it/politica/nota.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO Tra sollievo e veleni
Inserito da: Admin - Settembre 23, 2010, 05:49:00 pm
IL VOTO SU Cosentino

Tra sollievo e veleni

Il risultato è sufficientemente ambiguo da permettere ad ognuno di cantare vittoria; o almeno di negare la sconfitta. Il governo può affermare di avere una maggioranza solida, confortata dall’appoggio di qualche «franco tiratore» all’ombra del voto segreto. La minoranza finiana vela le divergenze della sua pattuglia parlamentare sostenendo che Silvio Berlusconi dipende dal sostegno di Futuro e libertà, visto che ha avuto 308 voti e non i 316 della cosiddetta «soglia di sopravvivenza »: sebbene non sia proprio così. E la Lega osserva che non è cambiato nulla; che tutto si deciderà a fine mese, con il discorso del premier in Parlamento. Eppure, ieri potrebbe essere stato compiuto un altro piccolo passo verso elezioni anticipate che quasi nessuno vuole; ma che rischiano di capitare per la sfida sul filo del rasoio e dell’irresponsabilità in atto nel centrodestra. La votazione sull’uso delle intercettazioni a carico dell’ex sottosegretario Nicola Cosentino ha dilatato le distanze fra il Pdl e gli uomini del presidente della Camera. E le notizie avvelenate che filtrano sull’appartamento di Montecarlo abitato dal cognato di Gianfranco Fini sembrano aver ostruito l’unico canale di dialogo fra il vertice di Montecitorio e Palazzo Chigi: lo «scudo giudiziario» per il premier. In realtà, lasciano perplessi l’idea che Fini reagisca a quello che considera «un dossieraggio» bloccando le trattative con Berlusconi; e la decisione di dare la fiducia al governo, precisando che però la collaborazione è impossibile. Il paradosso è che sia lui, sia il presidente del Consiglio temono un’interruzione della legislatura. Sanno che significherebbe una crescita esponenziale della Lega; e, per quanto riguarda Fini, un percorso al buio oltre i confini di questo centrodestra, con prospettive a dir poco precarie. Eppure, senza volerlo, entrambi sembrano sovrastati da una incontenibile voglia di resa dei conti. Giurare fedeltà al governo mentre volano coltellate produce un suono in falsetto: come se fosse un obiettivo che dissimula intenzioni opposte.

La gelida constatazione affidata al ministro dell’Interno, Roberto Maroni, secondo il quale dopo la votazione di ieri le cose stanno come prima, non è nuova ma non va sottovalutata. Conferma una strategia della Lega determinata ad accompagnare la coalizione ancora un po’, in attesa che i fattori di incertezza si rivelino motivi o pretesti per una rottura. Dire che o la maggioranza dimostra di essere davvero autosufficiente, o è meglio andare alle elezioni, rappresenta una constatazione perfino banale nella sua ragionevolezza. Ma ripeterlo quasi ogni giorno indica il percorso che il Carroccio sta seguendo mentalmente. Umberto Bossi è sicuro che Berlusconi sappia fare bene i conti. Presto, tuttavia, potrebbe emergere uno scontro fra chi sostiene che andare alle urne è un lusso troppo costoso per il Paese e per il centrodestra; e chi, Lega in testa, considera il logoramento come la vera iattura. Il contorno di tossine che si stanno sprigionando rischia di rafforzare pericolosamente la seconda tesi: nonostante il sollievo comprensibile del governo.

Massimo Franco

23 settembre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_settembre_23/Tra-sollievo-e-veleni-massimo-franco_29de919c-c6d1-11df-ad8a-00144f02aabe.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO Un sì avvelenato
Inserito da: Admin - Settembre 30, 2010, 05:21:44 pm
Il commento

Un sì avvelenato

Aveva chiesto «un sì o un no» ed ha ottenuto una risposta formalmente, solo formalmente, positiva. In realtà, il governo ha ricevuto un viatico gonfio di insidie. Silvio Berlusconi non ha più una maggioranza autonoma. Dipende dall'appoggio degli odiati finiani e dalla pattuglia di Raffaele Lombardo, che risponde a logiche siciliane, slegate da quelle del Pdl. E Umberto Bossi già addita le elezioni anticipate come «la strada maestra». La cautela meritoria usata da Berlusconi nel suo discorso dimostra che il presidente del Consiglio non solo non le vuole ma le teme. I 342 «sì» a favore del governo, però, avvicinano pericolosamente la fine della legislatura.

Viene sancita la sconfitta della linea muscolare perseguita negli ultimi mesi da Palazzo Chigi; e la rivincita, almeno in Parlamento, dei «ribelli» di Gianfranco Fini. L'ombra pesante del contrasto col presidente della Camera era stata rimossa da Berlusconi, con un fugace accenno al «passo indietro» provocato dalla creazione della corrente Futuro e Libertà. Ma l'annuncio in tempo reale della nascita del partito di Fini, e soprattutto il responso del voto di fiducia, l'hanno riallungata su tutta la coalizione. L'atteggiamento della Lega chiude il cerchio. Conferma il profilo del Carroccio come vero azionista di riferimento della maggioranza; ed avanguardia del «partito delle elezioni».

È il paradosso di un Fini che pensando di contrastare l'«asse del Nord» ha rafforzato i lumbard. Era prevedibile. Le cose sono andate così avanti, che l'istinto autolesionistico del Pdl rischia di sovrastare la lucidità politica e gli interessi del Paese. I rancori viscerali fra il premier e il presidente della Camera, e le pressioni per far dimettere il cofondatore del Pdl dal vertice di Montecitorio sono stati tappe di una guerriglia sfibrante. E in Parlamento la stanchezza e le tensioni represse a fatica erano palpabili.

Non è da escludersi che presto Fini si dimetta davvero: ma anche in quel caso sarà non tanto per motivi istituzionali, quanto per guidare meglio lo scontro contro il suo ex partito. Si tratta di uno sfondo di macerie, per il centrodestra. E non può bastare come consolazione un'opposizione percorsa da un malessere parallelo. A colpire, ed anche a sorprendere sono il tentativo apprezzabile di prendere coscienza dei pericoli di una situazione esasperata; e il difetto di autocritica per il brutto spettacolo offerto ultimamente. Ora la maggioranza vuole accreditare il momento della maturità e della consapevolezza; e la volontà di fermare una spirale capace di portare governo e legislatura sull'orlo del precipizio, senza offrire altro se non il vuoto. Aggrapparsi a questa eventualità è quasi obbligatorio: per il momento non esistono alternative alla coalizione berlusconiana. Ma senza rendersene conto, proprio il centrodestra negli ultimi tempi l'ha picconata: al punto che il premier ha ammesso una «lesione» fra gli alleati. Si capirà presto se esistono volontà e forza per curarla; oppure se sono scattate dinamiche tese ad aggravarla ed a renderla irreversibile.

Massimo Franco

30 settembre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_settembre_30/20100930NAZ11_NAZ01_49_af5fb45c-cc50-11df-b9cd-00144f02aabe.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO Effetti a Catena
Inserito da: Admin - Ottobre 23, 2010, 06:33:08 pm

Effetti a Catena

L'inquietudine istituzionale di Giorgio Napolitano è più che comprensibile ma a doppio taglio. Il presidente della Repubblica vede nel «Lodo Alfano» una torsione del proprio ruolo: di fatto, un colpo alla sua autonomia perché sottopone al giudizio del Parlamento la sospensione di un eventuale processo al capo dello Stato; e per di più a maggioranza semplice e su reati non previsti dalla Costituzione. Ma esprimendo le sue «profonde perplessità» su questo punto finisce per sottolineare che la legge riguarda solo il presidente del Consiglio. Di più, fa capire che sarebbe tagliata su misura per Silvio Berlusconi.

La reazione del premier che annuncia di voler ritirare la legge sostenendo di non averla voluta lui è una risposta in tempo reale al Quirinale; e probabilmente la presa d'atto che da ieri il Lodo è in un vicolo cieco. L'impressione, d'altronde, è che Napolitano abbia toccato in modo esplicito un aspetto; ma forse sia silenziosamente preoccupato dalla possibilità che il «lodo» preparato dal ministro della Giustizia, Angelo Alfano, sia reiterabile: e cioè sospenda i processi a carico del premier anche nel caso in cui passasse in futuro da Palazzo Chigi alla presidenza della Repubblica. Insomma, sembrano intrecciarsi riserve giuridiche e strategie quirinalizie. Proprio per questo, però, il contrasto finisce per apparire soprattutto politico. E costringe a valutare l'irritualità della mossa presidenziale ed i suoi potenziali contraccolpi.

La sensazione è che l'iniziativa di Napolitano abbia colpito al cuore un provvedimento sul quale il centrodestra sta faticosamente costruendo un'intesa con la minoranza di Gianfranco Fini. Ed arriva a sorpresa, con la lettera al presidente della commissione Affari costituzionali del Senato, Carlo Vizzini: missiva nella quale il capo dello Stato ribadisce che non vuole occuparsi di leggi costituzionali o di iniziativa parlamentare. Il fatto che però dica di sentirsi costretto a farlo drammatizza lo scontro fra il governo e l'opposizione. E, dopo la reazione di Berlusconi, mantiene la trattativa in materia di giustizia sul binario della precarietà e dell'incertezza.

Ritorna il rischio di proiettare nuove ombre sul tentativo di evitare una crisi di governo ed elezioni anticipate. Fini si ritrova esposto alle critiche del suo movimento, già irritato per le concessioni al premier; ed il Quirinale viene applaudito dalle opposizioni. Dalla freddezza del centrodestra e dallo scarto berlusconiano si indovina un'irritazione profonda. Si parla di modifiche affidate al Parlamento, accogliendo formalmente le obiezioni presidenziali. Ma la risposta vela un'indiretta accusa di sconfinamento nei confronti di Napolitano.

Proprio ieri il leader dei centristi, Pier Ferdinando Casini, ha evocato un governo politico in caso di caduta di Berlusconi, senza peraltro escludere il voto anticipato. Significa che la stabilità resta in bilico nonostante i tentativi di puntellarla. Nessuno è in grado di prevedere e di controllare l'esito di un'eventuale rottura. Si può solo registrare l'altalena sfibrante alla quale è sottoposto il governo. Per il momento, ha come unica conseguenza certa il suo ulteriore logoramento. Forse, con la disponibilità a ritirare il Lodo, Berlusconi pensa di arginarlo.

Massimo Franco

23 ottobre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_ottobre_23/effetti-a-catena-massimo-franco_db02c4a6-de65-11df-99d6-00144f02aabc.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO L'offensiva finiana mette in evidenza i problemi del Cavaliere
Inserito da: Admin - Ottobre 26, 2010, 06:54:51 pm
La Nota

L'offensiva finiana mette in evidenza i problemi del Cavaliere

Il Fli non esclude elezioni. Si delinea la strategia contro il voto anticipato


Si nota un crescendo di aggressività nella minoranza finiana; ed una reazione difensiva, quasi intimorita da parte del Pdl. La riforma della giustizia ed il «lodo Alfano» si stanno rivelando fronti di oggettiva debolezza per Silvio Berlusconi. E Gianfranco Fini non fa nulla per non sottolinearlo. Il fatto che ieri, proprio da Milano, abbia avvertito che sulla giustizia si potrebbe aprire la crisi di governo, conferma una situazione patologicamente sull'orlo della rottura. Ma soprattutto dice che il presidente della Camera sembra deciso a sfidare Berlusconi, nella convinzione di avere di fronte un leader in difficoltà: tanto più dopo l'altolà arrivato da Giorgio Napolitano.
È come se il conflitto con Palazzo Chigi gli avesse restituito energia e grinta; e reso il ruolo di terza carica dello Stato un orpello residuale. «Mi è tornata la passione politica dei vent'anni», ha detto ieri a Milano. Il «no» di Fini alla possibilità di reiterare la legge che dovrebbe fare da scudo al presidente del Consiglio nei processi è netto. «Non siamo disponibili a garantire la persona, è la funzione che va tutelata», ripete. E la cautela del Guardasigilli, Angelino Alfano, per il quale la reiterabilità non sarebbe «vitale», conferma l'inquietudine di Palazzo Chigi.

Berlusconi sa di potersi ritrovare costretto a trattare anche al ribasso. E comunque si rifiuta di reagire a quella che considera una strategia di provocazioni. Qualche finiano piccona il «lodo» costituzionale in quanto tale, nella convinzione che il presidente del Consiglio non possa né voglia una crisi. Ma più la situazione va avanti, più i margini si assottigliano. Il Fli parla di un governo per cambiare la legge elettorale. E, pur rimanendo nel centrodestra, lascia che alcuni dei suoi esponenti disegnino scenari di «terzo polo» con l'Udc di Pier Ferdinando Casini; ed evochi un'alleanza contro il voto anticipato.
Fini ritiene che un mancato accordo sulla giustizia non potrebbe essere usato come «pretesto» al premier per tornare alle urne. Il messaggio è trasparente: il Fli non avallerà quello che Casini chiama «autoribaltone» della maggioranza; e dunque non darà il via libera alle elezioni. Il progetto, sempre più trasparente, è quello di scaricare sul premier e la Lega l'eventuale fine della legislatura; e di fare di tutto per scongiurare le elezioni con l'attuale sistema. Pur di evitare una nuova vittoria dell'«asse del nord», sarebbe lecito allearsi con tutti: anche con il centrosinistra.

Per quanto ci si sforzi di esorcizzare la «sindrome siciliana», dove un Pdl lacerato al suo interno è stato mandato all'opposizione da un'alleanza fra Mpa, Fli e Pd, quell'anomalia pesa. Ed ingigantisce le ombre sulla tenuta del governo nazionale; e sulle capacità del premier di amalgamare gli interessi di Nord e Sud. È il sintomo di una situazione locale fuori controllo; e la metafora di sviluppi imprevedibili. Prudente, la Lega finge di credere al traguardo del 2013. Ma si prepara al peggio. E l'assenza fisica di Berlusconi ed il suo silenzio alimentano la sensazione di un vuoto di potere ormai troppo vistoso.

Massimo Franco

26 ottobre 2010
http://www.corriere.it/politica/nota/10_ottobre_26/nota_abcb28ce-e0c0-11df-b5a9-00144f02aabc.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO L'autunno del governo
Inserito da: Admin - Ottobre 31, 2010, 10:30:16 pm
L'autunno del governo


Verrebbe spontaneo usare le ultime, imbarazzanti rivelazioni sulla vita privata del premier per sancire il tramonto della sua leadership. In realtà, si tratta di vicende da maneggiare con molta cautela, sebbene non con reticenza; e da affrontare sapendo che forse sono la metafora di una crisi politica, prima che morale. Quanto sta venendo fuori sembra non dire molto di nuovo rispetto a quello che si intuiva o si sapeva, purtroppo. A rendere tutto più grave è la saldatura con una paralisi governativa che dura ormai da mesi; e che sta facendo danni all'Italia, oscurando quel poco o tanto di buono ottenuto ad esempio nella lotta al crimine.

Il «caso Ruby» diventa dunque una sorta di certificazione sul versante privato della crisi del centrodestra. Sottolinea l'inverecondia della guerra interna che si sta combattendo da tempo nel Pdl. Aggiunge simbolismi deteriori all'immondizia vera di Napoli. Esalta l'impotenza del presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, rispetto ai suoi alleati; e l'incapacità di riprendere in mano le redini di una maggioranza che avrebbe il dovere di concentrarsi soltanto sul governo. Il conflitto, le scissioni, le rese dei conti consumano energie e disperdono il senso di responsabilità verso gli elettori, ed il senso dello Stato. Di questa deriva Berlusconi è il principale, non l'unico responsabile.

Ma colpiscono le parole dure nei confronti del premier pronunciate dal suo amico e sodale Fedele Confalonieri; e l'invito quasi brutale a cambiare registro e ad imparare dagli errori. Significa che perfino il «primo cerchio» berlusconiano intuisce di essere ad un passo dal baratro. Nonostante il capo del governo ripeta di non voler modificare stile di vita e di lavoro, solo una metamorfosi in extremis potrebbe salvare la situazione. Non si tratta semplicemente di aggiustare l'immagine di chi appena due anni e mezzo fa era stato portato a Palazzo Chigi da una messe di voti; né di «fare pace» con Gianfranco Fini in modo da fermare il logoramento anche istituzionale di entrambi.

L'estetica a dir poco discutibile del potere attuale è un problema. Ma lo è molto di più il contraccolpo che provoca a livello internazionale l'agonia inspiegabile di una coalizione ancora radicata nel Paese, eppure afflitta da un malessere che la sta sfibrando, senza offrire altre soluzioni. Al punto che cresce il sospetto di un governo deciso a resistere ed a sopravvivere solo per un po': non però per rilanciare la propria azione ma per arrivare alle urne quasi per forza di inerzia, bruciando alternative che comunque appaiono studiate a tavolino e difficili da spiegare all'opinione pubblica. L'immobilismo governativo, tuttavia, può produrre effetti perversi.

Sottolineato ed aggravato da scandali come quello che sta emergendo dalla sfera privata di Berlusconi, rischia di inquinare e consumare anche quei margini di manovra che il Paese si aspetta vengano sfruttati al meglio, senza esporlo alle mire della speculazione finanziaria; e senza rassegnarsi ad elezioni dalla genesi confusa, e dagli esiti potenzialmente traumatici.

Massimo Franco

30 ottobre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_ottobre_30/franco_autunno_governo_31126d1a-e3e3-11df-9798-00144f02aabc.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO Il tentativo di far finta di nulla è evidente.
Inserito da: Admin - Novembre 09, 2010, 05:58:47 pm
L'asse del Nord


Il tentativo di far finta di nulla è evidente.

Si desume dal silenzio di Silvio Berlusconi e dalla volontà della Lega di andare avanti come se Gianfranco Fini domenica non avesse lanciato nessun ultimatum. Ma è la coda sempre più corta di una tattica che si sta esaurendo. Si tratta di prendere atto che una fase è archiviata; e che la crisi di governo si avvicina. Ora si tratta di evitare che l'implosione del centrodestra danneggi l'Italia. Per questo il Quirinale ricorda che bilancio dello Stato e patto di stabilità sono «impegni inderogabili»: teme un impazzimento della situazione. Ma l'accelerazione è nelle cose. Ormai non si parla più del se né del quando il governo cadrà: si sta scommettendo sul come, senza che nessuno sia in grado di prevederlo. A rendere drammatica la corsa contro il tempo è la sentenza della Corte costituzionale sul «legittimo impedimento» prevista per metà dicembre; e l'apertura di un fascicolo contro il premier da parte del Csm con l'accusa di avere «leso il prestigio dell'ordine giudiziario» e del pm del processo Mills, Fabio De Pasquale. Ma su quanto accadrà dopo è buio fitto.

L'incontro di ieri fra Berlusconi e Umberto Bossi con tutto il vertice leghista è un punto a favore del premier. Conferma una sintonia con il Carroccio che prelude a un «no» a qualunque soluzione subordinata all'attuale governo, quando cadrà; e a una posizione comune nella richiesta di elezioni anticipate, sebbene la Lega cerchi ancora una mediazione col Fli. D'altronde, la via d'uscita suggerita da Fini è percorribile solo in teoria: una coalizione con dentro anche l'Udc di Pier Ferdinando Casini significherebbe l'ammissione del fallimento dell'«asse del Nord». E comunque, il modo ultimativo col quale è stata proposta la fa sembrare un vicolo cieco.

Fini ha detto di voler rafforzare il centrodestra; ma in parallelo ha annunciato il ritiro dei ministri del Fli entro 48 ore se Berlusconi non accetta le sue condizioni: termine che potrà dilatarsi al massimo di qualche giorno, perché l'opposizione gli vuole impedire di tergiversare. Ancora, il presidente della Camera fa dichiarare ai fedelissimi di essere candidato alla guida del «nuovo centrodestra»; ma intanto accarezza l'idea di un'alleanza con l'Udc che combatte il bipolarismo e cerca un «terzo polo»: ipotesi realizzabile soltanto se sarà eliminato il premio di maggioranza.

Insomma, a breve termine Fli e Udc perseguono lo stesso obiettivo: scalzare Berlusconi e dar vita a un governo che cambi la legge elettorale. E i loro leader ripropongono un sodalizio rottosi fragorosamente nel 2008, quando Fini scelse il Pdl e lasciò Casini al proprio destino solitario. Ma sul loro percorso pesano incognite legate in primo luogo a chi si assumerà la responsabilità della crisi.

Se si andasse alle urne a primavera senza cambiare sistema elettorale, le ambizioni dell'Udc e quelle finiane potrebbero rivelarsi difficili non solo da affermare ma da conciliare. Nelle fasi di transizione sono tutti più soli.

Massimo Franco

09 novembre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_novembre_09/franco-berlusconi-lega_1f4b32e8-ebcb-11df-8ec2-00144f02aabc.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO Mediazione ambiziosa. Ma la Lega si muove tra le macerie del Pdl
Inserito da: Admin - Novembre 15, 2010, 05:26:53 pm
LA NOTA

Mediazione ambiziosa. Ma la Lega si muove tra le macerie del Pdl

Bossi spera di convincere Fini, ma perfino Gianni Letta vede nero


Sulla carta, la mediazione ha obiettivi ambiziosi. Oggi Umberto Bossi cercherà di convincere Gianfranco Fini a restare nel recinto del centrodestra: magari offrendo un altro governo con Silvio Berlusconi a Palazzo Chigi e una riforma elettorale. Ma la sua iniziativa diplomatica rischia di rivelarsi un tentativo d'ufficio. Il Fli conferma che se il premier non si dimette subito ritirerà la delegazione dal governo entro la settimana. L'altro ieri la Padania annunciava l'incontro odierno del capo leghista, con due pagine al vetriolo sulla «metamorfosi di un missino», cioè Fini. D'altronde, quando perfino un uomo prudente come Gianni Letta fa capire che il governo è agli sgoccioli, i margini si debbono essere consumati: sebbene manchi l'ultimo atto.

«Questo governo che rappresento pro tempore», ha detto ieri il sottosegretario a Palazzo Chigi, «ha prospettive che in queste ore sembrano restringersi non ad anni ma a periodi e misure di tempo più contenuti». Che questo significhi una crisi immediata non è chiaro.
Berlusconi vuole essere sfiduciato in Parlamento. Non si può escludere un soprassalto di responsabilità da parte di tutti. Ma che il Carroccio trovi il grimaldello per riportare un simulacro di armonia fra il premier e Fini rimane tutto a vedere.

Ci sono esponenti del Fli che si dicono pronti ad allearsi anche con Nichi Vendola pur di andare «contro Berlusconi», tranne poi correggersi. E il Pd di Pier Luigi Bersani raccoglie firme per sfiduciare il premier. Sono altrettante avvisaglie di una crisi in incubazione ma non dichiarata; e di uno scontro nel centrodestra destinato a diventare il cuore di un'eventuale campagna elettorale.
Per ora si conferma il tentativo di prendere tempo per approvare la legge finanziaria, sebbene la strada che porta a fine legislatura appaia tracciata con un solco profondo.

L'incognita riguarda la possibilità di trovare una maggioranza alternativa, per rinviare il voto ed evitare una vittoria dell'asse Pdl-Lega. L'accenno di ieri di Giorgio Napolitano a «chiunque governa o governerà» conferma che il capo dello Stato non esclude nulla, se si apre la crisi. Ma l'ipotesi di un esecutivo di passaggio, accarezzata da Pd, Udc e Fli, e più tiepidamente dall'Idv, ha alcune controindicazioni.
Dà per scontata una compattezza fra centrosinistra, Pier Ferdinando Casini e finiani che va verificata. In aggiunta, le idee sulla riforma elettorale non sono proprio le stesse. Ed esiste un po' di confusione su quello che la coalizione del dopo Berlusconi dovrebbe rappresentare.

L'unica intesa è sull'esigenza di far cadere Berlusconi. Ma sull'opportunità di mettere Pdl e Lega in minoranza, affiorano inconfessate perplessità. La principale è che una soluzione del genere rafforzi Berlusconi. Un centrodestra spedito all'opposizione si troverebbe una campagna elettorale già pronta. Potrebbe gridare al «golpe», nonostante la Costituzione obblighi il capo dello Stato a non sciogliere le Camere se esiste una qualunque maggioranza. Per paradosso, l'implosione del Pdl passerebbe in secondo piano. Il presidente del Senato, Renato Schifani, chiede stabilità contro rischi che chiama «speculazione e poteri estranei al sistema democratico». È una preoccupazione autentica, e può diventare un slogan elettorale.

Massimo Franco

12 novembre 2010
http://www.corriere.it/politica/nota.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO Una crisi quasi aperta con assaggi velenosi di campagna ...
Inserito da: Admin - Novembre 16, 2010, 11:37:12 am
La Nota

Una crisi quasi aperta con assaggi velenosi di campagna elettorale

Fini e Schifani oggi al Quirinale mentre il Pdl parla di tradimento

L' accusa di «tradimento» a Gianfranco Fini è già un assaggio di campagna elettorale. Ed i veleni che accompagnano la sua udienza odierna al Quirinale come presidente della Camera lasciano immaginare quanto potrà accadere in seguito. Le dimissioni del ministro e dei quattro sottosegretari del Fli, sebbene annunciate, hanno provocato una sollevazione a tavolino del Pdl. E le frasi dirompenti di alcuni esponenti finiani sulla possibilità di allearsi con la sinistra per evitare le elezioni, sono state motivo di ulteriore polemica: uno sbarramento verbale per impedire tappe intermedie fra il governo e le urne.

Di fronte ad un'alternativa, per quanto rabberciata e fragile, Giorgio Napolitano potrebbe non escludere un rinvio dello scioglimento delle Camere. Si tratta però di uno scenario prematuro e improbabile: nessuno conosce la data esatta della crisi di governo. Si sa solo che dovrebbe aprirsi dopo l'approvazione del patto di Stabilità. Né si possono sottovalutare accelerazioni impreviste: proprio per scongiurarle il capo dello Stato ha convocato Fini ed il presidente del Senato, Renato Schifani.

Il vertice fra Lega e premier ad Arcore dà l'idea di decisioni tormentate. Mostra Umberto Bossi convinto dell'appoggio a Berlusconi; eppure inquieto perché vuole che la rottura possa essere addossata a Fini. Il timore è che l'elettorato di centrodestra non perdoni alla maggioranza lo scioglimento delle Camere. Per questo il Carroccio appare meno determinato ad andare ad elezioni anticipate rispetto a Berlusconi, dopo essere stato per mesi l'avanguardia del voto, ora ostenta prudenza.

D'altronde, gli errori commessi nei mesi scorsi dal Pdl nei confronti della minoranza finiana legittimano la prudenza. La corrente del presidente della Camera è stata prima sottovalutata, poi demonizzata, poi attaccata nella speranza di spaccarla. Ma la guerra fra Berlusconi e Fini ha prodotto soltanto un irrigidimento senza sbocco. E continua. «Lui non sa che cosa lo aspetta se andiamo a votare. Non uscirà bene dalle urne», avrebbe detto ieri il capo del governo parlando del cofondatore del Pdl. «Non siamo traditori, offriamo un altro centrodestra», si difendono i finiani: sebbene l'ipotesi di una coalizione «d'emergenza» col Pd contraddica questa impostazione.

Massimo Franco

16 novembre 2010
http://www.corriere.it/politica/nota/10_novembre_16/nota-franco-crisi-quasi-aperta_6d614a62-f148-11df-8c4b-00144f02aabc.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO Il «dopo Berlusconi» adesso ruota intorno ai conti pubblici
Inserito da: Admin - Novembre 18, 2010, 12:33:53 pm
La Nota

Il «dopo Berlusconi» adesso ruota intorno ai conti pubblici

Ma il premier e la Lega ripetono: o fiducia o voto anticipato


L'inquietudine per la situazione economica è autentica e trasversale. Ma il modo in cui viene evocata una possibile crisi dei conti pubblici in caso di elezioni sta assumendo contorni strumentali. Gli echi delle difficoltà finanziarie di Irlanda e Portogallo sono già diventati un pezzo della pretattica che accompagnerà governo ed opposizione fino al voto parlamentare del 14 dicembre: quello che deciderà la sorte di Silvio Berlusconi. Il centrodestra usa l'argomento per chiedere che il premier vada avanti; che rientrino le minacce di crisi da parte di Futuro e libertà, con la sponda di Udc e Pd. «Sarebbe una iattura assoluta», ha avvertito ieri Berlusconi. Di più, un atto di «irresponsabilità».

La cosa singolare è che anche l'opposizione utilizza la crisi economica: ma per ragioni diametralmente opposte. Il segretario del Pd, Pier Luigi Bersani, e Pier Ferdinando Casini, dell'Udc, legittimano la caduta di questo governo per sostituirlo con uno di «responsabilità nazionale» con dentro tutti; e accusano il capo del centrodestra di fingere di volere la stabilità, mentre lavorerebbe insieme con la Lega solo per arrivare alle urne il 27 marzo. Si tratta di un argomento scivoloso per tutti, e a doppio taglio. Gridare al pericolo di un disastro finanziario è una controindicazione forte alle elezioni anticipate; ma offre anche a Berlusconi un'arma per rispondere a chi vuole la crisi.
È la nuova frontiera polemica lungo la quale si stanno disponendo i partiti. Ma ruota intorno al tema di sempre: la possibilità di continuare la legislatura senza che a Palazzo Chigi sieda ancora Berlusconi. Si tratta di un'eventualità remota, al momento. Pdl e Lega sono concentrati sull'alternativa «fiducia o elezioni». Scartano l'ipotesi di un Berlusconi bis. Ed accusano la sinistra di «voler fare credere che l'Italia stia correndo gli stessi rischi di altri Paesi», nelle parole del sottosegretario Paolo Bonaiuti: allusione a Irlanda e Portogallo, che fanno tremare l'euro.

Il ministro della Giustizia, Angelino Alfano, vede un'opposizione pronta ad augurarsi una crisi dell'economia «per giustificare quello che avrebbe un solo nome: ribaltone». È questa, secondo la maggioranza, la sostanza della «grande coalizione», sul modello tedesco, rilanciata ieri da Bersani e Casini: un tentativo di portare al governo le forze sconfitte dal 2008, e spaventate dalla prospettiva di una nuova vittoria del centrodestra. Berlusconi le addita come il vero fattore di destabilizzazione, tentando di allontanare da sé il sospetto di puntare diritto alle urne. Lo contraddice il fatto che la Lega, ma anche il ministro della Difesa Ignazio La Russa abbiano già indicato il 27 marzo del 2011 come data del voto.

Il premier sostiene di tenere «un profilo basso», e di farlo «per le preoccupazioni che deriverebbero dall'instabilità di governo e per l'attenzione ai titoli del debito pubblico che dobbiamo vendere ogni giorno. Il prossimo anno», ricorda Berlusconi, «sono per 250 miliardi di euro». Sembra così raccogliere l'invito che Giorgio Napolitano ha rivolto a tutti perché dimostrino responsabilità. Il timore che nelle prossime tre settimane il governo racimoli qualche voto e ottenga di nuovo la fiducia è manifestato apertamente solo da Antonio Di Pietro; ma serpeggia anche nel resto dell'opposizione. Potrebbe essere il risultato paradossale di una «sindrome irlandese e portoghese» alimentata per terremotare Berlusconi; ma forse destinata a produrre effetti meno scontati.
D'altronde, l'arresto del boss latitante Antonio Iovine è un colpo che rafforza il ministro dell'Interno, Roberto Maroni, e di riflesso Palazzo Chigi.

Massimo Franco

18 novembre 2010
http://www.corriere.it/politica/nota/10_novembre_18/nota_e8f6657c-f2dd-11df-8691-00144f02aabc.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO L’ipoteca del Carroccio fra spinte elettorali e sindrome di Prodi
Inserito da: Admin - Novembre 20, 2010, 09:00:38 am
LA NOTA

L’ipoteca del Carroccio fra spinte elettorali e sindrome di Prodi

Maroni di fatto, e forse al di là delle intenzioni, evoca il dopo-Berlusconi


Sul governo di Silvio Berlusconi si allunga l’ombra di quello dell’Unione di Romano Prodi, durato dal 2006 all’inizio del 2008. Ormai, gli esponenti della Lega lo ripetono ogni giorno, per motivare una richiesta pressante di elezioni anticipate. A Umberto Bossi non basta che il 14 dicembre l’esecutivo sopravviva al voto parlamentare. Proseguire con una manciata di voti altalenanti significherebbe, secondo i vertici del Carroccio, logorarsi proprio come avvenne al centrosinistra prodiano. Per questo, «noi continuiamo a dire a Berlusconi di ascoltare Bossi», ricorda il ministro dell’Interno, Roberto Maroni.

E per la prima volta allude a Giulio Tremonti come presidente del Consiglio; ma dopo le elezioni. Lo fa per schermirsi quando gli si chiede se non pensi a palazzo Chigi. Giura di no, e aggiunge che «ci si può arrivare solo tramite passaggio elettorale». Non significa che la candidatura di Berlusconi è in bilico: sarebbe impensabile, ad oggi, andare al voto anticipato mettendo da parte il Cavaliere. La Lega pensa a quando le urne saranno aperte ed i risultati daranno magari al Carroccio un ruolo superiore all’attuale. E allora, il ministro dell’Economia Tremonti «sarebbe un ottimo premier», dichiara Maroni. È un accenno ipotetico. Eppure contribuisce ad allungare un’ombra di confusione, se non di precarietà sul futuro del centrodestra e del suo capo storico.

Fa trasparire ed ufficializza non soltanto le ambizioni leghiste e l’asse con Tremonti. Di fatto, e forse al di là delle intenzioni, evoca il dopo-Berlusconi. Consegna a palazzo Chigi un avvertimento che anticipa un possibile cambio di leadership destinato a condizionare la maggioranza; e ad iniettare tensioni in un Pdl nervoso. Maroni, non si sa quanto in sintonia con Bossi, paragona i lumbard alla «vecchia Dc»: un partito-supermarket in grado di amalgamare posizioni diverse. E lo oppone al Pdl ritenuto incapace di gestire i problemi interni. Il pretesto è lo psicodramma che ha riguardato ieri il ministro delle Pari opportunità, Mara Carfagna, pronta a dimettersi per protesta contro il «fuoco amico». Berlusconi che arriva con un’ora di ritardo al vertice Nato di Lisbona perché, si dice, dall’aeroporto deve risolvere al telefono il caso, conferisce alla vicenda un tocco surreale.

Palazzo Chigi dirama una nota per spiegare che ci sono stati problemi di protocollo e altre versioni sono «ridicole». Ma la miscela di pubblico e privato nel Pdl rende verosimile qualunque cosa. E comunque c’è una Carfagna offesa per i sospetti di intesa e di intimità col «nemico», l’esponente finiano Italo Bocchino. Il quadro conferma l’impossibilità di una ricucitura con il Fli; ed attesta l’esasperazione del ministro, considerata finora un’icona del governo. Così, mentre Gianfranco Fini perde pezzi e sicurezza, in difficoltà con Berlusconi e forse con il Quirinale, il Pdl rivela crepe impreviste. E soprattutto deve fronteggiare l’ipoteca leghista sulla maggioranza. Bossi annuncia: staremo con Berlusconi fino all’approvazione del federalismo. Vuole le elezioni: per questo provoca Fini rinfacciandogli di temere il voto. Il resto è buio: un’oscurità nella quale la Lega sembra non curarsi di vedere inghiottita l’era berlusconiana.

Massimo Franco

20 novembre 2010
http://www.corriere.it/politica/nota.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO Governo ieri sotto due volte.
Inserito da: Admin - Novembre 25, 2010, 12:26:04 am
LA NOTA

Il Cavaliere resiste ma aumentano i rischi di elezioni anticipate

Governo ieri sotto due volte. Berlusconi accusa la Rai di falsificare il lavoro dell’esecutivo


L’idea della mobilitazione di piazza a favore del governo per l’11 e 12 dicembre potrebbe segnare l’inizio ufficioso della campagna elettorale. Solo un miracolo permetterà di salvare l’esecutivo dopo l’appuntamento parlamentare del 14 dalla caduta, preannunciata dalle due bocciature di ieri. L’intenzione della Lega di andare alle urne anche in caso di maggioranza risicata rende l’eventualità della sopravvivenza vicina allo zero. «Ma questo significa affidare alla manifestazione della vigilia una funzione propiziatoria, evocando il sacrificio di Silvio Berlusconi.

Soprattutto, serve ad additare quelli che il Pdl già chiama «traditori »; e che saranno il bersaglio fisso della campagna elettorale dell’asse con la Lega. Se Berlusconi ha deciso di chiamare il suo «popolo» a protestare, significa che vuole drammatizzare la probabile crisi, mettendo in fila gli attacchi ricevuti, a suo avviso, da Gianfranco Fini. D’altronde, è l’unico modo che il premier ha per scaricare unicamente all’esterno la frattura nel centrodestra e le tensioni a livello locale. Quando invoca dagli altri «sobrietà» e denuncia «protagonismi e personalismi », si attira addosso le ironie avversarie.

Ma Berlusconi parla al proprio partito: lo ha fatto anche ieri sera accusando stizzito la Rai di falsificare l’operato del governo sui rifiuti a Napoli. Il suo obiettivo è ricompattare il blocco che l’ha portato alla vittoria nel 2008. La stessa insistenza sui numeri parlamentari che avrebbe è funzionale alla narrativa di una crisi provocata dagli altri. Tutti si stanno rassegnando alle elezioni; e perfino al dopo. Quando Maroni ripete che il ministro dell’Economia Giulio Tremonti sarebbe «un ottimo capo del governo», non sgambetta Berlusconi. Ma fa l’identikit del candidato a Palazzo Chigi gradito al Carroccio qualora i risultati restituissero una situazione incerta.
E quando il leader dell’Udc, Pier Ferdinando Casini, evoca un governo «di solidarietà nazionale», non si illude che nasca adesso.
Il problema è quanto altro veleno emergerà nel frattempo.

Massimo Franco

24 novembre 2010
http://www.corriere.it/politica/nota/10_novembre_24/la-nota-massimo-franco_05209ee8-f793-11df-9137-00144f02aabc.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO Mordi e Fuggi
Inserito da: Admin - Novembre 27, 2010, 04:44:39 pm

Mordi e Fuggi

Purtroppo, si ha l'impressione che quanto sta accadendo alla riforma universitaria in discussione in Parlamento abbia assai poco a che fare con il merito del provvedimento. Riguarda in seconda battuta le stesse manifestazioni studentesche, che mescolano preoccupazioni fondate e tentativi evidenti di strumentalizzazione. Ripropone invece la resa dei conti che il centrodestra sta consumando al proprio interno e a spese dell'Italia; e che l'opposizione cavalca, comprensibilmente, in nome di un movimentismo quasi d'ufficio.

Può darsi che la prossima settimana questa bolla gonfiata dalla crisi virtuale del governo e dalla protesta di piazza si ridimensioni, e la riforma venga votata. Significherebbe approvare una legge senza la quale rimarrebbero il vuoto e l'immobilismo, e soprattutto riportare le cose alle loro giuste dimensioni. Ma se un pezzo di maggioranza si schiera con il centrosinistra per battere il governo e logorarlo, non si può fare finta di niente. Simili comportamenti non possono essere sottovalutati o soltanto considerati fisiologici in questa fase rissosa.

La strategia della guerriglia parlamentare tocca anche misure sulle quali appena quattro mesi fa sembrava esistere un'intesa di fondo. E porta a chiedersi che cosa accadrà nei prossimi giorni; soprattutto, quale sarà la sorte di altri provvedimenti sui quali non esisteva in precedenza identità di vedute. Proprio la tattica del «mordi e fuggi» che la minoranza del centrodestra sta applicando alla riforma universitaria spiega perché nelle scorse settimane sia arrivato l'altolà allarmato del Quirinale sulla legge finanziaria.

Giorgio Napolitano ha intuito e bloccato in modo preventivo un gioco spregiudicato che rischiava di travolgere lo stesso patto di stabilità; e che adesso viene praticato colpendo leggi solo in apparenza meno decisive, di fatto quasi altrettanto qualificanti per una coalizione in evidente affanno di risultati e di immagine. Non si capisce quanto sia lungimirante, da parte di Futuro e libertà, insistere su scelte che certamente sottolineano e acuiscono la debolezza di Silvio Berlusconi. Ma in parallelo finiranno per offrire al premier e alla Lega buone ragioni per chiedere elezioni anticipate.

Sarebbe singolare se la guerra civile iniziatasi sette mesi fa nel Pdl per arginare l'«asse del Nord» si concludesse con una corsa alle urne che promette di premiare proprio il partito di Bossi. Si tratterebbe di un suicidio politico difficilmente spiegabile sul piano strategico; e ancora meno giustificabile su quello del buonsenso: soprattutto se coinciderà con l'affossamento di una riforma magari discutibile ma che ha come alternativa il nulla; e in assenza della quale l'Italia sarà non proiettata nel futuro, ma ancora più schiacciata su un presente avaro di prospettive.

Massimo Franco

26 novembre 2010(ultima modifica: 27 novembre 2010)© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_novembre_26/franco_mordi_fuggi_6ca61f1a-f924-11df-a6ac-00144f02aabc.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO Parole Rozze e Autolesionistiche
Inserito da: Admin - Dicembre 05, 2010, 12:16:27 am
Il commento

Parole Rozze e Autolesionistiche

L'episodio di ieri sera lascia intravedere quali pressioni è destinato a subire il Quirinale, fino al rischio di scontro


E' stupefacente il modo rozzo e autolesionistico col quale uno dei coordinatori del Pdl ha ritenuto di rivolgersi al Quirinale. Una frase da comizio, che aveva preceduto una nota con la quale Giorgio Napolitano si era limitato a far sapere ufficiosamente che «nessuna presa di posizione di qualsiasi parte» poteva oscurare le sue prerogative: poche parole interpretate come un altolà a chi dà per scontato il voto anticipato; ma anche a Fini, che ieri ha attribuito al capo dello Stato l'intenzione di formare un altro governo se cade quello di Berlusconi. Lo stentoreo «ce ne freghiamo delle prerogative» del Quirinale, gridato ieri sera da Denis Verdini, non è soltanto un atto di volgarità istituzionale: è un autogol politico per il governo, che sembra Berlusconi abbia subìto, perché si dice non ne sapesse nulla. Il coordinatore del Pdl ha trasformato un possibile vantaggio rispetto a Fini in un danno, insultando un Napolitano che ha sempre mostrato rare doti di equilibrio. Ed ha rivelato la tentazione di una parte del Pdl di arrivare anche allo scontro col Quirinale pur di avere le elezioni. Per un «terzo polo» che procede verso la resa dei conti contro Berlusconi quasi a tappe forzate, si tratta di un aiuto insperato. Gianfranco Fini e Pier Ferdinando Casini sono decisi a picconare il presidente del Consiglio nella speranza vana di indurlo alle dimissioni prima del 14 dicembre. La mozione di sfiducia con 85 firme, depositata ieri, dovrebbe preannunciare la crisi di governo.

Ma l'episodio di ieri sera lascia intravedere quali pressioni è destinato a subire il Quirinale. Fini ieri ha sostenuto che «il capo dello Stato sa cosa deve fare nel rispetto della Costituzione». Ed ha escluso il voto anticipato, facendo insorgere il resto del centrodestra e creando malumori anche al Quirinale. Per il Pdl era una scorrettezza istituzionale che richiedeva l'intervento di Napolitano. Il problema è che quando il Colle si è mosso, qualcuno nel Pdl già aveva reagito attaccandolo: quasi un'anticipazione dello sfondo di veleni sul quale Napolitano sarà presto chiamato a svolgere il suo ruolo cruciale di arbitro.

Il «terzo polo» e il centrosinistra insistono sulla possibilità di allargare la maggioranza dopo la crisi. Il fronte berlusconiano contempla le urne. Fra questi due estremi c'è una terra di nessuno che il capo dello Stato sarà costretto a percorrere armato solo della bussola della Costituzione. Il problema è che ognuno la vuole piegare ai propri obiettivi. E, se li manca, rischia di cedere alla tentazione di scaricare il proprio fallimento sul Quirinale. Berlusconi cerca di esorcizzare la seduta del Parlamento del 14 dicembre, definendo la mozione di Udc, Fli e Api «una bufala»; e i 317 voti teorici contro il governo una massa destinata a frantumarsi. Casini gli risponde con durezza, invitandolo a «prendersela con se stesso per avere dilapidato la più grande maggioranza del dopoguerra».

Ma perfino l'ideologo di Farefuturo, Alessandro Campi, avverte che «una maggioranza parlamentare antiberlusconiana ed un governo tecnico sarebbero un regalo al premier ed un obbrobrio politico-istituzionale». Sono segnali di perplessità, che, almeno in apparenza, non affiorano nell'«asse del Nord»: almeno non ancora. Casini e Fini si rendono conto che l'idea di essere usati dalla sinistra per abbattere il governo può danneggiarli. E replicano di volere solo «un vero centrodestra. La premessa comune è che l'era berlusconiana si è esaurita. E dietro le loro manovre ed i loro ultimatum si indovina un calcolo azzardato: sperano che se si dovesse aprire davvero la crisi, il Pdl si squagli e la Lega si smarchi. Per il momento gli indizi sono a dir poco labili, sotto traccia: al punto da fare apparire l'offensiva una corazza che nasconde molte inquietudini. Probabilmente una fase è finita davvero, ma la fretta di archiviarla può in realtà prolungarla in maniera imprevedibile: nonostante il contributo maldestro di alcuni berlusconiani.

Massimo Franco

04 dicembre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_dicembre_04/franco_parole_autolesionistiche_3dbc8d36-ff7a-11df-8466-00144f02aabc.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO Toni diversi tra Fini e Casini sull’atteggiamento da tenere ...
Inserito da: Admin - Dicembre 07, 2010, 03:58:07 pm
LA NOTA

Un terzo polo confuso in bilico fra crisi e trattativa sul «bis»

Toni diversi tra Fini e Casini sull’atteggiamento da tenere verso Berlusconi


C’è qualcosa di un po’ confuso nel modo in cui il cosiddetto «terzo polo» sta approdando al voto del 14 dicembre in Parlamento. Esiste una mozione di sfiducia contro il governo guidato da Silvio Berlusconi. Ed è inevitabile che, per farlo cadere, sia necessario il concorso del centrosinistra. Ma nelle ultime ore il presidente della Camera, Gianfranco Fini, ha insistito nel negare qualsiasi «ribaltone che sarebbe un sovvertimento della volontà popolare». E Pier Ferdinando Casini in apparenza gli dà ragione; in realtà sostiene che non ci sarebbe un «ribaltone » perché Berlusconi «si autoesclude». L’altro aspetto singolare è che il premier va avanti, mentre Fli adesso vorrebbe trattare.

Così, da qualche giorno convivono due tesi inconciliabili. La prima è quella che ritiene necessarie le dimissioni di Berlusconi addirittura prima del 14, con una crisi extraparlamentare: ancora ieri Casini ha proposto di scegliere d’accordo con lui «un candidato giovane» a Palazzo Chigi. Ma in parallelo, almeno in linea di principio, Fini non sembra escludere un Berlusconi bis. Insomma, il meno che si possa dire è che la maggioranza di centrodestra si trova a un bivio; che il governo ha i giorni o al massimo le settimane contate; ma che nelle file avversarie regna l’incertezza: soprattutto nel «terzo polo».

Quando Antonio Di Pietro afferma che non si può non andare a primavera a elezioni anticipate, piccona il «governo tecnico» o «di responsabilità nazionale » accarezzato dal resto delle opposizioni. È vero che il capo dell’Idv non esclude un «previo periodo» di tre mesi per cambiare la legge elettorale. Ma sembra essere il primo a non credere che sia possibile. Vuole le elezioni e martella su quelle che considera le ambiguità dei centristi, mentre l’asse Berlusconi- Lega è lineare sulla strategia «o fiducia o elezioni anticipate».

Sull’altro fronte, invece, il tandem Fini-Casini pedala in sincronia, ma con qualche segnale di affaticamento. Sul sito dei finiani «Libertiamo » c’è chi propone il «doppio passo indietro» di Berlusconi dalla presidenza del Consiglio e di Fini da quella della Camera: una proposta subito declassata a ipotesi minore, ma significativa di un certo sbandamento. A farlo affiorare è l’accusa di fare il gioco della sinistra puntando alla crisi di governo. Pdl e Lega ironizzano sul presidente della Camera che ieri in una scuola romana ha detto che l’elettore «non vota chi non è coerente». Il «terzo polo» è accusato di essere un alleato oggettivo degli antiberlusconiani.

Non lo aiutano le perplessità più o meno sotto voce, espresse dalle gerarchie cattoliche; né la tesi del Pd, secondo il quale, dice Dario Franceschini, l’alleanza con Fli sarebbe motivata da «un’emergenza democratica». Rimane la polemica generazionale che si è aperta fra Berlusconi e il leader dell’Udc, che sta assumendo una piega sgradevole. Al premier che aveva imputato ai vertici del «terzo polo» di essere «vecchi maneggioni» della politica, ieri Casini ha replicato definendo Berlusconi «catacombale». Non è un bello spettacolo. Ma soprattutto, si tratta di ulteriori elementi che promettono di aprire la strada ad un epilogo certo imprevedibile; e probabilmente traumatico ed allarmante per la sua rissosità.

Massimo Franco

07 dicembre 2010
http://www.corriere.it/politica/nota/10_dicembre_07/nota_d6fe0e60-01c9-11e0-afab-00144f02aabc.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO Dal terzo polo un’offerta che nasconde la paura di elezioni ...
Inserito da: Admin - Dicembre 10, 2010, 07:16:11 pm
LA NOTA

Dal terzo polo un’offerta che nasconde la paura di elezioni anticipate

Voci confuse di un nuovo centrodestra senza Berlusconi, ma si aspetta il 14


Il «terzo polo» si prepara a proporre un governo di centrodestra allargato all’Udc senza Silvio Berlusconi a Palazzo Chigi, non appena si apre la crisi. Sarebbe il tentativo estremo che il tandem già un po’ in affanno tra Pier Ferdinando Casini e Gianfranco Fini sembra intenzionato a fare per evitare le elezioni anticipate; o comunque per destabilizzare il Pdl e additare il premier come responsabile della rottura. Ufficialmente, ad archiviare la possibilità che Berlusconi rimanga alla guida del governo è solo il leader dell’Udc. Il presidente della Camera si mostra meno esplicito, perché deve tenere compatto un Fli nel quale non tutti sono convinti dell’operazione.

Per questo, formalmente Fini non esclude un Berlusconi bis, a patto che si dimetta prima del 14 dicembre. Ma la manovra presenta incognite profonde. Dire, come fanno i capi del «terzo polo», che l’appuntamento in Parlamento è ancora lontanissimo significa sperare in una svolta che non si vede ancora; e contare su uno smottamento del Pdl e uno smarcamento leghista dei quali continua a non esserci traccia. Non solo. Da quanto filtra dalla cerchia berlusconiana, sarebbe il presidente del Consiglio a non volere un «bis». Non si fida di Fini e Casini. E ricorda che nel 2005 rifece il governo su pressione dell’Udc dopo le regionali, approdando alla sconfitta del 2006.

Su questo sfondo, non è chiaro neppure se si aprirà subito la crisi. I numeri rimangono incerti. E il sottosegretario a Palazzo Chigi, Paolo Bonaiuti, profetizza una delusione per «maghi e maghetti dell’opposizione». Eppure, comunque vada il governo appare al capolinea, intrappolato in una situazione non più sostenibile e con una maggioranza che da mesi non è più tale. «Anche se Berlusconi dovesse avere una fiducia di 2 o 3 voti, è chiaro che non potrà andare avanti», sostiene Casini, non escludendo sorprese.

L’ipotesi del voto anticipato, a meno che non si materializzi un imprevisto, continua ad essere pericolosamente presente. Berlusconi lo considera l’unico antidoto al logoramento. Ed i suoi avversari temono che insieme con Umberto Bossi il calcolo sia quello di rompere il 14 se il governo viene sfiduciato; oppure a gennaio se riesce a superare l’ostacolo. Si tratterebbe solo di spostare la crisi, ritenendo impossibile andare avanti con margini così risicati e un Fli che fa guerriglia in Parlamento. Se finisce la legislatura, sembra improbabile che Berlusconi rinunci a candidarsi alla guida dell’esecutivo: sebbene nel Pdl e nella Lega siano affiorate ad intermittenza altre ipotesi.

La sensazione è che presentando la mozione di sfiducia, Fini e Casini abbiano per paradosso ridotto gli spazi della trattativa. E il premier ha colto l’occasione per cercare di serrare le file ed accusare di «tradimento» chiunque pensi ad un governo senza di lui e teso a coinvolgere l’opposizione. La polemica che sta lievitando col Fli fa capire che sarà il tema-principe in caso di campagna elettorale. I finiani che non escludono alleanze col Pd e con l’Idv in nome dell’ «emergenza» forniscono un pretesto. Per richiamare alla responsabilità, Casini dice: «Si prenda esempio dalla Prima Repubblica». Ma rischia di essere un’altra arma polemica messa in mano a Berlusconi e Bossi.

Massimo Franco

08 dicembre 2010
http://www.corriere.it/politica/nota.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO Cambio di Stagione
Inserito da: Admin - Dicembre 14, 2010, 09:52:55 pm
Cambio di Stagione


Probabilmente oggi il Parlamento certificherà la frantumazione di quella che è stata l'ossatura delle coalizioni di centrodestra per oltre sedici anni: l'alleanza fra Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini. Si tratta innanzi tutto dell'esplosione dell'ex Msi, poi An, abbracciati e fagocitati dal Cavaliere. È la loro «guerra civile» a restituire una maggioranza lacerata, conseguenza della frustrazione finiana per il modo in cui si è formato il Pdl; e per l'affermazione di un altro asse, quello fra Berlusconi e Umberto Bossi, che ha fatto apparire marginale il presidente della Camera.

Per questo, è giusto dire che oggi finisce un centrodestra, sebbene sia assai meno scontato dare per archiviato il berlusconismo. Che il governo sia virtualmente agli sgoccioli non sembra in discussione: lo sarà anche sfuggendo alle forche caudine del Parlamento. Il presidente del Consiglio non si illude di emergere con una vittoria squillante. Punta ad un certificato di sopravvivenza politica che suonerebbe come una sconfitta per Fini e per chi ha puntato su di lui dimenticando il lungo appoggio al Cavaliere. Ma prevalere per qualche voto può non bastare a scongiurare la crisi. L'impressione è che la fiducia non sarebbe risolutiva in sé.
Potrebbe portare a un consolidamento e perfino a un allargamento della maggioranza. Rimane il rischio delle urne a primavera, con Berlusconi e Bossi decisi a far pesare un risultato positivo anche sul Quirinale. Le due strade nascono dalla consapevolezza che è impossibile governare con uno scarto esiguo e raccogliticcio. La perentorietà con la quale la Lega chiede il voto anticipato allunga un'ombra sulla legislatura. E Bossi non dice che le elezioni sono una strada obbligata perché prevede la sfiducia a Berlusconi. Lo afferma convinto che il premier otterrà il «sì» di Senato e Camera.

Implicitamente, è la conferma che il passaggio odierno sarà soprattutto tattico: una resa dei conti interna alla coalizione berlusconiana, seppure decisiva. La rincorsa dei parlamentari da parte del premier e le riunioni del Fli nell'ufficio del presidente della Camera, segnalano un affanno parallelo; e una forzatura dei ruoli istituzionali. Dallo spettacolo degli ultimi mesi il capo del governo e Fini escono un po' logorati. Ma una cosa è lo scontro consumatosi finora, un'altra le manovre che cominciano da domani.

Non debbono ingannare l'appello di Berlusconi ai «moderati» e le proposte finiane in extremis al premier: sono la coda del «gioco del cerino». Berlusconi va avanti, e Bossi gli è anche fisicamente accanto. Ma l'esito parlamentare rimane un'incognita. Dilata la percezione del tramonto di un sodalizio e di una fase politica. Comunque si concluda questa crisi poco comprensibile, da domani il centrodestra sarà diverso: con la Lega candidata ad essere sempre più baricentro del sistema. E pensare che Fini mirava a ridimensionarla.

Massimo Franco

14 dicembre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_dicembre_14/franco-berlusconi-fini-parlamento_34a1257c-074a-11e0-a25e-00144f02aabc.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO Sulle macerie di Fli si rafforza l'asse fra la Lega e il premier
Inserito da: Admin - Dicembre 15, 2010, 05:26:57 pm
La Nota

Sulle macerie di Fli si rafforza l'asse fra la Lega e il premier

L'apertura all'Udc vela la corsa già in atto verso le elezioni anticipate


Se anche è probabile che da ieri le elezioni anticipate sono più vicine, Silvio Berlusconi non lo dà a vedere. E dopo avere umiliato Gianfranco Fini e il Fli nella resa dei conti parlamentare, ostenta una calma e una prudenza che dimostrano l'incertezza del governo. Il presidente del Consiglio assicura di essere pronto perfino a esaminare l'ipotesi di una crisi pilotata, per allargare il centrodestra all'Udc di Pier Ferdinando Casini, sebbene ridimensioni l'apertura spiegando che la Lega non sarebbe d'accordo. Conta sulla risacca finiana dopo la bruciante sconfitta di ieri a Senato e Camera. E nega il pericolo di una «sindrome Prodi», ovvero il rischio di avviarsi a un rapido logoramento a causa di un vantaggio risicato.

È un sopravvissuto cauto, quello che ieri ha presentato l'ultimo libro di Bruno Vespa: così cauto da non infierire sul presidente della Camera. Eppure, qualche punto fermo lo ha messo. Intanto, Berlusconi archivia qualunque alleanza con il Fli. Per lui il partito finiano non esiste più: possono esserci solo dei pentiti che ritornano nel Pdl. Secondo: l'asse con Umberto Bossi è più solido che mai. E il modo in cui il premier dice di discutere con Bossi lascia intuire un tandem convinto di rivincere le elezioni.

Il terzo punto è una riaffermazione del bipolarismo così netta da sconfinare in un sogno bipartitico: con la soglia di sbarramento per entrare in Parlamento innalzata al 5 per cento, dal 4 attuale. Ma la preoccupazione di Berlusconi è di non dare l'impressione di volere andare alle urne. Il premier sostiene che a lui e a Bossi converrebbero, e che ne stanno discutendo, con la Lega tentata e per il momento frenata proprio da Palazzo Chigi. Se poi la situazione precipita, c'è Fini come capro espiatorio.

A spiegare il suo atteggiamento tutt'altro che trionfalistico sono i numeri parlamentari avari. È il timore che l'instabilità «armi» la speculazione finanziaria contro l'Italia. E ancora, il colloquio di ieri al Quirinale con Giorgio Napolitano, subito dopo avere ottenuto una fiducia preziosa ma risicata. Tre voti in più sono decisivi per andare avanti ancora un po', ma non per governare. E l'atteggiamento di Casini, secondo il quale Berlusconi non gli ha dato retta perché non si è dimesso, resta di chiusura netta. Ma si è aperta una fase nuova, che il centrodestra sente di poter gestire con maggiore tranquillità, nonostante tutto.

Massimo Franco

15 dicembre 2010
http://www.corriere.it/politica/nota/10_dicembre_15/nota_34d689a8-0815-11e0-b759-00144f02aabc.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO - Che Succede Ora
Inserito da: Admin - Gennaio 14, 2011, 11:16:32 am
Che Succede Ora


La flemma con la quale Palazzo Chigi ha accolto la sentenza di ieri della Corte costituzionale sul legittimo impedimento non è solo di facciata. Fa intuire il sollievo di un governo che forse temeva la bocciatura totale della legge, mentre invece almeno il principio è salvo. E sembra confermare che Silvio Berlusconi non vuole arrivare al voto anticipato sull'onda del conflitto con la magistratura: un tema scivoloso, se non impopolare. Il futuro della legislatura rimane in bilico. Ma non sarà il verdetto della Consulta a portare l'Italia alle urne.

Il tentativo è di accogliere la decisione come un compromesso tutto sommato accettabile e ininfluente sul destino del governo. Per questo gli avvocati di Berlusconi minimizzano, mentre il premier ufficialmente non parla. E minimizza la Lega, preoccupata solo di non intralciare la marcia sorniona verso il federalismo: al punto che gli attacchi alla Corte di alcuni esponenti del Pdl finiscono per apparire fuori misura, nella loro virulenza. Siccome fingere che non sia successo niente appare difficile, si tende a dimostrare che non è accaduto nulla di traumatico: le incognite per la coalizione sono altre, e si annidano in Parlamento.

Il responso della Consulta si aggiunge al rosario delle difficoltà berlusconiane. Ma le affianca, non le sovrasta. E non è destinato a rivoluzionare una tabella di marcia che prevede il puntello di un gruppo di «responsabili», sebbene abbia contorni numerici da definire; il sostegno a intermittenza del Polo della Nazione di Pier Ferdinando Casini; e una continuità precaria quanto obbligata.
La versione governativa stride con l'entusiasmo del «popolo viola». Eppure la gioia antiberlusconiana suona un po' eccessiva, se Di Pietro conferma il referendum contro il legittimo impedimento.

Il centrodestra ostenta tranquillità perché lo svuotamento della legge, determinato dal responso della Consulta, è bilanciato dal riconoscimento della rilevanza costituzionale del presidente del Consiglio; e soprattutto perché sente di poter dettare l'agenda agli avversari, spaventati dalle elezioni. La strategia di Berlusconi è quella di accreditarsi come garante della stabilità e antidoto al caos, nonostante la defezione di Gianfranco Fini; e di concedere il minimo indispensabile a Casini.

Si tratta di un'operazione sul filo del rasoio, perché cresce l'impressione di uno scambio asimmetrico, che l'Udc teme di pagare col logoramento. L'apparente irrigidimento centrista sul federalismo e sulle dimissioni del ministro Sandro Bondi nasce da questa preoccupazione. Quando Casini ricorda al premier che il legittimo impedimento sarebbe passato alla Consulta con le modifiche suggerite dall'Udc, sembra dargli un avvertimento: senza di noi, la legislatura finisce.

Berlusconi lo sa. Non vuole le elezioni ma confida che gli avversari, temendole più di lui, alla fine si piegheranno.

Massimo Franco

14 gennaio 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/11_gennaio_14/che-succede-ora-massimo-franco_b2744120-1fa3-11e0-aeb3-00144f02aabc.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO In un vicolo cieco
Inserito da: Admin - Gennaio 22, 2011, 05:31:54 pm
In un vicolo cieco

Il rischio, adesso, non è tanto quello della resa dei conti finale fra Silvio Berlusconi e la Procura di Milano. Piuttosto, e forse è peggio, sulla scia dell'inchiesta giudiziaria che riguarda la vita intima del presidente del Consiglio può instaurarsi un equilibrio di fatto fondato sulla paralisi: niente decisioni vere del governo e niente passi avanti delle indagini. Una terra di nessuno politica e giudiziaria, riempita da episodi squallidi e da veleni destinati a raggiungere un solo risultato: la riduzione a livello internazionale dell'Italia a caricatura di un Paese occidentale.

La difesa a oltranza che di Berlusconi fanno gli alleati era prevedibile. E sia la successione temporale con la quale è stato indagato, a ridosso della sentenza della Consulta sul legittimo impedimento, sia l'uso a tappeto delle intercettazioni sollevano qualche perplessità. Su questo giornale se ne è fatto già portavoce Piero Ostellino, difendendo un diritto alla privacy poco garantito. Eppure, non si può né tacere lo stupore, quasi lo sgomento evocato da Pierluigi Battista di fronte a vicende che finiscono per sfregiare la figura del capo del governo al di là di meriti e demeriti; né accettare l'idea che la questione si riduca a un torneo polemico fra Palazzo Chigi e la magistratura.

La diga politica che il centrodestra ha eretto a difesa del proprio leader appare per il momento granitica, indistruttibile. La stessa Lega ha tacitato i timori berlusconiani di uno scarto improvviso. Eppure, per evitare che questa barriera di solidarietà appaia il bunker nel quale si asserraglia un potere autoreferenziale, forse non basta evocare un complotto. Se Berlusconi ha come interlocutore l'Italia prima ancora di chi lo accusa di reati infamanti, chiarire le cose davanti ai magistrati potrebbe sembrare un cedimento ma in realtà sarebbe un gesto di forza. È forse il modo più semplice e insieme spiazzante per uscire da un accerchiamento da valutare in prospettiva.

Chi suggerisce al presidente del Consiglio semplicemente di resistere e rifiutare il processo asseconda il suo istinto. E tuttavia finisce per fare un favore soprattutto agli avversari. Si sente dire che dopo l'ennesima «aggressione» a Berlusconi l'ipotesi di elezioni anticipate si allontana ulteriormente. È certo che il capo del governo non ha nessun interesse a interrompere la legislatura: oggi più di ieri. Da questo punto di vista, l'inchiesta giudiziaria milanese che ipotizza concussione e sfruttamento della prostituzione minorile sarebbe un paradossale fattore di stabilità. Tuttavia c'è da chiedersi per quanto tempo e a che prezzo.

Al di là dell'impasto di sostegni e ricatti che avvolge Palazzo Chigi, alla fine non vanno escluse elezioni non volute, ma subite; e destinate a riproporre una situazione quasi immutata: esposta non solo alle aggressioni speculative ma al ridicolo.

Massimo Franco

18 gennaio 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/11_gennaio_18/franco-editoriale-vicolo-cieco_6681fe78-22c9-11e0-b943-00144f02aabc.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO La Tentazione della Lega
Inserito da: Admin - Febbraio 02, 2011, 05:11:03 pm
la Tentazione della Lega

Sarebbe ingiusto considerarlo un pretesto e dubitare delle sue buone intenzioni. Ma non si può non vedere che la proposta avanzata ieri su questo giornale dal presidente del Consiglio viene interpretata come un gesto strumentale e di debolezza. I sarcasmi con i quali l'opposizione ha accolto la svolta di Silvio Berlusconi dicono come minimo che la ritengono tardiva e dunque irricevibile.

Ma forse i motivi che hanno spinto il capo del governo a tendere la mano agli avversari non stanno tanto nell’esigenza di coinvolgere la sinistra, quanto di guidare e tenere la propria maggioranza. Si tratta di una condizione di fragilità che dipende da due fattori. Il primo è il riflesso negativo dell’inchiesta della Procura milanese sulla vita privata di Berlusconi. Se il premier dovesse cadere per questioni giudiziarie e non perché la minoranza offre un’alternativa convincente, saremmo di fronte ad una regressione e non ad un passo avanti; ma quelle vicende pesano eccome, ed assumono contorni politici. Il secondo fattore di incertezza è costituito da una Lega che sfoggia una lealtà da alleato sempre più esigente. In modo cauto ma costante, il partito di Umberto Bossi continua ad adombrare elezioni con un altro candidato per Palazzo Chigi. Su questo sfondo, l’iniziativa di Berlusconi appare meno estemporanea.

Risponde alla logica di spostare il terreno dello scontro dalle frequentazioni imbarazzanti, e al limite del codice penale, alla politica economica; di non subire l’agenda altrui, tentando invece di dettarla; e di recuperare protagonismo, se non leadership, nei confronti del ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, da tempo vero e, secondo i critici, unico regista della strategia finanziaria del governo. È un comportamento che conferma la volontà di contrastare fino a quando sarà possibile una deriva elettorale in grado di fare proseliti insospettati. Il ribaltamento delle posizioni sul voto anticipato può apparire curioso, ma si spiega con la percezione diversa che si ha dei rapporti di forza.

Per questo, un’opposizione di centrosinistra che fino alla prima metà di gennaio era pronta a tutto pur di non scivolare verso le urne, adesso le evoca. Ed un Polo della Nazione incline ad aiutare di volta in volta il governo in Parlamento, ora non chiude la porta all’ipotesi di un «cartello antiberlusconiano » ed eterogeneo in nome dell’esigenza di far dimettere il presidente del Consiglio. Il fatto che una vecchia proposta liquidata come impraticabile adesso assuma verosimiglianza dipende dal contesto in cui si inserisce. È quello di un governo e di un premier che elencano come un bollettino di vittoria le fiducie ottenute negli ultimi mesi.

Ma in parallelo sanno di essere condannati alla precarietà.

Di qui a giovedì saranno di nuovo in bilico: sia per le votazioni sulla riforma federalista, dall’esito delle quali il partito di Bossi fa dipendere la continuazione della legislatura; sia per l’evoluzione delle inchieste di Milano, che pure la maggioranza vuole rinviare con un voto parlamentare alla Procura, ritenuta «incompetente ». Si capirà allora se stiamo assistendo all’ennesimo tentativo di spallata, frustrato dai numeri; oppure se ci si avvicina al punto finale. La sensazione è che né resistere tanto per resistere, asserragliati a Palazzo Chigi, né rompere solo per abbattere Berlusconi servirebbe a ridare una bussola al Paese. Probabilmente, non basta neppure arruolare altri singoli deputati per garantirsi una qualsiasi sopravvivenza. Purtroppo, però, è quanto sta accadendo.

Col risultato che, per colpa di tutti e di nessuno, le elezioni anticipate rischiano di diventare di colpo non solo un esito comunque inevitabile, ma il male minore.

Massimo Franco

01 febbraio 2011
da - corriere.it/politica


Titolo: MASSIMO FRANCO Prove di resistenza
Inserito da: Admin - Febbraio 04, 2011, 06:05:34 pm



La trincea del centrodestra regge, almeno per adesso. Silvio Berlusconi ha strappato alle opposizioni un altro deputato emerso dal limbo. Eppure, sembra tuttora accerchiata da quanti sono convinti che sia un momento di pericolosa fragilità per il premier. Questa sensazione è stata cancellata solo parzialmente dal voto col quale ieri sera la Camera ha rispedito alla Procura di Milano gli atti dell’inchiesta sulla vita privata del premier, ritenendola incompetente con 315 sì (316 se avesse votato anche Berlusconi), 298 no e un astenuto; e dalla riproposizione immediata del decreto sul federalismo non approvato in precedenza in commissione.
Strategia della sopravvivenza e precarietà continuano dunque a convivere. Il risultato è la sfasatura fra un governo che si puntella numericamente e gli avversari che lo danno per moribondo: la fotografia di una legislatura condannata a rimanere in bilico. Ormai è chiaro che le opposizioni contano sugli sviluppi delle indagini giudiziarie per dare la spallata finale a Palazzo Chigi. E confidano che prima o poi un Umberto Bossi stranamente oscillante fra minacce e remissività possa abbandonare Berlusconi. L’esempio del voto sul federalismo è lampante. È stato affossato in commissione, perché lasciarlo passare avrebbe significato fornire ossigeno al premier.
Il messaggio del centrosinistra e del Polo della Nazione alla Lega è chiaro: lascia Berlusconi e sarà tutto più facile. È l’unico punto sul quale forze diverse, su alcuni temi perfino agli antipodi, sembrano d’accordo: con questo presidente del Consiglio, qualunque argomento caro al Carroccio avrà vita dura fino al boicottaggio. Eppure, la cautela di Bossi anche dopo il responso frustrante di ieri mattina fa capire che i calcoli sul dopo-Berlusconi danno per scontate troppe cose. Per il Carroccio la battuta d’arresto è evidente. Si materializza l’incubo di una riforma federalista a maggioranza, esposta a rappresaglie avversarie. E la base leghista è in rivolta.
in rivolta. Ma Bossi aveva intuito la difficoltà dal mattino presto, dopo avere incontrato un Gianfranco Fini sempre più uomo di partito e sempre meno presidente della Camera. E continua a scegliere l’asse con un premier in affanno a quello con un’opposizione agguerrita e insieme patologicamente debole e confusa. Sarà anche vero che ormai il centrodestra sta sublimando le tecniche di sopravvivenza; che Berlusconi imita con talento il «tirare a campare» di andreottiana memoria. Il problema è che non si vede ancora l’alternativa alla crisi strisciante non solo di un governo ma di una fase politica.
Quando spunterà, la transizione sarà rapida. Ma non si vede ancora, al punto che il centrodestra scommette su elezioni sempre più remote. È una previsione alimentata dai numeri del ventre molle e opaco del Parlamento, non dalla politica; e accompagnata dal sospetto che le scommesse ufficiali possano nasconderne altre, clandestine e opposte.

Massimo Franco

04 febbraio 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - corriere.it/editoriali/11_febbraio_04


Titolo: MASSIMO FRANCO Apparente sintonia tra il Cavaliere e la Lega su no alle elezioni
Inserito da: Admin - Febbraio 17, 2011, 12:21:09 pm
LA NOTA

Il premier in trincea conta di sfruttare i conflitti degli avversari

Apparente sintonia tra il Cavaliere e la Lega sul no alle elezioni


La sensazione è che dopo essere sceso in trincea, Silvio Berlusconi pensi perfino di poterla rendere meno inospitale. Merito delle doti di incassatore senza remore né imbarazzi; e demerito di avversari che di fronte alle sue difficoltà si mostrano senza volerlo almeno altrettanto deboli. Le convulsioni di Futuro e libertà, il partito di Gianfranco Fini che doveva sgretolare il centrodestra e invece al Senato si sta liquefacendo, sono emblematiche. Ma lo è, in parte, anche il toto-candidato un po' estemporaneo scattato nel centrosinistra in vista di un voto anticipato altamente in bilico. È la conferma di alleanze ancora in embrione; e di un rischio di logoramento simmetrico a quello berlusconiano. Anche per questo la Lega continua a sostenere il presidente del Consiglio. Ma bisognerà vedere come reagirà quando si apriranno i processi per concussione e prostituzione minorile.
Per ora, di fatto il Carroccio ha lasciato cadere le offerte del segretario del Pd, Pierluigi Bersani, sulla riforma federalista. Il capogruppo leghista alla Camera, Marco Reguzzoni, è sulla lunghezza d'onda del governo; e tende ad escludere che ci saranno elezioni anticipate. «Se il governo ha i numeri si va avanti. Altrimenti, cade da solo», spiega un Umberto Bossi lapalissiano e vagamente rassegnato. Sa che per ora Berlusconi non getterà la spugna; e che andare alle urne sarebbe il male minore ma anche un azzardo.
L'unica cosa chiara è che di qui al processo del 6 aprile a Milano, l'Italia passerà sotto le forche caudine del discredito internazionale; e in caso di condanna di Berlusconi la situazione diventerebbe insostenibile. La Lega non può defilarsi mentre la manovra del premier sta dando frutti: precari, opachi, ma decisivi per rimanere a palazzo Chigi. Quando ieri, nella conferenza stampa accanto al ministro dell'Economia, Giulio Tremonti, il capo del governo ha detto che presto conterà su 325 voti a Montecitorio, probabilmente non esagerava. Il presidente della Camera guida un partitino parlamentare già diviso sull'atteggiamento da tenere verso il centrodestra.
Si dà per probabile che alcuni scontenti del Fli vengano risucchiati nelle file della maggioranza: un'area che testimonia come un'operazione nata sull'onda dell'antiberlusconismo sia avviata adesso su un binario morto. La prudenza di Pier Ferdinando Casini, leader del Polo della nazione del quale fanno parte sia Fini che l'Api di Francesco Rutelli, sottolinea i magri risultati del recente congresso del Fli a Milano. Le difficoltà della destra rendono ancora più vistoso il primato di Casini. Ma rischiano di mettere in crisi il progetto di un'alleanza che si incunea e cresce fra l'asse Pdl-Lega e le sinistre. Già si malignava sul carattere transitorio di un «Terzo polo» nato per reagire alla sconfitta parlamentare del 14 dicembre.
Casini vuole evitare che le malignità si avverino. Per questo, non si può escludere del tutto una manovra di sganciamento reciproco. Il premier sostiene che le elezioni si allontanano per alimentare e sfruttare i contrasti altrui. Dire, come ha fatto ieri, che il suo governo arriverà al 2013, alla fine della legislatura, è un modo per respingere richieste di dimissioni sempre più pressanti da parte dell'opposizione. Vuole ostentare una sicurezza che probabilmente non è così granitica; e che presto sarà messa a dura prova da uno scontro che potrebbe portare ad un voto anticipato per disperazione.

Massimo Franco

17 febbraio 2011


Titolo: MASSIMO FRANCO Il governo teme il caos e attacca il regime sperando nell'Europa
Inserito da: Admin - Febbraio 22, 2011, 04:09:18 pm
La Nota



Possibili intese con l'opposizione per gestire la crisi

La decisione di riunire solo stasera un vertice a palazzo Chigi per analizzare i contraccolpi della crisi nel Maghreb risponde all'esigenza di contare su scenari meno frammentari e incerti. E di valutare la possibilità di una gestione della crisi libica insieme all'opposizione.
La ribellione popolare in Libia pone all'Italia problemi più seri di quelli provenienti da Egitto e Tunisia. Coinvolge insieme la politica estera e quella energetica del governo. Ma soprattutto, evoca l'incubo di un esodo incontrollato attraverso il Mediterraneo.

La Libia era l'argine costruito a caro prezzo dal maggio del 2009 per frenare i barconi dei disperati. Adesso quella diga si sta rompendo. Si teme la pressione spaventosa sulle infrastrutture, dai centri di accoglienza agli ospedali, incapaci di assorbire un'onda d'urto in aumento. Per questo si spera nella possibilità di convincere altri Paesi europei ad accogliere almeno parte dei disperati africani: in primo luogo Francia e Germania. Ma convincerli sarà difficile. E le polemiche del centrosinistra mostrano il calcolo di sfruttare questa crisi.

Silvio Berlusconi, con i ministri degli Esteri, Franco Frattini, e dell'Interno, Roberto Maroni, stasera dovranno analizzare una situazione in preoccupante evoluzione. Le opposizioni sembrano decise ad imputare al premier gli otto incontri in tre anni col dittatore libico Gheddafi; e la prudenza iniziale ed eccessiva di palazzo Chigi dopo la repressione violenta dei manifestanti. Tendono invece a dimenticare le intese stipulate in passato con la Libia dai governi di centrosinistra: accordi peraltro essenziali per garantirsi forniture energetiche e controllo dell'immigrazione clandestina.

Finora arrivavano disperati dalle regioni a Sud del Sahara. Ora sulle spiagge del Mediterraneo si riversano egiziani, tunisini e libici. E sullo sfondo cresce l'incognita di un'involuzione islamica e fondamentalista sulle macerie del regime di Tripoli, che non può neppure contare su un esercito-istituzione come l'Egitto. È un vuoto di potere che «fa allentare i meccanismi di sicurezza ed i controlli», ha ammesso il sottosegretario all'Interno, Alfredo Mantovano. E ripropone la solitudine dell'Italia in Europa. Con durezza e realismo lo riconosce l'ex presidente della Commissione Ue, Romano Prodi.

Prodi ammette che quanto sta avvenendo «è qualcosa di assolutamente inatteso»; e gli attribuisce dimensioni geopolitiche devastanti per l'Italia, perché «tutti i Paesi che hanno rapporti stretti con noi sono in un incendio». Il problema è che le fiamme divampano mentre l'Ue è priva di una strategia mediterranea, perché il suo asse si è spostato da tempo a Nord. La nota diffusa ieri sera da Berlusconi corregge le cautele iniziali e parla di «violenza inaccettabile». Il premier chiede all'Europa di impedire una guerra civile; e di tutelare «l'integrità e stabilità» della Libia. Ma pochi ritengono che ci si riuscirà.

Massimo Franco

22 febbraio 2011
da - corriere.it/politica


Titolo: MASSIMO FRANCO Una mossa, tre bersagli
Inserito da: Admin - Marzo 02, 2011, 12:35:18 pm

Una mossa, tre bersagli

Il centrodestra lo considera poco più di un atto dovuto, per difendere le prerogative del Parlamento da quella che definisce l’«interpretazione scorretta» della Procura di Milano. E non è sicuro nemmeno che vada a buon fine, a conferma che si tratta di un’iniziativa squisitamente politica. Ma, per quanto ventilata nelle scorse settimane, la decisione di sollevare il conflitto di attribuzioni fra poteri dello Stato sul processo a Silvio Berlusconi per il «caso Ruby» è dirompente in sé. Inaugura o, forse è meglio dire, conferma una strategia gravida di incognite.

Soprattutto, mette nel conto un «effetto domino» che scaricherebbe su altre istituzioni il cortocircuito fra politica e giustizia. Mentalmente, nella lettera inviata ieri a Gianfranco Fini, la maggioranza ha tracciato confini che includono tre bersagli. L’obiettivo immediato è proprio il presidente della Camera. Non a caso i capigruppo di Pdl, Lega e Ir (i cosiddetti «responsabili» che surrogano i finiani dopo la rottura) gli chiedono di sfruttare questa occasione per dimostrare la sua obiettività: richiesta insieme legittima e provocatoria, visti i pessimi rapporti tra Fini e gli ex alleati.

Poi c’è la Procura di Milano, accusata di ignorare la volontà del Parlamento per il quale Silvio Berlusconi deve essere giudicato dal Tribunale dei ministri. E su uno sfondo neppure troppo lontano si staglia la Corte costituzionale. A valutare la legittimità del conflitto di attribuzioni sarebbe infatti la Consulta: uno dei bersagli fissi del premier. Tanto più che, anche di recente e con improvvida ufficiosità, la Corte ha sconsigliato l’opzione del conflitto di attribuzioni; e suggerito invece al capo del governo di chiedere quello di giurisdizione sul quale è chiamata a pronunciarsi la Corte di cassazione.

Ma significherebbe difendersi «nel» processo e non «dal» processo: una possibilità che o Berlusconi o i suoi avvocati o entrambi sembra continuino a non contemplare. Il risultato è un giudizio tagliente del presidente della Corte costituzionale, Ugo De Siervo, contro il premier, pur senza citarlo: un altro presagio di rissa. La prospettiva deprimente è dunque di galleggiare ancora a lungo fra veleni e immobilismo. Se la strada maestra rimane il conflitto fra presidente del Consiglio e magistrati chiamati a processarlo, è prevedibile che la prima vittima sarà la riforma della giustizia.

Sarebbe azzardato, infatti, pensare che in una situazione così tesa possa essere accelerata e non bloccata. Ma la conflittualità patologica può frustrare e mettere in crisi l’intera «filosofia dei fatti» che il governo rivendica per legittimare la propria sopravvivenza e scansare il voto anticipato. I promotori della lettera si premurano di far sapere che non è loro intenzione coinvolgere il Quirinale. La Lega, in particolare, ostenta rispetto verso il presidente della Repubblica: perfino con qualche distinguo da Berlusconi. Eppure è difficile pensare che in una logica di scontro così accentuata esistano istituzioni protette da una bolla di intangibilità: al di là delle migliori intenzioni.

Massimo Franco

02 marzo 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - corriere.it/editoriali


Titolo: FRANCO. L'Italia cerca di limitare i danni di un'azione militare decisa da altri
Inserito da: Admin - Marzo 21, 2011, 11:35:07 am
La Nota

Centrodestra spiazzato

E il Carroccio sceglie la linea neutralista

L'Italia cerca di limitare i danni di un'azione militare decisa da altri


L' Italia si prepara a partecipare ad un intervento militare in Libia che ha subìto, più che voluto. E ad allinearsi ad una decisione benedetta dall'Onu ma presa di fatto da Francia e Stati Uniti, d'accordo con la Lega araba, dopo che negli ultimi giorni si era rassegnata ad una rivincita sanguinosa di Gheddafi sugli insorti. La cautela tedesca offre alla Lega un appiglio internazionale per defilarsi e non votare con il governo. Ma è davvero un piccolo gancio, al quale il Carroccio appende un neutralismo d'ufficio e senza conseguenze: tranne quella di mostrare un centrodestra spiazzato e diviso, al contrario di Pd e Udc che si sentono schierati dalla «parte giusta» fin dall'inizio. E adesso chiedono che la risoluzione delle Nazioni unite sia tradotta rapidamente in azione.

Il tentativo del governo, adesso, è di utilizzare la nostra posizione geopolitica per assumere un ruolo almeno da coprotagonisti. Le basi italiane serviranno come appoggio per le incursioni aeree che dovrebbero aprire la strada alla creazione della no fly zone, il divieto di sorvolo sul territorio libico da parte dei piloti di Gheddafi che bombardano la popolazione civile. Anzi, i ministri della Difesa e degli Esteri, Ignazio La Russa e Franco Frattini, preannunciano un ruolo più «attivo» per l'aeronautica italiana. «Non diamo le chiavi di casa nostra ad altri», si spiega. La strategia è di limitare i danni provocati dalle oscillazioni degli ultimi giorni, legate ai nostri rapporti con Gheddafi e all'incertezza sull'esito della guerra civile; e di impedire che un attacco, per quanto sotto l'egida dell'Onu, ci esponga a rappresaglie.

Per questo si evoca lo «scudo della Nato» come ulteriore difesa: lo fa l'ex premier Massimo D'Alema, e Frattini subito sottoscrive la proposta. D'altronde è sbiadito, ma non del tutto cancellato il ricordo dei missili sparati nel 1986 da Gheddafi verso l'isola di Lampedusa, vicinissima alle coste libiche. Con il regime di Tripoli assediato dalla comunità internazionale, c'è il timore di minacce multiple e perfino più pericolose. Ci sono l'«arma» dell'immigrazione clandestina attraverso il confine d'acqua del Mediterraneo; la ritorsione contro i nostri corposi interessi energetici; e la possibilità di atti di terrorismo. Per questo, ieri sera il Comitato per l'ordine e la sicurezza pubblica, riunito al Viminale, ha alzato «il livello di attenzione» per gli attacchi che possono arrivare dal Maghreb.

Sottovoce, il governo non si nasconde che alla fine si potrebbe essere costretti a fare soprattutto il bilancio dei danni. Quello dei benefici, almeno per ora, non è prevedibile. Il centrodestra si presenta diviso, sebbene non esistano pericoli di crisi. La Lega esita vistosamente ad assecondare le decisioni dell'Onu; è additata dal centrosinistra come un alleato inaffidabile in politica estera; e così ostile ad un'azione militare che qualche giorno fa il ministro dell'Interno, Roberto Maroni, aveva invitato con linguaggio discutibile gli Usa a «darsi una calmata» rispetto alle ipotesi di un intervento militare. Ma già in passato il Carroccio ha mostrato di seguire una politica estera attratta ora dalla Serbia di Milosevic, ora dalla destra xenofoba dell'austriaco Haider.

Di recente la Lega è arrivata a chiedere il ritiro da Afghanistan, Balcani e Libano, come la sinistra comunista. Con la questione libica riaffiorano gli istinti isolazionisti. Ieri, al Consiglio dei ministri straordinario il Carroccio si è astenuto, e nelle commissioni parlamentari si è assentata. Per Pd e Udc è un'occasione ghiotta per mostrarsi più in sintonia con Ue e Casa Bianca dello stesso governo Berlusconi. L'appello del capo dello Stato, Giorgio Napolitano, a sostenere «il Risorgimento della Libia» accentua e ufficializza la scelta di campo contro Gheddafi. D'altronde, il dittatore libico ha fatto di tutto per esasperare alleati e avversari: a cominciare da quelli, numerosi, che ha in un mondo arabo ansioso di liberarsi del Raìs.

Massimo Franco

19 marzo 2011
da - corriere.it/politica


Titolo: MASSIMO FRANCO Ora scelte bipartisan
Inserito da: Admin - Marzo 23, 2011, 11:23:10 am
Ora scelte bipartisan


«La Nato rappresenta la soluzione di gran lunga più appropriata». Il timbro di Giorgio Napolitano ufficializza la richiesta italiana di una guida collegiale delle operazioni in Libia, affidata all'Alleanza atlantica; e conferma che la Francia rischia l'isolamento per il protagonismo militare eccessivo sfoggiato nell'interpretazione della risoluzione dell'Onu. Nel suo comunicato, il presidente della Repubblica parla di «piena sintonia» con Usa, Gran Bretagna ed «altri alleati». Le parole segnalano una potenziale crepa nella coalizione occidentale. E puntellano la richiesta del premier Silvio Berlusconi.

Per capire se e in che modo la Nato parteciperà all'intervento sarà necessario aspettare qualche giorno; e soprattutto, superare ostacoli politici che non riguardano solo la Francia, piccata da quelle che definisce «polemiche artificiose». I contorni dell'azione contro il regime di Gheddafi rimangono ambigui: nel senso che ognuno finora ha teso a plasmarli secondo le convenienze nazionali. Ma proprio per questo, la capacità dell'Italia di avere posto alla comunità internazionale il tema di una gestione coordinata dell'intervento militare rappresenta un passo avanti.

Come minimo, l'Occidente può evitare che la Libia diventi, è stato detto, una sorta di «Iraq dell'Europa»: un pantano strategico, prima che militare, nel quale è facile entrare ma dal quale è difficilissimo uscire. Il governo di Roma si è mosso fra esitazioni e incertezze: prima spiazzato dall'interventismo franco-inglese; poi frenato e riorientato dalle cautele della Lega; e con un fondo costante di imbarazzo per i rapporti fra Berlusconi e Gheddafi. Ma sta passando la sua proposta, dettata anche dalla percezione acuta che ruolo e interessi italiani nel Mediterraneo corrono un pericolo mortale.

A questo punto, il rischio è che si raggiunga un accordo di per sé laborioso sulla Nato, e poi manchino la convinzione e la disciplina per farlo funzionare: premessa indispensabile, quando si decide una missione che prevede bombardamenti aerei, indebolita dallo smarcamento della Germania. Per il governo di centrodestra, l'incognita riguarda la capacità di consegnare una questione così dirimente non a polemiche sterili fra maggioranza e opposizione, ma al Parlamento. Fra l'altro, ritrovare un simulacro di unità nazionale sulla politica estera significherebbe scoraggiare scarti e ripensamenti; e dare un'immagine del Paese meno sgualcita.

C'è da chiedersi se non sarebbe stato meglio affidare allo stesso Berlusconi il compito di spiegare oggi in Parlamento l'intervento in Libia. Forse, è insieme il segno di una difficoltà e di una situazione in bilico: anche per le incognite pesanti dell'immigrazione dal Maghreb. L'appello italiano alla Ue affinché ne condivida i costi può preludere a tensioni non solo interne. Ma se non sarà governato, il problema dei profughi promette di diventare un fattore di debolezza e discordia in un momento in cui l'Europa dovrebbe mostrarsi unita: anche se non lo è.

Massimo Franco

23 marzo 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - corriere.it/editoriali


Titolo: MASSIMO FRANCO Un sì a tutti i costi per «sterilizzare» i processi del premier
Inserito da: Admin - Aprile 13, 2011, 11:23:42 am
LA NOTA

Un sì a tutti i costi per «sterilizzare» i processi del premier

Il Pdl è convinto che il Quirinale non si opporrà. Ma nessuno può dirlo


Il centrodestra si prepara a consegnare a Silvio Berlusconi il primo «sì» parlamentare al cosiddetto «processo breve». La Camera dei deputati potrebbe approvarlo stasera, nonostante l'ostruzionismo tentato ieri dal Pd. Una maggioranza mobilitata allo spasimo sa che, una volta passata a Montecitorio, al Senato la legge dovrebbe avere vita meno difficile. Ma la logica è quella di un provvedimento avulso dalle esigenze di riforma della giustizia. Il Pdl risponde con una forzatura a quella che considera un'altra forzatura, attribuita alla Procura di Milano.

Per il governo si tratta di riaffermare il primato nei confronti della magistratura: con in palio la possibilità di proteggere il premier dai processi. Su questo, Pdl e Lega ostentano una compattezza che resiste a ogni pressione. Significa che la maggioranza è pronta a sfidare l'impopolarità. Il fatto che oggi si riunisca il Cdm in un intermezzo delle votazioni conferma la determinazione ad arrivare al risultato.

Un personaggio defilato come il sottosegretario Gianni Letta prevede «una settimana incandescente». E fa capire che Palazzo Chigi ha chiare le incognite dell'operazione; e che nella cerchia berlusconiana si spera di chiudere la fase più acuta con l'approvazione del Parlamento. In realtà, i passaggi successivi appaiono altrettanto incerti. Il governo è convinto che Giorgio Napolitano non avrà obiezioni nei confronti della legge. Il segretario del Pd, Pier Luigi Bersani, invece, ritiene che Berlusconi tenga «il Paese in ostaggio».

In realtà, nessuno può fare previsioni né in un senso né nell'altro. Finora l'atteggiamento presidenziale è stato guardingo.
Si può solo dare per certo che gli scambi d'accuse di queste ore sono l'opposto dell'invito del Quirinale a tenere i nervi saldi: anche nei rapporti con l'Europa. Viste le premesse, tuttavia, lo scontro era inevitabile. Rappresenta un'anteprima del panorama di macerie politiche che «il processo breve» porterà con sé; e che verranno additate con intenti opposti all'opinione pubblica.

Per il governo, l'accusa più insidiosa è quella di Antonio Di Pietro, di far saltare alcuni processi. Il Guardasigilli, Angelino Alfano, spiega che «sarebbe a rischio solo lo 0,2% dei procedimenti penali». «Se l'impatto è così modesto, perché state bloccando il Parlamento?», lo rimbecca il leader centrista, Pier Ferdinando Casini. L'ultima istantanea è quella dell'Anm che taccia di irresponsabilità il premier per gli «appelli alla piazza» contro i magistrati. Stancamente, dopo una seduta notturna col brivido del voto segreto, forse oggi si chiude il primo capitolo di una vicenda assai poco esaltante.

Massimo Franco

13 aprile 2011
da - corriere.it/politica/nota/11_aprile_13/


Titolo: MASSIMO FRANCO Processo Breve. Pagina Oscura
Inserito da: Admin - Aprile 15, 2011, 04:37:21 pm
Processo Breve

Pagina Oscura


Compatto e pronto a una serie di forzature, il governo ha vinto la guerra parlamentare del «processo breve». E un'opposizione salda solo a parole l'ha persa malamente. Ma i riflessi sull'opinione pubblica di quanto è avvenuto andranno misurati nel tempo, e a freddo. Si fatica a ritenere che rappresentino gli umori profondi del Paese sia i deputati che hanno permesso a Silvio Berlusconi questa affermazione; sia quelli che l'hanno contrastata; sia chi protestava fuori dal Parlamento al grido di «mafiosi» e «vergogna». L'unico dato vistoso è che il presidente del Consiglio ha politicizzato il conflitto, ottenendo il risultato che voleva.

Attraverso la Camera intendeva impartire una lezione all'odiata Procura di Milano. E adesso forse riuscirà a uscire indenne da uno dei processi più insidiosi, quello Mills in cui è accusato di corruzione in atti giudiziari. Ma il provvedimento approvato ieri sera dovrà superare una serie di severe verifiche istituzionali. Proprio perché segnato da una logica quasi disperata, si lascia dietro un alone di perplessità e di veleni; e un altro cumulo di macerie nei rapporti fra centrodestra e magistratura. È indubbio, tuttavia, che gli avversari di un Berlusconi debole riemergono per l'ennesima volta più logorati di lui.

Lo scrutinio segreto chiesto nel pomeriggio dal centrosinistra nella speranza di fare affiorare una maggioranza sommersa favorevole alla crisi, è stato un boomerang imbarazzante. Ha rivelato l'esistenza di una «minoranza silenziosa» pronta a sostenere il governo nelle pieghe di un'ostilità in apparenza così aggressiva e irriducibile da ricorrere all'ostruzionismo. La vera sconfitta di chi non voleva il «processo breve» è questa: aver dovuto registrare che i cosiddetti franchi tiratori, quelli che colpiscono a tradimento, non si annidano nelle file di Pdl e Lega, ma nelle proprie.
I 316 «sì» sono stati due più di quelli ottenuti nella votazione finale; e sei più di quelli a disposizione del centrodestra. Dunque contano e, soprattutto, pesano. Dicono che l'onda lunga della sconfitta degli avversari del premier, il 14 dicembre scorso, continua a produrre effetti. Puntella ulteriormente un governo che pure è in affanno sul piano internazionale per l'emergenza dell'immigrazione; e un Berlusconi inseguito tuttora da rivelazioni imbarazzanti sulla sua vita privata. Attraverso canali oscuri ma inesorabili, si ingrossa un «partito del galleggiamento» destinato a frustrare quanti sognano velleitarie spallate.

È probabile che al Senato il percorso del provvedimento sia meno tormentato. Il governo ne sembra così convinto che dedicherà le prossime settimane a depotenziare i referendum di giugno su giustizia e nucleare. D'altronde, la strategia del conflitto permanente premia ancora una volta Berlusconi: un elemento sul quale riflettere. Ma le incognite che si allungano su alcuni processi a rischio di prescrizione non possono essere sottovalutate, né sacrificate sull'altare di una stabilità fine a se stessa. Non è stata una giornata memorabile: non, almeno, nel senso positivo del termine. Una pagina oscura, tra le tante.

Massimo Franco

14 aprile 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - corriere.it/editoriali/11_aprile_14/


Titolo: MASSIMO FRANCO Le ragioni di un disagio crescente
Inserito da: Admin - Maggio 07, 2011, 06:31:45 pm
QUIRINALE E RIMPASTO DI GOVERNO

Le ragioni di un disagio crescente

Per Giorgio Napolitano quello di giovedì non è stato un semplice rimpasto ma un cambio di maggioranza: al punto che toccherà al Parlamento e al presidente del Consiglio «valutare le novità». La nota con la quale il capo dello Stato registra l'ultima prova di sopravvivenza di Silvio Berlusconi non è propriamente una carezza istituzionale. Riflette il fastidio per un modo di agire da parte del premier e dei suoi nuovi arruolati, ritenuto spregiudicato. E mostra la volontà di non avallare silenziosamente qualcosa che somiglia molto al trasformismo, sebbene in alcuni casi si tratti di un semplice «ritorno a casa» dopo la scissione finiana. La richiesta che le Camere siano informate sul travaso di alcuni parlamentari nell'area di governo può risultare giustificata e in qualche modo doverosa. Servirebbe ad ufficializzare conversioni politiche che un'opposizione esasperata e divisa ha tradotto con parole come corruzione, per citare la meno offensiva; e forse a rendere più chiari i termini di un allargamento del centrodestra, capace di aumentare i consensi anche quando appare in difficoltà. Nel richiamo puntiglioso del presidente della Repubblica si intravede dunque il tentativo di dare trasparenza ad una manovra chiara negli obiettivi ma dai contorni opachi. Non si spiega altrimenti anche la precisazione che la scelta dei sottosegretari rientra nella «esclusiva responsabilità» del capo del governo. Napolitano prende pubblicamente le distanze da qualcosa che non gli è piaciuto; e proprio nel giorno in cui chiede ai vertici della tv pubblica di trasmettere gli spot informativi sui referendum di giugno: un appuntamento che Palazzo Chigi in qualche misura teme. Eppure, è probabile che l'effetto politico delle sue parole sia meno dirompente di quanto si potesse pensare. Berlusconi si sente forte perché non esiste un'alternativa, e non vuole alzare la tensione col Quirinale.

In più, se ci sarà, la valutazione del Parlamento avverrà dopo il voto amministrativo. E per paradosso la maggioranza potrebbe perfino allargarsi ulteriormente, se riuscisse a conquistare alcune città-chiave e a dimostrare che l'elettorato punisce i finiani usciti dal Pdl. La copertura offerta a Berlusconi da Umberto Bossi non lascia margini d'equivoco. Così, rimane solo il contraccolpo istituzionale, pesante per le incomprensioni che alimenta. Il premier considera l'intervento di Napolitano un gesto di ostilità. E il mancato preavviso risveglia diffidenze mai sopite. I berlusconiani ritengono che il Quirinale avrebbe potuto essere altrettanto severo quando la componente di Gianfranco Fini lasciò il governo alla fine di novembre.

In verità Napolitano fu accusato da una parte del centrosinistra di avere «salvato» Berlusconi, imponendo il dibattito parlamentare del 14 dicembre, dal quale l'asse Pdl-Lega uscì vincente. Ma in un equilibrio così fragile fra i vertici dello Stato, il modo in cui si comunica finisce per pesare quasi quanto i contenuti. E l'assenza di preavviso di ieri ha fatto apparire l'esternazione presidenziale una critica a freddo, poco comprensibile. Osservata con un minimo di distacco, è un'altra increspatura nella lunga scia del 14 dicembre: l'ennesima scossa di assestamento per una maggioranza che da allora ha cominciato a essere diversa da quella elettorale.

In fondo non ha mai smesso di puntellarsi e modificarsi, seppure in modo confuso. Napolitano ha seguito la metamorfosi con la determinazione a mantenere la stabilità, ma anche con fastidio verso i metodi usati per preservarla. Il centrodestra, tuttavia, è questo: un grumo insieme liquido e solidissimo, cementato dall'assenza di alternative. Il Parlamento non potrà che certificare ancora una volta il suo strano impasto: da mutante che rimane uguale a se stesso.

Massimo Franco

07 maggio 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - corriere.it/editoriali/11_maggio_07/


Titolo: MASSIMO FRANCO Lo schiaffo
Inserito da: Admin - Maggio 17, 2011, 04:57:39 pm
Lo schiaffo

L’«asse del Nord» mostra una sofferenza e una precarietà inaspettate: almeno, se con il termine si intende l’alleanza protagonista di una campagna incline all’estremismo, che si è manifestata nel voto amministrativo di ieri e l’altro ieri. Il ballottaggio a Milano umilia non tanto il sindaco uscente, Letizia Moratti, ma Silvio Berlusconi, che chiedeva un referendum su se stesso e sul governo e riceve uno schiaffo personale e politico; e in parallelo ridimensiona le ambizioni di sfondamento della Lega. Il silenzio di Umberto Bossi è più rumoroso di qualunque commento. Trasmette l’immagine di un Carroccio che fatica a saltare il recinto delle città medie e piccole; ed è costretto a farsi molte domande sul futuro.

Ma l’effetto va oltre il capoluogo lombardo, che pure è destinato a diventare l’epicentro delle tensioni nel centrodestra. Un’opposizione rinfrancata dai risultati che si delineavano ieri notte già sogna la rottura fra Pdl e lumbard, una crisi di governo e l’archiviazione in tempi rapidi del berlusconismo. La situazione, in realtà, rimane aperta. Fra due settimane, i ballottaggi potrebbero restituire la vittoria alla maggioranza, che ieri a Milano e Napoli l’ha mancata anche per eccesso di sicurezza e di aggressività. E la silhouette delle opposizioni si tinge di un rosso forte, radicale, col «Polo dei moderati» allo stato embrionale.

Insomma, il responso di ieri è netto nell’indicazione degli sconfitti; non altrettanto univoco nel presentare un’alternativa di governo: a meno che, in prospettiva, si ritenga davvero che l’Italia possa essere guidata da una sinistra dominata dagli eredi di Rifondazione comunista, dall’Idv e dai «grillini», oggi in grado di imporre candidati al Pd. In attesa dei risultati definitivi, per il partito di Pier Luigi Bersani le uniche eccezioni, importanti, sono Torino e Bologna. Per il resto, la soddisfazione e il sollievo degli avversari sono un rimbalzo della battuta d’arresto berlusconiana.

Anche nella sconfitta, il presidente del Consiglio disegna il territorio circostante e lo condiziona: nel proprio campo e in quello avverso. Ma con un rovesciamento della percezione del suo ruolo che fa prevedere un periodo di instabilità e di altre rese dei conti nel centrodestra. In fondo, se ne può intravedere un assaggio nei voti mancati alla Moratti: consensi che sarebbe ingeneroso attribuire solo ai suoi errori. Le frasi fatte filtrare dal «cerchio magico» di Bossi, secondo le quali con Berlusconi la Lega perde, sono un indizio. Trasformano il tocco berlusconiano, che ancora nel 2010 faceva vincere la quasi sconosciuta Renata Polverini nel Lazio, in un handicap da «re Mida alla rovescia».

Probabilmente era forzata la visione precedente, ed è eccessiva l’attuale. Ieri è cominciato il ridimensionamento di un leader che dopo essersi presentato ed essere stato considerato da militanti e alleati come un demiurgo ora rischia di diventarne il capro espiatorio.

Massimo Franco

17 maggio 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - corriere.it/editoriali/11_maggio_17/


Titolo: MASSIMO FRANCO La delusione leghista ipoteca il governo ma non prevede ...
Inserito da: Admin - Maggio 20, 2011, 08:55:11 am
La Nota

La delusione leghista ipoteca il governo ma non prevede strappi

Muro di silenzio tra Bossi e il premier però i ballottaggi obbligano al dialogo


I l silenzio del vertice leghista fa paura al Pdl. Viene interpretato come un presagio di tempesta fra Silvio Berlusconi e Umberto Bossi. E i toni accesi dei militanti che si sfogano su Radio Padania fanno registrare un fenomeno inedito nel Carroccio, o comunque tenuto finora sotto controllo: un'antiberlusconismo strisciante in salsa lumbard. Emerge dopo la battuta d'arresto delle amministrative; e c'è da chiedersi se sarebbe affiorato anche in caso di vittoria a Milano e negli altri comuni nei quali il partito è passato da un'attesa quasi trionfale alla frustrazione più vistosa. Gli uomini del premier non se lo nascondono: più del risultato negativo preoccupa l'atteggiamento della Lega, decisa a marcare le distanze dal Pdl e insieme costretta a sostenere Letizia Moratti nel ballottaggio fra due domeniche.

Finora, il partito di Bossi era convinto che la propria diversità lo avrebbe protetto da sorprese; ed evitato un'identificazione a volte vantaggiosa, ultimamente a doppio taglio con il presidente del Consiglio. Il doppio binario di partito di lotta e di governo sembrava funzionare. In fondo, le regionali dello scorso anno avevano consegnato alla Lega le presidenze di Veneto e Piemonte: al punto da far sognare uno sfondamento nelle grandi città, magari a spese del Pdl. Il saldo, invece, l'altro ieri è stato negativo, e il risveglio brusco. La decisione del quotidiano La Padania di definire «anomalia» il responso milanese dilata la sorpresa e la delusione. Né basta prendersela con Letizia Moratti e Berlusconi.

L'impegno intermittente, e solo alla fine deciso, del Carroccio a sostegno del sindaco uscente ha penalizzato l'intero centrodestra. L'aggressività e le sbavature berlusconiane, alimentate da una cerchia di collaboratori decisi a colpire chiunque fosse sospettato di scarsa lealtà, hanno evocato un bunker; e reso ulteriormente scettico Bossi. Ma non sono riuscite a sottrarre la Lega ad un giudizio globalmente negativo sul governo. Per ora, la nomenklatura leghista si limita a respingere quelle che il ministro Roberto Calderoli definisce «le sirene dell'ultima ora» in agguato a sinistra; e dunque a non rimettere in discussione l'«asse del Nord». Ma a lesionarlo sono stati gli elettori.

Rimane da capire se si tratti di uno scarto «una tantum»: una sorta di punizione mirata per il modo in cui è stata condotta la campagna elettorale, e magari disapprovare gli scandali privati del premier; o se segnali uno smottamento nel blocco sociale del centrodestra. Il fatto che Berlusconi abbia deciso di defilarsi in vista dei ballottaggi è un riconoscimento implicito degli errori commessi. Significa rinunciare alla pervasività con la quale ha politicizzato il voto amministrativo; e, cosa non da poco, confessare anche a se stesso che «metterci la faccia» non è più, in sé, una garanzia di vittoria. Ma la fine della posizione di rendita vale altrettanto per Bossi.

La tesi secondo la quale se a Milano la maggioranza perde è colpa solo di Berlusconi avrebbe potuto funzionare in caso di «anomalia». La sostanziale omogeneità dell'arretramento del centrodestra restituisce invece un'immagine meno di comodo di quanto è successo. E soprattutto, rende più difficile una lettura dei risultati solo con la chiave interpretativa del declino della leadership del premier. La voce che circolava ieri dal fortino di via Bellerio, sede della Lega, accreditava un Bossi deciso a tenere Berlusconi sulle spine; e a rivendicare i ministeri al Nord per placare la base. Ma se così fosse, significherebbe che la Lega rimane nell'orbita dell'attuale governo più di quanto voglia apparire.

Massimo Franco

18 maggio 2011
da - corriere.it/politica/nota/11_maggio_18/


Titolo: MASSIMO FRANCO Segnali dal Paese
Inserito da: Admin - Giugno 13, 2011, 10:49:21 pm
Segnali dal Paese

Per capire se sarà raggiunto il quorum bisognerà aspettare qualche ora. Ma per la prima volta dopo sedici anni, l'istituto referendario ha dato un segnale di vitalità non scontato. Disubbidendo a Silvio Berlusconi e a Umberto Bossi che suggerivano l'astensione, un numero rilevante, sebbene non ancora decisivo, di italiane e di italiani è andato alle urne. A sentire il capo della Lega, che ieri continuava a parlare di inutilità del voto, il premier non saprebbe più comunicare.
La sintonia fra il capo del governo e il suo elettorato non è più quella di una volta: le Amministrative insegnano. Ma la lezione vale altrettanto per il Carroccio, vista l'affluenza alta al Nord. Alcuni ministri confessano che non sanno se andranno ai seggi, aperti anche oggi: i referendum, dicono, hanno assunto contorni troppo antigovernativi. La loro titubanza, però, è un presagio di ulteriore delegittimazione per la maggioranza.

Seguendo il ragionamento, la vittoria dei quesiti referendari sarebbe un altro «no» a chi governa, dopo anni di democrazia diretta usata male e naufragata nel non voto. Così, quorum sfiorato o raggiunto, c'è da chiedersi se già il risultato di ieri avrà qualche effetto. La tentazione di far finta di niente rimane la più prepotente; ma forse anche la più illusoria, perché una spinta alla partecipazione sembra venuta proprio dagli inviti a disertare le urne.

Lo smarcamento di Bossi da Berlusconi vuole placare una Lega passata in poche settimane dall'illusione del trionfo alla sconfitta. Mattone dopo mattone, il Carroccio sta costruendo un muro di distinguo che vanno dalla missione in Libia all'immigrazione e alla riforma fiscale. È una parete al riparo della quale cerca di recuperare una diversità appannata dall'alleanza con il berlusconismo, col quale tuttavia pare destinato a convivere ancora un po'.

La barriera sancisce una crepa nell'«asse del Nord» perfino nei confronti del ministro dell'Economia, Giulio Tremonti. E annuncia un leghismo più rivendicativo di quanto sia mai stato negli ultimi tre anni. Eppure il referendum comunica un messaggio allarmante per l'intero centrodestra. Se quanto stanno rivelando le urne è la perdita di contatto con il Paese, il problema riguarda tutta l'alleanza. La bocciatura di alcune leggi del governo, che il quorum sancirebbe, assumerebbe un valore anche simbolico.

Ma forse l'aspetto più eclatante sarebbe di sistema: quello della crisi di una Seconda Repubblica forgiata all'inizio degli anni Novanta del secolo scorso anche per via referendaria; e vissuta per un quindicennio con una democrazia parlamentare legittimata, messa in mora adesso da referendum che sembrano essersi assunti un ruolo di supplenza: per quanto segnati dall'emotività e usati in modo strumentale.

Massimo Franco

13 giugno 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - corriere.it/editoriali/11_giugno_13/franco-referendum_07d6f530-957f-11e0-822f-1a3a3d1370d0.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO Una fiaccola nel buio
Inserito da: Admin - Luglio 13, 2011, 04:14:19 pm
Una fiaccola nel buio

Aleggia un sospetto sgradevole: se non ci fosse stato il monito lanciato lunedì dal cancelliere tedesco Angela Merkel, forse nemmeno il richiamo di Giorgio Napolitano all'unità avrebbe prodotto gli effetti virtuosi registrati ieri. E non perché le motivazioni del presidente della Repubblica non fossero sacrosante. Più banalmente, sembra proprio che l'Italia politica non riesca a scuotersi senza un vincolo esterno da rispettare, un'emergenza estrema da affrontare. Ora la possibilità che la manovra economica sia approvata sabato è concreta. Ma la notizia, oltre che piacere, fa anche un po' rabbia.

L'opposizione ieri ha compiuto un gesto di responsabilità e di rispetto per il Quirinale, accettando le misure del governo senza votarle. E Silvio Berlusconi ha finalmente diramato una nota sugli attacchi speculativi di questi giorni: anche se la sua esortazione a essere «uniti, coesi nell'interesse comune» è oscurata da un'insistenza un po' d'ufficio sul governo «stabile e forte». Ma viene da chiedersi perché sia stato necessario guardare in faccia il baratro finanziario prima di agire in modo adeguato. In poche ore, lunedì sono stati bruciati quasi venti miliardi di euro.

Il risultato è stato quello di mostrare un governo incapace di «leggere» la sfida aggressiva dei mercati e le sue distorsioni destabilizzanti; e una classe politica costretta, per assenza di strategia, a subire l'iniziativa altrui. La mossa della Merkel si è rivelata una sorta di commissariamento politico da parte del principale Paese dell'euro: un richiamo a quel «vincolo esterno» che obbliga l'Italia alla serietà, e in certi casi le permette di salvarsi da se stessa.

Come minimo, è servita a dissolvere le polemiche lunari fra il centrodestra e il ministro dell'Economia, Giulio Tremonti. Pesa, tuttavia, l'immagine di una maggioranza che nel momento più delicato è apparsa silente, quasi assente. Ha marcato l'impotenza di un Pdl che ha continuato a lungo a dipingere una situazione più rosea di quanto fosse; di una Lega che, archiviando tre anni di moderazione, è tentata di nuovo da una velleitaria autarchia padana, in politica estera come in economia; e di un'opposizione incapace, almeno fino a ieri, di analizzare i problemi prescindendo da Berlusconi.

Eppure, gli attacchi di questi giorni confermano l'impossibilità di galleggiare divisi e senza bussola: tanto più per un governo numericamente possente, ma politicamente gracile. L'errore peggiore che potrebbe commettere il centrodestra sarebbe quello di incassare la disponibilità delle opposizioni e poi ricominciare come prima. La manovra alla quale l'Europa e i suoi nemici ci costringono, richiede una comunione di forze per un periodo prolungato: è uno spartiacque, non una parentesi.

Massimo Franco

13 luglio 2011 08:26© RIPRODUZIONE RISERVATA
da -


Titolo: MASSIMO FRANCO E la Lega «strappa»
Inserito da: Admin - Luglio 21, 2011, 05:50:47 pm
La Nota

E il premier scopre che la maggioranza era solo numerica

Le speranze sul voto segreto si rivelano un boomerang.

E la Lega «strappa»


È andato al contrario di come sperava Silvio Berlusconi. Il «sì» del Parlamento all'arresto del deputato del Pdl, Alfonso Papa, probabilmente è stato favorito e non scongiurato dal ricorso al voto segreto. E invece di velare i contrasti nella maggioranza, ha finito per ufficializzarli. Da ieri, il centrodestra è spaccato; e non sui rifiuti a Napoli, ma su quella questione morale che per il premier rappresenta un tabù. Il presidente del Consiglio voleva esorcizzare un clima «da 1992», anno simbolo della fine della Prima Repubblica. E invece quel clima si è materializzato con il contributo decisivo del Carroccio; e forse perfino di qualche dissidente del Pdl.

Una Lega che ormai risponde più al ministro dell'Interno, Roberto Maroni, che a Umberto Bossi, assente in aula, si è smarcata in modo traumatico da Palazzo Chigi. E adesso fra berlusconiani e Carroccio cresce la consapevolezza che le prospettive dell'alleanza sono tutte da decifrare. Il premier ha preso atto della sconfitta battendo furiosamente i pugni sul tavolo; e aggiungendo che dopo il risultato di ieri è ancora più urgente rintuzzare l'offensiva della magistratura. Ma la realtà appare un po' diversa: più difficile per il governo, e più complicata da risolvere.

Berlusconi emerge ulteriormente indebolito da un appuntamento parlamentare che doveva confermare le sue doti di sopravvivenza. L'affanno della sua leadership è sottolineata dai sospetti che attraversano Pdl e Lega, e dalla perdita della sponda di Bossi. Sebbene nessuno sia in grado di prevederne le tappe, aumenta la possibilità che si arrivi ad una crisi di governo. Il paradosso è che la Camera ha autorizzato l'arresto di Papa; il Senato, l'ha negato per Alberto Tedesco, del Pd, che aveva chiesto di essere arrestato.

La tentazione di additare il Pd come un partito che salva un suo senatore mentre a Montecitorio fa arrestare un deputato avversario, è naturale. Eppure, le due votazioni appaiono diverse. Iniettano veleni dovunque, ma il contraccolpo politico del caso Papa va molto al di là dell'altro. Può creare qualche difficoltà al centrosinistra, chiamato a giustificarsi. Non bilancia, tuttavia, la sconfitta bruciante della coalizione berlusconiana; né attenua la sensazione che la rottura col Carroccio sia una novità destinata a cambiare il corso della legislatura. Sebbene nebulosi, i nuovi scenari diventano un esercizio obbligato.

Quando Berlusconi sbotta: «È una pazzia, sacrificano Papa per farmi cadere», dice una verità. E offre una lettura che suscita più di una perplessità su quanto è successo. Ma tradisce anche l'acuta, dolorosa consapevolezza che il governo è agli sgoccioli; che perfino dentro la maggioranza c'è chi è disposto a qualunque manovra pur di scalzarlo da Palazzo Chigi. Si tratta di una resa dei conti della quale le opposizioni sono coprotagoniste. Eppure nasce e si consuma proprio negli intestini di quella maggioranza numerica della quale Berlusconi si vantava tanto: senza capire o voler comprendere quanto la sua consistenza fosse politicamente fragile e friabile.

Massimo Franco

21 luglio 2011
da - http://www.corriere.it/politica/nota/11_luglio_21/e-il-premier-scopre-che-la-maggioranza-era-solo-numerica_1b1361b2-b35a-11e0-a9a1-2447d845620b.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO Un ministro indebolito ma a tutti conviene rinviare all’autunno
Inserito da: Admin - Agosto 01, 2011, 05:32:30 pm
LA NOTA

Un ministro indebolito ma a tutti conviene rinviare all’autunno

Il martellamento dell’opposizione su Giulio Tremonti era prevedibile. I contorni dello scandalo che coinvolge il suo ex consigliere politico, Marco Milanese, espongono seriamente il ministro dell’Economia. E le spiegazioni che ha fornito finora sono state accolte con un misto di solidarietà d’ufficio e di perplessità dagli alleati; e con fastidio dagli avversari. L’eventualità di sue dimissioni, tuttavia, non sembra all’ordine del giorno. Un governo ammaccato ma deciso a non farsi travolgere da nulla cerca di rinviare qualunque problema all’autunno. E la nomina del Guardasigilli e del ministro delle Politiche comunitarie è stata presentata come la conferma della capacità di arrivare a fine legislatura, nel 2013. Il profilo di Tremonti, tuttavia, appare ridimensionato. La solidarietà offertagli da Umberto Bossi, capo della Lega, e dallo stesso presidente del Consiglio non cancella l’ombra di precarietà che prima si allungava sul governo ma salvava «il superministro»; e adesso, invece, si proietta anche su di lui. Insistendo sulla necessità che rimanga al suo posto, il nuovo ministro della Giustizia, Francesco Nitto Palma, ieri ha precisato: «Allo stato delle cose» ricordando che ha garantito la salvezza dei conti pubblici e che gode di credibilità a livello internazionale. Eppure, nel Pdl nessuno è pronto a scommettere su quanto potrà succedere nelle prossime settimane. Il timore è che una caduta di Tremonti possa provocare la crisi del governo; e questo Berlusconi vuole evitarlo a ogni costo. Non solo. Un ministro dell’Economia poco malleabile e perciò inviso a molti colleghi, oggi deve per necessità riconoscere il primato del presidente del Consiglio e condividere, non dettare le scelte economiche, come è stato accusato di fare in passato. E per Palazzo Chigi, si tratta di un vantaggio da sfruttare fino a quando sarà possibile. Ma gli stessi motivi che oggi suggeriscono al premier di difendere Tremonti, alla fine potrebbero indurlo a sacrificarlo. Se per l’andamento dei mercati o per le inchieste giudiziarie si capisse che il ministro dell’Economia non è più il biglietto da visita da sventolare davanti alle cancellerie europee, ma un problema, l’esito sarebbe inevitabile. Nel centrodestra, infatti, l’impressione è che il caso Milanese non abbia ancora sprigionato tutti i veleni di cui è capace: anche perché la richiesta d’arresto chiesta dalla magistratura per l’ex consigliere politico tremontiano sarà esaminata dal Parlamento soltanto a settembre; e nel frattempo continuano a filtrare documenti dal contenuto a dir poco imbarazzante, mentre la magistratura analizza fascicoli su alcuni giudici lambiti dalle frequentazioni con Milanese. Ieri, dopo la lettera al Corriere, Tremonti ha continuato a difendersi, declassando a «errori» e «stupidate» alcuni suoi comportamenti. E ha voluto sottolineare che prima di fare politica dichiarava al fisco dieci miliardi di lire all’anno; e dunque non aveva e non ha bisogno «di fregare i soldi agli italiani». Le opposizioni intravedono molte smagliature in questa linea difensiva. Soprattutto si chiedono perché non si sia rivolto alla magistratura, se davvero si sentiva spiato e minacciato. E sostengono che sta prendendo in giro il Paese e dunque si dovrebbe dimettere. D’altronde, individuano in lui il nuovo anello debole del centrodestra: un anello strategico, da spezzare nella speranza di far saltare la maggioranza berlusconiana. E sotto sotto, confidano nella volontà di ampi settori del centrodestra di vendicarsi di Tremonti. Sanno che alcuni compagni di partito e magari qualche leghista vorrebbero fargli scontare tutti in una volta le tensioni, le durezze e i contrasti inanellati in tre anni da guardiano dei conti pubblici. Eppure, proprio per questo i suoi avversari nel centrodestra sono costretti a fargli scudo: un po’ con irritazione, un po’ con malcelata soddisfazione per i suoi guai. E aspettano l’autunno come se fossero le Idi di marzo.

Massimo Franco

30 luglio 2011
da - http://www.corriere.it/politica/nota.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO Dietro i ripensamenti le divisioni dell’alleanza
Inserito da: Admin - Settembre 01, 2011, 08:42:01 am
LA NOTA

Dietro i ripensamenti le divisioni dell’alleanza

Le tensioni Palazzo Chigi-Tesoro contribuiscono alla confusione

Gli sbandamenti continui del governo di Silvio Berlusconi sulla manovra finanziaria sommano due coincidenze: una crisi economica di proporzioni inedite; e una maggioranza forte numericamente ma divisa e precaria dal punto di vista politico. La proposta e poi la disdetta di alcuni provvedimenti nel giro di poche ore; i vertici continui fra spezzoni della maggioranza; le intese smentite il giorno dopo; l’incertezza sulla presenza dei ministri alle riunioni, sono tutti sintomi di un centrodestra incapace di offrire all’Europa e all’opinione pubblica una soluzione. Ma non perché non voglia: la sensazione è che non possa, senza rischiare di spezzarsi. Una maggioranza come quella uscita dal voto del 2008 avrebbe avuto qualche possibilità in più di imporre un piano di «austerità» accettabile anche in un contesto così grave. Ma l’alleanza fra Pdl e Lega è uguale e insieme diversa da quella di allora. Berlusconi e Umberto Bossi, capo della Lega, sono virtuosi della sopravvivenza ma in crescente affanno. E le tensioni fra Palazzo Chigi e il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, pure in evidente difficoltà, contribuiscono alla confusione. L’attenzione preoccupata della Commissione Ue è il minimo che ci si possa attendere.

Perfino un uomo prudente come il presidente del Senato, Renato Schifani, ieri è stato costretto a richiamare la maggioranza al rispetto dei tempi della manovra. La norma, subito saltata, che prevedeva di escludere anni di università e servizio militare dal calcolo dei 40 anni di anzianità per andare in pensione, sarà sostituita. La domanda è con che cosa, per rastrellare quei miliardi di euro che appaiono e scompaiono; e soprattutto, se il centrodestra sarà in grado di accettare un nuovo compromesso.

Pier Ferdinando Casini, che pure non smette di offrire sponde alla maggioranza, dice di essere pronto al confronto. «Ma con chi dobbiamo confrontarci se non si sa cosa vogliono?». Si tratta di una domanda legittima del capo dell’Udc. Pd e Idv chiedono al premier e a Tremonti di dimettersi: se non altro per avere comunicato che il «vertice di Arcore» si era concluso positivamente. L’indecisione rappresenta il miglior alibi per opposizioni che forse non hanno ricette migliori, ma possono invocare l’«irresponsabilità » del governo.

Le modifiche che Pdl e Lega tentano di concordare dovrebbero essere presentate oggi. Ma le voci che descrivono un Tremonti «defilato» moltiplicano le incognite. E gli avvertimenti di sindaci anche del centrodestra perché non si tagli a spese degli enti locali, confermano che qualunque esito sarà contestato. È significativo che dopo l’annuncio di una legge costituzionale per abolire le Province, la decisione sia stata spiegata da alcuni leghisti per quello che è: una «battaglia silenziosa» per prendere tempo e, di fatto, lasciare tutto com’è. È una piccola metafora di quanto rischia di accadere.

Massimo Franco

01 settembre 2011
da - http://www.corriere.it/politica/nota.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO Credibilità cercasi
Inserito da: Admin - Settembre 02, 2011, 09:47:02 am
Credibilità cercasi

È assai poco berlusconiano l’emendamento col quale ieri, per la terza volta in due settimane, il governo ritiene di avere trovato un compromesso sulla manovra finanziaria. Delineare un orizzonte di giri di vite fiscali, manette per i «grandi evasori», pubblicazione dei redditi da parte dei Comuni, rappresenta un rovesciamento della filosofia di Silvio Berlusconi. Si tratta di misure che appena tre anni fa venivano rimproverate ad una sinistra accusata di vampirismo tributario. Oggi Lega e Pdl sono costretti a farle proprie: al punto che non ci si può non chiedere se siamo davvero di fronte alla versione definitiva.

La credibilità dell’Italia presso la Banca centrale europea si gioca molto sulla chiarezza e la certezza delle sue scelte: esattamente quello che non è stato fatto negli ultimi giorni. È il solo modo per arginare il declino di una maggioranza ammaccata dalle divisioni interne; logorata dalle incomprensioni fra il presidente del Consiglio e il ministro dell’Economia Giulio Tremonti, richiamato ieri a Roma per una mediazione in extremis; e inseguita dalle ombre giudiziarie che riguardano Berlusconi. Qualunque leader che si rispetti sa di dover proporre misure impopolari.

La sensazione è che il governo si sia rassegnato a scegliere l’«impopolarità minore»: anche perché non aveva alternative. Dopo i pastrocchi sulle pensioni, serviva un segnale. Rimane da capire se basterà ai mercati, scongiurando il rischio di nuove manovre. E se consentirà a Berlusconi di andare un po’ oltre la logica della pura sopravvivenza. Qualcuno comincia a pensare che esiste una maledizione dei vertici internazionali, per lui. Si cominciò con l’avviso di garanzia recapitatogli a quello di Napoli, nel 1994. Ieri, il presidente del Consiglio è arrivato a Parigi per il summit sul futuro della Libia, preceduto dalla notizia di nuove intercettazioni telefoniche e arresti.

Rispetto a diciassette anni fa, Berlusconi non è accusato di nulla, anzi: è vittima di un’estorsione. Ma un premier ricattato porta a domandarsi: perché? Non che l’Italia sia particolarmente sensibile a certi temi: spesso l’indignazione è una merce avariata dalla faziosità politica e dal moralismo. Il meno che si possa dire, però, è che mentre lievitava una crisi finanziaria sottovalutata fino alla sua esplosione, Berlusconi sembrava distratto da altro. Si tratta di una constatazione obbligata e amara.

Conferma e dilata le incognite della manovra economica. Un Berlusconi logorato non prelude ad una crisi di governo, ma alla perdita parallela di credibilità internazionale dell’Italia. L’arresto dell’imprenditore Gianpaolo Tarantini e della moglie, accusati di ricattare il premier, e l’ordine di cattura per Valter Lavitola, ritenuto un suo informatore sulle questioni giudiziarie, consegnano il capo del governo all’ennesima, imbarazzante sovraesposizione. Per ora il premier è condannato a rimanere a Palazzo Chigi; e l’Italia, e forse anche un pezzo d’Europa, a sperare che non si crei un vuoto di potere. Nonostante gli stereotipi deteriori che Berlusconi alimenta.

Massimo Franco

02 settembre 2011 07:51© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://www.corriere.it/editoriali/11_settembre_02/franco-credibilita-cercasi-editoriale_dedcf5ea-d51f-11e0-b96a-5869f8404a57.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO Un governo indebolito dalle tensioni interne e dal tempo perduto
Inserito da: Admin - Settembre 07, 2011, 05:24:22 pm
La Nota

Un governo indebolito dalle tensioni interne e dal tempo perduto

Decisiva la spinta del Quirinale per rispondere subito ai mercati


Si va verso il «sì» alla manovra oggi in Senato, ricorrendo alla quarantanovesima richiesta di fiducia.
Ma la sensazione amara di avere perso inutilmente molto, troppo tempo, è difficile da cancellare. La spinta decisiva a aumentare l'Iva, l'Imposta sul valore aggiunto, dal 20 al 21 per cento è arrivata sotto la pressione di mercati sempre più scettici sulla credibilità del governo italiano; e di un presidente della Repubblica che ha quasi intimato al governo di «rafforzare l'efficacia e la credibilità» della manovra per arginare una deriva finanziaria tuttora non scongiurata.

I miliardi di euro bruciati in giorni di ripensamenti sono un atto di accusa contro la maggioranza. Per quanto la crisi tocchi l'intera zona dell'euro e investa gli Usa, la peculiarità dell'Italia è di aggravarla con la confusione politica. Le tensioni fra Silvio Berlusconi e il ministro dell'Economia, Giulio Tremonti, i veti della Lega, il pasticcio sulla riforma delle pensioni hanno prodotto un cortocircuito.
Il governo ne esce più indebolito di un mese fa, quando la BCE ha cominciato a comperare titoli di Stato per arginare l'aggressione da parte degli speculatori internazionali. Perfino la disastrata Spagna ieri si è ritenuta autorizzata a dare lezioni di serietà.
«Siamo molto preoccupati perché alcuni Paesi sono in una brutta situazione e non stanno rispettando i loro obiettivi: la Grecia e l'Italia, che si è rimangiata in pochi giorni il suo piano di aggiustamento», ha dichiarato il portavoce José Blanco. D'altronde, anche le decisioni di ieri sono state contrastate.

Tremonti si è opposto a lungo all'Iva al 21 per cento. Ne aveva spiegato le ragioni, a cominciare dai timori per l'inflazione.
Il fatto che Berlusconi l'abbia imposta dice quanto sia ridimensionato il ministro. Ma dice anche che erano necessari provvedimenti tali da garantire un gettito valutabile subito dai mercati. In più, lo scandalo che ha colpito il braccio destro di Tremonti, Marco Milanese, e che sarà discusso in Parlamento fra una settimana, ha ristretto i suoi margini. Ritenere che l'ultima versione della manovra significhi un recupero per i titoli pubblici italiani non è scontato.

La tassa per chi guadagna più di 300 mila euro l'anno ha un valore soprattutto simbolico, e comunque non tocca l'evasione fiscale.
Quanto alla legge costituzionale per abolire le Province, appare ancora più aleatoria negli effetti, visti i tempi biblici prevedibili per l'approvazione. Resta la richiesta di fiducia, motivata da Palazzo Chigi con «la gravità del contesto internazionale», per approvare finalmente la manovra: un buon motivo fornito a gran parte dell'opposizione per aderire allo sciopero solitario della Cgil, e additare l'ennesimo rifiuto del centrodestra a discutere.

Massimo Franco

07 settembre 2011

da - http://www.corriere.it/politica/nota/11_settembre_07/un-governo-indebolito-dalle-tensioni-interne-e-dal-tempo-perduto-massimo-franco_45ed1bc4-d90e-11e0-91da-5052c8bbe100.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO La tappa a Bruxelles non basta al Cavaliere preso tra due fuochi
Inserito da: Admin - Settembre 13, 2011, 10:57:05 am
La Nota

La tappa a Bruxelles non basta al Cavaliere preso tra due fuochi

Polemiche al Parlamento Ue, mentre non si ferma la bufera giudiziaria


Silvio Berlusconi non riesce a sfuggire alla tenaglia fra crisi economica e problemi giudiziari. Il modo in cui sta cercando di non farsi stritolare lo costringe ad acrobazie sempre più arrischiate. Il suo arrivo oggi a Bruxelles e Strasburgo per incontrare i vertici della Commissione e del Parlamento europeo è stato accompagnato da un alone di illazioni e polemiche. La decisione di chiedere un incontro con José Manuel Barroso, avanzata giovedì scorso, ha moltiplicato i sospetti di un sotterfugio per non essere interrogato dai magistrati: quelli che indagano sul ricatto al quale il presidente del Consiglio sarebbe stato sottoposto da chi è accusato di avergli procurato incontri femminili.

Ma mentre il premier difende il suo viaggio-lampo per spiegare all'Ue una manovra economica contrastata e oscillante, l'opposizione lo accusa di essere lui stesso un fattore di instabilità. Il Pdl continua a difenderlo, apparentemente in formazione compatta.
E rifiuta l'ipotesi di un passo indietro, sostenendo che aiuterebbe ancora di più gli speculatori internazionali. Ma la pressione aumenta, se non altro perché i mercati continuano a colpire l'euro; e nel contesto europeo l'Italia perde colpi. Gli scandali sono soltanto il versante aggiuntivo, sebbene ugualmente dannoso, di un affanno finanziario alimentato dalla scarsa credibilità del governo.

Ieri Berlusconi ha fatto mandare al capo della Procura di Napoli, che doveva sentirlo a palazzo Chigi, un promemoria per giustificare la sua assenza da Roma. «Ho ritenuto di andare a Bruxelles e Strasburgo», ha precisato, «per spiegare, carte alla mano, la manovra».
Per lui, lo scandalo dei rapporti con le persone che lo avrebbero ricattato sarebbe «un'assurdità». Resta fermo alla tesi secondo la quale avrebbe solo «aiutato una famiglia in difficoltà». Ma il Pd lo accusa di mettere in imbarazzo l'Europa. I sarcasmi e la freddezza con i quali è atteso a Bruxelles sono indizi preoccupanti. Il problema più insidioso, però, è il mancato incontro col procuratore Giovandomenico Lepore.
La possibilità che gli impedimenti del premier si ripetano lascia aperto il fronte con la magistratura. Nella settimana in cui le misure economiche dovrebbero essere approvate in via definitiva, forse giovedì, il governo è inseguito dalle questioni giudiziarie.
Si trova a fare i conti con le inchieste che riguardano Berlusconi, e con quella nella quale è coinvolto l'ex braccio destro del ministro dell'Economia, Giulio Tremonti, Marco Milanese. Il deputato del Pdl, per il quale è stato chiesto l'arresto, oggi cercherà di difendersi nella giunta parlamentare. Ma l'arrivo di nuove carte sul ruolo di rilievo affidatogli nei rapporti con la Guardia di Finanza complica anche la posizione del ministro dell'Economia.

Non sorprende l'insistenza delle opposizioni nel chiedere «un passo indietro» da parte del presidente del Consiglio. Né meravigliano i colloqui, l'ultimo ieri a Monza, eletta dalla Lega a «capitale» della mitica Padania, fra Umberto Bossi e lo stesso Tremonti.
La sorte di Milanese è appesa infatti in buona parte all'atteggiamento che assumerà il Carroccio quando il Parlamento si pronuncerà sul suo arresto. A colpire, semmai, osserva il centrosinistra, è che l'incontro fra i due ministri sia stato dedicato all'organizzazione di alcuni seminari sul fisco, mentre le Borse vivevano un'altra giornata di passione. La via d'uscita non si vede ancora. Si percepisce solo un lento ma inesorabile logoramento del centrodestra. Sarebbe imprudente, tuttavia, pensare che le dimissioni di Berlusconi possano da sole migliorare la situazione: se non sono pronte soluzioni alternative credibili, è difficile capire perfino quale sia il male minore.

Massimo Franco

13 settembre 2011
da - http://www.corriere.it/politica/nota/11_settembre_13/la-nota-massimo-franco_3a2fb376-ddcf-11e0-aa0f-d391be7b57bb.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO Una situazione insostenibile
Inserito da: Admin - Settembre 15, 2011, 10:30:51 am
PENSARE PRIMA AL PAESE

Una situazione insostenibile

Dire che la situazione rimane in bilico, a questo punto, non basta più. Ieri, in qualche misura, il governo ha fatto un salto di qualità in negativo: al punto che c’è da chiedersi quanto possa andare avanti senza provocare danni seri all’Italia. La maggioranza è riuscita nel miracolo di approvare la manovra economica richiesta dalla Banca centrale europea senza quasi poterla rivendicare. E il risultato è passato in secondo piano non tanto perché i numeri parlamentari sono stati meno trionfali del passato.

A farlo scivolare nell’ombra è stato piuttosto lo scontro pubblico fra Palazzo Chigi e la Procura di Napoli sull’interrogatorio di Silvio Berlusconi; e quello invisibile, ma inquietante, fra il Quirinale e un presidente del Consiglio che per qualche ora ha accarezzato l’ipotesi di un decreto per impedire d’autorità la pubblicazione delle intercettazioni: anche se la presidenza della Repubblica tace, e Palazzo Chigi smentisce. I tafferugli provocati da un manipolo di estremisti dei Cobas davanti al Parlamento, dispersi dalle forze dell’ordine, aggiungono un tocco sinistro alla giornata. Lasciano capire che qualcuno comincia a soffiare in modo irresponsabile su una situazione ai limiti della sostenibilità.

Quelle scene di assedio alla Camera dei deputati dovrebbero imporre a tutte le forze politiche una condanna senza riserve e calcoli strumentali. Ma rimane l’immagine di un centrodestra incapace di dimostrare l’affidabilità e la serietà che l’opinione pubblica e i mercati finanziari pretendono. Dopo avere costruito una trincea ideologica intorno all’articolo 8 sulla flessibilità del mercato del lavoro, ieri il governo si è impegnato a modificarlo, accogliendo un ordine del giorno dell’opposizione. E sono riemerse ipotesi di condono fiscale ed edilizio per mano di un partito che si definisce, ironia della sorte, dei «Responsabili».

Provvedimenti tanto necessari quanto controversi nel prevedere più tasse che tagli alla spesa, sono stati approvati in una cornice di confusione e di tensione. E hanno offerto un’occasione ghiotta non solo agli speculatori ma anche alle agenzie di rating che potrebbero declassare finanziariamente l’Italia, già nei prossimi giorni. Sono scenari che il ripiegamento del governo su se stesso e sui problemi personali e giudiziari del presidente del Consiglio non scongiura, ma dilata. Si può comprendere il nervosismo di Berlusconi per lo stillicidio delle intercettazioni sul ricatto che ha subìto.

Ma pensare di schivare l’interrogatorio con i magistrati che vogliono conoscere la sua verità, finisce per insinuare un sospetto sulla linea di difesa del premier: tanto più se spunta la tentazione di ricorrere a soluzioni già percorse nel passato, e saggiamente abbandonate come forzature inaccettabili. Forse, più lucidità e riflessione, e meno precipitazione, consentirebbero alla coalizione berlusconiana di non commettere altri errori; e di non moltiplicare i fronti di guerra senza avere una percezione esatta della propria forza, e soprattutto della propria debolezza. Anche perché in questi giorni la fragilità del governo si riflette drammaticamente sull’Italia e sulla sua economia. E può determinare conseguenze pesanti delle quali la maggioranza dovrà dare conto anche all’elettorato.

Massimo Franco

15 settembre 2011 07:52© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://www.corriere.it/editoriali/11_settembre_15/franco-una-situazione-insostenibile_3ec6ae5a-df58-11e0-b2a5-386afc6bc08a.shtml


Titolo: FRANCO Valanga giudiziaria e le tensioni nel Carroccio aumentano le incognite
Inserito da: Admin - Settembre 16, 2011, 11:58:46 am
La Nota

La valanga giudiziaria e le tensioni nel Carroccio aumentano le incognite

Scontro totale fra premier e magistratura dopo le ultime intercettazioni

Sebbene sia l'unica cosa che conta davvero, la manovra economica sembra oscurata: travolta dalla valanga di intercettazioni e di veleni che scorrono fra il presidente del Consiglio e la magistratura. L'interrogatorio di Silvio Berlusconi come presunta vittima di un ricatto sui suoi incontri con ragazze da parte di Gianpaolo Tarantini e Valter Lavitola, non ci sarà. Il premier lo rifiuta perché i magistrati della Procura di Napoli non si sono accontentati della sua memoria difensiva; e dunque si ritiene perseguitato. Non solo. La sua imputazione decisa ieri dalla magistratura di Milano per il caso Unipol e la notizia che sarebbero state registrate oltre 100 mila telefonate, acuisce i sospetti e la rabbia del capo del governo.

Che effetto tutto questo possa avere sulla credibilità dell'Italia è prevedibile: negativo. Per capire l'eventuale impatto sui titoli di Stato italiani, invece, sarà necessario aspettare. Ieri il Financial Times rilanciava l'ipotesi di un prossimo declassamento dell'Italia. Eppure, non andrebbe considerato troppo «significativo», essendo frutto del «nervosismo dei mercati». Per ora i contraccolpi di quanto avviene si scaricano nel recinto della maggioranza: scosse contraddittorie ma continue.

Così, Berlusconi continua a prosciugare il Fli di Gianfranco Fini, provando a portargli via tre deputati. Ma ritorna l'incognita dell'alleanza con la Lega. Un articolo pepato di Panorama sulla moglie di Umberto Bossi è stato definito «una carognata» dai ministri Roberto Maroni e Roberto Calderoli, che ne hanno chiesto conto al premier come editore del settimanale. E questa tensione a pochi giorni dal voto parlamentare sull'arresto di Marco Milanese, ex braccio destro di Giulio Tremonti, aumenta le incognite sulla tenuta del centrodestra. Se qualcuno ottenesse lo scrutinio segreto, la prospettiva che l'ex consigliere del ministro dell'Economia finisca in prigione diventerebbe probabile.

E di rimbalzo si farebbe complicata anche la posizione di Tremonti. Ma forse, il problema più spinoso sono gli equilibri dentro la Lega e la leadership declinante di Bossi. Gli attacchi alla famiglia del capo dei lumbard vanno letti più come il prodotto delle faide in atto nel Carroccio, a cominciare dalla lotta per la successione, che come una manovra berlusconiana. Mai come in questa fase il presidente del Consiglio ha bisogno che il suo principale alleato tenga in mano il partito: una capacità non più così scontata. Se smotta la sponda rappresentata da Bossi, la fine del governo sarebbe inevitabile.

L'impressione, invece, è che ormai nessuno dei leader del centrodestra controlli per intero il suo esercito. Le dinamiche che si sono messe in moto privilegiano le contestazioni. Basta registrare le proteste contro la manovra economica da parte di alcuni sindaci leghisti, o i piani più o meno vistosi di esponenti del Pdl per arrivare a un governo senza più Berlusconi a palazzo Chigi. Si tratta di un dissenso destinato a non arrivare alla rottura fino al momento in cui, per un incidente o per qualche imprevisto, il governo dovesse cadere. Solo a quel punto esploderà. Anche se Berlusconi non cederà fino all'ultimo, asserragliato a palazzo Chigi: costi quello che costi.

Massimo Franco

16 settembre 2011
da - http://www.corriere.it/politica/nota/11_settembre_16/nota_c487061e-e027-11e0-aaa7-146d82aec0f3.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO Un pericoloso isolamento
Inserito da: Admin - Settembre 22, 2011, 04:58:17 pm
PARALISI POLITICA, IMMAGINE ESTERA

Un pericoloso isolamento

Si può anche concedere che Barack Obama sia stato sgarbato con l’Italia. Ringraziare davanti all’Assemblea delle Nazioni unite Lega araba, Egitto, Tunisia, Francia, Danimarca, Norvegia e Gran Bretagna per il ruolo svolto in Libia contro il regime di Gheddafi, dimenticando il governo di Roma, è un’amnesia singolare. Ma sottolineare l’omissione di un presidente degli Stati Uniti che vive lui stesso un momento di seria difficoltà non basta a eludere una domanda di fondo: perché l’inquilino della Casa Bianca non sente il bisogno di dire grazie anche a un’Italia immersa nel Mediterraneo?

Trovare una risposta confortante non è facile. Riesce impossibile sfuggire alla sensazione di un isolamento crescente del nostro Paese, che tende a essere trattato come il comodo capro espiatorio dei problemi dell’Occidente; e in particolare dell’Europa. Non ci si può non chiedere se un simile atteggiamento sia favorito anche dagli errori del governo di Silvio Berlusconi: dalle oscillazioni sull’operazione in Libia a quelle sulla manovra economica, fino alla tesi autoconsolatoria di un complotto anti-italiano. La verità è che dopo la perdita di ruolo che la Guerra fredda regalava all’Italia, certi atteggiamenti non le sono più consentiti.

E in una fase come l’attuale diventano imperdonabili. Quando si accredita un nostro ruolo in politica estera superiore alla realtà dei rapporti di forza, alla lunga il risveglio è brusco. Molto meglio guardare in faccia l’isolamento e individuarne l’origine; e smetterla di fingere che esista ancora una maggioranza politica e di fare piani per l’eternità: perfino nel centrodestra ormai c’è chi misura l’eternità del governo in termini di mesi ma anche di giorni. Il convulso tramonto del berlusconismo e l’involuzione della Lega non sono meno vistosi solo perché per Pdl e Carroccio non esistono alternative alla loro alleanza.

Purtroppo è vero che l’opposizione non offre molto. E l’evocazione lugubre di Antonio Di Pietro, secondo il quale se Berlusconi non getta la spugna «ci scappa il morto », non contribuisce ad alzarne le quotazioni: lo ammette anche il Pd, spaventato da un suo alleato che semina i germi di una guerra civile strisciante. Ma questo non basta a cancellare il sospetto che, comunque vada oggi la votazione segreta del Parlamento sull’arresto di Marco Milanese, ex braccio destro del ministro dell’Economia Giulio Tremonti, il governo sta concludendo la sua traiettoria.

Lo scontro virulento fra Palazzo Chigi e magistratura contribuisce a offrire all’opinione pubblica italiana e internazionale l’immagine di un’Italia immobilizzata e sfigurata dalle proprie faide interne. Somiglia a una sorta di conflitto tribale, nel quale l’istinto di sopravvivenza del centrodestra finisce per apparire insieme una risorsa e un limite: quasi un alibi per scansare i veri problemi. Protrarre nel tempo una situazione così tesa mentre la crisi finanziaria morde i risparmi, tuttavia, è rischioso. Più la conclusione sarà rinviata, più il «dopo» segnerà una rottura. E, alla fine, la realtà potrebbe prendersi una rivincita traumatica per tutti.

Massimo Franco

22 settembre 2011 07:52
© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/11_settembre_22/franco_pericoloso-isolamento_f08f882a-e4d8-11e0-ac8f-9ecb3bbcc6bf.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO Resistere a oltranza per contrastare i pm e snobbare i mercati
Inserito da: Admin - Settembre 24, 2011, 11:51:45 am
La Nota

Resistere a oltranza per contrastare i pm e snobbare i mercati

Il governo ignora Standard & Poor's e si prepara allo scontro con i pm


Il governo non dice che andrà avanti come se niente fosse, ma l'atteggiamento continua ad essere quello di minimizzare: minimizzare e resistere. La tendenza è scaricare sulla crisi finanziaria europea, sull'opposizione e sui giornali il declassamento dell'Italia deciso l'altra sera da una delle agenzie che controllano l'affidabilità finanziaria di una nazione, Standard & Poor's ; e a liquidare come ennesimo incidente di percorso le cinque bocciature del governo alla Camera. I resoconti della riunione fra Giulio Tremonti e una Confindustria ormai tentata di chiedere le dimissioni del governo, raccontano un ministro dell'Economia sbrigativo nel rifiuto di misure «dettate dall'emotività», perché a suo avviso la tenuta dell'euro ormai dipende dalla Germania; e tagliente contro le critiche degli imprenditori. Ma c'è un'incognita giudiziaria che si aggiunge a quella dell'economia.

Domani il Parlamento deciderà se autorizzare o no l'arresto di Marco Milanese, il deputato del Pdl ex braccio destro proprio di Tremonti. Ed è inutile dire che la richiesta del voto segreto da parte di quasi tutta l'opposizione aumenta la possibilità di un esito sfavorevole alla coalizione. Una Lega divisa e di nuovo secessionista, alla quale ieri il capo dello Stato, Giorgio Napolitano, ha rimproverato di essere «fuori dalla storia e dalla realtà», non è in grado di garantire nessuno. E sebbene il ministro dell'Interno, Roberto Maroni prometta fedeltà e lealtà a Umberto Bossi, non è scontato che il suo gruppo voti «no» all'arresto. Ma soprattutto non si sa come si comporteranno alcuni esponenti del Pdl.

Quando il ministro Ignazio La Russa avverte che l'affossamento di Milanese non metterebbe automaticamente nei guai anche Tremonti, lascia capire che i timori nella maggioranza sono profondi: il titolare dell'Economia ha qualche nemico. Il tentativo del centrodestra è quello di additare la magistratura come un potere ostile a Silvio Berlusconi: soprattutto dopo che ieri la Procura di Napoli ha deciso di trasmettere gli atti ai colleghi di Roma, ai quali spetta la competenza di indagare sul presunto ricatto al premier; e dopo che di recente i giudici di Milano hanno deciso di ridurre il numero dei testimoni nel processo Mills, dove Berlusconi invece è imputato, per anticipare al massimo la sentenza.

Sostenere che il governo è debolissimo, come fa il presidente della Camera, Gianfranco Fini, non basta a fotografare una situazione drammatica, e alimenta le polemiche. E la constatazione di Pier Ferdinando Casini, leader dell'Udc, secondo il quale la maggioranza è «inaiutabile», non modifica l'atteggiamento di un centrodestra deciso a non gettare la spugna. L'ipotesi che dentro il Pdl qualcuno riesca a indurre il presidente del Consiglio a dimettersi, come spera anche il Pd, ormai è solo di scuola. Maroni ripete che l'alleanza fra Lega e Pdl porterà il Paese fino al termine della legislatura, nel 2013. «Non ci sono alternative». Ma la domanda è come; e soprattutto in quali condizioni l'Italia si ritroverà se dovesse continuare il martellamento parallelo delle inchieste giudiziarie e della crisi finanziaria.

La notizia fornita ieri dai virtuosi di statistiche, quella che il governo è stato battuto per l'ottantottesima volta in Parlamento, fa pensare. Verrebbe da dire che è ancora lì, nonostante tutto: fragilissimo eppure infrangibile. Ora, però, il contesto nazionale e internazionale sono diversi: rendono meno rumorosi quei tonfi, ma più precarie le prospettive. Il problema non sembra più la tenuta della maggioranza, ma l'effetto che può avere sui mercati finanziari. È un vantaggio o un danno? Berlusconi è ostinato ad andare avanti. Vuole contrastare «le Procure» e prepararsi a una futuribile fase di crescita: per questo domani riunirà gli alleati. Il suo obiettivo è arrivare a Natale, per impedire altri governi. Ma il 25 dicembre appare lontano.

Massimo Franco

21 settembre 2011
da - http://www.corriere.it/politica/nota.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO Le reazioni infuriate della Lega e l’imbarazzo del governo
Inserito da: Admin - Ottobre 01, 2011, 04:48:31 pm
LA NOTA

Un Colle interventista addita l’involuzione di un partito in crisi

Le reazioni infuriate della Lega e l’imbarazzo del governo

Parole così sferzanti nei confronti della Lega non si ricordavano da tempo. Ma se il presidente della Repubblica ha deciso di pronunciarle, significa che qualcosa è cambiato non tanto in Giorgio Napolitano ma nel movimento di Umberto Bossi. È finita quell’«evoluzione positiva» che il capo dello Stato aveva assecondato a partire dal 2006: l’abbandono dei progetti visionari e velleitari del professor Gianfranco Miglio, ideologo della secessione del Nord padano dall’Italia. E si cominciano invece a notare i segni di un’involuzione. Un Carroccio reduce dalla sconfitta elettorale alle amministrative di maggio sbanda, lacerato fra l’identità di partito ministeriale e di lotta. E torna ai vecchi miti. Ma il Quirinale indovina anche un cambiamento più profondo, nel Paese: le perplessità nei confronti di una legge elettorale che non accorcia ma dilata le distanze fra la classe politica e chi la vota. E ne chiede una nuova.

Così, in un solo giorno Napolitano ha infranto due tabù. Il primo è un altolà che sembra fatto per riportare Bossi sulla strada di un leghismo responsabile; per impedirgli di inseguire una deriva destinata a rendere il principale alleato di Silvio Berlusconi una forza che va contro «il corso della storia». D’altronde, per un Quirinale che negli ultimi anni ha coltivato un dialogo rispettoso e costante con la Lega, il rinculo di Bossi su posizioni passatiste e di rottura dell’unità d’Italia è inaccettabile. L’ammonimento a rispettare la Costituzione e a non accarezzare operazioni che a Sud si chiamavano separatiste, è accompagnato da una durezza che somiglia ad uno schiaffo.

Non esiste una via democratica alla secessione, avverte il presidente della Repubblica, come non esiste «il popolo padano». «Sono grida che si levano dai prati con scarsa conoscenza della Costituzione», ironizza a proposito dell’ultimo raduno a Pontida. E lascia capire che se «dalle grida, dalla propaganda, dallo sventolio di bandiere si passasse ad atti preparatori di qualcosa di simile alla secessione, tutto cambierebbe». Napolitano ricorda quando alla fine della Seconda guerra mondiale lo Stato italiano in embrione arrestò il separatista Andrea Finocchiaro Aprile, che vagheggiava l’indipendenza della Sicilia. È un accostamento che assimila tentazioni vissute nel Mezzogiorno come al Nord.

E colpisce una Lega già in difficoltà: contestata dai militanti per l’appiattimento sul governo; divisa sul dopo- Bossi; e senza una strategia per il futuro. Al punto che c’è da chiedersi quali effetti l’esternazione del capo dello Stato avrà sulla maggioranza. Il silenzio di Berlusconi dimostra tutto l’imbarazzo di Palazzo Chigi, che non può applaudire Napolitano senza rischiare la lite col Carroccio. E le reazioni infuriate e grevi che rimbalzano su Radio Padania e in qualche commento dei vertici leghisti contro il Quirinale confermano un partito con i nervi scoperti; e spiazzato dall’attacco diretto che un Napolitano all’apice della popolarità sferra su un tema popolare come l’unità d’Italia. Ma è altrettanto insidioso l’appello presidenziale ad una riforma del sistema elettorale. Si tratta del secondo tabù che il capo dello Stato rompe.

Consigliare una nuova legge perché l’attuale «ha interrotto un rapporto che esisteva fra elettore ed eletto», intercetta un’insoddisfazione diffusa. Dà ragione a quanti vedono deputati e senatori oggi di fatto designati dalle segreterie di partito e non scelti dagli elettori. «Non voglio idoleggiare sistemi elettorali del passato», si schermisce Napolitano, «ma solo dire che prima c’era un collegamento più diretto». Sembra un invito al Parlamento a rimediare, prima che a primavera si celebri un referendum promosso con una forte caratura antipolitica; e una implicita rivalutazione dei sistemi del passato, compreso quello delle preferenze, cancellato dal referendum del 1993 e demonizzato come un simbolo della Prima Repubblica. In una fase in cui anche la Seconda Repubblica mostra tutte le sue rughe, non ci sono più ricette esclusive.

Massimo Franco

01 ottobre 2011
da - http://www.corriere.it/politica/nota.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO Un Colle interventista addita l’involuzione di un partito in cris
Inserito da: Admin - Ottobre 06, 2011, 05:02:45 pm
LA NOTA

Un Colle interventista addita l’involuzione di un partito in crisi

Le reazioni infuriate della Lega e l’imbarazzo del governo

Parole così sferzanti nei confronti della Lega non si ricordavano da tempo. Ma se il presidente della Repubblica ha deciso di pronunciarle, significa che qualcosa è cambiato non tanto in Giorgio Napolitano ma nel movimento di Umberto Bossi. È finita quell’«evoluzione positiva» che il capo dello Stato aveva assecondato a partire dal 2006: l’abbandono dei progetti visionari e velleitari del professor Gianfranco Miglio, ideologo della secessione del Nord padano dall’Italia. E si cominciano invece a notare i segni di un’involuzione. Un Carroccio reduce dalla sconfitta elettorale alle amministrative di maggio sbanda, lacerato fra l’identità di partito ministeriale e di lotta. E torna ai vecchi miti. Ma il Quirinale indovina anche un cambiamento più profondo, nel Paese: le perplessità nei confronti di una legge elettorale che non accorcia ma dilata le distanze fra la classe politica e chi la vota. E ne chiede una nuova.

Così, in un solo giorno Napolitano ha infranto due tabù. Il primo è un altolà che sembra fatto per riportare Bossi sulla strada di un leghismo responsabile; per impedirgli di inseguire una deriva destinata a rendere il principale alleato di Silvio Berlusconi una forza che va contro «il corso della storia». D’altronde, per un Quirinale che negli ultimi anni ha coltivato un dialogo rispettoso e costante con la Lega, il rinculo di Bossi su posizioni passatiste e di rottura dell’unità d’Italia è inaccettabile. L’ammonimento a rispettare la Costituzione e a non accarezzare operazioni che a Sud si chiamavano separatiste, è accompagnato da una durezza che somiglia ad uno schiaffo.

Non esiste una via democratica alla secessione, avverte il presidente della Repubblica, come non esiste «il popolo padano». «Sono grida che si levano dai prati con scarsa conoscenza della Costituzione», ironizza a proposito dell’ultimo raduno a Pontida. E lascia capire che se «dalle grida, dalla propaganda, dallo sventolio di bandiere si passasse ad atti preparatori di qualcosa di simile alla secessione, tutto cambierebbe». Napolitano ricorda quando alla fine della Seconda guerra mondiale lo Stato italiano in embrione arrestò il separatista Andrea Finocchiaro Aprile, che vagheggiava l’indipendenza della Sicilia. È un accostamento che assimila tentazioni vissute nel Mezzogiorno come al Nord.

E colpisce una Lega già in difficoltà: contestata dai militanti per l’appiattimento sul governo; divisa sul dopo- Bossi; e senza una strategia per il futuro. Al punto che c’è da chiedersi quali effetti l’esternazione del capo dello Stato avrà sulla maggioranza. Il silenzio di Berlusconi dimostra tutto l’imbarazzo di Palazzo Chigi, che non può applaudire Napolitano senza rischiare la lite col Carroccio. E le reazioni infuriate e grevi che rimbalzano su Radio Padania e in qualche commento dei vertici leghisti contro il Quirinale confermano un partito con i nervi scoperti; e spiazzato dall’attacco diretto che un Napolitano all’apice della popolarità sferra su un tema popolare come l’unità d’Italia. Ma è altrettanto insidioso l’appello presidenziale ad una riforma del sistema elettorale. Si tratta del secondo tabù che il capo dello Stato rompe.

Consigliare una nuova legge perché l’attuale «ha interrotto un rapporto che esisteva fra elettore ed eletto», intercetta un’insoddisfazione diffusa. Dà ragione a quanti vedono deputati e senatori oggi di fatto designati dalle segreterie di partito e non scelti dagli elettori. «Non voglio idoleggiare sistemi elettorali del passato», si schermisce Napolitano, «ma solo dire che prima c’era un collegamento più diretto». Sembra un invito al Parlamento a rimediare, prima che a primavera si celebri un referendum promosso con una forte caratura antipolitica; e una implicita rivalutazione dei sistemi del passato, compreso quello delle preferenze, cancellato dal referendum del 1993 e demonizzato come un simbolo della Prima Repubblica. In una fase in cui anche la Seconda Repubblica mostra tutte le sue rughe, non ci sono più ricette esclusive.

Massimo Franco

01 ottobre 2011
da - http://www.corriere.it/politica/nota.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO Governo battuto sul rendiconto generale
Inserito da: Admin - Ottobre 12, 2011, 11:07:53 am
Governo battuto sul rendiconto generale

L'implosione

   
Il tonfo è stato imprevisto. Ma i contraccolpi a catena confermano che la situazione della maggioranza è compromessa da tempo. Le trincee scavate negli ultimi giorni da Silvio Berlusconi per resistere si sono polverizzate al primo colpo venuto, si badi bene, dall'interno del centrodestra e non dai suoi avversari. Adesso, niente intercettazioni e niente condono, annuncia la Lega: i due ganci ai quali il presidente del Consiglio si aggrappava per blindarsi e rilanciare sono dunque caduti. Non è detto che si vada alla crisi, nonostante la richiesta legittima delle opposizioni. Ma esiste il rischio concreto di una paralisi istituzionale.

Non sarà facile rimediare alla bocciatura in Parlamento della legge sul Rendiconto generale dello Stato. Il tentativo di riformularla e approvarla quanto prima dopo che ieri è stata respinta per un voto e per le assenze di ministri e parlamentari di Pdl e Carroccio, è disperato; e la tesi dell'incidente e non del complotto suona verosimile. Ma per paradosso questa è un'aggravante, non un'attenuante: significa che una crisi può «accadere» in ogni momento, e portare perfino al voto anticipato. Né Berlusconi, né Umberto Bossi hanno capito la posta in gioco; e comunque, non sono stati in grado di controllare le proprie truppe parlamentari. Non bastasse, un intoppo del genere non ha precedenti.

Si annuncia così un groviglio giuridico che risucchierà il centrodestra in un labirinto di norme, in apparenza senza uscita. Come minimo, il governo dovrà verificare se gode ancora della fiducia del Parlamento. Ed è stato sconfitto proprio nel momento in cui Berlusconi tenta di accreditare un Esecutivo solido, capace di arrivare al 2013: una coalizione senza alternative, continua a ripetere e a far dire agli alleati. Ma riletta sullo sfondo di quanto è successo, questa verità minaccia di essere un ulteriore handicap per un'Italia sorvegliata speciale dell'Europa e dei mercati finanziari. Il segnale trasmesso ieri è di precarietà e incertezza: l'habitat naturale degli attacchi speculativi, e un contributo a corrodere la credibilità residua della maggioranza.

È questo contesto sfilacciato a conferire all'incidente dimensioni destabilizzanti. La Lega che annuncia il «no» alla legge sulle intercettazioni e boccia il condono, smonta l'ottimismo d'ufficio del premier. Se anche si riuscirà a venire a capo del pasticcio creatosi col capitombolo parlamentare di ieri, cosa tutt'altro che sicura, rimane intatta la questione politica: una maggioranza inutilmente straripante di numeri. Il suo guaio continua ad essere quello di credere ad una realtà virtuale scissa dal logoramento, quasi dalla macerazione che la coalizione berlusconiana sta soffrendo. Ormai è evidente che la sua implosione è più rapida e devastante di qualunque complotto. Eppure, il premier si ostina pericolosamente a ignorarla.

Massimo Franco

12 ottobre 2011 09:10© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://www.corriere.it/editoriali/11_ottobre_12/l-implosione-massimo-franco_707d55e4-f492-11e0-a9a5-9e683f522ea7.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO Il tandem del Nord complica la strategia della sopravvivenza
Inserito da: Admin - Ottobre 12, 2011, 11:09:19 am
LA NOTA

Il tandem del Nord complica la strategia della sopravvivenza

Resistere: alla magistratura, agli alleati tentati dalla rottura, a Giulio Tremonti e perfino a Germania e Francia che tentano di mettere ai margini l’Italia. Il tono è di chi intima ai nemici, tanti ormai: noi siamo qui, e non cederemo di un millimetro. Silvio Berlusconi è intenzionato a perseguire una strategia del muro di gomma contro il quale dovrebbero rimbalzare tutte le manovre per farlo cadere. La decisione del Guardasigilli, Francesco Nitto Palma, di inviare ispettori alla Procura di Napoli per indagare sulle inchieste che riguardano il capo del governo, risponde alle sollecitazioni del Pdl.

Il fastidio col quale quello degli Esteri, Franco Frattini, reagisce al «direttorio di fatto» tra Germania e Francia, riflette la frustrazione di Palazzo Chigi di fronte a un’emarginazione rispetto alle scelte dell’Ue. E gli attacchi del capogruppo del Pdl alla Camera, Cicchitto, contro il ministro dell’Economia «Savonarola», confermano non tanto che Tremonti è a rischio, ma che il decreto sullo sviluppo è in alto mare. Il risultato è che il bunker del premier appare sempre più assediato; ma anche che la sua determinazione aumenta, alimentata dalla disperazione. Il centrodestra non sembra credere allo strappo di Giuseppe Pisanu, Claudio Scajola e la loro pattuglia parlamentare; e comunque ritiene di essere in grado di arginarlo, renderlo inoffensivo. Non teme neanche l’offensiva dei centristi di Pier Ferdinando Casini, che pongono come condizione per entrare nella maggioranza l’uscita di scena di Berlusconi: condizione «impraticabile », secondo il segretario del Pdl, Angelino Alfano. La conclusione, a sentire la cerchia del Cavaliere, è che si va avanti senza scosse fino al termine della legislatura. Ma tutti sanno che le scosse sono appena cominciate: nel partito di maggioranza e nella Lega. E una via d’uscita non c’è: comunque, non è quella indolore accarezzata a Palazzo Chigi.

I colloqui ostentati fra Umberto Bossi e Tremonti trasmettono plasticamente l’immagine di un ministro dell’Economia che si fa forte dei rapporti col Carroccio per frustrare i piani di crescita berlusconiani. È come se lo incontrasse per smontare con lui le ipotesi costruite a tavolino dal presidente del Consiglio. Non basta che il Pdl continui ad attaccare Tremonti. Il problema non sta nel rapporto pessimo fra lui e Berlusconi; il problema è come ufficializzare l’incompatibilità senza rompere con un Bossi peraltro incapace, ormai, di garantire la compattezza del suo stesso movimento. L’esito dell’incontro di ieri a Milano è stato un «no» sonoro all’ipotesi di un condono che il Pdl e Berlusconi vogliono, e Tremonti ostacola, tirando dalla propria parte il Senatur. Dire che il decreto sviluppo si può fare «a costo zero» significa l’ennesimo schiaffo a Palazzo Chigi. È questo «tandem del Nord» fra Bossi e Tremonti a rendere più evidenti la precarietà del centrodestra e della legislatura; e velleitaria la pretesa di andare avanti come se niente fosse. È un pantano nel quale il premier sa muoversi: blandendo i dissidenti; sondando le loro ambizioni; prendendo tempo. Nella sua visione, ogni giorno guadagnato dal governo è una piccola vittoria sugli avversari.

Ma in parallelo l’Unione europea tende a consolidare un asse Merkel-Sarkozy che sconta la perdita di peso dell’Italia. E soprattutto la espone ad altri attacchi finanziari speculativi. Casini pungola, senza crederci troppo, i vertici del Pdl. «Se Alfano non fa l’avvocato difensore di Berlusconi, ma guarda in faccia la realtà, vedrà disoccupati che aumentano, famiglie che non ce la fanno, mentre il governo rinvia il decreto sviluppo che ha promesso un mese fa. Questa paralisi », dice, «l’Italia non se la può permettere». Eppure la subisce, come conseguenza di una politica del giorno per giorno che si ostina al muro contro muro con la magistratura; e ripropone in extremis una legge per impedire la pubblicazione delle intercettazioni che riguardano la vita privata di Berlusconi. Senza una strategia, e probabilmente senza più la speranza di averne una, tranne quella di durare ancora un po’.

Massimo Franco

11 ottobre 2011

da - http://www.corriere.it/politica/nota.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO Limbo Insidioso
Inserito da: Admin - Ottobre 17, 2011, 05:14:58 pm
Il governo ottiene la fiducia alla Camera

Limbo Insidioso


La forza con la quale Silvio Berlusconi rivendica la vittoria parlamentare di ieri forse dipende anche dalla consapevolezza che non otterrà più la fiducia da una parte dei propri parlamentari. È comprensibile che il centrodestra voglia dare un'impressione di operosità, e c'è da sperare davvero che faccia qualcosa per tamponare la crisi economica. Ma l'infornata di incarichi sottoministeriali appena decisa da Palazzo Chigi appare il contrario di quanto serve all'Italia. Siamo entrati nella fase finale della legislatura. Adesso, la preoccupazione principale dovrebbe essere quella di limitare i danni.

Di qui all'inizio del 2012, quando è probabile l'apertura di una crisi e il Quirinale potrebbe essere costretto a sciogliere le Camere, si profila un limbo insidioso. Due mesi e mezzo sono nulla. Ma si rivelano un periodo lungo quando un Paese, già esposto ad una crisi finanziaria globale, è sovraesposto da un surplus di debolezza e incertezza nazionali. Non solo. L'aria di smobilitazione che viene dalla maggioranza e l'aggressività delle opposizioni lasciano prevedere settimane nelle quali sarà difficile parlare di unità e di sforzi comuni. Il lascito di una legislatura che sembrava dovesse essere trionfale per il centrodestra, si avvia così ad una conclusione sconcertante.

Il Pdl rischia di trasformarsi in un partito balcanizzato, quasi frantumato in gruppi di potere personale che cercano di capire quale sia la posizione più vantaggiosa da assumere in vista del dopo Berlusconi. La Lega vive il dramma del declino della leadership di Umberto Bossi. E offre per la prima volta l'immagine di un'oligarchia che marca il fondatore del Carroccio soprattutto per condizionare la lotta di successione. Non è nemmeno chiaro chi sarà, in caso di elezioni, il candidato a Palazzo Chigi. L'attuale presidente del Consiglio contribuisce a questa confusione, lasciando lievitare le voci sul suo ritiro, senza però ufficializzarlo.

Nel centrosinistra la confusione non è minore. L'unico comandamento condiviso, come al solito, è la determinazione a sloggiare Berlusconi: a costo di collezionare brutte figure. Anche ieri l'opposizione si è illusa che mancasse il numero legale, e il premier l'ha spuntata. Per il resto è divisa. Fautori e avversari di un «governo di transizione» si sono affrontati per settimane. L'ipotesi si è rivelata impossibile, come accade spesso quando finisce non un governo ma una stagione politica. E l'alternativa non ha un contorno chiaro. Fra cartello delle sinistre e offerte all'Udc, non si sa quale alleanza sfiderà il centrodestra; e dunque chi la guiderà.

Il vuoto e la confusione con i quali l'Italia sarà costretta a fare i conti fino a dicembre danno qualche brivido. C'è solo da sperare che si capisca quanto sia impopolare andare al voto col vecchio sistema elettorale, dopo la richiesta di cambiarlo per referendum, sottoscritta da oltre un milione di persone; e che si riconosca e si assecondi il ruolo di un Quirinale che finora è riuscito miracolosamente a schivare gli strattoni, mantenere un profilo imparziale e farsi rispettare da tutti. Probabilmente non basta, ma può essere un modo per evitare che nei prossimi mesi l'Italia si faccia del male, diventando un facile bersaglio internazionale.

Massimo Franco

15 ottobre 2011 09:24© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://www.corriere.it/editoriali/11_ottobre_15/limbo-insidioso-massimo-franco_80d4ce40-f6ea-11e0-9ce3-b3213c3a5a87.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO Comanda la paura
Inserito da: Admin - Ottobre 26, 2011, 04:40:33 pm
Comanda la paura

Iniziare il Consiglio dei ministri straordinario con oltre un'ora di ritardo vuole dire ufficializzare lo scontro tra Silvio Berlusconi e Umberto Bossi sulla riforma delle pensioni, chiesta dagli alleati europei. Ma significa anche mediare tra posizioni agli antipodi. In apparenza, l'esito di questo contrasto è inevitabile. Logica vorrebbe che si aprisse una crisi di governo: sarebbe la «discontinuità» che le opposizioni chiedono come condizione per appoggiare i provvedimenti invocati da Bruxelles; e che il caos nel centrodestra giustificherebbe da tempo.

Il corollario sarebbe un voto anticipato affrontato dalla Lega come se fosse una variante della secessione. Ma per quanto tentato da una rottura che potrebbe sfruttare in campagna elettorale, il Carroccio sembra diviso fra voglia di voltare pagina e paura dello strappo: due pulsioni parallele che sta vivendo da mesi. Per questo si tratta e si rinvia a oggi, affidando a Berlusconi il compito di parlare all'Europa. D'altronde, la polemica con gli alleati dell'Unione è un elemento che accomuna Bossi e Palazzo Chigi, seppure con toni diversi. Il comunicato col quale ieri il premier rifiuta «lezioni» e polemizza con le nazioni che «si autonominano commissari», è tardivo ma chiaro.

Si tratta di una risposta allo sgarbo plateale di Nicolas Sarkozy e di Angela Merkel domenica a Bruxelles. Tende a sottolineare soprattutto l'arroganza del capo di Stato francese, perché la Germania ha corretto la brutta impressione data in conferenza stampa con i sorrisi complici e irridenti per Berlusconi. L'Italia rifiuta, giustamente, di essere il capro espiatorio delle magagne europee. Ma non può neppure usare quanto è successo come alibi per nascondere le sue mancanze. Il catastrofismo che il centrodestra condanna è il sottoprodotto naturale delle pecche del governo.

Senza l'improvvisazione e le esitazioni di cui Berlusconi ha dato prova, l'Italia non si ritroverebbe in questa posizione sacrificale; e Sarkozy avrebbe qualche problema a fare la voce grossa. Quanto è avvenuto replica su un altro piano il « lapsus » col quale alcune settimane fa il presidente Usa, Barack Obama, non citò il governo di Roma fra i Paesi in prima linea per sconfiggere Gheddafi. Gaffe anche quella, ma soprattutto il segno di un isolamento e di un'irrilevanza crescenti dell'Italia: a dispetto delle lodi convinte che Berlusconi fa a se stesso.

È il costo di una strategia della sopravvivenza che il premier sta perseguendo con disperata ostinazione. Il prezzo è alto per l'Italia, ma anche per lui. La scommessa di riuscire a resistere il più a lungo possibile confida in una forza parlamentare numerica, ormai in bilico. E sottovaluta l'ostilità dei mercati finanziari. In una situazione del genere, durare diventa il contrario di governare. E crea le premesse non per un normale cambio di schieramento e di premier ma per una cacciata senza appello: una débâcle per Berlusconi e un'ipoteca sul futuro del centrodestra.

Massimo Franco

25 ottobre 2011 09:17© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://www.corriere.it/editoriali/11_ottobre_25/franco-consiglio-ministri_adc634e4-fec8-11e0-b55a-a662e85c9dff.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO Ultimo tentativo
Inserito da: Admin - Novembre 03, 2011, 05:44:30 pm
Ultimo tentativo

Difficile sottrarsi all’impressione che il governo abbia, se non i giorni, le settimane contate; e che la stessa legislatura finirà all’inizio del 2012. Il ridimensionamento degli orizzonti temporali del centrodestra ne è la prova. Ormai nessuno, nel Pdl, si azzarda più a sostenere che Silvio Berlusconi durerà molto. Realisticamente, ci si accontenta di arrivare a Natale per gestire le elezioni anticipate da Palazzo Chigi. Il problema è che ormai perfino la trincea natalizia appare troppo esposta: rischia di essere travolta dalla speculazione finanziaria.

La risposta continua ad essere una disperata difesa dello status quo. Ma sono soltanto il G20 di oggi a Cannes e la paura dei mercati a tenere in piedi la maggioranza. La sfilata di delegazioni di partito al Quirinale trasmette l’immagine di una situazione di pre crisi; e il rinvio ad oggi dell’incontro, chiesto da un Pdl impantanato sulle misure anti crisi, mostra un premier sospettoso per lo smarcamento scientifico del suo ministro dell’Economia, Giulio Tremonti; e ossessionato dal ruolo del Quirinale, di cui teme l’ostilità. Il risultato è che ieri sera il Consiglio dei ministri ha tardato a lungo prima di esaminare e approvare i provvedimenti pretesi dall’Europa e presentati al vertice di oggi.

I sondaggi informali che sta facendo il capo dello Stato cercano di diradare l’incertezza. E capire cosa succederebbe se cadesse Berlusconi. Il rifiuto del Cavaliere a farsi da parte risponde al calcolo di usare le misure anti crisi come grimaldello per ottenere l’ennesimo «sì». Il nomadismo parlamentare di alcune schegge berlusconiane, però, fa capire che il suo blocco di voti comincia ad erodersi. Angelino Alfano, segretario del Pdl, teme di perdere deputati. Sa che, se l’operazione riesce, toglierebbe a Berlusconi l’ultimo alibi: quello di numeri parlamentari blindati.

L’incubo del Cavaliere è la nascita di un altro governo. Pier Ferdinando Casini, leader dell’Udc, ieri ha spiegato di non avere fatto a Napolitano nomi di candidati a Palazzo Chigi, perché «non erano consultazioni formali». Ma la precisazione fa pensare che il momento della crisi si sta avvicinando. Gli avversari si rifiutano di aiutare il centrodestra, a meno che Berlusconi non si dimetta. Riproporre la strategia della sopravvivenza finisce così per evidenziare la pericolosità dello stallo, su uno sfondo che i mercati hanno cambiato drammaticamente.

Di questo immobilismo Umberto Bossi, con le sue pernacchie e il dito medio alzato, è una metafora perfetta. Al di là della volgarità crescente delle sue reazioni, è l’emblema di un centrodestra consapevole che la parabola berlusconiana si sta concludendo; ma, nonostante questo, incline alla stizza quando è chiamato a guardare in faccia il vuoto di governo che da tempo Pdl e Lega riflettono. Eppure, prima lo affrontano e ne traggono le conseguenze, prima metteranno la loro alleanza al riparo da un giudizio negativo inevitabile.

Massimo Franco

03 novembre 2011 07:31© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://www.corriere.it/editoriali/11_novembre_03/franco-ultimo-tentativo-editoriale_3d9cc004-05e2-11e1-a74a-dac8530a33df.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO Le barricate del premier rischiano l'urto dei mercati finanziari
Inserito da: Admin - Novembre 07, 2011, 05:47:07 pm
La Nota

Le barricate del premier rischiano l'urto dei mercati finanziari

Berlusconi: la maggioranza c'è E Alfano nega la possibilità di dimissioni

Non sembra che la manifestazione del Pd in piazza San Giovanni, a Roma, abbia inciso molto sui programmi di Silvio Berlusconi. Nelle file del centrosinistra ieri si avvertiva un filo di euforia, legato alla sensazione che il governo sia vicino alla caduta. Ma il presidente del Consiglio e la sua cerchia hanno l'aria di chi non si considera a fine corsa; e sfidano il Parlamento a sfiduciarli sul Rendiconto dello Stato e poi sulle misure anticrisi chieste dall'Ue. «Mi dispiace deludere i nostalgici della Prima Repubblica», fa sapere Berlusconi. «La maggioranza c'è».

Massimo D'Alema continua a dire che la maggioranza del Parlamento ormai è contro il premier. Ma senza una certificazione affidata al voto, è una verità virtuale; e Berlusconi sta facendo di tutto perché rimanga tale. Si conferma quanto è chiaro da tempo: il capo del governo andrà via solo se sarà battuto. Non ci sarà passo indietro spontaneo ma solo una resistenza ostinata. Il solo obiettivo è dimostrare che o resta lui o si va alle elezioni anticipate. Il riferimento alla Prima Repubblica dove i governi «duravano 11 mesi» è già da campagna elettorale.

Lo è altrettanto l'evocazione di un'alleanza con l'Udc in nome degli impegni europei. Il Pdl sa che Pier Ferdinando Casini non vuole né può accettare un'intesa con Berlusconi: tanto più ora che ne segue da vicino il tramonto. È consapevole anche dell'impossibilità di convincerlo proponendogli una riforma del sistema elettorale in senso proporzionale, caro all'Udc. Ma palazzo Chigi vuole dare l'impressione di avere le carte; e di essere pronto a combattere fino all'ultimo prima di gettare la spugna: ritengono di avere tutto da perdere.
E poi, se anche Casini accettasse, c'è la Lega pronta a dichiarare che qualunque governo diverso dall'attuale e dall'asse fra il Pdl e il Carroccio sarebbe «un colpo di Stato»: urne a parte. «Non si pone alcun problema di dimissioni», conferma il segretario del Pdl, Angelino Alfano. Il segretario pdl annuncia che è stata esaminata «la situazione politica e parlamentare, con particolare riferimento al voto di martedì sul Rendiconto». La parola d'ordine è di ignorare quelle che il premier chiama «chiacchiere e pettegolezzi»; e tentare il recupero di almeno una parte dei parlamentari transfughi, per uscire dall'incertezza.

Ma Roberto Formigoni sostiene che con 316 voti non si può governare. E suggerisce a Berlusconi di lasciare, per non mettere in pericolo i decreti economici. Per il governatore della Lombardia, devono prevalere gli impegni presi con l'Europa e con il Fmi. Formigoni afferma una verità ovvia ma dirompente, in una fase così tesa: il Pdl può sopravvivere a Berlusconi. Per ora, però, le sue tesi appaiono a dir poco eterodosse. Eppure, se domani alla riapertura dei mercati non si fermerà l'offensiva della speculazione finanziaria, tutte le barriere preparate dal centrodestra rischiano di essere travolte.

Massimo Franco

06 novembre 2011
da - http://www.corriere.it/politica/nota/11_novembre_06/nota_04202cc2-0852-11e1-8af3-7422a022c6dd.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO Il premier resiste ma si avverte un clima da ultima spiaggia
Inserito da: Admin - Novembre 07, 2011, 11:07:51 pm
LA NOTA

Il premier resiste ma si avverte un clima da ultima spiaggia

Fra assedio internazionale e incertezza sul voto a Montecitorio


Non si capisce se sia più pericoloso l’assedio interno o quello internazionale. Il «monitoraggio » del Fmi ufficializza il commissariamento di fatto del governo di Silvio Berlusconi: anche se il premier smentisce questa lettura. E la «mancanza di credibilità» indicata dal presidente, Christine Lagarde, come il problema che Roma deve risolvere, non lascia margini di ambiguità. Lo stesso capo dello Stato, Giorgio Napolitano, ammette «pregiudizi e calcoli insidiosi » dell’Europa nei nostri confronti; ma riconoscendo che vanno attribuiti anche a una «scarsa affidabilità e determinazione » quando si tratta di mettere in pratica le misure anticrisi. E «guai», ammonisce Napolitano, «rispondere con ritorsioni polemiche e animosità». Mai come in questa fase l’Italia non se lo può permettere.

Ma per il presidente del Consiglio il vero fronte da presidiare è quello della propria maggioranza. Il suo assillo sono i numeri parlamentari. Il resto, a cominciare dall’accerchiamento europeo, nella sua ottica sembra passare in secondo piano. Se Berlusconi ha i voti per andare avanti, farà di tutto per non gettare la spugna almeno fino a dicembre; e poi punterà sulle elezioni anticipate. Quando ieri a Cannes, nella conferenza finale del G20, è stato chiesto al ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, se ritenesse necessario un passo indietro del premier, si è assistito a un episodio rivelatore: la finzione obbligata di un’intesa. Il capo del governo, che gli sedeva accanto, è intervenuto quasi per impedire a Tremonti una replica imbarazzante.

«Sono domande con risposta certa. Sentiamola», ha detto Berlusconi. E il ministro: «Dopo quello che ha detto il presidente non credo ci sia altro da aggiungere». Ma la tensione era vistosa. E a Roma si capta un clima da ultima spiaggia, peggiorato da alcune frasi in libertà di Berlusconi, tese a minimizzare la crisi economica. I voti in Parlamento ballano pericolosamente. Nella residenza privata di palazzo Grazioli, ieri sera il Cavaliere si è immerso in una lunga riunione col segretario del Pdl, Angelino Alfano, il coordinatore Verdini e il sottosegretario Gianni Letta. E insieme hanno cercato di capire se sia davvero finita, oppure se martedì, alla Camera, il centrodestra si salverà.

Non è da escludersi. Ma se l’eventuale promozione del Parlamento fosse preceduta lunedì da un’altra, drammatica bocciatura dei mercati finanziari, tutto sarebbe più complicato: l’accerchiamento internazionale diventerebbe insostenibile. D’altronde, le voci che rimbalzano da Cannes parlano di una Germania e di una Casa Bianca convinte di avere individuato in Berlusconi uno dei bersagli principali dell’offensiva speculativa contro la moneta unica europea. Non è detto che le cose stiano davvero così. Il presidente del Consiglio italiano potrebbe essere il capro espiatorio di una situazione fuori controllo. La sfiducia degli alleati, però, tanto più se alimentata dalle perdite della Borsa e da uno spread di 463 punti fra titoli di Stato italiani e tedeschi, può rivelarsi schiacciante.

Anche perché si inserisce in un clima di sospetti che avvelena la maggioranza berlusconiana. Non si tratta soltanto della defezione di alcuni deputati e degli avvertimenti e i dubbi di altri. Ormai tutti sospettano di tutti. E anche chi appare deciso a sostenere il premier fino all’ultimo è guardato con diffidenza. In un governo alla deriva cresce la tentazione di trovare dei colpevoli per spiegare una situazione dominata da un incombente presagio di sconfitta. «C’è qualcuno che lavora sotto, che lavora contro, all’interno del governo. Qualcuno che fa il guastatore », avverte con fare misterioso e minaccioso il ministro leghista Roberto Calderoli. È la sindrome del cannibalismo tipica delle fasi finali di un governo e di una stagione politica. Ma quelli che affiorano sono solo i primi sintomi: il peggio, probabilmente, deve ancora venire.

Massimo Franco

05 novembre 2011
da - http://www.corriere.it/politica/nota/11_novembre_05/nota_f0391d12-0771-11e1-8b90-2b9023f4624f.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO La caduta del premier accelera la diaspora del centrodestra
Inserito da: Admin - Novembre 11, 2011, 04:45:44 pm
LA NOTA

La caduta del premier accelera la diaspora del centrodestra

La scomposizione del centrodestra rischia di cominciare prima ancora che Silvio Berlusconi formalizzi le proprie dimissioni da presidente del Consiglio: a conferma che è stato il perno della maggioranza che ha guidato l’Italia in questi anni, ma non sembra più percepito come tale. La Lega sta viaggiando verso l’opposizione, seppure con qualche dubbio dovuto ad una compattezza più di facciata che reale. E il Pdl si mostra più diviso di quanto si pensasse nei confronti dell’ipotesi del governo di Mario Monti. La scelta di rinviare a domani la decisione finale dimostra quanto gli equilibri interni siano in bilico, senza che il premier uscente riesca a controllarli. Dopo le prime defezioni dal partito, il rosario di minacce di che investono Berlusconi dimostra che le spinte centrifughe si stanno moltiplicando. Sia nel caso in cui, come sembra, decida di appoggiare una coalizione d’emergenza economica, sia qualora optasse per l’appoggio esterno o addirittura per un candidato del Pdl, il presidente del Consiglio uscente rischia di ritrovarsi con un partito lacerato. Il segretario, Angelino Alfano, fa capire che nulla è scontato. Eppure, la sensazione è che il progetto di un governo anticrisi economica alla fine si realizzerà. L’esitazione fotografa piuttosto la difficoltà sia di Berlusconi, sia del suo plenipotenziario a convincere i parlamentari a rimettersi alle decisioni di Giorgio Napolitano. L’operazione, per ora, rimane come in sospeso.

D’altronde, non è facile chiedere alle proprie truppe di cambiare di colpo direzione dopo avere dichiarato fino a tre giorni fa che una volta perfezionate le dimissioni la strada maestra erano le elezioni. Meglio: forse avrebbe potuto imporlo il presidente del Consiglio del 2008 o del 2009; ma il Berlusconi di adesso è l’ombra del leader di allora. La polemica contro il «governo dei tecnocrati» è comunque insidiosa: tocca nervi sensibili nel centrodestra. Evoca la fine del bipolarismo, i mitici «poteri forti» e il commissariamento finanziario dell’Italia. In breve, solletica tutti gli umori antieuropei e contro la moneta unica che in questi anni hanno continuato a sonnecchiare in una parte della maggioranza, Lega in testa; e che la crisi economica e il profilo del professor Monti possono trasformare in elemento di propaganda elettorale. L’invito di Berlusconi ad anteporre «gli interessi dell’Italia» fatica a fare breccia in tutto il centrodestra. I sostenitori più convinti di Monti, come Pier Ferdinando Casini, leader dell’Udc, avvertono che l’ex commissario europeo rappresenta l’unica àncora di salvezza. «Non rappresenta l'abdicazione della politica, ma l'ultima occasione di salvare se stessa e di non essere marcata di infamia ». Il baratro finanziario viene additato come una prospettiva tuttora concreta e vicina, da scongiurare ad ogni costo. Il punto interrogativo è se esista la consapevolezza del pericolo; e se Berlusconi, che adesso sembra averlo capito, sia in grado di trasmettere l’ allarme ad un Pdl in allontanamento progressivo dalla sua orbita.

Massimo Franco

11 novembre 2011
da - http://www.corriere.it/politica/nota/11_novembre_11/nota_6bae34d8-0c2b-11e1-bdbd-5a54de000101.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO Scherzare col fuoco
Inserito da: Admin - Novembre 12, 2011, 12:16:42 pm
Scherzare col fuoco

Le convulsioni del centrodestra di fronte all'ipotesi del governo di Mario Monti segnalano un pericolo: che una maggioranza divisa sia tentata di scaricare sul Paese i propri contrasti interni. Gli incontri senza soluzione di continuità a Palazzo Grazioli e la spola di Umberto Bossi fra il proprio partito e la residenza di Silvio Berlusconi sottolineano la vera questione: i rapporti fra Pdl e Lega. La resistenza del Carroccio ad accettare la candidatura che il capo dello Stato, Giorgio Napolitano, ha in animo di proporre, sembra dettata da ragioni tutte «lumbard».


Per una forza disorientata, il passaggio all'opposizione può apparire la scorciatoia più comoda per ricompattarsi. L'irrigidimento notato ieri nel premier nasce probabilmente dalla preoccupazione che si spezzi un'alleanza ferrea; e che una rottura a livello nazionale provochi un «effetto domino» nelle giunte del Nord dove Pdl e Carroccio governano insieme. La fioritura di possibili alternative a quella dell'ex commissario europeo nasce dalla difficoltà di convincere i vertici leghisti a entrare nella «maggioranza di emergenza economica» progettata dal Quirinale: una soluzione obbligata ma finora incapace di ottenere il «sì» preventivo di tutti.


È vero che lo stesso Antonio Di Pietro, inizialmente a favore del voto anticipato, sta assumendo un atteggiamento più responsabile: forse anche perché i militanti dell'Idv lo hanno costretto a ripensarci; e questo toglie un argomento al «no» della Lega. Ma certamente si capta un filo di incertezza in più sull'epilogo della crisi. D'altronde, lo scenario ha subito un'accelerazione così traumatica, dopo le ripetute bocciature di Berlusconi da parte dei mercati, da resuscitare antiche ostilità contro un «governo di tecnocrati»; e resistenze aperte o larvate, a destra come a sinistra, verso una soluzione data per scontata ma vissuta come una costrizione difficile da accettare a scatola chiusa.


Per paradosso, la pressione degli altri governi continentali, attestata dai contatti avuti ieri da Napolitano e dalla visita a Roma del presidente del Consiglio dell'Ue, Herman Van Rompuy, suscita reazioni contraddittorie. Conferma la spinta internazionale a decidere in fretta; e sottolinea l'urgenza di offrire lunedì, all'apertura delle Borse, l'immagine di un Monti già designato premier: il garante della credibilità degli impegni presi e di quelli che dovranno seguire. Ma il protagonismo europeo rischia di essere percepito come una forzatura che umilia il sistema politico. E l'uscita fuori luogo fatta ieri da Sarkozy può alimentare questi dubbi.


In realtà, non esiste alternativa a un'assunzione collettiva di responsabilità. Pensare che dopo le dimissioni di Berlusconi, previste per oggi, l'Italia possa permettersi di sprecare altro tempo significherebbe immolarsi sull'altare della speculazione finanziaria; e in modo irreversibile. Anche l'appello delle parti sociali va in questa direzione. Ma occorrerà un supplemento di persuasione e di chiarezza per convincere un Paese e un Parlamento lacerati troppo a lungo, alla conclusione che non esistono margini per rinviare. Illudersi del contrario significa fare il gioco di chi scommette sul crollo dell'Italia e della moneta unica.

Massimo Franco

12 novembre 2011 08:02© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/11_novembre_12/franco-scherzare-col-fuoco_64bef280-0cf7-11e1-a42a-1562b6741916.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO Berlusconi annuncia le dimissioni
Inserito da: Admin - Novembre 13, 2011, 10:55:56 am
Berlusconi annuncia le dimissioni

I perché di una svolta

Silvio Berlusconi si dimette, seppure al rallentatore. La promessa fatta ieri pomeriggio al presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, è la presa d'atto della sconfitta parlamentare subita dal centrodestra. Rinvia il momento in cui lascerà Palazzo Chigi solo perché vuole farsi da parte dopo l'approvazione della legge di stabilità con le misure chieste dall'Europa. È un gesto di responsabilità apprezzabile: anche se potrebbe inserire un margine di ambiguità temporale, dirimente per un Paese esposto da mesi alla speculazione finanziaria. La lettera arrivata ieri dall'Ue, con la richiesta di un'ulteriore manovra di qui a pochi mesi, è tutt'altro che rassicurante.

Si profilano un paio di settimane che minacciano di trasformarsi in una via crucis : soprattutto se il governo desse l'impressione non di accelerare, ma di ritardare le sue decisioni finali. Ritenere che il risultato di ieri alla Camera sul Rendiconto dello Stato non cambi il ruolino di marcia della coalizione rivelerebbe, come minimo, scarso senso della realtà; come massimo, una spiccata indifferenza per le sorti del nostro Paese, con lo spread fra titoli italiani e tedeschi sulla soglia proibitiva dei 500 punti. Non vedere che questo esecutivo è ben oltre il capolinea, significherebbe galleggiare su macerie e detriti destinati presto a inghiottire tutto.

Meglio concordare rapidamente una serie di provvedimenti da sottoporre anche all'opposizione; e dare un segnale di condivisione che plachi almeno per un po' gli speculatori. È l'unico tentativo serio per recuperare credibilità agli occhi di quel «partito internazionale» che, piaccia o no, «vota»; e detta non solo i tempi ma pure i costi crescenti di una crisi nutrita dal vuoto e dall'immobilismo del potere politico. Fra l'altro, servirebbe anche a zittire i portavoce della Commissione europea che si permettono giudizi liquidatori sulle prospettive dell'Italia, come quelli espressi ieri da Olli Rehn a Bruxelles: a conferma che Berlusconi ormai è trattato come un comodo capro espiatorio.

D'altronde, sebbene sul piano formale il premier non sia tenuto alle dimissioni, le spinte a darle si sono moltiplicate. Gliene è arrivata una perfino dal super alleato Umberto Bossi, specchio di una Lega logorata, che gli ha suggerito «un passo di lato». La tentazione di tirarla per le lunghe e rendere inevitabile lo scioglimento delle Camere è, teoricamente, possibile. Ma sarebbe un gioco a dir poco discutibile, che incrinerebbe il rapporto istituzionalmente corretto con il Quirinale. La volontà dichiarata di Napolitano di procedere a consultazioni dopo l'apertura della crisi di governo indica l'intenzione di non rinunciare a salvare la legislatura: sebbene sia forte l'impressione che i margini si stiano restringendo, corrosi dalle rughe del berlusconismo al tramonto ma anche dall'impotenza dei suoi avversari.

Massimo Franco

09 novembre 2011 07:57© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/11_novembre_09/i-perche-di-una-svolta-massimo-franco_1484374e-0a9f-11e1-8371-eb51678ca784.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO I paletti del Pdl dilatano la sensazione di un sì obbligato
Inserito da: Admin - Novembre 13, 2011, 05:28:19 pm
La Nota

I paletti del Pdl dilatano la sensazione di un sì obbligato

L'inutile pressione dell'ex premier per far entrare la Lega

La pioggia di condizioni che Silvio Berlusconi e il suo Pdl stanno ponendo al governo di Mario Monti sottolinea le dimensioni della sconfitta che il centrodestra sta subendo; e il tentativo di renderla meno amara. Ma fanno capire in parallelo quanto sarà impervio il percorso che da questa sera, quando Giorgio Napolitano gli conferirà l'incarico, l'ex commissario europeo dovrà affrontare.

Come era prevedibile, il «sì» ad un esecutivo «tecnico», imposto dai mercati finanziari e dalla Bce, avviene fra mille riserve. E il fatto che Berlusconi rassicuri i suoi di poterlo mandare in crisi «quando vogliamo», proietta sul tentativo l'ombra delle elezioni anticipate.

È possibile che l'accenno al voto sia stato fatto per ottenere più facilmente il placet sofferto e obbligato del suo partito; e per potersi presentare a Giorgio Napolitano, al quale ieri sera ha rassegnato le dimissioni, con il supporto unanime di un Pdl che negli ultimi giorni è apparso invece diviso e nervoso. L'ipotesi di uno scioglimento delle Camere nel 2012 rimane anche l'unico canale di collegamento con una Lega sulla quale Berlusconi ha tentato un'inutile pressione. Sperava infatti che Umberto Bossi accettasse di sostenere il governo Monti insieme con lui. Il passaggio quasi certo del Carroccio all'opposizione spezza invece un sodalizio che durava dal 2001. E complica il futuro del centrodestra.

Si attribuiscono a Bossi parole deluse nei confronti del Cavaliere, accusato di avere «tradito» l'alleato e di avere «le mani legate» dal Quirinale e dall'Europa. E l'insistenza sulla necessità di andare alle urne quanto prima si unisce ad una polemica sempre meno strisciante contro l'«Europa dei banchieri», «l'inganno della moneta unica» e l'esigenza di ridare la parola al popolo. Si tratta di una scelta che, nelle intenzioni di Bossi, è destinata a riportare concordia in una Lega lacerata e scottata dalla sconfitta delle amministrative di maggio. Ma anche a trincerarla, solitaria, nei confini e nell'ideologia della «Padania».

Non è facile dire adesso se questo significherà che alle prossime politiche il partito di Bossi e quello di Berlusconi andranno di nuovo insieme. L'impressione è che la fine dell'esperienza governativa dell'ex premier sia destinata ad aprire un periodo di grandi rimescolamenti: nei partiti, negli schieramenti e al loro interno. Se è vero che il berlusconismo ha plasmato maggioranza e opposizioni, e che ieri è finito non un governo ma un sistema, gli equilibri ne risulteranno terremotati. L'idea di non escludere elezioni anticipate nella prossima primavera sembra un modo per aggrapparsi alla speranza che ci sia stata solo una battuta d'arresto, dalla quale riprendersi presto. Ma il futuro appare incerto. Sembra che fra le garanzie che il Pdl chiede a Monti ci sia quella di impedire la candidatura sua e dei suoi ministri in caso di voto.

Ma un simile impegno è complicato da garantire. E tradisce il timore che nei prossimi mesi la compagine dei «tecnici» si rafforzi: magari tranquillizzando, come si spera, i mercati finanziari e portando l'Italia fuori dalla zona rischiosa nella quale si trova oggi. Non sono bastate le due ore di colazione fra Monti, Berlusconi, Gianni Letta e Angelino Alfano a cancellare le diffidenze del Pdl verso un'operazione ritenuta anomala; e, in prospettiva, potenzialmente ostile. Il trionfalismo del centrosinistra e le contestazioni nelle strade di Roma e nella piazza del Quirinale (Berlusconi l'ha dovuto lasciare da un'uscita secondaria) alimentano questi timori. Eppure, accettando il passo indietro e portando tutto il partito sulle sue posizioni, l'ormai ex premier ha mostrato di saper fare i conti con la nuova realtà; o almeno con i rapporti di forza internazionali.

Massimo Franco

13 novembre 2011

da - http://www.corriere.it/politica/nota/11_novembre_13/la-nota-massimo-franco_de817f26-0dd7-11e1-a3df-26025bf830b6.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO La disponibilità della Cei arriva dopo un’offensiva contro ...
Inserito da: Admin - Dicembre 10, 2011, 10:33:29 am
LA NOTA

Un gesto che svelenisce i rapporti con il governo e con la Commissione Ue

La disponibilità della Cei arriva dopo un’offensiva contro le esenzioni

Il primo indizio è stato offerto dal ministro per la Cooperazione e l’integrazione, Andrea Riccardi. Ieri mattina, il fondatore della comunità cattolica di Sant’Egidio ha suggerito alla chiesa italiana di pagare l’Imu, la nuova Ici, per alcune attività commerciali oggi esentate da questa imposta. Qualche ora dopo, a Bruxelles, dove si trovava per il vertice europeo, il presidente del Consiglio Mario Monti ha risposto a chi chiedeva chiarimenti: «Sull’Ici per gli immobili della Chiesa non abbiamo ancora deciso niente. E mi fermo qui». Ma poi ha aggiunto. «Sono anche a conoscenza di una procedura Ue sugli aiuti di Stato». Il fatto che quasi in tempo reale il cardinale Angelo Bagnasco abbia annunciato la disponibilità della Cei a discutere di Ici, non può essere casuale: anche perché è arrivata dopo giorni di rocciosa difesa delle ragioni ecclesiastiche.

La sensazione è che la radice di questo cambio di linea da parte dei vescovi vada cercata fuori dai confini italiani: probabilmente in quell’inciso del premier sulla «procedura » europea in atto. E forse anche in una triangolazione con la Segreteria di Stato vaticana, attenta fin dall’inizio alle implicazioni che la questione poteva avere in un momento di crisi economica e di manovra finanziaria durissima per tutti. Non è difficile immaginare che ai piani alti di Palazzo Chigi, della Santa Sede e della Cei se ne discutesse da giorni. C’è da scommettere che Monti non avrebbe mai assunto un’iniziativa contro la Chiesa. Ma probabilmente ci si attendeva e ci si augurava un gesto di disponibilità delle gerarchie cattoliche: gesto che alla fine è arrivato, ridimensionando il problema e depurandolo degli aspetti più strumentali.

Anche perché, e qui la questione rimbalza in Europa, la Commissione Ue è stata chiamata dai Radicali, avversari giurati del Vaticano, a decidere sulla legittimità degli aiuti dello Stato italiano alla chiesa cattolica e alle altre che operano nel nostro Paese. E, se non deciderà entro la prima metà del 2012, la prospettiva concreta è che la questione approdi alla Corte europea di giustizia. Con un rischio: che in caso di condanna l’Italia sia obbligata a dare all’Europa l’importo delle esenzioni dall’Ici; e non solo per il presente ma anche per il passato. Come conseguenza, si aprirebbe un contenzioso costoso e imbarazzante, perché lo Stato italiano probabilmente sarebbe obbligato a chiedere il risarcimento alle gerarchie ecclesiastiche.

Certamente, quando Bagnasco dichiara che «non ci sono pregiudiziali da parte nostra per poter fare qualche precisazione nelle sedi opportune», non scongiura del tutto il pericolo; ma apre uno spiraglio concreto. Allenta la pressione della stampa anche straniera e degli avversari contro i privilegi, veri e presunti, della chiesa italiana. E consente al governo Monti di affrontare il problema con maggiore calma, evitando inutili tensioni fra Stato e Chiesa. Bagnasco ha anticipato che «laddove si verificasse qualche inadempienza, si auspica che ci sia l’accertamento e la conseguente sanzione, come è giusto per tutti ». Il ministro Riccardi aveva in qualche misura anticipato questa impostazione. «Sulle attività commerciali gestite da chiesa, religiosi, associazioni cattoliche», aveva detto, «si vigili per vedere se l’imposta è stata pagata. E se c’è stata malafede si prendano le misure necessarie».

Naturalmente, l’esenzione rimarrebbe per tutte le iniziative benefiche che rappresentano il grosso delle attività del mondo cattolico. Rimane una domanda, alla quale per ora è difficile rispondere. E cioè come mai la disponibilità della Cei non sia arrivata prima: magari una settimana fa, quando la manovra finanziaria non era stata approvata. Sarebbe stato un gesto ancora più forte, apprezzabile e apprezzato dall’opinione pubblica. Ieri il Sir, il Servizio di informazione religiosa, vicino alla Cei, difendeva la tesi secondo la quale la Chiesa «non gode di nessun privilegio»; e invitava a «non buttarla in politica e a non sollevare polveroni». Adesso, il rischio è che la mossa coraggiosa del cardinale Bagnasco appaia obbligata da un’offensiva esterna sempre più rumorosa e ostile; e che non chiuda del tutto una campagna della quale, certamente, sono vistosi gli intenti politici: ma forse non solo quelli.

Massimo Franco

10 dicembre 2011 | 8:29© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/nota.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO Si conferma l’asse con Napolitano, ma anche i dubbi dei partiti
Inserito da: Admin - Gennaio 21, 2012, 12:14:27 pm
LA NOTA

Si conferma l’asse con Napolitano, ma anche i dubbi dei partiti

Il capo del governo rivendica le «tasse occulte» e spera nella Ue

Mario Monti teorizza sul settimanale inglese Economist che gli italiani avevano «un bisogno nascosto di un governo noioso che provasse a dire loro la verità non in politichese ». La conferenza stampa organizzata ieri pomeriggio, dopo otto ore di Consiglio dei ministri, ha provato a mettere in pratica il principio: sia in fatto di noia che di verità. Il risultato è un progetto di liberalizzazioni definito dal premier «una grande azione sociale»: soprattutto perché cancellerebbe «le tasse occulte» che dipendono da «prezzi e tariffe imposti da chi ha posizioni di privilegio ». Monti lo presenta come «un pacchetto corposo e incisivo », facendo propri gli aggettivi usati ieri pomeriggio da Giorgio Napolitano.

Il suo omaggio al presidente della Repubblica conferma una volta di più che la regia politica del governo sta al Quirinale. Il presidente del Consiglio vuole disarmare quanti accusano Palazzo Chigi di colpire «i poteri deboli»; e rivendica orgogliosamente di avere intaccato le rendite dei «poteri forti». Ma sulle farmacie i progetti iniziali di liberalizzazione sono stati ridimensionati. Sui taxi è stata mantenuta invece l’impostazione annunciata, come sui benzinai, gli avvocati e i notai; e l’annuncio di scioperi è stato immediato. Si tratta di misure «strutturali », insiste Monti con un’attenzione evidente alle possibili reazioni dei mercati e dell’Europa: vuole far capire che incideranno in profondità.

Cauto, perfino guardingo commenta il «piacevole declino dello spread», la differenza fra titoli di Stato italiani e tedeschi, con l’aria di chi non vuole però farsi eccessive illusioni: la lezione del recente passato gli ha insegnato quanto siano volatili gli umori finanziari. Ma comincia a convincersi che i provvedimenti del suo governo possano essere apprezzati dalle cancellerie occidentali; e comunque siano destinati a dare prospettive alle nuove generazioni. Non che si aspetti applausi generalizzati, anzi: mette nel conto «tensioni e incomprensioni» che infatti già emergono. Ma non crede nemmeno che la sua popolarità sia destinata a crollare.

E comunque, meglio essere impopolari prendendo decisioni «utili», afferma. I partiti accolgono l’esito del Cdm con applausi tiepidi. L’Udc difende Monti, il Pd di Pier Luigi Bersani sostiene che si poteva fare «meglio e di più». E l’ex premier Silvio Berlusconi, scettico, consegna il suo giudizio in mattinata. La cura Monti «non ha dato alcun frutto». E ora «aspettiamo di essere richiamati» al governo. Berlusconi aggiunge di non volere una crisi «se non c’è un’alternativa». Ma le sue parole non rafforzano il presidente del Consiglio agli occhi di chi sospetta che i partiti possano riprendersi Palazzo Chigi in ogni momento. Non bastasse, Mediaset attacca la decisione di sospendere per 90 giorni l’assegnazione delle frequenze tv. Monti assicura a Otto e mezzo che nei suoi incontri con l’ex premier non registra questo pessimismo. Per chi ha come traguardo il 2013, però, il viatico è gonfio di riserve.

Massimo Franco

21 gennaio 2012 | 9:10© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/nota/12_gennaio_21/la-nota-massimo-franco_e477955a-43f6-11e1-8141-fee37ca7fb8c.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO L’ipoteca degli elettori
Inserito da: Admin - Febbraio 08, 2012, 12:00:19 pm
L’ipoteca degli elettori

Probabilmente è un passo avanti dettato dall’istinto di sopravvivenza. Cambiare legge elettorale, o almeno tentare di farlo, sembra l’atto d’omaggio obbligato che i partiti offrono ai nuovi tempi: quelli dell’indignazione o, peggio, della stanchezza dell’opinione pubblica. Si tratta di un gesto di realismo per evitare il tracollo di un sistema che sfiora pericolosamente il capolinea. Il problema è capire se le forze politiche ritengano di salvarsi lasciando le cose come stanno, dopo aver finto una riforma; oppure se davvero stiano prendendo coscienza dell’esigenza di un cambiamento netto.

In sé, il fatto che dopo anni di rissa Pdl e Pd accettino di discuterne insieme è un progresso: se non altro sul piano del metodo. E per paradosso, l’ostilità della Lega e la diffidenza dell’Idv sugli «incontri da sottoscala » finiscono per dare più credibilità all’operazione. Non solo. Il pungolo del Quirinale offre a chi la vuole vedere l’opportunità di cambiare registro; di prendere atto che una fase si è conclusa e che è consigliabile presentarsi con categorie mentali meno datate, dopo il finale inglorioso della Seconda Repubblica. È difficile non scorgere una somiglianza tra anni Novanta e 2012, anche in termini di sistema elettorale.

Allora, i referendum provocarono e insieme rivelarono lo smottamento della geografia politica italiana. Adesso, il governo dei tecnici presieduto da Mario Monti riflette un’altra crisi di legittimità, stavolta dettata dall’emergenza finanziaria. E nei sedici mesi che ci separano dalla fine della legislatura si annida l’esigenza di restituire uno straccio di credibilità alla nomenklatura politica: anche permettendo agli elettori di scegliere i propri candidati senza vederseli imposti dall’alto. Ma non ci sono referendum, bocciati dalla Corte costituzionale. E nessuno è in grado di prevedere la fisionomia del futuro sistema elettorale.

È difficile pensare che il Pdl possa abbozzare un’intesa col Pd, e il partito di Pier Luigi Bersani con quello berlusconiano, a pochi mesi da un turno di elezioni amministrative. La Lega che ironizza sulle «chiacchiere in libertà» e chiede prima una riduzione del numero dei parlamentari è l’avanguardia di chi non vuole la riforma elettorale, e avverte Silvio Berlusconi. E le parole d’ordine del centrosinistra, che invita a «non escludere nessuno» e a «mantenere il bipolarismo », potrebbero rivelarsi cortine fumogene che nascondono interessi divergenti.

L’impressione è che solo a primavera, a urne chiuse, si comincerà a capire quale direzione prenderà la discussione appena cominciata; e quali alleanze i partiti immaginano alla fine della parentesi del governo Monti: parentesi più dinamica e traumatica di quanto alcuni pensino. Il ritorno agli schieramenti del 2008 appare inverosimile. Altrettanto improbabile è una riedizione del bipolarismo con le storture che lo hanno reso impopolare. Decisivo sarà l’orientamento dell’elettorato. È l’unica incognita che spaventa i partiti; e che forse li indurrà a cambiare più di quanto vorrebbero.

Massimo Franco

8 febbraio 2012 | 7:36© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_febbraio_08/franco-ipoteca-degli-elettori_9b29a88c-521c-11e1-9430-803241dfdaad.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO I sotterranei del Vaticano
Inserito da: Admin - Febbraio 20, 2012, 10:58:49 am
LA LOTTA DI POTERE INTERNA

I sotterranei del Vaticano

Nei giorni che dovrebbero dimostrare il primato degli italiani fra i cardinali, è difficile sfuggire alla sensazione che la loro consistenza numerica ne esalti, per paradosso, la debolezza. Lo sforzo di mostrare una Chiesa cattolica unita e di esorcizzare i conflitti e i veleni degli ultimi mesi è meritorio. E il tentativo di archiviare lo scontro sordo fra Segreteria di Stato e Cei è stato esplicito, nelle parole con le quali il cardinale Tarcisio Bertone ha esaltato la «sinergia» con i vescovi: la sua è una disdetta delle ambizioni di guida espresse nel 2007, e motivo di tanti malintesi.

Eppure perfino quel gesto è parso tardivo, arrivando nel bel mezzo di una guerra dei dossier combattuta nei recessi più opachi del Vaticano. Insomma, se c'è una tregua in incubazione, più che l'inizio di una nuova fase sembra la coda di una faida interna sfibrante e senza vincitori. Dalle parole anche drammatiche pronunciate ieri al Concistoro nel quale ha nominato ventidue nuovi cardinali, si intuisce che Benedetto XVI ha una lucida consapevolezza di quanto si agita nelle viscere della sua Chiesa. E si intravede la volontà di correggere una deriva sfuggita al controllo di tutti. Ma il tormentato limbo degli ultimi anni ha lasciato un segno profondo.
È vero, il Vaticano ha i suoi tempi.

Una saggezza ultramillenaria lo ha abituato ad agire quando i clamori si sono attenuati, i riflettori spostati, gli animi placati. Ma la domanda è se oggi quel metodo non rischi di diventare l'alibi per velare un difetto di governo. Anche perché nessuno è in grado di scommettere su una fine ravvicinata delle manovre di discredito in atto. In qualche caso il clamore che provocano sarà anche frutto di un'ostilità preconcetta contro la Chiesa; ma è figlio soprattutto di un pregiudizio positivo.

L'eco viene amplificata dall'incredulità di un'Italia che chiede punti di riferimento e si sorprende perché le gerarchie cattoliche si mostrano divise e in lotta fra loro; e quasi imitano alcune tendenze della nomenclatura politica, che gli italiani hanno messo in mora. I cardinali venuti da tutto il mondo chiedono conto delle logiche di Curia, mentre non si fermano le voci sul futuro di Bertone: a conferma che il segretario di Stato è diventato il simbolo e il parafulmine di quanto non funziona nei sacri palazzi. È anche possibile, come insistono a dire i suoi avversari, che sia indotto a fare un passo indietro prima della fine del 2012.

Rimane da capire se le sue eventuali dimissioni basterebbero a fermare la macchina del fango in azione dentro il Vaticano. All'ombra degli intrighi curiali, c'è chi lavora per il prossimo Conclave anche in questi giorni di Concistoro. E forse ha già raggiunto lo scopo di far ritenere che difficilmente uno dei cardinali italiani potrà unificare la Chiesa. Il comportamento di alcuni di loro allunga ingiustamente un'ombra su tutti. La conseguenza potrebbe essere quella di alimentare negli altri episcopati un sentimento «anti italiano», riflesso di quello «antiromano», tanto comprensibile quanto gravido di incognite.

Massimo Franco

19 febbraio 2012 | 8:35© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_febbraio_19/sotterranei-vaticano-franco_1875b8d0-5ac9-11e1-af48-fbc2e490f6c3.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO I corvi in Vaticano e i malumori su Bertone
Inserito da: Admin - Febbraio 29, 2012, 04:37:01 pm
Le fughe di notizie

I corvi in Vaticano e i malumori su Bertone

Continua il tam tam sul segretario di Stato: per qualcuno il Papa avrebbe già deciso di sostituirlo, ma non ancora «quando»


Nelle ultime due settimane l'arma estrema di difesa è stata evocata e abbandonata più volte. Di fronte ai documenti riservati filtrati dal Vaticano alla stampa e alle tv «laiche», si è affacciata la tentazione di rispondere con un atto clamoroso, almeno a livello diplomatico: una protesta ufficiale nei confronti dello Stato italiano, per l'uscita di documenti interni considerati una sorta di attentato alla sicurezza della Santa Sede.

Presto, però, le persone che avevano accarezzato una simile via d'uscita sono state invitate a un'analisi più fredda della situazione. Ci si è resi conto che un'iniziativa del genere era strampalata. Avrebbe incrinato i rapporti ottimi con il governo di Mario Monti, senza peraltro portare a nulla. Non solo: il governo italiano avrebbe avuto gioco facile nell'obiettare al Vaticano che andava difesa la libertà di stampa; rimandando il problema all'interno di quelli che sono tuttora chiamati i sacri palazzi.

L'indiscrezione, però, è significativa perché permette di capire quanta confusione e agitazione regni in questi giorni OltreTevere; e come le gerarchie vaticane vivano quanto sta succedendo come un'aggressione alla quale è difficilissimo rispondere: anche perché proviene dalle sue stesse file. Il tam-tam contro il segretario di Stato, Tarcisio Bertone, continua; e si configura come una vera offensiva. E illustri monsignori, decrittando quanto avviene, sentenziano: «Non è finita. Usciranno altre cose». Per paradosso, è vero che gli attacchi ripetuti potrebbero rafforzare Bertone: in casi del genere la Chiesa si chiude a riccio e aspetta che la bufera passi. Ma si tratta di una chiusura sempre più affannosa e sfidata dalla sensazione che sia in atto una vera e propria resa dei conti.
Per un po' si è coltivata l'illusione che potesse funzionare la strategia almeno del «sopire», visto che «troncare» è una pia illusione: lasciare che le acque si calmassero, dando nel frattempo qualche segnale interno, e andare avanti come se nulla fosse. D'altronde, gli uomini più vicini al segretario di Stato ribadiscono che Benedetto XVI continua a nutrire fiducia nel suo primo collaboratore e non lo vuole sostituire. Ma altri affermano invece che la decisione di scegliere il successore sarebbe già stata presa: il problema non è il «se» ma il «quando». Ma proprio il «quando» è sostanza. A spingere perché Bertone sia costretto a farsi da parte entro l'estate sono quelli del «partito dei 78 anni», che il cardinale compirà in autunno: l'età alla quale lasciò il predecessore, Angelo Sodano.

I suoi difensori, invece, confidano che il rapporto stretto con Benedetto XVI lascerà scivolare le cose fino al compimento dell'ottantesimo anno, soglia canonica per tutti i cardinali. Ma più che scivolare, la situazione sta rischiando di precipitare. Quanto accade mostra una sfasatura fra la filosofia prevalente in Vaticano e chi in quelle stanze e fuori prevede un'accelerazione. Le lettere pubblicate ieri dal Fatto sullo scontro fra Bertone e l'ex arcivescovo di Milano, Dionigi Tettamanzi, per il controllo dell'Istituto Giuseppe Toniolo di Milano, «cassaforte» della Curia lombarda, uno dei crocevia delle strategie dell'episcopato, sono lette come un indizio vistoso. E non aiutano le voci velenose su dissensi crescenti fra il numero uno dello Ior, la «banca vaticana», Ettore Gotti Tedeschi, e uomini di Bertone come Giuseppe Profiti, oggi al vertice del San Raffaele.

I monsignori che hanno dimestichezza con le questioni della Curia e dello Ior riferiscono di un contrasto lievitato proprio durante il salvataggio dell'ospedale. La determinazione con la quale Gotti Tedeschi, scelto dal papa e da Bertone, ha fatto presenti i rischi finanziari dell'operazione, non è piaciuta a tutti nella Segreteria di Stato. E in alcuni conciliaboli a margine dell'ultimo Concistoro sono state fatte girare voci inverosimili secondo le quali alcuni documenti dello Ior erano stati passati ai giornali da Gotti Tedeschi: un'operazione mirata a danneggiarlo. D'altronde, la nuova arma di lotta interna sembra questa. A mettere in fermento i piani alti della Santa Sede non è solo il contenuto di quanto esce, ma il fatto che si tratti di fogli autentici, forniti da chi in Vaticano lavora nei gangli più strategici.

È come se qualcuno avesse accumulato negli anni un piccolo tesoretto di fotocopie imbarazzanti, e magari sconvolgenti; e le stesse centellinando, facendo emergere lo spaccato buio che affiora all'ombra di Benedetto XVI, «papa gentile» e intellettuale. Qualcuno sottolinea che appunti e dossier escono per lo più dalla Segreteria di Stato, e non dagli altri dicasteri vaticani. E questo alimenta la tesi di una diplomazia della Santa Sede che si starebbe vendicando per il modo in cui è stata trattata da Bertone: il caso della rimozione-promozione dell'ex segretario del Governatorato, Carlo Maria Viganò, trasferito come nunzio a Washington dopo avere denunciato episodi di corruzione e malaffare, ne sarebbe l'ultimo capitolo. Ma l'analisi, certo suggestiva, non riesce a spiegare tutto.

L'ossessione di trovare il o i colpevoli di tanto trambusto porta qualcuno a ipotizzare provvedimenti radicali come una rimozione di quanti in Segreteria di Stato si occupano dell'ufficio del personale e dunque in teoria possono avere accesso alle schede più riservate. Ma le cose, in quei palazzi, risultano sempre meno scontate di quanto appaiono. Lo dimostra la genesi della lettera con la quale circa una settimana dopo le rivelazioni su Viganò e le sue accuse, i responsabili del Governatorato hanno difeso il proprio operato. Si è trattato di una reazione tardiva, collettiva, e per questo accompagnata da molte perplessità. Si è accreditata la tesi che qualcuno dei firmatari in realtà non avesse neanche letto la nota; e che nella Segreteria di Stato qualcuno si fosse opposto fino all'ultimo. Pare che i contrasti ci siano stati davvero.

Eppure, ad approvarla sarebbe stato il Papa in persona.

Massimo Franco

29 febbraio 2012 | 9:12© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/cronache/12_febbraio_29/vaticano-corvi-massimo-franco_c3bed818-62ab-11e1-8fe6-00ac974a54fa.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO Due lezioni in un giorno
Inserito da: Admin - Marzo 08, 2012, 04:50:54 pm
IL DISAGIO DELLA MAGGIORANZA

Due lezioni in un giorno

Le lezioni offerte dal cortocircuito di ieri fra il governo e i partiti che lo sostengono sono di due tipi. La prima tende a definire, anche troppo, i contorni dell'Esecutivo di Mario Monti. E conferma che quando l'agenda del presidente del Consiglio spazia sui temi economici e sulla politica estera è non solo appoggiata ma esaltata. Quando invece tocca argomenti che lambiscono il cuore dei rapporti fra partiti, rischia di essere percepita come un'intrusione e dà la stura a ogni diffidenza: tanto più se uno degli alleati subodora, a torto o a ragione, accordi dai quali è escluso. La seconda lezione è che Palazzo Chigi sarà sempre più costretto a fare i conti con forze politiche in ebollizione.

Si tratta di partiti che non promuovono ma subiscono la metamorfosi provocata dalla fine della stagione berlusconiana; e soffrono l'estromissione da un potere governativo monopolizzato dai «tecnici». Più ci si inoltra verso la fine della legislatura, maggiore è la sensazione di uno sgretolamento degli equilibri ereditati dal voto del 2008; e destinati a ricevere un altro colpo alle Amministrative del 6 maggio. Per questo, la tendenza di alcuni esponenti del governo a rimarcare i difetti della classe politica è potenzialmente esplosiva. E rivela una miscela di ingenuità e di ingenerosità perché sottovaluta il sostegno parlamentare che permette loro di fare i ministri.

Il risultato è che Monti rischia, come è accaduto ieri, di vedersi scaricare addosso le tensioni e le frustrazioni dei partiti. D'altronde, il modo in cui Pdl, Pd e Udc misurano quotidianamente le affinità con il premier è indicativo. Evoca lo sforzo di delineare un'identità che non significhi né appiattimento né smarcamento. La disdetta del vertice con Angelino Alfano, Pier Luigi Bersani e Pier Ferdinando Casini, decisa da Monti dopo l'irrigidimento del segretario del Pdl, riflette queste contraddizioni. E drammatizza la difficoltà di accompagnare un governo incline a seguire regole prima sconosciute.

È probabile che Alfano abbia usato un colloquio fra Casini, Bersani e il ministro della Giustizia, Paola Severino, come pretesto per dare una prova di forza: tanto più con un Silvio Berlusconi non rassegnato al notabilato. E la diserzione forzata dell'ex premier dalla trasmissione «Porta a Porta» è scaturita dall'esigenza di non contraddirlo: il Cavaliere non poteva parlare bene del governo in tv nel giorno in cui spuntava la prima crepa tra Monti e un Pdl agitato. Sono tutti episodi rivelatori di un'insofferenza che lievitava da settimane; e che ha incrociato le preoccupazioni per la riforma della giustizia e per il futuro della Rai; e i timori di Alfano per l'isolamento del suo partito.

Per questo le parole sullo «schifo della politica» del ministro della Cooperazione, Andrea Riccardi, sono apparse intollerabili al centrodestra; e imbarazzanti per un premier che si sforza di riconoscere il ruolo del Parlamento. Monti ha rischiato di diventare non lo spettatore delle liti altrui, ma il parafulmine della polemica innescata da un suo ministro. Le scuse di Riccardi ridimensionano l'incidente. Rimane il punto interrogativo dei confini che i partiti cercano di imporre al governo; e che Monti difficilmente potrà, e anzi non dovrà a nostro giudizio, accettare. Peccato che in questo rigurgito di Seconda Repubblica, l'intesa fra Italia e Germania, rilanciata dalla visita di ieri a Roma del ministro delle Finanze, Wolfgang Schauble, forse non abbia avuto il rilievo che invece meritava.

Massimo Franco

8 marzo 2012 | 8:53© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_marzo_08/due-lezioni-in-un-giorno-massimo-franco_35881756-68e8-11e1-96a4-8c08adc6b256.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO Partiti e sistema elettorale vanno riplasmati
Inserito da: Admin - Maggio 08, 2012, 09:30:31 am
L'ANALISI DEL VOTO

Partiti e sistema elettorale vanno riplasmati

Mentre il centrodestra implode manca l'alternativa moderata

L'immobilismo farà crescere febbre sociale e Cinque stelle

di  MASSIMO FRANCO


MILANO - Il dilemma è se la geografia politica emersa dal voto amministrativo del 6 e 7 maggio sia l'anticipo di quanto accadrà fra un anno alle elezioni politiche, o la coda finale e convulsa della crisi della Seconda Repubblica. Nel primo caso, il 2013 prepara uno scenario «greco» di frammentazione e ingovernabilità. Nel secondo, in teoria ci sono spazio e tempo per riplasmare i partiti e il sistema elettorale; e consegnare non solo all'Europa e ai mercati finanziari ma all'opinione pubblica italiana maggioranze degne di questo nome. L'insuccesso parallelo di Pdl e Lega aumenta la percezione di un centrodestra che non ritrova più il baricentro dopo il tramonto della leadership berlusconiana. Ma il mancato sfondamento da parte del Terzo polo di Pier Ferdinando Casini dice pure che non esiste ancora un'alternativa moderata in grado di prosciugare quel serbatoio elettorale. Né basta, come ha ripetuto ieri l'ex premier, evocare un fronte unito di tutti i moderati. Quel fronte è impossibile perché per Casini la presenza di Berlusconi è un ostacolo insormontabile.

Rimane la crisi di un Carroccio sfigurato dagli scandali e costretto a esaltare il sindaco di Verona, Flavio Tosi, la cui vittoria in realtà è in controtendenza rispetto ai risultati della Lega. E emerge come nuovo, sorprendentemente grande contenitore della protesta il movimento Cinque stelle del comico-predicatore Beppe Grillo: una miscela trasversale di mobilitazione dei blog, estremismo e voglia di spazzare via tutto: dall'euro, a Monti, ai partiti che lo sostengono. Che cosa rimarrà di tutto questo fra otto mesi, quando verosimilmente si andrà alle urne per rinnovare il Parlamento, non è chiaro.

Ma è prevedibile che l'immobilismo della politica e la sua incapacità di riformarsi radicalmente farebbero crescere la febbre sociale e il peso di formazioni come Cinque stelle. La stessa vittoria di Leoluca Orlando, portavoce dell'Idv, a Palermo, nasce, oltre che dalla sua abilità personale, dagli errori madornali del centrodestra e dalla faida sulle primarie nel Pd. Per questo, in teoria i risultati di oggi, se confermati alla fine dello spoglio, dovrebbero accelerare la transizione; far capire ai partiti che non possono tergiversare; e spingerli a riscrivere i rapporti di forza negli schieramenti. Per il governo dei tecnici di Monti si apre una fase gonfia di nuove incognite. La tentazione di scaricare su palazzo Chigi la «colpa» della sconfitta del Pdl fa già capolino. Ma si tratta di una tentazione pericolosa, che il segretario Angelino Alfano e lo stesso Berlusconi si sono già affrettati a smentire. Sanno che finirebbe per accentuare lo sgretolamento di quello che appena un anno fa era ancora il poderoso «asse del Nord». Soprattutto, al di là delle parole ufficiali sono consapevoli che il governo Monti è la conseguenza, non la causa della fine della Seconda Repubblica.

Massimo Franco

7 maggio 2012 (modifica il 8 maggio 2012)© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/speciali/2012/elezioni-amministrative/notizie/07-05-analisi-franco_0a18b350-9886-11e1-b99c-a30fdbaea52f.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO Non cercate alibi
Inserito da: Admin - Maggio 09, 2012, 03:11:31 pm


Sarà difficile spiegare che il risultato delle elezioni amministrative del 6 e 7 maggio non dipende solo dall'appoggio a Mario Monti. L'impopolarità delle misure prese dal governo dei tecnici è un'ottima causa esterna per velare i ritardi e gli errori dei partiti; e per evitare di guardare in faccia una geografia politica che non anticipa quella della Terza Repubblica, ma sembra la coda estrema della crisi della Seconda, gonfia di scorie e convulsioni antisistema. Altrimenti non si spiegherebbe perché, oltre al Pdl governativo, anche la Lega delle barricate contro Monti venga ridimensionata brutalmente in quello che era il «suo» Nord; e perché il Pd abbia sostanzialmente tenuto.

Colpa degli scandali della cerchia di Umberto Bossi, certamente; ma anche di un progetto esauritosi da tempo, che la vittoria a Verona del sindaco «maroniano» Flavio Tosi non compensa. È indubbio che gli umori antieuropei stiano crescendo, come in Francia e soprattutto in Grecia. I provvedimenti imposti dai mercati finanziari li hanno fatti lievitare. Se ne colgono i germi sia nell'affermazione, imprevista nelle dimensioni, del movimento «Cinque stelle» del comico Beppe Grillo; sia nell'astensione aumentata del 6 per cento. Eppure, l'antieuropeismo si confonde con l'ostilità verso la nomenklatura partitica.

La percentuale del non voto è preoccupante ma non allarmante, visto lo sfondo di macerie della politica nel quale si inserisce. E il trionfo dei «grillini» riflette una protesta trasversale che probabilmente pesca oltre i confini della sinistra. È il contenitore di un «no» che prescinde dagli schieramenti e rispecchia confusamente, a volte con parole d'ordine irresponsabili, la voglia di spazzare via un sistema incapace di riformarsi. D'altronde, in modo diverso è l'identico istinto suicida dei partiti a spiegare l'affermazione a Palermo di Leoluca Orlando, oggi portavoce dell'Idv ma oltre vent'anni fa sindaco democristiano anomalo della «primavera palermitana».

Nel ginepraio delle situazioni locali, spiccano la sconfitta di ciò che resta del centrodestra e la tentazione di scaricarla su Palazzo Chigi. Come se la rottura fra Pdl e Lega si fosse consumata solo cinque mesi fa, alla nascita del governo Monti, e non fosse cominciata invece nel maggio del 2011, dopo un turno amministrativo che dilatò tutte le crepe del governo di Silvio Berlusconi. La solitudine dei partiti del fronte moderato e la loro quasi inevitabile sconfitta è scritta nel tramonto della leadership berlusconiana; e nell'incapacità di sostituirla con qualcosa di più appetibile. Da questo punto di vista, lo stesso Terzo polo non è percepito come un'alternativa.

Da ieri, però, l'impressione è che anche Monti sia più solo. Da scudo dei partiti, rischia di diventarne il bersaglio. Ma non è detto che la classe politica si risollevi picconando il governo dei tecnici. Anzi, potrebbe distruggere il suo ultimo alibi.

Massimo Franco

8 maggio 2012 | 7:13© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_maggio_08/non-cercate-alibi-Franco_db8f64b0-98c7-11e1-a280-1e18500845d6.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO L'ultimo avviso: Italia cambiata nel profondo
Inserito da: Admin - Maggio 22, 2012, 03:56:28 pm
L'analisi

L'ultimo avviso: Italia cambiata nel profondo

La disintegrazione del centrodestra è un dato di fatto: Pdl ha perso troppo tempo prima di voltare pagina


Ogni analisi dei risultati rischia di apparire statica e dunque infedele: soprattutto se si legge con le lenti del passato. Quanto è successo fra il 6 maggio e lunedì riflette un'Italia cambiata in profondità; ed esplicita nel dire almeno quello che non vuole più. La disintegrazione del centrodestra è ormai un dato di fatto che né le difficoltà del voto amministrativo né l'uscita di scena di Silvio Berlusconi bilanciano. Anzi, forse il Pdl ha perso troppo tempo prima di voltare definitivamente pagina.

Quanto alla Lega, le inchieste giudiziarie sono state solo la ciliegina velenosa su una crisi di identità che dura da tempo: le sue sconfitte a catena suonano come una conferma. La frattura della Seconda Repubblica di centrodestra col suo blocco sociale del Nord, prima che col suo elettorato, si è ormai consumata. Il travaso massiccio di voti nel Movimento 5 stelle del comico Beppe Grillo è l'indizio che il Carroccio non era credibile neppure come partito di protesta contro il governo di Mario Monti.

Il Pdl può anche sperare che si tratti di voti «in libera uscita», come teorizzava alla fine del secolo scorso una Dc in declino. Per il momento, sono usciti e basta. E non sarà facile calamitarli di nuovo senza un esame impietoso dei motivi della sconfitta e del ruolo che un post berlusconismo acefalo e sbandato vuole esercitare in una stagione di vacche magre e di tensioni sociali. L'impressione è che le posizioni di rendita siano finite per tutti, perché l'elettorato ha scelto un nuovo terreno di gioco.

È questo a spiegare l'ambiguità dell'Udc quando si rifiuta di decidere fra uno schieramento e l'altro. In realtà, Pier Ferdinando Casini è convinto che i due fronti del 2008 si siano sbriciolati; e dunque fa di necessità virtù, non riuscendo a riplasmarli come vorrebbe. E a sinistra, la stessa evocazione della «foto di Vasto» da parte di Antonio Di Pietro, con Pd, Idv e Sel trionfalmente uniti, va ingrandita al microscopio dei nuovi paradigmi. I grillini attingono anche nel serbatoio dipietrista e sono ai ferri corti con la sinistra. E a Parma, col loro sindaco, dovranno dimostrare di saper governare, strappati dalla sponda dell'antipolitica.

È un rifiuto delle vecchie logiche perfino il trionfo di Leoluca Orlando a Palermo, sindaco già un quarto di secolo fa. La sua vittoria è figlia della rivolta contro il candidato imposto alle primarie dal vertice nazionale del Pd: un fenomeno un po' troppo frequente, al punto da confondere i contorni della leadership. Il segretario, Pier Luigi Bersani, rivendica, con qualche ragione, di essere il meno ammaccato fra i partiti tradizionali. Eppure il Pd sa di doversi affrancare da «cartelli elettorali» superati. Nelle urne sono stati smaltiti i cascami di una Seconda Repubblica in agonia. Ma questi detriti possono depositarsi e diventare le basi degli equilibri che verranno, se le forze politiche non saranno capaci di interpretare le dinamiche di un'Italia che ha mandato l'ultimo avviso prima dello sfratto.

Massimo Franco

22 maggio 2012 | 7:38© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_maggio_22/ultimo-avviso-elezioni-Franco_31b887ce-a3cf-11e1-80d8-8b8b2210c662.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO I ribaltonisti di memoria corta
Inserito da: Admin - Giugno 08, 2012, 05:44:01 pm
IL SENSO DI IRRESPONSABILITÀ

I ribaltonisti di memoria corta

In un'Italia con la memoria corta, selettiva e un po' furbesca, il ricordo del baratro finanziario sul quale il Paese era affacciato nel novembre dello scorso anno si è già sbiadito. E le difficoltà e i limiti che il governo tecnico di Mario Monti sta incontrando e mostrando tendono a diventare una sorta di schermo dietro il quale nascondere il passato recente. Ci si dimentica che la maggioranza anomala formatasi allora non è la causa ma la conseguenza del fallimento della coalizione di centrodestra; e che la decisione di dare vita ad un esperimento difficile, richiestoci dall'Europa come polizza di assicurazione a nostro favore, fu sofferta e insieme inevitabile.

I partiti la accettarono, e la sostennero con senso di responsabilità, perché nessuno era in grado di offrire un'alternativa di stabilità; e perché il voto anticipato avrebbe probabilmente inferto un colpo definitivo alla credibilità italiana sia rispetto agli alleati europei che ai mercati finanziari. Il fatto che le sorti della moneta unica siano incerte come mai è accaduto in questi anni non capovolge né smentisce il punto di partenza. E tende a presentare come pericolose scorciatoie le tentazioni di elezioni a ottobre, spuntate in spezzoni del Pdl e del Pd e non smentite finora con sufficiente convinzione dai rispettivi leader.

Non scorciatoie verso la stabilità, ma verso una nuova stagione di incertezza. L'aspetto più inquietante è che affiorano mentre ci si avvicina alla riunione del Consiglio europeo del 28 e 29 giugno prossimi: quella che dovrà definire il futuro dell'euro, e nel nostro piccolo anche il ruolo che l'Italia di Monti è riuscita faticosamente a recuperare presso le altre cancellerie occidentali e la Casa Bianca. Approdare all'appuntamento avendo alle spalle una maggioranza che neppure finge più di voler sostenere il presidente del Consiglio fino al 2013, sarebbe un'autorete.

Ma in gioco non c'è soltanto una questione di immagine e di proiezione internazionale. Viene da chiedersi quale tipo di Parlamento emergerebbe da una consultazione ravvicinata e traumatica. È difficile non vedere che si arriverebbe alle urne per la rinuncia soprattutto dei partiti maggiori ad assumersi fino in fondo la responsabilità di alcune riforme definite ineludibili proprio da loro. Non solo. Una delle ragioni per le quali si asseconderebbe la deriva elettorale, si dice sotto voce, è quella di impedire che si gonfi la bolla dei partiti estremisti. La miopia di un argomento del genere, tuttavia, è evidente.

Certificare un'interruzione della legislatura in una fase cruciale della vita economica e istituzionale aggiungerebbe fallimento a fallimento. E travolgerebbe l'argine che comunque Monti ha eretto intorno ai conti pubblici italiani. Il pesante declassamento di ieri della Spagna è un monito: il governo di Madrid è stato appena legittimato da un voto popolare. Attenzione, dunque, a non trasformare il vuoto politico di oggi in una voragine, che chiunque potrebbe sfruttare nel modo più imprevedibile. Nessuno può pensare di sottrarsi a un compito duro che richiede pazienza, umiltà e produce impopolarità. Vale per Monti, per i suoi ministri; e ancora di più per i partiti che lo sostengono.

Massimo Franco

8 giugno 2012 | 8:10
© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_giugno_08/i-ribaltonisti-di-memoria-corta_ce40782c-b126-11e1-880f-b0211fcf6760.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO Il biglietto per Bruxelles
Inserito da: Admin - Luglio 05, 2012, 11:51:58 am
UNA STRANISSIMA MAGGIORANZA

Il biglietto per Bruxelles

C’è una strana inversione di ruoli fra l’Europa e l’Italia nei confronti di Mario Monti. La prima sembra investire sulle capacità di mediazione e di stimolo che il presidente del Consiglio ha dimostrato finora; e che i capi delle altre nazioni gli riconoscono. La maggioranza che lo sostiene a Roma non smette invece di appoggiarlo in Parlamento e insieme di indebolirlo con distinguo politici sempre più stupefacenti. Il biglietto per il Consiglio europeo a Bruxelles che comincia domani riceve così una vidimazione ambigua: da parte soprattutto di Silvio Berlusconi.

Dire che tre quarti degli elettori del Pdl sono ostili a Monti non è il miglior viatico al capo del governo mentre affronta una delle mediazioni più drammatiche della storia dell’Unione Europea. Lo stesso ex premier ammette che una caduta dell’esecutivo viene considerata catastrofica dalle istituzioni di Bruxelles; eppure non sembra intenzionato a far molto per scongiurarne il logoramento. Dopo l’incontro di ieri a Palazzo Chigi denuncia l’«indeterminatezza più assoluta » delle proposte italiane. Ma la critica non riesce a cancellare i problemi di Berlusconi e del suo partito: al punto che la sospensione del giudizio sembra figlia del calcolo di usare la polemica antigovernativa per comporre le fratture interne.

Ascoltare Monti nell’aula della Camera faceva un certo effetto, ieri pomeriggio. Colpiva la sua insistenza sul «tandem Parlamento- governo» chiamato a pedalare in sincronia per togliere alibi a quanti in Europa usano l’incertezza politica per ridurre l’influenza dell’Italia. L’impressione è che Monti pedali senza sosta: si prepara persino a fermarsi a Bruxelles fino a domenica per concordare con gli alleati lemisure più urgenti a difesa dell’euro; e per impedire che lunedì, alla riapertura dei mercati finanziari, la moneta unica possa ricevere nuovi attacchi. Ma altri si limitano a guardare, lasciando che a sfiancarsi sia solo lui.

È un atteggiamento da spettatori più scettici che interessati: come se il destino del governo dei tecnici e il loro non fossero coincidenti. Di più: come se accompagnare quasi a distanza di sicurezza Monti al vertice di domani e dopodomani fosse un modo per tenersi le mani più libere. L’assenza di una mozione unitaria sull’Europa è un piccolo capolavoro di autolesionismo. Eppure, questo surplace non prepara uno scatto verso la rivincita dei partiti. Promette invece di anticipare una volata che porta al traguardo del nulla. E contribuisce ad alimentare anche strumentalmente le domande che assediano l’Italia, e che nei mass-media e nelle cancellerie occidentali ruotano intorno all’incognita del dopo-Monti.

Se questo è lo sfondo, destabilizzare il governo confermerebbe lo stereotipo di un’Italia eternamente precaria, in balìa di chi non coltiva progetti di crescita ma solo di sopravvivenza sulle macerie del Paese. E cancellerebbe il poco o il tanto di buono che Monti ha prodotto in un periodo breve ma intenso. Il giudizio sui tecnici non può che essere in chiaroscuro, eppure l’alternativa è il caos. Se si rompe il «tandem» si fa male l’Italia, che alla fine sarebbe costretta a bussare alle porte del Fondo monetario internazionale; e si accelererebbe la deriva di un’Europa altrettanto in bilico. Attenti a non ritrovarsi schiacciati dal peso di una doppia, terribile responsabilità.

Massimo Franco

27 giugno 2012 | 7:52© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_giugno_27/franco-biglietto-per-bruxelles_f1f4bd60-c016-11e1-931f-9ffeafa6de3c.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO Il grazie del premier e il timore dei leader che guardano al voto
Inserito da: Admin - Luglio 11, 2012, 11:17:03 pm
La Nota

Il grazie del premier e il timore dei leader che guardano al voto

Gli alleati preoccupati per gli effetti delle nuove misure

Il grazie di Mario Monti al Parlamento per averlo appoggiato «affrontando tutti assieme anche l'impopolarità», è una sorta di sigillo sulle riduzioni di spesa decise dal governo. Le tensioni trasversali che hanno accompagnato le voci sui provvedimenti fino al Consiglio dei ministri di ieri notte, lasciano prevedere proteste soprattutto a livello locale; e forse addirittura una rottura fra Palazzo Chigi e le Regioni, allarmate soprattutto dai tagli alla sanità. Le opposizioni ritengono lo scontro inevitabile e rispolverano l'espressione «macelleria sociale»: contano sull'umore nero di molti governatori.

Ma Monti sembra sicuro di avere dalla propria parte una maggioranza anomala recalcitrante e tuttavia consapevole di non potergli negare l'appoggio. L'unico partito a darglielo con convinzione è l'Udc, convinta con Pier Ferdinando Casini di dover condividere «scelte impopolari ma utili al Paese». Pdl e Pd, soprattutto, appaiono invece in sofferenza. Sono premuti da nomenklature locali che intravedono una prospettiva di malessere e di riduzione dei servizi; e dunque, di rimbalzo, una diminuzione della loro popolarità. I numeri sulla chiusura di ospedali e uffici giudiziari sono percepiti come traumatici.

L'impostazione scelta dal governo dei tecnici, però, non lascia grandi margini. Sottolineando l'esito del Consiglio europeo della settimana scorsa a Bruxelles e del vertice con la cancelliera tedesca Angela Merkel dell'altro ieri, il premier ribadisce: «Si può essere tanto più assertivi in Europa quanto più si hanno le carte in regola in Italia». Per il presidente del Consiglio, lo scudo anti-spread messo a punto per stabilizzare lo scarto negli interessi fra titoli di Stato italiani e tedeschi, ha reso «più robusto» l'accordo nell'Ue: sebbene i mercati finanziari reagiscano in modo negativo anche dopo che la Bce ha limato i tassi di interesse, con lo spread sopra 460 punti.

L'impressione è che Monti dia per inevitabile una fase ulteriore di transizione e di aggressione speculativa; e confidi comunque in un miglioramento della situazione, perché a livello politico l'Europa si sarebbe convinta ad agire senza cedere alla tentazione di strappi ed egoismi nazionali. «Doppiato il capo del vertice Ue», Palazzo Chigi già addita i prossimi obiettivi. Chiede al Parlamento di ratificare entro la fine di luglio anche il cosiddetto Fiscal compact : quel trattato di stabilità che fissa le «regole d'oro», vincolanti nell'Ue, chiamate a far rispettare il principio dell'equilibrio di bilancio. I partiti incassano i ringraziamenti di Monti a denti stretti: si chiedono quale sarà il costo in termini elettorali.

Massimo Franco

6 luglio 2012 | 7:29© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/nota/12_luglio_06/nota_51e1e35e-c72b-11e1-96dc-1183a294894f.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO Il convitato un po' scomodo
Inserito da: Admin - Settembre 03, 2012, 11:58:25 am
L'AGENDA MONTI E LE PRIMARIE PD

Il convitato un po' scomodo

La tentazione crescente del Pd sembra quella di mettere fra parentesi il governo di Mario Monti. Non per destabilizzarlo, perché anzi il partito di Pier Luigi Bersani continua a sostenerlo con lealtà e convinzione. Non ne parla troppo per proteggere le dinamiche interne in atto nel centrosinistra; e per esorcizzare la sua permanenza a Palazzo Chigi dopo il voto del prossimo anno. Forse perché esiste una contraddizione vistosa fra le alleanze in via di definizione, e l'appoggio al premier e al governo.

Le stesse primarie promettono di svolgersi come un'esercitazione ad alta quota, sospese in aria. Qualcosa che riguarda il Pd e le sue ambizioni governative; un quasi alleato assai poco europeista e antimontiano come Nichi Vendola; e un quasi ex alleato come Antonio Di Pietro, ormai attestato su un versante anti istituzionale indefinibile. Ma Monti in questo scenario non c'è. Anzi, si ha l'impressione che per il Pd non debba esserci, perché rappresenta una sfida e un ingombro.

Eppure è difficile che possa essere espunto dalla discussione sul futuro della sinistra: non basta che sia «altro» per non farci i conti. Ritenere di essere suoi alleati adesso, e in parallelo prepararsi a coalizioni con partiti agli antipodi rispetto alla politica economica di questi mesi, può rivelarsi un inganno pericoloso: verso se stessi e verso l'elettorato. Al centrosinistra, come al Pdl, non basta dire che dopo questa fase il potere sarà «restituito» alla politica, quasi i partiti avessero solo un diritto e non anche un dovere di governare bene l'Italia.

Si fatica a ridurre l'agenda Monti a un sacrificio « una tantum », rivendicato e ostentato come una medaglia da togliersi subito dopo le elezioni. Il futuro prossimo non contiene una dose massiccia di imprevedibilità sui problemi da affrontare. E il vincolo europeo promette di essere ancora più stretto, anche per l'Italia. Per quanto sgradita, la presenza di Monti continuerà a proiettarsi sulla politica italiana, Pd e prossime primarie inclusi. Fingere che non esista, nemmeno come convitato di pietra, non è vietato. Ma o si tenta di capire la portata e le conseguenze del suo governo da subito, o si sarà costretti a farlo dopo il voto.

Con una differenza: analizzare il «fattore Monti» e confrontarlo con l'identità del centrosinistra ora, significa comprendere che non è solo una parentesi ma l'indizio della trasformazione del sistema; e arrivare all'appuntamento con programmi e alleanze coerenti. Doversi rendere conto solo dopo che non se ne può prescindere, invece, equivale a perdere i prossimi mesi disegnando scenari a rischio di smentita immediata. Le premesse per un governo politico si radicano non subendo Monti come un'anomalia da smaltire frettolosamente, ma valutandolo soprattutto come opportunità per cambiare.

Se il Pd non la coglie, si espone ad altre contaminazioni; o, peggio, all'illusione di poter vivere di rendita sulle macerie del berlusconismo. La sua sarebbe una vittoria effimera, foriera di altre anomalie assai meno rassicuranti del governo dei tecnici.

Massimo Franco

3 settembre 2012 | 7:25© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_settembre_03/convitato-scomodo-franco_d02515ee-f587-11e1-b714-22a5ae719fb5.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO L'AGENDA MONTI E LE PRIMARIE PD
Inserito da: Admin - Settembre 04, 2012, 11:01:46 am
L'AGENDA MONTI E LE PRIMARIE PD

Il convitato un po' scomodo

La tentazione crescente del Pd sembra quella di mettere fra parentesi il governo di Mario Monti. Non per destabilizzarlo, perché anzi il partito di Pier Luigi Bersani continua a sostenerlo con lealtà e convinzione. Non ne parla troppo per proteggere le dinamiche interne in atto nel centrosinistra; e per esorcizzare la sua permanenza a Palazzo Chigi dopo il voto del prossimo anno. Forse perché esiste una contraddizione vistosa fra le alleanze in via di definizione, e l'appoggio al premier e al governo.

Le stesse primarie promettono di svolgersi come un'esercitazione ad alta quota, sospese in aria. Qualcosa che riguarda il Pd e le sue ambizioni governative; un quasi alleato assai poco europeista e antimontiano come Nichi Vendola; e un quasi ex alleato come Antonio Di Pietro, ormai attestato su un versante anti istituzionale indefinibile. Ma Monti in questo scenario non c'è. Anzi, si ha l'impressione che per il Pd non debba esserci, perché rappresenta una sfida e un ingombro.

Eppure è difficile che possa essere espunto dalla discussione sul futuro della sinistra: non basta che sia «altro» per non farci i conti. Ritenere di essere suoi alleati adesso, e in parallelo prepararsi a coalizioni con partiti agli antipodi rispetto alla politica economica di questi mesi, può rivelarsi un inganno pericoloso: verso se stessi e verso l'elettorato. Al centrosinistra, come al Pdl, non basta dire che dopo questa fase il potere sarà «restituito» alla politica, quasi i partiti avessero solo un diritto e non anche un dovere di governare bene l'Italia.

Si fatica a ridurre l'agenda Monti a un sacrificio « una tantum », rivendicato e ostentato come una medaglia da togliersi subito dopo le elezioni. Il futuro prossimo non contiene una dose massiccia di imprevedibilità sui problemi da affrontare. E il vincolo europeo promette di essere ancora più stretto, anche per l'Italia. Per quanto sgradita, la presenza di Monti continuerà a proiettarsi sulla politica italiana, Pd e prossime primarie inclusi. Fingere che non esista, nemmeno come convitato di pietra, non è vietato. Ma o si tenta di capire la portata e le conseguenze del suo governo da subito, o si sarà costretti a farlo dopo il voto.

Con una differenza: analizzare il «fattore Monti» e confrontarlo con l'identità del centrosinistra ora, significa comprendere che non è solo una parentesi ma l'indizio della trasformazione del sistema; e arrivare all'appuntamento con programmi e alleanze coerenti. Doversi rendere conto solo dopo che non se ne può prescindere, invece, equivale a perdere i prossimi mesi disegnando scenari a rischio di smentita immediata. Le premesse per un governo politico si radicano non subendo Monti come un'anomalia da smaltire frettolosamente, ma valutandolo soprattutto come opportunità per cambiare.

Se il Pd non la coglie, si espone ad altre contaminazioni; o, peggio, all'illusione di poter vivere di rendita sulle macerie del berlusconismo. La sua sarebbe una vittoria effimera, foriera di altre anomalie assai meno rassicuranti del governo dei tecnici.

Massimo Franco

3 settembre 2012 | 7:25© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_settembre_03/convitato-scomodo-franco_d02515ee-f587-11e1-b714-22a5ae719fb5.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO Il timore che nessuno riesca a controllare le tensioni sociali
Inserito da: Admin - Settembre 11, 2012, 08:49:59 am
LA NOTA

Il timore che nessuno riesca a controllare le tensioni sociali

Sindacati e governo paiono in affanno di fronte alle tante micro-crisi


Può darsi che i tafferugli di ieri a Roma fra operai dell'Alcoa e polizia siano un inizio di «autunno caldo»: una fase di proteste, cortei, perfino violenze come quelle che percorsero l'Italia quarant'anni fa. Eppure non si capisce che cosa possa unificare un malessere frammentato, provocato da situazione diverse; e affrontato da un sindacato diviso e da un governo che come minimo manca di esperienza politica. La crisi economica rappresenta una realtà dura che colpisce trasversalmente. Ma nessuno sembra in grado di intercettare e incanalare la rabbia, né di darle una risposta. L'insofferenza nei confronti dell'intero sistema partitico accentua una sensazione di impotenza e di rabbia.
Il fatto che alcuni manifestanti abbiano spintonato il responsabile economico del Pd, Stefano Fassina, fra i più critici del governo dei tecnici di Mario Monti, conferma la difficoltà di cavalcare la situazione anche da parte della sinistra. E la scelta di affidare inizialmente la trattativa con la delegazione degli operai soltanto al sottosegretario allo sviluppo economico, Claudio De Vincenzi, si è rivelata a doppio taglio. Gli interlocutori del governo l'hanno considerata la conferma di una sottovalutazione della crisi dell'alluminio in Sardegna. E il Pd ma anche l'Idv, Rc e il Pdl, si sono schierati con gli operai: sebbene la condanna dell'episodio che ha avuto come vittima Fassina sia stata espressa con parole non proprio identiche.
Il partito di Pier Luigi Bersani rivendica la presenza del suo responsabile economico al corteo come prova dell'«attenzione e dell'impegno del Pd verso i lavoratori e l'azienda in crisi»; accusa «un provocatore estraneo alla manifestazione» di avere inveito contro il Pd. Ma soprattutto chiede maggiore incisività al ministro Corrado Passera, inducendolo a precisare la propria posizione e in qualche modo a correggerla. «Non ho mai pensato che fosse un caso impossibile», si sarebbe difeso ieri pomeriggio il ministro dello Sviluppo economico, affiancando il suo sottosegretario nella trattativa con i sindacati. «Quando mi è stato chiesto che cosa ne pensassi, alla festa del Pd, non avevamo uno straccio di manifestazione di interesse da parte di altre aziende».
Al di là dell'esito della vertenza che riguarda la Sardegna, a far riflettere è un quadro di insieme difficile da tenere sotto controllo. Si teme il vuoto fra una miriade di micro-crisi che promettono di avvitarsi verso forme di contestazione esasperata; e l'assenza di organizzazioni e istituzioni in grado di governarle. Al ministero dello Sviluppo economico esistono oltre centocinquanta dossier che riguardano altrettante situazioni difficili, e non solo a livello industriale. La preoccupazione palpabile è che nell'incapacità o nell'impossibilità delle forze sindacali e dell'esecutivo di risolverle, possano degenerare fino a diventare un problema di ordine pubblico.
Le violenze di ieri nella capitale, con quattordici feriti, costituiscono un'avvisaglia di quanto potrebbe succedere. E la campagna elettorale fa il resto, aggiungendo una dose di demagogia e di strumentalità alle polemiche. Per la sinistra è facile imputare i problemi delle industrie agli anni del governo di Silvio Berlusconi: sebbene il Sel di Nichi Vendola e l'Idv di Antonio Di Pietro non si limitino a quelli, e includano nelle responsabilità anche le mancate risposte di Monti e dei suoi ministri nei dieci mesi trascorsi a Palazzo Chigi. È la conferma che non si sta aprendo un «autunno caldo» ma continua un anno difficile, destinato a proiettare le sue ombre sul 2013. Poi, probabilmente, cominceranno a vedersi i primi barlumi della ripresa: il presidente del Consiglio sembra fiducioso.

Massimo Franco

11 settembre 2012 | 8:21© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/nota/12_settembre_11/la-nota-massimo-franco_46307678-fbcf-11e1-8357-ee5f88952ff6.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO Il Pdl si assolve Ma la crisi è in agguato
Inserito da: Admin - Settembre 21, 2012, 05:47:49 pm
LA NOTA

Il Pdl si assolve Ma la crisi è in agguato

Polverini resiste, ma l'inchiesta la tiene in bilico

L' istinto del bunker rimane in agguato. L'idea di risolvere lo scandalo alla regione Lazio facendo dimettere il capogruppo e lasciando le cose come stanno, per il Pdl è un brutto presagio. Significa che davvero, allora, il collasso della giunta di Renata Polverini può segnare la prossima campagna elettorale del partito a livello nazionale; e dunque si cerca di sterilizzarla. Dopo una riunione di vertice con Silvio Berlusconi, ieri il coordinatore Ignazio La Russa ha proclamato che «il caso è chiuso». Parole come minimo imprudenti, perché pensare di «fare quadrato» mentre l'inchiesta della magistratura è all'inizio e i nervi sono a fior di pelle, sa di azzardo.

Eppure, l'atteggiamento prevalente sembra questo. Mettere ai margini la nomenklatura indifendibile, e decidere unilateralmente che è quanto basta per andare avanti; per rivendicare coraggio e senso di responsabilità; e perfino per chiederne agli altri partiti. Il vicepresidente del gruppo del Pdl al Senato, Gaetano Quagliariello, è fra i pochi a invocare «trasparenza, perché i cittadini devono essere tutelati e rassicurati»; e ad affermare che in questo caso «l'intervento della magistratura è doveroso». La situazione dentro il Pdl lascia prevedere non solo che il caso non è chiuso, ma che stanno per aprirsene altri: sul piano politico, prima che giudiziario.

Il «no» del capogruppo del Veneto alla riunione con il segretario, Angelino Alfano, a Roma, è il segno di una protesta strisciante che nasce dall'istinto di sopravvivenza. Lo stesso vale per la richiesta di affrontare la «questione morale», per quanto l'espressione sia abusata, arrivata da alcuni sindaci del centrodestra. È come se una parte del movimento berlusconiano si rifiutasse di essere assimilata alle comparse dello scandalo laziale. Si coglie una rivendicazione della propria diversità davanti all'elettorato, prima che di fronte al Cavaliere. Insomma, le premesse sono quelle non di una docile ubbidienza ma a nuovi scampoli di una faida interna violenta.

Il fatto che l'ex capogruppo del Pdl, Franco Fiorito, abbia accusato davanti ai magistrati Renata Polverini di sapere come venivano ripartiti i fondi ai partiti, la tiene in bilico; anche se ufficialmente Fiorito nega di averlo detto. La governatrice, che aveva minacciato di dimettersi, è stata fermata da Berlusconi per evitare un «effetto domino». Eppure, l'epilogo è tutt'altro che scongiurato. Gli avversari, in testa il Pd di Pier Luigi Bersani, invocano un suo passo indietro, forse sperando che non lo faccia. Il centrosinistra avrebbe la campagna elettorale già pronta, con l'intera giunta di centrodestra come bersaglio.

Ma c'è una variabile, rappresentata dall'Udc. Nel Lazio è al governo con la Polverini, mentre Berlusconi e Pier Ferdinando Casini sono in guerra da tempo. Lo scandalo, però, sta accelerando lo sganciamento dei centristi, secondo i quali «la Polverini non può andare avanti così», nelle parole del segretario dell'Udc, Lorenzo Cesa. Gli sviluppi rimangono imprevedibili. Alfano avverte: «Ci aspettiamo che anche gli altri partiti si comportino come il Pdl, il "così fan tutti" non giustifica nessuno». Ma per il momento, a dover convincere che sta facendo sul serio è soprattutto il suo.

Massimo Franco

21 settembre 2012 | 7:49© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/nota/12_settembre_21/nota_17b02396-03b0-11e2-a116-9748af084362.shtml#


Titolo: MASSIMO FRANCO Il rito miope dell'autoassoluzione
Inserito da: Admin - Settembre 26, 2012, 03:39:47 pm
LA NOTA

Il rito miope dell'autoassoluzione

L' autoassoluzione della giunta regionale del Lazio è così perentoria da apparire sfacciata, quasi impudica. L'assenza di dimissioni di Renata Polverini, e la sua rivendicazione di avere «bonificato» la situazione facendo saltare un paio di teste, è peggio di una presa in giro: dimostra una miopia ai limiti dell'irresponsabilità.

Si tratta di una cecità politica che coinvolge quanti a livello nazionale pensano di poter comprimere una montagna di soldi e fango destinati a tracimare. La Guardia di Finanza che entra nella sede della Regione Campania e indaga sulle spese dell'Idv di Antonio Di Pietro a Bologna, allarga l'obiettivo e addita gli enti locali come una vera idrovora del denaro pubblico. D'altronde, lo scandalo segue la scia delle inchieste della magistratura che hanno toccato Lombardia e Sicilia, abbracciando simbolicamente l'intero territorio nazionale.

Si delinea dunque proprio quell'«effetto domino» politico-giudiziario che i partiti temono a pochi mesi dalle elezioni. Il fatto che di fronte ad accuse gravi di sperperi la reazione sia quella di farsi schermo con la legge, costituisce un'aggravante. Si tratta, di fatto, di norme di autofinanziamento che le nomenklature si sono ritagliate su misura, e che gridano vendetta in una fase di crisi economica acuta. Rappresentano la degenerazione caricaturale del potere legislativo, e minacciano di colpire a morte qualunque idea di autonomia locale. Sono destinate a portare non soltanto al disgusto nei confronti della politica, ma ad una riduzione drastica e a furor di popolo dei fondi per regioni e comuni.

Il rischio è che le vittime innocenti del malcostume diffuso, anche se si spera non generalizzato, siano settori come la sanità, l'istruzione, i servizi. Quando si pensa che in passato sindaci e governatori erano considerati il serbatoio naturale al quale attingere la classe politica nazionale, vengono i brividi. Oltre a bruciare denaro dei contribuenti, va in fumo qualunque speranza di ricambio. Il «potere municipale» si sta manifestando con le caratteristiche di una partitocrazia minore ma più famelica e più arrogante dell'altra. Forse perché la selezione è avvenuta al ribasso; o perché ha goduto di riflettori addomesticati e indulgenti, all'ombra di una altisonante retorica federalista.

L'idea di fingere punizioni esemplari per dare un contentino all'opinione pubblica senza cambiare comportamenti e meccanismi di finanziamento, è illusoria. I calcoli elettorali dei partiti, più preoccupati di non perdere clientele e voti che di dare segnali veri di rinnovamento, somigliano a sacchetti di sabbia affastellati in fretta e furia per fermare uno tsunami. In realtà, il collasso del modello regionale è il cascame inevitabile della crisi della Seconda Repubblica. E l'implosione di alcune forze politiche è il segno che il collante della spesa pubblica non regge più neppure a livello locale. Anzi, se ha retto tanto a lungo è stato solo grazie ad una complicità trasversale.

Il 2012 promette di essere la tomba di un modo di governare come lo sono state le inchieste giudiziarie di una ventina d'anni fa. E il vuoto di potere che si intravede provoca vertigini ancora più preoccupanti. Mette paura non tanto il rifiuto di vederlo, ma l'incapacità di farlo per mancanza di consapevolezza. Un'Italia che per anni è stata «mitridatizzata» assorbendo dosi di velenoso malgoverno, adesso è costretta a guardare in faccia politici locali che sono lo specchio di questa lunga impunità. Ma forse la nomenklatura è convinta che si possa continuare all'infinito, perché «così fan tutti». La novità è che, moralità o moralismi a parte, si tratta di un andazzo troppo costoso. Il parassitismo e l'inefficienza hanno un prezzo che pochi, ormai, si possono permettere di sostenere. Dover ricorrere di nuovo alla «supplenza» dei tecnici o delle procure è la certificazione dell'ennesima involuzione.

Massimo Franco

22 settembre 2012 | 8:23© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/nota/12_settembre_22/nota_0cabcab2-047e-11e2-ab71-c3ed46be5e0b.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO Il governo è ansioso di riuscire a offrire un'agenda popolare
Inserito da: Admin - Ottobre 12, 2012, 10:25:07 pm
LA NOTA

Il governo è ansioso di riuscire a offrire un'agenda popolare

I confini politici e finanziari delle regioni si vanno restringendo. Lo Stato si riprende un ruolo di regista nella distribuzione delle risorse, che gli sprechi e gli scandali emersi negli ultimi mesi negli enti locali fanno apparire inevitabile. Il taglio delle tasse per i redditi più bassi fa pensare che il governo di Mario Monti voglia bilanciare l'immagine di un esecutivo accusato di aumentare solo il carico fiscale: nonostante l'aumento dell'Iva di un punto dalla primavera del 2013. Traspare la preoccupazione di non perdere il consenso dell'opinione pubblica, sebbene il premier non abbia obiettivi elettorali.

Non ci può essere l'«agenda popolare» invocata per il futuro dal Pd. Ma senza dirlo, il presidente del Consiglio cerca di venire incontro a quanti insistono perché contraddica l'impressione di una manovra che, come accusa la Cgil, è «depressiva» per l'economia e i consumi; e colpisce i ceti più poveri. Eppure, anche gli ultimi provvedimenti avranno un costo sociale elevato. L'allarme permanente dei governatori, che il loro presidente Vasco Errani ha convocato anche per oggi, segnala il timore di uno smantellamento progressivo delle funzioni e dei margini di manovra delle amministrazioni periferiche.

Al punto che qualcuno si chiede provocatoriamente se non sia meglio abolire le regioni. La legge di stabilità approvata l'altra notte conferma soltanto che «governare sarà difficile», spiega il segretario del Pd, Pier Luigi Bersani. «C'è un intreccio micidiale tra austerità, recessione e distacco dei cittadini». E annuncia di temere licenziamenti e disservizi per scuola e sanità. Bersani prevede oltre 6000 insegnanti messi fuori dal mondo del lavoro. Il ministro della Sanità, Renato Balduzzi, assicura che non verranno intaccati i servizi sanitari anche di fronte a un preventivo di 600 milioni di euro in meno. Ma l'inquietudine che si respira fa pensare l'opposto. L'insofferenza dei partiti, che ritengono di dare voce ad uno scontento generalizzato, è vistosa e trasversale: benché appaia tardiva e un po' strumentale. Va dalla Cgil di Susanna Camusso al Pdl, scontenti per motivi diversi per la riduzione dell'Irpef e l'aumento dell'Iva. È soprattutto la Conferenza delle Regioni, tuttavia, a sentirsi accerchiata. Errani addita «manovre» che comprometterebbero la possibilità di «erogare servizi» nelle scuole e negli ospedali. I leghisti evocano il federalismo come antidoto al ritorno dello Stato centrale. Ma la loro sembra una battaglia difensiva, di fronte a un panorama di malgoverno, di soldi buttati al vento, e di nomenklature che in alcuni casi mescolano inefficienza e comportamenti da codice penale. Le notizie che arrivano dalla Lombardia, con l'ombra della 'ndrangheta calabrese sull'elezione di alcuni consiglieri e la Lega pronta a togliere il sostegno al governatore Roberto Formigoni, preannunciano altra «pubblicità negativa» per i governi locali.

Massimo Franco

11 ottobre 2012 | 7:55© RIPRODUZIONE RISERVATA

DA - http://www.corriere.it/politica/nota/12_ottobre_11/franco_4d76ed08-1368-11e2-ad6a-6254024087b3.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO Gli errori da non ripetere
Inserito da: Admin - Ottobre 14, 2012, 03:57:50 pm
IL QUIRINALE E IL DOPOVOTO

Gli errori da non ripetere

Le parole di Giorgio Napolitano sulla riforma elettorale sono un plauso alla fine dello status quo: quello stallo che da mesi frustra e ridicolizza l’impegno solenne a riscrivere almeno alcune regole. Ma contengono anche un monito a non usare l’urgenza del cambiamento come alibi per coprire operazioni larvatamente nostalgiche. La preoccupazione che traspare dalla lettera che ieri il capo dello Stato ha scritto al presidente del Senato, Renato Schifani, è di evitare un ritorno dei partiti alle alleanze forzate del passato. Napolitano allude non al passato remoto della Prima Repubblica, ma a quello recente della Seconda. È uno sfondo di macerie politiche, oltre che economiche, da non riproporre.

Riassemblare sotto nuove etichette coalizioni arlecchinesche costruite solo per vincere le elezioni rendendo patologica l’instabilità, significherebbe perseverare in errori che sono già costati molto, troppo, all’Italia. Si tratta di un assillo che non poggia tanto su quanto è stato fatto finora. Tenta di guardare un po’ oltre, al 2013; e di scongiurare una deriva che, di fallimento in fallimento, potrebbe risuscitare sodalizi cementati dall’istinto di sopravvivenza. Se ne colgono tracce, per quanto labili, sia a destra che a sinistra. Forse perché il presente costringe a rimettersi in gioco, e quasi nessuno è pronto a farlo. Non, comunque, nella misura necessaria per coinvolgere un’opinione pubblica che ha mentalmente già voltato pagina.

Il messaggio di Napolitano è dunque, formalmente, al Parlamento. Ma parla ai partiti che dovrebbero concordare la legge elettorale; e che si sono divisi sulla prima mediazione, senza tuttavia precludersi margini di dialogo nelle Aule del Parlamento. Sono questi margini che il presidente della Repubblica spera si allarghino, permettendo l’approvazione di una riforma nella quale possa riconoscersi una maggioranza «anomala» e trasversale simile a quella costruita attorno al governo di Mario Monti. Il «sì» corale che il Quirinale ha ricevuto non deve ingannare, però. Non significa automaticamente che un epilogo positivo è a portata di mano. Per il momento, si tratta più semplicemente della volontà delle forze politiche di rivendicare la loro buona disposizione, attribuendo resistenze, veti e calcoli inconfessabili agli avversari.

L’incognita è se e quanto delle proprie convenienze elettorali ogni partito sia disposto a sacrificare sull’altare di un’intesa che non riproponga vecchi schemi: si parli di preferenze, collegi, premi di maggioranza, soglie di sbarramento. Certo, l’ipotesi di tornare alle preferenze in una fase in cui riaffiorano gli scandali su un clientelismo che sconfina nei voti comprati e venduti dalla criminalità, è un forte argomento contrario. Fornisce solide obiezioni a quanti le considerano la fonte primaria di una degenerazione caricaturale della democrazia. Ma demonizzare questo aspetto senza garantire una selezione rigorosa dei candidati non basterebbe. Tanto meno servirebbe azzuffarsi per giustificare l’impossibilità di cambiare. Sebbene sia lontana appena un anno, anche la Seconda Repubblica è passato remoto.

Massimo Franco

13 ottobre 2012 | 7:38© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_ottobre_13/franco-errori-da-non-ripetere_eed208d2-14f7-11e2-adc6-ff8054e34060.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO IL DOCUMENTO CATTOLICO, LA MOSSA DEL CAVALIERE
Inserito da: Admin - Ottobre 26, 2012, 04:18:53 pm
IL DOCUMENTO CATTOLICO, LA MOSSA DEL CAVALIERE

Tutte le carte da rimescolare


Il vuoto lasciato dalla tortuosa uscita di scena di Silvio Berlusconi induce a chiedersi dove andrà il suo elettorato. È una domanda strategica, perché l'alleanza modellata dal e sul Cavaliere ha rappresentato il baricentro del sistema politico italiano dopo la fine della Guerra fredda. A livello governativo, si può dire che lo spazio è stato occupato da Mario Monti, icona di un'«altra Italia» più credibile sul piano internazionale rispetto a quella degli ultimi esecutivi. Ma nelle urne il presidente del Consiglio sarà presente solo come punto di riferimento simbolico: un «non candidato» al quale ci si può richiamare, ma che non si può votare.

La sua comparsa ha accelerato la scomposizione dei vecchi schieramenti. E il tentativo di aggregazione fra quanti si definiscono «montiani» e vogliono offrire una scelta alternativa a quelle tradizionali, segna una novità e un passo avanti: se non altro perché mette da parte ambizioni e velleità personali. Il documento che pubblichiamo oggi supera la nebulosa del convegno di cattolici dello scorso anno a Todi. E, nel suo trasversalismo, punta a ridurre la frammentazione e a rilanciare un'agenda europea che altrimenti apparirebbe annacquata, se non disdetta. È un fronte che prima mostrava generali e colonnelli inclini al protagonismo. Ora, invece, cerca di diventare l'interlocutore di un elettorato in fuga dal centrodestra e, in parte, dalla sinistra.

Di quest'area sarebbe perno naturale Pier Ferdinando Casini, il più «montiano» fra quelli che appoggiano il premier. Ma un Pdl schierato con Palazzo Chigi, seppure per necessità, insidia e insieme incrocia l'Udc: anche per il plauso col quale il Vaticano si è affrettato a salutare il passo indietro di Berlusconi. E il Pd di Pier Luigi Bersani, slittando verso un'alleanza con le sinistre, di fatto sta archiviando Monti, a costo di regalarlo agli avversari. La stessa idea di ereditare una fetta del consenso del centrodestra per forza di inerzia è tutta da verificare. È rivelatore lo smottamento di Pdl e Lega alle ultime Amministrative: un calo che non ha portato voti al cosiddetto «Terzo polo», se non in misura trascurabile.

Significa che i due elettorati non sono vasi comunicanti. Una parte consistente dei frutti raccolti in passato dal Cavaliere e dal Carroccio di Umberto Bossi è rotolata nella nebulosa del Movimento 5 Stelle del comico populista Beppe Grillo: un «parcheggio» che espande i suoi confini, insieme al disorientamento e alla delusione di elettori che optano per la protesta perché non vedono un'alternativa di governo all'orizzonte. È possibile che per arginare questa deriva i partiti alla fine decidano di tenersi la brutta legge elettorale di adesso. Ma il risultato sarebbe quello di perpetuare con una forzatura alleanze ormai finite, prolungando e complicando una fase di transizione.

Non ricandidandosi, Berlusconi ha voluto togliere l'ultimo alibi agli avversari, e presentarsi come un benemerito disinteressato al potere. In realtà, ha soltanto preso atto che la sua stagione è finita. Comunque sia, la mossa offre a tutti l'obbligo di ridefinirsi. Da questo momento, velare le proprie responsabilità dietro quelle altrui sarà più difficile. Un elettorato stanco e diffidente è meno disposto ad accettare mediocri scaricabarile di fine legislatura.

Massimo Franco

26 ottobre 2012 | 9:22© RIPRODUZIONE RISERVATA

DA - http://www.corriere.it/editoriali/12_ottobre_26/tutte-le-carte-da-rimescolare-franco_74b3a26a-1f2c-11e2-8e43-dbb0054e521d.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO Ma il centrodestra fatica ad emanciparsi dall’era del Cavaliere
Inserito da: Admin - Ottobre 27, 2012, 05:13:31 pm
LA NOTA

Ma il centrodestra fatica ad emanciparsi dall’era del Cavaliere

Un Pdl in trincea costretto a rallentare le aperture all’area moderata


Il contraccolpo immediato potrebbe scaricarsi sulle elezioni siciliane di domani, nelle quali adesso il Pdl rischia ancora di più di quanto già temesse. La tegola della condanna di Silvio Berlusconi per frode fiscale ieri a Milano colpisce un partito che sta faticosamente archiviando il suo leader; e tentando di reagire all’ondata di scandali che colpiscono i dirigenti locali dalla Lombardia al Lazio. Nel medio termine, invece, le conseguenze vanno decifrate con maggiore cautela. La perentorietà con la quale i berlusconiani più oltranzisti invocano il terzo ripensamento del loro capo, respingendolo a candidarsi a Palazzo Chigi contro le «toghe rosse», non va sottovalutata. È difficile che la mossa abbia un seguito. Non solo perché incombe il processo sui rapporti del Cavaliere con la minorenne marocchina Ruby, ma perché i sondaggi consegnano percentuali sconfortanti. Berlusconi ieri ha dichiarato che la sentenza «conferma l’accanimento giudiziario e l’uso della giustizia a fini di lotta politica. Non si può andare avanti così». Ed ha ripetuto che era certo di essere assolto. D’altronde, lo aveva detto nei giorni scorsi al procuratore Ilda Boccassini, andandole a stringere la mano in aula. Ma sullo sfondo della condanna, quel gesto assume un significato diverso. Il sospetto è che Berlusconi temesse il verdetto e abbia giocato d’anticipo. La stessa decisione di togliersi dalla competizione per il premierato alla vigilia della sentenza suscita commenti maligni: tanto che è lui stesso a negare qualunque «connessione » fra i due fatti. Al Pdl non resta che proteggere il suo ex premier. Gli è impossibile scindere il proprio destino da quello del fondatore. Ma questo complica il percorso di un partito che sta cercando una transizione indolore, una nuova identità e nuove alleanze in vista del voto; e invece si ritrova intrappolato in uno schema che porta in un vecchio vicolo cieco. Sia che la condanna freni l’approdo al postberlusconismo, sia che lo acceleri, mette comunque in tensione il perimetro del centrodestra. Costringe il vertice del Pdl a spiegare quanto l’ipoteca di Berlusconi pesi ancora sul presente. Lo schiaccia in una trincea dalla quale diventa un’impresa rivolgere appelli all’unità dei moderati, si tratti dell’Udc o del movimento che punta ad una Terza Repubblica. La solidarietà a Berlusconi è inevitabile. Si rivela anche la controprova, però, di quanto sarà lenta e tortuosa l’emancipazione dalla sua leadership. Il presidente dell’Udc, Rocco Buttiglione, invita a prendere atto che il bipolarismo è finito e il Pdl andrebbe sciolto. L’effetto di quanto sta avvenendo, tuttavia, può avere il risultato di irrigidire e congelare la situazione, non di renderla più fluida. E dunque gonfia di incognite lo stesso progetto centrista che scommette sulla liquidazione rapida del berlusconismo e su una fuga degli elettori del centrodestra per intercettarne il maggior numero possibile. È come se la condanna e lo scontro fra Pdl e magistratura facessero rimbalzare a forza lo scenario italiano nel passato: con la stampa internazionale felice di ritrovare la saga di un’Italia identificata col Cavaliere e i suoi scandali. Anche se la saga è finita da tempo, e nemmeno la condanna potrà resuscitarla.

Massimo Franco

27 ottobre 2012 | 7:42© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/nota/12_ottobre_27/nota_23e10e18-1ff9-11e2-9aa4-ea03c1b31ec9.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO IL DOCUMENTO CATTOLICO, LA MOSSA DEL CAVALIERE
Inserito da: Admin - Ottobre 27, 2012, 05:37:40 pm
IL DOCUMENTO CATTOLICO, LA MOSSA DEL CAVALIERE

Tutte le carte da rimescolare


Il vuoto lasciato dalla tortuosa uscita di scena di Silvio Berlusconi induce a chiedersi dove andrà il suo elettorato. È una domanda strategica, perché l'alleanza modellata dal e sul Cavaliere ha rappresentato il baricentro del sistema politico italiano dopo la fine della Guerra fredda. A livello governativo, si può dire che lo spazio è stato occupato da Mario Monti, icona di un'«altra Italia» più credibile sul piano internazionale rispetto a quella degli ultimi esecutivi. Ma nelle urne il presidente del Consiglio sarà presente solo come punto di riferimento simbolico: un «non candidato» al quale ci si può richiamare, ma che non si può votare.

La sua comparsa ha accelerato la scomposizione dei vecchi schieramenti. E il tentativo di aggregazione fra quanti si definiscono «montiani» e vogliono offrire una scelta alternativa a quelle tradizionali, segna una novità e un passo avanti: se non altro perché mette da parte ambizioni e velleità personali. Il documento che pubblichiamo oggi supera la nebulosa del convegno di cattolici dello scorso anno a Todi. E, nel suo trasversalismo, punta a ridurre la frammentazione e a rilanciare un'agenda europea che altrimenti apparirebbe annacquata, se non disdetta. È un fronte che prima mostrava generali e colonnelli inclini al protagonismo. Ora, invece, cerca di diventare l'interlocutore di un elettorato in fuga dal centrodestra e, in parte, dalla sinistra.

Di quest'area sarebbe perno naturale Pier Ferdinando Casini, il più «montiano» fra quelli che appoggiano il premier. Ma un Pdl schierato con Palazzo Chigi, seppure per necessità, insidia e insieme incrocia l'Udc: anche per il plauso col quale il Vaticano si è affrettato a salutare il passo indietro di Berlusconi. E il Pd di Pier Luigi Bersani, slittando verso un'alleanza con le sinistre, di fatto sta archiviando Monti, a costo di regalarlo agli avversari. La stessa idea di ereditare una fetta del consenso del centrodestra per forza di inerzia è tutta da verificare. È rivelatore lo smottamento di Pdl e Lega alle ultime Amministrative: un calo che non ha portato voti al cosiddetto «Terzo polo», se non in misura trascurabile.

Significa che i due elettorati non sono vasi comunicanti. Una parte consistente dei frutti raccolti in passato dal Cavaliere e dal Carroccio di Umberto Bossi è rotolata nella nebulosa del Movimento 5 Stelle del comico populista Beppe Grillo: un «parcheggio» che espande i suoi confini, insieme al disorientamento e alla delusione di elettori che optano per la protesta perché non vedono un'alternativa di governo all'orizzonte. È possibile che per arginare questa deriva i partiti alla fine decidano di tenersi la brutta legge elettorale di adesso. Ma il risultato sarebbe quello di perpetuare con una forzatura alleanze ormai finite, prolungando e complicando una fase di transizione.

Non ricandidandosi, Berlusconi ha voluto togliere l'ultimo alibi agli avversari, e presentarsi come un benemerito disinteressato al potere. In realtà, ha soltanto preso atto che la sua stagione è finita. Comunque sia, la mossa offre a tutti l'obbligo di ridefinirsi. Da questo momento, velare le proprie responsabilità dietro quelle altrui sarà più difficile. Un elettorato stanco e diffidente è meno disposto ad accettare mediocri scaricabarile di fine legislatura.

Massimo Franco

26 ottobre 2012 | 9:22© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_ottobre_26/tutte-le-carte-da-rimescolare-franco_74b3a26a-1f2c-11e2-8e43-dbb0054e521d.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO Schiaffo ai moderati per rovesciare il tavolo
Inserito da: Admin - Ottobre 28, 2012, 11:04:21 pm
Scenari

Schiaffo ai moderati per rovesciare il tavolo

Ora Berlusconi potrebbe optare per un partito «di guardie scelte» per fronteggiare la «repubblica giustizialista»


Le convulsioni berlusconiane raccontano la parabola di un leader corroso da una miscela di voglia di rivincita, e di impotenza; e la tentazione di scaricare frustrazioni e paure sul governo di Mario Monti. La minaccia di togliere la fiducia al premier è una mano tesa al leghismo e alle sue parole d'ordine più viete contro l'Europa e la Germania. Ma è anche la rinuncia ad una linea moderata; e dunque l'allontanamento da ogni ipotesi di dialogo con quel centro allo stato nascente che ieri, forse, ha fatto un altro passo avanti.

C'è da chiedersi se Berlusconi abbia irrigidito la sua posizione a causa della sentenza di condanna in primo grado a quattro anni per frode fiscale, emessa l'altro ieri dal tribunale di Milano. Oppure se quel verdetto sia stato solo il pretesto per imboccare una campagna elettorale giocata contro Monti e a sostegno della teoria di un «complotto internazionale» dal quale sarebbe nato l'Esecutivo dei tecnici. È evidente che l'ex premier ha scelto di assecondare la «pancia» del Pdl; e di cavalcare tutti i malumori, giustificati e no, che lievitano di fronte ad una politica economica tesa a imporre misure dolorose per ridare all'Italia credibilità internazionale e una base solida per non disperderla.

Più che una scelta lucida studiata per ricompattare il proprio partito, quella del Cavaliere suona come una mossa estrema per evitarne l'esplosione. Ma i silenzi e gli imbarazzi di alcuni degli uomini a lui più vicini lasciano capire che si tratta di un azzardo. Quando ieri si è saputo che avrebbe tenuto una conferenza stampa per ribadire di volere restare «in campo», ci sarebbero state discrete pressioni dal Pdl affinché desistesse. L'idea che Berlusconi avesse il terzo ripensamento in pochi mesi, ricandidandosi, più che entusiasmi ha provocato un'epidemia di brividi di imbarazzo fra i suoi. E in altri, gelo, risate e ad alta voce: è successo nella platea dei giovani imprenditori a Capri, e in quella di Stresa dove si erano dati appuntamento centristi di lungo corso o in pectore.

L'area che tende a consolidarsi attorno all'Udc di Pier Ferdinando Casini e di Gianfranco Fini, e che comprende movimenti come l'Italia Futura di Luca di Montezemolo (ieri rappresentato dal coordinatore Federico Vecchioni) o le Acli di Enrico Olivero, per ora ha un solo vero punto in comune: il giudizio positivo nei confronti di Monti; la proiezione europea; l'esigenza di non azzerare il patrimonio di affidabilità ricostruito in questi mesi dal presidente del Consiglio dopo gli anni berlusconiani; e la sua conferma a Palazzo Chigi per non buttare via dopo le prossime elezioni i risultati, per quanto controversi, raggiunti in dodici mesi. È un'analisi condivisa dal presidente dell'Antimafia Giuseppe Pisanu e, con cautela, anche dall'ex leader di Confindustria, Emma Marcegaglia, entrambi presenti ieri a Stresa.

Casini ha ribadito che la credibilità all'estero dell'attuale premier è «incomparabile» anche rispetto alla candidatura del segretario del Pd, Pier Luigi Bersani. Mentre però Bersani si propone come premier sottolineando il ruolo positivo svolto da Monti in questi mesi, Berlusconi lo liquida due volte: sia come possibile presidente del Consiglio non candidato ma «chiamato» dopo il voto del 2013, sia con la bocciatura della sua politica. La cosa singolare è che ultimamente il Pdl appariva deciso ad appoggiarlo e a rivendicare questa scelta. Evidentemente, però, è dominato da una confusione che produce contraddizioni, scarti, faide. E l'attacco di ieri, nello stesso giorno in cui a Roma si celebrava un «no Monti day», una sorta di giornata della rabbia organizzata dall'estrema sinistra e dai «black bloc», salda uno strano fronte: un «partito trasversale» antigovernativo, accomunato dalla protesta; e che mette nell'angolo la filiera «montiana» che pure esiste nel Pdl.

Si tratta con ogni probabilità dell'ennesimo passaggio tattico: una mossa da decifrare e verificare quando sarà più chiaro se prenderà corpo una riforma elettorale; ed eventualmente quale. Se, come parrebbe, si arrivasse a fine legislatura con un nulla di fatto, resterebbe il sistema attuale: sebbene con un decreto che dovrà correggere la parte sul premio di maggioranza, perché c'è una sentenza della Corte costituzionale che impone di ridefinire il «tetto» raggiunto da una coalizione per farlo scattare. Questo porterebbe ad una imitazione dei confusi cartelli elettorali che in questi anni hanno permesso di vincere le elezioni ma non di governare. Se invece alla fine spuntasse una riforma in senso proporzionale, crescerebbe la spinta a correre ognuno per sé.

E Berlusconi potrebbe optare per un «partito di guardie scelte» chiamato a combattere magari dall'opposizione contro quella che definisce «repubblica giustizialista», confidava ieri in privato un esponente del Pdl. Per paradosso, le elezioni sono dietro l'angolo, eppure lontanissime: almeno nel senso che i colpi di scena, anche i più inquietanti, stanno appena cominciando. In palio ci sono non tanto lo scalpo di Berlusconi o dei suoi avversari, ma i voti del centrodestra. Fra oggi e domani, dal ginepraio elettorale siciliano arriveranno i primi indizi. E prevedibilmente i primi contraccolpi.

Massimo Franco

28 ottobre 2012 | 8:23© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/12_ottobre_28/schiaffo-ai-moderati-per-rovesciare-il-tavolo-franco_ae13ac74-20cd-11e2-89f5-89e01e31e2ac.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO Una soluzione di buon senso
Inserito da: Admin - Novembre 17, 2012, 09:09:55 pm
LE ELEZIONI E IL GOVERNO

Una soluzione di buon senso


Non sarebbe facile spiegare all'Europa, ai mercati finanziari e all'opinione pubblica italiana una crisi del governo di Mario Monti scaturita da una lite sulla data del voto in tre Regioni travolte dagli scandali. I primi ad avere qualche imbarazzo nel conferire razionalità a quella che apparirebbe una follia politica sarebbero probabilmente gli stessi partiti della maggioranza. Il sussulto muscolare, seppure in tono minore, ingigantirebbe la loro immagine di debolezza; e il distacco da una realtà tuttora in bilico, ostaggio della crisi economica.
Si coglie uno scarto vistoso e preoccupante fra una forte pressione internazionale, europea ma anche statunitense, a garantire continuità alle scelte di politica economica dell'Italia; e la disinvoltura, finora solo verbale, con la quale c'è chi ritiene di liquidare un'esperienza di governo per calcoli elettorali e puntigli contrapposti. È come se l'avvicinamento alle urne portasse all'allontanamento dalla ragionevolezza: mentre ci si aspetterebbe il contrario. Eppure, è doveroso sperare che alla fine un compromesso si trovi; e che si eviti un esito traumatico della legislatura.

Altrimenti, andrebbe sciupato il tentativo compiuto negli ultimi dodici mesi di costruire pazientemente un altro percorso basato sulla prevedibilità, intesa come affidabilità, dell'Italia. Scaricare in extremis su Palazzo Chigi le convulsioni e le ambizioni dei partiti sarebbe il regalo finale a quella che, a torto o a ragione, viene definita antipolitica. Il Quirinale ritiene che ci siano alcuni mesi di legislatura da riempire in modo costruttivo e assennato: in primo luogo l'approvazione della legge di Stabilità e, se c'è un residuo di consapevolezza, la riforma del sistema elettorale.

Onorando questi due impegni, probabilmente il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, potrebbe anche acconsentire a sciogliere con un minimo di anticipo le Camere. Quello che vuole evitare a tutti i costi, è un'accelerazione che non sia condivisa e che ponga le basi per un altro periodo di instabilità dopo le elezioni. In caso di accordo, il capo dello Stato forse accorcerebbe di qualche settimana anche il suo settennato. Si sa che, precedenti alla mano, vuole lasciare la scelta del prossimo presidente del Consiglio al suo successore che verrà eletto dal nuovo Parlamento.

Può darsi che da qui a quel momento avvengano fatti nuovi, oggi imprevedibili: compresa l'ipotesi che Monti renda più esplicita la propria disponibilità a restare a Palazzo Chigi dopo il voto, come sperano la Casa Bianca di Barack Obama, le istituzioni finanziarie internazionali e le principali cancellerie europee. Ma senza gesti di responsabilità e di duttilità da parte di tutti fin dai prossimi giorni, il pericolo di una regressione diventa concreto. Ed è bene non farsi illusioni: un azzardo incomprensibile sarebbe sanzionato duramente a livello internazionale e dall'elettorato. In una fase così drammatica, il gioco del cerino brucerà le dita a tutti: e non solo le dita.

Massimo Franco

16 novembre 2012 | 8:09© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_novembre_16/soluzione-buon-senso-franco_ef0750f2-2fb7-11e2-9676-750af71025bf.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO Il non voto che peserà in primavera
Inserito da: Admin - Novembre 23, 2012, 05:06:26 pm
ELEZIONI IN SICILIA - L'ANALISI

Il non voto che peserà in primavera

Il risultato estremizza quella che potrebbe rivelarsi una tendenza nazionale


La tentazione di vedere nel risultato siciliano un'anticipazione di quello delle prossime elezioni politiche è talmente gonfia di implicazioni che va tenuta un po' a freno. E non tanto perché il partito più votato dell'Isola è il Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo. La perplessità nasce da quel 52,56 per cento di persone che sono rimaste a casa. Forse è possibile azzardare un'ipotesi: il risultato estremizza quella che potrebbe rivelarsi una tendenza nazionale. È la voragine lasciata dalla triste decadenza di Silvio Berlusconi e del suo sistema di potere, che si traduce per ora in astensionismo, frammentazione e derive populiste. E riconsegna un'Italia senza vere maggioranze. È una prospettiva da non augurarsi, ma neppure da rimuovere: se non altro per non rimanere spiazzati. Chiunque vinca, a meno che non sia legittimato da numeri plebiscitari, ormai deve cominciare a pensare non solo alla propria maggioranza, ma alle sue dimensioni e alla sua qualità. E dunque porsi il problema di rappresentare e dare voce ai «non elettori» almeno quanto agli elettori. La Sicilia non si limita a radere al suolo un sistema dei partiti passato in poco più di un decennio dai 61 consiglieri a zero ottenuti dal centrodestra nel 2001, ad una realtà in cui nessuno si avvicina al 20 per cento.

Offre anche un panorama dei problemi con i quali l'intero Paese potrebbe fare i conti entro qualche mese.

Una legge elettorale che non produce stabilità. Coalizioni vittoriose solo sulla carta. Corpose opposizioni dai connotati antieuropei. Classi dirigenti un po' gattopardesche, un po' nuove, comunque disomogenee, chiamate a governare situazioni di debito e una crisi economica inquietanti. Verrebbe da dire che il microcosmo della Sicilia fornisce la controprova più traumatica della prospettiva di un'Italia condannata all'ingovernabilità; e dunque costretta a riflettere sulla possibilità che Mario Monti rimanga a Palazzo Chigi, seppure a capo di un governo politico, per dare copertura e legittimità internazionale a un Parlamento sfrangiato. Che l'Italia rimanga in una situazione precaria, è indubbio.

A Madrid è stato chiesto al premier se la salita di ieri dello spread (lo scarto fra interessi sui titoli di Stato italiani e tedeschi) sia attribuibile alle minacce scomposte che sabato scorso Silvio Berlusconi ha lanciato contro il governo. Con un misto di ironia e understatement, Monti ha risposto: «Non ci avevo pensato». E quando gli hanno domandato che accadrebbe se il Pdl gli togliesse la fiducia, la replica è stata: «Chiedete alle forze politiche e ai mercati finanziari». Ma la sensazione è che quanto sta succedendo vada al di là del ruolo di Monti, e ridimensioni perfino il successo del Movimento 5 Stelle: nel senso che Grillo copre certamente un vuoto di offerta politica, ma solo in parte.

C'è piuttosto da chiedersi quale sia il percorso misterioso grazie al quale i partiti riusciranno a portare alle urne milioni di elettori sfiduciati, ormai oltre la soglia dell'indignazione e della protesta fine a se stessa. L'analisi-scorciatoia, adottata soprattutto dai settori più berlusconiani di un Pdl in brandelli e con la guerra in casa, è quella che scarica la responsabilità dell'astensionismo record su una crisi sociale aggravata dal governo Monti. Non stranamente, l'analisi tende a coincidere con quella della Lega; di un'Idv senza voti e con un Antonio Di Pietro vacillante; e dell'estrema sinistra che non ha intercettato né il non voto, né i consensi di Grillo. La realtà sembra più semplice.

Costringe tutti i partiti a una rassegna non di comodo dei limiti e dei ritardi mostrati negli ultimi anni; e magari a cercare un rimedio approvando qualche simulacro di riforma, a cominciare da quella del sistema elettorale. Altrimenti, al massimo possono diventare un argine all'ingovernabilità, come è accaduto in Sicilia con l'alleanza vincente fra Pd e Udc; ma con una legittimazione indebolita dalla maggioranza assoluta degli astenuti. Senza basi solide, e senza una visione lucida delle sfide del futuro, qualunque argine resiste poco. E rischia di essere spazzato via da un distacco dalla democrazia, del quale la Seconda Repubblica fu un antidoto nel 1994; e di cui oggi, invece, è diventata la causa principale.

Massimo Franco

30 ottobre 2012 | 7:41© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_ottobre_30/non-voto-pesera-in-primavera-franco_5153e594-2258-11e2-a409-d9bbe43caf7e.shtml


Titolo: M. FRANCO Aumenta il pericolo di riproporre alleanze che non danno stabilità
Inserito da: Admin - Dicembre 06, 2012, 04:53:43 pm
LA NOTA

Aumenta il pericolo di riproporre alleanze che non danno stabilità

Lo stallo sulla riforma elettorale accentuato dal caos nel Pdl


La marcia verso alleanze simili a quelle del 2008 comincia ad apparire incredibilmente possibile. Da una parte uno schieramento di sinistra ritoccato e corretto per vincere, ma non si capisce bene se anche per governare; dall'altra l'esercito sbandato del centrodestra trionfante quattro anni e mezzo fa, e probabilmente capitanato ancora da quel Silvio Berlusconi costretto a gettare la spugna a fine 2011 per evitare il baratro finanziario. Sarebbe un esito fallimentare della legislatura, eppure rischia di prendere corpo, rinviando la riforma elettorale. La fotografia di ieri è quella, sconsolante, di una palude nella quale stagnano impotenza e minacce al governo.

Il Parlamento ha rinviato a oggi o all'ennesima prossima settimana una legge invocata e mancata da tutti. E l'ipoteca di un Pdl che dopo ore di riunione non sa ancora come si presenterà alle elezioni e con quale leader, proietta sul finale di legislatura il pericolo di colpi di coda. L'insistenza con la quale Berlusconi chiede di votare a febbraio per le Regionali, già fissate, e per le Politiche, fa pensare al tentativo di riagganciare la Lega. Può darsi che le date cambino ancora. Ma la sola minaccia di una crisi del governo Monti fa apparire il centrodestra un'incognita.

Viene da chiedersi quale immagine la classe politica si prepari ad offrire. Il comico Beppe Grillo e il suo Movimento 5 Stelle, per quanto toccati da qualche contestazione interna, brinderanno. Ma al di là dei riflessi sull'elettorato italiano, l'immobilismo, anzi la regressione avrebbero effetti negativi a livello internazionale. Rispetto a un Monti che rivendica l'apprezzamento europeo e l'abbassamento netto dello spread , la differenza fra gli interessi sui titoli di Stato decennali italiani e tedeschi, i partiti si stanno prendendo un'apparente rivincita.

Il Pd riemerge dalle primarie con un Pier Luigi Bersani consolidato e attento a rassicurare Monti. Il tragitto verso la presidenza del Consiglio nel 2013 sembrerebbe spianato, con accanto il Sel di Nichi Vendola. Sull'altro versante, è nebbia fitta. Si intuisce soltanto lo scontro sordo fra Berlusconi e la nomenklatura che si muove intorno al segretario, Angelino Alfano. Ma il comunicato diramato ieri sera dal Cavaliere fa capire che la sua candidatura sarebbe più vicina. E questo rende meno scontato il «rilancio unitario del Pdl» accreditato ieri da Alfano.

La vittima di questo stallo è la riforma elettorale, con i due fronti che si rinfacciano la responsabilità del fallimento, come si temeva. Senza tuttavia cancellare la sensazione che qualcuno, a sinistra e a destra, alla fine ritenga più conveniente tenersi il sistema attuale, il cosiddetto «Porcellum», perché garantisce ai leader dei partiti potere di vita e di morte sulle liste e sui candidati. Sempre che la polemica sull' election day non scarichi le tensioni perfino su Palazzo Chigi. Sarebbe un disastro provocato per forza di inerzia, senza una strategia che non sia quella di una sopravvivenza precaria.

Massimo Franco

6 dicembre 2012 | 7:45© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/nota/12_dicembre_06/nota_b5aa5b44-3f6e-11e2-823e-1add3ba819e8.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO Il mondo ci guarda
Inserito da: Admin - Dicembre 07, 2012, 03:49:20 pm
Il mondo ci guarda

Giorgio Napolitano cerca di declassare quanto sta accadendo a tensioni pre elettorali. Il nervosismo dei partiti, e in particolare del Pdl, è evidente. Ma il capo dello Stato lo deve fare anche perché sa quanta sensibilità esista, soprattutto all’estero, rispetto alla tenuta del governo di Mario Monti. Vuole smentire l’immagine di un’Italia prossima al baratro, che la deriva populista di Silvio Berlusconi punta strumentalmente ad accreditare. Il tentativo del Quirinale è di impedire che un centrodestra sull’orlo del collasso scarichi le sue tensioni e la sua incertezza su Palazzo Chigi. Significherebbe esporre di nuovo il Paese agli attacchi della speculazione finanziaria, e annullare il poco o il tanto di positivo fatto in dodici mesi.

Per questo Napolitano è intenzionato ad arginare l’attacco del centrodestra contro il governo. L’astensione decisa ieri, e minacciata per il futuro prossimo fino al punto da provocare, pare di capire, una crisi, spingerebbe la situazione verso il precipizio di un voto molto anticipato. E dunque renderebbe ancora più convulso un finale di legislatura già complicato dall’incrocio fra elezioni regionali e politiche, e fine del settennato alla presidenza della Repubblica.

Berlusconi rischia di essere percepito come il cultore involontario del «tanto peggio tanto meglio». Evocando un fallimento delle istituzioni, che non c’è, può finire per produrlo davvero. Il dissenso di alcuni suoi parlamentari che ieri hanno votato comunque la fiducia a Monti, è solo una piccola eco delle profonde resistenze emerse negli ultimi mesi nel Pdl su una ricandidatura del Cavaliere. A oggi non si vedono nel partito di Angelino Alfano né la forza né il coraggio per ostacolare un progetto di rivincita almeno apparentemente velleitario; ma soprattutto perseguito senza tenere conto degli interessi dell’Italia.

L’ex premier sembra dimenticare che in questi mesi il Paese è faticosamente risalito da un baratro nel quale stava scivolando nella fase finale del suo governo. E non analizza le possibili conseguenze di una sua riapparizione come candidato alla presidenza del Consiglio. È difficile ignorare che ieri lo spread sia cresciuto non appena dal Senato sono arrivate le prime bordate del Pdl contro Monti: come se la fiducia degli investitori nei titoli italiani fosse di nuovo in bilico.

Non ci si può non domandare che cosa succederà se e quando la ricandidatura sarà ufficializzata. Va valutato il pericolo di rimettere in discussione la credibilità ritrovata dell’Italia. Anche perché, per il modo in cui critica Palazzo Chigi, Berlusconi lascia indovinare una campagna elettorale da picconatore dell’Europa «cattiva », della moneta unica «da ripensare», dei sacrifici «inutili». Sarebbe un trionfo di luoghi comuni «popolari» che alla fine, però, porterebbero a una rivincita non sua ma della realtà: pagata da tutti e amarissima anche per lui.

Massimo Franco

7 dicembre 2012 | 7:27© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_dicembre_07/mondo-ci-guarda_1d6d350e-4036-11e2-abcd-38132480d58e.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO Ma Berlusconi non riesce a ottenere l'election day a febbraio
Inserito da: Admin - Dicembre 09, 2012, 09:56:07 pm
LA NOTA

L'argine del Quirinale ridimensiona le pretese di un Pdl antigovernativo

Ma Berlusconi non riesce a ottenere l'election day a febbraio


Lo strappo è riuscito a metà. Silvio Berlusconi forse ha raggiunto il vantaggio di essere già in campagna elettorale, rispetto a partiti che per senso di responsabilità continuano ad appoggiare il governo di Mario Monti. Ma l'idea di aggiungere allo strappo la spallata contro la legislatura, per ottenere una giornata unica di elezioni anticipate a febbraio, si è dimostrata irrealizzabile. L'argine rappresentato dal capo dello Stato, Giorgio Napolitano, sembra in grado di reggere. Le consultazioni che ha fatto ieri al Quirinale riconsegnano un centrodestra disponibile a garantire un'«ordinata conclusione». Significa approvazione della legge di Stabilità e forse qualche altro provvedimento, con un occhio ai due vertici europei in programma a metà dicembre e a metà febbraio del 2013: anche se in occasione del secondo le Camere saranno già state sciolte.

L'ipotesi sempre più probabile è che si voti per le politiche il 10 e 11 marzo. Forse negli stessi giorni ci saranno le elezioni regionali in Lombardia e Molise. Ma nel Lazio travolto dagli scandali della giunta di Renata Polverini le urne saranno aperte il 3 e 4 febbraio, come il Pdl temeva e ha cercato di evitare. Ma nonostante l'atteggiamento formalmente rispettoso nei confronti del presidente del Consiglio, ieri il segretario del Pdl, portavoce delle istanze berlusconiane, Angelino Alfano, ha confermato che per il Cavaliere l'esperienza del governo dei tecnici è chiusa. Non ci sarà ancora crisi, ma il maggior partito della maggioranza ha già un piede fuori. E dai toni ostili alla politica economica e al rapporto di Monti con l'Europa lascia indovinare una campagna elettorale non troppo dissimile da quella leghista.

D'altronde, l'ex ministro dell'Economia di Berlusconi, Giulio Tremonti, si è già alleato col Carroccio e ha cominciato ad attaccare Palazzo Chigi e, indirettamente, la Bce. Il ricongiungimento del defunto «asse del Nord» su posizioni di questo tenore non può essere escluso. Obiettivo: tentare una spericolata operazione di autoassoluzione per la sottovalutazione della crisi economico-finanziaria che ha portato alle dimissioni del governo Berlusconi nel novembre del 2011; e tentare di convincere l'opinione pubblica che «si stava meglio quando si stava peggio», scaricando su Monti tutte le responsabilità di problemi ereditati e non provocati; anzi, parzialmente risolti.

Con un filo di ironia, ieri il presidente del Consiglio è entrato alla Scala di Milano commentando: «Il Re Sole si è un po' allontanato da me». E le parole sono state viste come un'allusione allo smarcamento di Berlusconi. Ma la sensazione è che, con la sua accelerazione, il Cavaliere-Re Sole si sia allontanato da diverse realtà; e forse che sia accaduto anche il contrario. Sembra che nel Partito popolare europeo la prospettiva di un Pdl avviato a una campagna elettorale anti-Monti, e dunque anti-Ue, sia guardata con preoccupazione; e con domande crescenti sull'omogeneità dei partiti che ne fanno parte. Fra Cei e Vaticano, rimbalzano voci di un'irritazione quasi unanime per lo strappo contro il governo dei tecnici: bastava scorrere le pagine del quotidiano Avvenire di ieri, o ascoltare Tv2000 , l'emittente dei vescovi.

Il dito, però, non è puntato solo su Berlusconi ma anche su Alfano, che fino a pochi giorni fa aveva escluso ai propri interlocutori ecclesiastici la ricandidatura del Cavaliere e garantito lo svolgimento delle primarie. Il timore palpabile è che l'operazione si dimostri un elemento di divisione e alla fine di sconfitta per i moderati, delusi da tempo dal centrodestra e a caccia di nuovi interlocutori. Probabilmente è vero che chiudere la stagione berlusconiana senza un passaggio elettorale era impensabile. Ma farlo in queste condizioni non prepara una transizione indolore e una maturazione del sistema politico. Piuttosto, ingessa alleanze che sopravvivono a se stesse in entrambi gli schieramenti; e una leadership del centrodestra che si ripropone stancamente all'elettorato, zavorrata non solo dai processi ma soprattutto dai magri risultati ai quali ha tentato di

Massimo Franco

8 dicembre 2012 | 8:43© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/nota/12_dicembre_08/nota-di-massimo-franco-argine-quirinale-ridimensiona-pretese-pdl-antigovernativo_f45c3fc2-410a-11e2-b1cb-f72c456506f7.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO Chi paga il conto
Inserito da: Admin - Dicembre 09, 2012, 09:56:46 pm
EDITORIALE

Chi paga il conto

Il calcolo spregiudicato del Pdl di essere insieme partito di opposizione e di governo da ieri sera si sta rivelando per quello che è: un azzardo pericoloso. La decisione di Mario Monti di dimettersi dopo l’approvazione della legge di Stabilità mette Silvio Berlusconi e il suo partito di fronte alle loro responsabilità. Hanno destabilizzato la maggioranza in uno dei passaggi più delicati della legislatura. E il loro tentativo di rivendicare senso dello Stato fuori tempo massimo rivela la sorpresa di chi è stato colto in contropiede.

L’intervento di venerdì in Parlamento del segretario del Pdl, Angelino Alfano, che aveva attaccato frontalmente la politica economica dell’esecutivo, ha indotto il presidente del Consiglio a non accettare il ruolo di capro espiatorio delle tensioni e delle contraddizioni del centrodestra. La mossa di Monti è stata compiuta a mercati chiusi, per evitare riflessi immediati sulla situazione finanziaria dell’Italia. Ma è chiaro che il timore di conseguenze pesanti resta acuto: fin da domattina, alla riapertura delle Borse.

A questo punto non si può escludere neppure che Monti possa essere spinto a candidarsi lui a Palazzo Chigi. Se esisteva un accordo per riportare l’Italia fuori dall’emergenza, stipulato con Pdl, Pd e Udc, lo scarto berlusconiano ha rotto le regole tacite che questa intesa imponeva a tutti. E restituisce un Monti che di colpo sente di avere le mani libere: se non altro come riflesso di uno strappo che rischia di compromettere la credibilità italiana nella comunità internazionale dopo il discredito dell’ultimo governo Berlusconi.

Il comunicato durissimo diramato ieri sera dopo l’udienza dal capo dello Stato, Giorgio Napolitano, è esplicito. Il premier, accompagnato dal suo consigliere a Palazzo Chigi, Federico Toniato, ha spiegato di non poter proseguire la sua azione. Ha respinto le pressioni del Pdl sulla giustizia e non è disposto ad accettare il ruolo di bersaglio di una campagna elettorale berlusconiana giocata contro la moneta unica, l’Europa e le tasse: una strategia «facile» quanto avventurista, destinata ad allontanare il centrodestra da qualunque politica moderata; e ad accomunarlo al leghismo e al movimento del comico Beppe Grillo.

È un altolà al tentativo di giocare la carta del populismo più vieto in una fase di crisi acuta. Allo smarcamento furbesco di Berlusconi, Monti reagisce con un annuncio che parla all’opinione pubblica; e le offre una scelta trasparente, radicale, contro un’operazione che a suo avviso tenta di prendere in giro gli italiani e rende troppo rischiosi i prossimi mesi. La destabilizzazione è responsabilità di Berlusconi: questo lascia capire il capo del governo, raccogliendo la «comprensione» di Napolitano. Meglio bruciare i tempi e dare la parola agli elettori che veder bruciare sui mercati l’Italia.

Massimo Franco

9 dicembre 2012 | 8:49© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_dicembre_09/franco-chi-paga-il-conto_5ac9e5d2-41d0-11e2-ae8d-6555752db767.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO IPOTESI DI UNA DISCESA IN CAMPO
Inserito da: Admin - Dicembre 15, 2012, 04:41:07 pm
IPOTESI DI UNA DISCESA IN CAMPO

Mosse e dubbi del Professore

Le incognite su un impegno più diretto di Mario Monti in campagna elettorale sono ancora intatte. Eppure qualche punto fermo comincia a intravedersi: in negativo e in positivo. Intanto, è inverosimile che il presidente del Consiglio possa accettare la proposta di Silvio Berlusconi di trasformarsi nel leader di un centrodestra in macerie: non è immaginabile Monti al timone della scialuppa di salvataggio dei naufraghi della Seconda Repubblica. Non è pensabile neppure che possa accettare un'alleanza, formale o di fatto, col segretario del Pdl, Angelino Alfano: è l'uomo che col suo discorso alla Camera ha indotto il premier ad annunciare le dimissioni.

Ma soprattutto, l'ottica di Monti è sempre stata quella di smontare gli schieramenti che per diciotto anni hanno ingessato l'Italia senza darle stabilità; e di ricomporli su basi nuove, cambiando e mescolando le identità e le barriere politiche. Per questo i movimenti centristi, per quanto gracili, in attesa di una leadership convincente e schiacciati dalla mancata riforma elettorale, diventano i suoi interlocutori principali. Sono il terreno naturale e insidioso del tentativo di cambiare la logica di un bipolarismo logoro, che viene riproposto al Paese come conseguenza del fallimento di un sistema dei partiti incapace di qualunque rinnovamento istituzionale.

Il problema è come offrire loro un programma riconoscibile, ben definito, chiaro, senza compromettere il ruolo super partes svolto finora dal presidente del Consiglio. E come continuare a parlare il linguaggio crudo e impopolare della verità, senza essere condizionato dalle urne.
Il tifo dei «grandi elettori» europei non basta da solo a legittimare Monti. Ne sottolinea il prestigio, e conferma la credibilità ritrovata dall'Italia a livello internazionale. Ma una candidatura colonizzata dalle istituzioni di Bruxelles potrebbe provocare, se non un rigetto, certamente perplessità e polemiche diffuse nell'opinione pubblica italiana; e a ragione.

Questo non significa ignorare il riferimento ai valori del Partito popolare europeo: tanto più nel momento in cui il Ppe mette in mora il populismo berlusconiano e conferma l'appoggio al governo dei tecnici. Tuttavia, l'impressione è che Monti rifiuti l'identificazione con schieramenti così contrapposti, nella traduzione italiana, da avere reso impossibile il controllo della crisi economica; e minato i presupposti della crescita. Rimane da capire se opterà per una presenza relegata sullo sfondo della competizione; o se permetterà ai sostenitori di chiedere esplicitamente il voto in suo nome. In entrambi i casi, però, bisogna sapere che il risultato sarà intestato a lui: magro o grasso che sia.

E da quel momento i consensi si conteranno, non si peseranno. Anche per questo, qualunque decisione Monti prenda sarà piena di spine.
Gli inviti ruvidi a stare alla larga dalle elezioni probabilmente lo spingono a partecipare. Ma deve prescinderne; e sperare che dopo il voto di febbraio, se come sembra si chiederà ancora a Giorgio Napolitano di dare l'incarico per formare il governo, l'Italia trovi un equilibrio: al di là dei numeri di maggioranze che in passato si sono rivelate schiaccianti solo sulla carta.

Massimo Franco

15 dicembre 2012 | 7:30© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_dicembre_15/mosse-e-dubbi-del-professore-massimo-franco_374bb1b6-467c-11e2-90a4-19087f7b891e.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO L'atto finale di una stagione
Inserito da: Admin - Dicembre 18, 2012, 06:01:06 pm
LA CRITICA E I RITARDI DEI PARTITI

L'atto finale di una stagione


Quello di Giorgio Napolitano è un bilancio lucido, senza finzioni. E dunque anche amaro. Il presidente della Repubblica consegna alle alte cariche dello Stato un'Italia che si è salvata dal peggio grazie al governo dei tecnici guidato da Mario Monti e al senso di responsabilità dei tre partiti che lo hanno appoggiato; e che avrà un percorso obbligato anche dopo il voto di febbraio, perché i suoi impegni sono in larga parte concordati con l'Unione Europea. Ma la fragilità di una politica che non è riuscita a riformarsi in questi tredici mesi, né a cambiare una legge elettorale ritenuta a parole indigesta, pesa in maniera preoccupante anche sul futuro.

È un cruccio che il capo dello Stato non nasconde né vela. Lo offre all'analisi dei suoi interlocutori politici e istituzionali come materia di riflessione e di esplicito rammarico. Quando dice che sta per essere archiviata un'altra «legislatura perduta», non fotografa soltanto ma denuncia la realtà. E avverte «tutti» che dovranno guardarla in faccia nei prossimi mesi: per quanto gli compete, il Quirinale lo farà fino al termine del settennato. Significa che ci saranno elezioni anticipate, ma non dimissioni anticipate del presidente della Repubblica. È l'ufficializzazione di una novità: lo strappo del Pdl contro Monti e la crisi implicano che toccherà a Napolitano conferire l'incarico per il nuovo governo.

L'ultimo atto del settennato sarà dunque quello di «leggere» il responso degli elettori, e prefigurare gli equilibri della Terza Repubblica. Dal modo in cui il capo dello Stato ha parlato ieri, i margini per una confusione su alleanze e candidature, oggi vistosa in modo sconcertante, si ridurranno di molto. Per Napolitano, le urne restituiranno forza e voce alla politica. L'ipotesi di riproporre un governo dei tecnici, seppure sotto altre vesti, sembra esclusa preventivamente. L'incapacità o la non volontà di riformare il sistema elettorale rischia di ricreare maggioranze che avranno difficoltà a governare; eppure, non potranno che essere i voti raccolti la base per decidere chi guiderà l'Italia.

Napolitano assicura di non avere nessuna preoccupazione per il risultato delle urne: chiunque vinca, spiega all'Europa e alla comunità internazionale, le coordinate non cambieranno. Ma si coglie una punta di apprensione per le possibili dinamiche della campagna elettorale. Un sistema impermeabile a qualunque novità potrebbe rovinare i risultati raggiunti quasi per forza di inerzia, guidato da un istinto demagogico più forte del senso di responsabilità; e sgualcire l'immagine di stabilità e continuità istituzionale ricostruita faticosamente in questi mesi. Più che un processo alle intenzioni, somiglia a un preallarme. Le parole d'ordine di alcuni partiti non sono incoraggianti.

Ma soprattutto, non tranquillizza lo sfondo nel quale si inseriscono. Il richiamo a non nascondere all'opinione pubblica i contorni e le dimensioni della crisi, a non regalare promesse e sogni irrealizzabili, è il lascito doveroso di un capo dello Stato consapevole delle debolezze del sistema e dei rischi di ulteriore delegittimazione. Con un velo di delusione, ma anche con garbata durezza, Napolitano evoca l'insufficienza di un'offerta politica tuttora indeterminata: sospesa fra vecchi schieramenti e movimenti allo stato embrionale, chiamati a rispondere a un elettorato divenuto più esigente e diffidente. E a ragione.

Massimo Franco

18 dicembre 2012 | 8:48© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_dicembre_18/atto-finale-di-una-stagione-franco_536e031a-48db-11e2-a20a-b74f0535ca9d.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO I dubbi sul Professore rendono più chiaro il ritardo dei partiti
Inserito da: Admin - Dicembre 22, 2012, 06:30:39 pm
LA NOTA

I dubbi sul Professore rendono più chiaro il ritardo dei partiti

Il congedo è accompagnato da un senso di incertezza palpabile, al quale suo malgrado ha contribuito lo stesso Mario Monti. Dopo le dimissioni consegnate ieri sera nelle mani di Giorgio Napolitano, domani il presidente del Consiglio spiegherà come sarà presente nella prossima campagna elettorale. Le indiscrezioni dicono che sarebbe orientato a non permettere la formazione di una lista in suo nome: per non creare attriti con il Quirinale, secondo alcuni suoi sostenitori. Anche se forse le ragioni possono essere fatte risalire sia alla genesi del suo arrivo a palazzo Chigi, sia al modo un po’ caotico col quale sta prendendo corpo l’area centrista. Rimane un residuo di incertezza non piccola, sovrastata tuttavia da polemiche che lasciano capire i conflitti in incubazione se diventasse il candidato di fatto di una federazione «montiana».
D’altronde, la vera cifra di questo finale del governo dei tecnici non è tanto la probabilità o meno di un nuovo schieramento che si offre agli elettori. La novità è un rimescolamento generale dai contorni tuttora nebbiosi. La frantumazione del centrodestra e il declino della leadership berlusconiana sono così evidenti che non si sa ancora con chi Silvio Berlusconi si alleerà; e se alla fine sarà candidato per la sesta volta. Una Lega divisa quanto il Pdl cerca l’accordo ma pone come condizione che non sia il Cavaliere l’uomo su cui puntare. E stavolta a dare l’aut aut non è il segretario Roberto Maroni ma l’ex leader Umberto Bossi, da sempre sodale berlusconiano: al punto che non si capisce se lo faccia per mettere i bastoni fra le ruote del successore. È probabile che anche questa confusione finisca dopo la conferenza stampa di Monti in programma domani mattina. Ma non si può prevedere se la prospettiva diventerà immediatamente chiara. È come se le elezioni di fine febbraio arrivassero troppo presto. Peggio: il sospetto è che se anche si facessero ad aprile, coglierebbero impreparate forze politiche incapaci di rispondere alla transizione con proposte e schieramenti innovativi. Perfino il Pd di Pier Luigi Bersani, dato in netto vantaggio, per il fallimento della riforma elettorale ha scelto quasi per inerzia l’alleanza con il Sel di Nichi Vendola: un fronte di sinistra che sa di antico e può creare problemi anche in caso di vittoria sul piano internazionale. Le rassicurazioni fornite da Bersani nei suoi viaggi europei degli ultimi giorni servono a garantire che non ci saranno deragliamenti della politica economica. Un minimo di diffidenza è destinato a rimanere.
Un Monti orgoglioso di avere governato in tredici mesi «difficili ma affascinanti», ieri l’ha ribadito. «Non c’è Paese che possa decidere il suo destino da solo». E ancora: la scelta di «dedicare una gran parte del mio tempo al profilo internazionale corrisponde alla convinzione che la componente estera svolga un ruolo cruciale nell’economia italiana». Da tecnico a politico in pectore, andata e ritorno, verrebbe da dire. Eppure, se sceglierà di mantenere il profilo istituzionale che alcuni temevano e altri speravano di vedergli cambiare, l’immagine datata del sistema politico e dei partiti sarà ancora più nitida.

Massimo Franco

22 dicembre 2012 | 7:47© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/nota/12_dicembre_22/nota_7dd4d4d2-4c03-11e2-a778-2824390bcabe.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO La chiarezza non c'è
Inserito da: Admin - Dicembre 24, 2012, 06:30:51 pm
La chiarezza non c'è

La «salita in politica», come l'ha definita Mario Monti con una felice inversione lessicale rispetto alla Seconda Repubblica, si preannuncia suggestiva, innovativa, ma ancora ambigua. Si è capito bene quello che il presidente del Consiglio dimissionario vuole fare: scomporre gli schieramenti etichettati con le sigle logore della destra, della sinistra e del centro; ricomporli attraverso l'asse del cambiamento e della lealtà all'Europa; ed essere il referente di chiunque si riconosca in un programma che rivendichi quanto è stato fatto in questi tredici mesi e lo proietti nel futuro.

Su come Monti riuscirà a tradurre le intenzioni in realtà, però, non si può dire che la sua conferenza stampa di ieri, né le interviste delle ultime ore abbiano dato coordinate precise. Si è capito che vede nel populismo di Berlusconi, della Lega, dei «grillini» e della sinistra sindacale e radicale gli avversari da battere. Ma la competizione col Cavaliere sui voti moderati lo lascia più scoperto sul fianco destro che nei confronti del Pd. Evidentemente, Monti prevede come inevitabile un qualche accordo postelettorale con Bersani. Resta da chiedersi come sarà possibile conciliare le ambizioni di due aspiranti a Palazzo Chigi.

Ma le incognite principali sono, se si può dire così, di tipo tecnico. Intanto, esiste tuttora un margine residuo che alla fine il premier non dia il placet ai sostenitori decisi a correre nel suo nome; soprattutto centristi, ma presenti anche in altri partiti. Inoltre, Monti ha anticipato che non si candiderà in un collegio in quanto è senatore a vita: precisazione rispettosa della nomina ricevuta dal Quirinale. Insomma, sarà un candidato-non candidato. Questo, però, non sembra destinato a favorire la sua «salita». Anzi, può renderla impervia e ridurre il magnetismo elettorale del suo nome. Insomma, la scalata di Monti comincia avvolta in una nebbia nella quale i potenziali elettori rischiano di perdersi.

Le elezioni politiche sono fra due mesi esatti. E i margini di ambiguità e i temporeggiamenti non sono consentiti a nessuno: nemmeno a chi ha il merito di proporre un'offerta diversa e originale rispetto al bipolarismo stantio di quasi un ventennio. Si avverte uno scarto fra la linearità della strategia e l'idea di Italia che Monti ha in testa, e gli strumenti per tradurla politicamente in termini di presentazione delle liste, divisione dei compiti, alleati.

È un vuoto che magari sarà riempito quasi per magia. Ma per ora sottolinea un ritardo organizzativo vistoso. Forse è inevitabile per l'anomalia di quanto sta succedendo. Dalla maggioranza anomala stiamo passando ad una candidatura anomala. Eppure, lascia un po' perplessi la sfilata dei «montiani» che nei giorni scorsi sono andati a Palazzo Chigi, sede istituzionale, per discutere di liste di partito; e poi le ipotesi di un impegno negato, oppure pieno, oppure dimezzato. È vero che l'Europa guarda a Monti e alla sua Italia con ammirazione e rispetto.

Ma sarebbe bene che l'elettorato potesse farlo avendo un quadro chiaro degli schieramenti e dei leader. I rischi di regressione e l'immobilismo si combattono e si battono anche eliminando la confusione.

Massimo Franco

24 dicembre 2012 | 7:44© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_dicembre_24/la-chiarezza-non-c-e-massimo-franco_34e77542-4d91-11e2-bb70-cf455d3f8a01.shtml


Titolo: M. FRANCO Le tensioni tra alleati segnalano coalizioni destinate a logorarsi
Inserito da: Admin - Febbraio 09, 2013, 10:45:50 am
LA NOTA

Le tensioni tra alleati segnalano coalizioni destinate a logorarsi


La frenata non deve sorprendere. Mario Monti e Pier Luigi Bersani non hanno né voglia né interesse a esagerare la portata della tregua stipulata l’altro ieri. Trasformarla in accordo politico significherebbe scardinare le rispettive strategie elettorali. Dunque, il tentativo è quello di rimarcare le differenze, più che le assonanze: seppure al riparo dagli eccessi verbali degli ultimi giorni. Ma le tensioni riemerse in queste ore fra Bersani e il Sel di Nichi Vendola lasciano trasparire l’alone di incertezza che circonderebbe un governo di sinistra dopo il voto del 24 e 25 febbraio. La protesta vendoliana contro una «coalizione mutilata» per fare spazio aMonti è indicativa. Eppure lo è quasi altrettanto, sul versante opposto, il «fuoco amico» fra Silvio Berlusconi e la Lega e partiti minori come Fratelli d’Italia. La sua idea del «voto utile», al punto da chiedere agli elettori di esprimersi per il Pdl e magari per il Pd ma non per i «piccoli», irrita gli alleati. E le promesse sull’Imu e sul condono fiscale stanno ricevendo una messe di obiezioni. E la Lega conferma di non volerlo come prossimo premier. Di più: Berlusconi si candida a ministro dell’Economia, ma anche su questo Giulio Tremonti, che occupava quel posto nel centrodestra, replica perfidamente che deciderà il segretario del Pdl, Angelino Alfano. Non sarà così, ma la schermaglia rispecchia il nervosismo che attraversa anche questo fronte; e che prepara una resa dei conti in caso di sconfitta. Insomma, più ci si avvicina al voto, più è evidente la camicia di forza di una legge elettorale che per anni ha costretto le coalizioni della Seconda Repubblica a formarsi in modo artificioso. Sopravvissuto a qualunque ipotesi di riforma, il sistema di voto accentua le storture e l’inadeguatezza di alleanze spiazzate da quanto è successo dal 2008 a oggi. «Non mi ricordate le mie delusioni », ha detto in proposito il capo dello Stato, Giorgio Napolitano. Le liste che si rifanno a Monti tendono a segnalare, al di là dei numeri, questo rischio di precarietà, registrato con ansia dalle cancellerie europee. È impossibile prevedere quale sarà l’esito di un confronto scandito da un crescendo di promesse irrealistiche: una deriva che illude l’elettorato e ne aumenta in modo irresponsabile le attese. Qualunque accordo dovrà fare i conti con le percentuali e i seggi ottenuti. Quando Pier Ferdinando Casini, leader dell’Udc alleato di Monti, spiega che l’accordo col Pd «non esiste», dice una parte di verità. L’obiettivo del premier rimane infatti quello di «dialogare sulle regole del gioco a 360 gradi con tutte le forze in Parlamento». Il calcolo, o forse solo una tenue speranza, è che i due schieramenti, e in particolare il centrodestra, si disuniscano prima o comunque dopo le elezioni. Può accadere. La Scelta civica del premier fatica, tuttavia, ad apparire un polo d’attrazione di massa. Il sistema elettorale e gli appelli di Berlusconi e Bersani tendono a blindare, quasi a ibernare i rispettivi elettorati; e a ridurre al minimo la diaspora e il passaggio nell’arcipelago moderato di Monti. «Il nostro polo è questo e non si tocca», è costretto a dire il candidato a palazzo Chigi del Pd per placare Vendola, dopo che il presidente del Consiglio uscente gli intima di «scegliere». Quanto al centrodestra, cerca di alimentare la narrativa quotidiana della rimonta, che dovrebbe concludersi con la proclamazione del sorpasso. E accusa Monti di giocare sulla paura di un collasso economico-finanziario. «Usa come ricatto lo spread», la differenza fra gli interessi sui titoli pubblici italiani e tedeschi, protesta Tremonti. «Fa capire che se non si vota per lui, lo spread risalirà. Tipiche tecniche di ricatto». Eppure, le preoccupazioni per un’Italia che si riconsegna all’instabilità sono reali, a livello internazionale. Magari in modo strumentale, «elettorale», Monti evoca uno scenario che, per quanto sgradito, non sarà facile cancellare.

Massimo Franco

7 febbraio 2013 | 7:33© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/nota/13_febbraio_07/nota_55ae08fe-70f0-11e2-9be5-7db8936d7164.shtml?fr=box_primopiano


Titolo: L'addio legato a una crisi di sistema fatta di conflitti, manovre E TRADIMENTI..
Inserito da: Admin - Febbraio 12, 2013, 06:40:15 pm
L'addio legato a una crisi di sistema fatta di conflitti, manovre e tradimenti

Dietro il sacrificio estremo di un intellettuale le ombre di un «rapporto segreto» choc

Benedetto XVI avrebbe maturato la decisione definitiva dell'annuncio domenica: stava preparando un'enciclica


Non essendo riuscito a cambiare la Curia, Benedetto XVI è arrivato ad una conclusione amara: va via, è lui che cambia. Si tratta del sacrificio estremo, traumatico, di un pontefice intellettuale sconfitto da un apparato ritenuto troppo incrostato di potere e autoreferenziale per essere riformato. È come se Benedetto XVI avesse cercato di emancipare il papato e la Chiesa cattolica dall'ipoteca di una specie di Seconda Repubblica vaticana; e ne fosse rimasto, invece, vittima. È difficile non percepire la sua scelta come l'esito di una lunga riflessione e di una lunga stanchezza. Accreditarlo come un gesto istintivo significherebbe fare torto a questa figura destinata e entrare nella storia più per le sue dimissioni che per come ha tentato di riformare il cattolicesimo, senza riuscirci come avrebbe voluto: anche se la decisione vera e propria è maturata domenica.

Quello a cui si assiste è il sintomo estremo, finale, irrevocabile della crisi di un sistema di governo e di una forma di papato; e della ribellione di un «Santo Padre» di fronte alla deriva di una Chiesa-istituzione passata in pochi anni da «maestra di vita» a «peccatrice»; da punto di riferimento morale dell'opinione pubblica occidentale, a una specie di «imputata globale», aggredita e spinta quasi a forza dalla parte opposta del confessionale. Senza questo trauma prolungato e tuttora in atto, riesce meno comprensibile la rinuncia di Benedetto XVI. È la lunga catena di conflitti, manovre, tradimenti all'ombra della cupola di San Pietro, a dare senso ad un atto altrimenti inesplicabile; e per il quale l'aggettivo «rivoluzionario» suona inadeguato: troppo piccolo, troppo secolare. Quanto è successo ieri lascia un senso di vuoto che stordisce.

E nonostante la sua volontà di fare smettere il clamore e lo sconcerto intorno alla Città del Vaticano, le parole accorate pronunciate dal Papa li moltiplicano. Aggiungono mistero a mistero. Ne marcano la silhouette in modo drammatico, proiettando ombre sul recente passato. Consegnano al successore che verrà eletto dal prossimo Conclave un'istituzione millenaria, di colpo appesantita e logorata dal tempo. E adesso è cominciata la caccia ai segni: i segni premonitori. Come se si sentisse il bisogno di trovare una ragione recondita ma visibile da tempo, per dare una spiegazione alla decisione del Papa di dimettersi: a partire dall'accenno fatto l'anno scorso da monsignor Luigi Bettazzi; e poco prima dall'arcivescovo di Palermo, Paolo Romeo, che si era lasciato scappare questa possibilità durante un viaggio in Cina, ipotizzando perfino un complotto contro Benedetto XVI.

Ma la ricerca rischia di essere una «via crucis» nella crisi d'identità del Vaticano. Riaffiora l'immagine di Joseph Ratzinger che lascia il suo pallio, il mantello pontificio sulla tomba di Celestino V, il Papa che «abdicò» nel 1294, durante la sua visita all'Aquila dopo il terremoto, il 28 aprile del 2009. Oppure rimbalza l'anomalia dei due Concistori indetti nel 2012 «per sistemare le cose e perché sia tutto in ordine», nelle parole anodine di un cardinale. O ancora tornano in mente le ripetute discussioni col fratello sacerdote Georg, sulla possibilità di lasciare. Qualcuno ritiene di vedere un indizio della volontà di dimettersi perfino nei lavori di ristrutturazione dell'ex convento delle suore di clausura in corso nei giardini vaticani: perché è lì che Benedetto XVI andrà a vivere da «ex Papa», dividendosi col palazzo sul lago di Castel Gandolfo, sui colli a sud di Roma.

L' Osservatore romano scrive che aveva deciso da mesi, dall'ultimo viaggio in Messico. Ma è difficile capire quando l'intenzione, quasi la tentazione di farsi da parte sia diventata volontà e determinazione di compiere un gesto che «per il bene della Chiesa», nel breve periodo non può non sollevare soprattutto domande; e mostrare un Vaticano acefalo e delegittimato nella sua catena di comando ma soprattutto nel suo primato morale: proprio perché di tutto questo Benedetto XVI è stato l'emblema e il garante. «Il Papa continua a scrivere, a studiare. È in salute, sta bene», ripetono quanti hanno contatti con lui e la sua cerchia. «Non è vero che sia malato: stava preparando una nuova enciclica». Dunque, la traccia della malattia sarebbe fuorviante.

Smonta anche il precedente delle lettere riservate preparate segretamente da Giovanni Paolo II nel 1989 e nel 1994, nelle quali offriva le proprie dimissioni in caso di malattia gravissima o di condizioni che gli rendessero impossibile «fare il Papa» in modo adeguato. Ma l'assenza di motivi di salute rende le domande più incalzanti. E ripropone l'unicità del passo indietro. Il gesuita statunitense Thomas Reese calcola che nella storia siano state ipotizzate le dimissioni di una decina di pontefici. Ma fa notare che in generale i papi moderni hanno sempre scartato questa possibilità. Eppure, gli scritti di Ratzinger non hanno mai eluso il problema, anzi: lentamente affiora la realtà di un progetto accarezzato da tempo. «I due Georg sapevano», si dice adesso, alludendo al fratello Georg Ratzinger e a Georg Gänswein, segretario particolare del pontefice.

Forse, però, colpisce di più che fosse all'oscuro di tutto il cardinale Angelo Sodano, ex segretario di Stato e numero uno del Collegio Cardinalizio; e con lui altre «eminenze», che parlano di «fulmine a ciel sereno». È come se perfino in queste ore si intravedesse una singolare struttura tribale, che ha dominato la vita di Curia con amicizie e ostilità talmente radicate da essere immuni a qualunque richiamo all'unità del pontefice. Sotto voce, si parla del contenuto «sconvolgente» del rapporto segreto che tre cardinali anziani hanno consegnato nei mesi scorsi a proposito di Vatileaks, la fuga di notizie riservate per la quale è stato incriminato e condannato solo il maggiordomo papale, Paolo Gabriele. Si fa notare che da oltre otto mesi lo Ior, l'Istituto per le opere di religione considerato «la banca del Papa», è senza presidente dopo la sfiducia a Ettore Gotti Tedeschi. Rimane l'eco intermittente dello scandalo dei preti pedofili, che pure il pontefice ha affrontato a costo di scontrarsi con una cultura del segreto ancora diffusa negli ambienti vaticani.

E continuano a spuntare «buchi» di bilancio a carico di istituti cattolici, dopo la presunta truffa milionaria a danno dei Salesiani: un episodio imbarazzante per il quale il segretario di Stato, Tarcisio Bertone, ha inutilmente cercato la solidarietà e la comprensione della magistratura italiana. È questa eredità di inimicizie, protagonismi, lotta fra correnti, faide economiche con risvolti giudiziari che sembra aver pesato più di quanto si immaginasse sulle spalle infragilite di Benedetto XVI. È come se avesse interiorizzato la «malattia» della crisi vaticana di credibilità, irrisolta e apparentemente irrisolvibile. Conferma il ministro Andrea Riccardi, che lo conosce bene: «Ha trovato difficoltà e resistenze più grandi di quelle che crediamo. E non ha trovato più la forza per contrastarle e portare il peso del suo ministero. Bisogna chiedersi perché».

Ma nel momento in cui decide di dimettersi da Papa, Benedetto XVI infrange un tabù plurisecolare, quasi teologico. Fa capire alla nomenklatura vaticana che nessuno è insostituibile: nemmeno l'uomo che siede sulla «Cattedra di Pietro». E apre la porta a una potenziale ondata di dimissioni. Soprattutto, addita al Conclave la drammaticità della situazione della Chiesa. Dà indirettamente ragione a quegli episcopati mondiali, in particolare occidentali, che da mesi osservano la Roma papale come un nido di conflitti e manovre fra cordate che da tempo pensano solo alla successione. L'annuncio delle dimissioni avviene in coincidenza con l'anniversario dei Patti lateranensi; e nel bel mezzo di una campagna elettorale: al punto che ieri alcuni leader si chiedevano se interrompere per un giorno i comizi. Ma già si guarda avanti. Bertone ha chiesto di incontrare per una decina di minuti il capo dello Stato Giorgio Napolitano prima della festa in ambasciata di oggi pomeriggio. E il «toto-Papa» impazza, con le scommesse fuorvianti sull'«italiano» o il «non italiano». Stavolta, in realtà, sarà un Conclave diverso. Il sacrificio di Benedetto XVI, per quanto controverso, mette tutti davanti a responsabilità ineludibili.

Massimo Franco

12 febbraio 2013 | 9:15© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/cronache/13_febbraio_12/dimissioni-papa-sacrificio-estremo_acc4e5bc-74de-11e2-b332-8f62ddea2ca4.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO La Chiesa teme la «ferita» al ruolo del Pontefice
Inserito da: Admin - Febbraio 13, 2013, 05:25:08 pm
Un porporato: il suo successore dovrà riprendere in mano la situazione

La Chiesa teme la «ferita» al ruolo del Pontefice

Il problema della coabitazione di «due Papi»

 di Massimo Franco


«E adesso bisogna fermare il contagio...». Il monsignore, uno degli uomini più in vista della Curia, ripercorre le ultime ore vissute dal Vaticano come se avesse subito un lutto non ancora elaborato. E ripete, quasi fra sé: «Queste dimissioni di Benedetto XVI sono un vulnus : una ferita istituzionale, giuridica, di immagine. Sono un disastro». Così, dietro le dichiarazioni di solidarietà e di comprensione nei confronti di Josef Ratzinger, di circostanza o sincere, affiora la paura. È l'orrore del vuoto. Di più: della scomparsa dalla scena di un Pontefice che per anni è stato usato come scudo e schermo da molti di quelli che dovevano proteggerlo e ora temono i contraccolpi della fine di una idea sacrale del papato.

Sono gli stessi che adesso avvertono l'incognita di un successore chiamato a «fare pulizia» in modo radicale; e a ridisegnare i confini e l'identità del Vaticano proprio cominciando a smantellare le incrostazioni più vistose. Le dimissioni vissute come «contagio», dunque. E commentate nelle stanze del potere ecclesiastico come un possibile «virus» che potrebbe mandare in tilt il sistema. «Se passa l'idea dell'efficienza fisica come metro di giudizio per restare o andare via, rischiamo effetti devastanti. C'è solo da sperare che arrivi un nuovo Pontefice in grado di riprendere in mano la situazione, fissare dei confini netti, romani , impedendo una deriva». Lo sconcerto che si legge sulla faccia e nelle parole centellinate dei cardinali più influenti raccontano un potere che vacilla; e un altro che, dopo avere atteso per otto anni la rivincita, comincia a pregustarla.

Eppure, negli schieramenti che si fronteggiano ancora in ordine sparso, non ci sono strategie precise. Si avverte solo il sentore, anzi la convinzione che presto le cose cambieranno radicalmente, e che una intera nomenklatura ecclesiastica sarà messa da parte e rimpiazzata in nome di nuove logiche tutte da scrivere. Ma sono gli effetti di sistema che fanno più paura: e non solo ai tradizionalisti. Un Papa «dimissionabile» è più debole, esposto a pressioni che possono diventare schiaccianti. Il sospetto che la scelta di rottura compiuta da Ratzinger arrivi dopo un lungo rosario di pressioni larvate, continue, pesanti, delle quali i «corvi» vaticani, le convulsioni dello Ior, la «banca del Papa», e il processo al maggiordomo Paolo Gabriele sono stati soltanto una componente, non può essere rimosso. L'interrogativo è che cosa può accadere in futuro, avendo alle spalle il precedente di un Pontefice che si è dimesso. Da questo punto di vista, l'epilogo degli anni ratzingeriani dà un po' i brividi, al di là del coro sulle sue doti di «uomo di fede». La voglia di proiettare immediatamente l'attenzione sul Conclave tradisce la fretta di archiviare una cesura condannata a pesare invece su ognuna delle scelte dei successori.

Il massimo teorico dell'«inattualità virtuosa» della Chiesa che si fa da parte perché ritiene di non avere più forza a sufficienza evoca un peso intollerabile, e replicabile a comando da chi in futuro volesse destabilizzare un papato. Sembra quasi una bestemmia, ma la carica pontificale, con la sua aura di divinità, appare «relativizzata» di colpo, ricondotta ad una dimensione drammaticamente mondana. È come se la secolarizzazione nella versione carrierista avesse sconfitto il «Papa timido» e distaccato dalle cose del mondo; e le nomine controverse decise in questi anni da Josef Ratzinger si ritorcessero contro il capo della Chiesa cattolica. Rispetto a questa realtà, c'è da chiedersi che cosa potrà fare il «successore di Pietro» e di Benedetto XVI per ricostruire la figura papale.

Il vecchio paradigma è franato; il prossimo andrà ricostruito non da zero, ma certamente da un trauma difficile da elaborare e da superare. E questo in una fase in cui la Chiesa cattolica si ripropone di «rievangelizzare» l'Europa, diventata ormai da anni terra di missione; di ricristianizzare l'Occidente contro la doppia influenza del «relativismo morale» e dell'«invasione islamica». Così, nel Papa che si ritrae con un gesto fuori dal comune, schiacciato dall'impossibilità di riformare le sue istituzioni, qualcuno intravede una metafora ulteriore: una tentazione a ritrarsi che travalica i confini vaticani e coinvolge simbolicamente l'Europa e l'Occidente.

Le dimissioni di Benedetto XVI, il «Papa tedesco», finiscono così per apparire quelle di un continente e di una civiltà entrati in crisi profonda; e incapaci di leggere i segni di una realtà che li anticipa, li spiazza, e ne mostra tutti i limiti di analisi e di visione: a livello religioso e civile. I detrattori vedono in tutto questo una fuga dalle responsabilità; gli ammiratori, un gesto eroico, oltre che un bagno di umiltà e di fiducia nel futuro. La sensazione è che per ricostruire, il successore dovrà in primo luogo destrutturare, se non distruggere. In quell'espressione, «fare pulizia», si avverte un'eco minacciosa per quanti nella Roma pontificia hanno sfruttato la debolezza di Ratzinger come «Papa di governo». La minaccia è già stata memorizzata, per preparare la resistenza.

I distinguo appena accennati e le divergenze di interpretazione fra L'Osservatore romano e la sala stampa vaticana sul momento in cui Benedetto XVI avrebbe deciso di lasciare, sono piccoli scricchiolii che preannunciano movimenti ben più traumatici. Scrivere, come ha fatto il quotidiano della Santa Sede, che Benedetto XVI aveva deciso l'abbandono da mesi, significherebbe allontanare i sospetti di dimissioni provocate da qualcosa accaduto di recente, molto di recente, nella cerchia dei collaboratori più stretti. E l'approccio e il ruolo in vista del Conclave dell'attuale segretario di Stato, Tarcisio Bertone, e del predecessore Angelo Sodano, già viene osservato per decifrare le mosse di schieramenti ritenuti avversari. E sullo sfondo rimangono le inchieste giudiziarie che lambiscono istituzioni finanziarie vaticane come lo Ior.

Di fronte a tanta incertezza, l'uscita di scena del Pontefice, annunciata per il 28 febbraio, è un elemento di complicazione, non di chiarimento. «Non possono esserci due Papi in Vaticano: anche se uno di loro è formalmente un ex», si avverte. La considerazione arriva a bassa voce, come un riflesso istintivo e incontenibile. Mostra indirettamente l'enormità di quanto è accaduto due giorni fa. E addita il problema che la Santa Sede si troverà ad affrontare nelle prossime settimane: la convivenza dentro le Sacre Mura fra il successore di Benedetto XVI e lui, il primo Pontefice dimissionario dopo molti secoli. Il simbolismo è troppo potente e ingombrante per pensare che Ratzinger possa diventare invisibile, rinchiudendosi nell'ex convento delle suore di clausura, incastonato in un angolo dei Giardini Vaticani.

Eppure dovrà diventare invisibile: il suo futuro è l'oblìo. La presenza del vecchio e del nuovo Pontefice suscita un tale imbarazzo che qualcuno, come monsignor Rino Fisichella, non esclude novità; e cioè che l'abitazione definitiva di colui che fino al 28 febbraio sarà Benedetto XVI, alla fine sia individuata non dentro ma fuori dai cosiddetti Sacri Palazzi. Il Vaticano, però, è l'unico luogo dove forse si può evitare che venga fotografato un altro uomo «vestito di bianco», gli incontri non graditi, o controllare che anche una sola parola sfugga di bocca a un «ex» Pontefice: sebbene il Papa resterà tale anche dopo le dimissioni. «Ma il popolo cattolico», si spiega, «non può accettare di vederne due». Il paradosso di Josef Ratzinger sarà dunque quello di studiare e meditare, isolandosi in un eremo nel cuore di Roma proprio accanto a quel potere vaticano che ha cercato di scrollarsi di dosso nel modo più clamoroso.

D'ora in poi, seguire i suoi passi significherà cogliere gli ultimi gesti pubblici di una persona speciale che sa di entrare in una zona buia dalla quale non gli sarà permesso di riemergere. Al di là di tutto, la sensazione è che molti, ai vertici della Chiesa cattolica, abbiano una gran voglia di voltare pagina; e che lo sconcerto causato dal gesto di Ratzinger e l'affetto e la stima profonda nei suoi confronti siano bilanciati dal sollievo per essere arrivati all'epilogo di una situazione ritenuta ormai insostenibile. Probabilmente, qualcuno non valuta con sufficiente lucidità che Benedetto XVI non era il problema, ma la spia dei problemi del Vaticano; e che usarlo come capro espiatorio non cancellerà tutte le altre questioni rimaste aperte non soltanto per sue responsabilità. I sedici giorni di interregno che separano dal 28 febbraio, in realtà, segneranno uno spartiacque di secoli. E dimostreranno presto quanto abbia perso vigore non il Papa, ma alcune vecchie logiche. Almeno, Josef Ratzinger ha avuto il coraggio di vederle e rifiutarle.

13 febbraio 2013 | 8:57

da - http://www.corriere.it/cronache/13_febbraio_13/chiesa-insidie-interregno-papa-dimissioni-franco_a92bdc16-75a2-11e2-a850-942bec559402.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO Subito il nuovo presidente Ior , firmato il decreto
Inserito da: Admin - Febbraio 14, 2013, 05:35:38 pm
I tempi

Subito il nuovo presidente Ior , firmato il decreto

Via libera alla nomina: sarebbe un banchiere belga.

L'azienda di consulenza Spencer e Stuart incaricata di selezionare un profilo


Potrebbe essere il primo atto dell'interregno inedito fra Benedetto XVI e il successore. «È possibile che nei prossimi giorni ci sarà la nomina del presidente dello Ior», ha annunciato ieri il portavoce della sala stampa vaticana, padre Federico Lombardi. L'indicazione è generica, ma in realtà il Papa avrebbe sottoscritto formalmente la scelta ieri sera. Si tratterebbe di un banchiere belga, il cui nome girava da una decina di giorni; e che arriverà dunque prima del 28 febbraio, giorno per il quale il Papa ha annunciato le proprie dimissioni; e a partire dal quale anche il vertice del «governo» vaticano sarà dimissionato.

Significa che il pontefice eletto dal prossimo Conclave non avrà il problema di cercare un nuovo capo della «banca del Papa», come viene chiamato da tutti l'Istituto per le Opere di Religione. Lo aveva fatto capire il segretario di Stato, Tarcisio Bertone, parlando di una scelta condivisa e attesa da tempo. Sul secondo aspetto, è difficile dargli torto. Lo Ior non ha un presidente dal 26 maggio del 2012, quando Ettore Gotti Tedeschi, fra l'altro rappresentante in Italia del gruppo bancario spagnolo Santander, fu sfiduciato all'unanimità e con parole ruvide.

E in questi mesi, non è stato sostituito perché, secondo la versione ufficiosa, la struttura si era dimostrata abbastanza capace da reggere anche senza una figura di vertice. Ma a questo punto affiora qualche contraddizione tra la tesi dell'autosufficienza del consiglio d'amministrazione, e la volontà di togliere un'enorme castagna dal fuoco al successore di Benedetto XVI. Si sa che per trovare il profilo giusto, il Vaticano si è rivolto ai «cacciatori di teste» della Spencer & Stuart di Francoforte, una delle aziende di consulenza più prestigiose.

Ma il tocco internazionale non cancella la sensazione sgradevole di una nomenklatura ecclesiastica che mentre il Papa annuncia le dimissioni, si preoccupa di riempire le ultime caselle del potere: quasi avesse il presentimento che «dopo» non sarà più possibile.

L'ex presidente dello Ior Ettore Gotti Tedeschi (Imagoeconomica)L'ex presidente dello Ior Ettore Gotti Tedeschi (Imagoeconomica)
E comunque, se per quasi nove mesi non si è avvertita la necessità di nominare nessuno, perché farlo senza aspettare l'arrivo del nuovo pontefice? Può sembrare un'obiezione capziosa, sollevata da chi non perdona al «primo ministro» di Josef Ratzinger di avere accentrato il potere finanziario della Santa Sede nelle sue mani; e di avere infilato il Vaticano in operazioni grandiose ma un po' arrischiate, come il tentativo di salvataggio dell'ospedale San Raffaele, con l'ambizione alla fine frustrata di creare un grande «polo sanitario» cattolico. Al di là dei sospetti di strumentalità, più che plausibili, da parte di Bertone e dei suoi alleati, rimane tuttavia il mistero di una fretta improvvisa destinata a mettere il prossimo Papa davanti ad un fatto compiuto; e su uno dei temi più delicati che hanno segnato gli otto anni di pontificato tedesco. Il problema non riguarda naturalmente la persona designata, che sarebbe di nuovo un non italiano dopo molti anni dalla sua fondazione, voluta da Pio XII nel 1942, in piena seconda guerra mondiale.

A lasciare interdetto qualche cardinale, e non solo, è la scelta dei tempi. L'impressione, infatti, è che sotto traccia ci si stia ponendo da tempo il problema del destino dell'Istituto. Si è parlato di un possibile cambio di nome, per cancellare ombre lunghe decenni e disseminate di scandali e misteri; e che lo fanno apparire, anche con qualche esagerazione, un «marchio negativo» per l'immagine della Santa Sede. Qualcuno è arrivato a ipotizzare che nel dopo-Ratzinger la Santa Sede potrebbe rivedere completamente un modo di operare nel mondo finanziario che le ha dato vantaggi ma anche creato un alone di opacità e di spregiudicatezza.

Un banchiere ricordava di recente un incontro di tanti anni fa con l'allora segretario di Stato vaticano, il cardinale Agostino Casaroli. Fu una discussione franca, come si dice in questi casi, su quello che lo Ior doveva essere o diventare; e perfino sul nome, ritenuto inappropriato dal banchiere perché, a suo avviso, non sembrava avere come obiettivo le «opere di religione». Casaroli ascoltò, forse annuì anche. Ma le cose, almeno all'apparenza, non sono cambiate in modo sostanziale. È vero che i dubbi più pesanti sono stati parzialmente chiariti quando nel luglio scorso il Vaticano ha ottenuto una promozione con riserva da parte di Moneyval: il comitato di esperti di antiriciclaggio e antiterrorismo, emanazione del Consiglio d'Europa, che valuta gli standard di affidabilità internazionale degli Stati attraverso il modo di operare delle sue banche.

Quel «placet» ha ridimensionato un po' le polemiche sul grado di trasparenza dello Ior, alimentate dallo scontro conclusosi nel maggio scorso. E ha ridato corpo all'idea di una metamorfosi dell'Istituto, tale da incontrare l'approvazione della comunità finanziaria globale. Si è parlato di «patti lateranensi del XXI secolo», intendendo accordi stipulati non più solo con singoli Stati, ma appunto con le istituzioni sovranazionali di garanzia. L'operazione sta avendo risultati controversi, però. Le indagini della magistratura italiana che da un paio d'anni si sono concentrate su alcuni movimenti finanziari sospetti, e le frizioni con una Banca d'Italia che richiama al rispetto delle norme valutarie europee, simboleggiano una metamorfosi ancora da perfezionare.

L'ultimo incidente, piccolo ma fastidioso, e soprattutto costoso per le casse vaticane, è stato il blocco, durante le vacanze di Natale, dei pagamenti elettronici tramite carte di credito e Pos (points of sale), i «punti di vendita»: un ostacolo superato solo nelle ultime ore, quando lo Ior ha aggirato l'ostacolo ricorrendo ad una società svizzera specializzata in pagamenti elettronici e non soggetta alle restrizioni imposte dall'Unione europea contro il riciclaggio. D'altronde, se la Santa Sede non lo avesse fatto avrebbe perso, secondo calcoli per difetto, circa trentamila euro al giorno. La scappatoia, però, non garantisce rapporti migliori con Bankitalia e magistratura.

E, abbinata alle tensioni che covano sulle nomine al vertice dello Ior e agli scandali che lambiscono altre organizzazioni cattoliche, rischia di avere riflessi immediati dentro le cosiddette «Sacre Mura». Basti pensare ai dipendenti dell'Istituto dermatologico Italiano (IDI) di Roma che ieri protestavano davanti alla sede della Cei, perché non vengono pagati da mesi per la gestione disastrosa dell'ospedale, affidata a un religioso. Oppure i milioni di euro persi dai Salesiani in una contesa seguita ad un lascito ereditario. I soldi galleggiano come una minaccia di ulteriori divisioni e scambi di accuse in un mondo traumatizzato dall'«abdicazione» papale.

Il timore che l'uscita di scena di Benedetto XVI possa riaccendere e fare esplodere contrasti mai sopiti del tutto è concreto. Le immagini che accompagnano l'uscita di scena al rallentatore, lunga sedici giorni, del pontefice, sono perfino commoventi. Tv2000 , la televisione dei vescovi italiani, accompagna ogni gesto del pontefice dimissionario, come si fa con un personaggio che sta per dissolversi. E si mostrano folle commosse di fedeli che lo salutano mentre attraversa sull'automobilina elettrica, stanco e emaciato, la navata della basilica di San Pietro. Ma è lo stesso Ratzinger che sempre ieri ha evocato una situazione segnata da conflitti latenti.
«Le divisioni ecclesiali deturpano la Chiesa. Bisogna superare le rivalità», ha detto alle 3500 persone presenti nell'aula Paolo VI.

Ma si capiva che in realtà stava parlando a quella «classe dirigente» di religiosi, incapace di offrire, ormai da tempo, un'immagine di unità e di concordia; e che, nonostante l'insistenza accorata con la quale il pontefice dimissionario ripete di avere compiuto la scelta di fare un passo indietro «in piena libertà», continua a essere indicata come una delle cause della sua decisione senza precedenti. Così, grazie ai «cacciatori di teste» il Vaticano è riuscito a risolvere il rebus del vertice dello Ior, al netto delle polemiche in incubazione. Ma per la scelta di un pontefice che risollevi le sorti della Chiesa, occorrerà molto di più.

Massimo Franco

14 febbraio 2013 | 8:39© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/cronache/13_febbraio_14/presidente-ior-benedettoXVI_563d72f8-766f-11e2-bad5-bab3677cbfcd.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO I conti con la realtà
Inserito da: Admin - Febbraio 26, 2013, 04:50:33 pm
I conti con la realtà


Ha vinto un’Italia euroscettica: almeno nei confronti della politica del rigore economico. Un terzo polo è spuntato, ma non è quello di Mario Monti: moderato, europeista, governativo. È invece quello radicale, protestatario e populista di Beppe Grillo, che ha raggiunto percentuali sorprendenti. Ma accanto al comico che è riuscito a strappare un quarto dei voti, c’è un altro vincitore. Si tratta di Silvio Berlusconi che ha scommesso sulla propria sopravvivenza. Ed è riuscito a garantirsela con una corona di liste satelliti che gli ha fatto superare il centrosinistra al Senato in termini di seggi; e sfiorare un’affermazione clamorosa alla Camera.

Per paradosso, Pier Luigi Bersani perde politicamente, pur vincendo il premio di maggioranza a Montecitorio. Era sicuro di farcela. Ma ha sottovalutato l’onda d’urto grillina e la resistenza aggressiva del berlusconismo. Adesso fare un governo sarà obbligatorio; ma dare corpo a un’alleanza duratura si profila impossibile. Il fantasma che si cercava di esorcizzare, l’instabilità, si è materializzato con una forza dirompente e inattesa. E ora è lì, a dilatare il senso di impotenza di partiti che si sono illusi di ingessare la situazione non facendo la riforma elettorale. E hanno provocato la reazione rabbiosa di un’opinione pubblica decisa a spazzare via la Seconda Repubblica. Come accade spesso, l’esito è ambiguo.

Berlusconi, che aveva portato l’Italia sull’orlo del precipizio finanziario, dimostra che la sua stagione da premier è finita; ma la sua capacità di parlare alla pancia del Paese rimane molto forte. La sinistra ribadisce l’incapacità di superare diffidenze più radicate di qualunque pronostico favorevole. E il centro di Monti rimane schiacciato non solo dal sistema elettorale, perché altrimenti non si spiegherebbe la vittoria di Grillo, ma da una rivendicazione dei sacrifici che l’elettorato ha rifiutato. Il sostegno dell’Europa al premier non ha sortito nessun effetto; anzi, forse ne ha avuto uno negativo.

È come se l’Italia avesse interiorizzato l’idea di una sospensione della democrazia; e si fosse rifiutata di analizzare i riflessi internazionali del voto. Di più: ha deciso di sfidarli, assecondando umori ostili a un’austerità valutata non per gli effetti benefici sui conti pubblici, ma per quelli negativi sulla crescita e sui posti di lavoro. Monti paga una scelta controversa, l’impopolarità e l’inesperienza. C’è solo da sperare che non si prenda una rivincita se l’Italia dovesse riemergere dalle elezioni isolata a livello europeo. Il saldo della scelta democratica compiuta nelle urne andrà calcolato nei prossimi mesi. Se non si troveranno un accordo e un’unità su alcune riforme, la prospettiva di una legislatura corta, cortissima, diventerebbe pericolosamente verosimile. Col rischio di un commissariamento ben più traumatico di quello percepito negli ultimi mesi.

Massimo Franco

26 febbraio 2013 | 9:24© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_febbraio_26/i-conti-con-la-realta-franco_658dcc22-7fc4-11e2-b0f8-b0cda815bb62.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO LA CHIESA TRA MISSIONE E TRASPARENZA
Inserito da: Admin - Marzo 10, 2013, 11:24:20 am
LA CHIESA TRA MISSIONE E TRASPARENZA

Il fardello dei cardinali


Il Conclave che sta per cominciare ha già assunto contorni epocali: se non altro perché arriva sull'onda della rinuncia di Benedetto XVI al papato. Per questo le attese della Chiesa cattolica, e non solo, sono così grandi da apparire a volte sproporzionate. La distanza fra la comunità dei fedeli e il Vaticano è più vistosa del passato: al punto da prefigurare una contraddizione, se non una frattura, fra la dimensione religiosa e quella del governo della Santa Sede. Ma è soprattutto sul concetto di trasparenza che le due realtà risultano sconnesse. Dal basso, e anche dai vertici di alcuni episcopati mondiali, arrivano richieste radicali di chiarezza e di pulizia che finora sono state respinte e frustrate.

Ma il risultato è che il dossier dei tre cardinali incaricati mesi fa di indagare sulle fughe di notizie e sul malaffare dentro le Sacre Mura galleggia come una mina vagante intorno alla Cappella Sistina. Gli appelli a rivelarne il contenuto sono stati inutili; e questo impedisce di scegliere avendo a disposizione tutte le informazioni sui «papabili». Eppure, sarebbe disastroso coprire una verità a conoscenza di un pugno di persone della Curia, col rischio che ne vengano usati impropriamente spezzoni per colpire l'uno o l'altro candidato; e per influenzare l'andamento o addirittura l'esito del Conclave. Può darsi che si tratti di notizie non degne di nota, ma allora tanto vale consegnarle agli «elettori».

Se invece, come sembra, il dossier descrive una realtà ingombrante, di fatto ritenuta inconfessabile, l'esigenza di condividerlo con i cardinali risulta ancora più impellente. Più ci si avvicina alla data di inizio con gli ultimi arrivi a Roma, più filtrano voci velenose di inchieste giudiziarie, scandali «in sonno», «incompatibilità» riguardanti l'uno o l'altro candidato al soglio di Pietro. Contro il pericolo di condizionamenti e di manovre, sembra prevalere la cultura del segreto, presentata nobilmente come tutela del diritto alla riservatezza. Ma si tratta di un riflesso difensivo antico quanto pericoloso in una fase così convulsa.

La trasparenza ha un costo. L'opacità, però, potrebbe averne uno molto superiore, e alla fine devastante. Rischia di gettare ombre su tutto il Collegio cardinalizio; e di inquinare, perfino a dispetto della verità, un'elezione che dovrebbe essere soprattutto in questo momento libera, consapevole e senza ombre. Basta pensare ai contraccolpi che rivelazioni pilotate provocherebbero nel corso del Conclave; o, peggio, dopo l'elezione del nuovo pontefice. L'idea che la Chiesa cattolica emerga meno credibile di prima da questa fase definita di «purificazione», fa spavento e va respinta. Ma è un'eventualità da non escludere, se non si farà nulla per evitare che i sospetti lievitino.

In quel caso il controverso, drammatico sacrificio di Benedetto XVI risulterebbe non la risorsa estrema per provocare la riforma, anzi la palingenesi del cattolicesimo. Verrebbe ridotto a un gesto di impotenza, addirittura di disperazione, di fronte a una realtà così terrena da umiliare e schiantare anche i propositi più spirituali.

Massimo Franco

8 marzo 2013 | 7:58© RIPRODUZIONE RISERVATA

DA - http://www.corriere.it/editoriali/13_marzo_08/il-fardello-dei-cardinali-massimo-franco_31331d06-87b2-11e2-ab53-591d55218f48.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO Chi sperava in un compromesso gattopardesco sorpreso ...
Inserito da: Admin - Marzo 14, 2013, 06:07:24 pm
Chi sperava in un compromesso gattopardesco sorpreso dall'identità globale

L'idea di un pontefice italiano bloccata dalle divisioni tra cardinali

Si è passati all'analisi dei veri rapporti di forza, basati sul numero dei fedeli e non su quello dei porporati nella Sistina


Si avvertiva una miscela di speranza e di inquietudine, nella prospettiva di tornare ad avere un papa italiano. Simbolicamente, sarebbe stata una rivincita importante. Avrebbe significato smentire una vulgata secondo la quale i conflitti interni, Vatileaks , la guerra intorno allo Ior e l'alleanza di fatto con il centrodestra berlusconiano avevano scalfito la credibilità dell'episcopato e del Vaticano «romano»: anche a livello internazionale. Dopo trentacinque anni, sul soglio di Pietro sarebbe arrivato di nuovo un esponente di quella filiera storica di pontefici che hanno dominato i Conclavi, accreditando una «scuola» fatta di raffinatezza culturale, conoscenza più che subalternità alla Curia, e grande capacità di governo della Chiesa. Eppure, era chiaro dall'inizio che non esisteva un «partito italiano» capace di imporsi in Conclave ai cardinali del resto del mondo.

Lo sfondo era cambiato più di quanto forse chiunque avesse percepito. E il nome di Jorge Bergoglio, argentino, papa Francesco, uscito sulla scia della fumata bianca di ieri sera, è figlio non di un cambio di maggioranze rispetto al 2005, ma di una fase completamente nuova che spazza via vecchi paradigmi e vecchie divisioni tra «conservatori» e «progressisti». E conferma quanto fosse vero che la pattuglia italiana, forte numericamente, non poteva imporsi perché divisa e appesantita dall'immagine controversa offerta negli anni del papato di Benedetto XVI. La sua identità è risultata troppo «nazionale», troppo «vaticana» per affrontare una Chiesa cattolica decisa a cambiare radicalmente i termini della sfida.

Il risultato è che quanti coltivavano la speranza di un compromesso gattopardesco non sono riemersi tanto sconfitti, quanto superati dall'affermazione stupefacente di un'identità globale, espressa da una maggioranza che con aggettivo riduttivo si potrebbe definire «riformista». Forse non poteva essere diversamente, dopo la rinuncia di Joseph Ratzinger: a meno che non si volesse banalizzare il suo gesto controverso e drammatico, e correre il rischio di una decadenza della quale già si intravedevano i primi segni. D'altronde, trentacinque anni di papi stranieri, da quel 1978 che vide l'elezione di Karol Wojtyla, hanno abituato quasi due generazioni di ecclesiastici e di opinione pubblica italiani a considerare naturale il fatto che la Santa Sede sia guidata da uno «straniero». Vescovi e cardinali sono cresciuti all'ombra di un pontefice polacco e poi di quello tedesco, accentuando l'immagine di un episcopato insieme fedele al Papa e autonomo, custode quasi geloso delle proprie prerogative nazionali. L'obiezione di fondo che gli avversari di un pontefice italiano avevano avanzato, riguardava il profilo internazionale del Vaticano.

Non volevano che la percezione fosse di nuovo quella di una Chiesa italocentrica ed eurocentrica, nella quale le componenti curiali ed europee sono rappresentate in modo esagerato rispetto al resto del mondo dove il cattolicesimo cresce e non avvizzisce. Probabilmente è una, anche se non la sola ragione che ha spinto il Conclave a guardare altrove, «quasi alla fine del mondo», nelle parole di Francesco: un'eccentricità geografica che in realtà marginalizza quanti nell'episcopato italiano si erano illusi che il loro numero significasse anche peso specifico negli equilibri del cattolicesimo mondiale. La legittimazione cardinalizia ha dovuto cedere il passo ad un'analisi dei veri rapporti di forza, basati sul numero dei fedeli, sulle sfide da affrontare, sulle rughe ed i limiti da analizzare senza reticenze.
E comunque, di nuovo è affiorata l'ombra della divisione del «partito italiano». Sono spuntate resistenze nella Curia, ma anche in settori della Cei, nei confronti di un Angelo Scola che appariva «il più papabile» ma per paradosso spaventava chi non voleva una personalità forte e capace di incidere in profondità sulle incrostazioni curiali. Per giorni si è parlato di settori italiani del Collegio cardinalizio perplessi su di lui. E la rapidità con la quale si è arrivati alla scelta di Bergoglio conferma che i voti su cui poteva contare Scola sono risultati da subito insufficienti. Rimane da vedere se l'arcivescovo di Milano diventerà «primo ministro» vaticano, visto che Tarcisio Bertone è dato fisiologicamente in uscita. Ma forse, le sorprese maggiori potranno venire dal modo in cui Francesco ridefinirà i rapporti con la Conferenza episcopale italiana; e da come affronterà la riforma inevitabile della Curia e più in generale del «governo» vaticano.

Sullo sfondo si stagliano le divisioni che hanno attraversato le associazioni cattoliche italiane; il collateralismo fra le gerarchie e il potere politico; gli scandali e le inchieste giudiziarie che hanno investito ecclesiastici e politici ostentatamente cattolici: frammenti che hanno contribuito ad accreditare una contiguità sospetta, osservata dagli episcopati stranieri con fastidio e imbarazzo. L'insistenza soprattutto dei cardinali nordamericani per avere notizie più dettagliate su Vatileaks è indicativa.

Quanto al governo vaticano, circola già l'ipotesi che si arrivi ad una sorta di «consiglio della tiara»: un gruppo ristretto di «saggi» chiamati a proteggere il Papa ed evitare che l'«Appartamento» diventi l'imbuto intasato di mille dossier. Su questo sfondo, l'«italianità» si presenta ormai come una nazionalità qualsiasi; anzi, sacrificata forse oltre le responsabilità collettive dalla vicinanza al cuore del potere vaticano: una prossimità che ha finito per danneggiarla e non favorirla, accomunando e confondendo le responsabilità. Certo, per un episcopato che contava quasi un quarto dei cardinali elettori il risveglio è brusco. D'altronde, la rinuncia di Benedetto XVI aveva sbriciolato ogni residua rendita di posizione. E indicato un «nuovo inizio» incarnato dal sudamericano Bergoglio. Ma non da europei e soprattutto italiani, schiacciati dal fardello di una lunga crisi.

Massimo Franco

14 marzo 2013 | 10:43© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/esteri/speciali/2013/conclave/notizie/14-mar-pontefice-divisione-cardinali_41ac0cdc-8c7c-11e2-ab2c-711cc67f5f67.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO Papa, per il dopo Bertone avanza lo straniero
Inserito da: Admin - Marzo 15, 2013, 06:25:49 pm
VATICANO

Papa, per il dopo Bertone avanza lo straniero

I timori della Curia in attesa delle prime nomine e delle scelte di Francesco sulla successione alla Segreteria di Stato


Chi era lì, accanto al Papa appena eletto, racconta che alcuni esponenti della Curia romana avevano facce di cera. Più che paura, mostravano smarrimento: la perdita della bussola da parte di un mondo che si sente di colpo superato, scavalcato. Destinato a cambiare o a finire.
La vera notizia è che nessuno, almeno in apparenza, è in grado di prevedere che cosa abbia in testa Francesco sul prossimo segretario di Stato vaticano; sulla riorganizzazione della Curia; sul futuro dello Ior, la controversa «banca del Papa». E la prospettiva che voglia prendersi qualche settimana di tempo prima di decidere non viene percepita come un segno di esitazione, o della volontà di temporeggiare.
Tutti sentono che alla fine, e fra non molto, le decisioni arriveranno, e apriranno in modo indiscutibile una pagina nuova.

Si guarda molto al momento in cui Tarcisio Bertone lascerà la Segreteria di Stato, perché la figura del suo successore indicherà le intenzioni di Francesco. Eppure, per quanto certo il cambio della guardia non offre certezze, ma solo presagi di rottura con il passato. L'ipotesi che un pontefice argentino non possa che nominare come suo «primo ministro» un italiano in nome di una sorta di compensazione per la mancata elezione in Conclave, è tutta da verificare. L'unico elemento sul quale qualcuno azzarda previsioni, è che il «primo ministro» venga scelto fra le file dei diplomatici vaticani, trascurati nell'era di Benedetto XVI. L'esigenza di ricostruire un'agenda internazionale che negli ultimi anni è apparsa sfilacciata e piena di smagliature, è sentita in modo acuto. Per il resto, Jorge Bergoglio in realtà è un italoargentino e dunque in teoria «copre» la casella di due nazionalità. Ma soprattutto, la sua candidatura è maturata e lievitata in silenzio e seguendo dinamiche nuove, negli episcopati americani del Nord, del Centro e del Sud.

La sensazione è che il nome aleggiasse da tempo, senza che i cardinali europei se ne rendessero conto fino in fondo, se non al mattino di mercoledì, a giochi quasi chiusi; e mentre il numeroso «partito italiano» accarezzava ambizioni e perpetuava conflitti destinati a spiazzarlo. Filtra un episodio indicativo. Domenica scorsa, quando mancavano due giorni all'apertura del Conclave, Bergoglio aveva incrociato in piazza Navona, a Roma, Thomas Rosica, canadese, presidente della televisione «Salt and Light», «Sale e Luce». Il sacerdote gli aveva chiesto se fosse nervoso. «Un po'», aveva replicato l'allora arcivescovo di Buenos Aires. «Pregate per me, perché non so che cosa i miei fratelli cardinali mi stiano preparando». Sembra di capire che già allora una porzione potente e compatta del Conclave «guardava a Ovest», come ha sintetizzato ieri il quotidiano finanziario The Wall Street Journal , con orgoglio americano prima che statunitense: lo stesso che il giorno prima aveva imputato al cardinale italiano Angelo Scola legami stretti con la politica.

Il problema è che adesso Francesco sta cominciando a guardare a Roma, e i piccoli gesti che compie sono potenzialmente così di rottura da far pensare a cambiamenti più radicali di quelli avvenuti nel 1978 con l'elezione di Giovanni Paolo II. «È la fine del papa re e della corte vaticana», scolpisce un conoscitore profondo dei riti e delle logiche della Roma pontificia. Si registra una certa concordia nel ritenere che il suo mandato sia quello di fare pulizia nella Curia, e di evitare che si ripetano le tensioni che hanno sfigurato l'episcopato italiano.
Una delle tante leggende che cominciano già a fiorire, racconta che quando subito dopo l'elezione il cerimoniale gli ha porto la mantellina rossa bordata di ermellino, il pontefice avrebbe risposto: «Monsignore, questa la metta lei. È finito il Carnevale». Vero o no, l'istinto di sopravvivenza della Curia ha captato subito che il Vaticano potrebbe essere all'inizio di un rinnovamento radicale, una «rivoluzione della frugalità e dell'esempio».

Probabilmente era un cerimoniale che Benedetto XVI subiva più che volere; ma che ha finito per apparire la cifra controversa di una Chiesa messa a confronto con una crisi non solo della fede e delle vocazioni, ma dell'economia mondiale. C'è chi reagisce alla novità con un conformismo ai confini del servilismo, sostenendo di avere sempre pensato a Bergoglio come vero candidato; e annuendo alle rotture del passato dicendo che «era ora». E chi, più cautamente, cerca di decifrare le intenzioni di questo gesuita argentino chiamato a ridisegnare la mentalità, prima che le strutture del governo vaticano. «Bergoglio non è solo un papa che sta con i poveri, ma un papa povero, che da tempo ha compiuto questa scelta». Chi lo fa presente, però, invita a non sottovalutarlo: la biografia di Francesco è quella di un uomo determinato. E se anche le nomine verranno dopo, «fra qualche settimana», si spiega, è solo perché vuole scegliere qualcuno che impedisca alla Curia di imbrigliarlo.
Il nuovo Papa è chiamato ad archiviare un Vaticano. E lo farà.

Massimo Franco

15 marzo 2013 | 8:19© RIPRODUZIONE RISERVATA

DA - http://www.corriere.it/esteri/speciali/2013/conclave/notizie/15-marzo-per-la-successione-a-bertone-franco_d607f5e2-8d3c-11e2-b59a-581964267a93.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO Verso una deriva estremista
Inserito da: Admin - Marzo 18, 2013, 04:41:18 pm
POLITICA e stabilità

Verso una deriva estremista

Si finge di ignorare che il bipolarismo è reso tale solo da meccanismi elettorali perversi

I nomi sono nuovi e rispettabili. È difficile, tuttavia, sfuggire ad un leggero senso di vertigine per lo sbilanciamento a sinistra che i vertici del Parlamento certificano. Il «sistema delle spoglie» all'italiana consegna una fotografia degli equilibri di potere che sembra scattata sette anni fa, ai tempi dell'Unione. E non promette una stabilizzazione delle istituzioni, ma una fragilità che accentua il timore di una legislatura già incanalata sul binario morto. Si deve concedere che la responsabilità non possa attribuirsi al solo Pd. L'esito è anche figlio di un risultato elettorale ambiguo e destabilizzante in sé.

Ma si sperava che venisse «letto» in maniera diversa. E invece, brillano la contraddizione esistenziale di un Movimento 5 Stelle incapace di assumersi con trasparenza un ruolo in positivo; un Pdl risucchiato in una deriva giudiziaria, cavalcata nella speranza che un Silvio Berlusconi nel ruolo di vittima porti voti; e un centrismo montiano in affanno a ritrovare bussola e sponde internazionali. Comunque la si guardi, la situazione appare sconfortante. Neppure un mese dopo un voto annunciato come decisivo, l'Italia è di nuovo immersa in una campagna elettorale. Anzi, in fondo non è mai uscita dall'altra. Ma il guaio non dipende solo dal fatto che il Senato sia senza una maggioranza.

Il problema è la deriva estremista delle posizioni. È il rifiuto dei partiti di cercare un qualunque compromesso. È il peso dell'impotenza del sistema politico scaricato sul Paese, senza alcuna riforma. Si finge di ignorare che il bipolarismo è reso tale solo da meccanismi elettorali perversi; e che promette frutti avvelenati in vista della scelta del prossimo presidente della Repubblica, a metà aprile. Per come si stanno mettendo le cose, rischia di prevalere un'autosufficienza della sinistra declinata nel modo più conflittuale e corrosivo per la legittimità delle istituzioni: col risultato di regalare argomenti alla propaganda berlusconiana. Insomma, la politica è tornata, e offre uno spettacolo mediocre.

Forse perché in realtà non se n'era mai andata, nonostante il governo dei tecnici. Certo, se si pensa che il Pd prometteva di comportarsi come se avesse il 49 per cento anche ottenendo il 51, c'è da trasalire. Con il 29,5 insieme con il Sel di Nichi Vendola, si comporta come se avesse una percentuale doppia. Quanto alle alleanze, il discrimine dell'europeismo è stato messo in ombra per inseguire il fantasma di un'intesa con un Beppe Grillo che persegue, per tacere il resto, un referendum per fare uscire l'Italia dall'euro: una linea irresponsabile, prima che impraticabile. Insomma, dopo il 24 e 25 febbraio si è persa un'occasione per offrire l'immagine di un Paese avviato alla stabilità e credibile in Europa.

Ma ora sarebbe bene non creare le premesse per perderne un'altra. Usare il «premio» fornito da una legge elettorale più che discutibile per annettersi una ad una le cariche istituzionali scadute o in scadenza potrebbe rivelarsi non solo miope ma pericoloso. Il «partito italiano» in Conclave era numeroso e in apparenza potente, e ha perso perché era debole nella Chiesa cattolica. Forse, quell'esempio può essere un motivo di riflessione per il «partito della sinistra italiana» alla vigilia di appuntamenti laici ai quali si presenta gonfia di parlamentari ma non di voti.

Massimo Franco

18 marzo 2013 | 7:56© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/13_marzo_18/una-deriva-estremista-massimo-franco_9382bdbc-8f8d-11e2-a149-c4a425fe1e94.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO Il segretario del Pd verso un incarico tra molte incognite
Inserito da: Admin - Marzo 22, 2013, 06:28:25 pm
LA NOTA

Il segretario del Pd verso un incarico tra molte incognite

Oggi arriverà la decisione del Quirinale dopo il nuovo no di Grillo

I l «no», peraltro scontato, di Beppe Grillo, restituisce a Giorgio Napolitano un Parlamento senza una maggioranza certa. E rende la prospettiva di un incarico a Pier Luigi Bersani, segretario del Pd nebulosa eppure probabile. Ieri la delegazione dei Democratici è andata al Quirinale riproponendo un «governo di cambiamento»; e candidando Bersani a presiederlo. Eppure, poche ore prima le delegazioni appena uscite dallo studio del capo dello Stato riferivano che Napolitano è pronto a conferire l'incarico solo in presenza di numeri certi. E il nuovo presidente del Senato, Pietro Grasso, eletto dalla sinistra, si era lasciato sfuggire di essere «pronto a tutto per fare qualcosa per il mio Paese».

Quella di Grasso è stata vista come una disponibilità a presiedere «un governo tecnico-politico»; e come un implicito benservito per Bersani.
Al punto che il presidente del Senato ha dovuto precisare con un filo di imbarazzo: «Non vorrei essere interpretato in modo distorto». La confusione nasce da uno sfondo politico e parlamentare nervoso; e dall'inesperienza e dalla volgare disinvoltura con la quale alcuni gruppi sono andati da Napolitano. Il capo dei senatori M5S, Vito Crimi, è arrivato a dire che Grillo ha «tenuto abbastanza sveglio» il capo dello Stato.

Crimi poi si è scusato col Quirinale, dando la colpa, come fanno di solito i politici colti in fallo, ai giornalisti. Sono sprazzi che confermano una strategia tesa a bocciare qualunque ipotesi di accordo; e a tentare lo scardinamento del sistema. La richiesta grillina di Palazzo Chigi o, in subordine, della presidenza di commissioni come il Copasir (servizi segreti) o la Vigilanza sulla Rai, sembra avanzata per ricevere un no e gridare al regime. Lo stesso Bersani ha preso atto di avere davanti un interlocutore inaffidabile.
Si tratti di taglio di costi della politica o di posti in Parlamento, i grillini vogliono marcare la diversità con l'occhio alle urne.
Eppure, il Pd continua a rifiutare l'ipotesi di un accordo con il Pdl. Una maggioranza che veda insieme il partito di Bersani e quello di Silvio Berlusconi «non verrebbe votata dal 70 per cento almeno dei deputati del Pd», si spiega. Un «no» ad un governo di tregua nazionale, al quale lavora Napolitano, rischia tuttavia di isolarlo e di tirargli addosso l'accusa di portare l'Italia in un vicolo cieco. Già adesso gli avversari scaricano sul Pd una rigidità che, se confermata, provocherebbe un'interruzione rapida della legislatura.

Bersani, tuttavia, sa di non potere forzare la mano al capo dello Stato. Si fa scudo del «no» di Grillo a governi politici e tecnici, per perorare la propria causa. Se anche arriverà, però, si tratterà di «un» incarico tutto da costruire: al massimo «di avvio della legislatura».
A sorpresa ieri, dopo l'udienza da Napolitano, Bersani si è rivolto a «tutte le forze presenti in Parlamento», attenuando la pregiudiziale contro il Pdl e mandando segnali alla Lega con l'idea di una «Camera delle autonomie». Ma i conti non tornano.

Stefano Fassina, responsabile economico, minimizza: se al Senato non ci sono i numeri, «non sarebbe una novità: successe già nel '94 con Berlusconi». Ma quel governo durò appena sette mesi.

Massimo Franco

22 marzo 2013 | 7:30© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/nota/13_marzo_22/nota_040752c8-92b8-11e2-b43d-9018d8e76499.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO Passaggio acrobatico
Inserito da: Admin - Marzo 23, 2013, 05:50:06 pm
INCARICO A BERSANI

Passaggio acrobatico


L’espressione-chiave del discorso fatto ieri da Giorgio Napolitano è che l’incarico a Pier Luigi Bersani rappresenta «il primo passo» di un cammino. Significa che viene affidato al segretario del Pd nel segno di un minimalismo reso obbligato dal risultato delle elezioni del 24 e 25 febbraio scorsi: la situazione è così slabbrata e rigida fra i partiti e a livello parlamentare, che formare un governo sarebbe già in sé un miracolo. Implica soprattutto la volontà di non lasciare che la legislatura vada alla deriva, qualunque sia l’esito del tentativo del presidente del Consiglio incaricato. L’importante è cominciare; l’approdo va tutto costruito.

Il piano, da seguire in ogni sua fase, sembra in primo luogo quello di impedire elezioni anticipate in tempi ravvicinati. L’esigenza è di fare maturare gradualmente, in una prospettiva meno convulsa, quel «forte spirito di coesione nazionale» che Napolitano invoca come risorsa al momento indisponibile. Bersani ha ottenuto di mettere un piede dentro Palazzo Chigi perché l’esito elettorale gli ha dato la maggioranza assoluta alla Camera, e quella relativa al Senato. E soprattutto perché il capo dello Stato ha dovuto registrare il «no» del Pd e del Movimento 5 Stelle del comico Beppe Grillo a qualunque ipotesi di «governo di vasta unione ovvero, come si dice in linguaggio europeo, di grande coalizione ».

Sullo sfondo, tuttavia, l’esigenza rimane. E non è da escludersi che il candidato della sinistra possa soddisfarla al momento di presentarsi alle Camere, nelle pieghe del rifiuto ufficiale a qualunque intesa col Pdl. L’intenzione è di tenere distinti i versanti della maggioranza, comunque stretta, e delle questioni istituzionali che ne richiedono una più larga. La speranza di Bersani è di ottenere di volta in volta dalle opposizioni qualche prezioso «lasciapassare» o consenso in più a Palazzo Madama. Per questo si prepara a offrire alcune proposte in grado di fornire almeno un alibi per sostenerlo: i precedenti parlamentari non mancano, se si guarda ai momenti di passaggio della Prima Repubblica.

D’altronde, è l’unica speranza di sopravvivenza che può coltivare un governo destinato a nascere, se nascerà, con inequivocabili stimmate di minoranza; e ad andare avanti soltanto grazie alla benevolenza intermittente degli avversari. Il viatico a Bersani non contempla una compagine destinata a durare per la legislatura, ma al massimo per il suo avvio. E il compito che gli è stato affidato e che ha accettato, è di fare questo «primo passo» per ridurre e non aumentare il cumulo delle macerie postelettorali. Con il patto tacito, in caso di fallimento, di permettere ad altri un «secondo passo». L’incarico, avverte il Quirinale, deve verificare «un sostegno parlamentare certo».

Insomma, occorre che esistano le condizioni per ottenere la fiducia, non necessariamente una maggioranza precostituita. Sullo sfondo ci sono il malessere acuto dell’Italia e l’obbligo di mostrare «a noi stessi, all’Europa e alla comunità internazionale » che il Paese cerca stabilità istituzionale e finanziaria, ammonisce il capo dello Stato. Sono due valori intrecciati, di più, indissolubili. Bersani sa di doverli custodire nei giorni difficili che lo aspettano; e di non poterli tradire anche nel caso in cui le sue ambizioni dovessero rivelarsi impossibili da realizzare.

Massimo Franco

23 marzo 2013 | 8:05© RIPRODUZIONE RISERVATA

DA - http://www.corriere.it/editoriali/13_marzo_23/passaggio-acrobatico-franco_58ddbf9e-9380-11e2-8b46-37cbdff83c98.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO Un Bersani nervoso cerca di rimuovere le ultime incognite
Inserito da: Admin - Marzo 28, 2013, 10:50:26 am
LA NOTA

Un Bersani nervoso cerca di rimuovere le ultime incognite

E i grillini dopo l'incontro già alludono a un altro incarico. La strategia del Pdl


La sponda grillina si è confermata scivolosa, anzi ostile nei confronti di Pier Luigi Bersani. La consultazione fra il premier incaricato e i delegati del Movimento 5 stelle ha chiuso qualunque margine di dialogo. E per paradosso, la decisione di mandare in rete ogni parola pronunciata nel loro incontro ha irrigidito le posizioni. La trasparenza è diventata l'arma per evitare uno smottamento nel gruppo parlamentare di Beppe Grillo, scottato dalla «fuga» di qualche voto al Senato nell'elezione del presidente Piero Grasso. Sembrava una finzione di dialogo. Invece di parlarsi, gli interlocutori si rivolgevano ai rispettivi elettorati, già pensando ad un possibile scenario di voto anticipato. E poche ore dopo Vito Crimi, capogruppo grillino al Senato, ha liquidato il tentativo del segretario del Pd annunciando che se Giorgio Napolitano fa un altro nome, il M5S potrebbe essere più flessibile.

Bersani torna oggi al Quirinale per riferire al capo dello Stato se ritiene di poter tentare la formazione di un Esecutivo. L'impressione è che voglia provarci, pur avendo presenti le difficoltà. E infatti si fa anticipare da parole sferzanti sull'eventualità di un «governo del Presidente» che Napolitano potrebbe sentirsi costretto a proporre di fronte ai veti incrociati dei partiti. Segno che per la sinistra una qualsiasi subordinata a Bersani sarebbe vissuta come un arretramento e un passo ulteriore verso la fine anticipata della legislatura. Rispetto all'impostazione iniziale, però, la tattica del leader del Pd ha subìto una torsione vistosa.

Era partito puntando molte delle sue carte su una presunta disponibilità di Grillo e del suo gruppo: se non altro perché è proprio a quel movimento che alla fine il partito ha ceduto una percentuale dei suoi consensi. E invece, si è dovuto rassegnare ad una strategia del rifiuto che non prevede aperture di credito a nessuno; e punta invece ad un'accelerazione della crisi del sistema, tentando di spingere il Pd ad un compromesso governativo con il Pdl. Per quanto si tratti di un esito che ha sostenitori trasversali, seppure in modo contorto e pasticciato, le probabilità che si verifichi rimangono esigue. Il rischio di una marcia inesorabile verso le urne non va esclusa. I berlusconiani additano quel traguardo come inevitabile, se Bersani getta la spugna. Sono infatti convinti che i sondaggi, le divisioni nella sinistra e la crisi di identità della lista di Mario Monti, lavorino per loro.

Alcune frasi del capo leghista Roberto Maroni sono state interpretate come una cauta disponibilità a discutere. Ma il Carroccio non ha la forza di assumere una posizione indipendente e men che meno conflittuale rispetto al Pdl. Fra l'esito dell'incarico al leader del Pd e un'eventuale precipizio, comunque, c'è di mezzo la scelta del nuovo presidente della Repubblica. E sul successore di Napolitano i giochi promettono di rivelarsi più pesanti e imprevedibili di qualunque ambizione di rivincita elettorale. Il vero discrimine fra Bersani e Silvio Berlusconi è proprio la figura del prossimo capo dello Stato. Il Pdl gioca pesante nel chiedere per il Quirinale qualcuno che garantisca il Cavaliere. E subordina un eventuale appoggio proprio a una trattativa serrata e stringente su questo punto.

Ma il Pd non sembra in grado, né vuole offrire assicurazioni di questo tipo. Il settennato presidenziale conta molto di più di palazzo Chigi, per le implicazioni strategiche che ha. Il risultato è che all'incognita sulla via d'uscita dalla crisi del governo si aggiunge quella sul capo dello Stato. Con la prospettiva palpabile di un conflitto istituzionale. Quando il segretario del Pdl, Angelino Alfano, chiede a Bersani di rovesciare la sua impostazione, dà voce a un Berlusconi convinto di essere più forte politicamente; e pronto a passare ad una fase successiva ancora tutta da decifrare e inventare. «La vicenda è chiusa e l'ha chiusa Bersani che ora si trova nel vicolo cieco in cui si è infilato», accusa Alfano. «Sta a lui, ora, rovesciare la situazione, se vuole e se può, nell'interesse del Paese». Sa di aut aut , e tenta di rimandare all'avversario la responsabilità di una rottura. A meno che Napolitano non riesca a indicare un'alternativa all'impotenza dei partiti.

Massimo Franco

28 marzo 2013 | 7:22© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/nota/13_marzo_28/nota_eba600e6-976f-11e2-8dcc-f04bbb2612db.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO I democratici nervosi e il partito delle urne
Inserito da: Admin - Marzo 29, 2013, 12:00:32 pm
LA NOTA

I democratici nervosi e il partito delle urne

Visibile la differenza di opinioni tra il segretario del Pd e Napolitano


L’esito del tentativo di Pier Luigi Bersani fotografa la difficoltà per chiunque di trovare una maggioranza in Parlamento: sebbene, per paradosso, sia più complicato per altri che per il segretario del Pd, forte di una corposa rappresentanza almeno alla Camera. Ma in teoria potrebbe rivelare anche un aspetto positivo, perché permette una lettura più fredda del risultato elettorale del 24 e 25 febbraio scorsi. Pone tutti i partiti di fronte ai loro limiti non solo numerici ma politici.

E riconsegna al capo dello Stato, Giorgio Napolitano, il compito immane di trovare una soluzione. La sua decisione di accertare «personalmente» come stanno le cose lascia aperta ogni possibilità, perché Bersani non ha rinunciato.

La nota del Quirinale fa trasparire una differenza di opinioni con un presidente del Consiglio incaricato che rivendica il «no» a «preclusioni» e «condizioni» incontrate nei suoi incontri. Non si può escludere a priori la possibilità che nelle prossime ore possa prendere forma un «governo del Presidente», ma non è scontato. E comunque avverrebbe su uno sfondo fragile. È difficile, infatti, che un Pd uscito ridimensionato nelle proprie ambizioni di guida del Paese abbia verso una coalizione diversa un atteggiamento amichevole: a prescindere dagli errori tattici che Bersani può avere commesso con le insistite aperture al Movimento 5 Stelle.

È uno sforzo al quale i seguaci del comico Beppe Grillo hanno risposto con rifiuti ai limiti dell’insulto. E adesso lo stallo è ufficiale. L’incontro di ieri pomeriggio fra il presidente della Repubblica e Bersani è stato preceduto da parole dure di Sinistra e libertà, alleata del Pd, contro l’eventualità di una sorta di nuovo governo tecnico o istituzionale; di fatto, contro qualunque intesa, diretta o indiretta, con il partito di Silvio Berlusconi; e il destinatario è sembrato Napolitano. Ma la sensazione è che siano state ribadite dal premier incaricato, non disposto a cedere per ottenere un mandato pieno.

Tanto nervosismo porta a pensare che dopo il 15 aprile possano aumentare le spinte per eleggere un presidente della Repubblica «di sinistra», rinunciando a trattare con il Pdl. Ma se questo fosse l’epilogo, il cosiddetto ingorgo istituzionale rischierebbe di degenerare in conflitto. L’intreccio e la sovrapposizione anche temporale fra crisi di governo e successione al Quirinale sono un fatto. Dal modo in cui verranno affrontati e risolti dipenderà il destino di una legislatura nata debole per i risultati destabilizzanti delle elezioni di fine febbraio.

Aspetto più importante, però, è che l’impossibilità di trovare uno sbocco ripropone le incognite sulla capacità dell’Italia di affrontare una crisi economica e una diffidenza internazionale destinate a crescere. Per questo, alcuni partiti potrebbero arrivare alla conclusione che sia meglio ritornare alle urne subito, nella speranza o nell’illusione che l’elettorato compia scelte diverse. Sarebbe tuttavia un azzardo, che si cerca di scongiurare. Oltre tutto, toccherebbe al nuovo presidente della Repubblica sciogliere le Camere. E ci si troverebbe nella singolare condizione di un capo dello Stato appena proclamato, costretto a sciogliere il Parlamento che lo ha espresso.

Massimo Franco

29 marzo 2013 | 9:21© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/nota/13_marzo_29/la-nota-di-franco-i-democratici-e-il-partito-delle-urne_9fb4e7bc-9849-11e2-948e-f420e2a76e37.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO - Una nebbia tossica
Inserito da: Admin - Aprile 16, 2013, 02:55:02 pm
L'ELEZIONE DEL NUOVO PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA

Una nebbia tossica

Si era parlato di «metodo», ma le dinamiche per la scelta del nuovo capo dello Stato sono tornate misteriose

di  MASSIMO FRANCO


A quarantotto ore dall'inizio delle votazioni, le dinamiche per eleggere il nuovo capo dello Stato sono tornate misteriose, immerse in una nebbia tossica. Qualche giorno fa si era parlato di «metodo»: parola fredda ma preziosa per tentare di cucire interessi diversi e contrastanti, consegnando un simulacro di unità nelle mani del nuovo presidente della Repubblica. Ma nel lessico usato ultimamente dai partiti, di questo termine si è persa qualunque traccia.

Può darsi che riemerga per magia nelle prossime ore per un soprassalto di senso di responsabilità. Eppure, non si può tacere il timore di una coazione a ripetere vecchi errori.

Invece di essere il momento della cesura rispetto a veti incrociati che non producono governi ma risse e immobilismo, il Quirinale rischia di trasformarsi nel sommo parafulmine della crisi del sistema. Pessima prospettiva. La spaccatura dell'Italia non si sbloccherebbe. Anzi, sarebbe perpetuata e aggravata, e proprio nella sua istituzione più delicata e strategica. Ieri Pier Luigi Bersani si è incontrato di nuovo con il premier dimissionario, Mario Monti. Un colloquio analogo fra i due aprì la strada al tentativo di trovare un precedente per il dialogo fra Pd e Pdl.

Pochi giorni dopo si videro Bersani e Silvio Berlusconi, impegnandosi a un nuovo faccia a faccia prima dell'inizio delle votazioni a Camere riunite. Non è chiaro se rispetteranno l'impegno reciproco, per siglare un'intesa sul presidente della Repubblica in grado di smontare una fioritura sconcertante di candidature improbabili quanto accreditate come «popolari»; e per chiarire almeno in parte quali saranno le maggioranze che eleggeranno il successore di Giorgio Napolitano. Ma la prospettiva di avere un Quirinale di parte, di qualunque parte, non può entusiasmare: in generale, e in particolare in questa situazione.

Le elezioni di fine febbraio hanno dato risultati tali da riconsegnare un Parlamento spezzato in tre tronconi; e con numeri che riflettono solo parzialmente la realtà del Paese. Esasperare questa parzialità potrebbe avere riflessi imprevedibili sulla tenuta non solo istituzionale ma sociale. Il «gioco del Quirinale», come viene chiamato a volte, in realtà è cosa estremamente seria. Nel passato, per arrivare all'elezione di un capo dello Stato si sono attraversati passaggi drammatici, perfino tragici. Quando si parla di candidature equilibrate, condivise, tali da garantire all'Italia rispetto e credibilità sul piano internazionale, si elencano i contorni essenziali di un'identità.

Personaggi improvvisati e privi di esperienza possono essere suggestivi ma rivelarsi pericolosamente inadeguati: tanto più sulla distanza di un settennato. Per questo, sebbene faccia storcere il naso a chi accarezza prove di forza, se non forzature, pensando a improponibili regolamenti di conti e vendette, la parola «metodo» va rivalutata. E va offerta, formalmente o di fatto, agli interlocutori più responsabili come una bussola che permetta di ritrovare la strada della ragionevolezza politica: almeno nel tratto brevissimo che porta al Quirinale, dal quale però dipende il destino dell'Italia.

16 aprile 2013 | 7:24

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_aprile_16/nebbia-tossica-editoriale-franco_260b847e-a655-11e2-bce2-5ecd696f115c.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO A parti rovesciate
Inserito da: Admin - Aprile 18, 2013, 06:27:07 pm
IL QUIRINALE

A parti rovesciate

Marini è uomo sperimentato e rispettato, ma la condivisione potrebbe diventare un limite in prospettiva


Se davvero si tratta di un'elezione giocata sui veti incrociati, non deve sorprendere che possa diventare capo dello Stato chi riuscirà a collezionarne di meno. D'altronde, mettere d'accordo nelle condizioni attuali Pd, Pdl, montiani, senza perdere per strada altri spezzoni del Parlamento, appare più difficile che far quadrare un cerchio. L'ipotesi che a compiere il miracolo sia Franco Marini, ex presidente del Senato ed ex segretario del Partito popolare dopo una lunga militanza da leader della Cisl, è plausibile. Plausibile, ma non sicura. Le tensioni che si avvertono soprattutto nel Pd, del quale pure Marini è un dirigente, non vanno sottovalutate: tanto più mentre il Pdl sembra sostenerlo in modo granitico.

È un rovesciamento delle parti che aumenta le incognite. Marini sarebbe l'elemento di equilibrio e l'estrema trincea di un sistema che si sente minacciato; e che dalle elezioni di febbraio ha incassato con fastidio crescente le provocazioni, le minacce e i rifiuti sprezzanti dell'ex comico Beppe Grillo, teorico dello scardinamento delle istituzioni dopo il grande successo ottenuto nelle urne. Il fatto che il candidato al Quirinale non sia entrato in Parlamento è un altro paradosso: finisce per apparire la conseguenza di una legge elettorale che dà frutti amari, quasi surreali; e che proprio la classe politica non ha voluto cambiare.

La scelta di un uomo sperimentato e rispettato, capace di conciliare l'inconciliabile, non cancellerebbe queste ambiguità.
D'altronde, la situazione economica e sociale non consente uno scontro infinito ed esige un governo in tempi rapidi. Al fondo, si coglie l'istinto di sopravvivenza di partiti corrosi da potenti forze centrifughe e sfibrati da una lunga e sterile contrapposizione; e determinati a trovare una soluzione di compromesso, con lo sguardo concentrato sull'Italia più che sull'Europa. Anche sotto questo aspetto, la scelta di Marini suonerebbe come la rivendicazione orgogliosa di un'autonomia declinata in sottile polemica con le istituzioni continentali e col governo dei tecnici di Mario Monti. Si avverte una certa ansia di chiudere quel capitolo, e forse di archiviarlo.

Ma le elezioni di febbraio non hanno restituito legittimità alla politica: semmai gliene hanno tolta ancora. E l'idea di usare il Quirinale per blindare lo status quo potrebbe rivelarsi un'illusione. Certo, se le dinamiche che si sono messe in moto porteranno realmente a un candidato il più possibile condiviso, sarebbe un passo avanti. E se aiuteranno a creare una qualche maggioranza parlamentare, quella sfuggita a Pier Luigi Bersani per i veti di Grillo e l'ostinazione a non riconoscere una vittoria a metà, sarebbe un altro progresso. L'unica perplessità è di sistema. Il sospetto da dissipare è che la presidenza della Repubblica possa diventare la camera di compensazione delle rese dei conti nei partiti.

In questo caso, la condivisione diventerebbe non un bene prezioso, ma un limite, destinato a emergere molto presto e a pesare molto a lungo.

Massimo Franco

18 aprile 2013 | 9:20© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_aprile_18/parti-rovesciate_63a8522a-a7e1-11e2-96ed-0ed8c4083cbe.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO Ritorno alla Realtà
Inserito da: Admin - Aprile 30, 2013, 11:49:35 am
Ritorno alla Realtà

L'immagine che immortala la nascita del governo di Enrico Letta non è quella solitaria del presidente del Consiglio mentre annuncia i suoi ministri.
 
È l'altra di pochi attimi dopo, nella quale il premier stringe la mano con entrambe le sue a Giorgio Napolitano, apparso a sorpresa quasi per offrirgli un supplemento di legittimazione. Il capo dello Stato ha definito Letta «l'artefice» di una coalizione così inedita da cancellare vent'anni di Seconda Repubblica di «nemici». E ha chiesto di non cercare strani aggettivi per un governo semplicemente «politico», benché manchino tutti i protagonisti del passato.

È vero, è politico, con Angelino Alfano vicepremier. Ma lo sfondo evoca qualcosa di più. Segna il primo esplicito tentativo di pacificazione dell'Italia dopo la parentesi dell'esecutivo dei tecnici di Mario Monti, alla guida di una maggioranza definita allora «anomala». Adesso, quella maggioranza assume contorni «normali» che fanno storcere il naso a sacche di un elettorato trasversale di destra e di sinistra. Ma proprio per questo suggerisce una svolta. È la conferma che non si poteva tornare indietro; e la conseguenza obbligata di elezioni senza vincitori né vinti, almeno dal punto di vista dei numeri: gli unici che contino in democrazia, mentre si gonfia un'onda populista minacciosa.
L'equilibrio fra presenza maschile e femminile è evidente e positivo. Accanto però a esigenze altrettanto vistose di compromesso che lasciano trasparire qualche incognita sulla tenuta parlamentare. Esagerare il ricambio generazionale sarebbe riduttivo: declasserebbe un accorto bilanciamento di esperienze e sminuirebbe la scelta di rassicurare la comunità internazionale sul piano politico e finanziario. Emma Bonino alla Farnesina riflette un identikit atlantista sovrastato dalle sue storiche battaglie radicali, ma granitico. E Fabrizio Saccomanni all'Economia ribadisce il ruolo di garanzia di Bankitalia agli occhi della Bce, e non solo.

Si può anche dire che ha vinto ai punti Silvio Berlusconi; e che il Pd appare sottorappresentato nei ministeri. Ma gridarlo significherebbe sbilanciare strumentalmente l'equilibrio raggiunto. Quanto sta accadendo grazie alla determinazione di Napolitano, alla tenacia del premier e al senso di responsabilità, o magari solo alla rassegnazione dei partiti, è un ritorno della politica alla realtà: tutti hanno rinunciato a qualcosa. E dal modo in cui Letta e gli alleati riusciranno a governare e a durare, si capirà se segna anche il ritorno della politica in quanto tale. C'è poco tempo per dimostrarlo. E l'attesa dell'opinione pubblica è enorme e, a questo punto, giustamente impaziente.

MASSIMO FRANCO

28 aprile 2013 | 9:19© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_aprile_28/ritorno-realta_31a2c22c-afbd-11e2-9916-33bf7b5011d8.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO Lì sul suo letto vestito di blu con il rosario nero tra le mani
Inserito da: Admin - Maggio 07, 2013, 11:09:50 pm
La testimonianza

Lì sul suo letto vestito di blu con il rosario nero tra le mani

Nella stanza di Andreotti crocifisso e ricordi


Ha il solito doppiopetto blu presidenziale. E se non fosse per il rosario nero che gli avvolge le mani intrecciate sul grembo, e perché è sdraiato sul letto vestito di tutto punto con gli occhi chiusi, potrebbe quasi sembrare il Giulio Andreotti di sempre. Ma il piccolo presepe vivente che lo circonda, stavolta, non è nella sua stanza da letto per ascoltare le battute al curaro, o le perle di buonsenso romano-papalino. Le tre bombole a ossigeno accostate alla parete raccontano giorni di sofferenza. E il senatore a vita Emilio Colombo, vecchio alleato e avversario in decine di congressi democristiani e di quasi altrettanti governi, si fa un segno della croce che non è solo un saluto a lui ma il commiato a un'epoca della storia d'Italia.
In questa stanza nella penombra al quarto piano di corso Vittorio Emanuele che si affaccia sul Tevere e sul Vaticano, sorvegliato e protetto da un grande crocifisso di porcellana appeso sopra al letto, è morto ieri mattina, poco dopo mezzogiorno, l'uomo-simbolo della Prima Repubblica. In quel momento in casa c'erano soltanto Gloria, la badante filippina che lo assisteva con altri due connazionali, e Giancarlo Buttarelli, il capo della scorta con lui da oltre trentacinque anni. C'era anche la signora Livia, ma per fortuna non si è accorta di nulla. E anche adesso, alle cinque del pomeriggio, mentre un silenzioso viavai di amici e mondi tramontati viene accompagnato a salutarlo per l'ultima volta, la moglie è in cucina in compagnia della cognata Antonella Danese. Forse non capisce quanto è successo. I figli vogliono che non si accorga che suo marito Giulio se n'è andato a novantaquattro anni.

Già, ci sono anche gli Andreotti: la tribù più discreta e invisibile del potere romano. Per il momento Stefano e Serena, due dei quattro figli. Gli altri, Lamberto, presidente della multinazionale Meyers Squibb, arriverà da New York in serata, e la figlia maggiore Marilena è partita da Torino, dove vive. In compenso ci sono alcuni dei nipoti, Giulio Andreotti e Giulia Ravaglioli, figlio il primo di Stefano e l'altra di Serena e del giornalista della Rai Marco Ravaglioli. Ci sono anche Marco e Luca Danese, i cugini. E sono loro, tutti insieme, ad accogliere ex ambasciatori e capi di gabinetto, alti burocrati e parlamentari figli della diaspora scudocrociata; e naturalmente sacerdoti. Il segretario di Stato vaticano, Tarcisio Bertone, si è offerto di celebrare la messa. E anche il suo predecessore, il decano del Sacro Collegio, Angelo Sodano.
«E il cardinale Fiorenzo Angelini non viene?», si chiedono nel salottino con le cineserie e le scatoline d'argento allineate in ordine su un tavolino rotondo col drappo di velluto marrone. No, non ce la fa. E nemmeno il cardinale Achille Silvestrini. Sono molto vecchi anche loro, reduci di mille battaglie e pezzi d'antiquariato del «partito romano» italo-vaticano. Ci sono invece il vescovo Matteo Zuppi, parroco di Santa Maria in Trastevere, la chiesa della comunità di Sant'Egidio, e padre Luigi Venturi, il parroco di San Giovan Battista dei Fiorentini, la chiesa di quartiere dove oggi alle 17 si celebreranno i funerali in forma privata: perché la famiglia non vuole una cerimonia di Stato. Parlano tutti del «Presidente», come continuano a chiamarlo ricordando pagine ormai ingiallite di storia repubblicana. E la famiglia, con discrezione e garbo, ringrazia e stringe mani. Ma sempre un po' appartata, cordiale e insieme vigile. Come se concedesse per l'ultima volta il padre e il nonno a quelle persone che lo hanno visto più di loro.

Non è una veglia di potenti, ma di vecchi amici. Sì, sembra che Andreotti avesse anche amici. Non piange nessuno, perché probabilmente il «divo Giulio», o «Belzebù», come lo chiamano tuttora gli avversari più irriducibili, non approverebbe. Anche Pier Ferdinando Casini e Gianni Letta sono confusi fra l'avvocato Barone e Luigi Turchi e il figlio Franz. Parlano come se tutto fosse uguale a prima. Le segretarie, Daniela e Patrizia, raccontano che lo studio a palazzo Giustiniani ormai era un guscio vuoto da mesi; e che da febbraio i figli avevano deciso di restituirlo al Senato per non tenere occupate le stanze in nome di una finzione. È passato a salutare anche il sindaco di Roma, Gianni Alemanno. Sono arrivati appena si è saputa la notizia Franco e Sandra Carraro. C'è la signora Santarelli, figlia di un amico storico dell'ex presidente. E figli e nipoti osservano, rispondono alle domande, sorridono perfino, con gentilezza.
Quando Stefano Andreotti presenta a un Gianni Letta affranto il figlio, dicendogli: «Ecco Giulio Andreotti», c'è un attimo di sorpresa. Poi spunta un ragazzo alto, con i capelli un po' lunghi, in giacca blu e cravatta, che ha il nome del nonno e fa l'avvocato. L'altro, quello «vero», è sul letto con la coperta verde di lana a fiori e la foto di madre Teresa di Calcutta sul comodino, nella stanza a metà corridoio: quella annunciata dalla mensola di vetro dove sono esposti una parte dei campanelli d'argento che il senatore a vita ha collezionato per gran parte della sua lunga vita. Oltre la porta a due ante, in questo appartamento bello ma senza lusso, riposa quello che per decenni è stato considerato il sopravvissuto per antonomasia. Al punto che gli piaceva dire con civetteria: «Io, in fondo, sono postumo di me stesso». Perché lui continuava a vivere mentre finivano la Guerra fredda, la Prima e la Seconda Repubblica, e morivano o si dimettevano i Papi.

Non l'avevano schiantato né i processi per mafia, dai quali era uscito assolto e, per alcuni reati, solo prescritto, né un potere che aveva regole, riferimenti e protagonisti lontani ormai anni luce da lui. Finché era esistito un modo diviso fra Occidente e comunismo, Andreotti era parso eterno. Era il «suo» mondo, nel quale si muoveva con la leggiadria e il cinismo di chi ne conosceva non solo le apparenze, ma anche il sottosuolo. Aveva presieduto i suoi primi governi nel 1972, alleato con i liberali. Il terzo era stato nel 1976, appoggiato dal Pci. E l'ultimo, il settimo, nel 1989, a capo di un'alleanza con i socialisti di Bettino Craxi: l'ultimo della Prima Repubblica. Obiettivo: preservare la continuità dello Stato democristiano e un progresso senza avventure; e garantire il Vaticano, l'Europa e gli Usa come stelle polari. La Dc era solo uno strumento per governare. In realtà, la forza e il potere andreottiani erano fuori, non dentro al partito.
La sua base elettorale erano la Ciociaria, la burocrazia ministeriale romana, i conventi di suore, le congregazioni religiose. Come disse una volta lo scomparso capo dello Stato, Francesco Cossiga, Andreotti era «il popolo del Papa dentro la Dc». Oppure «un cardinale esterno», nella definizione dello storico Andrea Riccardi. Dei democristiani, di cui era un esemplare unico e dunque atipico, diffidava: forse perché aveva visto come erano stati rapidi a giubilare il suo mentore politico, Alcide De Gasperi, alla fine del centrismo e all'inizio degli Anni Cinquanta del secolo scorso. Non per nulla non aveva mai ricoperto cariche di partito, tranne quella di capogruppo alla Camera. E la sua corrente era piccola, combattiva e così variegata, per usare un eufemismo, che gli altri la chiamavano con una punta di razzismo «le truppe di colore» andreottiane.

Erano la sua piccola massa di manovra per ottenere ministeri; per garantirsi una longevità governativa dovuta non tanto alle sue strategie, quanto al ruolo di conservatore del sistema e conoscitore della macchina dello Stato. Eppure, quando la Dc finì insieme con la Guerra fredda, lui ne rimase un cultore nostalgico: capiva che l'archiviazione dell'unità politica dei cattolici era anche quella dei suoi punti cardinali e della sua cultura politica. Dopo la diaspora scudocrociata, a piazza del Gesù, sede storica della Dc a Roma, non voleva andare. Diceva che gli sembrava un condominio litigioso, con un partitino diverso a ogni piano. Da anni non era più un burattinaio. Anzi, rischiava di essere usato per operazioni politiche che non condivideva. Accadde nel 2006, quando Silvio Berlusconi lo candidò alla presidenza del Senato contro un altro ex democristiano, Franco Marini, scelto dal centrosinistra. Si illuse di essere «una goccia d'olio» in grado di sbloccare la situazione.
Ma fu la sua ultima illusione di potere, prima di un lungo oblìo dal quale è uscito solo ieri poco dopo mezzogiorno; e prima di essere di nuovo usato da partiti nei quali non si riconosce, come è accaduto dopo la notizia della sua morte. Il piccolo mondo antico che ieri si è ritrovato nel suo appartamento si è mimetizzato e adattato ai nuovi potenti. Ma sapeva che l'uomo adagiato in doppiopetto blu nella stanza accanto, e poi nella bara all'ingresso di casa, era la loro autobiografia: lo specchio nel quale per decenni la maggioranza silenziosa e moderata dell'Italia si era riflessa. Si tratta di un'Italia che ha rifiutato fino all'ultimo la sua scomparsa, perpetuando il mito dell'eternità andreottiana per non ammettere di essere postuma anche lei di se stessa. Ma «c'est fini», è finita, confessava a se stesso da tempo il suo segretario a palazzo Giustiniani, Salvatore Ruggieri.

E stavolta è finita davvero. Andreotti sarà ricordato come quello della battuta sul «potere che logora chi non ce l'ha»: un monumento lessicale a un potere senza alternativa, cresciuto negli ultimi anni della Dc; e pagato a caro prezzo quando quella stagione si è chiusa. Peccato che pochi ne ricordino un'altra, di molti anni prima. Chiesero all'allora ministro di qualcosa che avrebbe fatto se avesse avuto il potere assoluto. Andreotti ci pensò un secondo. Poi rispose: «Sicuramente qualche sciocchezza». Era una lezione di democrazia che molti, a cominciare da lui, hanno finito per rimuovere.

Massimo Franco

7 maggio 2013 | 14:21© RIPRODUZIONE RISERVATA

DA - http://www.corriere.it/politica/13_maggio_07/andreotti-rosario-letto-morte-Franco_6965f778-b6d5-11e2-8651-352f50bc2572.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO L'esito dell'offensiva legittima Palazzo Chigi
Inserito da: Admin - Maggio 11, 2013, 11:00:04 am
LA NOTA

L'esito dell'offensiva legittima Palazzo Chigi


L'invettiva di Beppe Grillo contro Enrico Letta è una boccata d'ossigeno e un diversivo insperato: per il presidente del Consiglio e per la sua maggioranza trasversale e fragile tra Pd, Pdl e Scelta civica. Essere additato come il nuovo bersaglio dal padre-padrone del Movimento 5 Stelle legittima quasi di rimbalzo l'ex vicesegretario del partito democratico come punto di raccordo della coalizione. E dirotta all'esterno e non più all'interno dell'esecutivo tensioni che negli ultimi giorni sono cresciute sull'Imu, la giustizia, e per la vigilia del congresso del Pd.

Se Grillo attacca il premier, c'è da ritenere che abbia un'oscura paura che riesca a combinare qualcosa. Ieri ha cercato di provocarlo dicendo che «Letta per venti anni ha fatto il nipote di suo zio», alludendo a Gianni, braccio destro da sempre di Silvio Berlusconi. «Veramente, da 46», è stata la replica ironica di Enrico, che ha citato la propria età. Ma soprattutto, Letta ha puntato il dito contro i problemi che Grillo incontra per convincere i suoi eletti a ridursi la diaria. Forse, la vera ragione degli insulti dipende dalle difficoltà grilline sul tema degli stipendi dei parlamentari.

Già durante le consultazioni, l'allora presidente incaricato aveva messo in difficoltà i capigruppo del M5S a Camera e Senato, mostrandone le contraddizioni e chiedendo loro di non isolarsi. Stavolta, la questione è più delicata. «Io toglierò lo stipendio ai miei ministri. Vedo che Grillo invece fatica a non far prendere la diaria intera ai suoi parlamentari che si ribellano contro di lui», lo incalza Letta. Che il tema esista non c'è dubbio; e che preoccupi i vertici del movimento l'ha confessato lo stesso leader. «Una differenza di poche migliaia di euro trattenute potrebbe sembrare un peccato veniale, ma non lo è. Nessuno ci fa sconti. Il Paese ci osserva».

«Houston abbiamo un problema! Di "cresta", va ammesso», ha avvertito Grillo con parole colorite e allarmate sul suo blog, dopo avere annullato una conferenza stampa a Roma. E ha ripetuto che chi tiene tutti i soldi dovrebbe trarne le conseguenze. Il solo fatto che sia costretto a minacciare espulsioni testimonia un affanno. La cosa peggiore, tuttavia, è che le beghe economiche fra Grillo e i suoi parlamentari hanno finito per accreditare di nuovo un Movimento 5 Stelle disunito e non solo eterogeneo; e per mettere in ombra i suoi attacchi al governo. È stata rispolverata la tesi del golpe: «Ci hanno messo in un angolo, questo è un colpo di Stato». Ma perfino Stefano Rodotà, il suo candidato al Quirinale, ha preso le distanze da questa tesi. Grillo poi ha definito Berlusconi «una salma. In un Paese normale sarebbe già in galera». Per paradosso, sono spallate che potrebbero puntellare palazzo Chigi: nonostante i malumori di alcuni settori del Pd che guardano tuttora al M5S. «Il governo Letta è fragilissimo, ma come diceva Salvemini, è una scommessa da confermare ogni giorno», lo benedice il ministro delle Riforme, Gaetano Quagliariello. E Grillo, senza rendersene conto, forse lo sta aiutando.

Massimo Franco

11 maggio 2013 | 8:20© RIPRODUZIONE RISERVATA

DA - http://www.corriere.it/politica/nota/13_maggio_11/nota_05223e72-b9fd-11e2-b7cc-15817aa8a464.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO Le Scorciatoie da evitare
Inserito da: Admin - Giugno 11, 2013, 05:31:21 pm
Le Scorciatoie da evitare


Si può anche fare l'elenco di vincitori e sconfitti nel giorno in cui vota solo il 48,6 per cento dell'elettorato. E dunque, è giusto affermare che il centrosinistra emerge dai ballottaggi nelle città con un profilo più solido degli avversari, incapaci di ritrovare i consensi dal Veneto alla Sicilia. Ma la tesi di un'Italia più «americana» perché si va meno alle urne, come negli Usa, è autoconsolatoria fino alla strumentalità. Esaltare come moderno un calo di partecipazione dai contorni patologici, anche per la rapidità con la quale si manifesta, significa sottovalutare la frattura che si è consumata.

Il leghista Giancarlo Gentilini, sconfitto al ballottaggio, ha annunciato con un sussulto egocentrico che a Treviso un'era è finita. In realtà, non lì ma in Italia. Non si è spezzato solo l'asse fra Pdl e Lega: a Roma il Carroccio non c'è, eppure il centrosinistra trionfa nell'oceano astensionista. Il sindaco Gianni Alemanno e il Pdl sono stati inghiottiti dai propri errori. E non convince l'idea che se Silvio Berlusconi si fosse impegnato la situazione si sarebbe ribaltata. Forse l'ex premier avrebbe limitato i danni, ma è improbabile che sarebbe riuscito a evitare del tutto percentuali umilianti. Di nuovo, come al primo turno, l'incognita è il non voto.

Collegarlo all'assenza di candidati del Movimento 5 Stelle non basta: l'astensionismo va molto oltre. Beppe Grillo segnala ed esaspera la crisi del sistema, senza però mobilitare e smuovere la grande massa dei delusi. Il malessere è più profondo e non riceve finora nessuna risposta, anzi. L'unico elemento rassicurante emerge di rimbalzo, per il governo nazionale. I risultati dei ballottaggi di ieri tendono a stabilizzare la coalizione anomala guidata da Enrico Letta. Dovrebbero tranquillizzare il Pd; e scoraggiare la minoranza berlusconiana che vuole le elezioni, magari in risposta alle sentenze dei processi a carico del Cavaliere.

Il partito di Guglielmo Epifani teme che il governo col Pdl snaturi la sinistra e metta in mora il bipolarismo. Per questo nei giorni scorsi il premier e il capo dello Stato, Giorgio Napolitano, hanno insistito sull'«eccezionalità» della coalizione. Il successo di ieri, con alleanze estese al Sel e a volte con una strizzata d'occhio ai grillini, dice che il governo Letta non logora il Pd. E questo dovrebbe attenuare l'impazienza di chi vuole archiviarlo: a cominciare da Nichi Vendola e dal sindaco di Firenze, Matteo Renzi, ansioso di candidarsi alla segreteria e ipercritico verso palazzo Chigi.

Quanto al centrodestra, la tentazione di far saltare il tavolo da ieri suona almeno azzardata. Le pressioni di chi pensa di andare all'incasso elettorale non diminuiscono. Ma c'è voglia di stabilità, e di atti di governo che la giustifichino. Più che scommettere sul logoramento di Letta, ci si aspetterebbe un aiuto a fare il tanto o il poco consentito da questa inevitabile coabitazione. Inseguire la scorciatoia di un esecutivo omogeneo alle alleanze locali rischia di allontanarlo; e di far perdere all'Italia tempo prezioso.

Massimo Franco

11 giugno 2013 | 9:28© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_giugno_11/scorciatoie-da-evitare-franco_9a0c5b8a-d258-11e2-8fb9-9a7def6018a2.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO La fine di un equivoco
Inserito da: Admin - Giugno 20, 2013, 04:35:07 pm
La fine di un equivoco

La reazione di Silvio Berlusconi alla sentenza con la quale ieri la Corte costituzionale ha negato che la sua assenza da un'udienza del marzo 2010 fosse giustificata, è apprezzabile: se non altro perché, pur ripetendo le accuse alla magistratura di volerlo eliminare dalla vita politica, garantisce che non verrà meno il sostegno al governo di Enrico Letta. Si tratta di un gesto di responsabilità che risponde all'esigenza di tenere separati i due piani, come d'altronde fanno Palazzo Chigi e il Pd. E per ora disarma quanti nel centrodestra evocano dimissioni in massa se il Cavaliere in autunno fosse condannato e subisse l'interdizione dai pubblici uffici.

Ma, sebbene atteso e temuto, il «no» al legittimo impedimento nei processi che vedono Berlusconi imputato è un cuneo nel futuro della legislatura. Prolunga il conflitto tra i giudici e l'ex presidente del Consiglio. Dà fiato a quanti, nella maggioranza anomala che sostiene la coalizione, sono tentati di usare il verdetto come un'arma impropria. E rischia di perpetuare tesi come quella che vede nella decisione di ieri la conferma di una politica subordinata ai giudici; e nelle Procure il braccio provvidenziale dell'antiberlusconismo. Significherebbe una interpretazione grave delle decisioni della Corte, che però trova udienza in una parte dell'opinione pubblica.

Non solo. Il Pdl è sempre stato incline a vedere nel governo di unità nazionale, nato dopo le elezioni di febbraio e dopo la conferma di Giorgio Napolitano al Quirinale, il preludio di una pacificazione: una tregua nella quale si riconosce anche una parte della sinistra, oltre alla formazione dell'ex premier Mario Monti. Il problema è che, a torto o a ragione, il centrodestra ha sempre teso a dilatarne il significato, ricomprendendo nella sospensione delle ostilità i processi a Berlusconi. Sono visti infatti come un pezzo non trascurabile della «guerra dei vent'anni» che ha diviso i due schieramenti della Seconda Repubblica. Per questo il «no» della Corte viene vissuto come una smentita bruciante della tregua.

La distanza fra alleati di governo è racchiusa nel giudizio agli antipodi su una sentenza «politica e faziosa» per il Pdl; «tecnica» per il Pd. Il coro del centrodestra risulta compatto e in qualche caso esagerato. Compensa l'impossibilità di scaricare sul governo un provvedimento destinato a segnare il futuro di Berlusconi, in attesa anche della sentenza sul caso Ruby. E magari vela e cerca di far scivolare in secondo piano qualche errore nell'impostazione della difesa processuale del Cavaliere. Ma è altrettanto vistosa la cautela dei Democratici. Non si vogliono offrire pretesti polemici sia al fronte berlusconiano, sia alla sinistra che accusa il governo Letta di cedevolezza.
Probabilmente non ci sono rischi per la stabilità. Da ieri, tuttavia, è finito l'equivoco di una maggioranza fondata anche sulla pax giudiziaria.

Massimo Franco

20 giugno 2013 | 7:49© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_giugno_20/fine-equivoco-Franco_97672a42-d968-11e2-8116-cce4caac965d.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO Banca vaticana la strategia di Francesco nella palude finanziaria
Inserito da: Admin - Giugno 28, 2013, 06:23:24 pm
DOPO LA NOMINA DELLA COMMISSIONE SULLO IOR

Banca vaticana, la strategia di Francesco nella palude finanziaria

L'organismo di controllo creato dal Papa è molto più di una commissione.

E non è escluso che il 4 luglio Bergoglio e Letta parlino anche di finanze vaticane

di  MASSIMO FRANCO


ROMA - Quella istituita mercoledì 27 giugno da papa Francesco è molto più di una semplice «commissione referente». Non significa ancora il commissariamento dello Ior, ma prepara una radiografia spietata della cosiddetta «banca del Vaticano». Il Pontefice vuole sapere: è deciso ad aprire la scatola dell'Istituto per le opere di religione, e vedere che cosa c'è dentro. Per lui la rivoluzione in Vaticano comincia risolvendo il problema più spinoso.

La «commissione referente» nominata mercoledì con una sua lettera autografa e presieduta dal cardinale Raffaele Farina, un salesiano rispettato e dotato di grande equilibrio, è l'ennesimo passo in questa direzione: ma non l'ultimo. Ormai sta diventando chiaro che papa Francesco ha deciso di cominciare la riforma del Vaticano partendo dalla questione più spinosa e più imbarazzante per la Chiesa: lo Ior, appunto. L'intenzione del Pontefice è quella di dare segnali netti alla Curia e alla comunità internazionale sulla sua volontà di illuminare i recessi più oscuri delle finanze della Santa Sede una volta per tutte.

«Questo non è ancora il commissariamento dello Ior. Ma è molto più di una commissione», si fa notare. «Il Santo Padre vuole sapere. Vuole aprire la scatola dello Ior, e vedere che cosa c'è dentro». Il modo in cui la lettera affianca una prima parte pastorale a una seconda più giuridica, lascia indovinare un pragmatismo angloamericano al quale il Pontefice ha scelto di ispirarsi. La lettera è datata 24 giugno.

E adesso l'assenza clamorosa di Francesco dal concerto in Vaticano di sabato scorso viene spiegata anche con l'esigenza di stringere i tempi e creare la commissione. Si tratta di un'operazione strategica. Fissa paletti così stringenti che d'ora in poi nessuno, tranne il Papa, potrà dire se lo Ior funziona o no; e se è coerente con il modo in cui deve operare la Chiesa cattolica.
In prospettiva, un effetto collaterale potrebbe essere di abbassare, se non di abbattere, quello che un banchiere definisce «il muro di Berlino» fra le attività finanziarie dello Ior e i controlli di Bankitalia e del ministero dell'Economia. La tendenza a considerare la collaborazione come un attentato alla sovranità e all'indipendenza vaticane continua a creare incomprensioni, oltre che inchieste della magistratura.

Ultimamente, invece, comincia a farsi strada la convinzione che un raccordo fra la Roma governativa e quella papalina sul piano finanziario possa essere utile a tutti. Non si esclude che nell'udienza con il premier Enrico Letta, in programma il 4 luglio, venga toccato anche questo aspetto, sebbene sia marginale rispetto all'obiettivo che il Pontefice si prefigge.

D'altronde, il modo in cui papa Bergoglio ha presentato la nuova commissione e le persone che ha designato a farne parte forniscono indicazioni chiare. Intanto, l'unico italiano è il cardinale Farina, ex capo della Biblioteca e dell'Archivio segreto vaticano. Ci sono due statunitensi: il numero tre della Segreteria di Stato, monsignor Peter Bryan Wells, e Mary Ann Glendon, giurista di Harvard, presidente della Pontificia Accademia per le scienze sociali ed ex ambasciatrice Usa presso la Santa Sede negli anni di George Bush; uno spagnolo, Juan Arrieta Ochoa de Chinchetru, grande esperto di testi legislativi; e il cardinale francese Jean-Louis Tauran, raffinato conoscitore sia della Curia, sia della geopolitica vaticana. Tauran è l'uomo di raccordo con l'islamismo, e fu lui a annunciare alla piazza l'elezione di Bergoglio.

Ma ad accomunarli sono il rigore e la condivisione di un progetto radicale di rinnovamento. È una squadra alla quale il Pontefice affida il compito di «conoscere meglio la posizione giuridica e le attività» dello Ior. Il «desiderio» di Francesco è di «armonizzare» l'Istituto «con la missione della Chiesa universale e della Sede apostolica»: evidentemente, ci sono dubbi corposi che finora sia stato così. Non è bastata la nomina di monsignor Battista Mario Salvatore Ricca, direttore fra l'altro della Residenza di Santa Marta dove vive Bergoglio, a dare il senso della rivoluzione in atto.

Occorreva un gesto più forte, che mettesse insieme competenze e autorevolezza percettibili in modo immediato. Il fatto che la commissione sia stata istituita con un «chirografo», come si dice in gergo, e cioè con un documento scritto da Francesco, ha colpito molto. Dà il senso di una decisione che nasce dalla sua volontà personale, alla quale ci si dovrà attenere senza eccezioni.

Il problema che si intravede sullo sfondo è come sarà possibile rivoluzionare tutto senza sostituire l'attuale presidente Ernst Von Freyberg, nominato pochi mesi fa, nell'interregno fra le dimissioni di Benedetto XVI e l'elezione di Bergoglio; e come si ridisegneranno i compiti dell'Aif, l'Autorità di informazione finanziaria presieduta dallo svizzero Renè Bruelhart, esperto di antiriciclaggio di denaro sporco, pure di nomina recente. Ma questi aspetti appaiono secondari, davanti a un'operazione così ambiziosa. I malumori sono palpabili. Per questo si stanno studiando accorgimenti come il congelamento delle cariche fino a quando si conoscerà il destino dello Ior.

Il Vaticano ha contattato tramite la Segreteria di Stato alcuni dei banchieri cattolici più influenti per avere suggerimenti in proposito; e c'è perfino chi ha consigliato la chiusura come unica soluzione. Molto, tuttavia, dipenderà dai tempi che Francesco si è dato mentalmente. E anche dalle nomine che ridistribuiranno il potere nella Curia. Fino a qualche giorno fa, la tesi prevalente era che Francesco avrebbe agito subito sullo Ior, rinviando invece altre decisioni post acquas , e cioè dopo l'estate. Il suo stile conferma una determinazione che intimorisce; e fa apparire come segni di impotenza e di allarme le minacce velate e gli avvertimenti che alcune filiere del potere curiale lasciano trapelare qui e là.

Sono le dimissioni di Benedetto XVI e l'esito del Conclave a dettare l'agenda papale. Cambiarla, o pensare che si possa tornare indietro, significa non avere capito o non voler capire quanto è successo negli ultimi tre mesi e mezzo.

da - http://roma.corriere.it/roma/notizie/cronaca/13_giugno_28/ior-strategia-francesco-mfranco-2221885031101.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO La gara al ribasso
Inserito da: Admin - Luglio 01, 2013, 12:26:50 pm
L'EDITORIALE

La gara al ribasso


Ha vinto l'astensionismo e ha perso Beppe Grillo. Forse come sintesi è un po' brutale, eppure coglie i due aspetti più vistosi di un voto amministrativo che probabilmente stabilizzerà il governo, rassicurando un po' il Pd sulla propria tenuta. Di certo, ripropone in termini seri il rapporto fra democrazia e voto, mostrando una massa di elettori in attesa di rappresentanza.

Dalle urne esce un'Italia dei campanili meno frantumata e insieme più delusa. Può darsi che sia il costo di una modernità associata a basse percentuali di partecipazione. Il sospetto di una regressione, però, non va sottovalutato.

Si può anche abbracciare la tesi della disaffezione dalla politica: certamente c'è anche quella. Ma si coglie, altrettanto vistosa, l'incapacità dei partiti di ritrovare il proprio ruolo. La spiegazione di quanto è successo fra ieri e domenica, con percentuali che a Roma hanno toccato appena il 53 per cento, e poco più del 60 sul piano nazionale, suona come un giudizio negativo per tutti. Incluso il Movimento 5 Stelle, che cerca di scaricare sui «partiti tradizionali» un tracollo che riguarda anche le sue falangi: a conferma che Beppe Grillo è il sintomo più vistoso ma non la risposta alla crisi del sistema.

Fa un po' sorridere il candidato grillino a sindaco di Roma che attribuisce la sconfitta all'«oscuramento» dei media. Vittimismo da partito come gli altri; e spiegazione che sa di autoinganno, perché Grillo è cresciuto grazie alla connotazione antisistema e all'assenza sui mezzi di comunicazione. Ma questo è solo uno degli aspetti di una transizione in pieno svolgimento. Ormai sta diventando evidente che si può anche vincere in una gara a chi cala di meno. Eppure, la vera svolta arriverà solo quando qualcuno riuscirà a riportare a votare una parte degli astenuti. Da questo punto di vista, l'esempio di Roma è eclatante.

Verrebbe da dire che la capitale d'Italia si è avvicinata pericolosamente alla «sindrome siciliana». Quel modesto 47,42 per cento di votanti che nell'ottobre scorso segnalò il malessere dell'Isola, allora fece parlare di «anomalia» della Sicilia, non esportabile nel Paese. Da ieri, però, l'astensione record di quelle elezioni diventa un'anticipazione di quanto è successo e potrebbe accadere. Il disorientamento dei sondaggisti è figlio di un fenomeno che fa saltare i parametri consolidati, fotografando solo un pezzo di elettorato. D'altronde, non ci sono posizioni di rendita in grado di garantire la vittoria.

Le difficoltà del Pdl un po' ovunque, e il tramonto del potere leghista in una città-roccaforte del Veneto come Treviso dicono che nessuno ha più a disposizione un blocco sociale acquisito per sempre. C'è un elettorato parcheggiato nel limbo, e pronto ad appoggiare ora l'uno, ora l'altro a seconda del momento. E si delineano fronti radicali e potenzialmente contrapposti, che il governo di Enrico Letta riconcilia in modo miracoloso e temporaneo. Il problema sarà, nel medio periodo, farli diventare interlocutori credibili di quell'Italia che non vota più, senza esserne travolti.

Massimo Franco

28 maggio 2013 | 7:41© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_maggio_28/la-gara-al-ribasso-franco_d450d070-c757-11e2-803a-93f4eea1f9ad.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO Nella banca vaticana sarebbe scattata un'inchiesta interna.
Inserito da: Admin - Luglio 02, 2013, 12:02:54 am
L'analisi /

La coincidenza temporale tra l'iniziativa del Papa e la mossa della Procura

Ior, ecco perché papa Bergoglio ha deciso una riforma radicale

Nella banca vaticana sarebbe scattata un'inchiesta interna.

Nuovi provvedimenti nei confronti di parte dei vertici Ior. Il board di controllo potrebbe convocare Gotti Tedeschi

di MASSIMO FRANCO


ROMA - Con una punta di malizia si potrebbe perfino pensare che istituendo la commissione sullo Ior papa Francesco abbia dato una sorta di «via libera» in codice alla magistratura italiana. Naturalmente si tratta di un'esagerazione, ma la rivoluzione in Vaticano di Jorge Mario Bergoglio e le magagne che cercano di scoprire i giudici oltre le Sacre Mura legittimano lo scenario di un'alleanza di fatto. Nessuno pensa che l'arresto di monsignor Nunzio Scarano, di un dirigente del servizio segreto, Giovanni Maria Zito, espulso tre mesi fa dall'Aisi, e del finanziere Giovanni Carenzio siano destinati a restare isolati. Il caso è clamoroso perché è il primo dopo il Conclave, ma rappresenta solo una tappa di una serie di provvedimenti che potrebbero provocare molto più rumore: a cominciare da misure nei confronti di una parte dei vertici dell'Istituto per le opere di religione.

Ettore Gotti TedeschiEttore Gotti Tedeschi
«Sta succedendo qualcosa di straordinario», fa notare uno dei conoscitori più profondi dello Ior. «La strategia del Papa è ostacolata dalla vecchia Curia e sostenuta dai magistrati. Chi sta aiutando il rinnovamento della Chiesa cattolica oggi è la magistratura». Di certo, la coincidenza temporale fra l'iniziativa della «commissione referente» presa da Francesco e la mossa della Procura di Roma a quarantotto ore di distanza, lasciano pensare a indagini e conclusioni dagli esiti simili. E rafforzano la tesi di chi sottolinea l'urgenza di una riforma radicale e la volontà del Pontefice di promuoverla. Di più, certificano l'obbligo di accelerarla perché è questo il mandato conferito dal Conclave di marzo. Basta domandarsi quali sarebbero state le reazioni se gli arresti di ieri non fossero stati preceduti dallo «strappo» di Bergoglio. Come minimo, il Vaticano sarebbe apparso spiazzato. E invece, stavolta si è mosso prima, non dopo.

Le dichiarazioni del direttore della sala stampa della Santa Sede, il gesuita Federico Lombardi, riflettono la consapevolezza di avere agito per tempo. «Come è noto, monsignor Scarano era stato sospeso dall'Apsa da oltre un mese», ha detto padre Lombardi. E sebbene le autorità italiane non abbiano avanzato nessuna richiesta, il Vaticano «conferma la disponibilità a una piena collaborazione».

Le parole di un ufficioso «portavoce dello Ior» rivelano che è partita anche un'inchiesta interna: «In linea con la politica di tolleranza zero promossa dal presidente dello Ior, Ernest Von Freyberg», si aggiunge, a sottolineare l'estraneità del banchiere tedesco dalle inchieste che hanno portato agli arresti di ieri. Ma lo sfondo torbido che sta emergendo finisce per allargare le responsabilità di chi in Curia non si è accorto di nulla, permettendo passaggi di denaro illegali; e comunque non ha vigilato a sufficienza né segnalato le irregolarità.

Riaffiorano antiche perplessità e sospetti sul comportamento di personaggi vicini al segretario di Stato, il cardinale Tarcisio Bertone. Sia perché monsignor Scarano era un dirigente dell'Apsa (Amministrazione del patrimonio della Sede apostolica) presieduta dal cardinale Domenico Calcagno, nominato da Bertone; sia perché il segretario di Stato presiede tuttora la Commissione cardinalizia di sorveglianza dello Ior: l'organismo che dovrebbe vigilare sulle attività della «banca vaticana». Se Scarano ha potuto muovere milioni di euro fra Italia e Svizzera per mesi, e se era soprannominato «monsignor 500 euro» perché aveva sempre nel portafoglio banconote di grosso taglio, significa che godeva di una fama controversa. Eppure ha agito senza che nessuno all'Apsa lo fermasse. E questo spiega come mai il Pontefice abbia deciso di esautorare gli organismi già esistenti, creandone uno di sua esclusiva fiducia.

Dei cinque membri della vecchia struttura di vigilanza dello Ior, solo il cardinale francese Jean-Louis Tauran è stato inserito da Francesco nella nuova «commissione referente». E l'unico italiano è il salesiano Raffaele Farina, che gode di stima unanime per rigore e indipendenza di giudizio. A sorpresa, non ha avuto incarichi neppure Attilio Nicora: forse perché è tuttora presidente dell'Aif, l'«Agenzia di informazione finanziaria» vaticana.

«Ora assisteremo a una gara dei curiali a sostenere di avere sempre chiesto trasparenza», prevede uno dei custodi dei segreti dello Ior. «E magari si tenterà di riorientare la commissione referente lungo l'asse Vaticano-Italia. Sono questi i veri giochi della Curia». Nel filtraggio dei veleni incrociati, gli avversari già malignano su Calcagno perché all'ora di pranzo si fa vedere sempre più spesso a Santa Marta, la residenza dove vive e mangia papa Francesco.

Si tratta di miserie, tuttavia, rispetto all'incertezza e al panico che gli sconvolgimenti in fieri stanno provocando. Il problema è capire che cosa contiene lo scrigno dello Ior; come rifondarlo, e quali referenti italiani avere in futuro. Le prime indiscrezioni parlano di una lunga lista di testimoni che la «commissione Bergoglio» si prepara a convocare nelle prossime settimane: a cominciare dai vecchi vertici della «banca vaticana». Incluso, sembra di capire, Ettore Gotti Tedeschi, presidente dello Ior dal 23 settembre del 2009 al 26 maggio del 2012.

Gotti Tedeschi fu sfiduciato all'unanimità da un vertice col quale i rapporti erano deteriorati, si disse, anche sul piano personale. Ma la spiegazione si sta rivelando insufficiente. Il suo brusco benservito arrivò dopo un lungo, sordo conflitto interno che aveva per oggetto anche la riforma dell'Istituto e le norme sul riciclaggio del denaro sporco.

Le mosse del Papa e, adesso, le prime misure prese dalla Procura di Roma riaprono in modo traumatico una storia che qualcuno si era illuso di chiudere frettolosamente, continuando a comportarsi come prima. Ma le dimissioni di Benedetto XVI e il successivo Conclave sono uno spartiacque impossibile da rimuovere.

Massimo Franco

29 giugno 2013 | 9:31© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://roma.corriere.it/roma/notizie/cronaca/13_giugno_29/ior-perche-riforma-bergoglio-franco-2221909503027.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO Il premier bersaglio del «fuoco amico»
Inserito da: Admin - Luglio 19, 2013, 11:45:51 am
Il premier bersaglio del «fuoco amico»

Massimo Franco

La sorte di Angelino Alfano ormai è diventata il riflesso dei problemi del Pd. Dietro la sagoma del vicepremier e ministro dell'Interno spunta quella del capo del governo, Enrico Letta: il potenziale bersaglio grosso di un «fuoco amico» che si sta incattivendo anche per misere beghe congressuali. Il voto in Senato di domani non sarà un verdetto politico sul primo, ma sul presidente del Consiglio.

I parlamentari di Guglielmo Epifani dovranno dire in aula se il loro appoggio a Letta esiste ancora; oppure se i malumori di alcuni settori del Pd e le pressioni della corrente di Matteo Renzi, sempre più risucchiato dalle sue ambizioni personali, saranno scaricate su Palazzo Chigi. La decisione di dodici senatori «renziani» di votare per le dimissioni di Alfano sul caso kazako insieme a Sel e Movimento 5 Stelle significa questo: staccarsi dalla maggioranza anomala guidata da Letta, e metterla seriamente a rischio contando su quegli spezzoni del Pd che vivono con sofferenza l'alleanza col Pdl. Questo non toglie che l'espulsione illegale della moglie e della figlia di sei anni del controverso dissidente kazako abbiano lasciato una macchia non tanto per quanto Alfano sapeva, ma per quello che è successo a sua insaputa.

La richiesta al ministro di «rimettere le deleghe» a Letta, e dunque dimettersi, avanzata da un'esponente del Pd come Anna Finocchiaro, rivela un malumore diffuso. Chiamare in causa il premier che domani sarà in aula per difendere il suo vice, come fa Renzi, suona tuttavia come un'ulteriore provocazione. Il sindaco di Firenze si sta muovendo come una sorta di «premier ombra» o, meglio, in pectore . Mima una politica estera parallela a quella di Letta. Muove un gruppo di fedelissimi che si comportano da guastatori in Parlamento e nel dibattito congressuale. E sta tentando di piegare Epifani alla propria agenda congressuale, spinto da chi lo raffigura come il miglior candidato alla premiership. Renzi può scommettere sulle frustrazioni a sinistra per l'intesa con Silvio Berlusconi, e su alcuni dei parlamentari eletti con Mario Monti.

E siccome non riesce a ottenere un congresso che gli permetta una marcia trionfale verso la segreteria e poi,così ritiene, verso il governo, ha deciso di martellare su Palazzo Chigi. Il paradosso di un dirigente del Pd che bersaglia un presidente del Consiglio del suo stesso partito non sembra una remora né per lui, né per i suoi sostenitori. A scoraggiare la manovra non basta neppure che Epifani consideri inverosimile l'ipotesi di formare un altro governo insieme a Sel e Beppe Grillo, se l'attuale cade.

Passa in secondo piano perfino la controindicazione più rilevante, di tipo internazionale: il pericolo di contraccolpi dell'instabilità politica sulla ripresa economica e sui mercati finanziari. Eppure è una variabile messa in evidenza non solo da Letta ma dal governatore di Bankitalia, Ignazio Visco, che teme la risalita dello spread sui titoli di Stato. È singolare che i protagonismi scomposti tendano a rimuovere questo sfondo. Forse Renzi conta di incrociare i mugugni del centrodestra contro il triplo incarico di Alfano: vicepremier, segretario del Pdl e ministro dell'Interno. Ma l'altolà che Berlusconi ha dato in sua difesa era indirizzato in primo luogo ai suoi; e ha scoraggiato voglie di agguati.

Per questo, il voto di domani in Senato può diventare il penultimo ostacolo estivo per il governo, prima della sentenza della Corte di Cassazione sul Cavaliere, prevista il 30 luglio: anche se le tensioni non possono essere attribuite solo alle manovre del sindaco di Firenze, che infatti protesta e respinge le accuse. In realtà, Renzi è lo specchio della crisi del Pd. E la sua candidatura virtuale fa paura non in sé ma perché il vertice dei Democratici non sembra in grado di opporgliene una convincente. I giochi sono agli inizi. Non è troppo presto, tuttavia, per segnalare nell'impazienza del «partito della crisi» un calcolo che sa di azzardo. Il Pd se ne sta rendendo conto. E ieri sera ha cercato di sventare qualunque tentazione, anticipando il no alla sfiducia. E' un gesto di responsabilità che aspetta una conferma in Parlamento.

18 luglio 2013 | 7:22
© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/nota/13_luglio_18/il-premier-bersaglio-del-fuoco-amico-massimo-franco_65791796-ef63-11e2-9090-ec9d83679667.shtml



Titolo: MASSIMO FRANCO Vaticano, Bertone in uscita a settembre.
Inserito da: Admin - Luglio 22, 2013, 08:28:31 am
 Le mosse di Bergoglio: gestione collegiale curia e ridotto ruolo del primo ministro

Vaticano, Bertone in uscita a settembre

Così cambia la mappa del potere

Con il viaggio a Rio si chiude l'era del segretario di Stato.

Una transizione «morbida». Le ipotesi sulla successione

Massimo Franco

Quella che molti aspettano come la nomina più importante del nuovo Pontificato sarà formalizzata probabilmente nei primi giorni di settembre. L'era del cardinale Tarcisio Bertone si chiuderà allora, come approdo di un transizione che papa Francesco ha voluto indolore. Fin troppo, secondo gli avversari del «primo ministro» vaticano. Una parte dell'episcopato ha cercato di spingere per l'allontanamento di Bertone prima. E sperava che nel prossimo viaggio in Brasile, per la Giornata mondiale della gioventù, Jorge Maria Bergoglio fosse affiancato da un nuovo segretario di Stato, perché si desse l'impressione di una svolta tangibile anche in una politica estera vaticana asfittica da anni. Ma Francesco ha consentito a Bertone quest'ultima apparizione al suo fianco. Non tanto perché considera la sua collaborazione insostituibile: l'esautoramento di quello che sotto Benedetto XVI era chiamato malignamente «il vice-Papa» per sottolineare il suo enorme potere, ormai è palpabile.

Francesco avrebbe ignorato anche di recente il suo suggerimento di rinviare l'istituzione della commissione di inchiesta sullo Ior. Una spiegazione della successione al rallentatore è che l'ex arcivescovo gesuita di Buenos Aires ha preferito aspettare per delicatezza nei confronti di Josef Ratzinger: mettere da parte subito il suo primo collaboratore sarebbe suonato come una critica implicita al precedente Pontificato. Ma forse la vera ragione è che in questi primi mesi il Papa ha voluto capire bene non tanto se la stagione di Bertone fosse chiusa, perché le critiche plateali al segretario di Stato durante le congregazioni prima del Conclave lo avevano già mostrato come bersaglio e capro espiatorio di un malumore montante. Il problema è che tipo di «primo ministro» Bergoglio ha in testa. E qui il quadro si fa più confuso. Che si vada verso un ridimensionamento della carica sembra probabile. La segreteria di Stato vaticana negli ultimi anni è stata lo specchio di un sistema di governo che non funziona più e provoca un accentramento tale da costringere il Papa a sovraesporsi per giustificare e proteggere il suo braccio destro. Almeno, questo è accaduto fra Benedetto XVI e Bertone.

L'istituzione di una sorta di «Consiglio della corona» formato da cardinali di tutto il mondo scelti dal Pontefice argentino, prefigura invece un metodo di lavoro collegiale e insieme una riduzione del profilo del segretario di Stato. Nell'incertezza sulle prossime decisioni di Francesco è filtrata perfino l'ipotesi che voglia fare a meno di un «primo ministro» vaticano; ma è improbabile. La «rosa» di nomi che circolano sul successore di Bertone lascia capire solo che pochi conoscono le vere intenzioni del Pontefice; e che si andrà verso una figura comunque meno ingombrante, con funzioni non tanto «politiche» ma più amministrative. Non è chiaro neppure se la quasi invisibilità del segretario di Stato nelle ultime settimane prefiguri il modello che ha in mente il Papa. Qualcuno dà per certo che sarà un diplomatico e un italiano. «Può darsi, ma con l'aria che tira contro il "partito italiano" non lo darei per scontato», ammette un cardinale, confermando che il dopo-Conclave segna non solo un indebolimento di Bertone ma una certa difficoltà di una parte della Cei a sintonizzarsi con il Papa argentino. D'altronde, i paradigmi e gli equilibri geopolitici del passato sono saltati.

Lo smantellamento progressivo ma inesorabile dei rituali della Curia e l'affiancamento di commissioni papali ad hoc alle attuali strutture finanziare vaticane dà corpo a una «strategia dell'accerchiamento» che prepara il terreno sul quale costruire il nuovo modello di governo; e sottolinea quanto non ha funzionato finora. È un'opera di demolizione simbolica di vecchie abitudini e strutture, che serve anche a misurare le resistenze delle lobby ecclesiastiche ed economiche più radicate: quelle che hanno contribuito a spingere Benedetto XVI alle dimissioni nel febbraio scorso; e che tuttora oscillano fra paura e voglia di resistere per sopravvivere. Si racconta che nelle anticamere dei palazzo vaticani, mentre il Papa riceve i suoi ospiti importanti, i monsignori della Curia scherzano davanti a tutti con toni agrodolci su dove verranno «esiliati» nei prossimi mesi. Prima, il 15 giugno, la nomina del «prelato» dello Ior, Battista Ricca. Poi la creazione della commissione di inchiesta sull'Istituto per le opere di religione; e tre giorni fa quella dell'organismo chiamato a controllare i costi di tutte le attività economiche della Santa Sede. L'escalation è vistosa, in appena un mese. Anche se lo scandalo sulle abitudini private di monsignor Ricca sta diventando il pretesto al quale la vecchia guardia cercherà di appigliarsi per contestare i metodi solitari con i quali Bergoglio sceglie i collaboratori.

Ma difficilmente l'incidente, per quanto fastidioso, bloccherà la rivoluzione in atto. Tutti i vertici dello Ior, del passato e del presente, sono chiamati a sfilare davanti alla commissione d'inchiesta presieduta dal cardinale Raffaele Farina per riferire sulle attività dell'Istituto: non solo dunque Ernst von Freyberg, l'attuale presidente, ma anche i predecessori Ettore Gotti Tedeschi e Angelo Caloja. E con loro gli ex direttori. Le accuse della magistratura italiana contro Paolo Cipriani e Massimo Tulli, il direttore dell'Istituto e il suo vice, costretti alle dimissioni il 1° luglio, evocano zone oscure da chiarire prima che arrivino altri scandali. Continua a aleggiare il sospetto che esistano «conti in affitto» offerti a persone o società con grandi disponibilità di denaro per svolgere operazioni finanziarie protette in cambio di corposi contributi. L'arresto, il 28 giugno scorso, di monsignor Nunzio Scarano promette altre rivelazioni imbarazzanti sulla spregiudicatezza almeno di alcuni fra quanti maneggiano soldi in Vaticano. Il prelato salernitano, coinvolto nel tentativo di far rientrare in Italia 20 milioni di euro dalla Svizzera, pochi giorni fa avrebbe fatto consegnare alla Procura di Roma dei documenti sulle attività dell'Apsa, l'Amministrazione del patrimonio della Sede apostolica, dove ha lavorato per ventidue anni.

Gira voce che ancora poche settimane fa alcune persone definite «vicine allo Ior» avrebbero contattato i vertici italiani di una banca estera per valutare la possibilità di compiere alcune transazioni. Non se n'è fatto nulla perché gli interlocutori hanno chiesto garanzie e condizioni che gli emissari dell'Istituto non era in grado di offrire. Ma, se è vero, l'episodio conferma il motivo della determinazione del Papa a andare fino in fondo. Qualche spunto interessante sulla possibile riforma dello Ior è stato offerto qualche giorno fa da Pellegrino Capaldo, professore emerito di Economia aziendale alla Sapienza, tradizionalmente vicino alla Santa Sede; e rispettato e ascoltato per avere sempre offerto al Vaticano aiuto e consigli. Fra l'altro, nel 1982 fu uno dei tre membri di nomina vaticana (affiancati dai tre scelti da Palazzo Chigi) della commissione mista fra Italia e Santa Sede incaricata di ricostruire la verità nella vicenda oscura dei rapporti fra il banchiere Roberto Calvi e lo Ior. Partecipando recentemente a un dibattito, Capaldo ha sostenuto che lo Ior deve tornare alle origini, eliminando le anomalie e le deviazioni che si sono manifestate negli anni.

L'idea è di trasformarlo in modo da rendere chiaro che non è una banca. Per riuscirci andrebbero vietate esplicitamente le operazioni che la fanno apparire tale. L'alternativa, secondo Capaldo, è lo scioglimento dello Ior e la costituzione di un nuovo organismo al quale affidare compiti limitati alle «opere di religione». L'economista opta per la prima soluzione, però. Lo scioglimento, a suo avviso, è sconsigliabile perché marcherebbe in modo netto la discontinuità col passato ma avrebbe come controindicazione una valutazione tutt'altro che benevola del modo di operare della Chiesa nel passato. Non si tratta di un'analisi eterodossa. Sembra di ascoltare gli echi della discussione in atto nelle sacre stanze. Quando Capaldo esprime la convinzione che il Vaticano non ha bisogno di una banca, viene in mente papa Francesco che in un'omelia del 24 aprile avvertì: «Lo Ior è necessario ma fino a un certo punto». E le sue critiche alla gestione non suonano più dure di quelle fatte dal Pontefice ripetutamente. Adesso si aspetta che le istituzioni finanziarie internazionali certifichino la trasparenza nel modo di operare del Vaticano.

Fra cinque mesi arriverà il rapporto di Moneyval, l'organismo del Consiglio d'Europa chiamato a giudicare sulle virtù o i difetti degli Stati in materia di riciclaggio di denaro sporco e di finanziamento del terrorismo.
Ma secondo il professor Capaldo, più che discutere di white o black list forse sarebbe stato meglio vietare a tutte le amministrazioni della Santa Sede, e in particolare allo Ior, di compiere certi tipi di operazioni. Non è stato un bello spettacolo, ha detto Capaldo, vedere il Vaticano che negozia al ribasso gli standard di trasparenza. Il punto d'arrivo, tuttavia, rimane indefinito. Papa Francesco ha l'aria di un ingegnere al quale è stato affidato il compito di demolire gli abusi edilizi commessi per anni, impunemente, su uno splendido edificio. Finora ha picconato, e già si intravede qualche maceria fra le nuvole di polvere. Eppure, che cosa verrà fuori alla fine è indecifrabile. La planimetria della Chiesa di Bergoglio è nascosta dai rumori e dagli scricchiolii di un cantiere in attività febbrile. Ma probabilmente, nella testa del Pontefice e in quella almeno di alcuni dei suoi grandi elettori all'ultimo Conclave, è pronta da tempo. E subito dopo l'estate rivelerà contorni e strutture che, viste le premesse, saranno sorprendenti e, forse, perfino traumatiche.

21 luglio 2013 | 9:35
© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/cronache/13_luglio_21/vaticano-bertone-uscita-settembre-cambia-mappa-del-potere-franco_8210cbe6-f1d5-11e2-9522-c5658930a7bc.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO Il Movimento dice di difendere la Carta.
Inserito da: Admin - Agosto 02, 2013, 11:10:52 am
LA NOTA

Il Movimento dice di difendere la Carta

In realtà il pericolo è lo sfascio

Massimo Franco

C’è una contraddizione vistosa fra l’allarme che il Movimento 5 Stelle lancia sullo «sfascio» dell’Italia, e i suoi comportamenti parlamentari.
L’ostruzionismo sul primo «decreto del fare» del governo, al quale non si esclude possa seguire quello sugli altri quattro, sta rallentando i lavori della Camera e provocando uno spreco di denaro pubblico. E acuisce il sospetto che le truppe di Beppe Grillo contribuiscano all’ingovernabilità invece di proporsi come alternativa e offrire soluzioni. La seconda seduta notturna di ieri, dopo quella di mercoledì, con una tensione all’apice e scambi di accuse e perfino di insulti, è stata accompagnata dagli anatemi grillini contro la classe politica e contro le istituzioni; e da un’offensiva della Rete giunta a legittimare l’uccisione dei dipendenti del Parlamento come contributo alla riduzione delle spese della politica. Deliri a parte, la cosa singolare è vedere il Movimento che teorizza il collasso del sistema, ergersi adesso a estremo baluardo della Costituzione.

Non è chiaro se questa strategia nasca dal tentativo di arginare l’erosione dei consensi segnalata dai sondaggi; oppure se il M5S scommetta su una crisi di governo in seguito alla sentenza della Corte di cassazione del 30 luglio su Silvio Berlusconi. Certamente confida in un aumento delle tensioni sociali di qui all’autunno; e in un aggravamento delle difficoltà per il governo di Enrico Letta, raffigurato come un premier incapace di prendere decisioni. Ma evidentemente a Grillo questo non basta. Per legittimare una linea di estremismo verbale e parlamentare, deve trovare un pretesto più forte e radicale. E dunque sostiene che «il vero obiettivo di questo governo è la distruzione dell’impianto costituzionale». Nel suo blog arriva a denunciare un «colpo di Stato d’agosto», del quale sarebbe responsabile la commissione per le Riforme costituzionali voluta dal Quirinale. «I colpi di Stato vanno combattuti in nome della democrazia», avverte. Anche se poi il gruppo parlamentare grillino chiede un incontro al presidente del Consiglio per discuterne. Il capogruppo del Pd a Montecitorio, Roberto Speranza, cerca di sottolineare «il lavoro straordinario» che viene fatto in queste ore nelle aule parlamentari proprio per il comportamento del M5S. Ma l’obiettivo legittimo delle opposizioni non è quello di accettare o favorire una stabilizzazione, quanto di impedire che la situazione si normalizzi; e di radicalizzare qualunque elemento di conflitto e di crisi.

E bisogna aggiungere che la maggioranza anomala di Letta offre ai grillini spunti polemici quotidiani. Il modo in cui i berlusconiani ostili a Palazzo Chigi drammatizzano la scadenza del 30 luglio contribuisce a trasmettere una sensazione di precarietà e quasi di pre-crisi. E pazienza se la decisione della Suprema Corte potrebbe avere effetti meno traumatici di quanto si pensi. E le opinioni sull’evasione fiscale «di sopravvivenza» espresse ieri dal viceministro dell’Economia, Stefano Fassina, del Pd, hanno creato come minimo tensione. Contraddicono e confondono il messaggio su chi evade le tasse, espresso nelle stesse ore dal premier Enrico Letta e dal titolare dell’Economia, Fabrizio Saccomanni. «La lotta all’evasione fiscale non potrà essere allentata», ha ribadito quest’ultimo. Ma senza riuscire a far recedere un Fassina convinto che esista una differenza fra «l’evasione egoista dei ricchi» e quella di milioni di persone che si difendono dalle tasse per non affondare. Si tratta di una tesi atipica e assai impopolare, nel Pd, e dunque accolta con grande freddezza: anche se all’esterno della sinistra ha cittadinanza da tempo. Il problema è il momento in cui il viceministro la tira fuori. Finisce per inserire un altro elemento di incertezza, e di fatto per indebolire la politica che Palazzo Chigi ha in mente per tentare di correggere il peso fiscale eccessivo.

26 luglio 2013 | 7:55
© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/nota/13_luglio_26/nota_209c7d38-f5b3-11e2-8279-238a68ccdabf.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO Le mosse del Cavaliere su Palazzo Chigi agitano la sinistra
Inserito da: Admin - Agosto 31, 2013, 08:40:53 am
LA NOTA

Le mosse del Cavaliere su Palazzo Chigi agitano la sinistra

Berlusconi canta vittoria sull’Imu e la sinistra chiede l’aumento dell’Iva


Silvio Berlusconi sta facendo qualcosa di più che riconoscere la lealtà di Enrico Letta per la decisione di cancellare l’Imu. Gli intima come ulteriore passo quello di non aumentare l’Iva e di «dare una scossa» all’economia. E questo mentre il Pdl canta vittoria, provocando i mugugni e i distinguo di alcuni settori del Pd. La tentazione di mostrare il presidente del Consiglio come strumento nelle mani del centrodestra è così smaccata da far nascere il sospetto che Berlusconi scommetta sulla prospettiva di un’esplosione della sinistra; e che comunque voglia tenere sulla corda il Pd, con l’aria di dettare a Palazzo Chigi un’agenda inevitabilmente indigesta. Lo fa nello stesso giorno in cui viene depositata la sentenza di condanna della Corte di cassazione nei suoi confronti. Questo gli permette di sventolare l’Imu come trofeo elettorale; e in parallelo di sparare su una sentenza definita «allucinante e fondata sul nulla». È il segno che la crisi di governo si è allontanata, ma non le manovre intorno all’esecutivo e alla maggioranza anomala che lo sostiene. Le critiche del segretario della Cgil, Susanna Camusso, ai provvedimenti presi nel Consiglio dei ministri di mercoledì, hanno aperto la strada a una serie di distinguo della sinistra nei confronti di Letta. Ha cominciato il viceministro dell’Economia, Stefano Fassina, sminuendo l’abolizione dell’Imu. Il compromesso raggiunto contiene parti giuste «ma insieme parti sbagliate. Dobbiamo dire la verità. Altrimenti non siamo capiti e riconosciuti nella nostra identità alternativa alla destra». Per Fassina, ormai l’aumento dell’Iva dal 1° ottobre sarebbe «irrimediabile». Si tratta di uno smarcamento legittimato dalla vulgata secondo la quale i militanti del Pd sarebbero furiosi per il «cedimento » a Berlusconi. E che fa riemergere quasi di rimbalzo la filiera degli avversari del premier nel suo stesso partito. Rispunta Matteo Renzi. E nonostante assicuri di non voler far cadere Letta, il sindaco di Firenze lo attacca frontalmente. Sostiene infatti che il governo dovrebbe essere sempre più «del Pd» mentre invece finora sarebbe stato subalterno al Pdl; che durerà perché «a Berlusconi conviene»; e che comunque «le larghe intese non possono diventare un’ideologia». Probabilmente sono segni di una frustrazione diffusa e senza sbocchi. Ma non vanno sottovalutati. Si allineano sullo sfondo come una riserva di tensioni pronte a esplodere o a rimanere compresse a seconda della piega che prenderanno i rapporti politici. È come se i partiti alleati avessero fretta di incassare i risultati, magri o meno, raggiunti dal governo; ma poi cedessero all’istinto di prendere le distanze da una coalizione che alcuni settori appoggiano con convinzione, altri nella speranza di un epilogo rapido. Una tesi accredita le divisioni di Pdl e Pd come garanzia di sopravvivenza per Letta. La trama, tuttavia, continua a essere fragile e soggetta all’incrocio fra crisi economica e rapporti politica-magistratura. I berlusconiani continuano a trattare per rinviare il più possibile il voto della giunta per le elezioni e le immunità del Senato che dovrà decidere sulla decadenza del Cavaliere da parlamentare. E la possibilità che ci riescano cresce. La Commissione europea osserva, preoccupata dalla tenuta del governo. Anche per questo ha «accolto con favore » le assicurazioni di Letta in materia di bilancio, e registrato come «segnale positivo» l’accordo dell’altro ieri. L’atteggiamento rimane guardingo, però. Tra le righe si avverte la richiesta di garanzie per la copertura finanziaria dei soldi persi con l’abolizione dell’Imu. Si cammina su un crinale sottile, scommettendo su una fiducia e una credibilità che i conflitti continui minacciano di rimettere in discussione.

30 agosto 2013 | 8:13
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Massimo Franco

DA - http://www.corriere.it/politica/nota/13_agosto_30/la-nota-massimo-franco_7f5d7a5e-1131-11e3-b5a9-29d194fc9c7a.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO Schermaglie e veti incrociati un compromesso lontano
Inserito da: Admin - Settembre 03, 2013, 05:02:52 pm
La Nota

Schermaglie e veti incrociati un compromesso lontano

Il congresso del Pd e la decadenza del Cavaliere

 
L'ipotesi di un qualche rinvio sta prendendo silenziosamente corpo: sebbene sia sovrastata da una polemica fra Pdl e Pd che rimane aspra e in apparenza senza sbocco. L'Italia politica sembra ingabbiata nello scontro sul destino di Silvio Berlusconi. E la riunione della Commissione elezioni e immunità del Senato, il 9 settembre prossimo, viene accreditata come uno spartiacque. Solo formalmente, però. Non sarà quello il giorno in cui si deciderà la decadenza da parlamentare dell'ex premier. E in fondo, si comincia a capire che il problema potrebbe presto diventare un altro. La sinistra tende a inquadrare la vicenda in termini soltanto giudiziari: cosa vera, ma fino a un certo punto. I berlusconiani ne sottolineano le implicazioni squisitamente politiche, e anche questa analisi riflette solo una parte di verità. L'incognita è come due tesi inconciliabili e contenenti entrambe elementi di strumentalità porteranno a un compromesso. La sensazione è che aumentino le pressioni delle persone a lui più vicine affinché Berlusconi prenda atto della sentenza di condanna della Corte di Cassazione ; e affronti i prossimi mesi partendo da questo dato di fatto. Non è detto che l'opera di persuasione riesca: il vertice di famiglia e d'azienda di ieri pomeriggio a Arcore non ha risolto l'incertezza.

Le schermaglie, i veti e gli ultimatum al governo, seppure smentiti, confermano un passaggio delicato. Eppure, affiora un'ombra di stanchezza per un tiro alla fune prolungato e senza esito. È sempre più chiaro che una soluzione può arrivare soltanto dalla disponibilità di alcuni settori del Pd a esaminare la posizione giudiziaria berlusconiana senza farsi condizionare da un'ostilità preconcetta e dall'illusione di liberarsi di lui in questo modo. Ma fino a che il vertice del Pdl rifiuta le decisioni della magistratura e punta a contestare la decadenza, il risultato più verosimile sarà un irrigidimento dei due fronti. Voci come quelle di Luciano Violante e dell'ex presidente del Senato, Franco Marini, si sono fatte sentire per ammettere la possibilità di approfondire le obiezioni di Berlusconi sulla legge che lo farà decadere; ma rimangono isolate all'interno del Pd. L'accoglienza ostile che l'apertura di Violante ha ricevuto nel partito conferma quanto il tema sia politicamente esplosivo: un tabù.

Il rischio, fra l'altro, è che la vicenda si intrecci con quelle del congresso; che la durezza nei confronti del leader del Pdl e il «no» a qualunque subordinata alla sua uscita dal Parlamento diventi una delle carte sulle quali puntano i candidati alla segreteria del Partito democratico per avere consensi. Accreditare l'idea che una qualunque concessione a Berlusconi si configuri come «baratto» per salvare il governo di Enrico Letta, significa impostare la questione in maniera improponibile; e consentire a chi a sinistra è contro le larghe intese, di spingere il Cavaliere alla rottura. Nel centrodestra, si replica polemicamente che comunque Letta resterebbe a Palazzo Chigi, perché è protetto dal capo dello Stato, Giorgio Napolitano; e perché, se cadesse l'attuale maggioranza trasversale Pd-Pdl-Scelta civica, se ne troverebbe un'altra in Parlamento con la «stampella» del Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo.

Ma sono scenari, oltre che semplicistici, molto teorici. La realtà è che una crisi della coalizione guidata da Letta creerebbe un vuoto pericoloso e molto difficile da riempire, col rischio serio di spingere l'Italia a elezioni anticipate. La disponibilità dell'M5S è tutta da vedere, e comunque presenta molte controindicazioni. E uno scontro incattivito sulla giustizia schiaccerebbe i partiti su un passato che non ha prodotto nulla di buono. Il problema è come arrivare al 9 settembre con un'ipotesi di compromesso e non con posizioni ancora più distanti. I margini sono stretti: l'ha detto Letta qualche giorno fa, e lo ha ripetuto ieri Anna Finocchiaro, che ritiene «inconsistenti» le ragioni della difesa. L'invito al Pdl è, di nuovo, a tenere distinte le vicende di Berlusconi e le proprie. Ma è una richiesta irricevibile; e comunque inconfessabile.

3 settembre 2013 | 8:45
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Massimo Franco

da - http://www.corriere.it/politica/nota/13_settembre_03/nota_14c92e44-1457-11e3-9c5e-91bdc7ac3639.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO Lo scontro sui tempi rimette di colpo il governo in bilico
Inserito da: Admin - Settembre 11, 2013, 05:28:14 pm
Lo scontro sui tempi rimette di colpo il governo in bilico

Il centrodestra accusa Pd ed M5S di forzare per eliminare Berlusconi


Non è ancora chiaro quando scatterà la decadenza di Silvio Berlusconi da parlamentare. Ma ci si arriverà, e fra non molto. E la guerra sui tempi della decisione, apertasi ieri nella giunta delle Elezioni al Senato, sembra in grado di drammatizzare e rendere ancora più avvelenata la decisione; non, però, di deviare un percorso che avrà uno sbocco inevitabile. La durezza di Pd e Movimento 5 Stelle rende le divisioni più radicali. E nella mossa del leader del Pdl di riunire i suoi parlamentari domani si può anche intravedere l'oscura minaccia di scaricare sul governo di Enrico Letta un voto negativo, per quanto atteso. È difficile, tuttavia, non vedere una manovra al limite della disperazione in questi tentativi di rinviare quanto più possibile il verdetto parlamentare.

In apparenza, la prospettiva di una crisi non è scongiurata. E gli attestati di lealtà del centrodestra al Cavaliere restringono qualunque ipotesi di "tradimento". Eppure, fra l'ipotesi di far franare una maggioranza che Berlusconi è stato il primo a promuovere, e la decisione di affossarla per protesta contro la sua incandidabilità vidimata dal Parlamento potrebbe aprirsi un mare di distinguo. Per sapere se la Corte europea dei diritti dell'uomo accoglierà il ricorso berlusconiano contro la sentenza della Cassazione bisognerà aspettare almeno tre o quattro mesi: troppo, per una sinistra determinata a chiudere la questione in tempi relativamente brevi.

Quella del Cavaliere viene considerata un'agonia politica che sarebbe inutile prolungare, perché il risultato sarebbe l'immobilismo dell'esecutivo. Ma soprattutto, il calcolo del Pd, azzardato o meno, è che le probabilità di una crisi siano minori di quanto si pensi; che in realtà anche in Senato esistano i numeri per una maggioranza alternativa a quella trasversale di oggi; e che, se si dovesse veramente arrivare alla conta, nello stesso Pdl si aprirebbe qualche varco perché nessuno vuole andare alle urne il prossimo anno. Fra l'altro, la leggera risalita dello spread, la differenza fra gli interessi di titoli italiani e tedeschi, suona come un ammonimento a Berlusconi a non tirare troppo la corda.

Per questo, si tende a leggere lo scontro nella giunta di Palazzo Madama come un copione in qualche misura dovuto e inevitabile. Le eccezioni presentate dal Pdl a difesa dell'ex premier saranno votate probabilmente stanotte o domani: senza spostare di un millimetro le posizioni, però. Il centrodestra continua a spedire ultimatum, avvertendo che se ci fosse un sì alla decadenza senza ulteriore discussione, la maggioranza non esisterebbe più. Il risultato, però, finora è solo quello di sentirsi respingere gli altolà come inaccettabili. Non si scambia la stabilità del governo con l'impunità di Berlusconi, replica un Pd che non può permettersi di apparire cedevole agli occhi del movimento di Beppe Grillo e dei militanti.

È una sfida che non consente comunque di essere ottimisti: si arrivi a una crisi o meno, gli schieramenti si preparano a un muro contro muro destinato a rendere ancora più difficile la vita del governo. L'ipotesi alla quale il Quirinale lavora sono elezioni anticipate non prima del 2015: dopo il semestre di presidenza italiana dell'Ue all'inizio dell'estate del prossimo anno. Fra l'altro, sarebbe la sola maniera per evitare di bloccare di nuovo l'evoluzione di un sistema che in quasi vent'anni ha funzionato male. Ma l'irritazione, perfino lo stupore per una sfida della sinistra che agli occhi del Pdl suona come provocazione, può produrre scarti inaspettati. La domanda è verso quali sbocchi Berlusconi cercherà di portare il suo partito; e quanti, sia in caso di rottura che di compromesso in extremis, saranno disposti a seguirlo compatti come nel passato.

10 settembre 2013 | 8:00
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Massimo Franco

da - http://www.corriere.it/politica/nota/13_settembre_10/nota_215fd5ea-19de-11e3-bad9-e9f14375e84c.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO - IL PDL E LE DIMISSIONI DI MASSA Irresponsabilità
Inserito da: Admin - Settembre 26, 2013, 05:12:48 pm
IL PDL E LE DIMISSIONI DI MASSA

Irresponsabilità


Ci vuole una smisurata dose di irresponsabilità e di provincialismo per minacciare dimissioni di massa dal Parlamento mentre a Wall Street il presidente del Consiglio rassicura gli investitori internazionali sulla stabilità dell'Italia. La mossa, perché bisogna sperare che non sia ancora una decisione definitiva, di deputati e senatori del Pdl esaspera la sensazione di un partito in balìa di chi vuole fomentare il «tanto peggio tanto meglio»; e che per risolvere il conflitto interno tra oltranzisti e ala ministeriale, non esita a scaricarne i costi sul Paese nel nome di una malintesa fedeltà a Silvio Berlusconi condannato.

Non si capisce come finirà. Formalmente, i ministri del Pdl restano in carica e le dimissioni degli eletti sono congelate fino al 4 ottobre, quando il Senato si pronuncerà sulla decadenza del Cavaliere da parlamentare. Ma la minaccia è evidente, benché suoni velleitaria e strumentale la pretesa di salire su un surreale «Aventino» fino a che Giorgio Napolitano non scioglierà le Camere. Siamo all'esito estremo di un cortocircuito nel quale si è smarrito il senso della realtà e della serietà. E qui, forse, il discorso va allargato anche ad altre forze governative che nelle ultime settimane hanno dato una prova scoraggiante di astrazione dai problemi dell'Italia: a destra e a sinistra.

I comportamenti ai quali si è assistito raccontano una totale mancanza di rispetto non solo per gli elettori ma anche per le istituzioni e per l'interesse pubblico. Da una classe politica, e soprattutto da partiti che hanno ricevuto grandi consensi, ci si sarebbe aspettati un atteggiamento di umiltà: quello imposto da elezioni senza vincitori, e dall'incapacità prima di formare un governo e poi di eleggere un nuovo presidente della Repubblica. Invece, subito dopo l'estate, il retroterra di riserve mentali e calcoli miopi, personali e un po' miserabili ha ripreso il sopravvento. Gli alleati di una maggioranza già anomala, difficile, irta di contraddizioni, si sono messi a scherzare col fuoco.

Le notizie arrivate ieri dai gruppi parlamentari berlusconiani riuniti nella residenza romana dell'ex premier, e poi alla Camera, sembrano dire che il «gioco del cerino» sta finendo. A bruciarsi si candida un Pdl morente, che vuole risorgere «tornando alle origini», a Forza Italia, nel segno di un Cavaliere incandidabile. Ma la nuova creatura sarebbe sfigurata da un estremismo e da una disperazione che appaiono l'opposto del tentativo di stabilizzazione moderata, premiato nel 2008 dall'elettorato; e fallito non tanto per colpa della magistratura o degli scandali del Cavaliere, ma delle liti nel centrodestra e di scelte economiche inadeguate. Berlusconi denuncia una manovra eversiva, senza accorgersi di tirarsi addosso la stessa accusa, anzi di favorirla.

Fa venire i brividi pensare che chi minaccia di affondare il governo non si accorga di preparare un cocktail pericoloso, che nutrirà spinte populiste e speculazione finanziaria.

26 settembre 2013 | 7:44
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Massimo Franco

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_settembre_26/irresponsabilita-franco_c029e224-266d-11e3-a1ee-487182bf93b6.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO Il coraggio dei moderati
Inserito da: Admin - Ottobre 06, 2013, 12:24:51 am
Il coraggio dei moderati

L’era di Silvio Berlusconi si è chiusa con un ultimo, malinconico bluff . Il suo voto a favore di un governo che voleva abbattere è l’estrema finzione di vittoria di fronte a una disfatta politica e personale: col paradosso che viene certificata col suo consenso. Ma è anche il sigillo finale su una fase nella quale era cresciuto il distacco del fondatore del centrodestra dalla realtà, italiana e internazionale: al punto da non avere più antenne per captare l’emancipazione davvero moderata dei suoi ministri e di molti parlamentari.
Si può dire che solo col voto di ieri è nata una vera maggioranza politica delle larghe intese. Non a caso il presidente del Consiglio, Enrico Letta, ha avvertito che sarà quella a governare, e non l’ammucchiata numerica che vorrebbe condizionarla. È una coalizione che si è forgiata passando attraverso una strettoia drammatica; e superando il trauma di una spaccatura del Pdl tutt’altro che prevedibile. Ne emerge un nucleo governativo, guidato dal vicepremier Angelino Alfano, che non può essere sminuito con la categoria dei transfughi o dei complici della sinistra. La sensazione è opposta.
Si tratta di una componente che oggi può rivendicare a ragione una forte identità; e proporla da posizioni di parità a una sinistra che ha avuto il merito di assecondare, senza forzarla, un’operazione politico-parlamentare evidentemente matura. Basti pensare alle implicazioni anche psicologiche che la sfida col Cavaliere ha avuto per un personaggio come Alfano, finora suo «delfino». Ma è chiaro che da oggi la maggioranza ha il compito di gestire con equilibrio e, viene da dire, generosità, i rapporti con il Berlusconi sconfitto.
Dopo il risultato di ieri alle Camere, anche il suo destino giudiziario non può non assumere contorni diversi. E non dovrebbe consentire a nessuno forzature per umiliarlo: tanto meno agli avversari. L’asse fra Quirinale, Palazzo Chigi, Pd, montiani e moderati del Pdl dovrebbe essere una garanzia. Protetta e consigliata da Giorgio Napolitano, la nuova maggioranza può puntellarsi su una omogeneità più marcata. E se agisce, è destinata a relegare in un angolo urlante non solo i «falchi» berlusconiani ma anche quelli annidati nelle pieghe della sinistra, oltre a Beppe Grillo e a una Lega svuotata.
Sono loro, esponenti del partito trasversale della crisi, gli sconfitti. E a vincere è chi vuole soddisfare la fame di stabilità dell’opinione pubblica, e la richiesta di certezze che Europa e mercati finanziari giustamente pretendono. Forse, l’errore più grossolano dei tifosi dello sfascio è stato di non avere capito che sono cambiate le regole del gioco. In un’Europa immersa nella crisi economica, il vincolo esterno dell’Italia non è più determinato dai patti militari: è dettato da codici di sicurezza finanziaria altrettanto stringenti.
Rischiare di stravolgerli per comprensibili, ma inaccettabili, ragioni personali è stata l’ultima illusione di onnipotenza di Berlusconi: una miopia che ha rivelato impietosamente la sua appartenenza al passato.
03 ottobre 2013
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Massimo Franco

Da corriere.it


Titolo: MASSIMO FRANCO Il paese delle ombre
Inserito da: Admin - Ottobre 28, 2013, 09:39:40 am
Il paese delle ombre

Ammettere la testimonianza di Giorgio Napolitano nel processo sulla trattativa Stato-mafia da parte della Corte d’assise di Palermo sarà pure «pertinente», come ha affermato ieri uno dei sostituti procuratori. Ma non può non lasciare un sottofondo di stupore e di perplessità. Gli stessi magistrati si rendono conto dell’enormità della loro mossa. E infatti, per giustificarla riconoscono limiti rigidi e ampi che toccano le funzioni del presidente della Repubblica e le esigenze di riservatezza legate al suo ruolo. Il rischio, tuttavia, è che il capo dello Stato appaia oggetto di un ulteriore strattone da parte di alcuni settori del potere giudiziario immersi da tempo in conflitti interni; e decisi a riaffermare la propria identità a costo di scaricarne gli effetti su un Quirinale che sta tentando una stabilizzazione anche nella magistratura.

È sacrosanto chiedere a tutti informazioni che possano contribuire a trovare la verità. Ma in questo caso non si può non valutare anche una questione di opportunità; e chiedersi se non sia foriero di pericolosi equivoci gettare ombre sul presidente della Repubblica, citandolo come testimone delle preoccupazioni di un suo collaboratore scomparso. In una fase in cui a livello internazionale Napolitano viene considerato uno dei pochi ancoraggi di un’Italia condannata a galleggiare nell’incertezza, la vicenda assume contorni lievemente surreali. Dietro un aggettivo come «inusuale», utilizzato ieri dalla Guardasigilli, Annamaria Cancellieri, si indovina l’imbarazzo per una sentenza che accoglie e insieme schiva le decisioni della Corte costituzionale.

Si tratta del verdetto col quale a gennaio la Consulta stabilì la distruzione delle intercettazioni telefoniche tra il Quirinale e l’ex ministro Nicola Mancino, ritenendole inammissibili. Non solo. I commenti fatti a caldo da alcuni magistrati della Procura palermitana contengono giudizi negativi e liquidatori sull’ipotesi di amnistia e indulto avanzata nei giorni scorsi al Parlamento proprio da Napolitano: parole anche queste un po’ irrituali. Oggettivamente fanno sponda a quanti, nei partiti, hanno criticato la proposta del capo dello Stato, evocando un inconfessabile salvacondotto per Silvio Berlusconi: sebbene si abbia la sensazione che il vero motivo dell’attacco al Quirinale sia l’ennesimo tentativo di dare una spallata al governo delle larghe intese.

Dalla presidenza della Repubblica ieri è arrivato un comunicato nel quale si precisa di essere «in attesa di conoscere il testo integrale dell’ordinanza di ammissione della testimonianza... per valutarla nel massimo rispetto istituzionale»: risposta ineccepibile e insieme gelida, che lascia aperta la possibilità di rispondere alla Corte d’assise di Palermo in base alle tesi esposte dai giudici; e che lascia trasparire l’eventualità di un nuovo conflitto tra vertici dello Stato. Il fatto che perfino il presidente del Senato, Pietro Grasso, sia stato chiamato a deporre a Palermo, non rende l’iniziativa meno singolare, anzi. Grasso è stato a lungo ai vertici della Procura del capoluogo siciliano, e poi capo dell’Antimafia a livello nazionale. E si è attirato l’ostilità di alcuni settori della magistratura per non avere voluto avallare teoremi a suo avviso poco fondati sul piano delle prove.

C’è da sperare che quanto sta accadendo non abbia niente da spartire con una stagione apparentemente archiviata. La testimonianza richiesta alla prima carica dello Stato e al suo supplente, tuttavia, se anche non è una forzatura in punto di diritto, suona poco comprensibile dal punto di vista istituzionale. Rischia di gettare su un Napolitano rieletto per un settennato senza che l’abbia chiesto né cercato, il peso di vicende figlie di un conflitto trasversale fra spezzoni della magistratura e dei partiti: un residuo di veleni antichi e più recenti, versati su un equilibrio politico e su un sistema già fragili e tormentati.

23 ottobre 2013 (modifica il 23 ottobre 2013)
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Massimo Franco

Da - http://www.corriere.it/editoriali/13_ottobre_18/paese-ombre-3893172a-37b8-11e3-91d2-925f0f42e180.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO. - GOVERNO E STRATEGIE I confini del presidente del Consiglio
Inserito da: Admin - Novembre 21, 2013, 11:53:05 am
GOVERNO E STRATEGIE

I confini del presidente del Consiglio


Matteo Renzi gli aveva consigliato di non metterci la faccia. Enrico Letta ha risposto imponendo tutto il peso del suo ruolo a difesa di Annamaria Cancellieri. E ha portato il Pd sulle sue posizioni. Il sindaco di Firenze può vincere il congresso, ma il presidente del Consiglio ha prevalso nella prima sfida diretta: a conferma che le incursioni del «rottamatore» dovranno fermarsi al confine delle «larghe intese».

Il «sistema palatino» sembra essersi chiuso di fronte al tentativo di destabilizzare la coalizione usando il pretesto del Guardasigilli. I vertici delle istituzioni hanno blindato la Cancellieri in bilico per le telefonate fatte alla famiglia del costruttore Salvatore Ligresti durante la detenzione di una figlia. E così, la prospettiva delle sue dimissioni, date per probabili fino a ieri mattina, forse si è allontanata: anche se non è chiaro se si tratti di un congelamento o di un capitolo chiuso. Il fatto che ieri sera, ai gruppi parlamentari del Pd, sia stato lo stesso premier Enrico Letta a parlare per difenderla, rivela la preoccupazione con la quale il governo segue la vicenda. L’appoggio offerto dal presidente del Consiglio e il sostegno del capo dello Stato nascono sia dall’inesistenza di un’inchiesta penale a carico della titolare della Giustizia, sia da ragioni politiche.

Il governo delle «larghe intese» è troppo debole per sopportare le dimissioni di un ministro- chiave proprio all’indomani della scissione del Pdl di Silvio Berlusconi e di Scelta civica di Mario Monti; e mentre i Democratici si avviano al congresso di dicembre con un Matteo Renzi deciso a incalzare la coalizione in ogni circostanza. Anche sul caso Cancellieri, il candidato favorito alla segreteria del Pd ha invocato le dimissioni. Ha sfidato per l’ennesima volta Enrico Letta, consigliandogli di «non mettere la faccia » nella difesa del Guardasigilli. Insomma, ha usato una vicenda imbarazzante come un altro frammento per costruirsi un’identità opposta a quella di chi sostiene le «larghe intese». Più che ottenere le dimissioni del ministro, Renzi voleva incassare il dividendo di una critica frontale a quello che definisce con una punta di sarcasmo «politicamente corretto»; e mettere il premier e il Quirinale di fronte all’ennesimo bivio.

Sa che Napolitano è il garante di un assetto politico che lui invece contesta e punta a scardinare e comunque a logorare. La difesa della Cancellieri ribadita anche dal centrodestra in nome del garantismo rafforza, di rimbalzo, il profilo di Renzi. E gli offre un potenziale vantaggio in un Pd che vuole la decadenza di Berlusconi da senatore; e al congresso misurerà i suoi istinti antigovernativi non tanto nei confronti di Lettamadella maggioranza che presiede. Dopo quanto è successo, il sindaco di Firenze ha gioco facile nel teorizzare che, qualunque riforma il ministro farà, «sconterà un giudizio diffidente» dell’opinione pubblica. Ma Renzi sa che le diffidenze e i malumori sulla Cancellieri sono destinati a ripercuotersi su palazzo Chigi e Quirinale, presentati come difensori di uno status quo contro il quale chiama a raccolta il «suo» Pd: non quello degli eletti ma degli elettori.

La richiesta di un voto del gruppo parlamentare alla fine della riunione di ieri sera risponde alla logica di una conta che mostri un partito spaccato fra «buoni» e «cattivi»; e dunque riveli le crepe che il caso Cancellieri ha allargato. «Faremo staccare dalle poltrone i loschi personaggi del Pd», promette il sindaco con l’occhio al «popolo delle primarie». C’è da chiedersi se questa strategia porti ad un ricompattamento su basi completamente nuove, o se possa diventare l’anticamera di una scissione. «Quando ho perso non sono scappato», ricorda correttamente Renzi, riferendosi alle primarie in cui vinse Pier Luigi Bersani. «E non credo che avverrà se vinco io». Il modo in cui sta plasmando la propria candidatura, d’altronde, rivela per intero la debolezza della nomenklatura precedente

Ma accentua anche l’idea di un potere verticale e personale. E soprattutto non nasconde una strategia tesa a delegittimare il presidente del Consiglio: in particolare ora che l’asse con il vicepremier Angelino Alfano è rafforzato dalla rottura con Silvio Berlusconi. Renzi teme il consolidamento della «nuova maggioranza» affiorata durante la fiducia del 2 ottobre, e ufficializzata dalla scissione del Pdl: ha paura che catalizzi tentazioni centriste e favorisca una riforma elettorale di tipo proporzionale. Ieri sera Letta ha chiesto ai deputati «una risposta politica» a quello che ritiene «un attacco politico» slegato dal merito. Insomma, un gesto di fiducia per arginare l’offensiva del sindaco, pronto ad attaccare «le larghe intese Cavaliere-Grillo» sul sistema di voto ma in piena sintonia col Movimento 5 Stelle sulle dimissioni della Cancellieri. Nonostante le sue rassicurazioni, cresce il dubbio che il «rottamatore» finisca per provocare una crisi. In quel caso, a dicembre non gli cadrebbe in mano solo un Pd frollato dalla sua terapia d’urto, ma anche un governo ammaccato da difficoltà oggettive e dalle sue continue spallate.

20 novembre 2013
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Massimo Franco

Da - http://www.corriere.it/opinioni/13_novembre_20/i-confini-presidente-consiglio-84c73e90-51c7-11e3-a289-85e6614cf366.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO Ma così non si va da nessuna parte
Inserito da: Admin - Gennaio 19, 2014, 12:26:50 am
Ma così non si va da nessuna parte

I toni usati ieri nella Direzione del Pd da Matteo Renzi sono perentori, quasi minacciosi: verso gli avversari interni e verso il governo. Non ci sono concessioni a chi ha criticato il dialogo sulla riforma elettorale con Silvio Berlusconi. Viene bocciato qualunque cambio nei ministeri. Il progetto rimane quello di archiviare «le intese larghe o striminzite»; e di avere un sistema che preveda il premio di maggioranza. E chi pensa di tramare contro di lui col voto segreto in Parlamento, deve sapere che la coalizione salterebbe. Il senso è chiaro: il dominus del partito e dunque anche del governo è il segretario votato alle primarie di dicembre.

Forse la nomenklatura del Pd non l’aveva previsto, ma l’effetto dell’investitura è quello di dettare una strategia senza condizionamenti. Enrico Letta, incontrato nella notte, «può andare avanti» se fa bene, non ci sono scadenze per il suo governo. Renzi assicura di criticarlo «non per fargli le scarpe, ma per aiutarlo». E infatti lo pungola ruvidamente, imputandogli errori e inadeguatezze; e chiedendogli «una visione, non un rimpastino»: frecciate indirizzate a Palazzo Chigi, ma destinate a colpire lo stesso Quirinale.

Eppure, dietro tanta perentorietà si percepisce un filo di preoccupazione. È come se Renzi si rendesse conto di guidare dirigenti e parlamentari perplessi dai suoi metodi: al punto da attaccarlo in modo strumentale quando conferma un incontro con Berlusconi «per provare a chiudere». La durezza con la quale risponde ai critici è giustificata: è difficile dargli torto quando ricorda che col Cavaliere è stato formato un governo. Il sospetto, tuttavia, è che il tabù berlusconiano veli resistenze e riserve più di fondo.

A spaventare è un decisionismo sbrigativo che non tiene conto di equilibri fragili e in bilico; e che può preludere non alla palingenesi del sistema additata da Renzi, ma ad un precipizio servito sul piatto di Beppe Grillo. Il timore è che il nuovo vertice dei Democratici regali all’Italia una scorciatoia insidiosa solo per uscire dalle proprie frustrazioni post elettorali; e per far dimenticare il rosario delle «figuracce», come le chiama Renzi, assillato soprattutto dall’esigenza di evitare il proprio logoramento. In realtà, il segretario del Pd ha fretta ma potrebbe essere costretto a prendere tempo.

Di fatto, Renzi ha rinviato a lunedì la decisione sulla riforma elettorale perché non ha ancora una soluzione: aspetta di capire le vere intenzioni di Berlusconi. In più, indovina il dubbio che il «suo» sistema di voto riceva un’accoglienza ostile in Parlamento: tanto più nel momento in cui propone lo svuotamento del Senato. Renzi avverte che se a scrutinio segreto dovessero venire bocciate le sue proposte, salterà la maggioranza. Dunque, ci sarebbe la crisi e probabilmente si andrebbe alle urne.

Ma se l’accordo sulla legge elettorale si fa a prescindere dagli alleati e contro uno di loro, il Nuovo centrodestra, maltrattato anche ieri, c’è da chiedersi come Renzi possa pretendere ubbidienza e lealtà ad una coalizione governativa che lui per primo non riconosce come perno della sua strategia. Se poi il calcolo o anche solo la conseguenza di questa polemica fosse di spingere Angelino Alfano e il suo partito di nuovo nelle braccia di Berlusconi, per la sinistra sarebbe un capolavoro alla rovescia: l’ultima «figuraccia».

17 gennaio 2014
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Massimo Franco

Da - http://www.corriere.it/cultura/14_gennaio_17/ma-cosi-non-si-va-nessuna-parte-15ac94d4-7f43-11e3-aa77-33cce3d824e3.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO GOVERNO, PASSAGGIO DI CONSEGNE TRA LETTA E RENZI
Inserito da: Admin - Febbraio 15, 2014, 10:26:31 am
GOVERNO, PASSAGGIO DI CONSEGNE TRA LETTA E RENZI
Un Passaggio opaco

Si può anche ironizzare sull’incoerenza di un Matteo Renzi che dice una cosa per settimane e alla fine ne fa un’altra. Oppure additare l’irritualità di una crisi di governo che non si consuma con un voto di sfiducia parlamentare ma dentro la Direzione di un partito. L’impressione, tuttavia, è che ormai non serva a molto scandalizzarsi: il problema non è solo Renzi. Il paradosso di quanto accade in queste ore sono la lacerazione e il conformismo di un Pd che aspira a essere il pivot della politica. Ma intanto sprigiona instabilità, scaricando sull’Italia le sue faide interne. E passa in pochi giorni dagli applausi a Enrico Letta ad un ruvido benservito. Di fatto, opaco.

Non basta dare in «streaming», in stile grillino, i lavori della Direzione del Pd. Ci sarà tempo per rivedere la liquidazione di un governo nato tra mille difficoltà e boicottato proprio da chi doveva sostenerlo. Né basta la constatazione che, soprattutto nell’ultimo periodo, il premier apparisse esitante. Forse lo era anche perché avvertiva l’ostilità del suo partito. Presto si vedrà se la scossa promessa da Renzi, successore in pectore, ci sarà davvero: pur restando affidata alla maggioranza di prima, tanto bistrattata, con l’ipotesi di aggiungere schegge del Sel di Vendola.

L’ambizione di arrivare alla fine della legislatura è enorme, e affidata ad una velocità che confligge con una realtà da maneggiare con pazienza e prudenza. Ma il segretario del Pd conta sicuramente su doti capaci di sorprendere. Basta che tutto non si riduca a «effetti speciali» destinati a durare lo spazio effimero di pochi mesi, per poi presentare al Paese il conto di elezioni anticipate. Altrimenti, la scossa verrebbe percepita come il velo calato su un’operazione dettata da ambizioni personali e logiche trasformistiche.

Il modo in cui la nomenklatura del Pd ondeggia da una leadership a un’altra non sembra un indizio di convinzione, ma di un primitivo istinto di sopravvivenza. È difficile sottrarsi al dubbio che il grande consenso cresciuto intorno a Renzi non sia il frutto virtuoso delle primarie, ma della paura di un voto anticipato a maggio. Nel probabile presidente del Consiglio i gruppi dirigenti, politici e non solo, vedono la polizza di assicurazione per scongiurare il «tutti a casa»; e magari compiere l’ennesima spartizione. La speranza è che Renzi sventi queste manovre.

Gli manca l’esperienza, è vero, ma non difetta di spregiudicatezza e abilità. Forse, per aiutare l’opinione pubblica a decifrare un’operazione che si fatica a non definire «di Palazzo», non sarebbe stato male chiarirla in Parlamento come chiedono le opposizioni: a costo di sfidare strumentalizzazioni. Se l’unico motivo per archiviare il governo Letta con una riunione di partito è di non acuire le divisioni interne, è un po’ poco. Un Pd davvero convinto delle sue buone ragioni dovrebbe spiegare davanti al Paese i motivi della crisi. Altrimenti, la Terza Repubblica nascente rischia di somigliare ad una caricatura ringiovanita della Prima.

14 febbraio 2014
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Massimo Franco

Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_febbraio_14/passaggio-opaco-8e3069e2-9543-11e3-9c90-b9ccf089642e.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO La corsa del leader deve fare i conti con alleati diffidenti
Inserito da: Admin - Febbraio 16, 2014, 10:59:48 pm
La Nota
La corsa del leader deve fare i conti con alleati diffidenti
Il Quirinale accoglie le riserve del Nuovo centrodestra

Almeno in apparenza, la formazione del governo di Matteo Renzi sta incontrando qualche ostacolo. Le condizioni poste dal Nuovo centrodestra di Angelino Alfano dovrebbero far capire che i giochi non sono ancora fatti; e che un partito piccolo ma decisivo per l’alleanza può rallentare la marcia spedita verso Palazzo Chigi del segretario del Pd, indicato ieri dal suo partito a Giorgio Napolitano. È possibile che ci sia uno slittamento di qualche ora, sebbene Renzi abbia l’intenzione di ricevere l’incarico entro oggi; di presentarsi domani sera da Giorgio Napolitano con la lista dei ministri già pronta; e di andare alle Camere entro metà settimana.

I renziani parlano di una lista smilza: al massimo quindici dicasteri, dei quali solo una decina «con portafoglio», e cioè con autonomia di spesa. E spiegano le riserve del vicepremier uscente Alfano solo come la voglia di marcare la propria esistenza in un esecutivo che altrimenti apparirebbe un «monocolore» del premier; e probabilmente di ottenere garanzie sulla permanenza al ministero dell’Interno. Il leader dell’Ncd sa infatti che nella cerchia del segretario del Pd c’è chi preme per una forte discontinuità. E Alfano era indicato come una delle figure da sostituire per marcare il cambiamento rispetto all’esecutivo di Enrico Letta.

In realtà, Renzi deve scendere a patti con gli alleati. E la diffidenza di Alfano per le manovre parlamentari tra Pd e Forza Italia che renderebbero l’Ncd irrilevante, sta emergendo in modo esplicito. «Se FI vuole entrare nel governo», ha detto, «meglio farlo alla luce del sole». Non c’è solo la trattativa sui «posti», dunque. Sullo sfondo affiora un problema politico destinato a pesare sui rapporti tra Renzi e il principale alleato. Per questo il capo dello Stato sembra intenzionato ad assecondare la richiesta di ulteriori 48 ore, avanzata da Alfano.

Lo ha fatto capire ieri sera, alla fine delle consultazioni. Non vuole rischiare di ritrovarsi con una coalizione che parte in velocità e poi si disgrega per mancanza di coesione. L’epilogo probabile, dunque, è una maggioranza che sarà la fotocopia politica della precedente, pur cambiando molti ministri oltre al premier. Ma su uno sfondo altrettanto insidioso di quello in cui si è mosso Letta. Lì si era partiti con «larghe intese» ridottesi dopo la scissione del Pdl e la formazione di Forza Italia e Ncd, nel dicembre scorso. Il governo Renzi, se nascerà, si troverà invece a trattare con due coalizioni, una di governo e una istituzionale, delle quali il presidente del Consiglio sarà comunque il referente.

E si tratterà di vedere se e come concilierà il ruolo di premier con quello di sponda di Berlusconi. Ieri, un Cavaliere che pochi giorni fa aveva gridato al «golpe» nel 2011, quando era stato sostituito da Mario Monti a Palazzo Chigi, è andato al Quirinale per le consultazioni: a conferma che l’accusa di «colpo di Stato» rivolta anche a Napolitano lascia il tempo che trova. D’altronde, a un Berlusconi condannato ed espulso dal Parlamento, bastava essere lì per certificare la propria resurrezione politica. Il capo di FI ha confermato un’«opposizione costruttiva» al governo che dovrebbe nascere, e l’asse con Renzi sulla riforma elettorale. Le sue parole evocano una «doppia maggioranza» tesa a schiacciare le forze minori. Per questo Alfano cerca garanzie prima di d are il «via libera».

16 febbraio 2014
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Massimo Franco

Da - http://www.corriere.it/politica/14_febbraio_16/corsa-leader-deve-fare-conti-alleati-diffidenti-50e2835c-96da-11e3-bd07-09f12e62f947.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO Le citazioni di Renzi da Fatima alla Cinquetti
Inserito da: Admin - Febbraio 26, 2014, 06:03:39 pm
L’EDITORIALE
Le parole non contano

Le citazioni di Renzi da Fatima alla Cinquetti

Non serve a molto analizzare la qualità del discorso di Matteo Renzi in Parlamento. Era scontato che pagasse qualcosa all’inesperienza, all’emozione, e al modo convulso e controverso col quale è approdato alla presidenza del Consiglio. Il giudizio su di lui non si baserà su quanto ha detto ieri, ma su quello che riuscirà a fare da oggi. La sua apparizione alle Camere consegna l’immagine di un leader fin troppo sicuro di sé; determinato a scuotere l’Italia; e accolto da gran parte dei senatori con un impasto di curiosità, diffidenza e perplessità: tanto più che il premier non ha nascosto di volere una riforma per svuotare il ruolo del Senato.

La fiducia nei suoi confronti, dunque, non può che essere un’apertura di credito e un antidoto alla disperazione di una classe politica e di un Paese impantanati nelle proprie contraddizioni. È un po’ troppo autoconsolatoria l’idea di un «Palazzo del potere» lento e sconnesso da una società italiana raffigurata come dinamica. Il sospetto è che ci si trovi a dover combattere una mentalità appartenente non solo alla politica ma anche a pezzi consistenti della cosiddetta classe dirigente e dell’opinione pubblica. Per questo è così difficile sradicarla affidandosi unicamente a categorie come «velocità» e «gioventù».

Renzi si propone come l’uomo chiamato a dare l’estremo colpo d’aratro a un terreno duro, a rischio di desertificazione. È convinto di farcela perché altrimenti si aprirebbe la strada delle elezioni anticipate, che un Parlamento sotto accusa vede come un attentato alla propria sopravvivenza; e perché si consoliderebbe un declino del quale si colgono già indizi drammatici. I suoi progetti, tuttavia, si sono rivelati così indeterminati da lasciare uno sconcerto diffuso. Più che un programma è stata illustrata una lista di titoli, elencati con una miscela di passione, confusione e propensione all’azzardo.
Il fatto che il capo del governo si dia delle scadenze temporali è positivo: è un segno di coraggio. Anche se probabilmente non ha alternativa, dopo avere accusato il predecessore, Enrico Letta, di avere perso tempo: un ritardo che le oscillazioni del Pd renziano hanno prolungato. Ma il segretario ha dalla sua l’appoggio quasi unanime e intimidito del proprio partito; quello del Nuovo centrodestra di Angelino Alfano; e, per ora, regge l’asse istituzionale con Forza Italia sulla riforma elettorale. Non è poco.

Politicamente, lo stato di necessità e il paracadute berlusconiano sono una sponda solida, e aprono davvero orizzonti di legislatura. Ma in parallelo tolgono qualunque alibi al presidente del Consiglio che, dopo aver voluto fortemente Palazzo Chigi, adesso deve «fare». Se fallisce, ammette, la colpa sarà esclusivamente sua. Nessuno ne dubita. Ha promesso di spazzare via il passato e lo ha fatto con l’aggravante di una vistosa assenza di umiltà. Le sue parole sono apparse un ibrido tra un programma di governo e un comizio elettorale. C’è solo da sperare che alla fine prevalga il primo e non il secondo: se lo augurano tutti, per l’Italia.

25 febbraio 2014
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Massimo Franco

Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_febbraio_25/parole-non-contano-232a3370-9de6-11e3-a9d3-2158120702e4.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO L’abbraccio degli sconfitti del Pd e l’asse con Forza Italia
Inserito da: Admin - Febbraio 28, 2014, 06:09:51 pm
La Nota
Un governo del premier che sprona le Camere con le urne sullo sfondo
L’abbraccio degli sconfitti del Pd e l’asse con Forza Italia

L a tentazione di porsi come capo di un governo contro il cosiddetto «Palazzo» rimane vistosa. Ma si avverte, da parte di Matteo Renzi, anche la presa d’atto di dipendere dai voti del Parlamento e dunque di non potersi fare troppi nemici; e di essere circondato da un corposo scetticismo sulla possibilità di durare per l’intera legislatura. Dall’equilibrio che riuscirà a trovare tra la sua doppia identità si capiranno anche il futuro del governo e della legislatura. L’ex segretario del Pd, Pierluigi Bersani, tornato per votare la fiducia dopo un’operazione, ha sintetizzato il problema con una metafora. «Da domani», ha detto, «gli italiani vorranno misurare lo spread tra parole e fatti».

Renzi ne è consapevole. E nel discorso di ieri, più applaudito di quello al Senato ma a tratti fumoso e verboso, ha cercato di mettere qualche punto fermo. Le ferite nel Pd, però, rimangono aperte, nonostante il voto compatto a favore del governo. L’abbraccio in Aula tra Bersani e l’ex premier Enrico Letta ha misurato la distanza e il gelo tra presidente del Consiglio ed ex maggioranza del partito. Per paradosso, in queste prime ore a emergere non è tanto il sostegno del Pd a Renzi, ma quello di Forza Italia, che pur stando all’opposizione lo abbraccia in nome della riforma elettorale: benché non sia ancora chiaro se avverrà con la rivoluzione del Senato.

L’asse con Silvio Berlusconi sarà messo alla prova fin da metà marzo, quando il cosiddetto «Italicum» approderà alla Camera. In parallelo, la scommessa è di produrre provvedimenti che diano il segnale immediato di un cambio di passo. Già venerdì dovrebbe essere approvata una riduzione del cuneo fiscale delle imprese di circa dieci miliardi di euro. In parallelo dovrebbe partire un piano edilizio teso a garantire maggiore sicurezza nelle scuole; e a produrre posti di lavoro. Sui costi, tuttavia, è nebbia fitta. Pensare che i progetti renziani possano essere realizzati a costo zero è illusorio.

Il premier si limita a dire che «la stabilità della sicurezza scolastica è più importante della stabilità dei conti». È un’impostazione che sconta la prospettiva delle elezioni europee a fine maggio; e che potrebbe accentuarsi con l’avvicinamento alle urne. Ad apparire sempre più evidente è la volontà di Renzi di pilotare questa fase da Palazzo Chigi. Temeva di arrivare al primo appuntamento col voto, sovrastato e logorato dal governo di Enrico Letta. Adesso, invece, punta tutto su quelle elezioni per ricevere la legittimazione popolare che le primarie non possono sostituire. Il passo successivo è di approvare un sistema di voto maggioritario, d’accordo con Berlusconi, e teso a ridimensionare lo spazio delle forze minori.

Se poi le riforme segnassero il passo o si affacciassero difficoltà crescenti, Renzi può giocare la carta del voto politico anticipato. Il suo calcolo è che comunque lo farebbe da presidente del Consiglio. A quel punto la coabitazione tra l’identità di premier del Parlamento e quella di presidente anti-Palazzo non avrebbe più ragione di continuare. Renzi potrebbe togliersi i panni istituzionali e indossare gli altri, più congeniali, da politico che parla all’opinione pubblica; e che chiede voti contro chi non lo ha fatto governare come voleva. È un gioco molto azzardato, ma anche ieri il presidente del Consiglio ha rivendicato quasi il dovere di rimettere in discussione tutto. D’altronde, l’azzardo gli piace, e finora gli è andata bene: basta che vada bene anche all’Italia.

26 febbraio 2014
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Massimo Franco

Da - http://www.corriere.it/politica/14_febbraio_26/governo-premier-che-sprona-camere-le-urne-sfondo-967c2b60-9eb5-11e3-a5c9-783ac0edee3c.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO Questione femminile e tempi delle riforme
Inserito da: Admin - Marzo 13, 2014, 11:34:08 pm
Questione femminile e tempi delle riforme
Primo impatto con la realtà

MASSIMO FRANCO

L’asse Renzi-Berlusconi ha affossato le «quote rosa»: a dimostrazione che il patto istituzionale tra i due prevale sulle logiche di partito. Il tentativo di mettere in difficoltà il presidente del Consiglio utilizzando in modo pretestuoso questo argomento è fallito. Ma il prezzo della sua vittoria è la rivolta di mezzo Pd: a cominciare dalla componente femminile che ieri, dopo la bocciatura, ha lasciato platealmente l’Aula della Camera. È la conferma che Renzi, al di là delle apparenze, deve fare i conti con sacche persistenti di ostilità nelle proprie file; e che per salvare le «larghe intese» è stato costretto a spaccare il proprio partito.

A votare contro la legge voluta dalle donne del Pd sono stati i deputati berlusconiani e del Nuovo centrodestra, ma anche i renziani. Si sapeva che il Cavaliere era contrarissimo, e la sinistra imbarazzata e divisa. L’epilogo riconsegna così un premier vincitore a metà; esposto all’accusa di avere fatto un regalo a Berlusconi; e costretto a giustificarsi con le proprie elettrici. Per questo, l’episodio di ieri sera rischia di prendere una piega insidiosa. Renzi adesso sa che il cosiddetto Italicum, la riforma elettorale concordata con Forza Italia, può diventare un bersaglio del Pd.

Per questo è difficile dire se si è trattato di una mossa scaltra o di un autogol. Certamente aumenta la confusione. E le tensioni nella coalizione di governo costringono il premier a prendere atto che l’idea delle riforme-blitz deve cedere il passo ad una visione più graduale e realistica. Bisogna rallegrarsene, dopo l’ubriacatura iniziale sulla «velocità» come primo comandamento del governo; e in parallelo meditare sul rischio di creare aspettative troppo grandi rispetto ad una situazione grave e complicata. L’esigenza di fare presto rimane la parola d’ordine a caratteri cubitali di Palazzo Chigi. Ma sotto, scritta in un «corpo» più piccolo, ne sta affiorando un’altra. È quella dei «due tempi».

Due tempi per la riforma elettorale: quello della Camera e quello del Senato. Due tempi per il piano contro la disoccupazione, che l’anglismo «jobs act» non rende più facile: prima la parte normativa, poi la realizzazione. E doppio registro anche per la riduzione del cuneo fiscale, in attesa di capire bene come saranno trovati e soprattutto distribuiti i fondi. D’altronde, quando il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, ammette che le stime sul Prodotto interno lordo dell’Italia sono vicine a quelle della Commissione europea e decide di «tenersi basso», ridimensiona i margini di manovra governativi. Non significa che Renzi possa fare poco: può fare, ma a patto di misurarsi con la realtà.

La fretta sta partorendo un sistema elettorale sghembo, soffuso di dubbi di incostituzionalità e ostaggio degli attacchi delle opposizioni in Senato: ora anche di quelle interne alla coalizione. La stessa facilità con la quale è stata stabilita in prospettiva l’abolizione di fatto della «Camera Alta», probabilmente si ritorcerà contro la maggioranza; e la costringerà ad una progressiva marcia indietro. La votazione di ieri sulle «quote rosa» si inserisce in questo inizio di stallo, evocando non solo una sfasatura nei tempi ma anche maggioranze variabili. Cresce il sospetto che il governo del «fare presto» si insabbi in un indefinito «farò presto». Eppure, a volte, la lentezza non è segno di indecisione, bensì di maturità e di realismo.

11 marzo 2014 | 08:32
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_marzo_11/questione-femminile-riform-impatto-realta-eadd0a62-a8e7-11e3-a393-9f8a3f4bf9ce.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO Il segretario si muove sul doppio scenario tra urne e coperture
Inserito da: Admin - Marzo 15, 2014, 08:37:15 am
La Nota
Il segretario si muove sul doppio scenario tra urne e coperture
Le elezioni europee come orizzonte per legittimare la leadership
di Massimo Franco

L’orizzonte del governo di Matteo Renzi è doppio. Il primo sono le elezioni europee di fine maggio, dalle quali il premier vuole ottenere una legittimazione popolare: quella che oggi gli manca e gli pesa. Il secondo è l’orizzonte europeo, che cerca di forzare per dare credibilità finanziaria ad alcune delle misure annunciate ieri da Palazzo Chigi. La cautela impone di non sottoscrivere acriticamente la «svolta buona», come il presidente del Consiglio definisce il suo piano per scuotere l’economia. Ma la sfida è netta, perfino temeraria. Conferma la volontà di giocare il tutto per tutto, scommettendo su un utilizzo di fondi che in parte non hanno ancora una copertura certa; e dunque richiedono il «via libera» delle istituzioni di Bruxelles.

I 1.000 euro all’anno nelle buste paga dei dieci milioni di italiani che guadagnano meno di 1.500 euro al mese, ricavati dalla riduzione dell’Irpef, sono una decisione a effetto: un tentativo di guadagnare consensi a sinistra e da parte dei sindacati. Renzi voleva l’entrata in vigore del provvedimento all’inizio di aprile. Ma «sono stato sconfitto con perdite», ha ammesso in conferenza stampa. Lo spostamento al 1° maggio conferma comunque un potenziale effetto elettorale: si voterà per le Europee poco più di tre settimane dopo. E la volontà di semplificare il mercato del lavoro riceve il plauso anche degli alleati del Nuovo centrodestra di Angelino Alfano. Il problema sarà di ottenere un «via libera» a livello europeo, che è dato per scontato ma non c’è ancora.

E rappresenta un ostacolo per le ambizioni e la velocità renziane. Ieri il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, ha avallato il «piano-choc» del premier. In parallelo, però, ha anche usato toni prudenti e quasi preoccupati sulla possibilità di tirare troppo la corda della spesa pubblica. «Il 3 per cento nel rapporto tra deficit e Pil è il margine massimo disponibile», ha detto, «per evitare di rientrare nella procedura di deficit eccessivo» a Bruxelles. Padoan ha insistito sui vincoli da rispettare nel processo per «mobilitare risorse». Ma in questa fase la volontà politica di Palazzo Chigi punta soprattutto a rimarcare la «portata storica» di quanto Renzi ha annunciato.

Il capo del governo sembra intenzionato a non recedere da un approccio aggressivo. Il suo bersaglio sono «gufi» e «disfattisti» che dubitano della bontà della sua operazione. Quando assicura che si avrà «un ampio consenso verso una riforma strutturale mai vista in Italia», prevede di potere ottenere dalle altre nazioni, Germania in testa, un «sì» a oggi in forse. E liquida quasi con fastidio lo scetticismo sulle coperture finanziarie dei provvedimenti che vuole prendere. «I dubbi sono legittimi ma le coperture evidenti. A chi ha dubbi», aggiunge, «suggerisco di aspettare il 27 maggio per vedere se i denari ci sono». Sarà una verifica indicativa, anche perché a quel punto le elezioni europee si saranno già svolte. Renzi potrà capire se l’opinione pubblica lo ha premiato o punito.

Dal punto di vista comunicativo, comunque, l’effetto-annuncio c’è. Il consigliere di Silvio Berlusconi, Giovanni Toti, ironizza sulla confusione renziana sui tempi e sulle coperture. Altri esponenti di FI paragonano il premier a un «televenditore», senza rendersi conto di rafforzare la vulgata secondo la quale Renzi è una sorta di Cavaliere più giovane e del Pd. Qualche problema potrebbe venirgli piuttosto dal suo partito, in ebollizione dopo l’approvazione tormentata della riforma elettorale alla Camera. L’ex segretario Bersani e l’ex premier Enrico Letta non nascondono la contrarietà. E al Senato, che Renzi ribadisce di volere di fatto abolire, si prevedono tensioni superiori. Il premier è convinto di spuntarla. Come arma di dissuasione finale può sempre usare le elezioni anticipate.

13 marzo 2014 | 08:21
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/politica/14_marzo_13/segretario-si-muove-doppio-scenario-urne-coperture-a30f5252-aa78-11e3-a415-108350ae7b5e.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO Lo scontro Renzi-Grillo sovrasta Forza Italia e le Europee ...
Inserito da: Admin - Aprile 13, 2014, 05:52:37 pm
La Nota
Lo scontro Renzi-Grillo sovrasta Forza Italia e le Europee di maggio
Riforme appese anche al risultato che otterrà il partito dell’ex premier

Di Massimo Franco
Elezioni Europee

L’asprezza crescente degli attacchi di Beppe Grillo a Matteo Renzi non deve sorprendere. Con un Silvio Berlusconi destinato ai servizi sociali e non candidabile, di fatto le elezioni europee di fine maggio possono diventare un referendum tra Pd e Movimento 5 Stelle: con Forza Italia a rischio di diventare il terzo partito, e comunque priva di una fisionomia e di una strategia in grado di presentarla come protagonista. Su questo sfondo, il governo costituisce l’unico vero bersaglio di Grillo. Non tanto né solo perché il presidente del Consiglio potrebbe pescare voti tra i delusi del movimento. Il premier viene percepito come insidia perché tenta di dimostrare all’opinione pubblica che la politica sta producendo risultati e riforme.
In apparenza, la parabola giudiziaria di Berlusconi resta in primo piano.

E la decisione della Procura di Milano gli lascia almeno in parte quell’«agibilità politica» che aveva chiesto in vista delle europee: sebbene i magistrati abbiano precisato che la misura potrebbe essere revocata se l’ex premier tornasse ad attaccare i suoi giudici. Ma l’intera vicenda si presenta come la coda di un ventennio di veleni e polemiche, archiviato mentalmente da gran parte dell’elettorato. La stessa latitanza di Marcello Dell’Utri, ex senatore ed amico e alleato di Berlusconi, per il quale è arrivata una richiesta di arresto, sa di passato. Il presente è un asse istituzionale tra Renzi e FI, che le critiche continue contro Palazzo Chigi non riescono a scalfire.

Renato Brunetta sottolinea «lo schiaffo del Fondo monetario internazionale» al governo italiano, perché il Documento economico finanziario appena presentato non sarebbe affatto convincente. Ed elenca i ritardi nella realizzazione delle riforme, dei quali l’esecutivo si starebbe rendendo responsabile. E l’ex ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, bolla come «ignobile e inaccettabile» la riforma del Senato perseguita dal premier. Il dettaglio significativo, tuttavia, è che dal Pd non si risponde alla polemica. E lo stesso Nuovo centrodestra di Angelino Alfano, lungi dall’infierire su Berlusconi, spende parole di solidarietà nei suoi confronti.

Perché? La sensazione è che i due partiti di governo puntino, con motivazioni diverse, ad attrarre gli scontenti berlusconiani in uscita da FI. Il risultato è quello di accentuare una sorta di bipolarismo governo-Grillo. Quest’ultimo bolla Renzi con tutti gli epiteti che il capo di un movimento populista sa indirizzare verso un esecutivo. E il premier lo punzecchia, raffigurandolo «come i vecchi politici di una volta. Noi parliamo agli italiani mentre lui, Grillo, attacca gli avversari». Gli dà man forte lo stesso Pier Luigi Bersani, accusando il leader del M5S di non mettersi in discussione, perché «non vuole rischiare niente»: col risultato di autoescludersi da qualunque strategia in positivo, e di puntare soltanto sullo sfascio del sistema.
Lo scontro si consuma su economia e riforme, sulle quali Grillo è diventato un tenace conservatore dello status quo. Ma si estende anche a temi delicati in campagna elettorale come il pluralismo e la presenza dei leader in tv: soprattutto sulle reti Rai. Il ruolo di presidente della Commissione parlamentare di vigilanza permette al grillino Roberto Fico di lanciare accuse di «servilismo»: un assaggio dei toni della campagna elettorale. Sullo sfondo rimangono riforme che formalmente vanno avanti secondo la tabella di marcia prestabilita; ma nei fatti sembrano costrette a segnare il passo. Sia perché nel Pd le divergenze sul destino del Senato, ma anche sull’Italicum, il nuovo sistema elettorale, rimangono marcate; sia perché il governo sa di avere margini più esigui senza l’appoggio di FI, appeso ai risultati delle europee del 25 maggio: tanto più se confermassero il bipolarismo Renzi-Grillo.

12 aprile 2014 | 08:11
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/politica/14_aprile_12/scontro-renzi-grillo-sovrasta-forza-italia-europee-maggio-02190e8a-c209-11e3-b583-724047d41596.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO Le rughe del potere
Inserito da: Admin - Aprile 21, 2014, 11:35:35 pm
EDITORIALE: DOPO L’AFFIDAMENTO AI SERVIZI SOCIALI DI BERLUSCONI
Le rughe del potere

Di Massimo Franco

Per Silvio Berlusconi la campagna elettorale europea sarà in salita: ancora di più dopo la decisione del tribunale di sorveglianza di Milano di affidarlo in prova ai servizi sociali in un centro per anziani a Cesano Boscone. Le restrizioni a cui sarà sottoposto difficilmente potranno essere considerate tali da limitare quella che con espressione burocratica viene definita «agibilità politica». E se otterrà un risultato deludente, magari potrà recriminare perché è incandidabile dopo la condanna per frode fiscale; ma non per la decisione comunicata ieri dai giudici.

L’epilogo delle sue vicende giudiziarie consegna in realtà l’immagine di una guerra, se tale è stata, finita da tempo; e della quale si vedono gli ultimi bagliori, mentre intorno tutto sta cambiando. Perfino i magistrati, evidenziando «la scemata pericolosità sociale» dell’ex premier, fotografano involontariamente il tramonto di un’epoca. Alcuni dei «fedelissimi» si stanno defilando. E gli antichi avversari di sinistra ne celebrano la fine politica: sebbene non si rendano conto che il declino del berlusconismo coincide anche con quello di un certo antiberlusconismo.

A rivelare il ridimensionamento del Cavaliere, o ex tale, non sono gli attacchi residui contro di lui, ma l’asse con Matteo Renzi. Il fatto che il segretario del Pd e presidente del Consiglio lo abbia incontrato due volte, stabilendo un’intesa istituzionale prima impensabile, dice due cose. La prima è che la vecchia sinistra non ha né il potere né la convinzione per continuare l’ostracismo contro di lui: nemmeno dopo le condanne. La seconda è che Renzi si sente abbastanza forte da poter usare Berlusconi per i suoi piani politici: prima per far cadere Enrico Letta, ora per le riforme.

La differenza rispetto al passato è che un tempo il fondatore di Forza Italia dettava l’agenda al Paese, agli alleati e all’opposizione. Ora, invece, è costretto a condividerla o addirittura a sentirsela imporre da qualcuno che appare più moderno di lui; e in possesso di alcune delle doti e dei difetti sui quali ha costruito a lungo i propri consensi. Già si favoleggia sui «numeri» che Berlusconi farà nel centro per anziani; e di duelli a distanza con la magistratura milanese. I seguaci contano i mesi e vaticinano il suo grande ritorno. Ma non ci sarà nessun ritorno, perché continua a fare politica anche adesso.

La fa come può, appesantito non tanto dalle condanne quanto dal fallimento di un modello culturale ed economico inadeguato ad una crisi gravissima; e circondato da un consenso eroso non dai pubblici ministeri ma dagli errori politici: a cominciare da quello di avere sciupato occasioni storiche per riformare l’Italia, e di non essersi circondato di una classe dirigente degna di questo nome. Le ultime vicende trasmettono un’immagine di Berlusconi un po’ malinconica, dolorante dietro l’eterno sorriso, in verità sempre più tirato. È la fotografia di un sopravvissuto, al quale si deve rispetto: sperando che lui per primo rispetti se stesso e la sua nuova, temporanea condizione.

16 aprile 2014 | 07:18
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_aprile_16/rughe-potere-820ff9ee-c526-11e3-ab93-8b453f4397d6.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO Il sogno di una rimonta contro il fantasma del bipolarismo Pd-M5S
Inserito da: Admin - Aprile 23, 2014, 01:29:02 pm
La Nota
Il sogno di una rimonta contro il fantasma del bipolarismo Pd-M5S
Berlusconi apre una campagna elettorale euroscettica
di Massimo Franco

Il tentativo è di smentire la vulgata di un voto europeo giocato soltanto tra Matteo Renzi e Beppe Grillo; e di offrirsi all’elettorato moderato e deluso, anzi, «disgustato», come un’alternativa ancora credibile. L’inizio della campagna di Silvio Berlusconi lo ha mostrato uguale a se stesso; forse solo gelidamente più prudente sui giudici, per non irritare la magistratura che lo ha destinato «in prova» ai servizi sociali. Per il resto, il capo di Forza Italia si atteggia a referente naturale di un mondo che è «maggioranza sociale del Paese». Ma non più maggioranza politica. Tuttavia, a sentire Berlusconi la colpa è soprattutto della sua assenza dalle tv e dall’onnipresenza di Matteo Renzi. «Essere al 20 per cento è già un miracolo».

L’ex premier è apparso desideroso di ristabilire distanze e proporzioni tra sé e il leader del Pd. Evidentemente, l’immagine di un presidente del Consiglio giovane, moderno e veloce, che usa Berlusconi più che esserne usato, non è molto gradita. Così, pur dandogli atto di voler realizzare le riforme, e pur confermando il loro asse istituzionale, il capo di Forza Italia cerca di ristabilire la sua verità. Raffigura un Renzi pauroso di approvare subito la legge elettorale perché non controllerebbe il Pd in Parlamento.

E ricorda ripetutamente la differenza tra lui, votato dal 1994 da milioni di persone, e l’attuale premier che non si è «mai candidato in un’elezione nazionale»; e che presiede il terzo governo non eletto dal popolo. Sarà questa, la colonna sonora della propaganda berlusconiana di qui a fine maggio; affiancata da una forte critica alla moneta unica, definita «una moneta estera come era il dollaro americano in Argentina» negli anni che portarono il Paese latino-americano al «collasso finanziario»; e a giudizi liquidatori soprattutto sull’esecutivo di tecnici di Mario Monti: quello del primo «colpo di Stato» che nel 2011 sostituì il suo nel mezzo di una crisi finanziaria da brivido.

Pazienza se un ex berlusconiano come Fabrizio Cicchitto, oggi approdato nel Nuovo centrodestra di Angelino Alfano, gli ricorda che Monti approdò a palazzo Chigi anche col suo «sì» decisivo. Lo schema sarà quello di invocare «il ritorno alla democrazia». È una miscela nella quale critiche all’Unione europea e al governo Renzi si fondono. È facile il parallelo tra l’Europa delle burocrazie finanziarie che aumentano la disoccupazione con l’austerità e regole ferree, e l’Italia dei governi nei quali i presidente del Consiglio sono nominati da Giorgio Napolitano; e sostenuti da un Parlamento eletto con una legge che la stessa Corte costituzionale ha definito illegittima.

Di qui a dire che per rilanciare l’economia bisogna stampare euro, far lievitare l’inflazione fino al 2 o 3 per cento e violare i vincoli di spesa di Bruxelles, il passo è breve. E infatti Berlusconi lo fa, candidandosi come interlocutore di una parte degli elettori attirati dall’antieuropeismo di Grillo e dall’astensione. L’operazione si configura, di nuovo, come una rimonta: anche se il leader di FI lascia capire che la sinistra sarà avvantaggiata dalla sua incandidabilità.
Dietro l’allarme, si avverte la consapevolezza di dover affrontare una prova difficile da sempre per il suo partito, perché si vota con il sistema proporzionale: un ostacolo al bipolarismo sul quale Berlusconi ha costruito le sue fortune politiche.

18 aprile 2014 | 07:19
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/politica/14_aprile_18/sogno-una-rimonta-contro-fantasma-bipolarismo-pd-m5s-e83b9730-c6b8-11e3-ae19-53037290b089.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO Più della fretta poté la paura
Inserito da: Admin - Aprile 25, 2014, 05:45:26 pm
Più della fretta poté la paura
di Massimo Franco

Il paradosso è che oggi il decreto sul lavoro verrà approvato dalla Camera, perché il governo ha posto la questione di fiducia. Ma tra pochi giorni, probabilmente, sarà cambiato al Senato perché uno dei partiti della maggioranza, il Nuovo centrodestra, è contrario. Si tratta di uno dei casi più eclatanti nei quali l’esigenza di velocità propugnata da Palazzo Chigi prevale a scapito della chiarezza. L’imperativo renziano «avanti come un treno» non sarà smentito, anzi riceverà un’altra celebrazione. Il ricorso alla questione di fiducia, tuttavia, segnala i rischi politici di questa fretta strategica.

Dice che altrimenti il governo non riuscirebbe a tenere unita la propria coalizione. E non tanto per i capricci di Angelino Alfano. L’episodio ripropone piuttosto il rapporto irrisolto tra Matteo Renzi e la sinistra del «suo» Pd, in minoranza nel partito ma non nel sindacato e in Parlamento, dove conta e pesa. Le modifiche apportate al decreto in commissione sono una vittoria degli avversari interni del premier, e dunque un elemento di riflessione non solo per gli alleati: un’inquietudine che per il Ncd è accentuata dal timore di un insuccesso alle europee di fine maggio.

Alfano è in una posizione scomoda. Si ritrova schiacciato dall’asse istituzionale tra il premier e Forza Italia. Soffre per l’immagine di comparsa in quello che viene percepito, a torto o a ragione, come una sorta di «monocolore Renzi». E deve fare i conti con un Silvio Berlusconi che da una parte ipoteca e appoggia l’agenda del governo; dall’altra se ne distanzia sempre più in materia economica. Per questo è costretto ad alzare la voce e a non cedere alle pressioni per un accordo immediato. Il decreto sul lavoro è considerato un precedente e un segnale d’allarme da non sottovalutare.

L’aspetto «tecnico», e cioè la necessità di approvare il provvedimento prima del 20 maggio, giorno in cui decadrebbe, va rispettato; non sopravvalutato, però. L’impressione è che il Pd abbia in realtà imposto la sua visione anche all’esecutivo, con uno sguardo alle urne europee e all’elettorato; e che sul pericolo di mostrarsi a corto di numeri parlamentari, «senza maggioranza», come dicono le opposizioni, abbia prevalso la volontà di fotografare i rapporti di forza emersi a Montecitorio. La convinzione di Renzi è che tanto alla fine le resistenze saranno superate in nome del realismo.

Probabilmente la sua è un’analisi corretta: almeno fino al voto europeo. Esiste una tregua di fatto nella coalizione, che tende a considerare le contraddizioni comunque superabili pur di garantire la stabilità. Bisogna vedere, però, se gli ostacoli accantonati oggi non siano destinati a riemergere di colpo dopo l’appuntamento di fine maggio; e ad avvolgere e imprigionare tutta l’impalcatura riformista costruita dal premier. Il fatto che il decreto sul lavoro debba andare al Senato, e lì possa essere modificato, dà argomenti ai fautori della fine del bicameralismo. Ma in questo caso, forse, non li ha dati solo a loro.

23 aprile 2014 | 07:58
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/politica/14_aprile_23/piu-fretta-pote-paura-ba251a82-caab-11e3-9708-d10118a39c2a.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO Le rughe del potere
Inserito da: Admin - Aprile 25, 2014, 06:28:25 pm
Le rughe del potere
Di Massimo Franco

Per Silvio Berlusconi la campagna elettorale europea sarà in salita: ancora di più dopo la decisione del tribunale di sorveglianza di Milano di affidarlo in prova ai servizi sociali in un centro per anziani a Cesano Boscone. Le restrizioni a cui sarà sottoposto difficilmente potranno essere considerate tali da limitare quella che con espressione burocratica viene definita «agibilità politica». E se otterrà un risultato deludente, magari potrà recriminare perché è incandidabile dopo la condanna per frode fiscale; ma non per la decisione comunicata ieri dai giudici.

L’epilogo delle sue vicende giudiziarie consegna in realtà l’immagine di una guerra, se tale è stata, finita da tempo; e della quale si vedono gli ultimi bagliori, mentre intorno tutto sta cambiando. Perfino i magistrati, evidenziando «la scemata pericolosità sociale» dell’ex premier, fotografano involontariamente il tramonto di un’epoca. Alcuni dei «fedelissimi» si stanno defilando. E gli antichi avversari di sinistra ne celebrano la fine politica: sebbene non si rendano conto che il declino del berlusconismo coincide anche con quello di un certo antiberlusconismo.

A rivelare il ridimensionamento del Cavaliere, o ex tale, non sono gli attacchi residui contro di lui, ma l’asse con Matteo Renzi. Il fatto che il segretario del Pd e presidente del Consiglio lo abbia incontrato due volte, stabilendo un’intesa istituzionale prima impensabile, dice due cose. La prima è che la vecchia sinistra non ha né il potere né la convinzione per continuare l’ostracismo contro di lui: nemmeno dopo le condanne. La seconda è che Renzi si sente abbastanza forte da poter usare Berlusconi per i suoi piani politici: prima per far cadere Enrico Letta, ora per le riforme.

La differenza rispetto al passato è che un tempo il fondatore di Forza Italia dettava l’agenda al Paese, agli alleati e all’opposizione. Ora, invece, è costretto a condividerla o addirittura a sentirsela imporre da qualcuno che appare più moderno di lui; e in possesso di alcune delle doti e dei difetti sui quali ha costruito a lungo i propri consensi. Già si favoleggia sui «numeri» che Berlusconi farà nel centro per anziani; e di duelli a distanza con la magistratura milanese. I seguaci contano i mesi e vaticinano il suo grande ritorno. Ma non ci sarà nessun ritorno, perché continua a fare politica anche adesso.

La fa come può, appesantito non tanto dalle condanne quanto dal fallimento di un modello culturale ed economico inadeguato ad una crisi gravissima; e circondato da un consenso eroso non dai pubblici ministeri ma dagli errori politici: a cominciare da quello di avere sciupato occasioni storiche per riformare l’Italia, e di non essersi circondato di una classe dirigente degna di questo nome. Le ultime vicende trasmettono un’immagine di Berlusconi un po’ malinconica, dolorante dietro l’eterno sorriso, in verità sempre più tirato. È la fotografia di un sopravvissuto, al quale si deve rispetto: sperando che lui per primo rispetti se stesso e la sua nuova, temporanea condizione.

16 aprile 2014 | 07:18
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_aprile_16/rughe-potere-820ff9ee-c526-11e3-ab93-8b453f4397d6.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO Forza Italia accarezza il 20% come soglia di sopravvivenza
Inserito da: Admin - Maggio 05, 2014, 11:46:04 pm
Forza Italia accarezza il 20% come soglia di sopravvivenza
Si fa più aspro lo scontro tra Grillo e Palazzo Chigi: in gioco c’è il futuro del governo

Di Massimo Franco

La «prenotazione» di piazza San Giovanni a Roma, quella storica della sinistra, per il comizio elettorale finale di Beppe Grillo, non esprime solo la voglia di replicare l’affermazione alle Politiche dello scorso anno. Piuttosto, è la conferma che il Movimento 5 Stelle vede nel Pd di Matteo Renzi l’avversario da combattere. Sa che deve smentire la tesi secondo la quale la coalizione di governo è in grado di arginare l’ondata populista dei grillini. Di fatto, si delinea sempre di più lo schema di un bipolarismo nel quale i primi due partiti sono Pd e M5S, mentre Forza Italia insegue la soglia psicologica del 20 per cento.

Per quanto privo di una strategia che non sia quella della protesta, Grillo sente di avere dietro una spinta antieuropea possente; e, in Italia, il vento contro il sistema dei partiti. Il fatto che il presidente del Consiglio ricordi come nel 2013 Grillo avesse raccolto il 25,6 per cento dei consensi è indicativo. «È già il primo partito in Italia. Ma scommetto che stavolta i risultati saranno diversi». Erano diversi anche i sistemi elettorali. Il Pd di Pier Luigi Bersani ottenne il 25,3 per cento, fu premiato grazie alle alleanze che aveva stretto. Per le Europee, invece, funziona il sistema proporzionale.

Dunque, ogni forza mostrerà quanto vale. E il premier è convinto che il suo Pd avrà più voti di Grillo. Bisogna vedere quanti; come inciderà l’astensione sulle percentuali finali; e quanto peserà sui rapporti tra Renzi e Silvio Berlusconi una sconfitta del centrodestra. Il consigliere politico di FI, Giuseppe Toti, ammette che sotto il 20 bisognerebbe cominciare a riflettere seriamente. D’altronde, il doppio binario berlusconiano, «governativo» sulle riforme istituzionali, di lotta sull’economia, sta diventando unico: e cioè di attacco a Palazzo Chigi, perché dentro FI l’idea di sostenere Renzi non è così popolare.

I distinguo crescenti sulla riforma del Senato, l’accusa di avere modificato i provvedimenti sul lavoro sono segnali di nervosismo e di scontento dal fronte di FI. Il timore del governo è che possano saldarsi con quelli della minoranza del Pd e perfino con i parlamentari di Grillo, facendo mancare i numeri alla maggioranza soprattutto a Palazzo Madama. Quando il premier spiega che per lui «l’importante è che Berlusconi resti dentro l’accordo per le riforme», intravede l’insidia di una tensione che va oltre le elezioni di maggio. È comprensibile che i partiti «se le diano di santa ragione». Ma sulle regole «tutti possono essere d’accordo, o almeno quanti vogliono starci: Grillo non ci vuole stare».

È la sua strategia. L’M5S attacca Palazzo Chigi su tutto, accusando Renzi di essere «il vero populista»: dagli aerei F35, sui quali addita una «corsa agli armamenti» concordata tra il governo e Giorgio Napolitano, del quale continua a chiedere strumentalmente le dimissioni; sulle modifiche alla Costituzione, che osteggia ergendosi da qualche tempo a difensore di una Carta prima bistrattata. Renzi avverte: votare Grillo è «come abbaiare alla luna». E intanto aggiunge altri capitoli alla lista corposa delle cose da fare: a cominciare da una cura radicale per la Pubblica amministrazione. È un gioco rischioso, quasi spericolato, ma in qualche modo obbligato: o cambia o fallisce.

1 maggio 2014 | 09:34
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/politica/14_maggio_01/forza-italia-accarezza-20percento-come-soglia-sopravvivenza-c63aa1a8-d0f9-11e3-9d2f-e927fd64fe1a.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO Le riforme vetrina stanno mostrando un governo che sbanda
Inserito da: Admin - Maggio 08, 2014, 05:03:04 pm
Le riforme vetrina stanno mostrando un governo che sbanda
Segnali contraddittori da Palazzo Chigi sui rischi di una crisi

Di Massimo Franco

Forse il governo non scricchiola ancora davvero. Ma sulla riforma del Senato, la falange di Matteo Renzi mostra sbandamenti che preoccupano. I contrasti dentro il Pd e con il resto della maggioranza stanno trasformando una delle pietre miliari della strategia del premier in una fonte di confusione e di incertezza. Silvio Berlusconi la fotografa, avvertendo che Forza Italia non voterà il testo preparato dal ministro Maria Elena Boschi. Il problema è che non lo vuole approvare nemmeno una parte del Pd nella Commissione Affari costituzionali. E così, ieri il ministro Boschi ha ventilato la possibilità che possa cadere il governo e si vada alle elezioni.

Palazzo Chigi ha smentito, assicurando che il sostegno ci sarà comunque. Ma Roberto Giachetti, vicepresidente della Camera, in serata ha spedito un tweet nel quale dice a Renzi: «Sono stato facile profeta sulle riforme. Fidati di me. Andiamo a votare...». Difficile capire quale sarà la ricaduta finale di questa tensione. L’unica impressione nitida è che la soluzione proposta dalla Boschi incontra difficoltà insormontabili; e che l’irrigidimento del ministro di fronte alla possibilità di arrivare a un compromesso ha spinto i contrasti verso un punto di rottura pericoloso. L’ipotesi è che alla fine si troverà una soluzione, seppure ambigua.

Dovrebbe passare un testo che però non affronterà il punto controverso dell’elezione diretta dei senatori: uno di quelli che Renzi aveva definito tra i punti qualificanti della riforma. La stessa «scommessa» che il premier dice di voler fare con l’Europa, rea di avere ridimensionato l’impatto degli 80 euro distribuiti a fine maggio dal governo ai redditi più bassi, riflette un certo affanno. «In questi anni», si difende, «Bruxelles ha fatto il Fondo salva Stati, il Fondo salva banche. Bene: se il governo inizia a fare qualcosa per salvare le famiglie, i signori di Bruxelles se ne faranno una ragione».

Palazzo Chigi insiste di volere e potere seguire il percorso che si è dato. E replica alle critiche della Cgil di Susanna Camusso avvertendo, sbrigativo: «I sindacati devono capire che la musica è cambiata». Eppure, intorno a Renzi cominciano a vacillare alcune certezze. Il rischio della palude, dello stallo, è additato dai suoi seguaci come un elemento che dovrebbe far riflettere sull’opportunità di dimettersi. È come se i numerosi fronti aperti dal presidente del Consiglio in nome della sua «rivoluzione» cominciassero a mostrare resistenze impreviste; e perfino qualche crepa. L’esigenza di fare presto minaccia di imporre un prezzo politico alto in termine di compattezza della sua coalizione.

Lo spettro delle elezioni anticipate, per quanto faccia paura ai partiti, viene evocato troppo spesso per ottenere ubbidienza incondizionata. «Il caos del Senato non è dovuto a noi», si sfila un Berlusconi a caccia di voti europei e per questo non disposto a concedere nulla a Renzi. Lascia anche capire che «di fronte a un pericolo o a un disastro economico» sarebbe disposto a rientrare in una maggioranza col Pd. Ma declassa l’ipotesi a teoria, perché il Nuovo centrodestra di Angelino Alfano è pronto a rinfacciare l’errore che avrebbe fatto a novembre uscendo dal governo di Enrico Letta e spaccando il Pdl. Berlusconi avverte la tentazione dell’astensione di molti elettori, e il potere di attrazione di Beppe Grillo. «Dietro Grillo», insiste, «non c’è nulla: solo il pericolo di una dittatura». Con le loro convulsioni, però, i partiti finiscono per lavorare per lui.

7 maggio 2014 | 09:43
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/politica/14_maggio_07/riforme-vetrina-stanno-mostrando-governo-che-sbanda-5c5f4d50-d5b9-11e3-8f76-ff90528c627d.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO Governo in difesa incalzato dal Pd e dalla crisi economica
Inserito da: Admin - Maggio 10, 2014, 06:58:11 pm
La Nota
Governo in difesa incalzato dal Pd e dalla crisi economica
Spread ai minimi e Draghi avverte: non violate i vincoli europei

Di Massimo Franco

La differenza tra gli interessi pagati per i titoli di Stato italiani e quelli tedeschi ieri è scesa a 148 punti: il minimo dal maggio del 2011. Eppure, il governo di Matteo Renzi fatica a gioire per questo risultato. Più si avvicina il voto europeo del 25 maggio, più si ha l’impressione che l’esecutivo nato sotto il segno della velocità, delle riforme-lampo, stia scivolando sulla difensiva: quasi in trincea. Non sono tanto le critiche di Forza Italia, che anche ieri ha attaccato duramente il pasticcio della maggioranza in Senato col rinvio della riforma a giugno. Quegli attacchi servono a bilanciare il sostegno che Silvio Berlusconi e Denis Verdini offrono a Renzi nei passaggi più delicati.

Il problema vero sono i contrasti tra palazzo Chigi e il proprio partito in Parlamento; l’inclinazione del premier e di alcuni ministri a forzare le cose quando si trovano davanti un dissenso, senza però riuscire più a imporre loro l’ubbidienza; una crisi economica che non dà segno di raddrizzarsi; e il «peccato originale» di un presidente del Consiglio non eletto ma scelto da Giorgio Napolitano dopo una decisione della direzione del Pd che ha sfiduciato Enrico Letta, esponente dello stesso partito. È significativo che Renzi abbia sentito il bisogno di difendersi dall’accusa di avere scalzato l’ex premier con un golpe interno.

«Letta è andato al potere con una manovra parlamentare, esattamente come me», è la tesi espressa da Renzi sul settimanale statunitense Time. «Non era neppure leader del partito». Sono indizi di nervosismo, che si inseriscono in uno sfondo di conflittualità crescente. E lo sorprendono in una condizione difficile, dalla quale tuttavia sembra in grado di uscire rafforzato se, come dicono i sondaggi, a maggio il partito supererà il 30 per cento dei voti. Il premier ha bisogno di una vittoria del Pd, come surrogato della legittimazione popolare che non ha: non ancora, almeno. L’incognita è su come ci arriverà.

Lo scontro tra premier e Cgil fa dire a Massimo D’Alema che il conflitto è tra sindacato e Palazzo Chigi, non col Pd: un distinguo politico non da poco. E Vannino Chiti, che propone una riforma del Senato diversa da quella del governo, avverte che «forzare non serve a nessuno». A questo vanno aggiunti i veleni sprigionati dagli arresti di Milano per i casi di corruzione all’Expo, e l’inquietudine per l’ordine pubblico negli stadi di calcio. E sullo sfondo si allineano dati economici a dir poco contraddittori. Il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, ieri ha dovuto registrare le parole critiche dal presidente della Bce, Mario Draghi, dopo la richiesta italiana di rinviare il pareggio di bilancio al 2016. «Minare la credibilità delle regole esistenti non è mai una buona politica che può generare crescita», ha detto, pur non riferendosi soltanto all’Italia.

Padoan ha dovuto replicare con una punta di imbarazzo che il rinvio «è stato chiesto per il peggioramento del clima economico e per pagare i debiti della Pubblica amministrazione». Ma il titolare dell’Economia si trova stretto tra l’esigenza di non sciupare la credibilità di un governo ambizioso a poche settimane dall’inizio del semestre di presidenza italiana, e pressioni elettorali crescenti. Alcuni partiti adesso vorrebbero allargare i benefici della riduzione dell’Irpef anche a famiglie e imprese: mossa dal chiaro sapore elettorale. Padoan avverte che «un Paese come l’Italia deve ulteriormente dimostrare che è serio sulle strategia di riforma e sull’agenda strutturale». Anche perché all’inizio di giugno la Commissione Ue si pronuncerà sulle richieste italiane. A quel punto le elezioni saranno alle spalle. Ma si passerà al «voto», altrettanto insidioso, delle istituzioni e dei mercati.

9 maggio 2014 | 08:07
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/politica/14_maggio_09/governo-difesa-incalzato-pd-crisi-economica-5ab4ebf4-d73f-11e3-bbb4-071d29de8b1e.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO Crescono i segnali di nervosismo di Berlusconi verso Renzi
Inserito da: Admin - Maggio 15, 2014, 10:35:49 am
Lo spauracchio M5S sta già logorando l’asse tra il governo e FI
Crescono i segnali di nervosismo di Berlusconi verso Renzi

Di Massimo Franco

Lo spauracchio di Beppe Grillo si sta gonfiando un po’ troppo. E non si capisce se questa paura di un successo del Movimento 5 stelle alle Europee del 25 maggio sia figlio delle insicurezze della maggioranza di governo; oppure serva a far capire il rischio di una vittoria populista, per calamitare i voti sul Pd di Matteo Renzi e sui suoi alleati. Il presidente del Consiglio sta cercando di arginare gli effetti della bufera giudiziaria dell’Expò di Milano e il nervosismo del suo partito, che in gran parte lo sostiene ma aspetta di capire come andrà a finire. È logico che i comitati d’affari sopravvissuti alla fine della Prima Repubblica e alla crisi della Seconda possono portare acqua e voti a chi dà per spacciato il sistema.

Non a caso Grillo si prepara a marciare sul capoluogo lombardo per dire «basta» all’Expo. Renzi ha imboccato una strada inevitabilmente opposta. E si prepara a spiegare perché la strategia del M5S punta soltanto alla destabilizzazione e allo sfascio. Sa che interrompere l’organizzazione di questo avvenimento sarebbe un suicidio economico e d’immagine per l’Italia. E dunque vuole andare avanti, scansando le macerie che le inchieste della Procura di Milano stanno provocando e potranno causare; e contrapponendo una narrativa di governo a quella antisistema di Grillo.

Ma certo, lo scontro tra i due rischia di polarizzare i voti non solo su Renzi. I sondaggi continuano ad apparire positivi, per il premier: rispetto alle politiche del 2013, ci potrebbe essere un aumento sostanzioso del Pd. A sentire i sondaggisti, forse sarà l’unico esecutivo europeo a non essere punito dall’elettorato, grazie alla «luna di miele» che gli deriva dal fatto di essere a palazzo Chigi da poco tempo. I suoi fedelissimi alimentano la narrativa di un governo che sta ottenendo risultati rapidamente; che combatte contro l’immobilismo e che può offrire un bilancio incoraggiante. Il dubbio riguarda semmai la consistenza delle sacche di protesta che gonfieranno le liste grilline e i numeri dell’astensionismo; e il panorama politico che emergerà.

È probabile che Forza Italia sarà ridimensionata, e il Nuovo centrodestra magari vivo ma non forte. I segnali che arrivano da Silvio Berlusconi, per quanto soggetti a oscillazioni quotidiane, indicano la volontà di allineare fin d’ora una serie di motivi per contestare il patto sulle riforme stipulato con il premier: in particolare sul Senato e sulla riforma elettorale. Il capo di Fi non smette di dichiarare che su Renzi è «molto pessimista»; e che sta pensando «di non poter seguire le riforme» fatte dal premier, ad esempio dando 80 euro in busta paga da maggio ai redditi più bassi «ma nulla ai pensionati». Ancora, per un Berlusconi che vive nell’incubo di diventare solo il terzo partito, un sistema elettorale col ballottaggio, voluto dal Pd, andrebbe contro i suoi interessi.

«Hanno cambiato l’accordo», accusa l’ex premier. È inquieto perché indovina la possibilità che una parte di chi votava centrodestra sia attirata da Renzi. «È stato messo dalla sinistra come facciata per ingannare i moderati che vedendolo pensano di dare il voto a lui», lancia l’allarme. Ma si tratta di un’ammissione significativa, che spiega il nervosismo di Fi e lo scontro ormai quotidiano col Nuovo centrodestra di Angelino Alfano. Ed è la conferma di un asse istituzionale in bilico. Sembra reggere nei passaggi più delicati, grazie anche al rapporto tra Renzi e il coordinatore di Fi, Denis Verdini. Poi viene rimesso in mora. E di nuovo sopravvive alle tensioni. Rimane da vedere se il risultato delle Europee lo consoliderà, sottolineando un rapporto ancora più sbilanciato a favore del Pd, o se lo farà saltare. Da quello si capirà il futuro della legislatura.

13 maggio 2014 | 07:50
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/politica/14_maggio_13/spauracchio-m5s-sta-gia-logorando-l-asse-il-governo-fi-645d1c7a-da60-11e3-87dc-12e8f7025c68.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO Grillo cerca voti alzando il tiro contro tutto e tutti
Inserito da: Admin - Maggio 15, 2014, 10:36:55 am
Grillo cerca voti alzando il tiro contro tutto e tutti
L’obiettivo di un bipolarismo con Renzi per terremotare il sistema
   
Di Massimo Franco

La presenza in contemporanea di Matteo Renzi e di Beppe Grillo ieri a Milano ha confermato che la sfida alle europee del 25 maggio si gioca soprattutto tra Pd di governo e Movimento 5 Stelle antisistema. Colpisce una battuta dei seguaci di Silvio Berlusconi, tesa a dipingere il presidente del Consiglio e il suo avversario come «due esibizionisti». È come se ammettessero implicitamente che il leader di FI ha un ruolo secondario, sul palcoscenico: nonostante le rivelazioni dell’ex segretario al Tesoro Usa, Tim Geithner, sulla crisi del governo del Cavaliere nel 2011, permettano al centrodestra di rilanciare la tesi del complotto europeo contro il loro leader; e di mettere in ombra il fallimento della politica economica di allora.

In queste ore il terreno di scontro è l’Expo 2015, che Grillo vuole trasformare in un altro pezzo della sua campagna elettorale sulla scia della bufera giudiziaria al vertice. Ma anche Renzi tenta di utilizzarla per rimarcare il profilo di uomo di governo, a costo di perdere qualche punto percentuale. L’impostazione è agli antipodi. Il M5S chiede la chiusura dell’Expo, presentata come «una grande abbuffata». Il premier la puntella e la rilancia come un’occasione storica per Milano e l’Italia. «Ci sono in ballo migliaia di posti di lavoro. Si fermano i ladri», dice, «non si fermano i lavori». L’aspetto più vistoso, tuttavia, è la virulenza con la quale Grillo attacca quello che chiama «il bamboccio» di Palazzo Chigi.

Lo accomuna alla «salma» Berlusconi, ritagliandosi il ruolo di castiga tutti. La sua strategia tende a trasformare il voto europeo in un referendum non tanto pro o contro l’Ue e la moneta unica, ma contro un sistema politico e istituzionale al quale si contrappone come unico nemico. I suoi bersagli sono indifferentemente Palazzo Chigi, Quirinale, FI, l’Europa, i giornalisti «fascisti» perché non scriverebbero che «Renzi racconta frottole».

Eppure, l’accusa di essere una sorta di dittatore in erba deve averlo un po’ colpito. Giustifica infatti la decisione di andare in tv con l’esigenza di spiegarsi e smentire questa immagine. Picchia più duro sul premier solo perché sa bene che a impedire il primato del grillismo è il Pd. Appare poco verosimile che pensi davvero di emergere come partito più votato. Le minacce volgari che indirizza al capo dello Stato, Giorgio Napolitano, non sono certo fatte per costringerlo a conferirgli l’incarico di formare il governo in caso di vittoria: sono solo parte di un’operazione di delegittimazione di tutto e di tutti.

Come Berlusconi cerca di costruire il mito della rimonta per risalire la china dei sondaggi, così il capo dei «Cinque Stelle» evoca la grande spallata per mobilitare l’elettorato più arrabbiato e tentato dall’astensionismo. In realtà, lo scarto rispetto alla maggiore forza di sinistra rimarrebbe piuttosto alto. Ma l’obiettivo è quello di dare corpo a un bipolarismo Pd-M5S. Grillo vuole almeno confermare il risultato delle politiche del 2013, e da qui costruire la piattaforma per le prossime elezioni. È un progetto che punta alla distruzione di quanto esiste, e confida nella rabbia e nello scontento. Non si capisce, però, che cosa farebbe dopo: se non aggiungere macerie a macerie.

14 maggio 2014 | 07:57
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/politica/14_maggio_14/grillo-cerca-voti-alzando-tiro-contro-tutto-tutti-9514d9fe-db26-11e3-998e-bb303caaf6c1.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO Al di là dei proclami tutti i partiti temono il non voto
Inserito da: Admin - Maggio 24, 2014, 06:15:36 pm
La Nota

Al di là dei proclami tutti i partiti temono il non voto
Berlusconi già pensa al dopo elezioni e non esclude le larghe intese

Di Massimo Franco

Si comincia a capire meglio la ragione per la quale Silvio Berlusconi è arrivato a paragonare Beppe Grillo al dittatore nazista Adolf Hitler. «Di fronte al pericolo di un regime autoritario», ha detto ieri l’ex premier, «qualsiasi ipotesi alternativa va perseguita». Traduzione verosimile: non esclude un governo di larghe intese col Pd di Matteo Renzi dopo le elezioni europee. Dette alla vigilia di un voto che potrebbe far scivolare la sua Forza Italia al terzo posto, sono parole che segnalano un certo grado di preoccupazione, se non di disperazione. E potrebbero offrire al Movimento 5 Stelle un ulteriore pretesto per accreditarsi come unica opposizione rispetto a quello che Grillo dipinge come un patto tra Pd e Forza Italia.

È il segno che mentre i partiti si combattono negli ultimi giorni di campagna elettorale, in realtà già guardano al dopo. Ha colpito la disponibilità dei vertici grillini, a cominciare da Gianroberto Casaleggio, a diventare ministro in caso di vittoria: un’ammissione sfuggita in un’intervista al Fatto, e poi ridimensionata. E ieri Berlusconi ha ventilato un ritorno al governo: prospettiva, in realtà, poco verosimile. Pensare che Renzi possa allearsi con FI contraddirebbe quanto è stato detto finora dal presidente del Consiglio. L’unica possibilità è che avvenga dopo elezioni politiche anticipate; e in una situazione parlamentare bloccata.

Ma prima bisognerebbe trovare un compromesso sulla riforma del sistema elettorale, in alto mare nonostante le assicurazioni del governo; e subordinato ai rapporti di forza che emergeranno dalle Europee. L’incertezza sul voto del 25 maggio è vistosa: tanto che lo spread, la differenza tra il rendimento dei titoli di Stato italiani e tedeschi, ieri era risalito fino a 200 punti. Ed ha fatto dire al ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, che «c’è un elemento di nervosismo sui mercati legato alle attese dei risultati elettorali»: non solo in Italia ma nell’intera Europa. A fine giornata, lo spread è tornato a 178.

Con premesse del genere, tuttavia, non ci si può non chiedere che cosa accadrebbe a livello finanziario se i movimenti populisti uscissero rafforzati dalle urne. Il capo dello Stato, Giorgio Napolitano, dalla Svizzera chiede di «guardare con fiducia al nostro Paese»: nonostante i toni virulenti dei partiti. Renzi si mostra sicuro di ottenere «un ottimo risultato». Il Pd è convinto di riemergere come la prima forza, e di superare il 30 per cento. Ma il premier, deciso a separare le sorti del governo dal voto europeo, anticipa che non si dimetterà nemmeno se il risultato sarà più deludente.

Uno dei suoi vice, Debora Serracchiani, sostiene che «la soglia minima per il Pd è superare il 26 per cento scarso» delle Europee di cinque anni fa: un gioco al ribasso, che serve a esaltare un risultato migliore considerato a portata di mano. L’impressione è che la cautela, riscontrabile anche nella cerchia di Grillo, nasca dalla difficoltà di misurare lo scontento. Potrebbe tradursi in voti di protesta, ma anche in un’alta percentuale di astensioni. E questo rende ogni previsione impervia. Le oscillazioni marcate che si notano tra un sondaggio e l’altro rispecchiano una volatilità inafferrabile con i metodi di rilevazione tradizionali.

23 maggio 2014 | 09:48
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_maggio_23/al-la-proclami-tutti-partiti-temono-non-voto-211ee4fc-e24e-11e3-ac6b-33bb804580af.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO Un credito personale
Inserito da: Admin - Maggio 26, 2014, 06:19:32 pm
Un credito personale

Di Massimo Franco

Sono state vissute come le elezioni di Beppe Grillo. Ma in realtà il Movimento 5 Stelle è stato superato, persino surclassato dal Pd di Matteo Renzi: a conferma che il grillismo è una gigantografia della crisi del sistema, non la sua soluzione. La realtà è che l’Italia preferisce la promessa di stabilità e di cambiamento di Renzi, per quanto ancora indefinita. E le dà fiducia, mentre una porzione di opinione pubblica oltre il 40 per cento si astiene, in attesa di un’offerta politica nuova.

I tre partiti principali riflettono una semplificazione apparente degli schieramenti. In realtà, nascondono un disorientamento che prelude a un’ulteriore evoluzione dei rapporti di forza: lo sfarinamento del centrodestra è vistoso. A Silvio Berlusconi, condannato e incandidabile, è rimasta una quota di elettorato intorno al 16 per cento. Grillo pensava di vincere trasformando le elezioni in un referendum su se stesso. Ha imposto la sua agenda, ma l’esito paradossale è stato di rafforzare un Pd per il quale le Europee erano un’autentica incognita.

Insomma, se il compito del presidente del Consiglio era di respingere l’onda antisistema di Grillo, in buona parte ci è riuscito. Anche se la marea eurofobica esiste, e le percentuali oscillanti sullo scarto di voti tra Pd e M5S, descritti alla vigilia come i probabili «due vincitori», l’hanno fatta apparire minacciosa per giorni. Il terrore di una spallata grillina, di quella che era stata definita strategia del vetriolo, dice molto. Sottolinea non la potenza della sua narrativa distruttiva ma la debolezza delle certezze avversarie. Il disastro dei partiti al governo in Europa, Germania esclusa, sottolinea ancora di più un’affermazione del Pd superiore alle previsioni.

Renzi affidava al voto europeo la legittimazione popolare che ancora gli manca per stare a Palazzo Chigi. Ebbene, seppure indirettamente, l’ha ricevuta. L’impressione è che il Pd sia stato premiato per una sorta di credito personale accordato al suo leader; e grazie anche alla paura di ceti moderati pronti a «turarsi il naso» e votare a sinistra per scongiurare il caos grillino. Il risultato garantisce la sopravvivenza al governo: un epilogo non scontato, perché il premier sa che il suo partito è disposto ad assecondarlo solo se si mostra vincente.

E Angelino Alfano è pronto a sostenere Renzi se gli garantisce uno spazio vitale che emancipi il Nuovo centrodestra dal berlusconismo: un’indicazione ancora incerta a notte fonda. L’asse istituzionale tra Pd e FI, comunque, dovrebbe reggere: se non altro perché il centrodestra adesso teme ancora di più le elezioni anticipate. Bisogna solo capire a quali condizioni, visti i nuovi equilibri di potere.

Si conferma l’anomalia italiana. Ma stavolta consegna all’Europa un bipolarismo sbilanciato Renzi-Grillo, che rispetto ad altre nazioni premia la voglia di stabilità. Sciupare questa occasione significherebbe non voler capire il messaggio dell’elettorato.

26 maggio 2014 | 06:38
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_maggio_26/credito-personale-massimo-franco-4732a136-e48f-11e3-8e3e-8f5de4ddd12f.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO Un centrodestra diviso si scopre ostaggio della sinistra renziana
Inserito da: Admin - Maggio 28, 2014, 11:57:32 am
La Nota
Un centrodestra diviso si scopre ostaggio della sinistra renziana
Dopo il berlusconismo serviranno anni per ricostruire il fronte moderato

di Massimo Franco

Beppe Grillo ha detto poche parole che volevano essere scherzose, da grande incassatore. Ma in realtà tradivano una delusione cocente per la sconfitta alle europee di domenica. E il centrodestra si scopre donatore di sangue e di voti a Matteo Renzi e all’astensionismo, senza riuscire a ritrovare neppure un barlume di unità. È un panorama inedito, quello offerto dagli avversari del Pd. Appaiono tutti frastornati: come se i risultati avessero di colpo presentato un conto salatissimo per gli errori commessi negli ultimi anni; e regalato un’affermazione imprevista e insperata a una sinistra finora incapace di vincere nettamente.

Un governo che non nascondeva il proprio affanno, adesso appare blindato. E l’insistenza con la quale FI e Nuovo centrodestra rivendicano il proprio ruolo essenziale per realizzare le riforme, dall’esterno e dentro la maggioranza, non riesce a cancellare una realtà cruda: che la coalizione oggi ha un perno quasi autosufficiente nel Pd renziano; e gli altri devono fare i conti con rapporti di forza stravolti dalle europee. Quando Silvio Berlusconi conferma «un’opposizione responsabile», certifica che l’asse istituzionale col premier reggerà. E negli avvertimenti di Angelino Alfano a Palazzo Chigi, si indovina il timore di essere schiacciato da un’alleanza squilibrata.

«Siamo il pilastro di centrodestra dell’esecutivo», dice Alfano. «Il governo deve tenerne conto». Ma è un pilastro ridimensionato. La narrativa su un’Italia di centrodestra incapace di tradurre il suo primato sul piano politico, non è mai stata così venata dallo sconforto. Berlusconi sostiene di voler ricompattare «i moderati». Eppure riesce difficile immaginare che FI, Ndc e una Lega in ripresa su una piattaforma antieuropea possano rimettersi insieme.

Il dramma degli avversari di Renzi è questo. Sono divisi, e non trovano ragioni per allearsi di nuovo. Anzi, gli scambi di accuse tra berlusconiani e Alfano, soprattutto, preludono ad una fase di tensioni crescenti. Il Nuovo centrodestra accusa Berlusconi di avere regalato un pezzo del voto moderato al Pd pur di colpire l’Ncd. E FI ironizza sulla soddisfazione di Alfano per un 4,4 per cento striminzito. Ma soprattutto, non spunta ancora una sola idea sul modo di riassorbire un astensionismo in larga parte attribuibile alla mancanza di un’offerta politica soddisfacente.

Forse perché è difficile rimettere in discussione non solo i contenitori ma le stesse nomenklature del centrodestra. «Potremo parlare di una rifondazione del campo dei moderati con FI quando avranno capito che il mondo è cambiato», è il messaggio duro di Alfano. Eppure, anche per l’Ncd non sarà facile rimanere alleato di Renzi e intanto preparare un progetto di alleanza alternativa. La verità è che dopo il voto di domenica, il premier ha a disposizione tutti gli strumenti per praticare un divide et impera tra gli avversari. Mentre per sgomberare le macerie di un berlusconismo tramontato e costruire qualcosa di nuovo occorreranno anni.

27 maggio 2014 | 08:36
© RIPRODUZIONE RISERVATA

DA - http://www.corriere.it/politica/14_maggio_27/centrodestra-diviso-si-scopre-ostaggio-sinistra-renziana-69d27288-e55d-11e3-8e3e-8f5de4ddd12f.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO La sfida del premier si sposta dall’Italia alle scelte europee
Inserito da: Admin - Maggio 29, 2014, 11:05:53 pm
La sfida del premier si sposta dall’Italia alle scelte europee
Un Cavaliere bifronte sceglie la Lega ma non affossa ancora le riforme

Di Massimo Franco

L’incognita è racchiusa nella fotografia del risultato elettorale scattata ieri da Romano Prodi a Milano. «Renzi ha forza e spazio», osserva l’ex presidente della Commissione europea. «Un solo partito col 40 per cento non si è mai visto. Il problema è se il Parlamento farà una politica convergente con il governo». La questione rinvia sia ai rapporti nella coalizione governativa, col Nuovo centrodestra preoccupato di appiattirsi su Palazzo Chigi, sia a quelli con Forza Italia, che almeno nell’immediato sembra optare per l’asse con la Lega Nord xenofoba, lasciando in sospeso l’asse istituzionale con Matteo Renzi. Silvio Berlusconi rimane leader, idem Beppe Grillo.

Significa che entrambi vogliono disperatamente recuperare i voti dell’astensione a spese del Pd e del premier. Ma in che modo? Per il Movimento 5 Stelle, il problema non si pone: nel senso che si tratta solo di continuare a scommettere su un disastro dell’Italia. Il resto, è il calcolo, arriverà da solo. Per FI il discorso è più complicato. I canali di comunicazione con l’Ncd di Angelino Alfano sono interrotti: lo conferma la scelta di ritornare all’antico sodalizio con un Carroccio più antieuropeo che mai.

Si dovrebbe dunque scommettere su un berlusconismo d’opposizione, dal profilo antirenziano. Ma non è scontato. Ritenere che Berlusconi si prepari a buttare a mare l’intesa col presidente del Consiglio non è verosimile. Né che Renzi, dopo avere ricevuto il mandato a proseguire, punti a fare saltare il tavolo dopo la fine del semestre di presidenza italiana dell’Europa per le resistenze che le riforme incontrano: tanto più senza che siano state approvate. Il riferimento è sia al sistema elettorale, sia al Senato. Significherebbe il fallimento delle sue ambizioni di cambiamento. Oltretutto, alleati come Scelta civica e Ncd sanno che col voto anticipato rischierebbero di sparire.

Per questo, l’impressione è che Renzi sia in grado di andare avanti contando su un appoggio parlamentare difficile da rifiutare. Lo stesso Berlusconi ammette di avere commesso un errore facendo qualche complimento al capo del governo. Ma sulle riforme «siamo responsabili». È probabile che non si riferisca soltanto a quelle già impostate. Su uno sfondo ravvicinato potrebbe spuntare la questione del nuovo presidente della Repubblica: un appuntamento che vedrebbe una naturale convergenza parlamentare tra Pd e FI contro l’M5S di Grillo. Il fatto che l’ex premier denunci «le casse vuote» di FI è una ragione in più per non volere le elezioni.

Sia perché è incandidabile, sia per le divisioni del centrodestra, Berlusconi ha bisogno di tempo. Punta a ricompattare il fronte moderato, «ma non ora e non con tutti». Così, Renzi ha davanti una prateria: soprattutto se sarà in grado di far pesare i voti del Pd al Parlamento europeo. In teoria, la posizione italiana è centrale: lo lascia capire lo stesso ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan. Ma non è ancora chiaro come riuscirà a ottenere da Bruxelles maggiore flessibilità sulla spesa pubblica, per rilanciare l’economia. È quello continentale il fronte sul quale vuole vincere nelle prossime settimane. L’Italia, per adesso, lo preoccupa meno.

© RIPRODUZIONE RISERVATA
29 maggio 2014 | 08:15

Da - http://www.corriere.it/politica/14_maggio_29/sfida-premier-si-sposta-dall-italia-scelte-europee-e2163258-e6ec-11e3-891a-a65af8809a36.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO Esecutivo incalzato dagli scandali branditi dai 5 Stelle
Inserito da: Admin - Giugno 05, 2014, 09:07:54 am
La Nota

Esecutivo incalzato dagli scandali branditi dai 5 Stelle
Un tentativo strumentale anche in vista dei ballottaggi di domenica

Di Massimo Franco

Le inchieste giudiziarie a grappolo stanno diventando il principale appiglio che il Movimento 5 Stelle vuole usare per boicottare le cosiddette Grandi Opere e delegittimare la coalizione di governo. È il tentativo di rivincita di Beppe Grillo dopo la sconfitta alle europee di dieci giorni fa; o almeno di incrinare l’immagine vincente che il Pd di Matteo Renzi sta trasmettendo. Le indagini e gli arresti sul Mose veneziano (le «dighe» per proteggere la città dalle maree), si aggiungono a quelli sull’Expo di Milano. E l’M5S teorizza che il Treno ad Alta Velocità Torino-Lione possa essere il prossimo scandalo scoperto dalla magistratura. La linea del governo è di combattere la corruzione ma in parallelo realizzare i progetti già decisi. Quanto accade, però, può diventare un ostacolo.

Per quanto strumentale, il binomio larghe intese-malaffare è di facile presa. Viene usato per continuare a dipingere il sistema come marcio; e la coalizione di governo e l’asse tra Palazzo Chigi e Forza Italia come paraventi dietro i quali i partiti si dividono in modo inconfessabile appalti e fondi. L’operazione è rischiosa anche per Renzi: se non altro perché mettono in pessima luce sindaci e nomenklature locali alla vigilia dei ballottaggi di domenica in alcune città e regioni. Per ribattere agli attacchi di Grillo, la cerchia del premier tende a presentare gli scandali come figli del passato, non del nuovo corso.

Nella narrativa grillina, le inchieste sarebbero la controprova di complicità trasversali e mai recise. In quella governativa, sono invece controprove e conferme dell’esigenza di cambiare passo e classi dirigenti. È una parola d’ordine destinata a pesare sia sulle riforme istituzionali, ipotecate da resistenze diffuse e presenti nello stesso Pd; sia sui rapporti con Silvio Berlusconi, pressato da quanti dentro FI vorrebbero rapporti più conflittuali con il governo dopo la sconfitta del 25 maggio. C’è chi teorizza la necessità di «divincolarsi dalle catene» dell’asse con Renzi. E in questi distinguo si avverte l’eco della lotta per la leadership in atto tra i berlusconiani.

In realtà, è difficile prevedere strappi e rotture degli equilibri preelettorali. Per quanto forse i molti voti ricevuti alle europee abbiano irritato alleati e avversari, il presidente del Consiglio ed il governo sono più forti. E i margini di trattativa di FI si sono ridotti e sconsigliano colpi di testa. Anche perché con una crisi economica che l’Unione europea e i dati sulla disoccupazione giovanile ricordano impietosamente, la stabilità diventa una delle risorse in mano all’Italia per sperare nella crescita. Ieri Renzi è arrivato a Bruxelles per la riunione del G7, il gruppo dei Paesi più industrializzati, con alle spalle un risultato elettorale che in teoria dovrebbe offrirgli maggiore potere contrattuale e spazio di manovra.

Il ministro degli Esteri, Federica Mogherini, ritiene che a questo punto siano «i cittadini europei» e non solo l’Italia a chiedere un cambio di politica all’Ue. Ma l’operazione comporta la conferma degli impegni presi da Renzi di fronte a una situazione finanziaria che rimane precaria e in bilico. «Il premier ci ha dato rassicurazioni», ha spiegato ieri il presidente uscente della Commissione, Josè Manuel Barroso. «È nell’interesse dell’Italia diventare più competitiva». Ma non può bastare. Per questo si aspettano le decisioni che prenderà oggi la Banca centrale europea per scacciare una deflazione che frena la ripresa. E per questo oggi fa paura più dell’inflazione.

5 giugno 2014 | 07:47
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/politica/14_giugno_05/esecutivo-incalzato-scandali-branditi-5-stelle-3f4b770a-ec72-11e3-9d13-7cdece27bf31.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO Il BALLOTTAGGIO DELLE AMMINISTRATIVE Gli umori variabili
Inserito da: Admin - Giugno 10, 2014, 11:00:54 am
Il BALLOTTAGGIO DELLE AMMINISTRATIVE
Gli umori variabili

Di MASSIMO FRANCO

Erano elezioni osservate almeno con curiosità. Dovevano dire quanto l’effetto Renzi delle Europee di due settimane fa sarebbe stato confermato; e se le inchieste giudiziarie a Venezia avrebbero pesato sul voto per i ballottaggi in 148 Comuni italiani. Il crollo della partecipazione è una parziale risposta alla seconda domanda: sebbene non si capisca se abbia potuto più l’attrazione del sole o la repulsione della politica. Ma l’astensionismo schizzato in alto rispetto a due settimane fa è un responso sconfortante. Dà il senso di elezioni nelle quali la mobilitazione del passato per scegliere il sindaco è un ricordo sbiadito. I «primi cittadini» sono sempre più figli di minoranze.

Si delinea una democrazia diretta dimezzata da un’affluenza che è stata inferiore al 50 per cento. Riguarda un elettorato deciso a far contare i propri orientamenti su uno sfondo di delusione e di sfiducia, e dunque ancora più ammirevole. Il segnale mandato dai circa quattro milioni e mezzo di elettori di ieri, tuttavia, è sovrastato dalla sensazione di crisi del sistema. Racconta un’Italia stanca non solo di candidati più o meno competenti, ma di un potere giudicato con scetticismo crescente. D’altronde, i giorni scorsi sono stati sovrastati da notizie di mandati di cattura, e da tentativi maldestri di scaricabarile dei partiti.

La cifra rimane quella della voglia di cambiare. E il ricambio premia in alcune realtà il Movimento 5 Stelle, in altre il Pd, in altre ancora un centrodestra acefalo, in crisi ma tutt’altro che inesistente. Chi appare politicamente datato, fatica. Vengono premiati gli avversari perfino quando si presentano con alleanze ambigue e irrituali, come quelle tra i candidati di Beppe Grillo e settori del mondo moderato ostile alla sinistra. Insomma, il quadro che emerge è più sfaccettato di quello regalato di recente dalle urne europee. Ieri non c’è stata una replica della valanga renziana. Anzi, l’onda ha subìto una frenata: se non altro perché contavano soprattutto fattori locali.

La battaglia all’ultimo voto a Bergamo, risolta con la vittoria del Pd, o il successo dei grillini in un bastione rosso per settant’anni come Livorno, sono indizi di un Paese che sta cercando nuovi equilibri; e che comincia a sperimentarli votando, o astenendosi, nelle città. La corruzione pesa, e peserà ulteriormente senza una risposta forte della politica. Accentuerà la fuga verso la protesta, e aumenterà il numero delle persone che si rifiutano di andare alle urne perché non trovano più una buona ragione per farlo. Livelli di non partecipazione di questa portata non sono fisiologici. Mostrano una democrazia in affanno non solo per gli scandali veneziani o milanesi, ma per l’incapacità di ritrovare un baricentro stabile.

9 giugno 2014 | 07:48
© RIPRODUZIONE RISERVATA

DA - http://www.corriere.it/editoriali/14_giugno_09/gli-umori-variabili-380e6de8-ef93-11e3-85b0-60cbb1cdb75e.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO Una resa dei conti che rischia di acuire le tensioni nel Pd.
Inserito da: Admin - Giugno 14, 2014, 10:39:42 pm
La Nota

Una resa dei conti che rischia di acuire le tensioni nel Pd
Renzi forte del successo alle Europee ma i malumori restano

Di Massimo Franco

Il metodo appare discutibile e presta il fianco all’accusa di autoritarismo, per quanto strumentale. Mischiare ruolo del governo e del Parlamento genera confusione e malumori. E contrapporre «dodici milioni di voti a tredici senatori» suona un po’ troppo enfatico: anche perché non è accertato che le riforme istituzionali siano la ragione per la quale il Pd ha ricevuto tanti consensi alle Europee (non alle Politiche) di fine maggio. Sulla sostanza, però, è difficile dare torto al governo quando decide di andare avanti, rifiutando di essere bloccato dai veti di un pugno di dissidenti. «Non ho preso il 41 per cento dei voti per lasciare il futuro del Paese a Corradino Mineo», ha detto ieri Matteo Renzi, riferito al capofila della protesta, sostituito in commissione dopo ripetuti avvertimenti. «Il partito non è un taxi».

A ruota i vertici del Pd hanno invitato a non rallentare le decisioni «per motivi personali», come hanno detto i vicesegretari Debora Serracchiani e Lorenzo Guerini. Insomma, il ritorno del presidente del Consiglio dal viaggio in Asia significherà il pugno duro contro gli oppositori interni. Né cambia molto il quadro nell’eventualità che siano più degli attuali. Tuttavia, l’idea che il partito sia agitato da una tempesta in un bicchiere d’acqua, secondo le parole iniziali di Renzi, non convince fino in fondo. E non perché un altro dei «ribelli», Vannino Chiti, esponente di peso, intraveda una sorta di deriva autoritaria. Il sospetto è che dietro la filiera dei senatori usciti allo scoperto esista un fronte più esteso, sebbene silenzioso.

Probabilmente non mette a rischio l’approvazione della riforma, perché il Pd può contare sull’appoggio del Nuovo centrodestra di Angelino Alfano: un aiuto che invece l’asse istituzionale tra Renzi a Silvio Berlusconi non garantisce sulla riforma del Senato. Ma questo può condizionarne la stesura, sottolineando una volta di più l’impossibilità di Palazzo Chigi di contare su un gruppo parlamentare docile. Proietta ombre su altre leggi, a partire da quella sul nuovo sistema elettorale. E peggiora inutilmente i rapporti interni, accentuando il dualismo tra il Pd-partito e la sua rappresentanza alle Camere.

Sotto voce, ci si chiede se uno scontro esasperato come quello delle ultime ore non nasca da un certo difetto di esperienza e di capacità di mediazione. Nella cerchia del premier si ascoltano critiche sotto voce anche nei confronti del ministro delle Riforme, Maria Elena Boschi, alla quale si imputa una certa durezza con alcuni senatori del Pd. Responsabilità individuali a parte, di nuovo, nonostante la vittoria del 25 maggio e quella più sfaccettata dei ballottaggi di domenica scorsa, la principale forza di governo trasmette segnali di nervosismo. Renzi rimane molto forte: ha il 68 per cento dei voti in Direzione.

La riunione di domani potrebbe chiudersi, dunque, con una gestione unitaria destinata ad assorbire ciò che resta dell’opposizione. Le convulsioni al Senato e lo scivolone dell’altro giorno alla Camera sulla responsabilità civile dei magistrati, col governo battuto anche grazie ai franchi tiratori del Pd, non vanno però sottovalutati. Forza Italia, Lega e Movimento 5 Stelle ironizzano su quanto accade. Attaccano il premier anche per il ritorno del sindaco di Venezia, Giorgio Orsoni, indagato nell’inchiesta sul Mose e di nuovo al suo posto dopo avere patteggiato una pena di quattro mesi: una contraddizione, è l’obiezione, rispetto alla linea renziana della «tolleranza zero» sui casi di corruzione.

13 giugno 2014 | 08:21
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/politica/14_giugno_13/resa-conti-che-rischia-acuire-tensioni-pd-707093a6-f2c1-11e3-9109-f9f25fcc02f9.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO Partito in subbuglio. La vera offensiva è quella del leader
Inserito da: Admin - Giugno 14, 2014, 10:45:55 pm
Partito in subbuglio
La vera offensiva è quella del leader
I 14 senatori autosospesi accusano ma Renzi chiude tutti gli spazi

Di Massimo Franco

Il quotidiano del Pd, Europa, teme che la vicenda del sindaco di Venezia, Giorgio Orsoni, inaugurerà un «tutti contro tutti» nel partito. Le sue dimissioni a sorpresa, ufficializzate ieri mattina, non chiudono del tutto il caso. L’ormai ex «primo cittadino» che ha patteggiato quattro mesi di pena con i magistrati ha già cominciato ad accusare il partito che lo aveva fatto eleggere. E questo lascia indovinare che la determinazione a esorcizzare in fretta tutte le ombre incontrerà più di un ostacolo. Matteo Renzi vuole dimostrare che di fronte alla corruzione non si fanno eccezioni, e l’uscita di scena di Orsoni lo conferma.

Nel giorno in cui il Consiglio dei ministri assegna i poteri al supercommissario per l’Expo di Milano, Raffaele Cantone, il tentativo è di circoscrivere lo scandalo del Mose. Ma non sarà facile limitare i contraccolpi sul Pd. La coincidenza con le polemiche furiose sui quattordici senatori che si oppongono alla riforma voluta dal governo a Palazzo Madama, offre comunque l’immagine di un Partito democratico nervoso. È paradossale, dopo i successi elettorali inanellati nelle ultime settimane. Eppure, la principale forza della maggioranza si mostra divisa. Trasmette segnali di instabilità. E trasferisce la sua resa dei conti sulle istituzioni.

Renzi viene accusato addirittura dagli oppositori interni di compiere «prove di forza sulla Costituzione», come sostiene Giuseppe Civati: critiche che non sembrano adatte a ricucire i rapporti. D’altronde, dal versante del Senato arrivano segnali contraddittori. Da una parte, i quattordici «ribelli» assicurano che si troverà una mediazione. In parallelo, però, imputano a Renzi di adottare «il metodo Grillo» contro gli avversari: una miscela di anatemi ed espulsioni.

Qualcuno minaccia addirittura di uscire dal partito e formare un gruppo parlamentare autonomo, sebbene Vannino Chiti smentisca e prometta una battaglia tutta dentro il Pd. Il capogruppo Luigi Zanda ricorda come un monito il governo di Romano Prodi del 2006, finito dopo appena due anni per l’implosione della sinistra. Le sue parole suonano come un invito ai dissidenti, e forse anche al governo, a riprendere il dialogo. Anche perché la situazione è profondamente diversa da quella del 2006. La maggioranza di Renzi è forte e la minoranza sparuta. Le tensioni non sono nate da numeri risicati alle Camere, come allora.

Dipendono dal fatto che i gruppi parlamentari non rispondono compattamente al premier, essendo figli di un’altra epoca del Pd; che sulle riforme istituzionali esistono divergenze profonde a sinistra; e che una certa inesperienza di alcuni ministri provoca un cortocircuito non sempre riparabile in tempi brevi. L’aspetto singolare è che questo psicodramma si consuma proprio mentre il partito si prepara a sancire una gestione unitaria.
La Direzione convocata per oggi dovrebbe superare la divisione tra renziani e non, che ha moltiplicato incomprensioni e diffidenze. Ma già ieri Renzi ha rivendicato il diritto a sostituire nelle commissioni chi usa il proprio voto per affossare un progetto voluto dal suo stesso partito. «Non mi rassegno», ha ribadito, «all’idea che vinca la palude».

14 giugno 2014 | 08:29
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_giugno_14/partito-subbuglio-vera-offensiva-quella-leader-5b0d4a2e-f38c-11e3-9746-4bf51e9b4d98.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO Il Pd rimane forte però rischia di trovarsi da solo contro tutti
Inserito da: Admin - Giugno 16, 2014, 06:59:50 pm
La Nota
Il Pd rimane forte però rischia di trovarsi da solo contro tutti
Renzi rivendica il «grande risultato», ma l’astensionismo è un’incognita

Di Massimo Franco

È difficile dare torto al premier Matteo Renzi quando avverte che i ballottaggi di domenica «segnano la fine delle posizioni di rendita elettorale». L’analisi del segretario del Pd va completata con quella del suo predecessore, Pier Luigi Bersani, che evoca «delle spine, dei problemi. Siamo in una situazione in cui il Pd è un po’ contro il resto del mondo». Non esiste più il bipolarismo, ma tre tronconi politici dai contorni ideologici più liquidi del passato; e la tendenza di FI e M5S a non disdegnare l’alleanza per battere la sinistra. Insomma, il partito del presidente del Consiglio non arretra. Eppure avanza perdendo qualche colpo, in un panorama nel quale gli avversari cercano antidoti per frenarne la vittoria.

Se un meccanismo del genere si trasferisce a livello di elezioni nazionali, l’idea di un sistema che prevede il ballottaggio evoca scenari imprevisti. L’ipotesi che al secondo turno la competizione sia tra Renzi e Beppe Grillo, con un centrodestra tentato di appoggiare quest’ultimo, fa riflettere. È vero che alle europee è successo il contrario: è stata proprio la paura di un’affermazione grillina a contribuire al trionfo del Pd anche con l’apporto di alcuni spezzoni moderati. Ma la sconfitta nella roccaforte storica di Livorno rappresenta la conferma che non si può più dare per scontato nulla. L’ex capo del governo, Enrico Letta, sostiene che l’esito è stato così bruciante da suggerire «una riflessione nazionale».

La preoccupazione del Pd, tuttavia, è che l’analisi si trasformi in una guerra tra vecchia guardia e nuovo corso renziano. Indubbiamente, si intravede una certa omogeneità di giudizio sulla tendenza dell’elettorato a premiare il cambiamento e a punire le nomenklature del passato. Il partito cerca di smussare la tesi, cara ad una parte dei renziani, secondo la quale la sinistra ha vinto dove sono emerse candidature e logiche nuove, mentre si è ritrovata isolata e perdente in alcune delle tradizionali «zone rosse», avulse dai cambiamenti imposti dal premier. Il timore palpabile, però, è che un’impostazione del genere ricrei tensioni interne.

Per questo il capo del governo preferisce sottolineare il «risultato straordinario». Le sconfitte in città come Livorno, Potenza, Perugia e Padova, a suo avviso non lo offuscano. L’idea di una «frenata» dell’effetto Renzi dopo le europee viene scansata con una punta di fastidio: anche perché le disomogeneità locali rendono difficile tirare somme sul piano nazionale. E gli ultimi risultati arrivati ieri dalla Sicilia sono confortanti per il Pd. In questa fase, è indubbio che il partito del premier si presenti come una sorta di unico perno del sistema. Il problema è che si tratta di un sistema in crisi. L’unico elemento sul quale quasi tutti si ritrovano d’accordo, infatti, riguarda il crollo della partecipazione, arrivata al 49,5 per cento.

Colpa degli scandali emersi nelle ultime settimane, che configurano responsabilità trasversali; e di una risposta inadeguata nei confronti di una corruzione endemica. Il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, propone «una rigida semplificazione delle regole per ricostruire un senso di responsabilità delle persone». Ma la percentuale crescente dei non votanti prefigura una massa di scontenti che può fluttuare da uno schieramento all’altro, da una forza all’altra a seconda delle circostanze; e dunque sconvolgere equilibri di potere e alleanze in maniera imprevedibile. È un «partito» eterogeneo eppure potenzialmente maggioritario, in attesa di trovare nuovi punti di riferimento: un universo volatile e per questo incontrollabile.

10 giugno 2014 | 08:00
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/politica/14_giugno_10/pd-rimane-forte-pero-rischia-trovarsi-solo-contro-tutti-2363afa4-f063-11e3-9b46-42b86b424ff1.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO Lo scetticismo del Pd riflette il timore di una melina di Grillo
Inserito da: Admin - Giugno 17, 2014, 05:12:23 pm
La Nota

Lo scetticismo del Pd riflette il timore di una melina di Grillo
Grillo pensa alle riforme ma anche ai giochi sul Quirinale

Di Massimo Franco

Bisogna vedere se andrà a buon fine; e i dubbi già crescono. Ma sarebbe riduttivo considerare l’apertura del Movimento 5 stelle un’iniziativa limitata alla riforma elettorale. Se, come pare, Beppe Grillo ha capito che lo splendido isolamento dell’ultimo anno alla fine si è rivelato sterile e controproducente, c’è da aspettarsi altre mosse in direzione della maggioranza di governo; e soprattutto di Matteo Renzi, visto come un vincente col quale trattare: sebbene sia difficile pensare che l’obiettivo finale di Grillo sia diverso da quelle di sempre, e cioè la destabilizzazione del sistema o almeno dell’asse Pd-FI. Per questo, lo scetticismo per il momento prevale sulla voglia di accettare l’offerta. E, al di là di una trattativa sul cosiddetto Italicum, si intravede l’elezione per il nuovo presidente della Repubblica.

Probabilmente non ci sarà prima di un anno o giù di lì. Giorgio Napolitano ha fatto capire più volte di voler lasciare prima del termine naturale del settennato. E la fine del semestre di presidenza europea dell’Italia, a dicembre, lascia pensare che nei mesi successivi il Quirinale possa cambiare inquilino. Il tentativo grillino sembra quello di riproporre il sistema proporzionale contro l’ipotesi maggioritaria del governo, per calamitare gli scontenti del Pd e del centrodestra; e per giocare di sponda in Parlamento adesso su legge elettorale e riforma del Senato, domani sul prossimo presidente della Repubblica. La cautela renziana e l’ostilità del Nuovo centrodestra e dei berlusconiani nascono da questa sensazione.

Che Grillo abbia bisogno dell’incontro col Pd molto più che il contrario, è dimostrato dalla disponibilità a incontrare una delegazione del partito con o senza il premier. «Non ci impicchiamo alle persone», assicura Luigi Di Maio, vicepresidente della Camera e volto istituzionale del movimento. «La nostra non è una proposta a scatola chiusa». «Prima eravamo convinti di far cadere il governo. Ora vogliamo evitare il limbo», dialogando su legge elettorale e giustizia. Il cambio di tono di un partito solitamente sprezzante con gli avversari, è significativo.

È legittimo chiedersi se dipenda dall’esigenza di tacitare quanti, nel M5S, disapprovano l’autoesclusione decisa dal vertice. Ma anche rientrare in gioco comporta dei rischi. Gli ex grillini espulsi mesi fa proprio per avere accettato di discutere col Pd si offrono loro, come interlocutori. E puntano il dito contro Grillo e Gian Roberto Casaleggio che allora li inchiodarono a una sorta di gogna politica. Ma proprio per questo è palpabile il timore di una strategia tesa, all’interno del movimento, solo a dimostrare disponibilità; e all’esterno, a fare una «melina» al solo scopo di allungare i tempi in Parlamento nella speranza di vedere emergere la fronda antigovernativa. Simona Bonafè, neoeletta del Pd alle europee, lo dice apertamente. «Non mollo di mezzo centimetro. Andiamo avanti a testa alta», ha detto ieri il presidente del Consiglio.

Parlava di riforme. E si rivolgeva naturalmente in primo luogo alla sua coalizione. Ma il messaggio è anche per Grillo. Si avverte una evidente soddisfazione, nella corsa alle riforme che sia Grillo, sia la Lega di Matteo Salvini adesso hanno deciso. E pensare che «un mese fa sembrava io avessi la peste», sottolinea Renzi. Si tratta di una corsa che le opposizioni scelgono per difendere se stesse e creare problemi al governo, sapendo quanto sia l’Italicum, sia il nuovo Senato incontrino resistenze trasversali. Lorenzo Guerrini, vicesegretario del Pd, anticipa che il proporzionale «non dà governabilità». E il coordinatore del Ncd, Gaetano Quagliariello, pone la questione di metodo di sempre. «Le decisioni», avverte, «vanno prese prima nella maggioranza». Per il premier, che ieri è stato ricevuto dal capo dello Stato alla vigilia del semestre italiano al vertice dell’Ue, i segnali positivi prevalgono.

17 giugno 2014 | 08:19
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/politica/14_giugno_17/scetticismo-pd-riflette-timore-una-melina-grillo-3fe24c58-f5e0-11e3-9bf3-84ef22f2d84d.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO In nome della stabilità si sta saldando l’asse tra premier e ...
Inserito da: Admin - Giugno 19, 2014, 12:27:03 am
La Nota
In nome della stabilità si sta saldando l’asse tra premier e Quirinale
Lo favoriscono il semestre Ue e il voto europeo

Le critiche di FI e M5S

Di Massimo Franco

Il pranzo con mezzo governo era previsto da tempo, e in qualche modo aveva un sapore di routine. È quello che si fa sempre al Quirinale alla vigilia delle riunioni del Consiglio europeo. Ma ieri ha finito per assumere un significato politico inaspettato: se non altro per l’irritazione che Forza Italia e il Movimento 5 Stelle hanno mostrato, con toni diversi, nei confronti di Giorgio Napolitano e di Matteo Renzi. Parlare di un asse tra capo dello Stato e presidente del Consiglio forse è prematuro. Ma rispetto all’inizio dell’esperienza dell’attuale governo, i rapporti sono cambiati in meglio. Si era sempre detto che quello di Renzi non era l’esecutivo di Napolitano, sebbene sia stato lui a designarlo come aveva fatto con Mario Monti e con Enrico Letta.

Almeno all’esterno, sembrava che nella formazione del governo avesse pesato soprattutto la volontà del premier. Il Quirinale si era limitato a chiedere alcune garanzie e a fornire qualche consiglio più o meno richiesto. Il risultato delle elezioni europee del 25 maggio e il semestre di presidenza italiana dell’Ue che comincia il 1° luglio, tuttavia, stanno cambiando questa percezione. Napolitano ritiene che il voto abbia stabilizzato una situazione delicata e in apparenza sempre in bilico; e dato legittimità a un Renzi che ne aveva disperatamente bisogno. Ma a essere decisiva è soprattutto la volontà di procedere con le riforme.

Il capo dello Stato è determinato ad accompagnarle, difendendo e quasi proteggendo l’equilibrio creatosi intorno al Pd. Il risultato è uno scambio di informazioni e di consigli che si sono infittiti nelle ultime settimane; e che fanno storcere la bocca a chi scommetteva sull’inevitabilità di uno scontro tra Palazzo Chigi e Colle. Lo spiazzamento è evidente. Critici insistenti del Quirinale come Silvio Berlusconi, per i suoi problemi giudiziari, e Beppe Grillo, ansioso di destabilizzare il governo, si stanno accorgendo che lo scenario è cambiato, e lo criticano. «Che ci fa Renzi da Napolitano? Riceve una benedizione», ha scritto ieri Il Mattinale, il bollettino quotidiano del gruppo parlamentare di FI. E ne mette in dubbio «il ruolo di garanzia», insinuando «un patto di opacità» tra Quirinale, premier e Grillo.

L’avvicinamento tra i primi due, secondo la tesi berlusconiana, nascerebbe dalla richiesta del M5S di partecipare alla discussione sulle riforme istituzionali. Eppure, nemmeno ai seguaci di Grillo l’asse allo stato nascente piace. «Renzi è andato a prendere ordini da re Giorgio», ironizza Paolo Becchi, considerato l’intellettuale più vicino al movimento. E lega lo scetticismo renziano sull’apertura del M5S sul sistema elettorale ad una presunta ostilità del capo dello Stato. In realtà, la cautela del Pd e del Nuovo centrodestra nasce soprattutto da una certa sorpresa per una virata improvvisa e sospetta; e dall’esigenza di fare le riforme senza perdere tempo. Il semestre europeo non permette segnali contraddittori.

18 giugno 2014 | 09:16
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/politica/14_giugno_18/nome-stabilita-si-sta-saldando-l-asse-premier-quirinale-6547ca9c-f6a6-11e3-a606-b69b7fae23a1.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO L’apertura tedesca fa ben sperare ma i vincoli restano
Inserito da: Admin - Giugno 24, 2014, 05:39:46 pm
La Nota

L’apertura tedesca fa ben sperare ma i vincoli restano
L’idea di una svolta in Europa sul rigore incontra ancora molti ostacoli

Di Massimo Franco

È comprensibile la soddisfazione italiana per la cauta apertura del portavoce di Angela Merkel, Steffen Seibert, in materia di deficit e investimenti. Sono settimane che il governo di Matteo Renzi chiede più flessibilità nelle regole europee per aiutare la crescita. Su questo si è saldato un asse con la Francia che vive una situazione politica peggiore della nostra dopo la vittoria dei populisti di Marine Le Pen il 25 maggio scorso. Ma ritenere che questo sia destinato a provocare una svolta potrebbe risultare illusorio. Il risultato del Pd alle elezioni ha dato maggiore forza contrattuale a Palazzo Chigi; e la cancelliera deve considerare le pressioni della Spd, ostile al rigore finanziario.

Che questo sblocchi la situazione, tuttavia, non è affatto scontato. Il patto va rispettato e «la credibilità», ha aggiunto Seibert, «deriva dal rispetto delle regole che ci si è dati». È significativo che nella riunione di ieri a Roma dei capigruppo europei e italiani, quello del Ppe, Manfred Weber, abbia difeso il rigore. «Serve anche adesso. Non si può pensare di fare nuovi debiti in Europa». Per paradosso, a dare rilievo alle parole di Berlino è la reazione piccata di Forza Italia, che vede con «curioso stupore» il «cambio di rotta di Berlino in tema di flessibilità». E si chiede perché con Silvio Berlusconi premier non era possibile.

La portavoce del partito, Deborah Bergamini, parla di «flessibilità ad personam» a favore di Renzi, imitata dall’ex ministro Maria Stella Gelmini che sostiene: «Cominciamo a raccogliere i frutti della battaglia che costò al governo Berlusconi la scomunica della Ue». Ma la polemica esagera il significato dell’apertura, e non tiene conto di quanto sia mutato il panorama europeo: dal punto di vista economico e dei rapporti di forza politici. E senza volerlo, si sottolinea il ruolo dell’attuale premier.

Federica Mogherini, titolare della Farnesina, della quale si parla come possibile «ministro degli Esteri» dell’Europa, usa parole misurate. Ricorda l’azione di Renzi e di Pier Carlo Padoan, ministro dell’Economia. E interpreta la presa di posizione tedesca come segno della «consapevolezza della necessità di usare gli strumenti che già abbiamo per investire su crescita e creazione di posti di lavoro». La chiave di interpretazione è quella: «Gli strumenti che già abbiamo». È lì che l’Italia e gli altri Paesi in cattive acque sperano di trovare margini per ottenere quanto la Germania e le altre nazioni del Nord non concedono.

Conciliare l’esigenza di andare incontro ai malumori di larghe fette dell’elettorato con quella di non violare il patto di stabilità non sarà facile. L’opinione pubblica e il governo tedeschi non appaiono disposti a concedere molto. L’Italia ha già chiesto un anno in più per rientrare nel pareggio di bilancio. Sarà interessante capire quale sarà il punto di compromesso. Ignorare il cambio di toni, però, non sarebbe giusto. Lo fa il Movimento 5 Stelle, preconizzando «una parolina magica: bancarotta», e ironizzando sul governo: «E questi dovevano essere i salvatori». Ma è un attacco scontato, che tra l’altro allunga un’ombra improbabile sull’asserita volontà di dialogo col governo in materia di riforme istituzionali.

24 giugno 2014 | 09:32
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/politica/14_giugno_24/apertura-tedesca-fa-ben-sperare-ma-vincoli-restano-5605c94c-fb5d-11e3-9def-b77a0fc0e6da.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO L’asse nordeuropeo già alza barriere a difesa del rigore
Inserito da: Admin - Luglio 03, 2014, 07:28:42 pm
La Nota

L’asse nordeuropeo già alza barriere a difesa del rigore
Inizio agrodolce per il semestre italiano di presidenza dell’Unione
Di Massimo Franco

Il discorso a braccio di Matteo Renzi al Parlamento europeo è stato orgoglioso, a tratti perfino sferzante, e attento a presentare il semestre di presidenza italiana come uno spartiacque. Ha riproposto l’idea della «nuova generazione» destinata a prendere in mano il Vecchio Continente: un tema che gli ha portato fortuna in Italia. Ed ha ribadito che senza crescita l’Ue non andrà avanti. Ma il problema non è quello che ha sostenuto, quanto l’accoglienza ricevuta. Renzi parlava ad un’Europa che ha appena eletto due navigatori esperti come Jean-Claude Junker e Martin Schulz; e che non sembra ansiosa di assecondare il verbo renziano. La sua richiesta di «ritrovare un’anima» è stata accolta da applausi scrocianti dei parlamentari del Pd, mai così numerosi dopo le elezioni del 25 maggio.

Non sono sfuggite, tuttavia, le ironie dell’ex presidente della Commissione, Josè Manuel Barroso, né l’attacco frontale dei Popolari, guidati dal tedesco Manfred Weber, sulle richieste di flessibilità finanziaria del governo di Roma. «I debiti non creano futuro, lo distruggono», secondo Weber. «L’Italia ha il 130 per cento di debito pubblico. Dove prende i soldi?». È la conferma che la sfida di Renzi sarà dura; e che l’incomprensione non è solo politica ma geografica. Esiste una filiera nordeuropea della quale fanno parte i popolari ma anche spezzoni della sinistra, che diffida dell’Italia e lo dice.

Rifiuta un allentamento dei vincoli finanziari. E, vedendo in Renzi il capofila di questa strategia insieme con una Francia in affanno, lo attacca frontalmente. «Come possiamo essere sicuri che le riforme saranno fatte?», ha chiesto Weber retoricamente. «Se qualcuno pensa di darci lezioni», ha replicato il premier, «ha sbagliato posto». Renzi fa presente che un frammento del Ppe, il Nuovo centrodestra, appoggia il suo esecutivo; e che proprio alla Germania «fu non solo concessa flessibilità ma di violare i limiti ed essere un Paese che cresce. Non ho paura dei giudizi ma di alcuni pregiudizi». In effetti, con i pregiudizi anti-italiani il semestre di presidenza ha già cominciato a fare i conti.

Difficile che contribuisca ad attenuarli l’annullamento della conferenza stampa congiunta col socialista Schulz per gli impegni televisivi del premier: uno sgarbo. Ma l’offensiva tedesca sul rigore sembra fatta apposta per irritare Palazzo Chigi che ha appoggiato Junker in cambio di assicurazioni proprio su questo punto. Il capo del governo ha giurato che l’Italia «è la prima a voler cambiare». Forse il suo riferimento a un’Europa che offrirebbe «il volto della stanchezza, della rassegnazione e della noia», non è stato gradito. Insomma, il semestre di presidenza sarà una passerella piena di opportunità e insieme di insidie. La sicurezza ostentata da Renzi è un’arma formidabile. Ma potrebbe rivelarsi a doppio taglio.

3 luglio 2014 | 07:35
© RIPRODUZIONE RISERVATA

DA - http://www.corriere.it/politica/14_luglio_03/asse-nordeuropeo-gia-alza-barriere-difesa-rigore-916e0ec6-0270-11e4-af6d-a9a93b39a7aa.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO Il «no comment» di Padoan conferma l’insidia del fronte europeo
Inserito da: Admin - Luglio 18, 2014, 06:11:51 pm
La Nota

La cautela sull’economia mostra la vera sfida che il premier ha davanti
Il «no comment» di Padoan conferma l’insidia del fronte europeo


Di Massimo Franco

Il «no comment» del ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, in risposta a una domanda sull’eventualità di una manovra correttiva in autunno era obbligato. La sua prudenza rispecchia l’incertezza che domina i conti pubblici e l’evoluzione della crisi finanziaria, e dunque va apprezzata. Ma gli avversari del governo hanno voluto vederci la conferma di una situazione in via di peggioramento, e una reticenza che non promette niente di buono. Forse anche per questo, nel pomeriggio Padoan è stato costretto a precisare: «Ma “no comment” non significa solo “non ho nulla da aggiungere”? Non c’è nessuna manovra in arrivo, semplicemente». L’ennesimo attacco di Forza Italia, figlio di un’opposizione «governativa» sulle riforme istituzionali e ipercritica sull’economia, tende a raffigurare Matteo Renzi sulla difensiva: cosa in parte vera, anche se ad essere realmente in panne è Silvio Berlusconi.

Il problema del presidente del Consiglio è che il fronte tedesco gli sta riservando critiche inattese. I popolari vicini alla cancelliera Angela Merkel continuano ad accusarlo di non avere voluto proporre l’ex premier Enrico Letta alla presidenza del Consiglio dell’Ue: un’intromissione che espone Renzi ma anche lo stesso Letta, indicato dal Ppe contro la candidata del governo italiano a «ministro degli Esteri» europeo: Federica Mogherini. Il risultato è un rinvio delle nomine a fine agosto. «Un rinvio estremamente pesante soprattutto per il semestre italiano», commenta preoccupato l’ex presidente della Commissione, Romano Prodi. Non solo. Il Pd appare lacerato più di quanto non sia; e, seppure supervotato il 25 maggio, è come se il suo peso politico a Bruxelles rimanesse marginale. È una difficoltà che Palazzo Chigi cerca di circoscrivere procedendo sulla riforma del Senato e soprattutto sulla politica economica.

Sa che è l’unica alla quale l’Unione Europea sia davvero attenta. Padoan ammette che la lentezza della ripresa rende i margini più stretti. «Non ci sono scorciatoie per la crescita», avverte. Ma conferma che il taglio del cuneo fiscale diventerà permanente con la legge di Stabilità. Si tratta di una marcia parallela a quella per modificare il bicameralismo. Più passano le ore, però, più diventa chiaro che la filiera degli oppositori non cederà facilmente. Ieri uno dei relatori del testo, il leghista Roberto Calderoli, ha sostenuto che non si comincerà a votare in Aula nemmeno lunedì, perché gli emendamenti sono troppi e richiedono una discussione ulteriore. La strategia del rinvio rivela anche una guerra dei nervi con il premier e con il ministro Maria Elena Boschi.

Eppure l’esito appare segnato. Gli alleati del Nuovo centrodestra insistono che bisogna far tutto prima dell’estate. E il sottosegretario a palazzo Chigi, Graziano Delrio, risponde che sulle riforme «è in ritardo il Paese, non il governo». Insomma, nonostante i malumori dell’Anci, che vorrebbe con Piero Fassino più sindaci senatori, il patto Berlusconi-Renzi dovrebbe portare all’approvazione in tempi relativamente rapidi. Resistono e fanno ostruzionismo sia una ventina di senatori del Pd, sia quanti dentro FI parlano di subalternità di Berlusconi a Renzi. E dall’esterno, costituzionalisti come Stefano Rodotà sostengono la tesi dell’«imposizione indecente, senza alcuna cultura istituzionale». Ma Renzi può replicare che la proposta è stata modificata; e reagire alle accuse del Movimento 5 Stelle sull’immunità parlamentare.

Nel testo governativo non c’era, dice, facendo capire che l’avrebbero inserita altri. Sono le convulsioni che accompagnano un cambiamento storico, per quanto a dir poco controverso; e che si intrecciano con le manovre di disturbo di Beppe Grillo in vista della prossima sfida: il sistema elettorale. Il capo del M5S manda i suoi a parlarne con Renzi e il Pd. Si punzecchiano ma alla fine sembrano tutti soddisfatti. «Non siamo divisi dal Rio delle Amazzoni ma da un ruscello», commenta Renzi. Attraversarlo, però, sarà ugualmente difficile perché la sensazione di un minuetto politico è comune a entrambi gli interlocutori. Il presidente del Consiglio si chiede se Luigi Di Maio, numero due della Camera e mediatore per conto di Grillo, sia in grado di portarsi dietro l’intero movimento. Visti i precedenti, è una domanda legittima.

18 luglio 2014 | 07:34
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/politica/14_luglio_18/cautela-sull-economia-mostra-vera-sfida-che-premier-ha-davanti-0dadaffa-0e3d-11e4-8e00-77601a7cdd75.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO Berlusconi, ci sono due vincitori ma il ruolo di FI è meno ...
Inserito da: Admin - Luglio 19, 2014, 06:42:58 pm
Berlusconi, ci sono due vincitori ma il ruolo di FI è meno subalterno
M5S si sfila dal dialogo prendendo atto che l’intesa del Nazareno reggerà

Di Massimo Franco

L’assoluzione piena di Silvio Berlusconi in appello suggerisce due vincitori: l’ex premier e il suo interlocutore sulle riforme, Matteo Renzi. Ma il silenzio quasi totale del Pd induce a ritenere che il capo di Forza Italia abbia strappato un risultato politico superiore a quello del presidente del Consiglio: forse perché è arrivato del tutto inatteso. È chiaro che adesso il percorso delle riforme istituzionali continua con meno incognite di prima; ma anche con un Berlusconi che non è costretto ad appiattirsi su Palazzo Chigi come pluricondannato. Le richieste dei duri e puri di FI su una commissione d’inchiesta sul «complotto» del 2011 che portò il senatore a vita Mario Monti al governo sono contorno, come pure gli strali contro la Procura di Milano e le polemiche tra FI e Nuovo centrodestra.

L’impressione è che da ieri l’ipoteca berlusconiana sul governo di Renzi sia meno marginale. Anche perché, forse prendendo atto della sentenza a Milano, il Movimento 5 Stelle ha di colpo chiuso quella che per alcuni poteva diventare la sponda alternativa del premier. Beppe Grillo fa sapere che «non c’è più tempo» per altri incontri con il Pd. La riforma elettorale andrebbe votata subito, in Aula, preferenze comprese: una proposta che spezzerebbe l’asse tra Palazzo Chigi e Berlusconi. Si tratta dell’ennesima mossa tattica: l’estremo tentativo di incrinare il «patto del Nazareno», ma anche la presa d’atto che da ieri tutto spinge ancora di più Renzi al patto con FI.

Il premier «non chieda il permesso al pregiudicato», provoca Grillo. La conseguenza probabilmente sarà il peggioramento dei rapporti tra M5S e Pd. Quest’ultimo vede infatti nell’iniziativa l’archiviazione del dialogo rappresentato dal vicepresidente della Camera, Luigi Di Maio, che sarebbe stato smentito dallo stesso Grillo e da Gian Roberto Casaleggio. «Peccato», commenta l’europarlamentare Alessandra Moretti, benché Di Maio neghi qualsiasi attrito col suo capo, e parla di decisione «condivisa», accusando chi parla di chiusura di non aver capito.

L’aspetto singolare è che proprio mentre si consuma questo psicodramma nel M5S, il Nuovo centrodestra fa sapere con Gaetano Quagliariello che ci sono stati contatti col movimento. E «molte delle osservazioni avanzate dall’Ncd coincidono con la sua proposta». Sono manovre magari destinate ad avere qualche ripercussione nel dibattito in Parlamento dei prossimi giorni e in autunno; e forse, rappresentano un ulteriore elemento di disturbo e di rallentamento rispetto ai tempi da blitz che si era dato il presidente del Consiglio. È difficile, tuttavia, che l’opinione pubblica si appassioni a queste schermaglie: la vera trincea dell’Italia è altrove.

La preoccupazione del governo sta diventando sempre di più l’economia che continua a non dare segnali positivi. Il ribasso delle previsioni di crescita da parte di Bankitalia allo 0,2 per cento rispetto alle precedenti che all’inizio la davano allo 0,8, sono la conferma di uno stallo senza fine. La politica economica si ripropone come emergenza a un premier che finora ha scelto di concentrarsi sulla riforma del Senato, e che guarda a quella della legge elettorale. Avere dietro di sé una nazione che non cresce renderà Renzi più determinato nella trattativa con l’Ue per strappare qualche concessione; ma lo farà anche apparire più debole. E le reazioni che ha raccolto finora non sono un buon viatico. L’Italia ha quaranta giorni per dimostrare l’infondatezza dei pregiudizi europei.

19 luglio 2014 | 10:41
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/opinioni/14_luglio_19/berlusconi-ci-sono-due-vincitori-ma-ruolo-fi-meno-subalterno-cc26ac4c-0f1f-11e4-a021-a738f627e91c.shtml


Titolo: M. FRANCO Grandi manovre dietro il muro contro muro tra Renzi e l’opposizione
Inserito da: Admin - Luglio 26, 2014, 10:48:49 am
La Nota

Gli scambi di accuse acuiscono la tensione e l’esigenza di tregua
Grandi manovre dietro il muro contro muro tra Renzi e l’opposizione


Di Massimo Franco

Sanno tutti che il muro contro muro non potrà andare avanti per l’intero mese d’agosto; che prima o poi bisognerà spezzare il circolo vizioso delle accuse reciproche. Quando succederà, però, non è chiaro, perché in questa fase ognuno sembra preoccupato soprattutto di mostrarsi determinato a tenere il punto e umiliare l’avversario. Lo è l’opposizione, che sfrutta la montagna abnorme di 8.000 emendamenti per piegare palazzo Chigi alla trattativa. E lo è il premier Matteo Renzi, convinto che l’ostruzionismo degli avversari contro la riforma del Senato finirà per far crescere le percentuali dei consensi del Pd. Peccato che nel mezzo si stia profilando una crisi istituzionale, col governo sempre più irritato nei confronti del presidente del Senato, Pietro Grasso, eletto nelle file dei Democratici ma accusato di concedere troppo in materia di voto segreto.

I colloqui avuti ieri dal capo dello Stato, Giorgio Napolitano, sia con Grasso sia con Nichi Vendola, leader del Sel, uno dei partiti più polemici con Renzi, hanno fotografato una situazione bloccata. Ma dimostrano anche che basterebbe la volontà politica di svelenire la situazione per ottenere votazioni non soltanto meno conflittuali ma più rapide. Se ritornasse un po’ di senso di responsabilità, si vedrebbe che di qui a un paio di giorni gli emendamenti per i quali è stato chiesto il voto segreto si ridurrebbero da 920 a meno di 100; e che il traguardo di metà agosto per il «sì» alla riforma non sarebbe remoto.

Se non è stato possibile finora, dipende dalla miscela dei regolamenti parlamentari e dello scontro tra l’esecutivo e le opposizioni, fuori ma anche dentro al Pd. Renzi continua a raffigurare M5S, Sel e dissidenti del proprio partito come sabotatori del cambiamento. E li sfida: «Potranno rallentare, potranno fare qualche scherzetto sul voto segreto e farci stare qui ad agosto. Ma qui non molla nessuno. Abbiamo la forza di milioni di italiani che dicono “non mi sei simpatico ma ti voto”. Quest’estate lavoreranno in tanti: anche i senatori...». Sono toni di chi tende a ritenere strumentali tutte le obiezioni contro la riforma. E le gira all’opinione pubblica perché ne tenga conto. Ma Vendola li considera solo «propaganda governativa». E avverte che «se il muro contro muro della ministra Maria Elena Boschi continuasse, andremmo avanti».

Verso dove, però? L’ex segretario del Pd, Pier Luigi Bersani, indica come soluzione «dialogo e regolamenti, se si cammina su queste due gambe si verrà fuori». Fino a ieri sera, però, prevaleva l’allarme. Grasso è uscito dal colloquio con Napolitano ribadendo le difficoltà di un ostruzionismo esasperato. E il presidente della Repubblica ha additato «il grave danno che recherebbe al prestigio e alla credibilità del Parlamento il prodursi di una paralisi decisionale su un processo di riforma essenziale». Insomma, il tentativo è quello di uscire da un conflitto finora senza sbocco. Sullo sfondo, come una minaccia che però segnerebbe l’ennesimo fallimento della politica, rimangono le elezioni anticipate. Renzi le evoca se non ci sono le riforme. Ma «sono cose che si dicono per dire...», minimizza Bersani. Forse, dietro gli strepiti c’è una tregua in incubazione.

24 luglio 2014 | 09:08
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/politica/14_luglio_24/gli-scambi-accuse-acuiscono-tensione-l-esigenza-tregua-032ebc58-12ee-11e4-a7ff-409dc1c2ba25.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO SENATO: DUBBI REALI E PAURE INFONDATE
Inserito da: Admin - Luglio 26, 2014, 10:53:07 am
SENATO: DUBBI REALI E PAURE INFONDATE
La democrazia non è a rischio
Senato, dubbi reali e paure infondate

Di MASSIMO FRANCO

Si può anche sostenere che ieri è cominciata la settimana decisiva per le riforme. Ma sarebbe la decima volta che si dice negli ultimi tre mesi, o giù di lì. Chissà, magari potrebbe diventare tale se il governo usasse meglio l’arte della mediazione. La prima giornata di votazioni al Senato semina qualche dubbio in proposito. L’atteggiamento verso le minoranze si è rivelato rigido: così rigido da favorire le critiche di sempre dentro il Pd e gli attacchi più strumentali e chiassosi delle opposizioni, fino all’ostruzionismo. Per una maggioranza che ne vuole uscire viva, e non solo vittoriosa, si tratta di prendere atto dei tempi parlamentari; e di non esasperare un percorso che prevede un esito storico e che dunque va facilitato, non intralciato.

L’immagine del «masso sui binari», con la quale il premier Matteo Renzi ha additato i sabotatori della riforma, è efficace. Rende l’idea del treno in corsa, proiettato a forte velocità verso un traguardo e fermato proditoriamente. Il problema è che di «massi», nel senso di emendamenti, ce ne sono poco meno di ottomila. E se la tentazione di Palazzo Chigi è di identificare come ostacoli anche le critiche ragionevoli, l’ingombro rischia di gonfiarsi, e i sassolini di trasformarsi in macigni. Nella certezza della sconfitta, e sapendo che il governo ha fretta, gli avversari possono soltanto sperare di rallentarne la corsa.

Tacciare chiunque resista alla riforma come un nostalgico della Prima Repubblica serve a metterlo di fronte alle proprie responsabilità, ma anche ad aizzarlo. Eppure, il testo iniziale oggi appare meno indigesto agli occhi di una larga maggioranza dei senatori grazie alle limature e al dialogo imbastiti nelle scorse settimane. Anche per questo è diventato difficile assecondare la tesi di un autoritarismo strisciante, cara agli avversari del premier. In agguato non ci sono dittature di coalizione, semmai squilibri istituzionali e pasticci. Il problema non può essere identificato nell’elezione indiretta dei senatori, legittima nel momento in cui si vuole superare il bicameralismo.

Forse, ci si può chiedere se consiglieri regionali e sindaci siano l’espressione più genuina del «nuovo corso». Le spese incontrollate e gli inquisiti che alcuni enti locali regalano all’Italia dicono che l’inadeguatezza della classe politica comincia proprio da lì. Ma lasciamo scivolare sullo sfondo il dubbio che il Senato possa diventare un concentrato dei difetti delle Regioni. L’obiettivo dichiarato della riforma è quello di modernizzare il Parlamento; evitare le sovrapposizioni; e lasciare governare l’Esecutivo senza perdite di tempo. L’altro, più popolare, è di ridurre i costi della politica diminuendo il numero dei senatori a cento.

Da queste premesse meritorie dovrebbe cominciare a prendere forma la nuova istituzione entro l’8 agosto. Ma l’unico modo per riuscirci è di limitare drasticamente la discussione degli emendamenti. Il governo si aspetta che Palazzo Madama risolva il problema. L’ingorgo, tuttavia, è politico.
E senza dialogo, per il «sì» occorrerà più tempo: molto più tempo. Invece di essere il laboratorio-principe della strategia della velocità renziana, il Senato ne mostrerebbe i limiti. Per piegare i passatisti, al presidente del Consiglio non basta avere ragione: occorre che gliela diano gli altri. Anche se Renzi ritiene di averla già avuta il 25 maggio: non dai senatori ma dagli elettori.

22 luglio 2014 | 07:51
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_luglio_22/democrazia-non-rischio-8764bb36-1162-11e4-affb-3320a03d21e8.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO Un gioco al rialzo che rende incerto l’esito delle riforme
Inserito da: Admin - Luglio 26, 2014, 10:56:55 am
La Nota
Un gioco al rialzo che rende incerto l’esito delle riforme
Napolitano offre una sponda al governo, ma con parole allarmate

Di Massimo Franco

Il problema non è più tanto l’ostruzionismo, ma chi la spunterà tra Matteo Renzi e i suoi avversari; e se per caso perderà il Paese. Dal modo in cui il presidente del Consiglio reagisce, si indovina la voglia di continuare sulla strada del muro contro muro; e di presentare quanti allungano i tempi della discussione sulla riforma del Senato come difensori dello status quo e del proprio scranno. La decisione di imporre da lunedì sedute dalle nove del mattino a mezzanotte per smaltire circa ottomila emendamenti e arrivare all’approvazione prima della pausa estiva, conferma il gioco al rialzo. E lascia intravedere uno scontro strisciante con il presidente del Senato, Pietro Grasso, accusato larvatamente di non sostenere abbastanza le ragioni del governo.

Ma, a meno di un accordo improvviso o della capitolazione di uno dei contendenti, la possibilità di avere il primo «sì» entro l’8 agosto è comunque remota. Anche contingentando gli interventi, sarà difficile rispettare quel termine. La tensione sale, e la fretta del governo viene percepita dagli oppositori come un tentativo di compiere forzature ai confini della Costituzione. Le parole con le quali ieri mattina Giorgio Napolitano ha appoggiato lo sforzo di Palazzo Chigi riflettono il momento di difficoltà del governo; e appaiono come una spinta a trovare una mediazione.

Chiedendo alle opposizioni di cambiare linguaggio e atteggiamento in Parlamento, il capo dello Stato evoca il pericolo che «si miri a un nuovo nulla di fatto». Napolitano sembra temere non solo un allungamento dei tempi, ma addirittura «il naufragio delle riforme». C’è solo da chiedersi se l’offensiva di Renzi piegherà gli avversari o no. L’impressione è che il premier voglia procedere avendo come interlocutori non tanto le opposizioni, sia nel Pd, sia nel M5S e nel Sel, quanto l’opinione pubblica; e che voglia sfruttare la propria popolarità per contrapporre il governo a quello che viene definito il «partito dei frenatori».

«Mentre “loro” fanno ostruzionismo per provare a bloccare il cambiamento, noi ci occupiamo di posti di lavoro», ha scritto ieri Renzi. Alludeva agli accordi di sviluppo per 1,4 miliardi di euro, firmati ieri: «Un messaggio concreto di investimento sul futuro del Paese»; e un modo per scansare la critica di fare poco per l’economia. Il suo punto debole rimane quello. E i suoi alleati-avversari di Forza Italia, docili sulle riforme istituzionali, non smettono invece di punzecchiarlo su questo fronte. L’invito ad «abbassare le penne» che arriva dal vicepresidente del Senato, Maurizio Gasparri, è un segnale.

Renzi, è la sua tesi, «cerca di alzare la voce per coprire il fallimento del suo governo sul piano economico e la palese inesperienza di qualche ministro». Ma «il piglio sbrigativo non va bene». Renato Brunetta, capogruppo di FI alla Camera, insiste: «Ogni giorno si aggiunge una riga alla lista delle voci che portano alla manovra d’autunno». Insomma, i malumori verso il premier sono trasversali. Non significa che prevarranno, ma possono intralciare seriamente le riforme. Il Sel ora chiede di incontrare Napolitano, che ieri sera ha ricevuto anche Renzi. Forse significa che qualcosa si muove: il Sel ha presentato migliaia di emendamenti. Chiedere una mediazione al Quirinale, tuttavia, conferma quanto sia aspro lo scontro

23 luglio 2014 | 08:10
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/politica/14_luglio_23/gioco-rialzo-che-rende-incerto-l-esito-riforme-a43481d6-1227-11e4-a6a9-5bc06a2e2d1a.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO Il premier va avanti tra scetticismo e «fuoco amico»
Inserito da: Admin - Settembre 07, 2014, 05:45:20 pm
La Nota
Il premier va avanti tra scetticismo e «fuoco amico»
Arrivano attacchi da fronti diversi a cominciare dai democratici

Di Massimo Franco

Colpisce che due personaggi distanti tra loro come l’ex premier Mario Monti e il segretario della Cgil, Susanna Camusso, esprimano giudizi taglienti su Matteo Renzi e il suo governo; di fatto, accusandolo di avere messo in cantiere un «piano dei mille giorni» pieno di titoli e vuoto di veri contenuti. Ma forse sorprende ancora di più il silenzio col quale il Pd ha accolto queste critiche. Anzi, arriva il «fuoco amico» di Massimo D’Alema. A replicare a Monti, attaccandolo, per paradosso è un’esponente di FI, Mara Carfagna: soprattutto per difendere la memoria politica di Silvio Berlusconi, spodestato nell’autunno del 2011 dall’esecutivo dei tecnici.

Per il resto, la corsa del presidente del Consiglio verso un futuro che continua a raffigurare radioso appare sempre più solitaria; circondata dal sostegno dei fedelissimi ma anche dalle ombre spesse della crisi economica e da quelle, meno vistose, di chi lo aspetta al varco. I sondaggi continuano a darlo stabilmente in sella, e descrivono gli avversari distanziati nettamente. Sta diventando sempre più chiaro, tuttavia, che le speranze di Palazzo Chigi di agganciare un’Europa in ripresa sono destinate a segnare il passo. Renzi ieri ha voluto sottolineare che i problemi sono continentali, non solo italiani.

«Il nostro dato negativo sulla crescita del secondo trimestre, che tanto ha alimentato il dibattito in casa nostra, è identico al dato tedesco: -0,2 per cento. Mal comune mezzo gaudio? Macché. Mal comune doppio danno», riconosce il premier, perché l’Italia è in condizioni ben peggiori. Su questo sfondo, sentirgli dire che «in mille giorni riportiamo il nostro Paese a fare la locomotiva, non l’ultimo vagone» dell’Europa, suona, a dir poco, azzardato. L’accusa di velleitarismo non è ancora esplicita, ma comincia a serpeggiare. D’altronde, ci sarà qualche ragione se una minoranza del Pd finora afona, adesso rialza la testa.

La richiesta al governo è di cancellare dalla Costituzione l’obbligo di pareggio del bilancio; e pazienza se in questo modo il Pd contraddice il suo voto del 2012. È il sintomo di un malessere che cova, represso; e che riaffiora. D’Alema parla di «risultati insoddisfacenti del governo» e ricorda di essere «sempre stato contrario al doppio incarico di segretario Pd-premier»: tema insidioso e tarato su Renzi. Il fatto che il presidente del Consiglio non smetta di ricordare il trionfo del partito alle europee di maggio costituisce una sorta di ammonimento ai suoi critici. Serve a sottolineare un rapporto diretto con l’opinione pubblica che oltrepassa le lealtà degli apparati del partito.

Il problema è capire se la cosiddetta «luna di miele» si perpetua, come sembra dire Palazzo Chigi additando i risultati che sostiene di avere raggiunto o di poter afferrare; o se l’affanno dell’economia ha cominciato a guastarla, rianimando chi finge di appoggiarlo. Il Movimento 5 Stelle martella sulla tesi dell’Italia che affonda, oberata dalle tasse. FI asseconda e incalza il premier. Ma il timore che le cose possano prendere una piega negativa si avverte nelle parole di Pier Ferdinando Casini, dell’Udc, finora suo difensore. Renzi «ha il pallino in mano, glielo abbiamo dato. Ma ora bisogna passare dalle parole ai fatti», avverte: come se quelli rivendicati finora non fossero tali.

3 settembre 2014 | 12:51
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/politica/14_settembre_03/premier-va-avanti-scetticismo-fuoco-amico-b0442f70-332a-11e4-9d48-ef4163c6635c.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO La tentazione intermittente
Inserito da: Admin - Settembre 17, 2014, 04:59:45 pm
La tentazione intermittente
Di Massim Franco

Sarebbe ingiusto sostenere che ieri in Parlamento Matteo Renzi abbia aperto la campagna elettorale. Si tratterebbe di un processo alle intenzioni che il presidente del Consiglio non merita, nel momento in cui rilancia le riforme e ribadisce l’obiettivo del 2018 come traguardo minimo del governo. Rimane tuttavia il problema di quello che farà qualora non riuscisse ad agguantare alcuni degli obiettivi indicati; e di quale sarà l’effetto di una serie di richiami indirizzati all’Europa, alla magistratura, e più in generale a chiunque esprima scetticismo sul successo delle sue ricette. L’orgoglio e la determinazione sono fuori di dubbio.

Ma lo è anche l’insofferenza verso quanti fanno notare una certa sconnessione tra la sua narrativa ottimistica e la situazione economica in via di peggioramento. Renzi predica la velocità. Se non riesce a realizzarla, però, tende a sottovalutare i propri errori di valutazione dei rapporti di forza. E lascia capire che in quel caso la rapidità andrebbe ottenuta rivolgendosi in anticipo al corpo elettorale. È possibile che sia soltanto un espediente per piegare resistenze in aumento e non in diminuzione col passare dei mesi. L’effetto, comunque, non può rassicurare. È significativo che dopo i suoi discorsi a Camera e Senato, il premier si sia dovuto affannare a negare di avere evocato elezioni anticipate.

Bisognerebbe chiedersi come mai abbia trasmesso questa impressione a una parte del Parlamento. Evidentemente, la sua insistenza su una riforma elettorale da fare al più presto insinua il sospetto che voglia capitalizzare i consensi delle Europee del 25 maggio. Né è sufficiente a esorcizzare una simile prospettiva la sua precisazione che gli converrebbe andare alle urne ma non lo farà perché pensa all’interesse nazionale. Se le riforme ritenute dirimenti per il rilancio dell’Italia non marciano, chiedere la legittimazione popolare che tuttora non ha, per Renzi diventerebbe quasi un dovere: a patto di avere un sistema elettorale in grado di garantirgli l’eventuale vittoria e la possibilità di gestirla da Palazzo Chigi.

Nasce da qui un interrogativo di fondo sulla sua vera strategia per i prossimi mesi. La sensazione è che le elezioni politiche siano non un obiettivo ma certo una tentazione intermittente, che spiega l’oscillazione tra dialogo e sfida frontale con gli interlocutori. A suo vantaggio, Renzi ha la consapevolezza di trovarsi di fronte partiti e nomenklature seriamente impauriti dalla prospettiva di essere spazzati via dal voto; e dunque pronti, teoricamente, ad assecondare i suoi ultimatum. Lo svantaggio è che, proprio per questo, non gli sarà facile ottenere il «placet » per una riforma elettorale che verrebbe vista come un’arma letale nelle sue mani.

Additare un programma di «mille giorni» e puntellarlo con un rosario di altolà può essere la strada maestra per ottenere risultati rapidi, oppure per moltiplicare le barriere e perdere tempo prezioso. La Commissione europea, ormai è chiaro, non è disposta ad abbassare la soglia della diffidenza verso il governo italiano, anzi. E tende a vedere negli impegni renziani una scatola piena di contenuti in gran parte virtuali. Aggiungere a tutto questo la variabile di una fine anticipata della legislatura, seppure solo come uno spauracchio, rischia non di rafforzare ma di indebolire la percezione del Paese all’estero, proiettando un’ombra di precarietà più dannosa di qualsiasi riforma mancata.

17 settembre 2014 | 08:22
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_settembre_17/tentazione-intermittente-dbab8a42-3e28-11e4-af68-1b0c172fb9a5.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO L’ex premier garante di equilibri più precari
Inserito da: Admin - Ottobre 05, 2014, 07:35:33 pm
La Nota
L’ex premier garante di equilibri più precari

Di Massimo Franco

È vero che al momento del voto i «no» alla relazione di Silvio Berlusconi sono stati solo due su cinquanta. L’irritazione dell’ex premier nei confronti dei dissidenti, tuttavia, rivela un malessere più diffuso di quanto dicano i numeri dell’Ufficio di presidenza di FI. L’invito ruvido a lasciare il partito, rivolto a Raffaele Fitto che criticava una linea politica «incomprensibile» perché troppo accomodante nei confronti del governo di Matteo Renzi, segnala un nervosismo latente. La sensazione è che l’asse Berlusconi-premier, garantito da Denis Verdini, stia creando resistenze crescenti. Per questo emerge il tentativo di correggere l’immagine di FI; di assicurare un indurimento contro palazzo Chigi soprattutto sulla politica economica.

Il paradosso col quale Berlusconi si trova per la prima volta a fare i conti, è un partito «governativo» al vertice; ma all’opposizione tra i militanti e una buona fetta di elettorato. Altrimenti non si spiegherebbe il motivo per il quale Fitto viene accusato di «far perdere il 3-4 per cento dei voti» con le sue critiche. Se si trattasse soltanto del «figlio di un vecchio democristiano», come lo ha bollato in modo offensivo Berlusconi, non ci sarebbe di che preoccuparsi. Ma FI sente che non è così. L’abbraccio con Renzi, e di Renzi, sta logorando il centrodestra molto più che il Pd.

E mette a dura prova il «patto del Nazareno» sul quale si fonda la collaborazione sulle riforme istituzionali; e forse un accordo sull’elezione del futuro capo dello Stato. Le ironie nelle file berlusconiane su Verdini mediatore sono sintomi di un’agenda che una parte di FI subisce senza comprenderla. Di più: ne intuisce contorni che sembrano danneggiare le prospettive elettorali. È questa la causa del cortocircuito che l’Ufficio di presidenza ha svelato. Berlusconi oggi è il garante di uno status quo del centrodestra, avvertito come un possibile suicidio. E viene percepito come un leader dimezzato convinto di «tornare in campo» nel 2015, dopo la fine della condanna, mentre però la situazione si evolve rapidamente.

Il timore dell’ala antigovernativa, più estesa dei due «no» di Fitto e Capezzone, è che FI si ritrovi schiacciata dall’alleanza istituzionale con Renzi; e finisca per essere cannibalizzata da un Pd che non nasconde la strategia di sfondare nell’elettorato moderato. È significativo che Berlusconi sia costretto a negare qualunque «soccorso» parlamentare a Renzi sul jobs act . Sembrava infatti che sulla riforma del mercato del lavoro FI potesse supplire ad eventuali defezioni della minoranza del Pd in Senato. Non solo: l’ex premier si è anche scusato con Fitto sulla tradizione democristiana della sua famiglia. «Non volevo mancare di rispetto».

Il Nuovo centrodestra di Angelino Alfano si gode la rissa, vedendo in quanto accade una conferma delle proprie scelte. E ricorda la rottura del 2 ottobre dello scorso anno col Pdl. Eppure, la parabola del Ncd finora non indica un’alternativa forte a FI, ma un altro indizio della crisi di una maggioranza elettorale e di un blocco sociale. È un declino del quale Renzi finora ha beneficiato, ma che in Parlamento potrebbe di colpo danneggiarlo.


Con la Borsa di Milano sotto del 3,9 per cento e le tensioni con Bce e Germania, il governo italiano appare in affanno. Seccato per i rilievi della cancelliera tedesca Angela Merkel, da Londra ieri Renzi ha difeso la «ribellione» della Francia ai parametri europei. L’Italia rispetterà il tetto del 3% tra deficit e Pil, ma rispetta e chiede rispetto per i Paesi che lo superano». Parole orgogliose, che difficilmente cambieranno la sostanza delle cose.

3 ottobre 2014 | 07:17
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/politica/14_ottobre_03/ex-premier-garante-equilibri-piu-precari-347996d8-4abc-11e4-9829-df2f785edc20.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO I patti che non reggono Conseguenze di troppi voti ribelli
Inserito da: Admin - Ottobre 05, 2014, 07:41:52 pm
I patti che non reggono
Conseguenze di troppi voti ribelli

Di Massimo Franco

Pensare che il richiamo alla disciplina di partito possa riportare all’ordine le Camere è pura velleità. Lo stallo dispettoso e l’impossibilità di saldare una qualunque coalizione parlamentare sono figli della macerazione delle forze politiche. Dunque sono l’effetto e non la causa della delegittimazione che l’intero sistema sta subendo. Si può anche ripetere l’intemerata contro i franchi tiratori che impediscono l’elezione dei giudici della Corte costituzionale, o frenano sulle riforme. Ma non basta a spiegare un fenomeno nuovo, degenerativo, del quale quanto accade è solo lo specchio.

L’impressione è che in questa fase termini come maggioranza e opposizione siano altamente volatili; e che intese e veti si presentino con una trasversalità così radicale e atomizzata da rendere impossibile qualunque sintesi. Ecco perché il Patto del Nazareno tra Matteo Renzi e Silvio Berlusconi funziona a quattr’occhi, ma poi incontra resistenze ostinate. Negli ultimi mesi sembra avere cambiato natura. Da accordo «alto», volto a riplasmare le istituzioni, sta rivelando le fattezze di un’intesa di potere che pezzi di entrambi i partiti, Pd e FI, rifiutano; e un alleato come il Ncd teme come una minacciosa tenaglia.

D’altronde, il partito del premier continua a racchiuderne due: uno dentro e l’altro fuori dal Parlamento. Renzi parla agli elettori e al Paese, e insegue un’agenda che sancisce una mutazione dei tradizionali tabù della sinistra. Il problema è che «la ditta», come la chiama l’ex segretario Pier Luigi Bersani, almeno in una parte di deputati e senatori ubbidisce ad altre logiche. Esprime una nomenklatura selezionata dal predecessore, a volte troppo giovane e inesperta, svincolata da qualunque ubbidienza ai vertici; e appartenente ad una cultura distante e sicura di essere spazzata via con le elezioni. Renzi ha la forza e la volontà per farlo, col suo 40,8 per cento delle Europee di maggio.

Per il partito di Berlusconi il problema è opposto. Ha paura di essere strangolato dall’asse col Pd renziano. E così, sebbene Palazzo Chigi stia tentando alcune delle riforme invocate per anni dal centrodestra, Forza Italia recalcitra perché i consensi calano nelle urne e nei sondaggi. Colpisce la soddisfazione con la quale ieri è stata salutata la dichiarazione che FI è all’opposizione: evidentemente non era scontato. Sono malesseri simmetrici che si scaricano su un Parlamento vittima di due «ditte» dalle insegne un po’ datate e scolorite.

A sinistra c’è un leader gonfio di energia ma vissuto come un marziano da alcuni degli eletti; dall’altra un capo ammaccato, incapace di garantire il futuro e la sopravvivenza dei suoi parlamentari. Oltre alle inadeguatezze del sistema, pesano dunque quelle di forze costrette ad una transizione traumatica; e restie ad accettare una qualunque regia. Questo vale soprattutto per il centrodestra, che continua a lasciare un vuoto non solo politico ma sociale. Non viene riconosciuta più nemmeno la supplenza del Quirinale, i cui richiami accorati sono lasciati cadere nel vuoto.

C’è solo da chiedersi come si ricomporrà la consapevolezza dei rischi di collasso del sistema, quando si porrà il problema di eleggere in Parlamento il successore di Giorgio Napolitano. Lo spettacolo di queste settimane è il presagio di un happening che sulla presidenza della Repubblica può dare esiti pericolosamente casuali.

4 ottobre 2014 | 07:54
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da -http://www.corriere.it/editoriali/14_ottobre_04/conseguenze-troppi-voti-ribelli-2557882a-4b86-11e4-afde-3f9ae166220d.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO Un’Europa plaudente forse anche troppo
Inserito da: Admin - Ottobre 09, 2014, 05:11:43 pm
Un’Europa plaudente forse anche troppo
Nel coro quasi unanime di lodi e auguri a Renzi si coglie l’incoraggiamento e insieme l’inquietudine degli alleati, dopo il richiamo alla realtà del Fondo monetario: senza riforme condivise rischiamo un rapido declino

Di Massimo Franco

Da tempo Matteo Renzi non collezionava tanti complimenti dall’Europa. Il sospetto è che quelli ricevuti ieri siano troppi per apparire tutti sinceri.

A caldo, verrebbe da dire che la corsa per approvare la riforma del lavoro almeno al Senato ha raggiunto il traguardo sperato: è stata il suo biglietto da visita alla conferenza sull’occupazione a Milano. Lo sfondo di un Parlamento nel quale il Movimento 5 Stelle sbraitava e la sinistra del Partito democratico mugugnava ma chinava la testa votando la fiducia al governo, ha permesso al premier perfino l’ennesima bacchettata al «partito del rigore» dell’Unione Europea. Ma uno sguardo più freddo consente di cogliere, nel coro quasi unanime di lodi e auguri a Renzi, l’incoraggiamento e insieme l’inquietudine degli alleati.

A un premier che contesta una Commissione Ue incline a «fare le pulci ai governi nazionali, uccidendo la speranza della politica», nessuno risponde con durezza. Anzi, la cancelliera tedesca Angela Merkel gli dà atto di avere compiuto passi importanti. Aggiunge solo che confida nella volontà di Francia e Italia di rispettare i patti sottoscritti. E Renzi annuisce, seppure ribadendo il proprio scetticismo. L’Italia lo farà, dice, perché si rende conto di avere un problema di credibilità più acuto di altre nazioni. E apertamente nessuno mostra di essere abbarbicato alla frontiera tra rigore e flessibilità: si pongono tutti il problema della crescita e della disoccupazione, soprattutto giovanile.

Ma Palazzo Chigi sa quali sono gli umori e gli scenari della crisi. Proprio ieri è arrivata una nuova gelata dal Fondo monetario internazionale. È una sorta di bocciatura preventiva per i prossimi anni: un crudo richiamo alla realtà. «Con le condizioni attuali, l’Italia non è un Paese al quale si possa assicurare un futuro radioso o quantomeno sereno». Questo dice il direttore esecutivo del Fmi, Andrea Montanino. «La crescita potenziale crolla per gli anni futuri: siamo inchiodati allo 0,5%». L’analisi fotografa il presente e dunque non tiene conto degli sforzi che Palazzo Chigi sta facendo. Le resistenze che Renzi incontra, i metodi ruvidi e l’ambiguità di alcuni provvedimenti non sono tuttavia il migliore viatico per un successo duraturo.

Come si prevedeva, il Jobs act è stato in bilico fino a tarda notte, anche se le previsioni erano che sarebbe stato approvato, nonostante i malumori per la richiesta di fiducia da parte del governo; e a dispetto di quelle che Renzi ha bollato come «sceneggiate dell’opposizione». «Dobbiamo correre» ha intimato il ministro delle Riforme istituzionali, Maria Elena Boschi. E Renzi le ha dato man forte nella conferenza stampa a chiusura del vertice di Milano. «Dobbiamo chiudere entro le prossime ore». Ma il livido nei rapporti a sinistra rimane, confermando una coabitazione forzata tra maggioranza e minoranza del Pd; e un conflitto crescente con la Cgil. Questo non significa scissione, però, perché gli avversari di Renzi sanno che ne uscirebbero schiacciati.

La resa dei conti quotidiana col proprio partito vede un segretario-premier comunque vincente. Una lettera critica di ventisette senatori del Pd e i tentativi di fare slittare a oggi la votazione a Palazzo Madama non hanno fermato il provvedimento. E l’Europa, almeno a Milano, è apparsa meno ostile davanti alle richieste di Renzi, intenzionato a rispettare il tetto del 3 per cento nonostante le molte «contraddizioni» che sostiene di vedere. Dunque, si sta aprendo una nuova fase? Può darsi. Il problema è che l’Italia continua ad andare male. I progetti del presidente del Consiglio scompigliano il Paese, cercano di scuoterlo e di iniettargli fiducia; eppure non riescono a cambiare previsioni economiche da brivido.

Segno che qualcosa non va, in Europa ma soprattutto qui. Renzi si sta rendendo conto che non basta piegare gli avversari in Parlamento per invertire la rotta. Dovrà convincerli che, senza riforme condivise in Italia e riconosciute all’estero, il rischio è di declinare perfino correndo.

9 ottobre 2014 | 09:53
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/opinioni/14_ottobre_09/europa-plaudente-forse-anche-troppo-94356114-4f81-11e4-8d47-25ae81880896.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO La tentazione intermittente
Inserito da: Admin - Ottobre 09, 2014, 05:12:55 pm
La tentazione intermittente
Di Massimo Franco

Sarebbe ingiusto sostenere che ieri in Parlamento Matteo Renzi abbia aperto la campagna elettorale. Si tratterebbe di un processo alle intenzioni che il presidente del Consiglio non merita, nel momento in cui rilancia le riforme e ribadisce l’obiettivo del 2018 come traguardo minimo del governo. Rimane tuttavia il problema di quello che farà qualora non riuscisse ad agguantare alcuni degli obiettivi indicati; e di quale sarà l’effetto di una serie di richiami indirizzati all’Europa, alla magistratura, e più in generale a chiunque esprima scetticismo sul successo delle sue ricette. L’orgoglio e la determinazione sono fuori di dubbio.
Ma lo è anche l’insofferenza verso quanti fanno notare una certa sconnessione tra la sua narrativa ottimistica e la situazione economica in via di peggioramento. Renzi predica la velocità. Se non riesce a realizzarla, però, tende a sottovalutare i propri errori di valutazione dei rapporti di forza. E lascia capire che in quel caso la rapidità andrebbe ottenuta rivolgendosi in anticipo al corpo elettorale. È possibile che sia soltanto un espediente per piegare resistenze in aumento e non in diminuzione col passare dei mesi. L’effetto, comunque, non può rassicurare. È significativo che dopo i suoi discorsi a Camera e Senato, il premier si sia dovuto affannare a negare di avere evocato elezioni anticipate.

Bisognerebbe chiedersi come mai abbia trasmesso questa impressione a una parte del Parlamento. Evidentemente, la sua insistenza su una riforma elettorale da fare al più presto insinua il sospetto che voglia capitalizzare i consensi delle Europee del 25 maggio. Né è sufficiente a esorcizzare una simile prospettiva la sua precisazione che gli converrebbe andare alle urne ma non lo farà perché pensa all’interesse nazionale. Se le riforme ritenute dirimenti per il rilancio dell’Italia non marciano, chiedere la legittimazione popolare che tuttora non ha, per Renzi diventerebbe quasi un dovere: a patto di avere un sistema elettorale in grado di garantirgli l’eventuale vittoria e la possibilità di gestirla da Palazzo Chigi.

Nasce da qui un interrogativo di fondo sulla sua vera strategia per i prossimi mesi. La sensazione è che le elezioni politiche siano non un obiettivo ma certo una tentazione intermittente, che spiega l’oscillazione tra dialogo e sfida frontale con gli interlocutori. A suo vantaggio, Renzi ha la consapevolezza di trovarsi di fronte partiti e nomenklature seriamente impauriti dalla prospettiva di essere spazzati via dal voto; e dunque pronti, teoricamente, ad assecondare i suoi ultimatum. Lo svantaggio è che, proprio per questo, non gli sarà facile ottenere il «placet » per una riforma elettorale che verrebbe vista come un’arma letale nelle sue mani.

Additare un programma di «mille giorni» e puntellarlo con un rosario di altolà può essere la strada maestra per ottenere risultati rapidi, oppure per moltiplicare le barriere e perdere tempo prezioso. La Commissione europea, ormai è chiaro, non è disposta ad abbassare la soglia della diffidenza verso il governo italiano, anzi. E tende a vedere negli impegni renziani una scatola piena di contenuti in gran parte virtuali.

Aggiungere a tutto questo la variabile di una fine anticipata della legislatura, seppure solo come uno spauracchio, rischia non di rafforzare ma di indebolire la percezione del Paese all’estero, proiettando un’ombra di precarietà più dannosa di qualsiasi riforma mancata.
17 settembre 2014 | 08:22
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_settembre_17/tentazione-intermittente-dbab8a42-3e28-11e4-af68-1b0c172fb9a5.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO Renzi e la strategia che sfrutta la debolezza dell’altro Pd
Inserito da: Admin - Ottobre 09, 2014, 05:20:05 pm
Rubriche - La Nota
Renzi e la strategia che sfrutta la debolezza dell’altro Pd
La vera sfida è con chi a Bruxelles chiede all’Italia più rigore, ma non è detto che all’Europa basti la riforma del Jobs act

Di Massimo Franco

Magari esagerando un po’, Matteo Renzi parla del «programma di riforme strutturali più ambizioso che l’Italia abbia mai avuto»; e «senza pari per complessità e velocità» nella stessa Europa. Tanta enfasi è comprensibile. Oggi il presidente del Consiglio si deve presentare al vertice dell’Ue sul lavoro in programma a Milano. E soltanto con l’esaltazione di quanto il suo governo ha realizzato o comunque impostato finora può sperare in un atteggiamento benevolo degli alleati continentali. La sua forzatura sui tempi di approvazione del cosiddetto Jobs act si spiega su questo sfondo.

Il premier ha imposto la fiducia al Parlamento sfidando lo scarto di un pezzo di Pd soprattutto per presentarsi all’appuntamento di oggi con un «sì» da sventolare davanti agli scettici. D’altronde, è lui stesso a dirlo con una certa dose di candore. «Il posizionamento con cui arriviamo al vertice europeo è straordinario per le riforme messe in campo». A ragione, fin da ieri mattina ha fatto sapere di non temere «agguati» in Senato dal suo partito. E infatti, la rabbia della minoranza non sembra tale da tradursi in un voto contrario. Anche perché Forza Italia annuncia che non voterà l’emendamento del governo, evitando che Renzi sia accusato di nuovo di godere dell’appoggio surrettizio di Silvio Berlusconi. In questa fase non è solo il centrodestra a sottolineare il suo ruolo di opposizione. Ha bisogno di rimarcarlo lo stesso premier per placare almeno in parte i malumori nel Pd. Semmai, si tratta di capire se l’Europa si lascerà impressionare dalle ambizioni riformiste renziane. L’atteggiamento benevolo che si coglieva prima dell’estate oggi si è trasformato in diffidenza. Il debito dell’Italia si attesterà per il 2014 al 136,7 per cento rispetto al Prodotto interno lordo; e l’anno prossimo scenderà solo al 136,4, sostiene il Fondo monetario internazionale. E da Bruxelles il vicepresidente della Commissione Ue, il finlandese Jirky Katainen, vicino alla cancelliera tedesca Angela Merkel, pronuncia un’altra ode al rigore finanziario; con tanto di bacchettata a Francia e Italia per la loro richiesta di rinviare il pareggio di bilancio e, nel caso di Parigi, per la minaccia di sfondare il limite del 3 per cento. Bisogna evitare che «i problemi di due o tre Paesi abbiano impatto su tutta l’eurozona», ha dichiarato.

Insomma, non è scontato che un Jobs act approvato solo al Senato cancelli di colpo le riserve europee, anche se può arginarle. Anche perché lo scontro con i sindacati, in particolare la Cgil, è solo rinviato dopo il breve incontro di ieri mattina. E davanti ai rappresentanti delle forze dell’ordine, Renzi è stato costretto ad accedere alla loro richiesta di sbloccare i contratti: un epilogo accettato dopo le minacce di uno sciopero irrituale.

Se poi la maggioranza dovesse mettersi a litigare anche sulle unioni omosessuali, come ha fatto ieri, si aprirebbe un altro fronte. Ma forse ci si accorgerà che ce ne sono già in abbondanza.

8 ottobre 2014 | 07:42
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/politica/14_ottobre_08/renzi-strategia-che-sfrutta-debolezza-dell-altro-pd-0cbe4776-4eac-11e4-b3e6-b91ef8141370.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO Sinodo, malumori e ostilità tra i prelati: Francesco preoccupato
Inserito da: Admin - Ottobre 19, 2014, 05:17:48 pm
Sinodo, malumori e ostilità tra i prelati: Francesco preoccupato
La discussione ha preso una piega non voluta da alcuni: troppa enfasi su divorzi e unioni civili.
Cresce la vulgata di un Pontefice riformatore ma osteggiato dall’interno

Di Massimo Franco

Un’imprudenza. Tale è stata considerata la pubblicazione della relazione seguita alla prima settimana di Sinodo: quella che conteneva le aperture a divorziati risposati e omosessuali. Quando ha visto i testi su Osservatore romano e Avvenire, il Papa ha espresso subito la sua preoccupazione per l’impatto che avrebbero avuto. Timore fondato. L’impressione trasmessa a vescovi e cardinali è stata che non si trattasse di un documento da studiare e discutere, ma di un’anticipazione dell’esito dell’assemblea. Il «Sinodo di carta» ha finito così per allungare un’ipoteca sul «Sinodo reale», dandone un’immagine distorta. E sono scattate le reazioni. L’idea che la riunione straordinaria voluta da Jorge Mario Bergoglio potesse concludersi con un referendum tra «innovatori» e «conservatori», e con la vittoria dei primi, si è rivelata velleitaria e fuorviante. Le resistenze affiorate in sette delle dieci commissioni (i cosiddetti «Circoli minori») contro le tesi aperturiste propugnate dal cardinale tedesco Walter Kasper, sono state un segnale esplicito. Hanno confermato quanto sia complessa e diversificata la realtà della Chiesa in materia di famiglia; e come i tentativi di piegarne gli indirizzi debbano fare i conti con episcopati refrattari a salti e a dosi di novità troppo massicce. Si è rivelata riduttiva e dunque inadeguata la stessa divisione tra «vecchio» e «nuovo». Il tentativo del cardinale Lorenzo Baldisseri, scelto da Francesco come segretario del Sinodo, di evitare che le relazioni dei «Circoli» fossero rese pubbliche, ha fatto emergere per paradosso ancora di più i malumori.

Malumori trasversali anche geograficamente. Di fronte ad un Pontefice silenzioso, come da prassi, è stato il suo «ministro dell’Economia», l’australiano George Pell, un solido conservatore, il capofila di chi ha ottenuto una scelta di «chiarezza». E dietro di lui si sono schierati apertamente il sudafricano Wilfrid Fox Napier, arcivescovo di Durban; l’americano Raymond Burke, i patriarchi siriano Gregorio III Laham e di Gerusalemme, Fouad Twal, il francese Andrè Vingt-Trois, arcivescovo di Parinìgi, l’italiano Rino Fisichella, il britannico Vincent Nichols, arcivescovo di Westminster. E il relatore del Sinodo, il cardinale Péter Erdö, primate d’Ungheria. Alla fine, per sbloccare la situazione è dovuto intervenire il segretario di Stato vaticano, Piero Parolin, attento a mediare e a spiegare che le sintesi delle relazioni dei «Circoli» andavano pubblicate.

Il suo intervento ha stemperato la tensione che si era accumulata. Solo in parte, però. A questo punto, il problema non è archiviato. Anzi, sembra destinato a proiettarsi sui prossimi mesi, che precederanno il Sinodo vero e proprio. E rischia di alimentare la fronda nei confronti di un Pontefice determinato ad incidere a fondo nella mentalità e nel modo di agire della Chiesa. Il fatto che Kasper abbia presentato le sue proposte come se provenissero direttamente da Francesco ha finito per sovraesporre Bergoglio. E permette agli avversari di sostenere strumentalmente che la battuta d’arresto registratasi nel Sinodo sarebbe anche una sconfitta papale: come se la sconfessione della «linea Kasper» potesse essere ritenuta un atto di sfiducia verso Francesco, messo simbolicamente in minoranza. È una forzatura inverosimile, ma è l’interpretazione che l’episcopato ostile alle riforme del Papa tenta di accreditare. In realtà, la decisione di rendere il dibattito trasparente riflette la sua volontà e il suo approccio.




E la discussione animata, a tratti aspra, sembra la traduzione di quella volontà di scuotere la Chiesa cattolica e sottrarla all’autoreferenzialità, tipica del Pontefice argentino. Il problema è che il dibattito ha preso una piega imprevista e probabilmente non voluta. Il metodo col quale si sono susseguiti gli interventi si è rivelato difficilmente governabile. E la strategia comunicativa si è dimostrata non esente da pecche. A tratti ha prevalso una sensazione di confusione. I riflettori accesi ossessivamente sui divorziati o sulle unioni civili hanno finito per schiacciare l’attenzione solo su quei temi; e riprodotto una visione molto eurocentrica dell’universo familiare, mettendo in ombra altre questioni sentite acutamente in Africa, Asia o negli Stati Uniti.

L’irritazione per come si sono svolti i lavori non è stata solo di cardinali freddi verso Francesco come Burke. Lo stesso arcivescovo di New York, Timothy Dolan, uno dei grandi elettori di Bergoglio in Conclave, non avrebbe gradito le proposte di Kasper né il modo in cui sono state presentate. Il motivo è che da domani i prelati presenti dovranno tornare nelle loro diocesi; e spiegare ai fedeli quanto è accaduto realmente, e perché. Per un episcopato come quello statunitense, impegnato per anni ad affermare la difesa dei «valori non negoziabili», l’impostazione che è parsa prevalere prima che spuntassero i critici, crea qualche imbarazzo: un disagio che serpeggia anche tra alcuni italiani e polacchi. Il rischio è che si accentui la vulgata di un Papa riformatore e di una Chiesa resistente; e dunque di un Pontificato che non riesce a «convertire» i propri vescovi.

Il risultato sarebbe quello di far passare la tesi che in realtà nulla stia davvero cambiando; e di deludere sia chi si aspettava novità nette, sia chi difende rocciosamente la dottrina. La previsione degli uomini più vicini al Papa è che alla fine si registrerà un consenso quasi unanime nei confronti di Bergoglio; e che si capirà meglio quanto dietro le discussioni ci sia la sua regia, con la scelta di lasciare parlare tutti liberamente e avere un quadro il più possibile fedele delle correnti di pensiero e degli umori. Certo, non si può dire che si sia trattato di un Sinodo banale o scontato. Si è rivelato davvero «straordinario» al di là di ogni previsione. Ma la sensazione è che sia anche sfuggito un po’ di mano, evidenziando i problemi di governo del Vaticano e la difficoltà di Francesco a trovare sempre le persone giuste.

Il Sinodo è stato la prima «vetrina» collettiva del secondo anno di Papato: quella dove è stata esposta e misurata la profondità delle riforme di Bergoglio. Il risultato potrebbe definirsi un altro dei «poliedri» cari al Pontefice: figure geometriche diseguali, nelle quali le diversità si saldano in una unità superiore, e anzi contribuiscono a crearla. Le diversità nel Sinodo sono chiare, l’unità sta ancora prendendo forma. Francesco è un Papa che dimostra grande abilità nel cambiare i paradigmi del potere vaticano, gode di immensa popolarità; e insieme mostra qualche limite sul piano del governo. Forse perché viene da un’America latina dove «la Chiesa è in un certo senso imprecisa, costruisce se stessa nell’esperienza, non si vede solo custode della tradizione», sottolinea un gesuita. Già adesso, sotto voce, affiorano critiche per il «modello Buenos Aires» che ha portato a Roma: una miscela di religiosità popolare e insofferenza per i riti della corte pontificia.

Non solo. Il mandato ricevuto dal Conclave è quello di disarticolare le strutture vaticane che hanno contribuito di più, nell’ottica degli episcopati mondiali, a rovinare l’immagine della Chiesa.

Ma nel Sinodo è affiorata una critica più sottile, sussurrata da tempo: quella di consentire ad un’ala del cattolicesimo un’interpretazione troppo «liberale» della dottrina. È stato il timore di allargare falle dottrinali a provocare la sollevazione contro le aperture a divorziati risposati e omosessuali. Sono temi che l’Occidente concentrato sui diritti individuali sente molto; altri episcopati molto meno, presi come sono da sfide più drammatiche. Bergoglio sa di dover conciliare questi valori con l’eredità europea ed italiana. Ma ha bisogno di tempo e teme di non averne abbastanza per non lasciare le cose a metà.

18 ottobre 2014 | 07:21
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/cronache/14_ottobre_18/sinodo-malumori-ostilita-prelati-francesco-preoccupato-f9ffef88-5683-11e4-ad9c-57a7e1c5a779.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO La sfida ora è nella Chiesa Una nuova fase del papato
Inserito da: Admin - Ottobre 19, 2014, 05:24:17 pm
La sfida ora è nella Chiesa
Una nuova fase del papato

Di Massimo Franco

Il fatto che Francesco abbia deciso di parlare a conclusione del Sinodo è stato una sorpresa. Come minimo, non era scontato. La sua scelta sembra nascere dalla consapevolezza che il silenzio avrebbe aggiunto ambiguità e drammaticità ad un’assemblea segnata da «animate discussioni», come lui stesso le ha definite. Per questo ha usato parole forti e sincere, degne di un Papa che non ha paura di esporsi e di assumere posizioni scomode.

D’altronde, era difficile limitarsi all’archiviazione banale e formale di un dibattito percorso da tensioni palpabili: soprattutto dopo le votazioni di ieri che hanno confermato l’altolà di una parte degli episcopati mondiali sui temi più delicati e controversi. Francesco sa di avere dietro di sé la maggioranza del Sinodo. Ma per un pontefice attento all’unità della Chiesa non può bastare. Le riserve non sono venute soltanto da «Roma»: da quella Curia che ne soffre il riformismo. Né possono essere bollate solo come «conservatrici».

A contrastare aperture percepite, a torto o a ragione, come sperimentazioni dottrinali, sono anche esponenti del cattolicesimo che l’hanno votato al Conclave del marzo 2013. E Francesco non può sottovalutare o ignorare queste perplessità, pur ribadendo il proprio primato. Dunque le affronta, le analizza, e offre una risposta che tende a includere e a convincere. È un esercizio di saggezza obbligato, per evitare che le resistenze crescano tra mugugni e silenzi.

Si tratta dell’unica risposta possibile di fronte a un mondo religioso che ha vissuto e vive con entusiasmo, ma anche con qualche timore e un filo di disorientamento, le innovazioni di Jorge Mario Bergoglio. Per questo l’impressione è che ieri si sia concluso «un» papato: quello spettacolare, mediatico, acclamato dalle folle. E sia cominciata una fase nuova, che archivia se non gli equilibri, gli umori del Conclave. E apre un pontificato meno scintillante e più drammatico, sofferto: autentico.

Adesso il dialogo non è più solo con le piazze plaudenti ma con una Chiesa pronta a seguire il Papa e insieme decisa a chiedergli certezze e «governo». Francesco ne prende atto e addita «un cammino», lo chiama così, che implica il riconoscimento di differenze profonde. Sa che deve ricomporle, perché la sua idea del poliedro disuguale e reso compatto proprio dalle diversità non può solidificarsi senza avere dietro una Chiesa convinta: la sola in grado di accettare e amalgamare una complessità altrimenti a rischio di frammentazione.

19 ottobre 2014 | 08:29
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_ottobre_19/nuova-fase-papato-5c12efc0-5758-11e4-8fc9-9c971311664f.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO Un Quirinale deciso a calmare gli animi
Inserito da: Admin - Novembre 03, 2014, 05:11:47 pm
Un Quirinale deciso a calmare gli animi
Il semestre europeo e la mancata nomina del nuovo ministro degli Esteri può creare equivoci nel semestre italiano

Di Massimo Franco

C’è da chiedersi come mai la nomina del nuovo ministro degli Esteri non sia stata preparata per tempo, sapendo che Federica Mogherini avrebbe lasciato il suo posto a fine ottobre; e che dal 1° novembre scatterà l’incompatibilità col suo nuovo incarico europeo. Sembra che l’udienza concessa ieri dal capo dello Stato, Giorgio Napolitano a Matteo Renzi non abbia ancora risolto la questione: al punto che ieri sera, tra le varie voci che circolavano, si è parlato perfino dell’eventualità che il premier assumesse l’ interim della Farnesina fino a quando maturerà la scelta.

In realtà, è probabile che la decisione venga presa nelle prossime ore. Ma rimane la sensazione di una vicenda diventata più complicata di quanto ci si sarebbe aspettati. Anche perché la sostituzione del ministro degli Esteri segue il successo, come minimo di immagine, che Renzi ha ottenuto imponendo la Mogherini al vertice della politica estera europea. E si registra nel bel mezzo del semestre di presidenza italiana dell’Ue. Il ritardo può essere attribuito a più di una ragione. Il problema è che viene sottolineato da uno sfondo di tensioni su altri livelli.

I lividi lasciati dalle ore concitate vissute dal governo dopo le cariche della polizia contro gli operai dell’Ast (Acciai Speciali Terni) dell’altro ieri a Roma non sono stati ancora smaltiti del tutto. Lo scontro con la Cgil che le ha precedute e seguite viene diplomatizzato a fatica. Affiora il nervosismo sulla tenuta sociale del Paese, che attraversa lo stesso esecutivo, la maggioranza e il Pd. Non si può ignorare il messaggio inviato ieri dal presidente della Repubblica al congresso dei radicali italiani. Con lo stile che lo caratterizza, Napolitano si è rivolto «a ciascuno degli attori, individuali e collettivi, della vita politica e istituzionale».

Ed ha spiegato come ad ognuno «competa una assunzione di responsabilità per contribuire ad una maggiore coesione nazionale». Sono parole mirate a richiamare ognuno al senso di responsabilità; e a non assumere atteggiamenti e pronunciare parole che alimentano le polemiche e i conflitti. Lo stesso Angelino Alfano, ministro dell’Interno, nel suo intervento al Senato per spiegare le cariche della polizia, ha invitato a «non cavalcare il disagio occupazionale».

Sono segnali destinati anche a Palazzo Chigi, perché alla lunga si rischia di perdere il controllo della situazione e destabilizzare un governo senza alternative; e cementato dall’asse tra Renzi e Silvio Berlusconi. «Si procede senza intoppi», assicura l’ex premier ai vertici di FI. E a testimonianza che il patto del Nazareno sulle riforme è vivo e vegeto, aggiunge che il suo rapporto con Denis Verdini, garante dell’alleanza con Renzi, «è fortissimo». L’unica ombra potrebbe inspessirsi sulla riforma elettorale. Eppure, Pd e FI sembrano più d’accordo di quanto appaia: sempre che non spuntino tentazioni di voto anticipato.

31 ottobre 2014 | 07:35
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/politica/14_ottobre_31/quirinale-deciso-calmare-animi-544f50c6-60c7-11e4-938d-44e9b2056a93.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO Che cosa insegna quel verbale La testimonianza di Napolitano
Inserito da: Admin - Novembre 03, 2014, 05:28:14 pm
Che cosa insegna quel verbale
La testimonianza di Napolitano

Di Massimo Franco

Leggerlo è utile: ma forse, più come ricostruzione di una stagione politica che ai fini della verità giudiziaria. Il verbale della testimonianza resa al Quirinale dal capo dello Stato, Giorgio Napolitano, ai magistrati della Corte di Assise di Palermo, trasmette un’impressione strana. Alla fine, magari si capisce perché sia stata chiesta. Non è chiaro, però, se aggiunga molto a quanto già si sapeva. Esalta piuttosto l’insistenza di alcune domande considerate inutili dagli stessi giudici: soprattutto quelle dell’avvocato del mafioso Totò Riina; e la lucidità e insieme la discrezione delle repliche.

Per questo l’episodio rischia di essere ingombrante non tanto per la presidenza della Repubblica, ma per chi ha insistito per interrogare Napolitano sulla presunta trattativa Stato-mafia. E, sebbene sia sempre preferibile la trasparenza totale, il pericolo di ritrovarsi con spezzoni di frasi è stato sovrastato dalla preoccupazione di scrivere un’altra pagina di giustizia-spettacolo. Scelta controversa, ma spiegabile con la volontà di evitare una sorta di processo in streaming sul fondale degli arazzi del Quirinale.

I magistrati si dicono comunque soddisfatti, perché è stata legittimata al massimo livello la tesi di una fase, quella a cavallo tra Prima e Seconda Repubblica, in cui la mafia ha tentato di colpire lo Stato italiano con una serie di attentati sanguinosi. Ma la cosa si era già capita, e da tempo: sono fatti che sembravano già ampiamente sviscerati nei processi. Il dubbio che fosse davvero opportuno sentire anche Napolitano, dunque, rimane.

Vedere le prime due pagine del verbale interamente occupate dai nomi di magistrati e avvocati presenti, dà l’idea di qualcosa di eccezionale, anomalo e pletorico. Nonostante tutti gli aspetti che giustificano e legittimano l’iniziativa della Corte palermitana, ristagna un alone di non detto sui rapporti tra istituzioni. Va scacciato come un’illazione gratuita il sospetto che qualcuno abbia tentato una forzatura nella speranza di mettere il presidente della Repubblica sulla difensiva. Visto l’esito del confronto, tra l’altro, sarebbe stata un’operazione maldestra e dagli effetti opposti.

1 novembre 2014 | 08:30
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_novembre_01/che-cosa-insegna-quel-verbale-cf26445c-6190-11e4-8446-549e7515ac85.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO Fine di un muro? Alleanze variabili alla prova
Inserito da: Admin - Novembre 09, 2014, 11:03:21 am

Fine di un muro?
Alleanze variabili alla prova
Il «sì» al giudice costituzionale designato dal Pd, Silvana Sciarra, e a quello del M5S, Alessio Zaccaria, per il Csm, è un elemento di riflessione (e tensione) nella maggioranza

Di Massimo Franco

Dietro il voto del Parlamento sui giudici costituzionali si intravede, in filigrana, quello per l’elezione del presidente della Repubblica. L’ipotesi che Giorgio Napolitano possa ritenere conclusa la sua missione di qui a gennaio sta assumendo i contorni di una previsione, seppure da verificare. E pone con forza e preoccupazione il tema di quanto potrà accadere di fronte al vuoto che lascerebbe. Il «sì» di ieri al giudice costituzionale designato dal Pd, Silvana Sciarra, e a quello del Movimento 5 Stelle, Alessio Zaccaria, per il Csm, è un primo elemento di riflessione; e di tensione nella maggioranza. Il «no» a quello di Forza Italia è il secondo, anche perché rimanda a contrasti tutti interni al centrodestra.

La somma dei due episodi riconsegna un patto del Nazareno asimmetrico. Forse è azzardato sostenere che il coinvolgimento del movimento di Beppe Grillo nelle votazioni per la Consulta sia la prima pietra di un «secondo forno» che il premier può utilizzare per raggiungere i suoi obiettivi. Per quanto vada accolto come un segnale positivo, non cancella l’imprevedibilità di una formazione che segue le dinamiche imperscrutabili della Rete e del suo leader. Certamente, si tratta di un risultato che rafforza Renzi nella trattativa con un Silvio Berlusconi più subalterno di lui alla logica dell’accordo sulle riforme istituzionali. Il «forno» di Forza Italia appare inutilizzabile innanzi tutto per il suo proprietario. L’ esito disastroso della votazione per Stefania Bariatti alla Consulta conferma infatti che l’ex premier non è più in grado di garantire l’appoggio di tutti i suoi parlamentari. La falcidia dei candidati del centrodestra riflette e dilata la crisi della leadership berlusconiana. Al contrario, il Pd attraversa le barriere della maggioranza di governo e di quella istituzionale con una disinvoltura e una facilità da perno del sistema. Può rivendicare di avere fatto uscire il Movimento 5 Stelle dall’isolamento. E prefigura anche per il Quirinale un gioco a tutto campo che potrebbe superare lo schema di un capo dello Stato concordato tra Renzi e Berlusconi: quello che, almeno finora, appariva il più accreditato.

Quanto è accaduto ieri rimescola gli equilibri parlamentari; o comunque minaccia di sparigliarli se il centrodestra rifiutasse le mediazioni offerte o pretese da Palazzo Chigi. Una sinistra in ascesa e in via di mutazione può scegliere. Può perfino cercare di eleggere il presidente della Repubblica dopo un eventuale voto anticipato e un pieno dei consensi: sebbene sia difficile che la manovra riesca finché c’è Napolitano. Berlusconi, invece, vede i margini di manovra assottigliarsi di giorno in giorno. Si rende conto che in questo Parlamento ha ancora percentuali rispettabili e peso politico. Ma dopo le elezioni può ritrovarsi condannato alla marginalità.
Per questo è disposto ad accedere alle richieste di Renzi, e intanto cerca di limarle, arginando la pressione incalzante del premier. Teme che le urne lo puniscano e lo umilino al punto da consegnarlo mani e piedi alla strategia di Palazzo Chigi. La riforma elettorale è una delle poche polizze di assicurazione per la sua sopravvivenza politica. Si capirà presto se i fatti delle ultime ore siano tatticismi per ricontrattare il patto tra Pd e Fi su basi renziane o se marchino l’inizio di una fase nuova.

Usare più forni in contemporanea richiede grande abilità, e Renzi ne ha. Ma a volte implica il rischio di ritrovarsi con un pugno di cenere.

7 novembre 2014 | 08:16
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/politica/14_novembre_07/alleanze-variabili-prova-2f6e26e8-664d-11e4-a5a4-2fa60354234f.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO Il rischio dell’isolamento dopo il monito di Bruxelles
Inserito da: Admin - Novembre 09, 2014, 11:06:35 am
La Nota
Il rischio dell’isolamento dopo il monito di Bruxelles

Di Massimo Franco

L a durezza del presidente della Commissione Ue, Jean-Claude Juncker, nei confronti del premier Matteo Renzi, sorprende e preoccupa. Stupisce perché emerge alcuni giorni dopo gli ultimi attacchi del capo del governo ai «burocrati di Bruxelles». E allarma perché si registra ad appena quarantotto ore dall’insediamento di Juncker e si rivolge al presidente del Consiglio della nazione che guida l’Europa per un semestre. Se il successore di José Manuel Barroso ha ritenuto di poter usare parole così ruvide nei confronti di Renzi, significa che riteneva di poterlo fare. Detto altrimenti: pensa o sa di avere dietro l’Europa che conta, unita nell’insofferenza contro le «critiche superficiali» di Roma.

L’altro aspetto che fa riflettere è il modo scelto dal neopresidente per contestare le tesi renziane. «Se la Commissione avesse dato ascolto ai burocrati il giudizio sul bilancio italiano sarebbe stato molto diverso», dice. E lascia capire che solo una sorta di «generosità» politica ha permesso di attenuare valutazioni più impietose. «A Renzi dico che non sono il capo di una banda di burocrati: sono il presidente di un’istituzione che merita rispetto, non meno legittimata dei governi». Ha tutta l’aria di un richiamo a misurare i giudizi sull’Ue; e a rendersi conto che, se non trova alleati, rischia l’isolamento.

È vero che la Commissione ha anche strigliato il premier britannico David Cameron per il suo rifiuto di pagare i contributi europei. Ma stranamente, la Francia che pure ha dichiarato esplicitamente di non voler rispettare il Patto di stabilità, non ha ricevuto lo stesso trattamento. È giusto contestare questo doppio standard vistoso; ma ci si deve anche chiedere perché venga applicato di nuovo a danno dell’Italia, come ai tempi di Silvio Berlusconi. Il semestre di presidenza è stato sempre considerato una vetrina internazionale per il Paese che guida l’Ue. A nemmeno due mesi dalla scadenza, il colpo che arriva da Bruxelles somiglia a un sasso scagliato contro le vetrate di palazzo Chigi.

E si aggiunge alle previsioni economiche diffuse ieri dalla Commissione. C’è una sfasatura di oltre mezzo punto di Pil tra quanto il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan vede da qui al 2017, e le proiezioni di Bruxelles. Il berlusconiano Renato Brunetta ne deduce che «l’Ue non crede a Renzi e Padoan». Lo stesso Movimento 5 Stelle, che pure non ha mai smesso di attaccare l’Europa e la moneta unica, approfitta delle parole di Juncker per puntare il dito strumentalmente sul premier. È un’offensiva che non aiuta gli sforzi di palazzo Chigi, stupito dalle critiche di Bruxelles.

Il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Graziano Delrio, si limita a ribadire: «Confidiamo che le nostre previsioni siano adeguate. Non ho nulla da aggiungere se non quello che è scritto nella Legge di stabilità». Renzi ribadisce: «In Italia ce la stiamo giocando, la partita non è vinta né persa ma stiamo segnando dei gol. Non vado con il cappello in mano a Bruxelles a farmi spiegare cosa fare. L’ho detto a Barroso e Juncker». Se non è una sfida, le somiglia. Il problema è se l’Italia abbia la forza per sostenerla senza diventare il capro espiatorio di errori commessi anche dall’Europa. E dai suoi burocrati.

5 novembre 2014 | 12:41
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/politica/14_novembre_05/rischio-dell-isolamento-il-monito-bruxelles-127be12e-64e0-11e4-8b92-e761213fe6b8.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO L’accordo sopravvive nel segno del premier
Inserito da: Admin - Novembre 15, 2014, 05:37:58 pm
La Nota
L’accordo sopravvive nel segno del premier

Di Massimo Franco

Più del comunicato congiunto di Matteo Renzi e Silvio Berlusconi dopo il loro vertice sulla riforma elettorale, ieri hanno colpito le parole abrasive del capo dello Stato, Giorgio Napolitano. «Volentieri vorrei che cedessimo a qualcun altro», ha detto con una punta di ironia, «il record mondiale di caduta dei governi». Ha tutta l’aria di un altolà implicito ad una crisi dell’esecutivo e ad elezioni anticipate.

Sembra la conferma che il capo dello Stato ha deciso di esorcizzare questa prospettiva anche lasciando trapelare l’intenzione di chiudere il suo mandato all’inizio del 2015. Si tratta appena di un inciso, incorniciato dal discorso sull’Expo di Milano tenuto al Quirinale. Ma pesa su uno sfondo di tensione tra e dentro i partiti: di maggioranza e di opposizione. E si trasforma nell’ennesimo monito ad una classe politica che sbanda tra accordi e minacce di rottura, osservata con diffidenza dall’Unione Europea. Il fatto che ieri la minoranza del Pd abbia deciso di disertare la riunione della Direzione in polemica col segretario-premier indica un malessere persistente; e destinato a riaffiorare nel momento in cui l’arma delle elezioni anticipate si sta spuntando nelle mani di Renzi. È una fronda che si rispecchia anche nelle modifiche chieste da alcuni senatori del Pd sulla riforma della Camera «alta».

Ma si tratta di scarti che non indeboliscono le critiche del presidente del Consiglio ad un Berlusconi accusato di non avere dietro tutte le sue truppe parlamentari. A sinistra rimane un’area di dissenso coriacea, che trova una sponda nella Cgil che conferma lo sciopero generale per il 5 dicembre. Eppure, per quanto esposto al conflitto anche sul piano sociale, il governo va avanti. La tendenza è a considerare i dissensi qualcosa di facilmente superabile. E infatti il 18 novembre la riforma elettorale emersa dal vertice di maggioranza dell’altro giorno comincerà ad essere discussa nella Commissione affari costituzionali. Relatrice: la presidente Anna Finocchiaro.

Rimane da capire quale sistema alla fine emergerà. E soprattutto, se davvero si farà in tempo ad approvare la legge al Senato entro fine anno. A definirlo «impossibile» è il leghista Roberto Calderoli, che mette davanti l’esigenza di approvare i provvedimenti economici. Ma la nota diffusa dopo un’ora e mezzo di colloquio tra Renzi e il sottosegretario Lotti da una parte, e Berlusconi, Gianni Letta e Denis Verdini dall’altra, conferma la tenuta non tanto del patto del Nazareno ma di quello raggiunto tre giorni fa tra il premier e i suoi alleati minori. E rafforza il premier.

Berlusconi ha ottenuto cento capilista bloccati, certo. Ma sbatte contro il limite di accesso in Parlamento al 3 per cento, imposto dai partitini. E il premio in seggi al partito maggiore o alla coalizione rimane in bilico.

Sostenere che «l’impianto del patto è più che mai solido, nonostante le differenze», come recita il comunicato congiunto, sa di verità d’ufficio. E non riesce a coprire la sconfitta del leader del centrodestra.

La legislatura «dovrà proseguire fino al 2018», concordano i «pattisti». Ma il rapporto ineguale tra i contraenti è vistoso. La legislatura continuerà nel segno di Renzi. Berlusconi può solo inseguire. In affanno.
13 novembre 2014 | 07:17
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/politica/14_novembre_13/accordo-sopravvive-segno-premier-5c62498c-6afc-11e4-8c60-d3608edf065a.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO Il dopo vertice sottolinea il primato del governo
Inserito da: Admin - Novembre 15, 2014, 05:52:50 pm
Il dopo vertice sottolinea il primato del governo
Rapporti di forza L’Ncd cerca di difendere le proprie posizioni e FI rivendica il Patto del Nazareno: anche perché Berlusconi e Renzi hanno parlato del Quirinale

Di Massimo Franco

Gli alleati cercano di frenare, di ritagliarsi spazi di trattativa, di smentire la realtà di un Pd padrone politico del governo e dei provvedimenti. La vicenda della riforma del mercato del lavoro, il Jobs Ac t, conferma invece quanto Matteo Renzi sia in grado di imporre la sua agenda, con i suoi tempi. Il Nuovo centrodestra può protestare e magari ottenere una riunione informale a palazzo Chigi per tentare di correggere le modifiche del premier, come è accaduto ieri. La strada, tuttavia, è segnata. «Il 1° gennaio entreranno in vigore le nuove regole sul lavoro. È un grandissimo passo in avanti», ha annunciato ieri Renzi da Bucarest proprio mentre era in corso l’incontro con l’Ncd.

Quanto sta emergendo nella mediazione sul Jobs act «è quello che è stato deciso nella direzione del Pd», ha aggiunto il presidente del Consiglio. «Bene così, andiamo avanti». E pensare che nelle stesse ore l’alleato Maurizio Sacconi sosteneva che per l’approvazione non bastava il «sì» del partito maggiore. «Serve un vertice di maggioranza, altrimenti rompiamo», ha minacciato Nunzia De Girolamo. «Non serve», è stata la replica serafica del ministro per le Riforme, Maria Elena Boschi. Si tratta di una dinamica che crea continue tensioni, eppure sembra inevitabile.

Il rapporto di forza tra Pd e Ncd è troppo sbilanciato a favore del primo per consentire grandi spazi di manovra e di ricatto alle formazioni minori. Il compromesso trovato sulla legge elettorale, abbassando al 3 per cento la soglia di ingresso in Parlamento, è stato una vittoria per il partitino di Angelino Alfano; e forse ha offerto anche una via d’uscita a quanti stanno meditando se lasciare in prospettiva Forza Italia. Di certo non facilita la ricomposizione del centrodestra: per questo Berlusconi lo ha criticato e parla di «pericolo di frammentazione». Ma conviene in primo luogo a Renzi. E l’accelerazione sul mercato del lavoro ristabilisce in qualche modo le vere priorità di palazzo Chigi. Per questo viene scavalcata la Legge di stabilità, tra le proteste di chi vede una forzatura. E sullo sfondo si profila l’ennesimo voto di fiducia per bruciare i tempi ed evitare una discussione che riaprirebbe polemiche e dissenso nel Pd.

La minoranza anti-Renzi fa sapere che non voterà «una delega in bianco». La Cgil, che dice di non partecipare ai giochi nel Pd ma rappresenta l’opposizione principale al premier, con Susanna Camusso definisce «non utile» il ricorso alla fiducia. Eppure, l’impressione è che il governo stia riuscendo a farle apparire comunque battaglie di retroguardia; e che si muova a tutto campo. Anche sul Quirinale, visto che l’altra sera, con Berlusconi, Renzi ha potuto discutere del «metodo» per arrivare al successore di Giorgio Napolitano. Sempre che il capo dello Stato confermi l’intenzione di dimettersi a gennaio.

14 novembre 2014 | 07:20
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/politica/14_novembre_14/vertice-sottolinea-primato-governo-09d11534-6bc6-11e4-ab58-281778515f3d.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO La sfida sociale sottolinea la pressione su Palazzo Chigi
Inserito da: Admin - Novembre 22, 2014, 05:27:42 pm
La Nota
La sfida sociale sottolinea la pressione su Palazzo Chigi
Ma si consolida il patto tra Renzi e Nuovo centrodestra su Jobs act e nuova legge elettorale.
L’irritazione di Forza Italia

Di Massimo Franco

Il contrasto tra Palazzo Chigi e Nuovo centrodestra si è già ricomposto. In nome del Jobs act e dell’accordo, confermato da Matteo Renzi, sulla legge elettorale. Ma rimane aperto il fronte con la minoranza del Pd. E si allarga lo scontro con il sindacato, perché dopo la Cgil anche la Uil annuncia lo sciopero generale; e forse, a ruota la Cisl. È il segno della difficoltà che ha il governo a tenere insieme spinte contrastanti; e la conferma che i maggiori grattacapi provengono da una sinistra che non perdona al premier una linea ritenuta troppo moderata. Gli otto emendamenti alla legge di Stabilità annunciati ieri dagli avversari di Renzi nel suo stesso partito rispondono al tentativo di metterlo in difficoltà su questo fronte. L’accusa è di avere ceduto all’Ncd sulla riforma del mercato del lavoro. In realtà, il compromesso raggiunto ieri tiene conto delle osservazioni che erano venute dal Pd. E vorrà pur dire qualcosa se Forza Italia è costretta ad annunciare una «contromanovra», attribuendo un aumento delle tasse alle misure del governo. È un modo per rintuzzare la critica di eccessiva accondiscendenza alla strategia di Renzi. E insieme, sia il riconoscimento implicito che la politica economica è indigesta all’elettorato di Silvio Berlusconi; sia che l’intesa tra Renzi e Alfano che abbassa al 3 per cento la soglia di ingresso in Parlamento per i partitini, destabilizza FI.

Prevale una sensazione di confusione, dovuta alla complessità delle materie da maneggiare; alle molte riforme in cantiere; e alla rapidità con la quale si vuole arrivare a un risultato. La voglia delle opposizioni di rallentare il percorso del Jobs act, tuttavia, è pari alla determinazione di approvarlo secondo la tabella prestabilita: dunque entro il 26 novembre. «Quando la cortina fumogena del dibattito ideologico si abbasserà, vedrete che il Jobs act non toglie diritti ma solo alibi: ai sindacati, alle imprese, ai politici», elenca Renzi. E respinge l’accusa di alzare la tassazione. Per questo, alla fine potrebbe mettere la fiducia. Le opposizioni fanno capire che sono in arrivo modifiche destinate, se accolte, a ritardare il voto.

Si tratta di un fronte del «no» che tende a saldarsi con il sindacato, Cgil in testa; e raffigura il premier come un tecnocrate impegnato solo a ricevere il «placet» dell’Unione Europea. Ma il lasciapassare di Bruxelles alla legge di Stabilità conta, non è un fatto secondario. Se ne dovrebbe sapere di più lunedì, e una punta di nervosismo si avverte. Confermare l’impegno sulle riforme, però, aiuta. E permette al ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, di affermare che si aspetta un riconoscimento «dello sforzo anche qualitativo» compiuto dall’Italia. «Sono stufo di sentirmi dire...» che «chiediamo soldi all’Ue». E questo mentre Beppe Grillo scommette sul collasso dell’Italia e offre come antidoto un’impossibile uscita dall’euro.

19 novembre 2014 | 10:15
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/politica/14_novembre_19/sfida-sociale-sottolinea-pressione-palazzo-chigi-236b47c0-6fbe-11e4-921c-2aaad98d1bf7.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO Una mossa che cerca di puntellare il governo
Inserito da: Admin - Dicembre 03, 2014, 03:24:52 pm
La Nota

Una mossa che cerca di puntellare il governo
Il rischio Il timore che le voci sulle dimissioni di Napolitano terremotino la maggioranza e diventino un pretesto per ulteriori rinvii in Parlamento

Di Massimo Franco

Continuavano a girare voci secondo le quali il 16 dicembre, durante il saluto alle alte cariche dello Stato, Giorgio Napolitano avrebbe potuto annunciare che si dimetterà. Il comunicato diffuso ieri sera dal Quirinale lo smentisce, richiamandosi al semestre di presidenza italiana dell’Europa. Significa che prima di fine anno non succederà nulla. Ma ormai l’attesa per le sue decisioni sovrasta e condiziona i lavori parlamentari. E viene perfino usata come alibi per rinviare le scadenze che il governo ritiene tuttora di dover rispettare.

La volontà di Silvio Berlusconi di rimandare il «sì» di Forza Italia alla riforma elettorale a dopo la partita per il Quirinale si comprende meglio su questo sfondo. Tra l’altro, gli consente di non accettare un compromesso che ritiene poco favorevole. Sostenendo che tutti sono già con l’occhio rivolto alle urne di primavera, lascia capire di essere pronto ad avallare la fine anticipata della legislatura senza cambiare sistema elettorale. «Tutte le volte che si usa questo argomento si vuole buttare la palla in tribuna», obietta il vicesegretario del Pd, Lorenzo Guerini.

Probabilmente è così. Ma sull’atteggiamento del centrodestra influisce anche il sospetto, mai del tutto rimosso, che il premier voglia accelerare su questa riforma per poi andare a votare. A sentire Guerini, le condizioni per siglare un’intesa prima di Natale rimangono in piedi. Il testo esaminato dalla commissione Affari costituzionali cammina «sotto la regia di Anna Finocchiaro», ricorda. Il vice di Matteo Renzi rammenta anche che la riforma era un impegno preso da tutte le forze politiche dopo le elezioni del 2013. E infatti il presidente del Consiglio chiede al Pd di accelerare, e non di rallentare.

La proposta di Berlusconi di scegliere prima il capo dello Stato «va restituita al mittente; e la legge elettorale calendarizzata il prima possibile». Si delinea dunque una guerra sui tempi del Parlamento tra i contraenti del patto del Nazareno: a conferma che, seppure nella confusione, gli interessi cominciano a divergere. L’attacco sferrato ieri dal premier contro Beppe Grillo dimostra la volontà di utilizzare la crisi del M5S. «È una questione istituzionale da non buttare via», spiega a una Direzione del Pd nella quale ha dovuto usare anche toni difensivi. La novità della «stanchezza» di Grillo e del suo passo indietro può consentire un confronto tra Pd e dissidenti del M5S per il Quirinale. È la consacrazione di una variabile che fa passare in secondo piano ogni altro tema, per quanto importante: la vera ipoteca che potrebbe frustrare la volontà di trasmettere alle Camere il senso di urgenza delle riforme, condiviso con diffidenza.

2 dicembre 2014 | 07:28
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/politica/14_dicembre_02/mossa-che-cerca-puntellare-governo-f4421676-79eb-11e4-81be-7152760d3cf5.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO La strettoia del premier tra partito e elezioni
Inserito da: Admin - Dicembre 14, 2014, 05:22:30 pm
La Nota
La strettoia del premier tra partito e elezioni

Di Massimo Franco

Proiettare l’ombra dell’ennesima resa dei conti sull’assemblea del Pd di domani comporta qualche rischio. Il primo è che, dopo un presunto chiarimento tra Matteo Renzi e la minoranza del partito, le cose continuino più o meno come prima: col premier che stravince fuori dal Parlamento, e colleziona invece piccoli sabotaggi e sconfitte alle Camere. Il secondo è di trasmettere al Paese l’immagine di una forza politica tuttora incapace di trovare un baricentro, pur avendo un leader vincente e dominando il governo. Sono contraddizioni destinate a pesare sia sul futuro della legislatura, sia sull’elezione del prossimo capo dello Stato.
E forniscono all’opposizione ottimi argomenti per imputare al Pd un conflitto patologico tra «lui», Renzi, e «loro», gli avversari interni; e per sostenere che se l’Italia sta andando male, dipende dalla tendenza a scaricare sulle istituzioni il duello a sinistra. Una lettura in parte di comodo. La coincidenza con lo sciopero generale di ieri organizzato da Cgil e Uil ha reso più vistosa la spaccatura tra i «due Pd»; e la difficoltà a rimetterli nello stesso alveo. «Scendano pure in piazza ma io ho troppo da cambiare per fermarmi», fa sapere il premier, che considera la protesta legittima ma la vede soprattutto come un tentativo di imbrigliarlo.

Il suo mantra continua ad essere: o riforme o declino. E «vista l’insistenza nel dire che devono essere gli organi del Pd a decidere, vedremo come la pensano i mille delegati», avverte alludendo all’assemblea del Pd. È una promessa di scontro. D’altronde, l’atteggiamento della minoranza è di chi considera i richiami alla disciplina di partito come minacce e violazioni dell’autonomia dei parlamentari. E Renzi non fa molto per nascondere l’insofferenza verso distinguo che a volte appaiono strumentali. Il problema è che si confondono tutti nel conflitto.
L’accumulo delle tensioni conferma quanto si dice da tempo: e cioè che la tenuta del premier è destinata a essere messa alla prova; e che avvicinandosi ai voti sulla riforma elettorale e per il Quirinale, le divergenze aumenteranno con la tentazione di scartare verso le urne. La crisi economica richiederebbe grande senso di responsabilità e coesione nazionale. I segnali che arrivano dalla Commissione Ue non lasciano presagire niente di buono. Il presidente Jean-Claude Juncker dice a Francia e Italia: «Non ho denaro fresco». Significa che margini per aiuti non ce ne sono.

Per paradosso, però, questo sfondo non basta a spingere i partiti al dialogo: tra loro e al proprio interno. L’idea di un ritorno alle urne, oltre che avventurosa, conferma una cultura della scorciatoia dura a morire. E consente a Beppe Grillo di sognare un 2015 di disastri politici e finanziari. «Arriverà la troika» costituita da Bce, Fmi e Commissione Ue a commissariare l’Italia?, si chiede Grillo. E si risponde: «Forse entro la primavera. Di certo basta un soffio per far cadere il governo». Se Mario Draghi non farà intervenire la sua Bce, aggiunge Grillo, «il 2015 sarà ricordato come l’anno dell’uscita dall’euro o del default »: il collasso. Che Grillo ci pensi, non deve sorprendere. Che qualcuno lo aiuti per insipienza o irresponsabilità, è inquietante.

13 dicembre 2014 | 16:40
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/politica/14_dicembre_13/strettoia-premier-partito-elezioni-f5287f9c-8299-11e4-a0e7-0a3afe152a95.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO Un pasticcio che può avere ripercussioni sul Quirinale
Inserito da: Admin - Gennaio 07, 2015, 12:02:52 pm
La Nota
Un pasticcio che può avere ripercussioni sul Quirinale

Di Massimo Franco
Purtroppo, l’opacità delle dinamiche che hanno portato al decreto fiscale cosiddetto «salva Berlusconi» rimane intatta. E favorisce la fioritura di indiscrezioni avvelenate e strumentalizzazioni. Il suo ritiro temporaneo, «fino all’elezione del capo dello Stato», ha detto Matteo Renzi, allunga un’ombra pesante non solo su Palazzo Chigi. Le opposizioni alimentano il sospetto che sia stato tentato uno scambio inconfessabile, e per il momento non riuscito, tra voti berlusconiani per il Quirinale e codicilli a favore dell’ex Cavaliere. Il problema è che finora né il premier, né FI sono riusciti a contrastare in modo convincente questa vulgata. Il pasticcio rischia di avere riflessi negativi sull’elezione del capo dello Stato.

L’ipotesi che Renzi e Berlusconi fossero al corrente di quanto stava avvenendo rimane da verificare. L’intesa ritrovata negli ultimi giorni tra i due contraenti del patto del Nazareno di un anno fa, viene fatta risalire dagli avversari dell’asse Pd-FI proprio a quella misura. Il premier ha cercato di troncare le polemiche attribuendosi la responsabilità del provvedimento. La scelta è coraggiosa ma ha prodotto un risultato controverso, perché è rimasta coperta l’identità dei redattori materiali della norma; ed è stato impossibile ricostruirne la genesi.

Il risultato politico immediato va al di là di una misura che, se approvata, permetterebbe anche di «perdonare» l’evasione fiscale per la quale è stato condannato Berlusconi. L’effetto dell’incidente, ad appena nove giorni dalle dimissioni annunciate di Giorgio Napolitano, è di rianimare l’ala antiberlusconiana della sinistra, che va ben oltre l’opposizione interna a Renzi; e di mettere nell’occhio del ciclone i ministri e i funzionari di Palazzo Chigi che avrebbero assecondato un’operazione maldestra. Il sospetto è che quanto sta venendo fuori possa avere tra gli obiettivi anche quello di tagliare fuori dalla corsa per il Quirinale il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan.

Nel testo del suo decreto arrivato a Palazzo Chigi non c’era traccia della soglia del 3% di evasione fiscale al di sotto della quale un reato non è punibile. Il mistero è come sia comparsa in Consiglio dei ministri; e come mai nessuno, almeno in apparenza, abbia notato il cambiamento. Se si pensa che nelle ultime settimane il presidente del Consiglio ha fatto di tutto per attenuare le tensioni, l’inciampo è grave. Non colpisce tanto l’offensiva di Beppe Grillo per accreditare la tesi di un Berlusconi «ventriloquo di Renzi». Fa riflettere il silenzio di una filiera del Pd e di FI, da sempre ostile al patto del Nazareno.

È un silenzio interpretabile in modi diversi. Per comprenderne il significato, basterà aspettare la seduta del Senato in programma giovedì per discutere la riforma elettorale. Potrebbe essere una prima indicazione, quasi una prova generale di quanto potrà accadere tra qualche settimana, quando cominceranno gli scrutini per il Quirinale. FI chiede a Renzi di difendere il provvedimento, teso secondo i berlusconiani a proteggere «gli imprenditori onesti», e a non cedere alle pressioni di chi vorrebbe far saltare il patto del Nazareno. Può darsi che una spiegazione di quanto sta accadendo sia proprio questa. Ma difendere quell’accordo, da ieri forse sarà meno facile.

6 gennaio 2015 | 08:45
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/politica/15_gennaio_06/pasticcio-che-puo-avere-ripercussioni-quirinale-df69be06-9571-11e4-9391-39bd267bd3d5.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO Il dopo Napolitano e le mosse del premier
Inserito da: Admin - Gennaio 15, 2015, 11:56:03 am
La Nota
Quirinale, le cautele di Renzi (ricordando le divisioni del partito)
Il dopo Napolitano e le mosse del premier

Di Massimo Franco

Bisogna credere a Giorgio Napolitano quando dice di essere contento di tornare a casa. Le sue dimissioni, previste per oggi, arrivano dopo un settennato più circa due anni di secondo mandato, imposto dall’emergenza e dalla richiesta pressante di rimanere al Quirinale; e finito con una parte dei 738 «grandi elettori» dell’aprile 2013, passati negli ultimi mesi dalle lodi sperticate a critiche altrettanto squilibrate: a conferma di quanto è cambiato il contesto italiano. Eclatante è il caso di FI e di Silvio Berlusconi, che pure fu il primo artefice della rielezione quando il cannibalismo tra candidati del Pd portò il Parlamento riunito ad un’impotenza preoccupante. La cautela con la quale il premier di oggi, Matteo Renzi, affronta le votazioni che cominciano il 29 gennaio è giustificata da quel precedente.

L’interregno sarà affidato da oggi alla supplenza del presidente del Senato, Pietro Grasso, come prevede la Costituzione. La ritrosia renziana a sbilanciarsi sulla candidatura che presenterà il Pd nasce dalla consapevolezza di una partita difficile: per l’Italia e per lui personalmente. Estimatori ma anche detrattori sanno bene che Napolitano lascia un vuoto di credibilità, in primo luogo internazionale, difficile da riempire. E il lungo elenco di nomi di esponenti democratici non testimonia solo una grande possibilità di scelta; conferma anche la frantumazione del Pd e la moltiplicazione delle ambizioni. Per questo Renzi per ora si rifugia dietro il profilo di «un arbitro di grande livello»: qualcuno che, nelle parole dell’ex segretario Pier Luigi Bersani, dovrebbe essere «almeno al livello» di Franco Marini e Romano Prodi, i due candidati eccellenti bruciati dal loro stesso partito nel 2013. Il suo obiettivo è di eleggere il presidente della Repubblica alla quarta votazione, quando basterà la maggioranza assoluta dei voti, e non saranno più necessari i due terzi. Significherebbe sancire al massimo livello istituzionale il patto del Nazareno con Berlusconi, e uscire presto da una sfida che altrimenti potrebbe incattivirsi e indebolire Palazzo Chigi.È la speranza del Movimento 5 Stelle, che infatti sembra deciso a giocare di rimessa.

Sostenere, come fa Beppe Grillo, che non ci sono nomi perché «li indicherà la Rete», significa non sbilanciarsi, aspettare di capire se e quanto Renzi riuscirà a tenere unite le sue truppe parlamentari; oppure se i giochi si complicheranno, permettendo al M5S di incunearsi nelle lotte interne del Pd e di FI. In quel caso, il patto del Nazareno andrebbe in frantumi. Secondo l’ex capo leghista Umberto Bossi, il premier riuscirà nell’impresa, anche perché il centrodestra è diviso e non in grado di imporre un proprio candidato, uomo o donna che sia. Ma intanto Bossi fa sapere che secondo lui Renzi «non può fare Prodi, perché gli italiani gli sparano. Si tratta di un veto non nuovo da parte del centrodestra, e vincente se si arriverà solo alla quarta votazione. Il tema della compattezza del Pd, tuttavia, rimane. Con un’allusione maliziosa alle liti a sinistra in Liguria e Campania, il leader del Nuovo centrodestra e ministro dell’Interno, Angelino Alfano, avverte che il Quirinale «non si può tradurre in elezioni primarie del Pd». E lascia capire che la trattativa andrà allargata. «Attendo di capire cosa vogliono fare», avverte Bersani. E in parallelo chiede un ripensamento anche sulla riforma elettorale di Renzi: tutto si deve tenere, per eleggere il capo dello Stato. Può darsi che la sintesi ci sia già, ma non ha ancora un nome.

14 gennaio 2015 | 09:05
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/politica/15_gennaio_14/quirinale-cautele-renzi-ricordando-divisioni-partito-8e79877e-9bc0-11e4-96e6-24b467c58d7f.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO Parigi, dopo i cortei ora il rischio è l’uso politico del terrori
Inserito da: Admin - Gennaio 18, 2015, 06:21:43 am
La Nota
Parigi, dopo i cortei ora il rischio è l’uso politico del terrorismo
Mentre Napolitano sta per dimettersi aumenta la possibilità che il voto per il Quirinale sia condizionato da fattori esterni

Di Massimo Franco

I l tema non è tanto la fondatezza del pericolo del terrorismo islamico in Italia, ma l’uso politico che già se ne comincia a fare. A poche ore dalla manifestazione dei capi di Stato e di governo a Parigi seguita agli attentati del 7 gennaio, l’unanimismo si è già incrinato: a livello internazionale e da noi. Gli attentati stanno producendo un’ondata di richieste destinate a condizionare le agende dei partiti; a renderle più attente alle paure dell’opinione pubblica. E, come in Francia il Front National di Marine Le Pen, in Italia è la Lega a guidare il fronte di chi cerca di approfittare di quanto è accaduto: per motivi insieme culturali ed elettorali.

La richiesta di abolire il trattato di Schengen, che permette la libera circolazione dei cittadini europei nell’Unione, è solo il primo atto. L’altro è una manifestazione di sfiducia e diffidenza nei confronti di tutto il mondo islamico, giustificato dalla presenza di una minoranza eversiva e, secondo i servizi segreti, pronta a colpire ancora. Proprio partendo dal corteo parigino, FI denuncia un evento in cui ha colpito «l’assoluta egemonia della sinistra», sostiene il Mattinale, il bollettino del gruppo berlusconiano alla Camera. «Si sono eretti a interpreti unici dei sentimenti del popolo europeo».

Il tentativo è di accreditare una controverità rispetto a quella che descrive un’Europa compatta e solidale, e insieme decisa alla fermezza ma anche alla tolleranza. Nei quaranta governanti che hanno sfilato insieme si vede un fatto positivo; eppure si imputa loro anche «il totale rifiuto di vedere nell’Islam la fonte avvelenata delle stragi». È una deriva della quale già sono spuntati i primi indizi. A rafforzarla è un umore antieuropeo ramificato e crescente: lo stesso che ha portato ad un’affermazione delle forze populiste alle ultime elezioni europee, con Germania e Italia uniche eccezioni.

Dal 7 gennaio, il problema è come impedire che prevalga una narrativa destinata ad alimentare l’idea di una guerra di religione in atto. Le analisi che spiegano come in realtà il vero conflitto si combatta tra Al Qaeda e Isis, e contro la grande massa dei musulmani moderati, faticano a fare breccia. Anche perché più uccide europei, più l’eversione conta di fare proseliti dentro e fuori i confini dell’Ue. Ma «non si tratta di blindare i nostri Paesi: significherebbe blindare la democrazia», ha detto ieri il senatore del Pd, Sergio Zavoli. «Basterà informare, conoscere e agire».

Palazzo Chigi cerca di arginare l’allarmismo e gli attacchi delle opposizioni, che vanno dalla persistenza della crisi economica al bilancio del semestre italiano, fino agli attentati. «Nessun governo europeo parla di sospendere Schengen», spiega il ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni. «Sacrificare la libertà di circolazione sarebbe un prezzo inaccettabile da pagare al terrorismo». Si sta per dimettere Giorgio Napolitano, e il 29 ottobre si comincerà a votare per il successore. Il rischio che fattori esterni condizionino le elezioni per il Quirinale, sta oggettivamente aumentando.

13 gennaio 2015 | 07:23
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/politica/15_gennaio_13/parigi-cortei-ora-rischio-l-uso-politico-terrorismo-96f9c9cc-9ae9-11e4-bf95-3f0a8339dd35.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO Chi dopo Napolitano? Per il Quirinale una corsa troppo affollata
Inserito da: Admin - Gennaio 18, 2015, 06:28:19 am
Chi dopo Napolitano?
Chi dopo Napolitano? Per il Quirinale una corsa troppo affollata

Di Massimo Franco
Il cosiddetto «toto Quirinale» è sempre esistito. È un rito quasi inevitabile quando si cambia capo dello Stato. Ed ha contorni ambigui: un po’ promozione, o autopromozione, e un po’ tritacarne. Ma stavolta l’ultimo aspetto rischia di diventare preponderante. Più che ad una gara di previsioni divertente e un po’ spregiudicata, stiamo assistendo ad uno stillicidio di candidature. E non sempre risulta chiaro se nascano da aspirazioni personali a succedere a Giorgio Napolitano, o da indiscrezioni pilotate dall’alto: magari solo per misurare le reazioni, «consumare» alcuni nomi in anticipo, e insieme confondere le acque sulle vere intenzioni di chi ha il potere di decidere.

Se esiste una regia, il dubbio è che sia partita molto presto, perché all’inizio del voto a Camere riunite mancano ancora due settimane. Lanciando un candidato al giorno, uomo o donna, aumenta il rischio di bruciare nel mucchio figuranti e potenziali protagonisti. Ma aumentano anche le probabilità che la situazione sfugga di mano a chi promuove questo sondaggio logorante. Il Pd e la stessa Forza Italia, architravi del patto che dovrebbe portare all’elezione al quarto scrutinio, quando basterà la maggioranza assoluta dei voti, sono tutt’altro che granitici. Lo scarto deciso ieri dai berlusconiani sulla riforma elettorale, soprattutto, è un avvertimento. Dice al premier e allo stesso leader di FI quanto siano profondi i malumori in quel partito, e dunque in bilico i voti dei suoi parlamentari in assenza di una candidatura «di garanzia». I nomi che continuano a uscire moltiplicano aspettative destinate tutte ad essere frustrate, tranne una. L’impressione è quella di un Matteo Renzi che intensifica i contatti senza però chiudere un vero accordo con nessuno. La tattica testimonia la sua abilità, ma potrebbe anche acuire le diffidenze: come se avesse lasciato balenare la sagoma del Colle davanti agli occhi di troppi pretendenti.

Il problema è chi sopravvivrà a una esposizione continua a veti e interdizioni che accentuano l’immagine di un Parlamento ingovernabile e di un presidente della Repubblica «ineleggibile». Probabilmente è una preoccupazione esagerata, che sarà smentita dalla capacità di offrire una prova di unità su una scelta di prestigio. Esprimerla può servire tuttavia ad esorcizzare la prospettiva di uno spettacolo simile a quello a cui l’Italia ha dovuto assistere meno di due anni fa; e conclusosi con la rielezione di Napolitano, quasi per disperazione. Benché le tribù interne si agitino, il Pd sa di non potersi permettere di sbagliare di nuovo. Ma viene da chiedersi se sull’altare della compattezza del maggior partito si inginocchieranno docilmente sia gli avversari, sia quanti si sono illusi, a torto o a ragione, di essere i predestinati al Quirinale. Più ce ne saranno, più il loro voto di delusi potrà incidere sull’esito finale. Per questo ci si aspetterebbe una rotta di avvicinamento al 29 gennaio più prudente e meno tesa ad accendere vanità che possono bruciare indiscriminatamente vere e false candidature. La storia insegna che le elezioni del capo dello Stato seguono quasi sempre dinamiche imprevedibili. Anticipano gli equilibri del sistema, più che fotografarli staticamente. E tendono a sottrarsi a qualunque regia: tanto più a quelle che puntano a maneggiare il caos per arrivare al capo dello Stato voluto. In un Parlamento come l’attuale, il pericolo e l’esito paradossale potrebbe essere un presidente eletto quasi per caso, se non «a dispetto».

16 gennaio 2015 | 08:54
© RIPRODUZIONE RISERVATA

DA - http://www.corriere.it/editoriali/15_gennaio_16/chi-napolitano-il-quirinale-corsa-troppo-affollata-a1dc6282-9d46-11e4-b018-4c3d521e395a.shtml


Titolo: M. FRANCO Parigi, dopo i cortei ora il rischio è l’uso politico del terrorismo
Inserito da: Admin - Gennaio 19, 2015, 06:57:51 am
La Nota

Parigi, dopo i cortei ora il rischio è l’uso politico del terrorismo
Mentre Napolitano sta per dimettersi aumenta la possibilità che il voto per il Quirinale sia condizionato da fattori esterni

Di Massimo Franco

I l tema non è tanto la fondatezza del pericolo del terrorismo islamico in Italia, ma l’uso politico che già se ne comincia a fare. A poche ore dalla manifestazione dei capi di Stato e di governo a Parigi seguita agli attentati del 7 gennaio, l’unanimismo si è già incrinato: a livello internazionale e da noi. Gli attentati stanno producendo un’ondata di richieste destinate a condizionare le agende dei partiti; a renderle più attente alle paure dell’opinione pubblica. E, come in Francia il Front National di Marine Le Pen, in Italia è la Lega a guidare il fronte di chi cerca di approfittare di quanto è accaduto: per motivi insieme culturali ed elettorali.

La richiesta di abolire il trattato di Schengen, che permette la libera circolazione dei cittadini europei nell’Unione, è solo il primo atto. L’altro è una manifestazione di sfiducia e diffidenza nei confronti di tutto il mondo islamico, giustificato dalla presenza di una minoranza eversiva e, secondo i servizi segreti, pronta a colpire ancora. Proprio partendo dal corteo parigino, FI denuncia un evento in cui ha colpito «l’assoluta egemonia della sinistra», sostiene il Mattinale, il bollettino del gruppo berlusconiano alla Camera. «Si sono eretti a interpreti unici dei sentimenti del popolo europeo».

Il tentativo è di accreditare una controverità rispetto a quella che descrive un’Europa compatta e solidale, e insieme decisa alla fermezza ma anche alla tolleranza. Nei quaranta governanti che hanno sfilato insieme si vede un fatto positivo; eppure si imputa loro anche «il totale rifiuto di vedere nell’Islam la fonte avvelenata delle stragi». È una deriva della quale già sono spuntati i primi indizi. A rafforzarla è un umore antieuropeo ramificato e crescente: lo stesso che ha portato ad un’affermazione delle forze populiste alle ultime elezioni europee, con Germania e Italia uniche eccezioni.

Dal 7 gennaio, il problema è come impedire che prevalga una narrativa destinata ad alimentare l’idea di una guerra di religione in atto. Le analisi che spiegano come in realtà il vero conflitto si combatta tra Al Qaeda e Isis, e contro la grande massa dei musulmani moderati, faticano a fare breccia. Anche perché più uccide europei, più l’eversione conta di fare proseliti dentro e fuori i confini dell’Ue. Ma «non si tratta di blindare i nostri Paesi: significherebbe blindare la democrazia», ha detto ieri il senatore del Pd, Sergio Zavoli. «Basterà informare, conoscere e agire».

Palazzo Chigi cerca di arginare l’allarmismo e gli attacchi delle opposizioni, che vanno dalla persistenza della crisi economica al bilancio del semestre italiano, fino agli attentati. «Nessun governo europeo parla di sospendere Schengen», spiega il ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni. « Sacrificare la libertà di circolazione sarebbe un prezzo inaccettabile da pagare al terrorismo». Si sta per dimettere Giorgio Napolitano, e il 29 ottobre si comincerà a votare per il successore. Il rischio che fattori esterni condizionino le elezioni per il Quirinale, sta oggettivamente aumentando.

13 gennaio 2015 | 07:23
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/politica/15_gennaio_13/parigi-cortei-ora-rischio-l-uso-politico-terrorismo-96f9c9cc-9ae9-11e4-bf95-3f0a8339dd35.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO Renzi e il Quirinale, prima sfida è arrivare al 29 gennaio col ..
Inserito da: Admin - Gennaio 24, 2015, 10:18:55 am
La Nota POLITICA
Renzi e il Quirinale, prima sfida è arrivare al 29 gennaio col Pd unito
Lo scenario: l’ostruzionismo strisciante sulle riforme di FI, Lega e Grillo si può saldare con i malumori della minoranza sul patto del Nazareno

Di Massimo Franco

L’ applauso che ieri Matteo Renzi ha sollecitato alla direzione del Pd per un «minorenne» per il Quirinale, Nico Stumpo, è significativo. «Almeno tu non hai cinquant’anni», lo ha benedetto scherzosamente. È evidente che il segretario-premier sente la pressione della filiera dei candidati interni. E per quanto sostenga che il loro numero «non è un problema», si rende conto di doverne scontentare la quasi totalità. Anche per questo ribadisce che la questione del capo dello Stato sarà discussa col partito e gli alleati di governo. E annuncia che la designazione avverrà solo ventiquattro ore prima dell’inizio delle votazioni a Camere riunite, il 29 gennaio. Dire che se si ripeterà la situazione del 2013, quando non si riuscì ad eleggere un nuovo capo dello Stato, il Pd sarà additato come colpevole, è un appello-monito all’unità. E tradisce il timore che prevalga la voglia di sabotare la strategia renziana. Non a caso, l’intervento che il presidente del Consiglio ha fatto ieri è stato rivolto all’interno. Per definire il Pd «forza tranquilla»; per rivendicare soluzioni che dovrebbero avere tacitato la minoranza, soprattutto sulla legge elettorale; insomma, per far capire che riterrebbe incomprensibile una fronda sull’Italicum, «difficilmente migliorabile», nel Pd.

È sempre più evidente che la priorità di Renzi nei prossimi giorni sarà di garantirsi la compattezza del proprio partito. Senza quella, risulterà più difficile piegare le resistenze di una Forza Italia in ebollizione; ed eleggere il presidente della Repubblica che vuole. E infatti, alcuni dei nomi emersi nelle ultime ore in mezzo a molti altri segnalano questo: l’intenzione di rassicurare gli avversari interni. Sono alcuni esponenti storici del Pd quelli da convincere: molto più dei Civati, dei Cuperlo e dei Fassina. Il «via libera» all’accordo con Fi non può non passare per il «placet» di quanti, dentro e fuori dal Parlamento, possono influire sui gruppi parlamentari. D’altronde, prima ancora della presidenza della Repubblica, nei prossimi dieci giorni sarà necessaria una marcia a tappe forzate per approvare legge elettorale e riforma del Senato. L’ostruzionismo strisciante minacciato da Fi, dalla Lega e dal M5S di Beppe Grillo può saldarsi con i malumori della minoranza del Pd. «Sarebbe allucinante bloccare il percorso di riforme per l’elezione del capo dello Stato. Abbiamo scelto il metodo del dialogo e sono convinto che il Pd non fallirà», ammonisce il premier. Ma occorreranno sedute notturne e una presenza senza distrazioni.

L’incastro risulta complicato dall’ombra persistente del patto del Nazareno tra Renzi e Silvio Berlusconi. È riemersa anche ieri in alcuni interventi in direzione. Il pasticcio del decreto fiscale presentato e ritirato dal governo perché depenalizzerebbe uno dei reati per i quali è stato condannato il capo di FI, aleggia. Renzi ha ribadito la volontà di correggerlo solo dopo il 20 febbraio. Questo ripropone le domande sul perché voglia aspettare tanto. Gli oppositori del Movimento 5 Stelle continuano ad accusarlo di voler scambiare i voti berlusconiani sul capo dello Stato con una sorta di «grazia» surrettizia concessa da palazzo Chigi. Ma l’ombra del nulla di fatto della primavera del 2013, per Renzi, è più imbarazzante, per il Pd. Evocandola, Renzi confida di far passare in secondo piano il resto.

© RIPRODUZIONE RISERVATA
17 gennaio 2015 | 09:23

Da - http://www.corriere.it/politica/15_gennaio_17/renzi-quirinale-prima-sfida-arrivare-29-gennaio-col-pd-unito-cd1253be-9e11-11e4-a48d-993a7d0f9d0e.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO Mattarella discorso d’insediamento Tanti applausi, tutti sinceri?
Inserito da: Admin - Febbraio 06, 2015, 05:53:47 pm
IL NUOVO PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA
Mattarella, discorso d’insediamento Tanti applausi, tutti sinceri?

Di Massimo Franco

Pensare che da domani l’Italia si adeguerà allo stile e ai valori indicati da Sergio Mattarella nel suo discorso di investitura davanti al Parlamento sarebbe ingenuo, se non velleitario. Sarebbe ancora più miope, però, sottovalutare il cambio di fase che l’arrivo del nuovo capo dello Stato segna non solo nel mondo della politica ma anche nel rapporto tra istituzioni e società italiana. Ieri mattina, il successore di Giorgio Napolitano ha indicato una serie di obiettivi non subordinati ai tempi stretti, all’urgenza di decisioni affidate spesso alla velocità, ai blitz spiazzanti: tanto abili quanto, a volte, pagati con strappi e lacerazioni.

Quelli spettano ad altri, e riflettono il passo e le caratteristiche di poteri che hanno logiche e obiettivi diversi da perseguire. Mattarella ragiona sulla distanza di sette anni. E probabilmente sa bene che i frutti della sua semina, se riuscirà, arriveranno soltanto sul periodo medio e lungo. Nell’immediato, si intuisce da parte della classe politica una sorta di istintiva continuità nei comportamenti, nel linguaggio, nello stile: quasi l’elezione fosse una parentesi virtuosa e felice, aperta e chiusa senza pensare troppo al suo significato. Forse anche per questo sembrano diventati tutti, a parole, «mattarelliani». L a rivendicazione di imparzialità del presidente della Repubblica non è un’affermazione di rito. Impressionano gli applausi arrivati da gran parte dei parlamentari del Movimento 5 Stelle e dalle file di Forza Italia, oltre che dal Pd. Dicono che in quell’ex giudice costituzionale planato sul Parlamento come uno sconosciuto, per molti quasi un marziano, gran parte degli avversari vedono un interlocutore. Di più: un sincero rammendatore non tanto della politica ma di un’Italia divisa e logorata, che negli ultimi anni si è come rassegnata a tirare fuori il peggio da ciascuno; e che adesso si ritrova stanca di conflitti artificiosi, e ansiosa di ricominciare.

L’elezione di Mattarella chiude due ferite. Quella del Pd che meno di due anni fa aveva bruciato la candidatura di Romano Prodi, e prima di Franco Marini; e in parallelo quella delle dimissioni anticipate di Napolitano, uscito di scena anche perché non sentiva più intorno a sé l’appoggio che gli era stato garantito al momento della conferma. Va detto: se c’é Mattarella è perché c’é stato Napolitano, non a caso citato e ringraziato. Il concetto di imparzialità contiene un secondo sottinteso, del quale presto si vedranno gli effetti: il Quirinale si ergerà a garante anche di quanti negli ultimi anni non si sono riconosciuti nelle istituzioni, sentendosi esclusi.

La scommessa di Sergio Mattarella è questa: rassicurare e ricucire socialmente l’Italia, riavvicinare le generazioni, le aree del Paese, le diverse culture, e offrire un impasto solido di memoria storica e di valori condivisi, ancorati ad una visione rigorosa della legalità: quelli che la Seconda Repubblica non è riuscita a cementare. Il suo stile sobrio, la semplicità, l’assenza di gestualità ne fanno una sorta di presidente «radiofonico», più che televisivo. Non un brillante arringatore di folle, ma un uomo riflessivo, lievemente autoironico, che tende a mangiarsi le parole eppure le sa scegliere con parsimoniosa precisione. Non sa comunicare, si dice. Ottimo: di grandi comunicatori l’Italia ne ha anche troppi.

4 febbraio 2015 | 08:35
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_febbraio_04/mattarella-discorso-d-insediamento-tanti-applausi-tutti-sinceri-eb9b4504-ac38-11e4-88df-4d6b5785fffa.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO La corsa al colle Quirinale, un percorso ragionevole
Inserito da: Admin - Febbraio 06, 2015, 05:54:42 pm
La corsa al colle
Quirinale, un percorso ragionevole

Di Massimo Franco

L’ appello di Matteo Renzi al centrodestra perché voti Sergio Mattarella dovrebbe permettere a Silvio Berlusconi ed Angelino Alfano di uscire dalla trappola nella quale si sono infilati; e al premier, di mascherare un po’ la sindrome dell’asso pigliatutto. Il tentativo è di trasformare la loro sconfitta e la loro frustrazione in un nuovo asse istituzionale sublimato dall’esigenza di votare insieme il presidente della Repubblica e continuare le riforme. Non è detto che la ricucitura riesca in pieno. Quasi certamente Mattarella questa mattina diventerà capo dello Stato al quarto scrutinio col voto del Pd, di almeno una parte del Nuovo centrodestra e di altre formazioni minori. Ma Forza Italia opterà per le schede bianche.

Dire, come ha fatto il premier, che la scelta non è un affare di partito ma un’offerta a tutto il Parlamento, è apparso un gesto di ragionevolezza politica: una mossa minima e indispensabile per evitare un irrigidimento del Ncd, tuttora in tensione, che avrebbe potuto portare presto perfino ad una crisi di governo. Arginando la voglia di stravincere, Renzi alla fine ha capito che era meglio ricoprire il ruolo di chi convince gli interlocutori, senza umiliarli. D’altronde, più sottolineava la candidatura come una propria vittoria, più rischiava di risvegliare gli istinti peggiori del Parlamento e dello stesso Pd. Forse, però, il merito maggiore del suo appello di ieri sera è quello di proteggere una personalità rispettata come Mattarella, al quale non si farebbe giustizia schiacciandolo nei limiti angusti di uno schieramento o, peggio, di un partito o di un leader. A questo punto, occorre davvero una forte dose di irresponsabilità per non partecipare alla sua elezione. Il pericolo sembra parzialmente sventato, col passare delle ore. Le ipotesi più strampalate e miopi, tipo l’abbandono dell’Aula al momento del quarto scrutinio di stamattina alle 9.30, sono rientrate. E la durezza di Berlusconi si spiega soprattutto con le tensioni che montano all’interno del suo partito.

Sarà lì, dentro il recinto del centrodestra, che il Quirinale di Mattarella provocherà i cambiamenti più immediati e profondi. Già li sta provocando: se non ci saranno sorprese, oggi la maggioranza di governo si ritroverà intorno al nuovo presidente della Repubblica. Ma con qualche livido. La ricomposizione FI-Ncd, annunciata come strategica, riemerge con contorni ambigui. Lo stesso rapporto tra Pd e Alfano, però, si è incrinato. E il patto del Nazareno Renzi-Berlusconi, mitizzato dal secondo come una sorta di vademecum per la legislatura, le istituzioni e chissà che altro, ridimensionato brutalmente: ridotto a strumento utilizzato con spregiudicatezza dal premier per raggiungere i suoi obiettivi, e subìto dal Cavaliere.

La domanda è quali effetti tutte queste increspature potrebbero avere sulle riforme. Sarebbe un peccato se provocassero una battuta d’arresto, o comunque un rallentamento: quasi finora fossero state promosse non in quanto indispensabili all’Italia, bensì per accreditare o rilegittimare una leadership. Con la sua esperienza anche di giudice della Consulta e le doti di equilibrio che gli si riconoscono, Mattarella si propone come un garante e un regista costituzionale. Il problema è che i partiti lo aiutino, come non hanno fatto invece con Giorgio Napolitano pur avendoglielo assicurato ripetutamente.

Se l’elezione di oggi andrà secondo le previsioni, ridarà credibilità alla politica. Non a scatola chiusa né a lungo, però, senza la consapevolezza che il Paese è spaventato e diviso; e aspetta di essere rassicurato, non strattonato. Sotto questo aspetto, anche lo stile di Renzi può diventare alla lunga non un pregio ma un limite. La sua abilità viene accresciuta dal modo in cui ha gestito la partita del Quirinale. In parallelo, però, si consolidano anche la diffidenza e l’irritazione degli interlocutori nei suoi confronti. Avere come capo dello Stato una persona come Mattarella, di cui si sottolineano non le doti di comunicatore ma l’affidabilità, la discrezione e la competenza, potrebbe rivelarsi presto una risorsa assai preziosa. Utile e insieme scomoda per tutti.

31 gennaio 2015 | 09:03
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_gennaio_31/quirinale-percorso-ragionevole-ecac4ea8-a912-11e4-96d4-6a68544c2eeb.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO Il voto per il presidente della repubblica ...
Inserito da: Admin - Febbraio 07, 2015, 10:06:23 am
Il voto per il presidente della repubblica
Quirinale, la scelta e lo strappo

Di Massimo Franco

C’ è già chi parla malignamente di rivincita della Prima Repubblica e della Democrazia cristiana. Ma se domani Sergio Mattarella sarà eletto capo dello Stato, la vulgata dovrà essere corretta; meglio, riequilibrata. La sua designazione da parte di Matteo Renzi suggerisce semmai una lettura meno manichea e ideologica del passato; e permette di rivisitarlo con un senso della storia meno influenzato dai luoghi comuni: Mattarella incarna ciò che di meglio ha espresso quella stagione moderata della politica italiana. Le sorprese sono sempre possibili: il Pd è maestro di lotte fratricide, come dimostra la competizione di circa due anni fa che approdò alla conferma di Giorgio Napolitano.

Ma la logica porterebbe a dire che il segretario-premier è riuscito a trovare un profilo insieme alto e condivisibile dall’intero partito, e non solo. Mattarella è una personalità agli antipodi rispetto a Renzi, eppure proprio questo rappresenta un elemento di merito per chi lo ha proposto. Si dirà che ha prevalso l’esigenza di tenere unito il Pd. E questo c’è: sarà essenziale per centrare il risultato e non aprire giochi al buio. Non a caso, il ruolo di ricucitura di Pier Luigi Bersani può risultare decisivo per arginare i franchi tiratori. Se regge l’intesa, l’abilità renziana va sottolineata. Rimane da capire il ruolo che il centrodestra si assegna. P er ora bisogna prendere atto del rifiuto, apparentemente perentorio, di Forza Italia e Ncd di avallare il candidato del Pd, gridando alla violazione dei patti. Tuttavia si tratta di un «no» che va decifrato e tarato su quanto accadrà nelle prossime ore. Regalare Mattarella non al Pd ma ad una maggioranza di sinistra non sarebbe un capolavoro di strategia. Idem, in caso di nulla di fatto, aprire una sorta di lotteria, coda fedele e avvelenata di quel toto Quirinale che ha creato troppe aspettative e dunque troppe frustrazioni; per poi magari ritrovarsi una candidatura ben più sgradita.

La sensazione è che Silvio Berlusconi e Angelino Alfano resistano all’idea di appoggiare Mattarella soprattutto perché ritengono di avere subìto uno sgarbo; e perché vogliono risultare determinanti, non aggiuntivi. Insomma, rivendicano una versione paritaria del patto del Nazareno, di fronte al metodo brusco di un Renzi che addita e non concorda una soluzione; e ora sono tentati di disdirlo, scottati da una mossa imprevista e spregiudicata. È un’operazione azzardata, però. E lascia altrettanto perplessi l’orientamento, non ancora definitivo, di Alfano di non votare Mattarella alla quarta votazione. Un’opzione del genere inserirebbe un cuneo non tanto nella scelta del presidente della Repubblica quanto nella maggioranza di governo e nel processo di riforme.

Il Nuovo centrodestra ha appena votato col Pd e con FI quella elettorale. Evidentemente, ora non vuole regalare al premier l’aureola del vincitore. Il problema è se, per conseguire l’obiettivo, i critici di Renzi non finiranno per risultare ancora più perdenti. Dovrebbe suggerire qualcosa il modo in cui Lega e Movimento 5 Stelle attaccano da versanti opposti la candidatura di Mattarella. Ieri, dopo la prima votazione, nella quale occorreva la maggioranza qualificata di due terzi dei consensi, le schede bianche sono state 538: moltissime, come previsto; e oggi dovrebbe essere più o meno lo stesso. Si vedrà presto se mascherano giochi ancora coperti, o, come è più probabile, giochi ormai fatti.

30 gennaio 2015 | 07:52
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_gennaio_30/quirinale-scelta-strappo-da6064f2-a848-11e4-9642-12dc4405020e.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO Il rischio di Forza Italia: dopo il Pd, subalterna alla Lega
Inserito da: Admin - Febbraio 13, 2015, 02:35:48 pm
La Nota
Il rischio di Forza Italia: dopo il Pd, subalterna alla Lega
Renzi consolida la forza del governo in Parlamento, ma i problemi possono arrivare dalla crisi economica e dal caso greco

Di Massimo Franco

Il rischio di scivolare da una subalternità all’altra è concreto. Ma è ancora più vistoso il disorientamento che le oscillazioni di Silvio Berlusconi possono provocare tra militanti ed elettori di FI. Passare in pochi giorni dal patto del Nazareno con Matteo Renzi ad un “patto di Arcore» con il leghista Matteo Salvini «per fermare il premier» è più di una giravolta. Sottolinea quanto sia stata dura la sconfitta dell’ex Cavaliere nella partita del Quirinale; e come la nostalgia delle vecchie alleanze possa portare Berlusconi nelle braccia di un populismo che lo indebolirà ulteriormente.

Anche perché l’abbraccio con la Lega, che Il Mattinale, bollettino di FI alla Camera, definisce «a 360 gradi», viene invece accettato da Salvini con cautela. È la prudenza di chi si sente in vantaggio, teme ripensamenti improvvisi, e vuole trattare da posizioni di forza. La richiesta a Berlusconi di appoggiare candidati del Carroccio alla presidenza di tutte le regioni del Nord è il pedaggio da pagare. In passato, bilanciava il primato dell’allora Cavaliere nel governo nazionale. Ora, potrebbe certificare il ruolo di FI come portatrice d’acqua di un’opposizione a guida leghista. Per questo bisogna capire quanto sia definitiva la svolta.

Palazzo Chigi sembra considerarla tale. E prende le contromisure. Il lungo incontro di ieri tra Renzi e il ministro dell’Interno e leader del Ncd, Angelino Alfano, è una sorta di controcanto alla cena di Arcore tra FI e Lega. Mostra una collaborazione di governo che si rinsalda dopo le tensioni seguite all’elezione di Sergio Mattarella come capo dello Stato. E bilancia il passaggio di Berlusconi all’opposizione dura, sebbene con qualche margine di ambiguità; e il rifiuto di Salvini di presentarsi alle regionali accanto al simbolo «governativo» del Ncd. Sono istantanee di un’area politica in via di disgregazione.

E conferme dei margini crescenti di manovra che Renzi può sfruttare. Ormai, la riforma elettorale è al punto di arrivo, quella del Senato potrebbe cambiare; ma in entrambi i casi è il presidente del Consiglio ad avere il timone. E può usarlo magari per venire incontro alla minoranza del Pd; o per attrarre nella propria orbita gli scontenti di FI o del Movimento 5 Stelle in Parlamento: voti che sarebbero ben accetti, in particolare al Senato, nonostante l’ombra di manovre trasformistiche.

I pericoli per il governo arrivano da fuori, dalla crisi economica europea. Il fatto che una Grecia alla disperata ricerca di crediti abbia tirato in ballo l’Italia per indicare un altro Paese a rischio di bancarotta, è preoccupante. Il ministro Pier Carlo Padoan ha giustamente definito «fuori luogo» le parole del collega greco Yanis Varoufakis, che ieri ha negato di averle mai dette. Se la situazione greca dovesse avvitarsi, però, quel giudizio maldestro potrebbe riaffiorare in Europa, e sovrastare i numeri del governo Renzi in Parlamento.

10 febbraio 2015 | 09:17

Da - http://www.corriere.it/politica/15_febbraio_10/rischio-forza-italia-il-pd-subalterna-lega-957fa86e-b0fb-11e4-9c01-b887ba5f55e9.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO Un premier determinato a rispondere colpo su colpo
Inserito da: Admin - Febbraio 20, 2015, 04:43:36 pm
La Nota
Un premier determinato a rispondere colpo su colpo
Ma aumentano i segnali di accerchiamento di Palazzo Chigi da parte di Forza Italia e della minoranza del Pd

Di Massimo Franco
Con lucidità, l’ex presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ieri ha fotografato una situazione totalmente ribaltata rispetto ad alcune settimane fa. «Mi pare che si sia passati», ha detto, «da un accordo non su tutto a un disaccordo su tutto». Alludeva a quanto è accaduto tra Matteo Renzi e Silvio Berlusconi: un asse spezzatosi ufficialmente con l’elezione del nuovo capo dello Stato, Sergio Mattarella. Anche se è poco credibile che sia stato solo quello ad archiviare il patto di non aggressione reciproca tra Pd e FI.

Gli effetti collaterali che stanno arrivando segnano comunque un irrigidimento delle posizioni; e segnalano nuovi tentativi di mettere in difficoltà il premier: da parte dell’opposizione e dello stesso Pd. Il decreto che doveva depenalizzare alcune frodi fiscali va verso un rinvio «per evitare pasticci», annuncia Renzi: decisione presa dopo che l’ex segretario Pier Luigi Bersani aveva lanciato un mezzo avvertimento a Palazzo Chigi. Ma il premier ribadisce che il provvedimento non riguardava e non riguarderà le condanne di Berlusconi.

Il secondo attacco è venuto dopo la tragedia degli oltre trecento immigrati morti nel canale di Sicilia: un dramma che ha spinto Mattarella a parole di compassione e di solidarietà. Ma altri hanno criticato l’abbandono dell’operazione Mare nostrum . E la polemica ha irritato Renzi, che ci ha visto solo una «strumentalizzazione cinica»: per questo ha replicato subito, insieme al Viminale, spostando il tiro sul vuoto di potere in Libia e sul ruolo dell’Ue. Il terzo fronte è quello parlamentare. E lì le macerie del patto del Nazareno sono vistose. Berlusconi fa sapere che dirà come vota sulla riforma elettorale e del Senato solo alla fine; e lascia capire che farà di tutto per rallentarne l’approvazione.
In più, FI chiede al premier chiarimenti sulla legge del governo che riguarda le maggiori banche popolari, insinuando che qualcuno, nella cerchia di Palazzo Chigi potrebbe avere utilizzato alcune informazioni riservate per trarne profitto. Su questo la Consob, l’organo di controllo sulle attività di Borsa, sta indagando. L’impressione, però, è che tanta aggressività adesso sia un po’ sospetta; e che la corsa all’opposizione di Forza Italia nasca soprattutto dalle difficoltà profonde nelle quali si dibatte Berlusconi. È parte del suo tentativo di riprendere in mano il controllo del partito.

L’ultimatum lanciato ieri alla minoranza di Raffaele Fitto, al quale l’ex premier chiede di allinearsi entro due settimane o andarsene, è un gesto di nervosismo, più che di forza. «Ci vuoi cacciare perché avevamo ragione?», lo provoca l’avversario interno, mettendo in fila tutti quelli che ritiene gli errori commessi nella gestione del patto del Nazareno. D’altronde, è stato lo stesso Berlusconi a dichiarare finito l’asse con Palazzo Chigi; e ad assumersi la responsabilità delle sconfitte, ammettendo che sarebbe stato «ottuso e nefasto» continuare su quella strada. Ma è in agguato il rischio dell’altra subalternità, alla Lega, favorita dagli strappi quasi quotidiani del leader di FI.

12 febbraio 2015 | 09:56
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/politica/15_febbraio_12/premier-determinato-rispondere-colpo-colpo-98685ca2-b280-11e4-9344-3454b8ac44ea.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO Uno scontro che rischia di esporre il Quirinale
Inserito da: Admin - Febbraio 20, 2015, 04:48:35 pm
La Nota
Uno scontro che rischia di esporre il Quirinale
Lo spettro delle urne dietro il muro contro muro.
Renzi pronto a minacciare il voto per piegare il Parlamento.
Mattarella si prepara a incontrare i leader dei partiti

Di Massimo Franco

La domanda da porsi è se la brutta pagina scritta in queste ore dal Parlamento sia figlia dell’incapacità di controllare la situazione, o di un progetto di rissa studiata a tavolino. Il risultato è comunque devastante, per l’immagine delle istituzioni; e politicamente arrischiato sia per le opposizioni che hanno cercato di bloccare le riforme con metodi discutibili, sia per un governo e una maggioranza incapaci di fermare questa spirale. L’immagine di FI, M5S, Lega, Sel che compattamente lasciano l’Aula della Camera per protesta contro la votazione di norme costituzionali non condivise, è uno strappo. Il nuovo capo dello Stato, Sergio Mattarella, riceverà martedì i partiti d’opposizione: incontri concessi su uno sfondo di esasperazione e di mancanza di dialogo, che scaricheranno ancora una volta sulle spalle del Quirinale una mediazione complicata. Beppe Grillo già attacca il silenzio di Mattarella. E Palazzo Chigi non sembra a caccia di compromessi, almeno finora. Renzi non prevede arretramenti. «C’è un tentativo di bloccare il governo. Va bene il dialogo», avverte, «ma non accettiamo ricatti».

Il premier vuole arrivare al «sì» alla riforma del Senato entro oggi. Ma c’è da chiedersi se questa fretta non renda più difficile una modifica della Costituzione sulla quale serpeggia lo scetticismo perfino nel Pd. Il modo in cui Renzi ha arringato i propri deputati nella notte di venerdì è stato accolto come una provocazione. «È venuto a fare il bullo in quest’Aula in un momento delicato e drammatico», accusa il capogruppo di FI, Renato Brunetta. Gli insulti, gli accenni di scontro fisico con i deputati del M5S in prima fila, permettono tuttavia al Pd di additare minoranze decise, più che a fare controproposte, a boicottare i lavori parlamentari. Quando però ieri pomeriggio le opposizioni hanno lasciato l’Aula, il timore che il metodo Renzi possa rivelarsi miope ha sollevato qualche dubbio anche nel Pd. Per questo in serata Renzi ha chiesto un voto al proprio gruppo: voleva essere legittimato ad andare avanti. E ora la ricucitura si presenta difficile. I guai paralleli che la rottura del patto del Nazareno comporta per Renzi e Berlusconi si stanno puntualmente manifestando. Con un presidente del Consiglio intenzionato a rispondere colpo su colpo, lasciando sullo sfondo la minaccia estrema delle elezioni anticipate per piegare il Parlamento; e tutti gli altri, decisi a giocare la carta della «deriva autoritaria», delle Camere umiliate dal governo. Non è facile prevedere la via d’uscita da questo impazzimento. Tra l’altro, i numeri sono risicati. Renzi vede già un referendum popolare sulle riforme, contro «il comitato del no di Brunetta, Salvini e Grillo». E sembra escludere qualsiasi mediazione: un messaggio al Parlamento, e al Quirinale. Si vedrà quanto definitivo.

14 febbraio 2015 | 09:04
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/politica/15_febbraio_14/scontro-che-rischia-esporre-quirinale-13e128f8-b41d-11e4-9e87-eea8b5ef37a3.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO Riforma del lavoro, una scelta che riporta il governo al centro
Inserito da: Admin - Febbraio 27, 2015, 04:44:46 pm
La Nota
Riforma del lavoro, una scelta che riporta il governo al centro
La sfida di Renzi, che con queste decisioni «ricentra» l’esecutivo puntellando l’alleanza di governo e mantenendo alta la tensione con i 5 Stelle

Di Massimo Franco

La soddisfazione del governo è comprensibile. L’approvazione della riforma del lavoro segna la caduta di un tabù culturale, prima ancora che politico. E permette a Matteo Renzi di sottolineare come ad un anno dall’inizio della sua esperienza come premier, un simile risultato fosse pressoché impensabile. Il plauso del Nuovo centrodestra, che riconosce nel testo una propria vittoria, e di Confindustria, e il gelo del sindacato e della sinistra del Pd, trasmettono tuttavia una fotografia bifronte. Il presidente del Consiglio considera il provvedimento la fine degli alibi per le imprese che non vogliono assumere. E già intravede duecentomila nuovi posti di lavoro.

Si tratta di una sfida, più che di una certezza. Renzi la lancia, ed è deciso a considerarla vincente, anche perché scommette su una ripresa favorita dal calo del prezzo del petrolio e dagli aiuti della Banca centrale europea. In qualche misura, la evoca e quasi la anticipa, conscio che il giudizio della Commissione Ue sul suo governo dipenderà dalla sua capacità di non fermarsi sulle riforme. Ma sa bene che gli effetti non possono essere immediati. La stessa enfasi con la quale viene data per archiviata la precarietà dovrà sottoporsi alla dura verifica dei prossimi mesi. Politicamente, le decisioni prese ieri sono una manovra di «ricentraggio» del suo governo. Dopo l’elezione di Sergio Mattarella al Quirinale e la rottura del patto del Nazareno con Silvio Berlusconi, a sinistra erano spuntate molte aspettative. Si pensava ad un Renzi pronto a spostare in quella direzione l’asse della maggioranza; e a concedere di più sui temi sociali ai settori del Pd vicini alla Cgil.

Il Consiglio dei ministri, invece, ha ignorato gli orientamenti delle commissioni parlamentari in cui queste componenti avevano detto «no» ai licenziamenti collettivi. Ed ha mantenuto invece l’impostazione voluta dal gruppo di Alleanza popolare (Ncd più Udc) di Angelino Alfano. Il risultato è di puntellare l’alleanza di governo; e di tenere alta la tensione con il Movimento 5 stelle e la sinistra del suo partito, che lo accusa di avere ubbidito alla cosiddetta «troika» FMI-Bce-Commissione Ue. Ma è un prezzo che Renzi paga volentieri, se questo permette di acquistare credito internazionale. D’altronde, il fronte interno sembra fargli meno paura. La frattura dentro FI è profonda, e le ombre processuali che continuano a proiettarsi su Berlusconi lo rendono sempre meno influente.

Questo potrebbe avere conseguenze anche sullo scontro con le opposizioni sulle riforme costituzionali. Sulla scelta di abbandonare l’aula della Camera in segno di protesta contro l’«arroganza» del governo non si vede più la compattezza di qualche giorno fa. Quanto al Jobs act , è vero che in sé è un’incognita, né potrebbe essere altrimenti. Gli scettici ci vedono come minimo una legge confusa e fonte di confusione; e soprattutto un favore alle imprese per licenziare con meno vincoli. Ma molto dipende dalle prospettive economiche. Per funzionare, la riforma ha bisogno di segnali tali da consentire nuova occupazione. Il vero tabù da far crollare sarà questo.

© RIPRODUZIONE RISERVATA
21 febbraio 2015 | 08:18

DA - http://www.corriere.it/politica/15_febbraio_21/riforma-lavoro-matteo-renzi-38387778-b991-11e4-ab78-eaaa5a462975.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO Renzi vince facilitato dalle divisioni degli avversari
Inserito da: Admin - Marzo 16, 2015, 11:42:13 pm
La Nota
Renzi vince facilitato dalle divisioni degli avversari

Di Massimo Franco

I tre tronconi in cui è diviso il Parlamento sono usciti formalmente indenni dal voto sulla riforma costituzionale: almeno nel senso che non ci sono state scissioni né dissociazioni clamorose. Ma il saldo è diverso per Pd, FI e M5S. Il governo di Matteo Renzi riemerge rafforzato dal «sì» netto della Camera; e potenzialmente in grado di attrarre pezzi dell’opposizione. D’altronde, la minoranza del Pd si conferma divisa perfino sulle proposte alternative a quelle di Palazzo Chigi.

E FI si ritrova con diciotto deputati che avvertono Silvio Berlusconi di non essere d’accordo sul «no» alle riforme: avanguardie di un’attrazione forse fatale per Renzi, e di un malessere più profondo dei numeri ufficiali. Quanto al Movimento 5 Stelle, è rimasto fuori dall’Aula, confermando la sua vocazione antisistema. Verrebbe da dire che Palazzo Chigi è circondato da un nugolo di avversari che però non sono in grado di contrastarlo né di insidiarlo seriamente. E, di forzatura in forzatura, come gli rimproverano le opposizioni, sta ottenendo quello che voleva.

Nessuno pensa che la guerriglia sia finita ieri. I numeri del Senato si presentano meno rassicuranti per il governo di quelli della Camera. È anche vero, però, che quando si voterà lì le elezioni regionali saranno già alle spalle. E i «no» berlusconiani e la compattezza di facciata di FI potrebbero sgretolarsi d’incanto. L’ex premier ha cercato di valorizzare la tenuta del suo partito, evocando una presunta centralità tra «nuova destra populista» e «falso riformismo della sinistra». La sua analisi, in realtà, finisce per dare corpo alla tenaglia della Lega di Matteo Salvini, peraltro sua alleata, e di Renzi, che gli toglie spazio e ossigeno politico.

Renzi ieri ha assegnato al vicesegretario Lorenzo Guerini il compito di spiegare il motivo di una riforma costituzionale approvata a maggioranza. E non gli è stato difficile additare le contraddizioni di FI, che al Senato aveva contribuito al «sì»: le stesse evidenziate da una dissidenza berlusconiana inquieta. Il problema è che accadrà di qui a giugno. Dipenderà molto da FI. Se dopo le Regionali il centrodestra e Berlusconi riusciranno a contenere la diaspora, per il governo il Senato potrebbe diventare una trappola.

Soprattutto sulla riforma dell’Italicum, gli avversari di Renzi nel Pd sanno di giocarsi la sopravvivenza come candidati alle elezioni. Ma il calcolo e la speranza di Palazzo Chigi sono altri. Il premier confida che emerga un’area grigia di deputati e senatori d’opposizione, pronti ad appoggiare i suoi provvedimenti anche contro Berlusconi. Un po’ perché temono che altrimenti si sciolgano le Camere. Un po’ perché tendono a considerare chiusa la parabola dell’ex Cavaliere e vedono in Renzi un leader con valori che condividono: gli stessi che invece nel Pd fanno covare una scissione.

11 marzo 2015 | 08:34
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/politica/15_marzo_11/renzi-vince-facilitato-divisioni-avversari-e4de49ea-c7b9-11e4-a75d-5ec6ab11448e.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO Una deriva che rischia di pesare sulle regionali
Inserito da: Admin - Aprile 16, 2015, 11:40:21 am
La Nota
Una deriva che rischia di pesare sulle regionali

Di Massimo Franco

I veleni che continuano a scorrere dentro il Pd, e non solo, non saranno smaltiti presto. L’irrigidimento delle minoranze nei confronti di Matteo Renzi non sembra destinato a produrre uno sbocco: anche perché gli obiettivi degli avversari del premier appaiono eterogenei. C’è chi tenta un aggancio con il vertice del partito, proponendo uno scambio tra il «sì» alla riforma elettorale e una modifica della riforma del Senato: anche perché si tratta di un mutamento istituzionale che sottovoce molti definiscono pasticciato. Ma nessuno è in grado di capire se Palazzo Chigi accetterà una mediazione o andrà avanti come sempre.

Il premier è convinto che l’Italicum sarà approvato prima dell’estate, senza o con la richiesta di fiducia; che i «no» alla fine saranno pochi; e che a quel punto la possibilità di minacciare il voto anticipato sarà ancora più concreta. Le incognite sono altre, e tutte esterne: per questo impensieriscono Renzi. Riguardano un andamento altalenante dell’economia, rischioso per un governo che esalta ogni piccolo segnale di ripresa; e inchieste giudiziarie nelle quali rimangono impigliati dovunque dirigenti del Pd.

Sta emergendo una tentazione preoccupante: quella di agganciare la magistratura per mettere in mora gli avversari. È come se la fine del dialogo politico spingesse a estendere il conflitto sul piano giudiziario. È istruttivo quanto è avvenuto ieri. Il vicepresidente della Camera, Luigi Di Maio, del Movimento 5 Stelle, ha annunciato per oggi un incontro a Napoli col magistrato che indaga sullo scandalo delle tangenti a Ischia: quello che ha portato alle dimissioni del sindaco.

Nel pomeriggio, al Senato, è avvenuto un episodio a parti invertite. Il presidente, Pietro Grasso, anche su pressione dei capigruppo ha fermato una denuncia di alcuni esponenti della maggioranza contro i senatori del M5S, accusati di avere bloccato i lavori. «Ho scritto al procuratore della Repubblica per affermare il difetto assoluto di giurisdizione della magistratura ordinaria sui comportamenti dei senatori nell’esercizio delle loro funzioni», ha spiegato, evitando un altro focolaio di tensioni. Ma i rapporti sono quasi fuori controllo. Lo scontro in Parlamento porta i partiti a mettere in mora gli avversari con ogni mezzo.

Il problema è se e come questa deriva peserà sulle regionali di fine maggio: anche se proprio ieri il Senato ha approvato, seppure con numeri risicati, la legge anticorruzione. È chiaro che un risultato elettorale in chiaroscuro accentuerebbe lo scontro; e porrebbe nuovi ostacoli alle riforme. Il timore inconfessato dei vertici del Pd è di perdere Liguria e Marche, roccaforti storiche del centrosinistra. Per questo, in modo un po’ prematuro, si ricomincia a parlare di voto anticipato nel 2016. In realtà, nessuno è in grado di prevedere che cosa avverrà di qui all’estate.

2 aprile 2015 | 07:23
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/politica/15_aprile_02/deriva-che-rischia-pesare-regionali-a14b6948-d8f7-11e4-938a-fa7ea509cbb1.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO Partiti disgregati Piccole miserie locali
Inserito da: Admin - Aprile 25, 2015, 04:35:57 pm
Partiti disgregati
Piccole miserie locali

Di Massimo Franco

Non è esagerato parlare di partiti in pezzi: divisi e già scissi di fatto, sebbene formalmente si esiti ancora a lacerare l’involucro dell’unità. Osservando quanto accade in vista delle elezioni regionali di fine maggio, lo spettacolo è quello di una scomposizione di forze politiche e alleanze: la conseguenza fisiologica di uno sgretolamento progressivo delle identità, dei blocchi sociali, delle nomenklature. In pochi anni, non solo i «cartelli» elettorali sono invecchiati come se ne fossero passati dieci. La dimensione locale della politica ha subito un’involuzione che la fa apparire quasi impazzita.

È il prodotto della subalternità del sistema dei partiti ad interessi che lo dominano e lo umiliano; e dell’impoverimento culturale di piccole tribù autoreferenziali che sommano i difetti del dilettantismo a quelli del professionismo del potere.

Le tante inchieste della magistratura che convergono sulle cosiddette classi dirigenti locali confermano questa deriva. E fanno apparire molti Comuni e Regioni come epicentri di un’economia studiatamente inefficiente, funzionale al malaffare. Lo iato tra livello nazionale e «periferia» non potrebbe essere più vistoso, dal Veneto alla Puglia.

Ma rischia di suggerire una contrapposizione tra due fenomeni in realtà speculari. L’esplosione dei legami dentro e tra i partiti non è soltanto la certificazione del fallimento di un’idea di federalismo. Riflette anche le scissioni sociali che sono avvenute in questi anni in un’Italia affacciata sul vuoto dell’azione politica. Sono la versione minore e moltiplicata delle migrazioni parlamentari registrate in questi anni alle Camere: indizi di un malessere ormai cronico.

Le spaccature e le riaggregazioni locali nel centrodestra, nella Lega, perfino nel Pd, imitano alla perfezione i conflitti alla Camera e al Senato. Replicano «cambi di casacca» che non sono solo frutti dell’opportunismo: rivelano un trasversalismo privo di nobiltà, e alimentato da identità debolissime e stralunate. Il cemento è il micro-interesse, e tanti micro-narcisismi collettivi che rendono difficile qualunque aggregazione forte e duratura. La domanda è se e chi riuscirà a ricompattare questo magma centrifugo. In apparenza, il modello verticale di Matteo Renzi lo sta facendo.

Ma la distanza tra il premier o il capo della Lega, Matteo Salvini, o Beppe Grillo, i tre oggi in auge, e il caotico agitarsi di anonimi candidati regionali, non esalta solo la loro capacità di leadership. Finisce anche per sottolineare i loro limiti: quasi l’impossibilità, oltre che l’incapacità, di trasformare dall’alto una realtà prosaicamente mediocre e fuori controllo. La politica nazionale inspira a pieni polmoni i miasmi locali anche perché non appare in grado di trasmettere messaggi forti di rinnovamento come quelli che si sforza di offrire all’Europa.

Il risultato è che a vincere sembra sia la «periferia» non governata, immutabile e misteriosa nei suoi gangli più oscuri: quelli che solo la magistratura finora tende a portare alla luce, delegittimando partiti che arrivano sempre dopo; e che mostrano riflessi difensivi automatici, lasciando ai giudici una supplenza di fatto che assume contorni ambigui e mostra limiti oggettivi, seguendo logiche non politiche. Sono fenomeni che corrodono quotidianamente la credibilità degli eletti, e si proiettano sulle scelte nazionali.

Vedremo come si evolverà la campagna elettorale. Ma il turbinio di liste, unioni e rotture trasmette una pessima impressione. Il crollo della partecipazione a livello locale che si è registrato negli ultimi anni non è un segno di modernità «all’americana»: anche per la rapidità con la quale sta avvenendo, suona come la risposta patologica ad una rappresentanza inadeguata e malata. Se si dovesse confermare a maggio, significherebbe un rifiuto di metodi e di formazioni non disinvolti ma, appunto, ormai percepiti come «impazziti». Sarebbe una sconfitta che nessuna riforma elettorale, né la prevalenza di uno schieramento sull’altro, potrebbero attenuare o nascondere.

Il guaio maggiore, tuttavia, non sarebbe il fallimento di una politica locale che per paradosso oggi fornisce tanti governanti, premier compreso; né la scissione di alcuni partiti, ridotti a gusci di identità irriconoscibili. Il rischio vero è quello della scissione tra l’elettorato e chi non è in grado di offrirgli una scelta degna di questo nome. Sarebbe la premessa di una pericolosa democrazia con sempre meno popolo.

15 aprile 2015 | 07:19
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_aprile_15/piccole-miserie-locali-7ca97720-e32d-11e4-8e3e-4cd376ffaba3.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO Italicum, un vero spartiacque politico
Inserito da: Admin - Maggio 10, 2015, 04:47:57 pm
LEGGE ELETTORALE
Italicum, un vero spartiacque politico
La nuova legge elettorale è un successo controverso di Renzi.
Approvarla a colpi di fiducia ne ha minato la legittimità. Ma il nuovo testo non è peggiore del Porcellum

Di Massimo Franco

È stata approvata la nuova legge elettorale, e questo è un merito che Matteo Renzi può ascriversi. La sua vittoria prescinde dal contenuto della riforma, che entrerà in vigore tra non prima di un anno e produrrà effetti ancora tutti da verificare. Anche dal punto di vista del metodo, l’Italicum ufficializza un successo controverso. Approvarlo senza nemmeno l’appoggio dell’intera maggioranza di governo, e con gli scanni dell’opposizione deserti, offre agli avversari un’arma per contestarne la legittimità; e crea un precedente nella storia parlamentare, del quale la sinistra si è assunta la responsabilità. Si tratta di un vero spartiacque, destinato a segnare il futuro della legislatura.

Verosimilmente non sarà ritenuto incostituzionale. E l’Italicum non è certo peggiore del Porcellum di cui prende il posto. Ma porta con sé il trauma della frattura dentro il Pd di cui Renzi è segretario, e forse ne produrrà altri. E pone il problema di una ricostruzione degli equilibri e degli spazi dell’opposizione, oggi ridotta ad un cumulo di macerie e di piccoli protagonismi che esaltano l’assenza di leadership: in primo luogo nel centrodestra che del sistema è stato a lungo il baricentro. L’idea che alle prossime elezioni si vada a un ballottaggio tra Pd renziano e Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo non è rassicurante. I l tramonto del berlusconismo, in particolare, lascia un vuoto che né la Lega estremista di Matteo Salvini, né la sinistra in versione «centrista» sono in grado di riempire del tutto. Sembra che esista solo il Pd, ma non può né deve durare: altrimenti vincerà non il bipolarismo bensì l’astensionismo. Dunque, per paradosso, l’Italicum dovrebbe accelerare la ricomposizione di un’area che sembrava rassegnata ai tempi lunghi e a convulsioni infinite. È comprensibile il trionfalismo col quale il premier elenca le doti, vere o presunte, della sua creatura: è uno strumento vincente. Eppure, bisogna prepararsi ad altri strappi di qui al passaggio della legge costituzionale che svuota il Senato, dopo l’estate: il secondo spartiacque.

In un futuro non lontano, non si può escludere nemmeno che si arrivi ad una disdetta dell’Italicum, cucito su misura per il vincitore di turno. Evoca infatti il passaggio troppo brusco da una fase che favoriva in modo inaccettabile le minoranze, ad una altrettanto discutibile di primato del governo. Renzi, tuttavia, ha l’aria di chi sente di avere ragione quasi «a prescindere». Le sue sfide, vissute dagli oppositori come provocazioni, stanno avendo successo perché sono figlie dell’immobilismo precedente. Vero o falso non importa: come tale è stato percepito. Può ringraziare il proprio partito, ridotto ad una falange spaventata e ubbidiente, con una minoranza interna esacerbata fin quasi al suicidio politico.
Onore a Renzi, dunque, per il coraggio e l’astuzia dimostrati in questi mesi. Ha capito che per una fetta di opinione pubblica non conta che cosa e come si cambia, ma il cambiamento in sé. E il voto europeo del 2014, con oltre il 40 per cento dei voti a favore del partito del presidente del Consiglio, è un surrogato abbagliante e potente di investitura popolare. Permette a Renzi di considerare l’Italicum come un prodotto anche di quei consensi, di un mandato indiretto ad andare avanti con le riforme: ad ogni costo. Passa in secondo piano l’accusa avversaria di prepararsi in realtà una vera investitura alle condizioni più vantaggiose.

Sarebbe ingiusto, tuttavia, attribuire a Renzi non solo meriti ma anche demeriti che non ha. Quanto accade è la conseguenza inevitabile degli errori altrui; e di una crisi del sistema politico, della quale il premier si sta rivelando un abile utilizzatore. Scaricargli addosso colpe e cattive intenzioni non basta a nascondere la pochezza dei suoi critici. I rischi di una dittatura allo stato nascente, dunque, vanno presi per quello che sono: frutti di una polemica velenosa, e di argomentazioni tardive. Il pericolo è un altro: che la narrativa sulle grandi riforme destinate a trainare la ripresa si riveli retorica; e che manchi un’opposizione degna di questo nome, in grado di contrastarla e di offrire un’alternativa. L’assioma renziano è che l’Italicum sarà uno dei volani dell’economia. C’è da sperare che abbia ragione: sebbene i dati, dispettosi, finora lo assecondino con un ritardo preoccupante.

5 maggio 2015 | 08:02
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/politica/15_maggio_05/italicum-vero-spartiacque-politico-99193fa2-f2e7-11e4-a9b9-3b8b5258745e.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO La maggioranza marcia sulle macerie dei partiti
Inserito da: Admin - Maggio 11, 2015, 09:53:28 am
La maggioranza marcia sulle macerie dei partiti
Gli effetti Lo sfaldamento della minoranza dem rende pagante la sfida di Renzi sull’Italicum e indebolisce le ipotesi di scissione

Di Massimo Franco

S i discuterà a lungo se i 38 voti del Pd contro la fiducia al governo sulla riforma elettorale siano pochi o molti; se Matteo Renzi, imponendo la forzatura, abbia dato mostra di forza o di debolezza; e se davvero in questo caso si tratta di «no che si contano e si pesano», nelle parole di Rosy Bindi, una degli sconfitti. L’impressione è che il presidente del Consiglio abbia scommesso sulle divisioni della minoranza e vinto; e che per i suoi avversari interni si apra una fase delicata. Dovranno affrontare non tanto l’arroganza di Palazzo Chigi, che pure è evidente, quanto il rischio di apparire irrilevanti.

Quando il vicesegretario del Pd, Lorenzo Guerini, parla di «strappo contenuto» e nega azioni disciplinari contro chi ha disubbidito al governo, archivia politicamente lo scontro. Lo declassa, come il ministro Maria Elena Boschi, a qualcosa di fisiologico. Eppure l’Italicum rappresenta una svolta, drammatizzata dalla fiducia. Ma quando cinquanta deputati del Pd anti-Renzi fanno sapere che voteranno comunque «sì» per senso di responsabilità, la spaccatura con i fautori del «no» è evidente. E rivela la diversità di obiettivi che si annida tra gli oppositori del premier.

È indubbio che colpisca la presenza tra i «no» dell’ex segretario Pier Luigi Bersani, dell’ex presidente del Consiglio Enrico Letta, dell’altro ex segretario Guglielmo Epifani e della stessa Bindi. Ma con i numeri che si sono delineati ieri, c’è da chiedersi se davvero esista una fronda ristretta ma «pesante» a Palazzo Chigi; oppure se il ridimensionamento di alcuni esponenti storici del Pd sia stato sancito proprio ieri. L’ipotesi di una qualunque scissione è ancora meno verosimile; e si allontana anche quella di elezioni anticipate.

Si delinea invece un renzismo deciso a utilizzare le debolezze altrui, approfittando della mancanza di una leadership alternativa; e pronto a sfidare i nemici, a costo di prendere iniziative destinate a lasciare lividi istituzionali profondi, e precedenti ingombranti. Forza Italia si vanta della propria compattezza, ma non può nascondersi che l’appello alla rivolta nel Pd è caduto nel vuoto. E il Movimento 5 stelle ironizza su un Sergio Mattarella «imbavagliato» al Quirinale. Ma la realtà è che la maggioranza marcia sulle macerie dei partiti: anche del Pd come è stato fino a poco tempo fa.

Può permetterselo perché è sostenuta da un Parlamento provocato sulle riforme; e spaventato dall’idea di un fallimento. Almeno fino a che non si capirà se la ripresa economica è una finzione o una realtà, Renzi insisterà sulla narrativa della «volta buona»; dei diritti della maggioranza e dei doveri delle minoranze. Il Nuovo centrodestra, alleato renziano, cerca di negare che ci sia «un uomo solo al comando». Eppure, la giornata di ieri dice il contrario. Forse gli avversari dovrebbero cominciare a porsi qualche domanda. Autocritica.

30 aprile 2015 | 07:23
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/politica/15_aprile_30/maggioranza-marcia-macerie-partiti-abba2a42-eef8-11e4-a9d3-3d4587947417.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO Incognite e ricadute di un voto
Inserito da: Admin - Giugno 02, 2015, 12:02:42 pm
Editoriale

Incognite e ricadute di un voto
Ora bisognerà vedere se dal nuovo crollo della partecipazione il governo uscirà più o meno indenne.
Il sogno del sei a uno sembrava a portata di mano ma si è ingarbugliato.

Di Massimo Franco

La diserzione dalle urne era prevista, a conferma che nessun partito sembra ancora in grado di trascinare l’Italia al voto: compreso il Movimento 5 Stelle. E certamente le elezioni regionali non erano il richiamo più attraente per invertire la tendenza. Rimane da vedere se da questo nuovo crollo della partecipazione il governo uscirà più o meno indenne. Il sogno del sei a uno, che ieri notte sembrava a portata di mano, alla fine si è ingarbugliato. È stato sciupato da un’incertezza palpabile sull’esito in Liguria, perfino in Umbria e forse in Campania: a conferma che l’astensionismo e le divisioni fanno saltare qualunque previsione.

È un’ombra, quella ligure, in grado di trasformare il risultato del partito di Matteo Renzi in una nuova guerra di logoramento con la minoranza interna. Riproporrebbe due fantasmi in un colpo solo: quello di un Movimento 5 Stelle sempre forte e in grado di erodere voti anche a sinistra; e di una lista degli avversari renziani del Pd determinati a dimostrare che non è sempre un vincente. Per quanto locali, le elezioni di ieri dovevano consentire al premier di puntellarsi e di brandire il risultato come una clava da usare contro quanti hanno scommesso su un risultato ambiguo. I l partito di Renzi ha fatto e disfatto la campagna elettorale. Ed è al suo interno, dunque, che bisogna aspettarsi contraccolpi: anche perché il suo calo rispetto alle europee del 2014 è vistoso. Il prezzo pagato è stato di immagine, di tensioni. Ma anche di voti. Ha pesato un sabotaggio elettorale, a volte larvato, altre esplicito. Ed è difficile pensare che quanto è accaduto rimarrà senza conseguenze traumatiche: soprattutto per il voto ligure.

Era previsto anche il ridimensionamento non solo del centrodestra ma di Forza Italia. E l’impressione è che il grande serbatoio delle astensioni contenga anche la frustrazione e il disorientamento dell’elettorato di Silvio Berlusconi. La sua crisi ha portato con sé quella della coalizione che fino a quattro anni fa dominava l’Italia. Il successo scontato in Veneto non smentisce questa analisi. Anzi, essendo un trionfo trainato dovunque da una Lega in ascesa, drammatizza la competizione per la guida di uno schieramento tutto da reinventare.

Eppure, aritmeticamente FI più Lega rimangono l’alternativa al blocco renziano. Il risultato in Liguria e in Umbria ridanno ossigeno all’idea che un centrodestra unito dia filo da torcere alla strategia del premier. Ma questo non può cancellare l’aspetto più eclatante delle regionali: quasi metà dell’elettorato non è andato a votare. Significa che tutti i partiti sono immersi nella crisi. M5S e Lega la ri-flettono crescendo, eppure nemmeno loro sono in grado di risolverla. Gli altri debbono chiedersi come possono fermare una deriva che radicalizza l’Italia. E rischia di rallentare la corsa del governo e delle riforme.

1 giugno 2015 | 08:32
© RIPRODUZIONE RISERVATA

DA - http://www.corriere.it/editoriali/15_giugno_01/incognite-ricadute-un-voto-regionali-5a4627b2-081e-11e5-b4ea-8178709faaab.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO Da Syriza a Podemos Il contagio del populismo
Inserito da: Admin - Giugno 05, 2015, 11:10:15 pm
Da Syriza a Podemos
Il contagio del populismo
I progetti di questi movimenti si rivelano velleitari e paralizzanti

Di Massimo Franco

Adesso si può davvero parlare di europopulismo. Con cromosomi «di sinistra» sull’asse del Mediterraneo, dalla Grecia alla Spagna, passando per l’Italia; e «di destra» nell’Europa del Nord e dell’Est, ma anche in una Francia in bilico tra l’estremismo e la tenuta del sistema. Le virgolette sottolineano l’ambiguità di fenomeni connotati da un forte trasversalismo, che sul piano elettorale e a breve termine li premiano, permettendo di umiliare o almeno spaventare i partiti tradizionali e l’intero sistema; nel medio periodo ne mostrano le crepe e l’identità approssimativa.

La novità, però, è che dopo la vittoria a livello locale di Podemos, «possiamo», caricatura antisistema e iberica del «we can» del democratico Barack Obama nel 2008 negli Usa, quei fenomeni non si possono più analizzare come in precedenza. Il successo del «professore col codino» Pablo Iglesias segue quello di Syriza in Grecia. E certifica il passaggio dei populismi dal ruolo di opposizioni irriducibili a quello di forze di governo. Attori non solo «non statali», ma «antistatali», alle quali il voto consegna, in misura diversa, le leve del comando.

Significa che il malcontento delle opinioni pubbliche occidentali verso l’Europa dell’«austerità» non si sta attenuando, anzi, lievita. Ed ha implicazioni destabilizzanti. Tsipras è stato il primo «canarino nella miniera» dell’Ue, a segnalare che stava per verificarsi un’esplosione. Podemos è il secondo. Ma vedendo quanto accade tra Atene e Bruxelles, col rischio vero di un’uscita traumatica dal sistema della moneta unica e il collasso della Grecia, non ci si può non chiedere che cosa comporterebbe in prospettiva una vittoria del populismo in Spagna a livello nazionale.

È chiaro, infatti, l’obiettivo da distruggere. Sta diventando altrettanto evidente, però, che la ricetta di governo di questi movimenti è insieme velleitaria e nebulosa; e conduce a una deriva come minimo paralizzante. La metamorfosi del populismo d’opposizione in uno di governo cambia dunque i contorni e i termini della sfida. La drammatizza. E accelera il pericolo che la crisi economica dei Paesi mediterranei porti non più a un’Europa a due velocità, come si diceva fino a qualche anno fa, ma a «due classi»: classi che non procedono, seppure a ritmi diversi, nella stessa direzione ma divergono sempre di più.

Il problema è che i populismi antisistema non sembrano né intenzionati né in grado di istituzionalizzarsi, di diventare un’alternativa vera ai partiti storici. Vedono il governo come un prolungamento e un megafono delle piazze. E se anche tentano o fingono di rispettare i vincoli continentali, si ritrovano prigionieri delle promesse fatte all’elettorato. Il risultato è la paralisi decisionale, come mostra la Grecia; un indebolimento dell’Europa come attore internazionale ed elemento di coesione; e una sottolineatura dei suoi limiti strategici e della sua politica, zavorrata dai nazionalismi.

L’Italia è stata l’avanguardia del fenomeno. L’ha anticipato con l’affermazione del Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo e, a destra, con quello della Lega. Ma rimane un laboratorio e un punto d’osservazione interessante per l’intera Europa, perché si sta già misurando con tutti i limiti dell’europopulismo. Il movimento di Grillo ha mostrato la sua sterilità politica nell’impatto con le istituzioni parlamentari. E ora, per quanto avvantaggiato dalla crisi, appare meno irresistibile di prima. Lo stesso vale per la Lega, forte ma intrappolata nei suoi confini culturali.

In fondo, l’Italia appare spaventata dalla crisi, e insieme conscia dei limiti dei suoi «pifferai populisti». Da noi, il vero partito di protesta promette di essere l’astensionismo. La prossima frontiera minaccia di essere lo sciopero del voto, in attesa di un’offerta diversa che oggi non si vede. A breve termine può essere un argine contro la vittoria di forze incapaci di governare. Alla lunga, può diventare il sintomo grave di una democrazia malata, esposta a una volatilità e a un’improvvisazione che l’ingegneria istituzionale ed elettorale cerca di correggere. C’è da sperare che ci riesca, e non finisca per accentuarle.

26 maggio 2015 | 07:42
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/opinioni/15_maggio_26/europa-populismo-podemos-spagna-2ef50d08-0369-11e5-8669-0b66ef644b3b.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO Cresce il timore per gli effetti internazionali delle inchieste
Inserito da: Admin - Giugno 06, 2015, 05:35:47 pm
La Nota
Cresce il timore per gli effetti internazionali delle inchieste

Di Massimo Franco

Il tentativo del Pd è di mostrare tolleranza zero verso i corrotti del partito, salvando la giunta di Ignazio Marino e quella regionale di Nicola Zingaretti. La strategia ha un doppio obiettivo. Il primo è di impedire che i nuovi arresti dell’inchiesta «Mafia capitale» aggravino la frattura tra i partiti di governo e l’opinione pubblica. Il secondo è di mostrare una determinazione che oscuri le polemiche su Vincenzo De Luca in Campania. Il partito di Matteo Renzi è stato bersagliato da opposizioni e avversari interni per avere sostenuto la sua candidatura, nonostante una condanna che lo porterà ad essere sospeso dalla carica.

Palazzo Chigi appare deciso a difendere a oltranza Marino, per quanto controverso e poco amato: il sindaco come baluardo della legalità contro la «Mafia Capitale» scoperchiata dall’inchiesta del procuratore Giuseppe Pignatone. Se questa è l’impostazione, qualunque richiesta di dimissioni viene definita come un aiuto alla criminalità. Il sindaco ha indubbiamente dalla sua parte il fatto di essere considerato un nemico «dai poteri criminali che ne auspicavano la caduta», come ricorda il commissario Matteo Orfini.

Si accredita la rottura tra il Pd del passato che «non si era accorto della guerra tra bande», e l’attuale, trasformandolo nella bandiera di una «antimafia capitale». E il premier rafforza la tesi, avvertendo che «chi ha violato le regole deve andare in galera e pagare tutto fino all’ultimo giorno». Tra i Democratici, tuttavia, serpeggia il dubbio che lo spostamento del fronte da Napoli alla capitale sia difficile da tenere. Orfini sostiene che il partito romano si sarebbe «rigenerato»: tesi accolta con cautela.

La domanda fatta sotto voce è che accadrebbe se nelle prossime settimane dovessero arrivare altri arresti, e il cerchio si stringesse ancora di più intorno alla giunta Marino e alla Regione Lazio guidata da Nicola Zingaretti, associato come garanzia di un nuovo corso virtuoso. L’idea che la magistratura abbia tolto «un ascesso» criminale è suggestiva, ma forse un po’ riduttiva. Non sembra tenere conto della pervasività della corruzione; delle sue ramificazioni e della sua profondità.

Per questo, non si esclude a priori la possibilità che il Comune sia sciolto dal prefetto e commissariato: sebbene tutti sappiano che si tratterebbe di una scelta politica traumatica, decisa a Palazzo Chigi. L’insistenza con la quale Lega, FI e soprattutto Movimento 5 stelle chiedono le dimissioni di Marino, punta probabilmente a impedirle. Verrebbero viste infatti come un cedimento o come un’ammissione di responsabilità. Ma esiste anche una preoccupazione più generale: sciogliere il Comune di Roma nell’anno del Giubileo sfregerebbe l’immagine internazionale dell’Italia. L’ennesimo attacco del Papa alla corruzione è un monito pesante.

5 giugno 2015 | 08:08
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/politica/15_giugno_05/cresce-timore-gli-effetti-internazionali-inchieste-63bd455c-0b41-11e5-91e7-d0273dfd0555.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO Faide a sinistra Nelle urne i veleni di partito
Inserito da: Admin - Giugno 16, 2015, 11:25:10 pm
Faide a sinistra
Nelle urne i veleni di partito

Di Massimo Franco

A questo punto il problema non è più la candidatura di Vincenzo De Luca in Campania, ma il Pd. Meglio, «i» Pd. La pubblicazione della lista dei cosiddetti «impresentabili» da parte della commissione parlamentare Antimafia appare, forse perfino al di là delle intenzioni, l’apice velenoso dello scontro nel partito del presidente del Consiglio. E proietta, dilatata ed esasperata, l’immagine di una forza divisa da rancori che riaffiorano a due giorni dal voto regionale di domenica; e frantumano nel modo più eclatante un simulacro di unità che neppure il timore del responso elettorale è riuscito a salvaguardare.

Rosy Bindi, presidente dell’Antimafia ed esponente della minoranza del Pd, ieri ha sostenuto una tesi singolare. Ha detto che la commissione ha aspettato fino all’ultimo a diramare i nomi dei diciassette candidati (poi ridotti a sedici perché c’era un errore) ritenuti poco presentabili, per non interferire nelle elezioni. Ma era scontato che in realtà l’esito sarebbe stato opposto: tanto più dopo che Matteo Renzi e l’intero gruppo dirigente del Pd si erano sbilanciati a favore di De Luca, sfidando la legge Severino e la decisione di appena due giorni fa della Corte di cassazione. È stato precisato che la Bindi non si è mossa autonomamente: ha seguito le indicazioni dell’Antimafia. Eppure, rimane il sospetto che sul pasticcio di una candidatura a dir poco controversa si sia innestata l’ennesima faida nel Pd. Un surrogato di scissione, o forse un suo anticipo; comunque, un atto che non potrà non preludere ad una feroce resa dei conti postelettorale nel cuore della maggioranza governativa: sia che Renzi riemerga con l’aureola del vincitore in gran parte delle sette Regioni; sia che l’esito risulti meno favorevole. La questione degli «impresentabili» segna uno spartiacque nello scontro tra le tribù di quello che, verrebbe da dire al passato, è stato il Pd.

Gli attacchi virulenti dei renziani contro la Bindi, e la reazione stizzita di alcuni esponenti del partito in sua difesa, ne sono il preludio. Il tema è scivoloso. Affidare ad un organo politico come l’Antimafia una sorta di censura morale, a urne quasi aperte, contro alcuni candidati, sa di giustizialismo fuori tempo massimo. Questo non significa sottovalutare né nascondere gli errori o l’insipienza, o entrambe le cose, di partiti che sembrano incapaci di selezionare i dirigenti con criteri di onestà e competenza. Né si può ignorare la tentazione del Pd di aggirare le leggi in base alle convenienze del momento.

Ma bisogna chiedersi perché l’iniziativa dell’Antimafia non sia stata presa prima; e come mai abbia prevalso una certa estemporaneità. L’effetto è comunque devastante. Non si sente soltanto l’eco eterna del cupio dissolvi di una sinistra in questo caso lacerata dall’avvento di Renzi. L’aspetto più inquietante è il riflesso che l’intera vicenda avrà sul voto di domani e probabilmente su quelli futuri. Quanto accade serve solo a portare nuovi mattoni al monumento dell’antipolitica: un altro regalo, involontario e per questo ancora più stupefacente, ai teorici dell’astensionismo e ai campioni del populismo; e, per paradosso, proprio agli «impresentabili».

30 maggio 2015 | 08:33
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_maggio_30/nelle-urne-veleni-partito-87ed71a4-068c-11e5-8da5-3df6d1b63bb7.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO Un segnale d’allarme per il partito e per il governo
Inserito da: Admin - Giugno 27, 2015, 10:17:30 am
IL COMMENTO
Un segnale d’allarme per il partito e per il governo
È presto per dire se qualcosa stia cambiando, nel rapporto tra palazzo Chigi e il Paese.
Di certo, la fatica di governare si comincia a sentire

Di Massimo Franco

L’onda lunga dell’astensionismo nei ballottaggi di ieri trasporta molti detriti. Si intravedono quelli di istituzioni locali delegittimate; di scandali come quello di Mafia Capitale; e di un’emergenza immigrazione che si scarica sulle città e su Palazzo Chigi. Vedere andare alle urne meno della metà dei votanti continua a preoccupare. Ma non si può sottovalutare la sconfitta bruciante del Pd a Venezia; né i risultati deludenti ottenuti in altri Comuni dal partito di Matteo Renzi. È presto per dire se qualcosa stia cambiando, nel rapporto tra palazzo Chigi e il Paese. Di certo, la fatica di governare si comincia a sentire. E fa riemergere un centrodestra che sembrava condannato all’irrilevanza. Soprattutto, non permette al partito del premier posizioni di rendita. Il Pd paga le divisioni interne, le contraddizioni sulle questioni più spinose, e i risultati controversi del governo in materia di occupazione e di sicurezza.

Ma sul profilo di vincitori e vinti si allunga la grande ombra del partito antielettorale. Per questo, sostenere che i ballottaggi erano un test per Renzi appare vero solo in parte: vanno oltre il governo. Con i numeri di ieri, qualunque simulazione o proiezione nazionale rischia di rivelarsi azzardata. Siccome nei Comuni non c’erano candidati del M5S, si cercava di capire dove sarebbero finiti quei consensi. Il sospetto è che siano andati dovunque.

Il numero degli astenuti conferma solo quanto l’opinione pubblica senta lontani i poteri locali, come avevano detto le Regionali del 31 maggio. In questo, l’Italia elettorale appare omogenea, da Enna a Venezia. Il capoluogo veneto era reduce da undici mesi di commissariamento per uno scandalo che aveva toccato la giunta di centrosinistra. Il Pd sperava che bastasse candidare l’ex magistrato e senatore Felice Casson, in vantaggio al primo turno, per recuperare credibilità. Non è stato così.

Il centrodestra ha vinto affidandosi ad un imprenditore quasi sconosciuto, Luigi Brugnaro. E sebbene Casson sia espressione della minoranza del Pd ostile a Renzi, la sua sconfitta si farà sentire: anche perché in altri Comuni i risultati sono stati ugualmente in chiaroscuro, per palazzo Chigi. Rivendicare la vittoria, insomma, non è facile per nessuno. L’astensionismo patologico rimanda ad una questione di sistema. In teoria mancano più di due anni alle elezioni politiche.

Dunque, il tempo per contrastare il partito del non voto ci sarebbe. Dipenderà da come verrà impiegato, però. Il sospetto è che la propensione alla rissa di tutti contro tutti significherebbe aggravare il problema. Si tratta di una deriva che la maggioranza del Paese rifiuta, invocando un cambio di cultura politica che faccia riscoprire l’interesse nazionale: un antidoto alla desertificazione progressiva delle urne e della democrazia.

15 giugno 2015 | 07:51
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/politica/15_giugno_15/segnale-d-allarme-il-partito-il-governo-f66f8d7e-1320-11e5-8f7b-8677cfd62f52.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO Sulle riforme un atto di realismo che fotografa le difficoltà
Inserito da: Admin - Luglio 09, 2015, 06:44:58 pm
La Nota
Sulle riforme un atto di realismo che fotografa le difficoltà
Un Renzi deciso a giocarsi tutto a settembre.
Ma le incognite sono unità del Pd, soccorso di Forza Italia e crisi europea

Di Massimo Franco

Più che una sconfitta, è un gesto di realismo: la presa d’atto che sulla riforma del Senato il governo non poteva compiere forzature senza aggravare le sue difficoltà. Il rinvio di fatto a settembre dell’approvazione della nuova legge può diventare così il primo passo compiuto da Matteo Renzi per ricostruire i rapporti con la minoranza del Pd; e per rendere meno lacerante quella che per alcuni giorni ha rischiato di essere un’altra sfida acrobatica agli avversari e ai numeri parlamentari. Tra l’altro, imporre il testo già approvato alla Camera ai 25 Democratici firmatari della lettera che chiede un Senato elettivo, probabilmente avrebbe provocato le dimissioni di Anna Finocchiaro.

Perdere l’appoggio del presidente della Commissione affari costituzionali in una fase nella quale occorrono competenza giuridica e mediazione, sarebbe stato un inciampo. Sarebbero aumentati i veleni nei rapporti parlamentari: peraltro senza avere nessuna garanzia dell’approvazione della riforma entro il 7 agosto. Ci si chiede perché alla fine Renzi e soprattutto il suo ministro per le Riforme, Maria Elena Boschi, abbiano accettato di rimandare la vittoria e di concedere qualcosa.
Quanto sta accadendo è la conseguenza del voto regionale di maggio e dei ballottaggi che hanno ridimensionato il Pd renziano; delle tensioni tra Palazzo Chigi e l’elettorato in tema di riforma della scuola; di una crisi europea che espone l’Italia e il premier e non gli permette di tenere aperti troppi fronti; e dei rapporti di forza in Senato, tali da risentire di qualunque scontro a sinistra. Non significa, tuttavia, che il premier sia disposto ad accettare tutto.

Si tende a escludere fin d’ora l’elezione diretta dei senatori, come chiede la minoranza. L’ipotesi più probabile rimane un «listino» eletto a parte nei consigli regionali, e inserito in qualche modo nella Costituzione. Altrimenti, il Senato potrebbe di nuovo chiedere di dare la fiducia al governo, come adesso. Ma si ammette che la partita non sarà facile comunque. Il rinvio è un inizio di distensione. Rimane da capire se Renzi riuscirà davvero a recuperare lo «schema Mattarella», e cioè l’unità del partito che ha portato all’elezione del capo dello Stato; oppure se opterà per percorsi meno lineari.

L’appoggio delle truppe di complemento dei senatori di FI vicini a Denis Verdini o degli ex M5S è in incubazione; e la maggioranza non esclude di usarli in extremis. Ma spunta anche la disponibilità dei berlusconiani a votare col Pd un Italicum modificato, che può diventare una trappola. L’unica certezza è che il capo del governo vuole celebrare nel 2106 un referendum «per capire se le riforme piacciono ai cittadini». Eppure, per paradosso il 2016 è lontano. Le convulsioni di una Grecia sull’orlo del collasso, e un’Ue che esclude l’Italia dagli incontri strategici, come è successo anche ieri, possono diventare fattori di logoramento.

8 luglio 2015 | 08:47
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/politica/15_luglio_08/sulle-riforme-atto-realismo-che-fotografa-difficolta-67a08a0a-252f-11e5-85c7-ee55c78b3bf9.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO
Inserito da: Admin - Agosto 16, 2015, 04:33:10 pm
Il Senato, i voti, le urne
Una partita rischiosa
Il governo è preoccupato di non avere i numeri.
Può cambiare il testo per ricompattare gli spezzoni del Pd, tornando all’elezione diretta.
O può trovare un accordo con frammenti di Forza Italia, rischiando però la scissione

Di Massimo Franco

Si capisce solo una cosa: che il governo comincia ad essere seriamente preoccupato di avere i numeri al Senato. Le proposte di mediazione che stanno fiorendo sul modo di eleggere i parlamentari della cosiddetta Camera Alta sono il riflesso di questa paura. Tra un mese o giù di lì, ci si potrebbe trovare davanti ad uno spartiacque drammatico, per il Pd e il suo presidente del Consiglio: o cambiare la riforma con un accordo che rimetta insieme gli spezzoni del partito maggiore, confermando l’elezione diretta dei senatori; o approvare una soluzione di compromesso coinvolgendo frammenti di Forza Italia. Ma in questo secondo caso, Matteo Renzi saprebbe di non potere più escludere l’eventualità di una scissione.

La sensazione, infatti, è che i suoi avversari interni non siano pronti ad accettare le ipotesi circolate nelle ultime ore: un segno che la scarsa disponibilità a trattare di Palazzo Chigi è simmetrica a quella della minoranza del Pd nei suoi confronti, e cioè vicina allo zero. D’altronde, la possibilità di un listino collegato alle elezioni per i Consigli regionali è ritenuto un mezzo pasticcio perfino da alcuni dei proponenti. Tra l’altro, ci sono problemi di adeguamento ad alcuni statuti locali. Soprattutto, la logica degli oppositori è di impedire che Renzi controlli la formazione delle liste parlamentari. E, nel caso del Senato, a loro avviso il problema si riproporrebbe, oltre a svuotare politicamente l’assemblea di Palazzo Madama.

A prescindere dall’esito, si tratta di un conflitto scaricato da mesi sul Paese; e ormai così incanaglito da far temere uno scontro anche istituzionale: un’eventualità di cui il Pd porterebbe per intero la responsabilità. Appelli anche autorevoli come quello dell’ex capo dello Stato, Giorgio Napolitano, a non stravolgere la riforma, non sembrano avere modificato le cose, né probabilmente potevano. Per paradosso, le posizioni si sono perfino irrigidite. L’articolo 2, quello sul modo di eleggere i senatori, che il premier non vuole sia modificato, in realtà contiene un comma destinato ad essere rivotato: il presidente del Senato, Pietro Grasso, l’ha già ribadito.

E Sergio Mattarella ha fatto sapere di ritenere il Parlamento sovrano. Significa che il capo dello Stato prenderà atto di quanto sarà deliberato dalle Camere, rimanendo rigorosamente ancorato al proprio ruolo di arbitro. Il sentiero strettissimo attraverso il quale Renzi dovrà passare è dunque un’aula dai rapporti di forza incerti. Se va allo scontro senza trovare un accordo, può saltare tutto: una bocciatura dell’articolo 2 farebbe franare l’intera impalcatura. Se riesce ad arruolare parlamentari all’esterno della sua maggioranza politica, il «sì» avvicinerebbe però anche l’orizzonte di una frattura del Pd.

Insomma, il dilemma del presidente del Consiglio è cambiare la riforma del Senato cedendo; oppure trovare i voti in qualche modo, segnando la fine anche formale dell’unità del Pd e la nascita di una nuova coalizione parlamentare: magari come embrione di un futuro «partito della Nazione» con cromosomi moderati. Rimane da capire se e quanto Silvio Berlusconi o almeno una parte di Fi sarebbero disposti ad aiutare il governo; e a quali condizioni. Forse chiederebbero una contropartita sull’Italicum: nel senso che il sistema elettorale verrebbe cambiato accettando il premio alla coalizione e non più al partito con più voti, presumibilmente il Pd.

È possibile che Renzi si riveli più disponibile a rivedere qualcosa su questo punto rispetto al Senato: anche perché teme che in caso di ballottaggio con il Movimento 5 Stelle alle elezioni politiche, si possa formare un partito trasversale delle opposizioni, unite contro di lui. La sua aura di vincente è un po’ appannata; quella del realista regge ancora. Si capirà presto se il premier riuscirà a smentire quanti ritengono che abbia solo una marcia, e confidano su questo per logorarlo o perfino farlo cadere; o se sarà in grado di spiazzare i nemici.

Negli ultimi cento giorni, l’habitat del governo si è fatto più ostile, complici i risultati delle regionali e gli scandali in alcune giunte. Il problema è di prenderne atto. Il Senato non è un «Vietnam» popolato solo dai «vietcong» delle minoranze. La tensione creatasi in Parlamento è figlia di errori diffusi e grossolani. La scommessa è non permettere che una rotta di collisione alla quale nessuno sembra voler rinunciare, convinto che alla fine lo farà l’avversario, porti a sbattere il Paese precipitandolo dentro le urne.

10 agosto 2015 (modifica il 10 agosto 2015 | 08:51)
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/politica/15_agosto_10/senato-voti-urne-partita-rischiosa-19d4f8c2-3f2b-11e5-9e04-ae44b08d59fb.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO Il peso del passato Ambizioni e difficile realtà
Inserito da: Admin - Agosto 26, 2015, 11:42:23 am
Il peso del passato
Ambizioni e difficile realtà

Di Massimo Franco

Liquidare «il ventennio» passato come un rosario di occasioni perdute dall’Italia significa stilare un verbale del declino difficilmente contestabile: anche se si dimentica l’ingresso del nostro Paese nel sistema della moneta unica, e le speranze che l’euro creò. Il problema è che nel bilancio fatto ieri da Matteo Renzi al Meeting di Comunione e liberazione a Rimini, e poi a Pesaro con l’annuncio dell’abolizione di Imu e Tasi nel 2016, risuona anche un’eco del passato. L’impressione è che il presente venga esaltato in modo eccessivo. L’idea di uno spartiacque virtuoso, rivoluzionario, appartiene ad una narrativa magari comprensibile ma controversa. È vero che per il presidente del Consiglio si trattava di tornare sulla scena dopo settimane difficili; di riaffermare un protagonismo marcato in vista di scadenze istituzionali cruciali come la riforma del Senato, e di una legge di Stabilità insidiata dalla crisi finanziaria cinese.

Proprio il contorno di incertezza, però, tende a schiacciare l’esecutivo sulle esperienze deprecate dalle quali si vuole distanziare.

È condivisibile l’analisi sull’eccesso di ideologia che tuttora permea il sistema. E l’espressione «provincialismo della paura» rende bene il modo in cui alcune forze politiche fomentano la xenofobia e il timore dei cambiamenti. Rimane però il sospetto che il governo descriva in maniera efficace i problemi, ma fatichi a risolverli. Per quanto sia difficile contestare la tesi del premier secondo la quale «veti e controveti» hanno bloccato il Paese, c’è da chiedersi se oggi la situazione sia così diversa. Sul Senato è lo stesso Pd di cui Renzi è segretario a seminare resistenze e incognite destinate a pesare sul merito della riforma e perfino sulla tenuta della maggioranza. Né convince del tutto la contrapposizione tra i «cattivi» che vogliono ancora l’elezione diretta dei senatori e i «buoni» che puntano a svuotarlo attraverso la riforma.

L’idea di affidare la modernità del Senato a un listino scelto dai Consigli regionali, grumi di una spesa pubblica irresponsabile e spesso di un malgoverno ai limiti dei codici, come ammette la stessa Consulta, è per lo meno opinabile. Quanto all’agenda delle priorità economiche, per il momento non è sempre decifrabile. Non solo. Quando il premier parla di abolizione delle tasse sulla casa e più in generale di abbassamento del carico fiscale, viene subito da pensare come saranno compensati.

I margini di manovra che l’Europa dovrebbe concedere all’Italia rimangono aleatori. La tentazione di sfondare il tetto del patto di Stabilità è evidente. Riflette uno scetticismo di fondo sulle politiche rigoriste dell’Ue, che anche ieri Renzi non ha nascosto; e che, va detto, trova più di una giustificazione. La prospettiva di uno strappo appare, tuttavia, altamente rischiosa. Tradisce la preoccupazione di chi si è dato obiettivi molto ambiziosi, e capisce quanto siano sfuggenti.

Il pericolo vero, per Palazzo Chigi e per l’Italia, è un limbo nel quale si sarebbe costretti a galleggiare perché il ritorno indietro comporterebbe solo una regressione; ma il futuro per ora si configura segnato da incertezze assai poco rassicuranti. Nell’abbozzo di una politica post ideologica che Renzi offre, si indovina lo sforzo di superare questo stallo; di individuare il nucleo di un nuovo modello. Riaffiora l’embrione di una formazione che non parli solo alla sinistra, e anzi si guardi da una certa sinistra passatista.

Si tratta di una sfida che comporterà rotture e traumi, dei quali già si intravedono i prodromi. Rimane da capire se il Renzi di oggi abbia la stessa forza, la stessa aura di vincente e le stesse alleanze di un anno fa: non solo per sostenerla ma per vincerla.

26 agosto 2015 (modifica il 26 agosto 2015 | 07:28)
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_agosto_26/ambizioni-difficile-realta-16a39bee-4bb1-11e5-b0ec-4048f87abc66.shtml



Titolo: MASSIMO FRANCO Il Papa nelle Americhe, i segreti di un viaggio
Inserito da: Arlecchino - Settembre 22, 2015, 06:40:38 pm
Il Papa nelle Americhe, i segreti di un viaggio
Dai discorsi fatti riscrivere alla rinuncia a entrare negli Stati Uniti dal Messico per non farsi trascinare nella campagna presidenziale

Di Massimo Franco

Quando il Papa ha letto i discorsi che gli erano stati preparati per la visita negli Stati Uniti, ha avuto una reazione di perplessità e poi quasi di disappunto. Tanto che alla fine ha deciso di rimandarli indietro: riteneva che non riflettessero abbastanza fedelmente né il suo pensiero, né il suo stile. Soprattutto, sembra che li abbia considerati troppo generici e poco strutturati. Per questo, ha affidato la soluzione del problema a persone di sua fiducia che ne conoscono lessico e traiettoria mentale. I discorsi sono stati riscritti praticamente da cima a fondo, e approvati. L’aspetto intrigante è che gli spunti per la stesura dei testi erano arrivati dai vescovi d’oltre Atlantico; e a rielaborarli era stata la Segreteria di Stato: elementi che hanno confermato le differenze culturali e di sensibilità tra Jorge Mario Bergoglio e alcuni dei suoi «grandi elettori» statunitensi.

A questo episodio vanno aggiunte le telefonate di protesta arrivate in Vaticano dall’America quando è stata discussa la lista degli invitati alla Casa Bianca per mercoledì prossimo, alla cena in onore del Papa. Ecclesiastici ma anche esponenti del cattolicesimo più solidamente conservatore hanno chiesto se la Santa Sede avesse espresso le sue rimostranze; o se il Pontefice avesse addirittura meditato di non partecipare a quell’incontro. La risposta diplomatica del Vaticano è stata che il Papa era un invitato, e non poteva decidere lui chi far partecipare: tanto più quando si tratta di quindicimila persone. Ma a parte le risposte diplomatiche, il problema che si è posto è stato quello di analizzare le ragioni di una scelta risuonata a Roma come minimo alla stregua di una gaffe. Al peggio, come uno sgarbo o addirittura una provocazione.

Nei riguardi di chi, però, e per quale ragione? Nella cerchia papale è stato ricordato che Obama ha sempre difeso le minoranze e i temi controversi sulle quali hanno costruito le loro battaglie: dai matrimoni omosessuali all’aborto. È stato ricordato l’entusiasmo col quale il presidente degli Stati Uniti salutò a luglio la decisione a maggioranza della Corte suprema di legittimare le nozze gay: un tema sul quale Francesco non ha parlato finora solo per non alimentare polemiche. Ma è difficile pensare che quando il segretario di Stato, il cardinale Piero Parolin, tuonò contro il risultato del referendum irlandese su questo tema, nel maggio scorso, il Papa non fosse d’accordo. La seconda riflessione si è concentrata sul fatto che l’inquilino della Casa Bianca non ha mai avuto un’appartenenza né una visione religiosa definite.

Alla fine, però, è affiorata anche una spiegazione più «politica». La sfida della Casa Bianca, se di sfida si tratta, non è tanto a Francesco ma ad un episcopato americano da sempre in conflitto con le Amministrazioni e il Partito democratico Usa ; e proprio sui cosiddetti «valori non negoziabili». Avere il Papa ad una cena dove sono presenti alcune delle realtà di fatto contro le quali combattono da anni vescovi considerati «guerrieri culturali» sarebbe un tentativo di spiazzarli, e inserire un cuneo potenziale tra Roma e la Conferenza episcopale statunitense. Ma la manovra è tutta da dimostrare: anche perché appare altamente improbabile che potrebbe riuscire, vista la lealtà e la devozione dei vescovi al papato. È vero solo che alcuni di loro vorrebbero parole più nette a difesa della famiglia e sulle questioni etiche dirimenti.

In Francesco, però, c’è la doppia preoccupazione di non schiacciare la Chiesa cattolica sulle posizioni «repubblicane»: aggettivo che oggi, negli Usa, significa un radicalismo anti-immigrazione e anti-Obama ben riflesso dalla rozzezza delle parole d’ordine del miliardario e candidato Donald Trump. Più in generale, Bergoglio non vuole deflettere da una strategia «inclusiva» e «positiva». Si tratta di un’opzione che comporta uno spostamento e un ammorbidimento degli accenti su questi temi: anche perché l’approccio aggressivo del passato non ha portato grandi passi in avanti. Il timore di essere tacciato di antiamericanismo e infilato a forza nella campagna presidenziale è anche quello che ha scoraggiato una tappa di Francesco a Ciudad Juárez, al confine tra Messico e Usa.

La città è il simbolo di una realtà transfrontaliera ed è uno dei punti di passaggio e di sfruttamento dell’emigrazione dall’America Latina. E il governo messicano era tra quelli che si erano candidati ad ospitare il Pontefice, desideroso di arrivare negli Usa dal «Sud», in omaggio alla sua origine argentina. Alla fine, però, l’ipotesi è stata scartata perché troppo «impegnativa» in vista del viaggio a Washington, Filadelfia e New York. Dopo avere escluso altre tappe, Francesco ha optato per Cuba, sorprendendo tuttavia la Casa Bianca e la stessa Segreteria di Stato vaticana. La volontà di abbinare due nazioni così agli antipodi è un omaggio all’America Latina e un modo per ricordare agli Usa quanto sia importante la ripresa del dialogo e la fine delle tensioni tra il regime comunista dei Castro e il Nord America.

E questo nonostante la Santa Sede ammetta che il suo ruolo di mediazione è stato molto simbolico ma poco operativo. «Ci hanno chiesto di firmare una loro bozza di accordo alla nostra presenza. Ma per circa sei mesi hanno trattato da soli, in Canada», si spiega in Vaticano. Sui tempi della transizione verso la democrazia, le previsioni divergono profondamente. Alcuni dei consiglieri di Francesco ritengono che senza la fine della «generazione della rivoluzione» castrista, la situazione cambierà poco. Oltre tutto, Raúl Castro sarebbe un moderato rispetto al nocciolo duro del Partito comunista, che celebrerà il congresso nella primavera del 2016. «In più, Cuba è un’isola, tagliata fuori da tutto per oltre mezzo secolo», si osserva. «Non è la Polonia, o la Cecoslovacchia o la Germania dell’Est, che avevano contatti col mondo esterno. Lì un cambiamento può arrivare solo se nasce dall’interno».

L’idea statunitense dell’«inevitabilità della democrazia» è suggestiva, e probabilmente esatta. Ma poco prevedibile nella sua tempistica. Il regime ha bisogno degli Usa dopo la deriva fallimentare del Venezuela che mandava soldi e petrolio in cambio di medici e infermieri cubani. Per paradosso, tuttavia, continua a dover usare anche l’embargo statunitense per coprire i propri fallimenti economici e politici. Probabilmente, per capire come andrà a finire bisognerebbe sapere meglio che cosa si sono detti gli emissari statunitensi e di Cuba nella loro lunga trattativa segreta. Sempre che la realtà della nomenklatura comunista caraibica sia disposta a conformarsi a quel percorso verso la democrazia.

20 settembre 2015 (modifica il 20 settembre 2015 | 08:26)
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/esteri/15_settembre_20/papa-americhe-segreti-un-viaggio-fcdf6a8e-5f5c-11e5-9125-903a7d481807.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO La visita negli Stati Uniti
Inserito da: Arlecchino - Settembre 28, 2015, 07:54:21 pm
La visita negli Stati Uniti
Il discorso del Papa al Congresso Usa e il senso di quegli applausi per un protagonista «politico»
Tono inclusivo, ma franco, il Pontefice è riuscito ha dato all’evento un carattere non formale.
Ha parlato di migranti e pena di morte, ma anche di famiglie e difesa della vita

Di Massimo Franco

Ha parlato da americano, più che da latinoamericano. Da «figlio di questo grande continente», proprio come gli statunitensi. Anche se Francesco sapeva di rivolgersi ad un Congresso Usa che riflette una storia, una cultura e, almeno nel passato, una religione diversa da quella dell’America australe: cattolica questa, protestante l’altra. Ma additando una radice geografica comune ha potuto esprimersi in modo inclusivo, avvolgente: garbato e insieme severo. Ha potuto chiedere un impegno comune per riequilibrare i cambiamenti climatici. Ha potuto parlare di «fondamentalismi» adombrando una verità non manichea e scomoda, alle orecchie occidentali: e cioè che certi estremismi non sono solo islamici, e che si può sbagliare tracciando linee troppo semplicistiche tra «buoni» e «cattivi».

Il pontefice argentino è riuscito ad accennare criticamente perfino al modo in cui si combatte il terrorismo. Col suo inglese letto con qualche fatica ma studiato con cura, è riuscito a dire tutto quello che voleva, dando all’appuntamento storico col Congresso degli Stati uniti un carattere non formale. Ma riscuotendo applausi e comunque rispetto.

Non ha taciuto sugli istinti che portano a rifiutare gli immigrati proprio in una nazione costruita e resa grande dall’immigrazione. Né, seppure coi suoi toni non aggressivi, ha tralasciato un accenno alle famiglie e ai matrimoni come «relazioni fondamentali» che rischiano di essere «messe in discussione»; al tema della vita «da proteggere e difendere in ogni momento», con un chiaro riferimento ad aborto ed eutanasia. In un Paese segnato dal terrorismo e dalle guerre, immerso per anni in un panorama di conflitti crescenti, Francesco ha ricordato ad un’America fondata sulla democrazia che nemmeno in nome della lotta all’eversione bisogna deflettere da quei principi.

A questo sembrava alludere quando ha fatto presente «l’equilibrio delicato» da mantenere contro «l’estremismo religioso»; e quando ha avvertito che «imitare l’odio e la violenza dei tiranni e degli assassini è il modo migliore di prendere il loro posto. Questo è qualcosa che voi, come popolo, rifiutate».

Gli applausi e l’ovazione finale di un Congresso a schiacciante maggioranza repubblicana non vanno letti come approvazione di tutto il suo discorso. Ci sono state, e ci saranno critiche contro Francesco per le sue parole contro il commercio delle armi, o nella sua esortazione a non aggravare i cambiamenti climatici o negli attacchi al capitalismo finanziario che alimenta la povertà. Ma in quei battimani si è colto il riconoscimento di un momento storico. Ed è emersa la consapevolezza di avere di fronte un nuovo attore geopolitico col quale anche gli Stati Uniti dovranno fare i conti: in America latina ma anche in Ucraina e in Siria. Un segno di rispetto, prima e più che di consenso.

25 settembre 2015 (modifica il 25 settembre 2015 | 12:49)
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/esteri/15_settembre_25/papa-francesco-parla-congresso-usa-applausi-massimo-franco-ff5d3858-634f-11e5-9954-7c169e7f3b05.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO La sciatica profetica di Bergoglio Il Papa che l’Impero non ...
Inserito da: Arlecchino - Settembre 28, 2015, 07:56:07 pm
IL RETROSCENA - I GIORNI DEL CONCLAVE

La sciatica profetica di Bergoglio Il Papa che l’Impero non voleva
Un estratto di «Imperi paralleli. Vaticano e Stati Uniti: due secoli di alleanza e conflitto», il libro di Massimo Franco in edicola da venerdì 25 settembre con Il Corriere della Sera

Di Massimo Franco

Mentre si apriva il Conclave del 2013, riaffiorò un rumore di fondo dal passato: «Washington non vuole un Papa sudamericano». Thomas Reese, californiano, nel 2005 direttore del settimanale dei gesuiti Usa, «America», l’aveva detto nei giorni che avevano preceduto l’elezione di Benedetto XVI. Ma ora quella diffidenza verso un pontefice potenzialmente anticapitalista, quasi «no global» e «terzomondista», e con una presunta vena antiyankee, riemergeva: anche se alla Casa Bianca c’era il democratico Obama, non più il repubblicano Bush. I leader degli Stati Uniti non potevano sapere che appena due anni dopo l’ascesa di Joseph Ratzinger, la candidatura di Jorge Mario Bergoglio, spuntata e accantonata appunto nel 2005, stava prendendo forma casualmente attraverso una singolare profezia. Era successo nell’autunno del 2007. Il professor Valter Santilli, fisiatra dell’università La Sapienza di Roma, un’autorità nel campo della riabilitazione, fu chiamato a visitare un cardinale argentino sofferente di lombo-sciatalgia: proprio Bergoglio, arcivescovo di Buenos Aires, a Roma per un Sinodo in Vaticano.

«Durante la visita, che mise in luce i tratti di cordialità e simpatia, nonché di semplicità del cardinale, mi venne in mente non so come», ricorda Santilli, «di esprimermi nella seguente maniera: “Eminenza, lo sa che la sciatica è una malattia profetica?”. “Perché?” rispose il cardinale. E io: “Perché nel Libro della Genesi dell’Antico Testamento al capitolo 32, dove si racconta l’episodio della lotta di Giacobbe con l’Angelo, quest’ultimo lo toccò sul nervo sciatico e sull’articolazione dell’anca”. E Bergoglio: “E allora?”. “Eminenza”, replicai, “in quella notte dopo la sciatica il Signore cambiò il nome a Giacobbe in Israele. Vedrà, dopo la sua sciatica il Signore cambierà il nome anche a Lei», scolpì col suo marcato accento romanesco e un sorriso malandrino. Bergoglio lo guardò perplesso, abbozzando un sorriso ma senza aggiungere nulla. Poi si misero a parlare di un convegno su «Scienza, Arte e Spiritualità» che il fisiatra avrebbe voluto organizzare alla Sapienza. Bergoglio gli propose subito di farlo alla Universidad Catolica Argentina di Buenos Aires. E così fu, nel settembre del 2008.

Il cardinale continuò a farsi curare da Santilli tra la fine del 2007 e l’inizio dell’anno successivo. Poi si persero di vista. Fino al 31 maggio del 2013. Quel giorno, ricorda il fisiatra con la voce ancora emozionata, «squilla il mio cellulare e l’interlocutore così si presenta: “Pronto è il professor Santilli?”. “Sì, chi è?” “Una volta il mio nome era Jorge Mario Bergoglio, poi il Signore mi ha cambiato il nome, ora mi chiamano papa Francesco…”». Si sono visti ancora, dopo. Hanno anche un amico in comune: un ragazzino romano, Leonardo Scarano, che regala al Papa disegni e incoraggiamenti, e considera Santilli «un grande». Condividono anche la conoscenza di Alessandro Spiezia, l’ottico romano con negozio in via del Babuino dove Francesco è apparso a sorpresa il 4 settembre del 2015 per farsi cambiare la montatura degli occhiali. Miracoli dello Spirito Santo e della sciatica profetica, che in realtà di tanto in tanto continua a perseguitare il pontefice: anche perché Francesco è ingrassato di quasi quattordici chili in due anni e mezzo di «dieta» di Casa Santa Marta (solo negli ultimi mesi è riuscito a calare un po’).

Non c’era, tuttavia, solo quello strano episodio come indizio del suo futuro papale. In una delle ultime visite pastorali a una parrocchia di Buenos Aires, Bergoglio era stato avvicinato da una signora che gli aveva detto: «Eminenza, lei adesso va a Roma per il Conclave. Si porti dietro un cane. E gli faccia assaggiare tutto quello che le danno da mangiare prima di toccare lei la comida, il cibo». In più, il 25 febbraio uscì sull’agenzia del Consiglio episcopale latinoamericano, Noticelam, l’articolo di una giornalista argentina, Virginia Bonard, che raccontava il finale di un’intervista a Guzmán Carriquiry, allora segretario della Pontificia commissione per l’America Latina. «Mentre entravano nella sua stanza le telecamere di Rome Reports», scriveva la giornalista, «Carriquiry mi disse senza un’ombra di dubbio: “Non si dimentichi, Virginia: il prossimo Papa sarà Bergoglio”». Non solo. Se qualcuno fosse capitato in piazza Navona, a Roma, la domenica prima dell’inizio del Conclave, avrebbe colto un altro piccolo segno del destino.

Quel 10 marzo 2013, il sacerdote canadese Thomas Rosica si imbatté in un Bergoglio meditabondo, che passeggiava in quella bomboniera rinascimentale, da solo, tra i turisti. In quei giorni abitava lì vicino, in un pensionato di via della Scrofa: ci andava sempre quando si trovava nella capitale. I due si conoscevano: Rosica è il presidente di Salt and Light, la più importante emittente cattolica canadese, e durante il Conclave avrebbe «coperto» tutti i media di lingua inglese per la sala stampa vaticana. Cominciarono a camminare insieme, chiacchierando. Il sacerdote notò una punta di nervosismo e di preoccupazione nel modo di fare dell’arcivescovo di Buenos Aires. Gli chiese che cosa avesse, come mai fosse così teso. La risposta fu: «Perché non so che cosa mi stanno preparando i miei fratelli in Conclave». Col senno di poi, viene da pensare che il futuro Papa sentisse di essere un candidato al soglio di Pietro. Di certo, faceva balenare l’idea di grandi manovre in atto intorno al suo nome.

Quell’olor de Conclave, odore di Conclave, che gli amici argentini dicevano che avesse avvertito alcuni mesi prima, nella sua megalopoli di Buenos Aires, ora lo investiva da vicino, promettendo un cambio epocale dentro il Vaticano; e un nuovo paradigma nei rapporti tra la Santa Sede e gli Stati Uniti. […] Oscuramente, le sue origini ponevano una sfida anche sul piano geopolitico. Gli Usa passavano da un Papa tedesco e filo-americano a ventiquattro carati, a un pontefice che, non riconoscendo il proprio impero, implicitamente tendeva a non riconoscerne nessuno; che non condivideva i confini ormai anacronistici della Guerra fredda, né la divisione tra Est e Ovest che aveva dominato per mezzo secolo i rapporti tra Occidente e Unione Sovietica. Un esponente del Sud del mondo, di un «estremo Occidente» che in realtà era altro: una sorta di «Occidente alternativo» a quello conosciuto, «sudista», australe, e poco tenero con quel «Nord» tutto capitalismo, competizione e culto della ricchezza. […] Erano queste le novità con le quali Washington, che si percepiva come l’ultimo e forse unico impero occidentale sopravvissuto, doveva fare i conti.

25 settembre 2015 (modifica il 25 settembre 2015 | 12:50)
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da – corriere.it


Titolo: MASSIMO FRANCO Ricreare il clima di Vatileaks Il piano dei nemici del Papa
Inserito da: Arlecchino - Ottobre 14, 2015, 02:44:19 pm
IL RETROSCENA

Ricreare il clima di Vatileaks Il piano dei nemici del Papa
Viste da Santa Marta, le manovre di questi giorni fanno pensare a un’operazione progettata da tempo per delegittimare due anni di papato.
L’obiettivo è quello di trasmettere l’impressione che, Bergoglio o Ratzinger, non cambia nulla

di Massimo Franco

Il piano degli avversari sta assumendo contorni più nitidi. E inquietanti. Prima la confessione liberatoria e provocatoria del teologo omosessuale polacco Krzysztof Charamsaa ridosso del Sinodo. Adesso, mentre è in pieno svolgimento, la lettera spuria di una decina di cardinali conservatori. E presto, chissà, un altro attacco obliquo nei confronti di papa Francesco. «Non sta arrivando un nuovo Vatileaks, ma qualcuno vuole dare quest’impressione per destabilizzare un pontificato che tenta di fare pulizia». Le parole di uno degli ecclesiastici più vicini a Jorge Mario Bergoglio sono preoccupate, perfino allarmate.

Quanto sta accadendo può essere definito una provocazione, o un difetto di governo, o l’esasperazione di minoranze della Chiesa cattolica che si sentono fuori gioco e prossime alla marginalità. Da Casa Santa Marta, però, dove abita Francesco, l’analisi delle manovre di questi giorni è più radicale. Fa pensare ad un’operazione progettata da tempo; e tesa a delegittimare non il Sinodo ma i due anni di papato argentino; a descrivere un episcopato in preda al caos, alle liti fratricide, quasi fosse la versione curiale del Parlamento italiano; e a risospingere tutto indietro, come se nei trenta mesi passati fosse cambiato poco o nulla.

Era accaduto qualcosa del genere già nella riunione precedente, a febbraio. Anche allora la gestione «liberal» del Sinodo da parte di Bergoglio aveva provocato resistenze e reazioni, quando si era parlato di Comunione per le coppie divorziate. Era stata pubblicata una relazione che sembrava precostituire e sbilanciare l’esito di quell’assemblea. E lo stile «latinoamericano» del pontefice era stato additato come una delle cause della confusione e del disorientamento. Ma stavolta si indovina una maggiore preordinazione: non tanto di Francesco ma dei suoi avversari. L’evocazione di Vatileaks sul Corriere da parte del cardinale Gerhard Müller, «custode» della Dottrina della Fede senza forse calcolarne del tutto le implicazioni, è stata a doppio taglio.

Involontariamente, Müller non ha solo fotografato la sua irritazione e il suo stupore. L’alto prelato tedesco, uno dei firmatari di una lettera della quale però sarebbe stato cambiato a insaputa sua e di altri cardinali anche il contenuto, si dev’essere sentito usato e strumentalizzato. Come il «ministro dell’Economia» vaticano, cardinale George Pell, che ieri ha dichiarato: «Le firme sono sbagliate ma soprattutto la maggior parte del contenuto della lettera non corrisponde. Non so perché è successo né chi l’abbia fatta uscire così».

È una reazione che obbliga a pensare ad un’operazione assai poco cristiana; e che riporta in primo piano la consistenza di una «Internazionale tradizionalista» contraria al Papa per questioni dottrinali e di potere.
Ma quella parola, Vatileaks, rimanda allo scandalo emerso nella coda finale e convulsa del pontificato di Benedetto XVI. Ricorda i «leaks», le fughe di notizie dal Vaticano, affidate a quintali di documenti filtrati dall’Appartamento, la residenza di Joseph Ratzinger nel Palazzo apostolico, per mano del suo maggiordomo personale, Gabriele: un personaggio che continua ad apparire il maggior responsabile e il principale capro espiatorio di quella vicenda torbida.

Fu in seguito a quelle rivelazioni che per la prima volta dopo sette secoli un Papa si dimise. L’uscita di scena traumatica di Benedetto XVI nel febbraio del 2013; l’elezione dell’argentino Bergoglio; la sua scelta di andare a vivere a Santa Marta, un albergo piuttosto spartano nella «periferia» della Città del Vaticano, invece che tornare nell’«Appartamento maledetto» di Benedetto: sono tutte conseguenze a cascata di quella vicenda, e cesure con un passato che la Chiesa cerca di archiviare, se non di rimuovere. Dire che sta per esplodere un nuovo Vatileaks trasmette invece l’impressione che, Bergoglio o Ratzinger, non cambia nulla.

Esistono ancora i «corvi» che trafugano documenti e li danno in pasto strumentalmente all’opinione pubblica. Esistono le lotte di potere. E permangono maggioranze e minoranze in guerra. È questo il calcolo di chi getta tra i piedi del Sinodo un pretesto di tensione dopo l’altro: trasmettere con «verità» pilotate e inquinate, ma verosimili, l’idea di una realtà immutabile, soprattutto in negativo. Il rischio è accentuato dalla presa intermittente che Francesco sembra dimostrare sui gangli del potere «romano». Nonostante la moltiplicazione di commissioni e riforme, la Curia appare sulla difensiva ma tuttora decisa a resistere ad uno stile di governo considerato allo stesso tempo troppo radicale e inconcludente.

Il fatto che nella cerchia papale si parli di un Vaticano schierato contro Bergoglio, affermazione che è un ossimoro, spiega almeno in parte la confusione e le manovre. Anche perché dentro le Sacre Mura si accredita un Papa ostile al Vaticano: che sarebbe un altro paradosso. «Spero che ci troviamo davanti a una provocazione», confida un amico fidato di Francesco. «Non vorrei che fosse qualcosa di peggio. È il secondo attacco al Papa dall’inizio del Sinodo. Non ne escluderei un terzo o un quarto. Temo una manovra di destabilizzazione dall’esterno». Chi ne sarebbe il regista, e con quale obiettivo finale, non è chiaro neppure a chi la denuncia.

«L’unica cosa che posso dire è che non siamo nella situazione del 2013 prima delle dimissioni di Benedetto XVI. Qui nessuno perde la testa, anche se forse qualcuno lo spera», avverte l’interlocutore vaticano. Eppure, l’accenno a trenta mesi fa, un periodo che rivisto oggi sembra preistoria, dà i brividi. L’accostamento induce a sospettare che qualcuno voglia indurre Bergoglio a gettare la spugna, a tornare nella sua Buenos Aires da perdente o da incompreso: sconfitto dall’eternità non della Chiesa ma dei meccanismi e delle dinamiche vaticane. «Ma non succederà», assicura un esponente latinoamericano.

«Il Sinodo», aggiunge, «finirà bene, nonostante i tentativi di schiacciarlo sulle questioni più controverse. Le minoranze, quella iper conservatrice e quella iper progressista, si riveleranno tali. E la stragrande maggioranza starà con Francesco». Un risultato, però, i critici più oltranzisti lo stanno ottenendo: seminano ombre, e i successi internazionali del pontificato sono tornati in secondo piano. Si conferma la previsione di chi ritiene che, se vuole vincere davvero nel mondo, Bergoglio dovrà affrontare e superare la sfida che gli impone Roma. Oggi i suoi avversari più irriducibili non si annidano tra le folle plaudenti, ma nelle file del suo esercito ecclesiastico: perfino tra le «berrette rosse» che gli battono le mani.
Per questo lo stillicidio continuerà. Ma anche le riforme, perché Francesco non può che andare avanti.

© RIPRODUZIONE RISERVATA
14 ottobre 2015 | 07:34

Da - http://roma.corriere.it/notizie/cronaca/15_ottobre_14/ricreare-clima-vatileaks-piano-nemici-papa-9f9169c8-7234-11e5-b015-f1d3b8f071aa.shtml



Titolo: MASSIMO FRANCO La conclusione dei lavori Sinodo, mediazione non scontata
Inserito da: Arlecchino - Ottobre 28, 2015, 06:00:05 pm
La conclusione dei lavori
Sinodo, mediazione non scontata
Ma diplomatizzare troppo i contrasti avrebbe proiettato una fotografia di maniera del cattolicesimo mondiale

Di Massimo Franco

Il compromesso che chiude il Sinodo può essere valutato in modo diverso, a seconda dei punti di vista. Come tutte le mediazioni, implica elementi di ambiguità, e comunque chiaroscuri necessari per non esacerbare controversie potenzialmente laceranti. Ma si deve riconoscere a papa Francesco e alla Chiesa cattolica il coraggio di mettersi in discussione; di misurarsi con la modernità a costo di esserne segnati e perfino sfigurati.

Jorge Mario Bergoglio per primo ha accettato una sfida dalla quale poteva riemergere indebolito e non rafforzato. Le resistenze contro le sue aperture, anche caute, sono apparse proporzionali alla percezione del suo pontificato riformista, se non rivoluzionario. È possibile che un Pontefice meno estraneo alle logiche «romane» avrebbe potuto ottenere risultati più incisivi. È certo che sarebbe stato circondato da minori ostilità e riserve mentali.

Ma la sua forza e la sua determinazione sono figlie dell’identità inedita del Pontefice. Lo spettro di una frattura, perfino di un simulacro di scisma, è stato evocato strumentalmente per illustrare i pericoli di un cedimento sulla dottrina.

L’esito spazza via simili scenari. La relazione finale è stata votata dai due terzi e oltre dei 275 partecipanti al Sinodo sulla famiglia. La questione dirimente della Comunione ai divorziati è passata per un solo voto, riflettendo fedelmente opinioni assai lontane tra loro; ma confermando l’immagine di una «Chiesa viva», nelle parole di Francesco.

D’altronde, i fattori esterni che si sono scaricati sulle tre settimane di dibattito l’hanno un po’ condizionato. Ma non sono riusciti a piegarlo e distorcerlo più di tanto, perché la manovra di disturbo è stata così platealmente scoperta da indebolirne i registi, occulti o visibili. I temi più ingombranti sono rimasti gli stessi del febbraio scorso e di un anno fa. E anche gli schieramenti interni alla fine sono stati confermati. In sintesi: cosa può fare la Chiesa per dire qualcosa di nuovo non più alla famiglia ma alle famiglie create dall’epoca contemporanea.

La soluzione «caso per caso» della Comunione ai divorziati rappresenta la concessione massima offerta al fronte progressista, forte in Nord Europa e negli Usa. Ma la maggioranza ha visto confermato dallo stesso Papa l’impianto dottrinale che non voleva minimamente intaccare. Francesco ha notato che in qualche discussione le obiezioni non sono state esposte con troppa benevolenza. La misericordia dalla quale sarebbe pervasa la relazione finale sembra un obiettivo più che la realtà di oggi.

Ma forse è meglio così: diplomatizzare troppo i contrasti avrebbe proiettato una fotografia di maniera del cattolicesimo mondiale. Le sfaccettature, invece, sono il riflesso coerente di quella società poliedrica individuata ed analizzata da Bergoglio da quando era arcivescovo di Buenos Aires: una bussola magari imperfetta e imprecisa, eppure inevitabile per tenere insieme cose molto diverse. L’esito del Sinodo porta a pensare che Francesco continui ad esercitare il proprio carisma con maggiore facilità fuori dalle file ecclesiastiche.

I suoi successi planetari e la sua popolarità non sembrano sufficienti a suscitare gli applausi unanimi degli episcopati. Anzi, a tratti si ha quasi l’impressione che causino malintesi e perplessità tra Papa e nomenklatura religiosa. Il problema, ormai è evidente, non riguarda solo la convivenza tra Bergoglio e la Curia. Tocca il raccordo con una parte di cardinali e vescovi nel mondo. Rimanda agli equilibri del Conclave 2013, e induce a chiedersi se esistano ancora.

Eppure, alla fine il Sinodo si è stretto intorno a Francesco: forse proprio per esorcizzare il «virus della disarmonia», come è stato chiamato. In Vaticano abita e agisce da due anni e sette mesi un Pontefice d’avanguardia, americano argentino, che si rende conto di quanto sia difficile fare avanzare le cose al ritmo che pensava. Francesco può cambiare solo con prudenza, e accetta la lentezza. Altrimenti, sa che potrebbe staccarsi dal suo esercito ecclesiastico, che si ritroverebbe esposto alla tentazione di assecondare un tacito ordine di ritirata verso un passato che da tempo, in realtà, non esiste più.

25 ottobre 2015 (modifica il 25 ottobre 2015 | 07:16)
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_ottobre_25/sinodo-mediazione-non-scontata-f52324aa-7ade-11e5-901f-d0ce9a6b55d1.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO Corvi in Vaticano L’ombra di una nuova Vatileaks
Inserito da: Arlecchino - Novembre 04, 2015, 06:07:46 pm
Corvi in Vaticano
L’ombra di una nuova Vatileaks
Il duo Vallejo Balda-Chaouqui è la metafora di un cambiamento a tratti ambiguo
Erano già screditati agli occhi di Francesco

Di Massimo Franco

Sono due persone che aveva scelto papa Francesco. E dunque venivano ascritte quasi d’ufficio al nuovo corso di Jorge Mario Bergoglio. Per questo l’arresto di Lucio Angel Vallejo Balda, esponente di peso dell’Opus Dei, e di Francesca Immacolata Chaouqui, giovane donna di pubbliche relazioni per Ernst &Young, ha sorpreso quasi tutti. Dall’esterno è apparso un colpo all’immagine dello stesso Pontefice. Entrambi, infatti, il monsignore e la sua protetta, erano stati membri della Commissione d’inchiesta sulle finanze vaticane, istituita nel luglio del 2013. La presiedeva il maltese Joseph Zara, amministratore delegato del Market Intelligence Services Co Ltd. Ma dentro le Sacre Mura si sapeva da almeno un anno che il loro sodalizio e la loro rete di contatti erano screditati anche agli occhi di Francesco.

Già nel novembre del 2014, un esponente vaticano a conoscenza di molti segreti confidava le perplessità diffuse sul comportamento di monsignor Vallejo Balda e della giovane lobbista. «Hanno avuto accesso a documenti riservati, e c’è il rischio di una Vatileaks economica», si diceva già allora. D’altronde, per mesi avevano avuto pieno accesso a Casa Santa Marta, l’albergo dove il Papa ha scelto di risiedere. Garantivano contatti e informazioni riservate, servendosi di siti e giornali compiacenti. E cercavano di accattivarsene altri offrendosi come mediatori. Sostenevano di potere avere contatti diretti col Papa. E probabilmente, all’inizio qualcosa di vero ci doveva essere: esibivano una sicumera tipica di chi si sente introdotto nel «posto giusto».

Nell’euforia seguita alle dimissioni di Benedetto XVI e all’arrivo del primo latino-americano sul Soglio di Pietro, tutto appariva possibile. Il vento di novità velava le zone grigie, i rapporti tra vecchio e nuovo potere, il trasformismo, e la determinazione delle lobby finanziarie più influenti e segrete a concedere il minimo all’imperativo della trasparenza. Sotto questo aspetto, il duo Vallejo-Chaouqui è la metafora di un cambiamento dai contorni a tratti ambigui; e di una certa difficoltà di Francesco a conoscere esattamente gli intrecci del sottobosco vaticano e riconoscere le persone più affidabili. È una zona grigia estesa e infida, dalla quale il monsignore dell’Opus Dei, che si è affrettata a separare le proprie responsabilità da quelle di Vallejo Balda ora che si trova in una cella della Gendarmeria vaticana, è emerso solo per eccesso di protagonismo o di furbizia.

Evidentemente il modo di fare suo e della sua sodale è stato così irrituale da apparire più che una cifra del nuovo pontificato, un’ostentazione maldestra e forse anche millantata del potere. Colpì molto, sotto questo aspetto, la «festa» data dal duo sulla terrazza della Prefettura degli Affari economici, affacciata su piazza San Pietro, a fine febbraio del 2014. Si canonizzavano Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II. E, mentre la folla della gente comune si accalcava all’interno del colonnato del Bernini, uno spicchio del cosiddetto «mondo Vip» sorseggiava vino pregiato e mangiava, guardando quell’umanità dall’alto. Un raduno sponsorizzato, all’insaputa dell’allora «ministro dell’Economia», il cardinale Giuseppe Versaldi. Monsignor Balda distribuiva la Comunione agli ospiti tirando fuori le ostie da bicchierini di carta; unendo sacro e profano senza essere attraversato da un solo dubbio.


E la Chaouqui accoglieva gli invitati come una specie di padrona di casa. Su quel balcone c’era la marmellata politico-religiosa della Roma vecchia e nuova, del potere economico del passato e del presente: di nuovo, la metafora involontaria di una rivoluzione inevitabilmente contraddittoria. «È uno schiaffo, uno schiaffo», sembra avesse commentato Francesco quando gli diedero la notizia di quel rito mondanissimo, camuffato da occasione religiosa: rappresentava tutto ciò che aveva cercato di combattere fin dal primo giorno. Il pontefice fece convocare Vallejo Balda, e gli chiese conto di quanto era accaduto. Il seguito è arrivato a cascata. Si parla di ingresso in Vaticano interdetto alla Chaouqui da mesi, ormai. Di un Francesco addolorato ma costretto a prendere tempo, perché gli si faceva presente che i sospettati potevano far filtrare i documenti della commissione della quale erano membri.

Sullo sfondo stagnava il timore che l’eventuale espulsione della Chaouqui dalla cerchia papale potesse essere considerata solo come la vendetta di un ambiente misogino; e la convinzione che Vallejo Balda dovesse essere smascherato con prove inoppugnabili. Ma il dubbio è che la svolta sia arrivata troppo tardi. Il tentativo di fermare altre «rivelazioni» che promettono di deturpare non solo l’immagine ma l’identità della «nuova Chiesa» di Bergoglio, semina perplessità. E alla fine si torna al punto di partenza: la selezione del gruppo dirigente in Vaticano, l’opacità delle questioni economiche, e la guerra mai finita per assumerne il controllo. Per questo non ci sarebbe da meravigliarsi se alla fine l’arresto di Vallejo Balda avesse riflessi anche sulla gestione delle finanze della Santa Sede; e acuisse le ostilità tra il «ministro dell’Economia» George Pell.

All’inizio, sembra che lui e Vallejo Balda fossero tacciati di avere la «sindrome del giustiziere»: agivano in accordo per spazzare via tutto ciò che non rientrava nelle loro logiche. Poi la loro alleanza si è spezzata, probabilmente per ambizioni divergenti e, nel caso del prelato dell’Opus Dei, frustrate. Così, Vallejo Balda avrebbe cominciato a consumare le sue vendette, facendo trapelare notizie contro Pell, inviso a quasi tutto il Vaticano per i metodi sbrigativi. Le indicazioni inviate qualche giorno fa dal Papa per ricordare che in attesa della riforma della Curia valgono ancora le regole di prima, e che ad amministrarle è il segretario di Stato, cardinale Piero Parolin, suona come la conferma del ridimensionamento di Pell: tra l’altro, uno degli ispiratori della lettera con la quale i conservatori hanno accreditato un esito del Sinodo precostituito da Bergoglio: un’accusa intollerabile.

Ma i due accusati sono pedine di un gioco più grande e più sporco: un altro tentativo spettacolare di destabilizzare un papato, sfruttando gli errori commessi in nome del rinnovamento, per disdirlo completamente. Una manovra torbida.

3 novembre 2015 (modifica il 3 novembre 2015 | 14:43)
© RIPRODUZIONE RISERVATA


Titolo: MASSIMO FRANCO Sul duo Balda-Chaouqui
Inserito da: Arlecchino - Novembre 07, 2015, 09:48:42 pm
Sul duo Balda-Chaouqui
Balda-Chaouqui corvi in Vaticano Quell’indagine preventiva (ignorata) sul «signorotto» e la «signorina»
I canali istituzionali vaticani avevano espresso riserve fin dal 2013 sulle candidature del monsignore e della p.r.
Ma le obiezioni furono sottovalutate

Di Massimo Franco

I dubbi erano emersi fin dall’inizio: prima ancora che monsignor Lucio Angel Vallejo Balda e Maria Immacolata Chaouqui fossero inseriti nella Commissione istituita da Papa Francesco il 18 luglio 2013 per rivedere tutta la struttura economico-finanziaria della Santa Sede. Attraverso i canali istituzionali di sempre, il governo vaticano aveva svolto ricerche riservate per raccogliere informazioni sui candidati. E alcune avrebbero dovuto sconsigliare la cooptazione delle due persone che alla fine sono state arrestate con l’accusa di avere rubato e passato a due giornalisti documenti «sensibili». Fu contattato anche monsignor Alfred Xuereb, segretario di Francesco, delegato a riferire sull’attività sia della Commissione sullo Ior che sull’altra. Passare al setaccio le controindicazioni delle quali si era venuti a conoscenza non bastò a cambiare il corso delle cose.

Sembra che Xuereb ritenne che le preoccupazioni fossero eccessive: nel senso che la Commissione era sicura delle candidature e dunque intenzionata a procedere rapidamente. Erano passati poco più di quattro mesi dal Conclave che aveva eletto Jorge Mario Bergoglio al posto del dimissionario Benedetto XVI. Francesco si era trasferito a Casa Santa Marta da tempo. E il discredito che circondava l’allora «primo ministro» della Santa Sede, Tarcisio Bertone, era così profondo e diffuso che qualunque informazione riferibile agli ambienti ufficiali veniva accolta con sospetto e diffidenza. La linea della riforma avanzava in modo radicale e rapido. E uno dei capisaldi consisteva nel ridimensionamento del ruolo della Segreteria di Stato: una sorta di «vicepapato» negli anni di Ratzinger, per di più guidato da un Tarcisio Bertone pasticcione e chiacchierato: tanto che prima, durante e dopo il Conclave l’unico punto sul quale si registrava una sorta di unanimità dei cardinali era di impedire che il successore potesse fare danni come quelli seminati da lui.

Ma alcuni mesi dopo, in ottobre, fu nominato l’allora nunzio in Venezuela, Pietro Parolin: un diplomatico fine e esperto, «esiliato» proprio dalla cerchia bertoniana. A quel punto, tuttavia, la «Pontificia Commissione referente di studio e di indirizzo», come era stata chiamata nel documento autografo del Papa, aveva già cominciato a lavorare. E il duo Vallejo Balda-Chaouqui si muoveva con disinvoltura crescente in un Vaticano in piena effervescenza rivoluzionaria. Casa Santa Marta era una sorta di serbatoio di informazioni e visibilità da spendere e sfruttare all’esterno delle Sacre Mura. E l’accesso a notizie riservate poteva diventare un patrimonio da far valere come merce di scambio. Ma presto, quell’attivismo dei due commissari cominciò a dare nell’occhio. C’era qualcosa di esagerato, di inusuale nella girandola di contatti e di conoscenze che ostentavano. E soprattutto, si cominciò a intravedere il pericolo che le carte della Commissione potessero cadere nelle mani sbagliate. Francesco fu informato. Gli furono offerti i primi indizi. Ma cercò di evitare provvedimenti troppo duri.

Consigliò invece di arginare e neutralizzare il più possibile Vallejo Balda e la Chaouqui, proveniente dalla società di consulenza Ernst & Young. Passò qualche mese, e la giovane commissaria fu richiamata all’ordine dai vertici della Gendarmeria vaticana. E si cominciò a parlare del monsignore spagnolo e di lei con due nomi in codice: il «signorotto» e la «signorina». Quando a metà ottobre i sospetti sono diventati più corposi, e si è capito che c’erano documenti della Commissione trafugati e che era stato violato il computer di Libero Milone, dal giugno scorso revisore generale delle finanze vaticane, il cerchio si è stretto. Ma con le ultime, residue cautele. Per qualche giorno, è stata discussa l’opportunità o meno di procedere agli arresti.

L’ipotesi iniziale era di limitarsi a licenziare Vallejo Balda, per non fare troppo rumore e non riproporre le polemiche sulle celle vaticane non a misura d’uomo: una critica emersa ai tempi di Vatileaks dopo l’arresto del cameriere personale di Benedetto XVI, Paolo Gabriele. In più, qualcuno aveva fatto notare che proprio alla vigilia del Giubileo della misericordia, un provvedimento del genere poteva risultare stonato. Non bastasse, si sapeva che stavano uscendo dei libri coi documenti sottratti. Ci si è resi conto però, che i reati apparivano troppo gravi. Non si poteva non dare un segnale forte all’esterno. E soprattutto, dopo l’arresto del maggiordomo laico di Ratzinger, si temeva l’accusa di usare un doppio standard tra dipendenti non religiosi ed ecclesiastici: i primi imprigionati, gli altri mandati a casa. Il Papa è stato informato e, a malincuore, ha detto di procedere.

Così è scattata la richiesta di arresto per Vallejo Balda e Chaouqui. L’episodio dell’indagine preventiva ignorata riaffiora, adesso, come un altro presagio di pericolo. Sembra voler trasmettere indirettamente un messaggio in bottiglia: i filtri attraverso i quali selezionare chi è chiamato a collaborare con Francesco servono. E le filiere tradizionali, per quanto bistrattate e scavalcate, in fondo funzionano: nonostante la «cura Bertone». Mentre la rievocazione di quell’allarme sottovalutato tende ad accreditare che nella «corte parallela» creatasi intorno a Francesco sono visibili smagliature destinate a strapparsi; e a proiettare l’immagine distorta di un Vaticano in balìa degli eventi. Anche se il vero obiettivo delle indiscrezioni che filtrano non sembra tanto la cerchia papale, ma il cardinale australiano George Pell, «ministro dell’Economia». Oggi viene additato come emblema, e come il più naturale capro espiatorio, della confusione che regna nel governo della Chiesa.

7 novembre 2015 | 07:59
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://roma.corriere.it/notizie/cronaca/15_novembre_07/vatileaks-obiezioni-inascoltate-balda-maria-chaouqui-83cf46d4-851b-11e5-8384-eb7cd0191544.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO Giubileo, la sfida di Bergoglio all’eurocentrismo della Chiesa
Inserito da: Arlecchino - Dicembre 10, 2015, 07:11:26 pm
VATICANO
Giubileo, la sfida di Bergoglio all’eurocentrismo della Chiesa
L’Anno Santo aperto in Africa il 29 novembre rappresenta una svolta nel cammino del rinnovamento avviato da Papa Francesco

Di Massimo Franco

Dunque il Giubileo non si apre l’8 dicembre a Roma, capitale dell’Italia cattolica europea. Francesco l’ha inaugurato domenica 29 novembre alle 17,14, ora italiana, in Africa, in una qualunque capitale del Terzo Mondo sudista. Si può pensare che sia stato un gesto con il quale il Papa ha allentato la tensione su una Roma minacciata dal terrorismo dell’Isis. Sotto questo aspetto, è una scelta di grande responsabilità. Ma non si può ignorare il simbolismo schiacciante dell’Anno della misericordia offerto alla Repubblica Centroafricana, periferia delle periferie più povere del mondo. Oggettivamente, la coincidenza non può non essere percepita anche come un segno della fine della centralità di Roma: la conferma che il cuore pulsante del cattolicesimo si è frazionato e moltiplicato.

Nell’ottica missionaria del pontefice latinoamericano non va esagerato il fatto che il governo della Chiesa debba identificarsi con Roma. Un dettaglio indicativo: nel suo discorso di chiusura in Kenya, Francesco ha citato il Vaticano solo per dire che esiste la corruzione anche lì, come nel Paese che stava visitando. È una sintesi efficace del rapporto del Papa con il «suo» Stato. Si potrebbe anche sottolineare che probabilmente non avrebbe inaugurato il Giubileo in un Paese europeo e più in generale occidentale. Certamente la visita in Africa offre argomenti a chi ritiene che la sua sia una Chiesa che cammina «a testa in giù»: guidata dalla potenza, dai numeri, dalla realtà sociale del Sud del mondo.

Per questo, sebbene indetto a Roma e celebrato con l’apertura tradizionale delle Porte sante delle basiliche romane, sarà il primo Giubileo di un pontefice eletto per archiviare l’eurocentrismo e l’italo-centrismo della Chiesa; per decentralizzarla; per romperne le incrostazioni e le tradizioni più radicate e, nell’ottica della maggioranza del Conclave del 2013, fossilizzate. Le parole, i gesti, le cerimonie andranno misurate e decifrate su questo sfondo globale. Sapendo che le folle di pellegrini alle quali Francesco parlerà saranno sì, quelle presenti; ma che a capire d’istinto il suo linguaggio sono quelle più lontane, disseminate nell’emisfero australe del mondo. Perché mai come oggi l’«impero» vaticano ha un imperatore riluttante a definirsi tale, se non rispetto all’universo ecclesiastico che gli resiste e col quale mostra a volte una determinazione e una scaltrezza gesuitiche. E mai come oggi la realtà va filtrata attraverso i riflessi del poliedro, la figura geometrica dai contorni ineguali che Francesco ha eletto a paradigma della Chiesa e della società globali da quando era arcivescovo di Buenos Aires. Senza tenere conto di queste novità sarà difficile «leggere» un Giubileo che già nella parola, misericordia, la comprensione per l’infelicità altrui, non è di immediata comprensione.

È uno sfondo che evoca un appuntamento punteggiato dalle incognite. La prima è organizzativa e dunque oggettiva. Nell’aprile scorso, Francesco ha deciso senza consultare nessuno, nemmeno le autorità italiane e cittadine sulle quali pure ricadrà gran parte del peso del pellegrinaggio, di indire l’Anno santo a partire da dicembre del 2015; dunque, a soli sette mesi dall’inizio. È vero, ha aggiunto che si sarebbe trattato di un Giubileo in qualche modo minimalista, «povero». Ma in una città degradata nelle infrastrutture, dotata di trasporti pubblici approssimativi, e per di più minata da mesi di crisi politica e di inchieste giudiziarie, l’annuncio non ha sollevato entusiasmi, al di là di quelli ufficiali. Il risultato è che Roma si presenta impreparata.

Ma la seconda incognita è diventata più incombente e inquietante, dal 13 novembre scorso. Le stragi di Parigi compiute dall’Isis, l’organizzazione eversiva sunnita che si definisce Stato islamico, allungano un’ombra di precarietà e di pericolo anche sul Giubileo; e in prima battuta su Roma. Sempre, con le grandi manifestazioni di massa, si prendono precauzioni particolari. E la capitale d’Italia solitamente ha mostrato capacità organizzative e di prevenzione invidiate da altre nazioni. Stavolta sono state prese misure ancora più efficaci, nelle intenzioni. Nessuno, tuttavia, ignora che il Giubileo comincerà tra le ombre pesanti di un’eversione con un’eco anche religiosa. I servizi di sicurezza sono in vera allerta: temono attentati in Italia. E il modo coraggioso col quale Francesco sfida il terrorismo, rifiutando auto blindate e giubbotti protettivi, lo propone come capofila di chi rifiuta di farsi spaventare e imprigionare dalla paura; e vuole continuare a comunicare i suoi messaggi senza restrizioni e condizionamenti.

La domanda, però, è che cosa accadrebbe se il Giubileo fosse insanguinato; quali giochi recriminatori e strumentali si aprirebbero, per cercare un capro espiatorio. Le polemiche che i partiti populisti hanno già inaugurato contro un papato inclusivo e ostentatamente ecumenico sono pronte a radicalizzarsi e ad incattivirsi. In più, il terrorismo sta dando un alibi alla xenofobia che si scarica sui profughi dalla Siria, dall’Africa, da tutto l’«arco islamico» che va da Pakistan al Maghreb algerino. Per questo, la marcia misericordiosa di Francesco dovrà fare i conti con un Occidente incupito e dunque ostile alle sue parole di pace. Il paradosso di un Papa argentino che grida contro la costruzione di nuovi muri, mentre spuntano ogni giorno barriere di filo spinato e di cemento in mezza Europa, è stridente. La Roma «città aperta» alla religione e al dialogo che Francesco propone è contraddetta dalle timidezze di un episcopato disorientato; e tentato di osservare le mosse papali, più che di sostenerle. Non si può sottovalutare lo iato tra un pontefice profetico, acclamato dalle folle, e una Roma vaticana che continua a produrre scandali senza sosta; e coinvolgendo perfino alcune delle persone scelte da Bergoglio. Verrebbe voglia di dire che la misericordia, in qualche caso, andrebbe offerta soprattutto ad alcuni personaggi ospitati dentro le Sacre Mura. Il mea culpa non può che cominciare da loro.

8 dicembre 2015 (modifica il 8 dicembre 2015 | 09:25)
© RIPRODUZIONE RISERVATA


Da - http://roma.corriere.it/giubileo-2015/notizie/giubileo-sfida-bergoglio-all-eurocentrismo-chiesa-6977b052-9ced-11e5-9189-eea9343a1b14.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO La maggioranza e il caso Boschi Le scelte necessarie
Inserito da: Arlecchino - Dicembre 26, 2015, 11:06:02 pm
La maggioranza e il caso Boschi
Le scelte necessarie

Di Massimo Franco

I toni sono stati quelli giusti. Maria Elena Boschi, ministro per le Riforme istituzionali, sapeva di dover affrontare forse l’appuntamento più difficile della sua breve ma intensa carriera politica. E lo ha fatto senza nascondersi davanti all’Aula della Camera. Il «no» alla mozione di sfiducia presentata dalle opposizioni, per quanto scontato, le dà formalmente ragione. E la spaccatura del centrodestra, con Lega e Forza Italia divise sul governo di Matteo Renzi, contribuisce ad accreditare la tesi del premier che parla di «mozione-boomerang» del Movimento 5 Stelle. Ma sarebbe ingenuo ritenere che con il voto di ieri la vicenda delle quattro banche salvate dal governo sia archiviata.

Politicamente, il caso rimane apertissimo. E il pasticcio dei soldi dei risparmiatori, bruciati da Banca Etruria dove lavorava il padre del ministro, rimane nebuloso. Su questo punto, nemmeno la Boschi ha potuto offrire le rassicurazioni che l’opinione pubblica si aspetta. È evidente che gli attacchi contro di lei contengono elementi di strumentalità.

Il modo in cui Palazzo Chigi ha reagito, tuttavia, ripropone la difficoltà di un gruppo dirigente giovane, abituato a una narrativa di successi, veri e presunti, ad affrontare l’impopolarità. Quando la realtà tende ad assimilare la nuova «nomenklatura» alla precedente, avviene una sorta di cortocircuito psicologico.

Scatta la difesa a riccio, mentre in questo caso la vicenda è intricata e scivolosa. C’è di mezzo un pensionato suicida dopo avere perso i risparmi. E si staglia un’opposizione decisa a sfruttare ogni occasione per coprire la propria inadeguatezza, scaricando sul governo anche colpe non sue. Lo scambio polemico e aspro tra Palazzo Chigi e la Commissione europea sulle responsabilità del provvedimento infittisce le domande: sembra un tentativo di scaricabarile reciproco. Lo scontro proietta una luce opaca sulle scelte di Roma e Bruxelles; e conferma la fragilità dell’Italia.

Per Renzi, la consolazione è che le opposizioni si confermano divise e impotenti. Nei confronti della Boschi, Forza Italia ha mostrato le solite crepe interne tra l’ala filo e quella anti governativa. Ma soprattutto, si è incrinato il rapporto con la Lega a pochi mesi dalle Amministrative di primavera. Matteo Salvini minaccia una rottura se a gennaio, quando sarà votata una mozione contro l’intero governo, Silvio Berlusconi non si accoderà al Carroccio. Insomma, anche ieri si è visto che la «compattezza» del centrodestra è, in realtà, posticcia.


I fili che collegano il Pd renziano e FI sopravvivono almeno in alcune sacche del berlusconismo. Il patto del Nazareno è disdetto, eppure funziona a intermittenza come un residuo che il premier può utilizzare per garantirsi la maggioranza parlamentare: al di là del soccorso di Denis Verdini. Si tratta di una garanzia numerica, però, non di una strategia vincente. Per quest’ultima, Palazzo Chigi dovrà rispondere con rapidità e nettezza sul salvataggio delle quattro banche. Altrimenti lavorerà senza volerlo per il M5S, che pure ieri ha perso la battaglia in Aula. Il voto con il Pd per eleggere i tre giudici costituzionali è un motivo di imbarazzo nel movimento.

Eppure, Grillo continua a ergersi a custode della purezza antisistema: una demagogia che rischia di essere facilitata da errori e imbarazzi del governo.

19 dicembre 2015 (modifica il 19 dicembre 2015 | 07:32)
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_dicembre_19/scelte-necessarie-5e543f3c-a617-11e5-b2d7-31f6f60f17ae.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO Il messaggio di Mattarella: i cittadini e la sfida dei valori
Inserito da: Arlecchino - Gennaio 03, 2016, 06:08:56 pm
L’appello del Colle
Il messaggio di Mattarella: i cittadini e la sfida dei valori
Il presidente ha indicato le vere frontiere da percorrere e attraversare; e i veri valori da conquistare e da salvaguardare

Di Massimo Franco

Sostenere che il presidente della Repubblica ha fatto un discorso poco politico, significherebbe ridurre la politica alla sua dimensione parlamentare e istituzionale. L’impressione è che nel suo saluto televisivo di fine anno agli italiani, Sergio Mattarella abbia piuttosto indicato le vere frontiere da percorrere e attraversare; e i veri valori da conquistare e da salvaguardare.

Lavoro, tasse, corruzione, immigrazione e terrorismo sono le priorità sulle quali non solo un governo ma una nazione puntellano la propria legittimazione agli occhi dell’opinione pubblica; e la propria credibilità sul piano internazionale. Il capo dello Stato le ha affrontate con la semplicità e l’equilibrio che i più gli riconoscono, rinunciando a mettersi dietro alla scrivania presidenziale che forse intimidisce anche lui; e con qualche impaccio in meno rispetto a quello che gli viene di solito attribuito.

Di riforme costituzionali ha parlato di sfuggita, e anche sul governo non si è soffermato. Eppure ha dato atto implicitamente a quanti, nelle istituzioni, hanno avuto il merito di arginare una china pericolosa, contribuendo «a tenere in piedi l’economia italiana»; e offrendo qualche timido elemento di fiducia sul futuro. Può darsi che a qualcuno sia parso un approccio «extraparlamentare». Se tale è sembrato, non lo è tuttavia nel senso polemico e antisistema che si dà a questo aggettivo.

Mattarella sente acutamente l’esigenza di ricalibrare in primo luogo i confini culturali con i quali l’Italia sarà costretta a misurarsi e sarà misurata nei prossimi anni. E sa che la stessa democrazia può ritrovare spinta solo se riesce a intercettare malumori e inquietudini espressi fuori e spesso contro la nomenklatura dei partiti e i suoi eletti. Quando parla di tasse eccessive e insieme ammonisce a pagarle per consentire che si abbassino, sfida la cultura dominante dell’evasione fiscale.

Allo stesso modo, quando addita corruttori e corrotti, e li contrappone non solo a un’opinione pubblica che esige onestà ma anche ai valori della Costituzione, accredita una saldatura virtuosa tra Stato e popolo. Non sono accostamenti né facili né scontati. Raccontare l’immigrazione, come ha fatto l’altra sera Mattarella, senza concedere nulla ad una narrativa imbottita di luoghi comuni e larvatamente razzista, significa accettare una sfida tutt’altro che popolare.

Raffigurare lo straniero che vive e lavora in Italia «in larghissima parte» rispettoso e onesto, «versando alle casse dello Stato più di quanto non ne riceva», equivale a riaffermare una verità che molti non vogliono vedere; così come, obnubilati dalla paura, si tende a non accettare l’idea che l’immigrazione «durerà a lungo». Sono semi di una cultura democratica che non tutta l’Italia è disposta a ingoiare. Eppure, l’alternativa al governo dei fenomeni migratori è quella di subirli, illudendosi di esorcizzarli con riflessi xenofobi.

Mattarella non ha velato le divergenze di opinione, né le ha diplomatizzate. Ma ha detto quale Paese cercherà di rappresentare e promuovere nei suoi sette anni al Quirinale: insistendo anche, attraverso la citazione di alcune donne-simbolo, sul ruolo crescente che naturalmente dovranno assumere. Vuole ricreare quella che, declinando laicamente la «misericordia» papale, il capo dello Stato definisce convivenza civile.

Sono un sostantivo e un aggettivo poco frequentati, ultimamente. L’impatto dell’eversione di matrice fondamentalista rappresenta un’ipoteca seria su ogni risposta ragionevole e coraggiosa. Ricordare la necessità di non farsi ricattare da chi scommette tutto sul panico aiuta a capire che cosa significa essere cittadini di un’Italia e di un’Europa insidiate e spaventate dall’incertezza.

2 gennaio 2016 (modifica il 2 gennaio 2016 | 08:19)
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/editoriali/16_gennaio_02/messaggio-mattarella-cittadini-sfida-valori-bd445410-b115-11e5-b083-4e1e773a98ad.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO l’Italia e l’unione europea Le ostilità da superare
Inserito da: Arlecchino - Gennaio 22, 2016, 08:54:08 pm
l’Italia e l’unione europea
Le ostilità da superare
I toni sono alti, verrebbe da dire ai limiti della spavalderia. Matteo Renzi avverte che l’Italia «è tornata». «Il suo protagonismo impaurisce» l’Europa: non come «è accaduto spesso in passato». C’è da sperare che abbia ragione

Di Massimo Franco

I toni sono alti, verrebbe da dire ai limiti della spavalderia. Matteo Renzi avverte che l’Italia «è tornata». «Il suo protagonismo impaurisce» l’Europa: non come «è accaduto spesso in passato». C’è da sperare che abbia ragione. Per il momento, purtroppo, il presidente del Consiglio è circondato dal silenzio apparentemente ostile degli altri Stati europei.

A rispondergli con toni quasi sprezzanti è solo la Commissione Ue di Jean-Claude Juncker. E Manfred Weber, capogruppo del Ppe e di fatto portavoce continentale della cancelliera tedesca Angela Merkel, bolla in modo discutibile Renzi come una sorta di alleato oggettivo dei populisti.

Il premier non sembra spaventato all’idea di collezionare tanta avversità. Eppure, il sospetto è che i suoi nemici europei comincino a essere un po’ troppi; e che l’irritazione fredda verso il suo governo nasconda lo scarto tra la convinzione renziana di dover far pesare le riforme approvate, e la determinazione altrui a ridimensionarne ambizioni e pretese.

Tanto che lo scontro inedito degli ultimi giorni sull’asse Roma-Bruxelles-Berlino, ma forse anche lungo altre direttrici rimaste coperte, potrebbe nascondere una decisione accarezzata silenziosamente: quella di isolare l’Italia e frustrare le sue richieste d’aiuto.

Un gesto ha sconcertato: la rapidità con la quale il «ministro degli Esteri» dell’Ue, l’italiana e renziana Federica Mogherini, ha scelto di schierarsi con Juncker rispetto a Renzi. La mossa promette di indebolire insieme lei e Palazzo Chigi, offrendo l’immagine di una nazione incapace di unità a livello internazionale perfino quando si milita nello stesso partito. Renzi ricorda di avere archiviato un passato mediocre, sebbene sappia quanto alcuni dei suoi predecessori abbiano rappresentato degnamente gli interessi dell’Italia.

Eppure, il suo scontro con Bruxelles e il gelo con la Mogherini trasmettono una fastidiosa eco della stagione finale della Seconda Repubblica. L’insistenza sul nuovo «protagonismo» italiano, come viene definito, sembra non tenere conto della debolezza del nostro Paese sul piano dei conti pubblici e dei numeri di una ripresa economica un po’ anemica. Ma soprattutto, sottovaluta un panorama continentale percorso da tensioni nazionaliste crescenti: sia per le percentuali della disoccupazione, sia per l’impatto di un’immigrazione epocale dal Medio Oriente e dall’Africa.

Inasprire una polemica con l’Europa su questo sfondo rischia non solo di armare chi imputa strumentalmente a Renzi di favorire i partiti populisti, in Italia e altrove. Promette di inserirlo in maniera arbitraria in una filiera euroscettica dalla quale invece il governo si è sempre e meritoriamente tenuto a distanza. Deflettere da una strategia moderata ed europea nel senso migliore del termine regalerebbe argomenti e pretesti alla Lega Nord e al Movimento 5 Stelle, suoi acerrimi avversari in Italia. E, all’estero, disperderebbe una piccola ma preziosa rendita di credibilità nelle istituzioni e sui mercati finanziari.

La sensazione è che, senza volerlo, o magari con un occhio ai consensi sul piano interno, Renzi stia sfiorando una trappola pericolosa: un imbuto di ritorsioni polemiche con l’Ue, destinate a minare un’impalcatura europea già traballante; ma anche a ridisegnare in peggio il ruolo e il peso italiani nel Vecchio Continente. Il problema posto da Palazzo Chigi sugli aiuti europei alla Turchia come argine contro l’assedio dei profughi, non è affatto campato in aria. Renzi ha ricordato a ragione le ambiguità di Ankara sul terrorismo del sedicente Stato Islamico.

Il fatto che il suo «no» sia stato usato per metterlo nell’angolo, però, tradisce un’insofferenza europea che non può sottovalutare. Non può, perché è destinata a scaricarsi sul governo; e ad attribuirgli responsabilità e colpe che non corrispondono alla realtà. D’altronde, quando anche ieri Juncker se la prende con gli esecutivi che criticano l’Europa invece di «guardarsi allo specchio», non parla solo a Roma: in realtà si rivolge alle ventotto nazioni che stanno perdendo il senso d’appartenenza all’Ue. Insomma, si tratta di un problema politico, non tecnico. È quello che pensa lo stesso Renzi.

Forse si spiega così la scelta «forte» e controversa di sostituire in corsa l’ambasciatore italiano all’Ue, mandando a Bruxelles il viceministro Carlo Calenda: un politico, non un diplomatico. È una mossa dirompente. Si capirà presto se riflette la reazione di un premier che vuole riprendere il controllo della situazione, o un nuovo fronte che gli porterà altri nemici.

20 gennaio 2016 (modifica il 20 gennaio 2016 | 12:21)
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da -http://www.corriere.it/editoriali/16_gennaio_20/ostilita-superare-ue-italia-toni-alti-63b49920-bf3c-11e5-b186-10a49a435f1d.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO Francesco non vuole un muro contro muro
Inserito da: Arlecchino - Gennaio 25, 2016, 11:32:22 pm
Retroscena il Vaticano
Il Papa e il richiamo sulle unioni civili Parole nette ma caute: Francesco non vuole un muro contro muro
Costringere l’idea della famiglia in schemi troppo integralisti contraddirebbe i suoi stessi insegnamenti

Di Massimo Franco

Non è strano che il Papa abbia invitato a non fare confusione tra «la famiglia voluta da Dio e ogni altro tipo di unione». Semmai, è singolare la sorpresa con la quale sono state accolte le parole dette ieri da Francesco durante l’incontro con il Tribunale della Sacra Rota. A una settimana dalla manifestazione del Family Day, il suo intervento è stato considerato a favore degli organizzatori. Eppure non poteva essere che così. In Vaticano la legge che sta prendendo corpo in Parlamento e sarà discussa in Senato a partire dal 28 gennaio è vista come una forzatura. Una misura contro la quale non alzare barricate né lanciare anatemi, perché i vertici dell’episcopato hanno accettato mentalmente le unioni civili tra omosessuali.

Il contorno del provvedimento, però, soprattutto per i margini di ambiguità che lascia in materia di adozione dei bambini, è visto come frutto di un’operazione ideologica. E, per quanto la Chiesa, intesa come ecclesiastici, abbia cercato di evitare che una manifestazione di piazza potesse assumere il carattere dello scontro, alla fine ha dovuto «seguire». È come se la base cattolica avesse interpretato la riforma voluta dal governo, e definita ieri «irrinviabile» da Matteo Renzi, come una sorta di provocazione para referendaria. Ed ha risposto con una scelta di piazza che prefigura due campi contrapposti. L’avversario non è tanto quello della mobilitazione in cento piazze che organizzano per oggi Arcigay, ArciLesbica, Agedo, Famiglie Arcobaleno e Mit. La controparte è il Parlamento, dove il premier vuole far approvare un emendamento che faccia decadere subito tutti quelli contro la legge «firmata» da Monica Cirinnà.

L’adesione al Family Day di una conferenza episcopale regionale dopo l’altra racconta come le gerarchie cattoliche siano state trainate a assecondare l’iniziativa. E come il Papa abbia voluto offrire un imprimatur discreto ma convinto a una folla della quale conosce le intenzioni e le pulsioni: anche a costo di ascoltare parole d’ordine difensive, dure, e che non riflettono la sua pedagogia inclusiva e la sua idea della Chiesa. Proprio ieri, salutando in un messaggio i partecipanti alla Cinquantesima giornata mondiale della comunicazione, Francesco ha invitato a esprimersi con generosità «anche nei riguardi di chi pensa o agisce diversamente».

Si tratta di un accenno che rimanda alle parole dette in tema di famiglia verso «quanti per libera scelta o per infelici circostanze della vita vivono in uno stato oggettivo di errore». Le parole sono nette e insieme problematiche. Lasciano capire perché il Papa non voglia e non possa tenere la

Chiesa a distanza dal Family Day; e, al tempo stesso, perché preferisca che sia il laicato cattolico a guidare la manifestazione. Pesano il passato delle battaglie referendarie perdute su divorzio e aborto; il presente di una situazione politica avvelenata, nella quale Papa e vescovi rischiano seriamente di essere strumentalizzati; e una concezione della famiglia e dei valori cattolici, che il pontefice argentino forse vorrebbe meno «all’italiana».

Gli stendardi delle delegazioni di regioni come Lombardia e Veneto, che hanno annunciato la presenza al Family Day, saranno guidate da esponenti della Lega Nord: rispettivamente Roberto Maroni e Luca Zaia. La destra di Giorgia Meloni sostiene che le parole di Francesco dovrebbero essere «di monito al Parlamento». E il sindaco di Bologna Virginio Merola, del Pd, tradisce una punta di freddezza verso l’arcivescovo della città, monsignor Matteo Zuppi, scelto da Bergoglio, il quale ha detto, all’unisono col presidente della Cei, Angelo Bagnasco, che la legge sulle unioni civili non è una priorità. Insomma, il tentativo delle opposizioni a Renzi di usare il Family Day per attaccare Palazzo Chigi è evidente.

Altrettanto chiaro è che al Vaticano di Francesco un’operazione strumentale di questo tipo non piace. Per due motivi. Il primo è che l’attuale Papa, forse più ancora dei predecessori, non nasconde il fastidio per le ingerenze ecclesiastiche nella politica. Ritiene che una delle ragioni per le quali la Chiesa in Italia avrebbe perso credibilità è stata un’eccessiva contiguità col potere. Ma la seconda ragione, la più importante dal punto di vista culturale, è che costringere l’immagine della famiglia dentro schemi troppo integralisti contraddice gli insegnamenti e gli obiettivi del pontefice latinoamericano. Un «no» troppo gridato, da muro contro muro, a quanti il Papa definisce «in uno stato oggettivo di errore», può aprire la strada a altri rifiuti, più pericolosi.

La famiglia-fortezza prometterebbe di trasformarsi nel baluardo della difesa dei valori cristiani anche contro gli immigrati; e dunque di contribuire ad una lettura «autarchica», blindata e potenzialmente xenofoba del cattolicesimo. È questa la seconda fase che un Family Day declinato in modo integralista potrebbe aprire. Il Papa dei «ponti», il nemico giurato dei muri e delle barriere, si ritroverebbe a dover governare un mondo cattolico italiano e europeo che dalla protezione della «famiglia cristiana» scivola verso quella dell’«immigrazione cristiana» e anti islamica. E pazienza se in una deriva del genere pesano soprattutto gli errori e le forzature del governo e dei suoi avversari. Il risultato sarebbe comunque quello di una regressione.

23 gennaio 2016 (modifica il 23 gennaio 2016 | 08:42)
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/politica/16_gennaio_23/papa-richiamo-unioni-civili-parole-nette-ma-caute-francesco-non-vuole-muro-contro-muro-cd8f8906-c1a1-11e5-b5ee-f9f31615caf8.shtml


Titolo: Massimo Franco. Le dimissioni di Renzi e gli strappi da evitare
Inserito da: Arlecchino - Dicembre 10, 2016, 09:28:34 pm
La crisi
Le dimissioni di Renzi e gli strappi da evitare
Sarebbe bene andare alle elezioni. Il problema è farlo senza precostituire le premesse di un’Italia ingovernabile

Di Massimo Franco

Le dimissioni formali di Matteo Renzi vanno salutate come un atto di responsabilità. Tirarla per le lunghe dopo la sconfitta al referendum del 4 dicembre avrebbe gettato un’ombra sulla sincerità del suo passo indietro; e probabilmente irritato un’opinione pubblica che si è espressa con nettezza contro le riforme istituzionali. Da oggi, la crisi passa nelle mani del presidente della Repubblica. Ma non si può pensare di scaricare sulle sue spalle il peso di una situazione nata da un’analisi superficiale della società italiana e dei suoi umori più profondi; e della quale l’origine ma anche buona parte della soluzione rimanda ai tormenti del Pd.

Ormai è chiaro che la legislatura è agli sgoccioli. E sarebbe bene andare alle elezioni. Il problema è farlo senza precostituire le premesse di un’Italia ingovernabile: per capirsi, senza perpetuare le risse della campagna referendaria, quasi le elezioni politiche fossero il semplice prolungamento dello scontro degli ultimi mesi. Tra voto presto, auspicabile, e voto affrettato, da evitare a tutti i costi, esiste una differenza sostanziale. Il primo arriverebbe dopo avere raffreddato le tensioni tra i partiti; cercato di riconciliare il Paese; e approvato una riforma elettorale che tenga conto delle indicazioni della Corte costituzionale e armonizzi il sistema alla Camera e al Senato.

Il secondo avverrebbe sull’onda di una lettura emotiva e strumentale del referendum. Porterebbe alle urne un Paese più spaccato che mai. E soprattutto riconsegnerebbe un Parlamento a rischio di illegittimità, plasmato da una campagna elettorale dominata dai revanscismi e da una sorta di condanna al populismo di tutti. Tra l’altro, al Pd sarebbe difficile spiegare che si debbono sciogliere subito le Camere, quando ieri la manovra finanziaria ha ricevuto al Senato una larga fiducia. Dire che non esiste più la maggioranza è qualcosa che l’opinione pubblica faticherebbe a capire. Il passo indietro di Renzi ha valore se è un gesto di disponibilità a facilitare la soluzione della crisi.

Può essere lui a guidare la coda della legislatura, se lo ritiene. O può essere un altro esponente del Pd indicato dal premier uscente, se non se la sente di tornare sui suoi passi dopo avere annunciato che se ne andava perché era stato battuto dal responso popolare. Quello che il Paese e il capo dello Stato non capirebbero, sarebbe la tentazione di Renzi di mettersi di traverso. E cioè rifiutarsi di assumere la responsabilità di un nuovo incarico, troppo in contraddizione con quanto ha dichiarato la sera del 4 dicembre; e al tempo stesso impedire che qualunque altro candidato entri a Palazzo Chigi in questa legislatura. L’enfasi con la quale il segretario del Pd rivendica e esalta i voti ricevuti, quasi fossero l’emblema di una «sconfitta vittoriosa», fa pensare che esiti a prendere atto della nuova situazione. Ma su un punto Renzi va compreso. Teme che sostenere da solo il peso di un governo di fine legislatura comporti un logoramento potenzialmente fatale per il suo partito. Per questo invoca una responsabilità anche degli altri, pur sapendo che sarà molto difficile coinvolgerli. Lamenta di avere pagato il prezzo della solitudine, senza però chiedersi quanto l’abbia lui stesso alimentata intorno al Pd.

Forse, abbassando i toni e le pretese, contribuirebbe a svelenire un’atmosfera impregnata ancora dai veleni referendari e dalle accuse di arroganza. E probabilmente avrebbe maggiori possibilità di succedere a se stesso, per guidare l’Italia alle elezioni nella primavera del 2017 o, se la situazione lo richiedesse, alla fine naturale della legislatura nel 2018. Il modo migliore per abbassare la febbre della quale Movimento 5 Stelle e Lega sono i principali interpreti e beneficiari, non sono accelerazioni e strappi successivi. È il recupero di un rapporto forte, credibile, con l’Italia profonda e con l’Europa.

Dopo una sconfitta così bruciante, l’antidoto migliore per recuperare la spinta perduta è l’umiltà: insieme a un raccordo stretto con il Quirinale di Sergio Mattarella, che Renzi ha contribuito in modo decisivo a eleggere. Incrinare i rapporti col capo dello Stato per tentare di imporre un voto affrettato sarebbe l’ultimo regalo a Beppe Grillo.

7 dicembre 2016 (modifica il 7 dicembre 2016 | 21:26)
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/opinioni/16_dicembre_08/dimissioni-renzi-strappi-evitare-bee80e86-bcba-11e6-9c31-8744dbc4ec0a.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO Il segretario pd: «Posso anche non fare il premier. ...
Inserito da: Arlecchino - Febbraio 03, 2017, 08:35:46 pm
IL RETROSCENA
Renzi: «Il referendum? Un rigore e l’ho tirato malissimo Posso anche non fare il premier»
Il segretario pd: «Posso anche non fare il premier. Magari tocca a Delrio o Gentiloni»

Di Massimo Franco

Fa un po’ impressione sentirgli dire: «Non posso più permettermi di essere assertivo». Oppure: «So che non posso più dettare la linea da solo». Matteo Renzi certamente non si arrende. Ma, seppure con una punta di rabbia, sembra disposto a trattare. «Non mi va di essere raffigurato come una persona ròsa dalla voglia di andare alle elezioni anticipate per prendersi la rivincita», protesta. «So che le elezioni non possono essere il secondo tempo dopo il referendum. Quando si perde a calcio, non ci si riprova con la pallanuoto. Io ho avuto la possibilità di tirare un calcio di rigore il 4 dicembre. Me l’hanno parato... Anzi, 41 a 59 significa che l’ho tirato male, malissimo. E adesso è cominciata una fase politica diversa».

La corsa
Il segretario del Pd è un fiume in piena. Ma un fiume che sa di non potere più trascinare gli altri verso i traguardi che ha stabilito. La sua corsa verso le urne si rivela, di colpo, piena di buche e di trappole. Da ieri, forse per la prima volta da molto tempo, Renzi comincia a capire di essere costretto a andare controcorrente. E allora cerca di spiegarsi, di convincere tutti che le urne a giugno sono il male minore. Ha seminato avversari in un percorso che fino a due mesi e mezzo fa somigliava a una marcia trionfale. E adesso prova a fare i conti con gli errori. Si sforza di capire perché le sue mosse, che tende ad accreditare come disinteressate, vengono subito percepite come furbe manovre per arrivare comunque al risultato.

La ragione
Per questo accenna a rallentare. È un cambio di passo forzato, sofferto, che lascia intuire la sua convinzione di avere ancora ragione; di essere soprattutto diventato «un parafulmine», termine usato più di una volta. Ma quando ministri, sindaci, e perfino l’ex capo dello Stato Giorgio Napolitano, suo grande alleato, gli intimano l’altolà, un Renzi abituato solo a andare avanti, è costretto a fare i conti con una realtà diventata dispettosa, nella sua ostilità. «Il punto è se votare a giugno, o a febbraio del 2018», spiega. «Se si celebra il congresso si va all’anno prossimo, altrimenti si fanno le primarie. Non ho problemi a fare il congresso. Volevo farlo a dicembre ma me l’hanno impedito. E adesso lo invocano... Ma lasciamo stare!».

Lo sfogo
Il suo sfogo è un tentativo accorato di spezzare l’accerchiamento che comincia a temere. «Continuo a fare il parafulmine per tutti», si lamenta. E si rende conto che deve anche ridisegnare il proprio ruolo. Almeno mentalmente, sembra perfino pronto a cedere il passo a un altro candidato del Pd a Palazzo Chigi, dopo le prossime elezioni. «La prossima volta potrei non essere io. Magari potrebbe toccare ancora a Paolo Gentiloni, o a Graziano Delrio», sostiene. «Lo scenario della prossima legislatura imporrà probabilmente governi di coalizione. Attenzione, però. Trattare con l’Europa e ottenere risultati sarà più difficile, nel nuovo scenario internazionale».

Il voto
Ma nella sua accorata perorazione del voto a giugno Renzi inserisce anche altre incognite. Teme che le Amministrative di primavera segneranno un rafforzamento dei movimenti populisti. «In più», azzarda, «si vuole una commissione di inchiesta sul sistema bancario che usa come parafulmini Banca Etruria, Banca Marche e le Casse di Risparmio di Ferrara e di Chieti. Ma in realtà vedo un disegno forte per allargare il campo a Bankitalia e Consob. E poi c’è la legge di bilancio». Per questo, non è ancora chiaro se spingerà fino all’ultimo per le elezioni tra pochi mesi o il prossimo anno. Si indovina solo che la voglia di accelerare è ancora prepotente, nella convinzione che tra un anno il Movimento 5 Stelle potrebbe essere più forte di adesso.

Il governo
La tesi è legittima, sebbene molti pensino il contrario: nel senso che far cadere il governo Gentiloni in tempi ravvicinati sarebbe un disastro peggiore. Di certo, Renzi sa di non essere più il dominus del sistema. «Il clima politico è cambiato, nel Paese. Sono il primo a esserne consapevole», ammette. «So bene che se anche ottenessi un grande risultato, un 37 per cento dei voti, o addirittura un 42 per cento, non esisterebbero più le condizioni per avere un governo libero di fare le cose che ho in mente».

I pro e i contro
E dunque? «Dunque, è bene ragionare sui pro e i contro delle elezioni anticipate. Si vuole andare avanti? Siamo pronti, se si ritiene che serva. Con Gentiloni il rapporto è tale che ci diciamo tutto. E capisco che l’obiezione di presentarsi al G7 di fine maggio con un governo dimissionario non offrirebbe una bella immagine dell’Italia. Ma in Europa andrà comunque un governo dimissionario dopo qualche mese, con la manovra finanziaria alle porte. Quindi...». Quindi, le urne a giugno non scompaiono: rimangono sullo sfondo. Ma Renzi comincia a capire che per arrivarci dovrà pagare un prezzo alto. Forse così alto da non poterselo permettere.

2 febbraio 2017 (modifica il 3 febbraio 2017 | 00:36)
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/politica/17_febbraio_03/renzi-il-referendum-rigore-l-ho-tirato-malissimo-58873f66-e98a-11e6-9abf-27281e0d6da4.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO IL FUTURO DEI DEMOCRATICI Il rischio di chiudersi e di dividersi
Inserito da: Arlecchino - Marzo 16, 2017, 05:35:18 pm
IL FUTURO DEI DEMOCRATICI
Il rischio di chiudersi e di dividersi ancora

Il Lingotto di Torino ha rispecchiato lo sforzo di un Pd che tenta di aprirsi ai problemi dell’Italia ma sembra condannato a scaricare all’esterno le contraddizioni e i limiti della propria azione

Di Massimo Franco

Il Lingotto di Torino ieri è stato il palcoscenico della metamorfosi del Pd, prima ancora che del suo rilancio. Ha rispecchiato lo sforzo di un partito che tenta di aprirsi ai problemi dell’Italia ma sembra condannato a scaricare all’esterno le contraddizioni e i limiti della propria azione; e a far coincidere la propria identità e la propria strategia con quella di un leader colpito dalla sconfitta referendaria del 4 dicembre, eppure tuttora insostituibile e vincente: almeno all’interno dei giochi congressuali. Il risultato, almeno per quanto si sta vedendo, è quello di una cavalcata senza ripensamenti del segretario uscente. L’ambizione, lodevole, rimane quella di discutere di tutto, di <fare le pulci> agli ultimi tre anni, e di iniettare un po’ di collegialità nelle decisioni. Ma è difficile che sia soddisfatta pienamente.
Le parole dette ieri pomeriggio da Matteo Renzi tendono a riproporre la vittoria ormai lontana alle Europee del 2014 come biglietto da visita. Attaccano il Pd dei predecessori, da Walter Veltroni a Pierluigi Bersani, teorici del <partito leggero> e del <partito pesante>, opposto al renziano <partito pensante>. Il tentativo è di riscrivere la storia politica recente liquidando anche i predecessori a Palazzo Chigi come subalterni a un’Unione europea tratteggiata con severità: in parte una conseguenza dell’amarezza per il peggioramento dei rapporti con la Commissione negli ultimi mesi dell’ex premier al governo.
Ne viene fuori un’analisi molto orgogliosa e avara di spunti autocritici: forse perché altrimenti obbligherebbe a una disamina impietosa degli errori commessi. Ma è un approccio comprensibile: una nomenklatura sulla difensiva, proiettata sulle elezioni amministrative di primavera e su quelle politiche del 2018, non può concedere più di tanto agli avversari.
Dovrebbe rivoluzionare la propria strategia, mentre finora lo schema è stato quello della «linea giusta» guastata da qualche errore e dall’ostilità della minoranza. Per questo, è bene seguire la tre giorni torinese con occhi freddi; e capire che si inizia un’altra fase di passaggio, per il Pd. Bisogna dunque contemplare la possibilità di assistere a un dibattito calibrato sul «modello Leopolda»: su logiche di adesione quasi acritica alle indicazioni del leader. Non bastano i «tavoli di lavoro» sugli argomenti più disparati e suggestivi a cancellare questa sensazione di fedeltà a una politica che non consente deviazioni.
È possibile perfino un indurimento di fronte alle critiche, dal momento che secondo Renzi «chi spara contro il Pd indebolisce l’argine del sistema democratico». Che il partito di maggioranza lo sia è indubbio. Ma la scissione e la difficoltà a capire quanto è accaduto col referendum, e l’appoggio altalenante a Paolo Gentiloni e al suo governo, rischiano di infragilire questo argine: sebbene ieri l’appoggio al premier sia apparso più convinto e determinato del solito. Per il momento in cui cade la kermesse renziana, non si può chiedere molto di più.
La frattura tra i Dem, le inchieste della magistratura che lambiscono la cerchia dell’ex premier, l’asprezza della discussione con gli altri due candidati alla segreteria, non sono le premesse ottimali di un dibattito aperto. Quasi per forza di inerzia non può che prevalere il «serriamo le fila», e un attacco agli avversari comprensibile per la fase convulsa che il renzismo vive. Risultato: più che un’«Arca di Noè» inclusiva e aperta, si delinea un Pd incline a imitare la «testuggine romana». Si tratta di una formazione di fanti magari non troppo grande ma compatta e pronta alla mischia.
Rimane il dubbio che tutto questo possa ricostruire il ruolo del Pd di qui alle urne come perno politico del Paese. È come se il partito faticasse ancora a vedere quanto negli ultimi mesi gli sia diventato difficile espandersi e attirare elettori; e quanto, invece di unire, rischi di chiudersi a riccio e di dividersi ancora, anche al proprio interno. C’è da sperare in un cambio di passo tale da non farlo diventare terreno di caccia dei movimenti populisti, e serbatoio dell’astensionismo.
Al di là delle parole d’ordine ufficiali, dal Lingotto potrebbe riemergere un Pd che non segue una logica maggioritaria e aggregante. Diventa invece il campione involontario del ritorno al sistema proporzionale, che pure critica. Eppure, Renzi e i suoi non hanno rinunciato all’idea di una vittoria sul Movimento 5 Stelle. Né si può pensare che si preparino solo a arrivare in Parlamento con una forza omogenea e fedele, decisa a trattare e a far pesare i suoi deputati e senatori, tanti o pochi che siano.
Sarebbe ingiusto imputare questo minimalismo a un Renzi tuttora corazzato di certezze. Molti lo hanno assecondato e continuano a seguirlo perché non riescono a vedere un’alternativa, e ritengono che sia l’unico segretario in grado di garantire loro la sopravvivenza, se non nuove vittorie. Il virus della divisione, tuttavia, è insidioso. Sarebbe un dramma se da Torino arrivasse la vulgata che l’unico Pd è quello ubbidiente a Renzi. Significherebbe incubare, presto o tardi, altre fratture; e ridurre la «testuggine romana» a un guscio sottile: in termini di contenuti, prima che di voti. Sicuramente, non è l’obiettivo che il gruppo dirigente si prefigge.

10 marzo 2017 (modifica il 10 marzo 2017 | 21:59)
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/cultura/17_marzo_11/massimo-franco-9e7d34fc-05ce-11e7-882a-48a6b14b49a6.shtml


Titolo: MASSIMO FRANCO LO STALLO DOPO LE ELEZIONI
Inserito da: Arlecchino - Marzo 09, 2018, 06:30:30 pm
LO STALLO DOPO LE ELEZIONI

Centrodestra unito solo in apparenza e Partito democratico nel caos
Salvini nei comunicati della Lega diventa «leader del centrodestra», i sospetti tra i dem

  Di Massimo Franco

Quando il leader leghista Matteo Salvini insinua un accordo «tra Paolo Gentiloni e Luigi Di Maio a partire dalle poltrone per arrivare al governo», gioca di sponda con i malumori montanti nel Pd. Accredita gli stessi sospetti lanciati nelle ultime ore dal segretario dimissionario, Matteo Renzi, verso esponenti del suo stesso partito. E sotto sotto spera che alla fine alcuni settori dem facciano un accordo con il M5S, lasciando alla Lega la prateria dell’opposizione e l’intero voto di centrodestra. La pressione del Pd su Renzi e sull’intero gruppo dirigente perché si dimetta «davvero» dopo la disfatta del 4 marzo sembra in aumento. Lo chiede per tutti l’ex sottosegretario Angelo Rughetti. Il vertice del partito assicura che il segretario lo ha fatto «formalmente» già il 5 marzo, ma lasciando aperte molte incognite. Renzi ha raggiunto almeno un risultato: a parole, quasi tutto il partito giura di essere contro il dialogo con il movimento di Di Maio. Ma la sinistra rimane nel caos, e nessuno può prevedere gli sviluppi nei prossimi giorni.

È più chiaro quanto accade nel centrodestra, con un cambio di lessico che rivela i nuovi equilibri di potere. Nei comunicati della Lega, Salvini non è più il segretario e candidato premier ma il «leader del centrodestra». Per la prima volta dal 1994, vuole far sapere che la guida è passata di mano. Ora esiste una diarchia, ma si presenta sbilanciata a favore di Salvini. Eppure, il fondatore di FI si dichiara «regista» della coalizione. E i tre gruppi che la compongono continueranno a andare separati alle consultazioni al Quirinale. Ma fino a qualche anno fa, il primato berlusconiano si rifletteva nella capacità di incidere nei giochi interni della Lega; di muovere pedine che mostravano una sorta di doppia lealtà: all’allora capo del centrodestra e al partito di appartenenza. Ora, invece, si indovina il contrario. L’avanguardia della colonizzazione di FI da parte della Lega salviniana è stata l’elezione in Liguria del presidente berlusconiano Giovanni Toti, due anni fa: vittoria che non prefigurava più un rapporto asimmetrico tra un berlusconismo «grande» e alleati «piccoli». Lo schema ligure racchiudeva le ambizioni di primato di Salvini, esaltate ora da una controversa riforma elettorale e da una radicalizzazione a destra dell’elettorato. L’intuizione ulteriore è stata quella di «snaturare» il Carroccio, depurandolo almeno nominalmente delle radici nordiste e nazionalizzandolo. Salvini continua a elencare le città del centro e del sud Italia dove il leghismo ha preso consensi. Sembra dire a FI che il leader del centrodestra nazionale è lui. E alcuni parlamentari berlusconiani del Nord si sono subito allineati.

I dubbi sull’estremismo anti-immigrati, l’antieuropeismo che faceva dire a Berlusconi «garantirò io per Salvini in Europa», sono evaporati. Il problema è che rimangono, corposi, a Bruxelles e negli Stati uniti, dove l’ipotesi di un Salvini premier viene bollata come un favore al presidente russo, Vladimir Putin, di cui è ammiratore. Ma l’impressione è che il capo leghista sia pronto a governare come a rimanere all’opposizione, sicuro di ereditare il voto berlusconiano. Il presidente dei suoi deputati, Massimiliano Fedriga, non esclude nemmeno elezioni anticipate: pur vedendo spuntare, alla fine della crisi, un governo tra M5S e parte del Pd.

7 marzo 2018 | 21:57
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://roma.corriere.it/notizie/politica/18_marzo_07/centrodestra-unito-solo-apparenza-partito-democratico-caos-pd-lega-m5s-af10f40a-2244-11e8-a665-a35373fafb97.shtml