LA-U dell'OLIVO

Forum Pubblico => ESTERO fino al 18 agosto 2022. => Discussione aperta da: Admin - Agosto 30, 2008, 09:22:12 am



Titolo: BORIS BIANCHERI.
Inserito da: Admin - Agosto 30, 2008, 09:22:12 am
30/8/2008
 
Sulla Georgia una colossale ipocrisia
 
 
 
 
 
BORIS BIANCHERI
 
Se non ci fossero state aggressioni, violenze e brutalità dall’una e dall’altra parte, se non ci fossero state vittime innocenti, famiglie in esilio e un senso generale di precarietà che grava sull’intera area, verrebbe cinicamente da dire che l’attuale crisi georgiana è il frutto di una finzione, anzi di una colossale ipocrisia. Quando si parla dell’Ossezia del Sud, essa viene definita una regione (o, se si è più scrupolosi, una repubblica) separatista della Georgia. Tutti, uomini di governo e mezzi di informazione, fingono di ignorare che l’Ossezia, come d’altronde l’Abhkazia, non è separatista ma è separata, che non aspira all’indipendenza ma che la ha dichiarata 16 anni fa, che si autogoverna pienamente e che se la Georgia, di cui solo nominalmente fa parte, vuole imporvi la propria autorità deve mandarci l’esercito, come il Presidente georgiano Saakashvili ha imprudentemente fatto l’8 agosto. In Ossezia si è tenuto alcuni anni fa un referendum per avere conferma che gli abitanti preferissero l’indipendenza alla sovranità georgiana; è risultato che il 98% di loro preferivano l’indipendenza, cioè in pratica che preferivano restare quello che erano già. E’ stato detto (anche dal Consiglio d'Europa) che quel referendum non aveva valore perché era ammesso al voto solo chi aveva il passaporto dell’Ossezia. Appunto: l’Ossezia era già allora tanto indipendente da rilasciare i suoi passaporti. Aveva anticipato ciò che giustamente l’On. Fassino ha ricordato recentemente, cioè che una nazione si basa non sull’etnia ma sulla cittadinanza. L’Abhkazia è sostanzialmente nella stessa situazione. Si autogoverna, ha il rublo come moneta e le residue forze georgiane che stazionavano nell’area meridionale del paese si sono ritirate poco tempo fa. Perché per quasi 20 anni nessuno, neppure la Russia che ne è sempre stata in qualche modo tutrice, ha affermato che Ossezia e Abhkazia sono di fatto indipendenti e le ha riconosciute come tali? Perché c’è voluta quasi una guerra perché il problema si ponesse sul piano internazionale? Vi sono, credo, almeno due ragioni. L’una è di carattere generale e corrisponde a un modo di sentire istintivo, e se vogliamo anche nobile, delle opinioni pubbliche delle democrazie occidentali che finisce per influenzare anche chi le governa: che è di prendere parte, in simili casi, per il piccolo rispetto al forte. Nel caso della piccola Cecenia, il separatismo ceceno, che si opponeva alla grande e potente Russia, ha avuto subito la solidarietà dei mass media e dei politologi, oltre che delle associazioni umanitarie. Ossezia e Abhkazia sono anch’esse piccole, ma hanno la Russia che le sostiene, e quindi si parteggia per la piccola Georgia contro il suo grande vicino. Se non ci fosse la Russia di mezzo, state sicuri che l’indipendentismo degli osseti e degli abhkazi riceverebbe il sostegno entusiastico di tutti i benpensanti e i neo-filosofi europei, a partire da quell’Henri-Bernard Levy che giudica invece innocente l’intervento georgiano dell’8 agosto perche ha fatto solo 47 morti. Il nome della Russia fa questo effetto. Venticinque anni di stalinismo e cinquanta di guerra fredda sono difficili da dimenticare. Chi ci dice che la Russia di oggi, come quella di ieri, non voglia inghiottire non solo Ossezia e Abhkazia ma anche la stessa Georgia, o magari la Transdnistria e l’Ucraina? I russi, si sa, sono cattivi. E che Stalin fosse un georgiano nessuno se lo ricorda più. L’altra ragione, più razionale e meno emotiva, che ha relegato sinora nel cassetto il destino di Ossezia e Abhkazia, sta nel fatto che mettersi a discutere uno dei confini dei quindici stati nati nel 1991 dal disfacimento dell’Urss, rischia di aprire problemi simili in chissà quanti altri. La Russia per prima non l’ha voluto fare finora, memore tra l’altro del separatismo ceceno. Un cattivo confine finisce così col rafforzarne altri. Ora però che il problema della Georgia mette in causa lo stato dei rapporti tra la Russia e la Nato, tra la Russia e l’Europa, sarebbe meglio che l’ipocrisia finisca e che si guardi alla sostanza delle cose senza far finta di non vedere che i confini della Georgia sono già cambiati. Chiedere il ritiro delle forze militari russe che sono entrate in Georgia durante questa crisi è sacrosanto. Ma limitarsi a condannare il riconoscimento unilaterale delle due repubbliche perché costituisce una violazione del diritto internazionale (come ha fatto abbastanza inutilmente il G8, ritornato per l’occasione a G7) non risolve un gran che e suona perfino un poco ipocrita nella bocca di chi ha riconosciuto unilateralmente il Kossovo. Il nostro governo, a dire il vero, ha tenuto sinora in questa spinosa vicenda e nella sagra di luoghi comuni che l’ha circondata, un atteggiamento più realistico e moderato di altri. La Farnesina aveva pensato, già prima dei fatti di agosto in Ossezia, a una conferenza sul Caucaso da tenersi in ottobre a Roma. Se questo progetto si manterrà, e quale valore una simile conferenza potrebbe assumere, è cosa da vedere. Intanto Sarkozy, come presidente di turno dell’Ue, ha riunito un summit europeo per lunedì prossimo. Tutti ci auguriamo che l'Unione Europea abbia una posizione unanime. Ma auguriamoci anche che non si mettano ancor più a rischio i rapporti con la Russia a causa di un problema che è più formale che reale e nel quale non sono certo solo i russi ad avere dei torti.

da lastampa.it


Titolo: L'Iran agli Usa: non interferire nel Caucaso
Inserito da: Admin - Agosto 30, 2008, 11:39:56 pm
Georgia, Putin ammonisce la Ue e accusa gli Usa: «Conflitto provocato per favorire McCain»

Der Spiegel: l'Osce accusa Tbilisi di «comportamenti illeciti»

L'Iran agli Usa: non interferire nel Caucaso

 
MOSCA (30 agosto) - Il premier russo Vladimir Putin torna ad accusare gli Usa. In un'intervista alla tv tedesca Ard, ha rilanciato ancora più esplicitamente le accuse già fatte in un'intervista alla Cnn di aver armato Tbilisi e provocato il conflitto in Ossezia del sud per sostenere il candidato repubblicano alla presidenza, John McCain. Ieri la rottura delle relazioni diplomatiche della Georgia con Mosca e la decisione della Ue di non applicare sanzioni alla Russia. Tbilisi oggi ha anche introdotto restrizioni nelle procedure di concessione dei visti ai cittadini russi che intendono recarsi in Georgia.

Le accuse di Putin. Putin ha osservato che «è assai male armare una delle parti in un conflitto etnico e poi spingerla a risolvere il problema con la forza». Ricordando che gli «istruttori» americani erano in una «zona di guerra» invece che nelle basi militari georgiane quando Tbilisi ha sferrato l'attacco in Ossezia del sud, il premier ritiene che «questo porta a pensare che la direzione americana era al corrente dell'azione che si preparava e, molto probabilmente, vi ha preso parte». «Comincio a sospettare che tutto questo è stato fatto intenzionalmente per organizzare una piccola guerra vittoriosa - ha concluso Putin -. E, in caso di fallimento, fare della Russia un nemico per unire gli elettori intorno ad un candidato alla presidenza; di certo si tratta del candidato del partito al potere, perchè solo il partito al potere dispone di tali risorse».

Ammonimento alla Ue. Putin, inoltre, ha anche negato ogni disputa territoriale sulla Crimea e ammonito i Paesi della Ue a non «servire» Washington, altrimenti «non otterranno nulla».

Osservatori Osce accusano Tbilisi di «comportamenti illeciti» su larga scala che hanno contribuito alla crisi nel Caucaso. A riferirlo il settimanale tedesco Der Spiegel che si basa su rapporti Osce (organizzazione per la cooperazione e la sicurezza in Europa) fatti pervenire a varie agenzie governative di Berlino attraverso canali informali. Secondo gli osservatori, riporta lo Spiegel, la Georgia ha preparato con cura l'attacco contro l'Ossezia del Sud prima dell'arrivo dei carri armati russi. Nei rapporti si parla inoltre di possibili crimini di guerra commessi dalla Georgia. Tbilisi avrebbe lasciato che civili dell'Ossezia del Sud fossero attaccati di notte, durante il sonno.

La Russia ha chiesto un maggior numero di osservatori all'Osce nelle zone di sicurezza georgiane e per un controllo internazionale imparziale delle azioni della leadership georgiana e auspica di mantenere un dialogo costruttivo con la Ue. Il leader del Cremlino Dmitri Medvedev in una telefonata al premier britannico Gordon Brown ha anche spiegato i motivi del riconoscimento dell'Ossezia del sud e dell'Abkhazia e ha assicurato il pieno rispetto dei sei punti del piano di pace mediato dalla presidenza di turno francese della Ue.

L'Iran agli Usa: non interferire nel Caucaso. Nel dibattito sulla situazione in Georgia si inserisce anche l'Iran che, per voce del generale Jazayeri, vice capo di Stato Maggiore dell'esercito di Teheran, lancia un duro monito agli Stati Uniti accusando apertamente Washington di aver «aperto un nuovo fronte di crisi globale», dopo quelle di Afghanistan e Iraq. Il generale parla di «avidità della leadership americana» che sta «progressivamente spingendo il mondo intero sull'orlo del baratro». In tale situazione qualsiasi azione ostile nei confronti dell'Iran «potrebbe portare all'inizio di un conflitto mondiale». Nei giorni scorsi il ministro degli Esteri iraniano, Maouchehr Mottaki, ha esortato Washington a «non interferire nella crisi del Caucaso».

Ue, Barroso: la guerra può essere evitata. E' il monito del presidente della Commissione europea Jose Manuel Durao Barroso in un videomessaggio al Meeting di Cl a Rimini. Barroso ha aggiunto che è necessaria anche «un'unione più stretta fra i popoli di altre regioni del mondo» e che «l'Unione Europea e il suo sistema di cooperazione sopranazionale» servono come esempio per l'integrazione regionale in altre aree del mondo. Barroso invita a difendere i valori dell'Europa, sottolineando che «ci sono sfide che solo un'Europa unita può affrontare con efficacia: i cambiamenti climatici, la sicurezza dell'approvvigionamento energetico, lo sviluppo sostenibile». Barroso sottolinea, infine, la necessità di combattere la povertà in altre regioni del mondo, in particolare in Africa.

La Casa Bianca. Nessuna sorpresa da parte della Casa Bianca rottura delle relazioni diplomatiche tra la Georgia e la Russia, nè delle informazioni secondo cui Mosca avrebbe intenzione di installare basi militari nella regione separatista dell'Ossezia del Sud, riconosciuta dalla Russia come indipendente. La Casa Bianca ha ribadito di essere «nettamente contraria» al fatto che Mosca installi basi militari in Ossezia del Sud. «L'Ossezia del Sud e l'Abkhazia appartengono alla Georgia in virtù di ordinamenti riconosciuto dall'Onu, leggi e risoluzioni del Consiglio di Sicurezza che la Russia ha sostenuto» ha sottolineato Dana Perino. Per Washington, la situazione in Georgia deve tornare ad essere quella esistente prima del 6 agosto.

da ilmessaggero.it


Titolo: BORIS BIANCHERI Mr. President e il mondo
Inserito da: Admin - Settembre 10, 2008, 04:32:49 pm
10/9/2008
 
La pace dei sospetti
 
 
 
 
 
BORIS BIANCHERI
 
L a crisi in Georgia ha dimostrato quanto sia fragile oggi il tessuto che avvolge le relazioni tra l’Occidente e la Russia e quanto profonde siano le reciproche diffidenze. Una mossa azzardata del presidente georgiano Saakashvili e una risposta russa fuori misura hanno avuto l’effetto di produrre una serie di dichiarazioni americane e europee, e intimidazioni russe, di un’asprezza quale non si ricordava da tempo.

È vero che le parole hanno poi avuto seguito nei fatti solo in una direzione: Abkhazia e Sud Ossezia continueranno di fatto ad essere indipendenti come lo sono state per sedici anni, con l’aggiunta formale dell’apertura di sedi diplomatiche russe - annunciata ieri da Mosca - e forse protette da più consistenti schieramenti civili e militari di interposizione, così che l’Europa possa dire di aver dato un contributo decisivo alla pace, mentre la Georgia vedrà compensata la sua imprudenza con accresciuti aiuti umanitari americani.

Sta comunque di fatto che la crisi potrebbe riprendere o aggravarsi in qualsiasi momento perché non ha la sua causa in un preciso conflitto di interessi, sul quale si può sempre mediare e trovare soluzioni di compromesso, ma in sospetti e timori che hanno radici lontane nell’una e nell’altra parte e che persistono anche quando non vi sono immediate e concrete cause di attrito.

La Russia ha fatto chiaramente intendere da tempo che considera l’espandersi della Nato e dell’Unione Europea verso Est come una estensione dell’area di influenza dell’Occidente verso i propri confini e pretende di avere a sua volta una propria sfera di influenza da contrapporvi. L’Unione Europea, per parte sua, ha compiuto il suo affrettato allargamento a Est non, certamente, in funzione anti-russa, ma in coerenza con il suo più ampio ideale di integrazione continentale. E tuttavia, facendolo, ha importato al proprio interno gli inevitabili risentimenti e le preoccupazioni che i paesi dell’allargamento, dai baltici alla Romania, nutrono ancora nei confronti di una Russia che conoscono bene e che li aveva sino a vent’anni fa sotto il suo tallone.

Tocca ora agli europei decidere - ammesso che Mosca osservi le condizioni sul ritiro delle proprie forze dalla Georgia che le sono state richieste dal vertice tenuto a Bruxelles il 1° settembre - se riprendere il dialogo di partenariato Europa-Russia, che era già in programma per le prossime settimane, e quale contenuto darvi. Il partenariato euro-russo è un progetto dai confini piuttosto vaghi e flessibili, che vanno dall’energia alla sicurezza. Senza dubbio, è proprio all’energia che molti europei pensano prioritariamente, e tanto più vi pensano quanto più il loro paese è dipendente dalle importazioni e petrolio da e attraverso la Russia. Non è un caso che a far la voce più grossa contro la Russia sia stata a Bruxelles la Gran Bretagna, il paese che, avendo proprie fonti energetiche, non ha bisogno di importare gas russo.

Ma forse un dialogo circoscritto all’Unione Europea e alla Russia non basta. Avremo tra qualche mese a Washington un nuovo presidente degli Stati Uniti e non più l’anatra zoppa Bush, che manda in Georgia a fare discorsi bellicosi il suo vice Cheney, zoppo quanto lui. Quando il suo successore avrà preso il potere, potrebbe essere il momento di pensare a qualche iniziativa più vasta nella quale tutti gli interessati possano far sentire la loro voce per prevenire il ritorno a una guerra fredda di cui già si parla perfino con troppa facilità. Di pensare, cioè, a qualcosa come a una nuova Helsinki, la grande conferenza sulla sicurezza e la cooperazione in cui europei, americani e russi gettarono insieme nel 1975 le basi della distensione.

Più che di promettere unilateralmente a questo o a quel paese l’ingresso oggi nella Nato o domani nella Ue, si tratta di far venire meno la maggior ragione che spinge quei paesi a chiederlo con tanta urgenza. Più che di reinventare una nuova distensione, si tratta di evitare che il tessuto delle relazioni si aggrovigli ancora di più. Il compito di oggi mi sembra più facile di quello di allora e certamente non è meno importante.

da lastampa.it


Titolo: BORIS BIANCHERI Mr. President e il mondo
Inserito da: Admin - Novembre 04, 2008, 06:17:26 pm
4/11/2008
 
Mr. President e il mondo
 
 
BORIS BIANCHERI
 
In ogni parte del mondo, dall’Asia all’America Latina, dall’Africa all’Europa, non c’è chi non trattenga il fiato in attesa del risultato delle elezioni presidenziali americane. Nel 2000 fu decisivo un migliaio di voti in Florida per dare a Bush la vittoria su Gore. Anche questa volta, quali che siano i sondaggi a livello nazionale, non è impossibile che sia il risultato magari di uno solo dei 50 Stati americani a determinare, nel complesso meccanismo elettorale, la vittoria dell’uno o dell’altro dei candidati.

Se queste elezioni si svolgessero nel mondo intero, Obama sarebbe già praticamente eletto. In Europa, i sondaggi Gallup lo danno preferito con larghissimo margine, con punte particolarmente elevate in Germania e in Italia. Giocano in questa scelta i fattori più diversi: l’antipatia per Bush, il carisma personale di Obama, l’avversione alla guerra in Iraq, la trasposizione in chiave americana dei paradigmi ideologici e politici europei, il mito della fine dei pregiudizi razziali (anche se un’inchiesta fatta in Germania rivela che quasi nessuno dei tedeschi che vorrebbe Obama presidente in America sarebbe pronto a scegliere un Cancelliere di colore in casa propria) e infine la certezza che la vittoria del candidato democratico sarebbe vantaggiosa per l’Europa, per il legame transatlantico e per una concezione multipolare del mondo.

Tutte queste considerazioni possono essere più o meno condivise ma sono perfettamente legittime. Sull’ultimo punto, tuttavia - cioè che il successo di Obama darebbe luogo a una politica estera americana più vicina alla nostra visione del mondo - credo sia utile introdurre una nota di cautela. Non certo perché io pensi il contrario, e cioè che siano invece McCain e la sua squadra a concepire i rapporti internazionali in modo più vicino ai nostri interessi, ma per una cautela di carattere più generale.

Nessuno dei due candidati è stato particolarmente esplicito su come intende affrontare i vari temi internazionali che sono attualmente sul tappeto: i rapporti euro-americani, il clima, le relazioni con la Russia, l’incognita iraniana, la lotta ai talebani in Afghanistan e in Pakistan, e così via. Semmai, a sbilanciarsi di più, durante le primarie democratiche, era stata Hillary Clinton, che aveva elencato minuziosamente il suo punto di vista sui vari problemi del mondo, ma la cosa, come sappiamo, non le è servita a vincere. McCain e Obama sono stati più vaghi e prudenti, anche perché i singoli temi di politica estera interessano solo marginalmente gli elettori, in America come altrove.

La realtà è che la politica estera, anche se si tratta di una potenza globale come lo sono gli Stati Uniti, non può essere programmata in anticipo se non in termini tanto generali che non significano quasi più nulla. La guerra al terrorismo e l’intervento militare in Iraq non erano nei programmi di Bush più di quanto la guerra del Kosovo lo fosse in quelli di Bill Clinton. Bush, anzi, iniziò il suo mandato concentrandosi su problemi interni e mantenendo, sul piano internazionale, le iniziative dell’amministrazione precedente. Poi giunse l’11 settembre a sconvolgere gli Stati Uniti e il mondo e a dare della guerra al terrorismo un ruolo centrale condiviso da tutti. Ricordate il «siamo tutti americani» di quei momenti? Da lì nacque l’azione militare in Afghanistan e, dal successo di quella, l’operazione Iraq, fallimentare nella gestione della pace ancor più che della guerra.

Un governo può avere un programma di politica fiscale, di politica sanitaria, di espansione dell’economia o di riduzione della spesa pubblica perché sa di poter perseguire i suoi programmi presentando al proprio Parlamento delle leggi che, se approvate, conducono a questi risultati. Non è in suo potere programmare in termini altrettanto precisi la politica estera che è quasi sempre il frutto di una reazione ad avvenimenti estranei alla volontà di chi governa, di cui non si possono scegliere i tempi né, di solito, prevedere tutte le conseguenze, e di fronte ai quali occorre spesso fare scelte di intuito e improvvisazione.

La stessa dissoluzione dell’Unione Sovietica nel 1991, la scomparsa di un universo contro il quale l’America aveva lottato per decenni, colse il mondo di sorpresa e trovò gli Stati Uniti incapaci di contribuire a guidarla. La crisi in Georgia nello scorso agosto ha rischiato, per un eccesso di reazione da parte americana, di sconvolgere i propositi europei di pianificare laboriosamente dei nuovi rapporti con la Russia. Il Presidente degli Stati Uniti ha, in materia di politica estera, una grande autonomia. Il nostro futuro dipenderà più dalle sue doti di carattere che dalla bontà dei suoi programmi, più dal temperamento o dall’equilibrio che dalla forza della ragione, più dal caso che dalla ideologia. Speriamo bene.
 
da lastampa.it


Titolo: BORIS BIANCHERI.
Inserito da: Admin - Novembre 06, 2008, 08:47:34 am
6/11/2008
 
L'agenda del mondo e i 70 giorni di Bush
 
BORIS BIANCHERI
 

Il primo grande impegno internazionale dell’era del dopo Bush non sarà Obama a gestirlo ma lo stesso Bush. La prassi americana vuole infatti che un nuovo presidente eletto a novembre prenda il potere solo nel gennaio dell’anno seguente: passano così settanta spesso difficili e imbarazzanti giorni in cui tutti guardano al nuovo mentre ha il bastone di comando in mano ancora il vecchio. Si terrà tra poco negli Stati Uniti un G20 a livello di capi di Stato e di governo per un coordinamento globale sulla governance della finanza e del sistema monetario internazionale. A prescindere dal contenuto che l’incontro avrà e dalle opzioni che vi saranno presentate, qualora fosse già stato Obama ad alzare al più alto livello politico quello che sinora era stato un quadro prevalentemente tecnico, forse lo avremmo interpretato come il segno di un nuovo multilateralismo. In realtà è il frutto di una giustificata convinzione che gli interessi di tutti, e degli americani stessi in primo luogo, esigono su questo tema la più larga convergenza possibile. È verosimile e auspicabile che Bush associ Obama strettamente nel predisporre la posizione degli Stati Uniti. L’iniziativa, comunque, è stata sua e sarà lui a gestirla.

Ho avuto recentemente occasione di ricordare come l’agenda della politica estera dipende non tanto dalla volontà dei governi che debbono trattarla (fosse anche quello della sola superpotenza mondiale) quanto da avvenimenti imprevedibili o dagli sviluppi di crisi preesistenti ancora irrisolte. Sono soprattutto queste ultime quelle che Obama, quando entrerà alla Casa Bianca, si troverà di fronte.

La più drammatica di queste crisi, quella che più ha influito sui sentimenti dell’opinione pubblica americana contribuendo a orientarne il voto, è quella irachena. Che le forze americane siano destinate a lasciare il Paese in un futuro che si approssima, è ormai sicuro. Obama non ha indicato date certe. Se ciò sarà nel 2010 o dopo dipenderà dagli accordi che Washington negozierà con Al Maliki. La vittoria di Obama indurrà forse il governo iracheno a maggiore flessibilità o forse anche a stringere i tempi per condurre in porto il negoziato con Bush. Ma probabilmente, a dare una spinta al ritiro della costosissima e massiccia presenza militare americana saranno anche esigenze di bilancio in un difficile momento e con un impegnativo programma fiscale e di sostegno economico che Obama si accinge a perseguire.

È poi legittimo chiedersi quale influenza avrà il voto del 4 novembre sui rapporti russo americani, messi in difficoltà dalla crisi georgiana, dal sostegno dell’amministrazione Bush all’allargamento della Nato nel Caucaso e ancor più dall’installazione del sistema antimissilistico americano in Polonia. Chi si fosse aspettato una reazione di calore da parte di Mosca verso un futuro presidente di stampo potenzialmente più incline al dialogo, sarà stato sorpreso nel vedere che il presidente Medvedev ha scelto la giornata delle congratulazioni e degli auguri a Obama per lanciare un messaggio minaccioso in cui anticipa l’intenzione di installare apparati di disturbo radio sugli impianti americani. Come già in passato i russi credono che ai muscoli occorra reagire con i muscoli, quale che sia - democratico o repubblicano - il Dna dell’interlocutore. La vertenza sui missili resterà dunque per Obama, secondo ogni apparenza, un difficile banco di prova.

Sull’Iran, Obama ha parlato di disponibilità al dialogo, ma neppur questo è nuovo. Non è forse dialogo quello che si protrae ormai da tempo, senza successo, tra il gruppo cosiddetto 3 più 1 e le autorità di Teheran? Nessun’area, come questa, può infiammarsi per circostanze di cui è difficile valutare oggi la probabilità, perfino al di fuori della volontà dei protagonisti.

È possibile dunque che su molti temi caldi dei rapporti tra Stati non si verifichino nell’immediato degli sviluppi clamorosi. Questo non significa però che l’elezione di Obama, che questa giornata «storica» sotto il profilo interno, come lo stesso McCain l’ha definita, non rivesta un’altrettanto storica importanza nelle relazioni internazionali. In primo luogo per la straordinaria partecipazione che le elezioni del 4 novembre hanno avuto in ogni continente e in Europa in particolare, e per il grandissimo consenso che il successo di Obama sembra riscuotere. Esso viene interpretato come il segno di un mutamento profondo, di cui si aveva bisogno in un mondo incerto e pericolante. Può essere il punto di partenza per passare da una crescente diffidenza a una rinnovata fiducia nell’America, nella sua sorprendente forza di trasformazione e nella sua capacità di esercitare il ruolo che le compete nel mondo. Se così fosse, sarà stato davvero un giorno decisivo per il nostro avvenire.
 
da lastampa.it


Titolo: BORIS BIANCHERI. Pronto, parla Barack
Inserito da: Admin - Novembre 08, 2008, 09:09:58 am
8/11/2008
 
Pronto, parla Barack
 
BORIS BIANCHERI

 
Dobbiamo abituarci all’idea che, almeno per qualche mese, se non più, ogni cosa che Obama dica o faccia, o qualunque cosa si faccia o si dica di lui, finirà nella prima pagina di ogni giornale del mondo e nell’apertura di ogni notiziario televisivo. Non si è ancora calmato il chiasso suscitato dalla poco felice battuta di Berlusconi su un nuovo presidente americano giovane, bello e abbronzato (poco felice, a mio avviso, non tanto per le reazioni che può aver suscitato in America quanto per il baccano che era fatalmente destinata a suscitare in Italia) ed ecco che le telefonate fatte da Obama a vari leader mondiali tra mercoledì e giovedì danno luogo a mille congetture e maldicenze.

I primi sono stati i francesi ad annunciare che Obama aveva avuto un colloquio attorno a mezzanotte con il presidente Sarkozy. Poi si sono susseguiti i vari portavoce: anche la signora Merkel ha ricevuto una telefonata, si affrettano a dire a Berlino; e anche Gordon Brown, aggiungono da Londra. Veniamo a sapere così, man mano che il fuso orario lo permette, che Obama ha telefonato ai leader di Francia, Germania, Gran Bretagna, Israele, Giappone, Corea, Canada, Messico e Australia.

La Casa Bianca lo conferma e aggiunge, come per rassicurare gli assenti, che il neo-eletto presidente americano si riserva di incontrare altre personalità in occasione del vertice del G20 il 15 novembre.

Quale criterio ha seguito Obama con le sue telefonate? Evidentemente non ama le formule standard. Non ha incluso infatti tutti i Paesi del G8 e ha lasciato fuori la Russia e, sino a ieri sera, anche l’Italia. In Europa, ha dato la priorità al classico terzetto che, per esempio, conduce il dialogo con l’Iran, di Francia, Germania e Gran Bretagna. L’Italia - rassegniamoci - sta un gradino più sotto e non avrà contribuito ad alzarne le quotazioni presso Obama il fatto che il nostro presidente del Consiglio si trovasse a Mosca proprio nel giorno del suo trionfo, quasi nello stesso tempo in cui Medvedev pronunciava un discorso sullo stato della Federazione Russa e sulla sua politica estera, molto duro nei confronti dell’America e carico di minacce.

Dei cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, Obama ha lasciato fuori la Russia e non si è affrettato a chiamare Pechino. E questo è più inatteso, data la statura che ha oggi il grande Paese asiatico nei rapporti internazionali. Ma ricordiamoci che una politica di collaborazione con la Cina, da Nixon a George Bush, è stata inventata e perseguita soprattutto da parte repubblicana. Ha telefonato invece in Giappone, cosa naturale data l’importanza dei rapporti nippo-americani sia in campo strategico che in campo commerciale e finanziario, e vi ha associato la Corea, cosa che ci induce a riflettere una volta di più sullo straordinario progresso compiuto negli ultimi due decenni da questo Paese che molti sono abituati a considerare ancora come una promessa mentre supera, per prodotto interno e peso nel commercio internazionale, molti grandi Paesi europei.

Obama ha incluso, tra le sue, una telefonata a Shimon Peres: non ricordare Israele sarebbe stato una gaffe imperdonabile sul piano interno e si sarebbe prestato a pericolose interpretazioni su quello internazionale. Ha anche incluso saggiamente i due Paesi con cui gli Stati Uniti confinano, il Messico e il Canada, e l’anglofona Australia, con cui condivide nell’Oceano Pacifico notevoli interessi e che vi esercita un importante ruolo di equilibrio. Non risulta abbia telefonato in India e neppure in Brasile, ricordando forse che, quando Clinton citò una volta alcuni Paesi sudamericani tra i maggiori amici dell’America, sollevò in altri un putiferio.

Forse a questa lista, mentre scriviamo, si sono aggiunti altri Paesi. Forse non conviene darvi, comunque, più importanza di quanta ne meriti. Ci dice in ogni caso che Obama non si assoggetta volentieri a delle regole, né a quelle del protocollo né a quelle della politica estera istituzionalizzata. La quale, anche nella sua concezione del mondo, come in molte altre cose, è portatrice di qualche novità.
 
da lastampa.it


Titolo: BORIS BIANCHERI. La novità può venire dal Cairo
Inserito da: Admin - Dicembre 29, 2008, 11:17:36 am
29/12/2008
 
La novità può venire dal Cairo
 
 
 
 
 
BORIS BIANCHERI
 
Siamo talmente abituati all’insorgenza inaspettata di una crisi nella precaria convivenza tra israeliani e palestinesi, di un gesto che spazza via le laboriose speranze di dialogo e di pace o di un evento che fa temere di essere giunti ormai alle soglie di una guerra guerreggiata, che gli sviluppi drammatici di questi giorni, la ripresa dei lanci dei razzi Qassam contro Israele e la durissima reazione militare che ne è seguita, sembrano in fondo una ripetizione di quanto è già avvenuto in passato. Viene da pensare che a questa ennesima crisi farà seguito un ennesimo ritorno indietro. Tutte le diplomazie dei Paesi non direttamente coinvolti (e anche quelle di alcuni Paesi che si considerano coinvolti) invocano come prima cosa l’arresto della spirale di azioni e reazioni e il ritorno allo statu quo, per fragile che fosse. E forse sarà così.

Ma può darsi invece che questa crisi sia diversa e che allo statu quo, per un verso o per l’altro, non si torni. Intanto, è da dire che tre protagonisti di questo gioco sanguinoso sono alle soglie di una prova elettorale che dovrà confermare o rigettare la loro posizione al potere. Così è per Israele, dove la successione di Olmert apre prospettive incerte nel complicato schieramento delle forze politiche israeliane.

Il governo attuale non è responsabile della rottura della tregua, ma si è assunto la responsabilità di una reazione durissima. Le parole del bellicoso ministro Barak - «Siamo solo agli inizi» - sembrano destinate a mobilitare l’opinione pubblica interna, non certo a piacere a quella internazionale. I razzi Qassam, ancor più degli attacchi suicidi, sono la sola arma che eluda l’efficienza del sistema difensivo di Gerusalemme: Gaza in mano a Hamas è un rischio permanente, tregua o non tregua, per Israele meridionale; i conservatori, oggi ancor più di ieri, appoggiano chi fa di tutto per prevenirlo.

Anche Abu Mazen è alle soglie di una prova elettorale. Abbiamo visto negli ultimi tempi come, nella Cisgiordania sotto il suo controllo, le condizioni generali di vita della popolazione siano migliorate, grazie anche a un clima più costruttivo e ad aiuti internazionali. Il contrasto con la miseria di Gaza sovraffollata, retta da Hamas senza ordine e senza risorse, salta agli occhi di ogni palestinese. Che Hamas cerchi di contrastare i relativi successi di Abu Mazen in Cisgiordania e che, per farlo, sia disposto a rischiare perfino un ritorno degli israeliani nella Striscia di Gaza, non può sorprendere. Il terrorismo sa bene come sopravvivere anche alle occupazioni militari.

Infine, anche Ahmadinejad ha, a scadenza più lontana, un test elettorale che non può darsi per scontato. Per lui, profeta non della sconfitta ma della distruzione di Israele, ogni soluzione pacifica è inaccettabile. Una situazione di conflitto permanente, quale si è avuta per decenni, congiunta agli errori americani in Iraq, ha permesso all’Iran di essere sinora il solo vincente in questa eterna crisi mediorientale. Che la Palestina vada a ferro e fuoco non lo danneggerebbe e certo non smentirebbe le sue apocalittiche previsioni. Abbiamo così tre parti, ognuna delle quali, oltre a cercare di vincere la posta con gli avversari, deve difendersi alle spalle. Non certo le condizioni ideali per qualsiasi forma di compromesso.

C’è però un elemento di relativa novità, che sembra trapelare dalle dichiarazioni di taluni leader arabi, che suonano meno violente nei confronti di Israele di quanto i duecento morti e i quasi mille feriti dei raid delle forze israeliane potrebbero giustificare. Le riserve di alcuni governi islamici, soprattutto dell’Egitto, nei confronti di Hamas non sono beninteso cosa nuova. In più di una occasione Il Cairo aveva mostrato, anche recentemente, una tendenza a cercare soluzioni realistiche, di allargare, per esempio, i termini della tregua, di risollevare l’argomento del dialogo di pace, di comporre i dissidi interni tra palestinesi convocandone tutte le componenti politiche, senza peraltro ottenere la partecipazione di Hamas. Anche la conferenza stampa congiunta di ieri di Abu Mazen con il ministro degli Esteri egiziano è parsa meno dura nei confronti di Israele di quanto ci si sarebbe potuti attendere.

È presto per dire se i vertici dei Paesi arabi moderati intendono realmente fare un passo avanti verso una soluzione duratura del problema israelo-palestinese. La prossima riunione della Lega Araba darà forse indicazioni a questo riguardo. Intanto ce ne vengono da Gheddafi, il solo che minaccia fin da ora, senza sorprendere nessuno, il ferro e il fuoco delle sue parole. Certo, in questi giorni in cui le piazze islamiche si riempiono di manifestanti contro Israele, alcuni portaparola ufficiali del Cairo e del Golfo sono apparsi molto cauti. E non è un caso che un sondaggio popolare, fatto da Al Jazeera tra i suoi ascoltatori islamici, riveli una diffusa convinzione che la dura reazione israeliana sia stata incoraggiata sotto banco proprio da quei governi che avrebbero dovuto osteggiarla.

Che gli Stati Uniti siano temporaneamente assenti aggiunge un ulteriore elemento di incertezza, ma non cambia oggi la sostanza del gioco diplomatico. Siamo, in fondo, a una specie di prova generale in attesa che Obama prenda il comando. Ognuno cerca di indossare l’abito più appropriato: i duri fanno i duri, i moderati mostrano moderazione. Sperano, questi ultimi, che Obama non li smentisca.
 
da lastampa.it


Titolo: BORIS BIANCHERI. Obama-Iran la prossima mossa
Inserito da: Admin - Gennaio 31, 2009, 11:39:31 am
31/1/2009
 
Obama-Iran la prossima mossa
 
BORIS BIANCHERI
 

Obama ha dato un segnale di apertura e buona volontà all’Iran in termini molto equilibrati. Ha scelto un’emittente araba per lanciare un messaggio che auspica «vie di progresso» nei rapporti, con l’augurio che alla mano tesa di Washington Teheran non risponda con il pugno chiuso: un’espressione elegante, significativa e comprensibile dal pubblico islamico oltre che dal governo iraniano. La risposta che il presidente Ahmadinejad gli ha dato ventiquattr’ore dopo, in occasione di un discorso a Kermanshah, è stata più articolata. La stampa americana l’ha giudicata piuttosto deludente, anche se prevedibile.

Del suo programma nucleare - la causa più diretta di contenzioso che l’Iran abbia con la comunità internazionale e al primissimo posto delle preoccupazioni occidentali - il premier iraniano non ha detto nulla di nuovo. Ha fatto una lunga lista dei misfatti americani dal tempo dello Scià a oggi, per i quali si attende esplicite scuse, e ha aggiunto che aspetterà pazientemente di vedere se i propositi di cambiamento di Obama sono tattici o sostanziali. Naturalmente, ha ricordato che tra i crimini americani c’è il continuato appoggio alla causa sionista.

Che prospettive concrete si aprono nei rapporti internazionali con questo scambio di battute? Non molte, almeno nell’immediato. Per la ragione assai semplice che quanto è avvenuto nell’area mediorientale e centroasiatica negli ultimi anni dimostra che gli Stati Uniti hanno molto più bisogno dell’Iran di quanto l’Iran non abbia bisogno degli Stati Uniti. Sul tema nucleare, si chiedono all’Iran garanzie che i suoi programmi restino confinati all’ambito civile, ma non si hanno mezzi di pressione per imporlo. Le sanzioni, lo vediamo, sono poco efficaci: vari Paesi appaiono restii a renderle più severe e l’operazione esigerebbe comunque un vasto consenso internazionale difficile da raggiungere. Di azioni coercitive, neppure l’amministrazione Bush osava mai parlare ad alta voce e non è probabile che quella di Obama le prenda neppure in esame.

Ma c’è soprattutto la considerazione che, proprio in questi anni in cui l’Iran ha preso posizioni in contrasto con gli Stati Uniti, esso è diventato, per demerito degli altri protagonisti, una forza politica preminente e l’elemento chiave degli equilibri regionali. Attraverso Hezbollah ha acquistato una posizione di prima grandezza in Libano. Attraverso Hamas l’ha acquistata nel conflitto israelo-palestinese. La prossimità con l’Afghanistan gli ha attribuito un peso di rilievo nella soluzione del problema più grave e urgente della politica americana ed europea in Asia. Mentre gli Stati Uniti perdevano prestigio internazionale e si dissanguavano umanamente e finanziariamente in Iraq, l’Iran riacquistava peso politico in quel Paese attraverso la componente sciita e vedeva intanto il suo vicino-rivale indebolirsi. Nessun altro ha guadagnato qualcosa nella roulette mediorientale dall’11 settembre a oggi. Israele non ha guadagnato sicurezza, malgrado l’abbandono di Gaza, e ne abbiamo ogni giorno la prova. Il Libano non ha guadagnato in coesione. I palestinesi non hanno certo migliorato le loro condizioni di vita e la prospettiva di uno Stato palestinese non si è avvicinata malgrado il tempo trascorso. L’Iraq è nello stato che sappiamo. L’America non ha guadagnato in prestigio e l’Europa non ha guadagnato in credibilità. Solo l’Iran, quasi senza muoversi, ha incassato le poste degli altri. Non c’è da stupirsi che Ahmadinejad dica che aspetta con pazienza di vedere quel che gli Stati Uniti faranno in futuro. Può permettersi di aspettare perché il tempo ha lavorato per lui.

da lastampa.it


Titolo: BORIS BIANCHERI. Sarkò cancella De Gaulle
Inserito da: Admin - Marzo 12, 2009, 11:09:31 am
12/3/2009 - NATO
 
Sarkò cancella De Gaulle
 
 
BORIS BIANCHERI
 
Da alcune settimane, l’opinione pubblica francese - politici, giornalisti e intellettuali in testa - si è appassionata ad un dibattito che, ai nostri occhi, sembra un po’ remoto: se la Francia debba invertire la decisione presa dal generale De Gaulle nel 1966 tornando a far parte della struttura militare della Nato dalla quale, a partire da quell’anno lontano, si è dissociata. Il presidente Sarkozy, infatti, aveva da qualche tempo fatto trasparire l’intenzione di invertire quella scelta di allora, che fu clamorosa perché sanzionò, assieme alla creazione del deterrente nucleare, la cosiddetta «Force de frappe», l’autonomia della Francia rispetto alla supremazia militare americana.

Il rientro nella struttura militare integrata - facevano capire all’Eliseo negli scorsi giorni - si formalizzerà solennemente il 4 e 5 aprile, quando tutti i Paesi della Nato celebreranno insieme il sessantesimo anniversario dell’Alleanza Atlantica. E ieri sera Sarkozy ha confermato, in un discorso pronunciato alla storica Scuola Militare di Parigi, tale proposito che dovrà essere sanzionato da un voto del Parlamento nei prossimi giorni.

Non tutti in Francia si erano detti d’accordo. Alcuni, paradossalmente soprattutto a sinistra, considerano inutile, e perfino disdicevole, l’abbandono della linea gollista. Sono stati fatti anche dei sondaggi popolari che hanno indicato però un vasto consenso, soprattutto tra i giovani, sulla posizione di Sarkozy. Un ultimo sondaggio, sul quale si hanno per ora solo delle anticipazioni, dovrebbe rivelare un ancor più largo favore dei francesi all’abbandono della linea di gloriosa solitudine preconizzata un tempo da De Gaulle.

In Italia, dove più che delle glorie del passato si ama discutere delle colpe del presente, un simile dibattito appare scarsamente comprensibile, e comunque molto astratto. Probabilmente non a torto. Perché, a pensarci bene, che la Francia rientri o no nella struttura integrata della Nato, che il Sarkozy di oggi prevalga sul De Gaulle di ieri, non cambia in realtà nulla.

Non cambia sul piano del principio della sovranità nazionale, perché le decisioni nella Nato sono prese comunque all’unanimità e l’invio di contingenti di truppe avviene, anche per gli altri Paesi, solo su base volontaria.

Non cambia sul piano dell’efficienza militare operativa, dato che la Francia ha partecipato a tutte le iniziative militari svolte dall’Alleanza negli ultimi tempi, dalla Bosnia, al Kosovo, all’Afghanistan, indipendentemente dalla sua partecipazione ai comandi integrati.

Non cambia nulla, in realtà, neppure sul piano politico. Il gesto di De Gaulle ebbe a suo tempo un significato molto chiaro di presa di distanza dalla supremazia politico-militare americana. Da allora molta acqua è passata sotto i ponti e i rapporti franco-americani si misurano oggi su terreni che poco hanno a che vedere con la Nato, come è stato il caso della guerra in Iraq, o di tanti aspetti della questione mediorientale, o delle relazioni con la Russia, o della crisi georgiana.

Sussiste, evidentemente, un certo valore simbolico nell’essere o meno membri di una struttura militare integrata e di accettare o meno di prendere, se del caso, ordini da un generale americano o di qualche altro paese dell’Alleanza. Ma, come abbiamo visto, le giovani generazioni danno a tutto questo poca importanza, forse anche perché cosa esattamente sia la Nato e a cosa serva, lo sanno meno da quando l’Unione Sovietica non c’è più.

Ma allora, se tutto sommato la «storica» decisione di tornare a pieno titolo nella Nato non cambia nulla, perché tanto chiasso in Francia? E perché Sarkozy vi dà tanto rilievo? Si possono dare due interpretazioni. L’una, pragmatica, è che il rientro nella struttura integrata darà alla Francia in po’ più di voce in capitolo e le frutterà qualche alto posto di comando, che già si sta negoziando sotto banco con gli americani. L’altra, psicologica, è che il presidente Sarkozy, a differenza di De Gaulle che occupava tutta la scena mediatica con la sua grande figura immobile, ama occupare la scena muovendosi in continuazione. La Nato, assieme a tante iniziative mediatiche prese all’interno e all’estero, gliene fornisce una nuova favorevole occasione.
 
da lastampa.it


Titolo: BORIS BIANCHERI. Un test per Obama
Inserito da: Admin - Maggio 26, 2009, 03:26:30 pm
26/5/2009
 
Un test per Obama
 
 
BORIS BIANCHERI
 
Lì per lì i sismografi l’avevano scambiata per una scossa di terremoto di medio-alta potenza avvenuta in qualche inospitale landa dell’Estremo Oriente: 4,5 gradi della scala Richter.

Più di un punto al di sotto di quella che ha devastato l’Abruzzo. Poi si è capito che non si trattava di una scossa ma di un’esplosione e se ne è avuta conferma quando l’agenzia di stampa di Pyongyang, Kcna, ha diffuso ufficialmente la notizia che un test atomico sotterraneo era stato eseguito da parte della Corea del Nord alle 10 ora locale mentre a Washington ci si apprestava al sonno e in California era pomeriggio. Un ordigno considerevole, di forza stimabile tra 10 e 20 chilotoni, superiore, per intenderci, alla bomba atomica che nel 1945 distrusse la città di Hiroshima.

Non è cosa nuova, naturalmente. Da anni la Corea del Nord tiene in agitazione i governi di buona parte del mondo e soprattutto quelli di Washington e di Tokyo con un progressivo aumento della propria capacità nucleare. Il Paese ha da tempo superato la fase di produzione del materiale fissile e ha tradotto questa capacità in un primo test sotterraneo di alcuni anni fa, cui hanno fatto seguito riuscite prove di lancio di missili a corto e medio raggio, l’ultima delle quali recentissima, al principio di aprile.

A dire il vero, anche questa volta come nel passato alcuni Paesi - Stati Uniti, Cina, Corea del Sud - erano stati avvertiti dell’esplosione con un’ora di anticipo: non si tratta beninteso di una questione di buone maniere. I nordcoreani si sono premuniti di non far scattare in America uno stato di allarme nucleare con le ripercussioni che ciò potrebbe comportare sia sul piano interno che su quello internazionale.

Le reazioni della comunità internazionale all’avvenimento sono state, come prevedibile, di riprovazione e di allarme, con alcune sfumature. Vi è stata la rituale richiesta di convocazione d’urgenza del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite affinché emani una non meno rituale risoluzione di condanna. Il segretario generale dell’Onu ha espresso preoccupazione e altrettanto hanno fatto i singoli governi, chi - come il ministro Frattini - definendola una minaccia alla pace, e chi - come Solana - parlando di atti irresponsabili. Se i nordcoreani volevano saggiare i tempi di reazione di Obama a questa provocazione, hanno riscontrato che essi sono stati immediati: il Presidente americano ha fatto capire che Pyongyang sta sfidando in modo sconsiderato il mondo e che il mondo è legittimamente autorizzato a reagire. Di quale reazione possa trattarsi, tuttavia, non si è parlato.

Tutto ciò era, alla fin fine, prevedibile. Non si investe quel che la Corea del Nord - che non abbonda né di capitali né di ricchezze del suolo - ha investito nel proprio programma nucleare e missilistico senza spingere fino in fondo la propria azione. L’Iran, che è il solo Paese che non si sia finora associato alla riprovazione generale, sfida da anni il mondo su questo stesso terreno riscuotendo se non l’assenso quantomeno solo un modesto dissenso da parte di Russia e di Cina, la reprimenda dell’Agenzia internazionale dell’energia atomica e incassando una sull’altra cinque risoluzioni negative del Consiglio di Sicurezza dell’Onu senza battere ciglio.

Quel che è più difficile capire è perché, dopo essersi pochi anni fa dichiarata disposta a rinunciare al programma nucleare in cambio di aiuti e garanzie di sicurezza, la Corea del Nord abbia contraddetto tali intenzioni riprendendo il suo programma e abbia scelto una stagione internazionale ricca di speranze di pacificazione e dialogo come quella inaugurata dalla presidenza Obama per dare a tale programma una clamorosa e minacciosa visibilità. Può darsi che proprio questo, oltre alla ben nota imprevedibilità delle dittature, sia stato l’elemento che ha dettato il gesto nordcoreano: la condizione che l’amministrazione Obama e il nuovo corso più multilaterale e meno decisionista inaugurato a Washington assicuri perfino ai reprobi maggiore immunità.

A fronte del benessere crescente che ha segnato a lungo l’esistenza dei Paesi dell’Asia orientale, la Corea del Nord, arroccata nel proprio isolamento, vive una vita di miti illusori. La forza militare e l’appartenenza al club esclusivo dei detentori di armi nucleari è uno di questi miti. Ora non sarà facile dare una risposta al comportamento di Pyongyang che vada al di là delle espressioni di preoccupazione e di condanna. Ci accorgeremo sempre più che il superamento dell’unilateralismo americano dell’era Bush richiede una volontà di collaborazione da parte di tutti nel far osservare quelle regole di comportamento internazionale che da troppo tempo le Nazioni Unite non sembrano più in grado di far rispettare.
 
da lastampa.it


Titolo: BORIS BIANCHERI. La crisi oscura l'Europa
Inserito da: Admin - Giugno 06, 2009, 05:41:46 pm
4/6/2009
 
La crisi oscura l'Europa
 
 
BORIS BIANCHERI
 
Siamo dunque giunti alla vigilia delle elezioni europee dopo una delle più deprimenti campagne elettorali che la storia del nostro Paese ricordi. E, oltretutto, non siamo i soli. Anche a risalire fino al lontano 1979, quando si tennero le prime elezioni per un Parlamento europeo, che pure non aveva allora alcun potere reale e che fu eletto entusiasticamente con una percentuale di voti mai eguagliata nei trent’anni successivi.

In questa nostra ultima campagna elettorale si è parlato di tutto e del contrario di tutto, anzi forse più del contrario che del tutto. Ma la parola Europa si è sentita poco: anche quando i candidati sono scesi sul terreno dei fatti e dei programmi hanno parlato soprattutto di problemi di carattere interno - sicurezza, immigrazione, riforme costituzionali, interventi diretti dello Stato a sostegno di imprese - su cui il Parlamento da eleggere avrebbe solo poca diretta influenza. Come il presidente Napolitano ha fatto osservare, di Europa si è dibattuto poco.

Enon si è fatto uno sforzo per spiegare come e quanto le delibere del Parlamento di Strasburgo incidano invece sulla vita quotidiana dei cittadini.

Eppure, si può dire approssimativamente che più della metà della legislazione nazionale risente oggi di decisioni prese in ambito europeo. Come mai allora tanta indifferenza non solo nei singoli elettori ma anche nelle organizzazioni sindacali, nelle associazioni di categoria o in quelle dei consumatori? Va detto che la comunicazione sui problemi europei sul piano nazionale è stata spesso più di tipo generico/retorico che rivolta all’attualità. Quella proveniente da Bruxelles, poi, soprattutto in questi ultimi tempi, con una presidenza della Commissione fiacca e una presidenza del Consiglio europeo a dir poco fredda, non ha certo aiutato. Il risultato è che i sondaggi sembrano indicare che su 380 milioni di elettori in tutta Europa, meno del 40 per cento andrà effettivamente alle urne.

Il fatto è che se noi abbiamo i nostri mali gli altri non sono da meno. È evidente che la crisi economica in atto, la preoccupazione che alla fase dei dissesti bancari segua una fase di disoccupazione crescente e di perdita di potere d’acquisto delle famiglie a reddito basso, prevale in questo momento sull’obiettivo di una maggiore coesione e integrazione europea, che richiede invece coraggio e ottimismo. In Inghilterra, il dibattito elettorale, che in Italia è stato monopolizzato da scandali e pettegolezzi, è stato ugualmente influenzato da scandali di diversa natura, come quello dei rimborsi-spese dei parlamentari, meno piccanti forse ma non meno inquietanti.

In Francia, anche esponenti di antica fede europea come Bayrou hanno condotto una campagna elettorale di ordine domestico sul filo del pro o contro Sarkozy. Ed è significativo che lo stesso ministro degli Esteri Kouchner abbia dichiarato - e la stampa anglosassone si è affrettata a sottolinearlo - che non sa bene per chi votare. In Germania si è pensato soprattutto alle elezioni nazionali del prossimo autunno e, negli ultimi tempi, alla Opel.

A parlare forte di Europa sono stati invece soprattutto coloro che la respingono: i conservatori radicali in Gran Bretagna, gli estremisti di destra in Olanda e in Francia, tutti coloro che guardano all’immigrazione, per non parlare di ulteriore allargamento, come a una incombente minaccia.

Non c’è dubbio: l’ombra che passa sull’Europa ha la sua origine anche nella congiuntura economica, che fa sì che ognuno pensi soprattutto a sé, al suo villaggio, al suo borsellino. Ma mancano spiriti che guardino lontano e che sappiano sfidare i tempi: la nostra generazione sembra fatta di uccelli notturni che hanno paura di annunciare il giorno. Quando verranno animi più arditi e spiriti visionari?
 
da lastampa.it


Titolo: BORIS BIANCHERI. Ingenui con il rais
Inserito da: Admin - Giugno 13, 2009, 09:28:09 am
13/6/2009
 
Ingenui con il rais
 
 
BORIS BIANCHERI
 
Che si debba avere con la Libia un rapporto cordiale, amichevole e costruttivo non lo può mettere in dubbio nessuno. La Libia è un paese vicino, si può dire addirittura confinante, data la facilità con cui dalle sue coste si raggiungono quelle dell'Italia e delle nostre isole. Appartiene a quell'area mediterranea dove abbiamo infiniti interessi economici e politici che hanno carattere per noi prioritario e che meritano di essere tutelati e coltivati.

In nome di tali interessi, con molta pazienza, per circa dodici anni abbiamo intessuto un lungo negoziato al fine di comporre un contenzioso tra i due paesi lasciato dalla storia e dall'eredità coloniale, reso ancor più difficile dal carattere stizzoso e imprevedibile di chi da quaranta anni governa a Tripoli. Tutte le potenze coloniali hanno conosciuto simili difficoltà con le loro ex colonie, ma poche hanno avuto problemi così complessi come quello che abbiamo incontrato noi nel tentativo di mettere ordine nei rapporti italo-libici. Chi scrive ha avuto occasione di partecipare a questo processo e perfino di predisporre una primissima ipotesi di intesa con l’allora Vice Ministro degli Esteri libico Al Obeidi, al tempo del governo Prodi nei tardi Anni Novanta e ne conserva ben vivo il ricordo.

Bene abbiamo fatto a proseguire su questa strada senza farci scoraggiare dalle richieste finanziarie libiche e dagli oscillanti umori della controparte. La necessità che la Libia collabori attivamente nel controllo dell'immigrazione clandestina e i nostri interessi economici soprattutto, ma non solo, nel settore energetico, hanno giustamente prevalso. Ed era anche giusto secondo il protocollo ricambiare l'invito fatto da Gheddafi al nostro presidente del Consiglio, invitandolo a venire a Roma. Ma qui sarebbe stato bene fermarsi. Non parlo delle manifestazioni di colore come la tenda alzata a Villa Doria Pamphili e non penso neppure alla fotografia collocata sulla sua vistosa uniforme. Ma non c'era nessun bisogno di invitarlo a parlare sia al Senato che alla Camera dei Deputati, offrendogli il destro di una monumentale scortesia ed obbligando il Presidente Fini a cancellare l'incontro perché l'ospite non si era ancora presentato due ore dopo. E poi di proporgli un intervento all'Università. E poi di offrirgli altre occasioni di allocuzioni pubbliche senza prendere la precauzione di mettere qualche paletto al suo linguaggio, soprattutto quello usato verso paesi che sono nostri amici ed alleati. Quel che Gheddafi ha detto degli Stati Uniti e del terrorismo è francamente, oltre che insulso, offensivo.

Vero è che il mondo è da tempo abituato alle intemperanze di Gheddafi e che lui è il solo responsabile delle sue parole. Vero è anche che il nostro Ministro degli Esteri ha preso con garbo qualche distanza. Ma, ricordiamoci come non tanto tempo fa molti hanno rimproverato all'Alto Commissario per i Diritti Umani di aver offerto ad Ahmadinedjad, durante la conferenza di Ginevra sul razzismo, una platea di massima risonanza a delle espressioni inammissibili nei confronti di Israele e del suo popolo, al punto che i delegati europei si sono alzati e se ne sono andati. Non possiamo stupirci se oggi qualcuno rimprovera all'Italia, nella stampa e anche nelle cancellerie, di aver ingenuamente offerto a Gheddafi un troppo nobile palcoscenico per la sua commedia.

Peccato. Perché se i buoni rapporti con la Libia sono importanti sotto tanti punti di vista, ci sono altri rapporti che dobbiamo guardarci bene dal mettere a rischio e suscettibilità che non dobbiamo sottovalutare. Secondo i programmi, sinora ufficiosi, Gheddafi dovrebbe tornare nel nostro paese in occasione del G8 dell'Aquila: non come capo dello stato libico, stavolta, ma come presidente di turno dell'Unione Africana. Una platea ancora più spettacolare per chi manifestamente ama dare spettacolo. Siamo ben certi che questa volta tutti i possibili paletti siano stati messi e tutte le possibili precauzioni siano state prese? Siamo certi di non offrire al leader libico l'occasione di qualche nuova trovata e alla comunità internazionale il pretesto di qualche sopracciglio alzato per una leggerezza all'italiana?
 
da lastampa.it


Titolo: BORIS BIANCHERI. Obama provoca il Cremlino
Inserito da: Admin - Luglio 04, 2009, 12:23:06 pm
4/7/2009
 
Obama provoca il Cremlino
 
BORIS BIANCHIERI
 
C’è un passaggio dell’intervista concessa da Obama all’Associated Press, alla vigilia della partenza per Mosca, che ha fatto sobbalzare più di un lettore sulla sedia. Parlando dei suoi futuri interlocutori a Mosca, il presidente degli Stati Uniti ha osservato come il primo ministro Putin abbia ancora influenza nella gestione degli affari correnti ma come la sua visione conservi anche tracce di una impostazione ormai superata. Per contrasto, ha fatto un elogio del presidente Medvedev con il quale, ha rilevato, intrattiene rapporti eccellenti.
È, a dir poco, del tutto inusuale che alla vigilia di un importante incontro internazionale - tra i più delicati e difficili sinora avuti da Obama, per il numero di problemi sul tavolo e per l’eredità storica dei rapporti tra i due Paesi - il presidente Usa faccia distinzione tra le massime cariche dello Stato che si accinge a visitare, accordando all’una, il Presidente, una buona pagella e all’altro, il primo ministro, un voto che non raggiunge la sufficienza.

Cosa può aver indotto Obama a un simile linguaggio? Negli ambienti più liberali e intellettuali russi, senza dubbio si spera in una evoluzione in senso maggiormente liberale dell’intera società russa e si fa assegnamento su Medvedev perché ciò si realizzi: la loro voce raggiunge certo alla Casa Bianca anche orecchie vicine a quelle di Obama. C’è poi da dire che in politica estera, e cioè sui grandi argomenti che verranno discussi a Mosca oggi, è il presidente Medvedev che ha voce in capitolo, e non il primo ministro Putin: la costituzione russa non lascia dubbi in proposito e sarà dunque Medvedev il primo e vero interlocutore di Obama. Infine, il presidente americano ha sicuramente inteso dare così al suo viaggio una nota di ottimismo, come ha fatto già in passato e come è nel suo carattere, dicendo in sostanza: la mia è una politica di pace e di distensione nel mondo e ho fiducia di avere i migliori interlocutori per attuarla.

Tutto ciò detto, non si può ignorare che Medvedev è uomo di Putin, che si trova al potere grazie a lui e che la popolarità di Putin è tuttora, nella grande maggioranza della popolazione russa, infinitamente superiore a quella di chi, fino allo scorso anno, era un abile e intelligente burocrate che poi ha preso il suo posto. C’è anche da dire che al fondo dei rapporti russo-americani (come anche di quelli con l’Europa) sta l’eterna questione dell’influenza della Russia nei Paesi dell’area che direttamente la circonda e che essa considera di suo strategico interesse, dall’Ucraina, alla Bielorussia, alla Moldova, alla Georgia e agli altri Paesi del Caucaso e dell’Asia Centrale. È qui che la Russia viene sfidata da alcuni di questi stessi Paesi nonché dall’Occidente, quando si parla di estendere la Nato (o l’Unione Europea) ai suoi confini, subentrando così in ciò che a Mosca si considera una specie di dominio riservato, come il caso della Georgia insegna. Ora, questo non è un tema sul quale si può finora intravedere qualche divaricazione tra Putin e Medvedev: è un tema al quale si riconnettono l’anima russa e l’intera storia russa; è un tema profondamente sentito a livello popolare, una sembianza di grandezza che sopravvive al trauma del collasso dell’antico impero zarista e poi sovietico e alla frantumazione dell’ex Urss in quindici diverse repubbliche.

È quindi legittimo il dubbio che la sottigliezza di Obama nel distinguere tra Putin e Medvedev prima di incontrarli sia, da questo punto di vista, molto lungimirante. Putin ha replicato a Obama, abbastanza seccamente, che lui ha i piedi ben piantati nel presente. Il portavoce del Cremlino, invece, ha dato al Presidente americano una risposta ineccepibile: Obama non è evidentemente in possesso di tutte le informazioni necessarie su ciò che accade in Russia. Ancora più utile, quindi, è la sua visita, così che possa constatare che tra il presidente Medvedev e il primo ministro Putin non vi è nessuna divergenza di posizioni. Se tutto questo fosse solo un gioco diplomatico, direi che finora i russi sono in vantaggio di 2 a 1.

da lastampa.it


Titolo: BORIS BIANCHERI. Sindrome Onu per i grandi
Inserito da: Admin - Luglio 07, 2009, 11:13:02 pm
7/7/2009
 
Sindrome Onu per i grandi
 
 
BORIS BIANCHERI
 
Quando nacque, nei lontani Anni Settanta, era molto diverso. Si erano incontrati una volta in un’isola dei Caraibi i leader di Stati Uniti, Giappone, Francia, Germania e Gran Bretagna e crearono il G5. Venne aggiunta l’Italia e diventò il G6. Poi, l’anno dopo, il Canada e fu il G7. E tale restò per lungo tempo. Non era tanto nel numero dei partecipanti che era diverso, quanto proprio nella sostanza. Era, quello, un incontro riservato e confidenziale dei massimi dirigenti di un gruppo di Paesi che avevano gli stessi principi, credevano negli stessi ideali e volevano coordinarsi tra loro per far prevalere la loro visione nell’ordine internazionale. Sette paesi con «menti simili», o «like minded», come dicono con un’espressione felice gli anglosassoni. Per operare efficacemente, pensavano i leader di allora, occorre anzitutto essere pochi: l’ingresso dell’Italia fu dovuto in parte all’abilità di un nostro diplomatico che non ha mai voluto mettersi sotto i riflettori e soprattutto alla volontà di inglesi e americani di ancorare all’Occidente un’Italia tentata dal compromesso storico. Il Canada fu aggiunto per riequilibrare il peso tra le due sponde dell’Atlantico. E a quel punto basta. Pochi i Paesi e pochissimi i collaboratori. L’ideale, diceva il primo ministro britannico di allora, sarebbe stato un incontro limitato ai soli sette Capi di Stato o di Governo. Fu poi aggiunto un collaboratore per ciascuno, che venne chiamato «sherpa» come le guide himalayane, nella convinzione che se una vetta da scalare è alta, una guida può essere utile, ma è meglio che sia uno del luogo e meglio ancora se parla male la nostra lingua.

I risultati dei G7 di allora non richiedevano laboriosi testi scritti o decisioni pubbliche formali. Erano un confronto di posizioni, una ricerca di linee di indirizzo per affrontare in modo coordinato alcuni dei grandi problemi internazionali del momento. Come è accaduto che un simile strumento pragmatico e snello si sia trasformato nella immensa macchina politica e mediatica dei vari G attuali, che si muove in ogni dimensione, con diversi formati e con tutta una galassia di inviti e convocazioni accessorie? Un poco hanno contribuito i no global, inventando per i G7 un ruolo decisionale che non avevano. In parte, evidentemente, è il frutto inevitabile della globalizzazione e del policentrismo mondiale. Ma è soprattutto il frutto di un equivoco, che si è prodotto quando il G7 è stato allargato alla Russia nel presupposto che con il dissolvimento dell’Urss la Confederazione Russa avrebbe condiviso al 100 per cento tutte le posizioni e i valori del mondo occidentale. Così non è. La Russia è un partner indispensabile e prezioso con il quale, come vediamo in questi giorni, si negozia, ma con il quale sussistono anche posizioni di fondo che sono molto distanti. Da strumento di concertazione e raccordo, il pianeta del G8, che dopo la Russia ha inglobato altri paesi, anzi interi altri continenti, è diventato un foro di negoziazione globale che in teoria aspira a disciplinare l’intero stato del mondo. Cioè una specie di Onu senza regole scritte dove si parla e si discute di tutto, dall’ambiente (forse il tema più arduo in assoluto), alla finanza, alle crisi regionali, partendo quasi sempre da punti di vista opposti. Questo spiega come mai al G8 dei ministri degli Esteri di Trieste fossero giunte - lo dice chi le ha contate - qualcosa come quaranta delegazioni. Questo spiega anche come mai gli ordini del giorno delle riunioni si allunghino all’infinito mentre poi l’unanimità, malgrado gli sforzi della presidenza (e da parte italiana l’impegno non manca), si trova più che altro su affermazioni di carattere generale.

Nulla di male, in fondo. Parlarsi, anche quando non si conclude, è sempre meglio che combattersi. Ma siamo certi che il vecchio G7, che metteva insieme alcuni Paesi realmente vicini nella ispirazione di fondo e nella gran parte dei loro interessi, non possa tornare ad essere utile? Lasciando che il G8, o comunque si chiami, continui ad allungarsi all’infinito?

da lastampa.it


Titolo: BORIS BIANCHERI. Sanità lo stallo di Obama
Inserito da: Admin - Luglio 24, 2009, 11:05:42 pm
24/7/2009
 
Sanità lo stallo di Obama
 
 
BORIS BIANCHERI
 
Succede spesso nelle democrazie che gli ultimi giorni prima delle vacanze estive, quando i lavori parlamentari si accelerano e il caldo rende bollenti gli spiriti, siano anche quelli più spinosi per chi governa.

Questo è quanto accade a Barack Obama che, a nove mesi dalla sua strepitosa vittoria elettorale e dal consenso planetario allora raccolto, si accorge adesso quanto gestire il potere sia più difficile che raggiungerlo. Lo scoglio maggiore che ha davanti è il piano sanitario, o meglio l’estensione dell’assistenza sanitaria dello Stato ai circa 46 milioni di cittadini americani che attualmente vi provvedono attraverso il sistema privato o non vi provvedono affatto. Che fosse un’impresa difficile Obama lo sapeva: altri presidenti avevano provato prima di lui, ultimo di questi Clinton - che aveva poi affidato cavallerescamente il compito alla moglie! - e tutti, inclusi i Clinton, erano falliti. E tuttavia Obama ne ha fatto una bandiera che ha agitato ininterrottamente fino alla conferenza stampa di ieri l’altro.

Il Presidente ha dalla sua parte la vasta aspettativa creata da un progetto di cui si parla da decenni, la sua grande popolarità personale, la comoda maggioranza democratica in parlamento. E ha infatti affidato a Camera e Senato il compito di elaborare dei progetti, non sugli aspetti tecnici della legge ma su quello che il parlamento americano dovrà a suo tempo approvare, e cioè la spesa. Ma è qui che le cose si complicano, perché le stime sono che la legge costerà tra i 1000 e i 1500 miliardi di dollari. Ora, una somma simile non si trova in qualche anfratto del bilancio: o si fanno grandi economie in altri settori e magari in quello stesso della sanità, o si mettono nuove tasse. A quest’ultima soluzione hanno pensato i democratici, sollevando la scontata opposizione dei repubblicani ma anche quella di molti di loro, soprattutto se eletti negli Stati più conservatori.

Perché - dicono costoro - saranno sempre i cittadini a pagare, ma chi ci dice che l’assistenza dello Stato sarà gestita meglio e a minor costo di quella privata? Obama ha pensato allora che le nuove tasse gravino solo sui più ricchi, cioè che una parte del Paese si faccia carico del costo dell’altra. Una soluzione coerente con i suoi principi e la sua filosofia politica, ma non con quella di molti americani che al solo sentore di socialismo strisciante sussultano: che chi ha di più paghi di più è giusto; ma quel di più che paga deve andare a tutti e non solo a taluni.

È una secca pericolosa, questa, che la nave di Obama dovrebbe oltrepassare entro i primi d’agosto, perché cambiare ora la rotta è difficile. Forse proverà a ritardare, e già la promessa di varare la legge entro ottobre è slittata a fine anno.

Qualche battuta d’arresto, d’altronde, c’è stata anche sul fronte internazionale. La mano tesa verso l’Iran non è stata ricambiata con il calore previsto e ora, dopo quel che è successo là, appare anche intempestiva. Alla sfida nucleare iraniana si è aggiunta, ben visibile e tracotante, quella del Nord Corea. I rischi di ulteriori proliferazioni sembrano oggi più realistici dei sogni di denuclearizzazione generale.

Infine, oltre all’Afghanistan, un vero banco di prova che sembra però diventare l’Iraq di qualche anno fa, c’è la Russia. Il viaggio di questi giorni del vice presidente Biden in Ucraina e Georgia è l’altra faccia della visita fatta da Obama a Mosca poco tempo fa. Presidente e vice presidente sono d’altronde le due facce di una linea politica: quella di Obama innovativa, decisionale e altamente mediatica, quella di Biden più tradizionale e conservatrice. E così è stato il loro linguaggio. Obama ha parlato ai russi dell’avvenire e Biden ad ucraini e georgiani del passato, rassicurandoli che gli Stati Uniti non hanno cambiato idea su un loro eventuale ingresso nella Nato.

Il problema è che Obama ha bisogno della collaborazione della Russia su tutti i grandi temi del momento, che sia il nucleare, l’energia, l’ambiente, l’economia, le crisi regionali o i loro stessi rapporti bilaterali. Ma anche che è sempre più chiaro che per i russi questi passano attraverso qualche forma di accettazione di un principio di non ingerenza, e la Nato lo sarebbe, nell’equilibrio della «loro» area. C’è dunque uno stallo, interno ed esterno. Obama ha tutto il consenso, la forza e la capacità di superarlo, ma non sarà con una conferenza stampa, né con un solo colpo d’ingegno. I nodi sono molti e scioglierli richiede pazienza: una dote che Obama non ha dovuto sinora mettere alla prova.

 
da lastampa.it


Titolo: BORIS BIANCHERI. Il Giappone si gioca il futuro
Inserito da: Admin - Agosto 04, 2009, 03:20:50 pm
4/8/2009
 
Il Giappone si gioca il futuro
 

BORIS BIANCHERI
 
Del Giappone si parla poco. I media di tutto il mondo lo menzionano di solito quando gli animalisti lo attaccano per la pesca alle balene o se c’è stato un terremoto. In Italia se ne è parlato recentemente in relazione a un calo dei visitatori giapponesi nel nostro Paese e ad un conto astronomico presentato a due ignari turisti in un noto ristorante romano. (Avendo vissuto per sei anni in Giappone, dirò tra parentesi che un conto di 1000 euro per due non è del tutto sorprendente in certi raffinatissimi ristoranti di Tokyo o di Kyoto). Comunque sia, è un fatto che quel che accade in Giappone, seconda potenza economica al mondo dopo gli Usa, sembra suscitare poco interesse. Si versano fiumi di parole e di inchiostro sulla Cina e sull’India, sull’impatto che l’evoluzione delle loro economie avrà a livello planetario, ma il Giappone, il cui prodotto lordo è più del doppio di quelli di Cina e India messe insieme, viene solitamente trascurato. Ed è ancor più strano in quanto esso si trova di fronte a una possibile rivoluzione copernicana, quella del possibile ritorno della politica nella vita pubblica del Paese.

Da più di 50 anni, un solo partito, il Partito Liberal Democratico (Pld), nato circa dieci anni dopo la guerra, ha costantemente dominato la vita giapponese. Questo monopolio di fatto di una sola parte politica, di orientamento moderato-conservatore che ricorda un poco la Democrazia cristiana in Italia tra gli Anni 50 e 80, non ha impedito tuttavia un corretto funzionamento degli strumenti democratici né ha creato tendenze dittatoriali nei suoi vari leader: altri partiti sono sorti, esistono ma non vincono; i primi ministri non diventano dittatori anche perché si alternano con ritmo vertiginoso e durano mediamente in carica un anno o poco più. Il Partito Liberal Democratico, in ogni caso, resta al potere.

Più che un partito, se vogliamo, il Pld è lo Stato stesso, fortissimamente radicato sul territorio attraverso i piccoli proprietari agricoli, strettamente connesso all’industria, alla finanza, al commercio e soprattutto alla burocrazia che gestisce di fatto, in luogo e per conto del governo, l’intero Paese. Quanto al capo del governo di turno, esso fa pensare a un monarca a tempo limitato, molto spesso con tradizioni politiche familiari: Taro Aso, l’attuale primo ministro, è nipote di un primo ministro, genero di un altro primo ministro e cognato di un principe della casa imperiale. Perché si pensa che questo gigantesco apparato, che ha permesso la creazione di un benessere diffuso e di una potenza industriale colossale, possa venir meno? Perché ci interroghiamo seriamente se il Pld resterà al potere anche dopo le prossime elezioni della Camera bassa, il 30 agosto?

Si pensa istintivamente alla recessione, che ha toccato naturalmente anche il Giappone, seppur non finora in modo devastante: le esportazioni hanno subìto una notevole flessione ma c’è qualche segno di ripresa, il sistema finanziario complessivamente ha retto, la disoccupazione è cresciuta ma resta a livelli tollerabili (5,6%), il mito giapponese del posto di lavoro a vita si è incrinato negli ultimi tempi e il precariato comprende quasi il 30% della forza lavoro, ma ciò risponde oltre che agli interessi degli imprenditori anche a certe aspirazioni giovanili verso prospettive di vita di maggiore mobilità e scelta. Forse è proprio in questo atteggiamento psicologico, che si estende a parte della borghesia, che sta il nodo del Giappone odierno. Esso vive da mezzo secolo una stagione prospera ma immobile, socialmente e costituzionalmente, sia sul piano interno sia su quello internazionale.

Il partito rivale, il Partito Democratico del Giappone (Pdj), che da cinquant’anni sta all’opposizione, prova a dare una scossa. I suoi leader, l’attivissimo Hatoyama, e il suo fantasioso braccio destro Ozawa, hanno lanciato un programma di riforme ambizioso che va dai sussidi alle famiglie numerose, alla diminuzione della fiscalità per la piccola impresa, all’abolizione dei pedaggi stradali e soprattutto all’impegno che a guidare il Paese sarà d’ora in poi non la burocrazia, ma la politica, non i funzionari (che si propone comunque di sfoltire), ma gli eletti dal popolo. Taro Aso ha risposto con un ironico manifesto in cui sfida il rivale a trovare i fondi necessari al suo programma e intanto ha anticipato le elezioni per evitare che l’opinione pubblica continui a scivolare verso chi promette il nuovo. Abbiamo dunque qualcosa che non si era visto prima, una vera lotta politica testa a testa tra due partiti, e una lotta, per di più, che i dati attuali sulle intenzioni di voto indicano come molto aperta. E la posta in gioco è questa: deve cambiare, il Giappone, o deve restare sostanzialmente ciò che è stato in tutti questi anni? Dobbiamo conservare il vecchio o scegliere il nuovo?

E’ un interrogativo che serpeggia anche in altre democrazie, per esempio in Europa dove le opinioni pubbliche si chiedono come restare al passo con i tempi ma dove lo spettro della recessione sembra piuttosto favorire chi conserva rispetto a chi innova. Quel che è sicuro è che non c’è posto al mondo dove il vecchio è più vecchio e il nuovo più nuovo che in Giappone.

da lastampa.it


Titolo: BORIS BIANCHERI. Ted il principe del compromesso
Inserito da: Admin - Agosto 27, 2009, 04:16:21 pm
27/8/2009 - ADDIO A TED. LA MORTE DEL PATRIARCA

Ted il principe del compromesso
   
Ha scritto oltre 300 leggi. Il suo motto: mai rinunciare al buono per cercare il perfetto

BORIS BIANCHERI


Una carriera politica, quella di Ted Kennedy, che sfugge alle definizioni: fu allo stesso tempo gloriosa e tormentata, dominata da un senso di servizio allo Stato rigoroso e coerente, e tuttavia legata fin dall’origine alla straordinaria vicenda della famiglia e sua personale. Quando cominciò, l’apparizione sulla scena politica di un terzo Kennedy, accanto a un fratello Presidente degli Stati Uniti e a un altro Ministro della Giustizia, parve a molti - e forse anche un poco ai suoi fratelli - eccessiva. «Non credete che Ted sia un Kennedy di troppo?» Fu il commento del suo rivale McCormack nelle elezioni al seggio senatoriale del Massachusetts lasciato vacante dall’elezione del Presidente John Kennedy.

Ma Ted non si lasciò scomporre e la sua prima campagna elettorale, svolta casa per casa e strada per strada in leggera polemica con gli ambienti più sofisticati e intellettuali del partito, fu rapida ed efficace. Eletto senatore nel seggio del fratello nel novembre del 1962, mantenne quel seggio ininterrottamente per sette mandati sino alle ultime elezioni del 2006. Fu così non solo uno dei più longevi ma anche uno dei più influenti e autorevoli legislatori americani; una leggenda, in un certo senso, per ciò che durante mezzo secolo di vita politica egli fece e non solo per il nome che portava.

Dopo la duplice tragedia dell’assassinio di John e di quello, seguito a breve distanza, di Bob che sembrava a tutti esserne ormai l’erede, era inevitabile che Ted ritenesse di essere anch’egli investito dal soffio della gloria e si lasciasse tentare dall’avventura presidenziale. L’occasione parve presentarsi con le elezioni del 1980: dopo quattro anni di presidenza Carter il Partito Democratico appariva avviato su una strada di quieta e decorosa routine, ma il consenso popolare pareva sgretolarsi. Il temperamento e il nome dei Kennedy potevano iniettare nuova linfa nel corpo di un partito che molti ritenevano languente. Fu una decisione poco saggia. Scendere in campo nelle primarie contro un presidente del proprio partito che può essere rieletto è un’operazione sempre difficile che ha un vago odore di slealtà.

Su Ted pesava inoltre, nonostante fossero passati più di dieci anni, gli strascichi morali dell’incidente d’auto di Chappaquiddick e di un comportamento che se non fu scorretto fu da molti giudicato leggero. Il 1979, poi, era stato un anno internazionalmente difficile, la crisi degli ostaggi in Iran, l’invasione sovietica dell’Afghanistan inducevano molti democratici a diffidare di un cambio della guardia al vertice del paese. Ted fu sconfitto alle primarie, ma questo non portò fortuna a Carter che fu sconfitto anch’egli alle presidenziali e a tutti i democratici che dovettero attendere Clinton per tornare alla Casa Bianca.

La sconfitta fu però salutare per la carriera politica di Ted. Avendo capito di non avere il temperamento del vincitore, trovò la sua vera vocazione: che è stata quella non di vincere ma di mediare, non di imporsi ma di persuadere e di convincere.

La sua attività in questi cinquant’anni, malgrado vicende personali sempre intricate e complesse, è stata colossale. Più di cinquecento disegni di legge hanno portato il suo nome e più di trecento sono in effetti diventati legge. Una parte consistente della sua azione legislativa è stata dedicata al tema della Salute e della Previdenza anche perché fu per lungo tempo Presidente della Commissione del Senato responsabile, appunto, di questa materia.

Ma altre leggi su temi anch’essi di grande attualità in America e altrove proprio in questi giorni, come le leggi sull’Immigrazione, portano il suo nome. Basta scorrere un elenco: Legge sulla nazionalità e l’immigrazione, Legge sulla salute mentale, Legge sulla condizione dei disabili, Legge sulle assicurazioni statali per la salute dei bambini, e così via dicendo. Ma ciò che sorprende è che una buona parte di questa attività sia stata portata avanti in collaborazione con i repubblicani, sia quando essi erano all’opposizione sia quando essi avevano la maggioranza. Con Bush, ad esempio Ted Kennedy ha avuto, anche sul piano personale, rapporti di stima e di rispetto, come ne aveva avuti e ne ebbe in seguito con altri eminenti repubblicani. Svolse anche delicate missioni internazionali, ad esempio in Unione Sovietica al tempo di Gorbaciov e in funzione della distensione. Ciò non significa che Ted Kennedy sia stato uomo di tutte le stagioni: significa che, come egli soleva dire, non si deve rinunciare al buono per cercare il perfetto.

da lastampa.it


Titolo: BORIS BIANCHERI. Il Giappone cambia dopo 50 anni
Inserito da: Admin - Agosto 31, 2009, 11:15:59 am
31/8/2009

Il Giappone cambia dopo 50 anni
   
BORIS BIANCHERI


Gli incalzanti sondaggi pubblicati nelle ultime settimane dai grandi giornali di opinione dicevano dunque il vero; le previsioni degli osservatori politici rispondevano dunque alla realtà.

Ieri, ancor prima che cominciasse lo spoglio delle schede, i quotidiani giapponesi avevano pubblicato delle fotografie significative dei due leader rivali: quella di Taro Aso, il primo ministro liberaldemocratico uscente, con le labbra serrate e il viso aggrondato; quella di Yukio Hatoyama, il leader democratico, con un largo sorriso sul viso rassicurante e ottimista.
Per la prima volta in più di cinquant’anni - con l’insignificante parentesi di un esperimento di coalizione durato pochi mesi - il Partito liberaldemocratico, che ha segnato la trasformazione del Giappone postbellico e la creazione di una potenza economica seconda solo a quella americana, esce di scena e l’opposizione storica prende il potere. Il margine della vittoria le assicura piena capacità di governare.

E’ naturale, di fronte a un capovolgimento politico di questa ampiezza, ricercarne le cause nella crisi economica e finanziaria che ha sconvolto il mondo da un anno a questa parte. E non c’è dubbio che la crisi, con le sue ripercussioni sull’economia reale, abbia creato nell’opinione pubblica giapponese, come altrove, un senso di inquietudine e di incertezza che non può non aver influito sulla scelta politica di ieri. Ma la volontà di cambiamento che accompagna la vittoria del Partito democratico del Giappone è più profonda e va più lontano.
È vero che le esportazioni giapponesi, soprattutto quelle verso gli Stati Uniti, hanno subito una flessione, ma non in misura veramente drammatica. È vero che il tasso di disoccupazione è cresciuto, nell’arco di un anno, dal 3,8 al 5,4 per cento; tuttavia si tratta anche qui di cifre che non solo sono modeste rispetto a quelle di altri grandi Paesi industrializzati, ma che riguardano settori limitati della popolazione e non sembrano essere da sole la causa di una trasformazione politica radicale come quella che il Giappone si accinge ad attraversare.

Un mondo senz’anima
Hatoyama, d’altronde, non ha rimproverato ad Aso e ai suoi predecessori (incluso quel Koizumi che anni fa si era rivelato così innovativo e popolare e che poi si è eclissato da solo) di aver gestito male l’economia: gli ha rimproverato e gli rimprovera di aver instaurato un sistema di gestione del Paese che è lontano dalle aspirazioni e dal modo di pensare dei giapponesi, di aver mantenuto il predominio di una cerchia imprenditoriale e di una burocrazia che opera nel contesto di oggi esattamente come operava venti o trenta anni fa. Ciò ha finito col creare negli elettori il sentimento che non vi sia comunque scelta, che il sistema-Giappone, anche perché ha in sé dinamiche obiettivamente positive, sia immutabile e destinato a restare tale perché incarna in qualche modo l’essenza stessa del Paese.
A chi voglia trarre dalla letteratura qualche elemento di giudizio sul bivio di fronte al quale si trova il Giappone odierno, suggerirei di leggere non solo i tanti autori che ci dipingono il Giappone contemporaneo - anche di grande qualità come una Banana Yoshimoto o un Haruki Murakami - ma di ricorrere a un vecchio autore, Osamu Dazai, morto giovane e probabilmente suicida nel lontano 1948. Il suo Non più uomo è la storia di un ragazzo che vede attorno a sé un mondo di regole inviolabili, che nulla hanno a che vedere con le sfide che egli scorge nel futuro, nelle quali non si riconosce, e non sa come ribellarsi. Un mondo sperimentato, perfettamente funzionante e senza anima.

Nulla di rivoluzionario, molta gradualità
Questa mi sembra sia stata la spinta che ha portato tanti giapponesi, soprattutto tra i giovani, a una scelta di cambiamento che a noi parrebbe quasi naturale ma che nella storia politica del Giappone ha un carattere epocale.
Cosa dobbiamo aspettarci dal Giappone di Hatoyama e quali ripercussioni avremo nelle relazioni internazionali? Il Manifesto programmatico del Partito democratico non ha in sé nulla di rivoluzionario. Vi è un accenno di solidarietà sociale, vi è qualche riserva verso la globalizzazione e il libero mercato portato alle estreme conseguenze, vi si trova frequentemente e con diverse accentuazioni la parola fraternità. Una parola, tuttavia, alla quale sappiamo possono darsi diversi significati. Sul piano delle relazioni esterne si riafferma la solidità del rapporto nippo-americano, ma si mette l’accento sulla necessità di una maggiore integrazione asiatica, anche per ciò che riguarda la creazione di una futura moneta unica. Nel cautissimo linguaggio politico giapponese, queste parole sembrano indicare un’apertura verso nuovi equilibri nel continente, ma senza colpi di scena e con molta gradualità.
Quanto al velo di socialdemocrazia di cui il Paese si ammanta, esso sembra leggero e trasparente. Ma lo abbiamo già detto: più dei contenuti che il cambiamento porterà con sé, è il cambiamento stesso che oggi celebriamo.

da lastampa.it


Titolo: BORIS BIANCHERI. Perché la democrazia non sempre è esportabile
Inserito da: Admin - Settembre 09, 2009, 11:34:19 am
9/9/2009

Perché la democrazia non sempre è esportabile
   
BORIS BIANCHERI


Comunque si chiuda il conto elettorale, l’Afghanistan è un nuovo tentativo di costruire un paese su basi democratiche rimasto tuttora incompiuto. Che sia Karzai a restare in sella o, inaspettatamente, Abdullah a strappargli la vittoria, né l’uno né l’altro possono tenere il Paese sotto controllo. Continuerà ad essere necessario per un tempo imprecisato la presenza, e probabilmente l’aumento, delle forze della Nato prima che chi sta al governo abbia la possibilità di governare. Dopo sei anni di sforzi, il Paese è ancora da fare.

Dalla fine della Guerra fredda, siamo almeno al quarto tentativo dell’Occidente di rimettere in piedi una nazione che le vicende della storia hanno condotto allo sfacelo. Il primo fu quello della Somalia. Nell’inverno 1991-92 le opinioni pubbliche europee e americane videro con raccapriccio alla televisione un Paese in cui tutto, dall’alimentazione di base all’acqua, dalle strutture sanitarie all’ordine pubblico, era venuto meno dopo la scomparsa del dittatore Siad Barre. Il presidente Bush (padre), a mandato già scaduto, decise nell’interregno l’invio di un contingente militare per ristabilire l’ordine. Alcuni paesi, tra cui l’Italia, gli vennero appresso. Bastarono pochi mesi a Clinton per capire che l’America rischiava di impegolarsi in un’avventura senza uscita e ritirò le forze statunitensi dopo che i telespettatori avevano visto, anziché la rinascita della Somalia, dei marines fatti a pezzi e trascinati cadaveri per le vie di Mogadiscio. A 18 anni da allora, la Somalia è ancora un caos.

L’esperimento di fare ex novo uno stato democratico che la comunità internazionale abbia fatto più seriamente e con apparente successo è stato quello della Bosnia. Gli accordi di Dayton, negoziati con abilità da Richard Holbrooke con i riluttanti leader dei tre gruppi etnici che esistono nel paese, quello serbo, quello croato e quello musulmano, diedero alla futura Confederazione Bosniaca un assetto costituzionale macchinoso ma ordinato e accettato da tutti. L’impegno internazionale in Bosnia è stato, tenuto conto delle dimensioni del Paese e della sua popolazione, colossale. Dopo i massacri e le pulizie etniche che avevano seguito il collasso della ex Jugoslavia, l’intervento esterno riportò la pace. Una pace costata più di dieci anni di sforzi, con la partecipazione di 17 diversi Paesi, 18 Agenzie dell’Onu e 27 Organizzazioni intergovernative e con un costo complessivo di circa 17 miliardi di dollari (300 dollari all’anno per ogni singolo abitante). E tuttavia, se guardiamo allo sforzo compiuto, il risultato è deludente. L’attività del governo della Confederazione è continuamente paralizzata da qualcuna delle tre componenti etniche e l’amalgama delle popolazioni non si è realizzato: i serbi che stanno nella Repubblica Srpska continuano a volersi riunire alla Serbia, i bosniaci croati, per non essere da meno, vogliono riunirsi alla Croazia e i musulmani sono infelici perché non hanno nessuno cui riunirsi. La loro protezione è una delle poche ragioni dell’esistenza di una stato fittizio sulla cui permanenza nel tempo è lecito avere dei dubbi. Le istituzioni democratiche ci sono, una costituzione garantista esiste, ma non esiste una efficace capacità di governo.

L’ultimo esempio è quello dell’Iraq e parla da solo. A sei anni dalla clamorosa vittoria militare e dalla liquidazione della dittatura di Saddam Hussein, il paese è dilaniato dalla rivalità tra sciiti e sunniti, per non parlare delle aspirazioni autonomistiche curde, e ampie porzioni del suo territorio si trovano in condizioni di sicurezza inaccettabili.

In nessuno di questi casi, dunque, l’impegno della comunità internazionale volto alla creazione di istituzioni democratiche sul modello dei Paesi occidentali, ha raggiunto il risultato prefisso né si è tradotto a tutt’oggi in situazioni concrete di stabilità e di ordine. Forse non è azzardato, forse è anzi realistico, trarne qualche amara lezione. Gli strumenti della democrazia, e in primo luogo il parlamento elettivo che ne costituisce l’asse portante, assolvono alla funzione di contemperare, equilibrare e assicurare il naturale avvicendamento tra le componenti politiche e ideologiche che coesistono all’interno di una stessa società. Quando il loro rapporto si modifica, l’esercizio della democrazia assicura che ciò si rifletta nell’esecutivo che dirige il Paese. Ma le istituzioni democratiche non esercitano la stessa funzione quando le divisioni che esistono all’interno di una società nazionale hanno natura etnica, o tribale, o religiosa. Perché queste ultime, al contrario degli orientamenti politico-ideologici che si modificano nel tempo, sono rigide e immutabili e l’equilibrio tra loro non si modifica se non con la forza o in tempi molto lunghi. Un tagiko non diventa pashtun a un certo momento della sua vita, un sunnita non passa al campo sciita, un bosniaco serbo non diventa croato anche se l’ultimo dirigente croato si è dimostrato abile ed efficiente.

L’idea che l’avvento della democrazia sia sufficiente a creare condizioni di convivenza civile in Paesi dove sussistono forti conflittualità di carattere etnico o religioso, come invece accade là dove i contrasti sono di ordine politico o ideologico, è probabilmente illusoria. Occorre esserne consapevoli e pensare forse anche, in futuro, a nuovi e diversi strumenti di conciliazione e compromesso.

da lastampa.it


Titolo: BORIS BIANCHERI. Impossibile andarsene da soli
Inserito da: Admin - Settembre 19, 2009, 10:37:59 am
19/9/2009

Impossibile andarsene da soli
   
BORIS BIANCHERI


Era inevitabile che l’attentato di Kabul, con la morte di sei e il ferimento di quattro valorosi militari italiani cui va l’omaggio e la riconoscenza di tutto il paese, suscitasse interrogativi e inquietudini nell’opinione pubblica italiana. È accaduto in Germania dopo le perdite subite nel contingente tedesco, era accaduto in Spagna, è accaduto in misura ancora maggiore in Gran Bretagna dove si è prodotto per qualche tempo un vero movimento popolare per il rimpatrio dei soldati. Che analoghi sentimenti siano nati anche da noi al primo annuncio della tragedia, anche in personalità con importanti responsabilità politiche, non mi scandalizza se è stata solo l’espressione passeggera di paterni sentimenti popolari.

Ragionando a mente fredda, credo però che ogni persona di buon senso e in buona fede converrà che nessuna decisione unilaterale circa la nostra presenza in Afghanistan può essere assunta dal governo italiano e tanto meno da questo governo in questo momento. Senza dubbio, la situazione in Afghanistan è grave e va deteriorandosi ancor più. L’attentato di giovedì non ha avuto luogo in qualche remota parte del paese ma nel suo centro.

A poca distanza dalla capitale, su un’arteria importante e di grande traffico. Il controllo del territorio è oggi ancora più precario di quanto lo fosse un anno fa. Le recenti elezioni lasciano poi una eredità di grande incertezza circa la possibilità che il vincitore, quale che sia l’esito finale degli accertamenti ancora in corso, abbia capacità effettive e realistiche di governare il suo paese. Una volta di più dobbiamo constatare come l’assunto che il mondo occidentale ha dato sempre per scontato, secondo cui l’instaurazione di un sistema democratico è in grado di assorbire conflittualità etniche, tribali e religiose così come assorbe quelle politiche nei nostri paesi, non ha finora avuto alcun riscontro nella realtà.

Una riconsiderazione delle finalità della presenza della Nato in Afghanistan e di quali prospettive di successo presenti la strada finora intrapresa, quindi, si impone. Può anche darsi che tale valutazione approfondita della situazione giunga un giorno alla conclusione che non vi è alternativa alla definizione di una strategia d’uscita meno gravosa possibile. Sarebbe certo una catastrofe per la Nato e per lo stesso Afghanistan, nonché un successo per il radicalismo islamico e l’oltranzismo anti-occidentale nel mondo. Altre prove dovremmo attraversare, altre sconfitte subire prima di giungere a questo. Ma è comunque impensabile che sia l’Italia per prima a dare simili segnali.

Il problema afghano riassume in sé alcuni punti centrali della nostra politica estera di questi ultimi tempi, sui quali maggioranze e opposizioni non hanno finora mai veramente dissentito. Uno è quello del nostro impegno nelle missioni internazionali umanitarie e di pace (e non vi è dubbio che l’Afghanistan sia una di queste), che ha fatto sì che il nostro paese sia, in questo campo, tra i massimi contributori al mondo. L’altro è costituito dalla lotta al terrorismo, che abbiamo forse dimenticato perché essa viene condotta ora più in Pakistan che in Afghanistan, ma che subirebbe un colpo grave da un abbandono affrettato della partita. Un altro è quello della lealtà alla Nato e dai rapporti con gli Stati Uniti d’America.

Obama ha fatto come ben sappiamo dell’Afghanistan un elemento centrale della sua politica internazionale: l’atteggiamento costruttivo e conciliante in altri settori critici, dalla Russia all’Iran, ha il suo contrappeso di forza e credibilità nella posizione che lui ha assunto in Afghanistan con la riaffermazione dell’impegno americano e con l’aumento delle forze militari. Proporre ora che l’Italia torni a casa, o è un’affermazione emotiva fatta per strappare qualche lacrima o è uno schiaffo pubblico a Obama e alla sua linea politica. Per di più, mettendo a rischio i buoni rapporti che Berlusconi ha sempre avuto cura di tenere con Washington e di cui mai come ora ha bisogno, sarebbe il suicidio politico del suo stesso governo.

da lastampa.it


Titolo: BORIS BIANCHERI. Difficile cambiare il mondo
Inserito da: Admin - Ottobre 02, 2009, 05:51:39 pm
24/9/2009


Difficile cambiare il mondo
   
BORIS BIANCHERI


Obama ha due agende da tenere in piedi: una è quella degli impegni presi con i suoi elettori, l’altra è quella degli impegni presi con il mondo. Queste convulse giornate newyorkesi sono la prima occasione per lui di immergersi nel turbinoso clima dell’Onu.

L’assemblea generale gli offre la possibilità di affrontare questi ultimi anche se non ha dimenticato di tenere conto dei primi. Al mondo Obama ha sempre presentato, durante e dopo la sua campagna presidenziale, una promessa di distensione e di pace, di passi avanti per realizzare un pianeta più equilibrato e felice in collaborazione e non in contrasto con gli altri protagonisti della vita internazionale. Ma i progressi che ha potuto presentare sino a questo momento, dopo nove mesi dalla sua ascesa al potere, non sono ancora esaltanti: l’Afghanistan è un problema drammatico e complesso (la democrazia non si può imporre, ha detto infatti ieri) sul quale non vi è una strategia universalmente accettata, un problema che comunque non si risolverà in tempi brevi e che forse esigerà altri nuovi sacrifici; l’incontro a tre sul conflitto israelo-palestinese con Netanyahu e Mahmud Abbas dischiude la prospettiva di una ripresa del dialogo ma nulla più di questo; l’Iran non lascia prevedere facili sviluppi; la Corea cavalca imperterrita il suo programma nucleare. Solo con la Russia il clima è migliorato, grazie però alla rinuncia dell’America a uno scudo spaziale che, se è piaciuta a Mosca, ha lasciato molto tiepidi altri, in particolare Varsavia.

La conferenza sul clima convocata dal Segretario Generale Ban Ki-moon in concomitanza con questa sessione assembleare aveva permesso di dire al Presidente qualcosa che appartiene sia alla sua agenda internazionale che a quella interna: la maggioranza degli americani giudica questo un problema importante per sé e per i propri figli, ma non sembra nutrire la preoccupazione ansiosa con cui vi guardano molti europei. Obama ha fatto alla Conferenza sul clima un discorso forte, ha parlato di catastrofe possibile e ha invitato tutti, gli americani per primi, a dare il loro contributo. Ha profilato una posizione americana ben diversa dalla lunga disattenzione di Bush a questo argomento, ma non si è impegnato chiaramente su obiettivi concreti, rinviando soprattutto a scadenze future, soprattutto a quella cruciale di Copenaghen di fine anno: ha tenuto conto così dell’atmosfera difficile che circonda questo tema quando lo si affronta nel Congresso. Gli ha tenuto eco, d’altronde, il premier cinese Hu, sinora cautissimo, come ben sappiamo, sulla questione, che ha promesso una riduzione non indifferente del CO2 senza suffragarla da cifre impegnative.

Con questo scenario alle spalle, si sarebbe potuto pensare che Obama avrebbe colto l’occasione offertagli dalla tribuna del Palazzo di Vetro e dalla presenza a New York di 120 leader di tutto il mondo per valorizzare nel suo primo discorso all’Onu ciò che la diplomazia americana ha fatto da quando egli è al potere e precisarne alcuni obiettivi futuri. Si era anche prospettata la possibilità che fosse il momento per lui di accennare a qualche grande progetto di più ambiziosa e lontana scadenza, come quello di un disarmo nucleare generalizzato, che trova echi in tante parti del mondo e rafforzerebbe la sua mano nel trattare, come dovrà fare, le questioni iraniana e coreana.

Questo non è avvenuto. Obama ha tenuto un discorso perfettamente «obamiano»: elegante, articolato, coraggioso e onesto, fondato più sulle intenzioni che su obiettivi concreti, più su come si deve essere che su cosa in concreto si deve fare. Ha riconosciuto errori del passato e situazioni non accettabili, come l’uso della tortura e Guantanamo, alle quali ha posto rimedio. Ha ammesso che le azioni dell’America non sono sempre state all’altezza delle intenzioni e la sua affermazione che la democrazia non può essere importata da fuori è chiaramente polemica verso il suo predecessore. Siamo solo all’inizio del nostro lavoro, ha detto Obama, facendo comprendere che gli Stati Uniti non possono né vogliono cambiare il pianeta da soli. E’ questo un compito al quale tutti i popoli devono partecipare secondo la loro cultura. Cambiare il mondo è possibile, ma non è facile farlo.

Parole assennate. Se Obama avesse ascoltato il discorso pronunciato subito dopo di lui da Gheddafi, che ha accusato il Consiglio di Sicurezza dell’Onu di non gestire la sicurezza ma il terrore e l’Onu stessa di aver tollerato 65 guerre da quando fu creata, avrebbe pensato che cambiare il mondo è anche più difficile di quanto lui stesso non avesse appena detto.

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Titolo: BORIS BIANCHERI. Svizzera, il tempo dell'inquietudine
Inserito da: Admin - Ottobre 06, 2009, 11:00:08 am
6/10/2009

Svizzera, il tempo dell'inquietudine
   
BORIS BIANCHERI


Quando si pensa alla Svizzera si pensa istintivamente a situazioni di pace, di sicurezza e di neutralità. Quasi tutte le maggiori città, da Losanna a Locarno e a Zurigo, per non parlare di Ginevra, hanno ospitato nel corso del tempo degli incontri che hanno messo fine alle guerre e ai conflitti di altre nazioni. Quando, dopo i massacri della prima guerra mondiale, i vincitori pensarono a una grande intesa internazionale che prevenisse nuovi disastri riunendo tutti gli Stati del mondo in una sola organizzazione e crearono così la Società delle Nazioni, parve naturale, anzi inevitabile, che la sede venisse posta in Svizzera. E ancora oggi, malgrado la seconda grande guerra del secolo abbia affermato la supremazia americana e l’Onu abbia preso piede a New York, è sempre Ginevra che ospita il maggior numero di organizzazioni internazionali. Per non parlare delle istituzioni umanitarie, prima tra tutte la Croce Rossa, nata in Svizzera per l’intuizione di uno svizzero, che vi conserva il suo quartier generale.

Tutto questo è accaduto perché, nella storia della Svizzera moderna, la vocazione alla neutralità è stata accompagnata da una rigorosa difesa della peculiarità e dell’indipendenza della Confederazione. Nei duri anni delle dittature del XX secolo, trovarono rifugio in Svizzera più di 150.000 esiliati, tedeschi, italiani, russi, ebrei, cristiani e oppositori di ogni tipo di regime. La diplomazia confederale riuscì con straordinaria abilità a resistere alle pressioni dei paesi vicini, dai quali pure non poteva isolarsi per evidenti necessità di approvvigionamento e di trasporti, e nessuno venne espatriato. Fu una specie di miracolo, che oggi tendiamo a dimenticare ma che ha contribuito a consolidare l’identità stessa della nazione elvetica.

Quello che le tempeste del secolo dei nazionalismi non fecero, rischia invece di avvenire nel mondo globalizzato di oggi. Questo, almeno, è ciò che teme una parte dell’opinione pubblica svizzera, quella più attenta alle vicende internazionali e più sensibile a una tradizione di inflessibile autonomia che, se da un lato ha permesso alla Confederazione di far dialogare tutti e di dialogare con tutti, non ha mai permesso a nessuno di interferire nelle sue scelte politiche, nel suo ordine interno e nella sua legislazione. Il timore è che, oggi, alcune decisioni importanti dell’esecutivo e dell’amministrazione che toccano i principi stessi della libertà e della sfera privata dell’individuo vengano assunte non già perché questo corrisponde alla volontà del popolo svizzero o di chi legittimamente lo rappresenta, ma per effetto di spinte, pressioni o minacce che giungono dall’esterno.

Il pensiero va subito, evidentemente, alla questione, di grande attualità in Italia in questi giorni, dei capitali depositati da privati e imprese straniere nelle banche svizzere, che hanno una storia di affidabilità e riservatezza, e del connesso problema dell’evasione fiscale. È da anni che istituzioni economiche come l’Ocse e singoli paesi esercitano pressioni sulla Svizzera su questo delicato argomento. E va detto che, gradualmente e con misura, alcuni passi avanti la Svizzera li ha fatti, sia assoggettando i redditi di quei capitali a un certo grado di fiscalità, sia ampliando la collaborazione con le autorità finanziarie straniere nelle ricerche sulla loro origine e sulla loro natura. Ma recentemente ha impressionato tutti il caso dell’Ubs, la maggiore banca svizzera, che ha una vasta rete di partecipazioni e interessi negli Stati Uniti, la quale, dietro insistenza americana, ha modificato i suoi contratti bancari e che addirittura, a seguito di un negoziato tra i due governi i cui termini sono rimasti segreti, ha comunicato i nomi di 4.500 supposti evasori fiscali tra i suoi clienti.

C’è stato poi il caso - di tutt’altra natura ma ancor più clamoroso - dello scontro con la Libia che ha fatto seguito all’arresto di un figlio di Gheddafi, avvenuto più di un anno fa in un albergo di lusso di Ginevra per supposti maltrattamenti nei confronti di personale dipendente da quest’ultimo. Il fatto ha provocato una durissima reazione del leader libico, sia sul piano economico-finanziario, sia sul piano umano, con il sequestro di fatto di due ingegneri svizzeri che si trovavano in quel momento in Libia. Vi è stato tra i due Paesi un lungo e umiliante negoziato, durante il quale lo stesso presidente della Confederazione elvetica, Merz, si è dovuto recare a Tripoli per chiedere scusa e per vedere poi liberati i suoi connazionali.

Nessuno contesta, né in Svizzera né altrove, che la Confederazione costituisca tuttora un modello esemplare e invidiabile di convivenza civile libera e ordinata. Ma simili cedimenti del governo a pressioni esterne, quale che ne sia il fondamento, vengono visti come il segno di una decadenza che rischia di trasformare la stessa natura del Paese. C’è ora il recentissimo caso dell’arresto di Roman Polanski, a proposito del quale pressioni dalla Francia e dalla Polonia si sono già fatte sentire. Un caso controverso, sul quale gli svizzeri sembrano attestarsi su posizioni strettamente giuridiche e sul quale è prematuro fare previsioni. Ma pare essere venuto apposta ad alimentare le inquietudini.

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Titolo: BORIS BIANCHERI. La globalizzazione dei kamikaze
Inserito da: Admin - Ottobre 28, 2009, 05:03:53 pm
28/10/2009

La globalizzazione dei kamikaze
   
BORIS BIANCHERI


Tra le conseguenze più sorprendenti di ciò che noi comunemente chiamiamo globalizzazione - vale a dire la diffusione in ogni parte del mondo di fenomeni e attività che un tempo avevano un carattere raro e singolare - vi è la banalizzazione del suicidio. Non mi riferisco alla allarmante serie di suicidi tra i dipendenti di Telecom France sulla quale i media internazionali si sono recentemente soffermati, e neppure all’alta percentuale di suicidi che abbiamo visto verificarsi nella Francia intera e che sembra essere all’incirca doppia di quella che si registra in Italia o in Inghilterra e superiore del 40% a quella di Germania e Stati Uniti. Entrambe hanno apparentemente origine in circostanze specifiche, anche se tutt’altro che facili da identificare: Telecom France non è certo la sola grande impresa che passa attraverso fasi di ristrutturazione e privatizzazione parziale né la Francia sembra oggi trasformarsi in modo diverso da come cambiano i suoi vicini.

Parlando di banalizzazione del suicidio, non mi riferisco all’atto di chi si toglie la vita in uno stato d’animo di carattere depressivo, ma a un tipo dilagante di suicidio di carattere, per così dire, affermativo.

Nelle aule scolastiche frequentate da un italiano della mia generazione alcuni decenni fa, l’episodio simbolico dell’eroismo, del sacrificio e del senso del dovere verso la propria patria era quello di Pietro Micca, il minatore piemontese che durante l’assedio di Torino da parte dei francesi nel 1706, per impedire l’irruzione dei soldati nemici nei corridoi sotterranei che davano accesso alla cittadella, fece saltare in aria se stesso assieme a un’enorme quantità di esplosivo. A Pietro Micca è stato dedicato un museo, vari monumenti e decine e decine di strade in tutta Italia. E tuttavia è probabile che ad un giovane di oggi quel nome riesca meno familiare di quanto non lo era un tempo.

Il gesto di togliersi la vita deliberatamente e consapevolmente in nome di un ideale superiore di natura patriottica, come fu il caso di Micca, o umanitaria, o religiosa, dovrebbe essere per definizione un fatto di natura eccezionale. Infatti non ha né in italiano né in altra lingua indo-europea un proprio nome. All’autore di un simile gesto diamo adesso l’appellativo di «kamikaze», prendendolo da quei piloti giapponesi che si scagliavano con i loro velivoli carichi di esplosivo sulle navi da guerra statunitensi. Nella tradizione giapponese esiste effettivamente il suicidio come monito o insegnamento. Tra i più spettacolari e famosi vi fu in tempi moderni il suicidio dello scrittore Mishima che, per protesta verso un’età e un Paese senza gloria, si diede pubblicamente la morte sul balcone di un edificio statale davanti a una folla radunata per l’occasione.

Ma oggi vi sono kamikaze ovunque e per i più diversi motivi: dagli attentatori delle torri gemelle ai giovani palestinesi, dai sunniti dell’Iraq ai taleban dell’Afghanistan o del Pakistan, dai curdi della Turchia ai ceceni della Russia o ad altri infiniti eroi del nulla. Migliaia e migliaia di Pietro Micca che si fanno saltare assieme a quintali di esplosivo per far sì che dei francesi immaginari non accedano a qualche immaginaria cittadella.

Credo che il limite estremo della banalizzazione del suicidio sia stato raggiunto con l’attentato compiuto giorni fa nel Belucistan e con le polemiche che vi hanno fatto seguito. Sulla finalità di questo nuovo episodio di morte vi sono, come sappiamo, interpretazioni diverse. Vi è chi lo mette a carico dell’oppressione che l’Iran eserciterebbe da tempo sulle popolazioni del Belucistan e sullo scoppio improvviso di un clamoroso atto di protesta; vi è chi vede in esso una fase del confronto politico in atto in Iran dopo le ultime elezioni parlamentari, dando così per scontato che un attentato suicida sia oggi una forma corrente di lotta politica. Ancor più sconcertante è la versione che ne danno le autorità iraniane, secondo cui l’attentato è il prodotto dell’azione dei servizi segreti americani (o forse pachistani su suggerimento americano) nel braccio di ferro che oppone l’Iran all’Occidente. L’attentatore sarebbe stato in questo caso reclutato per l’occasione, esattamente come si acquista un prodotto di cui si ha bisogno su un mercato di potenziali suicidi. Gli attentati terroristici e l’immenso fiume di sangue che essi generano sono la via che la modernità ha scelto per proseguire le guerre del passato ed esprimere il proprio bisogno di violenza. L’apparente facilità con cui si reclutano gli attentatori suicidi ne è l’aspetto più inspiegabile e più inquietante.

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Titolo: BORIS BIANCHERI. L'America è più lontana
Inserito da: Admin - Novembre 05, 2009, 10:12:39 am
5/11/2009

L'America è più lontana
   
BORIS BIANCHERI


Che il Dipartimento di Stato esprima «disappunto» in ordine a una sentenza resa da un giudice italiano, è un fatto tutt'altro che banale. Nel linguaggio delle cancellerie, quello che un portavoce governativo usa in una dichiarazione che si riferisce a uno Stato straniero, il termine disappunto denota a dir poco una notevole irritazione.

E francamente, l’intera vicenda giudiziaria seguita al rapimento di Abu Omar e, soprattutto, la circostanza che gli imputati americani abbiano subito condanne rilevanti (fino ad otto anni di reclusione per Robert Seldon Lady, l’imputato maggiore ed ex capo della Cia di Milano) mentre i principali imputati italiani ne escono indenni grazie alla segretazione imposta dal governo italiano, è difficile da spiegare all’opinione pubblica americana. La sentenza pronunciata dal giudice italiano sarà perfettamente corretta ma a un americano appare tendenziosa, se non inverosimile. I commenti subito apparsi nei media d'Oltreoceano lo dimostrano d’altronde ampiamente.

Di questa prevedibile reazione dell’opinione pubblica il Dipartimento di Stato si fa dunque interprete. Ma va detto che l’irritazione di Washington ha origini più lontane e più profonde. Il sistema cosiddetto della «rendition», cioè la pratica di prelevare dovunque esse si trovino persone gravemente indiziate di essere in via di preparare atti terroristici e proteggere così la popolazione civile, è nata ed è stata teorizzata sotto l’amministrazione Bush nei momenti più drammatici della lotta al terrorismo. La reazione italiana a questa pratica è stata nel passato, come ben sappiamo, ambigua: di comprensione da parte degli organi preposti alla sicurezza, di rigetto da parte della maggioranza della classe politica e anche di buona parte dell’opinione pubblica e di silenzioso ma non esplicito assenso da parte del governo. La sentenza di Milano sancisce che, per l’ordinamento italiano, tale pratica è inammissibile, che era illegittima nel passato e che tale resterà nel futuro. Se tra gli organi preposti alla sicurezza dei due Paesi vi furono a suo tempo delle intese dirette a rendere possibile il sequestro di Abu Omar, esse - deducono gli americani - furono prese irresponsabilmente e senza avere la possibilità di garantire il segreto e l’incolumità di coloro che si trovarono a dover operare. Il fatto che solo gli agenti della Cia siano condannati aggrava le cose, ma al fondo della questione c’è la mancanza di volontà italiana di collaborare in un aspetto importante della lotta al terrorismo o quanto meno l’incapacità di attuare tale collaborazione.

Può darsi, anzi è probabile, che le conseguenze che ne trarrà l’amministrazione Obama sul piano politico e dei rapporti tra i due Paesi saranno meno severe di quelle che avrebbe tratto Bush. Ma resta un elemento di distanza tra le due parti. Il fatto che tre imputati americani siano poi stati assolti grazie all’immunità diplomatica, per quanto ineccepibile poiché l’immunità risale a una formale convenzione internazionale di cui Italia e Stati Uniti sono parti, aggiunge un elemento di irrealtà all’intera vicenda. E’ più importante proteggere un diplomatico - si chiede l’uomo della strada - che chi opera per la sicurezza comune?

C’è un aspetto rassicurante: nessuno dei 23 americani condannati si trova in Italia e certo si guarderà bene dal farvi ritorno. Vi sarebbe da sorprendersi, ma di sorprese ce ne sono già state parecchie, se dall’Italia si avviasse la procedura per chiederne l’estradizione.

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Titolo: BORIS BIANCHERI. Obama, primo presidente a Hiroshima
Inserito da: Admin - Novembre 11, 2009, 10:18:15 am
11/11/2009


Obama, primo presidente a Hiroshima
   
BORIS BIANCHERI

Ci siamo chiesti qualche volta, in questi ultimi tempi, fino a che punto talune linee strategiche di politica interna e internazionale che Obama ha annunciato durante la sua campagna elettorale e nei primi mesi della sua presidenza trovino poi riscontro puntuale nell’azione. E, a dire il vero, continuiamo e continueremo per qualche tempo, a chiedercelo. Ma su un punto non abbiamo dubbi: che Obama sia il più abile ed efficace comunicatore che mai abbia varcato la porta della Casa Bianca dopo Kennedy e forse anche prima di lui.

Lo prova la dichiarazione fatta quasi casualmente nel corso di una trasmissione televisiva di ieri, alla vigilia del viaggio più importante che Obama abbia messo in programma finora e che lo porterà nei prossimi giorni in Giappone, in Cina, a Singapore e in Corea del Sud. Anche se la ristrettezza del tempo non gli consentirà di farlo subito - ha detto infatti Obama - si propone di includere Hiroshima e Nagasaki nel corso di una futura visita in Giappone che compirà prima che abbia termine il suo mandato.

E’ cosa frequente che un’alta personalità straniera che si trova in Giappone nel corso di una visita ufficiale, un Capo di Stato in particolare, si rechi a Hiroshima a rendere omaggio alle 150.000 vittime della bomba atomica sganciata su quella città da un aereo americano il 6 agosto 1945, a porre una corona di fiori sul monumento alla pace e a percorrere le sale del commovente museo creato affinché non si perda, anche visivamente, la memoria di quella terribile tragedia. Lo fece anche Sandro Pertini quando si recò in Giappone nel 1982 nella prima visita di un Presidente della Repubblica italiano all’imperatore Hiro Hito; e lo ricorda bene chi scrive, perché fu lui ad accompagnarcelo. Ma nessun Presidente degli Stati Uniti, di tutti quelli che sono stati in Giappone dalla fine dell’ultima guerra a oggi, lo ha mai fatto.

Nella cultura contemporanea Hiroshima (con la meno ricordata Nagasaki dove la seconda atomica americana fece 75.000 vittime tre giorni dopo) costituisce di per sé il simbolo dell’orrore, del rifiuto della guerra, dell’invito alla pace e alla fraternità tra i popoli. Sono stati scritti su Hiroshima centinaia di libri, dal «Notes» del Premio Nobel Kenzaburo Oe a «Hiroshima mon amour» di Marguerite Duras, per citarne solo due famosi; sono stati realizzati infiniti film, documentari e opere teatrali, esistono intere raccolte di poesie dedicate a questo tema e le memorie dei sopravvissuti sono state tradotte ovunque. In qualche modo abbiamo sottratto Hiroshima al contesto della storia per collocarla in quello degli eventi planetari e dei sommi valori ai quali l’umanità deve attenersi.

Ma non è stato così per tutti, e in particolare non è così per tutti gli americani. Più del 60 per cento di loro, ha detto non molto tempo fa un autorevole sondaggio, ritiene che il lancio delle atomiche di Hiroshima e Nagasaki sia stato in certa misura giustificato; che, terminando istantaneamente la guerra, esso abbia risparmiato la vita di decine di migliaia di soldati americani; che, invece, l’attacco giapponese a Pearl Harbor del 1941, avvenuto senza dichiarazione di guerra, abbia dato luogo a un conflitto asiatico che ha creato infinitamente più vittime di quelle delle due città giapponesi. E, per venire a giorni più recenti, non è stato forse anche l’orrore suscitato da quelle due bombe a garantire, assieme all’armamento nucleare americano, la libertà durante mezzo secolo di Guerra Fredda?

Ecco perché i Presidenti degli Stati Uniti, che pure hanno tante volte visitato il Giappone da allora, non sono mai andati a Hiroshima a compiere un gesto che significherebbe anche rammarico e pentimento. Obama dice dunque di voler cambiare una prassi che ha carattere e motivazioni precisi e che la sua opinione pubblica ha mostrato finora di capire. E’, questo, un gesto che gli si addice. E’ un gesto che oltretutto appare quasi doveroso per chi ha ricevuto il Premio Nobel per la Pace. Prima che i pacifisti e i benpensanti di tutto il mondo gli rimproverino di dimenticare Hiroshima, Obama dice che stavolta non ha tempo ma che la ricorderà appena possibile. L’annuncio non dispiacerà ai governi degli altri paesi asiatici che egli si accinge a visitare e che della guerra giapponese ebbero allora a soffrire duramente. Né dispiacerà ai giapponesi stessi, con i quali, tra l’altro, Obama dovrà negoziare lo spinoso problema della permanenza della base americana a Okinawa. Quanto all’opinione pubblica del suo Paese, ai conservatori, ai militari e ai militaristi del suo Paese, Obama pensa che sia meglio procedere un passo alla volta. O meglio, una parola alla volta.

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Titolo: BORIS BIANCHERI. Europa-Turchia, la crisi dell'eterno fidanzamento
Inserito da: Admin - Novembre 17, 2009, 10:45:43 am
17/11/2009

Europa-Turchia, la crisi dell'eterno fidanzamento
   
BORIS BIANCHERI


Sono passati esattamente 22 anni da quando la Turchia ha presentato la prima domanda per entrare in Europa. A quel tempo non si chiamava ancora Unione Europea ma, più modestamente, Comunità Economica: ma era, comunque, l'Europa. Milioni di bambini turchi hanno avuto tempo di nascere e crescere, di andare a scuola e all'università e di entrare nel mondo del lavoro avendo davanti agli occhi la prospettiva che la domanda di adesione del loro Paese sarebbe stata accolta e sarebbero diventati anch'essi cittadini europei.

L'Europa, per parte sua, non ha mai detto di no. Come quelle dame che, senza accettarli apertamente, non respingono i corteggiamenti di un esotico giovanotto, l'Europa ha solo fatto capire che la strada sarebbe stata lunga. Bruxelles ha infatti indicato un processo di riforme strutturali necessarie ad adeguare le istituzioni turche ai canoni europei, sia sul piano economico e finanziario sia su quello delle libertà civili. Durante questa lunga attesa, come sempre succede, si sono confrontate visioni politiche e interessi molto diversi. Dapprima furono i greci a frenare, per sentimenti storici di ostilità e per meglio negoziare un contenzioso greco-turco sulle piattaforme continentali nell'intrico geografico dell'Egeo. Poi si è puntato il dito sull'annoso problema della presenza turca a Cipro. Poi, via via che l'Europa occidentale era oggetto di un flusso crescente di immigrati è nata, prima in Germania e poi altrove, la preoccupazione di quello che una estensione della libera circolazione avrebbe potuto significare, data la mole della Turchia, per gli equilibri etnici e linguistici delle rispettive popolazioni. Su tutto ha gravato poi la disposizione costituzionale francese, seppur modificata, che l'ingresso di nuovi membri nell’Unione Europea sia sottoposto a un referendum nazionale.

Sul fronte opposto si è addotta la portata storica dell’inclusione in Europa di una grande democrazia islamica e di una cultura che ha condiviso con l'Europa secoli di storia. La Turchia, si è detto, costituirebbe un ponte tra l'Oriente e l'Occidente, sarebbe l’espressione stessa di una volontà di dialogo e di collaborazione con altre civiltà e con quella islamica in particolare. In questo incrocio di interessi contrapposti, Bruxelles ha recentemente proposto alla Turchia, non già l'adesione ma un rapporto privilegiato con l'Europa, i cui contenuti, però, rimangono abbastanza oscuri.

Tutto lascerebbe dunque pensare a una schermaglia destinata a durare all'infinito, se non si intravedesse qualche segno che i primi a stancarsene potrebbero essere proprio i turchi. La Turchia di oggi è molto più robusta economicamente e socialmente di quella di vent’anni fa. Con la crescita civile si è però anche attenuato lo stampo rigidamente secolare che Atatürk impose quasi un secolo fa al Paese e di cui l'esercito è stato finora il primo garante. Attraverso il voto popolare, la crescita dell'Islam si è ripercossa nella vita politica. Ora vi sono segni che essa possa tradursi anche in inaspettati sviluppi di politica estera. Già a Davos, l'estate scorsa, si ebbe tra il presidente israeliano Peres e il premier turco Erdogan uno scontro plateale che stupì tutti coloro che ricordavano i rapporti eccellenti intercorsi tra i due Paesi negli ultimi decenni. Le congratulazioni di Erdogan all'iraniano Ahmadinejad dopo la sua discutibile elezione di agosto e un suo caloroso recente viaggio a Teheran fanno pensare a una accresciuta attenzione della Turchia ai suoi vicini orientali e forse all’ambizione di assumere una maggiore autonomia di azione nell’intera regione.

Le relazioni che durano troppo a lungo raramente finiscono con delle nozze e quelle che la Turchia sognava un tempo non faranno probabilmente eccezione. Il fatto che Obama non manchi occasione per auspicarle, non basta: forse produce, anzi, l'effetto opposto. Nel mondo multipolare di oggi, popolato di nuovi protagonisti soprattutto a Oriente, la dinamica Turchia di Erdogan e del suo combattivo ministro degli Esteri può permettersi di pensare a delle alternative ad un'Europa che ha dimostrato di aver poca fiducia in lei. E forse anche in se stessa.

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Titolo: BORIS BIANCHERI. Amanda, la giustizia e la politica
Inserito da: Admin - Dicembre 08, 2009, 09:47:43 am
8/12/2009

Amanda, la giustizia e la politica
   
BORIS BIANCHIERI

Sospinto da una campagna mediatica affannosa, il processo di Perugia è arrivato fino ai piani alti dei palazzi del potere. Non accade certo tutti i giorni.
Ma non è neppure eccezionale che un governo manifesti interessamento e all’occorrenza anche preoccupazione se un caso giudiziario che si svolge in un altro Paese e coinvolge un proprio cittadino solleva movimenti di opinione o forti reazioni di dissenso nella propria opinione pubblica.

E’ passato solo qualche mese dall’arresto di Roman Polanski da parte delle autorità svizzere, sulla base di un mandato di cattura spiccato dalle autorità americane per un delitto da lui commesso quaranta anni fa. La cosa ha fatto scorrere fiumi di inchiostro e ha dato luogo ad esternazioni di rammarico da parte di taluni membri di governo dettate, appunto, dalle reazioni che si sono avute nel Paese di origine del regista, la Polonia, o negli ambienti intellettuali di quello di residenza, la Francia. E non sono mancati, a quel che si sa, degli interventi da parte americana affinché a tali esternazioni gli svizzeri si guardino bene dal dare seguito.

Casi in qualche modo simili non sono mancati nei rapporti tra l’Italia e gli Stati Uniti negli ultimi decenni. Il caso più celebre di tutti, quello che ha occupato più a lungo le rispettive diplomazie e che venne risolto, per così dire, d’autorità dai due governi, è quello di Silvia Baraldini. Come si ricorderà, l’attivista italiana (così era definita dalla stampa in America) aveva fatto parte negli Anni Settanta negli Stati Uniti di movimenti insurrezionali connessi con i famosi «Black Panthers». Fu condannata nel 1983 da una corte americana a 20 anni di reclusione per concorso nell’evasione di una terrorista che si trovava in prigione, ad altri 20 per appartenenza ad associazione sovversiva e infine ad altri 3 per essersi rifiutata di rispondere alle domande dei giudici durante il dibattito. In tutto 43 anni di carcere.

Innumerevoli passi diplomatici furono compiuti dal nostro ambasciatore presso il ministro della Giustizia a Washington e poi dall’allora ministro italiano Diliberto, affinché la Baraldini fosse oggetto di indulto o di riduzioni di pena e comunque di migliore trattamento nella sua reclusione. La sproporzione tra la gravità della pena inflittale e i reati di cui era colpevole - nessun omicidio era tra questi - avevano sollevato in Italia una forte reazione dell’opinione pubblica e la costituzione di un vero e proprio movimento per la sua liberazione. La soluzione fu trovata attraverso una convenzione, detta «di Strasburgo», che prevede che due governi possono concordare tra loro che a un cittadino condannato dalla Corte di uno dei due Paesi sia consentito di scontare la pena prevista in patria anziché all’estero. Quando tale soluzione venne inizialmente proposta, gli americani rifiutavano adducendo che l’Italia avrebbe prima o poi finito con lasciare la Baraldini in libertà, violando così l’accordo e creando un incidente politico tra due Paesi amici. E tuttavia le pressioni si moltiplicarono, gli americani alla fine cedettero e la Baraldini fu consegnata all’Italia nel 1999, dopo aver trascorso quasi venti anni in varie carceri d’oltre Atlantico.

Il caso Baraldini aveva, per sua natura, carattere politico. Ma anche casi ben diversi, e quello di Amanda Knox non fa eccezione, rischiano di prendere carattere politico quando sui blog, sulla stampa e perfino da autorevoli membri della maggioranza del Congresso si attribuisce una sentenza come quella di Perugia ai sentimenti anti-americani dei giudici o all’intimidazione dei media o, peggio ancora, alle condizioni di sfacelo e di corruzione in cui verserebbe l’intera magistratura del nostro Paese. Nulla di sorprendente, dunque, che, qualora le pressioni dell’opinione pubblica americana persistano, della cosa si possa venire a parlare, in modo più o meno confidenziale, tra i due governi. Tenendo conto dello stato d’animo prevalente negli Stati Uniti, Hillary Clinton si è detta disponibile ad ascoltare chi pensa che nella sentenza di Perugia «vi sia qualcosa che non va»; ha fatto così, seppur con una certa prudenza, un passo in questa direzione.

C’è tuttavia un rischio da non sottovalutare: quando uno stato d’animo che si è prodotto a livello popolare viene implicitamente fatto suo dal proprio governo, spesso le divergenze si accrescono anziché attenuarsi e le posizioni rispettive tendono ad assumere un carattere dichiaratamente nazionalistico. Un fatto di carattere episodico, anche se doloroso, finisce così col lasciare tracce nella memoria storica dell’una e dell’altra parte. Ciò renderebbe in questo caso oltretutto più difficile la necessaria serenità di giudizio quando la sentenza di condanna di Amanda Knox sarà oggetto - e possiamo solo sperare che ciò avvenga al più presto - di riesame in sede di appello.

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Titolo: BORIS BIANCHERI. L'Europa deve dargli una mano
Inserito da: Admin - Gennaio 03, 2010, 09:58:33 pm
3/1/2010

L'Europa deve dargli una mano
   
BORIS BIANCHERI

Terminate le cene natalizie, spenti i fuochi d’artificio, ascoltati con rispetto gli appelli alla ragione e alla concordia, ci accingevamo ad affrontare il nuovo anno nella convinzione che la massima priorità nostra e di coloro che ci governano sia ora la ripresa del ciclo produttivo e dell’occupazione, soprattutto quella giovanile. E così, senza dubbio, deve essere.

Ma improvvisamente, come un colpo di vento furioso che d’un tratto si abbatta su chi si accingeva a riprendere di buon mattino il lavoro, siamo stati trasportati nel clima in cui l’America, l’Europa e altre parti del mondo si erano trovate all’inizio della prima decade di questo secolo, quando lo spettro del terrorismo internazionale si era affacciato brutalmente all’orizzonte. Non vi è stato nei giorni scorsi, per un fortuito caso, un disastro aereo di prima grandezza. Ma la sequenza di episodi, diversi nella loro origine e nella loro natura e che portano tutti il segno del terrorismo internazionale, verificatisi tra la fine dell’anno passato e l’inizio di questo, ridanno al tema del terrorismo e della necessità di contrastarlo un carattere di attualità che, con la fine dell’era Bush e con la speranza di un’era Obama di pace e di dialogo, avevamo quasi dimenticato.

In un piccolo villaggio del Pakistan nord-occidentale un attentato suicida provoca l’1 gennaio 95 morti tra gli spettatori di una partita di volley, in gran parte ragazzi; l’attentato, rivendicato dai taleban, è solo l’ultimo di una serie che ha colpito recentemente sia villaggi sia grandi città come Karachi, Peshawar e Rawalpindi. Un giovane nigeriano istruito, che vive agiatamente in Inghilterra ed è affiliato ad Al Qaeda, sale su un aereo ad Amsterdam per farsi saltare con altre trecento persone e manca solo per caso l'obiettivo. Un somalo di 28 anni entra con ascia e coltello nella casa di un vignettista danese che, buon per lui, riesce a sfuggire, e il gesto viene salutato con entusiasmo dai gruppi islamici integralisti somali. Alla lista di paesi che ospitano basi di Al Qaeda e che conoscevamo, come l’Afghanistan e il Pakistan, se ne aggiungono ogni giorno di nuovi, come la Somalia o lo Yemen, dove i governi non esistono o non riescono a controllare tutto il territorio. Altre cellule terroristiche nascono nel Golfo Persico e nell’Asia Sud-orientale. Ci troviamo insomma di fronte a uno scenario geograficamente più vasto, politicamente più aggressivo e a una più capillare infiltrazione del radicalismo nelle popolazioni islamiche del mondo occidentale.

Obama, dopo l’indagine promossa sul caso Delta nei giorni scorsi, ha messo l’accento sulla sicurezza nel suo discorso di Capodanno e ha tenuto ad assicurare gli americani che strutture e forze di sicurezza saranno efficacemente coordinate d’ora in poi. Provvedimenti certo indispensabili, in America come altrove. Ma è ovvio che una applicazione passiva della sicurezza non fa fronte alla minaccia terroristica. Se anche spogliassimo ogni passeggero che sale su un aereo ed esaminassimo con la lente tutto ciò che possiede, chi potrebbe farlo sui treni, sulle metropolitane o sugli autobus, se i terroristi cambiassero i loro obiettivi? La lotta al terrorismo va combattuta sul piano nazionale e con la collaborazione dei servizi informativi. Ma è anche sul piano politico internazionale che occorre cercare una collaborazione, e qui gli sforzi sono stati minori e si sono presto arenati. Facendo un paragone con cose a noi familiari, limitarsi alla sicurezza sarebbe come fare la lotta alla mafia solo con l’azione sacrosanta della polizia e della finanza: sappiamo bene che è solo con un’azione generale, del governo delle regioni, dei comuni e della società civile che si può pensare di vincerla. Sul piano internazionale, finora non si è riusciti neppure a trovare una definizione di terrorismo che sia accettabile a tutti. Per alcuni paesi, infatti, il principio della liberazione nazionale prevale sul principio di divieto di violenza sui civili a fini politici.

Non c’è da farsi illusioni. Una mobilitazione internazionale contro il terrorismo che coinvolga davvero tutti i paesi, anche al di fuori della cerchia occidentale, è opera ardua e di lungo periodo. Ma vale la pena di riprendere i tentativi; anzi, è necessario farlo.
Si dice che la Spagna, che ha ora la presidenza di turno dell’Unione Europea, abbia in animo di rafforzare intanto il coordinamento favorendo la creazione di un Comitato Europeo antiterrorismo e che il governo italiano veda questo con favore. Può essere un buon inizio: il terrorismo è una mostruosità, sia sul piano sociale che su quello etico. Che l’Europa si metta in prima fila per combatterlo sarebbe un buon segno: un buon segno per la nostra sicurezza e un buon segno per ciò che è, o che potrebbe essere domani, l’Europa.

da lastampa.it


Titolo: BORIS BIANCHERI. Disastro diplomatico
Inserito da: Admin - Gennaio 28, 2010, 08:43:05 pm
27/1/2010

Disastro diplomatico
   
BORIS BIANCHERI


Più che una gaffe, è stato proprio un piccolo disastro. Cosa abbia indotto un uomo lucido ed esperto come Bertolaso, che ha delle situazioni di emergenza e dei modi di affrontarle una esperienza impareggiabile e che conosce anche bene il mondo della politica e le sue esigenze.

Cosa lo abbia spinto a rilasciare quelle dichiarazioni critiche sul modo in cui viene condotta l'assistenza a Haiti e a riferirsi in particolare in modo leggermente beffardo a un eccesso di graduati americani, non credo che lo capiremo mai. A caldo, il Segretario di Stato americano Clinton aveva reagito con un po' di ironia qualificandole con una espressione tipicamente americana come «chiacchiere da dopo partita». Sperava probabilmente che la cosa sarebbe finita lì. Ma così naturalmente non è stato e il battibecco ha fatto presto il giro del mondo.

La Clinton ha detto successivamente di essere stata profondamente ferita da queste critiche, un'espressione davvero inconsueta nel linguaggio diplomatico. E' dovuto dunque intervenire con fermezza prima il nostro ministro degli Esteri, poi, con ancora maggior autorevolezza, il presidente Berlusconi, per smentire le affermazioni del Sottosegretario Bertolaso e affermare senza mezzi termini che la risposta internazionale al tragico sisma di Haiti è stata rapida e l'intervento americano particolarmente generoso e significativo.

Che la cosa abbia molto irritato gli americani, non sorprende. Nessuno ama essere criticato in pubblico, soprattutto quando le critiche si riferiscono al modo in cui si cerca di fare un'opera umanitaria in condizioni obiettivamente difficili e ancor più se chi critica ha fatto, per parte sua, ben poco. In questa operazione, poi, gli americani si erano veramente impegnati a fondo e continueranno ad esserlo in futuro. Il presidente Obama ne aveva fatto subito, molto esplicitamente, un impegno suo personale e di tutto il Paese: lo richiedeva infatti l'opinione pubblica, lo richiedevano evidenti ragioni di prossimità geografica e il ruolo generale che gli Stati Uniti hanno in quella regione. Forse Obama si è anche ricordato delle critiche piovute a suo tempo sul capo del suo predecessore George Bush per l'insufficienza e i ritardi degli aiuti alle popolazioni colpite dal tifone Katrina e gli strascichi polemici che a lungo sono seguiti. Fatto è che stavolta l'intervento americano è stato davvero pronto e massiccio, anche, ma non solo, al fine di mantenere una parvenza di ordine pubblico in un Paese privo di qualsiasi struttura funzionante, un problema questo che era stato avvertito subito come altrettanto impellente quanto quello di prestare soccorso a chi era restato sotto le macerie. A dire il vero, l'entità della presenza americana aveva fatto alzare un poco le sopracciglia anche a qualche commentatore d'oltralpe: ma i francesi, si sa, sono fatti così e si era trattato solo di riferimenti indiretti e non certo di fonte ufficiale.

Le dichiarazioni di Bertolaso, tra l'altro, hanno suscitato la reazione non solo degli americani ma anche dell'Onu, che si è sentita tirata in causa come diretto responsabile del coordinamento degli aiuti internazionali. In un incontro tenuto ieri a Montreal tra i maggiori donatori per preparare una prossima conferenza per gli aiuti a Haiti, il portavoce delle Nazioni Unite ha detto infatti ai giornalisti che, dopo le dichiarazioni del presidente del Consiglio Italiano, non c'era più ragione di commentare le critiche fatte da Bertolaso.

Si è trattato dunque di una tempesta in un bicchier d'acqua? Non è stata una tempesta, forse, ma un po' d'acqua fuori dal bicchiere ne è caduta. Degli apprezzamenti critici rilasciati da un membro di governo straniero, che oltretutto ha una competenza specifica nella materia di cui parla e che quindi suonano verosimili, qualche segno lo lasciano. In questo caso si trattava di un tema particolarmente delicato e in un momento sensibile per l'amministrazione Obama. Il caso ha voluto poi che quelle dichiarazioni siano venute a coincidere con una visita del ministro Frattini a Hillary Clinton con un'agenda densa di temi significativi e importanti per entrambi i Paesi, come la preparazione della prossima conferenza di Londra sull'Afghanistan, gli sviluppi della situazione in Iran e le possibili sanzioni, le conseguenze sul piano energetico e via dicendo. Non hanno turbato né turberanno i nostri rapporti con gli Stati Uniti, e l'incontro, a quanto si sa, non ne ha risentito, ma si è creato un circo mediatico che tutti avrebbero preferito evitare.

Se Bertolaso si fosse imbarcato sulla nostra portaerei Cavour con le duecento tonnellate di aiuti italiani, sarebbe arrivato a Haiti tra 10 giorni e forse, a freddo, ai suoi commenti nessuno avrebbe fatto attenzione.

da lastampa.it


Titolo: BORIS BIANCHERI. Alla Farnesina si torna all'antico
Inserito da: Admin - Febbraio 09, 2010, 09:35:32 am
9/2/2010

Alla Farnesina si torna all'antico
   
BORIS BIANCHERI

Sino a una ventina d’anni fa, nel nostro ministero degli Esteri i problemi internazionali venivano assegnati tra le varie Direzioni a seconda della loro natura: esisteva una Direzione degli Affari Politici, una Direzione Affari Economici, una degli Affari Culturali e così via. Il tutto coordinato dalla Segreteria Generale e, beninteso, sotto la direzione e la responsabilità politica del ministro e dei suoi sottosegretari. Questo schema dava al «che cosa?» preminenza sul «dove?», cioè dava priorità alla natura di un problema rispetto al Paese o gruppo di Paesi nei cui confronti il problema si poneva.

Tale criterio contrastava però con quanto si faceva in alcuni grandi Paesi europei, in Gran Bretagna e in Francia in particolare, dove invece la priorità era data alla geografia, con dipartimenti suddivisi, appunto, in aree geografiche: Europa, Americhe, Asia e via dicendo. In una fase della politica estera comune dell’Unione Europea che richiedeva continue riunioni di coordinamento tra dirigenti dei vari ministeri degli Esteri, parve utile dare alle nostre strutture un assetto che rispecchiasse più da vicino quello di nostri autorevoli partner e si passò a una formula mista, ma prevalentemente geografica, di ripartizione interna.

Non si tratta di un problema puramente organizzativo: esso riflette delle scelte nel ruolo che la politica estera assume nello sviluppo del proprio Paese e del modo in cui si vuole tenere il passo con le trasformazioni in atto nello scenario mondiale. Accadde però che quella riforma di una decina d’anni fa venisse attuata quando era già superata e quando gli stessi Paesi il cui assetto l’Italia aveva preso a modello si accingevano a cambiarlo. Gli ultimi decenni hanno infatti segnato un continuo processo di erosione delle realtà geografiche storiche e la crescente internazionalizzazione della vita della società civile. Cento anni fa, il rapporto tra due Paesi aveva un fondamento politico-geografico che si proiettava anche sull’interscambio, sulla finanza o sulla cultura. Oggi, tutte le attività di una società evoluta hanno delle dimensioni internazionali - l’educazione, l’ambiente, la sanità, il lavoro, la scienza, le comunicazioni e via dicendo - e sono queste ultime che condizionano il più delle volte anche il rapporto politico sottostante. Ecco dunque che la Farnesina si propone di tornare all’antico schema di una ripartizione delle competenze interne fondata su base tematica, seppur largamente aggiornata e corretta. E non a caso altri Paesi europei hanno nel frattempo già fatto riforme simili. Avremo dunque una Direzione per la Mondializzazione, dove trovano posto non solo le grandi organizzazioni internazionali e i processi di governance come il G8 o il G20, ma anche tutti i rapporti bilaterali con i singoli Paesi del mondo. Solo l’Europa avrà una sua Direzione per l’Unione Europea, mirata soprattutto al processo di integrazione e ai rapporti con la Commissione e le altre istituzioni dell’Unione. Dovrà esservi poi una Direzione per gli Affari Politici e di Sicurezza, una Direzione per la Promozione del Sistema Paese, che va dalla cultura all’attività delle imprese all’estero, una Direzione per la Cooperazione allo sviluppo e una per gli Italiani all’estero.

È un progetto che presuppone evidentemente una stretta e coerente attività di coordinamento con la presidenza del Consiglio e con tutti gli altri ministeri, un problema questo che si è posto da tempo e che è stato affrontato anche attraverso una sempre più frequente presenza di funzionari diplomatici presso le altre amministrazioni. Sul suo progetto il ministero degli Esteri apre giustamente un dibattito nei prossimi giorni. Tutto è perfezionabile, ma non c’è dubbio che esso risponda, assai meglio del modello attuale, alle esigenze poste dalla globalizzazione e da processi economici e politici che trascendono i confini della geografia. Ha anche il merito di ridurre il numero delle grandi unità operative della Farnesina. Auguriamoci soltanto, guardando alle crisi in atto, a talune tentazioni protezionistiche, a striscianti nazionalismi e allo scetticismo che si accompagna in questi ultimi tempi alla visione universalistica di Barack Obama, che anche questa volta esso non entri in vigore quando il mondo sta di nuovo cambiando.

da lastampa.it


Titolo: BORIS BIANCHERI. L'Italia deve scendere in campo
Inserito da: Admin - Febbraio 16, 2010, 10:46:41 am
16/2/2010

L'Italia deve scendere in campo
   
BORIS BIANCHERI

Probabilmente non sapremo mai con esattezza tutti i retroscena di questo nuovo scontro svizzero-libico che si sta trasformando in uno scontro tra Libia e Europa.

Un braccio di ferro dai contorni e dalle conseguenze imprevedibili. La notizia, data ieri dal quotidiano libico on line «Oea» è infatti di quelle alle quali a prima vista si stenta a credere: il governo libico rifiuterà d'ora in poi il visto di ingresso in Libia ai cittadini di tutti quei Paesi che appartengono alla cosiddetta «area Schengen» cioè di tutti quei Paesi in cui si circola liberamente in Europa senza necessità di esibire un passaporto. Si tratta, come sappiamo, di gran parte ma non di tutti i Paesi dell’Unione Europea; la Gran Bretagna, per esempio, non ne fa parte. E ciò vuol dire che un cittadino inglese potrebbe avere un visto di ingresso in Libia, ma non un francese, non un italiano, non un tedesco e così via. Un provvedimento, ha chiarito l'organo di informazione libico, preso come ritorsione alla disposizione che sarebbe stata adottata dalle autorità di Berna (ma che queste non confermano) di negare l'ingresso in Svizzera a circa 188 cittadini libici.

Le controversie tra Libia e Svizzera non nascono oggi. L'episodio più clamoroso si ebbe circa un anno e mezzo fa, quando il figlio di Gheddafi, Hannibal e sua moglie, furono arrestati dalla polizia elvetica in un grande albergo ginevrino a seguito di una denuncia per maltrattamenti presentata da due persone che erano al loro servizio. Dopo 48 ore la coppia fu liberata e poté lasciare il Paese. La cosa suscitò però una durissima reazione di Gheddafi che ritirò subito importanti somme depositate nelle banche svizzere - si parla di 5 miliardi di euro - e di fatto sequestrò con ragioni pretestuose due uomini d'affari elvetici che si trovavano a Tripoli. Lo stesso Presidente della Confederazione Elvetica fu costretto ad andare di persona a Tripoli per cercare di rimettere i rapporti tra i due Paesi sui binari della normalità ma riuscendovi solo in parte: quella singolare visita di scusa fu anzi vista con stupore dalla stampa e dall'opinione pubblica elvetica e fu giudicata una gratuita umiliazione del capo di Stato da parte di un bizzarro e intemperante dittatore.

Ora però questo contenzioso svizzero-libico fa un salto di qualità ed esce dall’ambito bilaterale per investire l'Europa. La giustificazione addotta dai libici è che i Paesi europei seguono criteri restrittivi nella concessione dei visti ai lori cittadini e che quindi, nella sostanza anche se non nella forma, finiscono con allinearsi alle discriminazioni operate dagli svizzeri. Difficile è dire come tutto questo andrà a finire, perché ciò che, da vicino o da lontano, riguarda Gheddafi ha un evidente carattere di imprevedibilità. Se il provvedimento verrà mantenuto e agli europei verrà effettivamente negato l'accesso, come sembra sia in parte già avvenuto all'aeroporto di Tripoli nella serata di domenica, la cosa non potrà non ripercuotersi molto negativamente sui rapporti economici e finanziari che l'Europa ha con la Libia.

La Farnesina ha intanto fatto sapere che intende investire della questione i ministri degli Esteri Europei quando si riuniranno la prossima settimana a Bruxelles. E non c'è dubbio che l'Italia sia tra tutti la più esposta in questa vicenda. Esposta perché i nostri interessi in Libia hanno dimensioni che superano quelle dei nostri maggiori partners, perché l'apporto libico nel controllo dell’emigrazione clandestina resta per noi essenziale ed è di appena pochi mesi fa la positiva definizione di una lunga controversia tra i nostri due Paesi con l'impegno, tra l'altro, della costruzione da parte italiana di una strada litoranea in Libia dalla frontiera tunisina a quella egiziana. Ma soprattutto esposta perché nella recente visita di Gheddafi a Roma, il presidente Berlusconi ha voluto anche personalmente dare una solennità e un calore quali si riservano solo ai veri amici. Trincerarsi dietro le future decisioni dell’Europa è formalmente corretto ma è difficile che ci si possa sottrarre, visti i precedenti, dall’esercitare un nostro specifico ruolo. Sappiamo per esperienza in che acque agitate ci si muove quando si tratta con la Libia: non è stato facile in passato sul piano bilaterale e ancor meno lo sarebbe con gli occhi della Svizzera e dell'Unione Europea puntati addosso. Questa improvvisa tegola libica potrebbe essere una notevole sfida per esercitare i talenti della nostra diplomazia.

da lastampa.it


Titolo: BORIS BIANCHERI. Il Presidente e l'Europa dimenticata
Inserito da: Admin - Marzo 05, 2010, 10:15:45 am
5/3/2010

Il Presidente e l'Europa dimenticata
   
BORIS BIANCHERI

Il chiasso prodotto dalle povere vicende di casa nostra finisce con l’assordarci a tal punto che non prestiamo quasi orecchio a quel che succede nel mondo.

Diamo ogni dovuta attenzione al lapidario commento lasciato cadere dal presidente della Repubblica Napolitano durante la sua visita a Bruxelles in merito al «pasticcio» Polverini - Formigoni.

Oppure restiamo colpiti dall’imbarazzato richiamo per consultazioni del nostro ambasciatore affinché chiarisca i suoi rapporti con l’ex senatore Di Girolamo. Ma finiamo col dare per scontato ciò che si è passato nei colloqui che il Presidente della Repubblica ha avuto con i vertici dell’Unione Europea, della Commissione e del Parlamento dove si giocano le sorti non di questa o quella candidatura regionale e provinciale ma del futuro dell’intera Europa. Eppure le parole pronunciate da Napolitano a Bruxelles sono di quelle che ormai si sentono raramente.

Che l’avvenire del nostro continente dipenda dalla capacità degli Stati europei di dotarsi di istituzioni comuni in grado di prendere decisioni di portata generale e che l’interesse di ogni singolo Paese vada visto attraverso quello dell’Unione nel suo complesso era, sino a qualche anno fa, quasi un luogo comune. Non sempre quelli che pronunciavano simili affermazioni ci credevano fino in fondo, molte riserve mentali, molti latenti scetticismi si nascondevano dietro la retorica europeista dei nostri politici e delle classi dirigenti. Ma, tutto sommato, quella retorica era anche il segno che gli ideali ispiratori della costruzione europea erano ormai talmente accettati che, a ribadirli, si dava prova, più che di talento politico, di buona educazione. Poi è successo quello che è successo. Prima sono stati i referendum in alcuni Paesi europei sul progetto di costituzione e sul Trattato di Lisbona che hanno rivelato la frattura esistente tra le ambizioni europeiste e il sentimento di certe opinioni pubbliche. Poi è sopravvenuta la crisi economica e finanziaria che ha indotto i governi a dare priorità agli affari di casa loro e se ne è vista una conseguenza quando quegli stessi governi hanno collocato ai vertici delle Istituzioni comuni, nella difficile fase in cui la nuova dirigenza si alterna a quella vecchia, delle personalità scelte forse più per i loro limiti che per le loro virtù, come il belga Von Rompuy (che sa bene come sopravvivere nel suo Paese tra etnie litigiose) o l’inglese Catherine Ashton che costituisce ancora un’incognita per tutti.

A loro, come al presidente della Commissione Barroso e al presidente del Parlamento Europeo Buzek, Napolitano ha ripetuto con forza che bisogna far funzionare le istituzioni quali esse sono, senza pensare a nuovi trattati o a modifiche che, anziché perfezionarle, rischierebbero di farle naufragare del tutto, ma ancor più senza permettere che esse vengano aggirate da intese dirette tra alcuni Stati nazionali che agiscono in base a loro logiche settoriali e contingenti. E l’allusione ai contatti riservati - ma neppur tanto - tra alcuni partner su come pilotare la barca europea tra le secche della crisi non poteva essere più evidente.

Mai come adesso, infatti, si ha la sensazione della scomparsa di un’Europa protagonista della scena politica ed economica mondiale, nel silenzio degli stessi europei e tra i sorrisi di chi, in America soprattutto ma anche altrove, all’Europa ha sempre voluto credere poco. Non si tratta solo della riluttanza ad assumere chiare posizioni di sostegno in ordine alla crisi della Grecia per timore delle reazioni che ciò può suscitare nella propria opinione pubblica, si tratta anche dell’assenza di una strategia e perfino dello studio di una possibile strategia nei confronti della Cina, o dei rapporti transatlantici, o della Russia, in un momento di incertezza e di riassetto globale dei rapporti internazionali. Sulla copertina dell’ultimo Time Magazine figura un globo terracqueo nel quale l’Europa addirittura non c’è e dove il mare ne ha preso il posto.

Ha ragione il presidente Napolitano quando impiega un linguaggio che ricorda quello dei tempi eroici della costruzione dell’Unione. Egli ne conosce bene le possibilità e i meccanismi, anche per essere stato per cinque anni parlamentare europeo ed è proprio al Parlamento che con maggior vigore ha fatto appello perché reagisca al ritorno di striscianti nazionalismi e tragga dai poteri che gli sono propri quegli impulsi di innovazione e di progresso unitario e democratico che tutti i governi, non escluso il nostro, sembrano incapaci di produrre.

da lastampa.it


Titolo: BORIS BIANCHERI. Obama si dimentica il Giappone
Inserito da: Admin - Marzo 09, 2010, 10:58:32 pm
9/3/2010

Obama si dimentica il Giappone

   
BORIS BIANCHERI


Dei Paesi che sono stati i grandi protagonisti della scena mondiale nell’arco di più di mezzo secolo, il Giappone è per molti aspetti quello più singolare: la sua economia ha rivaleggiato per innovazione e ritmo di sviluppo con quella americana, i suoi prodotti tecnologici e le sue auto hanno cambiato il gusto e le abitudini dei consumatori, il sushi domina le mense dei giovani e perfino la letteratura giapponese moderna, da Kawabata a Banana Yoshimoto, ha invaso le vetrine delle librerie di ogni continente. Il Giappone ha avuto il più basso tasso di disoccupazione e il più alto livello di pace sociale del mondo industrializzato e il suo prodotto lordo è ancora, alla fine del 2009, il maggiore in assoluto dopo quello degli Stati Uniti.

Eppure, da qualche tempo in qua, sul Giappone sembrano essersi spenti i riflettori. Nei grandi disegni multipolari che Barack Obama ha proposto al mondo, il Giappone non sembra avere un posto particolare. Nei vertici politici ed economici internazionali, nei vari G8 e G20 che si susseguono, raramente la posizione giapponese si fa sentire e ancor più raramente i grandi mezzi di informazione sembrano interessati a farsene eco.

Quando Obama ha fatto il suo viaggio in Asia nello scorso autunno, ci siamo chiesti tutti se la sua visita in Cina avesse segnato un punto a suo favore o se fosse stata un'occasione perduta. Ma della visita fatta allora in Giappone non si è quasi parlato, se non per i dissensi sulla base americana di Okinawa e perché il Presidente americano, a differenza di suoi predecessori, non ha fatto una tappa di omaggio a Hiroshima. E neppure a Copenaghen, dove le posizioni americane, cinesi, russe ed europee si sono confrontate apertamente, è emersa una chiara posizione giapponese.

Sono passati 40 anni, ma sembrano passati secoli, da quando Kissinger intuì che se non si fosse associato più strettamente il Giappone al binomio America/Europa attuato con la Nato, la partita con l'Unione Sovietica non si sarebbe vinta. Fu creata allora, e Gianni Agnelli fu tra i fondatori, la Commissione Trilaterale, quella singolare istituzione, a lungo e ferocemente odiata dai no global, dove la politica, gli affari e la cultura di tre mondi si incontrano attraverso personalità di fama e di potere. Ma cosa fa sì che oggi, invece, del Giappone si parli poco quando si pensa agli equilibri globali, infinitamente meno che della Cina, non solo, ma meno anche dell'India o del Brasile, ai quali pure il Giappone è finanziariamente e industrialmente tanto superiore?

Forse la risposta è che, mentre in questi ultimi venti anni il mondo è venuto trasformandosi, il Giappone è rimasto simile a sé stesso. La globalizzazione gli ha offerto l'opportunità di moltiplicare la diffusione dei suoi prodotti e delle sue tecnologie, ma non ha cambiato il suo animo. Parve che la nuova maggioranza di governo, che dopo essere stata dei liberali per 40 anni è passata con le elezioni dell'estate 2009 al Partito Democratico, avrebbe segnato un rinnovamento complessivo del Paese. Ebbene, quella maggioranza è già in difficoltà. Vecchie abitudini e anche vecchi mali riappaiono, figure come quelle del premier Hatoyama o del brillante Segretario Generale del partito Ozawa, sino a poco fa estremamente popolari, già sembrano appannate, mentre la burocrazia resta fermamente in sella. Un certo nepotismo, certe connessioni tra affari e politica, antichi difetti del sistema, riemergono anche nel Partito Democratico ora al potere. E perfino l'inamovibilità del posto di lavoro, che è stata sempre la chiave del modello giapponese, rivela i suoi lati deboli perché lo rende impermeabile al ricambio e all'arrivo dall'esterno di forze fresche e innovative. La colossale disavventura della Toyota - un vero nome/simbolo dell'industria giapponese - costretta a richiamare più di due milioni di veicoli dal mercato americano per difetti ai freni e il modo incerto e goffo in cui quella disavventura è stata presentata al pubblico, sono il frutto anche di un apparato industriale che più che guardare a ciò che di nuovo succede in giro preferisce guardare al suo proprio ombelico. E se proprio deve guardar fuori, volge gli occhi verso la Cina.

Sono mali che affliggono anche altri Paesi e altri continenti. Così i vecchi rapporti privilegiati finiscono. Che la distrazione con cui Obama tratta il Giappone, quasi dimenticando di avere in lui un potenziale partner della sua politica asiatica, e la distrazione con cui salta i suoi appuntamenti europei abbiano qualcosa in comune?

da lastampa.it


Titolo: BORIS BIANCHERI. Ma Usa e Russia siglano il disarmo
Inserito da: Admin - Marzo 27, 2010, 04:56:51 pm
27/3/2010

Ma Usa e Russia siglano il disarmo
   
BORIS BIANCHERI


Si chiude una lunga vicenda con l’annuncio dell’accordo raggiunto tra Stati Uniti e Russia per un’ulteriore riduzione delle armi strategiche. Da tempo l’accordo era scaduto: disciplinava questa materia e stabiliva in 2200 per parte le testate nucleari consentite.

E già prima della sua scadenza erano cominciati negoziati ufficiosi tra russi e americani per il suo rinnovo. Obama e Medvedev ne avevano parlato insieme a Londra esattamente un anno fa. Quel colloquio aveva fatto intravedere la possibilità che un nuovo accordo strategico si potesse raggiungere prima che quello vecchio giungesse alla scadenza nel novembre scorso. Poi le cose parvero complicarsi e il clima complessivo tra i due Paesi restò variabile, malgrado il noto gesto distensivo compiuto da Washington in materia di difesa antimissili che, nelle intenzioni, doveva essere il segnale di «reset» nelle relazioni russo-americane.

Ora, in un momento particolarmente significativo sul piano interno per il presidente Obama, le cose si sono sbloccate ed è stata perfino annunciata la data precisa della firma che avverrà a Praga l’8 aprile prossimo. L’intesa sulla data sembra esser stata raggiunta in una telefonata intercorsa direttamente ieri tra Obama e Medvedev. Non soltanto l’equilibrio delle armi strategiche viene prorogato, ma il numero delle testate è ulteriormente ridotto e portato da 2200 a circa 1500 per parte. Se si pensa che nella fase terminale della Guerra Fredda gli americani detenevano circa 12 mila testate nucleari e i russi un paio di migliaia di meno, si vede quali drastiche riduzioni siano state compiute negli arsenali strategici in questi vent’anni.

Val la pena di aggiungere che l’accordo annunciato ieri - al cui raggiungimento la signora Clinton non è probabilmente stata estranea, nella visita a Mosca di pochi giorni fa - pur avendo comportato sacrifici da parte americana soprattutto riguardo la regolamentazione dei controlli, con il tempo avrà delle ripercussioni positive per gli Stati Uniti. Si tratta del versante della spesa, che costituisce al momento una delle maggiori preoccupazioni della Casa Bianca. Quale ne sia l’incidenza effettiva sul bilancio, è un fatto che la riduzione negoziata con il solo altro grande Paese nucleare al mondo può produrre benefici, senza compromettere in alcun modo la sicurezza del Paese e dei suoi alleati.

Per Obama è senza dubbio un traguardo importante. Dall’inizio della sua presidenza, si tratta infatti del primo significativo successo ottenuto in materia di politica estera e del primo momento in cui la teoria del dialogo e dell’amicizia universale da lui persuasivamente annunciata trova una concreta realizzazione. La trova, per di più, su un tema - quello dell’armamento nucleare - che tocca corde sensibili nelle opinioni pubbliche in grandissima parte del globo e che ha dunque un carattere che va ben oltre il fatto bilaterale, pur tutt’altro che irrilevante. Assume un valore quasi simbolico e globale. E’ molto probabile che l’accordo che verrà firmato a Praga dia lo spunto a una enunciazione più ampia e completa della politica nucleare complessiva da parte di questa presidenza, di cui a Washington si parla già da qualche tempo. E’ infatti prassi usuale che un presidente americano, nel corso del suo mandato, si pronunci sui princìpi generali che regolano la strategia nucleare del Paese e su quali siano le circostanze nelle quali possa farsi ricorso all’impiego dell’arma nucleare. A questo riguardo si era espresso più volte e non sempre in modo lineare e coerente. Parrebbe del tutto in linea con la sua visione politica, se anche Obama tracciasse la filosofia che illustra e giustifica in termini globali il possesso di quest’arma e i criteri del suo impiego. Tanto più che il tema nucleare è al centro di quelli che, al momento attuale, sono forse i due problemi più caldi del pianeta, l’Iran e la Corea del Nord: sull’uno e sull’altro è necessaria una convergenza internazionale di cui anche la Russia è un elemento essenziale. Una solenne riunione internazionale, da tenersi su questa materia in un futuro non lontano a Washington, della quale qualcuno fa cenno, potrebbe avere proprio questo significato.

da lastampa.it


Titolo: BORIS BIANCHERI. Francia e Italia convergenze possibili
Inserito da: Admin - Aprile 09, 2010, 11:29:49 am
9/4/2010

Francia e Italia convergenze possibili

BORIS BIANCHERI

Nelle dorate stanze dell’Eliseo si incontreranno oggi il presidente francese Sarkozy, il premier Berlusconi, un bel numero di ministri e molte alte personalità dell’industria e della finanza dei due Paesi, nel quadro dell’annuale incontro al vertice tra Italia e Francia.
Se, anziché ora, l’incontro si fosse tenuto qualche mese fa, si sarebbero seduti uno di fronte all’altro un Sarkozy ben saldo in sella e un Berlusconi in difficoltà, assediato da mille pettegolezzi sia di color giallo sia di color rosa. Oggi, dopo le elezioni regionali che si sono tenute in entrambi i Paesi, le posizioni sembrano essersi invertite. Il governo Berlusconi ha davanti a sé un triennio di relativa stabilità e si accinge ad affrontare con ottimismo le battaglie per le riforme. Il governo di Sarkozy non ha completato le sue e ha visto un forte calo di consensi nel suo elettorato. Quanto ai pettegolezzi che per molti mesi hanno assediato il nostro premier, ora è la volta della prima Signora di Francia e dell’intero Eliseo a essere investito da una piccola bufera gialla e rosa. Un punto di forza, tuttavia, accomuna i due presidenti: la confusione e l’assenza di una chiara leadership nelle opposizioni.

In questa fase di crisi e di equilibri in trasformazione su scala mondiale un incontro approfondito che porti a convergenza di vedute tra Italia e Francia è quanto mai opportuno. Il tema genericamente assegnato a questo vertice italo-francese è il tema della sicurezza; ma sicurezza è una parola che ha molte declinazioni: sicurezza vera e propria e politica europea di difesa, naturalmente, ma anche sicurezza economica, sicurezza energetica, sicurezza ambientale, e anche sicurezza a fronte delle sfide che ci confrontano sul piano del terrorismo e del radicalismo religioso. Sicurezza poi, o per meglio dire certezza, va cercata nel percorso politico dell’Europa. La crisi aperta dall’insolvenza greca ha posto, come si è visto, un problema finanziario che riguarda non solo la Grecia e gli altri Paesi maggiormente indebitati ma tutta Eurolandia. Il pacchetto di sostegno alla Grecia messo faticosamente insieme con molte riserve il 25 marzo scorso non pare aver persuaso i mercati, come l’ultima scivolata dell’euro sembra indicare. In più, ha portato allo scoperto un serio problema politico: l’intesa franco-tedesca, che è stata storicamente al centro della costruzione europea e che è restata sempre ben salda anche dopo la fine della guerra fredda, ha avuto, proprio sul tema della Grecia, dell’euro e della sottostante disciplina economica, una visibile incrinatura. Ha messo infatti in luce uno stato d’animo di sospetto da parte dell’opinione pubblica tedesca nei confronti dell’impegno europeo di cui non si aveva nessuna percezione e che potrebbe avere conseguenze non trascurabili in futuro. Sarkozy è stato il primo a registrarlo nei suoi ripetuti colloqui con la signora Merkel.

La ricerca di convergenze tra Italia e Francia sui temi europei diventa dunque ancor più necessaria, tanto più in previsione della possibile vittoria elettorale di David Cameron nelle future elezioni inglesi, che già suscita nei partner continentali il moderato allarme che si accompagna sempre all’insediamento di un governo conservatore nel parlamento di Westminster.

Sono realizzabili queste convergenze? Né Sarkozy né Berlusconi sono inclini all’astrazione e non possono non sentire l’importanza
dell’anello italo-francese in un’Europa in perdita di velocità e di coesione.

Che gli interessi che legano i due Paesi siano vicini sul piano concreto lo dimostra, oltre alla presenza di ben otto ministri per parte, il numero e il livello delle personalità del mondo economico che, anche quest’anno, si riuniscono nel Foro di Dialogo tra imprenditori che precede e si accompagna al vertice politico. Come si addice a questo genere di incontri, qui i temi sono settoriali e chiaramente indicati. Uno è quello attualissimo delle «tecnologie verdi», che mirano al miglioramento dell’efficienza energetica, alla de-carbonizzazione e allo sviluppo di nuove tecnologie: un campo in cui sono ipotizzabili intese regolatorie e industriali tra Italia e Francia che proseguano quelle già intervenute in materia nucleare. Un altro tema è quello del Mediterraneo, un tema giustamente caro ai francesi e particolarmente a Sarkozy che lanciò un paio d’anni fa una Unione Mediterranea, poi più appropriatamente chiamata Unione per il Mediterraneo, tra i 27 Paesi dell’Ue e 16 Paesi rivieraschi. E’ un fatto che, mentre i rapporti tra l’Europa storica e l’Europa orientale si sono sviluppati e poi concretizzati nell’allargamento, il rapporto privilegiato con l’area mediterranea lanciato quindici anni fa a Barcellona ha stentato a decollare. Saranno la collaborazione finanziaria e industriale e l’armonizzazione normativa, di cui si parlerà a Parigi, a riprenderne le fila.

Un incontro importante, dunque, quello di domani. Dato che tanto si cita da noi il «semi-presidenzialismo alla francese» come un possibile modello di riforma costituzionale, può darsi che Berlusconi sia più interessato di prima a vederlo alla prova nel suo interlocutore di Parigi: ma non deve illudersi, davanti a sé avrà Le Président e non un Semi-Presidente.

da lastampa.it


Titolo: BORIS BIANCHERI. Il terzo uomo? Che noia
Inserito da: Admin - Maggio 11, 2010, 06:12:20 pm
11/5/2010

Il terzo uomo? Che noia

BORIS BIANCHERI

Se c’è un’esigenza che si impone su tutte le altre nell’attuale momento politico inglese, è quella di far presto. Sono passati appena tre giorni da quando si è saputo il risultato delle elezioni tenute venerdì scorso.

Si tratta di un risultato, come sappiamo, che non soltanto ha messo fine alla supremazia laburista che durava da tredici anni ma che assegna al piccolo partito liberaldemocratico un ruolo chiave nella formazione di qualsiasi governo - e tutti i leader dei partiti in gioco hanno affermato che un accordo che permetta la formazione di una maggioranza va trovato immediatamente: se non nel giro di 24 ore, come aveva affermato ieri Nick Clegg, al massimo entro due o tre giorni. E va detto che è uno dei meriti della classe politica britannica, quando l’opinione pubblica interna e le circostanze esterne lo impongono, di saper agire rapidamente. Chi scrive ricorda per esserne stato direttamente testimone quando la signora Thatcher divenne improvvisamente impopolare per aver inventato una tassa di importo eguale per tutti i cittadini e fu destituita in una riunione durata poche ore dalla carica di presidente del suo partito e da quella di primo ministro che deteneva entrambe da dodici anni.

Oggi, sia il conservatore David Cameron che il liberaldemocratico Clegg hanno capito che gli inglesi sono già stanchi di politica: la campagna elettorale è stata lunga e, fino a un certo momento, perfino elettrizzante, con quel Nick Clegg così abile a spiazzare gli avversari nei confronti televisivi; ma alla fine inconcludente, perché invece di indicare un vincitore - come è avvenuto sempre in Gran Bretagna - ne ha indicato uno e mezzo. Ora è tempo di tornare a lavorare e, per il governo, quale esso sia, di mettersi a governare. Anche i mercati sono nervosi e la situazione economica e finanziaria del Paese non consente che si indugi ulteriormente.

Se i conservatori, che hanno la maggioranza relativa, e i liberaldemocratici, che sono l’ago della bilancia, chiuderanno effettivamente il negoziato nel corso di una notte, o anche se ci vorrà una notte o due in più, non sarà stata cosa da poco. A noi del continente, abituati a negoziati che durano mesi perfino tra le correnti interne di uno stesso partito, sembra quasi inverosimile. Perché le divergenze dei programmi dei conservatori e dei lib-dem sono tutt’altro che irrilevanti. Intanto vi è l’esigenza, che per i lib-dem è in qualche modo esistenziale, di trovare un’intesa di massima su una modifica della legge elettorale attuale, che premia i due grandi partiti tradizionali, conservatori e laburisti, ciascuno fortemente radicato su specifiche aree del territorio, e punisce i liberali che hanno consensi trasversali diffusi un poco ovunque ma relativamente minoritari. Modificare in poche ore una legge elettorale non è cosa da nulla: si pensa quindi a qualche formula di compromesso, come quella del cosiddetto «voto alternativo» dove gli elettori potrebbero elencare più di un candidato in ordine di preferenza e vincerebbe chi ha più del 50% dei consensi. Ma i lib-dem mettono in discussione anche la facoltà del primo ministro, che è tradizionale nell’ordinamento britannico, di ricorrere a suo piacere a delle elezioni anticipate. E ci sono poi divergenze su una riforma dell’educazione e su modifiche del sistema di tassazione vigente. Come si vede, non cose da poco.

Su un punto che era stato ampiamente dibattuto in campagna elettorale, cioè quello dell’atteggiamento della Gran Bretagna verso l’Europa, un punto sul quale la posizione liberale si differenzia nettamente da quella storicamente scettica e negativa dei conservatori, a facilitare le cose è stato il laburista Gordon Brown. Pur essendo il suo un governo ormai in carica solo per gli affari correnti, Brown è stato costretto dal vorticoso negoziato finale sul piano anti-crisi europeo a prendere anch’esso posizione. Ed è stato come s’è visto nettamente negativo rispetto a qualsiasi intervento della sterlina a soccorso dell’euro. Cameron, consultato, si era espresso in questo senso. Clegg non si è rallegrato, ma per lui è un problema di meno.

Siamo dunque alle ultime battute. Colui che può negoziare su due fronti, come può fare Clegg, ha di solito interesse a prolungare il negoziato per accrescere il suo peso decisionale. Ma la situazione economica e gli umori dell’elettorato non consentono troppe dilazioni. Gli elettori, soprattutto, bisogna tenerseli buoni. Chissà che un governo come quello di coalizione ipotizzato, poco britannico di natura e poco omogeneo di sostanza, non finisca, magari tra un anno o giù di lì, con delle nuove elezioni.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7333&ID_sezione=&sezione=


Titolo: BORIS BIANCHERI. Kirghizistan, la democrazia all'esame delle etnie
Inserito da: Admin - Giugno 30, 2010, 10:19:16 pm
30/6/2010

Kirghizistan, la democrazia all'esame delle etnie
   
BORIS BIANCHERI

Stalin, quei confini dei Paesi dell'Asia centrale, li aveva disegnati apposta in modo da non corrispondere a entità nazionali omogenee e unitarie. Aveva fatto la stessa cosa anche in Europa: nulla di meglio che mescolare etnie, lingue e culture in una singola repubblica per evitare che poi quella repubblica rivendichi la sovranità e l'indipendenza sfidando la compattezza e la solidità dell'intera Unione Sovietica. Aveva disegnato un'Ucraina dove nessun cittadino capiva allora (e non capisce ancora adesso) cosa esattamente «ucraino» voglia dire, o una Lettonia dove per confondere le idee ai suoi abitanti aveva forzosamente inserito centinaia di migliaia di russi che del lettone non avrebbero mai imparato neanche una parola. Poi l'Unione Sovietica è crollata e quei confini sono diventati confini di Stati veri e propri. E con la scomparsa di un regime totalitario centrale e la creazione di Stati indipendenti dove si affastellano culture diverse si affievolisce anche la capacità di mantenere l'ordine interno. Le repubbliche ex sovietiche dell'Asia centrale sono così in condizioni di irrequietudine semi-permanente.

L'ultimo esempio ci viene dai tragici avvenimenti del Kirghizistan, dove tra i cittadini di etnia uzbeka vi sono stati circa duecento morti mentre decine di migliaia di altri sono fuggiti nel vicino Uzbekistan per sottrarsi alle violenze inflitte loro dalla maggioranza kirghisa, al punto che lo stesso Uzbekistan ha deciso di chiudere le sue frontiere perché non è in grado di dare accoglienza a nuovi afflussi di rifugiati.

I russi, che un tempo erano i padroni, si sono guardati bene dall'intervenire per aiutare a sedare i disordini, ben sapendo che chi interviene una volta sarà costretto a intervenire di nuovo in futuro. Ed è sufficiente prendere in mano un atlante geopolitico per rendersi conto di quale mescolanza di etnie vi sia in quelle cinque Repubbliche, tra uzbeki, tagiki, turkmeni, kazaki e kirghisi, tra maggioranze di lingue altaiche e minoranze di lingue iraniche, tra popolazioni stanziali e popolazioni di tradizioni nomadi e quindi inclini alla mobilità. Ancor minore desiderio dei russi di mettere mano in quell'intrico inquieto hanno avuto gli occidentali, già sufficientemente impelagati in Afghanistan per cercare altri problemi da quelle parti.

Le violenze nel Kighizistan, a quanto sembra, si sono arrestate solo perché buona parte delle potenziali vittime è fuggita via e si accalca in baraccopoli provvisorie destinate a diventare definitive. Sul piano politico, il Kirghizistan non ha alle spalle degli anni tranquilli, come d'altronde non ne hanno avuti i suoi vicini. Due uomini imperiosi e autocratici si sono succeduti al comando nella capitale Bishkek: il primo, Askor Akayev, era un erede diretto della burocrazia sovietica e venne rovesciato nel 2005 da Bakiyev, che si rivelò tuttavia non meno nepotista e autoritario di lui. La costituzione dello Stato è stata modificata cinque volte in un ventennio e nell'aprile scorso, inopinatamente, in quel Paese di uomini forti una donna ha preso il potere. Roza Otumbayeva, già ministro degli Esteri nel governo del suo predecessore, è temporaneamente a capo di un governo di transizione che è al lavoro per modificare una volta di più la costituzione del Kirghizistan e di avvicinare il Paese ai modelli di una vera democrazia. Un passo storico è stato il referendum con cui il Kirghizistan ha approvato a schiacciante maggioranza (90,6% dei voti) la nuova costituzione che introduce il principio di democrazia parlamentare. C’erano dubbi sull’opportunità di tenere una consultazione popolare a breve distanza da disordini sanguinosi e in una situazione incerta di ordine pubblico, si temeva un boicottaggio delle urne e l’esito non era scontato invece è stato un successo personale per la Otumbayeva.

L'idea di introdurre in Asia Centrale una democrazia parlamentare si può solo condividere augurando buona fortuna. Purtroppo la storia recente ci dimostra che, mentre i principi della democrazia parlamentare possono regolare gli squilibri politici e assicurare l'alternanza tra le opinioni e le ideologie che coesistono in una comunità, non possono da soli comporre le rivalità e gli odi che dividono una etnia dall'altra o una fede religiosa dall'altra. Perché le idee politiche sono mutevoli e chi è in minoranza può domani diventare maggioranza. Ma le etnie e le fedi non lo sono e un kirghizo non diventa usbeko e uno sciita non diventa sunnita. Non bastano democratiche elezioni per assicurare tra etnie diverse l'equilibrio e la pacifica convivenza. Tra Uzbekistan e Kirghizistan vi sono state in venti anni tre modifiche di frontiera: evidentemente non sono bastate e non è detto che non ve ne saranno altre in futuro.

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Titolo: BORIS BIANCHERI. Quale ruolo per la diplomazia Ue
Inserito da: Admin - Luglio 20, 2010, 03:50:46 pm
20/7/2010

Quale ruolo per la diplomazia Ue
   
BORIS BIANCHERI

Subito dopo l’estate - così ci viene assicurato - entrerà in funzione il nuovo servizio diplomatico europeo. Si chiamerà con un acronimo e ognuno lo pronuncerà nella propria lingua: in italiano Seae che sta per Servizio Europeo di Azione Esterna. Come suono non è particolarmente attraente, ma gli acronimi scorbutici nelle relazioni internazionali non mancano. Si è trattato di una decisione sofferta, giunta alla fine di un lungo negoziato tra la Commissione, il Consiglio europeo, il Parlamento di Strasburgo e, naturalmente, Lady Ashton, la baronessa britannica nominata Alto Rappresentante per la Politica Estera e di Sicurezza Comune dopo le ratifiche del trattato di Lisbona. Come sempre, la materia del contendere stava nella ripartizione dei poteri tra i vari soggetti, cioè tra i vari organi dell’Unione Europea: come si divideranno i compiti tra la Commissione e il nuovo servizio, soprattutto per quella importante parte di attività della Commissione che attiene allo sviluppo e agli aiuti umanitari? Quale controllo sull’Alto Rappresentante e sul servizio diplomatico compete al Parlamento? E da chi dipenderà il tutto sul piano amministrativo? Dietro la battaglia che ognuno fa per la difesa del proprio ruolo e del proprio potere ci sono anche questioni di principio: la Commissione è organo sovrannazionale e così è il Parlamento; il Consiglio, invece, al quale la Signora Ashton riferisce, è composto da Stati sovrani. È dunque in gioco, indirettamente, anche una posta della lunga partita europea tra integrazione e sovranità nazionale.

La decisione raggiunta è piuttosto tortuosa ed è il frutto di diversi compromessi: in linea di massima, gli aspetti politici dell’azione esterna spettano alla signora Ashton e alla sua diplomazia, mentre gli strumenti finanziari saranno gestiti dalla Commissione e al Seae spetterà solo la loro programmazione strategica, con l’eccezione, per di più, di quelli destinati all’aiuto allo sviluppo. Delle decisioni strategiche più importanti, poi, l’Alto Rappresentante informerà doverosamente il Parlamento.

Nessuno si aspettava che la creazione di una vera e propria diplomazia europea e una definizione dei suoi ruoli fosse cosa facile e può darsi che alla fine il compromesso funzioni. Certo, quando l’operazione sarà completata, non sarà piccola cosa. Tra 6000 e 7000 dipendenti, poco più di metà forniti dalle istituzioni comunitarie e il resto dai 27 Stati membri. Buona parte lavorerà a Bruxelles e il resto in 136 rappresentanze all’estero, con un bilancio complessivo di circa 3 miliardi di euro.

Se l’Europa deve avere una Politica Estera e di Sicurezza Comune, la creazione di un servizio diplomatico che la promuova e la sostenga ne è il naturale corollario. Nei mesi passati da quando è stata nominata Alto Rappresentante, la signora Ashton non si è occupata praticamente d’altro. Ma c’è da chiedersi se sia davvero necessario procedere immediatamente e con la massima urgenza alla messa a punto di una struttura così complessa e costosa in un momento in cui i bilanci nazionali sono sottoposti a tagli draconiani: i diplomatici italiani, come si sa, hanno già proclamato uno sciopero per denunciare le drammatiche riduzioni della nostra diplomazia in termini di organici e di risorse. Nel momento in cui le opinioni pubbliche vedono quanto sforzo sia costato all’Europa, di fronte alla crisi, conciliare degli interessi nazionali diversi solo al fine di difendere l’esistente, cioè l’euro e il patto di stabilità, lasciando ben poco spazio alle speranze di imminenti progressi di una politica estera integrata; nel momento in cui tutti vedono che sui grandi temi che l’Unione Europea ha di fronte, come la politica verso la Russia, la Turchia o gli stessi Stati Uniti d’America, sono più apparenti le divergenze che le sintonie tra i partner; in una fase, insomma, in cui per procedere nell’integrazione sarebbe più che mai necessario avere concretezza e senso della realtà, è davvero indispensabile mettere in moto un grande strumento prima che ne sia chiaramente visibile il ruolo e la funzione?

La macchina comunitaria non è stata immune in passato da gigantismi burocratici sui quali poi si scontrano il prestigio e le ambizioni nazionali: già si fanno scommesse su chi sarà il Segretario Generale della nuova diplomazia europea: probabilmente - udite! udite! - un francese, l’ambasciatore Vimont, affiancato non a caso da una tedesca. Sarebbe un errore se la prima creatura nata dal Trattato di Lisbona fosse non l’embrione di una reale, efficace e svelta azione esterna comune ma solo una pesante macchina amministrativa frutto di intese sottobanco e in cerca di una propria identità.

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Titolo: BORIS BIANCHERI. Cameron, la promessa che vince
Inserito da: Admin - Luglio 30, 2010, 09:34:28 am
30/7/2010

Cameron, la promessa che vince

BORIS BIANCHERI


Con poche eccezioni, i venti che soffiano sui governi delle democrazie che chiamavamo un tempo occidentali - dall’Europa all’America al Giappone - sembrano carichi di nuvole minacciose. La popolarità di Obama è ai minimi e lo spettro delle elezioni di mezzo termine a novembre toglie il sonno alla maggioranza; lo stato di salute del governo di Sarkozy non è migliore e, in Germania, la signora Merkel perde ogni giorno un altro sostenitore; in Giappone, il governo Hatoyama, nato la scorsa estate, è già caduto e il suo successore Kan stenta a decollare; perfino in Italia non sentiamo più le cifre dei sondaggi dei mesi scorsi e non c’è giorno che da qualche pulpito non si levi un nuovo avvertimento.

Ma un’eccezione c’è ed è quella dell’Inghilterra. Uscito vincitore di misura dalle elezioni di maggio, il conservatore David Cameron ha avuto bisogno di un alleato, il Partito Liberaldemocratico di Nick Clegg, per avere la maggioranza ai Comuni, cosa che non era accaduta da mezzo secolo. Ma, da quel momento, il più giovane primo ministro che l’Inghilterra abbia avuto da 200 anni non ha perso tempo. Due formazioni politiche che partivano da programmi elettorali molto diversi hanno concordato un programma comune nel giro di due notti: una operazione per la quale in Italia non sarebbero bastati forse due anni. Un programma, per di più, tutt’altro che banale. In un discorso tenuto recentemente, Cameron ha detto che il suo obiettivo è quello di ridurre l’invadenza dello Stato e di «operare una drammatica redistribuzione del potere, togliendolo alla capitale e alla burocrazia e dandolo all’uomo e alla donna della strada».

Costretto dalla crisi economico-finanziaria a ridurre drasticamente il disavanzo di bilancio e a operare severi tagli alla spesa in ogni comparto, Cameron presenta questa operazione alla nazione non tanto come un inevitabile sacrificio per far fronte all'emergenza, come fanno i suoi colleghi europei, ma come una scelta: una liberazione dall’oppressione dello Stato e un ritorno alla libertà dei cittadini e delle imprese. I tagli delle spese nelle singole amministrazioni (circa 300 miliardi di euro in cinque anni) vanno dal 25% al 40% e anche oltre, per compensare alcuni settori, come la difesa, che non ne subiranno alcuno. Anche il servizio sanitario nazionale, la grande conquista degli anni Settanta e Ottanta, verrà colpito con un travaso di compiti e responsabilità, a scapito dei medici pubblici e a vantaggio dei medici generici privati. Saranno questi ultimi, dice Cameron, e non dei burocrati, a dire come e dove i pazienti dovranno essere curati.

Per molti aspetti, le riforme di Cameron si presentano come una rivoluzione paragonabile a quella operata dalla Thatcher trent’anni fa. Sarà soprattutto il settore pubblico a subirne le conseguenze, sia in termini di attribuzioni che di risorse e di posti di lavoro. Ed è da lì che si annunciano le resistenze più forti. Cameron si prepara a presentare la battaglia contro il sindacato del pubblico impiego e contro la burocrazia come una battaglia per la sopravvivenza del Paese.

Anche in politica estera, Cameron si muove con decisione e si esprime senza peli sulla lingua. All’Europa ha parlato con il previsto scetticismo e si è capito che l’euro è più lontano che mai. Ha affrontato Obama, forte delle relazioni privilegiate Usa-Gran Bretagna, senza farsi intimidire dalle sventure della Bp. Va in India con sei ministri e decine di operatori con l’idea di recuperare parte del prestigio e dell’influenza che l’Inghilterra vi ha storicamente avuto. Qui dice pubblicamente che il Pakistan esporta il terrore, deliziando gli indiani e irritando Karachi, ma firma anche un contratto di export di materiale militare per un miliardo di dollari.

Non sarà facile per lui stare a pari delle promesse. I suoi alleati liberaldemocratici mostrano qualche nervosismo di fronte al suo radicalismo; ma, a giudicare dai sondaggi, se Nick Clegg ebbe un momento di grande popolarità durante la campagna elettorale, ora la sta perdendo e quel che Clegg perde è Cameron che lo guadagna. A differenza di altri governanti europei, Cameron non ha i suoi avversari nel proprio schieramento né in un’opposizione laburista logora e in cerca di identità. I suoi avversari sono quelli che si è scelto lui: un programma che vuole ribaltare il rapporto tra pubblico e privato, un linguaggio senza mezzi termini e una visione forse illusoria di maggiore dignità del cittadino. Se perderà la scommessa, e non è detto che la perda, non sarà a causa di beghe di partito, ma per aver messo la sua meta troppo lontana dai comuni mortali.

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Titolo: BORIS BIANCHERI. Diplomazia europea la spartizione conta
Inserito da: Admin - Settembre 15, 2010, 09:11:31 am
15/9/2010

Diplomazia europea la spartizione conta
   
BORIS BIANCHERI

La promessa che la Baronessa Ashton aveva fatto qualche mese fa, e cioè che il nuovo servizio diplomatico europeo creato dal Trattato di Lisbona, avrebbe cominciato ad entrare in funzione alla fine di questa estate, sta cominciando a prendere corpo malgrado gli inevitabili scetticismi e le rivalità che ne accompagnano la gestazione. Si era trattato in primo luogo di stabilire quali sarebbero stati i compiti precisi del Servizio, di cui l’Alto Rappresentante per la Politica Estera Europea è a capo, e un faticoso compromesso era stato raggiunto tra il Consiglio - vale a dire tra i paesi membri - la Commissione e il Parlamento di Strasburgo. Faticoso e, vorremmo aggiungere, anche un po’ precario, perché mentre il buon senso consiglia in genere di creare un organo solo quando sia ben chiara la funzione che esso deve svolgere, in questo caso l’organo, cioè il servizio diplomatico europeo, è stato definito in tutti i suoi dettagli, ma la funzione, cioè la politica estera che l’Unione europea intende realmente svolgere, deve ancora essere messa alla prova dei fatti. Come sappiamo, sotto l’impulso della crisi economica, l’Europa sta allargando le sue competenze istituzionali nell’area economico-finanziaria, soprattutto sotto il profilo della prevenzione e della vigilanza. C’è da sperare che altrettanto avvenga in ambito politico, preferibilmente senza che una grave crisi politica ne solleciti l’urgenza.

Ma una cosa è definire i dettagli di un organico della diplomazia europea e un’altra cosa è mettere i nomi sui singoli incarichi che quell’organico prevede. Perché si tratta non solo di trovare le persone che abbiano la capacità necessaria ma anche di spartire i posti tra funzionari che già lavorano nella Commissione e che passeranno nel nuovo Servizio e funzionari che giungono per l’occasione dai singoli paesi dell’Unione. E qui, come è facile immaginare, si scatena la battaglia tra Paesi membri, che ogni organizzazione multilaterale conosce, in cui ognuno cerca di far sì che delle posizioni di rilievo e di prestigio vengano assegnate a propri connazionali.

Il processo è ora in pieno svolgimento ed è prematuro fare un bilancio tra chi vince e chi perde; si possono, tutt’al più, azzardare alcune previsioni. Oltretutto, la Signora Ashton è un personaggio difficile e non sembra nutrire particolarissime simpatie per l’Europa meridionale. Il problema, al momento, è quello di spartire una diecina di posti dirigenziali nel servizio centrale, quelli di Segretario Generale, dei suoi Aggiunti e di sei Direttori Generali nonché di una trentina di posti di Capo Delegazione (per non dire ambasciatori) nelle capitali dei paesi non membri. A quel che si sente dire, all’italiano Ambasciatore Sequi potrebbe essere affidata la rappresentanza dell’Ue a Tirana. Sequi è un funzionario di prim’ordine che sino a poco tempo fa era inviato dell’Unione europea in Afghanistan, un incarico difficile che ha svolto egregiamente. Senza dubbio Tirana è un posto di rispetto per l’Italia, ma evidentemente non è Washington né Pechino e neppure Mosca o New Delhi. Se dovesse essere questa l’unica assegnazione all’Italia sarebbe francamente deludente. E anche per gli alti posti dirigenziali, molti scommettono su un Segretario Generale francese, l’Ambasciatore Vimont, su un Aggiunto tedesco e su un altro polacco. Con l’inglese Lady Ashton a capo dell’intero Servizio, la diplomazia europea verrebbe così in mano saldamente ai grandi paesi del Nord e del Centro Europa.

Si vedrà solo alla fine chi vince e chi perde a questo gioco di bussolotti, né vogliamo qui ingigantirne l’importanza. Ma se la politica estera europea prenderà davvero forma, sarà il Servizio di Azione Esterna a farsene carico. Una volta designata la struttura, essa si tramanderà nel tempo. Vorremmo essere certi che non solo i diplomatici della Farnesina ma anche la dirigenza politica italiana, che è sempre e in ogni occasione così sensibile alle spartizioni di potere sul piano interno, lo sia altrettanto anche sul piano internazionale e faccia quanto necessario per tutelare gli interessi del nostro Paese.

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Titolo: BORIS BIANCHERI. La crisi di chi governa non ha colore
Inserito da: Admin - Settembre 27, 2010, 09:28:13 am
27/9/2010

La crisi di chi governa non ha colore
   
BORIS BIANCHERI

Basta un rapido sguardo a quanto avviene nelle capitali di quella parte del mondo che per abitudine chiamiamo ancora «occidentale» - quello, per intenderci, che unisce il Nord America all’Europa e include il Giappone - per constatare che, ovunque, le forze politiche che si trovano da qualche tempo al potere sono ora in difficoltà e che il consenso interno che avevano nel 2009 si è molto ridotto o è scomparso del tutto nel 2010.

Il caso più evidente e più inquietante è quello degli Stati Uniti, dove un presidente eletto su un’onda di popolarità interna e internazionale straordinaria si accinge ad affrontare il 2 di novembre le elezioni di mezzo termine con il rischio tutt’altro che remoto di perdere la sua maggioranza in Congresso. E non parliamo del Giappone o della Gran Bretagna, dove coloro che governavano l’anno scorso sono già stati mandati a casa: a Tokyo siamo al terzo primo ministro in quindici mesi e, a Londra, il premier attuale non potrebbe essere più diverso, come personalità e come progetto politico, da quel Gordon Brown che occupava Downing Street fino a sei mesi fa.

Ma neanche Sarkozy può stare tranquillo: i sondaggi lo danno in continuo calo di consensi ed è visibile il suo affanno nel cercare di recuperarne una parte attraverso un mix politico di populismo all’interno, per venire incontro all’elettorato borghese (vedi le espulsioni dei rom), e di grandeur all’esterno (vedi il suo discorso alle Nazioni Unite), con un occhio particolare all’Africa francofona. Non è detto che la perdita di voti subita nelle regionali sia recuperabile con questi mezzi; e infatti l’opposizione socialista si rimbocca già le maniche. La stessa signora Merkel, che pure ha pilotato il suo Paese attraverso la crisi economica con più fermezza di altri, fa fatica a conservare unita la sua coalizione e anche per lei le elezioni del maggio scorso nel Nord Reno-Westfalia sono state un severo avvertimento.

E’ un panorama che ritroviamo quasi ovunque, nel Nord come nell’Est e nel Sud dell’Europa. Là dove è meno avvertibile, ciò è soprattutto perché non vi sono state elezioni nazionali o locali a metterlo in evidenza. Tale è il caso, per esempio, della Spagna o della Grecia, dove il calo di sostegno ai governi in carica è denunciato da uno stato di disagio generale dell’elettorato e dai sondaggi.

Il crescente scontento nei confronti di chi sta al potere non prende dovunque lo stesso colore: prende una tinta rossa o rosata in Francia ma prende il colore della destra xenofoba altrove, anche in paesi come la Svezia o l’Olanda che storicamente non avevano la xenofobia nel loro Dna. Quel che caratterizza questa tendenza è più la sfiducia nel presente che non una aspirazione progettuale futura. Tutto questo, d’altronde, si spiega. La crisi economica ha colpito soprattutto i Paesi dell’area c.d. occidentale dove ogni governo è stato costretto a prendere misure che colpiscono la spesa pubblica, le pensioni o i redditi individuali. Ed è qui che l’occupazione e la produzione hanno subito le flessioni più rilevanti. Che ciò crei uno stato diffuso di scontento non sorprende e che questo scontento prenda forme politiche non omogenee da un Paese all’altro è cosa anch’essa comprensibile.

C’era tuttavia, sino a non molto tempo fa, un’eccezione costituita dall’Italia. Fino all’inizio dell’estate, il governo Berlusconi, che pure al pari degli altri aveva dovuto reagire alla crisi e farne subire ai suoi elettori le conseguenze, non aveva registrato, né nelle prove elettorali né nei sondaggi, dei cali di popolarità realmente rilevanti. Era questa, e lo è ancora, una singolarità sulle cui cause profonde è più che legittimo interrogarsi. Tanto più che non può certo dirsi che essa sia dovuta all’inerzia dell’opposizione che invece, come ben sappiamo, ha sempre denunciato impetuosamente le fragilità politiche ed etiche del governo.

Tale anomalia si è comunque adesso inaspettatamente dissolta e anche il governo italiano, al pari degli altri, è entrato in una evidente fase di debolezza e forse di crisi. Se però siamo rientrati anche noi nella norma «occidentale» e abbiamo un governo in sofferenza, ciò è dovuto non già a una naturale reazione popolare quanto ad una diversa e tutt’altro che gloriosa specialità italiana: quella che raramente, dai tempi di Giulio Cesare fino a quelli di Prodi e di Berlusconi, in Italia i Capi vengono sconfitti dai loro nemici perché prima che ciò accada vengono traditi dai loro amici.

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Titolo: BORIS BIANCHERI. Ma Obama ha deluso
Inserito da: Admin - Ottobre 09, 2010, 03:54:38 pm
9/10/2010

Ma Obama ha deluso
   
BORIS BIANCHERI

I giurati di Stoccolma hanno assegnato il Premio Nobel per la pace 2010 all’intellettuale cinese Liu Xiaobo, un reduce di Tienanmen, un attivista democratico che il governo del suo Paese ha condannato come sovversivo. Viene da ricordare la diversa scelta operata un anno fa, quando fu dato il Nobel per la pace a Barack Obama, premiando così qualcuno non per il suo passato ma per il suo futuro.

Non per un’azione svolta in favore della pace e della libertà ma per le sue intenzioni, nella speranza che il premiato la svolga in avvenire. E viene anche da chiedersi, a un anno di distanza da quel premio, se le aspettative siano state mantenute, quanto Obama sia effettivamente riuscito a fare per il dialogo, la sicurezza e la pace nel mondo.

Premesso che è meglio comunque premiare le buone intenzioni anziché quelle cattive, e senza tornare adesso su un dibattito che fece allora scorrere molto inchiostro, credo che sia difficile sostenere che qualcosa di profondamente significativo sia avvenuto nelle relazioni internazionali nel corso dell’ultimo anno e che la distensione e la pace tra i popoli abbiano fatto ultimamente grandi progressi. Soprattutto se si ricorda il consenso che la nomina di Obama suscitò nel novembre del 2008 negli Stati Uniti e lo straordinario entusiasmo che essa destò in ogni parte del mondo, le lacrime di gioia che sgorgarono allora dagli occhi di coloro che credevano che una nuova era di collaborazione e di dialogo stesse per aprirsi sulla terra.

Dobbiamo ammettere infatti che nelle principali aree di crisi internazionali, come la guerra in Afghanistan, il conflitto israelo-palestinese, il rischio nucleare iraniano, i massacri nel Darfur, la politica estera di Obama non ha sinora condotto a progressi decisivi. In Iraq, in realtà, si è avuto uno sviluppo positivo, non tanto nel grado di conflittualità interna quanto nel fatto che il controllo della sicurezza del territorio è passato dalle mani americane a quelle locali; ma va aggiunto che questa era una scadenza fissata da Bush e Obama si è limitato a mantenerla e rispettarla. Quanto al problema palestinese, abbiamo tutti visto con attenzione e rispetto l’impegno preso personalmente da Obama nel riaprire il tavolo negoziale tra Abu Mazen e Netanyahu, ma è prematuro azzardare previsioni circa il suo proseguimento e ancor più circa le sue conclusioni.

Se dai problemi settoriali passiamo a quelli generali, la speranza che l’età di Obama coincida con un salto di qualità sul tema del riscaldamento globale è a dir poco sospesa, da quanto abbiamo constatato a Copenhagen. Sul rischio nucleare, abbiamo visto l’accordo sulla riduzione delle testate tra Usa e Russia ma non l’avvio di un grande processo di denuclearizzazione generale. Cosa è accaduto dunque? Come mai la meravigliosa abilità dialettica di Obama si è poco tradotta in realtà a dispetto delle sue intenzioni?

Anzitutto perché è più facile enunciare intenzioni che dar loro forma concreta: lo vediamo ogni giorno dovunque. Ma c’è di più. C’è che la crisi economico-finanziaria che ha sconvolto il mondo ha prodotto conseguenze che colpiscono più duramente i Paesi ricchi, e gli Stati Uniti tra questi. L’azione di Washington si è dunque rivolta soprattutto ai problemi interni, nell’obiettivo di tenere attorno a sé il consenso necessario a continuare l’azione di governo.

C’è anche il fatto che la stessa crisi ha formato nelle opinioni pubbliche di molti Paesi la tendenza a difendersi dall’esterno e a dividersi al proprio interno, cioè esattamente l’opposto del sogno unitario e internazionalistico di cui Obama era il simbolo. Ne sono espressione i Tea Party in America, le spaccature in Belgio, i nuovi populismi in regioni che sembravano esserne immuni e via dicendo. Quando i cordoni della borsa si stringono ognuno guarda con più sospetto al suo vicino. C’è, a dirla in breve, il fatto che a Washington come anche altrove l’economia ha clamorosamente battuto negli ultimi tempi la politica.

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Titolo: BORIS BIANCHERI. Obama, i motivi di un flop
Inserito da: Admin - Novembre 09, 2010, 06:08:35 pm
9/11/2010

Obama, i motivi di un flop
   
BORIS BIANCHERI

L’infelice risultato ottenuto da Obama nel primo confronto elettorale dopo la grande vittoria del 2008 si presta ad infinite interpretazioni. E, senza dubbio, vi sono anche infinite ragioni alla base dell’insuccesso. Vi sono cause di carattere contingente e specifico, come il livello di disoccupazione, la gestione improvvisata delle prime fasi dell’inquinamento petrolifero del Golfo del Messico, una legge sanitaria percepita come costosa rispetto ai benefici che produce, solo per citarne alcune. Ve ne sono altre più profonde, che risalgono alla immensa attesa suscitata dalla figura e dalla personalità di Obama, assurte nell’immaginario popolare a una dimensione quasi miracolistica di fronte alla quale i risultati raggiunti sia nella gestione della crisi economica sia in quella degli affari internazionali, non possono che apparire deludenti. Quanto maggiore è l’aspettativa tanto maggiore è la delusione quando la si confronta con la realtà.

Nella conferenza stampa tenuta mercoledì nella East Room della Casa Bianca, Obama ha preso su di sé la responsabilità della pochezza dei risultati raggiunti e ha detto di voler far meglio in avvenire. Il meglio, ha lasciato intendere, significa instaurare un rapporto meno conflittuale con l’opposizione repubblicana. Ed è cosa evidente. Ma viene il dubbio che vi sia stata spesso già la premessa di una delusione nel modo in cui Obama e il suo staff hanno affrontato le difficili sfide che avevano dinanzi. Perché nel momento stesso in cui si poneva davanti a un problema, Obama lasciava intendere che non aveva difficoltà a risolverlo. Era la trasposizione nei fatti della formula «yes, we can», «sì, possiamo» che ha avuto nella campagna elettorale il successo che tutti sanno.

Si può prendere un esempio che non è forse significativo rispetto ai risultati del 2 novembre, perché non è tra i temi che hanno influenzato in modo decisivo i votanti, ma che sembra indicativo di una certa approssimazione con cui taluni problemi complessi sono stati affrontati da questa amministrazione. Penso al solenne avvio a Washington il 31 agosto scorso del negoziato per la composizione del conflitto israelo-palestinese. Obama ha voluto dare all’occasione la massima solennità: ha riunito i due principali interlocutori, Abu Mazen per i palestinesi e il primo ministro israeliano Netanyahu, si è fatto affiancare nella seduta inaugurale dal Re di Giordania e dal Presidente dell’Egitto per avvalorare con la loro autorevolezza l’importanza del negoziato, si è seduto al centro della tavola e ha dato avvio alle trattative. Non poteva ignorare la complessità del compito: è una questione su cui da 50 anni si tengono negoziati che restano senza conclusione o la cui conclusione resta disattesa. Stavolta, oltre ai problemi irrisolti del passato - la delimitazione dei confini di uno stato palestinese, il problema di Gerusalemme, la sorte dei rifugiati - c’era il problema specifico della scadenza del 26 settembre, termine della moratoria israeliana sulla costruzione di nuovi insediamenti nel West Bank, con l’esplicito rifiuto palestinese di negoziare alcunché ove tale moratoria non venisse prorogata. Tutti hanno pensato che almeno su questo punto pregiudiziale Obama avesse delineato un’ipotesi di compromesso. Non era così e infatti i negoziati si sono interrotti.

Non è la prima volta che ciò accade e non sarà l’ultima. Ma iniziare un processo che ha già un primo ostacolo così immediato e così visibile senza porsi l’interrogativo di come superarlo indica una fiducia e un ottimismo nella buona sorte che la realtà raramente giustifica.

Forse, su questo tema - come anche su altri - Obama dovrà ridimensionare le sue ambizioni. Anziché a una pace veloce definitiva e solenne, dovrà pensare a una pace lenta per gradi e per tappe, a uno status quo che si prolunga e migliora poco a poco nel tempo. Anziché «sì, possiamo» sarà costretto a dire «sì, proviamo». Quanto alla soluzione finale di questa lunga tragedia, ne ha detto bene i termini lo scrittore israeliano Amos Oz in un suo recente intervento pubblico a Roma; vi sono due modi di far finire una tragedia: quello di Shakespeare, dove il male è sconfitto, il bene trionfa ma la scena è coperta di sangue e tutti i personaggi sono morti; e invece quello di Cechov, dove i personaggi sono frustrati, sono arrabbiati e con il cuore a pezzi ma sono vivi. Potendo scegliere, ha detto, preferisce Cechov.

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Titolo: BORIS BIANCHERI. Uno schiaffo a Obama sulle atomiche
Inserito da: Admin - Novembre 18, 2010, 12:35:05 pm
18/11/2010

Uno schiaffo a Obama sulle atomiche
   
BORIS BIANCHERI

E’ molto possibile che questo mese di novembre, che per Obama è cominciato con la dura sconfitta delle elezioni di mezzo termine ed è proseguito con una tournée asiatica in cui cinesi, coreani e perfino europei gli hanno dimostrato assai poca simpatia, finisca per lui anche peggio di come è cominciato. L’altolà che il senatore repubblicano Jon Kyl gli ha dato in merito alla ratifica del trattato Start firmato solennemente tra Stati Uniti e Russia a Praga nello scorso aprile non costituisce solo uno scacco diplomatico per il Presidente americano, dato che lui stesso aveva indicato tale ratifica come una priorità della sua agenda internazionale, ma lascia presagire quanto dura sarà la vita alla Casa Bianca nei mesi a venire. D’altronde, il futuro speaker repubblicano della Camera dei Rappresentanti, John Boehner, commentando con lacrime di gioia il risultato delle passate elezioni, lo aveva detto: questo non è un momento di festeggiare, è il momento di rimboccarsi le maniche e cominciare a lavorare seriamente. E il senatore Kyl si è rimboccato le maniche e ha fatto intendere che per ora di ratificare questo trattato non se ne parla e che se l’Amministrazione vuole avere il voto dei repubblicani, che è essenziale perché la maggioranza richiesta per la ratifica di un trattato è di due terzi, deve guadagnarsela dando delle contropartite.

Riassumiamo brevemente come stanno le cose. Il rinnovo del trattato Start che disciplina l’equilibrio delle armi strategiche tra Stati Uniti e Russia è stato tra i punti fermi della politica estera di Obama fin dall’inizio della sua presidenza.

Egli ne parlò con il presidente russo Medvedev a Londra pochi mesi dopo essere stato eletto, poi vi furono negoziati che proseguirono tra alti e bassi, fin quando nel marzo di quest’anno e prima che il vecchio trattato venisse a scadere le due parti annunciarono che avrebbero firmato un nuovo trattato che non solo prorogava il vecchio ma che riduceva ulteriormente le testate nucleari a 1500 per parte (ai tempi duri della Guerra fredda erano più di diecimila in ciascuno dei due Paesi).

Si trattava comunque, nella visione di Obama, solo di un altro passo su una lunga via destinata a portare a ulteriori riduzioni delle armi strategiche sia sul piano bilaterale sia sul piano mondiale, come poi si affermò con enfasi e solennità nella grande conferenza tenuta su questo tema a Washington nel maggio successivo. Una riduzione bilanciata e progressiva delle armi nucleari risponde infatti non soltanto alla visione globale che Obama ha sempre disegnato fin dalla sua campagna elettorale, ma risponde a quelle esigenze di contenimento della spesa che si sono fatte pressanti in questa fase della congiuntura economica e finanziaria mondiale.

Anche il trattato Start firmato a Praga conduce a economie sempre più rilevanti nel tempo. Il partito repubblicano non vi si è mai opposto pregiudizialmente. Ha tuttavia subordinato l’assenso alla sua ratifica all’accordo dell’Amministrazione democratica a destinare parte delle economie prodotte a un progressivo ammodernamento dell’apparato nucleare americano. Tutto ciò ha dato luogo a trattative di cui il senatore Kyl è stato il capofila e durante le quali sembra che l’amministrazione di Obama si sia spinta sino a concedere che una cifra supplementare dell’ordine di 80 miliardi di dollari possa essere destinata al settore della difesa nell’arco dei prossimi dieci anni.

La dichiarazione di Kyl secondo cui il nuovo trattato non può essere ratificato da un Senato ormai azzoppato e che se ne parlerà con calma a partire dall’anno venturo, può sembrare a prima vista solo una ulteriore forzatura in un lungo e aspro negoziato con il governo di Obama. E può darsi che in parte lo sia. Ma è anche un visibile schiaffo a Barack Obama, soprattutto perché fatta alla vigilia del vertice Nato che si terrà a Lisbona venerdì e sabato prossimi. Dopo non poche esitazioni, il presidente russo Medvedev aveva accettato l’invito a intervenire a quest’incontro proprio per aver modo di scambiare con Obama e con gli alleati europei delle idee su come allargare l’equilibrio strategico globale nel futuro. Apprende invece che, anziché andare avanti, c’è il rischio che l’America voglia andare indietro. E ha fatto sapere che il nuovo Start dovrà essere ratificato entro l’anno.

Gli ottimisti soffrono e i duri gongolano: sia i repubblicani a Washington sia anche coloro che a Mosca guardano con sospetto all’immagine del mondo amabile e sorridente disegnata da Obama. Un brutto novembre davvero, per lui.

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Titolo: BORIS BIANCHERI. Giappone, una crisi formato Italia
Inserito da: Admin - Gennaio 04, 2011, 04:10:45 pm
4/1/2011

Giappone, una crisi formato Italia

BORIS BIANCHERI


Una notizia che viene anticipata ripetutamente nel corso di vari mesi non è più una notizia: ma sta di fatto che con l’annuncio formale dei dati economici del terzo trimestre di quest’anno, la Cina ha superato il prodotto interno lordo del Giappone ed è ufficialmente la seconda potenza economica al mondo. La mente corre subito a questo nuovo gigante che pesa sull’economia, sugli equilibri internazionali e sulla nostra stessa vita. Pochi si chiedono invece cosa è accaduto al Giappone, che fu a lungo la vera sorpresa del pianeta, e sulle cause del suo relativo declino. Vale la pena però di farci un pensiero, perché vi sono in questo interrogativo degli aspetti che ci sono familiari.

Anzitutto sul piano politico. Senza tornare a paragoni già fatti tra il partito liberaldemocratico giapponese, che ha governato con mille alleanze per vari decenni, e la nostra vecchia democrazia cristiana, è indubbio che oggi la politica in Giappone vive più sul piano delle contrapposizioni e dei legami personali che non su quello del dibattito programmatico. L’elettorato si divide fondamentalmente tra il partito liberaldemocratico di centro-destra e il partito democratico del Giappone che potremmo dire di centro-sinistra. Dopo una lunghissima astinenza, i democratici sono andati al potere con buona maggioranza circa un anno e mezzo fa, ma già due primi ministri si sono avvicendati, il partito è diviso in varie correnti ed è stato indebolito da scandali e comportamenti inappropriati largamente pubblicizzati dai media. L’attuale capo del governo, Naoto Kan, e riuscito a stare in sella, ma spesso se ne chiedono le dimissioni (senti, senti!) così da portare aria nuova e stabilità al Paese. L’opposizione non gode di salute molto migliore, manca di un leader condiviso ed è percorsa da lotte interne. È accaduto così che in questi anni il potere spicciolo venisse esercitato dalla burocrazia e dal mondo degli affari altrettanto se non più che dalle istituzioni democraticamente elette.

I giapponesi, come anche gli italiani, vivono a lungo. Hanno anzi il primato mondiale di longevità. È questo, evidentemente, un dato positivo che ha però riflessi negativi sulla spesa pensionistica e sul bilancio e che, in linea generale non accresce il ricambio e la mobilità. Il tasso di natalità è basso e le carenti forze giovanili non vengono sostituite dall’immigrazione che incontra in Giappone storiche limitazioni e resistenze. Sul piano economico, il debito pubblico ha raggiunto livelli record e potrebbe sfiorare nel 2015, secondo una stima del Fondo Monetario Internazionale, il 250% del Pil. La crescita, dopo la fase prodigiosa dei decenni postbellici, è rallentata a partire dagli Anni Novanta, ha avuto una ripresa nei primi Anni Duemila ma con la crisi si è nuovamente indebolita, a differenza degli altri Paesi asiatici, ed è stata nel 2008 di appena il 1,1% e poco superiore nell’anno successivo. È anche cresciuta la tendenza di molte imprese giapponesi, tanto rivolte all’esportazione quanto orientate al mercato interno, a de-localizzare l’attività produttiva all’estero, dove è minore il costo del lavoro e maggiore la flessibilità; con la conseguenza di un forte aumento della disoccupazione soprattutto nelle fasce medie d’età. Se si aggiunge, a questi sommari dati, la considerazione che il livello della tassazione interna è in Giappone tra i più alti in assoluto, si avrà l’immagine di un paese che fatica a conservare il grado di benessere raggiunto nel passato, dove alle classi dirigenti sembra mancare il coraggio di imboccare strade nuove mentre le classi politiche imboccano decisamente strade vecchie e dove maggioranza e opposizione si assomigliano.

Sarebbe arbitrario spingere oltre i paragoni con l’Italia. Si tratta di due società profondamente diverse per dimensione, storia e cultura. Ma si tratta anche di due grandi Paesi, due democrazie che hanno raggiunto traguardi importanti e dove vivere può essere infinitamente gradevole, che sembrano riluttanti a rinunciare a inveterate abitudini per confrontarsi con un mondo che cambia.

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Titolo: BORIS BIANCHERI. Due visioni sul futuro degli Usa
Inserito da: Admin - Gennaio 06, 2011, 05:40:35 pm
6/1/2011

Due visioni sul futuro degli Usa

BORIS BIANCHERI

Non è la prima volta che un Presidente americano vede, come Obama lo ha visto ieri, una maggioranza parlamentare del tutto diversa da quella che lo aveva accompagnato al potere due anni prima, salire le rampe di Capitol Hill e occupare il Congresso. Questa volta, però, il salto e particolarmente vistoso. Anzitutto per i numeri: i repubblicani hanno alla Camera 49 seggi più dei loro avversari, una maggioranza ampiamente sufficiente per tradurre in realtà un’agenda legislativa. Inoltre, c'è un buon numero di nuovi venuti che appartiene a una generazione ancora in parte sconosciuta di radicalconservatori rabbiosamente ostili a tutti i programmi che Obama ha realizzato o cercato di realizzare nel primo biennio del suo mandato. Più che a una correzione di rotta, ove la loro ottica dovesse prevalere, ci troveremmo di fronte a un’inversione di rotta nel corso politico di questa legislatura.

Naturalmente esistono anche delle remore. Anzitutto nel Senato, dove la maggioranza è ancora marginalmente democratica. E poi, beninteso, nel diritto di veto, che il Presidente può sempre opporre in caso di necessità di fronte a una legge che contrasta apertamente con l’indirizzo politico della Casa Bianca. Un atto questo, però, che non può essere usato indiscriminatamentein quanto apre un contrasto esplicito tra governo e Parlamento.Comunque sia, spetta ora ai repubblicani dire cosa vogliono e come intendono impostare la legislatura.

Va detto che, se il nuovo Congresso si è inaugurato come sempre a inizio d’anno, già da alcune settimane, dopo le infelici elezioni del 2 novembre, la Casa Bianca aveva incominciato a posizionarsi diversamente in vista dei nuovi equilibri: Obama 2, come alcuni commentatori lo hanno chiamato, è nato infatti due mesi prima di questo Congresso.Per esempio, sulla dibattuta questione della riduzione dei redditi fiscali più elevati ereditata dall’era Bush, che venivano a scadenza con il 2010, Obama è andato di sua iniziativa incontro ai repubblicani accordando una proroga ma barattandola astutamente con l’avallo repubblicano ad alcune voci di spesa per stimolare l’economia che hanno avuto il plauso del proprio partito.

Spetta al nuovo speaker della Camera, il repubblicano John Boehner, tradurre in provvedimenti concreti anche le idee che la maggioranza si propone di portare avanti. Nel suo primo discorso tenuto ieri, si è attenuto soprattutto ai temi istituzionali che sono di sua diretta competenza e in particolare sulla necessità di chiarezza e trasparenza nelle procedure e negli atti del Congresso come nelle fasi che li precedono. Il lungo applauso sia dei repubblicani che dei democratici che lo ha accolto sul podio (e che ha destato in noi un triste senso di invidia) lascia bene a sperare.

John Boehner è stato in passato un uomo d’affari che ha condotto al successo una media impresa commerciale prima di essere eletto alla Camera dei Rappresentanti nel 1990 e diventare il leader della minoranza repubblicana nel 2008. È un interprete fedele di ciò che è un dogma per tanti americani, vale a dire che compito dello Stato è fare solo ciò e tutto ciò che il privato non può fare e che il modo migliore di contenere il ruolo dello Stato è quello di ridurne il bilancio. Attorno a questo nodo, e al problema che ne costituisce in tempi di crisi come quelli che stiamo ancora vivendo esattamente l’opposto, cioè quello di sostenere e stimolare l’economia con interventi pubblici, si giocherà a Capitol Hill il biennio che abbiamo di fronte. Sarà dunque una battaglia giorno per giorno, legge per legge (e nelle leggi di spesa la Camera è davvero determinante), tra due visioni opposte, quella di Obama di uno Stato che deve essere generoso perché è necessario e quella di Boehner, e di tanti come lui, di uno Stato che va strettamente controllato perché tende ad invadere ciò che non gli appartiene. Se lo scorcio di legislatura passata dopo le elezioni di novembre può darci qualche indicazione in proposito, non sembra da escludere un patteggiamento continuo improntato a realismo: Obama, per parte sua, ha dimostrato finora di essere disponibile a scendere su questo terreno.

Le cose diventerebbero evidentemente più difficili se, come l’ala estrema dei repubblicani chiede, la maggioranza si proponesse di abrogare la riforma sanitaria che costituisce forse il maggior risultato del primo biennio di Obama e certo il momento di più alto valore simbolico. Se così fosse, significherebbe che il partito repubblicano si accinge non tanto a portare avanti il lavoro da compiere per gestire il Paese e introdurre quelle correzioni all’impostazione precedente che ritiene necessarie, ma che guarda già alla scadenza del mandato dell’attuale Presidente e si predispone fin d’ora a una lunga campagna elettorale.

In materia di relazioni internazionali, il fatto che la maggioranza sia mutata alla Camera non dovrebbe avere necessariamente una diretta influenza se non quando ricorrano leggi di spesa; ma senza dubbio essa avrà modo di infastidire l’Amministrazione - e ne ha manifestato l’intenzione -, per esempio con delle commissioni d’inchiesta sull’affare Wikileaks e sulla reazione avuta dal Dipartimento di Stato. Ma, anche in questo caso, è dubbio che ci si accinga a mettere a fondo il dito in una piaga che tocca anche principi e valori di interesse nazionale.

Se queste riflessioni della prima ora si rivelassero esatte, potremmo attenderci due anni meno esaltanti (ma sotto certi aspetti anche meno deludenti) dei due anni appena trascorsi; potremmo vedere un Barack Obama meno generoso nel promuovere visioni di denuclearizzazione globale o di cambiamenti climatici perché più impegnato nella sopravvivenza quotidiana. Ma anche consapevole che il compito di ridare spinta propulsiva all’America nella trasformazione della propria società e nella progettazione di nuove strategie mondiali, dovrà attendere, per essere realisticamente affrontato, un suo eventuale futuro secondo mandato.

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Titolo: BORIS BIANCHERI. In diplomazia vince sempre la comunicazione
Inserito da: Admin - Gennaio 11, 2011, 04:09:03 pm
11/1/2011 - I LEGAMI ITALIA-AMERICA

In diplomazia vince sempre la comunicazione

BORIS BIANCHERI

Se qualcuno dubita che la comunicazione sia diventata ormai il primo e fondamentale strumento di governo della politica estera e dei rapporti internazionali, mentre la diplomazia tradizionale ha spesso solo una funzione accessoria ad essa, la lunga intervista con l’ambasciatore degli Stati Uniti in Italia, David Thorne, apparsa ieri su queste pagine, dovrebbe aver fugato ogni dubbio. Avevamo tutti avuto una clamorosa dimostrazione della formidabile potenza della comunicazione quando è esploso l’affare Wikileaks: la maggior parte delle notizie diffuse da Wikileaks non ha avuto a tutt’oggi né un carattere dirompente né particolarmente innovativo. I giudizi formulati dai diplomatici americani su uomini di Stato e di governo stranieri e sulla loro politica erano spesso già cosa corrente tra gli addetti ai lavori e non di rado ripresa da pettegolezzi o da organi locali.

Quel che ha avuto carattere dirompente è invece che quei giudizi siano diventati pubblici, che ciò che fino a quel momento dicevano tra loro pochi eletti sia diventato da un momento all’altro una cosa nota a centinaia di milioni, a miliardi di persone.

Per quanto concerne i passaggi di Wikileaks che riguardano il nostro Paese - gli apprezzamenti dell’ambasciata di via Veneto nei confronti del presidente del Consiglio e delle sue «distrazioni», le riserve circa i suoi rapporti con Putin, certi giudizi sulla politica energetica italiana e così via - essi avevano già indotto la signora Clinton a incontrare separatamente Berlusconi nel Kazakhstan e ad affermare formalmente che i rapporti tra Stati Uniti e Italia erano e sono eccellenti. Sicuramente, da novembre in poi vi saranno stati altri discreti interventi con Palazzo Chigi, con la Farnesina, con altri membri del governo o con la nostra ambasciata a Washington per chiarire, appianare e cercare di rasserenare l’atmosfera. Ma anche questo non è parso sufficiente: non basta che si convinca la Farnesina o Palazzo Chigi, quel che è importante è che si convinca il pubblico. Ed ecco che scende in campo l’ambasciatore David Thorne e, da Washington, forse dopo essersi consultato con il Dipartimento di Stato, rilascia una inconsueta, franca ed esplicita intervista.

I rapporti tra Stati Uniti e Italia, dice Thorne, non potrebbero essere migliori. Se essi hanno avuto un momento di appannamento è per un errore, è per colpa di Wikileaks e non perché ciò corrisponda o abbia mai corrisposto alle intenzioni dei due governi; per Berlusconi c’è grande apprezzamento e le sue relazioni amichevoli con Putin non destano più preoccupazione; anche l’Eni non costituisce un problema, ora che ipotizza convergenze tra gli oleodotti South Stream e Nabucco. In particolare sul ruolo italiano in Afghanistan l’ambasciatore è stato caloroso, quasi enfatico.

Tutto questo, mi sembra, dimostra tre cose. Dimostra che una fase di appannamento nei rapporti Italia-Usa per certi aspetti c’era stata, che Wikileaks aveva in effetti lasciato molta amarezza nei nostri ambienti politici, ma che tale amarezza era dovuta non tanto ai giudizi in sé che erano stati formulati quanto alla strumentalizzazione che se ne era fatta nelle polemiche politiche di casa nostra. Dimostra anche, se ce n’era bisogno, che Wikileaks è stato davvero un brutto incidente nel tessuto di relazioni internazionali degli Stati Uniti. La diplomazia da sola fa fatica a sanarlo e l’opera di rammendo prende forma non nel negare ciò che è innegabile ma nell’assicurare all’esterno che le difficoltà sono ormai in via di essere superate. E infine dimostra, come si diceva all’inizio, che nel mondo di oggi, sia all’interno delle nostre democrazie sia nei rapporti tra loro, l’arma fatale, quella che può ferire o uccidere l’altro e che poi, all’occorrenza, si deve usare anche per guarirne le ferite, è costituita non da qualcosa di esclusivo o di remoto ma da ciò che è più vicino a tutti noi nella vita di ogni giorno: da ciò che chiamiamo, appunto, comunicazione.

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Titolo: BORIS BIANCHERI. La retromarcia di Washington
Inserito da: Admin - Febbraio 01, 2011, 04:46:59 pm
1/2/2011

La retromarcia di Washington

BORIS BIANCHERI

Non poteva esserci prova più difficile per Obama di quella che gli impone oggi la situazione in Egitto.

Ha appena finito di pronunciare un discorso sullo stato dell’Unione nel quale ha parlato molto di ciò che l’America deve fare per ritrovare se stessa e, non a caso, poco di ciò che sta avvenendo nel resto del mondo. Sugli avvenimenti di Tunisia si era espresso senza alzare i toni ma facendo intendere che la ventata di rinnovamento che ha percorso quel Paese non poteva non riscuotere simpatia anche a Washington. Dirlo, d’altronde, non gli costava gran che: Ben Ali non c’era già più, aveva già fatto le valigie e così anche tutti i suoi parenti ed amici che avevano avuto il tempo di seguirlo. Ma Mubarak è un’altra cosa. Mubarak è ancora lì e non pare finora avere l’intenzione di seguire l’esempio del suo collega tunisino.

In Egitto, sembrava alcuni giorni fa che la designazione di Suleiman a vice-Presidente indicasse che le chiavi del potere erano passate all’esercito e che la transizione - cioè l’uscita di Mubarak dalla scena - fosse ormai in atto. E infatti, domenica scorsa, la signora Clinton ha auspicato pubblicamente che al Cairo si attuasse una transizione ordinata verso l’aspirazione popolare alla democrazia e a migliori condizioni economiche. Ma, per ora, la transizione, ordinata o no che sia, non c’è. Le manifestazioni popolari continuano, Suleiman è stato nominato vice-Presidente ma il Presidente è sempre Mubarak e non si muove.

Si sono levate invece molte voci per consigliare alla Casa Bianca maggiore cautela di linguaggio. Le prime e le più esplicite sono state quelle israeliane. Mubarak ha rappresentato in effetti per dei decenni una garanzia di stabilità per l’intera regione e per Israele in particolare. All’interno ha tenuto sotto controllo il partito dei Fratelli Musulmani, che seppur costituisce il maggior nucleo di opposizione organizzata, è largamente minoritario. In seno alla Lega Araba, l’Egitto costituisce una voce moderata. E’ ovvio che a Gerusalemme si guardi con preoccupazione a improvvisi traumatici mutamenti in direzioni diverse, quali esse siano. Ci sono anche gli altri potentati arabi che, di fronte a una troppo liberale posizione di Washington, aggrottano le ciglia: un incoraggiamento degli Stati Uniti a chi rivendica democrazia e diritti umani e mira a rovesciare chi sta al potere negando quei diritti, non può che suscitare apprensione in buona parte del mondo arabo, dagli Emirati, all’Arabia Saudita alla Giordania stessa. Ci sono poi le voci dei repubblicani, che Obama non può ignorare. C’è lo spettro di ripercussioni gravi sul piano economico, conseguenti anche a una eventuale paralisi di quel punto cruciale dei traffici che è il Canale di Suez, ci sono le conseguenze sui rapporti economici bilaterali qualora la situazione degradasse ulteriormente.

La realtà è che, quale che sia la posizione americana in ordine agli avvenimenti egiziani, Obama rischia di essere perdente. Se parte dal presupposto che l’era Mubarak è finita, affretta i tempi verso un pericoloso precipizio. Se invece prende le distanze dai movimenti popolari in atto in Egitto e altrove, rischia di riaccendere i sentimenti antiamericani che serpeggiano in tanta parte del mondo arabo anche non radicale o estremista. Se avalla i dittatori, contraddice clamorosamente se stesso, la sua visione del mondo e coloro che hanno creduto sinora nel suo messaggio di equità e di libertà. Nella loro inattesa e succinta dichiarazione «europea», inglesi, francesi e tedeschi se la sono cavata invitando entrambe le parti alle moderazione. Washington si era spinta più avanti, ma ci ha ripensato e sta tornando indietro. Una transizione vi sarà inevitabilmente e d’altronde era comunque prevista; ma è preferibile forse che non avvenga sotto la spinta della piazza. Una cosa è comunque sicura (e noi dovremmo essere i primi a saperlo): non serve a molto chiedere di dimettersi a chi ha il potere in mano se non si spiega cosa verrà dopo di lui.

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Titolo: BORIS BIANCHERI. Il codice morale che sorregge i giapponesi
Inserito da: Admin - Marzo 16, 2011, 12:17:38 pm
16/3/2011

Il codice morale che sorregge i giapponesi


BORIS BIANCHERI

L’emergenza della centrale atomica di Fukushima, causata da un terremoto di tale magnitudo da aver perfino spostato l’asse terrestre e da un’onda colossale, ha ridato vigore al dibattito tra fautori e detrattori dell’energia nucleare, con tutto il suo contorno di implicazioni politiche. Che è poi solo una parte del dibattito vecchio come il mondo dei benefici ma anche dei rischi del progresso e della possibilità di prevederli.

Dal Giappone giungono immagini spaventose: città in pezzi, navi intere scagliate nelle strade e migliaia di automobili sommerse dal mare. Ma sui volti dei giapponesi si vede malgrado tutto calma e compostezza: coloro che potrebbero essere stati raggiunti da radiazioni fanno pazientemente la coda per farsi esaminare, la macchina dei soccorsi funziona e la gente si attiene scrupolosamente al consiglio di risparmiare energia e limitare i consumi. Né sembra che divampino furiose polemiche e recriminazioni. Non posso immaginare cosa sarebbe accaduto da noi. Negli Stati Uniti, mi basta ricordare la ventata di isteria che accompagnò il tifone Katrina, di portata infinitamente minore.

Quando il Giappone, all’indomani dell’ultimo conflitto, passò d’un tratto da un regime autocratico-feudale alla democrazia importata dagli Stati Uniti, tutti si sorpresero di come il passaggio si svolgesse in modo ordinato ed efficace. I giapponesi accolsero istituzioni e regole che erano loro sconosciute e le fecero funzionare. Poi la democrazia parlamentare e l’economia di mercato hanno attraversato anche in Giappone le vicende che altri Paesi hanno conosciuto. Non molto tempo fa, su queste stesse pagine, abbiamo avuto modo di ricordare che la vita politica del Paese del Sol Levante è stata afflitta ultimamente da scandali e comportamenti inappropriati, che quattro primi ministri si sono avvicendati in pochi anni, il debito pubblico ha raggiunto livelli record, la produzione ha rallentato mentre sono aumentate la spesa pensionistica e la disoccupazione. Il Giappone ha faticato a mantenere il livello di vita raggiunto in passato, ricalcando alcuni modelli di comportamento non molto dissimili da quelli italiani.

Da dove viene allora questa ordinata calma nel momento dell’emergenza? Come mai mentre i mercati crollano e le borse impazziscono, mentre il mondo commisera il Giappone e si interroga sul dilemma nucleare, i giapponesi riprendono il cammino con apparente fiduciosa determinazione e un primo ministro che fino a 10 giorni fa molti giudicavano quasi sul punto di cadere annuncia ora tranquillamente e senza sollevare proteste che la più grave crisi del dopoguerra sarà superata e il Giappone si ritroverà più compatto e forte di prima?

La risposta sta in un aspetto della cultura profonda del Paese e in un principio che sin dalla prima infanzia giunge nell’animo di ogni bambino. Il principio, cioè, che vi sono infinite cose desiderabili e anche importanti, come il denaro, il potere o il successo, che tutti cercano di raggiungere, che taluni raggiungono ma che possono poi abbandonarci a seconda della fortuna o delle circostanze senza che ciò muti la nostra vera natura. Che vi sono invece valori che ci appartengono indissolubilmente, senza i quali non saremmo quasi persone umane, certo non dei veri giapponesi. E’ difficile riassumere questi valori e anche più difficile tradurli in parole italiane appropriate. Si tratta, in sostanza, di una specie di codice morale dei cavalieri dell’età feudale che, non scritto ma passato di bocca in bocca, sopravvive nel mondo di oggi: vi si fondono i concetti di consapevolezza di sé, lealtà, rettitudine, dignità e rispetto. Importante - diceva un saggio - è sapere quando è tempo di colpire e quando è tempo di morire, e farlo con la stessa grazia. In Giappone, questo concetto viene talvolta riassunto nel termine «bushido», che ha peraltro un suono prevalentemente guerriero e maschile mentre l’idea è altrettanto maschile che femminile.

Il terremoto e lo tsunami della scorsa settimana sono eventi della natura che si sono prodotti al di fuori e al di sopra della volontà degli uomini. Proprio per questo, a differenza delle oscillazioni di borsa e delle crisi economiche, hanno risvegliato nell’animo giapponese questo sentimento antico. Quando vedete la foto di una persona che guarda senza spavento e senza lacrime la sua casa distrutta in un luogo della costa vicino a Sendai e si appresta con grazia a ricostruirla, pensate che in quella persona il senso del presente è stato affiancato dal senso dell’antico e che c’è in lei o in lui l’eco del «bushido».

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Titolo: BORIS BIANCHERI. L'alleanza dove ognuno va per sé
Inserito da: Admin - Marzo 22, 2011, 03:50:00 pm
22/3/2011

L'alleanza dove ognuno va per sé

BORIS BIANCHERI

L’abbiamo salutata tutti come l’aspirazione di un mondo arabo nuovo verso traguardi di libertà e dignità della persona umana. E continuiamo a sperare che i germogli nati in Tunisia, in Egitto e altrove possano, col nostro aiuto, svilupparsi. Ma quello che vediamo accadere ora in Libia, questo vortice inquietante nel quale la megalomania di Gheddafi ha trascinato i cosiddetti «volenterosi» e noi con loro, non mi sembra essere la via che porta a traguardi ideali neppure nella mente dei Paesi che la stanno percorrendo.

Partiamo dalla rivolta di Bengasi che, l’abbiamo già detto, si è presentata subito come diversa da quanto era accaduto in altri Paesi nordafricani. L’insurrezione in Cirenaica contiene infatti in sé anche i germi di fratture che appartengono da sempre alla società libica ed è spinta da crescente insofferenza dell’Est verso il lungo dominio gheddafiano con le sue profonde radici nell’Ovest e nel Sud. Essa divide la Libia più per linee tribali e geografiche che per linee politiche e ideali. Del Consiglio rivoluzionario di Bengasi, dei suoi protagonisti (alcuni dei quali sono stati a lungo vicini al raiss) e dei suoi programmi sappiamo poco: sappiamo solo che Gheddafi è talmente autocratico e assoluto che è improbabile che lo siano più di lui.

Veniamo ora alla reazione degli occidentali. Il termine «occidentali» è appropriato dato che la sigla Nato non si può usare per il veto dei turchi e di altri, mentre termini più ampi non se ne possono inventare dato che Lega Araba e Unione Africana, dapprima cautamente favorevoli, si sono dissociate quando della nostra reazione hanno visto le conseguenze. Il motore principale dell’intervento in Libia è stato, come sappiamo, la Francia. Si è messa subito al lavoro per una risoluzione dell’Onu, ha quasi riconosciuto il regime di Bengasi, ha fatto capire di essere pronta ad agire anche da sola o con la sola Gran Bretagna e ha tenuto ad effettuare la prima vera operazione bellica. Il motivo di questo protagonismo sta nella necessità di Sarkozy di riabilitare la propria immagine presso la destra tradizionale che Marine Le Pen rischia di portargli via alle prossime elezioni. Si tratta di restituire alla Francia una posizione di leadership nel Mediterraneo dopo il suo maldestro tentativo di creare una Unione del Mediterraneo di ispirazione francese tra Europa e sponda Sud, tentativo che, pur ridimensionato nel nome e negli obiettivi, è rimasto in pratica lettera morta. In Libia la Francia non ha grandi interessi e quindi rischia poco; ha invece interessi storici in Tunisia, Algeria, Marocco e in Africa nera ed è qui che l’influenza di Parigi deve riprendere vitalità. L’operazione Libia serve anche a questo.

In simile situazione gli Stati Uniti non potevano restare indietro. Non poteva farlo Obama, che fin dalla campagna elettorale si era proclamato l’interlocutore di un mondo arabo moderno e dialogante; e comunque la prima potenza al mondo, che ha in Medio Oriente e Africa interessi politici ed economici ingenti, non poteva fingere di ignorare quel che accade in Libia soprattutto se è la Francia ad indicarglielo col dito. Le contraddizioni e le incertezze della diplomazia americana in questi giorni testimoniano che si è trattato di una decisione sofferta, di cui Washington intravedeva i rischi.

La Germania non ha dovuto fingere di perseguire traguardi ideali di libertà e di progresso in questa vicenda: i tedeschi attraversano una fase di ripiegamento su condizioni di relativo benessere, non aspirano a posizioni di preminenza se non in campo economico e guardano con distacco al Mediterraneo, memori anche di quanto gli squilibri di bilancio dei Paesi del Sud Europa siano costati ai loro risparmi. Coerentemente, hanno scelto di astenersi dall’intervenire.

Quanto all’Italia, il suo governo è partito con la palla al piede di un trattato italo-libico, legittimo e anzi positivo nella sostanza ma macchiato da goffaggini di immagine che hanno fatto il giro del mondo. Si è associato ai «volenterosi» soprattutto per non passare da filo gheddafiano e per stare con coloro che contano. Ma l’attivismo dei francesi e i ripensamenti della Lega Araba (nonché quelli della Lega nostrana) hanno accresciuto lo scetticismo. L’affermazione di Frattini ieri a Bruxelles secondo cui potremmo riappropriarci delle basi se l’operazione non passasse sotto il comando Nato, il che sembra da escludere, non fa una grinza nella sostanza: come si conduce una difficile operazione militare multilaterale se non c’è un unico comando? Ma è anche una via d’uscita. Per ragioni pratiche e contingenti: ognuno, d’altronde, deve badare ai fatti suoi. Quelle motivazioni ideali di libertà e progresso da cui tutto è partito sembrano un lontano ricordo.

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Titolo: BORIS BIANCHERI. Il ritorno all'Europa delle nazioni
Inserito da: Admin - Aprile 12, 2011, 06:35:27 pm
12/4/2011

Il ritorno all'Europa delle nazioni

BORIS BIANCHERI

Il nulla di fatto con cui si è concluso il Consiglio dei ministri dell’Interno europei a Lussemburgo e il «no» opposto dagli Stati membri alle richieste italiane di collaborazione nelle attività di prevenzione e di assorbimento dell’immigrazione clandestina non è cosa che potrà essere facilmente dimenticata. Raramente abbiamo chiesto all’Europa qualcosa con tanta insistenza. E ancor più raro che gli altri abbiano risposto seccamente di no, malgrado una certa comprensione dimostrata verso la posizione italiana da parte della Commissione europea.

Il problema è che, in un certo senso, tutti hanno ragione. Ha ragione il governo italiano quando dice che l’afflusso sulle nostre coste di 25.000 clandestini che non possono essere lasciati affogare, e soprattutto delle centinaia di migliaia che potrebbero seguirli, costituisce per noi una vera emergenza. Lo dice perché così l’ha giudicata senza esitazione l’opinione pubblica italiana, a Roma, a Lampedusa, nei Comuni e nelle Province del Sud come in quelli del Nord, e tutta la televisione e la stampa italiana si sono fatte coralmente interpreti di questa emergenza. Ha anche ragione il governo italiano quando dice che il Trattato di Schengen non è stato concepito unicamente allo scopo di evitare ai viaggiatori europei di fare la coda alle frontiere, ma è stato concepito per fare dell’Europa uno spazio territoriale omogeneo dove si circola, si lavora e si vive liberamente. I francesi che respingono, o i tedeschi che minacciano di respingere, le persone di pelle un po’ scura alle quali l’Italia dà un permesso di soggiorno temporaneo, sono forse in regola con la lettera ma non interpretano lo spirito del trattato.

Ma hanno anche ragione coloro che ribattono che, per una nazione come l’Italia di 57 milioni di abitanti, 25.000 rifugiati sono poca cosa e che al tempo delle guerre balcaniche loro ne hanno accolti ben di più. E che non è colpa loro se l’Italia possiede delle isole così vicine alle coste africane che si possono quasi raggiungere a nuoto. Tutti hanno ragione, dunque. Ma siccome ieri a chiedere c’era uno solo e a dir di no erano in tanti, il risultato è stato quello che sappiamo. Ci si può chiedere: si doveva agire diversamente? E’ la nostra politica estera, la nostra diplomazia che ha fatto fallimento?

Certe frasi forti pronunciate dal nostro presidente del Consiglio o dai suoi ministri forse non hanno aiutato. Ma con ogni probabilità, quale che fosse stata la strategia, il risultato sarebbe stato lo stesso. Il controllo dell’immigrazione costituisce oggi uno dei temi politicamente più sensibili per tutti: per noi per primi, come la Lega sottolinea ogni giorno e come gli italiani confermano giudicando 25.000 immigrati un’emergenza; ma anche per Sarkozy che ha fatto al riguardo rigorose promesse al suo elettorato; o per Angela Merkel che dichiara che il multiculturalismo è ormai finito. L’immigrazione è allo stesso tempo il sintomo e la causa di una ri-nazionalizzazione dell’Europa fin troppo evidente.

Quale che sia la delusione, parlare di uscire da Schengen (per non dire di uscire dall’Europa) non ha evidentemente alcun senso. Intanto nessuno ci crederebbe. I 25.000 che sono entrati finiranno alla lunga con l’andarsene in buona parte altrove, in Francia speriamo per loro. Questo, a dire il vero, rischia poi di attirarne altri. Ma soprattutto è bene tener presente che, ove i flussi di immigrazione clandestina dovessero moltiplicarsi, ci toccherà farvi fronte da soli e cercare di controllarli con azioni o accordi bilaterali come quelli che a suo tempo facemmo con Gheddafi e che ora cerchiamo di fare con la Tunisia. Senza illusioni che altri intervenga per farlo in vece nostra. Quanto a una certa debolezza della nostra politica estera e a un atteggiamento di alcuni nostri partners europei che tendono a sottovalutare le nostre esigenze e il nostro ruolo internazionale, tutto ciò che si può dire è che non potrebbe essere diversamente dato che hanno sotto gli occhi i girotondi, le risse, gli insulti che caratterizzano ogni aspetto e ogni giorno della vita politica italiana e ai quali la triste giornata di ieri fornirà sicuramente nuovi spunti.

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Titolo: BORIS BIANCHERI. Rotta da cambiare
Inserito da: Admin - Maggio 23, 2011, 04:57:50 pm
23/5/2011

Rotta da cambiare

BORIS BIANCHERI

Come in Italia così in Spagna, sono le elezioni amministrative che si tengono in questa precoce stagione estiva che ci proiettano sul futuro e anticipano in qualche modo l’avvenire politico e sociale dei rispettivi Paesi.

Gli spagnoli, in realtà, fanno più in fretta di noi: i seggi elettorali aperti ieri in mattinata si sono già chiusi in serata e i risultati possono cominciare a interpretarsi subito, senza attendere il lunedì o eventuali angosciosi ballottaggi. Ora, stando ai primi dati e a meno di sorprese che al momento di andare in stampa non appaiono molto probabili, sembra che la Spagna abbia affidato alle urne comunali e regionali un messaggio non molto diverso da quello emerso sette giorni fa in Italia: è ora di cambiar rotta ma non è molto chiaro in quale direzione andare.

Occorre dir subito che questa tornata elettorale ha preso un carattere eccezionale anche per le prolungate e colorite manifestazioni di protesta degli «indignados» che per giorni hanno bivaccato occupando le piazze di Madrid e l’hanno accompagnata, senza però turbarla, nella intera giornata di ieri. E’ stata, come sappiamo, una protesta giovanile indirizzata genericamente contro tutto e contro tutti - politici, imprenditori, banchieri e quant’altro - nata dalla legittima convinzione che chi aveva del denaro o del potere è riuscito in qualche modo a superare la congiuntura e a difendersi dalla crisi mentre le vere vittime sono coloro, in primo luogo i giovani, che non avevano né una cosa né l’altra e sono oggi al 50% senza lavoro. Si era temuto che il nichilismo giovanile fosse contagioso e si traducesse in un’astensione dal voto, ma così non è stato.

I risultati confermano le previsioni della vigilia e segnano una sconfitta (c’è chi parla di disfatta) di Zapatero e del Partito Socialista Psoe, che perde città e regioni che passano nelle mani del Partito Popolare di Mariano Rajoy che aggiunge così ai suoi feudi tradizionali di Madrid e Valencia un numero cospicuo di regioni del Paese. Non è cosa che possa sorprendere. Come tutti i leader europei che erano già al potere allo scoppio della crisi economica (sino a qualche tempo fa si poteva pensare che Berlusconi fosse un’eccezione) Zapatero ha perduto costantemente smalto e sostegno popolare e il suo partito socialista Psoe lo ha seguito nel declino. La Spagna è obiettivamente in condizioni difficili, con un altissimo livello di disoccupazione e un debito pubblico che resta allarmante malgrado tutti i sacrifici fatti. Le elezioni di ieri confermano questo declino e il fatto che Zapatero già alcuni giorni fa avesse annunciato che non si ripresenterà alle prossime elezioni nazionali nel 2012 è stato letto come un gesto di signorilità ma non ha cambiato le cose. E’ una brutta notte per il Psoe, ha detto con franchezza la portavoce socialista commentando i primi risultati elettorali.

Ma se la stagione socialista sembra decisamente al declino, non è detto che per i Popolari di Rajoy si spalanchi una strada aperta. Non solo perché non tutte le perdite socialiste vanno a vantaggio loro. Anche in Spagna (come in Italia d’altronde) partiti minori o locali o di impronta nazionalista sembrano guadagnare consensi: a Barcellona, che per 30 anni è stata un feudo socialista, a notte avanzata lo spoglio dava in netto vantaggio il candidato sindaco della coalizione nazionalista. Ma ancor più perché il voto di ieri è piuttosto un voto di sfiducia nei confronti di chi ha governato in questi anni che un voto di fiducia verso chi dovrà governare in futuro. Le politiche che Rajoy dovrà mettere in atto quando andrà al potere non possono che essere altrettanto se non più severe di quelle tentate dal suo predecessore... Le politiche reali, quelle che toccano i cittadini, sono dettate oggi dalla congiuntura e ai cittadini tocca solo stringere la corda. E’ quello che ci dicono queste elezioni, accompagnate dalla voce degli «indignados». C’è il rischio che lo si dica anche altrove.

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Titolo: ADDIO a BORIS BIANCHERI.
Inserito da: Admin - Luglio 19, 2011, 06:38:31 pm
Addio a Boris Biancheri

Diplomatico, ambasciatore italiano a Tokio, Washington e Londra, è stato anche presidente dell'Ansa e della Fieg


ROMA - È morto a Roma Boris Biancheri. Lunga la sua carriera diplomatica, cominciata nella seconda metà degli anni '50, durante la quale è stato ambasciatore italiano a Tokyo, a Londra e a Washington. Per il ministero degli Esteri, Biancheri ha ricoperto l'incarico di direttore generale del personale e di direttore generale degli Affari politici. Tra il 1995 e il 1997 è stato segretario generale del Ministero. Dopo la fine della carriera diplomatica, Biancheri è stato presidente dell'Ispi, Istituto per gli studi di politica internazionale di Milano. Dal 1997 al 2009 ha ricoperto l'incarico di presidente dell'Ansa e, dal 2004 al 2008 è stato presidente della Federazione italiana editori giornali. È stato anche editorialista del quotidiano La Stampa e membro della Fondazione Italia Usa. Aveva 80 anni.

IL CORDOGLIO DI FRATTINI - «Apprendo con sincero cordoglio e grande tristezza della scomparsa dell'Ambasciatore a riposo Boris Biancheri. Perdiamo una figura di grande valore che abbiamo stimato come servitore dello Stato, studioso, e uomo di lettere», ha affermato il Ministro degli Esteri, Franco Frattini. «Biancheri - prosegue il ministro - è stato uno dei più brillanti diplomatici degli ultimi decenni, coniugando il suo altissimo spessore culturale e la sua solida competenza su ogni aspetto della realtà internazionale con una profonda sensibilità istituzionale. Anche negli importanti incarichi seguiti alla conclusione della sua carriera in diplomazia, Biancheri ha continuato ad essere un lucido, autorevole, stimato punto di riferimento per l'intera comunità di professionisti e studiosi che si dedica alla promozione del ruolo dell'Italia nello scenario internazionale, e ha mantenuto legami stretti e fecondi con l'Amministrazione cui si era dedicato con passione. Ai familiari di Boris Biancheri vanno le mie condoglianze più affettuose».

Redazione online
19 luglio 2011 13:01© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://roma.corriere.it/roma/notizie/cronaca/11_luglio_19/motro-boris-biancheri-1901122001385.shtml


Titolo: BORIS BIANCHERI. L'addio di un allievo...
Inserito da: Admin - Luglio 21, 2011, 05:53:47 pm
21/7/2011

Biancheri, un ironico sguardo sul mondo

ANTONIO ZANARDI LANDI*

«Boris non avrebbe fatto così»

Questa è la critica più severa e radicale che mia moglie, donna buona ma anche acuta e attenta, mi ha riservato dal 1989 ad oggi quando ho clamorosamente fallito nel valutare, nel condurre rapporti umani, nel non saper cogliere gli aspetti positivi nascosti in certe situazioni.

Ventidue anni fa lasciavo infatti l’Ambasciata a Londra per rientrare alla Farnesina e lasciavo quel personaggio eccezionale per levatura, per cultura, per umana simpatia che è stato Boris Biancheri, di cui per due anni ero stato segretario e collaboratore.

Un grande, grandissimo Ambasciatore. Ma, come ha lasciato trasparire Marta Dassù nel suo ricordo di Boris pubblicato da «La Stampa» ieri, definirlo così è riduttivo e parziale. Boris è stato qualcos’altro, qualcosa di più. Per il suo modo di essere, di sorridere, di stabilire un rapporto che non era mai di sola cordialità o di anche sincera amicizia, ma che trasmetteva sempre un’idea, uno spunto di riflessione, una chiave di lettura di realtà complesse come quelle dell’Europa, dell’Oriente, degli Stati Uniti, di questa nostra Italia.

La sua straordinaria capacità di comprendere, di cogliere le sfumature più lievi, di collegare mondi culturali diversi ne hanno fatto un grande Ambasciatore. Quasi come una conseguenza ovvia, ma non ricercata. E’ stato Ambasciatore d’Italia a Tokyo, a Londra, a Washington. Ha fatto tutto questo rappresentando il Paese con grande dignità, grande efficacia, grande autorevolezza. Ma è rimasto fondamentalmente un uomo di cultura e il suo successo è stato aiutato dalla levità, dal distacco e dall’ironia sottile e buona con cui ha affrontato il mondo.

Dagli anni di Londra, dal primo libro fatto insieme su Grosvernor House, dalle situazioni curiose vissute insieme era rimasta una consuetudine para-familiare. Pochi incontri all’anno, ma carichi di affetto, di idee, di sorriso.

Qualche giorno fa l’ultima conversazione telefonica e la promessa di rivederci la settimana prossima, nonostante la fatica che lo opprimeva. Serenità, come sempre. E la preghiera: «Cerca di voler bene alla mia Russia. Se lo merita»! E la mia risposta banale: «Speriamo che qualcuno ci ascolti». Sarebbe stato positivo per la mia missione a Mosca il vademecum così sincero di chi ha dato tanto di suo alla politica estera italiana.

Un suo ultimo sorriso telefonico.

*Ambasciatore d'Italia a Mosca

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9001