Titolo: News dal PAESE che il PD deve fare MIGLIORE. Inserito da: Admin - Settembre 12, 2008, 10:27:18 pm Terra Patria
12 settembre 2008 Dalla scuola estiva “Dobbiamo ripensare lo sviluppo, la nozione di crescita in funzione del criterio fondamentale: il miglioramento della condizione umana. Il meglio non è per forza il più, in alcuni casi lo è il poco, sostituiamo la qualità alla quantità”. Non è un’utopia ma il fil rouge della conferenza tenuta dal sociologo francese Edgar Morin nella giornata di inaugurazione della scuola politica del PD, Globale Locale. In un italiano a tratti incerto e sostituito da un meltin-pot linguistico italo-franco-inglese Morin ha analizzato smontato e riassemblato il significato di globalizzazione, indicando per l’umanità un obiettivo suggestivo: una nazione dell’umanità estesa su tutto il globo, la terra patria. Riallaccia la storia da Colombo e Magellano agli anni ’90. “Oggi ci sono tutte le informazioni, ma abbiamo difficoltà a a raggiungerle. C’è stata una nuova tappa della storia, la globalizzazione. Cosa intendiamo quando parliamo di globalizzazione? Soprattutto lo sviluppo di due fenomeni”. Il primo è l’affermarsi di un mercato capitalistico mondiale a fronte dell’implosione sovietica che ci ha portati a passare dalla contrapposizione politico – economica all’unificazione globale; il secondo lo sviluppo delle comunicazioni che ha portato a una platea mondiale unificata. 3 paradossi per un modello in crisi. Primo paradosso: dall’unificazione economica e tecnologica si è arrivati alla “balcanizzazione in Yugoslavia, nella Cecoslovacchia e nel resto del mondo, con tendenze alla chiusura etnica e religiosa. Secondo paradosso: dalle due ultime decadi del ventesimo secolo è iniziata la dissoluzione della fede nel progresso. “La legge irresistibile della storia ha mosso uno sviluppo inesorabile a partire da una società industriale avanzata, che voleva ridurre le diseguaglianze in nome di un domani migliore. Era così in Europa dopo la rivoluzione francese, negli USA e nell’Urss che parlava di un avvenire radioso. Poi c’è stata la generale disillusione del progresso, con il montare di incertezze ed ambiguità. Questo perché la scienza è progresso della conoscenza, certamente, anche della conoscenza delle armi di distruzione di massa come gli ordigni nucleari, della manipolazione genetica, è l’ambivalenza della scienza che migliora il peggio - è il primo dei giochi linguistici con cui per quasi due ore l’ottagenuario sociologo avvincerà il pubblico seduto nell’anfiteatro della rocca di Castiglione del Lago - il benessere crea angoscia e malessere morale, perché è privo di amore. Terzo paradossola crisi del progresso è la crisi del futuro. Morin ci descrive un percorso ciclico, scelto da noi: “Se il presente è un presente di miseria, angoscia, paura del futuro non può indurci che a ritornare al passato, a radici etniche o religiose, a un mondo unificato con conflitti tra religione e sviluppo”. 3 globalizzazioni, una terra. Il sociologo francese descrive tre globalizzaizoni, di intensità diverse. C’è quella economica che è evidente, c’è quella della democrazia, in America latina e in Africa. E poi la globalizzazione culturale. “Già Marx capiva le potenzialità del capitalismo di fare una cultura universale, ma si tratta di una globalizzazione ambivalente, ambigua, così nella letteratura e nel cinema possiamo trovare prodotit da tutto il mondo, ma c’è una tendenza omologante – ha spiegato Morin – ma poi alcuni valori culturali importanti vi hanno torvato soccorso. A me piace il flamenco, ma questa musica andalusa stava scomparendo. L’industria discografica ha messo sul mercato delle antologie e oggi non solo è vitale ma dà vita a delle simbiosi culturali, come il flamenco rock! Vi sono diverse globalizzazioni, non possiamo dimenticarlo e dobbiamo affrontare assieme alcuni pericoli”. Sono i temi anticipati nella prima parte della lezione: la diffusione del nucleare, la degradazione della biosfera dovuta allo sviluppo tecnico economico, i conflitti ideologico/religiosi. “E cosa sono? Sono problemi di vita e morte che fanno di noi una comunità di destini umani,la Terra patria, che non abbandona gli stati nazione ma vede una patria collettiva. L’umanità è fatta di diversità ma il suo tesoro è l’unità umana. Abbiamo tutti la stessa anatomia e la stessa genetica, non la cultura. ci sono le culture, le musiche e non la musica, le lingue e non il linguaggio, ma ogni cultura è diversa, perché diverso è l’apprendimento". L’abc di una società è dato da pochi elementi, che non perde occasione di ricordare per confutare le sue parole: “Una società necessita di un territorio con comunicazione, un’economia che si c’è, ma senza la regolazione statale, da una coscienza comune e da una struttur apolitica. Queste ultime due non le abbiamo ancora”. Quando si fa ormai buoi Morin scarta e offre alla platea il quarto paradosso: “è il progresso a impedire la concretizzazione di Terra – Patria. La nave spaziale terra ha come motore la tecnica, la scienza il profitto e l’economia. Tutto questo, che chiamiamo sviluppo va verso la catastrofe! Si producono armi, si degrada l’ambiente e crescono i conflitti etncio-religiosi. Ripensiamo questo processo perché lo sviluppo può dare vantaggi importanti, ma lasciato a sé stesso produce la catastrofe”. Crisi e soluzione. "Stiamo correndo lasciandoci alle spalle un complesso di crisi: la crisi della civilizzazione tradizionale, l’occidente ipermodernizzato produce più problemi che soluzioni, c’è la crisi delle relazioni, quella delle diseguaglianza. E rinasce la miseria, la popolaizone cacciata dai campi finisce nelle bidonville, nelle favelas, in condizioni illegali. Cos’è più importante? Gli aspetti negativi sono considerati più importanti di quelli positivi, come ad esempio accade nella Cindia, dove viene prodotta miseria. È la proletarizzazione totale e non la povertà, che può essere vissuta con dignita. lo sviluppo disintegra la solidarietà tradizionale e sviluppa egoismo, individualismo, egocentrismo. e produce corruzione”. Nel giorno dell’ottavo anniversario dell’11 settembre quando lo scenario sembra quello più fosco, delinea la soluzione: “Dobbiamo ripensare lo sviluppo, il concetto di crescita, non per abbandonare tutto in nome della decrescita ma per lasciare la visione binaria e adottarne una più complessa. Ripensiamo tutto in nome del criterio fondamentale”. Ci sono lunghi secondi di causa prima che l’ottantasettenne pensatore cominci a scandire: “il miglioramento delle condizioni di vita, dimenticato nelle visioni della globalizzazione. Il meglio e non il più, in alcuni casi il poco è meglio. Sostituiamo la qualità alla quantità è la soluzione. Meglio e non di più, prima di tutto la qualità della vita. La qualità della vita è diventata un problema politico centrale. Lo sviluppo ci ha portato addirittura ad un uso spasmodico di ansiolitici per questa vita”. Occorre cambiare l’idea dello sviluppo anche e soprattutto verso i paesi in via di sviluppo, rispettando le peculiarità locali (che sono diversità), nella cultura come nella medicina tradizionale, perché ogni cultura ha i suoi difetti e le sue ricchezze. “La politica dell’umanità deve integrare le diversità. Certo è difficile cambiare, ma questa è la scommessa. Come ? in 7 settori”. L’interdisciplinarietà che lo ha reso celebre, rendendo difficile agli accademici inserirlo tra i sociologi o tra i filosofi si spiega con questo approcio: lucido, provocatorio, ambizioso, a volte romantico. Proviamo a sintetizzare la politica del cambiamento di Morin. 1. Economia. Serve una forma di regolazione dell’economia mondializzata e serve un’economia plurale, che non ruoti solo intorno alle grandi multinazionali, all’agricoltura intensiva, ma cresca con l’artigianato, le cooperative, le medie imprese, lo sviluppo della produzione biologica e di qualità, la reumanizzazione delle città, la rivitalizzazione delle campagne. Le politiche economiche devono essere orientate a questa pluralità. 2. Politica. Vanno ritrovate le tre fonti della sinistra: la fonte libertaria (attenzione ai problemi delle libertà fondamentali, all’autonomia personale), la fonte socialista (la relazione tra individuo e società), la fonte comunista (relazioni di comunità non anonime e separata). L’aspirazione umana all’armonia di vita è unmovimento trans-storico, forse soddisfatta nelle società antiche prima dell’esperienza statuale, ricomparsa nel ’68. dice Morin: “è l’ispirazione che viene da più lontano. Dal passato ma è anche l’ispirazione del futuro”. 3. Riforma del pensiero. Va superata l’idea dei compartimenti stagni che impedisce di vedere e affrontare i problemi globali e le relazioni delle situazioni particolari in un unico globale. Ciò ci impedisce di affrontare i problemi globali come i problemi personali individuali. Riforma del pensiero è anche una riforma dell’educazione. E lancia un monito. “Il PD riformi l’educazione”. 4. Riforma della vita: aspirazione ad un’altra vita, alla poesia della vita, fatta di amore, comunione, partecipazione. Bisogna lottare per l’evasione, ritrovare un sentimento della solidarietà e della comunanza, superare la vita prosaica. 5. Riforma etica. Ha due fonti : solidarietà e responsabilità. Due dimensioni connesse che si alimentano e si completano. Oggi è distrutta ogni forma di solidarietà personale (in famiglia, sul lavoro, nel proprio paese) . Oggi c’è una nuova solidarietà burocratizzata che però non viene incontro alla persona e ai suoi problemi. Che fare? Morin ricorda due proposte da lui fatte in Francia: “Costruire in ogni città una casa della solidarietà, un luogo dove le persone sono disponibili per gli altri. E un servizio civico di solidarietà internazionale, in modo che i giovani possano partire e soccorrere i loro fratelli in difficoltà in altri paesi Le ultime due riforme riguardano l’ecologia e il lavoro, strettamente connesse per garantire uno sviluppo sostenibile e una nuova centralità umana". “Il problema è cominciare”. Lo dice così: secco, lapidario. Poi riparte: “tutto nasce dal piccolo, tutti gli inizi sono devianti e così siamo noi. Il cristianesimo è nato da gesù con 12 apostoli e un uomo di nome Paolo. L’islam da un uomo che deve fuggire, il socialismo dall’anarchia di Bakunin. È necessario operare una connessione permanente tra le diverse dimensioni di riforma per produrre una nuova cultura politica. La questione è una rigenerazione della politica, senza la quale si produce una degenerazione inesorabile della stessa. Il Pd deve seminare, fare workshop, formaizone permanente, e inziare una nuova cultura politica. Dove ‘è il pericolo, la coscienza del pericolo fa trovare la coscienza e le possibilità della salvezza”. Probabilità e l’improbabile che si avvera. Si ricorre alla storia per dimostrare ciò che sembra più arduo. E così fa Morin: “ Le probabilità sono contro di noi, ma spesso nei momenti cruciali l’improbabile si avvera. La piccola Atene ha battuto due volte l’impero persiano e 50 anni più tardi nascevano la democrazia e la filosofia. Nel 1941 ero un ragazzo, e il dominio nazista era inevitabile. Ho vissuto con l’esercito nazista alle porte di Mosca, l’esercita nazista in Francia. Ma l’inverno fu duro e precoce finendo per congelare il nazismo! I nazisti dovettero correre in aiuto degli italiani in Grecia. Mussolini non riusicva a sconfiggere i greci, e i tedeschi s’impantanano in Yugoslavia, dove impiegano un mese a piegare la resistenza serba. Infine Stalin è avvisato da alcune spie del fatto che il Giappone non attaccherà la Siberia, e deicde di concentrare le sue forze nella difesa di Mosca. Quando i giapponesi attaccheranno Pearl Harbour anche gli USA entreranno in guerra. Tutto ciò che era improbabili si è avverato e ha reso improbabile la vittoria nazista”. La speranza e la volontà Oggi l’incapacità del sistema è evidente. Non è più in grado di affrontare i problemi fondamentali, ma la crisi è pericolo e allo stesso tempo possibilità di soluzioni nuove. Spiega Morin: “O si arriva alla degenerazione o si arriva ad un sistema nuovo, una metamorfosi verso un metasistema. Enormi sono le possibilità creatrici umane e ognuno di noi ha possibilità creatrici dormienti. Come nell’embrione le cellule hanno possibilità rigenerative nella società ognuno di noi può svegliare queste possibilità e portare alla metamorfosi. Una metamorfosi che parte dall’autodistruzione del sé e va verso l’autocreazione del nuovo, come il bruco che nella crisalide diventa farfalla. La metamorfosi è propria della società, è già accaduto nel passaggio dalla società rurale alle società storiche. Anche oggi questa possibilità è presente, possiamo cambiare l’umanità, la vita umana. Come uomini e come politici abbiamo il dovere di far sopravvivere l’umanità e di metamorfosizzarla. attraverso una politica lungimirante, che guarda ai problemi quotidiani, senza dimenticare l’urgenza dei problemi fondamentali. Questa è la via per cambiare vita”. Non ci sono commenti, solo un applauso, I 1000 iscritti in piedi a battere le mani, in minuti lunghissimi. Marco Laudonio Titolo: Sinistra Democratica in piazza per fermare Berlusconi Inserito da: Admin - Settembre 24, 2008, 12:22:20 pm Adesione alla manifestazione dell’11 ottobre 2008
Sinistra Democratica in piazza per fermare Berlusconi L’11 ottobre Sinistra Democratica sarà in piazza e invita tutti a partecipare. Fermare oggi Berlusconi è un dovere democratico. Se la destra al governo, in pochi mesi, ha già fatto molti danni in materia di scuola, lavoro, convivenza civile, ambiente e cultura democratica, è perché non ha trovato finora chi la contrastasse sufficientemente. Dare vita a una opposizione al governo Berlusconi che sia forte ed efficace è oggi una priorità assoluta. I tanti e le tante che non condividono questo indirizzo politico avverso alla scuola pubblica, punitivo verso lavoratori e pensionati, tollerante verso la xenofobia, compiacente con gli interessi di pochi potenti, debbono poter trovare nella manifestazione dell’11 ottobre un luogo dove ritrovarsi e avere voce. Un luogo che dialoghi con chi nei sindacati, nei luoghi di lavoro, sul territorio, nelle scuole già si sta attivando per fermare l’onda della destra. Avremmo voluto una sola manifestazione di tutte le opposizioni. Poiché non si è potuto ottenere questo risultato occorre che quella dell’11 ottobre sia una giornata e una manifestazione aperta a tutti coloro che non condividono le politiche aggressive della destra. Non ultima quella di strozzare con una nuova legge elettorale la possibilità di una rappresentanza al parlamento europeo scelta democraticamente. Dare forza insieme all’opposizione non confonde i diversi progetti politici: SD, ad esempio, ritiene che senza una sinistra del cambiamento sarà difficile creare una alternativa alla destra e per questo lavoriamo concretamente con molti altri alla Costituente della sinistra. Alla fine, per battere la destra, occorre una politica convincente. da sinistra-democratica.it Titolo: Addio Abdul già dimenticato al funerale Inserito da: Admin - Settembre 24, 2008, 12:24:26 pm 24/9/2008
Addio Abdul già dimenticato al funerale PIPPO DELBONO Questa mattina mi sono svegliato presto e mi sono vestito elegante per andare a Cernusco sul Naviglio al funerale di Abdul Graibe detto Abba, nero, morto ucciso a Milano. Per un piccolo furto, rincorso e bastonato a morte. Non vado mai ai funerali delle vittime famose, ai funerali degli artisti importanti, dei caduti per difendere la patria, non sono andato alla passerella di lutto dei morti della ThyssenKrupp. Ma questa mattina ho deciso di andare. A Cernusco sul Naviglio, un paesino nell’hinterland milanese. In una giornata di pioggia. Arrivato lì, vedo con sorpresa che c’è poca gente. Per la maggior parte neri. Vicino alla bara di Abdul i parenti, gli amici, qualche bianco. Alcuni piangevano, altri guardavano con gli occhi vuoti il feretro. Ho cercato le corone di fiori. Erano quattro, o forse cinque. Piccole. Una di un gruppo di donne, una della Provincia di Milano. Basta. Non c’era nessun’altra corona. Di Comune, Stato, Chiese, Sindacati, Comunisti. La sala che ospitava il feretro, una sala auditorium quasi vuota. Litanie come lamenti, cantati con discrezione, forse per non irritare i laboriosi vicini milanesi. Un uomo, che poi ho capito che era il padre di Abdul, accoglieva le persone, sorridente. E ringraziava. Un altro uomo vicino a lui, più giovane, il viso disperato dove si vedeva la rabbia. C’era qualcosa di antico, di poetico, di unico, di straordinario in quel commiato delicato che non voleva fare troppo rumore. Non ho visto nessun politico importante, nessun prelato importante, nessun artista importante, nessun giornalista importante. Qualcosa come una rabbia mischiata al pianto mi è salita nell’assistere al funerale di quel martire negro, diverso da quelli bianchi onorati e rimborsati vicino ai quali i nostri fantocci politici si fanno volentieri vedere con gli occhi rossi. Quelle poche persone presenti salutavano e abbracciavano la famiglia come se stessero entrando nella loro casa. C’era in quell’atto di commiato funebre una bellezza, una poesia, una sacralità che è ormai impossibile vedere nel mio Paese. Volgare, fascista, razzista. Mascherato da finto cattolicesimo, finto comunismo, finto pietismo. All’uscita su un piccolo quaderno ognuno scriveva il proprio nome, o un saluto a questo uomo ucciso dalla volgarità e dimenticato. «Ciao Abdul e scusami per questo paese di m.», gli ho scritto io. A poco a poco l’esiguo corteo si è avvicinato in silenzio alla bara. Il padre di Abdul restava lì fermo con gli occhi lucidi e il viso sorridente, portando una dignità più forte del suo dolore. E prima di salire su una macchina, quasi come un ultimo regalo sublime di civiltà, libertà e saggezza a quei pochi presenti, con un dolce sorriso ci ha detto: «Grazie a tutti, l’affetto che mi dimostrate in questo momento serva a una giustizia vera». Grazie al papà di Abdul, grazie a Abdul, che mi avete regalato in questa giornata grigia, triste, drammatica, scandalosa di inizio autunno, uno squarcio di luce. da lastampa.it Titolo: L'eredita' di Peppino Impastato Inserito da: Admin - Settembre 24, 2008, 12:27:12 pm 23 settembre 2008, 19.08.37
L'eredita' di Peppino Impastato Peppino Impastato è un giovane siciliano ucciso dalla mafia. Questa scarna informazione sarebbe più che sufficiente per rendere doverosa oggi la memoria di una vita, di un impegno, di un terribile delitto. Peppino Impastato esprime, ancora dopo trenta anni, in modo emblematico le tragedie della Sicilia, le tragedie di tanti giovani uccisi anche – e non solo – fisicamente dalla mafia. Peppino, giovane e siciliano, ha trovato la forza di rompere, in anni di paura e di convivenza, la palude del silenzio e la rete di complicità dei propri coetanei, così come dei suoi stessi familiari. Peppino è stato prima deriso, poi emarginato, infine ucciso: secondo una sequela tragicamente ricorrente nella strategia mafiosa. Deridere, emarginare, uccidere. E, poi, depistare. La mafia (il sistema di potere politico affaristico mafioso) non si ferma davanti al corpo inanimato delle proprie vittime. Con complicità attive e silenzi compiacenti di organi dello Stato, della politica, dell’informazione si è tentato di far apparire Peppino come un sovversivo, un terrorista vittima dello scoppio accidentale di una bomba che dallo stesso sarebbe stata preparata per compiere un attentato lungo la linea ferroviaria. Con complicità attive e silenzi compiacenti si è sottoposta la verità ad una colossale operazione di depistaggio, sottoponendo - con pretesti infamanti - a sequestri e perquisizioni la sede della piccola radio e la abitazione di Peppino. Quelle complicità attive e quei silenzi compiacenti hanno utilizzato anche il clamore del ritrovamento del cadavere dell’On. Aldo Moro per nascondere e depistare le vere ragioni della uccisione di Peppino, consumata nello stesso giorno del ritrovamento del corpo dello statista democristiano. Quelle complicità e quei silenzi sono stati da anni e per anni oggetto di denuncia da parte dei compagni così come della madre e del fratello di Peppino che hanno sfidato a viso aperto Gaetano Badalamenti e tanti altri mafiosi, senza curarsi né di rapporti di parentela né di rapporti di pericoloso vicinato. Quelle complicità e quei silenzi hanno per anni avuto la meglio su verità e giustizia. Quelle complicità e quei silenzi sono stati per la prima volta formalmente indicati, in atti giudiziari, dall’indimenticabile Consigliere istruttore Antonino Caponnetto. Quelle complicità e quei silenzi sono stati resi noti nello splendido film “Cento passi” ancor più e prima che potesse formalmente del tutto concludersi in via definitiva il processo degli assassini di Peppino. Un film diffuso in tutto il mondo, più tempestivo di un troppo lungo processo penale, così come la piccola Radio di Peppino - diffusa in un piccolo territorio della provincia siciliana – colpiva criminali che le istituzioni non volevano o non sapevano colpire. Legalità e informazione: due parole, una drammatica emergenza ieri come oggi. I criminali mafiosi uccidono con le armi da fuoco esseri umani, giovani coraggiosi; le complicità e i silenzi uccidono libertà, verità, giustizia. E’ questa la terribile miscela che impedisce nel nostro paese una democrazia compiuta. Non potrò mai dimenticare, a conferma e testimonianza di questa micidiale miscela, un comizio in piazza a Cinisi nel maggio 1978, all’indomani dell’uccisione di Aldo Moro e di Peppino Impastato. Piersanti Mattarella, che ad Aldo Moro era come tanti di noi fortemente legato, si recò a Cinisi per gridare speranza e progetto di rinnovamento della politica. Piersanti venne aspramente contestato dai compagni di Peppino che vedevano in quel giovane Presidente della Regione appena eletto il simbolo di una democrazia cristiana che, per colpa di taluni suoi potenti esponenti, era e appariva compromessa con la mafia. Piersanti tenne egualmente e terminò il suo comizio e, a me, che lo accompagnavo, a voce bassa, quasi con pudore ma con determinazione, sussurrò: “Non sanno, i compagni di Peppino, che siamo nella stessa barca, combattiamo la stessa battaglia, corriamo gli stessi rischi”! Mi sono ricordato di quelle parole quando nell’Epifania del 1980 mi sono trovato davanti al corpo senza vita di Piersanti ucciso da mafiosi che avevano nel suo stesso partito consiglieri e complici. In memoria di Peppino Impastato, vi invitiamo a partecipare all'evento che si terrà a Pieve Emanuele (Milano), il prossimo 3 ottobre alle ore 17:00, presso la piazza a lui dedicata. da italiadeivalori.antoniodipietro.com Titolo: Federica Fantozzi. Gianrico Carofiglio: «Questo è un governo neoautoritario» Inserito da: Admin - Ottobre 24, 2008, 10:18:43 pm Gianrico Carofiglio: «Questo è un governo neoautoritario»
Federica Fantozzi Senatore Gianrico Carofiglio, lei sarà al Circo Massimo? «Sì. È un’iniziativa che, al di là dei dettagli tattici, giudico positivamente». Quali sono le ragioni della manifestazione? Resta opportuna nonostante la crisi finanziaria? «Su questo tema serve un approccio laico. È opportuno praticare forme di aggregazione democratica come una piazza civile ma ferma dove una forza di opposizione trova le sue ragioni per stare insieme. Al di là di motivi speciali per protestare contro qualcosa o qualcuno». Significa che non sarà un corteo «contro»? «L’obiettivo non sarà criticare la riforma della scuola piuttosto che le leggi vergogna o qualche altro provvedimento. Almeno non solo. Si tratta di ribadire in modo forte la contrarietà collettiva alla deriva che questa destra sta imponendo al Paese. Un disegno neoautoritario che passa approfittando dell’indifferenza». Se il governo agisce nell’indifferenza, non è anche responsabilità dell’opposizione e dell’opinione pubblica? «Infatti bisogna spezzare l’indifferenza. Ritrovare in modo festoso i valori in cui si riconosce l’identità collettiva della sinistra. Ecco perché apprezzo la giornata di sabato. Il Pd ha un problema di individuare i propri valori e le parole con cui chiamarli e comunicarli». Non è un problema piccolo. «Certo, non è cosa da poco, e la manifestazione rappresenta un punto di partenza e non la soluzione. Poi serviranno elaborazione e riflessione. Ma la politica è soprattutto capacità di produrre emozioni, non manipolatorie come nel centrodestra, intorno a valori». Veltroni in campagna elettorale ha prodotto emozioni. Non sono bastate. «Devono viaggiare su un doppio binario. È necessario individuare una costellazione di valori e saperli narrare a chi è smarrito». Quali, per esempio? «Noi vogliamo una società aperta e loro chiusa. Aperta ad altri mondi e paesi, ai giovani e alle generazioni che verranno, a cultura e idee. Il governo pratica la politica del chiavistello: cacciare o emarginare gli immigrati con misure dagli echi vagamente razzisti, rendere la scuola un luogo di normalizzazione e anziché di trasformazione della società, contrapporre il diritto dei poveracci, durissimo, a quello dei privilegiati». Veltroni ha ufficializzato la rottura con Di Pietro, ma IdV sarà in piazza. Avrete problemi di convivenza? «Non credo. Non esiste un problema di coabitazione ma di impostazione strategica e valoriale dell’opposizione». Dall’interno, come valuta lo stato del Pd? Da Parisi a Rutelli a D’Alema non mancano critiche, e c’è chi ritiene che l’esperimento non sia riuscito. «Mi sembra un giudizio forse un po’ affrettato che non condivido. In mezzo c’è stata la tempesta legata al voto ed è impossibile valutare. È sano che esistano punti di vista diversi e confronto anche aspro. Non c’è democrazia dove non si polemizza. Mi preoccupano i partiti dove regna il pensiero unico». Dove è il limite tra critica costruttiva e separati in casa? «Bisogna evitare che la dialettica diventi fattore di implosione. Questo è affidato alla responsabilità dei dirigenti e alla capacità di ritrovare la bussola dei valori. La politica basata su analisi razionale non basta: a lungo è stato il limite della sinistra. Ricerche mostrano che la razionalità convince gli elettori per il 4%, il resto sono emozioni». In sintesi come definirebbe la visione del mondo del Pd? «L’idea di una società aperta il cui cardine è l’uguaglianza autentica tra esseri umani». Pubblicato il: 24.10.08 Modificato il: 24.10.08 alle ore 9.33 © l'Unità. Titolo: Romano Prodi, “Fondazione per la Collaborazione tra i Popoli”. Inserito da: Admin - Ottobre 27, 2008, 11:00:12 pm Ricevo da:
la Comunita' di Perlulivo.it http://www.perlulivo.it http://www.perlulivo.it/forum dal 1995 per tutto L'Ulivo *************************************************************************** Care Amiche, Cari Amici, dopo la conclusione della mia attività politica, ho pensato fosse utile far tesoro delle esperienze internazionali che ho avuto la possibilità e la fortuna di accumulare, come Presidente del Consiglio italiano e come Presidente della Commissione Europea, per continuare ad occuparmi di alcuni problemi che direttamente o indirettamente avranno influenza sulla politica e sull’economia internazionale. Ho già avuto richieste, da alcune organizzazioni, di impegnarmi sul grande tema della pace e su quelli ad essa collegati dell’energia, della fame e su una, quella dell’ONU sul ‘Peace Keeping’ in Africa, sto già lavorando. Per questo motivo e con questi obiettivi è nata nei mesi scorsi la “Fondazione per la Collaborazione tra i Popoli”. Lo scopo specifico della Fondazione, come recita lo Statuto, è perciò quello di “affrontare le problematiche sociali, culturali, economiche, politiche del mondo, al fine di favorirne la soluzione grazie alle elaborazioni di nuove proposte di collaborazione nel contesto internazionale” (cfr. Statuto). A partire dall’Europa come protagonista di un futuro mondo effettivamente multipolare in cui i nuovi protagonisti come la Cina, l’India, ecc. dovranno condividere più ampie responsabilità. Una Europa che dovrà essere interlocutore privilegiato dei Paesi che la circondano (l’anello degli amici) e che dovrà svolgere azioni positive perché il Mediterraneo diventi sempre più porta per l’Oriente. Una Europa che è vicinissima all’Africa e che, in interazione con l’Onu, non può che occuparsene. Le iniziative della Fondazione, si svilupperanno intorno a questi e ad altri temi e vorrà poterne far partecipi tutti coloro che ad essi sono interessati, promuovendo una rete di conoscenze e di idee utili a far maturare un clima culturale e politico coerente con le sfide che sono in campo. Per rendere possibile questo impegno, anche se con una struttura organizzativa estremamente leggera, ritengo sia utile stabilire un rapporto diretto con tutti quelli che desiderano essere partecipi di questo lavoro. Con loro manterremo un contatto continuo, iscrivendoli ad un nostro Forum per uno scambio di idee ed opinioni sui temi di interesse della Fondazione e tenendoli al corrente delle nostre attività. Spero che tramite questa ‘partecipazione’ la Fondazione potrà essere aiutata a raggiungere i suoi obiettivi. Se siete interessati a essere parte di questa rete vi preghiamo di comunicarlo inviando una e-mail di adesione all’indirizzo eccomi@fondazionepopoli.org. Troverete sul sito della Fondazione : http://www.fondazionepopoli.org il nostro Statuto e una prima serie di indicazioni sulle attività che intendiamo svolgere. Con molta amicizia. Romano Prodi Titolo: La lettera degli studenti milanesi al presidente della Repubblica Inserito da: Admin - Ottobre 31, 2008, 02:53:57 pm SCUOLA & GIOVANI IL DOCUMENTO
La lettera degli studenti milanesi al presidente della Repubblica Lezioni in piazza vicino al Quirinale MILANO - "Abbiamo deciso di scriverle mossi dalla sua richiesta di 'superare il clima di pura contrapposizione e aprirsi all'ascolto delle rispettive ragioni', consapevoli del fatto che il dibattito in corso sul futuro dell'università e della ricerca in Italia sia cruciale per il nostro futuro di cittadini". Comincia così la lettera che gli studenti dell'università Bocconi hanno consegnato stamani al presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, al suo arrivo presso la nuova sede dell'ateneo milanese per l'inaugurazione dell'anno accademico. "E' nostra ferma convinzione che il sistema universitario italiano sia in profonda crisi e che questo stato di difficoltà sia strettamente connesso al destino dell'intero paese. È necessario intervenire con una profonda riforma delle regole che sono alla base del funzionamento degli atenei e del complesso degli strumenti che garantiscono il diritto allo studio, ma siamo contrari a intraprendere in percorso del genere cominciando dalla dieta forzata a cui la legge 133 ha sottoposto le università italiane e la ricerca. Alla base del funzionamento del sistema universitario vi è la questione del finanziamento degli atenei. L'attuale metodo di ripartizione delle risorse è motivo di grande insoddisfazione: in generale, guardiamo con sfavore il perpetuarsi del sistema di finanziamento basato essenzialmente sulla spesa storica e sul numero degli studenti iscritti, e auspichiamo che tali risorse siano maggiormente vincolate a criteri che tengano conto dei risultati raggiunti, magari attraverso un'agenzia indipendente di valutazione che premi il merito e la qualità. Peraltro, la prevista riduzione del fondo di finanziamento ordinario colpisce indiscriminatamente centri di eccellenza, efficienti nella gestione e produttivi nella ricerca e nella didattica, così come università che offrono una formazione di livello decisamente inferiore. Altrettanto preoccupante è la situazione presente e futura dei nostri centri di ricerca. Nella società della conoscenza un paese che non investa in ricerca e sviluppo è condannato a un lento declino economico e alla marginalizzazione sul piano internazionale. Data l'asprezza del confronto politico odierno, ci appelliamo a lei, nella sua veste di garante della Costituzione e rappresentante dell' unità nazionale, e nel rispetto assoluto della sue prerogative, affinchè inviti le forze politiche presenti nel parlamento ad affrontare in modo organico la questione universitaria e ad aprire un dibattito che porti ad una riforma profonda del sistema vigente, migliorando l'organizzazione e l'efficacia degli istituti di ricerca e promuovendo la piena realizzazione del diritto allo studio". (31 ottobre 2008) da repubblica.it Titolo: Maurizio Chierici. Il colore di un altro mondo Inserito da: Admin - Novembre 04, 2008, 06:00:36 pm Il colore di un altro mondo
Maurizio Chierici Forse stasera il mondo cambia colore e la cultura degli Stati Uniti rovescia la vita di ogni comunità. Se i sondaggi non imbrogliano, giorni neri per i bianchi KKK. Non solo rabbia delle maggioranze parlanti modello Alabama. Lo sdegno KKK trema nell'inconscio delle anime perbene sconvolte da emigrazioni dai colori diversi. Insopportabili. Finché scarica patate ai mercati, pazienza, ma un nero alla Casa Bianca è come un mullah che dice messa. I masi chiusi attorno a Bolzano dubiteranno del suo potere. Dubiteranno le folle montagnarde di leghe scandalizzate dalla profanazione. Fini aveva annunciato che era impossibile. Dovrà rassegnarsi. La democrazia ha queste scomodità. E nelle pieghe delle abitudini qualcosa comincerà ad essere diverso. Segni invisibili a poco a poco visibili appena il tempo addolcirà l'umiliazione ariana. Cominceremo a rovesciare le favole per il rispetto dovuto alla grande potenza. Qualcuno lo ha già fatto. Caridad Toca era buia come il carbone. I signori Calvino le avevano affidato il figlio: Italo, appena due anni, quando Cuba era un regno americano. Ieri come oggi gli uomini neri impaurivano l'infanzia con la crudeltà di chi rubava i bambini nel sacco. Ma nei racconti della tata nera l'uomo nero si trasforma nell'angelo della luce. Salva chi affoga nel fiume, scaccia lupi randagi. Incanti dei quali lo scrittore non si è mai liberato. Il tempo ci abituerà all'anomalia della storia che si chiama Obama. Quando padre e madre dovranno indovinare chi viene a cena per sposare la figlia, se Obama ce la fa, il sospiro sarà meno desolato: «Almeno è intelligente». Dovranno rassegnarsi i vecchi dal sangue stanco adattandosi a figli che non vogliono perdere il filo delle novità: addio moldave alle pallide, solo badanti africane. Ecco il dubbio: quali colori finiranno nel ghetto delle classi differenziate? Turandosi il naso, anche i partiti della razza romperanno le quote rosa per briciole di quote nere: l'America é sempre la nostra America ma nessuno si piegherà davvero. Nelle segrete abbandonate dai black power, i white power resusciteranno l'indignazione appena Obama sbaglierà. E sbaglierà, come ogni presidente. Ma è un presidente nero: l'avevano detto. L'ultimo libro di Eduardo Galeano («Specchi», Sperling & Kupfer ) racconta le incisioni delle grotte dei deserti africani: colline verdi, frutti che piegano i rami. Quel paradiso terrestre dove Adamo ed Eva si sono forse incontrati. Ed erano neri. Meglio non farlo sapere nei giorni del lutto bianco. Pubblicato il: 04.11.08 Modificato il: 03.11.08 alle ore 21.38 © l'Unità. Titolo: L'Europa saluta l'elezione di Obama "Una svolta per il mondo intero" Inserito da: Admin - Novembre 06, 2008, 08:53:45 am ESTERI - ELEZIONI USA 2008
La vittoria del democratico accolta con entusiasmo da tutte le capitali Il Commissario Ue Barroso: "E ora lavoriamo insieme su crisi, clima e povertà" L'Europa saluta l'elezione di Obama "Una svolta per il mondo intero" Aperture di credito anche da Mosca: "Ma non rinunceremo a ruolo nel Caucaso" BRUXELLES - Sono entusiaste le reazioni europee all'elezione di Barack Obama alla Casa Bianca. "E' una svolta nella storia degli Stati Uniti ma può essere una svolta anche per il mondo intero", ha commentato il presidente della Commissione, Josè Manuel Barroso, auspicando che Stati Uniti e Ue uniscano gli sforzi e lavorino insieme a un "piano di lavoro" per rispondere ai grandi problemi internazionali: dalla crisi finanziaria ai cambiamenti climatici, dagli obiettivi di sviluppo per i Paesi più poveri fino alla promozione della pace e dei diritti dell'uomo nel mondo. Germania. Se Barroso ha parlato a nome dell'Unione intera, nessun capo di Stato o di governo ha voluto rinunciare a salutare con soddisfazione la vittoria del candidato democratico. Tra le reazioni più significative quella della Germania, il paese che forse più di ogni altro ha vissuto come un trauma il difficile rapporto con George W. Bush. "All'inizio del suo mandato - ha commentato la cancelliera tedesca Angela Merkel - il mondo si trova davanti a sfide significative. Sono convinta che affronteremo i nuovi pericoli e i rischi all'insegna di una stretta cooperazione basata sulla fiducia tra Stati Uniti ed Europa e che coglieremo le numerose opportunità che si offrono in questo mondo globale". Francia e Gran Bretagna. Non ha risparmiato parole altisonanti il presidente francese Nicola Sarkozy. L'elezione di Barack Obama, ha detto, "solleva in Francia, in Europa e, al di là, nel mondo un'immensa speranza: quella di un'America aperta, solidale e forte che mostrerà di nuovo la via, con i suoi partner, attraverso la forza dell'esempio e l'adesione ai suoi principi". Più contenuta invece, come è nel suo stile, la reazione di Londra. Il primo ministro britannico Gordon Brown, si è limitato infatti a felicitarsi con il presidente eletto americano, Barack Obama, salutandone i "valori progressisti" e la "visione per il futuro". "Conosco Barack Obama - ha aggiunto - e condividiamo numerosi valori. Siamo entrambi determinati a dimostrare che il governo può agire per aiutare in modo equo la gente ad attraversare questi tempi difficili per l'economia mondiale". Spagna. Parla di nuova epoca il premier spagnolo Luis Rodriguez Zapatero, secondo il quale la vittoria di Obama apre "una nuova era per il dialogo nelle relazioni internazionali". E' stata, ha aggiunto il leader socialista, "una notte storica" per la "straordinaria partecipazione" e perché è stata "evidente la volontà di cambiamento degli americani". La vittoria di Obama, ha concluso il premier spagnolo, "darà un nuovo impulso al multilateralismo economico e politico". Russia. Il fascino del senatore dell'Illinois sembra aver conquistato almeno in parte anche Mosca. L'elezione di Obama, ha sottolineato il presidente russo Dmitri Medvedev, potrà ora condurre a relazioni "di ampio respiro" tra la Russia e gli Usa. "Speriamo - ha proseguito - che i nostri partner, la nuova amministrazione Usa, scelgano di portare avanti relazioni di ampio respiro" con la Russia, fermo restando che Mosca "non rinuncerà al suo ruolo nel Caucaso". (5 novembre 2008) da repubblica.it Titolo: Obama e le email personalizzate (populismo? Ndr) Inserito da: Admin - Novembre 06, 2008, 12:03:38 pm Ma con questo Eccesso di comunicazione personale rischia di irritare i fan
Obama e le email personalizzate Supporter, simpatizzanti, giornalisti: ogni giorno ricevono messaggi a raffica firmati dal candidato E' ormai un gioco di società, non solo in America. «Lo sai? Obama ha scritto a me prima di parlare in pubblico davanti alle tv di tutto il mondo!». Proprio così: "Aldo", o "Carlo", o "Silvia", «sto andando al Grant Park, ma prima voglio scrivere a te. Insieme abbiamo fatto la storia. E non voglio che dimentichi come abbiamo fatto...». Ovviamente la mail è stata mandata in milioni di copie, a milioni di persone di cui Obama è giustamente del tutto ignaro, a cura di qualche oscuro volontario. Una bella trovata, niente da dire. Berlusconi sostiene che nessun suono è più gradevole di quello del proprio nome. Figurarsi se a scriverlo è il nuovo presidente degli Stati Uniti. Una trovata che però, riprodotta su scala, rischia di farsi quasi stucchevole. A me è bastato mandare una sola mail allo staff di Obama, per chiedere di essere accreditato alla notte elettorale dove peraltro non sono andato, per essere seppellito da una media di sette o otto mail al giorno, tutte firmate Barack Obama, Michelle Obama, David Plouffe, capo della campagna. Alternativamente, in una mi si informa che insieme abbiamo mutato il corso degli eventi, sconfitto McCain, cambiato il mondo; in quella successiva, mi si chiedono soldi. Da cinque dollari in su. Ora, è vero quanto dice Kathleen Kennedy, che di queste cose ha esperienza: lo straordinario movimento popolare in appoggio a Obama non deve esaurirsi. E' proprio ora, che sarà esposto a decisioni difficili e a gravi pericoli, che il nuovo presidente avrà bisogno dell'onda che l'ha sospinto alla Casa Bianca. Alimentata anche dalla tecnologia, in particolare da Internet. Ma se non si dà una calmata con le mail, qualcuno dei tanti milioni di destinatari finirà per mettere Obama Barack nella posta indesiderata. Mittente bloccato. 06 novembre 2008 da corriere.it Titolo: da www.vernacoliere.com - E' crisi nera IN CALO ANCHE LE SEGHE Inserito da: Admin - Novembre 13, 2008, 12:26:43 am E' crisi nera
IN CALO ANCHE LE SEGHE Il popolarissimo prodotto è sceso del 50% BERLUSCONI MINIMIZZA: "L'italiani cianno bone mani!" Ci sono de’ segnali, nella vita, che voglian dire tutto. Se presempio Berlusconi si mette la prolunga all’uccello, vor di’ che ci vole andà ner culo anche più di prima! Se Vertroni e Dipietro seguitano a dissi stronzolo e cacchina, è segno che ‘r travaglio ideològio dell’opposizzione è propio nella merda! Se la Carfagna e la Germini e la Prestigiacomo sono doventate ministre, ‘un c’è dubbio che cor culo si pole fare perdavvero tutto, ner senzo beninteso di fortuna. Se la Lega seguita a di’ che lei vole mette’ i bimbi straomunitari nelle crassi a parte perché que’ figlioli ni piaciano perdavvero tanto, si pol’esse’ siuri che ni piacerebbero anche dipiù gratinati ar forno. Se ‘r papa giura sulla testa de’ su’ figlioli - quelli spirituali, beninteso - che i quattrini li fabbria ‘r demonio, è segno che prima o poi ‘r Vatiano comprerà anche quella zecca lì. E anche su’ segni della solita vita di noiartri, ‘un c’è da scervellassi tanto! Se presempio ‘r bottegaio dice alla criente «cara signora mi dispiace ma io ‘un ni posso più segnà», è chiaro che la signora si deve preparà a fanni vedé ‘r pelo! Se la tu’ moglie ‘un te la dà più, vor di’ che s’è rotta ‘ ‘oglioni a fa’ finta sempre di godecci tanto! Se la tu’ bimba ti ritorna a casa colla pancia piena, di siùro ha smesso di volé fa’ la dieta! Se la tu’ socera ti guarda all’improvviso tutta sorridente, è segno che o ci vedi male te o ci vede male lei! E così via e via, perché quando certi segnali sono chiari ‘un ci si pole dicerto ‘mpappinà! È co’ segnali delle seghe, ‘nvece, che ‘un ci si ‘apisce più nulla! Che te prima bastava tu ni guardassi ar tu’ figliolo l’occhiaie o ‘ calli nelle mani, e capivi a volo! O sennò uno ti diceva son disoccupato, e quelle erano seghe di siuro! Che ‘un c’è artro ar mondo come i disoccupati, per la produzzione di seghe a tutt’andà! Tantevvero che ora, con questa popò di grisi econòmia a giro, con tutte veste fabbrione e fabbriette che chiudano bottega e si son messe a licenzià a tuttospiano, ci s’aspettava tutti che cor cresce’ de’ disoccupati aomentassino anche le seghe a rondemà! E ‘nvece no, calano anche quelle! Meno atumobili, meno elettrodomestici, meno mobili, meno prodotti di tutta l’industria manifatturieta, e anche meno seghe! Che più manifatturiere di quelle ‘un ci pol’esse’ artro, le seghe o te le fai a mano o è roba fasulla di siuro! E sai, un crollo spaventoso, der cinquanta percento addirittura! Una recessione che ha corpito un po’ tutto ‘r mondo, a dire ‘r vero, ma l’Italia speciarmente! «Le seghe nostrane – ha detto difatti l’Ístatte – questo popolarissimo prodotto italiano, è sprofondato di guasi la metà!» Derresto dé, basta guardà la Borza! Un c’è un’Azzione der Cazzo che ‘un sii andata giù! Le Cazzi Generali sono scese a meno trenta, L’Uccelli Privilegiati a meno venti, le Fave Conzolidate a meno venticinque, i Pipi di Famiglia addirittura a meno trentacinque! E se ‘n tutto questo patatràcche di cazzi ci metti anche ’r crollo delle seghe, me la saluti te l’economia! Che sulle seghe ci s’è sempre fondata, come prodotto fra i più popolari! Che te colle seghe principi da piccino, e ‘un ismetti più per tutta la tu’ vita! E mia seghe così tanto per di’! Seghe artistie, tutte fatte ner segno della meglio tradizzione manuale italiana, da quelle barocche der Secento fin a quelle della poparte d’oggi! Una produzzione così originale che difatti l’Italia ha chiesto all’Unione Uropea di stioccacci perfino ‘r bollino “Made in Itali” sulle nostre seghe, anche per distinguelle da quelle cinesi che già sono tutte gialle, eppoi loro se le fanno coll’occhi strinti e colli stecchini ‘nfilati ‘nculo! Ma te lo sbatti, ora ‘r bollino, in questo mosciume generale! Che se la gente ‘un cià più nemmeno la forza di fassi le seghe, dimmi te con che coraggio si pole sperà che magari i disoccupati sappino cosa fa’, nella loro condizzione di segaioli colla fava moscia ‘n mano! L’ùnia è sperà come sempre in Berlusconi, che quando n’hanno detto der calo anche delle seghe ha rassiurato tutti: «L’italiani cianno bone mani» ha diarato con tutta la su’ acceante dentiera sorridente «e sapranno ritornà alle seghe anche più di prima! E in onni caso» ha precisato con Tremonti accanto che barbottava tanto poi ci penzo io a rincarà le tasse «lo Stato farà la su’ parte come l’ha fatta con le banche. A loro ‘r sostegno de’ milliardi per ‘un falle fallì, ai disoccupati l’incoraggiamento de’ calendari della Carfagna per ‘un falli sta’ colle mani ‘n tasca!» Mario Cardinali hhh da www.vernacoliere.com Titolo: Avvocato di strada, pronto soccorso per chi finisce nei guai Inserito da: Admin - Novembre 15, 2008, 11:00:24 pm Avvocato di strada, pronto soccorso per chi finisce nei guai
di Davide Madeddu È una sorta di pronto soccorso giudiziario per chi non ha neppure un tetto sotto cui dormire. L’ultima ancora per poter difendere i propri diritti o farsi difendere in nome della legge. Un punto di riferimento diventato ora anche più prezioso per chi non ha più né una casa né altre persone cui chiedere aiuto e sostegno. Si chiama Avvocato di strada, ed è l’associazione che, fondata a Bologna nel 2001 dall’avvocato Antonio Mumolo ora assicura assistenza legale ai senza dimora, nella maggior parte italiani, in una quindicina di città d’Italia. Solo a Bologna, nell’ultimo anno sono stati mille coloro che hanno chiesto e ottenuto aiuto e assistenza. «Qualcuno bussa e chiede aiuto e assistenza perché ha subito una violenza, qualche altro perché, dopo un intervento chirurgico che gli ha salvato la vita in extremis si è visto recapitare dall’ospedale il conto di duemila euro con i carabinieri - racconta Jacopo Fiorentini, portavoce dell’associazione - qualche altro ancora perché cerca di ricostruire la sua vita e non sa come muoversi tra tribunali e uffici giudiziari e una pioggia di multe che, continuano ad arrivare senza sosta». Storie di vita, molto spesso distrutta e disperata che sono diventate quasi l’ordinarietà. «L'esperienza nasceva dalla necessità, sentita da più parti, di poter garantire un apporto giuridico qualificato a quei cittadini oggettivamente privati dei loro diritti fondamentali - spiega il presidente Antonio Mumolo -. Gli sportelli legali di Avvocato di strada sono legati dall'Associazione Avvocato di strada Onlus per cercare di favorire una crescita comune delle esperienze, condividere, attraverso il confronto di esperienze, un’idea comune sugli obiettivi e le modalità di intervento del progetto». Un’attività nata in maniera quasi pionieristica con poche persone disposte a sacrificare buona parte del proprio tempo libero per dedicarsi agli altri. «E garantire i diritti degli altri, anche dei più deboli - chiarisce Antonio Mumolo - Abbiamo iniziato nel 2001 come costola dell’associazione Piazza Grande ed eravamo in due, io che sono giuslavorista e un’avvocatessa che si occupava del penale aprendo uno sportello di assistenza». Subito poi si è aggiunta una seconda fase, quella di andare a dare assistenza cercando le persone. «Dopo l’attivazione dello sportello siamo andati a cercare le persone nei dormitori - prosegue l’avvocato - Oggi solo a Bologna siamo 50, in tutta Italia a prestare servizio gratuito per Avvocato di strada ci sono 500 avvocati». Legali che cercano di dare assistenza e aiuto al mezzo milione di persone che, senza un tetto e una casa vive sotto i ponti o nelle stazioni ferroviarie. «La nostra attività, che è bene precisarlo è gratuita sempre, è finalizzata a far garantire i diritti di chi non ha la forza e gli strumenti per difendersi, noi seguiamo solo chi è senza casa - spiega Mumolo - quando si vince una causa ogni avvocato che fa parte dell’associazione versa il suo compenso allo sportello di appartenenza. Ossia alla struttura che ha avviato la procedura di assistenza per la persona senzatetto». Non c’è solo l’attività giudiziaria che molto spesso «vede i senza casa parte lesa in processi penali perché vittime di pestaggi, aggressioni» ma anche quella che viene definita la seconda possibilità. Ossia i programmi perché chi è finito in strada possa ricostruirsi una nuova esistenza. «Oggi è molto facile finire in strada - aggiunge Mumolo - basta che un matrimonio naufraghi o che chi, magari vive solo, perda il lavoro e il passo per trovarsi poi in mezzo alla strada è breve». Anche perché «l’essere poveri viene vissuto quasi come una colpa e una vergogna e quindi crea una condizione psicologica che alla fine fa precipitare chi si trova in questa situazione». Per questo motivo, e far sì che la tutela dei diritti venga garantita sempre l’associazione Avvocato di strada ha deciso di estendere la sua attività in altri centri d’Italia. «Si opera con associazioni tanto laiche quanto religiose che già esistono - aggiunge ancora il presidente- perché l’obiettivo è quello di far rispettare i diritti delle persone. Non è una questione di favore ma di diritti che tutti hanno. Anche chi è povero e non ha la forza di gridare». © 2008 L'Unità.it Nuova Iniziativa Editoriale Spa Titolo: Vito Mancuso la materia «è nuova e ricca di zone grigie». «E' l'interruzione ... Inserito da: Admin - Novembre 16, 2008, 05:37:57 pm L'Intervista
«Non è omicidio né eutanasia. Vorrei che la Chiesa si esprimesse con più prudenza» Per il teologo Vito Mancuso la materia «è nuova e ricca di zone grigie». «E' l'interruzione di un trattamento inefficace» ROMA — «Quando ci sarà il testamento biologico io disporrò di essere mantenuto in vita finché possibile, perché anche un filo d'erba rende lode al Creatore. Ma non posso volerlo per altri e sono convinto che nel caso di Eluana l'interruzione del trattamento non sia omicidio né eutanasia. Vorrei che le autorità della Chiesa cattolica — alla quale appartengo — si esprimessero con prudenza in una materia che è nuova e ricca di zone grigie»: è l'opinione del teologo Vito Mancuso che insegna all'università San Raffaele di Milano. Professore perché non si tratterrebbe di eutanasia? «Non è eutanasia attiva, in quanto non ci sarà un farmaco che provocherà la morte. Ma neanche passiva: se l'alimentazione tramite sondino non è "terapia", non è cioè assimilabile a un farmaco, la sua cessazione non può essere detta eutanasia passiva». Che cos'è allora? Un abbandono alla morte per fame e sete? «È l'interruzione di un trattamento di rianimazione risultato inefficace, deliberata in conformità a un orientamento espresso a voce dall'interessata in anni precedenti l'incidente». Possiamo giurare su una battuta detta in famiglia, non attestata per iscritto? «Purtroppo no, non possiamo tirarne una conclusione sicura. Ma quelle parole di Eluana sono tutto ciò di cui disponiamo per cogliere la sua intenzione e possiamo fare credito ai genitori che le attestano — e che tanto l'amano — e ai magistrati che hanno vagliato la loro attestazione». Lei è favorevole al testamento biologico? «Lo vedo come uno strumento di libertà di fronte allo sviluppo delle tecnologie mediche». Ma la vita non è un valore indisponibile? «Concordo sull'indisponibilità della vita, ma reputo che vada rispettata la libertà di chi rifiuta per sé un trattamento che lo mantiene in una condizione di vita che egli reputa non-vita. La vita si dice in tanti modi. Il principio primo non è quello della vita fisica da protrarre il più a lungo ma è quello della dignità della vita e questa si compie nella libertà personale». Con il testamento biologico uno dovrebbe poter scegliere di non essere alimentato se venisse a trovarsi in stato vegetativo? «Ritengo che vi debba essere questa possibilità. Per me non la sceglierei, ma non sono sicuro riguardo a ciò che vorrei per i miei figli: c'è sempre divario nell'accettazione della propria sofferenza e di quella dei figli». Lei contraddice alcune affermazioni dell'arcivescovo Fisichella e del cardinale Bagnasco: che la Corte apra all'eutanasia e che l'alimentazione sia sempre dovuta... «Auspico una maggiore saggezza nella parola degli uomini di Chiesa. Come si può tenere per certo che l'alimentazione tramite sondino non sia una terapia se gran parte della scienza medica la considera tale? E perché definire eutanasia qualcosa che formalmente non lo è? Non sarà alzando il tono della voce che si difende la vita». Luigi Accattoli 16 novembre 2008 da corriere.it Titolo: GIOVANNI MARIA FLICK La memoria contro l'intolleranza Inserito da: Admin - Novembre 27, 2008, 03:47:31 pm 27/11/2008
La memoria contro l'intolleranza GIOVANNI MARIA FLICK* La letteratura - quando dà il meglio di se stessa - rende partecipi del destino di altri, diversi e lontani». Sono parole di David Grossman al Festival Internazionale di Berlino dello scorso anno; a ricordarle, in presenza dello stesso scrittore israeliano, è stato il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, due giorni fa a Gerusalemme. Della letteratura ebbe bisogno il chimico Primo Levi, perché l’indicibile fosse detto, e mai più dimenticato. A causa delle leggi razziali, lui ne fu testimone. Non a caso, le prime intolleranze dei regimi dittatoriali si rivolgono alla libera circolazione dei pensieri e delle idee, e alla scienza. Per impedirne l’esercizio, o almeno per asservirli. E il dubbio salutare sprofonda nel sonno della ragione. Il quale genera mostri. Venticinque anni fa, nel Dialogo di impareggiabile bellezza e profondità con quello straordinario scienziato che è Tullio Regge, Primo Levi definì «congiura gentiliana» un’autentica mostruosità generata da quel sonno: l’attribuire valore formativo alle materie letterarie e solo valore informativo a quelle scientifiche. (...) Fu sempre quel sonno a partorire, con la crudeltà delle leggi razziali, anche una stupidità assai rivelatrice: il divieto di svolgere tesi di laurea sperimentali e di frequentare, a questo scopo, gli istituti universitari. (...) Quanti devono nascondere la realtà, per manipolare il consenso e conculcare la verità dei fatti, hanno bisogno di una scienza sottomessa, incapace di fornire interpretazioni del reale. Per dirla con Nietzsche, «la scienza non pensa», e se il potere illiberale e violento se ne impossessa, diventa storia di pregiudizi e dogmi, sostenuti con tenacia, combinati con l’intolleranza e il fanatismo. Le leggi razziali del 1938 rappresentano il momento più buio di questa intolleranza ideologica. Esse discriminarono, infatti, su un doppio versante: oltre a quello scientifico, creando l’ulteriore enclave fondata sulla razza, sull’azzeramento della dignità umana attraverso l’apologia della diversità di razza. Occorre far memoria di questa notte. Ben più, bisogna ricordare (ri-ex corde, riportare al cuore), interpretare gli eventi del passato con la ragione e l’intelligenza arricchite dall’emozione e dal sentimento. La stessa emozione che provo oggi al cospetto di una vittima dell’ideologia aguzzina di quelle leggi, emanate giusto settant’anni fa. A Rita Levi-Montalcini vanno la riconoscenza e la gratitudine di tutti gli italiani e delle Istituzioni - in particolare della Corte Costituzionale che qui rappresento - delle quali anch’ella, senatore a vita, è autorevole e meritevole esponente. A causa del Manifesto della razza dovette abbandonare patria, famiglia, affetti, sicurezze e lavoro; l’ospedale presso cui lavorava. Tutto. E trovare rifugio in Belgio, attrezzando in cucina un piccolo laboratorio di fortuna. Poi, l’invasione nazista e la nuova fuga; il rifugio ancora in Italia, a Firenze; sulle colline di Asti e infine a Torino. La professoressa Levi-Montalcini fu tra quanti - con le parole di Primo Levi - «sperarono di sopravvivere per poter raccontare». Dopo alcuni decenni, conservata dalla saggezza che di tanto in tanto illumina e riscatta la Storia - o, per i credenti, protetta dalla Provvidenza più forte di qualsiasi malvagità umana - quella stupenda intelligenza, raminga per l’Europa e per l’Italia, ci ha raccontato una storia affascinante e sconosciuta, partita dalle ghiandole salivari di un topolino e dagli embrioni di pollo, per arrivare a spiegare la crescita dei neuroni dell’uomo, la differenziazione tra le nostre cellule nervose e simpatiche, come un gene sappia programmare la sintesi della relativa molecola proteica: un capitolo misterioso e fondamentale del nostro essere uomini, pensanti e razionali; nonostante l’intero mondo circostante e la storia recente testimoniassero il contrario. *Presidente della Corte Costituzionale. Dall’intervento che pronuncerà oggi a Roma al convegno dell’Accademia Nazionale delle Scienze sulle leggi antiebraiche del 1938 e la comunità scientifica italiana, dedicato al Premio Nobel Rita Levi-Montalcini. da lastampa.it Titolo: Elio e le Storie tese rifiutano l'Ambrogino: avete respinto Biagi e Saviano Inserito da: Admin - Dicembre 02, 2008, 11:56:06 pm Elio e le Storie tese rifiutano l'Ambrogino: avete respinto Biagi e Saviano
Chi meglio di loro può capire cos’è demenziale e cosa no? Elio e le su storie tese ci hanno ragionato su un momento, e poi hanno deciso: il comune di Milano ha rifiutato di assegnare l’Ambrogino d’oro ad Enzo Biagi e la cittadinanza onoraria a Roberto Saviano? «Noi rifiutiamo l’attestato di benemerenza di cui Palazzo Marino ci vorrebbe gentilmente onorare». Il colpo di scena, neanche troppo inaspettato e in perfetto stile Elio, arriva cinque giorni prima della cerimonia ufficiale per la consegna degli Ambrogini, prevista, come ogni anno, il 7 dicembre, giorno di Sant’Ambrogio, patrono della città. A invito ufficiale, la band ha risposto al comune con altrettanta ufficilalità, per mezzo lettera raccamondata: «Abbiamo ricevuto il vostro invito alla cerimonia per la consegna dell'attestato di Benemerenza civica in data 7 dicembre 2008 - scrivono Elio e le storie tese -. Desideriamo in primo luogo ringraziare chi ha proposto il nostro nome. Vi comunichiamo altresì che non intendiamo accettare la Benemerenza, poichè siamo in disaccordo con la vostra decisione di non assegnare l'Ambrogino d'Oro a Enzo Biagi e la cittadinanza onoraria a Roberto Saviano, come riportato dai principali organi di stampa». «Come abbiamo fatto in questi vent'anni - aggiungono -, continueremo a rappresentare al meglio Milano, la città in cui siamo nati, viviamo e lavoriamo; che amiamo profondamente e che, proprio per questo, vorremmo vedere meglio trattata e rappresentata dalla sua amministrazione comunale». Parole sensate nella terra dei kaki. 02 Dic 2008 © 2008 L'Unità.it Nuova Iniziativa Editoriale Spa Titolo: Giorgio Melis La parabola dei sardisti da Lussu ai berluscones Inserito da: Admin - Gennaio 09, 2009, 05:06:17 pm La parabola dei sardisti da Lussu ai berluscones
di Giorgio Melis Sardisti, chi erano costoro? Nella memoria che sbiadisce, è sfuggito ai più il significato del termine, il senso della lunga storia connessa. Il richiamo alla Sardegna è oscuramente orecchiato in salsa leghista. Per la verità, c’è entrato anche Bossi, con i sardisti. Li ha corteggiati ma ne è stato respinto. Voleva per la sua Lega secessionista l’avallo di una nobile ascendenza: il Partito sardo d’azione (Psd’az), formazione federalista nata 88 anni fa. Battezzata col sangue dei fantaccini della Brigata Sassari, in cui transitò la meglio e intera gioventù sarda nella prima guerra mondiale. Lasciando nelle trincee il più alto numero (in proporzione) di caduti tra le regioni italiane. Tragico alone guerresco ed eroico simbolizzati nella leggenda di Emilio Lussu: nel 1945 tra i padri fondatori della Repubblica. Il partito è ridotto a poca cosa elettorale: meno del 2%. Non è per un pugno di voti che ora Silvio Berlusconi lo vuole alleato nella sfida elettorale, ormai diretta e personale tra lui e Renato Soru, per la Regione. Infatti il punto di partenza della notizia oscura - i sardisti chi? - è la scelta del Psd’az di allearsi col Cavaliere contro Soru. Sorpresa solo per chi non viva nell’Isola dei Mori, come la chiamava Luigi Pintor. Il Partito sardo d’azione Il Psd’az non ha quasi più niente delle origini. Era nato nel 1921 come movimento di liberazione. Il primo dopo un sonno millenario della Sardegna. L’isola senza marinai e pescatori era fuori dalla storia e dalla geografia. Anche più isolata al suo interno: gli abitanti separati perché quasi senza collegamenti, ostili e conflittuali. Terra da colonia: spagnola, piemontese, infine italiana. La scoperta di sé avviene nelle trincee della Grande Guerra, dove la sua gioventù è in massa alle armi. Combattendo e morendo fianco a fianco, prende coscienza che esiste un popolo di varie sardità, anche linguistiche, che si scopre e si riconosce per la prima volta. La sarditudine ritrovata sfocia nel dopoguerra in un movimento di reduci, autonomista, federalista, con tratti socialisti: organizza pastori, contadini e minatori sfruttati. Il Psd’az desta l’attenzione di Gobetti ma anche di Lenin. Gramsci, in Parlamento con Lussu, lo segue con occhio lungo. Croce dirà che è «il pre-partito di tutti i sardi». È antifascista: inaccettabile per Mussolini, che vuole con sé «gli intrepidi sardi» della «Sassari». Spaccherà il partito poi sciolto, Lussu è imprigionato, evade e sarà un protagonista nel ‘45. Ma il lungo sonno del fascismo ha fiaccato i grandi fermenti. Il partito del dopoguerra è imborghesito, Lussu l’abbandona. Restano grandi dirigenti pencolanti e logorati nel governo con la Dc prima, poi col Pci. Negli anni ottanta, l’ultimo ruggito. C’è un Re Leone: Mario Melis, presidente della Regione. È lui a dire no a Bossi: il sardismo è federalista ma europeista, non etnico, mai xenofobo. Poi il declino, fino al tracollo. Il segretario si candida (quasi clandestinamente ma non è cacciato) con la Lega: trombato con doppio disonore. Si chiama Giacomo Sanna. Con un neofita ex Cl-Dc, Paolo Maninchedda, eletto e transfuga da Soru, firmerà l’accordo con Berlusconi. Il Cavaliere Berlusconi vuole il marchio, sempre ambito: in passato dai leader nazionali, Enrico Berlinguer in testa. Si è riparlato di Fasciomori, quelli confluiti con Mussolini nel 1924. Contrapposti ai Rossomori di Lussu: così si chiamerà una lista fuoruscita dal Psd’az «berlusconizzato». Si ironizza sull’intesa. Berlusconi col fard, idealmente nella storica bandiera, trasforma i Quattro Mori nei Cinque Abbronzati. Stravagante, governando Soru, il Moro del duemila. Ha proiettato i valori del sardismo nella modernità ma ha urtato interessi a largo spettro. È il primo presidente eletto dal popolo: svolta non metabolizzata. Il rifiuto del capo è nei tratti genetici dei sardi. Con Soru è stata consentita un’eccezione contestata: alle urne si vedrà se transitoria. Il rinnegamento del Psd’az («mai a destra»: era il patto fondante) peserà niente. È solo il segnale di una memoria non sbiadita, solo tradita. 09 gennaio 2009 da unita.it Titolo: Berlusconi ha paura di me. Non mi ha voluto in Rai perché so fare la televisione Inserito da: Admin - Marzo 20, 2009, 03:04:23 pm «Berlusconi ha paura di me. Non mi ha voluto in Rai perché so fare la televisione»
di Andrea Carugati Angelo Guglielmi, 79 anni fino al prossimo 2 aprile, risponde al telefono dal suo ufficio di palazzo d’Accursio, la sede del Comune di Bologna. La voce è pimpante, si capisce che, dopo cinque anni a Bologna, da assessore alla Cultura di Cofferati, aveva voglia di tornare a Roma in prima linea. Ci tornerà a giugno, nella Capitale, alla scadenza del mandato. Ma avrebbe voluto e potuto rientrare in anticipo, per approdare alla guida della sua amata Rai. Fu lui l’inventore e il direttore della Rai Tre degli anni d’oro, tra il 1987 e il 1994, che partorì programmi come Quelli che il calcio, Avanzi, Samarcanda, Blob, Chi l’ha visto? e Un giorno in pretura. Ma il premier ha messo il veto sul suo nome. «Quando ho ricevuto la telefonata di Franceschini, lo scorso fine settimana, gliel’ho detto subito: “Io presidente della Rai? Sono lusingato, ma vedrai che non si farà...”. Poi ho cominciato a ragionarci sopra, e non sono riuscito a trovare nessun motivo ragionevole per cui il Berlusca avrebbe dovuto dire di no. Proprio nessuna. E allora ho iniziato cautamente a pensarci. Ma dentro di me restava una certezza: diranno di no». Berlusconi avrebbe detto che lei è troppo avanti con gli anni... «Franceschini gli ha risposto con prontezza: ha pochi anni in meno di Guglielmi, dunque non ha alcuna legittimità per tirare in ballo questo argomento. Io ne ho ancora 79, lui va per i 74. E poi non capisco: mi ha fatto la corte per anni perché passassi a dirigere una rete Mediaset...». Racconti tutta la storia. «Era il ‘92-’93. Mi ricordo una sera a casa di Costanzo, c’erano Confalonieri, Galliani, Dell’Utri. Scoprii che in realtà avrei avuto meno soldi a disposizione rispetto al budget della Rai, circa 50 miliardi contro 100. E allora dissi di no. Ma loro erano stati molto disponibili: avevo chiesto che con me si trasferisse praticamente l’intera Rete 3, e loro non fecero obiezioni. Loro volevano che guidassi Rete 4, che era in difficoltà, e noi rilanciammo con Italia 1. Anche lì non ci furono problemi. Mi ricordo che tra i più accesi sostenitori del mio passaggio a Mediaset c’erano Giorgio Gori e Mentana, che è stato appena cacciato...». E allora perché non l’hanno voluta alla guida della Rai? «Sto ancora cercando di capirlo, chissà, forse il no arriva da Tremonti. Ma un’idea ce l’ho: sarei stato l’unico, tra i nuovi vertici, ad avere una certa esperienza di televisione. Compreso il nuovo direttore generale in pectore, Mauro Masi, che finora si è occupato di tv solo come spettatore. Il centrodestra ha comunque una maggioranza bulgara: 5 consiglieri contro 3, di cui uno dell’Udc, che si muove secondo logiche proprie. Ecco, credo che abbiano avuto paura di un mio giudizio di merito, competente, sulle proposte al vaglio del Cda. Con quella maggioranza sono in grado di far passare anche la monnezza, ma io ho un naso in grado di fiutare certi odori...». Forse l’hanno considerata bravo abbastanza per Mediaset, troppo per la Rai, che in fondo è il principale concorrente... «Io avrei svolto un ruolo di minoranza, ma avrei potuto tirare fuori qualche argomento difficilmente contestabile. Altre motivazioni non ne trovo: se qualcuno me ne volesse suggerire, ne sarei felice». Berlusconi ripete sempre di sentirsi 35 anni. Ecco che allora i suoi 79 appaiono tantissimi di più... «È solo una battuta. Ma se la mettiamo su questo piano, allora io ne ho 40, sempre cinque di più. E poi scusi: si è parlato di spostare Zavoli dalla Vigilanza alla Rai, dunque l’età è una motivazione del tutto pretestuosa...». Ha visto che il Pd non intende fare nuovi nomi dopo il suo? «Ho visto. E allora delle due l’una: o il centrodestra si inventa un nuovo Villari, e temo che non sarebbe difficile trovarlo, oppure basta che Tremonti indichi il suo consigliere Petroni. A quel punto il Cda è in grado di funzionare, con la guida del consigliere più anziano. Che è uno di An». Guglielmo Rositani. «Esatto. L’altra volta, nel 2005, andò proprio così. Non si trovò l’accordo su nessun nome, e allora il Cda fu guidato per tre mesi da Sandro Curzi, il più anziano. Sandro mi disse che in quei mesi ogni tanto Berlusconi gli telefonava: “Perché sollecitate la nomina? Sei tu il presidente, approfittane...”». Pensa che abbia pesato il suo essere stato sempre schierato a sinistra? «Mi pare che la legge preveda che il presidente della Rai sia indicato dall’opposizione. Ma rispondo volentieri a Gasparri che mi ha accusato di essere un lottizzato. Ci fu una riunione tra Craxi, De Mita e Veltroni in cui decisero di includere il Pci nella gestione della Rai. Veltroni scelse me, che pure non ero mai stato iscritto al partito, né mai lo sono stato. Ho sempre votato per il Pci, ma con distanza. Ai tempi del “Gruppo 63” eravamo molto polemici, lontani dai realismi dei Guttuso e dei Pratolini. Pensavamo che il partito non fosse attrezzato per discutere di letteratura e creatività, escludevamo che la politica avesse l’ultima parola». Veltroni l’ha sentito in questi giorni? «No, assolutamente. Lui ha davvero passato la mano, ma Franceschini mi ha assicurato che la proposta aveva il consenso di tutto il partito». Torniamo a quando Veltroni la scelse per la guida di Raitre. «Lui era il responsabile Stampa e propaganda, quindi della tv. Aveva voglia di nominare un esterno, non pensava che gestire una rete volesse dire assumere segretarie e attrici e fare posto ai produttori amici, come andava di moda allora, soprattutto a Rai2. Non mi ha mai chiesto cose del genere. Ha capito che doveva puntare sulla qualità dell’offerta, perché ne avrebbe ricavato maggiori vantaggi. E infatti il riconoscimento fu unanime. E disturbò molto le altre reti, soprattutto Rai2: ricordo che Craxi pretese che Giuliano Ferrara passasse da Rai3 a Rai2». Che giudizio dà della Rai di oggi? «Non spetta a me dirlo, è sotto gli occhi di tutti: totalmente schiacciata su Mediaset, commerciale». Ma lei cosa avrebbe fatto? «Avrei cominciato a pensarci solo dopo la nomina. Non mi piace sognare anzitempo. Avrei avuto le carte per dare alla minoranza un ruolo critico, di controllo e di qualità. Le minoranze fanno questo: contenimento, denuncia, e talvolta, qualche correzione». Come finirà la partita Rai? «Come nel 2005, con il consigliere anziano». E un’intesa Pd-Berlusconi su un nuovo nome? «Mi sembra complicato, a questo punto». Nel 2005 Petruccioli incontrò Berlusconi prima della nomina. Lei gli avrebbe fatto visita? «Non avrei avuto problemi. Come capo della maggioranza, sarebbe stato suo diritto e suo dovere parlare con il presidente della Rai e fare le sue raccomandazioni». Dai primi anni Novanta vi siete più incontrati? «No, non più». Lei cosa farà dopo l’esperienza a Bologna? «Tornerò a Roma, per occuparmi più intensamente del mio secondo mestiere, la letteratura e la critica. E se mai dovesse arrivare una proposta all’improvviso...». acarugati@unita.it 19 marzo 2009 da unita.it Titolo: Se un discorso ti cambia la vita: tutti pazzi nel Pd per Debora Serracchiani Inserito da: Admin - Marzo 23, 2009, 11:58:14 pm Se un discorso ti cambia la vita: tutti pazzi nel Pd per Debora Serracchiani
di Francesco Costa Il suo è stato l'intervento più applaudito all'assemblea dei circoli del Pd. Il video con le sue parole è stato visto migliaia di volte su internet e su Youdem è dopo soli due giorni il video più visto di tutto il mese di marzo. Non parliamo di Dario Franceschini o di un altro dirigente nazionale del partito bensì di Debora Serracchiani, avvocato 38enne, consigliere provinciale del Pd a Udine e dirigente locale del partito. Ha preso la parola poco prima delle conclusioni del segretario e sicuramente nessuno si aspettava che il suo intervento potesse trascinare in questo modo la platea, riuscendo a dare una rappresentazione appassionata e fedele delll'umore della base del partito dopo le polemiche e la crisi di consensi che hanno portato alle dimissioni di Walter Veltroni. Un intervento concreto che è riuscito a riscaldare il pubblico senza cedere alle facili tentazioni della demagogia e della retorica anti-dirigenza: un elenco puntuale di critiche e osservazioni che ha toccato in modo semplice ed efficace tutti i tasti dolenti del partito – dalle indecisioni sul testamento biologico alla ricerca sfrenata di visibilità mediatica, dalla linea politica ondivaga al rapporto col partito di Di Pietro – per arrivare poi al passaggio centrale e più applaudito. «La verità è che in questi pochi mesi di vita del Partito Democratico ho avuto la netta impressione che l'appartenenza al nuovo partito fosse sentita molto di più dalla base che dai dirigenti». Applausi a spellarsi le mani, ampi sorrisi da parte del segretario, urla di incoraggiamento di un pubblico formato esclusivamente da dirigenti locali come lei: coordinatori cittadini e di circolo, membri degli esecutivi regionali, provinciali e comunali. Persone che durante questi mesi hanno faticato per tenere in piedi il partito e che oggi guardano rinfrancate alla gestione del nuovo segretario: «Franceschini ha il compito di dare una credibilità nuova a questo partito e ci sta riuscendo alla grande». La storia della politica recente ha visto diversi personaggi emergere dall'anonimato e lanciarsi verso brillanti carriere politiche grazie a discorsi particolarmente riusciti. L'esempio più noto è quello di Barack Obama, poco più che sconosciuto quando nel 2004 prese la parola durante la convention democratica e impressionò i presenti con la sua storia e la sua abilità retorica. Un simile percorso è stato seguito da David Cameron, giovane leader dei conservatori inglesi e probabile prossimo primo ministro britannico, e da Maurizio Martina, 30enne segretario del Pd lombardo e membro dell'esecutivo di Dario Franceschini. E' troppo presto per dire se il discorso di Debora Serracchiani rappresenterà il suo primo passo verso una carriera politica di livello nazionale. Quello che sappiamo già è che su internet il suo discorso sta girando parecchio, incontrando un gradimento praticamente unanime: decine di link e citazioni da parte di blog e gruppi di discussione, diversi gruppi su Facebook la vogliono segretaria del Pd se non addirittura presidente del consiglio. I più numerosi oggi sono «quelli che avrebbero detto proprio le stesse cose di Debora Serracchiani». Sono tanti, e sabato nelle parole di un dirigente locale del partito si sono uniti rivolgendo alla dirigenza del partito speranze e richieste. Che si sappia: quando si parla di «radicamento sul territorio», si parla di loro. 23 marzo 2009 da unita.it Titolo: Civati: «Il Pd si salva ma deve fare autocritica» Inserito da: Admin - Giugno 09, 2009, 10:04:08 am Civati: «Il Pd si salva ma deve fare autocritica»
di ma.ge. «Il Pd è come il giocatore che arriva in tempo a toccare la base», commenta a caldo Giuseppe Civati, impegnato, da vero blogger Pd, ad aggiornare minuto per minuto il suo blog durante la lunga maratona elettorale. Usa una metafora sportiva Civati, consigliere regionale del Pd in Lombardia e uno dei più attivi nel gruppo di Piombino, per dire che «questi dati salvano un Pd che era crollato», ma non c'è da stare allegri. Anzi. «Il Pd dovrà fare una autocritica molto seria e riconsiderare il suo lavoro di opposizione», spiega Civati, che invita a il Pd a guardare con molta attenzione tanto al risultato dell'Idv quanto a quello dei radicali e delle due liste di sinistra. «La sinistra torna ad avere un 7% complessivamente, i radicali ottengono comunque un buon risultato», ragiona Civati, invitando il Pd a considerare il terreno perso sui temi laici. E d'altra parte: «Noi dobbiamo dare una risposta agli elettori che votavano il Pd e che ora votano l'Idv», spiega Civati. È il dato generale di queste elezioni. «I due blocchi restano sostanzialmente invariati ma cambiano molto al loro interno». L'altro dato – osserva il blogger politico – è che il Pd non va affatto male se confrontato con il quadro dei socialisti europei. «Alla fine – dice Civati con una battuta – sarà il Pse a chiedere al Pd di entrare nel suo gruppo». Una battuta, ovviamente, che fotografa la debacle socialista, in Germania e in Francia soprattutto «dove i socialisti hanno preso una legnata incredibile». Questo – conclude Civati - significa che «una soluzione socialdemocratica alla Bersani dal risultato di queste europee ne esce ridimensionata». E «di certo» i dati europei dicono che «chiudersi nelle rispettive casematte non paga». Un dato lo entusiasma: il risultato di Cohn Bendit. «Noi abbiamo Pecoraro Scanio, ma se avessimo qualcuno di più “scrocco” chissà che risultati anche da noi». 08 giugno 2009 da unita.it Titolo: L’Italia è come Roma. E’ stato Rutelli a perdere. Non Alemanno a vincere. Inserito da: Admin - Giugno 09, 2009, 10:06:00 am L'unica corrente che vince è quella del coraggio
di Cristiana Alicata Non è Berlusconi il problema. Non è lui a vincere. Il problema siamo noi, siamo noi che perdiamo, siamo noi che non “tocchiamo” le viscere del Paese. L’Italia è come Roma. E’ stato Rutelli a perdere. Non Alemanno a vincere. Tempo fa, durante una tappa della Carovana Democratica, coniai, nell’ indignazione generale, una definizione per la politica del Pd: una politica con il preservativo. Una politica che in qualche modo mantiene una certa distanza dalla “carne” del problema e finisce per avere una dose, ahimé, di sterilità. Fare politica con il preservativo significa affermare, per esempio, di volere essere laici, ma non avere, poi, il coraggio di firmare, come partito, la piattaforma dell’Ilga (International lesbian and gay association) firmata dai maggiori partiti europei a cui facciamo noi stessi riferimento. Significa vedere le adesioni dei singoli dirigenti di partito alla stagione dei Gay Pride, ma non avere mai sentito, dalla bocca dei candidati più quotati (se si escludono Scalfarotto, Serracchiani e pochi altri le cui firme trovate sul sito dell’Ilga) parole per una minoranza così tanto discriminata nel mese dell’anniversario di Stonewall. Nel mese in cui Obama, di là dall’oceano, dichiara giugno mese dell’orgoglio omosessuale. Obama nominò la comunità omosessuale più volte durante la sua campagna elettorale. Lui nero. Accusato di essere filo-mussulmano. Se ne è fregato dell’opportunità. Non si è chiesto se fosse opportuno dire o non dire. E ne ha parlato, tra le nostre lacrime di cittadini discriminati in patria, nel suo commovente discorso di insediamento. Lo ha fatto su questo tema e su moltissimi altri. Il successo del discorso di Debora Serracchiani all’assemblea dei circoli, ci aveva cominciato ad insegnare qualcosa. Ci aveva insegnato che la gente vuole che la politica non parli per opportunità. Non pensi al proprio capo-corrente. Alla propria poltrona. La nostra gente vuole che diciamo cose inopportune. Cose coraggiose. Il coraggio è inopportuno. E noi vogliamo un PD inopportuno. Il coraggio coinvolge. E’ virale. Il coraggio porta la gente a votare. Porta la gente nei circoli. Il coraggio non si chiede quanti voti perde. Si chiede che Paese vuole. Il coraggio non attacca soltanto. Il coraggio propone. Come fa Mercedes Bresso che promette in 100 giorni una legge per le coppie di fatto in Piemonte. E lo fa sotto elezioni. Se ne frega dell’opportunità perché sa che è una cosa giusta. Il coraggio è Chiamparino che ospita la bandiera rainbow in municipio. Quando il PD si accorgerà del modello Piemonte, per esempio, e lo dico da romana che ha visto sgretolarsi il modello Roma, e ne farà buon uso? E attenzione a chi dice che occupandosi dei gay non ci si occupa dei problemi del paese. Allora anche quando ci occupiamo di migranti. Di legge 40. Ogni problema può essere considerato NON importante rispetto agli altri. Un partito democratico NON può, non deve, fare la cernita della democrazia. Altrimenti non è davvero democratico. La questione omosessuale è solo la cartina di tornasole più evidente della nostra troppa codardia. D’ora in poi, in questo partito, sosterrò soltanto la corrente del coraggio e mai più quella dell’opportunità. 07 giugno 2009 da unita.it Titolo: La candidata Pd fa il pieno di preferenze nel Nord-Est, meglio del Cavaliere Inserito da: Admin - Giugno 09, 2009, 10:13:15 am 8/6/2009 (21:45) - PERSONAGGIO
La Serracchiani batte Berlusconi: "E' la Rete che mi ha dato slancio" La giovane candidata Pd fa il pieno di preferenze nel Nord-Est, meglio del Cavaliere. "E' un dato esaltante" ROMA «Mi sveglio, un occhio ai dati e ... in Friuli Venezia Giulia Debora batte "papi" 73.910 a 64.286». Debora ce l'ha fatta, sfruttando la forza del web: non c’è dubbio, infatti, che nell’elezione di Debora Serracchiani al Parlamento europeo per il Pd nella circoscrizione del Nordest un ruolo fondamentale l’abbia svolto proprio la rete. Fu infatti un intervento della giovane avvocato udinese - nata a Roma 39 anni fa, ma friulana d’adozione - all’assemblea dei circoli del Pd la primavera scorsa e pubblicato sul web a lanciare la ragazza alla ribalta della politica nazionale. Le sue critiche alla leadership del partito, le sue invettive contro i ’solonì del Pd ebbero una rapidissima diffusione. E sul web scoppiò la ’deboramanià. In pochi giorni il suo clip venne visto e ascoltato da centinaia di migliaia di giovani e meno giovani. Tanto che il segretario del Pd, Dario Franceschini, dovette prenderne atto e candidare Debora alle europee. Poi, quella che all’inizio era "solamente" una giovane avvocato, piccola e timida, si è via via trasformata in cigno. Un cigno straordinario, capace, in Friuli Venezia Giulia, di battere nelle preferenze addirittura Silvio Berluscioni (73.910 preferenze contro 64.286 del premier) e di volare letteralmente a Strasburgo con oltre centomila preferenze. Politicamente Serracchiani ’nascè nel 2006 quando arriva al consiglio provinciale di Udine, eletta nei Ds. Diventa capogruppo e dall’opposizione si fa notare per interventi precisi e decisi. Poi la ’battaglià con la collega Maria Teresa Burtolo per la guida del Pd a Udine e, infine, la sua partecipazione all’assemblea dei circoli. «Sono felicissima di aver battuto Berlusconi - ha commentato oggi - e questa giornata valeva la pena di essere vissuta se non altro per questo. Ma devo ringraziare Franceschini che ha sempre creduto in me, fin dal primo momento. Nonostante le mie dure critiche. E poi il partito. Ha lavorato tanto e bene sul territorio. Ma non c’è dubbio - ha concluso Debora - che è stata la rete a darmi quello slancio necessario a raggiungere questo risultato eclatante». da lastampa.it Titolo: Pd verso match Franceschini-Bersani Inserito da: Admin - Giugno 09, 2009, 10:15:49 am 9/6/2009 (7:34) - IL VOTO. IL CENTROSINISTRA
Pd verso match Franceschini-Bersani Ma ora i giovani puntano su un candidato di rottura FABIO MARTINI A mezzogiorno meno cinque Dario il «descamisado» si è rimesso la giacca, ha indossato una cravatta rossa ma non troppo e si è alfine presentato nella sala stampa del Pd per depositare gli slogan e i «sonori» da far diffondere attraverso tg, agenzie, giornali, Televideo. Primo messaggio di Dario Franceschini: «Il voto ha fatto svanire il mito dell’invincibilità di Berlusconi», «la maggioranza nel suo complesso non ha superato il 50% e dunque è minoranza nel Paese». Il Pd? «Ha centrato l’obiettivo di radicarsi e di continuare il rinnovamento della propria forza». E quanto alla parola sconfitta, Franceschini si è guardato bene dal pronunciarla e semmai l’ha declinata come verbo: «Gli avvoltoi che per mesi ci hanno girato attorno nel tentativo di mostrare che questo voto avrebbe rappresentato la fine del Pd, sono stati sconfitti». Franceschini ha esternato due ore prima che iniziasse l’insidioso spoglio delle elezioni provinciali e comunali e ha dunque preferito «surfare» sul controverso risultato ottenuto alle Europee. Ma dopo l’altalenante nottata domenicale, ieri mattina il Pd si è risvegliato più magro - e questo si era capito subito - ma anche più «bianco». E questa è la vera novità. Un Pd più bianco perché la quota di voto di sinistra si è ulteriormente abbassata dopo che il Pdl è diventato il primo partito in due regioni rosse, come Umbria e Marche. Più bianco perché dei 22 europarlamentari eletti, soltanto la metà sono ex ds, con un recordman delle preferenze, David Sassoli, fortemente voluto da Dario Franceschini. Più bianco, perché per dirla con Pierluigi Castagnetti «le difficoltà dei partiti socialisti europei hanno chiuso la prospettiva socialdemocratica e hanno intrecciato i nostri destini». Ma anche un Pd più magro, molto più magro: secondo quanto rilevato dall’Istituto Cattaneo di Bologna, il Partito democratico ha perso 2 milioni di voti rispetto alle Europee del 2004 e oltre 4 milioni rispetto alle Politiche del 2008. E così, da ieri si è ufficiosamente aperta la stagione congressuale, in vista della resa dei conti genericamente fissata per ottobre. Per il momento il gioco delle parti ha proposto un auto-candidato, l’ex ds Pierluigi Bersani, che non ha mai ritirato la sua disponibilità; e un segretario in carica, Dario Franceschini, che ha sempre detto che lui avrebbe traghettato il partito sino al congresso e poi si sarebbe messo da parte. Andranno fino in fondo entrambi, l’uno candidandosi e l’altro ritirandosi? Chi lo conosce bene, assicura che Franceschini, accetterà la nomination soltanto se glielo chiederanno, perché non ha intenzione di lanciarsi in un «corpo a corpo» contro Bersani. Vero? Verosimile? Una cosa è certa. A 48 ore dal voto europeo, nessuno dei notabili ha ringraziato Franceschini, anche se il suo sodale Beppe Fioroni spinge per la ricandidatura: «A ottobre Dario termina e poi riparte». E quanto a Bersani conferma che lui sarà in gara, quando dice che «il Pd è al mondo, ma non va bene così», che il partito deve andare «oltre l’esperienza socialdemocratica». E Massimo D’Alema? Sosterrà il suo amico e compagno Pierluigi in una battaglia interna di contrapposizione? «Aspettiamo...», dice un dalemiano doc come Nicola Latorre. Ma se Bersani tenesse duro, nella coalizione che sostiene Franceschini, c’è chi vagheggia altre soluzioni. Due giorni fa, chi attraversava il «piano nobile» di largo Nazareno, ha carpito una battuta scherzosa di Walter Verini, braccio destro di Veltroni: «A me interessa soltanto il risultato della Serracchiani!». Certo, una battuta, ma intanto Veltroni è salito sino in Friuli per fare un comizio assieme a Debora. E la Serracchiani ha dietro di sé anche un drappello di accaniti innovatori, i «piombini» guidati dal prodiano Sandro Gozi e dalla veltroniana Paola Concia e che si sono già dati appuntamento al Lingotto per fine giugno. Dice la Concia: «Con il Pd competente e chiaro incarnato dalla Serracchiani, Berlusconi si può battere». Ma non c’è solo Debora. Se davvero Franceschini dovesse gettare la spugna, ma pochi ci credono, dal suo fronte potrebbero uscire diverse ipotesi. A cominciare dal recordman David Sassoli e dal sindaco di Torino Sergio Chiamparino. «Noi del Pd siamo al bivio: dobbiamo scegliere tra Idv e Udc»: così Marco Follini, senatore del Partito democratico, ha analizzato l’esito del voto. «La difficoltà più grande è quella di Berlusconi - ha affermato Follini, ospite di Red Tv - che aveva indicato il 40% come facile obbiettivo per il Pdl. Solitamente indiceva i referendum e li vinceva. Stavolta l’ha indetto e ha perso». «L’Italia - ha proseguito - non è un paese bipolare: la somma dei due partiti maggiori comincia a scendere. Il centro non è l’ago della bilancia: dev’essere ciò che unisce il paese e non ciò che lo divide. Noi del Pd siamo al bivio che ha spiegato l’Osservatore Romano: dobbiamo scegliere tra Idv e Udc». da lastampa.it Titolo: L'antivelina che ha battuto "Papi" sulle preferenze Inserito da: Admin - Giugno 09, 2009, 10:24:32 am EUROPEE
L'antivelina che ha battuto "Papi" sulle preferenze Simona Caselli 47 anni, in lista per il Pd alle Europee ha raccolto più "gradimenti" di Berlusconi nella Parma governata dal centro destra e nel Parmense di Marco Severo Ora tutti la cercano. Televisioni, giornali, radio. Il suo telefonino, a un certo punto, cede di schianto e per mezz’ora non dà più segni di vita: “Chiedo scusa – dice lei riaffiorando dal blackout – ma da stamattina il mio cellulare non ha mai smesso di squillare”. E pensare che fino a ieri quasi nessuno conosceva Simona Caselli - 47enne parmigiana, dirigente del Consorzio cooperativo di Reggio Emilia e candidata Pd per le europee nel nordest - la donna che a Parma ha battuto Papi Berlusconi. Nientedimeno. E adesso invece eccola qua, sulle home dei siti internet, contesa dagli intervistatori che già parlano di “rivincita nostrana sulla politica delle veline”. Di politica fatta per strada, tra la gente. Mica a villa Certosa tra le miss senza veli. L’unico spoglio che interessa, alla Caselli, è infatti quello delle schede per le europee. E da stamattina la sua performance è da urlo: 5635 preferenze in città contro i 5174 voti di Silvio. Allargando lo zoom all’intera provincia, invece, è Papi che ancora conduce 10973 a 10286. “Ma mancano ancora i risultati di Fidenza – precisa la Caselli – dove mi dicono che posso contare su altri 300 voti”. A questi, alla fine della fiera, andranno aggiunti i circa 2500 già quasi impacchettati a Reggio Emilia, i 2000 del Friuli e altrettante preferenze in arrivo da Forlì. “Non è escluso che, con il conteggio definitivo, riusciamo a toccare quota 20mila”. E però calma, piedi ben piantati a terra. “Figuriamoci – sorride Simona – non sono certo il tipo da farmi prendere la mano. Fino a pochi giorni fa nessun giornale era disposto a darmi spazio. Sono abituata ad essere realista”. Di sicuro, comunque, si può dire che un risultato del genere era inatteso: “Vero – conferma l’antiPapi - non speravo in tanto, anche se parecchi segnali di apprezzamento mi erano venuti durante la campagna elettorale”. Ecco, la campagna elettorale. “E’ stata una faticaccia, partita appena un mese e mezzo fa e costata un enorme sforzo ai miei collaboratori, tutti volontari”. In pochi giorni s’è dovuto pensare a un ufficio stampa, allestire un comitato elettore, stilare un programma per i comizi. “Tuttavia è stata un’esperienza fantastica, costruita giorno dopo giorno con il dialogo con la gente, con l’ascolto, con il contatto più autentico”. La politica del porta a porta contro quella dei salotti e dei maggiordomi televisivi: “Sì – ride la Caselli – credo proprio che la mia vicenda, caratterizzata dall’assoluta povertà di mezzi mediatici, dimostri come ancora sia possibile fare politica in maniera tradizionale”. E vincere. Grazie anche a un programma semplice e chiarissimo: “ Punto primo, serve più rigore finanziario in Europa. Basta con la deregulation dei mercati. E poi stop ai compensi a brevissimo giro per i manager. D’ora in poi a Strasburgo occorrerà più attenzione ai programmi di lungo respiro, che sappiano cioè guardare al futuro in maniera organica”. Volando un poco più in alto di villa Certosa. Anche senza aerei di Stato. (08 giugno 2009) da repubblica.it Titolo: La sinistra svanita nel profondo Nord Inserito da: Admin - Giugno 09, 2009, 10:32:40 am La sinistra svanita nel profondo Nord
Formigoni ha messo le mani avanti con la sua ricandidatura, ma la Lega ora è al 22,7 Pavia, vinta. Cremona, vinta. Lecco, vinta… Nel primo pomeriggio la Lombardia del voto è tutta da una parte, Popolo della Libertà e Lega si prendono Comuni e nuove Province, nei territori dell'impresa diffusa ritorna il profondo Nord e si ammainano le bandiere del centrosinistra. Si fa prima a contare quel resta del Partito democratico in una Regione trafitta dai simboli del centrodestra, perché cadono in rapida sequenza città e giunte storiche, da Bergamo a Brescia, a Sondrio l'impennata della Lega trascina l'alleanza verso uno storico en plein. Se non ci fosse il caso Milano, con l'insperato ballottaggio in Provincia conquistato dal presidente uscente Filippo Penati, nell’analisi del voto a sinistra ci sarebbe soltanto il bilancio di un disastro annunciato. Al di là delle percentuali bulgare raggiunte dalla Lega nelle enclave da sempre fedeli, c'è l'andamento stabile del Popolo della Libertà che mantiene il suo 33 per cento dei voti e conferma un primato difficile da insidiare. A questo punto la prossima partita si giocherà in casa, nella scelta del futuro presidente della Regione. Roberto Formigoni mette le mani avanti con la sua ricandidatura: l'alleato leghista adesso è un vero competitor, con il 22,7 per cento dei voti il Carroccio diventa secondo partito, davanti anche al Pd: il futuro, per la sinistra in Lombardia, è tutto da ricostruire. Nemmeno la crisi di Malpensa e le baruffe sull'Expo hanno inciso sull'esito di un voto che non è mai stato in discussione. Non c'è mai stata incertezza: neppure per la nuova provincia di Monza, incamerata al primo turno dal presidente Dario Allevi. Era nell'aria il boom del Carroccio, l’hanno costruito con la battaglia sui clandestini e l’hanno cercato con pazienza centinaia di militanti che non disdegnano di passare la domenica davanti ai banchetti disseminati nelle piazze delle città e dei paesi. Sotto le bandiere biancoverdi dove si raccolgono firme e si annunciano impegni, si chiedono anche i voti per rafforzare la sicurezza e allontanare gli irregolari. Soffia un vento di paura nella Lombardia dove aumentano le rapine, gli anziani si sentono indifesi e la droga alimenta l'esercito delle piccole illegalità. Si vince anche con parole chiare: la Lega, il Pdl, le trovano; la sinistra no. Nel controllo capillare del territorio la nuova generazione di politici leghisti occupa lo spazio lasciato vuoto dall'organizzazione del vecchio Pci. Il voto premia anche la presenza. C'è da riflettere nell'area progressista sull'eccesso di politica virtuale e sulle piazze lasciate agli avversari: ma pesa anche la scomparsa di una classe dirigente. Può aiutare l'analisi della sconfitta il risultato strappato dal presidente uscente della Provincia, Filippo Penati, un ex sindaco che calpesta il marciapiede e in campagna elettorale si è mosso come un militante leghista, svincolandosi dai criteri dell’appartenenza, appoggiando la linea dura sui clandestini e anche le ronde. Per un pugno di voti Guido Podestà, il candidato del Popolo della Libertà, non è passato al primo turno. Il Partito democratico ha due settimane per l’ultimo appello, ma lo schiaffo del Nord è un avvertimento pesante: avanti così, si perde. Giangiacono Schiavi 09 giugno 2009 da corriere.it Titolo: Hillary Clinton: così batteremo la fame. (e noi?). Inserito da: Admin - Luglio 08, 2009, 12:45:36 pm 8/7/2009 (6:15) - IL VERTICE
Hillary Clinton: così batteremo la fame L'ho deciso con Obama: basta con aiuti d'emergenza, è l'ora dell'economia sostenibile Questa mattina un miliardo di persone nel mondo si sono svegliate affamate. Questa sera andranno a letto senza cena. Oggi, in un villaggio del Niger, una donna dovrà camminare per chilometri in cerca di acqua potabile per la sua famiglia. Oggi, ad Haiti, la frutta prodotta in eccedenza da un agricoltore finirà per marcire perché non ha i mezzi per conservarla e portarla poi al mercato. Oggi, in Congo, una famiglia scapperà dalla guerra che ha lasciato la sua fattoria e suoi campi devastati. E oggi, in una scuola del Bangladesh, i bambini non riusciranno a seguire le lezioni perché deboli e malnutriti. La fame non è soltanto una condizione fisica, è un freno alla crescita economica, una minaccia alla sicurezza globale, una barriera per la salute e l'educazione, una trappola per milioni di persone in tutto il mondo, che lavorano dall'alba al tramonto tutti i giorni ma riescono a malapena a produrre abbastanza cibo per se stessi e le loro famiglie. La domanda non è se potremo eliminare la fame - possiamo -, ma se lo faremo. E' una sfida alla nostra comune umanità e determinazione. Gli Stati Uniti sono determinati a fornire la leadership necessaria allo sviluppo di un nuovo approccio globale per sconfiggere la fame. Per troppo tempo la nostra principale risposta è stata quella di mandare aiuti di emergenza quando una crisi era al suo culmine. Un modo per salvare vite umane, ma che non risolve le cause alla radice. E', tutt'al più, una soluzione a breve termine. Per questo noi sosteniamo la creazione di una agricoltura efficace, sostenibile, nelle regioni dove i sistemi attuali non funzionano. Aiuteremo i Paesi a portare avanti strategie volte a soddisfare i loro bisogni specifici; per esempio, attraverso il Piano per lo sviluppo dell'agricoltura in Africa, che ha lanciato un processo di sviluppo guidato dalle nazioni africane, in collaborazione con tutti e senza esclusione di nessuno. Abbiamo poi identificato sette principi sui quali basare una agricoltura sostenibile nelle aree rurali in tutto il mondo. Primo: l'Amministrazione Obama cercherà di incrementare la produttività agricola allargando l'accesso a semi di alta qualità, a fertilizzanti, sistemi di irrigazione e linee di credito per procurarseli e imparare a usarli. Secondo: lavoreremo per stimolare il settore privato a migliorare lo stoccaggio e la lavorazione del cibo, migliorare le strade nelle campagne e i mezzi di trasporto, in modo che i piccoli agricoltori possano vendere i loro prodotti sui mercati locali. Terzo: siamo determinati a preservare le risorse naturali in modo che la terra possa essere coltivata dalla generazioni future. Ciò include anche aiuti per fronteggiare i cambiamenti climatici. Quarto: espanderemo la conoscenza e l’addestramento appoggiando programmi specifici di ricerca e sviluppo e coltivando la prossima generazione di esperti di piante. Quinto: cercheremo di aumentare il commercio mondiale in modo che i piccoli agricoltori possano vendere i loro prodotti anche su mercati lontani da loro. Sesto: daremo il nostro sostegno alle politiche di riforma e corretta gestione. Abbiamo bisogno di politiche responsabili e di regole chiare per far prosperare l'agricoltura. Settimo: aiuteremo le donne e le famiglie. Il settanta per cento dei contadini del mondo sono donne, ma la maggior parte dei programmi che offrono crediti e corsi di formazione agli agricoltori sono rivolti soprattutto agli uomini. Questo è ingiusto e poco pratico. Una agricoltura efficace deve prevedere incentivi per quelli che davvero lavorano, e deve tener conto dei bisogni particolari dei bambini. Nessuna nazione, da sola, può fare tutto questo da sola. Lavorando insieme, credo che potremo mostrare la volontà necessaria a mettere fine alla fame nel mondo, ad aprire una nuova era di progresso e prosperità. E' il nostro obbiettivo. E' la nostra sfida. da lastampa.it Titolo: "Apriamo il partito a chi sta fuori ripartiamo dall'esperienza dell'Ulivo" Inserito da: Admin - Luglio 10, 2009, 06:31:24 pm Chiamparino presenta un documento congressuale: bene Marino ma io non mi schiero.
Il Pd è malato di correntismo "Apriamo il partito a chi sta fuori ripartiamo dall'esperienza dell'Ulivo" di PAOLO GRISERI TORINO - Abbandonare il vecchio Pd. Uno slogan provocatorio per un partito nato due anni fa: "Ma un esercizio necessario, soprattutto se quella nascita è stata viziata da una grave malattia genetica". Parla così Sergio Chiamparino, sindaco e candidato mancato alla segreteria nazionale del partito. Chiamparino, qual è la malattia genetica del Pd? "Il correntismo esasperato". Un virus nuovo nella politica italiana? "Non è nuovo ma ha contagiato anche noi. Si ricorda il comitato dei 45 che avrebbe dovuto dare vita al partito? Ogni correntina aveva il suo uomo. C'erano Agazio Loiero, Luciana Sbarbati. C'era addirittura Lamberto Dini". Perché ce l'ha con Dini? "Mah, era così convinto di fondare il nuovo partito che adesso sta con Berlusconi". Nel comitato dei 45 lei non c'era. È ancora arrabbiato? "Non mi arrabbiai per me ma per il fatto che quell'organismo fosse frutto di un manuale Cencelli". Dopo due anni non possiamo considerarla acqua passata? "Lo farei volentieri. Ma il problema è proprio questo, che continuiamo a galleggiare nella stessa acqua". Il nuovo congresso figlio del vecchio Pd? "Vedo questo rischio ed è per questa ragione che ero contrario a tenerlo prima delle regionali dell'anno prossimo". Fa parte del vecchio Pd anche la polemica D'Alema-Fassino? "È uno scontro che certamente provoca sofferenze personali a tutti e due. Ma a chi parla quel confronto? Quale parte della società italiana può appassionarsi a quella discussione?". Come sarebbe, invece, il congresso di un partito nuovo, di un nuovo Pd? "Proverò a rispondere con un documento congressuale in tre punti. Il primo è la capacità del partito di raccogliere le indicazioni dei territori e della società". Cioè? "Se una parte della società è garantita e una parte non lo è, un governo di centrosinistra dovrebbe spostare risorse verso chi è meno garantito per realizzare una maggiore giustizia sociale". Chi ci perde e chi ci guadagna? "Beh, forse ci perderebbero i dipendenti pubblici e magari ci guadagnerebbero i lavoratori dell'industria. O vogliamo lasciare questa bandiera a Brunetta?". Gli altri punti del suo documento? "La laicità è molto importante. Questo è uno dei motivi per i quali apprezzo la candidatura di Ignazio Marino". Starà con Marino? "Non penso che mi schiererò. Però la candidatura di Marino ha il pregio di rompere gli schemi del vecchio Pd". Come dovrà discutere il nuovo Pd? "Questo è il terzo punto del documento. Dovrà essere un partito che ha sempre uno spazio vuoto al suo interno per accogliere chi vuole aggregarsi e oggi sta fuori. Un partito permeabile, in grado di attirare". Dovrà attirare più a destra o a sinistra? "A destra e a sinistra. L'importante è che arrivino forze nuove dall'esterno. Solo così si superano le incrostazioni e si curano le malattie genetiche". Tutti insieme da Vendola , ai Verdi, alla Binetti? "Penso a un partito che raccoglie tutta l'esperienza dell'Ulivo". Dalla coalizione a un'unica forza politica? "Penso che sia possibile lavorare in quella direzione". Altrimenti? "Altrimenti rischiamo l'asfissia". (10 luglio 2009) da repubblica.it Titolo: Marini: sì all'ingresso dei Radicali Inserito da: Admin - Luglio 10, 2009, 06:32:37 pm Il segretario alla manifestazione organizzata da Fassino a Roma promette un Pd laico
L'ex presidente del Senato: "La componente della Rosa è una ricchezza" Franceschini: "Vincerò senza sconfitti" Marini: sì all'ingresso dei Radicali di GIOVANNA CASADIO ROMA - "Un po' d'orgoglio, santodio". Dario Franceschini scalda la platea più eterogenea mai riunita in vista della sfida per la leadership del Pd. Chiamati da Piero Fassino per parlare delle cose da fare, ci sono ex Ds ma anche molti "amici personali di Piero", gente che ancora non si schiera. Umberto Veronesi, lo scienziato e testimonial delle battaglie laiche, è in prima fila ("Sono indipendente, ma sono un estimatore di Fassino"); poco più in là la teodem Paola Binetti ("Inaccettabili molte delle cose che sento"); Furio Colombo ("Non ho scelto, ho visto anche Marino"), Sergio Cofferati ("A disagio con Dario? Assolutamente no") Beppe Fioroni, il leader popolare, che invece non è per niente a suo agio, e rutelliani in ordine sparso. Ma Franceschini - segretario in carica e ricandidato contro Pierluigi Bersani e Ignazio Marino - punta a svelenire il clima dopo le polemiche delle settimane passate: "Noi vinceremo questo congresso senza sconfiggere nessuno, ma per far vincere un'idea di Pd, Non dobbiamo temere il congresso, da lì uscirà un leader stabile". E questa volta non parla tanto di innovazione, quanto di laicità e alleanze. L'assist sulla laicità glielo dà Fassino: "Dario ha tenuta ferma la barra della laicità", dice l'ultimo segretario ds, e ricorda la lettera dei cattolicidemocratici nel momento più critico del rapporto tra il governo Prodi e il Vaticano sui Dico, la legge sulle unioni civili. E Franceschini: "La laicità è un principio indispensabile e sacro, si ascoltano tutte le voci, anche quella della Chiesa, ma poi si decide secondo il principio sacro della laicità dello Stato. E deve essere uno dei valori costituenti del Pd". Né il partito che deve avere paura "di decidere a maggioranza anche sui temi più difficili come quelli bioetici". Ricordando il caso di Eluana Englaro: "È insopportabile uno Stato e un Parlamento che fa una legge di notte per impedire che una ragazza, una famiglia prenda una decisione in coscienza". All'insegna del pluralismo e della laicità anche l'apertura di Franco Marini ai Radicali. L'ex presidente del Senato è in prima fila allo Spazio Etoile di San Lorenzo in Lucina nella manifestazione organizzata da Fassino. Poco prima, in una conversazione a Radioradicale con Marco Pannella e Massimo Bordin, rilancia: "Io dentro questo partito, nel Pd, ci vedo a pieno titolo anche la componente radicale. Quando mi attaccano "tu, popolare che vai d'accordo con i radicali", io mi incazzo subito: questi sono una ricchezza". Quindi, il tema delle alleanze. Bersani, alla festa dei giovani democratici a Sarzana, ribadisce che bisogna creare dei "rapporti di alleanze senza escludere nessuno e che il Pd deve pertanto avere la forza di mettere in moto un'organizzazione di centrosinistra". Dal canto suo Massimo D'Alema, che lo appoggia, insiste: "Quello delle alleanze è l'unico cammino da percorrere, negli ultimi quindici anni quando ci siamo presentati da soli ha vinto Berlusconi". Rispondono Fassino e Franceschini: "Nessuna autosufficienza solitaria", però mai più un'accozzaglia di alleati come fu l'Unione bensì un forte baricentro rappresentato dal Pd e dal suo programma. Le primarie, inoltre. Una scelta salutare che non significa però rinunciare a un partito radicato, di circoli: "Penso al Pd come un partito di militanti aperto agli elettori delle primarie. E i circoli non siano solo uno strumento per conte congressuali". Lodi di Dario a Piero per "l'intelligenza politica e il coraggio". Il 16 kermesse di Franceschini in Toscana. A raccogliere molti consensi nella società civile è intanto il terzo candidato, Ignazio Marino, chirurgo e senatore, in prima linea nelle battaglie bioetiche: "Vinco io. Alle primarie gli italiani sceglieranno me come candidato più innovativo". (10 luglio 2009) da repubblica.it Titolo: A tutti gli Ulivisti (Roma, 13 luglio 2009) Inserito da: Admin - Luglio 14, 2009, 06:18:25 pm LA NEWSLETTER NAZIONALE DEGLI ULIVISTI
A tutti gli Ulivisti Roma, 13 luglio 2009 La presente é per inviarti un documento contenente alcune riflessioni e proposte avanzate in vista dell'avvio del percorso congressuale che si va in questi giorni aprendo. Il documento é stato inviato ai Democratici che hanno in questi giorni manifestato, anche se non ancora compiutamente formalizzato, l'intenzione di candidarsi alla guida del Partito Democratico come segretario nazionale. Come potrai rilevare il documento auspica il rispetto di alcune precondizioni al fine di consentire al partito di trarre la massima utilità dal passaggio che ci attende attraverso il rafforzamento della natura politica del confronto, e il contenimento del rischio che la scelta alla quale siamo chiamati sia troppo segnata da contrasti personalistici. Il documento é stato da me predisposto con l'aiuto di alcuni amici parlamentari e in particolare di Mario Barbi, Antonio La Forgia, Fausto Recchia, Albertina Soliani e Sandra Zampa, che assieme a me si sono fatti carico di interpretare le attese e le preoccupazioni di un più largo gruppo di democratici che, nel corso degli ultimi quindici anni, hanno condiviso con noi esperienze e scelte. Ti sono grato per l'attenzione che vorrai dedicare alle questioni sollevate nel documento; e qualora condividessi le proposte in esso avanzate, ti sarò grato se vorrai manifestare pubblicamente la tua opinione al riguardo ed eventualmente la tua disponibilità a partecipare a conseguenti iniziative comuni. Ti saluto intanto con la più viva amicizia Arturo Parisi Un partito aperto per difendere la sovranità dei cittadini Precondizioni per una scelta 11 Luglio 2009 Il contesto nel quale il percorso congressuale del Partito Democratico prende il via, reso drammatico dalla crisi internazionale, ci ricorda che molte sono le questioni che attendono una risposta. Innanzitutto una proposta che si faccia carico dei problemi di lungo termine che sfidano il nostro Paese. Di questa proposta noi sappiamo al momento due cose. La prima é che se i problemi a noi di fronte sono di lungo termine, di lungo termine deve essere la risposta: un progetto per il cambiamento della società non un semplice programma di governo di legislatura e meno che mai un insieme di singoli atti di governo. L’Italia è immersa in una notte profonda: le sue strutture sociali, economiche e istituzionali sono logorate. Il Paese è demoralizzato, il senso della sua civiltà è minacciato. Non saranno la speranza di consumare di più, o la maschera grottesca di un premier a trarci da una crisi che ci attraversa e ci supera per dimensione e profondità. La seconda condizione é che questo progetto deve far conto su istituzioni forti perché fortificate dall'esercizio della sovranità dei cittadini attraverso la moltiplicazione e soprattutto la valorizzazione delle occasioni di partecipazione, contrastando l'allontanamento dalla politica e la sfiducia verso le istituzioni che va diffondendosi nella società. Per questo motivo rispetto ad ogni proposta riteniamo discriminante la difesa dell'assetto bipolare fondato su un sistema maggioritario che dia al cittadino il potere di scegliere il governo del Paese prima delle elezioni sulla base di una proposta programmatica avanzata da una alleanza politica omogenea. Per questo motivo abbiamo scommesso sulla valorizzazione della forma partito, superando il movimentismo e lo spontaneismo che aveva segnato alcuni passaggi dell'ultimo ventennio, e, tuttavia non su un partito chiuso in sé stesso, ma un partito aperto ai cittadini che rafforzasse la sovranità dei cittadini. Per questo chiediamo che il Partito democratico sappia rendere vero il suo nome. Solo un partito può camminare su quel ponte che lega il passato col futuro che é rappresentato dalle istituzioni della Repubblica. Solo un partito può essere canale per la elaborazione di un progetto di lunga durata che vada oltre le legislature e i governanti di turno. Per questo motivo abbiamo affidato la scelta del nostro futuro agli elettori demandando a loro la più importante delle scelte in un partito: la designazione del segretario politico, e allo stesso tempo una assemblea nazionale che dotata della stessa legittimazione e rappresentatività possa bilanciare il potere del segretario, evitando i rischi di un esercizio del potere isolato. Questa designazione già anticipata nella esperienza delle primarie che in passato si sono svolte a livello di coalizione e di partito, si prospetta per la prima volta come una scelta vera e non semplicemente come la conferma e la validazione di scelte sostanzialmente già predefinite. Noi sappiamo che le parole e le regole non bastano. La nostra stessa esperienza ci ha insegnato che alle parole e alle regole non onorate dai fatti sarebbe spesso preferibile il silenzio. E tuttavia sappiamo che non ci si mette in viaggio senza una meta definita dalle parole e senza regole che guidino il cammino. Anche se affidato per ora alle parole riteniamo perciò che la scelta alla quale ci apprestiamo sia un risultato di grande rilievo del quale il partito deve essere orgoglioso. In un tempo in cui il nostro paese patisce un restringimento degli spazi della democrazia fino alla sottrazione ai cittadini del diritto di scegliere i propri rappresentanti come ora accade a causa della sciagurata legge lettorale vigente per il parlamento nazionale, affidare direttamente ai cittadini la scelta della guida e del massimo organo nazionale del partito é una scelta che da sola dà testimonianza della radicale diversità della nostra idea di democrazia rispetto a quella che domina il campo a noi avverso. E' una scelta della quale é orgoglioso in particolare chi ha sperimentato direttamente le difficoltà, gli ostacoli, e le legittime incertezze che hanno segnato il percorso per arrivare fin qua. Come abbiamo detto, nonostante la scelta diretta da parte dei cittadini, di candidati alla guida di amministrazioni locali e regionali e alla stessa guida di organi di partito sia andata moltiplicandosi, e nonostante a livello nazionale già in passato una larga partecipazione abbia dato prova dell'esistenza di una domanda di politica e di democrazia di gran lunga superiore a quella finora raccolta dagli strumenti tradizionali, questa può essere considerata una prima volta. Questo capita grazie all'avanzamento rappresentato dalla adozione di uno statuto che interpreta e regolamenta l'orientamento verso una democrazia dei cittadini che il partito democratico ha assunto come tratto qualificante fin dalla sua nascita. Questo é tuttavia possibile anche perché, dopo il primo biennio fondativo pur segnato da contraddizioni e ritardi che abbiamo più volte denunciato, anche grazie alla ridefinizione delle appartenenze partitiche precedenti, la scelta é resa ora possibile dalla esistenza di candidature capaci ognuna di rivolgersi all'intero partito e non più solo ad una parte di esso. Anche questo, lungi dall'essere un approdo scontato, é il risultato prezioso di una serie di fattori oggettivi e soggettivi, tra i quali certamente non ultima la generosità, di chi, alzando la mano in risposta alla domanda di rischio e di responsabilità che é all'origine di ogni candidatura, ci chiedono e ci consentono per la prima volta una scelta. La stessa possibilità di una scelta rappresenta per molti già da solo un risultato e, ripetiamo, certamente lo é. Tuttavia sarebbe un errore, e certamente una occasione perduta se, trattenuti dalla prudenza nell'avanzare o tentati dal ritorno al passato, la scelta si risolvesse in una scelta tra persone. Noi riteniamo, infatti, che la scelta tra persone per la guida del partito trovi il suo vero significato solo se essa evoca, consente, e sostiene una scelta tra diverse linee di azione politica. Solo questo assicura la pienezza dell'esercizio della cittadinanza, e allo stesso tempo consente di mettere a frutto il percorso che ci attende nei prossimi mesi. Solo questo consente al partito di definire finalmente, nel rispetto della democrazia, un’identità corrispondente al comune progetto di dare vita ad un partito nuovo in modo nuovo. Ridotto a scelta tra persone, il confronto, pensato per l'utilità del partito e della Repubblica, si potrebbe tradurre all'opposto in uno scontro tra persone e tra gruppi che lascerebbe alle sue spalle ulteriori macerie dando una idea del partito che ognuno di noi rifiuta. Invece di interpretare questo passaggio come un’occasione di avanzamento, ci potremmo trovare alla fine in una posizione ancora più arretrata di quella di partenza. Per questo motivo, pur riconoscendo gli aspetti comunque positivi presenti in questo passaggio, pensiamo che lungo questo cammino non possiamo stare fermi. Ancora una volta non progredire equivale ad arretrare. Diciamo questo guidati dalla convinzione che da sempre abbiamo avuto nella necessità del Pd. Lo diciamo sulla base della esperienza di questi anni in gran parte sprecati. Lo diciamo tuttavia anche allarmati dai primi segnali che dentro il cammino che inizia vanno manifestandosi. Se non si interviene tempestivamente e con decisione, la prospettiva sembra nell'immediato quella di una competizione tra aggregati di spezzoni del passato ognuno diviso dall'altro a partire da vicende particolari, e allo stesso tempo privi di una riconoscibile ragione politica comune declinata al futuro. Il chi, precede di troppo il perché. Comprensibilmente, anche se non correttamente, l’attenzione finisce per concentrarsi sul chi-sta-con-chi piuttosto che sul che-fare. Anche a causa della legge elettorale che, spogliando gli elettori delle proprie prerogative, ha conferito alle segreterie un potere di nomina, il confronto, invece di orientarsi verso una libera scelta espressa a conclusione di una valutazione, sulla base di un giudizio comparativo di natura politica, tende a configurarsi come il posizionamento all'interno di alleanze precostituite, definite in genere sulla base di appartenenze passate, con la preoccupazione di garantire e proteggere chi contribuisce alla vittoria, a prescindere dalla condivisione o meno di una linea politica. Urge mettere al centro del confronto la politica. Non possiamo permetterci di sprecare tre mesi preziosi esaurendoci in un confronto ossessionato dal potere interno che appare estraneo e incomprensibile alle ansie dei cittadini. Ancora più urgente é volgere questo confronto al futuro. Il riorientamento della nostra attenzione verso il futuro sarà tuttavia possibile solo a partire da un giudizio condiviso sulla nostra passata esperienza di governo attraverso una analisi guidata da uno spirito di verità. La nostra credibilità come partito di governo per il futuro non é infatti compatibile con una superficiale liquidazione della nostra azione passata. Questo non esclude il riconoscimento del concorso di cause oggettive e di errori soggettivi all'origine del nesso tutt'altro che virtuoso che, con responsabilità di tutti, si stabilì tra costituzione del Pd e esercizio della responsabilità di governo nel quadro di una coalizione già di per sé difficile e complessa. Per questo motivo, mentre difendiamo nell'interesse degli iscritti e degli elettori, e quindi del partito, il nostro diritto di poter scegliere a ragion veduta, ci permettiamo di rivolgerci a tutti i candidati perché aiutino questa scelta chiedendo se e in che misura condividano alcune convinzioni per noi di fondo, e, nel caso, svolgano dentro lo stesso percorso congressuale la loro azione in coerenza con questa preoccupazione. Queste le condizioni per fare del percorso che ci attende una occasione di crescita: 1. Indirizzare e pensare fin dal primo momento il confronto tra le diverse proposte politiche avanti agli elettori, riconoscendo come protagonisti e primi destinatari della nostra proposta quelli che sono comunque decisori finali: i cittadini, nostri elettori, difendendo e confermando con chiarezza la scelta per il modello di partito aperto attraverso il loro stabile coinvolgimento in elezioni primarie. Solo l’assicurazione che il voto al quale li chiamiamo ad ottobre non sarà l’ultimo può costituire il presupposto di una larga partecipazione. La condizione che la proposta e la candidatura avanzate dispongano tra gli iscritti del sostegno previsto dallo statuto deve essere considerata come la certificazione indispensabile del radicamento della proposta nella esperienza del partito e del sicuro riconoscimento del candidato da parte della comunità dei militanti. Il confronto tra le proposte deve tuttavia rivolgersi e competere per il consenso dei cittadini piuttosto che per l'ultimo tesserato e spesso per l'ultima tessera. 2. Fare di questa occasione un passaggio fondamentale che consenta agli iscritti ed elettori di rimescolarsi a partire dalle diverse idee politiche che legittimamente si contendono il campo, superando così le precedenti provenienze partitiche. 3. Per consentire ai votanti una scelta consapevole, ogni candidato assicuri la riconoscibilità della sua proposta politica, evitando di associare alla sua candidatura una pluralità di proposte, e una pluralità di proponenti, spesso ispirati a linee politiche tra loro disomogenee. Si concentri l'attenzione e il confronto dei cittadini sulla sintesi proposta dal candidato segretario invece di alimentare la competizione e la conta oltre che tra i candidati tra le diverse e contrastanti posizioni dei suoi sostenitori. Si presenti pertanto per ogni candidato una sola lista, e si eviti altresì di riproporre ticket in qualsiasi modalità essi vengano proposti. 4. Rispettare l'autonomia delle regioni. Domande diverse chiedono risposte diverse. I congressi regionali non sono la fase regionale di quello nazionale. Anche se lo statuto prevede la contemporaneità dei congressi regionali con quello nazionale, solo una nitida e coerente contrapposizione di concezioni del partito giustificherebbe la coartazione della autonomia delle singole regioni attraverso il trasferimenti meccanico delle divisioni nazionali in sede regionale. 5. Impegnare il partito attorno all'obiettivo della riforma della legge elettorale assunto come priorità assoluto. Le prossime elezioni politiche non possono avere ancora una volta come risultato un parlamento di nominati. I punti ora esposti toccano evidentemente solo in parte la gamma di temi che la proposta dei candidati non può non affrontare. La loro natura li propone tuttavia, distintamente e nel loro complesso, come un fondamentale criterio per la valutazione della proposta dei singoli candidati. Titolo: Parisi: "Il Pd? Invecchiato precocemente" Inserito da: Admin - Luglio 16, 2009, 11:37:25 am 16/7/2009 (7:52) - LA CORSA VERSO LE PRIMARIE
Parisi: "Il Pd? Invecchiato precocemente" Arturo Parisi, ulivista della prima ora e inventore delle primarie «Lo dico con amarezza, è finita una stagione» FABIO MARTINI ROMA L’uomo delle eresie si è stancato. Da 15 anni Arturo Parisi lancia e rilancia provocazioni alla sinistra italiana, finendo per dettarne la linea, ma per lui è arrivato il momento dei consuntivi: «Lo dico con sofferenza: una stagione si è conclusa. Fra poco saranno vent’anni dalla caduta del Muro di Berlino e da quando alla Bolognina Occhetto riconobbe che una fase della storia era finita. Un ventennio, lo stesso termine che usavamo da ragazzi per il periodo fascista. E noi siamo ancora a segnare il passo più o meno sulla stessa mattonella, in attesa che qualcuno ci dia l'avanti marsch! E' per questo che il Pd non è credibile: siamo innanzitutto noi che non crediamo più a noi stessi». Sono le 10 della sera e nel silenzio del suo studio a piazza Santi Apostoli, la piazza dove nel 1996 si festeggiò la prima vittoria dei progressisti nella storia della Repubblica, Parisi ripesca passaggi dimenticati: «Me lo ricordo ancora Veltroni, quando nel 2000 gli proposi di allungare il passo e scioglierci assieme in quel soggetto nuovo che già allora chiamavamo Pd. Tra gli applausi del congresso ci rispose che se volevamo, non avevamo che da accomodarci nella grande casa dei Ds. Ci costrinse così ad attendere per altri 7 anni il futuro, inventandoci la Margherita. E, così, dopo altri 10 anni sprecati, siamo ancora là...». Dottor Stranamore per i detrattori, profeta disarmato per i fans, da anni Parisi contribuisce a trascinare la politica italiana su lidi inediti. Regista dei referendum che affondarono Dc e proporzionale, inventore dell’Ulivo e delle Primarie, da 2 anni è l’unico oppositore dentro il Pd. Il congresso Pd è partito tra le beffe di Grillo, un partito ritratto su se stesso, l’assenza di un'idea di Italia... «Dobbiamo riconoscerlo: per la prima volta sembra profilarsi una scelta vera, e non la celebrazione di una scelta già presa. Peccato che appaia ancora scelta tra persone e non tra diversi progetti per il Paese. Ma lei pensa che la forza di Obama derivi solo dal fatto di sentirsi scelto dai suoi concittadini? E non anche invece dal sapere il perché lo hanno scelto?». L'unica cosa che conta sembra essere «chi sta con chi»... «Più che dalle diverse opzioni in campo, molti sembrano essere ossessionati dall’idea di schierarsi con chi vince. Dopo tanto parlare di vocazioni maggioritarie, il congresso del Pd si sta svolgendo secondo le regole del Porcellum: ci sono due coalizioni tipo-Unione. Schierandosi, in qualche modo è possibile “comprarsi” la prenotazione ad un seggio futuro». Per tutti i notabili, la colpa è sempre dell’altro... «A Veltroni chiedemmo le ragioni delle sue dimissioni, ma non rispose. Sul piano umano mi costò doverglielo contestare. Per la situazione nella quale si era cacciato mi sembrava di sparare sulla Croce rossa. Tuttavia il mancato riconoscimento delle cause del disastro è uno dei fattori principali di debolezza. Spero sia giunto il momento dell’autocritica. Da parte di Franceschini, ma anche per i troppi che, pur avendo condiviso due anni di gestione unitaria, danno ad intendere di aver vissuto altrove. E’ anche questo che ci costringe a vivere nella reticenza: la paura di vedersi contestata l’accusa di corresponsabilità». Nell’inno alla «Giovinezza» di Franceschini, le pare più sorprendente l'oblio dei patron o quel giovanilismo che ha echi in culture autoritarie? «Questo blablare che confonde i giovani del partito col futuro del'Italia è la spia più sicura della nostra crisi, un aspetto nel quale il Pd è purtroppo in totale sintonia con l'invecchiamento del Paese. E' una crisi che accomuna tutti gli schieramenti interni. Ma stia tranquillo: è un blablare che non ha nulla a che fare con "Giovinezza". Qua non sono i giovani ufficiali che vengono dalle trincee a picchiare sulla porta delle istituzioni, ma troppi maschi già sfioriti che giustamente si lamentano dei tempi di avanzamento della loro carriera. L’Italia ci chiede uomini nuovi, un progetto, una speranza, uno sguardo nuovo». Lo spirito della bocciofila evocato da Bersani? «Quando l'ho letto è come se l’avessi sentito di persona. Quel bell'accento emiliano che nelle mie orecchie di sardo è da 40 anni la colonna sonora della mia vita. Lo stesso accento che ha addomesticato la ferocia dello stalinismo e ha aiutato a dimenticare il sangue che ha bagnato questa pacifica terra. Io avrei evocato la durezza delle assemblee di condominio ma ognuno è fatto a modo suo». C'è un logoramento di tutta la classe dirigente? «Sì e mi ci metto dentro anche io, che sono in Parlamento da meno di 10 anni. E una delle origini della crisi sta in quello che con leggerezza chiamiamo nuovismo. Quel fuggire dal passato, senza farci i conti, l’inseguire qualsiasi novità appaia all'orizzonte, cogliendone solo l’apparenza, inseguendo nomi e parole ogni volta applaudite come salvatrici. E’ così che siamo finiti in America. Con la fantasia». Lei di parole nuove ne ha immesse tante: si sente in colpa? «Dica piuttosto beffato. Pensi alle Primarie. Prima il muro. Poi tutti a gareggiare nell’impadronirsene perché percepivano nella parola una illusoria via di salvezza. Ed ora troppo impegnati con tutta la propria energia a disinnescarle nei fatti». da lastampa.it Titolo: Sognare ogni giorno l’Italia del domani Inserito da: Admin - Luglio 17, 2009, 10:04:08 pm David Ragazzoni*
Sognare ogni giorno l’Italia del domani Estratti dalla relazione tenuta per la costituzione del Circolo PD “Giovane Europa” (Scuola Normale di Pisa e Scuola Sant’Anna) – Pisa, 3 luglio 2009 La sfida del Congresso di ottobre può essere davvero l’occasione giusta per riempire il Partito Democratico di progetti, di contenuti, di idee. Non deve essere un’occasione mancata: deve essere il segno che il PD è un partito democratico per davvero, che quanti a vario titolo hanno dato il loro contributo per la sua nascita e il suo cammino fino ad ora credono veramente – e sottolineo veramente – nel soggetto politico consegnato agli italiani. Non bisogna arenarci nello sterile scontro generazionale, invocando una nozione di giovane che è vuota, questa sì, di contenuto. Cosa vuol dire essere giovani per il Partito Democratico ed essere giovani nel Partito Democratico? Come è stato dimostrato dai risultati elettorali ai vari livelli in questi due anni circa di battaglie del PD, è necessario un rinnovamento delle categorie con le quali si legge la politica e la società italiana. Destra e sinistra non definiscono più, come già insegnava Bobbio, un universo onnicomprensivo, né lo definiscono le categorie di vecchio e giovane: la rivendicazione del ‘nuovo ad ogni costo’, il ‘nuovismo’, rischia di diventare nuovamente il facile slogan di una politica ‘contro’ e non di una politica ‘per’ come quella per la quale il Partito Democratico è nato. Scriveva qualcuno nell’Ottocento che i popoli democratici hanno la caratteristica peculiare di saper guardare più in là e più in alto degli altri, di non fermarsi alla contingenza, di saper pensare il futuro. Io credo che il PD, e i giovani del PD, debbano dimostrare ogni giorno di avere la capacità di sognare l’Italia del domani. L’Italia del domani la si costruisce con le persone, essenziali in qualsiasi progetto politico che pretenda di essere credibile – persone responsabili e responsive, che abbiano scolpita nella mente un’idea fortissima di accountability e una concezione di politica intesa come contributo al nostro paese – e la si costruisce con le idee, con le battaglie su contenuti precisi. È la sfida più bella e più appassionante che la politica possa dare ai giovani di oggi, giovani per davvero: la sfida di trasformare ogni giorno le proprie idee e la propria visione di Italia in mattoncini concreti. Io credo che su tre temi soprattutto il Partito Democratico, a partire da ottobre, abbia il dovere di elaborare contenuti forti, per poter essere percepito dagli elettori come un’alternativa reale e credibile alle forze di centro-destra: ampliare e riunificare il mondo del lavoro; promuovere una buona immigrazione; iniettare nel mondo della scuola e dell’università la triade di autonomia, merito e responsabilità. Il Partito Democratico deve recuperare la credibilità su questi temi, sia nei progetti che propone, sia nelle persone che si fanno promotrici di un simile rinnovamento. Oltre alla leadership, infatti, che nella politica contemporanea è certamente un elemento decisivo, c’è il partito dei e nei territori: c’è la presenza fisica del partito là dove le persone vivono. Le tradizionali cesure che ancora sopravvivono, con grande amarezza lo dico, nel Partito Democratico non appartengono a una generazione come la nostra che si è formata politicamente dopo l’89. Non abbiamo nel sangue, né vogliamo averla, la fissa dualistica che ancora continua a permeare l’azione politica del PD. Come giovani cittadini democratici ed europeisti, dobbiamo provare a restituire al Partito Democratico due elementi: slancio ideale ed elaborazione di programmi, che secondo noi sono due elementi imprescindibili per qualsiasi partito che sia vivo, che abbia una vocazione maggioritaria e che si proponga, nel tempo, di formare una nuova classe dirigente. Io credo, noi crediamo che la cultura politica di un partito non sia soltanto quella racchiusa in un manifesto, ma sia un’elaborazione quotidiana, fondata sull’interazione tra esperienza, azione, idee condivise con gli elettori, formazione di una classe dirigente, memoria storica e politica. E più di ogni altro includo, tra gli elementi basilari di una cultura politica viva, la capacità di leggere realmente la società, di coglierne le trasformazioni, di saper parlare alla testa della gente, e non soltanto alla loro pancia, come oggi troppe volte una nozione semplicistica e degenere di politica pretende di fare. Il Partito Democratico deve tornare a parlare alla testa delle persone, ed è da questo compito che i giovani democratici devono ripartire. *coordinatore Circolo PD Giovane Europa da formazionepolitica.org Titolo: Anna Serafini - Le domande di un partito forte Inserito da: Admin - Settembre 17, 2009, 10:39:00 pm Le domande di un partito forte
di Anna Serafini Cosa significa l’espressione “partito forte”? C’è qualcuno nel dibattito congressuale che non vuole un partito forte o addirittura lo vuole “debole”? La domanda piuttosto è un’altra: cosa rende forte un partito? È bene chiarire un punto spesso sotteso. A partire dalla caduta del muro di Berlino c’è chi nella dialettica politica presenta la propria posizione come quella di maggiore attenzione al tema del partito. È come se alcune posizioni fossero depositarie, più di altre, del bene del partito. È accaduto che non pochi sostenitori di tale impostazione, siano usciti poi dal partito stesso. Quel modo di sviluppare il confronto tra posizioni diverse è stato un grande danno per tutti, in quanto ha impedito per lungo tempo una discussione serena intorno ai tratti di un moderno partito. Oggi la situazione è molto diversa. Non si tratta di un confronto interno ad una cultura politica, bensì di una discussione intorno all’identità culturale, politica e organizzativa di un partito popolare e riformista, frutto dell’apporto di diverse culture interne ed esterne ai partiti che hanno dato luogo al Pd. Nei testi delle mozioni sono comuni due aspetti: il rifiuto del nuovismo e del plebiscitarismo. È un fatto importante questo e una base solida per costruire il Pd. C’è tuttavia una differenza tra le mozioni sul temadel partito. Nella mozione Franceschini è più netta la scelta di una forma partito più legata alla natura del Pd come partito a vocazione maggioritaria e partito di governo. Questo nesso costituisce un filo robusto nel pensare in modo più adeguato la questione della laicità, del rapporto tra iscritto ed elettore e la stessa questione delle alleanze. Unpartito a vocazione maggioritaria non è un partito che da solo prende oltre il 51%, né un partito indifferente alla propria forza organizzata: è un partito che fa i conti con il fatto che i cambiamenti intervenuti hanno bisogno di sintesi avanzate che raccolganoil massimo del consenso e di decisioni certe. Il nuovo riformismo si può definire tale in quanto, dalle questioni etiche alle questioni economiche ed ambientali, investe sulla costruzione di sintesi tra i diritti e i bisogni sempre più complessi di individui e gruppi. Oggi non sarebbe possibile, come già è avvenuto nel passato, un governo autorevole e forte né a livello nazionale, né a livello locale, se prima non esiste questo lavoro.Eper questo è necessario il Pd.Nonè possibile sommare centro e sinistra a livello di governo, se nonesiste una cultura di centrosinistra, che va costruita. Essere unpartito a vocazione maggioritaria significa essere il punto di riferimento della maggioranza delle cittadine e dei cittadini. Il PD deve essere quel partito che rende possibile il cambiamento del Paese perché capace di avere il consenso al cambiamento da parte della maggioranza del Paese. 17 settembre 2009 da unita.it Titolo: Marino: La mia sarà una battaglia culturale Inserito da: Admin - Ottobre 26, 2009, 09:50:40 am 26/10/2009 (7:26) - PERSONAGGIO/2 IL CAMPIONE DELLA LAICITA'
Marino: "Prometto, non farò correnti" Il chirurgo candidato: «Non voglio posti e niente accordicchi. La mia sarà una battaglia culturale» JACOPO IACOBONI ROMA Alle dieci e mezzo lo scienziato sfoggia il massimo del razionalismo, «ma perché soffrire e aspettare ancora tutta la notte, vabbè che siamo il partito del cilicio, ma i dati veri li sapremo solo domattina… andiamo a mangiare, dài». E ancora, «43 sezioni su mille statisticamente non vogliono dire nulla. Nulla. Lasciatevelo dire da me, ho studiato statistica, e ho vinto le primarie a Cambridge». Certo, d’accordo. Però tutti intorno al comitato quasi esultano, e tirano il maglione rosso di Ignazio Marino, si appendono al suo zainetto, e c’è già chi dichiara un 15 per cento, raddoppio dei voti del congresso, visto lo spoglio parzialissimo che arriva via via. Vittoria a Riace, a Capranica, nel Viterbese, a Tarquinia, molto bene Milano e nel Nord urbano, ma anche a Napoli e Palermo, o in paesini dove al congresso ne aveva presi pochissimi, di voti, per esempio Fiumicino. Il botto a Corviale, Roma, quartiere popolarissimo, segno che ha fatto anche breccia tra gli operai, non solo tra quelli col master al Mit. «Il risultato è straordinario», dirà a notte inoltrata salutando il suo quasi 14 per cento. «Se la gara è stata una gara vera è grazie a noi, se si parla di certi temi è grazie a noi», dice. E adesso? «Vogliamo un rinnovamento radicale del partito. Certo non farò mai una corrente, non voglio posti, non sono uomo da accordicchi; proporrò sei temi, e sosterrò chi ci sta. La nostra vittoria sarebbe dire basta con un partito di capibastone». Una battaglia culturale, insomma, la battaglia dei diritti dei gay, della libertà di ricerca, delle staminali, della possibilità di adozione anche per donne single. Un Pd che non invecchia dibattendo della Binetti. Cita Le Monde, «hanno capito che siamo gli unici riformatori». Cita la mamma Valeria, ottantasettenne, che ha portato a votare in piazza Fiume, e alla fine lei dava più interviste di lui, «che bravo ragazzo, beh, sì, qualche volta discolo, ma come fa le punture lui…». Ignazio le aveva appena fatto il vaccino antinfluenzale. Una scenetta tenera e buffa, la mamma che lo inseguiva per casa proprio al momento di uscire, il piccolo cane shitsu impazzito a correre di qua e di là, il figliolo paziente che prepara la siringa… Incarna una questione settentrionale, Marino, «siamo andati benissimo a Milano, Venezia, Torino», mentre al Sud poteva capitare, lo dicono nel suo staff, che agli incontri elettorali in qualche posto si facesse fatica a superare qualche decina di persone. Racconta Giuseppe Civati, in serata arrivato da Monza, che una vecchina durante uno dei suoi viaggi siciliani gli ha confidato «ma ‘stu Marino chi è, ‘nu democristiano? Io la Dc non la voto». Insomma, non era conosciutissimo. Così la soddisfazione ora è doppia. Michele Meta: «Non siamo più una mozione a macchia di leopardo, siamo in tutta Italia!». Paola Concia: «Che strizza, che c’ho». Telefona Bettini. Fuma Scalfarotto. Filma Diego «Zoro» Bianchi. Anima Rosa Calipari. Ignazio: «In tv prima di questi ultimi giorni quasi non ci finivo», poi per finirci c’è voluta una lettera a Sergio Zavoli. Il resto l’ha fatto, con armi antiche, il terzo uomo, che ha perso 15 chili ma conserva una risata alla Fabrizi. Bersani e Francheschini oscuravano il confronto a tre sul semiclandestino Youdem? Marino andava a ripetere alla Garbatella le stesse cose che l’avevano visto, probabilmente, vincere in tv. I due sfidanti in testa sceglievano Piacenza e Castellammare per l’ultimo giorno? Ignazio se ne stava proprio nella contestatissima Roma, la città dello scandalo del governatore della Regione. Nanni Moretti preferisce Franceschini, Ignazio incarna l’Italia meno politichese di Paolo Virzì, il regista di «Ovosodo», che l’ha votato. L’hanno sostenuto uomini imprevisti, Pietro Ichino, Moni Ovadia, assai deluso da Veltroni, l’industriale Pasquale Pistorio, sedotto dal comune no al nucleare. L’ha irriso Massimo D’Alema, «Marino è un mio collaboratore che s’è preso la libertà di candidarsi». E’ notte quando, abbracciando gli sfidanti nella sede del Pd, Marino può ripetere «anche a me piace la vela, ma le barche piccole su cui ho imparato da piccolo a Genova, le derive». Non il Pd alla deriva che hanno costruito gli altri. da lastampa.it Titolo: Maria Teresa Meli L'ipotesi della Bindi presidente Inserito da: Admin - Ottobre 26, 2009, 11:02:49 am Gli assetti
La prima esigenza di Bersani è tenere unito il partito L'ex ministro pensa alla squadra L'ipotesi della Bindi presidente Il capogruppo alla Camera può restare ai franceschiniani ROMA — Alle nove e mezzo di sera Pier Luigi Bersani è segretario del Pd con il 53 per cento dei voti. Ma sono proiezioni, le prime, e per questa ragione l'ex ministro del governo Prodi invita tutti i suoi sostenitori alla «cautela»: «Non sta andando male, ma prudenza». Se non altro perché i numeri sono ancora ballerini: c'è una forbice del 4 per cento, il che significa che quel 53 potrebbe diventare 57 ma anche 49. Rientrato da Piacenza, dove ha votato, Bersani si è asserragliato insieme ai suoi nella sede del suo comitato elettorale a Roma: preferisce aspettar lì i primi risultati, insieme ad alcuni dirigenti della sua mozione. Solo alle 23, entrando nella sede del Nazareno, finalmente può dire: «Dentro la vittoria di tutti c'è anche la mia». Anche Massimo D'Alema comincia a commentare: «È stata una scelta chiara: si è visto che gli iscritti non sono marziani». Prima, nel quartier generale di santi Apostoli, l'ex premier aveva invitato tutti alla prudenza: niente dichiarazioni anzitempo. C'erano comunque già voti confortanti: quelli della Lombardia e del Piemonte con una certa celerità e promettono bene. Ma è ancora troppo presto. L'attesa del risultato definitivo è snervante, anche perché a seconda del margine di vantaggio l'ex ministro del governo Prodi potrà usufruire di uno spazio di manovra che gli consenta di metter mano agli organigrammi di partito con una certa disinvoltura, senza la preoccupazione di possibili scissioni. Per la presidenza del Pd Bersani ha già in mente un nome. Quello di Rosy Bindi. Anche perché le donne che sostengono l'ex ministro ritengono che sia lei la persona giusta, come diceva qualche giorno fa Livia Turco: «Ci vuole assolutamente una donna come presidente, di questo siamo convinte tutte, e ci sono solo due nomi possibili, quello di Bindi e Finocchiaro, ma Anna è già capogruppo al Senato». E a proposito di capigruppo, è assai probabile che almeno quello della Camera cambi. E' difficile che il franceschiniano Antonello Soro mantenga quella poltrona. E non è solo una questione di spartizioni tra correnti. In molti si sono lamentati per la mancanza di polso dell'attuale presidente dei deputati. Un esempio per tutti, la vicenda degli assenti del Pd nella votazione sullo scudo fiscale. Quella volta non erano stati lanciati i soliti messaggi insistenti in cui si chiede l'obbligo di presenza, come si fa nelle occasioni particolari. Chi potrebbe prendere il posto di Soro? L'avrebbe voluto volentieri Piero Fassino quando credeva che vincesse Franceschini. Così non è stato. In questi giorni si era fatto anche il nome di Enrico Letta. Ma non è detto che la poltronissima della presidenza del gruppo a Montecitorio finisca a un esponente della mozione Bersani. Quel posto potrebbe diventare oggetto di trattativa con l'area che fa capo a Franceschini. Non è un mistero per nessuno, infatti, che dentro il Pd gli ex popolari come Franco Marini e Beppe Fioroni abbiano già lanciato un'offensiva diplomatica nei confronti di Bersani e di D'Alema. L'altro giorno, in Transatlantico, Fioroni diceva sorridendo: «Io comunque vada vinco». Una battuta, ma fino a un certo punto. Del resto, è nell'interesse di Bersani tenere il partito il più possibile «unito»: l'ex ministro di Prodi lo ha ripetuto molte volte e lo ha ribadito anche ieri sera con i suoi. Sembra invece tramontata l'ipotesi che, pure era circolata, di un'offerta della presidenza del gruppo della Camera a Franceschini. Lui non accetterebbe mai: piuttosto l'ex segretario sembra intenzionato, almeno per ora, a capeggiare l'opposizione interna. con gran piacere di Bersani, il quale è convinto che assumendo quel ruolo Franceschini arginerà l'emorragia dei veltroniani, quasi tutti assai poco propensi alla trattativa, alcuni intenzionati a defilarsi se non ad andarsene. Da segretario Bersani dovrà giocare un'altra partita tutta interna. Quella con i "suoi" alleati. In particolare con Massimo D'Alema. Quanti dirigenti vicini al presidente della Fondazione Italianieuropei verranno piazzati nei posti-chiave del partito? Si parla già di Gianni Cuperlo all'informazione, il ruolo ricoperto finora da Paolo Gentiloni. E l'importanza che avranno i dalemiani nel nuovo organigramma sarà un fattore nient'affatto trascurabile per il futuro del Pd. Maria Teresa Meli 26 ottobre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it Titolo: Bersani recupera la Canzone popolare Inserito da: Admin - Ottobre 27, 2009, 06:57:33 pm Il segretario del Pd in una intervista a Vespa per il suo nuovo libro "Donne di cuori"
Domattina l'ex ministro vede il leader dell'Idv Antonio Di Pietro Bersani recupera la Canzone popolare "Pretendo un rapporto civile con Berlusconi" ROMA - Alleanze e rapporti con la maggioranza. Pierluigi Bersani non perde tempo. Domattina il neosegretario del Pd vedrà Antonio Di Pietro per cominciare quel dialogo per gettare le basi di un accordo politico in vista delle prossime elezioni regionali. E, nel frattempo, lancia un messaggio a Berlusconi: "Con lui pretendo un rapporto civile". Colonna sonora. Bersani cambia colonna sonora. Durante la campagna voti delle primarie si era affidato a Vasco Rossi dicendo, a proposito dello stesso linguaggio da usare al Nord come al Sud, "siamo solo noi che possiamo farlo". Da segretario, invece, rispolvera la "Canzone popolare" di Ivano Fossati, che fu la colonna sonora della stagione dell'Ulivo, "perchè allora c'era un movimento di riscossa civica che va recuperato". Su queste note affronta, in una intervista a Bruno Vespa per il suo nuovo libro "Donne di cuori", il rapporto con Silvio Berlusconi. Rapporti con premier. "Un rapporto civile con il presidente del Consiglio? Non solo sono disposto a cercarlo - dice a Vespa -, ma lo pretendo. In un Paese normale, il fatto che il capo del governo e un suo predecessore come D'Alema s'incontrino a una cerimonia pubblica e si stringano la mano non può essere una notizia. Ma Berlusconi ci metta un pò di suo. Non può essere aggressivo, non può ridurre al mutismo il Parlamento. Con 25 voti di fiducia e 38 decreti legge omnibus in un anno e mezzo, l'opposizione è frustrata". No al proporzionale. Nella stessa intervista Bersani si dice contrario al ritorno al proporzionale: "Va bene il superamento del bicameralismo perfetto, la riduzione del numero dei parlamentari, la compensazione tra i maggiori poteri al presidente del Consiglio e i maggiori poteri di controllo del Parlamento. Su questi temi ci siamo, come sul federalismo. Ma ogni progetto diventa più credibile se partiamo da una costola che si chiama riforma della legge elettorale". "Non bisogna consentire ai partiti di nominare i parlamentari - dice ancora il segretario Pd - perché adesso il governo ha il comando della sua maggioranza. La deformazione del sistema nasce da qui. Tutti i partiti interessati a una discussione di questo genere sono i benvenuti. Sono contrario a un ritorno al sistema proporzionale - precisa Bersani -. Credo che si debba dare spazio ai collegi territoriali, in modo da avvicinare i candidati al cittadino, e discutere poi su un buon equilibrio tra maggioritario e proporzionale". Quanto all'elezione diretta del Presidente della Repubblica o del primo ministro, Bersani risponde: "Nelle democrazie del mondo, sistemi parlamentari e sistemi presidenziali hanno la stessa dignità. Ma il nostro problema è di arrestare una degenerazione che ci porta a un sistema padronale. Noi dobbiamo partire, perciò, da un parlamentarismo rafforzato". (27 ottobre 2009) da repubblica.it Titolo: Arturo Parisi VENT'ANNI Inserito da: Admin - Novembre 11, 2009, 04:37:05 pm VENT'ANNI
di Arturo Parisi A venti anni dalla caduta del Muro di Berlino, con la elezione di Pierluigi Bersani alla guida del Pd e la ricomposizione unitaria della dirigenza del partito attorno alla sua segreteria, si conclude una fase di ridefinizione del nostro sistema politico. Anche se il contesto istituzionale e sociale e' ancora lontano da una stabile definizione, ritengo che la presenza del Partito democratico sulla scena politica sia ormai un dato stabile con il quale tutti dovranno fare stabilmente i conti. Cosa sia il Pd e' una domanda che non ha ancora ricevuto una compiuta risposta. In particolare non sappiamo se esso possa essere considerato veramente un partito nuovo, o invece un nome nuovo per la continuazione e combinazione di storie passate. E neppure sappiamo come l'eventuale ritorno alla legge elettorale proporzionale sostenuta da una parte qualificata del partito influira' sulla rappresentanza e sulla rappresentazione e quindi sulla natura e sulla azione del Pd. E' tuttavia indiscutibile che, dopo un percorso al quale gli ulivisti hanno partecipato da protagonisti, il Pd si trova oggi ad incorporare nel simbolo e nel nome il progetto che ha guidato i nostri passi lungo il ventennio che oggi si conclude: i quasi sedici anni che ci separano dal 2 febbraio del 1995 quando per la prima volta irruppe sulla scena politica il segno dell'Ulivo, e, prima ancora, ad immediato ridosso dalla caduta del Muro, gli anni della battaglia referendaria per le riforme istituzionali. Il successo, per la terza volta, delle primarie, un altro istituto imposto nella politica italiana dalla nostra battaglia, documenta inoltre l'esistenza di una consistente domanda che al Pd stabilmente si rivolge. Come dicemmo la sera delle primarie, i 3 milioni di cittadini, che, dalla Lombardia alla Campania, dalla Puglia al Lazio, si sono recati ai seggi hanno dato la misura della quantita' della domanda, non quella della qualita' della risposta, il segno rinnovato di una attesa, non la condivisione di una pretesa. Resta comunque difficilmente discutibile che la elezione del Segretario del Pd, a conclusione delle prime primarie realmente competitive, metta fine ad una fase. Per molti questo e' l'approdo cercato, per altri l'approdo possibile, per alcuni la realizzazione dell'Ulivo per altri il suo fallimento. Dentro questa vicenda gli ulivisti hanno partecipato da protagonisti, mescolandosi ogni volta tra gli altri e investendo la loro liberta' a partire dal giudizio sul presente e dalla scommessa sul futuro, mai come semplice riproduzione del passato. Dopo venti anni ci troviamo su questo traguardo, accomunati dal ricordo delle battaglie passate, di quelle perse non meno che di quelle vinte, non accomunati invece dal giudizio su che fare nel futuro. Non pochi sono quelli che si sono separati dallo stesso partito ritenendo vana ogni scommessa. Alcuni pensano di aver vinto la propria scommessa, altri sanno di averla persa, altri infine l'hanno persa e non lo sanno. Una fase, ripeto, si e' comunque conclusa. Sia che il Pd sancisca il compimento, sia che il Pd decreti il fallimento del progetto dell'Ulivo, la continuazione di ogni azione distinta di ulivisti in quanto ulivisti finirebbe per essere praticata e letta con gli occhi della nostalgia. Questo si' sarebbe un fallimento. La nostalgia e' infatti il sentimento di certo piu' incompatibile con un progetto come il nostro che e' stato pensato da sempre al futuro. Se l'azione degli ulivisti e' superata, superata e' percio' la funzione che questo sito ha finora svolto in riferimento alla quotidianita' della poltica, Se il tempo dell'Ulivo come annuncio e' concluso e superata una azione distinta degli ulivisti, resta tuttavia che una stagione che si e' chiamata Ulivo e' esistita, una stagione nella quale sono esistiti gli ulivisti. Sarebbe un peccato che di questa stagione si perdesse memoria: una grave mancanza verso chi in questi anni per questo progetto si e' speso, ma soprattutto la perdita di un riferimento per valutare e indirizzare la azione presente. Per questo motivo, penso che Ulivisti.it, potrebbe dare un suo ulteriore contributo se si mettesse al servizio di questo obiettivo dismettendo la funzione finora svolta. Riconvertito come archivio, esso potrebbe custodire la memoria, dei fatti, delle idee, delle azioni che hanno riempito e animato quelli che sono stati gli anni dell'Ulivo, gli anni degli ulivisti. 11 novembre 2009 Newsletter ulivisti.it Titolo: FRANCO BRUNI Una tragedia che riguarda anche noi Inserito da: Admin - Novembre 17, 2009, 10:43:35 am 17/11/2009 - VERTICE FAO
Una tragedia che riguarda anche noi FRANCO BRUNI Al vertice Fao il Papa ha tenuto a sottolineare che la fame nel mondo non deriva, né deriverà in futuro, dall’eccesso della popolazione rispetto alle risorse alimentari potenzialmente disponibili. Il problema è come le risorse vengono organizzate e distribuite. Vanno ripensate le sovvenzioni distorsive a chi produce il superfluo, limitate le speculazioni, favorito l'accesso ai mercati mondiali delle produzioni dei paesi più poveri. Il settore agricolo-alimentare, come e più di altri, mette alla prova la capacità del mondo di godere i benefici dell’economia di mercato globale, governandola con regole opportune. Non si può andare «contro i mercati» senza finire nella giungla di un litigio protezionista il cui costo grava soprattutto sui più deboli. Né si può lasciare i mercati senza regole e interventi di coordinamento, che li aiutino a svilupparsi conformemente alle diverse esigenze di paesi che hanno differenti gradi di sviluppo, modelli di consumo e possibilità produttive. E’ triste che il vertice non abbia visto un aumento impegnativo degli stanziamenti contro la fame. Eppure, almeno nel lungo periodo, il problema non è tanto quello della quantità di fondi stanziati dai Paesi ricchi, quanto quello della qualità della cooperazione globale. Questo è vero, più in generale, per gli aiuti allo sviluppo che, come suggerisce il terzo dei «Cinque principi di Roma», devono curare la fame anche indirettamente, eliminando le «cause di fondo della povertà». Gli aiuti allo sviluppo, pur crescendo, non raggiungono ancora un terzo dell'1% del Pil dei Paesi donatori. Da parte di alcuni Paesi, fra i quali il nostro e gli Usa, sono nettamente inferiori. In un periodo di tumultuosa trasformazione dell’economia mondiale occorrerebbe di più. Perché la trasformazione significa, inevitabilmente, rapidi arricchimenti e, insieme, rapidi impoverimenti, di regioni, Paesi e, al loro interno, gruppi sociali. Gli aiuti sono un modo per ridistribuire il reddito a livello internazionale. È probabile che, anche a livello nazionale, e anche all'interno dei Paesi ricchi, vada riscoperta l'importanza degli interventi ridistributivi, che oggi godono di cattiva fama per i modi nefasti con cui sono spesso stati realizzati. Tutto ciò richiede cooperazione e un certo grado di concordia politica. Richiede regole globali e istituzioni internazionali forti e indipendenti dalle contingenze delle politiche nazionali e delle mutevoli relazioni internazionali. D’altra parte il «buon governo», del mondo e dei Paesi che lo compongono, è una condizione non solo per re-distribuire bene ma anche per produrre di più. Se è vero, come ha detto Benedetto XVI, che ci sarebbe da mangiare per tutti, non dobbiamo scordare, andando oltre lo specifico del problema alimentare, che per assicurare redditi pro capite adeguati in tutto il mondo, in decenni in cui ancora la popolazione cresce rapidamente, la produttività deve continuare a crescere: la re-distribuzione non funziona in un mondo dove rallenta la produzione. Ma per assicurare un livello elevato e sostenibile di crescita economica globale serve lo stesso tipo di cooperazione e lo stesso dominio delle buone regole che sono indispensabili per re-distribuire il reddito e aiutare i più deboli. Oggi, per esempio, serve un coordinamento mondiale che favorisca, per qualche tempo, il contenimento della spesa e della crescita delle economie più avanzate insieme a un'accelerazione dei Paesi emergenti, che eviti l'ingolfamento dei mercati delle principali materie prime, che regoli il consumo di energia, che contenga la propensione di alcuni a consumare e quella di altri a risparmiare, pur convogliando in modo fluido e sicuro, tramite mercati finanziari efficienti e stabili, i fondi di chi spende meno del suo prodotto verso chi, temporaneamente, fa il contrario. La fame è un aspetto tremendo del disordine di un mondo che non sa governarsi e cresce in modo diseguale e instabile. La crisi che stiamo attraversando rischia di peggiorare le cose se riduce il grado di integrazione dell’economia globale, se suscita gli egoismi e incoraggia ciascuno a chiudersi nei suoi confini oscillando fra protezionismo e concorrenza furbesca. Ma la crisi è anche l'occasione per fare il contrario: rinsaldare la cooperazione fra chi ha capito meglio che stiamo tutti sulla stessa barca, darsi regole comuni e rispettate per i grandi mercati globali, rafforzare le agenzie e le istituzioni internazionali. Far funzionare forme di «autorità sopranazionale» è insieme un'utopia, un segno di profondo realismo e il modo per tentare davvero di sradicare la fame. franco.bruni@unibocconi.it da lastampa.it |