LA-U dell'OLIVO

Forum Pubblico => PROTAGONISTI (news varie su loro). => Discussione aperta da: Admin - Aprile 22, 2008, 12:13:55 pm



Titolo: EMANUELE MACALUSO -
Inserito da: Admin - Aprile 22, 2008, 12:13:55 pm
22/4/2008
 
Macché Nord il nodo è il Pd
 

EMANUELE MACALUSO
 
Palmiro Togliatti, nella campagna elettorale del 1948, parlando a Torino di fronte a 130.000 persone, pronunciò queste parole: «De Gasperi ha capito che questa volta il verdetto di condanna delle masse popolari (della Dc, n.d.r.) non verrà dall’Italia del Nord. Ma verrà prima di tutto dal Mezzogiorno lavoratore, contadino e piccolo borghese….».

Traggo questa citazione dal libro di Edoardo Novelli (Le elezioni del Quarantotto, Donzelli editore) per dire che in quelle elezioni il leader del Pci dava per scontato che il Nord avrebbe votato per il «Fronte popolare» e annunciava la vittoria nel Sud. Ma perse al Nord e al Sud. E così è stato sempre: quando la sinistra ha vinto e quando ha perso. Tuttavia le aspettative di Togliatti sul voto del Sud non erano campate in aria se si tengono presenti i dati delle elezioni siciliane, svoltesi il 20 Aprile del 1947: il «Blocco del popolo» (Pci-Psi-Partito d’azione) con il simbolo di Garibaldi (come nel 1948) aveva ottenuto il 30 per cento dei suffragi e la Dc solo il 20 per cento. Nel 1948 l’assetto economico-sociale non era certo cambiato, ma la Dc ottenne nell'isola la maggioranza assoluta. Il Fronte popolare perse 10 punti, calò al 20 per cento dei voti.

Come è noto quel che era cambiato era invece il quadro politico internazionale (la guerra fredda) e anche quello nazionale dato che la Dc e i partiti di centro puntarono con determinazione sulla riorganizzazione e lo sviluppo del capitalismo. Le scelte furono nette e lo scontro sociale e politico negli anni Cinquanta fu durissimo. Ma complessivamente l’Italia progredì: da Paese agricolo-industriale si affermò come potenza industriale e si realizzarono anche significativi progressi sociali. E in quegli anni i rapporti di forza elettorali cambiarono: già nel 1951 nelle elezioni siciliane la sinistra segnò una significativa avanzata, lo stesso avvenne nelle elezioni politiche del 1953 quando la Dc e i partiti centristi non superarono il 50 per cento dei suffragi necessari per fare scattare il premio di maggioranza prevista dalla «legge truffa». Penso che quei progressi elettorali della sinistra furono frutto di una politica che, anche all’opposizione, indicava un certo rapporto tra Nord e Sud e di una presenza attiva e organizzata, in tutti i gangli della società.

Ho fatto questa lunga premessa anche per dire che in anni in cui effettivamente si verificarono processi politico-sociali «epocali», nessuno usò questo termine enfatico di cui oggi si abusa per giustificare il fatto che nel Nord il Pd non decolla, si verifica uno sradicamento della sinistra radicale e un successo elettorale della Lega. E nessuno invece parlò di svolta epocale nel momento in cui per la prima volta nella storia di questo Paese le regioni del Mezzogiorno continentale e della Sardegna sono state governate dal centrosinistra. Eppure il fatto è stato politicamente rilevante. Ed è rilevante il fatto che è riemersa una «questione meridionale» più acuta di quella del passato perché è determinata anche dal fallimento dei governi del centrosinistra nel Sud. E come nel Nord sono andati avanti processi che di fatto hanno sempre più separato le due parti del Paese. La Lega esprime questa «separatezza» che ora si manifesta anche al Sud con il movimento di Lombardo.

Cosa fare? Dopo il risultato elettorale nel centrosinistra, l’unica risposta che si è sentita è quella che chiede il «Pd del Nord». Ci sarà anche il Pd del Sud? Il problema, a mio avviso, non è il Pd del Nord, ma il Pd. Ogni giorno si legge che questo partito deve «ricominciare dal territorio». Vero. Ma con quale politica, con quali forze, con quale struttura organizzativa? Si è scritto sino alla noia che la nascita del Pd è stata una grande operazione politico-culturale «epocale», che ha fuso le anime politiche di Moro e Berlinguer (sciocchezze!) che superava le esperienze dei partiti socialisti europei ecc. E ora?

Intanto non ci sono nel Pd organi in cui si discute seriamente e pubblicamente sulle cause della sconfitta e sulle prospettive dell’opposizione. Il Pci, partito la cui democrazia interna era monca, lo faceva nei Comitati Centrali con resoconti sull’Unità. Il partito democratico non fa nemmeno questo. Eppure ne avrebbe bisogno.
 
da lastampa.it


Titolo: MACALUSO Un patto costituzionale tra destra e sinistra
Inserito da: Admin - Aprile 30, 2008, 11:44:53 pm
30/4/2008
 
Un patto costituzionale tra destra e sinistra
 
EMANUELE MACALUSO
 

In due occasioni che segnano la storia della Repubblica italiana - il sessantesimo anniversario della Costituzione e la ricorrenza del 25 Aprile - il Capo dello Stato ha pronunciato due discorsi su cui riflettere per l’incidenza che hanno sui processi politici che attengono alla ricostruzione di un sistema politico condiviso. Giorgio Napolitano, il 23 gennaio scorso, parlando davanti alle Camere riunite, ha messo in forte evidenza la validità della Costituzione come riferimento essenziale delle istituzioni e dei cittadini e il 25 Aprile a Genova ha detto che quella data «deve porsi al centro di uno sforzo volto a ricomporre con spirito di verità la storia della nostra Repubblica». In entrambi i discorsi ha sollecitato una «condivisione» nel dare un senso a quelle date attraverso uno sforzo volto a raggiungere «un comune sentire storico». Nel primo e nel secondo intervento Napolitano non ha fatto ricorso alla retorica ma al ragionamento critico, alle argomentazioni volte a valutare serenamente e consapevolmente le revisioni necessarie e i punti fermi «invalicabili».

Le reazioni politiche espresse dai due schieramenti ai due discorsi sono state interessanti e in parte convergenti, anche se Berlusconi sul tema continua ad avere un comportamento «equivoco», nel dire e non dire, nell’affermare e nello smentire. L’«equivoco», però, non è solo nella persona che l’esprime, ma nell’attuale sistema politico. Ed è su questo punto che vorrei soffermarmi. Le forze politiche che insieme furono protagoniste della Resistenza e scrissero la Carta Costituzionale, dal 1994, sono scomparse dalla scena politica. I loro eredi, in parte radunati nel centrosinistra, hanno formalmente assunto i valori della Resistenza e della Costituzione, ma non hanno avuto la capacità e la forza politica di reinterpretarli e di esprimerli nel quadro politico nuovo. Un quadro politico di cui è stato fattore determinante la «discesa in campo» di Berlusconi che col suo partito-azienda ha egemonizzato il sistema, sdoganando il Msi di Fini, assorbendo buona parte degli elettori moderati del vecchio pentapartito (Dc, Psi, Pr-Psdi, Pli) e avallando come forza di governo la Lega di Bossi.

In tutti questi anni - sui temi cui ho accennato - per usare un termine calcistico, il centrosinistra ha fatto catenaccio e ha giocato di rimessa: ha difeso stancamente i valori della Costituzione e della Resistenza senza un progetto innovativo. Il centrodestra invece non ha avuto come riferimento la Resistenza e ha teso a introdurre modifiche strumentali alla Costituzione senza un progetto politico-costituzionale.

Insomma, tra le forze che si sono alternate al governo e all’opposizione, non c’è un «patto costituzionale» e una condivisione sui valori che dovrebbero essere fondanti per la nazione. Eppure - ecco un fatto su cui riflettere - dal 1992, anno in cui si apre una crisi di sistema, i Presidenti della Repubblica, Scalfaro, Ciampi e Napolitano, con accenti diversi, sono stati non solo custodi della Costituzione, ma espressione delle forze che animarono la Resistenza. I tentativi fatti, soprattutto da Ciampi e Napolitano, volti a «normalizzare» i rapporti tra maggioranza e opposizione non sono stati vani e hanno ottenuto risultati nello svolgimento del conflitto politico, anche nei momenti in cui è stato aspro. Non è un caso che i due presidenti hanno avuto e hanno un alto gradimento tra i cittadini.

Tuttavia, il problema a cui abbiamo accennato, il reciproco riconoscimento fondato su un patto costituzionale, è aperto. E non si risolve, come pensavano Veltroni e Berlusconi, con le «buone maniere» e con il comune interesse a usare la legge elettorale per eliminare dalla scena politica i piccoli partiti che hanno reso difficile la governabilità. Il presidente Napolitano nel suo discorso ha posto le basi politico-culturali per un confronto reale su temi cruciali come la Resistenza e la Costituzione. Sul primo a me pare che sia stata offerta una sintesi alta su cui tanti storici e personalità della politica di diverse parti hanno discusso. E anche sulla Costituzione questo Presidente ha detto cose innovative. Del resto chi ha seguito l’itinerario politico-culturale di Napolitano e i suoi scritti (anche quando non era al Quirinale) sa che non è mai stato un paladino dell’intoccabilità della Carta e delle istituzioni, ma un fautore di riforme rigorose e condivise.

Attenzione, lo dico dopo l’aspro scontro per il ballottaggio a Roma, non ci sono scorciatoie, se maggioranza e opposizione non si confrontano e non si incontrano sul terreno costituzionale e su valori della Resistenza così come sono stati reinterpretati dal Presidente, i tentativi di accordi su «leggi e regolamenti» falliranno. Occorre cominciare dalla testa e non dai piedi del sistema.
 
da lastampa.it


Titolo: EMANUELE MACALUSO. Sinistra, un po' di realismo
Inserito da: Admin - Maggio 07, 2008, 01:10:45 am
6/5/2008
 
Sinistra, un po' di realismo
 
EMANUELE MACALUSO
 

Sono trascorsi tre anni da quando in Italia si svolsero le elezioni che segnarono un grande successo del centrosinistra in quasi tutte le regioni e particolarmente nel Sud continentale. Sono trascorsi due anni dalle elezioni politiche che diedero la vittoria di misura all’Unione prodiana. E solo due anni addietro, nelle elezioni comunali di Roma, Veltroni ottenne il 67 per cento dei voti, mentre Alemanno si fermò al 33 per cento. Eppure, a leggere alcune analisi dei risultati elettorali del mese scorso, sembra che la destra abbia vinto non tanto per gli errori politici e di comportamento dei partiti del centrosinistra e del governo che esprimevano, ma perché il mondo che li circonda e condiziona è radicalmente cambiato.

Eugenio Scalfari nel suo editoriale domenicale ha scritto: «Io credo che l’emergere elettorale del centrodestra e la rivoluzione parlamentare che ne è seguita siano state largamente determinate dal nuovo atteggiarsi delle forze produttive, lo sgretolarsi dei tradizionali blocchi sociali, la scomparsa delle classi, il frazionarsi degli interessi fino alla loro completa polverizzazione». Dubito che le classi siano scomparse, e mi chiedo se i processi a cui accenna Scalfari siano emersi in questi ultimi due-tre anni.

Nei giorni scorsi nella trasmissione «Otto e mezzo» ho ascoltato Nichi Vendola che analizzando le ragioni della sconfitta ha parlato di sconvolgimenti economici, sociali e civili «epocali» tali da mettere in discussione tutto l’assetto politico-culturale della sinistra. Eppure tre anni addietro Vendola, dirigente di Rifondazione comunista, vinse le primarie nel confronto con un esponente dell’Ulivo e vinse il ballottaggio con l’ex presidente della Regione, Fitto, leader di Fi. In quell’occasione si disse che Vendola aveva interpretato bene i mutamenti profondi che si erano verificati nella società. Oggi lo stesso Vendola ci dice che la sinistra non è stata in grado di capire quei mutamenti.

La verità è che in questi due-tre anni si sono verificati alcuni fatti politici di cui non si parla con sufficiente realismo e spirito critico. Anzitutto il governo Prodi di cui nella campagna elettorale si esaltavano i risultati sul terreno del risanamento dei conti pubblici (i risanatori però - Prodi, Padoa-Schioppa, Visco - non erano candidati), si denunciavano i limiti sociali della sua opera ma non si capiva qual era il giudizio complessivo che ne dava il Pd. L’Arcobaleno vantava la fedeltà a Prodi ma denunciava con violenza il «massacro sociale» consumato in questi anni. Non si può fare una campagna elettorale senza un giudizio chiaro, netto, comprensibile sul governo di cui si fa parte.

L’altro fatto politico verificatosi alla vigilia delle elezioni è stato la nascita del Pd, del Pdl e dell’Arcobaleno: una «rivoluzione» nelle forze politiche senza un processo politico-culturale e una partecipazione reale che l’accompagnasse. La destra, con Berlusconi, non ha questi problemi. La sinistra sì, e si è visto. Queste osservazioni servono per dire che le questioni che debbono affrontare le forze politiche del centrosinistra sono squisitamente politiche e sono due: ridefinirsi come partiti e attrezzarsi per fare un’opposizione «normale» rispetto a un governo che, come dice Marcello Sorgi, dovrebbe essere anch’esso «normale». Il malessere che serpeggia nel Pd non è dovuto solo a un risultato deludente, ma al fatto che quel risultato è ascritto all’incerta identità di un partito che oggi non è in grado di definire le sue alleanze, necessarie, come dice D’Alema, per condurre un’opposizione più incisiva. Un partito che, a un anno dalle elezioni, non sa ancora dove collocarsi nel Parlamento europeo.

Ma un dibattito politico su questi temi non si è ancora aperto. Nella sinistra Arcobaleno e nei socialisti la confusione è grande e non si vede una via d’uscita. Quel che ormai dovrebbe essere chiaro a tutti è una cosa: non è pensabile e non è serio che forze politiche con l’uno, due, tre per cento o poco più si definiscano socialiste o comuniste. Un partito socialista in tutto il mondo è tale se ha un consenso largo di popolo. E in Italia anche il partito comunista ebbe carattere di massa. La Costituente socialista doveva partire da questo punto per essere credibile. Nei giorni scorsi Pannella ha promosso un dibattito con pezzi dell’Arcobaleno sul futuro della sinistra. Tuttavia non mi pare che si esca da una logica e una visione minoritarie: comprensibile per un partito radicale, ma non per una forza socialista. Insomma, una forza di sinistra in competizione virtuosa col Pd è utile solo se ha consistenza e si colloca nell’ambito del socialismo europeo. Oggi, invece, tutto è confuso e incerto. Sono queste le ragioni per cui penso che le analisi «epocali» possono essere fuorvianti se non si affrontano i veri nodi politici messi in forte evidenza dal risultato elettorale.

 
DA lastampa.it


Titolo: EMANUELE MACALUSO. L'eterna baruffa D'Alema-Veltroni
Inserito da: Admin - Maggio 13, 2008, 04:03:37 pm
13/5/2008
 
L'eterna baruffa D'Alema-Veltroni
 
EMANUELE MACALUSO

 
Sono molti i giornali che hanno commentato negativamente, a volte con espressioni sprezzanti, la riproposizione del vecchio film in cui si svolge il duello, senza morti e feriti, tra Veltroni e D’Alema.

Michele Serra domenica scorsa su Repubblica, nella sua rubrica, scriveva: «L’idea che l’opposizione possa ripartire da un remake della vecchia baruffa D’Alema-Veltroni non è neanche triste. È pazzesca nel senso letterale della parola». È vero, quel film è inguardabile. Ma siccome, checché ne pensi Serra, la baruffa non si svolge in un manicomio e i protagonisti non sono pazzi ma dovrebbero guidare l’opposizione al governo Berlusconi, bisogna chiedersi come mai e perché si ripropongono quei vecchi scenari. E a chiederselo dovrebbero essere soprattutto coloro che hanno auspicato e salutato la nascita del Pd come evento «epocale» che seppelliva il passato dei partiti che vi confluivano e apriva l’era nuova della politica.

A riflettere sul «caso» dovrebbero essere i tanti che osannarono l’elezione di Veltroni a segretario del Pd attraverso le «primarie» come moderna investitura che finalmente cancellava gli antichi e superati riti congressuali celebrati negli antichi e superati partiti politici. Una novità quella delle «primarie» all’italiana, voluta non solo da Veltroni ma anche da D’Alema, Marini, Fassino, Rutelli e altri. Ora, invece, si dice che siamo punto e daccapo. D’Alema al giornalista del Tg3 che gli chiedeva se stava costituendo una corrente, replicava, con ragione, che le correnti nel Pd c’erano già e bastava guardare come si davano gli incarichi. La stessa osservazione, successivamente, l’hanno fatta l’on. Parisi e gli «ulivisti».

A mio avviso il problema non sta nel sapere se ci sono o no le correnti nel Pd, ma se hanno o no una base politica. Quesito essenziale per capire se siamo di fronte a una «baruffa» tra due oligarchi che da tempo si contendono il controllo nei partiti in cui hanno avuto un ruolo. A chi segue la vicenda politica italiana e particolarmente quella della sinistra, è più agevole capire quale fu il contrasto politico tra Pietro Ingrao e Giorgio Amendola negli Anni Sessanta nel Pci (un partito in cui vigeva il centralismo democratico), che quello che ha contrapposto negli Anni Novanta e nel 2000 Veltroni e D’Alema che agivano in partiti (Pds-Ds-Pd) che avrebbero dovuto praticare una dialettica politica aperta, pubblica, leggibile a tutti.

In verità Amendola e Ingrao fecero battaglie politiche, anche aspre ma politiche, e si capiva che il primo guardava con interesse l’avvento del centrosinistra con i socialisti al governo e il secondo lo considerava un fatto negativo, frutto di un neocapitalismo che tendeva a inglobare la classe operaia nel sistema. Quindi, schematicamente, il primo era considerato di «destra» e l’altro di «sinistra». Negli ultimi quindici anni D’Alema e Veltroni sono stati a «destra», a «sinistra» e al «centro» in rapporto a vicende interne al loro partito e non agli sviluppi della situazione politica e sociale. L’investitura di Veltroni con le «primarie» senza competitori, senza mozioni diverse, non è stato un momento di chiarezza per la discussione nel Pd e fuori di esso. Basti pensare a come è stato affrontato nella campagna elettorale l’operato del governo e dello stesso Prodi. Il quale è stato «l’inventore» del Pd e il suo primo presidente, mentre oggi senza un dibattito politico è solo un pensionato. Luca Ricolfi nel suo editoriale sulla Stampa di domenica ha scritto che «il Pd è alla ricerca di una identità» e dice che non l’ha trovata perché non ha una politica rispetto ai temi che travagliano i blocchi sociali nelle fasi in cui si scompongono e ricompongono. Vero.

Ma questa incapacità a scegliere si ripropone sul terreno più squisitamente politico: nel corso della campagna elettorale Veltroni esaltava la vittoria di Zapatero mentre nel Pd si denunciava il «pericolo di una deriva zapaterista». Insomma, le correnti senza una base politica sono solo giochi di potere, ma il falso unanimismo nasconde sempre giochi di potere. Oggi nel Pd sarebbe necessario un dibattito politico aperto con documenti politici chiari su cui votare per costruire maggioranze e minoranze non in guerra, ma dialetticamente in competizione. Altrimenti ha ragione Michele Serra: le contrapposizioni tra D’Alema e Veltroni sono solo baruffe per gestire poi insieme il partito. Anche questa scelta connota l’identità del Pd.
 
da lastampa.it


Titolo: EMANUELA MACALUSO. La Niscemi dei braccianti e quella di Lorena
Inserito da: Admin - Maggio 20, 2008, 05:15:03 pm
20/5/2008
 
La Niscemi dei braccianti e quella di Lorena
 
 
 
 
 
EMANUELA MACALUSO
 
Sabato i telegiornali hanno trasmesso i funerali di Lorena, la ragazzina massacrata e gettata in un pozzo da tre ragazzi che come lei frequentavano le scuole del loro paese, Niscemi. Le immagini che ci facevano vedere la piazza con la chiesa e tanta gente hanno richiamato altre immagini immagazzinate nella mia memoria sessant’anni addietro. In quella piazza infatti negli Anni 40-50, e anche dopo, ho parlato a migliaia di uomini e donne che in quegli anni e da sempre vivevano in condizioni terribili. Niscemi era un grande centro agricolo popolato di braccianti poverissimi che lavoravano una terra fertilissima con mezzi primitivi e salari miserabili. Erano tanti e il lavoro non c’era per tutti.

Niscemi era un paese flagellato dal tracoma e dalla tubercolosi e la bassa statura dei suoi cittadini era segnalata nelle statistiche come segno di fame antica. Ma quei lavoratori erano anche orgogliosi e combattivi e dopo la Liberazione (luglio 1943) ripresero a battersi con i sindacati e i partiti della sinistra per migliorare le loro condizioni di vita, per cambiare il loro paese, la Sicilia feudale e baronale. Lottavano per il lavoro e il salario ma anche per avere l’acqua, le scuole, centri di aggregazione sociale per cambiare la loro collocazione nella società, in una parola per essere cittadini titolari di diritti e non solo di doveri.

Oggi, con disinvoltura culturale disarmante, si descrivono gli Anni 50 come quelli in cui la sinistra proponeva la rivoluzione mancata e aspettava Stalin. In verità in quegli anni lo scontro sociale fu durissimo e con tanti morti (la mafia uccise in Sicilia 40 dirigenti sindacali) e in gioco c’era la modernizzazione del Paese. Senza le lotte per la riforma agraria nel Meridione non sarebbe stato possibile lo sviluppo capitalistico al Nord che si avvalse anche dell’emigrazione dalle cento Niscemi del Sud. Il bracciante politicamente colto, socialmente emancipato fu una grande risorsa non solo per la sinistra ma anche per la società nel suo complesso al Nord e al Sud. Un mutamento che investiva anche il costume.

E negli Anni 70 il Sud del «delitto d’onore» votò a grande maggioranza il referendum per conservare le leggi sul divorzio e l’aborto. Ho fatto questa premessa per dire che i partiti in quegli anni ebbero anche un ruolo nell’emancipazione civile e nel grande processo di civilizzazione, un ruolo anche «pedagogico» che oggi viene contestato e disprezzato. Filippo Penati, che è stato comunista a Sesto San Giovanni, oggi presidente della Provincia di Milano, ha detto che «il Pd, diversamente dai partiti che lo hanno preceduto, deve rappresentare più che educare». Preoccupazione superflua dato che da anni la sinistra non «educa» e oggi al Sud forse «diseduca». Eppure, il fatto che tra i nipoti dei braccianti che io frequentavo ci siano la ragazzina assassinata e tre ragazzi assassini, in quel contesto che ci hanno raccontato mi ha colpito, mi ha ferito, mi ha fatto riflettere.

Cos’è oggi per questi vecchi centri bracciantili del Sud la «modernizzazione»? I partiti, la Chiesa non hanno più un ruolo «educativo» e non lo ha nemmeno la scuola. L’unico mezzo che in questi paesi trasmette cultura è la tv e oggi Internet anche con YouTube. I quotidiani in Sicilia non fanno certo battaglie di idee. Io non penso certo di «educare» la tv delle veline e dei tronisti eroi dei nostri giorni, i rotocalchi di gossip e altro materiale simile. Non puoi fermare una valanga con le mani. E chi pensa a censure è un cretino. Ma non penso nemmeno che bisogna rassegnarsi e accettare la minestra (spesso velenosa) che ti passa il convento dei media. Penso invece che la battaglia delle idee, se è tale, non incontra solo la politica politicante ma anche la società nel suo complesso.

Ora da anni i partiti non fanno battaglie di idee. Amministrano, male, l’esistente. E anche i giornali che vanno contro corrente sono pochi e introvabili in questi Comuni del Sud. Il parroco di Niscemi ai funerali ha pronunciato parole durissime. Ma quali effetti hanno se poi tutto, anche nelle chiese, ricomincia come prima? E dopo un fatto così atroce e carico di segnali della società in cui viviamo, Penati e tanti che pensano come lui vengono a dirci che il suo partito deve essere agnostico e non deve mostrare alcun interesse per l’educazione ma per la rappresentanza. Ma, scusate, la rappresentanza di cosa ed espressa da chi?
 
da lastampa.it


Titolo: EMANUELE MACALUSO Genova e il partito fantasma
Inserito da: Admin - Maggio 29, 2008, 12:17:57 pm
28/5/2008
 
Genova e il partito fantasma
 
 
 
EMANUELE MACALUSO
 
Don Baget Bozzo, sulla Stampa di domenica scorsa, ha commentato le vicende giudiziarie che hanno coinvolto l’Amministrazione comunale di Genova come epilogo di «una città uscita da una storia guidata dalla sinistra che aveva deciso di gestirla come una rendita». L’analisi di don Gianni non è del tutto convincente (ci sono spunti interessanti) perché non è convincente la visione di una città separata, riserva di caccia di una sinistra separata, in cui è presente una destra separatamente sconfitta.

I processi sociali e politici, che hanno accompagnato la trasformazione di una Genova dove l’industria pubblica ebbe un ruolo centrale sono stati oggetto di studi e analisi. Processi che certo vanno tenuti presenti anche quando si valutano fatti politico-giudiziari che riguardano la sinistra che ha avuto un ruolo essenziale nella storia di Genova. Ma, a mio avviso, si tratta di fatti che vanno collocati nella crisi della sinistra italiana e nel contesto di ciò che oggi è il Partito democratico in cui una parte rilevante di quella sinistra si ritrova. La vicenda politico-giudiziaria di Genova non è un fatto isolato, un fulmine a ciel sereno. E non è certo convincente la reazione del sindaco Marta Vincenzi quando dice che è stata «pugnalata alla schiena» da suoi stretti collaboratori coinvolti nell’affare. E non è nemmeno convincente quel che dice Mario Margini dirigente storico del Pci-Pds-Ds e ora assessore del Pd: «Non avrei mai immaginato che ci fosse un gruppo di potere che voleva costruire un sistema parallelo».

I miei cari amici genovesi pensavano che i «gruppi di potere» nel Pd fossero solo in Calabria o in Campania, in Sicilia o nella Roma che ha mostrato in tv la Gabanelli? Prima che nascesse il Pd è stato osservato, anche da chi scrive questa nota, che né i Ds, né la Margherita avevano mai fatto un’analisi vera di cosa erano i due partiti, quali erano i loro insediamenti sociali, come venivano selezionati i gruppi dirigenti, cos’erano gli aggregati di potere che si costruivano attorno agli enti locali e alle società pubbliche e semipubbliche. Cosa erano i nuovi «apparati» non più fondati sui funzionari di partito ma sui «consulenti», gli «addetti», gli «esperti», i «collaboratori», scelti dai leader e dai leaderini, qual era il grado di vita democratica che regolava l’andamento interno nei due partiti. Il Pd si è configurato come la somma dei due «aggregati» (Ds-Margherita) con una democrazia plebiscitaria fondata su «primarie» con candidato unico che eletto ha nominato i suoi «collaboratori» e anche - grazie alla legge elettorale ben tollerata - i parlamentari. In questo quadro perché stupirsi che nascano e si alimentino gruppi di potere? Il Pd, ha dichiarato il presidente della Regione ligure, Claudio Burlando, «può autodepurarsi da certi fenomeni». E come? In quali sedi c’è un confronto democratico e anche una battaglia politica? O c’è l’epuratore?

La verità, miei cari amici, è che un partito si afferma quando sa chi è, cosa vuole e come vuole ottenerlo. Ho letto sull’Unità il resoconto del discorso di Walter Veltroni ai «portavoce dei circoli lombardi». Ecco una grande riforma: non più «sezioni» ma «unità di base», aveva sentenziato Occhetto dopo la svolta della Bolognina nel 1989. Ma i militanti continuavano a chiamarle sezioni. Ora quelle stesse sedi si chiamano «circoli» e i segretari «portavoce». Una rivoluzione! Intanto dove imperversa la bufera, nel Napoletano, il Pd è sparito: non si vedono né circoli e circoletti, né segretari né portavoce. Nulla. Nel discorso milanese Veltroni in due (dico due) righe ha parlato della «natura federale del partito dentro un’idea federale di Stato». Se le parole hanno un senso, «federale» significa che ci sono partiti regionali autonomi federati e Stato federale significa quel che significa: non più uno Stato con le Regioni come previsto dalla Costituzione, ma con Regioni-Stato. È questa la linea costituzionale e politica del Pd e della sua organizzazione? E si annuncia con dieci parole? O sono, come temo, solo chiacchiere e le cose restano come prima o peggio di prima? Come stupirsi se poi le cose vanno come a Napoli o a Genova?
 
da lastampa.it


Titolo: EMANUELE MACALUSO - Leaderismi
Inserito da: Admin - Giugno 25, 2008, 11:20:57 am
25/6/2008
 
Leaderismi
 
 
EMANUELE MACALUSO

 
In Italia, dopo la lunga stagione dei grandi partiti di massa e di piccoli partiti d'opinione, abbiamo conosciuto il partito personale, quello messo in campo da Silvio Berlusconi, il quale, anche dopo la fusione tra Fi e An, resta sostanzialmente il padre-padrone del Popolo delle Libertà.

In questo tipo di partito non ci sono gruppi dirigenti, organi collegiali dove si confrontano posizioni diverse e si vota. C'è la decisione del «leader». Ho usato le virgolette perché nei grandi partiti socialisti o conservatori europei c'è un leader e un gruppo dirigente e c'è un ricambio di guida politica segnato dall'esito delle elezioni e dai congressi. In Italia oggi non è così. Anche nel partito dipietrista c'è un più modesto padre-padrone.

Nel Pd le cose sono più complicate. Il leader è stato «scelto» attraverso le cosiddette primarie. Ho usato le virgolette perché la scelta di Veltroni è stata fatta da cinque sei persone (D'Alema, Fassino, Marini, Rutelli, Franceschini) con il consenso di Prodi e votato plebiscitariamente da iscritti, elettori, simpatizzanti del Pd. Il partito non ha un organo vero di direzione. La scorsa settimana la Costituente (?) ha eletto una direzione di 150 persone e altre 100 sono membri di diritto: ci sono tutti e nessuno. Non c'è una sede, se non informale e personale, dove vengono assunte decisioni impegnative.

Ho scritto questa lunga premessa non per fare della politologia, ma per dire che il sistema politico vigente, frutto anche di una legge elettorale truffaldina, fondato su partiti che non hanno una reale vita democratica, sta producendo conflitti istituzionali di cui non si vede lo sbocco. E questo dopo tante chiacchiere sui nuovi rapporti tra governo e opposizione, premessa necessaria per attuare le riforme istituzionali e costituzionali di cui ha bisogno un paese moderno. Diciamo le cose come stanno: la lettera che il presidente del Consiglio ha indirizzato al presidente del Senato per giustificare un emendamento al decreto sulla sicurezza (che era stato firmato dal Capo dello Stato per motivi di «urgenza e necessità» come vuole la Costituzione), estraneo alla materia, non è solo una scorrettezza istituzionale ma un atto politicamente grave tale da mettere in mora anche la strategia con cui erano state fatte le elezioni dal partito del Popolo delle Libertà.

Ebbene dopo le ripetute e rabbiose esternazioni di Berlusconi, ormai è chiaro che la decisione dell'emendamento-bomba è stata assunta solo dal Cavaliere e dal suo avvocato. Tutti gli altri, compreso il ministro della Giustizia si sono adeguati e hanno sostenuto la decisione del Capo e del suo avvocato. Le conseguenze sono davanti a tutti: un conflitto in cui sono coinvolte tutte le istituzioni e i poteri. E non si vede ancora una via d'uscita. Il Pd è stato colto di sorpresa dalle mosse del Cavaliere anche perché non c'è stata una sede in cui si è seriamente discusso sul risultato elettorale e sul ruolo dell'opposizione in questa fase politica. E nessuno si assume la paternità dello scacco.

In questo quadro le critiche, le contestazioni, le richieste di dimissioni a Veltroni appaiono velleitarie e personalistiche. Soprattutto sembra che il malessere del Pd sia dovuto al brusco cambiamento della strategia berlusconiana. Se la salute del Pd dipende dalle mosse del suo avversario, sono veramente alla frutta. E coloro i quali pensano che la medicina sia il ritorno all'antiberlusconismo vecchio conio, alla Di Pietro, a mio avviso sbagliano. Non si può alternare la luna di miele e la guerriglia. Con la vecchia politica non si esce dal conflitto istituzionale. L'opposizione deve avere una sua politica alternativa a quella della maggioranza e una strategia nutrita di contenuti. Anche sulla giustizia. A oggi nel Pd - come nel Pci, Pds, Ds - in questo campo c'è solo una difesa acritica della magistratura dagli attacchi di Berlusconi. Non c'è una linea autonoma. Ma l'alternativa al berlusconismo deve manifestarsi soprattutto nella qualità della vita democratica del Partito. I tentativi leaderistici fatti con D'Alema, con Prodi, con Veltroni sono falliti. La sinistra e il centrosinistra (penso alla Dc) hanno altre storie. E scambiare il leaderismo fittizio per modernizzazione della politica è solo una sciocchezza. E nella politica le sciocchezze si pagano.

 
da lastampa.it


Titolo: EMANUELE MACALUSO - Fettina mafiosa
Inserito da: Admin - Giugno 27, 2008, 11:52:28 am
27/6/2008
 
Fettina mafiosa
 
 
 
 
 
EMANUELE MACALUSO
 
Ieri, alle ore 13, l’agenzia Ansa trasmetteva la notizia dell’arresto a Palermo di dodici presunti mafiosi che imponevano a decine di imprenditori e commercianti il pizzo e anche il prezzo di vendita della carne. L’estorsione ha trasferito nelle casse della mafia di Altarello (borgata di Palermo) cinquantamila euro al mese che venivano reinvestiti nel narcotraffico.

Dico subito che la lettura di queste righe appare come uno dei bollettini quotidiani della procura palermitana, molto attiva nella repressione della criminalità mafiosa. In parte è così, anche se quelle righe ci rivelano un fatto inquietante: la capacità della mafia di riproporsi come forza presente in tutti i gangli della società, in grado di «governare» i mercati e di rinnovare i suoi quadri. Gli arrestati, infatti, sono tutti giovani: 21, 25, 30 anni. Il più vecchio ha 39 anni.

Quello della carne è un antico e sempre attivo mercato controllato dalla mafia. Oggi sembra scomparso il reato di «abigeato» con cui veniva rubricato il furto di bestiame, ma ancora nel recente passato era praticato dalla mafia rurale. A questo proposito ricordo che negli Anni 50 la mafia di Mussumeli (provincia di Caltanissetta), che con il suo capo Genco Russo aveva una «giurisdizione» regionale, impiantò nel cuore del feudo un mulino-pastificio e un salumificio. La Sicilia non era certo conosciuta per la mortadella e il salame, ma il salumificio di Genco Russo era attivo perché il bestiame rubato, che però era anche marchiato, veniva macellato e insaccato. Le botteghe di una vasta zona erano obbligate a vendere la mortadella di Mussumeli, anziché quella di Bologna. E negli anni del boom edilizio di Palermo le nuove botteghe, come le vecchie, dei macellai (ricordo che una si chiamava «Boutique della carne») erano in mano alla mafia. Per il riciclaggio furono aperte alcune macellerie anche a Roma.

Si tenga presente che in Sicilia è stata sempre attiva la macellazione clandestina che forniva, e forse fornisce ancora, carne fuori del mercato legale. A leggere la notizia Ansa di ieri sembra che tutto si riproduca e si aggiorni. La cosca di Altobello - ci dice la procura - si riuniva e fissava il prezzo della carne. Quel che non riesce allo Stato, in questo periodo in cui gli alimentari lievitano, a Palermo lo fa la mafia. La quale con una mano preleva dalle casse dei commercianti la sua quota estorta e con l’altra minaccia chi vuole fare concorrenza al macellaio che non ce la fa a tenere aperta la bottega. Il prezzo fissato dalla cosca deve regolare la concorrenza e tenere buoni anche i consumatori. Questo intreccio perverso, spezzato in una zona dalle forze dell’ordine, è certo un successo e fa respirare qualcuno. Ma ci dice anche che la mafia non sarà sradicata se non c’è un mutamento nella società, nella coscienza e nella cultura della gente. Non cambierà nulla se in quei quartieri al potere mafioso non si oppone non solo il carabiniere e il poliziotto, ma una parte della gente che si ritrova collettivamente e non isolatamente. Oggi questo non c’è: non ci sono più i partiti di sinistra che in passato lo facevano, non c’è un’articolazione del sindacato, la stessa Chiesa trova difficoltà a farlo. La sola aggregazione è la «cosca». Chi riflette su questi fenomeni che sono soprattutto politici? Se diamo uno sguardo al «dibattito» in corso, fra i partiti di governo e di opposizione, non stupisce né ciò che succede a Palermo, né ciò che succede a Treviso.
 
da lastampa.it


Titolo: EMANUELE MACALUSO - Walter, dai concretezza alla "laicità del futuro"
Inserito da: Admin - Luglio 01, 2008, 04:02:14 pm
1/7/2008
 
Walter, dai concretezza alla "laicità del futuro"
 
 
EMANUELE MACALUSO
 


Domenica sulla Stampa è apparsa una lunga lettera del segretario del Pd, Veltroni, in cui si parla della «laicità del futuro» come «ragione costitutiva del Partito democratico», come tratto identitario di un partito che «ha saputo e intende rompere gli schemi oppositivi del Novecento».

Lo spunto del ragionamento di Veltroni è un articolo di Edmondo Berselli sul Mulino, il quale tra l’altro auspicava che qualcuno prendesse l’impegno «di delineare una cultura unificata che, nel Pd, al momento non esiste».

Ma, se un partito non ha una cultura unificante non è un partito. Potrei aggiungere che, siccome i partiti non si inventano quando sono una cosa reale e seria, nascono da processi unificanti tra movimenti sociali e correnti culturali frutto di battaglie di idee. Processi che hanno incrociato gli interessi generali del Paese. Per restare in Italia così nacque il Partito socialista, così nacque il Partito popolare di Sturzo, così rinacquero i grandi partiti di massa con la Resistenza e la liberazione. Il fatto che oggi si cerchi «qualcuno» che delinei una cultura unificata del Pd è un segno della difficoltà che questo partito attraversa.

Se Veltroni con la sua lettera-articolo sulla Stampa voleva chiarire uno dei punti più oscuri dell’identità del Pd, «la laicità», debbo dire che siamo punto e a capo. Anzitutto c’è da chiedersi quali sono gli «schemi oppositivi» che su questo terreno avrebbero segnato la storia del Novecento. Schemi che il Pd avrebbe rotto? In Italia lo schema post-risorgimentale sulla laicità fu rotto dalla costituzione del Partito popolare di Sturzo e a sinistra dal pensiero gramsciano. Uno schema del tutto nuovo, infatti, lo ritroviamo con la presenza dei due grandi partiti Dc e Pci che, proprio sul tema della laicità, ruppero «i vecchi schemi» con atti costituzionali (art. 7 e altro) su cui si è giustamente tanto discusso anche con posizioni laiche oppositive a quel «compromesso». Parlare in Italia di «laicità del futuro», per dire che la religione non è solo un fatto privato ma ispirazione dell’agire pubblico, significa parlare della «laicità del passato».

L’Italia è stata governata per quarantacinque anni da un partito cristiano di ispirazione cattolica, una parte del movimento sindacale ha avuto e ha ancora come riferimento la Rerum Novarum. Togliatti in un suo discorso a Bergamo ai cattolici richiamava l’ispirazione cristiana nell’agire pubblico, politico per una convergenza nella lotta contro l’atomica. Berlinguer nel motivare il compromesso storico richiamava l’ispirazione politica dei cattolici. Nel corso di questi quarantacinque anni si sono fatte anche battaglie laiche, i cui meriti vanno soprattutto ai radicali e ai socialisti (leggi sul divorzio e l’aborto) e al sostegno del Pci. Ma va anche ricordato che mentre Fanfani segretario della Dc condusse la battaglia antidivorzista, Moro, che lo sostenne, spiegò come lo Stato laico doveva prendere atto di mutamenti nel costume che si riflettevano nei testi legislativi: una dialettica civile. Una dialettica che è stata negata nel 2005 nel momento in cui fummo chiamati a votare il referendum sulla legge 40 (fecondazione assistita). Veltroni su questi temi non deve fare discorsi generici e spiegarci il pensiero di Habermas. In occasione di quel referendum la Margherita ubbidì all’ingiunzione del cardinale Ruini e fece propaganda per l’astensione. Prodi disse che era un «cattolico adulto» e si sarebbe presentato ai seggi. Prodi ha pagato quel gesto. Ma i temi cosiddetti «eticamente sensibili» sono stati totalmente cancellati dai discorsi di Veltroni, nella campagna elettorale e dopo. Eppure si tratta di temi che danno concretezza alla «laicità del futuro» se guardiamo a ciò che si fa in tutta l’Europa.

Con amicizia vorrei dare un consiglio a Walter. L’identità politico-culturale di un partito non si costruisce con discorsi generici, con l’enunciazione di principi generali che sono pure necessari ma possono essere letti con favore da tutti, nel Pd e fuori di esso. Occorrono fatti e atti che danno senso a una politica. Se si fanno scelte nette e concrete sulla «laicità del futuro» certo non ci sarà quell’unanimità che si è registrata nell’inutile carta d’identità votata a Orvieto e altrove. Ma forse si comincerebbe a capire cos’è e cosa vuole il Pd.

da lastampa.it


Titolo: EMANUELE MACALUSO - Girotondi premier e Quirinale
Inserito da: Admin - Luglio 10, 2008, 09:58:14 am
10/7/2008
 
Girotondi premier e Quirinale
 
 
 
 
 
EMANUELE MACALUSO
 
Nella sceneggiata di girotondini di Piazza Navona uno degli attori attaccava Napolitano e un altro l’esaltava, un guitto attaccava il Papa e un comprimario recitava una preghiera, il professore Bachelet se n’è andato e a un certo punto non si è più visto nemmeno l’onorevole Parisi. Ma Achille Occhetto, osservando lo spettacolo, ha dichiarato che «è possibile una rinascita di tutta la sinistra». Chi si contenta gode, si dice al mio paese. Io invece vorrei fare uno di quei ragionamenti che in matematica si definiscono «per assurdo», per spiegare meglio un teorema.

Ragioniamo come se l’opposizione fosse riuscita (anche grazie agli stimoli dei girotondini) a non fare passare in Parlamento né l’emendamento blocca processi, né il lodo Alfano (non si capisce perché si chiama lodo e si capisce meno perché viene attribuito ad Alfano) e quindi nei prossimi mesi a Milano si potesse svolgere il processo Berlusconi-Mills.

Continuiamo nel nostro ragionamento e guardiamo la scena in cui si vede che il presidente del Consiglio viene condannato a 4-5 o 6 anni di carcere. Quali scenari, in questo caso, si aprirebbero? La senatrice Finocchiaro, capogruppo del Pd, dice che una condanna di Berlusconi in primo grado non dovrebbe provocare le sue dimissioni. È così? Con una condanna infamante per corruzione di un testimone, anche se in primo grado, si può guidare il governo? Si può rappresentare il Paese all’estero? Non scherziamo.

E se il Cavaliere non si dimettesse, in Italia assisteremmo a manifestazioni che farebbero impallidire quella vista in Piazza Navona. Continuiamo il ragionamento sempre «per assurdo»: il Cavaliere si dimette attaccando, come fa sempre, i «magistrati politicizzati» e accusando l’opposizione di volere sovvertire il risultato elettorale e mortificare la volontà popolare alla quale si rimette. È chiaro che in questo caso il conflitto, che in queste settimane si è aperto nel Paese, tra legalità e volontà popolare si allargherebbe e acuirebbe in forme tali da mettere alle corde tutte le istituzioni.

È vero che con l’attuale ordinamento costituzionale le dimissioni del presidente del Consiglio non determinano lo scioglimento del Parlamento, ma è anche vero che la «Costituzione materiale», con una legge elettorale che consente l’iscrizione nella scheda del leader, ha ormai identificato la maggioranza parlamentare con quel leader investito dal voto popolare.

Anomalie italiane che concorrono però a determinare un clima e una situazione politica di cui il Capo dello Stato non può non tenere conto. Non è difficile capire che certamente dopo le dimissioni di Berlusconi si tornerebbe a votare con la stessa legge elettorale e con il Cavaliere «martirizzato», alla guida del suo «Popolo della Libertà». Come si presenterebbe il centrosinistra al voto lo affido all’immaginazione di chi ha guardato la sceneggiata di Piazza Navona. È chiaro che bloccare tutti i processi per non farne uno è una vergogna, e averlo tentato con un emendamento al decreto sulla sicurezza, già firmato dal Capo dello Stato per motivi di necessità e urgenza, è un’altra vergogna. Il cosiddetto lodo Alfano non è certo un modello a cui ispirarsi per la democrazia. L’opposizione non può certo votarlo. Anche perché se oggi si configura un conflitto come quello a cui abbiamo accennato la responsabilità è solo di una maggioranza che si identifica con Berlusconi e con tutti i suoi carichi penali pendenti, ereditati dalla sua attività di imprenditore. Ma è una maggioranza voluta dal popolo chiamato recentemente alle urne. L’opposizione non può fare ostruzionismo.

Quali sarebbero le conseguenze politiche dello scioglimento del Parlamento in uno scenario come quello che ho simulato a pochi mesi dalle elezioni? Ecco il punto che vorrei sottolineare: il Capo dello Stato deve o no tenere presente il quadro politico così come in concreto lo ha determinato il risultato delle elezioni e cercare di controllarlo affinché non si determinino strappi laceranti per la nostra democrazia? È quello che in questi mesi difficili sta facendo Napolitano mentre c’è chi nella maggioranza cerca nel Quirinale coperture alle sue magagne e, nell’opposizione, chi vorrebbe surrogare con gesti del Capo dello Stato la sua debolezza e impotenza. In momenti difficili come questi occorre guardare anzitutto all’interesse generale del Paese.
 
da lastampa.it


Titolo: EMANUELE MACALUSO - Miseria politica
Inserito da: Admin - Luglio 17, 2008, 07:38:49 pm
17/7/2008
 
Miseria politica
 
 
 
EMANUELE MACALUSO
 
La bufera giudiziaria che in Abruzzo ha coinvolto il presidente della Regione Ottaviano Del Turco, assessori e molti amministratori della Sanità ha scatenato un dibattito sui rapporti tra politica e giustizia per molti versi ripetitivo. Berlusconi ha colto l’occasione per dire, senza leggere le carte, che i magistrati abusano del loro potere e Di Pietro per ripetere che le toghe hanno sempre ragione.

Sul piano giudiziario la cosa che trovo sconcertante è il fatto che i media hanno avuto un’informazione sulla vicenda solo attraverso quello che dicono i magistrati, mentre Del Turco è in isolamento, non può parlare col suo avvocato e non si conoscono le sue ragioni se ne ha di valide. Voglio dire che quando l’azione penale per reati che hanno carattere altamente infamante coinvolge un uomo politico nell’esercizio delle sue funzioni, il giudizio della pubblica opinione, degli elettori è decisivo. E allora è giusto che l’accusato possa difendersi non solo nelle aule giudiziarie, ma anche attraverso i canali d’informazione che hanno diffuso le valutazioni e i giudizi dei magistrati che lo accusano.

Fatte queste osservazioni e in attesa degli sviluppi dell’azione giudiziaria, da ciò che si legge e si capisce emerge una questione politica: cosa sono e come operano i gruppi dirigenti dei partiti nelle regioni del Sud? Parlo del Sud non per dire che nel Nord tutto è trasparente e limpido, ma perché nel Mezzogiorno il problema della formazione delle classi dirigenti ha una storia particolare e si intreccia strettamente con quella che è stata definita «questione meridionale»: da Giustino Fortunato a Guido Dorso, da Luigi Sturzo ad Antonio Gramsci. E mi interessa parlare della sinistra, del centrosinistra, non perché la tempesta si abbatte in una Regione amministrata dal Pd, ma perché questo tema oggi sembra estraneo alla destra berlusconiana.

Insomma, ancora una volta dopo la vicenda dei rifiuti in Campania, dopo le traversie giudiziarie che hanno interessato il Pd calabrese, dopo il risultato elettorale siciliano, una domanda si pone: cos’è il Pd nel Mezzogiorno? Una domanda che io stesso posi nel momento in cui questo partito nasceva da una fusione a freddo dei gruppi dirigenti locali della Margherita e dei Ds. Partiti che nei loro congressi non si erano mai posti questo problema. Eppure, esso emergeva non solo in rapporto a vicende giudiziarie, ma per il fatto incontestabile che i gruppi dirigenti si formavano, si dissolvevano e si riformavano attorno alla gestione dei poteri locali: Comuni, Province, Regioni. E alla miriade di società pubbliche e semipubbliche, ai consulenti e agli assistenti che popolano tutte le strutture, politiche e amministrative.

Il Pd è nato con progetti ambiziosi, con dichiarazioni di intenti roboanti, accompagnati da analisi generali, a volte ricche di spunti culturali interessanti, di adesioni disinteressate ed entusiaste. Quel che mancava e manca ancora è un’analisi di ciò che in concreto è quel partito nella realtà in cui opera nel governo locale e dove dovrebbe svolgere l’opposizione come in Sicilia. Realtà in cui non c’è più un dibattito e una lotta sociale, politica e culturale tale da attrarre i giovani in un impegno nel volontariato politico.

Di fronte alla vicenda abbruzzese non basta certo dichiarare che in ogni caso il Pd sta con i magistrati o di giurare sull’onestà e la correttezza di Del Turco. Sulla questione giudiziaria abruzzese è giusto discutere e, via via, i fatti ci diranno come, su questo versante stanno le cose. Ma il risvolto politico c’è tutto. La miseria politica di quel gruppo dirigente è evidente. Che la sanità sia oggi la fascia ricca dei bilanci regionali e il rapporto tra pubblico e privato in questo campo il più inquinato, è un fatto. Che la sua gestione transiti dalla destra alla sinistra con un continuismo impressionante è un altro fatto. È su questo che occorre discutere nel Pd se si vuole coniugare, come è necessario, etica e politica. Richiamare la necessità dell’etica come fa ora Veltroni senza una politica è solo un gesto velleitario. Così come richiamare le dure regole della politica senza l’etica significa scadere nel cinismo della gestione intrecciando affari privati e iniziativa pubblica prescindendo dagli interessi generali. Ecco perché in questa situazione le dichiarazioni generiche lasciano le cose come stanno.
 
da lastampa.it


Titolo: EMANUELE MACALUSO - Proviamo a smuovere la politica
Inserito da: Admin - Luglio 24, 2008, 03:59:25 pm
24/7/2008
 
Proviamo a smuovere la politica
 
 
 
 
 
EMANUELE MACALUSO
 
Dopo la bagarre politica provocata da Bossi, Federico Geremicca su queste colonne ci ha raccontato come in meno di 100 giorni sono state liquidate due prospettive, emerse nel corso delle elezioni e immediatamente dopo la vittoria di Berlusconi (finalmente statista!), su cui si era tanto discusso e fantasticato. La prima, indicata come una «svolta epocale» dal Cavaliere e da Veltroni, consisteva nel fatto che il sistema politico finalmente si fondava su due grandi partiti pronti a inaugurare una «legislatura Costituente». La seconda prospettiva nel momento in cui la prima si annebbiava, faceva intravedere una intesa tra Pd e Lega che avrebbe allentato i rapporti tra Berlusconi e Bossi in vista della riforma per attuare il federalismo fiscale. Il dito medio alzato dal capo della Lega e indirizzato ai simboli dell’unità Nazionale faceva cadere anche questa prospettiva. E così è tornato il clima che si respirava prima delle elezioni. Anzi peggio dato che questi 100 giorni ci dicono che, nonostante una certa buona volontà mostrata a destra e a sinistra per cambiare registro e i ripetuti richiami del Capo dello Stato, non è possibile cambiare i rapporti tra i due schieramenti che da quindici anni si scontrano e si delegittimano senza tregua.

E il tema della giustizia è sempre al centro dello scontro. E intanto il Paese anziché andare avanti nello sviluppo, nella competitività, nell'esercizio dei diritti dei cittadini, va indietro.

A questo punto quindi è giusto, necessario e urgente porsi queste domande: con questi schieramenti e con questi leaders è possibile una svolta reale, una «legislatura costituente»? O bisogna fare qualcosa che rompa gli attuali assetti politici? Soffiare per far crescere il vento dell’antipolitica, l’abbiamo visto, peggiora le cose. Un mutamento nei due «grandi» partiti non è pensabile, chi aspettava il miracolo dalle unificazioni, a destra e a sinistra, raccoglie delusione. A destra non è cambiato nulla: il Cavaliere da 15 anni decide tutto per tutti e non c’è nessuna dialettica democratica per pensare a possibili alternative. Forza Italia era un insieme di ex (socialisti, Dc, repubblicani, liberali, comunisti e aziendali) e tale resta il «nuovo» partito (PdL) nel quale si ritrovano anche gli ex Msi poi An. Il rozzo condizionamento della Lega c’era prima e c’è oggi. Gli ex, penso soprattutto ai socialisti che hanno tanti ministri, sembra che abbiano acquisito lo status di rifugiati politici in un regno in cui il sovrano è intoccabile. La sua presenza al vertice di tutte le strutture politiche dopo 15 anni è una remora per dare alla destra un profilo, una cultura e una identità non identificabile in una persona? Non ci sono dubbi, ma all'orizzonte non si vedono, rimedi. E chi guarda ai tribunali per dare una soluzione a un problema decisamente politico non fa che ingarbugliare una matassa già ingarbugliata.

Nel centrosinistra nel quindicennio c’è stato un’alternarsi di candidati e presidenti del Consiglio: Occhetto, Prodi, D'Alema, Amato, Rutelli, ancora Prodi e infine Veltroni. Ma non c’è mai stata una guida politica forte e un grande partito. E oggi anche il Pd è solo un insieme di ex: Ds, Margherita, socialisti, prodiani, rutelliani ecc.. Pesantemente condizionato dal rozzo giustizialismo demagogico di Di Pietro. Un partito che non riesce ancora ad avere una identità e una leadership forte.

In questo quadro non è difficile capire che il rischio è l'impotenza politica che condanna il Paese all’immobilismo. Il rischio è che in questo Paese non ci siano forze politiche che al governo o all’opposizione si riconoscono nella Costituzione. Un’intesa per le riforme infatti dovrebbe garantire un comune sentire costituzionale e modernizzare il sistema. Cosa fare? Io penso che di fronte a una situazione politicamente bloccata bisognerebbe chiamare in causa il popolo sovrano. Penso che sia possibile eleggere, con il sistema proporzionale, un’Assemblea Costituente formata da 75 membri (tanti erano i costituenti che scrissero la Costituzione vigente) nella quale non dovrebbero esserci membri del Parlamento, (a meno che non si dimettano) col mandato di rivedere in un anno la Costituzione. Il testo inemendabile, varato dalla commissione dei 75, dovrebbe essere sottoposto a referendum. È chiaro che per il progetto che sommariamente espongo occorrerebbe una legge costituzionale e quindi un accordo fra i due schieramenti. Ma visto l’impossibilità di un lavoro comune nel Parlamento per le riforme un appello al popolo sarebbe un atto di grande responsabilità democratica. E una sede costituente separata dal Parlamento e autonoma garantirebbe tutti. O bisogna lasciare marcire la situazione prescindendo dal ricorso al popolo?
 
da lastampa.it


Titolo: SANDRO BONDI La bicamerale un'ipotesi sensata
Inserito da: Admin - Luglio 28, 2008, 11:30:31 pm
28/7/2008
 
La bicamerale un'ipotesi sensata
 
 
 
 
 
SANDRO BONDI
 
Gentile direttore, ritengo sia giusto non far cadere nell’oblio il dibattito aperto da Macaluso sulla necessità di un’Assemblea Costituente per le riforme, e l’intervento di Geremicca pubblicato l’altro ieri dal Suo giornale ne è la conferma.

Geremicca, in verità, appare più incline all'ipotesi di una nuova Commissione bicamerale, sul modello di quella presieduta da D’Alema, e dunque nominata all’interno del Parlamento e non eletta dal popolo come una Camera di saggi al di fuori dello scontro politico. In una mia dichiarazione di commento all’editoriale di Macaluso ho già detto che per me la Costituente sarebbe una «extrema ratio», e che è invece necessario recuperare nel dibattito parlamentare quello «spirito di collaborazione istituzionale» che aveva caratterizzato i primi giorni della legislatura.

La proposta della Costituente per le riforme è suggestiva, ma segnerebbe una sorta di commissariamento del Parlamento attuale, che si vedrebbe spogliato di una delle sue funzioni fondamentali, quella di legiferare in materia costituzionale. Geremicca suggerisce invece di riprovare la strada di una Bicamerale presieduta dalla Lega. Credo che sia necessario riflettere attentamente su questa ipotesi, assolutamente sensata, nonostante per il momento il sentiero del dialogo appaia stretto e impervio. Ma quando si saranno spente le polemiche sulla giustizia e quando il Pd si sarà definitivamente lasciato alle spalle l’abbraccio giustizialista con Di Pietro, allora si potrà ricominciare a tessere il filo delle riforme senza bisogno di ricorrere a una Terza Camera di compensazione istituzionale che segnerebbe di fatto la sconfitta della politica. Che si parli di Bicamerale o di Costituente, non deve sfuggire a nessuno l’ineludibilità di affrontare concretamente il tema delle riforme in questa legislatura. Certo, alcune delle condizioni del dialogo oggi sembrano essere venute meno. D’altra parte, però, ritengo che sarebbe un errore se il centrodestra, pur forte del grande consenso di cui gode oggi nel Paese, si convincesse di non avere più bisogno del dialogo e di poter riscrivere da solo le regole del gioco.

La mia convinzione - da cui nasce un cauto ottimismo - è che il presidente Napolitano potrà essere determinante, con la sua moral suasion, per scongiurare un nuovo rinvio della stagione delle riforme. Il ruolo del Colle è già stato cruciale per disattivare il cortocircuito politico-giudiziario. E fin dal suo insediamento, il Capo dello Stato, non si è mai stancato di auspicare il dialogo tra gli schieramenti e l’apertura di una «fase nuova», con la consapevolezza della necessità di rafforzare i poteri del primo ministro, di rivedere il sistema bicamerale, di rivedere la riforma del titolo V della Costituzione approvata nel 2001 dal centrosinistra e di accentuare le garanzie dell’opposizione. E celebrando nel gennaio scorso il sessantesimo anniversario della Costituzione, Napolitano fece un richiamo per ricordare un punto debole che era ben presente nella mente dei Costituenti, e cioè l’insufficiente garanzia della stabilità dell’azione di governo, un lusso che nessun Paese può più permettersi. E che è stato affrontato, sia pure parzialmente nella bozza Violante della scorsa legislatura. Qualcosa di più di un punto di partenza da cui riprendere il dialogo tra maggioranza e opposizione.

Ministro per i Beni e le Attività Culturali

Gli editoriali di Emanuele Macaluso (La Stampa del 24 luglio), con la proposta di un’Assemblea Costituente per le riforme, e di Federico Geremicca (26 luglio), con l’ipotesi di una Bicamerale presieduta dalla Lega, hanno aperto un dibattito anche nel Partito delle Libertà. Pubblichiamo gli interventi di Sandro Bondi e Roberto Rosso.
 


---------------



28/7/2008
 
La costituente una via maestra
 
 
 
 
 
ROBERTO ROSSO
 
Gentile direttore, entrai in Politica perché amavo la libertà e sui banchi della minoranza di un piccolo consiglio comunale imparai quanto fosse importante la pratica democratica, la partecipazione popolare, l’affezione alla nostra patria repubblicana. Ho combattuto contro i comunisti perché temevo che, come altrove nel mondo, una volta al potere avrebbero guastato il fresco sapore della libertà e, in nome del popolo, avrebbero finito con l'impedirgli di esercitare le proprie prerogative sovrane. Eppure siamo stati noi che ci diciamo liberali a sopprimere le preferenze ed i collegi, trasformando il Parlamento degli eletti in un’accolita di nominati. Non contenti di averlo fatto per l’Italia ci riproponiamo, in autunno, di ripeterci anche nelle modalità di elezione per l'Europa.

È con sorpresa e con speranza, dunque, che ho letto, sulla prima pagina della Stampa, l’intervento di un vecchio combattente comunista, Emanuele Macaluso, nel quale si suggerisce di riassettare l’Italia partendo dalla via maestra: l’elezione di un’Assemblea Costituente che, legittimata dal popolo, produca una sintesi moderna di culture e storie spesso contrapposte, senza più legami con le ferite della guerra civile antifascista e anticomunista che seguì al disastro della seconda guerra mondiale. All’epoca di Roma lo scivolamento dalla Repubblica all’Impero avvenne silenziosamente dopo una serie di traumi che ne avevano sfibrato il tessuto e la capacità di tenuta. Maglio dunque, come propone Macaluso, rifondare oggi la Repubblica con l’avallo ed il contributo del popolo, piuttosto che rimpiangerla domani dalle pagine degli storici.

Deputato del PdL

Gli editoriali di Emanuele Macaluso (La Stampa del 24 luglio), con la proposta di un’Assemblea Costituente per le riforme, e di Federico Geremicca (26 luglio), con l’ipotesi di una Bicamerale presieduta dalla Lega, hanno aperto un dibattito anche nel Partito delle Libertà. Pubblichiamo gli interventi di Sandro Bondi e Roberto Rosso.
 


da lastampa.it


Titolo: EMANUELE MACALUSO - Propaganda scambiata per politica
Inserito da: Admin - Luglio 29, 2008, 06:19:40 pm
29/7/2008
 
Propaganda scambiata per politica
 

EMANUELE MACALUSO
 
Da gran tempo e spesso si lanciano allarmi sui rischi che nel nostro Paese correrebbe la democrazia. In queste ultime settimane le grida vengono da destra quando Berlusconi è convocato dai giudici per processi in cui è coinvolto per la sua attività d’imprenditore, e da sinistra quando il Cavaliere urla contro la «persecuzione giudiziaria» e la sua maggioranza sforna leggi ad personam.

Non c’è dubbio che in questo scontro la democrazia italiana è ferita e mortificata. Tuttavia non mi pare che alle porte ci sia il fascismo, come è stato detto in questi giorni, o altre forme di totalitarismo. Semmai questi scontri confermano che la nostra democrazia è sempre più anemica e i rischi sono nella crescita dell’antipolitica dovuti all’assenza di disegni con un grande respiro politico da parte dei partiti. Non c’è democrazia senza partiti, ma se questi sono privi di forza politica, di progetti che guardano al futuro e all’interesse generale, la democrazia langue. Coloro i quali pensavano che per rianimarla e fare funzionare le istituzioni bastasse liquidare, con la legge elettorale, i piccoli partiti e incentrare la dialettica parlamentare solo su due grandi formazioni, hanno oggi materia per riflettere: la crisi della democrazia di cui tanto si è parlato non è stata certo superata. Anzi, al sogno breve del dopo elezioni è seguito uno scenario più allarmante di prima. Sia chiaro, la frantumazione politica che abbiamo conosciuto è paralizzante e dà un potere di veto a piccole formazioni personali.

Ea gruppuscoli che alzano vecchie bandiere per coprire spesso piccoli interessi. L’abbiamo visto col governo Prodi. Tuttavia, la radice del male non sta nell’esistenza di piccoli partiti, ma nel fatto che i partiti, grandi e piccoli, non hanno un disegno politico e leadership autorevoli.

Il partito socialdemocratico di Saragat ebbe un ruolo tra il 1948 e il 1963 quando si fece il primo centrosinistra, poi decadde perché non ebbe più né un progetto né un leader. Il partito liberale di Malagodi, proprio quando nasceva il centrosinistra, ebbe voce sino a quando ebbe un progetto, il piccolo partito repubblicano di La Malfa e Spadolini esercitò un ruolo eccezionale. Penso agli Anni Sessanta e alla «nota aggiuntiva al bilancio» del ministro del Tesoro La Malfa che costrinse i grandi partiti, Dc e Pci, a misurarsi sul terreno di un riformismo moderno. I radicali sono stati sempre un piccolo partito, ma nessuno può negare che abbiano assolto un ruolo rilevante nella vita politica e civile di questo Paese. I piccoli partiti che sono stati spazzati forse non meritavano di più perché non avevano ruolo. Di Pietro e il suo partitino personale è stato invece salvato, grazie alla legge elettorale truffaldina, dal Pd di Veltroni.

Ma il punto dolente del quadro politico-parlamentare che abbiamo davanti riguarda soprattutto i grandi partiti (Pd - Pdl) che avrebbero dovuto dare una svolta alla vicenda politica del nostro Paese. Incredibile ma vero, il solo partito che sembra avere un progetto politico-costituzionale (condizione questa per definirsi un partito, diceva la buonanima di Antonio Gramsci) è la Lega di Bossi. Il suo progetto di federalismo fiscale, rozzamente esposto e demagogicamente propagandato, è al centro dell’attenzione e riceve consensi e dissensi imbarazzati e imbarazzanti nel Pdl e nel Pd. Si capisce così perché il mio giovane amico Federico Geremicca parla di una Bicamerale presieduta da un esponente della Lega.

Intanto i due «grandi» sono impegnati in uno scontro sulla giustizia i cui termini sono sostanzialmente questi: Berlusconi pensa a «riforme» punitive nei confronti dei magistrati (che osano inquisirlo) e il Pd reagisce pensando di costituire una cintura di difesa all’assetto attuale della giustizia italiana. Sulle condizioni e sul futuro di questo Paese si ragiona solo in termini propagandistici. La crisi è tutta qui. Quando i partiti e i loro leaders confondono la propaganda con la politica e non riescono più a capire che la prima è utile solo se c’è la seconda e a prevalere dovrebbe essere proprio la politica, nel senso più vero e alto della parola, la crisi democratica è irrisolvibile.

Pensare che in questo clima sia possibile, nel Parlamento, fare riforme istituzionali e costituzionali in grado di rendere il nostro sistema più moderno efficiente e giusto è un’illusione. Si vuole rimettere al centro la politica? La proposta che avevo fatto su queste colonne di chiamare il popolo per ridefinire un patto costituzionale tra le forze politiche, come condizione essenziale per rianimare la democrazia, aveva solo questo obiettivo. Insisto.
 
da lastampa.it


Titolo: EMANUELE MACALUSO - L'unica via per fare le riforme
Inserito da: Admin - Agosto 07, 2008, 09:28:18 am
7/8/2008
 
L'unica via per fare le riforme
 
 
 
 
 
EMANUELE MACALUSO
 
Nel corso di una conferenza stampa Berlusconi ha detto che l’opposizione non è «leale», che non c’è quel rispetto (nei suoi confronti) necessario per fare insieme le riforme le quali, ha aggiunto, saranno comunque realizzate «con la forza di una vasta maggioranza che gli italiani ci hanno dato sia alla Camera che al Senato». Forse è bene ricordare al presidente del Consiglio che in questa legislatura non ci sono parlamentari eletti, ma solo nominati dai capipartito e che la maggioranza è larghissima anche perché ha usufruito di un premio in seggi parlamentari grazie a una norma costituzionalmente discutibile e politicamente indecente. È bene anche ricordare che l’articolo 138 della Costituzione ha previsto il meccanismo di approvazione delle modifiche costituzionali, anche con maggioranza semplice e possibilità di referendum, perché tutto l’impianto della Carta ha come premessa la legge con cui fu eletta la Costituente, cioè la proporzionale.

Nessuno certo pensa di mettere in discussione la netta vittoria elettorale della coalizione governativa, ma pensare che quella maggioranza può fare e disfare la Costituzione è solo delirio di onnipotenza. Non è un caso del resto che i presidenti delle due Camere e i leader della Lega insistono per riaprire un dialogo tra maggioranza e minoranza per fare le riforme. Fatta questa affermazione, occorre verificare - con onestà e realismo - se i rapporti politici fra governo e opposizione consentono di attuare quelle riforme con gli stessi protagonisti di entrambi gli schieramenti impegnati nello scontro quotidiano nelle aule parlamentari.

Luca Ricolfi, domenica scorsa su queste colonne, ha osservato che «sarebbe molto più facile cooperare sulle riforme economico-sociali che sulla riforma delle istituzioni». Questo è assolutamente vero. E anch’io, che sono più vecchio di lui, avverto, come lui, un brivido alla schiena tutte le volte che sento ripetere che «questa sarà una legislatura costituente». Del resto bastano i primi cento giorni che hanno caratterizzato la vita di questo Parlamento per capire che legislatura sarà.

Il Capo dello Stato fa il suo dovere quando disinnesca mine che possono fare saltare tutti i ponti tra le due sponde del Parlamento e fa bene a sollecitare l’attraversamento anche di un solo ponte per costruire qualcosa che serva alle istituzioni e al Paese. Ma non è un caso che, disinnescata una mina, ne viene confezionata un’altra: sono prodotti della realtà politica in cui viviamo. Infatti nel momento in cui dal Quirinale venivano diffuse esortazioni alla distensione e al lavoro comune, in un altro Palazzo (il Palazzaccio), l’onorevole Di Pietro depositava la richiesta per indire un referendum sulla legge Alfano. E questo senza sapere se e quando un’autorità giudiziaria si rivolgerà alla Consulta per contestare la costituzionalità di quella legge.

Bene ha fatto Veltroni a respingere la richiesta dell’ex pm di aiutarlo a raccogliere le firme. Ma abbiamo visto con quanta prontezza due autorevoli esponenti del Pd amici di Prodi, Arturo Parisi e Franco Monaco hanno manifestato sostegno caloroso all’iniziativa dipietrista. Non saranno i soli se guardiamo il ventre molle del Pd. Un partito che non riesce ancora ad avere una politica e un’identità chiare come abbiamo visto nel voto promosso dalla destra per aprire, sul caso della povera Eluana, un conflitto di competenze tra il Parlamento e la magistratura. Di Pietro, ma anche Parisi e altri, sanno che la fermezza di Veltroni non reggerà e saranno in molti nel Pd a firmare la richiesta del referendum.

Faccio una parentesi per dire come, Berlusconi da una parte e Di Pietro dall’altra, entrambi beneficiari della transizione post-tangentopoli, continuano a tenere il sistema in tensione. Insomma con il mio ragionamento voglio dire che nelle aule parlamentari non ci sono le condizioni per un comune progetto di riforme. Berlusconi continuerà ad accusare il Pd di «slealtà» e Veltroni a rinfacciare al Cavaliere di non volere seguire la linea suggerita dal Capo dello Stato. Un duetto che dura da anni e può durare ancora sino alla fine di questa legislatura checché ne pensi Tremonti. Il quale, nell’intervista alla Stampa, sulla base di dati politici incomprensibili, ritiene che la bicamerale resusciterà.

E così al pessimismo di Ricolfi che non vede soluzioni Tremonti risponde con soluzioni solo sognate. Ai miei due amici dico che occorre rompere questo giuoco e rivolgersi direttamente al popolo eleggendo con il sistema proporzionale 75 persone impegnate a trovare in un anno una soluzione condivisa o votata a maggioranza ma, in ogni caso, sottoposta a referendum popolare. Una forza che si chiama «partito del popolo» ha paura di un voto popolare? E una forza che si chiama «partito democratico» ha paura di una consultazione democratica?
 
da lastampa.it


Titolo: EMANUELE MACALUSO - Peggio della Dc
Inserito da: Admin - Agosto 18, 2008, 04:17:18 pm
18/8/2008 - PARTITI E CLIENTELE
 
Peggio della Dc
 
 
 
 
 
EMANUELE MACALUSO
 
La vicenda politico-giudiziaria che ha coinvolto Ottaviano Del Turco e altri esponenti politici abruzzesi ha riaperto una vecchia polemica sui rapporti tra politica e giustizia orientando i riflettori essenzialmente sul versante giudiziario.

Ancora una volta fenomeni che hanno un forte risvolto politico e che segnano i caratteri dei partiti e della stessa società in cui viviamo vengono letti solo attraverso gli atti giudiziari, che certo hanno un rilevante significato ma non totalizzante come appare nelle polemiche di ieri e di oggi. Per tornare al caso abruzzese, che non è solo abruzzese, non si capisce perché non si è ragionato sul ruolo che oggi hanno nella vicenda politica «imprenditori» sanitari come quello che improvvisamente ha assunto la veste di pubblico accusatore. E, soprattutto, ancora una volta non si ragiona su cosa sono oggi i partiti, cos’è il personale che li rappresenta nelle istituzioni e quindi qual è il rapporto tra istituzioni e cittadini. In definitiva, cos’è la democrazia.

Il giornalista Marco Travaglio che legge tutto attraverso le lenti dei tribunali, nei giorni scorsi, dopo la morte dell’ex ministro Antonio Gava, ha scritto sull’Unità un articolo in polemica con tutti coloro che avevano ricordato l’uomo politico della Dc con parole laudative (tra questi anche lo storico Giuseppe Galasso).

O solo cautamente neutre (quelle del Presidente della Repubblica) per sostenere che Gava stava «con lo Stato e la Camorra». E a sostegno della sua tesi, Travaglio riporta brani delle sentenze che hanno assolto Gava dall’accusa di «concorso esterno in associazione camorristica».

I giudici di Napoli scrissero: «Risulta provato con certezza che Gava era consapevole dei rapporti di reciprocità esistenti tra i politici locali della sua corrente e l’organizzazione camorristica dell’Alfieri, nonché della contaminazione tra criminalità organizzata e istituzioni locali del territorio campano; è provato che lo stesso non ha svolto alcun incisivo e concreto intervento per combattere e porre un freno a tale situazione, finendo invece con il godere dei benefici elettorali da essa derivanti alla sua corrente politica: ma tale consapevole condotta dell’imputato, pur apparendo biasimevole sotto il profilo politico e morale, tanto più se si tiene conto dei poteri e doveri specifici del predetto nel periodo in cui ricoprì l’incarico di ministro dell’Interno, non può di per sé ritenersi idonea ad affermare la responsabilità penale».

La distinzione che fanno i magistrati che scrissero quella sentenza tra responsabilità politiche e responsabilità penali è essenziale e investe il cuore delle polemiche a cui ho accennato. Distinzione estranea al giustizialismo nostrano. Certo, è discutibile che le responsabilità politiche di Gava siano riassunte nelle motivazioni di una sentenza e questo fatto richiama però le responsabilità della politica. Le cose scritte dai magistrati su Gava politico furono oggetto di analisi e critiche da parte del Pci, tuttavia non ci fu mai una riflessione della Dc, un partito che certamente ha avuto un ruolo essenziale nella costruzione democratica del Paese, ma che voleva identificarsi con la società così com’era. Il partito-diga in nome dell’anticomunismo aveva nel suo seno tutto e il contrario di tutto.

E ora che la Dc, con i suoi meriti e le sue responsabilità, non c’è più come stanno le cose? Peggio di prima. Questa è la mia opinione. Il centro-destra ha teso ad ereditare tutto ciò che c’era nell’area moderata. E non è un caso che soprattutto nel Sud abbia ereditato anche le clientele più inquinate.

Non bastano certo i proclami contro la mafia se non si analizzano i rapporti di dare e avere e gli insediamenti politici così ben descritti nella sentenza dei giudici napoletani. Un discorso che va fatto anche per il Pd. Più volte ho notato che i dirigenti di questa formazione, i quali parlano anch’essi di un partito-società, non vedono cos’è in molte realtà il Pd.

Se la politica non è in grado di analizzare i fenomeni sociali e politici e anche criminali che attraversano la società e non dà risposte adeguate, è nelle cose che tutto venga affidato ai giudizi (anche politici) e alle sentenze dei magistrati. È quel che stiamo vedendo anche in Abruzzo.
 
da lastampa.it


Titolo: EMANUELE MACALUSO Il partito padronale e il partito che non c'è
Inserito da: Admin - Settembre 03, 2008, 12:21:41 pm
3/9/2008
 
Il partito padronale e il partito che non c'è
 
 
EMANUELE MACALUSO
 
Siamo a settembre e voglio riprendere alcuni temi, emersi nella polemica ferragostana tra il sindaco Chiamparino e i dirigenti del Pd torinese, che hanno una valenza generale e toccano i nervi scoperti del sistema politico italiano. Del resto non è un caso che le polemiche torinesi somiglino a quelle che leggiamo sul Pd e il presidente della Regione sarda e quelle di altre regioni. Il tema a cui alludo attiene al rapporto tra i partiti e le istituzioni dopo la crisi che ha travolto le formazioni politiche che diedero vita alla Costituzione e ressero il sistema per circa cinquant’anni.

In un articolo apparso venerdì sulla Stampa Sergio Chiamparino scriveva: «Sono convinto dell’importanza decisiva dei partiti, a condizione però che siano veicoli di reale rappresentanza di interessi e di valori e non macchine (o macchinette) distributrici di potere e nemmeno caricature di quelli che sono stati seri e nobili partiti ma che non ritorneranno più». Lascio stare la carica polemica, certo non infondata, che c’è nello scritto di Chiamparino nei confronti dei partiti oggi e in primis rispetto al suo Pd. È vero, quei partiti non torneranno più, ma la riflessione riguarda l’oggi.

I grandi partiti di massa, dopo la Liberazione, riconoscendosi nella Costituzione che avevano scritto insieme espressero anche una forma nuova e più forte di unità nazionale. Vaste masse popolari (cattolici, socialisti, comunisti) si riconobbero nello Stato unitario. Non è un caso che grazie a quel patto costituzionale il separatismo, che scosse la Sicilia nel dopoguerra, fu sconfitto e, invece, dopo la crisi dei grandi partiti è sorto il leghismo separatista al Nord. E di fronte a fenomeni nuovi, figli della crisi, i «nuovi» partiti annaspano. Basti pensare alle oscillazioni opportunistiche, a destra e a sinistra, sul federalismo.

Oggi è all’ordine del giorno il «federalismo fiscale», senza avere affrontato il nodo costituzionale del federalismo. Insomma, è plausibile un federalismo fiscale senza federalismo costituzionale? Sul ruolo dei Comuni e dei sindaci il discorso non cambia. Non fu una trovata della «nuova sinistra» il «partito dei sindaci»? E vorrei chiedere a Chiamparino perché non parlò quando, nel fare il Pd, leader del partito veniva incoronato il sindaco di Roma che manteneva i due incarichi. I sindaci di Bari, Pescara e Messina si candidarono a segretari regionali del Pd e hanno mantenuto i due incarichi. Il sindaco, come dice Chiamparino oggi, non rappresenta tutti i cittadini? In Calabria il segretario regionale Pd è stato il viceministro dell’Interno sino alle elezioni politiche. Che dirigenti del Pd pensino che ci sia un cordone ombelicale che lega il sindaco al Partito (cosa che non esisteva nemmeno nel Pci) è un segno dei tempi.

Questi fatti però ci dicono cose che non possono sfuggire a una persona con l’intelligenza e l’esperienza di Chiamparino. Il Pd è nato senza un progetto politico-costituzionale e su ogni questione che si pone - il federalismo, la giustizia, le leggi elettorali, il ruolo dei partiti - è al rimorchio di altre forze, seguendole o contestandole. Il fatto che la «transizione» non finisca mai e non si riesca a «normalizzare» i rapporti tra governo e opposizione non è dovuto solo alla presenza «anomala» di un presidente del Consiglio con un evidente e pesante conflitto di interessi, ma anche al fatto che l’opposizione non ha un suo progetto. Nei mesi scorsi, su queste stesse colonne, avevo proposto di convocare un’assemblea costituente per separare il riordino costituzionale dalle vicende che travagliano l’attività di governo. Ma c’è scetticismo anche perché la maggioranza governativa pensa di imporre comunque il suo progetto (ha i numeri per farlo) e l’opposizione pensa solo a contrastarlo.

In questo clima operano anche le istituzioni locali. E non mi stupisce che nel Pd, come dice Chiamparino, si verifichino «scontri di potere finalizzati al rinnovo dei vertici istituzionali e in particolare alla loro sostituzione».

Questo quadro ne richiama un altro e attiene alle regole che dovrebbero consentire in un partito la democratica convivenza di posizioni politiche diverse e le personalità che hanno ruoli diversi, nelle istituzioni e nella guida delle strutture partitiche. Ma nel Pd, a quanto pare, non ci sono regole. Non si sa ancora se ci sarà un congresso o se tutto, invece, è affidato alle investiture del leader con le primarie. Le quali si svolgono senza una legge e senza sapere quali regole vigano nel partito del leader. È vero, i vecchi partiti con le loro vecchie regole non possono più tornare. Ma si vuole discutere su cosa sono e dovrebbero essere i partiti in una moderna democrazia? A destra c’è ancora il partito padronale, a sinistra, leggendo le polemiche agostane di cui parla Chiamparino, non si capisce cosa c’è.
 
da lastampa.it


Titolo: EMANUELE MACALUSO - Lasciate stare Moro e Berlinguer
Inserito da: Admin - Settembre 10, 2008, 04:39:35 pm
10/9/2008
 
Lasciate stare Moro e Berlinguer
 
 
 
 
 
EMANUELE MACALUSO
 
Sabato, Enrico Ghezzi, nel suo Blob ha mandato in onda pezzi di tribune politiche degli Anni 60-70 con i leader (Togliatti, Moro, Saragat, Fanfani, Berlinguer, Almirante e tanti altri «minori») interrogati dai giornalisti su casi che anticipavano la «questione morale» o ripresi mentre facevano un discorso su temi scottanti (Fanfani e Almirante sul divorzio).

Una di queste riprese riguardava Aldo Moro, allora (1960) segretario della Dc, al quale un giornalista chiedeva come spiegava il fatto che nella lista per le elezioni amministrative a Mussomali (grosso comune nella provincia di Caltanissetta) la Dc aveva incluso il capomafia Genco Russo. La risposta è imbarazzata («si tratta di un piccolo comune, non è capolista» ecc.) ma poi il leader dc afferma: «Non ci sono atti e documenti che qualifichino quel candidato come mafioso». La risposta fa pensare che Moro conoscesse il fatto anche se si verificava in un «piccolo comune» e non dicesse il vero, dato che c’erano atti e documenti che qualificavano Genco Russo come mafioso. Questo non vuol certo dire che Moro fosse colluso con la mafia, ma al contrario che la Dc (anche con Moro) preparando le elezioni del 1948 e successivamente per costruire la diga contro il comunismo e garantirsi il ruolo guida, accettò il «quieto vivere» (l’espressione è di Andreotti) con la mafia. E l’accettarono De Gasperi, Fanfani, Andreotti. Quest’ultimo operò con più spregiudicatezza, ma dentro quel quadro.

Ho ripreso questo pezzo della storia politica italiana per ricordare agli smemorati che Aldo Moro in tutti i momenti, anche nei più sgradevoli, difese il ruolo centrale della Dc alla guida del Paese. Ricordo anche il suo discorso alla Camera dei deputati in occasione delle accuse fatte ad esponenti della Dc per le tangenti pagate dalla società Usa Lockheed per le forniture di aerei: «Non ci faremo processare sulle piazze». E quando nel 1976 raggiunse con Berlinguer un’intesa di governo volle, fortemente volle, che a guidarlo fosse Andreotti, per garantire l’unità e il ruolo della Dc. Anche nella prigione delle Br le sue lettere hanno come asse la famiglia e l’incerto domani della Dc («il futuro non è più solo nelle nostre mani»).

Questo scenario mi è tornato in mente quando sull’Unità ho letto che nei circoli Pd sono ammessi due quadri, Moro e Berlinguer, santi protettori del partito. Ma, se Moro fu il leader democristiano che con più coerenza e determinazione difese il ruolo della Dc e dei cattolici democratici, Berlinguer fu il più deciso sostenitore dell’identità comunista del partito. Il leader del Pci si separò umanamente e politicamente dal comunismo sovietico con nettezza e determinazione e ricercò un rapporto con quei dirigenti socialdemocratici che si battevano per la causa del Terzo Mondo (Olof Palme, Willy Brandt), ma restò un comunista che, con la democrazia e le riforme di struttura, voleva superare il capitalismo e realizzare una società socialista. Per questo il Pci doveva restare, con la sua autonomia, nel campo anticapitalista e antimperialista e separato dalle socialdemocrazie.

Poi c’è stato l’89 e il crollo del Muro e del «campo», e non sappiamo come avrebbero reagito Moro e Berlinguer. Certo diversamente da come confusamente hanno reagito i loro eredi. I quali pur non avendo elaborato un loro pensiero, una strategia e una cultura per fare un partito, mettono nei circoli le foto di Moro e Berlinguer identificandoli come padri del Pd. Invece furono leader di due partiti con identità radicalmente diverse anche se li unì una forte tensione politico-morale nella guida dei loro partiti. L’operazione Dc-Pci, Moro-Berlinguer la fanno proprio coloro che ripetono sino alla noia che le culture politiche del Novecento sono morte e sepolte. Oggi autorevoli promotori del Pd dicono che questo partito «implode» (Scalfari domenica su Repubblica). E con Scalfari tanti altri. Ma perché implode? Perché c’è Veltroni e non D’Alema o Parisi o un quarantenne? Non scherziamo. Cari amici democratici, lasciate in pace Moro e Berlinguer, anche perché non meritano di «implodere» con il Pd e, se volete, avviate un confronto serio e reale su cos’è oggi questo partito e cosa potrebbe essere domani. Intanto il Papa dice che all’Italia occorre una nuova generazione di cattolici impegnati nella politica. Per chi suona la campana?

da lastampa.it


Titolo: EMANUELE MACALUSO - Attenti, colonnelli
Inserito da: Admin - Settembre 14, 2008, 10:17:26 am
14/9/2008
 
Attenti, colonnelli
 
 
 
 
 
EMANUELE MACALUSO
 
Le dichiarazioni di Fini su fascismo e antifascismo, fatte davanti ai giovani di An, hanno un significato su cui è bene discutere. Anche perché, nella stessa sede, non un ex fascista ma Silvio Berlusconi, con il camaleontismo che lo distingue, aveva esaltato il ruolo di Italo Balbo in Libia per accattivarsi le simpatie di quei giovani.

L’intervento del Cavaliere è una chiave di lettura di una linea politica che tende a sbiadire tutto, a mettere sullo stesso piano chi difese la libertà e chi la cancellò, chi fu vittima di un tardo e feroce colonialismo e le vittime di quell’oppressione. L’elogio di Balbo voleva essere una pacca sulle spalle a tutti quei ragazzi, ai quali, invece, occorre dire la verità e aiutarli a riflettere e a capire. Da questo punto di vista le parole di Fini pronunciate dopo le cose dette da Alemanno e La Russa acquistano un significato particolare.

Il presidente della Camera, in questa occasione, ha parlato come deve chi rappresenta un’istituzione che esprime la libertà degli italiani. Fini ha detto con chiarezza che non si può equiparare «chi combatteva per una causa giusta di uguaglianza e libertà e chi, fatta salva la buona fede, stava dalla parte sbagliata». E alla destra, cioè alla sua parte, dice che i valori costituzionali di libertà, uguaglianza e giustizia sociale «sono valori a pieno titolo antifascisti». È un chiarimento importante, quello di Fini, col quale tende a collocare la destra come forza che ha nell’antifascismo e nella Costituzione un riferimento essenziale. Importante anche perché, come scriveva ieri Gian Enrico Rusconi sulla Stampa, sembra che il paese abbia perso l’orientamento. Cioè è allo sbando. E per recuperare un orientamento, come auspica il Capo dello Stato, il riferimento delle forze politiche e sociali alla Costituzione e all’antifascismo è essenziale.

Io non so sino a che punto i quadri che vengono dal Msi siano in grado e disponibili a portare fino in fondo il processo di revisione avviato dalla stesso Fini a Fiuggi. Le sortite di Alemanno e La Russa, due esponenti di primo piano di An, rivelano una difficoltà seria su cui è bene ragionare. Anche perché un approdo costituzionale della destra non riguarda solo chi milita a destra, ma il sistema politico nel suo complesso e l’interesse generale del paese. E questo per più motivi. Sino a oggi la destra che proveniva dal Msi era stata «sdoganata» da Berlusconi, il quale ha assunto le vesti del santo protettore della destra. Anche dopo Fiuggi. E a ben pensarci, Fini ha deciso di intrupparsi nel partito berlusconiano per lavare i panni di coloro che ancora sentono il richiamo della foresta fascista. Il partito unico, infatti, dovrebbe omologare tutto e tutti. E forse La Russa e Alemanno hanno voluto dire che accettano l’unificazione ma non l’omologazione.

Il problema vero di questo «equivoco» è però Berlusconi. Il quale vuole un partito padronale, senza una base politico-culturale e senza una somma di valori che lo identifichino. Infatti nel partito berlusconiano gli ex socialisti dicono che esprimono una politica di sinistra, l’ex comunista Bondi richiama il pensiero di Antonio Gramsci come riferimento culturale, gli ex radicali vedono nel partito del Cavaliere uno spazio per esprimere liberalismo e laicismo, gli esponenti di Comunione e Liberazione ritengono invece che quel partito è in sintonia con i vescovi. E potrei continuare. In questo quadro Alemanno e La Russa pensano che c’è spazio anche per richiamare la «parte buona» del fascismo. Forse, dico forse perché nulla è ancora chiaro, con le sue odierne prese di posizioni, Fini parla a nuora perché suocera intenda. E la suocera è proprio Berlusconi. Ma se è così, il presidente della Camera dovrebbe aprire un dibattito più vasto e coinvolgere il Pdl nel suo complesso per individuare e definire i connotati di questo partito. Fini di questi connotati ha individuato un tratto essenziale, la Costituzione e l’antifascismo. Bene. Ma un partito che ha questi riferimenti non può avere un padrone e deve avere una vita e una dialettica democratica. È possibile aprire in quel partito, su questi temi un dibattito e un confronto congressuale? Temo proprio di no.

da lastampa.it


Titolo: EMANUELE MACALUSO - EMENUELE MACALUSO
Inserito da: Admin - Settembre 19, 2008, 06:04:29 pm
19/9/2008
 
Capitalismo alla fine?
 
 
 
 
 
EMENUELE MACALUSO
 
Il terremoto che scuote il sistema finanziario americano e con esso quello globale fa riemergere una discussione sulle tendenze del capitalismo e dell’anticapitalismo. La crisi dell’Alitalia, che è poca cosa nel quadro mondiale, accentua in Italia i toni del dibattito. Fausto Bertinotti ha scritto un piccolo saggio (martedì su Liberazione) in polemica con un articolo di Mario Deaglio (La Stampa di lunedì) per dire che la crisi non è nel «sistema» del capitalismo finanziario, ma del capitalismo, e trova modo per ribadire che «l’unica salvezza dell’umanità sta nel superamento del capitalismo». Del resto anche all’inaugurazione della Summer School(!) del Pd si è parlato del superamento del capitalismo in una formazione che vorrebbe somigliare al partito democratico americano. Come stiano insieme le due cose è uno dei misteri veltroniani. Ma anche il ministro Tremonti parla di un «ritorno a Keynes».

Io non credo che il capitalismo sia l’ultima categoria della storia e non siano possibili altre formazioni sociali, ma da tempo mi sono convinto che aveva ragione Eduard Bernstein quando non prefigurava la società del futuro, non proponeva un modello di riferimento, ma si affidava al movimento «che è tutto». E quindi ai mutamenti, alle riforme che la società via via chiede. E, avvertiva Bobbio, la sinistra deve indirizzare movimenti e riforme verso il progresso e l’uguaglianza. Bertinotti, giustamente, nota come il conflitto sociale sia un valore anche in un’ottica liberale. Ma - ecco il punto - quali sono, oggi, i contenuti del conflitto sociale?

Su questo Bertinotti ragiona come se i contenuti del conflitto e i mutamenti che intervengono nel mondo non andassero tenuti presenti. A un certo punto Fausto scrive: «Fu Reagan a schiantare la lotta dei controllori di volo. Fu la Thatcher a sterminare i minatori inglesi. Fu la Fiat a sconfiggere la classe operaia della grande industria nella vertenza dei 35 giorni». E senza porsi il tema cruciale del perché di quelle sconfitte, se fosse nei contenuti di quelle lotte la causa, commenta: «Tre eventi chiave di quel processo di “restaurazione rivoluzionaria” che nega sia la libertà dell’agire dei lavoratori, sia l’autonomia contrattuale del sindacato». Bertinotti e con lui altri pensano alla globalizzazione come «male assoluto» e non guardano a questi processi come fenomeni dello sviluppo capitalistico (ne aveva scritto anche la buonanima di Marx) per porsi il problema di come operare anche a livello mondiale, per governarli. A questo proposito non c’è dubbio, e lo dice anche Deaglio, che questi terremoti «confermano la superiorità sociale dei modelli europei» rispetto a quelli liberisti Usa. E chi richiama Keynes potrebbe anche ricordare lo Stato sociale costruito dai partiti socialisti europei. La stessa Thatcher ha dovuto fare i conti con quella realtà che non fu smantellata. E, mentre in Usa i licenziati delle banche lasciano il posto di lavoro con gli scatoloni, in Italia il liberista Berlusconi «offre» ai lavoratori dell’Alitalia la mobilità con 8 mesi di cassa integrazione. Anche lui deve fare i conti con la nostra Costituzione e con la storia del «conflitto sociale» nel Paese. Ma Bertinotti e altri che operano anche nel sindacato sbagliano se non individuano le ragioni del conflitto sociale per non ripetere gli errori fatti con i minatori inglesi, i controllori di volo Usa e alla Fiat in Italia.

Il fatto nuovo su cui riflettere è la crisi del sindacato corporativo. Chi pensava di difendersi meglio facendo pesare nella contrattazione il fatto di svolgere un lavoro essenziale e privilegiato, oggi deve rivedere le sue posizioni. E il sindacato confederale deve tornare a coniugare l’interesse delle categorie con l’interesse generale.

Il «caso» dei piloti della Delta descritto da Deaglio non è, come pensa Bertinotti, un inno alla globalizzazione. È la presa d’atto di una realtà con cui fare i conti. E quando lo stesso Deaglio ricorda l’esperienza fatta in Scandinavia, dove la flessibilità è stata integrata in un sistema di sicurezza sociale con ammortizzatori che consentono la riqualificazione dei lavoratori in mobilità e la garanzia di lavoro per tutti, ci dice anche che il «conflitto sociale» in Italia deve essere aperto su questo terreno. Si potrà così evitare la mortificante e intollerabile «offerta» di ammortizzatori sociali condizionati e come atto di «liberalità» di un generoso e paterno presidente del Consiglio. Un’indecenza.
 
da lastampa.it


Titolo: EMANUELE MACALUSO. Capitalismo coi piedi per terra
Inserito da: Admin - Ottobre 07, 2008, 12:36:02 pm
7/10/2008
 
Capitalismo coi piedi per terra
 
 
 
 
 
EMANUELE MACALUSO
 
La crisi che ha scosso il sistema finanziario in Usa e nel mondo sollecita una discussione che investe governi, studiosi, uomini politici, giornali su come tamponare le falle.

Ma anche sulla salute e sull’avvenire del capitalismo. Su queste stesse colonne ho avuto occasione di dire che non penso che il capitalismo stia tirando le cuoia come scrivono tanti impenitenti anticapitalisti per storia e cultura e nemmeno so se esso ha, come ironicamente scrive Giuliano Amato (Il Sole 24 Ore di domenica scorsa), «i secoli contati».

Il tema di oggi non è quello della sopravvivenza del capitalismo, dato che questa categoria della storia nel tempo ha mutato i suoi caratteri. E li ha mutati perché c’è stato un movimento sindacale, il riformismo socialdemocratico, il New Deal rooseveltiano, insomma il capitalismo è cambiato perché ha dovuto fare i conti con la politica. E li ha fatti sia nel sistema democratico che in quello totalitario: il fascismo con l’Iri e il corporativismo e il nazionalsocialismo. Infatti non è vero che dove c’è il capitalismo c’è la democrazia dato che in Italia, in Germania, in Spagna negli anni del fascismo, del nazismo e del franchismo c’era - e come! - il capitalismo e lo statalismo che convivevano d’amore e d’accordo. Quel che mi preme sottolineare in questa nota è il fatto che i governi si muovono per tamponare la falla nell’immediato e non possono fare altro.

Invece manca un ragionamento sul domani prossimo venturo. Tutti parlano di regole che dovrebbero governare un mercato libero da vincoli e però non si capisce quali siano queste regole. La presidente della Confindustria Emma Marcegaglia ha detto che lo Stato fa bene a intervenire, a tamponare con le risorse pubbliche le falle ma poi deve lasciare «libero» il mercato. In attesa di una nuova emergenza. (A proposito, siccome le banche sono tutte al Nord e a pagare sono tutti gli italiani, compresi quelli del Sud, come risolve il caso il federalismo fiscale?). Per tornare al mio discorso c’è anche da chiedersi cosa pensano per l’oggi e per il domani le forze politiche, soprattutto quelle di sinistra. Si è evocato Keynes. Ma se è vero che il New Deal e le politiche riformiste europee di pieno impiego e Stato sociale avviarono un nuovo ciclo economico, è anche vero che esso poi esaurì la sua spinta propulsiva e provocò una crisi non solo economica ma sociale e politica.

Ora sembra che il pendolo si muova dalla parte opposta. L’eccesso di statalismo e di spesa sociale fu al centro della critica della destra liberista che con Reagan e la Thatcher diedero una risposta politica vincente. Ma, giustamente nessuno pensa di tornare al passato: né mercatismo, né statalismo, dice Tremonti. Ma cosa c’è in mezzo resta un mistero. Enrico Morando (sembra che sia il solo che nel Pd si ponga questi problemi) in un suo articolo apparso giorni addietro sul Foglio, partendo dal fallimento delle politiche mercatista e statalista, riprende il discorso della «Terza via» che, a suo avviso, è stata bene interpretata dai «revisionisti di centrosinistra» che si chiamano Clinton, Blair e Schroeder. La «crisi» della «Terza via», dice Morando, non è nella sostanza, nelle scelte di quella politica, ma «nell’evidente carenza di leadership globale (Blair non è più e Obama per quanto promette, non è ancora)». Io, invece, penso che la crisi di leadership rivela una crisi di politica. E mentre negli Usa il confronto elettorale ha al centro l’avvenire di quel Paese, non credo che la vittoria di Obama, che mi auguro, possa dare una leadership globale al centrosinistra, come non la diedero né Clinton, né Blair. Del resto è lo stesso Morando a dire che non c’è un’organizzazione mondiale del centrosinistra e la stessa Internazionale socialista non ha più voce.

Io penso che dobbiamo restare con i piedi a terra e vedere quali politiche, in Italia e in Europa, la sinistra e il centrosinistra sono in grado di proporre, non solo per fronteggiare l’emergenza ma per progettare il futuro. La sinistra non ha - come invece l’ebbe in passato - un’analisi del capitalismo di oggi. E conseguentemente non individua quali sono le leggi di cui si parla per governare e non paralizzare il mercato e quali interventi dovrebbe fare lo Stato senza cadere nello statalismo. È questo anche il tema che in vista delle elezioni dovrebbe affrontare il partito socialista europeo. La sinistra anche su questo tema - ed è il suo per eccellenza - non può giocare di rimessa dicendo solo no a quel che fa o non fa il governo. Deve avere una sua proposta, tale da dare anche un profilo al partito (il Pd) che non lo ha ancora. Se poi il capitalismo è millenario o no, lo deciderà la storia. E la storia dovrebbe farla anche la sinistra italiana. O no?
 
da lastampa.it


Titolo: EMANUELE MACALUSO - Opposizione, fatela credibile
Inserito da: Admin - Ottobre 14, 2008, 08:43:24 am
14/10/2008
 
Opposizione, fatela credibile
 
 
 
 
 
EMANUELE MACALUSO
 
La manifestazione della sinistra radicale, che sabato scorso si è ritrovata in una piazza di Roma per contestare la politica del governo, è stata salutata da alcuni commentatori come una vera resurrezione.

Mentre altri l’hanno vista come conferma di un definitivo tramonto. Tuttavia a me pare che valutare il futuro politico della sinistra massimalista dal fatto che nella stessa piazza si ritrovassero sparpagliati leader e leaderini di quella sinistra, e con loro alcune migliaia di militanti delusi e arrabbiati, sia sbagliato.

Il dato vero, leggibile di quella manifestazione era l’assenza di una strategia politica. Francesca Schianchi sulla Stampa di domenica ci ha raccontato la manifestazione e abbiamo letto che Oliviero Diliberto ha detto che quel sabato era «il giorno dell’orgoglio comunista»; e Fausto Bertinotti è stato contestato perché aveva scritto che «comunista è una parola indicibile». È chiaro che l’ex presidente della Camera dava una valenza tutta politica alla parola «indicibile», ma è stata considerata la prova di una vergognosa abiura. I dirigenti del partito di Rifondazione comunista erano tutti presenti alla manifestazione, ma Vendola e Ferrero marciavano separati. Quest’ultimo vuole ancora «rifondare» il comunismo. Vendola pensa di unire le membra sparse di una «sinistra d’opposizione», con Mussi, Occhetto, Fava e altri. Con quale prospettiva non si capisce. Anche perché c’è già il Partito democratico, dove si ritrovano altri pezzi della sinistra tra cui D’Alema, Veltroni, Fassino e compagni, che si qualifica come opposizione e alternativa di governo. Un partito anch’esso anomalo rispetto alla sinistra europea. Infatti in Italia al partito del socialismo europeo aderisce solo il piccolo partito ora diretto da Nencini.

Ho fatto questa premessa per dire che la sinistra nel suo complesso continua a non capire due processi politici con cui fare i conti. Il primo attiene al fatto che con le ultime elezioni politiche in Italia il bipolarismo si è consolidato ma con una tendenza che va valutata bene perché si manifesta anche in Europa. Infatti nel nostro sistema a destra c’è un partito-coalizione (Pdl), alleato con una forza «anomala» come la Lega di Bossi; e a sinistra c’è un partito-coalizione (Pd) alleato con una forza anomala come l’Italia dei Valori di Antonio Di Pietro. Forze «anomale» che tendono a crescere anche perché hanno entrambi una cifra antisistema.

Il secondo processo, che si segnala anche su scala europea, è una seria difficoltà politica dei partiti socialisti (evidentissima in Inghilterra, Germania, Austria) i quali nelle elezioni perdono voti, ma non a favore della sinistra radicale, che perde terreno, ma in direzione opposta: i conservatori o la destra populista. Tuttavia i partiti socialisti, ancora una volta, mostrano di essere la sola forza di sinistra che cerca di fare i conti con le crisi e le trasformazioni del capitalismo, cercando di coniugare l’interesse generale con quello della difesa dei lavoratori e dei ceti più deboli. Lo fanno anche oggi che sono in difficoltà. Lo sta facendo in Europa Gordon Brown che sembrava ormai uno sconfitto. Del resto, in altri momenti i partiti socialisti, che sembravano essere stati messi fuori giuoco dalla destra di Reagan, della Thatcher o dai democristiani tedeschi di Kohl, hanno saputo rinnovare il loro patrimonio politico e culturale e tornare a governare i loro Paesi. Ebbene, fuori dai partiti socialisti europei, non c’è altro a sinistra che possa dare voce ai lavoratori e al tempo stesso guardare l’interesse generale della collettività nazionale e internazionale.

Quel che stupisce della manifestazione della sinistra radicale è la separazione di ciò che considera interessi del popolo da quelli più generali del Paese. Debbo dire che anche il Pd non giuoca bene la sua partita. Ha ragione Luca Ricolfi quando osserva che dire la verità, tutta la verità, su come stanno le cose è la premessa per essere credibili e per fare proposte adeguate ai fatti. E questo non c’è. La destra populista è quella che è, ma può essere ridimensionata se c’è un’opposizione credibile. Domenica, su la Repubblica, c’era uno studio di Ilvo Diamanti con sondaggi seri che ci dicono come il gradimento del governo, anche nel corso della crisi, è cresciuto ed è al 67%. Non penso che questo vantaggio si verifichi per particolari meriti dei governanti. Si verifica per il fatto che non c’è ancora un’alternativa credibile. La sinistra radicale da una parte e il Pd dall’altra mostrano una sostanziale impotenza. E temo che le «grandi» manifestazioni, quella già fatta e l’altra del Pd il 25 ottobre, legittime e certo da non demonizzare, in questo quadro servano proprio a confermare questa impotenza tutta politica. Volete o no ragionare sui fatti?

 
da lastampa.it


Titolo: EMANUELE MACALUSO - Pd debole anche senza Di Pietro
Inserito da: Admin - Ottobre 21, 2008, 11:25:14 am
21/10/2008
 
Pd debole anche senza Di Pietro
 

EMANUELE MACALUSO

 
Di Pietro è lontano dalla cultura democratica», ha detto Walter Veltroni annunciando, nel corso della trasmissione Che tempo che fa, la fine dell’alleanza tra il suo partito e quello personale dell’ex pm. Certo, il fatto che il segretario del Pd scelga la tv di intrattenimento per comunicare ai militanti e agli elettori una decisione politica rilevante ci dice «che tempo che fa» nell’universo politico di questo Paese. Del resto, non so chi alla vigilia delle elezioni nel Pd decise di dare a Di Pietro quello che era stato negato ai socialisti: un’alleanza che, grazie a una balorda legge elettorale, premiava il partito dipietrista che usufruiva del «voto utile», invocato da Veltroni.

Senza quell’alleanza, senza il «voto utile», Di Pietro e i suoi seguaci sarebbero rimasti fuori dalle aule parlamentari, perché non avrebbero mai superato lo sbarramento del 4%. Ma, francamente, in questa storia Di Pietro non può essere accusato di incoerenza e frode politica. Semmai c’è da chiedere a Veltroni, e non solo a lui, come mai e perché solo nell’ottobre del 2008 si è accorto che Di Pietro è lontano dalla cultura democratica. Era vicino a quella cultura quando nel 1996 il Pds di D’Alema, Fassino e Veltroni lo candidò con un gran rullo di tamburi nel collegio rosso del Mugello? E lo era quando diventò ministro dei governi di centrosinistra?

Elo era quando fu scelto, nel 2008, alleato privilegiato del Pd? Non scherziamo con cose serie, che non sono solo cose che riguardano il gruppetto che oggi guida il Pd. La verità è un’altra e andrebbe esaminata con serietà e rigore perché attiene proprio alla cultura politica del Pd. Il quale ancora oggi non si capisce che cosa sia. Infatti, Rutelli, uno dei fondatori del Pd, un anno dopo la nascita del suo partito, ne chiede nientemeno che la rifondazione. L’incerta cultura politica attiene anche ai temi della giustizia e Di Pietro è stato considerato, da sempre, un simbolo a cui riferirsi.

Io non sono tra coloro che considerano l’operazione «mani pulite» un complotto per distruggere i partiti della prima Repubblica e soprattutto il Psi di Craxi e la Dc di Forlani. La crisi del sistema politico si era aperta alcuni anni prima del 1993-1994 e si era accentuata nel 1989 con la caduta del muro di Berlino, la fine del Pci e con il fatto che cambiavano tutti i parametri su cui dopo il 1948 si era costruito quel sistema. Ma nessuno dei leader di allora, Craxi, Forlani, Occhetto e i loro collaboratori capirono e agirono di conseguenza. La conferma venne con le elezioni del 1992 (prima di Tangentopoli) quando la Lega di Bossi conseguì un successo straordinario: 80 parlamentari. Ma nonostante questo la politica dei partiti che pure avevano fondato la Repubblica e scritto la Costituzione, non cambiava: Craxi pensava di tornare a Palazzo Chigi e Andreotti e Forlani al Quirinale. Le cose andarono come sappiamo.

La corruzione certo c’era, ma Tangentopoli esplose quando il sistema politico implose. In questo contesto i dirigenti del Pds, tutti insieme, pensarono di tifare per Di Pietro «simbolo» dell’operazione «mani pulite» (lo fecero anche i giornali e le tv di Berlusconi) considerata la leva per la rigenerazione del sistema politico. A vincere la corsa non furono però i dirigenti del Pds (Occhetto, Fassino, Veltroni, Violante ecc.), ma Berlusconi che prevalse nelle elezioni del 1994. E Di Pietro lasciò la magistratura e pensò di usare la sua immagine di giustiziere nel nuovo sistema politico. Infatti prima pensò di imbarcarsi con la destra, ma poi capì che la «continuità» della sua immagine poteva trovarla solo a sinistra. E a sinistra D’Alema, Fassino, Veltroni e altri, che non avevano una loro autonoma elaborazione sui temi della giustizia che anche Tangentopoli aveva messo in forte evidenza, scelsero Di Pietro come uomo-giustizia il quale ha dato alla politica della coalizione di centrosinistra un’impronta giustizialista. Un’impronta che ha consentito all’ex pm di fare un partito personale in grado di condizionare il Pd non solo sui temi della giustizia, ma anche sul tema centrale che attiene ai rapporti tra governo e opposizione.

Insomma il Pd era ormai ostaggio di Di Pietro e non aveva più spazio di manovra politica. Oggi le cose cambiano? Certo, ma la guida politica del Pd, non solo di Veltroni, ancora una volta, si rivela debole perché incerta è la sua cultura politica. Rutelli vuole rifondare il partito? E su quali basi? Se si vuole aprire un dibattito reale, insisto su ciò che ho già scritto su queste colonne: occorre un congresso vero, su mozioni diverse e con candidati che esprimano una cultura e una posizione politica chiara e leggibile per tutti gli italiani.
 
da lastampa.it


Titolo: EMANUELE MACALUSO - Ma la politica non è solo propaganda
Inserito da: Admin - Ottobre 29, 2008, 11:03:55 pm
29/10/2008
 
Ma la politica non è solo propaganda
 
EMANUELE MACALUSO
 
Il gran confronto sul numero dei partecipanti ai comizi di Veltroni e Berlusconi pare si sia concluso senza vinti e vincitori. Barano tutti. Quel che manca invece è un confronto vero e forte sulla crisi economica e sociale che scuote, col mondo, il nostro Paese. I comizi, le grandi o piccole assemblee popolari sono certo momenti di democrazia, ma lo sono se i cittadini riescono, grazie a un ragionare collettivo, a essere protagonisti dei cambiamenti necessari a dare soluzione ai problemi all’ordine del giorno. Anche l’opera del governo e le sue iniziative legislative dovrebbero essere tali da sollecitare l’opposizione a misurarsi con temi d’interesse generale.

Non basta dire, come fa Berlusconi, che le sue sono le soluzioni più giuste per i problemi del Paese e se non piacciono all’opposizione ha una maggioranza per imporle. Non c’è confronto se la ministra dell’Istruzione dice che il decreto 133 è quello che è, e in ogni caso tale resterà; e dall’opposizione si chiede che quel provvedimento venga ritirato e basta. La politica è anche mediazione, capacità di trovare soluzioni valide e più largamente condivise e non mediocre opportunismo.

Per questo versante mi hanno colpito le dichiarazioni del rettore del Politecnico di Torino, il quale non accetta tagli indiscriminati e al tempo stesso chiede riforme serie. Non pensa, e lo dice, che oggi l’Università vada bene così com’è. Il propagandismo, cara Gelmini, non serve. Dire che chi non è d’accordo con i suoi provvedimenti vuole la conservazione è falso. Spero che non sfugga a nessuno che i problemi della scuola e dell’Università, come tutti gli altri, oggi debbono essere visti e riconsiderati nel quadro più vasto e generale che impone la crisi economico-finanziaria. Ma per farlo occorre un’analisi corretta del fenomeno e una strategia adeguata per affrontarla. Si tratta di una crisi che certamente non travolge il sistema capitalistico, ma ne cambierà i connotati che abbiamo conosciuti. Quali saranno i nuovi non si capisce ancora e nessuno ha una ricetta pronta.

La storia ci ha insegnato che le crisi economiche del capitalismo contengono in sé i fattori per la sua trasformazione. Ma per individuare quei fattori e operare per la trasformazione occorre l’intervento tempestivo e consapevole della politica. Solo la politica può ridisegnare il rapporto, di cui oggi tanto si parla, tra Stato e mercato. È un’opera difficile che però qualifica una forza riformista. Difficile, perché l’esperienza ci dice che lo Stato come gestore della società è fallito, ma ci dice anche che il mercato come regolatore della società è fallito. Quale sia oggi, nella situazione data, nell’economia globalizzata, il ruolo della politica, la quale non è globalizzata, è il tema su cui cimentarsi.

È stato detto e ridetto che dopo la crisi del ’29 Roosevelt mosse i tasti della politica e promosse il New Deal. In Europa prevalse quello che è stato chiamato il «compromesso socialdemocratico» e il «Welfare State». Ma oggi la politica, cioè i partiti che l’esprimono, i governi, le opposizioni parlamentari, i sindacati, quali analisi fanno? E che cosa propongono? Siamo entrati in una fase in cui tutti si rivolgono alla politica: la Confindustria, gli agricoltori, i sindacati, le associazioni dei piccoli produttori, dei risparmiatori e dei consumatori. Tutti chiedono più intervento della politica, ma se leggiamo i sondaggi vediamo che i soggetti della politica, governo e opposizione, perdono consensi. E forse li perdono proprio perché non si vedono in campo strategie che indichino una strada che guardi all’oggi e al futuro.

Data la mia età non vorrei apparire nostalgico, ma è bene ricordare che all’inizio degli Anni Sessanta, quando si manifestò un cambiamento di fase (il miracolo economico), il Pci convocò presso l’Istituto Gramsci un grande convegno, con Amendola, sulle «tendenze del capitalismo» e si svolse un dibattito che fa riflettere ancora oggi. La Dc convocò un suo seminario di studi sulla nuova fase a S. Pellegrino ponendo le basi della politica di centro-sinistra, lo stesso fece il meglio della cultura socialista, con Lombardi, Giolitti, Guiducci, Rossi Doria e altri. La Malfa scrisse saggi, articoli e «note» sul bilancio dello Stato che suscitarono grandi discussioni anche in Parlamento. Oggi c’è solo uno scontro sulla propaganda. Ma la politica è un’altra cosa. Ed è quel che manca.
 
da lastampa.it


Titolo: EMANUELE MACALUSO - Sindacati, occorre una svolta
Inserito da: Admin - Novembre 12, 2008, 10:11:03 am
12/11/2008
 
Sindacati, occorre una svolta
 

 
EMANUELE MACALUSO
 
Ieri su questo giornale abbiamo letto l’articolo di Paolo Baroni che raccontava e commentava lo sciopero di un gruppo di lavoratori dell’Alitalia e ciò che ha significato per la vecchia e la nuova azienda del trasporto aereo. E soprattutto per i viaggiatori e la collettività tutta. Questo sciopero ha diviso anche i sindacati autonomi e ha messo in evidenza la loro crisi. Infatti quando si perde la bussola che regola il rapporto tra l’interesse di categoria e l’interesse generale, tutto è possibile. Le posizioni estreme non hanno confini: l’esasperazione delle fasce più colpite dalla crisi dell’azienda non trova argini e si manifesta con atti come quelli avvenuti lunedì negli aeroporti.

Si tenga presente il fatto che la crisi dell’Alitalia, con la conseguente riduzione dell’occupazione, si manifesta in un momento di grave difficoltà dell’economia globale e chi perde il lavoro sa che oggi è molto difficile trovarne un altro. Ma la riflessione sul ruolo del sindacato autonomo, e anche di quello confederale, non può fermarsi all’oggi dato che l’oggi è frutto di ciò che è avvenuto ieri. Mi riferisco al fatto che nel momento in cui l’Alitalia registrava perdite consistenti e continue, il sindacato ha puntato solo sull’intervento dello Stato per colmare i deficit e non sul risanamento dell’azienda.

Equesto perché il risanamento metteva in discussione anche i rapporti sindacali, o meglio parasindacali, con le direzioni aziendali che all’Alitalia si sono succedute. Le quali hanno coltivato questi rapporti pensando solo ai loro interessi personali, alle loro retribuzioni e liquidazioni miliardarie. Sia chiaro, non penso che i lavoratori dell’Alitalia avessero chissà quali privilegi, c’era molta gente che faticava e aveva retribuzioni solo decenti. Ma nel momento in cui l’azienda cominciava ad affondare sembrava che il problema non fosse loro, dei sindacati, dei lavoratori, ma della politica che doveva provvedere. Ora - questo è il punto - il sindacato non può estraniarsi dalle vicende che attengono alla salute o alla malattia delle aziende, soprattutto se sono pubbliche. E non solo da esse. Si tenga conto che le pesanti perdite dell’Alitalia sono state pagate da tutti i cittadini, anche da quelli che nella loro vita non hanno mai preso un aereo.

Insomma, se oggi la situazione di quell’azienda è precipitata non c’è anche, ripeto anche, una responsabilità del sindacato corporativo? Io penso di sì. E non si può però dire che quello confederale abbia le carte in regola solo perché nei giorni scorsi ha firmato un accordo con la Cai di Colaninno e con il governo. L’opera di prevenzione cui ho accennato non è stata fatta nemmeno dai sindacati confederali. E il nodo Alitalia è la spia di un problema più generale, politico, sociale e culturale che attiene al ruolo che storicamente il sindacato ha assolto nel nostro Paese.

Nei giorni scorsi Mannheimer ha pubblicato sondaggi che ci dicono come una larga parte di cittadini (il 50 per cento) ritenga che il sindacato rappresenti ormai solo gli interessi di una minoranza di lavoratori. Non sarà proprio così, ma il problema c’è e ho l’impressione che i dirigenti sindacali non ne siano allarmati e siano impegnati ad accentuare la separazione tra le confederazioni. I maggiori sindacati della Cgil non hanno firmato i nuovi contratti (metallurgici, lavoratori del commercio, statali) sottoscritti da Cisl e Uil. La trattativa con la Confindustria sulla contrattazione articolata mette in evidenza la stessa separazione. Ho l’impressione che le tre Confederazioni, anziché fare uno sforzo per elaborare piattaforme comuni, accentuino le loro divisioni per marcare una, la Cgil, la sua intransigenza, e le altre, Cisl e Uil, il loro «senso di responsabilità». E invece i primi appaiono subordinati all’opposizione parlamentare e gli altri al governo. Un disastro.

Anche perché la crisi economica porrà problemi sempre più ardui al sindacato. E il contrasto tra le Confederazioni alimenta il corporativismo, con torsioni estremistiche o accomodanti che preannunciano solo sconfitte per i lavoratori e per il Paese. Attenzione, se nel sindacato non si verifica una svolta, quel che vediamo con lo sciopero dell’Alitalia non sarà uno scenario isolato. Voglio dire che si apre una fase in cui il ruolo del sindacato sarà essenziale. E coniugare i diritti dei lavoratori con l’interesse generale è nella storia del movimento sindacale italiano. Lo è ancora? Questo è oggi il tema che sta davanti a tutte le Confederazioni.

 
da lastampa.it


Titolo: EMANUELE MACALUSO - Il Pd sospeso tra essere e non essere
Inserito da: Admin - Novembre 19, 2008, 06:04:12 pm
19/11/2008
 
Il Pd sospeso tra essere e non essere
 
 
EMANUELE MACALUSO

 
Due fatti richiamano la nostra attenzione sul Pd e la sua politica, sulla sua identità di cui si è tanto parlato. La prima notizia riguarda l’assemblea parlamentare della Nato che si svolge a Valencia. Il Pd vi partecipa con sei parlamentari: quattro - Franco Marini, Giovanni Vernetti, Arturo Parisi ed Enzo Bianco - hanno le credenziali del gruppo liberaldemocratico; uno, Antonello Cabras, sta con il gruppo socialista; Fassino è assente perché, con D’Alema, partecipa a Città del Messico all’Assemblea annuale dell’Internazionale socialista. Il viaggio dei due dirigenti del Pd che provengono dai Ds è stato criticato da altri esponenti dello stesso partito che provengono dalla Margherita.

Siamo ormai alla vigilia delle elezioni europee e il Pd si ritrova ancora diviso sulla sua collocazione internazionale. Veltroni ha cercato un compromesso: restare fuori dal Pse e collegare il Pd al gruppo parlamentare socialista. Un pasticcio all’italiana che non regge. Faccio notare che con le prossime elezioni tutto il Pdl (compresa An) si collocherà nel Partito popolare europeo. Infatti in Europa, nei parlamenti nazionali e in quello europeo, le forze che si fronteggiano sono il Pse e il Ppe. E nel mondo sono in discussione temi cruciali che attengono alla crisi economica, al ruolo che debbono svolgere gli Stati nazionali e l’Europa nel loro rapporto con gli Usa e più in generale con la comunità internazionale. Il problema dell’identità del Pd e della sua collocazione in Europa non è, quindi, un fatto formale ma attiene alla sua politica e interessa tutti i cittadini.

Veltroni non capisce che gli equivoci sull’identità di un partito condizionano la sua politica e la sua stessa esistenza. E lo vediamo anche nel momento in cui si verifica l’altro dato su cui ragionare: l’elezione del senatore Riccardo Villari a presidente della commissione parlamentare Rai. I fatti sono noti: Villari, contravvenendo a una regola parlamentare (il presidente della commissione Rai è indicato dall’opposizione), è stato eletto con i voti del Pdl e, dopo tanto discutere e trafficare, ha detto che, nonostante gli inviti e le pressioni che sono venuti dal Pd e dal suo segretario, non si dimette. A questo punto nel Pd si pone una questione che ancora una volta coinvolge quella che si definisce come identità di un partito: Villari, che, eletto dal Pdl, rifiuta l’invito del suo partito a dimettersi, può restare ancora nel Pd? O deve essere espulso come chiedono alcuni dirigenti di quel partito?

Su questi interrogativi ho letto riferimenti «storici» che non sono nella storia. A leggere i giornali sembra che in passato le espulsioni per motivi politici li facesse solo il Pci. E si ricorda l’espulsione dei deputati Valdo Magnani e Aldo Cucchi che, dopo la rottura del Cominform con la Jugoslavia, si schierarono contro la posizione assunta dal Pci che sostenne la condanna di Tito. Ma negli stessi anni la Dc espulse i deputati Mario Melloni (Fortebraccio) e Ugo Bartesaghi che votarono contro la costituzione dell’esercito europeo. E ricordo agli «storici» che nel 1958 la direzione Dc (Fanfani, Moro, Segni, Rumor ecc.) espulse Silvio Milazzo, eletto dall’Assemblea regionale siciliana presidente della Regione dopo le ripetute bocciature del candidato Dc, Barbaro Lo Giudice. Un «caso» analogo a quello che vede eletto Villari da una maggioranza diversa da quella a cui partecipa il suo partito. Potrei continuare. La verità è che i partiti della prima Repubblica, prima della loro crisi, avevano una loro identità e anche delle regole, che, giuste o sbagliate, accettate dagli iscritti, facevano rispettare.

Il problema del Pd è tutto qui: quali sono le regole alle quali richiamarsi? Il Pd è un partito il cui segretario è eletto da primarie alle quali partecipano non solo gli iscritti al partito ma tutti i cittadini elettori, con i parlamentari nominati dai capi corrente (senza correnti!), con organi dirigenti evanescenti. La verità è che il Pd è sempre tra l’essere e non essere, tra il dire e il fare, tra il non dire e non fare. Nel «caso» Villari quindi richiamare i precedenti «storici» è una mistificazione, prevedere quel che il Pd farà è un azzardo. È meglio aspettare.

P.S. Mentre scrivo apprendo che Orlando e un altro parlamentare dell’Italia dei Valori si sono dimessi dalla Commissione di vigilanza Rai e Di Pietro auspica una candidatura «condivisa». Insomma, ancora una volta a decidere nel e del Pd è l’ex pm: prima affossandolo e dopo mostrando di tirarlo fuori dal fosso. Una conferma delle cose che ho scritte.
 
da lastampa.it


Titolo: EMANUELE MACALUSO - In scena l'ultima questione morale
Inserito da: Admin - Dicembre 02, 2008, 08:35:23 am
2/12/2008
 
In scena l'ultima questione morale
 
 
EMANUELE MACALUSO
 
Dopo il suicidio dell’ex assessore napoletano Giorgio Nugnes - scrive Giuseppe D’Avanzo su la Repubblica - c’è chi impropriamente evoca i suicidi di Gabriele Cagliari, Raul Gardini, Sergio Moroni e altri verificatisi negli anni di Tangentopoli. Accostare fatti che sono avvenuti in anni e situazioni molto diverse è sempre un azzardo. Tuttavia quel richiamo ha un senso, dato che riemerge una questione morale e si riacutizza il rapporto tra politica e giustizia in un quadro politico in cui i partiti-coalizione (Pd-Pdl) non hanno né storia né identità e sono, in forme diverse, entrambi coinvolti. Da questo punto di vista i richiami alla questione morale e alla «diversità» berlingueriana della sinistra (identificata nel Pci), come giustamente rilevava ieri su queste colonne Federico Geremicca, non hanno senso. Quei richiami a cui spesso ricorre Veltroni sono semmai la spia di una crisi di identità, dal momento che lo stesso segretario del Pd è teso a tagliare tutti i fili che legavano la «vecchia» sinistra con il «nuovo» partito di centrosinistra, tranne se stesso e altri esponenti del partito. Un «partito pigliatutto» che tende a identificarsi con la società così com’è, il modello dell’ultima edizione della Dc è, a mio avviso, causa della sua crisi. Un partito-coalizione come quello di Berlusconi può mietere consensi mettendo dentro tutto e tutti, da Previti ai giovani di Comunione e Liberazione, perché c’è il cemento della conservazione o il rifiuto di ciò che evoca ancora la sinistra.

La quale, invece, paga un prezzo alla sua stessa storia sia per l’eccesso di moralismo (a volte ipocrita), sia per i compromessi fatti proprio sul terreno della questione morale anche da un quadro di partito che proviene non solo dalla Dc, ma dal Pci. E paga la concorrenza sleale di Di Pietro che continua ad alzare la bandiera della moralità e a identificarsi con le procure, senza se e senza ma. I comportamenti di Di Pietro vanno discussi sul piano politico, dato che su quello giudiziario è stato sempre assolto dai reati di cui è stato accusato anche se con motivazioni moralmente discutibili. E il piano politico attiene proprio a quello della riforma della giustizia. Ma proprio su questo terreno il Pd sembra essere sul banco degli accusati con un Pm (il Di Pietro) che è suo alleato. Il tema è scottante, anche perché il rapporto tra politica e giustizia si ripropone. E si ripropone, per molti versi, nella forma e nella sostanza, come nei primi Anni Novanta: la debolezza e l’inquinamento della politica danno spazio a una visione giustizialista della giustizia. In questi anni dalle forze politiche sono venute sempre più frequenti critiche e accuse, a volte pesanti, alle procure e alla magistratura. Berlusconi ha ripetutamente accusato procure e giudici di indossare toghe politicamente rosse e di persecuzione sistematica. Il fatto che l’accusa venga dal capo del governo è grave, gravissimo, ma nel Pdl non c’è nessuno che su questo terreno fiati. Tutti allineati. Da parte del Pd c’è un formale rispetto per la magistratura, spesso in allineamento alla posizione dell’Associazione dei magistrati, ma anche un sostanziale rifiuto di quasi tutte le decisioni che riguardano suoi esponenti. Geremicca ieri ha fatto un elenco significativo ma incompleto. Tuttavia anche nella magistratura riemerge una tendenza a considerare i tribunali sedi di purificazione della politica. I magistrati che in passato si sono impegnati su questo terreno dovrebbero riflettere sulle ragioni per cui il tema della corruzione (non solo politica!) quindici anni dopo Tangentopoli si ripropone con tanta acutezza e perché la magistratura registra un basso tasso di fiducia tra i cittadini. Non sono solo le «campagne di diffamazione» a creare questo clima. Sappiamo che spesso il filo che separa le responsabilità politiche da quelle penali è sottile e a volte i magistrati non ne tengono conto. Del resto ci sono delle assoluzioni che su questo tema fanno riflettere. Se tutto è mafia nulla è mafia, diceva Leonardo Sciascia. Attenzione, quindi, ci sono modi diversi di delegittimare la giustizia e a volte i comportamenti di alcuni magistrati vi contribuiscono. Ma, per concludere, ripeto che il nodo è nella politica: se non è in grado di disinquinare se stessa e di definire con chiarezza il rapporto con la giustizia, la crisi si aggraverà e gli esiti possono essere più pesanti del passato anche perché c’è un’altra crisi che stringe la società, quella economica e sociale. E il loro intreccio può essere veramente dirompente. Non solo per il sistema politico.

DA lastampa.it


Titolo: EMANUELE MACALUSO - La questione morale è politica
Inserito da: Admin - Dicembre 10, 2008, 10:50:19 am
10/12/2008
 
La questione morale è politica
 
EMANUELE MACALUSO
 

E’ trascorso poco più di un anno da quando quasi tutti i giornali, le tv pubbliche e private auspicavano la nascita del Pd, come un geniale progetto in grado di radunare le forze riformiste del centrosinistra e di dare un assetto al sistema politico fondato sul bipolarismo. Chi osava dubitare del fatto che nasceva un partito che avrebbe semplificato e modernizzato la politica italiana veniva bollato come un nostalgico del passato.

Come una scoria residuale del secolo scorso segnato dalle competizioni ideologiche e dalla partitocrazia. Quei partiti, in molte zone erano solo apparati, non più di funzionari con stipendi modesti, ma di «consulenti», «esperti» amministratori di società pubbliche e semipubbliche che fanno capo alle Regioni e agli Enti locali. Uno degli inventori di questo sistema fu Leoluca Orlando, a Palermo negli Anni Novanta, che pure ebbe il merito di dare all’amministrazione della città un’impronta antimafiosa.

Ho fatto questa premessa per dire che, a mio avviso, oggi nel Pd non c’è una «questione morale», anche se in qualche amministrazione la magistratura indaga (le indagini non sono certezze!) perché ci sono indizi di inquinamenti. C’è, invece, una «questione politica». E coloro che esaltavano la «geniale operazione», che metteva in campo il Pd, oggi martellano questo partito sulla «questione morale» tacendo sulla politica. E gli orfani del «grande progetto» discutono come sarebbe bello il Pd senza D’Alema o senza Rutelli, senza Veltroni o senza Parisi, senza Veronesi o senza la Binetti. Il professor Filippo Andreatta, che si è battuto per un Pd tutto nuovo, lunedì scorso sul Corriere della Sera in un articolo significativamente titolato «Il partito delle troppe ipocrisie», notava che i partiti fondatori del Pd «sono stati troppo caratterizzati da ideologie forti e professionismo politico per essere in grado di attrarre stabilmente un bacino di elettori potenzialmente maggioritario e significativamente più grande di quello Ds e Margherita». Vero, ma questa realtà non era presente ed evidente quando nacque il Pd?

Il problema è cosa fare ora. Federico Geremicca ieri nella sua nota osservava che il Pd cerca di mettere ordine nell’agenda delle sue «emergenze politiche» e fatica a trovare il bandolo della matassa. E non lo troverà se non affronta con spirito di verità gli «equivoci politici» su cui è nato: collocazione europea, temi eticamente sensibili e laicità, giustizia, rapporto tra Stato e mercato e riforma del Welfare. Nodi, sembra, che non possono essere sciolti senza sciogliere il partito. La prima scelta dovrebbe riguardare l’assetto democratico del Pd. Il quale ha un segretario eletto con le «primarie» senza regole e una direzione nominata dal segretario, come osserva l’ex ministro Parisi. Le primarie sono una cosa seria se sono regolate da una legge e se tutto il sistema, come negli Stati Uniti, si regge su quelle regole. Volete questo sistema? Presentate una legge di riforma complessiva.

Il risultato dell’equivoco è questo: false primarie a cui partecipano gli elettori (non registrati quindi di ogni colore) e gli iscritti, invece, sono tenuti fuori di ogni dibattito o scelta politica. Perché non chiamare gli iscritti, anche con referendum, a decidere se in Europa gli eletti del Pd debbono stare nel Pse o in un altro gruppo? Perché non chiamare gli iscritti a decidere sul testamento biologico o la separazione delle carriere dei magistrati? Un partito che non è impegnato nel dibattito politico, nel confronto e nelle decisioni, inevitabilmente si rinchiude nei fortilizi del potere locale e, inevitabilmente, per esercitare e mantenere quel potere allignano pratiche clientelari e anche corruttive. Veltroni ha scritto una lunga lettera al Corriere della Sera (sabato 6 dicembre) dicendo che il Pd deve «sapere selezionare i propri dirigenti e i propri rappresentanti sulla base della loro capacità politica insieme, indissolubilmente, alla loro moralità». Ma non dice una parola perché questo non è avvenuto e come fare per ottenere quel risultato. Siamo alle solite: discorsi generici e dichiarazioni di buone intenzioni. Ma se si continua così il pericolo che questo partito imploda è reale con danni non solo per la sinistra, ma per la democrazia italiana, anche perché non si intravedono alternative.
 
da lastampa.it


Titolo: EMANUELE MACALUSO - Ben oltre Veltroni
Inserito da: Admin - Dicembre 18, 2008, 10:36:16 am
18/12/2008
 
Ben oltre Veltroni
 
EMANUELE MACALUSO
 

Bufera sul Pd». È il titolo che in questi ultimi giorni tutti i giornali hanno usato per segnalare fatti che sono catalogati come la questione morale che coinvolge pesantemente il partito di Veltroni. Su queste stesse colonne ho avuto occasione di dire che nel Pd è aperta in forma ormai lacerante una questione politica che mette in discussione l’esistenza stessa di questo partito.

Molti osservatori hanno richiamato le vicende che travolsero il Psi e il suo leader Craxi nella stagione di tangentopoli, per sottolineare il carattere morale della crisi di una forza politica investita da inchieste giudiziarie. Ma proprio l’esperienza del Psi mi fa insistere sul nodo politico non sciolto.

Il Psi nel 1976, quando Craxi in una seduta drammatica del comitato centrale fu eletto segretario, aveva toccato la percentuale di voti più bassa della sua storia nelle elezioni regionali del 1975 e in quelle politiche del 1976: meno del 10 per cento. In quegli anni la sfida e la rimonta del Psi furono giocate tutte sul terreno politico: la presa di distanza dai governi Andreotti fondati essenzialmente sull’asse Dc-Pci, come anticipo di una strategia volta a rompere quell’asse.

Presa di distanza che fu marcata anche nel momento del rapimento e dell’uccisione di Moro. La sfida poi si qualificò anche nel terreno delle riforme che investivano il sistema, sul giudizio della società degli Anni Ottanta e sui compiti della politica per assecondare o contrastare i processi sociali che in quegli anni si verificavano. Non è questa la sede per un esame completo di quella fase (i cui giudizi furono e sono ancora diversi), che portò Craxi alla presidenza del Consiglio con un governo di alto profilo (c’erano Scalfaro, Martinazzoli, Ruberti, Visentini, Spadolini, Andreotti ecc.). Ma una cosa è certa: fu una fase di elaborazioni e lotte politiche che coinvolsero tutta la sinistra nel suo complesso (il contrasto Pci-Psi), la Dc, i sindacati, le forze economiche. La «questione morale», anche allora, esplose nel momento in cui si pose una questione politica enorme, elusa soprattutto dai partiti di governo, Dc e Psi. C’è il 1989 e il crollo del Muro di Berlino, si accentua la crisi in Urss e la sua implosione si conclude nel 1991.

Cambia il mondo. Ma il sistema politico italiano, che dalla Guerra fredda era stato condizionato, invece non cambia. Anzi non cambia nulla. Occhetto nell’89 fa la svolta della Bolognina, cambia nome al Pci, ma lo lascia nel limbo. Craxi segretario del Psi, che vinceva il grande duello col Pci, anziché sfidare il Pci-Pds sul terreno dell’unità della sinistra nel socialismo democratico, cerca con tutti i mezzi di tornare a Palazzo Chigi con la Dc di Andreotti e Forlani. I quali pensano a chi dei due potrebbe andare al Quirinale, come se nulla fosse cambiato. Voglio dire che il Psi di Craxi, chiusa l’esperienza governativa, non fa più politica e tutto - come nella Dc - si svolge nella gestione del potere locale e centrale, nei grandi e piccoli enti pubblici. E il finanziamento illegale ai partiti si intreccia con la corruzione personale. Rino Formica in quegli anni disse che si vedono «conventi poveri e monaci ricchi». Questo lungo richiamo mi serve per dire che, diversamente da come nacque il Psi di Craxi, il Pd nasce senz’anima, senza lotta e passioni politiche con una fusione fredda tra Ds e Margherita che si traduce in un’ammucchiata di personale politico prevalentemente aggrappato ai poteri locali e impegnato nella riproduzione di se stesso, come il Psi nella seconda fase. Il sindaco di Pescara, ora agli arresti, con una deformazione istituzionale, era anche segretario regionale del Pd. E non è il solo caso.

Questo quadro si colloca dentro un contesto in cui si constata che il Pd non è in grado di decidere nulla. Faccio solo pochi ma significativi esempi: Europa e Pse, bioetica, giustizia, alleanza con Di Pietro, riforma del welfare secondo la proposta di Ichino e Morando ecc. Si capisce che su questi temi, che definiscono l’identità di un partito, non c’è lotta politica, voto con maggioranze e minoranze, vita democratica chiamando gli iscritti a votare e decidere. I discorsi del Lingotto, richiamati da Veltroni e i suoi amici come l’avemaria, sono acqua sul marmo. E quando leggo (vedi Il Riformista di ieri) che Veltroni deve dimettersi subito, mi chiedo: e dopo? Chi si propone con una linea politica e un modo di essere diversi? È questo il primo nodo da sciogliere. Altrimenti ci sarà solo una lenta o rapida implosione. Venerdì si riunisce una pletorica direzione del Pd. Sarà in grado di aprire un vero dibattito? Ne dubito.
 
da lastampa.it


Titolo: EMANUELE MACALUSO - Quel che resta di Walter
Inserito da: Admin - Gennaio 20, 2009, 04:59:51 pm
20/1/2009
 
Quel che resta di Walter
 
EMANUELE MACALUSO
 

Giovedì 15 gennaio un lettore della Stampa, Silvio Montiferrari, ha scritto una lettera a Lucia Annunziata per dire che a fronte di un mio «sconsolato articolo» sulla mancata fusione tra le componenti che hanno dato vita al Pd, «sabato 25 ottobre 2008 a Roma c’era il popolo dell’Ulivo (ora il Pd) con le sue mille bandiere». Francamente sconsolante mi pare la tendenza che si avverte nel leader del Pd Veltroni e in tanti suoi sostenitori a non vedere la realtà per quella che è, non come si vorrebbe che fosse, confondendo la propaganda con la politica. Proprio ascoltando Walter in quella manifestazione ho avuto conferma di quel che ho scritto su questo giornale. A mio avviso la domanda centrale che bisogna farsi è questa: cosa resta della strategia indicata da Veltroni, al Lingotto di Torino, di volere, costi quel che costi, un partito a «vocazione maggioritaria» e un sistema politico bipartitico, archiviando l’Ulivo e la coalizione prodiana di centrosinistra, fondata essenzialmente sull’antiberlusconismo?

A mio avviso non resta più nulla. Intanto dopo il Lingotto il Pd si alleò con il partito personale di Di Pietro, il quale, grazie alla campagna veltroniana del voto utile, poté superare lo sbarramento del 4 per cento. Successivamente, grazie a quell’avallo e alla spregiudicata e concorrenziale politica di Di Pietro, abbiamo visto transitare elettori del Pd verso l’Italia dei Valori. Questo dato ci dice che nella base elettorale del Pd resiste un equivoco politico tra quelle che sono le posizioni di Di Pietro e quelle che dovrebbero essere del partito di Veltroni. Ma, il dato politico centrale è che all’interno del Pd maturava il convincimento che la «vocazione maggioritaria» era solo una vocazione senza riscontri con la realtà, poiché il partito perdeva consensi e si determinava un evidente isolamento. Anche perché, dopo le elezioni, uno dei dati per cui si poteva prefigurare una riforma politica bipolarista, cioè un’intesa tra Pd e il partito di Berlusconi, non si era realizzato. Anzi la conflittualità tra i due poli si manifestava come in passato.

Ecco infatti D’Alema che parla di «amalgama mancato nel Pd» e della ricerca di alleanze guardando a Casini. Ecco Rutelli e molti altri che pensano a un partito di centro più robusto, alleato del Pd. Ecco Parisi che considera un errore la fine dell’Ulivo e delle alleanze a sinistra che si erano realizzate con il governo Prodi. Potremmo continuare. E intanto il Pd è paralizzato perché le strategie sulle alleanze definiscono anche i contenuti della politica sui temi che sono all’ordine del giorno: basta ricordare il testo sulla giustizia messo insieme da D’Alema e Casini. Non Di Pietro!

Ma c’è stato anche un fatto politico con cui il gruppo dirigente del Pd ha archiviato la strategia del partito a vocazione maggioritaria. Infatti nei giorni scorsi si è svolta una riunione dei «capicorrente senza correnti» del Pd in cui si è discussa della possibilità di modificare la legge per le elezioni europee insieme con Berlusconi, introducendo un consistente sbarramento senza preferenze. In quella sede Veltroni ha dovuto prendere atto che il tentativo di riproporre il bipartitismo coatto, grazie alla legge elettorale anche se la politica va in direzione opposta, è abortito.

A questo punto a me pare che la crisi del Pd (nei sondaggi di Mannheimer è al 23 per cento) va anzitutto ricercata nella crisi di una strategia che è rimasta solo come slogan propagandistico. Veltroni infatti non prende atto di un dato politico ormai evidente a tutti e non indica una strada diversa. Dire, come ha detto a Ballarò, che anche i grandi partiti europei registrano nei voti e nei sondaggi degli alti e bassi è un’assurdità. Quei partiti hanno un amalgama antico e consolidato e una strategia verificata negli anni. Far finta di niente non è una politica. E se non si chiarisce il punto il Pd rischia un’implosione distruttiva. Prendere atto della realtà e dire se e come modificarla dovrebbe essere la regola di chi guida un partito. O no?
 
da lastampa.it


Titolo: EMANUELE MACALUSO - La questione sindacale va oltre la Cgil
Inserito da: Admin - Gennaio 27, 2009, 09:48:31 am
27/1/2009
 
La questione sindacale va oltre la Cgil
 
EMANUELE MACALUSO
 

Epifani non firma il testo che sancisce l’accordo sulla contrattazione, elaborato e sottoscritto da Confindustria, Cisl, Uil e tante altre sigle, con l’avallo del governo, e si scatena una pioggia di accuse che investe non solo il segretario ma anche la Cgil e la sua storia. Sabato scorso Giovanni Sartori, eminente studioso dei sistemi politici, concludeva un suo editoriale sul Corriere della Sera con queste parole: «Abbiamo ancora un sindacalismo invecchiato che nella Cgil non dimentica le sue origini barricadiera e comuniste». Caro professore, la Cgil di Di Vittorio, nel dopoguerra e successivamente quella di Novella, Lama e Trentin, con i socialisti, da Fernando Santi sino a Del Turco, non è stata mai «barricadiera» ma riformista

Nel 1949 la Cgil propose il Piano di Lavoro con un netto impianto keynesiano. Nello stesso anno, Di Vittorio, in un suo discorso rivolto ai braccianti pugliesi (con salari da fame) impegnati nella lotta per il contratto disse che se si concordavano investimenti per apportare significative migliorie agrarie, i lavoratori potevano rinunciare a una parte della retribuzione. In quegli anni, Di Vittorio, sulla Cassa del Mezzogiorno assunse una posizione diversa da quella del Pci: basta leggere la sua polemica con Amendola. Potrei ricordare altri episodi che testimoniano la vocazione riformista della Cgil. Anche il contrasto con Craxi sul taglio della scala mobile, Lama lo resse con moderazione rispetto allo scontro tra Berlinguer e Craxi.

La Cgil non fu comunista nel 1956 quando sulla rivoluzione ungherese assunse una posizione che contraddiceva quella del Pci di Togliatti. E Lama, diversamente dal Pci di Berlinguer, diede un giudizio positivo su Craxi presidente del Consiglio. E nel 1972-73 Trentin firmò, con Giuliano Amato e Ciampi presidenti del Consiglio, l’accordo sulla contrattazione con la netta opposizione del Pds di Occhetto.

Quell’accordo fu firmato nel periodo in cui maturava la crisi politica che con Tangentopoli avrebbe travolto i vecchi partiti, ma con essi non travolse il sindacato. Infatti, è vero che la Cgil aveva come partito di riferimento il Pci, poi Pds, la Cisl la Dc e la Uil il Psi, ma non erano, come si usa dire, cinghie di trasmissione di quei partiti. Mantennero una loro autonomia, anche nella selezione del quadro dirigente. Tuttavia, il sindacato nel suo complesso in questi anni di transizione senza sbocco non è stato in grado di rinnovarsi, di unificarsi, di riproporsi come soggetto della contrattazione e anche come interprete di interessi generali, come vuole la tradizione confederale del sindacato italiano. Su questo Sartori ha ragione.

È prevalsa la sopravvivenza burocratica e una ripetitività di comportamenti che ricordano quelli degli anni in cui c’erano grandi partiti la cui iniziativa politica e di massa incideva anche sugli assetti sociali. Insomma, il sindacato avrebbe dovuto riproporre il suo ruolo nel nuovo sistema politico che non è certo quello degli Anni Cinquanta, caratterizzati anche dalla rottura e concorrenzialità sindacale. Ecco perché quel che emerge dalla seduta di Palazzo Chigi, dove si è firmato (solo firmato) il documento sulla contrattazione, non è il «caso» Epifani-Cgil che non firma. Emerge invece una questione dei sindacati nel loro complesso che appaiono, come negli Anni 50, schierati o col governo o con l’opposizione.

Non è, quindi, la Cgil isolata, ma il sindacato appare subalterno al governo o a forze politiche che non sono più nemmeno i grandi partiti di massa. E il Pd si è diviso tra chi sostiene i firmatari e chi no. In questo quadro, con una crisi economica che tende ad aggravarsi e a fare pagare il conto ai più deboli, il sindacato diviso non avrà ruolo autonomo e forte, in grado di difendere i lavoratori e interpretare l’interesse generale. E quel che invece capirono i dirigenti del sindacato negli anni in cui prevalse l’unità tra il ’60 e il ’70, e anche dopo la crisi di quella unità verificatasi sul decreto Craxi per la scala mobile. Lo capiranno i dirigenti sindacali di oggi? Purtroppo ne dubito.
 
da lastampa.it


Titolo: EMANUELE MACALUSO - Smentiti dall'Europa
Inserito da: Admin - Febbraio 11, 2009, 02:24:58 pm
11/2/2009
 
Smentiti dall'Europa
 
EMANUELE MACALUSO
 

La sfida lanciata da Berlusconi, prima e dopo la morte di Eluana Englaro, al mondo laico sul terreno dei valori che caratterizzano la modernizzazione e la secolarizzazione dell’Occidente è destinata ad accrescere il suo isolamento in Europa e oltre l’Atlantico. La vittoria di Obama segna la sconfitta dell’oltranzismo dei teodem. Non è senza significato il fatto che uno dei primi atti del nuovo presidente sia stato quello di sospendere il divieto, ordinato da Bush, di dare finanziamenti pubblici a organizzazioni private che praticano o sostengono l’aborto. Le reazioni dei vescovi americani e dei cardinali della Curia non hanno certo fatto indietreggiare il Presidente Usa. La campagna di Berlusconi sul «caso Eluana» che ha un netto carattere strumentale, guarda solo alla politica interna, allunga la distanza che separa il presidente del Consiglio italiano da quel vasto e complesso mondo credente ma laico che ha sostenuto Obama.

Il clima, nei confronti di Berlusconi, è cambiato anche in Europa. Oggi la destra di Sarkozy guarda con interesse coloro che pensano a un’alternativa al socialismo democratico europeo su un terreno che oggettivamente costituisce una sfida alla sinistra, non solo sul tema dello sviluppo ma anche su quello dei valori che debbono caratterizzare le società moderne multirazziali e multiculturali. Berlusconi e la Lega appaiono come residuati di una guerra perduta, come chi vuole fermare con le mani un fiume che straripa. Chi pensa che le posizioni laiche di Zapatero fossero un caso isolato in Europa sbaglia. È vero, si tratta della Spagna cattolica, ma la laicità e la legislazione sui diritti individuali che non configgono con quelli della collettività, sono comuni a tutta l’Europa. Quel che Obama ha fatto ora lo aveva fatto, anni addietro, Blair in Inghilterra. In Germania le critiche aperte della cancelliera Merkel al Papa, dopo la riammissione nella Chiesa di Roma dei lefebvriani scomunicati, con loro il vescovo negazionista, è un gesto politico che va in direzione opposta a quella di Berlusconi. Il quale, con la sua storia, assume, rispetto al Vaticano, posizioni che uno, con la storia di Giulio Andreotti, considera inaccettabili.

Chi pensa che al fondamentalismo islamico bisogna opporre il fondamentalismo cristiano, è oggi smentito da ciò che vediamo in Europa e nelle Americhe. Insomma, il mondo cambia non solo in ragione della pesante crisi economica, ma anche per i processi sociali e culturali innescati dalla globalizzazione e l'Italia sembra ferma, paralizzata dalla crisi del suo sistema politico con un presidente del Consiglio che appare fuori del tempo e dello spazio che ci circonda. In questo quadro, la politica e il sistema che l’esprime non riescono ad uscire dalla rissa quotidiana e a riflettere sugli scenari nuovi che ci propone il mondo e l’Italia con esso. Lo spettacolo offerto in Senato dopo la fine di Eluana e il volgare attacco al Presidente della Repubblica di chi rappresenta la maggioranza al governo, è un segno dei tempi. E, purtroppo, non c’è un grande partito che ponga i temi essenziali e urgenti di oggi, del quotidiano, in una prospettiva del domani e del futuro.

Anche i delicati e complicati rapporti tra lo Stato e la Chiesa cattolica sono giocati sulla redditività elettorale immediata. E il Vaticano in questa situazione pensa di avere una rendita di posizione rispetto ai due poli che cercano i suoi favori rendendo favori su temi e questioni che la Costituzione ha regolato anche incorporando i Patti Lateranensi e la loro revisione. Non è un caso che in questi giorni c’è chi ricorda De Gasperi e Togliatti o Craxi e Berlinguer e i papi del tempo, i quali, anche nel caso di un ampio conflitto politico, seppero trovare equilibri adeguati allo svolgimento della lotta politica e al ruolo anche pubblico delle religioni in un Paese in cui, come diceva Gramsci, «c’è una questione vaticana». E non sono certo mancate posizioni critiche laiche (penso ai radicali) a questa linea, ma tutto si è svolto senza mettere in discussione le fondamenta della Costituzione e dei rapporti tra Stato e Chiesa.

Oggi sembra che tutti gli argini si siano rotti nelle due sponde del Tevere e prevale una strumentalizzazione ed esasperazione dei temi controversi che si riverberano sulla famiglia di Eluana che ha vissuto e vivrà un dramma che le istituzioni e la Chiesa avrebbero dovuto rispettare. Ma qui, ripeto, sembra di essere fuori dal mondo, in un altro pianeta.
 
da lastampa.it


Titolo: EMANUELE MACALUSO - C'era tre volte il dialogo
Inserito da: Admin - Febbraio 18, 2009, 10:58:56 am
18/2/2009
 
C'era tre volte il dialogo
 
EMANUELE MACALUSO
 

Galli della Loggia (Corriere di domenica) ha osservato che sta finendo la stagione dell’«incontro o dialogo tra laici e cattolici». Pensa che si sarebbe aperta intorno agli Anni 90, nella crisi della prima Repubblica e dei grandi partiti Dc, Pci, Psi. E quando le «nuove» forze politiche dovettero affrontare le sfide dell’11 settembre, del neofondamentalismo religioso e del progresso delle tecnoscienze in settori come l’ingegneria genetica. Ritiene che le sfide abbiano riproposto un rapporto laici-cattolici che nulla ha a che fare col «dialogo togliattiano» e la cultura dei «cattolici democratici». Ma in quali pagine e atti politici ha letto lo svolgimento della stagione del dialogo che testimonierebbe un proficuo rapporto tra chi si richiama alla tradizione liberale e chi al cristianesimo cattolico? Parla di giornali, libri, iniziative culturali, ma non accenna a forze politiche che avrebbero espresso questa cultura. E anche sul piano culturale il «dialogo» avrebbe coinvolto «soprattutto esponenti della gerarchia, la Chiesa». La quale, osserva, ha un tasso di autoreferenzialità che rende impossibile un dialogo paritario e rispettoso delle diversità culturali. Galli della Loggia evita di analizzare come si è espresso il dialogo in politica, ma non è difficile capire che aveva presente il caso Eluana.

Il «dialogo» tra il senatore «liberale» Quagliariello e la gerarchia, per dirla con Enzo Bianchi (La Stampa di domenica), mette al centro «una politica che si finge al servizio di un’etica superiore, l’etica cristiana, e che cerca con il compiacimento dei cattolici di trasformare il cristianesimo in religione civile». Piccolo cabotaggio strumentale, se penso cos’è il Pdl che dovrebbe esprimere le culture di cui parla Galli della Loggia. Un «dialogo» che nulla ha a che fare con quello «togliattiano» né con quello «degasperiano» e i laici Anni 50: Einaudi, Saragat, La Malfa e gli intellettuali del Mondo. Ancora è la crisi della politica e i partiti che l’esprimono non recepiscono le «nuove temperie culturali». Sul fronte opposto c’è stato un altro «dialogo» tra eredi dei «cattolici democratici» e quelli del Pci di Berlinguer, espresso in alleanza politico-elettorale, l’Ulivo, poi nel Pd. Non era difficile capire che il transito dall’alleanza al partito avrebbe riproposto più acuto il neofondamentalismo religioso, non solo islamico, e i progressi nel campo della genetica. L’abbiamo visto nel dibattito su Eluana.

La squadra di Veltroni ha sempre sostenuto che su questi temi era necessaria e possibile una sintesi tra le culture che avrebbero convissuto nel Pd. Ebbene, non c’è un solo appuntamento su questi temi che non abbia visto il Pd spaccato. Il Pd non ha una politica sui temi che hanno caratterizzato le scelte di tutti i partiti laici europei, non solo quelli di sinistra. S’invoca la «libertà di coscienza» per i parlamentari, ma non per i cittadini. Una parte del Pd avrebbe votato il decreto sul «testamento biologico», oggi riproposto come disegno di legge, che nega a una parte di cittadini il diritto, accordato ad altri cittadini, di accettare o rifiutare l’idratazione e l’alimentazione artificiale con preparati confezionati da case farmaceutiche e somministrati con procedure mediche. Insomma, «libertà di coscienza» ai livelli alti e a senso unico. Ma non è il solo tema che divide il Pd, partito che sembra esso stesso alimentato artificialmente, ma che investe la laicità dello Stato. Dunque a destra e a sinistra il «dialogo e l’incontro tra laici e cattolici» si è trasformato in aspra lotta proprio sui temi della laicità e le nuove sfide del progresso e della modernità. Anche questo è un segno della crisi del sistema politico italiano. E che crisi!
 
da lastampa.it


Titolo: EMANUELE MACALUSO - E se provassimo a dare fiducia a Franceschini?
Inserito da: Admin - Febbraio 24, 2009, 11:26:02 am
24/2/2009
 
E se provassimo a dare fiducia a Franceschini?
 
 
 
 
 
EMANUELE MACALUSO
 
Ricordate i giorni in cui nasceva il Pd? L’orchestra di tutto il sistema mediatico suonava inni di evviva e voci forti di tenori che avevano calcato tante scene cantavano «vincerò!», non come Pavarotti alla Scala, ma come Mina a Sanremo. Sono trascorsi solo pochi mesi e la stessa orchestra suona, stonando, la marcia funebre di Chopin. Fuor di metafora, oggi molti commentatori hanno scritto che il progetto Pd era buono ma è stato condizionato e affossato, nota il mio amico Angelo Panebianco, dal «club degli oligarchi». Eugenio Scalfari fa la stessa analisi e aggiunge che con le dimissioni di Veltroni «l’oligarchia è stata delegittimata e spazzata via tutta insieme». Potrei continuare nelle citazioni. Ma, scusatemi amici miei, sedici mesi addietro non fu il «club degli oligarchi» a promuovere il Pd, a scegliere uno di loro, a candidarlo a segretario del Pd e a organizzare le cosiddette primarie? Non fu D’Alema, oggi indicato come capo del «club degli oligarchi», che disse, a chi voleva ancora l’Ulivo (Prodi) per le elezioni politiche, che bisognava fare subito il Partito democratico?

Faccio queste osservazioni non per ribadire che il progetto di mettere insieme Ds e Margherita in un partito era sbagliato. Le faccio perché osservo che oggi nell’analisi sul Pd si commettono gli stessi errori. Cioè, si continua a pensare che le cosiddette primarie siano la medicina di tutti i mali di cui soffrono i partiti, soprattutto il Pd, e solo attraverso questo mezzo sia possibile rinnovare i gruppi dirigenti e «cacciare l’oligarchia ». Il Time con un gran titolo dice che il fiorentino Renzi è l’Obama italiano. A mio avviso dice una sciocchezza.

Il ricambio di un gruppo dirigente può verificarsi solo attraverso una lotta politica, su scelte da fare o non fare. Fu così nel Pci, dove pure c’era, con Togliatti, il centralismo democratico; fu così nella Dc, con De Gasperi, con Fanfani e Moro, il ricambio coincise con le svolte politiche; fu così nel Psi con Nenni, De Martino e Craxi. Questi partiti si sono spenti quando si è spenta la lotta politica fondata su scelte di fondo e quando su tutto prevalse la guerriglia per il potere. Anche nel Pci-Pds-Ds, come nella Margherita, si è verificata questa involuzione. E non si capisce perché una volta insieme, con le primarie o senza, le cose dovessero e potessero cambiare. Cambieranno solo se ci sarà una lotta politica su scelte chiare. Franceschini, se ho capito bene, ha detto che nel Parlamento europeo il Pd dovrebbe lavorare per costruire un gruppo progressista più largo di quello socialista, ma che occorre farlo insieme con i socialisti. Cioè nel gruppo parlamentare del Pse. Ha poi spiegato perché non è condivisibile il testamento biologico, proposto dalla destra, in discussione nel Parlamento, facendo sue le cose dette e ridette dal senatore Ignazio Marino. Sono due opzioni chiare su cui discutere e votare. Certo, c’è da riflettere sul fatto che Franceschini faccia oggi scelte che Veltroni non seppe fare. Dopo Prodi, sembra che nel Partito democratico, così come è stato concepito, una politica di sinistra moderata e moderatamente laica possa essere fatta solo da una personalità che proviene dalla Dc e dal mondo cattolico.

Non è vero che le «vecchie» appartenenze non contano. Contano e continueranno a contare. Tuttavia il nuovo segretario non può essere circondato dal sospetto, da parte di chi viene dalla sinistra storica, per la sua «vecchia» appartenenza. Il confronto nel Pd e tra esso e la destra deve svolgersi su fatti, su scelte, con confronti e, ripeto, con limpide battaglie politiche. Ora Franceschini si trova di fronte due grandi questioni: 1) come costruire un Partito veramente democratico superando le false alternative di cui si discute: primarie e plebiscitarismo o centralizzazione e oligarchie; 2) chiarire se il Pd mantiene quella che è stata definita «vocazione maggioritaria» o se occorre costruire un sistema di alleanze e con chi.

In definitiva si tratta di capire qual è il terreno su cui competere con la destra che, come ora dicono tanti, esercita una «egemonia» sulla società. Cioè c’è una destra, con il «Cavaliere nero» leader, che ottiene consensi. Riflettete perché. E questo mentre è in corso una grave crisi che sta sconvolgendo vecchi assetti sociali e civili in Italia e nel mondo. È questa la sfida, una sfida di lunga lena, su cui si costruiscono anche le forze politiche, oggi e domani. È questa la sfida a cui è chiamato Franceschini. Ce la farà? Vedremo.
 
da lastampa.it


Titolo: EMANUELE MACALUSO - La battuta quotidiana
Inserito da: Admin - Marzo 13, 2009, 08:55:47 am
13/3/2009
 
La battuta quotidiana
 
EMANUELE MACALUSO
 
Berlusconi mostra una quotidiana insofferenza per le regole che reggono il sistema politico fondato, come vuole la Costituzione, sulla democrazia parlamentare.

Non riesce a dare un ordine alle sue idee e alle sue pulsioni con proposte legislative e riforme organiche. E lo fa mentre il suo governo e la sua maggioranza hanno impegnato il Parlamento a discutere del federalismo. Con le sue battute sulla decretazione come metodo per governare e sul ruolo dei capigruppo delegati a votare per tutti i parlamentari, il Cavaliere apre un altro fronte sul terreno costituzionale senza un progetto e senza una linea concordata nemmeno nel suo personale partito. Il quale si appresta a fare un congresso e l’unica cosa su cui pare si sia aperto un dibattito è il sistema di voto con cui incoronare il Cavaliere: per acclamazione o per alzata di mano.

Ma un partito è tale solo se ha un’idea politico-costituzionale dello Stato e delle sue istituzioni. Dopo la Liberazione fu questo il banco di prova dei partiti che, risorti, diedero vita alla Costituzione. E questa fu la bussola delle forze che per cinquant’anni governarono il Paese o svolsero il ruolo di opposizione. C’è da aggiungere che la grave crisi economica che scuote il mondo suggerisce alle forze politiche, al governo o all’opposizione, non solo di registrare le politiche economiche e sociali per fronteggiare la tempesta, ma anche di verificare se gli strumenti di cui le istituzioni, gli Stati e la comunità internazionale dispongono sono adeguati alla bisogna.

L’Italia vive alla giornata anche perché, questa è la mia opinione, i partiti di governo e di opposizione vivono sulla battuta quotidiana. Il discorso che ho fatto per il Pdl, l’ho già fatto, anche su questo giornale, per il Pd. C’era un vuoto politico e si pensava di riempirlo con lo stare insieme dei Ds e della Margherita. Ricordiamo i fatti più recenti. Nel momento in cui nacque il Pd e Berlusconi dal predellino della sua auto annunciava la fusione tra Forza Italia, Alleanza nazionale e la formazione del Pdl, molti osservatori scrissero che finalmente in Italia si dava vita al bipartitismo e tutto si semplificava.

I risultati elettorali dell’aprile scorso, anche se segnano una forte affermazione del partito di Berlusconi e del suo alleato (la Lega di Bossi) rispetto al Pd di Veltroni e del suo alleato (il partito di Di Pietro), sembrava che dessero ragione a chi pronosticava l’avvento di un bipartitismo virtuoso capace di riformare e consolidare il sistema politico. Non è trascorso nemmeno un anno e lo scenario appare già cambiato e devastato. Basta leggere gli ultimi sondaggi. Il Pd è sceso al 22 per cento e sono cresciuti tutti i partiti che in Parlamento e fuori sono all’opposizione: il partito di Di Pietro e l’Udc di Casini, ma anche i partiti della sinistra radicale coalizzati oggi supererebbero la soglia di sbarramento. Nel centrodestra invece si verifica un modesto cedimento del Pdl e un incremento significativo della Lega.

In questo quadro una cosa appare certa: l’ambizione di Veltroni e dei suoi amici di fare del Pd un partito a «vocazione maggioritaria» è sfumata. Franceschini non ne parla più. È in crisi l’alleanza con Di Pietro ma non si capisce quale sarà il sistema di alleanze del Pd. Comunque mi pare chiaro che le prossime elezioni confermeranno la fine del «bipartitismo» mai nato. Mai nato perché nessuno ci ha creduto: né il Pd che fece l’alleanza con Di Pietro e dopo le elezioni «scoprì» che Berlusconi era Berlusconi; né il Cavaliere il quale pensa che l’opposizione deve riconoscergli la sacralità che i suoi sodali gli hanno decretato. Tutto torna come prima e peggio di prima con la moltiplicazione dei piccoli partiti? Ora c’è anche quello di Grillo. In effetti sembra che, con le forze politiche in campo, le possibilità che il Paese sia retto da un sistema politico semplificato e condiviso siano scarse. È invece possibile che l’indebolimento dell’opposizione crei una dialettica più aperta nella maggioranza e Fini interpreta questa esigenza. Può darsi che il Pd faccia un congresso vero e definisca una politica, le alleanze e un gruppo dirigente. Può darsi che nella sinistra o in una parte di essa maturi il convincimento che una competizione dialettica virtuosa con il Pd sarebbe possibile solo se si ricostruisse un partito socialista. Ma tutto oggi sembra incerto. Non vedo processi politici forti tali da cambiare lo scenario. E nell’incertezza il governo personale nella politica, intrecciato con i poteri che governano l’economia e i media, può segnare la fase che stiamo attraversando. Spero di sbagliarmi.
 
da lastampa.it


Titolo: EMANUELE MACALUSO - Il partito dei moderati e il carisma di Silvio
Inserito da: Admin - Marzo 26, 2009, 10:32:54 am
26/3/2009
 
Il partito dei moderati e il carisma di Silvio
 
EMANUELE MACALUSO
 

Silvio Berlusconi ha convocato un congresso o meglio una grande assemblea per ratificare la nascita del Pdl. Non c’è dubbio che siamo di fronte a un rilevante fatto politico. Ma questa è l’assise in cui nasce il partito dei moderati? Un partito, hanno scritto alcuni osservatori, fra cui Biagio De Giovanni (Il Riformista) e Aldo Schiavone (la Repubblica), che in Italia non è mai esistito. E perciò, si dice, va salutato come un fatto destinato a colmare un vuoto e a incidere positivamente nella vicenda politica italiana, anche perché rimette il sistema politico nella direzione del bipolarismo.

Io sono meno ottimista dei miei due amici anche perché ho presente nella mia memoria le cose che furono scritte e dette da tanti analisti nel momento in cui nasceva il Pd. Si disse allora che finalmente nasceva il partito dei progressisti italiani, il quale metteva in moto, senza una legge, una riforma del sistema politico fondato sul bipartitismo.

Dopo un anno abbiamo visto un Pd rimpicciolito e in affanno e crescono l’Udc di Casini, l’Idv di Di Pietro e la Lega di Bossi. Anche a sinistra del Pd si riorganizzano forze che sembravano destinate a scomparire. Il Pd, ha cambiato segretario, ma non riesce a darsi un asse politico culturale necessario per essere un partito con un suo progetto e non una coalizione per contrastare il potere berlusconiano.

Anche il Pdl nasce come una coalizione, con un leader carismatico e padronale, in cui convivono ex socialisti che ritengono di essere gli eredi del «vero Psi», ex democristiani, laici e clericali, liberisti e colbertisti, cattolici integralisti e liberalradicali, tutti radunati in Fi, a cui ora si è associata An con la «sua storia e identità», come hanno dichiarato i confluenti. Non c’è dubbio che questo coacervo oggi abbia un insediamento rilevante nelle istituzioni nazionali e locali e anche, come si dice oggi, sul territorio. E non c’è dubbio che si tratti di una coalizione che ha un comune denominatore: non è solo nel Cavaliere, ma anche nell’avversione alla sinistra così come si è espressa in passato (comunista!) ma anche con i governi di Prodi. Un’avversione che oggi si manifesta con una politica di governo e un esercizio del potere in cui si ritrovano gli strati della società che non credono in un’alternativa, per convinzione o per necessità.

È questo il terreno su cui si è costruita «un’egemonia» del berlusconismo. In tale quadro, si può dire che con il Pdl nasce il partito dei moderati destinato, come è stato scritto, a caratterizzare in termini più moderni il sistema politico? Può darsi che mi sbagli, ma io penso di no. Il Pd nacque con Veltroni come forza che archiviava l’antiberlusconismo e inaugurava una competizione bipartitica su un terreno diverso su cui si era costruita l’unione prodiana. Non ha retto su tutti i fronti. Il Pd infatti ha riproposto il «vecchio antiberlusconismo» e non è stato in grado di battersi per un suo programma, per una sua visione rispetto ai problemi posti dalla società: dalle riforme costituzionali necessarie a far funzionare il sistema alle questioni che pongono oggi il Nord e Sud. Per non parlare della forma stessa del partito, della sua vita democratica e della selezione dei gruppi dirigenti.

Nel Pdl in termini diversi e con contenuti diversi, si ripropongono le stesse questioni: sintesi politica, leadership, democrazia interna, forma partito, cultura condivisa. Insomma, sia a destra che a sinistra, con le coalizioni o con i partiti-coalizione, ancora oggi sembra essere sempre in una transizione condizionata dal ruolo che ha assunto la leadership di Berlusconi. Anche le posizioni interessanti ed effettivamente revisioniste assunte da Gianfranco Fini sono condizionate dal ruolo di Berlusconi che obiettivamente limita una reale dialettica democratica nel partito del centrodestra.

Aldo Schiavone, a proposito del Pdl, come partito conservatore di massa, dice che «la Dc era un’altra cosa, anche se nel suo amalgama la destra rappresentava una componente essenziale». È vero. Era un’altra cosa, non solo perché aveva un suo riconoscibile asse politico-culturale, ma anche perché le leadership carismatiche di De Gasperi, Fanfani e Moro ebbero una base esclusivamente politica, quindi con ricambi possibili. De Gasperi fu sostituito da Fanfani in un cambio di fase politica. Lo stesso avvenne con Moro che sostituì Fanfani e così di seguito.

Una leadership carismatica, nata nel corso di una crisi di sistema può radunare una coalizione moderata, ma non può dare vita al partito dei moderati se non mette in discussione la sua stessa leadership. Altrimenti la crisi del leader si identificherà con la crisi del partito e la stabilità del sistema, incentrato su quella leadership. Questo è il punto. Comunque è positivo il fatto che anche grazie a questa assise si apra un dibattito che investe l’avvenire del Paese in un momento difficile caratterizzato da una crisi economica senza precedenti.

Mi auguro che questa discussione coinvolga le formazioni di destra e di sinistra.
 
da lastampa.it


Titolo: EMANUELE MACALUSO - Berlusconi nel deserto politico
Inserito da: Admin - Aprile 15, 2009, 08:57:15 am
15/4/2009
 
Berlusconi nel deserto politico
 
EMANUELE MACALUSO
 
La tragedia del terremoto che ha colpito nei giorni scorsi l’Abruzzo ha scosso anche il sistema politico.
Silvio Berlusconi infatti con la sua iniziativa ha accentuato il ruolo personale che esercita non solo nel suo partito ma più in generale nella complessiva vita politica italiana.

Non è questa la sede né il momento per discutere quanto di strumentale e calcolo politico ci sia stato nella sua singolare presenza nelle zone terremotate e quanta emotività e sincerità ci fossero nel suo fare e nei suoi gesti. Forse c’è un intreccio di due spinte convergenti. Certo, quando ai funerali ha lasciato la «prima fila» dove si trovavano tutti gli esponenti delle istituzioni per stare con i parenti delle vittime e la folla, Berlusconi ha voluto sottolineare, con un gesto discutibile, una «separazione» che ha un significato politico: le istituzioni e chi le rappresenta sono roba vecchia, ora ci sono io e il popolo, io garante che le cose che dico si faranno.

Tuttavia, i successi e le grida contro il personalismo non servono se non a sottolineare l’assenza di un’opposizione in grado di essere percepita dal popolo, sì dal popolo, come reale e convincente alternativa. Questo quadro va collocato in uno scenario nazionale in cui convivono, da un canto, processi sociali, politici e culturali, che ormai mettono in discussione la stessa unità nazionale, così come l’abbiamo ereditata dal Risorgimento; e, dall’altro, la routine dei partiti senza idee che anima sinistra e destra, che si «unificano» guerreggiandosi, che governano, o al governo si oppongono, senza una strategia che delinei il domani degli italiani. Mi ha colpito la pagina della Stampa di domenica scorsa dedicata a chi pensa e lavora per una Confindustria del Sud o a un partito del Sud, mettendo in evidenza come il divario economico, sociale, civile tra il Nord e il Mezzogiorno sia cresciuto in termini e forme inedite. Le tensioni che oggi si registrano tra il Pdl «unificato» di Berlusconi e Fini (e al suo interno) e la Lega di Bossi e Maroni (ma anche il Mps, il movimento di Lombardo che governa la Sicilia) partono dal sottosuolo della società e si riverberano in superficie nell’agone politico segnato dal contrasto su certe leggi e soprattutto sul referendum per la legge elettorale. Angelo Panebianco nel suo editoriale di domenica scorsa sul Corriere dice che la competizione tra il Pdl e la Lega ha come obiettivo «l’egemonia sul Nord e in particolare sul Lombardo-Veneto». E la partita riguarda la rappresentanza politica sulla «classe media indipendente» del Nord: piccoli e medi imprenditori, professionisti, commercianti, quelli che venivano definiti «ceti borghesi». Nell’interessante analisi di Panebianco il Sud non c’è. La partita si gioca solo al Nord. Tuttavia l’unificazione tra Fi e An, dice l’editorialista del Corriere, ha meridionalizzato il partito di Berlusconi il quale «gravita più al Sud che al Nord». Di qui la contraddizione che nasce dal fatto - aggiungo io - che la nuova borghesia del Nord non si pone la questione del Sud, il quale è considerato non solo un mercato ma anche un canale di infezione mafiosa. La Lega più libera dai condizionamenti del Sud può quindi aspirare all’egemonia sulla «borghesia indipendente» del Nord.

Ma il Pdl non può certo cedere altri spazi alla Lega. Insomma l’unificazione accentua la conflittualità tra due partiti che l’hanno voluta (le posizioni di Fini e la preparazione delle liste amministrative lo testimoniano) e mette in forte tensione l’alleanza con la Lega. La leadership di Berlusconi è ancora per tutta la maggioranza un punto fermo, ma l’unificazione anziché rafforzarla ha reso più difficile la mediazione e più incerto il futuro. Nel centrosinistra le cose sono molto più complicate perché ha subito una sconfitta e non è riuscito a ridisegnare una strategia. L’unificazione tra Ds e Margherita non ha fatto un partito e non c’è un leader di riferimento. Esaurita la politica veltroniana della «vocazione maggioritaria», nel Pd i suoi epigoni cercano di rimetterla in giuoco con il referendum: «vocazione maggioritaria» per legge, non per consenso politico. Ma c’è anche chi (Enrico Letta e altri suoi amici) auspica un forte partito di centro che si allei con la sinistra indebolita. E proprio questa prospettiva fa pensare ad altri, sempre nel Pd, che occorre ricostruire un ponte con la sinistra che oggi si ritrova nella lista di Vendola, Nencini, Fava e Francescato. Può un partito esercitare con forza l’opposizione e delineare un’alternativa nelle condizioni in cui si trova oggi il Pd? Non credo. I problemi incalzano con la crisi economica e quelli che propone il terremoto. E sulla scena Berlusconi appare protagonista in un deserto politico con istituzioni depotenziate, i mezzi di comunicazione più autonomi in difficoltà. Ma, attenzione, il problema non è Berlusconi che rompe regole e comportamenti tradizionali, anche nei rapporti con le istituzioni, e impone la sua leadership. La responsabilità è delle forze politiche e sociali che non riescono a esprimere una politica, una coalizione e una leadership alternativa.
 
da lastampa.it


Titolo: Macaluso: «Bene "Silvio partigiano" la sinistra smetta di gridare allo scippo»
Inserito da: Admin - Aprile 27, 2009, 04:31:44 pm
Macaluso: «Bene "Silvio partigiano" la sinistra smetta di gridare allo scippo»
 
 

ROMA (27 aprile) - «Berlusconi celebra finalmente il 25 aprile e certa sinistra si fascia la testa, si sente scippata. E’ assurdo». Le parole di Emanuele Macaluso arrivano nette e chiare dal treno che lo sta portando a Reggio Emilia dove è stato chiamato a commemorare Camillo Prampolini, sindacalista riformista di fine Ottocento.

L’ex dirigente del Pci ed ex senatore, spirito critico della sinistra, valuta molto positivamente il discorso berlusconiano del 25 aprile, e incita il fronte progressista a non sentirsi defraudato o preso in contropiede.

Senatore Macaluso, le piace il Berlusconi ”partigiano”?
«Sono anni che ci combattiamo, sono decenni che Berlusconi non riconosceva il valore della lotta partigiana e della Costituzione, e adesso che finalmente lo fa mi dovrei mettere paura? Suvvia. Per qualcun altro, invece, sembra che gli abbiano portato via il bambolotto di pezza».

Non si sente scippato?
«Ma quando mai. E’ stata una giornata importante. E’ da gran tempo che il capo dello Stato, Giorgio Napolitano, dice e ripete che bisogna mettere al centro le radici comuni della Costituzione e della Repubblica. Adesso, anche Berlusconi che al 25 aprile non aveva mai partecipato riconosce che la Resistenza è base della Repubblica e della Costituzione, documento in cui tutti gli italiani devono riconoscersi. Bene, era ora. La considero una vittoria di tutte le forze che si sono battute perché questo riconoscimento ci fosse».

Eppure alcuni editoriali e commenti parlano di effetto boomerang, di autogol di Franceschini e del Pd.
«Ma dico: se Berlusconi riconosce che Togliatti, dico Togliatti, assieme a Terracini sono da considerare tra i padri della Repubblica, che dovrei fare, mettermi a gridare ”giù le mani?”. E’ una vita che aspettavo riconoscimenti del genere. Ho visto le cose che ha scritto Parlato sul Manifesto e qualcun altro, miopia politica pura, minoritarismo. Quelli che parlano così organizzino loro una bella e forte e seria opposizione, facciano vedere come si fa».

Non è che Berlusconi fa questi riconoscimenti solo adesso perché la sinistra è più debole e non fa paura?
«Può anche darsi. Ma se l’opposizione non sa cogliere neanche questi momenti per capire come rafforzarsi, si indebolirà sempre più».

Perché proprio ora, queste posizioni del premier?
«Molto importante è stato il ruolo giocato da Fini, la sua è stata una revisione vera, profonda, che ha aperto contraddizioni reali nel centrodestra».

C’è il Quirinale, nel mirino di queste revisioni?
«Se Berlusconi aspira al Colle non ci vedo nulla di illegittimo. E’ anche naturale che ci pensi, uno che è stato più volte presidente del Consiglio. Io lo vedrei negativamente e non me lo auguro, ma è più che legittimo. Certo, non si può aspirare al Quirinale con quelle posizioni di ”dàgli al comunista”, con quelle tesi tipo ”la Costituzione è sovietica”: in quel modo parlava ai moderati, adesso vuol parlare a tutti, ha altri obiettivi».

Ha pure fatto ritirare al Pdl la legge sull’equiparazione tra Salò e partigiani.
«Bene, un altro fatto positivo e importante, speriamo che quella certa sinistra non si rimetta a strepitare alla Di Pietro».

Che c’entra Di Pietro?
«C’entra perché punta a fare concorrenza al Pd con posizioni da giustiziere più ancora che giustizialiste.
Di Pietro è stato inventato politicamente da D’Alema, Prodi e Veltroni, ora Franceschini sembra aver capito che è ora di chiudere l’alleanza con l’ex pm per poter condurre una opposizione più chiara e determinata».

da ilmessaggero.it
 


Titolo: EMANUELE MACALUSO - La lega del Sud e il sonno della Sinistra
Inserito da: Admin - Maggio 27, 2009, 10:13:03 am
27/5/2009
 
La lega del Sud e il sonno della Sinistra

 
EMANUELE MACALUSO
 
Commentando l’iniziativa del presidente della Regione siciliana, Lombardo, di licenziare gli assessori per mettere in piedi un altro governo, alcuni giornali hanno parlato di «milazzismo». Il richiamo è dovuto al fatto che il «nuovo» governo non farebbe più riferimento alla larga maggioranza che sino a ieri ha sostenuto Lombardo (Mpa, Pdl, Udc), ma a un sostegno assembleare, senza riferimenti ai partiti. E il governo non sarebbe più costituito da una coalizione di partiti. Ma l’accostamento tra quel che vediamo oggi e la «rivolta» milazziana è improprio, se c’è una continuità va ricercata nella piaga del trasformismo tradizionale che oggi però tocca punte inimmaginabili. L’operazione Milazzo maturò nel 1958 dopo una lunga battaglia sui temi dello sviluppo, dell’industrializzazione e dell’autonomia, condotta da una forte opposizione della sinistra (Pci e Psi) unita e dal sindacato, che incideva anche nel mondo influenzato dalla Dc. Non fu un caso che parte rilevante di quel movimento che scosse la Sicilia l’ebbe la Sicindustria, diretta dall’ing. La Cavera, che si contrappose alla politica nordista della Confindustria sino alla rottura: La Cavera fu espulso dalla presidenza nazionale degli industriali. La Dc si spaccò e Silvio Milazzo, vecchio popolare sturziano eletto dall’Assemblea regionale siciliana in contrapposizione al candidato ufficiale del partito sostenuto da Fanfani, formò un governo «anomalo»: composto da dc scissionisti (che diedero vita a un partito autonomista) con la partecipazione di socialisti, un indipendente eletto dal Pci e di uomini della destra, appoggiato dall’esterno dal Pci. Una coalizione che fu sostenuta da un forte movimento di massa.

Nel 1959 si svolsero le elezioni regionali e la Dc, per tornare al governo, stipulò un «patto anticomunista» con la destra, ma Milazzo col suo partito ottenne un grande successo, fece un nuovo governo «monocolore» sostenuto solo dalla sinistra. Resse meno di un anno: il governo centrale e i poteri forti si mobilitarono e acquisirono per conto della destra siciliana alcuni assessori di Milazzo. Sarebbe lungo scrivere sulle cause più profonde di quella crisi che maturò mentre a Roma incubava il centrosinistra di cui il Psi sarebbe stato una componente fondamentale. Mi preme sottolineare la diversità su cui oggi matura la crisi in Sicilia. Non c’è più un forte movimento di massa paragonabile a quello che si manifestò a fine Anni 50. Oggi la crisi sembra maturare essenzialmente come contraddizione all’interno della maggioranza. Le cronache raccontano la guerriglia di potere scatenata all’interno del partito berlusconiano, la rottura tra il vecchio presidente della Regione, Cuffaro, e il nuovo, Lombardo, che ha sradicato un sistema di potere per costruirne un altro. Lo scontro tocca anche i vertici romani dato che il Pdl in Sicilia è governato dal presidente del Senato Schifani e dal ministro della Giustizia Alfano, attraverso un «coordinatore», Giuseppe Castiglione, definito «un farabutto» dal sottosegretario Miccichè, tutti uomini del Cavaliere.

Ma attenzione. La crisi ha anche un risvolto politico e sarebbe sbagliato non vederlo. Il «sicilianista» Lombardo aveva stretto un patto con Berlusconi (per la «rinascita» dell’Isola) e si ritrova a contrastare il governo più nordista che l’Italia abbia mai avuto. È l’accusa che l’on. Adriana Poli Bortone dalla Puglia ha fatto, motivando il suo distacco da An e dal Pdl e promuovendo un movimento per il Sud. L’intreccio tra motivazioni politiche e di potere è spesso stretto, ma occorre leggerne i caratteri. Oggi sembra che sia la debolezza dell’opposizione a sollecitare una lotta politica e di potere nel partito berlusconiano. Annibale non è alle porte e le guerriglie sono all’ordine del giorno. Tuttavia, questo panorama segnala un appannamento del ruolo di Berlusconi. Il quale è in difficoltà non solo per il «caso Noemi» ma per un certo mutamento del clima politico. La crisi economica si fa sempre più stringente. E le difficoltà politiche più serie possono venire dall’ulteriore emarginazione del Sud, dal riproporsi in termini nuovi di una questione meridionale, mentre si discute solo di una «questione settentrionale» nei termini imposti dalla Lega. La risposta, però, non può essere la Lega del Sud a cui forse pensano Lombardo e altri. Ma se la sinistra non si sveglia, in questo Paese, oggi tutto è possibile.
 
da lastampa.it


Titolo: EMANUELE MACALUSO - Il Pci e le stroncature a Vasco Pratolini
Inserito da: Admin - Settembre 02, 2010, 10:05:08 pm
2/9/2010

Il Pci e le stroncature a Vasco Pratolini
   
EMANUELE MACALUSO


Caro direttore,
ho letto l'interessante articolo di Osvaldo Guerrieri (La Stampa, 31 agosto) in cui racconta la vicenda di una sceneggiatura, scritta da Vasco Pratolini, per un film mai realizzato, del regista argentino Fernando Birri. Chi ha titolato l'articolo dice: «Così lo scrittore tradito dal Pci, raccontò una saga anarchica». Per la verità nel pezzo di Guerrieri non si parla di «tradimento», ma siccome viviamo un'epoca in cui del Pci, che non c'è più, si dicono le cose più strampalate, si può anche fare quel titolo. Guerrieri ricorda che Pratolini, come tanti intellettuali, dopo la rivoluzione ungherese, si era allontanato dal Pci (nel quale non era iscritto) e il Pci da lui. Eppure distaccandosi scrisse: «La mia fedeltà alla classe operaia non potrà venir meno»; e rivendicò la sua «lealtà nei confronti del Pci». Guerrieri parla delle stroncature delle opere di Pratolini dopo la separazione dal Pci come ritorsione alla sua scelta politica. Io ricordo invece che a stroncare i romanzi e le sceneggiature di Pratolini, nel 1955, fu Carlo Muscetta, allora condirettore della rivista del Pci «Società», col quale polemizzarono con vigore, su un'altra rivista del Pci «Il Contemporaneo», Carlo Salinari e Antonello Trombadori. E lo stesso Palmiro Togliatti scrisse una lettera a Società in polemica con Muscetta e a sostegno dell'opera di Pratolini. Parlo di tempi in cui la battaglia culturale, anche all'interno del Pci, con i limiti che conosciamo, era cosa seria.

Nell'articolo di Guerrieri si dice che lo scrittore toscano pagò un «conto salato» per la sua «ribellione al Pci» e cita il fatto che «i suoi romanzi trovarono nel comunista Asor Rosa uno stroncatore implacabile».

Ho ricordato che, le stroncature al «Martello» e ad altre opere di Pratolini, il comunista Muscetta le aveva fatte prima della separazione dello scrittore dal Pci. E francamente non si capisce come e perché l'opera critica di Asor Rosa (discussa e discutibile per i suoi giudizi su tanti scrittori) viene identificata col Pci! Non solo, ma Guerrieri, per rafforzare la sua tesi sulla persecuzione comunista, cita l'introduzione di Goffredo Pascale alla sceneggiatura del film mai uscito in cui si dice che «negli Anni Novanta la Mondadori rinunciò persino a pubblicare, senza giustificazione, il terzo Meridiano pratoliniano».

Insomma, anche la Mondadori del Cavaliere Berlusconi ha contribuito a fare pagare a Pratolini il «conto salato» per la sua ribellione al Pci che non c'è più? Ormai, tutto è possibile.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7776&ID_sezione=&sezione=


Titolo: EMANUELE MACALUSO - Una grande forza popolare, socialista e di sinistra
Inserito da: Admin - Settembre 15, 2010, 08:59:04 am
Emanuele Macaluso*,   12 settembre 2010, 18:01

Una grande forza popolare, socialista e di sinistra

Politica     

Pubblichiamo il messaggio inviato da Emanuele Macaluso per la terza assise del gruppo di Volpedo: "La globalizzazione prima e poi la crisi economica internazionale hanno proposto sfide nuove e senza precedenti alla cultura e alla prassi dei socialisti"


Cari compagni, innanzitutto voglio inviarvi il mio apprezzamento per una iniziativa, quella del Gruppo di Volpedo, che ha acquisito progressivamente visibilità e prestigio nell'area vasta e variegata dei circoli di cultura e di ispirazione socialista, intendendo con questo termine non solo quanti derivano la loro storia dal Partito socialista italiano, ma anche i tanti che fuori e dentro specifiche organizzazioni partitiche, si richiamano al socialismo e ritengono che il PSE e l'insieme dei partiti socialisti e socialdemocratici europei costituiscono ancora l'imprescindibile punto di riferimento per chi voglia essere dalla parte della sinistra e delle battaglie per la giustizia sociale. Dico questo con ciò ribadendo un punto fermo della battaglia che da tempo conduco nel nostro paese. Ritengo infatti che solo con la costruzione in Italia di una grande forza popolare, socialista e di sinistra sia possibile incanalare il sistema politico italiano su un percorso "normale", che ci liberi dalle incongruenze di una pretesa originalità che con la nascita del PD ha complicato e reso più difficile la battaglia della sinistra in Italia, oltre le stesse difficoltà che la sinistra vive in tante parti d'Europa.

La stessa fuoriuscita dal berlusconismo, che potrebbe realizzarsi prima di quello che si pensava fino a qualche tempo fa, non produrrà per la sinistra i frutti necessari se non si tradurrà in una riorganizzazione del sistema politico che abbia in un partito di tal fatta un perno decisivo. Come si possa raggiungere questo obiettivo è oggetto di confronti e di diverse prassi politiche anche fra quanti ne sono profondamente convinti.

C'è chi pensa che sia possibile attraverso una lotta politica per la trasformazione dall'interno del PD, chi lo coltiva all'interno della piccola realtà del PSI, chi pensa a nuove formazioni politiche come SEL o si affida prioritariamente alla semina politica e culturale di circoli,associazioni e reti di collegamento come quella rappresentata dal vostro Gruppo.

Per parte mia non ho ricette sicure da offrire e cerco di dare il mio contributo insieme ai compagni con cui facciamo vivere da anni Le nuove ragioni del socialismo. Tuttavia non sfugge il fatto che oggi il Pd è un partito di centrosinistra essenziale per la costruzione di una alternativa alla destra. La battaglia politica quindi deve muoversi, a mio avviso, su un binario che, non accettando il Pd come il partito della sinistra europea (ruolo rifiutato dallo stesso Pd), tenda a una sua evoluzione, a una crisi virtuosa e non distruttiva.

Dobbiamo però tener presente che i problemi sono di portata maggiore di quelli che ho prima richiamato e che occupano tanta parte del nostro dibattito corrente.

La globalizzazione prima e poi la crisi economica internazionale hanno proposto sfide nuove e senza precedenti alla cultura e alla prassi dei socialisti. Ne sono prova drammatica le difficoltà che il PSE e i vari partiti nazionali vivono in questa situazione ,in cui continuano ad avanzare movimenti di destra populista e i partiti conservatori,che sono stati alfieri del neoliberismo e dunque i responsabili della crisi,riescono ancora a promuovere politiche che scaricano sui lavoratori e la parte più debole della società i costi della crisi,senza pagare eccessivi prezzi politici.

Questo vuol dire che davvero c'è qualcosa di profondo da rivedere nella cultura e nelle politiche degli ultimi 10/15 anni della maggior parte dei partiti socialisti in Europa,cui non sono state estranee anche quelle del PD. Vediamo con grande interesse che da un po' di tempo si è aperto un dibattito vivace all'interno di molti di questi partiti, nei loro circoli intellettuali, in fondazioni e riviste ad essi collegate. Anche noi ci siamo inseriti in questa ricerca con il seminario tenuto il 17 giugno scorso su Il socialismo europeo e la crisi economica internazionale. Mi pare che le linee di tendenza emerse anche in recenti documenti del PSE e nella dichiarazione congiunta della SPD e del PSF,vadano nella direzione di riprendere con forza, a partire dal livello europeo, il tema di un governo dello sviluppo che non sia succube degli interessi del capitale finanziario internazionale e delle dottrine neo-liberiste.

Occorre dunque ripensare gli strumenti di cui l'Europa e i singoli stati devono dotarsi, recuperando senza tabù non solo il tema di regolazioni più rigorose e meno compiacenti, ma anche e soprattutto i temi della programmazione e del ruolo della mano pubblica. Ma perché questo programma non resti un velleitario disegno illuministico occorre rimettere radici nuove e più solide nel mondo del lavoro e nelle sue complesse e inedite articolazioni, e recuperare grandi aree di ceti popolari abbandonati alle scorrerie del populismo della destra e alla rassegnazione.

E questo va fatto rilanciando anche a livello europeo l'Europa del Welfare State e dei diritti del lavoro,se no continuerà a diffondersi il modello Marchionne, l'arroganza dei più forti e la crescita delle disuguaglianze sociali. Dobbiamo immaginare su scala internazionale un cambiamento di paradigmi quale quello che si realizzò dopo le lunghe traversie seguite alla crisi del '29. Costruire una politica socialista oggi vuol dire mettersi sull'onda di cambiamenti di questa portata. Se si crea questa sintonia si può anche sperare di realizzare questo ambizioso disegno.

http://www.paneacqua.eu/notizia.php?id=15727


Titolo: E. MACALUSO Napolitano coerente su Berlusconi: niente grazia tombale né voto...
Inserito da: Admin - Settembre 11, 2013, 05:00:37 pm
IL CAVALIERE E IL COLLE

Macaluso: "Napolitano coerente su Berlusconi: niente grazia tombale né voto col Porcellum”

Il grande vecchio del Pci, amico personale del presidente della Repubblica, osserva il braccio di ferro "Per me la legge Severino è costituzionale, ma il Pd non deve dare l’impressione di una decisione già presa"

di UMBERTO ROSSO


ROMA — Le eccezioni sollevate in Giunta dal Pdl? «Possono anche essere approfondite, così il Pd non offre l’alibi del plotone di esecuzione già schierato. I tempi non sono poi così essenziali. Vedrete, Berlusconi all’ultimo istante si dimetterà ». Il Cavaliere che spera sempre nel Quirinale per la grazia tombale? «Tutte balle. Napolitano è stato chiarissimo: niente clemenza sulle pene accessorie».

E i falchi berlusconiani che vogliono rovesciare il tavolo del governo?
«Nessuno si illuda. Il decreto di scioglimento delle Camere non lo firmano certo nè Brunetta ne la Santanchè. Napolitano non scioglierà finché resta in piedi il Porcellum ». Emanuele Macaluso, grande vecchio del Pci e grande amico del Colle, osserva il braccio di ferro e va controcorrente.

Senatore, il Pdl non sta cercando di far saltare le decisioni sulla decadenza?
«Battaglia persa. Lo ha spiegato perfino l’ex avvocato di Berlusconi, Pecorella, e ormai c’è anche la data per il processo: il 19 ottobre a Milano sarà ricalcolato il “quantum” di interdizione dai pubblici uffici per Berlusconi. E a quel punto finirà comunque fuori dalla scena politica».

E la guerra scatenata nella giunta per le elezioni?
«Una campagna politica. Una dichiarazione di esistenza in vita. Berlusconi spedisce l’ultimo messaggio ai suoi elettori: ci sono ancora, sono qui. Poi, un attimo prima che il presidente apra le votazioni, il Cavaliere si dimetterà».

Ne è sicuro?
«Berlusconi non darà mai al centrosinistra la soddisfazione di finire sotto i colpi di una votazione che lo dichiari incandidabile».

Il Pd fa muro contro le richieste del relatore Augello.
«Io penso che, se non servono solo a perdere tempo, le questioni si possano discutere e approfondire. Compresa la storia della retroattività.
Per me, che non sono giurista ma ho 41 anni da parlamentare sulle spalle, la Severino è pienamente costituzionale. Ma visto che ci sono illustri giuristi che sollevano dubbi... Sono d’accordo con Violante: consentire a Berlusconi di difendersi, non dare l’impressione di una decisione già presa».

Al Cavaliere non resta che insistere con Napolitano per un atto di clemenza tombale. Può ottenerla?
«No. Il capo dello Stato, nella sua nota del 13 agosto scorso, lo ha spiegato con estrema chiarezza. In quella dichiarazione, reagendo anche ad una campagna di falsificazioni e illazioni in cui si è distinto il Fatto, Napolitano ha spiegato che lui una grazia estesa anche alla pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici, non la concederà mai. Non è materia di discussione. Una eventuale valutazione sarebbe circoscritta, quando e semmai dovesse arrivare una domanda di Berlusconi al Quirinale, alla condanna principale».

Il capo dello Stato «confida» nel sostegno dichiarato da Berlusconi al governo.
«Un riconoscimento alle parole pronunciate dal leader del Pdl, alle assicurazioni che sono state fornite al Colle, e di cui evidentemente è stato preso atto».

Però nel Pdl sono pronti ad affondare Letta se passa la decadenza.
«Un ricatto al Pd, ma sbagliano. Nel Pd sono divisi su tutto ma nel mettere fuori gioco il Cavaliere dentro il partito, dal “fiorentino” al “piacentino”, si ritrovano in totale sintonia».

Ma se Letta cade?
«Il decreto di scioglimento delle Camere non lo firmano certo i falchi del Pdl. Il presidente della Repubblica seguirà sempre gli interessi generali del paese, e non scioglierà mai senza una riforma del Porcellum».

Troppo alto il costo politico di tenere in vita il governo?
«Le larghe intese sono uno stato di necessità. Vittorio Sermonti ha torto nella sua lettera a Napolitano sul costo della difesa del governo, sono d’accordo con quel che gli ha risposto Scalfari».


(10 settembre 2013) © Riproduzione riservata

http://www.repubblica.it/politica/2013/09/10/news/emanule_macaluso_napolitano_sar_coerente_su_berlusconi_niente_grazia_tombale_n_voto_con_il_porcellum-66233324/?ref=HRER1-1


Titolo: Emanuele Macaluso una vita difficile: "Io, comunista, in galera per adulterio "
Inserito da: Admin - Marzo 16, 2014, 10:55:27 am
Macaluso, una vita difficile: "Io, comunista, in galera per adulterio"
Lotte e storie private: i 90 anni dell'ex dirigente del Pci. "Togliatti più importante di Berlinguer"

di CONCETTO VECCHIO
   

ROMA - «A sedici anni mi ammalai di tubercolosi, mi diedero pochi mesi di vita, finii in sanatorio, a Caltanissetta era su in collina, un monte chiamato Babbaurra, là rimasi rinchiuso per molti mesi, non mi veniva a trovare nessuno, solo mio padre veniva, ma una mattina, sfidando il bacillo di Koch, mi trovai davanti Gino Giannone, il figlio del libraio della città. Era più grande di me, tante volte avevamo condiviso le nostre idee. Disse: 'Conosco i tuoi sentimenti. Se vuoi ti posso collegare al Partito comunista'. Tutto intorno a me sapeva di morte, ogni giorno usciva una bara, io invece mi salvai.
Avevo 17 anni, era il 1941, e fu così che per me inizia un’altra storia: un destino diverso da come fin là me l’ero aspettato».

Vogliamo provare a fantasticare cosa sarebbe diventato Emanuele Macaluso senza la politica, senza la pedagogia del partito? Perito minerario? Impiegato di concetto? «Lei non può immaginare la povertà nella Sicilia di quegli anni, nessuno la immagina più». E invece la politica è stata la sua grande avventura, attraverso tutte le tempeste del Novecento: dirigente sindacale negli anni di Portella della Ginestra; amico di Vittorini e Sciascia; l’incontro a Roma con Togliatti («fu freddo e cortese») con cui compie un viaggio in Russia; l’amicizia con Berlinguer; il sodalizio con Napolitano sbocciato nel Dopoguerra a Palermo, dove il futuro Presidente della Repubblica faceva il militare; le battaglie per il Mezzogiorno, le cupezze del terrorismo, la direzione dell’Unità. È lui a fare quel titolo «TUTTI» il giorno dopo i funerali di Berlinguer. Chi è stato più importante, per la sinistra, e per il Paese: Berlinguer o Togliatti? Ci pensa. «Togliatti, senza dubbio».

Testaccio, interno piccolo borghese. «La casa è tutta qui», Macaluso indica il salone pieno di libri ai quattro operatori di Repubblica tv che sono venuti per registrare l’intervista sui suoi 90 anni: li compie venerdì 21 marzo e Napolitano lo festeggia al Senato. Sono le 9 e ha già letto i giornali. «Mi sveglio alle sei, faccio colazione, poi passeggio un’ora sul Lungotevere, passo dall’edicola a comprare i quotidiani, la notte mi addormento con un romanzo in mano: dormo sei ore. Non male, no?». Ai muri due quadri di Guttuso, «insieme girammo la Sicilia quando lo candidai per il Pci al Senato». Fuori Roma splende di luce.

C’è stato un momento, durante l’intervista, in cui il silenzio si è fatto più spesso, l’attenzione di tutti più acuta: ed è stato quando ha raccontato della sua storia d’amore con Lina, «donna sposata », una relazione clandestina che costò ad entrambi il carcere per adulterio nel 1944. «Io avevo 19 anni, lei 23, ci conoscemmo a una festa da ballo pomeridiano a Caltanissetta. Si era maritata a 14 anni con un uomo di 35 anni che lavorava in Comune, e avevano due figli. Ci innamorammo perdutamente. Andammo avanti in segreto per un anno, poi, a Sicilia liberata, le dissi che dovevamo uscire dalla clandestinità: dalla doppia clandestinità che avevo fin lì vissuto, con lei e con il Partito comunista. Andammo ad abitare in un basso, nell’ostilità di tutti: dei miei, di sua madre, del partito. Una notte bussarono alla porta, era il maresciallo Vacirca, lo conoscevo perché il figlio era stato a scuola con me: 'Vi debbo arrestare'.
Trascorremmo alcune settimane nel carcere Malaspina, il processo si fece rapidamente, fummo condannati a sei mesi di reclusione». Per adulterio? «Per adulterio».

Dieci anni dopo uomini legati alla Dc lo denunciarono di nuovo, sostenendo in un esposto anonimo che i gemelli avuti da Lina, Pompeo e Antonio, non potevano essere figli loro, ma del marito di lei, perché così prevedeva la legge. Il magistrato lo avvertì: «Macaluso, lei rischia otto anni di carcere». Allora Amendola gli ordinò di sparire e mandò il grande avvocato Battaglia a risolvere il caso in Cassazione. Macaluso rimase chiuso per mesi in un casolare a Vignola, nel Modenese, in attesa della sentenza: per fortuna il verdetto fu favorevole. «Quella Dc era miserabile!» e si lascia andare nella poltrona.

Gli chiediamo la foto di Lina. Dice: «Non ce l'ho». E poi: «Non la trovo». Che generazione fatta col fil di ferro. A 17 anni comunista, a 19 sfida la morale comune per la donna di un altro, a 23 Di Vittorio lo promuove capo della Cgil siciliana. Perché si diventava uomini fatti così presto allora? «Io frequentavo solo adulti, gente più grande di me. C’era stata la guerra - le guerre - e c’era stato il fascismo: non si poteva parlare, questo portava a riflettere, a indagarsi». Macaluso voleva fare il ginnasio, ma nell’Italia classista il ginnasio era roba per ricchi, allora fece l’Istituto minerario, dove si non pagavano le tasse di iscrizione, «una scuola che non amavo, mi piaceva la letteratura, un’estate lessi tutto Jack London». E allora il racconto devia su Michele Calà, il compagno di partito che allo sbarco degli americani corre per mettere in salvo la biblioteca della loro cellula, piena di testi proibiti, e viene ferito ad una gamba da una scheggia. «Lo andai a trovare, l’avevano portato in un ospedale di fortuna, pochi giorni dopo morì». E qui Macaluso si commuove. «Pensi, è morto per salvare quei libri, per un pugno di libri!».

Interrompiamo la registrazione. Per alleggerire la tensione lo interroghiamo sul saggio che ha appena scritto su Togliatti per Feltrinelli. «È andato benissimo, è alla seconda edizione, lo sto presentando ovunque».

Ora la malinconia si è un po’ attenuata. Ha mai temuto per la sua vita? «Qualche volta. Con Li Causi andammo a Villalba a sfidare il boss, ci spararono addosso, il processo naturalmente fu una farsa». Riprendiamo a parlare di Berlinguer. «Per quattro anni dividemmo la stessa stanza, aveva silenzi lunghissimi, ma quelli così hanno dentro una grande tenacia, Sciascia era uguale. Enrico confidò solo a me e alla sua famiglia il sospetto di essere stato vittima di un attentato in Bulgaria nel 1973. 'Non parlarne con nessuno', mi disse. E io mantenni questo segreto fino al 1991».

Un pomeriggio squilla il telefono.

 «Sono Macaluso. Sono appena tornato da Messina, mi hanno dedicato un convegno all’Università. E poi avrei trovato la foto di Lina, venga domattina». Ed eccola Lina: slanciata, con un vestitino quasi corto in un pomeriggio di afa di settant’anni fa. «Era molto bella», davvero molto bella. Silenzio. «Ma io ho sempre avuto donne belle». E per la prima volta un lampo di malizia percorre lo sguardo del severo dirigente comunista che fu.

© Riproduzione riservata 14 marzo 2014

Da - http://www.repubblica.it/cultura/2014/03/14/news/macaluso_una_vita_difficile_io_comunista_in_galera_per_adulterio-80959518/?ref=HREC1-8


Titolo: Intervista a EMANUELE MACALUSO: "Matteo Renzi? E' una caricatura"
Inserito da: Admin - Marzo 19, 2014, 11:52:44 am
Intervista
"Matteo Renzi? E' una caricatura"
Emanuele Macaluso dà il voto ai leader
Lo storico dirigente del Pci e giornalista compie 90 anni e racconta i vertici della sinistra, da Togliatti in poi.
E sul presidente del Consiglio dice: "E' il prevalere dell'immagine mediatica sul progetto. Ma dopo di lui cosa c'è?"

di Marco Damilano
      
Il primo giorno di primavera, il 21 marzo, saranno novanta, Emanuele Macaluso li festeggerà al Senato con l’amico di sempre, Giorgio Napolitano. Dirigente del Pci, capo della destra interna (i miglioristi), disciplinato ma libertario, fedele al partito ma con il gusto dell’anti-conformismo e dell’autonomia di pensiero, polemista fulminante, nella casa romana di Testaccio Em.Ma. Ripercorre decenni di vita politica. Memoria di ferro, giudizi sferzanti: «Matteo Renzi? Vuole dare il cioccolatino a tutti, ma farà il botto». E previsioni: «Napolitano se ne andrà e questo Parlamento dovrà eleggere il suo successore: lì ti voglio».

L’infanzia a Caltanissetta, la famiglia operaia, l’Istituto minerario, il ricovero per tubercolosi, l’amicizia con Leonardo Sciascia, l’adesione al Pci nel 1941 («a convincermi fu un ragazzo più grande di me, Gino Giannone, mi venne a trovare nel sanatorio, tranne i miei genitori nessuno lo faceva, e mi disse: se vuoi fare una battaglia vera l’unica organizzazione è il Pci. Non conoscevo né Gramsci né Togliatti, divenni comunista per ribellione»), la Cgil («Con trentasei sindacalisti uccisi, la lotta alla mafia allora non si faceva a chiacchiere, dopo la strage di Portella della Ginestra del 1947 toccò a me il primo comizio, avevo 23 anni»). Infine, l’arrivo a Botteghe Oscure: «Nel 1956, in mezzo ai fatti di Ungheria, passai dalla Cgil al Pci. Mi trovai tra due fuochi, tra Giuseppe Di Vittorio e Palmiro Togliatti. Leggendo anni dopo i verbali della direzione in cui ci fu il loro durissimo scontro sull’invasione sovietica ho scoperto che nella stessa riunione Di Vittorio protestò perché ero stato spostato dal sindacato al partito. Nel ’62 entrai nella segreteria».

Da chi era composta?
«Togliatti, Longo, Berlinguer, Amendola, Pajetta, Alicata, Natta e Ingrao. E poi c’ero io, il più giovane della compagnia».

Uno squadrone. Tipo l’Inter di Herrera.
«Longo era il numero due, Berlinguer era il responsabile dell’ufficio di segreteria, la gestione interna toccava a lui. Nasce lì il mio rapporto forte con Enrico, per quattro anni non c’è stato giorno in cui non siamo stati insieme, il nostro rapporto di amicizia e di fiducia andava oltre la politica. Raccontò solo a me e alla famiglia di aver subito un attentato in Bulgaria nel 1973. E anche quando fui in dissenso con lui mi chiese di fare il direttore dell’“Unità”. Napolitano era il presidente dei deputati, Gerardo Chiaromonte il capogruppo del Senato, anche loro avevano contrastato la sua ultima svolta. C’era un modo di concepire la lotta politica interna al partito che non è paragonabile a oggi».

Il Pci è stato un partito o una religione?
«Anni fa ebbi un bellissimo scambio con Montanelli. Il Pci è stato una Chiesa, mi scrisse, e anche tu sei stato un chierico. In parte era vero, più che una chiesa la consideravo una comunità, una mezza chiesa, in cui si facevano i conti sul piano politico e sui comportamenti privati».

Aveva trasgredito qualche precetto?
«Da giovane ero stato in carcere, condannato a sei mesi e mezzo per adulterio con la mia compagna Lina che era già sposata e con cui ho avuto i miei due figli. Una storia che non finì li. Anni dopo, ero deputato regionale, ebbi uno scontro violentissimo con la Dc sulla giunta Milazzo. I carabinieri dei servizi fecero un’inchiesta sulla mia famiglia, scoprirono che avevo registrato i miei bambini all’anagrafe come “figli di Emanuele Macaluso e di donna che non vuole essere riconosciuta”, allora non c’era il divorzio. Mi volevano condannare per alterazione dello stato civile, da otto a dodici anni di carcere, un giovane magistrato, Emanuele Curti Giardina, mi mise in guardia. Mi salvai perché la Cassazione con una sentenza che fece epoca annullò il reato. La Dc voleva liquidarmi con questi metodi. Quando sento parlare con nostalgia della Prima Repubblica ricordo che c’era una guerra politica che si svolgeva con armi proprie e armi improprie».

Nel Pci come fu presa la sua irregolarità?
«Nel primo caso fui accusato di avere una condotta non confacente, mi vietarono di partecipare al primo corso politico di formazione nazionale del Pci. Nel secondo, invece, fui difeso. Andai latitante a Modena, in Emilia, a casa di un contadino, Giorgio Amendola mi portò dall’avvocato Battaglia».

Nel Pci erano tutti con le carte in regola?
«Macchè! Togliatti fu costretto a chiedere al partito una commissione per decidere sulla sua convivenza con Nilde Jotti, Longo aveva lasciato Teresa Noce, quasi tutti i dirigenti erano nella stessa situazione, tranne Amendola che era molto intransigente. E il mio maestro Girolamo Li Causi: lui era stato mollato dalla moglie che si era messa con Riccardo Lombardi. Pertini s’indignava con me: “Come fai a essere amico di Lombardi che si è messo con la moglie di Li Causi mentre lui era in carcere?”. Io replicavo che Li Causi riteneva la cosa chiusa e aveva trovato al suo posto una ragazza bellissima... Ma nessuno nel gruppo dirigente faceva una battaglia aperta contro questo moralismo. Era lo specchio di un partito che era una comunità, una famiglia».

Cinquant’anni fa fu lei a organizzare i grandiosi funerali di Togliatti. Il Pd di Renzi dovrebbe celebrare il capo del Pci?
«Dovrebbero celebrarlo tutti quelli che difendono la Costituzione. Dovrebbe saperlo il professor Gustavo Zagrebelsky: non si può alzare quella bandiera e poi sputare su Togliatti. Senza Togliatti quella Costituzione non ci sarebbe stata».


Ci sarebbe stato il Pci?
«Sì, ci sarebbe stato un partito comunista in Italia, come in tutti i Paesi europei, ma che comunismo sarebbe stato? Con la svolta di Salerno Togliatti salvò l’Italia. Cambiò tutto: dalle occupazioni delle terre contro la legge alla lotta per l’applicazione della legge, dal ribellismo alla politica. Togliatti ha costruito una sinistra che pensa al governo».

I suoi eredi lo hanno esaudito...
«Eh, già... tranne il povero Occhetto sono tutti andati al governo, tutti ministri: D’Alema, Veltroni, Fassino, Livia Turco, Bassolino, Bersani, Mussi... ma senza un progetto, senza un orizzonte politico. La crisi della sinistra nasce da qui: quando il Pci era all’opposizione aveva un progetto di governo, quando il Pds-Ds-Pd è andato al governo non ha avuto più un progetto, una direzione. Togliatti voleva andare democraticamente e gradualmente verso il socialismo, sarà stato sbagliato, ma ora verso cosa si va? Verso niente! L’obiettivo di stare al governo è scisso totalmente da un’idea di società».

Quando è finito il Pci?
«Nel 1984, dopo la morte di Berlinguer, il Pci alle elezioni europee diventò il primo partito, io ero in tv a commentare, allora la Rai faceva sedere gli ospiti politici in ordine di grandezza, spostai la sedia e mi misi prima del dc Giovanni Galloni, feci io il sorpasso... Però è vero che in quel momento il Pci cominciò a declinare. Cambiò il gruppo dirigente, Natta promosse gli elementi più anti-socialisti della nuova generazione, i riformisti furono esclusi. Anche se fummo Napolitano, io e altri, nell’86, a inserire nelle tesi del congresso di Firenze la frase sul Pci “parte integrante della sinistra europea”».

Che effetto le fa vedere che il processo di adesione al Pse è stato concluso da Renzi?
«Alcuni amici mi dicono che Occhetto è incazzatissimo perché rivendica di essere lui tra i fondatori del Pse. Forse avete ragione, ho risposto, ma se non me ne sono accorto io, figuriamoci gli altri!».

Chi è Renzi nella storia della sinistra? Un intruso? Un invasore? O il risultato più compiuto della svolta dell’89, la Bolognina?
«Quando nel 2007 è nato il Pd con la Margherita dissi che eravamo al capolinea. Il Pd è stata un’operazione rovesciata rispetto alla storia complessa della sinistra europea. E ora Renzi è l’espressione più radicale dei tratti distintivi della Seconda Repubblica: il prevalere dell’immagine mediatica e della comunicazione sul progetto. Mi sono stropicciato gli occhi quando ho visto Renzi baciarsi e abbracciarsi con Landini dopo averlo fatto con i finanzieri della City. Mi è venuto in mente Alcide De Gasperi che governava con il sindacato e con la Confindustria, l’interclassismo...».

Gli fa un complimento enorme!
«Ma no! Quello di Renzi è una caricatura, è l’interclassismo del cioccolatino: uno a Landini e uno a Squinzi. Arrivato a novant’anni, confesso, ho un’angoscia: se fallisce Renzi dopo di lui cosa c’è?».

Angoscia condivisa. Cosa si risponde?
«Che non c’è niente. La mia preoccupazione è che Renzi andrà a fare il botto, come si dice in Sicilia. Fa un grande gioco, sta con Landini e con Squinzi, con Berlusconi e con Alfano e con la sinistra del Pd. Ritiene che il suo carisma gli consentirà una manovra a maglie così larghe da portargli rapidamente i risultati. Perché appena dovesse mostrarsi una difficoltà lui andrà alle elezioni. Dirà: non mi fanno fare le cose, con questi non posso lavorare, andiamo al voto. Per questo ha cominciato con la legge elettorale».

Su cui si sono già aperte le prime crepe...
«Renzi si sta già accorgendo che le cose sono più complicate. Il voto sulle quote rosa sull’Italicum è stato un segnale. Ma il punto nodale della legge elettorale è la preferenza. La preferenza è la rivoluzione che rompe il berlusconismo, il grillismo. E anche il renzismo».

Rino Formica scrive che è in corso un golpe della coppia Br (Berlusconi-Renzi) per stravolgere la Costituzione e sostituire Napolitano al Quirinale. Fantapolitica?
«Formica non dice mai fantasie. Quando denuncia l’abolizione di organi costituzionali con l’articolo 138 fa una critica intelligente, ha ragione. Vogliono abolire il Senato? E allora perché non anche la Camera? E perché non sottrarre, almeno in linea teorica, la sovranità popolare?».

Lei è uno dei più cari amici di Napolitano: firmerà questa legge elettorale?
«Come ha detto lui, la valuterà con attenzione».

Cosa è cambiato per Napolitano con Renzi al governo?
«Dopo la crisi del berlusconismo il presidente ha puntato su Mario Monti per ristabilire il rapporto con l’Europa. Ma con le elezioni Monti ha fatto la coglionata più colossale che la storia politica repubblicana ricordi, invece di fare l’uomo delle istituzioni è andato a fare un partitino con alcuni residuati bellici. Poi c’è stata la rielezione, con Bersani e Berlusconi che andarono a chiedere in ginocchio al presidente di restare. Lui aveva già organizzato il suo ufficio in Senato, la sua casa nel quartiere Monti, aveva perfino scelto i suoi collaboratori. E invece è stato costretto a restare e ha scelto Enrico Letta per la guida del governo. Letta si è dimostrato un po’ lento, ma è una delle poche personalità che ha il senso della complessità del governo. E dopo le primarie è scattata l’opposizione vera, non era quella di Berlusconi ma di Renzi. La crisi è stata decisa dalla guerriglia nel Pd. Napolitano ha preso atto delle dimissioni obbligate di Letta, non poteva fare altro. Con Monti e Letta c’erano governi originati da una crisi in cui il presidente era stato obbligato ad avere un ruolo. Con Renzi non è più così. Cambia la ragione sociale per cui rimane al suo posto».

Fino a quando resterà?
«Resta al Quirinale perché vuole che si faccia la riforma elettorale. Ma ritengo che manterrà fede a quello che ha detto in Parlamento al momento della rielezione. Approvata la legge elettorale Napolitano farà un ragionamento, ricorderà che a tutto pensava tranne che a un secondo mandato, che ha cercato di sanare una situazione di crisi e di paralisi istituzionale, che c’era un tempo di diciotto mesi per fare le riforme. Se ne andrà prima. E questo Parlamento dovrà eleggere il suo successore: lì ti voglio».

Di Amendola, citando Sciascia, lei ha scritto: «Contraddisse, e si contraddì». Si può dire anche di lei?
«La contraddizione è nella persona. Chi ritiene di essere sempre stato coerente lo considero un ipocrita. E io mi sono contraddetto più volte».

13 marzo 2014 © Riproduzione riservata

Da - http://espresso.repubblica.it/palazzo/2014/03/13/news/matteo-renzi-e-una-caricatura-emanuele-macaluso-da-il-voto-ai-leader-1.157098