Titolo: BARACK OBAMA. Inserito da: Admin - Maggio 17, 2008, 12:12:55 am Perché Hillary non si ritira
Nicholas von Hoffman Perché una donna intelligente come Hillary Clinton si ostina a continuare la sua campagna elettorale sebbene tutto congiuri ormai contro di lei e le sue speranze siano al lumicino? Nelle sue apparizioni pubbliche, nelle quali si atteggia a donna del popolo, dice che lo fa per noi americani. Se è questa la ragione, la nostra risposta è: no, grazie. Secondo molti la sua ostinazione ha altre motivazioni. Taluni ritengono che continui la campagna elettorale per rendere inevitabile la sua scelta come candidata alla vicepresidenza. Secondo questa scuola di pensiero, più prosegue la sua campagna elettorale e più Hillary Clinton lega a sé le donne bianche di una certa età così da poter poi sostenere che se non farà parte del ticket queste elettrici ne saranno deluse e se ne staranno a casa invece di andare a votare. Altri sussurrano malevolmente che Hillary Clinton continuando a battersi speri che Obama in cambio del suo ritiro e del suo impegno a sostenerlo contro McCain si accolli i suoi debiti e che le venga restituito il denaro sborsato di tasca sua. Certamente ha la reputazione di una donna molto attaccata al denaro. Se decine di migliaia di persone che hanno offerto donazioni ad Obama venissero a sapere che il loro denaro è stato girato a Hillary Clinton, la cosa potrebbe avere pesanti ripercussioni negative. Un accordo del genere dovrebbe essere concluso in segreto e questo è un modo di fare affari con il quale la signora Clinton ha una certa familiarità. Tanto è vero che il Washington Post riferisce che la sua vocazione a tenere le cose nell´ombra l´ha portata sul punto di essere incriminata da un gran giurì federale per aver mentito durante la prima presidenza Clinton. Il giornale aggiunge che l´ha fatta franca solo perché i pubblici ministeri dubitavano che un gran giurì avrebbe mai fatto arrestare una First Lady. Barack Obama dovrà valutare se perderà più voti non offrendo a Hillary Clinton la vicepresidenza oppure offrendogliela. Hillary porta con sé in cabina elettorale la sua legione di donne devote - nonché un numero non specificato di uomini di razza bianca. Ma la sua presenza nel ticket scoraggerà i più entusiasti e idealistici sostenitori di Obama? Da settimane Obama va dicendo che Hillary Clinton incarna la vecchia politica che lui promette di mandare in soffitta. Se riuscirà ad imporre la sua candidatura come vicepresidente non sarà la prima volta. Nel 1932 il prezzo che Franklin D. Roosevelt dovette pagare per ottenere la nomination consistette nell´accettare come compagno di cordata John Nance Garner, un reazionario del Texas, uno di quelli, tanto per capirci, che ingollavano whisky e masticavano tabacco. I due si disprezzavano e trascorsero i successivi otto anni ad ignorarsi e ad evitarsi accuratamente. Ai giorni nostri la vicepresidenza è molto più importante di quanto fosse ai tempi di Garner. All´epoca il vicepresidente continuava ad abitare a casa sua e il suo compito si limitava a presiedere il Senato. Roosevelt non lavorava con i suoi vicepresidenti né si confidava con loro. Quando morì e Harry Truman assunse la carica di presidente, non era nemmeno a conoscenza dell´esistenza del Progetto Manhattan. Ai giorni nostri il vicepresidente ha una sua residenza e dispone di un ufficio e di una scorta. Sebbene anche oggi un presidente potrebbe escludere il suo vice dalla Casa Bianca, la tradizione vuole che al vicepresidente sia assegnato un ufficio e un suo staff alla Casa Bianca. Se Obama è dotato dell´istinto di sopravvivenza, prima di scegliere Hillary Clinton come suo vice nel ticket per le elezioni di novembre dovrebbe ottenere un impegno: Chelsea Clinton come sua assaggiatrice ufficiale alla Casa Bianca. Potete immaginare gli intrighi di potere e le richieste di piazzare in posti di responsabilità i suoi fedelissimi che verrebbero dall´ufficio di Hillary Clinton. E poi che se ne farebbero di Bill? Che succederà quando si verrà a sapere che strinse un accordo con un despota dell´Asia centrale - diciamo, una concessione petrolifera per uno dei suoi amiconi miliardari? Per alcuni quello Obama-Clinton è il "dream-ticket". Per altri è un sogno popolato di ragni velenosi, serpenti e ratti grandi quanto elefanti. Invece, ai fini della nuova politica di unità nazionale di cui parla Obama, non è da escludere che il senatore dell´Illinois pensi di offrire la vicepresidenza a un repubblicano. Il repubblicano Abraham Lincoln scelse un vicepresidente democratico nel 1864. Nel 2008 il democratico Barack Obama potrebbe scegliere il senatore repubblicano del Nebraska Chuck Hagel o l´indipendente Mike Bloomberg. Un ticket del genere forse non sarebbe da sogno, ma sicuramente vorrebbe dire che si volta pagina. Nicholas von Hoffman collabora regolarmente con The Nation, è autore di tredici libri ed è opinionista del New York Observer © 2008, The Nation Traduzione di Carlo Antonio Biscotto Pubblicato il: 16.05.08 Modificato il: 16.05.08 alle ore 12.26 © l'Unità. Titolo: Barack Obama. C’era una volta a Chicago Inserito da: Admin - Maggio 27, 2008, 06:47:22 pm Barack Obama, anatomia di una campagna elettorale
Roberto Rezzo Case Study. La campagna di Barack Obama per la Casa Bianca è diventata oggetto di studio nelle università americane ancor prima d’essere finita. Analizzata come un modello aziendale in cui s’intrecciano tecniche di marketing e comunicazione, budget e amministrazione, gestione delle risorse umane. Un modello politico per essere riuscita a trasformare l’entusiasmo della base in risultati concreti dal punto di vista elettorale. Qualcosa che al presidente del Partito democratico Howard Dean non era mai riuscito. Dietro a questa squadra c’è una squadra di fedelissimi del senatore dell’Illinois, un gruppo che già si conosceva o aveva lavorato insieme a Chicago. Al vertice ci sono persone che si sono formate rispettivamente alla scuola dell’ex leader della Camera Dick Gephardt e dell’ex leader del Senato Tom Daschle. L’altra ala del Partito democratico, rispetto a quella dei Clinton. Ex ragazzi prodigio della politica che per le molte campagne elettorali alle spalle avevano il polso della stanchezza nazionale nei confronti dei Clinton. E imparato la lezione delle politiche di medio termine nel 2006: l’America che ha voglia di cambiare. «Credo che chiunque con un minimo di realismo in zucca sapesse perfettamente che Obama partiva in svantaggio - spiega Valerie Jarrett, la sua consulente più anziana e autorevole, in una delle rare interviste concesse - Ma se ora si trova dove è arrivato, è anche perché in fondo eravamo assolutamente sicuri che l’impresa non era impossibile. Potevamo farcela». La determinazione ha portato a una lunga serie di record in termini di volontari reclutati, partecipazione a comizi e manifestazioni, contatti Internet. L’ultimo riguarda il numero di finanziatori. Si sapeva che mai nessun candidato nella storia delle presidenziali aveva convinto tanti sostenitori ad aprire il portafogli, anche solo per un contributo minimo di dieci dollari. Ora salta fuori che i computer della Federal Election Commission non sono neppure in grado di contarli. A gennaio hanno superato le 65.536 righe massime contemplate dal programma con cui vengono stilati i resoconti mensili. «No Drama Allowed». Questa sarebbe la prima direttiva impartita da Obama per assumere gli oltre 700 membri che lavorano a tempo pieno nella sua campagna. Niente protagonismi, niente primedonne, niente polemiche. Lavoro di squadra che si faccia notare solo per i risultati. David Plouffe, general manager di «Obama 2008», è l’incarnazione perfetta di questa visione. Un tipo freddo e impassibile, abilissimo nel macinare numeri e avverso alle luci della ribalta. Procede una mossa dopo l’altra come un giocatore di scacchi. È il master mind del piano che dall’inizio guardava oltre le primarie del 5 febbraio, il Supermartedì su cui Clinton aveva puntato tutto per assicurarsi la nomination. Ha aperto uffici nelle aree trascurate da Clinton, specialmente negli Stati dove si vota con la partecipazione diretta alle assemblee popolari. La strategia di lungo periodo ha pagato: nel mese successo al Supermartedì, ha vinto dieci primarie di fila. E sono stati proprio i caucus a determinare il vantaggio di Obama in termini di delegati eletti che Clinton non è più riuscita a recuperare. Nel 2004 al fianco di Gephardt aveva lavorato in una campagna senza soldi e prematuramente finita in un mare di debiti. E ha fama di essere tiratissimo con i soldi. Innanzi tutto è riuscito a pagare tutti i collaboratori meno di Clinton. Quindi ha bloccato tutte le istanze di spesa che intaccassero la copertura necessaria a fare campagna sino alla conclusione delle primarie. Il risultato è che adesso in cassa ci sono 18 milioni, mentre Clinton ha dovuto sborsare 11,4 milioni per coprire il rosso. Questo non significa che tutto fili liscio come l’olio. Il piano iniziale era quello di trasformare una vittoria in Iowa in una vittoria nel New Hampshire, innescando un meccanismo a catena impossibile da fermare. Le cose sono andate diversamente: Clinton ha vinto nel New Hampshire e da allora lo scontro si strascina. La promessa di lasciare da parte l’arsenale di colpi bassi che spesso fa considerare la politica un gioco sporco e senza scrupoli, secondo molti commentatori non è stata sempre rispettata. Molti dubbi rimangono su chi abbia soffiato ad arte su polemiche che alla fine dipingevano Clinton come una razzista. O sull’indignazione suscitata da sue presunte gaffe. La squadra di sogno che per la prima volta ha portato un afroamericano a un passo dalla nomination si prepara adesso a una sfida altrettanto ambiziosa. Riunire un partito profondamente diviso e presentare Obama a tutto un altro tipo di elettori. Convincere gli indecisi che un anziano e rispettato eroe di guerra sarebbe soltanto una brutta copia delle vecchie amministrazioni Bush. È scattato un nuovo giro di assunzioni. L’ultimo nome è quello di Anita Dunn, partner di uno delle più importanti società di comunicazione politica a Washington. Ha lavorato per Bill Clinton e John Kerry. Pubblicato il: 27.05.08 Modificato il: 27.05.08 alle ore 13.36 © l'Unità. Titolo: Barack Obama. C’era una volta a Chicago Inserito da: Admin - Giugno 05, 2008, 09:44:04 pm C’era una volta a Chicago
Barack Obama Se si passa del tempo a Washington, si sente parlare delle divisioni presenti nel nostro paese, di un divario crescente di natura geografica e ideologica, razziale e religiosa, di ricchezza e opportunità. E ci sono politici che cercano di trarre vantaggio da tali divisioni, mettendo gli americani gli uni contro gli altri, o indirizzando messaggi diversi a interlocutori diversi. Ma avendo viaggiato in tutto il paese negli ultimi mesi, non sono rimasto colpito dalle differenze: piuttosto mi hanno impressionato i valori e le speranze che condividiamo. Nelle grandi e nelle piccole città, uomini e donne, giovani e anziani, bianchi, neri e gialli, tutti gli americani condividono la medesima aspirazione verso sogni semplici: un lavoro con un salario che possa mantenere una famiglia, una sanità su cui contare e alla loro portata, una pensione dignitosa e garantita, un’istruzione e opportunità per i nostri ragazzi. Speranze comuni. Sogni americani. Sono i sogni che hanno guidato i miei nonni. Dopo che mio nonno combatté nella seconda guerra mondiale, il GI Bill gli offrì la possibilità di andare al college, e il governo quella di acquistare una casa insieme a mia nonna. Poi si trasferirono nell’Ovest, lavorarono sodo cambiando spesso lavoro, e riuscirono a garantire a mia madre un’istruzione adeguata, aiutandola ad allevare me e risparmiando il necessario per andare in pensione. E questi sono gli stessi sogni che hanno guidato mio suocero. Un operaio di Chicago a cui all’età di trent’anni diagnosticarono la sclerosi multipla. Ma lui ogni giorno andava a lavorare, anche se la mattina doveva uscire un’ora prima e appoggiarsi a un girello per arrivarci, mentre la moglie stava a casa con i bambini. Con quell’unico stipendio riuscì a mantenere la famiglia e a mandare mia moglie Michelle e il fratello al college. Il suo sogno era di vedere i figli migliorare la loro condizione. E così fu. Sono gli stessi sogni che hanno guidato mia madre. Una madre sola che, anche se doveva contare sui buoni pasto dello Stato, una volta finiti gli studi, ha seguito la propria vocazione ad aiutare gli altri e ha cresciuto me e mia sorella nella convinzione che in America non esistono barriere che impediscano il successo; non importa il colore della pelle, da dove vieni o quanti soldi hai in tasca. Sono gli stessi sogni che mi hanno portato a Chicago oltre vent’anni fa, per fare l’organizzatore di una comunità di chiese. Lo stipendio - 12.000 dollari l’anno - non era quello che i miei amici avrebbero ottenuto in grandi aziende o in studi legali. Non conoscevo nessuno a Chicago, ma sapevo che c’erano persone che avevano bisogno di aiuto. L’acciaieria aveva chiuso e si erano persi molti posti di lavoro. In un angolo dimenticato dell’America il sogno americano stava svanendo. E io sapevo che per i sogni vale la pena di lottare. La cosa speciale dell’America è che tutti vogliamo che questi sogni si avverino non soltanto per noi, ma anche per gli altri. Ecco perché lo chiamiamo il sogno americano. Lo vogliamo per il ragazzo che non va al college perché non può permetterselo; per l’operaio che si chiede se il prossimo inverno lo stipendio basterà a pagare la bolletta del riscaldamento; per i 47 milioni di americani che vivono senza copertura finanziaria; e per i milioni che si chiedono angosciati se la pensione basterà a garantire loro la dignità che meritano. Quando il sogno americano viene negato ai nostri connazionali, ne va dei nostri stessi sogni. Oggi, il prezzo di quel sogno sta salendo come non mai. In questa economia globale, mentre alcuni si sono arricchiti oltre ogni immaginazione, gli americani del ceto medio - e quelli che si affannano per farne parte - vedono il sogno americano svanire sempre di più. Lo sapete per esperienza personale: gli americani lavorano di più per avere di meno e pagano costi maggiori per sanità e istruzione. Per molti, un solo stipendio non basta per mantenere una famiglia e mandare i figli all’università. A volte, non ne bastano neppure due. È sempre più difficile risparmiare. È sempre più difficile andare in pensione. Si fa quel che si deve, ci si assume le proprie responsabilità, ma si ha sempre l’impressione di stare a galla a stento o di perdere terreno. E nel constatare tutto questo ogni giorno della mia campagna, rifletto su quanto sarebbe improbabile per la mia famiglia di allora realizzare i propri sogni oggi. Io non accetto un futuro così. Dobbiamo riprenderci il sogno americano. E per farlo dobbiamo cominciare col riprenderci la Casa Bianca da George Bush e Dick Cheney. Siamo stanchi di tagli fiscali per i ricchi che trasferiscono il fardello sulle spalle di chi lavora. Siamo stanchi di aspettare dieci anni per un aumento del salario minimo, mentre i compensi per i manager salgono alle stelle. Siamo stanchi di vedere sempre più americani senza assistenza sanitaria, sempre più americani che diventano poveri, sempre più ragazzi americani con il cervello e le qualità per andare al college ma senza i soldi per farlo. Siamo pronti per vedere la fine dell’amministrazione Bush perché siamo stufi e stanchi di essere stufi e stanchi. (...) Questo è ciò che dobbiamo fare per riprenderci il sogno americano. Sappiamo che non sarà facile. Ce lo ricorderà la compagnia dei «non si può», «non ci riesci», «non ci provare nemmeno», laggiù a Washington - quella degli interessi particolari e delle loro lobby, della mentalità che vuole questo paese troppo diviso per fare progressi. Non mi sono candidato alla presidenza per adeguarmi a questa mentalità: l’ho fatto per sfidarla. La posta in gioco è troppo alta: le famiglie che non riescono a tirare avanti, il lavoratore anziano che pensa con terrore alla pensione, la ragazza che non crede che in America ci sia spazio per i suoi sogni. Per sostenere questi americani, non mi accontenterò di niente che non sia un cambiamento autentico, profondo - il cambiamento di cui abbiamo bisogno e in cui possiamo credere. In questa campagna elettorale si parla molto di politica della speranza. Ma politica della speranza non significa sperare che le cose vadano meglio: è la politica di credere in cose che ancora non si vedono, in ciò che può essere questo paese; la politica di battersi e lottare per quel che si crede quando è difficile. L’America è la somma dei nostri sogni. Ciò che ci lega, ciò che ci rende un’unica famiglia, è il fatto che ci battiamo per i sogni di tutti, e che riaffermiamo una certezza fondamentale - io sono il difensore di mio fratello, sono il difensore di mia sorella - e lo facciamo attraverso la nostra politica, le nostre scelte e le nostre vite quotidiane. È giunto il momento di farlo di nuovo. È giunto il momento di riprenderci il sogno americano. (novembre 2007) Tratto dalla raccolta di discorsi di Barack Obama «Yes, We Can, il nuovo sogno americano» Donzelli Editore Pubblicato il: 05.06.08 Modificato il: 05.06.08 alle ore 8.51 © l'Unità. Titolo: Hillary: «Non cerco la vice presidenza» Inserito da: Admin - Giugno 06, 2008, 10:51:44 pm Con un comunicato smentisce le indiscrezioni
Hillary: «Non cerco la vice presidenza» Forse la Clinton sabato darà l'appoggio a Obama, ma intanto non dà segni di cedimento WASHINGTON - Hillary Rodham Clinton non sta cercando di ottenere la candidatura come vice presidente di Barack Obama. Lo ha puntualizzato il comitato promotore della sua campagna elettorale con un comunicato, smentendo le indiscrezioni su una tale proposta fatta pervenire all'avversario. «La senatrice Clinton ha messo in chiaro nel corso dell'intera campagna che farà tutto quanto è in suo potere perché alla Casa Bianca sia eletto un democratico», si puntualizza nella nota. «Non sta cercando di arrivare alla vice presidenza, e nessuno è legittimato a parlare per suo conto se non lei stessa. La scelta al riguardo è del senatore Obama, ed esclusivamente sua». Anche se sul piano formale il rivale non ha ancora ottenuto la nomination del partito per le presidenziali del 4 novembre, dovendosi attendere la convention nazionale di fine agosto a Denver, il numero di delegati che ha conquistato è più che sufficiente a garantirgliela comunque. FINE- Per questo la Clinton avrebbe deciso mercoledì sera di mettere fine alla sua campagna ormai destinata alla sconfitta. L'ex first lady avrebbe comunicato la sua intenzione di portare il suo sostegno alla candidatura di Obama e di congratularsi con lui per essere riuscito a riunire un numero di delegati sufficiente per conquistare l’investitura del partito democratico. Hillary Clinton avrebbe rilasciato queste dichiarazioni durante una lunga conferenza telefonica privata mercoledì sera con alcuni deputati democratici. SABATO - «La senatrice Clinton organizzerà un evento a Washington per ringraziare i suoi sostenitori ed esprimere il suo sostegno al senatore Obama e all’unità del partito», ha dichiarato il suo direttore della comunicazione, Howard Wolfson. «L’evento avverrà sabato per riunire la maggior parte dei sostenitori della Clinton che vogliono assistervi», ha aggiunto. In un primo momento era stata diffusa la data di venerdì. Nel suo discorso Hillary Clinton inviterà i democratici a concentrarsi sull’elezione presidenziale e a contrastare il candidato repubblicano John McCain. Wolfson. LE POSSIBILITÀ - Diverse opzioni sono state esaminate: sospendere la campagna per conservare il controllo sui delegati acquisiti alla Clinton e assicurarsi così una visibilità suscettibile di aiutarla a promuovere la sua riforma del sistema sanitario americano, oppure lasciare i suoi delegati liberi di sostenere Obama e ritirare senza condizioni la sua candidatura. Secondo il consigliere, né Clinton né i suoi più stretti collaboratori hanno ancora fissato le modalità del ritiro, anche se tutti riconoscono che la lotta della candidata per tentare di diventare la prima donna presidente degli Stati Uniti è terminata. Durante la conferenza telefonica con i sostenitori di Hillary Clinton alla Camera dei rappresentanti, questi hanno esortato la loro candidata a mettere fine alla sua campagna o almeno a esprimere il suo sostegno a Obama. La decisione della Clinton di accedere alla loro richiesta è stata per più d’uno una sorpresa. La senatrice di New York aveva in effetti minacciato di insistere sulla sua candidatura fino alla convenzione nazionale del partito democratico in agosto, ciò che avrebbe potuto ridurre le possibilità di vittoria democratica nelle elezioni presidenziali. 05 giugno 2008 da corriere.it Titolo: La Clinton è stata una macchina da guerra. Ma mai da sola Inserito da: Admin - Giugno 06, 2008, 10:52:37 pm Sex and the City
Hillary vittima del complesso di Mr. Big La Clinton è stata una macchina da guerra. Ma mai da sola «Tra molti anni, Sex and the City e la candidatura presidenziale di Hillary Clinton saranno visti come espressioni gemelle di un femminismo stravagante e contraddittorio». Addirittura. Però forse un po’ sì. Lo scriveva ieri Timothy Noah sulla rivista online Slate. È un’interpretazione frivola, dopo queste primarie sanguinose che hanno diviso per razza e genere; ma ha un suo perché. Le ex ragazze della serie ora film erano ambiziose e indipendenti; ma erano alla continua ricerca di conferme emotive tramite scarpe costose e approvazione maschile di qualche Mr. Big. Hillary è stata una macchina da guerra tutta la vita; però mai da sola. Sempre incrollabilmente sposata con Mr. Bill. Per cui ora si dice che Carrie, Miranda, ecc. di Sex and the City e il senatore Clinton «incarnano un sogno femminile di potere in qualche modo compromesso». È compromesso anche il sogno democratico di conquistare la Casa Bianca però, ora, forse. Per gli errori di Hillary, i limiti di Barack Obama, lo scompiglio nell’elettorato dopo questa corsa anomala. Perché ora il candidato democratico di padre nero e mamma bianca rischia tra le donne bianche, quelle dell’età di sua madre, soprattutto. In queste primarie i sondaggi sono stati spesso inesatti; ma adesso, per Obama, sulle donne bianche, sono preoccupanti. Ad aprile lo preferivano a John McCain. A maggio, McCain aveva un vantaggio di otto punti. Poi si vedrà. Per il momento, i media americani raccontano della signora indignata alla riunione democratica sul caso Michigan-Florida che gridava «McCain nel 2008!». Delle elettrici non giovani che dichiarano «il modo in cui è stata trattata Hillary per me è un’offesa personale». Di quelle infuriate perché «i democratici pensano che tanto andremo zitte e buone a votare ». Di quelle convinte che Obama sia l’ennesimo uomo che le ha fregate. Conquistare quelle elettrici, per Obama, non sarà semplice. Ha una moglie carismatica ma spigolosa, con cui molte non si identificano; deve sperare che Michelle non faccia altre gaffes, o che ne faccia Cindy McCain, milionaria con l’aria da Barbie sotto psicofarmaci. Obama ha sempre votato pro aborto,mentre John McCain ha un percorso netto di voti antiabortisti; ma non può vantarsene troppo, potrebbe costargli voti di americani religiosi. È accusato di elitismo,ma è moltomeno ricco di McCain; però McCain è un vecchio americano (bianco) alla mano e rassicurante. Obama è un marito fedele; ma non conta più di tanto, basta pensare a Bill. Si può consolare con l’ultimo sondaggio Gallup secondo cui le donne, di tutti i colori, lo preferiscono a Mc- Cain.Ma solo per tre punti, 49 a 46. Oppure può pensare che le elezioni americane sono un grande, quadriennale psicodramma collettivo; con alti e bassi emotivi e continui innamoramenti dei media per una tendenza o per l’altra. L’ultima tendenza, ora che Hillary si arrende e Obama non dà certezze, è narrare a tappeto l’arrabbiatura delle donne bianche. Anche se, scriveva ieri Rosa Brooks sul Los Angeles Times, «è sbagliatissimo decidere che le donne, come gruppo, abbiano idee politiche condivise. Ci sono anche molti uomini dispiaciuti per Hillary,ma non vedo titoli che recitano "Uomini angosciati per la probabile sconfitta di Clinton"». Intanto, Obama ha cominciato a lodare Hillary, a dire che è formidabile. Il voto di Carrie di Sex and the City, delle newyorkesi elitiste, lo ha già intascato; è quello delle americane normali e impoverite, con più problemi di mutuo che di scarpe, che deve guadagnare. Sperando nell’aiuto di Hillary. Per il sogno femminile di potere «compromesso » (ma esiste potere maschile non compromesso?) ci saranno, si presume, altre occasioni. Attenzione ai Mr. Big, nel frattempo. Maria Laura Rodotà 04 giugno 2008 da corriere.it Titolo: Barack Obama Inserito da: Admin - Agosto 23, 2008, 09:37:16 am ESTERI
La Clinton disse che il passato del suo avversario avrebbe indebolito la candidatura "Ma i suoi compagni di classe lo ricordano come uno lucido e motivato" Sbornie e spinelli all'Università "Per non pensare al futuro" di SERGE KOVALESKI UNA TRENTINA di anni fa, Barack Obama si distingueva nel piccolo campus dell'Occidental College di Los Angeles per la sua eloquenza, la sua intelligenza e il suo attivismo contro l'apartheid in Sudafrica. Ma Obama, noto allora come "Barry", prendeva parte anche alle feste. Nel suo libro di memorie del 1995, a distanza di anni egli rammenta "di aver fumato spinelli nella camera di qualche fratello" e rivela di essersi ubriacato più volte. Prima del college, quando era studente alle Hawaii, secondo quanto scrive nel libro, indulgeva nell'uso di marijuana, alcol e talvolta cocaina. Nel novembre scorso il senatore Obama, allora presunto candidato democratico alla presidenza degli Stati Uniti, ha confessato agli studenti di un liceo del New Hampshire di aver "preso alcune pessime decisioni" da teenager in relazione all'uso di stupefacenti e di alcol. Le ammissioni di Obama sono cosa rara per un politico (Il libro "Dreams from my father" lo ha scritto prima di candidarsi e di entrare in politica). Nel dicembre scorso per qualche tempo le sue rivelazioni sono salite alla ribalta quando un consigliere della senatrice Hillary Clinton ha ipotizzato che le sue esperienze con la droga lo avrebbero reso vulnerabile nei confronti di attacchi da parte dei repubblicani qualora fosse diventato il candidato ufficiale del suo partito. Obama non ha mai quantificato e precisato l'uso che ha fatto di sostanze stupefacenti: ha descritto però i due anni trascorsi all'Occidental College - un'università di studi umanistici a maggioranza bianca - come un risveglio progressivo e profondo dall'indifferenza nella quale aveva vissuto, un progresso che lo condusse all'attivismo e a temere che la droga potesse portarlo inesorabilmente alla tossicodipendenza o all'apatia generale, come vedeva accadere in molti uomini di colore. Il resoconto fatto da Obama dei suoi anni giovanili e del suo consumo di stupefacenti, tuttavia, differisce molto dai ricordi di altre persone, che non rammentano che egli ne facesse uso. In quasi una trentina di interviste, amici, compagni di classe, mentori del liceo e del college ricordano tutti Obama come un giovane determinato, motivato, padrone delle proprie azioni. Uno studente che in nessun modo pareva avere a che fare con problemi legati alla droga. Un portavoce della sua campagna, Tommy Vietor, ha detto che il libro di Obama "è uno schietto resoconto personale di quello che il Senatore Obama sperimentò e pensò all'epoca", e ha scritto: "Non sorprende che i suoi amici del liceo e del college non abbiano ricordi personali e stentino a rammentare ciò che avvenne oltre 20 anni fa con la sua stessa precisione". Ciò che è chiaro è che il periodo trascorso da Obama all'Occidental College, dal 1979 al 1981 lo avviò con decisione alla sua carriera nel servizio pubblico. Lì sviluppò una più robusta autoconsapevolezza, visse una sorta di nascita politica, soprattutto nel suo secondo anno di università, quando si interessò alle grandi diseguaglianze e ingiustizie sociali come l'apartheid e la povertà nel Terzo mondo. Figlio di madre americana bianca e di padre keniano nero, Obama ha scritto che si ubriacava nel tentativo di superare e annientare la confusione che provava nei suoi stessi confronti. "Un tossico, uno spinellato... ecco che cosa ero destinato a diventare. Ero destinato ad assumere il ruolo ultimo e inevitabile di un giovane di colore. Solo che le sbornie non erano per cercare di dimostrare che tipaccio fossi, ma per scacciare dalla mia mente le domande su chi ero e chi sarei diventato". Quando Obama frequentò il suo penultimo e ultimo anno di università, corrispondenti al periodo nel quale egli scrive di aver fatto largo uso di marijuana e di cocaina perché "poteva permettersi di acquistarle", tuttavia egli si era già laureato. Obama in particolare descrive un episodio risalente a quel periodo: ricorda di aver visto qualcuno di nome Micky tirar fuori dal congelatore della carne di un negozio di gastronomia "un ago e un tubo", a quanto pare per farsi un buco di eroina. Allarmato da quanto aveva visto, Obama scrive di aver immaginato in che modo una semplice bolla d'aria potesse portarlo all'altro mondo. Obama si lasciò coinvolgere nell'Associazione degli studenti di colore e nella campagna di spoliazione mirante a esercitare pressioni sul college affinché togliesse i propri finanziamenti alle società che facevano affari in Sudafrica. Per affermare il loro punto di vista gli studenti campeggiarono all'aperto in una baraccopoli improvvisata nel campus. Obama fu uno dei pochi studenti a prendere la parola a un raduno al campus per promuovere la campagna. Rebecca Rivera, membro di un analogo gruppo di studenti ispanici, afferma che nelle sue parole c'era "passione, assolutamente, ma non foga incoerente". Amiekoleh Usafi, compagno di classe di Obama, prese anch'egli la parola in quella occasione e oggi ricorda di averlo incontrato alle feste. Noto all'Occidental College con il nome di Kim Kimbrew, egli dice di aver visto Obama a dir tanto con qualche sigaretta e una birra: "Non lo avrei mai definito un drogato, e dire che lì ce ne erano tanti! Ma lui era troppo cool per cose del genere". (Copyright The New York Times-La Repubblica Traduzione Anna Bissanti) (23 agosto 2008) da repubblica.it Titolo: VITTORIO ZUCCONI. Droga e alcol da ragazzo. Ma anche un fascino irresistibile Inserito da: Admin - Agosto 23, 2008, 09:38:13 am ESTERI
Droga e alcol da ragazzo. Ma anche un fascino irresistibile Alla vigilia della Convention, viaggio alla scoperta di Barack Obama, l'educazione di un leader di VITTORIO ZUCCONI ORMAI alla vigilia delle incoronazione in quella cerimonia liturgica semi religiosa chiamata "Convention", calcolata quest'anno per coincidere con il giorno del "discorso del sogno", il 28 agosto, di Martin Luther King, il figlio di un pastore vagante dell'Africa e di una contadina della Prateria americana che osa aspirare alla presidenza degli Stati Uniti rimane, dopo quintali di libri, autobiografie, documentari, insinuazioni e adulazioni, il più famoso sconosciuto del mondo. Del giovane candidato alla presidenza americana Barack Hussein Obama, che ha compiuto 47 anni il 4 agosto scorso, crediamo di sapere tutto, vizi e vizietti, qualità e debolezze, canne fumate, "linee" annusate e marca di bourbon preferita. Ma dell'uomo, chiuso dentro il bozzolo della sua coolness da jazzista anni '50, vestito della sua aria ingualcibile come i completi di "fresco lana" italiano che indossa, nascosto nella sua maestria retorica, abbiamo intravisto qualche lampo, mai l'immagine completa. La "Obama Story" è stata sviscerata e analizzata anche in inchieste equilibrate, nè agiografiche nè calunniose, come questa condotta dal New York Times. Ma la "Obama Soul", la sua anima resta un segreto che appartiene soltanto a lui e forse a Michelle, la sua prima e finora unica moglie. Una campagna elettorale non è lo strumento migliore per scrutare la verità di candidati sballottati fra gli estremi opposti della autosantificazione e della demonizzazione e si trasformano in lavagne sulle quali i cortigiani propri e altrui possono scarabocchiare e cancellare di tutto, senza mai scalfire la superficie. E questo, di essere ancora un affascinante enigma, un magnifico sconosciuto per milioni di americani, è il vero nemico che Barack Obama deve sconfiggere, assai più insidioso dell'anziano, e a tratti ormai visibilmente senile, avversario repubblicano McCain. Gli sarà difficile, perché questa coolness, questa imperturbabilità che provoca accuse di snobismo, è un tratto che si ritrova non nel suo essere Obama, intelligente, colto, cosmopolita (peccato grave presso l'elettorato più provinciale), ma nel colore indelebile della sua pelle. E' un meccanismo istintivo, ma anche appreso, che chiunque abbia avuto contatti e apparenti amicizie con americani di sangue africano, riconosce anche nelle persone di colore più di successo. E' una difesa, un senso di prudenza, di diffidenza, di riservatezza che la storia, la diversità, e la minorità insegnano dolorosamente a tutti coloro che, per il cognome italiano con la vocale alla fine come Capone, Gambino o Luciano, per l'accento straniero, per la religione o la carnagione, sanno di essere perennemente giudicati. E sempre a un passo dal precipizio dello stereotipo negativo. Obama non è snob e superbo perché è uscito da Harvard. Lo è perché e nero. Svelare l'anima dietro la maschera, diventare banale senza perdere la sua eccezionalita, è vitale per lui. Per vincere un'elezione, ovviamente. Ma per sbriciolare finalmente, per tutti, quella parete di cristallo che ancora divide l'America da sè stessa. (23 agosto 2008) da repubblica.it Titolo: VITTORIO ZUCCONI. Il perfetto numero 2 Inserito da: Admin - Agosto 24, 2008, 06:46:43 pm ESTERI L'ANALISI
Il perfetto numero 2 dal nostro inviato VITTORIO ZUCCONI Matrimonio politico tra speranza e prudenza, promessa rassicurante all'America, e a un mondo stanco di bullismi militari e di smargiassate ideologiche, di cambiamento senza avventure. L'accoppiata fra Barak l'africano e Joe l'irlandese è in fondo la versione di sinistra dell'operazione che fecero a destra i repubblicani otto anni or sono quando affiancarono all'immaturo e inesperto Bush la navigata governante Cheney. Con l'augurio che, in caso di loro vittoria, i risultati siano migliori. E' un'unione di opposti che essi sperano divengano complementari e formino un pacchetto capace di calmare le ansie degli scettici, senza deprimere gli entusiasmi dei convertiti, rassodando l'unità del partito. In linguaggio scacchistico, potremmo dire che Barack Obama, martellato come un novizio invaghito della celebrità, si è arrocato, scegliendo questo senatore che potrebbe essere suo padre (sessantasei anni contro quarantasette) che ha fatto della politica internazionale la propria specialità. E che in materia di pace e guerra, di ordine mondiale, di diritti civili per le donne e per i neri, di "sicurezza nazionale" come vuole lo slogan, sovrasta testa e spalle il repubblicano John McCain, le cui immaginarie credenziali di politica estera sembrano malinconicamente ridursi a quei cinque dolorosi anni trascorsi nelle celle di Hanoi trentacinque anni or sono, in un mondo leggermente diverso dal nostro. Celle nelle quali l'eterno reduce di professione sembra essere ancora imprigionato. Joseph Biden è semplicemente tutto quello che Barak Hussein Obama non è. Quanto Barak appare snob, elitista, algido, intellettuale ("consumatore di rughetta", dicono rabbrividendo a destra, sintomo terminale di elitismo gastronomico) e distaccato dal mondo dei colletti blu democratici, dal popolo del cestino colazione in fabbrica (almeno in quelle che non sono già volate in Cina), tanto il vecchio Joe è amato nel vecchio cuore industriale dell'Est, dove potrebbe dare qualche aiuto elettorale negli stati in bilico. E' popolarissimo nel suo Delaware (lo staterello feudo della chimica Dupont de Nemours dove lui è senatore da 36 anni) nella vicina Pennsylvania, nell'Ohio, nel Michigan, nella "cintura della ruggine" che non si è convertita alla "Obamania". E' di famiglia, se non di particolare devozione, cattolica romana, contro il revivalismo messianico delle chiese battiste nere frequentate da Obama. E' un formidabile manovratore di leve parlamentari, quanto il suo capocordata Obama è ancora "junior", essendo senatore al primo mandato. Ed è una linguaccia, con tendenza alla gaffe garrula e alla logorrea per autocompiacimento, il contrario dell'afro americano, incantevole nella enunciazione dei discorsi preparati, ma esitante nella battuta pronta. Vederlo sparare il suo sorriso stirando le labbra, un trucco che imparò per controllare i muscoli facciali e vincere la balbuzie che lo tormentava da ragazzo - e sparare una battuta ("Questo Giuliani - disse del noioso e monocorde ex sindaco di New York - conosce soltanto tre parole, un sostantivo, un verbo e il 9/11") contrasta radicalmente con l'espressione che raggela Obama quando deve uscire dal copione. Per questo era stato lui, da sempre, il compagno di squadra che il candidato democratico aveva in mente, nascosto dietro i depistaggi organizzati per tenere alta la suspence fino alla vigilia del Congresso, della "Convention", che comincia domani a Denver. Nessun altro era stato considerato seriamente da Obama, che non poteva affiancare un'altra scelta arrischiata a se, essendo già lui il personaggio shock. O portarsi in casa residuati invadenti come Al Gore o Hillary Clinton, con Bill a rimorchio, mai inserita davvero nella lista dei possibili vice, come era ovvio che fosse. La promessa di cambiamento è lui, il figlio del Kenyano con quel nome strano e straniero, e raddoppiare la scommessa della novità l'avrebbe resa un azzardo. Il problema Hillary, pensando al gioco di spariglio che la signora potrebbe essere tentata di fare contro l'usurpatore del propri diritti dinastico, l'odiato Obama, è un altro dei valori aggiunti che Joe Biden porta. "Old Joe", con quei suoi capelli trapiantati ma non pittati per nascondere le cicatrici di due interventi per aneurismi al cervello, è un "boss" di partito della vecchia scuola, e la frustrata signora Clinton, senatrice lei stessa, dovrà fare attenzione a non creare l'impressione che lei, e l'ingombrante coniuge, remino contro il duo Obama-Biden. Nel caso di una loro vittoria, lady Hillary sarebbe punita e marginalizzata in Senato, dove già non ha brillato. Nel caso di una loro sconfitta, la implacabile vendetta della politica le farebbe pagare lo sgarro, negandole, o rendendole assai dura, la candidatura del partito fra quattro anni. La campagna di Barak Obama ha dunque fatto una scelta che, prima di essere giusta o sbagliata, come si vedrà soltanto il 4 novembre, era inevitabile. L'outsider con l'insider, venuto dal cuore dell'establishment politico. Il profeta del cambiamento temperato dalla esperienza di un cardinale di Washington. La voglia di rassicurare la nazione e di compattare un partito ancora dilaniato dallo strazio delle primarie, ma che riconosce in Biden un vero democratico dal pedigree antico e un difensore dei diritti delle donne, tra i pochi che votarono contro i giudici conservatori voluti da Bush alla Corte Suprema. E se qualcuno tenterà ancora di cantare il consueto refrain contro i Democratici insensibili alle virtù militari, il vecchio Joe potrà mostrare la foto del figlio maschio in divisa da capitano. E' in partenza per l'Iraq, dove la Casa Bianca ci grida che la guerra è vinta, eppure stranamente giovani americani come lui continuano a morire. (24 agosto 2008) da repubblica.it Titolo: Obama, correzione di rotta Inserito da: Admin - Agosto 24, 2008, 09:56:44 pm Obama, correzione di rotta
Gian Giacomo Migone Con la scelta di Joseph («Joe») Biden a candidato alla vice presidenza degli Stati Uniti, Barack Obama ha confermato la tendenza della sua campagna elettorale che mira a occupare il centro del perimetro politico, rassicurando gli interessi e gli orientamenti che tradizionalmente lo dominano. Per entrambi i candidati si tratta di conquistare i voti dei numerosi incerti, circa un terzo dell´elettorato secondo i sondaggi, moderati, veri o presunti. Lo sono veramente? È questo l´interrogativo che grava sull´esito degli sforzi del ticket democratico. Nelle primarie Obama ha conquistato la candidatura democratica mobilitando una parte cospicua della popolazione solitamente riluttante a partecipare al voto che, nel caso delle elezioni presidenziali americane, oscilla tra il 50 e il 60 per cento degli aventi diritto. Soprattutto, giovani e afroamericani. Lo ha fatto con alcune scelte radicali come il netto e coerente rifiuto della guerra in Iraq, la disponibilità a negoziare anche con i peggiori nemici degli Stati Uniti, una impostazione profondamente innovativa della questione razziale (ciò che conta non è il colore della pelle, ma l´emarginazione sociale a cui porre rimedio), un rafforzamento del fragile welfare americano, il rifiuto della pena di morte. Ma, sopra ogni altra cosa, con un appello al cambiamento che ha catalizzato l´ostilità diffusa nei confronti della vecchia politica, non dissimile da quella presente nel resto dell´Occidente, in cui è affondata la candidatura, pur femminile e femminista, di Hillary Clinton. Lo ha fatto con l´appoggio di una parte cospicua dell´apparato di partito che, in misura sorprendente, lo ha seguito in queste scelte, grazie alla leadership di personalità in ascesa come Nancy Pelosi e Al Gore, oltre che dell´opinione liberal, intellettuale e mediatica. La difficoltà di Obama a distaccare il proprio rivale repubblicano nei sondaggi di opinione, malgrado la crescente impopolarità del presidente in carica (ultimamente con la guerra in Georgia), lo ha però costretto a una correzione di rotta. Anziché continuare a galvanizzare i propri sostenitori, consolidandone la partecipazione, Obama ha dovuto riportarsi entro parametri politici più tradizionali, annacquando le sue precedenti posizioni al punto di suscitare un severo editoriale del New York Times che ha sottolineato il pericolo di perdere partecipazione a sinistra più di quanto egli non possa guadagnare al centro con tale riconversione a favore della vecchia politica del flip-flop, dico e non dico, di marca washingtoniana. La scelta di Joe Biden, senatore di lungo corso, presidente in carica della commissione Esteri del Senato, corrisponde all´esigenza di rassicurare e conformarsi alle regole e ai valori bipartisan che dominano la politica della capitale americana. Ad esempio Biden ha gestito non certo in senso critico la fatidica impostazione della cosiddetta guerra al terrorismo e quella contro l´Iraq di Saddam Hussein, in sede parlamentare. Egli auspica certo un´impostazione più multilaterale della politica estera, ma senza una qualche riflessione critica su una leadership americana che la realtà di un mondo ormai multicultulare impone. Né Biden, senatore della Delaware, Stato storicamente dominato dalle grandi corporations, aggiunge nulla alle ricette per affrontare la recessione in atto e il crescente disagio economico e sociale del ceto medio, per non parlare di quelli tradizionalmente emarginati. È vero però che l´effetto rassicurante della figura e della collocazione politica di Biden potrebbe liberare Obama, consentendogli di recuperare la spinta innovativa originaria della sua candidatura, offrendogli il peso e la ponderatezza di cui egli, secondo i suoi critici, mancherebbe. Staremo a vedere. Come è anche vero che il suo rivale, John McCain, è stato costretto ad abbandonare il suo profilo originario, tutt´altro che conformista in senso tradizionalmente repubblicano, incline a prendere le distanze dall´ortodossia neoconservatrice, ma anche dai salotti buoni del suo partito. Lo ha fatto traendone giovamento nei sondaggi di opinione, contrariamente al suo rivale democratico che rischia di scontentare i suoi sostenitori senza conquistarne altri. Vedremo quale sarà l´effetto Biden, come anche la scelta del candidato repubblicano alla vice presidenza. Si parla con insistenza dell´ex democratico conservatore Joseph Lieberman che fu al fianco di Al Gore nel ticket democratico sconfitto da George W. Bush nelle elezioni del 2000. Come si vede, poco o nulla di nuovo sotto il sole un poco appannato di Washington. Un´avvertenza finale. Quella di vice presidente degli Stati Uniti, come è definita dalla sua Costituzione, è la carica politica più paradossale che possa immaginarsi. Scelto liberamente dal candidato vincente alla presidenza, a cui si affianca nelle elezioni a suffragio popolare, le sue competenze ne sono rigidamente definite e solitamente limitate. Il caso di Dick Cheney, vice presidente in carica, singolare tutor di George W. Bush e garante degli interessi che lo hanno espresso, è una rondine che non fa primavera (si perdoni la metafora particolarmente inappropiata). Tuttavia, il vice presidente si colloca, come dicono gli americani, a un battito di cuore dal presidente, sostituendolo automaticamente nel caso venisse meno, fisicamente o per altri motivi, nel corso del suo mandato. L´ipotesi non è peregrina, malgrado la differenza di età che, nel nostro caso, separa Obama da Biden, se si riflette sul fatto che, nel secolo scorso, ben cinque presidenti degli Stati Uniti sono stati sostituiti dai loro vice presidenti prima di concludere i loro mandati. g.gmigone@libero.it Pubblicato il: 24.08.08 Modificato il: 24.08.08 alle ore 14.35 © l'Unità. Titolo: Massimo Gaggi Obama-McCain i due outsider Inserito da: Admin - Agosto 26, 2008, 11:16:41 am PRESIDENZIALI AMERICANE
Obama-McCain i due outsider di Massimo Gaggi A Denver le facce scure dei delegati pro Hillary costretti a inneggiare a Obama. A Minneapo-lis, la prossima settimana, l'adunata di un partito chiamato a incoronare McCain, un candidato che non ama. Quelle del 2008 sono le convention del mal di pancia. Ma il malessere degli apparati è anche una bella prova di vitalità della democrazia americana. Se ne parla poco perché i due leader non hanno interesse a sottolineare questa circostanza, ma adesso che parte lo scontro finale e che tutti cercano i punti di contrapposizione tra personaggi con storie e profili molto diversi, vale, invece, la pena di sottolineare il dato che più li accomuna: Obama e McCain non sono i rappresentanti di un potere consolidato, ma due outsider che l'hanno spuntata sui rispettivi establishment grazie al voto popolare. Non è poco in un mondo nel quale si vota sempre di più, ma le democrazie troppo spesso sono solo formali o «limitate». All'ombra della globalizzazione si diffondono oligarchie, leader che mescolano populismo e paternalismo autoritario: regimi spesso sorretti dai centri di potere economico o da qualche istituzione forte (come la rete degli ex agenti del Kgb in Russia). Ma anche nei Paesi con una struttura democratica consolidata e un efficace sistema di garanzie, al potere si arriva spesso per cooptazione o sulla base dei rapporti di forza nella dirigenza centrale dei partiti. Basti pensare, restando in Italia, alle primarie «pilotate» del Pd o al centrodestra solidificato attorno al potere economico e alle capacità mediatiche di Silvio Berlusconi. Rispetto a quello che accade nel mondo, il senatore nero dell'Illinois e il maverick dell'Arizona, imprevedibile e insofferente di ogni disciplina di partito, sono due significative diversità: due battitori liberi che i rispettivi partiti hanno a lungo osteggiato. L'establishment democratico voleva Hillary Clinton. Obama l'ha spuntata sfruttando la sua popolarità, il rapporto coi giovani e usando i circuiti di Internet al posto di quelli del partito. Qualcuno sostiene che il «regicidio» non sarebbe stato possibile senza l'appoggio di un potere nuovo: quello dell'industria hi-tech, che sarebbe il nuovo establishment. Non è proprio così: la Silicon Valley ha sicuramente appoggiato Obama, l'ha aiutato a sfruttare il web in modo più efficace, ma i giovani imprenditori libertari e un po' anarchici dell'informatica non rappresentano (ancora) un gruppo di potere coeso, capace di condizionare davvero la politica di Washington. Quanto ai capi repubblicani, su una cosa erano d'accordo: non volevano uno come McCain, sempre pronto a prendere le distanze dal partito, ad attaccare Bush e a fare accordi col «nemico» democratico. Pur di sbarrargli la strada, la Casa Bianca era arrivata ad appoggiare il mormone Mitt Romney. Anche la lobby industriale gli era ostile perché McCain si professa «mercatista», ma in Senato per anni ha bastonato le imprese che secondo lui hanno abusato della loro libertà, comportandosi in modo rapace: farmaceutica, tabacco, petrolieri e le aziende aerospaziali che hanno cercato accordi «sottobanco» col Pentagono. Ma gli elettori delle primarie hanno sconfitto gli apparati che si sono dovuti rassegnare all'inevitabile. Se alle convention verrà rilevato un deficit di entusiasmo, se ci sarà qualche contestazione, prendetelo per un segno di forza, non di debolezza, della democrazia americana. 26 agosto 2008 da corriere.it Titolo: Il pendolo di Obama e del suo vice Biden Inserito da: Admin - Agosto 26, 2008, 06:47:29 pm Il pendolo di Obama e del suo vice Biden
John Nichols Bastava un po’ di vecchio buon senso per capire chi sarebbe stato il candidato alla vicepresidenza di Barack Obama. Alla fin fine Obama ha scelto la persona che durante le primarie democratiche ha sottolineato, più di ogni altro, ripetutamente e con durezza che Obama non era esperto abbastanza per ricoprire la carica di presidente degli Stati Uniti. È stato Biden nell’agosto del 2007 a dire nel corso di un dibattito: «Penso che Obama potrebbe essere pronto, ma al momento non credo lo sia. La presidenza non è un corso di apprendistato. Quando al senatore Biden è stata ricordata questa dichiarazione, ha risposto che la confermava. Commenti come questo appariranno sicuramente nei manifesti pubblicitari del repubblicano John McCain. La macchina repubblicana è già al lavoro e ha sfornato la prima stilettata di veleno. Alle ore 1,22 del mattino (ora della costa orientale) è uscito il seguente comunicato stampa dello staff di McCain: «Joe Biden è stato sicuramente quello che ha maggiormente criticato la mancanza di esperienza di Barack Obama. Biden ha sottolineato la scarsa capacità di valutazione di Barack Obama in materia di politica estera e con parole sue ha detto quello che gli americani stanno rapidamente cominciando a capire: Barack Obama non è pronto per fare il presidente». Non aspettatevi che i tentativi di McCain di usare Biden contro Obama facciano troppi danni. I democratici, e in ultima analisi gli americani in genere, non dovrebbero avere difficoltà ad accettare i commenti secondo cui il n. 2 Biden riteneva che Obama non fosse pronto a fare il n. 1. Come? Riconoscendo che oggi sulla scena politica i partiti finiscono per presentare un volto unitario. Sebbene si sia scioccamente detto che tutto il parlare del candidato alla vicepresidenza fosse irrilevante, la verità è che la scelta del vicepresidente conta - vuoi per l’unità del partito vuoi per l’elettorato. Il candidato alla presidenza e quello alla vicepresidenza si presentano come una squadra completandosi l’un l’altro e cercando di colmare le lacune e le vulnerabilità l’uno dell’altro. Con la prospettiva di una nuova guerra fredda e tutta una serie di sfide e conflitti globali, Obama non poteva eludere i punti interrogativi riguardanti la sua capacità di ricoprire la carica di Presidente degli Stati Uniti. Aveva bisogno di rinforzarsi sul fronte della politica estera. Per questa ragione sono usciti di scena candidati più in linea con lo slogan di Obama «il cambiamento in cui possiamo credere», come ad esempio il governatore della Virginia Tim Kaine. Vero è che Obama avrebbe potuto raggiungere lo scopo affiancando al suo nome quello della senatrice di New York Hillary Clinton con la quale avrebbe potuto condurre una ottima campagna elettorale. Ma il punto è che non poteva fare campagna insieme a Bill Clinton e allora l’ipotesi Hillary Clinton è stata definitivamente accantonata. Ad Obama non è rimasto che Biden. Ed è stata una conclusione accettabile, persino soddisfacente di questa lunga caccia al tesoro. Malgrado i difetti di Biden - una accusa di plagio politico risalente a venti anni fa, la reputazione di uomo logorroico, una collezione di gaffe e il voto a favore del presidente Bush e della sua guerra in Iraq - il presidente della Commissione Esteri del Senato dà ad Obama ciò di cui ha bisogno. Si aggiunga a questo che Biden ama la politica. Ne adora l’aspetto agonistico. È un eccellente oratore. È bravo nei dibattiti - infatti quando nelle primarie era in corsa per la nomination, Biden si è aggiudicato diversi dibattiti. E si trova a suo agio nel fare campagna elettorale sia nelle città industriali che nelle regioni rurali. Dopo un picco di popolarità a favore di Obama verso la metà dell’estate, il pendolo stava paurosamente oscillando a favore di McCain. Ma con Biden al suo fianco, il pendolo potrebbe oscillare nuovamente dalla parte di Barack Obama e del Partito Democratico. Forse Biden non sarà la scelta perfetta. Forse non è quello che avremmo preferito. Ma, almeno agli occhi di Obama, Biden era la scelta necessaria. John Nichols è corrispondente da Washington della rivista «The Nation» © 2008, The Nation Traduzione di Carlo Antonio Biscotto Pubblicato il: 26.08.08 Modificato il: 26.08.08 alle ore 12.45 © l'Unità. Titolo: Kerry Kennedy: «Ce la faremo, Bush ha fatto troppi errori» Inserito da: Admin - Agosto 27, 2008, 07:45:29 pm Kerry Kennedy: «Ce la faremo, Bush ha fatto troppi errori»
Gabriel Bertinetto Kerry, figlia dello statista Robert Kennedy assassinato il 5 giugno 1968 a Los Angeles, è a Denver per la convention Democratica. Al telefono Kerry confida i suoi timori per l´esito delle presidenziali. «Ma alla fine ce la faremo, perché gli elettori rifletteranno sul disastro Repubblicano di questi ultimi otto anni». Che clima si respira alla Convention in vista del voto di novembre, signora Kennedy? Entusiasmo, speranza, preoccupazione? «Si ha l´impressione che sarà una gara molto difficile. I sondaggi danno i due candidati alla pari. Dovremo tutti lavorare assai duramente per vincere. È diffuso il senso della serietà dello scopo per cui ci si batte. Il nostro partito è diviso. Sostanzialmente la realtà è che Obama ha ottenuto appena più della metà delle preferenze e Hillary Clinton appena meno. Il risultato è una forte contrapposizione di appartenenza politica. La nostra sfida più grande è ora quella di unirci. Storicamente noi Democratici quando abbiamo dovuto rimettersi insieme dopo esserci spaccati, abbiamo perso. Ricordo benissimo cosa accadde nel 1980 con la frattura fra Ted Kennedy e Jimmy Carter. Vedo segnali allarmanti ma anche segnali positivi. Proprio Ted Kennedy nel suo intervento davanti ai delegati ha dato una spinta verso l´unità, mettendo l´accento sulla storia e sugli ideali comuni a tutto il partito. Anche Michelle, la moglie di Barack, ha fatto esattamente ciò che era necessario, presentandosi non solo ai Democratici ma alla nazione come una donna concreta, che ha a cura i valori americani, ama il suo Paese e sa parlare con partecipazione emotiva e forza». Joseph Biden è il candidato alla vicepresidenza. La scelta per qualcuno è un segno di debolezza da parte di Obama, quasi l´ammissione di avere bisogno di una balia politicamente più esperta. Ma è così che gli americani la percepiscono? «Il senatore Biden ha una lunga esperienza parlamentare e una formidabile conoscenza della politica internazionale. Non credo che la nomina sia percepita come un segno di debolezza. Quel segnale Obama l´avrebbe dato, al contrario, scegliendo una persona inesperta, e dimostrando così scarsa capacità di giudizio. Siamo un Paese complesso alle prese con eventi internazionali importanti. Abbiamo bisogno di esibire tutta l´energia di cui siamo in possesso. Tenendo presente tutto ciò, la scelta di Biden è positiva». E tuttavia ancora c´è chi ritiene sbagliato non avere optato per una donna, e per una in particolare, Hillary. Che ne pensa? «È un argomento valido. Hillary ha avuto quasi metà dei consensi alle primarie, ha idee, carisma, capacità di guida. Era la candidata ideale da molti punti di vista. Ma una volta preso atto del suo accantonamento, allora Biden è una scelta molto forte». Molti ancora non capiscono perché mai i Democratici abbiano rinunciato al «dream ticket», che secondo molti analisti avrebbe spianato loro la strada verso una probabilissima vittoria. Lei l´ha capito? «Non lo so. Stando ai sondaggi l´accoppiata Obama-Clinton garantiva grande presa sull´elettorato democratico. Non è chiaro quale appeal avrebbe avuto sui simpatizzanti repubblicani. Dobbiamo comunque ricordare che la contesa fra i due fu accesissima ed era quindi davvero arduo tornare assieme. Ma oso credere che lo staff di Obama non abbia valutato le cose da quel punto di vista, ma in una prospettiva più ampia e dunque il criterio sia stato quello di trovare la persona più adatta al nostro Paese, e che solo per questa ragione Biden sia stato preferito a Hillary». Come spiega il recupero di McCain, che ora viene accreditato della stessa percentuale di consensi rispetto ad Obama? «Benché l´apparenza sia che negli Usa non ci si occupi d´altro che del voto, la verità è, lo si creda o no, che la gente comincia solo ora ad interessarvisi davvero. Tradizionalmente l´elettorato per l´85% si schiera con fedeltà con i Democratici o i Repubblicani. Il restante 15% si muove da un campo all´altro a seconda delle circostanze e dei temi che emergono nella campagna». È errato dire che se l´attenzione si concentra sulla crisi economica si avvantaggia Obama, se irrompono in primo piano le tensioni internazionali, guadagna McCain? «Non credo proprio. McCain ha dichiarato che potremmo restare in Iraq altri cent´anni. Obama assicura che il ritiro inizierà dal primo giorno in cui metterà piede alla Casa Bianca. Ora accade che non solo lui, ma perfino Bush, ponga la questione di indicare una scadenza alla missione, spiazzando così del tutto McCain. Quanto all´economia, è in condizioni terribili proprio a causa delle politiche Repubblicane. Benché loro s´affannino a dire di avere agito bene, la realtà è sotto gli occhi di tutti: dai prestiti per l´acquisto delle case alla sanità, all´aumento dei prezzi petroliferi, all´inquinamento, ai diritti femminili violati, questa amministrazione ha prodotto un disastro. Ora se compari le iniziative di Bush con i programmi di McCain, le trovi identiche, e solo con il microscopio puoi scovare qualche diversità. Dare potere ai Repubblicani significa premiare chi ha distrutto il Paese nell´arco degli ultimi 8 anni. I cittadini rifletteranno su questo. Ecco perché alla fine vinceremo. Ma sarà una battaglia serrata, e dovremo faticare molto per esprimere in maniera articolata la nostra proposta». Pubblicato il: 27.08.08 Modificato il: 27.08.08 alle ore 12.48 © l'Unità. Titolo: Spike Lee "Assomiglia all'Italia: non puoi non amarlo" Inserito da: Admin - Agosto 27, 2008, 11:30:38 pm 27/8/2008 - INTERVISTA
Spike Lee "Assomiglia all'Italia: non puoi non amarlo" FRANCESCO SEMPRINI DENVER Barack Obama sul grande schermo? «Yes we can», ma se lo interpreta Denzel Washington. L’idea d’un film sul candidato democratico piace a Spike Lee, regista cult di Hollywood, primo tra i vip Usa a credere nel candidato afroamericano. Superata la soglia dei 50, Shelton Jackson Lee detto lo «Spike di Brooklyn» grida «Yes we can» con la stessa passione che mette nei film e per questo è giunto sino a Denver. Lo incontriamo di buon’ora sulla 16esima, via che di notte si ubriaca di musica, pub e giovani e di giorno sonnecchia per smaltire la sbornia. «È il momento ideale per girare - spiega il regista - si respira un’aria agro-dolce, quasi surreale, e mi aiuta a pensare». Scarpe «All Star», jeans, al collo una catena con il crocefisso e occhiali gialli, Spike indossa una polo con il tricolore e la scritta «Miracolo a Sant’Anna». Come mai quella maglietta? «È il titolo del mio nuovo film sulla guerra, ambientato nella Toscana del 1944». L’Italia è sempre la sua passione? «È come Obama, non puoi non amarla». Non tutti nel partito sono d’accordo. «Entro giovedì lo saranno. Del resto gli interventi di questi giorni alla «convention» fanno ben sperare». Come quello di Michelle? «Un grande discorso, ha fatto quello che doveva, far sentire la gente a suo agio e dimostrare a sua volta d’essere a suo agio in mezzo alla gente. Non ha preteso di parlare in nome dell’intera America, né ha fatto la parte dell’attivista infiammata, è stata se stessa, una madre e una moglie che vede il marito coronare il sogno d’una vita… scusatemi un attimo». Il regista interrompe la conversazione e si gira verso una ragazza lì vicino. È una giovane volontaria della campagna, con la spilla «Obama 2008» all’occhiello della giacca: i suoi occhi non si staccano un attimo da Lee. In mano regge una macchina fotografica ma non ha il coraggio di chiedere una foto insieme al suo mito. «Come ti chiami? Vuoi una foto? Anche un album intero», dice Lee. Poi torna a noi. «Scusa ma le fan meritano attenzione». Tornando alla politica, cosa pensa di Joe Biden come vice, proprio lui che criticò Obama dopo la «nomination»? «Si sta sollevando un inutile polverone. Biden allora voleva la «nomination». Se Barack lo ha scelto vuol dire che ci crede ed io credo in lui, inoltre è una voce grossa, perfetta per tenere testa a John McCain». Non teme ritorsioni dei Clinton? «Spero che Hillary faccia la cosa giusta, anzi ne sono sicuro». Qual è il messaggio dei democratici agli alleati europei? «Il più importante lavoro al mondo è fare il presidente degli Stati Uniti: le scelte politiche di Washington hanno ricadute globali. Tutti possono vedere i risultati disastrosi di 8 anni di amministrazione Bush. Per questo ritengo che anche il resto del mondo voglia cambiare. Sono sicuro che l’Europa capisce il valore di queste elezioni e la portata del messaggio di cambiamento di Obama. Con lui alla Casa Bianca si aprirà una nuova fase nelle relazioni tra le due sponde dell’Atlantico». Obama riuscirà ad andare d’accordo anche con l’Italia di Silvio Berlusconi? «Berlusconi? Credo voglia McCain». Allora teme un allontanamento? «No, assolutamente no. Barack saprà gestire bene anche i rapporti con Silvio Berlusconi, sarà un presidente pragmatico». Un soggetto perfetto per un film, diretto da Spike Lee. Chi sceglierebbe per la parte di Obama? «Ecco, ora tutti si aspettano che io dica Will Smith» E invece? «Invece dico Denzel Washington, è perfetto dentro e fuori». Vuol dire che ci ha pensato? «Per ora penso a vincere le elezioni e rivedere i democratici alla Casa Bianca». da lastampa.it Titolo: IL DISCORSO di OBAMA... Inserito da: Admin - Agosto 29, 2008, 07:09:59 pm Il discorso di Obama
È con profonda gratitudine e grande umiltà che accetto la vostra nomination per la presidenza degli Stati Uniti.Lasciate anzitutto che ringrazi i miei avversari nelle primarie e in particolare colei che più a lungo mi ha conteso la vittoria – un faro per i lavoratori americani e fonte di ispirazione per le mie figlie e le vostre – Hillary Rodham Clinton. Grazie anche al presidente Clinton e a Ted Kennedy, che incarna lo spirito di servizio, e al prossimo vicepresidente degli Stati Uniti Joe Biden. Il mio amore va alla prossima First Lady, Michelle Obama e a Sasha e Malia. Vi amo e sono fiero di voi. Quattro anni fa vi ho raccontato la mia storia, la storia di una breve unione tra un giovane del Kenya e una giovane del Kansas, persone qualunque e non ricche, ma che condividevano la convinzione che in America il loro figliolo potesse realizzare i suoi sogni. È questa la ragione per cui mi trovo qui stasera. Perchè per 230 anni ogni qual volta questo ideale americano e’ stato minacciato, gli uomini e le donne di questo Paese – studenti e soldati, contadini e insegnanti, infermieri e bidelli – hanno trovato il coraggio di difenderlo. Attraversiamo un momento difficile, un momento in cui il Paese e’ in guerra, l’economia e’ in crisi e il sogno americano e’ stato ancora una volta minacciato. Oggi molti americani sono disoccupati e moltissimi sono costretti a lavorare di più per un salario inferiore. Molti di voi hanno perso la casa. Questi problemi non possono essere tutti imputati al governo. Ma la mancata risposta e’ il prodotto di una politica fallimentare e delle pessime scelte di George W. Bush. L’America è migliore della nazione che abbiamo visto negli ultimi otto anni. Il nostro Paese è più generoso di quello in cui un uomo in Indiana deve imballare i macchinari con i quali lavora da venti anni e vedere che vengono spediti in Cina e poi con le lacrime agli occhi deve tornare a casa e spiegare alla famiglia cosa è successo. Abbiamo più cuore di un governo che abbandona i reduci per le strade, condanna le famiglie alla povertà e assiste inerme alla devastazione di una grande città americana a causa di un nubifragio. Stasera agli americani, ai democratici, ai repubblicani, agli indipendenti di ogni parte del Paese dico una cosa sola: basta! Abbiamo l’occasione di rilanciare nel ventunesimo secolo il sogno americano. Siamo qui stasera perchè amiamo il nostro Paese e non vogliamo che i prossimi quattro anni siano come gli otto che abbiamo alle spalle. Ma non voglio essere frainteso. Il candidato repubblicano, John McCain, ha indossato la divisa delle forze armate degli Stati Uniti con coraggio e onore e per questo gli dobbiamo gratitudine e rispetto. Ma i precedenti sono chiari: John McCain ha votato per George Bush il 90% delle volte. Al senatore McCain piace parlare di giudizio, ma di quale giudizio parla visto che ha ritenuto che George Bush avesse ragione più del 90% delle volte? Non so come la pensate, ma a me il 10% non basta per cambiare le cose. La verità è che su tutta una serie di questioni che avrebbero potuto cambiare la vostra vita – dall’assistenza sanitaria all’istruzione e all’economia – il senatore McCain non è stato per nulla autonomo. Ha detto che l’economia ha fatto «grandi progressi» sotto la presidenza Bush. Ha detto che i fondamentali dell’economia sono a posto. Ha detto che soffrivamo unicamente di una «recessione mentale» e che siamo diventati una «nazioni di piagnucoloni». Una nazione di piagnucoloni. Andatelo a dire ai metalmeccanici del Michigan che hanno volontariamente deciso di lavorare di piu’ per scongiurare la chiusura della fabbrica automobilistica. Ditelo alle famiglie dei militari che portano il loro peso in silenzio. Questi sono gli americani che conosco. McCain sarà in buona fede ma non sa come stanno le cose. Altrimenti come avrebbe potuto dire che appartengono al ceto medio tutti quelli che guadagnano meno di 5 milioni di dollari l’anno? Come avrebbe potuto proporre centinaia di miliardi di sgravi fiscali per le grandi aziende e per le compagnie petrolifere e nemmeno un centesimo per oltre cento milioni di americani? Da oltre due decenni McCain è fedele alla vecchia e screditata filosofia repubblicana secondo cui bisogna continuare a far arricchire quelli che sono già ricchi nella speranza che qualche briciola di prosperità cada dal tavolo e finisca agli altri. Perdi il lavoro? Pura sfortuna. Non hai assistenza sanitaria? Ci penserà il mercato. Sei nato in una famiglia povera? Datti da fare. È ora di cambiare l’America. Noi democratici abbiamo del progresso una idea completamente diversa. Per noi progresso vuol dire trovare un lavoro che ti consenta di pagare il mutuo; vuol dire poter mettere qualcosa da parte per mandare i figli all’università. Per noi progresso sono i 23 milioni di nuovi posti di lavoro creati da Bill Clinton quando era presidente. Noi misuriamo la forza dell’economia non in base al numero dei miliardari, ma in base alla possibilità di un cittadino che ha una buona idea di rischiare e avviare una nuova impresa. Vogliamo una economia rispettosa della dignità del lavoro. I criteri con cui valutiamo lo stato di salute dell’economia sono quelli che hanno reso grande questo Paese e che mi consentono di essere qui stasera. Perchè nei volti dei giovani reduci dell’Iraq e dell’Afghanistan vedo mio nonno che andò volontario a Pearl Harbour, combattè con il generale Patton e fu ricompensato da una nazione capace di gratitudine con la possibilità di andare all’università. Nel volto del giovane studente che dorme appena tre ore per fare il turno di notte vedo mia madre che ha allevato da sola mia sorella e me e contemporaneamente ha finito gli studi. Quando parlo con gli operai che hanno perso il lavoro penso agli uomini e alle donne del South Side di Chicago che venti anni fa si batterono con coraggio dopo la chiusura dell’acciaieria. Ignoro che idea abbia McCain della vita che conducono le celebrità, ma questa è stata la mia vita. Questi sono i miei eroi. Queste sono le vicende che mi hanno formato. Intendo vincere queste elezioni per rilanciare le speranze dell’America. Ma quali sono queste speranze? Che ciascuno possa essere l’artefice della propria esistenza trattando gli altri con dignità e rispetto. Che il mercato premi il talento e l’innovazione e generi crescita, ma che le imprese si assumano le loro responsabilità e creino posti di lavoro. Che il governo, pur non potendo risolvere tutti i problemi, faccia quello che non possiamo fare da soli: proteggerci e garantire una istruzione a tutti i bambini; preoccuparsi dell’ambiente e investire in scuole, strade, scienza e tecnologia. Il governo deve lavorare per noi, non contro di noi. Deve garantire le opportunità non solo ai più ricchi e influenti, ma a tutti gli americani che hanno voglia di lavorare. Sono queste le promesse che dobbiamo mantenere. È questo il cambiamento di cui abbiamo bisogno. E sul tipo di cambiamento che auspico quando sarò presidente voglio essere molto chiaro. Cambiamento vuol dire un sistema fiscale che non premi i lobbisti che hanno contribuito a farlo approvare, ma i lavoratori americani e le piccole imprese. Il mio programma prevede tagli fiscali del 95% a beneficio delle famiglie dei lavoratori. In questa situazione economica l’ultima cosa da fare e’ aumentare le tasse che colpiscono il ceto medio. E per l’economia, per la sicurezza e per il futuro del pianeta prendo un impegno preciso: entro dieci anni sarà finita la nostra dipendenza dal petrolio del Medio Oriente. Da presidente sfrutterò le nostre riserve di gas naturale, investirò nel carbone pulito e nel nucleare sicuro. Inoltre investirò 150 miliardi di dollari in dieci anni sulle fonti energetiche rinnovabili: energia eolica, energia solare, biocombustibili. L’America deve pensare in grande. È giunto il momento di tenere fede all’obbligo morale di garantire una istruzione adeguata a tutti i bambini. Assumerò un esercito di nuovi insegnanti pagandoli meglio e appoggiandoli nel loro lavoro. È giunto il momento di garantire l’assistenza sanitaria a tutti gli americani. È giunto il momento di garantire ai lavoratori il congedo per malattia retribuito perché in America nessuno dovrebbe scegliere tra mantenere il lavoro o prendersi cura di un figlio o di un genitore ammalato. È giunto il momento di realizzare la parità salariale tra uomini e donne perché voglio che le mie figlie abbiano esattamente lo stesso trattamento dei vostri figli. Molti di questi programmi richiederanno grossi investimenti ma ho previsto la copertura finanziaria per ogni progetto di riforma. Ma realizzare le speranze americane comporta qualcosa di più del denaro. Comporta senso di responsabilità e la riscoperta di quella che John F. Kennedy definì «la forza morale e intellettuale». Ma il governo non può fare tutto. Nessuno può sostituire i genitori. Il governo non può spegnere il televisore nelle vostre case per far fare i compiti ai figli e non è mpito del governo allevare i figli con amore. Responsabilità personale e collettiva: è questo il senso delle speranze americane. Ma i valori dell’America vanno realizzati non solo in patria, ma anche all’estero. John McCain dubita delle mie capacità di fare il comandante in capo. Mi ha sfidato a sostenere un dibattito televisivo su questo tema. Non mi tirerò indietro. Dopo l’11 settembre mi sono opposto alla guerra in Iraq perché ritenevo che ci avrebbe distratto dalle vere minacce. John McCain ama ripetere che è disposto a seguire bin Laden fino alle porte dell’inferno, ma in realtà non vuole andare nemmeno nella grotta in cui vive. L’Iraq ha un avanzo di bilancio di 79 miliardi di dollari mentre noi sprofondiamo nel deficit eppure John McCain, testardamente, si rifiuta di mettere fine a questa guerra insensata. Abbiamo bisogno di un presidente capace di affrontare le minacce del futuro e non aggrappato alle idee del passato. Non si smantella una rete terroristica che opera in 80 Paesi occupando l’Iraq. Non si protegge Israele e non si dissuade l’Iran facendo i duri a parole a Washington. Non si può fingere di stare dalla parte della Georgia dopo aver logorato i rapporti con i nostri alleati storici. Se John McCain vuol continuare sulla falsariga di Bush, quella delle parole dure e delle pessime strategie, faccia pure, ma non è il cambiamento che serve agli americani. Siamo il partito di Roosevelt Siamo il partito di Kennedy. E quindi non venitemi a dire che i democratici non difenderanno il nostro Paese. Come comandante in capo non esiterò mai a difendere questa nazione. Metterò fine alla guerra in Iraq in maniera responsabile e combatterò contro Al Qaeda e i talebani in Afghanistan. Rimetterò in piedi l’esercito. Ma farò nuovamente ricorso alla diplomazia per impedire all’Iran di dotarsi di armi nucleari e per contenere l’aggressività russa. Creerò nuove alleanze per vincere le sfide del ventunesimo secolo: terrorismo e proliferazione nucleare; povertà e genocidio; cambiamento climatico e malattie. E ripristinerò la nostra reputazione morale perchè l’America torni ad essere per tutti il faro della speranza, della libertà, della pace e di un futuro migliore. È questo il mio programma. Sono tempi duri, la posta in gioco è troppo alta perchè si continui a demonizzare l’avversario. Il patriottismo non ha bandiere di partito. Amo questo Paese, ma lo ama anche John McCain. Gli uomini e le donne che si battono sui campi di battaglia possono essere democratici, repubblicani o indipendenti, ma hanno combattuto insieme e spesso sono morti insieme per amore della stessa bandiera. Il compito che ci aspetta non è facile. Le sfide che dobbiamo affrontare comportano scelte difficili e sia i democratici che i repubblicani debbono abbandonare le vecchie, logore idee e la politica del passato. Negli ultimi otto anni non abbiamo perso solamente posti di lavoro o potere d’acquisto; abbiamo perso il senso dell’unità di intenti. Possiamo non essere d’accordo sull’aborto, ma certamente tutti vogliamo ridurre il numero delle gravidanze indesiderate. Il possesso delle armi da fuoco non è la stessa cosa per i cacciatori dell’Ohio e i cittadini di Cleveland minacciati dalle bande criminali, ma non venitemi a dire che violiamo il secondo emendamento della Costituzione se impediamo ai criminali di girare con un kalashnikov. So che ci sono divergenze sul matrimonio gay, ma sono certo che tutti siamo d’accordo sul fatto che i nostri fratelli gay e le nostre sorelle lesbiche hanno il diritto di fare visita in ospedale alla persona che amano e hanno il diritto a non essere discriminati. Una grande battaglia elettorale si vince sulle piccole cose. So di non essere il candidato più probabile per questa carica. Non ho il classico pedigree e non ho passato la vita nei Palazzi di Washington. Ma stasera sono qui perchè in tutta l’America qualcosa si sta muovendo. I cinici non capiscono che questa elezione non riguarda me. Riguarda voi. Per 18 mesi vi siete impegnati e battuti e avete diffusamente parlato della politica del passato. Il rischio maggiore è aggrapparsi alla vecchia politica con gli stessi vecchi personaggi e sperare che il risultato sia diverso. Avete capito che nei momenti decisivi come questo il cambiamento non viene da Washington. È Washington che bisogna cambiare. Il cambiamento lo chiedono gli americani. Ma sono convinto che il cambiamento di cui abbiamo bisogno è alle porte. L’ho visto con i miei occhi. L’ho visto in Illinois dove abbiamo garantito l’assistenza sanitaria ai bambini e dato un posto di lavoro a molte famiglie che vivevano con il sussidio di disoccupazione. L’ho visto a Washington quando con esponenti di entrambi i partiti ci siamo battuti contro l’eccessiva invadenza dei lobbisti e quando abbiamo presentato proposte a favore dei reduci. E l’ho visto nel corso di questa campagna elettorale. L’ho visto nei giovani che hanno votato per la prima volta, nei repubblicani che non avrebbero mai pensato di poter scegliere un democratico, nei lavoratori che hanno scelto di auto-ridursi l’orario di lavoro per non far perdere il posto ai compagni, nei soldati che hanno perso un arto, nella gente che accoglie in casa un estraneo quando c’è un uragano o una inondazione. Il nostro è il Paese più ricco della terra, ma non è questo che ci rende ricchi. Abbiamo l’esercito più potente del mondo, ma non è questo che ci rende forti. Le nostre università e la nostra cultura sono l’invidia del mondo, ma non è per questo che gente di ogni parte del mondo viene in America. È lo spirito americano – quella promessa americana – che ci spinge ad andare avanti anche quando il cammino sembra incerto. Quella promessa è il nostro grande patrimonio. È la promessa che faccio alle mie figlie quando rimbocco loro le coperte la sera, la promessa che ha indotto gli immigranti ad attraversare gli oceani e i pionieri a colonizzare il West, la promessa che ha spinto i lavoratori a lottare per i loro diritti scioperando e picchettando le fabbriche e le donne a conquistare il diritto di voto. È la promessa che 45 anni fa fece affluire milioni di americani a Washington per ascoltare le parole e il sogno di un giovane predicatore della Georgia. Gli uomini e le donne lì riuniti avrebbero potuto ascoltare molte cose. Avrebbero potuto ascoltare parole di rabbia e di discordia. Avrebbero potuto cedere alla paura e alla frustrazione per i tanti sogni infranti. Ma invece ascoltarono parole di ottimismo, capirono che in America il nostro destino è inestricabilmente legato a quello degli altri e che insieme possiamo realizzare i nostri sogni. «Non possiamo camminare da soli», diceva con passione il predicatore. «E mentre camminiamo dobbiamo impegnarci ad andare sempre avanti e a non tornare indietro». America, non possiamo tornare indietro. C’è molto da fare. Ci sono molti bambini da educare e molti reduci cui prestare assistenza. Ci sono una economia da rilanciare, città da ricostruire e aziende agricole da salvare. Ci sono molte famiglie da proteggere. Non possiamo camminare da soli. In questa campagna elettorale dobbiamo prendere nuovamente l’impegno di guardare al futuro. Manteniamo quella promessa – la promessa americana. Grazie. Che Dio vi benedica. Che Dio benedica gli Stati Uniti d’America. Traduzione di Carlo Antonio Biscotto Pubblicato il: 29.08.08 Modificato il: 29.08.08 alle ore 13.10 da unita.it Titolo: OGGI IL GIORNO DI OBAMA... Inserito da: Admin - Gennaio 18, 2009, 11:49:02 am 18/1/2009
Lettera alle mie figlie BARACK OBAMA Care Malia e Sasha, so che vi siete divertite parecchio negli ultimi due anni di campagna, andando a picnic, sfilate e fiere, e mangiando ogni sorta di cibo spazzatura che io e vostra madre probabilmente non vi avremmo dovuto dare. Ma so anche che non è stato sempre facile per voi e per la mamma, e per quanto siete emozionate per l’arrivo del vostro nuovo cucciolo, non riuscirà a ricompensare tutto il tempo che non abbiamo passato insieme. Mi siete mancate e ho deciso di dirvi le ragioni per cui ho voluto portare la nostra famiglia in questo viaggio. Quando ero giovane, pensavo che la vita ruotasse intorno a me, alla strada che mi sarei fatto nel mondo, al successo che avrei avuto, ottenendo quello che volevo. Ma poi siete arrivate voi due, curiose e biricchine, e con quel sorriso che mi ha sempre riempito il cuore. All’improvviso, tutti i miei grandi progetti non sembravano più importanti. Ho scoperto che la più grande gioia della mia vita era vedervi gioire. La mia vita non sarebbe valsa molto se non fossi stato capace di darvi ogni opportunità di essere felici e realizzate. In fondo, ragazze, ho corso per la presidenza per quello che desidero per voi e per ogni bambino della nostra nazione. Voglio che tutti vadano in una scuola all’altezza del loro potenziale, che abbiano l’opportunità di andare al college, anche se i loro genitori non sono ricchi, e di avere un lavoro pagato bene e con benefit come la sanità, che permetta loro di stare con i figli e avere una pensione dignitosa. Certe volte ci tocca mandare i nostri giovani in guerra per proteggere il nostro Paese. Voglio che ogni bambino capisca che i benefici per i quali questi coraggiosi americani combattono non sono regalati, che il grande privilegio di essere cittadino di questa nazione è accompagnato da grande responsabilità. E’ la lezione che vostra nonna cercò di insegnarmi, leggendomi le prime righe della Dichiarazione d’indipendenza e raccontandomi di uomini e donne che avevano marciato per l’eguaglianza perché credevano che queste parole di due secoli prima avessero un significato. Mi aiutò a capire che l’America è grande non perché è perfetta, ma perché può sempre migliorare, e il lavoro infinito di perfezionarla ricade su ognuno di noi. Voglio vedervi crescere in un mondo che non ponga limiti ai vostri sogni, dove non ci siano obiettivi fuori dalla vostra portata. E’ per questo che ho trascinato la nostra famiglia in questa grande avventura. Sono molto orgoglioso di voi due. Vi amo più di quanto potete immaginare. E vi sono grato per la pazienza, l’equilibrio, la grazia e l’umorismo che mostrate ogni giorno mentre stiamo per cominciare la nostra nuova vita insieme alla Casa Bianca. Con amore, papà. da lastampa.it Titolo: OGGI IL GIORNO DI OBAMA... Inserito da: Admin - Gennaio 20, 2009, 04:54:49 pm Gli obama potrebbero riportare la città ai fasti dell'epoca dei Kennedy
E ora Washington supera New York La Capitale si prepara a prendere il posto della «Grande Mela» come centro della vita economica e culturale WASHINGTON – Quello di Bush e Obama non è l’unico cambio della guardia in America. Ce ne è un altro, quello tra New York e Washington. Da number one, la Grande mela retrocede a number two, la capitale la spodesta. Lo dicono i media. L’America, scrivono, presterà meno attenzione a Wall Street - da cui negli ultimi anni era dipeso il suo benessere ma che la ha tradita -, e più attenzione a Washington da cui, tra il presidente e il Congresso, dipende il suo benessere futuro. Non solo: come già avvenne grazie a Jackie e Kohn Kennedy, adesso grazie a Michelle e Barack Obama Washington diverrà il centro americano delle arti e della moda. COOL WASHINGTON - Per i turisti che la anteporranno a Broadway e al Metropolitan museum c’è uno slogan pronto: «Washington is cool». I coniugi Obama, che, si afferma, hanno già modificato l’idea di femminilità e mascolinità in America, riportando la famiglia e il lavoro – non la ricchezza e lo svago - in primo piano, saranno l’attrazione principale. Anche le star di Hollywod e i «glitterati», gli intellettuali della high society, convergeranno su Washington anziché su New York, rinnovando il fugace sogno kennediano di un moderno Regno di Camelot di re Artù. Ma la causa prima del sorpasso della Grande mela da parte della capitale è la crisi finanziaria ed economica. Soltanto il governo, non il mercato selvaggio come pretendeva George Bush, potrà salvare la nazione con massicci pubblici sussidi. La forza della Grande mela, la base del suo successo, erano i soldi, ma gliene sono rimasti molto pochi. GRANDE MELA NEI GUAI - E’ un cambio della guardia di cui ha preso atto persino David Paterson, il governatore dello stato di New York. La «Grande mela» è nei guai, ha ammesso Paterson, ha perso il 20 - 25 per cento del suo reddito quello che veniva da Wall Street. A risentirne di più è l’industria del divertimento: teatri, night clubs e ristoranti incominciano a chiudere i battenti. Ma è in ritirata anche l’industria mediatica, le tv e i giornali, la più importante d’America. Calano infine le mitiche vacanze con shopping a New York degli stranieri. «Un declino che a breve scadenza è destinato ad aggravarsi» ammonisce Paterson. «La recessione manderà al tappeto molti uffici e fabbriche, parecchia gente si trasferirà altrove, innanzitutto i giovani». La riprova: per la prima volta dalla seconda guerra mondiale, la Grande mela non muterà profilo almeno per due anni, la costruzione di grattacieli simbolo è stata quasi congelata. RIVOLUZIONE CULTURALE - Su Washington, la crisi finanziaria ed economica pesa di meno. A ogni cambio alla Casa Bianca vi arrivano migliaia, decine di migliaia di nuove persone, e poche delle vecchie se ne vanno. I consumi, gli acquisti di case e così via non si flettono, le lobbies portano miliardi e la vita sociale fiorisce. Un fenomeno questa volta assai più accentuato del solito. L’America, inoltre, vede nell’elezione di Obama una rivoluzione culturale oltre che politica, per essa la sua nuova Washington non la vecchia New York sarà il modello da seguire. Commenta il politologo Larry Sabato: «Al momento, la gente si vuole istruire, non divertire, per evitare il peggio. Washington tornerà in auge come ai tempi di Lincoln e di Kennedy, i due presidenti a cui s’ispira Obama». Ma il cambio non sarà permanente, aggiunge Sabato con una punta di scetticismo: «Quando la crisi verrà superata, vedrete, retrocederà daccapo a number two». Ennio Caretto 19 gennaio 2009 da corriere.it Titolo: Warren Buffett: «E’ il giusto comandante in capo per uscire dalla crisi» Inserito da: Admin - Gennaio 20, 2009, 11:14:45 pm 20/1/2009 (7:22) - INSEDIAMENTO ALLA CASA BIANCA
Obama day, come cambierà il mondo Warren Buffett: «E’ il giusto comandante in capo per uscire dalla crisi» ENZO BETTIZA, ALBERTO BISIN, LUCIA ANNUNZIATA La questione razziale Ma i neri deve conquistarli L’Economist, col volto di Obama in copertina, dice che la presidenza americana è da sempre il mestiere più duro e più gravoso del mondo. Lo stesso Obama ora aggiunge che «il più importante ufficio al mondo» sta per essere occupato, per la prima volta, da un afroamericano e lascia intendere che la novità cambierà «in modo radicale» la convivenza civile tra neri e bianchi. Il 44° presidente degli Usa non aveva mai sottolineato, con altrettanto orgoglio e nettezza, la sua appartenenza all’etnia che conobbe il dolore della schiavitù e l’offesa della segregazione. Sincerità e calcolo si sono probabilmente intrecciati nella dichiarazione rivendicativa del politico che ha saputo attrarre il voto di tantissimi bianchi ma non di tutti i neri. Non è da escludere che il mezzo sangue Obama cerchi di recuperare il terreno perduto fra molti afroamericani che gli rimproverano di aver dimenticato, durante la campagna, i militanti dei diritti civili, il potere nero, forse anche le sacrificali «pantere nere»: tutti quelli, da Martin Luther King a Malcolm X, che con le loro lotte per l’uguaglianza razziale avevano concimato e spianato la strada all’ingresso di un nero nella Casa Bianca. Si era profilato per Obama il rischio di piacere troppo ai bianchi, di diventare una specie di clone politico di Tiger Woods, il campione nero e assoluto di golf, che manda in delirio anche i Wasp più arcigni e padronali. Un riequilibrio d’immagine s’imponeva, pertanto, al presidente di colore. Governerà sorvegliato da ministri e consiglieri bianchi, che occuperanno i due posti chiave della repubblica imperiale: in politica estera dovrà vedersela con l’accanita rivale democratica Hillary Clinton, mentre le questioni strategiche e militari dovrà discuterle con l’ex repubblicano Robert Gates. Facendo simili scelte ardite, Obama ha dato l’impressione di non volersi circondare di amici intimi e supini. Ma, al tempo stesso, ha offerto il fianco a quei critici neri che lo considerano poco nero e per niente rivoluzionario. Essi non mancheranno, alle inevitabili mosse deludenti o discutibili sui palestinesi o sull’Iraq, di vedere in lui un prigioniero di un «governo bianco» troppo filoisraeliano o debolmente distanziato dalla linea conservatrice di Bush. La politica estera sarà senz’altro il suo tallone d’Achille. Riuscirà a cavarsela più facilmente nei problemi interni all’America malata, che aspetta dal dinamico Obama, a prescindere dalla pelle, i giusti colpi di bisturi per estirpare il cancro ed evitare una seconda Grande Depressione. La sanità pubblica potrà essere una delle sue carte vincenti. Se gli riuscirà di dare il colpo di grazia allo spietato ma vacillante mercato sanitario americano, istituendo una copertura medica eguale per tutti, torneranno a sorridergli soprattutto i neri più poveri, meno protetti, meno sofisticati, che l’hanno votato perché vedevano in lui il vendicatore del loro brutto passato e il redentore del loro misero presente. Enzo Bettiza La crisi economica La sfida vera è Wall Street Il presidente Obama entra alla Casa Bianca cosciente di dover affrontare una grave crisi. Non solo l’economia è in recessione, ma i mercati finanziari non danno segni di ripresa dal collasso dei mesi scorsi. Durante una recessione è compito proprio dei mercati finanziari favorire ed accelerare la riallocazione di capitale e lavoro impiegati improduttivamente. Se non funzionano la recessione si fa più lunga e difficile, e i suoi costi sociali più preoccupanti. Per questa ragione il piano economico di Obama non consisterà solo di uno stimolo fiscale per sostenere consumi e investimenti, ma anche di vari interventi atti a ristrutturare e ricapitalizzare il sistema bancario. Nonostante abbia richiesto al Congresso uno stimolo fiscale enorme, dell’ordine del 3% del Pil, Obama ha deciso di concentrare la spesa in investimenti di carattere strutturale, soprattutto sanità, scuola, ed energia, di cui gli Usa hanno grande bisogno ma che in realtà avranno effetti soprattutto a medio termine, a recessione terminata. L’amministrazione Obama sembra quindi accettare il fatto che sostenere consumi e investimenti durante una recessione è purtroppo realizzabile solo in misura estremamente limitata. I progetti di spesa che hanno effetti immediati tendono infatti ad avere bassa utilità sociale, come i «ponti verso il nulla» e le buche da scavare e richiudere di keynesiana memoria. Inoltre questi progetti sono dannosi perché le tasse con cui sono finanziati limitano l’attività economica nel futuro e, nella misura in cui sono previste, anche nel presente. I piani di intervento dell’amministrazione sui mercati finanziari, non ancora resi noti in dettaglio, assumeranno quindi un ruolo centrale nell’affrontare la crisi. Gli interventi di ricapitalizzazione dei mesi scorsi, pur di notevole entità, sembrano avere avuto effetti limitati: i tassi interbancari sono scesi, ma le banche sembrano semplicemente sedere inattive sul capitale fresco e sulla liquidità immessa dalla Federal Reserve. Gli azionisti delle banche, infatti, non hanno alcun interesse a realizzare le perdite e ad investire il capitale liquido prima di sapere se le perdite stesse possano essere addossate allo Stato. È quindi proprio l’ambiguità e la poca trasparenza degli interventi del Tesoro che, mancando ad oggi di distinguere adeguatamente tra il salvataggio delle banche e il salvataggio degli azionisti, ha favorito l’inattività del sistema finanziario. È necessario che l’amministrazione intervenga con chiarezza e trasparenza, ricapitalizzando le banche, assumendo capitale di rischio ove necessario, favorendo la rinegoziazione dei mutui, senza regali agli azionisti. Che sia fatto direttamente o indirettamente, acquistando o assicurando le attività «tossiche» nei bilanci delle banche, è di secondaria importanza. Ma è fondamentale che questi interventi siano adottati con rapidità, perché i mercati finanziari tornino ad operare al più presto. Solo allora cominceremo a vedere una luce alla fine del tunnel. Alberto Bisin La politica estera Obama si prepara a trattare con l’Iran Una delle poche cose certe cui guardare, oggi che è l’ora dell’Inaugurazione, per spiare nel futuro dell’Amministrazione Obama e nel nostro, è la persona che il Presidente degli Stati Uniti sceglierà per gestire il «dossier Iran». L’Iran rimane il punto più caldo della mappa del pianeta, per gli Stati Uniti; divenuto ancora più caldo dopo l’attacco di Israele a Gaza: sia Hamas a Gaza che Hezbollah in Libano sono sostenuti infatti da Teheran. Il favorito, secondo gli insider di Washington, è Dennis Ross, nome sconosciuto ai più, ma assolutamente significativo nei circuiti della politica mediorientale, dal momento che ha fatto da inviato speciale sulla questione Israele-Palestina sia per la prima amministrazione (repubblicana) di George Bush padre, sia per i due mandati dell’amministrazione (democratica) di Bill Clinton. Aggiungendo l’Iran a queste esperienze, «Ross avrebbe un nuovo e più potente ruolo, che offrirebbe sostanziose evidenze che Obama intende trattare il problema della pace mediorientale come un solo pezzo, da Gaza a Teheran alla Siria», ha scritto due settimane fa, su Newsweek, Michael Hersh. Questa è la novità. Invece di discutere se trattare o meno oggi o domani, con Hamas o con Hezbollah in Libano, gli Usa sceglierebbero di trattare direttamente con il potere regionale che le manovra. Andrebbero cioè direttamente dal padrone, saltando a piè pari i suoi valletti. Naturalmente, l’Iran costituisce un dossier a sé, con i suoi progetti nucleari, e la permanenza sui tavoli di Washington di una «opzione militare mai esclusa». In realtà, questa opzione di guerra è considerata quasi impossibile: lo dicono gli stessi esperti militari, e lo prova il rifiuto opposto da George W. Bush, nell'ultimo periodo della sua presidenza, a un attacco aereo di Israele alla centrale nucleare di Teheran. Si sa invece che una trattativa fra Washington e Teheran, sia pure esile e complessa, è in corso da tempo. Un allargamento di questi contatti alle questioni del Vicino Oriente non è dunque impossibile. Su questo Obama non si è dichiarato, ma sono trapelate alcune anticipazioni. Ad esempio, di recente il Guardian, riportando fonti vicino al nuovo presidente, ha scritto che la sua amministrazione «avrebbe intenzione di abbandonare la dottrina Bush sull’isolamento di Hamas per stabilire un canale con il gruppo». Un canale; non un contatto diretto. E quale migliore canale dell’Iran, appunto, visto che controlla i due nemici vicini di Israele? Se Obama adottasse questa linea, ci sarebbero degli effetti anche sulle opzioni finora usate dall’Europa per delineare la propria politica estera. Dalla Seconda Guerra Mondiale, gli Stati Uniti hanno sempre coinvolto e utilizzato vari Paesi europei nelle relazioni con il mondo arabo, sia per il loro ruolo di ex potenze coloniali, sia come cuscinetti tra sè e l’influenza sovietica. Su queste premesse s’è costruita la partnership atlantica in Medio Oriente. E su questa base è stata costruita la diplomazia coltivata dalla Dc (Andreotti e non solo) e poi ereditata, fino ai governi Berlusconi, dalla nostra politica. Ma gli Usa di Obama non hanno più bisogno come prima dell’Europa per rapportarsi al mondo arabo. Obama è infatti oggi una parte del Terzo Mondo che si è fatto Usa. L’intermediazione è la sua stessa persona. Così, nel caso decidesse nel prossimo futuro di rivolgersi direttamente all’Iran, diminuirebbe di molto il peso di Hamas e di Hezbollah. Ma contemporaneamente diminuirebbe un po’ anche il ruolo che l’Europa ha fino ad oggi avuto. Lucia Annunziata da lastampa.it Titolo: In diretta la fine di un'èra... Inserito da: Admin - Gennaio 20, 2009, 11:25:02 pm Fronte del video di Maria Novella Oppo
In diretta la fine di un'èra Finalmente oggi finisce l’era Bush. E finisce con grande soddisfazione del mondo, nonché della maggioranza del popolo americano. Di fronte a questo tracollo politico, ci sono però alcuni che cercano di salvare l’insalvabile dell’eredità bushista. Se non lo statista, almeno l’uomo di fede, se non il politico, almeno l’alleato della nostra destra. Bene ha fatto, perciò, La7 a mandare in onda il film di Oliver Stone (che al momento di scrivere non abbiamo ancora visto), come occasione di un dibattito che può spingere i bushisti di ieri a prendere le distanze dai propri errori e quelli di oggi a mostrare la debolezza delle loro ragioni. Come è successo ieri mattina nel dibattito di Omnibus, durante il quale Fiamma Nirenstein (deputata Pdl) ha incredibilmente sostenuto che le armi di distruzione di massa Saddam le aveva, solo che erano piccole, praticamente tascabili. E questo dopo che lo stesso Bush ha chiesto scusa per l’errore, costato solo poche centinaia di migliaia di morti. da unita.it Titolo: Dacia Maraini George W.Bush. Addio a un presidente piccolo e cieco Inserito da: Admin - Gennaio 20, 2009, 11:26:02 pm George W.Bush. Addio a un presidente piccolo e cieco
di Dacia Maraini Nessuno come Michael Moore ha saputo ritrarre il presidente Usa,diviso fra la recita del buon governante e quella del buon cristiano, figure tutte di un pezzo, ritte in difesa della patria, che però soffre in segreto di improvvise paure e di incertezze divoranti. Nessuno come il regista ha saputo cogliere le pause, non di riflessione, ma di panico che si insediavano fra le parole del presidente. C'è in lui qualcosa del bambino terrorizzato. Eppure il popolo gli ha dato fiducia. Soprattutto quando l'ha visto accorrere alle torri sfracellate, stringere la mano ai pompieri, farsi tutt'uno con la gente colpita. Ma gliel'ha tolta questa fiducia quando ha saputo che si era imbarcato in una guerra inutile e dannosa. Quando ha visto morire i suoi figli, uno per uno fino ad arrivare all'allarmante cifra di tremila soldati, in una azione militare che si pretendeva sicura e veloce. Quando ha capito che il terrorismo, anziché diminuire, non faceva che aumentare. Quando ha compreso che aveva ammesso la tortura in nome del "fine che giustifica i mezzi", il che è precisamente quello che credono i terroristi da cui ci si voleva distinguere. Ora che se ne va, col suo passo da cow-boy, con quegli occhi piccoli e ciechi, che non hanno saputo vedere né capire - Goethe dice che la cosa più difficile è sapere vedere con i propri occhi quello che sta sotto il proprio naso- ora che si allontana mano nella manocon la sua Laura ignara e sorridente, ci fa un poco pena. Ci sembra più visibile e chiara la sua natura di vaso di coccio in mezzo ai vasi di ferro. Ringraziamo la democrazia americana, perché in un altro paese sarebbe rimasto fino alla morte, facendo danni su danni. Addio signor Bush, che dio abbia pietà delle sue irresponsabili azioni da debole che si maschera da forte. 20 gennaio 2009 da unita.it Titolo: Concita De Gregorio Il Paese del sogno Inserito da: Admin - Gennaio 20, 2009, 11:27:06 pm Il Paese del sogno
di Concita De Gregorio Come il gospel di Aretha Franklin. Il discorso di Obama è sembrato una specie di preghiera, quasi un poema, un poco una poesia. Breve, semplice che arriva alla gente comune, facile che lo capiscono i bambini. Umile e fermo, confidenziale e sicuro. In crescendo, come il canto della signora nera nel soul che ha cantato per festeggiarlo e per accoglierlo: Obama ha recitato una litania religiosa e laica insieme che in venti minuti ha fatto piazza pulita della retorica vuota e reazionaria del bushismo e ha riportato sulla scena le parole antiche della modernità. Le parole vecchie sono parole vere, ha detto. Le ha scelte con cura da un repertorio a cui ciascuno può dare il nome che crede: democratico, socialista, utopistico, realista, egualitario. Noi, popolo, ha cominciato. Poi le frasi chiave: sei parole ciascuna. Siamo rimasti fedeli ai nostri ideali. La crisi è grave ma ce la faremo. Abbiamo scelto la speranza sulla paura. La grandezza va conquistata. Tutti liberi, tutti uguali, tutti in diritto di perseguire la felicità. Dare agli ultimi non è beneficenza, è la strada più sicura per il bene comune. Rifare l’America: scuola, sanità, energia pulita. Prendersi le responsabilità: non perseguire il piacere della ricchezza e della fama ma la fatica oscura di chi si assume i rischi. Le nostre diversità sono una forza non una debolezza. Il nostro spirito è più forte dell’odio. Al mondo musulmano: interesse, rispetto. A chiunque nel mondo cerchi pace e dignità: eccoci, siamo amici. Sessant’anni fa un uomo come me non era servito al tavolo in un ristorante, oggi sono qui a parlarvi. Poi una lista di aggettivi: gentilezza, altruismo, coraggio, generosità. Ecco il paese del sogno: è un paese gentile, generoso, coraggioso, altruista. Il mondo è cambiato e noi dobbiamo cambiare con lui, ha detto Obama. Con queste poche parole semplici, così fuori moda nel mondo a cui gli ultimi vent’anni ci hanno ridotti. Responsabilità, sobrietà, rispetto, solidarietà. Cura di ciascuno per il bene di tutti. “A coloro che restano aggrappati al potere con la corruzione e con l’inganno dico: siete dalla parte sbagliata della storia ma vi daremo una mano se sarete disposti ad abbassare il pugno”. Siete dalla parte sbagliata. Lavoro e coraggio. Speranza, non paura. 20 gennaio 2009 da unita.it Titolo: OBAMA, DAL GIORNO DOPO... Inserito da: Admin - Gennaio 21, 2009, 11:06:45 am La festa senza festa
di Massimo Gaggi «Che la forza sia con te» gli ha detto, fissandolo negli occhi, il vescovo episcopale T.D. Jakes. Mancavano tre ore al giuramento e le famiglie Obama e Biden, con pochi altri intimi, erano nella chiesetta di St. John, a due passi dalla Casa Bianca, per la funzione mattutina. Dopo aver invocato l'aiuto di Dio, Jakes ha spiegato che le sfide che attendono il nuovo presidente sono talmente dure da indurlo a citare — come avrebbe fatto il figlio quattordicenne del vescovo — non le Sacre Scritture, ma Guerre Stellari: «Questo è il momento delle decisioni difficili, non della correttezza e della buona educazione. Tu vedrai la luce, ma prima dovrai sentire il calore delle fiamme». Obama non si è scomposto: lo sa già da tempo. Incassati i voti che gli hanno consentito di battere McCain, la sua retorica della speranza nelle ultime settimane si è trasformata in appello al coraggio degli americani, alla loro capacità di stringere i denti, di riscattarsi nei momenti più difficili. E ieri, nel giorno trionfale dell'incoronazione, il primo presidente nero d'America ha completato il percorso oratorio col quale ha portato il Paese dai gioiosi giorni della speranza alla nuova era delle responsabilità. La speranza non è stata sepolta: il cambiamento nel quale si può credere ( change we can believe in) è sempre in cima all'agenda presidenziale. Ma il suo cielo è metallico, zeppo di nuvole, non più l'orizzonte sereno, disegnato con colori pastello, del logo elettorale di Obama. Il leader democratico vuole riconquistare la fiducia del mondo scossa da anni di iniziative di politica estera unilaterali e costellate di errori. Spiega, quindi, che «la potenza da sola non basta a proteggerci se non la usiamo con prudenza, se non convinciamo il mondo della giustezza della nostra causa». Ma per Obama, come per Bush, gli Stati Uniti sono «una nazione in guerra contro una rete di forze che le hanno scatenato contro odio e violenza». Non può, quindi, tentennare o fare passi indietro. Quanto all'economia, è gravemente indebolita dall'avidità e dall'irresponsabilità di alcuni, ma anche dall'incapacità collettiva di fare scelte difficili e di preparare il Paese per una nuova era. Sarà Obama, ora, a traghettarlo, ma avverte che il viaggio sarà penoso e pieno di insidie. Il presidente non lo ha detto esplicitamente ieri nel discorso d'insediamento, ma ha già spiegato che, dopo i costosi interventi pubblici a sostegno dell'economia che verranno attivati nei prossimi mesi e che porteranno inevitabilmente il debito pubblico a livelli molto pericolosi, verrà il momento del «dimagrimento» della spesa federale: ci saranno massicci tagli alla spesa sociale, soprattutto alle pensioni e a Medicare, la sanità pubblica per gli anziani il cui costo è enormemente cresciuto sotto la presidenza Bush. Sarà lo stesso modello di sviluppo a cambiare: più Stato non solo perché oggi il settore privato è fermo, ma perché col calo dei redditi da lavoro, la disoccupazione, la riduzione del valore delle case e dei patrimoni finanziari e la necessità di ricominciare a risparmiare dopo decenni di indebitamento «selvaggio», per molto tempo le famiglie non potranno tornare ad essere il motore della crescita economica. Un'altra scommessa temeraria per Obama, presidente di una nazione di individualisti. Forse anche per questo ha affidato l'invocazione che ha preceduto il giuramento al reverendo Warren, il pastore che dal 2002 veste i panni del profeta della fine dell'egocentrismo. «La nostra è sempre la nazione più grande — ha detto ieri Obama agli americani— ma la grandezza non è un dono: bisogna conquistarsela». Insomma una festa, quella di ieri, con poco da festeggiare. Forse anche per questo non si è conclusa, come avveniva da decenni, con uno spettacolo di fuochi d'artificio. La buona notizia, per l'America, è che probabilmente Obama è l'uomo giusto per gestire questo difficilissimo momento: più che un commander-in-chief dovrà essere un persuader-in chief. «Dai tempi di Reagan non c'è stato in America un altro persuasore così efficace», dice Sean Wilentz, storico delle presidenze Usa che insegna a Princeton. E dai tempi di Roosevelt, quelli della Grande Depressione, nessuno si è trovato a dover fronteggiare devastazioni economiche e crisi internazionali così gravi. Obama è preoccupato ma anche consapevole della sua forza. Entra alla Casa Bianca con un livello di consenso senza precedenti (il 78%), mentre anche il 58% degli americani che hanno votato per McCain pensano che il leader democratico farà bene. E, comunque, di sognatori in giro ne sono rimasti pochi: un'indagine Gallup indica che più della metà degli americani pensa che tra un anno la situazione economica sarà peggiore di quella attuale. Tra le sue file cominciano ad affiorare i delusi, ma per adesso Obama ha un grosso capitale politico da spendere. Mentre i repubblicani — l'opposizione che dovrebbe tagliargli la strada — sono segnati da divisioni profonde come non se ne vedevano da quando Barry Goldwater perse malamente le elezioni del 1964. 21 gennaio 2009 da corriere.it Titolo: «Un sogno lungo secoli Ma il razzismo non è morto» Inserito da: Admin - Gennaio 21, 2009, 11:07:50 am «Un sogno lungo secoli Ma il razzismo non è morto»
L'allarme di Dinkins, primo sindaco nero di New York DA UNO DEI NOSTRI INVIATI WASHINGTON — «I miei genitori non avrebbero mai creduto in un giorno come questo perché neppure io o la mia generazione l'avremmo mai creduto. Se il sogno di Martin Luther King non è ancora realizzato, questo è un passo da giganti per poterlo un giorno coronare ». David Dinkins, il primo sindaco afro-americano di New York dal 1990 al 1993 e l'ultimo esponente democratico a ricoprire questa carica non è a Washington, come avrebbe tanto desiderato. «Sono ancora convalescente, dopo una recente operazione a cuore aperto e non posso esserci — racconta al telefono da Harlem — ma ci sono con l'anima e con lo spirito. La notte che Obama vinse ero ad Harlem con gli altri leader neri di New York. Quando il risultato spuntò sul video gigante lungo la 125esima strada, piangemmo tutti». Cosa prova dentro di sé oggi? «Il mio cuore è pieno di gioia e di stupore. Non avrei mai creduto di vivere abbastanza a lungo per essere testimone di tale giorno. Sono figlio della Grande Depressione e ho combattuto nella Seconda guerra mondiale per un'America che ci considerava come cani. I marines neri come me venivano trattati peggio dei prigionieri di guerra italiani: una nazione nemica». Come si è arrivati a questa storica inaugurazione? «Io e gli altri politici neri come Charles Rangel, Percy Sutton e Basil Paterson abbiamo un'espressione: "Voliamo tutti sulle spalle di altri". Mi riferisco a Malcolm X, Martin Luther King Jr., Sojourner Truth, Harriet Tubman, Rosa Parks e Percy Sutton che nel 1977 si candidò alla carica di sindaco di New York con tanta classe e distinzione che nessuno mi rise dietro quando, nell'89, provai anch'io ad osare tanto». Fu una vittoria schiacciante? «Non direi. Mi scontravo col repubblicano Rudy Giuliani, che allora non era nessuno — l'11 di settembre era lontano — eppure lo sconfissi con un margine di soli 160 mila voti. Non scordiamoci che il primo sindaco nero di una grande città fu Carl Stokes nel 1967. Mi creda: anch'io ho patito il razzismo sulla mia stessa pelle». In che modo? «Ricordo quando partivamo al fronte per rischiare la vita ma a casa dovevamo bere nelle fontane solo per neri e non potevamo mettere piede nei locali per bianchi. Nel '46, quando frequentavo la Howard University di Washington, non potevo far spesa o andare al cinema sulla F Street. Eppure un sacco dei miei compagni di corso erano veterani di guerra tornati a casa con pezzi di bomba nel corpo». Quando cominciarono a migliorare le cose? «È stato un processo molto lento. Negli anni '50 un bianco mi urlò di stare attento "perché l'anno scorso ne abbiamo linciati soltanto cinque e potresti essere tu il prossimo". Negli anni '60 e anche dopo i taxi non si fermavano a raccogliermi quando vedevano che ero nero e nei negozi mi trattavano come un ladro o uno squattrinato. Ma non creda che oggi sia poi tanto diverso». Cosa intende dire? «Che la nuova generazione è certamente meno penalizzata della nostra ma il razzismo esiste ancora e discrimina e non uccideremo mai il mostro se facciamo finta che non esiste. Purtroppo l'eredità della schiavitù non si cancella in un giorno e il Paese continua ad essere pieno di gente intollerante ». Ha mai incontrato il presidente Obama? «Più volte. È un uomo magnifico, come essere umano e come politico, e riempie di orgoglio tutti noi. Ha dieci anni meno di mio figlio e lo sento vicino come un figlio». Dove porterà l'America? «Ci sarà un boom di politici afro-americani perché il successo di uno infiamma sempre la speranza di molti altri. L'arrivo di Michelle Obama, soltanto la terza first lady con una post-laurea, farà capire al mondo che non esiste un modello fisso e statico di come una first lady deve essere, comportarsi, sembrare. Sull'America splende già una luce diversa». Alessandra Farkas 21 gennaio 2009 da corriere.it Titolo: La Cina censura il discorso di Obama Inserito da: Admin - Gennaio 21, 2009, 11:08:38 am Omessi i passaggi sul comunismo e sui dissidenti
La Cina censura il discorso di Obama La parola «comunismo» manca nella versione dei portali cinesi più popolari, Sohu e Sina PECHINO - La trascrizione in cinese del discorso inaugurale del presidente statunitense Barack Obama sui siti web cinesi è incompleta, sono stati omessi i passaggi che parlano di comunismo e di dissidenti. Il discorso di Obama rischiava di irritare i dirigenti del partito comunista cinese, attenti a quel che internet diffonde in Cina. LE PARTI MANCANTI - Obama ha dichiarato che le generazioni precedenti «hanno affontato il comunismo e il fascismo non soltanto con i missili e i carrarmati, ma con alleanze solide e convinzioni durature». Poi ha detto che «chi si attacca al potere con la corruzione e l’inganno» e «fa tacere i dissidenti» è secondo Obama «dal lato sbagliato della storia». La parola comunismo manca nella versione dei portali cinesi più popolari, Sohu e Sina, e la menzione dei dissidenti è scomparsa. A Hong Kong invece si può trovare la versione completa sul sito di Phoenix Tv. 21 gennaio 2009 da corriere.it Titolo: Lacrime, sciamani e dubbi «Così si esorcizza la paura» Inserito da: Admin - Gennaio 21, 2009, 11:09:32 am Lacrime, sciamani e dubbi «Così si esorcizza la paura»
Tutti in fila per assistere al giuramento. Rito contro gli «spiriti» WASHINGTON — (Il senso di questa giornata lo capiremo più in là. Ora non si sa se cambierà la storia, e poi quanto. Però una simile euforia umano- politica collettiva non si era mai vista, nella storia che conosciamo. Non si erano neanche mai visti milioni di persone contemporaneamente, programmaticamente gentili gli uni con gli altri. Che cercano disperatamente di sperare. Comunque, ecco qui). Il prologo «La guerra in Iraq!». «Hey Hey, goodbye ». «Le porcherie di Wall Street!». «Hey Hey, goodbye». «La vostra depressione, le vostre paure, la vostra angoscia! Scuotetele via!». «Hey, Hey, goodbye». L’evento della vigilia che meglio esprime lo stato d’animo generale, e pure quello che fa più ridere, è il rito new age-sciamanico per cacciare gli spiriti maligni dalla Casa Bianca. L’ha organizzato la comica Kate Clinton, che officia insieme a una cantante nera e a una maga di Brooklyn. Un migliaio di persone nel giardino di Dupont Circle urla hey hey goodbye a tutti imali personalpolitici, se li scrolla via saltellando, si rilassa. Anche perché per cacciare gli spiriti, oltre a bruciare varie erbe, molti agitano canne modello baobab; così semplicemente respirando si è diciamo tutti più allegri. Sembra — è — un episodio di nicchia. Ma mostra che aria tira tra la gente venuta a Washington molto più dei balli da ricchi o delle presenze Vip. «Sono qui perché ne ho sentito parlare in tv», dice Amy DeWine, avvocato di Saint Louis, che tutti guardano male perché è in pelliccia. «Ma è fantastico, ho gridato come una scema e mi sento rinata». «Pure io», dice il suo atletico e sconosciuto vicino con un triangolo rosa appiccicato alla giacca a vento, «quando Kate Clinton ha detto che sono stati tempi di “destra militante e sinistra in trincea” ho urlato hey hey goodbye e ho sentito che era la fine di otto anni da incubo ». Interno borghese Nelle ville e villette del Northwest Washington, dove i festeggiamenti prendono la forma di cene sedute, la gente è più competente e più cauta. A Spring Valley, dirigenti della World Bank e i loro amici discutono: se Barack Obama riuscirà a far qualcosa; o se—tutti dicono è «molto possibile» — sarà un «empty suit», un vestito vuoto, molta immagine zero sostanza, non ce la farà a riformare l’economia, a far processare Bush e Cheney, ecc. Ma finito il dolcino al limone gli ospiti fremono. «Eehm, scusate se noi andiamo, vorremmo alzarci alle cinque per prendere un buon posto in tribuna», fa sapere Dean, giudice californiano, qui col figlio studente Brad. Gli altri: «In effetti anche noi andiamo presto coi ragazzi…». Fine della serata, sveglia dopo poche ore. Il Mall Alle sette è già pieno. Ai varchi (ex varchi) tra il Campidoglio e la Casa Bianca ci sono file inutili di un chilometro. Dopo un po’ la gente decide che—parole di Megan Schultz, bionda pragmatica di Chicago—«the Obama Crowd, la folla di Obama, siamo noi. Sul Mall sono trecentomila, qui saremo due milioni»; e va con le amiche a scongelarsi in un caffè. L’Obama Crowd è ovunque ed è uniformemente «nice», carino e gentile; pare un film-presa in giro con Jim Carrey ma è vero. Ci si abbraccia in coda, ci si presenta nelle file per le bevande calde, si lasciano dollari ai volontari della Free Methodist Church che danno caffè gratis e hanno messo un megaschermo sopra l’altare per far vedere l’Inaugurazione ai senzacasa, al caldo. L’autorappresentazione di massa dell’altra America possibile prosegue senza intoppi. Tutti la fotografano e la filmano. Un gruppetto più nice degli altri gira fotografando tutti e dando biglietti da visita, così i soggetti potranno rivedersi su un sito web. A un certo punto il Casino Nice è totale ma fluido. «Oggi siamo parte della storia» e però bisogna trovare un megaschermo. La dolce vittoria nel fast food I migliori sono al caldo, tra i trecento tavoli nel salone con fast food di ogni tipo diventato auditorium nel National Press Building. Le centinaia di rifugiati si congratulano tra loro per non essere riusciti a entrare nel Mall, «qui si sta benissimo e c’è pure il sushi», dice una di San Francisco. Lara Mitchell, afroamericana di Detroit, si presenta ai vicini, si siede e comincia a piangere preventivamente. Sugli schermi appaiono gli ex presidenti. W. Bush e Dick Cheney vengono insultati ma neanche troppo. Quando arriva Michelle solo qualche elitista bianca e liberal azzarda che vestiva meglio prima. Quando arriva Obama tutti si alzano e si abbracciano tipo gol da campionato. Quando la senatrice Dianne Feinstein parla di «sweet victory» si decide che sì, ha trovato le parole giuste, almeno per la giornata. Quando il pastore omofobico Rick Warren fa l’invocazione una buona metà prega sul serio. Quando canta Aretha Franklin un ragazzino si stupisce, «ma davvero è ancora viva? ». Quando Joe Biden giura comincia a calare un silenzio sacrale; irreale tra la puzza di fritto. Quando Obama giura e poi parla si assume collettivamente un’aria da «quando il gioco si fa duro i duri cominciano a giocare». Lara smette di piangere. «Ora mi sento sollevata, anche se sono disoccupata ». Il candidato terapeutico è diventato un presidente abbastanza normale, intanto. Non si sa cosa farà da oggi; però a molti è cambiato l’umore. Magari per un po’ dura, hey hey goodbye. Maria Laura Rodotà 21 gennaio 2009 da corriere.it Titolo: BARBARA SPINELLI Il presidente ragazzo Inserito da: Admin - Gennaio 21, 2009, 11:10:34 am 21/1/2009
Il presidente ragazzo BARBARA SPINELLI L’apparizione di Obama, non solo nel paesaggio americano ma nel mondo, conferma qualcosa che ciascuno di noi sa: basta una persona forte, e il paesaggio d’un tratto può cambiare. Una personalità che crede intensamente nel bene comune senza vacillare né badare a interessi particolari può rimettere in moto quel che pareva immobile, nella società e ai suoi comandi. Può ridar senso alla parola, quando sembrava che essa l’avesse perso e che il ritiro nel silenzio fosse la scelta meno indecorosa. Obama ha messo fine a questa stagnazione. Ha vinto proponendo la speranza, che sorge inaspettata proprio quando la passione ottimistica si spegne e - così ha detto il nuovo Presidente alla cerimonia d’insediamento, ieri - l’inverno è profondo. Forse il momento Obama è qui: nella parola da lui ritrovata. Ma non è solo questo. Perché una grande personalità si imponga, perché vinca tanti ostacoli, occorre che il momento stesso, indipendentemente dalla persona, abbia una sua intensità irresistibile. Occorre il tifone più letale, perché nasca un grande capitano che porti in salvo il bastimento: senza tifone il capitano MacWhirr di Joseph Conrad sarebbe restato nel grigiore, pur essendo portato al comando. Il profondo inverno rivela l’eccellenza dello statista e al tempo stesso lo fa nascere. Dicono che Obama pensava da tempo a candidarsi, ma che non riteneva giunta l’ora. Se ha forzato i tempi è perché ha fiutato che questo non era forse il suo momento ma di sicuro era il momento più grave della storia recente americana: e che da tale momento lui era chiamato, quale che fosse la sua maturità personale. Nella sua autobiografia, egli ricorda i libri che l’hanno marcato, da Shakespeare a Moby Dick a Conrad: specialmente Cuore di Tenebra, «che mi ha insegnato quel che spaventava i bianchi nei neri, e come nasce l’odio». Scrive Michiko Kakutani, critico letterario del New York Times, che Obama, per i libri che l’ispirano, ha un senso tragico della storia e delle ambiguità umane, ed è refrattario all’incoscienza ottimista delle ultime amministrazioni. Quel che è accaduto nel 2008 conferma l’inverno descritto da Obama. Il tracollo finanziario testimonia di una fragilità americana che molte amministrazioni hanno ignorato: dell’assenza di un «occhio vigile» sugli spiriti animali del mercato. Le guerre che continuano in Medio Oriente certificano che Washington ha fallito, in quella che riteneva essere la sua funzione: egemonizzare il mondo e rifarlo da capo, spegnendo chi fomenta conflitti. Bush e i neo-conservatori avevano nutrito questo susseguirsi di bolle: l’illusione che gli Stati Uniti fossero gli unici a poter capire e aggiustare le storture dell’umanità. L’arroganza di tale illusione, unita a ignoranza e a una mancanza di curiosità abissale, a cominciare dal clima e dal rapporto con l’Islam. Non a caso, elencando antiche virtù dell’America, Obama ha citato ieri quella che tanto le è mancata: la curiosità. Questo è il grande freddo che il Presidente ha di fronte: non gli incidenti di un impero paragonabile all’antica Roma, ma le rovine di una folie de grandeur che da tempo non fa i conti con la realtà. Il senso tragico della storia, se davvero anima Obama, lo aiuterà enormemente. Poiché si tratta di andare sino in fondo, nell’esplorare la notte. Le guerre contro il terrore non portano frutti, né in Iraq né in Afghanistan. In Asia urge più della guerra un negoziato vasto fra Pakistan, Afghanistan, India, aggiungendo Iran, Cina, Russia. È stato quantomeno azzardato far credere a piccoli nazionalismi (Georgia, Ucraina, Israele) che potevano tutto, perché alle spalle avevano il gigante Usa. Sapere che la storia è tragica non vuol dire vederla nera, senza vie d’uscita. L’acme della tragedia non consiste nella nemesi punitiva ma nella catarsi, capace di purificare l’uomo che apprende la propria colpa e i propri limiti. Per l’America è qui il compito: smettere la forza irresponsabile, aprire (dice Obama) una «nuova era di responsabilità». Da secoli essa vorrebbe essere il faro sopra la collina: un sogno condiviso dal Presidente afro-americano. Ma anche la sfiducia verso gli Usa nel frattempo s’è fatta globale. Anche in questo «il mondo è cambiato e urge cambiare con lui». L’America è a un bivio. La sua idea di sovranità nazionale assoluta, che non riconosce autorità sopra di sé, si è rivelata fallace, minacciosa. Non è detto che Obama sia all’altezza di un così enorme momento storico: il momento in cui l’America, se cosciente, scopre il post-nazionalismo europeo; in cui riconosce che il multipolarismo non è un malvagio disegno cinese, russo o europeo, essendo ormai la realtà. Ma di certo il momento gli consente di guardare alto e lontano. È la sua occasione. È il Tifone terribile che può travolgerlo, o innalzarlo e renderlo grande. da lastampa.it Titolo: CARLO ROSSELLA Ma occorre concretezza - (quella del tuo padrone? ndr). Inserito da: Admin - Gennaio 21, 2009, 11:13:03 am 21/1/2009
Ma occorre concretezza CARLO ROSSELLA Un giro di telefonate nelle capitali europee e si scopre che Angela Merkel, Nicolas Sarkozy e Gordon Brown hanno seguito in diretta televisiva il discorso di Barack Obama. Anche Francesco Cossiga, l’ex presidente della Repubblica italiana, americanologo ed esperto di oratoria, non ha perso un attimo delle parole del presidente. Ma confessa la sua delusione: «Poco, poco, e troppa superbia». Nelle cancellerie dei grandi Paesi europei il sermone dell’«inauguration day» ha confermato il giudizio su Obama che già circolava nei giorni scorsi a Sharm-el-Sheikh, durante il vertice col presidente egiziano Hosni Mubarak. A differenza dei giornali, delle tv e a di molti intellettuali, i leader europei, chiacchierando fra un dattero e una tazza di tè alla menta, si sono detti dubbiosi su Obama, esprimendo riserve sull’efficacia delle ricette economiche e politiche della futura amministrazione. Sul Medio Oriente, ad esempio, ci si aspettava un team nuovo. Invece ecco i Dennis Ross e i clintonian dei tempi di Madeleine Albright, che già una volta hanno fallito e che potrebbero fallire di nuovo. Gli europei non ce l’hanno certo con Obama, ma non nascondono, nei privatissimi colloqui nelle coulisses dei vertici, la loro perplessità. Dubbi apparsi anche in America, fra molti articolisti del Wall Street Journal e non solo sul Weekly Standard o altre riviste conservatrici. Obama ieri ha avuto la possibilità di dire qualcosa di memorabile, come fecero Roosevelt, Kennedy, Reagan e lo stesso Clinton, ma il suo discorso è apparso meno brillante di quelli fatti nella campagna elettorale, con una sola indicazione forte: quella rivolta al senso di responsabilità dei cittadini. Certo un discorso ben costruito ma rapsodico, poetico, quasi un gospel, onesto e religioso. I capi di stato europei, alle prese con la grave crisi economica mondiale, si aspettavano di più. Obama ha fatto la diagnosi di una malattia fin troppo conosciuta e sofferta, ha indicato le origini e le colpe del morbo, ha raccontato le condizioni del malato, ma non sono apparse ricette, e cure immediate, nemmeno una. Non si ha un’idea di quel che Obama farà nei fatidici cento giorni. Forse ha seguito l’indicazione del Financial Times di allungare il periodo. Nella «nuova era della responsabilità», ha proclamato il quarantaquattresimo presidente, gli americani, non devono chiedersi cosa possa fare il governo per loro ma cosa intendono fare loro per il governo. Altro che le mirabolanti promesse della campagna elettorale. Obama ha riflettuto sul declino degli Stati Uniti, e si è detto pronto a far l’impossibile pur di ridare all’America tutto il suo prestigio ed il suo potere, come dopo la seconda guerra mondiale. Ovviamente con tanto rispetto e considerazione per gli alleati che dovranno contribuire a questa salvifica missione. Obama vuole un mondo di amici, di ogni fede, e si è rivolto anche ai musulmani. Questo messaggio universale lo tradurranno in atti pratici il segretario di Stato Hillary Clinton e il segretario al Tesoro Timothy F. Gelthner. I due, insieme con Obama, dovranno affrontare la terribile crisi economica mondiale e i drammi palestinese, iracheno, afghano pakistano, oltreché le impellenti questioni energetiche ed ecologiche. Gli europei, ma anche gli arabi, i cinesi, gli indiani e i latino americani si stanno preparando da mesi all’era Obama. Le parole, all’inizio erano piaciute e a tutti, dalle elezioni del 4 novembre scorso in poi, sono affiorate le prime perplessità, seguite da velate critiche. Ora, dopo il discorso-gospel di Washington si aspettano i primi atti concreti da fare in fretta e senza errori. Le attese di tutti, come ha detto il primo ministro inglese Gordon Brown, sono «unreasonably high». «Che Dio mi aiuti e aiuti l’America», ha detto Obama per esorcizzare queste preoccupazioni a lui ben note. Alla fine, anche Obama, visto come il messia della nuova America, si è messo nelle mani di Dio. Con un po’ di umiltà, finalmente. da lastampa.it Titolo: Addio all'ideologia di Bush Obama tende la mano al mondo Inserito da: Admin - Gennaio 21, 2009, 11:14:07 am Una giornata che ha voluto riconciliare l'America divisa da 8 anni di guerra
Nel discorso di Obama, una svolta culturale e poltica profonda Addio all'ideologia di Bush Obama tende la mano al mondo di VITTORIO ZUCCONI WASHINGTON - "Un uomo che sessanta anni or sono non sarebbe neppure stato servito in un ristorante, oggi presta giuramento per assumere la più alta carica della nazione". Da queste parole, che riassumono senza retorica e senza arroganza l'enormità di quello che abbiamo visto ieri a Washington, deve partire il racconto di una giornata che ha voluto riconciliare l'America straziata e divisa da otto anni di guerra ideologica e di guerra militare, da "falsi dogmi e false promesse". E che non si può più permettere di tergiversare o di nascondersi nella partigianeria: "Se siamo arrivati sotto nubi nere che si addensano sopra di noi è perché non abbiamo fatto le scelte difficili. Il tempo di farle comincia oggi". Ben oltre l'emozione di un giorno e di una folla come Washington non aveva mai visto nella propria storia, non per funerali, celebrazioni, insediamenti, dimostrazioni che pure l'hanno investita e allagata per due secoli, l'esordio di Barack Hussein Obama ha mostrato, sotto l'eleganza dell'oratoria e della presentazione, le unghie di una svolta culturale e politica profonda, che si può riassumere nella necessità di rispettare insieme "il diritto" e i "valori della democrazia", non potendo l'una esistere senza gli altri. Ci si attendeva una "lista della lavandaia" di promesse e programmi di azione alla New Deal, che non ha fatto. Quello che ha fatto è stato rovesciare l'ottica miope della cultura repubblicana dominante tra Reagan e Bush e riportare il mondo al centro delle preoccupazioni americane, e non più l'America al centro del mondo. Questo senso di un capovolgimento della clessidra, della riapertura a un mondo che l'angoscia delle Torri Gemelle aveva sbarrato nell'unilateralismo bushista e nella seduzione della forza è quello che ha portato ieri forse due milioni di persone lungo i tre chilometri della spianata fra il Congresso e il mausoleo di Lincoln. Erano turisti della storia e della speranza venuti dall'Africa e dall'Asia, dal Caribe e dall'Europa, da tutti gli stati americani per rinnovare quel patto di ammirazione e di solidarietà ideale con un'America dalla quale si erano sentiti traditi. O considerati come pedine da spostare o rovesciare in base a teorie, dottrine o false teoremi. Invece "il terreno ci è cambiato sotto i piedi e non possiamo continuare come prima". L'illusione di poter proteggere una democrazia dai propri nemici interni ed esterni sottraendo pezzi di diritti costituzionali nel nome della sicurezza viene catalogata tra "le false promesse e i falsi dogmi". Il resto del mondo va affrontato "in pace, con dignità e umiltà", perché la forza militare "da sola non ci protegge, né ci autorizzare a fare quello che vogliamo". "Noi tendiamo la mano a tutti coloro che la tendono aperta verso di noi, sciogliendo il pugno". Siamo non soltanto oltre il bushismo o almeno quella cosiddetta e mai ben definita "dottrina Bush" che fu adottata nel panico dopo l'orrore dell'11 settembre, ma anche oltre il "pagare ogni prezzo o portare ogni peso" di John F. Kennedy alla sua inauguration del gennaio 1961. Non mancheranno coloro che accuseranno questo giovane uomo che nasconde sotto un autocontrollo titanico le emozioni che abbiamo visto sgorgare quando la moglie gli ha posato la mano guantata sulla spalle per calmarlo durante un'esecuzione musicale completamente inutile e poi nell'impappinarsi al momento di giurare, di essere un ingenuo, un "buonista", che non capisce la realtà oltre il Potomac. Ma ancora più deluso sarà che si era immaginato che da lui sarebbe venuto l'annuncio di manifesti ideologici, di programmi pubblici di lavoro e di investimenti che ha ridotto invece alla promessa di puntellare l'economia, non di sostituire lo Stato al mercato. "Il governo non è né la soluzione né il problema", come i vecchi liberal e i nuovi reaganiani avevano sostenuto dogmaticamente accapigliandosi senza mai risolvere il dramma delle recessioni periodiche. Il problema è sapere fare le "scelte difficili" quando vanno fatte, di "tenere gli occhi sempre aperti e vigili sul mercato" che lasciato a se stesso "si avvita fuori controllo. Arriveranno regole, tasse (da pagare, non da evadere) e fiumi di danaro pubblico su imprese e infrastrutture. E soprattutto, è urgente il ritorno alla "responsabilità", la parola sulla quale ha insistito e già batteva in campagna elettorale, mentre i repubblicano lo dipingevano come la reincarnazione di Marx e ed Engels, irritando anche la propria base afro Americana, abituato a essere coccolata e lisciata dei predicatori del vittimismo. La piccola, e per ora soltanto retorica, rivoluzione culturale che il 44esimo presidente Americano ha proposto, incarnando come nessun avrebbe potuto fare in maniera più evidente l'ansia collettiva di cambiare, sta nel promettere di riportare al cuore dell'amministrazione pubblica "verità, responsabilità e diritto", non "i falsi dogmi", sventolati per dividere e vincere le elezioni, senza poi poter governare. Certamente, "sconfiggeremo i terroristi", "lasceremo l'Iraq al suo popolo", "tenderemo la mano a chi aprirà il pugno e scioglierà la sua mano". Ma questo presidente, l'uomo che non avrebbe potuto entrare in gabinetto pubblico una generazione fa e da ieri notte dorme con le due figlie bambine (ammesso che siano riuscite a dormire) nella casa dove anche Churchill sentiva gli spettri, ha risposto alla folla che ha risposto a lui ricordando che l'America ha vinto le proprie guerre con la potenza della propria "umiltà" e con la difesa dei propri valori civili e non con la "falsa scelta" (quante volte questa allusione al "falso" è tornata nel discorso tra cannoni e costituzionale. Una verità che nessuno come qualcuno che ha "sentito schioccare la frusta sulla pelle" dei proprio fratelli e sorelle potrebbe testimoniare meglio, nel giorno in cui l'America migliore sembra essere finalmente tornata fra noi, nel mondo. (21 gennaio 2009) da repubblica.it Titolo: ALEXANDER STILLE. La religione civile di Barack Inserito da: Admin - Gennaio 21, 2009, 11:15:04 am L'ANALISI
La religione civile di Barack di ALEXANDER STILLE L'inaugurazione di Barack Obama, oltre a molte altre pietre miliari (il primo presidente nero della storia americana) segna anche un evento rivoluzionario nella storia dei media mondiali. Grazie alla Rete, che è entrata nelle vite quotidiane di milioni di persone in tutto il mondo solo negli ultimi anni, e grazie alla centralità assoluta degli Stati Uniti in questo particolare momento, essendo l'unica superpotenza di un mondo fortemente globalizzato, l'elezione e l'inaugurazione di Obama sono diventate un evento mondiale come nessun'altra elezione americana era mai stata prima d'ora. Bisogna tornare forse al giubileo della regina Vittoria, il cinquantesimo anniversario del suo regno, quando la Gran Bretagna regnava su metà del pianeta in una sorta di globalizzazione ante litteram, per trovare una cerimonia politica nazionale che ha avuto un seguito tanto ampio. I sovrani di tutta Europa, undici primi ministri coloniali e numerosi maharaja indiani parteciparono a quell'evento, che fu seguito dalla neonata stampa quotidiana, di ogni parte del mondo. Ma l'elezione di Obama naturalmente è qualcosa di diverso, che mescola elementi della cultura contemporanea della celebrità con forme nuove e innovative di democrazia partecipativa e sentimenti profondi, emotivi, potremmo dire quasi religiosi. "Un incantesimo che aprirà una nuova America" recitava oggi il titolo del quotidiano britannico The Guardian. Molti non americani dicevano, un po' per scherzo, durante la campagna elettorale, che anche gli altri paesi dovevano avere la loro quota di voti elettorali nelle elezioni americane, considerando l'impatto del paese sugli affari mondiali. I giovani francesi, tedeschi e italiani hanno seguito la candidatura di Obama e hanno esultato per le sue vittorie come se alle elezioni nazionali avesse vinto il loro partito. Io guardo costantemente le pagine Facebook di italiani - giovani e vecchi - con obamerie varie, simboli e messaggi, come se lui fosse uno "di casa". In un esempio di transfert estremo, la leader dei socialisti francesi, Ségolène Royal, avrebbe detto che la sua campagna aveva "ispirato" Obama e che lui aveva copiato le sue tattiche, suscitando una certa dose di ilarità e ridicolo in Francia. "Evidentemente c'è stato un problema di traduzione e Obama ha frainteso i suoi insegnamenti, perché lui ha vinto", ha commentato un lettore sul sito di Le Monde. Un editorialista del Times londinese ha scritto: "Domenica sera ho sognato Barack Obama. Milioni di persone lo sognano". Obama è diventato una specie di test delle macchie di Rorschach universale, dove ognuno vede quello che vuole vedere. Al tempo stesso, assistere alla curiosa coreografia dell'inaugurazione di Obama - per molti non americani è la prima volta - potrebbe produrre uno shock. Il giuramento sulla bibbia di Lincoln, i riferimenti a Dio, la lunga preghiera che ha preceduto il discorso del neopresidente, lo sfrontato patriottismo e il sentimento sublime di una finalità nazionale specificamente americana sembrano qualcosa di profondamente estraneo per molti europei. Oltre a esporre elementi familiari del suo programma, Obama ha fatto riferimenti specifici alla grandezza dell'America, a Dio e ai padri fondatori. Quello a cui stanno assistendo è una tradizione retorica peculiare ma importantissima, appropriatamente definita la "religione civile dell'America". Secoli di guerre di religione hanno bandito Dio dal discorso pubblico in gran parte dell'Europa, e il flagello del fascismo ha reso il nazionalismo qualcosa di molto controverso sul vecchio continente: per questo la liturgia civica americana sembra qualcosa di arcaico ed estraneo. (Un articolo su queste pagine, appena qualche giorno fa, sottolineava l'assenza della religione civile in Italia.) Più di quarant'anni fa, il sociologo americano Robert Bellah scrisse un saggio fondamentale intitolato La religione civile in America, partendo dai numerosi riferimenti a Dio e a un fine superiore presenti nel discorso inaugurale di John Kennedy. Kennedy iniziò con queste altisonanti parole: "Oggi non assistiamo alla vittoria di un partito, ma alla celebrazione della libertà, che simboleggia una fine, oltre che un inizio, che esprime il rinnovamento, oltre che il cambiamento. Eppure le stesse convinzioni rivoluzionarie per cui i nostri antenati hanno combattuto sono ancora in forse in tutto il mondo, la convinzione che i diritti dell'uomo non vengono dalla generosità dello Stato ma dalla mano di Dio". Essendo situate generalmente all'inizio e alla fine del discorso, queste pennellate religiose potrebbero essere liquidate come specchietti per le allodole, ammiccamenti agli elettori religiosi bisognosi di rassicurazione. Invece, Bellah sosteneva che rivestivano un ruolo centrale nel discorso di Kennedy e nel linguaggio politico americano fin dai tempi della Dichiarazione di indipendenza di Jefferson: "Noi consideriamo manifeste tali verità, e cioè che tutti gli uomini sono stati creati uguali, che sono stati dotati dal Creatore di determinati diritti inalienabili, che tra questi diritti c'è la vita, la libertà e la ricerca della felicità". Abramo Lincoln, il presidente preferito da Obama, era intriso del linguaggio di Jefferson e di quello della Bibbia quando creava la retorica pregnante della guerra civile americana, che fornì il carburante emotivo per la guerra, per salvare l'unione, abolire la schiavitù, ma anche promuovere la riconciliazione nazionale dopo la fine del conflitto. "Con malizia verso nessuno, con carità verso tutti", disse Lincoln nel suo secondo discorso inaugurale. Martin Luther King usò il linguaggio jeffersoniano e la cadenza biblica per radunare milioni di persone in difesa della causa dei diritti civili. Naturalmente, come riconosce Bellah, la religione civile dell'America non sempre è stata usata a fin di bene. È stata usata come giustificazione per il Manifest Destiny [la "missione" degli Stati Uniti di espandersi nel continente americano], la guerra contro il Messico e per la negazione dei diritti civili e politici degli indiani. Ovviamente, George Bush ha usato una sua forma di religione civile con i suoi discorsi sull'"asse del male" e la sua affermazione che la libertà era un diritto divino che l'America aveva il dovere di diffondere in tutto il mondo. Ma considerando la profonda forza emotiva di questo linguaggio, e alla sua capacità di fissare le priorità nazionali - la guerra alla povertà, la corsa alla Luna, i diritti civili - Obama è sempre stato estremamente abile nell'attingere al filone jeffersonian-lincolnian-kennedian-martinlutherkinghiano di questa tradizione. Il nuovo presidente cerca di sfruttare la forza di questa tradizione per contrastare la versione più nazionalistica usata da Bush, e per metterla al servizio del suo nuovo e diversissimo programma. (Traduzione di Fabio Galimberti) (21 gennaio 2009) da repubblica.it Titolo: Il braccialetto del Presidente Inserito da: Admin - Gennaio 21, 2009, 11:18:54 am Il braccialetto del Presidente
In pochi minuti è cambiato tutto. Dal sito della Casa Bianca, ieri paludatissimo, e oggi con le foto di Obama. Mica foto ufficiali. Sono scatti di vita comune. Lui con la famiglia, lui con gli operai. E' cambiato anche il look presidenziale. Anzi, Barack è il primo presidente degli Uniti a sfoggiare un braccialetto nella cerimonia che tiene il mondo col fiato sospeso, che fa fermare il pianeta. E' il suo amuleto, dicono. Lo porta da poco meno di un anno. A febbraio del 2008 incontrò in Wisconsin la signora Tracy Jopeck, mamma di Ryan David un soldato ucciso in Iraq da una mina il 2 agosto del 2006. E' un bracciale semplicissimo, nero, con una targhetta d'argento. C'è la data di nascita e di morte di Ryan: aveva vent'anni quando è caduto. Le due date e una scritta; "Tutti hanno dato qualcosa, lui ha dato tutta". Quando la signora Tracy gliel'ha regalato Barack Obama stava correndo per le primarie democratiche e si è commosso. "Non lo toglierò più", aveva detto. E così è stato. Un amuleto ma anche il simbolo del no alla guerra del Presidente. Lo aveva detto a febbraio proprio in Wisconsin, davanti alla folla di sostenitori. Aveva mostrato il bracciale e ricordato la storia di Ryan. "Incontro ogni giorno in tutto il Paese madri e familiari che piangono i loro figli, ma pensano anche a tutte le ragazze e i ragazzi che sono ancora laggiù, chiedendosi quando finirà". Per Ryan, per tutti i morti in Iraq, per chi aspetta a casa, il bracciale di Obama è un altro simbolo di speranza. 20 gennaio 2009 da unita.it Titolo: «Finalmente orgoglioso di essere americano» Inserito da: Admin - Gennaio 22, 2009, 12:41:11 am «Finalmente orgoglioso di essere americano»
di Francesca Gentile «Mi ha fregato, avevo detto che sarei stato io il primo presidente nero della storia d’America!». Will Smith scherza nel giorno dell’insediamento alla presidenza di Barack Obama. Scherza perché è felice del grande momento storico che il popolo americano e la «minoranza» afroamericana stanno vivendo. L’attore di Independence Day, il protagonista di Io sono leggenda, ora sugli schermi in Italia con il film drammatico di Gabriele Muccino Sette Anime, ha una teoria: «Credo che una grande parte del successo di Barack Obama dipenda dalla comunità artistica e in particolare da Mtv». L’emittente musicale? Ci spiega? «Quello che ha fatto Mtv, da venticinque anni a questa parte, è unire il sobborgo con la città, la campagna con la metropoli, l’America con il resto del mondo. Ha parlato ai giovani del globo, ai ragazzi bianchi come ai giovani neri. Dopo Mtv non è più possibile raccontare bugie, non puoi più raccontare delle differenze fra le razze. Loro, i giovani di oggi, sanno che non è vero niente. Fino a due, tre generazioni fa era diverso, i ragazzi, la stragrande maggioranza dei ragazzi, viveva nel loro piccolo mondo, magari nella campagna profonda d’America o in qualche paese sperduto della terra. Erano separati da tutto, lontani dal contatto con “l’altro”. A questi ragazzi potevi dire qualsiasi cosa, loro ci avrebbero creduto». La globalizzazione giovanile di Mtv dunque avrebbe fatto il miracolo di sconfiggere il razzismo? «Forse detto così è esagerato, ma io credo fortemente che un grande ruolo nel meraviglioso fatto che un ragazzo nero, Barack Obama, è diventato presidente degli Stati Uniti d’America, l’abbia avuto il rimescolamento artistico, lo scambio culturale che questa televisione ha mostrato ai sui giovani». Lei è spesso in giro per il mondo per promuovere i suoi film. Ha notato differenze nella percezione dell’America dopo l’elezione di Obama? «Decisamente sì. Sono stato a Mosca, Parigi, Londra e Roma ed ovunque ero così fiero! È la prima volta, da dieci anni a questa parte, che mi sento orgoglioso di essere americano quando sono all’estero». Se ne avrà l’occasione interpreterà Barack? «Lo farò. Non appena lui avrà scritto la storia dei prossimi otto anni. Nel frattempo potrei interpretarlo ogni volta che sarà fuori ufficio, così mi alleno». Perché? Il suo progetto di diventare Presidente non è tramontato? «No, solo che, anziché il primo sarò il secondo presidente nero degli Stati Uniti d’America». 21 gennaio 2009 da unita.it Titolo: La stampa araba sottolinea la mano tesa all'Islam Inserito da: Admin - Gennaio 22, 2009, 12:45:30 am Dopo il giuramento del nuovo presidente Usa arrivano le prime reazioni dal mondo
E la stampa araba sottolinea la mano tesa all'Islam durante il discorso di Obama Solana: "Ora lavoriamo insieme" I Taliban chiedono stop alla guerra ROMA - L'era Obama apre una "nuova chance per il multilateralismo", ora è un "momento speciale" per il mondo: così Javier Solana commenta il nuovo corso americano dopo l'insediamento di Barack Obama, mentre la stampa araba sottolinea la possibilità di riconciliazione e la mano tesa dal nuovo presidente degli Stati Uniti agli stati islamici nel suo discorso inaugurale e i Taliban dall'Afghanistan chiedono al nuovo leader mondiale di abbandonare la politica della guerra. Dopo la giornata del giuramento e della grande festa che ha segnato l'inauguration day del 44esimo presidente Usa, il primo afro-americano a guidare la Casa Bianca, dal mondo arrivano le prime reazioni. "Credo che nel discorso di Obama ci sia un grande spazio e una grande sfida per noi europei. Il presidente Obama chiama tutti a maggiore corresponsabilità: dobbiamo lavorare insieme", ha detto alla trasmissione "Porta a porta" di Rai 1 il ministro degli Esteri Franco Frattini, in collegamento da Sharm el Sheikh dove oggi incontrerà il presidente egiziano Hosni Mubarak. Sullo stesso tono il commento del rappresentate della Ue per la politica estere Javier Solana. "Gli Stati Uniti non sono un paese qualsiasi e il suo presidente non è un politico come gli altri", afferma in un intervento sul Financial Times. Per questo la giornata di ieri ha rappresentato un "momento speciale". Le scelte compiute dal presidente americano "riguardano miliardi di persone in tutto il mondo". La nuova amministrazione americana rappresenta una chance per il rilancio della diplomazia multilaterale, una chance che dovranno cogliere Stati Uniti e Europa, dice ancora il capo della diplomazia dell'Ue. In Europa i giornali hanno puntato sul cambiamento storico (come in Spagna El Pais) sottolineando come raramente un politico abbia suscitato tante speranze prima di iniziare a governare. In Gran Bretagna il Times sottolinea il realismo nel discorso inaugurale del presidente, che "forse non è stato grande oratoria, ma ha esaminato la natura dei problemi dell'America". Secondo il Guardian, Obama usa un "nuovo tono: basta con l'ottimismo fasullo a uso della gente", si legge nell'editoriale principale del quotidiano progressista: "Ha tracciato una linea nella sabbia, un chiaro taglio con la precedente amministrazione". Il presidente americano Barack Obama sarà un amico sincero di Israele, ritiene l'ex ministro degli Esteri israeliano Silvan Shalom (Likud). "Se guardiamo alle sue posizioni espresse al Congresso, sono al 100 per cento a favore di Israele. Obama farà tutto il possibile per difendere gli interessi vitali di Israele. Prevedo che la nuova amministrazione sarà favorevole nei nostri confronti, non meno di quella uscente", dice. Riconciliazione e speranza sono i temi comuni nei titoli e nei commenti della stampa araba riguardo al discorso di insediamento pronunciato ieri dal neo presidente degli Stati Uniti Barack Obama. "Barack Hussein Obama presidente per riconciliare l'America con se stessa e con il mondo", ha scritto il libanese as Safir, mentre l'internazionale arabo al Hayat, di proprietà saudita, afferma nel suo titolo principale che "Obama rinnova il sogno americano di potere, prosperità e apertura". Aperture arrivano dalla Corea del Nord, pronta a lavorare con il neo presidente americano per liberare la penisola coreana dagli armamenti nucleari, sostiene un quotidiano pro-Pyongyang con base a Tokyo (Choson Sinbo), che in un editoriale pubblicato all'indomani dell'investitura ufficiale del nuovo presidente Usa apre a sorpresa all'istanza di cambiamento rappresentata da Obama. Anche nei quotidiani della Corea del Sud si sottolinea come il nucleare di Pyongyang sia una priorità e come i rapporti fra Washington e Seul debbano diventare più stretti (JoongAng). Il portavoce dei Taliban, Yousuf Ahmadi, dall'Afghanistan, lancia un appello al neopresidente perché abbandoni la politica della guerra: ''Non abbiamo nessun problema con Obama'', ha detto il portavoce dopo l'insediamento del nuovo presidente Usa, aggiungendo tuttavia che l'ex senatore dell'Illinois ''deve trarre una lezione dall'ex presidente Bush e prima di lui dai sovietici''. "Chiediamo al nuovo presidente americano Barack Obama di scegliere una nuova via, diversa da quella della guerra, per trovare una soluzione alla crisi in Afghanistan", ha detto durante un collegamento telefonico con Al Jazeera. Scetticismo arriva invece da Cuba e dall'Iran. Parlando con la stampa il presidente del Parlamento cubano, Ricardo Alarcon, ha definito Barack Obama "un grande oratore", ma ha allo stesso tempo espresso scetticismo su una svolta nella politica americana. Anche la stampa di Teheran ha accolto con freddezza l'insediamento del nuovo presidente Usa. Il quotidiano conservatore Keyhan in un editoriale afferma che quello di ieri "non è stato un giorno speciale, perché niente cambierà". "E' improbabile - gli fa eco sullo stesso fronte il Jomhuri Eslami - che Obama, con le sue promesse, possa gestire i molti problemi che lo attendono". E allo stesso tempo "non potrà convincere la gente a dimenticare le speranze". (21 gennaio 2009) da repubblica.it Titolo: Tofel: "Inizio prosaico, finale poetico" Inserito da: Admin - Gennaio 22, 2009, 12:47:32 am L'analisi dell'esperto di discorsi presidenziali Tofel: "Inizio prosaico, finale poetico"
Il problema di Obama? "Aver fatto discorsi troppo belli finora: difficile superarsi" "Non rimarranno parole immortali ma sull'economia è stato efficace" di ARTURO ZAMPAGLIONE NEW YORK - "Ho l'impressione che la prima parte del discorso di Barack Obama sia stata un po' prosaica", osserva Richard Tofel: "Un elenco di impegni quotidiani, dalla ripresa economica al rilancio della scuola. Nella seconda parte, invece, il presidente è riuscito a ritrovare una vena poetica e una voce autentica, facendo presa sul pubblico americano e sull'opinione pubblica mondiale. Ho paura, però, che non saranno parole 'immortali' come furono quelle pronunciate al momento dell'investitura da Jefferson, Lincoln o Kennedy". Tofel è uno studioso di discorsi presidenziali. Quattro anni fa, quando non era ancora direttore generale di ProPublica, il gruppo non-profit di giornalismo investigativo, pubblicò Sounding of the trumpet, un libro di 220 pagine interamente dedicato alla celebre orazione di John Kennedy, con materiali inediti trovati negli archivi e arricchito dai ricordi di Theodore Sorensen, lo speechwriter dell'allora presente. Quali sono, Tofel, le frasi più significative del discorso di Obama? "La prima, a mio avviso, è quella in cui ha ricordato che 'una nazione non può prosperare se favorisce solo i più prosperi'. Interpreta bene le ragioni che hanno portato alla sua vittoria elettorale e il senso del suo programma politico". E sul piano internazionale? "E' stato importante rivolgersi agli altri paesi del mondo per chiarire che gli Stati Uniti sono tornati al ruolo originario. Il tema della responsabilità non è certo nuovo in appuntamenti del genere e forse Obama non è riuscito a trasmettere il messaggio con la stessa eloquenza kennedyiana. "Nel complesso mi aspettavo un intervento più forte, che potesse avere una presa duratura nell'immaginario collettivo, al di là del chiaro simbolismo del primo afro-americano alla Casa Bianca. La realtà è anche che, a differenza di altri predecessori, Obama, che è un grande oratore, ha già pronunciato discorsi molto belli, stabilendo un altissimo standard". (20 gennaio 2009) da repubblica.it Titolo: OBAMA: ''STOP AI LOBBISTI E MENO SEGRETI NELLA MIA AMMINISTRAZIONE'' Inserito da: Admin - Gennaio 22, 2009, 12:49:43 am 21-01-09
OBAMA: ''STOP AI LOBBISTI E MENO SEGRETI NELLA MIA AMMINISTRAZIONE'' (ASCA-AFP) - Washington, 21 gen - ''Una nuova era di sincerita'''. E' la promessa fatta dal presidente Barack Obama sul futuro della sua amministrazione. ''Per lungo tempo ci sono stati troppi segreti in questa citta'. Le vecchie regole dicevano che se esisteva un argomento plausibile per non rivelare qualcosa al popolo americano, allora non veniva rivelato. Quell'era e' finita'', ha aggiunto Obama parlando nel corso della cerimonia del giuramento del suo staff alla Casa Bianca. Il neo presidente imporra' regole piu' severe ai lobbisti, mettendo al bando qualsiasi regalo al personale dell'amministrazione. ''Da oggi i lobbisti saranno soggetti a limiti piu' stretti, come mai nessuna amministrazione ha fatto nella storia'', ha detto Obama, ricordando che operare come pubblici funzionari ''e' un provilegio'', ma non significa ''avvantaggiare se stessi, i propri amici, i propri clienti o gli interessi di qualsiasi organizzazione''. red-uda Titolo: Dijana Pavlovic Il senso dei Rom per Obama Inserito da: Admin - Gennaio 22, 2009, 06:51:03 pm Il senso dei Rom per Obama
di Dijana Pavlovic «Ho speranza in questo uomo, lui è come noi. Ha la pelle nera e sa cosa vuol dire essere povero». Nelle comunità Rom si parla del nuovo presidente degli Stati Uniti con entusiasmo. Mi raccontano una profezia che dice che intorno al 2010 verrà un uomo che porterà la pace e il benessere nel mondo e sarà il paladino degli ultimi. Si cantano già canzoni, si raccontano storie e barzellette. Come quella sui Rom serbi: sapete come dicono «una casa a te, una casa a me»? «Baraka obama». Già, «baraka» come casetta e «obama» che vuol dire entrambi. C’è nei campi rom una identificazione anche un po’ ingenua e tanta speranza perché noi siamo i neri d’Europa. I rom sono stati schiavi per secoli, in Romania sono stati liberati solo nel 1852, hanno subito lo sterminio razziale e tuttora subiscono la segregazione nei campi, soprattutto in Italia. Forse per questo le parole di Barack Obama lasciano agli ultimi d’Italia il sapore di una possibile rivincita: quando dice che è figlio di un uomo che solo 60 anni fa non poteva sedersi in un ristorante e essere servito da un cameriere, questo basta per farne una icona. Ma mentre gli Stati Uniti, pur con le loro contraddizioni, si muovono verso il futuro e verso l’unica convivenza possibile - «una nazione di cristiani e musulmani, ebrei e indù e di non credenti» uniti nella causa comune di affrontare una crisi non solo economica ma anche morale - a me pare che in Italia si stia fermi a guardare, analizzare e ammirare, ma incapaci di seguirne l’esempio per la mediocrità della politica che ancora pensa di poter vincere dividendo, istigando paura e indifferenza per il diverso. Qui nell’idea di nazione non ci sono zingari, musulmani, rumeni, neri, ecc. partecipi di un destino comune; nel Parlamento si discute di far pagare agli immigrati un balzello, di egoismo fiscale, detto federalismo, mentre sicurezza si traduce in violenza e intolleranza. Non voglio ricordare gli insulti e le minacce ricevuti come candidata alle ultime elezioni politiche, perché mi feriscono più a fondo episodi come l'ultimo avvenuto nel Veneto leghista, dove tre ragazzi ammazzano un marocchino e il paese reagisce con totale indifferenza, la stessa della ricca Milano di fronte agli ultimi sei morti di freddo. È questo che ci proibisce di sognare una politica che dia speranza, che parli dei problemi di tutti, che metta al primo posto «chi ha perso la casa, chi ha perso il lavoro», la sanità, l’istruzione e non elargisca la carità di 40 euro al mese ai più poveri, non tenti di distruggere la scuola e la sanità, non umili la ricerca, combatta la corruzione e la paura. Per questo con Obama anche noi zingari diciamo «la sicurezza e la paura non devono offuscare gli ideali e i valori». dijana.pavlovic@fastwebnet.it 22 gennaio 2009 da unita.it Titolo: Guantanamo e sicurezza Inserito da: Admin - Gennaio 23, 2009, 01:14:42 pm Guantanamo e sicurezza
di Paolo Valentino Ancora prima di sedersi nello Studio Ovale, Barack Obama ha preso di petto la questione urticante di Guantanamo, il carcere creato da George Bush per i presunti terroristi islamici. Mentre ancora Washington ne celebrava in cento balli l'insediamento, il nuovo presidente ha chiesto e ottenuto dai procuratori militari la sospensione fino al 20 maggio dei procedimenti legali contro i detenuti della prigione cubana e l'avvio di un riesame del sistema delle commissioni militari, instaurato dal predecessore. In teoria è il primo passo verso lo smantellamento di una struttura controversa e odiosa, il corollario immediato del «rifiuto della falsa scelta tra la nostra sicurezza e i nostri ideali», annunciato da Obama nel discorso inaugurale. Contemporaneamente, gli esperti della Casa Bianca hanno già stilato il testo di un ordine esecutivo, che prevede la chiusura del centro di detenzione entro un anno. Il presidente potrebbe firmarlo già oggi. È evidente che la nuova Amministrazione sia determinata a riportare la lotta al terrorismo nella rule of law. E che l'obiettivo strategico di questo intervento sanatorio della politica nel campo giudiziario, da nessuno considerato uno scandalo, sia quello di restituire alle corti ordinarie (civili o marziali, questo resta da vedere) anche un tema minato come la lotta al terrorismo, che la pervasiva Casa Bianca di Bush e Cheney aveva invece sottratto alla giustizia ordinaria e allo Stato di diritto. Ma scegliendo di cominciare da una pausa di riflessione, da una valutazione caso per caso, Obama indica ancora una volta un approccio pragmatico e non ideologico. Il presidente era stato chiaro pochi giorni fa, spiegando che bisogna sì processare i detenuti di Guantanamo, ove ve ne siano le condizioni giuridiche, ma «evitando di rimettere in circolazione gente che vuol farci saltare in aria». Concretamente, l'esito del riesame non è scontato. E, come scrive il Washington Post, «sarebbe anche possibile che l'Amministrazione scelga di riformare e di spostare altrove le commissioni militari, prima di riprendere i processi», non trasferendo cioè i detenuti ai tribunali federali o alle corti marziali per crimini di guerra. Posto altrimenti, anche se buona parte dei circa 250 prigionieri fossero rilasciati e alla fine le disumane gabbie di Guantanamo cadessero in disuso, non è detto che il tanto esecrato sistema attuale sia del tutto abolito. Anzi, una delle opzioni all'esame della nuova Amministrazione è la creazione di «corti della sicurezza nazionale», dove sarebbe possibile usare anche prove ottenute con metodi coercitivi. I paladini dei diritti umani si mostrano preoccupati. Ma Barack Obama non vuol correre rischi. Da ex presidente della Harvard Law Review, difende l'habeas corpus. Ma, da presidente degli Stati Uniti, deve e vuole difendere la sicurezza del Paese. Anche al costo di avere una Guantanamo senza Guantanamo. 22 gennaio 2009 da corriere.it Titolo: LUIGI LA SPINA Purché ci sia coerenza Inserito da: Admin - Gennaio 23, 2009, 01:21:52 pm 23/1/2009
Purché ci sia coerenza LUIGI LA SPINA La frase forse più politicamente significativa del discorso presidenziale di Obama è stata quella che, in opposizione agli ideologismi dei suoi predecessori, osservava: «I dibattiti politici, ormai datati, in cui ci siamo consumati così a lungo non reggono più. Oggi non ci chiediamo se il nostro governo è troppo grande o troppo piccolo, ma se funziona». Il pragmatismo, la cifra essenziale che il nuovo Presidente americano sembra voler imprimere alla sua azione, potrebbe essere uno stile di governo molto utile anche sull’altra sponda dell’Oceano Atlantico e, in particolar modo, al centro del nostro Mar Mediterraneo, in Italia. Ecco perché, al di là dei toni solenni con i quali, ieri sera, il Senato ha concesso il primo voto favorevole al federalismo fiscale, sarà opportuno giudicare la riforma solo quando se ne vedranno i risultati concreti. Quando, come ha scritto giustamente Luca Ricolfi sulla Stampa di ieri, potremo constatare se saranno evitati i rischi di trovarci «con più tasse, più spesa, più debito pubblico, più conflitti dentro la Pubblica amministrazione». In attesa di quel verdetto, si può comunque plaudire all’affermazione di un principio e alla pratica di un metodo, cercar di chiarire alcune pericolose confusioni in materia e sollecitare ai nostri legislatori un po’ di coerenza nel metter mano ai meccanismi, molto delicati, di un cambiamento sostanziale del nostro Stato. Attribuire maggiori responsabilità alle Regioni, concedendo a questi enti pari opportunità, pur nelle differenze, anche cospicue, tra di loro, corrisponde e non contraddice il processo di globalizzazione che è ormai irreversibile nel nostro mondo. Tale fenomeno si accompagna, come si è potuto constatare in tante occasioni, con l’esigenza di rafforzare, parallelamente, i legami con le realtà locali a cui appartiene il cittadino. Il federalismo fiscale di cui ieri è stato dato un primo via, bisogna ricordarlo, cerca di attuare, concedendo le risorse necessarie, la graduale trasformazione del nostro Stato centralista cominciata con la riforma del titolo V della nostra Costituzione varata alla fine della tredicesima legislatura. Con una importante differenza di metodo rispetto alla maggioranza di centrosinistra che allora l’approvò: questa volta, il coinvolgimento, nella discussione e anche nelle scelte, della minoranza parlamentare è stato sollecitato e ottenuto. Il voto di astensione delle opposizioni ne è chiara testimonianza. Va dato atto al centrodestra, a partire dalla Lega che più si è battuta per cercare anche il consenso del centrosinistra, di aver fatto tesoro della passata esperienza negativa. Fino a dover notare che la fisionomia della riforma fiscale votata al Senato si discosta molto dal primo progetto, quello che ricalcava il modello lombardo di assegnazione delle risorse regionali. Mentre non appare lontana dalla proposta Prodi-Padoa Schioppa della scorsa legislatura. Non stupisce, perciò, nello scambio di complimenti reciproci esibiti platealmente ieri sera a Palazzo Madama, il profilarsi di un curioso asse trasversale Bossi-Veltroni, per ora limitato al tema federalista, ma i cui sviluppi non sono prevedibili. Sia nel merito di altre possibili convergenze, per esempio sulla riforma della giustizia, ma anche nel metodo di un rapporto meno conflittuale tra maggioranza e opposizione. E la reazione stizzita di Berlusconi, con le sue rinnovate e inasprite accuse al Pd, sarebbe la prova della fondatezza di tali impressioni. Sarebbe miope, infatti, circoscrivere il significato di quanto avvenuto ieri al Senato alla sola nuova ripartizione decentrata del carico fiscale. Il tram del federalismo è partito e, molto probabilmente, nessuno può prevedere quale sarà la fermata d’arrivo, perché l’approdo a una vera e più ampia riforma costituzionale ne sarebbe il completamento naturale e, forse, obbligato. A questo proposito, è necessario richiamare alla coerenza i nostri parlamentari, affinché il modello di Stato che potrebbe risultare, alla fine di un processo di revisione complessiva della sua articolazione sul territorio, non risulti schizofrenico e paradossale. È paradossale, ad esempio, che si aggiungano le cosiddette città-metropolitane, senza metter mano ai poteri, alle strutture, al numero delle province italiane. Anche se non si vuole arrivare, per ragioni anche comprensibili, alla loro totale soppressione. È schizofrenico il metodo elettorale vigente in Italia, se davvero si vuole rafforzare il legame e il controllo tra elettore ed eletto. Nel voto europeo, dove i collegi sono molto grandi, fino a comprendere 10-15 milioni di abitanti, è ammessa la preferenza. Con l’effetto di privilegiare chi dispone d’imponenti mezzi finanziari per far fronte a una dispendiosissima campagna elettorale, alla fine della quale il rapporto tra cittadino e suo rappresentante sarà, comunque, assai lontano. La preferenza è negata, invece, nel voto locale, quando i collegi seguono sostanzialmente la divisione provinciale e, quindi, la conoscenza del candidato è assicurata, come la verificabilità delle sue promesse. Forse, in tali condizioni, non sarebbe meglio tornare ai collegi uninominali? Insomma, se l’Italia diventerà un Paese federale, come la moderna Spagna, forse non dovremo avere nostalgie. Basta che non diventi il Paese di Arlecchino. da lastampa.it Titolo: MAURIZIO MOLINARI I muscoli di Barack Inserito da: Admin - Gennaio 24, 2009, 04:35:52 pm 24/1/2009
I muscoli di Barack MAURIZIO MOLINARI Obama mostra i muscoli: blitz militari contro Al Qaeda, ultimatum sulle misure anti-recessione, luce verde alla ricerca sulle cellule embrionali, fondi per l’aborto. La raffica d’iniziative segna la giornata in cui il Presidente inaugura il doppio briefing del mattino, sull’intelligence e sull’economia. Sul fronte militare le novità arrivano dal Pakistan dove i droni della Cia hanno riversato una pioggia di missili su taleban e mujaheddin di Al Qaeda, nel primo blitz firmato dal Presidente. Sul terreno economico nel mirino sono i leader repubblicani del Congresso, ai quali Obama ha ribadito la volontà di decisioni bipartisan, ma poi ha spiegato che serve un accordo «entro il 16 febbraio» sulle misure anti-recessione, facendo capire che comunque la maggioranza democratica andrà avanti. Le innovazioni sull’etica sono altrettanto aggressive. Il governo Usa dà per la prima volta il via libera ai test sull’uso di cellule staminali derivate da embrione umano che, in questo caso, saranno usate in una ricerca sulle lesioni spinali. E Obama si appresta a firmare un ordine esecutivo che fa cadere il veto di Bush sull’elargizione di fondi federali a gruppi internazionali che promuovono l’aborto. Se sull’etica Obama sceglie i valori liberal e sull’economia è pronto al duello con i repubblicani, nella lotta ad Al Qaeda segue le orme di Bush, confermandosi un leader molto pragmatico. da lastampa.it Titolo: «Barack figlio del microcredito» Inserito da: Admin - Gennaio 26, 2009, 09:56:01 pm «Ha assistito agli sforzi della genitrice per sollevare il Terzo mondo dalla povertà»
«Barack figlio del microcredito» Il Nobel Yunus racconta l'analogo impegno svolto dalla madre dell'attuale presidente «Non so se sarà all'altezza delle aspettative. So però che la sfida più importante Obama l'ha già vinta». Ah sì! E qual è? «Ha ridestato la fiducia che le cose possano cambiare: che il mondo si possa cambiare ». Detto da Muhammad Yunus, il «banchiere dei poveri», l'economista bengalese premio Nobel per la pace, è un bell'attestato di stima. Lui che della fiducia ha fatto l'architrave del «suo» microcredito sa bene quali rivoluzioni sappia innescare, quali risorse inaspettate e potenzialità sia capace di smuovere e mettere in campo questa fede nel cambiamento. Sono passati oltre trent'anni — era il 1976 — da quando fondò in Bangladesh la Grameen Bank, prima banca al mondo a concedere prestiti ai derelitti basandosi non su garanzie di solvibilità ma sulla fiducia. «In Bangladesh, dove non funziona nulla, il microcredito funziona come un orologio svizzero » va ripetendo Yunus. Un sistema virtuoso raccontato nel bestseller Il banchiere dei poveri che, diversamente dall'elemosina, risveglia lo spirito di imprenditorialità anche nei mendicanti. Obama ha vinto l'apartheid politico, lei lavora per eliminare l'apartheid finanziario. Con Obama alla Casa Bianca è più vicino il «suo» mondo senza povertà? «Obama non è soltanto il primo presidente nero degli Stati Uniti. Non è stato scelto perché nero, ma perché parla di cose che la gente sente intimamente. Dopo otto anni di frustrazione totale davanti a un mondo alla deriva, Obama è diventato il simbolo della speranza che il mondo può ritrovare la rotta. Ha convinto non solo gli Stati Uniti ma il mondo intero che lui è il timoniere che può traghettare con successo l'umanità nel nuovo secolo e nel nuovo millennio. La gente si aspetta che indichi la rotta non solo dei prossimi quattro anni». D'accordo. Ma Obama può aiutare a costruire un mondo senza povertà? «Non lo so, ma è la sua promessa che conta. Ha detto "so cosa avete nel cuore, sento le stesse cose e posso metterle in atto" e la gente gli ha creduto. Questa è la parte più entusiasmante della vicenda, per il resto quattro anni nella storia del mondo sono poca cosa. Comunque la mia strada per arrivare a un mondo senza povertà non gli è sconosciuta. Anzi. Sua madre era in prima linea nel microcredito in Indonesia e lui, bambino, era con lei, la vedeva darsi da fare. È stato un imprinting molto forte. Rafforzato da persone in posizione influente ora nel suo governo, come Hillary Clinton, anche lei devota al microcredito quando era First Lady dell'Arkansas. Non è qualcosa che ha imparato sui libri ma nella pratica, era coinvolta in progetti concreti». Lei ha conosciuto la mamma di Obama? «Avremmo dovuto incontrarci alla conferenza mondiale sulle donne di Pechino, nel settembre 1995. Doveva fare un intervento per mostrare quanto bene può fare prestare piccole somme di denaro alle donne povere, quanto affidabili fossero nei pagamenti e quanto efficacemente usassero i soldi ricevuti per far star meglio le loro famiglie. Ma Ann Dunham era gravemente malata e rimase bloccata a casa, alle Hawaii, sofferente per il cancro che la stava consumando. Sarebbe morta due mesi dopo. Poco prima del suo ritiro, il suo gruppo concordò che ci voleva un avvocato per la causa e scelse l'allora first lady Hillary Clinton. Non fu difficile convincerla visto che come first lady dell'Arkansas la Clinton aveva già promosso uno dei miei progetti. Fu Hillary a intervenire al suo posto a Pechino». (Due anni dopo la Clinton aiutò a lanciare la campagna per estendere il microcredito a 100 milioni di famiglie, un obiettivo che fu lanciato a Pechino e raggiunto nel 2006). Ricordiamo l'amministrazione Clinton alle prese con grandi sfide su più fronti, dal gap tecnologico all'invecchiamento della popolazione. Quella di Obama rischia secondo lei invece di essere concentrata e appiattita sull'economia, condizionata com'è dalla grande crisi? «Non vedo questo rischio. Obama si è messo in una posizione per cui miliardi di persone dicono: "Quest'uomo mi sta parlando". Ci sono miliardi di speranze sulle sue spalle e ora lui deve tenerne conto. Che intenda distribuire le sue energie su più fronti lo dimostrano anche i suoi primi gesti da presidente: ha esordito con istanze simboliche come Guantanamo. La sua lunga campagna elettorale lo ha preparato per questo. Girando e incontrando tante persone ha avuto la possibilità di affrontare tutte le questioni più importanti. È stata una grande fortuna, visto che non aveva avuto modo di prepararsi prima. Non credo che farà errori». Alessandra Muglia 26 gennaio 2009 da corriere.it Titolo: YOUNIS TAWFIK La svolta del figlio di Hussein Inserito da: Admin - Gennaio 28, 2009, 12:23:18 pm 28/1/2009
La svolta del figlio di Hussein YOUNIS TAWFIK Nessun musulmano potrebbe girare le spalle al sorriso di Barack Obama, al suo volto famigliare, nessun arabo che porta a cuore la causa del suo popolo potrebbe far finta di non aver provato un certo sollievo nel sentire le parole del Presidente degli Stati Uniti. Negli ultimi vent’anni non si erano mai sentiti discorsi sensati rivolti al mondo arabo da un Presidente americano come quello di Obama durante l’intervista concessa ad Al-Arabiya. Finalmente gli Stati Uniti sembrano voler avere di nuovo un ruolo di arbitro super partes nel conflitto arabo-israeliano. Obama conosce bene il peso del suo compito, come conosce il peso del suo nome e delle sue origini. Nella mente di un musulmano il nome del padre di Barack Obama invoca la grande figura dell’Imam Hussein. Figlio minore di Ali, cugino del Profeta Muhammad, Hussein morì giovane per difendere i suoi principi, per riconquistare i suoi diritti e per difendere la classe più debole. Per il mondo islamico solo il fatto che Obama figlio di Hussein, un americano d’origine africana, sia arrivato alla presidenza della nazione più importante nel mondo è già di per sé un fondamentale segnale di svolta. Obama è consapevole che da questa lontana parentela, quasi tribale secondo la mentalità araba, potrebbe nascere un matrimonio che gli permetterebbe di essere considerato come «uno della famiglia» e ottenere il consenso che il mondo musulmano potrebbe offrirgli. Noi arabi, sentimentalisti fino al midollo, ci lasciamo commuovere davanti alle immagini delle donne palestinesi in lacrime, bimbi macellati dalla macchina di guerra, vecchi disperati, e scendiamo nelle piazze per urlare e bruciare bandiere, ma siamo anche capaci di saltare sulle sedie dalla gioia quando il primo uomo del potere americano si rivolge a noi e ci parla come amici, al contrario di Bush che non ci considerava per nulla e ci vedeva solo come possibili nemici. I grandi si distinguono dalle loro azioni, decise e consapevoli, e Obama lo sa. Per questo ha scelto di dare la sua prima intervista alla tv saudita Al-Arabiya per lanciare il suo messaggio al mondo musulmano: un canale nato come risposta diversa al potere e all’egemonia della tv del Qatar Al-Jazeera. E subito Obama è riuscito a conquistare un pubblico da tempo in attesa di vedere altre immagini e di sentire un’altra opinione, moderata e possibilmente laica. (Al-Arabiya è di Al Walid ibn Ibrahim: cognato di Re Abdullah, ha impresso una svolta ai mass media arabi, creando una tv stile Mediaset, la Mbc, per combattere le imposizioni integraliste e oscurantiste che cercavano di mettere le mani sui mezzi d’informazione in tutto il mondo arabo). Obama ha inviato Hillary Clinton a tranquillizzare gli israeliani mentre lui si affaccia personalmente - fatto senza precedenti - dallo schermo d’uno dei canali arabi più importanti: non quello al quale appare di solito Bin Laden col kalashnikov in grembo, ma quello dei più importanti alleati di ieri e di oggi. Lo fa per affermare quell’alleanza attraverso una nuova politica basata sul rispetto e sul dialogo. Due principi che l’amministrazione americana aveva perso da tempo nel rapporto con il mondo islamico. Il Presidente tende una mano con il ramo d’ulivo verso i moderati e con l’altra punta il dito contro chi ha scelto la via dello scontro. Non dimostra debolezza, nemmeno con il suo invito all’Iran che «deve aprire il pugno» per stringere quella mano. Ora la palla è nel campo degli Ayatollah, che rispondono auspicando il dialogo, ma non senza cautela. Obama invoca il popolo iraniano e la sua civiltà persiana, consapevole che la piazza è sazia di guerre, ma non dimentica di sottolineare le accuse a Teheran come padrina del terrorismo, e che le minacce contro Israele non aiutano gli sforzi per il dialogo che Washington vorrebbe rilanciare subito. Il Presidente ha qualcosa anche per i palestinesi, quando dice che si potrebbe lavorare per la pace a partire dalla proposta araba, e che uno Stato palestinese è possibile, ma non definisce i tempi. Conferma la propria disponibilità a lavorare insieme con il mondo arabo per risolvere un conflitto che dura da più di 60 anni, sapendo bene che da solo non ci potrebbe mai riuscire. Riconosce gli errori della precedente amministrazione, ma sottolinea che in fondo gli Stati Uniti non sono nemici del mondo islamico e non sono mai stati potenza colonialista. È qui la vera chiave del nuovo parlare agli arabi, della nuova politica strategica nei rapporti con il mondo islamico nel periodo più nero dell’economia americana. Il mondo islamico costituisce un enorme mercato, una risorsa umana ed energetica infinita. I capitali arabi potrebbero salvare gli Stati Uniti dalla crisi: il 30% del capitale americano è saudita, e altri Paesi potrebbero trasformarsi da nemici in investitori. Obama sa bene che dopo l’11 settembre la risposta indiscriminata al terrorismo di Al Qaeda ha causato danni notevoli non solo all’economia americana, ma soprattutto ai rapporti con un miliardo e mezzo di persone. Dopo l’intervista di ieri, non sorprende la risposta positiva degli Stati arabi, né la reazione della piazza, della gente semplice che benedice il Presidente e spera. da lastampa.it Titolo: L'America ricomincia a parlare. Inserito da: Admin - Gennaio 28, 2009, 03:11:29 pm L'America ricomincia a parlare
di Luigi Bonanate * Non possiamo essere sicuri che funzionerà, ma questo di Obama è il primo reale tentativo, da decenni, di innovare la politica internazionale. Chi aveva creduto che la frase rivolta al mondo musulmano nel discorso del 20 gennaio («cerchiamo una nuova strada che ci faccia fare progressi, basata su interesse e rispetto reciproco») fosse pura e semplice propaganda, deve ora fare i conti con una prima grandiosa mossa politica: inquadrare la necessaria ripresa di dialogo israelo-palestinese in quello che è il presupposto di ogni politica internazionale, e in pratica che non si risolverà mai il conflitto palestinese se non si terrà conto — come Obama ha detto ieri alla tv araba «al-Arabiya» — di «ciò che accade in Siria, Iran, Libano, Afghanistan e Pakistan». Si potrebbe aggiungere anche qualche altro interlocutore, ma l’impostazione è quella giusta: non cercando di imporre la pace con le minacce, non mostrando i muscoli e demonizzando gli avversari, il nuovo Presidente americano guarda alla vita internazionale come a un ambiente nel quale le armi (usate o minacciate) non sono né l’unica né la prima risorsa, perché alcuni conflitti sono fondati su malintesi (come quello secondo cui tra Occidente e Islam esista un’oggettiva ostilità) o altri vengono tanto da lontano che non se ne ricorda più il fondamento. Veramente, poteva sembrare facile il compito di Obama: fare il contrario di ciò che faceva Bush. Ma egli è oggi in grado di arrivare dove Clinton si era dovuto arrestare, ovvero al rilancio delle trattative israeliano-palestinesi imperniato non sul radicale scontro tra due comunità, due storie millenarie, due posizioni incomunicanti, due nemici irriducibili. La questione israelo-palestinese deve finire perché entrambi i popoli hanno diritto di esistere. E a chi lo nega, come Ahmadinejad, non si tratta di fare il muso duro e sventolare i pugni, ma di proporre di discuterne, di cercare almeno inizialmente un terreno comune di dialogo su cui ci si riesca a comprendere prima di affrontare questioni più ardue e difficili. Se persino il Papa è riuscito a digerire un vescovo negazionista, volete che la saggezza politica occidentale sia del tutto incapace di trovare un punto di contatto anche con l’Iran? Il fatto è che da tanti anni non ci si è neppur provato. La comunità mondiale dei professori di relazioni internazionali può festeggiare in Obama un “allievo modello”: è il primo ad aver capito (e speriamo lo applichi) il concetto fondamentale dell’analisi internazionalistica: le vicende internazionali sono tali che nessuna di esse può essere letta e analizzata nel vuoto, ma solo nel suo contesto e nei suoi intrecci globali. Proprio di questo ha incominciato a tener conto Obama. Speriamo continui. *UNIVERSITÀ DI TORINO 28 gennaio 2009 da unita.it Titolo: «L’American dream fa sognare anche i ragazzi arabi» Inserito da: Admin - Gennaio 29, 2009, 06:15:01 pm «L’American dream fa sognare anche i ragazzi arabi»
di Jolanda Bufalini Barack Obama è in «creative commons», anche Al Jazira ha messo il suo archivio in «creative commons» e anche il libro «Un Hussein alla casa Bianca» (cosa pensa il mondo arabo di Barack Obama), fra poco sarà scaricabile per fini non commerciali dalla rete. Creative Commons è un modo di adattare il copy right al web, di dare una chance globale alla diffusione delle idee. Il presidente americano l’ha colta subito, con notevole sconcerto dei colossi americani, nel programma “Meet the press” della Cnbc, i giornalisti più prestigiosi hanno subito notato il cambio di strategia nella comunicazione: direttamente nella rete sociale del web, saltando le mediazioni di Cnn & co. Anzi, due giorni fa, il presidente ne ha fatta un’altra e si è rivolta al mondo arabo direttamente da Al Arabiya. Donatella Della Ratta, giornalista e arabista, nel volume, racconta come Al Jazira ha coperto la campagna elettorale negli Stati Uniti. Che effetto ha fatto quell’intervista in diretta su Al Arabyia? «Le reazioni all’intervista sono il prodotto di un’attenzione che è iniziata molto tempo fa. Il mondo arabo non è impressionato né dal nome Hussein né dal colore della pelle. Ma dal fatto che in America sia stato possibili eleggere il figlio di un immigrato di colore e di origini mussulmane. Guarda qui, cosa scrive Mahmoud Saber, giovane blogger egiziano il 5 novembre: “Forse il fatto che Obama ha vinto non è la cosa migliore per i sogni di democrazia in Medio Oriente...Ma Obama eletto significa che il cambiamento è possibile. È giunto il momento di fare la stessa cosa in Egitto”. Oppure EgyDiva, che era a Charlotte in North Carolina il 3 novembre: “Sono stata in mezzo ai canti rituali dei suoi sostenitori, sebbene io non fossi una di loro. Interessante. Tutto in America è divertente, quello che altrove sarebbe un evento marcatamente politico...Sono stata lì a filmare, abbattere le mani, a dondolarmi sotto la pioggia, totalmente risucchiata, benché non fossi una di loro”. Può sembrare paradossale ma questi ragazzi arabi, che vengono da un mondo molto religioso, guardano con ironia alla religiosità della politica americana. Yasmine è una studentessa di giornalismo dell’università di Amman: “ Smettiamola di sognare un Salvatore, dobbiamo risolvere i problemi da soli e assumere in prima persona il ruolo attivo di migliorare il mondo”». Perché la scelta di Obama di parlare ad Al Arabiya? «Forse perché negli Stati Uniti è percepita come più moderata. In realtà Al Jazira fa più opinione pubblica, anche se fa arrabbiare tutti . A Iarmuk, il quartiere palestinese di Damasco, tutti aspettavano i reportage di Al Jazira da Gaza. Al tempo stesso, è l’unica tv araba che nomina Israele, mentre gli altri dicono “il nemico”. Le altre televisioni quando mostrano la cartina scrivono “Palestina occupata” non Israele. Nelle parole dei blogger c’è un misto di entusiasmo e di estraneità. «In questi ragazzi e ragazze sotto i trent’anni, nel mondo arabo il 65 % della popolazione, c’è un atteggiamento positivo rappresentato dallo slogan “We can” e uno scettico. Fra i giornali, il più scettico è il palestinese Al Quds al Arabi. Nessun può essere eletto presidente degli Usa, pensano, se non è un supporter di Israele. Però c’è anche molto pragmatismo. In un editoriale di Al Hayat per esempio: “Posso giudicare Obama dai suoi oppositori. Sono tutti neo-conservatori, nemici degli arabi e dei mussulmani”.» Nel libro ci sono anche gli arabi americani «Ci sono molti repubblicani, perché sostengono i valori familiari tradizionali. Ma, scrive un altro blogger egiziano “è comprensibil, dopo 8 anni di governo Bush, che gli arabi siano un po’ confusi”». Obama ha parlato di speranze comuni, al di là della fede, cristiana, ebrea o musulmana. «Questo piace. L’aspettativa è di riuscire a rovesciare l’immagine dell’11 settembre che ha schiacciato tutti sulle posizioni più estreme». jbufalini@unita.it 29 gennaio 2009 da unita.it Titolo: Le fatiche di Obama Inserito da: Admin - Febbraio 06, 2009, 05:27:23 pm Obama ha un grande maestro: il teologo luterano Reinhold Niebuhr
Che fu un caposcuola non del pacifismo ma del "realismo" nei rapporti tra gli stati, cioè del primato dell'interesse nazionale e dell'equilibrio tra le potenze. È uscita a Roma una suggestiva analisi del suo pensiero. Ispirato alla "Città di Dio" di sant'Agostino di Sandro Magister ROMA, 6 febbraio 2009 – L'insediamento di Barack Obama alla presidenza degli Stati Uniti è stato salutato dalla Santa Sede con espressioni di fiducia. Su "L'Osservatore Romano" del 28 gennaio il sacerdote e teologo newyorkese Robert Imbelli ha commentato positivamente il discorso inaugurale del nuovo presidente, in una nota in prima pagina dal titolo: "Per un vero patto di cittadinanza. Obama, Lincoln e gli angeli". Tuttavia le righe finali della nota facevano balenare un timore. Imbelli accostava il discorso di Obama a quello di Abraham Lincoln del 1861, che terminava con una preghiera affinché prevalessero "gli angeli migliori della nostra natura". E proseguiva: "Questa resta la speranza e la preghiera dell'America. Ma noi preghiamo anche affinché non vengano trascurati gli angeli dei bambini concepiti, ma ancora non nati. Preghiamo affinché i vincoli d'affetto della nazione raggiungano anche loro. Affinché non vengano esclusi dal patto di cittadinanza". Imbelli è lo stesso che ha recensito con favore su "L'Osservatore Romano", la scorsa estate, il libro "Render Unto Caesar" dell'arcivescovo di Denver, Charles J. Chaput: un appello ai cattolici americani perché il loro "dare a Cesare", cioè il servire la nazione, consista nel vivere integralmente la propria fede nella vita politica. L'arcivescovo Chaput, prima e dopo le elezioni presidenziali, è stato uno dei più decisi nel criticare il cedimento pro aborto di tanti cattolici e cristiani americani. E i primi passi della nuova amministrazione hanno confermato i suoi timori. In un'intervista al settimanale italiano "Tempi" del 5 febbraio, alla domanda se Obama sia "un protestante da caffetteria", lui che "dice di essere cristiano ma è considerato il presidente più favorevole all'aborto di sempre", Chaput ha risposto: "Nessuno può giustificare l'aborto e al tempo stesso proclamarsi cristiano fedele, ortodosso, protestante o cattolico che sia. [...] Penso però che il cristianesimo protestante, vista la sua grande enfasi sulla coscienza individuale, è più portato ad essere una 'caffetteria' di credenze". Sta di fatto che, tra i primi atti della sua presidenza, Obama ha autorizzato i finanziamenti federali alle organizzazioni che promuovono l'aborto come mezzo di controllo delle nascite nei paesi poveri. Inoltre, ha annunciato il suo sostegno al Freedom of Choice Act, che toglierà i limiti all'aborto, e il finanziamento all'utilizzo delle cellule staminali embrionali. * * * Ciò non toglie che Obama sia, tra i presidenti americani, uno dei più espliciti nel dichiarare il fondamento religioso della propria visione. In ripetute occasioni ha anche fatto i nomi dei suoi autori di riferimento, noti e meno noti: da Dorothy Day a Martin Luther King, da John Leland ad Al Sharpton. Tra quelli da lui citati, ce n'è uno che ha un'importanza particolarissima: è il luterano Reinhold Niebuhr (1892-1971), professore alla Columbia University e poi allo Union Theological Seminary di New York. Niebuhr fu anzitutto teologo, e di prima grandezzza, ma i suoi studi hanno inciso anche nel campo politico. È considerato un maestro del "realismo" nella politica internazionale, i cui massimi esponenti negli Stati Uniti, nella seconda metà del Novecento, sono stati Hans Morgenthau, George Kennan, Henry Kissinger. Ispirarsi o no a Niebuhr – e alla sua interpretazione e attualizzazione della "Città di Dio" di sant'Agostino – è decisione che orienta in modo determinante la visione del ruolo degli Stati Uniti nel mondo. Ad esempio, niente è più distante dalle posizioni di Niebuhr del pacifismo. Ma è l'insieme del pensiero di questo grande teologo che è utile approfondire. È quanto fa, nel saggio che segue, il massimo esperto italiano di Niebuhr, Gianni Dessì, docente di filosofia e di storia delle dottrine politiche all'Università di Roma Tor Vergata. Il saggio è uscito pochi giorni fa sull'ultimo numero dell'edizione italiana di "30 Giorni", il mensile cattolico forse più letto dai vescovi di tutto il mondo, nelle sue edizioni in più lingue. "30 Giorni" è diretto dall'anziano senatore Giulio Andreotti – più volte presidente del consiglio e ministro degli esteri – e si occupa spesso di politica internazionale secondo una linea che si potrebbe definire "realista moderata": una linea che coincide con quella tradizionale della diplomazia vaticana. --- Se il realismo di Niebuhr arriva alla Casa Bianca di Gianni Dessì In un colloquio di qualche tempo fa con David Brooks, uno dei più noti tra i commentatori politici conservatori del "New York Times", il neoeletto presidente Obama ha ricordato Reinhold Niebuhr come uno dei suoi autori preferiti (1). Niebuhr, figura poco nota in Italia, è stato un teologo protestante, insegnante di etica sociale alla Columbia University di New York, che ha avuto una grande influenza sulla cultura politica nordamericana almeno a partire dal 1932, anno nel quale pubblicò "Uomo morale e società immorale", sino al 1971, anno della sua morte. Al suo realismo politico si sono riferiti intellettuali e politici, conservatori e liberali. Hans Morgenthau e George Kennan, i più noti tra i liberali conservatori che nell'immediato dopoguerra elaborarono quell'insieme di motivazioni che avrebbero costituito il riferimento intellettuale di molti americani negli anni della guerra fredda, della contrapposizione al blocco sovietico, si riferirono esplicitamente a Niebuhr e al suo realismo politico (2). D'altra parte anche Martin Luther King, certamente non un conservatore, fu particolarmente sensibile alle critiche di Niebuhr all'ottimismo della cultura liberale e all'idea che la giustizia potesse essere realizzata attraverso esortazioni morali: egli riconobbe che doveva a Niebuhr la consapevolezza della profondità e della persistenza del male nella vita umana (3). Obama, intervistato da Brooks, affermava di dovere a Niebuhr "l'idea irrefutabile che c'è il male vero, la fatica e il dolore nel mondo. Noi dovremmo essere umili e modesti nel nostro credere di poter eliminare queste cose. Ma non dovremmo usarlo come scusa per il cinismo e l'inattività". In poche espressioni vengono sottolineati alcuni aspetti essenziali delle posizioni di Niebuhr. L'idea che dal mondo siano ineliminabili "il male vero, la fatica, il dolore" rimanda alla critica di Niebuhr all'ottimismo che egli riteneva uno dei tratti costitutivi del pensiero religioso e sociale americano; così l'idea che anche colui che agendo politicamente si trovi a lottare contro la presenza dell'ingiustizia e del male debba essere "umile", rinvia alla consapevolezza che non è possibile eliminare il male dalla storia ed è pericolosa illusione crederlo. D'altra parte tale persistenza del male non può essere scusa per "il cinismo e l'inattività". Viene delineata una posizione che intende evitare sia "l'idealismo ingenuo" sia il "realismo amaro" (nel linguaggio di Niebuhr: sia il sentimentalismo sia il cinismo). Come nelle opere di Niebuhr si definisce questa prospettiva? Quali i suoi riferimenti storici e culturali? Luigi Giussani, in Italia, già dalla fine degli anni Sessanta aveva colto la rilevanza del realismo di Niebuhr nel pensiero teologico e, più in generale, nella cultura statunitense. Giussani ricordava come nella formazione del pastore protestante avesse certamente svolto un ruolo l'esistenzialismo teologico europeo, ma una "netta originalità segna sin dagli inizi la sua produzione, la cui ispirazione e le cui tendenze chiave si formano e delineano nell'esperienza vissuta come pastore della luterana Bethel Evangelical Church di Detroit" (4). Niebuhr, giovanissimo, si trovò a essere pastore di una piccola comunità di Detroit negli anni dello sviluppo della casa automobilistica Ford e della prima guerra mondiale, tra il 1915 e il 1928. Di formazione liberale, egli sperimentò l'inadeguatezza dell'ottimismo antropologico di tale concezione e della sua declinazione sociale, quella del movimento del Social Gospel, nel comprendere la persistenza del male individuale e dell'ingiustizia. Furono gli anni dell'autocritica alle proprie convinzioni liberali e ottimistiche. Di fronte alle speranze di una moralizzazione della società attraverso la predicazione religiosa egli, in un appunto del 1927, constatava che "una città costruita attorno a un processo produttivo e che solo casualmente pensa e offre un'attenzione accidentale ai propri problemi è realmente una sorta di inferno" (5). Tale autocritica trovò piena espressione nel libro "Uomo morale e società immorale". In esso, come ha scritto Giussani, la "realtà inevitabile del male [...] è affermata e documentata contro ogni ottimismo che non veda l'impossibilità esistenziale del passaggio dalla coscienza del bene, che l'individuo ha, alla realizzazione di esso, impossibilità che specialmente nella sfera del collettivo si accusa in modo inesorabile" (6). Il libro, del 1932, scritto durante gli anni nei quali Niebuhr subì l'influenza del marxismo, rappresentò negli Stati Uniti degli anni Trenta la denuncia forse più incisiva dell'ottimismo e del moralismo, da una parte, e dell'indifferenza e del cinismo, dall'altra, che avevano caratterizzato la società americana negli anni successivi alla prima guerra mondiale. Nel breve periodo che va dal 1917, l'anno dell'entrata in guerra dell'America, al 1919, l'anno dei trattati di pace che penalizzarono fortemente le nazioni sconfitte, si consumò l'idealismo del movimento progressista e del presidente Woodrow Wilson. Le motivazioni morali che Wilson e molti intellettuali progressisti avevano indicato come ragioni della partecipazione degli americani alla guerra erano state contraddette dall'esasperato realismo dei trattati di pace che esprimevano in modo palese la sanzione dei nuovi rapporti di forza tra le potenze vincitrici e quelle sconfitte. Nell'America degli anni Venti, proprio in reazione alle crociate ideali di Wilson, si affermò un'esigenza di ritorno alla normalità, che trovò espressione nell'elezione del presidente Warren Harding il quale a tale ideale aveva ispirato la propria campagna elettorale. In realtà la società americana di quegli anni conobbe uno sviluppo economico mai visto, la diffusione della pubblicità e del consumo di massa, insieme a una forte polarizzazione tra ricchi e poveri. Tale società appariva agli occhi di un attento osservatore come Niebuhr la sconfessione, o la riduzione a retorica, di ogni forma di moralismo ed era caratterizzata dall'emergere di atteggiamenti sempre più cinici e disillusi. L'emendamento XVIII alla costituzione, che vietava la produzione, il trasporto e la vendita di alcolici sul territorio americano, può essere considerato emblematico di questa situazione: esso, approvato nel 1919, come simbolo della battaglia per la moralizzazione dei costumi, favoriva di fatto lo sviluppo di diverse forme di criminalità organizzata che proprio dal commercio illegale di alcolici traevano i maggiori profitti. Niebuhr, in quegli anni, riteneva che una società più giusta non sarebbe stata la conseguenza di esortazioni morali o religiose, ma di concrete iniziative storiche e politiche, che proprio in quanto tali avrebbero dovuto confrontarsi con realtà poco elevate. Egli, che dal 1928 aveva lasciato Detroit e aveva iniziato a insegnare alla Columbia University di New York, ricorderà come proprio le esigenze dell'insegnamento lo abbiano condotto ad approfondire la conoscenza di sant'Agostino. In una intervista del 1956 affermava: "Mi sorprende, in un esame retrospettivo, notare quanto tardi io abbia iniziato lo studio di Agostino: ciò è ancora più sorprendente se si tiene presente che il pensiero di questo teologo doveva rispondere a molte mie domande ancora irrisolte e liberarmi finalmente dalla nozione che la fede cristiana fosse in qualche modo identica all'idealismo morale del secolo scorso" (7). Il riferimento a sant'Agostino è stato centrale sia per quanto riguarda la consapevolezza delle ragioni che distinguono la fede dall'idealismo, sia per superare alcune aporie che Niebuhr aveva maturato nei primi anni della propria riflessione. Il cristianesimo appare al giovane Niebuhr segnato da un aspetto, quello dell'assoluta gratuità, che si pone oltre ogni tentativo umano di realizzare gli ideali etici. L'uomo può, con grande sincerità, impegnarsi per realizzare sfere di convivenza caratterizzate da quello che Niebuhr definisce "mutual love", amore fondato sulla reciprocità: Cristo è invece testimone di un altro tipo di amore, definito "sacrifical love". Nel 1935 in "An Interpretation of Christian Ethics" egli aveva esplicitamente richiamato tale radicale differenza scrivendo: "Le esigenze etiche poste da Gesù sono d'impossibile compimento nell'esistenza presente dell'uomo [...]. Qualunque cosa meno dell'amore perfetto nella vita umana è distruttivo della vita. Ogni vita umana sta sotto un incombente disastro perché non vive la legge dell'amore" (8). Nel 1940, riprendendo alcune di queste riflessioni e riferendole all'ambito politico, aveva sostenuto che una concezione "che aveva semplicemente e sentimentalmente trasformato l'ideale di perfezione del Vangelo in una semplice possibilità storica" aveva prodotto una "cattiva religione" e una "cattiva politica", una religione in contrasto con il dato essenziale della fede cristiana, e una politica irrealistica, che rendeva le nazioni democratiche sempre più deboli (9). D'altra parte, pur criticando il sentimentalismo e l'ottimismo della cultura liberale, egli constatava l'ineliminabile presenza della certezza del significato dell'esistenza, della sua positività, come tratto caratteristico di un'esistenza sana. Questa certezza, scrive, "non è qualcosa che risulti da un'analisi sofisticata delle forze e dei fatti che circondano l'esperienza umana. È qualcosa che è riconosciuto in ogni vita sana [...]. Gli uomini possono non essere in grado di definire il significato della vita e malgrado ciò vivere attraverso la semplice fede la certezza che essa ha significato" (10). L'opera nella quale tali diverse suggestioni trovano una sintesi è "The Nature and Destiny of Man", pubblicata in due volumi tra il 1941 e il 1943. In essa si legge: "L'uomo, secondo la concezione biblica, è un'esistenza creata e finita sia nel corpo, sia nello spirito" (11). La chiave per comprendere la natura umana è da una parte il riconoscimento della creazione: l'ottimismo essenziale che caratterizza un'esistenza sana è legato alla percezione di essere creato, voluto da Dio. Dall'altra è la libertà umana, che, come segno posto da Dio nel cuore dell'uomo, come possibilità di aderire a tale intuizione o di rifiutarla, diviene assolutamente centrale. L'uomo può (e Niebuhr sembra dire "inevitabilmente") cercare soddisfazione nei beni creati e non in Dio. Il male nasce quando l'uomo conferisce a un bene particolare un valore assoluto: è l'uso sbagliato della libertà – il peccato – che genera il male, non la sensibilità o la materialità. La presenza di Agostino in questa che è l'opera maggiore e più sistematica di Niebuhr è evidente e costante: la concezione realistica della natura umana che Niebuhr propone rimanda esplicitamente alla concezione biblica e ai testi agostiniani. In un saggio del 1953, "Augustine's Political Realism", incluso nel volume dello stesso anno "Christian Realism and Political Problems", Niebuhr riconosce esplicitamente il suo debito nei confronti di Agostino e precisa in quale senso il santo sia da ritenere il primo grande realista del pensiero occidentale e perché la sua prospettiva gli sembri attuale. Niebuhr inizia questo saggio offrendo una schematica definizione del termine realismo: esso "indica la disposizione a prendere in considerazione tutti i fattori che in una situazione politica e sociale offrono resistenza alle norme stabilite, particolarmente i fattori di interesse personale e di potere". Al contrario, l'idealismo, per i suoi sostenitori, è "caratterizzato dalla fedeltà agli ideali e alle norme morali, piuttosto che al proprio interesse"; cioè, per i suoi critici, da "una disposizione a ignorare o a essere indifferenti alle forze che, nella vita umana, offrono resistenza agli ideali e alle norme universali" (12). Niebuhr precisa che idealismo e realismo in politica sono disposizioni, più che teorie. In altri termini anche il più idealista degli individui dovrà inevitabilmente confrontarsi con i fatti, con la forza di ciò che è; anche il più realista dovrà confrontarsi con la tendenza umana a ispirare l'azione a valori ideali, a ciò che deve essere (13). Niebuhr ritiene che sant'Agostino sia stato "per riconoscimento universale il primo grande realista nella storia occidentale. Egli ha meritato questo riconoscimento perché l'immagine della realtà sociale, nella sua 'Civitas Dei', offre un'adeguata considerazione delle forze sociali, delle tensioni e competizioni che sappiamo essere quasi universali a ogni livello di comunità" (14). Per il teologo protestante il realismo di sant'Agostino si lega alla sua concezione della natura umana, e in modo particolare al giudizio sulla presenza del male nella storia. Infatti per sant'Agostino "la fonte del male è l'amor proprio, piuttosto che un qualche residuo impulso naturale che la ragione non ha ancora dominato". Il male non deriva quindi né dalla sensibilità né dalla materialità, che non sono contrapposte allo spirituale. Il fare dei propri interessi materiali o ideali un fine ultimo è una caratteristica umana che ha a che vedere con la libertà e che si esprime in ogni livello dell'esistenza umana e collettiva, dalla famiglia alla nazione all'ipotetica comunità mondiale. Il realismo di Agostino permette inoltre di rispondere all'accusa rivolta dai liberali a coloro che sostengono una concezione non ottimistica della natura umana: all'accusa cioè di considerare nello stesso modo e quindi di approvare qualsiasi forma di potere. "Il realismo pessimistico – scrive Niebuhr – ha infatti spinto sia Hobbes sia Lutero a una inqualificabile approvazione dello stato di potere; ma questo soltanto perché non sono stati abbastanza realisti. Essi hanno visto il pericolo dell'anarchia nell'egoismo dei cittadini, ma hanno sbagliato nel percepire il pericolo della tirannia nell'egoismo dei governanti" (15). Il realismo di sant'Agostino, in altri termini, non cede al cinismo e all'indifferenza nei confronti del potere perché "mentre l'egoismo è naturale nel senso che è universale, non è naturale nel senso che non è conforme alla natura dell'uomo". Infatti "un realismo diviene moralmente cinico o nichilistico quando assume che una caratteristica universale del comportamento umano debba essere considerata anche come normativa. La descrizione biblica del comportamento umano, sulla quale Agostino basa il suo pensiero, può rifuggire sia l'illusione sia il cinismo perché essa riconosce che la corruzione della libertà umana può rendere universale un modello di comportamento senza farlo diventare normativo" (16). L'idea di un realismo che sia in grado di evitare l'indifferenza, il cinismo e l'approvazione incondizionata di qualsiasi forma di potere, così come il sentimentalismo, l'idealismo e le illusioni nei confronti della politica e dell'esistenza umana, emerge con forza da questa rilettura che Niebuhr propone di sant'Agostino. A questa prospettiva – che, come ricordava Niebuhr, esprime una disposizione più che una teoria – sembra riferirsi Obama. da chiesa.espresso.repubblica.it Titolo: Le fatiche di Obama Inserito da: Admin - Febbraio 14, 2009, 03:31:16 pm MINISTRI E CRISI
Le fatiche di Obama di Massimo Gaggi Il governo Obama continua a perdere pezzi e con la rinuncia del repubblicano Gregg a ricoprire la carica di ministro del Commercio, la strategia bipartisan del presidente, già entrata in crisi durante la discussione parlamentare delle misure d'emergenza per l'economia, rischia un'affrettata sepoltura. Questi dovevano essere giorni trionfali per Obama: più che un nuovo New Deal, i primi interventi del suo governo dovevano avere la sostanza di un «piano Marshall», stavolta destinato a risollevare non l'Europa, ma un'America reduce da distruzioni di ricchezze superiori a quelle prodotte dalle due guerre mondiali del Novecento. Al tempo stesso queste leggi dovevano anche contenere il nuovo «progetto Apollo »: il lancio dell'economia delle energie alternative e delle reti infrastrutturali. L'uomo nuovo, senza responsabilità per gli errori del passato, che prende per mano con paterna indulgenza la vecchia politica, supera le contrapposizioni di schieramento, lenisce con una serie di interventi assistenziali la rabbia dei cittadini per una crisi che li impoverisce e usa il suo massiccio programma di investimenti non solo per rilanciare l'economia, ma anche per trasformare la società americana: meno consumi privati, famiglie meno indebitate, più spesa per servizi e sistemi capaci di migliorare la qualità della vita e di disegnare un futuro sostenibile. Un piano audace. Quello che il superconsigliere economico di Obama, Larry Summers, chiama «dottrina Rahm», da una sibillina frase del capo di gabinetto del presidente, Rahm Emanuel: «Una crisi grave non va mai sprecata ». Traduzione: un momento difficile come questo ti consente di fare riforme radicali che in tempi normali non passerebbero. Ma a poco più di tre settimane dal suo insediamento, il disegno del leader democratico segna il passo: il Congresso trasforma proprio in queste ore in legge il pacchetto degli stimoli fiscali, ma gli interventi approvati sono molto diversi da quelli proposti dalla Casa Bianca. Più che a rilanciare l'economia (il sostegno alle infrastrutture c'è ma non è imponente), serviranno a evitare massicci tagli di personale nel settore pubblico. Lo conferma implicitamente lo stesso Obama che, dopo aver promesso per settimane di «creare» tre milioni di nuovi posti di lavoro, ora è passato all' espressione «creare o salvare »: il piano, infatti, contiene grossi trasferimenti di fondi agli enti locali, grazie ai quali Stati e città, ormai con le casse vuote, non dovranno più licenziare centinaia di migliaia di poliziotti, pompieri e insegnanti. Avendo concesso loro tre ministri e grossi tagli fiscali «alla Bush», Obama non si aspettava di essere contrastato con tanta durezza dai repubblicani. Che in questa fase sembrano impegnati a ricostruire la loro immagine elettorale, più che a cercare soluzioni ragionevoli e condivise. Le difficoltà di Obama non sorprendono: non si vedono vie d'uscita da questa crisi gravissima, ogni misura varata aumenta i debiti già caricati sulle spalle delle generazioni future e nessuno sa ancora bene come disinnescare la crisi bancaria senza provocare la rivolta dei contribuenti. E’, poi, comprensibile un certo risentimento del presidente nei confronti dei repubblicani che gli ripropongono le ricette fallite di Bush. Ma oggi il leader democratico paga anche l'estrema audacia delle sue promesse elettorali e una certa improvvisazione nella formazione del governo: Richardson e Daschle, chiamati dal presidente al governo, sono inciampati nell'asticella dell'etica che era stata alzata proprio da Obama. E, nel caso di Gregg, la coerenza bipartisan della scelta del presidente ha subito un duro colpo quando la Casa Bianca ha «avocato» a sé la supervisione del censimento 2010 dopo le proteste delle minoranze nere e ispaniche, contrarie a che un atto politicamente così significativo (sulla sua base verranno ridisegnati i collegi elettorali) fosse gestito da un ministro repubblicano. Nessuno, comunque, può gioire delle difficoltà di Obama: le sue doti di persuasore, la sua capacità di incidere sulla maggiore economia del Pianeta sono tra le poche carte rimaste a disposizione per bloccare l'avvitamento della recessione globale. 14 febbraio 2009 da corriere.it Titolo: Il professor Weigel boccia Obama: ha preso un abbaglio Inserito da: Admin - Febbraio 16, 2009, 05:00:43 pm 15 febbraio 2009,
Il professor Weigel boccia Obama: ha preso un abbaglio Sandro Magister A proposito del servizio di www.chiesa su Barack Obama “allievo” del grande teologo protestante Reinhold Niebuhr, da Washington George Weigel ci scrive che la parentela intellettuale tra i due è senza fondamento. “Il senso messianico che Obama dà alla sua politica con la retorica dello ‘Yes, We Can’ – scrive Weigel – è agli antipodi della visione che ebbe Niebuhr della politica e del mondo. Sbaglia in pieno chi dà credito ad Obama quando egli dice d’avere in Niebuhr un suo punto di riferimento. Il mio amico David Brooks del New York Times, che l’ha fatto, è un commentatore di solito molto accurato, ma questa volta ha preso un abbaglio”. In una conferenza tenuta a Washington lo scorso 4 febbraio all’Ethics and Public Policy Center di cui fa parte, Weigel ha detto: “In Obama e tra i suoi più fervidi sostenitori non c’è niente che lontanamente somigli a Reinhold Niebuhr. Il millenarismo secolare che ha pervaso la campagna elettorale di Obama, la sua volontà di redimere con la politica un mondo decaduto, sono stati l’esempio perfetto di quel tipo di utopismo contro il quale Niebuhr, con il suo profondo senso della fragilità della storia e delle autodistruttive capacità degli esseri umani, si batté per tre decenni. La definizione di democrazia come ‘ricerca di soluzioni provvisorie a problemi irresolvibili’ appartiene a Niebuhr, non ad Obama. E si può seriamente immaginare un Obama che preghi convinto con queste parole della famosa preghiera di Niebuhr: “Dio mi conceda la serenità di accettare le cose che non posso cambiare, il coraggio di cambiare le cose che posso e la saggezza di capire la differenza tra l’una e l’altro”? Se noi stessi siamo il cambiamento che attendiamo e ‘Yes, we can’ è il nostro credo, allora la preghiera di Niebuhr per l’umiltà, il coraggio, la prudenza è senza senso, poiché non c’è niente che non siamo capaci di cambiare”. da magister.blogautore.espresso.repubblica.it Titolo: Maurizio Molinari. Alla destra di Obama Inserito da: Admin - Febbraio 17, 2009, 09:15:52 am Maurizio Molinari.
17/2/2009 - PERSONAGGI Alla destra di Obama Le due donne repubblicane decisive nel voto per il piano economico CORRISPONDENTE DA NEW YORK Olympia è la figlia di un cuoco greco, viene annoverata fra i senatori più ricchi d’America, ama coprirsi di gioielli e presenziare alle serate di gala di Washington con il marito milionario. Susan invece viene da una famiglia di imprenditori del legno, ma è fra i senatori con il reddito più basso, i vestiti che indossa sono casual, non ha un marito e disdegna le telecamere. Le due donne più potenti di Washington, al punto da fare ombra a Hillary Clinton, non potrebbero essere più diverse, ma in comune hanno una posizione politica che le rende indispensabili per la Casa Bianca. Entrambe sono infatti senatori del partito repubblicano - rappresentando lo stesso Stato, il Maine - e in occasione della battaglia sul varo del pacchetto di stimoli fiscali hanno votato assieme ai democratici. Se non fosse stato per Olympia Snowe e Susan Collins - affiancate dal senatore della Pennsylvania Arlan Specter - il piano anti-recessione non sarebbe passato perché in aula i democratici avevano a disposizione solo 57 dei 60 voti necessari per raggiungere il quorum. La scelta di votare «aye» - il tradizionale assenso di Capitol Hill - le ha fatte tacciare di tradimento da parte della leadership del loro partito e John McCain le ha pubblicamente bacchettate, accusandole di legittimare «una politica economica bipartisan che non c’è». Per David Axelrod, guru politico del presidente, sono invece il modello da indicare al grande pubblico per testimoniare che «questa amministrazione è davvero bipartisan». Tanto più che Obama ha confezionato la versione finale del piano dopo aver convocate la Collins e la Sniowe, separatamente, nello Studio Ovale. Disprezzate dai colleghi repubblicani e corteggiate dagli avversari democratici, Susan e Olympia non si scompongono più di tanto perché si considerano fedeli interpreti di una tradizione politica oramai minoritaria, i repubblicani moderati del New England. Per comprendere di cosa si tratta bisogna guardare a come votano: hanno infranto la disciplina di partito infinite volte pronunciandosi contro l’impeachment di Bill Clinton all’epoca del Sexgate di Monica Lewinski, contro i tagli fiscali di George W. Bush, contro i bilanci indebitati di Henry Paulson, a favore della riduzione obbligatoria delle emissioni di gas nocivi proposta da Al Gore, contro il bando delle nozze gay invocato dalla destra evangelica, contro la proibizione dell’aborto negli ultimi mesi di gravidanza ed a favore della progressiva legalizzazione degli immigrati clandestini considerata un’onta nazionale dai conservatori degli Stati del Sud, a cominciare dal Texas. Essere controcorrente per Olympia e Susan è quasi un’abitudine, si trovano bene a vestire i panni del bastian contrario perché ciò le fa sentire eredi di Margaret Chase Smith, anche lei senatrice repubblicana, che nel 1950 guidò la battaglia in aula contro i provvedimenti illiberali promossi dal collega Joe McCarthy arrivando fino a redigere in segno di sfida la «Dichiarazione di coscienza contro il maccartismo». Essere «yankee e indipendenti di pensiero», come si definiscono, le aiuta a mietere voti: in novembre il Maine ha votato per Obama, ma la repubblicana Susan Collins è stata rieletta con uno scarto del 6 per cento di voti. In più, rispetto a Hillary, hanno i voti al Senato senza i quali Obama non può immaginare di varare le sue riforme ed anche l’amicizia, che dicono «sincera», con il mastino obamiano Rahm Emanuel, capo di gabinetto della Casa Bianca. Durante il duro negoziato sullo stimolo economico è stato proprio Emanuel a siglare con loro l’intesa decisiva, incontrandole nello studio di Henry Reid - capo dei senatori democratici - per fargli sapere di aver accettato la «richiesta del Maine» di far scendere il totale della manovra a 790 miliardi. Accomunate dalla vittoria, Susan e Olympia però non hanno neanche una foto assieme. E’ come se incarnassero due mondi differenti. Olympia viene da un’infanzia dura, con il padre immigrato da Sparta, la città guerriera dell’Antica Grecia, per fare il cuoco. Incapace di mantenere la famiglia, muore prematuramente, obbligando i figli ad essere allevati da altri parenti. Le tragedie inseguono Olympia con la morte del primo marito e le difficoltà finanziarie, ma la grinta e gli studi la fanno emergere in politica, eletta alla Camera del suo Stato a soli 26 anni, e alla Camera del Congresso Usa a 31. In 35 anni di carriera politica non ha mai perso un’elezione. In seconde nozze ha sposare l’ex governatore John McKernan, uno dei uomini più ricchi dello Stato. Inverso il percorso della Collins: cattolica, viene da una famiglia di imprenditori e politici ma la ricchezza non arriva e il marito neanche. La sorte cambia solo con l’elezione al Senato al posto di Bill Cohen, quando lasciò il seggio per diventare ministro della Difesa di Bill Clinton. Fa parte delle associazioni dei repubblicani favorevoli alla legalità dell’aborto e combatte per la libertà della ricerca sulle cellule staminali. Una palla di fuoco è stata avvistata domenica nei cieli del Texas, a pochi giorni dalla collisione tra due satelliti, uno russo e uno americano, avvenuta martedì. La Federal Aviation Administration non ha ricevuto notizie di avvistamenti da parte dei piloti, ma la strana apparizione non è sfuggita agli abitanti di Dallas e di una zona a Sud di Austin che, numerosissimi, hanno telefonato sia alla polizia sia alla stessa Faa. Proprio mentre la sfera rossastra solcava il cielo sopra Austin, in città si correva l’annuale maratona, seguita da fotografi e cameramen. Uno di loro - che lavora per News 8 TV - ha catturato le immagini, sfocate ma comunque chiarissime, di un oggetto bianco che sfreccia, apparentemente in fiamme, nel cielo azzurro (foto). Ma non è stato l’unico, ci sono anche molti filmati di amatori. Non è stata dunque un’allucinazione collettiva e probabilmente neppure un disco volante. Esclusa anche l’ipotesi di un aereo in avaria o dei detriti della collisione tra satelliti - ipotesi accolta con perplessità dagli esperti americani - si aspetta ora un chiarimento dalla Federal Aviation Administration. Anche la polizia texana è stata coinvolta nelle indagine: ha fatto ricerche nell’area segnalata dai testimoni usando un elicottero, senza però trovare alcun residuo anomalo. da lastampa.it Titolo: Obama: "I miei impegni: economia e apertura ai Taliban moderati" Inserito da: Admin - Marzo 08, 2009, 04:02:00 pm Intervista al New York Times del presidente Usa
"Io socialista? Se il mercato funzionasse, sarei felice di starne fuori" Obama: "I miei impegni: economia e apertura ai Taliban moderati" di HELENE COOPER e SHERYL GAY STOLBERG Presidente Obama, lei ha affermato che occorrerà parecchio tempo per uscire dall'attuale crisi economica. Può garantire agli americani che l'economia tornerà a crescere in estate? Oppure in autunno? O ancora alla fine di quest'anno? "Credo che nessuno abbia la sfera di cristallo e possa azzardare previsioni. Stiamo vivendo un difficile processo di alleggerimento del debito nel settore finanziario, non soltanto qui negli Stati Uniti ma in tutto il mondo, e si tratta di qualcosa che ha ripercussioni enormi per la gente comune. Quello che era iniziato come un problema legato alle banche, ha portato a una forte contrazione del credito, che a sua volta ha implicato sia un calo della domanda dei consumatori, sia un calo della domanda da parte delle aziende. Pertanto, per risolvere le cose occorrerà sicuramente tempo". "Il nostro compito consiste nel fare un paio di cose fondamentali: la prima è fare investimenti che permettano di "parare il colpo". Il nostro piano di intervento prevede varie misure per l'indennità di disoccupazione, tessere alimentari, aiuti ai vari Stati per non aggravare i licenziamenti. La seconda è rafforzare il sistema finanziario. Proprio questa settimana, a questo proposito abbiamo già approvato alcuni provvedimenti significativi, per esempio abbiamo aperto una linea di credito da mille miliardi di dollari. Ma bisognerà fare di più perché alcune banche zoppicano ancora: dobbiamo rafforzare il loro capitale e far sì che riprendano a erogare prestiti. Dobbiamo in ogni caso essere capaci di distinguere quali banche hanno problemi reali e quali invece hanno di fatto fondamenta solide. E poi occorre occuparsi del problema dell'industria automobilistica... E investire a lungo termine sulla crescita economica, puntando sull'energia, l'educazione e l'assistenza sanitaria". Le sue prime sei settimane alla Casa Bianca hanno dato alla popolazione un'idea di quali sono le sue priorità di spesa. È davvero socialista, come molti hanno ipotizzato? "Se dessimo un'occhiata al budget, la risposta sarebbe sicuramente no. A questo proposito potrebbe essere utile fare presente che non è stato durante il mio mandato che abbiamo iniziato a comprare ingenti quote degli istituti bancari. Né è stato durante il mio mandato che abbiamo approvato un nuovo piano di erogazione di farmaci che non richiedono la ricetta senza averne i fondi necessari. Prima che io mi insediassi alla presidenza che c'era già stata un'infusione enorme di soldi dei contribuenti nel sistema finanziario. Io cerco costantemente di far presente alla gente che se al momento del mio insediamento il mercato fosse stato in buone acque, nessuno sarebbe stato più felice di me di rimanerne al di fuori. Il fatto è che invece abbiamo dovuto prendere queste misure straordinarie e intervenire, non perché questa sia la mia propensione ideologica, ma per il grave livello al quale normative sempre più tolleranti e un'assurda propensione al rischio hanno portato le cose, facendo precipitare la crisi". Passiamo alla politica estera. Attualmente è in corso una revisione completa della politica americana in Afghanistan. Ci può dire se ora come ora gli Stati Uniti stanno vincendo? "Permettetemi di rispondere così: i nostri soldati stanno facendo un lavoro magnifico in una situazione davvero molto complessa. Ma abbiamo visto tutti come le condizioni in quel Paese si sono deteriorate nell'ultimo paio di anni. I Taliban sono ancora più prepotenti di quanto già non fossero. Nelle regioni meridionali del Paese attaccano come non hanno mai fatto in precedenza. Il governo nazionale non si è ancora saputo guadagnare la fiducia del popolo afgano. Pertanto sarà di cruciale importanza per noi non soltanto arrivare alle elezioni necessarie a stabilizzare la sicurezza, ma anche modificare la nostra politica così che i nostri obiettivi militari, diplomatici e miranti allo sviluppo siano configurati in modo tale che Al Qaeda e gli estremisti che vorrebbero colpirci non trovino in Afghanistan rifugio e protezione per potersi organizzare contro di noi. Al cuore della nuova politica per l'Afghanistan deve esserci una politica per il Pakistan più intelligente. Finché ci saranno per loro zone protette e veri e propri rifugi lungo le aree e le regioni di frontiera che il governo pachistano non può controllare o raggiungere in modo efficace, continueremo ad assistere a una forte vulnerabilità da parte degli afgani. Pertanto è di vitale importanza riuscire a far presa sul governo pachistano e collaborare con esso in modo più efficiente". Pensa che potrebbe essere utile tendere una mano agli elementi più moderati dei Taliban per cercare di avviarli verso una riconciliazione? "Non vorrei anticipare niente di quanto è attualmente in corso di verifica per ciò che concerne la politica in Afghanistan. Se pone questa stessa domanda al generale Petraeus, penso che lui sosterrà che parte del successo in Iraq consiste nell'essere riusciti a entrare in contatto con persone che potrebbero definire fondamentalisti islamici, ma che preferiscono lavorare con noi perché sono completamente estranee alle tattiche usate da Al Qaeda. Ebbene, in Afghanistan e in Pakistan potrebbero esserci opportunità analoghe. Ma la situazione in Afghanistan è ancora più complessa. Si tratta infatti di una regione dove i governi sono sempre stati deboli, con una storia tribale fatta di fiera indipendenza. Le tribù sono molte e spesso agiscono con finalità che si sovrappongono... Comprendere come vanno esattamente le cose è una vera e propria sfida". Ancora una cosa: in tema di rapporti tra le razze condivide il fatto che (come ha detto il ministro della Giustizia Eric Holder, ndt) "siamo una nazione di codardi"? "Penso che se avessi avuto modo di parlare al mio ministro della Giustizia, avrebbe usato un linguaggio diverso. Il punto che lui voleva sottolineare è che spesso nel nostro Paese proviamo una sorta di disagio a parlare di questioni che riguardano la questione razziale, e che potremmo essere più costruttivi se prendessimo atto fino in fondo del doloroso lascito della schiavitù e della legislazione segregazionista. Ma ci tengo ad aggiungere che abbiamo fatto anche moltissimi progressi, e non dovremmo dimenticarlo. Io non credo che parlare costantemente di questioni razziali sia granché di aiuto per risolvere il problema: questo si risolve rimettendo in sesto l'economia, rimettendo la popolazione al lavoro, assicurandoci che tutti abbiano un'assistenza sanitaria e che tutti i bambini frequentino la scuola. Se facessimo queste cose, probabilmente sapremmo discuterne più proficuamente". Copyright The New York Times/La Repubblica. Traduzione di Anna Bissanti (8 marzo 2009) da repubblica.it Titolo: Tra rabbia e grandi affari la Grande Mela va all'asta Inserito da: Admin - Marzo 10, 2009, 11:54:07 am ECONOMIA
Gli appartamenti pignorati dalle banche dopo la crisi dei mutui in vendita a prezzi stracciati: in 1.400 sperano di aggiudicarsi i lotti migliori Tra rabbia e grandi affari la Grande Mela va all'asta dal nostro corrispondente MARIO CALABRESI NEW YORK - Domenica sera anche Homer, il più famoso personaggio dei cartoni animati a stelle e strisce, ha perso la casa: pignorata dalla banca dopo che la rata del mutuo era diventata insostenibile, così tutta la famiglia Simpson è finita in un dormitorio per senzatetto. La realtà più dura della crisi è diventata una puntata della serie televisiva più longeva d'America - va in onda da vent'anni - proprio nel giorno in cui a New York sono state assegnate 375 proprietà pignorate, in un'asta spettacolare con quattro battitori a cui hanno partecipato migliaia di persone. "La disgrazia di un uomo è la fortuna di un altro", recita un detto americano che sembra essere diventato la miglior fotografia di una crisi immobiliare che sembra non toccare mai il fondo. Ma da Manhattan al Wyoming, dalla California alla Florida per ogni famiglia che perde la casa ce n'è un'altra che vede la possibilità di coronare il sogno di una vita pagandolo metà prezzo. In tutto il Paese ogni giorno si tengono aste giudiziarie e tour tra le case pignorate organizzate dalle agenzie immobiliari, solo la Re/Max - una delle compagnie più grandi d'America - ne organizza in sessanta città in tutti cinquanta gli Stati. L'evento più spettacolare però è stato quello di New York, dove 1.400 compratori hanno affollato la seconda asta organizzata dall'immobiliare californiana Real Estate Disposition, che vista l'enorme affluenza ha dovuto abbandonare la sala d'albergo affittata l'anno scorso e spostarsi al Javits Convention Center, il polo fieristico di Manhattan. In una giornata di delirio e grida sono state vendute tutte le 375 proprietà, la maggior parte delle quali sono state aggiudicate ad un prezzo nettamente inferiore al valore di mercato. La prima casa battuta era una villa di sette stanze e cinque bagni di Roselle, una cittadina del New Jersey a mezz'ora di treno da New York, del valore di 565 mila dollari. La base d'asta era 129 mila dollari ed è stata comprata per 245 mila, meno della metà del suo valore. Tra i fortunati un muratore trentenne, Carlo Solano, che non avrebbe mai pensato di potersi permettere una casa di proprietà, ma da ieri ne ha una con tre camere da letto e tre bagni: l'ha pagata 350 mila dollari quando solo due anni fa costava 740 mila. "Non ci posso credere, sto ancora tremando", ripeteva dopo essersela aggiudicata. Alcuni lotti erano quasi regalati: una villa di 190 metri quadrati con sei stanze costruita nel 1861 in un paese a nord dello Stato di New York, Weedsport, è stata comprata per soli 12.500 dollari dalla moglie di un avvocato di Long Island arrivata all'asta in caccia di affari. Ha visto soltanto la foto della proprietà e del terreno che la circonda e ha poi ammesso candidamente di non sapere neppure dove fosse, ma quando ha sentito il prezzo e ha visto che precedente proprietario l'aveva pagata quasi centomila dollari ha alzato il braccio e se l'è conquistata senza pensarci troppo. Il presidente della compagnia californiana, Robert Friedman, ha raccontato al New York Times che in 19 anni di attività non aveva mai visto una situazione così disastrosa, tanto che organizza anche più di un'asta al giorno in ogni angolo d'America. Le case d'aste stanno facendo affari d'oro: prendono il 5% di commissione su ogni vendita e il loro giro d'affari è raddoppiato nell'ultimo anno, soprattutto in California, dove solo nella contea di Los Angeles a gennaio ci sono stati 13.581 pignoramenti. "A nessuno piace questa crisi - ha detto Todd Gladis, vicepresidente della compagnia - però crediamo che tutti voi in questa stanza avrete un ruolo nel far girare la situazione trasformando queste proprietà in case abitate". Il grande problema dei pignoramenti è infatti l'incredibile numero di abitazioni rimaste vuote - una su nove in tutti gli Stati Uniti - che stanno cadendo a pezzi per mancanza di manutenzione. Fuori dalla fiera di New York un gruppo di una ventina di manifestanti protestava ripetendo lo slogan: "L'asta è una vergogna, la colpa è delle banche", con i cartelli che chiedevano perché Washington continui a salvare le banche ma non la gente. La tragedia della famiglia Simpson però ha avuto il lieto fine: sono potuti tornare nella loro casa grazie al "religiosissimo" dirimpettaio Ned Flanders che prima se l'è aggiudicata all'asta e poi l'ha restituita ai "rumorosissimi" vicini in cambio di un affitto simbolico. (10 marzo 2009) da repubblica.it Titolo: Obama ai neri d'America: «Serve una nuova mentalità, non ci sono più scuse» Inserito da: Admin - Luglio 18, 2009, 07:21:17 pm Obama ai neri d'America: «Serve una nuova mentalità, non ci sono più scuse»
dal nostro corrispondente Anna Guaita NEW YORK (17 luglio) - Quando fu fondata, nel 1909, a New York, l’Associazione per l'avanzamento delle persone di colore doveva combattere in un mondo in cui i neri erano cittadini di seconda classe, non avevano diritti, vivevano segregati e spesso cadevano vittime di sommari linciaggi se sospettati di qualche crimine. Nella festa per il centenario della sua fondazione, giovedì sera, l’Associazione ha avuto un ospite che ha dimostrato con la sua sola presenza quanto lungo sia stato il cammino compiuto dalla comunità nera americana in questo secolo: sul podio c’era il primo presidente di colore, Barack Obama. Ma se Obama è venuto fino a New York per tenere uno dei sui discorsi più infiammati, è stato anche attento a non cedere alla tentazione di essere parziale verso i suoi ”fratelli”. Nel suo primo discorso a sfondo razziale da presidente, Obama ha ricordato il sacrificio dei tanti leader che hanno aperto la strada dell’eguaglianza per i neri e li ha ringraziati perché senza di loro anche la sua storia sarebbe stata impossibile, ma ha allo stesso tempo ricordato che la comunità oggi tende a "interiorizzare un senso di limitazione", un modo indiretto per criticarne l’apatia. Ha parlato ai genitori e ai figli, insistendo che bisogna abbracciare "una nuova mentalità", e che i genitori devono spingere i figli a studiare, e i figli non devono sognare solo di diventare campioni di basket o cantanti rap: «Voglio vedervi diventare scienziati e ingegneri, dottori e insegnanti - ha sollecitato - giudici della Corte Suprema e presidenti degli Stati Uniti». Il presidente ha ammesso che la discriminazione esiste ancora e che i neri sono meno istruiti dei bianchi, che subiscono un tasso di disoccupazione più alto, si ammalano di aids più spesso e finiscono in prigione più frequentemente. Ma ha anche ammonito: «Nessuno ha scritto il vostro destino. Il vostro destino è nelle vostre mani. Non ci sono scuse». Nei primi mesi della campagna elettorale Obama non aveva ottenuto il sostegno dei neri, che pensavano che la sua candidatura fosse destinata alla sconfitta. Quasi sottovoce, i principali leader ammettevano anche di non sentirsi ben rappresentati da un uomo di colore che era figlio di un nero nato in Africa e di una bianca del Kansas, che era cresciuto in parte all'estero e che non aveva lottato nelle file del movimento dei diritti civili ma si era formato nelle più esclusive università americane. In poche parole: non lo sentivano come uno di loro. Lui stesso non aveva cercato il sostegno dei leader storici del movimento, per evitare di essere visto dal resto degli elettori come un candidato troppo schierato. E solo nel marzo del 2008 ha affrontato la questione del razzismo, e solo perché spinto dallo scandalo esploso in seguito alle aggressive prese di posizione del reverendo Jeremiah Wright, il predicatore della Chiesa che Obama aveva a lungo frequentato. Ma oggi il presidente riscuote il sostegno del 93 per cento dei neri, nonostante la sua ferma volontà di parlare della questione del razzismo in termini morali, storici, filosofici e religiosi più che di rivendicazione politica. Obama sembra infatti intenzionato a guidare i suoi "fratelli" con l'esempio più che con la lotta: padre e marito molto affettuoso e impegnato, è diventato un modello per i giovani di colore non solo per la sua carriera ma per i suoi valori personali. Anche nella scelta dei suoi ministri ha voluto dare un esempio: Eric Holder alla Giustizia e Regina Benjamin alla Sanità costituiscono un messaggio chiarissimo, in quanto entrambi persone di alta levatura professionale e morale, con una storia personale edificante e spesso eroica. Nel discorso a New York, Obama ha fatto ricorso alle cadenze tipiche dei predicatori di colore, e ha interagito con il pubblico come è tradizione nelle chiese nere. E' raro, anzi senza precedenti, vedere Obama abbracciare lo stile oratorio di Martin Luther King. E' stata una importante concessione storica e stilistica, ma alla fine il messaggio è stato ben diverso da quelli che negli ultimi anni sono provenuti da leader come Jesse Jackson o Al Sharpton: «Non può essere il governo a portare i vostri figli alla Terra Promessa - ha detto Obama - se non siete voi per primi la sera a spegnere la tv e a parlare con loro, ad assumervi la responsabilità di educarli e di curarli». da ilmessaggero.it Titolo: BARACK OBAMA Obama, svegliato da mia figlia "Papà, hai vinto" Inserito da: Admin - Ottobre 10, 2009, 04:32:13 pm 10/10/2009
Obama, svegliato da mia figlia "Papà, hai vinto" BARACK OBAMA Non è stato il risveglio che mi aspettavo. Appena avuta la notizia, Malia è entrata in camera e mi ha detto: «Papà, hai vinto il premio Nobel ed è anche il compleanno di Bo!». E Sasha ha aggiunto: «E poi ci sono tre giorni di weekend in arrivo». I bambini sono fantastici per mettere le cose nella giusta prospettiva. Sono sia sorpreso che onorato dalla decisione del Comitato del Nobel. Siamo chiari: non lo considero un riconoscimento per i miei meriti personali, ma piuttosto una conferma della leadership americana e delle aspirazioni di tutti i popoli. Per essere onesti, non credo di meritare di stare in compagnia di tante figure che hanno vinto il premio in passato - uomini e donne che mi hanno ispirato, e hanno ispirato il mondo intero, attraverso la loro coraggiosa ricerca di pace. Ma so anche che questo premio riflette il tipo di mondo che questi uomini e donne - e tutti gli americani - vogliono costruire, un mondo che dia vita alle promesse della nostra Costituzione. E so che nella storia il Premio Nobel non è stato solo usato per rendere onore a una specifica conquista, ma è stato anche un mezzo per incoraggiare sfide importanti. Ecco perché accetto il premio come chiamata ad agire - una chiamata per tutte le nazioni a condividere le sfide del ventunesimo secolo. Queste sfide non possono essere sulle spalle di un solo leader o di una sola nazione. Ecco perché il mio governo ha lavorato per creare una nuova era di impegno, in cui tutte le nazioni devono prendersi la loro responsabilità nei confronti del futuro. Non possiamo tollerare un mondo in cui si diffondono armi nucleari e dove il rischio di un olocausto atomico mette a repentaglio la vita delle persone. Ecco perché abbiamo fatto passi concreti verso un mondo senza armi nucleari in cui tutte le nazioni hanno il diritto di usare pacificamente l’energia nucleare, ma hanno anche la responsabilità di dimostrare le loro intenzioni. Non possiamo accettare la minaccia crescente dei cambiamenti di clima che può danneggiare per sempre il mondo che lasceremo ai nostri figli - creando guerre e carestie, distruggendo le coste e svuotando le città. Ecco perché le nazioni devono accettare la loro parte di responsabilità per cambiare il modo in cui usiamo l’energia. Non possiamo accettare che le differenze tra popoli definiscano il modo in cui ci vediamo l’un l’altro: dobbiamo cercare un nuovo inizio tra gente di fedi, razze e religioni diverse. Un inizio basato sull’interesse comune e il rispetto comune. Dobbiamo fare la nostra parte per risolvere i conflitti che hanno causato tanto dolore per così tanti anni, e questo sforzo deve includere un impegno che finalmente riconosca a israeliani e palestinesi il diritto di vivere in pace e sicurezza nelle proprie nazioni. Non possiamo accettare un mondo in cui alla maggior parte della gente siano negate: la possibilità di avere un’istruzione e fare una vita decente; la sicurezza di non dover vivere nella paura della malattia o della violenza, senza speranze per il futuro. E anche se tentiamo di costruire un mondo in cui i conflitti si risolvano pacificamente e la prosperità sia condivisa, dobbiamo confrontarci con il mondo che conosciamo oggi. Sono il comandante in capo di una nazione responsabile di aver concluso una guerra e che si è confrontata con un avversario spietato che minaccia il popolo americano e i nostri alleati. Sono anche cosciente che stiamo affrontando una crisi economica globale, che ha lasciato milioni di americani senza lavoro. Sono questioni che affronto quotidianamente, ma una parte di questo lavoro non potrà essere conclusa prima della fine della mia presidenza. Una parte, come l’eliminazione delle armi nucleari, non potrà essere finita prima della fine della mia vita. Ma so che queste sfide si possono vincere, se si riconosce che non può farlo una nazione da sola, un popolo da solo. Questo premio non è solo per gli sforzi del mio governo, ma per gli sforzi coraggiosi della gente di tutto il mondo. Ecco perché questo premio va condiviso con chi combatte per la giustizia e la dignità: con la giovane donna che cammina nelle strade per difendere il suo diritto a essere ascoltata, anche di fronte alla violenza e ai proiettili; con la leader imprigionata in casa sua, perché si rifiuta di abbandonare la lotta per la democrazia; con il soldato che è morto per gli altri e per tutti gli uomini e le donne nel mondo che sacrificano sicurezza e libertà, e a volte le loro vite, per la pace. Questa è sempre stata la missione dell’America. Ecco perché il mondo ha sempre guardato all’America. Ed ecco perché credo che l’America continuerà a essere una guida. da lastampa.it Titolo: Barack Obama a Yoani Sánchez Inserito da: Admin - Novembre 21, 2009, 09:05:31 am 19/11/2009
Risposta di Barack Obama a Yoani Sánchez Presidente Barack Obama: Ti ringrazio per questa opportunità che mi offri per condividere impressioni con te e con i tuoi lettori a Cuba e nel mondo, approfitto per congratularmi per il premio María Moore Cabot della scuola Superiore di Giornalismo della Columbia University che hai ricevuto per aver promosso lo scambio di informazioni nelle Americhe grazie ai tuoi reportage. Mi è dispiaciuto molto che ti abbiano impedito di viaggiare per ricevere personalmente il premio. Il tuo blog offre al mondo uno spaccato reale di vita quotidiana a Cuba. Internet ha offerto a te e ad altri valenti blogger cubani un libero mezzo libero di espressione, da parte mia sostengo gli sforzi collettivi per fare in modo che altri compatrioti possano esprimersi tramite la tecnologia. Il governo e il popolo statunitense è dalla vostra parte, in attesa del giorno in cui tutti i cubani potranno esprimersi liberamente e pubblicamente senza timore di rappresaglie. Yoani Sánchez: 1. Per molto tempo l’argomento Cuba è stato presente sia nella politica estera degli Stati Uniti, sia tra le preoccupazioni interne, soprattutto per l’esistenza di una grande comunità cubano-americana. Dal suo punto di vista in quale dei due ambiti deve ubicarsi questo tema? Obama: Tutti i temi di politica estera hanno componenti interne, specialmente quelli che riguardano paesi vicini come Cuba, da dove provengono molti emigranti ormai residenti negli Stati Uniti, e con cui abbiamo una lunga storia di legami. La nostra decisione di proteggere e sostenere la libertà di espressione, i diritti umani e uno stato di diritto democratico tanto nel nostro paese come nel mondo contribuisce a diminuire le differenze tra politica interna ed estera. Inoltre, molti problemi comuni ai nostri paesi, come l’emigrazione, il narcotraffico e il governo dell’economia, sono temi sia interni che esterni. Infine, le relazioni tra Cuba e gli Stati Uniti devono essere analizzate sia in un contesto domestico che esterno. Yoani Sánchez: 2. Nel caso che esistesse da parte del suo governo una volontà di porre fine al confronto, pensa di riconoscere il governo di Raúl Castro come unico interlocutore valido per una serie di eventuali colloqui? Obama: Como ho detto prima, la mia amministrazione è pronta a stabilire rapporti con il governo cubano su diverse problematiche di interesse comune, come abbiamo fatto nei colloqui sul problema migratorio e sulle spedizioni postali dirette. Mi propongo di facilitare anche un maggior contatto con il popolo cubano, specialmente tra famiglie separate, qualcosa ho già fatto con la eliminazione delle restrizioni alle visite familiari e alle rimesse. Vogliamo stabilire rapporti anche con i cubani che vivono fuori dell’ambito governativo, come facciamo in tutto il mondo. È chiaro che la parola del governo non è la sola che conta a Cuba. Approfittiamo di ogni opportunità per interagire con tutti i settori della società cubana e guardiamo a un futuro in cui il governo rifletterà davvero la volontà del popolo cubano. Yoani Sánchez: 3. Il governo degli Stati Uniti ha rinunciato all’uso della forza militare, come metodo di risoluzione del confronto? Obama: Gli Stati Uniti non hanno nessuna intenzione di utilizzare la forza militare a Cuba. Quello che gli Stati Uniti sostengono a Cuba è un maggior rispetto dei diritti umani e delle libertà politiche ed economiche, oltre alla speranza che il governo risponda alle aspirazioni del suo popolo di sfruttare la democrazia e di poter determinare il futuro di Cuba liberamente. Soltanto i cubani potranno promuovere un cambiamento positivo a Cuba, e speriamo che presto possano esercitare senza limiti queste facoltà. Yoani Sánchez: 4. Raúl Castro ha detto pubblicamente di essere disponibile a dialogare su tutti i temi, con il solo requisito del rispetto reciproco e l’uguaglianza delle condizioni. Le sembrano eccessive queste esigenze? Quali sarebbero le condizioni che imporrebbe il suo governo per cominciare un dialogo? Obama: Da tempo dico che è ora di applicare una diplomazia diretta e senza condizioni, sia con gli amici che con i nemici. Tuttavia, parlare per il gusto di parlare non mi interessa. Nel caso di Cuba l’uso della diplomazia dovrebbe dare luogo a maggiori opportunità per promuovere i nostri interessi e le libertà del popolo cubano. Abbiamo già iniziato un dialogo, partendo da certi interessi comuni – emigrazione sicura, ordinata e legale e la restaurazione del servizio postale diretto. Si tratta di piccoli passi, ma sono parte importante di un processo per avviare le relazioni tra Stati Uniti e Cuba verso una nuova e più positiva direzione. Nonostante questi passi, per arrivare a un rapporto più normale, siamo ancora in attesa che il governo cubano si attivi in tal senso. Yoani Sánchez: 5. Quale partecipazione potrebbero avere i cubani dell’esilio, i gruppi di opposizione interna e l’emergente società civile cubana in questo ipotetico dialogo? Obama: Prima di prendere qualunque decisione relativa alla politica pubblica, è imprescindibile ascoltare il maggior numero possibile di voci. È proprio quello che stiamo facendo in relazione a Cuba. Il governo degli Stati Uniti parla regolarmente con gruppi e singole persone dentro e fuori Cuba, che seguono con interesse l’andamento delle nostre relazioni. Molti non sono d’accordo con il governo cubano, molti non sono d’accordo con il governo statunitense e molti altri non si trovano d’accordo tra loro. Su una cosa dobbiamo essere tutti d’accordo: ascoltare le inquietudini e gli interessi dei cubani che vivono sull’isola. Per questo motivo tutto quello che state facendo per far sentire le vostre voci è molto importante - non solo per promuovere la libertà di espressione, ma anche perchè la gente fuori di Cuba possa comprendere meglio la vita, le vicissitudini e le aspirazioni dei cubani che vivono sull’isola. Yoani Sánchez: 6. Lei è un uomo che propone lo sviluppo delle nuove tecnologie di comunicazione e informazione. Malgrado ciò noi cubani continuiamo ad avere molte limitazioni per accedere a Internet. Quanta responsabilità ha l’embargo americano verso Cuba e quanta il governo cubano? Obama: La mia amministrazione ha fatto passi importanti per promuovere la corrente di libera informazione proveniente dal popolo cubano e diretta ai cubani, particolarmente mediante le nuove tecnologie. Abbiamo reso possibile espandere le reti di telecomunicazione per accelerare lo scambio tra la gente di Cuba e il mondo esterno. Tutto questo aumenterà i mezzi di comunicazione con cui i cubani potranno comunicare tra loro e con persone fuori di Cuba, avvalendosi, per esempio, di maggiori opportunità grazie alle trasmissioni via satellite e con fibra ottica. Questo non accadrà da un giorno all’altro, né potrà dare risultati effettivi senza un’azione positiva del governo cubano. Ho sentito che il governo cubano ha annunciato programmi per offrire maggiore accesso a Internet negli uffici postali. Seguo questi segnali di cambiamento con interesse e chiedo al governo cubano che consenta l’accesso all’informazione e a Internet senza restrizioni. Vorremmo sapere i programmi del governo sul sostegno a un flusso libero di informazioni da e verso Cuba. Yoani Sánchez: 7. Sarebbe disposto a visitare il nostro paese? Obama: Non scarterei nessun tipo di azione che favorisse gli interessi degli Stati Uniti e che promuovesse la libertà del popolo cubano. Al tempo stesso, le armi della diplomazia devono essere usate solo dopo minuziosi preparativi e come parte di una strategia chiara. Pregusto il giorno in cui potrò visitare una Cuba nella quale tutto il popolo potrà godere degli stessi diritti e opportunità di cui gode il resto della popolazione mondiale. (La traduzione in spagnolo è stata preparata dall’ufficio del Presidente Obama. Il documento originale in inglese si può leggere qui: http://www.desdecuba.com/generaciony/wp-content/uploads/2009/11/president-obamas-responsesto-yoani-sanchezsq-uestions.pdf). Traduzione di Gordiano Lupi www.infol.it/lupi --------------------------------------- 19/11/2009 Sette domande YOANI SANCHEZ La diplomazia popolare non ha bisogno di memorandum e di dichiarazioni di intenti, si sviluppa direttamente tra i popoli senza passare dalle cancellerie e dai palazzi del governo. Si accompagna a un abbraccio, una stretta di mano o una lunga chiacchierata nella sala di una casa. Senza aspirare ai flash dei reporter né ai grandi titoli di stampa, le persone comuni hanno tirato fuori il mondo da diversi pasticci, evitando un buon numero di guerre, favorendo certe alleanze e alcuni brevi periodi di pace. Di tanto in tanto una persona senza incarichi di governo, né privilegi ufficiali, interpella il potere, pone una domanda che resta senza risposta. Noi cubani ci siamo abituati al fatto che chi sta “in alto” non ha nessuna intenzione di consultarci e di spiegare la disfatta che subirà questa Isola, così simile a una barca che fa acqua da tutte le parti ed è sul punto di naufragare. Stanca che non ci riconoscano nella nostra piccolezza, mi sono decisa a porre sette interrogativi a coloro che secondo me - in questo preciso momento storico - stanno segnando il destino del mio paese. Il conflitto tra il governo di Cuba e quello degli Stati Uniti, non solo impedisce ai popoli di entrambe le sponde di stabilire relazioni fluide, ma determina anche i passi - o la loro mancanza - che si devono fare per la necessaria trasformazione della nostra società. La propaganda politica ci dice che viviamo in un luogo assediato, di un David che affronta Golia e del “vorace nemico” che è sul punto di scagliarsi contro di noi. Voglio sapere – dalla mia piccolissima posizione di cittadina – come si svilupperà questo confronto, quando il tema propagandistico non pervaderà ogni aspetto della nostra vita. Dopo mesi di tentativi sono riuscita a recapitare un questionario al presidente nordamericano Barack Obama, inserendo alcuni di quei temi che non mi lasciano dormire. Ho già le sue risposte - che pubblicherò domani - e adesso voglio estendere i miei quesiti al presidente cubano Raúl Castro. Sono incognite che nascono dalla mia esperienza personale e riconosco che ognuno dei miei compatrioti potrebbe redigerle in maniera diversa e personale. I dubbi che racchiudono sono così angosciosi che non mi consentono di prevedere come sarà la nazione dove cresceranno i miei figli. Pubblico di seguito entrambi i questionari: Domande a Raúl Castro, presidente di Cuba: 1. Quali influenze negative potrà avere sulla struttura ideologica della rivoluzione cubana, un eventuale miglioramento delle relazioni con gli Stati Uniti? 2. Lei ha manifestato in diverse occasioni la volontà di dialogare con il governo nordamericano. È solo in questo proposito? Ha dovuto discutere con gli altri membri dell’Ufficio politico per convincerli che il dialogo è necessario? Suo fratello Fidel Castro è d’accordo a porre fine al conflitto tra i due governi? 3. Se lei si trovasse seduto a un tavolo di fronte a Obama, quali sarebbero i tre principali risultati che vorrebbe ottenere dal colloquio? Quali crede che sarebbero i tre risultati che potrebbe ottenere la parte nordamericana? 4. Può elencare i vantaggi concreti che avrebbe il popolo cubano nel presente e nel futuro, se avesse fine questo interminabile confronto tra i due governi? 5. Se la parte nordamericana volesse includere in un giro di negoziati la comunità cubana in esilio, i membri dei partiti di opposizione all’interno dell’Isola e i rappresentanti della società civile, lei accetterebbe la proposta? 6. Pensa che esista una reale possibilità che l’attuale governo degli Stati Uniti opti per l’uso della forza militare contro Cuba? 7. Inviterebbe Obama a visitare Cuba, come dimostrazione di buona volontà? Domande a Barack Obama, presidente degli Stati Uniti: 1. Per molto tempo l’argomento Cuba è stato presente sia nella politica estera degli Stati Uniti, sia tra le preoccupazioni interne, soprattutto per l’esistenza di una grande comunità cubano-americana. Dal suo punto di vista in quale dei due ambiti deve ubicarsi questo tema? 2. Nel caso che esistesse da parte del suo governo una volontà di porre fine al confronto, pensa di riconoscere il governo di Raúl Castro come unico interlocutore valido per una serie di eventuali colloqui? 3. Il governo degli Stati Uniti ha rinunciato all’uso della forza militare, come metodo di risoluzione del confronto? 4. Raúl Castro ha detto pubblicamente di essere disponibile a dialogare su tutti i temi, con il solo requisito del rispetto reciproco e l’uguaglianza delle condizioni. Le sembrano eccessive queste esigenze? Quali sarebbero le condizioni che imporrebbe il suo governo per cominciare un dialogo? 5. Quale partecipazione potrebbero avere i cubani dell’esilio, i gruppi di opposizione interna e l’emergente società civile cubana in questo ipotetico dialogo? 6. Lei è un uomo che propone lo sviluppo delle nuove tecnologie di comunicazione e informazione. Malgrado ciò noi cubani continuiamo ad avere molte limitazioni per accedere a Internet. Quanta responsabilità ha l’embargo americano verso Cuba e quanta il governo cubano? 7. Sarebbe disposto a visitare il nostro paese? Traduzione di Gordiano Lupi www.infol.it/lupi da lastampa.it Titolo: BARACK OBAMA In battaglia lottando per il bene Inserito da: Admin - Dicembre 11, 2009, 04:40:52 pm 11/12/2009
In battaglia lottando per il bene BARACK OBAMA Ho ricevuto questo onore con grande gratitudine e grande umiltà. È un riconoscimento che parla alla nostra più alta ispirazione: quella per la quale, nonostante tutta la crudeltà e durezza del mondo, sappiamo che non siamo semplici prigionieri del fato. Le nostre azioni contano, e possono indirizzare la storia nella direzione della giustizia. E tuttavia sarei reticente se non riconoscessi la considerevole controversia che la vostra generosa decisione ha generato. In parte, è dovuta al fatto che io sono all’inizio, e non alla fine, del mio impegno sullo scenario mondiale. Paragonato ad alcuni giganti della storia che hanno ricevuto questo premio - Schweitzer e King, Marshall e Mandela - i miei risultati sono minimi. E poi ci sono uomini e donne nel mondo che sono stati incarcerati e percossi perché cercavano giustizia, ci sono quelli che lavorano duramente nelle organizzazioni umanitarie per portare sollievo ai sofferenti, i milioni che, senza riconoscimenti, con la loro calma e il loro coraggio sono fonte di ispirazione anche per i più cinici. Non posso contraddire chi trova che questi uomini e donne - alcuni conosciuti, altri ignoti a tutti tranne a quelli che aiutano - si meritano di gran lunga più di me questo onore. Ma forse l’argomento più profondo che accompagna la consegna di questo premio riguarda il fatto che io sono il Comandante in capo di una nazione in mezzo a due guerre. Una di queste sta finendo. L’altra è un conflitto che l’America non ha cercato, un conflitto nel quale siamo stati affiancati dalle altre 43 nazioni - Norvegia compresa - nello sforzo di difendere noi stessi e tutte le nazioni da altri attacchi. Siamo ancora in guerra, e io sono responsabile del dispiegamento di migliaia di giovani in una terra lontana, a combattere. Nel corso della storia umana, filosofi, religiosi e uomini di Stato hanno cercato di regolare il potere distruttivo della guerra. È emerso il concetto di «guerra giusta», che suggeriva che una guerra è giustificata soltanto quando rispetta alcune precondizioni: se è l’ultima risorsa rimasta o è autodifesa, se l’uso della forza è proporzionato e se, per quanto possibile, i civili sono risparmiati. Per la maggior parte della Storia il concetto di guerra giusta è stato raramente osservato. La capacità degli esseri umani nell’escogitare nuovi modi per uccidersi l’un l’altro si è dimostrata inesauribile. Le guerre tra eserciti cedettero il passo alle guerre tra nazioni, guerre totali in cui la distinzione tra combattenti e civili divenne confusa. Nello spazio di trent’anni, questa carneficina sommerse due volte questo continente. [...] Dobbiamo riconoscere la dura verità: non potremo sradicare durante la nostra vita i conflitti violenti. Ci saranno momenti in cui le nazioni - individualmente o in concerto con altre - troveranno che l’uso della forza non è solo necessario ma moralmente giustificato. Faccio questa affermazione con in mente quello che Martin Luther King disse in questa stessa cerimonia anni fa: «La violenza non porta mai a una pace permanente. Non risolve i problemi sociali, ne crea solamente di nuovi e più complicati». Come persona che sta qui come diretta conseguenza dell’azione di King durante la sua vita, sono un testimone vivente della forza morale della non violenza. So che non c’è nulla di debole, nulla di passivo, nulla di naïf, nel credo e nelle vite di Gandhi e King. [...] Per cominciare, credo che tutte le nazioni - forti e deboli - debbano aderire agli standard che regolano l’uso della forza. Io - come ogni capo di Stato - ho il diritto di agire unilateralmente se è necessario a difendere il mio Paese. Tuttavia sono convinto che aderire agli standard rafforza chi lo fa e isola, e indebolisce, chi non lo fa. Il mondo si è stretto al fianco dell’America dopo l’11 settembre, e continua a sostenere i nostri sforzi in Afghanistan, a causa dell’orrore di questi attacchi insensati e riconosce il principio dell’autodifesa. Allo stesso modo, il mondo riconobbe la necessità di contrastare Saddam Hussein quando invase il Kuwait: un consenso che mandò un chiaro messaggio riguardo ai costi di un’aggressione. Al contrario, l’America non può insistere che altri rispettino le regole che essa stessa rifiuta di seguire. Perché quando non le seguiamo, la nostra azione può apparire arbitraria, e indebolire la legittimità di futuri interventi, non importa quanto giustificati. [...] Da qualche parte, oggi, un giovane dimostrante attende la brutalità del suo governo, ma ha il coraggio di manifestare. Da qualche parte, oggi, una madre, affrontando il fardello della povertà, trova lo stesso il tempo di istruire i suoi bambini, c’è qualcuno che crede che nel mondo crudele ci sia lo stesso posto per i suoi sogni. Viviamo seguendo il loro esempio. Possiamo riconoscere che l’oppressione sarà sempre con noi, e ugualmente lottare per la giustizia. Possiamo capire che siamo in guerra, e ugualmente lottare per la pace. Possiamo farlo perché è la storia del progresso umano, perché è la speranza di tutto il mondo. E in questo momento di sfide deve essere il nostro lavoro qui sulla Terra. da lastampa.it Titolo: Obama: ''Fallimento totale, me ne assumo la responsabilita''' Inserito da: Admin - Gennaio 07, 2010, 11:50:35 pm ''Fallimento totale, me ne assumo la responsabilita'''
Obama: l'attacco di Natale ''si poteva prevenire'' 07 gennaio, 23:17 WASHINGTON - Secondo il presidente americano Barack Obama il mancato attentato di Natale non e' stato un fallimento di un solo individuo o una sola agenzia, ma di tutto il sistema sicurezza. L'intelligence Usa, ha spiegato Obama in un discorso alla nazione, aveva tutte le informazioni necessarie per prevenirlo, ma l'analisi dei dati e' fallita. Obama ha dichiarato di volersi assumere la responsabilita' dei fallimenti del sistema sicurezza: ''La responsabilita' finale e' sempre del presidente'', ha detto. Obama ha ordinato l'immediato rafforzamento del sistema delle liste dei sospetti terroristi. La priorità ora, secondo il presidente americano, è correggere gli errori del sistema. Non cadremo in una mentalità da 'Paese assediato' - ha affermato - perchè è proprio quello che vogliono i terroristi. L'intelligence indagherà su tutte le minacce. Obama ha detto inoltre di aver ordinato una revisione del sistema di concessione e di revoca dei visti dopo la scoperta che l'attentatore del volo di Natale aveva un regolare visto di ingresso negli Usa. da ansa.it Titolo: BARACK OBAMA Il tempo della riforma è adesso Inserito da: Admin - Marzo 20, 2010, 08:55:16 am 20/3/2010
Il tempo della riforma è adesso BARACK OBAMA Pubblichiamo il testo del discorso sulla riforma della sanità pronunciato ieri dal Presidente degli Stati Uniti alla George Mason University. E’ grandioso essere di nuovo qui, alla «George Mason», con un gruppo di veri patrioti. Ho visitato per la prima volta questa università tre anni fa. Allora avevo iniziato da poche settimane la campagna elettorale. Non c'era molto denaro e nemmeno uno staff numeroso. Le nostre quotazioni erano piuttosto basse. Un sacco di gente non sapeva nemmeno come si pronunciasse il mio nome e la maggior parte degli esperti pensava che non valesse nemmeno la pena di tentare. Ma anche allora avevamo qui alla George Mason un gruppo di studenti convinti che se avessimo lavorato sodo e combattuto a lungo e radunato un gruppo sufficiente di supporter ce l'avremmo fatta a portare il cambiamento a quella città di là dal fiume. E noi credevamo che saremmo riusciti a far funzionare Washington - non per i lobbisti, non per gli interessi particolari, non per i politici, ma per il popolo americano. E il voto sulla riforma sanitaria ha a che fare proprio con questo. A poche miglia da qui il Congresso è alle ultime fasi di un epocale dibattito sul futuro dell'assicurazione sanitaria. Un confronto che ha infuriato non solo nell'ultimo anno ma per gran parte del secolo scorso. Non riguarda solo il costo della tutela della nostra salute ma il carattere stesso del nostro Paese e la nostra capacità di raccogliere la sfida dei tempi; deciderà se siamo ancora una nazione che offre ai propri cittadini la possibilità di realizzare i propri sogni. Al cuore di questo dibattito c' è un interrogativo: continueremo ad accettare un sistema sanitario che tutela più le società assicurative che i cittadini americani? Perché se questo voto va male l'industria delle assicurazioni continuerà ad agire senza regole. Continuerà a negare copertura finanziaria e cure alla gente. Ad aumentare vertiginosamente i premi del 40 o del 50 o del 60% come hanno fatto in queste ultime settimane. E' cosa nota. Ed ecco perché i lobbisti delle assicurazioni , mentre vi parlo, stanno imperversando nelle anticamere del Congresso. Ecco perché stanno inondandoci di annunci pubblicitari contro la riforma spendendo milioni di dollari, ecco perché stanno facendo di tutto per uccidere questa legge. Quindi, l'unica domanda è: dobbiamo permettere a questi interessi particolari di trionfare un'altra volta? O dobbiamo far sì che questo voto rappresenti la vittoria del popolo americano? Il tempo della riforma è adesso. Dopo un anno di dibattiti ogni proposta è stata messa in tavola, ogni obiezione è stata sollevata. E noi abbiamo fuso le idee migliori, tanto dei democratici come dei repubblicani, in una proposta finale che parte dal sistema assicurativo privato attualmente in vigore. L'industria delle assicurazioni e i suoi supporter al Congresso hanno cercato di farla passare per un cambiamento radicale. Ma non è così, stiamo parlando di una riforma basata sul buon senso. Se vi piace il dottore che avete potrete tenervelo. Se vi va bene il vostro piano salute lo conserverete. Io infatti non credo che dovremmo dare al governo o alle compagnie assicurative un maggior controllo sulla sanità americana. Credo sia tempo di dare a voi, al popolo americano, maggior controllo sulle vostre polizze. La proposta al voto al Congresso otterrà questo in tre modi: innanzitutto ponendo fine alle pratiche più scorrette delle compagnie di assicurazioni. Da quest’anno migliaia di americani che in precedenza non avevano alcuna polizza saranno in grado di stipulare un’assicurazione sanitaria - alcuni per la prima volta nella loro vita. Quest'anno alle compagnie assicurative sarà proibito per sempre di negare copertura a bambini che hanno problemi di salute. E sarà loro impedito anche di far cessare il contratto se il cliente si ammala. Tutte queste cose spariranno. Questa riforma farebbe scendere i costi delle cure mediche per famiglie, imprese e per il governo federale. Per chi stipula l'assicurazione tramite il datore di lavoro, i costi scenderebbero di circa 3.000 dollari a testa. Nel complesso le nostre misure di taglio dei costi ridurrebbero i premi assicurativi per la maggior parte delle persone e farebbero scendere il deficit di oltre un trilione di dollari nei prossimi vent'anni. Non sono miei calcoli. Sono i risparmi elaborati dal Congressional Budget Office, referente bipartisan e indipendente del Congresso. Ecco, questa è la nostra proposta. Questo è ciò che il Congresso si accinge a votare questo fine settimana. E ovviamente Washington parla di tutto ciò in termini di politica. Che effetto avrà sul voto di mid term di novembre? Come influirà sul voto? Che impatto avrà su democratici e repubblicani? Lo confesso: non so che ricadute avrà sulla politica. Nessuno può davvero saperlo. Ma so che cosa significherà per il futuro dell’America. Non so che impatto avrà sul voto, ma so che impatto avrà su milioni di americani che hanno bisogno del nostro aiuto. So cosa vorrà dire questa riforma per gente come Leslie Banks, una ragazza madre della Pennsylvania che sta cercando di far finire il college a sua figlia. La sua compagnia assicurativa le ha appena mandato una lettera dicendo che quest’anno hanno intenzione di raddoppiarle i premi. Leslie Banks ha bisogno che passi questa legge. So cosa vorrà dire questa riforma per Laura Klitzka. Laura pensava di avere sconfitto il suo cancro al seno, ma poi ha scoperto di avere delle metastasi ossee. Lei e il marito hanno la copertura assicurativa ma le spese mediche che hanno dovuto sostenere li hanno indebitati e così lei ora passa il tempo a preoccuparsi quando vorrebbe solo stare con i suoi due figli. Laura Klitzka ha bisogno che passi questa legge. E so cosa significa questa riforma per Natoma Canfield. Quando la sua assicurazione ha alzato le rate, Natoma ha dovuto disdire la sua polizza anche se era terrorizzata all'idea che una malattia improvvisa la riducesse sul lastrico. E adesso è all'ospedale, malata, e prega di farcela, in qualche modo. Natoma Canfield sa che il tempo della riforma è adesso. Il tempo della riforma è adesso. Entro pochi giorni una battaglia secolare culminerà in un voto storico. E quando, in passato, abbiamo dovuto affrontare questo tipo di decisioni, la nazione ogni volta ha scelto di allargare la sua promessa a un maggior numero di cittadini. Quando i signori no sostennero che la Sicurezza sociale avrebbe portato al comunismo, gli uomini e le donne del Congresso tennero duro e crearono un programma che ha tolto dalla miseria milioni di persone. Generazioni fa chi ci ha preceduto decise che i nostri anziani e i nostri poveri non sarebbero dovuti restare senza assistenza sanitaria solo perché non potevano permettersela. Oggi tocca a questa generazione decidere se fare la stessa promessa alle famiglie della classe media, ai piccoli imprenditori e ai giovani, come voi, che sono agli esordi. So che è stato un tragitto difficile. So che sarà un voto duro. So che Washington ha condotto questo dibattito come una gara sportiva. Ma ricordo anche una frase che ho visto su una targa alla Casa Bianca l'altro girono. Si trova nella stessa stanza dove io stavo chiedendo risposte ai dirigenti delle assicurazioni ricevendo solo scuse. E' una frase di Teddy Roosevelt, che per primo chiese una riforma sanitaria, tanti anni fa. Dice: «Combattere in modo determinato per ciò che è giusto è lo sport più nobile che il mondo si possa concedere». Non so quali saranno le ripercussioni politiche di questa riforma. Ma so che è giusto farla. Teddy Roosevelt lo sapeva. Harry Truman lo sapeva. Il nostro caro amicoTed Kennedy, lo sapeva, più di ogni altro. E se anche voi credete sia giusto, bene, ho bisogno del vostro aiuto per concludere la battaglia che loro hanno iniziato. Ho bisogno di voi al mio fianco. Proprio come quando venni qui, tre anni fa, all'inizio della nostra campagna, ho bisogno che voi bussiate alle porte e parliate ai vicini e telefoniate e facciate sentire la vostra voce, in modo che vi possano sentire sull'altra riva del fiume. Credo ancora che possiamo fare quello che è giusto fare. Credo ancora che possiamo fare quello che è difficile fare. Il bisogno è grande, l'occasione è qui. E il tempo della riforma è adesso. da lastampa.it Titolo: Il presidente ha vinto le ultime resistenze degli antiabortisti Inserito da: Admin - Marzo 22, 2010, 12:13:13 pm Nella notte il "sì" della Camera con 219 favorevoli e 212 contrari
Assistenza medica per 32 milioni di americani che ne erano sprovvisti "Questo è il vero cambiamento" Passa la riforma sanitaria di Obama Ora tocca al Senato. Il presidente ha vinto le ultime resistenze degli antiabortisti dal corrispondente FEDERICO RAMPINI NEW YORK - "Questa non è una riforma radicale ma è una grande riforma. Questo è il vero cambiamento". Così a mezzanotte, ora di Washington, Barack Obama ha salutato lo storico voto della Camera. Un'ora prima con 219 sì contro 212 no, sotto la presidenza di Nancy Pelosi la Camera aveva approvato la sua sofferta riforma sanitaria. E' passata una legge di straordinaria portata, che dopo l'approvazione del Senato estenderà a 32 milioni di americani un'assistenza medica di cui erano finora sprovvisti. E' la fine di un incubo, 14 mesi in cui il presidente si era giocato la sua immagine su questo "cantiere progressista". Obama ce l'ha fatta su un terreno dove da mezzo secolo tutti i presidenti erano stati sconfitti. Ha affrontato una piaga sociale, che vede l'America molto più indietro degli altri paesi ricchi per la qualità delle cure mediche offerte all'insieme della popolazione. Forse il suo partito pagherà qualche prezzo alle elezioni legislative di novembre, ma i democratici hanno messo la loro firma esclusiva (senza un solo voto repubblicano) su una delle più ambiziose normative sociali del paese. 34 di loro hanno votato contro, per paura di giocarsi la rielezione a novembre, di fronte all'offensiva della destra che dipinge questa legge come la "socializzazione delle cure mediche" e l'anticamera di una bancarotta di Stato. Ma fino all'ultimo le defezioni nel partito di maggioranza hanno rischiato di essere ben più elevate. La pattuglia più numerosa dei "dissidenti" era quella degli antiabortisti, guidati dal deputato Bart Stupak del Michigan. E' stato decisivo l'intervento di Barack Obama nelle ultimissime ore. Rinviato il suo viaggio in Indonesia, il presidente ha fatto pressione personalmente su ciascuno dei deputati incerti. Agli antiabortisti ha offerto una garanzia speciale: proprio mentre la Camera era riunita per le votazioni, ieri Obama ha firmato un "ordine esecutivo" che rafforza il divieto di usare i fondi federali per rimborsare le spese delle interruzioni di gravidanza. A quel punto Stupak e la pattuglia di antiabortisti sono passati a favore della riforma, garantendo la maggioranza per l'approvazione della legge. L'ultimo voto al Senato è previsto in pochi giorni, ed entro questa settimana Obama dovrebbe firmare la legge. I primi effetti di questa riforma, in vigore da subito, colpiranno gli abusi più odiosi delle assicurazioni. Sarà vietato alle compagnie assicurative rescindere una polizza quando il paziente si ammala, una pratica fin qui tristemente consueta. Sarà illegale rifiutarsi di assicurare un bambino invocando le sue malattie pre-esistenti. Diventeranno fuorilegge anche i tetti massimi di spesa, usati dalle assicurazioni per rifiutare i rimborsi oltre un certo ammontare (un costume particolarmente deleterio per i pazienti con patologie gravi che richiedono terapie costose, come il cancro). I genitori avranno il diritto di mantenere nella copertura della propria assicurazione sanitaria i figli fino al compimento del 26esimo anno di età, una norma particolarmente attesa in una fase in cui i giovani stentano a trovare un posto di lavoro (e quindi non hanno accesso all'assicurazione che di solito è connessa a un impiego stabile). Più avanti, entro il 2014, scatteranno gli altri aspetti della riforma, quelli che porteranno 32 milioni di americani ad avere finalmente diritto a un'assistenza. Di questi, la metà circa entreranno sotto la copertura della mutua di Stato per i meno abbienti, il Medicaid. Quest'ultimo garantirà cure gratuite fino alla soglia di 29.000 dollari di reddito annuo lordo, per una famiglia di quattro persone. Altri 16 milioni dovranno invece comprarsi una polizza assicurativa. Ma potranno farlo scegliendo in una nuova Borsa competitiva sorvegliata dallo Stato, e riceveranno sussidi pubblici fino a 6.000 dollari, onde evitare che l'assicurazione gli costi più del 9,5% del loro reddito. Multe salate per le aziende con oltre 50 dipendenti che non offrono l'assicurazione sanitaria ai dipendenti. Perché questo resterà comunque anche dopo la riforma il tratto distintivo del sistema sanitario americano, imperniato sulle assicurazioni private, e ben lontano dai servizi sanitari nazionali dei paesi europei. Manca, nella riforma, quello che all'origine doveva essere l'aspetto più radicalmente innovativo: la cosiddetta opzione pubblica. Di fronte alle accuse di voler imporre un "socialismo medico di tipo cubano" - secondo uno slogan usato dalla destra populista del Tea Party Movement - i democratici hanno abbandonato quell'idea, che avrebbe creato un'assicurazione di Stato disponibile a tutti, a costi contenuti, per far concorrenza alle assicurazioni private. In compenso ci sarà una stangata fiscale sulle multinazionali farmaceutiche, per finanziare una parte dei costi della riforma. Il voto compatto di tutti i repubblicani contro la riforma sancisce la sconfitta di Obama su un terreno: la ricerca di larghe intese bipartisan per fare avanzare le sue riforme. Questo potrebbe danneggiare un presidente che nel novembre 2008 conquistò la Casa Bianca anche grazie ai voti degli indipendenti, l'elettorato fluttuante di centro. Ma la destra è scivolata su posizioni estreme e Obama ha dovuto fare un calcolo diverso: rinunciare a questa riforma avrebbe deluso la base più progressista e militante del partito democratico, spingendola all'astensionismo alle elezioni di novembre. La vittoria alla Camera ha del miracoloso perché appena due mesi fa la riforma sembrava condannata, quando i democratici persero un'elezione cruciale nel seggio senatoriale del Massachusetts che era stato di Ted Kennedy. Proprio le compagnie assicurative hanno fornito a Obama l'opportunità per riprendere l'iniziativa: il rincaro del 39% delle tariffe imposto dal colosso assicurativo Blue Cross in California un mese fa è diventato il simbolo di un sistema iniquo e perverso. Da quell'episodio è cominciata la riscossa di Obama, che ha accusato i repubblicani di essere al servizio di un capitalismo sanitario che accumula profitti speculando sulle sofferenze dei cittadini. © Riproduzione riservata (22 marzo 2010) da repubblica.it Titolo: BARACK OBAMA "Siamo ancora un popolo capace di grandi cose" Inserito da: Admin - Marzo 22, 2010, 12:17:23 pm Obama saluta lo storico voto della Camera sulla riforma sanitaria
"L'America aveva aspettato per cento anni questo momento" "Siamo ancora un popolo capace di grandi cose" WASHINGTON - "Questa notte abbiamo dimostrato al mondo che siamo un popolo ancora capace di grandi cose". Consapevole e orgoglioso, così il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, ha commentato a caldo l passaggio della riforma sanitaria alla Camera dei rappresentanti. "Il cambiamento - ha detto - non scende dall'alto ma sale dal basso". Obama, che aveva seguito le fasi del voto alla Casa Bianca insieme ad un gruppo di medici, piccoli imprenditori e sostenitori della riforma da lui proposta, ha a lungo applaudito nel momento in cui la Camera ha raggiunto la quota dei 216 voti necessaria per il passaggio della riforma. Poi, accompagnato dal vicepresidente Joe Biden, in una breve dichiarazione nella East Room della Casa Bianca ha pubblicamente ringraziato la speaker della Camera, Nancy Pelosi, vera artefice del successo, e tutti i deputati impegnati nel voto. "So che non era un voto facile - ha detto - ma sappiate che avete espresso un voto giusto". "Questa notte - ha aggiunto - abbiamo reso possibile ciò che gli scettici dicevano non fosse possibile". Obama, che ha riservato un ringraziamento speciale a Nancy Pelosi, rivolgendosi ai parlamentari che hanno reso possibile "questo momento storico", ha quindi aggiunto: "Questa non è una riforma radicale, ma è una riforma importante. Questa legge non aggiusta tutto ciò che non funziona nel nostro sistema sanitario, Ma ci muove nella direzione giusta". "Per la prima volta nella storia della nostra Nazione il Congresso ha approvato una riforma complessiva del sistema sanitario. L'America aveva aspettato per cento anni questo momento. Questa notte, grazie a voi, lo abbiamo finalmente raggiunto" ha detto Obama, secondo il quale è questo il vero valore aggiunto del voto di questa notte. "Ciò che ha maggior valore è che la vittoria di questa notte va molto al di là delle leggi e dei numeri" ha detto Obama, ricordando che la riforma avrà effetti diretti su ogni famiglia americana. "E' questo - ha concluso - ciò che intendo per cambiamento". (22 marzo 2010) da repubblica.it Titolo: Obama: "Senza riforma di Wall Street siamo condannati a una nuova crisi" Inserito da: Admin - Aprile 23, 2010, 09:16:42 am 22/4/2010 (18:20) - L'AMERICA ALLE PRESE CON LA EXIT STRATEGY E GLI SCANDALI
Obama: "Senza riforma di Wall Street siamo condannati a una nuova crisi" Il presidente statunitense Barack Obama ha sfidato la Borsa Il presidente Usa chiede una legge bipartisan per regolare la finanza NEW YORK All’ombra di Wall Street, davanti ad alcuni ’Titanì di un’industria che, «con i furiosi sforzi dei suoi lobbisti», sta cercando di mettergli i bastoni tra le ruote, il presidente Barack Obama ha sferrato una controffensiva per convincere l’America che nuove regole della finanza sono indispensabili per salvare il Paese da una seconda Grande Depressione. «Credo nel potere del libero mercato e in un settore finanziario forte, ma il libero mercato non vuol dire prendere tutto quel che si può, in qualunque modo», ha detto Obama ai 700 invitati a Cooper Union, un’università privata di New York: «Qualcuno a Wall Street si è dimenticato che dietro ogni dollaro investito in Borsa c’è una famiglia che prova a comprarsi la casa, a pagare gli studi, ad aprire un negozio o a mettere da parte per la pensione», ha aggiunto il presidente chiedendo ai banchieri - pochi in sala, e tra questi Lloyd Blankfein di Goldman Sachs, il colosso che la Sec ha messo sul banco degli imputati - di aiutarlo e di aiutare il Congresso a varare la riforma: «Siate con noi, non contro di noi». Cooper Union è a pochi minuti di metropolitana da Wall Street. Obama, come ha scritto il Daily News, ha parlato ai banchieri «dal ventre della bestia». L’altro tabloid di New York, il New York Post, aveva accolto oggi il presidente con un appello a effetto che evocava le preoccupazioni espresse dal sindaco Michael Bloomberg: «Non uccidere la gallina dalle uova d’oro: per New York, Wall Street è Main Street». La battaglia per le regole dei mercati è diventata la priorità dell’agenda legislativa di Obama dopo la firma della riforma della sanità e mentre mancano sei mesi al voto di metà mandato. «Dobbiamo imparare dalla lezione della crisi per non esser condannati a riviverla», ha messo in guardia il presidente: un testo di riforma è stato approvato alla Camera mentre in Senato la proposta messa a punto in commissione potrebbe arrivare la prossima settimana al dibattito del’aula. Il presidente ha illustrato i cinque capisaldi che, a suo avviso, «devono essere inclusi» in una legge «di buon senso, non ideologica», e che Wall Street non deve temere «a meno che il suo modello di affari sia quello di truffare la gente». Il primo è un sistema che assicuri che «i contribuenti siano protetti nel caso in cui una grande banca cominci a fallire». Obama chiede poi l’istituzione della cosiddetta ’regola Volcker’ (dal nome dell’ex capo della Fed Paul Volcker) che pone limiti alle dimensioni e ai rischi presi dalle banche, e nuove regole di trasparenza dei derivati e degli «altri complicati prodotti finanziari» che hanno contribuito al crack di Lehman Brothers, portato sull’orlo del collasso Aig e Merrill Lynch e messo Goldman sul banco degli imputati: «Sono legittimi», ma dovranno d’ora in poi esser scambiati alla luce del sole. Obama ha fatto solo un accenno indiretto a uno dei punti chiave della riforma, la creazione di una agenzia indipendente per la protezione dei consumatori (potenzialmente all’interno della Fed, è un cavallo di battaglia dei democratici liberal) da speculatori che si comportano «come banditi». Ha invece parlato senza riserve della «riforma delle paghe» che dovrebbe dare agli azionisti voce in capitolo su stipendi e bonus dei manager. Per il presidente il discorso è stato una sorta di ritorno a casa, col tono del ’ve l’avevo dettò. Obama aveva parlato nella stessa sala di Cooper Union nel 2008 da candidato alla Casa Bianca e, in quell’occasione, aveva chiesto al Congresso di dare alla Fed maggiori poteri di supervisione sulle grandi istituzioni finanziarie e regole più severe sui capitali e le liquidità del settore: norme integrate nelle proposte di riforma approdate in questi giorni a Capitol Hill. da lastampa.it Titolo: Barack Obama e la crisi Bp difficile da controllare Inserito da: Admin - Giugno 17, 2010, 06:26:43 pm L'EDITORIALE
Frustrazione di un leader Barack Obama e la crisi Bp difficile da controllare Un altro viaggio nel Golfo per consolare pescatori, gestori di ristoranti e albergatori: il quarto da quando, otto settimane fa, l'America e la Casa Bianca sono sprofondate nell'incubo nero e appiccicoso dell'«oil spill». Poi il messaggio solenne alla nazione dallo Studio Ovale e, ieri, le «sculacciate presidenziali » in diretta tv ai capi della Bp, costretti ad accantonare in un fondo speciale 20 miliardi di dollari per indennizzare le vittime della «marea nera». ESASPERATO - Tra coloro che hanno accesso al team di Barack Obama, c'è chi descrive un presidente esasperato e frustrato per l'accavallarsi di problemi enormi che non ha gli strumenti per risolvere: dalla «coda lunga» della grande recessione che si porta dietro una pesantissima disoccupazione destinata a protrasi per molti anni a una catastrofe ambientale nata da un eccesso di fiducia nella tecnologia e da problemi di ingegneria estranei alle competenze di Obama e ai quali il presidente ha faticato per settimane ad appassionarsi. Per non parlare del fronte esterno: la guerra in Afghanistan che ha preso una bruttissima piega, le nuove difficoltà in Iraq, lo stallo con l'Iran, la situazione esplosiva in Palestina. «Potesse mettere indietro le lancette dell'orologio, probabilmente non si ricandiderebbe» dice qualcuno. SORPASSO - Forse sono solo spifferi, voci dissenzienti che ci sono sempre nelle corti dei potenti, ma non c'è dubbio che Obama sia oggi un presidente e un uomo esasperato: l'alone leggendario, l'entusiasmo della campagna elettorale si sono dissolti da tempo. Il suo carisma era andato in pezzi già durante la battaglia per la sanità. Dopo l'approvazione della riforma, il leader democratico aveva cercato di ricostruirsi un'immagine di «presidente del fare », premendo sul Congresso per un'altra riforma, quella del sistema finanziario. Il disastro della Bp l'ha fatto sprofondare di nuovo in un incubo: un problema sul quale il governo non ha controllo, gli avversari che lo accusano di colpe che non ha, gli amici che lo invitano a non parlare della catastrofe col distacco di un accademico, a mostrare più partecipazione umana al dramma delle vittime dell'onda nera, più rabbia contro Bp. E i sondaggi che, inesorabili, misurano il continuo calo della sua popolarità fino al punto di subire il «sorpasso» di Hillary Clinton. CORRENTE - A corto di strumenti operativi, il presidente che prometteva cambiamenti epocali viene trascinato da una corrente limacciosa: per adesso cerca solo di evitare di schiantarsi contro gli scogli usando meglio le sue doti dialettiche e la forza simbolica della Casa Bianca. Anche per questo ha scelto di parlare per la prima volta dallo studio ovale, il luogo dal quale Bush si rivolse agli americani dopo l'attacco alle Torri Gemelle e Reagan espresse il dolore di un'intera nazione quando la navetta spaziale «Challenger» si trasformò in una palla di fuoco. Riempiendo il suo discorso di termini militari: mobilitazione, piano di battaglia, assedio, missione nazionale. CAMBIARE - Ma, alla fine, il cuore del suo messaggio è l'esortazione a cambiare rotta sull'energia, smettendo di puntare sui combustibili fossili. Le norme che dovrebbero incidere su questa realtà sono, però, bloccate al Senato dove i democratici sono divisi e non hanno comunque più la maggioranza qualificata necessaria per andare avanti. Una riforma che, prudentemente, Obama l'altra sera non ha nemmeno citato. Massimo Gaggi 17 giugno 2010 © RIPRODUZIONE RISERVATA http://www.corriere.it/editoriali/10_giugno_17/frustrazione-di-un-leader-editoriale-massimo-gaggi_fbf27f00-79cd-11df-b10c-00144f02aabe.shtml Titolo: Obama ai governi del G20: «Priorità è rafforzare l'economia» Inserito da: Admin - Giugno 19, 2010, 06:21:21 pm Una LETTERA verso il Vertice di Toronto
Obama ai governi del G20: «Priorità è rafforzare l'economia» Il presidente Usa: «Governi si impegnino sul fronte delle finanze pubbliche senza dimenticare i piani di stimolo» NEW YORK - «La nostra priorità a Toronto è quella di salvaguardare e rafforzare l'economia mondiale. Dobbiamo agire insieme per rafforzare la ripresa. Dobbiamo impegnarci sul fronte delle finanze pubbliche e dobbiamo completare della riforma della finanza». Lo ha affermato il presidente americano Barack Obama in una lettera inviata ai leader del G20 in vista dell'appuntamento di Toronto del 26 e 27 giugno. Il presidente ha ricordato che una «debolezza significativa» è ancora presente nelle grandi economie e nei Paesi in via di sviluppo. «È fondamentale arrivare ad una ripresa in grado di sostenersi da sola che crei i posti di lavoro di cui la gente ha bisogno», ha scritto Obama. Il presidente ha sottolineato che gli incontri del 25-27 giugno dovranno affrontare il problema della stabilizzazione del debito pubblico senza però dimenticare la cautela nel terminare i programmi di stimolo all’economia, essenziali in periodi di scarsa attività economica. NUOVA SFIDA - «A Toronto ci incontriamo in un momento di nuova sfida per l'economia globale: dobbiamo agire insieme per rafforzare la ripresa - si legge nella lettera del presidente - Dobbiamo impegnarci a risanare le finanze pubbliche nel medio termine. E dobbiamo completare la riforma del sistema finanziario. La maggiore priorità a Toronto è quella di salvaguardare e rafforzare la ripresa economica: abbiamo lavorato duramente per ripristinare la crescita e non possiamo ora lasciare che perda forza o si fermi. Questo significa che dobbiamo riaffermare la nostra unità di intenti per fornire il sostegno necessario per mantenere forte la crescita economica». Obama mette in evidenza che «una forte e sostenibile ripresa globale deve essere costruita su una domanda mondiale bilanciata. Significative debolezze esistono fra le economie del G20. Sono preoccupato per la debole domanda del settore privato e la continua forte dipendenza sulle esportazioni di alcuni paesi con già ampi surplus commerciali». RISPONDERE A CALO FIDUCIA - «Nel caso in cui la fiducia nella forza della nostra ripresa economica diminuisca, dobbiamo essere preparati a rispondere velocemente e con la forza necessaria per evitare un rallentamento dell'attività economica», ha scritto ancora Obama. «La nostra capacità di crescere senza gli eccessi che hanno messo le nostre economie a rischio due anni fa richiede che acceleriamo gli sforzi per completare la necessaria riforma finanziaria». Obama sottolinea anche che «risolvere le incertezze in corso sulla trasparenza dei bilanci delle banche e sull'adeguatezza del loro capitale, soprattutto in Europa, aiuterà a ridurre la volatilità dei mercati finanziari e i costi di finanziamento». (Fonte Ansa) 18 giugno 2010 http://www.corriere.it/economia/10_giugno_18/obama-g20_37424604-7ad6-11df-aa33-00144f02aabe.shtml Titolo: Obama: Turchia a pieno titolo in Europa Inserito da: Admin - Luglio 08, 2010, 10:55:18 am INTERVISTA AL PRESIDENTE USA
Obama: Turchia a pieno titolo in Europa «Con Napolitano e Berlusconi rapporto forte, straordinaria l'Italia in Afghanistan» MILANO - La guerra in Afghanistan, il ruolo dell’Italia nel conflitto che si combatte laggiù, il rapporto con Giorgio Napolitano e Silvio Berlusconi, il nodo dell’ingresso della Turchia nell’Unione europea. Sono alcuni dei temi toccati dal presidente degli Stati Uniti Barack Obama in un’intervista esclusiva a Paolo Valentino del Corriere della Sera. «Prima di tutto – ha esordito il presidente - voglio dire personalmente quanto sia grato per il contributo italiano in Afghanistan, che considero straordinario. Tengo in altissima considerazione i vostri sacrifici. (…)Entro la metà del prossimo anno dovremmo cominciare la transizione, ma ciò non significa che d’un tratto la nostra presenza scenderà drasticamente. Piuttosto cominceremo a vedere truppe e polizia afghane prendere il nostro posto. (…). Quanto alla Turchia, «noi riteniamo importante – afferma Obama - coltivare forti relazioni con Ankara. Ed è anche la ragione per cui, sebbene non siamo membri dell’Ue, abbiamo sempre espresso l’opinione che sarebbe saggio accettare la Turchia a pieno titolo nell’Unione. Se si sentono considerati non parte della famiglia europea, è naturale che i turchi finiscano per guardare altrove per alleanze e affiliazioni». E i rapporti con l’Italia, con la sua cultura, con i suoi vertici politici e istituzionali? Il rapporto personale con il presidente Napolitano è veramente speciale come si dice? «Lo trovo una persona ricca di grazia – risponde Obama -. Devo dire che anche con il premier Berlusconi abbiamo sviluppato un rapporto forte. Quando ci incontriamo è sempre un piacere, ridiamo, scherziamo, parliamo di cose concrete. Il premier Berlusconi è stato un grande amico degli Stati Uniti. Il presidente Napolitano l’ho incontrato a Roma e poi di recente qui a Washington. La sua visione di un’Europa forte coincide pienamente con la mia. L’importanza che lui annette al rapporto transatlantico è identica alla mia. In questo senso, l’Italia è fortunata ad avere un ottimo premier e un ottimo presidente».Obama ha anche confessato di avere amato molto da giovane il cinema italiano: Fellini, Antonioni, De Sica. E in letteratura Dante. «Continuo a considerare la regione intorno a Firenze la mia preferita, la luce della Toscana è particolare, conclude il presidente americano». Il testo integrale dell’intervista sul Corriere della Sera oggi in edicola 08 luglio 2010 http://www.corriere.it/esteri/10_luglio_08/obama-intervista-corriere-edicola_71c9bf26-8a50-11df-966e-00144f02aabe.shtml Titolo: BARACK OBAMA Qui ho imparato fede e democrazia Inserito da: Admin - Novembre 10, 2010, 03:19:31 pm 10/11/2010
Qui ho imparato fede e democrazia BARACK OBAMA La terra della mia infanzia è cambiata, ma quello che ho amato dell’Indonesia - lo spirito di tolleranza iscritto anche nella vostra Costituzione e rappresentato dalle vostre moschee, chiese e templi, incarnato nella vostra gente - vive ancora. La religione è, accanto alla democrazia e allo sviluppo, cruciale per la storia indonesiana. L’Indonesia è un luogo dove la gente venera Dio in tanti modi diversi, ma è anche la terra della più numerosa comunità musulmana del mondo, una realtà che ho imparato da ragazzo ascoltando il richiamo alla preghiera che risuonava per Giakarta. Ma come gli individui non sono definiti solo dalla loro religione, l’Indonesia è qualcosa di più di una maggioranza musulmana. Le relazioni tra gli Usa e le comunità musulmane per anni sono state difficili. Da presidente, ho considerato una priorità cominciare a riparare, e al Cairo, nel giugno 2009, ho invocato un nuovo inizio tra gli Usa e i musulmani in tutto il mondo, un inizio che ci permettesse di andare oltre le differenze. Nessun discorso da solo può cancellare anni di diffidenza. Ma credo che abbiamo una scelta. Possiamo scegliere di venire definiti dalle nostre differenze e andare verso un futuro di sospetto e diffidenza. Oppure possiamo scegliere di lavorare duramente per creare un terreno comune e impegnarci per il progresso. E vi posso promettere che gli Usa non abbandonano l’idea del progresso umano. È ciò che siamo. È ciò che abbiamo fatto. È ciò che faremo. Nei 17 mesi trascorsi dal discorso al Cairo abbiamo fatto qualche progresso, ma resta ancora molto lavoro da fare. Civili innocenti in America, Indonesia e nel resto del mondo sono ancora bersaglio di estremisti. L’America non è, e non sarà mai, in guerra con l’Islam. Ma tutti insieme dobbiamo sconfiggere Al Qaeda e i suoi seguaci, che non hanno diritto di dichiararsi leader di nessuna religione, meno che mai di una grande religione mondiale come l’Islam. In Afghanistan, continuiamo a lavorare con una coalizione di nazioni per dare al governo afghano la possibilità di avere un futuro sicuro. Abbiamo fatto progressi su uno dei nostri impegni maggiori, far finire la guerra in Iraq. In Medio Oriente, ci sono state false partenze e retromarce, ma siamo stati tenaci nel perseguire la pace. Non ci devono essere illusioni: la pace e la sicurezza non arriveranno facilmente. Ma non ci devono essere nemmeno dubbi: non risparmieremo nessuno sforzo per raggiungere il risultato, due Stati che vivono accanto in pace e sicurezza. La posta in gioco è alta perché il nostro mondo si fa sempre più piccolo, e le forze che ci collegano aprono nuove opportunità, ma rendono anche più potenti coloro che vorrebbero far deragliare il progresso. In Indonesia, in un arcipelago che contiene alcune delle più belle creazioni di Dio, in isole che sorgono da un oceano che porta il nome di Pacifico, la gente ha scelto di pregare Dio secondo la propria volontà. L’Islam prospera, ma non a danno di altre religioni. Lo sviluppo viene rafforzato da una democrazia emergente. Non significa che l’Indonesia non abbia difetti. Nessun Paese ne è privo. Ma qui si trova l’abilità a gettare ponti sulle divisioni di razza e religione, il talento di vedere se stessi in tutti gli altri. Bambino di una razza diversa da un Paese lontano, trovai questo spirito nel saluto che ricevetti arrivando qui: Selamat Datang. Oggi, visitando una moschea, da cristiano, l’ho ritrovato nelle parole di un leader che, interrogato in merito, ha risposto: «Anche i musulmani possono entrare nelle chiese. Siamo tutti seguaci di Dio». Questa scintilla di divino è in tutti noi. Non possiamo arrenderci al cinismo e alla disperazione. Il passato dell’Indonesia e dell’America ci dice che la storia è dal lato del progresso umano; che l’unità è più potente delle divisioni; e che gli abitanti di questo mondo possono vivere insieme in pace. Che le nostre due nazioni possano cooperare, con fede e determinazione, per condividere queste verità con tutta l’umanità. http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8063&ID_sezione=&sezione= Titolo: BARACK OBAMA Scudo contro il terrore Inserito da: Admin - Novembre 19, 2010, 10:52:58 pm 19/11/2010 - INSIEME PER BATTERE LA MINACCIA DEL CYBER-TERRORE
Scudo contro il terrore "Serve un approccio diverso per assicurarci un futuro più sicuro" BARACK OBAMA Con il vertice della Nato e quello tra Usa ed Unione europea a Lisbona di questa settimana, sono orgoglioso di aver visitato l’Europa un mezza dozzina di volte in qualità di Presidente. Ciò riflette una verità durevole della politica estera americana - il nostro rapporto con gli alleati e partner europei è la pietra angolare del nostro impegno con il mondo, e un catalizzatore per la cooperazione mondiale. Con nessun’altra regione del mondo gli Stati Uniti hanno una tale stretta identità di valori, interessi, capacità e obiettivi. Il più importante rapporto economico del mondo, il commercio trans-atlantico, sostiene milioni di posti di lavoro negli Stati Uniti e in Europa e costituisce la base dei nostri sforzi per sostenere la ripresa economica globale. In quanto alleanza di nazioni democratiche la Nato garantisce la nostra difesa collettiva e aiuta a rafforzare le giovani democrazie. L’Europa e gli Stati Uniti stanno lavorando insieme per prevenire la diffusione di armi nucleari, promuovere la pace in Medio Oriente e affrontare il cambiamento climatico. E come abbiamo visto nei più recenti allarmi in Europa e con il complotto, sventato, per provocare esplosioni sui voli cargo trans-atlantici, cooperiamo ogni giorno nel modo più stretto per prevenire gli attentati terroristici e garantire la sicurezza dei nostri cittadini. Detto in modo semplice, siamo gli uni per gli altri l’alleato più fedele. Né l’Europa né gli Stati Uniti possono affrontare le sfide del nostro tempo senza l’altro. Questi vertici sono quindi un’occasione per approfondire ancora di più la nostra cooperazione e per garantire che la Nato - l’alleanza di maggior successo nella storia umana – rimanga in questo secolo fondamentale come lo è stata in quello precedente. Ecco perché a Lisbona abbiamo un’agenda così ampia. In primo luogo, in Afghanistan, possiamo unire i nostri sforzi per la transizione al comando afghano, anche se naturalmente continuando a garantire al popolo afghano il nostro costante impegno. In Afghanistan la nostra coalizione a guida Nato comprende 48 nazioni, incluso il contributo di tutti i 28 alleati della Nato e di 40.000 truppe dai Paesi alleati e amici, di cui onoriamo lo spirito di servizio e di sacrificio. Il nostro sforzo condiviso è essenziale per sottrarre ai terroristi un porto sicuro, così come è necessario per migliorare la vita del popolo afghano. A Lisbona coordineremo il nostro approccio così da poter iniziare la transizione verso l’affidamento della responsabilità agli afghani all’inizio del prossimo anno, e adottare l’obiettivo del presidente Karzai: fare sì che le forze afghane prendano il comando delle operazioni di controllo e la sicurezza in tutto l’Afghanistan entro la fine del 2014. E a luglio, mentre avrà inizio la riduzione delle truppe americane, la Nato - come gli Stati Uniti, può creare un partenariato duraturo con l’Afghanistan per far capire che quando gli afghani assumeranno il controllo non verranno abbandonati a se stessi. Così come si evolve la situazione in Afghanistan, anche la Nato dovrà trasformarsi a Lisbona dandosi un nuovo Obiettivo strategico che riconosca le potenzialità e i partner di cui abbiamo bisogno per far fronte alle nuove minacce del 21° secolo. Partendo dal riaffermare l’essenza vitale di questa alleanza – l’impegno sottoscritto nell’art. 5: l’attacco a uno è un attacco a tutti. Per garantire che questo impegno abbia un senso, dobbiamo rafforzare la gamma completa delle capacità necessarie a proteggere oggi i nostri uomini e a prepararci alle missioni di domani. Oltre a modernizzare le nostre forze convenzionali abbiamo bisogno di riformare le strutture di comando dell’Alleanza per renderle più efficaci ed efficienti, di investire in tecnologie che consentano alle forze alleate di dispiegarsi e operare insieme in modo efficace, e di sviluppare nuove difese contro minacce come gli attacchi informatici. Un’altra risorsa indispensabile all’Alleanza è la difesa missilistica del territorio della Nato, necessaria per affrontare la minaccia reale e crescente dei missili balistici. L’approccio adattativo per fasi alla difesa missilistica europea che avevo annunciato lo scorso anno fornirà una difesa forte ed efficace del territorio e della popolazione europea e delle forze americane ivi dispiegate. Inoltre, rappresenta la base di una maggiore collaborazione, con un ruolo per tutti gli alleati, la protezione per tutti gli alleati, e un’occasione per la cooperazione con la Russia, che ugualmente si trova sotto la minaccia dei missili balistici. Inoltre bisogna creare le condizioni per la riduzione degli arsenali nucleari e fare passi avanti verso la visione che descrissi lo scorso anno a Praga - un mondo senza armi nucleari. Ma fintanto che queste armi esistono, la Nato dovrebbe rimanere una alleanza nucleare, e ho messo in chiaro che gli Stati Uniti manterranno un arsenale nucleare sicuro ed efficace per dissuadere qualsiasi avversario e garantire la difesa dei nostri alleati. Infine a Lisbona, possiamo continuare a forgiare il rapporto di collaborazione oltre la Nato che contribuisce a rendere la nostra alleanza un pilastro della sicurezza globale. Dobbiamo tenere la porta aperta alle democrazie europee che soddisfano gli standard di adesione alla Nato. Dobbiamo approfondire la cooperazione con le organizzazioni che integrano i punti di forza della Nato, come l’Unione europea, le Nazioni Unite e l’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa. E con la partecipazione del presidente Dmitri Medvedev in occasione del vertice Nato-Russia possiamo riprendere nei fatti una cooperazione pratica tra Nato e Russia a beneficio di entrambe. Infatti, così come gli Stati Uniti e la Russia hanno reimpostato il loro rapporto, possono farlo anche la Nato e la Russia. A Lisbona possiamo mettere in chiaro che la Nato vede la Russia come un partner, non come un avversario. Possiamo approfondire la nostra cooperazione sull’Afghanistan, sulla lotta alla droga e alle sfide alla sicurezza del 21° secolo - dalla diffusione delle armi nucleari a quella dell’estremismo violento. E progredendo con la cooperazione sulla difesa missilistica, possiamo trasformare una passata fonte di tensione in una fonte di cooperazione. Per più di sei decenni, europei e americani sono stati gli uni al fianco degli altri perché il nostro lavoro comune favorisce i nostri interessi e protegge le libertà che ci sono care. Il mondo è cambiato e così deve fare la nostra Alleanza per renderci più forti e più sicuri. Questo è il nostro compito a Lisbona - rilanciare una volta di più la nostra Alleanza per garantire la nostra sicurezza e la nostra prosperità per i decenni a venire. (Traduzione di Carla Reschia) http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8107&ID_sezione=&sezione= Titolo: BARACK OBAMA. Inserito da: Admin - Maggio 26, 2011, 05:50:37 pm 26/5/2011
La mia ricetta per il futuro BARACK OBAMA Sono qui a riaffermare una delle più antiche e solide alleanze mai conosciute. La ragione di questa amicizia così stretta non dipende solo da una storia e una eredità condivise; dai nostri legami di lingua e di cultura; dalla stretta collaborazione tra i nostri governi. La nostra relazione è speciale per i valori e le idee che condividiamo. Insieme abbiamo affrontato grandi sfide. E altre, profonde, si allungano davanti a noi. Arrivano in un momento in cui l’ordine internazionale è già stato ridisegnato per il nuovo secolo. Paesi come la Cina, l’India e il Brasile crescono rapidamente. Dovremmo dare il benvenuto a questo sviluppo, perché ha sollevato dalla povertà centinaia di milioni di persone e creato nuovi mercati e nuove opportunità per i nostri Paesi. Eppure, mentre avvenivano questi rapidi cambiamenti, in alcuni ambienti è diventato di moda chiedersi se la crescita di queste nazioni non si accompagnerà al declino dell’influenza americana ed europea sul mondo. Forse, prosegue quel ragionamento, quelle nazioni rappresentano il futuro e il momento della nostra leadership è passato. Questo ragionamento è sbagliato. Il momento della nostra leadership è ora. In un momento in cui minacce e sfide richiedono un lavoro comune per i nostri Paesi, noi restiamo il più grande catalizzatore di un’azione globale. In un’epoca definita dal rapido flusso dei commerci e delle informazioni, è la nostra tradizione di mercati aperti, la nostra ampiezza di vedute rafforzata dall’impegno per la sicurezza dei nostri cittadini, a offrire le migliori opportunità per un benessere forte e condiviso. Questo non significa che possiamo permetterci di rimanere fermi. La natura della nostra leadership ci chiederà di cambiare insieme ai tempi \. Noi abbiamo in comune l’interesse a risolvere i conflitti che prolungano le sofferenze umane e minacciano di fare a pezzi intere regioni. E condividiamo l’interesse per uno sviluppo che faccia avanzare la dignità e la sicurezza. Per riuscirci, dobbiamo mettere da parte l’impulso a guardare le zone povere del globo come un luogo dove agire con la carità. Dobbiamo invece aiutare gli affamati a sfamarsi da sé. Noi facciamo tutto questo perché crediamo non solo nei diritti delle nazioni, ma anche in quelli dei cittadini. Questo è il faro che ci ha guidati nella lotta contro il fascismo e contro il comunismo. Oggi, quell’idea viene messa alla prova in Medio oriente e in Nord Africa. La storia ci dice che la democrazia non è mai facile. Occorreranno anni prima che queste rivoluzioni arrivino alla loro conclusione, e lungo quella strada ci saranno giorni difficili. Il potere raramente si arrende senza combattere. Ma quello che abbiamo visto a Teheran, a Tunisi e sulla Piazza Tahrir è un anelito alla stessa libertà che noi, a casa nostra, diamo per scontata, è un rifiuto dell’idea che i popoli di alcune parti del mondo non vogliono essere liberi, o hanno bisogno di una democrazia imposta dall’alto. Nessuna esitazione: Stati Uniti e Regno Unito stanno a fianco di coloro che anelano a essere liberi. E adesso dobbiamo mostrare che appoggeremo quelle parole con i fatti. Questo significa investire nel futuro di quelle nazioni che sono sulla strada della transizione alla democrazia, a cominciare dalla Tunisia e dall’Egitto; approfondendo i legami commerciali, aiutandoli a dimostrare che la libertà porta prosperità. Questo significa sostenere i diritti universali sanzionando chi persegue la repressione, rafforzando la società civile, appoggiando i diritti delle minoranze. Lo facciamo sapendo che l’Occidente deve superare il sospetto e la diffidenza di molti in Medio oriente e Nord Africa - una diffidenza che ha le sue radici in un difficile passato. In Libia sarebbe stato facile, all’inizio della repressione, dire che la cosa non ci riguardava, che la sovranità di una nazione è più importante di una carneficina di civili dentro i suoi confini. Questo argomento per alcuni ha un peso. Noi però siamo diversi. Noi ci assumiamo una responsabilità più ampia. E mentre non possiamo fermare ogni ingiustizia, ci sono circostanze che tagliano la testa alle nostre cautele - quando un leader minaccia di massacrare il suo popolo, e la comunità internazionale è chiamata ad agire. Questo è il motivo per cui abbiamo fermato il massacro in Libia. E non ci fermeremo finché i libici non saranno protetti e l’ombra della tirannia cancellata. Procederemo con umiltà, sapendo che non possiamo dettare noi l’esito finale di ciò che succede fuori dai nostri confini. In fin dei conti, sono i popoli stessi a doversi guadagnare la libertà, essa non può essere imposta dall’esterno. Noi però possiamo e dobbiamo essere al fianco di chi combatte per questo. (Estratto dal discorso pronunciato ieri dal Presidente degli Stati Uniti a Westminster Hall, Londra) da - lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/ Titolo: BARACK OBAMA. La mossa del cavallo di Obama. Inserito da: Admin - Settembre 01, 2013, 11:40:38 am La mossa del cavallo di Obama. Una nuova fase nella sua leadership e nel rapporto tra Usa e resto del mondo Pubblicato: 31/08/2013 22:33 "Non sono stato eletto per evitare decisioni difficili". È questa frase probabilmente la chiave per capire cosa passa nella testa di un uomo decisivo oggi per gli equilibri del mondo, quel Presidente Obama che ha annunciato di aver deciso l'attacco in Siria. Definendo così forse una nuova fase della sua leadership, sfidando l'isolamento in cui nei giorni scorsi è stato lasciato dai suoi alleati occidentali. Un isolamento che - anticipiamo - ha rotto, facendo un discorso di guerra in cui ha rovesciato la sua solitudine in un esercizio di leadership, elevando le ragioni della sua decisione dall'intervento specifico su Damasco a una questione di principio più ampia: la sopravvivenza stessa dell'assetto legislativo mondiale. Un brevissimo discorso (e ancora una volta va segnalato il rapporto inversamente proporzionale nel mondo politico anglosassone fra Potenza e Lunghezza della comunicazione) con la definizione di tre questioni. La prima, quella del principio sotteso all'intervento. C'è certo una questione umanitaria, ha detto ricordando i morti e i bambini uccisi dal gas, ma al di là della difesa delle vite di innocenti, l'uso del gas pone domande più ampie, rinvia a scenari ben più catastrofici: "Qual è lo scopo del sistema internazionale che abbiamo costruito se il bando dell'uso delle armi chimiche firmato dal 98% delle nazioni del mondo poi non viene fatto rispettare? Non fatevi illusioni: questo atto ha implicazioni più grandi. Se non imponiamo il rispetto degli accordi di fronte ad atti cosi' odiosi, cosa si penserà della nostra volontà e capacità di confrontare tutti coloro che rompono le regole internazionali? Ad esempio governi che scelgono di costruire armi nucleari? Terroristi che intendono usare armi biologiche? Eserciti che commettono genocidi?". È chiaro in questo discorso l'accenno all'Iran, ad Al qaeda. L'esistenza di una minaccia all'Occidente che va ben oltre la Siria è un richiamo cui è difficile per le nazioni occidentali non rispondere . In questo senso è importante che la seconda questione aperta da Obama sia stato proprio un severo rimprovero delle debolezze dei suoi alleati. L'arma retorica di questo rimprovero è, come si diceva, il ribaltamento della solitudine degli Stati Uniti in manifestazione di leadership. Sull'Onu in particolare Obama è stato molto duro: "Ho fiducia nelle prove che abbiamo senza dover aspettare I risultati degli ispettori Onu. E sono perfettamente a mio agio nel procedere senza l'approvazione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite che fin qui è stato completamente paralizzato". Da anni non si sentivano in bocca di un presidente democratico critiche così pesanti - quelli repubblicani non hanno invece mai nascosto le loro impazienze nei confronti del Palazzo di Vetro. E in quella che appare come una aggiunta a braccio al discorso ufficiale (dove non ce n'è traccia) ha anche rivelato che molte nazioni che gli hanno detto no, "in privato ci hanno detto di procedere". La terza questione sollevata dal Presidente è quella della leadership vera e propria: la sua personale e quella degli Stati Uniti. La scelta di chiedere al Congresso di approvare (o meno) la sua decisione siriana, è stata fatta in quanto "Presidente della più antica democrazia costituzionale del mondo. Ho sempre creduto che il nostro potere è basato non solo sulla nostra forza militare, ma sull'esempio di un governo del popolo, fatto dal popolo, per il popolo." Interessante che per sottolineare questa sua convinzione abbia anche fatto una seconda rivelazione, un piccolo gossip: "Come conseguenza del voto in Inghilterra, molti mi hanno consigliato di non portare la discussione in Congresso", ma " tutto ciò è troppo importante perché venga trattato come un affare corrente". Infine Obama ha affrontato la domanda che gli viene ripetuta da molte parti: non era stato nominato per finire le guerre dell'era Bush? "So che siete stanchi della guerra" ha detto rivolgendosi direttamente ai cittadini, "ma tutti sappiamo che non ci sono facili vie d'uscita. E io non sono stato eletto per evitare decisioni difficili". È questa la frase di cui parlavamo all'inizio. L'intervento è dunque una classica mossa del cavallo che mostra, al di là dell'essere o meno d'accordo con la sua decisione, che il Presidente democratico ha ancora capacità e voglia di essere un leader e di difendere il ruolo degli Stati Uniti. Da questo discorso in poi, tuttavia, ci sono infinte incognite. La prima e' quella del congresso: voterà a favore della posizione presidenziale, visto che negli Stati Uniti il consenso a questo intervento militare è bassissimo? La seconda è quella delle prove. Obama dice di aver fiducia nel dossier del suo governo, ma dove sono le sue prove, e sono davvero convincenti? Il passaggio e' essenziale. La terza ha a che fare con l'intervento in sé. La Siria è l'alveare di tutti in conflitti del medioriente, il vaso di Pandora (come spesso viene chiamato) in cui si ritrovano tutte le lacerazioni della regioni. Assad è difeso da Iran e da Hezbollah in Libano. È attaccato dalle monarchie Sunnite del Golfo, che hanno buona responsabilità anche nel chiudere gli occhi su un forte filone quaedista nelle file di coloro che si ribellano a Damasco. La Siria, infine, è confinante con Israele, con cui da anni va avanti una Guerra a bassissima intensità. Toccare questo alveare, sia pur con solo un piccolo fuoco, un bombardamento limitato nel tempo e nei modi, come Obama promette, può facilmente tramutarsi nella esplosione dello scontro in mille pezzi, un contagio del conflitto di un'area più vasta , inclusa la nostra, sotto forma di terrorismo. L'obiezione (fatta anche da alcuni ambienti militari americani) a questo intervento Usa ha a che fare con la sua efficacia, con il rapporto fra risposta alle atrocità e pericolo di una accelerazione delle dimensioni stesse della guerra. Queste immagini drammatiche sono state diffuse dagli attivisti siriani. Mostrano adulti e bambini stesi al suolo, molti senza vita. Le pubblichiamo in quanto documento della guerra civile che sta dilaniando la Siria. da - http://www.huffingtonpost.it/lucia-annunziata/la-mossa-del-cavallo-di-obama-nuova-leadership_b_3849740.html?utm_hp_ref=italy%3E&ref=HREA-1 Titolo: Obama Reagire contro le stragi di Assad - Lascia spiraglio: proposta Putin serve Inserito da: Admin - Settembre 11, 2013, 11:00:08 am CRISI SIRIANA
Obama: «Reagire contro le stragi di Assad» Ma lascia spiraglio: proposta Putin «serve» Il presidente Usa alla nazione. «Il Paese è stanco delle guerre, il nostro intervento non sarà a tempo indeterminato» «Se non reagiamo, Assad continuerà ad usare le armi chimiche. E forse altri lo seguiranno. Nell'interesse della sicurezza nazionale degli Stati Uniti bisogna rispondere, servirà da deterrente. Quando si deve fermare l'uccisione di bambini con i gas gli Stati Uniti hanno il dovere di agire»». Lo ha detto il presidente degli Stati Uniti Barack Obama in un discorso rivolto alla nazione. Determinato a condurre il raid, ma anche a scongiurarlo qualora dalla diplomazia arrivasse una soluzione. Obama, rivendicando l'uso della forza contro Assad, ha infatti chiarito che la decisione verrà discussa al Congresso, anche se dopo aver battuto la strada, appunto, della diplomazia: «Oltre che comandante delle forze armate Usa sono anche il presidente della più antica democrazia costituzionale del mondo: ecco perchè ritengo che la cosa migliore è spostare questa discussione in Congresso. Non schiererò truppe americane in Siria - è stata la solenne promessa fatta in tv -. Il nostro Paese è stanco delle guerre. Sarà un intervento non a tempo indeterminato e mirato per scoraggiare uso di armi chimiche. L'apparato militare americano colpisce forte. Colpiremo forte, dobbiamo scoraggiare Assad dall'uso di armi chimiche». LA MEDIAZIONE RUSSA: «UTILE» -Quanto alla proposta russa, «è troppo presto per dire quanto avrà successo, ma potrebbe consentire - sostiene Obama - di togliere di mezzo le armi chimiche senza un intervento militare». TENSIONE ALTA - La tensione sulla Siria resta comunque alta. Damasco infatti ha accettato la proposta russa di mettere le armi chimiche siriane sotto il controllo internazionale. E soprattutto il ministro degli Esteri siriano, Walid Muallem, ha annunciato che il regime è pronto a firmare la Convenzione sulle armi chimiche del 1993, cui la Siria non aveva mai aderito; mostrerà quindi i suoi arsenali e bloccherà la produzione di armi chimiche. Ma la proposta di Mosca «può funzionare solo se gli americani e tutti coloro che li sostengono respingono l'uso della forza», ha detto il presidente russo Putin. Auspicando che la proposta sia «un buon passo verso una soluzione pacifica» della crisi siriana. Intanto il Consiglio di sicurezza Onu ha rinviato la riunione, chiesta da Mosca, prevista per la serata. Il presidente americano Obama, dal canto suo, ha chiesto al Congresso di ritardare il voto di ritardare il voto sull'intervento militare degli Usa in Siria per dare una chance all'opzione diplomatica. DIPLOMAZIA - La Casa Bianca valuta le proposte, ma ha riferito che i leader di Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia preferiscono tutti una soluzione diplomatica della vicenda. Tutti sono d'accordo sulla necessità che la comunità internazionale valuti una «ventaglio completo di risposte». Nel pomeriggio Obama ha parlato al telefono con l'omologo francese Hollande e il premier britannico David Cameron: il portavoce della Casa Bianca, Jay Carney, ha detto che i tre sono d'accordo sul fatto che il Consiglio di sicurezza Onu valuti la proposta della Russia per mettere le armi chimiche siriane sotto controllo internazionale. I leader «hanno parlato della loro preferenza per una soluzione diplomatica ma hanno anche messo in luce l'importanza di continuare a sviluppare un'ampia serie di risposte». DOMANDE SENZA RISPOSTA - Se da una parte la comunità internazionale plaude la proposta russa perché significherebbe allontanare, almeno momentaneamente, la guerra, dall'altra alcuni si pongono alcune domande sulle ragioni di una decisione simile. La Gran Bretagna prima fra tutte: «Sussistono delle domande serie che richiedono risposte circa la proposta russa sulla consegna di armi chimiche da parte della Siria», ha commentato il primo ministro britannico, David Cameron. LO SCETTICISMO DI ISRAELE - Dubbi sull'ipotizzato piano di sorveglianza e controllo dell'arsenale di Damasco vengono da Israele. Il governo di Tel Aviv è scettico sulla proposta di mettere le armi chimiche sotto il controllo internazionale e pensa che Damasco possa sfruttarla per «prendere tempo». A dirlo è stato Avigdor Lieberman, presidente della commissione Affari esteri e Difesa del Parlamento israeliano, intervistato da Israel Radio. «Assad sta guadagnando tempo, e molto anche», ha detto l'ex ministro degli Esteri e alleato del premier Netanyahu. Secondo Lieberman, la Siria sta tenendo la situazione in stallo, come l'Iran avrebbe fatto durante i primi negoziati sul nucleare quando affrontava un'offerta di trasferire all'estero le sue riserve di uranio arricchito. Lieberman ha detto che lo Stato ebraico non ha dettagli sull'offerta di Mosca e che non è chiara la logistica di un eventuale trasferimento delle armi nucleari, che secondo la proposta russa sarebbe poi propedeutico a una loro distruzione. Anche il presidente israeliano Shimon Peres si è pronunciato sulla proposta di Mosca, dicendo che i negoziati per il trasferimento delle armi chimiche sarebbero «duri» e che la Siria «non è affidabile». 10 settembre 2013 (modifica il 11 settembre 2013) © RIPRODUZIONE RISERVATA Redazione Online da - http://www.corriere.it/esteri/13_settembre_10/siria-russia-risoluzione_efbb66ce-19fd-11e3-bad9-e9f14375e84c.shtml Titolo: Obama: “Su Difesa si può risparmiare. Ma Ue spende poco rispetto a Usa” Inserito da: Admin - Marzo 29, 2014, 11:22:41 am Sei in: Il Fatto Quotidiano > Politica & Palazzo >
Obama: “Su Difesa si può risparmiare. Ma Ue spende poco rispetto a Usa” Incontro a Villa Serena tra il presidente americano e Renzi: "Gli americani spendono più del 3% del Pil, l'Europa l'1%". Il presidente del Consiglio: "Nel rispetto degli accordi verificheremo i budget". Ma il capo della Casa Bianca sostiene le riforme del premier: "Sa cosa fare, sono rimasto colpito dalla sua visione. E il dibattito europeo tra crescita e austerity è sterile" di Redazione Il Fatto Quotidiano | 27 marzo 2014 Crisi, crescita, occupazione, austerity, politica estera. Ma l’incontro tra il presidente del Consiglio Matteo Renzi e il presidente degli Stati Uniti Barack Obama è sinonimo soprattutto di difesa. Il gap tra le spese di difesa Usa ed europee in seno alla Nato “è diventato troppo significativo”, ha scandito Obama, secondo cui ognuno deve farsi carico della propria parte di fardello. “Non ci può essere una situazione in cui gli Usa spendono più del 3% del loro Pil nella difesa, gran parte concentrato in Europa” mentre “l’Europa spende l’1%: il divario è troppo grande”, “siamo una partnership nella Nato” e bisogna “fare in modo che tutti paghino la giusta quota”, ha spiegato il presidente Usa. Dall’altra parte, però, “negli Usa abbiamo ridotto le spese per la difesa – ha aggiunto il capo della Casa Bianca rispondendo a una domanda sui tagli dell’Italia – Riconosco che in Europa, ne ho parlato con Napolitano e Renzi, ci sono opportunità per una maggiore efficienza e rendimento”. E’ possibile avere risparmi anche nel settore della Difesa, ma “c’è un certo impegno irriducibile che i Paesi devono avere se i Paesi vogliono essere seri nell’alleanza Nato e nella Difesa”. E Renzi in qualche modo conferma: “Ha ragione Obama quando dice che la libertà non è gratis – dichiara il presidente del Consiglio – L’Italia ha sempre fatto la sua parte consapevole delle proprie forze. Il tema dell’efficienza dei costi della pubblica amministrazione e della difesa sono sotto gli occhi di tutti e nel rispetto della collaborazione provvederemo a verificare i nostri budget”. Ad ogni modo Italia e Stati Uniti hanno confermato di avere una linea unitaria sulla crisi ucraina. “A Bruxelles abbiamo condiviso la dura e forte protesta per le scelte contro il diritto internazionale compiute da Russia” ha detto Renzi. ”Continuiamo a sperare – ha aggiunto Obama – che la Russia attraversi la porta della diplomazia e collabori con tutti noi per risolvere la questione ucraina in modo pacifico”. Renzi: “Ora il Yes we can vale per noi” “Tutti i giornalisti italiani sanno che Obama non solo è il presidente Usa: per me e la mia squadra è fonte di ispirazione” ha esordito Renzi dopo l’incontro con il presidente Usa Barack Obama a Villa Madama. ”Il dialogo di oggi conferma la grande amicizia e partnership” tra Italia e Usa che d’altra parte hanno “valori comuni”, ha ribadito Renzi. Secondo il capo del governo la sfida lanciata da Obama alle relazioni tra Ue e Usa “è affascinante”. La sfida per l’esecutivo, ha assicurato il presidente del Consiglio, è cambiare l’Italia per cambiare l’Europa che non dev’essere solo una terra di diritti, libertà e pace, ma anche “di crescita e occupazione”. ”I nostri nonni – ha ricordato Renzi – hanno combattuto per l’Europa, gli Usa hanno combattuto per salvare la democrazia in Europa. Mia mamma piangeva davanti alle immagini del crollo del muro di Berlino. Serve un percorso di unificazione dell’Europa in cui l’Europa sia terra di cooperazione ma anche di crescita e occupazione”. La visita di Obama, insiste Renzi, “non è solo un gesto simbolico, ma un incoraggiamento”. Possono essere gli Stati Uniti un modello? “Certo – risponde Renzi – Abbiamo chiamato Jobs Act un percorso per restituire spazio e credibilità per i giovani che oggi sono disoccupati. Ma quello che è fondamentale è che Italia faccia il proprio compito, dia corpo a riforme strutturali che aspettiamo da 20 anni: su questo si gioca la nostra credibilità”. Tale è l’ispirazione, in ogni caso, che la visita di Obama, dice il presidente del Consiglio, è un “appuntamento molto importante per nostro governo. Quel messaggio che ha caratterizzato la campagna di Obama, ‘Yes we can‘, oggi vale anche per noi in Italia”. ” L’Italia – ribadisce – non ha alibi, agli italiani dico: non cerchiamo scuse, dobbiamo cambiare noi stessi”. Obama: “Italia fortunata con Napolitano. Renzi? Colpito dalla sua visione” Il presidente degli Stati Uniti Barack Obama ha cominciato il suo intervento con un saluto in italiano (“Buon pomeriggio”) e esprimendo la gioia dell’incontro con Papa Francesco e con il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano (con il quale Obama ha un rapporto stretto da tempo): “L’Italia è fortunata ad avere un uomo di Stato così forte, che aiuta il Paese in momenti così difficili” ha detto il presidente americano. Obama si dice ansioso di accogliere Renzi alla Casa Bianca. ”Avevo già conosciuto Renzi quando era sindaco, spero di accoglierlo presto negli States come presidente del Consiglio. Italia e Usa condividono legami molto forti, che riguardano la famiglia e la storia – dichiara Obama – Gli Usa sono la chiave di volta dei rapporti tra Ue e resto del mondo, sono colpito dalla visione che Renzi porta con sé in questo nuovo incarico. Credo che questo sarà positivo per l’Italia e per l’Europa tutta. È una nuova generazione di persone che governano l’Italia”. “La crescita europea – continua Obama – è ancora molto lenta e il tasso di disoccupazione ancora molto alto. Ciascun Paese dovrà affrontare diverse questioni e Renzi lo sa. Penso che Renzi abbia identificato alcune delle riforme strutturali necessarie” per far andare avanti l’Italia e farla uscire dalla crisi. ”Nessuno sa meglio di Renzi – fa parte della sua missione – che deve rinvigorire l’economia italiana. Ciascun paese ha pregi e difetti in economia e Renzi ha identificato delle riforme strutturali che l’Italia deve compiere. Ho fiducia in lui, sarà in grado di portare avanti l’Italia”. Il presidente Usa: “Crescita o austerity? Dibattito sterile: più si cresce, più conti in ordine” E anche Obama tifa per la crescita: il dibattito in Europa tra “crescita e austerity è un dibattito sterile – dice – le finanze pubbliche devono essere in ordine ma più si cresce e più i conti sono in ordine”. “Chi gode della globalizzazione è ai vertici – precisa il capo della Casa Bianca- ma chi è in mezzo ha sempre più dei problemi. Dobbiamo raddoppiare gli sforzi per educare i giovani e fornire competenza per il lavoro. E’ fondamentale sostenere i giovani e i disoccupati e so che il governo italiano lo sta facendo”. Da - http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/03/27/renzi-a-obama-per-me-e-per-la-mia-squadra-e-fonte-di-ispirazione/928759/ Titolo: Napolitano a Obama: La Russia è importante bisogna coinvolgerla Inserito da: Admin - Marzo 29, 2014, 12:15:38 pm Esteri
28/03/2014 - Al Quirinale Napolitano a Obama: “La Russia è importante bisogna coinvolgerla” Quinto incontro dal 2009, intesa su occupazione e difesa. Il presidente americano elogia la nostra leadership in Nord Africa È presto per sapere se e quale sarà il trade-off, ovvero la compensazione per l’Italia a fronte della nomina dell’ex premier laburista Stoltenberg alla Nato - che è ormai data per certa - o se vi sarà una (ulteriore) diluizione nel tempo sugli ordinativi degli F35, tutte cose sulle quali lo scambio di vedute è avvenuto in un colloquio personale e diretto tra Giorgio Napolitano e Barack Obama. In quei venti minuti nello Studio alla Vetrata il presidente italiano ha avuto modo di illustrare al presidente americano - che lo stima pubblicamente per saggezza e statura politica - le «difficoltà oggettive» insite nei limiti al potere di grazia presidenziale, oltre che nella situazione assai complessa nella politica italiana stessa e nella pubblica opinione. Insomma, difficile se non impossibile cancellare la condanna all’ ex capo Cia Robert Seldon Lady, ultimo dei condannati per la rendition di Abu Omar, il cui nome però pare non sia stato neanche pronunciato, né alla Vetrata né a colazione nel sontuoso Salone degli Specchi. Venti minuti faccia a faccia, quasi 40 con le delegazioni, e oltre tre quarti d’ora a tavola, c’è stato tempo per dispiegare una conversazione a tutto campo, in un clima che uno dei testimoni oculari definisce «di grande e cordiale reciproca comprensione». Al quinto incontro, ormai possono dire di conoscersi bene. Al punto che Obama può formulare con calore i convenevoli anglosassoni, il «nice to see you again» di saluto con un classico riferimento meteorologico, «Roma è bella anche con la pioggia». Poi si è entrati subito nel vivo. Si sa da tempo che in un mondo ormai multipolare gli americani ritengono di non dover più giocare il ruolo di tutori dell’ordine mondiale, e per questo al Colle come pubblicamente il presidente Usa ha ripetuto che «gli Stati Uniti non possono spendere per la difesa il 3 per cento del Pil, mentre i Paesi europei si fermano sotto l’un per cento». Ma proprio per questo, quando s’è affrontato il tema della crisi ucraina, incastonato in un discorso sulla necessità dell’impegno congiunto e transatlantico per far fronte alle molteplici sfide, Napolitano ha esortato nel suo perfetto inglese a guardare oltre la crisi nei rapporti con Mosca, un Paese «influente in molti scenari», ovvero nell’intero Medio Oriente a cominciare dall’Iran e dalla Siria. «Non dobbiamo perdere la prospettiva, che si va coltivando da anni, di coinvolgere e responsabilizzare la Russia, nel confronto con le molteplici sfide globali e le minacce alla sicurezza comune che vengono da più fronti, dal terrorismo internazionale alla non-proliferazione nucleare», ha scandito Napolitano racchiudendo in una frase sola scenari geopolitici, e la storia dell’avvicinamento a Mosca che data ormai dal primo G8 del 1998. L’Europa «deve farsi maggior carico di se stessa» specie ora che la fase peggiore sembra passata, ha detto Obama, «occorre mettere l’accento sulla crescita». Napolitano ha ribattuto segnalando il contributo dell’Europa alla ripresa economica generale e al superamento della crisi, aggiungendo che adesso (e vale soprattutto per l’Italia) occorre tener presente «le esperienze e i risultati ottenuti dagli Stati Uniti». Il presidente americano ha ringraziato il nostro Paese per gli sforzi compiuti in Nord Africa, a cominciare dalla Libia, e Napolitano ribadito che l’Italia ha un forte impegno e un ruolo prioritario nella costruzione di uno stabile equilibrio politico e statuale di Tripoli. Comuni le preoccupazioni per la situazione in Egitto, e una speranza per la Tunisia che, è l’analisi del presidente Usa e non solo, può essere d’esempio nel virtuoso cammino intrapreso sulla via della democrazia, ben impostato grazie alla nuova Costituzione che riconosce i diritti civili e anche quelli delle donne. Alla fine, si sono salutati. Come due amici di vecchia data. E chissà se Obama ha trovato con Napolitano quell’«empatia» che a Bruxelles aveva indicato come via maestra per evitare le guerre col vicino, sia esso un Paese o un semplice concittadino a rischio povertà. Da - http://lastampa.it/2014/03/28/esteri/napolitano-a-obama-la-russia-importante-bisogna-coinvolgerla-6mDB0Ew8zHZlySOPKZQWPJ/pagina.html Titolo: Se Barack Obama è un presidente divenuto «paria» Di Massimo Gaggi Inserito da: Admin - Ottobre 22, 2014, 06:03:32 pm Diplomazie
Se Barack Obama è un presidente divenuto «paria» Di Massimo Gaggi Non è la prima volta che un presidente a metà del suo mandato alla Casa Bianca soffre di un drammatico calo della popolarità. Successe perfino a Bill Clinton. George Bush otto anni fa risolse il problema limitando le sue apparizioni a qualche cena per la raccolta di fondi elettorali. Fu sbeffeggiato dalla stampa perché i candidati repubblicani alle elezioni di «mid term» non ne volevano sapere di dividere il palco dei loro comizi col presidente. Nessuno, fino a qualche tempo fa, immaginava che qualcosa del genere potesse avvenire anche con un Barack Obama. Invece è successo: anche lui una presenza ingombrante nella difficilissima campagna elettorale dei democratici: una sconfitta già messa in conto al presidente che aveva suscitato più speranze e che, quindi, è diventato il catalizzatore di tutte le delusioni. Ma Barack, al quale non fa difetto l’orgoglio, non ha accettato il ruolo di presidente invisibile. Dopo aver limitato per molte settimane la sua attività di partito alle cene per il «fund raising», ha voluto provare a smentire i suoi critici presentandosi a qualche comizio. I risultati sono stati talmente deludenti da spingere perfino un giornale «amico» come il Washington Post a parlare in un editoriale di «presidente paria». Il giornale ironizza su un presidente invisibile e intoccabile che viaggia su un visibilissimo jumbo jet. Che fare se Barack ha indici di gradimento molto bassi soprattutto negli Stati dove i conservatori sono più forti? Gli strateghi hanno deciso di mandare i personaggi più popolari - Michelle Obama, il vicepresidente Joe Biden e anche Bill Clinton - nei collegi «di confine», dove la partita elettorale è ancora aperta. L’«onore» di condividere il palco col presidente è stato riservato a candidati di collegi sicuri, coi democratici in vantaggio di almeno dieci punti nei sondaggi: un comizio a Chicago, nel suo Stato, l’Illinois, e un altro in Maryland, alle porte di Washington. Qui nel 2012 Obama prese il 90 per cento dei voti. Spalti gremiti, ma l’iniziale calore svanisce nelle pieghe di un discorso notarile. La gente comincia a defluire quando Barack non è ancora a metà del suo intervento. Un clima da sconfitta annunciata. 22 ottobre 2014 | 10:45 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/esteri/14_ottobre_22/se-barack-obama-presidente-divenuto-paria-8d95de02-59c6-11e4-b202-0db625c2538c.shtml Titolo: Alessandra Farkas, Lo scrittore Jay McInerney: il successo di «House of Cards» Inserito da: Admin - Novembre 09, 2014, 11:42:52 am L’intervista
«Il freddo Barack dopo la sberla saprà risorgere» Lo scrittore Jay McInerney: il successo di «House of Cards» prova il cinismo verso i palazzi del potere. E oggi i «cattivi» al comando sono i repubblicani Di Alessandra Farkas, corrispondente da New York La conferenza stampa di Barack Obama dopo le elezioni di Midterm (Reuters) La conferenza stampa di Barack Obama dopo le elezioni di Midterm (Reuters) «Queste elezioni di Midterm vanno lette come un sonoro schiaffo in faccia ad Obama - spiega Jay McInerney -. Si è trattato di un referendum sul presidente e lui ha perso perché oggi è estremamente impopolare». All’indomani della riconquista di Camera e Senato da parte del partito repubblicano, l’autore di «Le Mille Luci di New York» e «L’ultimo Scapolo» si riscopre a criticare un presidente «che ho votato due volte e per cui continuo a tifare». Cosa c’è dietro quella che i media hanno definito «un’ondata di rabbia»? «Anche i candidati democratici sono fuggiti da lui come fosse un appestato. C’è che l’economia si è ripresa ma non quanto la classe medio-bassa sperava. E poi i repubblicani hanno sfruttato a loro vantaggio le crisi internazionali, da Ebola a Isis, incolpando Obama di non averle sapute prevenire e gestire. Spesso i presidenti vengono colpevolizzati per circostanze fuori dal loro controllo solo perché sono i politici più potenti di tutti. Il mondo sta diventando sempre più pericoloso e insicuro e quando ha paura la gente cerca un capro espiatorio. Proprio la politica estera, che tradizionalmente non entra nelle elezioni di Midterm, ha svolto un ruolo insolitamente di primo piano». Da Dwight Eisenhower a Ronald Reagan e da Bill Clinton a George W. Bush, il partito di ogni presidente al secondo mandato prende sempre la batosta alle elezioni di Midterm . «È una costante della politica americana perché dopo sei anni gli elettori cominciano a stancarsi del presidente, a quel punto in odore di monarca. Ma nel caso specifico credo sia intervenuto anche il fattore razza. Una percentuale non indifferente dell’elettorato è razzista e fin dall’inizio non c’è stato nulla che egli potesse dire o fare per cambiare l’innato disprezzo di questi individui. I media americani e lo stesso Obama non amano toccare questo tasto e ciò secondo me è un errore perché non risolvi nulla nascondendo il problema sotto il tappeto». Gli errori di Obama e del Partito democratico? «Obama non è riuscito a comunicare agli elettori i successi della sua amministrazione. La sua proverbiale freddezza l’ha penalizzato anche coi membri del Congresso perché sin dall’inizio egli si è rifiutato di adattarsi alla politica delle strette di mano e dei rapporti personali con deputati e senatori con cui è costretto a lavorare. Se possedesse doti umane e comunicative maggiori forse oggi non si troverebbe in questo pantano». Che cosa l’ha sorpresa di più in queste elezioni? «Il fatto che, dopo essersi battuti per anni contro l’Obamacare, i repubblicani adesso non ne parlino più perché hanno capito che funziona ed è popolarissima tra gli elettori. La legge passerà alla storia come il suo traguardo più importante, che ha sottratto l’America all’imbarazzo di essere l’unica grande democrazia dove solo i ricchi potevano curarsi». Per cos’altro sarà ricordato? «Per averci portato fuori dall’Iraq e dall’Afghanistan e non aver iniziato nuove guerre. Non è stato un grande presidente ma ha ancora tempo per diventarlo». Non crede che sia ormai anche lui un’anatra zoppa? «Obama continuerà a usare l’arma dell’executive action per varare nei prossimi mesi una delle più importanti riforme dell’immigrazione della nostra storia. Ora che hanno la maggioranza, i repubblicani saranno costretti a lavorare con lui perché se continueranno nell’ostruzionismo alle prossime elezioni presidenziali gli elettori li puniranno». Se la sente di fare previsioni sul 2016? «Quest’ultima sconfitta democratica finirà per aiutare Hillary Clinton perché ogni minimo passo falso del Congresso repubblicano aiuterà la sua causa. L’enorme popolarità della serie House of Cards testimonia del cinismo diffuso verso i palazzi del potere. Dove oggi i “cattivi” che comandano sono i repubblicani» . @afarkasny 6 novembre 2014 | 07:43 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/esteri/14_novembre_06/freddo-barack-la-sberla-sapra-risorgere-764b8d14-657e-11e4-b6fa-49c6569d98de.shtml Titolo: Barack Obama HA PERSO O COMINCIA A VINCERE ADESSO? Inserito da: Admin - Novembre 12, 2014, 04:08:18 pm La svolta arriva sul clima
Intesa storica tra Cina e America Dopo 17 anni di veti incrociati, Pechino e Washington pronti ad annunciare uno storico accordo. Sono i due Paesi che producono più emissioni al mondo Di Massimo Gaggi, inviato a Pechino PECHINO «Vedete che bel cielo blu? Purtroppo è blu Apec: è provvisorio, svanirà dopo il vertice». È lo stesso presidente Xi Jinping a fare dell’amara ironia sull’inquinamento ormai soffocante prodotto dalla rapida industrializzazione cinese: smog solo momentaneamente svanito perché una settimana prima del vertice Asia-Pacifico il governo ha ordinato il blocco di fabbriche e centrali elettriche nel raggio di 200 chilometri da Pechino e ha ridotto drasticamente il traffico chiudendo scuole e uffici pubblici. Così ieri - oltre a discutere di sviluppo dei commerci, del ruolo geopolitico degli Stati Uniti in Estremo Oriente e delle cose da fare per evitare che le frizioni tra la superpotenza americana e la nuova potenza cinese sfocino in un’altra guerra fredda - Barack Obama e Xi Jinping hanno parlato a lungo proprio di inquinamento e mutamenti climatici arrivando a un accordo «storico» che sarà quasi certamente annunciato oggi. Lo hanno fatto prima nella passeggiata fuori programma nella Città Proibita, accompagnati solo dai loro interpreti, poi nella cena di Stato, nella residenza presidenziale di Zhongnanhai. Ieri a Pechino è stata la giornata delle intese commerciali: le promesse di ampliare gli accordi di libero scambio più volte formulate in questi anni in sede Apec e ribadite ieri con enfasi dalla presidenza cinese, ma soprattutto l’accordo Usa-Cina per la cancellazione dei dazi che gravano sui prodotti di tecnologia digitale avanzata: dai sistemi basati sul Gps ai semiconduttori, alle apparecchiature biomedicali come Tac, risonanze magnetiche e macchine per la radioterapia anticancro. Oggi - insieme agli approfondimenti delle questioni politiche come il ruolo della Cina sul nucleare iraniano, il suo impegno nella lotta contro i terroristi dell’Isis, la mobilitazione contro Ebola - sarà il giorno dei patti sull’ambiente tra i due Paesi che di gran lunga producono più emissioni inquinanti al mondo. Per anni la firma di un nuovo protocollo paragonabile a quello siglato a Kyoto ormai 17 anni fa è stata resa impossibile dai veti incrociati: agli Usa contrari ad assumere impegni non condivisi anche dalle nuove potenze emergenti (e assai inquinanti), Pechino replicava che un Paese ancora in via di sviluppo, con grosse sacche di povertà, non può essere assoggettato agli stessi vincoli imposti alle nazioni industrializzate della parte più ricca del mondo. Una rigidità che si è attenuata di recente: la Cina ha capito che deve cambiare modello di sviluppo non per fare un favore al mondo industrializzato ma perché l’intero Paese sta diventando una camera a gas, mentre Obama - che sull’ambiente ha un nervo scoperto fin dal fallimento della conferenza di Copenaghen del 2009, il suo primo insuccesso a livello internazionale - vorrebbe chiudere la sua esperienza alla Casa Bianca firmando un nuovo protocollo sul clima alla conferenza mondiale che l’Onu terrà l’anno prossimo a Parigi. L’incontro bilaterale a sorpresa di ieri alla Città Proibita e la cena-fiume durata due ore più del previsto fanno ben sperare per intese tra le due grandi potenze più ampie di quelle ipotizzate alla vigilia. Accordi in campo militare per evitare che incidenti isolati nei territori contesi tra Pechino e altri Paesi dell’area possano sfociare in conflitti. Ma anche un maggior coinvolgimento del governo di Pechino nella gestione delle grandi questioni mondiali, dall’emergenza per Ebola alla lotta contro i terroristi dell’Isis, alla pressione sull’Iran perché rinunci a ogni programma nucleare militare. Un rasserenamento dei rapporti tra le due capitali annunciato ieri mattina dall’accordo per l’eliminazione delle barriere tariffarie sull’hi-tech. L’ultima intesa in sede Wto risale a 16 anni fa, quando molte delle tecnologie oggi più diffuse nemmeno esistevano. Ma tutti i tentativi di aggiornarne i contenuti erano fin qui naufragati. Poi, nei giorni scorsi, la svolta che ora dovrebbe rendere possibile un nuovo accordo nell’ambito dell’Organizzazione mondiale del Commercio. Mentre sul libero scambio gli Usa, pur andando avanti col loro progetto (l’alleanza Tpp che esclude la Cina) hanno deciso di non ostacolare il progetto «alternativo» sostenuto da Pechino, il Ftaap, che, dopo otto anni di negoziati, è ancora a livello di studio di fattibilità. 12 novembre 2014 | 07:15 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/esteri/14_novembre_12/svolta-arriva-clima-intesa-storica-cina-america-842c4ed8-6a32-11e4-bebe-52d388825827.shtml Titolo: Obama: "Un errore sostenere intervento Nato nel 2011" Inserito da: Arlecchino - Marzo 10, 2016, 06:00:48 pm Libia, il bilancio di Obama: "Un errore sostenere intervento Nato nel 2011"
Lunga intervista del presidente Usa a The Atlantic: "Ho avuto troppa fiducia che europei, vista vicinanza, seguissero follow-up". Definisce gli alleati 'free rider', opportunisti. Critica Sarkozy, Cameron, sauditi. Ma si dice "orgoglioso" di aver fatto marcia indietro sui raid in Siria per punire l'uso di armi chimiche di Assad 10 marzo 2016 WASHINGTON - "Quando mi guardo indietro e mi chiedo cosa sia stato fatto di sbagliato - ha spiegato Obama - mi posso criticare per il fatto di avere avuto troppa fiducia nel fatto che gli europei, vista la vicinanza con la Libia, sia sarebbero impegnati di più con il follow-up". Con il Pentagono che prepara i piani per un nuovo intervento in Libia, Barack Obama ammette che il suo sostegno all'intervento della Nato nel 2011 fu "un errore", dovuto in parte alla sua errata convinzione che Francia e Gran Bretagna avrebbero sostenuto un peso maggiore dell'operazione. "Non ha funzionato" e "nonostante tutto quello che si è fatto, la Libia ora è nel caos", ha detto il presidente in una lunghissima intervista sulla sua politica estera al The Atlantic, che la titola 'The Obama doctrine', durante la quale bolla gli alleati, dei paesi del Golfo ma anche europei, come "opportunisti". E fa il nome del presidente Nicolas Sarkozy "che voleva vantarsi di tutti gli aerei abbattuti nella campagna, nonostante il fatto che avessimo distrutto noi tutte le difese aeree". Poi l'affondo, anche questo andava bene perché, continua il presidente americano "permise di acquistare il coinvolgimento della Francia in modo che fosse meno costoso e rischioso per noi". Obama non esita poi a coinvolgere nelle critiche anche David Cameron che dopo l'avvio dell'intervento perse interesse, "distratto da una serie di altre questioni". Il primo ministro britannico David Cameron e Barack Obama, la foto è tratta dall'intervista dell'Atlantic (Pete Souza / White House) Un'intervista lunga in cui Obama si confida con Jeffrey Goldberg, autore dell'articolo, e racconta come la sua amministrazione fosse spaccata sull'intervento - con Hillary Clinton, bisogna sottolinearlo, alla guida dei falchi - e come vi fossero pressioni da parte dell'Europa e dai paesi del Golfo all'azione, come da sempre gli alleati fanno con Washington. "E' ormai diventata un'abitudine negli ultimi decenni - si lamenta - che in queste circostanze la gente ci spinga ad agire ma non mostra nessuna intenzione di rischiare nulla nel gioco". Sono "opportunisti", "free rider", cioè quelli che viaggiano gratis, e rivolge anche un serio monito all'Arabia Saudita, alleato storico che ha duramente criticato l'accordo nucleare con Teheran, sottolineando come debba imparare a "dividere" la regione con l'arcinemico iraniano con il quale condivide la responsabilità di attizzare i conflitti in Siria, Iraq e Yemen. I sauditi "devono trovare un modo efficace di condividere il vicinato ed istituire una pace fredda" ha poi aggiunto, spiegando che se gli Usa dovessero sostenerli acriticamente contro l'Iran "questo significherebbe che noi inizieremmo ad usare i nostri interventi e la forza militare per azioni punitive, ma questo non sarebbe nell'interesse degli Usa né del Medio Oriente". In compenso Obama si dice "orgoglioso" della decisione presa nell'agosto del 2013 di fare marcia indietro, quando ormai le macchine della guerra e del consenso si erano messe in moto, sulla decisione di avviare i raid aerei in Siria per punire l'utilizzo di armi chimiche da parte di Bashar al-Assad. "Sapevo che premere il pulsante di pausa per me avrebbe avuto un costo politico, ma sono riuscito a svincolarmi dalle pressioni e pensare in modo autonomo a quale fosse l'interesse dell'America, non solo rispetto alla Siria ma anche rispetto alla democrazia". "E' stata una decisione difficile, e credo che alla fine è stata la decisione giusta", ha detto ancora il presidente difendendo la scelta di non intervenire allora contro Assad, criticata da molti e considerata il peccato all'origine del baratro in cui ora è precipitata la Siria. L'articolo sulla politica estera del presidente uscente ricostruisce i retroscena di quella guerra mancata, anche attraverso la voce altri membri dell'amministrazione, a partire da John Kerry che il 30 agosto aveva pronunciato un discorso che suonò come un'effettiva dichiarazione di guerra. Il segretario di Stato ha confidato a Goldberg che era sicuro che i raid sarebbero scattati il giorno dopo. Invece il presidente - che si sentiva di "andare verso una trappola, preparata da alleati ed avversari e dal consenso sulle aspettative che si hanno riguardo a quello che il presidente americano deve fare", scrive Goldberg - al suo consiglio di guerra riunito annunciò, tra lo stupore di tutti, che non ci sarebbe stato nessun raid il giorno successivo ma che voleva chiedere un voto al Congresso sul raid. La decisione di Obama provocò immediate e durissime reazioni sia da parte di alleati sia interni che esterni. Hillary Clinton - possibile prossimo presidente degli Stati Uniti che aveva avuto modo di mostrare da segretario di Stato in Libia la sua filosofia interventista - nel 2014, sempre a The Atlantic, ha durante criticato quella scelta: "Il non aver costruito una credibile forza in aiuto delle persone che originarono le proteste contro Assad ha lasciato un grande vuoto che ora stanno riempendo i jihadisti". Libia, il bilancio di Obama: "Un errore sostenere intervento Nato nel 2011" Ma oggi Obama difende con vigore quella decisione di ribellarsi a quello che chiama "il libro delle regole di Washington, che prevede risposte a diversi eventi, risposte che tendono ad essere militarizzate. Quando l'America è minacciata direttamente, il libro funziona, ma può anche diventare una trappola che ti porta a decisioni sbagliate. Nel mezzo di una sfida internazionale come la Siria - ha concluso - viene criticato severamente se non segui le regole, anche se vi sono buone ragioni per farlo". E le ragioni per Obama erano gli errori commessi dal suo predecessore con il suo interventismo e la sua democrazia esportata in Medio Oriente, ricorda Goldberg che rivela anche come Obama consideri il primo compito di un presidente nell'arena internazionale del post Bush "don't do stupid shit", non fare cose stupide © Riproduzione riservata 10 marzo 2016 Da - http://www.repubblica.it/esteri/2016/03/10/news/obama_raid_nato_errore-135185099/?ref=HREC1-1 Titolo: Obama come Steve Jobs: il suo discorso agli studenti della Howard University è.. Inserito da: Arlecchino - Maggio 09, 2016, 05:56:11 pm Obama come Steva Jobs: il suo discorso agli studenti della Howard University è memorabile
L'Huffington Post | Di Redazione Sul pulpito, con la toga. Si presenta così Barack Obama agli studenti della Howard University per tenere il discorso di fronte a una platea di 15mila laureati. Un discorso toccante, politico in cui il Presidente ha ricordato agli studenti di abbracciare il loro patrimonio afro-americano: "Create il vostro stile, impostate il vostro standard di bellezza, abbracciate la vostra sessualità". Obama ha ricordato i passi avanti che sono stati fatti in termini di superamento dei pregiudizi in fatto di razza e colore della pelle, ma ha anche esortato gli studenti a non abbassare la guardia e a continuare a lottare. "La passione da sola non basta, serve una strategia", ha spiegato il Presidente. E questa strategia per il cambiamento passa attraverso il voto: "È così che noi cambiamo la nostra politica, eleggendo persone a tutti i livelli, che ci rappresentano e sono responsabili per noi" ha aggiunto, sottolineando che "quando noi non votiamo noi, buttiamo via il nostro potere. Per questo vi invito a votare non una volta, ma tutte le volte". Poi rivolgendosi direttamente ai ragazzi un incoraggiamento per la vita: "Quando il viaggio sembra troppo duro e quando un coro di cinici vi darà che siete sciocchi a continuare a credere in qualcosa, o che non riuscirete a fare qualcosa e dovreste rinunciare, che fareste bene ad accontentarvi, potreste ripetere a voi stessi la frase che mi ha accompagnato in questi ultimi 8 anni: Yes We Can". Da - http://www.huffingtonpost.it/2016/05/08/obama-jobs-discorso-studenti-howard-university_n_9865176.html?ncid=fcbklnkithpmg00000001 Titolo: All'agnello Obama crescono i denti da lupo Inserito da: Arlecchino - Gennaio 03, 2017, 09:02:59 pm All'agnello Obama crescono i denti da lupo
Pubblicato: 30/12/2016 19:31 CET Aggiornato: 30/12/2016 19:44 CET OBAMA La guerra fra poteri si riaccende nel cuore degli Stati Uniti. Scrivo "si riaccende" perché l'attacco di Obama a Trump, via Putin, il tentativo dell'ormai ex Presidente di condizionare le decisioni prossime del nuovo Presidente, e, in prospettiva, - perché non immaginarlo? - preparare il terreno per un impeachment, può sorprendere solo chi dell'America ha, o preferisce avere, una visione propagandistica. E può sorprendere solo chi del Presidente Obama ha sempre preferito coltivare una immagine da santino. In realtà un robusto, spesso pericoloso, conflitto interno è parte sostanziale di una democrazia come quella americana che è sempre stato un sistema attraversato da complotti, violenze, e rese dei conti. Basterà qui ricordare i ben 4 presidenti uccisi, a partire da Abraham Lincoln nel 1865 e arrivando a John F. Kennedy a Dallas, in Texas, il 22 novembre 1963. Basterà qui ricordare il Maccartismo, le schedature dell'Fbi, le operazioni segrete contro i nemici Usa, le manovre intorno al Vietnam, l'impeachment di Nixon, lo scandalo Contras, le guerre di spie di epoca reaganiana (che fanno sembrare sciocchezze le espulsioni di Obama oggi) gli scandali sessuali dei Clinton e le gigantesche false verità raccontate all'Onu da Bush. Vitale e fetida, la democrazia americana non ha mai perso lo spirito animale che l'ha creata e sostenuta in quasi due secoli di incontrastata ascesa nel mondo. Un vitalismo spesso trasformato nella impeccabile foto di un perfetto sistema di pesi e contrappesi. Immagine popolare ma creazione, più che di verità, di una poderosa macchina produttrice di mitologia sul destino speciale americano. Macchina essenziale dello sviluppo americano, ben anteriore ad Hollywood, se è vero che alcuni dei testi fondamentali del mito americano (ad Harvard in primis) sono libri come quello di James Fenimore Cooper, The Prairie, del 1827, o Walden di Henry David Thoreau, del 1847. Nulla di nuovo dunque a Washington. Salvo, forse, la sorpresa di vedere crescere i denti da lupo all'agnello Obama. Minacciato nella sua eredità, nel significato stesso della sua presidenza, ha tirato fuori le verità che albergavano evidentemente nel suo cuore - e ha finalmente parlato di razzismo, di fine della speranza, ha fatto all'Onu un passo contro Israele, ha inviato, via Kerry, una denuncia dell'espansionismo israeliano in Cisgiordania accusando direttamente Israele di essere una minaccia per la pace. Ha poi mobilitato la Cia, con il suo rapporto sulle ingerenze russe nelle elezioni Usa, e l'Fbi sulle operazioni di hackeraggio di Putin, fino alla espulsione di 35 supposte spie di Mosca. In tutti questi passaggi si legge lo scopo evidente di costruire un muro intorno a Trump, precipitando situazioni di fatto che il prossimo presidente dovrà platealmente cancellare. Sono mosse intese anche a raccogliere e galvanizzare lo scontento delle molte istituzioni che saranno fatte fuori dalla politica di Trump: si attendono pulizie generali dentro la Cia, dentro l'Fbi, la dismissione di progetti militari contro Putin in Europa e Medio Oriente, in Africa. Sono mosse di posizionamento di una guerra interna il cui profilo è già chiaro. Cade così la limata, lisciata versione del presidente " buono" Obama. La novità che si segnala in questi giorni è proprio la caduta della convenzione rassicurante, alcuni preferirebbero dire "buonista", del potere Usa che è sembrata prevalente in questi ultimi otto anni della amministrazione democratica. Una ammissione tardiva, ma non meno feroce perché tale, dello scontro di potere che si è mosso sotto le acque apparentemente tranquille dell'amministrazione Obama. Otto anni finiti, non a caso, con la vittoria di Donald Trump, il cui successo è stato inversamente proporzionale allo sfaldamento politico vissuto dall'interno del mondo democratico perfetto degli Obama. Anche in questo senso, l'elezione di Donald Trump ha messo allo scoperto una parte di verità sugli Stati Uniti. Rompendo i luoghi comuni, le banalità, ed esponendo invece l'asprezza delle divisioni interne del Paese su praticamente ogni tema, da Israele, al petrolio, al mondo musulmano, al nazionalismo economico, all'immigrazione, alle alleanze di mercato, fino a, e non ultimo, il riscaldamento globale. La divisione che attraversa ora l'America non è questione di politica o di ideologie. Riguarda il giudizio su cosa è il mondo in cui viviamo, e riflette opinioni e divisioni che attraversano tutti i nostri paesi occidentali. Per questo, la lotta fra democratici e repubblicani nei prossimi anni sarà in grado di imbastardirsi al suo interno a un livello che farà apparire ogni precedente un gioco da gentiluomini. Ma c'è una differenza fra il conflitto interno agli Usa oggi e quelli del passato. L'America è entrata in una fase di lotta intestina ogni volta che il suo destino dominante è stato minacciato da una sconfitta. La crisi interna dei diritti civili, la crisi internazionale del Vietnam, e poi dell'Iran, la crisi petrolifera degli anni settanta. E anche oggi vi si ritrova la stessa traccia di debolezza. La crisi odierna ha però un contesto diverso. L'America di Trump si affaccia su un mondo in cui il suo potere di controllo non è solo debole, è anche già ampiamente sostituito da altri centri di potere. E' un mondo con altre grandi nazioni di fatto esenti dalla influenza Usa, come il blocco asiatico; un mondo in cui per Washington l'Europa stessa non è più una sponda indiscutibile, e il Medioriente e l'Africa sono praticamente persi. Un contesto in cui gli Usa non sono più né il maggior mercato né il maggior produttore, e nemmeno il maggior contribuente per la spesa per aiuti allo sviluppo dei paesi terzi. La risposta ironica e condiscendente di Putin a Obama è una prova agghiacciante di questa "superfluità" americana. Un mondo in cui ognuno corre per sé. L'America in cui si riaccende la guerra politica interna avrà dunque molte poche sponde a cui aggrapparsi con una certa sicurezza, mentre viceversa noi alleati degli Americani abbiamo molte meno ragioni per poterci schierare con e per gli Stati Uniti. Un disvelamento non da poco, che ci porterà, nei prossimi mesi ed anni, a ri-tarare il nostro giudizio e le nostre previsioni su cosa sono gli Usa per noi e su cosa davvero ci conviene fare di loro, e con loro. Da - http://www.huffingtonpost.it/lucia-annunziata/all-agnello-obama-crescono-i-denti-da-lupo_b_13897358.html?utm_hp_ref=italy |