LA-U dell'OLIVO

Forum Pubblico => MONDO DEL LAVORO, CAPITALISMO, SOCIALISMO, LIBERISMO. => Discussione aperta da: Admin - Maggio 07, 2008, 09:43:41 pm



Titolo: FRANCO BRUNI
Inserito da: Admin - Maggio 07, 2008, 09:43:41 pm
7/5/2008
 
Le riforme promesse
 
  
FRANCO BRUNI
 
Quando il governo sarà formato e insediato, si dovranno fare i conti con le promesse elettorali.
Le più importanti sono quelle che la maggioranza ha fatto assieme all’opposizione: le riforme istituzionali.
Esse sono state anche una promessa di laboriosa collaborazione bipartisan. Con idee quasi identiche, i principali partiti concorrenti hanno promesso, fra l’altro, la riforma dei poteri e la riorganizzazione delle responsabilità all’interno del governo, alcune modifiche dei suoi rapporti col Parlamento, la riforma elettorale, la riforma del ruolo e dei regolamenti delle Camere, la drastica riduzione del numero dei parlamentari, la riorganizzazione e la significativa riduzione del numero degli enti locali (Berlusconi ha promesso addirittura di abolire le Province).

Nell’insieme si tratta di un quadro già abbastanza organico e delineato di incisivi ritocchi istituzionali, utili a rendere più snello e trasparente l’iter delle decisioni politiche e a ridurre sostanzialmente i costi dell’apparato politico. Ed è anche un concreto ordine del giorno per impostare una collaborazione, fra maggioranza e opposizione, entrambe alla ricerca di migliori regole del gioco, che potrebbe avere interessanti e diversi sviluppi.

Durante la campagna elettorale nell’opinione pubblica c’era un misto di contentezza e di sorpresa per l’accordo sulle riforme. Ma c’era anche un velo di incredulità. Non è facile credere alla capacità della classe politica di riformarsi davvero, riducendo la propria numerosità e, insieme, l’irrazionalità di un assetto che i politici sanno usare con furbizia come scusa per la loro costosa inerzia.

Nonostante la nascosta incredulità con cui le promesse sono state ascoltate, sarebbe un grosso guaio se non venissero mantenute. Se il comportamento di tutto il Parlamento non sarà tale da favorire il varo tempestivo delle riforme promesse, l’ulteriore perdita di credibilità della politica sarà grave. Per l’economia ciò avrà costi diretti e indiretti, particolarmente inopportuni in questa delicata fase di crisi e trasformazione globali e di perdita di competitività relativa dell’Italia. Avrà i costi diretti delle mancate riforme come, ad esempio, quelli di dover continuare a mantenere un personale politico largamente eccessivo o di dover sopportare i ritardi che la politica economica subisce dall’attuale forma di bicameralismo. E avrà i costi indiretti della perdita di credibilità dei politici, che hanno promesso riforme concordi e non le fanno. Se la politica non è credibile non è efficace. In politica economica la mancata credibilità di chi la formula rafforza la posizione contrattuale dei gruppi, ancorché minoritari, che la vogliono ostacolare.

Fra le riforme promesse c’è quella della legge elettorale. Non è la più importante, né la più urgente, né quella dove la convergenza di opinioni è più promettente. Permettere a eventuali difficoltà nel trovare il consenso sulla riforma elettorale di rallentare gli altri aspetti del riassetto istituzionale, significherebbe imbrogliare gli elettori.

Il processo di riforma dovrà radicarsi nel Parlamento. Il governo non ne sarà l’unico protagonista. Ma ci sarà un ministro per le Riforme e pare che sarà concentrato soprattutto sul tema del federalismo. Qualunque approfondimento del federalismo, giusto o sbagliato che sia, sarebbe solo fonte di ulteriore disordine, di costi aggiuntivi, di pericolose tensioni politiche, se non avvenisse nel quadro d’insieme delle riforme istituzionali da tutti predicate, come la radicale riarticolazione degli enti locali, la riforma delle funzioni del Senato, il rafforzamento dell’autorità del governo centrale.

Lo scenario peggiore sarebbe quello in cui maggioranza e opposizione cercassero di farci dimenticare le promesse di lavoro bipartisan sulle riforme istituzionali. Avranno la tentazione di farlo, per esempio, trovando il modo di litigare subito duramente su altre questioni, al punto di poter dire che il clima è diventato inadatto alla collaborazione. E trovando il modo di inciampare in rinnovate baruffe sulla riforma elettorale. La maggioranza potrebbe poi far finta di preoccuparsi delle riforme istituzionali facendo qualche passo, pericoloso anche se puramente formale, sul solo fronte del federalismo. E l’opposizione potrebbe tentare di distrarsi dalla responsabilità, che condivide pienamente, di fare le riforme istituzionali. Distrarsi, ad esempio, con l’ansia di ricercare più faziosamente il consenso mancato nelle elezioni e riducendo per questo la propensione a collaborare con la maggioranza. Ma entrambe, se cedessero alla tentazione, pagherebbero un alto prezzo per la loro incoerenza. Purtroppo pagheremmo anche tutti noi.

franco.bruni@unibocconi.it
 
da lastampa.it


Titolo: FRANCO BRUNI
Inserito da: Admin - Giugno 23, 2008, 10:46:19 am
23/6/2008
 
Se le banche riaprono i giochi
 

Il loro comportamento imprenditoriale è cruciale per togliere il Paese dai guai.

Ma devono chiarire le strategie e ricercare davvero nuovi capitali
 
 
FRANCO BRUNI
 
Dalle banche di investimento internazionali si alternano in questi giorni notizie incoraggianti (ad esempio da Goldman Sachs), meno buone (ad esempio da Morgan Stanley), drammatiche (come i numerosi arresti fatti giovedì dall’Fbi). Fatto sta che il corso delle azioni bancarie è comunque in difficoltà un po' dappertutto. Negli ultimi sei mesi la discesa dell'indice dei titoli bancari della Borsa italiana si avvicina al 30%, dieci punti peggio della flessione dell'insieme del listino.

La crisi finanziaria internazionale sta per compiere un anno e non è finita. Non si tratta di un fenomeno limitato alla brutta fine dei titoli immobiliari statunitensi. Sono emerse le esagerazioni che dall'inizio del decennio hanno visto il credito espandersi a ritmi imprudenti, con un'innovazione finanziaria fuori controllo, una sottovalutazione generale dei rischi di insolvenza e illiquidità. Gli eccessi del credito hanno anche favorito incidenti operativi e frodi. La bolla del credito si sta ora sgonfiando. Si fanno i conti, emergono le perdite e le difficoltà dei bilanci delle banche. La speranza è che, man mano che i danni vengono localizzati, con chiarezza e trasparenza, riprenda la fiducia, soprattutto nei rapporti interbancari, che sono lo snodo cruciale della circolazione del sangue dell'economia mondiale. Si potranno così limitare le conseguenze della crisi finanziaria sull'economia reale.

Due condizioni
Le banche centrali e le autorità di regolazione e vigilanza hanno responsabilità nella generazione di questa crisi. L'eccesso di credito e i crediti cattivi sono stati permessi da politiche monetarie troppo espansive, con tassi di interesse troppo bassi, da regole lacunose e sorveglianza inadeguata. Non mancano ora gli sforzi per rimediare gli errori, prevenirne ulteriori, «imparare dalla crisi». Sono sforzi difficili anche perché la tolleranza, necessaria a «salvare» la finanza in difficoltà, contrasta col rigore, richiesto dal progetto di disciplinarla meglio per il futuro. Se ci preoccupiamo e ci «tassiamo» troppo per limitare i danni di oggi, rischiamo di incentivare nuove imprudenze e causare nuovi danni domani.

Ma per toglierci dai guai non bastano le autorità. È cruciale il comportamento imprenditoriale delle banche. Molte hanno visto il loro capitale ridimensionato dalla crisi, dopo che il grado di capitalizzazione del settore bancario si era già abbassato lungo gli anni dell'espansione creditizia. Per evitare che la scarsezza di capitale si trasformi in un grave razionamento dei finanziamenti all'economia reale occorre, un po' in tutto il mondo, trovare nuovi capitali che si investano nell'attività bancaria.

Ci sono almeno due condizioni perché ciò avvenga. In primo luogo le banche devono chiarire al mercato la loro nuova strategia, il nuovo modello con cui imposteranno l'attività. Avevano puntato molto sull'erogare tanti prestiti e liberarsi dei rischi conseguenti ricollocandoli sul mercato. Dal mestiere di chi si assume e controlla i rischi stavano passando a quello di chi li individua e poi li disperde, specializzandosi nella ricerca di chi li vuole sopportare. Una trasformazione che non è andata del tutto a buon fine. Ma c'era del buono nell'idea e non avrebbe senso tornare nei confini del vecchio modello, che si limitava a trasformare depositi, raccolti presidiando il territorio, in prestiti ben garantiti fatti a clienti ben conosciuti. Occorre continuare l'innovazione. Ma come? Per comprare azioni bancarie il mercato attende nuovi progetti, credibili e redditizi, attende di venir convinto che l'attività bancaria è ancora uno dei «driver» più preziosi della crescita economica.

Tra rischi e redditività
La seconda condizione è che le banche ricerchino davvero e accettino i nuovi capitali. Non basta chiederli ai loro attuali azionisti, né cercare il soccorso dei mitici «fondi sovrani», salvo poi garantirsi che non abbiano influenza rilevante sulla gestione. Con nuovi progetti ed equilibri più azzeccati fra rischi e redditività, si possono trovare nuovi soci e collocare nuove azioni senza deprimerne il corso. Ma occorre accettare i cambiamenti della struttura di potere aziendale che ne conseguono. Risolvere la crisi e rilanciare le banche significa anche rimetterne in gioco gli equilibri proprietari. È probabile che il rimescolamento non debba riguardare solo le banche in crisi. Se il settore troverà nuovi modelli di innovazione, articolazione e sviluppo, anche le banche più prudenti e tradizionali, pena l'emarginazione, saranno coinvolte, fino a dover riconsiderare il loro assetto proprietario.

Naturalmente è possibile che, sotto la morsa della crisi, intervenga la politica, che vitupera populisticamente le banche, salvo poi salvarle, a tutti i costi, bloccare l'innovazione e proteggere gli assetti proprietari. Magari con la scusa di difendere la stabilità o la nazionalità. Ad augurarsi che ciò non avvenga sono in primo luogo i risparmiatori e le imprese che vogliono beneficiare nei prossimi anni di servizi bancari abbondanti ed efficienti.

franco.bruni@unibocconi.it
 
da lastampa.it


Titolo: FRANCO BRUNI. La risposta da dare
Inserito da: Admin - Ottobre 17, 2008, 10:40:20 am
17/10/2008
 
Purché la cura sia mirata
 
 
FRANCO BRUNI
 
Il rinnovarsi di violenti ribassi dei corsi di Borsa è dovuto alla crisi finanziaria ancora irrisolta e al suo effetto sull’economia reale, che diventa sempre più evidente e che è destinato a rimanere per qualche tempo anche dopo che i problemi strettamente finanziari saranno avviati a soluzione.

Dopo aver aiutato le banche con lo stanziamento di somme portentose, è naturale che sorga in tutti i Paesi una forte domanda di assistenza anche dalle imprese non finanziarie e dall’economia reale. Da tempo si chiedono riduzioni delle imposte sui redditi da lavoro più bassi, che aiuterebbero contemporaneamente il potere d’acquisto delle famiglie e il costo del lavoro delle imprese. Urgono aiuti per chi ha maggiori difficoltà con i mutui immobiliari. Emerge la necessità di riorganizzare e arricchire i sussidi di disoccupazione, soprattutto nei Paesi, come l’Italia, dove questo tipo di ammortizzatori sociali è più debole e meno adeguato a una fase di inevitabile rinnovata ristrutturazione delle attività produttive. È normale che anche le imprese, come tali, domandino una speciale attenzione della finanza pubblica per le difficoltà che la crisi esaspera. Succede in tutti i Paesi e lo hanno ricordato ieri i nostri governanti.

A differenza dell’assistenza alle banche che, almeno nella forma di impegno credibile, deve essere immediata, per bloccare il contagio dell’illiquidità e dell’insolvenza che sui mercati finanziari è rapidissimo, gli aiuti all’economia reale possono essere decisi con più calma, disegnandone la qualità con la massima cura. Ci sono infatti diverse condizioni per evitare che questi aiuti, soprattutto quelli diretti alle imprese, causino ingiustizie e siano controproducenti, favorendo le imprese e le spese sbagliate.

Gli aiuti devono essere il più possibile generali, assicurati con procedure poco discrezionali e molto trasparenti. Devono inoltre facilitare l’aggiustamento e non la cristallizzazione dell’organizzazione delle imprese e del mercato del lavoro, in un periodo in cui, nonostante la crisi, non cessa la sfida del cambiamento posta dal progresso tecnico e dalla globalizzazione. Un’altra condizione importante è quella ricordata ieri dal nostro ministro dell’Economia, che speriamo abbia la possibilità, la capacità e la coerenza di garantire: «Non esistono più vie nazionali, ma solo vie europee». I sostegni all’economia reale non devono fare arretrare il mercato unico, la cui integrazione è di per sé un supporto all’ampliamento del mercato delle imprese. Le vie europee aumentano inoltre la probabilità che la distribuzione degli aiuti non sia distorta a favore degli amici dei governanti nazionali. Gli annunciati incentivi al credito alle piccole e medie imprese, che possono giungere tramite la Banca europea degli investimenti, rispettano questa condizione, oltre a rivolgersi a un settore cruciale del sistema produttivo. In sede europea potrebbero anche essere concordati e, per quanto possibile, canalizzati, rilevanti aiuti al finanziamento delle infrastrutture e di processi produttivi molto innovativi, disponibili anche per le imprese più grandi.

Alcune forme di aiuto all’economia reale, come gli interventi della Bei, si intrecciano strettamente con la necessità di migliorare la liquidità del sistema finanziario e alleviare la stretta del «credit crunch». Molte imprese vantano nei confronti dello Stato crediti rilevanti, come i rimborsi dell’Iva: almeno in Italia, un forte aumento della celerità e della puntualità dei relativi pagamenti sarebbe preziosa. Per una parte di questi crediti si potrebbero inoltre studiare forme di cartolarizzazione che facilitino il loro risconto attraverso le banche e le banche centrali. La cartolarizzazione-risconto potrebbe venir migliorata e facilitata anche per alcuni tipi di prestiti delle banche alle imprese.

Nei giorni scorsi i violenti cali dei prezzi delle azioni hanno suggerito anche un altro genere di «aiuto» alle imprese: quello a non cambiar proprietario improvvisamente, contro la volontà dei loro dirigenti e dei loro attuali proprietari. Si è parlato di rivedere la legge italiana sull’Opa, rendendo meno facili le scalate ostili, soprattutto da parte di investitori di Paesi extraeuropei che hanno sistemi politico-istituzionali molto diversi dal nostro. Ovviamente l’idea non è priva di fondamento. Anche qui occorre però procedere, come di nuovo ha promesso ieri Tremonti, «in un quadro europeo».

Purtroppo in materia la direttiva europea, varata con fretta nel 2004 sotto presidenza italiana, è di scarsa qualità, permette regimi sbagliati, diversi e contraddittori: se allora si fosse fatto un maggior sforzo di qualità e armonia, oggi sarebbe più facile affrontare la questione. Occorre evitare che la riduzione della scalabilità delle imprese sacrifichi ancor più il valore delle loro azioni, tolga stimolo a gestirle meglio, favorisca gruppi proprietari che non hanno adeguata attenzione per gli azionisti di minoranza e, soprattutto, ostacoli l’arrivo di preziosi investimenti dei quali abbiamo un gran bisogno, come mostra anche l’operazione libica in Unicredit.

franco.bruni@uni-bocconi.it
 
da lastampa.it


Titolo: FRANCO BRUNI. La risposta da dare
Inserito da: Admin - Ottobre 25, 2008, 06:59:18 pm
25/10/2008
 
L'unione fa la forza
 
 
FRANCO BRUNI
 
Con un’altra giornata di forti ribassi, le Borse hanno celebrato ieri l’anniversario del 24 ottobre 1929, considerato l’inizio ufficiale della «grande crisi». Problemi di illiquidità e timori di gravi insolvenze si mescolano inestricabilmente. Gli ingenti e variegati interventi delle autorità di tanti Paesi tardano a dar frutto. La crisi finanziaria alimenta quella dell’economia reale. Inceppa il credito alle imprese e frena investimenti e consumi perché riduce il valore dei patrimoni e l’occupazione. I danni reali rendono più difficile la stabilizzazione finanziaria. Ma anche se guarissero in fretta le banche e la Borsa, i guai già prodotti all’economia reale potrebbero proseguire a lungo, per contagio e inerzia.

La crisi finanziaria ha inoltre un impatto duraturo sull’economia reale a seconda di come viene gestita. Se la si soffoca con interventi sbagliati, le ferite all’efficienza dell’economia diventano difficili da rimarginare. E’ questo che si teme, per esempio, come conseguenza di massicci salvataggi e aiuti pubblici. Se i governi li fanno in modi scoordinati e protezionistici, ne esce un mercato globale distorto, politicizzato e meno produttivo.

Lo scenario, brutto e pericoloso, ha un sottofondo importante: quello delle aspettative. Al di là di quanto succede nei fatti dell’economia e della finanza, giorno dopo giorno, e al di là dei rimedi adottati dalle autorità, il mix di pessimismo e speranza con cui gli operatori guardano al futuro, non solo a quello strettamente economico, ha un grande impatto su banche, Borsa, consumi e investimenti. Modifiche anche marginalmente favorevoli delle aspettative e del clima psicologico del sistema possono migliorare le cose ancor prima che vengano presi provvedimenti concreti e decisivi.

La cura del clima di aspettative è una delle responsabilità cruciali della politica, nazionale e internazionale. Non solo della politica economica: conta moltissimo il comportamento d’insieme dei poteri pubblici, i modi, lo «stile» con cui i politici progettano, interagiscono e comunicano. E i mezzi di informazione, così come esasperano le conseguenze degli stili politici deteriori, possono esaltare l’effetto di quelli virtuosi.

Fra le molte leve a disposizione dei comportamenti politici per migliorare le aspettative, di fronte a una crisi come questa, ne spiccano due. La cooperazione internazionale, in tutte le forme, e la convergenza delle forze politiche all’interno di ogni Paese. In entrambi i casi non importano solo i provvedimenti economici che ne possono venire. La cooperazione internazionale migliora le aspettative economiche non solo se genera «nuove Bretton Woods», ma anche, per esempio, se riduce le tensioni militari o mostra di saper affrontare concordemente il problema del clima. La convergenza delle forze politiche nazionali, per fare esempi italiani, beneficia da subito le aspettative economiche anche se riesce a partorire progetti condivisi di riforme a medio termine della scuola, della giustizia, dei regolamenti parlamentari o delle autonomie locali.

Se si pensa alla necessità di un colpo di reni della credibilità complessiva della politica, gli Usa hanno al momento un’occasione che manca agli europei: sono molto vicine le elezioni. Il loro risultato, chiunque vinca e indipendentemente dai programmi dei candidati e dei partiti, ha qualche possibilità di riuscire brillante e rinfrescare d’improvviso un’atmosfera dove si celebra con amarezza e rabbia il fallimento politico ed economico, nazionale e internazionale, della presidenza uscente. Nel caso di un successo di Obama si avrebbe anche un miglioramento della concordia fra presidenza e Congresso.

Anche l’Europa sta cercando di trovare il suo colpo di reni. Dovrebbe accelerare subito i passi di crescente coordinamento che la crisi le ha suggerito nelle ultime settimane. Lo può fare anche in campi non strettamente economici, con nuovi atteggiamenti unitari in politica estera o ambientale e nella rappresentanza nelle organizzazioni internazionali. Nello specifico della gestione della crisi, non deve smentire l’impressione ancor vaga di unità d’intenti che ha provato a mostrare. Il mancato accordo sulla costituzione di un fondo comune europeo va compensato con l’adozione di modalità effettivamente omogenee negli interventi eccezionali di sostegno e garanzia decisi dai singoli governi. Se ciascuno aiuta chi vuole e come gli pare, può scoppiare una guerra di protezionismi e di sussidi contrapposti e divisivi. Peggiorerebbe l’immagine complessiva della politica europea, le aspettative e l’evoluzione della crisi finanziaria e reale.

franco.bruni@unibocconi.it
 
da lastampa.it


Titolo: FRANCO BRUNI. Meno tasse per ripartire
Inserito da: Admin - Novembre 10, 2008, 10:21:25 am
10/11/2008
 
Meno tasse per ripartire
 
FRANCO BRUNI

 
Nell’incontro di oggi alla Casa Bianca, Barack Obama premerà su Bush perché faciliti l’avvio delle politiche che la nuova amministrazione ha in animo di adottare e, in particolare, le misure contro la crisi economica e finanziaria.

La consapevolezza che «non c’è un minuto da perdere» è positiva. Si tratterà di politiche costose. Negli Usa sta per venir accantonata ogni preoccupazione per l’aumento del deficit pubblico.

Fra salvataggi e aiuti - quelli già decisi e quelli che verranno - e la promessa di Obama di ridurre le imposte alla maggioranza degli americani e di fare le riforme sociali, il disavanzo aumenterà nettamente. La speranza è che ciò eviti una grave depressione e avvicini la ripresa. Con la ripresa potrà ricominciare l’aggiustamento della finanza pubblica: ma è difficile che ciò avvenga prima di qualche anno.

Una parte del nuovo debito pubblico americano si trasformerà in debito estero e sarà assorbito dal resto del mondo, soprattutto se continuerà l’ondata di fiducia che Obama ha ispirato.

I democratici non hanno definito ancora chiaramente i provvedimenti da prendere. Alcuni di loro sono stati complici del confuso disordine e dell’arbitrio con cui il ministro del Tesoro Paulson ha affrontato le difficoltà delle banche. Gli interventi a sostegno dei settori non bancari sono ancora da disegnare. Preoccupa inoltre il fatto che l’agenda economica non è al centro delle nuove aperture multilaterali con cui Obama si presenta al resto del mondo. Il progetto di affrontare tutti insieme la crisi è vago. C’è il rischio, per esempio, di andare al G20 di sabato prossimo con gli Usa pronti a decidere unilateralmente massicci aiuti al loro settore automobilistico.

L’Europa può e deve aiutare l’America a chiarirsi le idee, fare le scelte giuste e inserirle in un disegno multilaterale. Perciò deve essere unita, propositiva, concreta, coraggiosa. Non bastano lo sfoggio estetico di dichiarazioni unitarie e l’attivismo decisionista di Sarkozy. La diffusa soddisfazione con cui, qualche settimana fa, è stato accolto l’accordo-quadro sugli aiuti alle banche è stata purtroppo seguita da interventi molto diversi dei vari Paesi. È anche trapelato un disaccordo di fondo sui poteri economici, regolamentari e di vigilanza finanziaria da accentrare nell’Unione. Si è detto che al G20 l’Europa «parlerà con una sola voce» ma, di fatto, avrà numerosi rappresentanti, di Paesi che non sono stati nemmeno in grado di concordare una proposta forte per l’ordine del giorno. C’è stato un concorde brontolio per la pretesa inadeguatezza dei tagli dei tassi della Bce, ma sul fronte della politica di bilancio, che è la vera responsabilità dei governi, non si vedono decisioni coraggiose e concordate con concretezza e tempestività.

Anche l’Ue può scegliere con chiarezza di fronteggiare la crisi con la finanza pubblica. La misura dell’emergenza è tale che ciò è ammesso dalla logica del Patto di Stabilità e Crescita, che non manca della flessibilità necessaria per consentire interventi di dimensione ingente. L’importante è che siano di buona qualità e messi in atto dai Paesi membri in modo concordato e molto omogeneo. Anche agli Usa e al resto del mondo devono apparire come una risposta comune dell’Ue a uno shock comune. Ciò che va evitato è una disordinata indisciplina, una competizione miope a chi scarica meglio sugli altri i costi della crisi, una serie di interventi nazionali che feriscono l’unità del mercato dell’Unione e la sua capacità di dialogare con coerenza col resto del mondo nella ricerca delle ricette migliori.

Occorre innanzitutto una sensibile riduzione delle imposte sui redditi da lavoro, in particolare quelli più bassi, suscettibile di riflettersi rapidamente in una contrazione dei costi salariali lordi delle imprese. In materia possiamo confrontarci coi tagli fiscali che ha in mente Obama. Non è vero che i tagli di imposte finirebbero nei risparmi: la gente è impoverita e scarsa di liquidità, pronta a spendere il «di più» che le si lascia in tasca. In secondo luogo, occorre arricchire e rendere internazionalmente più omogenei e fungibili i sussidi di disoccupazione e gli altri ammortizzatori sociali, per facilitare le ristrutturazioni e le ri-localizzazioni che la crisi ha reso ancor più urgenti.

Ci sono poi gli aiuti diretti alle banche e alle imprese non finanziarie; gli Usa stanno puntando sull’automobile. Nell’iniettare capitale, nel fornire garanzie e aiuti di diverso tipo, l’aspetto più importante è accordarsi per procedere in modi veramente omogenei. Se ci sarà omogeneità in Europa si potrà cercarne un poco anche fra le due rive dell’Atlantico. Occorre evitare di favorire chi è più grande e politicamente influente trascurando chi, proprio in un periodo di crisi, può meglio mostrare la sua capacità di reagire con innovazioni vincenti. Occorre disegnare aiuti che non proteggano l’esistente ma facilitino il cambiamento.

In ogni caso «non c’è un minuto da perdere» anche per gli europei, soprattutto se vogliono contribuire a un tavolo globale dove gli Usa stanno per presentarsi avendo cominciato a fare i loro «compiti a casa» con energia e determinazione.

franco.bruni@unibocconi.it
 

da lastampa.it


Titolo: FRANCO BRUNI Crisi, l'Europa è un alibi
Inserito da: Admin - Dicembre 01, 2008, 03:17:22 pm
1/12/2008
 
Crisi, l'Europa è un alibi
 
 
FRANCO BRUNI
 
L’intensità e la probabile durata della crisi economica fanno apparire inadeguati i provvedimenti finora adottati in Europa per contrastarla. I canali del credito rimarranno a lungo parzialmente ostruiti dall’eccessivo indebitamento degli intermediari e di alcuni settori dell’economia reale.

La revisione delle stime dei rischi, in corso presso le banche, porta a ristrutturare la qualità e il costo dei prestiti. Nessun ammonimento politico ai banchieri può evitare all’economia reale la fatica di adattarsi alle nuove condizioni.

Nel frattempo, le difficoltà di imprese e famiglie si propagano, domanda e produzione rallentano, con un’inerzia che cesserà solo qualche semestre dopo la ripresa dei circuiti finanziari. La politica macroeconomica non può far molto. Per temperare la crisi, deve essere concertata internazionalmente e usare bene gli strumenti monetari e di bilancio.
Giovedì prossimo la Bce decide sui tassi. È probabile che li abbassi ancora, in misura significativa. L’importante è che non esageri e convinca i mercati che la discesa dei tassi europei si fermerà abbastanza lontano dallo zero, anche se l’inflazione diventasse temporaneamente negativa.

Eccessivi ribassi dei saggi a breve controllati dalla Bce, se transitori, non fanno scendere i tassi sui rischi a più lungo termine e hanno effetti trascurabili; se invece sono ribassi duraturi, tolgono incentivi a correggere la gestione del rischio che ci ha messo nei guai e diventano premessa per nuove bolle finanziarie. Non è il denaro gratis che cura una crisi nata proprio dall’aver inondato il mondo di liquidità a buon mercato. Politici, banchieri e imprenditori dovrebbero smettere di scaricare in critiche alla Bce le loro frustrazioni e sensazioni di impotenza.

Più adatta a fronteggiare la crisi è la politica di bilancio. Si stanno discutendo le sue linee di indirizzo europee e i provvedimenti nazionali. È diffusa l’opinione che il disegno degli stimoli fiscali sia debole e insufficiente e che sia colpa del Patto di Stabilità e della Commissione.

Ideale sarebbe una forte espansione, concentrata in tutta Europa su tre voci. Taglio delle imposte sui redditi da lavoro, soprattutto i più bassi; aumento dei sussidi di disoccupazione; investimenti nelle banche per aiutarle a ricapitalizzarsi e a ridurre l’indebitamento. L’insieme delle tre voci beneficia sia la domanda sia l’offerta: stimola la spesa, contiene i costi lordi del lavoro, riduce il razionamento del credito, facilita le ristrutturazioni. Sussidi di disoccupazione e aiuti alle banche sono per natura temporanei; non si dovrebbe invece insistere sulla temporaneità dei tagli alle tasse, per evitare che alimentino i risparmi invece delle spese. Minori imposte sui salari bassi e welfare per i disoccupati frenano inoltre lo squilibrio della distribuzione dei redditi, che sta rendendo la crisi più drammatica.
Si fa troppo conto sulle spese in infrastrutture. Quelle utili devono aver luogo regolarmente, ma dalla crisi non ci salveranno i lavori pubblici. Sono spese comunque lente, favoriscono solo alcuni settori, spesso non privilegiano i progetti migliori ma quelli che generano più voti nel breve periodo.

L’inadeguatezza delle politiche di bilancio che si prospettano non è colpa del Patto di Stabilità né della grettezza burocratica della Commissione. È dovuta, da un lato, al desiderio dei Paesi membri di gestirle in modi non omogenei, accontentando i gruppi di pressione nazionali. Il che porta a far apparire Bruxelles come un intralcio, indebolisce l’impeto comunitario della manovra, incentiva stimoli di bilancio nazionali dispersi in mille rivoli, come sta succedendo in Italia.

L’altra causa di inadeguatezza delle politiche di bilancio europee è il mercato internazionale dei titoli pubblici, sul quale si stanno per riversare, fra l’altro, colossali emissioni Usa. I singoli governi europei non possono contare su una loro banca centrale per garantire la moneta necessaria a rimborsare i titoli che emettono; la Bce, per Statuto, non può finanziarli. I loro titoli sono dunque soggetti a rischio di insolvenza. Maggiori disavanzi ne fanno salire i tassi, soprattutto quelli dei governi più indebitati come il nostro. Da qualche tempo i Btp pagano ben più dei titoli tedeschi. Con debiti pubblici crescenti, fenomeni speculativi possono destabilizzare il mercato europeo dei titoli di Stato.

Il problema diventa tanto più trattabile quanto più il mercato avverte che l’espansione di bilancio è un fatto comunitario, che si fanno passi verso più coordinamento e accentramento delle finanze pubbliche europee. Per ora i passi sono troppo piccoli. La Commissione, anche sul piano dell’immagine, è troppo debole nell’esercitare il suo potere-dovere di iniziativa. I governi si oppongono caparbiamente a delegare poteri a organi comunitari. Come fa l’Europa a progettare di raccogliere imposte ed emettere titoli in proprio, se non è nemmeno capace, nonostante gli spaventi della crisi, di sbrigarsi a centralizzare la vigilanza su banche, borse e assicurazioni? È cruciale che le prossime elezioni europee siano condotte parlando di Europa, non di bisticci nazionali. Dovrebbe emergere la richiesta che al nuovo Parlamento venga proposta una Commissione di alto profilo e grande autorevolezza. Un’interpretazione generosa e lungimirante delle elezioni europee aiuterebbe anche le politiche di bilancio dell’Unione a diventare più generose e lungimiranti.
franco.bruni@unibocconi.it 

da lastampa.it


Titolo: FRANCO BRUNI. La risposta da dare
Inserito da: Admin - Dicembre 23, 2008, 11:38:00 am
23/12/2008
 
La risposta da dare
 
FRANCO BRUNI
 

L’Istat evidenzia il crescere della povertà in Italia e l’Ocse prevede forti aumenti della disoccupazione.

Mentre il Fmi raccomanda ai governi di usare con più decisione lo stimolo fiscale per reagire alla crisi. Obama ingrandisce i suoi programmi di bilancio espansivi. L’Europa esita, non trova l’energia e la coesione per coordinare interventi adeguati. Ogni Paese membro guarda al problema con preoccupazioni diverse. In Italia il timore è che i mercati ci facciano pagar caro l’aumento di un debito pubblico che è già eccessivo.

Oltre alle misure per facilitare la ricapitalizzazione delle banche e la ripresa dei mercati finanziari, è invece urgente decidere stimoli fiscali alla domanda. Devono essere gli stimoli giusti, ma non dobbiamo rinunciarvi per paura di decidere quelli sbagliati. La macroeconomia internazionale è depressa per carenza di domanda, indebolita dalla crisi finanziaria e dal peggioramento delle aspettative. Il calo della domanda rischia di durare molto, propagandosi a cascata: la previsione che già nel 2010 ci sarà un vero miglioramento rimane da dimostrare. L’aumento del rapporto fra i debiti pubblici e i Pil che rallentano sarà più duraturo in assenza di stimoli di bilancio. Per evitare il peggio i governi devono adottare provvedimenti espansivi, consistenti e non transitori. Le misure devono far parte di piani di bilancio pubblico pluriennali credibili, la cui sostenibilità va valutata nel medio periodo. La capacità produttiva dell’economia mondiale rimane elevata e il meccanismo di crescita connesso alla globalizzazione non è affatto fallito: dobbiamo favorirne la ripresa e governarlo meglio. Per disegnare i provvedimenti giusti occorre tener conto di come si presentava l’economia mondiale quando è arrivata la crisi. La distribuzione dei redditi stava diventando troppo diseguale. Chi era più sfavorito rischia oggi di soffrire di più e rendere più violenta la diffusione della recessione. Le imposte, la spesa pubblica e i costi del lavoro, nei Paesi avanzati, erano mediamente troppo elevati e sfavorevoli a un fluido svolgimento della concorrenza globale. La quale, con l'emergere prepotente di nuovi Paesi e la diffusione del progresso tecnico, richiedeva continue riorganizzazioni produttive, complesse e politicamente costose, frenate da vincoli tendenzialmente protettivi dell’esistente.

In questa situazione lo stimolo fiscale giusto è una riduzione consistente e duratura delle imposte sui redditi da lavoro medio-bassi, che in parte si traduce automaticamente in minori costi lordi per le imprese, soprattutto se vengono abbassati anche gli altri oneri sociali che tassano l'occupazione. In alcuni Paesi, fra cui il nostro, vanno inoltre accresciuti i sussidi ai disoccupati, riformando gli ammortizzatori sociali in modo da facilitare il cambiamento, anziché la conservazione, degli assetti produttivi sfidati dalla globalizzazione e colpiti dalla crisi.

Questi provvedimenti stimolano da un lato i consumi e dall'altro la riorganizzazione dell'offerta. In Europa è salutare che l'economia sia più sospinta dai consumi interni e meno dipendente dalle esportazioni. Le minori imposte accrescono il disavanzo e il debito pubblico. Ma non è il timore di doverli ripianare in futuro, col ritorno a tasse più alte, a trattenere la gente dal consumare. Molti dei beneficiati hanno difficoltà ad «arrivare alla fine del mese» e spenderebbero prontamente l’aumento del reddito disponibile. Il taglio delle tasse va comunque accompagnato dall’annuncio di nuove edizioni, più credibili, dei tanti progetti di riduzione graduale della spesa pubblica di cui da anni si parla in molti Paesi. Le accelerazioni degli aumenti delle età pensionabili sono fra questi, come le riforme strutturali del settore pubblico e il contenimento dei «costi della politica». La riduzione immediata della tassazione risulterebbe compensata dal serio impegno a contrarre gradualmente la spesa: lo scalino all’insù nel debito pubblico non ne minerebbe la sostenibilità. Tanto meglio se riprendessero i processi di liberalizzazione e la riduzione del protezionismo commerciale, come ci aveva promesso l'ultimo G20: lo stimolo alla domanda si moltiplicherebbe più velocemente e i gettiti fiscali risentirebbero meno della riduzione delle aliquote.

Purtroppo lo stimolo di bilancio ha una cattiva reputazione; è trattenuto dal timore di venir fatto male: è come buttar via il bambino con l'acqua sporca. Si teme porti più spesa e più intervento dello Stato nell’economia. Ciò non succederebbe con i provvedimenti appena detti. Mentre rischierebbe di avvenire con le mezze misure poco trasparenti alle quali ci si avvia in modo scoordinato. Può diffondersi il sospetto che la politica approfitti della crisi per espandere il suo ruolo, rallentare le riduzioni di spesa e coinvolgere i governi in progetti di infrastrutture clientelari, in aiuti e salvataggi precari, di dubbia efficacia. Lasciandoci con l’acqua sporca senza più il bambino.

franco.bruni@unibocconi.it
 
da lastampa.it


Titolo: FRANCO BRUNI
Inserito da: Admin - Febbraio 04, 2009, 11:04:41 am
4/2/2009
 
Il ritorno della società degli amici
 
FRANCO BRUNI
 

La crisi internazionale può interrompere la globalizzazione, che non è stata adeguatamente governata. Può risuscitare protezionismi nazionali, rallentare il commercio mondiale e dar luogo a sistemi economici più chiusi e provinciali.

La crisi può inoltre aumentare molto il ruolo del settore pubblico e della politica nell’economia. Il privato si indebolisce, domanda protezione e salvataggi. Il pubblico, la politica, li offre abbondantemente, fino a modificare le regole di funzionamento dell’economia di mercato, tanto più in presenza della chiusura internazionale di cui sopra.

Fra le conseguenze di sistemi più chiusi e più pubblici vi è il prevalere di un’economia imperniata più sulle relazioni dirette, fra persone e gruppi d’interesse, che sui rapporti anonimi dei mercati competitivi, ampi e integrati. Il successo degli operatori diventa più dipendente dalla conoscenza diretta dei loro clienti e fornitori, con i quali il rapporto assomiglia a uno scambio di favori prolungato nel tempo, basato sulla fiducia reciproca e protetto da rapporti concorrenti. Il successo dipende invece meno dalla loro capacità di produrre in modo innovativo, proponendo «a tutti» scambi istantaneamente convenienti e continuamente sottoposti alla concorrenza di possibili alternative proposte da altri.

Questa «economia di relazione» è facilitata dal passaggio dalla globalizzazione al provincialismo, perché richiede mercati ristretti e consuetudine di rapporti fra chi vi opera. L’economia di relazione non si regge sullo scambio d’informazioni oggettive e asettiche, disponibili per tutti, per così dire, «su internet». Si basa piuttosto su «amichevoli conversazioni» e frequentazioni personali sulla piazza del mercato provinciale. È favorita dall’accresciuta importanza del settore pubblico, come compratore, venditore, produttore, facilitatore, garante e dispensatore di aiuti e incentivi, perché l’interlocutore politico diventa un naturale catalizzatore di relazioni, con le quali si compiace di alimentare il consenso che gli serve. Il suo ruolo è maggiore se gli affari si fanno su piazze provinciali anziché su anonimi mercati aperti a tutto il mondo. Per questo i politici interpretano volentieri, in modi più o meno impliciti ed eleganti, ruoli anti-global.

La crisi suscita un’economia di relazione anche perché è cominciata e radicata nei mercati finanziari. Infatti la finanza ha fallito proprio nella sua configurazione anonima e globale. Hanno deluso i contratti finanziari scritti, diffusi, prezzati con i computer, con formule e schermi accessibili contemporaneamente da Hong Kong e Reykjavik. Ha deluso e spaventato l’astrattezza e la virtualità di titoli, apolidi e sofisticati al punto che è difficile capire i rapporti di produzione e scambio sottostanti e «sentirne l’odore». La crisi ha dunque rivalutato quella che gli economisti chiamano proprio «finanza di relazione», il credito bancario fornito in forme semplici a imprenditori conosciuti, la gestione del risparmio con prodotti standardizzati, scelti «allo sportello» fra interlocutori che si conoscono e vogliono mantenersi in relazione. È vero che ci sono anche le relazioni truffate di Madoff: ma sono stranezze per milionari cosmopoliti: un’irrilevante eccezione.

Si è rivalutata la banca piccola, locale, ed è di gran moda la sua «relazione col territorio». Anche nell’aiutare le banche più grandi i politici raccomandano di guardare alle imprese che concretamente conoscono e di essere con loro «generose». La politica invita a valorizzare la finanza di relazione, a ridimensionare l’esposizione ai sofisticati mercati globali, a supportare lo sviluppo territoriale, visibile, conosciuto: quello, guarda caso, disposto a ripagare i politici col consenso elettorale.

Sicché l’aiuto alle banche si lega a quello al formaggio parmigiano e, in scale diverse, richiama l’amicalità su cui il governo ha contato nel salvare la compagnia di bandiera, nonché il ritorno del progetto di una «banca del Sud», e così via. Si attenua, nel frattempo, la polemica contro i «salotti» della finanza nazionale e i conflitti di interesse che vi risiedono: il salotto non è proprio la piazza provinciale, che sarebbe l’ideale, ma almeno non è il diabolico mercato globale, dove non si sa nemmeno a chi telefonare per combinare qualche affare o finanziare qualche aiuto, fra politica ed economia, entro i confini di noti cortili, almeno adiacenti a quelli su cui si affacciano le finestre dei salotti.

L’economia di relazione ha i suoi pregi, fra i quali quello di essere mediamente stabile, prevedibile, rassicurante. L’innovazione vi procede con gradualità, senza eccessi rischiosi. Gli operatori principali rimangono tali a lungo. La concorrenza non riesce a scalzare le loro relazioni. Qualche escluso viene cooptato lentamente, a condizione che non sconvolga le regole del gioco. Le intese personali sono più salde dei contratti di mercato. Le relazioni economiche assomigliano molto a quelle politiche e queste ultime sono indispensabili alle prime.

È un’economia conservatrice, a sviluppo lento, con relazioni internazionali scarse e spesso conflittuali. Fra i suoi difetti, il peggiore è forse il sistema d’incentivi che crea, soprattutto per i giovani, ai quali insegna che il successo arride a chi è più capace di stabilire relazioni, con particolare attenzione a quelle politiche, anziché a chi innova le produzioni, le rende più convenienti e ne ottimizza il commercio. A lungo andare l’economia di relazione ha conseguenze antropologiche e culturali che tendono a farla declinare lungo una spirale autoreferenziale, verso una società sempre più chiusa, meno produttiva, meno progredita, meno giusta.


franco.bruni@unibocconi.it
 da lastampa.it


Titolo: FRANCO BRUNI
Inserito da: Admin - Febbraio 20, 2009, 03:51:52 pm
20/2/2009
 
I tre nodi della crisi
 
FRANCO BRUNI
 

Al cuore della crisi economica internazionale rimane quella bancaria, che è stata tamponata ma è lontana dalla soluzione. Le difficoltà delle banche sono tali che, sia in America che in Europa, non si esclude di dover ricorrere a massicce nazionalizzazioni, come ha accennato ieri anche Berlusconi. Le banche hanno tre problemi: liberarsi dalle «attività tossiche», ridurre il rapporto fra debiti e capitale, ridisegnare il modello della loro attività.

«Tossici» sono i crediti e i titoli che derivano da prestiti e investimenti troppo rischiosi e sbagliati. È improbabile che siano rimborsati e non si riesce a venderli. I primi tossici sono derivati dai prestiti ipotecari statunitensi, nell’estate del 2007. Dopodiché molti altri titoli e crediti sono divenuti tossici col diffondersi della crisi e della sfiducia. I tossici non hanno mercato: anche quando valgono più di zero, non c’è un prezzo per valutarli. Questa è una delle difficoltà che si incontrano quando si vorrebbe toglierli dal bilancio delle banche.

E metterli in una sorta di contenitore di spazzatura (la cosiddetta bad bank): ogni decisione su quanto pagarli, magari con soldi pubblici, alle banche che si vogliono ripulire, è arbitraria. Inoltre è difficile individuarli: anche ciò che non pare tossico potrebbe rivelarsi tale. Ma la difficoltà maggiore è che le banche che li hanno non vogliono dichiararli, per far finta, coi mercati e le autorità, di essere in condizioni migliori di quelle in cui si trovano. Dietro il problema dei titoli tossici ce n'è dunque uno più grave e generale: la mancanza di trasparenza dei mercati finanziari. Non ci sono abbastanza incentivi per essere trasparenti e le autorità non sono capaci di obbligare alla trasparenza.

Il secondo problema delle banche rimarrebbe anche se si eliminassero i titoli tossici: è l’eccesso di debito, l’altra faccia della carenza di capitale. Riguarda anche alcune imprese e molte famiglie. Vi sono Paesi, fra cui l’Italia, dove è meno grave, ma nel mercato globale ognuno soffre anche parte dei guai altrui. Quando il debito è alto, basta una piccola perdita dell’attivo per ridurre molto il capitale e rischiare il fallimento. Inoltre il troppo debito è un cruccio quando giunge a scadenza: se non si riesce a rinnovarlo occorre vendere precipitosamente attività, spesso in perdita. L’eccesso di debito è dovuto ad anni di politiche monetarie troppo espansive e tassi di interesse troppo bassi. Per rimediare occorre moderare l’espansione delle attività e ricapitalizzarsi.

Oggi si dice alle banche di non negare i prestiti alle imprese. Nel breve periodo è giusto dirlo, perché la restrizione del credito può peggiorare la crisi dell'economia reale e rendere ancor più rischiose le banche con le quali è indebitata. Ma nel medio termine i bilanci delle banche, i loro debiti e quindi i titoli e i prestiti, dovranno ridimensionarsi, se il sistema creditizio deve risanarsi e diventare meno rischioso. A meno che non si trovi tanto nuovo capitale azionario da investire nelle banche, perché possano espandere i prestiti senza indebitarsi troppo. Se è capitale dello Stato si va verso la nazionalizzazione delle banche. Per evitarlo occorre convincere il capitale privato.

Ed ecco il terzo problema. Chi compra azioni di una banca, anche di una good bank senza titoli tossici, vuole che abbia un progetto di sviluppo convincente, che oggi non c’è. I banchieri, da un lato, mascherano la gravità della crisi, sostengono che se la caveranno senza nuovi azionisti, senza cambiare più di tanto le strategie, il management, la composizione e il funzionamento dei consigli di amministrazione; dall’altro parlano di tornare a far banca «come una volta», raccogliendo depositi al dettaglio e facendo prestiti in una dimensione locale. Sembra vogliano evitare sia di rischiare che di innovare, che rifuggano la concorrenza internazionale, che rinuncino a cercare nuovi strumenti per gestire i risparmi, nuove tecniche per finanziare le imprese, nuovi mercati dove raccogliere fondi, proporre finanziamenti, valutare, controllare e distribuire i rischi.

Nel complesso, sotto i colpi della crisi, i banchieri hanno un atteggiamento difensivo e conservatore. Ciò vorrebbe tranquillizzare; ma non è quel che serve per convincere i capitali a investirsi in banca, permettendole di tornare su una strada di sviluppo dove solo l’intraprendenza innovativa consente rendimenti proporzionati ai rischi. Per meritare nuovi capitali le banche dovrebbero tornare a disegnare strade nuove. In questi ultimi anni l’innovazione ha fatto una brutta fine perché è stata interpretata in modo scorretto, regolata in modo inadeguato, vigilata in modo complice o distratto. Ma il rimedio non è tornare all’antico: è la riorganizzazione degli incentivi aziendali, delle regole e della vigilanza delle autorità, perché la banca competa e innovi consentendo il controllo trasparente dei rischi propri e del sistema. L’idea che ciò sia possibile si è indebolita anche sul piano culturale, anche in campo politico e accademico. Ma fino a quando i banchieri non si riaffacceranno sui mercati con strategie convincenti, disponibili a rimettersi in gioco innovando, non si potrà ricapitalizzare le banche e risolverne durevolmente la crisi.

franco.bruni@unibocconi.it
da lastampa.it


Titolo: FRANCO BRUNI
Inserito da: Admin - Maggio 13, 2009, 10:40:06 am
13/5/2009
 
Economia, non bastano le aspirine
 
FRANCO BRUNI
 
Anche il presidente della Bce lo ha riconosciuto: non mancano segni che la crisi sta smettendo di peggiorare. Interrompere la discesa può essere la prima mossa per cominciare a risalire. La speranza che l’economia mondiale entri in una fase migliore non va sottovalutata. Ma è prematuro parlare di «ripresa» e pericoloso coltivare illusioni, precipitarsi a mettere fra parentesi quanto è successo, sostituire la retorica della fine del mondo con quella del «tutto come prima». Il miglioramento di alcuni indicatori è il risultato dell’eccezionale iniezione di moneta e spesa pubblica con le quali quasi tutte le principali economie hanno reagito alla crisi.

Le medicine sono state date in dosi forti. Ma in parte si tratta di farmaci che calmano i sintomi della malattia, incoraggiano il paziente ma non curano il morbo. Servono a guadagnar tempo perché le vere cure vengano decise e abbiano effetto. Le vere cure sono le riforme economico-finanziarie per governare meglio la globalizzazione ed evitare che il mondo cresca in modo disordinato, squilibrato, pompato, e poi si ammali seriamente, come è successo. L’ideazione e l’implementazione delle misure necessarie procedono ancora lentamente. Per ora prevalgono gli antidolorifici.

Le iniezioni di moneta e spesa pubblica possono inoltre avere effetti collaterali indesiderabili. Il principale è l’inflazione. Quando c’è troppa moneta in giro basta un piccolo cerino per incendiare i prezzi. Il fuoco può accendersi anche «da solo», se si accendono le aspettative di inflazione. Può accenderlo il prezzo delle materie prime o le tensioni su mercati del lavoro che non vengono abbastanza riformati prima della ripresa. O le rigidità e i colli di bottiglia di un’economia internazionale da riorganizzare, o la scarsità di alcuni servizi, compresi quelli pubblici, e di alcuni beni strumentali indispensabili a una ripresa equilibrata. L’eccesso di moneta e di spesa può anche tornare a gonfiare bolle speculative dei prezzi immobiliari e finanziari. I mercati dei cambi, rimasti per ora più stabili del previsto, possono squilibrarsi improvvisamente, soprattutto se non si corregge bene il disavanzo strutturale della bilancia dei pagamenti statunitense. I cambi instabili creerebbero nuovi problemi al commercio e alla finanza nonché balzi nei prezzi delle importazioni di molti paesi e quindi dell’inflazione. Poiché l’inflazione riduce il valore reale del debito pubblico, il fatto che questo sia stato accresciuto dappertutto dagli interventi anticrisi è un incentivo per i governi ad accettarla.

Ai primi seri segni di ripresa dell’inflazione è probabile che alcune autorità monetarie, soprattutto in Europa, rispondano tornando ad alzare i tassi di interesse. Questa reazione potrebbe innescare un nuovo ciclo di pessimismo e fermare ogni segno di miglioramento ciclico. Assisteremmo allora all’aborto di una ripresa troppo precoce e troppo in anticipo sulle riforme e gli aggiustamenti strutturali necessari.

Per correggere gli squilibri che hanno portato alla crisi servono riforme radicali e meditate. Serve quindi tempo. Quando si arresta il crollo ci vuole un periodo abbastanza lungo di bassa crescita e laboriosa riorganizzazione. Va ridotto il grado medio di indebitamento degli operatori economici privati e pubblici, compreso il sistema bancario. Nei prossimi trimestri, fra banche e governi, la pressione per il rifinanziamento dei debiti in scadenza sarà fortissima. È una pressione che può tornare a disturbare i mercati finanziari e che domanderà che proseguano le iniezioni di moneta e i tassi di interesse quasi a zero, alimento per le aspettative di inflazione. È una crisi «da troppo debito» ed è stata gestita, per ora, ridimensionando poco i debiti e, in qualche caso, aumentandoli molto. Non si risolverà fino a quando la riorganizzazione internazionale delle spese, delle produzioni, della formazione di risparmio, e un’ingente accumulo di nuovi capitali di rischio, non avranno ridotto l’indebitamento passato e la propensione e crearne di nuovo.

Dobbiamo dunque insistere e darci tutti da fare per approfittare dell’effetto degli antidolorifici riducendone la somministrazione e accelerando molto le riforme, le vere medicine. Al di là dei dettagli, tutte le riforme importanti richiedono di spostare l’enfasi dall’interesse e dalla sovranità nazionali all’interesse globale e al rafforzamento di organismi sovrannazionali. Altrimenti non si possono riformare le politiche macroeconomiche, le regole della finanza e del commercio né si può riequilibrare la distribuzione globale del reddito, delle spese e delle produzioni.

Perciò, guardando ai prossimi mesi, i veri indicatori di ripresa saranno i successi, nei quali molto dobbiamo sperare, dei programmi dei G20 e del G8 nonché degli sforzi per far riprendere il cammino verso l’unione economica e politica dell’Europa, anche in seguito alle prossime elezioni e al rinnovo degli organi comunitari.

franco.bruni@unibocconi.it
 
da lastampa.it


Titolo: FRANCO BRUNI
Inserito da: Admin - Luglio 03, 2009, 10:18:49 am
3/7/2009
 
L'economia della vista cortissima
 

FRANCO BRUNI
 
I dati comunicati ieri sul deficit pubblico non sono più gravi delle attese. La caduta dei redditi, con la crisi, ha portato con sé il gettito delle imposte, ma non le spese pubbliche: il disavanzo è dunque cresciuto in rapporto al Pil, come è normale nelle recessioni. Il problema non è il disavanzo di questi trimestri disastrati, ma il disegno di lungo periodo della nostra politica di bilancio. La finanza pubblica italiana, nel sostenere l’economia durante gli ormai due anni di gravi difficoltà globali, è stata comprensibilmente prudente. Per osare di più, come da queste colonne suggerivo all’inizio della crisi, ci sarebbe voluta maggiore concertazione europea. Osare troppo avrebbe fra l’altro incoraggiato richieste più pressanti di indebiti salvataggi.

Sono stati presi alcuni provvedimenti utili, come il decreto anticrisi varato l’altro giorno, pur con qualche disordine, ritardo e improvvisazione. Il dibattito che si è sviluppato, nel governo, in Parlamento e con le parti sociali, ha inoltre aperto alcuni cantieri di riforma importanti per l’impatto della finanza pubblica sull’economia: come quelli degli ammortizzatori sociali e delle pensioni, della scuola e dell’università, del rilancio della produttività in tutta la pubblica amministrazione. Cantieri quasi virtuali e ancora scarsi di risultati concreti, dove le pressioni dei gruppi di interesse e l’esitazione del calcolo politico, alla ricerca del consenso di breve termine, indeboliscono l’intenzione di incidere davvero sulla dimensione e la qualità delle entrate e delle uscite. Ma i lavori sono avviati. Prima o poi, in forme più o meno concertate fra maggioranza e opposizione, potrebbero risultarne cose preziose per migliorare durevolmente il funzionamento di un’economia che, proprio perché in crisi profonda, non ha bisogno solo di aiuti palliativi di breve andare.

Il problema è che ci aspettano tanti anni di ristrettezze, crescita scarsa e gravi difficoltà per i conti pubblici. E’ inutile nasconderci dietro speranze di rapida ripresa. Il mondo, per così dire, l’ha fatta grossa. Il conto da pagare è enorme. Per considerarci fuori dai guai occorrerà molto tempo, anche perché diversi Paesi perdono tempo ricorrendo, nell’emergenza, a misure scomposte, protezioniste e pericolose, che allontanano l’aggiustamento. In Italia le condizioni della finanza pubblica erano già gravose prima che cominciasse la crisi e non basta la prudenza nel gestirla per affrontare un periodo durante il quale il gettito fiscale risentirà di imponibili scarsi e le spese pubbliche dovranno ammortizzare le emergenze. Un periodo lungo, dove sarebbe dannosissimo vivacchiare opportunisticamente, finendo per accontentare i più prepotenti e accentuare l’asservimento del bilancio pubblico alla ricerca del consenso effimero di ogni ciclo elettorale.

Occorre alzare il profilo dei programmi di finanza pubblica e orientarli decisamente al lungo periodo. Ci vuole un progetto per fissare le priorità in modo più esplicito e trasparente, legando il budget delle entrate e delle spese pubbliche alle riforme per le quali, come ha scritto Mario Monti, vanno fissate scadenze impegnative. Un progetto coinvolgente, con iniziativa e regia accentrate nel governo ma tavoli di dialogo con l’opposizione e le parti sociali. Un progetto ben pubblicizzato e trasparente, distinto dall’agenda politica ordinaria, con un orizzonte temporale più lungo, che possa contare, per i profili tecnici, su «uffici», procedure e valutazioni, indipendenti e innovative, prendendo qualche esempio dal «Budget Office» del Congresso americano. Un progetto di idee associate ai numeri delle entrate e delle spese prevedibili, seppur con forchette che includano scenari alternativi, che permetta a tutti di monitorare la finanza pubblica su un orizzonte che slitta ogni anno ma è lungo almeno dieci anni. Sarebbe un contributo importante della politica per ridurre l’incredibile incertezza nella quale oggi prendono decisioni le famiglie, le imprese e la stessa pubblica amministrazione, e che le sta costringendo in un orizzonte di vista cortissima.

Il punto centrale sarebbe fissare le priorità, cosa da sempre difficile nella finanza pubblica italiana, ancor più importante in periodi lunghi di risorse scarse. «Fissare le priorità» non significa solo graduare le urgenze: se occorra riparare prima i treni, il bilancio di previsione dell’Inps, i tetti delle scuole o i conti delle università. Significa soprattutto scegliere come se si potesse rifare da zero tutto il bilancio, decidendo quanto prelevare e quanto spendere, nelle varie voci di entrata ed uscita, in un’ottica il più possibile indipendente da quanto si è fatto finora, fissando il ritmo con cui perseguire obiettivi almeno decennali di riorganizzazione dei conti. Significa anche fare scelte impegnative sul fronte della cosiddetta «sussidiarietà», cioè prendere decisioni in quattro direzioni: quali entrate e spese assegnare all’Europa, impegnando poi tutta la nostra capacità di influenza per ottenere che se ne faccia carico, quali all’amministrazione centrale, quali alla responsabilità degli enti locali nel quadro del federalismo, quali a progetti di pubblica utilità che si prestano a una partecipazione massiccia di un’iniziativa privata orientata senza ipocrisie al profitto.

Se far politica significa scegliere, visto che dalla finanza pubblica passa più della metà del Pil, la crisi è il momento giusto per coinvolgerci tutti in una discussione che porti a scegliere un progetto ambizioso ma credibile, concreto e trasparente, sull’orizzonte lungo dei bilanci pubblici. Questo è anche il vero spirito del famoso Patto di Stabilità e Crescita che l’Ue, anch’essa approfittando della crisi, deve trovare il modo di resuscitare e rendere incisivo e convincente.

franco.bruni@unibocconi.it
da lastampa.it


Titolo: FRANCO BRUNI
Inserito da: Admin - Agosto 07, 2009, 11:52:12 am
7/8/2009
 
La lezione di Obama all'Italia
 
FRANCO BRUNI
 
Negli Usa il sistema politico è alle prese con la riforma sanitaria, un passaggio difficilissimo che ha grande importanza ideale e pratica. Per accelerarla, Obama ha messo in gioco la sua popolarità e rischia di perderla. La discordia delle idee e le pressioni degli interessi speciali sembrano insormontabili. Il che rallenta e alimenta il pessimismo anche sull’altro principale, complesso cantiere di riforma, quello della regolamentazione finanziaria.

La democrazia americana appariva indebolita e inceppata durante la presidenza Bush. La vicenda elettorale di Obama è giunta come un formidabile colpo di coda, vista con favore anche da chi non aveva simpatie per il suo partito ma recuperava fiducia nel buon funzionamento della competizione politica nella maggiore democrazia del mondo. Sarebbe un disastro per tutti se ora quella fiducia tornasse a mancare.

A ben vedere, però, la vicenda della riforma sanitaria Usa ha molti aspetti positivi. Dal suo svolgimento, che procede in modo vivace e piuttosto trasparente, vengono almeno quattro messaggi che dovrebbero risultare istruttivi anche per il dibattito politico e istituzionale italiano.

La proposta iniziale di Obama viene interpretata, ma nel contempo smontata e modificata, dalla Camera e dal Senato, nei quali si riflette il dibattito dell’opinione pubblica, ci sono scontri violenti e nascono idee nuove. La spinta della Presidenza è controllata ed elaborata da assemblee legislative articolate e competenti che, a loro volta, ricevono stimoli e correzioni dalla Casa Bianca e dal governo. La ricerca del consenso è lenta e difficile, come è inevitabile dato l’argomento, ma avanza.

Il primo messaggio è dunque che la forza del potere esecutivo, anche in una repubblica presidenziale, non viene sottratta a quella del legislativo: al contrario, la prima valorizza il ruolo della seconda. La robustezza e la fertilità della democrazia non stanno nello strapotere di governi forti e maggioranze travolgenti, ma nell’equilibrio di più poteri che si confrontano e controbilanciano in modo trasparente e ben regolato. Ciò tanto più quanto più delicate e importanti sono le deliberazioni in questione. Se in Italia volessimo rafforzare i poteri del governo dovremmo insieme rendere più forte, credibile e incisivo il ruolo del Parlamento.

Secondo messaggio: anche un sistema fortemente bipartitico ha bisogno di cooperazione fra maggioranza e opposizione per affrontare grandi riforme. Nonostante il parlamento Usa sia completamente bipartitico, con una netta maggioranza della stessa parte del Presidente, il successo della riforma sanitaria, se verrà, sarà merito di un gruppo di lavoro di sei senatori, tre di maggioranza e tre di opposizione, che stanno lavorando con intensità e con la capacità di unire le forze per battere le lobby. In Italia dobbiamo smettere di sospettare di «inciucio» ogni tentativo di convergenza fra maggioranza e opposizione e, d’altra parte, dobbiamo evitare di considerare il bisogno di bipartisanship come sfiducia nel bipolarismo.

Il terzo messaggio è che il bipartitismo più puro è compatibile con un ruolo attivo di gruppi e correnti che in ciascun partito, in modi trasparenti e concreti, arricchiscono il dibattito e facilitano il colloquio costruttivo con l’altro partito. Le correnti centriste di entrambi i partiti Usa si stanno mettendo in luce sia nel controllo delle iniziative di Obama che nella ricerca di soluzioni più condivise. Le convergenze tra forze politiche diverse, convergenze parziali, non ideologiche, progettuali, delle quali ci sarebbe enorme bisogno anche in Italia, possono venir favorite dal fatto che i due poli, senza perdere la loro identità, abbiano una vita interna plurale, animata da gruppi più omogenei che articolano il ventaglio delle proposte favorendo la formazione di consensi trasversali su questioni dove occorre forza bipartisan per vincere le resistenze alle riforme.

Il quarto messaggio viene dal ruolo cruciale che stanno avendo, nell’elaborazione della riforma sanitaria americana, almeno due istituzioni indipendenti ed esplicitamente bipartisan: il Congressional Budget Office, che valuta gli impatti sul bilancio pubblico delle proposte che transitano nel Congresso e che ha opposto i suoi numeri al primo progetto di Obama, e il Medicare Advisory Council, che sta proponendosi come organo tecnico in grado di modulare nel tempo l’avanzamento e l’aggiustamento di aspetti importanti della riforma, interagendo in modi e tempi prestabiliti sia col Presidente che col Congresso. Il ruolo dei tecnici indipendenti e delle istituzioni «al di sopra delle parti» è cruciale per obbligare la politica a evitare miopi opportunismi e mascheramenti delle verità tecniche e contabili, incoerenze e inutili ritardi. Dobbiamo ricordarlo anche in Italia dove non manca chi canta stonato inni populistici al «primato della politica».

franco.bruni@unibocconi.it
 
da lastampa.it


Titolo: FRANCO BRUNI. Non basta punire i banchieri cattivi
Inserito da: Admin - Settembre 03, 2009, 05:22:30 pm
3/9/2009

Non basta punire i banchieri cattivi
   
FRANCO BRUNI


Dal vertice Ecofin pare possibile che i Paesi europei presentino al prossimo G20 sulle riforme finanziarie alcuni punti comuni.

Fra i quali potrebbero esservi le linee guida per le remunerazioni dei banchieri e degli operatori finanziari. È questa una delle materie dove è essenziale un ampio accordo internazionale: infatti i singoli Paesi esitano a mettere vincoli al proprio settore creditizio perché temono di avvantaggiare le piazze estere.

Alla radice della crisi internazionale c’è stato un atteggiamento imprudente delle istituzioni finanziarie nei confronti del rischio. Le cause dell’imprudenza sono state tante, compresi gli eccessi di liquidità e credito a buon mercato che erano un invito a speculare. Ma la struttura dei compensi degli operatori finanziari ha avuto un ruolo cruciale. I compensi, oltre a essere spesso irragionevolmente alti, contenevano una quota elevata di incentivo, basato su vari tipi di indici di volume d’affari e profitti.

La presenza di incentivi è di per sé un fatto positivo. Ma questi erano formulati in modi inopportuni. Intanto dipendevano troppo dai risultati di breve, stimolando operazioni profittevoli nell’immediato ma con forte rischio di gravi perdite nel più lungo periodo, quando gli incentivi a breve sarebbero già stati pagati. Erano troppo slegati dalla rischiosità delle operazioni messe in atto per guadagnarli. Due operazioni che davano uguale profitto venivano premiate nello stesso modo anche se, per esempio, nella prima il profitto era stato ottenuto con una speculazione particolarmente azzardata. Erano poi incentivi asimmetrici, cioè fatti in modo da premiare i profitti senza punire le perdite. E legavano troppo poco i compensi individuali ai risultati d’insieme della banca, esasperando la competizione interna tra singoli dirigenti e funzionari, senza incentivarli a muoversi con una strategia comune che, fra l’altro, evitasse di esporre l’istituzione a rischi eccessivi. I compensi erano anche troppo poco trasparenti, poco conosciuti e discussi dagli stessi consigli di amministrazione degli istituti creditizi e dalle autorità di vigilanza.

Tutto ciò ha contribuito all’assunzione di rischi eccessivi e mal controllati. Ora si tenta di rimediare, creando schemi di remunerazione dove gli incentivi sono più orientati ai risultati di medio e lungo termine, più attenti ai rischi che si corrono nel cercare i profitti, più punitivi nei confronti delle perdite, più legati ai risultati d’insieme dell’istituto finanziario che li paga. Si vuole inoltre che le remunerazioni nelle banche e negli altri istituti finanziari siano meglio controllate dai loro amministratori e dalle autorità. Conviene anche, entro certi limiti, una maggior trasparenza dei compensi nei confronti della generalità dei dipendenti degli istituti, dei loro azionisti e di altri operatori con cui le banche hanno a che fare e per i quali il modo con cui esse organizzano le remunerazioni dei loro dirigenti e funzionari è un elemento importante per giudicarne l’efficienza e la prudenza.

Le regole sui compensi devono adattarsi a diversi tipi di operatori e di operazioni, in un ambiente dove l’innovazione tecnica e organizzativa continua a mutare e dove è particolarmente sentita l’esigenza di competere per assicurarsi gli operatori migliori e indirizzarli proficuamente. Non possono dunque essere regole rigide, uniformi e disposte per legge. Vanno preparate dalle autorità tecniche che dovranno vigilare sulla loro applicazione. Il Financial Stability Board, che raccoglie le autorità di regolamentazione di quasi tutto il mondo ed è presieduto dal Governatore della Banca d’Italia, lavora sul tema da un anno e mezzo e nell’aprile scorso ha pubblicato un accurato documento di principi guida. Per metterli in pratica è urgente che i politici facciano la loro parte e prendano le necessarie decisioni di fondo in modo concorde e convinto, smettendo di rimanere comicamente incerti fra la ricerca di facile popolarità di chi punisce i banchieri cattivi e il desiderio di favorire le banche del proprio Paese rispetto a quelle altrui. Speriamo che il G20, dove gli Usa hanno un ruolo essenziale, decida davvero e lo faccia con un apporto sostanziale degli europei.

Speriamo anche che le riforme finanziarie procedano su tutti i fronti, senza limitarsi alle tasche dei banchieri. È urgente, ad esempio, decidere procedure più rigorose e uniformi per i salvataggi bancari e nuovi limiti all’indebitamento delle banche. Anche in questi campi le proposte tecniche sono abbastanza avanzate e condivise e attendono l’impegno lungimirante dei politici.

franco.bruni@unibocconi.it
da lastampa.it


Titolo: FRANCO BRUNI. Guardare oltre il giardino
Inserito da: Admin - Ottobre 02, 2009, 05:56:46 pm
25/9/2009

Guardare oltre il giardino
   
FRANCO BRUNI


Nell’agenda del G20 di Pittsburgh le regole finanziarie hanno un ruolo importante. Speriamo che il vertice vada al di là degli annunci simbolici e acceleri davvero le riforme.
Dato che non mancano segni di miglioramento dell’economia globale, c’è il rischio che l’urgenza di prendere provvedimenti tecnicamente e politicamente difficili sia meno sentita. Anche perché alcuni di questi provvedimenti potrebbero frenare, nel breve periodo, l’euforia che a tratti riappare sui mercati, ridimensionando l’eccesso di ottimismo con cui qualcuno considera ormai iniziata una ripresa rapida e duratura.
In realtà gli aspetti consolanti della congiuntura dipendono dagli enormi stimoli monetari e fiscali che i governi hanno deciso a partire da un anno fa. Gli stimoli non possono restare a lungo senza creare squilibri ancor più gravi di quelli che hanno generato la crisi. I tassi di interesse non possono rimanere vicini a zero troppo tempo e i debiti pubblici devono cominciare a riaggiustarsi. Il G20 è il luogo adatto per decidere come coordinare questa uscita dalla fase di stimolo. Il coordinamento internazionale è indispensabile perché, in sua assenza, la tentazione di ogni autorità nazionale è di aspettare che muovano prima gli altri: col che si agirebbe in ritardo e la droga degli stimoli rimarrebbe troppo a lungo. I mercati vedrebbero gonfiarsi nuove bolle nei prezzi dei titoli e delle attività e sarebbe l’inizio di nuovi episodi di grave instabilità.

Tutti insieme nel momento giusto
Anche se non si vogliono cominciare a togliere subito gli stimoli, vanno concordate fin d’ora le condizioni e i modi per farlo tutti insieme nel momento giusto. Il Fondo Monetario Internazionale può essere incaricato di seguire nel tempo il coordinamento dell’uscita dalla crisi, badando anche a contenere gli squilibri delle bilance dei pagamenti delle varie economie. Ma perché lo faccia sul serio occorre riformarne profondamente la struttura, con nuove regole di voto e di governo. Finora il G20 ne ha solo aumentato la dotazione di risorse: saprà andare oltre?
Le banche, con altri intermediari finanziari, sono state aiutate in molti modi e godono ancora del potente sussidio dei tassi quasi nulli con cui ottengono liquidità dalle banche centrali. Questo aiuta i loro profitti e facilita la ricostituzione dei patrimoni perduti con la crisi. Non si può obbligarle a ricapitalizzarsi subito, ma si può fissare subito la regola con cui dovranno farlo, entro un certo tempo e se i mercati si evolveranno in un certo modo. Se non si decide adesso che le cose sembrano andare un po’ meglio, non lo si farà più: perché se la crisi torna a mordere mancheranno di nuovo i capitali, e se invece il miglioramento, ancorché drogato, continua e accelera, sarà ancor più difficile imporre alle banche di frenare, di avere meno debiti e più capitale proprio.

Le resistenze dei gruppi di interesse
Sia gli Usa sia l’Ue stanno avanzando con fatica sulla strada di una riorganizzazione delle loro autorità di vigilanza finanziaria. Il G20 è la sede adatta per decidere insieme di proseguire a tutti i costi e in modi omogenei. Ciascuno, a casa propria, ha le resistenze di gruppi di interesse: le autorità di vigilanza attuali, che non vogliono cambiare; gli intermediari finanziari più potenti, che hanno interesse a vigilanze deboli; ed essi stessi, i politici nazionali, che vogliono favorire la loro piazza finanziaria e non cedere potere ad autorità sopranazionali. Se non si coglie l’opportunità del G20 per forzare le resistenze, con «la scusa» di impegni globali, anche le riforme avviate sui due lati dell’Atlantico si incepperanno. E senza nuove autorità sarà più difficile, per esempio, migliorare le regole dei mercati dei derivati o le procedure con cui trattare le banche che approfittano del fatto di essere considerate «troppo grandi per esser lasciate fallire». E senza regole migliori saremo sempre più o meno in crisi.
Il valore aggiunto del coordinamento internazionale sta nell’andare oltre una visione miope dei cosiddetti interessi nazionali. Lo devono però fare degli uomini politici che ottengono il consenso in ambiti nazionali. Avranno il coraggio di guardare oltre il loro giardino? I loro elettorati ascolteranno con grande attenzione le spiegazioni del perché hanno avuto la lungimiranza di farlo.

franco.bruni@unibocconi.it
da lastampa.it


Titolo: FRANCO BRUNI I vecchi fantasmi del biglietto verde
Inserito da: Admin - Ottobre 15, 2009, 09:54:24 am
15/10/2009

I vecchi fantasmi del biglietto verde
   
FRANCO BRUNI


Fra chi si aspettava una crisi finanziaria, più di due anni fa, molti pensavano che si sarebbe manifestata in primo luogo sui cambi, per il deficit dei pagamenti Usa, con un violento deprezzamento del dollaro, al quale avrebbero potuto seguire fughe di capitali dagli Usa, crolli di Wall Street e minacce alla stabilità globale. Il disastro si è svolto diversamente, ma ora la debolezza del dollaro torna a farsi sentire. Un crescente disordine dei cambi potrebbe allontanare le già incerte prospettive di ripresa globale. Di un quadro disordinato fa parte anche il rialzo degli indici di Borsa che, con qualche pericolosa euforia, accompagna il dollaro debole.

Gli operatori spiegano le turbe del dollaro guardando spesso a elementi secondari o passeggeri. C'è anche la strana idea che la discesa del dollaro confermi la ripresa, visto che la moneta Usa era considerata la più sicura nei tempi peggiori della crisi. Invece l'instabilità dei cambi è un sintomo di problemi di fondo, del fatto che gli squilibri dai quali è nata la crisi non si stanno correggendo abbastanza. La bilancia dei pagamenti degli Usa va meglio ma solo perché l'economia è depressa e importa meno. La questione del surplus della Cina non fa progressi e il renmimbi rimane pervicacemente ancorato al dollaro. Le politiche monetarie lasciano sui mercati enormi quantità di liquidità con tassi quasi a zero e minacciano che prima o poi arrivi una forte inflazione. La liquidità eccessiva, mentre spinge il dollaro in giù, causa anche rialzi precari dei corsi azionari. La speculazione finanziaria torna a fabbricare operazioni rischiose. I disavanzi e i debiti pubblici sono molto cresciuti e non si vede come possano venir corretti in tempi ragionevoli.

La cooperazione internazionale per cambiare le regole finanziarie e coordinare le politiche economiche prosegue, ma con passi lenti e l'ostacolo di interessi speciali e visioni nazionalistiche.

Il dollaro è debole da diversi punti di vista. Rispetto all'oro e ad altre attività-rifugio, è debole come lo sono tutte le monete, perché di tutte c'è sovrabbondanza e le aspettative sul loro futuro potere d'acquisto sono disorientate. Rispetto all'euro è debole per due ragioni. Primo, perché alleggerirsi di dollari significa quasi sempre, almeno in parte, comprare euro. Soprattutto se la Cina e i Paesi con riserve molto concentrate in dollari vogliono diversificarle di più, è inevitabile che l'euro salga. Secondo, perché sono molto diversi gli atteggiamenti delle banche centrali che stampano i dollari e gli euro.

La banca centrale americana ha detto che manterrà a lungo i tassi di interesse vicini allo zero, anche se c'è ripresa, che non vuole ostacolare, a costo di rischiare nuove bolle speculative sui mercati finanziari e l'avvio dell'inflazione. La Bce ha invece fatto sapere che cercherà di alzare i tassi prima che cominci l'inflazione, per prevenirla e scoraggiare le bolle finanziarie, e che lo farà con più sollecitudine se i disavanzi pubblici non si correggeranno per togliere pressione inflazionistica dal sistema. Con due strategie così diverse il dollaro-euro non può rimanere indifferente e il vento speculativo, anche se disordinato e discontinuo, finisce a favorire la rivalutazione dell'euro. La prima condizione per avere cambi stabili è che le politiche monetarie abbiano strategie simili.

Una forte svalutazione del dollaro non è necessaria per riequilibrare i pagamenti americani e l'economia mondiale. E' sufficiente che gli Usa accettino di crescere piano per alcuni anni e ne approfittino per riorganizzare la collocazione internazionale della loro economia. Ma il disordine valutario è inevitabile se non è abbastanza rapida e intensa la cooperazione globale per disciplinare le politiche macroeconomiche, risistemare le regole finanziarie e correggere gli squilibri che la crisi ha messo in mostra. E' urgente la riforma del Fondo Monetario Internazionale dal quale ci si attende, fra l'altro, l'ingegneria necessaria a diversificare le riserve di Pechino e di altri Paesi con un'operazione che eviti drastiche svalutazioni del dollaro. Il governatore della banca centrale cinese ha fatto una proposta in tale senso ed è auspicabile che, come il G20 ha già deciso in linea di massima, il peso della Cina nel Fmi cresca presto. Poiché sono i Paesi europei a doverle fare largo, l'Ue deve decidere svelto e con chiarezza di diventare meno ingombrante ma molto più unita e incisiva nel governo del Fmi.

Secondo alcuni il dollaro è debole perché sta per abbandonare la sua posizione centrale nel sistema monetario internazionale. In un certo senso è vero, ma questo abbandono può avvenire in modo graduale e non traumatico, nell'ambito di un ampio processo di riforma del governo dell'economia globale. Ora come ora la stabilità dei cambi, che è parte importante della stabilità finanziaria generale, è in pericolo perché la riforma avanza troppo piano.

franco.bruni@unibocconi.it
da lastampa.it


Titolo: FRANCO BRUNI Una nuova cultura della mobilità
Inserito da: Admin - Ottobre 21, 2009, 09:30:21 am
21/10/2009

Una nuova cultura della mobilità
   
FRANCO BRUNI


L’affermazione che «il posto fisso è meglio della mobilità», fatta da Tremonti e ripresa dal capo del governo, ha una valenza politica e può avere un significato economico. Ma è soprattutto un messaggio culturale. Che evoca, con vaghezza ma qualche efficacia, dei «valori», come hanno detto sia il ministro che il presidente.

Per analizzarne il profilo politico occorrerebbe decifrare il politichese ed entrare nel tafferuglio trasversale in corso nel governo, fra la maggioranza e l’opposizione, all’interno di entrambe e del mondo sindacale. Per discuterne il significato economico occorrerebbe sapere quale preciso contenuto programmatico la frase vuole avere. E’ dunque più facile prenderla come provocazione culturale. Alle voci che stanno scegliendo questa strada, compresa quella giustamente contrariata e forse un poco sorpresa di Emma Marcegaglia, vorrei aggiungere due considerazioni.

La prima è che il mondo cambia, rapidamente e inesorabilmente. Reagire senza flessibilità è una difesa dell’esistente effimera, fallimentare e dannosa. Questo vale per i processi produttivi, le idee, i costumi, la distribuzione e l’equilibrio del potere globale, regionale, nazionale, aziendale e familiare. La crisi in corso, come le grandi crisi economiche del passato, deriva da cambiamenti di fondo, come l’entrata di intere nuove popolazioni nei mercati della produzione e del consumo, ai quali è difficile far fronte. La difficoltà consiste nel costo di adattarci costruttivamente a quei cambiamenti. Penso che, dal punto di vista culturale, il messaggio da dare alla gente in difficoltà, ai giovani che stanno cercando un orientamento, sia l’opposto di quello che viene evocato dall’inno al «posto fisso». Bisogna piuttosto incoraggiarli a cercare, individualmente e collettivamente, nuove forme di organizzazione del lavoro, della vita e delle idee. Qualunque irrigidimento è fonte di attrito improduttivo con le inevitabili novità, qualunque fissità diventa arretramento. A meno che l’obiettivo sia quello di approfittare delle paure che circolano per spargere speranze e illusioni che durano il breve periodo di un ciclo elettorale.

Il secondo punto, sempre considerando l’idea del «posto fisso» come simbolico, astratto ma importante messaggio culturale, è che a quest’idea è quasi inevitabile associare un risvolto di esclusione degli outsider, di quelli che il posto non lo hanno, soprattutto i giovani, soprattutto chi è in qualche modo «nuovo», nelle idee e nelle capacità. Può essere una persona, un’impresa o un altro genere di organizzazione, che vuole competere con la fissità dell’esistente, sfidando chi ha già «un posto», nel lavoro, nella società, nel mondo, a misurarne la validità con la novità che emerge. Se a chi è giovane e nuovo non si offre una «società aperta», mobile e flessibile, si blocca il progresso, cade la mobilità verticale dei redditi e delle responsabilità, cadono le speranze. Rimane l’arroccamento degli insider, dei «posti fissi», delle imprese antiche, dei salotti buoni, dei paesi vecchi, delle idee sorpassate, che man mano si rivela un assedio perdente e un cammino verso la povertà, economica e culturale. E’ uno scenario reazionario che dovremmo evitare venga evocato dalla crisi, col suo fardello di insicurezze.

La risposta culturale da dare alle insicurezze della crisi e, più in generale, agli choc da cambiamento che spesso percuotono il mondo, è quella che una società aperta, ben regolata e governata in modo progressivo e lungimirante può «gestire il cambiamento», offrendo a chi deve cambiare l’assistenza necessaria per farlo nel modo migliore, organizzando canali di mobilità dove la gente non si perde ma trova i punti di riferimento per un nuovo cammino. E’ un’assistenza costosa e occorre tassarci per procurare le risorse necessarie: risorse non solo economiche e politiche ma anche culturali, risorse di attenzione al futuro e non di nostalgia del passato.

La politica economica offre esempi importanti e attuali di questo atteggiamento. Che a tratti appare l’atteggiamento di alcuni membri di questo stesso governo, quando pensa a forme nuove per assistere la disoccupazione, a favorire la mobilità con contratti di lavoro più flessibili e decentrati, a riformare gli incentivi alle imprese, a responsabilizzare maggiormente la gestione del pubblico impiego, a rinnovare la scuola e rendere più flessibile, perché più decentrata, la finanza pubblica.

Gioverebbe alla credibilità di tutto questo avvolgerlo, con qualche entusiasmo, in un messaggio culturale di fondo che sia il contrario di un disdegno della mobilità. Anche perché, al di là dell’importanza e della concretezza dell’economia, la società aperta, progressiva, innovativa, mobile, solidale ma selettiva, è veramente un fatto di cultura, di espressioni verbali appropriate attorno alle quali raccogliere gli sforzi della politica e dell’economia.

franco.bruni@unibocconi.it
da lastampa.it


Titolo: FRANCO BRUNI Se nascono nuove bolle
Inserito da: Admin - Novembre 27, 2009, 11:49:37 am
27/11/2009

Se nascono nuove bolle
   
FRANCO BRUNI


Le difficoltà finanziarie di Dubai rischiano di configurare un caso di grave insolvenza. Le ripercussioni internazionali possono mettere a tacere le fragili prospettive di ripresa sulle quali si esercita da qualche tempo l’ottimismo di non pochi operatori e politici. Oltre all’impatto diretto sulle banche creditrici, molte delle quali europee, il pericolo può diramarsi al sistema finanziario globale e a settori più o meno direttamente collegati all’economia degli emirati e al mondo immobiliare. Le Borse e i premi di assicurazione sui titoli di debito, compresi quelli «sovrani», cioè garantiti dai governi, hanno subito registrato la gravità del problema.

Il quale però non si limita alla potenziale diffusione del danno causato dal caso specifico di Dubai e dei suoi progetti in difficoltà. E’ vero che si tratta di un caso per molti versi particolare e davvero costruito sulla sabbia. Ma, per quanto gravi siano i suoi riflessi, limitandosi a guardarlo in sé e per sé si sottovaluta il significato di quanto sta succedendo. Lo scenario diventa più buio se il fatto di Dubai viene interpretato come un sintomo del permanere di squilibri e distorsioni nei mercati monetari e finanziari del mondo le cui malattie, emerse con la crisi cominciata nel 2007, sono ancor lungi dalla guarigione.
Purtroppo viene in mente che, per molti mesi, anche le gravi disavventure del mercato dei prestiti sub-prime americani sono state considerate un «caso particolare».

Un grave incidente con possibili conseguenze diffuse ma pur sempre un incidente specifico a quell’angolo del sistema economico-finanziario globale. E’ occorso molto tempo per capire che si trattava invece del sintomo di un vastissimo malessere radicato nell’eccesso di indebitamento dei più svariati tipi di operatori economici privati e pubblici, collocati un po’ dovunque nel mondo. Un incauto indebitamento incentivato da anni di politiche economiche imprudenti, soprattutto quelle monetarie, di carenze nelle regole dei mercati finanziari e nelle vigilanze delle autorità nazionali e internazionali. Il mondo non è stato contagiato da un virus fabbricato dagli ingegneri dei sub-prime: il mondo era già globalmente infetto e la crisi dei sub-prime era un sintomo.

Anche Dubai rischia di rendere più evidente quello che prima dicevamo in pochi ma negli ultimi tempi vanno dicendo in molti: che la crisi finanziaria iniziata nel 2007 è stata curata male e lentamente. Si è fatto troppo conto sulle iniezioni di liquidità e sui tassi di interesse superbassi. Gli intermediari e i mercati finanziari ne hanno approfittato per tornare a cercar rischi speculativi alimentati con fondi a basso costo. A questo atteggiamento, che ha gonfiato bolle di vario genere e spiega in parte notevole la ripresa dei corsi azionari e obbligazionari di questi ultimi mesi, va ricondotta anche la mancata cautela nei confronti dei pasticci di Dubai e delle autorità preposte a quella regione. Le iniezioni di liquidità e di debito pubblico e i tassi bassi dovevano servire a «comprare tempo» per fare le riforme delle regole e dei controlli finanziari, ristrutturare e ricapitalizzare banche e imprese, accelerare la centralizzazione regionale e mondiale della vigilanza finanziaria, rimettere le politiche macroeconomiche e l’economia mondiale su un sentiero di crescita più sostenibile. Sono passati due anni e mezzo dall’inizio della crisi e c’è un diffuso parlare di ripresa. Ma il processo di riforma, anche se ben abbozzato sul piano tecnico, stenta a trovare la forza politica e la cooperazione necessaria per venir messo in atto. Tutto è troppo lento, sta sparendo il senso dell’urgenza, il tempo comprato con la droga della liquidità a buon mercato e l’ingigantirsi dei deficit pubblici non viene usato con la dovuta intensità. Come ha osservato due settimane fa il presidente del Financial Stability Board, Mario Draghi, «il miglioramento della situazione accresce la forza dei gruppi di interesse che sono contrari a qualunque riforma sostanziale».

Bisognerebbe sperare che il guaio di Dubai rinfocoli la consapevolezza dell’urgenza di riforme, di nuove regole, di vertici internazionali più concreti nelle loro deliberazioni, di politiche economiche meno legate all’effimero miglioramento degli indici congiunturali. Ma ci sono due rischi. Il primo è che quel guaio ne faccia emergere altri, fabbricati in questo periodo di «ripresa» o residuati tossici rimasti nascosti dai tempi prima della crisi. Il secondo è che ci si limiti a reagire comprando ancora tempo con nuovi salvataggi, nuovi debiti, altra liquidità, tassi vicini allo zero per chissà quanto: che Dubai venga presentato come un incidente specifico in una piazza d’affari screditata, del quale occuparsi mettendo toppe a un sistema che non si fa toccare nella sostanza delle sue regole e dei suoi assetti di potere.

franco.bruni@unibocconi.it

da lastampa.it


Titolo: FRANCO BRUNI - Economia banco di prova della politica
Inserito da: Admin - Gennaio 26, 2010, 09:53:16 am
26/1/2010

Il caso Grecia le colpe dell'Ue
   
FRANCO BRUNI

I problemi macroeconomici della Grecia preoccupano le autorità europee. La misura insostenibile del disavanzo e del debito pubblico, il grave deficit della bilancia dei pagamenti, la scarsa produttività e la cattiva organizzazione del settore pubblico, l’evoluzione scorretta della struttura dei salari, e molto altro ancora, aumentano la sfiducia nei confronti di un Paese che è arrivato al punto di fornire a Bruxelles, ripetutamente, dati falsi sulla propria economia. Il fatto che la Grecia sia parte dell’area dell’euro riduce la credibilità della moneta europea e delle autorità che le hanno consentito di farne parte e sono state poi incapaci di disciplinarne i comportamenti.

Occorre però distinguere due questioni. Da un lato c’è il pericolo di un’insolvenza della Grecia, divenuta incapace di ripagare i propri debiti, anche quelli dello Stato. Pericolo che può apparire moltiplicato dalla possibilità che l’insolvenza greca contagi la credibilità dei titoli di Paesi europei che hanno elementi di debolezza analoghi, anche se meno accentuati, come la stessa Italia. Su questa questione occorre evitare esagerazioni: la Grecia è una piccola economia, meno di un quinto dell’Italia, vi sono diversi modi di aiutarla a superare il momento acuto delle sue difficoltà, il suo caso è ora ben presente alla Commissione e le pressioni per la sua correzione sono molto forti. Di fatto il collocamento dell’emissione del governo di Atene ha registrato ieri un successo, anche se pagato con tassi alti e favorito dalla sovrabbondanza di liquidità internazionale, che dimostra fiducia nel rientro dell’emergenza, assistito dall’Europa. Quanto al rischio di contagio, esso è piccolo: a parte fasi temporanee di panico, i mercati finanziari sono in grado di distinguere la diversa qualità e quantità dei problemi dei vari Paesi.

Il vero problema è un altro: il caso greco è grave perché è un esempio concreto di come l’attuale organizzazione dell’Ue permetta che si perda, per un tempo piuttosto lungo, il controllo dell’economia di un Paese membro, consentendogli comportamenti fortemente divergenti dalle norme e dalle medie comunitarie, nonostante la moneta unica e l’azione di coordinamento macroeconomico svolta dalla Commissione e dal Consiglio. La vicenda greca è una prova di gravi lacune nel governo economico europeo che è stato debole, distratto e diviso, non abbastanza sovra-nazionale. Senza una conduzione centrale più autorevole e ambiziosa le politiche economiche dei diversi Paesi, lasciate a se stesse, consentono divergenze profonde fra i diversi Stati membri e le diverse regioni dell’Unione, nonché disordine e inefficienza dell’economia comunitaria, proprio in una fase in cui la crisi e la concorrenza globali richiedono comportamenti più virtuosi.

La consapevolezza di ciò emerge sempre più chiaramente a Bruxelles come a Francoforte. Si tratta di rafforzare drasticamente la disciplina e il coordinamento delle politiche economiche comunitarie nel loro insieme. Ciò risulta tanto più evidente quando si cerca di far funzionare sul serio il Patto di Stabilità e Crescita col quale si controllano comunitariamente i disavanzi e i debiti pubblici. Il Patto esiste da quando c’è l’euro ed è stato concepito proprio nella convinzione che la moneta unica non può sopravvivere se i debiti pubblici non vengono governati concordemente. La Grecia non è certo sola ad avere problemi col Patto: quasi tutti i Paesi membri sono oggi compresi nella cosiddetta «procedura di deficit eccessivo». Lo sforzo collettivo per riequilibrare e rendere sostenibili le finanze pubbliche europee è straordinario.

Ma perché questo sforzo abbia successo non può coinvolgere solo le decisioni sui saldi di bilancio. Gli andamenti della spesa pubblica e della tassazione riflettono il funzionamento d’insieme di un’economia e la qualità complessiva delle sue politiche economiche. Per esempio: un’economia dove il mercato del lavoro è male organizzato, non ci sono i giusti incentivi ad accrescere la produttività, nel pubblico e nel privato, non c’è adeguata concorrenza fra i gruppi industriali e finanziari, sarà un’economia senza competitività internazionale che vedrà fatalmente crescere sia il suo disavanzo con l’estero che il debito pubblico, la cui crescita tenta di nascondere temporaneamente le debolezze del meccanismo di crescita del Paese.

Perciò il bilancio pubblico non si sistema durevolmente votando una legge finanziaria che fissa un numero limite per il disavanzo: si può sistemarlo solo facendo riforme strutturali profonde che migliorino il funzionamento della pubblica amministrazione, del mercato del lavoro e del sistema finanziario e rilancino la produttività e la competitività globale del Paese. E se l’Europa vuole coordinare la sistemazione dei suoi disavanzi deve permettersi l’ambizione di coordinare il disegno e la realizzazione delle riforme strutturali. L’autonomia delle politiche economiche nazionali deve ridursi, gli indirizzi e i controlli comunitari rafforzarsi. Altrimenti, insieme alla disciplina finanziaria, si compromette il mercato unico e la solidità dell’euro. Sarebbe un guaio, molto costoso anche per quei Paesi che frenano l’accentramento delle politiche perché restii a rinunciare alla loro autonomia e convinti di non aver bisogno di «disciplina esterna».

da lastampa.it


Titolo: FRANCO BRUNI - Economia banco di prova della politica
Inserito da: Admin - Marzo 24, 2010, 11:23:28 am
24/3/2010

Economia banco di prova della politica
   
FRANCO BRUNI

La sensazione che le indecenti baruffe connesse alle prossime elezioni amministrative distraggano dai problemi concreti dei quali la campagna elettorale avrebbe dovuto occuparsi è molto diffusa. Altrettanto diffusa è la convinzione che lo scontro politico nazionale che sta sullo sfondo sia pura lotta di potere per il potere, con un contenuto programmatico vago, a tratti surreale, gridato in modo scomposto, senza agganci a progetti alternativi per il governo del Paese. L’impressione è di un palcoscenico dove si azzuffano con colpi bassi e frasi a effetto eserciti di politici di ogni livello, troppo numerosi, poco competenti, convinti di poter continuare a prelevare la gravosa imposta con cui si mantengono, un’imposta troppo nobilmente chiamata «costo della politica», che sottrae risorse alle attività civili e produttive dei cittadini.

Astenersi dal voto, per manifestare queste sensazioni, è probabilmente sbagliato. Ma la «antipolitica» sta acquistando una sorta di nuova legittimità, che la pone un poco al di sopra del puro qualunquismo. Se anche non fosse la bassa partecipazione alle urne a imporne l’attenta considerazione, l’esperienza di queste elezioni è un’occasione, che le sfilacciate leadership della maggioranza e dell’opposizione non possono sprecare, per cambiar marcia, in vista dell’ormai famoso periodo di tre anni senza votazioni.

Il problema è generale, riguarda l’insieme della politica e la tenuta delle istituzioni. E non è credibile chi propone di risolverlo riformando le istituzioni senza mostrare sufficiente rispetto per quelle esistenti.

Si permetta però a un economista di osservare che la questione è particolarmente grave nell’ambito più delimitato della politica economica. Chi di noi se ne occupa, da mesi è confinato a riflettere e parlare di crisi finanziaria internazionale, di Grecia e di euro, di politiche e di riforme dell’Unione europea e di sanità statunitense, di bilancia dei pagamenti cinese e di mercato mondiale dell’energia. Il tema della politica economica italiana è talmente evanescente da impedire circostanziati contributi all’analisi e proposte costruttive. Il ministro Tremonti si è giustamente messo di traverso a tentativi più o meno espliciti di aumentare il disavanzo e il debito della finanza pubblica. Ma ciò ha finito per soffocare il dibattito sulla ricomposizione delle entrate e delle uscite del bilancio. I provvedimenti adottati sono minimali, poco trasparenti, sminuzzati in leggi e decreti omnibus e milleproroghe, sospetti di distribuire sussidi e aiuti di poco conto a chi cavalca meglio il turbinio delle lobby. Le proposte dell’opposizione non sono state precise e non appaiono affatto sfidanti. Su ciò si stende, da una parte, un ingiustificato ottimismo sulle condizioni relativamente migliori con cui il nostro Paese attraverserebbe la crisi internazionale e, dall’altra parte, un disordinato grido di dolore circa le ovvie condizioni di difficoltà del Paese e, in particolare, delle sue componenti più deboli.

Ma torniamo alle elezioni. La confusione del momento sembra aver partorito, a tratti, promesse di maggior concretezza appena passata la baraonda. Per fare solo un esempio, che potrebbe essere importante, si è persino parlato di una profonda riforma fiscale che arrivi ad articolarsi coerentemente con la realizzazione del federalismo. Accenni in questo senso del governo paiono aver addirittura ricevuto una curiosa attenzione di parte dell’opposizione. E c’è forse qualcosa che bolle in pentola anche in altre materie, dal mercato del lavoro, al Welfare, all’istruzione e alla ricerca. È evidente che si possono fare politiche ambiziosissime e preziose senza compromettere l’equilibrio del bilancio. Ed è evidente che c’è una domanda esasperata di indicazione delle priorità, di dibattito sulle priorità, di ristrutturazione delle entrate e delle uscite, di scelte che concentrino provvedimenti e spese in quantità significative là dove più occorrono, sopportando i costi politici di sacrificare il resto. Non è questo il luogo per entrare nel merito di tutto ciò. È solo il caso di insistere perché, nel dopo elezioni, si approfitti del fatto che la politica economica ha una sua speciale concretezza, che si può tradurre in statistiche, numeri, tabelle di piano e di previsione da discutere con trasparenza nel governo, nel Parlamento, nel Paese, sui giornali. Sarà la distorsione mentale di chi si occupa di economia: ma perché non sperare che sia proprio mettendo la politica economica in prima linea che governo e opposizione potrebbero recuperare rapidamente un poco di credibilità, da spendere poi in tutti gli altri campi della vita civile e istituzionale che richiedono l’azione di indirizzo e di riforma di una politica che si faccia rispettare?

da lastampa.it


Titolo: FRANCO BRUNI Cosa serve davvero ad Atene
Inserito da: Admin - Aprile 29, 2010, 10:43:06 am
29/4/2010

Cosa serve davvero ad Atene

FRANCO BRUNI


L’evoluzione del problema del debito greco è grave e complicata. Molti danno la colpa alla Germania che ha impedito una decisione tempestiva e chiara sul sostegno dei governi dell’area dell’euro. Lo ha fatto per opportunismo elettorale. Le pressioni degli altri Paesi europei, della Bce e del Fmi la stanno convincendo a cambiare atteggiamento. Ma non è solo colpa della Germania. Ci sono alcune questioni che vengono trascurate nel dibattito internazionale.

Intanto c’è la violenza, la concentrazione in tre anni del piano di aggiustamento delle politiche economiche richiesto alla Grecia e al rispetto del quale è legata la disponibilità del sostegno finanziario internazionale. Per quanto formulato con un eccellente lavoro di dettaglio della Commissione, del Fmi e del governo greco, è difficile credere che si tratti di un piano realistico e fattibile, politicamente ed economicamente.

Il che ha portato Atene a esitare prima di ammettere di non poter fare a meno degli aiuti e porta i mercati a dubitare che la Grecia sia in grado davvero di mantenere la fiducia di chi la deve aiutare. Le misure che la Grecia dovrebbe adottare sono recessive e rischiano di peggiorare la situazione politico-sociale del Paese, riducendo la sua disponibilità a disciplinarsi e ostacolando lo stesso aggiustamento del disavanzo pubblico. Occorrerebbe mirare a un risultato più graduale ma più sicuro: dare alla Grecia più tempo per correggere i suoi squilibri e, in cambio, essere più certi di controllarne le decisioni.

Nel frattempo si potrebbe riformare il Patto di Stabilità europeo dal quale dipende la disciplina della finanza pubblica di molti altri Paesi. Il Patto deve diventare più severo, più invasivo delle autonomie nazionali, più attento all’insieme delle politiche economiche e quindi agli squilibri che vanno oltre quello della finanza pubblica. Ma deve chiedere aggiustamenti graduali e credibili. Con un Patto più efficace, mentre si aggiusta la Grecia, i mercati guarderebbero con meno preoccupazione al Portogallo, alla Spagna, ma anche all’Italia e a tutti gli altri Paesi che sono comunque oggi ufficialmente in condizioni di «disavanzo eccessivo». Facciamo un esempio inconsueto, la Francia: secondo gli ultimi documenti del Patto di Stabilità il deficit pubblico francese, che è stato l’8,3% del Pil nel 2009 ed è previsto all’8,2% nel 2010, dovrebbe tornare sotto il 3% nel 2013. Siamo sicuri che la Francia possa e, soprattutto, voglia farlo? O stiamo sfogando la nostra severità con la Grecia mentre continuiamo a prenderci in giro con un Patto che non funziona e nell’ambito del quale non si è riusciti nemmeno a controllare la veridicità dei conti che la Grecia ha comunicato negli ultimi anni?

Un’altra ragione di aggravamento del problema greco è che non c’è un piano per far pagare una parte del guaio ai creditori esteri della Grecia che hanno, anche recentemente, comprato i suoi titoli a tassi elevati contando sul suo salvataggio. Servirebbe più trasparenza, in particolare, sulla posizione di alcune delle banche e degli altri investitori internazionali, soprattutto europei e soprattutto tedeschi, che sono esposti in misura notevole con la Grecia.

Attraverso di loro un’insolvenza greca diffonderebbe e aggraverebbe i suoi danni al sistema internazionale. I crediti di questi operatori andrebbero comprati con forte sconto da un «fondo» dove i governi europei concentrerebbero i loro finanziamenti a supporto della Grecia. Anche attraverso questo fondo le autorità comunitarie diverrebbero contropartita dei greci nel monitorarne il ritorno alla solvibilità. Sarebbe come cancellare una parte del debito greco portandola subito a deduzione, limitata ma certa, dei crediti di chi ha assunto rischi speculativi. Aver voluto salvare a tutti i costi i creditori imprudenti è una delle ragioni che, fin dai «subprime» americani del 2007, ha aggravato la crisi finanziaria globale.

Se non c’è una rapida svolta nella gestione del caso greco, l’Italia non è fra i primi candidati al contagio. Il nostro debito pubblico è molto alto ma il suo aumento è relativamente sotto controllo e può ancora contare su un abbondante risparmio privato. Inoltre non c’è notizia di importanti intermediari italiani molto esposti con la Grecia. Dobbiamo però mantenere la nostra situazione politica in grado di gestire, in condizioni internazionali difficilissime, un programma pluriennale che, oltre a riequilibrare credibilmente la finanza pubblica, rilanci la competitività e la crescita del Paese. Inoltre, per quanto può contare la nostra proposta e la nostra diplomazia, ci conviene impegnarci molto nel favorire una gestione comunitaria corretta e decisa del problema greco, insieme a una coraggiosa riforma del Patto di Stabilità.

franco.bruni@unibocconi.it

da lastampa.it


Titolo: FRANCO BRUNI Troppa enfasi sull'euro in difficoltà
Inserito da: Admin - Maggio 17, 2010, 06:50:46 pm
17/5/2010

Troppa enfasi sull'euro in difficoltà

FRANCO BRUNI

La settimana si apre con l'euro debole. Contro il dollaro, a parte il confuso periodo dopo il fallimento di Lehman, non è mai stato così basso dall'aprile del 2006. L'enfasi sulla crisi del cambio europeo è però esagerata: quand’era solo un poco più forte, si diceva fosse sopravvalutato. Misurato in dollari, il prezzo dell’euro è del 6% più alto del suo valor medio da quando esiste.

Ed è meno dell'8% più basso di un anno fa e della media degli ultimi 5 anni. Non è dunque il caso di drammatizzare dimenticando, fra l'altro, che c'è una crisi del valore delle monete nel loro complesso: nell'ultimo anno il valore del dollaro in oro è sceso del 25%.

Un ripiegamento temporaneo del cambio dell'euro è naturale. I provvedimenti a sostegno dei debiti pubblici di alcuni Paesi hanno allungato il periodo durante il quale i tassi di interesse della Bce sono attesi rimanere molto bassi, rendendo l’euro meno attraente. Inoltre, se verranno effettivamente varati tagli di bilancio in diversi Paesi, il cambio un poco più basso può avere qualche utilità per l'insieme dell'area dell'euro, aiutando la competitività di breve e facilitando la sostituzione della diminuita domanda pubblica con maggiori esportazioni nette.

Ci sono poi strani sussurri: che l'euro è debole perché potrebbe disfarsi. Ricomparirebbero le monete più deboli che lo hanno costituito, ma potrebbe anche sdegnosamente risuscitare il marco tedesco. Si tratta di scenari la cui plausibilità tecnica e politica è di gran lunga sopravvalutata da chi ne parla, di solito senza sufficiente competenza. Ma quel che più importa è tener presente che da evoluzioni del genere non ci sarebbe da guadagnare proprio per nessuno. Tutti i Paesi dell'area dell'euro e, in prospettiva, tutti i Paesi dell'Ue, hanno interesse a integrare sempre più le loro produzioni, i loro commerci e le loro finanze: è l'unico e naturalissimo modo con cui possono sfidare la concorrenza globale. Sostituire l'euro con monete che tornano a svalutarsi e rivalutarsi darebbe forse qualche effimero vantaggio, per pochissimo tempo, alla competitività di Paesi deboli e all'immunità di qualche Paese forte dal contagio di problemi internazionali di illiquidità e insolvenza. Ma tutto finirebbe presto in grande disordine, stile Anni 70: aumento dell'indisciplina monetaria, cambi in altalena violenta, inflazioni alte e diverse, taglio dei salari reali, contrazione dei flussi commerciali, disincentivo a migliorare le produzioni, speculazioni più destabilizzanti di oggi, reintroduzione di divieti ai movimenti internazionali di capitali. All'ombra di quei divieti i grandi debitori, soprattutto i governi, sarebbero facilitati a succhiare il risparmio dei creditori, soprattutto delle famiglie. Se l'area dell'euro, da quando esiste, è cresciuta meno di come avrebbe potuto, non è certo colpa dell'euro, ma della mancanza di flessibilità dei cambi delle monete nazionali.

Per quanto riguarda il rapporto col dollaro, gli Usa hanno il vantaggio di un governo unico dietro il loro debito pubblico e la loro moneta e possono più liberamente stampare tanti dollari per rimborsare i titoli di Stato in scadenza, anche perché il mondo pare ancora accettarli come moneta di riserva e come lo strumento di pagamento internazionale di gran lunga più utilizzato. Ma le prospettive della loro finanza pubblica sono peggiori di quelle medie dell'area dell'euro. La quale non ha squilibri di rilievo nei pagamenti col resto del mondo, mentre in Usa il commercio estero ha da più di due decenni un grande deficit strutturale e le produzioni non si sono ancora riorganizzate per ridurlo entro limiti sostenibili. Lo stimolo monetario e fiscale non accenna a diminuire e sta tornando a far crescere l'economia americana in modo artificioso. Dopo il crollo nella prima parte dell'anno scorso, le importazioni Usa sono aumentate al tasso annuo di quasi il 25%, molto più svelto delle esportazioni. E' difficile dimostrare che il dollaro non è sopravvalutato, almeno rispetto alla media delle altre monete del mondo.

Dalla scorsa settimana l'Europa ha dato netti segni di voler affrontare la crisi con un piglio nuovo e aumentare molto il coordinamento delle sue politiche economiche e della sua finanza. Ha varato il progetto di un grande fondo comune per sostenere la finanza pubblica dei Paesi più indebitati e meno competitivi, ha ottenuto l'impegno di questi ad accelerare i tagli e le riforme, ha preparato un piano per il rilancio del mercato unico, ha impostato una riforma radicale del Patto di Stabilità e Crescita, ha accelerato la discussione sulle riforme della regolamentazione e la vigilanza finanziaria. L'obiettivo è di concretizzare molti di questi cambiamenti prima della fine dell'anno. Nel frattempo la Bce sostiene la liquidità dei mercati cercando di evitare accelerazioni inflazionistiche della quantità di moneta. Nonostante lo stile scomposto di alcuni leader politici e finanziari, è difficile immaginare una ripresa più netta della coesione economica e politica europea. E' una ripresa che arriva tardi e per ora è più un'intenzione che una realizzazione. Occorre dimostrare subito che si fa sul serio, sia ai tavoli di Bruxelles sia nei governi e nei Parlamenti nazionali. L'agenda delle autorità europee è piena di urgenze, fitta e ambiziosa: merita di essere seguita, anche dal mercato dei cambi, con attenzione critica ma, per ora, con fiducia.

franco.bruni@unibocconi.it

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Titolo: FRANCO BRUNI Mobilitazione per le riforme
Inserito da: Admin - Giugno 01, 2010, 11:39:35 am
1/6/2010

Mobilitazione per le riforme

FRANCO BRUNI

Il brusco taglio dei deficit pubblici è inevitabile, perché «le nuove condizioni di mercato», come le ha delicatamente chiamate Draghi, non consentono di lasciar crescere i debiti. Ma il Governatore ricorda «che questa crisi è soprattutto una crisi di competitività». Scarseggia la competitività reale della macchina produttiva europea, che stenta più di altre a riprendere a crescere. Mancano di efficienza i mercati e i governi dell'area dell'euro.

Crisi siffatte si superano solo nel medio-lungo periodo, con le famose riforme strutturali. Che cosa sono? Sono riorganizzazioni dei sistemi economici, sia nel comparto pubblico che in quello privato. Sono modi per assumerne un controllo più informato e autorevole, da parte dei governi nazionali e di un più forte «governo economico dell'Europa». Si tratta di usare più produttivamente le risorse di capitale, lavoro e tecnologia, spostandole e reindirizzandole, misurandone meglio il rendimento. Fare riforme strutturali significa anche far diventare più efficaci gli incentivi, i premi e le punizioni della classe dirigente, la verifica dei suoi risultati.

Quelle imprese italiane che hanno saputo riformare a fondo la propria struttura, prima della crisi, ha sottolineato Draghi, prevedono di uscirne prima e meglio. Come loro deve fare l'intero sistema economico italiano e, con una regia sempre più unitaria, quello europeo. Gli esempi di riforme necessarie sono innumerevoli e partono dal riassetto dei servizi pubblici, soprattutto scuola, giustizia, sanità e politica della ricerca; nonché dalla riorganizzazione dei mercati dei capitali e del lavoro, dei sistemi pensionistici e del prelievo fiscale. Il federalismo fiscale non deve essere fine a se stesso ma un modo per aumentare la disciplina della finanza pubblica e la sua azione di stimolo alle riforme strutturali.

L'Europa ha una funzione cruciale. Non deve disciplinare solo i conti pubblici degli Stati membri ma entrare, con severità invasiva, nei progetti di sviluppo di lungo periodo dei governi. Fra le nuove ambizioni europee, nel controllo delle politiche nazionali, Draghi sceglie due esempi significativi: la promozione della «partecipazione al mercato del lavoro di giovani e anziani e la concorrenza nei mercati dei servizi».

Controlli e sanzioni, sui governi nazionali e locali, sulle imprese e sui singoli, sul rispetto trasparente dei programmi e delle regole, sono parte cruciale delle riforme. Le quali richiedono a tutti la disponibilità a cambiare e a sopportare i costi del cambiamento. A volte chi critica le politiche di tagli al bilancio chiedendo "provvedimenti per la crescita" sembra domandare che insieme alle spine ci sia qualche rosa. Ma anche il rilancio della competitività e dello sviluppo è faccenda di spine, severa e politicamente amara, fatta di faticose ristrutturazioni e disciplina.

Perché il Governatore della Banca d'Italia, come quello della Bce, insiste sulle riforme strutturali? Perché non si limitano a parlare di finanza, di banche, di moneta, di cambi? Forse che, parlando di capitale umano, procedure giudiziarie o appalti pubblici, escono dall'ambito dei loro compiti e responsabilità? La risposta deve essere senza dubbi: sono completamente nel loro campo. Non solo perché, sui temi più vari, il contributo di studio, ricerca e consulenza delle banche centrali è sempre stato prezioso per i governi. E' proprio il perseguimento degli obiettivi specifici delle banche centrali, la stabilità dei prezzi e la salute degli intermediari e dei mercati finanziari, che richiede di censire con cura e ottenere che migliorino le capacità produttive del sistema economico, la sua efficienza nell'allocare le risorse reali e nel generare occupazione di qualità, benessere, crescita.

Per fabbricare bene la moneta e il credito bisogna guardare a fondo come si muove l'economia reale che li utilizza. Per curare la liquidità e la solvibilità del sistema creditizio, occorre assicurarsi della qualità delle imprese e delle pubbliche amministrazioni ai quali il sistema fa prestiti. L'autorità monetaria non deve supplire all'inefficienza dell'economia reale, creando liquidità per spingerla a tutti i costi o non lasciarla fallire. Le droghe monetarie nutrono crescite effimere e stabilità fragilissime: prima o poi arriva l'inflazione, la stagnazione, l'insolvenza. E' dunque fisiologico che i banchieri centrali insistano sui provvedimenti che fanno funzionare meglio l'economia reale che sono chiamati a finanziare.

Draghi ha detto che sulle riforme strutturali la Banca d'Italia organizzerà una conferenza. Ma per decidere meglio quali riforme fare e per aiutare a farle meglio, sarebbe naturale che tutti unissimo gli sforzi, dai politici più potenti ai cittadini più umili, con una presa di coscienza, una mobilitazione collettiva. Ciascuno può contribuire all'agenda del cambiamento e rinunciare al bisticcio fazioso, all'ottica ristretta del proprio interesse di breve, per guardare con fiducia a un grande processo di miglioramento dell'interesse generale.

franco.bruni@unibocconi.it

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Titolo: FRANCO BRUNI. Una politica economica ci vuole
Inserito da: Admin - Agosto 07, 2010, 10:01:51 am
7/8/2010

Una politica economica ci vuole

FRANCO BRUNI

Fra i modi per ricucire la sua maggioranza, il governo farebbe bene a considerare una forte concentrazione sulla politica economica. Se l’economia va male non si riescono a rafforzare le istituzioni e la stabilità politiche. Quando le prospettive economiche migliorano è più facile guardare oltre l’economia. L’attenzione all’economia aiuta anche a sanare la frattura di credibilità che oggi allontana l’opinione pubblica dalla classe politica e dai suoi complessi bisticci. I dati congiunturali dell’Istat, come quelli europei commentati giovedì dalla Bce, hanno aspetti positivi ma non sgombrano l’orizzonte dal pericolo che la crisi continui e torni a peggiorare. La ripresa che qualcuno assaggia è in parte l’effetto artificioso di politiche monetarie e fiscali molto espansive.

Sono in tensione alcuni prezzi di materie prime. Non mancano investimenti finanziari arrischiati, favoriti nuovamente da un periodo troppo lungo di tassi di interesse troppo bassi: il sistema finanziario internazionale potrebbe rivedere illiquidità e insolvenze. Se invece arriva l’inflazione o la vera ripresa, i tassi verranno alzati e per qualche tempo sarà più complicato far fronte all’onere dei debiti.

L’economia italiana ha molte debolezze strutturali, compreso un grande debito pubblico. Perché non soffra più degli altri delle comuni difficoltà, la nostra politica economica deve essere attiva e convincente. Il governo ha avviato alcune azioni promettenti: è di lì che deve partire e insistere per mantenere i suoi consensi, in Parlamento e nel Paese. Arrivare a elezioni sarebbe economicamente costoso e pericoloso ma, anche in quel caso, è sulla politica economica che si dovrebbero impostare i programmi. I temi su cui la maggioranza sta litigando, per quanto importanti, non hanno un impatto diretto sull’economia e sfiorano l’incomprensibile per chi, nella crisi, spera di salvare un posto di lavoro, un’impresa, un progetto, e nella politica cerca aiuti e orientamenti.

Il premier ha individuato pochi punti su cui chiedere il rilancio dell’azione di governo: federalismo, fisco, Mezzogiorno e giustizia. Sono tutti rilevanti per l’economia. Ma l’importante è come li si affronta. Se davvero si cerca un solido consenso su cose concrete si possono aggiungere altri punti. Perché, per esempio, non sfruttare una buona riforma impostata dal governo, quella dell’Università, rendendola più completa e precisa e integrandola con un impegno a lungo termine per il finanziamento della ricerca, che è invece una delle lacune più gravi dell’attuale politica economica? Perché non definire una strategia di politica industriale e una riforma dei contratti collettivi di lavoro? Se invece si privilegiano gli annunci di bandiera e i proclami faziosi, non sarà l’agenda di pochi punti solenni a far ritrovare la fiducia in Parlamento; e la gente continuerà a non capire. Un pericolo speciale lo corre il capitolo «giustizia», se ci si irrigidisce sulle consuete fissazioni di Berlusconi invece di insistere sulle riforme tecniche necessarie per aumentare l’efficienza che alla giustizia chiede, fra gli altri, il mondo degli affari.

Quanto al federalismo fiscale, come ha osservato ieri Ricolfi su queste colonne, rimangono ancora da decidere le sue principali caratteristiche: senza accelerare lo studio e il dibattito su come realizzarlo, rimarrà un feticcio per alimentare retoriche divisive. D’altra parte è condivisibile l’idea di Tremonti: il federalismo è la vera prospettiva strategica per sposare le riforme con la disciplina della finanza pubblica. Una disciplina che è il successo economico più decantato del governo. Molti lamentano che sia avvenuta con l’immobilismo, senza cambiare, a parità di saldo, le entrate e le uscite in modo da stimolare la crescita e difendere i più deboli dalla crisi.

Ma se vogliamo far sul serio col federalismo e non correre il rischio di accrescere il disavanzo, è difficile ristrutturare entrate e uscite pubbliche prima di avviare i meccanismi della nuova finanza federale. La quale non riduce necessariamente il potere di regia del governo nazionale; anzi: il federalismo si può costruire in modo da fornire alla regia dati e strumenti più incisivi, non solo per controllare i disavanzi aggregati, ma per far sì che la geografia della finanza pubblica incentivi il miglioramento dell’efficienza delle amministrazioni e la pulizia della politica, oltre a riflettere il giusto grado di solidarietà. Il federalismo fiscale è una riforma difficile e ancora ai primissimi passi: ma ufficialmente gode da tempo dell’approvazione di quasi tutte le forze politiche ed è al centro dell’agenda del governo. Il quale può dunque usarlo per rendere costruttivo il dibattito nella maggioranza, con l’opposizione e nell’opinione pubblica.

La concretezza delle politiche e delle riforme economiche: ci si concentri su questo; non si tema di entrare nei dettagli, anche nei dibattiti televisivi. La gente è in grado di capire e vuol farsi coinvolgere su questioni di cui vede chiaramente l’importanza. Alle discussioni sul diverso modo di intendere il garantismo e la democrazia di Fini rispetto a Berlusconi, preferisce quelle su come cambiare le imposte, i trasferimenti dalla Lombardia alla Calabria, i finanziamenti alla ricerca, la disciplina dei contratti collettivi di lavoro. E con più attenzione e più rispetto da parte degli elettori, gli eletti possono anche ritrovare più facilmente le convergenze per assicurare un governo stabile al Paese.

franco.bruni@unibocconi.it
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Titolo: FRANCO BRUNI La cultura cinese non deve fare paura
Inserito da: Admin - Agosto 14, 2010, 04:06:01 pm
14/8/2010

La cultura cinese non deve fare paura
   
FRANCO BRUNI

Gli economisti hanno sempre più bisogno di antropologi. Per capire dove va il mondo globalizzato occorre la geo-economia, cui serve la geo-politica. Ma entrambe richiedono «geo-cultura», dove siamo più indietro.

L’aspetto più rilevante, anche sul fronte culturale, è il ruolo dei Paesi emergenti e, in particolare, della Cina, con la quale l’Occidente sta cercando il giusto modo per rapportarsi. Si è parlato a sproposito di G2: un mondo governato da Cina e Usa. Mentre le relazioni sino-occidentali registrano continue incomprensioni e incidenti: dai diritti umani alla libertà del global web, da questioni strategico-militari, come Iran e Corea, a quelle ecologiche, ai bisticci nel Wto e sul tasso di cambio. Frattanto si rafforza l’influenza della finanza e della politica cinese in tutto il mondo. Se la qualità del dialogo fra Occidente e Cina non migliora saranno guai economici e politici.

Ed ecco la geo-cultura: il nostro atteggiamento verso la cultura cinese deve maturare più svelto. A volte sembra inceppato e sciocco. È come se pensassimo che, visto che ci imitano nelle forme dello sviluppo economico, che hanno abbandonato i loro vestiti per i nostri, che studiano nelle nostre università, i cinesi gareggino solo sul nostro stesso terreno e inseguano un adeguamento completo alla nostra cultura, lasciando la loro, millenaria, al folclore antiquario. È l’idea che la globalizzazione può avvenire solo sotto l’egida di una cultura essenzialmente occidentale. L’idea, insieme timorosa e arrogante, che la concorrenza di Pechino sia una minaccia dannosa ma che soccomberà se i cinesi non accetteranno del tutto, fra l’altro, la nostra concezione della democrazia.

Conviene provare a pensare diversamente. La Cina adotta strumentalmente nostri costumi e infrastrutture culturali, ma la cultura globale del futuro conterrà elementi irriducibili di quella cinese, che l’Occidente deve individuare e condividere per tempo, nutrendo così la sua disponibilità a un vero dialogo fra pari, a una diplomazia economica e politica, privata e pubblica, spogliata di paure aggressive, a una collaborazione senza supponenze con quello che potrebbe tornare a essere, come l’etimo del suo nome, il «paese centrale».
Gli elementi della cultura cinese ai quali fare attenzione fanno riferimento a quelli che, fin dai secoli lontanissimi, sono giunti in Europa dall’Oriente, per vie traverse e mediate, con una contaminazione certo non nuova, ma che va rinnovata e rafforzata. Alcuni di questi elementi, importanti per l’economia e la politica, impressionano chi, come me, è lungi dall’essere un sinologo.

A cominciare dalla densità di concetti e messaggi contenuta in ogni «mattone» del linguaggio con cui i cinesi si esprimono e ragionano. La scrittura ideografica è solo l’aspetto più evidente di un modo di pensare e comunicare più «quantistico» del nostro, dove il singolo carattere-vocabolo ha significati diversi persino a seconda della calligrafia e si collega agli altri con un’algebra più complessa di quella con cui le nostre lettere formano le parole e le frasi. Il linguaggio cinese ha una maggiore predisposizione del nostro a trattare le sfumature e la complessità e meno pretese di trasmettere messaggi neutri, oggettivi, adatti a una razionalità aristotelica. A ciò non è estranea la ritrosia con cui i cinesi accettano l’alternativa secca fra affermazione e negazione, vero e falso, bianco e nero, la loro grande confidenza coi vari toni di grigio.

E non è solo il confine fra il sì e il no che la logica cinese tende a sfumare, ma tanti altri confini che noi pretendiamo di considerare netti. Il confine, per esempio, fra individuo e collettività che il confucianesimo presenta in modo diverso dall’individualismo occidentale. Il confine fra l’oggi e il domani, con la maggior propensione dei cinesi a guardar lontano anche quando sembrano concentrati con avidità sul presente, anche quando soddisfano con impeto il loro piacere per l’azzardo, per il gioco, per la graziosità dell’effimero, anche quando cavalcano con apparente imprudenza cambiamenti rivoluzionari, subitanei e bruschi. E, ancora, a sfumare è il confine fra sostanza e apparenza: un confine che a noi dà ansia e sensi di colpa, mentre i cinesi accettano la legittimità della sovrapposizione-confusione fra forma, estetica, galateo, rito, mito, cerimonia, e ciò che apparenze e simboli vogliono significare. È sfumato anche il confine fra il diritto e le relazioni amicali e gerarchiche, personali e di gruppo. In molti modi la sfumatura dei confini investe poi quello fra vita e morte.

Un’iniezione di questo genere di elementi nel tessuto della cultura occidentale può generare contrasti e traumi. Ma può anche arricchirci e dar luogo a una mescola più adatta per affrontare i problemi con cui ci misuriamo. Una mescola più potente per gestire le complessità che la razionalità occidentale si sforza di semplificare in schemi cartesiani, con risultati sovente inadeguati. Proviamo ad accennare un elenco disordinato di possibili utilizzi di una cultura iniettata di cineserie. Servirebbe, innanzitutto, ad apprestare qualche cura alla nostra democrazia, che è in crisi per tante ragioni. Riusciremmo forse a: maneggiare meglio la compatibilità fra pubblico e privato, fra interessi individuali, corporativi e collettivi; trovare nuova forza per esaltare la complementarità fra i meccanismi di alternanza, tipo destra-sinistra, e convergenze e mobilitazioni indispensabili per grandi azioni collettive; accettare e, insieme, superare, i limiti sempre più clamorosi della legittimazione elettorale del potere; impostare relazioni internazionali meno muscolari e riconoscere sostanziali poteri sopranazionali per un mondo globale, prima ancora di averli legittimati all’occidentale; riaffermare lo stato di diritto e l’indipendenza del potere giudiziario, comprendendo con più sereno realismo che non sono fini assoluti ma strumenti imperfetti.

Capiremmo inoltre meglio: come guardare al lungo periodo nelle nostre decisioni, pubbliche e private; come sposare l’anonimità del mercato economico, aperto a tutti, con gli affari basati su relazioni esclusive, personali e di gruppo; come accettare le inevitabili mescolanze del laico col religioso; come fare affari e politiche che sono davvero multiculturali, non perché usiamo algoritmi occidentali per evitare «scontri di civiltà», ma perché abbiamo un concetto meno arrogante dei confini di una cultura. L’impressione è che i cinesi siano da tempo al lavoro per studiarci, cercando la fusione culturale dove lasceranno il loro potente imprinting. Abbassiamo le difese e le paure e mettiamoci a lavorare anche noi per accelerare la scoperta della formula migliore per la mescola. C’è da guadagnare per tutti: non occorre fare i conti all’occidentale per esserne sicuri.

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Titolo: FRANCO BRUNI Monete stabili per fare le riforme
Inserito da: Admin - Ottobre 06, 2010, 05:31:10 pm
6/10/2010

Monete stabili per fare le riforme
   
FRANCO BRUNI

Nei suoi incontri dei giorni scorsi con le autorità europee il premier cinese non ha incoraggiato la richiesta di rivalutare di più e più in fretta la moneta cinese. Una richiesta su cui insistono da tempo anche gli Usa, che sperano di recuperare competitività e ridurre il loro deficit commerciale se i prodotti cinesi diventano più costosi da importare. L’insistenza americana può divenire pericolosa perché, per vendicarsi della mancata rivalutazione cinese, minaccia una guerra con dazi e altri ostacoli alle importazioni, una guerra che potrebbe diffondersi e compromettere il commercio mondiale. In questa fase di rafforzamento dell’euro, anche l’Ue è diventata più sensibile al tema del cambio cinese, che vorrebbe più forte per favorire la continuazione dell’exploit delle esportazioni tedesche in Cina e per rendere possibili simili successi anche nel resto d’Europa. Ma Wen Jiabao non ha lasciato adito a troppe speranze e ha detto che la Cina vuole «cambi stabili».

Può essere che, ciononostante, nei prossimi mesi la rivalutazione del renmimbi (o yuan che dir si voglia) abbia luogo. Infatti i cinesi non vogliono mostrare di decidere sotto pressione ed è comunque meglio che l’aumento del valore del renmimbi avvenga un po’ a sorpresa, per non incoraggiare la speculazione che, se potesse contare su quell’aumento, rovescerebbe sulla moneta cinese quantità eccessive di capitali alla ricerca di facili guadagni.

D’altra parte, quella che gli economisti chiamano «rivalutazione reale» del renmimbi sta già di fatto avvenendo, abbastanza celermente. La rivalutazione reale è quella che tiene conto anche dell’aumento dei prezzi in renmimbi dei prodotti esportati dai cinesi e dei salari pagati per produrli: se in Cina salgono i prezzi e i salari, anche se il cambio sta fermo i prodotti cinesi diventano più cari. E ciò sta succedendo, tant’è che le esportazioni cinesi stanno cambiando natura, crescono di qualità, divengono più sofisticate, mentre le produzioni la cui competitività è più legata ai costi bassissimi vengono gradualmente lasciate a Paesi più arretrati della Cina. Se il renmimbi si rivalutasse troppo e troppo in fretta, molti esportatori cinesi, comprese le multinazionali occidentali che producono là, frenerebbero prezzi e salari. Il che compenserebbe la rivalutazione senza incidere granché sulla loro competitività. Ma il rallentamento dei salari ridurrebbe i redditi e i consumi dei cinesi: il contrario di quello che occorre per completare la modernizzazione della Cina e ridurre il suo avanzo commerciale.

La difficoltà di un accordo valutario con la Cina diffonde il timore di una gara al ribasso fra le monete: tutte tese a non salire di valore per non sfavorire i propri esportatori, tutte create in quantità superiori al necessario perché siano a buon mercato. Lo scenario di una simile gara è quello del disordine speculativo, di denaro sovrabbondante e impiegato in modi rischiosi e inefficienti, di un clima teso e improduttivo nelle relazioni commerciali internazionali, di continua incertezza, di gravi pericoli di inflazione e di nuove crisi finanziarie. Uno scenario da scongiurare. Ma i principali responsabili del disordine monetario globale sono gli Usa, che insistono nel promettere tassi di interesse vicini allo zero per chissà quanto tempo e spargono sovrabbondante liquidità in dollari in tutto il mondo. La Bce ha un atteggiamento un filo più prudente ed è anche per questo che l’euro tende a rafforzarsi e a preoccupare gli esportatori europei. Ieri anche i giapponesi hanno abbassato i tassi di interesse fino a zero per sfavorire il rafforzamento dello yen.

Per uscire da questa pericolosa trappola dei tassi a zero e delle monete deboli, una trappola dove politiche monetarie superespansive finiscono, oltretutto, per finanziare deficit pubblici eccessivi, occorre accelerare la concertazione multilaterale. Occorre una sede sovrannazionale forte, dove tutti si impegnino credibilmente a non usare le monete per risolvere problemi di competitività che vanno invece affrontati con riforme strutturali, politiche industriali, accordi sul fisco, sulle regole del libero commercio e sul Welfare. Una sede che favorisca politiche monetarie abbastanza disciplinate e uniformi per dar luogo a un giusto grado di stabilità dei cambi fra le diverse monete. Per creare questa concertazione e costituire questa sede sono cruciali il lavoro del G20, il prossimo vertice di Seul, i progetti di riforma del Fmi. E’ un cammino dove occorre leadership: la Francia sembra avere l’atteggiamento giusto per ispirarla. E il premier cinese ha confermato la sua disponibilità a lavorare per un assetto stabile dei cambi. Speriamo in bene.

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Titolo: FRANCO BRUNI Mercato unico salvezza dell'Europa
Inserito da: Admin - Dicembre 12, 2010, 08:58:08 am
11/12/2010

Mercato unico salvezza dell'Europa

FRANCO BRUNI

La crisi dei debiti pubblici dell’eurozona sta creando una nevrosi politica che distorce la prospettiva d'insieme dei problemi europei. Un commento EuropEos-Ceps (No. 6, www.ceps.eu) raccomanda l'intervento di uno psichiatra. Speriamo sia sufficiente qualche ritrovata saggezza al Consiglio di Bruxelles della settimana prossima.

Intendiamoci: l'affanno delle finanze pubbliche e gli attacchi speculativi sui titoli di Stato sono questioni serie e difficili. Anche perché bisogna affrontare pragmaticamente l'emergenza mentre si disegnano le regole del futuro. E mentre l'emergenza non vuole si parli di «fallimento» di Paesi o banche, le nuove regole devono per forza ammettere, in una forma o nell’altra, l'ordinato «fallimento» di Stati, cioè la ristrutturazione del loro debito con costi anche per i creditori esteri, nonché l'insolvenza delle banche che, oltre ad altri investimenti imprudenti, hanno troppi titoli di Stato rischiosi. E l'attuale sovrapposizione fra l'aiuto agli Stati e quello alle banche complica il problema.

Ma l'ingegneria finanziaria anti-crisi non otterrà granché senza una virata di tono del clima politico europeo. Non si può continuare a presentare all' opinione pubblica un'Ue tutta concentrata a litigare su provvedimenti di mutuo soccorso, dove pare sia solo questione di buoni e cattivi, solidali ed egoisti, virtuosi e spendaccioni, creditori e debitori, tedeschi e mediterranei.

Bisogna rilanciare l'idea che l'Unione è fatta per perseguire insieme interessi comuni e che il principale fra questi, fin dal dopoguerra, è la costruzione di mercati, delle merci, dei servizi, dei capitali, del lavoro, sempre più integrati e resi efficienti da regole e politiche economiche coordinate e, in molti casi, accentrate. Il mercato unico e le politiche comuni sono la sola possibilità perché l'Europa, compresa l'ottima Germania, esprima pienamente, nel lungo periodo, le sue potenzialità nella sempre più difficile concorrenza globale e cresca in modo vivace, armonioso e sostenibile. Ed è con la crescita che si ridimensiona veramente l'eccesso di debiti fatti in passato. Sono la crescita, la maggiore occupazione, una collocazione convincente nello sviluppo mondiale le promesse con cui i politici europei devono persuadere i cittadini e gli operatori economici che vale la pena di affrontare oggi faticosi aggiustamenti.

Nell’agenda comunitaria non mancano spunti in questa direzione. Accanto alla gestione della crisi finanziaria sono ufficialmente aperti i cantieri della cooperazione in materia di fisco e bilancio e persino una discussione comune dei programmi nazionali di riforme strutturali per la competitività, dall’istruzione, alle pensioni, al decentramento regionale. Ma sono cantieri oscurati, frenati, inceppati dall’enfasi esagerata sui disastri dei debiti esteri e dalla sceneggiata su quanto la virtuosa Germania debba prodigarsi per tutti. Inoltre sono cantieri dove manca un punto centrale di gravitazione, una meta trainante che serva davvero a distinguere chi vuole un futuro credibilmente migliore per l'Europa da chi sta dalla parte degli interessi speciali o di quelli cosiddetti «nazionali», anche se intesi in modo miope e dimentico delle nuove interdipendenze mondiali.

L'idea trainante su cui puntare è, come detto prima, l'unificazione dei mercati. Nell’ottobre del 2009 il presidente della Commissione ha incaricato Mario Monti di scrivere «un rapporto per rilanciare il mercato unico come obiettivo strategico chiave» dell’azione comunitaria. Il rapporto è stato consegnato nel maggio scorso. Contiene una dettagliata lista di misure per eliminare i molti residui ostacoli (presenti anche… in Germania!) al commercio, alla concorrenza e quindi al crescere della competitività dell’Ue, dalle telecomunicazioni all’energia, dai trasporti alla sanità, dai servizi finanziari alle professioni. Ma contiene anche spiegazioni del valore «sociale» del mercato unico, della sua relazione con la riforma e il coordinamento delle imposte e del Welfare, del fatto che mercato non significa l'arbitrio dei più forti ma, al contrario, buone regole comuni. Contiene una proposta politica per avvicinare chi è più attento al mercato a chi è più attento al sociale, nella prospettiva comunitaria dell'«economia sociale di mercato».

Il rapporto Monti è stato recepito formalmente dalle autorità comunitarie. Ma non è diventato uno scadenzario di misure da prendere davvero e, soprattutto, il suo messaggio di fondo non è stato sfruttato per rafforzare l'idea di Europa e migliorare il clima psicologico, politico e culturale con cui si affronta la crisi. Al contrario: lo si è un po’ accantonato con la scusa delle urgenze della crisi.

Con mercati più unificati l'Europa può coordinare meglio le sue riforme per la competitività, l'innovazione, la formazione di capitale umano. Ha più ragioni per parlare con una sola voce contribuendo a rinnovare il governo del mondo. Ha più incentivo a far convergere le politiche economiche nazionali evitando squilibri economici e finanziari. Ha motivi più chiari per instaurare meccanismi di solidarietà finanziaria. Con l'idea trainante del mercato unico persino l'ingegneria finanziaria europea, di fronte alle fragilità e alle emergenze della crisi, diventa meno grigia, fa meno paura, risulta più accettabile nelle sue inevitabili complicazioni.

franco.bruni@unibocconi.it

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Titolo: FRANCO BRUNI Il gioco pericoloso del debito
Inserito da: Admin - Gennaio 12, 2011, 10:42:44 pm
12/1/2011 - I GOVERNI E L'EURO

Il gioco pericoloso del debito

FRANCO BRUNI

Il risultato dell’asta di oggi dei titoli del governo portoghese sarà un elemento in più per prevedere l’evoluzione, nell’anno appena iniziato, della crisi dei debiti pubblici dell’area dell’euro.

Una crisi che si va facendo più complessa. Coinvolge anche Paesi che, come il Belgio, sono stati finora considerati lontani e diversi dagli indisciplinati membri del «club mediterraneo». Vede affollarsi le prossime scadenze dei debiti che ai mercati verrà chiesto di rifinanziare, in concorrenza con l’ingente domanda di fondi delle grandi banche e dei Paesi esterni all’euro, soprattutto il Regno Unito e gli Usa.

È un gioco pericoloso fra tre gruppi di protagonisti: i mercati, i governi nazionali e le istituzioni comunitarie. I mercati, determinando i tassi sui titoli di Stato, esercitano una disciplina utile sulle decisioni dei governi, ma colgono anche l’occasione per impostare speculazioni di breve respiro. Possono esasperare situazioni di finanza pubblica che, pur insostenibili nel lungo periodo, sono senz’altro aggiustabili, con provvedimenti difficili ma graduali. I governi nazionali, impegnati in questi aggiustamenti, cercano di mostrare un ottimismo che non è sempre credibile.

E come hanno fatto la Grecia e l’Irlanda, e come sta facendo il Portogallo, tendono a negare fino all’ultimo momento la necessità di ricorrere all’aiuto dell’Ue. La strategia delle istituzioni comunitarie si articola in due parti. La prima è il sostegno di emergenza. Esso è fornito, nel breve, dalle operazioni della Bce; nel medio termine, fino al 2013, dalla messa a disposizione di rilevanti fondi di supporto appositamente accantonati dai Paesi membri, integrati da risorse Ue e in coordinamento con interventi del Fmi. Questi fondi possono ora contare anche sui proventi delle prime emissioni di titoli comunitari. La seconda parte della strategia consiste nella preparazione di un insieme organico di provvedimenti destinati, nei prossimi anni, a migliorare molto sia la prevenzione che la cura delle crisi finanziarie.

Fra questi provvedimenti vi è una importante riforma, entrata in vigore già all’inizio di quest’anno, della vigilanza finanziaria europea. Vi è una profonda revisione, ancora in corso di definizione, del Patto di Stabilità e Crescita, cioè della disciplina europea delle politiche di bilancio nazionali. E c’è l’istituzione di un fondo permanente per la gestione delle crisi. Il suo funzionamento prevede anche la possibilità che i debiti dei governi subiscano revisioni degli importi, degli oneri di interesse e delle scadenze, facendo pagare parte dell’aggiustamento a chi ha investito nei titoli a rischio. Per creare questo fondo permanente, che subentrerà fra due anni alla cessazione degli attuali fondi di emergenza, è stata addirittura deliberata dal Consiglio una modifica dei Trattati.

Il problema dell’azione comunitaria è la sua complessità, il fatto che è composta da tanti elementi difficili da definire e deliberare nei dettagli, ma tutti fra loro collegati e indispensabili. Inoltre è un’azione che può essere continuamente rallentata da esitazioni e ripensamenti dei Paesi membri, ai quali si chiede di rinunciare a parte della loro sovranità per ottenere tutti insieme più stabilità e una crescita migliore. È dunque evidente che il gioco fra i tre protagonisti è arduo e pericoloso. Ma è altrettanto chiaro che i giocatori sono all’opera con impegno e che la loro interazione è in grado, nel giro di tre-cinque anni, di risistemare seriamente la finanza pubblica europea. Purtroppo c’è anche la possibilità che il gioco vada male e si prolunghi in modi sempre più costosi per tutta l’Ue. Questa possibilità è accresciuta dalla scarsa credibilità delle leadership politiche nazionali, che dovrebbero agire sia aggiustando al loro interno che contribuendo a rendere più rapida e incisiva l’azione comunitaria. Si pensi alle condizioni del governo portoghese o alle lacerazioni politiche del Belgio; ma sono solo esempi e, fra le altre, la situazione italiana non lascia tranquilli. La plausibilità dello scenario pessimista deriva anche dall’equivoco di fondo di un’Europa che ha troppo a lungo esitato ad ammettere che l’accentramento comunitario di una parte dei poteri di tassazione, spesa e indebitamento pubblici, col rafforzamento dell’unità politica che l’accentramento richiede, è nell’interesse nazionale e collettivo di tutti i Paesi membri e uno strumento potente per rendere più prospera l’economia europea.

franco.bruni@unibocconi.it
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Titolo: FRANCO BRUNI. La ripresa in balìa dei mostri
Inserito da: Admin - Marzo 01, 2011, 03:31:49 pm
1/3/2011

La ripresa in balìa dei mostri


FRANCO BRUNI

Tremonti li chiama i mostri dei videogiochi: ne uccidi uno e ne spunta un altro, diverso e peggiore. La crisi finanziaria ha visto succedersi il disastro dei derivati, il fallimento delle banche, il crollo del commercio, la guerra delle monete, l’incubo dei debiti pubblici. Ora lo sfondo del videogioco è diventato più politico: è arrivata la crisi del Sud-Mediterraneo e del Medio Oriente. Di rimbalzo, sono pronti nuovi mostri economici globali: crisi energetica e stagflazione. Da qualche parte si nasconde un generatore di mostri che li collega, ma non è facile individuarlo e siamo sconfortati dall’incapacità di prevedere il prossimo.

C’è un parallelo fra la crisi finanziaria scoppiata nel 2007 e la crisi politica mediterraneo-mediorientale. In entrambi i casi è mancata la considerazione di come vari rischi, singolarmente valutati e prevedibili, possano improvvisamente «fare sistema».

E’ stato sottovalutato il monitoraggio dei possibili contocircuiti. Sapevamo analizzare i rischi di singole banche, di singoli mercati: siamo stati sorpresi dall’intreccio sistemico che li ha collegati fra loro, moltiplicandone enormemente la dannosità. Conoscevamo le determinanti del rischio politico di singoli Paesi: siamo stati sorpresi dall’intreccio che travolge la stabilità di un’intera area geopolitica.

E’ probabile che nella crisi mediterranea si siano improvvisamente incrociati gli effetti dirompenti di una serie di fenomeni molto diversi: un punto critico dell’evoluzione demografica; il superamento nella regione di una soglia critica nelle comunicazioni cellulari e di Internet; uno choc ai prezzi alimentari e quindi alla distribuzione del reddito di Paesi poveri; un’accelerazione informe, diseguale e traumatica del Pil di diversi Paesi africani; nuove opportunità e tensioni attorno al potenziamento di Suez; un momento geopolitico e ideologico dove la cerniera della Turchia, con la congiuntura di successo del suo modello, indica strade nuove e meno bloccate su opposti fondamentalismi; una criticità della congiuntura energetica mondiale, dovuta anche all’eccezionale corsa allo sviluppo della Cina e di altri Paesi emergenti; le tensioni iraniane; la multiforme crisi della leadership Usa e il fallimento della loro diplomazia in Israele-Palestina. E altri ancora.

Gli economisti finanziari in questi ultimi tre anni hanno imparato la lezione: il videogioco li sorprende ancora, ma hanno capito che la strategia di difesa comporta la mappatura dei collegamenti fra i vari elementi di rischio, la misura, così si dice, del «rischio sistemico». A ogni banca si cerca oggi di associare non solo un indice di rischio individuale, ma una misura dell’impatto che le sue difficoltà possono esercitare sulla stabilità del sistema finanziario nel suo complesso. Sia in Usa che in Ue sono state addirittura istituite nuove «autorità», col compito specifico di controllare i rischi sistemici, utilizzando anche nuovi strumenti di politica economica.

Quello che è successo in Tunisia, Egitto, Libia e altrove, richiede ora una sollecita estensione del monitoraggio dei rischi sistemici al fronte socio-politico. Dopo aver tanto parlato di stabilità finanziaria globale occorre rimettere a fuoco la questione della stabilità politica globale. E’ impressionante come i vertici di questi ultimi anni, i G8 e i G20, abbiano parlato quasi solo di economia e finanza: anche questo è un sintomo di «veduta corta», come disse PadoaSchioppa citando Dante. Senza un miglioramento dell’analisi socio-politica sistemica, globale, la discussione e la riforma dell’economia è miope e zoppa: economia e politologia devono lavorare a più stretto contatto. Perché è ovvio che il mostro economico-finanziario può generare mostri politici, ma è altrettanto ovvio il contrario. Non basta riformare e potenziare il Fmi, occorre una sorta di sede Onu dove mettere a sistema il monitoraggio socio-politico e incrociarlo con quello economico-finanziario.

Quale sarà il prossimo mostro? Qualcuno teme venga dalla Cina. Forse si sbaglia, ma ha diritto che l’ipotesi sia esaminata a fondo, da tutti i punti di vista. Dalla Cina il mondo prende oggi i risparmi per finanziare i suoi deficit, riceve stimoli per riprendere a crescere e la visione di una forma di stabilità politica che arriva a far dubitare che il nostro sistema di democrazia elettoralistica sia il migliore possibile. Ma lo sviluppo della Cina vede oggi anche pressioni inflazionistiche che i prezzi dell’energia rischiano di acutizzare e implica trasformazioni socio-politiche che, anche tramite la diffusione di Welfare di tipo occidentale, potrebbero creare complesse discontinuità nella competitività e nel ritmo della crescita cinese. Il rimbalzo sul resto del mondo sarebbe difficile da gestire. D’altra parte i cinesi sono anche famosi per avere una «veduta lunga»: se lavoriamo insieme possiamo evitare di farci sorprendere troppo brutalmente.

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Titolo: FRANCO BRUNI Eppure alla Ue si lavora
Inserito da: Admin - Marzo 28, 2011, 05:00:54 pm
28/3/2011

Eppure alla Ue si lavora


FRANCO BRUNI

Il caso Libia sottolinea le divergenze europee in politica estera. Su tutt’altro fronte, fanno notizia i bisticci franco-italiani sulla proprietà di Parmalat.

E c’è dell’altro a dar l’impressione di un’Ue disunita, incapace di reagire compatta ai cambiamenti improvvisi portati dalla globalizzazione e di far leva sulla sua grande dimensione geopolitica ed economica.

Eppure proprio adesso si intensifica la cooperazione per riformare il governo dell’economia europea. E non mancano i risultati. Dalle conclusioni del Consiglio di Bruxelles di venerdì scorso si vede che l’agenda dell’Ue è in movimento. Un movimento disseminato di trabocchetti ma spedito, che, se non si inceppa, può far fare passi avanti notevoli, nei prossimi mesi, alla politica economica europea. Quanto si sta facendo è decisivo per il nostro futuro, anche se non sembra tale a un’attenzione superficiale. Serve l’impegno dei media per aiutare la gente a capire. Il contrario di quel che fa, ad esempio, la stampa finanziaria inglese, considerata la più autorevole, che sulla cooperazione europea ama spruzzare un inutile misto di scetticismo e sprezzante ironia. Quanto al dibattito politico italiano, è il momento di concentrarsi più seriamente sull’ipotesi che il governo economico europeo divenga presto più robusto e determinante.

Nella variegata agenda dell’Ue ricordiamo qui solo tre punti. Primo: da gennaio funzionano quattro nuove autorità di vigilanza finanziaria comunitarie. Sono ancora in fasce ma possono diventare potenti e davvero sovrannazionali. Una di esse sta avviando i cosiddetti «stress test» alle principali banche europee. Si tratta di stabilire la loro capacità di resistere a scenari economico-finanziari molto pessimisti e determinare gli eventuali aumenti di capitale necessari per ripulirle e irrobustirle. La trasparenza dei risultati dovrebbe rassicurare i mercati e rilanciare il credito bancario. Si tratta di un esercizio difficile, delicato ma indispensabile: se verrà condotto bene, se non sarà un’inutile sceneggiata, la finanza europea ne risentirà subito favorevolmente.

Secondo: si sta preparando un fondo per gestire le crisi dei Paesi troppo indebitati dell’area dell’euro. Andando oltre all’attuale emergenza, che costringe a improvvisare aiuti disordinati e controversi, c’è il disegno di un’istituzione permanente che comincerà a operare dal 2013. Dopo molto lavoro si è individuata una soluzione equilibrata. Da un lato, si cerca di evitare che i Paesi troppo indebitati diventino insolventi ma, dall’altro, non si esclude ipocritamente che l’insolvenza è una possibilità. Se il governo debitore non fa gli aggiustamenti necessari, si organizza una ristrutturazione del debito in modo tale da non traumatizzare i mercati. A pagare per l’insolvenza della Grecia sarebbero così, per esempio, anche le banche tedesche che hanno imprudentemente comprato titoli greci; ma il loro coinvolgimento avverrebbe senza contagiare altri operatori e diffondere il panico. Aver deciso di intraprendere questa strada è segno di realismo e determinazione del Consiglio europeo.

Terzo punto: la riforma del Patto di Stabilità e Crescita, mirata a farlo diventare sia più severo sia meno «stupido». Più severo perché dotato di procedure e sanzioni più automatiche per imporre la disciplina dei deficit e dei debiti pubblici. Il maggior automatismo riduce i compromessi e gli scambi di favori con cui i governi si perdonano reciprocamente i peccati e continuano l’indisciplina. È augurabile che l’automatismo proposto dalla Commissione e dal Consiglio venga ancor più accentuato dal prossimo intervento del Parlamento. D’altra parte, il Patto riformato è meno stupido: perché la disciplina della finanza pubblica di un Paese è disegnata tenendo conto dell’equilibrio complessivo della sua macroeconomia, della competitività e della salute finanziaria del suo settore privato, delle riforme strutturali che propone e vara in concertazione con le autorità europee.

Per l’Italia un Patto più severo e automatico è molto duro da rispettare, visto il nostro altissimo debito pubblico. Ma un Patto meno stupido ci permette di tagliare la spesa pubblica con più gradualità: a condizione che il nostro risparmio privato rimanga abbondante e che sappiamo fare buone riforme per migliorare la competitività delle nostre produzioni e l’efficienza della pubblica amministrazione. Aderire a un Patto ben riformato è indispensabile, se non vogliamo finire fra i Paesi strapazzati dalla speculazione internazionale. È faticoso, ma è anche uno stimolo per migliorare il funzionamento complessivo del Paese. Perciò, nelle sedi europee l’Italia dovrebbe, nei prossimi mesi, adoperarsi perché la riforma del Patto vada in porto prima dell’estate senza annacquamenti, che ridurrebbero la credibilità del Patto ma anche quella della tenuta della nostra finanza nazionale.

franco.bruni@unibocconi.it

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Titolo: FRANCO BRUNI Tassi normali, antidoto a una ripresa drogata
Inserito da: Admin - Aprile 08, 2011, 10:37:19 pm
8/4/2011

Tassi normali, antidoto a una ripresa drogata

FRANCO BRUNI

Il piccolo aumento dei tassi della Bce era stato annunciato. E’ un aumento logico che viene anzi un po’ in ritardo. Il livello di partenza è bassissimo, negativo al netto dell’inflazione». Nel 2005 commentavo così su La Stampa il primo scalino di rialzo dei tassi che erano rimasti molto bassi per tre anni. Identiche parole si prestano a commentare l’aumento di ieri, partito da un livello ancor più basso, fermo da due anni.

Allora la salita proseguì fino al 2008, quando i tassi furono precipitosamente abbattuti per fronteggiare la crisi finanziaria. La quale fu però anche l’effetto differito dei tre anni di tassi troppo bassi, che avevano alimentato speculazioni azzardate e indebitamenti sovrabbondanti di banche, famiglie, imprese e governi. E ora, che cosa succederà? Ieri Trichet, senza impegnarsi, ha lasciato capire che, se la congiuntura non muterà, la Bce continuerà un lento rialzo dei tassi. Anche questa volta la liquidità più cara farà riemergere la crisi e scoppiare i rischi assunti negli ultimi anni di denaro facile? Si pensi alle banche che hanno investito la liquidità nei titoli pubblici dei Paesi a rischio: saranno in grado di sopportare costi di rifinanziamento più elevati? E come reagirà chi ha posizioni speculative sulle materie prime o sui cambi?

Martedì si è riunito il Financial Stability Board, che coordina le politiche mondiali per la stabilità finanziaria. Nel comunicato si legge: «Vi sono segni che l’ambiente di bassi tassi di interesse conduce gli investitori a cercare rendimenti elevati in comparti complessi e rischiosi dei mercati». Già nello scorso giugno la Banca dei Regolamenti Internazionali ha intitolato un capitolo della sua Relazione annuale ai rischi che comporta insistere nel fronteggiare la crisi con tassi di interesse bassi. Fra i rischi vi è quello di togliere stimolo a riequilibrare e riformare la finanza pubblica e privata. In effetti, come mostra il monitoraggio del Financial Stability Board, le riforme non stanno certo correndo. Finalmente, dopo i rialzi decisi nei mesi scorsi da Paesi minori ed emergenti, la Bce si è mossa. La giustificazione ufficiale è l’inflazione dei prezzi al consumo, che sta crescendo anche nelle aspettative della gente e che chiede un segno di disciplina monetaria per acquietarsi. Ma il punto centrale è il ristagno precario e disordinato della liquidità a buon mercato che, anziché concentrarsi su impieghi che aiutano la crescita, favorisce il perdurare di squilibri finanziari e l’aumento del livello e della volatilità dei prezzi delle materie prime, dell’oro, di certi titoli finanziari e attività speculative. L’obiettivo è rimettere i debitori, governi compresi, di fronte a una situazione in cui la liquidità ha un costo normale, che disciplina le loro spese, le loro strategie finanziarie e l’allocazione delle risorse.

Non c’è ragione perché un graduale aumento dei tassi che la Bce fa pagare sulla liquidità che fornisce alle banche «stronchi l’ancor fragile ripresa», come si dice. I tassi di interesse a più lungo termine sui debiti dei governi e delle imprese possono addirittura diminuire, se la politica monetaria meno facile riduce l’inflazione attesa e spinge i debitori ad aggiustamenti convincenti. Saliranno i costi del credito al consumo e dei mutui delle famiglie, ma l’onere dei debiti prudenti e ben garantiti non dovrebbe crescere molto, mentre potrà aumentare un poco la remunerazione dei depositi bancari e del risparmio sicuro e liquido. Tassi più normali significano certamente meno droga per la componente effimera della ripresa; la droga che sostiene debiti pubblici e privati eccessivi, banche e imprese miopi e decotte. Qualche debitore salterà e occorrerà occuparsi dei danni conseguenti. Ma ci sono anche i buoni debitori, chi ha seri piani di rientro dai propri squilibri, banche capaci di aumentare il rapporto fra capitale e debiti. Non tutta la ripresa è effimera. Non val la pena di sacrificare la stabilità e l’efficienza dello sviluppo dei prossimi 10-15 anni per sussidiare un anno o due di crescita artificiosa. La disciplina della moneta e del credito serve anche a stimolare la lungimiranza di chi li utilizza e le riforme per affrontare i cambiamenti dell’economia globale.

Tornando alla domanda iniziale, è dunque possibile che, dopo l’esperienza dell’ultimo quinquennio, una fase di tassi Bce moderatamente crescenti non torni a precipitare la crisi e sia anzi la premessa di una ripresa, difficile e graduale, ma più duratura e non inflazionistica. C’è però un problema: che cosa farà la Fed? Fino a che anche la politica monetaria Usa non tornerà a disciplinarsi e la liquidità in dollari sarà gratis, non c’è scampo nemmeno per la stabilità monetaria e finanziaria europea. Con i mercati globalizzati e l’attuale ruolo del dollaro, gli Usa scaricano sul resto del mondo parte dei loro squilibri e influenzano i tassi di interesse altrui, l’inflazione e la liquidità globali. Per fare da sola una politica monetaria virtuosa, la Bce dovrebbe accettare una rivalutazione dell’euro talmente forte da compromettere crescita e stabilità finanziaria. Per questo è urgentissimo accelerare la concertazione monetaria transatlantica fino a ricostruire un vero e proprio sistema monetario internazionale.

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Titolo: FRANCO BRUNI Uno stimolo per la politica
Inserito da: Admin - Giugno 01, 2011, 05:41:26 pm
1/6/2011

Uno stimolo per la politica

FRANCO BRUNI

Nel 2006, poco dopo essere diventato governatore, Mario Draghi venne nominato anche presidente del Financial Stability Forum che, quando scoppiò la crisi finanziaria internazionale, fu potenziato e diventò il Financial Stability Board, il gruppo tecnico al quale il G20 ha affidato la regia del processo di riforma delle regole della finanza globale. In questi anni Draghi è stato dunque impegnato su due fronti, molto connessi ma diversi. Nelle Considerazioni Finali di ieri ha dato conto del risultato di entrambi gli impegni. Dalla profonda riorganizzazione della Banca d'Italia, alla vigilanza sulle banche italiane in un periodo di crisi, alla partecipazione alla difficile gestione della politica monetaria europea, al monitoraggio dell'agenda della ri-regolamentazione finanziaria globale.

Il suo successo lo ha portato a essere proposto come prossimo presidente della Bce, al quale da quest'anno è affidata anche la presidenza del Comitato Europeo per il Rischio Sistemico, l'organo deputato a prevenire ed, eventualmente, a gestire, nuove crisi che coinvolgano l'insieme del sistema finanziario europeo. E' straordinario il grado di consenso sul fatto che Draghi sia il candidato migliore. In un certo senso si può dire che la sua nomina avverrebbe «nonostante» la sua nazionalità, ma, da un altro punto di vista, sono decenni che la Banca d'Italia costituisce, per il governo della moneta e della finanza internazionali, una «fucina», come ieri l'ha chiamata Draghi, di ricerche, idee, funzionari e dirigenti prestigiosi. Credo si possa dire che nessun’altra banca centrale, dovendo nominare un nuovo governatore, avrebbe a disposizione altrettante persone, provenienti dai suoi uffici, di capacità, esperienza e reputazione internazionale indiscutibili. Persone che in questi anni hanno molto contribuito al successo di Draghi.

Le Considerazioni lette ieri contengono riflessioni preziose sia sull'economia interna che su quella globale. Sul fronte interno, domina l'insistenza sulle riforme necessarie per rilanciare la crescita: dalla giustizia all'istruzione, alle infrastrutture, alle relazioni industriali e al mercato del lavoro. E' importante sottolineare che non si tratta di faccende estranee alla politica monetaria. Nel parlare di politiche non monetarie per la crescita, la Banca d'Italia non fa invasioni di campo, né svolge solo quella funzione di «consigliere autonomo, fidato, del Parlamento, del governo, dell'opinione pubblica» che il governatore ha rivendicato. Le riforme riguardano anche da vicino la politica monetaria perché, se non vengono fatte, c'è una dannosa e inutile richiesta di supplenza alla banca centrale, dalla quale ci si attendono magici stimoli monetari alla crescita, tassi bassi e miracolose iniezioni di liquidità : tutte cose che, in assenza di un'economia strutturalmente ben organizzata per crescere con alta produttività, possono solo creare disordine finanziario e pericoli d'inflazione. Fra le riforme principali c'è la riduzione della spesa pubblica, sulla quale Draghi è drastico: non va fatta con tagli uniformi, ma deve risultare da una manovra articolata su una serie di priorità, un profondo cambiamento della composizione delle entrate e delle uscite pubbliche.

Su fronte globale, colpisce la constatazione circa l'esistenza di «una cooperazione internazionale senza precedenti» nel riformare il sistema finanziario per renderlo più solido. In effetti, il disegno tecnico delle riforme, quello avviato e monitorato dal Financial Stability Board, ha visto un impeto concertativo eccezionale dopo la crisi e ha fatto passi sostanziali, avendo inoltre ben chiare le diverse importanze e urgenze dei provvedimenti disegnati, dei quali i principali sono ricordati nelle Considerazioni: dall'aumento della capitalizzazione delle banche, alle riforme dei mercati dei derivati, del cosiddetto sistema bancario ombra e del trattamento delle istituzioni finanziarie talmente grandi e importanti da meritare regole e vigilanza più severe. Il problema è che, come ha detto Draghi, «è ora cruciale assicurare la piena attuazione delle nuove regole».

Ma questo è un compito soprattutto dei politici, che devono evitare l'effimero prevalere degli interessi nazionali su quelli, duraturi, del sistema finanziario globale nel suo complesso, e devono vincere la resistenza delle banche e degli operatori finanziari che cercano favori e vantaggi competitivi sussidiati, trovando ogni sorta di scusa e lamentela per rallentare l'introduzione delle nuove regole. Per ora, sul fronte politico, la cooperazione internazionale sembra carente, al punto di minacciare il sopraggiungere di nuovi episodi di instabilità finanziaria. Quando Draghi sarà a presiedere la Bce avrà nuovi modi e nuove occasioni per stimolare la politica a fare il suo dovere.

franco.bruni@unibocconi.it
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Titolo: FRANCO BRUNI La lentezza alimenta il panico
Inserito da: Admin - Giugno 21, 2011, 05:16:52 pm
21/6/2011

La lentezza alimenta il panico

FRANCO BRUNI

Il rinvio a metà luglio della quinta tranche di prestiti Ue e Fmi alla Grecia, in attesa di deliberazioni impegnative del Parlamento ellenico, conferma le caratteristiche della sceneggiatura con cui la crisi greca si è svolta finora.

Le autorità internazionali fanno la voce perentoria, i mercati drammatizzano, l’atteggiamento europeo diviene allora più flessibile, i greci prendono misure serie ma insufficienti, i mercati si calmano temporaneamente, l’Ue e il Fmi sussultano verso concessioni più creative e sostanziose, la Grecia rallenta l’aggiustamento, torna lo show di severità dei creditori, e così via. La situazione seguita a muoversi nella giusta direzione ma con una lentezza che si mescola al panico. La soluzione può trovarsi solo nel lungo periodo e deve riguardare la disciplina complessiva dell’Ue. Deve comprendere un insieme di regole per trattare con ordine i pericoli di illiquidità e di insolvenza dei governi.

La sceneggiatura è incidentata ma ha una sua logica: la pressione delle autorità internazionali e del mercato si innesta sul tremendo sforzo economico e politico che la Grecia deve fare per risistemarsi. D’altra parte l’eccezionalità del caso greco si è accompagnata a quella irlandese e portoghese e va specchiandosi nei diversi problemi di aggiustamento di Paesi europei più grandi come la Spagna, l’Italia e la Francia. Il dramma greco è, al momento, l’occasione più vistosa perché l’Ue digerisca l’idea di essere un sistema integrato dove nessuno può prescindere dai problemi altrui e scappare verso chissà quali privilegiati paradisi nazionali.

E’ fuori discussione che i governanti e i governati greci sono stati a lungo molto indisciplinati. Ma sono anche certe le colpe dell’Ue, che non ha saputo mettere in atto tempestivamente i sistemi di controllo e di disciplina che aveva a disposizione; anche nei confronti di altri Stati membri compresa, a suo tempo, persino la Germania. E’ poi chiaro che gli investitori privati internazionali hanno finanziato in modo azzardato e miopicamente speculativo i Paesi che si indebitavano. Inoltre la crisi ha colto l’Ue priva di istituzioni adeguate per gestire l’emergenza.

Ha funzionato la liquidità della Bce e il pronto coinvolgimento del Fmi. Ma su due aspetti cruciali l’Europa ha mostrato di aver bisogno di tempo per chiarirsi le idee ed evitare di bisticciare nella tempesta. Il primo è la disponibilità delle finanze pubbliche dei Paesi membri a sostenersi in modo solidale, almeno nel medio periodo e contro le esasperazioni speculative dei mercati. Il secondo è la volontà di far pagare parte del conto dei dissesti alle banche e agli altri investitori che hanno favorito l’eccesso di indebitamento. Per non parlare della confusione creata da chi parla a vanvera di «uscite dall’euro». Di queste incertezze di intenti comunitari, i Paesi messi peggio pagano un costo che c’entra poco con le loro colpe.

Valutare oggi le prospettive della crisi significa cavarsela col classico problema del bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto. Non mancano le ragioni del mezzo pieno. Anche se con esitazioni e lentezze, l’Ue, oltre a mettere a punto sistemi più rigorosi di sorveglianza sugli squilibri macroeconomici, mostra ora di accettare il principio di meccanismi di solidarietà finanziaria, che scarichino la Bce dall’onere di rimanere troppo a lungo prestatore di ultima istanza. Con dubbi più forti e modalità più incerte, negli ultimi mesi pare accettato anche il principio che i creditori privati imprudenti devono essere coinvolti nel pagare il conto dell’indisciplina dei debitori sovrani. Nel frattempo i governi nazionali sfidano la comprensibile rabbia degli elettori e delle piazze con aggiustamenti più severi e concreti e cercano convergenze e maggioranze politiche abbastanza ampie per prendere decisioni difficili in modo credibile. Vorremmo tutti fare in fretta, ma la sceneggiatura richiede tempo e a ogni attore - le autorità Ue, i mercati, i governi e i cittadini dei Paesi membri - deve essere dato il tempo necessario per fare la propria parte, senza effimeri miracolismi.

Anche l’Italia è fra gli attori che devono agire con decisione e la giusta velocità. Quando il Presidente dell’Eurogruppo Juncker ha detto che il contagio greco può minacciare l’Italia ha perso un’occasione per evitare ingiustificate drammatizzazioni, che ha poi dovuto smentire. Ma quello che il nostro Paese deve fare con urgenza è comunque chiaro: mantenere fermo il controllo del disavanzo, varare da subito le misure che ne consolidano il rientro a partire dal 2013, far sì che si tratti di misure che risultino da un piano organico di riforme strutturali, rendere tutto ciò fattibile e credibile procurandosi una maggioranza politica decente, che trovi ragioni di coesione nel buon senso, ma anche nell’amor patrio col quale dobbiamo evitare di nasconderci la gravità dei problemi.

franco.bruni@unibocconi.it
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Titolo: FRANCO BRUNI Le mosse non più rinviabili
Inserito da: Admin - Luglio 11, 2011, 09:23:40 am
11/7/2011
 
Le mosse non più rinviabili


FRANCO BRUNI
 
Parlando a Aix-en-Provence, Trichet ha detto che «i Paesi europei oggi in difficoltà sono quelli che si sono comportati in modo quasi caricaturale». Comportamenti caricaturali, almeno nel bisticcio politico, sono tuttora in corso in Italia e minano la credibilità della manovra finanziaria del governo: lo ha spiegato ieri Bill Emmott su queste colonne.
L’economia italiana, tenuto conto delle reazioni dei mercati internazionali che la giudicano, è in bilico fra due esiti opposti. È messa abbastanza male per precipitare nel baratro, se solo prosegue il deterioramento del meccanismo di decisione politico, ormai divenuto vero e proprio azzardo istituzionale. Ma ha anche potenzialità di resistenza e ripresa sufficienti per veder ridursi rapidamente i pericoli e scendere il costo del «rischio Paese»: basta che dia qualche segnale indiscutibile di cessazione dei comportamenti caricaturali.

Vanno trovate subito, anche se in forme delimitate e temporanee, le convergenze politiche necessarie per varare, con un consenso abbastanza ampio, la manovra finanziaria. Quella proposta da Tremonti ha la giusta dimensione complessiva, che va confermata con aggiunte - anche piccole ma convincenti - in tre direzioni: un parziale anticipo al 2011-12 delle riduzioni del deficit ora previste per il biennio successivo, un aumento visibile e immediato del taglio dei costi della politica, un avvio significativo di provvedimenti con i quali si mira a rilanciare la crescita e l’occupazione anche direttamente, non solo tramite il miglioramento della finanza pubblica. Fra questi provvedimenti sono urgenti: l’anticipo di alcune riforme, già pensate, delle imposte, la più celere eliminazione di sussidi e trasferimenti inutili e dannosi, alcune liberalizzazioni ben fatte, un’accelerazione delle riforme legislative della forma giuridica dei contratti di lavoro, del loro trattamento fiscale e delle modalità con cui le parti ne trattano i contenuti salariali e normativi.

Ma il discorso di Trichet dà anche parte della colpa della crisi dell’eurozona alle esitazioni e alle manchevolezze degli organi comunitari. Cioè alle carenze nella sorveglianza dei Paesi membri e nella promozione di una loro più profonda unità economico-politica, capace di riflettere la loro comunanza di interessi e di destini di lungo periodo. Il punto più urgente è ora l’assistenza finanziaria ai Paesi in difficoltà. Vanno trovati il coraggio e le modalità giuridico-istituzionali per anticipare l’avvio di un meccanismo permanente per la gestione delle crisi, del quale è già stata deliberata l’introduzione nel 2013. Il meccanismo proposto va potenziato, consentendo decisioni non unanimi e prese con autonomia tecnica, senza dover cercare continuo consenso politico sui dettagli; va finanziato con l’emissione di titoli garantiti in solido dai Paesi membri. Occorre inoltre, subito, ridurre i tassi di interesse sui prestiti ai Paesi assistiti e garantir loro, a fronte di impegni di aggiustamento e di riforma inequivocabili, tempi di rientro realistici dei loro deficit e dei loro debiti.

Italia ed Europa devono dunque fare ciascuna la loro parte. Ma c’è anche il collegamento fra le due, cioè la partita che l’Italia gioca in Europa. La quale riunisce oggi in emergenza il suo Consiglio anche per considerare il rischio Italia. La partita non deve ridursi a uno scambio fra obbedienza e assistenza, fra rispetto svogliato di vincoli europei e garanzia di non essere isolati e abbandonati. Questo tipo di scambio è quello di un debitore con la sua banca; può aver senso per un Paese nei confronti del Fmi. Ma in Europa la partita è diversa, l’atteggiamento non deve essere difensivo e contrattualistico e l’opinione pubblica non va indotta a pensarlo così. Dobbiamo identificarci esplicitamente con gli interessi dell’Ue - e ancor più dell’area dell’euro - nel suo insieme, vivendo la disciplina europea con la convinzione di chi vi apporta e vi aggancia la propria autodisciplina. Si tratta di costruire insieme una più forte unità economica, monetaria, finanziaria e politica, indispensabile per vivere la globalizzazione con successo, lasciandovi il segno degli interessi, dei valori e della cultura europei. Pensare a una maggiore unità europea come «la Germania che paga per gli altri» è un equivoco. L’Italia può contribuire a evitarlo, portando in Europa segni inconfondibili di una convinta autodisciplina e ricavandone così titolo per essere protagonista propositiva nel fare avanzare i meccanismi comunitari di unità, solidarietà e trasparenza democratica.

Comincia una settimana in cui sarà cruciale il giudizio dei mercati finanziari internazionali sull’Italia. Qualcuno è convinto che i mercati siano l’origine e non il riflesso dei nostri problemi. È vero che essi, nel breve, tendono a esagerare e impostare speculazioni destabilizzanti. È auspicabile che le autorità di regolamentazione italiane ed europee provvedano subito a renderne alcune operazioni più controllate e trasparenti. Ma nel medio termine i mercati hanno ragione; per evitare i disastri ci vogliono le giuste decisioni economiche e politiche dell’Italia, dell’Europa, e dell’Italia in Europa.

franco.bruni@unibocconi.it
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Titolo: FRANCO BRUNI Le cinque mosse per cambiare
Inserito da: Admin - Agosto 18, 2011, 05:47:51 pm
18/8/2011

Le cinque mosse per cambiare

FRANCO BRUNI

I provvedimenti che il governo italiano sta prendendo per affrontare la crisi finanziaria stentano a trovare una definizione precisa e condivisa. La discussione è vivace, laboriosa e difficile. Il che ha un aspetto negativo e uno positivo. E’ negativo vedere la confusione delle proposte che si fanno e si disfano, il disaccordo all’interno della stessa maggioranza, persino fra il premier e il suo ministro dell’Economia, l’enorme difficoltà di dialogo con l’opposizione, le critiche dure, ironiche e diffuse sulla stampa di ogni tendenza, dell’uno o dell’altro aspetto delle decisioni annunciate, le volgarità che accompagnano a tratti le baruffe di un personale politico, compresa l’opposizione, che ha sempre meno la stima dell’opinione pubblica, sia sotto il profilo delle sue capacità che della sua integrità e correttezza.

E’ invece positivo che sia effettivamente in corso questo seppur confuso dibattito sulle cose concrete da fare, sul serio e subito, per la pressione congiunta degli organi comunitari e dei mercati. Sembra a volte, addirittura, di intravedere un miglioramento progressivo nel disegno delle misure in formazione. Nonostante lo scenario di scomposta litigiosità pare che quasi tutti, nella maggioranza e nell’opposizione, siano disponibili a esaminare le altrui proposte. È vero che preferiremmo aver tutto già deciso e pronto nei dettagli, magari come conseguenza di piani di riforma coerenti, da tempo elaborati con abbondanza di dati e riflessioni, ma è anche vero che, in pieno solleone, l’emergenza costringe la politica a lavorare come da tempo non succedeva.

Auguriamoci che nei prossimi giorni l’aspetto positivo prevalga su quello negativo e ne risulti una manovra adeguata e condivisa. Sarebbe anche meglio smettere di chiamarla «manovra»: dà l’idea di un veicolo che corregge il percorso senza cambiare se stesso, la sua conformazione, il suo modo di funzionare; mentre per salvarci occorre davvero «cambiare l’Italia» dell’economia e della politica. Gli aggiustamenti finanziari urgenti devono essere solo il prossimo passo delle riforme strutturali di lungo periodo. Le principali correzioni necessarie ai provvedimenti finora annunciati sono state proposte da più parti e su alcune di esse pare formarsi un rilevante consenso. Mi limito a menzionarne cinque. Una delle più importanti, a mio avviso, è la riduzione dell’imposizione sul lavoro finanziata con un contenuto aumento dell’Iva. In secondo luogo è politicamente ed economicamente cruciale l’intervento sulle pensioni di anzianità. Terzo: va attenuato il prelievo straordinario sui redditi medio-alti, da tutti riconosciuto come un premio all’evasione.

L’attenuazione può avere due aspetti: un trattamento che tenga conto favorevolmente della numerosità dei nuclei famigliari e la sostituzione di una parte del prelievo sui redditi con una lieve ma ben organizzata imposta patrimoniale. Quarto: i tagli ai trasferimenti agli enti locali. Un governo che, almeno in apparenza, ha tanto puntato sul federalismo, non può varare misure così generiche e così poco condivise dai territori. Il loro effetto macroeconomico è troppo incerto mentre le loro conseguenze sociali e politiche possono risultare perverse. Se esistono a Roma dei leader seriamente federalisti (e veramente leader) devono dimostrarlo: sappiano essere convincenti e trovino il consenso necessario a precisare meglio i tempi e le modalità dei tagli, assicurando che gli enti territoriali abbiano la volontà e gli incentivi per trasformarli in minori sprechi e in accresciuta efficienza delle pubbliche amministrazioni e non in forzati e disorganici aumenti di tariffe e imposte locali né in riduzioni dei servizi pubblici socialmente più preziosi.

Qualche maggior segno di concreta e impegnativa severità contro i costi della politica romana potrebbe aiutarli. Da ultimo va detto della novità più recente: la proposta di una tassazione speciale per i patrimoni «scudati». Questo giornale ha già ieri accennato alle questioni di fattibilità di un simile provvedimento. Ci sono problemi tecnici nell’individuare i patrimoni e problemi giuridici nell’assicurare la liceità della forma di imposizione, anche sotto il profilo costituzionale. Inoltre, se l’idea che Tremonti sia stato troppo generoso con gli scudati è condivisibile, è evidente la paradossale slealtà di colpire coloro ai quali lo stesso ministro aveva promesso il segreto e un condono tombale. La credibilità internazionale dell’Italia potrebbe soffrirne anche presso gli stranieri.

Una parte dell’opposizione sembra soddisfatta per aver avuto qualche ascolto nel fare la proposta. Si goda la soddisfazione ma non esageri l’importanza dell’idea e si astenga da demagogie inconcludenti; non insista nel chiedere un provvedimento con modalità e dimensioni impossibili. Esiste una ricchezza scudata la cui imponibilità straordinaria sarebbe in questo momento preziosa. Ma un’imposta specifica è decisamente inopportuna: se si trova il modo di superare almeno parzialmente i problemi di fattibilità tecnica e giuridica, i patrimoni che hanno beneficiato dello scudo potrebbero essere chiamati, insieme agli altri, a contribuire in qualche modo e misura a una imposizione patrimoniale straordinaria generale che sostituisca, come detto prima, una parte della tassazione straordinaria sui redditi e, per
l’ampiezza della base imponibile, abbia aliquote molto contenute.

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Titolo: FRANCO BRUNI Nessuno si salva da solo
Inserito da: Admin - Settembre 12, 2011, 10:33:47 am
12/9/2011

Nessuno si salva da solo

FRANCO BRUNI

Il G7 di venerdì a Marsiglia è stato inconcludente, al punto di tentare di evitare un comunicato finale. I problemi sono comuni: troppi debiti, intermediari e mercati finanziari fragili, poca crescita. Eppure si è percepito che ciascun governo vuole le mani libere per fare o non fare, questo o quello, a seconda delle convenienze politiche nazionali.

Probabilmente la formula del G7 è superata. Ma è indubbio che la cooperazione internazionale è in difficoltà proprio quando ce ne sarebbe più bisogno. Ha ragione Tremonti: manca la consapevolezza di vivere una crisi storica e non la fase avversa di un ciclo. Continua la disattenzione degli Usa per l'impatto delle loro politiche monetarie e di bilancio sul resto del mondo; sembra accettato che approfittino del privilegio di stampare dollari. Il G20 non irrobustisce la sua capacità di riflettere il riassetto di poteri necessario per governare l'economia globalizzata. Non sono in vista serie riforme dell’Fmi e del sistema monetario internazionale. Gli accordi del Wto ristagnano.

Le nuove regole per banche e mercati finanziari stentano a incorporare la lezione della crisi; il cammino delle regole zoppica per la confusione dei progetti, le suscettibilità delle burocrazie, le scorrerie di politici incompetenti, i protezionismi nazionali e le lobby degli intermediari: si veda, da ultimo, il pasticcio della direttrice dell’Fmi Lagarde che ha sollecitato le banche europee ad aumentare la capitalizzazione, salvo poi fare marcia indietro a Marsiglia.

Se è una crisi storica ci vuole un profondo cambio di mentalità. Le strategie di crescita devono porre nuova attenzione ai beni pubblici e collettivi e le sovranità nazionali devono legarsi le mani con accordi più impegnativi, affidati alla gestione di agenzie sovranazionali.

Ma su ciò circola scetticismo. Si diffonde l'idea che ogni Paese debba far da solo, che la chiave per risolvere la crisi globale è che ciascuno «metta la propria casa in ordine».
C'è la versione europea di questo atteggiamento: è inutile sperare di rafforzare i poteri centrali dell'Ue e delegare loro le politiche che non ha più senso condurre a livello nazionale.
Ciascuno faccia le sue «manovre» e vinca il migliore, in una sana concorrenza dove chi non fa il bravo soccombe, viene cacciato in un purgatorio senza euro o addirittura nudo, all'inferno degli inetti.

Ma è una concorrenza che non funziona. Come in ogni convivenza consapevole delle sue forti interdipendenze, va trovato l'equilibrio fra azione collettiva e sforzo individuale. Nessuno si salva se non si dà da fare ma nessuno si salva da solo. Non si può abbandonare i propri destini alle magie della Bce e della solidarietà fiscale comunitaria; ma i problemi europei non si risolvono nemmeno isolando ciascun Paese nelle sue responsabilità e minacciando di lasciarlo «fallire» o «cacciarlo dall'euro». Anche perché non si sa come mettere davvero in pratica minacce del genere e come limitare i costi-boomerang che tornano sui virtuosi che mandano gli altri in purgatorio. Senza una vigilanza sovranazionale sulle banche e le Borse, nessuno salva le sue banche e la sua Borsa. Senza una disciplina centralizzata e severa dei bilanci pubblici di tutti, i mercati non sono tranquilli nemmeno, per esempio, sulla Francia; e allora l'Italia, da sola, non può procurarsi un biglietto per il Paradiso della stabilità. Se salta la Grecia, nel disordine generale rischia di saltare anche l'Italia, e se salta l'Italia il conto per la Germania è insopportabile. Se si vuol stare al passo coi tempi, non si può più far da soli nemmeno le politiche industriali, le riforme del mercato del lavoro, le infrastrutture e le politiche sanitarie. Siamo tutti su una stessa barca, nel mare mosso di una crisi storica. Gli elettorati devono capirlo e devono poi essere più esigenti nel pretendere capitani coraggiosi, leader di qualità, politica, tecnica e umana.

E' giusto dunque chiedere all'Europa passi decisivi al più presto, almeno nei progetti varati in giugno e luglio, che un agosto di tempesta e vanità pare aver allontanato. Devono diventare effettive la riforma del Patto di Stabilità, la disciplina comunitaria delle riforme strutturali, lo scadenziario di completamento del mercato unico, il rafforzamento del fondo di emergenza per i debiti sovrani e il disegno del sistema definitivo che è destinato a sostituire il fondo nel 2013. Se occorrono modifiche nel Trattato o nelle legislazioni nazionali, per consentire dosi delimitate di cessione di sovranità all'Ue e di solidarietà fiscale fra i Paesi membri, le si metta in programma senza far finta che i virtuosi possano farne a meno. Se veramente c'è qualcuno più virtuoso degli altri, usi alla svelta le «cooperazioni rafforzate» che il Trattato favorisce: faccia un gruppo che procede più rapido ma non caccia indietro nessuno; il gruppo dia l'esempio e trascini anche altri in Paradiso: fra i peccati originari dell'area dell' euro non c'è certo quello di essere nata per allargarsi.

Rimane però vero che la propria casa bisogna metterla in ordine. E per casa nostra la settimana comincia con il completamento dell'approvazione dei provvedimenti farraginosamente affastellati durante l'estate. Tremonti ha detto che occorre anche un «tagliando» per la crescita: non gli sembra poco un tagliando, visto che è giustamente convinto che siamo in una «crisi storica»?

 franco.bruni@unibocconi.it
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Titolo: FRANCO BRUNI Quel rischio che spaventa i mercati
Inserito da: Admin - Settembre 17, 2011, 04:26:09 pm
Quel rischio che spaventa i mercati

FRANCO BRUNI


Ieri le principali banche centrali del mondo hanno dimostrato perizia nel coordinarsi in una difficile operazione per fornire dollari alle banche europee, che trovano difficoltà a raccoglierli, anche perché chi li detiene in Usa teme che in Europa si aggravi la crisi dei debiti pubblici. Se si tratta di correggere situazioni di emergenza la capacità delle autorità monetarie è straordinaria; esse possono domare i «mercati». Ma ieri abbiamo anche avuto un segnale di come la crisi acuta del nostro debito pubblico sia di un mese più vecchia di quanto poteva sembrare.

La Banca d’Italia ha comunicato i dati della bilancia dei pagamenti di luglio. Vi si può leggere che già da allora i nostri titoli hanno incontrato ostilità nei portafogli internazionali. Nei numeri di luglio si vede una forte uscita dall’Italia di capitali che erano prima investiti nei nostri titoli di Stato. La fiducia stava venendo meno, il pessimismo dei mercati cresceva. Chi erano, e chi sono, questi «mercati» che ci fanno soffrire? In che misura si possono «domare»?

Le vicende dei nostri titoli, come quelle di altri Paesi, registrano gli alti e i bassi di speculazioni spesso slegate da un’analisi seria delle prospettive della nostra economia, fatte con tecniche più simili al gioco d’azzardo che alla oculata gestione dei patrimoni.

Ma non c’è solo il gioco d’azzardo. Le difficoltà che i nostri titoli pubblici trovano a penetrare e rimanere nei portafogli degli operatori che li detengono, possono in parte spiegarsi con ragioni e aspettative ben motivate. Il «rischio Italia» ha una base nell’elevatezza del nostro debito pubblico, nella lentezza della nostra crescita, nella confusione delle nostre «manovre», nell’incertezza del nostro quadro politico. Vi sono dunque operatori prudenti e razionali che decidono di ridurre la quota di titoli governativi italiani che hanno in portafoglio perché, anche in un’ottica che va oltre al breve periodo, diventano meno ottimisti sulla possibilità che il nostro Paese riesca a fronteggiare senza intoppi i suoi impegni finanziari. Poiché il governo italiano continua ad aver bisogno di emettere nuovi titoli, per sostituire i vecchi in scadenza e coprire i nuovi disavanzi della finanza pubblica, l’incontro fra una minor domanda e la maggior offerta di titoli alza il rendimento richiesto su di essi. A beneficiarne sono i tassi sui titoli dei Paesi meno «rischiosi» come la Germania: ed ecco l’aumentare del cosiddetto «spread» che separa il costo del debito italiano da quello tedesco.

Il nostro debito pubblico è particolarmente esposto a questa «fuga» dal rischio-Paese, perché è largamente detenuto all’estero, dove è in concorrenza più aperta e immediata con i titoli di altri emittenti. E’ vero che dall’estero vengono anche le speculazioni più selvagge e ingiustificate; ma sono molti gli operatori esteri solidi e prudenti, come i grandi fondi pensione inglesi e olandesi, che finiscono per determinare l’andamento di medio periodo del costo del nostro debito e dello «spread». Le autorità hanno modi adatti a limitare i danni causati dai selvaggi. Le scelte di portafoglio di chi fa sul serio e giudica oggettivamente le nostre prospettive, sono invece difficili da neutralizzare e lasciano il segno sui nostri conti in modo duraturo. In compenso questi operatori sono pronti a invertire le loro scelte quando la nostra finanza pubblica, la nostra politica economica, le prospettive della nostra crescita e il riordino del nostro quadro politico, mostrano miglioramenti credibili. La parte «seria» dei mercati è difficile da tacitare con interventi antispeculativi forzati; se però chi emette titoli è altrettanto serio, può convincerla a cambiare opinione comportandosi meglio.

E’ urgente che l’Italia prenda sul serio la parte «seria» dei mercati. Anche perché lo «spread» elevato sui titoli di Stato, se rimane a lungo, si incorpora nel costo del denaro nel nostro mercato nazionale privato: salgono i tassi sul credito, sui mutui e sui prestiti alle imprese, si riduce la disponibilità di fondi per alimentare la crescita.

Per aver successo nel convincere i mercati è prezioso l’aiuto dell’Unione Europea. Non solo della Bce, che può tamponare le speculazioni a breve con acquisti a breve, ma di tutti gli organi comunitari e dei Paesi membri che debbono, nelle prossime settimane, accelerare il coordinamento delle politiche economiche europee, la riforma degli organi e dei meccanismi che presiedono a quelle regole, l’irrobustimento delle reti di protezione che sono state approntate negli ultimi anni per gestire le fasi acute delle crisi dei debiti pubblici. Se il quadro europeo si fa abbastanza presto più unito, solidale e deciso, anche il debito italiano ne beneficia. Perché anche gli operatori «seri» pensano che le nostre debolezze e i nostri vizi sono tanto più gravi quanto più si manifestano in un ambiente internazionale fragile e perturbato.

franco.bruni@unibocconi.it

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Titolo: FRANCO BRUNI L'importanza di una scelta chiara
Inserito da: Admin - Settembre 28, 2011, 09:55:12 am
28/9/2011

L'importanza di una scelta chiara

FRANCO BRUNI

In questa fase di disordinata tensione della politica italiana, dove è in gioco la credibilità internazionale del Paese, sarebbe preziosa una sollecita e limpida decisione circa la successione di Draghi in via Nazionale.

La sua nomina alla Bce non è certo avvenuta per la sua nazionalità, né per una forte insistenza dell’Italia. E’ stato il risultato di un giudizio praticamente unanime, del fatto che si trattava del più qualificato e apprezzato dei candidati. Per l’Italia è stato però un grande onore e la conferma della antica tradizione con la quale la scuola della Banca d’Italia fornisce da decenni al sistema monetario internazionale uomini e idee di prestigio. Sarebbe ora peccato se la promozione di un italiano al vertice del sistema europeo delle banche centrali fosse seguita da una oscura e antipatica trattativa per sostituirlo nel governatorato nazionale. Una trattativa dove entrerebbe la politica all’italiana nel senso più deteriore.

Abbiamo diversi candidati di valore, ma dobbiamo essere capaci di scegliere con linearità e rapidità. Il presidente Napolitano ha già più volte richiamato il governo invitandolo a seguire scrupolosamente la procedura prevista dalla legge.

All’interno di questa procedura anch’egli ha un ruolo importante: un ruolo di garanzia al quale ha intenzione giustamente di limitarsi. E’ per il governo che è ora giunto il momento di decidere, mostrando alla comunità finanziaria internazionale di saperlo fare con serena naturalezza e la capacità di prendere una decisione che sia accolta con successo e senza attriti.

Quest’estate il governo italiano ha già dato prove di convulsioni, incertezze, brutte figure, per le quali stiamo pagando un prezzo elevato in termini di condizioni più onerose per il rifinanziamento del nostro debito pubblico. Condizioni che stanno purtroppo rapidamente contagiando il costo del denaro per i privati. Scegliere presto e bene il nuovo governatore, senza farne una questione di lotte fra chi vuole apparire come lo sponsor politico vincente nella nomina, sarebbe di non poco aiuto nello sforzo per recuperare credibilità.

Per quanto sia la politica a dover prendersi la responsabilità della scelta, la nomina non deve lasciar sospettare che vi sia un desiderio della politica di esercitare influenze e interferenze sul lavoro del futuro governatore. I Trattati europei vogliono garanzia di completa indipendenza, anche se per i banchieri centrali dell’area dell’euro sono previsti precisi doveri di render conto, nelle sedi politiche appropriate, del loro operato e dei risultati che hanno raggiunto rispetto agli obiettivi loro assegnati.

La comunità internazionale dei banchieri centrali ha una sua speciale professionalità. Ha esperienze e conoscenze comuni che la mettono in grado di cooperare con prontezza e schiettezza particolari. Di ciò va tenuto conto nella scelta per la Banca d’Italia, che è bene sia accolta con spontanea approvazione sia all’estero che in via Nazionale, dove un gruppo coeso, di grandi capacità tecniche e non comune reputazione internazionale, lavora a compiti delicati e difficili, sia sul fronte della politica monetaria che nella vigilanza sulla buona condotta, la liquidità, la solvibilità delle nostre banche.

Il gruppo che ha lavorato con Draghi si è meritato il rispetto anche di coloro che, come alcuni intermediari, hanno dovuto sperimentarne la severità e l’impermeabilità a pressioni di interessi particolari. Il suo lavoro deve continuare senza scosse, con lo stile collegiale che lo ha distinto in questi anni lasciando apparire un direttorio unito ed efficace, anche in importanti ambiti internazionali. Sarebbe assurdo, con una decisione ritardata, controversa e politicizzata, trasformare l’andata di Draghi a Francoforte in un indebolimento della capacità di via Nazionale di lavorare con serenità e fare squadra. La Banca d’Italia ha anche, istituzionalmente, un compito di alta consulenza per le autorità politiche del Paese. E’ un compito che ha svolto in modo incisivo negli ultimi mesi. E’ interesse anche del governo che l’efficacia, l’utilità, l’autorevolezza di questa consulenza trovino supporto nel prestigio dell’indipendenza e della coesione del gruppo di lavoro che la fornisce.

Auguriamoci dunque che la procedura di nomina si svolga in modo da non rendere più difficile al nuovo governatore, da dovunque provenga, e al gruppo dei suoi più stretti collaboratori, continuare il buon lavoro che è stato fatto negli anni di Draghi. Lo merita l’Italia e lo merita anche la Banca d’Italia, una delle istituzioni delle quali il nostro Paese è orgoglioso.

franco.bruni@unibocconi.it

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9251


Titolo: FRANCO BRUNI Fisco, gli obblighi non negoziabili
Inserito da: Admin - Ottobre 08, 2011, 11:30:16 am
2/10/2011

Fisco, gli obblighi non negoziabili

FRANCO BRUNI

Luca Ricolfi è da sempre un nemico intelligente del troppo «politicamente corretto». Il suo articolo su La Stampa del 26 settembre ha messo in discussione la lotta all’evasione fiscale, quando la lotta è intesa, come dice lui, quale «strumento di agitazione politica universale» o addirittura, come esagera Alberto Mingardi nel suo commento di giovedì, come uno «Stato di polizia tributaria, con un finanziere ad ogni angolo di strada». Ricolfi ha osservato che, per ridurre l’evasione, più che generici proclami etico-populisti, serve conoscerne bene le cause e riconsiderare il livello delle aliquote.

Non si deve però lasciar intendere che il rispetto degli obblighi fiscali sia negoziabile, nemmeno per chi, se non evadesse, soccomberebbe e scomparirebbe dal mercato. Evitare di giustificare la gara a nascondino per sopravvivere è cosa politicamente corretta ma è anche sacrosanta; e toglie un alibi all’autorità che da un lato tassa troppo e male e dall’altro tollera l'evasione. Inoltre, come nota bene Stefano Lepri e ribadisce Alberto Bisin, l’evasione è un sussidio a progetti imprenditoriali che sono inefficienti per le loro dimensioni, le fonti di finanziamento, le tecnologie e il management, un aiuto a un mondo dove i conti opachi si accompagnano a modelli di impresa ai quali non possiamo affidare la competitività del Paese. Sostiene Ricolfi che l’evasione ha due facce: quella di chi evade per guadagnare di più e quella di chi lo fa per sopravvivere. E’ vero, ma in pratica sono facce che spesso si sovrappongono: distinguerle, per meglio combatterle, è molto difficile. Anche perché c’è una terza faccia con cui a volte si mescolano e confondono: quella della criminalità pura e semplice.

Il rapporto fra l’entità dell’evasione e il livello delle aliquote è complicato, ma è abbastanza studiato. E’ un rapporto più evidente quando si tratta di evasione parziale, o addirittura marginale: aliquote più basse fanno emergere più reddito di chi evade «un po’». Ma quando l’evasione è massiccia o totale, rimane quasi tutta anche se si abbassano le aliquote. Sottoscrivo però in pieno l’idea che sui proventi della lotta all’evasione, almeno nella situazione italiana, non si deve far conto per aumentare il gettito e ridurre il deficit pubblico. Il che è successo in una misura al limite del ridicolo in alcune delle diverse versioni delle «manovre» estive del nostro governo. I proventi dell’evasione sono tutti da prenotare per finanziare subito riforme fiscali che abbassino gli oneri fiscali e parafiscali che feriscono la competitività di chi vuol essere in regola.

Un fattore di successo per ridurre l’evasione è la reputazione della politica e della pubblica amministrazione. Chi pecca va punito, ma va anche convinto a non farlo più. E per convincere chi evade non basta chieder meno tasse: è essenziale dimostrargli che quel che paga va a buon fine. Deve vedere che i soldi sottratti al suo privato interesse finanziano bisogni pubblici che condivide con altri; e che la cura di quei bisogni è affidata ad amministratori con un decente grado di rispettabilità. Occorre anche informarlo, con continuità e dati credibili, sulla produttività della spesa pubblica, degli ospedali, dei tribunali, delle ferrovie, delle scuole: l’uso sistematico di indicatori di performance nei servizi pubblici è addirittura fra le misure urgenti che la famosa lettera di Trichet e Draghi chiede all’Italia per evitare il collasso.

Ancor più che un ripensamento del livello generale delle aliquote, al nostro Paese servono riforme della struttura delle imposte e degli oneri sociali. Servono per favorire la produzione e l’occupazione, per ridurre l’elusione, per ridurre l’evasione. Servono grandi e ambiziose riforme, ma anche provvedimenti limitati, specifici e urgenti. Non ho ancora capito perché il governo non ha fatto quello che molti hanno chiesto con argomentazioni e dati convincenti: finanziare con l’Iva uno sgravio della fiscalità e parafiscalità sull’occupazione. Ciò avrebbe diversi effetti positivi, compresi quelli sulla competitività internazionale delle nostre produzioni. Per quanto riguarda l’evasione, è vero che quella stimata dell’Iva è impressionante ma le conseguenze dell’eccesso di tassazione del lavoro, in termini di maggior sommerso, oltre che di minore occupazione, sono quantitativamente, ma anche qualitativamente molto brutte.

Un altro elemento importante è la cooperazione internazionale. Che è essenziale per colpire chi evade tramite operazioni con l’estero. Ma è anche fondamentale per combattere l’elusione, calmierando la parte inutile e distorsiva della concorrenza che gli Stati si fanno nell’abbassare le imposte per attirare capitali. Dopodiché bisogna saper collocare il Paese fra i diversi modelli che ci sono al mondo: tasse più alte e servizi pubblici migliori e più abbondanti, tasse più basse e meno servizi pubblici. Va ovviamente evitato il modello con tasse alte e pochi servizi. La scelta del modello va fatta con chiarezza e consapevole partecipazione democratica. Più chiara è la scelta, minore è l’incentivo e la scusa dell’evasore. Una volta fatta la scelta, a me sta bene che l’evasore abbia molta probabilità di trovare un finanziere al prossimo angolo della strada.

franco.bruni@unibocconi.it

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9271


Titolo: FRANCO BRUNI La Bce deve tornare a fare la Bce
Inserito da: Admin - Ottobre 12, 2011, 11:12:04 am
12/10/2011

La Bce deve tornare a fare la Bce

FRANCO BRUNI

Trichet sta preparandosi a lasciare la Bce a Mario Draghi. La sua uscita lo vede, da un lato, più potente di come era entrato:
da quest’anno, infatti, è anche presidente del Comitato per il rischio sistemico, un nuovo organo istituito dall’Ue, che ha il compito di sorvegliare e provvedere affinché l’intreccio dei rischi delle banche e dei mercati finanziari non faccia precipitare la crisi.
Draghi gli subentrerà anche in questa responsabilità.

D’altro canto Trichet lascia una Bce che, in un certo senso, si è indebolita, perché ha dovuto fare un mestiere che non è il suo: sostenere, con lunghi impegni di liquidità, banche e finanze pubbliche che hanno difficoltà a ripagare o rinnovare i loro debiti. La Bce dovrebbe limitarsi a mantenere la funzionalità dei mercati con interventi di breve durata: se i problemi sono duraturi, il supporto deve essere deciso e attuato dalla politica, impegnando denari dei contribuenti, in una logica di solidarietà fiscale comunitaria, per evitare il peggio. Trichet non si è mai stancato di dirlo («da tempo ammonisco i governi»), ha insistito fin da quando è cominciata la crisi dei debiti sovrani e si è ripercossa sulle banche che hanno i titoli pubblici in portafoglio.

Ma la politica stenta ancora a decidere («i governi mi hanno criticato dicendo che la situazione non era così grave»). Ieri Trichet è tornato a protestare, presentandosi al Parlamento europeo come presidente del Comitato per il rischio sistemico. Ha detto che nelle ultime settimane la situazione è peggiorata, che la sovrapposizione dei rischi dei governi e delle banche sta facendo venir meno, come nel 2008, la fiducia nei mercati monetari dove il denaro stenta a circolare. Il rischio di contagio si estende anche fuori dall’Europa. Senza decisioni energiche sul rafforzamento del fondo salvaStati, nonché sulla ricapitalizzazione e la pulizia dei bilanci delle banche in difficoltà, la situazione può diventare disastrosa.

Uno dei compiti di Draghi sarà quello di ottenere e proteggere una più precisa definizione del ruolo della Bce nel perseguire la stabilità finanziaria. Sono ormai più di tre anni che, dal mattino alla sera, la Bce si occupa quasi solo di stabilità finanziaria, mostrando abilità tecnica, inventiva e tempestività. E’ dunque strano sentirla soffermarsi soprattutto sull’inflazione, vantando giustamente il fatto che essa rimane contenuta. Occorre riconoscere ufficialmente che, oltre alla stabilità dei prezzi, la Bce persegue la stabilità finanziaria, entro limiti e con strumenti chiaramente definiti. Se non si ritaglia con precisione e trasparenza i suoi compiti, continueranno a chiederle di supplire alla politica. E’ significativo l’episodio delle lettere che la Bce ha inviato ai governi dei Paesi, fra i quali l’Italia, che ha aiutato in via straordinaria comprando i loro titoli pubblici. Anche chi giudica sacrosanto il contenuto di quelle lettere non può non rilevare che sarebbe più appropriato che fosse la Commissione europea, magari per conto del fondo salva-Stati, a imporre dettagliate ricette in diversi settori delle politiche economiche nazionali.

Sono urgenti decisioni politiche comunitarie che, riconoscendo che l’interdipendenza delle economie europee è tale da rendere inevitabile un certo grado di solidarietà fiscale, stanzino fondi adeguati alle emergenze da affrontare. Vanno anche messe a punto sollecitamente procedure per ristrutturare con ordine e senza panico i debiti pubblici insostenibili; vanno riformate e rese omogenee e transnazionali le procedure da usare nei confronti delle banche che rischiano l’insolvenza.

Fino a che questo non succede la Banca centrale rimane sola sulla trincea della crisi. Secondo alcuni non c’è ragione perché non continui i suoi sostegni senza particolari scrupoli. Chi la pensa così tende a sostenere che il rischio-Paese è un’esasperazione degli speculatori; dice che si tratta solo di creare liquidità e che il pericolo di inflazione non è oggi evidente. La verità è che la speculazione cavalca situazioni realmente deteriorate; e che non c’è solo il pericolo dell’inflazione, che pur rimane dietro l’angolo. Il punto centrale è che continuare a rovesciare moneta su problemi e squilibri reali non li risolve, anzi, induce a rimandarli e a lasciarli aggravare. Dopodiché si tentano strette di bilancio precipitose e brutali dei Paesi in difficoltà, strette che riescono poco e male e fanno pagare troppo ai più deboli fra i loro cittadini.

Rovesciare moneta su chi ha debiti insostenibili e continua ad accrescerli è anche un’ingiustizia, porta all’arbitrio di chi viene «salvato» senza che la politica si prenda la responsabilità di fissare i criteri e le modalità giuste per farlo, di decidere chi paga il conto del salvataggio. E’ il disordine monetario contro cui l’Europa ha scelto di darsi una moneta unica e una Banca centrale indipendente.

Draghi non potrà, come non ha potuto Trichet, impedire che l’Europa si faccia del male sfuggendo alle decisioni politiche indispensabili. Gli auguriamo di trovare il modo per essere convincente con chi deve al più presto sollevare la Bce da compiti e responsabilità che mettono in pericolo l’integrità della costituzione monetaria che caratterizza l’Unione europea.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9310


Titolo: FRANCO BRUNI - Quattro ingredienti per la stabilità
Inserito da: Admin - Novembre 23, 2011, 12:28:03 pm
23/11/2011

Quattro ingredienti per la stabilità

FRANCO BRUNI

Gli incontri europei di Monti riprendono, dopo il cambio di governo, il dialogo con gli organi comunitari sull'aggiustamento dell'economia italiana. L'Europa considera credibile che il nuovo clima politico del nostro Paese renda l'aggiustamento più incisivo. Ma l'opportunità di Monti è anche quella di contribuire a disincagliare il governo economico comunitario da una leadership franco-tedesca che non è efficace, perché Merkel e Sarkozy vanno poco d'accordo e puntellano con la visibilità europea le rispettive debolezze politiche nei loro Paesi.

Il duplice fine di questi giorni europei si adatta alla duplice veste del primo ministro di uno dei Paesi membri che deve fare un maggior sforzo di aggiustamento, il quale è anche una persona che da tempo ha la reputazione e l'esperienza di un protagonista delle istituzioni comunitarie e della loro evoluzione. Ed è duplice anche lo sforzo perché l'Europa riprenda stabilità e crescita: quello dei singoli Paesi membri «per riordinare la propria casa» e l'azione dell'Ue che li stimola e li aiuta.

Sul riordino della casa italiana il governo farà presto sapere le sue prime mosse. Su quello che deve fare l'Ue il dibattito è intenso e controverso. Ma ora è tempo di concluderlo: non si può più improvvisare per tamponare le urgenze della crisi. Lo si è fatto troppo, bisticciando e ottenendo risultati opachi e precari, puniti dai mercati. Ora la guerra all' emergenza va combattuta facendo convergere l'Unione su buone decisioni di lungo periodo. Vanno distribuiti con chiarezza compiti e responsabilità per mantenere la stabilità finanziaria in Europa. In presenza di decisioni politiche nitide e credibili i mercati sono disposti a una tregua, sono disposti a concedere il tempo perché esse vengano realizzate, compreso il tempo necessario per eventuali modifiche dei Trattati.

Passi importanti sono già stati fatti: abbiamo nuove autorità di vigilanza finanziaria comunitarie, ma vanno potenziate; abbiamo nuove regole per disciplinare le finanze pubbliche e altri aspetti delle macroeconomie dei Paesi membri, ma per applicarle davvero occorre prima domare l'emergenza. E' il momento di concentrarsi su decisioni durature per ottenere la stabilità finanziaria in un' area dove ci sono rischi di illiquidità e insolvenza anche per i titoli di Stato.

Credo che la ricetta abbia quattro ingredienti, tutti indispensabili in certe dosi. Il primo è l'autodisciplina e l'aggiustamento finanziario delle singole economie nazionali, coordinate con forza dal centro dell' Ue. Ma occorre tempo per aggiustare gli squilibri in modo duraturo, strutturale, socialmente e politicamente sopportabile. Poiché i mercati sono spesso impazienti, ci vuole allora il secondo ingrediente: va dato tempo agli aggiustamenti fornendo finanziamenti comunitari. Che devono essere di due tipi, ben distinti: supporto di breve termine da parte della Bce e di medio-lungo termine da parte di un meccanismo comunitario che veda l'impegno congiunto e solidale di un ammontare adeguato di fondi da parte dei governi nazionali. Chi vuole che sia la sola Bce ad assicurare supporti illimitati, anche oltre il breve termine, sta proponendo di sconvolgere la costituzione monetaria dell'eurozona. E' sperabile che l'intervento di Monti possa indebolire queste posizioni.

Finanziare gli squilibri, a breve e a medio termine, non significa abolire la disciplina con cui i mercati speculano contro i Paesi squilibrati. Significa anzi esaltare la funzione dei mercati, evitando che si esprimano in modi violenti e controproducenti. Quanto all'impegno solidale di fondi governativi a medio-lungo termine, esso può assumere forme tecniche diverse, comprese le varie possibili versioni dei cosiddetti eurobond. Ma quel che conta è la sostanza politica dell'impegno solidale a finanziare, in misura limitata ma sopportando i rischi che ne derivano, gli aggiustamenti graduali dei Paesi in difficoltà, per la semplice ragione che il loro buon fine è interesse collettivo dell'Europa. L'introduzione esplicita del principio di una pur limitata solidarietà finanziaria europea è quindi il terzo ingrediente della ricetta: vanno convinti soprattutto i tedeschi e Monti può aiutare.

Il quarto ingrediente è la disponibilità, in caso di insufficienza dei tre ingredienti precedenti, di una procedura per gestire il «fallimento» dei governi indebitati in modo insostenibile e incorreggibile, cioè per ristrutturare il loro debito pubblico mettendo una parte del costo dell'aggiustamento dei Paesi in difficoltà a carico di chi ha investito nei loro titoli. L'ammettere che ci possano essere dei fallimenti governativi, ben gestiti e controllati, stimola la disciplina finanziaria e crea meno panico che l'insistere nel negarlo di fronte alla diffusissima convinzione che il parziale fallimento è a volte inevitabile. Questo ingrediente è già stato, in linea di principio, approvato dal Consiglio europeo in luglio. Ciononostante, è difficile da introdurre nella ricetta, perché porta con sé anche la necessità di rivedere le procedure di insolvenza delle banche, che detengono molti titoli governativi, e perché fra i nemici di questo ingrediente c'è stata a lungo la Bce. Ma dobbiamo augurarci che i prossimi colloqui europei riprendano il tema. Le regole per il «default controllato» dei debitori sovrani servono anche a difendere l'indipendenza della Bce evitando che, per escludere del tutto il rischio di insolvenza dei governi, essa venga obbligata a sostituirsi a loro come debitore di ultima istanza.

franco.bruni@unibocconi.it

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9471


Titolo: FRANCO BRUNI Situazione grave ma non esageriamo
Inserito da: Admin - Novembre 28, 2011, 09:03:21 am
28/11/2011

Situazione grave ma non esageriamo

FRANCO BRUNI

Le difficoltà del debito pubblico italiano sembrano ormai il principale problema dell’economia mondiale. È possibile che si stia esagerando. È vero che la solvibilità dei nostri Btp è uno snodo importante della crisi internazionale. Ma riceviamo ansiosi consigli anche da chi non sta molto meglio di noi. Per fortuna qualche ansia si traduce anche in profferta di aiuto.

Come riportato ieri da «La Stampa», il Fmi starebbe preparandosi a coordinare un formidabile pacchetto di sostegno per l’eurozona, con particolare attenzione all’Italia.

Ben vengano i finanziamenti. L’urgenza di risistemare la macroeconomia di diversi Paesi europei, con l’Italia purtroppo in prima linea, riequilibrando i loro conti pubblici e rilanciandone la competitività e la crescita, è fuori discussione. Senza politiche e riforme convincenti, i mercati non sono disposti a rischiare i loro investimenti se non pretendendo tassi talmente elevati da divenire essi stessi causa di insostenibilità dei debiti.

L’urgenza non deve però diventare un’altra manifestazione di quella miopia, di quella disattenzione all’orizzonte lungo, che è alla radice delle cause della crisi mondiale. Gli aggiustamenti devono aver luogo in modi seri, strutturali, graduali, socialmente sopportabili, tali da non contrarre ma aumentare la capacità di crescita dei Paesi che li adottano. La stessa Ue, dopo essersi distratta per troppo tempo dai suoi compiti di controllo, ha forse esagerato quando, per esempio nel caso della Grecia, ha reagito all’emergere della gravità delle condizioni della finanza pubblica indicando inizialmente tempi di aggiustamento irrealistici.

Si può esagerare anche nel disegnare gli aggiustamenti, mostrando troppa fretta e disattenzione alla qualità delle misure da adottare. Con ciò si finisce per peggiorare la credibilità dei debitori sui mercati. Mercati che, da parte loro, sono famosi per essere impazienti, nervosi, distratti e poi esagerati, anche quando sanno colpire a ragion veduta chi effettivamente ha i cosiddetti «fondamentali» in brutte condizioni.

Per agevolare la gradualità e la qualità degli aggiustamenti è dunque necessario predisporre «politicamente» adeguati finanziamenti a favore dei debitori in difficoltà. Ciò può stimolare l’aggiustamento, perché i sostegni possono venir condizionati all’adozione delle misure necessarie. Inoltre i finanziamenti devono calmierare le esagerazioni dei mercati ma non soffocarne l’azione disciplinante sui debitori. Per i Paesi dell’area dell’euro, la Bce può effettuare interventi, temporanei ma massicci, diretti soprattutto ad attenuare il disordine arrecato dalla violenza della speculazione. Ad essa devono però subentrare presto meccanismi basati sulla solidarietà fiscale fra i Paesi dell’eurozona. Il coinvolgimento del Fmi, con un’ulteriore rete di protezione, nel caso le altre risultassero insufficienti, può essere prezioso. Volendo scoraggiare la speculazione più miope è bene assicurare la disponibilità di somme anche molto superiori a quanto è ragionevolmente necessario per aiutare un Paese che sta provvedendo a rimediare ai suoi guai. Anche perché l’eccesso di drammatizzazione è una caratteristica di certe fasi delle crisi finanziarie, soprattutto quando le misure di aggiustamento e riforma esitano ad arrivare e incontrano inizialmente ostacoli politico-sociali, prima che, insieme ai loro costi, vengano capiti bene i loro benefici.

Eccesso di drammatizzazione è anche il continuo parlare di fine dell’euro, senza saper bene di che cosa si parla e senza capire che non risolverebbe nulla e danneggerebbe tutti. E’ vero che l’euro è incompleto senza una maggiore integrazione politico-economica dell’area dove circola. Ma essere incompleto non significa essere dannoso: aver adottato l’euro significa aver rinunciato a pasticciare con le monete per affrontare problemi reali, di inefficienza, squilibrio e carenza di competitività. L’euro ha nascosto per qualche tempo questi problemi, ma ora li rende più evidenti proprio perché impedisce di curarli con la droga della moneta. E rendendoli più evidenti ci stimola a curarli con serietà. Infatti l’Europa, nel correggere i guai che hanno condotto alla crisi mondiale, è più impegnata degli Usa, dove l’uso della droga monetaria non trova limiti.

Nel caso italiano è importante non rassegnarci troppo alla drammatizzazione. Il governo avrà modo di chiarire la situazione con trasparenza, spiegando e rispiegando come stanno le cose e che cosa occorre fare. La comunicazione chiara con l’opinione pubblica è fondamentale. La situazione apparirà allora con la sua giusta gravità ma senza esagerazioni. Si vedrà che le condizioni della nostra finanza pubblica sono ancora pienamente sostenibili, a condizione di adottare con tempi realistici una ricca gamma di misure che incidano sulle inefficienze, le iniquità e i blocchi alla crescita del Paese. Misure che, andrà spiegato con insistenza e chiarezza, richiedono diversi tipi di sacrifici di breve periodo a diversi gruppi sociali, ciascuno dei quali, in cambio, beneficerà subito dell’eliminazione di privilegi e squilibri permessa dai sacrifici altrui e, nel medio e lungo periodo, godrà del vantaggio che le misure arrecheranno all’insieme del Paese.

franco.bruni@unibocconi.it

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Titolo: FRANCO BRUNI Il decreto non va snaturato
Inserito da: Admin - Dicembre 09, 2011, 10:59:32 pm
9/12/2011

Il decreto non va snaturato

FRANCO BRUNI

La riduzione della protezione delle pensioni dall’inflazione non è fra le misure facilmente condivisibili del primo decreto del nuovo governo.

È l’annuncio di un «sacrificio» che, se ha turbato in modo visibile il ministro Elsa Fornero, non credo sia stato gradevole per il premier.

Ho un vivo ricordo di quando il professor Monti ci guidava alla guerra contro la «tassa dell’inflazione», contro la barbarie delle arbitrarie redistribuzioni causate dalla riduzione del potere d’acquisto dei crediti e dei redditi. E di quando, addirittura, giunse a scandalizzare i benpensanti e a sorprendere Luciano Lama, difendendo una corretta indicizzazione dei salari, una scala mobile che, eliminati i difetti che la rendevano nociva, avrebbe giovato all’efficienza della contrattazione salariale, a una più giusta evoluzione della distribuzione dei redditi, alla neutralizzazione di alcuni dei danni dell’inflazione. È vero che i prezzi allora salivano molto più svelti, ma com’è possibile che proprio Monti abbia affidato all’alea dell’inflazione il potere d’acquisto dei pensionati?

È stato spiegato: esigenze di cassa eccezionalmente gravi e mancanza di alternative adeguate. Ora però si sta tentando un’attenuazione, un aumento del livello massimo che rimane protetto dall’inflazione, cercando copertura per una correzione di ammontare rilevante. È interessante che il tentativo avvenga in una sede ufficiale e istituzionalmente appropriata, una commissione del Parlamento, nei confronti della quale il governo dei cosiddetti tecnici mantiene un dialogo aperto. Se si trovasse un aggiustamento per questa via, diverrebbe ancor più innegabile la piena legittimazione politica dei tecnici, la natura politica del compito del governo, richiesta da una situazione alla quale può porre rimedio solo uno sforzo politico di convergenza nell’interesse nazionale e di ripulitura istituzionale dei processi di decisione. La competenza tecnica dei ministri è solo un aspetto, per quanto importante, di questa ricerca di decenza procedurale.

Se il dialogo col Parlamento è prezioso, è però importante che il decreto non venga modificato nei suoi aspetti essenziali, anche di natura qualitativa, e che venga approvato sollecitamente, eventualmente col ricorso alla fiducia. È importante per due motivi, in un certo senso opposti: per le misure che il decreto contiene, i cui effetti sulla credibilità finanziaria del Paese devono esplicarsi senza inciampi; e per le misure che il decreto non contiene e che il governo deve approntare al più presto, senza spender tempo prezioso per difendere un primo pacchetto inevitabilmente incompleto.

Se l’approvazione del pacchetto si allunga e si complica, si irrigidisce inopportunamente l’identificazione fra il nuovo governo e il suo primo decreto. Occorre invece che partano subito nuovi cantieri e che si varino nuovi provvedimenti, senza effetto sui saldi ma, in alcuni casi, con rilevanti modifiche soprattutto nella composizione della spesa pubblica. La riforma del mercato del lavoro, e delle forme di assistenza ad esso connesse, è già stata annunciata, ma dovrà passare dalla concertazione con le parti sociali. I cantieri della promozione della crescita, affidati al coordinamento di Corrado Passera, devono divenire meno impliciti e parlare con più chiarezza alle aspettative degli operatori. E poi, ovviamente, c’è «tutto il resto».

Penso ci sia un modo per riassumere la sostanza della parte principale di questo resto: si tratta di valorizzare la funzione più ovvia dello Stato, quella di produrre, direttamente e indirettamente, beni e servizi pubblici. I servizi pubblici sono parte essenziale del consumo nazionale e costituiscono un input cruciale per le imprese che producono crescita e occupazione; la loro qualità e quantità è la base per migliorare la convivenza in economie e società come quelle di oggi, complesse e in continuo stress evolutivo.

Alcuni beni pubblici sono il modo più efficace per ridistribuire con equità redditi e qualità di vita, perché sono più essenziali per chi non ha il potere e la fortuna economica per prescindere, in qualche modo e misura: trasporto e verde pubblici, difesa del territorio, dell’ambiente e dei beni culturali, sanità e istruzione di base, sicurezza e giustizia. L’impegno a rilanciare il valore culturale e politico dei servizi pubblici e a render conto in modo trasparente dei progressi nella loro qualità e quantità: è questa la bandiera ideale in cui vanno avvolte le più urgenti riforme strutturali.

Con questo impegno si può anche cambiare il linguaggio con cui si tratta la questione dell’entità della spesa pubblica. È probabilmente vero che gli sprechi e le ruberie sono talmente grandi che se li eliminassimo potremmo permetterci meravigliosi servizi pubblici con minor spesa complessiva. Intanto però manca la benzina alle auto della polizia, l’apparato per la nettezza urbana a Napoli, la canalizzazione delle acque nelle zone a rischio di alluvione, e tanto altro. Sicché il governo insista perché si smetta di parlare demagogicamente di tagliare la spesa: si tratta piuttosto, con la cosiddetta «spending review», di modificare la composizione e la qualità delle spese, canalizzandole, con rigore e ben scelte priorità, alla produzione dei beni pubblici, in uno Stato che minimo non può essere se non vuol venir travolto dagli eventi che le sole iniziative private non possono affrontare. Ciò richiede anche entusiasmo, inventiva e impegno collettivo per migliorare il governo degli enti e delle organizzazioni pubbliche, accrescendone la disciplina, gli incentivi e i controlli.

franco.bruni@unibocconi.it


Titolo: FRANCO BRUNI Cosa manca per convincere i mercati
Inserito da: Admin - Dicembre 28, 2011, 05:48:39 pm
28/12/2011

Cosa manca per convincere i mercati

FRANCO BRUNI

Il nuovo governo non ha ancora avuto il plauso pieno dei mercati: lo spread sui nostri titoli di Stato rimane alto, anche se gli acquisti della Bce si sono potuti alleggerire. I cittadini non vedono ancora la corrispondenza fra i sacrifici richiesti per aggiustare i conti e il miglioramento dell’affidabilità creditizia del Paese. Quanto dovranno aspettare? Tutti sanno che occorre tempo perché i provvedimenti diano frutto concreto. Ma si era sperato in un miracolo di credibilità. Cambiato il governo e il suo stile, i mercati avrebbero anticipato i benefici della sua azione, il costo del nostro debito lo avrebbe mostrato e ci sarebbe stato più ottimismo degli investitori e dei consumatori. Quanto occorrerà attendere perché questo succeda?

La risposta dipende da tre insiemi di fattori. Il primo è, ovviamente, la capacità che il governo mostrerà nel continuare la sua azione con decisione, affrontando i problemi sui quali non ha ancora inciso abbastanza. Il secondo fattore è l’atteggiamento dei partiti. Monti ha ottenuto una tregua alle baruffe e ha avuto una gran quantità di voti in Parlamento.

Ora serve una più esplicita adesione all’idea che occorre una fase politica nuova, anche dopo la fine di questa legislatura, una fase di concordia e convergenza che veda nell’elettorato e nei suoi rappresentanti la piena consapevolezza che i problemi del Paese non potranno, ancora per diversi anni, essere affrontati litigando, con l’occhio all’ultimo sondaggio e a guadagni effimeri nelle prossime elezioni. I tre partiti che appoggiano il governo devono accelerare il chiarimento delle loro strategie e, se credono davvero in una fase di azione condivisa, devono smettere di dar l’impressione che non riescono a scordare i litigi passati e non vedono l’ora di riprendere a litigare. Per i mercati la credibilità del governo non può resistere senza progressi più evidenti nella credibilità del quadro politico d’assieme che, fra l’altro, ha non più di un anno per prepararsi a far proposte decenti per la prossima legislatura.

Il terzo fattore necessario perché l’azione del governo trovi un’eco più netta nei mercati, riguarda le politiche europee. In Europa c’è disordine. Gli ultimi vertici si sono conclusi in modo confuso e pasticciato. Non c’è niente di veramente chiaro e ben condiviso: né i meccanismi di sostegno finanziario e di solidarietà che dovrebbero calmierare la speculazione dei mercati, né i modi per mettere in pratica la riforma del Patto di Stabilità e il controllo centralizzato degli squilibri macroeconomici, né il ruolo della Bce. La quale ha appena deliberato un colossale finanziamento triennale a favore delle banche e vede ridepositare presso di sé gran parte di quanto ha prestato. Significa che il sistema creditizio europeo è ancora ingolfato, che non è stata fatta la necessaria pulizia nelle banche, che la fiducia e la trasparenza non sono ritornate, che il mondo del credito non è indifferente ai dubbi che circolano sul futuro politico dell’Unione. In queste condizioni non è facile, indipendentemente dalla credibilità dell’Italia, che i nostri titoli pubblici detenuti all’estero in gran quantità vedano migliorare rapidamente le loro quotazioni. Difficoltà analoghe trova il debito di diversi altri Paesi europei.

Fra i tanti chiarimenti necessari nelle politiche europee, alcuni ci sarebbero particolarmente utili, in questa fase delle nostre politiche nazionali. Innanzitutto il capitolo dei provvedimenti per la crescita deve diventare subito più importante anche in Europa: senza un progetto di crescita europea, la credibilità di quelli nazionali ha limiti insuperabili. Il punto chiave è l’azione per il completamento del mercato unico, che è il pilastro principale dell’Ue. Non c’è crescita duratura per i singoli Paesi europei se non si sfrutta il maggior vantaggio dell’economia comunitaria: quello di avere a disposizione, se lo si valorizza sul serio, il grande mercato comune, quello che ancora oggi è il più grande mercato interno del mondo. Sulla questione la tabella di marcia dell’Ue, per eliminare i tanti residui di segmentazione e protezionismo, riflette un progetto preparato più di un anno fa proprio dal nostro attuale premier. Speriamo che il suo contributo ai prossimi vertici serva ad accelerare l’effettiva marcia verso il mercato unico e verso una strategia di crescita comunitaria dove si inserisca bene quella italiana. Si dice (ma sarà ancora vero?) che il tema del mercato unico è particolarmente caro agli inglesi. Servirebbe allora rimediare al pasticcio fatto con la Gran Bretagna nell’ultimo vertice europeo.

Un altro risultato da ottenere in Europa è il chiarimento del rapporto fra gli aggiustamenti richiesti per i bilanci pubblici e la fase del ciclo economico in cui essi devono avvenire. Non bisogna temere di essere costretti a una nuova restrizione fiscale se l’anno venturo avremo un rallentamento del Pil o, addirittura, una recessione. Altrimenti il Pil andrà ancor peggio e, per riaggiustare il rapporto fra deficit e Pil, serviranno nuovi tagli, e così via, un insensato circolo vizioso. L’aggiustamento del bilancio pubblico deve rimediare alla miopia della politica, non deve aggravarla. Certamente la cosa non riguarda solo l’Italia. In materia le regole di Bruxelles non sono ancora chiare o non sono state ancora abbastanza chiarite. Fino a quando non lo saranno i mercati avranno diritto di lesinare credibilità alla disciplina fiscale dei Paesi europei, anche quando si mostra rigorosa: hanno diritto di ritenerla inefficace, controproducente e perciò, a lungo, insostenibile.

franco.bruni@unibocconi.it

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Titolo: FRANCO BRUNI Concorrenza non significa meno regole
Inserito da: Admin - Gennaio 19, 2012, 04:48:01 pm
19/1/2012

Concorrenza non significa meno regole


Le informazioni disponibili sulle «liberalizzazioni» che discuterà il Consiglio dei ministri disegnano un vasto programma di interventi per stimolare la crescita producendo di più a prezzi inferiori. Si incide soprattutto sul settore dei servizi, che costituisce il 70% del Pil, dai trasporti ai servizi professionali e finanziari, dalla distribuzione dell’energia a quella dei giornali. Servizi più competitivi significano costi minori anche per il settore manifatturiero.

Per l’Italia migliorare la regolamentazione dell’attività economica è cruciale: la Banca Mondiale ci colloca nel 25% peggiore dei Paesi dei quali valuta la qualità delle regole; se passassimo nel quarto migliore, il tasso di crescita del Pil aumenterebbe di due punti.

Vedremo nei dettagli che cosa verrà effettivamente varato dal governo. L’ampio spettro delle misure susciterà dibattiti specifici. Ci saranno critiche e richieste di miglioramenti, come è logico data la complessità del provvedimento.

Se però questo rimarrà vasto e non avrà, come non pare abbia, timidezze nei confronti degli interessi speciali più forti, il giudizio d’insieme dell’opinione pubblica sarà positivo: molti avranno un privilegio in meno ma godranno dall’interruzione dei privilegi altrui. Il negoziante dovrà fronteggiare un orario di apertura più lungo ma beneficerà di una minor parcella dell’avvocato; il farmacista sarà meno protetto dalla concorrenza ma pagherà meno il gas, e così via. Anche i mercati finanziari reagiranno positivamente: ai tassi di interesse sui nostri debiti non può che far bene la notizia dell’introduzione di misure favorevoli alla crescita (cioè al denominatore del rapporto fra debito e Pil) con un consenso che mostra come nel Paese l’interesse generale sappia prevalere sui privilegi.

I privilegi che le misure proposte fanno cadere non sono solo di privati ma anche di enti pubblici che oggi forniscono servizi in un regime di insufficiente concorrenza, con una casistica molto varia che va dai trasporti locali alle aziende parastatali del settore energetico. La rimozione di monopoli pubblici ha un significato speciale: è un capitolo della riforma della pubblica amministrazione, nella quale va incentivata la produttività e l’efficienza, punita l’inerzia e monitorata in modo trasparente la qualità delle prestazioni fornite ai cittadini. Aprire la concorrenza nei servizi pubblici non significa mettere il pubblico in un angolo, magari a favore di oligopolisti privati: può anzi esaltare la capacità del pubblico di produrre meglio e, in alcuni casi, di battere il privato proprio nella gara concorrenziale. Il settore pubblico è una enorme galassia dove il successo e l’innovazione di un comparto possono diventare contagiosi e indicare a tutti la strada per acquistare nuova efficienza e, soprattutto, nuova stima e considerazione dai cittadini. Il governo dovrebbe al più presto intitolare un capitolo apposito delle sue politiche alla valorizzazione dei servizi pubblici, creando sul tema una vera mobilitazione nazionale. Anche perché i servizi pubblici sono utilizzati più che proporzionalmente da chi ha minor fortuna economica e sono il modo più concreto di ridistribuire il reddito reale. Con i provvedimenti per la concorrenza un passo importante viene comunque fatto. Speriamo che gli utenti dei treni pendolari possano presto prenderne atto.

La seconda osservazione generale è che la parola «liberalizzazioni» può essere ingannevole. Può far pensare all’ideologia del mercato senza regole che risolve le cose da solo, senza attenzione e impegno della politica economica. Sarebbe meglio parlare, fin nel titolo dei prossimi provvedimenti, di misure per lo stimolo della concorrenza e la diffusione dei mercati. La concorrenza e il mercato hanno bisogno di regole per sussistere, sono il risultato di un sofisticato approccio di politica economica che rimuove ciò che li ostacola, vigila sul loro funzionamento, corregge le degenerazioni con le quali i mercati tendono a volte a suicidarsi.

Se su una tratta ferroviaria vi è più di un’impresa di trasporti a far correre i suoi convogli, c’è più concorrenza ma non ci sono meno regole. Anzi, aumenta il lavoro e l’importanza dell’autorità pubblica che controlla la qualità del trasporto, le comunicazioni alla clientela, la logistica con cui i treni di diversa proprietà si alternano sulla rete senza sovrapporsi causando sprechi e disastri. Se i bar possono restare aperti dopo le otto di sera diventa ancor più essenziale garantire che nella strada di fronte non si facciano festini rumorosi, invasioni di suolo pubblico e posteggi in terza fila. Se le licenze dei bagnini vengono rimesse all’asta sarà ancor più importante controllare che chi le compra non riduca le spiagge ad ammassi di cemento. Per promuovere la concorrenza occorre togliere protezioni e cambiare le regole, non abolirle. Il problema è la qualità della regolamentazione, da conquistare senza arroganze ideologiche.

Anche per questo i provvedimenti non possono essere violenti e semplicistici. E chi difende gli interessi delle corporazioni privilegiate dalle vecchie regole non può cavarsela dicendo che senza regole i consumatori rischiano di venire imbrogliati da avvocati incapaci che si svendono, da taxi scassati che concorrono senza regole, da università libere che vendono fumo a caro prezzo. Le regole che difendono i consumatori, là dove è presumibile che non siano in grado di difendersi da soli, rimangono anche quando viene promossa la concorrenza fra i produttori. Sono regole che la politica può porre con severità senza doversi affidare alla buona volontà delle corporazioni dei produttori protetti.

franco.bruni@unibocconi.it

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Titolo: FRANCO BRUNI Il test per la politica
Inserito da: Admin - Gennaio 23, 2012, 09:37:09 am
23/1/2012

Il test per la politica

FRANCO BRUNI

Oggi il governo avvia il tavolo sul mercato del lavoro.


Ha appena varato il decreto sulla concorrenza. La «seconda fase» dei suoi provvedimenti, per il rilancio della crescita, è in pieno svolgimento.

Ma la cooperazione europea, della quale l’Italia non può fare a meno, è in uno stallo che allarma anche le agenzie di rating. La settimana scorsa Monti è riuscito a far riunire i tre partiti che lo sostengono per dare un consenso congiunto a una mozione che stimoli l’Europa a darsi una mossa. Ora deve convincerli ad approvare il decreto sfruttando l’assenso di massima che hanno espresso. Ma insieme all’assenso sono apparsi segni di una incompleta responsabilizzazione dei partiti, che può causare dilazioni, complicare il tavolo con le parti sociali, indebolire Monti a Bruxelles.

C’è movimento su tutti e tre i fronti della battaglia per domare la crisi: i provvedimenti del governo, il potenziamento della cooperazione europea, il miglioramento del clima politico nazionale. Diventa più chiaro il collegamento fra i tre fronti. Gli sviluppi in sede comunitaria influenzano quelli sul fronte politico interno. Il grado di successo dei provvedimenti del governo determina l’intensità della sua influenza in Europa e la convenienza dei partiti nazionali a collaborare.

Ma su uno dei fronti, quello politico nazionale, l’attenzione e il senso di urgenza sono ancora insufficienti. In Europa c’è inerzia ma lo si dice molto e ci si scandalizza. I provvedimenti del governo sono accolti in modi controversi ma prendono corpo svelto e animano la discussione. La strategia dei partiti è invece ancora congelata, sorpresa dal cambio di governo: e di ciò poco ci si preoccupa. Prevale l’idea che, avendo litigato troppo in passato, non si può chiedere ai partiti di trovar convergenze lavorando nella stessa stanza. Ma, sia a destra che a sinistra, è pervicace la difesa dello schema di competizione politica manichea, alla rincorsa dei sondaggi e delle prossime elezioni, che ci ha portato al disastro, come non si vedesse l’ora di riprendere il futile litigio senza programmi concreti che ha reso surreale lo scenario politico italiano degli ultimi anni. La permanenza del bipolarismo è data per scontata nonostante la coesione dei poli si riduca.

È lo stesso Monti a chiamare «strano» il suo governo, ma sulla sua stranezza qualcuno esagera, qualcuno mormora addirittura di sospensione della democrazia, confondendo quanto dispone la Costituzione, circa il rapporto fra elezioni, partiti, ruolo del Parlamento e ruolo del governo, e il modo in cui questi rapporti sono stati interpretati negli ultimi anni, secondo cui il governo, non solo il Parlamento, «dev’esser quello eletto dai cittadini». Persino una persona lucida come il sindaco di Milano ha detto all’«Infedele» che lo strano governo deve finire non più tardi dell’estate «altrimenti distrugge la sinistra». Eppure proprio Pisapia è stato votato anche perché è stato apprezzato un certo suo grado di convincente stranezza. È forse la conservazione della «sinistra», proprio di quella che c’è e che non è chiaro cosa sia, un buon criterio per decidere la fine della legislatura? Manca il coraggio di proporre una riflessione radicale, nell’interesse del buon governo del Paese, sui cartellini della politica e dei partiti.

Si dirà che occorre dar tempo per far sbollire il fumus delle insolenze e delle baruffe intorno a Berlusconi. Si dirà che altrove nel mondo battaglieri bipolarismi sopravvivono utilmente nonostante l’incertezza sul significato di destra e sinistra. Si dirà che per una migliore qualità della competizione politica occorre una nuova legge elettorale, ma che questa dipende dalla qualità della competizione che si vuol veder all’opera, e che dunque la lentezza dei progressi è quella del cane che insegue la sua coda: diamogli tempo per riuscire a prenderla e giocarci contento. Si dirà che il bipolarismo ha i suoi difetti ma lo spettro del passato, il grande centro inamovibile, trasformista e democristiano, è peggio del bipolarismo falso e drogato. Si dirà che il sostegno a Monti è la prova che la politica italiana non è inerte, che il dialogo fra i partiti sta prendendo corpo e il governo sta ottenendo per il Paese la fertile tregua di riflessione per il quale è stato nominato. Sono tanti i modi per giustificare la lentezza dell’evoluzione del quadro politico, alla quale non è certo l’economista che può suggerire la strada migliore.

Ma l’economista può dire che gli altri due fronti della battaglia, i provvedimenti del governo e i progressi dell’Europa, sono necessari ma non sufficienti per garantire la fiducia degli investitori nell’Italia. Se anche Monti prende misure perfette e l’Europa ci circonda di solidarietà, per puntare sull’Italia occorre puntare almeno sul suo prossimo decennio. Ciò richiede fiducia nei meccanismi della politica italiana che subentreranno quando lo strano governo avrà terminato il suo mandato. Se i meccanismi rimarranno malati e inadeguati ai tempi, le manovre e le riforme in corso saranno insostenibili, verranno smontate e smentite, e qualunque solidarietà europea andrà sprecata. Soprattutto, la sfiducia dei cittadini nella politica continuerà a mangiarsi la civiltà del Paese.

Dovrà allora prolungarsi o rinnovarsi la tregua, con altri governi «strani»? Speriamo di no. Ma per inventarsi una nuova e sostenibile normalità, proprio perché non è cosa facile da fare, occorre impegnarsi subito di più, almeno con la stessa urgenza, coraggio e fantasia che stiamo chiedendo ai politici europei. I leader dei partiti rinnovino senza pudori i loro incontri in una stessa stanza e preparino un gioco politico pulito, credibile e concreto per il futuro. Se per farlo non bastasse il periodo che ci separa dalle prossime elezioni, si prendano, senza sprecarlo, altro tempo, dando anche alla prossima legislatura qualche connotato «strano», meno strano di Monti ma abbastanza strano per promettere autentica volontà di innovazione.

franco.bruni@unibocconi.it

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Titolo: FRANCO BRUNI Non basta un successo parziale
Inserito da: Admin - Gennaio 31, 2012, 11:32:40 pm
31/1/2012

Non basta un successo parziale

FRANCO BRUNI

Il vertice di Bruxelles di ieri sera ha cercato di raggiungere tre obiettivi: il rafforzamento della disciplina comunitaria dei bilanci pubblici, con un nuovo «patto fiscale» fra i Paesi dell'area dell'euro; il rilancio di politiche comunitarie di crescita, che si affianchino alla disciplina di bilancio e ne contengano gli effetti depressivi di breve periodo; l'istituzione di un fondo salva-Stati permanente, in grado di finanziare a medio termine i Paesi in difficoltà, dando loro tempo di riequilibrare i bilanci con buone riforme strutturali, in modi sostenibili, senza precipitazione controproducente.

Sui tre fronti c'è stato un successo parziale. Il patto fiscale è il testo di un Trattato che sarà sottoscritto anche dai Paesi che non hanno l'euro, salvo la Gran Bretagna e la Repubblica Ceca. Si sovrappone in modi non del tutto chiari alla legislazione sugli squilibri macroeconomici che l'Ue ha appena varato con un lavoro lungo e complesso; rischia di essere una complicazione che, nella sostanza, non aggiunge quasi nulla salvo imporre ai Paesi di introdurre alcune norme della disciplina fiscale nella propria legislazione, possibilmente a livello costituzionale.

L’ intervento dell'Italia è stato determinante per evitare clausole del patto formulate con severità controproducente. Il patto è soprattutto un risultato formale che Angela Merkel vuole esibire per giustificare ai suoi elettori gli aiuti e le attenzioni che il mantenimento della stabilità finanziaria europea richiede vengano riservati ai Paesi in maggiore difficoltà.

Il rilancio delle politiche per la crescita e l'occupazione rimane affidato a dichiarazioni di intenzioni (dalle quali si è sottratta la Svezia), la più concreta delle quali sembra per ora la mobilizzazione di fondi strutturali comunitari non spesi. Anche qui la spinta italiana, e quella personale di Mario Monti, è servita a evitare che questo tema fosse trascurato. Speriamo che il rilancio divenga presto concreto, che si trasformi in misure visibili per i progressi del mercato unico.

Quanto al fondo salva-Stati non è ancora chiaro quale dimensione potrà raggiungere e quale flessibilità operativa potrà avere. Il suo compito è fondamentale, soprattutto per sollevare la Bce dalla funzione di supplenza dei governi che l'ha costretta fino ad ora a sostenere i debiti pubblici dei Paesi in crisi con acquisti diretti o indiretti, attraverso le banche che lei finanzia, andando oltre il breve termine al quale i suoi interventi dovrebbero limitarsi.

Ora occorre perfezionare e completare gli accordi, rifinendoli entro il prossimo vertice di marzo.

Ma i tasti da toccare, per rafforzare durevolmente la stabilità finanziaria europea, sono anche altri. Innanzitutto tutti i Paesi devono mostrare una volontà nazionale, interna e indipendente dagli obblighi comunitari, dai diktat del «podestà forestiero», di aggiustare i loro squilibri e fare riforme strutturali importanti. Da questo punto di vista l'Italia è su una strada più promettente della Francia e della Spagna: sarebbe eroico ma sconveniente aver salvato l'Europa con i nostri sforzi ma vederci travolti con l'Europa per i mancato sforzi altrui.

In secondo luogo i meccanismi di credito del fondo salva-Stati devono venir precisati e attuati in modi tecnicamente efficienti, senza interferenze e lungaggini politiche, e devono permettere di affermare senza equivoci un «principio di solidarietà», senza il quale un'Europa profondamente interdipendente non sta in piedi. Inoltre, la regolamentazione e la vigilanza su banche e altri intermediari e mercati finanziari richiedono nuove messe a punto: hanno dato luogo a provvedimenti controversi, non hanno superato il nazionalismo con cui i singoli Paesi tendono a proteggere e nascondere i guai dei propri intermediari, è ancora inadeguato il loro coordinamento con l'azione della Bce. Infine, occorre mettere a punto procedure adeguate e omogenee in tutta l'Ue, per consentire senza traumi e contagi lo scioglimento di banche insolventi e il default, cioè la ristrutturazione, dei debiti dei governi.

Non ha senso negare il default quando proprio la sua eventualità è alla base della disciplina di mercato, cioè della pressione con cui l'attacco ai titoli di Stato dei Paesi più indebitati li ha portati a prendere importanti misure di correzione e, addirittura, a cambiare i governi. In un certo senso la disciplina di mercato, con tutte le sue esagerazioni speculative, la sua discontinuità, i suoi errori di prospettiva, è stata l'unico motore di aggiustamento che ha veramente funzionato finora in questa crisi. Ma è una disciplina che presuppone la possibilità di default: è indispensabile che, almeno nel caso della Grecia, un default ordinato e regolato possa aver luogo al più presto, scaricando così parte del costo di aggiustamento di Atene sui suoi creditori imprudenti e opportunisti. Non dobbiamo temere che ciò trascini l'Italia in default: stiamo dando prova di essere in decente salute e, soprattutto, di saper avviare la correzione delle nostre debolezze con determinazione politica e capacità tecnica.

Nel complesso non c'è ragione di pensare che l'Europa non ce la farà, ma il vertice di ieri non ha ancora tolto l'impressione di disordine che dà il governo dell'economia e della finanza europea. Il Consiglio di marzo avrà modo di migliorare.

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Titolo: FRANCO BRUNI Una ricetta per spingere la crescita
Inserito da: Admin - Febbraio 16, 2012, 03:56:28 pm
16/2/2012

Una ricetta per spingere la crescita

FRANCO BRUNI

Le stime rese note ieri dall’Istat confermano che l’Italia è in recessione. Deve uscirne presto, anche per non compromettere l’aggiustamento della finanza pubblica. Per ridurre il peso del deficit pubblico sul Pil bisogna contrarre il deficit ma anche sostenere il Pil. In altre parole: le politiche per la crescita servono anche a migliorare la stabilità finanziaria. Fra l’altro, se il reddito nazionale accelera, sale il gettito delle imposte riducendo il deficit pubblico.

D’altra parte le politiche di bilancio restrittive frenano la crescita. Questo è quasi sempre vero nel breve periodo; guardando più lontano, dipende dalla qualità delle politiche restrittive che vengono fatte. Un riordino credibile e duraturo della finanza pubblica, che migliori anche l’utilità della spesa e la struttura delle imposte, può aumentare la produzione e l’occupazione.

Perciò non c’è contraddizione fra risanare la finanza pubblica e favorire la crescita. Basta fare le due cose nei modi e nei tempi giusti. Non troppo precipitosamente e con provvedimenti che migliorino l’organizzazione d’insieme dell’economia, pubblica e privata.

Invece in gran parte dell’Europa viviamo con l’incubo che il rigore finanziario non faccia attenzione alle politiche per la crescita. Il governo italiano è uno dei più attenti: ma in sede Ue manca determinazione su questo fronte. In che cosa possono consistere queste politiche?

Qualcuno parla di stimoli «keynesiani» alla domanda; in sostanza: moneta e credito più abbondanti e a buon mercato, meno imposte e nuova spesa pubblica. Ma è anche per un lungo periodo di espansione artificiosa ottenuta con stimoli del genere che il mondo intero è finito in crisi cinque anni fa. Se la soluzione fossero gli stimoli di bilancio, gli Usa non avrebbero avuto nemmeno un cenno di crisi, la Grecia starebbe ancora crescendo rigogliosamente, il Pil francese galopperebbe da tanti anni, eccetera. Se la soluzione fossero gli stimoli monetari e i tassi di interesse bassi, da tanti anni nessun Paese, sia al di qua che al di là dell’Atlantico, avrebbe problemi di scarsezza di investimenti, produzione e occupazione.

Lo stimolo macro, giustificato dal fatto che «manca domanda», non è una buona politica di crescita. Lo sono invece quelle riforme che, migliorando l’uso delle risorse, il funzionamento dei mercati e la distribuzione del reddito, correggendo gli incentivi e i criteri con cui vengono prese le decisioni dei consumatori, dei produttori e dei governi, rasserenando le aspettative sulla stabilità finanziaria dei prossimi anni, fanno crescere l’economia dal lato dell’offerta. Cioè aumentano le opportunità di produrre e le previsioni di trovare mercato delle persone e delle imprese, abbassano con la concorrenza i prezzi dei beni e dei servizi e quindi ne favoriscono l’acquisto, migliorano la quantità e la qualità dei servizi pubblici a parità di risorse impiegate.

C’è anche una via di mezzo, che può funzionare, fra politiche di domanda e di offerta: favorire spese di investimento, pubblico e privato, con grande selettività, cioè mirando a dove gli investimenti servono per far meglio le riforme, riorganizzare più efficacemente le produzioni private e la pubblica amministrazione. Sono stimoli alla domanda che hanno effetti soprattutto perché migliorano l’offerta, la capacità produttiva.

L’Ue deve riportare le buone politiche di crescita al centro degli indirizzi comunitari, con urgenza e concretezza e un po’ di enfasi. E’ anche una questione di immagine: l’Europa, soprattutto in un periodo di crisi, non può continuare a essere associata a un rigore che rischia di essere frainteso, come fosse fine a se stesso. Altrimenti finiranno per essere rifiutati insieme l’Europa e il rigore. Fra una settimana la Commissione pubblicherà un aggiornamento delle previsioni macroeconomiche: presumibilmente non sarà allegro. Credo che anche i mercati gradirebbero se, contemporaneamente, venissero a sapere che il Consiglio dell’1 marzo ha aggiunto all’ordine del giorno almeno un annuncio di concreta politica di crescita.

Fra gli annunci più desiderabili ci sarebbe quello di un vero avvio del programma di completamento del mercato unico, che è la principale opportunità di crescita per le imprese europee, soprattutto con la liberalizzazione di quei settori dei servizi che la Germania insiste nel proteggere. E’ un programma che il nostro attuale premier ha disegnato quasi due anni fa; venne accolto con i migliori complimenti ma ora, quanto ad attuarlo, sembra che persino la speciale persuasività di Monti si scontri contro l’insormontabile.

Ma potrebbe esserci altro: perché non risuscitare i piani di forte ricapitalizzazione della Bei ed emettere project bond per infrastrutture comunitarie? Perché non decidere che alcune spese di investimento, che rientrino in progetti comunitari ben definiti, saranno considerate fra i fattori attenuanti nel giudizio della Commissione sui disavanzi pubblici? Perché non accompagnare fin d’ora i terribili tagli di spesa ordinati ad Atene con qualche programma di medio-lungo periodo che contempli corposi investimenti mirati e speciali dell’Europa in quel Paese, mostrando considerazione per il potenziale della sua economia, una volta aggiustata e riformata, e per offrire ai greci, oltre a tagli e salvagente, un po’ di speranza?

franco.bruni@unibocconi.it

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Titolo: FRANCO BRUNI Ma le colpe sono anche a Bruxelles
Inserito da: Admin - Febbraio 16, 2012, 04:03:49 pm
10/2/2012

Ma le colpe sono anche a Bruxelles

FRANCO BRUNI

Con l’accordo politico di Atene e la riunione dell’eurogruppo, ieri hanno fatto un passo avanti le trattative attorno al debito della Grecia, ma la soluzione rimane sul filo del rasoio, come sempre da quando sono emersi i suoi guai. C’è la frusta della scadenza del 15 febbraio, dopo la quale, si dice, è inevitabile un default disordinato e pericoloso per tutta l’eurozona. Non sarà semplice mettere al sicuro per tempo gli impegni del governo sulle nuove misure di austerità, la procedura per l’erogazione degli aiuti europei e la ristrutturazione "volontaria" del debito pubblico, che accolla una parte del riequilibrio ai creditori che hanno investito in titoli greci rischiosi e molto redditizi.

La tattica del filo del rasoio, dell’allarme crescente con l’avvicinarsi di scadenze presentate come fatali, ha la sua logica, per rompere le resistenze delle parti contraenti e far funzionare la pressione dei mercati. In realtà il problema greco non è abbastanza grande da rendere impossibile rinviare le scadenze, se fosse opportuno farlo.

Sono evidenti le responsabilità della Grecia. Ma sono gravi i difetti del modo con cui l’Ue ha gestito la crisi.

Fin dal 2009, si sono chiesti ai greci aggiustamenti troppo rapidi per esser fatti bene ed essere digeribili politicamente e socialmente. Sarebbe servita più cura nel disegnare riforme strutturali e scadenzarle su un periodo realisticamente lungo, assicurando il finanziamento necessario, anche a progetti specifici orientati alla crescita, di scadenza in scadenza, senza consentire ai tassi sulle nuove emissioni di titoli di Stato di raggiungere i livelli che hanno toccato. Si è preferito giustificare una certa tracotanza dell’Europa col fatto che i greci avevano imbrogliato i conti; si è data l’impressione che la Grecia contasse per l’Ue solo perché poteva contagiare la finanza di Paesi «più importanti», come il nostro; l’Europa avrebbe dovuto impegnarsi di più, anche sul fronte della comunicazione e dell’immagine, a valorizzare le potenzialità della Grecia e aiutare la sua popolazione a capire e accettare le riforme.

Le autorità europee hanno inoltre permesso che si creassero equivoci e confusione su diversi fronti. Innanzitutto non sono riuscite a filtrare le troppe controparti con cui i greci devono trattare. La Commissione ha svolto un ruolo notarile; un complesso insieme di aiuti bilaterali ha lasciato spazio ai particolarismi di diversi governi nazionali; in particolare, i premier tedeschi e francesi si sono mossi come battitori liberi con sollecitazioni e minacce, giocando a rimpiattino con procedure e scadenze; la Bce è stata chiamata a un improprio ruolo di supplenza dei governi nell’assicurare i finanziamenti a medio-lungo termine; è stato coinvolto il Fmi, suscitando non poche controversie, dando l’idea che senza Washington ci manchino soldi e competenze per gestire il problema greco; gli aiuti ufficiali sono stati considerati crediti privilegiati, accrescendo i rischi dei creditori privati, ma si è lasciato che la trattativa dei lobbisti privati, per la ristrutturazione «volontaria» del debito, si sovrapponesse confusamente ai rapporti fra autorità greche e comunitarie.

Altra confusione si è fatta sulla questione del default. Prima lo si è escluso completamente, con dispregio del mercato che, chiedendo tassi alti, mostrava di considerarlo possibile. Si voleva evitare che il panico contagiasse il debito di altri Paesi. Ma escludere il default implica una garanzia di salvataggio che non si voleva dare: sicché il contagio non è stato evitato. Poi si è favorita una trattativa con i creditori privati per un default parziale e volontario assicurando, non si sa bene su quali basi, che sarebbe stata un’assoluta eccezione. Nel frattempo si sono fatti gravi pasticci con le regole di contabilizzazione dei debiti sovrani nel bilancio delle banche: si è passati da stress-test permissivi, che consideravano quasi tutti i titoli di Stato non svalutabili, all’obbligo di valutarli ai prezzi stracciati che quota il mercato. Dopodiché non si sa più se il vero problema sia la solvibilità del governo greco o quella delle banche creditrici.

Non è stata presa in considerazione l’idea di accelerare l’adozione di una procedura erga omnes per ristrutturare i debiti pubblici insostenibili con tempestività, cioè quando ancora non si è accelerato il circolo vizioso fra il debito e gli interessi che su di esso maturano, e in modo ordinato, giusto e tale da evitare panico e contagi. Si è anzi detto che la presenza di una procedura del genere renderebbe il contagio più probabile. Ma non sarà la sua assenza a evitare il rischio che, dopo aver concluso in qualche modo il pasticcio greco, ne riprenda uno, per esempio, portoghese.

Non è mancata anche, più per colpa di molti economisti che delle autorità comunitarie, la confusione fra default e uscita dall’euro. Mentre il default ordinato riduce realmente il debito di un Paese, uscire dall’euro significa selvagge svalutazioni subito neutralizzate dall’inflazione e dall’emarginazione del Paese nei mercati internazionali.

Quando si insiste nel dire che l’aera dell’euro è troppo disomogenea e che almeno la Grecia non dovrebbe farne parte, sarebbe bene tener conto di come le cose sarebbero andate se l’Ue avesse evitato tutte queste ragioni di disordine e confusione.

franco.bruni@unibocconi.it

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Titolo: FRANCO BRUNI - Spesa pubblica una riforma è possibile
Inserito da: Admin - Febbraio 27, 2012, 11:29:59 am
27/2/2012

Spesa pubblica una riforma è possibile

FRANCO BRUNI

Il ministro Passera ha ribadito ieri che il governo non annuncia «tesoretti» prima di averli incassati. Monti aveva già rinviato la predisposizione di un fondo per gli sgravi fiscali a quando la sua alimentazione assumerà consistenza. Ciò non smentisce l’intenzione di utilizzare i proventi della lotta all’evasione e agli sprechi per aiutare la crescita, anche abbassando le tasse.

Dati i vincoli di bilancio, è meglio per ora non pensare a ridurre il gettito complessivo delle imposte, mentre è sacrosanto cambiarne la composizione e la distribuzione: far pagare di più chi evade o elude, sgravare chi paga troppo, tassare di più il capitale e alleviare gli oneri fiscali e parafiscali che gravano sull’occupazione, sia dal lato delle imprese che da quello dei lavoratori. Sarebbe meglio farlo nel quadro di un’armonizzazione fiscale europea. Quanto alla spesa pubblica, è vero che la sua riduzione consente di accelerare gli sgravi fiscali; ma è anche vero che i risparmi sulle spese meno utili, i soldi buttati via, sono chiamati ad alimentare le spese più preziose e scarse, come quelle che oggi servirebbero per facilitare la riforma degli ammortizzatori sociali e quindi dei contratti di lavoro.

Il governo Monti ha un mandato a termine e compiti urgenti e precisi. Può mettere in sicurezza il saldo fra entrate e uscite e razionalizzarle un poco entrambe. Ma il suo lavoro di emergenza può servire alle forze politiche anche per prepararsi ad affrontare una scelta strategica più di lungo termine: con un bilancio in equilibrio, quanto è bene siano grandi le entrate e le spese?

Affiora a tratti l’idea che la vera crescita si possa attuare solo con un forte ridimensionamento dello Stato, sia della spesa totale che delle imposte. Come è noto ci sono al mondo esempi differenti e non mancano i Paesi che crescono bene con settori pubblici tutt’altro che piccoli. È comunque opportuno che la questione rimanga sullo sfondo, che la si discuta con crescente consapevolezza e trasparenza.

L’opinione di chi scrive è che è sempre più difficile che un’economia cresca in modo sostenibile e sano, rispettando i valori attorno ai quali si è andata costruendo l’integrazione europea, con uno Stato economicamente «minimo». I bisogni pubblici dei tempi moderni sono immensi e crescenti. Il loro soddisfacimento è indispensabile perché le produzioni private siano competitive e la loro profittabilità non sia instabile e illusoria o, addirittura, frutto di rapine dei prepotenti. Si possono privatizzare alcune produzioni pubbliche ma occorre spendere per regolare e controllare ciò che si è privatizzato. Si devono assolutamente ridurre i tanti sprechi nella pubblica amministrazione, ma sono pronti tanti capitoli di spesa dove ridirigere le risorse risparmiate. Carceri, scuola, sanità, ricerca e patrimonio culturale (che, lungi dall’esser superfluo, aiuta a sfamarci e a crescere), difesa del territorio, che ci crolla addosso e persino ci uccide perché sempre più dilaniato dalla privatizzazione, sia formalmente legale che criminale, degli spazi pubblici. Servono molti soldi e un grande sforzo politico e amministrativo.

Più che tagliare la spesa totale occorre fissare le priorità in una lunga lista di bisogni pubblici pressanti, con grande cura e dettaglio e un buon dibattito politico. E occorre mettere a punto i metodi organizzativi perché la spesa a essi dedicata sia fatta bene, rendicontata con rigore, senza sprechi e privilegiando ciò che abbiamo deciso essere più importante. È un compito che va oltre la «spending review» di emergenza che in pochi mesi può fare il governo attuale. È una strategia politica a lungo termine che può rivoluzionare interi settori della pubblica amministrazione. Non è un compito facile: ma scegliere le priorità e assicurare l’efficienza delle spese non è facile nemmeno nel settore privato: gli esperti di governo societario sanno bene quanto nelle imprese sia complicato controllare i costi, impedire gli sprechi e le appropriazioni indebite. Occorre la disponibilità al cambiamento, soprattutto di chi oggi è impiegato nella pubblica amministrazione.

Il taglio della spesa pubblica complessiva non è una soluzione. Il taglio cieco e trasversale è insostenibile e dannoso e ora tutti sanno che ci vogliono «riforme strutturali». Le riforme debbono ridurre le spese inutili e cattive, ma non devono lesinare quelle buone. E non per un presunto «effetto espansivo sulla domanda aggregata». Ma perché contribuiscono alla crescita dal lato dell’offerta, cioè aumentando la capacità produttiva dell’economia e la sua qualità.

Non dobbiamo rassegnarci all’idea che il settore pubblico sia comunque inefficiente e vada quindi ridotto alle minime dimensioni. Se non possiamo sperare che produca abbondanti servizi collettivi con giusti incentivi e in modi efficienti e corretti, come possiamo sperare che vigili bene il traffico dei privati e impedisca loro di farsi del male a vicenda? Si tratta di dedicarsi al compito con qualche entusiasmo, mobilitando l’opinione della gente con un messaggio di impegno collettivo che superi la sensazione di impotenza che provano i singoli individui di fronte a compiti che richiedono azione collettiva. Un messaggio che metta da parte ideologie superate e contrapposte, gli infruttuosi, astratti dibattiti fra chi si autoproclama liberale e chi demonizza i mercati privati. Un messaggio che lascerà forse spazio per qualche utile dialettica fra «destra» e «sinistra», sui metodi da usare; ma che vuole convergenza sull’obiettivo di fondo: la cura speciale dei beni e dei servizi pubblici e dei modi per produrli in quantità adeguata e senza sprechi.

franco.bruni@unibocconi.it

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9821


Titolo: FRANCO BRUNI Doppia sfida per il viaggio di Monti
Inserito da: Admin - Marzo 26, 2012, 06:27:50 pm
26/3/2012

Doppia sfida per il viaggio di Monti

FRANCO BRUNI

Monti ha insistito perché gli accordi per la riforma del mercato del lavoro si concludessero prima della sua partenza per l’Oriente. Credo che la conclusione sia stata meno rassicurante di quanto sperasse. Ma il premier non ha esitato a sottolineare il collegamento fra il suo viaggio e i risultati dell’azione che il governo conduce da quando è in carica: un «road show», alla ricerca di consensi degli investitori globali per come l’Italia sta riordinando i suoi conti e mettendo a punto le riforme strutturali.

Ciò fa riflettere sull’espressione «ce lo chiedono i mercati», spesso usata, dai commentatori e dallo stesso governo, per motivare i provvedimenti che vengono proposti.
Qualcuno, critico nei confronti delle proposte, usa l’espressione polemicamente, la affianca al «ce lo chiede l’Europa» nel presentare i provvedimenti come imposti dal di fuori, anche contro i nostri interessi. Chi sono questi «mercati» che chiedono, interferiscono, giudicano, premiano e puniscono?

Non sono un insieme omogeneo. Non si tratta, soprattutto, di un compatto gruppo di speculatori spregiudicati che vogliono accumulare guadagni di breve periodo a costo di sospingerci su strade dove staremo peggio. Non manca chi specula sulle nostre vicende e prospettive a corto termine. Ma sono più importanti coloro che, ad esempio, guardano ai nostri titoli pubblici come a un investimento, da prendere o lasciare, nella loro ricerca di rendimenti limitati ma sicuri, nel lungo termine, come i grandi fondi pensione nordeuropei e asiatici. I loro interessi collimano con quelli degli italiani nel loro insieme. Cercar di convincerli ad avere fiducia nell’Italia è un buon esercizio per lucidare gli argomenti che dobbiamo usare per convincere noi stessi che stiamo facendo il nostro bene in modo durevole. In altri termini: ci sono parti dei «mercati» globali che aiutano a guardarci nello specchio e a far l’esame di coscienza.

Questo è ancor più vero per gli investimenti diretti, cioè per chi non si limita ad acquisti finanziari ma rischia avventure imprenditoriali nel nostro Paese, il cui risultato dipende dalla qualità della nostra burocrazia e dei servizi pubblici, del mercato del lavoro, della vigilanza bancaria, del sistema giudiziario, del contrasto alla criminalità organizzata. Scottato dalla crisi globale, chi fa investimenti diretti internazionali è oggi più attento di prima alla qualità di fondo delle istituzioni e del funzionamento dei Paesi dove rischia, alla loro capacità di assicurare profitti sostenibili e vantaggi condivisi con i cittadini degli stessi Paesi. La regione dove andrà Monti questa settimana ha, più del mondo angloamericano, la reputazione di saper guardar lontano nelle decisioni economiche e di saper valutare l’impatto degli investimenti sull’interesse collettivo, non solo sugli utili dei singoli investitori.
Convincere cinesi, coreani e giapponesi della bontà delle nostre prospettive, oltre ad aiutare a chiarire a noi stessi le ragioni delle nostre riforme, oltre ad attrarre da noi i loro capitali, facilita l’accoglienza dei nostri investimenti e prodotti nei loro sistemi economici, dove la crescita e la modernizzazione continueranno a costituire, nei prossimi decenni, opportunità indispensabili per le nostre imprese.

Il viaggio di Monti si svolge in un periodo delicato per l’estremo oriente. La maturazione di quelle economie è giunta a un punto tale da richiedere un cambio di marcia al loro sviluppo, che andrà articolandosi in modo diverso e procederà un poco più piano. A loro, come a noi, servirebbero più di prima relazioni internazionali cooperative, coerenti con la continuazione ben governata della globalizzazione. In effetti l’approfondimento della cooperazione «sovrannazionale» è stato il primo rimedio entrato nelle agende del mondo quando è scoppiata la crisi globale. Ma, dopo quasi cinque anni, nonostante la crisi sia tutt’altro che finita, sembra si sia perso lo spirito della prima reazione dei leader mondiali.
Il G20 è diventato più sterile. Invece di trovare modi migliori per stare insieme, i Paesi e le regioni del mondo paiono dividersi, accrescendo le controversie.
C’è una pericolosa tensione protezionistica: anziché aggredire insieme la crisi, ciascuno cerca di difendersi in modo divisivo.

Fra i tre blocchi che ruotano attorno a Usa, Ue e Cina crescono, insieme a temibili attriti geo-strategici e militari, tensioni commerciali e finanziarie. Siamo al punto che gli aerei europei rischiano di vedersi limitare i permessi di sorvolo in Asia, come ritorsione contro le tasse ecologiche che l’Ue vuole far pagare agli aerei di chi non è stata ancora capace di convincere ad adottare le stesse regole a protezione dell’ambiente. È una china che non va scesa ulteriormente: occorre al più presto tornare ad ambiziosi progetti di cooperazione globale da perseguire con atteggiamenti diplomatici coerenti, lungimiranti, innovativi. Credo non sia scorretto leggere nel viaggio di Monti, che include anche la conferenza sulla sicurezza di Seul, con i massimi leader mondiali, qualcosa che va oltre gli affari italiani. Cioè un piccolo contributo nella direzione del rilancio urgentissimo della concertazione mondiale, da parte di un personaggio rappresentativo dell’Europa più convinta dei suoi valori e, insieme, più aperta e attenta alla costruzione di regole globali, capo del governo di un Paese che da un mondo più unito e cooperativo ha solo da guadagnare.

franco.bruni@unibocconi.it

DA - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9926


Titolo: FRANCO BRUNI Ma l'Italia resta in balia dello spread
Inserito da: Admin - Marzo 31, 2012, 10:26:55 pm
31/3/2012

Ma l'Italia resta in balia dello spread

FRANCO BRUNI

Le decisioni dell’Eurogruppo di ieri avvicinano la creazione del fondo permanente per il contrasto delle crisi dei debiti pubblici dell’area dell’euro: il Meccanismo europeo di stabilità (Mes), finanziato dai governi. E’ ora più chiara la relazione fra il Mes e i fondi provvisori già utilizzati per aiutare l’Irlanda, il Portogallo e la Grecia. Nell’insieme raggiungeranno una capacità di intervento di 800 miliardi di euro. I governi hanno anche deciso di accelerare il versamento al Mes del capitale sulla base del quale potrà indebitarsi sui mercati globali e intervenire a favore dei Paesi in difficoltà; vi è poi l’impegno dell’Eurogruppo a ulteriori contributi a favore degli interventi anti-crisi del Fmi, che collaborerà col fondo europeo.
È opinione diffusa che il Mes non aggiunga abbastanza alla dimensione potenziale degli interventi anti-crisi. Speriamo che i mercati si convincano invece che la dimensione è sufficiente a rafforzare la stabilità dell’area dell’euro nel medio termine.

Solo allora la speculazione sarà scoraggiata e gli interventi effettivamente necessari saranno minori di quelli possibili. Ma l’attenzione dei politici, degli operatori e dell’opinione pubblica si è finora concentrata troppo sulla questione del volume di fondi a disposizione, trascurando altri importanti aspetti del Mes. Guardiamone due, uno positivo, l’altro negativo.

In positivo va detto che il Mes concretizza un vero e proprio meccanismo di solidarietà fra i governi dell’area dell’euro. Essi mettono a rischio i soldi dei loro contribuenti per acquistare quote di capitale di un singolo, grande intermediario, che aiuterà gli stessi governi quando avranno difficoltà nel rifinanziamento dei loro debiti. E’ un rischio che i governi corrono congiuntamente e senza che siano predeterminati i futuri beneficiari degli aiuti. Chi è più grande rischia di più: la Germania verserà più di un quarto del capitale del fondo, la Francia un quinto, l’Italia il 18%. Non solo: se un governo avrà difficoltà a versare la sua quota, gli altri subentreranno temporaneamente al suo impegno.

Il principio di solidarietà, indispensabile per la stabilità finanziaria europea, non si è mai concretizzato in modo così esplicito. Occorrerà prima o poi andare oltre, fino a organizzare un grado di accentramento delle decisioni di finanza pubblica che consenta l’emissione di veri eurobond. Ma la costituzione del Mes è un passo politicamente cruciale. Ancor meglio sarebbe se almeno parte dei prestiti del fondo non godessero del privilegio di essere rimborsati prima dei creditori privati nel caso di default dei governi: infatti il privilegio attenua la solidarietà e aumenta il rischio dei titoli pubblici in mani private.

Fra gli aspetti negativi del Mes viene troppo poco discusso il fatto che il fondo potrà intervenire solo in supporto di singoli governi le cui crisi debitorie mostrino specifiche debolezze e che prendano l’impegno di correggerle. Non potrà invece decidere interventi di sua iniziativa a sostegno di titoli di Stato di Paesi le cui difficoltà non derivino tanto da loro manchevolezze quanto da turbolenze speculative che colpiscano i mercati internazionali nel loro insieme, cioè un sistema molto interconnesso dove la stabilità di tutti dipende da quella di tutti gli altri.

Questo aspetto è particolarmente importante per l’Italia. Supponiamo di riuscire ad annullare presto il nostro deficit e a mantenere disciplina di bilancio: ciononostante l’ammontare di debito pubblico italiano rimarrà ingente per più di un decennio. I nostri titoli restano perciò fra quelli acquistati meno volentieri quando nel mondo succede qualcosa che fa diminuire la propensione al rischio degli investitori. Gli speculatori possono allora esasperare l’aumento del nostro «spread». Anche senza alcuna nostra colpa: per esempio, se il Portogallo si avvicina al default, se la Francia litiga con la Germania sui Trattati dell’euro, se ci sono violente uscite di capitali dall’Est Europa, se fallisce una banca inglese, se la politica Usa mette in crisi il dollaro, se precipita la congiuntura cinese, e così via.

All’Italia servirebbe un fondo autorizzato, sulla base di una sua analisi dell’intrecciarsi dei rischi internazionali, a intervenire a sostegno dei nostri titoli pubblici, senza che il nostro governo, per ipotesi virtuoso e coi conti in ordine, debba far la figura del debole indisciplinato chiedendo aiuto al Mes promettendo chissà quale maggior virtù. Invece il Mes potrà concedere linee di credito preventive, ma in forme inadeguate ad affrontare tempestivamente le turbolenze sistemiche.

Contro le quali rimane dunque solo la Bce. Ma lo scopo del Mes è anche quello di sollevare la Bce dal compito improprio di pagare i conti dei governi. Il problema è che, per aver poteri di iniziativa autonoma, il fondo dovrebbe essere un organo sovrannazionale con un profilo di autonomia simile a quello della Bce. I politici degli Stati membri non sono ancora pronti a questo genere di delega, che implicherebbe l’amministrazione di capitale versato con soldi dei contribuenti. Speriamo che ciò non significhi sacrificare anche l’autonomia della Bce obbligandola a mettere i problemi sotto il tappeto col trucco della creazione di moneta.

franco.bruni@unibocconi.it

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9946


Titolo: FRANCO BRUNI La fase due comincia dai partiti
Inserito da: Admin - Aprile 13, 2012, 11:50:41 am
13/4/2012

La fase due comincia dai partiti

FRANCO BRUNI

Da tempo il governo è entrato in una fase di attenzione alla crescita, preparando i provvedimenti di promozione della concorrenza, le semplificazioni normative, la riforma del mercato del lavoro.

E’ una strada difficile anche perché va cercato il necessario consenso politico su ciascuna misura.

Inoltre l’economia internazionale non va bene, manca la spinta delle politiche europee che occorrerebbero, i flussi finanziari dell’area dell’euro sono inceppati e tengono alto il costo e bassa la disponibilità del credito, sia per il settore pubblico che per imprese e famiglie.

Per crescere meglio servono decisioni accurate e incisive, che richiedono tempo sia per essere varate che per avere effetti tangibili. Danno risultati anche a breve solo se incidono sulle aspettative delle imprese, dei consumatori, dei mercati finanziari. Il governo ha aperto cantieri importanti ma non è in grado di garantire che rimangano attivi per il tempo necessario a costruire una vera ripresa economica del Paese. E’ una garanzia che può dare solo la politica, mostrando di essere pronta a impegnarsi a lungo per favorire l’interesse collettivo, superando le divisioni per cercare le convergenze necessarie a vincere le resistenze degli interessi particolari colpiti dalle riforme. A volte Monti sembra non far pesare abbastanza la parzialità delle cose che gli sono possibili e la radicalità di ciò che va fatto nel più lungo periodo.

Oltre alle fasi dell’azione del governo in carica è ormai ora di considerare quello che verrà dopo. Senza essere rassicurati sul dopo non può instaurarsi il circolo virtuoso che migliora le aspettative fin da quando si affrontano riforme preziose ma difficili. Sono i partiti della «maggioranza» a dover dare la rassicurazione. Stanno accennando qualche passo sui fronti che a loro spettano più direttamente, come la legge elettorale, la riforma del Parlamento e quella dei partiti. Ma procedono troppo piano, ventilando idee minimaliste. La credibilità della loro concertazione è poi ridotta dal fatto che la lealtà con cui collaborano col governo è discontinua. Pare insistano a non guardare più lontano delle prossime mete elettorali e vogliano perciò accentuare i loro profili di parte più che il desiderio di convergere per rifondare la politica e riguadagnare reputazione presso i cittadini. Si parla di «fase due» del governo ma servirebbe subito una fase due dei politici che lo appoggiano, con un discorso che consideri anche il «dopo Monti», in modo credibile e rassicurante.

Comunque si facciano le elezioni e con qualunque risultato, è essenziale che la prossima legislatura garantisca la convergenza programmatica su punti essenziali per la ripresa del Paese. Sono punti che vanno oltre le «regole del gioco» e investono la politica economica. Vanno stabiliti adesso e su di essi la propaganda dei partiti deve essere consonante. E’ importante per il Paese ma anche per i politici, che non riacquistano credibilità bisticciando per mettere in mostra differenze che l’opinione pubblica guarda con scetticismo, ma mostrando di volere davvero realizzare, ciascuno con i suoi accenti ma con una concordia di fondo, i cambiamenti che tutti sanno utili al Paese. Non c’è un solo modo per fare le riforme: ma c’è un grande nocciolo comune a tutti i modi di fare sul serio quelle importanti. Se serve promettere una «grande coalizione» lo si faccia; se si preferisce garantire una convergenza dei partiti limitata a punti prefissati ci si impegni in questo senso. Si sta discutendo se adottare un sistema elettorale che comporti coalizioni programmatiche prima o dopo le elezioni. E’ un dibattito surreale se sulle cose essenziali i partiti non garantiscono di convergere sia prima che dopo.

E’ nella ricerca di queste convergenze che va inquadrato il tema della spesa pubblica, che è cruciale per la crescita. Nella sua intervista a «La Stampa» il ministro Giarda è stato esplicito: non basta la «spending review» in corso, occorre un progetto che si estenda a tutta la prossima legislatura. E’ solo nell’econometria accademica che basta «tagliare la spesa», comunque e alla svelta, per far riprendere l’economia tagliando poi le tasse. E’ un meccanicismo macroeconomico che nella realtà non funziona: i governi devono entrare nel groviglio micro delle inefficienze e delle ingiustizie di un immenso settore pubblico, chiarire le priorità, rivoluzionare le burocrazie, ridurre molto certe spese e aumentarne altre, spostare persone e disturbare interessi, anche nel settore privato che con le inefficienze pubbliche ha molte complicità. E’ fra l’altro urgente che la riforma del mercato del lavoro investa anche i dipendenti pubblici.

Un piano di riordino della spesa pubblica va precisato presto nelle sue linee di fondo, in modo generale ma impegnativo. E’ un cantiere squisitamente politico; se se ne coglie il significato d’insieme per l’interesse generale, non è un cantiere impopolare. I partiti possono usarlo non solo per rendere sempre più concreta la loro collaborazione col governo attuale ma anche per «legarsi le mani» promettendo all’elettorato di unire le forze anche dopo le elezioni e fare dell’amministrazione pubblica un vero motore per la crescita, efficiente, equo e trasparente.

franco.bruni@unibocconi.it

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Titolo: FRANCO BRUNI. Crescere nel rigore
Inserito da: Admin - Maggio 14, 2012, 04:08:42 pm
14/5/2012

Crescere nel rigore

FRANCO BRUNI

Il governo tedesco, la Bundesbank e persino la Commissione europea, hanno detto alla Grecia che l’euro e l’Ue possono anche fare a meno di lei.

Dichiarazioni sfidanti ma non molto credibili, pensate come pressioni perché i greci facciano giudizio. Un modo di fare che da tempo ha mostrato di non funzionare.

Non sarebbe meglio interagire diversamente con un momento difficilissimo per la democrazia greca? Perché non mettere l’accento sul fatto che l’Ue è pronta ad aiutare Atene, che per sostenerla non mancano fondi e misure, già decise e in programma, in accordo col fatto che sta crescendo in Europa, anche in Germania, la preoccupazionedella crescita?

E il minaccioso battibecco fra il nuovo presidente francese e i tedeschi sulla ratifica del «fiscal compact»? La discussione non sembra impostata coi toni più opportuni per preparare una trattativa che, tutti riconoscono, deve far giungere a concretezza anche un «patto per la crescita».

Non dobbiamo rassegnarci a un codice muscolare per la diplomazia europea. La gestione della lunga e costosa crisi economica ha gettato l’Europa nel disordine politico: il prestigio sovrannazionale della Commissione, la sua funzione di regista propositivo dell’integrazione e di garante delle regole del gioco, di calmiere delle tensioni intergovernative, si sono adombrati, nonostante gli eccezionali progressi che negli ultimi tre anni il lavoro di Bruxelles ha assicurato perché maturino nuovi schemi di governo per l’economia europea. Prevalgono gli umori mediatico-elettoralistici dei Paesi membri. Fiorisce un antigermanismo di maniera, in gran parte infondato, ma che trova alimento in frequenti atteggiamenti poco costruttivi di Berlino e Francoforte.

Oggi e domani il nostro premier sarà alle riunioni dell’Eurogruppo. È fra le persone più adatte a aiutare l’Europa a cambiare tono, a dare un’impressione diversa all’insieme dei suoi Stati membri, ai suoi cittadini, al resto del mondo e ai mercati finanziari. È urgente, il periodo a disposizione è breve: non va molto oltre i Consigli europei di fine giugno ed è tempestato di elezioni e complicazioni specifiche di diversi Paesi. Occorre uno sforzo di concertazione eccezionale. L’Italia può aiutare molto, anche per la speciale sovrapposizione che da noi si verifica fra l’interesse nazionale e quello comunitario. La nostra diplomazia è credibile ed è già al lavoro da qualche tempo.

Il punto di partenza deve essere la convinzione che rigore e crescita sono complementari. Basta che siano correttamente intesi: il rigore non deve tradursi in pretesa di aggiustamenti a velocità insostenibili e slegati da riforme strutturali; la crescita non si ottiene con stimoli generici alla domanda e nuove spese in disavanzo. Il testo attuale del «fiscal compact», per molti il simbolo del troppo rigore di marca germanica, non è necessariamente recessivo, è orientato al medio-lungo periodo e ricco di elementi di flessibilità. Qualche critico superficiale con occhiali ideologici dovrebbe almeno dargli un’occhiata. E smettere di considerare il vincolo di bilancio in Costituzione come una sorta di violenza teutonica di sapore quasi antidemocratico. Dovrebbe notare che il principio del vincolo, che è formulato in modo tutt’altro che rigido e stupido, è proprio quello di difendere democraticamente l’interesse dei giovani e delle generazioni che non hanno ancora diritto di voto ma sopporteranno per tanti anni l’onere di debiti fatti non per sostenere il ciclo ma per garantire consenso politico con deficit strutturali e improduttivi.

È però vero che l’equilibrio dei bilanci non basta. Oltre a una più celere unificazione dei mercati dei beni e servizi privati, la crescita chiede politiche comunitarie che entrino nella qualità dei bilanci pubblici, delle spese e delle imposte. Va accresciuta l’armonizzazione fiscale e accentrata la strategia di alcune spese pubbliche. Le quali sono a volte più utili e produttive di certe spese private, come quegli investimenti immobiliari che in questi anni si sono rivelati inutili, imprudenti e dannosi.

Per riqualificare la spesa pubblica europea, indirizzandone una parte in modo strategico e accentrato, possono servire progetti gestiti direttamente in sedi comunitarie e finanziati con emissione di eurobond. Ma sarebbe anche utile formulare i vincoli di bilancio in modo da favorire le spese che rientrano in programmi comunitari temporanei e ben definiti. I deficit tollerabili, nel medio termine, verrebbero calcolati al netto di tutte o parte delle spese che rientrano in tali programmi. È possibile farlo senza violare i principi fondanti del «fiscal compact». Mario Monti sostiene il trattamento speciale degli investimenti pubblici fin da prima che nascesse l’euro. Un’Europa che si occupi più direttamente della strategia dei servizi e degli investimenti pubblici apparirebbe anche con un’immagine migliore ai suoi cittadini.

Ad essere favorite dovrebbero essere spese «infrastrutturali». Ma, attenzione: non solo strade, gallerie e bande larghe. L’Europa deve adeguare le proprie infrastrutture sociali alle esigenze e alle fragilità che derivano da rivolgimenti tecnici e competitivi di scala globale. Come osserva Maurizio Ferrera in un’editoriale sul «Corriere» di sabato scorso, l’Europa deve occuparsi anche di asili, scuole, ospedali, spese e sussidi di Welfare. Se vogliamo davvero difendere, modernizzare e rendere coerente il modello economico europeo, non possiamo lasciare le spese sociali alle sole iniziative nazionali, incentivando una perversa concorrenza al ribasso e minacciandole continuamente con la disciplina dei bilanci.

Il governo italiano ha appena varato un primo piano per il Sud, con spiccate caratteristiche di coesione e inclusione sociale. Cerchiamo di disegnare insieme alcuni progetti comunitari su linee analoghe e complementari; facciamo in modo che le spese che vi rientrano, sotto un adeguato controllo comunitario, siano contabilizzate con favore nelle regole che disciplinano i bilanci pubblici.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10100


Titolo: FRANCO BRUNI Efficienza e rigore devono partire dalle banche
Inserito da: Admin - Giugno 02, 2012, 10:16:48 am
1/6/2012

Efficienza e rigore devono partire dalle banche

FRANCO BRUNI

Fin dalla seconda riga, le prime Considerazioni finali di Ignazio Visco ricordano che nei periodi difficili «ciascuno deve applicarsi a svolgere il proprio compito». Dopodiché il governatore dice la sua senza divagare, asciutto, parlando dei compiti specifici della Banca centrale: il contributo al disegno della politica monetaria comune, la regolamentazione e la supervisione finanziarie.

Il vortice della crisi è l’insufficiente coesione dei governi europei nell’assicurare la tenuta dell’unione monetaria. Il rimedio principale sarebbero «manifestazioni convergenti della volontà irremovibile di preservare la moneta unica», orientando decisamente in questo senso le opinioni dei mercati. Non sta andando così. Lo stillicidio di semiintenzioni dei politici europei cui assistiamo in queste settimane deve finire: se, come speriamo, nasconde un difficile ribollire di progetti importanti, vogliamo vederli al più presto in chiaro.

Un nuovo fondo salva-Stati permanente, ampio e diretto anche ad aiutare la ricapitalizzazione delle banche? Si smetta di parlarne e lo si faccia subito. Visco sembra desiderare un fondo capace di «agire tempestivamente sui mercati con procedure flessibili»: se si volesse dargli ascolto il progetto attuale andrebbe cambiato, perché prevede un’istituzione intergovernativa lenta e incapace di intervenire di sua iniziativa contro instabilità sistemiche.

Gli spread sui titoli di Stato, quello italiano in particolare, non riflettono gli sforzi di aggiustamento di alcuni governi e, cosa della quale troppo poco si tiene conto, trasferiscono risorse reali ai Paesi, come dice il governatore, «percepiti più solidi»: in poche parole sono in parte una tassa implicita prelevata dalla Germania sui Paesi sui quali i mercati sfogano l’incertezza che leggono nell’europeismo franco-tedesco. È urgente provvedere a riportare ordine con misure appropriate, compreso un «fondo dove trasferire i debiti sovrani eccessivi». Non si può più minimizzare, non bastano la Bei e i project bonds. «Serve un cambio di passo».

Si parla di organizzare un’assicurazione europea centrale dei depositi bancari e, contestualmente, di accentrare i poteri di vigilanza sulle banche, approntando fondi e procedure europee per gestire banche illiquide o insolventi. Sarebbero provvedimenti decisivi, che aiuterebbero a tener distinta la rischiosità di una banca da quella del debito pubblico del Paese dove ha sede. Guai però se, dopo averne parlato anche ai massimi livelli, come ha fatto Draghi in questi giorni, non si decidesse rapidamente. Guai se dopo aver parlato di vigilanza accentrata si rimanesse, ad esempio, con applicazioninazionali molto diverse delle regole sul capitale minimo delle banche. La perdita di credibilità dell’area dell’euro sarebbe deprimente, insopportabile.

Nel corso della gestione delle crisi il ruolo delle banche centrali rimane quello di dare ai mercati la liquidità necessaria, nel breve periodo. I prestiti della Bce a tre anni sono operazioni eccezionali: Visco spiega come siano state preziose per rimettere in moto i flussi di pagamenti, come il rideposito presso la stessa Bce dei fondi da essa prestati non sia sintomo di inutilità degli interventi, poiché avviene dopo che quei fondi sono circolati fra diverse banche e diversi Paesi. Occorre che la Bce vada più in là, che diventi garante ultima dei debiti pubblici di tutti? Secondo qualcuno solo allora avremmo una «Banca centrale normale»: non è vero, non c’è nulla di normale in una Banca centrale che garantisce di pagare i debiti dei governi, senza riguardo alla necessità di ancorare i prezzi, di contenere il credito per evitare che venga usato male, di limitare la creazione di moneta per difenderne il potere d’acquisto e con esso quello dei risparmi e dei redditi più bassi e indifesi. In proposito Visco è stato molto sintetico: «L’uscita dall’attuale assetto è oggi del tutto prematura». Possiamo salvare l’euro senza distruggerelo spirito della costituzione monetaria europea.

Perché vi sia stabilità finanziaria, alle buone regole e alla buona vigilanza delle autorità deve corrispondere la buona gestione delle singole banche. La qualità del credito, sotto i colpi della crisi, peggiora. I rischi vanno controllati anche contenendo i profitti che le banche pretendono nel breve periodo; l’equilibrio fra impieghi e fonti stabili di raccolta delle banche deve irrobustirsi, l’orizzonte dei modelli di business bancario deve allungarsi. Inoltre le banche devono guardare con severità al livello e alla struttura dei loro costi: è forse la prima volta che un governatore è così chiaro nel richiamare questo aspetto, menzionando esplicitamente il costo del lavoro e le remunerazioni degli amministratori e dell’alta dirigenza. E ricordando che non val la pena di fondere fra loro banche solo per farle diventare più grandi, senza riorganizzarle sul serio, risparmiando risorse e ottenendo processi decisionali snelli e responsabilizzanti e dunque, anche, consigli di amministrazione meno affollati e pletorici, più snelli e funzionali. La Banca d’Italia, più di altri vigilanti europei, ha notevoli poteri per influenzare la qualità della gestione delle singole banche: sembra intenzionata a continuare a usarli. Farà il suo compito, per dirla con Visco. Siano puntuali nel farlo anche gli intermediari.

È urgente richiamare al loro dovere i politici europei: ma non ha senso farlo se le difficoltà del momento non sono vissute da tutti, anche dai singoli cittadini, da ogni banca e impresa, come l’occasione per diventare più precisi e attenti nel fare i compiti che a ciascuno spettano. Il nostro istituto di emissione ha il prestigio necessario per essere il luogo dove si richiama questa semplice verità.

franco.bruni@unibocconi.it

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Titolo: FRANCO BRUNI Il conto salato di un'Unione senza euro
Inserito da: Admin - Giugno 15, 2012, 11:58:32 pm
14/6/2012

Il conto salato di un'Unione senza euro

FRANCO BRUNI

C’ è chi ha il terrore di morire anche se vive senza convinzione e contentezza. C’è chi teme la fine dell’euro anche se lo sopporta male. Non manca chi ricorda l’enorme costo di spezzare l’unione monetaria. È più raro sentir parlare del costo di «fare a meno dell’euro» nel più lungo andare, passato il trauma della sua rottura. Si ha l’impressione che non siano pochi coloro che temono i disastri immediati di una disintegrazione dell’euro, soprattutto nel bel mezzo di una crisi economica mondiale, ma considerano la moneta unica più un problema che una soluzione, non sono convinti del vantaggio netto che i Paesi europei traggono dalla sua esistenza. Per avere la forza di fare quello che occorre alla salute dell’euro dobbiamo invece convincerci che senza la moneta comune l’Europa sarebbe più povera e tribolata.

Cominciamo a dire che se finisse l’unione monetaria finirebbe l’Ue, almeno nella forma e con le prospettive che ha oggi. Non a caso i Trattati ammettono l’uscita dall’euro solo insieme all’abbandono dell’Ue. Senza la moneta comune il pilastro del mercato unico perderebbe senso e con esso quello sforzo per coordinare e accentrare alcune fondamentali decisioni politiche che costituiscono l’essenza dell’Unione.

Anche mantenendo qualche forma debole di cooperazione, un’Europa senza euro non potrebbe che essere un’area dove i Paesi maggiori, Francia, Germania, Italia, Spagna, vivrebbero avventure economiche e politiche sostanzialmente autonome e potenzialmente ostili. Non vale l’esempio del Regno Unito, che da sempre è nell’Ue e non nell’euro: si tratta di un caso speciale, per diverse ragioni, che forse verranno meno col tempo, costringendo Londra ad aderire all’euro o a uscire dall’Ue.

Perciò il costo della mancanza dell’euro finirebbe a diventare quello che, prima che l’euro nascesse, si chiamava il «costo della non Europa»: ci convincemmo che sarebbe stato un costo elevatissimo e ne traemmo stimolo per fare molta più Europa. La stragrande maggioranza dei popoli e dei politici europei deve riaffermare questa convinzione: è condizione essenziale perché non si torni indietro, più o meno precipitosamente.

Ma proviamo a rimanere alle questioni monetarie e finanziarie. Senza euro ci sono due scenari: nel primo i Paesi con monete diverse rimangono aperti e integrati l’uno con l’altro, commercialmente e finanziariamente; nel secondo ciascuno aggiunge al ritorno della moneta nazionale dosi più o meno massicce di protezionismo, chiusura, disintegrazione dagli altri.

È facile comprendere come, nel primo scenario, le differenze fra le politiche monetarie e di bilancio dei Paesi crescerebbero, i tassi di inflazione e di interesse divergerebbero, i capitali si muoverebbero speculando sulle differenze di rendimento e sulle aspettative di svalutazioni e rivalutazioni dei cambi che inevitabilmente seguirebbero, continuamente, con un perenne disordine monetario. Le condizioni di finanziamento dei settori pubblici e delle imprese private di ogni Paese sarebbero instabili. Non ci sarebbe prevedibilità macroeconomica, il rischio di cambio ostacolerebbe i commerci e gli investimenti internazionali; ne soffrirebbero la crescita e l’occupazione, travolgendo qualunque vantaggio derivante agli esportatori da svalutazioni competitive che avrebbero vita breve, subito neutralizzate dai differenziali di inflazione. E, quel che è peggio, diverrebbe forte l’attrattiva del secondo scenario: come negli Anni 70, per proteggerci dal disordine internazionale verrebbe chiesta l’introduzione di vincoli alla libera circolazione internazionale dei risparmi e dei capitali; per compensare la variabilità dei cambi si cercherebbe di ostacolare la libertà del commercio internazionale. Risuscitate le monete nazionali, magari con l’aspettativa di accrescere l’autonomia delle politiche di ciascun Paese, si scoprirebbe che l’autonomia data dal cambio fluttuante è illusoria, soprattutto quando c'è mobilità dei capitali fra i Paesi, a meno di non interpretare l’autonomia come nazionalismo protezionista.

Sarebbe allora il secondo scenario, con costi ancor più alti, economici e civili. Senza libertà di investire e prendere a prestito all’estero, i risparmi e gli investimenti dei cittadini sarebbero prigionieri delle sole opportunità nazionali e vittime dell’arbitrio con cui i politici li governerebbero. Crediti e prestiti sarebbero assoggettati a provvedimenti dirigistici. I grandi debitori, cioè i governi e le imprese loro amiche, potrebbero remunerare poco i risparmi, impiegarli a favore di interessi particolari e svalutarli con l’inflazione. Minimizzati i vincoli e riferimenti europei, in ogni Paese i prepotenti avrebbero più facilmente la meglio. Nei rapporti internazionali, diradati dal protezionismo, non ci sarebbe ragione per competere facendo funzionare meglio la propria economia: anche fra Paese e Paese sarebbe la prepotenza a dominare. Prepotenza ben più grave e perniciosa dell’«egoismo» che alcuni attribuiscono oggi alla leadership tedesca.

Più del disastro finanziario del giorno dopo, la rottura dell’euro comporterebbe dunque il rischio di pagare i «costi della non Europa», cioè di un’Europa segmentata, disordinata, litigiosa, debole e con molte meno ambizioni e possibilità di incivilimento. È vero che dopo tanti anni di euro i nazionalismi sono tutt’altro che finiti. Ma è inutile insistere che prima avremmo dovuto unire l’Europa e poi metterle l’euro come una corona sul capo; abbiamo tentato coraggiosamente di strumentalizzare l’euro anche per unire l’Europa e farla migliore: conviene continuare lo sforzo.

franco.bruni@unibocconi.it

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Titolo: FRANCO BRUNI Piccoli passi di una nuova Europa
Inserito da: Admin - Giugno 24, 2012, 09:03:35 am
23/6/2012

Piccoli passi di una nuova Europa

FRANCO BRUNI

Il significato dell’incontro di Roma è soprattutto politico. Quattro diventa più del doppio di due: si è rotta la strana diarchia franco-tedesca, che si era autonominata leader, e i quattro maggiori Paesi dell’area dell’euro si presentano meglio, col tono più legittimo di un gruppo di lavoro che prepara la discussione del Consiglio. Un gruppo che manca del tutto di arroganza e la cui azione è parallela a quella dell’altro quartetto più tecnico (i presidenti del Consiglio, della Commissione, della Bce e dell’Eurogruppo) che, come ha ricordato Monti, sta stendendo un progetto di integrazione politica a lungo termine. I dossier-proposte su cui decidere davvero, sul tavolo del Consiglio di fine mese, potrebbero così risultare talmente ricchi da rendere impossibile un nulla di fatto.

L’utilità del quartetto riunitosi a Roma, che non pretende di guidare l’Europa, è paradossalmente accresciuta dal fatto che si tratta di Paesi in condizioni molto diverse e con approcci e priorità di vedute che richiedono un confronto serio e faticoso per trovare conciliazione. E’ da questi confronti faticosi, da estendere subito a molti altri Paesi membri, che deve uscire l’Europa di domani, non da bacchette magiche o solidarietà improvvisata.

Il fatto che Monti abbia potuto ribadire che le regole della disciplina finanziaria sono state rotte nel 2003, in modo clamoroso, proprio da Francia e Germania, è significativo: vuol dire che è un gruppo dove ci si confronta con franchezza e non ci si limita a voler dar messaggi miracolistici ai mercati. E’ un gruppo dove alla Germania, che comincia a vedere nella sua stessa congiuntura i segni della crisi europea, si offre l’opportunità di attenuare l’impressione di essere un misto di paese-fenomeno, potenziale solutore dei problemi altrui e stopper dei progressi dell’integrazione. E’ un gruppo dove al nuovo presidente francese si offre l’opportunità di smentire, sia pur gradualmente, l’idea che sia proprio la Francia a ostacolare cessioni di sovranità nazionale.

L’incontro è stato breve ma è possibile che, tenuto conto anche dei lavori riservati che circondano i quattro leader, il loro avvicinamento su proposte condivise sia andato oltre i punti che hanno voluto esternare nella conferenza stampa finale. D’altro canto sarebbe stato inopportuno che i quattro, proprio per il diverso spirito con cui si riuniscono rispetto al Merkozy di prima, avessero preceduto la discussione con gli altri Paesi membri cercando di influenzare i mercati con la comunicazione di decisioni «precise e concrete». Qualche commentatore le voleva o se le attendeva. Ma precise e concrete le decisioni non avrebbero comunque potuto esserlo, se non discusse e condivise con gli altri Paesi membri, calate in una prospettiva più comunitaria che intergovernativa e raccordate al piano di lungo termine cui stanno lavorando i quattro presidenti.

Ciò detto non va taciuto che l’incontro di Roma non è stato senza conclusioni ma ha lasciato l’impressione che il lavoro da fare prima del Consiglio di fine mese è ingente e il contributo dei quattro per ora molto piccolo. Fra le conclusioni, le più significative sono due: l’impegno sull’irreversibilità dell’euro, che solennizzato da quei quattro, con l’euroscetticismo e gli strani piani B che ciascuno di loro sente mormorare a casa sua, non dovrebbe restare senza conseguenze; e l’impegno a mobilitare ingenti fondi per la crescita che, seppur con modalità ancora da precisare, non potrà non influenzare fortemente i lavori del Consiglio.

Quanto alle cose da fare, vanno distinte quelle per il breve da quelle per più tardi. Sul breve è cruciale che la sostanza della proposta fatta da Monti fin dal Messico venga in qualche modo accolta. La sostanza è che, per godere di interventi di stabilizzazione degli spread con acquisti di titoli pubblici con fondi europei, compresa in un primo tempo la Bce, non occorra essere sull’orlo del disastro e pronti a forme eccezionali di extradisciplina. Se un Paese riceve l’approvazione e il monitoraggio della Commissione sui suoi piani di riequilibrio finanziario, ciò deve bastare. Se i mercati, ad esempio, sovra-reagiscono al problema greco facendo salire molto lo spread italiano, nonostante i nostri conti rimangano buoni e approvati da Bruxelles, è opportuno che con fondi comunitari si metta riparo alle esasperazioni. L’iniziativa di intervenire dovrebbe essere degli stessi responsabili dei fondi, senza che l’Italia prenda altri impegni e senza che nemmeno lo richieda.

Per l’orizzonte più lungo, pare di capire che il quartetto dei presidenti punti a una prima tappa di cosiddetta unione bancaria, una seconda di unione fiscale, una terza, più lontana, di unione politica. L’essenziale è partire davvero, con molta concretezza e debita urgenza, con la prima tappa. Il sistema bancario europeo è paurosamente segmentato lungo confini nazionali, incapace di far circolare il credito, disseminato di sospetti e sfiducie reciproche nonché di protezioni opache delle autorità nazionali, ciascuna a favore dei «suoi» banchieri: nonostante il supporto della Bce, non può più aspettare una drastica riforma . Le banche di qualche rilievo devono essere «europee», non nazionali: devono essere regolate e vigilate in modi omogenei, mettendo in comune le informazioni sui rischi che corrono, riversate presso un unico vigilante centrale, con ovvie articolazioni nazionali, che non sarebbe male fosse la stessa Bce. Questa riforma dovrebbe essere gradita anche a Merkel. La quale, nei confronti delle banche tedesche, non ha mancato, in passato, di mostrarsi a tratti giustamente severa. E le banche tedesche sono fra quelle che necessitano di una vigilanza meno di favore di quella che hanno finora avuto. Anche la gestione della crisi e l’eventuale salvataggio di una banca europea devono essere comunitari, con fondi comunitari, perché i guai delle banche spagnole, per esempio, non sono senza conseguenze per i contribuenti italiani. A proposito, perché non trasformare la Tobin tax, che rimane una vaghezza poco realizzabile, in una tassa per contribuire a finanziare un fondo europeo comune per l’assicurazione dei depositi bancari?

franco.bruni@unibocconi.it

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Titolo: FRANCO BRUNI La solidarietà che può servire all'Italia
Inserito da: Admin - Luglio 11, 2012, 11:19:27 pm
11/7/2012

La solidarietà che può servire all'Italia

FRANCO BRUNI

Fra le numerose decisioni dell’Eurogruppo di ieri c’è stata anche quella di confermare il semaforo verde al cosiddetto «fondo antispread», per il quale Monti si è adoperato. Dopodiché, secondo alcuni analisti, i mercati hanno reagito con una perplessità che ha frenato il miglioramento dello spread, quando Monti ha ammesso che sarebbe «arduo» escludere che l’Italia abbia bisogno dell’intervento del fondo. Finora aveva detto non solo che l’Italia non ne chiedeva l’intervento ma che questo non sarebbe servito, visto che la stessa esistenza del fondo avrebbe calmierato lo spread sui titoli italiani. C’è un equivoco?

Proviamo a chiarire. La sostanza della richiesta italiana è stata che il fondo possa intervenire per contenere i tassi sui titoli di Stato di Paesi in regola coi programmi di riforme e di aggiustamento del deficit concordati con la Commissione. Per questi Paesi, fra i quali è l’Italia, occorrono difese speciali per frenare attacchi speculativi che non sono giustificati dalla loro indisciplina o dai loro squilibri ma sono il riflesso di disordini finanziari che investono l’eurozona come sistema.

Per il contagio di problemi radicati altrove, dalle banche spagnole ai guai di Atene, ma anche, un domani, di Parigi o del dollaro. Il debito pubblico italiano, anche se noi rimarremo virtuosi nel fermare il deficit, sarà elevato ancora per diversi anni, durante i quali, nei momenti di tensione e di maggior avversione al rischio dei mercati, i titoli italiani saranno sfavoriti. Nella misura in cui sapremo rimanere «virtuosi» con le nostre politiche economiche, è interesse di tutta l’eurozona che la solidarietà europea faccia sì che i rischi sistemici non si moltiplichino contagiando i titoli italiani. Anche perché, oltre a diminuire per noi l’incentivo alla virtù, il contagio rimbalzerebbe dappertutto complicando la vita di tutti.

Questo tipo di aiuto è diverso da quello richiesto da un Paese che ha bisogno di prestiti e di tempo per ridurre il proprio deficit o avviare le riforme, cioè da un Paese che non può ancora rispettare gli indirizzi di disciplina comunitari. E’ un aiuto che, essendo nell’interesse dell’eurozona e volendo rimediare a conseguenze di problemi altrui, dovrebbe avere due caratteristiche: non essere nemmeno richiesto dal Paese, bensì deciso autonomamente dal fondo responsabile della stabilità sistemica dell’eurozona, e non essere condizionato all’adozione di programmi speciali di aggiustamento, visto che si tratta di Paesi che rispettano i piani di stabilità convenuti con la Commissione.

Purtroppo il Trattato che costituisce il fondo europeo di stabilità non gli consente di fare operazioni non richieste esplicitamente dal Paese del quale vengono acquistati i titoli, come se l’aiuto fosse giustificato da guai suoi; né consente aiuti non specificamente condizionati all’adozione di discipline speciali. Credo che lo sforzo di Monti sia stato quello di convincere i colleghi europei a interpretare il Trattato nel modo più prossimo possibile a quel che occorrerebbe per questo genere di «aiuto ai virtuosi». E penso che lo sforzo abbia avuto successo: la richiesta di intervento, che pur ci deve essere, sarà limitata alla semplice e rapida sottoscrizione di un documento predisposto in modo da servire al caso; e, soprattutto, non sarà richiesta altra misura speciale di aggiustamento per il Paese «aiutato» se non il proseguimento del rispetto dei programmi concordati con la Commissione, cioè il tipo di programmi che esistono sempre per tutti i Paesi dell’eurozona.

E’ quindi ora di smettere di domandarsi se l’Italia chiederà o no l’intervento del fondo antispread. Dipenderà da come vanno le cose attorno al nostro Paese, dai pericoli di contagio, dagli atteggiamenti più o meno lungimiranti degli speculatori. E se lo chiederà sarà solo perché, per ora, ogni intervento va formalmente richiesto: ma la richiesta sarà nell’interesse di tutta l’eurozona e nel quadro della gestione di problemi «sistemici» che non sono causati dai nostri specifici squilibri. Per godere dell’«aiuto», inoltre, basterà continuare a rimanere nelle regole comunitarie. Questo è importante anche perché rivaluta la disciplina comunitaria che altrimenti sarebbe sminuita da speciali superdiscipline dettate da istituti intergovernativi quali il fondo europeo di stabilità dove, fra l’altro, rischia di prevalere la logica del Paese più forte o di quello che, per fare il furbo, scambia favori o commina punizioni agli altri in cambio o in vista di altre decisioni su terreni diversi.

L’insistenza del nostro governo sembra avere ottenuto un risultato importante: concordando annualmente con Bruxelles, come tutti i Paesi membri, un programma di politica economica adeguato a farci crescere in modo equilibrato ed efficiente e a contribuire alla convergenza e alla stabilità dell’Ue e attenendoci a tali programmi, avremo diritto anche a una speciale forma di solidarietà comunitaria, quella «del secondo tipo», come ha detto Monti nella conferenza stampa, quella garantita non a chi ha un aggravamento di problemi suoi ma a chi soffre temporaneamente di problemi del sistema dell’eurozona nel suo complesso. Fra gli altri Paesi che potrebbero approfittare presto di questo tipo di aiuto c’è la Francia che rischierebbe di entrare nel mirino speculativo proprio quando riconoscesse con più trasparenza i suoi squilibri e diventasse più evidentemente virtuosa nell’affrontarli.

Ieri è arrivata anche la diagnosi del Fmi: l’Italia è sul cammino virtuoso degli aggiustamenti e delle riforme: basta che il suo scenario politico interno sia in grado di mantenerla nella virtù anche dopo il governo «strano». Per come stiamo camminando, i rischi per noi provengono dal possibile contagio di un’eurozona che è lungi dall’avere tutto in ordine e manifesta ancora qualche incertezza su come affrontare il disordine. Un’incertezza che però gli ultimi vertici europei paiono veramente intenzionati a rimuovere.

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Titolo: FRANCO BRUNI Cina, il collo di bottiglia della crescita
Inserito da: Admin - Agosto 11, 2012, 10:32:18 am
11/8/2012

Cina, il collo di bottiglia della crescita

FRANCO BRUNI

In questa fase difficile per l’economia del mondo, è cruciale l’andamento della congiuntura in Cina. Ieri hanno preoccupato dati e stime che mostrano debolezza sia nelle esportazioni che nelle importazioni cinesi. Meno export è un brutto segno per l’Europa e gli Usa: è un riflesso della loro crisi, che li fa comprare meno, anche dai cinesi. Meno import ricorda il pericolo che il quadro globale si aggravi perché si inceppa il motore dei Paesi emergenti e, in particolare, dell’estremo oriente.

Le debolezze dei due opposti flussi commerciali cinesi ci ricordano quanta interdipendenza ci sia nell’economia mondiale e come sarebbe bene riprendere gli sforzi per governarla insieme. Dopo la crisi del 2008-2009 si era avviata una fase promettente di cooperazione globale, molta attività del G20 e di un tentativo di G3 informale, per rafforzare i rapporti fra Cina, Ue e Usa. Ma quella fase si è interrotta: le regioni e le nazioni si sono ripiegate su se stesse, chiuse in difesa. E’ cresciuto dappertutto il protezionismo, più o meno esplicito; la Cina lo ha subito e lo ha usato aggressivamente; il mondo, anche quello emergente, si è andato segmentando anziché integrarsi; invece di rafforzare la cooperazione nelle sedi multilaterali, come il Wto, si sono moltiplicati accordi bilaterali, che spesso ruotano attorno a relazioni politiche nocive allo sviluppo globale.

Non è questo il modo migliore per beneficiare delle straordinarie potenzialità dell’economia cinese, né per indurre la Cina a fare quel che deve per rendere la sua crescita più solida e sostenibile nel tempo. Va rilanciata la diplomazia economica globale, rinfrescandola con nuove idee. Sia gli Usa che la Cina designeranno i loro numeri uno in autunno: speriamo che i nuovi leader, insieme ad un’Ue più unita, rilancino subito il triangolo dello sviluppo globale.
D’altro canto, non c’è per ora alcuna chiara evidenza che la congiuntura cinese stia franando.

Sono quasi sette trimestri che il Pil rallenta, ma la crescita prevista per i prossimi due anni è ancora attorno all’8%. Le stime sull’import-export di luglio sono provvisorie e basta guardare giugno per trovarle molto migliori. L’aumento della produzione industriale comunicato ieri rimane prossimo al 10% annuo. I consumi delle famiglie crescono più del 13% e gli investimenti fissi più del 20%. C’è allarme perché il credito interno è cresciuto meno del previsto, ma in parte si tratta di un fenomeno voluto, per frenare bolle speculative immobiliari che, fra l’altro, la Cina sta mostrando di controllare abbastanza bene. La sua politica macroeconomica è attenta, ha lo sguardo lungo, precede i problemi, mira alla sostenibilità. Le autorità hanno ben presenti i problemi strutturali del Paese, compresa la formidabile corruzione e l’immane inquinamento.

L’eccesso di surplus commerciale con l’estero è stato corretto: l’avanzo corrente è sceso in quattro anni da più del 10% del Pil a meno del 3%. E’ così sbollita la polemica sulla sottovalutazione dello yuan con la quale, soprattutto da parte degli Usa, si sono create a lungo inutili tensioni diplomatiche e confusa la natura delle questioni da affrontare insieme.
Il vero problema macroeconomico cinese non è la congiuntura del Pil: fra l’altro le condizioni della finanza pubblica sono tali che Pechino potrebbe compensare in ogni momento crolli dell’attività nel resto del mondo con forti aumenti di spesa in disavanzo. Il problema cinese è invece la composizione del Pil: consiste nella necessità di accelerare molto i consumi interni, riducendo il risparmio e frenando l’eccessiva spesa in investimenti.

L’avanzo con l’estero si è ridotto soprattutto perché si sono ancor più accresciuti gli investimenti fissi, giunti a sfiorare la metà del Pil. Ciò ha beneficiato i Paesi specialisti nell’esportare beni d’investimento, come la Germania: si stima che il 10% in più di investimenti in Cina aumenti dell’1% il Pil tedesco. Ma troppi investimenti accumulano capitale e infrastrutture inutili e rendono più fragili le prospettive della crescita cinese.
Vanno invece aumentati i consumi, soprattutto di servizi, come i trasporti e le assicurazioni, ma anche di beni durevoli di qualità medio-bassa. Ciò cambierebbe la natura e la provenienza delle importazioni cinesi: un fenomeno da monitorare e gestire a livello globale. Sarebbe inizialmente un problema, ma potrebbe divenire un’opportunità, anche per l’Ue.

Per la Cina aumentare molto i consumi interni è anche un problema politico. Vuol dire aumentare i salari nei molti settori dove sono ancora troppo bassi, ridistribuire profondamente il reddito, rimediare a quello che è ormai un clamoroso eccesso di vari generi di diseguaglianza. Significa accrescere i consumi pubblici, soprattutto migliorando il welfare (pensioni, sanità, scuole), la cui scarsezza è una delle ragioni per cui le famiglie cinesi risparmiano tanto. Ma tutto ciò cambia delicati rapporti di potere fra centro e periferia, fra gruppi politici e burocratici, fra modernizzatori e innovatori. Basti pensare alle grandi imprese pubbliche dove hanno radici molti degli squilibri interni e, nello stesso tempo, forti poteri conservatori.

Ieri, assieme alle notizie congiunturali, c’è stata quella della lettera al comitato centrale del partito comunista dei 1600 dirigenti e intellettuali conservatori che chiede immediate dimissioni del premier. Probabilmente vuol dire che il premier sta operando attivamente per la modernizzazione della Cina e che ciò crea forti tensioni politiche. Potrebbero essere queste il vero collo di bottiglia della crescita cinese? E’ difficile rispondere, ma è naturale supporre che un forte aumento della cooperazione globale aiuterebbe i leader cinesi più capaci e pronti alla modernizzazione. Mentre un Occidente che con la Cina è fra il distratto, il sospettoso e il difensivo, aumenterebbe i problemi dello sviluppo economico e politico, sia cinese che mondiale.

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Titolo: FRANCO BRUNI Dai partiti un impegno sul rigore
Inserito da: Admin - Agosto 18, 2012, 10:19:02 pm
18/8/2012

Dai partiti un impegno sul rigore

FRANCO BRUNI

Dopo le brevi ferie d’agosto la politica vedrà da un lato lo sforzo del governo per avanzare nella sua agenda di riforme e di riequilibrio finanziario, dall’altro quello dei partiti per preparare le elezioni dell’anno prossimo. I due sforzi potrebbero risultare d’aiuto l’uno per l’altro o, all’opposto, potrebbero ostacolarsi, danneggiando il Paese, se il sostegno parlamentare all’azione di governo si indebolisse nel tentativo dei partiti di distinguere le loro posizioni a fini elettorali o, addirittura, di anticipare le elezioni. Almeno in materia di politica economica, questo tentativo risulterebbe goffo e poco credibile e l’elettorato lo punirebbe, aumentando i voti di protesta e le astensioni. La reputazione dei politici scenderebbe ancora, compromettendo il funzionamento delle istituzioni.

Come ha osservato Luca Ricolfi nel suo editoriale di Ferragosto, si può essere «diversamente montiani». Ma non sono diversità sufficienti ad alimentare una competizione elettorale credibile.

Proviamo a immaginare Bersani che si sbraccia per sostenere stimoli «keynesiani» alla domanda, contro Alfano che fa il paladino del liberismo e dello stato minimo, o una sinistra che vuol ridurre il debito pubblico «tassando i grandi patrimoni» e una destra che vuol farlo privatizzando le spiagge, l’Eni e tutto quanto. Ne uscirebbe una commedia di cattivo gusto, con proposte confuse, contraddittorie, prive di numeri a supporto e che la gente non capirebbe. E dopo aver collezionato brutte figure, tutti finirebbero per dire, con accenti retorici diversi e virulenti, che bisogna tornare a detassare la casa e ad aumentare le pensioni.

I diversi modi e le differenti possibili velocità con cui risanare i conti e fare le riforme sono modulazioni di un programma che non ha alternative: la mancanza di rigore, di controlli e disciplina normativa e finanziaria, il disordine indecente delle pubbliche amministrazioni, sono evidenti e chiedono provvedimenti facilmente condivisibili, da studiare con intelligenza tecnica e con la capacità politica di vincere le resistenze degli interessi particolari e battere la spregiudicatezza di chi cerca effimero consenso tornando a caricare il futuro di debiti. E’ vero: le ricette precise possono differire, ma scegliere quella giusta è una questione di equilibrio, buon senso, migliori informazioni sui numeri che quantificano i problemi e sullo stato delle cose, solidità del sostegno politico al programma di fondo. Non è una scelta che giustifichi litigi ideologici, scontri fra bandiere di partito.

Sicché la destra e la sinistra non hanno più significato in politica economica? Chissà: certamente non è questo il momento per esaltarne le differenze; e il momento non tornerà prima di alcuni anni, poiché la crisi è ancora grave, nel Paese e nel mondo. Il dramma di Taranto, dove occorre contemperare due valori che di solito sono presentati entrambi come «di sinistra», l’ecologia e l’occupazione, dovrebbe insegnare. E’ dunque il momento del «centro»? In effetti il rischio che sia destra che sinistra corrono, se competono faziosamente e perdono credibilità, è di alimentare, oltre ai populismi estremisti, le più improbabili interpretazioni del «centro». Non è questione di centro ma di convergenza verso il riconoscimento onesto dei problemi e lo sforzo comune per cercare di risolverli.

Nella convergenza ciascun partito potrebbe mantenere l’identità necessaria per sopravvivere nella chimica di un’alleanza, estraendo al momento opportuno le sue preferenze caratteristiche per fertilizzare il dibattito col quale il Parlamento sarebbe chiamato a contribuire ai dettagli dei provvedimenti. Ma dovrebbe emarginare quelli, fra i propri esponenti, che nascondono l’incompetenza, l’inconsistenza delle idee e la losca protezione delle clientele, dietro l’esibizione della loro capacità di litigare. E dovrebbe esser pronto a far blocco con i partiti alleati per affrontare le proteste delle potenti minoranze che sono inevitabilmente sfavorite dalle buone riforme.

Serve dunque un accordo ufficiale e trasparente sul continuare la strategia che questo governo ha avviato e concordato con l’Ue. Un impegno solenne, possibile anche se i partiti dell’attuale maggioranza non si presentano come «coalizione», come ciò è inteso dall’attuale legge elettorale, anche se non designano un candidato premier comune. Un impegno che sarebbe più credibile se unito alla capacità di accordarsi per una riforma elettorale.

Perché il programma generale possa diventare, nella prossima legislatura, un’agenda dettagliata, serve un’altra promessa: quella di affidarsi a un esecutivo fatto di persone che uniscano competenza e reputazione di indipendenza dalle faziosità che ci hanno travolto per anni. Un governo che può essere meno «strano» e più politico di quello attuale, ma al quale non deve mancare la capacità di «guidare» il Parlamento nel realizzare il programma, rimanendo a distanza di braccio dai partiti e imponendo loro la coerenza quando sono tentati dall’opportunismo. E’ ovvio che il profilo umano e professionale dei ministri è la chiave di questa leadership.

Un impegno del genere ridurrebbe il famoso «spread» e aumenterebbe la considerazione dell’Italia nello scenario internazionale. Ma la migliore novità sarebbe prender l’impegno anche indipendentemente dai desideri dell’Europa e dei mercati, per le ragioni tutte nazionali che il Paese va rimesso in ordine e i suoi politici vogliono recuperare la stima dei cittadini. L’elettorato deve sentire che chi si coalizza è convinto di quel che fa, della bontà del programma di base e dell’opportunità di affidarne la realizzazione a un governo autorevole e capace di tener distinte le responsabilità dell’esecutivo da quelle dei partiti e del Parlamento. E’ un passo avanti che l’Italia può fare nei prossimi mesi: il prossimo passo da fare, dopo quelli che ha saputo fare dallo scorso autunno.

franco.bruni@unibocconi.it

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Titolo: FRANCO BRUNI Continuare sulla via del rigore
Inserito da: Admin - Settembre 08, 2012, 09:58:10 pm
7/9/2012

Continuare sulla via del rigore

FRANCO BRUNI

La Bce ha mantenuto la promessa. Ha confermato il programma di acquisto di titoli dei Paesi con spread ingiustificati e ha precisato le modalità con cui procedere. Ha rinviato la palla ai governi e all’Ue, che devono attivare i meccanismi della «condizionalità»: infatti la Bce interverrà solo se i Paesi faranno richiesta di assistenza al fondo salva-Stati intergovernativo e si impegneranno a dar corso alle politiche da esso richieste.

Ieri Draghi ha cercato di essere convincente sulla questione delle «due gambe». Che è la seguente: le aspettative dei mercati, che esagerano gli spread e temono che l’euro si rompa, vanno domate dalla Bce, che fornisce una delle gambe necessarie. Senza la sua disponibilità a intervenire, i governi, per quanto virtuosi, non riescono a vincere le aspettative, che tendono ad auto-realizzarsi. Ma serve l’altra gamba: i governi che correggono le cattive politiche che hanno acceso le speculazioni; se si sono già disciplinati, assicurano che lo rimarranno; e le autorità europee controllano che la disciplina sia messa in pratica.

Senza la disciplina dei Paesi, la Bce non può curare durevolmente l’instabilità dell’area dell’euro. I suoi interventi saranno dunque «condizionati» al fatto che i governi chiedano assistenza e controllo.

Le colpe dei governi, passate o presenti, sono indiscutibili. Ma Draghi avrebbe potuto aggiungere che i guai dell’euroarea derivano anche dalle esitazioni con cui la cooperazione europea li ha affrontati. E’ mancato troppo a lungo, soprattutto da parte della Germania, il chiaro riconoscimento che la solidarietà finanziaria è indispensabile alla salute complessiva dell’economia e della finanza europee dove, a fronte di chi ha fatto troppi debiti, c’è chi ha accumulato troppi crediti e li ha investiti imprudentemente, incassando peraltro alti interessi sui titoli dei debitori. Le istituzioni europee sono state lente nell’organizzare il giusto misto di disciplina e solidarietà. Serve la terza gamba per sostenere il tavolo: la cooperazione europea nel suo insieme. Che in effetti sta prendendo nuova consistenza e ha finalmente programmi ambiziosi per accrescere l’unità economica e politica.

Draghi ha detto che ora la questione è «nelle mani dei governi». Per l’Italia ciò significa, fra l’altro, decidere se e quando chiedere l’aiuto dei fondi europei, sottoscrivere gli impegni necessari e con ciò permettere anche alla Bce di intervenire. Intendiamoci: l’Italia sta già seguendo un serio programmadiaggiustamentoediriformachehaformulato con convinzione, per essere più stabile e tornare a crescere. Se non darà l’impressione di voler tornare indietro e svincolarsi da una disciplina che, per quanto concordata con l’Europa, è in primo luogo nel suo interesse nazionale, non è escluso possa fare a meno di chiedere aiuto. Anche perché i mercati potrebbero accontentarsi del fatto che la Bce è ora pronta a intervenire, e noi siamo sulla strada dell’aggiustamento e delle riforme: lo spread potrebbe ridimensionarsi durevolmente da solo, senza bisogno di nuovi impegni, controlli e interventi.

Ma ciò non avverrebbe se la mancata coerenza delle nostre politiche e delle promesse elettorali tornasse ad alimentare il rischio-Italia. Oppure se fossimo colpiti più gravemente dal contagio dei guai di altri Paesi. O se si indebolisse la «terza gamba», il cammino verso una più profonda unione comunitaria: il che succederebbe, per esempio, se in Germania, anch’essa con elezioni in avvicinamento, prevalessero i nemici dell’integrazione e della solidarietà. Attorno alla Bundesbank si respira un’aria che sarebbe preoccupante se non fosse ai limiti dell’assurdo.

Perciò potremmo «non farcela da soli». Conviene preparare un modo giusto per chiedere l’assistenza europea. A far ciò ci aiuta una cosa che ha detto Draghi: la Bce interverrà anche a favore dei Paesi che chiederanno il cosiddetto «aiuto precauzionale». Il che significa non dichiarare una situazione fuori controllo ma ammettere precauzionalmente che, anche senza propria colpa, la situazione potrebbe peggiorare e si chiede solo, con i debiti impegni a comportarsi bene, di star pronti ad aiutarci. Qualche difficoltà verrebbe invece dal fatto che, come è stato precisato ieri, nel definireecontrollareladisciplinadeidebitori, potrebbe essere coinvolto il Fmi. A torto o a ragione ciò rischierebbe di aggiungere al quadro un tono di più invadente imposizione dall’estero che aumenterebbe il costo politico della nostra richiesta di aiuto.

In ogni caso non mi sembra possano esservi dubbi su come dobbiamo cominciare. E’ stato già detto e ripetuto da più parti: le forze politiche che appoggiano il governo devono impegnarsi solennemente a non abbandonare, anche dopo le elezioni, i programmi di aggiustamento e riforma che il governo ha disegnato e concordato con l’Ue. Lo scrivano nero (ma chiaro) su bianco. La propaganda elettorale sia con ciò coerente.

Legarsi le mani così, per non tornare a farci del male, è un’iniziativa nazionale. Nel caso chiedessimo l’aiuto dei fondi europei e della Bce, sarebbe facile tradurre il testo dell’impegno in un accordo con gli organi europei. I quali finirebbero per far poco più che recepire e approvare le intenzioni che manifestiamo nel nostro interesse. Anche i mercati applaudirebbero subito. Senza un impegno del genere, invece, la richiesta di aiuto sarebbe più traumatica e gli interventi di Draghi meno efficaci. E’ inutile perder tempo a discutere se chiedere o meno aiuto all’esterno se prima non troviamo modo di prendere un impegno serio al nostro interno.

franco.bruni@unibocconi.it

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Titolo: FRANCO BRUNI Ora l'Europa non ha più alibi
Inserito da: Admin - Settembre 13, 2012, 03:36:18 pm
13/9/2012

Ora l'Europa non ha più alibi

FRANCO BRUNI

La Corte costituzionale tedesca ha dato il semaforo verde all’Esm, il Meccanismo Europeo di Stabilità, il cosiddetto fondo salva-stati permanente che sostituirà quelli temporanei con i quali finora sono stati erogati aiuti a Grecia, Irlanda e Portogallo. Le motivazioni della Corte possono essere lette con maggiore o minore ottimismo.

Viene qualche fastidio nel vedere l’insistente sottolineatura con cui è richiamata la legislazione esistente, in base alla quale il Parlamento di Berlino mantiene forti poteri di continua interferenza nelle decisioni dell’Esm, che pure è un’istituzione intergovernativa nel cui direttivo la Germania è rappresentata coi voti del «maggior azionista». E’ un richiamo che ricorda che non mancheranno residui poteri di veto nell’esercizio di una solidarietà con cui l’Europa, in fondo, salva tutta se stessa. Ma è anche un richiamo che, in Germania, rafforza la Corte nei confronti dei nemici dell’Esm e riflette i limiti del meccanismo come è stato concepito: cioè scarsamente autonomo dal concerto politico dei Paesi membri nell’affrontare le minacce alla stabilità sistemica dell’euro area; meno rapido e pronto di quanto sarebbe desiderabile per adottare tempestivamente le innovazioni e le iniziative più opportune, nel mare agitato e violento della finanza internazionale. L’Esm finirà per mostrare, quasi inevitabilmente e non solo per colpa dei tedeschi, un po’ di lentezza e pesantezza politica di troppo.

In compenso il testo della Corte riporta sinteticamente le opinioni, circa il ricorso di anticostituzionalità, raccolte sentendo il governo e il Parlamento di Berlino. Sono opinioni favorevoli al semaforo verde e alcune sono limpido e incoraggiante buon senso. Per esempio quella che sottolinea la sopportabilità del rischio massimo che corre il bilancio tedesco: perdere 190 miliardi. E quella che ricorda come questo genere di solidarietà intergovernativa non ha alternative, volendo mantenere la stabilità finanziaria in Europa e come il mancato sostegno dei debitori in difficoltà causerebbe alla stessa Germania costi molto maggiori di quelli che rischia contribuendo all’Esm.

Nel complesso credo che sia giustificato il prevalere dell’ottimismo con cui la pronuncia è stata accolta, sia dai mercati che da un ampio spettro politico, dentro e fuori la Germania. In sostanza la Corte nega l’esistenza, nella Costituzione tedesca, di seri ostacoli alla solidarietà finanziaria necessaria per proseguire l’integrazione europea. E il modo in cui lo nega è tale da sottolineare incisivamente la responsabilità politica del Parlamento. Come dire ai politici di non cercar scuse: se vogliono fare l’Europa più profonda e solidale non saranno bloccati dal testo della Legge Fondamentale che, in sostanza, vuole solo assicurarsi che il Parlamento tedesco abbia sempre il controllo della situazione. Ma è una situazione, quella della moneta e della finanza europee, della quale la Corte stessa sottolinea le inevitabili evoluzioni, compresa quella implicita nel progetto annunciato da Draghi per concertare gli interventi della Bce sul mercato dei titoli di Stato con l’aiuto «condizionato» offerto dall’Esm.

Dopo la Bce, anche la Corte tedesca ha dunque tolto un alibi all’intera politica europea, che a volte pare cercar di frenare, proprio mentre li sta disegnando, i progressi istituzionali dell’Ue, cioè il grande salto di qualità dell’integrazione. Senza il salto, qualunque modo di uscire dalla crisi monetaria, finanziaria ed economica è fragile e precario. Ora l’Esm va istituito davvero e messo rapidamente in grado di funzionare in pieno. Non sarebbe male pensare a non tardar troppo ad aumentarne la capitalizzazione. L’Esm è anche molto importante perché può intervenire nella ricapitalizzazione delle banche, ma solo dopo che un altro punto urgentissimo dell’agenda europea sarà realizzato: la centralizzazione della vigilanza bancaria presso la Bce, anche a supporto di una gestione comunitaria delle crisi bancarie. Su questo fronte i tedeschi devono vincere un’altra battaglia: quella con la lobby delle loro banche piccole e medie, con speciali relazioni politiche, che vorrebbero rimanere sotto il controllo nazionale.

E poi: avanti ancora. I presidenti della Commissione, del Consiglio, dell’Eurogruppo e della Bce hanno in agenda, ufficialmente, passi ulteriori verso l’unione fiscale e verso innovazioni istituzionali nell’unione politica europea che accrescano la legittimazione democratica delle decisioni comunitarie. Il nostro presidente del Consiglio ha chiesto di pensare a un vertice Ue per unire meglio le forze contro i populisti euroscettici: c’è abbastanza materiale in programma per evitare che un’iniziativa così preziosa risulti astratta e retorica. Dobbiamo convincere i cittadini che l’avanzamento dell’Ue non ha alternative e ha grandi vantaggi collettivi: serve buona comunicazione di messaggi e decisioni concrete. Fra le quali non sarebbe male includere, vincendo resistenze ancora soprattutto tedesche, la concessione di qualche tempo di più ai Paesi europei maggiormente in difficoltà per aggiustare il loro deficit pubblico in una fase di acuta recessione; pretendendo in cambio manovre di aggiustamento dei deficit pubblici qualitativamente migliori e più tempestivamente implementate nei dettagli.

D’altra parte il sollievo per il pronunciamento della Corte sarebbe speso male se i Paesi tutti, compresa la Germania, ne traessero ragioni per diminuire gli sforzi di riforme strutturali che devono cambiare il funzionamento microeconomico dei Paesi membri, rilanciare il mercato unico, migliorare l’efficienza delle amministrazioni pubbliche e la competitività delle produzioni private. Auguriamoci che l’aver tolto la spada di Damocle della Corte tedesca serva alla politica tutta, nazionale e internazionale, come stimolo a lavorare di più e meglio per dare ai cittadini europei le regole e le istituzioni per poter essere governati come si meritano.

franco.bruni@unibocconi.it

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Titolo: FRANCO BRUNI Federalismo è l'ora di ripensarlo
Inserito da: Admin - Settembre 23, 2012, 04:55:40 pm
23/9/2012

Federalismo è l'ora di ripensarlo

FRANCO BRUNI

Gli scandali che emergono nelle Regioni ci fanno riflettere su più fronti. Fra i quali, come osserva Mario Calabresi nel suo editoriale di ieri, c’è la questione del federalismo.

Che urge anche per i suoi riflessi sulla finanza pubblica.


La disciplina della finanza locale negli Stati federali è difficile da ottenere. Ce lo dice l’esperienza internazionale. L’Argentina ha problemi di squilibri finanziari privati e dell’amministrazione centrale, ma i potentati locali fanno scempio della finanza delle sue province. Il Brasile non manca di problemi analoghi. La Catalogna e le altre regioni autonome aggravano il debito pubblico spagnolo. In misure e forme diverse il problema travaglia anche altri Paesi, compresi gli Usa, la Germania e persino la Cina. Se c’è un decentramento politico-elettorale, far rispettare davvero dal centro vincoli di bilancio locali è un problema. In un modo o nell’altro l’indisciplina locale riesce a ricattare il potere centrale. D’altra parte: non è proprio questo il rompicapo che stiamo cercando di risolvere per tenere in ordine da Bruxelles le finanze dei Paesi dell’Ue?

In Italia il decentramento del potere nazionale ha visto alcune forze politiche particolarmente impegnate ma anche un vasto consenso di fondo. C’è chi vuole più federalismo e chi meno, chi lo vuole più «solidale» e chi meno, chi lo vuole davvero e chi fa finta, chi dice che è facile da organizzare e chi no. Ma il principio è largamente condiviso; soprattutto per due ragioni.

La prima è un diritto democratico alla sussidiarietà, al controllo del proprio campanile. La seconda è l’idea che la vicinanza territoriale consente più controllo degli elettori sugli eletti e stimola una concorrenza virtuosa fra le amministrazioni locali, vogliose di far meglio per non perder voti. Sono davvero due ragioni convincenti?

Il diritto a una forte dose di controllo sul proprio territorio è la base degli Stati federali. La Lombardia ai lombardi, la Catalogna ai catalani, la Baviera ai bavaresi: c’è qualcosa di giusto, coerente con i valori della tradizione e con l’evoluzione del ruolo degli Stati nazionali. Ma non è oggi più importante far sforzi nella direzione opposta e sentirci tutti più cittadini del mondo o, almeno, dell’Europa? Non è più urgente riconoscere le crescenti interdipendenze, economiche e culturali, che legano i destini di territori lontani, rimbalzano problemi e opportunità da un capo all’altro del mondo e chiedono forme di governo più attente a interessi sovrannazionali? Inoltre, guardando all’Italia, mentre forme di campanilismo comunale possono aver senso, il campanilismo regionale non appare forse, con poche eccezioni, artificioso?

L’idea principale e più condivisa del federalismo è però la vicinanza fra elettori ed eletti. Ma è una vicinanza pericolosa perché favorisce la prepotenza degli interessi particolari, a scapito di quelli generali. Le lobby locali, i cui interessi non collimano con quelli della collettività dei cittadini del proprio territorio, hanno meno presa se devono condizionare decisioni nazionali, mentre catturano facilmente i politici eletti localmente. Il caso più clamoroso è proprio la gestione del territorio: per difendere la natura, il paesaggio, la salute, la vita stessa (evitando di costruire lungo i fiumi, inquinare e quant’altro), occorrerebbe che la tutela del territorio fosse il più lontano possibile dai gruppi locali di pressione, molto centralizzata, anche se con grande trasparenza delle decisioni verso tutto il Paese e l’Europa. La privatizzazione selvaggia e la cementificazione delle spiagge è certo più colpa dei proprietari locali degli stabilimenti balneari che non dei corrotti di Roma.

E perché gli ospedali sono regionali? Per essere più vicini ai pazienti/votanti? La dimensione nazionale sembra più adatta a ottenere una distribuzione razionale dei servizi sanitari, che sfrutti la concentrazione delle competenze specialistiche, valorizzi le eccellenze e canalizzi i pazienti in modo economicamente efficiente e per loro soddisfacente.

Ma ecco la questione della concorrenza virtuosa: gli amministratori locali avrebbero incentivo a competere per far meglio, così da meritarsi i voti e, addirittura, da attirare più attività sul proprio territorio. Se ti faccio pagare più tasse e, a parità di tasse, ti do servizi peggiori, tu elettore non mi voti più o ti sposti in un’altra regione. E’ un meccanismo credibile, sul serio in grado di incentivare sollecitamente il buon governo locale? E’ un meccanismo che richiede vincoli al bilancio pubblico degli enti locali, che altrimenti possono sprecare senza alzare le tasse: si riescono davvero a imporre questi vincoli? E come mai il meccanismo non funziona e i servizi pubblici di molte regioni italiane non accennano nemmeno a migliorare nonostante l’evidente insoddisfazione dei loro abitanti che si esprime, quando e come può, anche con spostamenti di voti e voti di protesta? Non è più facile concentrare i giudizi dei cittadini sulla capacità del governo nazionale di organizzare la fornitura decentrata dei servizi? E poi: la concorrenza fra i politici locali può forse funzionare nei confronti di servizi veramente locali, gestiti da politici «vicini»: per i Comuni; ma per le Regioni?

Domandiamoci infine se si può chiedere ai cittadini di esercitare un voto davvero consapevole e disciplinante a più di tre livelli: comunale, nazionale e europeo. Non diamo nulla per scontato. Vengono tempi nei quali dovremo riorganizzare le nostre istituzioni: nessuno scrupolo ci trattenga dal rimettere in discussione, senza pregiudizi ideologici e faziosità, l’articolazione territoriale del potere politico. Nemmeno lo scrupolo di esserci già inoltrati in un cammino federalista mal definito e imprudente.

franco.bruni@unibocconi.it

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Titolo: FRANCO BRUNI Dal maltempo una lezione per la finanza pubblica
Inserito da: Admin - Novembre 14, 2012, 05:32:45 pm
Editoriali
14/11/2012

Dal maltempo una lezione per la finanza pubblica

Franco Bruni

I tremendi danni causati in questi giorni dal maltempo fanno riflettere sul bisogno di cura del territorio, un servizio pubblico sulla cui importanza il governo dovrebbe alzare la voce. Sono danni con costi ingenti, diretti e indiretti, anche per le imprese private. Nell’ultima settimana ho avuto altre occasioni per riflettere sul bisogno di servizi pubblici e sulla loro importanza per la produttività privata.

 

Mi è capitato di essere coinvolto in un gigantesco ingorgo causato in autostrada da un numero spropositato di camion enormi: ho pensato ai costi, pubblici (congestione, inquinamento) e privati, della mancanza di un sistema di trasporto delle merci che utilizzi di più ferrovie e porti. Mi è capitato di visitare un grande museo statale e alcune straordinarie bellezze di una città d’arte: c’era degrado nel museo e le bellezze erano poco accessibili, con perdite per la piacevolezza del vivere collettivo ma anche per i conti dell’industria turistica e del suo indotto. Mi è capitato, visitando un amico medico, di constatare un taglio drastico di fondi per ricerca essenziale, impossibile da privatizzare ma preziosa per le ricadute sull’industria farmaceutica privata. Ho incontrato il sindaco di un piccolo comune: era disperato per l’impossibilità, data la stretta sulle disponibilità degli enti locali, di fornire ai suoi cittadini servizi essenziali anche per le loro imprese.

 

Potrei continuare raccontando esperienze della settimana precedente. Tutto ciò pare contrastare con l’esigenza di «tagliare la spesa pubblica» che, anche come economista, sento ripetere continuamente (e anch’io, qualche volta, ripeto) in questi tempi di finanze guaste e perigliose, di spread troppo alti, di emersione di scandalosi sprechi. Gli edifici scolastici richiedono manutenzioni urgenti, ai tribunali serve l’informatica, le città multietniche e trafficate hanno bisogno di vigilanza urbana più abbondante, preparata, qualificata e ben pagata; per non parlare del disinquinamento e di quel che serve alla repressione del crimine che si rinnova in forme inedite e sofisticate. Sono beni e servizi strettamente «pubblici», ma la loro produzione è essenziale non solo per il generale incivilimento e il benessere pubblico, ma per la produzione dei beni e servizi privati, per contenere i costi espliciti e impliciti delle imprese. L’evolvere complicato del mondo, con le nuove interazioni umane e tecnologiche che produce, le sue nuove opportunità e i suoi nuovi pericoli, richiede dosi crescenti di beni pubblici, pena, fra l’altro, la decadenza delle produzioni private.

 

Se le cose stanno così, «tagliare la spesa pubblica» non solo non deve voler dire tagli lineari e ciechi, ma non deve significare, necessariamente e prioritariamente, tagli del suo ammontare complessivo. Il quale, in un mondo ideale, dove non si spreca né si ruba nemmeno un euro delle casse pubbliche, non è detto sia molto inferiore a quello attuale. Si tratta di cambiare, di riformare, di spostare, più che di tagliare il totale. Servono riorganizzazioni dell’amministrazione pubblica talmente incisive, ben disegnate e ben spiegate ai cittadini, da diventare la sostanza principale dell’azione politica, un progetto collettivo che comunichi qualche entusiasmo, così che ognuno, soprattutto se lavora nella pubblica amministrazione, sia pronto a fare la sua parte, sacrificando la sua convenienza immediata e la sue inerzie psicologiche e corporative. 

 

E’ maggiore di zero la probabilità che ciò risulti anche in minori spese complessive, data l’enormità degli sprechi e delle inefficienze attuali. Allora sarà possibile ridurre anche le imposte totali e non solo riformarle ed estenderle agli evasori. Ma il punto è che i benefici di un sistema pubblico migliore aiutano grandemente la competitività del settore privato; l’aiuto, anche a parità di spesa e imposte totali, può essere maggiore di quello che risulterebbe da un alleggerimento delle imposte permesso da tagli meno «riformatori» della spesa totale. Inoltre, dare buoni servizi pubblici significa fare una parte importante della redistribuzione di reddito, verso i meno favoriti e fortunati, della quale c’è un conclamato e crescente bisogno. Perché i beni pubblici si finanziano con tassazioni progressive e sono goduti con speciale intensità dai meno provveduti di beni privati. 

 

Il governo sta impostando riforme importanti della pubblica amministrazione e della produzione di beni pubblici. Dovrebbe trovare meno difficoltà su questo cammino, meno resistenze corporative, più lungimiranza di chi viene scomodato dai cambiamenti. Potrebbe dare una speranza e una visione più chiara delle finalità non solo contabili della sua azione sulla finanza pubblica. La difesa del territorio si presta bene per far pubblicità ai beni pubblici. E’ straordinariamente importante in Italia. 

 

La tragedia delle inondazioni serva almeno a ricordarcelo e a stimolarci a dare alla nostra azione collettiva obiettivi più ambiziosi. Per avere un’amministrazione qualificata ed efficiente, in grado di fare a meno degli introiti dell’edilizia selvaggia e della privatizzazione cementificata delle spiagge, davvero capace di impedire di costruire dove non si deve, di trasferire altrove gli insediamenti inopportuni, di rinforzare i fianchi delle nostre colline, gli argini dei nostri fiumi, il limitare dei nostri mari, occorrono cifre immense. Di fronte alle quali «tagliare la spesa pubblica» deve diventare un’espressione con un significato corretto e meditato.

 

franco.bruni@unibocconi.it 

da - http://lastampa.it/2012/11/14/cultura/opinioni/editoriali/dal-maltempo-una-lezione-per-la-finanza-pubblica-kuFppaYoBSgJIIa1YMPfzL/pagina.html


Titolo: Franco Bruni. Il sogno di una crescita equa
Inserito da: Admin - Febbraio 19, 2013, 11:35:55 pm
Editoriali
19/02/2013

Il sogno di una crescita equa


Franco Bruni

Manca il «soogno», come direbbe Crozza nei panni di Briatore. Nella campagna elettorale sono deboli le visioni d’insieme che caratterizzano le proposte economiche dei candidati. Servono iniezioni di speranza per il cuore e il cervello degli elettori. 

D’altra parte, se si domanda in che cosa potrebbero consistere queste visioni e queste speranze, non si trovano buone risposte. 5 punti percentuali in meno di pressione fiscale? Rilancio dell’occupazione? Non basta per sognare. C’è poi l’etichetta «rivoluzione liberale», che sembra un sogno. Ma si presta a equivoci: non si capisce se è compatibile con difese anti-inquinamento abbastanza severe, welfare adeguato, quote sufficienti di spiagge libere e altri connotati di un Paese dove l’interesse generale non sia soffocato da quelli particolari. E’ liberale vietare la cementificazione del territorio? 

Cercando ancora, sentiamo echeggiare la parola «crescita», più o meno accompagnata da «equità». Certamente riprendere a crescere, e farlo con equità nella distribuzione del reddito e della ricchezza, è un bel sogno. 

 

Ma è un sogno confuso che si accompagna spesso a ricette semplicistiche come miracolosi stimoli macroeconomici che non coinvolgono i cittadini in uno sforzo collettivo. Sognare gratis rende amaro il risveglio. Proviamo a ripartire dalla parola «crescita». Significa aumentare durevolmente il Pil pro capite. Che cos’è il Pil? E’ la somma dei beni prodotti dall’economia, ciascuno moltiplicato per il suo prezzo. L’idea è che quando un bene ha un prezzo relativamente più alto arreca più soddisfazione all’economia che ne fa uso. Per crescere dobbiamo aumentare la produzione dei beni di maggior valore. Si aprono allora due cantieri per fabbricare il sogno.

 

Nel primo cantiere cerchiamo di riorganizzare sforzi e capacità in modo da ottenere più beni di maggior valore. Qui incontriamo la radice della stagnazione che ci affligge da quasi vent’anni. Il mondo cambia sempre più svelto, cambiano le tecnologie, i popoli produttori, la loro demografia, la loro cultura. Perciò cambiano la domanda e l’offerta dei diversi beni, il loro valore relativo, i vantaggi competitivi dei loro produttori, la validità economica della catena di montaggio del Pil. Se non si riorganizza il tutto, se non si spostano i nostri sforzi da una produzione all’altra, se non si partecipa alla reinvenzione del sempre nuovo insieme di beni che chiede e offre il mondo, il valore del Pil scende. Non si può crescere producendo le stesse automobili negli stessi posti, gli stessi giornali venduti nelle stesse edicole, le stesse lezioni nelle stesse università, gli stessi servizi pubblici erogati con le stese tecniche, le stesse cose in imprese che non cambiano le dimensioni, le forme di finanziamento, la struttura proprietaria, il governo societario, le relazioni col mercato del lavoro e dei capitali. 

 

Stiamo ristagnando perché non troviamo modi per aggiungere nuovo valore alle catene produttive, perché resistiamo al cambiamento, non ci adattiamo a un mondo mutevole, siamo rigidi, ognuno difende il suo antico posto, il suo precedente vantaggio, ricco o misero che sia. Chi innova, nel privato e nel pubblico, é spaesato in un ambiente conservatore. Il problema è microeconomico: non si cura con miracoli macro. 

 

Qual è il sogno? Creare un sistema adatto al continuo cambiamento, così che la somma dei beni prodotti sia somma di valori che crescono perché tengono il passo coi tempi. Alcune produzioni cessano, altre cambiano, altre nascono. Un’economia flessibile, che muta velocemente spostando le risorse, riorganizzando i mercati, aggiornando i saperi, adeguando le regole. E’ difficilissimo, ma è un vero sogno coinvolgente, che impegna i governati insieme ai governanti. E’ costoso, perché spostarsi costa e il cambiamento emargina chi è troppo debole per tenerne il passo. 

 

Ecco allora l’altro termine del sogno, l’equità: crescita equa significa flessibilità assistita. Assistenza per chi rischia di essere spiazzato dal cambiamento, lavoratori e imprese. Ma assistenza per affrontare il cambiamento, non per evitarlo. Anche i burocrati e i politici devono capire il cambiamento e aggiornare i loro comportamenti. Un’economia flessibile richiede molto lavoro collettivo per evitare di divenire un insieme di vittime e di vincitori di Pirro. La libertà dei mercati deve sposarsi con la loro continua ri-regolazione, la concorrenza con la solidarietà, con l’indirizzo della politica e l’aiuto della finanza pubblica. 

 

Ma il sogno di un’equa crescita si coltiva anche in un secondo cantiere. Dove si costruiscono i beni pubblici, che fanno parte della somma con cui si calcola il Pil. Alcuni sono pubblici del tutto, come i panorami e la difesa nazionale; altri lo sono nella misura in cui comprendiamo che produrli per qualcuno beneficia tutti: come l’istruzione, la salute e quell’assistenza alla flessibilità che serve nel primo cantiere. I beni pubblici non hanno un chiaro prezzo di mercato per il quale moltiplicarne la quantità per fare la somma del Pil: perciò le statistiche li valorizzano in modi insoddisfacenti. Non è ovvio che cosa succede al Pil se si produce meno acciaio e più ore di asilo nido, meno telefonini e carceri migliori. E’ invece ovvio che noi dobbiamo impegnarci per scegliere meglio fra produrre acciaio o ore di asilo nido, telefonini o carceri migliori. Dobbiamo farlo raffinando la nostra capacità di calcolo economico e di scelta politica. 

 

Il sogno potrebbe dunque consistere nel coinvolgerci tutti per ottenere un’economia dove viga flessibilità assistita e una giusta valorizzazione dei beni pubblici. Un sogno che richiede tempo, pazienza, sforzo, costanza e concordia. Richiede molte risorse, che vanno risparmiate dove sono sprecate, nel settore pubblico ma anche in quello privato. Richiede soprattutto di individuare le priorità con chiarezza e di guardare ai risultati di medio-lungo termine. Ma è un sogno dal quale ci sveglieremmo con un ritmo sostenibile di crescita rispettosa dell’equità. E pronti a un nuovo sogno. 

 

franco.bruni@unibocconi.it 

da - http://lastampa.it/2013/02/19/cultura/opinioni/editoriali/il-sogno-di-una-crescita-equa-hyl8ld30JNnVSQJLNtTFWL/pagina.html


Titolo: Franco Bruni. L’incertezza pesa più dell’imposta
Inserito da: Admin - Maggio 06, 2013, 11:44:24 am
Editoriali
06/05/2013

L’incertezza pesa più dell’imposta

Franco Bruni

Nell’editoriale di ieri Luca Ricolfi invita a «parlare di tasse senza ideologie». E’ un invito da cogliere. Il dibattito sulle misure del nuovo governo dovrebbe riflettere le finalità del suo largo supporto parlamentare, sradicandosi da faziosità di parte. 

A dibattere senza faziosità non dobbiamo esser solo noi commentatori senza potere, ma anche i membri del governo ai quali, diversamente da noi, si addice la riservatezza, il non sottolineare in pubblico inevitabili divergenze, giungere a buoni compromessi e difenderli con coerenza e unità. 

Non giova al Paese, per esempio, che il viceministro Fassina sembri dissentire, in un’intervista sulla Repubblica di ieri, dalla posizione del suo ministro e del governo circa la strategia nei confronti del coordinamento fiscale dell’Ue. Smettano di rilasciare interviste, parlino con una sola voce, diano almeno l’impressione che mirano a governare, non a mettersi in luce per le prossime elezioni.

Ma torniamo a noi, a chi ha il compito di dire, disdire, dissentire, «senza pregiudizi», come suggerisce Ricolfi. Che rompe il ghiaccio con due «interrogativi provocatori»: se l’Imu sia scevra da effetti negativi sulla crescita e se, sempre ai fini della crescita, sia prioritario tener bassa l’Iva. 

Sono domande importanti, urgenti e non facili da rispondere come molti sembrano pensare. 

L’Imu può avere effetti depressivi sulla domanda aggregata, sia direttamente che attraverso il suo impatto sui valori immobiliari, che sono componenti importanti della ricchezza, da cui dipendono i consumi, e sono determinanti cruciali degli investimenti e della produzione nel settore edilizio, con il suo vastissimo indotto. Questi effetti si possono però contenere, rendendo l’imposta più progressiva di quanto è già e alzando le soglie per l’esenzione completa delle proprietà piccole e dei proprietari con redditi bassi. Insistere sulla difesa della prima casa sa di ideologia e propaganda mentre è evidente che sono soprattutto le piccole proprietà e i bassi redditi a veder traumatizzati i loro piani di consumo dal pagamento dell’imposta. In compenso si può calcare di più su chi è più ricco ma, proprio per questo, avendo un patrimonio e fonti di reddito più robusti e variegati, può ridurre meno le spese per pagare le imposte sugli immobili che possiede. 

L’effetto depressivo dell’Imu è dipeso anche dall’incertezza delle modalità e dei tempi del suo pagamento nonché dalla confusione circa la destinazione del suo gettito fra Stato ed enti locali, confusione legata al più generale disordine di quel brutto aborto che è stato il cosiddetto federalismo fiscale. Inoltre si tratta di un’imposta che colpisce un settore, quello edilizio-immobiliare, mal governato, spesso gonfiato dalla speculazione e distorto dalla corruzione: perciò un settore fragile anche quando prospera, facile a deprimersi per un subitaneo mutamento del trattamento fiscale. L’idea di sospendere la rata di giugno è dunque buona per poter riflettere, studiare, calcolare e deliberare bene; ma è poi opportuno far presto a decidere risolvendo l’incertezza dei contribuenti e degli enti percettori del gettito e, accanto alla riforma dell’Imu, ci vuole almeno l’impostazione di una politica industriale dell’edilizia, che sia di riferimento per i progetti degli operatori del settore e degli investimenti immobiliari ma che garantisca anche la difesa dell’integrità del territorio, senza la quale non c’è crescita decente e duratura.

Sull’Iva credo di essere d’accordo con Ricolfi e persino con me stesso, anche se lui invita a non aver scrupoli a contraddire quanto scritto in passato. L’enfasi sul danno di un’Iva più alta è eccessiva e converrebbe, fino a quando non si riusciranno a tagliare più massicciamente le spese inutili, finanziare con l’Iva la riduzione di imposte che sono più importanti per rilanciare l’occupazione e aiutare l’esportazione. La riduzione del cuneo fiscale, cioè della differenza fra costo del lavoro e busta paga, e del «total tax rate» del quale Ricolfi ricorda il livello stratosferico raggiunto in Italia, sono più benefici per la crescita del contenimento dell’Iva. Lo hanno detto in molti (su La Stampa lo scrissi fin dai tempi del governo Berlusconi) e non ho mai capito perché il governo Monti non abbia aggredito la questione con tempestività ed energia. Inoltre, anche se contabilmente l’Iva finisce sui prezzi al consumo, in un periodo di bassa domanda ha meno probabilità di avere effetti inflattivi a carico della larga massa dei consumatori finali, mentre potrebbe incidere su uno o più degli anelli, a volte superflui, della catena distributiva. Ridurre i costi dei produttori con fondi provenienti dall’imposizione indiretta sui consumi, dalla quale sono esenti le esportazioni, ha un nome anche nei libri di testo: si chiama svalutazione interna e favorisce la bilancia dei pagamenti. 

Credo di aver evitato ideologie. Se però andassimo oltre l’urgenza dei provvedimenti a breve, diverrebbe più difficile sfuggire valutazioni politiche, rimanere su un tono tecnico-pragmatico. Infatti nel lungo periodo decidere sul fisco, sulla qualità e il livello dell’imposizione, implica due scelte controverse: in che misura si vuole influenzare durevolmente la distribuzione del reddito e in che misura alcuni beni e servizi vadano considerati «pubblici» e perciò prodotti o sussidiati dalla pubblica amministrazione. Sono cioè in gioco le finalità e le dimensioni dello Stato nell’economia. Il finanziamento strutturale delle politiche di welfare, soprattutto, richiede prese di posizione che, pur volendo evitare faziosità ideologiche, non possono non avere qualche sapore «di parte». 

Ma si possono cercare convergenze anche su questioni divisive di lungo periodo. E’ un bene che governi d’emergenza come quelli di Monti e di Letta siano spinti dalle urgenze di breve a esercizi tecnico-pragmatici che possono insegnare al Paese a raggiungere compromessi duraturi, politicamente più qualificanti.

franco.bruni@unibocconi.it 

da - http://www.lastampa.it/2013/05/06/cultura/opinioni/editoriali/l-incertezza-pesa-piu-dell-imposta-TlVVpNZwGSzFQYzfQS7hQN/pagina.html


Titolo: FRANCO BRUNI Quanto costa rinviare le riforme
Inserito da: Admin - Luglio 02, 2013, 04:44:08 pm
Editoriali
02/07/2013 - in cerca della ripresa

Quanto costa rinviare le riforme

Franco Bruni


Molti pensano che la politica economica faccia passi troppo piccoli. D’altra parte la politica dei piccoli passi dice le sue ragioni e i pericoli di correre di più. Ma la gente è perplessa e dubita anche di alcuni passi non piccoli che sono stati avviati, come il pagamento di decine di miliardi di debiti pregressi della pubblica amministrazione, o gli incentivi nazionali ed europei all’occupazione giovanile. 

 

Molti commentatori chiedono subito drastici tagli di spesa e di tasse, spericolati debordi dai limiti di deficit concordati con l’Europa, liberalizzazioni, privatizzazioni. 

 

Va detto che ci sono due tipi di piccoli passi: quelli che mostrano solo disorientata esitazione e quelli che avanzano con realistica gradualità su un cammino dove passi lunghi e decisivi sono stati già stabiliti con chiarezza. A me sembra che il governo voglia convincere il Parlamento, i cittadini, l’Europa, che i suoi piccoli passi sono del secondo tipo ma che per ora lo sforzo di convincimento abbia un successo limitato. 

 

Le ragioni dei piccoli passi sono, innanzitutto, nella paradossale situazione politica. L’accordo fra i due poli viene giustificato, anziché con l’obiettiva difficoltà e la condivisa importanza delle riforme da fare, con l’obbligo di allearsi controvoglia visti i risultati delle elezioni. Ciascun polo sbandiera le sue differenze più delle convergenze; spunta troppo spesso la voglia di tornare presto a spargere populismo per ricontare i voti. E questo avviene nonostante entrambi i poli siano disuniti e impreparati a una competizione elettorale coerente e nonostante le differenze fra le due visioni di politica economica siano tutt’altro che evidenti: l’unica cosa chiara è l’insistenza del Pdl sulle sue promesse sull’Imu. Ma già sul non aumento dell’Iva si sbraccia anche parte della sinistra. I tagli di spesa (quali, quanto e quando), la riforma del mercato del lavoro, le liberalizzazioni, sono fra i molti esempi di temi dove i falchi di entrambe le parti dicono quasi le stesse genericità e i partiti non sono pronti a parlar chiaro e confrontarsi in modo impegnativo e trasparente con i loro potenziali elettori.

 

E allora perché non usare il tempo delle larghe intese per pulirsi le idee, cominciando a riconoscere che quasi tutto quello che c’è di più urgente non richiede politiche di destra né di sinistra ma un’azione concorde e coerente per migliorare un Paese che non crede più in sé stesso perché troppo disunito e litigioso? Forse i piccoli passi servono anche ad evitare di interrompere traumaticamente quella sorta di purgatorio dove il nostro disastroso bipolarismo sta scontando i suoi peccati. Senza contare che, a fianco della politica economica, scorrono i delicatissimi diciotto mesi che Letta ha fissato per il disegno delle indispensabili riforme istituzionali.

 

Vi sono benefici nel far passi piccoli. Perché in Europa devono maturare condizioni più concordi per politiche comunitarie più coraggiose, probabilmente nel tardo autunno, dopo le elezioni tedesche. C’è una congiuntura internazionale che stenta a confermare il miglioramento, che potrebbe succedere fra qualche mese, facilitando anche per noi riforme più radicali e difficili. E c’è il fatto che lo spazio per politiche di rilancio macroeconomico è limitatissimo per un Paese che deve continuamente rifinanziare un debito pubblico come il nostro: perciò le riforme essenziali sono di tipo microeconomico, strutturale, e dunque lunghe da disegnare bene e implementare sul serio. 

 

Ma ci sono anche i costi dell’avanzare con piccoli passi. Costa temporeggiare quando i problemi richiederebbero interventi urgenti e radicali. L’esempio sono i rinvii delle decisioni su Imu e Iva. Nel caso dell’Imu il tempo richiesto finora dal governo per riformare bene l’imposizione sulle abitazioni è giustificato; ma se in autunno si dovesse ancora rimandare l’incertezza sarebbe devastante. Nel caso Iva non c’erano invece ragioni economiche per rinviare la decisione, facendo oltretutto un pasticcio nel prevedere la copertura degli oneri del rinvio: l’aumento dell’imposizione sui consumi andava accettato e i suoi proventi utilizzati per detassare subito di più l’occupazione. 

 

Il temporeggiamento è disorientante nella principale di tutte le riforme, quella della pubblica amministrazione: non occorre far tutto subito ma va urgentemente raggiunto un accordo, resistente alle pressioni degli interessi in gioco, su almeno due cose: che nel settore pubblico sarà introdotta più mobilità del lavoro e che il decentramento amministrativo sarà rivoluzionato, ridimensionato e semplificato, sia sul piano fiscale che su quello dei poteri di decisione. Non ci si può limitare a semi-promettere che forse le province verranno quasi accorpate: nel disordine incontrollato e irresponsabile del decentramento si radica sia la debolezza della nostra finanza pubblica che, per esempio, l’inadeguata politica di difesa del territorio. 

Temporeggiare costa anche perché si dà fiato agli avversari delle riforme, che si attrezzano per opporvisi meglio. Costa perché fare passi piccoli e isolati concentra l’opposizione sui singoli passi anziché disperderla su una gamma multidirezionale di riforme; perché alle riforme viene a mancare lo sprint di una mobilitazione generale per far funzionare l’Italia; perché la credibilità di un governo che rinvia le decisioni è continuamente a rischio. 

 

Per qualche mese possiamo ancora sopportare i costi dei piccoli passi, incassando i benefici. Speriamo che il governo usi bene il tempo che ci separa da quando, verso metà autunno, dovremo disporre di un disegno impegnativo e piuttosto dettagliato delle riforme che siamo d’accordo di fare. Basterà un disegno credibile per migliorare le aspettative e aiutare la ripresa. Dopodiché non occorrerà fare passi più lunghi della gamba: ma saranno piccoli passi del secondo tipo, con davanti un cammino lungo e chiaramente concordato.

 

franco.bruni@unibocconi.it 

da - http://lastampa.it/2013/07/02/cultura/opinioni/editoriali/quanto-costa-rinviare-le-riforme-EFAKZZeRIXAEObi2LQMueL/pagina.html


Titolo: FRANCO BRUNI Il passo che manca per la ripresa
Inserito da: Admin - Agosto 07, 2013, 05:32:29 pm
Editoriali
07/08/2013

Il passo che manca per la ripresa

Franco Bruni


Enrico Letta celebra i primi cento giorni del suo governo documentando gli sforzi per far riprendere il Paese. Sforzi fatti, anche sulla scia del governo precedente, in una situazione politica difficilissima e in un quadro economico internazionale ancora debole. Giustamente il premier chiede fiducia e perseveranza per continuarli. 

 

Si diffonde l’idea che la congiuntura economica italiana stia smettendo di peggiorare. Un’idea supportata da dati aggregati e ufficiali, come l’andamento della produzione industriale, il cui lieve miglioramento, già avvertito da qualche settimana, è stato ora ufficializzato dall’Istat. Da tempo Saccomanni, che ieri ha detto di pensare che «la recessione sia finita», raccomanda di non sottovalutare l’effetto positivo dell’accelerazione dei pagamenti arretrati della Pubblica amministrazione. 

 

Miglioramenti risultano anche da evidenze meno ufficiali. Vanno bene numerose imprese, soprattutto nei settori dell’export di qualità, che stanno reagendo alle difficoltà degli ultimi anni con innovazione, ricerca, nuovo marketing, migliori relazioni con le organizzazioni sindacali. 

 

Con grande travaglio e attorno al triste serbatoio della disoccupazione, cambiano le imprese, la gente cambia mestieri, si adatta ai cambiamenti del mondo. Anche le banche, pur mediamente bloccate, dalle sofferenze dei loro prestiti passati, nell’erogazione di nuovi crediti alle imprese, vanno differenziandosi: le migliori cominciano a respirare e a far respirare la loro clientela. 

 

Siamo «a un passo dal possibile» ha detto Letta. Ma per il passo che manca – e perché non si torni indietro – servono condizioni, esterne e interne al nostro Paese. La crescita di alcune delle locomotive globali non deve rivelarsi un bluff prodotto da stimoli monetari e fiscali artificiali e pericolosi. L’Europa deve proseguire verso la maggiore integrazione che ha avviato negli ultimi due anni: è la condizione per mostrare a un Paese come il nostro, che cerca di ricostruire la sua politica e rianimare la sua economia, che i suoi travagliati sforzi lo portano verso una meta comunitaria dove saremo tutti più forti e solidali. Il disegno di un’Europa più unita è avanzato; la sua realizzazione deve proseguire; il semestre di presidenza italiana dell’Ue dell’anno prossimo sarà cruciale. 

 

Quanto alle condizioni interne, alcune sono urgentissime e dovrebbero accavallarsi subito ai piccoli miglioramenti statistici che stiamo osservando. Va risolto definitivamente, meglio se prima delle scadenze obbligatorie, il nodo delle imposte in sospeso: l’Imu e l’Iva. Famiglie e imprese non devono continuare a pagare i costi dell’incertezza su che cosa si deciderà. Anche perché è un’incertezza che si diffonde all’insieme delle decisioni fiscali e di bilancio che vengono comunque coinvolte dai non pochi miliardi in ballo per quelle imposte. 

 

C’è un’eccezionale convergenza di vedute, dal Fmi, all’Ocse, alla Commissione Europea, alle banche centrali, alla Confindustria e ai sindacati: la tassazione sulla prima casa non va eliminata. L’Imu si può riformare, alleggerire per i più poveri, si può cambiarle il nome e ricomporla con altre imposte, ma le promesse di chi ha basato sulla sua abolizione la campagna elettorale non possono essere mantenute. Il premier deve ora dirlo chiaro e sfidare anche su questo la sua maggioranza. Sull’Iva il consenso è meno compatto; ma sono fra i molti che pensano che l’aumento che scatterebbe automaticamente in assenza di altre decisioni vada accettato, con eventuali rimodulazioni delle aliquote agevolate, e che tutta la detassazione possibile vada concentrata per ridurre il cuneo fra salari e costi del lavoro e le aliquote dell’imposta sui redditi personali di chi guadagna meno. 

 

Al di là dei provvedimenti specifici come il riassetto più urgente delle imposte, condizione interna cruciale per confermare la ripresa è convincerci che più che stimoli macroeconomici servono profonde riforme microeconomiche e amministrative. Le quali, è vero, richiedono tempo, ma il cui solo annuncio e disegno credibile, impegnativo e condiviso, concordato con le apposite procedure in sede Ue, farà subito effetto, perché agirà sulle aspettative, permetterà a famiglie e imprese di fare i piani di medio-lungo, rilancerà gli investimenti e l’afflusso di capitali dall’estero. Le riforme sono la chiave per risolvere la contraddizione fra austerità e crescita.

 

L’elenco è ben noto e in parte già steso in più sedi: riforma del lavoro, della giustizia, delle banche, del decentramento politico-amministrativo, eccetera. Ma è indispensabile che si diffonda maggiormente, fra tutti i cittadini, la consapevolezza che il Paese va cambiato profondamente, che ciascuno deve dare il suo apporto e che la direzione della maggior parte dei cambiamenti necessari non è un fatto ideologico e di parte ma risulta dalla somma del buon senso con la convinzione che l’interesse collettivo deve prevalere su quelli dei singoli e dei gruppi di pressione. E’ indubbio che nel settore privato le imprese e le persone stanno impegnandosi a cambiare. E’ persino questione di giustizia che il cambiamento pervada in modo rapido e radicale anche tutta la pubblica amministrazione. 

 

Cartine di tornasole del cambiamento, a caso, che a qualcuno sembreranno futili: ci serve un Paese dove nel giro di 24 ore qualcuno possa decidere senza appello che le grandi navi non possono avvicinarsi a Piazza San Marco; che i soldi che ancora spendiamo per il Ponte di Messina vadano a Pompei; che il sussidio che mia madre, senza averne bisogno, riceve per la badante, vada a integrare lo stipendio dei giovani medici; che il sottosegretario alla cultura possa, con un ordine di servizio immediato, spostare due uscieri dalla sua anticamera, dove hanno poco da fare, al vicino museo di Palazzo Venezia, dove manca personale. Cose come queste aiuteranno i dati dell’Istat a migliorare davvero e durevolmente. 


franco.bruni@unibocconi.it 

 da - http://lastampa.it/2013/08/07/cultura/opinioni/editoriali/il-passo-che-manca-per-la-ripresa-DDdDX0aAs3gO1EgozpwzrJ/pagina.html


Titolo: FRANCO BRUNI Perché lo stimolo sarà limitato
Inserito da: Admin - Novembre 13, 2013, 04:29:17 pm
Editoriali
08/11/2013

Perché lo stimolo sarà limitato

Franco Bruni

Con la riduzione dei tassi di ieri la Bce è riuscita a sorprendere, nonostante abbia deciso secondo i suoi criteri più noti e ortodossi. Poiché l’aumento dei prezzi sta rallentando troppo, fino a suscitare timori di vera e propria deflazione, cioè di prezzi che si avvitano in discesa, la banca centrale ha fatto una mossa espansiva, come da manuale. 

La decisione contiene un certo pessimismo sulle prospettive congiunturali. Si pensa che l’inflazione rischia di rimanere a lungo troppo bassa perché l’economia rischia di rimanere a lungo troppo debole. E la Bce avverte che la probabilità che le cose vadano peggio del previsto è più alta di quella che vadano meglio. Le Borse e gli spread non hanno festeggiato. Il problema è l’esasperante lentezza della ripresa, soprattutto in alcuni Paesi. Ne sapremo di più con le previsioni numeriche che la Bce darà in dicembre. 

Ieri Draghi ha dato anche un altro messaggio, leggermente più ottimista, circa la possibilità che il pur lievissimo ribasso dei tassi fissati dalla Bce si trasmetta al costo del credito bancario. Da più di un anno l’eurozona si è «frammentata», nel senso che le banche dei diversi Paesi non si fidano l’una dell’altra e ciò inceppa la circolazione della liquidità, soprattutto verso i Paesi più indebitati e considerati più deboli, fra i quali il nostro.

In questi Paesi l’economia va peggio anche per mancanza di afflussi di liquidità e, con un circolo vizioso, le banche diventano ancora più esitanti ed esose nel concedere il credito a una clientela che si fa più rischiosa. Cosicché, abbassando i tassi della Bce, l’effetto espansivo ha difficoltà a tradursi in una riduzione uniforme dei tassi effettivamente pagati da imprese e famiglie nei vari Paesi. Anche per questo gli stimoli alla crescita che possono venire dalla politica monetaria della Bce sono minimi e l’idea di abbassare i tassi a Francoforte è stata più volte rinviata. Ma la decisione di ieri segnala un poco più di fiducia nella trasmissione della riduzione dei tassi centrali a quelli bancari. Infatti Draghi ha detto che la frammentazione è diminuita e continua a ridursi, anche se troppo lentamente. Per ridurla di più andrebbe accelerato il cammino verso l’unione bancaria europea, che in questi mesi sembra invece attraversare una fase difficile di contrasti politici e dubbi tecnici e della quale nella conferenza stampa di ieri non si è quasi parlato. 

Purtroppo l’effetto delle decisioni della Bce sul rilancio dell’economia sarà piccolo. Non solo perché, come appena detto, la frammentazione dell’eurozona limita la diffusione del calo dei tassi. Ci sono almeno altre tre ragioni. La prima è che il flusso di credito per nuovi, buoni investimenti, non può tornare a essere abbondante fino a quando non si è ridotto l’eccessivo indebitamento accumulato in passato da molti governi, banche e imprese, indebitamento spesso impiegato in modo pessimo, in attività improduttive e in rischi mal calcolati. La seconda è che per rilanciare la crescita occorrono soprattutto riorganizzazioni dell’economia reale, difficili riforme strutturali, sia nel settore privato che nelle pubbliche amministrazioni. Lo ha ancora ricordato ieri Draghi raccomandando, fra l’altro, che il riordino dei conti pubblici avvenga con provvedimenti «organizzati in modo da incentivare la crescita e ridurre le distorsioni del fisco». 
Una terza ragione per non attendersi molto da riduzioni dei tassi o straordinarie iniezioni di moneta della Bce, è che la crisi ha ancora una dimensione globale e molti problemi vengono dal di fuori dell’Europa. Basti pensare alle tensioni venute recentemente dalle politiche monetarie e di bilancio degli Usa. C’è un pericoloso disordine competitivo nelle politiche monetarie mondiali, che si stanno rincorrendo nell’abbassare i tassi e nello stampar moneta e gareggiano per indebolire la propria valuta e far guadagnare ai loro esportatori una competitività artificiale ed effimera. Finora la Bce si è distinta per virtù e cautela in questa brutta gara, soprattutto rispetto alla Fed americana e alla banca centrale giapponese. Il che ha però rafforzato l’euro, nonostante la debolezza dell’eurozona.

Ciò viene da più parti criticato perché sacrificherebbe la competitività europea. La decisione di ieri potrebbe leggersi come una conseguenza di queste critiche: un inizio di adeguamento della politica Bce ai comportamenti delle altre banche centrali, per non rimaner vittima della propria virtù. In effetti l’euro ieri si è svalutato, non molto ma bruscamente. Ma Draghi ha negato che si sia anche solo parlato del tasso di cambio durante il Comitato di ieri.

Non è bene che le banche centrali si rincorrano nell’abbassare i tassi, rovesciare liquidità sui mercati e indebolire il proprio cambio, finendo per neutralizzarsi a vicenda e creare disordine, speculazione e instabilità monetaria in tutto il mondo. Anche perché è una rincorsa che non fa che cercar di nascondere l’incapacità dei governi di risolvere i problemi dei bilanci pubblici e di fare le riforme strutturali necessarie alla crescita. Occorrerebbe invece coordinare le principali politiche monetarie facendo in modo che dagli andamenti dei cambi vengano alle economie il minimo possibile di disturbi e incertezze. L’Europa, che più degli altri ha la cultura della stabilità monetaria, dovrebbe prendere iniziative diplomatiche affinché la cooperazione globale vada in questa direzione. 

franco.bruni@unibocconi.it 

da - http://lastampa.it/2013/11/08/cultura/opinioni/editoriali/perch-lo-stimolo-sar-limitato-xC4ReovWYPdD00N3jGegEM/pagina.html


Titolo: FRANCO BRUNI Come usare la fretta e l’ottimismo
Inserito da: Admin - Febbraio 26, 2014, 05:51:10 pm
Editoriali
25/02/2014

Come usare la fretta e l’ottimismo
Franco Bruni

Speriamo che il disegno di politica economica del governo si precisi. Per ora sono cenni disordinati e pochi numeri azzardati, anche ieri, nel discorso a braccio di Renzi in Senato. Ma speriamo che il disegno rimanga, come sembra essere, centrato sulle riforme strutturali. In entrambe le speranze aiuta la figura di Pier Carlo Padoan, che è un professionista della precisione e un grande esperto di riforme strutturali, che sono una specialità dell’Ocse dov’è stato finora. 

Renzi, com’è apparso anche ieri a Palazzo Madama, ha uno spiccato ottimismo della volontà e molta voglia di correre. In economia sono due virtù che possono però volgersi in corrispondenti difetti. 

L’ottimismo. Ci sono buone e cattive ragioni che spingono i governi a presentare lo stato delle cose e i risultati dei loro interventi accentuando gli aspetti positivi e sorvolando sulle difficoltà e gli insuccessi. Una ragione cattiva è la ricerca di consenso a buon mercato, a costo di non dir la verità. Un motivo più accettabile è influenzare positivamente le aspettative di chi deve aver fiducia per spendere, alimentando così la ripresa in modo che le aspettative si autorealizzino. Ancor più giusto è l’ottimismo degli ufficiali che incoraggiano i soldati all’attacco dicendo loro che ormai è fatta, ancor prima di aver travolto le trincee nemiche. E’ l’atteggiamento di un governo che, per tener uniti i suoi ranghi e difendersi dalle critiche dell’opposizione, anche da quelle giuste, colora lo scenario della propria azione in modo favorevole. E’ il famoso mostrare «la luce in fondo al tunnel»: non è un camion che sta per travolgerci, stiamo trovando la via d’uscita, facciamoci i complimenti.

Il sorriso energetico che caratterizza Renzi fa pensare che additerà spesso la luce in fondo al tunnel. Quando mezzo provvedimento sarà approvato, vorrà dirci che è per intero già applicato. Un capo incoraggiante, un forte avvocato dei suoi collaboratori e dei risultati del loro lavoro, un comunicatore che vuol dare ai cittadini la sensazione che i problemi non sono difficili da risolvere, che abbiamo appena cominciato ma già quasi finito, basta l’energia e la volontà, quelle che ha messo lui nel diventare il capo. Bene. Ma guai se non c’è anche una giusta dose dell’atteggiamento opposto. 

Per spronare i soldati, gli ufficiali devono a volte spaventarli, sottolineando l’emergenza in cui si trovano, il disastro che succederebbe se non raddoppiano gli sforzi, la pericolosità del nemico, la possibilità di una sconfitta. L’economia italiana è in una situazione di emergenza, perché per smuoverla occorrono tante riforme difficili e fra loro intrecciate, alle quali si oppongono formidabili forze corporative e conservatrici. Chi governa dev’essere anche il leader della protesta, deve sottolineare la pericolosità dei nemici con i quali si batte. Ieri Renzi ha detto che siamo in «un Paese arrugginito, impantanato, incatenato». Continuerà ad ammetterlo abbastanza a lungo, anche quando avrà messo le prime firme su azioni di governo? Se smetterà troppo presto non riuscirà a fare le riforme, a battere le inerzie burocratiche, a chiudere i dipartimenti universitari improduttivi, toglierà la pressione dell’emergenza, dovrà presentare le sue misure dicendo che non fanno vittime, che danno poco disturbo e grandi, immediati vantaggi. Non è così. Riformare la pubblica amministrazione, il mercato del lavoro, il welfare, significa fare molte vittime e coinvolgere ciascuno di noi in uno sforzo di innovazione lungo e faticoso. E’ bene che il governo lo spieghi e lo documenti continuamente, mentre ricorda i vantaggi che ne verranno.

E veniamo alla giusta fretta di Renzi. E’ giusto aver fretta di impostare le riforme, trovare per ciascuna il consenso di fondo, obbligarsi a farle mettendoci la faccia. Una al mese: perché no? Ma poi occorre il tempo per dettagliarle e realizzarle davvero e serve la forza di farlo senza poter contare su risultati immediati. Per «cambiare il Paese» ci vuole urgenza ma anche la pazienza di vivere una transizione di vacche ancora magre, come dice il titolo di un recente libro di Marco Magnani, un tempo in cui i sorrisi di Renzi, le sue battute, l’equilibrio di genere del suo giovane governo, possono aiutarci a sperare, a sopportare i costi della trasformazione, ma non possono eliminarli. 

La fretta diventa un difetto quando promette la ripresa dietro l’angolo, cercando effimere positività nelle percentuali di crescita del Pil. Prima le riforme, poi la crescita: guai se la fretta cerca di invertire le cose, magari tentando la droga di allargare il deficit, tagliando le tasse prima della spesa pubblica, caricandoci di nuovi debiti o pretendendo regali dall’Europa. E’ vero che la crescita aiuta le riforme: se c’è fiducia in chi governa, dalle prime riforme può nascere un po’ di crescita che facilita nuove riforme e così via, in un circolo virtuoso, facendo leva sulle grandi risorse degli italiani. Ma non va persa la consapevolezza che il percorso è lungo e, soprattutto, che non bisogna approfittare dei primi segni di crescita per smettere le riforme. Siamo in un guaio in cui ci siamo cacciati negli ultimi quattro o cinque lustri. Diamoci il tempo di uscirne senza trucchi. 

L’Ocse, sotto la direzione del nostro attuale ministro dell’Economia, ha calcolato che alcune buone riforme strutturali possono aggiungere il 5% alla crescita potenziale del Pil e più del 7% a quella dell’occupazione: ma in circa 10 anni. L’Europa non ci farà mancare l’aiuto di un monitoraggio flessibile e intelligente: è praticamente già scritto nei patti ed è inutile prepararsi a chissà quale combattimento diplomatico. Ma l’aiuto verrà solo se mostreremo decisione e lungimiranza nel riformare i tanti malfunzionamenti del Paese. Renzi lo ha promesso: ora deve farlo davvero, con piani precisi e azioni concrete, con fretta ma con pazienza, sgridandoci se non lo aiutiamo, se non cambiamo un poco tutti quanti. 

franco.bruni@unibocconi.it 

DA - http://lastampa.it/2014/02/25/cultura/opinioni/editoriali/come-usare-la-fretta-e-lottimismo-ZUz2CvLIsumL0uBwNkg1HP/pagina.html