Titolo: MARIO TOZZI. Inserito da: Admin - Maggio 22, 2008, 10:11:12 am 21/5/2008
I rifiuti sotto il tappeto MARIO TOZZI Finalmente è arrivata la soluzione agognata per risolvere l'emergenza rifiuti in Campania: dieci nuove discariche e qualche inceneritore con recupero energetico (il termine termovalorizzatore, si sa, non ha senso scientifico o tecnico, neanche nelle regolamentazioni comunitarie). Il problema è che questa nuova soluzione assomiglia parecchio alle vecchie: quando si è insediato il Commissario De Gennaro, cinque mesi fa, la questione era sgomberare le strade di Napoli, e per farlo si è cercato di aprire nuove e vecchie discariche (non riuscendovi sempre), di mettere in funzione nuovi inceneritori (non riuscendovi mai), di esportare i rifiuti in Paesi più civilizzati (riuscendovi quasi sempre), dove gli scarti sono considerati risorse. Il problema è che questa soluzione assomiglia molto a scopare la polvere sotto il tappeto per avere la casa pulita. In nessuna parte del mondo le discariche eliminano i rifiuti, anzi, li concentrano, con problemi ambientali che è ormai anche inutile approfondire: infiltrazioni nelle falde, percolati, liquami, per non parlare del maleodore. Senza contare che aprire nuove discariche sarebbe contro la legge nazionale e anche contro le normative comunitarie. E in nessuna parte del mondo bruciare rifiuti è un sistema per eliminarli, perché, come dovrebbe essere noto, in natura nulla si può distruggere e dunque le tonnellate di rifiuti si trasformeranno in ceneri (spesso velenose) e polveri (spesso tossiche). Certo, un inceneritore con recupero di energia e di calore non è un tabù contro cui combattere guerre di religione - ci sono problemi molto più devastanti, come il traffico cittadino -, ma è un controsenso energetico, perché per fabbricare oggetti e materiali si è impiegata molta più energia di quella che se ne ricava bruciandoli. E poi in Italia ci sono già abbastanza impianti: costruirne di nuovi può significare scoraggiare l'unica vera soluzione al problema dei rifiuti, la raccolta differenziata e il riciclaggio (un folle piano regionale siciliano prevede addirittura di bruciare il 65% dei rifiuti, come a dire condannare la raccolta differenziata a non superare mai il 35%, quando in tutta Europa si punta al 70-80% e a San Francisco si va verso l'opzione rifiuti-zero). Se si fosse cominciato - alla prima emergenza di 15 anni fa - con un piano integrato di raccolta differenziata dei rifiuti campani, non saremmo a questo punto. Se lo si fosse fatto cinque mesi fa, avremmo ora qualche prospettiva, ma continuare a pensare che la questione possa risolversi con discariche e inceneritori vuol dire non aver compreso che, così, i rifiuti si accumuleranno di nuovo, e saremo alle solite, solo avendo perso ancora del tempo. Come da gennaio a oggi. E come dimostra il fatto che aver sgomberato oltre 200.000 tonnellate di pattume non ha risolto un granché. Ma sono i numeri che parlano: a Torino - una grande città del Nord i cui cittadini non sono antropologicamente diversi dai napoletani - nel 2003 si raccoglieva in maniera differenziata solo il 20% dei rifiuti. In cinque anni si è passati a oltre il 40%, attraverso campagne di educazione ambientale fino nelle scuole promosse dall'amministrazione comunale e dalla municipalizzata. Pensiamo a Napoli: se si fosse recuperata almeno la frazione umida (residui di pasti, bucce) avremo avuto il 30% in meno di rifiuti, cioè 75.000 tonnellate di meno all'inizio dell'emergenza. Cioè più spazio nelle discariche (dunque meno discariche) e meno commercio di rifiuti, dunque più risorse da destinare al riciclaggio. Riciclare raddoppia la vita dei materiali, permette di spendere meno energia e, dunque, di inquinare di meno e fa in modo che si aprano meno miniere e cave. Se poi le ditte si impegnassero a ridurre definitivamente gli imballaggi, usando, per esempio i fogli di plastica termosaldati, che, una volta sgonfiati, si riducono a una pallina di qualche centimetro; se la distribuzione permettesse di acquistare i prodotti sfusi a peso e non a confezione; se le municipalizzate non si scomponessero in migliaia di subappalti incontrollabili, allora i nostri sforzi personali sarebbero premiati e non staremmo qui a temere di finire come a Manila, nella cui discarica vivono gli 80.000 abitanti di un posto chiamato Lupang Pangako (letteralmente «terra promessa»), fra commerci di ogni tipo, contrabbando e riciclaggio su commissione. Ma anche per questa volta non è aria. da lastampa.it Titolo: MARIO TOZZI I disastri di un'estate "normale" Inserito da: Admin - Agosto 19, 2008, 04:56:31 pm 19/8/2008
I disastri di un'estate "normale" MARIO TOZZI Arrivare a mezza estate senza incendi troppo gravi, senza l’incubo della siccità e con temperature sopportabili sembra una sorpresa eccezionale, dopo anni di catastrofi e difficoltà. Ma le cose stanno davvero così? E come sarebbe un’estate «normale»? Molto dipende dai punti di vista. Non è un’estate normale, questa, per i nativi delle trentatré isole Kiribati, costretti a ritirarsi sulle modeste alture più interne perché l’innalzamento del livello del mare ha prima mangiato loro i campi, poi avvelenato le falde acquifere e infine li sta costringendo alla deportazione. L’innalzamento è inarrestabile, così come lo sono la fusione dei ghiacci planetari, che ne è la causa ultima, e il surriscaldamento del clima, che rappresenta la causa prima. Profughi ambientali li chiamano, ma la ragione della loro fuga è esattamente la stessa che costringe decine di migliaia di africani a cercare le nostre coste: la perdita di territorio utile per vivere, che si tratti poi di desertificazione o di annegamento, non fa tanta differenza. Non è un’estate «normale» neppure per le api, sterminate a milioni in tutte le regioni ad agricoltura avanzata dall’uso indiscriminato di pesticidi a base, per esempio, di Clothianidin (come in Germania), ma disorientate anche dal cambiamento climatico in atto. Nella prima parte del 2008 il 40 per cento delle api è scomparso e il problema non è solo per gli apicoltori (in Italia il 30 per cento in meno di miele), ma per tutto il pianeta, visto che, se mancano i migliori impollinatori del mondo, presto o tardi mancheranno anche i fiori, con conseguenze che non è difficile immaginare, prima di tutto per gli uomini. Ma non se la passano bene neppure gli orsi bianchi, piegati a nascite ermafrodite sempre più frequenti e a non ritrovare più i soliti punti di caccia alle foche per via della scomparsa dei ghiacci. E nemmeno le balene, che vedranno ridotte le provviste del krill (loro cibo di elezione) per via della scomparsa di gran parte della copertura glaciale antartica. Ma se quello del clima che cambia corrispondesse solo alla realtà della riapertura del mitico passaggio a Nord-Ovest potremmo farcene una ragione, e magari sperare in più raccolti l’anno o nel trasferimento dei tropici in Svezia. Gli effetti di questo cambiamento, invece, si riflettono nel nostro Paese più che in altri e sono sotto gli occhi di tutti proprio in questi giorni, con l’Italia spaccata letteralmente in due: a Nord acquazzoni di tipo tropicale, al Sud caldo feroce, qualche incendio e siccità incombente. Non si tratta di novità assolute, ma la frequenza e il numero di episodi come quello di Torino d’inizio agosto non possono essere attribuiti al caso. Le alluvioni-lampo (flash-flood) sono ormai una costante delle estati mediterranee, e italiane in particolare, e consistono in fenomeni particolarmente violenti, che si risolvono spesso in pochi minuti di piogge inesorabili che colmano gli alvei e provocano inondazioni difficili da prevedere, molto localizzate e straordinariamente dannose. La maggiore quantità di calore in gioco nei sistemi atmosferici provoca fenomeni sempre più violenti, anche quando il cielo è sereno. E la configurazione del suolo fa il resto: visto il rivestimento di asfalto e cemento delle nostre città, è evidente che l’eccesso di piogge non potrà essere riassorbito dal terreno e finirà nei fossi e nei corsi d’acqua inadeguati a smaltirlo. Ma, chissà perché, quella del 2008 sembra un’estate «normale», con meno problemi ambientali del solito. Se non fosse per quelle meduse, unico grattacapo temporaneo dei bagnanti del Mediterraneo, e che, si dice, possano addirittura uccidere. Strani animali (ma sono animali?) queste meduse, che proliferano più del solito: che dipenda dall’inquinamento crescente, e dalla pesca eccessiva ai danni dei loro competitori più agguerriti (tonni) o dei loro predatori (tartarughe) come si permettono di venire a disturbare il nostro divertimento proprio nel momento in cui avevamo dimenticato tutto il resto? da lastampa.it Titolo: MARIO TOZZI. Inserito da: Admin - Settembre 13, 2008, 11:41:49 am 13/9/2008
Pazza idea perforare l'Alaska MARIO TOZZI La convention repubblicana ha messo in evidenza una fondamentale differenza con i democratici in un campo cruciale come la politica ambientale. Pure se è vero che il democratico Clinton non era convinto del protocollo di Kyoto, né fece cessare i tagli dei boschi secolari dell’Ovest, è anche vero che non diede risposta positiva a chi chiedeva di riprendere le perforazioni petrolifere nell’Arctic National Wildlife Refugee dell’Alaska, sui cui territori la candidata vice presidente Palin vorrebbe invece rimettere mano. Il 17% del greggio estratto negli Stati Uniti proviene dall’Alaska, la regione più incontaminata del grande Nord, ma è pur sempre solo la metà di quanto si estraeva alla fine degli Anni 80. Per questo le corporation del petrolio vogliono un presidente che consenta loro di riprendere a perforare lassù, incuranti che ciò incrementerebbe il surriscaldamento climatico i cui effetti peggiori si avvertiranno proprio sui ghiacci artici dell’Alaska, dove le temperature dell’atmosfera sono salite di quasi 5°C e i ghiacciai si sono assottigliati del 40% nell’ultimo secolo. In cambio delle nuove perforazioni, il cartello degli industriali del greggio dell’Alaska (Arctic Power) promette posti di lavoro, non ponendo alcuna attenzione al fatto che il permafrost - il durissimo terreno perennemente ghiacciato fondamentale per un sano equilibrio climatico - non si sta riformando ormai per il sesto anno consecutivo. Aprendo l’Artico alle perforazioni, come la signora Palin e i repubblicani vorrebbero, l’unico risultato sarebbe di dipendere dall’estero, in quanto a idrocarburi, per il 62% e non più per il 64% nei prossimi vent’anni. Poco per giustificare la battaglia che si sta scatenando fra ambientalisti-democratici e petrolieri-repubblicani. Però il target reale dei repubblicani potrebbe non essere tanto l’ambientalismo o il partito democratico, tradizionali «indebolitori» della potenza energetica Usa, bensì quello di spostare artificiosamente l’attenzione sull’Alaska per stornarla dal vero obiettivo, i nuovi standard, promessi da sempre e mai mantenuti, sui consumi delle auto americane. Tutti sanno che inasprire quegli standard aprirebbe finalmente la strada al risparmio energetico e all’efficienza anche nella maggiore potenza mondiale. Ma contrasterebbe in maniera insopportabile con gli interessi delle case automobilistiche e dei sindacati dei lavoratori, due lobbies senza le quali, negli Usa, non è neppure pensabile di vincere le elezioni. Ma siccome i «verdi» sembrano avere più a cuore le sorti dell’Artico che le norme antinquinamento, la partita dell’Arctic Refugee viene usata come merce occulta di scambio per non toccare quegli standard. Probabilmente gli statunitensi sono il popolo meno attento agli sprechi energetici, ma molto dipende dai suoi governanti, espressione diretta delle corporation petrolifere. A meno che Obama... da lastampa.it Titolo: MARIO TOZZI. Ritorno alla madre terra Inserito da: Admin - Ottobre 27, 2008, 03:52:16 pm 27/10/2008
Ritorno alla madre terra MARIO TOZZI Quando arrivò in India nel 1905, Sir Albert Howard (agronomo della Real Casa) era convinto di obbligare i sudditi orientali di Sua Maestà a obbedire alla legge dell’aratro e dei fertilizzanti chimici per portarli sulla via maestra dell’agricoltura industriale. Ci mise poco a scoprire che i veri selvaggi erano i suoi concittadini britannici e che, invece, le pratiche agricole orientali avevano superato a pieni voti l’esame della natura: le fattorie cinesi o indiane erano permanenti almeno quanto la foresta primaria o la prateria originaria. E il tutto senza aratro e senza alcun tipo di ammendante. Allora riconsiderò gli apparenti successi dell’agricoltura occidentale, che era stata in realtà un fallimento perché non aveva saputo mantenere la fertilità del suolo, principio fondamentale cui le pratiche orientali si attenevano scrupolosamente: raccolti misti, promiscuità delle messi, mescolanze di cereali e legumi, nessuna monocoltura, recupero delle deiezioni animali, nessun fertilizzante, niente aratro e grande equilibrio fra bestiame e prodotti agricoli. La «madre terra - scrive Howard -, privata dei suoi diritti di concimazione, è in rivolta: la terra scende in sciopero; la fertilità del suolo decresce e aumentano le malattie»; inoltre l’erosione del suolo minaccia campi e colture. A un secolo di distanza è difficile dargli torto anche da un punto di vista del gusto: con i concimi artificiali si ottengono grandi rese quantitative, ma la qualità è peggiorata in fatto di sapore, qualità e capacità di conservarsi. Le verdure coltivate con NPK (azoto, fosforo e potassio) sono dure, coriacee e fibrose, e solo i congelatori ne permettono una resistenza oltre le regole naturali. La ricchezza della vita vegetale è andata perduta negli ultimi decenni: un tempo esistevano decine di specie di pesche o di frumento e i frutti di un albero erano diversi da quelli di un altro. Erano spesso «brutti», ma nessuno ne metterebbe in discussione il sapore, di gran lunga superiore a quello delle stagioni scialbe di oggi: non più di cinque qualità di mele, due di uva, forse sei di pere caratterizzano le nostre tavole ed è diventato difficile perfino distinguerle. Le esigenze di globalizzazione industriale hanno imposto una standardizzazione del prodotto che non risponde ad alcuna logica naturale, che riduce il gusto e impoverisce lo spirito, mentre, ovviamente, arricchisce i soliti portafogli. Il recupero dei prodotti locali e l’opposizione di molte comunità agricole alla globalizzazione hanno effettivamente segnato un’inversione di tendenza di cui «Terra Madre» è un segno robusto: recupero della biodiversità attraverso pratiche biologiche, opposizione agli Ogm, valorizzazione del prodotto locale. Uomini e donne legati al mondo industriale hanno cominciato a ritornare alle campagne riconvertendo proprietà e denari: producono vini di qualità, fanno formaggi o semplicemente ritornano agli orti per poter mangiare quello che coltivano con le proprie mani. Un’intera comunità (i damanhuriani) è tornata alla Terra nel Piemonte industriale del terzo millennio. Al di là della moda, di cui pure si cominciano a risentire gli effetti, sembra un necessità genuina di ritorno alle origini, a un mondo meno sofisticato: di più, sembra l’ultima forma di resistenza all’omologazione più subdola, quella per cui puoi trovare lo stesso hamburger da New York a Sydney. Sperando, però, che anche qui non si annidi l’inganno: Colonnata è un paesino di 250 anime in Toscana, con un piccolo territorio e un numero limitato di maiali: come è possibile che il lardo di Colonnata si ritrovi in tutta la penisola? Per non parlare del Brunello di Montalcino: quel vitigno, quel clima e soprattutto quel territorio sono circoscritti: non si possono produrre altre bottiglie oltre a quelle già in commercio, non ci può essere espansione quantitativa per quel mercato. Altrimenti si arriva al paradosso del prodotto locale che torna a essere globale, fatto che non è semplicemente possibile per definizione: bisogna andarselo a cercare nel posto d’origine e nella stagione giusta, come un tempo, abbandonando l’idea che sia più intelligente un Natale con ciliegie cilene o manghi sudafricani. Ma questo è più difficile da comprendere. da lastampa.it Titolo: MARIO TOZZI. La paura del vento come nel medioevo Inserito da: Admin - Novembre 26, 2008, 11:05:25 am 26/11/2008
La paura del vento come nel medioevo MARIO TOZZI Raffiche di un vento primordiale hanno spazzato la Penisola da Nord a Sud, uccidendo, provocando gravi danni e risvegliando in noi un timore profondo, quasi atavico. Veloce, freddo e incostante - che sembra scemare e poi riprende invece più impetuoso di prima -, il vento è uno dei pochi legami che abbiamo ancora con quel mondo primordiale in cui non c’era difesa dagli agenti naturali. Come per il terremoto e i vulcani, è meglio non trovarsi lungo la sua strada, ma - a differenza di questi - il vento non può essere fronteggiato solo costruendo meglio o allontanandosi dalle zone di pericolo, anche perché oggi la geografia dei fenomeni meteorologici a carattere violento cambia continuamente. E noi ne siamo in qualche modo corresponsabili, fosse solo per l’energia supplementare che abbiamo fornito all’atmosfera, diventata ormai un’arma caricata a cicloni e uragani. Non basta essere ricchi per difendersi dalle avversità del maltempo, come dimostra il caso di Katrina, e anche in Italia i venti costruiscono il rischio idrogeologico, insieme ai flash flood (le «bombe d’acqua») e alle frane: non è un caso che le aree di crisi nel Paese siano in aumento. Un vento così forte non è comunque estraneo al territorio italiano. Un «turbine spaventoso», che spazza la catena appenninica da Ancona fino in Toscana, con alberi secolari sradicati, i tetti delle chiese sconnessi e scagliati in pezzi a centinaia di metri di distanza, le case rovinate e quel «rombo assordante», cupo, che precede la devastazione. È il 24 agosto 1456 e questa è la descrizione che Niccolò Machiavelli ci rende di uno spaventoso vento nell’Italia centrale di oltre cinque secoli fa, forse un tornado a vortici multipli con una direzione inconsueta e con dimensioni assolutamente fuori dal comune alle nostre latitudini. Più spesso, però, in Italia i tornado vengono chiamati semplicemente trombe d’aria: vortici sottili e sinuosi, eleganti e leggeri, così diversi da quelli originati dai «supertemporali» tipici del famigerato «corridoio» dell’Oklahoma, dove si registrano più fenomeni meteorologici violenti che in qualsiasi altra parte del mondo. Ma non mancano le raffiche fuori misura legate ai fronti di perturbazione, peraltro non inaspettati in novembre. Anche i venti italiani divellono alberi secolari e cartelloni stradali, inquietano gli animi e fanno pensare al soprannaturale. Paragonati ai mille tornado che ogni anno investono gli Stati Uniti, quelli italiani sono davvero poca cosa: circa 25 ogni 12 mesi, numero probabilmente sottostimato ma comunque sempre molto piccolo. Eppure si tratta di un fenomeno significativo che investe soprattutto la Pianura Padana, le coste del versante tirrenico, l’Appennino centrale, la Puglia e la Sicilia. Ma anche quello tremendo dell’Oltrepò Pavese del 1957, di cui si racconta lo straordinario spostamento di un asino, ritrovato vivo a 80 metri dal luogo in cui era stato lasciato, ancora attaccato a un palo. E poi in Brianza, dove il fenomeno è ricorrente, visto che la tromba d’aria eccezionale del luglio 2001 - che spostò un grosso camion - ha investito proprio la stessa area già flagellata nel 1910. E Udine, nel 1930, con 23 vittime, e Catania, nel 1968, e poi ancora Venezia nel 1970. Forse però il più violento di cui si abbia una testimonianza storica precisa è quello del 1851 in Sicilia, che sembra aver ucciso più di 500 persone: una catastrofe inimmaginabile. Eppure la realtà è che oggi, con tutto il patrimonio tecnologico e con tutti i denari e i mezzi del terzo millennio, siamo indifesi di fronte ai venti violenti più o meno come lo eravamo nel Medioevo. Ma guai a dirlo: è un pensiero che va scacciato subito, almeno fino alla prossima volta. da lastampa.it Titolo: MARIO TOZZI. Ecologia fa rima con economia (ma in Italia no) Inserito da: Admin - Dicembre 09, 2008, 03:00:35 pm 9/12/2008
Ecologia fa rima con economia (ma in italia no) MARIO TOZZI Non sappiamo come pensasse di sopravvivere l’indigeno dell’ultima tribù dell’isola di Pasqua mentre tagliava l’ultimo albero dell’ultima foresta, base stessa della propria sussistenza. Ma ci sono molte possibilità che questa sia anche la condizione degli uomini moderni sul pianeta. Mentre, probabilmente, ci sarebbe una soluzione unitaria che potrebbe risolvere l’attuale crisi ambientale e economica nello stesso tempo. E mentre l’ecologia potrebbe fornire una via d’uscita, purché si prendesse atto seriamente della situazione. I sistemi economici moderni non producono e distribuiscono beni, come avveniva nelle società primitive, ma accumulano un capitale economico che - fondandosi su quello naturale - non può crescere in maniera indefinita. Chi sostiene che l’economia viene prima dell’ambiente dovrebbe ricordare che qualsiasi sistema economico è un sottosistema della biosfera, che è sempre esistita anche senza l’economia, mentre è impossibile che avvenga il contrario. Tutto sta a convincersi che la natura non è una produzione dell’uomo e che senza un ambiente in buona salute non ci sarà nessuna attività produttiva, almeno non su questo pianeta. L’obiettivo è molto chiaro: ridurre le quantità di energia utilizzata e stabilizzare i consumi di materie prime al minimo, aumentando l’efficienza organizzativa e sociale. In alcune realtà economiche già avviene, perché risparmiare combustibili fossili è ormai più conveniente che acquistarli. Du Pont ha aumentato la sua produttività del 30% negli ultimi dieci anni riducendo del 7% il consumo di energia e del 72% (!) le emissioni di gas-serra, mentre Ibm e Bayer hanno risparmiato oltre due miliardi di dollari abbassando le emissioni del 60%. Prima o poi si faranno affari sulla mitigazione del cambiamento climatico, e forse allora si darà inizio alla ristrutturazione ecologica del pianeta. Ma questa tendenza va agevolata, come hanno ben compreso il presidente eletto Obama e l’intera Unione Europea, che stanno per varare nuove direttive sull’efficienza energetica degli edifici. Purtroppo l’Italia si pone oggettivamente fuori del contesto internazionale, in una posizione ancora più isolata anche rispetto alle recenti prese di posizione sugli obiettivi del protocollo di Kyoto. Il nostro patrimonio edilizio, per esempio, è il più energivoro d’Europa e negli edifici residenziali utilizza il doppio dell’energia usata nei migliori paesi europei (150 kJ/m2 contro 65-75 kJ/m2). Ma non sembra un fatto positivo se il cittadino virtuoso, che avrebbe contribuito a tagliare le nostre emissioni clima-alteranti, vede aumentare il proprio carico fiscale, invece che diminuire la propria bolletta. Il provvedimento che taglia le agevolazioni è contro il buon senso, perché mantiene sommerso quel mondo, diminuendo il gettito per le casse dello Stato, ed è un freno a quella media e piccola imprenditoria che sul rinnovabile aveva già cominciato faticosamente a investire, magari riconvertendo attività pregresse più inquinanti. Invece dei bonus una tantum, il finanziamento degli interventi sul risparmio energetico consente un taglio più significativo e duraturo sui costi e sui consumi energetici. E i benefici economici sono molti: per lo 0,1% del Pil al 2020, l’adeguamento dell’Italia alle direttive comunitarie riduce l’importazione di combustibili fossili (risparmio di 12,3 milioni di euro), i costi del controllo emissioni (-1,5 milioni), le malattie e fa crescere i posti di lavoro (+0,3%). Riduzione dell’inquinamento e economia possono andare di pari passo anche in Italia, basterebbe volerlo. da lastampa.it Titolo: MARIO TOZZI A fuoco lento Inserito da: Admin - Gennaio 12, 2009, 05:15:13 pm 12/1/2009
A fuoco lento MARIO TOZZI Facendo una gran confusione fra tempo meteorologico e clima (come a dire tra giorni e secoli), gli inguaribili ottimisti del «tutto va bene» riprendono fiato in base ai dati del Centro di Ricerca sul Clima Artico dell’Illinois, che segnalano un aumento della superficie ghiacciata marina del Polo Nord nei mesi invernali del 2008. Si badi bene, per i primi mesi dell’anno passato lo stesso Centro aveva messo in luce una consistente riduzione del complesso dei ghiacci artici e, su tutta la Terra, i ghiacciai registrano complessivamente un deficit di un milione di kmq rispetto alle medie consolidate. E una scorsa, seppure veloce, al complesso dei dati strumentali (quelli più precisi degli ultimi trent’anni, effettuati attraverso i satelliti) rivela che i minimi estivi dei volumi di ghiaccio artico sono in costante riduzione, specialmente dal 2000 in poi. Infine, nell’estate dello stesso 2008 si era toccato il secondo valore minimo di sempre dei ghiacci, dopo quello del 2007. Ma talmente forte è la voglia di liberarsi dal pensiero della crisi climatica e di giustificare la nostra colpevole inazione, che ci basta un dato isolato - riferito peraltro solo ai ghiacci marini, temporaneamente comunque in ripresa durante l’inverno - per dimenticare l’andamento generale, che resta ancora quello di un riscaldamento inarrestabile. Non si aspetta nemmeno l’estate 2009 per avere comparazioni significative, dimenticando che, se pure quest’inverno si è formato più ghiaccio, ciò non vuole affatto dire che resisterà più a lungo e, in ogni caso, sarà la prossima estate a dircelo. Anche nell’arco alpino i valori di fusione dei ghiacciai sono stati contenuti, ma comunque sempre negativi (fra -0,5 e -1 metro), in un quadro che resta comunque preoccupante, con record negativi ben vicini nel tempo (-2,5 metri nel 2003). Questo per tacere dell’unico ghiacciaio appenninico, quello del Calderone (Gran Sasso d’Italia), ormai praticamente scomparso. Le ragioni di una eventuale temporanea stabilizzazione del riscaldamento globale (ancora tutta da confermare) possono essere diverse: un calo dei venti avrebbe reso più facile la formazione dei ghiacci artici grazie alla neve accumulatasi al di sopra. E la corrente fredda dell’Oceano Pacifico (La Niña) può avere contribuito significativamente, senza scomodare la scarsità di macchie solari che potrebbero avere ridotto il flusso energetico dal Sole alla Terra. Non si è certo ancora spenta l’eco del più recente stato di avanzamento dell’Ipcc - dove si ricorda che il cambiamento climatico sarà «faster, stronger and sooner», cioè che avverrà più velocemente di quanto gli stessi scienziati avessero già previsto nel 2007 -, che, alla prima occasione, si avanzano conclusioni basate sulle sensazioni soggettive che sanno molto di ideologia. Vaglielo a dire ai cittadini della provincia veneta, piombati improvvisamente a -25°C, che quello appena passato è stato comunque il sesto anno più caldo degli ultimi decenni. E raccontalo a una pubblica opinione assuefatta a sciocchezze come la «temperatura percepita» (la temperatura resta sempre quella, a prescindere dalle nostre personali percezioni, e - semmai - varia l’umidità, ma tutto fa brodo in un Paese scientificamente ignorante come il nostro) che il cambiamento climatico è misurato nell’arco di decenni e non variabile a ogni stagione. E che non si devono confondere fenomeni mediati statisticamente su lunghi periodi con l’opzione se dover prendere l’ombrello per uscire di casa la mattina oppure no. Non fa poi così caldo, deve aver pensato la rana un momento prima che l’acqua della pentola in cui era stata gettata arrivasse a bollire. da lastampa.it Titolo: MARIO TOZZI. Avvelenati tra le mura di casa Inserito da: Admin - Aprile 22, 2009, 04:09:41 pm 22/4/2009
Avvelenati tra le mura di casa MARIO TOZZI C’è qualche segnale positivo dal pianeta degli uomini? O anche quest’anno saremo costretti a raccontare la solita storia di deforestazioni, emissioni inquinanti, perdita di specie animali e vegetali, consumo insensato di territorio? Da quando siamo diventati sapiens abbiamo cercato continuamente di sfuggire i pericoli del mondo naturale di cui pure eravamo e siamo figli, così ci siamo arroccati nelle città, salvo dichiararle poi inadatte per una vita sana. Il problema è che neppure nelle case, i nostri ultimi rifugi, siamo al sicuro dai mali dell’evo industriale, anzi ormai lì sembra andare anche peggio, vista la quantità di veleni e inquinanti che emanano pareti, mobili, prodotti d’uso quotidiano. E non va meglio nelle auto: si calcola che sia maggiore la quantità d’inquinanti respirati nell’abitacolo che per strada a piedi o in motorino, nonostante tutti i ricircoli forzati d’aria possibili. L’Italia non sta meglio degli altri Paesi, anzi, ci si mettono pure le modelle a sottolineare quanto sia irrespirabile l’aria della capitale della moda. Per non parlare degli scrittori stranieri: Thomas Harris (quello della saga di Hannibal Lecter) racconta di non aver mai visto così tante automobili in vita sua come quando venne ad ambientare a Firenze una parte del suo romanzo; e Harris ha vissuto a Detroit. Le aree metropolitane diventano un inferno e nessuno dei problemi è stato risolto: molti si sono aggravati, specie nel nostro Paese. Però qualche timido passo in avanti lo possiamo registrare. Si è, per esempio, compreso che una riconversione ecologica del pianeta è improcrastinabile e che ciò comporterà alcuni cambiamenti di abitudini e una riduzione dei profitti e delle competenze degli uomini. Non è un passo da poco: finora ci siamo ritenuti padroni di un pianeta dalle risorse inesauribili e che tutti i popoli del mondo avrebbero potuto raggiungere il livello di vita dei più ricchi. La Terra ci dice che ciò non è assolutamente possibile e che il benessere dei più ricchi è possibile solo e soltanto sulle sofferenze dei più poveri. Ci è consentito possedere una o due automobili solo perché milioni di altri uomini vanno a piedi o in bicicletta: se volessero essi stessi muoversi con un’auto, non ci sarebbe già oggi più carburante o territorio da asfaltare per tutti. In secondo luogo la nazione più potente e sprecona del mondo - quella in cui metà dell’energia elettrica si fa ancora col carbone come un secolo fa - ha cambiato decisamente strada, costituendo già un punto di riferimento per il resto del mondo. Il presidente Obama incarna la speranza sulla via di un mondo imprenditoriale, industriale e produttivo «verde» che prenderà il posto delle vecchie fuliggini petrocarbonifere che ci hanno appestato per secoli. Non sarà domani, ma sembra difficile tornare indietro, almeno per i prossimi quattro anni. Il cambiamento climatico è salito in cima alle preoccupazioni del mondo occidentale, nonostante alcuni scettici (e l’incredibile mozione che lo nega, approvata dal Senato della Repubblica italiana), perché, per fortuna, «è finita l’epoca del negare l’esistenza del problema», esattamente quanto hanno fatto i passati amministratori statunitensi per otto anni. In questo quadro Obama dovrebbe aderire al protocollo di Kyoto e renderlo finalmente efficace, senza rinegoziarlo e senza aspettare che a fare il primo passo siano Cina e India, anzi: saranno gli Stati Unti a farlo. Ritenendo che la colpa del surriscaldamento atmosferico sia delle attività industriali, Obama intende ridurre le emissioni di gas clima-alteranti dell’80% entro il 2050 e, per cominciare, indica nelle energie rinnovabili (da noi ritenute ancora poco più che un gioco) la strada maestra. Gli Stati Uniti produrranno il 10% del fabbisogno energetico per questa via entro il 2012, creando 5 milioni di nuovi posti di lavoro e investendo 150 miliardi di dollari. Un sterzata di 180°. E per fare tutto questo Obama - che pensa globalmente e agisce localmente - parte da fatti minori, come quello di una piccola factory dell’Ohio (Cardinal Fastener & Speciality Co.) che produce, fra l’altro, turbine eoliche e ha incrementato i posti di lavoro da quando si è riconvertita dalla produzione di piattaforme di perforazione. Nonostante la crisi economica che devasta l’ambiente peggio di prima, la sensibilità ambientale, in teoria, aumenta e, anche se la deforestazione non si arresta, diventa sempre più difficile, le aree protette aumentano e qualche specie si riesce a salvare, nonostante le aggressioni e le speculazioni. È ancora presto per dire se è l’alba di un nuovo mondo, ma qualcosa sta cambiando, come quando nell’aria dell’inverno si coglie il primo sentore di primavera. Buona giornata della Terra. da lastampa.it Titolo: MARIO TOZZI. L'ambiente a lingue alternate Inserito da: Admin - Maggio 08, 2009, 04:59:47 pm 7/5/2009
L'ambiente a lingue alternate MARIO TOZZI Quanto valgono le foreste della Sila, i ghiacciai dello Stelvio, le isole toscane, gli orsi marsicani o i borghi delle Cinque Terre? Per il nostro governo quanto un chilometro di autostrada. E contro il cambiamento climatico sarà il caso di adoperarsi o tutto dipende dagli astri e quindi è bene continuare a inquinare, tanto non cambia niente? C’è grande confusione sotto il cielo delle politiche ambientali del nostro Paese, confusione che si accresce quando ci si confronta a livello internazionale. È come se il governo italiano parlasse due lingue, una nelle riunioni ufficiali, per allinearsi con il resto del mondo avanzato, l’altra sul fronte interno, magari per non scontentare i settori più conservatori di un sistema industriale che mostra scarsa capacità innovativa. Il Senato della Repubblica (a maggioranza, su ispirazione del senatore Dell’Utri) approva un documento in cui si afferma che la responsabilità del cambiamento climatico non è delle attività umane, ma di cambiamenti nel Sole (prendendo per buone le bizzarre dichiarazioni di un fisico italiano che non è climatologo: come chiedere a un ingegnere informatico di costruire ponti). Nello stesso tempo gli Stati Uniti seguono le indicazioni della stragrande maggioranza degli scienziati e intendono abbattere le emissioni di gas clima-alteranti dell’80 per cento entro i prossimi 40 anni, puntando tutto sulle energie rinnovabili (da noi ritenute poco più che uno scherzo). La nazione più potente del mondo produrrà il 10 per cento del suo fabbisogno energetico per questa via entro il 2012, creando contemporaneamente cinque milioni di nuovi posti di lavoro e investendo 150 miliardi di dollari. Per metterci una pezza, al G8 ambientale il nostro ministero dell’Ambiente porta un documento sul clima che sarebbe sottoscritto volentieri da qualsiasi organizzazione ambientalista, generando così più di un dubbio su quale sia la vera posizione del governo sul clima. Il G8 a Siracusa approva un documento italiano in cui si mette in luce come la biodiversità sia la vera ricchezza della vita, e come fornisca servizi gratuiti a tutti gli uomini e come vada perciò conservata e tutelata. Nello stesso tempo il Parlamento italiano sta per riservare ai Parchi e alle Riserve dello Stato (e alle attività previste dalle Convenzioni internazionali per la tutela della natura) poco più di 52 milioni di euro, 7 milioni in meno del 2008. Come a dire che alle 23 «perle» naturalistiche del Bel Paese va meno di quanto occorre per costruire 1000 metri della variante di valico Bologna - Firenze, un’autostrada «tecnica», ma pur sempre un’autostrada (tutto si potrà dire dei Parchi Nazionali, ma non che siano una spesa rilevante per lo Stato). A livello internazionale, in teoria, si conviene con la tutela; a livello italiano, in pratica, si riducono i fondi. Visto che siamo a Siracusa, la Sicilia - con 5,5 kW/mq/giorno - avrebbe un potenziale solare fotovoltaico notevole, ma il ministro siciliano non sembra essersene accorto, visto che è nella provincia di Bolzano (3,5 kW/mq/giorno) che si installano più pannelli che altrove. Il potenziale solare italiano sarebbe enorme (47.000 miliardi di kW/anno), ma in Germania il fotovoltaico cresce di 140 MW ogni dodici mesi, in Italia solo di 4 (quattro), nonostante l’Italia abbia il 56 per cento di insolazione in più rispetto alla Germania. In Italia il consumo medio di una famiglia è di circa 3.000 kWh/anno, con il fotovoltaico si potrebbe arrivare facilmente a coprirne fra 1.100 (Italia settentrionale) e 1.600 (Italia meridionale), altro che giochi. L’88 per cento del solare europeo è - invece - in Germania, ma noi siamo il Paese del Sole, che punta, però, al nucleare (neppure citato da Obama), che vuole difendere la natura, ma riduce i fondi per farlo, e che approva mozioni che vanno contro l’azione internazionale sul clima. Qualcuno ci aiuta a fare chiarezza? da lastampa.it Titolo: MARIO TOZZI Michelangelo non c'entra l'ecomafia sì Inserito da: Admin - Maggio 24, 2009, 11:37:13 am 24/5/2009
Michelangelo non c'entra l'ecomafia sì MARIO TOZZI L’Italia è uno dei Paesi europei più sforacchiato dalle cave, primo strumento della devastazione ambientale. Non solo è molto facile aprirne di nuove, ma nessuno si preoccupa di ripristinarle una volta finita la coltivazione. In altri Paesi si usa obbligare chi vuole aprire una cava a lasciare in fideiussione il denaro sufficiente per poterla ripristinare, qui spesso prima della fine della concessione le cave vengono abbandonate: lo scempio ambientale resta e nessuno può porre riparo. Si cava soprattutto per il cemento ma anche per la polvere del marmo. È il caso delle Alpi Apuane, uno dei luoghi più incontaminati e straordinari d’Italia, sforacchiato da quasi 300 cave che non servono più a produrre i marmi monumentali della Pietà di Michelangelo o dei romani antichi, ma solo polvere di marmo usata come sbiancante o additivo, dunque non più per un uso monumentale. Una nuova cava significa strade, camion, inquinamento atmosferico, polveri sottili, rumore. Inoltre spesso la cava è il primo passo dell’ecomafia dei rifiuti: se ne apre una abusiva, ci si fa cemento. Nel buco si interrano i rifiuti tossici speciali. Sopra, una volta ricoperto con la terra, ci si fanno i pomodori. La legislazione è carente e non comporta obblighi ambientali. Servirebbero nuove norme uguali per tutto il territorio, ricordando che i giacimenti minerari e le rocce sono patrimonio della nazione. da lastampa.it Titolo: MARIO TOZZI. Ecobugie all'italiana Inserito da: Admin - Giugno 06, 2009, 05:36:45 pm 5/6/2009
Ecobugie all'italiana MARIO TOZZI Ambientalisti come gli italiani ce ne sono davvero pochi al mondo, e non siamo sicuri che sia una sfortuna. Odiamo l’inquinamento atmosferico, raccogliamo correttamente i rifiuti, risparmiamo l’acqua in casa e costruiamo con giudizio. In realtà l’italiano medio si descrive molto migliore di quanto non sia e prova ne sono i dati che emergono analizzando i singoli temi in cui siamo teorici campioni del mondo dell’ambiente. La stragrande maggioranza degli italiani pensa che l’inquinamento sottragga piaceri essenziali della vita, ma poi possediamo 35 milioni di autoveicoli e, su 1 km di strada, ne circolano 80 (contro i 42 degli Stati Uniti e i meno di 40 in Spagna). E a Napoli, per fare un esempio, ci sono 5500 auto per kmq che nemmeno a Hong Kong. In pratica, su 100 cittadini che si muovono per andare a lavoro, ben 72 usano l’automobile: chi saranno gli inquinatori, quei 5 che vanno in moto o i 13 che vanno a piedi? Dopo l’inquinamento gli italiani sono soprattutto spaventati da un futuro senz’acqua: come mai allora 40 litri su 100 vengono dispersi dalla rete idrica potabile nazionale (con punte del 60 per cento in Sicilia)? Per quale ragione nelle nostre campagne si irriga come duemila anni fa, deviando un canale a prescindere dal tempo che fa e dalle necessità? E, soprattutto, perché piantiamo il prato all’inglese anche in Sicilia e vogliamo il campo da golf in Sardegna o siamo passati dal frumento al kiwi consumando dieci volte più acqua? Noi italiani siamo ossessionati dal problema dei rifiuti, specialmente dopo l’emergenza campana, e addirittura i tre quarti ritengono di fare correttamente la raccolta differenziata. Non si spiega allora perché la nostra percentuale di raccolta differenziata sia ancora a circa il 25 per cento, con punte, si fa per dire, di meno del 10 per cento. Il clima, invece, ci preoccupa meno e se farà più caldo chi se ne importa, tanto c’è l’aria condizionata: forse per questo siamo così indietro nel rispetto del protocollo di Kyoto e forse per questo sprechiamo così tanta energia. Quando poi pensiamo alle energie rinnovabili pensiamo soprattutto al solare e magari osteggiamo le altre per via degli impatti paesaggistici. Ma allora perché da noi il solare incrementa alla straordinaria velocità di circa 5 MW/anno, mentre in Germania si marcia a oltre 150 MW/anno (l’Italia ha il 56 per cento di insolazione in più della Repubblica tedesca)? Siamo attenti a non ingombrare il territorio di nuove costruzioni e, anzi, molti giudicano male i provvedimenti governativi che consentono di ampliare le abitazioni. Nei fatti, invece, in Italia si divorano ogni anno 250 mila ettari di territorio e qui è stato coniato il termine condono edilizio, che non è traducibile in nessuna lingua moderna conosciuta, e che ha contribuito a distruggere oltre 3.663.000 ettari di territorio negli ultimi quindici anni. Da noi il consumo di cemento raggiungerà il picco di 220 milioni di tonnellate per soddisfare la domanda relativa solo all’ampliamento del 20 per cento del nuovo piano casa, in un Paese che è già al primo posto in Europa nella produzione, con 47 milioni di tonnellate/anno (800 kg cemento/uomo/anno). La Germania ne produce 33 milioni, la Francia 21 e la Gran Bretagna 12, tanto per dire di paesi sottosviluppati. E il confronto con gli altri Paesi è davvero impietoso: in Germania la soglia di consumo di territorio è 43-44 mila ettari all’anno, un sesto appena dei nostri ritmi più recenti. In Gran Bretagna l’allarme per l’erosione dei suoli liberi e/o agricoli venne fatto suonare già negli Anni 30 e si concretizzò nel 1946 col New Towns Act e l’anno seguente col Town and Countries Planning Act, con la individuazione delle «green belts», cioè delle cinture verdi a protezione delle città. In questo modo la punta di 25 mila ettari consumati in dodici mesi negli Anni 30 in Inghilterra e Galles è stata abbattuta ad appena 8 mila ettari annui nel decennio 1985-96. Molto di più di quanto consuma la sola Sicilia ogni anno. Riduzione dell’inquinamento, risparmio di acqua, riciclaggio dei rifiuti, energie rinnovabili, minor consumo di territorio, questi i cardini di una Giornata dell’Ambiente come si deve. Gli italiani si ritengono ecosostenibili a tutti i livelli, dal singolo cittadino all’azienda, dall’amministratore all’industriale, ma in realtà si raccontano solo un sacco di bugie. Del resto questa pare la tendenza generale. da lastampa.it Titolo: MARIO TOZZI. Chi ha paura della foca monaca Inserito da: Admin - Giugno 23, 2009, 09:51:44 am 22/6/2009
Chi ha paura della foca monaca MARIO TOZZI Un eccezionale avvistamento di foca monaca nel Tirreno centrale si sta trasformando in una ennesima querelle, tutta italica, di fazioni attestate sui lati opposti del presunto sviluppo e della conservazione dell’ambiente. All’inizio di giugno, nelle acque dell’isola del Giglio (il mare più pulito d’Italia), viene fotografato un esemplare adulto di foca monaca, forse una femmina, che fa immediatamente sperare che la specie non sia estinta, come si credeva. Un’ottima notizia in un anno in cui è scomparso, per esempio, un altro mammifero acquatico come il delfino bianco del Fiume Giallo in Cina. Le foche monache ancora abitano il Mare Nostrum, ma sono diventate rarissime a causa dell’atteggiamento predatorio degli uomini che le hanno da sempre massacrate senza pietà e scacciate dai loro luoghi abituali di riproduzione. La loro presenza nel Mediterraneo è ridotta a pochi nuclei nell’Egeo, nello Ionio e nel Mar Nero, attorno alle coste istriane e lungo la costa nord-africana. In Italia è stata talvolta sporadicamente avvistata a Montecristo e in Sardegna, dove certamente si rifugiava stabilmente, ma è poi sparita per anni. «Bove marino» la chiamavano i gigliesi decenni fa, quando era frequente ritrovarla in mezzo ai filari di vite intenta a rotolarsi a terra. Tanto che molti scambiavano gli egagropili (quelle pallottole fibrose di posidonia che si accumulano sulle spiagge) per «deiezioni di bove marino». Nel 1983, un subacqueo notò un enorme animale scuro, in posizione verticale, sul fondo. Spaventatissimo, risalì immediatamente in superficie rischiando un’embolia, ma si rese poi conto di essersi imbattuto in un esemplare adulto di foca, non tanto per la posizione verticale, quanto per l’unico particolare che ricordava di aver notato con certezza: un enorme paio di baffi! Nei punti più deserti dell’isola, di notte, i «bovi marini» uscivano talvolta dal mare e si arrampicavano sui liscioni di granito a godersi la luna. Ma per anni non erano state più avvistate: catturate con le spadare oppure uccise dall’ingestione delle reti di nylon casualmente ingoiate con i pesci strappati alle reti. Mentre in qualsiasi altro posto del mondo l’intera comunità sarebbe stata contenta per il ritorno di un magnifico animale, simbolo stesso di ambienti incontaminati e possibile catalizzatore di turisti, in Italia, per qualcuno, la comparsa del pinnipede più raro del pianeta sembra aver causato un certo spavento. La nuova maggioranza (di centrodestra) che si è appena installata al Comune del Giglio sembra temere la foca come indicatore biologico dell’eccezionale qualità del mare, perché da qui all’istituzione definitiva di un’area marina protetta il passo potrebbe essere troppo breve. E un vincolo, seppure giustificato e foriero di possibilità di sviluppo prima neppure pensabili, è sempre un vincolo. Infatti al Giglio si parla il meno possibile dell’eccezionale avvistamento, laddove altri amministratori si sarebbero immediatamente vantati di quella rara garanzia di qualità ambientale (basti pensare alle isole greche che, sulla sporadica presenza della foca, hanno costruito una fortuna turistica). Addirittura qualcuno solleva il dubbio che si tratti di una montatura giornalistico-ambientalista: insomma la foca ha destato sospetti e apprensione, ed è diventato un problema politico da tenere sottotraccia. Nonostante la rilevanza scientifica e ambientale dell’avvistamento, non risulta che dal ministero dell’Ambiente sia stata intrapresa alcuna azione di indagine per predisporre le necessarie azioni di prevenzione e tutela. Eppure si tratta di un segnale oggettivamente positivo, che conferma la necessità di una protezione marina più stretta intorno alle isole minori dell’Arcipelago Toscano, come peraltro richiedono ben tre leggi dello Stato, e come l’Unione Europea ci invita a realizzare (al più tardi entro il 2012), oltretutto in linea con gli impegni internazionali presi dell’Italia per la protezione della biodiversità marina al recente G8 di Siracusa con l’approvazione della «Carta di Siracusa» proposta dallo stesso ministero dell’Ambiente. Ma chi ha paura della foca monaca? da lastampa.it Titolo: MARIO TOZZI. Costi amari di un'estate in fiamme Inserito da: Admin - Agosto 19, 2009, 10:17:26 am 18/8/2009
Costi amari di un'estate in fiamme MARIO TOZZI Cosa perdiamo quando un ettaro di bosco viene bruciato? Di cosa ci priviamo ogni volta che una foresta va perduta? E, soprattutto, che danni permanenti provoca il fuoco e, in ultima analisi, a chi conviene? Oltre un milione di ettari di aree verdi è andato bruciato in Italia negli ultimi nove anni, mentre l’estate in corso rischia di diventare la peggiore, anche se, per fortuna, nessuno più invoca ipotesi fantascientifiche come l’autocombustione per spiegarne la ragione. Il fuoco viene appiccato da criminali (che non è giusto chiamare piromani, come fossero individui un po’ pazzi) per ragioni ben precise di interesse: dove passa il fuoco non crescono più foreste, ma nuove case, palazzi, edifici. E sappiamo anche come si dovrebbe agire: quando un criminale del fuoco viene colto in flagrante e punito allora in quel territorio il fenomeno cessa o si riduce drasticamente, parallelamente allo stesso scomparire dell’impunità. L’isola d'Elba è oggi sostanzialmente libera dal fuoco dopo i gravissimi incendi degli anni precedenti (che fecero anche alcune vittime), grazie in primo luogo all’opera di intelligence del Corpo Forestale e del Parco Nazionale, che hanno indagato e colto sul fatto almeno uno dei criminali che appiccavano il fuoco. Tanto è bastato perché il numero dei focolai scendesse da oltre 200 a meno di venti all’anno. Tremilacinquecento persone arrestate dal 2000 a oggi e pene più severe (fino a oltre dieci anni di carcere) non sono però ancora bastate di fronte agli enormi interessi in gioco nei territori di pregio. Ma ci sono altre ragioni, come la mancanza di manutenzione del territorio stesso, in particolare del sottobosco, specie dopo primavere così piovose come quella appena passata, che ha aumentato la massa verde a disposizione delle fiamme. E il surriscaldamento climatico in atto, con il conseguente rinsecchimento di quella stessa massa così copiosamente generata, incrementa il pericolo. In questo caso cura e manutenzione nel periodo primaverile sarebbero già sufficienti per abbassare il rischio. In Italia sarebbe anche obbligatorio il catasto degli incendi: ciascun comune deve censire le aree incendiate e impedire lì ogni costruzione di qualsiasi tipo, ma se non c’è catasto è poi difficile dimostrare il pregio precedente di un’area divenuta poi irriconoscibile. Non è un caso che i comuni maggiormente inadempienti siano quelli delle regioni costiere, quelli più appetiti dalla speculazione: Sardegna, Toscana e Lazio. E’ bene ricordare, a chi sembra fare finta di niente, che, dal 2000, non è possibile intervenire in alcun modo sui terreni bruciati per almeno 15 anni. Ed è bene ricordare a tutti che non sono i Canadair a scongiurare gli incendi: quando intervengono i mezzi aerei il fuoco ha già vinto, perché la prevenzione la si mette in pratica a terra prima che il peggio accada. Affidarsi al soccorso dal cielo implica già un severo errore di prospettiva e delega un compito che non può essere solo della Protezione Civile. Quello che costa un incendio non è sempre chiaro a tutti. Un incendio devastante costa al cittadino 5.500 euro per ogni ettaro bruciato, se non contiamo, perché difficile farlo, gli altri danni permanenti e le specie viventi sterminate (centinaia di mammiferi e uccelli, milioni di insetti, migliaia di rettili per ogni ettaro). Ma quello economico è solo un aspetto che viene peraltro amplificato in seguito: il fuoco non ha solo un percorso superficiale, ma anche uno sotterraneo, che corre qualche decimetro sotto terra, che intacca anche le radici. Così il territorio bruciato resta preda delle piogge invernali e privo di protezione contro il dissesto idrogeologico: in pratica è come se il fuoco avesse colpito due volte. Per ricostituire una foresta di pregio (come quelle di faggio del nostro Appennino) ci vogliono cento anni, almeno trenta per riavere una pineta. Ma mentre gli speculatori ne conoscono bene il prezzo, quasi nessuno sembra avere chiaro in testa il valore intrinseco di un albero. da lastampa.it Titolo: MARIO TOZZI. Il capitale perduto del turismo mondiale Inserito da: Admin - Agosto 30, 2009, 08:53:11 am 30/8/2009
Il capitale perduto del turismo mondiale MARIO TOZZI Le spiagge di paesi esotici, come la Thailandia o le Maldive, appaiono come veri e propri paradisi terrestri, che però vale forse la pena di guardare sotto la superficie patinata e apparentemente felice. Mete ambitissime, e ormai facilmente raggiungibili, da schiere sempre maggiori di turisti, italiani soprattutto. Quella che vediamo, però, è solo una fotografia di maniera, ancora vera, ma vecchia: una volta era così, ma oggi le cose sono cambiate e cambiamo rapidamente, con una sequenza che è facile prevedere e che ha già investito i paesi di turismo tradizionale come il nostro. Quando l’Italia era povera ma bella Anche l’Italia degli Anni Sessanta era un paradiso, sebbene non tropicale. Faceva comunque caldo, specialmente quando ci si spingeva in Sicilia nelle interminabili giornate di scirocco estivo, e gli stranieri trovavano da noi un clima più che mite, mare trasparente, cibo genuino e una sterminata quantità di tesori storici artistici e monumentali. Se facciamo eccezione per questi ultimi, le mete esotiche degli Anni Novanta e l’Italia degli Anni Sessanta si assomigliano molto, perché obbediscono alla stessa legge del turismo mondiale, quella che prima lancia i paesi emergenti nell’orbita dello sviluppo, poi li precipita nell’abisso del cemento e della disgregazione sociale. Questa legge parla chiaro: a una prima fase pionieristica - in cui pochi avventurosi esploratori si concentrano solo su mare e eventuali monumenti - segue la fase dell’infrastrutturazione, che consente a numeri ancora contenuti di turisti, comunque volenterosi, di sobbarcarsi lunghissimi viaggi in sistemazioni ancora approssimative, ma di trovare cortesia senza fine, ospitalità e una natura ancora praticamente intatta. La Sardegna prima della Costa Smeralda o l’isola d’Elba quando ancora erano attive le miniere: la ricchezza si diffonde fra gli abitanti che sono ancora principalmente contadini o minatori e solo in seguito affittano una camera o due e preparano da mangiare in ambienti comuni. In una fase ulteriore l’infrastruturazione incrementa: raggiungere il posto è sempre più facile e i charter cominciano a vomitare migliaia di turisti. Gli alberghi crescono di qualità, ma soprattutto di numero, fino a negare la vista della costa e la qualità ambientale decresce vistosamente. Ma ancora si trovano luoghi intatti, e basta fare pochi passi per scegliere angoli incantevoli: la costa appena a sud della Costa Smeralda, in Sardegna, o le spiagge orientali della Thailandia, dove grappoli di bungalow costituiscono resort ancora compatibili e che magari fanno vanto di alcuni comportamenti ecologicamente corretti. Alla riconquista di ciò che non ha prezzo Questi paesi si trovano oggi però allo stesso bivio in cui si è trovata l’Italia: o incrementare l’infrastrutturazione a scapito della qualità del soggiorno o fermarsi a riflettere e cambiare modello di sviluppo, come si è fatto a Palma di Mallorca dopo la fase orgasmica di costruzioni di grandi alberghi degli Anni Ottanta, oggi in parte ridimensionati per riconquistare l’unica cosa che non ha prezzo, lo spazio di pregio. O come non ha fatto l’isola di Capri, che regge ancora economicamente solo per via del blasone e delle attività fuori stagione, ma deve chiudere la Grotta Azzurra per inquinamento, o l’isola d’Ischia, che è diventata un inferno impossibile da vivere, con centinaia di migliaia di turisti, costruzioni anche abusive dovunque e un ambiente naturale semplicemente irrintracciabile, se non nelle ville patrizie. A quel bivio l’incremento delle infrastrutture non porta più ricchezza diffusa, ma solo concentrazione di denari in capitali stranieri e infiltrazioni malavitose. Quei paesi, oggi, possono ancora scegliere, magari imparando dai nostri errori. A noi toccherebbe di fare un passo indietro. da lastampa.it Titolo: MARIO TOZZI. La lunga estate calda Inserito da: Admin - Settembre 06, 2009, 04:52:31 pm 6/9/2009
La lunga estate calda MARIO TOZZI A guardare bene, in tempi recenti, solo quella del 2003 è stata più calda - e ce le ricordiamo le centinaia di morti a causa delle famigerate ondate di calore nella civilissima Europa -, poi bisogna almanaccare nelle statistiche degli ultimi 200 anni per trovarne altre due a questi livelli: l’estate attuale è da record e non è ancora finita. Ma questa potrebbe essere peggiore delle altre per almeno due motivi. Il primo è che il calore torrido «annulla» tutta la gran massa d’acqua caduta in inverno e in primavera, quando gli scettici del cambiamento climatico si permettevano illazioni a proposito del fatto che non ci sarebbe stato davvero da preoccuparsi per la siccità, visto che pioveva come Dio la mandava. Neanche era finito agosto che le piogge torrenziali sono state virtualmente annullate dal caldo e dai nostri sprechi (occorre sempre rimarcarlo), ma in più anche dall’idea che, almeno per quest’anno, la siccità ci avrebbe lasciato in pace. La seconda ragione è che, per quanto riguarda i ghiacciai (i veri moderatori del clima della Terra) va anche peggio: il Comitato Glaciologico Italiano esprime il ragionato parere che i ghiacciai alpini hanno già perso tutto il manto gelato che era stato accumulato in un inverno-primavera copioso di precipitazioni nevose. Significa che anche prima di arrivare a fine settembre, momento in cui si fanno i conti, la situazione si è addirittura aggravata rispetto agli anni scorsi. Non è solo un problema italiano. I nuovi dati di Arctic Climatic Feedbacks dicono che oltre un miliardo e mezzo di persone soffrirà le conseguenze di fenomeni meteorologici estremi, se le cose procedono in questo modo. Le emissioni di gas-serra si stanno per accrescere esponenzialmente a causa della liberazione delle riserve di carbonio finora conservate nei ghiacci artici. Come a dire che, se non si riesce a mantenere l’Artico freddo, il problema si riverbererà in tutto il mondo. La perdita del ghiaccio artico, dovuta al fatto che il Polo Nord si riscalda a velocità doppia rispetto al resto del pianeta, influenzerà negativamente la gran parte delle attività economiche del mondo ricco, compromettendo in particolare le riserve di acqua. A parte il caldo che percepiamo, insomma, sono i dati scientifici a far apparire ottimistiche le previsioni dell’IPCC di solo un anno fa, quando si sosteneva che il cambiamento climatico sarebbe stato «faster, stronger and sooner», cioè che sarebbe avvenuto più velocemente di quanto gli stessi scienziati avessero già previsto nel 2007. Di soluzioni si discuterà a Copenaghen a dicembre, ma la prossima settimana sul clima delle Nazioni Unite vede già i climatologi di tutto il mondo indicare la strada della riduzione cospicua e immediata delle emissioni clima alteranti dal 25 al 40% entro il 2020, mentre obiezioni non argomentate da un punto di vista scientifico, ma forti del potere economico, si traducono in una sostanziale perdita di tempo prezioso. Non fare nulla per opporsi al deterioramento climatico ha costi già oggi insostenibili: i danni derivati ammonteranno presto al valore totale di tutto ciò che l’umanità produce in un anno. Quando diventerà conveniente, si dice, e si faranno affari sulla mitigazione del cambiamento climatico, allora il libero mercato sistemerà le cose e si darà inizio alla ristrutturazione ecologica del pianeta. Ma quando? Se le corporation che governano di fatto i Paesi ricchi non si sono ancora fatte convincere dai dati degli scienziati, cosa le convincerà mai? Purtroppo siamo sempre lì: si sostiene che l’economia viene prima dell'ambiente, dimenticando che qualsiasi sistema economico è un sottosistema della biosfera, che è sempre esistita anche senza l'economia, mentre è impossibile che avvenga il contrario. Insomma, se continuerà a fare così caldo non ci sarà nessuna attività produttiva, almeno non su questo pianeta. da lastampa.it Titolo: MARIO TOZZI. Il mondo non finirà nel 2012 Inserito da: Admin - Ottobre 02, 2009, 05:35:27 pm 1/10/2009
Il mondo non finirà nel 2012 MARIO TOZZI Due terremoti di spaventosa potenza (superiori a magnitudo 7 Richter, come a dire diverse centinaia di bombe paragonabili a quella di Hiroshima che esplodono nel sottosuolo contemporaneamente) in rapida successione bastano a riportarci alla condizione umana su un pianeta che mette in gioco energie e tempi incommensurabilmente più grandi di noi. Ma anche a farci tremare per una fine del mondo che sembra essere ormai prossima. Se però conoscessimo bene la Terra sapremmo che non è così e, anzi, dovremmo ricordare che forse sono proprio le crisi tettoniche ad aver permesso ai nostri antenati di evolversi qualche milione di anni fa nell’Africa orientale. Grazie ai terremoti il mondo della foresta fu diviso da quello della savana, e, in quel nuovo ambiente, appena scesi dagli alberi, gli ominidi hanno sviluppato la stazione eretta, le strategie di sopravvivenza, in definitiva, il cervello. Insomma siamo figli dei terremoti e della geologia di un pianeta inquieto, nonostante il fatto che negli ultimi mille anni i sismi hanno ucciso otto milioni di persone e tutto lascia intendere che le cose potrebbero andare peggio nel prossimo futuro, su una Terra più popolata proprio nelle regioni a rischio. In tremila anni di storia la Cina ha visto 13 milioni di vittime e ogni anno muoiono, in media, fra le 10 mila e le 15 mila persone a causa dei terremoti, se si considerano anche i maremoti, le carestie e le pestilenze connesse. Il terremoto è la catastrofe per antonomasia, etimologicamente è lo stravolgimento completo delle esistenze, a partire dalle abitazioni distrutte o, in aggiunta, dalle gigantesche ondate di maremoto, che in certe regioni del mondo, non sembrano mancare mai. E cosa c’è di peggio di quando ci manca la terra sotto i piedi, di quando traballano i punti di riferimento, o di quando le crisi si susseguono come guidate da una mano invisibile che disegna un meccanismo perverso? Ma le catastrofi naturali non esistono, esistono solo le sciagurate conseguenze di comportamenti insensati degli uomini che abitano dove non dovrebbero e costruiscono troppo e male. E il terremoto è un fenomeno assolutamente «normale» e molto frequente sulla Terra, almeno come le tempeste: ogni anno si registrano milioni di scosse e solo una decina superano, in media, la magnitudo 7 Richter, che possiamo idealmente assumere come limite dei terremoti più violenti. Non c’è un tetto superiore della cosiddetta scala Richter: il massimo mai raggiunto è poco superiore a 9, come nel caso di Sumatra (2004) o del Cile (1960), ma in teoria sono possibili terremoti anche molto più energetici. Non c'è quindi alcuna fine del mondo che si approssima, ma solo la casuale giustapposizione di scosse molto forti in un settore apparentemente piccolo del mondo: il sisma delle isole Samoa è migliaia di chilometri lontano da quello di Sumatra, e c’è un intero continente in mezzo, più un pezzo di oceano. Inoltre sono due strutture geologiche differenti, due scontri diversi di placche geologiche lontane. Eppure questi eventi vengono letti come il medesimo segno di una crisi geologica che non c’è: il pianeta fa semplicemente il suo mestiere e solo per caso due scosse molto forti si susseguono ravvicinate nel tempo e (peraltro un po’ meno) nello spazio. Ma il terremoto evoca la nostra atavica debolezza, l’incapacità di confrontarsi con la natura quando la riteniamo davvero arrabbiata: in realtà la natura fa il suo corso senza curarsi di noi o di altri viventi e non ci sarà nessuna fine del mondo per congiunzioni astrali di pianeti nel 2012 o per un susseguirsi di terremoti violenti. La tremenda sequenza calabrese della fine del XVIII secolo, i vari big-one della California o del Giappone, gli tsunami del Sud-Est asiatico, le scosse dell’intero «anello di fuoco» del Pacifico sono solo i segni di un pianeta attivo e dinamico che dovremmo semplicemente guardare con rispetto. da lastampa.it Titolo: MARIO TOZZI. Non diteci che nessuno sapeva Inserito da: Admin - Ottobre 03, 2009, 11:15:15 am 3/10/2009
Non diteci che nessuno sapeva MARIO TOZZI E’ proprio un Paese bizzarro l’Italia, pensate che d’autunno piove - qualche volta a lungo -, i fiumi straripano e le tempeste mangiano le spiagge. E pensate che, se avete costruito nel letto di un fiume, ci sono buone probabilità che la vostra casa venga spazzata via per colpa delle alluvioni. Un fenomeno nuovo, si potrebbe pensare, mai segnalato finora, specialmente nel Mezzogiorno: chi potrebbe immaginare che intere colline d’argilla franino a mare portandosi con sé case e persone? Non serviva un geologo, bastava un archivista che avesse rovistato nei documenti comunali. Per sancire come le frane siano un fenomeno comune, esattamente come le mareggiate, nel Messinese: le ultime quattro vittime nel 1998, appena a Nord della città. Ma in Italia avviene, in media, uno smottamento ogni 45 minuti e periscono, per frana, di media, sette persone al mese. Già questo è un dato poco compatibile con un Paese moderno, ma se si scende nel dettaglio si vede che, dal 1918 al 2009, si sono riscontrate addirittura oltre 15 mila gravi frane. E non solo frane, ma anche alluvioni (oltre 5 mila le gravi, sempre dal 1918), spesso intimamente connesse agli smottamenti. Questo nonostante oggi la protezione civile sia molto più efficiente di solo venti anni fa. Le frane sono un fenomeno naturale, ma non lo sono le migliaia di morti né le azioni dell’uomo che le innescano al di là delle condizioni naturali. Tutto questo era ben noto fino dal tempo della commissione De Marchi, che fotografò, per la prima volta in modo organico (nel 1966), il dissesto idrogeologico del territorio italiano in otto volumi in cui si suggerivano anche alcuni interventi indispensabili e ritenuti urgenti fino da allora. Sono passati decenni e c’è ancora chi si stupisce oggi. Non solo: la situazione è stata aggravata dalla massa assurda delle nuove costruzioni, da centinaia di chilometri di strade, da disboscamenti insensati e dagli incendi mirati, dai condoni edilizi che espongono al rischio migliaia di cittadini che hanno scelto deliberatamente di delinquere. Ma come volevate che finissero quelle case, magari abusive, che strozzano i letti dei corsi d’acqua, come dovevano finire i viadotti troppo bassi, le strade e il cemento che hanno sclerotizzato il territorio? Eppure - a differenza dei terremoti - le frane possono essere previste e i nomi sono già storia: Ancona (1982), il Monte Toc al Vajont (1963), la Valtellina (1987), Niscemi (1997), Sarno (1998), l’autostrada del Brennero (1998), Soverato (2002) e così via disastrando. Secondo il Cnr il totale del territorio a rischio di frane, o comunque vulnerabile dal punto di vista idrogeologico, in Italia, è pari al 47,6%. Quasi il 15% del totale nazionale delle frane, e quasi il 7% delle inondazioni, avviene in Campania (1600 in 75 anni), dove 230 Comuni su 551 sono a rischio di smottamento. La superficie vulnerabile per frane e alluvioni è, in Campania, pari al 50,3% del territorio regionale. Il Trentino sfiora l’86% - in vetta alla graduatoria -, le Marche arrivano all’85% e il Friuli è ben sopra il 50%: resta da chiedersi come mai però nel Mezzogiorno quel rischio potenziale si traduce più spesso che altrove in catastrofe, con Basilicata, Calabria e Sicilia che vanno comunque oltre il 60% del territorio a rischio. Ma la risposta la conosciamo già: l’incuria del territorio è qui diventata prassi quotidiana, perché gli amministratori preferiscono costruire un’opera pubblica, anche se inutile, purché si veda e porti consenso: chi si accorgerà invece di una manutenzione ordinaria, spesso invisibile, del territorio? Per non parlare dell’incivile tolleranza all’abusivismo o dell’ignoranza di qualsiasi principio fisico che informi il territorio: che ne sanno gli amministratori che una frana è uno spettacolare esempio di un fenomeno geologico del tutto naturale, che porta al trasferimento di materiale dall’alto in basso grazie alla forza di gravità? E che le cause generali delle frane sono molte, ma, in tutto il mondo, l’intervento dell’uomo gioca un ruolo fondamentale? Fra qualche giorno nessuno ricorderà i morti di Messina e si continuerà a inseguire il sogno di un ponte inutile che renderà ineluttabile il dissesto idrogeologico, quando non vedrà compromessa addirittura la stabilità complessiva di un intero settore della penisola. Stornando risorse che dovrebbero essere spese per salvare vite e non per inseguire follie faraoniche. da lastampa.it Titolo: MARIO TOZZI. Moratoria per il ponte sullo stretto Inserito da: Admin - Ottobre 28, 2009, 08:18:00 am 28/10/2009
Moratoria per il ponte sullo stretto MARIO TOZZI La tragedia di Messina del primo ottobre e le parole del Capo dello Stato sul dissesto idrogeologico impongono un ripensamento attorno al ponte sullo stretto e, quanto meno, una moratoria dovuta a motivi di natura territoriale, sociale e ambientale, oltre che di buon senso. Prima di tutto viene il rischio idrogeologico, che si è appena dimostrato qui essere elevato come in pochi altri posti: il versante siciliano è uno «sfasciume pendulo» che andrebbe risanato e rinaturalizzato prima di ogni altro intervento. E il ponte peggiorerebbe le cose sensibilmente: per piazzare il pilone di sostegno - alto come l’Empire State Building e largo in proporzione - bisogna scavare una fossa enorme, sottraendo 4-5 milioni di metri cubi di terreno. Sarebbe inevitabile poi sconvolgere il già scarso equilibrio idrogeologico, prosciugare i laghi di Ganzirri e distruggere il paesaggio con cave e scassi di ogni tipo che il dissesto lo creerebbero ex novo anche in zone geologicamente più tranquille. A meno che non si voglia ricoprire tutta la provincia di Messina con una colata di cemento, il dissesto sarà aggravato dai lavori. Ma sul versante calabrese la situazione è peggiore, non tanto per le colate di fango, quanto per gli «scivolamenti gravitativi profondi», frane con superfici di distacco talmente profonde da mettere in pericolo la stabilità dell’altro pilone di sostegno, quello di Cannitello. A Scilla la linea ferroviaria che tiene il Sud legato al Nord della penisola è interrotta un anno sì e l’altro pure a causa delle frane e la gente scende dal treno per superare i tratti dissestati in pullman: siamo sicuri che non ci siano altre priorità? Lo stretto di Messina è, in aggiunta, la regione a maggior rischio sismico d’Italia: qui è avvenuto, appena 100 anni fa, il terremoto più violento che il Mediterraneo moderno ricordi, seguito da un tremendo tsunami per complessivi 100.000 morti. Ma i centri storici di Messina, Reggio Calabria e Villa San Giovanni non sono stati risanati con criteri antisismici e si stima che solo un quarto delle costruzioni resisterebbe a terremoti maggiori di magnitudo 6 Richter (quello del 1908 è stato di 7). Per quanto se ne sa il ponte reggerebbe a un terremoto di magnitudo 7 Richter, però nessuno ci assicura che il prossimo - che non è certo evitabile - possa non essere più violento. Ma in quel caso saremmo di fronte a un insopportabile stornamento di fondi pubblici o privati (non fa molta differenza) dalla indispensabile ristrutturazione antisismica, a favore di un’opera che non è certo urgente. Insomma, se il ponte resterà in piedi unirà due cimiteri, con buona pace della sicurezza dei cittadini che dovrebbe precedere ogni tipo di intervento pubblico. C’è infine un ultimo punto critico, il fatto che i due versanti non solo non sono «fermi», geologicamente parlando, ma si muovono in maniera disarmonica. La Sicilia si solleva meno rapidamente della Calabria (0,6 mm/anno contro 1,5) e si sposta (1 cm/anno) verso una direzione diversa dalla prima. Un triangolo di crosta terrestre più ballerino è davvero difficile trovarlo al mondo, siamo sicuri che si debba fare proprio lì un’opera la cui redditività è messa in gravissima crisi dalla congiuntura economica (ricordiamo che la stima di recupero dell’investimento sarebbe positiva solo con un incremento del Pil del +3,8% annuo, mentre oggi siamo a valori negativi)? Certo, i ponti si fanno anche in aree sismiche come il Giappone, ma quello di Akashi - il più lungo finora realizzato a campata unica - fu talmente provato dal terremoto di Kobe del 1995 che la sua costruzione fu interrotta e rivista rispetto al progetto e che la linea ferroviaria, inizialmente prevista, fu eliminata. E a Kobe la ristrutturazione antisismica è stata iniziata prima di fare il ponte, e frane non ce ne sono. In un’ipotetica scala di priorità, quando di soldi ce ne sono così pochi, cosa viene prima, la sicurezza o gli affari e la megalomania? da lastampa.it Titolo: MARIO TOZZI. Pianosa restituita alla gente Inserito da: Admin - Novembre 07, 2009, 10:16:29 am 7/11/2009
Pianosa restituita alla gente MARIO TOZZI L’idea (frettolosamente rientrata) di riaprire il supercarcere di Pianosa non sfugge alla tafazziana moda italica di scegliere la via più costosa, più scomoda, e possibilmente dannosa, per risolvere un problema reale. All’esigenza di nuove carceri speciali si voleva risponde con l’idea di recuperare antichi complessi carcerari oggi in disuso, invece di utilizzare quegli edifici costruiti e mai usati che pure sorgono in varie parti d’Italia (per esempio in Calabria). Nel momento in cui il movimento turistico ci vede scavalcati anche dalla Cina in quanto a presenze straniere, noi vogliamo rispondere ingabbiando mete importanti come l’Asinara o Pianosa che, particolare non trascurabile, fanno parte integrante del sistema nazionale delle aree protette, come dire i gioielli di famiglia. C’è prima di tutto un danno ambientale grave: rendere agibile un supercarcere in un’area protetta vorrebbe dire muovere macchine e terra, cementificare e infrastrutturare in zone delicate, con ecosistemi spesso unici e molto delicati. Poi c’è una questione di costi: non ci dovrebbe volere molto a capire che spostare un mattone su una di queste isole costa forse quattro volte di più che non sul continente. Visto lo stato degli edifici, non si tratta di semplici ristrutturazioni o adattamenti, ma di vere e proprie ricostruzioni, che dovrebbero avvenire in barba a ogni valutazione di impatto, contro i vincoli europei (queste isole sono spesso Sic, Siti di Importanza Comunitaria), quelli dei parchi nazionali e contro la volontà dei cittadini che traggono da quelle isole risorse economiche da non sottovalutare in tempi di magra. Anzi, è presumibile che il turismo del futuro tenderà a privilegiare proprio quelle zone di pregio ambientale rispetto a tutto il resto. E cosa potrebbe trovare? Muri di contenimento fuori misura, filo spinato e torrette di avvistamento, oltre all’impossibilità di visita. A Pianosa (a meno di un’ora da Marina di Campo, nell’arcipelago toscano) si perderebbe così la possibilità di visitare il secondo complesso catacombale per importanza a Nord di Roma, o il paese antico o, ancora, le ville romane, per non parlare dei siti di nidificazione del gabbiano corso o degli straordinari fondali. Nel passato la presenza delle amministrazioni carcerarie ha svolto un ruolo inconsapevolmente positivo, in quanto quelle isole sono sfuggite alla speculazione edilizia proprio grazie al carcere. Ma all’arcipelago toscano, per restare nell’esempio, c’è già un istituto di detenzione a Porto Azzurro e uno a Gorgona, e campeggiano ancora strutture carcerarie fatiscenti a Capraia, oltre che a Pianosa, ponendo pesanti problemi di ristrutturazione per gli usi civili. Oggi queste isole potrebbero vedere un recupero straordinario dei valori ambientali insieme a quelli sociali, coniugando la protezione della natura con le attività economiche, grazie anche all’apporto di carcerati in articolo 21, cioè destinati al reinserimento attraverso attività produttive, come già accade a Pianosa, dove una dozzina di detenuti da anni si muove in questa prospettiva fornendo accoglienza ai turisti. C’è tanto spazio degradato in Italia per poter impiantare un carcere duro, che non ci dovrebbero essere problemi per trovare siti compatibili e meno costosi. Perché infine i mafiosi dovrebbero godere dei panorami più belli del Mediterraneo, è un mistero che non si riesce francamente a comprendere. da lastampa.it Titolo: MARIO TOZZI. Se le fonti sono pubbliche l'acqua vale di più Inserito da: Admin - Novembre 25, 2009, 03:39:30 pm 25/11/2009
Se le fonti sono pubbliche l'acqua vale di più MARIO TOZZI Alzi la mano chi conosce esattamente il costo di un litro d'acqua al rubinetto di casa. Costa talmente tanto poco, in media, che neppure è possibile esprimerlo in centesimi di euro: circa un euro per ogni metro cubo, ossia per mille litri. Quindi di cosa si parla quando si parla di un possibile profitto sull'acqua e della sua trasformazione da bene a merce? Tutto nasce dalle indicazioni scaturite dal Wto che suggerivano di far entrare pesantemente i privati nella gestione delle acque pubbliche e dal fatto che, per assicurare i profitti, si garantivano concessioni trentennali, piuttosto lunghe, in teoria, per regimi di libera concorrenza. Ma come si fa a fare profitto su una merce che costa così poco e di cui c'è disponibilità illimitata? Questo è più difficile da comprendere, perché sulla Terra ciascun essere umano avrebbe teoricamente disponibili alcune migliaia di litri d'acqua al giorno, una quantità che trova riscontro in quelle delle grandi città italiane: oltre 500 litri per persona a Roma come a Milano. Il problema è che, mentre in Occidente l'acqua è abbondante e omogeneamente distribuita, nel Sud del mondo è più scarsa e niente affatto distribuita, tanto che nei prossimi 20 anni la quantità media di acqua pro-capite diminuirà rispetto a oggi, contribuendo, fra l'altro, ad aggravare i problemi della fame nel mondo. Ogni anno muoiono oltre 2 milioni di persone per malattie causate dall’acqua inquinata e oltre 650.000 persone sono rimaste vittime, nell’ultimo decennio, degli effetti catastrofici di eventi naturali provocati dalle inondazioni. Questi sarebbero i veri problemi, ma le multinazionali alla caccia di ogni profitto possibile pensano di violare anche gli elementari principi secondo cui niente dovrebbe essere dato per l'uso dell’aria o dell’acqua, visto che sono illimitate. La cosa potrebbe cambiare quando le quantità dovessero diminuire a causa dell'incremento demografico e degli usi che se ne fanno? E, anche in questo caso, come si fa a realizzare un profitto decente, oltre che grazie alla lunga concessione? In un solo, solito modo, aumentando le tariffe, senza peraltro alcuna possibilità di migliorare un servizio che è già ridotto all'osso. A meno che non si voglia risparmiare sulle procedure di sicurezza, che devono essere, per le acque potabili, molto maggiori di quelle, già soddisfacenti, delle acque in bottiglia. L'esperienza pregressa ci dice che questo è proprio quello che succede: incrementi di tariffe e servizi immutati dove subentrano i privati. L’acqua non dovrebbe diventare una merce, così come non dovrebbe diventarlo l'aria, e la cosa era già chiara agli antichi, che le conferivano un carattere sacro e ne garantivano a tutti un uso pubblico. Ma in un capitalismo di guerra anche i pochi beni non ancora alienati sono oggetto di predazione e allora perché non aspettarci presto in vendita l'aria dell’Everest o quella, che so, di Majorca per climatizzare i nostri appartamenti? Se è vero che il valore dell’acqua non dovrebbe permetterne l'attribuzione di alcun prezzo, è pure vero che un costo per la gestione dell'acqua c'è e dobbiamo pur pagarlo. L’acqua viene scoperta, canalizzata, addotta, scaricata e depurata: chi paga per tutto questo? E' giusto che lo faccia il contribuente, se in misura equa, magari anche maggiore rispetto alle attuali tariffe italiane: un tempo quello era il lavoro delle donne di casa, che portavano l'acqua potabile dalle fonti, la servivano, la usavano e la scaricavano. Oggi le aziende pubbliche municipalizzate svolgono questo lavoro in maniera che sarebbe ingeneroso non definire decoroso, tranne rari casi. Che sia garantita una quantità minima di acqua per persona al giorno, anche gratuitamente (almeno 50 litri) e che il resto si paghi anche più di quanto non si paga attualmente, così si imparerà anche il valore del risparmio dell'acqua, che spesso viene sprecata proprio perché costa troppo poco, soprattutto in agricoltura (la vera fonte degli sprechi mondiali). Ma che le sorgenti restino pubbliche e l'acqua un bene di tutti garantito dallo Stato, come facevano gli antichi e come sarebbe bene non dimenticare. da lastampa.it Titolo: MARIO TOZZI La ribellione delle acque Inserito da: Admin - Gennaio 03, 2010, 04:05:01 pm 3/1/2010
La ribellione delle acque MARIO TOZZI Una impetuosa ribellione dei fiumi è chiaramente in atto da qualche giorno nel nostro Paese. Sarebbe un ulteriore atto di insensata trascuratezza fare finta di niente di fronte ai segnali che l’ambiente naturale ci invia. Alluvioni e inondazioni sono il naturale decorso delle giornate di pioggia intensa, e da sempre le civiltà fluviali - come quelle padane o tiberine - convivono con l’andamento del fiume e le sue piene. Ma qualcosa è drammaticamente cambiato negli ultimi anni: intanto la pioggia, che oggi cade a cascata innescando le cosiddette «bombe d’acqua», quei flash flood difficili da prevedere che rovesciano in poche ore l'acqua che un tempo cadeva in settimane. Così la pioggia non si infiltra più nel sottosuolo, ma ruscella tutta in superficie e si precipita nei letti fluviali che però non sono commisurati a contenerla. Dunque le alluvioni sono aumentate di frequenza e di intensità, non solo in Italia, ma anche nel resto del mondo, dal Brasile alla Cina. Questa però è solo una parte del problema, il resto lo fanno gli uomini che vivono nelle regioni fluviali e non si decidono a lasciare libere le aree che invece dovrebbero essere lasciate al dominio del fiume. Non è un caso che esista un letto di magra e uno di piena e non è un caso che nessun insediamento stabile veniva posto nel letto di piena dagli antichi, che conoscevano i ritmi del fiume e vi si adattavano, senza pretendere di irregimentarlo. Anche perché i vantaggi in passato erano importanti, soprattutto per l'agricoltura, che vedeva fertilizzati naturalmente i terreni dal limo, ma anche per le civiltà, che potevano permettersi di erigere la grande piramide solo grazie alle piene del Nilo che portavano le barche con i blocchi di marmo fino a Giza. Oggi i fiumi - padri delle nostre civitates (e non solo delle urbes) - sono stati precipitati in fondo ai loro argini di pietra e senza più memoria del rapporto con la città che è nata grazie a essi. A Napoli il Sebeto è diventato un rigagnolo melmoso, mentre un tempo, quando si impaludava, permetteva a Ponticelli di rifornire di ortaggi tutta la città. A Palermo Papireto e Kemonia sono stati intombati sotto le strade, così come l’Aposa a Bologna o i Navigli a Milano. Ma non va meglio a Roma, dove quasi nessuno si accorge più del Tevere, se non quando si rischia l’alluvione a Ponte Milvio; ed è bene ricordare che in sole dodici ore le acque raggiungerebbero il Vaticano da una parte e Piazza di Spagna dall'altro. Perduto il rapporto culturale con il fiume la speculazione ha fatto il resto, anche in un paese in cui quasi il 50% del territorio è a rischio idrogeologico, per cui si invocano le Autorità di Bacino salvo poi disconoscerle quando nelle loro prescrizioni invocano la liberazione delle aree golenali e la libertà dei fiumi. Eh sì, perché di libertà si tratta, nel senso che i fiumi si scelgono da sempre dove sfociare, e quanto più sono lasciati liberi tanto meno danni fanno e più vantaggi portano. Delta e paludi sono il sistema di sicurezza che la Terra ha escogitato per proteggere la vita lungo le linee di costa fin da quando gli uomini nemmeno esistevano. E il Fiume Giallo in Cina sceglie da centinaia di migliaia di anni dove sfociare, cambiando estuario per un raggio di oltre 1000 km. E noi uomini invece lì, a cercare di irregimentarli, a costruire dighe sempre più grandi e argini sempre più alti, coltivando l'illusione di controllare le piene e eliminare le alluvioni, come se non si dovesse invece cercare di conviverci. Nel 1944 Francis Crove, a proposito di una grande diga sul Sacramento, scriveva: «Abbiamo messo il fiume al tappeto, lo abbiamo inchiodato alla carta geografica». E' passato più di mezzo secolo ma gli uomini non sembrano aver imparato che il fiume fa semplicemente il suo mestiere, e più sclerotizzano il suo corso peggio sarà: così, se oggi piovesse come quel novembre del 1966, l'Arno esonderebbe provocando molti più danni di allora. E che tutti i corsi d'acqua d'Italia sono a rischio esondazione nel prossimo futuro. Dal grande padre Po al Tevere, dall'Adige all'Arno, ma anche dall'Ofanto al Reno, alle più piccole fiumare di Calabria e Lucania o ai torrenti di montagna, l'Italia dei mille fiumi è stata talmente maltrattata che non ci si dovrà stupire quando sembrerà che un cinico disegno della natura (per carità, sempre selvaggia e cattiva) ci voglia mettere in difficoltà: in realtà è solo e sempre colpa nostra, quella di avere quasi distrutto una ricchezza che andava meglio conosciuta e valorizzata. da lastampa.it Titolo: MARIO TOZZI. Catastrofe innaturale Inserito da: Admin - Gennaio 15, 2010, 04:01:59 pm 15/1/2010
Catastrofe innaturale MARIO TOZZI È stato il terremoto più violento degli ultimi due secoli nell'isola, ma come ne avvengono almeno una ventina, ogni anno, al mondo. E quasi mai provocano centinaia di migliaia di morti. Per riscontrare numeri così elevati bisogna spingersi indietro nel tempo e in altri luoghi: nella Cina del XVI secolo, dove morirono 830.000 persone nello Shansi, oppure nella pianura di Kanto, in Giappone, dove, nel 1923, le vittime furono oltre 200.000. In tempi più vicini, le città cinesi di Tientsin e Tangshan furono rase al suolo, con 200.000 vittime, nel 1976 e non si può dimenticare il terremoto di Sumatra di soli cinque anni fa, quando morirono 250.000 persone anche a causa del maremoto. Ogni anno la Terra è attraversata da centinaia di migliaia di sismi di magnitudo superiore a 3, ma solo in alcune regioni, e in particolari condizioni, le vittime sono così tante. Perché? Qualcosa la si deve al tipo e alle caratteristiche intrinseche del terremoto: magnitudo 7 Richter non è così elevata rispetto ai terremoti giapponesi e cinesi che arrivano anche a oltre 8, però l'ipocentro è stato superficiale (13 km) e perciò gli effetti peggiori. Ma i principali responsabili del gran numero di vittime sono sempre gli stessi: sovraffollamento e cattiva costruzione. Nonostante il rischio sismico fosse elevatissimo e ben noto, l'estrema povertà di Haiti, la corruzione e l'inesistente amministrazione hanno consentito di costruire senza alcun criterio antisismico anche laddove si fosse utilizzato cemento armato (come per il palazzo presidenziale). «Effetto pancake» lo chiamano, quello per cui palazzi alti decine di metri rimangono schiacciati come frittelle senza che le strutture abbiano offerto alcuna resistenza. Ma la maggior parte della popolazione ha costruito in legno o muratura povera, senza alcuna regola e, soprattutto, in modo troppo affastellato, lasciando strade così strette da restare completamente bloccate intralciando i soccorsi. Ma come si è operato a Port-au-Prince è la regola delle aree metropolitane del Sud del mondo (dove si concentra ormai la maggior parte della popolazione), come Mexico City o Calcutta: quelle ubicazioni furono scelte in tempi remoti scartando le zone ritenute pericolose sulla base di antiche sapienze, per esempio evitando i terreni paludosi, dove gli effetti del terremoto si amplificano. Oggi decine di milioni di persone vivono attorno agli antichi nuclei colonizzando con costruzioni fatiscenti i terreni una volta scartati. Così può accadere che rimangano in piedi vecchie case accanto a palazzi moderni distrutti, o che alcuni edifici vengano rivoltati sul posto senza però fracassarsi, come scatole di cemento armato basculate sul posto. Ma le megalopoli continuano ad attrarre senza sosta milioni di disperati nullatenenti dalle campagne di tutto il mondo, gente che non ha posto migliore per insediarsi che non i terreni meno idonei. Dove sorgono capanne, favelas e bidonville lì si concentreranno i danni e i morti dei terremoti del futuro, che diventeranno inevitabilmente i terremoti dei poveri. Non è cosa nuova: negli ultimi mille anni i terremoti hanno ucciso otto milioni di persone e tutto lascia intendere che le cose potrebbero andare peggio nel prossimo futuro. Lo stesso sisma provocherà una strage epocale nel mondo povero, centinaia di morti dalle nostre parti (come dimostra quello aquilano, pur trentacinque volte meno distruttivo di quello haitiano) e solo qualche cornicione abbattuto in California. La storia è sempre quella: le catastrofi naturali non esistono, esiste solo la nostra nota incapacità di tenere conto del rischio naturale ovvero la possibilità di conoscerlo molto bene e fare comunque finta di nulla per avidità o per incapacità. O per l'assoluta mancanza di risorse e di memoria. da lastampa.it Titolo: MARIO TOZZI. Polemiche sterili stiamo soffocando il nostro pianeta Inserito da: Admin - Febbraio 16, 2010, 10:38:29 am 16/2/2010 - CLIMA. ONU SOTTO ACCUSA
Polemiche sterili stiamo soffocando il nostro pianeta MARIO TOZZI Essendo questione largamente svincolata dalla fede religiosa, non ci dovrebbero essere problemi a ricondurre la polemica sulla presunta alterazione dei dati climatici internazionali nell’alveo della questione scientifica, dunque laica per definizione. Non è tanto ai rapporti dell'Ipcc che ci si deve attenere per comprendere gli scenari futuri, che sono sempre ipotetici, ma ai dati già raccolti. Questi ci dicono che - finora - il clima diventa sempre più caldo e che gli ultimi anni sono stati più torridi di tutti i precedenti. Ci informano che negli ultimi 20 milioni di anni mai si erano superate concentrazioni di anidride carbonica di 300 ppm (oggi siamo a 385) e che questo gas è in grado di riscaldare l'atmosfera. Ci ribadiscono che non si deve confondere il tempo con il clima, e quello che succede in Italia con quanto accade nel resto del mondo. Infine ci dicono che la copertura glaciale, per esempio, delle Alpi si è quasi dimezzata. Le riviste scientifiche, che non rispondono alle logiche politiche di istituti come l'Ipcc (logiche che tendono, semmai, a mitigare le preoccupazioni), confermano i dati. Restano pertanto i motivi di preoccupazione, fermo restando che ci sarebbe un'esplosione di felicità da parte dei climatologi se le cose andassero diversamente. Ma qui si corre un rischio più grave: anche i dubbi non fondati inducono l'opinione pubblica a non farsi più carico dei propri comportamenti o delle decisioni di chi li governa, anche quando sono insostenibili da un punto di vista ambientale. Se riducessimo le emissioni di CO2, ridurremmo anche quelle di ossidi di azoto, benzene, polveri sottili e monossido di carbonio, sostanze la cui miscela provoca 100 mila morti all'anno in Europa. Le megalopoli sono camere a gas annegate nei rifiuti e provate dalla mancanza di acqua o funestate da catastrofi naturali. La biodiversità, intanto, è pesantemente attaccata. E’ l'«ecological crunch», una tenaglia che non distrugge il pianeta in sé, ma impoverisce o affligge gli uomini. Le polemiche infondate spostano l'attenzione e ci fanno rituffare nell'indifferenza. Fino alla prossima crisi. da lastampa.it Titolo: MARIO TOZZI. La voce del pianeta Inserito da: Admin - Febbraio 28, 2010, 08:24:15 pm 28/2/2010
La voce del pianeta MARIO TOZZI Le civiltà esistono solo grazie a un temporaneo consenso geologico, suscettibile di essere ritirato senza preavviso. Sarebbe bene non dimenticare mai questa massima, che deriva dall’esperienza millenaria degli uomini che popolano le regioni sismiche del pianeta Terra, almeno se si vuole continuare a vivere lì. Un terremoto di magnitudo 8,8 Richter è già un evento di rara potenza, ma per dare un’idea di cosa significhi una sequenza sismica come quella sopportata dai cileni la notte scorsa, basterà dire che la scossa di replica principale è stata più potente della scossa principale dell’Aquila, e la seconda forte come il terremoto dell’Umbria-Marche del 1997. Repliche che dureranno settimane. Mentre ancora non sappiamo quante saranno, e quanto alte, le onde del maremoto per cui tutto il Pacifico è in allarme e per sfuggire a cui le popolazioni di Hawaii e dell’Isola di Pasqua si ritirano in collina. Nel Cile si vive pericolosamente da secoli, Concepcion fu già distrutta nel XVIII secolo e nel suo viaggio attorno al mondo con il Beagle, Charles Darwin annotava di terremoti a Valparaiso e si domandava se quel paesaggio non recasse per caso traccia di antiche scosse. Aveva ragione: la catena delle Ande, le pianure costiere, i bacini lacustri e i grandi salares appena dietro le montagne sono tutti eredi degli antichi sismi che hanno disegnato quelle terre da prima della comparsa degli uomini. Ma questo terremoto non è una sorpresa, perché il margine andino centrale è la regione dove avvengono i più violenti terremoti del mondo: nel 1960 il più forte sisma che gli strumenti dell’uomo abbiano mai registrato colpì il Cile centrale con magnitudo 9,5 Richter, qualcosa che nemmeno lo scoppio contemporaneo di tutto l’arsenale nucleare del pianeta potrebbe simulare con una qualche approssimazione. La placca geologica che contiene l’America latina si scontra con quella dell’Oceano Pacifico, e mentre quest’ultima si infila sotto la prima, la Terra si comprime fino a rompersi e a generare terremoti, oltre che a scatenare eruzioni vulcaniche esplosive. Questa è peraltro la situazione generale di tutto il Pacifico, dal Giappone alle Tonga, dal Perù all’Alaska: la cosiddetta cintura di fuoco, dove comunque gli uomini si ostinano a vivere da generazioni e dove si scatena la gran parte dei sismi della Terra. Non c’è nessuna relazione fra questo terremoto e quello di Haiti e l’unica considerazione da fare è che, se gli haitiani avessero costruito bene come i cileni, non avremmo contato centinaia di migliaia di morti. E non c’è nessuna recrudescenza del fenomeno sismico in questo periodo di tempo: i terremoti avvengono indifferentemente di notte come di giorno, d’estate come d’inverno e senza alcuna relazione con fenomeni meteorologici o anticipo di fine del mondo. È solo la normale attività di un pianeta dinamico, che per questo si distingue da tutti gli altri del sistema solare, tanto da far credere che, se non ci fosse stata attività sismica e vulcanica, non ci sarebbe stata nemmeno la vita: siamo tutti figli di una Terra inquieta. Quando si ha a che fare con i terremoti si può solo vivere pericolosamente, basta non avere la memoria corta e portare grande rispetto alla madre Terra. da lastampa.it Titolo: MARIO TOZZI. L'Aquila, il sisma delle parole Inserito da: Admin - Aprile 06, 2010, 11:03:50 am 6/4/2010
L'Aquila, il sisma delle parole MARIO TOZZI Dal punto di vista sismico - mutatis mutandis - l'Aquila è stata la nostra Haiti: un terremoto nemmeno tanto potente che uccide più di 300 persone e fa danni ancora incalcolabili perché qui sono state sistematicamente ignorate le leggi antisismiche ben note. Qualche paese vicino ha peraltro egregiamente resistito pur essendo costruito in muratura, segno che già nel medio evo si costruiva tenendo conto della qualità e dei terremoti e non solo del profitto. Ma per ricostruire l'intero patrimonio abitativo della città, compreso quello storico monumentale, ci vogliono 15-20 anni, come dimostra quanto avvenuto per il sisma dell'Umbria-Marche del 1997. I tempi tecnici per ricostruire un palazzo sono questi: 5-10 anni quando va bene, e se si vogliono rispettare le leggi e i metodi antisismici. Certo, con limitati investimenti, si sarebbero potute ristrutturare le case meno lesionate e riportare una parte delle 7000 persone alloggiate negli alberghi sulla costa adriatica nelle loro abitazioni. Ma a L’Aquila si è scelta la via dimostrativa, quella dell'Italia del fare. E si è usata proprio la parola ricostruzione quando di ricostruito non c'era un bel niente e non ci sarà un bel niente per molto tempo ancora (basti pensare che ci vorranno forse altri 12 mesi solo per mettere in sicurezza la città, ossia per renderla agibile). Si è preferito spendere fino a 2700 euro al mq per costruire migliaia di nuovissimi appartamenti - perfettamente antisismici, ultramoderni e dotati di ogni comfort -, che però non possono rappresentare che la «fase del container», quella che si mette inevitabilmente in opera dopo le tende e prima di tornare nelle proprie abitazioni. Perché è ormai chiaro a tutti che non c'è un sola famiglia di L'Aquila che consideri quelle come case definitive, visto che non lo erano nemmeno nei decreti della Protezione Civile, in cui si parla chiaramente di «moduli abitativi provvisori», bellissimi, ma inesorabilmente provvisori. Ci saranno ora i denari per ricostruire il tessuto urbanistico storico e monumentale insieme alle case (come si fece ad Assisi, dove le chiese si tiravano su insieme alle case perché motore della ripresa)? E che ne sarà di quelle migliaia di appartamenti quando gli abitanti torneranno nei propri? Quante potranno essere destinate a servizi e alloggi o foresterie quando la crescita demografica è appena sopra lo zero e i quartieri-satellite sono sorti in luoghi che più brutti non si può? Intanto il popolo delle carriole si mobilita per sgomberare le macerie dal centro storico: giusta esigenza, ma difficile da eseguire tecnicamente, perché lo smaltimento deve essere controllato. Ma possibile che nessuno abbia pensato di riciclare quel materiale, una volta conservato quello che serve a ricostruire i palazzi storici e i monumenti? Possibile che debba essere solo «buttato»? Nessun miracolo è avvenuto a L'Aquila, solo la normale amministrazione dopo un evento naturale a carattere catastrofico in cui la Protezione Civile ha funzionato bene, ma meno bene si sono mossi quei politici che hanno promesso ciò che non solo non si poteva, ma che neppure doveva essere promesso: il miracolo di una ricostruzione immediata che è stata contrabbandata come tale dalla gran parte dei media nazionali. Il terremoto non poteva essere previsto, come qualche ignaro funzionario continua a denunciare, ma i tempi e le fasi della ricostruzione sì: lenti e accurati. Questo avrebbero meritato i cittadini invece di facili illusioni. da lastampa.it Titolo: MARIO TOZZI. Schiavi delle borse di plastica Inserito da: Admin - Aprile 12, 2010, 09:50:34 pm 12/4/2010
Schiavi delle borse di plastica MARIO TOZZI Ogni anno sul pianeta Terra vengono utilizzati (o, meglio, consumati) centinaia di miliardi - avete letto bene! - di sacchetti di plastica monouso, che, se va bene, vengono gettati o abbandonati dopo mezz’ora dal loro acquisto. Solo in Europa sono 100 miliardi all’anno, con l’Italia ben in testa a ogni graduatoria con circa 20 miliardi. Eppure gli italiani sono gli ultimi a recepire la normativa europea che voleva i sacchetti monouso fuori legge entro l’inizio di quest’anno: per distinguerci abbiamo già rimandato la nostra decisione al 2011, senza ancora impegnarci per una data precisa. Le alternative ci sarebbero, addirittura autarchiche, visto che una delle maggiori industrie che fabbricano plastica riciclabile in amido di mais risiede a Novara. Ma le altre industrie italiane, invece di attrezzarsi all’indispensabile riconversione ecologica, preferiscono fare pressioni sugli uomini di governo per rimandare decisioni francamente irrimandabili, favorendo comportamenti vergognosi dettati da una logica di profitto di basso profilo che ci fa fare una figura oscena di fronte al resto dei Paesi industriali. Gli uomini sono gli unici animali in grado di fabbricare materiali che il pianeta Terra non riesce a riciclare naturalmente nei suoi millenari moti bio-geologici. Nessun animale è mai stato in grado di fare qualcosa di simile in oltre tre miliardi di anni di evoluzione, ma non sembra sia stato un buon risultato per gli uomini, sommersi come sono da montagne di immondizia (soprattutto di plastica), né per gli altri animali, soffocati o avvelenati come le decine capodogli italiani o le migliaia di tartarughe che ingeriscono sacchetti di plastica alla deriva scambiandoli per meduse o gli uccelli marini strozzati da filamenti infiniti di plastica. Per fabbricare un sacchetto di plastica, inoltre, si consuma energia e si inquina di conseguenza, eppure non ci si riesce a liberare di questo vero e proprio cancro che contribuisce in massima parte alla costruzione di quelle mostruose isole galleggianti di rifiuti che ormai cominciano a infestare i mari del mondo. E non si vede nessuno spiraglio neppure nei comportamenti individuali: schiavi come siamo dello shopper monouso non sappiamo più nemmeno riprendere quell’abitudine sana delle nostre nonne di andare al mercato con la sporta a maglie elastiche che si adatta alla merce comprata e si utilizza all’infinito. Per dare una scossa, dal 17 al 24 aprile, Associazione dei Comuni Virtuosi, Wwf, Italia Nostra, Fai e Adiconsum tentano di diffondere l’utilizzo della borsa riutilizzabile invece dei sacchetti in plastica e monouso puntando, prima ancora che sul riciclaggio dei rifiuti, sulla loro riduzione all’origine, imballaggi e shoppers compresi. In molti centri commerciali è già possibile liberarsi in loco degli imballi eccessivi e i gruppi della grande e media distribuzione organizzata hanno fatto la loro parte ben al di là della tiepida posizione di chi ci governa. Per i cittadini, «portare la sporta» può diventare qualcosa di più di una semplice abitudine: può essere il primo atto di consapevolezza ecologica che apre un percorso di rinnovato rispetto verso l’ambiente. Il sacchetto, anche biodegradabile, ha rappresentato l’icona di uno stile «usa e getta», così come la sporta può diventare il segno distintivo di quanti non hanno solamente adottato un oggetto, ma uno stile di vita che antepone la consapevolezza all’agire automaticamente e superficialmente per soddisfare comodità momentanee, ignari del pegno che il pianeta e le future generazioni dovranno pagare. da lastampa.it Titolo: MARIO TOZZI. Napoleone fu ingannato a Waterloo Inserito da: Admin - Aprile 17, 2010, 04:37:21 pm 17/4/2010
Napoleone fu ingannato a Waterloo MARIO TOZZI La crisi dei voli su gran parte dell’emisfero boreale è solo apparentemente surreale: è invece la realtà di un pianeta che non la smette di manifestarci la sua inesauribile vivacità. Succede anche da noi, come ben sanno i catanesi o i reggini che rimangono a terra ogni volta che l’Etna si fa sentire. Ed è accaduto decine di volte agli islandesi, che addirittura sono rimasti vittime a migliaia nel 1783, quando si scatenò la grande eruzione di Lakagigar. Oltre venti bocche eruttive e un fiume di lava veloce che correva a quasi 15 km al giorno fino a coprire oltre 550 chilometri quadri di territorio nella parte meridionale dell’isola. Quando l’eruzione terminò, una specie di nebbia bluastra ricca di vapori di zolfo oscurava il Sole, uccideva il bestiame e rendeva velenosa l’aria. Durante l’inverno circa 10 mila islandesi (sui 50 mila che contava l’isola allora) morirono di fame a causa della grave carestia che ne conseguì. Non c’è da meravigliarsi se un’eruzione vulcanica ha effetti così vistosi e non c’è neppure bisogno di tornare tanto indietro nel tempo. Nel 1991 il Pinatubo esplode nelle Filippine: è l’eruzione vulcanica più potente del XX secolo, anche se per fortuna i morti sono stati solo mille (200 mila gli evacuati). Ma vasti appezzamenti di terra sono ricoperti dalla cenere, mentre oltre 40 mila edifici vengono devastati dalle nubi ardenti. La parte superiore del vulcano viene spazzata via dalla potenza dell’eruzione che eietta nell’atmosfera 10 chilometri cubi di ceneri, scorie e lapilli in colonne alte fino a 40 chilometri. Sulle Filippine il cielo rimase scuro per settimane nel cuore dell’estate e le ceneri raffreddarono l’atmosfera, mentre in tutto il Sud-Ovest Pacifico le temperature dell’aria si abbassarono di colpo. Della spettacolare eruzione del Pinatubo alle nostre latitudini non si è tanto avvertito l’abbassamento delle temperature - pure verificatosi -, quanto lo straordinario colore rosso fuoco che avevano acquisito i tramonti per via delle particelle sospese nell’aria. I vulcani, da sempre, cambiano il clima e la storia. Ma provate a spiegarlo a Napoleone, sconfitto a Waterloo nel 1815 forse più a causa dall’eruzione del vulcano Tambora, in Indonesia, che non dal talento dei suoi avversari. Quell’anno l’inverno fu più pesante del solito: enormi quantità di fumi e polveri emessi dal vulcano appena esploso avevano oscurato la luce del Sole e reso più freddo il clima. Anche nel mese di giugno le temperature non salivano (neanche nei pressi di Bruxelles) e immensi nuvoloni - innescati dalla grande quantità di pulviscolo in circolo - si aggiravano per l’atmosfera raggiungendo località lontanissime dal centro di emissione. Napoleone aveva un punto di forza nella cavalleria leggera che - proprio in quel frangente - si trovò a essere, invece, irrimediabilmente appesantita dal terreno troppo fangoso dopo giorni e giorni di pioggia. Il generale Michel Ney - che faceva della velocità di esecuzione un vanto - arrivò in clamoroso ritardo all’attacco delle truppe di Wellington. Insomma un vulcano aiutò gli inglesi e i prussiani e chissà come sarebbero andate le cose su un pianeta tettonicamente «morto». E il 1816 è rimasto famoso come «l’anno senza estate». Così le ceneri islandesi ci rimettono al nostro posto di fronte allo spettacolo della Terra, e pure se ritarderanno qualche aereo, approfittiamone per riflettere e meditare. da lastampa.it Titolo: MARIO TOZZI. Senza preavviso Inserito da: Admin - Maggio 10, 2010, 11:25:59 am 10/5/2010
Senza preavviso MARIO TOZZI Vulcano Toba, Sumatra, 74.000 anni fa: la montagna si disintegra con un boato che si risente per tutto l’emisfero australe. La colonna di fumo si alza fino a 80 chilometri: 2.800 chilometri cubi di ceneri, scorie e lapilli che ricadono su 4 milioni di chilometri quadrati. Un’area grande come la metà degli Usa. Tutto il pianeta resta avvolto nel buio e nel freddo di un classico inverno vulcanico: 5 - 6 °C in meno nelle temperature medie (fino a 15°C in meno ai Tropici). Quella di Toba è stata la sola megaeruzione cui Homo sapiens abbia potuto assistere. Per un soffio non è stata anche l’ultima. L’oscurità falcidia le piante, lasciando senza cibo gli erbivori e privando delle prede i carnivori: grandi predatori e uomini semplicemente muoiono di fame, fino alle soglie dell’estinzione. La nostra specie si riduce a solo qualche migliaio di individui su tutta la Terra, costretti in enclave geografiche dal microclima miracolosamente più caldo. Per almeno dieci secoli si entra in un’era di grande freddo, ma quegli uomini non erano preparati a brancolare nel buio, né più né meno di quanto noi non siamo pronti a vedere cambiati i nostri piani per colpa di un lontano vulcano islandese. Toba è stato il nostro «collo di bottiglia» più recente, ma certo non sarà l’ultimo: quanti vulcani sono pronti a incidere sulle nostre vite? L’eruzione del St. Helens (Stati Uniti), nel 1980, liberò 1 chilometro cubico di materiale e il supervulcano nascosto sotto Yellowstone è stato in grado di eiettare più di 1.000 km cubi, 600.000 anni fa. La tremenda eruzione del Krakatoa nel 1883 ha abbassato la temperatura della Terra di circa 0,5°C, con effetti paragonabili a quelli dovuti al Tambora, esploso nel 1815 e responsabile di avere cancellato almeno l’estate dell’anno successivo. Nel 1991 il Pinatubo ha cambiato la vita dei filippini. I vulcani fanno il loro mestiere, eruttano: è la società degli uomini che non vuole rendersi conto che esiste solo grazie a un temporaneo consenso geologico, soggetto a essere ritirato senza preavviso. http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7327&ID_sezione=&sezione= Titolo: MARIO TOZZI. Quando resta un solo albero Inserito da: Admin - Giugno 05, 2010, 05:15:49 pm 5/6/2010
Quando resta un solo albero MARIO TOZZI Suscitiamo una certa pena, noi uomini, intenti come siamo ad armeggiare attorno a un buco da cui fuoriesce una marea di petrolio, senza riuscire ad attapparlo, pur spendendo quanto un anno di reddito di un’intera nazione africana. Pena e un po’ tenerezza, costretti nelle nostre amate scatolette metalliche per ore, ogni giorno, illudendoci di comunicare quando siamo più isolati che mai. E un po’ tristezza, distesi su spiagge sporche sulla riva di mari in cui riversiamo senza sosta tonnellate di liquami nell’intento di goderci una vacanza. E rabbia, mentre buttiamo via l’acqua di sorgente che poi ricompriamo imbottigliata a prezzi assurdi. O fabbricando sostanze come la plastica che contrastano il principio per cui in natura nulla si crea e nulla si distrugge. In un viaggio nell’Europa dell’inizio del XX secolo il mitico Tuiavii di Tiavea, sovrano delle isole di Samoa, metteva già alla berlina molti aspetti del progresso occidentale riducendoli a usanze strane e ridicole, come quella di suddividere il tempo, o malefiche, come quella di venerare il denaro come unico dio. Il capo indigeno concludeva la sua invettiva contro il papalagi (l’uomo occidentale) imponendo ai suoi sudditi di non recarsi mai in Europa, ché tanto non c’era nulla da imparare. Tuiavii aveva capito che c’è una differenza fra gli uomini e gli altri viventi. Una sola, ma fondamentale, che spiega la nostra apparente supremazia e, insieme, il nostro precipitarsi verso la crisi ecologica più grave che l’umanità abbia mai attraversato. Questa differenza non sta nella nostra scatola cranica più capace (se è per questo i neandertaliani avevano un cervello anche più grosso, ma si sono ugualmente estinti), in una presunta superiore intelligenza e nell’uso delle mani (basti studiare gli elefanti e la loro proboscide) o nella capacità di comunicare (solo Bach regge il confronto di armoniche con le balene). Questa differenza è quella che non permette di notare più quei paradossi della vita quotidiana che pure i nostri antenati mostravano di conoscere. Ma non è difficile coglierla, è la stessa che non aveva invece compreso l’ultimo indigeno dell’isola di Pasqua mentre tagliava l’ultimo albero: non poteva ignorare che così facendo avrebbe condannato la sua gente alla fine. Eppure lo ha fatto. Perché? A causa dell’accumulo e del profitto, sconosciuti al resto degli animali e dei vegetali, ma ben noti proprio agli uomini, che più posseggono e più vorrebbero. Questa è di fatto l’unica differenza che conta. Possiamo evitare che questa giornata della Terra diventi l’ennesima occasione perduta solo se diventerà un momento di conoscenza per gli uomini. Comprensione della storia naturale e dell’ambiente di cui facciamo parte, migliore conoscenza di noi stessi sulla Terra, verrebbe da dire, con gli antichi. Quella differenza è così fondamentale da farci ignorare che le risorse finiscono più in fretta di quanto speriamo, e che noi siamo sempre di più e abbiamo sempre maggiori esigenze su un pianeta che non può che rimanere lo stesso. Una riconversione ecologica delle attività produttive dell’intera umanità è quanto si dovrebbe e potrebbe ancora fare, ma perché gli uomini si dovrebbero impegnare in questa direzione? A cosa servirebbe? Facile, riduzione degli impatti umani, risparmio di acqua, riciclaggio dei rifiuti, energie rinnovabili, minor consumo di territorio servono semplicemente a sopravvivere senza tagliare il ramo su cui siamo seduti. Sarebbe già qualcosa. http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7441&ID_sezione=&sezione= Titolo: MARIO TOZZI. Stato e Comuni, il baratto dei pezzi d'Italia Inserito da: Admin - Luglio 01, 2010, 05:13:30 pm 28/6/2010
Stato e Comuni, il baratto dei pezzi d'Italia MARIO TOZZI Quanto vale una spiaggia dell'arcipelago toscano o una torre calcarea delle Dolomiti? O, come sembra paventarsi in questi giorni, l'isoletta di Folegandros in Grecia? O, comunque, quanto vale una bellezza naturale nel mondo del terzo millennio, dilaniato da una crisi economica che rischia di confondere i valori con i prezzi? In Italia la risposta a questa domanda è obbligata: nessun valore economico o finanziario può essere assegnato ai beni culturali a carattere naturalistico, semplicemente perché il solo pensare di metterli in vendita (o porli a garanzia di prestiti bancari) è pura follia. Sarebbe come alienare i gioielli di famiglia nella speranza di una congiuntura migliore che, però, sempre provvisoria sarà. E non si capisce cosa si potrà mettere in vendita la volta successiva. Non sappiamo ancora se il passaggio dei beni demaniali alle amministrazioni locali diventerà realtà, permettendo di fare merce di natura e paesaggio. Quello che è certo è che la tutela sarà allentata, per almeno due ragioni. La prima è che i sindaci hanno, come si è visto recentemente, il cappio stretto al collo, e non riescono a fare cassa neppure per garantire servizi essenziali come sanità e trasporti. Figuriamoci l'ambiente. La seconda è che un'autorità statale è sempre più efficace quando deve agire in termini di tutela, mentre nessun amministratore è in grado di resistere al corteggiamento del parente o dell'amico degli amici, visto che ne risponderà, poi, in prima persona - e sul posto - dopo cinque anni. Se c'è un settore che paga la crisi economica, in Grecia come in Italia o dovunque ci sia patrimonio naturale di pregio, quello è l'ambiente. E più la crisi colpisce duro, peggio sarà per i tesori naturali: se fosse vera la notizia di Mykonos parzialmente in vendita sarebbe gravissimo, ma già è grave che solo se ne parli. Quei pezzi d'Italia sono il nostro bene più prezioso, perché non è tanto la somma di monumenti e bellezze naturali, ma il contesto, a rendere unico in tutto il mondo un Paese che dovrebbe porre a fulcro della propria identità nazionale e della propria memoria collettiva il patrimonio culturale e naturalistico. Questo il motivo per cui a Venezia non sono stati innalzati grattacieli, la Torre a Pisa non crolla e Siena è ancora medievale; questa anche la ragione per cui a L'Aquila terremotata si ricostruiscono le chiese insieme alle case e non dopo. Invece, in una sciagurata storia che inizia da quando si cominciò a parlare di monumenti e territorio come «petrolio d'Italia» (!), il valore venale del patrimonio culturale e naturalistico diventa qualcosa da investire per fare altro (le opere pubbliche), una risorsa da spremere, dando la tragicomica impressione di essere arrivati al fondo del barile mentre si hanno aspirazioni da quinta potenza industriale del mondo. Nessuno dice che si porrà in vendita l'isola della Maddalena, ma è grave che intanto possa diventare teoricamente possibile, come una specie di miccia sempre accesa in prossimità di un bomba che distruggerebbe non solo beni, ma anche cultura e identità nazionale. Se si gestiscono i beni ambientali e culturali in pure ottiche di mercato, il cittadino viene alienato di un patrimonio che è prima di tutto collettivo e viene trasformato in un mero consumatore. Anche se sono in pochi, oggi, a pensare che il paesaggio non sia un bene culturale e che un parco non vada tutelato né più né meno di come si fa con la Cappella Sistina o con Venezia, siamo arrivati al punto di ipotizzare la privatizzazione anche dei parchi nazionali. Ma a cosa servono un parco naturale o un'area protetta? Semplicemente, migliorano la qualità delle nostre esistenze e, spesso, portano il valore aggiunto di uno sviluppo economico basato su pratiche eco-sostenibili. Un parco conserva la biodiversità del pianeta Terra, una specie di polizza sulla vita della nostra specie, che riuscirà a sopravvivere solo fintanto che saranno garantite varietà biologica e evoluzione naturale. Tutti i giorni godiamo dei servizi che la natura gratuitamente offre senza nemmeno darvi troppo peso, dall'acqua all'aria, al cibo o alla protezione da eventi catastrofici. Ma quando si tratta di garantire un futuro alla natura nessuno ricorda quei servizi e sembra che se ne possa fare a meno, tanto è che si discute se dare o meno alla gestione dei parchi italiani l'equivalente di una tazzina di caffè all'anno per ciascun cittadino. Si tratta di ballon d'essai estivi per «vedere che aria tira»? Può darsi, ma intanto, in tema di natura e paesaggio, è bene agire preventivamente: aver sottovalutato il problema ha solo sconciato il territorio nazionale ai limiti dell'irreparabile. http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7527&ID_sezione=&sezione= Titolo: MARIO TOZZI. Senza decisioni il paradiso sarà perduto Inserito da: Admin - Agosto 12, 2010, 04:51:51 pm 12/8/2010
Senza decisioni il paradiso sarà perduto MARIO TOZZI* Qual è il futuro dell’isola più famosa del mondo? I nuovi tagli del governo italiano, appena varati, non concedono molte alternative: o l’isola deve essere chiusa per l’impossibilità di esercitare un controllo degno di questo nome - e tanto vale allora blindarla sul serio - oppure tornerà in gioco la speculazione e la volontà di farne albergo di extra lusso per vip e ricchi che non vedono l’ora di violarne la acque trasparenti e i bastioni di granito. Montecristo è una di quelle isole italiane degne di rilievo mondiale, non solo per il diploma europeo che le è stato conferito per i meriti nella conservazione e tutela dell’ambiente naturale, ma anche perché è l’archetipo dell’isola, l’isola per antonomasia. Reminiscenze letterarie e la difficoltà di accesso l’hanno resa proibita, e nulla affascina di più al mondo di questa parola. Perfino i quotidiani coreani battono tempestivamente le notizie che riguardano Montecristo, quasi sempre per ribadire che è stata riaperta al pubblico. In realtà l’isola è stata chiusa per decenni e ha funzionato da riserva di caccia per la famiglia reale fino a che non è scampata a progetti di orribili speculazioni edilizie fugati definitivamente da quando è stata ricompresa nel Parco nazionale dell’arcipelago toscano. Ma oggi la situazione rischia di cambiare. I fondi ordinari dei parchi nazionali sono stati ridotti del 50%, cosa che significa, grosso modo, chiudere la metà dei parchi o licenziare la metà dei dipendenti. La situazione è tanto grave che i presidenti dei 23 parchi nazionali minacciano le dimissioni in massa per non rendersi corresponsabili dello scempio che necessariamente seguirà una mutilazione delle risorse talmente pesante da non garantire più alcuna tutela. La stoltezza di questa manovra non è solo nell’aspetto ambientale: si può pensare che i nostri uomini di governo non abbiano coscienza di cosa significhi proteggere l’ambiente, o che non gliene importi granché, oppure che qualcuno pensi a speculazioni di varia natura. Sta soprattutto nell’aspetto economico: i parchi nazionali attirano ogni anno 95 milioni di presenze (di cui 30 milioni si fermano più di un giorno), con un giro d’affari di 10 miliardi di euro e con un incremento del 15% nell’afflusso turistico rispetto all’anno precedente. I parchi sono cioè un affare d’oro, anzi l’unico che funziona veramente in questi tempi di crisi. Non si riesce a credere che economisti avveduti possano trascurare questo aspetto che ha permesso, fra l’altro, a realtà marginali di acquisire un peso economico notevole grazie alla protezione della natura, come è il caso di paesini come Villetta Barrea e Civitella Alfedena, sconosciuti ai più e oggi fra i maggiori risparmiatori dell’Italia intera. Invece di incrementare quei fondi a 100 milioni di euro l’anno (poco più di due caffè per cittadino italiano ogni dodici mesi), i nostri governanti abbattono a 25 milioni quella dotazione, con un’operazione che non si sa se più suicida o ignorante. In queste nuove condizioni le perle della natura italiana hanno di fronte un bivio: o vengono di nuovo chiuse alle visite e blindate, per non correre rischi di compromissione, o vengono vendute al migliore offerente per fare cassa. * Presidente del Parco nazionale dell’arcipelago toscano http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7702&ID_sezione=&sezione= Titolo: MARIO TOZZI. Il fragile patto con la geologia Inserito da: Admin - Ottobre 27, 2010, 09:39:12 am 27/10/2010
Il fragile patto con la geologia MARIO TOZZI Indonesia, settore settentrionale di Sumatra: il vulcano Toba diede vita alla più terribile eruzione che gli uomini possano ricordare. Poco ci mancò che non fosse l'ultima, visto che, dopo l'immensa ricaduta di ceneri (2800 km3, a confronto il Monte Saint Helens, nel 1980, ne emise uno solo) su tutto il continente asiatico, ci furono cinque anni di freddo polare e dieci secoli senza estate. Gli uomini si ridussero forse a un paio di migliaia su tutta la Terra, resistendo in enclave localmente più calde, scossi da continui terremoti e tsunami e terrorizzati dal futuro. Questo è stato il nostro ultimo «collo di bottiglia», circa 74.000 anni fa. Ma non sarà certo l'ultimo. Terremoti di magnitudo superiore a 7,5 Richter, eruzioni vulcaniche esplosive che generano gigantesche nubi ardenti e tsunami che spostano grandi volumi di oceano: cosa sta accadendo in Indonesia? Non ci sono cause contingenti particolari per spiegare questi fenomeni: la quotidiana attività della Terra prevede scenari di questo tipo, anzi, questa sarebbe la normalità di un pianeta per fortuna ancora giovane e attivo. Se la Terra non avesse vulcani e terremoti assomiglierebbe alla Luna, un pianeta sostanzialmente morto. Semplicemente quello che accade in Indonesia è piuttosto la regola per il nostro mondo, anche dal punto vista degli uomini, che si ostinano a vivere nelle regioni più attive (Mediterraneo, regioni costiere in genere) e tralasciano le regioni interne più tranquille. Perché l'attività della Terra è data dall'incastro di un gigantesco mosaico di blocchi crostali (le placche) che producono fenomeni solo dove si separano o dove scorrono le une accanto alle altre oppure dove una finisce sotto l'altra (come è il caso indonesiano). La sequenza degli eventi naturali del Sud-Est asiatico (che diventano poi catastrofi per colpa nostra) è impressionante: 1797, 1833, 1843, 1861 e 1883, queste le date degli tsunami scatenati da sismi o da eruzioni vulcaniche, l'ultima delle quali, quella della Krakatoa, si risentì con ondate anomale fino a Calais sulla Manica. Per non parlare poi dello tsunami del 2004, che ha aperto gli occhi del mondo sulla realtà di una delle regioni più attive della Terra. Addirittura lo stesso termine geologico lahar (cioè colata di fango), la maggior causa di morte al mondo legata ai vulcani, è stato coniato da queste parti. Il Merapi in eruzione dispensa sempre colate di fango, tanto che, in genere, gli abitanti si guardavano bene dal dormire in vista delle pendici del vulcano. Terremoti e eruzioni sono la regola, ma ce ne accorgiamo solo ora perché oggi la comunicazione è globale e i fenomeni vengono visti nel loro aspetto drammaticamente spettacolare, non perché in passato non avvenissero. Solo che la memoria degli uomini è troppo corta rispetto a quella della Terra, che scandisce i suoi tempi usando i milioni di anni, mentre noi siamo già a disagio con i secoli. L'umanità è passata attraverso colli di bottiglia micidiali, ma tutti dovuti alla natura del pianeta stesso, alla sua normale attività. Non dovremmo dimenticare che l'Indonesia è un paradigma del mondo attuale, in cui le civiltà (tutte le civiltà, passate e future) esistono solo grazie a un consenso geologico temporaneo. Soggetto a essere ritirato senza preavviso. http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8007&ID_sezione=&sezione= Titolo: MARIO TOZZI. Il vertice dimenticato di Cancun Inserito da: Admin - Novembre 30, 2010, 05:31:08 pm 30/11/2010
Il vertice dimenticato di Cancun MARIO TOZZI C’era una volta una bella riunione di uomini di buona volontà che decisero di darsi da fare per ridurre il proprio impatto ambientale sul pianeta. Partirono dal clima, che si stava surriscaldando, e stilarono un protocollo, a Kyoto, che non sarà stato un granché, ma almeno pretendeva impegni precisi e imponeva una legislazione dove prima c’era deregulation assoluta. Quegli uomini si sono riuniti tante volte dal 1992 (anno del primo summit per la Terra a Rio de Janeiro) al 2010 (Copenaghen), ma non sono riusciti ancora a mantenere nemmeno una delle loro promesse. Quegli stessi uomini si riuniscono ora a Cancun, in Messico, nel disinteresse generale. Ma c’è da meravigliarsi se l’attenzione dei cittadini e dei media sia spostata altrove? Quando si grida all’allarme per tanto tempo e poi non si prende nemmeno una decisione coraggiosa e, anzi, si lascia che le cose vadano come sempre o quasi, il minimo è che la credibilità si perda per strada. Quando il problema è troppo grande noi uomini preferiamo distogliere lo sguardo, impicciati come siamo in meccanismi più concreti e immediati, come resistere alla crisi economica. Ci si mettono poi anche gli scettici, quelli che, raramente in buonafede, seminano dubbi sul fatto che il cambiamento climatico dipenda dalle attività industriali, richiamando in causa balle spaziali come le macchie solari o i raggi cosmici (che, insieme, assommano al 5%, forse, del forcing attuale sul clima). O coloro i quali aggiungono che l’1% degli scienziati che non concordano sulle responsabilità umane possa comunque avere ragione. La cosa è vera, in linea di principio, ma voi a chi dareste retta se nove dottori su dieci vi consigliassero di operare vostro figlio malato e uno no, suggerendo che sarebbe meglio risparmiare visto che siamo in crisi? I dati attuali sono preoccupanti. L’anidride carbonica in atmosfera è aumentata del 38% rispetto all’epoca pre-industriale (387 ppm), mentre il metano del 158% e il protossido d'azoto del 19%. Tutti questi gas hanno il potere di riscaldare dal basso l'atmosfera e cambiare il clima e dipendono quasi esclusivamente dalle nostre attività. I ricercatori indicano da tempo cosa fare: ridurre subito le emissioni clima-alteranti (che significa ridurre anche quelle inquinanti in generale, particolare non trascurabile) del 60% per sperare in qualche effetto nei prossimi cinquant'anni (se azzerassimo all'istante tutte le emissioni, la temperatura dell'atmosfera continuerebbe ad aumentare per altri 50 anni a causa della grande inerzia del sistema). A Copenaghen, dove si sono solo posti i fondamenti politici, si era deciso, implicitamente, che le emissioni clima-alteranti dovessero essere ridotte di almeno 12 miliardi entro il 2012. Non facendo nulla, infatti, le emissioni globali al 2020 salirebbero a circa 56 miliardi di tonnellate per anno. Ma per mantenere il surriscaldamento globale al di sotto di 2°C (il livello invalicabile deciso a Copenaghen) le emissioni globali non dovrebbero superare i 44 miliardi di tonnellate al 2020, cioè 12 miliardi di tonnellate al 2012. Questo se si vuole stare sicuri. Ma che cosa sta accadendo in realtà? Che la riduzione massima a livello globale, entro il 2020, sarà attorno a tre miliardi di tonnellate rispetto alla crescita tendenziale esistente. Questo significa che le emissioni globali al 2020 saranno probabilmente di circa 53 miliardi di tonnellate, un valore totalmente incompatibile con l'obiettivo dei 2°C. Anche in questo caso si saprebbe cosa fare: abbassare le emissioni in casa propria e incentivare su quella stessa via, con denaro e tecnologie, i Paesi non sviluppati. Vi pare stia accadendo? E ci vogliamo meravigliare se nessuno si fila il vertice di Cancun? http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8149&ID_sezione=&sezione= Titolo: MARIO TOZZI. Ma fanno più vittime le noci di cocco Inserito da: Admin - Dicembre 06, 2010, 11:31:43 am 6/12/2010
Ma fanno più vittime le noci di cocco MARIO TOZZI Ci si meraviglia che qualcuno possa essere ancora vittima di un animale supposto feroce all’inizio del terzo millennio, ma poi non si perde occasione per gridare allo squalo assassino. Con tutto il rispetto per chi ha perduto la vita in un modo orribile, bisogna però ribadire che non esiste alcuna perversione omicida in natura. E che nessuna categoria morale umana può essere chiamata in causa quando si parla di animali non umani. Gli squali degli oceani di tutto il mondo vengono oggi decimati da una guerra senza quartiere, condotta da uomini che non esitano a mutilarli delle pinne e ributtarli in mare ancora vivi, ma destinati a una morte atroce, solo per soddisfare la voglia di pietanze esotiche remunerative come l’oro. Sono animali antichissimi e predatori perfetti ormai però in via di estinzione anche a causa di una cattivissima fama non giustificata dai fatti. Ne «Lo squalo» (1975) il predatore è una specie di serial killer dotato di volontà omicida, quando sappiamo benissimo che nessuno squalo attaccherebbe un uomo adulto senza motivo. Nel Mar Rosso gli squali restano spesso imprigionati all’interno della barriera corallina con la bassa marea e lì possono ancora cercare di predare, lasciandosi attirare dalle gambe dei bagnanti di cui non percepiscono il resto del corpo. Il tutto è spesso aggravato da un fatto nuovo: le quantità di rifiuti, spesso residui di cibo, che finiscono in certi tratti di mare e che fanno da pastura per pesci carnivori. Non esistono certo gli squali vegetariani del cartoon «Alla ricerca di Nemo», ma al mondo si registrano più vittime, ogni anno, a causa della caduta di noci di cocco che non per morso di pescecane (su un centinaio di presunti attacchi, solo una vittima, nel 2007, in tutto il Nordamerica, secondo International Shark Attack File). Eppure non risulta che si stia preparando un film dal titolo «La vendetta della noce di cocco», né che la gente si guardi bene dal prendersi un riposino sotto le palme. Non c’è niente da fare, il nostro bisogno del mostro da sconfiggere, dal drago o alla belva marina, è sempre in agguato, pronto a riproporsi a ogni occasione, pure se creata da noi. http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8171&ID_sezione=&sezione= Titolo: MARIO TOZZI. Le false promesse del nucleare Inserito da: Admin - Gennaio 12, 2011, 10:41:33 pm 12/1/2011
Le false promesse del nucleare MARIO TOZZI Un’intensa campagna pubblicitaria, fintamente imparziale, cerca di indurre da qualche settimana nelle teste dei cittadini l’idea che sia ora di tornare all’energia nucleare. Gli italiani si erano peraltro espressi, in assoluta maggioranza, contro già nel 1987, e hanno sempre ribadito, nei sondaggi, la loro generale contrarietà all’atomo. Oggi si cerca di far pensare che il contesto sia cambiato, che è giusto cambiare idea e che Cernobil è ormai lontana. All’interno di un auspicato dibattito di idee il cui risultato, però, sembra già scritto: i tempi sono maturi perché l’Italia abbracci questa forma di energia. Nessuno di questi presupposti è, però, purtroppo vero. Purtroppo, perché chi non vorrebbe una forma di energia potentissima (un kg di uranio arricchito fornisce tutta l’energia di cui un italiano ha bisogno nella sua intera vita), sicura, priva di inquinanti o di emissioni clima-alteranti e magari inesauribile e a buon mercato? Il contesto non è cambiato rispetto a 25 anni fa, anzi, semmai è peggiorato rispetto alla scelta atomica. La tecnologia è ancora sostanzialmente quella, figlia del lavoro di Fermi negli Anni Quaranta: non esistono impianti nucleari di quarta generazione. È come se, entrando in un negozio di elettrodomestici, chiedeste una radio a valvole. I miglioramenti non hanno impedito incidenti come quello di Tokaimura (Giappone 1999), né che i reattori francesi siano spesso arrestati per problemi. L’Italia dipende forse di più oggi dall’estero per i combustibili fossili, ma l’uranio non evita questa dipendenza, semmai l’accentua, visto che non ne abbiamo nel sottosuolo patrio e che le riserve mondiali sono valutate in 5 miliardi di tonnellate, che basteranno, forse, per ancora mezzo secolo (se non si costruiscono nuovi impianti, altrimenti le scorte si riducono di conseguenza, tanto che si rischia di costruire impianti che non avranno più combustibile, vista la vita media di oltre 40 anni). I costi sono addirittura, in proporzione, aumentati: una centrale necessita di 8-9 miliardi di euro (stima Areva, che costruisce i reattori Epr) che non si capisce bene quale investitore privato possa mettere in campo. Secondo il Mit il costo medio del capitale nucleare è superiore (10%) a quello delle altre fonti energetiche (7,8%). E secondo Moody’s il prezzo medio dell’energia nucleare è più elevato del gas (+26%), ma anche dell’eolico (+21%), arrivando alla media, per MWh, di 151 dollari. In realtà noi sapremmo quanto costa esattamente 1 kWh prodotto per via atomica solo quando il primo kg di uranio della prima centrale nucleare al mondo sarà reso innocuo. Cioè più o meno fra 30.000 anni. Sono le spese di smantellamento e di inertizzazione delle centrali e delle scorie, le «esternalità» nucleari, del tutto comparabili a quelle del petrolio o del carbone: costi sociali che pagano sempre i cittadini in termini di sanità e benessere. Il problema delle scorie è irrisolto: non esiste al mondo nemmeno un sito definitivo per lo stoccaggio dei rifiuti radioattivi. Pensare che un giorno sarà disponibile una tecnologia adatta significa addossare alle prossime generazioni un fardello che nessuno ha il diritto di affibbiare. Non si sa poi bene dove costruire la prossima centrale in un Paese che è sismico, soggetto a rischio idrogeologico e vulcanico, densamente popolato e quasi privo di pianure e di grandi corsi d’acqua. Una nuova centrale Epr necessita di oltre 65 metri cubi al secondo di acqua e non si sa nemmeno se il Po possa sostentarla in eventuali periodi di secca. Resta il mare, con tutti i problemi di inurbamento residenziale che si possono immaginare. Il ricorso al nucleare è una scelta di grossi gruppi industriali supportati dalle banche d’affari, che non tiene in nessun conto l’ambiente e le esigenze dei cittadini (in Italia la gran parte dei comuni si è dichiarata denuclearizzata). Certo, è lecito fare i soldi sul nucleare, ma li si fanno anche sulle mine antiuomo o sulle armi senza che ciò susciti cori d’entusiasmo. Efficienza energetica nella produzione e negli usi finali dell’energia, migliore coibentazione di case e palazzi (1/3 dei consumi totali, che può essere ridotto del 50-70% senza perdite di benessere, ma solo costruendo meglio e isolando termicamente), eliminazione degli sprechi, risparmio energetico, decentramento: questi sono i comandamenti da seguire oggi. Aspettando magari un nucleare senza scorie o l’idrogeno che verrà. http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8285&ID_sezione=&sezione= Titolo: MARIO TOZZI. L'apocalisse come vicino di casa Inserito da: Admin - Marzo 12, 2011, 10:46:25 am 12/3/2011
L'apocalisse come vicino di casa MARIO TOZZI Hanno resistito alla fine del mondo. Al vero big-one, il «terremoto cattivo», il più potente di tutti. Quello che ci si aspettava dal 1923 o da prima ancora, quando soltanto pochi edifici rimasero integri e tutti furono storditi di paura. Quello cui si resiste soltanto se c'è cultura e consapevolezza, se si è stati educati all’emergenza e si è costruito per bene. Sono uomini come noi, i giapponesi, solo che sono riusciti a rimanere calmi sopra la terra che tremava, di fronte a uno dei sei o sette più violenti terremoti di sempre. Sono uomini come noi, solo sono usciti ordinatamente dai grattacieli, che avevano appena smesso di oscillare come pioppi al vento, e si sono recati nei punti di raccolta. Non hanno mai recriminato contro la «natura assassina» o il «terremoto killer». Tokai o chokkagata li chiamano in Giappone gli eventi catastrofici che verranno, perché lì è chiaro per tutti che quello è il futuro inevitabile, perché i sismi, come pure le eruzioni, sono parametri che fanno parte della pianificazione della vita nazionale e personale quotidiana. Un terremoto come questo di Sendai avrebbe causato decine di migliaia di morti in Italia e centinaia di migliaia in Iran. E certo un terremoto come quello aquilano (centinaia di volte meno distruttivo) in Giappone non avrebbe fatto crollare nemmeno un cornicione. Nel prossimo futuro gli eventi naturali a carattere catastrofico assumeranno una connotazione di classe che già oggi è più di una tendenza: i Paesi (ricchi) che si attrezzano possono evitare il collasso, quelli (poveri) che non riescono a farlo crollano (come dimostra Haiti). E all'interno di quei Paesi, gli sventurati che si accalcano nelle favelas suburbane occupano siti già scartati perché pericolosi e rischiano più di chi si è procurato un insediamento sicuro. Ma questo terremoto è qualcosa di più, è la dimostrazione lampante di come la prevenzione sia l'unico mezzo scientifico serio che funziona davvero, e che fa addirittura risparmiare in emergenza. Invece di inseguire la chimera di una previsione finora impossibile, sarebbe bene prendere ad esempio il popolo che fa la migliore prevenzione del mondo affidandosi alla ricerca e, in ultima analisi, alla cultura del rischio costruita nei secoli. E le esercitazioni antisismiche, che da noi indurrebbero agli scongiuri di rito, lì consentono di salvare vite, perché niente è meno scontato del panico quando la terra ti trema sotto i piedi: affidarsi a una rappresentazione già ripetuta cento volte salva più vite che non recitare un rosario a memoria. Per un cittadino di Tokyo ci sono 40 probabilità su 100 che, nei prossimi dieci anni, un altro terremoto colpisca la sua terra con magnitudo 7 Richter. Il blocco crostale che comprende le isole nipponiche si trova proprio al contatto fra la grande placca dell'oceano Pacifico e quella dell'Asia: da quello scontro si generano eruzioni vulcaniche e terremoti. E' così da molto prima che gli uomini arrivassero sulla Terra e sarà così per molto a lungo ancora. E là tutti lo sanno, non attribuiscono colpe a un destino cinico e baro o al fato. Ed è una fortuna che i giapponesi siano così disposti ad ascoltare la scienza e non le superstizioni, perché altrimenti lo scenario economico mondiale avrebbe potuto avere ripercussioni spaventose. Il potere industriale e commerciale di cui dispongono innerva ormai la ricchezza economica di tutto il mondo: se dovessero ritirare i propri capitali per intervenire in patria a sanare gli effetti di un terremoto devastante, la loro mancanza si risentirebbe in ogni angolo del pianeta. Il Giappone è disseminato di faglie attive, in grado di scatenare ancora terremoti, e tutti i sismologi della Terra si aspettano altri sismi distruttivi dell'ordine di 6,5-8,5 Richter nel prossimo futuro. Anche dopo il terremoto di ieri. Altra cosa è il maremoto, che viaggia veloce come un jet di linea a 800 km/h e, in mare aperto, nessuno lo avverte. Quando però arriva vicino alla costa «sente» il pendio che risale e monta in ondate alte come palazzine, sradica ogni cosa, carica ogni tipo di oggetto e poi si abbatte a mitraglia (la ricostruzione fatta da Clint Eastwood nel suo Hereafter è perfetta). Non ci si difende da uno tsunami se non allontanandosi dalla costa e salendo più in alto possibile. Se anche si è costruito per resistere ai terremoti, questo non salverà chi sta per strada: le vite degli uomini si svolgono perlopiù nei primi due metri da terra, e contro quel rischio non c'è cemento che tenga (muri contro gli tsunami sono stati peraltro costruiti in Giappone, ma non hanno mai funzionato). Si capisce perché lo tsunami farà probabilmente più vittime del terremoto in sé: nessun sistema di allerta può funzionare quando il tempo a disposizione è così poco. L'immunità dagli eventi naturali non rientra nelle disponibilità degli uomini. da - lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali Titolo: MARIO TOZZI. Roma, un mese al terremoto immaginario Inserito da: Admin - Aprile 11, 2011, 08:43:22 pm 11/4/2011 - LA STORIA
Roma, un mese al terremoto immaginario MARIO TOZZI C’è chi si prepara a passare almeno una notte in automobile, chi affitta un camper e chi prenota viaggi in paesi lontani. Tutto attorno a una medesima data, l’11 maggio 2011. Manca un mese esatto al catastrofico terremoto che distruggerà Roma e molti cittadini sono apparentati da un unico comune denominatore. Vogliono mettersi presto alle spalle quella data, che viene agitata dalla voce popolare e dal web come esiziale in base alle teorie di Raffaele Bendandi, il quale avrebbe predetto quella e altre numerose sciagure (103 per la precisione). Ma chi era Raffaele Bendandi? Un illustre sconosciuto che elaborò una curiosa teoria sull’origine dei terremoti, generati da particolari allineamenti planetari, che non ha trovato alcun riscontro scientifico. E come poteva averlo, visto che veniva da un uomo a digiuno di qualsiasi nozione geofisica avanzata, un autodidatta che aveva appena la licenza elementare e che era soltanto rimasto impressionato dal cataclisma del 1908 a Messina? Intanto per cominciare, quella dell’11 maggio a Roma è certamente solo una sciocchezza autoreferenziale tipo leggenda metropolitana, tant’è che non risulta nemmeno nelle carte dello stesso Bendandi (conservate nell’osservatorio di Faenza). Ma non risulta neppure che ne abbia mai azzeccata una. In un biglietto datato 27 ottobre 1914, mostrato dallo stesso Bendandi, egli indicava un forte sisma per il 13 gennaio 1915 in Italia centrale, nozione un po’ vaga per significare Avezzano (dove appunto ci furono 40.000 vittime). Il biglietto autografo non era però stato consegnato a un notaio e nessun altro ne seppe alcunché prima del terremoto, così come accadde anche per gli eventi del 1924 nelle Marche o del 1976 in Friuli, spesso riportati come «previsti». Un conto è «prevedere» che fra un mese ci sarà un terremoto in Cile: la cosa è possibile, visto che si tratta di zona sismica e che, in media, subisce qualche migliaio di sismi all’anno, ma dove esattamente? E in che giorno esattamente? Sebbene in scienza sia sempre possibile che uno solo abbia ragione e tutti gli altri torto, a tutt’oggi non è possibile prevedere un terremoto, mentre molto si può fare in termini di prevenzione. Ma quello che colpisce, nella sindrome da terremoto che sta colpendo i romani (amplificata da radio e Web), è la nostra naturale inclinazione all’apocalisse, magari in scala ridotta, che riaffiora in molti aspetti della vita quotidiana. Come se ne avessimo un qualche bisogno, per esempio quando rallentiamo per vedere cosa è accaduto nella corsia opposta, dove ci sono auto incidentate, luci della polizia e lenzuoli sulle vittime. O come quando indugiamo per vedere se c’è ancora qualcuno rimasto sotto le macerie di un crollo. Non è solo la rassicurazione che l’abbiamo scampata e che è toccato a qualcun altro. E’ qualcosa di più. Forse l’eco lontana delle catastrofi cui siamo scampati quando ci siamo fatti strada nell’evoluzione della vita sulla Terra: il boato cupo del vulcano Toba, che ridusse gli umani a un migliaio appena in tutto il pianeta, o l’apertura della grande frattura del continente africano, che divise per sempre i nostri antenati dalle scimmie antropomorfe. Quindi vai con le profezie Maya e il 21 dicembre 2012, dàgli con Nostradamus e il soprannaturale, o con i terremoti come castigo divino, tutto tranne che fare i conti con i nodi irrisolti del nostro passaggio sul pianeta: estremizzazione del clima, fine delle risorse e nubi radioattive. Forza catastrofe! Purché ridotta e, possibilmente, suggestiva. da - lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/ Titolo: MARIO TOZZI. Chi ci guadagna dai referendum Inserito da: Admin - Giugno 06, 2011, 12:39:22 pm 6/6/2011
Chi ci guadagna dai referendum MARIO TOZZI Sappiamo veramente su cosa andiamo a votare fra sette giorni? Al di là dello specifico giuridico dei quesiti referendari, e prima di dividerci in favorevoli e contrari, la questione è se sappiamo valutarne esattamente contenuti e conseguenze. Cominciamo dall’acqua. Andiamo davvero a votare per stabilire se l’acqua italica perderà il suo carattere pubblico e potrà essere mercificata come altri beni? La risposta è no, quello che invece succederà è che la gestione dei servizi idrici avrà una corsia preferenziale per i privati. Ma è invece giusto domandarsi se questo porterà vantaggi per i cittadini, per l’ambiente e, infine, per la risorsa acqua in sé. Oggi l’acqua in Italia costa circa un euro ogni mille litri, una cifra davvero irrisoria, e viene garantita alla stragrande maggioranza della popolazione pulita e abbondante, tanto che, se lasciassimo aperti tutti i rubinetti di casa 24 ore su 24, l’acqua continuerebbe a esserci servita per tutto il tempo. Per questa ragione sembra difficile migliorare il servizio idrico: escluso che si possa fornire acqua colorata o profumata o gassata al rubinetto, per l’utente non ci può essere alcun vantaggio. I fautori del no sostengono che così si riparerà la rete degli acquedotti italiani, ridotta a perdere circa 40 litri ogni 100, ma sembrano ignorare tre fatti: che quell’acqua in gran parte ritorna in falda (e dunque agli acquedotti), che il vero spreco dell’acqua è nell’agricoltura (circa il 60% dell’uso, contro meno del 20% di quello potabile) e che nessun privato si sobbarcherà una spesa che viene valutata cautelativamente attorno a 60-80 miliardi di euro. Sostanzialmente il servizio idrico domestico non può essere migliorato ed è difficile individuare altri motivi a questa privatizzazione forzata che non quelli del mero profitto per le imprese, non del vantaggio per i cittadini: un piccolo guadagno, però costante per decenni, come la rendita di un affitto. La controprova sta nel fatto che, dovunque in Italia, la gestione privata ha sollevato le critiche dei cittadini e ha, di contro, sempre portato un aumento delle tariffe (basta confrontare Agrigento o Lucca, private, con Milano o Roma, pubbliche; mentre Parigi torna al pubblico dopo anni di privatizzazione). Il referendum sull’energia nucleare può essere letto in questa stessa chiave: il ritorno all’atomo porterà un vantaggio per i cittadini, per l’ambiente o per il fabbisogno energetico nazionale? L’incidente di Fukushima dimostra che l’energia nucleare non è sicura intrinsecamente: dopo tre mesi le perdite radioattive non sono state ancora fermate e sarà difficile tornare ad abitare in quei luoghi per almeno mezzo secolo. È vero che anche gli altri impianti di produzione di energia sono dannosi per la salute e per l’ambiente, ma quando avviene un incidente in una centrale nucleare sono guai per tutto il pianeta per generazioni (le mutazioni indotte dall’incidente di Cernobil si trasmettono geneticamente, cosa che non accadde nemmeno per le bombe atomiche sganciate sul Giappone). Ma anche il vantaggio per i cittadini sembra dubbio: già oggi l’energia nucleare è la più cara di tutte, come dimostrano i dati del dipartimento dell’Energia degli Usa (Doe, 11,15 cent/kWh contro i 9,61 dell’eolico e gli 8,03 del gas, con previsioni di divaricazione di quelle forbici al 2020: 14,37 contro 11,32 e 8,05 rispettivamente). Inoltre un impianto nucleare Epr 1600 III plus costa fra 8 e 10 miliardi di euro (stima Areva) e non si considerano qui tutti quei costi che, chissà perché, ci ostiniamo a chiamare «esterni» e che, invece, sono intrinsecamente connessi ai combustibili geologici (anche il nucleare lo è): eventuali incidenti, smantellamento (decommissioning) e inertizzazione delle scorie verranno necessariamente addossati alla collettività (come dimostra il caso giapponese). In queste condizioni la bolletta costerà di più, non di meno, soprattutto in un Paese che dovrebbe impiantare ex novo le centrali. Inoltre l’Italia dovrà importare l’uranio, che prima o poi finirà, esattamente come il petrolio. E anche per l’ambiente non si vedono vantaggi, perché è vero che si riducono le emissioni clima alteranti, ma non esiste ancora al mondo nemmeno un sito per lo stoccaggio definitivo delle scorie. Anche in questo caso il vantaggio è tutto dei gruppi che costruiranno e gestiranno le centrali, che, non a caso, si oppongono fieramente al referendum, perché perdono l’occasione di contrarre un mutuo molto vantaggioso: introiti privatizzati e «perdite» a carico dello Stato. Al di là dei distinguo ideologici, le questioni acqua e energia su cui si voterà si riducono a logiche molto più semplici ed è su quella base che i cittadini possono riappropriarsi di una consapevolezza troppe volte lasciata in altre mani. da - lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8822&ID_sezione=&sezione= Titolo: MARIO TOZZI. I tagli poco chirurgici ai bilanci dei parchi Inserito da: Admin - Settembre 13, 2011, 11:03:38 am 13/9/2011
I tagli poco chirurgici ai bilanci dei parchi MARIO TOZZI* Per consolidata tradizione, ambiente e cultura ci rimettono sempre quando la congiuntura economica stringe alla gola. Ma quanto sta accadendo da alcuni mesi ai parchi nazionali italiani rasenterebbe il ridicolo, se non implicasse rischi molto seri per la tutela del patrimonio naturale, e insieme culturale, del nostro Paese. Sono anni che i fondi ordinari riservati ai Parchi e alle Riserve dello Stato diminuiscono (circa 50 milioni di euro nel 2009), ma, dal contesto della scorsa finanziaria, anche quei pochi denari sono spariti, obbligando il Ministero per l’Ambiente ai miracoli per garantirne comunque la sopravvivenza. Si trattava già di pochissimi soldi: alle 23 «perle» naturalistiche del Belpaese andava meno di quanto occorre per costruire 1 km della variante di valico Bologna-Firenze, un’autostrada «tecnica», ma pur sempre un’autostrada. Il risultato è che oggi i parchi possono garantire solo il funzionamento ordinario, cioè il pagamento degli stipendi, o poco più, e vedono pesantemente indebolite le funzioni di tutela e salvaguardia che sono il loro primo obiettivo. Ma il taglio più cervellotico (e vagamente tafazziano) è quello appena operato ai danni delle indennità dei presidenti, che sono sospese in quanto si tratterebbe di «cariche onorifiche». Nessun compenso percepito nel 2011 e, addirittura, l’ingiunzione di restituire parte di quelli del 2010. Come a dire che avere la responsabilità legale del Parco dello Stelvio equivale alla presidenza di un circolo amatoriale di dama. Come se i parchi fossero centri di spreco che inghiottono denari pubblici senza portare in cambio alcunché, e come se le indennità attualmente a disposizione fossero tanto ingenti da giustificare uno sfrondamento. Quanto sarebbe la cifra risparmiata? Circa 1500 euro per presidente al mese, che, moltiplicato per i 23 parchi nazionali, potrebbe rischiare di avvicinarsi, più o meno, al compenso percepito mensilmente dal Ragioniere Centrale dello Stato firmatario della disposizione (che meriterà senz’altro il suo stipendio, ma almeno quanto se lo meritano i presidenti). I 23 parchi nazionali italiani sono un esempio di buon funzionamento della pubblica amministrazione e pur avendo budget inferiori a quelli del servizio giardini di una qualsiasi grande città italiana, personale sottodimensionato e sottopagato, scarse possibilità di controllo reale del territorio e, spesso, strutture e mezzi non adeguati favoriscono uno sviluppo economico importante a livello locale e nazionale. Nel 2010 l’unico settore turistico non in crisi è stato quello dei parchi (+16%, con un giro di affari di alcuni miliardi di euro per circa 35 milioni di visitatori). Il 33% dei comuni italiani ha il proprio territorio ricompreso in un parco, percentuale che sale al 68% se si considerano i comuni sotto i 5000 abitanti. Per non dire del fatto che sarebbe bene considerare i parchi prima di tutto come valori e non come prezzi. E gestire un parco può mettere a rischio anche la propria incolumità personale, come dimostra il recente attacco incendiario contro il presidente del Parco Nazionale del Circeo, reo di aver detto no all’applicazione dell’elefantiaco piano casa della Regione Lazio all’interno dell’area protetta. Per non parlare degli oltre 10.000 ettari di territorio protetto bruciati negli anni scorsi e degli episodi di bracconaggio contro specie simbolo come l’orso marsicano. In tutto questo si stanno rimettendo le mani su un’ottima legge come la 394 (istitutiva dei parchi nazionali), con qualche dubbio che lo si faccia per migliorarla. A novembre, infine, scadranno molte presidenze di parchi nazionali e non si capisce con quale spirito qualcuno potrebbe aspirare alla riconferma, viste le responsabilità e i rischi contro zero riconoscimento economico. A meno che il reale obiettivo sia quello di ridurre i parchi all’impotenza: cancellarli non si può, renderli non operativi e invisi alla popolazione, quello sì, riaprendo l’assalto speculativo ai territori più incantevoli del Belpaese. *Presidente del Parco Nazionale dell'Arcipelago Toscano da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9189 Titolo: MARIO TOZZI. I terremoti non si leggono negli oroscopi Inserito da: Admin - Settembre 26, 2011, 09:29:11 am 25/9/2011
I terremoti non si leggono negli oroscopi MARIO TOZZI Proprio mentre il sangue di San Gennaro si liquefaceva nel Duomo di Napoli, la magistratura decideva che la scienza avrebbe dovuto, se non prevedere, almeno dare indicazioni più precise relativamente al terremoto che ha distrutto l’Aquila nell’aprile del 2009. È vero che negli Stati Uniti una disputa legale fra scienza e Genesi ha avuto una durata trentennale e che qualcuno vorrebbe elevare il creazionismo a disciplina scolastica attraverso i tribunali. Ma non si era mai visto in nessuna parte del mondo un processo a scienziati colpevoli di non aver preso le giuste misure precauzionali prima dell’unico evento catastrofico, per definizione, imprevedibile. Il tutto mentre la riforma del sistema universitario del ministro Gelmini rischia di maturare uno dei frutti più avvelenati: la sparizione di 25 dipartimenti di scienze della Terra (gli stessi dove si formano coloro che si occupano di sismi) su 31 perché non dotati di una massa critica sufficiente, dunque riassorbiti in altre strutture. Era possibile prevedere il terremoto de L’Aquila? La risposta è decisamente no, in nessuna parte del mondo si sono mai previsti i terremoti, se si esclude il caso molto particolare del 1975 in Cina, nella lontana provincia di Haicheng. Lì, però, i segnali erano formidabili: sorgenti che si inaridivano, tremori diffusi, crolli e frane, tanto che le autorità cinesi sgombrarono l’intera provincia. Il terremoto effettivamente arrivò e fece «solo» un migliaio di vittime a fronte di centinaia di migliaia possibili. Il regime rese possibile un’operazione che in nessun altro Paese libero sarebbe stata nemmeno ipotizzabile. Tanto meno nel caso aquilano, in cui non c’erano segnali seri o univoci e anche chi preconizzava un sisma lo faceva per un’area generica, centrata peraltro su Sulmona, senza specificare né l’ora né il giorno: cosa si doveva fare, evacuare l’Abruzzo intero? E per quanto tempo? Prevenire certo si poteva, ma questa mancanza è da attribuire interamente agli amministratori che non hanno provveduto a risanare e rinforzare gli edifici o a chi ha operato malaccortamente o in malafede, sicuramente non ai ricercatori del comitato grandi rischi. E certo le cose non miglioreranno se non si rafforzano, invece che indebolire, le prerogative degli scienziati della Terra e dei geofisici, come invece si sta facendo con la riduzione dei dipartimenti. Del resto questo è il Paese in cui centinaia di romani, nel maggio scorso, si sono allontanati dalla capitale per paura di un terremoto «previsto» da un orologiaio di Faenza, peraltro deceduto trent’anni prima. Ma non dovremmo stupirci più di tanto: alcuni magistrati ci inducono a pensare che si possano prevedere i terremoti (e non che sia basilare, invece, prevenirli costruendo per bene), magari come dovremmo prevedere le mosse della nostra giornata in base all’oroscopo quotidiano, considerato come scienza da milioni di connazionali. E milioni di fedeli in tutto il mondo credono nei miracoli di ogni religione, anche quando quei fenomeni possono essere spiegati scientificamente: nel caso del sangue di San Gennaro basta aggiungere sale da cucina a una soluzione di cloruro ferrico e polvere di marmo (tutti elementi già reperibili nel medioevo) per ottenere una gelatina rossastra che, se viene scossa, diventa liquida. Coltiviamo qualche dubbio sul fatto che questo sia il secolo del progresso scientifico: forse altrove, non in Italia. da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9240 Titolo: MARIO TOZZI. Crolli ripetuti disastri annunciati Inserito da: Admin - Ottobre 04, 2011, 07:40:47 pm 4/10/2011
Crolli ripetuti disastri annunciati MARIO TOZZI Chi avrà il coraggio di guardare negli occhi i sopravvissuti al crollo di Barletta e i parenti delle vittime? Con quale faccia qualcuno si permetterà ancora di parlare di fatalità o di destino? Mentre si sta ancora scavando a mano, e le cause non sono state messe in luce, una cosa è certa, crolli e cedimenti degli edifici sono una tragica regola sul territorio italiano e non si fa nulla per prevenirli. Ma questo è proprio il momento di insistere, tanto per cominciare perché si vada fino in fondo a quanto testimoniato in quel ventre molle e fatiscente della città della disfida. Cioè che il crollo era annunciato da segnali premonitori pesanti come scricchiolii e allargamento di crepe e fratture. Ma questi crolli sono sempre annunciati, perché spesso causati da interventi mal congegnati o in malafede, figli della bulimia costruttiva del nostro Paese e della speculazione, quando non da piogge torrenziali o frane. Anche qui, dove una parte della comunità cittadina teneva faticosamente in piedi la memoria di quel tragico crollo del 1959, quando 58 persone furono uccise da quella che allora già si tentava di chiamare la mala-edilizia. E il tutto è figlio dei soliti difetti, quelli sì strutturali: nessuna pianificazione nei centri storici, pochi piani regolatori e soprattutto deroghe e mancato rispetto delle regole. Nel 1959 furono le sopraelevazioni su un’autorimessa non adatta a sostenerne il peso a causare il crollo. In questo caso vedremo, ma, come a Villa Jacobini a Roma o nel 1999 a Foggia, è la mancanza di controlli e manutenzione a fare il resto. Il raffronto tra prima e dopo il crollo a Barletta è impressionante: la facciata dell’immobile mostra i segni di un restauro recente, ma c’è stato un rilievo statico-strutturale? Sono state messe in campo competenze ingegneristiche, o tutto è stato lasciato nelle mani di tecnici impreparati? Da un lato poi ci sono le transenne dei lavori sulla casa vicina: sono stati fatti a regola? Si è provveduto a sostenere le strutture eventualmente interessate? Il tutto su quinte di case che mostrano i segni di interventi ripetuti a diversi livelli: mattoni e pietre a vista, malte intaccate da intarsi di tetti e muri, fori e l’idea di un caos costruttivo e abitativo che al sud è la regola. Qui non si aprono voragini come a Napoli e a Roma, non ci si mettono il terremoto come a L’Aquila o le frane come in Veneto. Qui tutto riporta alle colpe degli uomini. Interventi senza misura e fuori controllo sono la regola in Italia e l’abusivismo edilizio mette in condizioni di rischio centinaia di migliaia di persone. All’alba del terzo millennio le abitazioni degli italiani non sono sicure, tutt’altro: tra frane, alluvioni, terremoti, voragini e cedimenti strutturali ogni cittadino ha, in un raggio molto corto attorno a casa propria, motivi per non fidarsi. Già è difficile vivere sotto la spada di Damocle di un grave rischio naturale, ma subire le conseguenze di mancanze di altra natura è francamente inaccettabile. E che fine ha fatto quel libretto dei fabbricati che avrebbe dovuto accompagnare la vita dei nostri immobili fornendone una carta d’identità veritiera? In questo contesto disastrato, speriamo che qualche regione si renda conto che non è di piani casa e aumento di volumetrie abitative che il Paese ha bisogno, ma della più grande delle opere: la ristrutturazione dei centri storici fatiscenti di una parte delle città italiane, specie del Meridione. Ritardare questa grande opera è ben più grave che averne realizzate poche delle altre. da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9278 Titolo: MARIO TOZZI. Prevenzione dimenticata Inserito da: Admin - Ottobre 26, 2011, 05:13:29 pm 26/10/2011
Prevenzione dimenticata MARIO TOZZI Buoni ultimi in Europa, gli italiani sembrano scoprire, nell’autunno 2011, che il regime delle piogge è cambiato. Non ci sono più le pioggerelline invernali, né le rugiade primaverili. No, qui deflagrano vere e proprie bombe d’acqua. Bombe d’acqua che scaricano in poche ore la stessa quantità di pioggia che un tempo cadeva in qualche mese. Quasi 130 mm di pioggia a Roma (con due vittime) in un paio d’ore, una vittima nel Salernitano, 140 mm in una sola ora alle Cinque Terre e ancora dispersi. Peccato che le alluvioni istantanee (flash-flood) siano ormai da tempo diventate la regola nel nostro Paese e investano anche bacini fluviali minori. Questo non è più il tempo delle grandi piene del Polesine o dell’Arno: nell’Italia del terzo millennio tocca e toccherà sempre più all’Ofanto, piuttosto che al Brachiglione. Le bombe d’acqua sono figlie del clima che si surriscalda e si estremizza: più energia termica a disposizione dei sistemi atmosferici significa maggiore possibilità di eventi fuori scala rispetto al passato. Ma tutto peggiora quando, anziché guardare in terra, si continua a osservare il cielo nella speranza che il fato non sia avverso. L’esempio della Liguria è eclatante: le alluvioni in quella sottile striscia di terra sono e saranno la regola a ogni pioggia un po’ più grave del solito. Per forza: quando si costruisce fino dentro gli impluvi fluviali, il terreno viene reso impermeabile e non assorbe più la pioggia che, invece, si precipita nei corsi d’acqua, ormai non più commisurati a quelle precipitazioni. Così arrivano le alluvioni, dovute alla nostra scarsa conoscenza della dinamica naturale e al mancato rispetto delle regole: se si leva spazio al fiume, il fiume prima o poi se lo riprende. E hai voglia a sturare i tombini a Roma o a decretare lo stato di calamità (che non andrebbe assolutamente favorito, perché si deve operare in prevenzione, non in emergenza) a La Spezia: sono solo palliativi che rimandano alla prossima occasione. Se non si liberano i fiumi dell’aggressione cementizia, se non si rispettano le regole di un territorio così fragile e giovane come quello italiano e se, peggio, si favorisce l’abusivismo anche attraverso sciagurati piani casa e ancor più sciagurati condoni, il problema non si risolverà mai. Ma proprio questo è il punto: nessun decisore politico si impegna nella manutenzione del territorio attraverso piccole opere diffuse. Tutti sperano di lucrare consenso con l’ennesimo ponte inutile o l’ennesimo raddoppio di strada. Così non si opera nell’interesse della popolazione e si degrada il territorio al rango dei Paesi del Terzo mondo, mentre si hanno ambizioni da sesta potenza industriale del pianeta. Le perturbazioni investiranno le solite zone ad alto rischio: l’Alto Lazio, la Campania, la Calabria e Messina. E ascolteremo le solite litanie e giustificazioni, magari appellandosi all’eccezionalità dell’evento che, però, non è ormai più tale. Non si può vivere a rischio zero, è vero, ma, non avendo fatto nulla, non ci si dovrebbe nemmeno lamentare. da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9364 Titolo: MARIO TOZZI. Dopo la tragedia, il disastro ambientale Inserito da: Admin - Gennaio 15, 2012, 11:16:44 am 15/1/2012
Dopo la tragedia, il disastro ambientale MARIO TOZZI Dobbiamo constatare con dolore che nell’Italia del terzo millennio non si muore solo per frana o alluvione, ma anche annegati nel mare più frequentato del mondo. Mentre scriviamo sono ancora decine le persone che mancano all’appello, ma le immagini teletrasmesse non mostrano corpi in mare, né ne sono stati raccolti sulla vicinissima riva. Si spera siano stati già tratti in salvo o comunque siano stati già trasferiti, perché sarebbe davvero insopportabile pensare che siano rimasti ancora intrappolati nella nave tragicamente basculata. E non vorremmo scoprire che lo spaventoso incidente della più grande nave da crociera italiana sia dovuto alla volontà di «portare un saluto» agli abitanti dell’isola del Giglio che, siamo sicuri, ne avrebbero fatto volentieri a meno. Dalla nave non hanno veduto le vicinissime luci di ingresso al porto? E nemmeno quelle del paese? Questa sarebbe già una colpevole mancanza di controlli, anche in caso di guasti, non ci vengano però a raccontare che lo scoglio, parzialmente asportato (a testimonianza di una velocità d'impatto elevata), non fosse segnalato nelle carte nautiche. Primo perché lo è forse dal secolo scorso, e secondo perché è praticamente attaccato alla costa e la rotta di navi come quelle mantiene distanze di almeno tre miglia dall’isola. Non per caso. E ci dicano, per favore, che le esercitazioni a bordo vengono tenute regolarmente e che l’equipaggio sa esattamente cosa fare in caso di pericolo, anche se le prime voci dei turisti scampati fanno sorgere qualche dubbio. Ma il problema è quello delle grandi navi da crociera, che si sono trasformate in veicolo di turismo di massa (da elitarie che erano), e il cui solo equipaggio supera la popolazione residente dell’isola del Giglio stessa. Il problema è quello di un turismo mordi e fuggi che si accontenta di «toccare» più porti in una settimana, come se avvicinarsi a un’isola significhi averla non dico compresa, ma almeno assaggiata. E senza alcun vantaggio economico per le isole, che spesso non hanno nemmeno i porti adatti per ospitare navi di quel genere. Speriamo poi che le conseguenze negative, dal punto di vista ambientale, siano limitate all’impatto dell’enorme scafo sul fondale. Impatto violentissimo, e reiterato per centinaia di metri, che certamente avrà compromesso a lungo quel breve tratto di fondale. Speriamo cioè che non ci sia sversamento in mare delle oltre 2000 tonnellate di gasolio marino che la nave portava nei suoi serbatoi. In quel caso l’isola del Giglio sarebbe condannata per alcuni anni a non ospitare quasi più nessun ecosistema marino sano. È bene non dimenticare che un centimetro cubo di petrolio è in grado di ammazzare il 90% della vita di un metro cubo d’acqua. E sarebbe meglio ricordarlo prima di intraprendere rotte di crociera così vicine ai gioielli del nostro Tirreno: Montecristo, Capraia e Pianosa ospitano equilibri delicatissimi che morirebbero per impatti ambientali così devastanti. Naturalmente ciò vale a maggior ragione per le petroliere che incrociano proprio in quei mari ogni giorno dell’anno e il cui traffico dovrebbe essere bandito da quello che resta pur sempre il santuario europeo dei cetacei. Il recente naufragio della nave Rena in Nuova Zelanda e questo della Costa Concordia ci rammentano che non è necessario essere petroliere per recare morte e distruzione, basta non avere il combustibile abbastanza protetto da reggere a urti simili. L’obbligo di impenetrabilità dei serbatoi dovrebbe essere un requisito indispensabile alla navigazione in certe acque. da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9649 Titolo: MARIO TOZZI. L'isola del Giglio, ultima oasi del "bove marino" Inserito da: Admin - Gennaio 19, 2012, 04:58:57 pm Ambiente
19/01/2012 - IL PARADISO DEI SUB L'isola del Giglio, ultima oasi del "bove marino" I fondali rocciosi sono pieni di Gorgonie rosse, che ospitano lo squalo gattuccio, spugne, anemoni, briozoi, alghe incrostanti, salpe, gronchi e muggini Gorgonie, cavallucci e cetacei: è uno dei litorali più incontaminati del Mediterraneo MARIO TOZZI Isola del giglio Ma cosa c'è di così prezioso nei fondali dell'isola del Giglio che preoccupa i turisti e gli ambientalisti di tutta Italia? In realtà è tutto l'arcipelago toscano a essere importantissimo dal punto di vista ambientale. E il paventato sversamento di combustibili dalla Costa Concordia un'apocalisse da evitare a tutti i costi. L'isola è un grande scoglio di granito emerso in mezzo al Tirreno dopo una storia geologica antica e tormentata. Il contrasto magnifico fra il colore chiaro dei graniti e il verde del mare le conferisce un valore paesaggistico elevatissimo, che le ha permesso di essere premiata da anni con il massimo delle vele e delle bandiere blu. A causa del ritardato arrivo sulla ribalta turistica internazionale e della cura dei suoi abitanti, quel mare si è conservato in buona salute ed è una delle poche mete significative, liberamente accessibili, del turismo subacqueo del Tirreno. Nelle zone sabbiose, come quelle davanti al porto (dove si è arenata la nave), la prateria a Posidonia, una pianta marina che testimonia acque pulitissime, è ampia e sostanzialmente integra e ospita ancora le grandi nacchere (Pinna nobilis) e una quantità di pesci come dentici, saraghi e pesci luna. Chi si bagna nelle baie del Giglio può ancora incontrare i cavallucci marini, sicuri indicatori di qualità delle acque che, in Italia, sono diventati rarissimi nell'ultimo mezzo secolo. Nelle tane una moltitudine di murene multicolori e di aragoste, astici e le caratteristiche «margherite» (le granceole) gigliesi. Il fondale in roccia (già pesantemente intaccato dalla nave per circa 1 km) è ricchissimo a coralligeno con praterie estese di Gorgonie rosse, piuttosto rare nel Mediterraneo, che fanno da nursery allo squalo gattuccio, altro indicatore di qualità dell'ecosistema. E poi anemoni, spugne, briozoi, alghe incrostanti, salpe, gronchi, muggini in quantità. L'isola è comunemente visitata dai cetacei marini che si vedono comodamente dai traghetti all'arrivo, ma l'ospite più pregiato è tornato a farsi vedere due anni fa, quando le acque del Giglio sono state sede di un clamoroso quanto inaspettato avvistamento, quello di due rarissimi esemplari di foca monaca che amoreggiavano a largo del Campese. Le foche monache ancora abitano il Mare Nostrum, ma per anni non erano state più avvistate nell'arcipelago toscano: catturate con le spadare oppure uccise dall'ingestione delle reti di nylon casualmente ingoiate con i pesci strappati alle reti. «Bove marino» la chiamavano i gigliesi decenni fa, quando era frequente ritrovarla in mezzo ai filari di vite intenta a rotolarsi a terra. Nei punti più deserti dell'isola, di notte, i «bovi marini» uscivano talvolta dal mare e si arrampicavano sui liscioni di granito a godersi la luna. La loro presenza nel Mediterraneo è ridotta a pochi nuclei in Egeo, Ionio e Mar Nero, attorno alle coste istriane e lungo la costa nord africana. In Italia è stata talvolta sporadicamente avvistata a Montecristo e in Sardegna, dove certamente si rifugiava stabilmente, ma è poi sparita per anni. Speriamo che tornino presto a salutare la salvezza di uno dei mari più puliti d'Italia. Titolo: MARIO TOZZI. Fuggire non serve a nulla Inserito da: Admin - Gennaio 26, 2012, 09:12:52 am 26/1/2012
Fuggire non serve a nulla MARIO TOZZI Scossi dall’incredibile incidente del Giglio, provati dalle alluvioni di fine 2011, mentre non si è ancora rimarginata la ferita de L’Aquila, gli italiani si trovano ad affrontare lo stress inevitabile di una sequenza sismica dove apparentemente non te lo aspetti. Prima nelle Prealpi venete e successivamente in Emilia Romagna. I due eventi non sono in alcun modo collegabili, ma si comprende la paura di chi, al massimo, vede oscillare i pioppi della pianura padana, non i campanili. Poi però si deve fare un piccolo esercizio di memoria e ritornare a una lontana notte di primavera nei ducati di Parma e Reggio Emilia, proprio negli anni in cui Ciro Menotti guidava i moti insurrezionali e la repressione delle istanze liberali era durissima. Quella notte la terra trema con un’intensità attorno al VII-VIII° grado della scala Mercalli, con gravi danni a Parma e Reggio. E anche quel terremoto viene risentito in gran parte dell’Italia settentrionale. Francesco IV d’Este concede finanziamenti straordinari e Maria Luigia d'Austria promulga un decreto a favore di Parma e dei comuni limitrofi. Ma di chi o di cosa la colpa del terremoto? Il vescovo di Reggio Filippo Cattani attribuisce la colpa ai rivoluzionari risorgimentali, i quali non avevano alcun timore di Dio, né di nessun altro potere costituito. E anche il duca d’Este ribadisce che il terremoto era un segno divino di condanna delle ribellioni in atto in quella che ancora era solo un’espressione geografica. A salvare Ciro Menotti sarebbe bastata un po’ di memoria o di lettura di cronache: già nel 1831 a Parma e Reggio Emilia vennero giù comignoli, muri, tegole e calcinacci. Quel terremoto fu del VII-VIII° grado della scala Mercalli, come furono intensi quelli del 1811, del 1810, del 1806 e quello del 1732, quando di moti non se ne parlava nemmeno. E nel 1834, l’Appennino parmense sarebbe stato di nuovo colpito da terremoti del VII-VIII grado che si abbatterono soprattutto sulla zona di Parma. Oggi sappiamo che quella fetta di Pianura Padana è a rischio sismico, ma che il pericolo non è eccessivo, se paragonato a quello di Messina o di Catania. Dal 1600 a oggi nella zona si sono registrati oltre 21 terremoti di rilievo. L’ultimo nel 1996, quando alla Ipercoop di Reggio Emilia caddero al suolo decine di apparecchi televisivi nuovi di zecca frantumandosi in mille pezzi. Quella volta la terra tremò per 55 secondi proprio nella stessa zona dei «terremoti carbonari» del 1831 e 1832. Anche in questo caso gli abitanti avvertirono un boato tremendo e il contemporaneo dilagare della paura. A secoli di distanza dovremmo aver imparato che lì la terra ha sempre tremato e che la responsabilità è delle strutture geologiche profonde che risentono della spinta del blocco crostale adriatico incuneatosi fra Europa e Africa. E che non c'è bisogno di agitarsi troppo: basta costruire bene e premunirsi dentro casa assicurando alle pareti gli oggetti pesanti. E non fuggire per strada in tutta fretta: fanno più feriti i comignoli o i cornicioni eventualmente in bilico che le scosse sismiche. da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9694 Titolo: MARIO TOZZI. Imparare a vivere con il rischio naturale Inserito da: Admin - Gennaio 28, 2012, 06:23:03 pm 28/1/2012
Imparare a vivere con il rischio naturale MARIO TOZZI Non è facile per nessuno restare calmi mentre la terra trema sotto i piedi e i lampadari oscillano. E a maggior ragione non lo deve essere per gli abitanti della grande conurbazione padana, da Torino a Venezia, scarsamente abituati ad avere a che fare con i terremoti e convinti, anzi, di essere esenti dal rischio sismico. Vale la pena subito di ricordare che in Italia nessun posto è immune dal rischio sismico. E comunque la Terra non smetterà di ricordarcelo. Certo, sappiamo che ragionevolmente la Sardegna e la parte meridionale della Puglia non subiranno eventi sismici troppo gravi, ma nessuno è in grado di escludere che i risentimenti delle regioni geologicamente più attive si percepiscano a Roma e Napoli piuttosto che a Milano, Torino o Genova. È già successo in passato, soprattutto per i terremoti parmensi e reggiani che interessano l’Italia settentrionale fino dalla notte dei tempi. Sappiamo poi quali sono le energie attese in quelle zone, che difficilmente superano magnitudo 6 Richter, e sappiamo che tipo di danni potrebbero eventualmente causare. Quello che non sappiamo è quando avverrà il prossimo terremoto o se ci sarà una seconda scossa più forte della prima. Sappiamo infine che le scosse potrebbero continuare per qualche tempo e che questo andamento è del tutto normale. Per questa ragione, anche se riconosciamo che è difficile, bisognerebbe rimanere calmi e non precipitarsi in strada al primo ondeggiare di suppellettili. In genere, in quelle zone, si è costruito bene e i danni non dovrebbero essere così gravi. Le statistiche ci dicono poi che molte più persone restano ferite per essersi precipitate lungo le scale, o, appena all’uscita delle proprie abitazioni, a causa della caduta di comignoli o cornicioni. Per questo sarebbe più utile immaginare una mappa mentale della propria casa e individuare i punti più sicuri: le architravi dei muri portanti, un tavolo pesante, un letto. E porsi sotto quegli scudi evitando così di restare offesi da lampadari che cadono e pezzi d’intonaco. Se riuscissimo poi ad avere sempre l’abitudine di assicurare alle pareti mobili e televisori o altri oggetti pesanti potremmo dire di aver fatto un passo avanti significativo nella sicurezza domestica. Una libreria che cade con i suoi volumi è molto più pericolosa dell’oscillazione delle scosse. Non uccide il terremoto, ma la casa mal costruita o mal posta: sarebbe bene ricordarlo sempre. Detto questo, l’unico problema può derivare dal fatto di sentirsi troppo al sicuro: gli abitanti di New York si ritengono al sicuro da terremoti distruttivi, ma sono oltre 40 anni che nel bacino di Newark si carica energia nel sottosuolo, e non è passato poi molto tempo dal forte sisma del 1884, valutato attorno a magnitudo 5 Richter. Un terremoto simile forse non farebbe troppi danni a Los Angeles, ma cosa potrebbe accadere dove l’edilizia non ha tenuto conto di parametri antisismici? Dovremmo infine farla finita di parlare di ipotetiche catastrofi naturali, che in realtà non esistono: esiste solo la nostra incapacità, ignoranza o malafede nel rapportarci con il rischio naturale e una delittuosa propensione a perdere la memoria degli eventi passati. da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9701 Titolo: MARIO TOZZI. La prevenzione possibile contro le emergenze Inserito da: Admin - Febbraio 11, 2012, 10:04:42 am 11/2/2012
La prevenzione possibile contro le emergenze MARIO TOZZI Che in fatto di eventi meteorologici noi uomini contemporanei siamo vulnerabili come nel Medioevo dovrebbe essere evidente anche al più miope dei cittadini italiani Soprattutto i romani, sommersi in questi giorni non solo dalla neve, ma anche da messaggi contraddittori e provvedimenti inefficaci o cervellotici. Anzi, le civiltà moderne metropolitane affidano il loro funzionamento a una tecnologia sofisticata ma delicata, che non riesce a difendersi dai freddi siderali o dalle acque torrenziali. Il gelo spezza i cavi dell’alta tensione e spegne la luce nel terzo millennio come nei secoli bui impediva di accendere le fiaccole. E i nostri amministratori locali sono, con le dovute eccezioni, assolutamente impreparati a fronteggiare i rischi naturali. A Roma si obbligano le catene montate sulle auto e non si fanno circolare le moto quando non c’è neve a terra, dopo di che non si riescono a riaprire importanti arterie cittadine per giorni dopo la nevicata. E sia a Roma che a Genova (durante la scorsa alluvione) non si sanno interpretare correttamente i bollettini dell’Aeronautica militare o i dispacci della Protezione Civile che, per definizione, non possono recare la scritta rossa: catastrofe! Nel prossimo futuro questi eventi rischiano di diventare più numerosi, più violenti e più duraturi, se è vero come è vero, che i ricercatori addossano la responsabilità delle punte di estremo freddo in Europa (già frequenti negli ultimi anni, l’ultima nell’inverno 2009-2010) al grande caldo estivo che sta fondendo i ghiacci artici. Mancano oggi all’appello 3 milioni di kmq di banchisa polare (rispetto al 1978): per questa ragione il calore del Sole non viene disperso dal riflesso di quei ghiacci ma riscalda l’Oceano e l’atmosfera, innescando situazioni anomale (ma non più eccezionali) come quella che stiamo registrando oggi. I venti occidentali indeboliti non riescono a spazzare via quelli freddi siberiani che arrivano senza più barriere a investire il Mediterraneo centrale. Come a dire che il grande freddo dipende dal grande caldo e che l’estremizzazione del clima è diventata la regola. Ma mentre sappiamo che per difenderci dal terremoto dobbiamo costruire meglio e che per sfuggire all’alluvione o al vulcano ci dobbiamo spostare altrove, per reggere all’impatto meteorologico non sappiamo fare altro che ritirarci in casa chiudendo scuole e uffici. Come nel Medioevo. Invece qualcosa di più si può fare già ora, nonostante i cordoni della borsa statale siano più stretti e le amministrazioni locali sembrino impotenti. Per prima cosa si deve ribadire che quello in sicurezza non è un investimento a fondo perduto o un lusso, tutt’altro. Consente in realtà di risparmiare da 5 a 7 volte rispetto a quanto si spenderà in emergenza. E, siccome l’emergenza ci sarà certamente, semplicemente conviene non tagliare quei fondi e chiedere che vengano ripristinati a gran voce. In secondo luogo, grandi comuni, regioni e province dovrebbero dotarsi di almeno una unità di crisi permanente per fronteggiare i rischi naturali, coordinata da un disaster manager appositamente formato. Il costo di questa figura professionale, sconosciuta in Italia ma presente da anni all’estero, non è poi maggiore di una di quelle consulenze che gli amministratori continuano a foraggiare attualmente, anche in tempi di crisi. E una ragionevole decurtazione degli stipendi di consiglieri e assessori (almeno regionali) basterebbe e avanzerebbe. È poi ovvio che Roma non può avere gli spazzaneve di Stoccolma, né Genova l’Autorità di bacino del Po. Ma i mezzi possono essere resi disponibili da comuni vicini in cui quei rischi siano più frequenti o presi in affitto con opportune locazioni. E si può sempre imparare dalla marineria: le scialuppe di salvataggio delle grandi navi hanno equipaggi composti da figure che normalmente recitano altri ruoli, cuochi che diventano timonieri e camerieri che manovrano i comandi. Basterebbe formare chi ha altre competenze a muoversi nell’emergenza secondo compiti precisi ben assegnati: chi si occupa normalmente di cartellonistica può spalare la neve e chi sta negli uffici del servizio giardini spostarsi sulle strade quando serve. A questo dobbiamo a aggiungere che i cittadini saranno meglio preparati se con regolarità partecipano a esercitazioni nelle scuole e negli uffici pubblici e se sanno dove andare. Inoltre una Protezione civile volontaria già assolve quasi tutte le funzioni emergenziali in tanti piccoli centri d’Italia. Con il rischio naturale dobbiamo convivere e non tutto si può prevedere, ma c’è bisogno di un atteggiamento culturale nuovo, che va costruito con pazienza da subito. Non arrangiato nell’emergenza confidando nella buona sorte. DA - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9760 Titolo: MARIO TOZZI. L'Italia del mattone va ripensata Inserito da: Admin - Maggio 22, 2012, 03:41:44 pm 21/5/2012
L'Italia del mattone va ripensata MARIO TOZZI Quando furono impiccati, ai patrioti risorgimentali di quella che sarebbe diventata l’EmiliaRomagna veniva anche imputata la colpa di aver scatenato i terremoti che nel 1831-1832 sconvolgevano la regione. A salvare Ciro Menotti sarebbe bastata un po’ di memoria o di lettura di cronache: già nel 1831 a Parma e Reggio Emilia vennero giù comignoli, muri, tegole e calcinacci. Erano terremoti del VII-VIII grado della scala Mercalli, ma potevano arrivare al X, come furono intensi quelli del 1811, del 1810, del 1806 e quello del 1732, quando di moti non se ne parlava nemmeno. E non erano certo i primi terremoti di cui si conservasse memoria storica: molti morti avvennero nel Forlivese già nel 1279 e ancora vittime e distruzione nel 1688. Altro che inaspettati. Oggi dovremmo essere consapevoli che quella fetta di pianura padana è a rischio sismico, anche se il pericolo non è eccessivo, se paragonato a quello di Messina o di Catania. Dal 1600 a oggi nella zona si sono registrati oltre 22 terremoti di rilievo. Il Ferrarese era considerata pericoloso già da tempo, tanto che Francesco IV d’Este concesse diversi finanziamenti straordinari, ma impose che i proprietari di case dovessero cavarsela da soli. Non solo: avevano anche l'incombenza di abbattere i comignoli pericolanti e ripulire le strade dalle macerie; ai meno abbienti avrebbe pensato, invece, un fondo di beneficenza. Eppure non pensiamo a questo come un territorio sismico e magari vogliamo imparentare questo sisma con quello de L’Aquila (comunque più distruttivo in quanto a forza). In realtà è un terremoto piuttosto simile a quello umbro-marchigiano del 1997: magnitudo simili (5,9 in quel caso), scosse di replica forti, praticamente lo stesso numero di vittime, identica situazione rurale fatta di piccoli centri abitati e importante patrimonio storico-monumentale in pericolo. La geologia è diversa e qui saremmo in pianura, ma bisogna abituarsi a pensare che nel sottosuolo padano c'è sempre una dorsale montuosa (quella ferrarese) che cerca il suo assestamento in tempi lunghissimi. È però forse ora di stabilire una differenza che in Italia si sta imponendo rispetto ai terremoti e al rischio naturale in generale. C’è un’Italia chiaramente identificata come sismica che tutti conoscono bene: la dorsale appenninica, la Sicilia, la Calabria e la Campania, vengono giustamente considerate le zone di massima allerta. Poi c’è un’Italia di seconda fascia del rischio che, siccome densamente abitata e spesso dotata di un patrimonio costruttivo di rilievo, ma spesso non manutenuto, può subire vittime e danni anche per terremoti di entità media. Questo vale anche per le alluvioni: chi ci mette in salvo da tutti quei piccoli fiumi soggetti alle bombe d’acqua? Questa Italia di seconda fascia è più pericolosa della prima, soprattutto perché non te lo aspetti e perché bastano eventi di piccola entità per fare danni rilevanti. Insomma il rischio si accresce non per colpa della natura o della geologia, ma solo ed esclusivamente per colpa nostra, che non vogliamo fare i conti con il rischio naturale quotidiano, accresciuto dal nostro moltiplicarci e dall’accrescersi delle nostre esigenze. Ora speriamo che il parallelismo con il terremoto umbro-marchigiano del 1997 finisca qui e non ci siano scosse di replica forti come la prima (o addirittura più violente, come avvenne in quel caso). Magnitudo 6 Richter dovrebbe essere la massima possibile per quella regione. Ci aspettiamo, comunque, settimane di repliche e notti insonni prima di tornare a prendere possesso delle case e iniziare a ricostruire. Sarebbe bene però mantenere viva la memoria, e muoversi di conseguenza: perché questa è la situazione tipica di gran parte del territorio nazionale, quella che conferisce un’identità paesaggistica all’Italia. Solo tre città superano il milione di abitanti, tutto il resto è fatto di Comuni piccoli e frazioni sparse per le campagne ormai antropizzate. In questa Italia ci sono i centri storici medievali, rinascimentali e barocchi insieme con i capannoni industriali. Mettere mano ai primi con limitati interventi può bastare, mentre i secondi vanno progettati con criteri antisismici, altrimenti farli d’acciaio non basterà. Il resto è un problema di cultura del rischio naturale. Ma non sembra in cima alle preoccupazioni della politica. da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10129 Titolo: MARIO TOZZI. Quegli infiniti secondi di terrore Inserito da: Admin - Maggio 31, 2012, 04:26:04 pm 30/5/2012
Quegli infiniti secondi di terrore MARIO TOZZI Esplode con la forza di cento ordigni nucleari, si nasconde nelle profondità della crosta terrestre spezzando le rocce più dure e frantumando case, strade e palazzi. Ci fa mancare la terra sotto i piedi e mina alla base la fiducia stessa nel pianeta che ci ha generati. A differenza degli altri eventi non si preannuncia in alcun modo, si approssima silenzioso e poi risuona con un rombo cupo che spaventa solo a ricordarlo. Dilata il tempo fino all'inverosimile: trenta secondi di scosse equivalgono a trenta minuti di terrore ancestrale. Finisce quando decide lui e poi riprende quando hai appena fatto in tempo a calmarti. E' contrario al senso comune, che ti spinge a precipitarti fuori casa, quando dovresti, invece, restare lì, e accoccolarti sotto un tavolo o un'architrave. Massacra le consuetudini quotidiane, sconcia i ricordi e di notte fa perfino tremare i sogni. Avevano ragione gli antichi, il terremoto è la catastrofe per antonomasia nel senso etimologico del termine, cioè l'evento che stravolge, che rovescia l'ordine costituito, che rovina per sempre. E' molto probabile che la stessa grande struttura geologica sepolta sotto la Pianura Padana che ha scatenato il terremoto del 20 maggio, sia ancora la responsabile ultima di queste scosse micidiali. Si tratta di un frammento di Appennino nascosto che rimane intrappolato nella spinta del continente europeo contro quello africano. E che per questo si spacca lungo una faglia lunga almeno quaranta chilometri. Solo che non si frattura tutto insieme (e forse non è un male), ma a strattoni, e ogni volta che si aggiusta fa tremare come una gelatina i sedimenti sabbiosi poco compatti della Pianura Padana. Sono sismi superficiali e per questo più dannosi, che possono risentirsi fino a Milano e in tutto il Nord. E sono destinati a presentare scosse di replica per settimane se non per mesi. E' vero che nessuna spiegazione può bastare a chi ha perduto parenti o amici o ha visto sbriciolarsi sotto gli occhi la propria casa, ma forse è venuto il momento di renderci conto che il nostro è un territorio a elevato rischio naturale. E non importa se si tratta di eruzioni vulcaniche, alluvioni, frane o terremoti: comunque non riusciamo a trovare una via di convivenza che altre nazioni hanno intrapreso con successo. Certo, il nostro patrimonio costruttivo è antichissimo e non abbiamo uno skyline di grattacieli, ma di palazzi e chiese. Preoccuparsi dell'infragilimento di questo patrimonio non è solo questione di sicurezza, ma anche occasione di rilancio e di sviluppo ragionato. Invece in nessun programma politico locale o nazionale compaiono questi temi, nemmeno quando si ricorda che la nazione più grande del mondo ripartì proprio dalla messa in sicurezza del proprio territorio dopo la crisi del 1929, attraverso un New Deal incentrato sulla mitigazione del rischio idrogeologico (anche se fatto a colpi di acciaio e cemento). E' vero, il terremoto mette addosso una paura atavica, primordiale che sa di polvere e di battaglia, quella ancestrale degli uomini contro la terra che diventa inospitale. E invece il terremoto è solo una testimonianza sfacciata della forza dinamica di un pianeta che è vivo e che muta costantemente i suoi equilibri. E l'Italia è uno dei paesi più giovani e geologicamente attivi del Mediterraneo: sarebbe bene adattarsi a questa condizione che non dipende in alcun modo da noi. Mentre da noi dipende la possibilità di convivere armonicamente con la natura di questo paese, se non trascuriamo la memoria e se a ricordarcelo non fossero sempre e solo le vittime. da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10163 Titolo: MARIO TOZZI. Se il cane abbaia prima della scossa Inserito da: Admin - Giugno 02, 2012, 10:25:08 am Cronache
01/06/2012 - IL CASO Se il cane abbaia prima della scossa Le leggende (da sfatare) sul sisma Le «verità» rivelate sul sisma e amplificate soprattutto dal web Tutte, o quasi, false: eccole MARIO TOZZI Animali Si sente spesso dire che c'è aria di terremoto, come una cappa afosa, anche in inverno, che preluderebbe al sisma. Come l'agitazione di cani, gatti, galline e maiali. A parte il fatto che i poveri maiali restano sotto le macerie come gli uomini, il boato del terremoto si risente anche nel campo degli ultrasuoni non percepiti dagli umani, ma dagli animali. Solo però qualche decimo di secondo prima della scossa. E i fenomeni meteorologici avvengono migliaia di metri sopra le nostre teste, quelli sismici decine di migliaia sotto i nostri piedi: nessuna relazione è possibile. Cratere Si continua a utilizzare la similitudine nata in Irpinia con il terremoto del 1980 che interessò una vallata simile a un cratere. Il paragone deriva anche dal fatto che i paesi distrutti si presentavano con quella forma. Ma i crateri sulla Terra li fanno solo i vulcani e le bombe. Perforazioni & estrazioni I terremoti emiliani dipendono dall'estrazione di gas dal sottosuolo padano? Trivellazioni e pozzi, indagini di prospezione, o la tecnica dell'allargamento delle fratture nel terreno per sfruttare i giacimenti (fraking) provocherebbero crolli sotterranei e dunque voragini e sismi. In questo caso dovremmo registrare molti terremoti in Arabia Saudita, Texas e Mare del Nord. E, al contrario, basterebbe fermare quei progetti per ottenere una nuova calma tettonica. Non ci sono cavità sotterranee che contengono idrocarburi o acqua, ma la roccia funziona come una spugna imbibita. L'estrazione provoca un locale costipamento dei serbatoi rocciosi che possono portare a un lento sprofondamento del suolo che si chiama subsidenza e che è ben noto in Pianura Padana. Ma che è proprio il contrario di un terremoto, che avviene molto rapidamente e più in profondità. Nessun pozzo scavato dagli uomini supera i 14 km di profondità, mentre i terremoti arrivano fino a 700 km. Previsione Sarebbe la scoperta scientifica del secolo, se fosse vera. Andrebbe però verificata in un contesto internazionale permettendo di riprodurla in altri laboratori, cosa che, curiosamente, non mai stata fatta. Sostenere che «tra marzo e novembre ci sarà un terremoto di magnitudo superiore a 5 fra Modena e Ferrara» non è nemmeno una previsione, visto che la distanza è di 59 km e 270 giorni sono tanti. E poi, cosa si dovrebbe fare, evacuare le due province per nove mesi? Anche a L'Aquila si fece una «previsione», che, in realtà, riguardava Sulmona e un lasso di tempo di mesi. Purtroppo i terremoti non si possono prevedere e solo una volta, in Cina nel 1975, è stato possibile farlo, ma in quell'occasione succedeva qualsiasi cosa: il terreno si alzava e si abbassava, c'erano continue scosse sensibili, si seccavano sorgenti, si liberava gas. Il regime cinese evacuò la regione di Haicheng e il terremoto fece «solo» mille vittime. Ma l'anno successivo il Tangshan fu scosso dal più disastroso terremoto di sempre, con oltre mezzo milione di morti. Liberazioni di gas radon dal sottosuolo possono essere utilizzate a questo scopo, ma è ancora presto per trarne schemi scientifici oggettivi. Armi micidiali Terremoti indotti dagli uomini e programma Haarp (High Frequency Active Auroral Research Program). In Alaska si sta sperimentando un sistema (Haarp) per provocare onde radio di debole intensità nella ionosfera per motivi civili e militari. E', invece, un tentativo di creare un'arma micidiale, una specie di cannone elettromagnetico che possa indurre terremoti? Nessuna forza controllata dall'uomo è in grado di generare terremoti di magnitudo elevata a distanza: la crosta terrestre ne modifica talmente il tracciato da non poter assolutamente indirizzare le onde sismiche eventualmente generate. Negli Anni 60 e 70 gli esperimenti atomici sotterranei di russi, cinesi e statunitensi hanno creato terremoti, ma deboli e ben riconoscibili su un sismogramma. L'aspetto assurdo è che i test cinesi avrebbero scatenato terremoti in Alaska e quelli statunitensi in Iran, scatenandosi due o tre giorni dopo l'esplosione. Un terremoto come quello emiliano sprigiona l'energia di decine di ordigni atomici che esplodono tutti insieme lungo una faglia in profondità. da - http://www3.lastampa.it/cronache/sezioni/articolo/lstp/456527/ Titolo: MARIO TOZZI. Non esistono catastrofi naturali, esiste l’incuria umana Inserito da: Admin - Giugno 04, 2012, 09:43:03 am Mario Tozzi: “Non esistono catastrofi naturali, esiste l’incuria umana”
Il noto geologo, ricercatore del Cnr, denuncia: l’Italia è un paese dove si ha come unica priorità il guadagno e in cui si usa la presunta emergenza abitativa come scusa per cementificare ogni lembo del territorio. Così aumenta il rischio sismico e anche idrogeologico. Intervista a Mario Tozzi di Mariagloria Fontana Il nostro è uno dei Paesi a maggiore rischio sismico del Mediterraneo. Che tipo di prevenzione si può fare? È un Paese che ha costruito troppo e non ha saputo manutenere nulla. In questo senso, va ripensato il territorio. La questione del recente sisma in Emilia è molto più grave di quanto non appaia. Guardando le immagini in onda in questi giorni in televisione, si vedono molti casali distrutti in mezzo alla campagna. Erano edifici vuoti, disabitati, non li hanno manutenuti e sono caduti, ma perché qualcuno non ha pensato a eliminarli o a ristrutturarli? Continuiamo a costruire senza criterio. Così facendo esponiamo le case al rischio. Questa è la filosofia del nostro Paese. Come potrebbe intervenire la politica? La politica dovrebbe invertire questa tendenza. Basta con le concessione edilizie date a chiunque. Basta con il consumo di suolo e di territorio che non fanno altro che aumentare il rischio sismico e anche idrogeologico, soprattutto quando ci sono eventi come terremoti e alluvioni. Al contrario, la politica dovrebbe impiegarsi nel fare programmi di ristrutturazione e di riconversione ecologica e di sicurezza delle abitazioni e delle opere pubbliche. Ci sono degli aspetti dei terremoti che possono essere prevedibili? No. Ci sono segni che sono così poco evidenti che non riusciamo ancora a individuare il come e il quando avverrà il terremoto. Ricordo solo un caso in cui prevedemmo un sisma catastrofico. Era il 1975 in Cina, ma fu possibile soltanto perché i segnali erano talmente tanti e tali che a quel punto si diede l’allarme generale e si fecero evacuare tutte le zone interessate. Morirono ‘solo’ mille persone, se ne salvarono ben 150.000. Mentre nel terremoto contiguo persero la vita in 500.000. Anche la storia del gas radon che esce dal sottosuolo e che a seconda della sua diminuzione o del suo aumento sarebbe sintomatico di un prossimo terremoto ancora non permette di sistemare è soltanto ancora un’idea. Non siamo in grado di prevedere il terremoto, possiamo dire quali sono le zone pericolose. Inoltre, ritengo fuorviante ciò che si dice sulla previsione, perché se ci si occupa della previsione si diventa disattenti verso la prevenzione, che è l’unico strumento che si possiede per evitare catastrofi. Io dico sempre: cercate di costruire meglio e non fate i veggenti. Cosa ne pensa dell’inchiesta che il procuratore capo di Modena Vito Zincani ha aperto in seguito alle morti causate dai crolli dei capannoni durante il sisma? Credo che faccia bene ad aprire un’inchiesta, perché ci può essere sempre qualcuno che ha barato, per esempio sui capannoni costruiti dopo il 2003, vale a dire quando c’era già in vigore una legge sulle costruzioni antisismiche. Se non hanno costruito con i giusti criteri, devono pagarne le conseguenze. Però se, al contrario, si tratta di capannoni più vecchi del 2003, cioè quando non si aveva l’obbligo antisismico, si costruiva al meglio che si poteva, come se quella zona non fosse sismica. Naturalmente questo tipo di prassi si è rivelata un grosso errore. Certo, ci può essere stata qualche perizia geologica non completa nel sottosuolo perciò si potrebbe non aver tenuto conto di effetti locali di amplificazione di alcune onde, ma mi pare non più di questo. Non so a che cosa porterà questa inchiesta. Tuttavia, se servisse di monito per il resto d’Italia, un senso ce l’ha. Zincani, parla di ‘politica industriale suicida’. Bisogna vedere se queste parole sono giustificate dal fatto che lui sa qualche cosa. Se qualcuno ha spostato un pilone per far passare meglio le macchine, se ha alleggerito la struttura facendo qualche intervento successivo. Oppure se si tratta di progetti leggeri, nessuno era obbligato a fare progetti pesanti prima del 2003. Quindi mi sembra difficile imputare una responsabilità a qualcuno che ha costruito qualcosa secondo le regole vigenti allora. Vedremo di che cosa si tratta. Lei sta affermando che nessuno di noi è al sicuro dentro le proprie abitazioni se sono state edificate prima del 2003? Nessuno può essere al sicuro nel caso di un sisma, perché molto dipende da come è stato costruito l’edificio. Persino di fronte a terremoti non particolarmente energetici, se non si controlla l’edificio, se non sono stati fatti dei piccoli interventi, non si è sicuri. Questo lo dobbiamo sempre tenere presente. Anche quando dicono che Roma è sicura perché è vuota, non è del tutto vero. Nella capitale ci sono edifici vetusti che appoggiano su una struttura geologica che amplifica le onde. Roma non ha terremoti suoi, ma quando ne arriva uno forte dagli Appennini ne risente. Ripeto: è un paese che va ripensato da un punto di vista delle costruzioni. Quanto entra in gioco la responsabilità umana durante avvenimenti come il sisma che ha colpito l’Emilia o l’alluvione a Genova nell’ottobre scorso? Le catastrofi naturali non esistono. Ci sono eventi naturali che diventano catastrofici per colpa dell’incuria umana. In Giappone e in California si è fatto molto in relazione alla prevenzioni antisismica. L’Italia può prendere esempio da questi Paesi? Il nostro patrimonio costruttivo è molto diverso. Il patrimonio della California non è più vecchio di duecento anni. Il Giappone è più antico, ma sono abituati da sempre a convivere con il sisma. Infatti il loro modello deriva dalla pagoda birmana che oscilla, è costruita attorno a un asse, che è un palo centrale, ed è sferica. Però loro non possiedono il patrimonio medioevale, rinascimentale, barocco che invece caratterizza noi. Sulle costruzioni moderne, i giapponesi sono stati bravi, efficienti, noi invece abbiamo costruito approssimativamente pensando solo al guadagno. Sovente si parla di materiali antisismici. L’acciaio è molto utilizzato. Lei cosa può dirci a riguardo? L’acciaio è un materiale ottimo per i terremoti perché è molto elastico. Però se non c’è un progetto antisismico alla base della costruzione anche l’acciaio, come il cemento armato, non funziona, perché non li hai assemblati in maniera da poter resistere al terremoto. Il problema non è il materiale, ma il fatto che accanto ai materiali non si sia affiancato un progetto antisismico. La tutela e l’etica del paesaggio che ruolo giocano? Rilevantissimo. La tutela è di tre gradi. Il primo livello è la tutela dei cittadini. Oltre il 50% del territorio italiano è a rischio sismico, poi ci sono alluvioni e vulcani. In alcuni luoghi non si può costruire, ci si deve spostare. Il secondo grado riguarda il fatto che si debba costruire in maniera più efficiente e con tutti i parametri, perché sprechiamo moltissima energia nelle case e abbiamo solo un terzo dei consumi. Infine, si deve edificare rispettando il paesaggio naturale, il contesto e l’ambiente circostante. Quali sono i parametri per poter rispettare il paesaggio? Il primo precetto è che non si deve consentire l’abuso edilizio. Mai. Non solo, non si deve consentire di consumare più suolo. Alcune provincie stanno provando a metterlo in atto, ad esempio Torino. Nei nuovi piani regolatori non ci deve essere più il consumo di suolo, perché è già consumato. Negli ultimi 40-50 anni, oltre tre milioni di ettari, stiamo parlando di un pezzo grosso di nazione, sono diventati: case, strade e cemento, senza alcuna necessità, visto che la popolazione italiana è cresciuta molto poco. Dunque, la priorità sarebbe ristrutturare il patrimonio esistente, cambiare completamente i piani e le cubature che invece prevedono ancora consumo di suolo. Ogni anno in Italia si consumano 150 mila ettari di suolo, non ce lo possiamo permettere. In Inghilterra ne consumano 30.000, in Francia e Germania 40.000. Se si pensa al piano casa della Regione Lazio: è assurdo, una sciagura. Addirittura vogliono costruire nelle aree protette. I politici promotori del piano casa del Lazio lo giustificano secondo criteri di sviluppo, come se in un paese moderno lo sviluppo dovesse essere ancora legato all’edilizia! Non siamo in tempi di guerra. Nessuno gliel’ha detto? È una politica propria di un paese del Terzo Mondo. E l’emergenza abitativa? Non esiste l’emergenza abitativa, ci sono 30 milioni di vani sfitti. L’Italia è un paese che si duplica continuamente con seconde e terze case. Mettiamo un freno a questo nonsense edilizio. Nel nostro Paese quasi l’80% delle persone è proprietaria dell’immobile. Per non parlare della tutela del bello, del valore estetico delle costruzioni. C’è uno schifo generale. L’unica esigenza a cui si risponde è quella di fare mattoni e cemento, perché si pensava e si pensa ancora che quella sia l’unica fonte di guadagno. Soltanto per questo scopo si continua a costruire. Investiamo tutto nelle case. Siamo un paese arretrato che vive nell’approssimazione, non sopporta le regole e gestisce male le emergenze. In più, riusciamo a muoverci male persino nell’ordinario. (1 giugno 2012) da - http://temi.repubblica.it/micromega-online/mario-tozzi-non-esistono-catastrofi-naturali-esiste-l%E2%80%99incuria-umana/ Titolo: MARIO TOZZI. Cosa c'è sotto l'Italia Inserito da: Admin - Giugno 10, 2012, 11:19:25 pm 9/6/2012
Cosa c'è sotto l'Italia MARIO TOZZI Sotto la Pianura Padana, il luogo anche simbolicamente più tranquillo e produttivo del paese, non c’è un mostro e nemmeno un killer silenzioso e infido. Però là sotto si annida una realtà geologica che non rassicura e che, anzi, allarma cittadini e istituzioni. Successioni di rocce stratificate che giacciono piegate e spezzate al di sotto dei sedimenti sabbiosi del Po, un frammento avanzato del continente africano che si scontra con quello europeo da milioni di anni. Da questa collisione sono nati Alpi e Appennini, e da questa collisione derivano i fenomeni vulcanici del Sud Italia e, più o meno direttamente, i sismi dell’intero Paese. Conosciamo bene questa grande piega sotterranea allungata per decine di km in direzione Est-Ovest da Modena a Ravenna. È ben rappresentata nelle mappe e nelle sezioni geologiche e sappiamo che si trova attualmente in uno stato di stress attivo che ha già generato almeno tre rotture di rocce in punti diversi: Finale Emilia, Mirandola e Ravenna per semplificare. Purtroppo l’osservazione diretta di queste strutture geologiche non è possibile: non basterebbe un solo pozzo e il più profondo che gli uomini abbiano mai scavato arriva appena a 14 km, contro una fascia sismica terrestre che può toccare i 700 km di profondità. Per questo è possibile fare una previsione del tempo e non una del terremoto: non riusciamo a guardare in faccia gli elementi che si scontrano in profondità e possiamo solo condurre deduzioni indirette, fondate su pochi dati del sottosuolo e sulla geologia di superficie. Non sappiamo perciò, e non possiamo sapere, quando la struttura accumulerà abbastanza tensione per rompersi ancora, ma sappiamo che lo farà prima o poi, perché quella tensione è in accumulo ed è quell’accumulo che ha generato la struttura stessa. Sono i dati geologici a dircelo più che quelli sismologici: non si sono riscontrati, per intenderci, fenomeni eclatanti che potrebbero portare a una previsione o a un allarme: non si intorbidano le acque, non si sprigionano gas dal sottosuolo. Un dato che abbiamo (del Cnr) è che, dopo la scossa del 29 maggio, il suolo nell’area si è sollevato di 12 cm, anche se questo non vuol dire che si approssimi un sisma. Non possiamo prevedere i terremoti, ripetono gli esperti come in un mantra, ed è vero; ma possiamo prestare attenzione al quadro geologico complessivo quando questo si è improvvisamente attivato dopo cinquecento anni, come è accaduto nel Ferrarese. Sappiamo che le scosse di replica si susseguiranno per settimane, che ce ne possono essere di magnitudo comparabile a quella iniziale e non possiamo escludere che un altro segmento di quella struttura sepolta si possa riattivare. Quello che però meglio sappiamo è che una scossa che dovesse colpire ancora le zone in cui le strutture sono state così indebolite sarebbe estremamente più distruttiva della magnitudo che potrebbe sviluppare. E sappiamo che scosse che dovessero colpire il settore orientale dell’Emilia troverebbero quegli abitanti e quelle case impreparati come i cittadini di Finale o di Mirandola. Molte volte l’energia del sottosuolo si è accumulata per mesi e poi si è liberata asismicamente oppure si è cristallizzata: questa è la speranza. da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10210 Titolo: MARIO TOZZI. Rio+20, è finito il tempo dei summit Inserito da: Admin - Giugno 25, 2012, 10:16:06 am 23/6/2012
Rio+20, è finito il tempo dei summit MARIO TOZZI Davvero non vale la pena interrogarsi su quale straordinaria occasione si sia sprecata a Rio, vent’anni dopo il primo summit sulla Terra. Già in quell’occasione abbiamo sentito gli stessi allarmi e le stesse identiche lamentele. Oggi c’è un solo punto di novità: la crisi economica gravissima che ci attanaglia. E che relega ancora di più l’ambiente in fondo alle preoccupazioni degli uomini del pianeta Terra. Poteva essere il momento giusto per comprendere la connessione fra la crisi economico finanziaria e il deficit ecologico che abbiamo scatenato in quegli ecosistemi che sono alla base del nostro benessere. Si sarebbe potuto discutere in modo meno ridicolo sugli aggiustamenti sintattici di protocolli sempre meno impegnativi e un po’ di più di cose concrete da fare. Si poteva proporre un modello nuovo di sviluppo che non fosse basato solo sulla crescita quantitativa, ma su efficienza e equilibrio, anche a favore di chi verrà dopo di noi. La riconversione ecologica del pianeta è inevitabile e non si può produrre una crescita infinta da sistemi naturali che sono, per definizione, finiti. Ma quello che a Rio nel 1992 era un dubbio oggi è diventato una certezza: sono pochissimi gli uomini e i governi che si impegnano a cambiare rotta se gli eventi non diventano davvero drammatici. Si può opporre al cambiamento climatico l’abitante degli atolli oceanici minacciati direttamente dall’innalzamento del livello dei mari, non il cittadino statunitense del Midwest o il cinese di Shanghai che non si avvedono di alcun problema. I danni ambientali non vengono scaricati tutti insieme su una nazione progredita come un’alluvione, ma si distribuiscono giorno per giorno accumulandosi in maniera per ora impercettibile. Come si può pensare a una reazione significativa se il danno non è percepibile immediatamente? Per questo forse il tempo dei grandi summit sulla Terra è finito: non solo non bastano più, ma rischiano anche di produrre un effetto indesiderato, quello di un rumore di fondo da cui è difficile estrapolare le emergenze reali. Se tutto è emergenza come si fa ad allarmarci ancora? Ciò non significa che le emergenze ambientali non siano gravi, tutt’altro, ma gli uomini quasi non vogliono più sentire che la temperatura media dell’atmosfera si innalzerà di 4°-5°C, perché fino a che lo sconvolgimento climatico non precipita sembra quasi inutile agitarsi. Ormai lo sappiamo benissimo: la sovrappopolazione e la crisi ecologica porteranno alla fine delle risorse e delle fonti energetiche tradizionali, all’inquinamento generalizzato e alla perdita di benessere del genere umano. Ma, siccome ancora non succede, possiamo sempre sperare che avvenga il più tardi possibile. Se non se ne può più di conferenze sulla Terra, però non sarebbe giusto gettare l’acqua con tutto il bambino e si potrebbe recuperare una delle parole d’ordine del movimento ecologista mondiale: pensa globalmente e agisci localmente. Forse così si potrebbe avere una qualche possibilità di successo: è difficile difendere l’integrità della foresta amazzonica, anche se vale la pena farlo, se si abita a New York o a Milano. Lo dovrebbero fare in prima persona coloro che da quella foresta traggono ragione di vita sostenibile, cioè le popolazioni locali verso cui dovrebbero essere indirizzati, direttamente sul posto, gli aiuti internazionali. Soldi e energie agli autoctoni, non ai governi. Insomma, impedire che il bosco sotto casa venga ingoiato dal cemento è più facile che non difendere astrattamente la foresta globale della Terra. Se si agisce localmente senza dimenticare la dinamica globale terrestre, ecco che anche la traduzione politica di quanto viene detto a Rio può diventare efficace. E in più si supererebbe l’effetto frustrante di agitarsi per grandi battaglie che non arrivano quasi mai al successo pieno. Difendiamo l’albero per difendere la foresta, l’individuo per la specie, il fiume per il mare e allora forse avremmo fatto un passo in avanti. A meno di non sperare nella risposta ultraliberista: niente più protocolli vincolanti ma solo la libera iniziativa degli stati. Ma se il libero mercato fosse in grado di risolvere quella che è la più grande sfida che l’umanità si sia mai trovata di fronte lo avrebbe già fatto, senza attardarsi così pericolosamente vicino al punto di non ritorno. da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10257 Titolo: MARIO TOZZI. Quanto costa l'indipendenza energetica Inserito da: Admin - Agosto 04, 2012, 09:42:36 am 2/8/2012
Quanto costa l'indipendenza energetica MARIO TOZZI Mario Tozzi risponde al commento di Joseph S. Nye pubblicato martedì che sosteneva che la strada dell’indipendenza energetica sarà decisiva per la ripresa Usa. Il fatto che in pochi anni gli Stati Uniti diventeranno pressoché autonomi da un punto di vista energetico è senz’altro un’ottima notizia per quel Paese. Ma lo è altrettanto per il resto del mondo e per l’ambiente del pianeta Terra? La risposta è no, per una serie di motivi. L’autonomia energetica si realizzerà attraverso coltivazioni petrolifere più spinte e un miglioramento tecnologico nello sfruttamento dei serbatoi di gas naturale che terrà anche conto dei problemi ambientali prodotti. Se ne terrà conto, però, solo da un punto di vista economico, cioè dell’incremento di spesa da calcolare perché lo sfruttamento sia ancora conveniente. E le conseguenze ambientali e sulla salute degli uomini che bruciare idrocarburi inevitabilmente provoca, quando vengono calcolate? Considerare questi solo costi esterni, come si è fatto finora, produce un danno gravissimo e induce a considerare le fonti energetiche tradizionali come competitive quando in realtà non lo sono affatto. Un chilovattora prodotto attraverso gli idrocarburi, il carbone o l’uranio, non ha un costo che è possibile fissare a priori, come invece si fa per le energie rinnovabili, perché dipende da quanti morti e inquinamenti produrrà, parametro difficile da considerare in anticipo. Un costo sociale che verrà comunque addossato alla comunità e non accollato a chi lo ha prodotto. Insomma, si tratta di un scelta dannosa dal punto di vista ambientale e sociale che, oltretutto, rimanda di pochi anni il problema più grave di tutti, quello dell’esaurimento inevitabile delle riserve. In ogni caso oltre il 40 per cento degli idrocarburi resta nelle rocce, anche utilizzando le tecnologie più spinte che, comunque, danneggiano l’ambiente e sono dispendiose dal punto di vista energetico. Si arriva al paradosso degli scisti bituminosi, che abbisognano di più energia per estrarli di quella che se ne ricava bruciandoli, provocando, nel contempo, disastri ecologici senza fine. Ci si illude di tirare a campare per qualche altro anno e nel contempo si spingono anche le altre nazioni potenti o emergenti a comportarsi nello stesso modo: se riduco i costi dei combustibili fossili, allora perché cercare altre vie ancora incerte e ancora più care (solo in apparenza, per le ragioni sopra citate a proposito di esternalità)? Di più: perché allora non riaprire le esplorazioni nelle regioni ancora interdette? Si può trivellare in Artico, con buona pace degli orsi bianchi in estinzione, anche se da qui non si ricaverà un incremento maggiore del 2-4 per cento sulla produzione nazionale degli Usa. E in Antartide, dove un trattato internazionale del 1959 impedisce le perforazioni - ancora non si sa per quanto tempo. La cosa può avere un riflesso anche da noi: concessioni per esplorazioni petrolifere vengono richieste e promulgate in regioni sensibili da un punto di vista ambientale come le coste tirreniche campane o siciliane. Non si tratta di siti particolarmente prospettivi da un punto di vista geologico, ma se un domani si potessero inseguire gli idrocarburi a profondità oggi impensabili (non si superano i 7000-8000 metri) si scatenerebbe una guerra per i target profondi dalle conseguenze ambientali inimmaginabili. Pensiamo per un attimo a quanto accaduto solo due anni fa nel Golfo del Messico con l’incidente alla piattaforma Deepwater Horizons. Per non parlare dell’impatto paesaggistico, come viene giustamente fatto notare a gran voce dalle associazioni ambientaliste che chiedono la cessazione delle attività prospettive off-shore. Il gas naturale è senza meno l’affare commerciale del XXI secolo: conviene economicamente rispetto al petrolio e al carbone, e ci sono riserve ancora sufficienti per oltre 50 anni. Possiede anche qualche vantaggio ambientale: non produce ceneri o particolato, rilascia meno anidride carbonica nell’atmosfera e brucia in modo più efficiente rispetto a carbone e petrolio. L’anidride carbonica che si produce dalla combustione del gas è fino al 30% inferiore rispetto a quella prodotta con il petrolio, e fino al 50% in meno di quella che emette il carbone. Questo vale anche per gli altri inquinanti: in un Paese come l’Italia - usando il gas invece di altre fonti - in un anno si emettono in meno 84 milioni di tonnellate di CO2, 660.000 tonnellate di ossidi di zolfo e 114.000 di ossidi di azoto e, non meno importante, 47.000 tonnellate in meno di polveri. Dunque non si producono ceneri, né particolato e molta meno anidride carbonica rispetto alle altre fonti tradizionali. Ma, come gli altri, il gas inquina e incrementa il surriscaldamento atmosferico e, come gli altri, costa e non è inesauribile, anche se durerà un po’ più a lungo. Siamo sicuri che occorrerà aspettare la fine di tutti gli idrocarburi per dichiarare conclusa la nefasta età del petrolio? da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10396 Titolo: MARIO TOZZI. Berremo vino norvegese? Inserito da: Admin - Agosto 09, 2012, 05:45:35 pm 9/8/2012
Berremo vino norvegese? MARIO TOZZI Iniziare la vendemmia nostrana nel giorno più caldo dell’anno, ancora all’inizio di agosto, colpisce il nostro immaginario più del calo della produzione che pure giustamente preoccupa gli agricoltori. Ma già da qualche anno non è più settembre il mese dedicato alla raccolta dei grappoli e la fascia climatica della vite si sta spostando con rapidità verso nord in tutta Europa. Fra qualche anno anche gli ulivi potrebbero iniziare a migrare più a settentrione e stessa sorte potrebbe toccare a molte coltivazioni tipiche del Mediterraneo meridionale come le palme. Spostamenti del genere non ci dovrebbero sorprendere, basti pensare che, tra l’XI e il XIII secolo, si vendemmiava allegramente perfino in Cornovaglia e lungo il Tamigi, mentre, ai tempi di Erik il Rosso, l’orzo veniva mietuto in Islanda e perfino in Groenlandia. Fino al 1500 a.C. la temperatura media dell’emisfero boreale era più elevata di circa 3°C (in media) rispetto a quella attuale. Oscillazioni caldo-freddo si susseguirono poi fino alla fine dell’epoca romana (V secolo), quando iniziò un brusco raffreddamento fino all’800 e poi un riscaldamento fino al 1250. Ma già nel 1315 freddo, ghiaccio e carestie diedero un segno di come il clima influiva sulla vita degli uomini: precipitazioni intense riducevano tutto a pantani fangosi, il grano non maturava più e, nel ciclo più freddo (fra il 1680 e il 1730), non si riusciva neppure a riscaldare le abitazioni delle isole britanniche, al cui interno si arrivava a malapena ai 3°C. Dal 1300 al 1850 circa l’Europa e l’emisfero settentrionale furono investiti da un peggioramento climatico senza precedenti. Il Tamigi ghiacciò diverse volte in quei secoli, tanto che poteva esser ridisceso in slitta; nel 1440 la viticoltura scomparve dalla Gran Bretagna. E tutto questo in ragione di solo mezzo grado centigrado in meno nelle temperature medie invernali rispetto al XX secolo: sono sufficienti centesimi di grado per mettere in pericolo intere popolazioni e cambiare la storia, figuriamoci per stravolgere l’agricoltura. Il clima cambia da sempre, anche se il mutamento attuale ha qualcosa di diverso. Intanto è molto veloce e molto robusto, tanto da risentirsi in poche stagioni su coltivazioni tradizionalmente stabili. Poi è a scala globale, cioè riguarda tutto il pianeta. Infine porta come corollario uno sconvolgimento meteorologico che è ancora più pesante: tempeste fuori stagione e fuori dalle regioni tradizionalmente interessate, bombe d’acqua vere e proprie, trombe d’aria e dissesti generalizzati. Siccome insieme alle fasce climatiche si sposta il mondo vegetale nel suo complesso, tutto ciò ha un impatto micidiale per l’agricoltura, che ancora più ne risentirà nei prossimi anni. Oltretutto le piante, per definizione, non si spostano velocemente, dunque potrebbe accadere che si traslino le tradizionali zone di produzione di vini per portarle più a nord; ma si sa che, oltre al clima, contano il vitigno e soprattutto il suolo: si potrà produrre il Nero d’Avola in Friuli? O l’Aglianico in Piemonte? Per non parlare della possibilità che i vini italiani si ritrovino domani a competere con rinomati rossi magari della penisola scandinava. da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10416 Titolo: MARIO TOZZI. Nell’attesa del diluvio come nel Medioevo Inserito da: Admin - Ottobre 15, 2012, 06:04:01 pm Editoriali
15/10/2012 Nell’attesa del diluvio come nel Medioevo L’allerta meteo di Roma ci scopre indifesi e senza alcuna cultura del rischio naturale Mario Tozzi Vi scrivo mentre fa notte nell’attesa del diluvio su Roma. Come gli uomini del Medioevo, che si asserragliavano nelle case mentre le guardie spegnevano le ultime fiaccole e si chiudevano i cancelli delle città, così i romani aspettano le ultime ore di quiete prima della tempesta. Fa un caldo ancora esagerato, e questa è una delle ragioni dell’acuirsi dei fenomeni meteorologici violenti: c’è troppo calore atmosferico in giro, come a dire molto alimento per le tempeste. La Protezione Civile ha diramato messaggi inquietanti e ha suggerito di non mettersi in movimento per 72 ore. Forse è rimasta scottata dalle ultime polemiche con gli amministratori locali, che hanno sempre sostenuto di non essere stati avvertiti in modo soddisfacente, e allora solleva allarmi pure quando non è indispensabile. Ma forse si è semplicemente arrivati alla convinzione che il clima sta cambiando rapidamente e che oggi si rovesciano in pochi minuti quantità d’acqua che un tempo cadevano in settimane. E del resto come condannare questo atteggiamento iperprudente, quando si ripensa alle ultime emergenze capitoline in cui gli amministratori locali hanno fatto spesso la figura di coloro che non capiscono e non vogliono capire. Hanno confuso i centimetri di neve con i millimetri di pioggia, hanno sottovalutato le ondate di calore, hanno visto la città eterna affogare sotto un metro di acqua e fango mentre i tombini erano occlusi dalle foglie morte. Peggio di così è difficile. Ma anche il loro comportamento denuncia una verità che non si può più sottacere: siamo oggi indifesi rispetto agli eventi climatici né più né meno di quanto lo fossero i nostri antenati medievali. Ci siamo modernizzati negli allarmi, però, e la Roma di questa vigilia del diluvio assomiglia a New York che aspetta il tifone o a Miami che viene evacuata nelle imminenze di un uragano. Strumenti di monitoraggio sofisticatissimi ci permettono di seguire le tempeste minuto per minuto dalla loro formazione. Ma nessuno strumento ci riesce ancora a difendere dal vento, dai fulmini, dalla pioggia e dalla neve. E così me ne sto chiuso in casa e domani non mi sposterò ne porterò mio figlio alle elementari, mentre ancora non si sa se le scuole saranno chiuse d’ufficio oppure no. Purtroppo la nostra percezione degli eventi naturali a carattere catastrofico è sempre la stessa: ne abbiamo una paura tremenda ma non facciamo nulla, ma proprio nulla, per prevenirli. Soprattutto nelle grandi città, dove vive ormai oltre la metà delle persone del pianeta, sclerotizzate dal cemento e da argini impossibili e ponti strettissimi, dimentichi di quei fiumi che pure sono stati padri delle loro civiltà. Chi si ricorda oggi del Tevere a Roma? Eppure senza il fiume sacro non ci sarebbero stati civiltà, acquedotti e strade. Oggi è ridotto a un rigagnolo di acqua melmosa precipitato in fondo a argini di pietra che lo sottraggono al respiro dei cittadini. Però non è ancora del tutto domato, e sarebbe in grado di esondare a Ponte Milvio e invadere perfino la Città del Vaticano e Trastevere in poche ore. Il nostro territorio è sempre più impreparato alle bombe d’acqua che arriveranno e certamente non è una questione tecnologica o di saperi scientifici che ormai sono acquisiti. E’ una questione di mancanza di cultura del rischio naturale in una popolazione che si ritiene generalmente immune fino a che un’impossibile previsione di terremoto o di tempesta non gli sbatte in faccia la realtà naturale che cerca di tenere fuori di casa per la maggior parte dell’anno. E abbiamo così tanti problemi che è meglio contare sulla buona sorte: vedrai che la scampiamo anche stavolta. da - http://lastampa.it/2012/10/15/cultura/opinioni/editoriali/nell-attesa-del-diluvio-come-nel-medioevo-LIQyOThdWkkjuNlMkaN44M/pagina.html Titolo: MARIO TOZZI. Terremoti, sarà sempre allarme Inserito da: Admin - Ottobre 23, 2012, 06:02:30 pm Editoriali
23/10/2012 Terremoti, sarà sempre allarme Mario Tozzi Una sentenza assolutamente incomprensibile da un punto di vista scientifico, e profondamente diseducativa. Una sentenza con la quale finalmente l’Italia si allinea con gli altri paesi del mondo dove gli scienziati vengono condannati dai tribunali teocratici e il terremoto considerato un castigo divino. Lo stesso atteggiamento usato, quasi due secoli fa, verso gli insorti risorgimentali emiliani cui si imputavano i danni dei sismi insieme allo sconvolgimento sociale. Nell’attesa di conoscere le motivazioni della sentenza possiamo forse puntare l’indice contro qualche parola eccessivamente rassicurante degli esperti, ma solo per invitare comunque a un maggiore riserbo. Quello che resta è però un punto di svolta gravido di conseguenze potenzialmente devastanti. Da oggi in poi nella sola Italia, si badi bene, perché una sentenza simile non è neppure immaginabile in altri paesi moderni, a ogni registrazione di uno sciame sismico persistente (diversi all’anno) i ricercatori dovranno allertare la Protezione Civile e obbligare allo sgombero di province e intere regioni. Nel caso specifico de L’Aquila nessuna previsione puntuale era stata fatta e qualcosa si era detto solo a proposito di Sulmona che, peraltro, non subì alcun sisma. La ragione è presto detta: i terremoti non sono ancora prevedibili, nonostante tutti gli sforzi dei ricercatori, e solo se dovessero concorrere fenomeni eclatanti si potrebbe, a ragione, allertare o evacuare. Per intenderci, tremori continui per giorni, rilascio di gas dal sottosuolo, gonfiori o avvallamenti del terreno, frane, sorgenti che si intorbidano e pozzi che si seccano. Questo quadro non era presente nell’Abruzzo del marzo 2009. Che si doveva fare: sgomberare l’intera regione? E quante volte l’anno lo si dovrebbe fare lungo la dorsale appenninica? E, se ci è consentito, chi è il consulente tecnico d’ufficio del Tribunale (il perito super partes), visto che i massimi esperti sismologi italiani sono alla sbarra? Questa sentenza ci dice che sì, i terremoti italiani sono prevedibili e che si farebbe bene a evacuare intere regioni anche per minimi allarmi. E un domani non fossero disponibili quei testoni di scienziati ci si potrebbe affidare a santoni e divinatori, ché tanto nel paese abbondano. Ci dice altresì che i giudici italiani non hanno un’idea neppure pallida e lontana di cosa sia un terremoto da un punto di vista fisico e credono che si tratti di un fenomeno gestibile come il tempo di domani. Ci dice infine che è inutile fare prevenzione, costruire meglio e rinforzare quanto già esiste: non sfiora la mente dei nostri che un terremoto di magnitudo 6,3 Richter in un paese moderno non dovrebbe far crollare neppure un cornicione e che dunque è tutto l’anno che ci si dovrebbe dare da fare, non solo nel corso di uno sciame sismico perché comunque in quel momento è troppo tardi. Ci dice, infine, che da domani il territorio italiano, che è a rischio sismico al 50% (con punte del 100% in Calabria per esempio), va immediatamente militarizzato perché la popolazione deve essere pronta a evacuazioni ogni volta che si presentino condizioni simili a quelle aquilane. E che nessun esperto si prenderà mai più la responsabilità di guardare con obiettività i dati: sarà comunque obbligato a un allarme che almeno tenga lontano il carcere. da - http://www.lastampa.it/2012/10/23/cultura/opinioni/editoriali/sara-sempre-allarme-Jllnv2e8M5g2C4EJo2MTqM/pagina.html Titolo: MARIO TOZZI. Il prezzo dei condoni Inserito da: Admin - Novembre 13, 2012, 07:38:51 pm Editoriali
13/11/2012 - L’analisi Il prezzo dei condoni Rischio idrogeologico troppo alto. Intere zone andrebbero evacuate Mario Tozzi Che cosa si può fare in un Paese in cui si verifica uno smottamento ogni 45 minuti e dove, per frane a e alluvioni, muoiono otto persone al mese? In un Paese in cui oltre il 50% per cento del territorio è a rischio idrogeologico e in cui sono avvenuti, nell’ultimo mezzo secolo, circa 15.000 eventi gravi? In un Paese in cui, infine, le piogge sono cambiate drammaticamente negli ultimi quindici anni (nella provincia di Genova, nel dicembre 2009, caddero 450 mm di pioggia in un giorno, cioè la stessa quantità che cadeva normalmente in sei mesi)? In Italia ci sono circa 6600 comuni ad elevato rischio idrogeologico: il 100% in Calabria, Molise, Basilicata, Umbria e Valle d’Aosta, il 99% di Marche, Lazio, Toscana e Liguria, oltre il 90% in Emilia Romagna, Campagna e Abruzzo. Secondo il CNR, quasi il 15% del totale nazionale delle frane, e quasi il 7% delle inondazioni, avviene in Campania (1.600 in 75 anni), dove 230 comuni (da Ricigliano a Sorrento) su 551 sono a rischio di smottamento; le vittime per questi due eventi, negli ultimi 50 anni, sono state quasi 400 sulle 4.000 nazionali. Nella sola Genova 100.000 abitanti vivono in zone a rischio, cioè a dire che un genovese su sei rischia di essere coinvolto in piene e frane. Sono numeri da primato europeo del dissesto per una ragione ben precisa, l’Italia è il paese in cui più si costruisce e l’unico in cui si condona. Ogni anno circa 500 kmq di territorio nazionale vengono ricoperti di cemento e di asfalto. Cosa che lo rende complessivamente impermeabile alle piogge che, a quel punto, restano in superficie, invece di infiltrarsi naturalmente in profondità, e esondano inevitabilmente. Già le catastrofi naturali non esistono, nel caso italiano sono quasi interamente provocate dall’uomo che il rischio lo crea anche dove in passato non c’era. Rettificazione e cementificazione dei fiumi, insediamenti in aree pericolose, disboscamenti e incendi fanno il resto. Tutto questo in una nazione geologicamente giovane e instabile, nel bel mezzo del cambiamento climatico più grave che si conosca da quando l’uomo organizza attività produttive. Se però torniamo al che fare, allora non si può non registrare che la prevenzione rischia di non bastare più, perché ormai quello che si doveva fare è stato fatto. L’intervento ingegneristico per bloccare frane e alluvioni potrà funzionare solo in limitati casi: non sono infatti note soluzioni di questo tipo che possano arrestare definitivamente questi fenomeni. Costruire meglio, nel caso del rischio idrogeologico, non serve. Molto spesso, anzi, le opere che si vedono in giro per le nostre montagne producono svantaggi peggiori dei benefici che volevano ottenere. Quei muri bassi di cemento o in pietra che vengono posti di traverso ai corsi d’acqua per limitarne l’azione erosiva, le cosiddette «briglie», non sono solo (quelle «statiche» soprattutto) perlopiù inutili, ma spesso risultano dannose, visto che l’acqua, da cui ci si voleva difendere, poi si scava comunque una strada aggirando la briglia e rendendola instabile. E ancora si parla di messa in sicurezza, come se fosse possibile imbrigliare un’intera catena montuosa come l’Appennino. Come se questa operazione avesse un senso geologico ed ecologico, come se, infine, servisse almeno a qualche cosa. Insomma, si deve dolorosamente capire che da alcune zone a maggior rischio bisogna spostarsi senza se e senza ma. Non lo si farà in un mese e nemmeno in un anno, ma lo si deve mettere in progetto nella pianificazione territoriale. Spontaneamente, seppure dopo secoli di dissesti, lo si è già fatto in tutta Italia: basti pensare al paese di Craco, in Lucania, spostato per frana, o a Pentedattilo, in Calabria, o, ancora, Frattura, in Abruzzo. La delocalizzazione delle costruzioni e delle popolazioni a maggior rischio non può più essere procrastinata, ma deve essere messa nel conto delle scelte politiche future: non farlo significa ignorare colpevolmente la realtà dei fatti. E si deve capire anche che nessun territorio del mondo può reggere il ritmo di cementificazione impresso a quello italiano, dove, ogni secondo che passa, un metro quadrato di superficie viene asfaltata, cementata o disboscata e incendiata. Il consumo di suolo non è solo un emergenza estetica e paesaggistica, è prima di tutto la causa fondamentale delle nostre rovine geologiche. da - http://lastampa.it/2012/11/13/cultura/opinioni/editoriali/rischio-idrogeologico-troppo-alto-intere-zone-andrebbero-evacuate-TJvz2c4cepceqilasjIeBM/pagina.html Titolo: MARIO TOZZI. Costa Concordia, una tecnica antica per salvare l’Hi-Tech Inserito da: Admin - Settembre 17, 2013, 11:13:58 pm EDITORIALI
16/09/2013 Costa Concordia, una tecnica antica per salvare l’Hi-Tech MARIO TOZZI Mentre ancora non sappiamo se anche il più piccolo rischio ambientale sia stato effettivamente scongiurato, né se la struttura dello scafo reggerà alle tensioni, una cosa la sappiamo per certa: sarà la tecnologia più semplice e antica del mondo eventualmente a vincere su quella sofisticata dei moderni supertransatlantici. La Costa Concordia era un gioiello tecnologico che si guidava con un semplice joystick, così come accade ai più moderni jet di linea. Un paese galleggiante con 5000 abitanti, centinaia di appartamenti, decine di ristoranti, sale da gioco, discoteche, palestre e piscine che viaggia di giorno e di notte a 20 nodi all’ora guidato da radar sofisticati e sala di controllo da stazione spaziale. Un paese intero che si schianta contro scogli ben visibili a causa della bravata tribale di un comandante sbruffone. Questa la triste realtà di un meccanismo che ci può sfuggire di mano da un momento all’altro. E che sembra una legge generale: a un livello tecnologico elevato corrisponde un livello di attenzione sempre più scarso, come a dire che più ci si affida e meno si controlla. E ora siamo tutti lì davanti agli schermi a vedere come centinaia di uomini cerchino di rimettere diritta una nave sì adagiata su un fianco, ma praticamente a terra, non in fondo al mare. Un’operazione mai tentata prima d’ora al mondo che ci descrivono come tra le più complicate. E a cui ci si è preparati per oltre un anno per poi, in fondo, affidarci ai principi più semplici della meccanica, quelli che l’umanità adopera da secoli: gru, martinetti idraulici, leve, funi d’acciaio e cassoni pieni d’acqua. E cinquecento uomini di 26 Paesi, come al tempo dei faraoni. Non una levitazione elettromagnetica, nemmeno una sollecitazione nucleare. Tutto apparentemente semplice. Tutto un po’ paradossale. Una volta completata la rotazione e scongiurate rotture e lacerazioni, che sarebbero esiziali per il delicato ecosistema dell’arcipelago toscano, la nave dovrà essere trainata verso un porto dove rottamarla. Un porto che non c’era: con tutte le navi che circolano nel Mediterraneo non siamo ancora sicuri che un porto italiano sia abilitato alle operazioni. E forse i coreani hanno appena varato un vascello in grado di trasportare sul suo dorso navi di quella stazza: nel 2013, dopo millenni di navigazione, al massimo della tecnologia costruttiva del XXI secolo, cominciamo a sospettare che le navi incidentate devono essere recuperate. Lo stesso accadde giusto 101 anni fa per l’oggetto meccanico più grande costruito fino allora dagli uomini, l’inaffondabile Titanic che, infatti, affondò al suo primo viaggio. Si dirà che in tutti e due i casi la colpa è dell’uomo e non della tecnologia, semmai di un suo uso non corretto. In fondo, Edward J. Smith viaggiava a tutta velocità nelle nebbie oceaniche e furono comunque i suoi uomini di vedetta a non scorgere l’iceberg, forse per via del freddo, e non i rivetti d’acciaio a cedere perché mal congegnati o mal costruiti. Così come fu Schettino a decidere di fare «l’inchino» sopravvalutando le possibilità di manovra della Concordia e forse ignorando i segnali di pericolo. Ma queste sono scuse parziali, la realtà è che cercando di mettere sotto controllo il mare abbiamo contingentato i tempi e ingigantito le navi, suggerendo vacanze sul mare in cui il mare non è più protagonista. E non lo è nemmeno il comandante, che non guarda più il timone ma solo uno schermo graduato in cui le altre navi sono numeri tutti uguali. Funi, martinetti e contrappesi che fanno ruotare un bestione di 114.000 tonnellate, in cui nessuno dei sofisticati sistemi di navigazione funziona più, ormai ridotto a massa inerte di ferro inutilizzabile: la vittoria della tecnica semplice sulla tecnologia barocca, inutile e ridondante, di cui non abbiamo alcun bisogno. da - http://www.lastampa.it/2013/09/16/cultura/opinioni/editoriali/costa-concordia-una-tecnica-antica-per-salvare-lhitech-Y25jwfhBmHi0xckw3S19dK/pagina.html Titolo: MARIO TOZZI. Stessa pioggia, città cambiate Inserito da: Admin - Febbraio 03, 2014, 04:59:17 pm Editoriali
01/02/2014 Stessa pioggia, città cambiate Mario Tozzi Scrivo con l’ultimo residuo di batteria del mio pc, mentre, a pochi passi da San Pietro, nella capitale d’Italia, molti isolati ed edifici sono senza corrente elettrica da ore. Roma è rimasta quasi isolata: strade consolari allagate, il Gra interrotto, voragini che si aprono dovunque. L’Italia tirrenica è sotto la tormenta e piove in poche ore la stessa acqua che un tempo cadeva in mesi. Ma questo ormai lo sanno anche i sassi: bombe d’acqua le abbiamo chiamate un po’ impropriamente, e sono figlie di un tempo meteorologico che si è fatto estremamente variabile e di un clima complessivamente molto più caldo rispetto agli ultimi decenni. E’ gennaio ma non fa freddo: abbiamo avuto temperature atmosferiche fino a 15°C. E, non a caso, piogge torrenziali. E siamo andati vicini al disastro: se oggi piovesse in Arno l’acqua che è piovuta nel novembre del 1966, avremmo danni molto più gravi e vittime a Pisa e a Firenze. Se piovesse con continuità lungo tutta l’asta fluviale del Tevere, nemmeno la città eterna sarebbe immune da una dolorosa alluvione che invaderebbe pure il Vaticano, Trastevere e Piazza Venezia. Sembra quasi che a ogni pioggia abbondante (per fortuna nessuno le chiama più eccezionali) le cose vadano addirittura peggio. Ma come, non abbiamo ormai tecnologia e strumenti sofisticati per regolarci meglio? Effettivamente le previsioni del tempo sono oggi davvero molto attendibili e gli scenari ipotizzabili con precisione: possiamo seguire l’andamento delle tempeste e individuare i punti di atterraggio dei cicloni. Ma l’unico vantaggio rispetto al Medioevo è questo, per il resto siamo indifesi rispetto agli eventi meteorologici come secoli fa: uomini in mezzo alla tormenta. Anzi, in un certo senso, siamo più indifesi di allora, perché il nostro territorio è complessivamente più fragile: non sono cambiate solo le piogge, sono cambiate anche le città. I corsi d’acqua sono stati fatti sparire sotto la terra e i palazzi, oppure precipitati in fondo ad argini di pietra in cui sono stati dimenticati. E tutto attorno le aree di naturale esondazione dei fiumi, quelle che, da sole, difendono le aree inurbate, sono ormai invase dalle costruzioni. In questo paese si è costruito troppo: ogni anno si asfaltano e cementificano forse duecentomila ettari di suolo, con il risultato di un rischio idrogeologico in progressivo aumento, invece che in diminuzione. Perciò non è un problema di tecnologia: di quella ne abbiamo fin troppa e, anzi, l’affidarcisi troppo rende meno pronti al momento in cui, comunque, toccherà affrontare la natura, questo mostro che tentiamo di tenere fuori dalla nostre mura domestiche per undici mesi all’anno, illudendoci invano di recuperarlo solo durante le ferie. E’ una questione culturale: con gli eventi naturali bisogna farci i conti prima di tutto accettandoli. Non saremmo mai immuni, rassegniamoci. Soprattutto rispetto al clima. E hai voglia a tenere pulite le caditoie, i greti dei fiumi, e i tombini dalle foglie morte e dalla immondizia (tutte cose comunque da fare), qui il problema è che riduciamo queste operazioni a un fatto puramente tecnico, mentre meriterebbero ben altra cura, comprensione e ragionamenti. I romani antichi non si scomponevano poi troppo ad attraversare il Velabro in barca, qualche volta all’anno, e uno dei monumenti più vistati di Roma è la Bocca della Verità (dove non si deve infilare una mano se si è bugiardi), che altro non è che un inghiottitoio per l’acqua di pioggia, cioè un tombino, cui i nostri antenati dedicavano marmi pregiati e sculture dell’oceano con i delfini. Si chiamava rispetto per la natura. E consapevolezza che essere invulnerabili non è prerogativa dei viventi su questo pianeta. Da - http://lastampa.it/2014/02/01/cultura/opinioni/editoriali/stessa-pioggia-citt-cambiate-LS2AnD5SGAivPE4aLdbqRI/pagina.html Titolo: MARIO TOZZI. Pompei e le altre: basterebbe l’ordinaria manutenzione Inserito da: Admin - Marzo 03, 2014, 05:36:15 pm Articolo tratto dall'edizione in edicola il giorno 03/03/2014.
Pompei e le altre: basterebbe l’ordinaria manutenzione Un brivido di freddo ci percorre la schiena quando sentiamo annunciare ricostruzioni lampo e il restauro immediato di monumenti in un Paese al centro di un clima ormai cambiato e geologicamente giovane e irrequieto. La verità è che abbiamo l’impressione di esserci già passati. Qualche mese dopo il terremoto aquilano del 2009 ci hanno spacciato per quasi avvenuta una ricostruzione che non poteva saltare la fase del container, anche se si trattava di abitazioni antisismiche ben rifinite. Messe però a caso su un territorio che certamente non le vedrà ospitare in maniera stabile una popolazione che ha, come unico desiderio, quello di tornare a stare dove aveva sempre vissuto. Ora la pretesa ricostruzione aquilana sente già i segni del tempo e viene additata dagli specialisti di tutto il mondo come l’unica cosa da non fare dopo un terremoto (e per fortuna in Emilia non si è seguito quell’esempio sciagurato). D’altro canto ci vantiamo di avere il più vasto patrimonio storico artistico e monumentale del mondo (non è poi proprio così, ma insomma) e però ne perdiamo i pezzi un po’ dappertutto. Terra di sismi e frane, l’Italia del terzo millennio vede sfaldarsi il suo patrimonio monumentale e culturale incurante dei passaggi politici che dovrebbero provvedere almeno alla ordinaria manutenzione. Le mura aureliane a Roma, la cinta medievale di Volterra e, a più riprese, Pompei. Ed è vero che negli ultimi anni sono cambiate le piogge, e sono diminuiti paradossalmente i fondi, ma quella che è mancata è stata soprattutto la cura, l’attenzione a quello che resta il nostro patrimonio più grande. Nonostante le denunce e gli sforzi delle tante persone di buona volontà, che pure ci sono. Eppure lezioni ne abbiamo avute parecchie: ci sono voluti quindici anni per ricucire la ferita del terremoto di Colfiorito (1997), e non perché si andasse lenti. Quello è il tempo tecnico che, più o meno, ci vuole per riportare in sicurezza la torre campanaria di Nocera Umbra, con i suoi cuscini dissipatori di onde sismiche, o le 400 chiese danneggiate fra Marche e Umbria. Ed è il tempo che ci è voluto per ordire una trama di fili d’acciaio che permetta alla basilica di San Francesco di reggere al prossimo terremoto di Assisi. Ce ne sono poi voluti circa venti per l’Irpinia e, a far le cose per bene, è difficile che a L’Aquila si arrivi al risultato in meno di un’altra decina d’anni, considerando che molto tempo è andato perduto e che si tratta di ricostruire un tessuto urbanistico che concentra straordinarie ricchezze artistiche. Qualcosa si potrebbe fare di diverso? Sì, ricostruire bene, prima che in fretta, e soprattutto porre mano quotidianamente al nostro patrimonio: come dimostra il sisma emiliano, spesso basta una ordinaria manutenzione per evitare i danni dei terremoti di media magnitudo e l’onta delle piogge torrenziali. Non è così difficile: i nostri antenati lo facevano già. Nello stesso Abruzzo e in Campania centri storici restaurati dagli antichi regnanti reggono benissimo ai terremoti che si sono ripetuti solo perché costruiti con attenzione. La stessa cura proteggerebbe anche dalle piogge concentrate. Ricominciamo dall’inizio, e se la ricostruzione si annuncia quando è veramente completata si attribuiranno con più piacere i giusti meriti. Mario Tozzi Da - http://lastampa.it/2014/03/03/cultura/opinioni/editoriali/pompei-e-le-altre-basterebbe-lordinaria-manutenzione-SV2rdVVo32ekJzy8KlEx4J/premium.html Titolo: MARIO TOZZI. Attenti all’acqua virtuale Inserito da: Admin - Marzo 24, 2014, 05:16:36 pm Editoriali
22/03/2014 Attenti all’acqua virtuale Mario Tozzi La buona notizia è che, in linea teorica, ogni uomo ha a disposizione, sul pianeta Terra, oltre diecimila litri di acqua al giorno: una quantità impressionante, se si pensa che nella Firenze dell’estate del 1944 c’era disponibile un solo litro per abitante. La notizia cattiva è che, però, ogni italiano (esempio paradigmatico di cittadino del mondo occidentale ricco) ne «beve» seimila. Ma proprio ne beve, tenendo presente che soltanto il 7% dell’impronta idrica viene usato per la manifattura industriale, mentre solo il 4% per l’igiene domestico. Tutto il resto è acqua «nascosta» nei cibi che consumiamo, inconsapevoli, in quantità spaventose anche rispetto alla teorica ricchezza d’acqua del pianeta. L’Italia è il terzo importatore mondiale di acqua virtuale contenuta in cibi che provengono dall’estero (62 miliardi di metri cubi all’anno), dunque contribuisce seriamente all’assorbimento della risorsa idrica del mondo. Settanta grammi di pomodori hanno bisogno di 13 litri d’acqua, ma un singolo hamburger arriva fino a 2400 litri. Nonostante le piogge, che in Italia sono divenute più abbondanti, nonostante per confezionare una t-shirt occorrano 4100 litri d’acqua e per fabbricare un wafer di silicio da sei pollici ce ne vogliano 20.000, noi assumiamo quantità incredibili d’acqua attraverso il cibo importato. L’altra cattiva notizia è che l’acqua degli italiani non è sempre di ottima qualità. Ora, va subito detto che questa non può essere una scusa per continuare a essere fra i primi consumatori di acqua in bottiglia al mondo (191 litri per famiglia all’anno, più di noi solo il Messico). Non c’è alcuna ragione di sicurezza per preferire l’acqua in bottiglia rispetto a quella del rubinetto, che viene controllata quotidianamente con scrupolo e che deve sottostare a normative draconiane. Chi vuole bere acqua in bottiglia lo può fare per qualsiasi ragione fuorché quella della sicurezza, che è certamente garantita nei nostri acquedotti (e l’acqua imbottigliata può anche essa provenire da falde vulcaniche). Ma l’arsenico, no, quello non ce lo aspettavamo. Eppure, in realtà, le cose sono cambiate solo sulla carta, quando finalmente l’Italia si è adeguata a una normativa europea del 1998 (!) che è stata rimandata, come altre, per quasi vent’anni e che prevede dieci microgrammi di arsenico, al massimo, per litro d’acqua potabile (contro i cinquanta fino a qui tollerati). In diversi posti dell’Italia centrale, e nella stessa Roma, invece, si va ben oltre quelle concentrazioni (o meglio si andava già oltre): circa un milione di persone sono complessivamente coinvolte nel nostro Paese. L’arsenico non dipende direttamente dall’inquinamento di attività umane velenose più o meno criminali, o dallo stato delle condutture, quanto da condizioni chimiche particolari nell’acquifero o dalla presenza di minerali sulfurei che contengono il pericoloso elemento che viene portato in circolo naturalmente. Lo stesso fenomeno è ben noto in Giappone, Nuova Zelanda, Cina o Grecia e dove sono presenti rocce vulcaniche. E, in genere, si ritiene che il fenomeno sia praticamente tollerabile per gli adulti almeno fino a tre anni di esposizione, mentre comporti rischi più alti fino ai 18 anni di età (i pochi studi epidemiologici non mettono in luce rischio di malattie connesse per livelli inferiori ai 25 microgrammi). E’ peraltro possibile eliminare chimicamente l’arsenico, potenzialmente in grado di provocare cancro e danni cardiovascolari, attraverso alcuni «filtri» che comportano un costo elevato, diciamo attorno a 250.000 euro per cinquemila abitanti (come si è fatto a Vitorchiano, in provincia di Viterbo). Siamo sicuri che eventuali gestori privati dell’acqua possano permetterselo? E, infine, se l’arsenico è da sempre naturalmente contenuto nelle falde acquifere dei terreni vulcanici, come facevano gli antichi abitanti dell’Etruria o del Lazio a non avvelenarsi? DA - http://www.lastampa.it/2014/03/22/cultura/opinioni/editoriali/attenti-allacqua-virtuale-h7Khe59ZelYDuDj3kZzuJO/pagina.html Titolo: MARIO TOZZI. Colpa di una balla di paglia? Inserito da: Admin - Agosto 06, 2014, 04:12:15 pm C’è dietro la mano dell’uomo
04/08/2014 Mario Tozzi Colpa di una balla di paglia? Se fosse stata sul serio colpa solo di una balla di paglia, che ha fatto da tappo al torrente Lierza, la cosiddetta bomba d’acqua che si è abbattuta sulla festa degli Omeni al Mulino di Croda sarebbe stata comunque interamente causata dagli uomini. Uomini che, certamente in buona fede, ignorano le leggi della dinamica fluviale e che non volevano davvero provocare vittime e danni. Ma, purtroppo e ancora una volta, le cose potrebbero essere andate in modo diverso e quella balla di paglia, ammesso che abbia contribuito, al massimo è stata una delle concause minori in un territorio che dire strapazzato dalle costruzioni, dagli sbancamenti e dagli stravolgimenti è dire poco. E certo c’entra molto poco con la scarsa memoria degli abitanti del luogo, già dimentichi dell’alluvione del febbraio scorso (mica di un secolo fa) che aveva messo in pericolo uomini e cose. E ancora meno c’entra con la scarsa propensione che abbiamo, soprattutto nel nostro Paese, a comprendere il cambiamento climatico che è drammaticamente in atto e che ha mutato in profondità la dinamica delle alluvioni. Un tempo, nella Pianura Padana, si aspettava con apprensione, ma anche con una certa consuetudine, la piena del Po e si sapeva giorni prima che a Pontelagoscuro sarebbero arrivati magari anche 15.000 m3 al secondo (su una portata media di 2000). Eccezionalmente arrivava un’alluvione come quella del 1951 o del 1966, ma il fiume era considerato un organismo vivo, che si gonfia quando piove e evacua lentamente la piena. Oggi le grandi alluvioni del Polesine sembrano essere meno frequenti dopo le ultime crisi della fine degli Anni 90 e dell’inizio del 2000. Ma il pericolo si è solo trasferito ai corsi d’acqua minori, spesso ancora incassati in pareti rocciose alte e dunque pronti a trasformarsi in micidiali cannoni (effetto Vajont in piccola scala, hanno detto, non a caso, gli scampati). Che sparano in pochi secondi quantità di acqua che una volta potevamo considerare straordinarie e che, invece, oggi, sono diventate la norma. In pochi minuti la stessa acqua che cadeva magari in un mese o due. Ancora di più quest’estate, considerando che il mese di luglio è stato più piovoso del solito: addirittura +73% rispetto alle medie del periodo di riferimento nazionale 1971-2000, con oltre il 50% in più nell’Italia centro-settentrionale (dati Cnr-Isac). Il surriscaldamento atmosferico globale incrementa il numero, la frequenza e la violenza dei fenomeni meteorologici estremi. E i corsi d’acqua non riescono ad evacuare in tempo quelle quantità. Ma il problema, al solito, è attorno: l’azione dell’uomo sui territori per insediarsi e renderli più produttivi è oggi più devastante di ieri, mentre cemento e asfalto rendono tutto più impermeabile. Nel caso in questione, ci si potrebbe domandare come sia stato possibile che una balla di paglia abbia fatto esondare anche gli altri corsi d’acqua nelle vicinanze. E come è possibile che, la stessa balla di paglia, abbia innescato una decina di fenomeni franosi e vari smottamenti. E domandarsi infine se, per caso, non c’entrino qualcosa, per esempio, gli sbancamenti effettuati in zona per incrementare i vigneti per la produzione del Prosecco. Movimenti di terra di qualsiasi natura e per qualsiasi scopo in aree pericolose dovrebbero essere sempre vietati, se non effettuati sotto rigido controllo e monitoraggio (e solo se indispensabili). Perché contro queste nuove alluvioni istantanee (flash flood) non c’è barriera che tenga e, soprattutto, non c’è tempo per fuggire. E se si vuole convivere ancora con i fiumi, anche i più piccoli, sarà bene lasciarli più in pace possibile e restituire loro il territorio che si è sottratto. Altrimenti converrà sempre dare la colpa a una balla di paglia e ai soliti rami e detriti che, seppure presenti e seppure da sgomberare, con questo tipo di precipitazioni, sono davvero la causa minore dei disastri. Da - http://lastampa.it/2014/08/04/cultura/opinioni/editoriali/c-dietro-la-mano-delluomo-6UpbXAlN2ZtbC0ejZnxCjO/pagina.html Titolo: Mario TOZZI: “Case costruite male e centri storici non restaurati” Inserito da: Arlecchino - Agosto 26, 2016, 09:03:03 pm Mario Tozzi: “Case costruite male e centri storici non restaurati”
«Ci troviamo di fronte al tipico terremoto italiano, che colpisce zone marginali in zone collinari o montuose, molto difficili da raggiungere, e soprattutto colpisce un patrimonio costruttivo spesso vetusto e maltenuto» Il commento del divulgatore scientifico Mario Tozzi Da - https://www.lastampa.it/2016/08/24/multimedia/italia/terremoto-in-provincia-di-rieti-VITvHV0u91xHdYq5aiqJeI/videowall.html Titolo: MARIO TOZZI. Niente di nuovo sotto l’Italia, la terra trema e non si fermerà Inserito da: Admin - Dicembre 01, 2016, 08:49:31 pm Niente di nuovo sotto l’Italia, la terra trema e non si fermerà
Continua la sequenza: dopo L’Aquila, scossa di magnitudo 3,7 a Reggio Emilia. L’Appennino sprofonda: è una certezza l’attivazione di vecchie e nuove faglie Pubblicato il 01/12/2016 Ultima modifica il 01/12/2016 alle ore 09:56 MARIO TOZZI In Italia i terremoti sembrano non avere fine e tornano ad affacciarsi alla cronaca luoghi che pensavamo, chissà perché, al sicuro dopo gli ultimi eventi. Ancora non si esaurisce la sequenza di repliche dei terremoti di Amatrice e Norcia, quando dobbiamo registrare la riattivazione dell’Appennino centrale e gli sciami in Emilia Romagna. Martedì una scossa di magnitudo 4.4 a L’Aquila, ieri una di 3.7 a Reggio Emilia. Sempre che non vogliamo ricordare anche la sequenza sismica del Pollino (fra Calabria e Lucania) che, per almeno due anni, ha fatto temere l’incombere di un forte sisma. Questi terremoti non sono tutti uguali, però preoccupano tutti allo stesso modo. Ma da che cosa dipendono? Ed è possibile che in Italia si siano risvegliate tutte le faglie nello stesso tempo? Cosa sta accadendo? La risposta è: niente di eccezionale, solo un pro memoria della Terra che ci impedisce di dimenticare, come forse vorremmo, che l’Italia è geologicamente giovane e attiva e che i terremoti sono frequenti come le piogge (quelli più forti come le tempeste). LE COLPE DEI RIVOLUZIONARI In un comunicato alla popolazione il vescovo di Reggio Emilia e il Duca d’Este fecero chiarezza sulle vere cause dei terremoti che scuotevano l’Emilia Romagna nel 1831-1833. Le colpe andavano senz’altro attribuite ai rivoluzionari risorgimentali che non avevano alcun timore di dio né del potere costituito: il sisma era il segno della condanna divina e doveva servire di monito. Un po’ di conoscenza e l’esercizio della memoria sarebbero bastati a Ciro Menotti per non accollarsi anche quella colpa. Molte vittime si registrarono nel forlivese già nel 1279 e ancora distruzione nel 1688. In genere si trattava di sismi del VII-VIII grado della scala Mercalli, ma si poteva sfiorare il X, come nel 1811, nel 1810, del 1806 e nel 1732. Dal 1600 sono circa 25 i terremoti di rilievo che hanno funestato quella regione, dunque oggi dovremmo essere consapevoli che quella fetta di pianura padana è a rischio sismico, anche se il pericolo non è eccessivo, se paragonato a quello di Messina o di Catania. CINQUECENTO ANNI DOPO Ma, quando arrivò il terremoto del 2012 nel ferrarese, a mezzo millennio dall’ultimo forte, gli italiani rimasero tutti sorpresi, anche se non erano certo i primi terremoti di cui si avesse memoria storica. Dunque anche questo è un territorio sismico, generato dall’attivazione di una struttura geologica piegata profonda (la dorsale ferrarese) le cui rocce si spezzano lungo le faglie, anche se con meccanismi diversi rispetto ai terremoti dell’Appennino. Capisco che vedere oscillare i campanili come i pioppi al vento non è rassicurante, ma se hai costruito bene e manutenuto, non rischi la vita. Normale routine sismica del nostro Paese, niente di eccezionale, anche se ciò non significa che non siano possibili terremoti più forti. IL PROBLEMA Forse il problema è che c’è un’Italia chiaramente sismica che ormai tutti conoscono bene e che va dalla Garfagnana allo stretto di Messina, passando per l’Abruzzo e l’Irpinia. E c’è un’Italia diciamo di seconda fascia del rischio sismico che spera di starsene tranquilla solo perché non ricorda gli eventi più lontani o ritiene che vivere in pianura significhi assenza di sismi. In questo senso gli ultimi eventi a metà strada fra Amatrice e L’Aquila spaventano meno, come se ci fossimo abituati. Si tratta dell’attivazione di un’altra faglia sepolta, diversa da quella dei sismi precedenti, e non possiamo escludere che la tremenda successione di scosse da agosto a ottobre scorsi non abbia fatto da elemento di «contagio». E, come in tutti gli altri casi, non possiamo prevederne la futura evoluzione: un rilascio distribuito e graduale dell’energia sismica, oppure grandi scosse in agguato. Quello che è certo è che l’Appennino carica continuamente energia in profondità e cerca un nuovo assetto sprofondando periodicamente verso il basso. L’attivazione di vecchie e nuove faglie non è una probabilità, è una certezza, su tempi medio-lunghi. Al momento, non abbiamo, e difficilmente potremmo comunque avere, gli elementi per un allerta, né ci sono strane coincidenze o ricorrenze. Dovremmo cercare di mantenere viva la memoria, e comportarci di conseguenza: perché questa è la situazione tipica di gran parte del territorio nazionale. E non dipende dall’attivarsi di una particolare sequenza, dovremmo semplicemente ricordarcene di default. E’ un problema di cultura del rischio naturale che, però, torna alla mente dei cittadini e degli amministratori solo quando la paura si fa sentire, dimenticandosene non appena le scosse e l’attenzione calano. Licenza Creative Commons Alcuni diritti riservati. Da - http://www.lastampa.it/2016/12/01/italia/cronache/niente-di-nuovo-sotto-litalia-la-terra-trema-e-non-si-fermer-ejj5Up6mabB8iMqSRYnSIO/pagina.html Titolo: MARIO TOZZI. Negli abissi del Tirreno scoperti 15 vulcani sommersi Inserito da: Arlecchino - Novembre 16, 2017, 09:18:22 pm Negli abissi del Tirreno scoperti 15 vulcani sommersi
Ricerca del Cnr e dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia Alcuni vulcani finora noti nel Tirreno Meridionale sono emersi, come le Eolie altri sommersi, come il Marsili Pubblicato il 14/11/2017 MARIO TOZZI Forse fa impressione a dirlo, ma, ogni volta che facciamo il bagno nel Mar Tirreno, ci immergiamo nelle acque di un oceano in formazione. Più piccolo di altri, ma pur sempre un vero e proprio oceano, con il consueto corteo di vulcani e dorsali sottomarine da cui vengono emesse lave e gas. Del resto i nuovi oceani, agli inizi, si formano generalmente grazie a una serie di fratture e spaccature che disgregano un continente, come, per esempio, sta accadendo lungo la Grande Rift Valley dell’Africa orientale, tra Kenya e Tanzania. E come sta accadendo anche nel Mediterraneo da poco meno di una decina di milioni di anni: grandi fratture e lunghissime spaccature incidono il fondo del mare e creano un nuovo bacino oceanico (laddove per bacino non si intendono tanto le acque, quanto la costituzione geologica e morfologica). Dove oggi c’è il Mare Nostrum, milioni di anni fa esisteva un grande oceano mesogeo, la Tetide, poi costretto progressivamente a contrarsi dallo scontro fra il blocco di crosta dell’Africa e quello dell’Europa. Lo scontro che provoca, in ultima analisi, i terremoti del nostro Appennino. Colossali edifici Successivamente, in varie regioni del Mediterraneo centrale, si sono formati edifici vulcanici sottomarini che hanno eruttato milioni di metri cubi di lave e hanno costruito veri e propri colossali edifici. Come è il caso del Marsili e del Vavilov, di fronte alla Calabria, due veri giganti. In particolare il primo è il più grande vulcano sottomarino d’Europa, lungo oltre 70 km, alto 3 e largo quasi 30. Ed è attivo. Come attivi debbono considerarsi tutti quei vulcani la cui attività non sia cessata da un paio di centinaia di migliaia di anni. La Catena del Palinuro, appena identificata dal Cnr e dall’Ingv, è stata certamente attiva fra 800 e 300 mila anni fa, ma non sappiamo se non sia stata attiva in tempi più recenti. Anche la sua formazione è legata a una serie di spaccature profonde che hanno messo in comunicazione i magmi profondi con il fondale marino. Si tratta di apparati di grandi dimensioni, pure se confrontati con quelle del Marsili. E’ una scoperta importante, forse cruciale per comprendere come sia possibile la formazione di micro bacini oceanici, dovuti a forze di estensione della crosta, in regioni dove, invece, regnano la compressione e la collisione. Come abbiamo ricordato a proposito dello scontro tra l’Africa e l’Europa. Attività sottomarine Ma tutto il Mar Tirreno è un brulicare di attività sottomarine superficiali legate ai vulcani, dalle isole Eolie a Ustica, di cui fanno parte anche quelle emissioni gassose spesso riscontrate in varie zone, dalla Sicilia alla Toscana. Erutteranno questi vulcani o possiamo stare tranquilli? La risposta è che dipende da molti fattori e che non tutti gli apparati del fondale tirrenico presentano caratteristiche di attività imminente. Il già ricordato Marsili, per esempio, è stato attivo da tempi più recenti e presenta coni e apparati satellitari lungo i fianchi. Una sua eruzione e un successivo collasso provocherebbero un vero disastro, tsunami di proporzioni gigantesche compreso. Controlli costanti Vale la pena di ricordare che si tratta di attività tenute sotto costante controllo scientifico, ma forse il dato più rilevante per gli italiani è scoprire che il fondo del mare non è piatto come si potrebbe immaginare, anzi: coni e crateri, edifici vulcanici, grandi trincee sottomarine, frane e resti di antiche attività sono la regola al fondo del Mar Tirreno, così come al fondo di tutti gli altri oceani del mondo. Le dorsali sottomarine della Terra costituiscono il più grande complesso vulcanico del nostro pianeta, lungo oltre 64 mila chilometri e costantemente attivo. Da quelle spaccature profonde nuove lave vengono emesse ogni giorno e lentamente allontanate verso i margini dei continenti sotto i quali sprofonderanno. Il Tirreno non è molto diverso da quegli oceani. Ma possiamo evitare di preoccuparcene quando facciamo il bagno. Per ora. Licenza Creative Commons Alcuni diritti riservati. Da - http://www.lastampa.it/2017/11/14/societa/negli-abissi-del-tirreno-scoperti-vulcani-sommersi-M0NPsNIgrLKofN8lMaDJVI/pagina.html |