LA-U dell'OLIVO

Forum Pubblico => LA SALUTE, LA CULTURA, IL LAVORO, I GIOVANI, L'AMBIENTE, LA COMUNICAZIONE ETICA E LA SOCIETA'. => Discussione aperta da: Admin - Luglio 16, 2007, 12:12:07 am



Titolo: FERDINANDO CAMON. -
Inserito da: Admin - Luglio 16, 2007, 12:12:07 am
Se il colpevole è il terremoto

Ferdinando Camon


Se viene un terremoto e le case crepano e perdono pezzi ma solo una implode su se stessa e si sfascia completamente, e sotto quell’una resta una valanga di morti, è chiaro che c’è un problema: quella casa era fatta come le altre? O c’è stato qualche errore o qualche leggerezza o incautela nei calcoli o nei materiali? qualche risparmio? Fatalità, quella costruzione era stata sopraelevata: la sopraelevazione rispondeva ai calcoli del peso e della portata? Per essere agibile, doveva prima essere approvata da un controllo edilizio.

Il controllo è avvenuto? Chi l’ha firmato? Dov’è il documento?

A essere chiamati in causa da questi interrogativi sono una sfilza di responsabili che vanno dai vincitori dell’appalto ai progettisti, ai tecnici del Comune, al sindaco, all’ufficio competente per il certificato di abitabilità. Se tutto fosse filato bene, alla fine della trafila ci doveva essere una costruzione «sicura», umanamente sicura, ben sapendo che quello che è umano è imperfetto. Quella era una sede dello Stato. Una scuola. Le famiglie che mandano i loro bambini in un edificio dello Stato hanno il diritto di pretendere che quell’edificio rispetti tutte le garanzie delle leggi: se viene un terremoto, e le case del paese vanno giù, la casa dello Stato deve andar giù meno delle altre. Perché le altre possono aver lucrato sul risparmio, la fretta, l’interesse privato, il sotterfugio, i materiali scadenti, il controllo compiacente. Lo Stato no. Lo Stato è la Legge.

Ora, nel processo per il tristissimo crollo della scuola di san Giuliano, provincia di Campobasso, che ha ammazzato 27 scolaretti e una maestra, tutto può essere discusso tranne una cosa. Il tutto di cui si può discutere è di chi sia la responsabilità: la società costruttrice? il progettista? il fornitore di materiali? il controllore che ha testato l’opera? o che doveva testarla e non l’ha fatto?

L’unica cosa che non poteva essere affermata è questa: che il fatto non sussiste. Che nessuno è colpevole. Che l’unico colpevole è il terremoto. Cioè il Fato, la Natura, o, se volete, Dio. E siccome nessuno di questi tre personaggi è soggetto alla legge, la legge non punisce nessuno.

È quello che succede a san Giuliano, dove tutti gli imputati sono stati assolti con la formula che dice: «Il fatto non sussiste». I famigliari delle piccole vittime si sono scagliati contro tutti, contro il giudice monocratico, contro i carabinieri, contro gli avvocati difensori. Sono volate sedie, tavoli, insulti, bestemmie. Sugli insulti agli avvocati difensori va detta una cosa. Sì, certo, quando c’è una strage e gli avvocati della difesa riescono a strappare una sentenza di assoluzione per tutti i loro assistiti, hanno vinto. Ma non per questo sono colpevoli. La sentenza è una valutazione che scaturisce dallo scontro tra il massimo di difesa e il massimo di accusa.

Qui il problema è che la sentenza, per quel che sappiamo finora (aspettiamo tutti, con molta ansia, le motivazioni) scavalca le prove pro e contro, va al fatto, e stabilisce che «Il fatto non sussiste». Pare quasi che la sentenza si chieda se il terremoto è colpa di qualcuno degli imputati, e risponda, giustamente, di no. Ma il problema è un altro: come mai il terremoto è venuto per tutti ma una sola costruzione s’è sfasciata in quel modo, sbriciolandosi in polvere? Quella costruzione era «predisposta» allo sfasciamento? Aveva una debolezza strutturale, insita nel modo in cui era stata fatta, e poi rifatta, con quel sovraccarico enorme dovuto alla sopraelevazione? È questo che doveva giudicare la sentenza. Se qualcuno ha controllato l’edificio e ha emesso un certificato di agibilità, è quel qualcuno che va giudicato, perché col suo certificato ha avallato tutte le opere a monte. Se quel certificato non esiste (l’accusa dice di non averlo mai visto), va giudicato chi doveva emetterlo e non l’ha emesso: è come se l’avesse emesso falso. Qui ci sono 28 morti. Questo fatto, purtroppo, sussiste.


fercamon@alice.it


Pubblicato il: 15.07.07
Modificato il: 15.07.07 alle ore 14.41  
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Titolo: FERDINANDO CAMON...
Inserito da: Admin - Luglio 31, 2007, 06:19:57 pm
La violenza è adesso
Ferdinando Camon


Faccio una premessa, e prego il lettore di non ritenerla a priori priva di rapporti col caso di Rignano, perché il rapporto lo spiegherò alla fine. Una bimba inglese è stata rapita in Portogallo. Quale mostro la tiene con sé? Che cervello ha? Che pensieri? Dopo tante settimane senza il minimo risultato, d’improvviso una notizia strana. Son finiti sotto accusa i genitori, per questa semplice ragione: perché l’hanno lasciata sola e sono andati al ristorante. Che genitori sono? Mi trovo in linea con questa decisione. Una bambina lasciata sola in una casa deserta, per il tempo di una cena al ristorante, può andare incontro a tante brutte avventure. Una, purtroppo, è accaduta.

Adesso torniamo a Rignano. Sulle «cose cattivissime» successe a quei bimbi, l’accusa insiste perché vuol sapere di più, sempre di più. La difesa insiste perché vuol negare un particolare, un altro particolare, tutto. I bambini, a quell’età, hanno chiara solo una cosa, che quel che vogliono papà e mamma è buono, ma qui papà e mamma hanno tante protesi (avvocati dell’accusa, avvocati della difesa, carabinieri, giudici, psicologi), e i bimbi non hanno chiaro dove devono andare, avanti o indietro. Se dire tutto o negare tutto. O, secondo la difesa, se inventare tutto o smentire tutto. Ogni volta che leggiamo le parole virgolettate di uno di quei bimbi, sentiamo una cosa: che riattualizzando quelle esperienze, se furono esperienze, o ripetendo quelle fantasie, se sono fantasie, questo momento (ieri, oggi, domani) diventa comunque, nel conscio e nell’inconscio dei bambini, il momento che fonda la verità. Se quelle furono esperienze, ne escono completate nei particolari che mancavano, e in futuro fermenteranno nella psiche dei bambini non per come accaddero ieri, ma per come si fissano adesso; e se sono fantasie, ormai hanno soppiantato la realtà, son diventate più vere del vero, sono la realtà, sono la vita, e i bambini si caricano addosso quel passato così come una parte dei genitori, una parte dei giudici, una parte degli uomini di legge lo vogliono. Sto dicendo una cosa sgradevole: l’opinione pubblica ritiene che, se qualcosa è accaduto, anzi se molto è accaduto, dirlo e ridirlo adesso, e perfino mimarlo in quello che si chiama incidente probatorio, abbia il potere di dissolverlo, liquidarlo. Le parole liberano. Questo crede l’opinione pubblica, e anche una buona parte dei giornali. Cominciamo invece a temere che non sia così. Che la vera esperienza distruttiva che segnerà questi bambini non stia nel passato, ma stia nel presente, questo presente. È adesso che i bambini urtano contro la difficoltà di dire, contro vergogna di dire, che è poi la vergogna che la madre (che racchiude in sé la morale e il mondo) venga a sapere. Comunque stiano le cose, fra trenta o quarant’anni, quando questi bambini saranno diventati adulti e avranno a loro volta dei bambini e riandranno con la memoria al loro passato (quello che adesso è il loro presente), lo recupereranno e lo patiranno e lo giudicheranno per quello che appare sui giornali, sui notiziari, sulle agenzie, sui tg: il lievito del male sta qui. Non sto dicendo che bisogna lasciar perdere tutto e non indagare. Sto cercando di dire che i valori da tener d’occhio non sono uno solo (la giustizia), ma sono due: la giustizia e il futuro dei bambini. In questo momento, per come si sta svolgendo l’incidente probatorio, del secondo non si cura nessuno.

Se fosse vera soltanto la metà del racconto dei bambini, se loro avessero potuto essere trasportati di qua e di là, in auto o in pulmini, se ci fossero case nei dintorni, dove venivano usati come agli adulti piaceva, se perfino qualche vigile avesse visto, allora s’imporrebbe una conclusione: dove stavano i genitori? Dove stava tutto il paese? È la stessa conclusione che s’è imposta per la bambina inglese rapita in Portogallo.

fercamon@alice.it


Pubblicato il: 31.07.07
Modificato il: 31.07.07 alle ore 9.16   
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Titolo: FERDINANDO CAMON - Ultimo dubbio sulla strage di Bologna
Inserito da: Arlecchino - Agosto 09, 2007, 04:52:32 pm
Ultimo dubbio sulla strage di Bologna
Ferdinando Camon


Negli anni 70 c’era a Padova, vicino al Liviano, che è la Facoltà di Lettere, una libreria aperta solo al giovedì, dalle 22 alle 24. Aveva anche materiale proibito per legge. Mi ci sono recato tre volte. La libreria non aveva vetrina, ma una saracinesca sempre abbassata. Sul campanello, la sigla Ar. Come Ariani, Ares, aretè, aristocrazia: guerra, virtù, razza eletta. Suonavo il campanello, qualcuno veniva a prendermi, mi accompagnava per un corridoio semibuio, e di colpo mi trovavo nello stanzone dei libri: un paralitico su una sedia a rotelle m’interrogava, chi ero, che libri volevo, perché. Tra i libri che ho comprato ce n’era uno che spiegava perché chi vuole cambiare la storia ha bisogno di una strage. Stavo scrivendo un romanzo sul terrorismo, Occidente, e nella parte in cui esponevo l’ideologia del gruppo terrorista calai interi brani di quell’opuscolo. Anni dopo, con mio stupore, con mia paura, la polizia che indagava sulla cellula terroristica incriminata per la strage di Bologna, trovò un quaderno in cui eran riportati quei brani, undici pagine del romanzo, copiate a mano, tutte in caratteri maiuscoli. La polizia ritiene che la cellula neofascista si riunisse per discutere quelle ragioni e farle proprie. Lì starebbe «il movente» della strage di Bologna. Non è un movente «piccolo», non si tratta di punire un traditore o eliminare un avversario. Si tratta di «inginocchiare il popolo». Un popolo messo in ginocchio è disposto a cercare la protezione di chiunque abbia la forza e la potenza di garantirgli non più la giustizia o la democrazia, traguardi inferiori e scaduti, ma la protezione, nuovo traguardo immediato e necessario. La ragione principale per cui alcuni (e non sono pochi) dubitano che i condannati per la strage di Bologna (il Fioravanti e la Mambro) siano i veri colpevoli, è la distanza tra il livello della strage e il livello a cui quei personaggi vivevano la loro vita (vedo che è anche il dubbio dell’ultimo, e riassuntivo, libro sulla strage di Bologna, che esce adesso: Tutta un’altra strage di Riccardo Bocca, editore Bur, pagg. 261, euro 10,20. È questo il libro che mi suscita i ricordi che rievoco qui). Fioravanti e la Mambro sono personaggi da «regolamenti di conti». La strage di Bologna richiede molto di più. Richiede organizzazioni internazionali o Stati terroristi. Quelle 11 pagine furono inserite nell’arringa dell’accusa e nella sentenza di condanna all’ergastolo. La Mambro ha un fratello. Il fratello venne a casa mia per un colloquio. Lui non metteva in discussione che la sorella avesse ucciso diverse persone, ma affermava la sua assoluta innocenza riguardo a quella strage. Sui rapporti fra ideologia e morte, teorie stragiste e stragi eseguite, avevo avuto un incontro e un dialogo con un altro personaggio: il terrorista «nero», che descrivo nel romanzo. Era stato condannato all’ergastolo per la strage di Piazza Fontana, poi assolto, poi ri-condannato ad altre pene. In quel momento era agli arresti domiciliari a Brindisi, mille chilometri da casa mia. Mi chiede un incontro. Vado a Brindisi, quattro ore di colloquio, io seduto lui in piedi (è «l’uomo che non si siede mai»), io a far domande sul «diritto di strage», lui a ribadire che «il capo» ha questo diritto, è un diritto-dovere che il capo esercita perché il capo è lo strumento di un destino che lo scavalca, chi viene sacrificato da questo diritto trova il suo senso nel sacrificio. Era stato condannato per strage e poi assolto, ma avendo letto le sue opere mi ritenevo in diritto di porre di nuovo il problema, non come problema giuridico ma come problema etico. E gli chiesi: «Lei è innocente?». Lui mi passò alle spalle e mi sussurrò all’orecchio destro queste parole: «È innocente non colui che è incapace di peccare, ma colui che pecca senza rimorsi». Fu la sua ultima risposta. Mi torna in mente ogni volta che sento una strage, Eta, Ira, Al Qaeda, Afghanistan, Iraq, Palestina, kamikaze vari: la strage è possibile solo se colui che la fa porta dentro di sé un codice morale che lo assolve. Lo stragista è più sereno dopo che prima. Più «puro», più «santo». Più «in pace». Ora, è questo il problema per i due principali condannati per la strage di Bologna: tutto giustificano della propria vita, delitti su delitti (13 lui, 16 lei), ma rifiutano solo quella strage.

L’inchiesta di Riccardo Bocca propende per la tesi colpevolista: quei condannati sono i veri colpevoli. Ma non è una tesi fermissima. L’ultimo capitolo è un dialogo con Cossiga, che quella tesi la rifiuta in toto. Il problema sta qui: se le ragioni della strage sono quelle e se gli autori sono quelli, ora che hanno scontato la pena trarrebbero coerenza e grandezza dalla rivendicazione. Ma non l’hanno mai fatta. Non la faranno mai.
Perché?


Pubblicato il: 09.08.07
Modificato il: 09.08.07 alle ore 14.16   
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Titolo: FERDINANDO CAMON... Lavoro, morte antica
Inserito da: Admin - Settembre 21, 2007, 10:18:42 am
Lavoro, morte antica

Ferdinando Camon


Nelle industrie più moderne si continua a morire nella maniera più antica: l´uomo ucciso dalle macchine. Lunedì è toccato a una ragazzina di 21 anni, un esserino da niente, quasi invisibile, alta un metro e cinquanta, peso 40 chili, di nome Jasmine (cognome italiano, Marchese). Aveva un fidanzato che, come sempre in questi casi, vien chiamato fidanzatino. E stavolta il diminutivo ci sta meglio che tutte le altre volte, perché questo ragazzino mi pare di averlo visto nei tg locali, ma sfumato, perché sarebbe minorenne. Un amore prima di essere amore. O, se volete, un amore finché è ancora amore. Poi diventa un´altra cosa: relazione, matrimonio, affitto.

La fabbrica è una delle migliori del mondo, anzi probabilmente la migliore del mondo, nel suo settore. Produce semilavorati del legno. Ha 750 dipendenti. Una potenza. Di recente ha aperto una filiale nel Kentucky, e con quella balza al ruolo di leader mondiale. Se avete letto questo, avete già capito dov´è: nel Nord-Est, a Salgareda, provincia di Treviso. Salgareda è il paese dove aveva messo su casa Goffredo Parise, ritiratosi dalle metropoli e dall´azienda del Padrone, dal Vietnam e dalla carneficina americana doc. Sui giornali locali, l´incipit della notizia dice così: «Morta a 21 anni, di notte, sul lavoro, precaria, schiacciata da una macchina». Queste poche parole sono troppo dense, bisogna diluirle. Morta a 21 anni: uno di 50 anni, facendo lo stesso lavoro, non muore allo stesso modo, perché ha esperienza. Questa ragazzina, probabilmente, è stata incauta.

Siamo a fine settembre. Nelle zone di ripopolamento si liberano le lepri. Nei primi giorni di caccia verranno ammazzate con facilità, perché non sono sveglie. Vengono dagli allevamenti protetti, dove niente gli faceva male, non sanno che adesso sono affidate alla vita libera, dove tutto è lotta. Questa ragazzina veniva dall´infanzia-adolescenza, continuava a sentirsi al sicuro, non sapeva che, nel mondo del lavoro, i pericoli sono dappertutto. E non sono necessariamente «colpevoli»: il Nord-Est non è una selva selvaggia, e una azienda come questa, leader mondiale, ha occhi sindacali da ogni parte. Probabilmente non c´è da dare la caccia all´errore o alla colpa. Probabilmente la fonte della tragedia è nella norma.

Guardiamo ancora quel sunto iniziale della notizia: «di notte, sul lavoro, precaria». È morta alle 22, il suo turno andava dalle 18 alle 24. Ed era precaria. Il segretario della Cisl dice: «Almeno 200 lavoratori di questa azienda sono precari, e i precari non hanno un´adeguata formazione in materia di sicurezza». I proprietari (due fratelli) ribattono: le quote di lavoratori interinali sono concordate con i sindacati e le misure di sicurezza sono massime. Probabilmente è tutto vero, ma se è così potrebbe significare che quelle quote sono troppo alte, 200 precari su 750 sono tanti, e se quei precari sono meno preparati degli altri sul piano della sicurezza, ecco che il rischio si fa pesante. Troppo pesante. «Quella ragazza non doveva trovarsi lì», dice l´azienda. Fosse stata più grande, e cioè fosse diventata un automa, come ogni lavoratore prima o poi diventa (Parise lo racconta in libri che dureranno secoli), non si sarebbe trovata lì. Ma non era ancora grande. Era una bambina, una piccola, immatura fidanzata.

Da fidanzata, aveva appena mandato un sms al fidanzatino: «Lascio il mio solito tavolo, mi sposto». Il fidanzato lo sapeva, ma i colleghi di lavoro no. Uno di loro, manovrando un muletto, urta per sbaglio una pressa da 10 quintali alta 2 metri e mezzo. La pressa oscilla e cade. Jasmine è lì dietro. L´investitore ha uno choc tale che a sera, tornando a casa, si schianta da solo con la vettura. Adesso è grave. Nel lavoro si rispettano le norme per tutte le previsioni. Ma evidentemente non basta, bisogna allargare le previsioni. Adesso gli operai dicono: «Quella pressa bisogna fissarla al pavimento». È vero. In questo momento, la stanno fissando. Troppo tardi, per Jasmine.
fercamon@alice.it

Pubblicato il: 20.09.07
Modificato il: 20.09.07 alle ore 13.14   
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Titolo: FERDINANDO CAMON - Il Tradimento di Cortina, per denaro
Inserito da: Admin - Ottobre 31, 2007, 12:10:28 am
Il Tradimento di Cortina, per denaro

Ferdinando Camon


A Cortina d’Ampezzo s’è svolto il referendum sul passaggio dal Veneto all’Alto Adige, e la stragrande maggioranza ha votato Sì. Tra il Sì e il No la proporzione è di 4 a 1. È una coltellata al cuore della nazione. Tra tutti i referendum per lasciare il Veneto e passare al Trentino-Alto Adige, quello di Cortina d’Ampezzo è il più doloroso. Perché Cortina è venetissima. Perché sta al turismo vacanziero come Venezia sta al turismo artistico: Cortina è la seconda Venezia del Veneto; perché è arricchita dai vacanzieri di Treviso-Vicenza-Verona-Padova, gran parte dei veneti vanno a fare le vacanze lì, la sentono come una loro cassaforte, dove lasciano volentieri il loro denaro.

Perché è un confine: di qua nazione Italia e lingua italiana, di là Alto Adige e lingua tedesca; perché è stata l’obiettivo da difendere di un intero corpo di alpini, il Settimo Reggimento chiamato “Cadore”, che aveva il comando a Belluno; perché le canzoni d’amore per Cortina sono decine, «bombardano Cortina, / dicon che gettan fiori, / tedeschi traditori, / è giunta l’ora / subito fora / dovete andar»; perché ha una forte concentrazione di seconde case, in gran parte dei veneti, e quando scoppia il caldo, che in pianura è afoso e irrespirabile, i professionisti veneti portano a Cortina moglie e figli, e loro stanno giù a lavorare, salvo salire, con una breve sgroppata in auto, dal sabato alla domenica. Perché è un centro culturale e di intensa lettura, l’unico centro del Veneto dove si smerciano libri: tu presenti un libro a Cortina in estate, e in una settimana vendi duemila copie. Per un veneto, andare a Cortina è come restare in patria. Oltrepassare Cortina, vuol dire cambiare lingua, gente, moda, cibo, pantaloni. Anche chi non fa turismo di montagna conosce la Val Fiscalina, è quella dove sul finire dell’estate è franata quella parete della Cima Una, un lastrone di settanta metri di base per cento di altezza: bene, venendo dall’Alto Adige e proseguendo ancora un po’, arrivi in vista di Cortina, c’è un ristorante lì sul confine, ed è l’ultimo ristorante di lingua tedesca. Può una città del genere, con questa storia, questa lingua, questa economia, cambiare regione, passare da una regione “italiana” a una regione “tedesca”? È un tradimento. Comunque vada il tradimento, una traccia la lascerà: il rapporto dei veneti con Cortina non sarà più lo stesso. Le ragioni di questo tradimento, e di ogni tradimento di tipo secessionista, sono due, ma una vera e una falsa. Falsa: i cortinesi rimpiangono l’unità con i ladini, perché dopo la seconda guerra mondiale Cortina è finita sotto Belluno, i fratelli ladini in Alto Adige. È una “copertura”. La copertura è la ragione nobile che copre una ragione meno nobile, però la meno nobile è più vera. Ed è più semplice: se passa di là, Cortina avrà più soldi. Per 100 euro che raccoglie di tasse, l’Alto Adige, con i ritorni e le sovvenzioni dello Stato, ne ha a disposizione 130-140, mentre il Veneto, per ogni 100, gliene restano 70, sì e no. Indichiamo cifre intermedie, perché le cifre correnti sono varie. Questo discorso, della sperequazione nei rapporti Stato-regione, ha un senso drammatico per i piccoli Comuni, ma non certo per Cortina: Cortina è ricca, e la ricchezza gliela regala il Veneto, che lei adesso vuol abbandonare. Se prosegui in auto oltre la Val Fiscalina e giri a destra e passi in Austria, vedi un brusco calo della ricchezza: di qua tutto è sontuoso, ville, paesi, strade, negozi, balconi, vallate, di là in Austria tutto è poveraccio. Quando c’era il Settimo Alpini, si eseguivano manovre ogni mese, per bloccare infiltrazioni del nemico e salvare le nostre città. Per la Julia (Ottavo Alpini) la città da salvare era Trieste, per la Cadore Cortina. Adesso Cortina vuol abbandonare i suoi salvatori «per denaro». Non si capisce più cos’è la storia, la patria, la regione a cui appartieni. Una regione si disgrega, la storia si spappola.

Pubblicato il: 30.10.07
Modificato il: 30.10.07 alle ore 11.36   
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Titolo: FERDINANDO CAMON - Il Nazismo dell’ultima Lega
Inserito da: Admin - Dicembre 06, 2007, 11:03:16 pm
Il Nazismo dell’ultima Lega

Ferdinando Camon


Chi parla così, è fuori di testa: a Treviso un consigliere comunale della Lega Nord dichiara: «Se alcuni toccano la mia famiglia, io non applico la legge del taglione, ma la legge delle SS: per uno dei miei, dieci dei loro». Sono sparate, fra il turpe e il grottesco. Ma chi fa sparate del genere è un fessacchiotto? Si suicida, politicamente parlando? Intanto, per ragionare, mettiamo a posto le notizie. A Cittadella, il sindaco ha emanato la famosa (anche troppo) ordinanza del reddito minimo vitale: chi chiede la residenza, ma non guadagna almeno 5mila euro all’anno, non l’avrà. E tutti i giornali: è fuori della legge, il procuratore Calogero lo inquisisce. Non è così. L’ordinanza fa un passetto di troppo, e cioè prevede che un’apposita commissione segnali al questore o al prefetto i casi in cui colui che chiede la residenza non dimostra di poter vivere con mezzi legali. L’avviso di garanzia di Calogero è su questa commissione. Con la quale, pensa Calogero, il sindaco usurpa un potere che è solo dello Stato, decidere chi entra e chi no.

Ma il vivere legalmente non è un concetto leghista, se ne sta discutendo anche nella maggioranza. Dopo Cittadella, c’è stato il caso di cinque sindaci dei Colli Euganei, tutti di Alleanza Nazionale. I cinque sindaci han fatto sapere che trovano difficoltà a concedere la cittadinanza italiana a immigrati che secondo il ministero dell’Interno sono in regola e ne hanno diritto, ma che però, invitati a leggere un breve giuramento, non non sanno leggere l’italiano, e interrogati su due-tre principi della Costituzione, non la capiscono. Scusate, ma qui c’è un problema: uno che non capisce la lingua italiana e non ha la minima idea di che cos’è la nostra Costituzione, e se riceve una lettera dal Comune o dallo Stato non riesce a decifrarne una parola, su che base può diventare cittadino italiano, come me, come voi? Perché le istituzioni, invece di far finta di nulla, non li mettono nelle condizioni di imparare la nostra la lingua? Non è detto che i sindaci di Alleanza Nazionale, perché sono di Alleanza Nazionale, siano dei nemici del genere umano. Sono di destra, e hanno il pallino della sicurezza. Ma perché la sicurezza non dev’essere un valore anche per la sinistra? A tutti quei cinque sindaci (più altri quindici) io ho scritto dicendo: «Scusate, nel vostro comune ci sono stati dei partigiani fucilati e impiccati, e nessuno ne sa più niente; perché non stampiamo un volumetto da 4-5 euro, da regalare agli studenti delle superiori? Mi date un po’ di soldi?». Tutti me li han dati. Non mi hanno sputato addosso. E io non gli sputo addosso.

Il discorso cambia quando si arriva al maiale. Dalle parti di via Longhin, estrema periferia di Padova Est, dove sta un mio amico pittore che sulla casa ha scritto: «Portatevi indietro i preservativi usati», il comune concede il terreno per una moschea, e subito 5-6 leghisti sono corsi sui campi incolti con un maiale al guinzaglio, per farlo pisciare. Ora il terreno è, musulmanamente parlando, immondo. Gli islamici si stanno consultando per capire se e come quel terreno si possa de-immondizzare, in maniera da farci sopra la loro moschea. La passeggiata col maiale al guinzaglio è stata la vera porcata leghista, altro che il Porcellum. È come se uno ti chiede da mangiare, tu gli dai un panino, ma mentre glielo consegni gli scarichi sopra uno sputacchio. Fa schifo il panino e fai schifo tu. Anche la Lega ha preso le distanze della passeggiata maialesca. Non le fa bene, non le porta voti, e qualcuno dei voti che continuerà a ricevere (la Lega è immortale, perché nasce su un problema che non è morto) le verrà dato con un conato di nausea. Adesso vien fuori la legge delle SS: se un clandestino fa un reato, tu punisci non un clandestino ma dieci. Una cosa del genere, non è un reato farla, ma anche solo dirla. Allora, perché queste cose i leghisti le dicono? Sono stupidi? Ma no. La Lega s’è ridotta al 4%, il suo esercito s’è sfasciato, quel 4% è la guardia imperiale, non deve disperdersi. Nel fragore della battaglia, quando l’esercito va in rotta, i soldati scozzesi suonano le cornamuse: i dispersi e gli spaventati, sul punto di gettare le armi e scappare, sentono le cornamuse, e accorrono al richiamo. Queste grida demenziali sono un «rappel à l’ordre». Che significa: «Ci stanno distruggendo, non facciamoci ammazzare». Però, come non è palesemente priva di senso la dichiarazione sulla lingua italiana che bisogna sapere per avere la cittadinanza, anche questa invocazione psicotica alle SS contiene un messaggio inconscio, che lo zoccolo duro di Lega e dintorni intende con la pancia e con i nervi. E non significa: «Se uno fa un reato, mettiamone in galera dieci», ma significa: «Se dieci fanno dei reati, cerchiamo di metterne in galera almeno cinque, e che ci restino». Non succede mai. La Lega è fuori-storia, la Storia non dà ragione alla Lega. Purtroppo, le dà degli alibi.
fercamon@alice.it

Pubblicato il: 06.12.07
Modificato il: 06.12.07 alle ore 9.06   
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Titolo: Ferdinando CAMON - La voce del padrone
Inserito da: Admin - Dicembre 23, 2007, 10:49:05 pm
La voce del padrone

Ferdinando Camon


C’è tutto, nella telefonata fra Saccà e Berlusconi: sulla Rai, sul Senato, sui consiglieri fedeli al Cavaliere, su come nascono i telefilm, come vengono scelte le attrici, come si cerca di far cadere il governo. La politica è un temporale buio, le telefonate come questa sono i fulmini che mostrano cielo e terra. Guardiamoli.

Anzitutto, il contatto. È Saccà che chiama, ma non può chiamare direttamente il presidente.

Saccà chiama una segretaria. Il contatto significherebbe parità, ambedue alla stessa altezza. Qui uno sta in alto e l’altro in basso. Il presidente saluta: «Agostino!», per nome. Chiamando uno per nome, lo tocchi nella persona, non nel ruolo. La persona toccata non può toccare, deve rispettare la distanza: «Presidente!». Presidente è il ruolo, il potere. Cosa fa il debole di fronte al potente? Lo serve? Troppo poco. Il potente disprezza il servitore, e il servitore che offre un servizio si offre al disprezzo. Il servitore deve dichiarare un’altra cosa: amore. «Lei è sempre più amato», dice Saccà. Chi ama, innalza l’amato, e abbassa se stesso. Si presenta come un niente a un tutto. Ma il tutto, che sa di essere tutto, che tutto è? Economico? Politico? Molto di più: l’economico ha soldi, il politico ha un partito, ma stanno in terra. Berlusconi, con un salto mitopoietico, si alza fra terra e cielo, e colloca il suo potere nel sacro. Dice: «Mi scambiano per il papa». Il papa è il vicario del figlio di Dio. Guardando il papa lo vedi in alto, tra umanità e divinità, e provi il bisogno di adorare quel che lui rappresenta e piangere sulla miseria che tu sei. Con un èmpito creativo che lo fa non-mediocre, Saccà dice di rivolgersi al papa senza «piangeria», che è una piaggeria prossima al pianto: da lui escono preghiere e lacrime. Come dai fedeli di Lourdes, ma anche dalle ragazzine di fronte ai Beatles. La formula di chi riceve il Dio è: «non sum dignus». La usa Berlusconi: «Sono indegno», ma in lui diventa una formula attiva, non passiva, introduce l’indegnità fra lui e gli uomini, sono gli uomini che sono indegni di lui. Colui che ci fa sentire indegni è il nostro stupore, «stupor mundi». «Ma è stupendo» esclama Saccà, anzi meglio Agostino. «Stupendo» è ciò che abbiamo davanti a noi, il «vuoto» è dentro di noi. La frase di questo Agostino: «C’è un vuoto... che lei copre anche emotivamente», vale l’«inquietum est cor meum» di un altro Agostino. Noi siamo inquieti, ma ciò che adoriamo è per definizione quieto: noi dobbiamo muoverci, lui è il motore immobile. Noi siamo estasiati, ma ciò che ci fa estasiare non fa nulla, estasiare è nel suo essere, perciò rimane imperturbato, anzi annoiato. La sequenza: Saccà: «È bellissima», Berlusconi: «Vabbè... e allora?», mette a contatto due sfere, l’adorazione e la noia. I due parlano del consigliere Urbani, Saccà è cauto, non sa come lamentarsene: Urbani è vicino al padrone, c’è il rischio che oscurando Urbani un’ombra cali sul padrone. Il padrone non corre questo rischio: «Urbani fa lo stronzo, no?». «Stronzo» non è un’offesa, è un insulto de-semantizzato, perfino affettuoso, corre fra amici.

Saccà soffre che un comandante subalterno faccia lo stronzo e il comandante supremo ci scherzi sopra, ma sa di non poterci fare nulla, però ecco il suo potere: lui può spingere il comandante supremo a mettere in riga i disobbedienti, e in tal modo Saccà si mette sopra e davanti al comandante, lo scuote e lo indirizza: «Li richiami all’ordine, Presidente!». In questo modo si colloca rispetto al presidente più vicino di coloro che bisogna richiamare all’ordine, in un certo senso è lui che li richiama all’ordine. L’accenno al film su Barbarossa e al regista e alle attrici a cui trovare un ruolo da qualche parte è un tram che ci sbatte in faccia. Noi pensavamo: un film si fa perché il progetto è nell’aria, un regista si sceglie perché è fatto per quel progetto, un’attrice perché è tagliata per quella parte. Qui Berlusconi vuole il film su Barbarossa, ma lo chiama «cavolo di fiction», perché è Bossi che lo vuole, dunque la sequenza che noi credevamo storia-arte-film-Rai diventa Bossi-Berlusconi-Saccà-cavolo. Quando uscirà il «cavolo», noi che scriviamo, in sede di recensione, dovremo trovarne i significati filosofici e metafisici. C’è un’attrice da sistemare in qualche parte. Lo chiede Berlusconi, che non la conosce, ma quell’attrice gli serve per... far cadere il governo.

C’è un senatore del centro-sinistra che se viene sistemata la sua attrice 10E noi, se il governo cade, cercheremo di capire perché: poco welfare, troppo welfare. E invece sarebbe una donna, che una volta sistemata sarebbe grata al senatore, che per quella gratitudine sarebbe grato al presidente. Dicono che tutto questo è privacy, da rispettare. Come se, cadendo il governo, cadesse privatamente. Se davvero tutto questo è privacy, allora tutta la nostra vita è diventata una faccenda privata del potere.

fercamon@alice.it



Pubblicato il: 23.12.07
Modificato il: 23.12.07 alle ore 15.04   
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Titolo: Ferdinando Camon - Grave errore contestarlo
Inserito da: Admin - Gennaio 16, 2008, 11:20:14 pm
Grave errore contestarlo

Ferdinando Camon


Il Papa ha rinunciato a parlare all’Università di Roma: troppi ostacoli, troppi nemici, troppa ostilità. Troppi errori. All’inizio era stato invitato a tenere la Lectio magistralis, che è come dire a tracciare il solco, col senso che su quel solco sarebbe passato il sapere che l’università impartisce ai suoi studenti. In un secondo momento fu spostato in coda, non avrebbe parlato alle 9,30 ma alle 11: ma questo non cambiava nulla, chiunque avesse parlato prima di lui era destinato a sparire dopo che avesse parlato lui.

Infine si stabilì che mentre lui parlava potesse svolgersi una manifestazione di dissenso dentro lo spazio universitario, dissenso che non avrebbe contestato i contenuti del suo discorso (ancora sconosciuti), ma il suo diritto di parlare, la sua persona, la sua presenza, la sua biografia. A questo punto, il Papa ha deciso di rifiutare l’invito.

E così diventa il Papa a cui non è stato permesso di parlare in una università italiana, gli è stato confezionato un invito in maniera tale che lui ha considerato più dignitoso respingerlo. Una università italiana ha chiuso la bocca al capo della Cristianità. Per quell’università, per l’università in generale, per la cultura, per la libertà di parola, ma anche per il rapporto laici-cattolici, è un naufragio. Bisognava evitarlo. Era meglio che parlasse. Era giusto che parlasse. E questo non significa (a priori) che lui avrebbe detto cose giuste: sulle cose si poteva poi discutere, come scienza e coscienza impongono. E come ogni università, formatrice della scienza e della coscienza, insegna.

Il rifiuto al Papa di parlare all’Università non è un rifiuto in nome dell’università, è contrario al principio dal quale nasce l’istituto dell’università; non è un rifiuto nel nome di Galileo, ma nel nome di coloro che costrinsero Galileo all’abiura; chi dice che rifiuta l’entrata del Papa così come la rifiuterebbe ai leader che ritiene illiberali, non oppone a quei leader illiberali l’atteggiamento della libertà, ma adotta il loro stesso sistema. Perciò il dubbio è che coloro che si oppongono oggi a che il Papa parli all’università, sarebbero stati contrari ieri a che Galileo pubblicasse le sue tesi.

Vietare che un oratore parli, e vietare che chi vuole ascoltarlo lo ascolti, è come vietare che uno scrittore scriva, e che chi vuole leggerlo lo legga. È come bruciare i libri. Hanno bruciato il libro del Papa. Dal rogo dei libri non viene nessuna civiltà, viene la fine della civiltà. Hanno osteggiato il Papa all’università ufficialmente per il suo atteggiamento verso Galileo. La frase del filosofo austriaco Paul Feyerabend (un anarchico della scienza) su Galileo («La Chiesa dell’epoca di Galileo si attenne alla ragione più che lo stesso Galileo»), Ratzinger l’ha fatta sua ipotizzando che il galileismo possa essere stato smentito dal relativismo: come se questo potesse sminuire l’errore della Chiesa. In realtà Galileo scavalcò la razionalità dell’epoca, e non solo la Chiesa, ma l’epoca tutta ebbe difficoltà a seguirlo. Galileo aveva capito una cosa «troppo grande».

Ma proprio perché la cosa era troppo grande, aver sbagliato su quella cosa fu per la Chiesa un errore troppo grande. Più che un errore di scienza, fu un errore di metodo. Perché non solo costrinse Galileo ad abiurare alle sue scoperte, ma lo costrinse a giurare di non indagare più su quella materia, e a denunciare i colleghi scienziati, di cui fosse venuto a conoscenza, che svolgevano le stesse indagini. Non condannò una scoperta, condannò la scienza. Il risultato fu l’entrata del dubbio nel sistema cattolico. Se la Chiesa ha sbagliato con Galileo, può aver sbagliato con Darwin. Marx. Freud. Se ha sbagliato su come vanno le cose in cielo, può sbagliare su come si va in cielo. Il che vuol dire che si può essere cattolico discutendo e confliggendo con la Chiesa cattolica. Sui gay. Sull’eutanasia. Sull’aborto. Perfino sull’Inferno. C’era un vescovo che predicava la non-esistenza dell’Inferno, gli fu tolta la cattedra, fu minacciato di scomunica, ai tempi di Galileo lo avrebbero mandato al rogo, al tempo di Giovanni Paolo II è stato fatto cardinale (Hans Urs Von Balthasar). Se su Galileo la Chiesa ha commesso un errore di metodo, la cultura laica che adesso costringe il Papa a rinunciare a parlare all’università commette lo stesso errore di metodo. Se è un errore del bigottismo, questi sono i bigotti laici.

fercamon@alice.it



Pubblicato il: 16.01.08
Modificato il: 16.01.08 alle ore 8.11   
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Titolo: FERDINANDO CAMON - Duecento euro per Olindo
Inserito da: Admin - Gennaio 25, 2008, 04:44:00 pm
Duecento euro per Olindo

Ferdinando Camon


Ma perché c’è gente disposta a pagare 200 euro per avere un biglietto di prima fila nel tribunale che processa Olindo e Rosa? Il tribunale ha stampato un numero di biglietti pari al numero dei posti, niente ressa, perfino i giornalisti sono razionati. Ma i bagarini han fiutato l’affare, e si son procurati biglietti da rivendere ai maggior offerenti. Che non mancano. Cosa si compra, comprando quel biglietto? Nei lanci delle agenzie, ieri, e nelle pagine dei giornali che davan questa notizia, la notizia era affiancata da un’altra, che riguardava il delitto di Perugia.

Pare che salti fuori un testimone. Può essere un megalomane, aspettiamo. Però intanto riflettiamo su quel termine, usato dalla difesa di Raffaele: «un megalomane». Un megalomane è uno che ha voglia di cose grandi, vuole ingrandire la propria vita, restando quel che è soffoca, se entra in uno spazio più grande respira. Ed entrando nello spazio del grande delitto sta meglio, si sente più realizzato, se ci riesce si salva, altrimenti si sente sprecato. Sull'habitat sociale e morale da cui è nato il delitto di Perugia grava una confessione di Raffaele, che ha detto: «Avevamo bisogno di sensazioni forti».

Non dico che Raffaele sia l'assassino, non lo so e non lo affermo, dico che ha espresso bene il suo status di studente fuori-casa, degli altri studenti fuori-casa (e molti fuori-patria e fuori-lingua), delle gioventù di tutto il mondo riunite insieme, e (su questo è stato chiaro) dei giovani come lui che si strafanno di canne fino a non sapere più se han dormito con la ragazza o no, se han fatto sesso o no, se han fatto la doccia a casa di lei o lei a casa di lui. Sono in un'altro mondo, in un'altra dimensione. Per entrare in quel mondo, devono smettere questo corpo, con questi nervi e questa mente, ed entrare in un altro corpo, con altri nervi e altra mente. Le canne, le pere e le sniffate (spesso la prima parola, più tenue, si usa per coprire le altre) stanno al passaggio dal primo corpo al secondo come la fiala chimica sta al dottor Jekyll che diventa mister Hide.

Vedere l'altro mondo è un modo per accettare di vivere in questo. Le emozioni forti servono a reggere la noia, a tenerla a bada. «Noia» e «indifferenza» sono concetti elaborati dalla letteratura italiana, quella francese preparava (se si trattasse di scienza, diremmo scopriva), negli stessi anni, due concetti analoghi: l'«estraneità» e la «nausea». Sono le condizioni della nostra vita quotidiana, sono quattro condizioni, ma sono collegate, da una si passa all'altra, e da ognuna si esce cercando emozioni forti, quello che vuole uscire dall'«estraneità» inventa come emozione forte l'omicidio. Qualcuno (tra gli ultimi, Adriano Sofri, nel libro Chi è il mio prossimo, appena pubblicato) spiega la strage di Erba come una strage tra prossimi, una strage del vicinato: lo sterminio dei vicini che ogni vicino inconsciamente desidera, che però non fa, ma se qualcuno lo fa lui corre a vederlo, e questo vedere è un sostituto del fare. Si pensa: pagano 200 euro per vedere in tribunale gli autori o supposti tali (prima han confessato, poi han ritrattato) come pagherebbero 200 euro per uno spettacolo pregiato.

No, non è così. Qui c'è in più, rispetto allo spettacolo, la verità. Sai che la cosa è vera. Ci sono cassette porno sul mercato, che hanno per protagoniste attrici: costano 30 euro, o 40. Ma ce ne sono che han per protagoniste bambine veramente seviziate o violentate in guerra: se ne vuoi una devi entrare in un mercato clandestino, e sborsare sui 200 euro. Perché queste hanno la verità. Ammesso che le prime diano sensazioni forti, queste le danno fortissime. Paghi quel che compri. Per chi è senza-vita, la prima fila al processo di Erba è un alibi che riempie tutta la vita.

Pubblicato il: 25.01.08
Modificato il: 25.01.08 alle ore 15.09   
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Titolo: FERDINANDO CAMON. Mostri sotto casa
Inserito da: Admin - Aprile 26, 2008, 02:30:08 pm
26/4/2008
 
Mostri sotto casa
 
FERDINANDO CAMON

 
Sembrano inventati da una fantasia maligna, per mettere a prova la sensibilità della gente, i due fattacci accaduti nel Veronese e nel Trevigiano.

Uno è un duplice delitto, due coniugi massacrati a martellate, l’altro è una violenza sessuale su una bambina di dieci anni, ripeto dieci. Del doppio delitto si conosce già l’autore: è un immigrato clandestino romeno. Fatta la strage a Lugagnano di Sona, grosso borgo sotto Verona, era scappato ma l’han fermato a Civitavecchia, appena in tempo perché stava per imbarcarsi su un traghetto. Per l’altro caso la piccola parla di un «uomo giovane di pelle nera». Un romeno e un «uomo con la pelle nera»: quando ci si mette, la realtà sa essere più maligna della fantasia.

Lugagnano è un paesotto che di caratteristico, per me che ci abito non lontano, ha un circolo culturale enorme, neanche fosse Milano: i borghi della provincia si sentono tagliati fuori, e far venire illustri conferenzieri è un modo per sentirsi collegati al corpo della nazione. Qui la borghesia s’insedia col tipico sistema delle villette isolate: la villa sta alla borghesia come il castello alla signoria. Le villette attirano i ladri e i rapinatori, perché sono ricche, perché sono separate, le puoi assaltare facilmente, fai quel che vuoi e scappi in pace.

In una villa del genere, non molto lontano, a Gorgo, nel trevigiano, tre rapinatori stranieri, di cui uno romeno, incrudelirono sui due custodi con una ferocia tale che per spiegarla si tirò in ballo la cocaina. Là volevano rubare. Qui a Lugagnano non si capisce cosa voleva il romeno, dal momento che è andato via senza toccar nulla. Ha vent’anni, ancora un ragazzo. Lavorava lì, ma un lavoro saltuario, in nero: dava una mano a ristrutturar la casa. Cos’è successo, perché a un certo punto, a metà del pomeriggio di mercoledì, nel ragazzo s’è scatenata la furia, è cosa che non sappiamo. Lui dice che l’uomo pretendeva delle prestazioni sessuali, e lui non voleva concederle. L’uomo s’è fatto insistente, e la reazione del ragazzo è stata la strage.

Nel dubbio, ragioniamo. Non c’era nessun bisogno di fare una strage. Il ragazzo non era ricattabile, non viveva lì, andava e veniva, poteva fare quel che voleva. Il fatto è che i clandestini si portano addosso due montagne di problemi: i problemi per i quali scappano dalla patria e i problemi che poi trovano qui. Se arrivano disperati, qui scoppiano. Le villette li attirano come il miele le mosche. Nelle villette ci sono sempre mille lavori insulsi da fare, li può fare anche chi non sa fare niente. Ma non è una sistemazione, non c’è lavoro fisso, e vivendo accanto ai padroni diventi matto perché ti rendi conto di tutto quel che non hai. Il sesso ci si mescola spesso, ma quasi sempre tra padroni e badanti: succede perché il padrone ha l’impressione che chi non ha indipendenza economica non possa avere indipendenza sessuale, questa è un’appendice di quella. Sulla vita degli immigrati irregolari si concentrano un sacco di problemi che neanche loro conoscono. Adesso questo romeno lo hanno preso, lo interrogheranno. Ma non credo che spiegherà la strage. La spiegazione non è dentro di lui.

E questo vale ancor più per il presunto violentatore della bambina di dieci anni a Santa Lucia di Piave, provincia di Treviso. L’avrebbe violentata nel modo più semplice e più brutale che si possa immaginare: la bambina era sola in un parco giochi (o in una casa?), l’ha attirata e ha fatto quel che ha voluto. Tornata a casa, lei si lamentava col padre perché sentiva dolore, e da qui si è scoperto tutto. Questi due fattacci, nella coscienza popolare, son riassunti così: vengono in casa nostra a stuprare le nostre bambine (se effettivamente sarà incolpato l’«uomo con la pelle nera») e a spaccarci il cranio a martellate. Si è appena votato, e la Lega qui ha avuto il più grande successo della sua storia. Nulla, in confronto al successo che avrebbe oggi.

fercamon@alice.it
 
da lastampa.it


Titolo: FERDINANDO CAMON. Se lo stupro ha marchio italiano
Inserito da: Admin - Giugno 05, 2008, 10:25:01 am
5/6/2008
 
Figli di un Dio affamato
 
 
 
 
 
FERDINANDO CAMON
 
I popoli denutriti non sono mai stati un rimorso per i popoli supernutriti, perché il mercato, che fa tutte le regole, fa anche le regole della coscienza: tutto è rimesso alla competizione, se non hai il necessario devi procurartelo, se non te lo procuri è colpa tua. La fame di un popolo si spiegava con la sua civiltà: i Primi Mondi si son creati una civiltà della produzione e del consumo, il Terzo e Quarto Mondo non hanno sviluppato né la tecnica né l'agricoltura, hanno un tasso spropositato di analfabeti, regimi antidemocratici, se andiamo a portargli un regime democratico uccidono i nostri soldati, sono sempre in guerra gli uni contro gli altri, tutto questo non abbassa la miseria ma la aumenta, e dal punto di vista occidentale la aumenta giustamente.

Non è soltanto un confronto fra popoli, ma anche fra individui: quando andiamo nei paesi della fame, in Africa, in Asia, in Sud America, e ci confrontiamo con gli indigeni che incontriamo, abbiamo l'impressione di una differenza di merito: noi abbiamo tutto perché facciamo tutto, loro non hanno niente perché non fanno niente.

Si parla di «mal d'Africa» per indicare l'attaccamento all'Africa che prende l'europeo che vi soggiorna per alcuni anni. Ci si domanda se il mal d'Africa esiste. Certo che esiste: è la tua sensazione di essere più che uomo, un dio, in mezzo a uomini che sono meno che uomini, tu vivi una super-vita mentre intorno a te vivono una mezza vita, e a volte neanche quella. C'è chi, anche tra i grandi scrittori, girando per l'India dice di «sentire gli dèi». Mi chiedo quali dèi può sentire un europeo che cammina tra i morenti. Ho l'impressione che più che «sentire gli dèi» gli europei in India «si sentono dèi», in paradiso. Se in giro per il mondo ci accompagnano i nostri figli, abbiamo l'impressione che giustamente domani loro domineranno mentre i figli degli indigeni li serviranno. Perché i nostri sanno e gli altri sono analfabeti. Non sanno usare una matita. A volte sanno cos'è un'arma, perché sono sempre in guerra, e questo li rende più colpevoli. Non ci rendiamo conto di una cosa: la guerra produce nuova fame, e la nuova fame produce nuove guerre. La fame rende stupidi.
 
da lastampa.it


Titolo: FERDINANDO CAMON. Se lo stupro ha marchio italiano
Inserito da: Admin - Giugno 07, 2008, 10:57:59 am
7/6/2008
 
Se lo stupro ha marchio italiano
 
 
FERDINANDO CAMON
 
Immaginiamo la notizia a parti rovesciate: un marocchino di oltre 30 anni stupra e mette incinta una minorenne italiana, in età di scuola media; forse che dopo due-tre giorni la lasceremmo cadere? Ma saremmo ancora qui a pompare sui dettagli, che poi sono quelli che contano: lui maturo, potrebb’essere marito e padre, lei bambina, potrebb’essere sua figlia, ingenua, va alla cerca della vita, ogni amicizia che incontra è una scoperta; lui che l’attira a casa propria, se ne fa amico e confidente, ne approfitta turpemente, e anche dopo riesce a tenerla così legata che lei non fiata con nessuno. Se la cosa stesse in questi termini, odieremmo non solo quel marocchino, ma tutti i marocchini; già sento le urla della Lega, «castrazione chimica», anzi no, «castrazione fisica», e un fattaccio del genere sarebbe utilizzato come una «vis a tergo» per far marciare il reato d’immigrazione clandestina, e forse riuscirebbe anche a farlo arrivare in porto.

Invece la notizia è rovesciata: un italiano, un uomo maturo, ha irretito una bambina marocchina di 13 anni, se l’è fatta amica, l’ha portata a casa propria, e l’ha stuprata, lasciandola incinta. Lei era così inesperta e immatura che non ha capito bene che cosa le stesse succedendo. Metteva su pancia, e stava zitta. È stata la madre a spaventarsi, è corsa dalla polizia, ha esposto i suoi sospetti, e l’uomo è stato individuato e arrestato. Non era al primo tentativo. Scavando nel suo passato, hanno scoperto che aveva già adescato e violentato due ragazzine, sempre minorenni. Sentiva un’attrazione irresistibile per le bambine immature, e di solito questo avviene perché le minorenni sanno così poco che con loro non devi aver paura: è la paura che fa fuggire un uomo maturo dal cercare le coetanee, che sanno tutto, e lo spinge a cercare le piccole, che non sanno niente. La paura si sfoga con la vendetta. Sulla piccola puoi essere violento, tu sei un padrone e lei la tua piccola schiava. C’è del sadismo in questi atti. Ma se si ripetono, non sono più atti, diventano comportamenti. Qualche volta l’uomo avrebbe usato, per indurre a una più completa obbedienza le piccole vittime, anche della droga: aspettiamo che le indagini ci dicano tutto, e sapremo anche questo.

Se fosse un marocchino e avesse violentato una bambina italiana, in età da terza media, perfino le nostre madri di famiglia, la parte della società meno incline alla protesta violenta, cederebbero alla voglia di giustizia-vendetta. I giornali seguono il pubblico, e dunque seguirebbero il montare della collera. La bambina susciterebbe la pietà generale, tutti la sentiremmo come nostra figlia, e patiremmo per la sua innocenza violata. Il violatore di tanta innocenza sarebbe un barbaro, proveniente da terre che non conoscono la civiltà, portatore in mezzo a noi di condotte tribali, e noi proteggeremmo quella bambina anche per senso paterno, essere genitore vuol dire essere padre di tutti i figli, tutti i figli sono un po’ tuoi. Bene, e adesso?

Un violentatore non è più tale se è della nostra razza, della nostra nazione? I 13 anni di una bambina nata fuori d’Italia non valgono come i 13 anni di una piccola italiana? La sua innocenza, quel vedersi la pancina crescere senza sapere perché, che ci terrorizza al solo pensiero che potesse capitare a una milanese o torinese, smette di tormentarci solo perché è capitato a una del Marocco? Non ci viene in mente che un’immigrata ha, rispetto a una coetanea italiana, anche il trauma di venire da fuori, parlare un’altra lingua, andare in cerca di tutto, soprattutto di relazioni di cui fidarsi?

Era, anzi è, una buona occasione per ragionare sul fatto che lo stupro non è una questione di razza, non lo fanno soltanto gli immigrati, romeni, marocchini. Lo fanno anche gli italiani. E sono altrettanto bravi. Questo qui lo faceva con una certa abitudine. Frequentava i luoghi dove trovava materiale femminile meglio predisposto ai soprusi, scuole, parrocchie, oratori. Costruiva la sua sequenza di stupri come una scala, voleva salire sempre più in alto, raggiungere un primato: s’era fatto un’italiana quindicenne, un’altra quattordicenne, e ora questa marocchina tredicenne. Per fortuna l’han fermato. Ora è a San Vittore, coperto di vergogna. Un po’ di vergogna però, confessiamolo, copre anche noi.

fercamon@alice.it

da lastampa.it


Titolo: FERDINANDO CAMON. La scortesia merita una multa
Inserito da: Admin - Agosto 21, 2008, 10:46:19 am
21/8/2008
 
La scortesia merita una multa
 
 
 
FERDINANDO CAMON
 
Un signore sui settant’anni s’avvicina a una panchina e una ragazza sui venticinque si alza di scatto e gli cede il posto. Utopia, fino a ieri. Oggi è realtà: la gentilezza diventa un obbligo a Vicenza. Chi commette una scortesia paga una multa dai 25 ai 500 euro. Il sindaco ha emanato un’ordinanza che considera giuridicamente punibile la mancanza di gentilezza verso gli anziani, le donne incinte, le madri con bambini, i disabili, chiunque abbia dei problemi per età, malattia o condizione naturale. Finora la gentilezza era un di più, rispetto al comportamento civicamente corretto. Si poteva essere gentili per quel po’ di spirito altruistico per cui non possiamo non dirci cristiani. Se c’è, bene. Se non c’è, male, ma non possiamo farci niente. Adesso scatta la multa. Domanda: ma non è una buona scusante, che il multato non sia tenuto a conoscere l’ordinanza di una città dove magari si trova per turismo, senza sapere usi e costumi, norme e divieti? No, perché la gentilezza è «una legge non scritta», e dovrebbe valere più delle leggi scritte, a Vicenza come a Roma Milano Torino, in Italia come nel resto del mondo.

Sulla strada del ritorno alla gentilezza, Torino farà del 20 settembre la «prima giornata mondiale del saluto»: 10 mila volontari saluteranno almeno 10 persone sconosciute a testa, in modo che prima di sera 100 mila persone abbiano ricevuto quei saluti che ignorano da anni: dal Settanta ad oggi i saluti quotidiani sono scesi da 30 a 8. Come se l’Italia fosse entrata in lutto. Salutarsi con un sorriso non costa niente e serve molto, scarica sulla giornata una spruzzatina di serenità. Una spruzzatina oggi e una domani, la settimana si bonifica. Vicenza fa qualcosa di diverso: non lancia un invito ma impone una norma. Sarebbe bene che la norma valesse dappertutto. Non è questione di usi locali, qui entra in ballo la coscienza che disagi bisogni difficoltà malesseri oggi sono tuoi ma domani saranno miei. Se in fila alle Poste la madre col bambino in braccio occupa il ventesimo posto, la sua attesa è quattro volte più faticosa dell’attesa di chi sta bene, è solo, non ha altri sforzi da fare che guardarsi in giro. Non basta che uno sia invitato a cederle il posto per educazione, è meglio che sia costretto per legge.

Siamo in tempo di Olimpiadi. Sulle Olimpiadi i greci, che le hanno inventate e insegnate al mondo, raccontavano un aneddoto. C’è una gara allo stadio, gradinate piene, un vecchio non trova posto, gli ateniesi lo chiamano tra loro alzandosi in piedi, ma appena quello arriva si risiedono tutti con una sghignazzata. A quel punto gli spartani invitano il vecchio nel loro settore e tutti gli cedono il posto. Il vecchio fa una dichiarazione pubblica: «Gli ateniesi sanno cos’è giusto ma gli spartani lo fanno». La nostra civiltà deriva da quella ateniese e non da quella spartana, che non ha lasciato niente. Atene è una delle città-madri del mondo, Sparta è un paesotto che vedi dall’alto di una collina, non ha monumenti né altro, ci dai un’occhiata e te ne vai. Ma la nostra civiltà deriva da quella ateniese anche in questo: sappiamo cos’è gentile ma non lo facciamo, e troviamo giusto che questo non-farlo non venga sanzionato. È giunto il momento di sanzionarlo. Un’ordinanza che punisce la mancanza di gentilezza, stabilisce che la mancanza di gentilezza è un reato. È giusto.

Kenzaburo Oe, scrittore giapponese, premio Nobel, racconta di una vecchia che arriva a Tokyo con un cartello al collo: «Non desidero parlare con voi, ma indicatemi dov’è la stazione». I passanti fanno a gara ad aiutarla. Boccaccio dedica una novella alla cortesia: un signorotto riceve un ospite e lo tratta meglio che può, e quando scopre che l’ospite è venuto per ucciderlo, si reca all’appuntamento per essere ucciso, in modo da farlo contento. Beh, è troppo. È sufficiente essere gentili, non occorre suicidarsi. Senza gentilezza siamo dei bulli. E a proposito dei bulli, che rispondono a un favore con lo scherno, il primo giorno di scuola un professore dice a uno scolaro: «Quest’anno mi aspetto molto da te, perché agli scrutini t’ho aiutato». Lo scolaro lo guarda ridendo e gli fa: «Sempre sia lodato quel fesso che mi ha aiutato». Multa da 500 euro? Ma no: bocciarlo retroattivamente, e che ripeta l’anno.

fercamon@alice.it
 
da lastampa.it


Titolo: FERDINANDO CAMON. Solo le quote possono evitare nuovi ghetti
Inserito da: Admin - Agosto 28, 2008, 12:00:31 pm
28/8/2008
 
Solo le quote possono evitare nuovi ghetti
 
 
 
FERDINANDO CAMON 
 
Le domande che nascono vedendo tanti figli di immigrati nelle nostre scuole sono tre: se la loro presenza rallenti lo svolgimento delle lezioni; se si possano iscrivere alle nostre scuole così come arrivano o se debbano prima imparare l'italiano; se possano iscriversi dove vogliono, e cioè alla scuola più vicina, o se sia meglio distribuirli per quote, in modo che non ci siano più classi che hanno il 20 o il 30 o perfino il 40 per cento di studenti d’origine straniera. A Torino c'è addirittura una classe in cui gli studenti sono tutti stranieri. Questi sono problemi, per così dire, normali: nel mondo scolastico non c’è più l’asprezza che c’era quando si discuteva se fosse opportuno che i figli degli islamici, nelle nostre medie superiori, formassero classi separate per non essere mischiati con i figli, e soprattutto le figlie, dei cristiani. In quest’ultimo caso le conseguenze erano disastrose: se si accoglieva quella richiesta, si permetteva che nella nostra repubblica si formassero nuclei di civiltà separata e ostile. Noi cerchiamo l’integrazione con chi arriva, non possiamo accettare che chi arriva cerchi la separazione da noi.

C’è a Mestre una scuola media che si chiama «Giulio Cesare», dove i genitori degli scolari italiani han deciso di boicottare la classe prima sezione G, perché ha un numero esorbitante di stranieri. Dunque sono i genitori ad accorgersi che i figli, nelle classi con tanti immigrati, non imparano niente. La settimana prossima l’assessore all’Istruzione della regione Veneto, Elena Donazzan, avrà un incontro su questi temi col ministro Gelmini. Speriamo che il ministro si convinca. Perché in ogni classe, dalle elementari alle medie superiori (l’università è un’altra cosa), l'insegnante regola l’avanzamento del programma sulla capacità di apprendimento dei più indietro. Se prima un argomento non è ben appreso dagli ultimi, l’insegnante non va avanti. Svolgere un programma è come costruire una casa: non puoi collocare i mattoni del primo piano se prima non hai piantato le fondamenta.

Questo comporta che, dov’è forte la presenza di stranieri, lo svolgimento del programma va a rilento. Non perché i bambini stranieri siano meno dotati: non si tratta di doti, ma di basi. Anzitutto, basi linguistiche, e cioè possesso dell’italiano. Nelle superiori, ci sono ragazzi dell’est-europeo che rendono moltissimo, i romeni specialmente, perché per loro è facile superare il gap linguistico, che è ridotto, e superato quello vanno di corsa, spinti dalla poderosa «vis a tergo» che è la condizione di immigrati.

I piccoli islamici, invece, sono bloccati dalla cattiva conoscenza dell’italiano, lingua per loro difficilissima. La lingua s’impara a scuola, tra gli amici e a casa. Se tra gli amici e a casa parla un’altra lingua, il ragazzo non imparerà mai bene l’italiano. Ci sono politici che rifiutano questo ragionamento, perché dicono che così si rallenta l’integrazione, in quanto si ritiene che quei bambini abbiano bisogno di una pre-scuola, da separati, prima della vera scuola, con i coetanei italiani. Come se quelli che arrivano da fuori fossero scolari di serie B.

Questi politici sbagliano: prevedere che i figli degli immigrati, prima d’iscriversi alle nostre scuole, imparino l’italiano, non vuol dire ostacolare l’integrazione, ma favorirla. Non c’è integrazione con una civiltà senza la conoscenza della lingua in cui quella civiltà si esprime. Alle elementari c’è il problema dell’età: arrivano a iscriversi bambini di 8, 9, 10 anni. Non è opportuno iscriverli alla classe che gli spetta per età, è meglio iscriverli alla classe che gli spetta in base alla loro conoscenza dell’italiano. Ci sono quartieri dove l’immigrazione è così intensa che nelle scuole si arriva al 30 % di scolari immigrati, e anche di più. Succede nelle periferie. Nei centri, gli scolari sono italiani al 95%, o nella totalità. E’ così che si formano scuole di serie A e scuole di serie B. Non è una buona cosa. Meglio distribuire per quote gli immigrati, e non si dica che questo vuol dire peggiorare tutte le scuole: la presenza di immigrati è anche un arricchimento culturale, basta saperlo cogliere.

fercamon@alice.it
 
da lastampa.it


Titolo: FERDINANDO CAMON. È razzismo non sopportare i giamaicani?
Inserito da: Admin - Settembre 04, 2008, 12:14:01 pm
4/9/2008
 
È razzismo non sopportare i giamaicani?
 
 
 
 
 
FERDINANDO CAMON
 
Un coro di condanne accoglie la frase di George Steiner sui giamaicani: «Sono profondamente anti-razzista - dice in sostanza -, ma non mi piace che dei giamaicani vengano ad abitare vicino a me». Dunque: rispetto per gli altri, apprezzamento per i loro usi e costumi, ma finché non vengono a contatto con me: se mi toccano, mi riservo di far scattare la mia reazione di rigetto. Perché loro, vivendo la loro vita, m’impediscono di vivere la mia.

Temo, purtroppo, che Steiner abbia ragione. E credo che quel che dice oggi non contraddica quel che ha sempre detto, per cui non è soltanto uno studioso che ammiriamo, ma un maestro che amiamo. Dalle università per cui è passato (Princeton, Stanford, Oxford, Cambridge) Steiner ha sempre tenuto d’occhio la letteratura nei rapporti con l’etica e la religione, e ha sempre infilato lo sguardo sulle relazioni fra potere e cultura, incultura e barbarie. Scrivendo questo articolo, non nego di sentire un certo orgoglio per averlo introdotto nella cultura italiana, convincendo Garzanti a tradurre Les Antigones (Le Antigoni, plurale), quando l’Italia non lo conosceva. Dire che ogni suo libro è una rivelazione non è abbastanza, la frase esatta è: «ogni suo libro ci migliora». Qualche dubbio mi lascia, e il lettore di questo giornale lo sa, La lezione dei maestri, un libro nel quale Steiner sostiene che il rapporto maestro-discepolo deve condurre a spartire non la cultura ma la vita, con tutta la sua quota di eros. Un rapporto perfetto fu dunque Martin Heidegger-Hannah Arendt. Questo rapporto l’ho sempre sentito come imperfetto e impossibile. L’eros accecava l’ebrea Hannah come il filonazismo annebbiava Martin. Ma non insisto sull’argomento, qui non conta.

Adesso Steiner viene a dirci che lui teorizza e predica la parità fra tutti gli uomini, l’uomo è in ogni uomo, è giusto che tutti stiano con tutti, ma lui personalmente va in crisi se una famiglia giamaicana diventa sua vicina di casa. Adesso Steiner abita a Cambridge. «È comodo - dice - stare seduti nella propria abitazione e dire che il razzismo è orribile; ma non venitemi a chiedere di ripeterlo dopo che una famiglia giamaicana con sei figli s’è piazzata vicino a casa mia e suona "reggae and rock" tutto il giorno». Non basta: «Da quando ho dei giamaicani vicini di casa, il valore della mia abitazione è crollato». Dunque il problema non è rispettare gli altri, è accettare che gli altri non rispettino te.

È la contraddizione fra la morale universale e la morale personale. Sul piano universale, tutti noi siamo contro la pena di morte, e non riusciamo (io, almeno, non riesco) a capire e ad accettare quell’articolo del Catechismo scritto dall’allora cardinale Ratzinger in cui la condanna a morte viene ritenuta lecita (è l’articolo n. 2267). Abbiamo sempre scritto contro la pena di morte. Ma non sappiamo (io, per quanto mi riguarda, non lo so) come ci comporteremmo con uno sconosciuto che venisse a uccidere un nostro figlio. Non escludo che potrei prendere un’arma e usarla. Nel momento in cui soffriamo un lutto, dovremmo essere interdetti. Ecco perché è giusto che i parenti delle vittime non stiano tra i giudici. L’America li fa sedere davanti alle esecuzioni, ma sbaglia.

Come Steiner, ho degli extracomunitari vicini di casa. Non «come Steiner», ma peggio di Steiner. Questi extracomunitari, circa tremila, riempivano un’intera via di micro-appartamenti, il Comune ha deciso di ricostruire tutti i palazzoni dalle fondamenta e dunque li ha sloggiati. Allora quei poveracci giravano nei dintorni, dormivano davanti alle porte dei condomìni, si stendevano nei vani dietro l’ascensore, e qui facevano pipì e popò. Qualcuno, toccato sul vivo, perché abitava in zona, ha protestato sui giornali. Qualcun altro, che abitava lontano, ha invitato a sopportare, perché questi maghrebini vengono dal deserto e sono abituati a fare pipì e popò a pochi passi dalla capanna. È possibile. Ma il fatto è che a casa loro intorno alla capanna hanno terra ed erba, qui il pavimento intorno ai nostri condomìni è lastricato di marmo. Il traguardo non è che noi ci comportiamo come loro. Il traguardo è che loro imparino a comportarsi come noi. A casa loro i giamaicani possono assordare lo spazio di musica dura, più dura la musica, più alta l’allegria. Ma qui c’è Steiner che scrive, tutto quello che scrive va contro il razzismo, e se non sopporta il baccano perché gl’impedisce di leggere e scrivere, diventa razzista? E perché mai?

fercamon@alice.it
 
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Titolo: FERDINANDO CAMON. La fedeltà al fascismo? Un'aggravante
Inserito da: Admin - Settembre 15, 2008, 12:18:49 pm
15/9/2008
 
La fedeltà al fascismo? Un'aggravante
 
 
 
FERDINANDO CAMON
 
Sul tema toccato dal ministro La Russa (i fascisti che mantennero fedeltà all’idea, anche quando l’idea veniva sconfitta dalla storia, meritano ricordo e onore) c’è una letteratura che conosciamo poco, perché è sepolta sotto l’accusa di filofascismo, ma dentro di essa vi sono testi memorabili, di scrittori che è doveroso definire grandi. Due su tutti: Giose Rimanelli e Carlo Mazzantini. Ambedue trattano in pieno i due problemi che stanno a monte e a valle del discorso di La Russa: l’entrata nel fascismo repubblichino e la non-uscita, fino alla consumazione della tragedia militare.

È chiaro che la coerenza e la fedeltà sono un valore se ciò a cui si resta fedeli è un valore. I tedeschi maturati nell’epoca del nazismo hanno inventato una formula, per definire coloro che sono nati dopo: costoro, dicono, hanno avuto «la grazia della nascita tardiva». Perché, se fossero nati prima, sarebbero stati come loro. Noi, dice Mazzantini, eravamo nati «dentro» il fascismo, e ragionavano da fascisti: «Noi non abbiamo conosciuto altro che quello». La scelta fra partigiani e fascisti non si poneva, perché non si sapeva nulla dei partigiani: quando ne catturano alcuni, i fascisti-nazisti di cui fa parte Mazzantini li guardano come marziani.

Ma Mazzantini è anche lo scrittore che sbatte più duramente contro la vera natura del fascismo: lui entra nel reparto, e molto presto, già a pagina 78 e seguenti (il libro è A cercar la bella morte, Marsilio), diventa una rotella vorticosa del vasto ingranaggio delle stragi di massa. Partecipa alla fucilazione di circa quattrocento nemici. Il massacro è un test. Ci sono state civiltà, come quella spartana, che imponevano ai ragazzi il test dell’omicidio: dovevano uccidere qualcuno per mostrarsi uomini. Qui la carneficina, raccontata con la precisione di chi l’ha vista, è il collaudo attraverso il quale chi vi partecipa diventa fascista: la strage non finisce mai, c’è qualcuno che sopravvive alle raffiche, bisogna sparargli ancora, è una gara, poi ci sono i colpi di grazia, si uccide a più non posso, e quando tutto finisce cala un silenzio assurdo. In quel silenzio ognuno sente reagire le forze morali che ha in sé.

La reazione del perfetto fascista è quella di colui che è squassato nei nervi e nella mente, ma camminando tra i moribondi si sforza di controllarsi ripetendo a se stesso: «Io sono granitico, granitico io sono». È il battesimo. Dopo, si è al servizio della nuova idea. E di chi la incarna: il duce. Primo Levi diceva che i grandi leader erano Hitler e Stalin, non Mussolini, perché non aveva forza trascinante. Visto dai fascisti repubblichini, in queste testimonianze interne, la forza l’aveva, loro la sentivano. A disfatta ormai chiara, l’autore della Bella morte si trova in uno sparuto gruppo di tenaci fascisti che non vogliono arrendersi, e ricevono la visita del Duce, che li passa in rassegna: «Io vi porterò alla vittoria», promette. E lui a piangere di tristezza: non doveva ingannarci così, doveva dire: «Morite per me!», e saremmo morti con gioia.

Dopo il duce verrà un altro duce, è la speranza dei fascisti ormai intrappolati alla fine del libro di Rimanelli (Tiro al piccione, Einaudi). Sono su un cocuzzolo, assediati tutt’intorno dai partigiani, non hanno cibo né munizioni, saranno ammazzati uno a uno («Tirate al piccione» è il grido dei partigiani, il piccione è l’aquila d’argento sul berretto dei sottufficiali repubblichini), ma ecco venire un prete con una bandiera bianca: tutto è finito, Mussolini è morto, non ha senso sprecare altre vite, pace. Qualcuno tra gli ufficiali trae la pistola e si spara in testa.

Sì, è fedeltà. Fino alla morte. Ma a monte ci stanno distruzioni, fucilazioni, perquisizioni, cacce all’uomo: la fedeltà è fedeltà a tutto questo, non c’è, neanche soggettivamente, un valore, un bene. «Noi amavamo la morte», dice onestamente Mazzantini, «la bella morte». Volevano morire e amavano uccidere. Tutto quello che han continuato a fare lo han fatto perché continuavano gli ordini, ma gli ordini continuavano perché c’eran loro pronti a obbedire. Questa fedeltà non è un merito, ma un’aggravante.

fercamon@alice.it
 
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Titolo: FERDINANDO CAMON. Il vangelo di Gentilini
Inserito da: Admin - Settembre 21, 2008, 07:22:20 pm
Il vangelo di Gentilini

Ferdinando Camon


Esce il testo pressoché integrale del discorso che Gentilini ha tenuto alla festa della Lega, domenica scorsa a Venezia, ed è un testo di così rozza violenza, che merita di essere analizzato: è la prima volta che càpita di veder condensato in una colonna il sistema del primo sceriffo d´Italia. "Popolo della Legaaaaa! - esordisce -. La Lega si è svegliataaaaaaa!": appena salito sul palco aizza l´orgoglio dei leghisti, annunciando che la Lega che sembrava impotente in realtà dormiva, adesso si è svegliata e mangerà il mondo. "Le mura di Roma stanno crollando sotto i colpi di maglio della Lega": il nemico è sempre Roma, ma adesso i leghisti sono arrivati sotto le sue mura e le abbattono, sono i nuovi barbari. "Questo è il vangelo secondo Gentilini": la parola vangelo manda una luce che vorrebb´essere sacrale su tutto il proclama. "Voglio la rivoluzione contro i campi dei nomadi e degli zingari": non leggi, che rispettino i codici, ma la rivoluzione, che scatena il furore. "Io ne ho distrutti due a Treviso": non messi in regola o bonificati, ma distrutti, dunque il problema degli zingari non è come si comportano, ma il fatto che esistono. "Voglio eliminare i bambini che vanno a rubare agli anzianiiiiiii!": non rieducarli ma eliminarli, toglierli dalla vita. Molto più di quello che chiede la Lega. Infatti: "Se Maroni ha detto tolleranza zero, io voglio tolleranza doppio zero". Questo è uno slogan a uso interno, stabilisce una supremazia da leghista dentro la Lega, non c´è nessun leghista più leghista di lui. "Prenderò dei turaccioli per ficcarli in bocca e su per il c… ai giornalisti che infangano la Lega": l´allusione oscena serve a cementare l´oratore con chi ascolta, crea intimità, non c´è intimità più forte di quella sessuale, e infatti a questo punto gli applausi scrosciano. "Voglio la rivoluzione contro quelli che vogliono aprire le moschee e i centri islamici": ma tra questi ci sono anche le gerarchie ecclesiastiche, e allora? "Le gerarchie ecclesiastiche dicono: Lasciamoli pregare. Noooo! Vanno a pregare nei desertiiii!": ma vengono dai deserti, e allora questa è una cacciata indietro con l´uso della forza, il loro voler pregare è un oltraggio che ci autorizza a usar ogni mezzo per rispedirli a casa. La presenza degli islamici diventa oltraggiosa quando si comportano da islamici. "Ho scritto anche al papa: gli islamici, che tornino a pregare nei loro paesi": probabilmente è vero, avrà scritto al papa, ma il papa non ha risposto e lui adesso, annunciandolo pubblicamente, si presenta come più cristiano del capo dei cristiani. "Voglio la rivoluzione contro la Magistratura: ad applicare le leggi devono essere i giudici veneti": qui c´è l´idea che il potere gudiziario, per essere un potere, deve rappresentare il popolo, ma per rappresentare il popolo dev´essere eletto dal popolo, e questo è il programma sottinteso: giudici eletti. "Questo è il vangelo di Gentilini: tutto a noi e se avanza qualcosa agli altri. Voglio la rivoluzione contro i phone center i cui avventori si mettono a mangiare in piena notte e poi pisciano sui muri: che vadano a pisciare nelle loro moscheeeee!": il discorso tocca l´apice, "pisciare nelle moschee" è il motto che muove una spedizione punitiva, e lui urlando la guida. "Voglio la rivoluzione contro il burqa e i veli delle donne, che mostrino l´ombelico caso mai… Non voglio veder neri, marroni o grigi che insegnano ai nostri bambini, cosa insegnano, la civiltà del deserto? Ho scritto al presidente della repubblica": probabilmente anche questo è vero, avrà scritto a Napolitano ma Napolitano non ha risposto, e denunciando la cosa pubblicamente il vicesindaco di Treviso comunica: non c´è da fidarsi del presidente della repubblica. Ognuno è la propria origine: patria, cultura e razza sono unite. "Queste sono le parole del vangelo secondo Gentilini, ho bisogno di voi, statemi vicini": nel vangelo secondo qualcun altro, quando il protagonista sentiva avvicinarsi l´ora della morte, pregava i seguaci di vegliare con lui. Anche per Gentilini è un´ora brutta, l´ora dell´estremo pericolo. Le ultime parole: "Viva la Lega!" e il coro di risposta saldano l´abbraccio.

fercamon@alice.it

Pubblicato il: 21.09.08
Modificato il: 21.09.08 alle ore 12.50   
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Titolo: FERDINANDO CAMON. Noi artisti davanti al Pontefice
Inserito da: Admin - Novembre 22, 2009, 10:37:32 am
22/11/2009

Noi artisti davanti al Pontefice
   
FERDINANDO CAMON

Dovevamo essere 250, ma siamo certamente di più, nella Cappella Sistina, invitati dal Papa. Scrittori, registi, pittori, scultori...: artisti di tutto il mondo. Tutti, cattolici e non, aspettavamo da una vita d’incontrarlo. Ed ecco, l’incontro avviene. E non su richiesta nostra, ma sua. Una gentile e-mail è piovuta nel nostro computer, c’informava che era «desiderio del Santo Padre incontrarci» per parlarci del nostro lavoro, di come molta arte oggi si chiude in se stessa e non si preoccupa di raggiungere un fine etico: che è ciò di cui l’umanità ha più bisogno.

Leggo l’e-mail, e mi sembra eufemistica: in realtà le cose stanno anche peggio. La distinzione non è fra arte autoreferenziale e arte morale. Tantissima arte oggi, specie nel campo dello spettacolo, soprattutto cinema, punta al denaro: se vuoi fare un film, dev’essere un affare. E l’affare lo fai (anche in tv, anche nel libro, anche nel teatro...) se cedi agli istinti del pubblico, lo compiaci o lo peggiori. Benedetto XVI vuol parlarci di questo? Vuol parlarci del bisogno dell’umanità di avere un’arte che la migliori, un’arte in cui la bellezza rimandi alla trascendenza? Grande tema. Non sono d’accordo con gli invitati che han rifiutato: approvavo in pieno Yehoshua, Oz e Grossman, ma visto che non sono venuti, ora ho qualche riserva.

Ognuno di noi ha un vistoso «passi» penzoloni sul petto, con nome e cognome. Sul retro è stampato un numero, che indica il nostro posto a sedere nella Cappella. Infinite curiosità e malignità sui numeri. Impossibile che siano casuali. Rispondono certamente a una gerarchia. Siamo stati valutati e pesati, chi merita la prima fila e chi l’ultima. C’è di peggio: un buon terzo dei presenti finisce dietro la transenna, da dove non vede nemmeno il Papa. Viviane Lamarque viene da me a lamentarsi. Ma tutti ci domandiamo: che graduatoria è? di artisticità, di cattolicità? Nanni Moretti sta tre file davanti a me, come Carlo Lizzani, Andrea Bocelli sta davanti a tutti, la Pamela Villoresi viene due numeri dopo di me: io ho il 123. Mondo e Parazzoli e Doninelli stanno dietro. Tornatore è tra i primi, come i fratelli Taviani. Qualcuno maligna: dev’essere il nostro ordine di salvezza eterna, chi si salva facile e chi fa fatica. Ma pochi minuti dopo scopriremo quant’è vero il detto evangelico «beati gli ultimi».

Alle 11 esatte tutti i faretti si accendono, la luce raddoppia, e tutti si voltano indietro. Il Papa avanza dalle nostre spalle. Sorride con mitezza, ora a destra ora a sinistra, parimenti. Si guarda bene dal concedere privilegi. Ma improvvisamente fa un gesto inspiegabile: vede due file avanti alla mia, sul lato che dà sul corridoio centrale, il faccione da luna piena di Lino Banfi, il Papa devia con uno scatto improvviso, s’illumina e stende la mano. Banfi s’inchina con flessuosità e gliela bacia. A quel punto ho un sospetto: la graduatoria rispetta la mediaticità. Il Papa sale verso il Giudizio Universale. Un dolcissimo coro di bambini si alza dalla nostra destra, poi l’arcivescono Ravasi saluta il Papa, che dunque può parlare. Ecco dove scatta il «beati gli ultimi»: noi delle file anteriori, i prediletti, non sentiamo niente. Alla fine mi farò dare il testo scritto. Il Papa ha una visione manzoniana dell’arte: l’artista che fa arte ha una forza, ma l’artista che fa arte etica ha una doppia forza. Lui incoraggia verso questa doppia forza. L’artista lavora sul mistero, dice, ma il mistero è il regno del divino, artistico e divino si toccano. Nel sistema del Papa gira il concetto che le scale dei valori non possono restar separate, alla fine devono per forza toccarsi, e il valore del bene morale prevale su tutti. E’ stretta la relazione tra arte e trascendenza, tra arte e mistero, fede e arte scavano nel mistero, dunque sono sorelle. La bellezza salva dalla disperazione. Definisce «ipocrita» la bellezza che assume i volti dell’oscenità, della trasgressione e della provocazione. La vera arte, «anche quando scruta gli aspetti più sconvolgenti del male, si fa voce dell’universale attesa di redenzione».

Vorrei sapere se c’è qui la possibilità di una riabilitazione di scrittori cosiddetti immorali (Moravia, Pasolini...) in moralisti: si può orientare alla speranza descrivendo la disperazione. E allora, la sofferenza dell’artista, poiché ogni opera richiede sofferenza (a volte fino alla morte), può diventare redenzione: è possibile che l’artista si salvi perché è un artista. Su «Civiltà Cattolica» ci fu chi scrisse che Moravia e Pasolini sono certamente in Paradiso. Mi pare che il Papa passi vicino a questi concetti, dal suo discorso si possano ricavare. Finisce con dolcezza, chiude il foglio. Da noi, seduti, lunghi applausi. Lui per ringraziare si alza in piedi. L’arcivescovo Ravasi ci ferma nel corridoio, dà a ciascuno una medaglia-ricordo coniata per l’occasione. Sul retro c’è il Cristo che piomba su san Paolo, nella via di Damasco, opera di Michelangelo, nella Cappella Paolina. Una conversione traumatica. Avrei preferito qualcosa di diverso, e visto che tutto il discorso era d’impronta manzoniana, poteva incidere per noi il monito manzoniano: «Non profferir mai verbo - che plauda al vizio o la virtù derida». Che vuol dire: Non mettere la tua genialità al servizio dei soldi. O dei partiti. Il precedente incontro di un Papa con gli artisti risale a 45 anni fa. Troppi. Penso (ne parlo con Lorenzo Mondo, Ernesto Ferrero, Giuseppe Parazzoli, Maurizio Cucchi): sarebbe bello che gli artisti del mondo si ritrovassero ogni dieci anni qui nella Cappella Sistina, ma due giorni, uno ad ascoltare il Papa e uno a confrontarsi tra loro. Sarebbe meglio che fossero solo artisti cristiani (Mondo corregge: di area cristiana). Un minimo di pre-intesa, di problemi in comune. Treni e alberghi ce li paghiamo noi (come stavolta), i rinfreschi li offre la Martini&Rossi: al Vaticano non costa niente. Sento l’obiezione: un sinodo cattolico-laico? Rispondo: e perché no?

da lastampa.it


Titolo: ALAIN ELKANN scrive su Ferdinando Camon. Lamentandosi.
Inserito da: Admin - Novembre 23, 2009, 10:46:29 am
23/11/2009

Il bello non ha né etichette né religione
   
ALAIN ELKANN


Caro direttore,
ho letto l’articolo «Noi artisti davanti al Pontefice» pubblicato da La Stampa domenica 22 novembre 2009 a firma Ferdinando Camon.
Vorrei dire all’autore che ho trovato nel racconto della cerimonia in certi punti una licenza poetica scherzosa e ironica che faceva assomigliare la solenne giornata di ieri a una sfilata di moda.

Io non mi sarei mai permesso di scrivere tali cose data la solennità e la simbologia di tale giornata viste le personalità presenti e la sacralità del luogo prescelto da Benedetto XVI: la Cappella Sistina. Avrei scritto che ringraziavo Monsignor Ravasi, Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura e della Pontificia Commissione per i Beni Culturali della Chiesa, per aver organizzato con i suoi collaboratori un evento così significativo. Voglio ringraziare il Santo Padre per aver scelto un luogo così importante, un’icona così unica per coniugare la bellezza - su cui era incentrato il discorso del Pontefice -, la religione, la spiritualità, il talento e la Chiesa, visto che nella medesima Cappella Sistina, come ha ricordato Benedetto XVI con commozione, si tengono i conclavi e proprio lì in quel luogo Lui è stato eletto al Soglio di Pietro.

Devo dire che pareva strano vedere arrivare in quella Cappella così famosa architetti, poeti, pensatori, cantanti, cantautori, registi, romanzieri che si stupivano di vedersi lì laici, cristiani, buddisti, ebrei e musulmani credenti e non credenti ma tutti in attesa del Papa. Tutti curiosi di sapere o di provare a capire con quali criteri il Vaticano avesse scelto proprio loro per presentare il mondo dell’arte e della cultura. Il regista Maselli parlando del Papa e del perché era venuto e del perché aveva accettato quell’invito, ha detto: «Comunque non capita ogni giorno di essere invitato da un Capo di Stato». A un certo punto ci è stato chiesto in italiano e in inglese di spegnere i nostri cellulari, di stare in silenzio, in raccoglimento ad attendere il Padre. Quel silenzio rispettoso dell’attesa era bello perché metteva tutti ad un livello di parità e di rispetto verso il Papa e il suo atteso discorso, poi quando è arrivato c’è stato un applauso e quando ha finito di parlare ce n’è stato un altro lunghissimo che confermava l’ampio consenso verso le parole del Pontefice ma soprattutto verso quell’iniziativa.

Nell’ultima parte dell’articolo di Camon ho letto, a dir poco con stupore, certi propositi tra l’altro accomunando nomi di persone che conosco bene e che so avere pensieri ben diversi, mi riferisco all’amico Lorenzo Mondo, biografo di Pavese e all’amico Ernesto Ferrero, biografo di Primo Levi. C’era scritto: «Sarebbe bello che gli artisti del mondo si ritrovassero ogni 10 anni qui nella Cappella Sistina, ma due giorni, uno ad ascoltare il Papa e uno a confrontarsi tra loro». Sarebbe meglio se fossero solo artisti cristiani (Mondo corregge di area cristiana).

Non credo che persone quali Zaha Hadid, Arnoldo Foà, Daniel Libeskind (architetto che ha realizzato il Museo dell’Olocausto di Berlino) o altri siano stati invitati lì per caso e se ricordo bene nel discorso il Papa si è rivolto a «Cari e illustri artisti, appartenenti a Paesi, culture e religione diverse, forse anche lontani da esperienze religiose, ma desiderosi di mantenere viva una comunicazione con la Chiesa Cattolica...».

Io credo di essere stato invitato in quella giornata in quanto scrittore di lingua italiana, ebreo che ha sempre lavorato per il dialogo interreligioso. Allora quando si legge «solo artisti cristiani» mi viene un brivido «non piacevole» e mi accorgo con tutto il rispetto che abbiamo interpretato in modo assai diverso una grande giornata alla quale sono grato e orgoglioso di aver partecipato con tanti uomini e donne di talento, tutti accomunati, dovunque fossero seduti, innanzitutto uguali, assolutamente uguali, in quella Cappella Sistina che Michelangelo e altri grandi maestri come Perugino, il Ghirlandaio, il Botticelli hanno saputo elevare a capolavoro assoluto dell’arte e patrimonio comune dell’umanità al di sopra di qualsiasi razza o religione.

Ieri nella Cappella Sistina e poi nei lunghi corridoi e nei saloni di Palazzo Vaticano ho sentito che si respirava un clima di soddisfazione, di consenso. La Chiesa aveva deciso in modo solenne dicendo: noi abbiamo bisogno di voi, di gratificare l’arte e gli artisti e questo dal Papa ai Cardinali ai Vescovi fino alle Guardie Svizzere che battevano i tacchi e facevano il saluto al poeta Conte, al poeta Rondoni, all’architetto Botta, allo scrittore Raffaele La Capria e molti altri. L’arte in quel sabato 21 novembre in Vaticano ha ritrovato il suo posto e anche il rispetto dovuto. Si capiva bene che tre grandi Pontefici quali Paolo VI, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI in un filo rosso sottile che li univa sentivano che gli artisti nella storia spirituale della Chiesa avevano un ruolo centrale. Del resto l’ispirazione di un artista e la fede sono cose tra loro molto molto vicine.

Ma la vera lezione che ho tratto dalla giornata di ieri nella Cappella Sistina è che il bello non ha etichette perché è soltanto bello.

da lastampa.it


Titolo: FERDINANDO CAMON. Gli artisti dal Papa mi dispiace per gli assenti
Inserito da: Admin - Novembre 24, 2009, 06:17:13 pm
24/11/2009

Gli artisti dal Papa mi dispiace per gli assenti
   
FERDINANDO CAMON


Su «La Stampa» di domenica Ferdinando Camon ha raccontato l’incontro degli artisti con il Pontefice auspicando un confronto periodico riservato solo ai cristiani.
Su «La Stampa» di ieri Alain Elkann, ebreo e scrittore da sempre impegnato nel dialogo inter-religioso, ha espresso la sua obiezione.
Qui di seguito pubblichiamo la risposta di Ferdinando Camon e un intervento di Lorenzo Mondo.


Domenica, su questo giornale, ho raccontato l'incontro del Papa con gli artisti. Lunedì è uscita una lettera-commento di Alain Elkann: sostanzialmente la scrittura di un altro articolo.
Elkann mi rimprovera di aver avuto con l'incontro un approccio leggero. Io ho detto che noi tutti, cattolici e non, lo aspettavamo da una vita: dire che lo aspettavamo da prima della nascita mi risultava difficile. Elkann si sofferma sulla quantità di arte, altissima, che circondava l'evento. E' vero, era una cornice grandiosa. Ma se l'incontro fosse consistito in quella musica e quella pittura, pochi di noi ci sarebbero andati. Siamo andati per sentire il discorso. Dopo 45 anni, un Papa parlava di arte agli artisti: l'evento stava qui. Per me come per tutti, visto che tutti gli articoli parlano solo del discorso. Un discorso alto e complesso, ma anche rischioso. Non tutto mi lascia tranquillo. Sul Giudizio Universale di Michelangelo chiedo a Elkann di comprendermi: nessun artista cattolico lo può contemplare con libera gioia, come fa Elkann, per una ragione grave, anche ai fini del tema che il Papa trattava: su quell’opera di Michelangelo la Chiesa cattolica sbagliò. Quando Michelangelo aprì le porte e invitò il Papa e i cardinali a venire a vedere il lavoro finito, nel Papa e nei cardinali si diffuse la costernazione. Un cardinale sussurrò: «Un inutile sfoggio di sapienza anatomica», e un altro: «Non è una sala papale, è una sala termale».

Ogni volta che vedo la Cappella Sistina questo giudizio mi affiora nel cervello, doloroso e insopprimibile. Il rapporto della Chiesa con gli artisti, fino a Fellini, fino a Pasolini, a Testori, a Tondelli, è un problemaccio. Sul discorso del Papa, e sui problemi arte-morale, mi sarebbe piaciuto restare un giorno di più, e parlarne tra di noi ospiti. Se il Papa, come ha annunciato con quell'«Arrivederci», ripeterà l'incontro, ci terrei a che questo avvenisse. Tra noi chi? Ho detto: di area cristiana. Fin dove arriva l'area cristiana? Fin là dove la parola del Papa trova attenzione. Lo ha detto il Papa stesso. Fra tutti coloro che se il Papa chiama e li invita a venire, gli riconoscono autorità e vengono. Elkann è tra i primi.

Ma i maggiori scrittori d'Israele, Yehoshua, Oz e Grossman, han rifiutato in blocco. Hanno ritenuto che il tema o l’oratore non meritassero ascolto? Con pieno diritto, se è così.
Elkann glissa sul fatto, come se non importasse. A me ha dato delusione e dispiacere.

Ma non facciamone una guerra di religione. Ci è stato detto: «Arrivederci», rispondiamo: «A presto».

da lastampa.it


Titolo: FERDINANDO CAMON. L'Italia rassegnata
Inserito da: Admin - Gennaio 29, 2010, 03:46:17 pm
29/1/2010

L'Italia rassegnata
   
FERDINANDO CAMON

Ho ospite in casa un amico straniero, un francese. Passiamo giornate e serate insieme. E guardiamo la tv. Il suo sguardo ha cambiato il mio.

Lui, straniero, guarda con eccitazione notizie delle quali io, italiano, neanche m'accorgo. A Favara è crollata una casa, due bambine sono morte, carabinieri e magistrati si son riuniti per vedere se c'è qualche problema: il crollo è colposo? è colpevole? ci sono case nuove non assegnate? perché? ci sono responsabilità? Ieri sera trapelava che non c'era nessun indagato. Perché? Bisogna vedere a chi spettava la sicurezza a suo tempo, a chi il controllo degli edifici, a chi l'assegnazione degli alloggi. Per me, italiano, è tutto normale. È stato così nel passato, lo è nel presente, lo sarà nel futuro. Non ho mai pensato di lasciare ai miei figli un'Italia senza mafia, senza camorra e senza 'ndrangheta. Mafia, camorra e 'ndrangheta qui sono e qui resteranno. Edilizia e mancati controlli formano un binomio fisso. Morte di inquilini e nessun indagato è la prassi. Sud e disgrazie vanno insieme. Dal Sud diranno: come Nord ed evasione. Ma certo, hanno ragione. Ma l'amico straniero mi fa mille domande: se una casa è legalmente abitata e crolla, invece di cercare se ci sono dei colpevoli, non bisognerebbe cercare chi sono? Gli edifici hanno un costruttore: costui non resta agli atti? Gli edifici sono stati collaudati? Il collaudatore risulta agli atti? Provo a dirgli: ma a Perugia i collaudi non si trovavano… Lui osserva: un documento che non si trova, o non c'è o è nascosto. Fa un ragionamento elementare, che sta al terremoto di Perugia come i pareri di Perpetua al problema di don Abbondio. E cioè: per fare un edificio pubblico si bandisce una gara, affidata la costruzione non si permettono varianti, stabiliti i tempi non si ammettono ritardi, finiti i lavori si passa al collaudo, e il collaudatore non deve spartire interessi col costruttore. Sono cinque punti. Ne è stato infranto qualcuno a Perugia? Il sospetto è: tre, quattro, a volte tutti. Più uno: anche i tempi della ricostruzione urgente sono stati scavalcati.

Il tg procede, va sulle case abusive di Ischia. Arriva la squadra dello sfratto, e si scatena l'inferno: non solo la famigliola insediata nella prima casupola da buttar già, ma altre trecento persone organizzano barricate: pietre, bottiglie, spranghe, bastoni. Il vicequestore finisce al pronto soccorso. Domanda: ma è una sola casa abusiva? No, seicento. Costruite in una notte? No, da tempo. Mesi? No, dieci anni. Prima che faccia un'altra domanda, lo precedo: in tante città ci sono case abusive vecchie di mezzo secolo. E non solo al Sud. Risultano al catasto? No. Risultano alle foto aeree? Sì. E perché non sono censite? Non lo so. Pagano l'Ici? Mai pagata. Noi italiani non vediamo queste illegalità, perché non sono rare, sono normali. Ognuno di noi ha una quindicina di amici, va al cinema con loro, con loro in pizzeria. Sa benissimo quanti e quanto evadono. Se una famiglia ha quattro case, son quattro prime case, intestate a padre, madre, figlio, figlia. Applicano una morale condivisa da gran parte degli italiani: lo Stato non mi riguarda, io ho soltanto la mia famiglia, sono onesto se faccio l'interesse della mia famiglia. Se un padre ha dei problemi con le tasse, la famiglia lo ama di più. Tutti son convinti che mafia, camorra e 'ndrangheta non verranno mai distrutte, perché chi dovrebbe distruggerle spartisce i loro interessi. Se cambi governo, il nuovo governo subentra al precedente anche negli interessi. Siamo rassegnati. Ad Haiti son cadute le case dei poveri, perché eran fatte male, le case dei ricchi sono ancora in piedi. Noi italiani lo abbiamo capito in due giorni. Qui in Italia abbiamo lo stesso problema da mezzo secolo, ma la rassegnazione ci rende ciechi.

fercamon@alice.it
da lastampa.it


Titolo: FERDINANDO CAMON. Perché la gente ruba i bambini
Inserito da: Admin - Febbraio 03, 2010, 09:29:13 am
3/2/2010

Perché la gente ruba i bambini
   
FERDINANDO CAMON

Non c’è solo il caso dei dieci americani arrestati perché avrebbero cercato di far uscire di nascosto da Haiti trentatré bambini, ci sono numerosi altri episodi di piccoli haitiani portati via senza autorizzazione. L’Istituto per il Benessere Sociale di Haiti è diretto da una donna, ed è questa direttrice a lanciare l’allarme. Portare via senza autorizzazione vuol dire rubare. Dunque ad Haiti si rubano bambini.

C’è chi li ruba, c’è chi li vende, c’è chi li compra. Lasciamo stare l’atroce sospetto che chi li compra voglia costruirsi una riserva di organi per i trapianti. Sarebbe cannibalismo. Stiamo all’ipotesi più dolce e più probabile, che chi li compra voglia farne dei figli: ci sono in tutto il mondo coppie che non hanno bambini e vogliono averne, e sono pronte a pagare. Non è il denaro che gli manca, sono i figli. La mancanza di figli rende inutile il denaro. I figli sono il senso della vita. Perciò sono anche la salvezza del matrimonio: matrimoni in crisi perché sterili vengono rivitalizzati dall’entrata di bambini, che trasforma la coppia in famiglia. Si dice spesso «famiglia composta di due coniugi» (alle volte si dice anche «famiglia con un solo componente»), ma in realtà la famiglia è completa quando ci sono i figli. Fino a ieri dicevamo: almeno uno. Da un po’ di tempo abbiamo corretto: almeno due. L’Italia s’è rimessa a far figli. Chi ha figli impara che la famiglia con un figlio è una piccola dittatura: il piccolo comanda su tutti. È quando si hanno due figli che in famiglia s’introduce la democrazia: nasce la spartizione, il confronto. Le madri sanno che l’ideale sarebbe avere un maschio e una femmina. Per la stessa ragione gli insegnanti sanno che è meglio avere una classe mista invece che di soli maschi o sole femmine.

La classe mista rende di più. È meno aggressiva e meno isterica. È una cellula in cui si ripete la composizione della società. Se però la famigliola o la classe deve per forza avere solo figli maschi o solo femmine, allora i pareri, su quale combinazione sia migliore, divergono: io ho due figli maschi, accanto a me abita una signora che ha due figlie femmine, ogni volta che m’incontra ripete: «Il Signore è stato buono con me, sapeva che con due figli maschi sarei morta». Questo può avere una certa importanza sul mercato dei bambini: le bambine sono molto richieste, come completamento di una coppia in crisi funzionano meglio. Nei film hollywoodiani sulle coppie in crisi è più spesso la presenza di una figlia a rendere distruttiva la crisi. Perciò non credo che nella corsa al furto di bambini haitiani ci sia una preferenza: si ruba quel che si trova, tutto è buono. La coppia senza figli che compra un figlio compra l'immortalità. La crisi che (non sempre, ma spesso) s’insinua nelle coppie senza figli è il sentimento della mortalità: non vivi oltre la morte, al termine di tutto il lavoro la carriera i debiti le malattie c’è il vuoto, tutto precipita lì. La cultura popolare ha creato un proverbio che riassume tutto: «I figli aumentano le preoccupazioni, ma alleviano la morte». Fino a ieri pensavamo che questo vale se i figli sono tuoi, se li hai fatti tu. Se li rubi non sono tuoi, non sono te. Oggi ci accorgiamo che neanche i figli nostri sono la nostra reincarnazione: non imparano da noi, imparano dagli amici, reali o virtuali. Perciò un bambino introdotto in casa può riuscire figlio come un bambino nato in casa, basta che tu lo ami. Resta però il furto: è un reato, tu non vivi con un figlio, ma con un corpo del reato.

fercamon@alice.it
da lastampa.it


Titolo: FERDINANDO CAMON. Gli scandali uccidono il senso dello Stato
Inserito da: Admin - Marzo 01, 2010, 01:21:33 pm
1/3/2010

Gli scandali uccidono il senso dello Stato

FERDINANDO CAMON

E’interessante sentire la lettura che il popolo fa del maxi-scandalo del riciclaggio: basta ascoltare i clienti dei bar. Non sanno niente di caroselli, elezioni all’estero, voti per posta. Ma nel bar ci sono 4-5 giornali, e le prime 3-4 pagine hanno le stesse frasi, le stesse foto, gli stessi titoli. Io porto la mia mazzetta, e la lascio circolare. Quando mi riportano un giornale, lo confesso, li interrogo. I clienti commentano con sarcasmo. Non so quanti milioni di italiani entrino in un giorno nei bar, ma sono milioni di italiani nei quali s’infiltra il sospetto che lo Stato non solo non stia vincendo la guerra contro la criminalità, ma non la stia nemmeno combattendo.

Vedono un politico che dichiara: «Mai conosciuta la ‘ndrangheta», e accanto c’è la foto di lui con un boss. La gente sghignazza. È un autosghignazzo: l’italiano da bar disprezza il corrotto ma compatisce se stesso, la propria impotenza. Noi non possiamo farci niente, chi può farci qualcosa è lo Stato, ma lo Stato sta dall’altra parte. Siamo traditi. Il maxiscandalo è per la gente un tradimento dello Stato.

Un titoletto dice: «Riciclatore prima che senatore». Il messaggio è chiaro: è un senatore perché era un riciclatore. Vuoi far politica?
Sii disonesto. Carriera e disonestà sono sinonimi.

Il riciclaggio ammonta a due miliardi di euro, ma i clienti traducono: quattromila miliardi di lire. Così fa più impressione.
Il confronto è sempre col proprio stipendietto, sopra o sotto i mille euro. Io, sbarcare il lunario. Loro sbarcano sulla luna.

Nelle intercettazioni il supposto corrotto «si vanta di aver affittato ufficiali e militari della Finanza», per fare «affari tranquilli».
La parola che rode il cervello è «affittato». Questo «affitta» finanzieri. La Finanza è un’auto a noleggio. Servitori dello Stato in vendita. Allora lo Stato t’imbroglia: Legge, Giustizia, Politica sono gli strumenti con i quali frega te e i tuoi figli. In conclusione: pagare le tasse? «Conti correnti su decine e decine di banche»: tu ne hai uno solo, ne avevi due ma li hai unificati perché ognuno costa 5 euro al mese. Con 5 euro ti paghi 5 caffè. Le banche non sono di tutti i clienti, sono di questi clienti qua. Puoi fidarti delle banche?

La ‘ndrangheta raccoglie voti nelle case dei poveracci emigrati in Germania, e l'inviato dice che quelle case gli fanno «schifo». I voti no. Il votato da quei voti dovrebbe far gl’interessi di quei votanti. Ma come può, se gli fanno schifo? Avrà pure il diritto di non vomitare.

«L’ambasciatore si adoperava a procurargli falsi documenti»: se sei all’estero e hai bisogno di una pratica, vai alla tua ambasciata e ti senti un pezzente alla corte del re: rompi le scatole. Questo chiede documenti falsi e l’ambasciatore muove le chiappe.
Sono ambasciate d’Italia o della mafia?

Stravotato all’estero, in Italia è «un perfetto sconosciuto». Ma tanti voti non significano tanta popolarità? Noo? Significano tanta mafia? «Ascoltami testa di c…, tu puoi anche diventare presidente della Repubblica ma resti il mio schiavo»: il cliente del bar legge la frase ad alta voce. Un boss parla a un senatore: il parlamentare fa le leggi ma è schiavo. Quindi fa le leggi per il suo padrone. La ‘ndrangheta.

La ‘ndrangheta: una sera sì e l’altra pure, sentiamo ai tg i tremendi colpi inferti alla mafia: pare sgretolata. E tu ci credi?
Non è che invece si moltiplica? Domani ti suonano il campanello e ti chiedono il pizzo.

«Ascolta amico, il Fioravanti e la Mambro li ho tirati fuori io, li ho aiutati economicamente», ma non erano ergastolani? Non diciamo sempre: «Sbatterli in galera e buttar via la chiave?». Invece questi la chiave se la mettono in tasca, e la tirano fuori quando vogliono.

Cos’è che tagliano a fette, al bar, ogni mattina, le lingue del popolo? Il Pdl? La Politica? La Giustizia? Di più: con questi scandali si uccide nel popolo il senso dello Stato.

fercamon@alice.it
da lastampa.it


Titolo: FERDINANDO CAMON. In corteo con i capelli bianchi
Inserito da: Admin - Marzo 04, 2010, 11:15:04 am
4/3/2010

In corteo con i capelli bianchi
   
FERDINANDO CAMON

Ci sono foto tali che ne basta una sola per simboleggiare un intero evento: la vedi, e ti ricordi tutto. La strage di Bologna, il terremoto dell’Aquila.

E poi il napalm in Vietnam, la guerra di Spagna. Queste foto che arrivano dalla Grecia resteranno il simbolo della crisi: la crisi che morde la cellula interna della società, la famiglia, e dentro la famiglia addenta l’elemento più debole, il vecchio, il nonno. Una sola di queste foto vale come tante prime pagine di quotidiani: ecco cosa fa la crisi, taglia le pensioni, costringe gli anziani, che già gravano sulle famiglie, a gravare ancora di più, a diventare un peso morto. Gli anziani hanno un sussulto di dignità e protestano. E come protestano? Non scagliano bombe, non tirano sassi, non lanciano bottiglie molotov. Con ogni probabilità, non sanno nemmeno fabbricarsele. No, semplicemente manifestano per le strade.

Ovviamente, la loro è una sfilata contro lo Stato. E lo Stato risponde con la forza: poliziotti in gran numero, con stivali elmi scudi e manganelli, schierati a sbarrare il passaggio, e a ributtare indietro la schiera dei vecchietti tumultuanti. I vecchietti hanno i capelli bianchi, quelli che hanno i baffi hanno baffi bianchi. I poliziotti oppongono divise verde-scuro, stivali neri, scudi opachi. È la guerra della canizie sdentata contro i ventenni in armi. Un vecchietto è arrabbiato, lo si vede dalla bocca, ma non è una bocca feroce, è una bocca imbronciata. Sta urtando un poliziotto con ambedue le mani, ma è debole, da dietro qualche amico lo sorregge. C’è uno che urla, in questo marasma, ha la bocca spalancata, il suo grido deve suonare osceno e disturbante nella strada: ma non è un vecchietto, è un poliziotto. Un vecchietto avanza con un cartello sul petto, è un vecchietto-sandwich. Davanti a lui i poliziotti formano uno sbarramento senza buchi, tengono i piedi in posizione anti-urto, uno avanti e l’altro dietro. Se il vecchietto è un sandwich, quelli se lo mangiano. Non spaventano, queste foto, non sono terribili. Però fanno tristezza. Mostrano la crisi al suo apice, e fan capire che la crisi scatena una guerra generazionale: la generazione più debole, quella dei vecchi, è la prima a pagare. Quando scoppiò la guerra civile in Jugoslavia, Kusturica girò un film un cui mostrava i fratelli che sparavano ai fratelli. Ho visto il film in Francia e c’era una strofa che diceva: une guerre - n’est pas une guerre - jusque le frère - n’agresse le frère (una guerra non è una guerra finché il fratello non aggredisce il fratello). La guerra è guerra se spacca le famiglie. Adesso facciamo i conti con la crisi, e queste foto vengono a spiegarci cos’è: la crisi è crisi se spacca le generazioni, se i nipoti aggrediscono i nonni.

da lastampa.it


Titolo: FERDINANDO CAMON. Cattolici la tentazione dello scisma
Inserito da: Admin - Aprile 15, 2010, 09:45:51 am
15/4/2010

Cattolici la tentazione dello scisma

FERDINANDO CAMON


C’è qualcosa di smodato e d’incontrollato nella marea di accuse che si scaricano sul Papa. Si ha l’impressione che non tutte siano motivate dagli episodi di pedofilia di alcuni preti.

Tra i nemici che la Chiesa Cattolica annovera in questo momento, molti sarebbero suoi nemici anche in assenza di queste notizie di pedofilia. Questo Papa incarna l’ortodossia della cattolicità al massimo grado: basta leggere la «Dominus Jesus». La «Dominus Jesus» è stata riassunta dalla stampa con una formula sbrigativa, perciò imperfetta, ma che ha moltiplicato l’avversione dei non-cattolici verso il Cattolicesimo. La formula era: «Tutta la verità è nella Cattolicità». Sostituiamola come vogliamo, però quel testo di Ratzinger esprimeva l’orgoglio del cattolico, la disposizione al dialogo salvando la premessa che compito del dialogo è l’opera di convinzione dell’altro. Da lì (e non dalla pedofilia) è partito l’inasprimento dell’ostilità da parte di cristiani-non cattolici, fedeli di altre religioni, atei e non credenti. Perfino da quei cattolici che compongono il lento ma inarrestabile «scisma silenzioso». Che senso ha dichiarare alla stampa, in questo momento, da parte di un rappresentante degli ebrei: «Adesso la Chiesa Cattolica dichiari che rinuncia alla nostra conversione»? E perché dovrebbe? I casi di pedofilia nel clero cattolico sono forse una smentita della dottrina cattolica? Aprono un buco nella credibilità dei testi cattolici? Inabilitano la Chiesa Cattolica a predicare la sua verità e la sua morale?

Fermiamoci sulla sua morale, perché l’ostilità del mondo nasce da qui. In quella morale ci sono valori che la Chiesa definisce «non negoziabili», e sono quelli che tante parti della società vorrebbero non solo negoziare ma cancellare: le chiusure verso l’aborto, il matrimonio omosessuale, l’eutanasia... Le battaglie combattute pro o contro questi valori, quando la cronaca li sbatteva sulle prime pagine dei giornali, sono battaglie immortali, non arriveranno mai né a una pace né a un armistizio. La guerra mai sopita riesplode violenta appena una parte vede che la parte avversa è in difficoltà. A vedere che la Chiesa Cattolica è in difficoltà sono, in questo momento, tutti coloro che hanno combattuto quelle battaglie contro di lei. In una certa parte delle accuse di oggi, in Italia e nel mondo, contro papa Ratzinger si sente la spinta a combattere contro la sua dottrina, molto più che a difendere le vittime della pedofilia.

I nemici di Papa Ratzinger non tengono conto che è il Papa eletto in una elezione in cui tutti gli elettori lo conoscevano a fondo (cosa rara, nei conclavi); che nei casi di pedofilia discussi in Vaticano alla sua presenza ha avuto il ruolo del più strenuo oppositore dei pedofili, anche quando avevano grande potere economico come il fondatore dei Legionari di Cristo; che si dichiara pronto a incontrare le vittime personalmente, anche se questa non è (se non nelle accuse dei suoi nemici) una sua colpa personale; e che in un tempo breve (che diventa fulmineo se pensiamo ai secoli con cui ragiona la Chiesa) ha inasprito la legislazione vaticana contro la pedofilia, portandola a una durezza che scavalca la legislazione di molti Stati, anche per quanto riguarda la prescrizione. I casi di pedofilia nel clero sono intollerabili. Infatti questo Papa non li tollera. Doveva fare molto per impedirli. Sta facendo il massimo. A questo punto, chi lo avversa non avversa lui ma la Chiesa. E non c’è niente che lui possa fare per placare questa avversione. Non è giunto il momento che anche in Italia, come succede in altre parti del mondo, gli scrittori e intellettuali che lo apprezzano per quel che dice, che scrive e che fa, glielo dichiarino pubblicamente in un appello?

fercamon@alice.it
da lastampa.it


Titolo: FERDINANDO CAMON. Bisogna dire al verità ai malati?
Inserito da: Admin - Maggio 30, 2010, 05:32:58 pm
30/5/2010 - ETICA

Bisogna dire al verità ai malati?

FERDINANDO CAMON

E’ giusto che il medico curante dica, al paziente inguaribile e ai suoi parenti stretti, che morirà entro pochi mesi?
Il primario che m’ha sbattuto in faccia questa sgradevole verità mi ha spiegato: siamo obbligati per legge a dire la verità, se il paziente ce la chiede non possiamo essere né mendaci né reticenti, perché se gli diciamo un’altra verità e lui viene a sapere la verità vera, può rivalersi su di noi per l’inganno.

Se un medico dice che questa è la nuova etica dei medici devo credergli. Tuttavia, dire la verità e dirla con termini netti, spietati, senza scampo, sarà deontologico ma non è umano.
Un mese fa una mia parente vien ricoverata per leucemia. Buon trattamento, buona sistemazione, e, ritengo, buone cure. Vado a parlare col primario. Prime sorprese: in portineria mi fermano, non è che dopo di me qualcun altro vorrà sapere? Io sono il fratello del marito, può darsi che anche il marito venga a informarsi. Ma non posso informarlo io? Va bene, lo informerò io, ditemi. Mandano a chiamare il primario. Molto preparato, eccellente medico. Mi domanda se la paziente è contenta che io venga a sapere. Dico: la paziente è qui, può domandarglielo. Ma io voglio sapere la diagnosi o la prognosi? Tutt’e due, soprattutto la prognosi, se la parente guarirà e tornerà a casa. Sta dritto davanti a me, a un metro di distanza. La sua comunicazione è la seguente: «Certamente», pausa, «questa malattia», lunga pausa prima della parola seguente, «ucciderà», pausa, «la signora», ultima pausa, «nel giro di pochi mesi». Mi guarda. Lo guardo, e lo vedo oscillare nel senso destra-sinistra. Sta svenendo, penso, quel che dice gli pesa. Ma sono io che oscillo, quel che sento mi pesa.

Lui è un medico, io uno scrittore. Come scrittore, peso le sue parole. Le più pesanti sono due: «certamente» e «ucciderà». Il «certamente» non lascia nessuno spazio né al dubbio né alla speranza: è così e basta. «Ucciderà» è un verbo attivo (molto diverso da «morirà»), qualcuno o qualcosa sta uccidendo qualcun altro. La frase «questa malattia ucciderà la signora» descrive il paziente come un condannato alla fucilazione appoggiato al muro, qualcuno sta per sparargli, nella scena non c’è nessun altro che si opponga. Né medico né scienza, niente. Il mio istinto è il rifiuto: «Ma scusi, verrà anche il marito, glielo dirà negli stessi termini?», «Siamo tenuti per legge a dire la verità, non possiamo lasciare confusione», «E se lo chiede la paziente?», «Se la signora vuol sapere, dobbiamo dirle tutto». Mi lascia. Fra poco metteranno nell’atrio un robot, tu digiti la domanda, e da una feritoia del monitor ritiri la risposta.

Ora il problema è mio, chiamo sul cellulare il marito e cerco di dire le stesse cose che m’ha detto il medico ma cerco altre parole: «È una malattia contro cui la medicina non può fare niente, ma i medici qui faranno di tutto». Lui capisce che è una lotta tra medici e malattia, e dice che si potrebbero trovare altre possibilità cercando altri medici, forse al San Raffaele… Gli spiego che non è un limite dei medici ma della scienza. Capisce, ma tuttavia vuol cambiare ospedale. Nel nuovo ospedale la chemio ha un’efficacia imprevista, i globuli bianchi scendono precipitosamente, parlo col nuovo primario: «Com’è la situazione?», «Ottima». Mi aggrappo alla loro deontologia che impone la verità, se la verità è ottima forse c’è qualche possibilità: «Scusi, previsioni?», «Pessime», «Speranze?», «Nessuna». Chiamo sul cellulare il medico di base: «Ma lei per una settimana diceva che si può fare questo e si può fare quello, negli ospedali dicono che non si può fare niente», «Loro parlano secondo la legge, io mi rifiuto di rassegnarmi». È durata un mese. Un giorno prima della fine la signora ebbe un sospetto, chiese spiegazioni, le dissero la verità. La notte dopo si spense. Se le avessero detto la verità un mese prima, nei termini in cui l’han detta a me, si sarebbe spenta un mese prima. Forse è vero che «questa malattia uccide il paziente nel giro di pochi mesi», ma se la nuova etica dei medici è questa (dire tutto subito, in forma chiara anche se brutale), da profano temo che questa etica uccida il malato nel giro di pochi giorni.

fercamon@alice.it

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7420&ID_sezione=&sezione=


Titolo: FERDINANDO CAMON. L' Alfa Romeo mi ha salvato la vita
Inserito da: Admin - Giugno 22, 2010, 09:46:03 am
22/6/2010

L' Alfa Romeo mi ha salvato la vita
   
FERDINANDO CAMON


Compro e guido solo Alfa Romeo da quarant’anni, e da quarant’anni non ho un incidente. Sarebbe ora che il Lloyd Adriatico, ora Allianz, mi desse il Volante d’Oro. Sui quarant’anni senza incidenti ho un dubbio: merito mio o merito dell’Alfa?

I pregi dell’Alfa sono stabilità, velocità, frenata. Il mio traduttore francese Yves Hersant, docente all’Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales, compra Alfa Romeo «parce qu’elle tient bien la route». Il garage accanto al mio è dell’architetto De Simone (intervistato da «Panorama» come possibile costruttore di un bunker per Saddam), che usa sempre Alfa Sprint. Una sera lo incontro che ha appena parcheggiato l’auto, la guarda ed esclama: «Ti perdona l’errore». Pioveva, probabilmente aveva sbagliato una curva, ma l’auto l’aveva corretto. La mia Alfa di adesso è una 159, segue a una 156 sedici valvole, trasportando un’amica le ho chiesto: «Le senti le sedici valvole?», e lei: «Tutte, una per una».

Mentiva. Perché è incompetente. In realtà il motore Alfa si sente, e la linea Alfa si vede. Anche troppo. La 156 per presentarsi con le fiancate filanti ha abolito le maniglie posteriori, mimetizzandole in false prese d’aria. Nella mia città c’è una Scuola Italiana Design diretta da Massimo Malaguti, che proprio per questa mimetizzazione delle maniglie assegnò alla 156 il premio di auto più bella dell’anno. È bellissima, infatti. Ma alla stazione c’è un tassista con la 156, e disperato perché nessun cliente riesce mai a vedere la porta, ha incollato sulla fiancata una freccia rossa con scritto: «Maniglia». I punti più lontani che ho raggiunto con questa Alfa sono Berlino, Istanbul, Lisbona, Amsterdam. Mosca no, per Mosca prendo l’aereo.

I pericoli mortali sono stati, in 3-4 anni, una decina. Mi son sempre salvato. Sto in regola, quando guido non bevo alcol, ma la stabilità della vettura gioca il suo ruolo. Adesso la cambio. Prendo un’altra Alfa. Perché voglio vivere ancora.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7508&ID_sezione=&sezione=


Titolo: FERDINANDO CAMON. La tragedia che non conta
Inserito da: Admin - Settembre 06, 2010, 06:04:14 pm
6/9/2010

La tragedia che non conta
   
FERDINANDO CAMON

Giornata tristissima per lo sport: a Misano durante il GP della Moto2, un pilota giapponese di 19 anni correva a 240 all’ora, la sua moto s’è intraversata, lui è balzato in aria, e quand’è caduto i due piloti che lo inseguivano gli sono finiti addosso e l’hanno travolto.

Ferite multiple, elicottero fino all’ospedale più vicino, Cesena, da qui all’ospedale meglio attrezzato della zona, Riccione. Si temeva l’arresto cardiaco, e infatti il cuore s’è arrestato. Ma non stanno qui gli apici della tragedia. Non è per questo che ne parliamo. Alla tragedia sportiva, sempre possibile nelle gare dove per vincere bisogna oltrepassare i limiti di sicurezza, si aggiungono altre tragedie, che vorrei dire morali. Dopo la visione atrocemente spettacolare del multiplo incidente, con tre moto e tre piloti coinvolti, la gara è proseguita come se non fosse successo niente. Dunque quella tragedia «era» un niente. Per molti minuti il pilota-ragazzino è rimasto sospeso tra la vita e la morte, nel circuito le autorità sapevano tutto, ma nessuno ha pensato che quel tutto valesse qualcosa.

Si trattava di una gara della Moto2, le gare che precedono la MotoGp sono sentite da tutti, organizzatori e spettatori, come una introduzione di scarsa importanza alla vera gara che riempie la giornata, la MotoGp. Qui, in MotoGp, corrono gli assi mondiali del motociclismo, così veloci che sembrano volare rasoterra. Il problema era: si poteva perdere tempo per la morte di un ragazzino, si poteva ritardare la partenza dell’unico vero grande spettacolo sportivo della domenica, il MotoGp? La riposta è stata: no. Non si dica: ma non sapevano ancora che il giovane pilota sarebbe morto, potevano pensare a ferite rimarginabili, concludere la gara di Gp col giovane pilota giapponese fuori pericolo era un bene per tutti, ritardare la gara non serviva a nessuno.

Errore. Non è un ragionamento lecito. Perché la cronaca del Gp è proseguita in costante collegamento con la clinica dove il 19enne giapponese stava morendo, la notizia della sua morte è arrivata in diretta a tutti nel circuito (e a tutti noi, nelle case del mondo), e il coro dei cronisti è stato: «Non c’è niente da dire», «Non c’è niente da fare». E così tutto proseguiva come se niente fosse. Ma neanche questo è il vero acme dell’insensatezza di questa tragedia in diretta: perché quando la gara è finita, e i grandi campioni sfilavano uno alla volta davanti alle telecamere, strizzati nelle tute multicolori, tutti venivano informati, e tutti reagivano con: «Così è lo sport», «Non si poteva fermare la gara», «Sappiamo che la logica è questa» (quest’ultima risposta è del grande Valentino Rossi, il più amato dagli italiani). Sono parole di scarsa sensibilità? Provengono da un fondo morale dove mancano i valori? Ma no. I valori ci sono, e sono enormi. Valgono più della vita. Più della vita di tutti. Perché i grandi campioni che parlano così mettono in conto non solo che la vita dei concorrenti può essere stroncata di colpo, ma anche la propria: partono, e non sanno se arrivano. Se accettano che la loro vita finisca così, accettano anche che la gara non s’interrompa, che il palinsesto delle tv non venga modificato neanche di un minuto.

Nei siti dei giornali, ieri, la tragedia ovviamente c’era, con tanto di filmato, ma prima e dopo c’erano l’ordine d’arrivo e la classifica mondiale, e queste notizie valgono più di quella. Chi vince resta, chi muore svanisce. Oggi tutti parlano della tragedia. Alla prossima gara non ne parlerà nessuno. E la prossima gara non avrà tanti spettatori come ieri, ma di più. Se lo spettacolo che vediamo conta più della vita, non possiamo perderlo.

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Titolo: FERDINANDO CAMON. Addormentarsi italiani e svegliarsi ratti
Inserito da: Admin - Settembre 29, 2010, 11:38:56 am
29/9/2010

Addormentarsi italiani e svegliarsi ratti
   
FERDINANDO CAMON

Un personaggio di Kafka, destandosi una mattina, si trovò tramutato in scarafaggio: «Che cosa m’è accaduto?», si domandò terrorizzato. Il terrore non lo molla più. Noi, lettori occidentali, pensavamo che il grande scrittore praghese, ebreo, intuisse e rappresentasse gli incubi delle minoranze oppresse: essere declassati da uomini ad animali. Ma pensavamo tutto questo sforzando il cervello, per intuire una condizione che non sarà mai nostra: noi siamo occidentali, siamo europei, siamo cristiani, le condizioni a-umane o sub-umane non possono toccarci, sarebbe una contraddizione della storia, e noi siamo autori di storia, padroni della storia. Noi italiani, poi, siamo il centro della cristianità, il cuore dell’arte e della genialità. Mai saremo visti, dai fratelli europei, come animali repellenti o feroci. Non siamo lupi. Non siamo scimmie.

Ed ecco, dalla civilissima Svizzera, e dalla parte più italiana della Svizzera, il Canton Ticino, esce uno spot pubblicitario che ci raffigura come topi, anzi toponi. I toponi sono topi grassi. Perché mangiano molto formaggio. Svizzero. Non lo fanno, ma lo mangiano. Entrano in casa e sbafano tutto. Peggio che ladri, sono ladri e rapinatori e parassiti insieme. La didascalia dice: «I ratti invadono la Svizzera italiana», ma il messaggio è: «I ratti italiani invadono la Svizzera». Perché non ci siano dubbi sull’identificazione uomini-topi, i topi, tre, hanno dei nomi. Uno si chiama Fabrizio, vive a Verbania ma va a lavorare in Ticino. Il secondo si chiama Bogdan, è romeno, non ha né casa né lavoro: come uomo, un sotto-uomo, come topo, un sotto-topo. Il terzo si chiama Giulio, e fa l’avvocato. Un Giulio che fa l’avvocato è Tremonti, e Tremonti è descritto poco dopo come citrullo, disonesto, dannoso ai suoi concittadini, sabotatore delle oneste e professionali banche svizzere. Perché, introducendo lo scudo fiscale, richiama dalla Svizzera i capitali illecitamente esportati. Dei tre tipi che incarnano la malaumanità europea, noi italiani siamo presenti in due. La società svizzera-ticinese è laboriosa, risparmia e accumula (il formaggio è lì pronto, una forma enorme), «guadagna bene» (lo dice il testo, con legittimo vanto), insomma rappresenta il benessere capitalistico, e chi sta bene Dio è con lui. Noi italiani siamo il male, e facciamo il male. Non noi napoletani o noi siciliani, insomma noi italiani del Sud, facilmente e ingiustamente disprezzati dal Nord: ma noi italiani del Nord, anzi del Nord del Nord, noi frontalieri della Svizzera. Noi rubiamo il lavoro. Ci facciamo pagare con una cicca, e così eliminiamo ogni concorrenza. I lavoratori svizzeri sono troppo umani e dignitosi, non si fanno pagare da straccioni. E poi hanno una moneta buona, solida, stabile. Non hanno l’euro, ballerino e spregiato. Noi italiani del Nord, sottolavoratori della zona euro, siamo accecati dal salario decente e dal franco.

Ma queste non sono esattamente le accuse che noi, italiani del Nord, rivolgiamo agli europei dell’Est e agli africani del Nord? Vengono da aree dove il lavoro è zero, hanno monete rifiutate dalle nostre banche, qui fanno i sottolavori sporchi o malsani o rischiosi che noi scartiamo, si accontentano delle sottopaghe che noi sdegniamo, qui vivono la loro miserabile sottovita, e noi li accusiamo di rubarci i posti (se non ci fossero loro, li occuperemmo noi), entrare nelle case sfitte, e ripagarci stuprando le nostre donne, rubando nelle nostre case, e riempiendo le nostre prigioni. Non diciamo «siete topi», ma gli incendiamo gli insediamenti, per farli scappare. Come gli svizzeri con noi. Gli italiani ai confini della Svizzera sono ratti, dicono, «e noi vogliamo derattizzare». Testuale. È un calcio in pancia che ci sveglia di soprassalto. Apriamo gli occhi, e ci troviamo trasformati in topi.

fercamon@alice.it

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Titolo: FERDINANDO CAMON. La rabbia dei veneti
Inserito da: Admin - Novembre 10, 2010, 03:46:37 pm
10/11/2010

La rabbia dei veneti

FERDINANDO CAMON

Le zone sommerse del Veneto sono tante, nelle province di Padova, Verona e Treviso l’acqua è arrivata a due metri sopra il pavimento di case, fattorie, aziende, fabbriche. Le persone evacuate sono più di tremila, intorno agli allevamenti gli animali morti galleggiano a migliaia: ma è stato così fin da subito, quando i fiumi han rotto gli argini, il giorno di Ognissanti, e allora come mai la nazione lo scopre con enorme ritardo?

Come mai Bertolaso è venuto il 7 novembre, e Berlusconi e Bossi il 9? È questo che offende e fa arrabbiare i veneti. È di questo che s’è lamentato il governatore Luca Zaia. Leggevamo i grandi giornali nazionali e sull’alluvione non trovavamo che qualche brandello di cronaca, sepolto nelle pagine interne. Guardavamo i tg e vedevamo sempre la saga di Sarah e quella di Ruby, e sulla catastrofe che faceva scappare migliaia di famiglie solo qualche cenno disinformato, o un oltraggioso silenzio. Noi ci aspettavamo di finire in prima pagina, o in apertura dei tg. Interessarsi a Ruby vuol dire divertirsi sull’eros dei potenti, e in fondo anche interessarsi a quale corda o cinghia ha strozzato Sarah è un atto di morboso voyeurismo, non venitemi a dire che è una forma di pietà cristiana. E allora la conclusione dei veneti era: noi moriamo, il paese gode. E allora: questo non è il nostro paese. Noi non facciamo parte dell’Italia, e l’Italia non ci sente come una sua parte. Noi veneti e gli altri italiani non abbiamo la stessa patria. La patria degli altri è l’Italia. La nostra patria è il Veneto.

Direte: ma l’Italia in questo momento non ha soldi, di fronte a una catastrofe il suo istinto è ignorarla o minimizzarla, quindi il silenzio dello Stato di fronte alla mega-alluvione del Veneto era una forma di autodifesa. Ma no, non è così. Perché le proteste del Veneto sono state due: la prima, l’Italia non ci vede, le nostre disgrazie non le interessano, noi anneghiamo e lei si volta dall’altra parte; la seconda, adesso che ha ben visto cosa c’è capitato, non vuole aiutarci, il governatore chiede un miliardo e la Protezione civile gli offre 20 milioni. Tra la prima protesta e la seconda è passata una settimana. Nei primi tre-quattro-cinque giorni il governatore Zaia non chiedeva soldi, chiedeva attenzione. E non l’ha avuta: l’ha avuta dopo, quando le proteste delle città son diventate un’altra notizia, che potenziava la notizia dell’alluvione. Il fatto che il Veneto non sia visto dalla capitale dipende da due ragioni, di cui una è colpa della capitale e l’altra è colpa del Veneto.

La prima: la capitale è miope, non vede fino alle Venezie. Veneto, Friuli-Venezia Giulia e Trentino-Alto Adige per Roma sono una giungla inesplorata, piena di bestie feroci. La seconda: le Venezie hanno una miriade di giornali cittadini, ben fatti, dalla diffusione capillare, economicamente solidi, ma parlano alle proprie città, non parlano a Roma. Poco o per niente collegato alla nazione, il Veneto (e tutto il Nord-Est) non sente di farne parte. Si sente fuori. La nazione è un’entità che riscuote le tasse e basta. Una rapinatrice. Poiché una parte delle tasse del Veneto va alle regioni del Sud, il rapporto tra Veneto e Sud è brutto. È peggiore il rapporto con i meridionali che con gli immigrati. Perché gli immigrati non sono una voce delle tasse, sono anzi una voce produttiva. Adesso che il Veneto è in ginocchio, il brutto rapporto col Sud si fa ancora più brutto, in tutt’e due le direzioni: tutti quelli che hanno una carica, piccola o grande, nel Veneto lamentano che Roma guarda sempre al Centro e al Sud, ed è sempre pronta ad aiutarli, e dal Sud arrivano segnali di scherno.

In Facebook è nato un gruppo chiamato «Allaghiamo il Veneto pisciandoci sopra», dove qualcuno, dotato di spirito poetico, ha costruito un messaggio in rima: «Speriamo nell’uragano Katrina - che spazzi via ogni ridente cittadina». Il gruppo è stato subito cancellato. Ma l’odio resta. Una volta era folklore. Venivano i tifosi del Napoli a Verona, e lo stadio li sfotteva: «Benvenuti in Italia». Poi i veronesi scendevano a Napoli, e lo stadio apriva striscioni di un’irrisione colta: «Giulietta è ’na zoccola».

Ma si trattava di sport, adesso si tratta di una disgrazia. Se ridi sull’amico ferito che muore, non sei un amico. Se poi quello non muore, con lui hai chiuso.

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Titolo: FERDINANDO CAMON. Il senso del traditore
Inserito da: Admin - Dicembre 16, 2010, 03:48:25 pm
16/12/2010

Il senso del traditore

FERDINANDO CAMON

Mai come in questi giorni è risuonata, in tv e sui giornali, la parola «tradimento». Pare che molti nostri parlamentari siano traditori: traditore chi è passato adesso da sinistra a destra, chi è passato in precedenza da destra a sinistra, o da destra e sinistra al centro. «Tradimento» è un concetto polivalente. Fatalità, sul più diffuso quotidiano nazionale si leggeva proprio ieri la citazione di un generale tedesco, che alla fine della Seconda guerra mondiale ha dichiarato: «Non so chi vincerà la terza guerra mondiale, ma so chi la perderà: colui che si alleerà con l’Italia, perché l’Italia lo tradirà». Ecco, partirei da questo concetto: l’Italia, nella Seconda guerra mondiale, ha tradito la Germania. Contesto in toto questo giudizio. È un giudizio che va capovolto.

L’Italia è entrata in guerra (sbagliando, perché la guerra, quella guerra e tutte le guerre, sono, come qualcuno aveva pur detto, «un’inutile strage») insieme con un alleato, contro un nemico, per un traguardo. Pochi mesi dopo tutto era cambiato: alleato, nemici, traguardo. L’alleato aveva allargato a dismisura il fronte dei nemici, s’era fatto nemico tutto il mondo, anzi adesso aveva scoperto anche dei nemici interni da eliminare, i nemici di razza. La soluzione finale con la tecnica dello sterminio fu attuata nell’agosto del ’40. La guerra era diventata una guerra contro l’umanità. Tra i tedeschi c’erano intellettuali che ragionavano (la Rosa Bianca ne era una piccola espressione) sulla liceità, per un tedesco, di augurarsi la sconfitta della Germania. Pareva loro che questo fosse l’unico modo perché la Germania sopravvivesse. C’era anche Thomas Mann fra questi. Si ponevano il problema di come salvare la Germania, come ridarle il diritto di sedere tra le nazioni civili d’Europa. Traditori o salvatori? In Italia poco dopo si porrà lo stesso problema. La scelta tra Resistenza e Salò era una scelta tra due opposti: chi era fedele all’Italia e chi la tradiva? Benedetto Croce dice che nel corpo della nazione italiana, nato liberale, il fascismo s’era infiltrato come una malattia, e che la fine del fascismo fu la fine di una malattia, diciamo pure una guarigione. Non so se si possa mantenere questa metafora, perché la malattia è sempre non-voluta, arriva come una disgrazia, mentre sul fascismo c’è chi pensa che avesse un vasto consenso popolare. Ma il concetto resta: se il fascismo era una dittatura, continuare a servirlo era una prova di fedeltà? E il distacco dal fascismo era un tradimento? o era un tradimento del male, quindi una fedeltà al bene?

Anche le associazioni criminose chiedono la fedeltà e accusano chi le abbandona di tradimento. Si chiamino mafia, camorra o ’ndrangheta, o siano associazioni terroristiche e si chiamino Brigate Rosse o Prima Linea, si attribuiscono un codice etico per cui chi le abbandona è un traditore, un super-traditore, che merita il titolo di «infame». Ora, uno che entra nella mafia, e fa quel che la mafia gli ordina, sequestra, strangola e seppellisce, comportandosi da uomo d’onore, poi entra in crisi, si pente e collabora con lo Stato, certamente in una fase della vita è un traditore, ma quando? Quando lavora per la mafia o quando lavora per lo Stato? Non c’è dubbio che tradisce quando lavora per la mafia, e quando passa allo Stato smette di tradire. «Infame» è il mafioso, non il collaborante. Non merita fedeltà se non il bene, non c’è fedeltà se non al bene. La fedeltà al male è sempre un tradimento.

fercamon@alice.it
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Titolo: FERDINANDO CAMON. Senza Belluno non è più il vero Veneto
Inserito da: Admin - Gennaio 13, 2011, 11:58:47 am
13/1/2011

Senza Belluno non è più il vero Veneto

FERDINANDO CAMON

Dunque tutta Belluno vuol passare col Trentino-Alto Adige? E il Consiglio provinciale ha detto sì? Se la secessione dal Veneto va in porto, il Veneto ne avrebbe un danno immenso. Cambierebbe tutto.

La sua immagine, la sua completezza, di regione col mare più affollato d’estate e con le montagne più belle d’inverno, il possesso del cuore delle Dolomiti, appena dichiarate dall’Unesco «patrimonio dell’umanità», la sua cultura e la sua storia, perfino la sua memoria letteraria. E perfino la sua italianità. Perché dire Trentino è un po’ come dire Alto Adige, e l’Alto Adige non è italiano. Camminavo per Brunico, a un passo dall’Austria, con una nipotina, la nipotina vede una cartaccia per terra, la raccoglie e la mette nel cassonetto, passa una bolzanina in bicicletta e la rimprovera: «Non usarlo tu, quello è mio». È suo? Qui i cassonetti son tanti, come son tanti i fiori alle finestre. La Provincia autonoma ha un «servizio fiori», che rifornisce di fiori alberghi e case. Ma può farlo perché riceve dallo Stato assai più di quel che dà allo Stato: il rapporto vien calcolato al 120 per cento. Galan sostiene che i soldi in più che lo Stato dà al bolzanino sono i soldi in meno che dà al Veneto. E cioè: sono soldi veneti. E allora: di chi è quel cassonetto?

Se dall’Alto Adige passi in Austria, vedi subito un crollo di ricchezza. Non è ricco il loro Tirolo, è ricco il nostro Sud-Tirolo. Nel Tirolo meno fiori, meno verniciature recenti, supermercati meno sontuosi, e meno affollati. Ma se dall’Alto Adige scendi a Cortina, hai la stessa impressione: corre meno denaro, i prezzi son più alti, le attrezzature più povere. Il Bellunese sta peggio di Cortina: ha montagne stupende, piste lunghe e numerose, e tuttavia ha qualcosa di povero, disadorno, abbandonato. La Val di Zoldo, con il comprensorio del Civetta, è un centro sciistico ricco di piste come in Alto Adige il Plan de Corones. Ma sul Plan de Corones ci van tutti (anche la Roma, anche l’Inter), lo Zoldano è semideserto. Sebastiano Vassalli ha scritto che lì, sotto il Pelmo, «ha visto gli dèi». Ma io sul Pelmo sono stato in vetta, che è larga come una piazza, e gli dèi non c’erano. Anche se i veneti chiamano quella vetta «el caregòn de Dio». Lo Zoldano è una zona di gelatai, sono emigrati tutti per fondare le più grandi gelaterie della Germania. Là guadagnano bene. Non tornano indietro neanche d’estate. Pietro Citati va più a Nord, intorno a San Candido, e ha scritto che gli dèi li ha visti lì. È più probabile che abbia ragione Vassalli, i monti bellunesi son più belli.

Dino Buzzati ci camminava sopra e intorno fino agli ultimi anni, e in suo nome han chiamato Dino l’orso importato dalla Slovenia (un anno fa lo davan per morto, ma adesso han scoperto che è tornato a casa, perché qui non c’eran orse). Che succede ora, se tutta quest’area abbandona il Veneto? Avremo un Veneto «senza montagne», troncato all’altezza del Trevigiano Nord? Solo pianura e mare? Anche l’Altopiano di Asiago vuole lasciare il Veneto, e per l’Altopiano passare nella regione confinante vorrebbe dire rinnegare la storia. Perché l’Italia è stata fatta qui, l’Austria è stata combattuta qui. «Uomo veneto» e «trincea» sono sinonimi. Vorrebbe dire, con un secolo di ritardo, la vittoria dell’Austria. I grandi libri sulla formazione dell’Italia, a partire da quello di Emilio Lussu, andrebbero annotati da capo, perché come li leggiamo ora non sarebbero più veri. C’è un paese sull’Altopiano (nell’elenco telefonico, il 95 per cento han lo stesso cognome), che quando ci fu l’opzione tra Mussolini e Hitler, optò per Hitler. Ancor oggi nelle trattorie cantano canzoni hitleriane, le ho sentite. Con la secessione, l’Altopiano gli darebbe ragione. Andrebbero abolite le canzoni, tipo «Bombardano Cortina - dicon che gettan fiori -, tedeschi traditori»: a Cortina stan raccogliendo firme per la doppia cittadinanza, italiana e austriaca. Queste secessioni sono un disastro economico, culturale, storico. La soluzione è un’altra: autonomia anche per il Bellunese. Anzi, meglio: tutte Regioni speciali o tutte normali.

fercamon@alice.it
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Titolo: FERDINANDO CAMON. La legge della disperazione
Inserito da: Admin - Aprile 07, 2011, 12:01:28 pm
7/4/2011

La legge della disperazione

FERDINANDO CAMON

Ora sappiamo la «verità» sull’immigrazione. Credevamo di saperla anche prima, ma era una bugia.

Finora la verità erano le migliaia di immigrati che s’accumulavano a Lampedusa, tanti da superare gli abitanti dell’isola, il loro bisogno di tutto («sono miserabili»), le loro pretese («sono intrattabili»), le loro rampicate su per le reti di recinzione, fino a scavalcarle e scappare per i campi, vanamente inseguiti dalla polizia a piedi o a cavallo, come nei film tra California e Messico.

Quella non era la verità, era un’apparenza. Perché faceva credere a noi e a tutta l’Europa che arrivasse un’umanità pericolosa e non integrabile, una minaccia per il decoro del nostro benessere. Scattava l’istinto di tenerli alla larga. Era l’istinto di conservazione, tanto più forte quanto più alto è il benessere da conservare. Questa strage di circa duecento uomini, donne e bambini, annegati in un crudele gioco di su e giù sulle onde di tre metri, ci butta in faccia una verità brutale che i nostri cervelli e i nostri nervi, intorpiditi dalla civiltà borghese nella quale siamo nati e nella quale moriremo, non ci permette più di cogliere. Ci metteremo giorni a capirla un po’, a ogni tg capiremo qualcosa di più. Non capiremo mai tutto, perché i tg evitano di spaventarci, di farci del male. E la strage fa male. Solo sapere che è avvenuta e che può ripetersi turba la nostra vita, non ci permette più di vivere come prima. Ora sappiamo che non scappano da una vita misera. Scappano dalla morte, e attraversano la morte pur di scappare.

Se la vis a tergo fosse un miglioramento della vita, non potrebbe spingerli per giorni e notti, farli navigare senza direzione, mal guidati da qualche rudimentale strumento che fa della loro navigazione un lungo tuffo nel buio fra acqua e cielo. Spesso il motore si rompe, manca l’acqua, e loro si mettono a pregare, singolarmente o in coro. È la «morte lenta», che può durare anche giorni e giorni. Fino a diventare indefinibile: in qualche salvataggio si scopriva che a bordo c’era qualcuno già morto da tempo, che i vivi non avevano le forze per sollevarlo oltre la sponda. Altre volte dai racconti si poteva dedurre che qualcuno era stato buttato fuori della barca senza la certezza che fosse morto.

La strage di ieri entra invece nella «morte rapida», resa più crudele dal fatto che è avvenuta in prossimità della salvezza. Han visto arrivare nel buio, ombra nell’ombra, la nave che li soccorreva, si sono spaventati, nel panico si sono spostati in massa dentro l’imbarcazione capovolgendola. Era la salvezza, è diventata la morte. Ci sono transiti dalla vita alla morte che sono governati senza pietà. La «morte rapida» è sempre uno scontro con la natura, gli uomini usano le loro forze e la natura le sue: gli uomini perdono tutti, ma per primi perdono i più deboli, i bambini e le donne. Così qui è successo che alcuni salvati han visto morire la moglie e i figli. Dobbiamo fare ancora un altro passo, se vogliamo capire fino in fondo cos’è la migrazione: le disgrazie come questa (annegare in massa) tutti i migranti sperano che non avvengano, ma un pezzettino del loro cervello, un pezzettino inascoltato e nascosto, sa sempre che non sono impossibili. Si parte con quella spia accesa nel cervello. Con quei barconi stravecchi, tra quelle masse umane vaneggianti e inesperte, noi pensavamo che le loro partenze notturne, via una barca sotto l’altra, fossero una sfida a noi, alla polizia, alla finanza, una questione di ordine pubblico.

Per loro sono una sfida al destino, una lotta tra la vita e la morte. Se uno ce la fa, salva se stesso e coloro che da lui verranno. Abbiamo visto in passato barconi sfracellarsi sugli scogli, otto-dieci fortunati scendevano, e raccontavano dei compagni morti nella traversata: ma quelli che scendevano alzavano due dita in segno di vittoria. L’Italia e l’Europa ci mettono tutta la forza delle leggi e dei trattati per impedirgli di venire qui. Ma loro ci mettono la forza della disperazione per venire. Lo scontro è fra queste due forze. Ora lo sappiamo.

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Titolo: FERDINANDO CAMON. Il gen. Cadorna non ha diritto a vie e piazze
Inserito da: Admin - Giugno 10, 2011, 10:31:37 am
10/6/2011 - IL CASO UDINE

Il gen. Cadorna non ha diritto a vie e piazze

FERDINANDO CAMON

Gli abitanti di Udine protestano: non vogliono più avere un piazzale intitolato al generale Luigi Cadorna. La commissione per la toponomastica è d’accordo, la giunta ha votato, è deciso: via il nome di Cadorna dal piazzale che sta davanti all’ex caserma dei Vigili del Fuoco. Si chiamerà Piazzale Unità d’Italia. È una tardiva, irrimandabile correzione della storia. Il generale che fu il comandante supremo dell’esercito nella prima guerra mondiale, fino a quando fu sostituito da Armando Diaz, aveva a Udine la sede del comando. Finita la guerra, con una grande vittoria (ma lui era già stato sostituito), era inevitabile che gli onori e la gloria che dovevano piovergli addosso partissero da questa città, come dire da casa sua.

Ma da allora è stato un continuo scavo degli studiosi nella sua strategia, la sua tecnica d’attacco, gli assalti a ripetizione, lungo tutto il fronte e specialmente sul vicino Altopiano di Asiago, dove esercito italiano ed esercito austriaco si fronteggiavano da pochi metri di distanza, con una successione ininterrotta di battaglie e valanghe di morti. Sono stati eventi grandiosi, perciò inobliabili. Da quella grandezza discendeva una gloria, che ricopriva anzitutto il generalissimo. Ma era una gloria funerea, ogni nostro attacco si trasformava in un suicidio collettivo. I diari e le testimonianze di quelle giornate terribili provano che i nostri soldati davano continue prove di eroismo, e i comandanti d’impreparazione: «Grandi soldati, piccoli generali». In tutte le città del Veneto e del Friuli, ma soprattutto sull’Altopiano, è un continuo fiorire di libri sulla prima guerra mondiale, ogni anno ne escono 3-4, non c’è battaglia piccola o grande che non sia stata studiata in tutti i dettagli. C’era un tale disprezzo per la vita dei soldati negli ordini di Cadorna, che i soldati sentivano anche i propri comandi come nemici da cui difendersi. Il pilastro delle testimonianze sul disprezzo per la vita dei soldati sta nel libro di Emilio Lussu Un anno sull’Altipiano. Fondamentale la scena in cui un maggiore, da solo, processa e condanna a morte e fucila, uno ad uno, i propri soldati, usciti senza ordini da una caverna su cui cadeva per errore il fuoco amico della nostra artiglieria. Il maggiore viene a sua volta ucciso da un ufficiale subalterno. C’è un passo, in un libro scritto da Cadorna, in cui il generalissimo sostiene l’efficacia degli attacchi frontali a ripetizione, con la tesi che «prima o poi il nemico si stanca e spara alto». Un comandante così non merita l’onore di piazze e strade, ma la Corte Marziale. Nella follia di quegli ordini s’intravede il concetto che i soldati che vanno all’assalto moriranno, sì, ma questo sacrificio collettivo fortifica l’esercito, la monarchia e lo Stato. È l’idea del popolo come strame della storia. Cancellando il nome di Cadorna da una piazza, la città di Udine non è più disposta a ritenere che l’Italia sia stata fatta dai comandanti con il materiale inerte del popolo, ma dal popolo nonostante l’inadeguatezza militare ed etica dei Comandi. In quel modo non si creava uno Stato per un popolo, ma un regno per un re. È giusto prenderne coscienza. Ogni città che ha vie o piazze intitolate a Cadorna dovrebbe pensarci. Poiché queste vie e piazze sono tante, la decisione di Udine può mettere in moto una frana. Una benefica, salutare frana.

fercamon@alice.it
da - lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/


Titolo: FERDINANDO CAMON. Non sempre è giusto salvare i figli
Inserito da: Admin - Luglio 10, 2011, 04:00:12 pm
10/7/2011

Non sempre è giusto salvare i figli

FERDINANDO CAMON

A Vaprio d’Adda, nella provincia milanese, in piena notte, un figlio di 34 anni travolge con l’auto un ragazzo in bicicletta e scappa, e suo padre di 76 anni si presenta dai carabinieri per dire: «Sono stato io, arrestatemi, voglio pagare». I carabinieri non gli credono. Indagano freneticamente, e all’alba scoprono il vero colpevole, che alla fine confessa.

Qui s’impone una domanda: un padre pronto ad andare in prigione al posto del figlio, lo ama? Gli fa del bene? Lo aiuta?
Non tutti i lettori saranno d’accordo, ma bisogna rispondere di no.
Certo, l’amore è disposizione al sacrificio, chi ama soffre nel vedere l’amato che soffre, vorrebbe mettersi al suo posto.
Ma chi ama non può togliere un diritto all’amato. Deve anzi aiutarlo a far valere i suoi diritti, ad attuarli.

Noi diciamo sempre che chi ha ucciso, sia pure colposamente, ha il dovere di espiare, scontando la pena. È una formula imprecisa, anzi errata. La formula giusta è: chi ha fatto un omicidio, colposo o colpevole, «ha il diritto» di espiare. Se non lo fai espiare, gli togli un diritto. La sua vita sarà umanamente degna solo dopo l’espiazione.

Se fa il latitante, se scappa all’estero, se trova protezione di qualche genere, compresa quella del padre che va in prigione al posto suo, allora non si redime, non rimette la sua vita in relazione con l’umanità, sta fuori della morale e della legge. Vive una vita indegna. Aiutandolo in questo, gli si fa del male.

Certo, di un padre che corre a farsi mettere in galera al posto del figlio, esclamare: «Lo ama» è giusto. Non si può dire che non lo ama. Lo ama al massimo, è pronto a farsi seppellire vivo al posto suo. Però lo ama, ma non gli vuol bene. Lo ama, ma non fa il suo bene. Il suo bene è la redenzione, gli vuol bene chi lo avvia e lo sorregge sulla strada della redenzione.

C’è una stupenda poesia di Catullo sulla differenza tra amare e voler bene. Ci sono delle situazioni, dice, in cui la persona che ami si comporta male. Ma non per questo tu puoi smettere di amarla, anzi la ami di più. Però non la apprezzi, non le vuoi bene. Non ti è cara.

Più la disprezzi, più la ami e meno le vuoi bene. L’amare ti lega a lei e basta. Il voler bene ti lega a lei e a tutti. Nell’amare non giudichi, nel voler bene giudichi ed educhi. Nell’amare, se l’altro è peggiore, tu peggiori. Se l’altro è drogato, tu ti droghi. Nell’amare, se l’altro è nel male, tu lo raggiungi e vai nel male. Nel voler bene, fai di tutto per tirarlo nel bene.

È strano che qui, in questo episodio milanese, sia il padre a non denunciare il figlio. Di solito, a non denunciare sono le madri. Le madri hanno un senso della famiglia, come dire, endofamigliare: tutta la vita si svolge secondo le regole interne della famiglia. I padri fanno da ponte fra la famiglia e la società. Se un figlio sgarra, è più facile che lo denunci il padre che non la madre.

Questo figlio di 34 anni si sentiva protetto dal padre verso la società: aveva dei precedenti per ubriachezza ed eccesso di velocità, non sarà stato perdonato anche allora? Non è che tutti lo amavano troppo ma nessuno gli voleva veramente bene?

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8962&ID_sezione=&sezione=


Titolo: FERDINANDO CAMON. La reazione a un dramma indicibile
Inserito da: Admin - Agosto 12, 2011, 09:12:05 am
12/8/2011

La reazione a un dramma indicibile

FERDINANDO CAMON

Tutte le lingue hanno la parola per indicare chi perde il coniuge, ed è «vedovo», hanno la parola per indicare chi perde un genitore, ed è «orfano», ma nessuna lingua ha inventato la parola per indicare il genitore che perde un figlio. Perdere un figlio è un dolore così estremo, così totale, che svuota l’esistenza, la rende assurda e impossibile. Prima avevi un senso, ora non l’hai più. La lingua si rifiuta di battezzare con una parola questa condizione, perché si rifiuta di accettarla. Per un genitore, perdere un figlio è l’indicibile perché è l’inaccettabile.

A Sovico, paesotto di ottomila anime della Brianza, un ragazzo di 18 anni è stato ucciso in una lite per stupidi motivi, durante una partita a carte, da un coetaneo, anzi un po’ più giovane, 17 anni, con una scheggia di bottiglia che gli ha tagliato la carotide. La madre, subito informata, ha avuto una reazione così sublime da apparire inintelligibile. Ha detto: «Sono straziata per la mia sorte, ma mi dispiace anche per il ragazzo che ha commesso questo delitto e per i suoi genitori, per tutto quello che da adesso in poi dovranno sopportare e superare per tutta la vita».

Pare, a chi giudica d’impulso, una reazione non materna: nessuna madre reagirebbe così, ogni madre vorrebbe riavere la vita del figlio, e poiché questo è impossibile, vorrebbe che chi gli ha tolto la vita perdesse quel che può perdere della propria vita. Suo figlio ha perso tutto, un altro figlio deve perdere il massimo. Lei madre soffre la massima pena, un’altra madre deve soffrire una pena equiparabile. Ma questa sarebbe una reazione da madre che vive una parte del lutto, la parte che la riguarda. Qui il lutto è più grande. Riguarda tutti i membri del gruppo. Anche gli amici del figlio, che gridano: «Date a noi l’assassino, sappiamo cosa farne»: pronti all’occhio per occhio.

Quando senti questa reazione, hai l’impressione che chi ha ucciso non sia molto più cattivo delle vittime, semplicemente le ha battute sul tempo. Questa madre non è così. Lei sente che in quella disgrazia s’è bruciato un gruppo di diciottenni, il povero morto senza ragione, il povero assassino senza motivi, gli amici del figlio, pronti alla vendetta. Questa madre soffre l’assurdità di una tragedia come questa, che la lingua non sa battezzare, e che è più vasta del singolo delitto: è assurdo morire così, assurdo uccidere così, assurdo per suo figlio non esserci più, assurdo per tutto il resto del mondo esserci ancora.

Lei sente che qui scatta per lei la condizione-che-non-ha-nome, ma per gli altri scattano condizioni che hanno nomi sbagliati.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9087


Titolo: FERDINANDO CAMON. - Le prede più facili
Inserito da: Admin - Gennaio 19, 2012, 04:48:52 pm
19/1/2012

Le prede più facili

FERDINANDO CAMON

Pare un incontro di pugilato all’ultimo round, quando un pugile sta per crollare e l’altro gli dà i colpi di grazia. Qui a ricevere i pugni, gli urtoni e le sberle è una donna, anziana, non autosufficiente.

Il petto e la testa le cadono continuamente in avanti, e davanti a lei sta un’infermiera, col camice bianco. Tu pensi: Adesso l’infermiera la sorregge, la aiuta, la sistema, la imbocca. Invece no: ogni volta che la testa della vecchietta cade giù, sul petto, l’infermiera gliela ributta indietro con un cazzotto, a volte con una sberla. Siamo in Italia, a Sanremo, in una casa di riposo. Cose del genere non dovrebbero mai accadere. Non in Italia. Non in una casa di riposo. Non a danno dei vecchi. Non sui disabili e i non-autosufficienti. Non ad opera del personale che lavora lì, e che per questo lavoro vien pagato.

Non c’è un reato, in questo comportamento, ce ne sono 4-5. Nessun codice li abbraccia tutti quanti. Quale che sia, la pena sarà inadeguata alla colpa. Le riprese sono stupende, limpide, crudeli, chiare. Valgono più di qualsiasi arringa. La telecamera dev’essere nascosta in alto, forse al di sopra di qualche armadio. Gli infermieri non ne hanno il minimo sospetto. Fanno liberamente, senza esitazione, quel che fanno sempre. Picchiano, bastonano, insultano. Si credono non-visti. E così noi, parenti delle vittime, carabinieri, semplici cittadini, li vediamo nella loro vera segreta attività quotidiana.

In una casa di riposo, a occuparsi dei vecchi e degli inabili, quelli che hanno problemi fisici o (qui ce ne sono) mentali, noi pensiamo che ci vada personale preparato, adeguato, che non prova schifo o ripulsa per chi ha bisogno del loro aiuto. Noi portiamo in case di riposo i nostri vecchi pensando che l’istituto diventa il nostro continuatore, si occupa dei vecchi con la stessa affettuosità che avremmo noi, e in più ci mette una competenza che noi non abbiamo. Questo crediamo. Separarci dai nostri vecchi ci costa, lo sentiamo come una specie di tradimento: ci han tenuti con sé finché ce l’han fatta, ora che non ce la fanno più ce ne sbarazziamo. Ma questo nostro senso di colpa è alleviato dal pensiero (che gira per il cervello di tutti coloro che scaricano negli ospizi i genitori anziani) che lì stiano meglio che a casa. Se hanno bisogno di qualcosa, lì lo capiscono prima di noi. Se hanno un problema, lo sanno senza che gli venga detto.

Invece, è doloroso dirlo, questo atroce filmato che vien da Sanremo, dove adesso ci sono quindici indagati per percosse e maltrattamenti in una casa di riposo, e quattro operatori più due infermieri sono in carcere, qui scopriamo una cosa inaudita, difficile perfino da dire, e dunque, per i lettori, da credere: qui i vecchi e gli inabili, in questa casa di riposo (mai nome fu più mendace) non sono trattati con affetto, non con professionalità, e nemmeno con neutro rispetto: qui sono odiati. Il personale che lavora in questo istituto fondato per vecchi e i malati «odia» i vecchi e i malati. Dev’essere un odio che riempie tutti, compresi i dirigenti, se il gestore dell’istituto, che è una donna, è agli arresti per il sospetto che sapesse tutto da tempo. C’è perfino una certa raffinatezza nella crudeltà di chi picchia questi degenti: c’è un’infermiera che picchia una vecchia a letto colpendola sulle caviglie con la mano a coltello. Istinto? o esperienza? o cultura? E poi dicono che siamo il Paese dei vecchi. No, siamo un Paese di prede e di predatori. E i vecchi son le prede più facili, più innocue, perché sono immobili. Due vecchi sono morti tempo fa di morte sospetta. Adesso s’indaga. Fossero morti due bambini, scoppiava il finimondo. Ma i bambini sono preziosi, mentre i vecchi non hanno importanza.

fercamon@alice.it

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9663


Titolo: FERDINANDO CAMON. - Il dolore che non si può sopportare
Inserito da: Admin - Marzo 15, 2012, 12:29:31 pm
15/3/2012 - SVIZZERA. LA STRAGE DEGLI STUDENTI

Il dolore che non si può sopportare

FERDINANDO CAMON

Non ci sono gradazioni alla disperazione, perché la disperazione è lo stadio estremo del dolore.

Ma se ci fosse una gradazione, questo sarebbe il vertice: un’ecatombe di bambini sui 12 anni, vitali e festosi, che rientrano a casa dopo una settimana bianca, in pullman, e vengono falciati in un incidente assurdo. Ventidue muoiono sul colpo, altri vanno in coma, altri ancora sono feriti gravi. È una di quelle scene che non hanno risposte sulla Terra, e ti fanno alzare gli occhi al cielo. L’uomo non è fatto per sopravvivere alla morte di un figlio, la morte di un figlio è un capovolgimento della natura. E qui è avvenuto un capovolgimento innaturale della vita di decine di famiglie, e delle famiglie a loro collegate. Non è umanamente possibile reggere questa piena di dolore. Nessuna delle esistenze toccate da questa tragedia potrà continuare come prima. Tutte le vite subiranno una deviazione, una stortura. Compiendosi in un attimo, la tragedia avrà conseguenze per sempre.

Quando si dice «figlio» non si dice tutto, perché un figlio cambia di significato per i genitori lungo le fasi della vita: se c’è una fase in cui è «più figlio» è questa, sui 12 anni. A quell’età i figli hanno ancora qualcosa di quand’erano bambini e fanno già vedere qualcosa di quando saranno uomini o, le bambine, donne. E noi padri, amandoli a quell’età, li amiamo per quel che sono, quel che erano e quel che saranno. Riempiamo la loro vita, e questo riempimento fa la nostra felicità. Loro lo sentono, e ci fan vedere che la loro vita è piena apposta per farci felici. Questi bambini tenevano un blog in cui annotavano le loro emozioni, e in questa settimana bianca scrivevano: «Papà, mamma, siamo felici ma ci mancate». È amore filiale allo stato puro, senza quelle ambiguità (rivalità, proteste, autonomia) che inveleniscono il rapporto 5-6 anni dopo. Dategli ancora 5-6 anni, a questi figli, e quelle parole non le scriveranno più. Ma adesso le scrivono. Il rapporto genitori-figli a quell’età è gioia pura, da conservare nel ricordo. Qui la gioia pura si è rovesciata nel dolore irrimediabile, che ti fa perdere la ragione. È questo il momento terribile, nella cronaca di questa disgrazia: quando i genitori vedono i figli. Mentre scrivo, i genitori sono in volo dalle Fiandre verso la Svizzera. Le cronache non lo dicono, ma in ciascuno di quei genitori si agita la speranza che suo figlio non sia tra le vittime, che fra poco avverrà il grande abbraccio che ridarà un figlio al padre e alla vita. Il bambino non sa ancora di essere mortale, lo imparerà più tardi, molto più tardi, nella terza età. In giovinezza si crede eterno. E anche i suoi genitori lo credono così. A questo livello, la disgrazia non squassa il cuore soltanto, e i nervi, ma la ragione, la fa vacillare o crollare. E non occorre essere il padre o la madre di uno di quei bambini. Basta soltanto essere un uomo o una donna che passa di lì. C’è una donna che ha visto il pullman sfracellato mentre dai suoi finestrini svolazzavano dei fogli, dunque a urto appena avvenuto, e descrive la scena come farebbe un automa: pullman sventrato, sedili tranciati, sangue dappertutto, bambini che la fissano con occhi spalancati, «non sa se vivi o morti». A quest’ora i genitori saranno arrivati, tutti. E sapranno. Le analisi per l’identificazione saranno finite o finiranno presto. I figli torneranno ai padri nell’unico modo possibile. Non ci sarà spiegazione. Sulla morte di un figlio di questa età il regista Malick ha costruito un film che ha ottenuto la Palma d’Oro nel 2011. Nel film la madre di un figlio morto in un incidente alza gli occhi e chiede: «Cosa siamo noi per te?», dall’alto scende una risposta che la gela: «Dov’eri tu quand’io creavo le galassie e gli abissi?». Mi torna sempre in mente questa botta-risposta, quando penso al problema. È nella Bibbia, Giobbe. Posto così, il problema è un rapporto di potere: noi non abbiamo alcun ruolo se non quello di sopportare l’insopportabile.

fercamon@alice.it

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9884


Titolo: FERDINANDO CAMON. - Il viaggio di Venere non fa rumore
Inserito da: Admin - Giugno 05, 2012, 07:02:14 pm
5/6/2012



FERDINANDO CAMON

Mi preparo a vedere domattina il transito di Venere davanti al Sole, con la nipotina di 12 anni. I bambini si pongono le stesse domande che ci poniamo noi, solo che noi non abbiamo il coraggio di pronunciarle. La nipotina esclamerà: ma com’è piccola Venere! Siamo così lontani? Sì, siamo lontanissimi. E non si potrebbe andar più vicini? È il desiderio degli scienziati: avvicinarsi, toccare. La Luna l’abbiamo toccata? Sì, anzi calpestata. E toccare Venere? Toccare Marte? Vedere se ci sono uomini come noi, dargli la mano? Quello sarebbe il vero incontro.

Abbiamo inventato la stretta di mano per far sentire all’amico che non siamo armati: la stretta di mano è una reciproca perquisizione. Incontrare gli alieni, lasciarci perquisire e perquisirli, è il presupposto per un’amicizia cosmica. Poter cominciare domattina, con questa Venere che passa tra la Terra e il Sole! Ma come si fa ad andar là? Il barone di Münchhausen credeva che il mezzo più veloce per andare nello spazio fosse la cannonata: tu monti sulla palla di cannone e in un attimo scavalchi l’orizzonte. Per il barone, uno sparo potente ci potrebbe lanciare fino a Venere. Era anche la nostra idea, quand’eravamo piccoli: velocità-distanza-sparo. L’idea della nipotina, e dei bambini della sua età, è un’altra: il rumore che ti porta lontanissimo è il sibilo. La «s» è una consonante detta «sibilante». Nei fumetti, il sibilo è indicato da una scia di «s» seguìta da un’h: sssh. Il suono sssh ti porta nell’immenso, il suono bùm ti fa fare un salto e poi cadi.

Il viaggio nell’immenso non fa rumore: Venere transita in silenzio. In «2001 Odissea nello spazio» non si sente mai un fruscìo, i bambini si domandano se i motori siano accesi o no. Fino al Leopardi, «infinità» ed «immensità» erano sinonimi, più tardi l’uomo ha cominciato a sentire che «immensità» è più vasto di «infinità». Leopardi ha oscillato tra la prima parola e la seconda. «L’Infinito» è il titolo di un suo canto, familiare a tutta l’umanità, «M’illumino d’immenso» è la risposta di Ungaretti. Nella casa del Leopardi, a Recanati, il manoscritto di quel canto sta esposto in cornice come una fotografia, e il penultimo verso dice: «Così tra questa / immensità s’annega il pensier mio». Ma nella casa di Pablo Neruda, in Cile, sulla riva del Pacifico, sta esposta una fotocopia dello stesso manoscritto, e la parola «immensità» è cancellata da uno striscio orizzontale e sostituita con «infinità». Dunque Leopardi s’era pentito di «immensità». Più tardi si pentì del pentimento e ristabilì «immensità», che è la parola che noi leggiamo oggi. Il poeta aveva avvertito in maniera definitiva il bisogno di quella sibilante: come se avesse pre-sentito, con secoli d’anticipo, che il suono con cui l’uomo entra nel cosmo non è il rombo, non è il tuono, non è lo sparo, ma è il sibilo.

Ci sono autori italiani, l’ultimo fu Raboni, i quali pensano che la poesia più bella di tutta la nostra letteratura sia la prima, «Il cantico di frate Sole» di Francesco d’Assisi: la nostra letteratura s’è aperta con un vertice, mai più raggiunto dopo. La prima parola del «Cantico» è: «Altissimu», in dialetto umbro. Francesco inventò quel canto all’alba di una notte insonne, tormentata da assalti di topi. Spunta il Sole, i topi scappano, Francesco alza le braccia e comincia: «Altissimu, onnipotente, bon Signore...». Quella parola con la doppia «s» colloca il destinatario a una distanza vertiginosa, e umilia il parlante schiacciandolo sulla Terra. A quella altezza è il Tutto, a questa bassezza il Nulla. Lassù transita Venere, quaggiù si festeggia una regina. Ma Venere ripasserà identica l’11 dicembre 2117, e chi sarà allora sul trono della regina nessuno lo sa e nessuno se lo chiede.

fercamon@alice.it

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10190


Titolo: FERDINANDO CAMON. - La dolcezza di visitare i morti
Inserito da: Admin - Novembre 02, 2012, 05:18:27 pm
Editoriali
02/11/2012

La dolcezza di visitare i morti

Ferdinando Camon

Infelice la frase di Benedetto Croce che per il 2 novembre diceva: «Via dalle tombe!». Pensava ai bambini: ai bambini, secondo lui, fa male sapere che i nonni sono morti. Infelice anche la frase di Ugo Foscolo, nei «Sepolcri»: «A egregie cose il forte animo accendono l’urne de’ forti». Perché le urne dei forti? Perché solo loro? Perché soprattutto loro? È la forza, cioè la grandezza, la garanzia dell’immortalità, del ricordo perenne? Ma da due millenni non è stato insegnato all’umanità che il traguardo non è essere forti, ma essere giusti? Essere forti, come quelli che Foscolo passa in rassegna, è concesso a pochi, pochissimi per ogni generazione. Dipende dal destino. Essere giusti è concesso a tutti. Dipende da loro. E la memoria che coloro che hanno finito di vivere ottengono nei discendenti è la loro immortalità. Andare «via dalle tombe» e non visitare i morti, oggi che è il loro giorno, vuol dire farli morire veramente. Oggi i morti-morti sono soltanto quelli che non ricevono visite. I parenti che non li visitano, li uccidono. Questo abbandono dei morti, questo distacco dai morti, segna una frattura nella vita: la vita perde continuità, rompe con il passato. Ma il passato è l’origine. Lasciar perdere la propria origine vuol dire lasciarsi andare nel fiume della vita, senza resistenza, senza orientamento. Ci sono persone abbandonate dal padre o dalla madre, o da tutt’e due, e poi adottate da famiglie sconosciute, che per tutta la vita cercano di sapere chi è la madre, chi è il padre (ma soprattutto la madre). Sapere chi è il padre e la madre significa sapere chi sei tu. Se prima non lo scopri, non hai pace. 

 

Accettare la tua origine e pacificarti con essa, è la condizione per accettare la tua fine e pacificarti con essa. Finché questo non avviene, sei in guerra con te stesso. So bene che questo avviene nella vita di quello che molti considerano (e io tra loro) il più grande scrittore francese vivente, Patrick Modiano: Patrick aveva dei motivi per non-amare il padre, e da quando il padre è morto, molto tempo fa, non è mai andato alla sua tomba, neanche una volta. Credo che questa non-conciliazione con la propria origine (questa maledizione della propria origine) traspaia nei suoi libri, di riga in riga. La lingua di Modiano è un sangue avvelenato, che scorre per smaltire l’avvelenamento, invano. Molti anni fa ebbi una malattia lunga, mesi di ospedale. Ero in stanza con uno che non poteva guarire, in fase terminale, ed era figlio di NN. Per tutta la vita aveva cercato il padre: solo per vederlo un attimo. D’improvviso sulla porta si stagliò la figura di un uomo, che alzando la mano fece soltanto un saluto. Era controluce, non si vedeva bene. Ma il figlio rispose. 

C’è una frase memorabile, non so chi l’abbia detta ma possiamo sottoscriverla tutti, che dice: «Di qualunque cosa parli, l’uomo parla sempre della propria morte». Significa: ci sono uomini che non vanno a trovare i loro morti, non ci pensano e non ne parlano, ma in realtà non pensano e non parlano d’altro. Non accettano il 2 novembre, ma anche per loro, come per tutti, ogni giorno è il 2 novembre. Quella frase si può completare con un’altra: «Qualunque cosa faccia, l’uomo la fa sempre per vincere la propria morte». Qualunque cosa: una guerra, un ponte, una casa, un libro, un figlio. Chi oggi va a trovare il padre morto e porta con sé un figlio, sentirà nascere un pensiero nel cervello: «Io ero prima di essere, e sarò anche quando non sarò». Ha una sua dolcezza, questo pensiero. 

 

fercamon@alice.it 

da - http://www.lastampa.it/2012/11/02/cultura/opinioni/editoriali/la-dolcezza-di-visitare-i-morti-VsVcGaTSyZsf2IYNgFPEUL/pagina.html


Titolo: FERDINANDO CAMON. - Il posto giusto per le due “Pietà”
Inserito da: Admin - Novembre 23, 2012, 01:29:21 am
Editoriali
22/11/2012


Il posto giusto per le due “Pietà”

Ferdinando Camon


Ci starà bene, per un po’ di tempo, la Pietà Rondanini nel carcere di San Vittore? Sono i destinatari giusti, coloro che stanno lì dentro e la vedranno? Lei capirà loro, e loro capiranno lei? Si parleranno? 

 

Molti diranno: «No», perché pensano che il posto giusto per una «Pietà» di Michelangelo sia una chiesa. Come quella che sta in San Pietro. Quella in San Pietro fu scolpita da Michelangelo giovanissimo, la Rondanini da Michelangelo vecchio. Chiamiamole prima ed ultima. Quelli che vogliono le Pietà in chiesa non sanno che sull’arte nelle chiese grava una maledizione di Benedetto Croce, il quale sosteneva che ammirare un’opera d’arte e pregare sono due attività dello Spirito separate e inconciliabili. Alle gerarchie cattoliche che amano riempire le chiese di opere d’arte, Croce lanciava un ammonimento: «Badate: voi praticate il diavolo!». Perché l’uomo che guarda un’opera d’arte non prega: se prega non vede l’arte, se vede l’arte non prega. Sono ammiratori dell’arte, e non fedeli oranti, coloro che, e non sono pochi, ogni volta che vanno a Roma fanno visita alla Pietà di Michelangelo in San Pietro. Mi metto tra loro. Visitare periodicamente la Pietà serve a «mettersi in sintonia» col mondo, spurgare le scorie che la vita e il lavoro ti caricano sulla mente e sui nervi. Meglio farla subito, questa visita, appena arrivi a Roma. Se stai a Roma quattro giorni, dopo quella visita i quattro giorni scorreranno diversi, e il tuo lavoro, qualunque sia, lo farai meglio. Anche se tu fossi un pilota di Formula 1. Hamilton ha visto la Pietà di San Pietro, per la prima volta, un mese fa, e se l’è fatta tatuare sul petto, per portarla via con sé: non può più farne a meno. Non so se sia un caso, ma da allora corre anche meglio: nell’ultimo Gran Premio s’è piazzato primo. Ma ha pregato Hamilton? Non credo. Pregavano quelli (molti erano giapponesi) che osservavano la Pietà l’ultima volta che l’ho vista, due settimane fa? Certamente no. Stavano muti, scattavano foto, sussurravano, ma non pregavano, la Pietà non è un’opera mistica e non favorisce il misticismo. Dire «è perfetta» è poco, bisogna dire «è la perfezione». Ma San Pietro non è il suo posto. 

 

Agostino dice che perfino cantare canti sacri, in chiesa, disturba la preghiera. Agostino aveva scoperto già grandicello che lo spirito può fare tutto in silenzio, perfino (fu per lui una traumatica scoperta) leggere. Lui in Africa da ragazzo s’era abituato a leggere ad alta voce, come facevano tutti. Venuto a Milano, andò a trovare il vescovo Ambrogio, e lo vide dritto in piedi davanti a un leggio, intento a leggere un libro a bocca chiusa, senza pronunciare le parole. Rimase incantato. Il silenzio non ti distrae, ma ti concentra. La parola pronunciata, o peggio ancora recitata, diventa materiale, perde sacralità. Quando Benigni recita «Vergine Madre, figlia del tuo Figlio», dal Paradiso di Dante, noi che l’ascoltiamo pensiamo a Benigni, non alla Madre né al Figlio. Si può ammirare quel passo e restare atei o materialisti. Come la Pietà di San Pietro: la guardi e resti quel che eri. (Adesso è mal collocata, troppo lontana, sbarrata da un vetro immenso, non pare offrirsi ai visitatori ma difendersi da loro, come nemici).

 

Ma i detenuti di San Vittore che s’imbatteranno nella Pietà Rondanini la vedranno come un gruppo famigliare, nel senso che è il gruppo della loro famiglia: il figlio che penzola inerte come snervato è il carcerato dopo anni di carcere, la madre che lo tira su e non ce la fa è la loro madre quando viene a trovare il figlio e non sa cosa dire, le due madri patiscono un dolore che non riesce a farsi parola. È inesprimibile. La Pietà lo esprime, col silenzio. I carcerati e i loro parenti, che vanno a trovarli, non riusciranno a dirselo, ma inconsciamente sentiranno che quel gruppo è un loro ritratto. E sta in San Vittore come un’opera giusta nel luogo giusto. Dalla Pietà di San Pietro si va via portandola con sé come un trofeo. Dalla Pietà Rondanini si va via lasciando sé stesso come un prigioniero. Resterà sempre in San Vittore, l’ultima Pietà? Purtroppo no. Resterà sempre in San Pietro, la prima Pietà? Purtroppo sì.

 

fercamon@alice.it 

da - http://lastampa.it/2012/11/22/cultura/opinioni/editoriali/il-posto-giusto-per-le-due-pieta-y1MIJ3c09c2SE0TLHF1niO/pagina.html


Titolo: FERDINANDO CAMON. - La festa triste di chi non vuole avere figli
Inserito da: Admin - Dicembre 02, 2012, 05:37:29 pm
Editoriali
02/12/2012

La festa triste di chi non vuole avere figli

Ferdinando Camon


Si sta diffondendo il pensiero che è bello non avere figli: i figli sono una disgrazia, rovinano la vita e il pianeta. Il pensiero diventa un movimento, il de-natalismo, e prende piede in Francia, Italia e soprattutto in Belgio. Qui i de-natalisti hanno inventato una festa annuale, a Bruxelles, dove si trovano, cantano canzoni e alzano boccali di birra. E citano uomini illustri senza figli. 

 

Ma citano male. Moravia non era un senza-figli. Era un mancato-padre circondato da mancati-figli. 

Quando andavano a trovarlo, Dario Bellezza, Achille Serrao e gli altri, toccavano tutto, spostavano tutto, come fanno i cattivi figli di un padre scrittore. Uno sgattaiolava fuori dalla porta, Alberto lo inseguiva col bastone: «Cos’hai preso?», «Ma niente Alberto, poi te lo riporto». Sono gli aspetti vischiosi e fastidiosi della famiglia, che fanno una falsa famiglia. Pasolini dice in una poesia di aver amato una prostituta ma non è nato un figlio, e di questo era contento. Non ha mai affrontato il problema se la sua omosessualità fosse fuga dalla paternità.
Quando esplose la domanda, era in analisi da Musatti. Smise subito. Troppa angoscia. 

 

Sì, certo, senza figli si lavora meglio. «Tu hai dato degli ostaggi alla vita», mi ammoniva Meneghello, qui nello studio dove sto scrivendo.
L’aveva già detto Bacone: «Se hai dei figli, non farai più grandi azioni, né virtuose né vituperose». I figli ti bloccano nella mediocrità.
Sono ostaggi del nemico, in una vita che è guerra. Ma se noi, padri, siamo un esercito in guerra, i figli sono avanguardia e retroguardia: la protezione. Riempiono i vuoti del passato e vanno in avanscoperta sul futuro che non vivremo. Io non so come ho capito i primi film che vedevo, da bambino. Ma mi si spalanca una luce quando vedo la nipotina che guarda incantata il risveglio di Biancaneve, poi Biancaneve sparisce ed appare la matrigna, la piccola osserva in giro sbalordita e domanda: «Dov’è Biancaneve?». È convinta che, se non è più nel televisore, è uscita dal televisore e cammina nella stanza. Qualcosa del genere dev’essere capitato al mio cervello, quand’ero piccolo, perché a questa ri-scoperta si eccita. Senza figli e nipoti avrei un cervello non eccitato, piatto. A 6 anni il primo dei miei figli fece un sogno: «I monti mi dicevano: quando morirai, crescerai». Significa che ogni conquista passa attraverso una morte? Al fondo del mio cervello c’era questo concetto, non ero sicuro che fosse la verità, ma il sogno del figlio me lo confermava. 

 

Lui amava il cinema. Un giornale mi mandava un tesserino perché andassi alla Biennale, lui me lo rubava e ci andava lui. Sul tesserino c’era la mia foto, lo lasciavano passare perché lui era identico a me. Questo resta in me l’esempio di cosa vuol dire rinascere in un altro: quando la burocrazia controlla quell’altro e lo scambia per te. A volte mi càpita di cercare un libro che non ho mai letto, lo apro e lo vedo pieno di segni a matita. Sono segnate le frasi giuste con i giusti segni, asterischi, cerchi, punti interrogativi o esclamativi. Ma se non ho mai letto quel libro, chi ha fatto quei segni? Un figlio. Dunque, io ho letto quel libro non come io, ma come figlio. E allora, continuerò a leggere libri, segnandoli con i miei simboli, anche quando non ci sarò. I bambini si ammalano e finiscono in Pediatria. L’ospedale vuole che di notte stiano soli, se c’è bisogno ci sono gli infermieri. Ma le madri non vogliono lasciarli, e si nascondono negli armadi. Il primario prima di andarsene apre gli armadi e le scaccia, allora si nascondono nei bagni. Le ho viste. I figli sono il sancta sanctorum della famiglia, non possono restare senza sentinelle. Quando andavo a prendere un figlio all’asilo, o adesso una nipotina, la maestra lo chiama e gli chiede: «Chi è questo signore per te?», perché ci sono i ladri di bambini, i bambini sono un valore. Diciamo sempre che non ci sono più valori: eccolo, un valore. Ho sentito una madre raccontare: «Passeggio con la figlioletta, questa si nasconde, non la vedo più, e mi son detta: Mi uccido». 

 

Ho sentito una madre friulana cantare una canzone al figlio ricoverato in ospedale: «Signor del Cielo ascoltami, / non farlo mai soffrire, / se c’è dolor per lui, / ti prego dallo a me»: voleva soffrire e morire al posto del figlio. È difficile che chi non ha figli attraversi
l’esperienza di voler morire al posto di un altro. Per chi li ha, è un’esperienza perenne. Essere umani vuol dire questo. A Bruxelles alzano boccali di birra per la gioia di non avere figli? Avranno, come tutti, disgrazie nella vita, ma nessuna più grave di questa. 

(fercamon@alice.it)

da - http://lastampa.it/2012/12/02/cultura/opinioni/editoriali/la-festa-triste-di-chi-non-vuole-avere-figli-i98efBDyDrq5tcWHat8BkI/pagina.html


Titolo: FERDINANDO CAMON. - Quella vita invivibile
Inserito da: Admin - Ottobre 06, 2013, 07:43:29 pm
EDITORIALI
06/10/2013

Quella vita invivibile

FERDINANDO CAMON

Carlo Lizzani s’è buttato dal terzo piano ed è morto. Non sopportava più la vita? Ma aveva 91 anni. 
Quanta vita aveva ancora da vivere? Pochissima. Ma anche quella pochissima ha voluto rifiutarla, non ce la faceva più. La stessa cosa è capitata a Mario Monicelli, per restare nel cinema. 
Monicelli aveva 95 anni quando si buttò dalle finestre della clinica dov’era ricoverato, aveva un cancro ed era appena stato operato. Malato, ultravecchio, non autosufficiente, comunista e ateo dichiarato, cosa gl’impediva di uccidersi? Niente. Ma Lizzani era con me tra gli ospiti di Ratzinger, i 250 artisti che il Papa aveva chiamato da tutto il mondo per incontrarli. Non è detto che fossero (che fossimo) tutti cristiani credenti, ma eravamo intellettuali (registi, attori, cantanti, scrittori…) che, se sentiamo parlare la Chiesa, non ci turiamo le orecchie. E tra le cose che abbiamo sentito, e che han segnato la nostra cultura, c’è la gravità del suicidio: gesto estremo, col quale «rifiuti di esistere», ti sottrai alla famiglia, agli amici, all’umanità. Prima di farlo, t’interroghi migliaia di volte: cosa perdi? cosa guadagni?
 
A novant’anni non è che quel che può ancora darti la vita sia poco o niente, cioè un valore positivo prossimo allo zero, o lo zero addirittura. No, per gli uomini della quinta età (oltre i novanta), quel che la vita riserva è un valore negativo. Sotto lo zero. Soltanto sofferenze e umiliazioni. Hai bisogno di tutto e di tutti e non puoi più dare niente a nessuno. Se sei stato un grande (Lizzani è stato un grande, Monicelli è stato un grande), il ricordo della passata grandezza diventa un dolore lancinante quando ti accorgi che gli altri cominciano a dimenticarti. Si dice: la storia cambia e la vita si rinnova. Sì, ma mai come adesso. Adesso s’affaccia una nuova generazione di scrittori registi pittori, insomma artisti, ogni dieci anni. Sono feroci: vogliono prendere il tuo posto e seppellirti. Fanno cose diverse dalle tue, non capiscono le tue e tu non capisci le loro. Chi decide tra i due? Il pubblico e i media. Pubblico e media stanno sempre col nuovo, perché il nuovo è il loro cibo. Se ne nutrono e poi lo scartano, perché vanno alla ricerca di nuove novità. Cosa può confortare un artista che invecchia e aiutarlo a tirare avanti? Che le sue opere lo seguano. Se trent’anni prima ha scritto un grande libro, che il libro si ristampi ancora. Se ha diretto un grande film, che il film si proietti ancora, magari per gli studenti. Per l’artista che invecchia, non conta il successo di una volta, ma la durata attuale delle sue opere. Questa è il massimo che può avere. Dovrebbe bastare. Se a Monicelli e a Lizzani non è bastata, vuol dire che le amarezze della quinta età sono così mostruose, che prima di entrarci non possiamo neanche immaginarle. Ormai prolunghiamo troppo la vita. Rischiamo che l’ultimo tratto non sia più vivibile. 
 
(fercamon@alice.it)
http://www.lastampa.it/2013/10/06/cultura/opinioni/editoriali/quella-vita-invivibile-eqwH3WvgCFZO5ut3dNrY7M/pagina.html


Titolo: FERDINANDO CAMON. - Lo spinello libero sarebbe la resa dopo la sconfitta
Inserito da: Admin - Gennaio 11, 2014, 11:08:36 am
Editoriali
09/01/2014

Lo spinello libero sarebbe la resa dopo la sconfitta

Ferdinando Camon

Lei si fa di cocaina da un anno, lui esita e le chiede: «Com’è?». «Ricordi la prima volta che abbiamo fatto l’amore? Be’, mille volte di più». È un film tratto da un diario. Si può tirar fuori dal giro quei due, che han sentito la dolcezza mille volte più dolce? Troppo tardi. E quand’è che si poteva? Prima della prima droga leggera.

Ho lavorato anni nel primo Centro Regionale Anti-Droga fondato in Italia, e ricordo la polemica quando un collega preparò un librino da diffondere tra gli studenti: diceva che la marijuana dà un senso di «benessere». Lunga discussione, per correggere «benessere» in «euforia». Anche l’euforia è benessere, ma un benessere malato. Il ragazzo che prova la prima volta una tirata di spinello, o un quarto di pasticca, dice: «Tutto qui?». È una sensazione «di vittoria». La volta dopo fuma lo spinello tutto intero, o inghiotte tutta la pasticca. La pasticca è più pesante, certo. Ma il primo passo è pericoloso perché rende più facile il secondo. La pasticca si scioglie sprizzando un flash che brilla nel cervello, in quel lampo vedi di più, senti di più, hai l’impressione di godere di più. Ti piace. Ti piace che ti piaccia. Proverai quando vorrai, sei tu che comandi il giuoco. 

Prima eri mezzo uomo, adesso sei un uomo intero. O se prima eri un uomo, adesso sei un superuomo. Potresti scrivere. O dipingere. Anche l’eroina, le prime volte, è piacevole. Anche la cocaina. La prima volta la cocaina ti lascia una nostalgia «straziante», ci pensi giorno e notte, anche dormendo. Se vuoi tener lontano un ragazzo dall’eroina o dalla cocaina, devi tenerlo lontano dalla marijuana. Chi ha la marijuana in circolo ha l’impressione che i colori si ravvivino e il tempo rallenti. È questo che dona euforia: il tempo si ferma, puoi goderti la vita con calma. 

L’effetto della droga, sto ai diari e alle confessioni, è come un’onda che percorre il corpo, e l’onda dà la sensazione che adesso si sta bene mentre prima si stava male: la vita nella droga è sentita come guarigione, e la vita normale di prima è sentita come malattia. È malata la fretta, è malata la preoccupazione, è sana la calma, è sana l’indifferenza. Purtroppo la vita è una gara, e ritirarsi dalla gara significa ritirarsi dalla vita. L’euforia dura poco. Al calore subentra il freddo, che comincia dalle mani. Raffreddandosi, le mani tremano, se provi a scrivere fai degli scarabocchi. Allora subentra la paura, che in certi casi può diventare panico. La paura è maggiore negli studenti, minore nei lavoratori. Perché per lo studente la scrittura è un mezzo per rivolgersi agli altri, perdere la scrittura vuol dire perdere il mondo, essere perduto. È in quella fase, del freddo e della paura, che i ragazzi e le ragazze si spinellano in coppia. Spinellarsi in coppia vuol dire abbracciarsi. 

Nelle scuole, i ragazzi che si spinellano aumentano le assenze e peggiorano i voti. Sono i peggiori della classe. Certo, il proibizionismo ha fallito. Ma la libera circolazione delle droghe leggere è una resa dopo la sconfitta. 

Da - http://lastampa.it/2014/01/09/cultura/opinioni/editoriali/lo-spinello-libero-sarebbe-la-resa-dopo-la-sconfitta-zFW7mGqRZdS2SdxWca9QLL/pagina.html


Titolo: FERDINANDO CAMON. - Giovanni XXIII Il “confortatore” che conquistò il cuore...
Inserito da: Admin - Aprile 28, 2014, 12:30:53 pm
Cronache

27/04/2014 - Giovanni XXIII
Il “confortatore” che conquistò il cuore di tutti
La gente lo ricorda vestito di bianco che visita i carcerati e dice loro che per ognuno c’è speranza

Ferdinando Camon

Un giornalista ostile, come la Chiesa ne trova tanti nel suo cammino, fece a Giovanni XXIII una domanda maligna, com’era nel suo diritto, per incastrarlo, e il papa, prima di rispondere, posò il librone che aveva in mano sull’angolo di un tavolo, vi adagiò sopra una delle sue non minuscole chiappe, e cominciò la risposta così: “Basandomi sulle Sacre Scritture…”. 

È un aneddoto irriverente, dirà qualcuno di voi. Ma no, è rispettosissimo. A me lo raccontò Giancarlo Zizola, a casa mia, durante uno di quegli strani pranzi che lui cominciava con la frutta e proseguiva con la verdura per finire con la minestra. Zizola non avrebbe mai pronunciato nulla d’irriguardoso su nessun papa. Giovanni XXIII era santo prima del 27 aprile 2014, la santificazione di questo giorno aggiunge soltanto l’ufficialità, che per il popolo dei credenti non è necessaria. Non è la Chiesa che indica un nuovo santo al popolo, è il popolo che lo indica alla Chiesa. Un santo è tale in ogni atto della sua vita, e – sto arrivando all’innocenza di quell’aneddoto – anche quando va in toilette. I monaci del Medioevo non cessavano di pregare, non interrompevano il contatto con Dio, nemmeno quando si sedevano sul wc, ma pronunciavano questa premessa: “Quod exit supra, Deo; quod exit infra, diabolo”, ciò che mi esce da sopra, dalla bocca, va a Dio, ciò che esce di sotto va al diavolo. Era la continuità, l’ininterruzione della santità. È ciò che il popolo pensa crede spera di Giovanni XXIII. Non lo ha fatto santo un gesto, una frase, una parola, un atto, magari storico. Lui “è” santo: ha i gesti, le parole, la faccia, i discorsi, le azioni del santo. Senti un suo discorso, “Anche la Luna ci guarda”, “Date una carezza ai vostri bambini”, e pensi: “È buono”. 

“Santità” e “bontà” sono equivalenti. La santità può essere molte cose, macerazione, tormento, sacrificio, sottomissione di tutti, e in primo luogo di se stesso, a Dio. È la santità dei papi fino a Giovanni XXIII escluso (ma ripresa con Papa Ratzinger). Uno scrittore cattolico oggi poco ricordato, Antonio Barolini (che fu corrispondente dall’America per questo giornale), ha scritto che nei Papi cattolici (lui pensava a Paolo VI) la santità non è mai uno “stato in luogo”, è sempre un “moto a luogo”: il senso dell’uomo cattolico sta nel “tendere verso”, senza “giungere mai”. Questo concetto è stato spazzato via da Giovanni XXIII e poi da Giovanni Paolo I (“Dio è madre”) e Francesco (“Chi sono io?”), che sono i suoi fedeli continuatori. Questi tre Papi hanno insegnato e praticato un’idea di “santità” come contatto e anzi (molto di più) amicizia con Dio. Anche Wojtyla aveva sentito e applicato questo concetto, ma senza abbandonare tutte le connotazioni del “timore e tremore” che devono stare in quel contatto. “Timore e tremore”, come ognun sa, è il titolo di un’opera di Kierkegaard: tu cerchi e, avvicinandoti a quel che cerchi, temi e tremi. 

 M’è capitato, due settimane fa, di rivedere su Sky un film bellissimo e disperato di Lars von Trier, proprio mentre stavo leggendo il diario del segretario di Wojtyla intitolato “Ho vissuto con un santo”. Cosa racconta (in ogni suo film) Lars von Trier? La stessa cosa che raccontava Bergman: la ricerca di un contatto con Dio, il viaggio al termine del quale poter dire (anzi, esclamare): “È qui”. E cosa prova, il viaggiatore, a quel punto? Paura o spavento. Il segretario di Wojtyla racconta lo stesso viaggio, al termine del quale però il viaggiatore prova conforto. Questa è la nuova santità. Della quale è un’incarnazione perfetta Giovanni XXIII, e perfettissima il suo continuatore, Francesco (Luciani è durato troppo poco). Se, raggiunta la santità, provi conforto, allora trasmetti conforto. Giovanni XXIII è un grande confortatore. Le folle si radunavano davanti a lui per questo, come adesso si radunano davanti a papa Bergoglio. È questo il loro miracolo.

Non c’è nessun bisogno di un altro miracolo, perché uno possa dirsi santo. Giovanni XXIII ha cancellato “perfidis” davanti a “judaeis”, con disperazione di Mel Gibson, che a quel “perfidis” tiene ancorato il senso della propria vita; ha fondato un’istituzione per metter fine alla separazione dei cristiani, vergogna delle vergogne, peccato dei peccati; ha indetto un concilio ecumenico, perché la base della Chiesa parlasse al vertice, mentre nei secoli avviene sempre il contrario. Ma tutto questo lo ricorda la Storia, non la gente. La gente lo ricorda vestito di bianco, che visita i carcerati, e dice loro che per ognuno c’è speranza. “Anche per me?” chiede uno. “Anche per te”, risponde il Papa, senza sapere quali colpe abbia commesso. Alla cieca. Sicuro di non sbagliare.
(fercamon@alice.it)

Da - http://lastampa.it/2014/04/27/italia/cronache/il-confortatore-che-conquist-il-cuore-di-tutti-A3aowiSt3MGzHHnLkgQpZN/pagina.htm


Titolo: FERDINANDO CAMON Quel passato che non è mai passato
Inserito da: Arlecchino - Novembre 20, 2017, 05:43:38 pm
Quel passato che non è mai passato

Pubblicato il 14/11/2017 - Ultima modifica il 14/11/2017 alle ore 08:11

FERDINANDO CAMON

Ha soltanto 23 anni, è poco più che un ragazzo, deve aver capito da poco tempo che da piccolo veniva abusato da un adulto, ma non ha perso tempo: è corso a casa dell’uomo, in piena notte, e l’ha accoltellato. Chiudendo una litigata, che dalle parole è passata subito ai fatti. Per la verità a suo tempo c’era stata una denuncia contro l’adulto, per abusi sessuali, ma presentata dalla madre. Lui raccontava a lei cosa il medico gli faceva, e lei ha subito sospettato. 
 
C’era un processo in corso, ma subito fermato e poi ripartito. Non c’è ancora una sentenza, e il medico nega le colpe. Nel frattempo il bambino è diventato ragazzo e ora è uomo. Probabilmente adesso ha capito tutto quel che da piccolo non capiva, e non ha perso tempo. Colpito dalle sue coltellate, il medico è stato operato d’urgenza due volte, e adesso sta fra la vita e la morte. Si dice: «La vendetta va servita fredda». Ma ci sono oltraggi che bruciano, e l’abuso sessuale è fra questi. Di solito sentiamo di abusi sessuali che vengono vendicati dopo tanto tempo. E c’è una differenza tra la vendetta tardiva e quella rapida. Se un uomo, diventato grande, si vendica di abusi sessuali che ha patito da minorenne, accoltellando l’abusatore, noi siamo portati a interpretare il suo gesto come una vendetta che ha questo messaggio: «Mi hai rovinato la vita. Ti punisco perché mi hai fatto del male, mi vendico oggi per il male che mi hai fatto ieri». Ma la vendetta compiuta domenica a Pordenone ha un altro significato, perché colui che si vendica è ancora molto giovane. Con la sua coltellata non dice che l’abuso gli ha rovinato la vita, ma che gliela sta rovinando adesso. Un abuso sessuale «guasta» la sessualità di colui che lo patisce. Perché, appena può ragionare, si domanda se la colpa sia anche sua, se ci sia qualcosa di sbagliato in lui, se la sua sessualità, ancora in formazione, si stia formando in modo sbagliato. Se lui sia diverso dai suoi amici. Questo 23enne non ha passato le conseguenze dell’abuso che ha patito, ma le sta passando adesso. Se ha una ragazza, entra in crisi con lei. L’abuso non è per lui un tormentoso ricordo, è una bruciante attualità. È adesso che la sua personalità si forma. Da piccolo, non sapeva cosa gli capitava, subiva le attenzioni moleste (come pare) dell’adulto senza capirle, perché non sapeva cos’è la sessualità. Adesso lo sa. Adesso capisce. E adesso si vendica.
 
Quando un bambino vien abusato da un adulto, patisce un inganno, perché l’adulto sa tutto e lui non sa niente. Il bambino «si rimette» alla volontà dell’adulto, che considera buona, perché l’adulto è un parente, un patrigno (a volte addirittura un padre), un prete, un amico di famiglia… Uno legato da un rapporto di amore. Quando scopre, anni dopo, di essere stato abusato, il bambino diventato adulto si sente «tradito» nell’amore. La coltellata, o le coltellate, inflitte da questo 23enne al medico 48enne sono la punizione per il tradimento. Il piccolo che si rimette a un grande è come un figlio che si rimette a un padre: da lui non si aspetta che il bene. Questo medico aveva preso in casa propria questo ragazzo, dunque vivevano insieme, era proprio un rapporto tra padre e figlio: abusandolo il padre ha tradito il figlio, accoltellandolo il figlio ha punito il padre. Non sappiamo quanti anni fa sia avvenuto l’abuso, supponiamo pochi, visto che il ragazzo ha appena 23 anni. Dunque la vendetta è scattata presto. Ma prima o poi doveva scattare, la memoria degli abusi è difficile da liquidare o tenere a bada, resta nel cervello e fermenta.
 
fercamon@alice.it 

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