Titolo: «Fuoco e fiamme», a l'Unità torna Jack Folla Inserito da: Admin - Agosto 04, 2008, 11:39:39 am «Fuoco e fiamme», a l'Unità torna Jack Folla
Roberto Carnero Jack Folla, oggi cinquantenne, vive sulla piattaforma petrolifera Rospo Atlantico Uno, situata all’imbocco dello stretto di Gibilterra, dove il Mediterraneo si scontra con l’Oceano Atlantico. Venti miglia a sinistra, Jack vede la Spagna e l’Europa. Venti miglia a destra, il Marocco e l’Africa. Completamente solo, è collegato con il mondo via Internet. Rospo Atlantico Uno ha ancora petrolio per rifornire dodici petroliere, una al mese per un anno, durata del suo contratto con la compagnia petrolifera algerina Staroil. Sulla torre, un faro per segnalare la presenza del Rospo ai mercantili. Per accendere il faro ogni notte e aprire un rubinetto di petrolio una volta il mese, l’ex detenuto di Alcatraz percepisce 167.532,956 dinari algerini, pari a 1690 euro mensili. Il resto del giorno pesca, legge i classici, scrive Fuoco e fiamme per l’Unità, in cui osserva il suo ex Paese, l’Italia, da questa singolare prospettiva oceanica. Sul quotidiano fondato da Gramsci Jack Folla aveva trovato ospitalità dopo che Alcatraz, il programma in onda su Radiodue e per un certo periodo anche in tv su Raidue, era stato cancellato dai palinsesti. La prima edizione, quella del 1998, era stata prolungata oltre il previsto, per altri tre anni, visto l’enorme successo di pubblico. Nella primavera del 2002 era stato lo stesso Diego Cugia, il creatore di Jack Folla, ad annunciare che avrebbe smesso e il suo addio ai fan si era trasformato in un grande happening all’ex-mattatoio di Roma, dove erano confluite diecimila persone da tutta Italia. Da qualche tempo tirava aria di censura e di ostracismo nei suoi confronti da parte dei vertici Rai, imboccati a dovere da certi politici suscettibili che non amano la satira (anche se lui precisava che di satira non si trattava, visto che c’era proprio poco da ridere...). «Nessuna azienda sana di mente», disse allora Cugia, «può permettersi di gettare alle ortiche autori e tecnici di un fenomeno di comunicazione che ha toccato in modo indelebile il cuore del pubblico». La Rai invece l’aveva fatto. Diego Cugia, vuole anticipare ai lettori dell’«Unità» che cosa troveranno nella nuova serie di Jack Folla? «Un uomo che guarda il mondo, l’Italia in particolare, da una prospettiva oceanica, da una torretta petrolifera in disarmo galleggiante nel mare di Cristoforo Colombo. Nel suo primo pezzo, per esempio, Jack riflette sulle ex soubrette che nel nostro paesello diventano ministri. Sta rileggendo una biografia di Machiavelli e si chiede: il “Principe Niccolò” avrebbe nominato una delle sue amanti Segretario della Repubblica di Firenze? Il distacco di Jack, anche geografico, dalla zuffa quotidiana, lo aiuta a smarcarsi dai due soliti poli: indignazione o rassegnazione. Bisogna guardare all’oggi come fossimo marziani o italiani del futuro, oppure dei Machiavelli, dei Voltaire, altrimenti si finisce in trappola. Jack evade sempre. Questa Italia è peggiore di Alcatraz. Resistere non serve più a niente, bisogna immaginarsi un paese felice. Altrimenti dove andiamo? Che senso ha incazzarsi e basta?». Quali aspetti di Diego Cugia sono trasmigrati nel personaggio di Jack Folla? «Francamente non lo so più. Lui è come un figlio, indipendente, autonomo, libero. A volte esagera, e allora dici: “Questa roba qui l’ha presa da sua madre, e questa smania all’azzardo, a gettarsi nella mischia, dal nonno russo”. Ma chi se ne importa di me: Jack Folla è vivo!». Come è nata l’idea di questo personaggio? «L’idea è nata dal sentirsi in gabbia, e dal voler vivere a occhi aperti, costi quel che costi; e dalla volontà di sapere almeno questo: per chi o cosa siamo vissuti e siamo morti. Possibilmente saperlo prima. Mentre oggi, in Italia, fai fatica. Jack ha sempre contrastato il berlusconismo, non tanto per antipatia all’uomo, che oltretutto nel suo mestiere è formidabile, ma perché già dieci anni fa individuava i bacilli della peste che avrebbero infettato gli italiani: la visione del mondo di un Creso. Così è stato: oggi, gira e rigira, parliamo solo di soldi. Ci siamo appiattiti sull’unico argomento di Creso. Risultato, lui è sempre più ricco, noi più poveri. La cosa pestifera è che ormai siamo poveri anche idealmente e culturalmente: siamo trasversalmente mediocri». Dunque Jack Folla la politica italiana di oggi la vede piuttosto male... «Lui è stato l’antesignano della non politica, dalla sua cella americana si rivolgeva a giovani e giovanissimi che versavano in un silenzio assoluto. Senza un fratello maggiore, senza padri. Gli ha sparato nelle orecchie il suo vocione, il suo rock ruvido, la sua enfasi retorica ma anche la sua esperienza umana. Sere fa sono uscito con un’ex ascoltatrice di Alcatraz. Allora aveva quattordici anni. Mi ha detto: “Jack mi ha insegnato a pensare e a osare”. Altri sono andati a vivere fuori di casa, molti hanno comprato il primo libro con Jack. Credo sia servito, nel suo piccolo, a dare una scossa. Oggi la situazione è davvero grave. C’è una rassegnazione così cupa che fa spavento. Sul blog di Jack in molti lo vorrebbero più incazzato che mai. Credo li spiazzerà un’altra volta. Di incazzati ne abbiamo piene le ceste: c’è già Grillo, la Guzzanti, Ovadia... E Travaglio, che apprezzo in modo particolare, perché lui è impeccabilmente documentato. Ma qui c’è qualcosa che profondamente non va. Più noi ci incazziamo, più loro vincono. Jack dice: “Non puoi giocare a ping pong con un cinese, devi costringerlo a giocare a calcio”. Lo so, è difficile, ma non c’è altra strada che una nuova, ricominciare daccapo, gambe in spalla. Jack è partito. Probabilmente starà solo un sacco di tempo». Qual è la cosa che gli dà più fastidio nel mondo che lo circonda? «L’ipocrisia». Quali sono le ragioni della censura che Jack Folla subì in Rai? «Jack non è mai stato censurato in radio. Semmai in tv, ma nulla d’imperdonabile. Oggi invece, che mi risulti, non esiste un solo network nazionale disposto a dare un microfono a un uomo che ha parlato al cuore di milioni di persone. Su Jack sono state scritte una marea di cazzate, da giornalisti che non l’avevano, io credo, mai sentito: un “guru”, un “provocatore rosso”, un “narcisista adolescenziale”. Mentre di rivoluzionario Jack aveva solo questo: la tenerezza. È questo che li fa incazzare a morte, perché loro non ne hanno, sono bui, spenti. In “Fuoco e fiamme” Jack non s’incazza. È armato con la “ferocia dell’amore”. Un concetto che io stesso faccio fatica a comprendere. Lui dice così». Parliamo un po’ di lei. Quali sono i suoi autori di riferimento? «Da ragazzo ho letto i romanzi che ho più amato: Martin Eden e Il vagabondo delle stelle di London, Le illusioni perdute di Balzac, Alla ricerca del tempo perduto di Proust, Demian di Hesse, Conversazione in Sicilia di Vittorini, Tonio Kröger di Mann, Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa, Lo straniero e La peste di Camus (ma soprattutto Il mito di Sisifo, che mi ha insegnato ad accogliere l’assurdo dell’esistenza e a soffrire “felice” o quantomeno con dignità). Oggi leggo meno, purtroppo, ma faccio ancora begli incontri: Jules Renard, per esempio; letti i suoi diari, capisci chi sia stato lo zio di Flaiano». Oltre alla letteratura lei ha raccontato che un’altra esperienza significativa è stata la psicanalisi. Ce ne vuole parlare? «Mi fa ridere, perché credo di aver battuto Woody Allen. Sono entrato in analisi freudiana a tredici anni. Sarebbe proibito stendersi sul lettino e fare associazioni libere a quell’età, ma il mio analista di allora era più matto di me. Mi disse: “Hai grandi capacità d’insight, d’introspezione. Te la senti di fare quest’avventura proibita?”. Figurarsi, avevo appena letto Zanna bianca di London e sognavo di fare lo scrittore. Per me la psicanalisi era l’equivalente della caccia all’oro nel Klondike. Oltretutto non ero matto per niente, timidissimo, questo sì, e tiravo pugni al vento. In questi quarantadue anni ho avuto una dozzina di psicanalisti di tutte le scuole. Mi domando se ne sia valsa la pena e non lo so. Francamente, la vita è la migliore maestra. Ecco, sulle strade di oggi s’incontrano rarissimi maestri, poche aquile, e infiniti tordi, disillusi e vinti. Andare in analisi con questa gente è una condanna. Fanno più guai di Topolino “apprendista stregone” in Fantasia di Walt Disney. Bisogna fare grande attenzione con le forze oscure dell’inconscio. Jung diceva: “Se c’è qualcosa che vorremmo cambiare in un altro, prima dovremmo esaminarlo bene e vedere se non è un qualche cosa che faremmo meglio a cambiare in noi stessi”». E oggi che cosa le sta a cuore? «I miei due figli, e la loro generazione di quattordicenni: trovare la scintilla, la chiave, il modo di aiutarli a non essere schiavi, perché rischiano di essere piccoli incoscienti automi del consumismo più superfluo della storia. Poi mi piacerebbe che in Italia fossimo capaci di un nuovo Rinascimento, vorrei vivere incontri straordinari con gente comune, come allora erano un Gentileschi che se ne andava a braccetto con Caravaggio, o un Machiavelli che si beveva mezzo litro con Leonardo. Oggi, invece, il massimo dello storico è Bossi che vuol ficcare un dito nel sedere all’inno di Mameli. Poi dici che gli italiani si abbrutiscono, lo credo! Quando li sento dire Padania libera, io mi piego in due dalle risate. Padania? Ma che stai a dì? Il guaio è che diamo credito a questa gentarella, per noi il povero Guido Angeli, il “re” delle televendite, scomparso l’altro giorno, era un “grande”. Funerali di Stato, no? L’Italia non s’è “desta”, s’è “scimunita”. Diamoci una mossa!» Pubblicato il: 01.08.08 Modificato il: 01.08.08 alle ore 16.47 © l'Unità. |