LA-U dell'OLIVO

Forum Pubblico => LA SALUTE, LA CULTURA, IL LAVORO, I GIOVANI, L'AMBIENTE, LA COMUNICAZIONE ETICA E LA SOCIETA'. => Discussione aperta da: Admin - Maggio 03, 2008, 11:12:57 am



Titolo: ADRIANO SOFRI
Inserito da: Admin - Maggio 03, 2008, 11:12:57 am
CRONACA IL COMMENTO

La scelta di Sandra

di ADRIANO SOFRI


ALLORA "Sandra" ha deciso di tenersi la sua creatura e metterla a questo mondo. Bene, evviva. Viva. E però, non poteva che andare così, salvo che l'Italia volesse sottoporsi a una Vermicino lunga un maggio, dentro una pancia di ragazza invece che in un fondo di pozzo. Allora, che cosa resta da dire?

Questo giornale ha dato un forte risalto alla lettera al presidente della Repubblica di una giovane donna incinta, pubblicando un'ampia e non corriva conversazione di Laura Laurenzi con lei. La scelta del giornale va oltre l'interesse per un caso di cronaca e le sue implicazioni sociologiche - come sbarcano il lunario le giovani coppie precarie - e psicologiche - con che atteggiamento accolgono l'eventualità di mettere al mondo un figlio. Direi che si tratti della obiezione al pregiudizio, che strada facendo è riuscito a trovarsi delle buone ragioni, secondo cui c'è un mondo cattolico e familista fautore commosso del diritto alla vita e un mondo laico e progressista tetramente devoto al diritto all'aborto e, via dicendo, al testamento biologico e alla buona morte.

Il paradosso del pregiudizio è arrivato al punto che l'assolutismo del diritto alla vita fin dal concepimento si mostra il titolare principale, se non unico, della protezione economica di madri e padri e nascituri, espropriando la sinistra perfino di quella premura "economicista" che passava per il suo pregio e la sua dannazione. È una pura pazzia che la difesa della scelta personale di abortire non vada assieme all'impegno strenuo per sostenere la scelta di non abortire.

Ma è un fatto che ad agire con la maggior efficacia in questo senso sono personalità e associazioni dell'altro mondo, e in prima fila quelle che sono contrarie alla legge 194 e proprio in questi giorni tornano a esigerne l'abrogazione. All'indomani dell'uscita della pagina di Repubblica, accanto alle tante persone private che hanno offerto il loro aiuto, di cui il giornale ha riferito, sono state quelle associazioni ad assicurare lo stesso sostegno che vantano di aver dato in migliaia di casi in cui una iniziale decisione di abortire si è mutata in quella opposta. Le pagine del Foglio e di Avvenire ne hanno dato una certificazione.

Sta di fatto che da questo lungo digrignar di denti sul tema dell'aborto ha finito per risultare una divisione fra amore per la vita e indifferenza alla vita. Pessimo risultato, che assicura - forse - una più che legittima difesa alla depenalizzazione dell'aborto, ma delega all'assolutismo antiabortista il pane e le rose.

Detto questo, la lettera di "Sandra" pone un altro problema, molto delicato, ma non al punto che non se ne debba far cenno. L'autrice ha voluto renderla pubblica, così tramutandola in un appello ma anche nella denuncia di una condizione comune e, per lei, "disperata". La stessa forma singolarmente eloquente della lettera lo mostra, fin dal titolo: "Necrologio di un bimbo che è ancora nella mia pancia" (è un calco incupito della "Lettera a un bambino mai nato") e da espressioni come "lasciare che qualcuno risucchi il mio cuore spezzato dal mio utero insanguinato".

È molto difficile non provare un turbamento di fronte a questo impiego delle parole, e alla situazione che, almeno in apparenza, le suscita. C'è una donna giovane, di buona istruzione, sposata per amore, che ha, come suo marito, un lavoro provvisorio e senza soddisfazione, e ha provato "un'incontenibile felicità" alla scoperta di essere incinta. Lei e il suo uomo guadagnano 1300 euro al mese, per fortuna non devono pagare un affitto, lei ha una madre in pensione pronta ad aiutarla. Dunque sa "di non poter garantire al mio piccolo neppure la mera sopravvivenza". La sua scelta, dice è "iperobbligata". La differenza fra questa disperata impossibilità e la possibilità è fatta, dice alla turbata intervistatrice, sta in 700 euro al mese: "Con 2000 euro al mese sicuramente mi terrei il bambino".

Pronunciata questa frase, si è suggerito un ovvio programma di governo: del resto, proposte analoghe, perfino nella cifra, sono pronte da tempo. Pronunciata la frase, il destino personale di Sandra e della sua creatura è anch'esso segnato: si vorrà togliere dal mondo questo piccolo italiano ("piccolo napoletano-cubano che vieni al mondo, ti guardi Dio!") per 700 euro al mese?

Tuttavia. Che segno di civiltà può esistere, migliore della libertà delle donne di scegliere di diventare madri? Ma davvero è disperata - che sia sentita così, è altra questione - una condizione come quella descritta da Sandra? La libertà delle donne di scegliere di diventare madri, o di non diventarlo, non potrà mai - mai, almeno, per quello che riguarda e commuove il nostro orizzonte di tempo - abolire le nascite che arrivano non programmate e non volute, e tuttavia benvenute: i bambini che "vengono", e le madri e i genitori e il mondo che li accolgono.

Un tempo i bambini venivano nelle case dei poveri, e si diceva che le benedicessero come un dono di Dio, anche quando le gettavano nella vera disperazione e non di rado nell'abiezione. Dura ancora, quel tempo, in gran parte di mondo, dove la povertà è assoluta. E dove si insedia una povertà relativa - come da noi quella della generazione dei figli ora adulti rispetto a quella dei genitori - i figli non dovranno più arrivare, per insufficienza di assicurazione sociale?

Mi sembra difficile non sentire in questo una enorme perdita. La libertà delle donne e dei genitori non deve vergognarsi di fare i conti della spesa, ma stia attenta, da quella contabilità, a non essere schiacciata; e si guardi dallo scambiare per altruismo e generosità verso il figlio a venire un'amministrazione avara di se stessi.

Non è a Sandra che parlo. Lei, oltretutto, ha detto con un giusto amor proprio di voler provvedere a se stessa e alla sua nuova vita. Dopotutto doveva averlo deciso fin da principio. Ora che si è così liberata, la sua è una decisione di amore e dignità. Le servirà anche a tenersi per sé il suo "piccolo maschio", senza trasformarlo in un figlio dei lettori di Repubblica, del Movimento per la Vita e del piano Gemma, di Giuliano Ferrara (che aveva appena versato centomila euro al centro di aiuto alla vita della Mangiagalli), del presidente della Repubblica e di chissà quanti altri. Il figlio di un'adozione a distanza ravvicinata, diciamo.

Dunque, fatti gli auguri a Sandra, si tratta della questione più grossa, si tratta della terra. Chi le affiderebbe una nuova creatura, fatti bene i conti sulle sue entrate e le sue uscite? Non si deve venire al mondo come gli altri animali: ma guai se non vedremo più come sia bello il modo in cui tutti gli animali, umani compresi, vengono al mondo.


(3 maggio 2008)

da repubblica.it


Titolo: ADRIANO SOFRI
Inserito da: Admin - Agosto 29, 2009, 11:21:01 am
LA POLEMICA

L'artiglieria pesante del Cavaliere

di ADRIANO SOFRI


Il sito del nuovissimo Giornale registrava ieri come "il più letto" l'articolo intitolato "Boffo, il supercensore condannato per molestie". L'ho letto anch'io. E ho letto anche, come tutti i giorni da molti anni, l'Avvenire.

Alla fine mi sono chiesto se le "rivelazioni" su Dino Boffo, direttore dell'Avvenire, anche a prescindere dalla loro dubbia accuratezza (e in assenza della versione dell'imputato) avessero influito sulla mia lettura del quotidiano, tirando addosso ai suoi argomenti un sospetto di ricatto o di coda di paglia. Mi sono risposto francamente di no. Ci ho letto, con il solito interesse, una pagina dedicata a Timor dieci anni dopo: infatti l'Avvenire è fra i quotidiani più attenti ai problemi internazionali, e fa tesoro delle fonti peculiari di comunità e missioni cattoliche. Ho letto gli articoli che ogni giorno trattano di questioni cosiddette bioetiche, e come ogni giorno ne ho tratto argomenti al mio dissenso. Ho letto con riconoscenza le pagine sull'umanità immigrata e sull'umanità incarcerata. Ho letto gli articoli sulla Perdonanza di Celestino, che piuttosto vistosamente eludevano la cena fra Bertone e Berlusconi, andata poi felicemente di traverso. Ho letto le pagine culturali di Agorà e quella delle lettere, fino alla rubrica quotidiana di Rosso Malpelo, che mi pizzica ogni tanto, ripizzicato.

Stando così le cose, che le "rivelazioni" del nuovissimo Giornale siano vere o false o, peggio ancora, mezzo vere o mezzo false, non mi importa niente. La vita sessuale di Boffo, sulla quale non a caso non mi sarei mai interrogato, non ha alcun rilievo per me - e per qualunque altra persona seria- se non quando si provasse che inficia la sua lealtà e serenità professionale. In questo l'alibi dell'aggressione giornalistica contro di lui è del tutto fittizio: "Voi frugate nel letto di Berlusconi, e noi facciamo altrettanto nei vostri". Boffo non è il capo del governo, e nemmeno un sottocapo: non ha barattato le proprie relazioni private con prebende pubbliche. I suoi fatti sono fatti suoi.

I suoi aggressori perfezionano l'alibi della ritorsione con la pretesa di una magnanima campagna contro "il moralismo". Il moralismo è uno di quei gomitoli di cui si è perso il capo, a furia di ingarbugliare. Ha un fondo da tenere fermo: che, con pochissime patologiche eccezioni, le persone di una società sanno che cosa è bene e che cosa è male. Che lo sappiano, non assicura affatto che seguano il bene e si astengano dal male. "Non bisogna giudicare gli uomini dalle loro azioni. Tutti possono dire come Medea: video meliora proboque, deteriora sequor". Vedo bene che cosa è il meglio, ma poi vado dietro al peggio. (Ho citato Diderot che cita la Medea innamorata di Ovidio: un po' di sbieco illuminista fa bene, ai nostri giorni. Ma bastava l'evangelista Giovanni).

Tuttavia, reciprocamente, che le persone agiscano male non significa affatto che ignorino che cosa è bene, e addirittura lo proclamino. Quando lo proclamano troppo stentoreamente, dimenticandosi di allegare la propria incoerenza, allora il moralismo diventa una disgustosa ipocrisia. E' avvenuto platealmente nelle manifestazioni sull'indissolubilità sacra delle famiglie guidate da poligami ferventi, o sull'inesorabilità della punizione di prostitute e clienti da parte di puttanieri e cortigiane (scortum impudens satis - una escort davvero svergognata: così il cronista Liutprando a proposito di Marozia, concubina di papi e papessa lei stessa, in quel secolo X che si chiamò pornocrazia ). Ora l'equivoco cui Berlusconi (d'ora in poi B.: ragioni di spazio) e i suoi difensori si aggrappano è appunto quello dell'invasione moralista nei suoi vizi privati, a scapito delle sue pubbliche virtù. E dunque la rappresaglia - almeno dieci per uno, come nelle migliori rappresaglie- affidata alla Grande Berta del nuovissimo Giornale. Ma io, per esempio (che sono ufficialmente pregiudicato, e personalmente peccatore in congedo, per effetto se non altro delle stesse vicissitudini cliniche che hanno dotato altri più fortunati del premio della satiriasi senile, che i desideri avanza) non mi sarei mai piegato a rovistare nei costumi e nelle pratiche sessuali di B. o di altri, qualunque piega avessero. Come me, direi, questo intero giornale. E non mi sarei mai augurato una pubblica campagna che approdasse a un'invadenza e una persecuzione delle scelte sessuali di adulti capaci, o supposti capaci, di intendere e di volere. Ma si è trattato d'altro, fin dall'inizio: intanto, dall'inizio, dell'allusione diretta a frequentazioni di minori, a una condizione patologica, all'usanza invalsa e contagiosa di fare di incontri sessuali ossessivi, grossolanamente e ridicolmente maschilisti e per giunta mercenari l'introduzione, metà elargita metà estorta, a pubbliche carriere elettorali, governative, spettacolari. E di un contraccolpo irreparabile di discredito e di ricattabilità.
B. non governa più, benché dia in certi momenti più inconsulti l'impressione di spadroneggiare, che è altra cosa. E' lì - sia detto a proposito del 25 luglio - per questo: perché altri sgovernano e spadroneggiano assai più licenziosamente alle sue spalle, e di quegli altri bisognerebbe tenere ogni conto già mentre lo sgombero è incompiuto, e minaccia di travolgere tutti.

B., come succede, vuole vendere cara la pelle. E siccome è molto ricco, la venderà molto cara. L'inversione della sua politica degli ingaggi all'indomani della rotta - fuori Kakà, dentro Feltri - lo proclama. E già un solo giorno ha visto scattare la controffensiva così a lungo dilazionata del nuovo attacco. Gran colpi, combinati: la denuncia delle dieci domande di Repubblica alla magistratura, l'assalto molto sotto la cintura a Boffo, e con lui alla Chiesa cattolica romana, che dopotutto non aveva lesinato indulgenze ed elusioni nei confronti dello scandalo politico e civico, oltre che morale, del capo del governo. L'ostentata persuasione di poter forzare un qualche tribunale all'intimidazione della stampa libera, se non la pura disperazione, hanno ispirato la denuncia contro Repubblica: la quale non avrebbe desiderato di meglio che di discutere ovunque, e anche in un tribunale, di quelle domande senza risposta - o con la più nitida delle risposte- ripetute non a caso ostinatamente, in bilico fra una frustrazione e una determinazione catoniana. E insieme la scelta di distruggere in effigie il direttore del giornale dei vescovi italiani e di far intendere alla suocera vaticana che, quando si spingesse ad applicare a B. un centesimo della severità con cui maneggia le comuni presunte peccatrici, la guerra diventerebbe senza quartiere. A questa, chiamiamola così, strategia, presiede il principio secondo cui non c'è maschio, credente o no, laico o chierico, che non si possa prendere con le mani nel sacco di qualche magagna sessuale. (Maschio, dico, perché negli strateghi della controffensiva la guerra resta guerra fra maschi, e le digressioni servono tutt'al più a insultare le donne altrui o a sfregiare le proprie sospette di intelligenza col nemico). La Grande Berta, l'ho chiamata. Vi ricordate, la scena di artiglieria pesante all'inizio del Grande Dittatore. Naturalmente, possono fare molto male i tiri pesanti ad alzo zero. Possono davvero umiliare le persone e devastare le famiglie. B. non può rinfacciare a nessuno di aver attentato alla sua famiglia. Possono fare molto male, ma è difficile che possano prevalere, direi. Le due cannonate strategiche di giovedì, per esempio, denuncia contro Repubblica ed esecuzione sommaria di Boffo, all'una di venerdì avevano già fatto cancellare la famosa cena della Perdonanza. Alle 13,40 di ieri ci si chiedeva se Gheddafi non volesse togliersi lo sfizio - se ne toglie parecchi, avete visto- di disdire il pranzo con B., e tenersi graziosamente le Frecce tricolori. Nel tardo pomeriggio poi B. si è dissociato dal Giornale, cioè da se stesso. E domani è un altro giorno.

Le guerre, tanto più quelle senza quartiere, non fanno bene a nessuno. B. ha una mossa vincente: dimettersi, e piantarla una volta per tutte con l'incubo del potere. Che gusto c'è ormai? Non può più invitare i capi di Stato stranieri a Villa Certosa. Nemmeno cenare all'Aquila con un Segretario di Stato straniero. Non ha da perdere che qualcuna delle sue catene televisive. Ha un'intera vita privata da riconquistare.

(29 agosto 2009)
da repubblica.it


Titolo: ADRIANO SOFRI Le radici dell'omofobia
Inserito da: Admin - Settembre 03, 2009, 05:18:24 pm
L'ANALISI

Le radici dell'omofobia

di ADRIANO SOFRI


Un mio amico gay (sapete la frase: "Non ho niente contro l'omosessualità, ho anche un amico gay") mi dice che non sa bene che cosa voglia dire questa recrudescenza di odio e violenze omofobe, e nemmeno quanto sia reale.

Può darsi, dice, che la differenza principale stia nella reazione: oggi non siamo più disposti a passarle sotto silenzio e a lasciarle impunite. La violenza omofoba non si è mai fermata. Può darsi, dice, che l'incattivimento generale del nostro tempo la irriti di più: dopotutto, gli omosessuali sono da sempre lì a fare da bersaglio, loro e gli altri diversi per eccellenza, votati a far da capri espiatori, ebrei, zingari. Roma poi, dice, è la magnifica città d'elezione delle discriminazioni e dei razzismi. I fascistelli (grazioso diminutivo, quasi vezzeggiativo, come Svastichella) si trovano il piatto servito al giorno d'oggi: c'è la Gay Street, si va a tirare un paio di bombe, poi quando ti inseguono si tira fuori una pistola (una pistola intera, non una pistolella) e si torna al calduccio del proprio covo. Il mio amico vive in una grande città del centro in cui l'ultima aggressione a gay, peraltro fortuita, risale, dice, a due anni fa. Poi si scusa di dover chiudere la telefonata: sta uscendo per andare a una manifestazione contro la violenza omofoba.

Non mi accontenta la sua opinione, dubbiosa del resto. Non che sia un'opinione ottimista, al contrario. Vuol dire che l'odio contro i gay non ha mai conosciuto tregua, e non ne conoscerà per molto tempo ancora. Non mi convince l'idea della continuità. Mi pare che tutti i fenomeni del peggiore arcaismo e patriarcalismo, a cominciare dagli ammazzamenti di donne, abbiano un carattere modernissimo, siano insieme avanzi di passato e sintomi del mondo nuovo. Il futuro ha un cuore antico, diceva un bel titolo di Carlo Levi (che lo trovava uguale a se stesso, quel cuore, in Lucania o in Unione Sovietica). Si può anche paventare un futuro che non abbia più un cuore, ma ce l'abbia decrepito. Gli assalti premeditati ai luoghi conviviali gay, o la coltellata improvvisata a un angolo di strada - secondata o ignorata dalla viltà degli astanti - sono fortunosamente coincisi con la decisione di "gridare al mondo" - ha scritto così D'Avanzo - che "il direttore del giornale della Conferenza episcopale è un frocio!". Coincidenza che complica già le cose.

E a complicarle ulteriormente sta l'intreccio fra la posizione assunta dalla Chiesa in questo frangente, la posizione ufficiale e tradizionale della Chiesa sull'omosessualità, e lo speciale riparo di fatto offerto dalla Chiesa all'omosessualità (e, altra questione, alla cosiddetta pedofilia). Non è facilissimo tenere assieme il rigoroso e sdegnato ripudio dell'invadenza nella vita privata delle persone e la condanna delle loro private vocazioni sessuali. Le oscillazioni di questi giorni (ancora lievi, peraltro) nell'atteggiamento della gerarchia cattolica, spiegate acutamente dagli esperti con le diverse linee politiche concorrenti, sono anche in qualche misura legate a quella contraddizione. (Bisognava alla Chiesa esser prudente, ammoniva Messori ieri sul Corriere, e destinare il sospettato di gusti diversi ad altri incarichi). La stessa giudiziosa (a volte troppo) distinzione che la Chiesa ribadisce tra peccato e peccatore, non basta a trovare un equilibrio: oscillando a sua volta fra un'estrema indulgenza (credi forte, e pecca pure più forte ancora, magari a pagamento) e una colpevolizzazione devastante.

Alfredo Ormando venne dalla Sicilia in piazza San Pietro per darsi fuoco il 22 gennaio 1998. Un "atto inconsulto": come no. Lo aveva scritto lui stesso, qualche giorno prima, a Natale. "Vivo con la consapevolezza di chi sta per lasciare la vita terrena e ciò non mi fa orrore, anzi!, non vedo l'ora di porre fine ai miei giorni; penseranno che sia un pazzo perché ho deciso Piazza San Pietro per darmi fuoco, mentre potevo farlo anche a Palermo". Un atto "innaturale", per definizione: che a lui sembrò il più naturale degli atti: "Spero che capiranno il messaggio che voglio dare; è una forma di protesta contro la Chiesa che demonizza l'omosessualità, demonizzando nel contempo la natura, perché l'omosessualità è sua figlia".

Questione complicata, e insieme semplice fino all'imbarazzo. "Noi eterosessuali" dobbiamo pur pensarne qualcosa. Se non altro, per decidere se stiamo o no uscendo anche noi per andare a manifestare. Una volta, quando eravamo di sinistra e c'era la sinistra (di sinistra siamo ancora, molti di noi, la sinistra però non c'è più, o quasi), ci dicevamo che virilismo e omofobia sono connotati decisivi dei fascismi - magari per mascherare o rimuovere un'omofilia temuta - e dunque battersi per i diritti di gay e lesbiche era un capitolo del dovere antifascista. Oggi la correttezza politica dà così per ovvia la tolleranza nei confronti delle diverse predilezioni sessuali che la questione è pressoché accantonata. Le aggressioni contro i gay si moltiplicano, i gay rispondono, le autorità, per lo più maschie, hanno il gay village e la gay street cui far visita con le telecamere. E così via. A ciascuno il suo.

Agli eterosessuali maschi la loro normalità, spinta ogni tanto all'eccesso colposo di legittima difesa consistente nell'ammazzare moglie e figli, ex fidanzata o prostituta ignota dell'est, e poi tentare, quasi sempre fallendo, il suicidio. Sono dell'altroieri i dati aggiornati sugli omicidi in Italia. Quelli in famiglia hanno il primo posto e superano nettamente gli ammazzamenti di mafia: quanto alle vittime, sono per il 70 per cento donne. Fine della digressione sulla normalità eterosessuale. Torniamo alla violenza omofoba e alla sua eventuale modernità.

Sono persuaso che al fondo della questione dell'immigrazione straniera stia il fantasma della sessualità, lo spettro che si aggira per l'Europa e, più inaspettato e improvviso, in Italia. Evocato, del resto, dalla repellente ingenuità razzista, così facile a tradirsi. Frasi come "vengono a portarci via il lavoro" sono già meno frequenti di quelle: "Vengono a violentarci le donne". Non è vero che ci portino via il lavoro, come spiega la Banca d'Italia, né che ci portino via le donne, come spiegano le statistiche criminali. Gli italiani furono giustamente commossi e sdegnati dall'orribile violenza omicida di Tor di Quinto. Non hanno tratto abbastanza dalla lezione della strage netturbina di Erba. Gli immigrati arrivano alle nostre spiagge, provvisoriamente esanimi, come le avanguardie di un mondo povero e spaventosamente giovane e prolifico. Sono lo specchio rovesciato della nostra senescenza e della nostra demografia azzerata. Un tempo l'omosessualità era dannata come un peccato contro la specie e l'imperativo della riproduzione. Oggi non si può più trattare del "disordine sessuale" come di un attentato alla natalità, non esplicitamente. Ma sentirlo come un tradimento della famosa identità, l'indizio più scoperto della resa effeminata dell'invaso all'invasore, una quinta colonna del mondo povero e giovane e famelico che preme per cancellare i confini, questo può succedere, succede. Come sempre i razzisti, consapevoli o no - come i nazisti, che facevano di nascosto lo sporco lavoro aspettandosi il riconoscimento dell'umanità a venire - i fascistelli che aggrediscono un ragazzo gay stanno difendendo la nostra identità. Il nostro onore. Ci stanno difendendo, Dio ci aiuti.

(3 settembre 2009)
da repubblica.it


Titolo: ADRIANO SOFRI I confini della politica
Inserito da: Admin - Novembre 03, 2009, 09:52:43 am
LE IDEE

I confini della politica

di ADRIANO SOFRI


Di che cosa parla tutto questo parlare di sesso? Voci non interessate avvertono di un disagio, temono che si distragga l'attenzione dai problemi politici "veri", che si dissezioni troppo il corpo del sovrano esaltandone così la sovranità, e finalmente - come avrebbe provato il capitolo intitolato a Marrazzo - che "chi di sesso ferisce di sesso perisce". Di cesso, anzi: l'ha scritto recisamente Marco D'Eramo sul Manifesto: "Un disagio che serpeggiava da mesi per la sensazione che un attacco centrato sui sanitari del cesso non solo era strategicamente perdente, ma nascondeva qualcosa di sbagliato, riduttivo, se non umiliante, per chi lo portava".

Il dubbio è fondato: ogni volta che si parla di sesso (e che se ne tace) si rischia il compiacimento, il bigottismo e la volgarità, e soprattutto l'indiscrezione, che è un peccato mortale. Mi pare che si possa ragionevolmente obiettare, adducendo l'intenzione limpida di una denuncia del legame fra irrilevanti vizi privati ed esorbitanti vizi pubblici, fatti suoi e fatti nostri: una certificata commistione fra boudoir presidenziale e selezione della classe dirigente politica, fra promozione politica e ricattabilità, aspettative di favori in campi delicati come l'edilizia e delicatissimi come la sanità, il contrasto oltraggioso fra notti in villa e manifestazioni diurne sulla famiglia e disegni di legge draconiani sulla prostituzione, e infine un'idea del posto delle donne (dunque degli uomini) su questa terra. D'Eramo trascura che se "morire tra le braccia di una prostituta" è una sorte non infrequente e perfino invidiabile per presidenti di repubbliche e cardinali francesi (o non francesi) non lo è altrettanto, in democrazia, lasciare in eredità alla prostituta un seggio al parlamento europeo: e tantomeno regalarglielo da vivi. Non ho detto che non succeda: però non tanto, diciamo.

Il capo di governo reso vulnerabile dai suoi comportamenti privati può aderire più bruscamente, per esempio da un giorno all'altro, a un'enormità - quanto ai problemi "veri" - come la legge che dichiara reato penale l'immigrazione clandestina. E, sempre sui problemi "veri", il distributore di cocaina e procacciatore di ragazze alle feste di palazzo getta una luce - una luce: il faro del muro di cinta - sulle migliaia di disgraziati che riempiono le galere o ci crepano per qualche grammo di roba.

Tuttavia conviene spalancare la discussione. Specialmente su temi che sembrano diventati troppo scontati o banali per essere ancora presi sul serio, come avvenne quando si imposero con la forza di una rivelazione e una scoperta. Successe per cose come il rapporto fra personale e politico (oggi confuso e anche deformato in quello fra privato e pubblico), il posto delle donne (dunque degli uomini), la prostituzione, e l'amore. Il femminismo costrinse molti uomini a vergognarsi, pensarci, e rallegrarsene. Ora, l'idea che il femminismo sia superato, sensata o no, autorizza moltissimi uomini, e non solo loro, a non pensarci più, e a non vergognarsene affatto. Anzi. A D'Eramo, che a questi temi è sensibile, l'idea che "il personale è politico" sembra oggi una ricaduta nell'arcaicità. Come ogni slogan, anche quello conobbe i suoi eccessi di zelo, pretese di abolire il confine fra il riserbo e la messa in piazza, com'è inevitabile quando si deve abbattere un muro più spesso di quello di Berlino, e dunque meritò d'essere attenuato strada facendo: il personale è anche, a suo modo, politico. Non merita però di essere cancellato. Si scoprì a un certo punto, o si riscoprì, che le relazioni sessuali erano il cuore delle relazioni culturali e politiche. Per esempio, pensammo un tempo che la prostituzione potesse essere abolita: come ogni sfruttamento, del resto. Era una utopia, per dirla con indulgenza. E prepotente, anche.

Dimenticava per giunta che lo sfruttamento del corpo della donna da parte dell'uomo è una manifestazione assai peculiare dell'universale sfruttamento dell'uomo sull'uomo. A distanza di qualche decennio, e a rivoluzione sessuale data per avvenuta, si constata un successo spettacoloso della prostituzione, domanda e offerta (prima la domanda e poi l'offerta, benché sembrino rincorrersi come l'uovo e la gallina). Ma la prostituzione non era anche il paradigma, il centro stesso della condizione sociale della donna - dunque dell'uomo? E non era vero che gli uomini fossero acquirenti di potere, più che di disposizione sessuale? (Prima che nei verbali baresi, la "disponibilità", ammirevolmente rinfacciata da Rosi Bindi, figurava così in Kate Millet, 1973). Il potere che si acquista nella prostituta è il potere di disposizione sessuale sull'altra: ancora più grottesco quando si illuda d'essere gratuito, e pretenda di passare per "conquista" riportata grazie al proprio fascino... I "potenti", si dice: titolo doppio. Ecco qui la volontà di potenza nel suo senso letterale - la smentita ostentata dell'impotenza, a prova di querela. Ma con le prostitute, "il re è nudo". E pressoché ogni uomo vuole un suo posticino in cui regnare - o essere consolato, perché "il re è solo", poveretto.

Gli uomini, proteggendosi con le debite eccezioni, non pensavano che le donne facessero le puttane: pensavano che lo fossero. Il matrimonio doveva tenere quelle di loro proprietà al riparo. L'Amore - la sua convenzione - è concreto, e il matrimonio imprime addirittura un nuovo nome alla donna, quello del marito. Il Piacere è astratto: di qui la paura maschile del piacere femminile, del suo anonimato, della sua astrazione. Nel piacere si annida la minaccia del tradimento, dello spodestamento. Le prostitute erano le portatrici del piacere astratto. Se la rivoluzione sessuale, data per avvenuta, non fosse soprattutto una parodia, non crescerebbe a dismisura il rapporto mercenario, e la sua indipendenza dal "bisogno" - dal lato della domanda, specialmente. Per l'uomo, prima del femminismo, c'è la moglie che non deve provare piacere e la puttana che deve provarlo, ed è il contrasto che fa della moglie una donna onesta e della puttana una puttana. Dopo, agli occhi dell'uomo la puttana che prova piacere mostra che anche la donna onesta lo prova, e la smaschera: non ce ne sono più. Adesso per l'uomo, salvo che faccia tesoro della lezione, meglio squagliarsela, cercare altrove: in altri sessi, in altre nazionalità. Il campo socialista dichiarava reato la prostituzione, e la lasciava dilagare: proprio come lo sfruttamento in generale. Calze di nylon e jeans per il nostro turismo maschile. L'eredità più rivelatrice del socialismo reale è quella: la prostituzione allargata, genere di esportazione. Quella letterale - la distinzione è sempre necessaria, si tratta dell'habeas corpus - e quella metaforica. E una società simile, con campioni simili, aveva appena esibito l'intenzione governativa di castigare lucciole e clienti. L'ipocrisia rimpianta dai lodatori del tempo democristiano (che conobbe la sera di Capocotta) sarebbe un passabile rimedio al peggio, purché non passi il segno.

Certo che è politica. Si ha ragione a chiamarla arcaica: a condizione di accorgersi che è anche modernissima. L'ultimo grido.

© Riproduzione riservata (3 novembre 2009)
da repubblica.it


Titolo: Adriano SOFRI. Non bisogna dare niente per scontato, questa è la disgrazia ...
Inserito da: Arlecchino - Luglio 16, 2018, 10:16:43 am
Nerina Garofalo.

Ha ragione Maurizio a postare questo nell'articolo di Adriano Sofri— Sofri ha spesso una sensibilità forte, una educazione all'attenzione.

Qui tutta da sentire, e condividere

Adriano Sofri
Ieri alle 09:29

Ha un amico negro

Non bisogna dare niente per scontato, questa è la disgrazia supplementare. Quando cede un argine quello che ancora un momento prima era un tabù diventa accettabile e anzi ostentato. Succede da bambini con le parolacce. Nell'Italia razzista del fascismo era impensabile per i più e pericolosissimo per i pochi non dirsi razzista. Chi volesse obiettare avrebbe potuto cautamente premettere la clausola: “Non sono antirazzista, ma…”. Chissà se anche l’ultimo rimasuglio dell’argine che fa dire oggi ai più “Non sono razzista, ma…” crollerà, e il razzismo tornerà a essere rivendicato e vantato. Intanto, quello che viene dopo i puntini del “ma” dilaga. Si fa a gara per vantarsene. Il ministro dell’interno tedesco, quello Seehofer entrato improvvisamente nelle nostre frequentazioni quotidiane, ha vantato l’espulsione di 69 afghani residenti in Germania alla volta dell’Afghanistan in coincidenza col compimento dei suoi 69 anni: si è fatto un regalo, che allegria. Uno degli espulsi, 23 anni, vissuto in Germania da quando ne aveva 15, arrivato “in patria” si è impiccato, guastando maleducatamente la festa del ministro. (Macché, non bastava nemmeno a rovinare la festa, ha sempre quell’espressione). L’Afghanistan, per l’Europa – compresa la migliore, compresa la Norvegia – è “un paese sicuro”. Il nostro Salvini – nostro, quello che è toccato a noi, che ci siamo inflitti – ha elencato le nazionalità dei 67 naufraghi tirati su dalla Vos Thalassa e sbarcati da una telefonata del Quirinale a Trapani (Trapani, dove Mattarella è di casa: dev’essergli pesato), eccole: 23 Pakistan, 4 Marocco, 4 Algeria, 1 Bangladesh, 1 Ciad, 2 Egitto, 1 Ghana, 10 Libia, 1 Nepal, 7 Palestina, 12 Sudan, 1 Yemen. Dove sono le guerre? – ha chiesto il callido Salvini. Naturalmente, si fa presto a dire dove non ci sono le guerre, in quei paesi. Vi chiederete se Salvini sia più ignorante o falso: le due cose, guardate. Nel 2015 recitò una gag formidabile. Avendo un amico nigeriano (oggi senatore della Lega), secondo la regola “non sono razzista, ho anche un amico negro”, “non sono omofobo, ho un amico frocio”, eccetera (unica eccezione, gli zingari: non hanno un amico zingaro), proclamò che avrebbe provveduto di persona a risolvere il problema della Nigeria. Ci sarebbe andato, avrebbe spiegato ai governanti che cosa dovevano fare, si sarebbe fatto dire da loro di che cosa avevano bisogno, e la cosa sarebbe stata sistemata. Non pensate che io stia scherzando o parodiando, è andata proprio così. Poi, dopo qualche slittamento nella data promessa della sua spedizione, finalmente comunicò (oltretutto smentito dal consolato nigeriano) che la Nigeria gli aveva negato il visto, e che evidentemente il suo viaggio “aveva fatto paura a qualcuno”. Siccome le buffonate si colorano volentieri precisò anche di aver fatto il vaccino per la febbre gialla – che è obbligatorio – e di essere perciò rimasto a letto per due giorni con la febbre: caso meritevole di attenzione dagli specialisti, e forse oggi recuperabile come anticipazione delle strategie no-vax. Salvini è solo una metà del problema, anzi il 49 per cento, direi. L’altra metà, anzi il 51 per cento del problema, direi, sono quelli che gli credono, o fanno finta. Salvini va in Libia, non occorre vaccinarsi, del resto va e torna in una mattinata, abbastanza comunque per rassicurare il pubblico italiano: “Ho chiesto di visitare un centro di accoglienza per migranti in costruzione, un centro all’avanguardia che potrà ospitare mille persone. Questo per smontare la retorica in base alla quale in Libia si tortura e non si rispettano i diritti umani”. Il centro in costruzione incaricato di smontare la retorica è gestito dalle Nazioni Unite, dall’UNHCR, l’Alto Commissariato per i Rifugiati. Il pubblico italiano, che guarda molta televisione, dunque moltissimo Salvini, ha però avuto sufficienti occasioni per vedere gli orrendi spettacoli di torture, vessazioni, stupri e infamie che si consumano nei centri di detenzione libici gestiti dalle bande rivali, comprese quelle legate al governo riconosciuto dall’Onu. Io, parte del pubblico italiano, ho visto giovedì sera nel programma In onda, sulla 7, due servizi di Francesca Mannocchi, in mare e in terra, e ho sentito la sua testimonianza in studio: bellissimi, impressionanti. Le donne ammucchiate come stracci coi loro piccoli, nati in quei centri (da quali padri, Mannocchi non ha avuto bisogno di dire): la retorica. La pacchia, la crociera. Salvini, e i suoi vili compagni di governo, sono il 49 per cento del problema: il 51, almeno, è il pubblico. Quello che crede, quello che non crede ma fa finta di sì, perché gli piace. Si evocano le analogie fra i nostri giorni e gli anni ’30 della Germania: più intimamente si dovrebbero ricordare gli anni ’30 dell’Italia. Quando per denigrare un oppositore o sbarazzarsi di un rivale lo si accusava di non essere razzista. L’epiteto più ingiurioso di quel tempo – anche questo è stato ricordato a ragione – era “pietista”. Denunciava inesorabilmente chi mostrasse qualche remora pietosa, qualche compassione, verso gli ebrei e – in subordine – i neri, gli zigani… Pietista, l’antenato del più vile ancora buonista. Io non sono buono, ma… E’ arduo essere davvero buoni, lasciatemi almeno essere buonista.

Da Fb del 15 luglio 2018 Post di Nerina.