Titolo: ELENA LOEWENTHAL Inserito da: Admin - Agosto 19, 2008, 04:55:10 pm 19/8/2008
Onore al merito, però... ELENA LOEWENTHAL Un premio alla media dell’otto. In una stagione di più o meno conclamati rigori scolastici, di grembiuli e voti di condotta che (forse) tornano in auge, la notizia giunge da alcuni istituti di Roma e Milano e si configura come una clemente controtendenza: gli studenti che saranno capaci di sfoggiare una pagella esemplare, per intenderci dall’otto in su, avranno in premio un bonus. Il liceo classico «Visconti» di Roma stanzierà 90 euro per ogni media eccellente, lo scientifico «Einstein» di Milano 200. In moneta se non proprio sonante, quasi. Per monetizzare il suddetto premio, infatti, dovranno recarsi nelle librerie e nei teatri convenzionati, ma anche, volendo, iscriversi a corsi di musica, sport, lingue straniere. In parole povere, questo onore al merito non sarà a fondo perduto, né lasciato all’arbitrio di quegli inevitabili capricci che l’età della scuola (ma non solo quella) porta con sé. Non finirà speso in un qualunque accessorio griffato o telefonino multifunzione, né sfumerà in tanti altri e ben peggiori modi che consentono ai nostri adolescenti di dissipare generosamente. Questa somma infatti, piccola o grande a seconda di come la si guarda, sarà un contributo aggiuntivo a quell’istruzione che chi porta a casa una media dell’otto dimostra di avere in qualche modo a cuore, visto che ci investe cervello e fatica. L’iniziativa dei due istituti, cui faranno prevedibilmente seguito altre, è un segnale concreto che l’autonomia scolastica sta diventando una cosa meno astratta di quanto non sia stata sino ad ora, proprio perché essa è frutto di decisioni «locali». Ma è anche frutto di un certo ritorno di fiamma della parola «merito», che sino ad ora nella scuola e altrove era rimasta ammantata di una vaghezza inafferrabile. Aleatoria come poche. Ecco che invece il merito sale alla ribalta, prende corpo in un bonus in moneta: così lo si può quasi toccare, il merito scolastico. E questa è una buona cosa, lo sarà soprattutto per quei ragazzi che, a fine anno, si ritroveranno per le mani non soltanto una pagella smagliante, ma anche un premio vero, tangibile. Da riscuotere. Non una simbolica stretta di mano, un complimento lanciato per aria, vuoto per quanto gratificante. La gratifica in denaro fa un effetto ben diverso. Però è proprio qui che il meccanismo un poco s’inceppa. Ben venga il riconoscimento vero del merito. Ben venga il bonus istruttivo: in questi due sensi il provvedimento è ineccepibile. In un altro, più sottile, un po’ meno. I nostri ragazzi vanno a scuola, infatti, perché quello è - insieme - un diritto e un dovere. Diritto allo studio e dovere di non andarci solo per scaldare il banco. In tal caso, ci vuole una sanzione. Una pagella impresentabile esige di per sé qualche provvedimento, a casa come a scuola: il castigo è parte essenziale del sistema. Ma il bonus per un risultato positivo? Non è affatto scontato. È davvero giusto, insomma, premiare chi ha la media dell’otto? Non è che questi sta facendo, sia pure con slancio e capacità e impegno, né più né meno di quel che gli spetta di fare? Può sembrare una riflessione esagerata, da vecchi Catoni incattiviti. Probabilmente lo è. Ma resta il vago sospetto che, invece della tanta auspicata severità, la manica larga vada ancora per la maggiore. elena.loewenthal@mailbox.lastampa.it da lastampa.it Titolo: ELENA LOEWENTHAL Quelle leggi razziali "italiane" Inserito da: Admin - Settembre 08, 2008, 09:52:27 am 8/9/2008
Quelle leggi razziali "italiane" ELENA LOEWENTHAL Le vie delle parole sono, talvolta, imperscrutabili. Nel linguaggio della politica, che si fa alla giornata su improvvisazione dettata dalle circostanze e ciononostante lascia il segno, l’aggettivo irrituale ha ormai un che di scostante. Designa qualcosa di quasi inammissibile, secondo le regole del gioco. Le parole pronunciate qualche giorno fa dal presidente Napolitano dando il via al Quirinale alle celebrazioni per il Giorno della memoria, riportano invece alla valenza positiva di questo termine. Nel contesto di una ricorrenza che è ormai il (troppo) capiente contenitore di cerimonie monotone e parole che a forza di ripeterle suonano a vuoto, il suo breve discorso è stato decisamente irrituale. Ma nel senso migliore e soprattutto più profondo che l’aggettivo porta con sé: quello di uscire dagli schemi del rito per entrare nel contesto del significato, rammentando all’Italia le sue leggi razziali. La memoria non è di per sé terapeutica. Come diceva Primo Levi, il fatto che sia accaduto non azzera, anzi moltiplica le probabilità che accada di nuovo. La memoria non è uno scudo inossidabile, di fronte al male. È una necessità, forse un tributo a chi non c’è più. Ma di per sé non serve affatto, se non a risvegliare sentimenti inesprimibili. La percezione della storia attraverso la memoria è invece istruttiva: guardare al passato per capire che cosa e come siamo. Da dove veniamo, insomma. E il presidente Napolitano ci ha ricordato che l’Italia di oggi viene anche dall’infamia delle leggi razziali. Gli italiani amano denigrarsi, sparlano del proprio Paese e delle sue disfunzioni con un narcisistico compiacimento. Guai però a toccarne gli aspetti più profondi, il «carattere nazionale», dentro il quale vige tenace l’immagine degli italiani «brava gente». Quasi incapaci di far male a una mosca, e quando capita è per cause di forza maggiore. Eppure, a dispetto di questo inossidabile stereotipo, settant’anni fa esatti questo Paese è stato capace di sfoderare una legislazione razziale che non fu seconda a nessuno. Nemmeno alla Germania nazista, se restiamo sul piano dei documenti giuridici con cui la storia si racconta. «Leggi che suscitarono orrore negli italiani rimasti consapevoli della tradizione umanista e universalista della nostra civiltà», ha ricordato il presidente Napolitano parlando delle leggi razziali del 1938 come mortali apripista della Shoah. È tutto terribilmente vero. Il censimento degli ebrei italiani che nell’agosto di quell’anno fu l’astuta premessa per una applicazione «a tappeto» delle leggi razziali emanate nell’autunno successivo, costituì dopo l’8 settembre 1943 un comodo strumento per i tedeschi a caccia di stücke («pezzi» come loro chiamavano i deportati) per i vagoni merci, i campi di sterminio, i forni crematori. Le leggi razziali, in cui «Vittorio Emanuele III per grazia di Dio e per volontà della nazione re d’Italia - imperatore d’Etiopia» decreta e firma i provvedimenti insieme con Mussolini, sono un vero monumento all’infamia. Stabiliscono una serie di restrizioni che vanno dal divieto di contrarre matrimonio misto a quello di firmare manuali scolastici, proibiscono agli ebrei italiani di avere dipendenti, di essere dipendenti di enti statali, banche, assicurazioni, di prestare servizio militare, possedere terreni e aziende. Pretendono, con brutale ottusità, di definire l’appartenenza ebraica in termini di sangue (art. 8, comma a: «È di razza ebraica colui che è nato da genitori entrambi di razza ebraica, anche se appartenga a religione diversa da quella ebraica») con paradossale precisione (comma c: «È considerato di razza ebraica colui che è nato da madre di razza ebraica qualora sia ignoto il padre»). Queste leggi, tanto spietate quanto assurde, non furono un meteorite precipitato sul ridente pianeta Italia da una remota e maligna regione siderale. Furono il prodotto di forze congiunte: il regime fascista, la consenziente monarchia (i cui degni eredi, forse perché non hanno più nessun regio decreto da firmare, si son dati allo sport, con risultati davvero eccellenti nel lancio di boutades) e il popolo italiano. Stretto nelle maglie di questa orribile storia, che tuttavia è proprio la sua. elena.loewenthal@mailbox.lastampa.it da lastampa.it Titolo: ELENA LOEWNTHAL Il giorno della memoria come arma Inserito da: Admin - Gennaio 24, 2009, 04:37:02 pm 24/1/2009
Il giorno della memoria come arma ELENA LOEWNTHAL Si avvicina il Giorno della Memoria e crescono i dubbi sulla tenuta della ricorrenza. Sul suo senso e l’utilità civile che riveste, a prescindere dalle encomiabili intenzioni di chi, una decina d’anni fa, costruì - a livello culturale ma anche politico - questa scadenza del calendario nazionale. Il Giorno della Memoria incontra innanzitutto il rischio che ogni forma di ritualizzazione comporta: la perdita di pregnanza. Quando qualcosa si ripete, la monotonia è un effetto tanto collaterale quanto inesorabile. E giunge puntuale la noia, l’inconscia alzata di spalle. Intorno al Giorno della Memoria si crea non di rado un paradosso quasi spietato: la costante ricerca del «nuovo», da parte di enti, editori, scuole. Che è un’assurdità: perché la ricorrenza celebra per definizione sempre la stessa cosa; perché la brutalità di quel passato sta anche nel fatto che non ha nulla di nuovo da raccontare. E poi la forza del ricordo sta proprio nel già detto, tramandato, ripetuto. Di pari passo sorge la questione dell’«invadenza» del Giorno della Memoria nella scuola. A che serve? La scadenza è diventata un impegno curriculare di grandi proporzioni: docenti e studenti si sentono in dovere di mobilitarsi. Di sapere e capire. Il terreno è minato. Molto più delle guerre puniche e della rivoluzione francese: perché la memoria non è storia. Non chiede un approccio interpretativo, quanto emotivo. A scuola, invece, il Giorno della Memoria si carica di aspettative troppo alte: non didattiche ma etiche. Il metodo più efficace per (presumere di) arrivare a questi obiettivi si rivela la ricerca dell’effetto. E così, il ricordo finisce per diventare qualcosa di astratto. Tanto è vero che il Giorno della Memoria isola l’esperienza storica ebraica, invece di contestualizzarla. La sigilla in una bolla trasparente ma impenetrabile. Questo è innanzitutto un impulso naturale: di fronte al male si arretra, per difesa. L’orrore dello sterminio non può indurre vicinanza, anzi respinge. Di fronte alla Shoah, l’istinto inconscio si ribella, dice: no. Ora è diverso. Io sono diverso. A me non potrà mai accadere. Come ci si fa a immedesimare in una vittima, un torturato, un corpo dentro un forno crematorio? È contro natura. Poi c’è la questione didattica. Gli ebrei arrivano sui banchi in due occasioni: agli albori, con babilonesi, assiri e fenici, preludio al passato «importante», greci e latini. Millenni dopo tornano con la Shoah. A farsi sterminare. Tutto ciò contribuisce a isolare la loro storia a renderla strana, aliena. Questa specie di disconoscimento si riflette fuori dalla scuola. Non a caso in questi giorni il conflitto a Gaza e in Israele ha preso una piega diversa. Non dove c’è la guerra. Qui in Europa. L’imminente Giorno della Memoria è diventato un «soggetto» della guerra. Il bambino di Gaza e la donna di Sderot non se ne fanno nulla di un’immedesimazione storica, di un «ardito» accostamento al passato. Loro hanno da sopravvivere. Qui invece s’imbrattano muri di scritte antisemite (Torino), s’infangano cimiteri ebraici (Pisa), si disdicono celebrazioni del Giorno della Memoria (Catalogna), si grida: viva Hamas, ebrei nelle camere a gas (Olanda). La Shoah diventa codice interpretativo della guerra a Gaza. Non si tratta solo di opinioni azzardate, d’incompetenza allo sbaraglio. È anche un effetto del Giorno della Memoria: più s’avvicina, più diventa comodo strumento per denigrare l’oggi. Per isolare ancora una volta l’esperienza ebraica, che sia dentro la Shoah o nell’attualità. Liquidarla con categorie prefabbricate. E poi c’è qualcosa di più profondo: sta nell’inconscio di quell’Europa in cui la Shoah si è consumata ed è rimasta lì come un peso insopportabile. Che sarebbe bello poter finalmente scaricare altrove. da lastampa.it Titolo: ELENA LOEWENTHAL Nove in condotta e una coltellata al professore Inserito da: Admin - Febbraio 18, 2009, 10:59:51 am 18/2/2009
Nove in condotta e una coltellata al professore ELENA LOEWENTHAL uando si hanno soltanto tredici anni, per pugnalare alla schiena il professore di musica non basta tenere in mano un’arma: bianca sì, ma letale. Non basta essere stati ripetutamente rimproverati perché «così proprio non va». E nemmeno aver premeditato l’assalto con tale rigore da entrare in classe armati di coltello sottratto alla cucina di casa. Non basta essere stressati (fino a non molti anni fa lo stress era un privilegio degli adulti, un mal di successo) dai compiti e dalle aspettative dei genitori e dalla quantità di ore che si passano a scuola. Che sono davvero troppe a ogni ordine e grado, perché in fondo tenerli in classe è una comodità per tutti: genitori indaffarati, organico scolastico. Coscienza collettiva, appagata a quanto pare dal principio che la quantità di tempo scolastico sia una garanzia educativa. Per aspettare che il tuo insegnante di violino si giri a riporre lo strumento nella custodia e ficcargli il coltello dentro la schiena - com’è accaduto ieri a Chioggia - ci vuole un miscuglio di odio e rabbia e incoscienza e violenza difficile da districare. Scomodo per chi se lo porta dentro, e per chi da domani dovrà occuparsi di un tredicenne ovviamente non perseguibile a termini di legge. E, non certo ultimi, per quei due genitori che non più tardi di qualche giorno fa si sono visti consegnare una pagella decorosa, con tanto di nove di condotta. Già, la condotta: questa sconosciuta. I criteri di valutazione quest’anno sono cambiati (anche se non in tutte le scuole: alcune hanno optato per la via della conservazione). Come? Non è facile a dirsi. Le disposizioni ministeriali prescrivono che il voto di condotta sia equiparato agli altri, in scala: un nove, dunque, dovrebbe valere moltissimo. Qualche assenza scriteriata basterebbe per un otto (che fino a ieri in condotta confinava con l’inaccettabile sette). Certo, nella griglia di valutazione che molte scuole hanno allegato alla pagella (con specifico riferimento al «nuovo» che avanza in condotta), la pugnalata alla schiena del professore non è contemplata, nemmeno con la peggiore insufficienza. In compenso ci sono parametri quali «attenzione costante», «comportamento maleducato», «interazione con i compagni». Istruzioni per l’uso alla mano, il genitore dovrebbe interpretare il voto. Al di là dello sforzo ermeneutico, questa storia del voto di condotta svela una verità triste per tutti: è sempre più difficile conoscere i nostri figli. Ogni anno, ogni giorno che passa, qualcosa ci sfugge. E di fronte a un tredicenne normalmente diligente - nonché assiduo frequentatore dei corsi pomeridiani di violino - che tenta di ammazzare il suo insegnante, non siamo tanto esterrefatti e increduli, quanto rattristati. Rassegnati forse no, ma poco ci manca. Quel ragazzino non è un mostro. Anzi, sino a ieri era un tredicenne assolutamente normale. Potrebbe diventare un delinquente, ma anche no. Forse, per evitare la prima possibilità ci vorrebbe una punizione esemplare, come si diceva una volta. Che forse non arriverà, perché il supporto psicologico, come castigo, non è poi uno spauracchio colossale. Ma al di là del destino che attende questo scellerato tredicenne partito da casa con il coltello in cartella, lo sgomento che la storia ci provoca nasce da una consapevolezza intima e profonda, quasi inconfessabile: chissà che anche noi con i nostri figli non stiamo rischiando di vivere un incubo così. Non li conosciamo mai abbastanza, ma soprattutto non sappiamo più come fare per decifrarli, per leggere loro in faccia, nei gesti, nel rumore dei loro passi, nel modo in cui masticano la bistecca e ti guardano di sottecchi, che cosa hanno in testa e nel cuore. E non ce lo dicono. da lastampa.it Titolo: ELENA LOEWENTHAL Le domande dei bambini Inserito da: Admin - Maggio 05, 2009, 11:27:40 am 5/5/2009
Le domande dei bambini ELENA LOEWENTHAL Ci sono cose che i bambini sanno fare molto meglio dei grandi. Le domande, ad esempio. Come Misha Lerner, classe quarta di una scuola elementare ebraica in quel di Washington, il quale con la sua zazzera rossa e il suo competente scilinguagnolo ha messo in seria difficoltà la signora Condoleezza Rice, che pure si era anche abbassata con la testa e le spalle, per mettersi al suo livello. Quasi non le sentisse bene, le domande di Misha che invece deve averle scandite a chiare lettere, nel suo inglese di quarta elementare: «Perché avete applicato tecniche di interrogatorio simili alla tortura?», ha chiesto scendendo nei dettagli tecnici della brutta faccenda. E lei c’è rimasta un po’ male, per la domanda. Ha risposto, sì, ma senza troppa disinvoltura. Il presidente G. W. Bush, ha detto quella signora tutta d’un pezzo che si è sempre dimostrata Condoleezza Rice, «ha sempre espresso la volontà di autorizzare solo politiche legali per proteggere l’America»: una frase un po’ troppo arzigogolata per una classe di quarta elementare, anche se c’è da scommettere che Misha abbia capito benissimo che cosa lei intendeva dire. Misha con la sua zazzera color carota ha solo nove anni. Il mondo che conosce è quello venuto dopo Ground Zero. Con tutto ciò che è seguito all’immenso buco nero apparso là dove c’erano una volta le Torri Gemelle: la guerra e le paure e l’incertezza e una sequenza di domande terribilmente angosciose che venivano da dentro gli adulti, anche se loro non sempre trovano le parole per fare domande. Poi è giunta la grande crisi, che c’è ancora e per la quale anche i bambini hanno in serbo un sacco di domande. Però, è finita la stagione di Bush e di Condoleezza Rice, quelle paure sembrano più lontane e viene un po’ per tutti la voglia di aprire una pagina nuova. Di non farsi troppe domande sul passato e provare a guardare verso il futuro, per tentare di immaginare che faccia avrà, lasciandosi alle spalle un briciolo di quell’angoscia che stagna sul mondo dall’11 Settembre. Cioè, più o meno da quando Misha s’affacciava al mondo. Senza particolari meriti se non quello - strabiliante - di essere un bambino, Misha porta con sé un’innocenza che non ha niente a che vedere né con l’ignoranza né con la mancanza di esperienza, è piuttosto la capacità di guardare il mondo dritto negli occhi. Con le sue verità, le sue mezze verità, le contraddizioni. L’innocenza dei bambini è una specie di militanza, che noi adulti ci perdiamo per strada, sbadati come siamo e incapaci di capire quanto sarebbe utile, tenercela stretta: la voglia di non arrendersi all’impervietà del mondo. Di andare al sodo, alla sostanza delle cose, senza troppi giri di parole. Per Misha insomma, come per qualunque altro bambino, il nostro presente è carico di misteri. Di domande in sospeso, dubbi che martellano, certezze che esigono una spiegazione. Non per niente, a un certo punto della loro (e nostra, di noi genitori) vita, i bambini diventano talmente generosi di domande da risultare molesti, con tutto il bene che vogliamo loro. Un «perché» tira l’altro in una sequenza che pare interminabile e comunque dura un sacco di tempo. Anni e anni, in cui il mondo è un oceano di punti interrogativi. Tocca rispondere una, due, mille volte, senza mai stancarsi. Tocca soprattutto insegnare a quei bambini avidi di perché, che malgrado le nostre risposte il mondo resta pieno di dubbi, mezze verità, piccoli e grandi segreti. Ma certamente sarebbe un po’ più banale e tremendamente insipido, senza le domande dei nostri bambini. elena.loewenthal@mailbox.lastampa.it da lastampa.it Titolo: ELENA LOEWENTHAL Inserito da: Admin - Maggio 28, 2009, 09:52:50 am 28/5/2009
La stella gialla non è una bandiera ELENA LOEWENTHAL La stella gialla non era come quella che Marco Pannella ha deciso di usare per dare voce alla sua campagna elettorale. Non era ritagliata nel cartoncino ma stava cucita al vestito, là dove meglio e prima si vedeva: non potevi attaccarla e toglierla a piacimento. Non era una bandiera, bensì un marchio. Lo imposero i nazisti agli ebrei dell’Europa occupata, mentre li rinchiudevano nei ghetti: invivibili anticamere dei treni merci, degli smistamenti all’ingresso del campo di sterminio, delle camere a gas, dei forni crematori. I nazisti hanno inventato la soluzione finale, ma non la stella gialla, che si sono limitati a riesumare dalle ceneri ancora calde di una storia millenaria: la nostra, quella dell’Europa, che per secoli ha imposto ai figli d’Israele un segno di riconoscimento - banda, stella, cappello a punta - sì da poterli individuare, segregare, evitare, e non di rado cacciar via. La stella gialla non era come quella adottata da Pannella per denunciare una pratica politica, un’inazione generale, un silenzio colpevole. Quella cucita sul vestito non c’entra nulla con la politica intesa come «scienza» (o trasandata pratica) che regola i rapporti fra gli uomini. Non indica, nemmeno vagamente allude, non lascia spazio ad alcuna istanza di libertà: abita in un universo in cui la libertà non è concepita, non c’è modo di articolarla neppure come remota aspirazione. Chi portava addosso la stella gialla riusciva a pensare solo a sopravvivere, e sapeva bene che l’emarginazione era il muto preludio dello sterminio. Se quella di cartoncino che usa Pannella vorrebbe richiamare l’idea di una battaglia - pacifica e silenziosa, ma eloquente -, l’altra, quella vera, parlava solo di una sconfitta tremenda, inimmaginabile eppure vera. La stella gialla è, insomma, il simbolo di una resa atroce. Non esprimeva alcunché, non provava a sollecitare coscienze, denunciare ingiustizie. Era l’apice e l’abisso di una storia in cui il mettere da parte l’altro, tenersene a distanza, riconoscerlo per evitarlo, significava ribadire l’inguaribile disprezzo che per quel diverso si provava. Al limite da orchestrarne lo sterminio. La stella gialla era la fredda incubatrice della soluzione finale. Per questo è impropria in qualsivoglia battaglia politica, morale, mediatica. Perché non sveglia le coscienze: le tramortisce. Non è uno stimolo, ma uno schiaffo alla giustizia e all’umanità. La stella gialla che i nazisti imposero agli ebrei, ripescando quel vecchio principio del segno distintivo infamante, concepito per emarginare e riconoscere il diverso per eccellenza, il «perfido giudeo», era un marchio indelebile. Ti stava cucito addosso sinché i kapò non ti facevano spogliare e ti spingevano dentro i locali doccia da cui usciva il gas letale Zyklon B, invece dell’acqua. Da allora, la stella gialla non regge alcun paragone storico, rifiuta di farsi strumento di lotta, perché non dice altro che quella storia inaudita. Indossarla, farne un’allusione, non è atto che indigna. Men che meno scandalizza: non è oscena né offensiva. Però è inevitabilmente inadeguata a ogni linguaggio che non sia quello dell’abisso nero. Fa parte di quell’universo, che non risponde alle leggi di questo (o almeno non dovrebbe essere così). Basti pensare a come e dove l’abbiamo vista, cucita sul vestito, indelebile. Nei ghetti, nei campi di raccolta, nelle retate, dentro i treni merci. Addosso a occhi sgomenti, bocche spalancate ma mute, braccia alzate in una resa impari: come quelle del bambino nel ghetto di Varsavia. È addosso ai bambini, che quel marchio grida più forte. Quelle braccine levate, tremule, sembrano sole di fronte agli aguzzini. Ma dietro c’è una folla di vittime. Con la stella gialla addosso: non era un marchio esclusivo. Lì dentro ce l’avevano tutti: vecchi (quei pochi che non erano già stati eliminati dagli stenti e dalle angherie), donne, bambini. Paradossalmente la stella gialla non distingueva nessuno. Anzi, assimilava tutti dentro un unico, terribile destino. elena.loewenthal@mailbox.lastampa.it da lastampa.it Titolo: ELENA LOEWENTHAL Inserito da: Admin - Giugno 07, 2009, 12:12:00 am 3/6/2009
La stella gialla della buona politica ELENA LOEWENTHAL La politica non è generosa, quasi per definizione. Le righe che Marco Pannella ha affidato a queste pagine, qualche giorno fa, mettono invece in gioco quel potenziale di dialogo che rende la politica qualcosa di diverso. Di raro, in un certo senso. Nel difendere l’apposizione della stella gialla, Pannella dialoga con la storia, prima ancora che con il suo interlocutore. Di solito, invece, la politica ha la memoria corta: calcata com’è nell’attualità, considera il passato - vicino o lontano che sia - un bagaglio inutile. Sfrondata del suo sovraccarico di presente, la stella gialla che Pannella evoca con le sue parole scritte torna a essere quello che era e che è condannata a restare: un monito, certo. Non uno strumento di propaganda elettorale, bensì l’incursione della storia nel nostro presente. Ma, come diceva Primo Levi, il «male già fatto» non redime da quello ancora da fare. Non siamo più immuni dal male, adesso. Anzi. Per questo la stella non può che restare un monito muto. Incapace di comunicare null’altro che lo sgomento e la paura e il silenzio della morte che portava con sé. Il 1938 che Pannella richiama è lontano, irraggiungibile, se non per chi l’ha attraversato e se lo ricorda. Questo presente globalizzato può portare in sé tutte le apocalissi del mondo, ma non sarà mai la stella gialla a gridarlo, perché è rimasta laggiù, nel ’38. Le armi della politica possono, e debbono, rinunciare a quel simbolo. Soprattutto nel caso di un’identità politica come quella radicale, che a differenza di tutte le altre è sempre stata e continua ad essere generosa. Perché nel Dna dei radicali c’è il saper dichiarare e agire per gli altri, senza diventare «altri»: la vocazione a intraprendere campagne e battaglie per conto di chi non lo fa, e non può farlo. Dalla bioetica ai diritti civili, alle battaglie internazionali che agli altri non interessano perché non ci sono interessi in gioco, i radicali hanno sempre fatto della politica qualcosa di transitivo. Senza mai diventare qualcosa di diverso da ciò che sono, senza immedesimarsi nell’altro da sé per cui si combatte, hanno reso la politica non una conquista - di voti o dell’altro che sia - ma una militanza altruistica, virtuosamente «per conto terzi». I radicali, insomma, continuano a fare politica generosa da decenni, come dimostrano quasi tutti i traguardi di civiltà che il nostro Paese è in grado di declinare a testa alta. Per questo l’«assunzione» della stella gialla incollata al petto fa un torto prima di tutto a quell’identità politica radicale ben viva e così capace di combattere per gli altri senza camaleontismi, senza comode immedesimazioni, senza ipocrisie. elena.loewenthal@mailbox.lastampa.it da lastampa.it Titolo: ELENA LOEWENTHAL Oltre l'orrore Inserito da: Admin - Giugno 24, 2009, 04:23:23 pm 24/6/2009
Oltre l'orrore ELENA LOEWENTHAL La violenza, in questa nostra civiltà urbana, ha spesso la faccia tremenda di una chiazza di sangue spalmata sull’asfalto. Tutt’intorno, il disordine dello sgomento e della morte. La tragedia di Monica, stamattina a Milano, si è consumata in un posto che tutto moltiplica: davanti all’asilo nido del figlio di due anni, che lei ha tenuto in braccio sino all’ultimo. Mentre suo marito la aggrediva verbalmente, s’infuriava per il telefonino di lei che squillava al momento sbagliato, la picchiava a pugni e calci e poi tirava fuori il coltello. Quattro fendenti, poi è scappato a bere qualcosa in un bar, mentre lei che quella mattina come tutte le altre stava portando suo figlio all’asilo nido, agonizzava lì sull’asfalto. Dentro questa giornata tremenda, quel padre e marito non saprà spiegare il perché di quel delitto. Il piccolo, dal canto suo aspetterà all’asilo nido quella madre che non tornerà mai più a prenderlo. La storia di Monica fa orrore, certo. È una storia di violenza brutale, cieca e tremendamente insensata come lo è sempre la violenza e più che mai quella che si consuma dentro la famiglia. Dove, malgrado tutto, le donne sono ancora un anello tremendamente debole non soltanto in quel terzo e quarto mondo che ci pare così lontano, e da cui c’illudiamo di essere immuni. Anche in questo nostro civile Occidente, le donne continuano a essere un anello debole tanto da poter cascare sull’asfalto agonizzanti, una mattina di inizio estate mentre si accompagna il bambino all’asilo. Ma la storia di Monica che è morta stamattina fa orrore non tanto o non soltanto per quella scena terribile che devono aver visto maestre e bambini e genitori accorsi dall’asilo nido lì davanti dove Monica non ha fatto in tempo a portare suo figlio, stamane. Non tanto o non soltanto per quella chiazza di sangue violaceo che l’asfalto non riesce ad assorbire. Per la morte che una mattina d’inizio estate esplode dentro una giornata come tutte le altre. Come si fa a trarre un senso, da una storia così? Una storia di violenza e basta, con un passato di altra violenza e litigi, di rassegnazione mancata e sicuramente di quella paura che ogni donna sente dentro come un sasso, da quando abbandona un compagno violento, capace di tutto. Se questa storia dice qualcosa di più dell’orrore che mostra, è altro orrore. Quello di cogliere una donna, anzi una madre, nel momento in cui è più forte e vulnerabile più che mai. In quella condizione indescrivibile, eppure vissuta almeno mille volte al giorno dall’istante in cui diventi madre, che significa tenere un figlio in braccio. Sapendo che è affidato a te non tanto e non soltanto dentro quella quotidianità e i bisogni primari e l’affetto e l’istinto. Certo, c’è anche tutto questo. Ma c’è qualcosa di più, in quel momento che ogni madre vive mille volte al giorno e dall’istante in cui mette al mondo un figlio, e per il resto della vita. In quel momento indescrivibile in cui una madre tiene in braccio un figlio - e nel caso di Monica che è morta accoltellata dall'ex marito violento, un bambino di appena due anni - una donna è più forte e tenace e indistruttibile che mai. Ma anche tremendamente debole, verso se stessa e il mondo che la circonda. E dentro l’orrore di stamattina in via Cova, zona Monforte, a Milano, proprio davanti a un asilo nido pieno di bambini, c'è anche lo sgomento per questa madre assassinata con suo figlio in braccio. Elena.loewenthal@mailbox.lastampa.it da lastampa.it Titolo: ELENA LOEWENTHAL Doppio, cioè normale Inserito da: Admin - Luglio 13, 2009, 09:35:50 am 13/7/2009
Doppio, cioè normale ELENA LOEWENTHAL Perfetta nel suo incarnare due esistenze opposte. L’unico trait d’union si ritrova, forse, nella montagna di materiale pornografico che aveva in casa. Ma anche questo «genere» è ormai una consuetudine, messa a disposizione di tutti (maggiorenni e non) dalla rete Internet. Di fronte a questa schizofrenia dell’anima e ancor più del corpo, la prima reazione è lo sgomento. Dev’essere terribile vivere così, ancor più terribile scoprire di aver vissuto accanto a una persona così - senza aver capito, senza nulla aver riconosciuto. Familiari, fidanzata, colleghi di lavoro, compagni di sezione: nessuno avrebbe immaginato che dietro quei panni qualunque si celasse un mostro che violentava sconosciute a ripetizione. Forse l’unico a non volere ancora confrontarsi con questa doppiezza è lui – che nega, si ripete innocente a dispetto delle evidenze. Coloro che gli stanno intorno da sempre, l’opinione pubblica e le sventurate donne che l’hanno subìto, tutti paiono increduli di fronte a questa ambiguità. Pare impossibile, che la stessa persona sia di qua e di là del confine fra il contabile modello e lo stupratore seriale. Eppure quel che ha di peggio, questa storia, è la sua normalità. Certo, Luca Bianchini è un malato. Ha un’ossessione violenta. Però la cosa che più atterrisce di lui è l’equilibrio della sua doppia vita, la sua coerenza intima che gli ha permesso di condurla così per anni, su due binari perfettamente paralleli e mai incrociatisi fra loro. Questa «normalità » della doppia vita è un tarlo che ci coglie puntuali, dentro la nostra giornata. Quando lanciamo di sottecchi uno sguardo al nostro partner, per cogliere la conferma di un sospetto. Quando gli/le arraffiamo il telefonino mentre è sotto la doccia, in cerca di un sms compromettente, o anche soltanto per pura curiosità. Quando incolliamo l’orecchio alla porta chiusa della camera di un figlio, per captare brandelli di conversazione: innocua, magari.Mamagari no. La doppia vita di Luca Bianchini era estrema. Ma tante altre doppie vite si annidano intorno a noi. Nel marito che credevamo di conoscere come le nostre tasche, dopo trent’anni: e invece... Nell’amica che ci aveva svelato tutti i suoi segreti... tranne uno. Nella figlia adolescente che esce di casa vestita da collegiale ma con una tenuta da cubista nella borsa. Nel collega di lavoro che con quella sua aria da buon padre di famiglia si gioca i risparmi in qualche casinò di provincia. La doppia vita è una cosa molto comune: non vorremmomai ammetterlo,masiamo capaci di adombrarla anche per chi pensiamo di conoscere meglio e con cui condividiamo (quasi) tutto.Edè questa, forse, la cosa che ci fa più paura, di Luca Bianchini. Elena.loewenthal@mailbox.lastampa.it da lastampa.it Titolo: ELENA LOEWENTHAL Protocollo boicottaggio Inserito da: Admin - Agosto 01, 2009, 04:30:15 pm 1/8/2009
Protocollo boicottaggio ELENA LOEWENTHAL Molti, quasi innumerevoli, sono i vanti del nostro Stivale. Alcuni discutibili, altri sull’insidioso confine del ridicolo: come il divorzio all’italiana, immortalato da De Sica. In più d’una lingua straniera, «all’italiana» indica una beata approssimazione. Un’approssimazione di cui non conviene andar troppo fieri. Ma per gli amatori del genere, da oggi il nostro bel Paese potrà rivendicare la paternità (o meglio, dato il caso, la maternità) anche del «protocollo» - medico - all’italiana. L’altro ieri, infatti, nel cuore della notte, la pillola RU486 è ufficialmente entrata negli ospedali d’Italia, non più soltanto a titolo sperimentale. Con questa, si fa per dire, decisione, il nostro Paese va in linea con il resto del mondo occidentale - ad approvarla mancano ancora soltanto Portogallo e Irlanda. L’Agenzia per il farmaco ha dato tecnicamente il via libera all’introduzione di questo metodo, che rende l’aborto meno invasivo e traumatico per la donna: con quattro voti a favore e uno contro, la pillola è entrata in commercio. È, ma forse sarebbe meglio dire sarebbe: perché nel protocollo previsto, rivisto e maneggiato da una lunga serie di enti, l’assunzione di questo farmaco si è «miracolosamente» trasformata in un lungo, farraginoso iter che costringe la donna a una degenza motivata da ragioni di ordine cautelativo. Se non che, in questa prudenza non è difficile riconoscere, oltre a una prescrizione medica, qualcosa d’altro. Di più profondo e confuso al tempo stesso. Nella migliore tradizione delle cose fatte all’italiana, anche qui è tutto un dire e non dire, decidere ma anche non troppo. La pillola RU486 entra negli ospedali italiani, ma dalla porta di servizio. Con tante complicazioni (non contemplate negli altri Paesi per la medesima procedura), che diventano una specie di boicottaggio. L’assunzione del farmaco comporta, in sostanza, per la donna l’ingresso in uno stato di patologia. In parole povere, continuerà ad essere più facile abortire per via «corporale», cioè chirurgica, con tutto ciò che questo tipo di intervento comporta. Si può tentare, certo, di risalire ai motivi di un protocollo così rigido. L’intento pare proprio essere quello di scoraggiare l’aborto. Il che è logico e anche umano: l’aborto è un dramma per la donna. Ma nel momento in cui questa immancabilmente sofferta decisione viene presa, perché non optare per una via meno dolorosa? Mettere i bastoni fra le ruote alla pillola RU486 non diminuirà il tasso di aborti nel nostro Paese. La RU486 non c’entra nulla con l’etica: è un farmaco che allevia la sofferenza, che serve al corpo. Cercare di fare in modo che sia scelta dal minor numero possibile di donne, significa soltanto pensare che la donna che abortisce merita di patire più del necessario. Che, in fondo ma neanche tanto in fondo, va castigata per questa decisione. Come se non fosse già la decisione stessa a castigarla per il resto della vita. Così capita - quasi sempre - alle donne che rinunciano volontariamente alla maternità. La pillola RU486, ma soprattutto le donne (quelle che la useranno e quelle che l’avrebbero potuta usare) sono dunque vittime di quel raggiro tutto italiano, da intendersi non come frode in senso stretto, ma più blandamente per quello che è: il vischioso talento nel girare intorno alle cose, piuttosto che andare al dunque, prendendo delle decisioni chiare. da lastampa.it Titolo: ELENA LOEWENTHAL Salvate il bambino Liam Inserito da: Admin - Agosto 19, 2009, 12:17:04 pm 19/8/2009
Salvate il bambino Liam ELENA LOEWENTHAL Quando un bambino si conquista un sito internet che porta il suo nome, il più delle volte è un gran brutto segno. Non sono quasi mai superdotati i bambini che salgono agli onori della rete. Sono quasi sempre assai sfortunati: perduti, malati, contesi. Quello di Liam Gabriel, ricci biondi e sorriso largo sgengivato di sette anni, si chiama «saveliam.com» e la dice lunga sul suo destino. L’imperativo suona come un allarme, «salviamo» - ma anche «salvate» - Liam, e assomiglia a una zattera che galleggia in mezzo a un oceano vero, fatto di acqua e distanze insanabili, dove il destino si accanisce con lui. Perché il papà di Liam Gabriel si chiama Michael ed è di New York, mentre la mamma si chiama Manuela ed è italiana. Da un capo all’altro dell’oceano Atlantico, Liam Gabriel che pure non ne può proprio nulla se suo papà è nato di qua e sua mamma di là, su due sponde opposte, è lui che ci va di mezzo. Nel marzo del 2007 la mamma viene giudicata sofferente di disordini della personalità e pertanto inadatta a custodirlo. Il piccino è affidato al padre. Ma la mamma lo rapisce e se lo porta via, dall’altra parte dell’oceano. Da allora, l’Fbi le dà la caccia. Intanto, il tribunale italiano ha confermato la sentenza americana e consegnato Liam Gabriel ai servizi sociali. In parole povere, quella cosa che una volta si chiamava orfanotrofio e che se non è più quella garanzia di infelicità che era una volta, certo ancora un po’ le assomiglia. Intanto, il papà di Liam Gabriel sta spendendo la vita in cerca del figlio, perché vuole riaverlo, dall’altra parte dell’oceano. Perché non è sempre detto che un bambino stia meglio con la mamma che con il papà. Perché una fuga disperata per portare lontano - dal tribunale, dal papà e da chissà che cosa d’altro - il proprio bambino, non è sempre detto che sia una scelta dettata dall’amor materno, o meglio da quell’idea quasi angelicata che ci siamo fatti dell’amore materno. Una mamma non ha sempre scritto nel suo Dna del cuore che cos’è meglio per il bambino che ha messo al mondo. A volte sbaglia. Proprio come un papà. Intanto, chissà come sta lui, bambino conteso che invece di album da colorare riempie dossier di tribunale, rapporti di polizia e pagine internet in cui chiede a chi passa navigando per la rete di salvarlo, come un imperativo che ci chiama un po’ tutti, noi sprovveduti internauti dello svago estivo. In fondo, non è difficile immaginare come stia, come si senta un bambino che ha perso mamma e papà perché lo vogliono tutti e due: smarrito in mezzo al mare. Naufrago in quell’oceano d’acqua che separa un genitore dall’altro, ma anche la follia dal raziocinio, l’affetto vero dall’egoismo parentale, l’altruismo dall’assurdo. Pensare che sarebbe così facile fare il bene di un bambino. E’ vero che in amore non ci sono regole, e men che meno nell’amore per i figli. Ma loro, soprattutto quando hanno sette anni, poco più o poco meno, e un sorriso largo, sincero e un po’ sgengivato come quello di Liam Gabriel, non sono mica troppo sofisticati, in amore. Prendono quello che gli dai. Chiedono soltanto un briciolo di spirito di sacrificio, senza il quale da genitore non fai un passo che sia uno. Come Pollicini cresciuti, ci lasciamo dietro tante briciole di piccole e grandi rinunce. E’ il sale che depositiamo sulla terra e con cui condiamo la nostra vita di papà e di mamme. Forse è solo lungo un sentiero fatte di quelle briciole lì, che il piccolo Liam Gabriel potrà ritrovare la strada di quella casa che sarà davvero la sua. Quel giorno, saremo lì ad aspettarlo, per vederlo sorridere con denti e gengive, sotto i ricci biondi. elena.loewenthal@mailbox.lastampa.it da lastampa.it Titolo: ELENA LOEWENTHAL L'attualità del tricolore Inserito da: Admin - Settembre 02, 2009, 04:09:32 pm 2/9/2009
L'attualità del tricolore ELENA LOEWENTHAL L’inizio di un anno scolastico non è degno di tale nome, se non porta con sé anche un briciolo di suspense. Precari in agitazione, fondi (e di conseguenza bidelli) latitanti, classi sovraffollate; quest’anno ci si mette pure l’influenza suina, riflesso di una globalizzazione che non guarda in faccia nessuno. Si comincia o non si comincia? Se il fattore «rischio» è ormai una consuetudine che segna l’avvicinamento al (quasi sempre puntuale) fischio d'avvio, è anche vero che ogni anno che passa la scuola si trova a incontrare nuove sfide. Perché le aule dove i nostri figli trascorrono gran parte della loro crescita sono lo specchio più fedele di quella realtà cui apparteniamo tutti, e che è tutt’altro che stabile, fissa nei suoi confini sociali e mentali. Che specie di mondo siamo? In che cosa veramente ci riconosciamo? Tutto sembra in discussione, a incominciare da quell’inno nazionale che sappiamo per lo più solo ronzare (le parole sfuggono dopo la prima strofa), ma che resta pur sempre il nostro. Per non parlare della bandiera che ha appena ieri ha animato una fumosa, quasi grottesca querelle: a quanto pare il bullismo (in questo caso con la sua pretesa monocolore) non è solo roba per adolescenti disadattati. Anche la scuola si cimenta con la bandiera, eccome. Sotto le ali del tricolore, infatti, sono stati ammessi alle materne di Milano 17 bambini figli di «irregolari», cioè senza permesso di soggiorno. Non sarà certo un caso unico, entro un sistema la cui «parola d'ordine è accogliere», dice l’assessore alle politiche sociali della Lombardia, Mariolina Moioli. La scuola non è né deve soltanto essere un rifugio d’accoglienza, ma è certo che rappresenta il nostro mondo per quello che è, senza infingimenti o ipocrisie di sorta. Rinunciare al confronto significa perdere in partenza. Il nostro tricolore, se non come simbolo certo come luogo di vita e fatica, gioie e dolori, riguarda anche quei bambini. Anche se sono figli di «irregolari». Del resto, tutto il mondo è paese. In Israele le scuole si sono appena aperte, e all’insegna di una battaglia quasi feroce per l’ammissione in diversi istituti religiosi di alcuni studenti arrivati di recente dall’Etiopia. Il sistema confessionale non li voleva per ragioni d'ortodossia, lo Stato ha imposto l'accoglienza. Non sono mancate vistose proteste pubbliche. Sono tanti i modi per eludere il confronto, prima di tutto a scuola. Come, ad esempio, disertare l’alzabandiera - sempre lei. E diventare, senza volerlo, un caso nazionale. È successo al dirigente scolastico di Padova Maria Grazia Bollettin, che quest’anno ha subito un recesso dal contratto per giusta causa. Un provvedimento gravissimo, motivato da un’incapacità gestionale definita di ordine generale, ma con la quale è difficile credere che nulla abbia a che fare l’episodio del 4 novembre scorso. Quando tutti gli 800 alunni della sua scuola non si presentarono alle celebrazioni nazionali, per evitare un’«offesa alla sensibilità dei bambini stranieri», chissà poi se interpellati in merito. Un eccesso di riguardo che forse produce l’effetto opposto a quello voluto, perché negando il diritto a una sensibilità individuale e assegnandone una d’ufficio a tutti gli stranieri, disegna un’emarginazione di ritorno, più che carezzare una presunta suscettibilità. Quel che è certo è che la bandiera dovrebbe rappresentare un’ala gentile, non uno stendardo per inventarsi guerre e guerricciole. Ma in fondo, questa attualità del tricolore - che sia rivendicato dalle Frecce acrobatiche nei cieli di Libia o issato in cima al pennone nei cortili delle nostre scuole - è un’efficace chiave d’interpretazione della nostra realtà. E insieme a tutti i bambini e i ragazzi che - c’è da scommettere - anche questa volta cominceranno puntualmente l’anno scolastico su e giù per lo Stivale, è bene guardarla, perché ci aiuta a capire chi siamo. E che cosa saremo, in un domani che è sempre più vicino di quel ci aspettiamo. Elena.loewenthal@mailbox.lastampa.it da lastampa.it Titolo: ELENA LOEWENTHAL Terreno minato Inserito da: Admin - Ottobre 08, 2009, 11:44:14 am 8/10/2009
Terreno minato ELENA LOEWENTHAL In un linguaggio tecnico che sembra uscito da un poliziesco copiato dagli americani, si chiamano «cold cases»: casi freddi, perché rimasti sospesi nell’incertezza, senza uno spiraglio di giudizio. In quel mondo dei bambini che invece dovrebbe essere caldo per antonomasia, stanno diventando più numerosi che mai. Talmente tanti da «fare» quasi un genere letterario: come dimostrano il recentissimo «Pulce non c’è» della giovane Gaia Rayneri (Einaudi) e «Vento scomposto» di Simonetta Agnello Hornby (Feltrinelli). In entrambi i libri si racconta di infanzie strappate a quella quotidianità cui tutti i bambini del mondo hanno diritto, e portate davanti a un tribunale. Non perché abbiano fatto qualcosa, ma perché si sospetta che qualcosa di brutto sia stato fatto loro. Come si fa a capire, a prevenire, a riconoscere l’abuso sui bambini? Per questo, forse, negli ultimi tempi si sono moltiplicati i casi ambigui, se non infondati: per quella paura scura che ci prende un po’ tutti di fronte a cose così. E’ un terreno minato, insidioso come nessun altro. Sul piano giuridico e umano. Perché come si fa a giudicare da fuori una famiglia? A coltivare certezze su quell’intimità che sta racchiusa fra le mura di ogni casa? Ogni famiglia, infatti, ha i suoi codici «segreti». E’ una specie di pianeta con le sue regole, la sua legge di gravità. Per questo, è così difficile entrarci dentro, vedere, giudicare. Anche se far del bene a un bambino dovrebbe essere la cosa più facile del mondo, purtroppo non sempre è così. da lastampa.it Titolo: ELENA LOEWENTHAL Il dialogo impossibile Inserito da: Admin - Ottobre 14, 2009, 10:27:59 am 14/10/2009
Il dialogo impossibile ELENA LOEWENTHAL Il no della Camera alla proposta di legge che avrebbe introdotto l’aggravante per i reati commessi in ragione dell’orientamento sessuale della vittima, in altre parole per omofobia, porta con sé considerazioni che ci riguardano tutti: destra e sinistra, etero e gay. Questo veto per dichiarata incostituzionalità è innanzitutto la cartina di tornasole di uno stallo politico alquanto preoccupante. Al di là del pastone poco edificante in cui ormai da un bel po’ sguazza il confronto fra gli schieramenti, maggioranza e opposizione hanno dimostrato di non riuscire a trovare una convergenza minima nemmeno su una questione come questa, così estranea alla politica in senso stretto, e per di più in una stagione in cui pare esserci una vera emergenza, in fatto di violenza omofobica. Eppure, neanche su un terreno paradossalmente così «neutrale» come quello della tendenza sessuale, la nostra politica è riuscita a combinare qualcosa. Con, per di più, l’aggravante di una confusione ideologica che non può che generare, nell’opinione pubblica, l’ennesima disillusione condita di sarcasmo - ultimo stadio di quell’antipolitica che una volta si chiamava qualunquismo. Mentre il ministro delle Pari Opportunità, Mara Carfagna, si rimbocca le maniche con l’intenzione di far rientrare in Parlamento la norma affossata, è innegabile che qui la maggioranza non abbia retto. Se dunque il confronto fra maggioranza e opposizione si svela tanto fragile su un argomento così trasversale e lontano dagli spartiacque tradizionali della politica, non è difficile immaginare quanto sarà (sarebbe?) erto il cammino sulla via delle riforme istituzionali, o su altri ordini del giorno. In sostanza, questo «no» della Camera è indice più di debolezza che di rigore. E poi c’è, naturalmente, la questione Pd. Alla vigilia di fatali primarie con il loro strascico di disarmanti, inconcludenti querelles (che detto per inciso spopolano a mo’ di gags comiche nell’universo di Facebook), il Partito democratico ha dimostrato ancora una volta di soffrire di un disturbo della personalità. E non da poco. Il voto di Paola Binetti, e la sua dichiarazione a margine «con quella legge le mie idee sarebbero state un reato» (che è un terribile lapsus di anacronismo, visto che i reati d’opinione non dovrebbero più esistere…), sono ben di più di quel «signor problema» timidamente declinato da Franceschini. Sono, piuttosto, lo specchio di un vizio radicale, di una questione di fondo che per un partito progressista dovrebbe risultare - anche a prima vista - ineludibile. Un nodo che riguarda l’identità stessa del partito e non soltanto le sue scelte politiche e strategiche del momento. E infine, c’è la questione culturale. C’è qui di che riflettere sulla nostra pretesa (o presunzione?) di civiltà, compromessa da una cronica superficialità che sarà tanto originale, ma fa pure cascare le braccia. Per noi, le pari opportunità sono la sigla di un telegiornale che espunge dal video i volti maschili per dar spazio alle donne, e di sentenze del Tar che annullano nomine in giunte provinciali a sesso unico (tutti maschi). Quando si tratta però di uscire da una cornice prettamente «estetica» - diciamo più decorativa che di sostanza - tutto diventa più complicato. Quasi irrealizzabile, come dimostra questo veto della Camera nei confronti di un provvedimento di salvaguardia fisica che mette in gioco il nostro rapporto con l’orientamento sessuale. L’impressione è che la strada verso il progresso sociale e culturale sia un po’ più lunga e accidentata di quanto il nostro bel paese si aspettasse. E così, si trova impreparato. Ma forse, più che di puro esercizio culturale, è una triste questione di fondo. Siamo, alle solite, in quel bizzarro Paese a cui piace tanto scherzare, ma quando si tratta di fare sul serio, troppo spesso sfodera un’alzata di spalle. elena.loewenthal@mailbox.lastampa.it da lastampa.it Titolo: ELENA LOEWENTHAL Niente allarmi ma più chiarezza Inserito da: Admin - Novembre 01, 2009, 10:36:13 am 1/11/2009
Niente allarmi ma più chiarezza ELENA LOEWENTHAL Emiliana D’Auria, undici anni, è morta appena quaranta minuti dopo il ricovero. Già la corsa in ambulanza, verso l’ospedale Santobono di Napoli, era parsa disperata, con il medico in servizio che tentava manovre rianimatorie. Emiliana D’Auria è morta per una pericardite fulminante: questa la causa diretta del decesso. Però aveva l’influenza H1N1. Per la prima volta, dunque, nel nostro Paese, un bambino muore con addosso quella febbre suina di cui si parla da tanto, e più si parla meno sembra di saperne. Perché quando muore un bambino, significa che c’è qualcosa di terribilmente sbagliato in quel che sta succedendo. Che ci spaventa, ci tormenta, ci fa girare intorno al mondo con lo sguardo, in cerca non di un senso - quello mai, quando muore un bambino - ma di una strada per rimediare. La cosiddetta influenza suina ha, secondo gli esperti, un’incidenza di mortalità molto inferiore a quelle delle «normali» patologie analoghe: in parole povere, è un’influenza e basta. Non è il vaiolo, nemmeno il colera o il tifo. Non è una peste, ma un’influenza. Ma anche l’influenza comune miete ogni anno le sue vittime - più di quanto le stime indichino essere capace questa, di cui si parla da tempo. E se ne parla davvero molto, forse troppo. Perché una bambina che muore d’influenza ci sgomenta, atterrisce e inquieta. Non deve destare il panico, ma far riflettere. Sulle parole dette, quelle smentite, quelle ripetute. Di questa influenza è stato detto un po’ tutto, e anche il suo contrario: che il peggio era passato (tempo fa), che il peggio doveva ancora venire (quando? Adesso? O ancora no?). Che il peggio era lì davanti a noi (forse. Ma forse no). Nel frattempo, dopo qualche caso isolato, ecco la vera epidemia. Scuole decimate (e torna l’ipotesi di chiuderle per evitare la diffusione. Torna perché s’era già postulata, ma presto. Troppo), uffici quasi deserti, centralini di pronto soccorso intasati. Il copione di una pandemia. La parola spaventa, ma indica solo una misura di quantità: è soltanto più diffusa di un’epidemia, non più grave e minacciosa. Significa solo che dobbiamo tutti essere pronti a beccarci l’influenza. Che può capitare a tutti, ed è probabile che ciò succeda. Anche sui vaccini, s’è detto di tutto e di più: farlo? Non farlo? A chi, prima? Quante dosi sono in circolazione? Nessuna certezza, un sacco di interrogativi. Troppi, di fronte a una pandemia. Per quanto d’influenza. E di un’influenza blanda persino più di tante altre. In sostanza, di fronte alla prima bambina morta d’influenza nel nostro Paese, arrivata agonizzante in un ospedale di Napoli senza portar con sé - pare - patologie pregresse, la preoccupazione è grande. Eccome. Ma non tanto per lo spettro della suina che ormai non è più un’ombra ma una presenza dilagante in Italia (migliaia di casi a settimana) quanto per l’incertezza che ci accompagna. E che sembra dettare le direttive di chi dovrebbe invece «guidare» la salute pubblica con coerente competenza. La ridda di notizie e raccomandazioni contraddittorie, la confusione di dati (per esempio sull’efficacia e la necessità del vaccino): tutto questo ci mette forse più paura dell’influenza in sé. L’unica cosa che sappiamo è che probabilmente molti di noi la prenderanno. Come comportarci quando viene la febbre, e magari anche un po’ prima, questo le autorità preposte finora non sono proprio state in grado di dircelo, anche solo a titolo di consiglio. E l’incertezza, la confusione, non sono certo buone compagne, quando c’è un’emergenza. Quella, innegabile, ci sta di fronte: ha la faccia di una bambina di undici anni morta quaranta minuti dopo il ricovero. Elena.loewenthal@mailbox.lastampa.it da lastampa.it Titolo: ELENA LOEWENTHAL Il nostro terzo mondo quotidiano Inserito da: Admin - Novembre 12, 2009, 10:08:41 am 12/11/2009
Il nostro terzo mondo quotidiano ELENA LOEWENTHAL Ci sono luoghi in cui sappiamo riconoscerci e altri che paiono fatti apposta per disegnare con impassibile precisione il nostro volto di massa anonima. I meandri della metropolitana, con i suoi dedali di scale. Le fermate dell’autobus, in un continuo viavai che ci impone di non fermarci a guardare, a cercare di capire che cosa succede. Non a caso questi luoghi, quasi un simbolo della nostra frenetica modernità, diventano teatro di storie che preferiremmo ignorare. Ma quelle di tanto in tanto affiorano dai sotterranei. Proprio come a Milano, dove qui si chiedono, pagano e ottengono aborti clandestini. Dove, sotto le luci artificiali, fra i binari e i corridoi, sulle pedane dei binari, si consuma quotidianamente una specie di immenso consultorio per le donne in difficoltà. Le brevi trattative che si concludono con interventi clandestini e sacchetti di pastiglie ceduti sottobanco, hanno un codice di gesti e parole fatti apposta per passare inosservati, sotto la fragile copertura che i luoghi di passaggio garantiscono - dove tutti siamo solo facce anonime e gambe che corrono. Anche così si abortisce in Italia: con una fermata d’autobus o di metro per sala d’accettazione. E non si tratta di casi isolati: è un sistema intero, che funziona a pieno regime. Molte delle donne che vanno a chiedere di abortire nei corridoi della metro, alla fermata dell’autobus di una metropoli come Milano, sono straniere. Ma ci sono anche italiane. Minorenni. Giovani che non possono permettersi di guastare una carriera avviata, e scelgono di farlo così, di nascosto. Le straniere, braccate da una clandestinità cronica, sentono di non avere altra scelta che quel buio lì. Le italiane optano per il buio perché sono vittime di un’altra clandestinità, più inafferrabile, strisciante. Le une e le altre ci dicono che dentro questo nostro mondo ne esiste un altro. Un po’ come la rete della metropolitana sotto il traffico in superficie: non si vede, ma c’è. E ogni tanto non si può fare a meno di abitarlo, anche solo attraversarlo. Sembra quasi improbabile, eppure in questa società dai diritti reclamati e ottenuti, dove le garanzie sociali sono un vanto e la tutela globale della persona un impegno comune, succede che ogni anno circa ventimila donne abortiscono clandestinamente. Senza copertura sanitaria, con procedure immancabilmente ad alto rischio. Che cosa spinge una persona a trattare così se stessa e il proprio corpo? La paura, certo. Ma anche una diffidenza profonda per la legalità, per il sistema che sta alla luce e dove da anni si può interrompere una gravidanza indesiderata a termini di legge, sotto l’ala di un servizio sanitario. E’ assurdo che tante donne scelgano un anonimato rischioso, in una società come la nostra così ossessivamente attenta al rispetto della privacy. Ci vogliono un sacco di firme in calce per autorizzare qualcuno a spedirti a casa un po’ di pubblicità, ma pur di non compilare un modulo d’ospedale ci si riduce ad abortire di nascosto, cominciando da una fermata dell’autobus. Come se l’emancipazione e il progresso non fossero riusciti a estirpare quel senso di sottomissione femminile a un destino ingrato, di cui vergognarsi. Una specie di rassegnazione a una comune condanna che ci impone di stare nell’ombra di un sotterraneo, anche quando potremmo risalire in superficie. da lastampa.it Titolo: ELENA LOEWENTHAL Auschwitz e la memoria qualunquista Inserito da: Admin - Dicembre 22, 2009, 04:20:29 pm 22/12/2009
Auschwitz e la memoria qualunquista ELENA LOEWENTHAL L’insegna di Auschwitz è stata ritrovata fra le mani di cinque gaglioffi qualunque, che (forse) avevano eseguito il «colpo» su commissione di un misterioso collezionista. Nulla a che fare con rigurgiti di neonazismo né storpiature della storia: si è trattato di delinquenza comune e pure di terz’ordine, vista la velocità con cui malviventi e corpo del reato sono stati acciuffati. Un brutto affare, certo, ma nulla a che vedere con lo scandalo morale da molti additato appena «Arbeit macht frei» era sparito da in cima a quel terribile cancello. Il richiamo al neonazismo - fenomeno che non va affatto sottovalutato ma che qui non c’entrava nulla - è stato immediato, quasi naturale. Esclusa a priori la pista della banalità, quel furto è parso a quasi tutti un affronto alla storia, a quel passato inenarrabile, ai milioni di vittime. E invece si è trattato di un assurdo equivoco, dove un crimine qualunque ha avuto per cassa di risonanza un certo qualunquismo della memoria. Perché siamo ormai abituati a ritualizzare il nostro rapporto con il passato, in particolar modo quel passato di cui il cancello di Auschwitz è l’ingresso. E di conseguenza a caricarlo di una sacralità che, nel bene e nel male, lo rende qualcosa di astratto. Ma Auschwitz non è affatto un luogo sacro, tutt’altro: è reale, vero, terribilmente concreto. Se allora fosse sparita quella targa, le SS non ci avrebbero pensato su due volte: ne avrebbero fatta fare un’altra, uguale. Perché nulla, lì dentro, nel campo e nelle camere a gas e nei forni crematori, nulla è mai stato un simbolo, ma solo e soltanto una tremenda verità di carne e sangue. Invece, la ritualizzazione della memoria procede nel senso opposto, trasformando tutto in simboli più o meno evanescenti, carichi di allusioni magari inafferrabili. Ormai abituata a trasformare le cose in simboli - vuoi per ragioni di comodità, vuoi perché così è più facile ridurre tutto a ricorrenza, a celebrazione collettiva - la memoria collettiva finisce per produrre banalità, e si ritrova a caricare una targa di ferro battuto di significati che non ha mai avuto. Per questo il furto di quella insegna è sembrato inevitabilmente un esproprio della memoria, di quel passato - e un crimine così potevano averlo compiuto solo dei neonazisti, non certo dei malfattori comuni. Come su una linea di partenza tanto invisibile quanto netta, è scattato il grido allo scandalo, alla profanazione. Ma quale profanazione, se Auschwitz è il luogo più profano e infame che l’umanità sia mai stata in grado di concepire? La riduzione della memoria a un catalogo di simboli non rende onore alle vittime, e nemmeno al nostro così disorientato presente: rischia invece di banalizzare il ricordo, facendolo dipendere da una targa di ferro battuto che, con gli occhi a terra e il cuore pieno di uno sgomento inenarrabile, i milioni di prigionieri passati lì sotto non hanno quasi mai fatto in tempo a vedere. da lastampa.it Titolo: ELENA LOEWENTHAL Tiger Woods: lo riprenderei in casa ma perdonarlo mai Inserito da: Admin - Febbraio 20, 2010, 11:15:57 am 20/2/2010
Tiger Woods: lo riprenderei in casa ma perdonarlo mai ELENA LOEWENTHAL Se io fossi la moglie di Tiger Woods sarei arrabbiata. Molto. Ancora? Sempre di più, anzi. Se io fossi la moglie di Tiger Woods…, non è mica che queste cose passano così da un giorno all’altro, come se non fossero mai successe. Anzi. È sempre peggio. Perché più trascorre il tempo e più affiorano i ricordi, mordono i sospetti. Più si rimugina su quel che è stato detto e quello che invece no. Sui sorrisi mal riposti e le scuse pietose prese per buone. Il tempo, invece di farle svanire, moltiplica le donne con cui mi ha tradito, le bugie, le ipocrisie. Le ingiustizie subìte di cui nessuno mai mi ripagherà. Sono cose che capitano da sempre e che sempre capiteranno, ma quando succede a te è come se fosse la prima volta al mondo: pensi di conoscere un uomo fino alla radice dei capelli, e ancora più giù. Dentro. Invece ti sbaglii. E non per colpa di una scappatella. Un’idea balzana. Un bicchiere di troppo. Macché. Perché quel lui lì che mi dormiva accanto (quando non era nel letto di qualcun’altra), mica era lui. Era un altro. Sessuomane, malato di donne. Affamato di non si sa bene che cosa. O forse è proprio il contrario: il lui vero è quell’altro, non il mio. Quando mai saprò dov’è la verità? Certo, adesso che ha confessato a mezzo mondo, io non ne so di più. Qual è, il vero Tiger? La star con il capo coperto di cenere, che si dichiara umiliato, contrito, pieno di vergogna? Che ammette di avere pensato che le tentazioni fossero un suo diritto? Oppure quell’altro che saltava da una donna all’altra, purché fossero tante e casuali? Nessuno mi convincerà mai più di una cosa né dell’altra, perché la cosa peggiore che ti lascia dentro il tradimento, è la diffidenza. E quella non te la togli più di dosso - come un’intolleranza alimentare, una cicatrice indelebile. Mio marito può ammettere quello che vuole, pubblicamente. Ma con me, come ha detto giustappunto, c’è ancora molto lavoro da fare. Non so nemmeno io che cosa consigliargli. Non so che cosa voglio da lui. Silenzio? Parole? Non so nemmeno che cosa voglio da me stessa, del resto. Di sicuro non cerco vendetta. Noi donne non ce l’abbiamo come riflesso condizionato. Ogni tanto ci scappa pure, ma mica guarisce. Infilarmi nel letto di un altro servirebbe solo a immaginare lui, Tiger, una volta di più in un letto sbagliato - comunque non il mio. E il tempo, purtroppo, moltiplica i ricordi, fa bruciare ancora di più le fantasie, riempie la testa di rabbia e rimorsi. Se io fossi la moglie di Tiger Woods forse sì, forse potrei anche riprendermelo in casa, un giorno. Con gli occhi bassi e le spalle che vanno su e giù al ritmo dei singhiozzi. Quello forse sì. Ma perdonare no, proprio no. da lastampa.it Titolo: ELENA LOEWENTHAL Divorzio, per dirsi addio un anno è abbastanza Inserito da: Admin - Febbraio 23, 2010, 11:02:17 am 23/2/2010
Divorzio, per dirsi addio un anno è abbastanza ELENA LOEWENTHAL Un anno per dirsi addio? Sembra un tempo ragionevole, capace di lasciare spazio a ripensamenti, propositi in sospeso, spiegazioni. Intanto, in commissione Giustizia della Camera procede con calma l'esame di diverse proposte di legge per il cosiddetto divorzio breve: non più tre anni dalla comparsa dei coniugi in tribunale per l'avvio della separazione legale, ma «soltanto» uno. Il provvedimento, che ha per relatore Maurizio Paniz del Pdl, è ancora allo studio (sono previste diverse modalità e limitazioni, come quella di accordare questa «contrazione» dei tempi solo in caso di separazione consensuale), ed è prevedibilmente trasversale. Maggioranza di governo e opposizione si stanno insieme occupando del caso, perché non c'è forse realtà più bipartisan della famiglia, con i suoi guai. E soprattutto, con le nuove sfide che essa si trova ad incontrare, nel bene e nel male. La strada è questa sin dal 1987, quando quella specie di limbo che sta fra la separazione e il «non essere più sposati» con Tizio o Caio durava ben cinque anni. Da allora molte cose sono cambiate, l'istituzione del matrimonio ha subìto ciclici alti e bassi, ma certamente non è più quella condizione imprescindibile di prima, come raccontano le tante coppie di fatto la cui storia è non di rado all'insegna di una stabilità consapevole - e durevole, malgrado le funeste previsioni dei molti detrattori. Sposarsi, che lo si voglia o no, ormai da qualche anno non è più l’unico sistema «efficace» per mettere su, e conservare intatta, una famiglia. Il divorzio breve (che, dopo la separazione, si badi bene, non è un obbligo, ma una possibilità), si innesta in una situazione sociale in cui la presenza di diverse alternative di vita dovrebbe garantire una maggior libertà e soprattutto la responsabilità nella scelta. Di unire, certo. Ma anche di dividere, quando le cose non funzionano. Il fronte cattolico protesta e chiama in causa la minaccia dell’instabilità: un anno soltanto per pensare al proprio passato matrimoniale costituirebbe l'ennesima mina vagante che attenta alla famiglia. Ma il fatto è che quando ci si presenta dal giudice per una separazione, nella stragrande maggioranza dei casi la famiglia già non esiste più. Perché separarsi non è, né mai dovrebbe essere, una decisione da prendersi alla leggera, come se niente fosse: davanti al giudice, quasi tutte le coppie arrivano devastate. Con alle spalle una lunga sofferenza che è l’unica cosa ormai che accomuna i due. E dopo la separazione legale, si crea per entrambi i coniugi - adesso per tre anni, forse fra non molto per uno «soltanto» - uno status ambiguo: sei ancora sposato/a con Tizio/a a tutti gli effetti, anche se la tua vita se ne va per una strada completamente diversa, anche se magari non sai più nulla di lei/lui, anche se, come non di rado succede, hai qualcun altro al tuo fianco. Dopo i tre anni, che forse presto saranno ridotti a uno, il divorzio si limita a ridare coerenza legale all’esistenza del coniuge separato, che «riconquista» ufficialmente uno stato libero di fatto acquisito a suo tempo con la separazione, a prezzo di litigi e sofferenze, di discussioni, aspri contrasti e tutte quelle cose che solitamente accompagnano lo scioglimento di una unione. Questo «intervallo» in cui ci si trova in una strana posizione di «sposati ma anche no», costituisce spesso un intralcio per le ulteriori scelte di vita, e comunque sigla una condizione imprecisata, equivoca. Ben venga, dunque, la sua riduzione a un anno. Che, ad ogni buon conto, è un tempo più che ragionevole per riflettere, e casomai ripensarci su. Elena.loewenthal@mailbox.lastampa.it da lastampa.it Titolo: ELENA LOEWENTHAL Insieme nel buio dell'anima Inserito da: Admin - Aprile 09, 2010, 11:27:02 am 9/4/2010
Insieme nel buio dell'anima ELENA LOEWENTHAL Che cosa avrà detto Federica a Mattia, prima di stringerselo addosso e buttarsi nell’acqua, per morirci insieme? Quando una mamma ti abbraccia forte non c’è nulla da temere, no? E infatti li hanno trovati così, loro due, ancora avvolti l’uno nell’altra, con i pigiami addosso. Il cane, invece, è riuscito a divincolarsi, e s’è salvato. Girava ansimando intorno ai corpi di mamma e figlio, spaventato e forse incredulo. Lo siamo anche noi, pur da quella comoda e apparentemente insormontabile distanza che separa la nostra normalità dai drammi più tremendi: fa paura, una madre che si uccide e non può fare a meno di portare con sé il figlio di otto anni, in quel laggiù ignoto che è la morte. È questo il volto oscuro, quello vero, della depressione. Quanto abusiamo di questa parola. Basta un niente, un po’ di malumore, il tempo che cambia, un contrattempo insignificante, per farci esclamare: «Sono depresso!». «Poverina, è depressa...», ingigantendo il malessere. È quasi come se ad ogni brucior di stomaco fosse lecito dichiarare che un tumore ci infesta lì dentro. Invece la depressione, quella vera, è un male terribile. Nero e muto che mette paura in chi ce l’ha e in chi la vede. È una fatica di vivere di fronte alla quale a volte ci si arrende come ha fatto lei, e ci si arrende con una tale violenza da decidere di portarsi dietro tutto ciò cui si vuol bene. Un figlio. Il suo cane inseparabile. Due libri di fiabe. Federica era una bella ragazza di trentacinque anni. Mattia un bambino dalla dolcezza irresistibile e con due occhi vispi e intelligenti. Ha deciso di farla finita che era notte, ha preso Mattia, Amedeo - il cane beagle che è una delle razze più miti che ci siano -, e due libri di fiabe rimasti sul sedile dell’auto. Perché? Con tutta probabilità, questa domanda non avrà mai risposta: chi sceglie la morte invece della vita forse lo fa proprio per non dover rispondere a quel «perché?». Federica aveva alle spalle una separazione. «Molto civile», a detta di tutti. E un’altra storia d’amore, molto - troppo - travagliata. Son cose tristi, il più delle volte dolorose. Ma quasi normali. Capitano. Sono traumi, magari lo restano per molto tempo. Si superano o ci si convive. E la cassa integrazione, certo. Ma Federica si era rimboccata le maniche, studiava. Qualcosa, anzi quasi tutto ci sfugge di questa storia. Prima di ieri verso le 4 del mattino, tutto sembrava protetto da una tenue luce solare: qualche guaio, certo. Ma niente di terribile, di insormontabile. Poi s’è fatto tutto buio. E in quel buio lei ha creduto di non avere altra scelta che portare Mattia con sé: per risparmiargli, forse, il terribile male di vivere che lei aveva incontrato. O forse per trovare la forza di compiere quel gesto: un figlio ti fa fare quasi ogni giorno cose che non credevi di essere capace di fare. Di solito dentro la vita. Nel caso di Federica, forse, verso la morte. Forse, è stata travolta da uno straziante delirio d’onnipotenza, che poi è un modo folle di volere bene: sei la mia creatura e vieni con me. Non lo sapremo mai, perché una madre che si uccide portando con sé il suo bambino non può che restare un mistero insondabile. Però, ed è forse l’unico modo per stare loro vicini anche se è troppo tardi, possiamo provare a immaginare la paura che li ha tenuti abbracciati sino all’ultimo. E anche quando tutto ormai era finito. da lastampa.it Titolo: ELENA LOEWENTHAL Quando la casa diventa l'inferno Inserito da: Admin - Maggio 12, 2010, 09:54:42 am 12/5/2010
Quando la casa diventa l'inferno ELENA LOEWENTHAL Giampiero ha ucciso Cristina con cinquanta coltellate, davanti all’assistente sociale. Cinquanta coltellate sono un oceano di rabbia, un abisso di orrore cieco. Come si fa a uccidere, e così, qualcuno che si è amato, con cui si è condiviso tutto, e messo al mondo due figli? Eppure, la violenza in famiglia non ci stupisce, nemmeno quando è così efferata. Accanto alla condanna, fa capolino una sorta di rassegnazione sociale al fatto che fra le mura di casa - o al centro di un consorzio per le separazioni coniugali, come è capitato ieri a Collegno, vicino a Torino - può succedere, e succede di tutto. La famiglia è forse oggi più che mai il nostro rifugio. Il luogo dove troviamo quella identità che altrove sembra fare acqua da tutte le parti. E’ la nostra ultima, ma amata spiaggia, dove siamo noi stessi più che mai, negli affetti, nelle nostre potenzialità «creative», nel nostro quotidiano esercizio di umanità. Però è altrettanto vero che questa famiglia - niente affatto ideale bensì vera, in carne ed ossa - è in crisi. E la frase più comune che si sente dire, quando un matrimonio finisce e un’unione si spezza con inevitabili strascichi di vario genere, la frase più comune che si sente dire a proposito di quel partner che ora sta dall’altra parte del fiume e prima si aveva accanto, è: «Non lo riconosco più», «Non è la stessa donna che ho sposato». E’ un modo per accettare la fine, per scendere a patti con la separazione - che la si sia voluta o subita. Questo disconoscimento del coniuge è però anche e soprattutto l’unica via disponibile per non demolire la famiglia in sé. Non è quella che non ha funzionato, è lui/lei che è diventato un altro. Forse, la realtà non sta né su una sponda né sull’altra ma, come capita spesso, nel mezzo. Perché è proprio la famiglia, teatro della nostra vita ma anche, e purtroppo non di rado, di violenza e financo di morte, ad avere in sé questo doppio volto. Uno amabile, luminoso, o anche soltanto di accettabile teatro della nostra vita. E l’altro oscuro, inafferrabile. Capace di capovolgersi da un momento all’altro, quando un equilibrio si spezza, un nervo è scoperto. E allora, non è il nostro partner a diventare un’altra persona, terribilmente irriconoscibile, ma la vita stessa. Quelle mura domestiche che sino a un attimo prima erano «casa» e poi diventano inferno. Difficile sapere o anche solo intuire come mai la famiglia abbia in sé questa tremenda potenzialità. Difficile più che mai, come dimostra la morte di Cristina ieri dopo cinquanta coltellate infertele dal marito con cui stava «trattando» una separazione civile, prevedere che questo ti possa capitare per mano della persona con cui hai condiviso tutto, compresa magari la fiducia nella famiglia, per te e per i tuoi figli. elena.loewenthal@mailbox.lastampa.it http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7336&ID_sezione=&sezione= Titolo: ELENA LOEWENTHAL La politica cambia volto Inserito da: Admin - Maggio 14, 2010, 11:04:14 pm 14/5/2010
La politica cambia volto ELENA LOEWENTHAL L’austerità? Ben venga. Anche al salone del libro, sempre che, come capita quest’anno, di austerità della politica si tratti. Siccome la kermesse elettorale ce la siamo lasciati da poco alle spalle e non ci sono convocazioni all’orizzonte, quest’anno niente comizi travestiti da dibattiti, niente codazzi dietro aspiranti parlamentari in tenuta d’ordinanza che sfrecciano fra un padiglione e l’altro. Meno male. Ben venga fra i libri l’austerità (foss’anche latitanza) della politica. Il che non significa che la politica sia assente dal salone. Se ne parla eccome. Ma con un respiro più ampio, recuperando il senso originario di interesse comune. Oggi, in Sala Rossa, alle 16,30 lo storico Luciano Canfora ci illuminerà su «Pericle e l’invenzione della democrazia». E non si può negare che sia politica anche il dibattito delle 15, sempre in sala Rossa, sul peso della Chiesa in Italia (con Chiaberge, Giorello, Introvigne). Per evadere da questi spinosi territori, niente di meglio che un’avventura nel bosco con Anna Curti ed Elena Accati, alle 11,30, ai laboratori di scienza, per conoscere le piante. Anche il libro di Cataluccio, di cui si parla con Gad Lerner alle 18 al Caffè Letterario, ha un che di confortante: «Vado a vedere se di là è meglio». Niente propaganda elettorale al salone. Anzi sì. Perché, quasi a dispetto della salutare assenza di una certa politica, quest’anno qui si vota davvero. Le «urne» sono sparse per tutti i padiglioni, sotto forma di eleganti, minimaliste postazioni elettroniche. Basta esibire davanti allo schermo il biglietto d’ingresso, e si diventa elettori. Niente politica, per fortuna, né schede elettorali formato tovaglia. Si vota uno fra tre grandi scrittori finalisti del Premio Salone Internazionale del Libro. Questa sì che è democrazia. http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7352&ID_sezione=&sezione= Titolo: ELENA LOEWENTHAL Attenzione: i libri ci guardano Inserito da: Admin - Maggio 17, 2010, 06:52:05 pm 17/5/2010
Attenzione: i libri ci guardano ELENA LOEWENTHAL Se noi guardiamo i libri, è anche vero che al Salone loro guardano noi. Chissà che cosa pensano e che cosa si dicono, della fiumana di gente che scorre fra i corridoi, si ferma agli stand, butta l’occhio, sfoglia, lascia o compra. Perché anche gli umani sono protagonisti su questa scena, mica solo i libri. Gli umani e le loro puntuali migrazioni. Al Salone questa specie animale fa un po’ come i monsoni, regolari e costanti nella loro stagionalità. Ad esempio: il giovedì e oggi, lunedì, son giorni da gruppi scolastici – età variabile dai 3 anni all’università della Terza Età -. Zaini in spalla, gelati che colano, schiamazzi da vertigine di mattinata bigiata. Stamane, a partire dalle 11 in Sala Gialla, le scolaresche adottano scrittori o parlano con gli scrittori già adottati (si sa, questa specie è tanto bisognosa d’affetto). Il venerdì è il giorno degli «addetti ai lavori», per i quali il Salone è un salotto: ci si incrocia, si chiacchiera, si spettegola (molto), si progetta (un po’ meno), se non ci si incrocia ci si aggira in cerca di qualcuno da incrociare. Sabato e domenica: forestieri e famiglie (o famiglie forestiere). Passeggini dai quali ben presto vengono fatti sloggiare i pupi per lasciar spazio agli acquisti. Chissà che cosa ne pensano i libri, di questa varia umanità. http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7361&ID_sezione=&sezione= Titolo: ELENA LOEWENTHAL Le regole del nuovo modello di famiglia Inserito da: Admin - Giugno 18, 2010, 05:06:13 pm 18/6/2010
Le regole del nuovo modello di famiglia ELENA LOEWENTHAL La vita è fatta di piccole e grandi tragedie. Soprattutto delle prime, a quanto lascia intendere lo studio della prestigiosa London School of Economics.Cci viene spiegato qualcosa che sembra un’evidenza, ma finché non te la trovi davanti così seriamente documentata stenti quasi a crederci: i matrimoni finiscono, il più delle volte, per delle ragioni banali, ma vere. Non di rado per un equivoco in quel gioco delle parti che è il presupposto d’ogni vita di coppia: se lui si sente in obbligo di riparare lavandini che perdono, avvitare impervie lampadine, sappia che farebbe meglio a lavare i piatti e passare l’aspirapolvere. Nella famiglia moderna l’interscambiabilità dei ruoli è essenziale. Il principio è ovvio: se lei porta a casa reddito, perché lui non dovrebbe rifare il letto o cambiare il pannolino al pupo? Eppure la realtà non corrisponde alle regole, e il modello attuale di famiglia è minato non tanto da vigliacchi tradimenti o crisi esistenziali, quando dallo stillicidio della quotidianità. Il marito deve sapere di essere a rischio se non è disposto a dare una mano nelle pulizie, se non fa la spesa, se non si occupa dei figli – non per impartire ramanzine ma anche e soprattutto per portarli a ginnastica o aiutarli a fare i compiti. In particolare, è deprecabile il marito che si rifiuta di mettere a nanna i bambini (cosa che non di rado è un’operazione snervante almeno quanto un cliente moroso o un attacco di narcisismo del capo). Questo ed altro basta per arrivare a un divorzio, non in nome di alati sentimenti o romantiche passioni (alternative). Piuttosto, con i piedi saldamente per terra. Anche se in fondo, forse, basterebbe capirsi. Lei trova naturale essere aiutata in casa, visto che lavora fuori come e magari più di lui. Lui fatica a rinunciare al proprio ruolo, anche perché è piuttosto comodo. Lui fa finta di non vedere gli sguardi d’odio, lei alza le spalle e pensa, «lo sapevo che sarebbe finita così». La crisi arriva quando ormai il danno è fatto. Ed è un vero peccato, perché forse sarebbe bastata una spolverata, un bacio della buona notte, la tavola apparecchiata prima che lei torni a casa sfinita dall’ufficio, dopo l’ennesima riunione. http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7491&ID_sezione=&sezione= Titolo: ELENA LOEWENTHAL Le ragioni dell'amore Inserito da: Admin - Giugno 30, 2010, 10:20:24 pm 30/6/2010
Unioni di fatto Le ragioni dell'amore ELENA LOEWENTHAL Poeti e filosofi lo dicono da millenni. In fondo, non ci dicono altro, da che mondo è mondo. Eppure ci sono volute duemilacinquecento firme (raccolte da associazioni radicali e laiche) e relativa delibera di iniziativa popolare, per far sì che se ne accorgesse anche la politica: che l'amore è un vincolo. Non un capriccio né un passatempo, prima ancora che passione. E così, finalmente, attraverso una buona politica - che soddisfazione poter ogni tanto usare questo binomio di parole - approda all'anagrafe di Torino la dicitura «vincolo affettivo» come riconoscimento di unione civile. La delibera è stata approvata a larga maggioranza e con la consapevolezza che si tratta di un passo d'inizio verso una tutela più ampia e sostanziale. D'ora in poi, a Torino gli impiegati dell'anagrafe saranno autorizzati a rilasciare un attestato di famiglia anagrafica basato su una storia vecchia come il mondo: il vincolo affettivo. Sembra paradossale che tutto ciò costituisca, oltre a un'evidenza - l'amore lega! - anche un traguardo. Ma è soprattutto un punto di partenza verso un sistema di organizzazione civile meno astratto e più vicino alla realtà della vita. Perché questa storia a lieto inizio riguarda, certo, le circa cinquecento coppie omosessuali che con questa delibera possono trovare una prima forma di ufficializzazione. Ed è un passo non da poco. Ma riguarda anche le trentamila coppie eterosessuali che per tante e diverse ragioni non vogliono o non possono ricorrere al matrimonio. E soprattutto, riguarda la nostra idea di famiglia: che non è affatto scomparsa, come vorrebbero sociologi apocalittici e catastrofisti dell'etica. E' solo cambiata. Come da sempre l'amore è un vincolo, così da che mondo è mondo la buona politica si fa sul terreno delle cose, più che delle parole. La versione nostrana dei Pacs è tramontata molto in fretta sotto il peso di nomi tanto pomposi quanto buffi: i Dico e i Didorè (da non confondersi con la madama delle filastrocche) sentenziavano di «diritti e doveri delle coppie di fatto» ma hanno fatto un bel buco nell’acqua. Le solite storie all'italiana, la prevedibile inconcludenza di una politica che parla per codici ermetici. «Vincolo affettivo» invece non è l'abbreviazione di niente: ci dice come stanno le cose dentro migliaia di case, nella vita quotidiana e nei grandi momenti. Stabilisce che questo vincolo esige un riconoscimento, da parte della società, non offende nessuno e non limita la libertà di chi crede che l’unione tra un uomo e una donna debba essere sigillata dal matrimonio. Presuppone, senza tante formule vuote e assordanti discussioni parlamentari, che esso tiene insieme le vite e, mattone su mattone, giorno per giorno, costruisce una famiglia. Anzi, la famiglia in senso lato: quella vera, della vita, e quella astratta, dei principi. Prevede, con una formula - per una volta tanto in politica - niente affatto oscura, ma anzi chiarissima a tutti (senza distinzioni di età, sesso, cultura, travagli amorosi), che un'unione fondata sul vincolo affettivo è una cosa civile. Non un’eccezione, né una scappatoia, non un vicolo cieco e nemmeno un chiaro segno di dissolutezza. Sembra quasi impossibile, ma ogni tanto anche la politica è progresso. http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7538&ID_sezione=&sezione= Titolo: ELENA LOEWENTHAL Vacanze: i sommersi e i salvati Inserito da: Admin - Luglio 29, 2010, 11:42:14 am 29/7/2010 - IL CASO
Vacanze: i sommersi e i salvati ELENA LOEWENTHAL Le vacanze fanno bene a chi può permettersele. E’ il risultato di un’indagine condotta dal «Time» sulla pausa scolastica. Ma se c’è un momento in cui la famiglia è sottoposta a un destabilizzante cortocircuito, è proprio l’estate, quando mamma e papà continuano a far la loro vita, mentre la prole è in vacanza. I casi sono due: o la si spedisce da qualche parte oppure ci si rassegna a un picco di reciproca incomprensione fatto di orari sballati e nullafacenza spinta da una parte, frustrazione e affanno dall’altra. I nostri figli hanno almeno tre volte le ferie che abbiamo noi. Certo, non c’è che l’imbarazzo della scelta, per la prole: soggiorni rustici, viaggi studio, training sportivi. Sempre che si abbiano i mezzi per offrire ai figli scioperati valide alternative ai banchi di scuola chiusi per ferie. Tocca a tutti (più che mai a noi italiani con le nostre vacanze estive elefantiache), contrastare la «summer learning loss»: perché non andare a scuola non significa solo svagarsi, ma anche disimparare. Questa perdita può essere compensata, a patto di avere le risorse per «impiegare» i propri figli e far sì che l’ozio estivo diventi tale nel senso più nobile e latino del termine, invece di restare impantanato in una palude di rincitrullimento. La scuola, soprattutto quella primaria, prova a rimediare con i compiti delle vacanze, elargiti come un surrogato delle lezioni, non di rado in dosi mastodontiche. Senza neanche la fatica di dettare, visto che esiste una vasta letteratura di manuali appositi (e paradossali: come se il medico avesse lo stetoscopio per le vacanze, e il commercialista il modello unico da spiaggia). I compiti delle vacanze sono destabilizzanti per tutta la famiglia, mobilitata in una spiccia esecuzione per toglierseli di torno prima che rovinino i pochi giorni di ferie per tutti. Sono uno spettro per le famiglie. Non per gli studenti, uniti dalla inconfutabile certezza che quei compiti nessuno te li chiederà, a settembre. Perché, come si sa, anno scolastico nuovo, vita nuova (e compiti nuovi). elena.loewenthal@mailbox.lastampa.it http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7653&ID_sezione=&sezione= Titolo: ELENA LOEWENTHAL Il complesso del minore Inserito da: Admin - Settembre 26, 2010, 11:26:47 am 26/9/2010
Il complesso del minore ELENA LOEWENTHAL Fratelli coltelli, come sentenziano un vecchio detto e un film recente, senza mezzi termini né spazi d’equivoco? Quando si nasce con un buon pezzo di Dna in comune (e due fratelli sono la cosa geneticamente più vicina che ci sia), davvero non c'è spazio che per l’amore o per l’odio? Nella realtà della vita le cose sono - per fortuna - più complicate di così. Anzi, se c’è un rapporto complesso, intricato e fitto di sottintesi è proprio quello fra fratelli, in una gamma quasi infinita di sfumature. Per questo la vicenda dei due Miliband, candidati entrambi alla guida del partito laburista inglese e usciti l’uno vittorioso (il «piccolo» Ed, quarant’anni) e l’altro sconfitto (il maggiore David, quarantacinque anni, che ha perso la cappa per un punto e tre per cento), è curiosa non solo sul profilo politico, ma anche e forse persino di più su quello umano. Chissà che cosa si sono detti, che cosa si sono comunicati attraverso le parole, i silenzi e gli sguardi. Un fratello, a meno che la vita ti divida da lui o da lei molto presto, finisci per conoscerlo come le tue tasche. E se i gemelli condividono una specie di telepatia reciproca, e si «sentono» a distanza usando dei codici indecifrabili a tutto il resto del mondo, qualcosa di simile accade anche fra fratelli comuni, perché comunque, aver condiviso lo stesso grembo materno non è cosa da poco. Ne sa qualcosa anche la Bibbia, dove il rapporto fra fratelli è sondato nel profondo dei sentimenti. In quell’atavico susseguirsi di generazioni che il testo sacro ci narra, è quasi sempre nella dialettica fra fratelli che i grandi nodi vengono al pettine e la storia diventa capace di stupire, di sovvertire i destini in un modo imprevedibile. Caino e Abele, protagonisti del primo, precoce omicidio (necessariamente un fratricidio, visto che l’umanità era ancora tutta lì). Ma anche dell’affermarsi di una giustizia armata di clemenza, quando Dio vieta di far del male al bieco colpevole in fuga. Poco più avanti troviamo un sorprendente capovolgimento di quelle regole che paiono ovvie, naturali. In una società primitiva come quella dei patriarchi, dove la primogenitura è un valore essenziale - che comporta la consegna del patrimonio e delle benedizioni disponibili dal cielo al figlio maggiore -, succede più di una volta che il minore abbia la meglio. Giacobbe estorce quel supremo diritto e ottiene la benedizione dal vecchio padre cieco, con un bieco stratagemma e la connivenza della niente affatto imparziale madre Rebecca: si copre la mano con un pelo d’animale e finge d’essere il peloso Esaù, che gli aveva appena venduto la primogenitura in cambio di un succulento piatto di minestra. Una generazione più tardi, fra i tanti figli di Giacobbe sarà Giuseppe a incassare la quota maggiore di benefici terreni, dopo aver subìto le angherie dei tanti fratelli maggiori. In sostanza, paiono dirci queste epopee, quando si tratta di famiglia e fratelli non bisogna mai dare nulla per scontato, e anzi essere pronti a repentini, sorprendenti scambi di ruolo. elena.loewenthal@mailbox.lastampa.it http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7876&ID_sezione=&sezione= Titolo: ELENA LOEWENTHAL Non sempre la tv fa male ai bambini Inserito da: Admin - Ottobre 03, 2010, 12:15:13 pm 3/10/2010
Non sempre la tv fa male ai bambini ELENA LOEWENTHAL Un libro è meglio? Non è detto che sia sempre così. Non a priori, comunque. L’assunto del nuovo libro di Desmond Morris - il celebre etologo e antropologo inglese -, che uscirà martedì in Gran Bretagna con il titolo di «Child» (Bambino), potrebbe sembrare una pura provocazione, ma a ben guardare non lo è. Un approccio «zoologico» all’essere umano, che egli considera né più né meno di un primate senza (quasi) peli, ha permesso allo studioso di affrontare in modo originale e creativo il comportamento della nostra specie, sin dai tempi de «La scimmia nuda», pubblicato nel 1967. In questo nuovo libro ci spiega, fra il resto, che è sbagliato forzare i piccoli a un’eccessiva generosità. E che per un bambino è meglio l’asilo della mamma: nel nostro Dna tribale i piccoli crescevano insieme, non in isolamento affettivo. A spedirla al nido o alla materna, insomma, si fa un favore e non un dispetto alla prole. Almeno secondo i dettami dell’etologo. Ma questo è niente, al confronto con la decostruzione che Morris lancia quando si arriva a temi caldi quali la televisione. Bando agli snobismi, dice: per i bambini in età prescolare lo schermo è meglio di un libro! Ebbene sì, non è una svista né un colpo di testa, ma una articolata argomentazione. Ormai da decenni vige nel mondo occidentale un dogma inespugnabile: leggere è un valore. Leggere fa bene più di qualunque altra cosa. Questo «oltranzismo» è indubbiamente efficace e financo necessario, per guidare i nostri figli scolarizzati sull’unica via che non porta a un analfabetismo, che sia di andata o di ritorno. Ma è altrettanto vero che la lettura non è un pregio di per sé: moltissimo dipende dall’oggetto, cioè dalla pagina che ci si ritrova per le mani. Fra il Mein Kampf e la Divina Commedia corre una sostanziale differenza. Un libro può essere anche un pessimo maestro. Prima di accostarsi alle istruzioni educative di Morris, è dunque bene spazzare via il luogo comune secondo cui per i nostri figli il libro è bene e la televisione è male - a prescindere. Un bambino in età prescolare, spiega l’etologo, è decisamente più stimolato da un cartone animato che dalla voce monotona e magari svogliata di un genitore. Lo schermo offre infatti una pluralità di impulsi - voci, suoni, colori, musiche - capaci di garantire un migliore e più completo sviluppo cognitivo nella prima infanzia. Il libro, che ha necessariamente come tramite una voce adulta, offre invece una stimolazione piatta, univoca. Ma accende la fantasia!, esclamano sdegnate le schiere di detrattori preallertati. Certo è che, senza dover convincere fino in fondo, la tesi dello studioso per un verso solletica la coscienza, per l’altro assopisce i sensi di colpa che la nostra generazione di genitori sa interpretare con inaudito virtuosismo. La mamma al trucco e parrucco prima di correre in ufficio non sentirà più un groppo in gola di patema piazzando il pupo davanti ai cartoni mattutini (mica per niente li programmano a quell’ora…) e il papà insegnante, dopo essersi sgolato in classe tutto il giorno, potrà serenamente azionare il telecomando, invece di aprire un libro. Perché questi non sono gesti particolarmente esecrabili o nocivi, ma fanno parte della vita insieme ai propri figli. E al di là della portata provocatoria di queste tesi «zoologiche» applicate a un’umanità teoricamente (ma non sempre all’atto pratico) evoluta, Morris ci guida lungo una strada molto saggia ma soprattutto inevitabile: quella di non dare per scontato nulla, in fatto di educazione alla vita. Che è poi quella giusta da impartire ai propri figli. Evitare dogmi, luoghi comuni, comode certezze. Rimboccarsi le maniche ed essere pronti ad affrontare l’imprevisto, disponibili a rivedere le opinioni assodate. Sono proprio i nostri figli a imporci di star dietro ai cambiamenti - che siano un numero in più di scarpe ogni mese o un mondo fortunatamente incapace di stare fermo dov’è. Elena.loewenthal@mailbox.lastampa.it http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7908&ID_sezione=&sezione= Titolo: ELENA LOEWENTHAL La violenza dell'indifferenza Inserito da: Admin - Ottobre 13, 2010, 05:16:05 pm 13/10/2010
La violenza dell'indifferenza ELENA LOEWENTHAL Un attraversamento pedonale con le strisce zebrate. La banchina di una metropolitana in un’ora di punta. Luoghi dall’apparenza neutra, persino inoffensiva. Se non fosse che in questi ultimi due giorni sono diventati teatro di una violenza bieca, assurda. A Milano un taxista ha inavvertitamente travolto un cane libero da guinzaglio, a Roma una giovane donna ha battibeccato con un ragazzo per una precedenza in coda, come capita infinite volte. Entrambi sono finiti in coma, con grave trauma cranico. E di fronte a casi del genere non ci si può esimere da una domanda tanto banale quanto imperativa, pur sapendo che la risposta sarà necessariamente ambigua, parziale. Che non ci aiuterà a capire. E tuttavia il «perché è successo?», il «come è potuto accadere?» non possono non essere un tormento, per tutti noi. Il caso più recente, quello al capolinea Anagnina della metropolitana capitolina, è terribile proprio perché scatenato da una circostanza talmente comune che non facciamo alcuna fatica a ricostruire la scena iniziale. Ne siamo stati protagonisti tante volte, da una parte o dall’altra: una fila di persone in coda davanti a uno sportello, una rivendicazione di precedenza, il diverbio che ne nasce con l’inevitabile coinvolgimento di qualcun altro in attesa. Qualche insulto e qualche brontolio che risuonano nel trambusto mattutino. Di lì in poi, l’esito agghiacciante e imprevedibile. Altre parole, spintoni, e un pugno in faccia. L’infermiera trentaduenne cade a terra immobile, l’aggressore ventenne se ne va. E poi, passa un bel po’ di tempo prima che qualcuno si renda conto della gravità di quella scena. Intanto, la gente passa, sale e scende dalla metro, nessuno pensa di fermarsi accanto a quel corpo esanime, allungato per terra. Così come sulla strada milanese una domenica mattina, anche questa scena si consuma in un luogo di passaggio, di transito. Un non-luogo che non appartiene a nessuno e dove teoricamente nessuno ha nulla da rivendicare, un territorio neutrale dove siamo tutti di passaggio e che dovrebbe essere incapace di generare conflitti. E invece, difficile dire se quanto è successo sia una scena più adatta a un film dell’orrore o a una tragedia dell’assurdo, quel che è certo è che appartiene alla realtà di una mattina romana come tutte le altre. Al di là del danno subito fisicamente dalle vittime, questa è certamente la cosa più preoccupante di tutte: il fatto che sia successo per davvero, e non in una finzione cinematografica. Le due vicende, quella milanese sulle strisce pedonali e quella romana allo sportello della metropolitana, sono al di fuori di ogni possibile «catalogazione» razionale o emotiva. Per questo, le domande sul perché, sul come sia potuta succedere una cosa del genere, non trovano un azzardo di risposta. C’è troppa violenza per potere tirare qualunque somma. C’è una violenza gratuita, come la violenza è sempre perché in fondo se ne potrebbe sempre fare a meno. Ma c’è anche e soprattutto una violenza imprevedibile, capace di scatenarsi con una facilità spropositata, come se fosse stata lì in agguato ad aspettare il momento propizio, la scusa più blanda per venire fuori e far finire in coma due persone. Anzi, di violenze ce ne sono due. Certo differenti per grado e dato di colpevolezza, eppure in qualche modo parallele. Ci sono la rabbia e i pugni da una parte, e il distacco dall’altra. In entrambi i casi, tanto a Milano quanto a Roma, è passato del tempo prima che il corpo al suolo venisse degnato d’attenzione. In quel terribile intervallo, è stato come se nulla fosse successo. O peggio ancora, come se quel che era appena successo non riguardasse nessuno di noi. Quanto è durato, quel tempo sospeso? Una manciata di secondi? Qualche minuto? Certamente, un’eternità di indifferenza. http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7948&ID_sezione=&sezione= Titolo: ELENA LOEWENTHAL Ma le escort sono salve Inserito da: Admin - Novembre 06, 2010, 04:02:59 pm 6/11/2010
Ma le escort sono salve ELENA LOEWENTHAL Da domani battere il marciapiede o il ciglio della provinciale sarà più difficile e soprattutto più rischioso. In strada, beninteso. Perché se si è professioniste del più antico mestiere del mondo al calduccio della casa propria o altrui, da domani non cambierà proprio nulla. Per non parlare di quella ormai larga fetta di prestazioni erotiche che si avvalgono della rete e che, in virtù della liberalizzazione di segno opposto per il web, saranno agevolate invece che intimidite dalla stretta governativa. La quasi ovvia considerazione che ne consegue è che tutto diventa più semplice se ci sono di mezzo i soldi. Bastano infatti un po’ di dimestichezza con il computer per «ottimizzare» il contatto con la clientela, un letto sotto e un tetto sopra la testa, per prostituirsi in santa pace. Senza dover temere quel foglio di via che da domani sarà elargito rigorosamente alle prostitute in flagranza di reato. Cioè, sempre che il reato ci sia. Cioè, solo se il mercimonio è esercitato in un Comune in cui il sindaco abbia emesso un’ordinanza che ne vieta l’esercizio – su strada. Se l’ordinanza c’è, da domani potrà partire il foglio di via. Ma mica per tutte, beninteso. Solo per le straniere. In primis extracomunitarie, poi anche le straniere d’Europa, per le quali l’espulsione è pressoché simbolica, vista la libera circolazione di merci e persone in vigore. In sostanza, il provvedimento è una bislacca sequenza di discriminazioni: è riservato ai Comuni provvisti di ordinanza (non è difficile prevedere una fulminea mappatura del nostro territorio, con indicazione dei Comuni sì e Comuni no). Riguarda solo la prostituzione di strada, quella che fa chi non ha le risorse per esercitare sotto un tetto. Punisce soltanto le prostitute straniere, e stabilisce una disparità di trattamento fra chi arriva da lontano e chi da vicino. Infine, ma non certo perché si tratti di una quisquilia, mette in secondo piano il cliente. Colui che, per dirla in parole povere, fa girare il mercato. Qui casca l’asino. A fagiolo e con un tempismo grottesco, vista la ribalta mediatica di cui in questi giorni gode (si fa per dire) l’«utilizzatore finale» (in senso astratto). Ma anche perché se nell’ormai arenato disegno di legge Carfagna le sanzioni contro la prostituzione prevedevano l’arresto o la multa per il cliente, nell’urgente provvedimento di oggi questo capitolo compare in secondo piano. Potrebbe diventare punibile sulla strada, ma non in quella comoda intimità del web di cui si avvalgono fornitrici di servizi provviste di casa e/o entrature in discoteche vip, e fantasmatici consumatori. Per loro, da domani sarà tutto ancor più facile di quanto già non fosse prima. elena.loewenthal@mailbox.lastampa.it http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8047&ID_sezione=&sezione= Titolo: ELENA LOEWENTHAL Ma un bambino è responsabilità Inserito da: Admin - Dicembre 29, 2010, 11:01:55 am 29/12/2010
Ma un bambino è responsabilità ELENA LOEWENTHAL Zachary è nato il giorno di Natale. Non è solo un bambino, e non è nemmeno un bambino come gli altri. E’ il coronamento di un sogno. E non un sogno qualunque, ma quello di due persone speciali come Elton John e il suo compagno di lunga data, David Furnish, che per il loro sogno si sono affidati a un utero in affitto. La sua è una storia bellissima, come dovrebbe essere sempre quella di un bambino che viene al mondo e noi guardiamo lui e lui ci guarda e c’è tutto da imparare daccapo, ogni volta che un bambino viene al mondo. Però non può non sollevare alcuni interrogativi cruciali, che in fondo ci riguardano tutti e niente affatto di lontano, anche se i genitori sono due persone famose che vivono in un universo interstellare irraggiungibile ai più. Zachary è il figlio di Elton e David, ma è anche il frutto di un grembo anonimo e di un decisione che non ha avuto come uniche armi l’istinto e l’amore, ma certamente anche la scienza e qualche cosa di altro su cui val la pena riflettere. Per lui, il piccolo Zachary, per tutti noi, per la piccola Ryleigh, la gemellina dai capelli rossi nata con undici anni di ritardo rispetto alle sue due sorelle. Che cosa ci spinge a mettere al mondo un figlio? Un bisogno irrefrenabile, terribile e bellissimo, cui non sei capace di dare un nome. Il desiderio di perpetuarsi, di lasciare qualcuno su questo mondo quando non ci saremo più. La voglia di specchiarci in qualcuno che non siamo noi, ma che è come se lo fosse. Fare un figlio è un atto d’amore. Viene dall’incoscienza e non dalla ragione, è un groviglio di sentimenti in cui il calcolo non c’è. Fare un figlio è quasi assurdo, se ci pensi: è una fatica e una responsabilità, è un catenaccio per la vita, è la negazione di quella libertà che credevi una conquista ma poi a un certo punto non ti basta più. Fare un figlio è la cosa più umana che ci sia, nel senso di uomini e donne insieme o ciascuno per conto suo. Ma per fare un figlio ci vuole, oltre all’amore, anche una speciale lungimiranza del sentimento che ti proietta da una dimensione della vita all’altra: è il senso di responsabilità che viene dall’amore. Sapere che dal momento in cui lo concepisci, anzi lo pensi o lo sogni di notte, un figlio ti prende la vita: non nel senso che te la ruba, ma che la moltiplica, la dilata, la trasforma in qualcosa che prima non c’era, questa vita. Bisogna saperlo, quando si fa un figlio con un atto d’amore, o in provetta, o chiedendo un utero in affitto, o compilando l’ennesimo modulo per l’adozione. Fare un figlio non è uno scherzo. E’ la cosa più seria che siamo in grado di fare, se lo vogliamo. Non è affatto detto che solo un famiglia normale e un travaglio di parto significano responsabilità, amore, cura e lungimiranza del sentimento. Le nuove frontiere del generare non sono affatto una garanzia di fallimento genitoriale. Sono, casomai, un’altra occasione per riflettere su quel che significa mettere al mondo un figlio, e non dimenticarselo mai. http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8237&ID_sezione=&sezione= Titolo: ELENA LOEWENTHAL Compromessa la dignità del premier, non la nostra Inserito da: Admin - Febbraio 12, 2011, 10:13:07 am 12/2/2011
Compromessa la dignità del premier, non la nostra ELENA LOEWENTHAL Non me la sento di scendere in piazza domani per difendere la dignità delle donne. Né la mia né quella altrui. Non vedo perché. Mi desta persino qualche perplessità la sigla della manifestazione. Non perché la considero una profanazione è il titolo dell’ultimo romanzo di Primo Levi, ma prima ancora un antico adagio rabbinico che invita alla responsabilità. Piuttosto, non colgo il nesso fra questo richiamo all’impegno e l’indignazione che sta alla radice di questa chiamata femminile. Perché mai le donne si sentono in dovere di difendere la propria dignità, alla luce di quell’oscena realtà che trapela da casa del nostro presidente del Consiglio (o dal suo aereo, o dalle auto della sua scorta, o dal suo telefonino)? Forse che gli uomini nel senso di maschi si sono sentiti in dovere di lanciare una manifestazione per difendere la loro, di dignità? Che a dire il vero mi sembra decisamente più violata della nostra. Loro, hanno per caso sentito l’impulso di prendere le distanze, di chiamarsi fuori da quel modello di maschio lì? Ci hanno forse detto, con rabbia e con dolore e con indignazione, che non sono tutti dei vecchi bavosi incapaci di amare o stabilire una relazione affettiva, e bisognosi invece di palpare parti intime femminili in quantità industriali, per sentire vivo il proprio corpo? Non mi pare. Eppure, se di dignità parliamo, quella dei maschi ne esce decisamente più malconcia della nostra. Perché in fondo, ma neanche tanto in fondo, in questa storia di festini, nudità, giochi stupidi e prestazioni in cambio di somme niente affatto irrilevanti, il nostro presidente del Consiglio a me pare più preda che cacciatore, più vittima che dominatore. La sua fragilità di maschio mi preoccupa ben più della compulsione sessuale. Quel suo non poter fare a meno di olgettine e palpatine, con l’evidente conseguenza che un folto gruppo di sciacquette più giovani di mia figlia (lui invece potrebbe esser mio padre) dispongono del suo numero di telefono, lo minacciano, lo ricattano e gli fanno pure la morale politica. Se non è caduta di dignità questa, ditemi cos’è. Quanto a noi donne, perché mai dobbiamo sentirci in dovere di dimostrare che non siamo tutte così, come quelle? A me pare ovvio. Persino bello, pensare che non siamo tutte uguali: vecchie e giovani, brutte e gnocche, intelligenti e oche. Scienziate, commesse, e puttane. Non capisco che cosa ci sia da indignarsi. Se l’emancipazione ci ha regalato una libertà sacrosanta, perché gridare allo scandalo? L’utero è mio e me lo gestisco io, per fortuna. Ma anche la dignità è mia, e me la gestisco io. E non ho intenzione di gestire quella altrui. Certo, sempre che non ci sia puzza di sfruttamento, soprusi, violenze. Ma non mi pare questo il caso, perché qui il coltello dalla parte del manico (e del portafoglio) ce l’hanno le olgettine, mica il presidente del Consiglio. Questo sì che mi preoccupa, ma non per la dignità delle donne. Per l’affidabilità di lui, così facile preda di istinti, ricatti e ingenuità di cui è capace solo chi deve fare i conti con la propria terribile fragilità. Per questo, dunque, non scenderò in piazza per la manifestazione “Se non ora, quando”. Perché non mi sento in dovere né di ribadire né tantomeno di dimostrare che io non sono “come loro” e che non tutte le donne sono “come loro”. Non tutte, ma alcune sì. Con ciò, non mi sento di ingiungere a nessuna, né a quelle che sì, sono così, né alle altre né a me stessa: “ora basta!”. Basta cosa? Elena.loewenthal@mailbox.lastampa.it da - lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali Titolo: ELENA LOEWENTHAL Bruna, sensuale, rubacuori: la Bela Rosin Inserito da: Admin - Marzo 04, 2011, 06:49:16 pm Cultura
28/02/2011 - Bruna, sensuale, rubacuori: la Bela Rosin Vittorio Emanuele II se ne innamorò quando lei aveva 14 anni. Gianni Farinetti la mette al centro del suo nuovo romanzo ELENA LOEWENTHAL Che donna. Bella? «Bella è bella, molto bella. Gran massa di capelli corvini, occhi scurissimi, carnagione perfetta. Il petto tutt’altro che acerbo»: parola di re. Ma anche di Gianni Farinetti, scrittore braidese prestato a Torino, fine giallista e grande appassionato della sua terra, che nella Regina di cuori, in uscita per Marsilio editore, ci regala un avvincente ritratto della Bela Rosin, alias Rosa Vercellana nonché contessa di Mirafiori (benché figlia di «un tamburo maggiore di Sua Maestà, uomo d’onore, un ottimo soldato fedelissimo alla dinastia»). A guardarla in foto, però, nella sequenza di ritratti più o meno ufficiali, questa donna è tutt’altro che ossequiosa ai canoni estetici: viso un po’ squadrato, lineamenti decisi, occhi troppo distanti, nasino non certo alla francese. Ma una bocca carnosa, inevitabilmente sensuale. E quella natura corvina che non è solo un colore di capelli ma una profondità fisica di tutto il corpo, stranamente in lei unita a un’infinita dolcezza. Bela? Sì. Ma non certo secondo i modelli di oggi: la Rosina Vercellana, se fosse vissuta un secolo e mezzo più tardi, non sarebbe diventata una modella, né una star e nemmeno una comprimaria da palcoscenico, con le sue abbondanze e i suoi tratti grezzi. Eppure il primo re d’Italia, Vittorio Emanuele II, se ne innamorò e l’amò per un lungo suo pezzo di vita. Di un amore certamente tumultuoso e passionale nel segreto delle loro stanze da letto, ma che visto da fuori e a distanza di tanto tempo fu soprattutto un amore pacato, domestico e familiare, rasserenante malgrado tutto. Invidiabile, decisamente. «Chi si piglia si assomiglia» (o forse viceversa) sembra fatto apposta per questa coppia dall’aria niente affatto regale: tracagnotti entrambi, però fieri. Sguardo dritto e profondo di chi sa cosa vuole dalla vita. Sotto sotto (ma neanche tanto) un’aria di campagna. Il giovane e a suo modo aitante Vittorio la vede per la prima volta affacciata a un balcone di Racconigi, alla fine dell’immancabile battuta di caccia (ci andava matto lui, ci andrà matta lei). È il 1847: lui ha 27 anni, quattro figli e uno in arrivo, è l’erede al trono del Regno di Sardegna. Lei di anni ne ha solo 14. Ma questa storia, piaccia o no, non c’entra niente con gli odierni caroselli pseudo-erotici del potere. È una storia di amore nel vero senso della parola, in e con tutti i sensi. Rosina darà a Vittorio due figli e la vita intera. Dopo la morte del re per una polmonite, nel 1878, lei gli «sopravviverà» (parole sue) sette anni. Prima, lo segue in tutte le tappe dell’Italia che si fa, sempre discosta. Ma sempre presente. Vittorio resta vedovo di Maria Adelaide nel 1855. Sono solo le pedanti, insistenti, tenaci manovre (e minacce) di Cavour a impedirgli di sposare ufficialmente Rosina. Ancora oggi resta il mistero su quelle nozze morganatiche contratte nel 1869 in articulo mortis (quando l’avevano precipitosamente dato per spacciato), ma forse anche prima - e comunque quando ormai Cavour e il suo cipiglio non c’erano più. I figli di Rosina, Vittoria ed Emanuele Alberto, portano «Guerrieri» per cognome. Erediteranno da lei il titolo nobiliare di conti di Mirafiori e Fontanafredda, acquisito nel 1859. Vittorio Emanuele II non la farà mai regina, la sua Rosina. Avrebbe voluto, ma glielo impedirono tante cose: pressioni politiche, veti dei figli «ufficiali», opportunità di ordine «mediatico». Ma certamente le case dove Rosina abitò - dalla Mandria a Venaria alla Pietraia nei pressi di Firenze, quando la capitale venne spostata lì, con grande cruccio e gravi disordini a Torino, alla Villa Mirafiori fatta costruire sulla Nomentana a Roma, apposta per lei - furono le vere case anche del re. Quelle dove trovava una vera famiglia, e un’aria vera di casa, con lei che lo aspettava per dargli tutto quello che una brava moglie sa dare a un marito. Certo, si vestiva in modo un po’ chiassoso, a un certo punto della vita sembrava un po’ troppo incline agli sfarzi - per quanto sempre relativi... E lui, d’altro canto, non mise mai a freno i propri istinti, incapricciandosi ogni due per tre dell’attrice di turno. Ma Rosina aspettava, paziente e fiduciosa. E lui sempre tornò, fino all’ultimo. Farinetti racconta e descrive questa storia, mettendo una volta tanto lei, la Rosina, al centro: non il re e nemmeno l’Italia in quegli anni cruciali, travolgenti. Tutto è sempre sullo sfondo di questo amore fatale eppure pacato, squilibrato (lei popolana e lui re) eppure perfettamente armonioso (erano fatti l’uno per l’altra). Un amore durato trent’anni, un’eternità, e un’infinità di momenti condivisi - a letto, certo. Ma anche a tavola (chissà perché, ce la immaginiamo cuoca provetta, la bela Rosin), la sera davanti al camino, a cavallo nei boschi, in passeggiata a braccetto per la vigna. DA - lastampa.it/cultura Titolo: ELENA LOEWENTHAL Una piccola speranza Inserito da: Admin - Marzo 28, 2011, 04:56:29 pm 28/3/2011
Una piccola speranza ELENA LOEWENTHAL I bambini nascono quando vogliono loro, non quando decidiamo noi. E sanno il perché, anche se non ce lo dicono. Yeabsera, ad esempio, ha deciso di fare capolino al mondo non in quel tragico luogo di transito che è la Libia in questi giorni. Non in un punto imprecisato di quelle migliaia di chilometri fatti di steppe, deserti, montagne, fame e sete e paura, che separa l’Etiopia dalle coste del Mediterraneo e che suo padre e sua madre hanno percorso in una fuga inimmaginabile, eppure vera. Macché: Yeabsera ha deciso di nascere sul barcone che trasportava quei due giovani profughi verso una specie di salvezza, una chimera lontana eppure, forse, vera quanto il loro quasi impensabile cammino. E così, il primo pezzo di terra che Yeabsera ha incontrato nella vita è stata l’isola di Lampedusa: un congestionato puntino nel mare. Eppure, in quel caos che è l’isola di questi giorni, in quell’emergenza cronica di barche, stranieri e ordinanze, malgrado i lampedusiani non si sentano comprensibilmente in vena di accogliere gli immigrati con danze e cocktail di benvenuto (smarriti gli uni, smarriti gli altri), malgrado il crescente sovraffollamento, ad accogliere Yeabsera sul molo c’erano le donne del paese con vestitini, panni e biberon. E così, anche se Lampedusa in questi giorni assomiglia più a un campo profughi che a una chimera come quella che papà e mamma inseguivano sin dal Corno d’Africa, per Yeabsera l’isola dev’essere sembrata una specie di paradiso terrestre, pieno di regali e sguardi per lui. A ben pensarci, lui ha fatto quello che tutti i bambini sanno fare, ciascuno a suo modo: ha deciso di nascere al momento giusto, anche se a noi adulti non sembra tale e crediamo che un moderno ospedale sia meglio di un barcone. Ma aveva ragione lui, perché contava su qualcosa che noi adulti ci siamo un po’ dimenticati. E cioè che ogni nascita è qualcosa di grande e meravigliosamente incomprensibile. Perché al di là della solidarietà e di un salutare appello al bene di cui (talvolta) l’uomo (soprattutto nel senso di donna) è capace, un bambino che nasce muove dentro di noi (uomini e donne) qualcosa che non sappiamo bene dove stia, a mezza strada fra il cuore e le viscere. E questa cosa che si muove lì dentro, risvegliando meccanismi magari arrugginiti, mettendo da parte per un attimo tutti gli altri sentimenti - e risentimenti -, ci spinge a fare cose. Come aprire un armadio e tirare fuori un bavaglino, magari ingiallito dal tempo e da vecchie macchie di latte. E correre a portarlo a una giovane donna che chissà come ha vissuto sino ad oggi, anzi ieri quando ha partorito in mezzo al Canale di Sicilia, a bordo di un barcone pieno di gente. Buona vita a te, Yeabsera, e a chi te l’ha data, questa vita strana e bella cui le donne di Lampedusa hanno dato il benvenuto. Elena.loewenthal@mailbox.lastampa.it da - lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali Titolo: ELENA LOEWENTHAL La scomparsa di Israele Inserito da: Admin - Aprile 17, 2011, 05:15:07 pm 17/4/2011
La scomparsa di Israele ELENA LOEWENTHAL In questi giorni concitati per il Medio Oriente e il Maghreb affacciato sul Mediterraneo, Israele è un osservatorio molto particolare. Dotato di una duplice prospettiva che è come una lente bifocale in contraddizione solo apparente. Le notizie e i sommovimenti sono percepiti per un verso nella loro dimensione strettamente geografica, di grande vicinanza. Israele è nell’occhio del ciclone, esattamente al centro di quell’immenso movimento che parte dall’Africa settentrionale e attraversa il mondo arabo dalla Tunisia alla Libia, lo Yemen, l’Egitto, la Siria e non pochi altri Paesi. Questa vicinanza fisica si accompagna, nella percezione dei media e nel modo in cui nello Stato ebraico vengono lette e interpretate le notizie, a una sorta di inedito distacco. Non è questione di priorità o dimensioni dei titoli, è qualcosa di più profondo. La vicinanza fisica da una parte e la distanza mentale dall’altra, risolvono la contraddizione in una specie di prudente stupore. Nella consapevolezza che qualcosa sta cambiando. Perché dalla Tunisia al Bahrein è successa e sta succedendo una cosa nuova. Israele non è più al centro. Non è più il fantasma, lo spettro, il demonio. Il nemico per eccellenza, che non va neppure nominato ma solo annientato: nemmeno «lo Stato d’Israele» ma «l’entità sionista». L’entità sionista è stata per decenni il presunto collante che ha tenuto insieme le masse arabe e l’islam. È servito al potere per rivendicare se stesso, per ottenere un consenso più urlato che sostanziale. E invece in questi ultimi mesi di Israele si è detto ben poco, dentro le rivoluzioni dell’islam. Qualche bandiera bruciata, certo. Qualche sporadico richiamo. Ma la voce «Israele» non è più il riflesso condizionato che fa puntualmente gridare le masse. Perché le lotte a questi regimi hanno ben altro a cui pensare: rivendicano i propri diritti, la libertà, governi meno corrotti. Vogliono benessere e una società civile degna di questo nome. Cose che, nel mondo della globalizzazione, sono note anche a chi non le ha. E le vuole. Nel bene della rivoluzione e nel male del terrorismo, come dimostra l’assassinio di Vittorio Arrigoni. A parte qualche delirio residuale che, come nel caso degli squali di Sharm El Sheikh non molto tempo fa, vede tutto e tutti al soldo del Mossad, questa tragica vicenda tiene fuori Israele dal problematico scacchiere che è Gaza oggigiorno, con i suoi giochi di potere interni. Come dimostra, del resto, l’eloquente e prudentissimo silenzio dell’Anp in questa vicenda. Per decenni i popoli arabi sono stati tenuti a bada con una strumentazione di potere che prevedeva in prima linea lo stereotipo di Israele fonte di tutti i mali e l’idea malsana che eliminando dalla faccia della Terra questo Paese tutto si sarebbe risolto. L’impressione generale è che queste rivoluzioni abbiano aperto una nuova fase in cui questo collante artificiale non tiene più. Le ragazze tunisine che chiedono la libertà di portare il velo o non portarlo nel loro Paese, non temono di dire che Facebook è stato il vero strumento di lotta per il loro popolo. Facebook: un prodotto dell’imperialismo americano, inventato da un ragazzo ebreo… Roba che fino a non molto tempo fa sarebbe stato un tabù politico. Pensiamo del resto al profilo assai basso scelto anche dall’Iran di fronte a quel che succede nell’universo islamico. I silenzi talora valgono non meno delle parole: Ahmadinejad è un po’ che tace, che non sputa più ad uso del mondo intero i suoi proclami contro Israele, le sue profezie d’annientamento. È un segnale importante di consapevolezza - quasi la prova del nove -, che questo genere di slogan non attecchisce più come una volta, su dei popoli in lotta per se stessi e non contro qualcun altro. da - lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/ Titolo: ELENA LOEWENTHAL I mobili contro la Costituzione Inserito da: Admin - Aprile 24, 2011, 05:58:40 pm 24/4/2011
I mobili contro la Costituzione ELENA LOEWENTHAL Due uomini si tengono per mano e, quasi timidamente si guardano. Che cosa abbia di incostituzionale l’immagine di due esseri umani uniti nel destino, nei sentimenti, e nell’atto di comprarsi i mobili di casa, resta un mistero. Forse il sottosegretario Carlo Giovanardi non ha colto l’ironia della nuova pubblicità dell’Ikea, che promette di soddisfare i bisogni di «ogni tipo di famiglia». E’ vero che la famiglia è una cosa sacra e lo è più che mai per noi italiani - peraltro avidi consumatori di mobili economici che vengono dal Nord Europa e ci danno, oltre a un modico comfort, anche la sensazione di entrare in un altro mondo, un po’ diverso dal nostro. Ma la famiglia non si giudica secondo parametri di genere, censo, idee. La famiglia è un luogo che appartiene solo a chi ci sta dentro. Chi - oltre a Giovanardi - può anche solo vagamente pensare che due uomini o due donne che si amano, vogliono costruire e magari ammobiliare qualcosa insieme, facciano qualcosa di contrario alla Costituzione della Repubblica? Per fortuna, l’Italia ha un’idea di famiglia non troppo diversa da quella che disegna il cartellone pubblicitario con due esseri umani che si tengono per mano. Anche se sono dello stesso sesso da - lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/ Titolo: ELENA LOEWENTHAL No, meglio il modello chioccia Inserito da: Admin - Maggio 08, 2011, 11:35:36 am 8/5/2011
No, meglio il modello chioccia ELENA LOEWENTHAL Mamme in carriera. Mamme da accudimento ad alto contatto. Mamme postmoderne. Mamme biologiche. Destrutturate e perfezioniste. Istintive e documentate. Chi più ne ha più ne metta. Se la varietà del creato è un pregio, i nostri figli non hanno certo da lamentarsi in fatto di assortimento. Però, a ben pensarci e a costo di cadere in un contagioso fanatismo affettivo, in fondo di mamma ce n’è una sola. Sempre lei. Quella che porta il nome con il niente affatto malcelato orgoglio dell’antonomasia. La mamma senza aggettivi, attributi (grammaticali), specificazioni: quella che basta la parola perché dice tutto. La mamma unica e inimitabile ha un paio di ali: non si vedono ma ci sono e servono per coprire i pargoli sin da quando le stanno dentro la pancia, perché in fondo anche quello è un posto pieno di insidie e pericoli. La mamma deve stare all’erta. Per questo allarga le ali e ce li tiene sotto più tempo che può e a prescindere dall’età. Quella non conta niente: se sei una mamma così, senza bisogno di aggettivi, tuo figlio può avere due o settant’anni, non cambia proprio niente. Insieme alle ali - che non servono per volare, figuriamoci, ma per coprire, proteggere, talora nascondere - quella mamma lì sviluppa a tempo di record anche una portentosa moltiplicazione dei sensi: udito, vista, olfatto (soprattutto questo). Le servono per individuare da abissale distanza tracce di sigaretta. Una impercettibile inclinazione della pupilla che comunica direttamente con un cuore spezzato. Un’incrinatura di voce nel declinare il bis di pastasciutta che tradisce un quattro di compito in classe. La mamma mamma queste cose le capisce al volo, perché lei è una specie di superuomo - anzi di più. La mamma mamma non è necessariamente colei che dichiara, con un misto di fierezza e frustrazione: i figli sono la mia ragione di vita. Anzi, la mamma mamma è consapevole di ricevere dai figli immensamente più di quanto non dia loro, giorno per giorno. Però a ben pensarci, quella mamma lì, come siamo un po' tutte noi dal giorno in cui ci è capitata la strabiliante fortuna di mettere al mondo un figlio, un nome ce l’ha. È la mamma chioccia. La yidishe mame. La mamma italiana. Il suo marchio è inconfondibile: come lei, ce n’è una sola. Cioè tutte noi. Auguri alle mamme del mondo, con o senza aggettivi. da - lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/ Titolo: ELENA LOEWENTHAL Un altro bimbo muore dimenticato in auto Inserito da: Admin - Maggio 28, 2011, 11:04:08 am 28/5/2011
ELENA LOWENTHAL Quando si hanno dei figli, può capitare di tutto. Di amarli e patirli, di condividere e sentirsi distanti. Perdonare e incattivirsi. Ma dimenticarli, quello proprio non si può: quando si è genitori, l’oblio non è ammesso. I figli ti riempiono la vita con una prepotenza che non ha pari. Eppure, è capitato, e due volte nel giro di pochi giorni. Lo scenario è una tragica copia conforme. Due bambini piccoli, ancora dentro quell’età in cui comunicare è una conquista giorno per giorno. Due automobili e una stessa calura, dentro l’abitacolo. Due padri innocenti, eppure colpevoli. Di averli dimenticati lì, complice quel silenzio che quando si hanno figli piccoli è una rara benedizione e che invece è costato a loro due la morte. Perché sarebbe bastato un verso, un inizio di capriccio, uno starnuto o un colpo di tosse, per salvarli. Per far sì che questi due padri, innocenti eppure colpevoli, si ricordassero di loro, allacciati sul seggiolino, lì dietro, disgraziatamente fuori portata dello specchietto retrovisore. Complice di queste due tragedie così terribilmente simili fra loro, in questo precoce principio d’estate, anche lo stress. La fatica di tirare avanti e mantenere una famiglia e non aver più tempo di pensare, ragionare. E così, dimenticare anche una cosa tanto ovvia e banale come quella di avere un bambino in macchina, seduto alle tue spalle. La mamma della piccola Elena ha prontamente scagionato il marito, anzi ha fatto di più: in morte della figlia l’ha elogiato. Quella di Jacopo appare incredula, le mani quasi rivolte al cielo e una smorfia di dolore, mentre qualcuno tiene in braccio suo figlio morto, dentro un lenzuolo bianco. I due padri sono assenti, e chissà che cos’hanno disegnato in volto, in questi momenti. Una colpa che grida se stessa anche se tutto il mondo proclamasse la loro innocenza, anzi di più, la loro infinita bontà di padri modello. Una colpa dalla quale sarà impossibile trovare anche solo uno straccio di redenzione, per il resto della vita. Perché dev’essere terribile, dimenticarsi un figlio e ritrovarlo morto. Anche se tua moglie spiega davanti alla telecamera che sei il migliore dei mariti. Anche se non ce ne puoi proprio fare nulla, anche se non è colpa tua e amavi quel bambino più di ogni altra cosa al mondo. Perché dimenticare un figlio non si può. Come si fa? È persino più inammissibile di ucciderlo. Un figlio ce l’hai davanti agli occhi e dentro la testa sin da quando ti viene al mondo e anche prima. Sta lì, occupa tutto lo spazio che hai dentro e fuori. Come fai a dimenticarlo? A ignorare la sua esistenza, anche solo per un pugno di ore ma sufficienti per farlo morire? Non hanno colpa, questi due padri. Però si sono scordati dei bambini in macchina e li hanno lasciati lì. Chissà come guarderanno, d’ora in poi, quel sedile dietro dell’automobile, vuoto per sempre da - lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/ Titolo: ELENA LOEWENTHAL Dal Talmud a Internet è dolce il naufragare Inserito da: Admin - Settembre 09, 2011, 05:19:29 pm Cultura
01/09/2011 - DUE DIVERSI "MARI" Dal Talmud a Internet è dolce il naufragare Un rabbino alle prese con il Talmud: la parola ebraica significa "oggetto di apprendimento" e indica la cosiddetta "Torah orale", cioè l’immenso corpus di discussioni rabbiniche intorno alla Torah "scritta" Nella XII giornata della cultura ebraica le analogie tra il modo di procedere all'interno del testo rabbinico e nel Web ELENA LOEWENTHAL Tanto nel tempo quanto nello spazio, l’ebraismo ha da sempre un bislacco senso dell’orientamento: il mondo si estende verso quattro irraggiungibili angoli, che in ebraico sono detti «venti» (nel senso di folate, non di numero). Il tempo, dal canto suo, scorre lungo una linea ma ha anche un andamento circolare: in tale doppia, forse inconciliabile dimensione, il passato ci sta di fronte mentre il futuro è alle spalle, come insegna anche l’ Angelus Novus di Walter Benjamin. Nello spirito ebraico spazio e tempo si confondono, si scambiano i ruoli in un continuo ripensare se stessi. Spesso si dice infatti che per duemila anni gli ebrei hanno abitato il tempo e non lo spazio, la storia invece della geografia. Sparso ai quattro angoli del mondo e cacciato di qua e di là dai capricci dell’esilio, il vero territorio esistenziale del popolo d’Israele sono stati i libri. Sotto l’angusta porzione di cielo che concedevano le mura dei ghetti, gli ebrei hanno vissuto dentro, sopra i libri. In questa geografia alternativa fatta di pagine e parole, c’è un luogo che ha un posto centrale, che tutto divide per unire: è il Talmud , parola ebraica che significa «oggetto di apprendimento» e indica la cosiddetta « Torah orale», cioè l’immenso corpus di discussioni rabbiniche intorno all’altra Torah , quella «scritta», quella per antonomasia - il Pentateuco . Il Talmud ha anche altri nomi, più o meno confidenziali. Ma è, come viene detto in ebraico, soprattutto un «mare»: yam ha-talmud . Questa poetica metafora si addice certamente a un testo dalle dimensioni spropositate, in cui è facile perdersi. Ma non è solo questione di quantità. Nel Talmud si naviga davvero, si spazia con quell’anarchia irrefrenabile dettata dal senso ebraico dell’orientamento. O meglio, dalla sua beata assenza. E la giornata europea della cultura ebraica di quest’anno, giunta alla XII edizione, bene ha fatto a cogliere questo risvolto così antico e anche moderno del popolo d’Israele: il tema conduttore è «Ebr@ ismo 2: dal Talmud a Internet». Dove, per l’appunto, la strada non è affatto lunga come si possa pensare, malgrado i secoli e millenni: perché quando si abita il tempo periodi così diventano una passeggiata. Se il Talmud è un mare, come tutti sappiamo in Internet si naviga. E non è una pura coincidenza lessicale. Il modo in cui si affronta il testo rabbinico, infatti, è molto simile alla tecnica che si usa cliccando e scorrendo con il topo informatico. Una pagina centrale - la home -, una serie di links che ti portano di qua e di là, in una sequenza illogica e niente affatto lineare in cui di rado per non dire quasi mai torni al punto di partenza. Basta aprire una pagina a caso del Talmud per rendersi conto di quella strabiliante somiglianza evidenziata dal titolo di un libro a suo modo profetico: Il Talmud e Internet. Un viaggio tra mondi di Jonathan Rosen (tradotto da Einaudi nel 2001). Sarà sicuramente evocato nel dibattito che si terrà domenica alle 10 a Torino nel centro sociale della comunità (piazzetta Primo Levi): «Il Talmud : un ipertesto ante litteram ?». In parole povere, non è solo una questione di forma, di somiglianza grafica per cui una pagina del Talmud , con al centro una breve porzione di testo e tutt’intorno una serie di rimandi, note, riferimenti, commenti e supercommenti, assomiglia a una schermata di Internet. È anche e soprattutto una questione di metodo, di sinapsi mentali e spirituali che questa forma del pensare innesca. Nel Talmud di solito funziona così: un maestro dice una cosa, un altro dice più o meno il contrario, arriva un terzo che invece di conciliare decide che o hanno ragione o hanno torto tutti e due, pesca una parola o una lettera dal contesto in cui si trova e con una disinvolta acrobazia mentale cambia radicalmente argomento e lascia beatamente in sospeso il contenzioso. Intanto, tutt’intorno a questi tre si innesca un ventaglio di riferimenti, talvolta pertinenti talaltra arditi ma sempre immancabilmente «fuori luogo»: fatti apposta per portarti lontano di lì, in un altrove ancora tutto da definire. Proprio come capita fra un clic e l’altro nell’universo di questa rete che, inutile negarlo, ci ha cambiato la vita mettendoci a disposizione un universo di conoscenze in cui l’unico orientamento possibile resta l’intuito, purché condito di fantasia. da - http://www3.lastampa.it/cultura/sezioni/articolo/lstp/417762/ Titolo: ELENA LOEWENTHAL. Il delirio e la pena Inserito da: Admin - Gennaio 06, 2012, 09:39:40 am 6/1/2012
Il delirio e la pena ELENA LOEWENTHAL Se non fosse che erano tutti rigorosamente maschi e (un po') più anziani di me, se non fosse che non sono mai esistiti, in questi ultimi anni mi sarei di tanto in tanto sentita un savio di Sion. A darmi questa poco inebriante ma certamente surreale sensazione sono stati, in questi ultimi anni, alcuni messaggi del prof. Pallavidini. Che, dopo aver apostrofato l'internazionale ebraica di cui io farei parte, cantava vittoria. Ho sconfitto lei e il complotto sionista! Ripetevano i suoi messaggi da un latente "tiè" finale, in un caso pure irrorati da un virtuale e tuttavia sgradevole rivolo di sangue. La lobby ebraica, nella fattispecie io e un gruppo di ariani genitori di studenti del liceo classico Cavour di Torino, avevano posto il suo caso all'ordine del giorno dopo una serie di stramberie che andavano dalla reiterata apologia di Ahmadinejad all'invito alle ragazze della classe a starsene a casa a fare la calza, fino alla negazione della Shoah. Il tutto a scapito di storia e filosofia, di fatto sparite dalla II E. Ne seguì un piccolo pandemonio, da Roma arrivò un ispettore del ministero: stese un rapporto che si concludeva con l'inadeguatezza del professore. Un ricorso l'ha poi riportato in cattedra in un altro liceo torinese. A mio discapito, oggi, va detto che i miei tre figli sono tutti maturi: stavolta non c'entro. Non l'ho provocato io con la mia sionista irritazione, come quando ero venuta a sapere che secondo il professore il giorno della memoria è il piede di porco che gli ebrei usano per torturare la coscienza mondiale. Non ho mosso i miei potenti e sionisti mezzi per perseguitarlo. A quanto pare, il reintegro nelle funzioni di mentore non è bastato per tenere a freno quel suo impulso irrefrenabile a dire stupidaggini. Il che non mi autorizza affatto a ricambiare il suo "tiè" virtuale indirizzatomi con tenacia nei suoi messaggi, nelle cose che scriveva su Internet, nelle interviste. No, professor Pallavidini: non canto vittoria perché lei è di nuovo e giustamente nel mirino. Sento solo tristezza per lei e i suoi allievi di ieri e di oggi. Sperando che non ce ne siano più di domani. da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9622 Titolo: ELENA LOEWENTHAL Auschwitz l'antidoto è il silenzio Inserito da: Admin - Gennaio 27, 2012, 03:28:03 pm 27/1/2012
Auschwitz l'antidoto è il silenzio ELENA LOEWENTHAL Una palestra di Dubai che, per rendere convincente la promessa di addio alle calorie, usa per la sua campagna pubblicitaria una gigantografia dell’ingresso di Auschwitz. Degli ultraortodossi indignati con il governo israeliano e dei loro concittadini indignati vuoi con la polizia vuoi con gli avversari politici, che si battono a suon di stelle gialle appuntate sul petto ed esclamazioni «nazista!» elargite un po’ qua e un po’ là. Stelle gialle, ancora, usate da islamici di Svizzera per protestare contro la discriminazione. Per non parlare di chi con queste armi va nella direzione opposta: rimpiangere quei tempi e auspicarne il ritorno. E non sono pochi. Il giorno della memoria cade in un anniversario tanto feroce quanto ambiguo: il 27 gennaio, infatti, Auschwitz fu liberata. Quelle porte si aprirono. Sarebbe, teoricamente, un momento festoso: la fine di un incubo, di un inferno bruciato per anni dentro l’Europa. In realtà, è un giorno di sgomento, di occhi sbarrati di fronte a quell’assurdità: come è potuto succedere? Le porte aperte di Auschwitz furono sì, liberazione. Ma furono anche e soprattutto svelamento di una ferocia quale non s’era mai vista. E, come diceva Primo Levi (ma perché, invece di cercare sempre qualcosa di «nuovo» da dire, non si legge una sua pagina? Una soltanto, e basterebbe), il fatto che sia già successo non ci vaccina, anzi, moltiplica le probabilità che accada di nuovo. Quasi a farlo apposta, intorno al giorno della memoria i suoi simboli spuntano a destra e a manca come funghi velenosi. Si moltiplicano in sequenza incontrollata, come per dare un calcio alla memoria. L’uso trasversale di questi riferimenti, che accomuna partiti diversi, etnie disparate, posizioni ideologiche e vissuti enormemente distanti fra loro, è la prova inequivocabile che essi si sono svuotati. Che hanno perso il loro senso. L’unico che avevano: risvegliare la memoria. Fare andare, con la mente e con il cuore, a quel laggiù da cui ci separa una distanza di anni esigua - per quanto sempre più grande - ma soprattutto l’abisso di un intero universo. Quei simboli, infatti, servivano a farci intuire che quel passato non saremo mai in grado di capirlo. Che bisogna sentirlo e basta. Possibilmente in silenzio. Come si fa a entrare nei panni di un bambino che entra in una camera a gas? È impossibile. La stella gialla che portava sul cappotto questo ci diceva: ricordami. Ma sappi che non comprenderai cos’è stata la vita per me. Tieniti a distanza dalla mia storia, perché è inafferrabile. Invece, la moltiplicazione del ricordo, l’inevitabile ritualismo che si porta con sé la puntuale commemorazione, hanno portato a quella memoria una pubblicità a doppio senso. Da una parte, certo, il rispetto. Dall’altra la banalizzazione e, senza soluzione di continuità, l’abuso. I simboli si sono svuotati, il ricordo è diventato cerimonia, la parola non può mancare e così, ogni anno, gli editori si sentono irresponsabili se non pescano l’ultimo sopravvissuto, le lettere rimaste nel cassetto, la storia ancora da raccontare. Un po’ come le strenne per Natale. Il cinema, idem. Scuole ed enti pubblici s’ingegnano per non ripetersi con i loro «eventi». L’evento, comunque, è indispensabile. È inevitabile, tutto questo? Qualunque celebrazione ha per conseguenza la trasfigurazione della memoria, la sua metamorfosi in rito più o meno svuotato, non tanto di contenuti quanto di pathos? Difficile dare una risposta. Forse, l’unico antidoto è il silenzio. Quello che offre una pagina scritta, ad esempio. In Israele il giorno della Shoah cade in primavera: la rievocazione è un interminabile minuto di sirena che suona in tutto il paese. Un silenzio assordante. Tutti si fermano, tutto si ferma. È un momento tremendo e basta. Come tremendo dev’essere, per chi è stato laggiù ed è ancora su questa terra, ritrovare i segni di quei ricordi e l’abuso che a volte se ne fa. Ma ancora una volta, come facciamo noi a immaginare cosa prova qualcuno che l’ha portata davvero, la stella gialla sul petto, vedendola brandire così? Dev’essere tremendamente doloroso, e anche tanto frustrante. La memoria, e quella che si celebra oggi più di ogni altra, non è mai innocua. da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9697 Titolo: ELENA LOEWENTHAL Noi donne, orgogliose e libere di essere diverse Inserito da: Admin - Marzo 08, 2012, 04:55:47 pm 8/3/2012 - 8 MARZO, FESTA DELLA DONNA
Noi donne, orgogliose e libere di essere diverse ELENA LOEWENTHAL Che cosa ci dice, oggi, questa esplosione di fiori gialli? La mimosa è una creatura modesta eppure prepotente, s’arrampica nei luoghi più impervi, è tenace con la terra e sfida le intemperie. Quest’anno in molti luoghi è fiorita troppo presto, ingannata dal caldo, poi si è intirizzita. Ma oggi è dappertutto: nelle mani e nei capelli, sugli angoli di strada. La giornata internazionale della donna, comunemente chiamata «festa», è in realtà memoria di un evento terribile: un incendio divampato in una fabbrica dove morirono tante operaie. Al di là dell’equivoco di fondo che ha trasformato in allegria festosa un tragico ricordo di morte, al di là dell’inevitabile dose di retorica che in questo nostro presente tanto laicizzato quanto affamato di celebrazioni ogni ricorrenza porta con sé, è lecito domandarsi quale sia, ancora, il senso di questa giornata particolare. A incominciare dalla sua denominazione ufficiale, che racchiude il femminile in un singolare generico: questa è la festa non delle donne, ma della donna. Come una sorta di entità astratta, inafferrabile e fors’anche angelicata. La donna come singolare femminile, nella nostra certo difettosa e perfettibile ma tutto sommato progredita civiltà, non esiste più. Se c’è una conquista che possiamo rivendicare, noi che ci siamo ritrovate con il grosso del lavoro fatto dalla generazione precedente quella dei reggiseni al rogo e delle grandi battaglie per l’emancipazione - questa conquista è il nostro diritto alla pluralità. Non siamo più una massa indistinta che la pensa e la dice all’unisono. Non abbiamo più bisogno dell’unanimità come arma di lotta - l’unica che in fondo avevamo, noi donne, negli ultimi millenni. Da queste parti possiamo ormai rivendicare il diritto a non essere più tutte eguali, a non doverci ritrovare sempre tutte sullo stesso fronte, sempre tutte dalla stessa parte. Questo discorso vale ovviamente soltanto per noi, donne emancipate dell’Occidente. Noi che non abbiamo più bisogno di identificarci in un unico modello, di schierarci compatte per ottenere ciò che ci spetta, in quanto umanità rimasta marginale perché qualcun altro ti ha imposto quell’angolo d’esistenza, sin dai primordi della storia. Questo discorso non vale per i milioni di donne che debbono ancora lottare per tutto ciò. Il loro femminile singolare va rispettato per quello che è e deve essere. Ma il nostro, ormai, ci sta un po’ stretto. Negli ultimi quarant’anni abbiamo imparato il valore aggiunto del plurale e come tale ci consideriamo - prima ancora di pretendere di essere considerate: non un insieme monocorde, tutto eguale a se stesso. Piuttosto un universo colorato e discordante, come i tanti fiori diversi che in questa beata stagione fanno capolino dalla terra, sui rami ancora spogli degli alberi. da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9858 Titolo: ELENA LOEWENTHAL L'antico demone che risveglia l'orrore Inserito da: Admin - Marzo 20, 2012, 06:30:39 pm 20/3/2012
L'antico demone che risveglia l'orrore ELENA LOEWENTHAL La strage di Tolosa ha lasciato muta l’Europa e inorridita Israele. Prima di ogni giudizio, prima di una riflessione che non potrà né dovrà mancare, pesa su tutto lo sgomento. Braccare dei bambini dentro una scuola, rincorrerli fra i banchi per prendere meglio la mira prima di sparare: è una cosa tremenda anche solo pensarla. Eppure, questo delitto che forse ha dei precedenti, forse è il terribile seguito di una catena di orrori - ma forse no - non desta incredulità. Non è una cosa cui non si può credere e che nessuno si sarebbe mai aspettato. Ha, piuttosto, una inenarrabile coerenza, per quanto sotterranea e difficile da ammettere. Ammazzare dei bambini dentro la loro scuola è una cosa cui ci piacerebbe non poter credere, ma non è così. Perché questo delitto si è consumato in una città fitta di conflitti come lo sono molte, nel Sud della Francia. Forse si lega a una sequenza di omicidi di ambiente militare. Ma ha avuto per teatro una scuola ebraica. E le prime immagini che ci sono arrivate da lì mostrano teste di uomini e bambini coperte dalla kippà, la papalina che portano sempre gli ebrei religiosi. Che portano, in Francia, con un certo timore, con la paura di essere aggrediti anche solo per questo. Capita persino che la si lasci a casa, la papalina, per evitare guai per strada. Incidenti piccoli e grandi sono all’ordine del giorno nei pressi di ogni scuola ebraica. I bambini arrivano scortati, spesso accolti da insulti e non raramente da lanci di pietre. Questa è la Francia del Sud, ma è anche la Francia tout court e in una certa misura lo è tutta l’Europa. In Israele, oggi, c’è paura dell’Europa. Dove, a quanto pare, l’antico demone dell’antisemitismo è ancora vivo, aleggia, sta sotterraneo, magari appena sotto la superficie della civiltà civile e benpensante. È un demone antico e tenace, l’antisemitismo. China la testa, sembra sconfitto per sempre, e poi ricompare, quasi corroborato dal tempo trascorso in clandestinità. Perché oggi come oggi nessuno si dichiara più antisemita, l’odio per gli ebrei - cioè i diversi, gli irriducibili dell’identità, come se ciò fosse una colpa ancora in questo presente che si fa un vanto del proprio multiculturalismo - non è politicamente corretto. Ma il fatto che non sia decoroso dichiararsi antisemiti non significa che questo pregiudizio sia morto. Anzi. Quando viene fuori, non parla ma distrugge. Prima o poi torna. E ci fa paura, in Israele così come in questa Europa ammutolita tanto brava a commemorare retoricamente il passato affinché non si ripeta più, così intraprendente nel condurre le giovani generazioni ad Auschwitz perché imparino la lezione. In questa Europa così saggia e attenta al proprio passato, in questa Europa che ha davanti agli occhi le camere a gas e le racconta con tanto slancio nei libri di scuola, capita ancora di morire perché si è ebrei. L’orrore, lo sgomento, la paura, lasciano addosso una rabbia amara e impotente. da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9901 Titolo: ELENA LOEWENTHAL L’incubo inconfessabile di ogni mamma Inserito da: Admin - Ottobre 27, 2012, 05:31:30 pm Editoriali
27/10/2012 L’incubo inconfessabile di ogni mamma Elena Loewenthal Ogni volta che si alza e se ne va, foss’anche per un quarto d’ora, una madre avverte qualcosa di strano dentro di sé. Difficile darle un nome, definirla, provare a scendere a patti con essa. Forse è il cordone ombelicale che stride e fa male, anche se non c’è più. E così anche la più emancipata donna in carriera, guarda la tata, che sia avventizia o di fiducia, con un sentimento di sgomento: ma chi è davvero la persona a cui sto lasciando mio figlio? Quando e come lo ritroverò? O addirittura: lo ritroverò? Certo è un pensiero che non si articola in modo razionale perché inconfessabile, giace in letargo nel più profondo di noi, ma sussiste da sempre e alimenta spaventose leggende. Ai tempi miei lontani era in voga quella di una tata venuta da un altro Paese che aveva messo nel forno, cotto i due bimbi che le erano stati affidati e li aveva infine ammanniti in tavola facendo impazzire per sempre i genitori. Una leggenda terribile che ha tolto i sonni in più di una notte a chi l’aveva anche ascoltata raccontare una volta soltanto. La verità di quello che è successo ieri a New York porta dalla diceria alla più sconvolgente realtà quelle paure che ogni madre, apprensiva o pacifica, non sa strappare dentro di sé. Bisogna farci i conti e per una volta scendere a patti non con un incubo ma con la cronaca. Ma è giusto, doveroso e anche bello sapere che le tate a cui affidiamo i nostri figli ce li restituiscono sani e salvi e sono spesso migliori e più pazienti di noi. da - http://www.lastampa.it/2012/10/27/cultura/opinioni/editoriali/l-incubo-inconfessabile-di-ogni-mamma-cp8e7ROeQn9KiWjH41HbyN/pagina.html Titolo: ELENA LOEWENTHAL Cancellate tante parole inutili Inserito da: Admin - Novembre 28, 2012, 11:38:51 pm Editoriali
28/11/2012 Cancellate tante parole inutili Elena Loewenthal La Camera ha approvato in via definitiva l’equiparazione dei figli «legittimi» a quelli «naturali». La prima giustizia di questo provvedimento è di ordine semantico: il «figlio naturale», nato fuori dal matrimonio, era infatti una definizione tanto ovvia quanto assurda nel suo presupporre, per opposizione, l’esistenza di figli «artificiali». Ma l’aggettivo «naturale» era comparso nel 1975 in sostituzione del drastico «illegittimo», che sanciva la venuta al mondo di un bambino i cui genitori non erano sposati. Naturale, come a dire spontaneo (scappato fuori…) o illegittimo (dunque carico di una colpa congenita), questo bambino subiva fino a ieri una serie minuziosa di limitazioni. Innocue e trascurabili, se viste nell’ottica gioiosa di una nascita, ma pesanti magari al momento di una successione. A incominciare dall’inizio, perché il figlio «legittimo» è automaticamente riconosciuto da entrambi i genitori, mentre quello naturale va attestato con una firma, che al di là del suo valore simbolico significa avviare in modo diverso la genitorialità. D’ora in poi, un figlio potrà essere riconosciuto anche da genitori sposati con «terza persona» al momento del concepimento: in sostanza, a discrezione di chi lo mette al mondo, sparisce la figura del bastardo. La modifica è importante soprattutto sul piano della famiglia, dentro la quale non ci saranno più d’ora in poi differenze fra figli di matrimonio e figli di convivenza. Spariscono i casi limite di nonni cui non possono essere affidati bambini orfani perché per legge non sono parenti, in quanto i genitori non erano sposati. Sparisce soprattutto il diverso trattamento in merito all’eredità che nel contesto della successione all’interno di una famiglia era riservato al figlio nato fuori da un «regolare» regime matrimoniale. Ma questa discriminazione era innanzitutto anacronistica, in un’Italia di oggi in cui ci si sposa sempre meno ma si convive sempre più, costruendo famiglie di fatto non meno stabili e degne di tale nome. In un’Italia sempre più piena di quei cosiddetti figli naturali che, a guardarsi intorno, popolano le classi di scuole, si affacciano al mondo del lavoro, piangono parenti morti, costruiscono a loro volta una famiglia. Non sono dei fantasmi, ma una realtà viva e indistinguibile dall’altra che vanta lo status di legittimità. Questa legge non viene a gratificare una marginale minoranza di cittadini italiani: rispecchia invece una realtà sociale che da tempo esigeva un aggiustamento giuridico. Con un auspicio che dovrebbe essere la diretta conseguenza di questa doverosa «modernizzazione» del nostro diritto di famiglia: che questa modifica del codice civile sia il preludio a una legislazione in merito alle coppie di fatto - quelle cioè che stanno «a monte» dei figli naturali: che li hanno voluti, concepiti, messi al mondo, riconosciuti. E cui prodigano amore e cura in misura non diversa da quella che ricevono i figli nati nel matrimonio. loewenthal@tin.it da - http://www.lastampa.it/2012/11/28/cultura/opinioni/editoriali/cancellate-tante-parole-inutili-NkVdsGWZTf818IiBxa6SXL/pagina.html Titolo: ELENA LOEWENTHAL Giannino, lo Zecchino di latta Inserito da: Admin - Febbraio 22, 2013, 07:00:26 pm EDITORIALI
22/02/2013 Giannino, lo Zecchino di latta ELENA LOEWENTHAL Come un impassibile pupazzetto fatto di mattoncini colorati, Oscar Giannino si va smontando pezzo per pezzo. L’ultima è che non solo gli mancano il master, due lauree e un concorso per entrare in magistratura, ma neanche allo Zecchino d’Oro ha mai cantato. Anche quella è una bugia pietosa, una mistificazione fine a se stessa, un modo bislacco per farci sognare o tornare bambini. Parola di Mago Zurlì, che si è portato con sé anche gli archivi del concorso canoro, oltre che un pezzo della nostra infanzia. Peccato, più per il povero Giannino che per noi. In questo strabiliante catalogo di menzogne paradossalmente accompagnate da una non meno stupefacente dose di candore - come diavolo ha fatto a pensare di farla franca in questo presente dove regna l’informazione globale, dove quasi ogni dato è disponibile? -, vi è una cosa che stupisce forse ancor di più. Sbugiardato così platealmente, Giannino ha in fondo dimostrato di essere stato un dritto. Diciamo un furbastro. Comunque, uno che di strada ne ha fatta, senza tanti (autentici) titoli in tasca. S’è formato una cultura economica, ha imparato a scrivere e a parlare sul palco, qualche rudimento di pubbliche relazioni non può non averlo. Visto così, senza il disvalore aggiunto della frode e senza il corredo fosforescente di un abbigliamento un po’ sopra le righe, sembra (è?) un tipo in gamba. Anche se non ha studiato. Per l’appunto. In fondo, avrebbe potuto rappresentare un modello ben più convincente, senza tutti quei titoli falsi e quei colori fin troppo veri addosso: il tipo self made man che in tempi di crisi come questi avrebbe avuto il suo notevole appeal. Non dimentichiamo il dato rilevante pubblicato quest’anno alla chiusura delle immatricolazioni universitarie: decine di migliaia di giovani in meno iscritti nelle università. Per sfiducia, per mancanza di quattrini, per un diverso orientamento sul mondo del lavoro. Perché Giannino non ha detto a quelle migliaia di giovani e a chissà quanti altri, più o meno giovani: guardate me, che non sono neanche laureato! Guardate che cosa succede, quando ci si rimbocca le maniche (magari un po’ meno sgargianti e broccate) e si prende la vita a testa bassa, per andare lontano. Che occasione sprecata, la sua, per offrire un modello e garantirsi una credibilità inossidabile, anche originale. Certo, in questa kermesse elettorale ben altri rivendicano una imprenditorialità fin troppo di successo, venuta su dal nulla. Ma nel caso di Giannino sarebbe stata un’impresa di se stesso - individualista, nuova, pregnante e facile da comunicare, nella sua freschezza. Invece lui ha scelto l’accidentata (ma neanche tanto, visto che da anni va avanti così) via della mistificazione, del costruirsi un’identità tutta artificiale e artificiosa, inevitabilmente destinata a crollare, prima o poi, sotto i colpi di diplomi inesistenti, ridicole contraddizioni, assurde giustificazioni. «Colpe gravi ma inoffensive», ha detto di sé quando ormai era troppo tardi, quando ormai il placcatore del declino si era trasformato in una macchietta. Non sono affatto inoffensive, quelle colpe: offendono tanto chi ha sudato sui libri per guadagnarsi anche solo una laurea e non le due che millantava lui, quanto chi la laurea non ce l’ha e mai l’avrà e avrebbe potuto riconoscersi in lui, nella sua intraprendenza, nel suo talento, nel consenso che avrebbe potuto guadagnare restando quello che era. loewenthal@tin.it da - http://www.lastampa.it/2013/02/22/cultura/opinioni/editoriali/giannino-lo-zecchino-di-latta-khr8dOwyhvWOG4iV2PT0BO/pagina.html Titolo: Elena Loewenthal. Io non sono Charlie. Libertà è anche essere diversi Inserito da: Admin - Gennaio 10, 2015, 10:30:29 am Io non sono Charlie. Libertà è anche essere diversi
09/01/2015 Elena Loewenthal Io non sono Charlie. Nessuno di noi lo è più, ormai. Se le manifestazioni di massa tanto sulla piazza reale quanto su quella della rete hanno unanimemente scandito questa identificazione, c’è qualcosa di profondo e profondamente ferito che stona in tutto questo. Io non sono Charlie perché fra chi è vivo e chi è morto ammazzato da una raffica di spari in nome di Allah c’è un abisso di differenza, e tutti noi vogliamo fermamente non essere Charlie. E c’è da scommettere che se Charlie potesse parlare, direbbe: «Guarda che fra voi che siete vivi e noi che siamo stati uccisi c’è una bella differenza!». E magari ci farebbe una vignetta. Ma io non sono Charlie soprattutto perché non siamo tutti vignettisti irriverenti come Wolinski, non siamo tutti economisti terzomondisti come Bernard Maris, non siamo tutti poliziotti come Ahmed Merabet. Il fondamento della libertà, quella di essere e quella di esprimersi, sta nel riconoscere che il mondo non è tutto uguale e noi nemmeno, anzi. L’uguaglianza non è un valore, lo è invece la parità: di essere e di esprimersi nella diversità che ci caratterizza in quanto individui. E’ proprio il fanatismo che propugna invece l’eguaglianza assoluta: come scrive Amos Oz, il fanatico è così generoso che, dopo aver scoperto dove sta la giustizia, vorrebbe portarci tutti. Vuole, anzi, che tu sia come lui che sta dalla parte giusta ed è disposto a ucciderti, pur di renderti uguale a lui. Per il fanatico, siamo tutti Charlie. Ma non è così, perché forse il più grande valore di questa nostra cultura colpita al cuore sta proprio nel riconoscimento che il mondo è vario. E’ persino bello, perché è vario. La nostra cultura è fatta di volti e opinioni diverse, si definisce nella sua multiformità e nella libertà di essere tutti gli uni diversi dagli altri. Io non sono Charlie. Non sono un vignettista. E magari neanche apprezzo l’irriverenza di Charlie. Ma rivendico il diritto di Charlie ad essere Charlie e per quello devo battermi, scendere in piazza, gridare sulla rete. Così, le matite alzate in piazza e gli hashtag virali, al di là delle buone e doverose intenzioni, tradiscono una specie di equivoco. E’ semplice, diretto, identificarsi nelle vittime. Ha una grande energia comunicativa. Ma è un cammino rischioso. Quanti di coloro che l’hanno scandito sarebbero stati disposti a fare lo stesso il giorno prima, quando Charlie era ancora vivo e disegnava? Dobbiamo imparare a tracciare i confini della nostra identità e a dare alla libertà il peso che merita non soltanto per i morti, anche per i vivi. Non per un demagogico scatto d’orgoglio in stile scontro di civiltà, ma per una questione morale più profonda. Quella che ci riguarda tutti in quanto individui di una società che trova il suo valore principale nella diversità di ciascuno e nel rispetto di questa diversità, non in un amalgama uniforme incapace di distinguere i morti dai vivi. Se per il fanatismo siamo tutti uguali – morti o vivi, vignettisti o poliziotti, proprio perché non siamo Charlie dobbiamo difendere strenuamente il diritto di Charlie alla sua libertà, che è la stessa nostra anche se siamo diversi da lui. loewenthal@tin.it Da - http://www.lastampa.it/2015/01/09/cultura/opinioni/editoriali/io-non-sono-charlie-libert-anche-essere-diversi-19FVFHstLk2068OgCIn4QL/pagina.html Titolo: Elena Loewenthal. Una colonna sonora contro il silenzio del tumore Inserito da: Arlecchino - Ottobre 28, 2016, 06:31:43 pm Una colonna sonora contro il silenzio del tumore
In un libro il racconto del giornalista Paolo Colonnello. Dalla malattia alla guarigione, un percorso contro la paura 26/10/2016 Elena Loewenthal La prima cosa che arriva è la paura. Una paura cieca e scura, tutta nuova, una paura che non è ferma ma ti gira intorno veloce, come un giovane pianeta intorno a una stella nera e pesantissima. È la paura il primo, invadente inquilino della tua vita quando il cancro ti entra in casa. È una paura che prima non esisteva e non capisci se è per te o per gli altri, se ti isola dal resto del mondo o al contrario travolge tutto quello che trova intorno a te, insieme a te. Quando arriva il cancro, subito dopo la nuova paura comincia una vita, tutta nuova anch’essa. La vita con il cancro è tutta diversa da quella di prima. Non è fatta solo di paura, ovviamente. E nemmeno solo di disperazione o di attesa. È una vita tutta diversa innanzitutto perché tutto comincia a ruotare intorno al cancro, ai suoi confini, ai suoi tempi, ai suoi ritmi. La prima cosa che il cancro ti dice, quando entra in casa, è che lui sta in centro. Nel nuovo silenzio che scende a volte, negli orari delle terapie, nel pensiero sul futuro quello lontano ma anche e forse soprattutto quello vicino, del primo domani che viene. Paolo Colonnello queste cose le sa bene perché un giorno una cosa che sembrava essere una stupida cisti nella pancia si rivela invece un sarcoma di quelli «rari e stravaganti», come li chiama lui, e così inizia per lui un anno di corpo a corpo con il cancro, la chemioterapia, la chirurgia «distruttiva», le Tac di controllo. E insieme alla vita, comincia il racconto: «Il senso del tumore per la vita» (Centauria editore, pp. 224, € 16,90). Non è un diario, non è nemmeno un reportage. È proprio un racconto, perché in fondo la malattia è prima di tutto narrazione, perché per scendere a patti con il cancro bisogna trovare le parole per dirlo, per ascoltare quello che ti succede, scriverlo dentro il libro della tua vita. E così ha fatto lui, che è un giornalista e sa come trovare le parole, in più è anche un musicista e così questo racconto ha anche la melodia giusta - la sua e del suo sassofono - che scandisce le giornate e i mesi, trova la nota per raccontare le interminabili ore di chemioterapia, l’ansia abissale che prende prima di entrare in sala operatoria, il sapore acido dell’attesa prima che arrivino gli esiti degli esami. (In libreria dal 6 ottobre, «Il senso del tumore per la vita», edizioni Centauria) «Non c’è nulla di permanente», scrive Colonnello. Insomma, la malattia ti insegna prima di tutto quella destabilizzazione, quella provvisorietà che è cifra autentica della vita - per i malati così come per i sani. Non è una trita questione morale, è una cosa che tocchi con mano quando arriva la malattia e ti trovi subito a fare i conti con il tempo - non soltanto come un confine che sul momento sembra venirti incontro a passi da gigante, chiudersi tutto intorno a te. Anche con il tempo più banale: i programmi per l’estate, la serata con gli amici, l’impegno di lavoro. Tutto viene catapultato subito dentro il tempo della malattia, e così capisci che la vita è fatta anche, forse soprattutto di imprevisti, di momenti che vanno e vengono. In questo e in tanti altri sensi la malattia è un’esperienza cognitiva come poche altre. Impari subito parole nuove, e parole vecchie assumono nuove accezioni. I referti degli esami, ad esempio, hanno un lessico e una sintassi tutta loro. La malattia, e forse il cancro più di ogni altra, perché il cancro non è una malattia soltanto, non è soltanto un iter terapeutico bensì un universo intero di malattie, terapie, prospettive, la malattia è un insieme di esperienze, parole, emozioni di cui prima non immaginavi l’esistenza. Colonnello racconta tutto questo con forza e delicatezza, sempre al ritmo della sua amata musica che parte dalla pancia e arriva un giorno sino al tetto dell’ospedale. Ci parla delle sue paure e di quelle dei suoi affetti, della musica che salva. Ma questo è soprattutto, come dice anche il titolo, un libro sulla vita. Perché la malattia è vita, anche se a volte sembra e a volte diventa il suo contrario. Senza falsi ottimismi, senza cedimenti alla retorica, senza mai perdere il ritmo del racconto, quando parla della sua malattia Colonnello parla della vita, di quella di prima, di quella che attraversa durante l’anno di malattia e di quella che viene dopo, quando «dopo la risonanza anche la Tac era perfetta. Ci siamo, sei a posto. Adesso dovrai tornare qua solo per i controlli!». Licenza Creative Commons Alcuni diritti riservati. Da - http://www.lastampa.it/2016/10/26/societa/una-colonna-sonora-contro-il-silenzio-del-tumore-ty368cruPVZ4zokrSiTWoI/pagina.html Titolo: Elena Loewenthal. Pio IX e i predatori del bambino perduto Inserito da: Arlecchino - Gennaio 06, 2017, 02:51:16 pm Pio IX e i predatori del bambino perduto
La storia di Edgardo Mortara, il piccolo ebreo bolognese battezzato in segreto e sottratto alla famiglia per volontà del Papa, diventerà un film di Spielberg. Nell’800 originò una battaglia politica e culturale che divise l’Italia e l’Europa Pubblicato il 04/01/2017 Elena Loewenthal È una storia terribile e spietata, ma anche carica di una malinconia straziante e persino di una strana, assurda dolcezza. È un incrocio fatale di destino personale e interessi pubblici, un gomitolo di contraddizioni che non c’è modo di sciogliere. È una storia oscena nel senso originario dell’aggettivo: l’assurda implosione di qualcosa che non doveva accadere e invece accade e diventa un pubblico scandalo. È, prima di tutto questo, una storia di dolore insopportabile, detto e taciuto, come ben racconta il quadro di Moritz Oppenheimer che ritrae la scena madre: un bambino smarrito ma al centro di tutto, conteso da mani e abiti talari. E una donna straziata. Chissà se in questo magnifico e tragico dipinto troverà ispirazione Steven Spielberg, che fra poche settimane inizierà in Italia le riprese del film basato su questa storia da cui è rimasto folgorato appena l’ha letta. Ordinato prete a 23 anni Il 23 giugno 1858 il piccolo Edgardo Mortara, neanche sette anni, viene prelevato per sempre dalla sua casa di Bologna. È ebreo, ma un giorno era stato segretamente battezzato dalla giovane domestica di casa, Anna Morisi, poco più che una bambina pure lei, tredici o quattordici anni. Tempo dopo l’Inquisizione di Bologna, città che all’epoca si trovava ancora entro i confini dello Stato Pontificio, avvia le ricerche e ottenuta conferma dell’accaduto invia i gendarmi a prelevare il bambino per portarlo nella casa dei Catecumeni - istituzione creata apposta per neoconvertiti e mantenuta grazie a una tassazione imposta alle comunità ebraiche - così da avviare la sua «ineludibile» educazione cattolica. Perché? Per una terribile catena di incongruenze. I Mortara avevano in casa una domestica cattolica anche se agli ebrei ciò era vietato. Anna battezza il bambino (Edgardo aveva un anno soltanto, allora) per il terrore che muoia privo del sacramento, anche se ai cattolici era vietato battezzare ebrei di nascosto. Stando a una ferrea logica della fede, tutto era ormai irreparabile: entrato all’insaputa nella comunità di Cristo, il bambino andava strappato al suo mondo perché non incorresse nel peccato di apostasia. Doveva essere educato cristianamente, lontano da quel mondo di «perfidi» (nel senso di «infedeli») ebrei cui non apparteneva più dal momento in cui aveva ricevuto il battesimo. Da quel giorno i suoi genitori non lo videro quasi più, se non per brevi e strazianti sprazzi. Il piccolo Edgardo Mortara fu ordinato prete a ventitré anni, e prese il nome di Pio - lo stesso di quel Papa che lo aveva strappato alle sue radici, a sé stesso. Viaggiò a lungo nei panni di evangelizzatore e missionario. Trascorse gli ultimi anni di vita rinchiuso in un monastero e morì a Liegi nel marzo del 1940, mentre il nazismo imperversava in Europa. «Non possumus» Chissà quale e quanta solitudine attraversarono quel bambino e l’uomo che divenne: prima nel rapimento, poi nella vocazione, infine dentro la cella del monastero. Negli sporadici scambi di sguardi e parole con i genitori e i fratelli. Perché in realtà al piccolo Edgardo la vita fu rubata due volte, non una. La prima quel giorno in cui lo portarono via di casa perché vedesse la luce di quella fede che il battesimo gli aveva donato senza che lui lo sapesse. La seconda, e forse fu ancor più feroce, perché il suo divenne «il caso Mortara»: una battaglia culturale e politica che vedeva schierata da una parte la Chiesa più conservatrice e dall’altra le forze politiche e intellettuali - compresa una parte di clero - che premevano per far respirare al mondo il liberalismo. Quando la notizia del ratto prese a circolare si levarono proteste in tutta Europa. Si disse che al conte di Cavour il fattaccio facesse buon gioco per mettere in cattiva luce papa Pio IX e rinforzare le ragioni del Regno di Sardegna. «Non possumus», rispose puntualmente il Pontefice ogni volta che gli chiedevano di restituire il piccolo alla sua famiglia, al suo mondo. Uno scontro di civiltà E poi c’era lui: il piccolo Edgardo che ben presto incominciò a parlare di illuminazione, di grazia della Provvidenza. Che da quando venne ordinato prete passò la vita e la vocazione a cercare di convertire ebrei. Che ancor prima dell’ordinazione non ne volle più sapere di tornare a casa, anche quando all’indomani del 20 settembre 1870 - presa di Porta Pia e fine dello Stato Pontificio - ne avrebbe avuto facoltà. Lo scontro di civiltà che si combatté intorno alla vita di Edgardo Mortara segna quel delicatissimo momento di passaggio verso il liberalismo, accompagna il processo di Emancipazione degli ebrei d’Europa e più in generale la conquista collettiva dei diritti civili. E spesso, nei lunghi strascichi della storia, nell’eco di dolore e rabbia ch’essa porta con sé, nella contemplazione disarmata di tutta quella assurdità, ci si dimentica che al centro c’è lui, quel bambino e quell’uomo che dal buio del giorno in cui lo portarono via da casa in poi e anche nella lunga stagione di una fede vissuta con dichiarata pienezza, conserva dentro di sé qualcosa di ermetico. Chissà qual era per lui il sapore della nostalgia, chissà quali ricordi di casa serbava nell’animo. Chissà se sapeva chi era. Chissà che cosa la sua fede incrollabile gli rivelava, e che cosa gli teneva nascosto. Elena.loewenthal@gmail.com Licenza Creative Commons Alcuni diritti riservati |