LA-U dell'OLIVO

Forum Pubblico => LA SALUTE, LA CULTURA, IL LAVORO, I GIOVANI, L'AMBIENTE, LA COMUNICAZIONE ETICA E LA SOCIETA'. => Discussione aperta da: Arlecchino - Luglio 04, 2007, 07:43:24 pm



Titolo: ROBERTO SAVIANO
Inserito da: Arlecchino - Luglio 04, 2007, 07:43:24 pm
4/7/2007 (13:56) - CITTÀ VIETATA
Torino a rischio per Saviano
 
Lo scrittore dà forfait. Si sarebbe esibito ai Giardini Reali in coppia con Meg

GIOVANNA FAVRO
TORINO


Che cosa c’è di più triste di un intellettuale cui viene tappata la bocca con la forza? Di un paese in cui uno scrittore viene messo in condizione di non parlare, di non incontrare il pubblico, di non far volare il suo pensiero tra la gente a suon di minacce e di violenza?» E’ più o meno questo, il pensiero di Cosimo Ammendolìa, il direttore di «Traffic». Non sta parlando dell’Iran, di qualche paese africano, dell’Arabia Saudita, di Oran Pamuk o di Salman Rushdie. No. Parla di Torino, e di un appuntamento cancellato «per ragioni di sicurezza» con lo scrittore Roberto Saviano. L’autore che ha sfidato la camorra, e che vive scortato da mesi e mesi. Il papà di «Gomorra», che i camorristi minacciano d’uccidere.
Lo scrittore avrebbe dovuto incontrare il pubblico torinese la sera del 14, ai Giardini Reali. Era abbinato alla voce di Meg, l'ex cantante della 99Posse, che è sua amica e che è stata il tramite con Ammendolìa: «Abbiamo pensato di invitarlo mesi fa - spiega lui - perché avevamo deciso di porre Napoli al centro della sessione letteraria di quest’anno». Dal palco lo scrittore avrebbe dovuto parlare della sua Napoli, e forse anche leggere qualche brano del suo libro. Lei avrebbe cantato e suonato il pianoforte. «Avrebbero proposto a Torino un progetto elaborato per le scuole di Napoli. Avevano detto di sì in più occasioni: prima a voce, nei giorni precedenti la Fiera del Libro, e poi per e-mail. Invece, all’ultimo, ora che si trattava di prenotare l’hotel e l’aereo, è sfumato tutto».
L’e-mail che annuncia il forfait parla di «ragioni di sicurezza che impediscono a Saviano di partecipare all’appuntamento torinese».
Ammendolìa è indignato: «E’ una cosa tristissima. Che sia una sua scelta, ovvero che sia talmente stanco e sotto pressione, a forza di minacce, da gettare la spugna, o che sia impossibile garantirgli incolumità in un luogo aperto e grande come i Giardini Reali, resta il fatto che si tratta di una vicenda penosissima, che dovrebbe farci riflettere».
Quale delle due ipotesi è quella vera? Ernesto Ferrero, il direttore della Fiera del Libro, rivela che anche lui aveva invitato Saviano al Lingotto, nei giorni di Librolandia. «Ma anche nel nostro caso aveva rinunciato, declinando l’invito. La sua agenda è molto fitta, ma soprattutto gli consigliano di non muoversi troppo, per prudenza: purtroppo, quelli che lo minacciano non sono persone che parlano a vanvera. So che è stato ad esempio costretto a cancellare a malincuore anche la sua presenza a Latina, dove doveva ritirare un premio».
Dalla Mondadori, la sua editrice, dicono di non sapere nulla della cancellazione dell’appuntamento torinese. Spiegano però che «Saviano è molto legato a Torino, città che ama molto». Ormai, anche chi, dell’editrice, l’accompagna nelle tappe italiane non cancellate dall’agenda, s’è abituato alla prudenza. Viaggiare con Saviano significa avere a che fare con scorte di carabinieri e polizia, spostamenti segreti, tragitti e luoghi da non rivelare a nessuno.
Dalla questura di Torino, spiegano, a livello informale, che naturalmente i poliziotti impegnati in città si sentono in grado di proteggere chiunque. E’ accaduto con il presidente Napolitano, così come con Laura Bush, e accadrà oggi con il segretario generale dell’Onu. Pare che lo staff dello scrittore, comunque, non abbia neppure chiesto di preparare delle misure di protezione, né abbia informato della sua imminente presenza in città.La spugna è stata gettata prima, probabilmente, a sentire Ammendolìa, perché la città è comunque ritenuta a rischio, e per sfinimento, «perché se uno subisce violenza a un certo punto è tentato di mollare. Nelle sue e-mail si leggevano la fatica e la stanchezza per una vita complicata».
Dopo il forfait, il ciclo di scambi letterario musicali resta comunque dedicato a Napoli. Ferma restando la presenza di Meg, «stiamo ragionando sulla possibilità di avere Paolo Sorrentino o Matteo Garrone, che sta girando il film tratto dal best seller di Saviano». Gli altri due incontri sono in calendario il 12, con il regista Mario Martone con Daniele Sepe, e il 13 con l’autrice Valeria Parrella. Incontrerà Raiz, ex voce degli Almamegretta.

da lastampa.it


Titolo: ROBERTO SAVIANO
Inserito da: Admin - Luglio 06, 2007, 11:47:23 am
CRONACA

In autunno processo d'appello ad una famiglia della camorra casertana

L'anno scorso 21 ergastoli e novanta condanne contro l'organizzazione

Il clan dei Casalesi conquista il centro di Milano

Gli affari dei boss-manager in tutto il Nord

di ROBERTO SAVIANO

 
Bin Laden è riuscito a mettere le mani su uno dei territori più ambiti, il centro di Milano, nella cerchia dei Navigli. Via Santa Lucia è una di quelle stradine signorili, tranquille, quasi invisibili che però stanno a due passi dai locali più di moda e dagli imponenti palazzi storici dove avvocati e notai hanno i loro studi e dove gli imprenditori cercano appartamenti e showroom per vivere accanto alle vecchie famiglie milanesi. Proprio lì si trova l'ultima preda urbanistica di una città che prevalentemente vede espandere i suoi fianchi, e nelle periferie duplicare e triplicare persino il proprio nome. Invece aveva un cuore intatto, un territorio illibato su cui poter ancora edificare e vendere a 15mila euro al metro quadro. Proprio lì è riuscito ad entrare Bin Laden, nel grande affare immobiliare milanese.

Bin Laden non è il temibile capo di Al Queda, non è saudita, non è neanche islamico e non conosce altra fede che il danaro. Bin Laden è il soprannome di Pasquale Zagaria, imprenditore del clan del cemento, il clan dei Casalesi, è originario di Casapesenna, un paesino del casertano dove ci sono più imprese edili che abitanti. Bin Laden è il soprannome che emerge dalle indagini dell'antimafia di Napoli coordinata dai pm Raffaele Cantone, Raffaello Falcone e Francesco Marinaro: un appellativo dovuto alla sua capacità di sparire e soprattutto alla sua temibilità, alla paura che il suo nome genera soltanto a pronunciarlo. Si racconta però che tale soprannome fosse uscito fuori quasi per gioco: se avessero messo una taglia su Pasquale Zagaria come quella su Osama, alcuni imprenditori del clan e i loro gregari dichiararono ironici che l'avrebbero tradito, poiché se diveniva materia di profitto pure la fedeltà, allora era giusto poter contrattare e vendere anche quella.

Pasquale "Bin Laden" Zagaria, secondo le accuse dall'antimafia di Napoli, è uno degli imprenditori capaci di egemonizzare i subappalti dell'Alta Velocità Napoli-Roma, di determinare i lavori della linea ferroviaria Alifana, di avere ditte pronte ad entrare nell'affare della Tav Napoli-Bari e nel progetto della metropolitana aversana, e infine pronti a gestire la conversione a scalo civile dell'aeroporto di Grazzanise, che dovrebbe divenire il più grande d'Italia. Le imprese di Zagaria hanno vinto sul mercato nazionale grazie ai prezzi concorrenziali, alla capacità di muovere macchinari e uomini e alla velocità di realizzazione. Costruiscono ovunque in Emilia Romagna, Lombardia, Umbria e Toscana. La crescita esponenziale di Pasquale Zagaria, la sua ascesa fino a diventare uno dei più importanti imprenditori edili italiani, è avvenuta soprattutto da quando è stato in grado di collocare il cuore del suo impero e quello dei Casalesi in Emilia Romagna, in particolar modo a Parma, che è oggi una delle città che più hanno a che fare con la camorra, avendo assorbito nel suo tessuto economico i capitali dei clan.

Ma non c'è stata alcuna colonizzazione, piuttosto il contrario. A nord le imprese edili crescono velocemente, lavorano, costruiscono, vendono, acquistano, affittano, soltanto che non raramente entrano in crisi. Così è necessario che arrivino capitali nuovi, uomini e gruppi capaci di rassicurare le banche e di intervenire immediatamente. La camorra Casalese offre condizioni ottimali: i capitali più cospicui, le migliori maestranze e l'assoluta supremazia nel risolvere qualsiasi problema burocratico e organizzativo. E il clan Zagaria, che detiene all'interno del clan la leadership del cemento, può fare meglio di ogni altro competitore nell'acquisto di terreni, nella capacità di scegliere i materiali al miglior prezzo, nel reperire terreni edificabili, nel trasformare pantani inaccessibili in appetibili terreni dove costruire condomini lussuosi.

La figura che unisce Bin Laden Zagaria a Parma è il costruttore Aldo Bazzini. Uomo del cemento con interessi a Milano Parma e Cremona, secondo le accuse diviene testa di legno di Zagaria quando il loro sodalizio si fortifica attraverso il matrimonio. Bin Laden sposa la figliastra di Aldo Bazzini che, in una telefonata fatta con il suo avvocato Conti, commenta così la novità.
Conti: La figlia dove è andata?...
Bazzini: La figlia ha sposato un... un grosso boss! Eh! Giù!
C: Ma che roba! E sta bene?!
B: E sta bene!
C: Quel marito lì gliel'ha trovato lei! eh, BAZZINI?!
B:(ride)... Eh si eh!
C: Bisogna stare attenti a venire con lei!... Se no mi trovi il marito anche...
B: (ride)
C: E' un boss veramente?
B: Eh si, si, si!
C: E lei fa... fa la vita da... da ricca?
B: Da ricchissima guardi!
C: Da ricchissima!
E effettivamente la vita migliora. In un appunto trovato dai carabinieri sono segnate le spese degli Zagaria, e tra basolati, calcestruzzi, cotti e intonaci si trovano elencati 19mila euro per una gita di un giorno a Montecarlo e 20mila per una spesa ad Oro Mare, la città dei gioielli.

Così dopo il matrimonio del boss le imprese di Bazzini, che andavano lentamente verso il tracollo, iniziano a riprendersi grazie ai capitali e alle competenze dei Casalesi. Ed è interessante vedere come i nomi di imprese di Bazzini che secondo la DDA di Napoli di fatto sono gestite dai Casalesi siano completamente slegati dal territorio meridionale. Nuova Italcostruzioni Nord srl, Ducato Immobiliare srl e persino un'impresa dedicata all'autore della Certosa di Parma, la Stendhal costruzioni srl.

L'Emilia Romagna è sempre stata territorio di investimento del clan dei Casalesi. Giuseppe Caterino, arrestato in Calabria due anni fa, era un boss che a Modena aveva il suo feudo. In via Benedetto Marcello da sempre esiste una roccaforte casalese e poi a Reggio Emilia, Bologna, Sassuolo, Castelfranco Emilia, Montechiarugolo, Bastiglia, Carpi. Basta seguire il percorso delle imprese edili e la sofferenza di molti emigranti dell'agro aversano, vessati dai loro compaesani dei clan. Persino le modalità militari furono esportate nei territori di investimento. Si iniziò il 5 maggio del 1991, con un conflitto tra paranze di fuoco dei casalesi a Modena. Il 14 marzo del 2000 vi fu un agguato a Castelfranco Emilia. E poi a Modena qualche mese fa, il 10 maggio 2007, è stato gambizzato Giuseppe Pagano, titolare dell'impresa edile Costruzioni Italia.

Il tessuto connettivo italiano è il cemento. Cemento è il sangue arterioso della sua economia. Col cemento nasci e divieni imprenditore, lontano dal cemento ogni investimento traballa. Il cemento armato è il territorio dei vincenti. In silenzio il clan del cemento ha preso potere in Italia, un silenzio che si è costruito con la certezza che quanto lo riguarda non sarebbe rimbalzato oltre ai confini campani. Un clan sconosciuto in Italia e invece notissimo e temutissimo laddove riesce ad egemonizzare ogni cosa. Il pm Raffaele Cantone, al processo contro il clan Zagaria, ha detto con fermezza: "Ci troviamo di fronte a boss che agiscono, pensano, e si relazionano come imprenditori. E sono imprenditori. Dire che esiste il clan Zagaria e che comandi su tutto il territorio è come dire che si respira aria".

Il clan è riuscito a divenire così potente perché a sud controlla completamente il ciclo del cemento. Impone le forniture, gestisce ogni tipo di appalto, detta le leggi del racket per ogni lavoro. Un sistema che non permette smagliature. L'estorsione diviene uno strumento fondamentale per mettere in relazione tutto e tutti nella stessa rete economica e chi è sotto estorsione ne fa obbligatoriamente parte. Ci sono decine di telefonate in cui imprenditori chiedono agli uomini del clan: "Fatemi faticare", e altre telefonate per non far partecipare alle aste fallimentari: "siamo di Casapesenna, quei terreni sono nostri". Basta pronunciare il paese di provenienza e ogni buon imprenditore comprenderà. Il calcestruzzo è monopolizzato da loro, chiunque voglia lavorare deve interloquire con loro, loro condizionano tutti i produttori di cemento: Cocem, Dmd Beton, Luserta, Cls.
Nessun cantiere può impegnare ditte che non abbiano ricevuto il permesso di lavorare dai Casalesi. Nelle indagini emerge un episodio significativo: una ditta a loro apparentemente sconosciuta stava lavorando senza il "permesso" al cantiere del canile di Caserta. D'immediato l'ordine fu: "Blocca i camion, non far più faticare nessuno". Poi scoprirono che la ditta che lavorava al canile era una delle loro miriadi di emanazioni e tutto tornò in regola.

SEGUE


Titolo: Re: ROBERTO SAVIANO Gli affari dei boss-manager in tutto il Nord (2)
Inserito da: Admin - Luglio 06, 2007, 11:48:20 am
segue da 1

E così le imprese dei clan riescono a risparmiare, vincono gli appalti a sud e migliorano le loro qualità a nord. Crescendo sono riusciti ad arrivare alle grandi opere. Nel 2003 si vara il progetto dei grandi cantieri del governo Berlusconi; secondo le indagini della Dda di Napoli, in un albergo romano ha luogo un summit per tentare di far entrare il clan nel progetto. Roma è territorio noto ai Casalesi, hanno già tentato la scalata alla squadra della Lazio, sono divenuti i partner vincenti di Enrico Nicoletti, boss della Banda della Magliana. Il luogo di incontro è una sala riunioni di un hotel della zona di via Veneto. C'è il costruttore Aldo Bazzini, c'è il boss Pasquale Zagaria, c'è Alfredo Stocchi, politico, ex assessore socialista, e c'è infine il presidente del consiglio comunale Bernini, consulente del ministro Lunardi. Giovanni Bernini, uomo di punta in Emilia Romagna di Forza Italia, nel '94 viene eletto a Palazzo Ducale, nel 2002 è il più votato di tutta la Casa delle libertà. Bernini, che l'Antimafia napoletana interroga come testimone, spiegherà che Zagaria gli era stato presentato come un imprenditore, cosa reale del resto, ma dichiara che ignorava fosse anche un boss. L'inchiesta si ferma qui, quello che è accaduto dopo non si sa. Ma è evidente che non sono i clan ad avere bisogno delle grandi opere, bensì il contrario. Il cemento chiama il cemento più efficiente, i prezzi più convenienti.

Pasquale "Bin laden" Zagaria era latitante, lo cercavano invano mentre le sue ditte satellite continuavano a vincere appalti. Ma in seguito si è consegnato. Si è consegnato ed ha chiesto il rito abbreviato. Al processo, al Tribunale di Napoli, c'è tutto lo stato maggiore del clan. La strategia migliore: la legge diviene qualcosa che deve contenere il business, la prassi economica. É quindi inutile sfidarla quando non la si riesce a slabbrare, quando le maglie sono tirate al massimo. Bisogna incassare il danno, renderlo minimo. Non contrastare lo Stato, ma risolvergli le contraddizioni.
Quando il pm Raffaele Cantone riuscì a comprendere i meccanismi, aprendo indagini importanti sul clan del cemento e riuscendo a sequestrare cantieri per un valore di oltre 50 milioni di euro, il clan pensò di farlo saltare in aria. Le informative parlavano di tritolo ordinato ai fedelissimi alleati calabresi. Informazioni che quasi tutti i media ignorano. Al pm viene raddoppiata la scorta, la tensione sul territorio diviene altissima. 'Ndrangheta e camorra casalese sono da sempre alleate, gemelle nel silenzio che riescono ad ottenere, a differenza di Cosa Nostra. Ma poi i falchi del clan vengono placati dalle colombe. Capiscono che non è il momento della carneficina. E il clan, che pure aveva massacrato un giovane sindacalista, Federico Del Prete; e che pure non aveva esitato a massacrare un proprio affiliato perché in carcere ebbe rapporto omosessuali "infangando" l'onorabilità dell'intero cartello, il clan più feroce del mezzogiorno si ferma. Non vuole telecamere, non vuole attenzione nazionale. Vuole rimanere sconosciuto. E quindi sospende la condanna al magistrato.

Pasquale Zagaria è il fratello di Capastorta. Capastorta è il soprannome di Michele Zagaria. Latitante da oltre undici anni, oggi ha preso il posto di Bernardo Provenzano alla testa dei boss più ricercati d'Italia. Michele è il capo militare del clan dei Casalesi, il leader incontrastato. In realtà formalmente è una sorta di vicerè assieme ad Antonio Iovine, "o'Ninno", del boss in carcere Francesco "Sandokan" Schiavone. Michele Zagaria ha organizzato un clan efficiente, e la sua vita è ovviamente materia di leggenda, ma nelle storie del potere di camorra la leggenda è riferimento mitico piuttosto che invenzione. Le informative parlano della sua villa a Casapesenna che al posto del tetto ha una cupola di vetro per poter far arrivare luce ad un enorme albero piantato nel salone di casa. Ma al di là delle stupefacenti tracotanze edilizie comuni a tutti i capi del clan del cemento, la strategia di vita del boss è quasi calvinista. Michele Zagaria ha rifiutato la famiglia, non ne ha creata una, ufficialmente. Pare abbia avuto una figlia, ma non ha ufficializzato la cosa, non si è sposato, vive in solitudine. Il boss trascorreva gran parte della latitanza in chiesa, e non c'è in paese chi non conosca la storia di Michele Zagaria che incontrava nel confessionale i suoi fedelissimi: nessuna confessione, solo affari. Il clan Zagaria è disciplinato, rifiuta la cocaina al suo interno. Quando i ragazzi del clan hanno iniziato a farne è intervenuto Pasquale Zagaria che li punisce chiudendoli nella gabbia coi porci. Ma anche il boss cede alla coca, in un'intercettazione ambientale un suo sottoposto, O'Sceriffo, timido e riguardoso, osa chiedere al boss se ha mai ceduto al vizio. La risposta del boss è terribilmente epica: "Dissi, Michele ... mi devi togliere uno sfizio ... ma tu lo hai mai fatto? ... dissi ... scusami se mi permetto ... e lui mi guardò in faccia e mi disse "tu non lo sai che io sono come il prete; fa quello che dico ma non fare quello che faccio io" ...".

Michele Zagaria è anche attento alla messa in scena di se stesso. Una volta una imprenditrice molto potente, Immacolata Capone, incontra un uomo del boss, Michele Fontana o'Sceriffo, e lui dice che deve farle una sorpresa. Le fa prendere posto in auto sul sedile davanti e intanto la donna sente rumori nel cofano, e una voce che dice che non ce la fa più. Quando chiede spiegazioni, lo Sceriffo mormora solo "Signora non vi preoccupate". Poi arrivano in una villa faraonica nelle campagna del casertano e lì dal cofano spunta Michele Zagaria che entra in casa. Lei, sconvolta dal boss, non riesce neanche a rivolgergli la parola, nonostante siano partner di affari vincenti da anni. Secondo alcune informative il boss prese posto al centro del salone di una ennesima sua villa, salone lastricato di marmi rari, e carezzando una tigre al guinzaglio iniziò a discorrere di appalti, calcestruzzo, costruzioni e terre. Un immagine cinematografica, capace da sola di creare mito, cibo di cui i clan devono alimentare il loro potere fatto di sparizioni e appalti.

Donna Immacolata era stata capace di edificare un tessuto imprenditoriale e politico di grande spessore. Lei, donna del clan Moccia, era divenuta interlocutrice del clan Zagaria, ambita da molti camorristi che la corteggiavano per poter divenire compagni di una boss-imprenditrice di alto calibro. Secondo le accuse l'uomo politico che aveva aiutato i suoi affari è Vittorio Insigne, consigliere regionale dell'Udeur, per il quale i pm Raffaele Cantone e Francesco Marinaro hanno chiesto la condanna a 3 anni e 8 mesi per concorso esterno in associazione camorristica. Insigne avrebbe, secondo le accuse, interceduto per procurare un certificato antimafia alle imprese della Capone. Nelle intercettazioni emergono continui riferimenti al politico, anche circa la spartizione dei proventi. Secondo le accuse Insigne interveniva per far vincere gli appalti alla Capone, ma la Capone poi una parte dei guadagni li riportava a lui. Vittorio Insigne al momento delle indagini faceva parte della Commissione Trasporti della Regione Campania, quando la Regione era il maggior azionista dell'Alifana, presso cui le imprese di Insigne lavoravano. Il pool dell'antimafia napoletana coordinato da Franco Roberti è riuscito anche a scoprire che la Capone era riuscita ad avvicinare il colonnello dell'aeronautica militare Cesare Giancane, direttore dei lavori al cantiere Nato di Licola. Il clan Zagaria infatti - secondo le accuse - è riuscito persino a lavorare per il Patto Atlantico edificando la centrale radar posta nei pressi del Lago Patria, punto fondamentale per le attività militari NATO nel mediterraneo. Ma forse la bravura le è stata fatale, Immacolata Capone fu uccisa nel novembre 2004 in una macelleria di Sant'Antimo. Pochi mesi prima avevano eliminato suo marito.

Il clan, della politica, fa ciò che vuole. Non c'è, come negli anni '90, una sorta di necessaria sudditanza. Al contrario, è la politica oggi suddita degli affari, e quindi anche degli affari di camorra. In un'intercettazione Michele Fontana, "o'Sceriffo", racconta di come si sia interessato alla campagna elettorale delle ultime elezioni a Casapesenna e dice: "Il mio cavalluccio è salito". Il politico, che secondo le indagini è Salvatore Carmellino, O'Sceriffo lo chiama cavalluccio: una sorta di mezzo con cui stare tranquilli al comune, un contatto nelle sue intenzioni capace di divenire referente degli affari del sodalizio. La politica locale coma aia per i propri affari diretti, quella nazionale come spazio in cui di volta in volta interloquire, usare, ignorare, abusare, gestire. Se secondo von Clausewitz la guerra non è che la continuazione della politica con altri mezzi e secondo Michel Foucault la politica è la guerra condotta con altri mezzi, i clan imprenditoriali non sono altro che economie che usano ogni mezzo per vincere la guerra economica.

Oggi i Carabinieri dei Ros romani che avevano
condotto egregiamente la ricerca di Capastorta dovrebbero tornare a inseguire Michele Zagaria. In queste ore si ha la certezza della sua presenza a Casapesenna, un capo militare non può abbandonare il suo territorio. Bisogna permettere alle forze di polizia del posto di essere coadiuvate, fare sì che le ricerche siano intensificate e che le imprese del cemento siano monitorate, seguite in ogni aspetto, impedendo che monopolizzino il mercato, distruggendo così ogni lontana idea di libera concorrenza. Ogni distrazione che viene oggi concessa al potere del clan ha il sapore della connivenza. Il governo di centrosinistra sino ad ora ha fatto troppo poco, sino ad ora si è dimostrato lento, distratto e morbido nella battaglia all'imprenditoria edilizia criminale, alle borghesie imprenditrici direttamente legate ai clan. É necessario che il governo intervenga sul meccanismo d'appalto dei noli: bisognerebbe vietarli, o non imporre la stessa autorizzazione dei subappalti. É necessario che si inizi a regolamentare il meccanismo degli appalti non permettendo che un impresa del nord possa vincere e
poi dare tutto il lavoro in subappalto.

Ma il silenzio è totale e colpevole. Nel processo Spartacus, il più grande processo di mafia degli ultimi 15 anni, che il giorno della sua sentenza non ha ricevuto attenzione sulla stampa nazionale, la camorra tenta in appello di veder decadere i suoi 21 ergastoli. Ma sarebbe gravissimo se si lasciasse al suo destino uno dei pochissimi tentativi fatti in questa terra per ostacolare i ras del cemento criminale. I collegi difensivi dei clan, l'enorme esercito di avvocati che hanno a disposizione le varie famiglie camorristiche - Schiavone, Bidognetti, Zagaria, Iovine, Martinelli - vogliono soprattutto silenzio, minimizzazione, vogliono che lo sguardo vada altrove. Vogliono spingere l'interesse nazionale a vedere queste vicende come scarti di periferia, aiutati spesso dalla nausea di una classe intellettuale distante da questi meccanismi e da una classe politica che quando non ne è invischiata non ne riesce più a comprendere le dinamiche. É interessante ascoltare le intercettazioni dei capizona, degli imprenditori dei clan anche per capire come per loro sia fondamentale che l'interesse nazionale sia attirato dalla guerra in Iraq, dai Dico e più d'ogni altra cosa dal terrorismo di ogni matrice.
Nei prossimi mesi non bisognerà togliere lo sguardo dall'appello del processo Spartacus. I boss non hanno condanne definitive, la Cassazione annulla tanti ergastoli. É fondamentale che non si dissolva l'attenzione nazionale, che si segua l'odore del cemento, perché cemento, rifiuti, trasporti, supermercati smettano di essere i serbatoi del riciclaggio e dell'investimento principe dei clan. Altrimenti sarà troppo tardi. Non ci sarà più confine di differenza, posto che ce ne sia ancora alcuno tra economica legale ed illegale. Temo che possa accadere che ogni parola che racconti queste dinamiche diventi muta, incomprensibile, come proveniente da un mondo che si crede distante; che ogni inchiesta giudiziaria divenga semplicemente un affare tra giudici, avvocati ed incriminati da sbrigare nel tempo più lungo possibile e nello spazio d'attenzione più ristretto e dove persino i morti ammazzati divengono un male fisiologico; qualcosa che non può che andar così. Temo possa accadere che le parole che raccontano tutto ciò diventino incomprensibili. Si rischia, per dirla con Elie Wiesel, di scrivere "non per comunicare ciò che è accaduto ma per mostrarvi ciò di cui non saprete mai".

(6 luglio 2007) 

DA REPUBBLICA.IT


Titolo: Saviano: "Torno a Casal di Principe per dire che non c'è da avere paura"
Inserito da: Arlecchino - Settembre 16, 2007, 07:21:54 pm
CRONACA

Parla lo scrittore, che domani sarà nel suo paese con Bertinotti e Lirio Abbate

Salirà sul palco e si rivolgerà ai giovani: "La politica deve ricominciare da qui"

Saviano: "Torno a Casal di Principe per dire che non c'è da avere paura"

dal nostro inviato CONCHITA SANNINO

 

CASAL DI PRINCIPE - "Torno a Casal di Principe per dire che non c'è da avere paura". Un anno e 800 mila copie dopo, Roberto Saviano, l'autore del caso "Gomorra", il ventottenne scrittore finito sotto scorta della Procura antimafia per aver raccontato segreti e affari dell'impero dei casalesi, è pronto al suo primo bagno di folla. Un rientro che già si annuncia teso, emozionante, gremito.

Alla vigilia della sua prima testimonianza pubblica dopo l'exploit di Gomorra, Saviano si racconta con pudore. "Nessuno si aspetti slogan morali, non mi piace parlare di legalità attingendo alla retorica del male. Torno a Casale perché Campania e Calabria sono i grandi rimossi dell'agenda nazionale. Perché la politica deve ricominciare da qui. La sinistra deve ricominciare. Daccapo. Anzi, in questo senso è ancora tutto da fare. Troppo poco è stato fatto finora".

Domani mattina a Casale, con Saviano, per l'inaugurazione dell'anno scolastico in Campania, ci saranno anche il presidente della Camera Fausto Bertinotti, il presidente della commissione parlamentare antimafia Francesco Forgione, il Movimento giovani di Locri e Lirio Abbate, il giornalista siciliano minacciato dalla mafia, insieme con l'assessore regionale all'Istruzione Corrado Gabriele, autore della lunga agenda di giornata.

Lo scrittore salirà sullo stesso palco dal quale, dodici mesi fa, incitò i ragazzi del paese dominato dall'impero criminale: "Cacciateli! Non sono di questa terra, la stuprano, la usano. Schiavone, Bidognetti, Zagaria: voi non valete niente". Era il 23 settembre, il ventesimo anniversario dell'assassinio di un giornalista coraggioso, Giancarlo Siani, e Gomorra aveva venduto 80mila copie in appena qualche mese. Ma tra la folla, quel giorno, ciondolavano anche i figli di quei padrini: per la prima volta chiamati per nome, esposti al pubblico anatema. Trafitti dalle parole, per una volta.

Ora lo scrittore Saviano, l'aria da universitario fuoricorso, è al centro di un exploit che ha superato in Italia le 800mila copie e si appresta a replicare in Europa (circa 90mila copie vendute in Germania in 10 giorni, mentre è in preparazione un tour negli Usa). Forse a 28 anni si può davvero non provare paura?

Saviano sorride, tenta di dissimulare il privato e di non prendersi sul serio: "Ci sono in Italia grandi cancri rimossi. Posti dove non la mafia e la criminalità organizzata non uccidono, non fanno rumore, non fanno una piega. Dove scorre meno sangue di anni fa, ma si decidono strategie economiche. Posti come Casal di Principe, come Platì. Posti che la politica rimuove. Bisognerebbe ascoltare le parole di Franco Roberti, procuratore aggiunto antimafia a Napoli, che chiede maggiori risorse per le indagini economiche. Mi piacerebbe che la sinistra cominciasse daccapo. Mi piacerebbe che la destra potesse riprendere quella vocazione antimafia che fu del Msi, e che in molta parte del sud riuscì ad essere riferimento e in cui si riconosceva anche Paolo Borsellino, quando provava a individuare e fermare i rapporti tra clan e politica".

Domani, avrà i ragazzi di Casal di Principe ad ascoltarlo, ragazzi come è stato lui a Casale, posto di connivenze e intrecci sì, ma anche radice di una mobilitazione antimafia che portò all'assassinio di don Peppe Diana, sacerdote ucciso il 19 marzo del 1993 dai clan locali perché aveva urlato dal pulpito contro il potere mafioso; memoria di un martire che la Chiesa ufficiale continua a onorare a metà, con malcelato imbarazzo, perché quel sacerdote coraggioso era troppo giovane, magari troppo amico di ragazze e ragazzi, troppo incline alla "politica" d'una spiritualità militante.

E' a quei ragazzi cresciuti con l'ombra dei casalesi e il mito di don Peppe che si rivolge, domani, Saviano: "Mi piacerebbe raccontargli di come ci sia un unico principio per cui vale la pena combattere i clan: il diritto alla felicità. Non mi piace andare a parlare di legalità con slogan morali. Lontani dai clan si vive meglio, pretendere che non abbiano potere significa decidere della propria esistenza. Significa non crepare nei cantieri, non essere costretti ad emigrare. Io stesso riconosco il fascino che i boss hanno, le loro vite costruite come leggende. Ma è importante riconoscere questo fascino e smontarlo. Torno a Casale per dire che non c'è da aver paura. I nomi possono essere fatti e si può raccontare, capire". Già, dopo le minacce e le tensioni, i boss non possono pensare di averlo cacciato.

"Il vaccino è comprendere. Poi ognuno deciderà come agire - spiega il giovane Roberto - Ma bisogna guardare oltre. Casal di Principe, Platì. Oggi sono queste le trincee in cui misurarsi".


(16 settembre 2007)

da repubblica.it


Titolo: Saviano torna a Casal di Principe: contestato (Alcuni: La camorra non esiste...)
Inserito da: Admin - Settembre 19, 2007, 12:17:01 am
Con lui anche il presidente della Camera Bertinotti

Saviano torna a Casal di Principe: contestato

Il ritorno a un anno dall'anatema contro i boss dei Casalesi.

Lo scrittore è sotto scorta. Alcuni in piazza: «La camorra non esiste»

 
CASAL DI PRINCIPE - A un anno dall'anatema «Non valete niente» lanciato contro i boss dei clan dei Casalesi, lo scrittore Roberto Saviano, autore di 'Gomorra', è tornato nel suo paese, Casal di Principe, per una nuova iniziativa anticamorra assieme al Presidente della Camera, Fausto Bertinotti, in occasione dell'inaugurazione dell'anno scolastico in Campania.

A differenza di un anno fa, però, Saviano è arrivato sotto scorta di sicurezza e prima che prendesse la parola l'assessore regionale all'istruzione, Corrado Gabriele, ha voluto far presente ai molti giovani venuti da varie parti della regione che davanti al palco c'erano due sedie lasciate simbolicamente vuote: «Queste sedie sono il banco degli imputati per Antonio Iovine e Michele Zagaria, che vorremmo vedere qui seduti con un bel paio di manette, perchè sono loro i principali responsabili di un Mezzogiorno che non funziona». Saviano ha ricordato che per troppo tempo c'è stata una cappa di silenzio sulla realtà di Casal di Principe: «Chi si crede il vero padrone di queste terre vi dirà che questa è soltanto una parata, che non serve a niente, perchè poi non accade nulla e costoro addirittura non si riconoscono nel termine camorrista, ma si considerano degli imprenditori. Dicono di essere degli imprenditori che usano tutti gli strumenti per poter raggiungere il loro obiettivo».

La malavita organizzata di questa parte della Campania, denuncia Saviano, non ha a che fare tanto con il narcotraffico o altri settori tradizionali della mafia, ma piuttosto con il cemento, come ha dimostrato il processo 'Spartacus', che «per il suo primo grado ha però trovato spazio soltanto tra le brevissime nei giornali nazionali».

Per Saviano, la battaglia a questo tipo di camorra deve partire da uno «sguardo nuovo sul meccanismo economico e imprenditoriale. Il silenzio che troppo spesso ha coperto queste dinamiche in questa terra è un silenzio colpevole, che ha lasciato sole moltissime persone. Occorre che questo silenzio venga riscattato». Per Saviano, insomma, c'è il rischio di non parlare abbastanza di camorra e mafia e di fare antimafia in maniera troppo generica: «Anche i giovani di Casal di Principe hanno diritto alla felicità ed in queste terre ciò significa poter lavorare senza la pressione continua del precariato, che nasce anche per volontà dei clan camorristi».

Agli applausi e al sostengo di molti dei suoi concittadini ha fatto eco negativa l'atteggiamento di alcuni definitisi «giovani imprenditori», che dal fondo della piazza dove si svolgeva la manifestazione hanno contestato lo scrittore anticamorra e anche applaudito ironicamente alcuni passaggi del discorso del Presidente della Camera. Sono quegli stessi che nei giorni che hanno preceduto il ritorno di Saviano hanno ripetuto che non c'era bisogno della sua presenza in paese, perchè Saviano intendeva unicamente fare pubblicità a se stesso e parlare male della sua terra. Ai giornalisti alcuni di questi «imprenditori» hanno ripetuto la solita litania: «La camorra non esiste, Saviano non ha subito minacce, vuole soltanto essere eletto deputato».

18 settembre 2007
 
da corriere.it


Titolo: ROBERTO SAVIANO - Imprese, politici e camorra ecco i colpevoli della peste
Inserito da: Admin - Gennaio 05, 2008, 06:34:01 pm
CRONACA

J'accuse dell'autore di Gomorra: la tragedia è che Napoli si sta rassegnando all'avvelenamento

Imprese, politici e camorra ecco i colpevoli della peste

Gli ultimi dati dell'Oms parlano di un aumento vertiginoso, oltre la media nazionale, dei casi di tumore a pancreas e polmoni

di ROBERTO SAVIANO

 
Roberto Saviano è l'autore di Gomorra, il best-seller che racconta un viaggio nell'impero economico e nel sogno di dominio della camorra
È UN territorio che non esce dalla notte. E che non troverà soluzione. Quello che sta accadendo è grave, perché divengono straordinari i diritti più semplici: avere una strada accessibile, respirare aria non marcia, vivere con speranze di vita nella media di un paese europeo. Vivere senza dovere avere l'ossessione di emigrare o di arruolarsi.

E' una notte cupa quella che cala su queste terre, perché morire divorati dal cancro diviene qualcosa che somiglia ad un destino condiviso e inevitabile come il nascere e il morire, perché chi amministra continua a parlare di cultura e democrazia elettorale, comete più vane delle discussioni bizantine e chi è all'opposizione sembra divorato dal terrore di non partecipare agli affari piuttosto che interessato a modificarne i meccanismi.

Si muore di una peste silenziosa che ti nasce in corpo dove vivi e ti porta a finire nei reparti oncologici di mezza Italia. Gli ultimi dati pubblicati dall'Organizzazione Mondiale della Sanità mostrano che la situazione campana è incredibile, parlano di un aumento vertiginoso delle patologie di cancro. Pancreas, polmoni, dotti biliari più del 12% rispetto alla media nazionale. La rivista medica The Lancet Oncology già nel settembre 2004 parlava di un aumento del 24% dei tumori al fegato nei territori delle discariche e le donne sono le più colpite. Val la pena ricordare che il dato nelle zone più a rischio del nord Italia è un aumento del 14%.

Ma forse queste vicende avvengono in un altro paese. Perché chi governa e chi è all'opposizione, chi racconta e chi discute, vive in un altro paese. Perché se vivessero nello stesso paese sarebbe impensabile accorgersi di tutto questo solo quando le strade sono colme di rifiuti. Forse accadeva in un altro paese che il presidente della Commissione Affari Generali della Regione Campania fosse proprietario di un'impresa - l'Ecocampania - che raccoglieva rifiuti in ogni angolo della regione e oltre, e non avesse il certificato antimafia.

Eppure non avviene in un altro paese che i rifiuti sono un enorme business. Ci guadagnano tutti: è una risorsa per le imprese, per la politica, per i clan, una risorsa pagata maciullando i corpi e avvelenando le terre. Guadagnano le imprese di raccolta: oggi le imprese di raccolta rifiuti campane sono tra le migliori in Italia e addirittura capaci di entrare in relazione con i più importanti gruppi di raccolta rifiuti del mondo. Le imprese di rifiuti napoletane infatti sono le uniche italiane a far parte della EMAS, francese, un Sistema di Gestione Ambientale, con lo scopo di prevenire e ridurre gli impatti ambientali legati alle attività che si esercitano sul territorio.

Se si va in Liguria o in Piemonte numerosissime attività che vengono gestite da società campane operano secondo tutti i criteri normativi e nel miglior modo possibile. A nord si pulisce, si raccoglie, si è in equilibrio con l'ambiente, a sud si sotterra, si lercia, si brucia. Guadagna la politica perché come dimostra l'inchiesta dei Pm Milita e Cantone, dell'antimafia di Napoli sui fratelli Orsi (imprenditori passati dal centrodestra al centrosinistra) in questo momento il meccanismo criminogeno attraverso cui si fondono tre poteri: politico imprenditoriale e camorristico - è il sistema dei consorzi.

Il Consorzio privato-pubblico rappresenta il sistema ideale per aggirare tutti i meccanismi di controllo. Nella pratica è servito a creare situazioni di monopolio sulla scelta di imprenditori spesso erano vicino alla camorra. Gli imprenditori hanno ritenuto che la società pubblica avesse diritto a fare la raccolta rifiuti in tutti i comuni della realtà consorziale, di diritto. Questo ha avuto come effetto pratico di avere situazioni di monopolio e di guadagno enorme che in passato non esistevano. Nel caso dell'inchiesta di Milite e Cantone accadde che il Consorzio acquistò per una cifra enorme e gonfiata (circa nove milioni di euro) attraverso fatturazioni false la società di raccolta ECO4. I privati tennero per se gli utili e scaricarono sul Consorzio le perdite. La politica ha tratto dal sistema dei consorzi 13.000 voti e 9 milioni di euro all'anno, mentre il fatturato dei clan è stato di 6 miliardi di euro in due anni.

Ma guadagnano cifre immense anche i proprietari delle discariche come dimostra il caso di Cipriano Chianese, un avvocato imprenditore di un paesino, Parete, il suo feudo. Aveva gestito per anni la Setri, società specializzata nel trasporto di rifiuti speciali dall'estero: da ogni parte d'Europa trasferiva rifiuti a Giugliano-Villaricca, trasporti irregolari senza aver mai avuto l'autorizzazione dalla Regione. Aveva però l'unica autorizzazione necessaria, quella della camorra.

Accusato dai pm antimafia Raffaele Marino, Alessandro Milita e Giuseppe Narducci di concorso esterno in associazione camorristica ed estorsione aggravata e continuata, è l'unico destinatario della misura cautelare firmata dal gip di Napoli. Al centro dell'inchiesta la gestione delle cave X e Z, discariche abusive di località Scafarea, a Giugliano, di proprietà della Resit ed acquisite dal Commissariato di governo durante l'emergenza rifiuti del 2003. Chianese - secondo le accuse - è uno di quegli imprenditori in grado di sfruttare l'emergenza e quindi riuscì con l'attività di smaltimento della sua Resit a fatturare al Commissariato straordinario un importo di oltre 35 milioni di euro, per il solo periodo compreso tra il 2001 e il 2003.

Gli impianti utilizzati da Chianese avrebbero dovuto essere chiusi e bonificati. Invece sono divenute miniere in tempo di emergenza. Grazie all'amicizia con alcuni esponenti del clan dei Casalesi, hanno raccontato i collaboratori di giustizia, Chianese aveva acquistato a prezzi stracciati terreni e fabbricati di valore, aveva ottenuto l'appoggio elettorale nelle politiche del 1994 (candidato nelle liste di Forza Italia, non fu eletto) e il nulla osta allo smaltimento dei rifiuti sul territorio del clan.

La Procura ha posto sotto sequestro preventivo i beni riconducibili all'avvocato-imprenditore di Parete: complessi turistici e discoteche a Formia e Gaeta oltre che di numerosi appartamenti tra Napoli e Caserta. L'emergenza di allora, la città colma di rifiuti, i cassonetti traboccanti, le proteste, i politici sotto elezione hanno trovato nella Resit con sede in località Tre Ponti, al confine tra Parete e Giugliano, la loro soluzione.

Sullo smaltimento dei rifiuti in Campania ci guadagnano le imprese del nord-est. Come ha dimostrato l'operazione Houdini del 2004, il costo di mercato per smaltire correttamente i rifiuti tossici imponeva prezzi che andavano dai 21 centesimi a 62 centesimi al chilo. I clan fornivano lo stesso servizio a 9 o 10 centesimi al chilo. I clan di camorra sono riusciti a garantire che 800 tonnellate di terre contaminate da idrocarburi, proprietà di un'azienda chimica, fossero trattate al prezzo di 25 centesimi al chilo, trasporto compreso. Un risparmio dell'80% sui prezzi ordinari.

Se i rifiuti illegali gestiti dai clan fossero accorpati diverrebbero una montagna di 14.600 metri con una base di tre ettari, sarebbe la più grande montagna esistente ma sulla terra. Persino alla Moby Prince, il traghetto che prese fuoco e che nessuno voleva smaltire, i clan non hanno detto di no.

Secondo Legambiente è stata smaltita nelle discariche del casertano, sezionata e lasciata marcire in campagne e discariche. In questo paese bisognerebbe far conoscere Biùtiful cauntri (scritto alla napoletana) un documentario di Esmeralda Calabria, Andrea D'Ambrosio e Peppe Ruggiero: vedere il veleno che da ogni angolo d'Italia è stato intombati a sud massacrando pecore e bufale e facendo uscire puzza di acido dal cuore delle pesche e delle mele annurche. Ma forse è in un altro paese che si conoscono i volti di chi ha avvelenato questa terra.

E' in un altro paese che i nomi dei responsabili si conoscono eppure ciò non basta a renderli colpevoli. E' in un altro paese che la maggiore forza economica è il crimine organizzato eppure l'ossessione dell'informazione resta la politica che riempie il dibattito quotidiano di intenzioni polemiche, mentre i clan che distruggono e costruiscono il paese lo fanno senza che ci sia un reale contrasto da parte dell'informazione, troppo episodica, troppo distratta sui meccanismi.

Non è affatto la camorra ad aver innescato quest'emergenza. La camorra non ha piacere in creare emergenze, la camorra non ne ha bisogno, i suoi interessi e guadagni sui rifiuti come su tutto il resto li fa sempre, li fa comunque, col sole e con la pioggia, con l'emergenza e con l'apparente normalità, quando segue meglio i propri interessi e nessuno si interessa del suo territorio, quando il resto del paese gli affida i propri veleni per un costo imbattibile e crede di potersene lavare le mani e dormire sonni tranquilli.

Quando si getta qualcosa nell'immondizia, lì nel secchio sotto il lavandino in cucina, o si chiude il sacchetto nero bisogna pensare che non si trasformerà in concime, in compost, in materia fetosa che ingozzerà topi e gabbiani ma si trasformerà direttamente in azioni societarie, capitali, squadre di calcio, palazzi, flussi finanziari, imprese, voti. E dall'emergenza non si vuole e non si po' uscire perché è uno dei momenti in cui si guadagna di più.

L'emergenza non è mai creata direttamente dai clan, ma il problema è che la politica degli ultimi anni non è riuscita a chiudere il ciclo dei rifiuti. Le discariche si esauriscono. Si è finto di non capire che fino a quando sarebbe finito tutto in discarica non si poteva non arrivare ad una situazione di saturazione. In discarica dovrebbe andare pochissimo, invece quando tutto viene smaltito lì, la discarica si intasa.

Ciò che rende tragico tutto questo è che non sono questi i giorni ad essere compromessi, non sono le strade che oggi solo colpite delle "sacchette" di spazzatura a subire danno. Sono le nuove generazioni ad essere danneggiate. Il futuro stesso è compromesso. Chi nasce neanche potrà più tentare di cambiare quello che chi li ha preceduti non è riuscito a fermare e a mutare. L'80 per cento delle malformazioni fetali in più rispetto alla media nazionale avvengono in queste terre martoriate.

Varrebbe la pena ricordare la lezione di Beowulf, l'eroe epico che strappa le braccia all'Orco che appestava la Danimarca: "il nemico più scaltro non è colui che ti porta via tutto, ma colui che lentamente ti abitua a non avere più nulla". Proprio così, abituarsi a non avere il diritto di vivere nella propria terra, di capire quello che sta accadendo, di decidere di se stessi. Abituarsi a non avere più nulla.


(5 gennaio 2008)

da repubblica.it


Titolo: Franco Roberti, capo del pool anticamorra di Napoli: 15 anni fa tutto già chiaro
Inserito da: Admin - Gennaio 06, 2008, 04:26:25 pm
CRONACA

L'intervista.

Franco Roberti, capo del pool anticamorra della procura di Napoli: 15 anni fa tutto già chiaro

"Quando quel boss mi disse: per noi la monnezza è oro"

"Dice bene Saviano: indagare sul sistema dei consorzi tra pubblico e privato"

di GIOVANNI MARINO


NAPOLI - Fu il primo a capirlo. Il primo a riceverne diretta conferma. "Dotto', non faccio più droga. No, adesso ho un altro affare. Rende di più e soprattutto si rischia molto meno. Si chiama monnezza, dotto'. Perché per noi la monnezza è oro". Il procuratore Franco Roberti ascoltò quelle parole nel carcere di Vicenza, dicembre 1992. Lì il boss del Rione Traiano, Nunzio Perrella, aveva deciso di pentirsi.

"L'inchiesta che ne derivò - ricorda il capo del pool anticamorra della Procura di Napoli - svelò come le cosche lucravano sui rifiuti. C'era tutto già allora: imprese mafiose mascherate, amministratori corrotti dalle tangenti, controlli inesistenti, territori avvelenati. Un segnale d'allarme che non fu colto dalla politica".

Squilla il telefono al dodicesimo piano del grattacielo dei pm. È un sabato di lavoro, perché la camorra non si ferma per i week-end. Ventiquattr'ore prima c'è stato un delitto: 10 colpi contro un pregiudicato. Roberti risponde, dà direttive. Quindi riprende: "Assisto a uno scaricabarile vergognoso, se Napoli nel 2008 rappresenta questo scenario apocalittico nessuno può dirsi immune da colpe".

Procuratore Roberti, perché per la camorra è meno rischioso e più redditizio infiltrarsi nel settore dei rifiuti?
"Perché i rifiuti sono una emergenza infinita. E dove c'è una emergenza c'è il crimine organizzato. Perché emergenza è, giocoforza, sinonimo di attenuazione o evanescenza dei controlli di legalità: si rischia meno e si guadagna di più. Lo scrittore Saviano, ieri su Repubblica, ha illustrato come agiscono i camorristi".

Saviano parla del sistema dei consorzi, vero cavallo di Troia per entrare nel business dell'immondizia.
"I consorzi pubblico-privato, già. È stato da noi accertato che nella provincia di Caserta un consorzio, un esponente del Commissariato ai rifiuti e le cosche facevano affari. Lo scrittore ha pertinentemente citato, poi, il fatto che questo intreccio di illegalità ha scaricato sulla gestione commissariale un costo di nove milioni di euro. Una bella cifra, ma poco rispetto al business illegale reale".

Ha una stima del guadagno illecito?
"Cifre enormi. Solo per avvicinarci basti pensare a quanto c'è in ballo: scrive la commissione bicamerale d'inchiesta guidata dal senatore Barbieri che a oggi il costo totale della prima fase del ciclo dei rifiuti si aggira tra i 500 e i 600 milioni di euro l'anno. Ragionando solo su questo dato si ha una idea del profitto che i clan traggono".

Ma dove più s'infiltrano?
"Le cosche sono dappertutto nell'emergenza rifiuti: nella prima fase, in quella intermedia, nella finale".

Chi è il padrino dei rifiuti?
"La cosca dei Casalesi su tutti. In città, i clan di Rione Traiano e di Pianura".

Pianura, dove molti dicono che c'è la camorra a spingere perché prevalga la violenza.
"La camorra ha interesse ad agitare la protesta e a mantenere la situazione emergenziale che le porta guadagni".

Cosa fare per uscire dai giorni più bui di Napoli?
"Primo: investire il governo della questione con totale assunzione di responsabilità. Sinora con il Commissariato si è verificata una delega piena a livello locale ma il Commissariato si è rivelato un carrozzone capace di inghiottire cifre spaventose senza risolvere il problema, anzi, aggravandolo. Secondo: bisogna realizzare subito il termovalorizzatore. Possibile che manchi ancora il 15 per cento della sua costruzione? E la raccolta differenziata: 150 Comuni campani sono in linea con la media nazionale, perché gli altri non lo sono?".

Perché sinora tutto ciò non si è fatto?
"Perché per fare certe scelte in politica bisogna assumersi sino in fondo le proprie responsabilità, anche a costo di rischiare la poltrona e il consenso elettorale".

E la magistratura poteva fare di più?
"Non su questo. Siamo stati i primi, nessuno ha voluto trarne insegnamento. Al punto che ora stiamo pensando di attivare un circuito informativo più forte. Noi siamo legati al segreto ma l'articolo 118 del codice di procedura penale ci consente di informare in via riservata il ministro dell'Interno di fatti indispensabili per la prevenzione dei delitti più gravi".

L'opposizione chiede le dimissioni di Bassolino e Iervolino.
"Dico solo che se un politico ammette le proprie responsabilità dovrebbe poi trarne le conseguenze. Ma basta polemiche. Cito Machiavelli: scrivendo di Napoli disse che ci sarebbe voluta la "mano regia": un potere irresistibile per ripristinare ordine e legalità. Roma si muova, non c'è più tempo".

(6 gennaio 2008)

da repubblica.it


Titolo: ROBERTO SAVIANO L'anima perduta nella monnezza di Napoli
Inserito da: Admin - Febbraio 04, 2008, 11:24:37 am
CRONACA IL COMMENTO

L'anima perduta nella monnezza di Napoli

di ROBERTO SAVIANO


NIENTE è cambiato. Si è tentato - tardi, tardissimo - ma non si è risolto nulla. L'esercito, i volontari, la pazienza e le proteste. Ma tutto versa nello stesso stato di prima. O quasi. Il centro e le piazze vengono salvati, si cerca di non farli soffocare dai sacchetti. E nella scelta dei luoghi in cui raccoglierli emerge la differenza fra le zone e le città. Zone dove conviene pulire per evitare che turisti e telecamere arrivino facilmente, strade dove vivono professionisti e assessori. E invece altre dove la spazzatura può continuare ad accumularsi. Tanto lì la monnezza non va in prima pagina. I paesi divengono discariche di fatto. Tutta la provincia è un'ininterrotta distesa di sacchetti. E la rabbia aumenta. Spazzatura ai lati delle strade, o che si gonfia in collinette multicolori fuori dai portoni, dove sono apparse scritte come "non depositare qui sennò non si riesce più a bussare". Niente è cambiato se non l'attenzione. Dalla prima pagina alle cronache locali.

Lentamente tutto questo rischia di divenire abituale, ordinario: la solita monnezza, parte del folklore napoletano, quotidiana come lo scippo, il lungomare e la nostalgia per Maradona. E invece qui è tragedia. Spazzatura ovunque, discariche satolle, gonfie, marce. Camion stracolmi, in fila. Proteste. E poi dibattiti, indagini, dimissioni, e colpevoli, ecologisti, camorristi, politici, esperti. Maggioranze e opposizioni e cadute di governo. Ma la monnezza resiste a tutto. E continua ad aumentare. La spostano dal centro alla periferia, la spediscono fuori città, qualcosa fuori regione. Però non basta mai, perché quella si riforma, si accumula di nuovo. Tutti pronti a parlare, in un'orchestra che emette suoni talmente confusi da divenire indecifrabili come il silenzio.

Certo risulta difficile credere che se Roma, Firenze, Milano o Venezia si fossero trovate in una situazione simile avrebbero continuato a far marcire i sacchetti nelle loro piazze, a tenersi strade bordate di pannolini e bucce di banana, a lasciar invadere l'aria dall'odore putrescente degli scarti di pesce. Difficile immaginare che in una di queste città la notte girino camion che gettano calce sopra ai cumuli per evitare che le infezioni dilaghino e soprattutto che vengano incendiati.

Il rinascimento napoletano finisce così, coperto di calce. Si sbandierava la rivincita della cultura, ma sotto il tappeto delle mostre, dei convegni e delle parole illuminate le contraddizioni erano pronte a esplodere. Non c'erano solo stuoli di progetti culturali e promozionali per il turismo. Negli ultimi cinque anni sono spuntati in un'area di meno di 15 km enormi centri commerciali. Prima il più grande del Sud Italia nel casertano, poi il più grande di tutt'Italia, poi il più grande d'Europa e da poco uno tra i più grandi al mondo: un'area complessiva di 200.000 mq, con 80 negozi di brand nazionali e internazionali, un ipermercato, 25 ristoranti e bar, una multisala cinematografica con 11 schermi e 2500 posti a sedere.

Ultimo arrivato, a Nola, il Vulcano Buono progettato da Renzo Piano che ha tratto spunto dall'icona napoletana per antonomasia: il Vesuvio. Una collina artificiale, un'escrescenza del suolo che segue le uniche e sinuose forme del vulcano. Alta 40 metri e con un diametro di oltre 170, un complesso di 150 mila metri quadri coperti e 450 mila in tutto. Si costruiscono centri commerciali come unico modo di far girare soldi. Quali soldi? Le stime dell'Istat segnalano che la Campania cresce meno del resto d'Italia. La regione è mortificata nei settori dell'agricoltura e dell'industria e incapace di compiere il salto di qualità nel comparto dei servizi.

E per quanto riguarda il valore aggiunto pro capite, se la media nazionale s'attesta a 21.806 euro per abitante, al Sud non supera quota 14.528. Keynes diceva che quando l'accumulazione di capitale di un paese diventa il sottoprodotto delle attività di un casinò, è probabile che le cose non vadano bene. Riguardo il nostro paese bisognerebbe sostituire al termine casinò la parola centro commerciale. Così rimangono, tra queste cattedrali di luci e cemento, gli interrogativi di sempre. Perché a Napoli c'è tutta questa spazzatura? Come è possibile quando cose del genere non accadono a Città del Messico e nemmeno a Calcutta o a Giakarta? È incomprensibile. Bisogna quindi essere didascalici. Perché le discariche napoletane sono piene? Semplice. Sono state usate male, malissimo. Sversandoci dentro di tutto, senza controllo.

Chi gestiva le discariche non rispettava i limiti, né le regole riguardo alle tipologie. Somiglianti più a buche fatte male che a strutture per lo sversamento, le discariche si riempivano di percolato divenendo laghi ricolmi di un frullato di schifezze, fogne a cielo a aperto. E così si sono riempite presto, e non solo di rifiuti urbani. Scavare crateri enormi, portare giù il camion e poi, uscito il conducente, saldare le porte del tir e sotterrare: era un classico. Un modo per non toccare i rifiuti nemmeno con un dito. Il tutto dava un guadagno talmente alto da poter sacrificare, intombandoli, interi tir. A Pianura, racconta la gente, c'è persino una carcassa di balena, e a Parete pacchi e pacchi di vecchie lire.

Ma perché i cittadini si ribellano alla riapertura delle discariche? Perché sembrano così folli da preferire i sacchetti che da circa due mesi hanno davanti a casa? Perché temono che insieme a quelli che dovrebbero essere solo rifiuti solidi urbani invece arrivino anche i veleni. Eppure ricevono le massime garanzie che la loro situazione non peggiorerà. Ma da chi le ricevono? Da coloro di cui non si fidano più. Da coloro che hanno sempre appaltato lo smaltimento a ditte colluse, a uomini imposti dai clan di camorra. E chi deciderà quindi davvero la sorte dei rifiuti? Come sempre i clan.

A loro non ci si può ribellare. Ma siccome allo Stato invece sì, spesso contando su una buona dose di pazienza dei reparti antisommossa, si fa ostruzione alle sue decisioni perché non accada poi che si inneschino i consueti accordi. Si preferisce rinunciare persino agli aiuti economici destinati a chi vive nei pressi della discarica, piuttosto che correre il rischio di finire marci di cancro per qualche sostanza intombata di nascosto. Certo, tra i manifestanti ci sono anche i ragazzotti dei clan pagati 100 euro al giorno per far chiasso, bloccare strade, saper lanciare porfido e caricare. Ma loro rendono soltanto esasperate paure che invece sobbollono in tutti. E le rendono isteriche perché più spazzatura ci sarà, meno controlli ci saranno per le ditte pagate per raccoglierla e più l'uso dei macchinari in mano ai clan sarà abbondante.

E più le discariche saranno bloccate, meglio si potranno infiltrare camion colmi di rifiuti speciali da nascondere mentre quelli bloccati fuori fanno da copertura. E i consorzi e la politica? I consorzi che gestivano i rifiuti lo facevano per conto di imprenditori e boss, mentre la responsabilità della politica locale e nazionale stava nella solita logica di non affidare posti a chi aveva competenze tecniche, bensì ai soliti personaggi con il solo requisito di essere in quota ai partiti. Quanti posti di lavoro distribuiti in periodi preelettorali, in strutture dove la raccolta dei rifiuti o la differenziata rappresentavano puramente un alibi. Perché non si è fatto nulla? Perché l'emergenza fa arrivare soldi a tutti. E quindi di emergenza si vive.

Finita l'emergenza, finiti i soldi. Bisognava forse ribellarsi anche nei giorni in cui i clan prendevano terre. E il termovalorizzatore di Acerra su cui tanto si discute, che per anni non è stato costruito e ora lentamente sta per realizzarsi? Quel genere di impianto non è dannoso, dichiarano gli oncologi, al centro di Vienna uno simile è persino divenuto un palazzo prestigioso. Certo. Ma in un territorio dove l'indice di mortalità per cancro svetta al 38.4%, chi rassicura la gente che negli impianti verrà bruciato solo quel che si deve? Quale politica saprà mantenere la promessa di massimo controllo in una terra che è stata definita la Cernobyl d'Italia? Il centrosinistra ha creduto di essere immune dalle infiltrazioni camorristiche perché la questione camorra riguardava l'altra parte. Ma non era così. Le porte dei circoli della sinistra si sono aperte ai clan mai come in questi ultimi anni.

E il crimine è stato percepito come un male naturale, fisiologico. La politica ha continuato a presentarsi sempre più come qualcosa di indistinto con l'affare e il crimine. Destra e sinistra uguali, basta mangiare. Il qualunquismo italiano forse non è mai stato così sostenuto dall'esperienza. E oggi occupano, bloccano, non collaborano perché non si fidano più di nessuno.
Non c'è altro da dire e da fare. Togliere, togliere la monnezza subito. Non si può più aspettare. Togliere e poi capire chi ha ridotto così questa terra e accorgersi che i meccanismi che qui hanno portato allo scempio totale sono gli stessi che governano in modo meno mostruosamente suicida l'intero paese. In questi giorni mi è venuta in mente una scena di un racconto di Salamov, forse il più grande narratore dell'aberrazione del potere totalitario. Quando i soldati sovietici misero in isolamento alcuni prigionieri del gulag, tutti invalidi tranne Salamov, pretesero che consegnassero le loro protesi: busti, dentiere, occhi di vetro, gambe di legno.

A Salamov che non ne aveva, il soldato, scherzando, chiese: "E tu che ci consegni? L'anima?". "No, l'anima non ve la do" rispose. Prese una punizione durissima per aver difeso qualcosa che fino ad allora credeva inesistente. Questo è il momento di capire se ancora abbiamo un'anima, e non farcela togliere come una gamba di legno. Non consegnarla. Prima che non ci restino che protesi.
© 2008 by Roberto Saviano. Published by arrangement
with Roberto Santachiara Literary Agency


(4 febbraio 2008)

da repubblica.it


Titolo: SAVIANO : dico no alla politica che non parla più di mafia
Inserito da: Admin - Marzo 13, 2008, 10:04:51 am
Lo scrittore «Sulla criminalità una rimozione bipartisan»

Saviano: dico no alla politica che non parla più di mafia

«Mi volevano dal Pd ad An. Ma non posso essere di parte»

 
ROMA — Roberto Saviano è ancora un ragazzo. E ogni tanto riesce anche a sorridere, con le labbra che si tendono su una faccia sempre più tesa, sempre più pallida. Quando racconta della presentazione di Gomorra ad Helsinki, con lo speaker che lo introduce come «Roberto Soprano», e i finlandesi che sono lì soltanto per via della serie televisiva americana, riesce pure a ridere di «loro». Li chiama così, «loro». I suoi nemici. Come se fosse una questione personale, tra lui e i mafiosi di Casal di Principe che lo hanno costretto ad una vita infame, da animale braccato.

Quella di Saviano è una storia di paradossi. Con il suo libro ha avuto fama, celebrità, il traguardo del milione di copie vendute tagliato in questi giorni. Con il suo libro ha perso il resto, la libertà personale, la possibilità di vedere il mondo con i propri occhi. «È come se mi sentissi sempre in colpa» sintetizza così il suo stato d'animo, come se qualcuno andasse da sua madre a chiedere «cosa ha fatto tuo figlio?» Ad un certo punto, Saviano si era anche convinto che in Italia ci fosse qualcuno disposto a condividere la sua ossessione.

Da Walter Veltroni alla Sinistra Arcobaleno, passando per il Popolo della Libertà, sponda An, tutti hanno cercato l'autore di Gomorra, blandendolo con la lotta al potere mafioso. «Ma non è il mio mestiere. Non si può parlare di mafia ad una sola parte politica. È un argomento sul quale non ci si può permettere di essere partigiani. La mia responsabilità è la parola ». Chi è stato il più insistente? «Quando Veltroni mi ha chiamato nel suo ufficio al Campidoglio, abbiamo parlato a lungo di mafia e appalti. Mi disse che quello sarebbe stato uno dei primi punti della sua agenda». Promessa mantenuta? «Non mi sembra. Ma il Pd è in buona compagnia. Purtroppo, la lotta alla mafia è la grande assente di questa campagna elettorale, a sinistra come a destra». Altri pretendenti? «Fausto Bertinotti mi ha fatto arrivare una proposta tramite l'assessore regionale campano Corrado Gabriele. Io ho molto apprezzato il lavoro di Forgione alla commissione antimafia, ma credo che anche la sinistra debba fare outing, e ammettere di non essere stata così rigorosa nell'allontanare gli affaristi collusi con la mafia». Avanti con l'elenco delle avances. «Alleanza nazionale mi ha mandato messaggi di apprezzamento. Persino l'Udeur prima che si dissolvesse». Destra, sinistra, centro. «Io sono cresciuto in una terra dove Pci e Msi stavano dalla stessa parte, contro la camorra. E vorrei tanto che il centrodestra riprendesse i valori dell'antimafia, quelli che aveva Giorgio Almirante e che avevano ispirato Paolo Borsellino. Li vedo trascurati, nonostante una base che al Sud ha voglia di sentirli affermare».

A sentirla, non sembra che il Pd sia molto più attivo. «Affatto. Anzi, a Veltroni ho detto che a mio parere anche il centrosinistra ha commesso molti errori in questi anni». Il più grande? «L'intellighenzia di sinistra dà sempre per scontato che la mafia stia dal-l'altra parte. Il complesso di superiorità applicato alla criminalità organizzata. Credersi immune dalle infiltrazioni, pensare che questo sia sempre e solo un problema degli altri. Le dico di più: spero che il Pd riesca a non aver paura di perdere le elezioni pur di cambiare. Solo così potrà davvero vincere». Dove vuole arrivare? «Spero che non abbia paura di parlare del voto di scambio, di denunciarlo. Fino ad ora non lo ha fatto nessuno. Ed è il voto di scambio che determinerà l'esito delle prossime elezioni. Si vince o si perde nei piccoli paesi, dove il clientelismo è l'unica moneta corrente. Si vincono le elezioni per bollette pagate, cellulari regalati, di questo bisogna parlare. La vera sfida sarebbe quella di non svendere il voto. E alzare la voce, denunciare». E invece? «Il grande silenzio. La mafia è la più grande azienda italiana, il suo giro d'affari è il triplo di quello della Fiat. È innaturale che non se ne parli in campagna elettorale. Ma è così. Al massimo qualche cosa simbolica, una celebrazione, qualche commemorazione. Una rimozione bipartisan».

Si è chiesto il perché? «È un tema pericoloso sul piano della comunicazione. Se qualcuno parla di mafia, molta gente pensa che si stia occupando soltanto di una parte ben circoscritta del Paese, che si interessi di cose ai margini, lontane. Nessuno è riuscito a far passare l'idea che la mafia sia qualcosa che riguarda anche Milano, Parma, Roma, Torino. È tornata ad essere un fatto esotico, lontano, noioso». «Non valete niente». Era il 23 settembre 2006 quando sfidò i boss di Casal di Principe a casa loro. Lo rifarebbe? «A vedermi da fuori, come se non fossi stato io, lo rifarei. Ma sarei falso se non dicessi che con quel gesto ho distrutto la mia vita. Mi è diventato impossibile vedere il mondo, confrontarmi con altre persone, poter sbagliare. Sono diventato un simbolo, ma in cambio ho perso tutto». Quando ha scritto Gomorra, cosa si aspettava? «Confesso l'ambizione. Volevo fare un libro che davvero cambiasse le cose. All'inizio, la camorra lo ignorò. I miei problemi cominciarono verso le centomila copie. La gente pensa che io sono come Salman Rushdie, colpito da una fatwa della camorra. Ma non è così. Lui rischia per quel che scrive, io perché mi leggono. Non è Saviano ad essere pericoloso, ma Gomorra e i suoi lettori».

Il disinteresse della politica rende più difficile la sua situazione? «Acuisce la solitudine, questo sì. Gomorra ha fatto sì che la letteratura diventasse un problema per la mafia. Parlarne è un modo per fermarli. Perché la politica non fa lo stesso? È come se questo paese non accettasse di essere raccontato così. Ma è il silenzio che ci distrugge». Se pensa al suo futuro, cosa immagina? «Spero di riavere la mia libertà, un giorno. Come un ragazzino, immagino di aprire la porta e poter camminare in strada, da solo. Ma è solo un sogno». E la realtà? «Me la faranno pagare. Troveranno un modo per colpirmi. Prima con la diffamazione, diranno che è tutto falso, l'operazione di un ragazzotto assetato di visibilità. Poi chissà. È l'unica certezza che ho».

Marco Imarisio
13 marzo 2008

da corriere.it


Titolo: SAVIANO : Se un voto si compra con cinquanta euro
Inserito da: Admin - Marzo 16, 2008, 12:37:15 am
CRONACA

L'autore di "Gomorra" e le elezioni: nessuno vincerà se si ignora la criminalità organizzata

"Le mafie dominano un terzo del Paese e condizionano interi settori dell'economia legale"

Se un voto si compra con cinquanta euro

di ROBERTO SAVIANO

 

NESSUNO vincerà le elezioni in Italia. Nessuno. Perché finora tutti sembrano ignorare una questione fondamentale che si chiama "organizzazioni criminali" e ancor più "economia criminale". Non molto tempo fa il rapporto di Confesercenti valutò il fatturato delle mafie intorno a 90 miliardi di euro, pari al 7 per cento del Pil, l'equivalente di cinque manovre finanziarie. Il titolo "La mafia s. p. a. è la più grande impresa italiana" fece il giro di tutti i giornali del mondo, eppure in campagna elettorale nessuno ne ha parlato ancora.

E nessuna parte politica sino a oggi è riuscita a prescindere dalla relazione con il potere economico dei clan. Mettersi contro di loro significa non solo perdere consenso e voti, ma anche avere difficoltà a realizzare opere pubbliche.

Non le vincerà nessuno, queste elezioni. Perché se non si affronta subito la questione delle mafie le vinceranno sempre loro. Indipendentemente da quale schieramento governerà il paese. Sono già pronte, hanno già individuato con quali politici accordarsi, in entrambi i schieramenti. Non c'è elezione in Italia che non si vinca attraverso il voto di scambio, un'arma formidabile al sud dove la disoccupazione è alta e dopo decenni ricompare persino l'emigrazione verso l'estero. E' cosa risaputa ma che nessuno osa affrontare.

Quando ero ragazzino il voto di scambio era più redditizio. Un voto: un posto di lavoro. Alle poste, ai ministeri, ma anche a scuola, negli ospedali, negli uffici comunali. Mentre crescevo il voto è stato venduto per molto meno. Bollette del telefono e della luce pagate per i due mesi precedenti alle elezioni e per il mese successivo. Nelle penultime la novità era il cellulare. Ti regalavano un telefonino modificato per fotografare la scheda in cabina senza far sentire il click. Solo i più fortunati ottenevano un lavoro a tempo determinato.

Alle ultime elezioni il valore del voto era sceso a 50 euro. Quasi come al tempo di Achille Lauro, l'imprenditore sindaco di Napoli che negli anni cinquanta regalava pacchi di pasta e la scarpa sinistra di un paio nuovo di zecca, mentre la destra veniva recapitata dopo la vittoria. Oggi si ottengono voti per poco, per pochissimo. La disperazione del meridione che arriva a svendere il proprio voto per 50 euro sembra inversamente proporzionale alla potenza della più grande impresa italiana che lo domina.

Mai come in questi anni la politica in Italia viene unanimemente disprezzata. Dagli italiani è percepita come prosecuzione di affari privati nella sfera pubblica. Ha perso la sua vocazione primaria: creare progetti, stabilire obiettivi, mettere mano con determinazione alla risoluzione dei problemi. Nessuno pretende che possa rigenerarsi nell'arco di una campagna elettorale.

Ma nel vuoto di potere in cui si è fatta serva di maneggi e interessate miopie prevalgono poteri incompatibili con una democrazia avanzata. E' una democrazia avanzata quella in cui 172 amministrazioni comunali negli ultimi anni sono stati sciolti per infiltrazione mafiosa? O dove dal '92 a oggi, le organizzazioni hanno ucciso più di 3.100 persone? Più che a Beirut? Se vuole essere davvero nuovo, il Partito Democratico di Walter Veltroni non abbia paura di cambiare. Non scenda a compromessi per paura di perdere.

Il governo Prodi è caduto in terra di camorra. Ha forse sottovalutato non tanto Clemente Mastella, il leader del piccolo partito Udeur, ma i rischi che comportava l'inserimento nelle liste di una parte dei suoi uomini. Personaggi sconosciuti all'opinione pubblica, ma che negli atti di alcuni magistrati vengono descritti come cerniera tra pubblica amministrazione e criminalità organizzata. Nel frattempo il governo ha permesso al governatore della Campania Bassolino di galleggiare nonostante il suo fallimento nella gestione dell'emergenza rifiuti. E non ha capito che quella situazione rappresenta solo l'esempio più clamoroso di quel che può accadere quando il cedimento anche solo passivo della politica ad interessi criminali porta allo scacco.

Tutto questo mentre il centrodestra guidato da Silvio Berlusconi assisteva muto o giustificatorio ai festeggiamenti del governatore della Sicilia Cuffaro per una condanna che confermava i suoi favori a vantaggio di un boss, limitandosi a scagionarlo dall'accusa di essere lui stesso un mafioso vero e proprio.

La questione della trasparenza tocca tutti i partiti e il paese intero. Inoltre molta militanza antimafiosa si forma nei gruppi di giovani cattolici i cui voti non sempre vanno al centrosinistra. Anche questi elettori dovrebbero pretendere che non siano candidate soubrette o personaggi capaci solo di difendere il proprio interesse. Pretendano gli elettori di centrodestra che non ci siano solo soubrette e a sud esponenti di consorterie imprenditoriali. E mi vengono in mente le parole che Giovanni Paolo II il 9 maggio del 1993 rivolse dalla collina di Agrigento alla Sicilia e all'Italia ferita dalle stragi di mafia: "Questo popolo... talmente attaccato alla vita, che ama la vita, che dà la vita, non può vivere sempre sotto la pressione di una civiltà contraria, civiltà della morte... Mi rivolgo ai responsabili... Un giorno verrà il giudizio di Dio". Parole che avrebbero dovuto crescere nelle coscienze.

È tempo di rendersi conto che la richiesta di candidati non compromessi va ben oltre la questione morale. Strappare la politica al suo connubio con la criminalità organizzata non è una scelta etica, ma una necessità di vitale autodifesa.

Io non entrerò in politica. Il mio mestiere è quello di scrittore. E fin quando riuscirò a scrivere, continuerò a considerare questo lo strumento di impegno più forte che possiedo. Racconto il potere, ma non riuscirei a gestirlo. Non si tratta di rinunciare ad assumersi la propria responsabilità, ma considerarla parte del proprio lavoro. Tentare di impedire che il chiasso delle polemiche distolga l'attenzione verso problemi che meno fanno rumore, più fanno danno. O che le disquisizioni morali coprano le scelte concrete a cui sono chiamati tutti i partiti. È questo il compito che a mio avviso resta nelle mani di un intellettuale. Credo sia giunto il momento di non permettere più che un voto sia comprabile con pochi spiccioli. Che futuri ministri, assessori, sindaci, consiglieri comunali possano ottenere consenso promettendo qualche misero favore. Forse è arrivato il momento di non accontentarci.

Nel 1793 la Costituzione francese aveva previsto il diritto all'insurrezione: forse è il momento di far valere in Italia il diritto alla non sopportazione. A non svendere il proprio voto. A dare ancora un senso alla scelta democratica, scegliendo di non barattare il proprio destino con un cellulare o la luce pagata per qualche mese.

© 2008 by Roberto Saviano
Published by arrangement with Roberto Santachiara Literary Agency


(15 marzo 2008)

da www.repubblica.it


Titolo: Roberto Saviano, a Gomorra si prepara una guerra?
Inserito da: Admin - Maggio 17, 2008, 11:17:00 am
SPETTACOLI & CULTURA

Parla Roberto Saviano, in partenza per Cannes dove verrà presentato il film Gomorra

La cronaca di delitti e vendette continua. "Segnali di morte in risposta alla mobilitazione"

"Cresce la pressione antimafia così esplode la rabbia camorrista"

di CONCHITA SANNINO

 
Roberto Saviano, a Gomorra si prepara una guerra? I casalesi non avevano mai firmato tante azioni di sfida in due settimane.
"L'attenzione mediatica li sta provocando. Li sta facendo impazzire. Reagiscono come se avessero deciso di dimostrare con tutti i loro mezzi che non arretrano di fronte alla mobilitazione dello Stato. Io uccido, dunque esisto. Questo succede, mi sembra".

Roberto Saviano è in partenza per la Croisette, dove il 61esimo Festival di Cannes ospita domani in concorso l'atteso Gomorra, il film di Matteo Garrone tratto dal suo bestseller ("Le scale della passerella? No, grazie: mi piace quando a farle sono gli altri, i divi"). Un clima da corto circuito. Lo spietato racconto su grande schermo viene superato, nelle stesse ore, dalla cronaca di vendette e regolamenti di conti, firmate dalla stessa mafia che va in scena al cinema.

Saviano, l'escalation crea allarme. Prima l'omicidio del padre del collaboratore Bidognetti, poi i timori per l'autobomba al Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, poi le scritte sui muri del paese che ribadiscono le ingiurie contro di lei e la cronista Capacchione. E ancora: l'incendio che devasta la fabbrica di materassi il cui titolare ha denunciato i casalesi e fondato l'associazione antiracket. Infine - ieri - gli atti di vandalismo in una residenza confiscata al clan e l'omicidio di Noviello, un altro imprenditore che si era ribellato al pizzo.
"È l'innalzamento dello scontro. In risposta alla mobilitazione antimafia, i casalesi - meglio: le loro frange oltranziste e kamikaze - mandano segnali di morte. Tolleranza zero. Come se fosse passato il messaggio che l'attenzione è troppa, basta. Basta riflettori accesi da mesi, quelli dell'Italia e dell'estero. Ciò è dovuto anche all'impegno costante e ai continui blitz della Procura antimafia guidata da Franco Roberti, all'attenzione puntata sul processo Spartacus che ormai attende la sua sentenza d'appello, e ai recenti pentimenti. Altro segnale importante è che domani ci sia la Festa della polizia a Casal di Principe, con il prefetto Manganelli".

Lei ha raccontato la micidiale capacità dei casalesi di rendersi invisibili. Prima evitavano stragi e riflettori. Ora affidano agli avvocati lettere di ingiurie da leggere in aula contro i "nemici". E c'è chi dice che nessuno avrebbe potuto scrivere quelle frasi sui muri se non ci fosse stato il placet dei boss latitanti Michele Zagaria e Antonio Iovine. Con l'appoggio dell'ala feroce e cocainomane.
"Su quelle frasi, ho solo una risposta, secca. Continuerò a scrivere, a pensare, e a parlare di Casale. Soprattutto per un motivo: io so che Casal di Principe è anche paese di gente sana, che lavora, che non è collusa, che magari ha solo paura. Io lo so, anche se gli altri, i casalesi di mafia, vogliono e sono convinti di rappresentare il tutto".

Saviano, rifarebbe tutto?
"Temo di sì".

Anche accettare che un rap la sovraesponga e rischi di accendere la tensione?
"Me ne rendo conto. È la contraddizione implicita nell'impegno. Si attiva un circuito mediatico complesso. Da un lato i riflettori si accendono per spingere anche altri a una scelta netta; dall'altro, la mobilitazione innesca nervosismo e reattività dei clan. E la mafia all'improvviso ha urgenza di rispondere. A suo modo".

(17 maggio 2008)

da repubblica.it


Titolo: Roberto SAVIANO: «La Camorra? Un problema europeo»
Inserito da: Admin - Maggio 22, 2008, 11:10:32 pm
Roberto Saviano: «La Camorra? Un problema europeo»

Condannato a morte”, titolava l'Espresso. Sì perché i clan denunciati – facendo nomi e cognomi, nel libro-inchiesta Gomorra – Roberto Saviano nun s''o scordano. Ma il 28enne originario di Casal di Principe, roccaforte della Camorra – pardon di “'O sistema”, come si autodefinisce la criminalità organizzata napoletana – è per il momento reso intoccabile dalla spessissima coltre di interesse mediatico. In Italia, dove la Mondadori si frega le mani con 700mila copie vendute. E in quella Germania sconvolta dal regolamento di conti della 'ndrangheta del ferragosto 2007 proprio nel cortile di casa (sei i morti). E che lo ha eletto a fenomeno letterario della rentrée con centomila copie vendute in tre settimane.
Ora Saviano – minuto, affabile, dallo sguardo reso ancor più acuto dal leggero strabismo – ce l'ho di fronte, nell'attico parigino messogli a disposizione dalla casa editrice Gallimard, che prepara l'uscita in Francia per il 18 ottobre. A breve il ritorno in Italia dove sta lavorando alla sceneggiatura del film che sarà tratto da Gomorra. E poi via negli Stati Uniti per continuare la promozione del libro, i cui diritti sono già stati venduti in 29 paesi. Sempre sotto scorta, sempre oggetto delle minacce di morte dei clan.
Cosa rispondere a chi, in Europa, vede la Camorra come un fenomeno distante, a tratti folkloristico, comunque prettamente italiano?
In realtà non esiste nulla di più internazionale delle organizzazioni criminali. Calabresi e napoletane soprattutto. Per una semplice ragione: loro sono all'avanguardia economico-finanziaria. Mi dispiace soltanto che l'Europa se ne accorga soltanto quando ci sono stragi. Duisburg ha aperto la mente alla Germania e gli sguardi all'Europa. Questo cosa ha comportato? Che la criminalità organizzata forse dopo Duisburg può essere definito un problema europeo e non più soltanto italiano.
I dettagli della rete criminale delle mafie italiane in Europa sarebbero infiniti. Ad Aberdeen in Scozia investe (nel turismo, ndr) il clan La Torre. A Dortmund, Lipsia, e nella Germania dell'Est investono tutti i grandi clan napoletani. Francesco Schiavone “Cicciariello” è stato arrestato in Polonia e investiva anche in Romania. Vincenzo Mazzarella è stato arrestato a Parigi mentre trattava diamanti con i cartelli africani. A Nizza ci sono investimenti nell'edilizia...

Edilizia, diamanti, droga: quali sono i settori più internazionalizzati nella Camorra?
L'investimento nel settore turistico è fondamentale. Le catene di ristoranti restano lo zoccolo duro per l'entrata nel territorio. La 'ndrangheta ha acquistato acciaierie in Russia. La Camorra in Francia insiste molto sui negozi di abbigliamento, investono nei trasporti, nella distribuzione di carburanti. Ci sono le famose “pompe di benzina bianche” che lavorano non con le grandi case come Agip o Kuwait ma che hanno dei marchi di Camorra. Ci sono indagini in corso in questo momento da parte dell'Antimafia di Napoli sul caso italiano ma personalmente credo che vi siano pompe bianche in Francia, Germania e Spagna. La Camorra o la 'ndrangheta non possono investire in settori con elevati rischi di perdita.
Poi, sai, raccontare tutto questo è difficilissimo. E lo strano miracolo di quello che ho fatto – non so neanche se con la volontà di arrivare dove sono arrivato – è stato di portare queste notizie al cuore del lettore attraverso lo strumento letterario. Può sembrare assurdo ma la pericolosità delle parole, oggi, non risiede nella scoperta di un dato o di un'informazione, ma nel fatto che quel racconto, quell'informazione possa da una cittadinanza particolare assurgere a cittadinanza universale. Per intenderci Anna Politkovskaia ha iniziato ad essere davvero pericolosa nella misura in cui ha reso la Cecenia un problema internazionale ed ha reso quelle storie, storie di tutti gli esseri umani. Philip Roth quando gli chiesero chi era il più grande scrittore italiano in assoluto, da Dante alla letteratura contemporanea, rispose: «Primo Levi perché dopo Se questo è un uomo nessuno può più dire di non essere stato ad Auschwitz».
Ma riguardo alla mia vicenda la criminalità credo si sia infastidita non per le informazioni raccolte, ma perchè quelle informazioni siano arrivate, il che è ben diverso. Se fossero rimaste al mio paese o al Sud Italia non ci sarebbe stato nessun problema. Ma che queste parole inizino a rimbalzare sulle lingue di molti, a divenire pensiero di altri, è la cosa più pericolosa in assoluto che possa avvenire a un potere, qualunque esso sia.
In questo caso il potere criminale si basa sempre su un'informazione diffusa – tutti sanno – ma sull'impossibilità di dimostrazione o comunque di racconto. Quando rompi questo strano equilibrio lì hai generato il vero pericolo. E che questo possa avvenire in Europa è esattamente la nuova possibilità di fronteggiare questi poteri. Perché le mafie italiane ormai sono un tutt'uno con le mafie albanesi o nigeriane. Addirittura si sposano tra di loro...
Per esempio?
Il camorrista Augusto La Torre ha sposato un'albanese. C'è una vicenda interessantissima che vede il primo pentito straniero in Italia, un tunisino, essere un affiliato del clan camorristico dei Casalesi. La prima città che la mafia italiana ha dato in completa gestione a un clan straniero è stata Castelvolturno, che è stata concessa ai Rapaci, i clan di Lagos e Benin City in Nigeria. Per il traffico di coca, per il passaggio di prostitute poi inviate in tutta Europa.
Un nuovo feudalesimo?
In qualche modo sì. C'è un incredibile sviluppo economico a fronte di una struttura territoriale lenta, macchinosa. Investono in ogni parte del mondo e alle loro mogli è proibito tingersi i capelli perché considerato erotico... Considerano il Web una nuova piattaforma di investimenti e poi vietano di consumare droga ai loro affiliati. È vietatissimo perché non dev'esserci vizio. «Né drogati né ricchioni», dicono... Frasi che sembrano riportarti in un'epoca buia. Ma quello stesso potere ha capito dieci anni prima della Confindustria che bisogna investire in Cina. È questo bicefalo che li rende imbattibili, però con un tipo di forza che è distruttiva anche per loro. Non c'è boss che riesca a sopravvivere o a sfuggire al carcere...


Titolo: ROBERTO SAVIANO Adesso la camorra dimostra di avere paura della giustizia
Inserito da: Admin - Giugno 02, 2008, 11:51:45 am
CRONACA

IL COLLOQUIO/Lo scrittore: alzano il tiro in vista del processo Spartacus

Adesso la camorra dimostra di avere paura della giustizia

Saviano: "Era il Salvo Lima nei rapporti tra clan e politica"

di ANTONIO TRICOMI

 

NAPOLI - "Michele Orsi era il Salvo Lima della Camorra". Roberto Saviano non ha dubbi. L'omicidio dell'imprenditore trucidato in pieno giorno nel centro di Casal di Principe è un segno: "I casalesi alzano il tiro". Ma anche un messaggio: chi parla muore. "I clan - dice lo scrittore - hanno voluto lanciare un avvertimento ai politici, in vista della chiusura del processo Spartacus, che avverrà nei prossimi giorni". Un evento che per i boss equivale "al maxi-processo di Falcone e Borsellino a Cosa Nostra".

L'imprenditore convinto dai killer a scendere di casa per farsi raggiungere al bar, come fosse una domenica qualsiasi. E ucciso in maniera plateale, due colpi al torace e uno alla testa. La dura, fredda ritualità di Gomorra. Legami tra politica e clan, l'imprenditore in affari con la camorra decide di parlare. E paga con la vita. Visione di sangue perfettamente in linea con lo scenario tracciato dallo scrittore napoletano nel suo best-seller, nello spettacolo teatrale che ne è stato tratto e la cui ideazione è precedente la stesura del libro, nel film di Matteo Garrone accolto con favore dalla Casal di Principe pulita e onesta, dai giovani, dalle famiglie. Ma ieri è stata l'altra Casal di Principe, è stata Gomorra a segnare un punto. Saviano non ha dubbi. "Orsi è stato ucciso perché stava parlando dei rapporti tra il clan dei casalesi e la politica".

Tra pochi giorni, la chiusura del processo Spartacus. Importante e decisivo, sostiene da tempo lo scrittore, come il maxi-processo di Palermo, anche se "inspiegabilmente trascurato dai media nazionali". Il processo Spartacus è il risultato di un'inchiesta sui casalesi condotta, negli anni Novanta, dalla Procura antimafia di Napoli. Indagini alimentate da alcuni pentiti e nel corso delle quali, marzo '94, venne assassinato a Casal di Principe Don Peppino Diana, il sacerdote che dal pulpito evocava l'immagine biblica di Gomorra, emblema della sua terra straziata dalla malavita. Spartacus: diversi filoni processuali, tutti portati al giudizio del Tribunale o della Corte d'Assise di Santa Maria Capua Vetere. Più di mille imputati per appartenenza ad associazione camorristica, omicidi, estorsioni.

Michele Orsi si sarebbe presto aggiunto alla lista dei pentiti. Era, spiega Saviano, "un imprenditore leader nel settore dei rifiuti e faceva affari milionari con i clan, vincendo appalti e coinvolgendo anche la politica nazionale". Un tipico personaggio da Gomorra. Un uomo da bruciare. La sua uccisione, sostiene lo scrittore, riveste particolare gravità. Il segnale di un salto di qualità. "Perché con questo delitto la camorra dimostra di avere paura non solo delle eventuali condanne, ma anche della tensione, dell'attenzione che un processo così importante può attirare, dell'indignazione che può suscitare. La strategia che i clan stanno portando avanti da settimane è quella di colpire chiunque abbia deciso di parlare. Un modo per colpire il futuro attraverso operazioni nel presente".

Niente sconti: chi parla paga. Per Saviano è necessario "fermare le paranze militari che stanno girando nel casertano". "Paranze", termine gergale mutuato dalla tradizione dei pescatori che significa gruppi chiusi di pochi, fidatissimi uomini. Stretti tra loro da un legame che ha la forza di un giuramento di sangue. "Paranze" nelle quali, afferma lo scrittore, "molti elementi fanno pensare che ci siano Giuseppe Setola e Alessandro Cirillo, braccio armato di questa nuova stagione militare dei clan".

(2 giugno 2008)

da repubblica.it


Titolo: ROBERTO SAVIANO - Baricco, chi rosica per Saviano
Inserito da: Admin - Giugno 23, 2008, 10:31:01 am
Baricco, chi rosica per Saviano

di Luca Mastrantonio


Possiamo capire i giornalisti meridionali che fanno un lavoro più oscuro e più rischioso, spesso, di Roberto Saviano. Raccontano la cronaca nera, in zone difficili, senza scorta e senza gloria. Ma che Alessandro Baricco, assiso nel suo piccolo regno sabaudo della Scuola Holden, ostenti di preferire il film di Garrone al romanzo Gomorra, continuando a dare un giudizio grottescamente negativo, è sintomo di disonestà intellettuale, Culturale, Letteraria. Disonesto, d'altronte è nel lamentarsi - nell'intervista al Corriere della sera - di un eccesso di capacità di narrazione in ogni settore della vita sociale italiana.

E' grazie a grandi affabulatori come lui - Baricco affabula - che in Italia tutto, anche il cibo, è diventato oggetto narrativo. E quando parla di un esordiente di talento puro come Paolo Giordano, molto bello, dice, il libro, ne ha letto metà perché l'ha dimenticato sull'aereo, tralascia i problemi che ha avuto alla scuola Holden. Dove vanno i macellai e i professionisti con l'hobby della narrazione.

Ma torniamo a Saviano. Per Baricco, il romanzo ha un eccesso di narrazione e un difetto di informazione. Scusi? Il modello di Baricco, dunque, più di Junter Thompson o William Lagewienshe - che con Saviano ha duettato al Festival Internazionale di Ferrara e che è una guest star della Holden - evidentemente, è il Cis Viaggare Informati. Il romanzo come guida turistica, il romanzo non di formazione ma di informazione. E dai romanzi di Baricco, che informazioni si traggono? Non sappiamo, li abbiamo dimenticati sull'aereo e abbiamo solo brutti ricordi. Ma dalle sue interviste si capisce che ha una sconsiderata considerazione di sé e merita di diventare il presidente onorario del club di quelli che, come si dice a Roma, "rosicano", per il successo di Saviano.


----------------



Baricco. Gomorra, che storia: il film meglio del libro

di Cristina Taglietti
 
Sono passati vent'anni da quando, leggendo Sandro Veronesi, Alessandro Baricco ha pensato: «Finalmente c'è aria nuova nella letteratura italiana».
Oggi quell'aria è diventata un vento e raccontare delle storie, pratica una volta demonizzata, è tornato ad essere centrale, in letteratura, ma non solo. Baricco a gennaio ha compiuto cinquant'anni. Dal '91, quando esordì con Castelli di rabbia, ha fatto molte cose. L'ultima è un film: Lezione 21.

«È finito, montato, doppiato. A settembre-ottobre sarà nella sale» racconta alla scrivania nel suo ufficio romano alla Fandango. «È stata un'esperienza molto bella, anche se faticosa. Ho dovuto imparare il mestiere facendolo». Il nucleo del film è la serata in cui Beethoven suonò per la prima volta la Nona Sinfonia. «Quella sera successe una cosa molto curiosa, bella, ma anche istruttiva sulle dinamiche della storia della cultura. Poi da lì nasce tutto un altro mondo: Beethoven nel film si vede solo per sei secondi. C'è una parte contemporanea, chi racconta la storia è il professor Mondrian Kilroy, un personaggio preso dal mio romanzo City, interpretato da John Hurt. Nel film c'è tutto un universo fantastico, molte scene in montagna, nella neve. Lo schema narrativo è strano, costruito con una libertà più vicina alla scrittura che alla grammatica del cinema».

Anche per questo nuovo lavoro la parola chiave è racconto. Le tecniche della narrazione per Baricco si possono anche insegnare, tanto che nel '94 ha fondato la scuola Holden al cui centro c'è proprio lo storytelling. «Negli anni '70-80 raccontare storie era considerato svilente. Il primo De Carlo, il primo Veronesi avevano un tratto narrativo che li rendeva inconsueti per quei tempi. Fino a Del Giudice c'è un equilibrio, poi la narrazione accelera». Anche perché compare Baricco. «Il mio istinto per la narrazione debordava in tutto ciò che facevo, la televisione, il teatro, il giornalismo, la critica musicale. Oggi questa tecnica è molto diffusa, forse troppo. In quindici anni ha invaso il campo con una tale forza che gli usi negativi sono moltissimi. Adesso tutto è narrativo: vai in una macelleria e il modo di esporre le carni è narrativo. Ormai è impossibile sentir parlare uno scienziato normalmente: anche lui narra. Lo stesso vale per i giornali, che hanno sostituito al 70 per cento l'informazione con la narrazione».

E poi c'è la contaminazione con il marketing. «Lì comincia il pericolo, così come quando lo storytelling entra nella comunicazione politica. Adesso sono diventati così bravi da riuscire a vendere quello che vogliono se riescono ad azzeccare la storia giusta: questo a me non piace. Ci vuole consapevolezza e spirito critico perché, altrimenti, l'autenticità finisce per perdersi». In tv il pericolo è ancora più grande, per questo Baricco ha smesso di farla: «La ripetizione è la morte. Continuare a fare Pickwick o Totem significava ridursi a una macchietta, diventare un personaggio da fiction. Quelle cose funzionavano perché allora erano originali e perché sono durate poco. Ho smesso quando mi sono accorto che qualunque cosa avessi fatto il pubblico sarebbe rimasto ad ascoltare. Quando tu sai come fare a strappare un applauso o una risata, che cosa mai ti potrebbe indurre a dire la cosa giusta invece di quella che funziona?».

Oggi la migliore interpretazione dello storytelling è, secondo Baricco, Gomorra: «Il film, non il libro. Il romanzo di Saviano, aldilà del suo valore civile altissimo, mi sembra un tipico frutto del trionfo di questa categoria di narrazione che prevale sull'informazione, la metamorfosi ultima del giornalismo. È un genere che ho visto crescere e di cui conosco i limiti e i pericoli, per cui mi sembra interessante fino a un certo punto. Invece se dovessi dire che cosa dovrebbe essere la narrazione oggi, mi viene in mente il modo di lavorare di Matteo Garrone. Difficilmente credo si possa fare meglio. In lui è molto chiara l'intuizione del raccontare in modo critico, c'è un controllo che evita ogni equivoco. Non ho ancora visto Il Divo di Sorrentino, spero che sia di quel genere».

Nel romanzo, invece, la narrazione non ha ancora trovato il suo Garrone. «È quello che sta per accadere, ma mi pare che non ci siamo ancora. Accadrà nei prossimi anni, quando ci saranno libri molto narrativi, ma con un controllo alto sull'aspetto ideologico della narrazione. La generazione che va dai 35 ai 50 anni ha prodotto soprattutto libri imprecisi. La forma è già definitiva, ma sono libri di passaggio, di ricerca. Penso ad Ammaniti, Lucarelli, Scurati, scrittori tra i più bravi. Li leggo e ho l'impressione che siamo vicini ma non siamo ancora arrivati al punto». Sul fatto che la capacità di vedere una storia e quindi di raccontarla abbia a che fare con la creatività e quindi sia difficilmente insegnabile, Baricco è d'accordo, tuttavia non crede, come ha sostenuto Hanif Kureishi, che le scuole di scrittura siano fabbriche di illusioni. «Il mondo è pieno di aspiranti medici, di bancari che non sono riusciti a diventare bancari, di aspiranti padri che non sono padri. Ovunque ci sono persone che non riescono a realizzare i loro sogni e che li inseguono comunque. Non è che le scuole di scrittura promettono più delle altre. Molti talenti sono innati come l'abilità del diagnosta, del matematico, o anche la capacità di fare soldi. Eppure si insegnano.


“In Garrone c'è intuito, Saviano è meno interessante

”L'unica contestazione vera potrebbe essere che ci sono molti scrittori che non hanno frequentato scuole di scrittura, mentre in altri campi una formazione è necessaria. Anche questo però è vero solo in Italia. Nel mondo anglosassone sono pochissimi gli scrittori che non abbiano fatto scuole di creative writing, e sono i più vecchi». Come preside della Holden, la soddisfazione maggiore di Baricco è «vedere persone di talento non eccelso che vivono del mestiere che hanno imparato, o che fanno lavori che nemmeno conosco, come l'headliner di serie tv. Come insegnante il momento più bello è quando gli studenti pubblicano i loro libri. Sono ormai una trentina quelli che hanno esordito. Cavina, Longo, Varvello, Bonatti, Grossi: avrei potuto leggere con soddisfazione i loro libri, anche se non avessero fatto la scuola, però mi piace pensare che un po' sia merito dell'insegnamento ». Paolo Giordano non ha fatto il biennio ma alla Holden ha frequentato alcuni corsi. «Giordano è un bell'esempio perché viene dal mondo scientifico: lì non c'è tanta poesia, sono pragmatici, non hanno paura della tecnica.

Nella scrittura c'è un tratto costruttivo che è pura tecnica. Certo, è una parte piccola, ma se hai voglia di affrontarla puoi imparare moltissimo. Mi sembra che sia quello che lui ha fatto. Ho letto La solitudine dei numeri primi solo per metà, perché l'ho dimenticato in aereo e non sono ancora riuscito a ricomprarlo. È un libro scritto bene, c'è consapevolezza, maturità. E c'è questa cosa che a me piace: la serietà dello stile. Anche perché questo, a differenza di quanto si pensa, non è un lavoro per creativi un po' fuori di testa. Conosco pochi mestieri più rigorosi di quello dello scrittore. A volte chi fa i bilanci delle aziende è più elastico: tira di qui, tira di là, aggiusta». Archiviato il film, il prossimo progetto di Baricco è un ritorno al romanzo. «Ci sono libri che io aspetto e corteggio, magari ci vorrà qualche anno, ma ci arriverò ». E pazienza se non piaceranno ai critici. Baricco archivia anche le polemiche: «Non credo che mi stronchino perché ho successo. Semplicemente il loro mondo, la loro visione della letteratura è diversa dalla mia. Ma in fondo non mi dispiace. Mi piace fare qualcosa che va contro. Lo sdegno è alla base della scrittura, fa bene a tutti».


-----------



Rea e De Silva «alleati» contro Baricco: sbagliate le critiche a Roberto Saviano
 
NAPOLI - Ermanno Rea e Diego De Silva riscattano Roberto Saviano dopo le critiche di Alessandro Baricco a «Gomorra» pubblicate dal «Corriere della Sera». «Il romanzo di Saviano - ha dichiarato ieri Baricco sul Corsera - aldilà del suo valore civile altissimo, mi sembra il tipico frutto del trionfo di questa categoria di narrazione che prevale sull'informazione, la metamorfosi ultima del giornalismo». «La sua è una cultura di trincea - replica Rea - Ricordo che quando Saviano, ancora ragazzino, lavorava alla Fondazione del Premio Napoli, di cui sono stato presidente per 5 anni, lo rimproveravo perchè si esponeva troppo. Spesso gli tagliavano gli articoli oppure non glieli firmavano». «Napoli - continua lo scrittore - è una città difficile, che ti costringe a una condizione di prigionia, dalla quale ci si congeda di continuo, ma nella quale poi si ritorna sempre. Anch'io, nonostante nel mio ultimo libro parli di un addio a Napoli, penso di tornarvì.

“L'autore di «Seta» aveva etichettato il best seller come «la metamorfosi ultima del giornalismo». I due scrittori dissentono

”Gli fa eco Diego De Silva: «Dietro il successo di Gomorra e del filone letterario da inchiesta c'è la spia di una mancanza più forte: la Campania è una terra che dovrebbe essere raccontata molto di più. Se Napoli ultimamente è al centro della produzione letteraria, è perchè è la città che racconta, molto meglio di altre, le trasformazioni sociali. Le anticipa fungendo da campanello d'allarme, trovandosi spesso nel suo destino di capro espiatoriò. I due scrittori napoletani, concorrenti al Premio Strega 2008, hanno parlato stamani alla cerimonia di votazione degli studenti romani che hanno scelto il loro vincitore ideale tra i 12 concorrenti di quest'anno. Il risultato ha visto, come libro preferito 'La solitudine dei numeri primì di Paolo Giordano. Diego De Silva e Ermanno Rea concorrono con due romanzi che hanno al centro Napoli e le sue contraddizioni: rispettivamente 'Non avevo capito nientè, storia di un avvocato napoletano che difende un becchino di camorra, e 'Napoli ferrovià, l'amicizia tra un ex-naziskin e un vecchio comunista nata nella stazione ferroviaria del capoluogo campano.

 
01 giugno 2008


da www.robertosaviano.it



Titolo: "Ho incontrato Roberto Saviano" di Enzo Biagi
Inserito da: Admin - Giugno 23, 2008, 10:32:09 am
"Ho incontrato Roberto Saviano"

di Enzo Biagi

Penso spesso all’incontro con Roberto Saviano.

Confesso che non sapevo niente di lui e non avevo letto il suo libro, ‘Gomorra’.


Mi incuriosiva però quanto mi diceva Loris Mazzetti che lo aveva conosciuto a Roma: “C’è in circolazione un libro scritto da un ragazzo di 28 anni che ha venduto più di 700 mila copie, soprattutto tra i giovani, che sta facendo più danni alla camorra che anni di guerra dello Stato. Per questo, oggi l’autore vive sotto scorta”.

Mi è parsa una storia da raccontare, anzi ho pensato che doveva essere la prima intervista del mio ritorno dopo cinque anni in televisione. Così ho letto ‘Gomorra’.

Dovevo pur documentarmi.
La prima impressione è stata che mi trovavo di fronte a uno scrittore, vero, e, per quel che conta il mio giudizio, con un grande avvenire davanti. Qualcuno ha detto che è facile raggiungere il successo, difficile mantenerlo. In questo caso, non credo. Piuttosto, il problema di Roberto sarà che in questo Paese il successo non te lo perdonano ed esistono sempre i critici paludati i cui libri, magari, non raggiungono le cinquemila copie di tiratura. La mia età mi ha permesso di trasmettere a Saviano questa modesta opinione e la raccomandazione, a un ragazzo di cui potrei essere nonno, di aspettarsi l’invidia e di non prendersela troppo. Al di là delle sue indubbie capacità di scrittura, colpisce il carattere di un ventenne che comincia ad interessarsi alle vicende di camorra, a seguire i processi, a studiare le carte, a frequentare gli ambienti malavitosi della sua terra con lo scopo di capire e poi raccontare. Ed è stato proprio questo a creargli dei problemi. Roberto Saviano non solo ha ‘denudato il mostro’, ma l’ha saputo spiegare come finora nessuno. Mi è venuto subito in mente uno scrittore che ho molto amato, di cui sono stato amico, Leonardo Sciascia: quanto lui ha saputo narrare la sua Sicilia e le storie di mafia così Saviano è lo scrittore per eccellenza di Napoli e della camorra.

Ho voluto, prima di entrare in studio, passare qualche ora con Roberto, non solo per dargli un po’ dell’esperienza di un vecchio signore, ma per conoscerlo e cercare di capire che cosa spinge un giovane a rinunciare alla propria libertà, a vivere come tutti i coetanei, incontrare la sua ragazza, andare al cinema, prendere un aereo, cenare con gli amici. La prima risposta l’ho avuta dai suoi occhi, intelligenti e curiosi che mi hanno frugato forse per spiegarsi il perché di quell’invito. Chi mi conosce sa che sono abituato a trascorrere con i miei ospiti il tempo necessario per la trasmissione, ma stavolta avrei voluto che la colazione con Roberto, poi il caffè, durassero di più. Anzi, spero che mantenga la promessa di tornare a trovarmi, magari quest’estate in campagna, così avremmo la possibilità di continuare quel discorso cominciato a casa di mia figlia Bice. Dai giovani, anche alla mia età, c’è sempre da imparare. Da Roberto Saviano un po’ di più.

E’ arrivato poi il momento dell’intervista e dalla sua prima risposta ho capito che avevo ragione ad aver voluto inaugurare ‘RT’ con lui. Poco prima ci eravamo messi d’accordo sul finale: gli avrei chiesto se voleva aggiungere qualcosa e lui, che aveva il suo libro infilato tra il bracciolo e lo schienale della poltrona, ne avrebbe letto qualche riga. Invece, a quella mia domanda Saviano ha risposto: “Sono felice di aver potuto dialogare con lei. Se questo è possibile, forse in questo Paese qualcosa è ancora possibile fare.”

E’ stato il più bel ‘bentornato’ che ho ricevuto. Grazie, Roberto.

Scritto da Enzo Biagi
per il festival della letteratura di Massenzio
in occasione della partecipazione di
Roberto Saviano il 21 Giugno 2007




25 febbraio 2008


Titolo: ROBERTO SAVIANO «Adesso la smetterò di vivere come un topo»
Inserito da: Admin - Giugno 23, 2008, 10:34:07 am
Saviano: «Adesso la smetterò di vivere come un topo»
 
NAPOLI - Mancano venti minuti alla sentenza, e i giurati con la fascia tricolore entrano per salutarlo. Appena usciti dalla camera di Consiglio, si mettono in coda, come davanti a una biglietteria. La saletta appena dietro l'aula bunker è minuscola, ha grate di cemento armato alle pareti, sparsi per terra ci sono una trentina di cartoni per toner da fotocopiatrice.

La toilette è a vista, senza porta. Prima dei giudici popolari si era affacciato Beppe Lumìa, ex presidente della Commissione antimafia. «Ti prometto che farò di tutto per mantenere alta l'attenzione» è il suo congedo. Poi tocca a Federico Cafiero de Raho, uno dei magistrati che hanno lavorato di più a Spartacus. «È tutto merito tuo» gli dice, e Roberto Saviano, assiso su un cartone, ha il pudore di schermirsi. «Ma che dici, è solo lavoro vostro, una vittoria dello Stato, io non c'entro nulla». Una verità e una bugia, nella stessa frase. I settanta giornalisti che affollano l'aula Ticino del carcere di Poggioreale, principali testate nazionali, diretta televisiva, inviati da Francia, Inghilterra e Spagna, sono solo farina del suo sacco. Questo è il «suo» processo, è la versione giudiziaria di Gomorra, almeno così viene vissuta.

No Saviano, no Casalesi, così è se vi pare. Anche per questo, la sua presenza, qui, oggi, può segnare un punto a favore di chi lo accusa di un protagonismo tale da oscurare anche gli orrori dei boss di Casal di Principe. «Non credo che sia così. Ci tengo a fare questa cosa, per la mia vita. Per dimostrare che posso fare il mio lavoro senza avere paura». Il nero della sua maglietta contrasta con la faccia diafana e scavata. Non ci ha dormito sopra e si vede. È arrivato qui dentro con anticipo fantozziano, dalle 8 del mattino è chiuso in questo bugigattolo, mentre nell'aula, piena di giornalisti e avvocati, solo due imputati, nessun boss in video, l'unica domanda riguarda lui. Arriva? Si farà vedere? «Ho pensato che ci sarei andato comunque, anche senza questo clamore. E allora perché non farlo?». Tormenta un brufolo che gli deturpa il tatuaggio Maori sul bicipite destro, fa scrocchiare di continuo le dita, si siede e si alza, sembra un incrocio tra un'anima in pena e un pugile prima del match. «Finora ho vissuto come un topo, adesso basta. Dici che sbaglio? Non lo so, di errori ne faccio continuamente. Ma loro, i Casalesi, sono la mia ossessione solitaria, sento che dovevo esserci».

Quando il magistrato Franco Roberti gli fa un cenno per dire che è ora, la corte sta entrando in aula, si alza di scatto. «Eccolo», flash, taccuini, tutti intorno a lui, Saviano che divora il «suo» processo e poi sparisce. Riappare qualche ora più tardi, sul lungomare di Mergellina, annunciato dalle sirene dei poliziotti in moto che chiedono strada, dagli uomini della scorta che scendono dale due auto blindate e annusano l'aria prima di dargli il permesso di scendere. I tg, intanto, parlano ancora di lui, della sua comparsata, che diventerà ulteriore manna per i teorici del «se l'è andata a cercare», la sua vita blindata. «Io, semplicemente, mi prendo la responsabilità di quel che ho raccontato. Gomorra non è un libro sui Casalesi, ma sul capitalismo visto attraverso la feritoia del loro potere». Sembra di essere seduti al tavolino con la Madonna pellegrina, guardata a vista da una manciata di agenti con la pistola in mano. Una donna gli chiede una foto, come se fosse il centravanti della nazionale.

Un signore in tuta gli presenta figlio, figlia, una infinità di nipoti: «Ce l'abbiamo fatta a condannarli, abbiamo vinto», gli dice. Roberto Saviano sa di essere diventato un simbolo, ma è conscio del fatto che molti pensano sia invece un prodotto, complice e vittima di una operazione commerciale da un milione e mezzo di copie che lo ha trasformato in un Salman Rushdie antimafia. «Lo sento, l'odio nei miei confronti. E a volte non me ne capacito. Io non ho fatto scalate di potere, non ho rubato spazio a nessuno. Mi ferisce quando, per denigrarmi, si usano i sacrifici che Giovanni Falcone sopportò in vita come termine di paragone. Lui faceva il magistrato. Io, che non sono certo un eroe come lui, non ero preparato a tutto questo ». La processione al tavolino non conosce sosta. Quando si alza, non c'è verso di pagare il conto. Le operazioni per uscire dal bar sono complesse, estenuanti. Lui aspetta e intanto rimugina su quel che gli ha detto in aula un vecchio collega che non vedeva da tempo. «Qui dentro - si riferiva alla sentenza appena letta - sei l'unico condannato all'ergastolo ad essere in libertà». Saviano ha tentato di sorridere, ma non ci è riuscito.




di Marco Imarisio
20 giugno 2008

da corriere.it


Titolo: Il boss di Gomorra ai suoi figli "Andate via da Casal di Principe"
Inserito da: Admin - Giugno 25, 2008, 11:07:42 am
CRONACA

Nuova offensiva contro il clan camorrista

In affitto la casa dei parenti del boss Schiavone

Il boss di Gomorra ai suoi figli "Andate via da Casal di Principe"

di ANTONIO CORBO

 
NAPOLI - Quel portone è stato per anni diverso dagli altri a Casal di Principe. Fu murato per evitare una confisca. Via Bologna, una strada come tante. Ma chi passava, sembrava mimare un cenno di saluto. Un inchino. La casa del boss. La parte non ancora sequestrata del villone di Francesco Schiavone, detto "Sankokan", il capo del clan dei Casalesi, potrebbe essere offerta in fitto. La famiglia sta per lasciarla. "E' una scelta di vita, non una resa", spiegano in questo paese di 16mila abitanti, almeno tremila bollati da un contatto con la giustizia, una denuncia o una condanna.
La notizia si era già diffusa a Casal di Principe nei giorni scorsi. Ne hanno discusso ieri pomeriggio al dodicesimo piano della Procura magistrati, funzionari di polizia, ufficiali di carabinieri e finanza. Scatta una nuova offensiva giudiziaria contro il clan più feroce e potente della camorra, con potenza economica pari a quella militare. L'agguato a Michele Orsi, imprenditore nel settore rifiuti, fu portato il primo giugno in corso Dante da un'autocolonna: sicari su sei auto. Orsi sapeva tutto sulle imprese e i politici coinvolti nell'affare rifiuti.

"La nostra offensiva prevede, ora più che mai, la cattura dei latitanti e la confisca dei patrimoni. Sono stati sempre i nostri obiettivi, lo sono oggi ancora di più", spiega Franco Roberti, capo del pool anticamorra, che dal "Processo Spartacus" in avanti ha ottenuto duemila arresti in provincia di Caserta, sequestri per oltre mille milioni di euro, tra contanti, quote societarie, ville, barche, auto, molte Ferrari tra queste.

"Ci dà molta forza la vicinanza del Capo dello Stato che in pochi giorni mi ha telefonato due volte: l'ho trasmessa a tutto il mio ufficio, impegnato oltre ogni limite. Anche il ministero dell'Interno ci sostiene, con dirigenti, personale qualificato, mezzi moderni di indagine". Mai così frenetica la ricerca dei latitanti.
Questo clima allontana la famiglia di "Sandokan". Notti da coprifuoco, certo. Quaranta auto civette, metà della polizia e metà dei carabinieri, che girano nei paesi degli ergastolani e dei latitanti. Ma il boss, che non ha alcuna intenzione di pentirsi, è preoccupato. Deve gestire comunque un clan, far controllare l'economia di un paese con ricchi allevamenti di bufale e imprese edili che trovano appalti e vincono gare pubbliche in tutta Italia, ma soprattutto sa che i suoi quattro figli maschi tutti liberi rischiano di inciampare in qualche grana giudiziaria.

Nicola ha 30 anni, più giovani Carmine, Ivanhoe, Walter, oltre alle gemelline presenti nelle concitate fasi della sua cattura: 1990, dopo 13 ore di assedio Guido Longo capo della Dia fece staccare l'energia elettrica. Da un interrato inaccessibile e bene arredato, piastrelle griffate e marmi, Sandokan si arrese. Passava il tempo dipingendo figure sacre e controllando i monitor, telecamere nascoste all'ingresso della sua villa. La sua detenzione come quella dei Casalesi diventa ora più scomoda: con l'ex suo socio Francesco Bidognetti, Schiavone è all'Aquila. Passeranno in un carcere più duro: Opera, Parma o Tolmezzo.

La famiglia è seccata: pochi giorni fa, durante le nozze di Carmine, in un albergo cinque stelle di Vietri sul Mare, si è infilato il capo della Mobile di Caserta, Rodolfo Ruberti, per identificare i 200 invitati. Lui non lo era affatto. Ma si è presentato con 70 agenti ed ha aggiornato con i nomi raccolti le alleanze tra le famiglie. Un altro segnale: sono saltate tutte le regole non scritte di fair play. Ma da presenze e assenze è stata forse ridisegnata la nuova galassia dei Casalesi.

(25 giugno 2008)

da repubblica.it


Titolo: Colloquio tra Roberto Saviano e Luis Moreno-Ocampo
Inserito da: Admin - Luglio 02, 2008, 06:43:38 pm
L'Espresso


Tra padrini e dittatori

Colloquio tra Roberto Saviano e Luis Moreno-Ocampo


(a cura di Gianluca Di Feo)


Le tirannie e le mafie, la globalità dei traffici e i limiti delle autorità statali. Lo scrittore di 'Gomorra' incontra il procuratore internazionale, l'uomo che processò i generali argentini e ora persegue i genocidi.

In comune hanno il ricordo di una giornata speciale. Era martedì 3 luglio 1990.

Luis Moreno-Ocampo, il primo procuratore internazionale che persegue in tutto il pianeta i crimini contro l'umanità, aveva appena concluso il suo processo più importante. Aveva fatto condannare la giunta militare che si era impadronita del suo Paese dominandolo con l'orrore dei desaparecidos. Ma quel giorno come tutti i suoi connazionali pensava solo a tifare l'Argentina, scesa in campo contro l'Italia per la semifinale mondiale.

Dall'altro lato dell'Oceano, Roberto Saviano era un ragazzino che accanto al padre guardava la stessa partita. E come tutti i napoletani non tifava per gli azzurri, ma per Diego Armando Maradona. L'uomo con la maglia numero dieci è ancora oggi una figura leggendaria per lo scrittore campano. Per Moreno-Ocampo è stato il cliente più speciale dello studio legale che aveva aperto dopo il processo ai dittatori di Buenos Aires e prima delle inchieste sui massacratori africani: "Muoversi con lui era incredibile: c'erano folle che accorrevano per venerarlo. I poliziotti che dovevano arrestarlo, persino i magistrati chiamati a giudicarlo imploravano un autografo. A lui si perdonava tutto: persino il papa lo ha salutato dicendo 'Sono un suo tifoso'". "A Napoli era la stessa cosa", gli fa eco Saviano: "E anche adesso quando torna viene sempre accolto come un idolo". Moreno-Ocampo scuote la testa: "Semplicemente incredibile, pensare che era un bambino affamato. Poi è stato travolto dalla fama: ha perso il senso del limite".

Tutto l'attività del procuratore argentino è segnata da persone che hanno perso il senso del limite. Gli ufficiali argentini che hanno fatto sparire migliaia di oppositori; i tiranni che in Congo e in Uganda usano lo stupro come arma di massa o che in queste ore continuano a rendere il Darfur "una gigantesca scena del crimine".

E lui? Il primo procuratore con competenza planetaria, a cui si rivolgono le vittime più deboli, a cui viene chiesto di punire i governi e persino di valutare la legittimità 'dell'invasione anglo-americana dell'Iraq', non teme mai di perdere il senso del limite? Non ha mai la tentazione di abbandonare i vincoli del codice per assumere un ruolo politico in nome della giustizia? "Bisogna seguire il mandato e non uscirne mai fuori", spiega: "Quando cinque anni fa sono stato eletto in questo incarico, ho subito venduto il mio studio legale e ho rinunciato all'insegnamento ad Harvard: non solo dovevo essere indipendente, ma dovevo anche mostrare di non potere venire influenzato. La mia forza sta nella mia reputazione. Se tu segui la legge, se tu non esci dal mandato, allora sei rispettato, allora hai il consenso. E questo in soli cinque anni ha permesso alla Corte penale internazionale di raggiungere obiettivi che erano impensabili. Ma se ti lasci condizionare dall'agenda politica, allora sei morto".

Saviano porta subito la conversazione su un piano letterario: "Come ci si sente a giudicare i governi? Che sensazione prova un uomo di legge mentre non si misura con una piccola cosa, ma si trova in qualche modo a mettere sotto processo la storia"? "Dos feelings", Moreno-Ocampo abbandona istintivamente l'inglese della burocrazia Onu e passa al castigliano, più vicino a quella "madre patria" che sente di condividere con la Napoli dello scrittore: "Hai il privilegio di potere aiutare milioni di vittime, puoi contribuire a fermare violenze di dimensioni epocali. E sai che non stai lavorando per una singola nazione ma per il mondo intero: stai contribuendo a fondare le istituzioni di una nuova era. È una sensazione meravigliosa: lavorare per costruire il futuro".

"Ma il problema mafioso potrebbe essere affrontato con questi metodi? Non si tratta forse di una minaccia globalizzata che coinvolge l'intero pianeta", lo incalza Saviano.Il tema è quello di 'Gomorra', l'impero economico che unisce traffici globali e sfugge alle giustizie nazionali. "È proprio quello di cui sono venuto a parlare qui a Roma: la Banca mondiale sta discutendo di come le istituzioni finanziarie possano affrontare sfide globali. Il paradosso è proprio questo: noi abbiamo polizie nazionali e magistrati nazionali mentre i criminali sono internazionali. Quando ho cominciato le mie indagini per l'Onu, mi hanno segnalato che le armi per i massacri in Ituri, una regione del Congo, venivano fornite dalla mafia ucraina.

Allora mi sono rivolto all'Europol, chiedendo notizie. Loro mi hanno risposto stupiti: sappiamo tutto dei padrini ucraini, ma ignoravamo che operassero in Africa. Perché Europol è una realtà potente ma concentrata sull'Europa e gli sfugge che invece le cosche si sono radicate altrove. O quando un giudice spagnolo ha ricostruito i voli degli aerei dei narcos: decollavano dalla Colombia portando cocaina in Spagna, poi ripartivano verso Ituri con i kalashnikov per le milizie. È chiaro che questa dimensione richiede istituzioni globali. La Corte è un primo passo, in cui molti stati hanno rinunciato alla sovranità nazionale pur limitando il mandato ai crimini contro l'umanità e ai genocidi. Ma segna la nascita di un nuovo modo di fronteggiare la globalizzazione dei reati".

"E quindi la Corte dell'Onu potrebbe occuparsi di una figura come Salvatore Mancuso? Un personaggio che in Colombia è sia terrorista che narcotrafficante: con i suoi squadroni della morte ha commesso omicidi su larga scala...". Il procuratore non la scia finire la domanda a Saviano: "Sì, che probabilmente possono essere definiti crimini contro l'umanità. E infatti quello è un dossier preliminare che abbiamo aperto: stiamo esaminando gli elementi per capire se rientra nella nostra competenza. Sono stato in Colombia, ho incontrato le autorità, le vittime, i magistrati. Prima di procedere vogliamo capire se c'era qualcuno più in alto di lui. E quale rete dall'estero ha aiutato sia lui sia la guerriglia delle Farc".

"E Fidel Castro?", insiste Saviano: "Un giorno potrebbe essere chiamato davanti alla vostra Corte?" "No. Niente Cuba, niente Iraq, niente Libano, niente Israele. Noi possiamo intervenire solo nei 106 paesi che hanno ratificato il Trattato di Roma. O nei confronti di organismi di queste nazioni. Ad esempio siamo stati chiamati a valutare la legittimità dell'azione militare britannica in Iraq, ma abbiamo ritenuto che non ci fossero i presupposti per procedere. La nostra sola esistenza però diventa un elemento di dissuasione e di prevenzione anche nei confronti degli eserciti. È una nuova era del diritto", ripete Moreno-Ocampo.

 
Il procuratore sa che più dei tiranni, la Corte ha un nemico giurato: gli Stati Uniti, che in tutti i modi cercano di contrastarla. In passato Barack Obama è stato l'unico politico americano a mostrare un'apertura. Ma appare difficile che la linea di Washington cambi. "Una nuova era richiede pazienza. Penso che nel giro di cinquant'anni tutti i paesi aderiranno. La legge riduce il potere: il nostro lavoro interessa soprattutto i paesi deboli o a chi si è trovato a esserlo nel passato. Africa, Europa, Sud America sono con noi. Il Darfur però sta aprendo una fase nuova e la necessità di fermare la strage sta creando un clima diverso intorno alla Corte: troviamo sostegno anche tra le nazioni non aderenti".

Per i massacri nel sud del Sudan sono stati appena accusati un ministro in carica e il capo dei Janjaweed, i 'diavoli sterminatori'. Ma le potenze continuano a cercare di usare la Corte per i loro disegni. "Sul Darfur un'ambasciata contattò uno dei miei collaboratori: 'Sappiamo che volete incriminare un ministro, non basta: dovete andare più in alto'. Poi dopo poche ore la stessa ambasciata lo ha richiamato: 'Fermatevi! Abbiamo saputo che stanno negoziando, non fate nulla'. Noi invece non ci facciamo condizionare".

L'aspetto che più colpisce Saviano è la capacità di trasformare la voce di chi viene ignorato: rendere i racconti delle vittime prove contro i carnefici. "Ricordo che la testimonianza di una ragazza che era stata stuprata in Uganda proseguì per tre giorni", risponde Moreno-Ocampo: "Alla fine lei scoppiò in lacrime. Noi eravamo preoccupati, temevamo di averla sottoposta a una pressione eccessiva con l'interrogatorio: 'Scusaci, ti abbiamo costretto a ricordare per poterli punire. Non volevamo farti male, non piangere'. 'No', ci rispose, 'piango perché questa è la prima volta che qualcuno mi dà ascolto'".

La parola che mette alle corde i criminali. In fondo, è la metafora di 'Gomorra': romanzo che più di ogni atto giudiziario si è trasformato in arma contro l'ultima delle mafie. "Perché è il numero dei lettori che lo rende tale, li trasforma in protagonisti", spiega lo scrittore. Fuori ci sono i carabinieri che lo circondano. Il procuratore che accusa governi e despoti invece non ha scorta, si muove in taxi e dorme a Roma in un hotel senza lussi. Sa cosa significa vivere nella minaccia: la protezione di Saviano lo riporta agli anni blindati dell'inchiesta sui generali argentini. E concorda con la sua analisi: "Dittatori militari e padrini, signori della guerra e boss sono uniti da due elementi. Pianificano crimini organizzati, seppur di dimensioni diverse.

E vogliono controllare la loro immagine. Amano che si parli di loro, ma non perdonano chi svela i meccanismi del loro potere: rispettano gli inquirenti, odiano i testimoni". Difendere i testimoni è una delle missioni più difficili, ai limiti dell'impossibile in Africa occidentale: "Una volta avevamo portato le persone che accusavano il senatore Bemba in una cittadina sicura. Poi le milizie l'hanno occupata con un blitz e noi abbiamo sudato freddo per portarli in salvo. Il dilemma più grande lo abbiamo avuto in un campo profughi: i testimoni erano gli insegnanti dell'unica scuola, portandoli via avremmo privato tutti i bambini della speranza di alfabetizzazione. Abbiamo dovuto scegliere tra giustizia ed educazione". "Ma lei", conclude Saviano, "non sente mai di stare scrivendo la storia?". "A 32 anni avevo già incriminato la giunta argentina. Pensavo: ok, ho finito il mio lavoro, ora posso fare quello che voglio. Poi a 50 anni c'è stato questo incarico. Mi sono detto: costruire questa corte adesso è responsabilità tua. Eccomi qui".

A Buenos Aires ha portato sul banco degli imputati nove generali e tre ex capi di Stato; a L'Aja ha accusato 11 criminali di massa. Nessuno aveva fatto tanto dai giorni di Norimberga. Lui ci scherza su, ma non troppo: "Ho ancora quattro anni prima di chiudere l'incarico, datemi tempo...".



(a cura di Gianluca Di Feo)
01 luglio 2008


da www.robertosaviano.it


Titolo: Viaggio nelle terre di Gomorra.
Inserito da: Admin - Luglio 03, 2008, 07:27:38 pm
Viaggio nelle terre di Gomorra

Da Napoli a Casal di Principe il finestrino del treno riesce a regalarti un'infinità di costruzioni.

L'edilizia, da queste parti, non ha soluzioni di continuità. C'è sempre.



I binari sono lingue di ferro che tagliano questi posti a metà. Dopo Aversa sul tracciato ferrato che corre di fianco scorgo un giubbotto antiproiettile abbandonato. Segno che le pistole fanno parte del territorio.

A Casale la stazione ferroviaria si chiama Albanova, come il nome che i fascisti affibbiarono all'agglomerato edile che compone Casal di Principe, San Cipriano ed Aversa,

All'arrivo del treno non scende quasi nessuno. La biglietteria è chiusa da anni, il sottopasso è tela per gli artisti dello spray.

Ci accoglie Tina, una giovane cronista del Mattino di Napoli. Occhi scuri e attenti che ti raccontano Casale in pochi attimi.

Ed eccola la terra di Gomorra. Eccole le case di Iovine, Bidognetti, Zagaria, Schiavone. Un'urbanizzazione che regala scenari ondivaghi ad ogni angolo. Se guardi San Cipriano e pensi di essere a Isola Capo Rizzuto non fai fatica. Le case sono uguali. Il caldo pure. Poi, però, a razioni alterne, spuntano ville da un milione di euro. Strutture costruite col cruccio dell'onnipotenza. Statue, portali, facciate da Scarface. Già, Scarface. A Casal di Principe c'è proprio una villa che prende questo nome: Villa Scarface, confiscata a Walter Schiavone, fratello del boss Francesco detto Sandokan. Un gioiellino architettonico nato dalla passione per Tony Montana, il giovane Al Pacino che interpreta la parte del boss cubano nel film di De Palma.

Alloggiamo in un santuario. Ultimo palazzo di un posto dove l'edilizia sembra non finire mai. Dopo c'è un'immensa distesa di campi che non regalano l'orizzonte. Tina ci spiega che un pentito ha parlato di rifiuti tossici seppelliti sotto questa terra. Intanto percorriamo una strada che scopriamo essere di confine. Le case alla nostra destra appartengono a Casal di Principe, quelle a sinistra a San Cipriano. Così i cittadini caricano le auto della loro spazzatura e la scaricano sull'asfalto. Non è terra di nessuno. Chi la raccoglie?

Di fronte a Santuario c'è un bar. Quattro anziani giocano a briscola. Un cartello con su scritto "Cedesi attività" rende tutto più triste.

Dietro al banco c'è un signora vestita a lutto. Occhi e capelli neri. Come Tina. Come un po' tutte le donne di questi posti. In alto ti spiazza la foto di un uomo che non ci sarà più. Probabilmente il marito.

"Che state qua in ritiro?" Non capisco se la barista ci ha confuso per calciatori o per aspiranti preti. Ma i capelli di Emiliano Morrone lasciano poco spazio alle due soluzioni. In realtà sa già chi siamo e perché veniamo. A Casale sono i giorni di "Le Terre di don Peppe Diana", il prete ucciso dalla camorra. "In realtà i giornalisti hanno rovinato Casale." Proviamo a farle qualche domanda. "La Camorra? E dov'è?. Quando ci stava la Camorra di un tempo qua non succedeva niente". Gesticola, mi fissa dritto negli occhi, ha rabbia: "Io me ne vado da qui, perché non si può più campare. Ogni giorno fanno i blitz, pretendono di mangiare gratis nel mio locale esibendo il tesserino delle forze dell'ordine. Intanto nel santuario (unico luogo attiguo al bar ndc) ci stanno le macchinette del caffé e degli snack. E io come campo? Me n'aggi a 'i". Si, ma Saviano... "E' 'nu strunz!".

Il caffè comunque era buono, e Saverio Alessio accende l'ennesima Marlboro di una giornata interminabile.

Il dibattito sulla 'ndrangheta comincia alle 20, con un'ora di ritardo. Siamo ospiti di Mario Caterino, detto "o' botta", boss di Casal di Principe latitante da anni. La sua villa, confiscatagli da un po' di tempo, è un esempio del lusso e dell'inutilità. Ampie stanze, innumerevoli bagni, un muro di cinta che pare proteggere un antico castello. E poi una scala che si intreccia su se stessa.

Nel giardino ci stanno i cronisti locali, il direttore di Libera Informazione Roberto Morrione, un po' di ragazzi. Era difficile aspettarsi di più.

La tensione sale ad ogni vespa che passa lì davanti. Comincio a strofinarmi i palmi delle mani.

Inizio ringraziando Caterino "o botta" per l'ospitalità, dicendo che l'avremmo voluto qui con noi... L'ex sindaco di Casale mi corregge alla fine: "Questa casa adesso è nostra".

La discussione sulla Santa è sulla Calabria che sparisce dura un'ora buona. Emiliano e Saverio presentano il loro libro "La società sparente". Poi tanta musica e mozzarelle di bufala squisite che Saverio definisce bioniche. Sarà pure la diossina, ma nel gusto senti la Campania che non puoi scordare.

Il pernottamento nel santuario passa veloce. La sveglia è all'alba. Abbiamo il treno ad Aversa che ci porterà a Roma. Il bar è ancora chiuso.

Ci accompagna Renato Natale, il metafisico, ex sindaco di Casal di Principe. Unico comunista al governo di questo posto. Lo faceva proprio mentre don Diana è stato ammazzato dalla Camorra. A lui lo Stato aveva deciso di dare la scorta, ma rifiutò. Ora è impegnato in azioni per la legalità. Con la sua Fiat Punto attraversiamo strade sconosciute. San Marcellino, poi Aversa, senza che le case smettano un attimo.

L'intercity pare averci aspettato per grazia. Comincia un altro viaggio. Aldilà del finestrino l'agro aversano di allontana. Le terre di don Peppe Diana si fanno sempre più distanti. Casale non si vede più. E' sparente.

 
Biagio Simonetta
29 giugno 2008
nel blog di Roberto Saviano.


Titolo: «Cappotto di legno» così i Casalesi uccidono Saviano: rapper canta la morte ...
Inserito da: Admin - Luglio 13, 2008, 12:03:25 pm
«Cappotto di legno» così i Casalesi uccidono Saviano: rapper canta la morte dello scrittore

Il brano su Mtv con una clip realizzata sotto la direzione di Salvatores


NAPOLI - Roberto Saviano ucciso dalla camorra. Ipotesi di pura finzione, alla base del brano «Cappotto di legno», ispirato alla vicenda dell'autore di «Gomorra» e alla sua «condanna a morte» da parte del clan dei Casalesi, nuovo lavoro del rapper partenopeo Lucariello, voce degli Almamegretta e fortemente voluto dallo stesso Saviano, che ha direttamente supervisionato il testo.

«Cappotto di legno», nel gergo della malavita propriamente la bara, nasce dalla sincera stima reciproca e da una fitta corrispondenza iniziata nell'estate del 2007 tra Lucariello e Roberto. Nel testo, costruito sulla base di indispensabili informazioni e suggestioni fornite dallo stesso Saviano, Lucariello capovolge la classica retorica anticamorra, descrivendo dalla prospettiva di un killer di Casale l'immaginario omicidio del giovane scrittore.

Interamente in dialetto il testo, che inserisce al termine i campionamenti della voce di Nicola Schiavone, padre del boss Francesco detto «Sandokan» che definì il suo accusatore, Roberto Saviano, «un buffone, un pagliaccio». Lucariello, nato e cresciuto e Scampia, si è avvalso per gli arrangiamenti di Ezio Bosso, giovane compositore, curatore peraltro della colonna sonora di «Io non ho paura», pellicola diretta da Gabriele Salvatores. E proprio il regista premio Oscar per «Mediterraneo» ha curato la sceneggiatura del video, interamente prodotto e finanziato da MTV Italia, della canzone, in cui la voce cruda di Lucariello si fonde perfettamente con gli archi di Bosso negli spazi suggestivi del Teatro All'antica di Sabbioneta.

E' la prima volta in assoluto che l'emittente musicale cara ai giovani di tutto il mondo finanzia e produce un videoclip. «Cappotto di legno» ha avuto il privilegio grazie al particolare messaggio sociale che veicola, inserendosi alla perfezione nel progetto ideato da MTV «No mafie», a cui è dedicata l'intera giornata di venerdì 20 giugno, giorno in cui l'emittente ha cominciato a passare il video in anteprima.



Antonella Salese
23 giugno 2008


Links:
Corriere del Mezzogiorno

dal blog di Roberto Saviano


Titolo: ROBERTO SAVIANO Bocciati gli attori di Gomorra
Inserito da: Admin - Luglio 20, 2008, 09:36:31 am
Bocciati gli attori di Gomorra


di Roberto Saviano

Dodici ragazzi che hanno recitato nel film hanno perso l'anno a scuola.

E lo scrittore napoletano racconta quanto questi adolescenti fossero invece bravi, saggi e capaci di discernere tra il bene e il male


Hanno bocciato Totò e Simone e altri dieci ragazzini che hanno recitato in 'Arrevuoto'. E hanno recitato nel film 'Gomorra'. Sono stati attori nei teatri più famosi d'Italia. Hanno avuto i complimenti del presidente Napolitano che era andato a vederli alla prima al Teatro Mercadante e poi li aveva salutati uno per uno. Il presidente si era pure lasciato dipingere la faccia di nero da un pulcinella nervoso inserito nello spettacolo. Al Festival di Cannes, il più importante festival del cinema internazionale, hanno ottenuto uno dei tre premi maggiori: il Premio speciale della giuria. Eppure alla scuola media Carlo Levi di Scampia li hanno bocciati.

Per Cannes parto insieme a loro e tutta la troupe, tranne Matteo Garrone che è venuto da Roma con un furgone. L'aereo si riempie delle voci e delle grida di Totò e Simone, Marco e Ciro, e tutti gli altri ragazzi del film. Ma c'è un po' di ansia per il volo e di emozione per i giorni che ci attendono. Dopo l'atterraggio le nostre strade si dividono. Mi aspettano all'uscita dell'aereo gli uomini della scorta francese, due auto blindate e tre motociclisti: una cosa mai vista prima. Sono i corpi speciali, ansiosi di rimarcare subito che loro non accompagnano divi del cinema, stelle e stelline. "Questo lo fanno i poliziotti privati, noi no", mi dice il caposcorta tradotto da un altro poliziotto in uno strano napoletano, un napoletano con l'accento francese. "L'ho imparato ascoltando Pino Daniele", spiega e aggiunge che l'ha perfezionato facendo da interprete a Vincenzo Mazzarella, camorrista di San Giovanni a Teduccio, arrestato proprio a Cannes qualche tempo fa. Colgono l'occasione per ricordarmi che la città è amatissima dai mafiosi di mezzo mondo. Infatti non sembrano proprio tranquilli.

Pure Luigi Facchineri, un boss della 'ndrangheta, era stato qui dal 1987 sino al suo arresto nel 2002. Le mafie investono negli hotel, nei lidi, nei ristoranti, e rimpinzano di coca i nasi di villeggianti, turisti e gente del Festival di cui il Lido ora è gremito.


La mattina del nostro arrivo il popolo del Festival - munito di macchine fotografiche digitali, videocamere così piccole che stanno nel palmo di una mano e alla peggio di telefonini - è tutto concentrato su Harrison Ford che, come sanno tutti, è arrivato per presentare fuori concorso l'ultimo episodio della saga di Steven Spielberg. Io che lo vedo da vicino, penso: "Menomale non ci sono pure i ragazzi", anche se probabilmente loro non si esaltano per Indiana Jones come facevo io quando ero bambino. Harrison ha ormai una pancia pronunciata, è invecchiato parecchio anche in volto e a tutti quelli che lo avvicinano, lui si presenta come Indy. Fa quasi tenerezza, come quei Babbo Natale che entrano a pagamento nelle case esclamando: "Buon Natale e auguri, cari bambini!".

Ma anche se non incrociano Indiana Jones e non credono più a Babbo Natale da anni che sembrano una vita, i ragazzi di 'Gomorra' a Cannes sono su di giri forse più di quanto fossero da piccoli il giorno della Vigilia. Alla proiezione per i giornalisti parte il primo grande applauso e la conferenza stampa è affollatissima. Io dedico il successo a Domenico Noviello, l'imprenditore ucciso proprio mentre stavamo per partire, perché sette anni fa si era rifiutato di pagare un'estorsione ai clan dei Casalesi. Per quanto la cosa sia accolta bene, devo scacciare la sensazione che in tutto questo vi sia qualcosa di sbagliato e di assurdo. Fuori le moto della scorta dei corpi speciali francesi, gli agenti sempre in tensione e al contempo sempre pronti a ragguagliarmi su tutti i peggio personaggi delle peggiori organizzazioni criminali al mondo che investono e circolano per la Costa Azzurra. E io qui, di fronte alla crème della critica cinematografica internazionale, accanto a tutti quelli che hanno dato vita a questo film, inclusi i ragazzi di Montesanto e di Scampia. Quello che parla più di tutti è Ciro ribattezzato Pisellino da uno zio perché somiglia al bambino arrivato a Braccio di Ferro e Olivia con un pacco postale. Ha una maschera secolare, il suo viso pallido dal naso lungo riassume magrezze seicentesche, un Pulcinella o un santo dipinto da un pittore spagnolesco. Ciro è fruttivendolo alla Pignasecca, un mercato del centro storico. Un mestiere tosto, ti tocca svegliarti all'alba, ma lui è allegro, guadagna bene rispetto ai suoi coetanei e si tiene lontano da casini.

I giornalisti gli fanno delle domande a trabocchetto. "Se non avessi fatto il fruttivendolo?". E lui secco: "Avrei fatto il barista". "D'accordo, e se non avessi fatto nemmeno il barista?". Allora lui capisce dove vogliono arrivare. "No, no, vi sbagliate: io il camorrista mai! A parte i soldi, fai una vita orrenda. E poi mia madre sta ancora piangendo per avermi visto morto ammazzato nel film, figuratevi se succedeva veramente.".

Applausi
Ciro e Marco - che sono anche più grandi - vengono dai quartieri popolari del centro storico, non da Scampia come Totò e Simone. Per loro la vita è un po' più facile: le vicende di famiglia che hanno alle spalle se non possono dirsi idilliache, sono almeno un po' meno pesanti. Invece per quei ragazzini di Scampia di 12 o 13 anni lo spettacolo tratto da Aristofane e da Alfred Jarry, e poi il film e il Festival di Cannes non dovevano essere soltanto vacanze di Natale da una vita che già alla loro età sembra segnata. No, era l'opportunità di provare a mettere i piedi in una vita fatta diversamente o almeno riuscire a immaginarsela possibile. Diceva Danilo Dolci: "Cresci soltanto se sei sognato". E mi viene in mente proprio la sua più bella poesia: 'Ciascuno cresce solo se sognato':

C'è chi insegna
guidando gli altri come cavalli
passo per passo:
forse c'è chi si sente soddisfatto
così guidato.

C'è chi insegna lodando
quanto trova di buono e divertendo:
c'è pure chi si sente soddisfatto
essendo incoraggiato.

C'è pure chi educa, senza nascondere
l'assurdo ch'è nel mondo, aperto ad ogni
sviluppo ma cercando
d'essere franco all'altro come a sé,
sognando gli altri come ora non sono:
ciascuno cresce solo se sognato.

Non li hanno sognati questi ragazzini. Eppure avevano fatto molto per mostrare, forse fuori dall'aula scolastica, il loro talento, gli elementi per sognarli in maniera diversa da come la vita ti determina in queste zone. Eppure li hanno bocciati. Non stiamo parlando di studenti modello. Non stiamo neanche parlando di scolaretti fermi nelle loro sedie che si impegnano e però non ce la fanno. Stiamo parlando di ragazzini spesso esagitati, che ti rispondono con un ghigno, che appena possono non si presentano in classe, che aizzano i compagni alle peggio cose. Ma questo è solo un aspetto. I professori che hanno bocciato Totò, Simone e gli altri perché non sono stati rispettosi delle regole e non hanno raggiunto gli obiettivi didattici, credono di aver agito per il bene della scuola e si sentono in pace con se stessi. Invece hanno fallito clamorosamente nel confrontarsi con quegli alunni e pure con l'offerta di un'educazione alternativa che hanno incontrato fuori dalla scuola. Forse perché non riescono ad accettare che questa possa essere venuta da qualcun'altro, forse perché ritengono intollerabile che fosse presentata pure sotto forma di qualcosa che è anche divertente e gratificante, di certo più divertente e gratificante che andare a scuola. Non si è mai visto che dei ragazzini difficili di un degradato comune di periferia, possano per due giorni stare accanto alle star, essere autorizzati a sentirsi un tantino come loro. Meglio bocciarli che rischiare che si montino la testa!

Le star a Cannes poi ovviamente non sono i ragazzi di 'Gomorra', ma nemmeno Emir Kusturica e neppure Catherine Deneuve. Qualche piccolo scatto, ancora meno autografi e nulla più. Anzi spesso se dietro a loro arriva qualche famoso attore hollywoodiano, qualcuno nella folla comincia fare gesti con la mano, secchi e inequivocabili, come a dire: su muovetevi, levatevi di torno, fatemi fare una foto soltanto con la vera star. Tony Servillo ci scherza sopra, elegantissimo sfila fuori dell'hotel mentre i fotografi zoomano per capire chi è arrivato. Ma lui stesso risponde: "Nun simme nisciun', che fotografate a fa', mo' mo' vedete che arriva Indiana Jones".


Nonostante la formula vincente del Festival consista nel premiare film d'autore prevalentemente non hollywoodiani e al contempo far arrivare da Los Angeles gli ultimi 'De', i soli per cui la gente si pesta i piedi, quasi tutti gli attori non americani sembrano risentirsi di essere considerati semplici professionisti e comuni mortali come gli altri. Per cui ha ragione Ciro quando a cena sostiene esaltatissimo che ora Monica Bellucci non potrà rifiutarsi di avvicinarsi a lui. È un attore e non un fan qualsiasi. Ora sono colleghi. E poi da Montesanto alla Pignasecca tutti gli hanno sempre detto che somiglia a Vincent Cassel. Il giorno dopo incrocia proprio Monica Bellucci. "Sai", le fa, "mi dicono che sono tale e quale a tuo marito". E Monica gli dà un bacio. Premiando la sua bravura come attore e forse pure la somiglianza col suo uomo.

Mi fa uno strano effetto essere a Cannes con tutti loro, deluso da quella che mi sembra una Riccione solo più cara, marcia e pretenziosa, contento di stare insieme con tanti ragazzi di Napoli, cosa che non mi capitava più da molto. Ma non ci sono più abituato e quando me ne accorgo, faccio fatica a continuare a scherzare, mi irrigidisco.

La mattina mi siedo a fare colazione nella hall dello storico, sontuosissimo Hotel Majestic, ma dietro i poliziotti francesi mi costringono a consumare tutto in fretta. Prendo una spremuta che costa 20 euro, incredibile. Una ragazza mi chiede se si può sedere, gli agenti la perquisiscono e io mi sento in imbarazzo, ma non parlando una parola di francese, non so come dirgli di lasciar perdere. Lei inizia a discutere del mio libro, a farmi varie domande e infine dice: "Se oggi non hai molto da fare passerei del tempo con te, basta che mi paghi il ritorno in taxi a Nizza, 800 euro". Al che capisco. "Hanno spostato Nizza in Corsica", rispondo, "visto che costa tanto?". Più tardi chiedo delucidazioni a un barista che ho scoperto essere mio paesano e la sua risposta è chiarissima: "Quelle che girano qui nella hall sono tutte mignotte". Ce ne sono di arrivate da tutto il mondo e viene malinconia a vederle avvicinarsi ai proprietari degli yacht che galleggiano sui moli. Sembrano figlie con i padri pigri e chiatti, inoltre sistematicamente piuttosto alticci. Questo è solo l'esempio più evidente di come a Cannes non riesca a trovare proprio nulla di elegante e chic, solo la stessa cafonaggine di altrove concentrata e elevata all'ennesima potenza.

E poi è tutto vagamente schizofrenico. Marco comincia a ripetere che gli manca Napoli che non sono passati neanche due giorni, però la nostalgia non conosce limiti né orologi, e per la cena dopo la proiezione ufficiale ci portano in una pizzeria di nome Vesuvio. Matteo Garrone è stanco e riesce solo a dirmi, "abbiamo fatto tanto per evitare il folklore ed eccoci qua, in tutta Cannes, dove dovevamo capitare". Quel che continuamente rimbalza nella mia testa per tutta la serata è "che ci faccio qui ?". I ragazzi del film sono fantastici, ma mi trattano come se fossi il loro datore di lavoro. Io col film c'entro pochissimo, eppure Marco non si convince e taglia corto "chi mi dà il pane mi diventa padre". Brindiamo al successo di 'Gomorra' e mi accorgo che sono forse più di due anni che non mi trovo più con tante persone intorno, risate, brindisi, gioia e allegria di tutti quanti insieme. Non sono nemmeno più abituato a sedermi a tavola e mangiare se non con la mia scorta. Avverto insieme un senso straziante di solitudine e la felicità di assistere a quella che manifestano gli altri, soprattutto i ragazzi cui non gliene frega nulla di essere alla pizzeria Vesuvio. Perché loro dagli applausi della mattina e soprattutto da quelli ricevuti poco prima, hanno ricevuto la conferma di aver fatto una cosa grande e oltre a esserne felici, ne sono giustamente fieri.

Ma tutto il lavoro fatto per anni da questi ragazzi prima col teatro e col film, per i loro professori non conta nulla. Loro non vedono nemmeno che questo significa imparare qualcosa, doversi concentrare, ascoltare, prendersi un impegno. Per loro sono solo dei guappettelli già mezzi criminali che recitano se stessi, sai che ci vuole! Non colgono che questo sia già un'opportunità di vedere se stessi e il loro quotidiano con un occhio esterno, un'occasione per entrare in contatto con le proprie risorse creative, e neppure che stanno dando un contributo alla cultura. Va bene per il mio libro, o che non conoscano o apprezzino la patafisica dell''Ubu Re' di Alfred Jarry, ma nemmeno 'Le nuvole' di Aristofane, una delle prime e più belle commedie della storia dell'uomo? Possibile che di tutta la grande pedagogia italiana da Maria Montessori a don Milani, ai maestri di strada come Marco Rossi Doria non sia rimasto proprio nulla?

Ed è per questo, per averli visti felici e orgogliosi, che la bocciatura di Totò, Simone e degli altri loro compagni mi mette addosso una rabbia che mi brucia. Un professore della Carlo Levi di Scampia mi ha confidato: "Hanno bocciato Totò, e questo in una scuola che non dovrebbe più bocciare né promuovere. Una scuola che si è arresa, là dove invece bisognava custodire la speranza. Hanno bocciato Salvatore e Simone addirittura all'esame di terza media. Questa è una scuola che sistematicamente sacrifica i più vivaci e intelligenti, i più irrequieti e imprevedibili". E mi vengono in mente le parole di don Milani circa la scuola dell'obbligo dove sostiene che "bocciare è come sparare nel mucchio".

 

di Roberto Saviano
18 luglio 2008


Titolo: ROBERTO SAVIANO Combattendo con i pugni per il riscatto della sua terra
Inserito da: Admin - Agosto 01, 2008, 12:11:28 pm
Tatanka Skatenato

di Roberto Saviano


La sfida del bisonte Clemente Russo. Dalle palestre di Marcianise che strappano i ragazzi alla camorra fino al ring di Pechino.

Combattendo con i pugni per il riscatto della sua terra


Non c'è impresa migliore che quella realizzata con le proprie mani. E i pugili concordano con questa frase di Omero. La boxe è rabbia disciplinata, forza strutturata, sudore organizzato, sfida di testa e muscoli. Sul ring o fai di tutto per restare in piedi oppure dai fondo alle tue energie e metti in conto di andare giù. In ogni caso combatti, uno contro uno. Non ci sono altre possibilità e nessun'altra mediazione.

Ci saranno due campioni nella nazionale azzurra alle prossime Olimpiadi: Clemente Russo, 91 kg, peso massimo, e Domenico Valentino, 60 kg, peso leggero. Ventisei e ventiquattro anni. Campione del mondo il primo, vicecampione il secondo. Tutti e due poliziotti. Pugili che gli avversari cinesi studiano da anni in previsione degli incontri di Pechino. Russo e Valentino sono entrambi di Marcianise, la tana dove si allevano i cuccioli della boxe. Quando crescono, vanno nella Polizia o nell'Esercito e infine dritto alle Olimpiadi.

Marcianise, paesone di quarantamila abitanti, è una delle capitali mondiali del pugilato, senza dubbio la capitale italiana. Ci sono tre palestre gratuite dove i ragazzi di tutto il Casertano vanno a tirare al sacco. Esiste una ragione perché Marcianise sia il vivaio storico dei pugili in Italia. Proprio qui gli americani stanziati in Campania chiamavano come sparring partner i carpentieri e bufalari della zona che si misuravano con i marines per un paio di dollari. E dopo esser riusciti a batterne parecchi, continuarono a combattere e misero su palestre e cominciarono a insegnare ai ragazzi del posto.

Uno dei coach che ha reso gloriosa la palestra Excelsior di Marcianise è Mimmo Brillantino. Una sorta di sacrestano del pugilato, allenatore di campioni europei, olimpici, mondiali. Li individua da bambini, li annusa, li segue, li guarda nell'anima. E poi li cresce, metà domatore di tigri metà fratello maggiore. Ogni mattina, Mimmo Brillantino si presentava all'alba sotto casa di Clemente Russo per svegliarlo. Ore 6.00: corsa. Fino alle 8.30, quando cominciava la scuola. Finita quella, andava a prenderlo: pranzo, compiti e poi di nuovo allenamento. Col sole in maniche corte, sotto la pioggia col cappuccio.  Ci si allena sempre, con costanza.

Poco prima della partenza per le Olimpiadi, incontro Clemente Russo e Domenico Valentino nel centro polisportivo della Polizia di Stato dove si allenano tutti i poliziotti impegnati in ogni disciplina. Dal grande judoca Pino Maddaloni alla campionessa di scherma Valentina Vezzali, sono tutti nelle Fiamme Oro. Clemente Russo qui lo chiamano Tatanka, parola con cui i Lakhota Sioux indicano il bisonte maschio. Il nome glielo mise uno dei suoi maestri dopo aver visto 'Balla coi lupi'. Cercando di comunicare con il suo nuovo amico Uccello Scalciante, il tenente John Dunbar si mette carponi, due dita sulla testa per rappresentare le corna di un bisonte. Il capo tribù capisce e dice 'tatanka', Dunbar annuisce e ripete.

Clemente Russo si è guadagnato quel sopranome perché sul ring a volte si dimentica di essere un pugile. Abbassa la testa, naso all'altezza del petto, occhi tirati su, fronte bassa e giù a picchiare. Bisogna urlarglielo dall'angolo che è uno sportivo, non un picchiatore. Ma come dice Giulio Coletta dello staff azzurro: "Se combatti così e non butti giù subito il tuo avversario, quello ti frega, perché tu perdi tutte le tue energie e poi non hai più fiato per difenderti né concentrazione. E poi crolli. Come un bisonte dopo aver caricato".

Tatanka ha un tatuaggio sul costato. Un bisonte americano in corsa, ma che sulle zampe anteriori calza i guantoni. Clemente mi racconta che entrò in palestra "perché ero chiatto! E non ne potevo più di stare sempre fuori dai bar". Oggi il maggior pregio di Clemente Russo è la visione d'insieme. Sembra avere in testa dal primo all'ultimo minuto cosa deve fare. E poi è potente, ma non lo considera la sua qualità migliore: "La forza è l'ultima cosa. La prima è la mente. È centrale, Robbè". I veri pugili non nascono come attaccabrighe, anzi spesso si va in palestra per sviluppare aggressività e solo poi per dominarla. "Prima cosa: non bisogna prenderle. Poi la seconda è darle". Su questo Clemente e Domenico si esprimono in coro.

La palestra che li ha sfornati, la Excelsior, ha festeggiato vent'anni di attività, di cui dieci in cima alla classifica riservata alle società pugilistiche. Ma a differenza di quanto accade per altri sport, gli allenatori che li seguono con una passione da missionari guadagnano quattro soldi, giusto il necessario per sopravvivere. Eppure passano le giornate in palestra a costruire pugili. A conteggiare le flessioni, a insegnargli a bucare il sacco, a saltare la corda, a correre, a resistere. "E a essere uomini" aggiunge Claudio De Camillis, poliziotto, arbitro internazionale e capo del settore Fiamme Oro, che li ha visti tutti.

"Ci chiamano da Marcianise, ce li segnalano quando sono pischelli. Arriva la telefonata di Brillantino o del coach Angelo Musone, o Clemente de Cesare, Salvatore Bizzarro, e Raffaele Munno, i 'templari' della boxe. Noi li prendiamo perché loro ci segnalano anche la testa di questi ragazzi, la provenienza, la serietà". La Polizia li arruola e ci crede. Senza le Fiamme Oro non esisterebbe il pugilato dilettantistico. Quindi non esisterebbe più la boxe in Italia.

Ormai gli sponsor non ci investono più e l'unica possibilità sarebbe andare in Germania, paese che attira le scuole più temute della boxe contemporanea, i pugili dell'est. Russi, ucraini, kazaki, uzbeki, bielorussi. I nuovi combattenti affamati. I gladiatori che hanno rilanciato l'attenzione mondiale verso il pugilato e rendono oggi la Germania la terra promessa della boxe. A Marcianise anche molti italiani sono diventati campioni, altri sono rimasti bravi atleti e nulla più. Però tutti si sono tenuti lontani dalla camorra. A volte i ragazzi imparentati a una famiglia andavano ad allenarsi la mattina e quelli della famiglia rivale ci andavano nel pomeriggio, ma la boxe li trascinava comunque via da certe logiche.

Le regole del pugilato sono incompatibili con quelle dei clan. Uno contro uno, faccia a faccia. La fatica dell'allenamento, il rispetto della sconfitta. La lenta costruzione della vittoria. Come ricorda Clemente Russo: "È una vita di sacrifici, sono vent'anni che non ho la forza di fare tardi la sera. E non mi ricordo un momento in cui potevo permettermi di cazzeggiare tra i bar, come si fa dalle nostre parti". La camorra non gestisce il pugilato per una semplice ragione, e Clemente Russo la conosce bene: "Non girano più tanti soldi. Con il primo titolo europeo juniores che ho vinto mi sono comprato un motorino.".

È solo in Germania e in Spagna che la mafia russa continuamente si infiltra per cercare di entrare nel business. Ma a quelli che comandano a Marcianise, i Belforte e i Piccolo, i soldi e i modi per procurarseli non mancano. I primi sono persino riusciti a far venire le telecamere della 'Vita in diretta' per riprendere il matrimonio di Franco Froncillo, fratello dell'emergente boss Michele Froncillo. Volevano che quelle nozze con tanto di elicottero che faceva scendere una pioggia di petali sugli sposi e sugli altri invitati non fossero immortalate dalle solite riprese a pagamento, ma dalla Rai. Di modo che non solo i parenti ma le casalinghe di tutt'Italia potessero ammirare e invidiare la sposa.

I Mazzacane e i Quaqquaroni - come vengono chiamate le famiglie rivali - sono due clan capaci di egemonizzare un vasto territorio disseminato di piccole e medie aziende. Un territorio che ospita il più grande centro commerciale d'Italia e il più grande cinema multisala - primati strani per una regione piena di disoccupazione e segnata dall'emigrazione. Significa che ci sono molti subappalti da vincere, molti parcheggi da gestire, molte polizie private da imporre. E soprattuttomolto racket.

Nel marzo 2008 il comune di Marcianise è stato sciolto per infiltrazione camorristica. E nel 1998 Marcianise era stata la prima città italiana dalla fine della Seconda guerra mondiale a vedersi imporre il coprifuoco dal prefetto. Negli anni '90 si contava un morto al giorno. Quando iniziarono a massacrarsi i Mazzacane e i Quaqquaroni, gli allenatori di boxe furono fondamentali per salvare il territorio. Seguendo nient'altro che l'imperativo del pugilato, "tutti in palestra senza distinzione di colore, testa, gusto": perché "dentro si è tutti rossi, come il sangue", come dicono nelle palestre dalle mie parti.

Mimmo Brillantino e gli altri coach andavano a prendersi i ragazzini nei bar, nelle piazze, fuori da scuola. E così li strappavano al deserto in cui i clan riescono a reclutare i giovani di generazione in generazione per metterli sulle loro scacchiere. La boxe rompeva questo meccanismo e lo faceva in modo definitivo. Il ring è più efficace, in questo, di una laurea. Perché quando hai combattuto col sudore della tua fronte e con le tue mani, arruolarsi diviene una sconfitta.

A Chicago, nel 2007, Tatanka ha dimostrato cosa significa venire da una palestra di Marcianise. Si è messo il suo caschetto azzurro e ha battuto il tedesco Povernov, col quale aveva perso nel 2005 ai Mondiali in Cina. Ha schivato i pugni del montenegrino Gajovic, che pur esperto di Europei, Mondiali e Olimpiadi e pur avendo eliminato molti sfidanti promettenti non riusciva a inquadrare Clemente che gli sfuggiva. Poi ha sconfitto il cinese Yushan, ambiziosissimo. Fino al capolavoro conclusivo contro il possente mancino Chakheiv che per tre riprese ha condotto in apparenza il gioco, aiutato dai giudici che ignoravano i colpi di Russo. La tattica aveva consentito a Chakheiv di scattare al suono dell'ultima tornata con un 6-3 che sembrava metterlo al sicuro. L'angolo di Clemente era demoralizzato, cercava di non farglielo capire, ma ormai si preparava alla sconfitta. PeròTatanka ci ha creduto sino alla fine. "Nun c'la fa cchiù, ha finito la miscela. Lo batto, lo batto". In due minuti inizia la rimonta. Un gancio, un jab, schiva un sinistro e va dritto allo zigomo del russo. Mette assieme quattro punti senza incassare neanche un colpo. Chakheiv s'è preso una grandinata di cazzotti. Non riesce nemmeno più a ricordarsi dov'è. L'incontro si conclude sul 7-6 e Clemente ne esce campione del mondo.

L'altro talento mondiale marcianisano è Domenico Valentino. Tutti lo chiamano Mirko. È il nome che la madre aveva scelto, solo che per rispetto verso il suocero gli ha poi messo il nome del nonno. Ma dopo aver pagato il debito all'anagrafe, l'ha subito chiamato Mirko. Il miglior peso leggero che abbia mai visto. Veloce, tecnico, non dà tregua all'avversario. La sua strategia ce la spiega lui: "Tocca e fuggi, tocca e fuggi". "Facevo il parrucchiere per donne" racconta, "poi ho iniziato ad allenarmi. A Marcianise è normale e così mi sono accorto che dentro di me c'era un pugile". Sembra incredibile che uno dei pugili più forti al mondo abbia fatto il parrucchiere, pare quasi il riscatto d'immagine di un'intera categoria.

Mirko da coiffeur è divenuto il più temuto peso leggero europeo. Quando è all'angolo parla spagnolo. "Metto la esse alla fine di tutte le parole, così mi sento un po' Mario Kindelan". Kindelan, peso leggero cubano e mito di Mirko, è stato due volte medaglia d'oro alle Olimpiadi e tre volte campione mondiale. Quando vinceva, sussurrava ai suoi sfidanti al tappeto "non sono miei questi pugni, sono i pugni della rivoluzione".

Domenico Valentino si guarda allo specchio per studiarsi i movimenti, velocissimi, i piedi che roteano assieme al destro. Lo specchio è fondamentale nella boxe. Salti la corda davanti allo specchio, lanci i pugni, metti a punto la guardia. Ti guardi così tanto che riesci a vederti come un altro. Il corpo che incontri riflesso non è più il tuo. Ma un corpo e basta: da modellare, da costruire. Darendere insensibile al dolore e forte alla reazione.
 
Il pugilato rimane uno sport epico perché si fonda su regole della carne che pongono l'uomo di fronte alle sue possibilità. Anche l'ultimo della terra con le sue mani, la sua rabbia, la sua velocità può dimostrare il proprio valore. Il combattimento diviene un confronto con questioni ultime che la vita contemporanea ha reso quasi impossibile. Sul ring comprendi chi sei e quanto vali. Quando combatti non conta il diritto, non conta la morale, non conta nulla se non il tuo perimetro di carne, le tue mani, i tuoi occhi. La velocità nel colpire e schivare, la capacità di sopravvivere o soccombere, di vincere o fuggire. Non puoi mentire, nel contatto fisico. Non puoi chiedere aiuto. Se lo fai, accetti la sconfitta.

Ma non è l'esito di un incontro a stabilire chi veramente è più forte. Più che la vittoria, più che i risultati degli incontri, conta la pratica dell'esperienza di dolore, conta l'assenza di senso che occorre sostenere per potervi salire e starci. Per stare dentro la vita. Agonismo e agonia. Claudio De Camillis prende Mirko per un braccio e dice: "Guarda qua, Robbè, questo non è manco 60 kg. Se lo vedi per strada, dici: questo lo schiaccio. E invece è un carro armato".

Domenico Valentino al mondiale di Chicago ha battuto l'armeno Javakhyan, vice campione europeo, in velocità. Gli ballava davanti e appena quello tentava di colpirlo, lo riempiva di pugni. Poi ha vinto contro Kim Song Guk, nordcoreano, un pugile allenato ai colpi veloci, ma che non riusciva a beccare lui. In finale con l'inglese Frankie Gavin, Valentino si è presentato con la mano destra infortunata: il suo punto debole, le mani piccole e fragili. Un vantaggio che Gavin ha sfruttato alla perfezione. Peccato. "Io non lavo mai niente fino a quando vinco. Mutande, calzettoni, pantaloncini. Poi se perdo butto via tutto. E quando vinco non mi puoi stare vicino, tanto puzzo di sudore".

Anche stavolta ha le mani ferite. Gli chiedo: "Non le avevi coperte bene con le bende?". "No" mi risponde, "questa è un'altra cosa.". E gira la testa. Sotto la nuca appare un nome tatuato: Rosanna, la fidanzata. Dopo un po' ammette: "Ho litigato con lei e siccome sono nervoso ho distrutto un motorino a pugni. Ma se vinco alle Olimpiadi, me la sposo". Domenico Valentino ha un fortissimo senso della sfida e anche del rispetto per lo sfidante. "Dal mio angolo non sentirai mai frasi tipo ammazzalo, uccidilo. Mai. Si batte il nemico. Punto". È rimasto in ottimi rapporti con Frankie Gavin, è amico della nazionale uzbeka, però "non amo i turchi perché quando vincono ti prendono in giro, ti sventolano la bandiera sotto il naso. Per il resto: tutti fratelli combattenti".

Un incontro memorabile è stato quello contro Marcel Schinske ad Helsinki nel 2007. I ragazzi di Marcianise se lo vanno a rivedere su YouTube (guarda). Il pugile tedesco tenta una strategia d'attacco. Si agita, vuole intimorire. Si scopre, errore fatale se combatti con un pugile veloce. E infatti Valentino gli infila subito un diretto al mento, così forte che Schinske non solo va a tappeto immediatamente, ma cade rigido, le braccia bloccate ancora in guardia, gli occhi rivoltati all'insù. Domenico Valentino non dimenticherà mai più quel diretto. "Robbè, ho sentito come una scarica elettrica in tutto il braccio. Mai avevo sentito una cosa così. È come se tutto il suo dolore mi fosse entrato dentro. Mi sono spaventato perché dopo essere andato ko, ha iniziato anche a scalciare come un epilettico".

Ricorda Claudio De Camillis: "L'ho dovuto prendere e abbracciare, lentamente farlo scendere dal ring. Piangeva, ha singhiozzato per quaranta minuti, pensava di averlo ammazzato. Solo quando gli ho assicurato che stava bene s'è calmato". Può sembrare incredibile ma è così: salire sul ring per buttare giù un avversario e una volta buttatolo giùpreoccuparsi che non si sia fatto troppo male, che possa continuare ad essere uomo e pugile. Come Joe Frazier, uno dei miti di Clemente Russo.

Joe Frazier combatteva compatto, un mattone nerissimo di muscoli, ma agile, e vinse il titolo mondiale. Ma in quel periodo il campione dei campioni, Mohamed Alì, era fuori, aveva deciso di mollare la boxe. E nel 1971, quando Frazier incontra Alì capisce che solo dopo averlo affrontato potrà definirsi davvero un campione. Dopo quindici riprese, trova la strada per un gancio. Alì cade. Battuto. Quattro anni dopo, Frazier rinnova la sfida. Un match considerato tra i migliori mai combattuti. Nessuno riesce a sopraffare l'altro. Frazier e Alì sanguinano entrambi, gli occhi perdono visuale gonfiandosi, il fiato manca. Gli arbitri non trovano il coraggio di fermare un match seguito da tutto il mondo, gli allenatori non se la sentono ad esser loro a gettar la spugna. Allora è Frazier che decide. Sono entrambi stanchi e pesti e Frazier teme di ammazzare o di essere ammazzato. Cuore a mille, respiro corto, mascella lussata, sangue dalle sopracciglia, giudici imbarazzati. Joe Frazier riconosce che tocca a lui. E si ritira lasciando la vittoria ad Alì. Le leggi che emergono quando le altre non funzionano sono scritte col corpo. Lealtà, rabbia, stima dell'avversario nascono dopo che hai tentato di massacrarlo e dopo che lui ha tentato di massacrare te e si è pari. "In fondo" disse allora Frazier "non c'è bisogno di trovare troppe motivazioni. Dentro di te lo sai sempre cosa è giusto e cosa è sbagliato". Joe Frazier aveva citato Immanuel Kant senza saperlo.

Domenico ha una faccia inconfondibile. Ha la maschera del pugile anche se "il naso non me l'hanno mai rotto, ce l'ho così naturalmente". Uno di quei visi che i pugni e gli esercizi levigano lentamente come vento e acqua fanno con le rocce. Piero Pompili lo inquadra poi mi dice di guardare nell'obiettivo emi appare un viso quasi azteco. Piero Pompili fotografa pugili da sempre. Quasi tutti i pugili del mondo sono stati ritratti da lui in palestra quando erano solo un agglomerato di ambizioni e speranze davanti al sacco. Pompili riconosce in loro le opere dei grandi maestri "Guido Reni, ecco Guido Reni", oppure "Caravaggio, sei un Caravaggio". I pugili lo guardano, gli vogliono bene, ma non capiscono quel che lo esalta. E lui li incalza come fanno i fotografi di modelle, ma con parole assai diverse: "Vai, Tatanka, gancio, gancio. Vai Mirko, veloce, colpisci, colpisci". Pompili vede oltre, l'insieme delle pulsioni che dilaniano un uomo è tracciato nel bianco e nero delle sue foto.

Guardando Tatanka sul ring mentre Pompili scatta, ho sensazioni diverse. Non ho mai provato invidia verso un uomo in vita mia, Clemente Russo invece lo invidio. Il suo corpo in movimento trasmette un senso arcaico di familiarità. Perché è così che ti immagini Ettore, Alessandro, Achille, Enea, i soldati di Senofonte, i soldati a Salamina o alle Termopili. Più tardi vieni a sapere che non erano muscolosi, che Achille non superava il metro e cinquanta, Leonida era tondeggiante e spelacchiato, ma nessuno ti toglie più dalla mente l'immagine della bellezza epica del combattimento e Clemente Russo ora la incarna.

"Prima di un match" dice Tatanka "non riesco a pensare a niente. Prima di un match non faccio l'amore per una settimana. Niente. Sto concentrato e vedo solo in testa i miei colpi, quelli che dovrebbero risolvere l'incontro". "Io invece penso a chi non c'è più", ribatte Mirko, "gli amici andati via. I parenti scomparsi". Si combatte sempre per qualcuno, per qualcosa che deve arrivare, si combatte sempre in nome di qualcosa, ma istintivamente. "Noi siamo come i cavalli alle gabbie prima della corsa. Questo siamo, prima dell'incontro".

A Clemente, i pugili che piacciono di più sono Roy Jones jr e Oscar De La Hoya. E Mohamed Alì? Risponde Mirko: "Alì era grande di testa, ma forse ce n'erano migliori di lui. Ma nessuno come lui è stato insieme testa, corpo, immagine, lotta politica. Alì era un campione della comunicazione. Non solo un pugile".

Roy Jones jr è un pugile che ha importato la break dance nella boxe. I suoi incontri erano un vero e proprio spettacolo di danza. A volte prima di colpire faceva dei passi ritmati indietro, simili alle mosse a scatti di un rapper. Roy Jones combatteva a guardia bassa, apriva completamente le braccia, sporgeva la testa in avanti e faceva partire una grandinata di jab, da destra o da sinistra. Spesso si allenava in acqua. "Tirare cazzotti sott'acqua rende l'aria più leggera" gli diceva il suo allenatore.

Oscar De La Hoya, amato pure da Valentino, è un pugile americano di origine messicana che cambia continuamente di categoria perché per anni nessuno è riuscito a batterlo. Ha dovuto trovarsi gli sfidanti in giro per il mondo. Oscar De La Hoya sale sul ring e il suo staff gli porta dietro una bandiera bifronte, da un lato stelle e strisce, dall'altro il tricolore con l'aquila del Messico. Ogni incontro vinto Oscar lo dedica a sua madre, morta di cancro quando lui aveva diciotto anni. Lavora ai fianchi, poi parte coi colpi agli zigomi, acceca gli occhi e, quando lo sfidante si stringe alle corde e cade, Oscar De la Hoya si allontana lasciando la conta all'arbitro finché non lo sente arrivare a dieci. Allora guarda in cielo ed esclama: "Per te, mamma". De La Hoya è un pugile completo, veloce, non un grande incassatore, ma dinamico, arrabbiato. "Per me l'incontro più bello" dice Mirko "è De La Hoya contro Floyd Mayweather jr, due condottieri. Il meglio del pugilato in assoluto". De La Hoya, faccia da indio; Mayweather, viso da bravo ragazzo, lineamenti dolci. Il primo a rappresentare i messicani, i portoricani, i latinos, in genere tutta l'emigrazione senza green card. Il secondo, la borghesia afroamericana, gli uomini d'ebano eleganti, i neri che ce l'hanno fatta. Malcolm X è lontano. È ancora di più lo sono OJ Simpson, Puff Daddy, i neri cafoni che esibiscono danaro, successo, donne.

Nella presentazione del match, Mayweather gioca a fare il verso ad Alì insultando De La Hoya, ma il messicano commenta: "Sembrava più un chihuahua che un duro". Per uno sport divenuto povero come la boxe, questo incontro aveva una borsa di tutto rispetto: quarantacinque milioni di dollari. De La Hoya era allenato dal padre di Mayweather, che prima dell'incontro però rompe ogni rapporto. Non può allenare il suo pugile in un match contro suo figlio. E così De La Hoya cambia coach. Il combattimento è uno spettacolo. De La Hoya aggredisce, colpisce, ma Mayweather si difende e contrattacca. Ha la rabbia dell'ambizione, vuole dimostrare di essere il numero uno. De La Hoya sa già di essere il più grande, sembra non voler dimostrare più nulla. Combatte, ma ormai non pare più interessato alla vittoria. È come se tutto fosse già accaduto. E alla fine il chico de oro del pugilato mondiale è sconfitto da un pugile imbattuto. "Gli incontri li vince sempre chi deve dimostrà qualcosa a qualcuno, ma soprattutto a se stesso", mi dice De Camillis.

Clemente e Mirko andranno a Pechino colmi di carica. Porteranno stretti nei loro pugni tutta la rabbia di questa terra. Quando li fermano per strada a Marcianise, tutti domandano: "Quando partiamo per Pechino?". Non dicono "partite", ma "partiamo". Perché in queste imprese non si è più soli, ma si diviene la somma di tanti. Una somma che rafforza l'anima. E così a questi due pugili verrebbe da chiedere una cosa: ridate a queste terre quel che ci hanno tolto, dimostrate cosa significa nascere qui - la rabbia, la solitudine, il nulla ogni sera. Perché tutto questo è la materia di cui sono fatti Clemente e Mirko, materia che altrove non esiste uguale. La fame vera di diventare qualcuno, raggiungere un obiettivo, distinguerti dalla codardia e dalla piaggeria di coloro che ti sono intorno. Perché la vita la misuri in ogni caduta, perché combattere significa non fidarti di nessuno, sapere che qui tutto è sempre in salita, pararti sempre le spalle e ricordare sempre chi non ce l'ha fatta.

Però nella tua ambizione può raccogliersi l'aspirazione di un intero territorio, e porti nella tua sfida le speranze di molti, e i pugni che dai e ricevi sul ring smettono di essere gesti sportivi e divengono simboli. Divengono i cazzotti di un'intera generazione, i ganci e gli uppercut di chi non ne può più di stare sempre in salita e giorno dopo giorno mette da parte un nuovo strato di rabbia. E allora smetti di combattere solo per te stesso, per il tuo titolo, per i tuoi allenatori, per i soldi da portare a casa, per la fidanzata che vuoi sposarti. E combatti per tutti. Come De La Hoya ha sempre combattuto con tutti i latinos dentro i suoi pugni, come ha lottato Mohamed Alì con nel sangue il riscatto di tutti gli afro del mondo, o Jake La Motta con la furia che girava nel corpo degli italoamericani.

E allora a voi, Clemente e Mirko, carichi di questo significato iscritto nei vostri muscoli, col vostro sguardo, con la velocità dei vostri pugni e delle vostre gambe, col vostro coraggio che non vi ha fatto camminare rasente i muri, non resta che inchiodare all'angolo chi vi sfida e cercare di fare un'unica cosa: vincere.




31 luglio 2008


da www.robertosaviano.it


Titolo: La camorra a mezzo stampa e Saviano sfida i legali dei boss
Inserito da: Admin - Settembre 08, 2008, 09:48:49 am
CRONACA

Lo scrittore chiude il Festival di Mantova con una denuncia su crimine e informazione

La camorra a mezzo stampa e Saviano sfida i legali dei boss

di FRANCESCO ERBANI

 
MANTOVA - "Ognuno di voi lettori fa paura". Fa paura ai poteri camorristi che lui racconta. La voce di Roberto Saviano scende sul silenzio della platea del Teatro Sociale di Mantova, pieno fino all'ultimo posto. "Oggi sono 695 giorni che vivo sotto scorta. 11.120 ore. Non prendo treni, non salgo in macchina. Ho il sogno di una casa. Ma a Napoli l'ho cercata in via Luca Giordano, via Solimena, via Cimarosa. Niente. A Posillipo hanno chiesto un appartamento per me i carabinieri. Avevano risposto sì. Quando hanno visto che ero io, hanno detto: l'abbiamo affittata un'ora fa".

Gli accessi del teatro sono controllati, agenti in borghese camminano fra le poltrone, quattro di loro stazionano sul palco. In platea - dice Saviano - anche gli avvocati dei boss che in aula lessero una lettera di minacce allo scrittore, al giudice Raffaele Cantone e a Rosaria Capacchione, giornalista del Mattino.

Le parole di Saviano raccontano la camorra a mezzo stampa, disegnano lo spazio stretto di una narrazione alla quale è impedito il movimento libero e che è costretta a esprimersi in uno stato di limitazione che è l'antitesi del narrare e in fin dei conti della letteratura. Ed è a questo valore simbolico che si sono richiamati gli organizzatori del Festival mantovano chiedendo allo scrittore campano di chiudere la dodicesima edizione. Saviano è arrivato a Mantova con la sua scorta, "la mia falange", lasciando fino all'ultimo in sospeso gli organizzatori che hanno potuto comunicare la sua presenza solo venerdì mattina. Ottocento i biglietti venduti, svaniti nel giro di un'ora. Fuori al teatro si assiepa una folla silenziosa e ordinata.

Saviano, camicia bianca e jeans, racconta come certa stampa locale si sia fatta megafono della camorra, con i suoi titoli e le allusioni, Pochi giorni dopo l'omicidio di don Peppe Diana, Il Corriere di Caserta titola "Don Peppe Diana era un camorrista": sono le parole di un boss, compaiono fra virgolette, ma per il giornale hanno un crisma di verità. Quando viene arrestato, l'assassino del sacerdote, De Falco, viene definito "boss playboy" e segue un pezzo sulle doti amatorie di altri camorristi. Quando è sequestrato il piccolo Tommaso Onofri, il giornale Cronache di Napoli titola: "Tommaso, il dolore dei boss". Qualche giorno dopo viene trovato il corpo di Tommaso. Titolo su Cronache di Napoli: "Tommaso è morto: l'ira dei padrini".

Quando viene catturato un cugino di Francesco Schiavone, il titolo suona: "Cicciariello arrestato con l'amante". Il boss Prestieri viene dipinto come appassionato d'arte. Si racconta la passione di capoclan per la poesia e la narrativa. Un killer vince un premio letterario.

Un altro titolo: "Sandokan a Berlusconi: i pentiti sono contro di noi". "Ma noi chi?", si chiede Saviano. E prova a rispondere. "Io sono un imprenditore, dice di sé Sandokan, e mi rivolgo al numero uno degli imprenditori, perché i pentiti non sono altro che concorrenti sleali".

Le parole dette e scritte, rilanciate dai titoli. I ragazzi di Casal di Principe che recitano, come una cantilena: "Gomorra è pieno di favole, sono solo favole". Dalla carta stampata alla tv. Sullo schermo parte un video. La sorella di uno Schiavone, in un programma Mediaset, senza apparire fa sentire la sua voce a proposito di Saviano: "Ma cosa gli abbiamo fatto noi di Casale, gli abbiamo violentato la fidanzata?". Lo scrittore alza il viso dallo schermo: "Chi di voi dopo queste parole può dire che non è successo niente? Questa notte pensate se qualcuno viene da voi e dice queste parole, domandatevi se la vostra vita d'improvviso non diventa un pericolo per chi vi sta vicino".

Gli avvocati dei boss che in aula hanno letto la lettera dei boss "sono qui in platea", dice Saviano. "Sono contento che vengano tutte le volte che parlo in pubblico. I vostri assistiti fateli venire direttamente, o pensate che io abbia paura? Ce lo diciamo sempre io e i miei ragazzi: noi non facciamo paura perché non abbiamo paura. È la letteratura che li terrorizza. Sono i lettori che fanno paura". La gente applaude in piedi, a lungo. Saviano si siede, le mani sul viso.

Il festival si chiude con un bilancio a tinte rosee. Cinquantasettemila biglietti staccati. Ventitremila presenze agli appuntamenti gratuiti. Totale: ottantamila sono le persone che hanno frequentato da mercoledì pomeriggio a ieri i 225 incontri della dodicesima edizione del Festivaletteratura, un dieci per cento in più rispetto alla precedente. Eppure non sono le quantità gli elementi che più soddisfano gli organizzatori.

Mantova consolida la sua formula, in qualche modo la intensifica. Ieri mattina Gillo Dorfles, presentando il suo Horror pleni e parlando del conformismo, ha detto che esiste un conformismo positivo, molto minoritario, e un conformismo negativo, di gran lunga maggioritario. "Il Festivaletteratura è una forma di conformismo positivo", ha detto l'anziano studioso di estetica, architettura e design. È molto simile a sé stesso ogni anno che passa, sempre più orientato a raccogliere pubblici diversi, ad allargare i confini dell'idea di letteratura e correttamente inserito in un contesto urbano che attribuisce molto senso ai racconti, alle riflessioni e ai dibattiti. La sua formula, autori che raccontano e si raccontano, viene ripetuta.

Jonathan Safran Foer, una delle poche star di questa edizione (insieme a Daniel Pennac, Hans Magnus Enzensberger, Carlos Fuentes e Scott Turow), ha animato un incontro molto frizzante con Gad Lerner, che si è chiuso con la lettura, commossa, dell'ultima pagina di Molto forte, incredibilmente vicino da parte di Lella Costa.

Il giovanissimo scrittore americano si è messo all'estremità di una tastiera che poi ha fatto suonare le note di Ezio Raimondi, il quale ha raccontato come la lettura sia il modo migliore per incontrare l'altro; o di Boris Pahor, che ha narrato la storia di un sopravvissuto dalla Necropoli (questo il titolo del suo libro) dei campi di sterminio; passando per Paolo Giordano, Diego De Silva e Valeria Parrella, che ieri hanno messo a confronto le loro idee di Napoli, emerse anche nell'incontro che Marco Rossi-Doria, il maestro di strada, ha avuto con Eraldo Affinati. Letteratura e narrazioni sono state il perno dell'incontro di Alberto Arbasino, autore di L'ingegnere in blu, un ritratto di Carlo Emilio Gadda. Poi la letteratura ha lasciato il posto alla matematica, alla filosofia, all'architettura e alle performances - i comizi, ad esempio, lettura di testi del passato per la voce di scrittori contemporanei.

Il Festival si è radicato nella città e lascia un sedimento che dura tutto l'anno: il libro scelto per una serie di letture di qui alla prossima edizione è Amore e ginnastica di Edmondo De Amicis. Il testimone passa alla tredicesima edizione.


(8 settembre 2008)

da repubblica.it


Titolo: Emilio Fede vs Saviano: «Vita da scortato? Potrei darti delle lezioni» -
Inserito da: Admin - Settembre 10, 2008, 10:28:14 pm
La polemica nel corso del telegiornale

Emilio Fede vs Saviano: «Vita da scortato? Potrei darti delle lezioni» -

Il direttore di Rete 4 ha attaccato in maniera sferzante l'autore di «Gomorra», protagonista di una polemica con alcuni giornali 
 


NAPOLI - Durante l’edizione del Tg 4 di ieri 9 settembre Emilio Fede ha duramente commentato le ultime dichiarazioni del giornalista Roberto Saviano nel corso del Festival della letteratura di Mantova. Sferzanti i giudizi del direttore del telegiornale Mediaset a proposito della notorietà e dei guadagni ottenuti dall’autore di «Gomorra»: secondo Fede, Saviano avrebbe ben cavalcato l’onda della notorietà ottenuta per i suoi scoop giornalistici riguardanti il clan camorristico casertano dei Casalesi. E poi contenuti nel best seller divenuto poi anche un film di successo internazionale.

L’attacco andato in onda su Rete 4 si fa ancor più pesante quando Fede, dopo aver sarcasticamente dichiarato la sua solidarietà all'autore napoletano, ha poi parlato della vita da scortato che Saviano sta conducendo e di cui spesso si lamenta (lo ha fatto anche in occasione del meeting di Mantova). Fede valuta questa condizione da «prigioniero» come positiva per le tasche del giornalista-scrittore.

L’Emilio nazionale, continuando, dichiara di poter dare lezioni al giovane scrittore su come sia la vita da scortati, un atteggiamento che va controcorrente rispetto alle manifestazioni solidali espresse dalla categoria dei giornalisti nei confronti di Saviano. Il commento più lampante alle dichiarazioni del direttore della terza rete Mediaset è la presenza del suo intervento nella trasmissione di Rai 3 «Blob», da sempre contenitore dei peggiori exploit che la tv italiana ed i suoi protagonisti riescono a partorire.

A. D. P.
10 settembre 2008

da corrieredelmezzogiorno.corriere.it


Titolo: Ciro Pellegrino - La stampa di rispetto e il rispetto della stampa
Inserito da: Admin - Settembre 11, 2008, 09:13:01 am
La stampa di rispetto e il rispetto della stampa

Ogni cronista con un poco di pratica, riesce ad intuire quegli avvenimenti che nei giorni successivi faranno notizia.

Immodestamente, ho capito subito che la presenza di Roberto Saviano al Festival della Letteratura di Modena, avrebbe generato titoli "pesanti" sui giornali.

Lui è un poco come il concerto di Madonna.


E dire che la questione della "stampa di rispetto" Saviano l'aveva scritta anni prima (almeno tre anni prima) su un periodico locale, la "Voce della Campania", citando più o meno gli stessi episodi e gli stessi quotidiani. Che non sono stati chiusi. Orrore: la magistratura non si è accorta di questi bollettini della camorra? E l'Ordine dei Giornalisti, la Federazione della Stampa hanno fatto finta di non vedere? O Saviano si sbaglia?
Se avete la pazienza di leggere, vi spiego il punto di vista di uno che conosce abbastanza bene questa realtà.

Abito nel rione Sanità: quando ci sono faide, omicidi, blitz, arresti eccellenti, vanno a ruba i giornali di cronaca nera cittadina. La gente non li compra certo per leggere i titoli sulle strategie criminali da Napoli al Montenegro o le dichiarazioni dell'associazione magistrati sulla riforma della giustizia. Ma per leggere che Giovanni alias ‘o stuort si è fatto beccare con due grammi di cocaina di fronte alla chiesa della madonna al rione Sanità. Con tanto di capuzzella, la mitica foto dell'arrestato (in alcuni casi della vittima) che arriva dritta dalla questura. Dunque, il linguaggio: giornali del genere utilizzano il linguaggio della loro platea di riferimento. Non significa sposarne le idee, ma che Giovanni Esposito in quel contesto è Giovanni ‘o stuort e nessuno lo riconoscerebbe mai come Esposito. Del resto Saviano a nomignoli e alias deve parte della fortuna di Gomorra.

Seconda questione: parlare dei fattarielli dei boss (quello che si fa arrestare con l'amante) o dei "padrini" che si incazzano e si indignano dell'omicidio del piccolo Tommy Onofri. I giornali che si occupano esclusivamente di nera cittadina devono sempre fare i conti con una parte consistente del loro bacino: detenuti e parenti dei detenuti. Restituire "gli umori" delle carceri rafforza in quel target specifico l'idea che il giornale "la sa lunga". Si può fare parlando con la moglie di un detenuto (e un buon nerista ne conosce di parenti...avete voglia...) oppure con una guardia carceraria amica. E anche nella camorra esiste il gossip. Se vuoi vendere in quella fetta di mercato ti adegui. Pagandone le conseguenze: gli avvocati dei boss o presunti tali sono mooolto attenti e inclini alla querelona.

Terza questione: quella che più mi fa incazzare. Il fatto di don Peppino Diana. Un titolo del Corriere di Caserta nel mirino di Saviano recitava «Don Peppe Diana era un camorrista»; virgolettato pareattribuito a un non meglio specificato avvocato. Posso provocare senza che v'incazzate? Un giornale ha la libertà (badate bene, libertà, non diritto) di pubblicare qualsiasi dichiarazione. Salvo poi pagarne le conseguenze in sede civile e penale. Ovviamente non condivido ogni affermazione calunniosa su don Diana, ma la superficialità di Roberto Saviano mi fa incazzare. Perché Saviano non ci dice chi ha dichiarato quella cosa? E chi l'ha dichiarata è stato portato in tribunale? E la causa è andata a buon fine? Dài una notizia, cazzo, dalla fino in fondo. Ancora mi resta la curiosità di sapere se c'è stata querela per diffamazione. Badate bene: se non c'è stata non significa certo che don Peppino era camorrista.

La quarta e ultima questione è personale, la racconto così.
Un giorno di qualche anno fa vennero al giornale dove lavoravo io, due ragazzi, a "presentarsi" al direttore che voleva parlarci per capire se erano intenzionati a passare con noi. Il primo faceva il nerista a tempo pieno, cioè tutto il giorno nella sala stampa della questura attaccato alla radiolina e agli ispettori. Il secondo proveniva da Caserta (anzi, da Maddaloni) e curava le pagine dell'area Nord di Napoli. Dicevano, sbagliando, che aveva un bruttissimo carattere. Entrambi venivano da Cronache di Napoli e Corriere di Caserta, conoscevano benissimo le dinamiche della nera 24h su 24 e ne erano più o meno stufi.
Una cosa è certa: i "giornali di rispetto" o la "camorra a mezzo stampa", come la chiama Roberto Saviano, su di loro evidentemente non avevano attecchito: ho imparato da Alberto Marzaioli e da Peppino Porzio tante buone cose su come fare onestamente e con lealtà questo mestiere. E anche per questo mi arrabbio, e molto: Alberto non c'è più, sentir buttare fango su tutto e tutti, senza fare distinguo, mischiando editori e redattori, sentir bollare la storia professionale di decine di giornalisti come contigua alla camorra, senza salvare nessuno, fa male. Così come fa male leggere la Federazione nazionale della Stampa che, a proposito della questione Saviano e dei cronisti campani parla dei «...tanti colleghi perbene che in condizioni difficili fanno con grande dignità il loro lavoro in quei territori».
Ma cari Roberto Natale e Roberto Saviano (ma è giornalista Saviano?) noi "colleghi perbene" non facciamo il nostro lavoro con "grande dignità" come si direbbe di un poveraccio. Noi lo facciamo come il padreterno comanda. E siamo pure bravi, cari. E c'è di più: i cronisti minacciati non stanno soltanto su un palco del Festival di Mantova, o in tivvù ma tra le strade di Napoli, Palermo, Locri, Caserta, Bari. Probabilmente qualcuno anche a Cronache di Napoli e al Corriere di Caserta. E stanno zitti, senza mettersi in mostra. Ed è bene che anche Roberto Saviano e il sindacato dei giornalisti italiani se ne rendano conto.


Ciro Pellegrino
09 settembre 2008


Titolo: Il direttore di Rete 4 ha attaccato in maniera sferzante l'autore di Gomorra...
Inserito da: Admin - Settembre 11, 2008, 09:14:34 am
La polemica nel corso del telegiornale

Emilio Fede vs Saviano: «Vita da scortato? Potrei darti delle lezioni» -

Il direttore di Rete 4 ha attaccato in maniera sferzante l'autore di «Gomorra», protagonista di una polemica con alcuni giornali 
 


NAPOLI - Durante l’edizione del Tg 4 di ieri 9 settembre Emilio Fede ha duramente commentato le ultime dichiarazioni del giornalista Roberto Saviano nel corso del Festival della letteratura di Mantova. Sferzanti i giudizi del direttore del telegiornale Mediaset a proposito della notorietà e dei guadagni ottenuti dall’autore di «Gomorra»: secondo Fede, Saviano avrebbe ben cavalcato l’onda della notorietà ottenuta per i suoi scoop giornalistici riguardanti il clan camorristico casertano dei Casalesi. E poi contenuti nel best seller divenuto poi anche un film di successo internazionale.

L’attacco andato in onda su Rete 4 si fa ancor più pesante quando Fede, dopo aver sarcasticamente dichiarato la sua solidarietà all'autore napoletano, ha poi parlato della vita da scortato che Saviano sta conducendo e di cui spesso si lamenta (lo ha fatto anche in occasione del meeting di Mantova). Fede valuta questa condizione da «prigioniero» come positiva per le tasche del giornalista-scrittore.

L’Emilio nazionale, continuando, dichiara di poter dare lezioni al giovane scrittore su come sia la vita da scortati, un atteggiamento che va controcorrente rispetto alle manifestazioni solidali espresse dalla categoria dei giornalisti nei confronti di Saviano. Il commento più lampante alle dichiarazioni del direttore della terza rete Mediaset è la presenza del suo intervento nella trasmissione di Rai 3 «Blob», da sempre contenitore dei peggiori exploit che la tv italiana ed i suoi protagonisti riescono a partorire.

A. D. P.
10 settembre 2008

da corrieredelmezzogiorno.corriere.it


Titolo: ROBERTO SAVIANO "Lettera alla mia terra"
Inserito da: Admin - Settembre 22, 2008, 10:31:51 am
"Lettera alla mia terra"

di Roberto Saviano

Il grido d'accusa dello scrittore dopo la strage di Castel Volturno "Davvero pensate che nulla di ciò che accade dipenda dal vostro impegno?"


I responsabili hanno dei nomi. Hanno dei volti. Hanno persino un'anima. O forse no. Giuseppe Setola, Alessandro Cirillo, Oreste Spagnuolo, Giovanni Letizia, Emilio di Caterino, Pietro Vargas stanno portando avanti una strategia militare violentissima. Sono autorizzati dal boss latitante Michele Zagaria e si nascondono intorno a Lago Patria. Tra di loro si sentiranno combattenti solitari, guerrieri che cercano di farla pagare a tutti, ultimi vendicatori di una delle più sventurate e feroci terre d'Europa. Se la racconteranno così. Ma Giuseppe Setola, Alessandro Cirillo, Oreste Spagnuolo, Giovanni Letizia, Emilio di Caterino e Pasquale Vargas sono vigliacchi, in realtà: assassini senza alcun tipo di abilità militare. Per ammazzare svuotano caricatori all'impazzata, per caricarsi si strafanno di cocaina e si gonfiano di Fernet Branca e vodka. Sparano a persone disarmate, colte all'improvviso o prese alle spalle. Non si sono mai confrontati con altri uomini armati. Dinnanzi a questi tremerebbero, e invece si sentono forti e sicuri uccidendo inermi, spesso anziani o ragazzi giovani. Ingannandoli e prendendoli alle spalle

E io mi chiedo: nella vostra terra, nella nostra terra sono ormai mesi e mesi che un manipolo di killer si aggira indisturbato massacrando soprattutto persone innocenti. Cinque, sei persone, sempre le stesse. Com'è possibile? Mi chiedo: ma questa terra come si vede, come si rappresenta a se stessa, come si immagina? Come ve la immaginate voi la vostra terra, il vostro paese? Come vi sentite quando andate al lavoro, passeggiate, fate l'amore? Vi ponete il problema, o vi basta dire, "così è sempre stato e sempre sarà così? Davvero vi basta credere che nulla di ciò che accade dipende dal vostro impegno o dalla vostra indignazione? Che in fondo tutti hanno di che campare e quindi tanto vale vivere la propria vita quotidiana e nient'altro. Vi bastano queste risposte per farvi andare avanti? Vi basta dire "non faccio niente di male, sono una persona onesta" per farvi sentire innocenti? Lasciarvi passare le notizie sulla pelle e sull'anima. Tanto è sempre stato così, o no? O delegare ad associazioni, chiesa, militanti, giornalisti e altri il compito di denunciare vi rende tranquilli? Di una tranquillità che vi fa andare a letto magari non felici ma in pace? Vi basta veramente?

“In qualsiasi altro paese la libertà d'azione di un simile branco di assassini avrebbe generato dibattiti, scontri politici, riflessioni. Invece qui si tratta solo di crimini connaturati a un territorio considerato una delle province del buco del culo d'Italia.”
Questo gruppo di fuoco ha ucciso soprattutto innocenti. In qualsiasi altro paese la libertà d'azione di un simile branco di assassini avrebbe generato dibattiti, scontri politici, riflessioni. Invece qui si tratta solo di crimini connaturati a un territorio considerato una delle province del buco del culo d'Italia. E quindi gli inquirenti, i carabinieri e poliziotti, i quattro cronisti che seguono le vicende, restano soli. Neanche chi nel resto del paese legge un giornale, sa che questi killer usano sempre la stessa strategia: si fingono poliziotti. Hanno lampeggiante e paletta, dicono di essere della DIA o di dover fare un controllo di documenti. Ricorrono a un trucco da due soldi per ammazzare con più facilità. E vivono come bestie: tra masserie di bufale, case di periferia, garage.


Hanno ucciso sedici persone. La mattanza comincia il 2 maggio verso le sei del mattino in una masseria di bufale a Cancello Arnone. Ammazzano il padre del pentito Domenico Bidognetti, cugino ed ex fedelissimo di Cicciotto e' mezzanotte. Umberto Bidognetti aveva 69 anni e in genere era accompagnato pure dal figlio di Mimì che giusto quella mattina non era riuscito a tirarsi su dal letto per aiutare il nonno. Il 15 maggio uccidono a Baia Verde, frazione di Castelvolturno, il sessantacinquenne Domenico Noviello, titolare di una scuola guida. Domenico Noviello era un uomo che si era opposto al racket otto anni prima. Era stato sotto scorta, ma poi il ciclo di protezione era finito. Noviello non sapeva di essere nel mirino, non se l'aspettava. Gli scaricano addosso 20 colpi mentre con la sua Panda stava andando a fare una sosta al bar prima di aprire l'autoscuola. La sua esecuzione era anche un messaggio alla Polizia che stava per celebrare la sua festa proprio a Casal di Principe tre giorni dopo e ancor più una chiara dichiarazione: può passare quasi un decennio ma i Casalesi non dimeticano. Prima ancora, il 13 maggio, distruggono con un incendio la fabbrica di materassi di Pietro Russo a Santa Maria Capua Vetere. E' l'unico dei loro bersagli ad avere una scorta. Perché è stato l'unico che, con Tano Grasso, tentò di organizzare un fronte contro il racket in terra casalese. Poi, il 30 maggio, a Villaricca colpiscono alla pancia Francesca Carrino, una ragazza, venticinque anni, nipote di Anna Carrino, la ex compagna di Francesco Bidognetti, pentita. Era in casa con la madre e con la nonna, ma era stata lei ad aprire la porta ai killer che si spacciavano per agenti della DIA. Non passa nemmeno un giorno che a Casal di Principe, mentre dopo pranzo sta per andare al "Roxy bar" uccidono Michele Orsi, imprenditore dei rifiuti vicino al clan che, arrestato l'anno prima, aveva cominciato a collaborare con la magistratura svelando gli intrighi rifiuti-politica-camorra. E' un omicidio eccellente che fa clamore, solleva polemiche, fa alzare la voce ai rappresentanti dello Stato. Ma non fa fermare i killer. L'11 luglio uccidono al Lido "La Fiorente" di Varcaturo Raffaele Granata, 70 anni, gestore dello stabilimento balneare e padre del sindaco di Calvizzano. Anche lui paga per non aver anni prima ceduto alle volontà del clan. Il 4 agosto massacrano a Castelvolturno Ziber Dani e Arthur Kazani che stavano seduti ai tavoli all'aperto del "Bar Kubana" e, probabilmente, il 21 agosto Ramis Doda, venticinque anni, davanti al "Bar Freedom" di San Marcellino. Le vittime sono albanesi che arrotondavano con lo spaccio, ma avevano il permesso di soggiorno e lavoravano nei cantieri come muratori e imbianchini. Poi il 18 agosto aprono un fuoco indiscriminato contro la villetta di Teddy Egonwman, presidente dei nigeriani in Campania che si batte da anni contro la prostituzione delle sue connazionali, ferendo gravemente lui, sua moglie Alice e altri tre amici. Tornano a San Marcellino il 12 settembre per uccidere Antonio Ciardullo ed Ernesto Fabozzi, massacrati mentre stavano facendo manutenzione ai camion della ditta di trasporti di cui il primo era titolare. Anche lui non aveva obbedito, e chi gli era accanto è stato ucciso perché testimone. E infine, il 18 settembre, trivellano prima Antonio Celiento, titolare di una sala giochi a Baia Verde e un quarto d'ora dopo, aprono un fuoco di 130 proiettili di pistole e kalashnikov contro gli africani riuniti dentro e davanti la sartoria "Ob Ob Exotic Fashion" di Castelvolturno. Muoiono Samuel Kwaku, 26 anni e Alaj Ababa, del Togo; Cristopher Adams e Alex Geemes, 28 anni, liberiani; Kwame Yulius Francis, 31 anni e Eric Yeboah, 25, ghanesi, mentre viene ricoverato con ferite gravi Joseph Ayimbora, 34 anni, anche lui del Ghana. Solo uno o due di loro avevano forse a che fare con la droga, gli altri ragazzi erano lì per caso, lavoravano duro nei cantieri o dove capitava, e pure nella sartoria.

“Sedici vittime in meno di sei mesi. Qualsiasi paese democratico con una situazione del genere avrebbe vacillato. Qui da noi, nonostante tutto, neanche se n'è parlato.”
Sedici vittime in meno di sei mesi. Qualsiasi paese democratico con una situazione del genere avrebbe vacillato. Qui da noi, nonostante tutto, neanche se n'è parlato. Neanche si era a conoscenza da Roma in su di questa scia di sangue e questo terrorismo, che non parla arabo, che non ha stelle a cinque punte, ma comanda e domina senza contrasto. Ammazzano chiunque si oppone. Ammazzano chiunque capiti sotto tiro, senza riguardi per nessuno. La lista dei morti potrebbe essere più lunga, molto più lunga. E per tutti questi mesi nessuno ha informato l'opinione pubblica che girava questa "paranza di fuoco". Paranza, come le barche che escono a pescare insieme in alto mare. Nessuno ne ha rivelato i nomi sino a quando non hanno fatto strage a Castelvolturno. Ma sono sempre gli stessi, usano sempre le stesse armi, anche se cercano di modificarle per trarre in inganno la scientifica, segno che ne dispongono di poche. Non entrano in contatto con le famiglie, stanno rigorosamente fra di loro. Ogni tanto qualcuno li intravede nei bar di qualche paesone, dove si fermano per riempirsi d'alcol. E da sei mesi nessuno riesce ad acciuffarli.
Castelvolturno, territorio dove sono avvenuti la maggior parte dei delitti, non è un luogo qualsiasi. Non è un quartiere degradato, un ghetto per reietti e sfruttati come se ne possono trovare anche altrove, anche se ormai certe sue zone somigliano più alle home town dell'africa che al luogo di turismo balneare per il quale erano state costruite le sue villette. Castelvolturno è il luogo dove i Coppola edificarono la più grande cittadella abusiva del mondo, il celebre Villaggio Coppola.

“Castelvolturno è il luogo dove i Coppola edificarono la più grande cittadella abusiva del mondo, il celebre Villaggio Coppola. Ottocentosessantatremila metri quadrati occupati col cemento. Che abusivamente presero il posto di una delle più grandi pinete marittime del mediterraneo.”Ottocentosessantatremila metri quadrati occupati col cemento. Che abusivamente presero il posto di una delle più grandi pinete marittime del mediterraneo. Abusivo l'ospedale, abusiva la caserma dei carabinieri, abusive le poste. Tutto abusivo. Ci andarono ad abitare le famiglie dei soldati della NATO. Quando se ne andarono, il territorio cadde nell'abbandono più totale e divenne tutto feudo di Francesco Bidognetti e al tempo stesso territorio della mafia nigeriana. I nigeriani hanno una mafia potente con la quale ai Casalesi conveniva allearsi, il loro paese è diventato uno snodo nel traffico internazionale di cocaina e le organizzazioni nigeriane sono potentissime capace di investire soprattutto nei Money Transfer, i punti attraverso i quali tutti gli immigrati del mondo inviano i soldi a casa. Attraverso questi i nigeriani controllano soldi e persone.

Da Castelvolturno transita la coca africana diretta soprattutto in Inghilterra. Le tasse sul traffico che quindi il clan impone non sono soltanto il pizzo sullo spaccio al minuto, ma accordi di una sorta di joint venture. Ora però i nigeriani sono potenti, potentissimi. Così come lo è la mafia albanese, con la quale i Casalesi sono in affari. E il clan si sta slabbrando, teme di non essere più riconosciuto come chi comanda per primo e per ultimo sul territorio. Ed ecco che nei vuoti si insinuano gli uomini della paranza. Uccidono dei pesci piccoli albanesi come azione dimostrativa, fanno strage di africani di cui nessuno viene dalla Nigeria, colpiscono gli ultimi anelli della catena di gerarchie etniche e criminali. Muoiono ragazzi onesti, ma come sempre in questa terra, per morire non dev'esserci una ragione. E basta poco per essere diffamati. I ragazzi africani uccisi erano immediatamente tutti "trafficanti" come furono "camorristi" Giuseppe Rovescio e Vincenzo Natale, ammazzati a Villa Literno il 23 settembre 2003 perché erano fermi a prendere una birra vicinio a Francesco Galoppo, affiliato del clan Bidognetti. Anche loro furono subito battezzati come criminali.
Non è la prima volta che si compie da quelle parti una mattanza di immigrati. Nel 1990 Augusto La Torre, boss di Mondragone, partì con i suoi fedelissimi alla volta di un bar che pur gestito da italiani, era diventato un punto di incontro per lo spaccio degli africani. Tutto avveniva sempre lungo la statale Domitiana, a Pescopagano, pochi chilometri a nord di Castelvolturno, però già in territorio mondragonese. Uccisero sei persone, fra cui il gestore, e ne ferirono molte altre. Anche quello era stato il culmine di una serie di azioni contro gli stranieri, ma i Casalesi che pure approvavano le intimidazioni non gradirono la strage. La Torre dovette incassare critiche pesanti da parte di Francesco "Sandokan" Schiavone. Ma ora i tempi sono cambiati e permettono di lasciar esercitare una violenza indiscriminata a un gruppo di cocainomani armati.


Chiedo di nuovo alla mia terra come si immagina. Lo chiedo anche a tutte quelle associazioni di donne e uomini che in grande silenzio qui lavorano e si impegnano. A quei pochi politici che riescono a rimanere credibili, che resistono alle tentazioni della collusione o della rinuncia a combattere il potere dei clan. A tutti coloro che fanno bene il loro lavoro, a tutti coloro che cercano di vivere onestamente, come in qualsiasi altra parte del mondo. A tutte queste persone. Che sono sempre di più, ma sono sempre più sole. Come vi immaginate questa terra. Se è vero, come disse Danilo Dolci, che ciascuno cresce solo se è sognato, voi come ve li sognati questi luoghi? Non c'è stata mai così tanta attenzione rivolta alle vostre terre e quel che vi è avvenuto e vi avviene. Eppure non sembra cambiato molto.

“Antonio Iovine e Michele Zagaria. Dodici anni di latitanza. Anche di loro si sa dove sono. Il primo è a San Cipriano d'Aversa, il secondo a Casapesenna. In un territorio grande come un fazzoletto di terra, possibile che non si riesca a scovarli?”I due boss che comandano continuano a comandare e ad essere liberi. Antonio Iovine e Michele Zagaria. Dodici anni di latitanza. Anche di loro si sa dove sono. Il primo è a San Cipriano d'Aversa, il secondo a Casapesenna. In un territorio grande come un fazzoletto di terra, possibile che non si riesca a scovarli? E' storia antica quella dei latitanti ricercati in tutto il mondo e poi trovati proprio a casa loro. Ma è storia nuova che ormai ne hanno parlato più e più volte giornali e tv, politici di ogni colore hanno promesso che li faranno arrestare, ma intanto il tempo passa e nulla accade. E sono lì. Passeggiano, parlano, incontrano persone.


Ho visto che nella mia terra sono comparse scritte contro di me. Saviano merda. Saviano verme. E un'enorme bara con il mio nome. E poi insulti, continue denigrazioni a partire dalla più ricorrente e banale: "Quello: s'è fatto i soldi". Col mio lavoro di scrittore adesso riesco a vivere e, per fortuna, pagarmi gli avvocati. E loro? Loro che comandano imperi economici e si fanno costruire ville faraoniche in paesi dove non ci sono nemmeno le strade asfaltate? Loro che per lo smaltimento di rifiuti tossici sono riusciti in una sola operazione a incassare sino a 500milioni di euro e hanno imbottito la nostra terra di veleni al punto tale di far lievitare fino al 24% certi tumori, e le malformazioni congenite fino all'84% percento? Soldi veri che generano secondo l'Osservatorio epidemiologico campano una media di 7.172,5 morti per tumore all'anno in Campania. E ad arricchirsi sulle disgrazie di questa terra sarei io con le mie parole o i carabinieri e i magistrati, i cronisti e tutti gli altri che con libri o film o in ogni altro modo continuano a denunciare? Com'è possibile che si crei un tale capovolgimento di prospettive? Com'è possibile che anche persone oneste si uniscano a questo coro? Pur conoscendo la mia terra, di fronte a tutto questo, io rimangono incredulo e sgomento e anche ferito al punto che fatico a trovare la mia voce. Perché il dolore porta ad ammutolire, perché l'ostilità porta a non sapere a chi parlare. E allora a chi devo rivolgermi, che cosa dico?

“Come faccio a dire alla mia terra di smettere di essere schiacciata tra l'arroganza dei forti e la codardia dei deboli?”Come faccio a dire alla mia terra di smettere di essere schiacciata tra l'arroganza dei forti e la codardia dei deboli? Oggi qui in questa stanza dove sono, ospite di chi mi protegge, è il mio compleanno. Penso a tutti i compleanni passati così, da quando ho la scorta, un po' nervoso, un po' triste, e soprattutto solo. Penso che non potrò mai più passarne uno normale nella mia terra, che non potrò mai più metterci piede. Rimpiango come un malato senza speranze tutti i compleanni trascurati, snobbati perché è solo una data qualsiasi e un altro anno ce ne sarà uno uguale. Ormai si è aperta una voragine nel tempo e nello spazio, una ferita che non potrà mai rimarginarsi. E penso pure e soprattutto a chi vive la mia stessa condizione e non ha come me il privilegio di scriverne e parlare a molti. Penso ad altri amici sotto scorta, Raffaele, Rosaria, Lirio, Tano, penso a Carmelina, la maestra di Mondragone che aveva denunciato il killer di un camorrista e che da allora vive sotto protezione, lontana, sola. Lasciata dal fidanzato che doveva sposare, giudicata dagli amici che si sentono schiacciati dal suo coraggio e dalla loro mediocrità. Perché non c'era stata solidarietà per il suo gesto, anzi, ci sono state critiche e abbandono. Lei ha solo seguito un richiamo della sua coscienza e ha dovuto barcamenarsi con il magro stipendio che le da lo stato. Cos'ha fatto Carmelina, cos'hanno fatto altri come lei per avere la vita distrutta e sradicata, mentre i boss latitanti continuano a poter vivere protetti e rispettati nelle loro terre? E chiedo alla mia terra, che cosa ci rimane. Ditemelo. Galleggiare? Far finta di niente? Calpestare scale di ospedali lavate da cooperative di pulizie loro, ricevere nei serbatoi la benzina spillata da pompe di benzina loro? Vivere in case costruite da loro, bere il caffè della marca imposta da loro (ogni marca di caffè per essere venduta nei bar deve avere l'autorizzazione dei clan), cucinare nelle loro pentole (il clan Tavoletta gestiva produzione e vendita delle marche più prestigiose di pentole)? Mangiare il loro pane, la loro mozzarella, i loro ortaggi? Votare i loro politici che riescono, come dichiarano i pentiti, ad arrivare alle più alte cariche nazionali? Lavorare nei loro centri commerciali, costruiti per creare posti di lavoro e sudditanza dovuta al posto di lavoro, ma intanto non c'è perdita perché gran parte dei negozi sono loro? Siete fieri di vivere nel territorio con i più grandi centri commerciali del mondo e insieme uno dei più alti tassi di povertà? Passare il tempo nei locali gestiti o autorizzati da loro? Sedersi al bar vicino ai loro figli, i figli dei loro avvocati, dei loro colletti bianchi? E trovarli simpatici e innocenti, tutto sommato persone gradevoli, perché loro in fondo sono solo ragazzi, che colpa hanno dei loro padri.

“Non si tratta di stabilire colpe, ma smettere di accettare e di subire sempre, smettere di pensare che almeno c'è ordine, che almeno c'è lavoro, e che basta non grattare, non alzare il velo, continuare ad andare avanti per la propria strada.”E infatti non si tratta di stabilire colpe, ma smettere di accettare e di subire sempre, smettere di pensare che almeno c'è ordine, che almeno c'è lavoro, e che basta non grattare, non alzare il velo, continuare ad andare avanti per la propria strada. Che basta fare questo e nella nostra terra si è già nel migliore dei mondi possibili, o magari no, ma nell'unico mondo possibile sicuramente. Quanto ancora dobbiamo aspettare? Quanto ancora dobbiamo vedere i migliori emigrare e i rassegnati rimanere? Siete davvero sicuri che vada bene così? Che le serate che passate a corteggiarvi, a ridere, a litigare, a maledire il puzzo dei rifiuti bruciati, a scambiarvi quattro chiacchiere, possano bastare? Voi volete una vita semplice, normale, fatta di piccole cose, mentre intorno a voi c'è una guerra vera, mentre chi non subisce e denuncia e parla, perde ogni cosa. Come abbiamo fatto a divenire così ciechi? Così asserviti e rassegnati, così piegati?

Come è possibile che solo gli ultimi degli ultimi, gli africani che subiscono lo sfruttamento e la violenza dei clan italiani e di altri africani, abbiano saputo una volta tirare fuori più rabbia che paura e rassegnazione? Non posso credere che un sud così ricco di talenti e forze possa davvero accontentarsi solo di questo. La Calabria ha il PIL più basso d'Italia ma "Cosa Nuova", ossia la ndrangheta fattura quanto e più di una intera manovra finanziaria italiana. Alitalia sarà in crisi, ma a Grazzanise, in un territorio marcio di camorra, si sta per costruire il più grande aeroporto italiano, il più vasto del mediterraneo. Una terra condannata a far circolare enormi capitali senza avere uno straccio di sviluppo vero, e invece ha danaro, profitto, cemento che ha il sapore del saccheggio, non della crescita.
Non posso credere che riescano a resistere soltanto pochi individui eccezionali. Che la denuncia sia ormai solo il compito dei pochi singoli, preti, maestri, medici, i pochi politici onesti e gruppi che interpretano il ruolo della società civile. E il resto? Gli altri se ne stanno buoni e zitti, tramortiti dalla paura? La paura. L'alibi maggiore. Fa sentire tutti a posto perché è in suo nome che si tutelano la famiglia, gli affetti, la propria vita innocente, il proprio sacrosanto diritto a viverla e costruirla. Ma non avere più paura, non sarebbe difficile. Basterebbe agire, ma non da soli. La paura va a braccetto con l'isolamento. Ogni volta che qualcuno si tira indietro, crea altra paura, che crea ancora altra paura, in un crescendo esponenziale che immobilizza, erode, lentamente manda in rovina.

“"Si può edificare la felicità del mondo sulle spalle di un unico bambino maltrattato?"”"Si può edificare la felicità del mondo sulle spalle di un unico bambino maltrattato?" domanda Ivan Karamazov a suo fratello Aljoša. Ma voi non volete un mondo perfetto, volete solo una vita tranquilla e semplice, una quotidianità accettabile, il calore di una famiglia. Accontentarvi di questo pensate che vi metta al riparo di ansie e dolori. E forse ci riuscite, riuscite a trovare una dimensione in cui trovate serenità. Ma a che prezzo? Se dovessero nascere malati o ammalarsi i vostri figli, se un' altra volta dovreste rivolgervi a un politico che in cambio di un voto vi darà un lavoro senza il quale anche i vostri piccoli sogni e progetti finiscono nel vuoto, quando faticherete ad ottenere un mutuo per la vostra casa mentre i direttori delle stesse banche saranno sempre disponibili con chi comanda, quando vedrete tutto questo, forse, vi renderete conto che non c'è riparo, che non esiste nessun ambito protetto, e che l'atteggiamento che pensavate realistico e saggiamente disincantato, vi ha appestato l'anima di un risentimento e rancore che toglie ogni gusto alla vostra vita. Perché se tutto ciò è triste la cosa ancora più triste è l'abitudine. Abituarsi che non ci sia null'altro da fare che rassegnarsi, arrangiarsi o andare via. Chiedo alla mia terra se riesce ancora ad immaginare di poter scegliere. Le chiedo se è in grado di compiere almeno quel primo gesto di libertà che sta nel riuscire a pensarsi diversa, di pensarsi libera. Non rassegnarsi ad accettare come un destino naturale quel che è invece opera degli uomini.
Quegli uomini possono strapparti alla tua terra e al tuo passato, portarti via la serenità, impedirti di trovare una casa, scriverti insulti sulle pareti del tuo paese, possono fare il deserto intorno a te. Ma non possono estirpare quel che resta una certezza e, per questo, rimane pure una speranza. Che non è giusto, non è per niente naturale, far sottostare un territorio al dominio della violenza e dello sfruttamento senza limiti. E che non deve andare avanti così, perché così è sempre stato. Anche perché non è vero che tutto è sempre uguale, ma è sempre peggio. Perché la devastazione cresce proporzionalmente con i loro affari, perché è irreversibile come la terra una volta per tutte appestata, perché non conosce limiti. Perché là fuori si aggirano sei killer abbruttiti e strafatti, con licenza di uccidere e non mandato, che non si fermano di fronte a nessuno. Perché sono loro l'immagine e somiglianza di ciò che regna oggi su queste terre e di quel che le attende domani, dopodomani, nel futuro. Bisogna trovare la forza di cambiare. Ora, o mai più.

Copyright 2008
by Roberto Saviano
Published by arrangement
of Roberto Santachiara
Literary Agency



da www.robertosaviano.it


Titolo: Caro Roberto Saviano, grazie dell’urlo
Inserito da: Admin - Settembre 30, 2008, 12:07:30 am
Caro Roberto Saviano, grazie dell’urlo

PierPaolo Pasolini quarant'anni fa urlava al Paese la corruzione del sistema e l'omologazione culturale, lo faceva in tutti i modi che conosceva: letteratura , cinema, giornali, tv.

Aveva un'anima Pasolini e non ci rinunciò con il silenzio, come fece invece tutta la classe dirigente di allora, lui parlò e per questo fu ammazzato.

---

Quarant'anni dopo un altro uomo lancia un urlo al Paese con tutti i mezzi che conosce: letteratura, cinema, tv, giornali . Molti la chiamano Gomorra, ma è molto di più, è la parte sbagliata della storia.

Ha un'anima quest'uomo, e denuncia il sistema mafioso e camorrista di tutta Italia, dalle alpi allo stretto. Si perché anche il beato e ricco nord è colluso, per esempio sull'Expo che si terrà a Milano e per l'interesse di Ndrangheta e Camorra per quegli appalti.

Parla quest'uomo, e scrive dell'ignavia in cui ci siamo rinchiusi, della corruzione interiore del male, della paura che ci ha colpiti e resi piccoli senza più valori. Urla che il sistema è corrotto che la borghesia come la conoscevamo noi: avvocati, medici, ingegneri, giornalisti, commercianti, artigiani , imprenditori, non esiste più; e non c'è più divisone tra nord e sud del paese, ma solo un solco tra collusi e non.

Grazie Roberto Saviano per averci urlato, non ti lasceremo morire come Pasolini, anche tu per averci svegliato. Noi siamo al tuo fianco, sappiamo tutto, sappiamo che pure l'informazione è collusa, e invece di informare anestetizza la coscienza civile dei cittadini con il delitto di turno e il gossip.

Nascondere la verità questo fanno tanti giornalisti italiani, cioè nascondere il fatto che mafie e potere decidono per la nostra storia a tutti i livelli.

Non c'è più tempo per restare a guardare da lontano e farsi i fatti propri, quel metodo non salverà più nessuno tanto meno chi lo esercita, ora si può solo scegliere.

Grazie Roberto per aver portato il racconto dell'Italia a cercare di prendere un oscar, molti hanno contestato che l'Italia sia rappresentata dalla Camorra, ma lo fecero anche con il Neorealismo, non li ascoltare e vai avanti. L'Italia è mafia camorra e ndrangheta, e raccontarle serve ad eliminarle, il silenzio non serve a nulla.

Il silenzio sceso su Cosentino dopo lo speciale su L'Espresso è il livello più basso mai raggiunto dall'informazione, è la dimostrazione del vassallaggio più assoluto di quasi tutta la comunicazione italiana.

Questo è il nostro Paese, chi sta con i mafiosi e chi li combatte, chi ci rimette la vita, e chi ne spreca una intera appresso alle cose inutili del mondo. Grazie ai disvalori creati a tavolino nei palinsesti tv e innestati nella popolazione con: veline, reality e canzonette.

Si può reagire , si possono aprire gli occhi e comprendere che facciamo tutti parte di un disegno più grande, che rende la vita più degna d'essere vissuta. Possiamo ascoltare Roberto Saviano, alzarci e dire basta alle mafie e ai poteri forti, che da secoli frenano la storia di questo Paese.

Oppure possiamo stare zitti e lasciare uccidere altra gente e altra economia: perché abbiamo paura, perché da soli non si può cambiare il mondo, insomma per le solite scuse di sempre.

Si rileva però che non reagire quantomeno ci ha reso infelici e distrutto il futuro dei nostri figli. Tu italiano, che stai per iniziare il resto della tua vita, da che parte stai?

Tania Passa
28 settembre 2008


dalla rassegna stampa del blog  www.robertosaviano.it


Titolo: ROBERTO SAVIANO Comitato don Giuseppe Diana
Inserito da: Admin - Ottobre 02, 2008, 01:53:27 pm
Comitato don Giuseppe Diana

Testimoniare e non dimenticare

 
L'associazione di promozione sociale "Comitato don Peppe Diana" è nata ufficialmente il 25 aprile 2006, come frutto di un percorso di diversi anni, che ha coinvolto persone e organizzazioni unite dal desiderio di non dimenticare il martirio di un sacerdote morto per amore del suo popolo.

Il comitato don Peppe Diana fu costituito nel 2003 da sette organizzazioni attive nel sociale, le quali decisero che il messaggio, l'impegno e il sacrificio di don Giuseppe Diana non dovessero essere dimenticati. L'Agesci Regione Campania, le associazioni Scuola di Pace don Peppe Diana, Jerry Essan Masslo, Progetto Continenti, Omnia onlus, Legambiente circolo Ager e la cooperativa sociale Solesud Onlus sottoscrissero un protocollo d'intesa nel quale decisero di perseguire diversi obiettivi comuni: - la costruzione della memoria di don Giuseppe Diana, contestualizzando la sua vita di persona comune in una realtö problematica; - la realizzazione di azioni educative e didattiche sui temi dell'impegno civile e sociale per una cittadinanza attiva; - la promozione nelle nuove generazioni della speranza, dell'impegno e dell'assunzione di responsabilità.

Il confronto avviato in quel nucleo iniziale di organizzazioni, arricchito dal contributo degli amici, dei conoscenti e dei simpatizzanti di don Peppe - i quali autonomamente e parallelamente hanno, in questi anni, tenuto viva la memoria del sacerdote-, ha fatto maturare la necessità di costituire un'associazione di promozione sociale, che si metta al servizio e dia forza a quanti, in nome di don Giuseppe Diana, vogliono fare memoria del suo sacrificio e come Lui continuare a costruire comunità alternative alla camorra.

 


da www.robertosaviano.it


Titolo: ROBERTO SAVIANO Una finestra sull'utopia
Inserito da: Admin - Ottobre 07, 2008, 12:50:48 pm
Una finestra sull'utopia


«Lei è all'orizzonte» dice Fernando Birri. «Mi avvicino di due passi, lei si allontana di due passi. Cammino per dieci passi e l'orizzonte si sposta dieci passi più in là. Per quanto io cammini non la raggiungerò mai.
A cosa serve l'utopia? Serve proprio a questo: a camminare.»
Da "Las palabras andantes", di Eduardo Galeano, Finestra sull'Utopia


Questo sito racconta le "utopie" di Felice Pignataro e del GRIDAS, associazione che ha fondato nel 1981, utopie concretizzatesi nella realizzazione di murales, mosaici alla maniera di Antoni Gaudì, maschere di cartapesta e di poliuretano espanso per il carnevale di quartiere, quadri e sculture con materiale di riciclo, autoadesivi e manifesti lineografati e stampati in proprio, televisori di legno con rulli dipinti per dare voce ai senza voce, striscioni colorati, e ancora fumetti, favole, illustrazioni, laboratori con le scuole e alla sede del GRIDAS.

Tanti diversi aspetti di una sola visione dell'arte e della creatività, semplice, ma difficile a farsi - direbbe Felice - in funzione di critica sociale, sostegno per gli ultimi e stimolo a lottare per cambiare le cose.
E in tante occasioni queste utopie realizzate hanno potuto abbattere muri grigi di indifferenza e pregiudizio e mostrare, oltre di essi, tra fiori giganti, soli e lune sorridenti, e girotondi di uomini e donne in pace, l'orizzonte di un mondo migliore.





-------------------


Gridas - Gruppo di risveglio dal sonno

Il GRIDAS (gruppo risveglio dal sonno, con riferimento alla frase di una delle incisioni della "quinta del sordo" di Francisco Goya: "el sueño de la razon produce monstros") è un'associazione culturale senza scopo di lucro fondata nel 1981 da Felice Pignataro, Mirella La Magna, Franco Vicario, e altre persone riunite dall'intento comune di mettere le proprie capacità artistiche, culturali, al servizio della gente comune per stimolare un risveglio delle coscienze e una partecipazione attiva alla crescita della società.

Il GRIDAS ha da subito stabilito la propria sede nei locali abbandonati del Centro Sociale dell'Ina Casa di Secondigliano, poi Scampìa (periferia nord di Napoli), in via Monterosa 90/b. Locali più volte e in più riprese ristrutturati e mantenuti funzionanti.

L'opera del GRIDAS si è caratterizzata, negli anni, soprattutto con i murales realizzati da Felice Pignataro con gli altri membri del gruppo e con le scuole o i soggetti attivi che si sono rivolti all'associazione per avere un supporto "visibile" alle proprie battaglie sul territorio del napoletano e non solo. Visibilità data dai variopinti e espressivi striscioni, dall' "animazione" con i tamburi, dalle dimostrazioni con il "Televisore a mano" con rulli dipinti appositamente per le differenti lotte, dai murales che perduravano anche dopo la giornata di mobilitazione, dagli autoadesivi linoleografati autoprodotti su carta fluorescente. Interventi spesso richiesti all'ultimo momento tanto che Felice creò la definizione del "Pronto soccorso culturale".

Inoltre, il GRIDAS promuove dal 1983 il carnevale di quartiere a Scampìa su temi di attualità e laboratori per il recupero della manualità, cineforum gratuiti alternativi presso la propria sede proponendo film normalmente "evitati" o relegati in tarda notte dalla TV o dalle sale cinematografiche.
Con la scomparsa di Felice il GRIDAS ha perso, tra l'altro, la grande potenzialità della capacità che aveva lui di rappresentare in immagini iconografiche, chiare e facilmente comprensibili da tutti, le voci della protesta, le battaglie e le ingiustizie del mondo; ma prosegue, comunque, il cammino intrapreso con Felice per un risveglio delle coscienze e della creatività.


dal blog www.robertosaviano.it



Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO. SAVIANO ... lascio l'Italia per riavere una vita.
Inserito da: Admin - Ottobre 15, 2008, 03:59:31 pm
La denuncia di Saviano: circondato dall'odio per le mie parole

Vado via perché voglio scrivere ed ho bisogno di stare nella realtà

"Io, prigioniero di Gomorra lascio l'Italia per riavere una vita"

di GIUSEPPE D'AVANZO



ANDRO' via dall'Italia, almeno per un periodo e poi si vedrà...", dice Roberto Saviano. "Penso di aver diritto a una pausa. Ho pensato, in questo tempo, che cedere alla tentazione di indietreggiare non fosse una gran buona idea, non fosse soprattutto intelligente. Ho creduto che fosse assai stupido - oltre che indecente - rinunciare a se stessi, lasciarsi piegare da uomini di niente, gente che disprezzi per quel che pensa, per come agisce, per come vive, per quel che è nella più intima delle fibre ma, in questo momento, non vedo alcuna ragione per ostinarmi a vivere in questo modo, come prigioniero di me stesso, del mio libro, del mio successo. 'Fanculo il successo. Voglio una vita, ecco. Voglio una casa. Voglio innamorarmi, bere una birra in pubblico, andare in libreria e scegliermi un libro leggendo la quarta di copertina. Voglio passeggiare, prendere il sole, camminare sotto la pioggia, incontrare senza paura e senza spaventarla mia madre. Voglio avere intorno i miei amici e poter ridere e non dover parlare di me, sempre di me come se fossi un malato terminale e loro fossero alle prese con una visita noiosa eppure inevitabile. Cazzo, ho soltanto ventotto anni! E voglio ancora scrivere, scrivere, scrivere perché è quella la mia passione e la mia resistenza e io, per scrivere, ho bisogno di affondare le mani nella realtà, strofinarmela addosso, sentirne l'odore e il sudore e non vivere, come sterilizzato in una camera iperbarica, dentro una caserma dei carabinieri - oggi qui, domani lontano duecento chilometri - spostato come un pacco senza sapere che cosa è successo o può succedere. In uno stato di smarrimento e precarietà perenni che mi impedisce di pensare, di riflettere, di concentrarmi, quale che sia la cosa da fare. A volte mi sorprendo a pensare queste parole: rivoglio indietro la mia vita. Me le ripeto una a una, silenziosamente, tra me".

La verità, la sola oscena verità che, in ore come queste, appare con tragica evidenza è che Roberto Saviano è un uomo solo. Non so se sia giusto dirlo già un uomo immaginando o pretendendo di rintracciare nella sua personalità, nella sua fermezza d'animo, nella sua stessa fisicità la potenza sorprendente e matura del suo romanzo, Gomorra. Roberto è ancora un ragazzo, a vederlo. Ha un corpo minuto, occhi sempre in movimento. Sa essere, nello stesso tempo, malizioso e insicuro, timidissimo e scaltro. La sua è ancora una rincorsa verso se stesso e lungo questo sentiero è stato catturato da uno straordinario successo, da un'imprevedibile popolarità, dall'odio assoluto e assassino di una mafia, dal rancore dei quietisti e dei pavidi, dall'invidia di molti. Saranno forse queste le ragioni che spiegano come nel suo volto oggi coabitino, alternandosi fraternamente, le rughe della diffidenza e le ombre della giovanile fiducia di chi sa che la gioia - e non il dolore - accresce la vita di un uomo. "Sai, questa bolla di solitudine inespugnabile che mi stringe fa di me un uomo peggiore. Nessuno ci pensa e nemmeno io fino all'anno scorso ci ho mai pensato. In privato sono diventato una persona non bella: sospettoso, guardingo. Sì, diffidente al di là di ogni ragionevolezza. Mi capita di pensare che ognuno voglia rubarmi qualcosa, in ogni caso raggirarmi, "usarmi". E' come se la mia umanità si fosse impoverita, si stesse immeschinendo. Come se prevalesse con costanza un lato oscuro di me stesso. Non è piacevole accorgersene e soprattutto io non sono così, non voglio essere così. Fino a un anno fa potevo ancora chiudere gli occhi, fingere di non sapere. Avevo la legittima ambizione, credo, di aver scritto qualcosa che mi sembrava stesse cambiando le cose. Quella mutazione lenta, quell'attenzione che mai era stata riservata alle tragedie di quella terra, quell'energia sociale che - come un'esplosione, come un sisma - ha imposto all'agenda dei media di occuparsi della mafia dei Casalesi, mi obbligava ad avere coraggio, a espormi, a stare in prima fila. E' la mia forma di resistenza, pensavo. Ogni cosa passava in secondo piano, diventava di serie B per me. Incontravo i grandi della letteratura e della politica, dicevo quello che dovevo e potevo dire. Non mi guardavo mai indietro. Non mi accorgevo di quel che ogni giorno andavo perdendo di me. Oggi, se mi guardo alle spalle, vedo macerie e un tempo irrimediabilmente perduto che non posso più afferrare ma ricostruire soltanto se non vivrò più, come faccio ora, come un latitante in fuga. In cattività, guardato a vista dai carabinieri, rinchiuso in una cella, deve vivere Sandokan, Francesco Schiavone, il boss dei Casalesi. Se lo è meritato per la violenza, i veleni e la morte con cui ha innaffiato la Campania, ma qual è il mio delitto? Perché io devo vivere come un recluso, un lebbroso, nascosto alla vita, al mondo, agli uomini?
Qual è la mia malattia, la mia infezione? Qual è la mia colpa? Ho voluto soltanto raccontare una storia, la storia della mia gente, della mia terra, le storie della sua umiliazione. Ero soddisfatto per averlo fatto e pensavo di aver meritato quella piccola felicità che ti regala la virtù sociale di essere approvato dai tuoi simili, dalla tua gente. Sono stato un ingenuo. Nemmeno una casa, vogliono affittarmi a Napoli. Appena sanno chi sarà il nuovo inquilino si presentano con la faccia insincera e un sorriso di traverso che assomiglia al disprezzo più che alla paura: sono dispiaciuti assai, ma non possono.... I miei amici, i miei amici veri, quando li ho finalmente rivisti dopo tante fughe e troppe assenze, che non potevo spiegare, mi hanno detto: ora basta, non ne possiamo più di difendere te e il tuo maledetto libro, non possiamo essere in guerra con il mondo per colpa tua? Colpa, quale colpa? E' una colpa aver voluto raccontare la loro vita, la mia vita?".

Piacciono poco, da noi, i martiri. Morti e sepolti, li si può ancora, periodicamente, sopportare. Vivi, diventano antipatici. Molto antipatici. Roberto Saviano è molto antipatico a troppi. Può capitare di essere infastiditi dalla sua faccia in giro sulle prime pagine. Può capitare che ci si sorprenda a pensare a lui non come a una persona inseguita da una concreta minaccia di morte, a un ragazzo precipitato in un destino, ma come a una personalità che sa gestire con sapienza la sua immagine e fortuna. Capita anche in queste ore, qui e lì. E' poca, inutile cosa però chiedersi se la minaccia di oggi contro Roberto Saviano sia attendibile o quanto attendibile, più attendibile della penultima e quanto di più? O chiedersi se davvero quel Giuseppe Setola lo voglia disintegrare, prima di Natale, con il tritolo lungo l'autostrada Napoli-Roma o se gli assassini si siano già procurati, come dice uno di loro, l'esplosivo e i detonatori. O interrogarsi se la confidenza giunta alle orecchie delle polizie sia certa o soltanto probabile.

E' poca e inutile cosa, dico, perché, se i Casalesi ne avranno la possibilità, uccideranno Roberto Saviano. Dovesse essere l'ultimo sangue che versano. Sono ridotti a mal partito, stressati, accerchiati, incalzati, impoveriti e devono dimostrare l'inesorabilità del loro dominio. Devono poter provare alla comunità criminale e, nei loro territori, ai "sudditi" che nessuno li può sfidare impunemente senza mettere nel conto che alla sfida seguirà la morte, come il giorno segue la notte.

Lo sento addosso come un cattivo odore l'odio che mi circonda. Non è necessario che ascolti le loro intercettazioni e confessioni o legga sulle mura di Casale di Principe: "Saviano è un uomo di merda". Nessuno da quelle parti pensa che io abbia fatto soltanto il mio dovere, quello che pensavo fosse il mio dovere. Non mi riconoscono nemmeno l'onore delle armi che solitamente offrono ai poliziotti che li arrestano o ai giudici che li condannano. E questo mi fa incazzare. Il discredito che mi lanciano contro è di altra natura. Non dicono: "Saviano è un ricchione". No, dicono, si è arricchito. Quell'infame ci ha messo sulla bocca degli italiani, nel fuoco del governo e addirittura dell'esercito, ci ha messo davanti a queste fottute telecamere per soldi. Vuole soltanto diventare ricco: ecco perché quell'infame ha scritto il libro. E quest'argomento mette insieme la parte sana e quella malata di Casale. Mi mette contro anche i miei amici che mi dicono: bella vita la tua, hai fatto i soldi e noi invece tiriamo avanti con cinquecento euro al mese e poi dovremmo difenderti da chi ti odia e ti vuole morto? E perché, diccene la ragione? Prima ero ferito da questa follia, ora non più. Non mi sorprende più nulla. Mi sembra di aver capito che scaricando su di me tutti i veleni distruttivi, l'intera comunità può liberarsi della malattia che l'affligge, può continuare a pensare che quel male non ci sia o sia trascurabile; che tutto sommato sia sopportabile a confronto delle disgrazie provocate dal mio lavoro. Diventare il capro espiatorio dell'inciviltà e dell'impotenza dei Casalesi e di molti italiani del Mezzogiorno mi rende più obiettivo, più lucido da qualche tempo. Sono solo uno scrittore, mi dico, e ho usato soltanto le parole. Loro, di questo, hanno paura: delle parole. Non è meraviglioso? Le parole sono sufficienti a disarmarli, a sconfiggerli, a vederli in ginocchio. E allora ben vengano le parole e che siano tante. Sia benedetto il mercato, se chiede altre parole, altri racconti, altre rappresentazioni dei Casalesi e delle mafie. Ogni nuovo libro che si pubblica e si vende sarà per loro una sconfitta. E' il peso delle parole che ha messo in movimento le coscienze, la pubblica opinione, l'informazione. Negli anni novanta, la strage di immigrati a Pescopagano - ne ammazzarono cinque - finì in un titolo a una colonna nelle cronache nazionali dei giornali. Oggi, la strage dei ghanesi di Castelvolturno ha costretto il governo a un impegno paragonabile soltanto alla risposta a Cosa Nostra dopo le stragi di Capaci e di via D'Amelio.

Non pensavo che potessimo giungere a questo. Non pensavo che un libro - soltanto un libro - potesse provocare questo terremoto. Subito dopo però penso che io devo rispettare, come rispetto me stesso, questa magia delle parole. Devo assecondarla, coltivarla, meritarmela questa forza. Perché è la mia vita. Perché credo che, soltanto scrivendo, la mia vita sia degna di essere vissuta. Ho sentito, per molto tempo, come un obbligo morale diventare un simbolo, accettare di essere al proscenio anche al di là della mia voglia. L'ho fatto e non ne sono pentito. Ho rifiutato due anni fa, come pure mi consigliavano, di andarmene a vivere a New York. Avrei potuto scrivere di altro, come ho intenzione di fare. Sono restato, ma per quanto tempo dovrò portare questa croce? Forse se avessi una famiglia, se avessi dei figli - come li hanno i miei "angeli custodi", ognuno di loro non ne ha meno di tre - avrei un altro equilibrio. Avrei un casa dove tornare, un affetto da difendere, una nostalgia. Non è così. Io ho soltanto le parole, oggi, a cui provvedere, di cui occuparmi. E voglio farlo, devo farlo. Come devo - lo so - ricostruire la mia vita lontano dalle ombre. Anche se non ho il coraggio di dirlo, ai carabinieri di Napoli che mi proteggono come un figlio, agli uomini che da anni si occupano della mia sicurezza. Non ho il cuore di dirglielo. Sai, nessuno di loro ha chiesto di andar via dopo quest'ultimo allarme, e questa loro ostinazione mi commuove. Mi hanno solo detto: "Robe', tranquillo, ché non ci faremo fottere da quelli là"".

A chi appartiene la vita di Roberto? Soltanto a lui che può perderla? Il destino di Saviano - quale saranno da oggi i suoi giorni, quale sarà il luogo dove sceglierà, "per il momento", di scrivere per noi le sue parole necessarie - sono sempre di più un affare della democrazia italiana.
 
La sua vita disarmata - o armata soltanto di parole - è caduta in un'area d'indistinzione dove sembra non esserci alcuna tradizionale differenza tra la guerra e la pace, se la mafia può dichiarare guerra allo Stato e lo Stato per troppo tempo non ha saputo né cancellare quella violenza sugli uomini e le cose né ripristinare diritti essenziali. A cominciare dal più originario dei diritti democratici: il diritto alla parola. Se perde Saviano, perderemo irrimediabilmente tutti.

(15 ottobre 2008)


da repubblica.it


Titolo: I premi Nobel al fianco di Saviano "La sua libertà riguarda tutti noi"
Inserito da: Admin - Ottobre 20, 2008, 12:38:50 pm
Da Gorbaciov a Tutu le prime firme a favore dello scrittore campano

Un appello allo Stato affinché intervenga per proteggerlo dalle minacce

I premi Nobel al fianco di Saviano "La sua libertà riguarda tutti noi"

di PAOLA COPPOLA


ROMA - I Nobel si mobilitano per Roberto Saviano. Lanciano un appello per chiedere allo Stato di intervenire, di proteggerlo dalle minacce di morte dei Casalesi e sconfiggere la camorra. Chiedono di garantire "la libertà nella sicurezza" all'autore del bestseller "Gomorra", che vive da clandestino, sotto scorta. Il caso Saviano è "un problema di democrazia", scrivono. Ma è, anche, "un problema di tutti noi".

Per questo motivo sono già sei i primi nomi autorevoli - Dario Fo, lo scrittore tedesco Günter Grass e il turco Orhan Pamuk, Nobel per la letteratura; Mikhail Gorbaciov e l'arcivescovo sudafricano Desmond Tutu, Nobel per la pace; Rita Levi Montalcini, Nobel per la medicina - che sono intervenuti in difesa dello scrittore con un testo che sta già avendo altre adesioni e che, a partire da oggi, è possibile firmare sul sito di Repubblica, che darà voce alla mobilitazione in favore dello scrittore.

Dopo la pubblicazione di "Gomorra", Saviano è nel mirino della camorra. Ha subito pesanti minacce, le ultime pochi giorni fa, quando informative e dichiarazioni di collaboratori di giustizia hanno rivelato l'esistenza di un piano per ucciderlo da parte del clan dei Casalesi. Dal 13 ottobre del 2006 vive sotto scorta. Sempre a Repubblica alcuni giorni fa lo scrittore ha confessato il desiderio di poter tornare a una vita normale. "Andrò via dall'Italia, almeno per un periodo e poi si vedrà" ha confessato. "Voglio avere intorno i miei amici e poter ridere e non dover parlare di me, sempre di me come se fossi un malato terminale". L'intervista ha suscitato numerose prese di posizione, il presidente della Repubblica Napolitano e il premier Berlusconi hanno scritto a Repubblica per sostenere lo scrittore e assicurare il sostegno dello Stato, in tutta Italia sono scattate manifestazioni di solidarietà.

Saviano sta scontando il successo del suo bestseller che, a gennaio 2008, aveva venduto solo in Italia più di un milione e 200mila copie, è stato tradotto in 43 paesi, ha ottenuto diversi riconoscimenti e ispirato l'omonimo film del regista Matteo Garrone, candidato all'Oscar. Nell'appello dei Nobel si legge: "È minacciata la sua libertà, la sua autonomia di scrittore, la possibilità di incontrare la sua famiglia, di avere una vita sociale, di prendere parte alla vita pubblica, di muoversi nel suo paese". Saviano, dunque, è "un giovane scrittore, colpevole di avere indagato il crimine organizzato svelando le sue tecniche e la sua struttura, è costretto a una vita clandestina, nascosta, mentre i capi della camorra dal carcere continuano a inviare messaggi di morte, intimandogli di non scrivere sul suo giornale, Repubblica, e di tacere", continua il testo.

Così i Nobel spendono la loro autorevolezza per chiedere allo Stato "di fare ogni sforzo per proteggerlo e sconfiggere la camorra". Ricordano che non si può liquidare il "caso Saviano" solamente come un problema di polizia, perché "è un problema di democrazia. La libertà nella sicurezza di Saviano riguarda noi tutti, come cittadini", scrivono. "Con questa firma vogliamo farcene carico, impegnando noi stessi mentre chiamiamo lo Stato alla sua responsabilità, perché è intollerabile che tutto questo possa accadere in Europa e nel 2008".

(20 ottobre 2008)

da repubblica.it


Titolo: ROBERTO SAVIANO: "Ogni voce che resiste mi rende meno solo"
Inserito da: Admin - Ottobre 22, 2008, 12:10:22 pm
Su Repubblica.it oltre 150mila firme aderiscono altri premi Nobel

"Ringrazio chi in questi giorni ha sentito che il mio dolore era anche il suo dolore"

Saviano: "Ogni voce che resiste mi rende meno solo"

di ROBERTO SAVIANO


GRAZIE per tutto quanto state facendo. È difficile dimostrare quanto sia importante per me quello che è successo in questi giorni. Quanto mi abbia colpito e rincuorato, commosso e sbalordito sino a lasciarmi quasi senza parole. Non avrei mai immaginato che potesse accadere niente di simile, mai mi sarei sognato una tale reazione a catena di affetto e solidarietà.
Grazie al Presidente della Repubblica, che, come già in passato, mi ha espresso una vicinanza in cui non ho sentito solo l'appoggio della più alta carica di questo paese, ma la sincera partecipazione di un uomo che viene dalla mia terra.

Grazie al presidente del Consiglio e a quei ministri che hanno voluto dimostrarmi la loro solidarietà sottolineando che la mia lotta non dev'essere vista disgiunta dall'operato delle forze che rappresentano lo Stato e anche dall'impegno di tutti coloro che hanno il coraggio di non piegarsi al predominio della criminalità organizzata. Grazie allo sforzo intensificato nel territorio del clan dei Casalesi, con la speranza che si vada avanti sino a quando i due latitanti Michele Zagaria e Antonio Iovine - i boss-manager che investono a Roma come a Parma e Milano - possano essere finalmente arrestati.

Grazie all'opposizione e ai ministri ombra che hanno appoggiato il mio impegno e quanto il governo ha fatto per la mia sicurezza. Scorgendo nella mia lotta una lotta al di là di ogni parte.

Le letture delle mie parole che sono state fatte in questi giorni nelle piazze mi hanno fatto un piacere immenso. Come avrei voluto essere lì, in ogni piazza, ad ascoltare. A vedere ogni viso. A ringraziare ogni persona, a dirgli quanto era importante per me il suo gesto.

Perché ora quelle parole non sono più le mie parole. Hanno smesso di avere un autore, sono divenute la voce di tutti. Un grande, infinito coro che risuona da ogni parte d'Italia. Un libro che ha smesso di essere fatto di carta e di simboli stampati nero su bianco ed è divenuto voce e carne. Grazie a chi ha sentito che il mio dolore era il suo dolore e ha provato a immaginare i morsi della solitudine.

Grazie a tutti coloro che hanno ricordato le persone che vivono nella mia stessa condizione rendendole così un po' meno sole, un po' meno invisibili e dimenticate.
Grazie a tutti coloro che mi hanno difeso dalle accuse di aver offeso e diffamato la mia terra e a tutti coloro che mi hanno offerto una casa non facendomi sentire come uno che si è messo nei guai da solo e ora è giusto che si arrangi.

Grazie a chi mi ha difeso dall'accusa di essere un fenomeno mediatico, mostrando che i media possono essere utilizzati come strumento per mutare la consapevolezza delle persone e non solo per intrattenere telespettatori.

Grazie alle trasmissioni televisive che hanno dato spazio alla mia vicenda, che hanno fatto luce su quel che accade, grazie ai telegiornali che hanno seguito momento per momento mutando spesso la scaletta solita dando attenzione a storie prima ignorate.

Grazie alle radio che hanno aperto i loro microfoni a dibattiti e commenti, grazie specialmente a Fahrenheit (Radio 3) che ha organizzato una maratona di letture di Gomorra in cui si sono alternati personaggi della cultura, dell'informazione, dello spettacolo e della società civile. Voci che si suturano ad altre voci.

Grazie a chi, in questi giorni, dai quotidiani, alle agenzie stampa, alle testate online, ai blog, ha diffuso notizie e dato spazio a riflessioni e approfondimenti.
Da questo Sud spesso dimenticato si può vedere meglio che altrove quanto i media possano avere talora un ruolo davvero determinante. Grazie per aver permesso, nonostante il solito cinismo degli scettici, che si formasse una nuova sensibilità verso tematiche per troppo tempo relegate ai margini. Perché raccontare significa resistere e resistere significa preparare le condizioni per un cambiamento.

Grazie ai social network Facebook e Myspace, da cui ho ricevuto migliaia di messaggi e gesti di vicinanza, che hanno creato una comunity dove la virtualità era il preludio più immediato per le iniziative poi organizzate in piazza da persone in carne e ossa.

Grazie ai professori delle scuole che hanno parlato con i ragazzi, grazie a tutti coloro che hanno fatto leggere e commentare brani del mio libro in classe. Grazie alle scuole che hanno sentito queste storie le loro storie.
Grazie a tutte le città che mi hanno offerto la cittadinanza onoraria, a queste chiedo di avere altrettanta attenzione a chi concedono gli appalti e a non considerare estranei i loro imprenditori e i loro affari dagli intrecci della criminalità organizzata.

E grazie al mio quotidiano e ai premi Nobel e ai colleghi scrittori di tante nazionalità che hanno scritto e firmato un appello in mio appoggio, scorgendo nella vicenda che mi ha riguardato qualcosa che travalica le problematiche di questo paese e facendomi sentire a pieno titolo un cittadino del mondo.

Eppure Cesare Pavese scrive che "un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c'è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti".

Io spesso in questi anni ho pensato che la cosa più dura era che nessuno fosse lì ad aspettarmi. Ora so, grazie alle firme di migliaia di cittadini, che non è più così, che qualcosa di mio è diventato qualcosa di nostro. E che paese non è più - dopo questa esperienza - un'entità geografica, ma che il mio paese è quell'insieme di donne e uomini che hanno deciso di resistere, di mutare e di partecipare, ciascuno facendo bene le cose che sa fare. Grazie.

(22 ottobre 2008)

da repubblica.it


Titolo: ROBERTO SAVIANO. Siamo tutti Saviano?
Inserito da: Admin - Ottobre 29, 2008, 03:46:07 pm
Siamo tutti Saviano?


di Helena Janeczek, Nazione Indiana
 


Dopo le ultime notizie su un possibile attentato a Roberto Saviano in stile "Strage di Capaci"- far saltare con l'esplosivo le macchine blindate sull'autostrada Napoli -Roma - e dopo l'intervista di "Repubblica" in cui dice di voler lasciare per un po' l'Italia per riprendersi la sua vita, si è scatenata una gara di solidarietà di dimensioni impressionanti. Iniziative sui social network, letture collettive in piazza di Gomorra a Roma e Milano, cittadinanze onorarie, striscioni degli ultrà esposti allo stadio, un appello firmato da sei Premi Nobel che nella prima giornata raccoglie le adesioni di centomila persone. E molto altro, molto di più.
E' qualcosa di imprevisto e di straordinario soprattutto laddove è divampato dal basso, dalle persone che hanno letto il libro o l'hanno comprato o che hanno soltanto visto Saviano in tv e ne hanno fatto quel che è ora: un simbolo di lotta alla mafia, un simbolo di coraggio. E probabilmente di qualcos'altro, perché i simboli veri non sono come i cartelli stradali che stanno per una cosa sola, ma si caricano e irradiano significato. Ed è fin troppo facile obiettare che per aderire a un appello via rete o anche trovarsi in una piazza lontana dalla provincia di Caserta non ci vuole molto coraggio, né si mette in moto un cambiamento, né si fa qualcosa di concreto per togliere una persona dal pericolo in cui si trova. Sono soltanto gesti simbolici che rispondono proprio su quel piano a chi, appunto, è diventato un simbolo.
Esistono alcuni che pensano che Saviano sia diventato quello che è adesso grazie al marketing editoriale o all'influenza dei media o a entrambi. Ma nulla si sarebbe messo in moto senza il libro né tanto meno avrebbe raggiunto queste dimensioni senza pubblico perché è quest'ultimo, in un movimento di feed back circolare, che continua ad alimentare le ristampe e tener aperti gli spazi su televisioni e giornali.
Quindi ha ragione Saviano quando dice che non è stato il suo libro a innescare una reazione da parte della camorra, ma il successo del suo libro, la trasformazione del suo libro e di lui stesso in qualcosa che riveste un valore simbolico per moltissime persone.
Pasolini scriveva che il successo è l'altra faccia della persecuzione e queste parole acquistano nel caso di Saviano una verità sinistra.
Credo che la realtà del pericolo che corre derivi ormai in una misura non meglio quantificabile dal valore che ha assunto, dalla notorietà raggiunta persino oltre ai confini dell'Italia.

E' un fatto inaudito. La visibilità doveva avere un effetto protettivo, fargli - come si dice- da "scorta mediatica", comunicare ai nemici di Saviano che se lo toccano, la reazione scatenata peggiorerà pesantemente le condizioni per condurre i propri affari in segreto e in silenzio. Secondo quella logica tradizionale nell'ambito delle mafie, ammazzare Saviano non conviene: piuttosto si aspetta un tot di anni, quando non avrà più la scorta e l'attenzione pubblica, quando quest'ultima lo avrà almeno in parte dimenticato. Allora lo si distrugge, preferibilmente con diffamazione, querele, mosse trasversali, e se proprio non bastasse, con le armi. Ed è ovviamente uno scenario sempre presente e non escluso dalla situazione attuale. Cosa che fa capire che cercare di destreggiarsi fra la troppa esposizione e il possibile oblio, debba essere per Saviano come navigare fra Scilla e Cariddi.
La logica della visibilità come protezione ormai non vale più senza riserve. I capi Casalesi in carcere si sono visti riconfermare gli ergastoli, le loro mogli- anche quella del latitante Antonio Iovine- sono state arrestate, Casal di Principe è presidiato dalla Folgore come un territorio occupato. Erano, fino al successo di Gomorra, un clan sconosciuto o di cui l'opinione pubblica non si interessava già a partire da Napoli. Ora qualsiasi loro azione, persino quelle non strettamente sanguinarie, rimbalza su giornali e telegiornali. Hanno poco da perdere, e l'idea che una volta tolto di mezzo Saviano, tutto tornerà come prima -magari non subito, ma basta aspettare- sembra possedere, a questo punto, una logica più stringente e una maggiore attrattiva. A questi uomini che si vedono come un potere assoluto, poter mostrare con un solo omicidio che detengono più potere di Stato, Premi Nobel, masse nazionali e internazionali, essere in grado di scatenare un putiferio anche politico, deve fare non poca gola.
Per questo, l'istinto e il buon senso suggeriscono di non scartare lo spauracchio della riedizione della Strage di Capaci soltanto perché il pentito ha poi smentito l'informazione sul presunto attentato raccolta da un poliziotto. Nella migliore delle ipotesi mi pare rappresenti quello che il clan avrebbe voglia di fare.
Chiunque abbia visto le interviste fatte da Repubblica tv o quelle di Matrix o delle Iene, si è reso conto che pure per il territorio dominato dai Casalesi, Saviano è un simbolo. Soltanto che è un simbolo negativo. A Casale- ma molto spesso anche a Napoli - Saviano è colui che è ti fa arrivare una sanzione se giri senza patente o senza casco, colui che è diventato famoso e venerato rovinando l'immagine della propria terra e affibbiando ai suoi abitanti l'immagine di mafiosi o di collusi, colui che si è arricchito senza aver fornito lavoro anche se nero o sporco, e non ha sganciato tangenti o soldi per i terreni trasformati in tombe di rifiuti tossici.
Magari quel che abbiamo visto o letto non è tutta la verità, magari c'è qualcuno che in segreto la pensa diversamente, ma non importa. Importa che quelle dichiarazioni rappresentino la versione a cui da quelle parti occorre o conviene conformarsi. Persino il parroco di Casale ha lanciato un anatema contro Saviano perché infanga il nome dei bravi e onesti paesani.
Basta aggiungere che accanto a un consenso negativo popolare intorno a Saviano, ci sono proprio nei luoghi che per primi dovevano essere scossi dalla sua denuncia, molti che si sentono sempre di più gettati nell'ombra dal fascio di luce che sembra ricadere tutto sul simbolo. Questi si trovano nello spettro di chi conduce la battaglia antimafia: dai magistrati ai testimoni di giustizia, dagli agenti delle forze dell'ordine ai militanti delle associazioni e così via. Giornalisti lamentano che Saviano avrebbe preso dai loro articoli e dalle loro inchieste, cosa che non avrebbe dato alcun fastidio se il libro l'avessero letto in 5.000 (la prima edizione di Gomorra aveva esattamente questa tiratura) e nemmeno in 50.000. Sarebbe infatti stato impossibile e grave se l'autore non avesse fatto tesoro delle informazioni raccolte anche aldilà della propria esperienza personale, ed è perfettamente normale che chi riporta semplicemente una notizia, non abbia bisogno di citare nessuna fonte: questo, a maggior ragione, per un libro che si colloca a cavallo fra saggistica e romanzo, fra esposizione di fatti e dati e narrazione.

Ciò che non scorgono queste persone - o che la loro frustrazione fa passare in secondo piano - è che si tratta del più classico meccanismo del divide ut impera, tra l'altro messo in moto senza nessun burattinaio, e che a isolare Saviano ci si crea un danno da soli facendo il gioco dell'avversario. Inoltre non sembrano vedere la cosa più banale e primaria, ossia che, pur nell'ombra di Saviano, l'attenzione a quel che fanno non sia mai stato tanto alta: mai così tante opportunità di pubblicare libri, fare film ecc sulla camorra (e persino sulla 'ndrangheta fino ad allora quasi totalmente ignorata dall'attenzione pubblica), mai così tanto spazio nei mezzi d'informazione su arresti e inchieste, mai tanto impegno da parte dello stato nel territorio Casalese.
Ma già qui si intravede una sorta di equivoco. La Folgore che è a Casal di Principe - uso l'esempio come immagine esemplare, aldilà della valutazione sulla sua efficacia- non gira contemporaneamente a Platì e nemmeno a Secondigliano, e ammesso anche che si riuscisse a dare un colpo durissimo al clan dei Casalesi, non si avrebbe di certo ottenuto una vittoria su tutte le altre mafie che magari anzi godono dello sforzo concentrato da una parte come il proverbiale terzo fra i litiganti.
L'equivoco nasce dai piani di rappresentazione. Su quello basilare sembra trattarsi di una lotta fra Saviano e i Casalesi o, al massimo, fra Saviano e lo Stato e i Casalesi. Sembra che i Casalesi oggi "tirano" esattamente come un tempo facevano notizia solo i Corleonesi. In quest'equivoco che si autoalimenta ci casca pure l'editoria che pubblica libri sui Casalesi a cui sembra interessata solo una nicchia.
Perché, in realtà, al celebre scrittore londinese, alla casalinga di Voghera o allo studente di Treviso che cosa gliene importa alla fine di un dato clan campano? Non moltissimo, se non avesse intenzione di uccidere Saviano e se nella sua vicenda non fosse simboleggiato molto altro.
La libertà di parola, la fiducia nella verità e nella possibilità di dirla, il coraggio delle proprie azioni e convinzioni. E forse anche il meccanismo per cui la denuncia di certi clan reali, con nomi e cognomi, riesce a toccare per esteso le corde di chi in Italia si confronta con dinamiche "mafiose" in generale, cioè praticamente tutti. Credo che in questo paese vecchio, attanagliato da mille paure supposte o reali - dagli stranieri al pedofilo della porta accanto, dal latte contaminato alla recessione -, privo di fiducia nel proprio futuro e nella possibilità di uscire dal marciume, l'esempio di Saviano incontri soprattutto il desiderio di essere diversi da come si è realmente: non impauriti, asserviti, rassegnati. Eppure l'investimento simbolico su di lui sembra giocare un ruolo ambivalente. Ci si appaga nell'identificazione e nella preoccupazione per Saviano e si continua grosso modo a vivere come prima. D'altronde, cosa si potrebbe fare?
Purtroppo dire "siamo tutti Saviano" non basta, anzi l'effetto è in parte anche contrario a quello desiderato. Perché alla fine solo Saviano è Saviano, solo Saviano è quello sotto scorta, minacciato di morte, ricusato dal parroco di un paese che non ha pronunciato nulla di simile nei confronti dei boss. E voglio ribadirlo: Saviano non è ovviamente l'unico potenziale bersaglio delle mafie e non è l'unico a vivere sotto scorta, ma è un bersaglio privilegiato proprio in quanto simbolo. Più ci si schiera dietro al suo nome, più lui diventa simbolo e come simbolo diventa unico, diventa solo. E il fatto che così pochi lo appoggiano proprio laddove dovrebbe invece essere appoggiato primariamente, non fa che accrescere la pericolosità di questo meccanismo.
Chiunque abbia letto l'opera di René Girard centrata sulla funzione del capro espiatorio o conosca il mito e il rito del Re del Bosco analizzati dal Ramo d'oro di Frazer ha dimestichezza con la logica per cui figure investite collettivamente di un valore positivo e persino salvifico, siano per questa stessa ragione, destinate al sacrificio.
Ma come si fa a strappare una persona reale, non un simbolo, dal pericolo che sta con troppa evidenza correndo anche in questo senso?
Noi su questo sito abbiamo da sempre pensato che il modo migliore di stare vicini a Roberto era continuare a dare spazio alle tematiche che ha portato alla ribalta, anche e soprattutto se a scriverne erano altri, e cogliamo l'occasione per ribadire che Nazione Indiana è uno spazio aperto per chiunque voglia proporre un contributo. I Wu Ming con spirito simile hanno lanciato lo slogan di "desavianizzare" Saviano. Carla Benedetti e Giovanni Giovanetti sul sito de "Il primo amore" propongono di "Condividere il rischio" facendo e ospitando inchieste su temi non solo legati alla criminalità organizzata.
Tutto questo è giusto, però non illudiamoci: ormai non basta. Tutta l'attenzione e la maggiore facilità di accesso ai circuiti della comunicazione -dai blog, alle case editrici, ai telegiornali- che la fama di Saviano e del suo libro hanno innescato anche a beneficio di altri scrittori, giornalisti, documentaristi ecc., non hanno cambiato nulla su un certo piano. Si sono moltiplicate le voci di denuncia, ma Saviano è diventato sempre più simbolo.
D'altronde, non si può dire alla gente: tutto questo è certamente anche bellissimo, ma per favore state attenti. Da un lato perché nessuno si sveglia la mattina dicendosi "adesso di sto ragazzo che ho visto ieri sera a Matrix faccio il mio simbolo di un Italia migliore o di chi "ha le palle". Del resto, le stesse persone - che siano scrittori famosi o gente comune non importa - hanno reagito con affettuoso buon senso alla sua dichiarazione di volersene andare, dando la priorità al suo desiderio di riavere una vita decente. Non è che perché uno è simbolo che non ci si rende conto che è prima di tutto una persona in carne ed ossa.
Ma soprattutto, pur con tutta la necessità di vederne gli aspetti rischiosi e ambivalenti, è giusto riconoscere che i bisogni simbolici sono bisogni profondi e reali, e il fatto che emergano con la loro portata utopica primaria, contiene in sé qualcosa di positivo: aldilà di ogni ricaduta concreta, di ogni possibilità che il semplice sentirli ed esprimerli possa bastare come appagamento e quindi diventi funzionale al mantenimento delle cose come stanno, e ovviamente aldilà di ogni manipolazione e strumentalizzazione della quale possono essere oggetto.
Eppure, pur con tutta la consapevolezza dei limiti e dei rischi, non basta fermarsi a questo. Bisogna cercare di capire quel che hanno fatto Gomorra e il "fenomeno Saviano" un po' più concretamente.
Gomorra non è soltanto in assoluto il primo libro sulle mafie - inclusi quelli dedicati a Cosa Nostra, inclusa il volume intervista a Giovanni Falcone- ad aver ottenuto una simile diffusione in Italia e nel mondo. Gomorra ha soprattutto cambiato il modo di rappresentare e di vedere le mafie. Non più fenomeno locale, ma presenza ubiqua e interconnessa del mondo globalizzato. Non più intreccio fra potere criminale e potere politico, ma supremazia del potere economico al quale tutto il resto è subordinato. Quel che talvolta viene mosso come critica a Saviano, ossia aver riservato un ruolo marginale all'aspetto della collusione politica, è in realtà la condizione di partenza perché si fosse potuto verificare questo mutamento collettivo di consapevolezza.
Gomorra ha fatto questo:spostare lo sguardo dal sangue e persino dalla politica al business che è ovunque e rappresenta il cuore del potere criminale. Ed è, aldilà delle mafie, un grande e necessario aggiornamento ai tempi nostri, dove recentemente gli stati e la politica non hanno potuto fare altro che cercare di tamponare i disastri creati dall'economia, stavolta finanziaria.
Lo sguardo di Gomorra è la sua più grande novità. Ogni polemica su quel che Saviano possa aver preso da altri o su quel che "si sapeva già", manca il bersaglio perché non si rende conto che è stato Saviano, solo Saviano, a scorgere in quella materia una portata universale e trovare lo strumento per fare breccia con la sua visione delle cose e con la forza di coinvolgimento del suo racconto. Nessuno prima d'allora era arrivato a mostrare soprattutto questo, a far pervenire soprattutto questo come messaggio, a dirti:"non chiederti principalmente se Totò Riina si è baciato o meno con Andreotti", ma domandati piuttosto chi costruisce casa tua, come vengono raccolti i pomodori con cui fai la salsa, dove e come vengono smaltiti i rifiuti che butti nel bidone dell'immondizia".
Non erano cose di cui si interessava il lettore comune o il pubblico dei media, non erano nemmeno cose che sembravano riguardare da vicino i cosiddetti intellettuali, inclusi quelli impegnati. Pasolini probabilmente ha pagato con la vita il suo lavoro su Petrolio e il suo "Io so" che riguardavano comunque grandi intrecci fra politica e interessi multinazionali, non il subappalto del piccolo cantiere, non la proprietà di una pizzeria, non il racket subito dal negoziante. In breve: non il nostro quotidiano.
Su tutto questo c'è stata una sensibilizzazione che forse è l'inizio di qualcosa che cambia. I giornali non danno solo quell'attenzione a camorra e Casalesi di cui prima godevano solo i mafiosi siciliani (e comunque, per qualsiasi motivo, è preferibile essere informati su due organizzazioni criminali piuttosto che su una sola), ma concedono uno spazio prima impensabile a questioni come le mani dell'ndrangheta sui lavori per l'Expo di Milano (vedi gli articoli su "Corriere" e "Stampa").
Noi non siamo Saviano e possiamo fare ben poco per tutelarlo. Ma, senza nessun eroismo, possiamo continuare ad allargare il solco che ha tracciato, continuare a ritenere che ogni indagine sul reale ci riguardi, possiamo trasformare tutto questo in una duratura e normale consapevolezza capace di non essere soltanto qualcosa di effimero: leggere - o scrivere- poesie e inchieste, articoli di cronaca e romanzi. Cambiare definitivamente postura rispetto a questo. Capire che le nostre democrazie sono congegni imperfetti e fragili, i cui valori e il cui funzionamento possono essere messe in scacco non solo dall'ascesa al potere di un dittatore; che non bisogna arrivare al regime totalitario, per finire per perderne di fatto dei grossi pezzi. Questo paese ne è un esempio particolarmente mal messo, ma la questione di fondo non riguarda solo l'Italia e il suo meridione. E al tempo stesso non dobbiamo nasconderci lo sgomento e il senso di impotenza che ci coglie quando scopriamo che Caserta sembra più lontana da Roma, più altrove, che Parigi o Milano.
Sapere che si possa fare poco. Ma farlo. Di modo che se Saviano se ne va per un po' da un'altra parte, qualcosa di quel che ha aiutato a seminare continui a crescere e a radicarsi anche laddove non c'è mai stato uno specifico interesse per le mafie.
E infine, anche se il coraggio è quella cosa che non ci si può dare da soli, sarebbe bello se fossimo capaci a tirarne fuori un po' di più: ovunque, in qualsiasi campo. Non per Roberto Saviano, soprattutto per noi stessi.

 
28 ottobre 2008


dal blog di Roberto Saviano


Titolo: ROBERTO SAVIANO al Guardian: «Voglio andare via dall'Italia prima possibile»
Inserito da: Admin - Novembre 01, 2008, 04:36:44 pm
Camorra, Roberto Saviano al Guardian: «Voglio andare via dall'Italia prima possibile»

 
ROMA (1 novembre) - Lascerò l'Italia «il più presto possibile». Lo ha detto lo scrittore Roberto Saviano, autore del libro “Gomorra”, in un'intervista al quotidiano britannico Guardian. Saviano, divenuto un'icona della lotta alla camorra, vive da tempo - da troppo tempo dice lui - perennemente sotto scorta: «Un enorme, gigantesco peso che non posso più sopportare facilmente e che mi sta distruggendo come scrittore». Il Guardian, dopo aver ricordato la sua vicenda: come da due anni e mezzo viva in «isolamento e persecuzione», e di come, a parte i viaggi all'estero per pubblicizzare i suoi libri, la sua vita - come lui stesso dice - trascorra tra gli alloggi dei carabinieri e gli uffici dei magistrati, ha chiesto allo scrittore quando intenda andare via. La risposta di Saviano è stata: «Al più presto possibile».

Ci sono solo alcune difficoltà logistiche - aggiunge il Guardian - sulla sua strada verso l'esilio, e lui spera che possano essere risolte con l'anno nuovo.
Sogna una casa «dove vivere per un anno, sei mesi -spiega lo scrittore- invece di quelle dove vengo spostato. All'inizio potevo farcela, accettare che quello era il mio destino. Ma adesso sto diventando pazzo», si sfoga. «Vivere come un animale in gabbia ti trasforma in una bestia. Diventi diffidente, pensi che tutti ti vogliono ingannare. Invidi gli altri che vivono liberi. Tu hai avuto la forza, o la stupidità, di denunciare, gli altri sono rimasti zitti. Mi piacerebbe che la mia storia non fosse considerata solo come quella di un meridionale italiano, di un uomo che vive in un paese di sottosviluppo con uomini violenti. Io, ed altri che scriviamo di queste vicende, parliamo di una delle più potenti forze economiche dell'Unione europea. Ciò che riguarda me, riguarda anche chi vive a Londra, Berlino e Madrid. Tutte le organizzazioni criminali investono a Londra e non è un caso che Londra sia tra le cinque città dove il consumo di cocaina è più alto». Nonostante la camorra abbia ramificazioni ovunque, lo scrittore sembra fiducioso di poter riuscire a vivere sicuro all'estero, senza una protezione di 24 ore al giorno: «Non ne sono assolutamente sicuro ma credo di sì».


da ilmessaggero.it


Titolo: MIRIAM MAKEBA MUORE DOPO IL CONCERTO PER SAVIANO
Inserito da: Admin - Novembre 10, 2008, 10:18:15 am
2008-11-10 08:18

MIRIAM MAKEBA MUORE DOPO IL CONCERTO PER SAVIANO


CASTEL VOLTURNO (NAPOLI) - Mama Africa, Miriam Makeba, se n'e' andata uscendo di scena con un finale ad effetto. Aveva speso tutta la sua vita per l'impegno civile ed e' morta 'sul campo', a Castel Volturno, un luogo-simbolo della lotta alla criminalita' ed alla sopraffazione, dove aveva voluto partecipare a tutti i costi, nonostante le non brillanti condizioni di salute, al concerto anticamorra a sostegno dello scrittore Roberto Saviano.

L'artista di colore, 76 anni, era divenuta famosa in tutto il mondo per essersi battuta vigorosamente contro il regime dell'apartheid che aveva dilaniato il suo Paese, il Sudafrica. Non a caso era diventata delegato delle Nazioni Unite. E non a caso il suo impegno contro la segregazione razziale, ingigantito dalla fama di cantante nota in tutto il mondo, aveva causato la reazione del governo sudafricano che, nel 1963 - in pieno regime di apartheid - l'aveva costretta all'esilio ed aveva messo al bando tutti i suoi dischi. Da alcuni anni, per motivi professionali, la Makeba si era gia' trasferita in Europa, anche se continuava a frequentare di tanto in tanto il suo Paese d'origine. Dopo che le fu imposto l'esilio, per tornare in Sudafrica, Miriam Makeba dovette attendere quasi 30 anni: soltanto nel 1990, infatti, Nelson Mandela riusci' a convincerla a tornare nella terra dove era nata - sua madre era di etnia swazi e suo padre, morto quando lei aveva sei anni, era uno Xhosa - e che era stata costretta ad abbandonare.

Trasferitasi prima in Europa e poi negli Stati Uniti, proprio in quella lunga fase della sua vita, espresse il meglio di se' nel campo artistico. In America Miriam Makeba incise le sue canzoni piu' conosciute: Pata Pata, The Click Song e Malaika. Nel 1968 si sposo' con Stokely Carmichael, un attivista per i diritti civili. Il matrimonio scateno' grandi polemiche negli Stati Uniti e la sua carriera ne subi' un notevole rallentamento. Si separo' dal marito - con il quale si era trasferita in Guinea - nel 1973. Nel 1985, dopo la morte della sua unica figlia, Bongi, torno' a vivere in Europa. Nel 2005 decise di dare il suo addio alle scene e lo fece con un memorabile tour, che tocco' tutti i Paesi del mondo nei quali si era esibita. Ma il destino, per l'addio definitivo, le aveva riservato un altro appuntamento. Quello che ieri sera l'ha condotta sul palco di Baia Verde, a Castel Volturno, dove un pubblico accorso per una grande testimonianza di impegno civile, le ha riservato l'ultimo, indimenticabile applauso.

CAMORRA: CHIESTO IL PIZZO AGLI OPERAI CHE MONTAVANO IL PALCO PER IL CONCERTO
NAPOLI - "Alcuni sconosciuti hanno chiesto il pizzo agli operai che stavano montando il palco per il concerto dedicato a Saviano". Lo ha reso noto l'assessore alla Formazione della Regione Campania, Corrado Gabriele promotore degli Stati generali per la scuola nel Mezzogiorno, che si chiudono questa sera a Castel Volturno (Caserta) proprio con il concerto di Miriam Keba e Maria Nazionale dedicato a Saviano. Il fatto, secondo quanto riferisce Gabriele, è avvenuto nella serata di ieri. L'assessore ha informato dell'accaduto i carabinieri.

"Appena mi hanno riferito l'accaduto - ha detto ancora l'assessore - ho chiamato il comandante provinciale dei carabinieri di Napoli ed è stato informato anche il coordinatore della direzione distrettuale antimafia di Napoli, Franco Roberti". "Gli operai hanno detto agli sconosciuti di non essere in grado di dare loro risposte e di tornare di oggi", ha raccontato ancora Gabriele. "Domani formalizzeremo una denuncia contro ignoti - ha concluso Gabriele - ma quanto è avvenuto è di una gravità inaudita. Posso dire però che il concerto si svolgerà regolarmente, grazie alla presenza delle forze dell'ordine, nel posto che avevamo previsto: il luogo dove fu ammazzato l'imprenditore coraggioso Domenico Noviello". 


da ansa.it


Titolo: "Troppi rischi", Saviano salta Los Angeles
Inserito da: Admin - Novembre 13, 2008, 03:02:27 pm
Un messaggio in occasione del debutto del film tratto da Gomorra

"Troppi rischi", Saviano salta Los Angeles

Lo scrittore-simbolo della lotta alla camorra bloccato da un mancato cordinamento tra polizia italiana e Usa

Se i meccanismi criminali vengono allo scoperto allora io potrò rimanere nella mia terra



MILANO — «Mi dispiace non poter essere con voi, ma oramai i miei spostamenti pare siano diventati qualcosa di estremamente complicato». Il film tratto da «Gomorra» debutta a Los Angeles, ma Roberto Saviano non c’è. Per scusarsi ha inviato un messaggio, senza per questo lenire la delusione dei moltissimi fan che il suo libro (2 milioni di copie vendute in tutto il mondo) conta anche oltreoceano. «Sono orgoglioso e commosso che Gomorra, e mi riferisco sia al film che al libro, stia raggiungendo un così vasto pubblico — ha aggiunto il giovane scrittore —. Se tutto è noto, se i meccanismi criminali vengono allo scoperto allora io potrò rimanere nella mia terra, raccontarla e continuare a resistere».

Dopo la première ufficiale a New York, il film di Matteo Garrone, candidato italiano alla nomination come miglior pellicola straniera, è stato presentato nella notte di ieri all’Egyptian Theatre, uno dei teatri storici dell’Hollywood Boulevard. In prima fila c’erano personaggi del calibro di Oliver Stone e Paul Mazursky, e molti altri membri dell’Academy. Che a quanto hanno raccontato Garrone e il produttore Domenico Procacci, «sono rimasti colpiti dallo scoprire, leggendo una frase che scorre alla fine del film, che la camorra ha investito nella ricostruzione del World Trade Center».

Dall’uscita del suo libro-denuncia, Saviano vive sotto scorta, in un regime di tutela tra i più severi. Cinque carabinieri lo seguono ovunque e quando gli inquirenti registrano segnali di allarme, è costretto a dormire in caserma. Per sfuggire alle minacce di morte del clan dei Casalesi, lo scrittore appena ventinovenne ha dovuto sacrificare la propria libertà. E per partecipare a qualsiasi evento pubblico all’estero è costretto a preannunciare i propri spostamenti con almeno un mese di anticipo. Qualche giorno fa ha rinunciato a un’altra trasferta letteraria in Israele.

«A causa di una mancata coordinazione fra la polizia italiana e americana Saviano non è potuto essere qui fra noi», ha spiegato Garrone a una platea di giornalisti e personaggi dello show business che innanzitutto volevano incontrare l’uomo simbolo della lotta al crimine organizzato italiano. Ma se non oggi, già nei prossimi giorni l’autore di Gomorra raggiungerà gli States per accompagnare il film nella cavalcata di presentazioni ed eventi verso la nomination all’Oscar. Da qui a un mese, sarà selezionato il primo gruppo di nove titoli che concorreranno nella categoria del miglior film straniero, poi la selezione si ridurrà a cinque pellicole con l’annuncio ufficiale delle candidature.

Dopo il soggiorno americano, lo scrittore è atteso a Stoccolma, dove il 25 novembre parteciperà a un convegno con Salman Rushdie, altro scrittore costretto a vivere blindato. I due si incontreranno nel salone «B-rssal» dell’Accademia svedese, lo stesso dove ogni anno viene annunciato il Nobel per la Letteratura. E insieme discuteranno di «La parola libera e la violenza senza legge». Un tema che entrambi hanno dovuto sperimentare sulla propria pelle.

Antonio Castaldo
13 novembre 2008

da corriere.it


Titolo: ROBERTO SAVIANO Da Gomorra a Stoccolma io e i fantasmi dei Nobel
Inserito da: Admin - Dicembre 14, 2008, 10:36:46 pm
Da Gomorra a Stoccolma io e i fantasmi dei Nobel

di Roberto Saviano

Essere invitati alla Svenska Akademien, l'Accademia di Stoccolma che dal 1901 assegna ogni anno il premio Nobel, mette addosso uno stato d'ansia sottile: impossibile scacciare il pensiero di essere ricevuti nell'ultimo luogo sacro della letteratura. Ma quando arrivo a Stoccolma, trovo una sorpresa. Tutto è coperto di neve. La neve, l'avrò toccata al massimo tre volte in vita mia.

All'aeroporto sono tutti nervosi per la tempesta, invece a me uscire in quel bianco dà un senso di gioia infantile, anche se la temperatura è artica e il mio cappotto, buono per gli inverni mediterranei, in Svezia si rivela quasi inutile. La prima cosa che mi spiegano, non appena arrivo all'Accademia, sono le regole: severe, inderogabili. Bisogna indossare un abito elegante e ogni gesto dev'essere concordato. Gli accademici sono nominati a vita, diciotto membri che io mi figuro come ultimi aruspici che vaticinano il futuro delle lettere: venerati, odiati, mitizzati, sminuiti, presi in giro per il loro potere, corteggiati da tutto il mondo. Non riesco a immaginarmeli. Nella sala riservata incontro i primi due: un anziano signore che si era tolto le scarpe e una signora che cerca di dargli una mano a infilarsele di nuovo. Con un'eleganza naturale, mi stringe la mano e poi mi dice: "Il suo libro mi è entrato nel cuore". Capisco presto che la Svezia è attentissima a ciò che accade altrove, il paese che forse più di tutti al mondo sente le contraddizioni di altri paesi come proprie. Alcuni accademici mi rivolgono domande sull'Italia, in un modo, però, che non mi sarei aspettato. Tutti, ma proprio tutti, mi chiedono di Dario Fo, di come sta e cosa sta facendo, e infine mi raccomandano di portargli i loro saluti, come dando per scontato che ci frequentiamo abitualmente.

E poi mi chiedono come sono considerati da noi Giorgio La Pira, il mitico sindaco di Firenze degli anni Cinquanta, e anche Danilo Dolci, Lelio Basso, Gaetano Salvemini ed Ernesto Rossi. Un'Italia dimenticata dagli italiani che lì non solo ricordano ma considerano l'unica degna di memoria. Un signore si avvicina per mettermi il microfono, mi parla in italiano e io reagisco con stupore: "Perché si stupisce? Lei qui è al Nobel dove parliamo tutte le lingue del mondo".

Diari di una "vita sotto scorta"”Salman Rushdie aspetta già nella stanzetta riservata. Ci abbracciamo. La generosità che mi dimostra sin da quando ci siamo incontrati la prima volta nasce da chi non dimentica quel che ha passato. Vuole trasmettermi qualcosa di quel che ha imparato sulla sua pelle, vuole forse che io possa fare meno fatica a reimpadronirmi di qualche brandello della mia libertà, ma già comprendere di non essere solo con la mia esperienza per me è prezioso. Sembra incredibile. Quando ricevette la sua condanna, ero un bambino, andavo appena alle elementari. La sua fatwa khomeinista e le mie minacce camorriste nascono da contesti diversissimi, ma le conseguenze sulle nostre vite, le ripercussioni sulle nostre storie di scrittori finiscono per essere pressoché identiche. Lo stesso peso della prigionia che nessuno riesce a cogliere fino in fondo, la stessa ansia continua, la solitudine, lo stesso scontrarsi con una diffidenza che può divenire diffamazione e che è la cosa che più ti ferisce con la sua ingiustizia, che meno tolleri. Tutto quel che Rushdie dirà nel suo discorso sulle difficoltà di attraversare una strada, prendere un aereo, trovare una casa, e tutto quel che rende impossibile una vita blindata, mi farà pensare: "È vero, è proprio così".

Discutiamo di come organizzare l'incontro. Anche qui le regole sono precise. Dopo esser stato invitato a parlare, devo fare la mia prolusione, non restare troppo tempo ad accogliere gli eventuali applausi ma tornare presto a sedermi. Poi sarà il turno di Rushdie, e seguirà un dialogo. Finito quello, non dobbiamo stringere la mano a nessuno né firmare libri, dobbiamo attraversare la sala e andare via. Quando tutto è chiarito, entriamo nella sala dell'Accademia. Me l'ero immaginata completamente diversa: un teatro enorme, sontuoso, un tripudio di palco e platea. Come ogni mito si rivela invece esattamente il contrario. Una sala in legno, deliziosa ed elegante, ma raccolta, intima. C'è una specie di recinto al centro, dove sono seduti gli ospiti, gli editori, i familiari, il segretario permanente dell'Accademia Horace Engdahl, più qualche selezionato giornalista.

Mentre Engdahl fa il suo discorso introduttivo, io mi sento pressappoco come quando aspettavo di discutere la mia tesi di laurea. Tutto ciò che hai preparato svanisce. Senti solo la testa vuota, il cuore in petto come un grumo ingombrante, la gola secca. Mi aggrappo ai nomi degli scrittori che hanno ricevuto il Nobel su quello stesso podio dove presto dovrò salire a parlare anch'io. Sento che in quella stanza si sono depositate le loro parole, che sono rimasti impressi nel legno i discorsi di Saramago, Kertesz, Pamuk, Szymborska, Heaney, Marquez, Hemingway, Faulkner, Eliot, Montale, Quasimodo, Solgenitsyn, Singer, Hamsun, Camus. Elenco nella mente quelli che ricordo, quelli che conosco meglio o ho più amato, quasi mi gira la testa, è una vertigine. Come avrà appoggiate le mani su quel palchetto Pablo Neruda? Pirandello avrà chinato il viso sugli appunti o avrà fissato in volto gli accademici? Samuel Beckett avrà sorriso o sarà rimasto imperturbabile? Elias Canetti a chi avrà avuto la sensazione di parlare, al mondo o solo a una platea? Thomas Mann, mentre era lì, avrà presentito la tragedia che dopo pochi anni avrebbe vissuto la sua Germania?

Cerco di respirare forte, un po' per calmarmi, un po' per fare come quando ti portano al mare da bambino e ti dicono che le scorpacciate di iodio inalate sulla spiaggia avranno il potere di proteggerti contro le influenze e i catarri dell'inverno. Così cerco di inalare le sedimentazioni di tutti quelli che sono stati in questa sala, sperando che anche loro mi aiutino a resistere all'inverno. Tocca a me. Salgo sul palco tanto temuto. Vorrei dire molte cose, portare più esempi di chi oggi stenta ad avere libertà di parola e di chi vive sotto minacce per aver dato fastidio al potere criminale: scrittori e giornalisti, dal Messico dove i narcos hanno ucciso Candelario Pérez Pérez, alla Bulgaria dove è stato ammazzato lo scrittore Georgi Stoev.

Ma mi hanno detto che non devo mettere troppa carne al fuoco, parlare troppo a lungo, e così mi concentro su quel che per me rimane l'esperienza più importante. La letteratura e il potere, la scrittura che diviene pericolo solo grazie a ciò che di più pericoloso esiste: il lettore. Spiego come nelle democrazie non è la parola in sé che fa paura ai poteri, ma quella che riesce a sfondare il muro del silenzio. Esprimo la mia fiducia in una letteratura in grado di trasportare chiunque nei luoghi degli orrori più inimmaginabili, ad Auschwitz con Primo Levi, nei gulag con Varlam Salamov, e ricordo Anna Politovskaja che ha pagato con la vita la sua capacità di rendere alla Cecenia cittadinanza nel cuore e nella mente dei lettori di tutto il mondo. La differenza fra me e Rushdie è questa: lui condannato da un regime che non tollera alcuna espressione contraria alla sua ideologia; mentre laddove la censura non esiste ciò che ne prende le veci è la disattenzione, l'indifferenza, il rumore di fondo del fiume di informazioni che scorrono senza avere capacità di incidere.

A volte mi sembra di essere considerato uno che viene da un paese troppo spesso e a torto valutato come un'anomalia. Ma quel che dico non ha a che fare solo col Sud Italia oppresso dalle mafie, e nemmeno con l'Italia in quanto tale. Per quanto a me questo sembri evidente, temo che per molti, tolti i riferimenti alla mia condizione, il quadro non sia altrettanto chiaro. Molti intellettuali, mentre rimpiangono la loro perdita di ruolo nelle società occidentali, continuano a considerare il successo con diffidenza o con disprezzo, come se invalidasse automaticamente il valore di un'opera, come se non potesse essere altro che il risultato dei meccanismi manipolativi del mercato e dei media, come se il pubblico a cui è dovuto fosse impossibile pensarlo diversamente da una massa acritica. È soprattutto nei confronti di quest'ultimo che commettono un torto enorme, perché se è vero che i libri non sono tutti uguali tantomeno lo sono i lettori. I lettori possono cercare di divertirsi o di capire, possono appassionarsi alla fantasia più illimitata o al racconto della realtà più dolorosa e difficile, possono persino essere la stessa persona in momenti differenti: ma sono capaci di scegliere e di distinguere. E se uno scrittore questo non lo vede, se non confida più che la bottiglia da gettare in mare approdi nelle mani di qualcuno disposto ad ascoltarlo, e ci rinuncia, rinuncia non a scrivere e pubblicare, ma a credere nella capacità delle sue parole di comunicare e di incidere. Allora fa un torto pure a se stesso e a tutti quelli che lo hanno preceduto.

Quando Salman prende la parola, ricorda che la letteratura nasce da qualcosa che è consustanziale alla natura umana: dal suo bisogno di narrare storie, perché è grazie alla narrazione che gli uomini si rappresentano a se stessi e quindi solo un'umanità libera di raccontarsi come vuole è un'umanità libera. Rushdie non ha mai voluto essere altro che questo, un tessitore di storie, un romanziere senza vincoli, e quel che più lo ferisce non è il verdetto di un'ideologia che non poteva tollerarlo, ma la diffamazione di chi, proprio nel mondo libero, voleva far credere che non potesse essere soltanto questa la sua aspirazione, che dovesse essere guidato da secondi fini: i soldi, la carriera, la celebrità.

Mi sale una sorta di magone in gola. Penso ai dieci anni blindatissimi di Rushdie e a come abbia fatto a non impazzire, penso che soltanto chi ha una vita molto riparata e tranquilla possa immaginarsi possibile un baratto fra l'ombra della morte e la libertà. Ma Salman continua senza scomporsi, termina il suo discorso e passiamo all'ultima parte di dialogo. Alla fine, quando ci alziamo, ricevendo gli applausi del pubblico e degli accademici, ci consegnano dei fiori e io penso che i ragazzi della scorta mi sfotteranno per questa cosa considerata da signore giù da noi. Ceniamo in una stanza dove sono passati tutti i premiati. Ci dicono che il cuoco è quello della regina, ma io quel cibo non riesco ugualmente quasi a mandarlo giù fino a quando non arriva un trionfo di gelato alla cannella e mele caramellate.

Finisce la cena. L'etichetta prevede che nessuno possa alzarsi sino a quando non lo fa il presidente. Ripassiamo per la stanza della premiazione. La sala di legno è vuota. Le luci sono bassissime. Rushdie mi dice senza più l'ironia del suo discorso pubblico: "Continua ad avere fiducia nella parola, oltre ogni condanna, oltre ogni accusa. Ti daranno la colpa di essere sopravvissuto e non morto come dovevi. Fregatene. Vivi e scrivi. Le parole vincono". Saliamo sui legni del podio e ci facciamo fotografare con i nostri cellulari. Ridendo, abbracciandoci come se fossimo ragazzini in gita che hanno scavalcato le recinzioni e giocano a fare Pericle nel Partenone. Ci chiamano, dobbiamo uscire, prendere il caffè, salutare tutti e andare via. Le luci si spengono completamente e resto lì fermo, al buio. E lì al buio cerco ancora di raccogliere a pieni polmoni quell'odore di umido e di legno che sembra aver conservato tutte le presenze di chi è stato premiato in quella sala.

"Personalmente, non posso vivere senza la mia arte. Ma non l'ho mai posta al di sopra di ogni cosa. Mi è necessaria, al contrario, perché non si distacca da nessuno dei miei simili e mi permette di vivere, come quello che sono, a livello di tutti. Ai miei occhi l'arte non è qualcosa da celebrare in solitudine. Essa è un mezzo per scuotere il numero più grande di uomini offrendo loro un'immagine privilegiata delle sofferenze e delle gioie comuni. Essa obbliga dunque l'artista a non separarsi. Lo sottomette alla verità più umile e a quella più universale. E spesso colui che ha scelto il suo destino d'artista perché si sentiva diverso apprenderà presto che non nutrirà né la sua arte né la sua differenza, se non ammettendo la sua somiglianza con tutti [?] Nessuno di noi è grande abbastanza per una simile vocazione. Ma in tutte le circostanze della propria vita, che sia oscuro o provvisoriamente celebre, legato dai ferri della tirannia o temporaneamente libero di esprimersi, lo scrittore può ritrovare il sentimento di una comunità vivente che lo giustificherà, alla sola condizione che accetti, come può, i due incarichi che fanno la grandezza del suo mestiere: il servizio della verità e quello della libertà".

Mi sembra quasi di poterlo toccare, Albert Camus, che ha pronunciato queste parole nel 1957, tre anni prima di morire in un incidente stradale. E vorrei ringraziarlo, vorrei potergli dire che quel che aveva detto allora, è ancora vero. Che le parole scuotono e uniscono. Che vincono su tutto. Che restano vive.

(Roberto Saviano 2008. Published by Arrangement
with Roberto Santachiara Agenzia Letteraria)

 
14 dicembre 2008
dal blog di Roberto Saviano


Titolo: ROBERTO SAVIANO "La camorra tocca tutti il governo può fare molto di più"
Inserito da: Admin - Dicembre 17, 2008, 06:48:25 pm
L'autore di "Gomorra" intervistato da Massimo Giannini su Radio3 parla anche dell'inchiesta napoletana: "La mafia non riguarda solo il centrodestra"

Saviano: "La camorra tocca tutti il governo può fare molto di più"

 

ROMA - Contro la camorra "il governo potrebbe fare di più: è stato importante mandare i parà, perché bisognava rispondere con un piano militare ma questo non basta assolutamente: c'è ancora tanto da fare e le risorse ci sono". Roberto Saviano torna a ribadire le sue idee sulla criminalità organizzata intervistato questa mattina su Radio3 da Massimo Giannini, spaziando dall'inchiesta sugli appalti a Napoli alla riforma della giustizia.

La battaglia sulla criminalità. Gli scontri tra studenti di destra e di sinistra sono "vecchi" e fanno solo il gioco di chi vuole deviare l'attenzione dalle questioni vere, in primo luogo da quella della criminalità ha spiegato Saviano che nel pomeriggio incontrerà gli studenti dell'università Roma Tre dopo la proiezione la proiezione del film di Matteo Garrone tratto dal suo libro. "Forse tra le nuove generazioni si sta parlando alla questione criminale in maniera diversa - ha sottolineato Saviano parlando a Radio3 - Sento tantissimo la deideologizzazione. Io parlo ai giovani. Ai giovani di destra come ai ragazzi di sinistra o a ragazzi semplicemente che non hanno alcun tipo di posizione. E l'idea di andare a parlare all'università, anche se sono stato invitato dall'Onda, era quella: poter parlare a tutti e non solo a una parte, perché la battaglia sulla criminalità è una questione che viene prima di tutto".

La mafia non riguarda solo centrodestra. Parlando della bufera scoppiata al Comune di Napoli, Saviano non è sorpreso. "E' da tempo che, soprattutto nel Sud Italia, queste connivenze sono state denunciate: io stesso e molti altri, sull'Espresso e su Repubblica, abbiamo scritto di questa sorta di connivenze, di questa assoluta percezione sbagliata di credere che il male stia solo dall'altra parte, che la mafia sia una cosa che riguarda solo il centrodestra".

"Detto questo - ha aggiunto l'autore di Gomorra, - mi sento di dire che non può essere utilizzata inchiesta per criminalizzare un'intera parte politica, dell'una o dell'altra parte. Ma credo che una cosa da fare, finalmente, sia prendere le distanze da certi meccanismi imprenditoriali", che "sono di periferia, sembrano lontani da Roma, ma in realtà incidono tantissimo".

Il rapporto tra politica e crimine. Più in generale, rispondendo a una domanda sugli sviluppi dell'inchiesta Global service, Saviano ha spiegato che, a suo giudizio, "oggi il rapporto tra politica e crimine è diverso rispetto a Tangentopoli e alla Cosa Nostra del maxiprocesso. Oggi le organizzazioni criminali determinano gli equilibri politici come potrebbero determinarli la Microsoft, la Bmw o la General Motors. Al di là di quella che può essere la mazzetta al singolo politico o consigliere comunale, indipendentemente dalle scelte individuali di corruzione, le organizzazioni criminali riescono a condizionare il clima politico attraverso il loro potere economico".

Riforma della giustizia. Roberto Saviano segnala il rischio che l'annunciata riforma della giustizia "venga utilizzata per rendere più complicate non tanto le inchieste antimafia, quanto la possibilità di arrivare ai livelli economico-finanziari della criminalità organizzata". "Tutti i boss che usano lo strumento militare, che uccidono - ha spiegato Saviano parlando con Massimo Giannini - prima o poi vengono eliminati o finiscono in galera, ma sanno benissimo che la morte è una parte necessaria del loro mestiere. Il vero problema è arrivare al livello economico, a quei personaggi che entrano in relazione con le organizzazioni criminali, ma senza farne parte o partecipare alle operazioni di sangue".

Per l'autore di Gomorra, dunque, il "rischio è che con un determinato tipo di riforma della giustizia e con gli attacchi alla magistratura si tenda a voler chiudere la partita con l'imprenditoria criminale, impegnandosi soltanto nella cattura dei criminali. Ma preso uno ne spuntano altri dieci, anche perché le organizzazioni mafiose non hanno il monopolio, i capi non durano 40-50 anni come i politici, le nuove generazioni prendono continuamente il posto delle vecchie".

(17 dicembre 2008)
da repubblica.it


Titolo: Roberto Saviano sul delitto di Gelsomina Verde
Inserito da: Admin - Dicembre 19, 2008, 09:21:40 am
Roberto Saviano sul delitto di Gelsomina Verde


Tratto da "Gomorra
Uccidere tutti. Tutti quanti. Anche col dubbio. Anche se non sai da che parte stanno, anche se non sai se hanno una parte. Spara! È melma. Melma, solo melma. Dinanzi alla guerra, al pericolo della sconfitta, alleati e nemici sono ruoli interscambiabili. Piuttosto che individui divengono elementi su cui testare la propria forza e oggettivarla. Solo dopo si creeranno d'intorno le parti, gli alleati, i nemici. Ma prima di allora, bisogna iniziare a sparare.

Il 30 ottobre 2004 si presentano a casa di Salvatore de Magistris: un signore sessantenne che ha sposato la madre di Biagio Esposito, uno scissionista, uno Spagnolo. Vogliono sapere dove si è nascosto. I Di Lauro devono prenderli tutti: prima che si organizzino, prima che possano rendersi conto di essere in maggioranza. Gli spezzano braccia e gambe con un bastone, gli maciullano il naso. Per ogni colpo gli chiedono informazioni sul figlio di sua moglie. Lui non risponde, e a ogni silenzio fanno cadere un altro colpo. Lo riempiono di calci, deve confessare. Ma non lo fa. O forse non sa davvero il luogo del nascondiglio. Morirà dopo un mese di agonia.
Il 2 novembre viene ucciso Massimo Galdiero in un parcheggio. Dovevano colpire il fratello Gennaro, presunto amico di Raffaele Amato. Il 6 novembre viene ammazzato in via Labriola Antonio Landieri, per beccarlo sparano su tutto il gruppo che gli era vicino. Rimarranno ferite in modo grave altre cinque persone. Tutte gestivano una piazza di coca e pare fossero dipendenti di Gennaro McKay. Gli Spagnoli però rispondono e il 9 novembre fanno trovare una Fiat Punto bianca in mezzo a una strada. Dribblano posti di blocco e lasciano l'auto in via Cupa Perrillo. È pieno pomeriggio quando la polizia trova tre cadaveri. Stefano Maisto, Mario Maisto e Stefano Mauriello. I poliziotti, qualsiasi portiera aprano, trovano un corpo. Davanti, dietro, nel portabagagli. A Mugnano, il 20 novembre, ammazzano Biagio Migliaccio. Lo vanno a uccidere nella concessionaria dove lavorava. Gli dicono: «Questa è una rapina» e poi sparano al petto. L'obiettivo era suo zio Giacomo. Lo stesso giorno rispondono gli Spagnoli ammazzando Gennaro Emolo, padre di un fedelissimo dei Di Lauro accusato di far parte del braccio militare. Il 21 novembre i Di Lauro fanno fuori, mentre si trovano in una tabaccheria Domenico Riccio e Salvatore Gagliardi, persone vicine a Raffaele Abbinante. Un'ora dopo, viene ammazzato Francesco Tortora. I killer non vanno in moto ma in auto. Si avvicinano, gli sparano, poi lo raccolgono come un sacco. Lo caricano e lo portano alla periferia di Casavatore dove danno fuoco all'auto e al corpo. A mezzanotte del 22 i carabinieri trovano un'auto bruciata. Un'altra.
Per seguire la faida ero riuscito a procurarmi una radio capace di sintonizzarsi sulle frequenze della polizia. Arrivavo così con la mia Vespa più o meno in sincrono con le volanti. Ma quella sera mi ero addormentato. Il vociare gracchiante e cadenzato delle centrali per me era divenuto una sorta di melodia cullante. Così quella volta fu una telefonata in piena notte che mi avvertì dell'accaduto. Arrivato sul luogo, trovai una macchina completamente bruciata. L'avevano cosparsa di benzina. Litri di benzina. Ovunque. Benzina sui sedili anteriori, benzina su quelli posteriori, benzina sulle gomme, sul volante. Le fiamme erano già consumate, i vetri esplosi, quando sono arrivati i pompieri. Non so bene perché mi sono precipitato davanti a quella carcassa d'auto. C'era un puzzo terribile, di plastica bruciata. Poche persone d'intorno, un vigile urbano con una torcia guarda dentro le lamiere. C'è un corpo, o qualcosa che gli somiglia. I pompieri aprono le portiere prendendo il cadavere, hanno una smorfia di disgusto. Un carabiniere si sente male, appoggiandosi al muro vomita la pasta e patate mangiata poche ore prima. Il corpo era solo un tronco irrigidito, tutto nero, il volto solo un teschio annerito, le gambe scuciate dalle fiamme. Presero il corpo per le braccia e lo posarono a terra aspettando la macchina mortuaria.
Il furgoncino acchiappamorti gira continuamente, lo si vede da Scampia a Torre Annunziata. Raccoglie, accumula, preleva cadaveri di gente morta sparata. La Campania è il territorio con più morti ammazzati d'Italia, tra i primi posti al mondo. Le gomme della macchina mortuaria sono liscissime, basterebbe fotografare i cerchioni mangiucchiati e il grigiore dell'interno dei pneumatici per avere l'immagine simbolo di questa terra. I tizi uscirono dal furgoncino con i guanti in lattice, sporchissimi, usati e riusati mille volte, e si misero all'opera. Infilarono il cadavere in una busta, quella nera, i body bag in cui solitamente si chiudono i corpi dei soldati morti. Il cadavere sembrava uno di quelli trovati sotto la cenere del Vesuvio dopo che gli archeologi avevano versato il gesso nel vuoto lasciato dal corpo. Le persone intorno all'auto erano diventate decine e decine, ma tutte in silenzio. Sembrava non ci fosse nessuno. Neanche le narici azzardavano a respirare troppo forte. Da quando è scoppiata la guerra di camorra molti hanno smesso di porre limite alla propria sopportazione. E sono lì a vedere cos'altro accadrà. Ogni giorno apprendono cos'altro è possibile, cos'altro dovranno subire. Apprendono, portano a casa, e continuano a campare. I carabinieri iniziano a fare le foto, parte il furgoncino col cadavere. Vado in Questura. Qualcosa diranno su questa morte. In sala stampa ci sono i soliti giornalisti e qualche poliziotto. Dopo un po' si alzano i commenti: «Si ammazzano tra loro, meglio così!». «Se fai il camorrista ecco cosa ti accade.» «Ti è piaciuto guadagnare e ora goditi la morte, munnezza.» I soliti commenti, ma sempre più schifati, esasperati. Come se il cadavere fosse stato lì e tutti avessero qualcosa da rinfacciargli, questa notte rovinata, questa guerra che non finisce più, questi presidi militari che gonfiano ogni spigolo di Napoli. I medici abbisognano di lunghe ore per identificare il cadavere. Qualcuno gli trova il nome di un capozona scomparso qualche giorno prima. Uno dei tanti, uno dei corpi accatastati in attesa del peggior nome possibile nelle celle frigo all'ospedale Cardarelli. Poi giunge la smentita.
  Qualcuno si mette le mani sulle labbra, i giornalisti deglutiscono tutta la saliva al punto da seccare la bocca. I poliziotti scuotono la testa guardandosi le punte delle scarpe. I commenti s'interrompono colpevoli. Quel corpo era di Gelsomina Verde, una ragazza di ventidue anni. Sequestrata, torturata, ammazzata con un colpo alla nuca sparato da vicino che le era uscito dalla fronte. Poi l'avevano gettata in una macchina, la sua macchina, e l'avevano bruciata. Aveva frequentato un ragazzo, Gennaro Notturno, che aveva scelto di stare con i clan e poi si era avvicinato agli Spagnoli. Era stata con lui qualche mese, tempo prima. Ma qualcuno li aveva visti abbracciati, magari sulla stessa Vespa. In auto assieme. Gennaro era stato condannato a morte, ma era riuscito a imboscarsi, chissà dove, magari in qualche garage vicino alla strada dove hanno ammazzato Gelsomina. Non ha sentito la necessità di proteggerla perché non aveva più rapporti con lei. Ma i clan devono colpire e gli individui, attraverso le loro conoscenze, parentele, persino gli affetti, divengono mappe. Mappe su cui iscrivere un messaggio. Il peggiore dei messaggi. Bisogna punire. Se qualcuno rimane impunito è un rischio troppo grande che legittima la possibilità di tradimento, nuove ipotesi di scissioni. Colpire e nel modo più duro. Questo è l'ordine. Il resto vale zero. Allora i fedelissimi di Di Lauro vanno da Gelsomina, la incontrano con una scusa. La sequestrano, la picchiano a sangue, la torturano, le chiedono dov'è Gennaro. Lei non risponde. Forse non sa dove si trova, o preferisce subire lei quello che avrebbero fatto a lui. E così la massacrano. I camorristi mandati a fare il "servizio" forse erano carichi di coca o forse dovevano essere sobri per cercare di intuire il più microscopico dettaglio. Ma è risaputo quali metodi usano per eliminare ogni sorta di resistenza, per annullare il più minuscolo afflato di umanità. Il fatto che il corpo fosse bruciato mi è sembrato un modo per cancellare le torture. Il corpo di una ragazza seviziata avrebbe generato una rabbia cupa in tutti, e dal quartiere non si pretende consenso, ma certamente non ostilità. E allora bruciare, bruciare tutto. Le prove della morte non sono gravi. Non più gravi di qualsiasi altra morte in guerra. Ma non è sostenibile immaginare come è avvenuta quella morte, come è stata compiuta quella tortura. Così tirando con il naso il muco dal petto e sputando riuscii a bloccare le immagini nella mia mente.
Gelsomina Verde, Mina: il diminutivo con cui veniva chiamata nel quartiere. La chiamano così anche i giornali quando cominciano a vezzeggiarla col senso di colpa del giorno dopo. Sarebbe stato facile non distinguerla dalla carne di quelli che si ammazzano fra di loro. O, se fosse stata viva, continuare a considerarla la ragazza di un camorrista, una delle tante che accettano per i soldi o per il senso di importanza che ti da. Nulla più che l'ennesima "signora" che gode della ricchezza del marito camorrista. Ma il "Saracino", come chiamano Gennaro Notturno, è agli inizi. Poi se diventa capozona e controlla gli spacciatori, arriva a mille-duemila euro. Ma è una carriera lunga. Duemilacinquecento euro pare sia il prezzo per l'indennizzo di un omicidio. E poi se hai bisogno di togliere le tende perché i carabinieri ti stanno beccando, il clan ti paga un mese al nord Italia o all'estero. Anche lui forse sognava di diventare boss, di dominare su mezza Napoli e di investire in tutt'Europa.
Se mi fermo e prendo fiato riesco facilmente a immaginare il loro incontro, anche se non conosco neanche il tratto dei visi. Si saranno conosciuti nel solito bar, i maledetti bar meridionali di periferia intorno a cui circola come un vortice l'esistenza di tutti, ragazzina e vecchi novantenni catarrosi. O forse si saranno incontrati in qualche discoteca. Un giro a piazza Plebiscito, un bacio prima di tornare a casa. Poi i sabati trascorsi assieme, qualche pizza in compagnia, la porta della stanza chiusa a chiave la domenica dopo pranzo quando gli altri si addormentano sfiniti dalla mangiata. E così via. Come si fa sempre, come accade per tutti e per fortuna. Poi Gennaro entra nel Sistema. Sarà andato da qualche amico camorrista, si sarà fatto presentare e poi avrà iniziato a faticare per Di Lauro. Immagino che forse la ragazza avrà saputo, avrà tentato di cercargli qualcos'altro da fare, come spesso accade a molte ragazze di queste parti, di sbattersi per i propri fidanzati. Ma forse alla fine si sarà dimenticata del mestiere di Gennaro. In-somma, è un lavoro come un altro. Guidare un'auto, trasportare qualche pacco, si inizia con piccole cose. Da niente. Ma che ti fanno vivere, ti fanno lavorare e a volte provare anche la sensazione di essere realizzato, stimato, gratificato. Poi la storia tra loro è finita.
Quei pochi mesi però sono bastati. Sono bastati per associare Gelsomina alla persona di Gennaro. Renderla "tracciata" dalla sua persona, appartenente ai suoi affetti. Anche se la loro relazione era terminata, forse mai realmente nata. Non importa. Sono solo congetture e immaginazioni. Ciò che resta è che una ragazza è stata torturata e uccisa perché l'hanno vista mentre dava una carezza e un bacio a qualcuno, qualche mese prima, in qualche parte di Napoli. Mi sembra impossibile crederci. Gelsomina sgobbava molto, come tutti da queste partì. Spesso le ragazze, le mogli devono da sole mantenere le famiglie perché moltissimi uomini cadono in depressione per anni. Anche chi vive a Secondigliano, anche chi vive nel "Terzo Mondo", riesce a avere una psiche. Non lavorare per anni ti trasforma, essere trattati come mezze merde dai propri superiori, niente contratto, niente rispetto, niente danaro, ti uccide. O divieni un animale o sei sull'orlo della fine. Gelsomina quindi faticava come tutti quelli che devono fare almeno tre lavori per riuscire ad accaparrarsi uno stipendio che passava per metà alla famiglia. Faceva anche del volontariato con gli anziani di queste parti, cosa su cui si sono sprecate le lodi dei giornali che parevano fare a gara nel riabilitarla. A fianco ai servizi su Mina Verde capitò anche un'intervista alla moglie di Raffaele Cutolo. Donna Immacolata vi sostiene che la camorra, quella vera, quella di suo marito, non uccideva mai le donne. Aveva una forte etica, fatta da uomini d'onore. Bisognava forse ricordarle che negli anni '80 Cutolo fece sparare in faccia a una bambina di pochi anni, figlia del magistrato Lamberti, davanti al padre. Ma i quotidiani l'ascoltano, le concedono fiducia, le danno credito e autorevolezza sperando che il potere della camorra possa ritornare come un tempo. La camorra del passato è sempre migliore rispetto a quella che è o che sarà.

Roberto Saviano, Gomorra

dal blog di Roberto Saviano


Titolo: ROBERTO SAVIANO La corruzione inconsapevole che affonda il Paese
Inserito da: Admin - Dicembre 20, 2008, 12:11:00 pm
La corruzione inconsapevole che affonda il Paese

di Roberto Saviano

 
La cosa enormemente tragica che emerge in questi giorni è che nessuno dei coinvolti delle inchieste napoletane aveva la percezione dell'errore, tantomeno del crimine. Come dire ognuno degli imputati andava a dormire sereno. Perché, come si vede dalle carte processuali, gli accordi non si reggevano su mazzette, ma sul semplice scambio di favori: far assumere cognati, dare una mano con la carriera, trovare una casa più bella a un costo ragionevole. Gli imprenditori e i politici sanno benissimo che nulla si ottiene in cambio di nulla, che per creare consenso bisogna concedere favori, e questo lo sanno anche gli elettori che votano spesso per averli, quei favori. Il problema è che purtroppo non è più solo la responsabilità del singolo imprenditore o politico quando è un intero sistema a funzionare in questo modo.

Oggi l'imprenditore si chiama Romeo, domani avrà un altro nome, ma il meccanismo non cambierà, e per agire non si farà altro che scambiare, proteggere, promettere di nuovo. Perché cosa potrà mai cambiare in una prassi, quando nessuno ci scorge più nulla di sbagliato o di anomalo. Che un simile do ut des sia di fatto corruzione è un concetto che moltissimi accoglierebbero con autentico stupore e indignazione. Ma come, protesterebbero, noi non abbiamo fatto niente di male!

E che tale corruzione non vada perseguitata soltanto dalla giustizia e condannata dall'etica civile, ma sia fonte di un male oggettivo, del funzionamento bloccato di un paese che dovrebbe essere fondato sui meccanismi di accesso e di concorrenza liberi, questo risulta ancora più difficile da cogliere e capire. La corruzione più grave che questa inchiesta svela sta nel mostrarci che persone di ogni livello, con talento o senza, con molta o scarsa professionalità, dovevano sottostare al gioco della protezione, della segnalazione, della spinta.

Non basta il merito, non basta l'impegno, e neanche la fortuna, per trovare un lavoro. La condizione necessaria è rientrare in uno scambio di favori. In passato l'incapace trovava lavoro se raccomandato. Oggi anche la persona di talento non può farne a meno, della protezione. E ogni appalto comporta automaticamente un'apertura di assunzioni con cui sistemare i raccomandati nuovi.

Non credo sia il tempo di convincere qualcuno a cambiare idea politica, o a pensare di mutare voto. Non credo sia il tempo di cercare affannosamente il nuovo o il meno peggio sino a quando si andrà incontro a una nuova delusione. Ma sono convinto che la cosa peggiore sia attaccarsi al triste cinismo italiano per il quale tutto è comunque marcio e non esistono innocenti perché in un modo o nell'altro tutti sono colpevoli. Bisogna aspettare come andranno i processi, stabilire le responsabilità dei singoli. Però esiste un piano su cui è possibile pronunciarsi subito. Come si legge nei titoli di coda del film di Francesco Rosi "Le mani sulla città": "I nomi sono di fantasia ma la realtà che li ha prodotti è fedele".

Indipendentemente dalle future condanne o assoluzioni, queste inchieste della magistratura napoletana, abruzzese e toscana dimostrano una prassi che difficilmente un politico - di qualsiasi colore - oggi potrà eludere. Non importa se un cittadino voti a destra o a sinistra, quel che bisogna chiedergli oggi è esclusivamente di pretendere che non sia più così. Non credo siano soltanto gli elettori di centrosinistra a non poterne più di essere rappresentati da persone disposte sempre e soltanto al compromesso. La percezione che il paese stia affondando la hanno tutti, da destra a sinistra, da nord a sud. E come in ogni momento di crisi, dovrebbero scaturirne delle risorse capaci di risollevarlo. Il tepore del "tutto è perduto" lentamente dovrebbe trasformarsi nella rovente forza reattiva che domanda, esige, cambia le cose. Oggi, fra queste, la questione della legalità viene prima di ogni altra.

L'imprenditoria criminale in questi anni si è alleata con il centrosinistra e con il centrodestra. Le mafie si sono unite nel nome degli affari, mentre tutto il resto è risultato sempre più spaccato. Loro hanno rinnovato i loro vertici, mentre ogni altra sfera di potere è rimasta in mano ai vecchi. Loro sono l'immagine vigorosa, espansiva, dinamica dell'Italia e per non soccombere alla loro proliferazione bisogna essere capaci di mobilitare altrettante energie, ma sane, forti, mirate al bene comune. Idee che uniscano la morale al business, le idee nuove ai talenti.

Ho ricevuto l'invito a parlare con i futuri amministratori del Pd, così come l'invito dell'on del Pdl Granata ad andare a parlare a Palermo con i giovani del suo partito. Credo sia necessario il confronto con tutti e non permettere strumentalizzazioni. Le organizzazioni criminali amano la politica quando questa è tutta identica e pronta a farsi comprare. Quando la politica si accontenta di razzolare nell'esistente e rinuncia a farsi progetto e guida. Vogliono che si consideri l'ambito politico uno spazio vuoto e insignificante, buono solo per ricavarne qualche vantaggio. E a loro come a tutti quelli che usano la politica per fini personali, fa comodo che questa visione venga condivisa dai cittadini, sia pure con tristezza e rassegnazione.

La politica non è il mio mestiere, non mi saprei immaginare come politico, ma è come narratore che osserva le dinamiche della realtà che ho creduto giusto non sottrarmi a una richiesta di dialogo su come affrontare il problema dell'illegalità e della criminalità organizzata. Il centrosinistra si è creduto per troppo tempo immune dalla collusione quando spesso è stato utilizzato e cooptato in modo massiccio dal sistema criminale o di malaffare puro e semplice, specie in Campania e in Calabria. Ma nemmeno gli elettori del centrodestra sono felici di sapere i loro rappresentanti collusi con le imprese criminali o impegnati in altri modi a ricavare vantaggi personali. Non penso nemmeno che la parte maggiore creda davvero che sia in atto un complotto della magistratura. Si può essere elettori di centrodestra e avere lo stesso desiderio di fare piazza pulita delle collusioni, dei compromessi, di un paese che si regge su conoscenze e raccomandazioni.

Credo che sia giunto il tempo di svegliarsi dai sonni di comodo, dalle pie menzogne raccontate per conforto, così come è tempo massimo di non volersela cavare con qualche pezza, quale piccola epurazione e qualche nome nuovo che corrisponda a un rinnovamento di facciata. Non ne rimane molto, se ce n'è ancora. Per nessuno. Chi si crede salvo, perché oggi la sua parte non è stata toccata dalla bufera, non fa che illudersi. Per quel che bisogna fare, forse non bastano nemmeno i politici, neppure (laddove esistessero) i migliori. In una fase di crisi come quella in cui ci troviamo, diviene compito di tutti esigere e promuovere un cambiamento.

Svegliarsi. Assumersi le proprie responsabilità. Fare pressione. È compito dei cittadini, degli elettori. Ognuno secondo la sua idea politica, ma secondo una richiesta sola: che si cominci a fare sul serio, già da domani.

20 dicembre 2008
dal blog di Roberto Saviano


Titolo: ROBERTO SAVIANO Nella testa dei killer di Gomorra così l'orrore diventa routine
Inserito da: Admin - Gennaio 18, 2009, 07:39:22 pm
Saviano commenta le agghiaccianti frasi di Setola e del suo complice

Dopo aver letto certi dialoghi uno scrittore non può più fidarsi della sua fantasia

Nella testa dei killer di Gomorra così l'orrore diventa routine


di ROBERTO SAVIANO


Se un narratore avesse raccontato di un boss latitante che riceve nella sua villa imprenditori edili dell'alta velocità mentre carezza una tigre al guinzaglio; o se avesse scritto che i killer della faida di Scampia dopo le esecuzioni correvano a vedere come le televisioni trasmettevano la notizia e poi continuavano la partita alla Playstation, qualsiasi giornale o editore avrebbe respinto il suo articolo o il suo romanzo. Considerando inverosimile o esagerato lo scritto. E mitomane e infantilmente provocatore l'autore. E invece è la verità. Il primo episodio si riferisce al latitante Michele Zagaria, il secondo riguarda il gruppo di Ugo De Lucia killer di Scampia.

Ascoltare i dialoghi tra assassini - come quelli pubblicati ieri da Repubblica - è un modo per comprendere come la normalità sia intessuta con la guerra. Sparare in faccia, girare con Ak47 e calibro 38, è parte naturale della vita d'ogni giorno. Uno scrittore dopo aver letto quei dialoghi non può più fidarsi della sua fantasia. Le parole usate dai killer hanno un sapore irriproducibile e superano ogni immaginazione. Sono colme di un'aberrazione che spaventa perché inserita nei tempi e nei gesti quotidiani. Si uccide tra un caffè e una guantiera di dolci, si parla di sparare in faccia come si commenta una partita. E si almanacca su come fregare un nemico attraverso i più strani stratagemmi.

Giuseppe Setola che propone di prendere un caffè subito dopo un omicidio è parso scandaloso. Ma è una delle classiche situazioni da guerra di camorra. Dopo un'esecuzione si fa festa. Vincenzo Gallo, dopo aver ucciso Modestino Bosco nel settembre 2006 a Secondigliano, pur non riuscendo a trovare compagni con cui festeggiare, si compra una guantiera di profiteroles. "Spesi una cifra. Mi feci tre bicchieri di vino rosso". Non riesce a prendere sonno e non capisce il motivo. In fondo non ha fatto qualcosa di inusuale. Racconta che la moglie gli disse: "Non so come ti vedo". Compra dello champagne e lo beve vedendosi "Miseria e nobiltà" e al telefono aggiunge: "Mi schiattai dalle risate". Ma il sonno non gli arriva, così mette un dvd con degli incontri di wrestling. Giunta l'alba capisce finalmente qual era la sua preoccupazione: la mattina legge il nome dell'uomo che ha ucciso sul giornale e pensa di aver sbagliato persona. Infatti conosceva la vittima solo col soprannome di Celeste. "Quando ho letto Modestino ho detto: mamma mia, vuoi vedere che ho sparato uno per un altro? Non sia mai Gesù Cristo".

Questa è la quotidianità in un territorio di guerra che si finge invece essere un luogo di pace. Gallo dopo l'esecuzione racconta "Mi lavai la faccia con la pisciazza, presi l'acqua fredda, mi sciacquai, mi passai la leocrema nelle mani e mi lavai un'altra volta con la varechina". L'urina è l'unico modo per togliersi dalla faccia tracce di sangue e polvere da sparo. Se ti fermano e ti fanno la prova stub (per identificare la polvere da sparo), ti salvi se ti lavi in questo modo. Gallo, pur lavandosi la faccia, non riuscì a salvare le scarpe appena comprate, ma troppo lerce di sangue: dovette buttarle.

Due sono i topoi classici del linguaggio gestuale dei killer. Mangiare dopo un'esecuzione e cambiarsi le scarpe. Lo stesso Setola e il suo gruppo usano la messa in scena della festa per fregare Granata, loro ex amico. Vanno sotto casa sua, citofonano e gli mostrano di essere arrivati con torta e champagne. Oggetti che rassicurerebbero persino un sospettoso camorrista. Quello si sporge dal balcone, e loro iniziano a sparare con i mitra.

Oggi la parte maggiore dei killer spara alla testa. Negli anni '80 si sparava al petto e al basso ventre. Molte sono le ragioni tecniche per questo cambiamento: moto più agili, pistole più potenti e quindi meno precise da lontano, la coca di cui si riempiono che non gli permette di vedere bene l'obiettivo. Ma è anche soprattutto una questione di moda. Nei film si spara con la pistola messa di piatto, e tenuta con le due mani. E i killer sparano come gli attori di Tarantino. Giovanni Letizia - secondo il pentito Oreste Spagnuolo - quando uccise l'imprenditore Michele Orsi indossava una parrucca e ai piedi aveva un paio di Hogan di tela, scarpe indossate anche da Paolo Di Lauro. Uccisero in un tempo di azione ed esecuzione di sette minuti. Nella fuga dopo si fermarono perché "avevano forato".

Gli venne fame e quindi andarono a mangiare con "Letizia che aveva ancora le scarpe sporche di sangue", ma "preferiva pulirle con la spugnetta invece di buttarle". Quando il suo capo, chiese perché invece di perdere tempo a lavarle rischiando di essere beccato per quel paio di scarpe, Giovanni Letizia gli rispose che "Orsi non valeva le sue scarpe".

Giuseppe Setola che viene descritto come un criminale di grosso calibro è invece un killer disperato che i capi casalesi, ancora latitanti, o ancora al comando dal 41 bis hanno usato e tollerato. Un capozona incline ad agguati fatti con l'inganno. Un uomo senza molto coraggio, che preferisce uccidere solo se è sicuro che le vittime sono disarmate e preferibilmente di spalle.
Setola è già stato condannato all'ergastolo per l'omicidio di Genovese Pagliuca, ucciso a Teverola nel 1995. Il ragazzo si era ribellato alle violenze subite dalla fidanzata per aver rifiutato una relazione lesbica con Angela Barra, amante di Francesco Bidognetti. Fu sequestrata e violentata per 13 giorni. Pagliuca, che stava cercando di trovare il nascondiglio dove veniva tenuta prigioniera, venne poi ammazzato per ordine del clan. Ci pensò proprio Setola. Ma le uccisioni e le violenze equivalgono a messaggi che si vuole dare, a un linguaggio mediatico chiaro. Uccido quindi sono. L'immaginario collettivo si figura che un killer vada a compiere un omicidio con aria tragica, pieno di angoscia. In realtà ascolta canzoni neomelodiche, magari le canta pure. Ferocia e sentimentalismo vanno assieme perché fanno entrambi parte della vita quotidiana. Per Ugo de Lucia, altro killer, ammazzare si dice "fare un pezzo". Il linguaggio è già di per se tecnico. Come assemblare un'auto, essere metalmeccanici, artigiani. "Io l'ammazzavo, mica gli sparavo in una gamba se ero io gli spappolavo le membrane lo sai!" Così commenta in una telefonata il lavoro fatto da un altro e eseguito male perché aveva solo ferito la vittima.

Il dialogo della società contemporanea ormai è scritto nelle intercettazioni. E il mondo criminale non è un mondo a parte, anzi è parte integrante, se non l'avanguardia del nostro tempo. Non esiste più confine tra fiction, immaginazione, rappresentazione scenica, leggenda metropolitana. Nelle parole raccolte dalle intercettazioni c'è una sedimentazione di tutto. A seconda degli obiettivi. Emulare battute da film, prendere l'accento e la ferocia del proprio paese per incutere spavento, cantare una canzone, fermarsi a bere un caffè. Non ci resta da capire che, tragicamente, la quotidianità del male non avviene affatto in un mondo diverso da quello di ognuno di noi.

© Roberto Saviano 2008. Published by arrangement with Roberto Santachiara Agenzia Letteraria

(18 gennaio 2009)
da repubblica.it


Titolo: ROBERTO SAVIANO La rivoluzione di un padre
Inserito da: Admin - Gennaio 23, 2009, 12:52:51 pm
IL COMMENTO

La rivoluzione di un padre

di ROBERTO SAVIANO



BEPPINO Englaro, il papà di Eluana, sta dando forza e senso alle istituzioni italiane e alla possibilità che un cittadino del nostro Paese, nonostante tutto, possa ancora sperare nelle leggi e nella giustizia. Ciò credo debba essere evidente anche per chi non accetta di voler sospendere uno stato vegetativo permanente e ritiene che ogni forma di vita, anche la più inerte, debba essere tutelata.

Mi sono chiesto perché Beppino Englaro, come qualcuno del resto gli aveva suggerito, non avesse ritenuto opportuno risolvere tutto "all'italiana". Molti negli ospedali sussurrano: "Perché farne una battaglia simbolica? La portava in Olanda e tutto si risolveva". Altri ancora consigliavano il solito metodo silenzioso, due carte da cento euro a un'infermiera esperta e tutto si risolveva subito e in silenzio.

Come nel film "Le invasioni barbariche", dove un professore canadese ormai malato terminale e in preda a feroci dolori si raccoglie con amici e familiari in una casa su un lago e grazie al sostegno economico del figlio e a una brava infermiera pratica clandestinamente l'eutanasia.

Mi chiedo perché e con quale spirito accetta tutto questo clamore. Perché non prende esempio da chi silenziosamente emigra alla ricerca della felicità, sempre che le proprie finanze glielo permettano. Alla ricerca di tecniche di fecondazione in Italia proibite o alla ricerca di una fine dignitosa. Con l'amara consapevolezza che oramai non si emigra dall'Italia solo per trovare lavoro, ma anche per nascere e per morire. Nella vicenda Englaro ritornano sotto veste nuova quelle formule lontane e polverose che ci ripetevano all'università durante le lezioni di filosofia.

Il principio kantiano: "Agisci in modo che tu possa volere che la massima delle tue azioni divenga universale" si fa carne e sudore. E forse solo in questa circostanza riesci a spiegarti la storia di Socrate e capisci solo ora dopo averla ascoltata migliaia di volte perché ha bevuto la cicuta e non è scappato. Tutto questo ritorna attuale e risulta evidente che quel voler restare, quella via di fuga ignorata, anzi aborrita è molto più di una campagna a favore di una singola morte dignitosa, è una battaglia in difesa della vita di tutti. E per questo Beppino, nonostante il suo dramma privato, ha dovuto subire l'accusa di essere un padre che vuole togliere acqua e cibo alla propria figlia, contro coloro che dileggiano la Suprema Corte e contro chi minaccia sanzioni e ritorsioni per le Regioni che accettino di accogliere la sua causa, nel pieno rispetto di una sentenza della Corte di cassazione.

L'unica risposta che ho trovato a questa domanda, la più plausibile, è che la lotta quotidiana di Beppino Englaro non sia solo per Eluana, sua figlia, ma anche e soprattutto in difesa del Diritto, perché è chiaro che la vita del Diritto è diritto alla vita. Beppino Englaro con la sua battaglia sta aprendo una nuova strada, sta dimostrando che in Italia si può e si deve restare utilizzando gli strumenti che la democrazia mette a disposizione. In Italia non esiste nulla di più rivoluzionario della certezza del Diritto. E mi viene in mente che tutelare la certezza dei diritti, la certezza dei crediti, costituirebbe la stangata definitiva all'economia criminale. Se fosse possibile, nella mia terra, rivolgersi a un tribunale per veder riconosciuto, in un tempo congruo, la fondatezza del proprio diritto, non si avvertirebbe certo il bisogno di ricorrere a soluzioni altre. Beppino questo sta dimostrando al Paese. Non sarebbe necessario ricorrere al potere di dissuasione delle organizzazioni criminali, che al Sud hanno il monopolio, illegale, nel fruttuoso business del recupero crediti.

E a lui il merito di aver insegnato a questo Paese che è ancora possibile rivolgersi alle istituzioni e alla magistratura per vedere affermati i propri diritti in un momento di profonda e tangibile sfiducia. E nonostante tutte le traversie burocratiche, è lì a dimostrare che nel diritto deve esistere la possibilità di trovare una soluzione.

Per una volta in Italia la coscienza e il diritto non emigrano. Per una volta non si va via per ottenere qualcosa, o soltanto per chiederla. Per una volta non si cerca altrove di essere ascoltati, qualsiasi cittadino italiano, comunque la pensi non può non considerare Beppino Englaro un uomo che sta restituendo al nostro Paese quella dignità che spesso noi stessi gli togliamo.

Immagino che Beppino Englaro, guardando la sua Eluana, sappia che il dolore di sua figlia è il dolore di ogni singolo individuo che lotta per l'affermazione dei propri diritti. Se avesse agito in silenzio, trovando scorciatoie a lui sarebbe rimasto forse solo il suo dolore. Rivolgendosi al diritto, combattendo all'interno delle istituzioni e con le istituzioni, chiedendo che la sentenza della Suprema Corte sia rispettata, ha fatto sì, invece, che il dolore per una figlia in coma da 17 anni, smettesse di essere un dolore privato e diventasse anche il mio, il nostro, dolore. Ha fatto riscoprire una delle meraviglie dimenticate del principio democratico, l'empatia. Quando il dolore di uno è il dolore di tutti. E così il diritto di uno diviene il diritto di tutti.

(23 gennaio 2009)
da repubblica.it


Titolo: Una poesia per Roberto Saviano
Inserito da: Admin - Gennaio 28, 2009, 12:05:27 pm
Una poesia per Roberto Saviano


di Franco Arminio
 

oggi a napoli mi hanno rubato il portafogli.
era successo molti anni fa, quasi allo stesso posto.
mentre il carabiniere scriveva svogliatamente la denuncia
ho pensato al tuo libro
e alle cose che nella pancia dell'animale
restano sempre uguali.
ieri pioveva e girava per la città
un'umanità annerita.
do solo non puoi fare di più, ma in tanti
bisogna spalancare
la bocca all'animale e farlo vomitare,
deve vomitare tutto quello che ha mangiato
tutti i morti ammazzati, tutti i derubati,
i minacciati,
tutti gli imbroglioni incravattati,
i politicanti prezzolati,
deve vomitare pure
i professoroni e gli impiegatucci, la terra
rubata alle colline, la libertà concessa
ai farabutti.è come fare un raschiamento uterino.
bisogna raschiare bene, bisogna raschiare tutto.


dal blog di Roberto Saviano


Titolo: Eluana, Saviano su El Pais: «L'Italia chieda perdono al padre»
Inserito da: Admin - Febbraio 11, 2009, 03:27:17 pm
Eluana, Saviano su El Pais: «L'Italia chieda perdono al padre»



«Come Italiano sento la necessità di sperare che il mio paese chieda perdono a Beppino Englaro».

Inizia così l'articolo che lo scrittore e giornalista Roberto Saviano ha affidato al quotidiano spagnolo El Pais dal titolo «Chiedano perdono a Beppino Englaro».

«Perdono – spiega – perché agli occhi del mondo ha dimostrato di essere un paese crudele, incapace di comprendere la sofferenza di un uomo e di una donna malata. E che si è messo a gridare, e ad accusare, animato da una e dall'altra bandiera». Per lo scrittore però nel caso di Eluana «non si tratta di bandiere», né di «stare per la vita o per la morte».

E invece è andata proprio così e in nome di tutto questo si è voluto vedere anche Beppino Englaro per quello che non era. Il padre di Eluana «non era un fautore della morte di sua figlia, e fino in fondo al suo sguardo mostra i segni del dolore di un apdre che ha perso tutta la speranza e la felicità, e la bellezza, attraverso la sofferenza di sua figlia» dice Saviano.
«Beppino deve essere rispettato come uomo e cittadino indipendentemente da quanto pensa ciascuno. Anche , e soprattutto, se uno non pensa come Beppino. Perché è un cittadino che si è rivolto alle istituzioni», sottolinea lo scrittore. «Beppino si è rivolto alla legge e la legge ha confermato il suo diritto. Basta questo per scatenare contro di lui la rabbia e l'odio? È carità cristiana chiamarlo assassino?» si chiede ancora lo scrittore.

Per Saviano, infatti, chi non «condivide la decisione di Beppino (e che Eluana aveva confidato a suo padre) aveva il diritto e il dovere, seguendo la propria coscienza, di manifestare la propria opposizione a che si interrompesse l'alimentazione tramite il sondino e l'idratazione. La battaglia – accusa – si sarebbe dovuta fare in seguendo la coscienza di ognuno e e non provando ad intervenire mettendosi al di sopra alla Corte di Cassazione».

Saviano si scaglia contro quel gruppo di persone «che non conosce nulla del dolore di una figlia immobile in un letto» che descrive il padre di Eluana come una sorta di conte Ugolino che divora i suoi figli. «E dicono queste idiote in nome di un credo religioso», commenta Saviano, che dice di conoscere invece una Chiesa diversa, che si batte per la dignità degli immigrati e contro la mafia. La Chiesa «dei padri comboniani, così come della Comunità di Sant'Egidio, del cardinale Sepe e del cardinale Martini, ordini, associazioni e personalità cristiane fondamentali per la sopravvivenza della dignità del mio Paese».

Lo scrittore a questo punto della lettera si rivolge «a chi pensa di ottenere merito dalla Chiesa con il caso Elauna» per chiedere loro «dov'era la Chiesa durante la guerra in Iraq? dove stavano i politici quando la Chiesa chiedeva rispetto per gli immigrati e un intervento decisivo contro la mafia? Sarebbe bene chiedere ai cristiani del mio paese di non credere a chi nell'animo si sente solo di speculare sui dibattiti nei quali non si può dimostrare niente con i fatti, ma solo prendere una posizione».

Dopo aver ripetuto che il vero punto era capire il dolore di una famiglia, e di percepire il dolore, da Saviano arriva poi l'affondo alla politica. Molti politici hanno voluto «utilizzare il caso Englaro per creare consenso e distrarre l'opinione pubblica», nota lo scrittore. Che poi sottolinea come il padre di Eluana, invece, abbia «dimostrato che in Italia non esiste nulla di più rivoluzionario delle certezza del diritto». E ricorda che Beppino, per rispetto della figlia, ha voluto mostrare solo le foto di Eluana «sorridente e bellissima». Non ha mostrato le foto dell'ospedale «perché non voleva vincere con il ricatto delle immagini, ma solo con la forza del diritto» a<prendo così «un nuovo cammnino delle istituzioni».

Ma forse è stata proprio questo l'errore di Beppino Englaro: l'ingeniutà e la correttezza di credere nella possibilità di una giustizia in Italia», unico caso in cui «la coscienza e il diritto non emigrano» ed è «così che il diritto di uno diventa il diritto di tutti».

Il padre di Eluana, conclude Saviano dopo tante accuse, rappresenta «l'Italia del diritto e dell'empatia, quella in cui sarebbe bello riconoscersi».


11 febbraio 2009
da unita.it


Titolo: ROBERTO SAVIANO Ha statura e corpo di un bambino. Fu infatti intorno ai dieci...
Inserito da: Admin - Febbraio 15, 2009, 03:11:48 pm
PERSONE     

L'autore di Gomorra ha incontrato in Spagna il calciatore fuoriclasse del Barcellona

Un reportage-racconto che ripercorre la storia di un grande successo nato dal dolore

"Mingherlino ma sodo, timidissimo, parla quasi sussurrando una cantilena argentina

Ha statura e corpo di un bambino. Fu infatti intorno ai dieci anni che smise di crescere"

di ROBERTO SAVIANO

 
BARCELLONA - Lo incontro negli spogliatoi del Camp Nou di Barcellona, uno stadio enorme, il terzo più grande del mondo. Dagli spalti invece Messi è una macchiolina, incontrollabile e velocissima. Da vicino è un ragazzo mingherlino ma sodo, timidissimo, parla quasi sussurrando una cantilena argentina, il viso dolce e pulito senza un filo di barba. Lionel Messi è il più piccolo campione di calcio vivente. La Pulga, la pulce, è il suo soprannome. Ha la statura e il corpo di un bambino. Fu infatti da bambino, intorno ai dieci anni, che Lionel Messi smise di crescere. Le gambe degli altri si allungavano, le mani pure, la voce cambiava. E Leo restava piccolo. Qualcosa non andava e le analisi lo confermarono: l'ormone della crescita era inibito. Messi era affetto da una rara forma di nanismo.

Con l'ormone della crescita, si bloccò tutto. E nascondere il problema era impossibile. Tra gli amici, nel campetto di calcio, tutti si accorgono che Lionel si è fermato: "Ero sempre il più piccolo di tutti, qualunque cosa facessi, ovunque andassi". Dicono proprio così: "Lionel si è fermato". Come se fosse rimasto indietro, da qualche parte. A undici anni, un metro e quaranta scarsi, gli va larga la maglietta del Newell's Old Boys, la sua squadra a Rosario, in Argentina. Balla nei pantaloncini enormi, nelle scarpe, per quanto stretti i lacci, un po' ciabatta. È un giocatore fenomenale: però nel corpo di un bimbetto di otto anni, non di un adolescente. Proprio nell'età in cui, intravedendo un futuro, ci sarebbe da far crescere un talento, la crescita primaria, quella di braccia, busto e gambe, si arresta.

Per Messi è la fine della speranza che nutre in se stesso dal suo primissimo debutto su un campo da calcio, a cinque anni. Sente che con la crescita è finita anche ogni possibilità di diventare ciò che sogna. I medici però si accorgono che il suo deficit può essere transitorio, se contrastato in tempo. L'unico modo per cercare di intervenire è una terapia a base dell'ormone "gh": anni e anni di continuo bombardamento che gli permettano di recuperare i centimetri necessari per fronteggiare i colossi del calcio moderno.

si tratta di una cura molto costosa che la famiglia non può permettersi: siringhe da cinquecento euro l'una, da fare tutti i giorni. Giocare a pallone per poter crescere, crescere per poter giocare: questa diviene d'ora in avanti l'unica strada. Lionel, un modo di guarire che non riguardi la passione della sua vita, il calcio, non riesce nemmeno a immaginarlo.

Ma quelle dannate cure potrà permettersele solo se un club di un certo livello lo prende sotto le sue ali e gliele paga. E l'Argentina sta sprofondando nella devastante crisi economica, da cui fuggono prima gli investimenti, poi pure le persone, i cui risparmi si volatilizzano col crollo dei titoli di stato. Nipoti e pronipoti di immigrati cresciuti nel benessere cercano la salvezza emigrando nei paesi di origine dei loro avi. In quella situazione, nessuna società argentina, pur intuendo il talento del piccolo Messi, se la sente di accollarsi i costi di una simile scommessa.

Anche se dovesse crescere qualche centimetro in più - questo è il ragionamento - nel calcio moderno ormai senza un fisico possente non si è più nulla. La pulce resterà schiacciata da una difesa massiccia, la pulce non potrà segnare gol di testa, la pulce non reggerà agli sforzi anaerobici richiesti ai centravanti di oggi. Ma Lionel Messi continua a giocare lo stesso nella sua squadra. Sa di doverlo fare come se avesse dieci piedi, correre più veloce di un puledro, essere imbattibile palla a terra, se vuole sperare di diventare un calciatore vero, un professionista.

Durante una partita, lo intravede un osservatore. Nella vita dei calciatori gli osservatori sono tutto. Ogni partita che guardano, ogni punizione che considerano eseguita in modo perfetto, ogni ragazzino che decidono di seguire, ogni padre con cui vanno a parlare, significa tracciare un destino. Disegnarlo nelle linee generali, aprirgli una porta: ma nel caso di Messi, ciò che gli viene offerto, rappresenta molto di più. Non gli viene data solo l'opportunità di diventare un calciatore, ma la possibilità di guarire, di avere davanti una vita normale. Prima di vederlo, gli osservatori che sentono parlare di lui sono comunque molto scettici. "Se è troppo piccolo, non ha speranza, anche se è forte", pensano. E invece: "Ci vollero cinque minuti per capire che era un predestinato. In un attimo fu evidente quanto quel ragazzo fosse speciale". Questo lo afferma Carles Rexach, direttore sportivo del Barcellona, dopo aver visto Leo in campo. È così evidente che Messi ha nei piedi un talento unico, qualcosa che va oltre il calcio stesso: a guardarlo giocare è come se si sentisse una musica, come se in un mosaico scollato ogni tassello tornasse apposto.

Rexach vuole fermarlo subito: "Chiunque fosse passato di lì, l'avrebbe comprato a peso d'oro". E così fanno un primo contratto su un fazzoletto di carta, un tovagliolo da bar aperto. Firmano lui e il padre della pulce. Quel fazzoletto è ciò che cambierà la vita a Lionel. Il Barcellona ci crede in quell'eterno bimbo. Decide di investire nella cura del maledetto ormone che si è inceppato. Ma per curarsi, Lionel deve trasferirsi in Spagna con tutta la famiglia, che insieme a lui lascia Rosario senza documenti, senza lavoro, fidandosi di un contratto stilato su un tovagliolo, sperando che dentro a quel corpo infantile possa esserci davvero il futuro di tutti. Dal 2000, per tre anni, la società garantisce a Messi l'assistenza medica necessaria. Crede che un ragazzino disposto a giocare a calcio per salvarsi da una vita d'inferno abbia dentro il carburante raro che ti fa arrivare ovunque.

Le cure però spezzano in due. Hai sempre nausea, vomiti anche l'anima. I peli in faccia che non ti crescono. Poi i muscoli te li senti scoppiare dentro, le ossa crepare. Tutto ti si allunga, si dilata in pochi mesi, un tempo che avrebbe dovuto invece essere di anni. "Non potevo permettermi di sentire dolore", dice Messi, "non potevo permettermi di mostrarlo davanti al mio nuovo club. Perché a loro dovevo tutto". La differenza tra chi il proprio talento lo spende per realizzarsi e chi su di esso si gioca tutto è abissale. L'arte diventa la tua vita non nel senso che totalizza ogni cosa, ma che solo la tua arte può continuare a farti campare, a garantirti il futuro. Non esiste un piano b, qualsiasi alternativa su cui poter ripiegare.

Dopo tre anni finalmente il Barcellona convoca Lionel Messi e la famiglia sa che se non sarà in grado di giocare come ci si aspetta, le difficoltà a tirare avanti saranno insormontabili. In Argentina hanno perso tutto e in Spagna non hanno ancora niente. E Leo, a quel punto, ricadrebbe sulle loro spalle. Ma quando La Pulce gioca, sfuma ogni ansia. Allenandosi duramente con il sostegno della squadra, Messi riesce a crescere non solo in bravura, ma anche in altezza, anno dopo anno, centimetro dopo centimetro spremuto dai muscoli, levigato nelle ossa. Ogni centimetro acquisito una sofferenza. Nessuno sa davvero quanto misuri adesso. Qualcuno lo dà appena sopra il metro e cinquanta, qualcuno al di sotto, qualche sito parla di un Messi che continuando a crescere è arrivato al metro e sessanta. Le stime ufficiali mutano, concedendogli via via qualche centimetro in più, come se fosse un merito, un premio conquistato in campo.

Fatto è che quando le due squadre sono in riga prima del fischio iniziale, l'occhio inquadra tutte le teste dei giocatori più o meno alla stessa altezza, mentre per trovare quella di Messi deve scendere almeno al livello delle spalle dei compagni. Per uno sport dove conta sempre più la potenza e, per un attaccante, i quasi due metri di Ibrahimovic e il metro e ottantacinque di Beckham sono diventati la norma, Lionel continua a somigliare pericolosamente a una pulce. Come dice Manuel Estiarte, il più forte pallanuotista di tutti i tempi: "È vero, bisogna calcolare che le probabilità che Messi esca sconfitto da un impatto corpo a corpo sono elevate, come elevato è il rischio che venga totalmente travolto dai difensori. Ma solo a una condizione... prima devono riuscire a raggiungerlo".

E infatti nessuno riesce a stargli dietro. Il baricentro è basso, i difensori lo contrastano, ma lui non cade, né si sposta. Continua a tenere la corsa, rimbalza palla al piede, non si ferma, dribbla, scavalca, sguscia, fugge, finta. È imprendibile. A Barcellona malignano che le star della difesa del Real Madrid, Roberto Carlos e Fabio Cannavaro, non sono mai riusciti a vedere in faccia Lionel Messi perché non riescono a rincorrerlo. Leo è velocissimo, sfreccia via con i suoi piedi piccoli che sembrano mani per come riesce a tener palla, a controllarne ogni movimento. Per le sue finte, gli avversari inciampano nell'ingombro inutile dei loro piedi numero quarantacinque.

In una pubblicità dove era stato invitato a disegnare con un pennarello la sua storia, è divertente e malinconico vedere Messi ritrarre se stesso come un bimbetto minuscolo tra lunghissime foreste di gambe, perso lì tra palloni troppo grandi che volano lontano. Ma quando toccano terra, lui veloce li aggancia e piccolo com'è riesce a passare tra le gambe di tutti e andare in porta. Quando ci sono le rimesse laterali e gli avversari riprendono fiato, è proprio in quel momento che lui schizza e li sorpassa, così quando si immaginavano, i marcatori, di averlo dietro la schiena, se lo ritrovano invece già cinque metri avanti. Il grande giocatore non è quello che si fa fare fallo, ma quello cui non arrivi a tendere nessuno sgambetto.

Vedere Messi significa osservare qualcosa che va oltre il calcio e coincide con la bellezza stessa. Qualcosa di simile a uno slancio, quasi un brivido di consapevolezza, un'epifania che permette a chi è lì, a vederlo sgambettare e giocare con la palla, di non riuscire più a percepire alcuna separazione tra sé e lo spettacolo cui sta assistendo, di confondersi pienamente con ciò che vede, tanto da sentirsi tutt'uno con quel movimento diseguale ma armonico. In questo le giocate di Messi sono paragonabili alle suonate di Arturo Benedetti Michelangeli, ai visi di Raffaello, alla tromba di Chet Baker, alle formule matematiche della teoria dei giochi di John Nash, a tutto ciò che smette di essere suono, materia, colore, e diventa qualcosa che appartiene a ogni elemento, e alla vita stessa. Senza più separazione, distanza. È lì, e non si può vivere senza. E non si è mai vissuti senza, solo che quando si scoprono per la prima volta, quando per la prima volta le si osserva tanto da restarne ipnotizzati, la commozione è inevitabile e non si arriva ad altro che a intuire se stessi. A guardarsi nel proprio fondo.

Ascoltare i cronisti sportivi che commentano le sue cavalcate basterebbe per definire la sua epica di giocoliere. Durante un incontro Barcellona-Real Madrid, il cronista vedendolo assediato da tentativi di fallo smette di descrivere la scena e inizia solo un soddisfatto: "Non va giù, non va giù, non va giuuuuuù". Durante un'altra sfida fra le storiche arcirivali, l'ola estatica "Messi, Messi, Messi, Messi" riceve una "a" supplementare che gli rimarrà addosso: Messia. È questo l'altro soprannome che La Pulce si è guadagnata con la grazia beffarda delle sue avanzate, con lo stupore quasi mistico che suscita il suo gioco. "L'uomo si fece Dio e inviò il suo profeta", così dicono le scritte di un servizio televisivo dedicato a El Mesias, e a colui che come incarnazione divina del calcio lo precedette: Diego Armando Maradona.

Sembra impossibile ma Messi quando gioca ha in testa le giocate di Maradona, così come uno scacchista in un determinato momento della partita, spesso si ispira alla strategia di un maestro che si è trovato in una situazione analoga. Il capolavoro che Diego Armando aveva realizzato il 22 giugno 1986 in Messico, il gol votato il migliore del secolo, Lionel riesce a ripeterlo pressoché identico e quasi esattamente vent'anni dopo, il 18 aprile 2007, a Barcellona. Pure Leo parte da una sessantina di metri dalla porta, anche lui scarta in un'unica corsa due centrocampisti, poi accelera verso l'aria di rigore, dove uno degli avversari che aveva superato cerca di buttarlo giù, ma non ci riesce. Si accalcano intorno a Messi tre difensori, e invece di mirare alla porta, lui sguscia via sulla destra, scarta il portiere e un altro giocatore... E va in gol. Dopo aver segnato, c'è una scena incredibile coi giocatori del Barcellona pietrificati, con le mani sulla testa, si guardano intorno come a non credere che fosse possibile ancora assistere a un gol del genere. Tutti pensavano che un uomo solo fosse capace di tanto. Ma non è stato così.

La stampa si inventa subito il nomignolo "Messidona", ma c'è qualcosa nella somiglianza dei due campioni argentini che oltrepassa simili trovate e mette i brividi. In uno sport che la fase epica sembra essersela lasciata alle spalle, le prodezze di Messi somigliano al reiterarsi di un mito, e non di un mito qualsiasi, ma di quello che più fortemente è in contrasto con il nostro tempo: Davide contro Golia. Fisici minuscoli, quartieri poveri, incapacità nel vedersi diversi da come quando giocavano nei campetti, faccia sempre uguale, rabbia sempre uguale, come un'accidia che ti porti dentro. Teoricamente avevano tutto quanto bastava per sbagliare, tutto quanto bastava per perdere, tutto quanto bastava per non piacere a nessuno e per non giocare. Ma le cose sono andate diversamente.

Messi, quando Maradona segnava quel gol in Messico, non era neanche nato. Nascerà nel 1987. E la ragione per cui io l'ho seguito a Barcellona, al punto di volerlo incontrare, ha la sua origine proprio in questo: l'essere cresciuto a Napoli nel mito di Diego Armando Maradona. Non dimenticherò mai la partita dei mondiali del 1990, un destino terribile portò l'Italia di Azeglio Vicini e Totò Schillaci a giocare la semifinale contro l'Argentina di Maradona proprio al San Paolo. Quando Schillaci segna il primo gol, lo stadio gioisce. Ma si sente che nelle curve qualcosa non va. Dopo il gol di Caniggia il tifo non napoletano - non autoctono - inizia a prendersela con Maradona, e lì accade qualcosa che non succederà mai più nella storia del calcio e mai era successo sino ad allora: la tifoseria si schiera contro la propria nazionale di calcio. I tifosi della curva napoletana iniziano a urlare: "Diego! Diego!". D'altronde erano abituati a farlo, come biasimarli e come identificarsi in altri? Anche se dovrebbe essere cara la propria squadra nazionale, in quel momento è Maradona che rappresenta la tifoseria del San Paolo più di una nazionale di giocatori provenienti da altre città d'Italia, da Roma, Milano, Torino.

Maradona era riuscito a sovvertire la grammatica delle tifoserie. E a Roma gliela fecero pagare durante la finale Argentina-Germania, dove il pubblico per vendicarsi dell'eliminazione dell'Italia in semifinale e delle defezioni create all'interno della tifoseria, inizia a fischiare l'inno nazionale. Maradona aspetta che la telecamera, nella carrellata sui giocatori, arrivi sulle sue labbra, per lanciare un "hijos de puta" ai tifosi che non rispettano neanche il momento dell'inno. Una finale terribile, dove a Napoli si tifava tutti, ovviamente, per l'Argentina. Ma poi il momento del rigore assolutamente dubbio distrugge ogni speranza. La Germania chiaramente in difficoltà deve però vincere e vendicare l'Italia battuta. Un rigore dubbio per un fallo su Rudi Voeller, lo realizza Andreas Brehme. E il commento del cronista argentino fu: "Solo così fratello... solo così potevate vincere contro Diego".

Ricordo benissimo quei giorni. Avevo undici anni, e difficilmente tornerò mai a vedere quel tipo di calcio. Ma qualcosa sembra tornare, di quel tempo. Il gol del Messico contro l'Inghilterra, il gol rifatto dalla Pulce vent'anni dopo, segna uno dei momenti indimenticabili della mia infanzia. Mi chiedo che meraviglia e che vertigine sarebbe veder giocare Messi al San Paolo, lui, di cui lo stesso Maradona disse: "Vedere giocare Messi è meglio che fare sesso". E Diego, di entrambe le cose, se ne intende. "Mi piace Napoli, voglio andarci presto", dice Lionel, "Starci un po' dev'essere bellissimo. Per un argentino è come essere a casa".

Il momento più incredibile del mio incontro con Messi è quando gli dico che quando gioca somiglia a Maradona - "somiglia": perché non so come esprimere una cosa ripetuta mille volte, anche se devo dirgliela lo stesso - e lui mi risponde: "Verdad?", "Davvero?", con un sorriso ancor più timido e contento. Del resto, Lionel Messi ha accettato di incontrarmi non perché sia uno scrittore o per chissà cos'altro, ma perché gli hanno detto che vengo da Napoli. Per lui è come per un musulmano nascere alla Mecca. Napoli per Messi, e per molti tifosi del Barcellona, è un luogo sacro del calcio. È il luogo della consacrazione del talento, la città dove il dio del pallone ha giocato gli anni più belli, dove dal nulla è partito verso la sconfitta delle grandi squadre, verso la conquista del mondo.

Lionel appare il contrario di come ti aspetti un giocatore: non è sicuro di sé, non usa le solite frasi che gli consigliano di dire, si fa rosso e fissa i piedi, o si mette a rosicchiare le unghie dell'indice e del pollice avvicinandole alle labbra quando non sa che dire e sta pensando. Ma la storia della Pulce è ancora più straordinaria. La storia di Lionel Messi è come la leggenda del calabrone. Si dice che il calabrone non potrebbe volare perché il peso del suo corpo è sproporzionato alla portanza delle sue ali. Ma il calabrone non lo sa e vola. Messi con quel suo corpicino, con quei suoi piedi piccoli, quelle gambette, il piccolo busto, tutti i suoi problemi di crescita, non potrebbe giocare nel calcio moderno tutto muscoli, massa e potenza. Solo che Messi non lo sa. Ed è per questo che è il più grande di tutti.

© Roberto Saviano 2009. Published by Arrangement with Roberto Santachiara Agenzia Letteraria


(15 febbraio 2009)
da repubblica.it


Titolo: ROBERTO SAVIANO Don Peppino, eroe in tonaca ucciso dal Sistema dei clan
Inserito da: Admin - Marzo 18, 2009, 10:32:49 am
La mattina del 19 marzo '94, quindici anni fa, Giuseppe Diana fu ammazzato dai killer a Casal di Principe.

Aveva preso posizione esplicita contro lo strapotere della famiglia

Don Peppino, eroe in tonaca ucciso dal Sistema dei clan

Le cosche tentarono di diffamarlo spargendo veleni dopo la morte

Rifondò la missione pastorale: denuncia e testimonianza contro le violenze e le sopraffazioni

di ROBERTO SAVIANO


 LA mattina del 19 marzo del 1994 don Peppino era nella chiesa di San Nicola, a Casal di Principe. Era il suo onomastico. Non si era ancora vestito con gli abiti talari, stava nella sala riunioni vicino allo studio. Entrarono in chiesa, senza far rimbombare i passi nella navata, non vedendo un uomo vestito da prete, titubarono.
Chi è Don Peppino?
Sono io...
Poi gli puntarono la pistola semiautomatica in faccia. Cinque colpi: due lo colpirono al volto, gli altri bucarono la testa, il collo e la mano. Don Peppino Diana aveva 36 anni. Io ne avevo 15 e la morte di quel prete mi sembrava riguardare il mondo degli adulti. Mi ferì ma come qualcosa che con me non aveva relazione. Oggi mi ritrovo ad essere quasi un suo coetaneo. Per la prima volta vedo don Peppino come un uomo che aveva deciso di rimanere fermo dinanzi a quel che vedeva, che voleva resistere e opporsi, perché non sarebbe stato in grado di fare un'altra scelta.

Dopo la sua morte si tentò in ogni modo di infangarlo.
Accuse inverosimili, risibili, per non farne un martire, non diffondere i suoi scritti, non mostrarlo come vittima della camorra ma come un soldato dei clan. Appena muori in terra di camorra, l'innocenza è un'ipotesi lontana, l'ultima possibile. Sei colpevole sino a prova contraria. Persino quando ti ammazzano, basta un sospetto, una voce diffamatoria, che le agenzie di stampa non battono neanche la notizia dell'esecuzione. Così distruggere l'immagine di don Peppino Diana è stata una strategia fondamentale. Don Diana era un camorrista titolò il Corriere di Caserta. Pochi giorni dopo un altro titolo diffamatorio: Don Diana a letto con due donne.

Il messaggio era chiaro: nessuno è veramente schierato contro il sistema. Chi lo fa ha sempre un interesse personale, una bega, una questione privata avvolta nello stesso lerciume. Don Peppino fu difeso da pochi cronisti coraggiosi, da Raffaele Sardo a Conchita Sannino, da Rosaria Capacchione, Gigi Di Fiore, Enzo Palmesano e pochi altri. Ricordarlo oggi - a 15 anni dalla morte - significa quindi aver sconfitto una coltre di persone e gruppi che pretendevano di avere il monopolio sulle informazioni di camorra, in modo da poterle controllare. Ricordarlo è la dimostrazione che anche questa terra può essere raccontata in modo diverso da come è successo per lungo tempo. Come dice Renato Natale, ex sindaco di Casal di Principe e amico di don Peppe, "è sempre complicato accettare l'eroismo di chi ci sta vicino, perché questo sottolineerebbe la nostra ignavia". Don Peppino fu ucciso nel momento in cui Francesco Schiavone Sandokan era latitante, mentre i grandi gruppi dei Casalesi erano in guerra e i grandi affari del cemento e dei rifiuti divenivano le nuove frontiere dei loro imperi. Don Peppino non voleva fare il prete che accompagna le bare dei ragazzi soldato massacrati dicendo "fatevi coraggio" alle madri in nero. A condannarlo fu ciò che aveva scritto e predicato. In chiesa, la domenica, tra le persone, in piazza, tra gli scout, durante i matrimoni. E soprattutto il documento scritto assieme ad altri sacerdoti: "Per amore del mio popolo non tacerò". Distribuì quel documento il giorno di Natale del 1991. Bisognava riformare le anime della terra in cui gli era toccato nascere, cercare di aprire una strada trasversale ai poteri, l'unica in grado di mettere in crisi l'autorità economica e criminale delle famiglie di camorra.

"Assistiamo impotenti al dolore di tante famiglie che vedono i loro figli finire miseramente vittime o mandanti delle organizzazioni della Camorra. - scriveva - La Camorra oggi è una forma di terrorismo che incute paura, impone con violenza, armi in pugno, regole inaccettabili: estorsioni; tangenti al venti per cento e oltre sui lavori edili, che scoraggerebbero l'imprenditore più temerario, traffici illeciti per l'acquisto e lo spaccio delle sostanze stupefacenti... ".

La cosa incredibile è che quel prete ucciso, malgrado tutto, continuò a far paura anche da morto. Le fazioni in lotta di Sandokan e di Nunzio di Falco cominciarono a rinfacciarsi reciprocamente la colpa del suo sangue, proponendo di testimoniare la loro estraneità a modo loro: impegnandosi a fare a pezzi i presunti esecutori della banda avversaria. Oltre a cercare di diffamare Don Peppino, dovevano cercare di lanciarsi dei messaggi scritti con la carne, per togliersi di dosso il peso dell'uccisione di quell'uomo. Così come era stato difficile trovare i killer disposti a farlo fuori. Uno si ritirò dicendo che a Casale lo conoscevano in troppi, un altro accettò ma a condizione partecipasse pure un suo amico, come un bambino che non ha il coraggio di fare da solo una bravata. Nel corso della notte prima dell'agguato, uno dei killer tormentati riuscì a convincere un altro a rimpiazzarlo, ma il sostituto, l'unico che non sembrava volersi tirare indietro, era l'esecutore meno adatto. Soffriva di epilessia e dopo aver sparato rischiava cadere a terra in convulsioni, crisi, bava alla bocca. Con questi uomini, con questi mezzi, con queste armi fu ucciso Don Peppino, un uomo che aveva lottato solo con la sua parola e che rivoluzionò il metodo della missione pastorale. Girava per il paese in jeans, non orecchiava le beghe delle famiglie, non disciplinava le scappatelle dei maschi né andava confortando donne tradite. Aveva compreso che non poteva che interessarsi delle dinamiche di potere. Non voleva solo confortare gli afflitti, ma soprattutto affliggere i confortati. Voleva fare chiarezza sulle parole, sui significati, sui perimetri dei valori.

Scrisse: "La camorra chiama "famiglia" un clan organizzato per scopi delittuosi, in cui è legge la fedeltà assoluta, è esclusa qualunque espressione di autonomia, è considerata tradimento, degno di morte, non solo la defezione, ma anche la conversione all'onestà; la camorra usa tutti i mezzi per estendere e consolidare tale tipo di "famiglia", strumentalizzando persino i sacramenti. Per il cristiano, formato alla scuola della Parola di Dio, per "famiglia" si intende soltanto un insieme di persone unite tra loro da una comunione di amore, in cui l'amore è servizio disinteressato e premuroso, in cui il servizio esalta chi lo offre e chi lo riceve. La camorra pretende di avere una sua religiosità, riuscendo, a volte, ad ingannare, oltre che i fedeli, anche sprovveduti o ingenui pastori di anime (...) Non permettere che la funzione di "padrino", nei sacramenti che lo richiedono, sia esercitata da persone di cui non sia notoria l'onestà della vita privata e pubblica e la maturità cristiana. Non ammettere ai sacramenti chiunque tenti di esercitare indebite pressioni in carenza della necessaria iniziazione sacramentale...".

Questo è il lascito di Don Peppino Diana, un lascito che ancora oggi resta difficile accogliere e onorare. La speranza è nelle nuove generazioni di figli di immigrati, e nuovi figli di questo meridione, persone che torneranno dalla diaspora dell'emigrazione, emorragia inarrestabile. Il pensiero e il ricordo di Don Peppino sarà per loro quello di un giovane uomo che ha voluto far bene le cose. E si è comportato semplicemente come chi non ha paura e dà battaglia con le armi di cui dispone, di cui possono disporre tutti. E riconosceranno quanto fosse davvero incredibilmente nuova e potente la volontà di porre la parola al centro di una lotta contro i meccanismi di potere. Parole davanti a betoniere e fucili. Realmente, non come metafore. Una parola che è sentinella, testimone, così vera e aderente e lucida che puoi cercare di eliminarla solo ammazzando. E che malgrado tutto è riuscita a sopravvivere. E io a Don Peppino vorrei dedicare quasi una preghiera, una preghiera laica rivolta a qualunque cosa aiuti me e altri a trovare la forza per andare avanti, per non tradire il suo esempio, offrendogli le parole di un rap napoletano. "Dio, non so bene se tu ci sei, né se mai mi aiuterai, so da quale parte stai".


--------------------------


IL DOCUMENTO

È la camorra il nuovo terrorismo

don GIUSEPPE DIANA

ASSISTIAMO impotenti al dolore di tante famiglie che vedono i loro figli finire miseramente vittime o mandanti delle organizzazioni della camorra (...)
La Camorra oggi é una forma di terrorismo che incute paura, impone le sue leggi e tenta di diventare componente endemica nella società campana.

I camorristi impongono con la violenza, armi in pugno, regole inaccettabili: estorsioni che hanno visto le nostre zone diventare sempre più aree sussidiate, assistite senza alcuna autonoma capacità di sviluppo; tangenti al venti per cento e oltre sui lavori edili, che scoraggerebbero l'imprenditore più temerario; traffici illeciti per l'acquisto e lo spaccio delle sostanze stupefacenti il cui uso produce a schiere giovani emarginati, e manovalanza a disposizione delle organizzazioni criminali; scontri tra diverse fazioni che si abbattono come veri flagelli devastatori sulle famiglie delle nostre zone; esempi negativi per tutta la fascia adolescenziale della popolazione, veri e propri laboratori di violenza e del crimine organizzato.

E' oramai chiaro che il disfacimento delle istituzioni civili ha consentito l'infiltrazione del potere camorristico a tutti i livelli. La Camorra riempie un vuoto di potere dello Stato che nelle amministrazioni periferiche é caratterizzato da corruzione, lungaggini e favoritismi.

La Camorra rappresenta uno Stato deviante parallelo rispetto a quello ufficiale, privo però di burocrazia e d'intermediari che sono la piaga dello Stato legale. L'inefficienza delle politiche occupazionali, della sanità, ecc; non possono che creare sfiducia negli abitanti dei nostri paesi; un preoccupato senso di rischio che si va facendo più forte ogni giorno che passa, l'inadeguata tutela dei legittimi interessi e diritti dei liberi cittadini; le carenze anche della nostra azione pastorale ci devono convincere che l'Azione di tutta la Chiesa deve farsi più tagliente e meno neutrale per permettere alle parrocchie di riscoprire quegli spazi per una "ministerialità" di liberazione, di promozione umana e di servizio.

Forse le nostre comunità avranno bisogno di nuovi modelli di comportamento: certamente di realtà, di testimonianze, di esempi, per essere credibili. Il nostro impegno profetico di denuncia non deve e non può venire meno. Dio ci chiama ad essere profeti (...)
Ai preti nostri pastori e confratelli chiediamo di parlare chiaro nelle omelie ed in tutte quelle occasioni in cui si richiede una testimonianza coraggiosa; alla Chiesa che non rinunci al suo ruolo "profetico" affinché gli strumenti della denuncia e dell'annuncio si concretizzino nella capacità di produrre nuova coscienza nel segno della giustizia, della solidarietà, dei valori etici e civili.

Tra qualche anno, non vorremmo batterci il petto colpevoli e dire con Geremia: "Siamo rimasti lontani dalla pace... abbiamo dimenticato il benessere... La continua esperienza del nostro incerto vagare, in alto ed in basso,... dal nostro penoso disorientamento circa quello che bisogna decidere e fare... sono come assenzio e veleno".


(18 marzo 2009)
da repubblica.it


Titolo: ROBERTO SAVIANO. CAMORRA UCCIDE CON SILENZIO E DIFFAMAZIONE
Inserito da: Admin - Marzo 28, 2009, 12:11:30 pm
2009-03-26 10:02

SAVIANO: CAMORRA UCCIDE CON SILENZIO E DIFFAMAZIONE
(di Bianca Maria Manfredi)


MILANO  - Il silenzio e la diffamazione sono armi terribili in mano alla camorra e l'ordigno adatto per combatterli è quello della parola. Anche la parola, o meglio le parole, dette questa sera da Roberto Saviano allo speciale di 'Che tempo che fa'. Lui stesso si è definito una "operazione mediatica", nata e portata avanti perché si conoscano gli orrori della camorra e si capisca che riguardano tutti. Il suo "sogno" è che la lotta alla criminalità organizzata diventi una vera e propria moda. E' quello che "i grandi editori, le televisioni, trovassero un punto comune, anche conveniente. Perché non creare una moda?". E' una provocazione, quella dell'autore di Gomorra (che dal 13 ottobre 2006 vive sotto scorta), ma non più di tanto. In un'intervista al Tempo, Carmine Schiavone ha profetizzato che la camorra tenterà di far fuori Saviano quando cadrà nel dimenticatoio. "La cosa più grave che può fare la politica - ha detto lo scrittore - è il silenzio. La cosa più grave che possono fare gli elettori è scegliere il silenzio".

Questo "colpevole silenzio" riguarda però anche i giornali. Saviano ha fatto un monologo di una quarantina di minuti proprio per parlare della forza della scrittura ed è partito per parlarne dai titoli dei giornali locali delle zone di guerra dove si combattono le battaglie della camorra. Sono titoli che fanno da cassa di risonanza alla criminalità organizzata, che mostrano un modo inquietante di vederla, con parole come 'sindacalista giustiziato' per parlare di un assassinio. E poi ci sono le voci, che fanno dubitare dell'onestà di don Beppe Diana, che hanno fatto ventilare la possibilità di una connivenza con la camorra di Salvatore Nuvoletta, un carabiniere di 20 anni ucciso mentre era disarmato e con un bambino sulle ginocchia da una squadra di camorristi. "Perché non avete mai sentito questo nome? - si è chiesto Saviano - E' un carabiniere di 20 anni. Non lo avete mai sentito, perché quando la camorra uccide non lo fa con le pallottole ma con la diffamazione". Così il suo monologo è stato un elenco di persone, di storie, di accuse per le infiltrazioni della camorra, che ad esempio nell'edilizia non opera solo al Sud, ma tanto anche al Nord, in città come Milano, Parma, per non parlare di Berlino. Queste storie di omicidi giornalieri non arrivano quasi mai sulle pagine nazionali. Ogni tanto la notizia arriva, quando si sparge molto sangue e ci sono grandi tragedie.

Ci sono due o tre persone uccise al giorno e la cronaca nazionale le ignora. Allora, l'invito è a non smettere di parlare, come lui stesso non smette di fare nella sua vita non più privata ma "blindata". Più del racconto di questi ultimi tre anni con i Carabinieri, che definisce come una nuova famiglia, ha detto tanto l'immagine dei militari che lo hanno scortato fuori dallo studio televisivo. "Io - ha detto - esisto ora, poi vado in una stanza e non ho più vita fino al prossimo appuntamento". 

da ansa.it


Titolo: ROBERTO SAVIANO La criminalità dell'ex Urss è un arcipelago pieno di misteri
Inserito da: Admin - Aprile 03, 2009, 05:33:11 pm
La criminalità dell'ex Urss è un arcipelago pieno di misteri

Roberto Saviano lo ha indagato con l'aiuto di un infiltrato speciale

Il ragazzo guerriero della mafia siberiana

di ROBERTO SAVIANO


 Quando ero ragazzino scrissi un racconto metafisico e surrealista e lo inviai a Goffredo Fofi. Dopo qualche giorno mi arrivò un foglio di poche righe in una busta di carta riciclata: "Mi piace come scrivi, peccato che scrivi idiozie, ho visto da dove mi hai spedito la lettera. Affacciati alla finestra e raccontami cosa vedi, scendi giù, attraversa cosa vedi. Poi rispediscimi tutto, e ne riparliamo". Da allora affacciarsi e attraversare le cose mi sembrò l'unico modo per poter scrivere parole degne di essere lette.

Nicolai Lilin non ha fatto altro che affacciarsi, fuori dalla casa in cui è nato, dentro la sua stessa vita e raccontare ciò che ha visto, sentito, il mondo in cui è stato educato. E lo ha fatto in un libro, Educazione Siberiana. Un romanzo come se ne leggono pochi, che racconta di un mondo scomparso, quello degli Urka siberiani, la comunità di criminali deportata da Stalin al confine con l'attuale Moldavia, in una terra di nessuno che è la Transnistria.

Ho incontrato Lilin nella stanza anonima di un hotel milanese. Corpo minuto ma tonico, viso slavo, colori chiari, occhi luminosi. Parla un italiano preciso, impastato con una cadenza slava unita a un accento piemontese. Quando si infervora gli esce un "Dio bono" che lo rende divertente. Lilin è un discendente degli Urka siberiani con un intercalare sabaudo e racconta proprio di gente come lui, gli ultimi discendenti di questa stirpe guerriera, uomini che usano definirsi "criminali onesti" atavici nemici dei "criminali disonesti". "Volevo raccontare storie che rischiavano di perdersi, che conoscono in pochi, e renderle storie di molti. Le storie della mia gente, distrutta dal capitalismo di oggi, gente che aveva regole sacre, che viveva con dei valori". Per leggere questo libro bisogna prepararsi a dimenticare le categorie di bene e di male così come le percepiamo, lasciar perdere i sentimenti come li abbiamo costruiti dentro la nostra anima. Bisogna star lì: leggere e basta.

Così dopo un po', intorno alle pagine di Educazione Siberiana, inizierà a materializzarsi un intero mondo. Sembrerà lontanissimo, altro, ma bevuto tutto lascerà un gusto in cui si ritrovano in forma diversa molti sapori simili al nostro mondo e questo genererà un brivido difficile da dimenticare. Non ci si aspetti un libro sulla mafia russa, né un trattato sul crimine, né alleanze tra clan, imperi economici, faide e sparatorie. È il contrario. È un romanzo che racconta di un popolo scomparso, di una tradizione guerriera che Nicolai conservava dentro di sé e che non riusciva più a tacere. Continuamente lui usa la parola "onesto", e continuamente ripete il termine "disonesto". Può apparire strano che parlando di una comunità criminale si parli di onestà; noi abbiamo imparato a dimenticare che un codice etico condiviso possa esistere anche al di fuori della società civile.

Tra gli Urka non si stupra, non si fanno estorsioni, non si fa usura. Si può rapinare e uccidere, ma solo in presenza di un valido motivo. Si può truffare, ma solo lo stato e i ricchi. E ci sono anche regole pratiche da osservare: le armi per la caccia, per esempio, non devono essere messe accanto alle armi che servono per uccidere esseri umani. E quando un'arma tocca l'altra per purificarla bisogna avvolgerla in un panno con liquido amniotico, il liquido della vita. Seppellire il tutto e dopo un po' arriva la purificazione. È assolutamente vietato agli uomini parlare con le forze dell'ordine. In Educazione Siberiana ci sono pagine di arresti e retate in cui la polizia non riesce a rivolgere la parola a nessun siberiano. Ogni Urka ha sempre al proprio fianco una donna che faccia da tramite. Lilin racconta che dalle sue parti si dice che chi non ha voglia di lavorare e non ha il coraggio di delinquere fa il poliziotto. Nelle comunità criminali degli Urka, diversamente da quanto accade in Italia, esistono regole talmente forti da fermare il business, vincolare il potere.

Sono regole che seppur calate in un contesto discutibile hanno profonde radici morali. In Italia, fino a qualche decennio fa, per le mafie regole come non uccidere bambini, non trattare e vendere droga, non assumerne, ora sistematicamente disattese, nascevano dalla necessità di cercare quel consenso nella popolazione che adesso appare dovuto, che ora sono il timore e la forza ad assicurare. "Non è il crimine la nostra forza - diceva il nonno a Nicolai - ma il consenso ed il bene che la gente ci vuole". Lilin precisa: "Sono regole di giustizia non scritte, come la divisione equa dei beni, l'aiuto reciproco e la difesa dei più deboli". E continua con una nota autoironica che aggiunge credibilità al suo racconto: "Se nasci in quella realtà non puoi certo divenire Ghandi ma almeno vivi un una società che ha regole e diritti, non solo soprusi dove vince il più corrotto e il più forte come tra i lupi".

E gli anziani nel romanzo hanno un ruolo centrale. Non sono solo i depositari delle tradizioni, ma tramandano di generazione in generazione le storie più avvincenti di rapine e di sfide. Indirizzano le nuove generazioni anche sul modo di trattare il denaro. I soldi fanno schifo ai siberiani, la considerano roba sporca. "Mio nonno in tutta la sua vita non ha mai portato soldi addosso, li tenevano in posti lontani dai luoghi della vita. I soldi sono sempre stati considerati sporchi". E le figure di questi anziani nel libro sono davvero meravigliosamente epiche. A tratti si avverte, e Nicolai conferma, che il libro è passato a vaglio dell'attento lavoro degli editor pur conservando, a volte, delle asperità, dei punti dove la lingua inciampa; ed è proprio lì che lo stile ibrido di un uomo che pensa in siberiano e scrive in italiano, lo stile personalissimo che gli scrittori migranti elaborano, esce in tutta la sua pura ingenuità e bellezza. Lilin costruisce un mondo con la sua scrittura e questo fa di lui non un semplice testimone ma uno scrittore vero e proprio.

A volte viene da pensare, ascoltando Nicolai, che serbi una visione mitizzata degli Urka, parola che a chiunque abbia letto i libri di Sol%u017Eenicyn, Herling o %u0160alamov sui gulag ricorda invece il peggior incubo per i detenuti normali: stupro, furto, percosse. Eppure il mondo che Lilin racconta sembra essere un altro, sembra partire da premesse differenti offrendo la possibilità di osservare quel mondo da una prospettiva inedita. Essere un Urka, racconta Lilin, era un marchio che ti portavi dietro ovunque: "Quando ero piccolo e uscii dalla Moldavia con mia madre, alla dogana un ufficiale vide che ero nato in Transnistria e, seppure fossi un bambino, mi fissò negli occhi e disse, 'Delinquente!!!'. Bastava venire da lì". Eppure c'è nel codice degli Urka siberiani l'assoluta necessità di dire sempre la verità. La menzogna è punita. "Devi essere vero, sempre e comunque devi essere vero. Mi hanno insegnato a dire la verità sempre. Spesso i poliziotti russi quando arrestavano degli Urka li riprendevano mentre li interrogavano. Quando dicevano sei un criminale loro dovevano rispondere si, se rispondevano no era una condanna a morte tra tutti gli Urka. Un Urka non mente mai". Anche quando la verità significa una condanna alla galera.

Nicolai Lilin si riconosce assolutamente nella tradizione degli Urka: "Sono un criminale onesto" dice, contrapponendo un mondo ormai tramontato, che cerca di far rivivere attraverso il suo racconto, alla Russia di oggi, completamente allo sbando. "Nelle mie zone tutti chiedono il pizzo, per qualsiasi cosa bisogna pagare. È lecito aspettarsi una richiesta di tangente per documenti, viaggi, permessi, per tutto ciò che nel mondo occidentale, in un mondo che si dice civile, dovrebbe essere dovuto". Nicolai è grato all'Italia, o almeno alla parte d'Italia dove lui vive, e nel suo discorso è possibile rintracciare anche quanto relativo sia il concetto di diritto. "Qui puoi avere un documento senza pagare tangenti, qui se vieni derubato puoi sporgere regolare denuncia, e sai che ci sarà qualcuno ad ascoltarti, a difenderti, a far valere i tuoi diritti di cittadino. In Russia e in Moldavia tutto è corruzione, politica, burocrazia, tanta prostituzione, racket, droga. Paesi marci. Mio nonno diceva spesso: credo che non esista né inferno né paradiso, semplicemente se ti comporti male rinasci in Russia".

Nessun urka siberiano vorrebbe essere chiamato mafioso. La mafia russa è una categoria generica, enorme, quasi inesistente. Ci sono le famiglie di Mosca, quelle di San Pietroburgo, la mala cecena e quella georgiana potentissima in Usa, poi ci sono le famiglie dell'Azerbaigian. I siberiani non si riconoscono in nessuna di queste organizzazioni, non sentono neanche di essere gang, clan o organizzazioni. Il loro codice di vita è la loro casa. "Una volta mio nonno mi ha raccontato che fu arrestato un pedofilo, uno di quelli a cui piacevano molto le bambine piccole e anche i bambini. Gli Urka quando fu arrestato lo trattarono con rispetto. Andarono da lui, gli diedero una corda fatta con le lenzuola e gli dissero: 'Hai cinque ore per impiccarti, se non lo fai ognuno di noi prenderà un pezzo di te e lo strapperà"".

Una delle parti più belle del libro è il racconto dei tatuaggi. Il tatuaggio è un codice per raccontare il carattere di una persona e il percorso della sua vita, il tatuaggio degli urka siberiani è un'eredità antica che viene da molto lontano. Il tatuaggio tradizionale siberiano è un codice segreto, nato in epoca pre-russa e pre-cristiana. I primi briganti nomadi della foresta, gli Efei, si tatuavano per potersi riconoscere, lungo le grandi strade della Siberia dove assaltavano i convogli provenienti dalla Cina e dall'India. I tatuaggi quindi erano un modo per non farsi assalire da "colleghi", e un modo muto per rendersi fratelli. Quando si diffuse il Cristianesimo, il tatuaggio criminale siberiano adottò i simboli della nuova religione: gli Efei si confondevano così con i pellegrini, che erano poveri e, non potendo acquistare croci, catene e immagini sacre, se le tatuavano. Con la formazione dello stato russo, lo Zar decise di sbarazzarsi degli Efei; ma i più irriducibili di loro, gli Urka, ostili a qualsiasi potere, si rifugiarono nella Taiga dove organizzarono una dura resistenza che fu spezzata soltanto dopo secoli, dai comunisti. Nel libro sono meravigliose le pagine dove Lilin racconta come il tatuatore sia una figura speciale, quasi un sacerdote. Per i siberiani puoi diventare tatuatore solo su autorizzazione di un anziano maestro; Lilin scelse all'età di 12 anni di divenire allievo del più esperto della sua città. Era bravo a disegnare, i suoi disegni venivano richiesti per farne tatuaggi, ma aveva bisogno di imparare l'antica arte del tatuaggio tradizionale, eseguito a mano con le bacchette, non con la macchinetta elettrica. A 18 anni, ultimato l'apprendistato, il suo maestro lo nominò tatuatore.

Un corpo siberiano tatuato è un libro misterioso, che pochi sanno leggere: i singoli simboli assumono un preciso significato solo se messi in relazione tra loro, nelle rispettive posizioni. "Si tratta di una grande tradizione, - dice Nicolai - alla quale sono orgoglioso di appartenere". Per un siberiano il tatuaggio è un processo lungo che dura tutta una vita. Iniziano a tatuarsi all'età di dodici anni e soltanto dopo aver passato una vita, con tutto ciò che può essere a vita di un Urka, la loro storia potrà essere letta sui loro corpi. Schiena e petto sono tatuate solo alla fine, dopo i cinquant'anni.

Nicolai è completamente rivestito di tatuaggi. Imprudentemente gli chiedo di raccontarli e ottengo una risposta che non mi aspetto. "Raccontare i tatuaggi è disonesto. I tatuaggi sono un linguaggio muto, ci si tatua proprio per evitare di parlare. Solo un siberiano può capire. Chi racconta uccide la tradizione, e rischia di essere ucciso". Il tatuaggio siberiano è divenuto quasi un tatuaggio pop e il cinema ha cercato di raccontarlo, ma Nicolai è molto scettico: "Il film di Cronenberg ("La promessa dell'assassino", ndr) è tutta una farsa. Il tatuaggio siberiano è morto con i siberiani. È una menzogna, dal film sembra quasi che tutti gli affiliati russi si tatuino, ma non è così. Quei tatuaggi li hanno solo alcuni, come per esempio Seme Nero". Seme Nero è un clan che si tatua ma è un gruppo che vive in carcere. Non possono avere rapporti sessuali, non possono avere famiglia, quando escono dalla galera fanno di tutto per rientrarci. Sono cosche di criminali spesso create dalla polizia per controllare le carceri, criminali comuni entrano in Seme Nero e divengono come una casta che governa in cella su tutti. Ma queste storie che rimbalzano intorno al libro di Lilin sono satelliti rispetto al suo obiettivo, quello di raccontare la palestra, la tana delle tigri siberiane in cui viene a formarsi un giovane Urka, stirpe estinta di antico guerriero.

L'educazione siberiana è un'educazione antica quasi sciamanica, disciplinata. Chiedo a Nicolai della morte, che per tutto il libro è sempre vista come una compagna di vita, come qualcosa che sta lì pronta ad aspettarti né terribile né amica. C'è e basta. "Io ho ucciso Roberto, ho ucciso un bel po' di persone. Ma non sento dolore, o meglio sento che ero costretto a farlo, ero un militare in Cecenia, e dovevo sparare. Ho ucciso e ho sentito la morte tante volte vicina a me. Ma anche su questo la mia gente mi ha insegnato a capire la morte, a conoscerla e a non sentirla come qualcosa di strano. Qui nessuno vuole morire. Io se voglio la vita so che devo volere anche la morte". Gli chiedo se ora vuol solo fare lo scrittore e vuole smettere di tatuare. "Mi sono un po' stancato. Continuare a raccontare storie con le parole mi piacerebbe di più che continuare a bucare pelle...".

Me ne vado con la certezza che il racconto e la memoria possono salvare un mondo e permettere di mappare una sorta di percorso che pericolosamente ci dice: il peggio è ancora da venire e laddove si perdono le regole si perde tutto ma, come scrive Lilin, il motto degli Urka siberiani è ancora vivo: "C'è chi la vita la gode, chi la subisce, noi la combattiamo".

© 2009 by Roberto Saviano
Published by arrangement with Roberto Santachiara Literary Agency

(3 aprile 2009)
da repubblica.it


Titolo: ROBERTO SAVIANO La ricostruzione a rischio clan ecco il partito del terremoto
Inserito da: Admin - Aprile 14, 2009, 02:50:52 pm
Roberto Saviano nelle zone del sisma: l'invasione della camorra degli ultimi anni rende alto il pericolo di speculazioni.

E l'orgoglioso popolo d'Abruzzo chiede: "Controllateci"

La ricostruzione a rischio clan ecco il partito del terremoto


di ROBERTO SAVIANO


L'AQUILA - "Non permetteremo che ci siano speculazioni, scrivilo. Dillo forte che qui non devono neanche pensarci di riempirci di cemento. Qui decideremo noi come ricostruire la nostra terra...". Al campo rugby mi dicono queste parole. Me le dicono sul muso. Naso vicino al naso, mi arriva l'alito. Le pronuncia un signore che poi mi abbraccia forte e mi ringrazia per essere lì. Ma la sua paura non è finita con il sisma.

La maledizione del terremoto non è soltanto quel minuto in cui la terra ha tremato, ma ciò che accadrà dopo. Gli interi quartieri da abbattere, i borghi da restaurare, gli alberghi da ricostruire, i soldi che arriveranno e rischieranno non solo di rimarginare le ferite, ma di avvelenare l'anima. La paura per gli abruzzesi è quella di vedersi spacciare come aiuto una speculazione senza limiti nata dalla ricostruzione.
Qui in Abruzzo mi è tornata alla mente la storia di un abruzzese illustre, Benedetto Croce, nato proprio a Pescasseroli che ebbe tutta la famiglia distrutta in un terremoto. "Eravamo a tavola per la cena io la mamma, mia sorella ed il babbo che si accingeva a prendere posto. Ad un tratto come alleggerito, vidi mio padre ondeggiare e subito in un baleno sprofondare nel pavimento stranamente apertosi, mia sorella schizzare in alto verso il tetto. Terrorizzato cercai con lo sguardo mia madre che raggiunsi sul balcone dove insieme precipitammo e io svenni". Benedetto Croce rimase sepolto fino al collo nelle pietre. Per molte ore il padre gli parlava, prima di spegnersi. Si racconta che il padre gli ripeteva una sola e continua raccomandazione "offri centomila lire a chi ti salva".

Gli abruzzesi sono stati salvati da un lavoro senza sosta che nega ogni luogo comune sull'italianità pigra o sull'indifferenza al dolore. Ma il prezzo da pagare per questa regione potrebbe essere altissimo, ben oltre le centomila lire del povero padre di Benedetto Croce. Il terrore di ciò che è accaduto all'Irpinia quasi trent'anni fa, gli sprechi, la corruzione, il monopolio politico e criminale della ricostruzione, non riesce a mitigare l'ansia di chi sa cosa è il cemento, cosa portano i soldi arrivati non per lo sviluppo ma per l'emergenza. Ciò che è tragedia per questa popolazione per qualcuno invece diviene occasione, miniera senza fondo, paradiso del profitto. Progettisti, geometri, ingegneri e architetti stanno per invadere l'Abruzzo attraverso uno strumento che sembra innocuo ma è proprio da lì che parte l'invasione di cemento: le schede di rilevazione dei danni patiti dalle case. In questi giorni saranno distribuite agli uffici tecnici comunali di tutti i capoluoghi d'Abruzzo. Centinaia di schede per migliaia di ispezioni. Chi avrà in mano quel foglio avrà la certezza di avere incarichi remunerati benissimo e alimentati da un sistema incredibile.

"Più il danno si fa grave in pratica, più guadagni", mi dice Antonello Caporale. Arrivo in Abruzzo con lui, è un giornalista che ha vissuto il terremoto dell'Irpinia, e la rabbia da terremotato non te la togli facilmente. Per comprendere ciò che rischia l'Abruzzo si deve partire proprio da lì, dal sisma di 29 anni fa, da un paese vicino Eboli. "Ad Auletta - dice il vicesindaco Carmine Cocozza - stiamo ancora liquidando le parcelle del terremoto. Ogni centomila euro di contributo statale l'onorario tecnico globale è di venticinquemila". Ad Auletta quest'anno il governo ha ripartito ancora somme per il completamento delle opere post sisma: 80 milioni di euro in tutto. "Il mio comune ne ha ricevuti due milioni e mezzo. Serviranno a realizzare le ultime case, a finanziare quel che è rimasto da fare". Difficile immaginare che dopo 29 anni ancora arrivino soldi per la ristrutturazione ma è ciò che spetta ai tecnici: il 25 per cento del contributo. Ci si arriva calcolando le tabelle professionali, naturalmente tutto è fatto a norma di legge. Costi di progettazione, di direzione lavori, oneri per la sicurezza, per il collaudatore. Si sale e si sale. Le visite sono innumerevoli. Il tecnico dichiara e timbra. Il comune provvede solo a saldare.

Il rischio della ricostruzione è proprio questo. Aumenta la perizia del danno, aumentano i soldi, gli appalti generano subappalti e ciclo del cemento, movimento terre, ruspe, e costruzioni attireranno l'avanguardia delle costruzioni in subappalto in Italia: i clan. Le famiglie di camorra, di mafia e di 'ndrangheta qui ci sono sempre state. E non solo perché nelle carceri abruzzesi c'è il gotha dei capi della camorra imprenditrice. Il rischio è proprio che le organizzazioni arrivino a spartirsi in tempo di crisi i grandi affari italiani. Ad esempio: alla 'ndrangheta l'Expo di Milano, e alla camorra la ricostruzione in subappalto d'Abruzzo.

L'unica cosa da fare è la creazione di una commissione in grado di controllare la ricostruzione. Il presidente della Provincia Stefania Pezzopane e il sindaco de L'Aquila Massimo Cialente sono chiari: "Noi vogliamo essere controllati, vogliamo che ci siano commissioni di controllo...". Qui i rischi di infiltrazioni criminali sono molti. Da anni i clan di camorra costruiscono e investono. E per un bizzarro paradosso del destino proprio l'edificio dove è rinchiusa la maggior parte di boss investitori nel settore del cemento, ossia il carcere de L'Aquila (circa 80 in regime di 416 bis) è risultato il più intatto. Il più resistente.

I dati dimostrano che la presenza dell'invasione di camorra nel corso degli anni è enorme. Nel 2006 si scoprì che l'agguato al boss Vitale era stato deciso a tavolino a Villa Rosa di Martinsicuro, in Abruzzo. Il 10 settembre scorso Diego Leon Montoya Sanchez, il narcotrafficante inserito tra i dieci most wanted dell'Fbi aveva una base in Abruzzo. Nicola Del Villano, cassiere di una consorteria criminal-imprenditoriale degli Zagaria di Casapesenna era riuscito in più occasioni a sfuggire alla cattura e il suo rifugio era stato localizzato nel Parco nazionale d'Abruzzo, da dove si muoveva, liberamente. Gianluca Bidognetti si trovava qui in Abruzzo quando la madre decise di pentirsi.
L'Abruzzo è divenuto anche uno snodo per il traffico dei rifiuti, scelto dai clan per la scarsa densità abitativa di molte zone e la disponibilità di cave dismesse. L'inchiesta Ebano fatta dai carabinieri dimostrò che alla fine degli anni '90 vennero smaltite circa 60.000 tonnellate di rifiuti solidi urbani provenienti dalla Lombardia. Finiva tutto in terre abbandonate e cave dismesse in Abruzzo. Dietro tutto questo, ovviamente i clan di camorra.

Sino ad oggi L'Aquila non ha avuto grandi infiltrazioni. Proprio perché mancava la possibilità di grandi affari. Ma ora si apre una miniera per le imprese. La solidarietà per ora fa argine ad ogni tipo di pericolo. Al campo del Paganica Rugby mi mostrano i pacchi arrivati da tutte le squadre di rugby d'Italia e i letti allestiti da rugbisti e volontari. Qui il rugby è lo sport principale, anzi lo sport sacro. Ed è infatti la palla ovale che alcuni ragazzi si lanciano in passaggi ai lati delle tende, che mi passa sulla testa appena entro. Ed è dal rugby che in questo campo sono arrivati molti aiuti. La resistenza di queste persone è la malta che unisce volontari e cittadini. È quando ti rimane solo la vita e nient'altro che comprendi il privilegio di ogni respiro. Questo è quello che cercano di raccontarmi i sopravvissuti.

Il silenzio de L'Aquila spaventa. La città evacuata a ora di pranzo è immobile. Non capita mai di vedere una città così. Pericolante, piena di polvere. L'Aquila in queste ore è sola. I primi piani delle case quasi tutti hanno almeno una parte esplosa.
Avevo un'idea del tutto diversa di questo terremoto. Credevo avesse preso soltanto il borgo storico, o le frazioni più antiche. Non è così. Tutto è stato attraversato dalla scossa. Dovevo venire qui. E il motivo me lo ricordano subito: "Te lo sei ricordato che sei un aquilano..." mi dicono. L'Aquila fu una delle prime città anni fa a darmi la cittadinanza onoraria. E qui se lo ricordano e me lo ricordano, come un dovere: presidiare quello che sta accadendo, raccontarlo. Tenere memoria. Mi fermo davanti alla Casa dello studente. In questo terremoto sono morti giovani e anziani. Quelli che a letto si sono visti crollare il soffitto addosso o sprofondare nel vuoto e quelli che hanno cercato di scappare per le scale, l'ossatura più fragile del corpo d'un palazzo.

I vigili del fuoco mi fanno entrare ad Onna. Sono fortunato, mi riconoscono, e mi abbracciano. Sono sporchi di polvere e soprattutto fango. Non amano che si ficchino i giornalisti dappertutto : "Poi li devo andare a pescare che magari cade un soffitto e rimangono incastrati" mi dice un ingegnere romano Gianluca che mi fa un regalo che avrebbe fatto impazzire qualsiasi bambino, un elmetto rosso fuoco dei Vigili. Onna non esiste più. Il termine macerie è troppo usato. È come se non significasse più nulla. Mi segno sulla moleskine gli oggetti che vedo. Un lavabo finito a terra, un libro fotocopiato, un passeggino, ma soprattutto lampadari, lampadari, lampadari. In verità è quello che non vedi mai fuori da una casa. E invece qui vedi ovunque lampadari. I più fragili, gli oggetti che per primi hanno dato spesso inutilmente l'allarme del terremoto. È una vita ferma e crollata. Mi portano davanti la casa dove è morta una bambina. I vigili del fuoco sanno ogni cosa. "Questa casa vedi, era bella, sembrava ben fatta, invece era costruita su fondamente vecchie". Si è fatto poco per controllare...

La dignità estrema di queste persone me la raccontano i vigili del fuoco: "Nessuno ci chiede niente. È come se per loro bastasse essere rimasti in vita. Un vecchietto mi ha detto: mi puoi chiudere le finestre sennò entra la polvere. Io sono andato ho chiuso le finestre ma alla casa mancano tetto e due pareti. Qui alcuni non hanno ancora capito cosa è stato il terremoto".
Franco Arminio uno dei poeti più importanti di questo paese, il migliore che abbia mai raccontato il terremoto e ciò che ha generato scrive in una sua poesia: "Venticinque anni dopo il terremoto dei morti sarà rimasto poco. Dei vivi ancora meno". Siamo ancora in tempo perché in Abruzzo questo non accada. Non permettere che la speculazione vinca come sempre successo in passato è davvero l'unico omaggio vero, concreto, ai caduti di questo terremoto, uccisi non dalla terra che trema ma dal cemento.

© 2009 by Roberto Saviano - Published by arrangement with Roberto Santachiara Literary Agency

(14 aprile 2009)
da repubblica.it


Titolo: ROBERTO SAVIANO "Gomorra in mano agli invisibili"
Inserito da: Admin - Aprile 30, 2009, 10:06:56 am
30/4/2009 (7:19) - INTERVISTA A ROBERTO SAVIANO

"Gomorra in mano agli invisibili"
 
"I casalesi agli ordini dei latitanti dimenticati: affari e violenze ora puntano a Nord"

FRANCESCO LA LICATA
ROMA


Roberto Saviano è appena atterrato a Fiumicino, reduce da un lungo giro che, per ultimo, lo ha portato in Spagna. E’ un modo, questo movimento continuo, per rendere meno pesante l’assedio che lo scrittore subisce dai malacarne che vorrebbero cancellarlo dalla propria terra. Appare sempre alquanto sorpreso, Saviano, dall’accoglienza che gli viene riservata all’estero, ma preferisce glissare su alcune notizie che riguardano proprio i suoi ultimi contatti col governo spagnolo. Non conferma, ma è trapelato che quel ministro dell’Interno gli ha offerto il posto di consulente tecnico per i problemi legati alla presenza mafiosa nei paesi costieri della Spagna. E’ un fatto che ad Alicante, in Andalusia, hanno svernato e svernano mafiosi e camorristi e che i cartelli messicani della coca stanno per soppiantare i colombiani con alleanze italiche. Ma Saviano nega che possa esistere per lui un qualsiasi ruolo tecnico: «Non ne sarei capace. Il mio mestiere è scrivere». E rimane vago sull’indiscrezione circa un incontro coi capi dei vari dipartimenti della polizia spagnola per uno scambio di idee. Dice semplicemente di essere colpito dall’attenzione con cui i governi europei cercano argini ai pericoli del contagio mafioso.

Saviano, ha sentito della cattura di Michele Bidognetti?
«E’ un buon colpo la cattura di un rappresentante dell’ala stragista dei casalesi, ma non comanda lui a Caserta. Diciamo che non è il rappresentante più emblematico di quel miscuglio melmoso di borghesia e crimine».

Chi comanda a Gomorra?
«Comandano i latitanti e precisamente Michele Zagaria, detto “capastor- ta”, e Antonino Iovine “o ninno”. Personaggi pericolosissimi per la capacità criminale ma anche per il loro potere imprenditoriale e per l’appeal che esercitano sulla buona borghesia. Qualche esempio? Il fratello di Zagaria, Pasquale detto Bin Laden, è stato il primo mafioso a sfondare al Nord, come dimostrano una serie di inchieste su appalti e lavori eseguiti a Parma. Si tratta di gente capace delle cose più turpi ma anche di “battezzare” le proprie imprese con nomi tipo “Stendhal costruzioni”».

Lei ha avuto contatti diretti con lorsignori?
«Con i loro picciotti. Al processo Spartacus lanciavano sguardi infiammati dalle gabbie, mi schernivano e poi mi hanno detto:”Salutaci tanto don Peppino”, riferendosi a don Peppino Diana ucciso dalla camorra, e dunque annunciando che avrei fatto la sua stessa fine».

Stanno in carcere?
«C’è un continuo ricambio, entrano ed escono. Il problema è che i processi non sempre riescono a depotenziare i clan. Quelli condannati e pene minori rientrano alla grande, i latitanti sembrano essere dimenticati: il risultato è che la cosiddetta società civile li continua a temere o preferisce fingere di non vedere e non sapere. Anche fuori territorio: Iovine, per esempio, è stato sotto osservazione per affari a Roma, credo di ricordare un suo interessamente per il locale notturno “Gilda”. E ricordo i subappalti di Zagaria per la costruzione del Centro commerciale di Marcianise».

Gomorra, dunque, sta ancora tutta lì?
«Diciamo che non si capisce bene ciò che sta accadendo. C’è una situazione fluida e pericolosa. Non è stato ancora interrotto il filo che attraversa la rete di affari, anche dopo la cattura di Giuseppe Setola e di Francesco Bidognetti. Proprio lì sono venuti fuori i rapporti tra la borghesia produttiva e la macelleria mafiosa. Gli appalti gestiti da un fratello di Setola nell’intera provincia di Caserta, intrecci sotterranei come il ruolo di primo piano di Riccardo Iovine, fratello di Carmine, nella gestione dell’ospedale di Caserta che è al centro dell’inchiesta che ha provocato l’arresto della signora Mastella e, indirettamente, la caduta del governo Prodi. Insomma non tutto sembra chiaro e definito. E non arrivano schiarite da notizie come la scelta del presidente della Provincia, Sandro De Franciscis, di dedicarsi al Bureau Medical di Lourdes, o come il precipitoso ritiro del sindaco di Castelvorturno. Sono sintomi della difficoltà di ripristinare la legalità in questi territori».

Sembra impressionato dalla innaturale convivenza fra mafia e società civile.
«Mi chiedo cosa possa legare i due mondi. Ci può essere rapporto con chi, come i Bidognetti, hanno avvelenato la terra con tonnellate di rifiuti tossici? Con chi fa violentare e uccidere una ragazza, fiaccandola con iniezioni di latte sui muscoli, perchè decide di rimanere fedele al suo ragazzo, uccidendo poi anche lui che la cercava? Con chi fa assassinare il medico curante della madre, colpevole di non essere riuscito a strapparla al cancro? Eppure c’è chi, da direttore di un quotidiano, parlo della Gazzetta di Caserta, pubblica tranquillamente una lettera del camorrista “Sandokan”, facendola precedere dal distico “La ringrazio per la stima”. Gli unici punti di riferimento morali ed etici in Campania sembrano rimasti il cardinal Sepe a Napoli e mons. Nogaro a Caserta. Il resto è proprio buio».

da lastampa.it


Titolo: ROBERTO SAVIANO Il coraggio dimenticato
Inserito da: Admin - Maggio 13, 2009, 04:21:26 pm
Il coraggio dimenticato

di ROBERTO SAVIANO



Pubblichiamo la versione integrale dell'articolo di Roberto Saviano uscito oggi da Repubblica.

Chi racconta che l'arrivo dei migranti sui barconi porta valanghe di criminali, chi racconta che incrementa violenza e degrado, sta dimenticando forse due episodi recentissimi ed estremamente significativi, che sono entrati nella storia della nostra Repubblica. Le due più importanti rivolte spontanee contro le mafie, in Italia, non sono partite da italiani ma da africani. In dieci anni è successo soltanto due volte che vi fossero, sull'onda dello sdegno e della fine della sopportazione, manifestazioni di piazza non organizzate da associazioni, sindacati, senza pullman e partiti.

Manifestazioni spontanee. E sono stati africani a farle. Chi ha urlato: "Ora basta" ai capizona, ai clan, alle famiglie sono stati africani. A Castelvolturno, il 19 settembre 2008, dopo la strage a opera della camorra in cui vengono uccisi sei immigrati africani: Kwame Yulius Francis, Samuel Kwaku e Alaj Ababa, del Togo, Cristopher Adams e Alex Geemes della Liberia e Eric Yeboah del Ghana. Joseph Ayimbora, ghanese, viene ricoverato in condizioni gravi. Le vittime sono tutte giovanissime, il più anziano tra loro ha poco più di trent'anni, sale la rabbia e scoppia una rivolta davanti al luogo del massacro. La rivolta fa arrivare telecamere da ogni parte del mondo e le immagini che vengono trasmesse sono quelle di un intero popolo che ferma tutto per chiedere attenzione e giustizia. Nei sei mesi precedenti, la camorra aveva ucciso un numero impressionante di innocenti italiani. Il 16 maggio Domenico Noviello, un uomo che dieci anni fa aveva denunciato un'estorsione ma appena persa la scorta l'hanno massacrato. Ma nulla.
Nessuna protesta. Nessuna rimostranza. Nessun italiano scende in strada. I pochi indignati, e tutti confinati sul piano locale, si sentono sempre più soli e senza forze.

Ma questa solitudine finalmente si rompe quando, la mattina del 19, centinaia e centinaia di donne e uomini africani occupano le strade e gridano in faccia agli italiani la loro indignazione. Succedono incidenti. Ma la cosa straordinaria è che il giorno dopo, gli africani, si faranno carico loro stessi di riparare ai danni provocati. L'obiettivo era attirare attenzione e dire: "Non osate mai più". Contro poche persone si può ogni tipo di violenza, ma contro un intera popolazione schierata, no. E poi a Rosarno. In provincia di Reggio Calabria, uno dei tanti paesini del sud Italia a economia prevalentemente agricola che sembrano marchiati da un sottosviluppo cronico e le cui cosche, in questo caso le 'ndrine, fatturano cifre paragonabili al PIL del paese.

La cosca Pesce-Bellocco di Rosarno, come dimostra l'inchiesta del GOA della Guardia di Finanza del marzo 2004, aveva deciso di riciclare il danaro della coca nell'edilizia in Belgio, a Bruxelles, dove per la presenza delle attività del Parlamento Europeo le case stavano vertiginosamente aumentando di prezzo. La cosca riusciva a immettere circa trenta milioni di euro a settimana in acquisto di abitazioni in Belgio.

L'egemonia sul territorio è totale, ma il 12 dicembre 2008, due lavoratori ivoriani vengono feriti, uno dei due in gravissime condizioni. La sera stessa, centinaia di stranieri - anche loro, come i ragazzi feriti, impiegati e sfruttati nei campi - si radunano per protestare. I politici intervengono, fanno promesse, ma da allora poco è cambiato. Inaspettatamente, però, il 14 di dicembre, ovvero a due soli giorni dall'aggressione, il colpevole viene arrestato e il movente risulta essere violenza a scopo estorsivo nei riguardi della comunità degli africani. La popolazione in piazza a Rosarno, contro la presenza della 'ndrangheta che domina come per diritto naturale, non era mai accaduto negli anni precedenti.

Eppure, proprio in quel paese, una parte della società, storicamente, aveva sempre avuto il coraggio di resistere. Ne fu esempio Peppe Valarioti, che in piazza disse: "Non ci piegheremo", riferendosi al caso in cui avesse vinto le elezioni comunali. E quando accadde fu ucciso. Dopo di allora il silenzio è calato nelle strade calabresi. Nessuno si ribella. Solo gli africani lo fanno.

E facendolo difendono la cittadinanza per tutti i calabresi, per tutti gli italiani. Difendono il diritto di lavorare e di vivere dignitosamente e difendono il diritto della terra. L'agricoltura era una risorsa fondamentale che i meccanismi mafiosi hanno lentamente disgregato facendola diventare ambito di speculazioni criminali. Gli africani che si sono rivoltati erano tutti venuti in Italia su barconi. E si sono ribellati tutti, clandestini e regolari. Perche da tutti le organizzazioni succhiano risorse, sangue, danaro.

Sulla rivolta di Rosarno, in questi giorni, è uscito un libretto assai necessario da leggere con un titolo in cui credo molto. "Gli africani salveranno Rosarno.
E, probabilmente, anche l'Italia" di Antonello Mangano, edito da Terrelibere. La popolazione africana ha immesso nel tessuto quotidiano del sud Italia degli anticorpi fondamentali per fronteggiare la mafia, anticorpi che agli italiani sembrano mancare. Anticorpi che nascono dall'elementare desiderio di vivere.

L'omertà non gli appartiene e neanche la percezione che tutto è sempre stato così e sempre lo sarà. La necessità di aprirsi nuovi spazi di vita non li costringe solo alla sopravvivenza ma anche alla difesa del diritto. E questo è l'inizio per ogni vera battaglia contro le cosche. Per il pubblico internazionale risulta davvero difficile spiegarsi questo generale senso di criminalizzazione verso i migranti. Fatto poi da un paese, l'Italia, che ha esportato mafia in ogni angolo della terra, le cui organizzazioni criminali hanno insegnato al mondo come strutturare organizzazioni militari e politiche mafiose. Che hanno fatto sviluppare il commercio della coca in Sudamerica con i loro investimenti, che hanno messo a punto, con le cinque famiglie mafiose italiane newyorkesi, una sorta di educazione mafiosa all'estero.

Oggi, come le indagini dell'FBI e della DEA dimostrano, chiunque voglia fare attività economico-criminali a New York che siano kosovari o giamaicani, georgiani o indiani devono necessariamente mediare con le famiglie italiane, che hanno perso prestigio ma non rispetto. Altro esempio eclatante è Vito Roberto Palazzolo che ha colonizzato persino il Sudafrica rendendolo per anni un posto sicuro per latitanti, come le famiglie italiane sono riuscite a trasformare paesi dell'est in loro colonie d'investimento e come dimostra l'ultimo dossier di Legambiente le mafie italiane usano le sponde africane per intombare rifiuti tossici (in una sola operazione in Costa D'Avorio, dall'Europa, furono scaricati 851 tonnellate di rifiuti tossici).

E questo paese dice che gli immigrati portano criminalità? Le mafie straniere in Italia ci sono e sono fortissime ma sono alleate di quelle italiane. Non esiste loro potere senza il consenso e la speculazione dei gruppi italiani. Basta leggere le inchieste per capire come arrivano i boss stranieri in Italia. Arrivano in aereo da Lagos o da Leopoli. Dalla Nigeria, dall'Ucraina dalla Bielorussia. Gestiscono flussi di danaro che spesso reinvestono negli sportelli Money Transfer. Le inchieste più importanti come quella denominata Linus e fatta dai pm Giovanni Conzo e Paolo Itri della Procura di Napoli sulla mafia nigeriana dimostrano che i narcos nigeriani non arrivano sui barconi ma per aereo. Persino i disperati che per pagarsi un viaggio e avere liquidità appena atterrano trasportano in pancia ovuli di coca. Anche loro non arrivano sui barconi. Mai.

Quando si generalizza, si fa il favore delle mafie. Loro vivono di questa generalizzazione. Vogliono essere gli unici partner. Se tutti gli immigrati diventano criminali, le bande criminali riusciranno a sentirsi come i loro rappresentanti e non ci sarà documento o arrivo che non sia gestito da loro. La mafia ucraina monopolizza il mercato delle badanti e degli operai edili, i nigeriani della prostituzione e della distribuzione della coca, i bulgari dell'eroina, i furti di auto di romeni e moldavi. Ma questi sono una parte minuscola delle loro comunità e sono allevate dalla criminalità italiana. Nessuna di queste organizzazioni vive senza il consenso e l'alleanza delle mafie italiane.

Nessuna di queste organizzazioni vivrebbe una sola ora senza l'alleanza con i gruppi italiani. Avere un atteggiamento di chiusura e criminalizzazione aiuta le organizzazioni mafiose perché si costringe ogni migrante a relazionarsi alle mafie se da loro soltanto dipendono i documenti, le abitazioni, persino gli annunci sui giornali e l'assistenza legale. E non si tratta di interpretare il ruolo delle "anime belle", come direbbe qualcuno, ma di analizzare come le mafie italiane sfruttino ogni debolezza delle comunità migranti. Meno queste vengono protette dallo Stato, più divengono a loro disposizione. Il paese in cui è bello riconoscersi - insegna Altiero Spinelli padre del pensiero europeo - è quello fatto di comportamenti non di monumenti. Io so che quella parte d'Italia che si è in questi anni comportata capendo e accogliendo, è quella parte che vede nei migranti nuove speranze e nuove forze per cambiare ciò che qui non siamo riusciti a mutare. L'Italia in cui è bello riconoscersi e che porta in se la memoria delle persecuzioni dei propri migranti e non permetterà che questo riaccada sulla propria terra.

Published by arrangement with Roberto Santachiara Literary Agency

(13 maggio 2009)
da repubblica.it


Titolo: ROBERTO SAVIANO «Il mio futuro? Spero che ci sia Combatto i clan ...
Inserito da: Admin - Maggio 17, 2009, 12:10:48 am
Saviano: «Il mio futuro? Spero che ci sia Combatto i clan anche con il successo»

Una studentessa della Normale di Pisa: «Il Sud è violento, non ci tornerò più».

Lo scrittore: «Fai bene, ma a me pesa»

 
 PISA (15 maggio) - «Speriamo che ci sia». Così Roberto Saviano ha parlato oggi alla Normale di Pisa del suo futuro: questo è il momento del successo (i tecnici della Normale hanno dovuto bloccare gli accessi al sito che trasmetteva la conferenza in diretta per evitarne il blocco) e Saviano non nasconde di volerlo sfruttare fino in fondo «perché, anche così, credo si possano combattere le organizzazioni criminali». Senza nascondersi e senza eludere le domande dei lettori, che in fondo «sono quelli che hanno innescato il mio successo anche nella lotta alle organizzazioni criminali», Saviano ha dato prima la sua opinione sul dibattito di questi giorni su sicurezza e immigrazione: «È sbagliato, anzi, è una fesseria enorme pensare che la comunità migrante sia una comunità di criminali».

Davanti a oltre 600 persone, divise in cinque sale, ma altrettante sono quelle rimaste fuori, Saviano ricorda l'Italia dei primi anni del '900, un'Italia che proprio grazie a quelle esperienze «ha imparato ad essere aperta, solidale e tollerante». Un Paese che quindi, «non permetterà che accada agli immigrati ciò che ha provato sulla propria pelle», dice tra gli applausi. Che aumentano quando Saviano ricorda che, oltretutto, «le uniche due rivolte contro le organizzazioni criminali sono state fatte da africani a Castel Volturno e a Rosarno», per cui non solo gli immigrati «vengono a fare il lavoro che gli italiani non vogliono più fare ma vengono anche a difendere i diritti in cui gli italiani non credono più».

Saviano ricorda come il suo successo è dovuto proprio alla «letteratura: è questo ciò che ha davvero dato noia ai boss», aggiunge, ma poi si ferma quando Federica, una studentessa napoletana da 5 anni a Pisa, parente di un avvocato ucciso nel dicembre scorso, gli confessa la sua intenzione di non tornare più nella sua città. «Il diritto alla felicità è legittimo», risponde lo scrittore alla ragazza citando la Costituzione americana, ma a lui, invece, pesa il non poter tornare nel suo paese, perché «qualcuno è convinto che ho messo in cattiva luce il Sud. Non è così, ma certo questo è l'errore più grosso che è stato fatto nei miei confronti». 
 
da ilmessaggero.it


Titolo: SAVIANO Ora salgo sul palco e vado in scena sono stanco della mia solitudine
Inserito da: Admin - Maggio 29, 2009, 03:12:27 pm
Dal 6 all'8 ottobre e a febbraio lo scrittore sarà al Piccolo di Milano con "La bellezza e l'inferno"

"Dopo Gomorra, le minacce, la scorta mi sono convinto che vale la pena parlare"

"Ora salgo sul palco e vado in scena sono stanco della mia solitudine"

di ROBERTO SAVIANO


 Ho scelto di raccontare sul palcoscenico del Piccolo di Milano quello che mi è capitato in questi tre anni. Lo faccio attraverso il teatro perché sono stanco di tanta solitudine, perché vorrei provare ad avere un rapporto diretto con i miei lettori. Voglio che possano guardarmi e, soprattutto, vorrei io poter guardare loro.

Poter sentire il calore e la forza che ti dà uno sguardo. Poter condividere lo spazio della parola. Sentire e vedere dove arriva. A chi arriva. Per fare questo avevo bisogno della piattaforma più adatta a me come persona e come scrittore. Di un luogo pregno di storia eppure dinamico, di un luogo coraggioso nel suo poter diventare metaforico della comprensione del nostro tempo.

Tutto ciò che la mia vita è diventata dalla pubblicazione di Gomorra in poi, le minacce, la scorta, l'isolamento, la diffamazione, si sono rivelati il carburante e lo sprone che mi hanno convinto che vale la pena parlare, che la letteratura e l'arte non sono attività superflue, ma fondamentali e che soprattutto possono salvare la vita.

In questi anni mi sono accorto dell'enorme capacità che ha il teatro di difendere e rendere salda la comunicazione non costringendola al ritmo televisivo e tenendola al riparo dall'intrusione delle immagini. In qualche modo, mi sembrava capace di restituire quel che la televisione aveva sottratto: carne, parola viva e soprattutto, tempo di riflessione.

Tuttavia, non credo che tra televisione e teatro vi sia alcuna contrapposizione, anzi mi convinco sempre di più che debbano tornare a contaminarsi, o iniziare a farlo in modo totalmente nuovo. La televisione riappropriandosi di tempi più umani, il teatro della specifica funzione informativa che da sempre gli appartiene e che evidentemente manca altrove. Qualcuno definisce la forma di teatro che veicola informazioni "teatro civile". E gli attori e i registi si sentono spesso infastiditi da questa aggiunta. Io che non sono né attore né regista, ma che mi definisco, in questo senso, un abusivo del teatro, sono felice di poter praticare una forma di civiltà attraverso la parola portata sopra un palcoscenico.

Sono estremamente stimolato dalla prospettiva che il teatro possa essere un'alternativa, che possa non soltanto intrattenere e rappresentare, ma perfino informare, aggiornare. Nel mio sogno di uomo cresciuto nel sud Italia, il teatro continua a essere uno spazio della polis, uno spazio non a margine o al lato della vita quotidiana, inteso come una sottospecie di passatempo per colti, ma come una necessaria e unica opportunità di riappropriarsi dello spazio pubblico.
Da qui la collaborazione col Piccolo che è conseguenza di un'empatia fortissima nata con il suo direttore, Sergio Escobar, e con uno "spazio" che negli anni è riuscito a considerare la forma teatrale come una specie di sistema immunitario di cui il corpo sociale dispone per difendersi dagli attacchi alla dignità. Come se il teatro salvasse quanto di umano c'è ancora, e attraverso la parola, mezzo fortissimo e al tempo stesso fragile, permettesse di riconoscere chi ci assomiglia e di voler conoscere chi è diverso da noi.
Mi piace l'idea di poter parlare - nell'alchimia che si crea tra parola, palco e spettatore - di ciò che mi è accaduto negli anni di reclusione e isolamento. Di tutte le situazioni che ho vissuto, dei libri che ho letto e soprattutto delle persone che ho incontrato, che sono entrate a far parte della mia vita come sporadiche luci nei miei lunghissimi bui. Luci fatte, però, di talenti, deboli e forti, evidenti e nascosti, ma sempre grandi.

Raccontandoli, attraverso una forma che sento particolarmente congeniale, quella del monologo, potrò mostrare come la parola, da sola, possa rappresentare l'unica alternativa di resistenza in una vita blindata. E magari riuscirò anche a convincere il mio pubblico che il talento e la forza impegnata da Anna Politkovskaja, Miriam Makeba, dei pugili di Marcianise, di Lionel Messi, di Michel Petrucciani e di Enzo Biagi sia la forma attraverso cui la bellezza è capace di contrapporsi e resistere all'inferno.

Published by arrangement
with Roberto Santachiara Literary Agency


(29 maggio 2009)
da repubblica.it


Titolo: ROBERTO SAVIANO Il dramma del continente bianco
Inserito da: Admin - Luglio 05, 2009, 05:57:48 pm
5/7/2009 (0:58) - LA STORIA

Il dramma del continente bianco

ROBERTO SAVIANO

L'Africa oggi non è nera. L'Africa non è marrone, non è verde, non è gialla. L'Africa oggi non è l'ebano, non è il colore della pelle, non è il colore della savana o del deserto. L'Africa è bianca. Bianca non del colore della pelle dei vecchi discendenti dei boeri. Né dei Medici Senza Frontiere che l'attraversano. E neanche degli investitori. E' il bianco della cocaina il colore dell'Africa oggi.
Tutta l'Africa occidentale è ormai gonfia di cocaina e capitali del narcotraffico. Tutta la cocaina che entra in Spagna, Italia, Grecia, Turchia, Scandinavia, ma anche Romania, Russia, Polonia. Tutta quella polvere bianca passa per l'Africa. L'eroina è afgana. La coca sudamericana, certo. Ma ormai non è più il marchio iniziale l'aspetto determinante: l'origine della coltivazione, la pianta, la raffinazione. Ormai la coca è africana. L'Africa è il continente bianco.
In Guinea Bissau, il presidente Joao Viera, a sua volta arrivato al potere tramite un colpo di stato è stato ammazzato perché intralciava gli interessi dei narcos. Il presidente Vieria aveva percentuali sulle navi che arrivavano dal Sudamerica, aveva accordi con gli armatori e questo non andava più bene. Sono le vie aeree che dal 2006 in poi divengono uniche e necessarie. Partono dal Brasile, da Cuba, dal Messico, dal cuore della Colombia, dal sud del Venezuela. Nel 2004, gli Stati Uniti lanciarono la West Africa Joint Operation. Sequestrarono in pochi giorni di più di 1.300 kg di cocaina in Benin, Ghana, Togo e Capo Verde. Ora gli aeroporti sono dei narcos. Senza il loro danaro niente benzina per le compagnie aeree, niente danaro per le ditte di pulizia, niente controllori sulle torri. E dal cuore dell'Africa equatoriale tutto riparte o su gomma o nuovamente in aereo.
E' in Marocco che si stanno scontrando due generazioni. I vecchi trafficanti e i nuovi. Mahmud è un poliziotto marocchino da anni in Italia per salvarsi la vita, dopo un lungo periodo di infiltrazione nei cartelli dell'hascisc. Mi racconta che ha assistito a più incontri tra vecchi e giovani trafficanti. Tra i vecchi che trafficano hascisc e ragazzi che trafficano coca. I Mauritani portano i carichi dal Senegal e dai paesi equatoriani attraverso il deserto e li mollano ai marocchini che li stoccano nelle case vicino al porto. E dal porto poi arrivano alle varie rotte. Andalusia, Campania, Peloponneso, Calabria, Valona. In Marocco, mi racconta Mahmud, tutti i discorsi vanno nella stessa direzione. Me ne ricorda uno, solito, identico, sempre le stesse motivazioni e gli stessi litigi. "Noi non possiamo far passare la coca. Se passa la coca non passa più niente. Mandano l'esercito, ci mettono le bombe sulle spiagge" e quasi sempre in questo discorso i giovani dicono "se non lo facciamo noi lo fanno i libici, se non lo fanno i libici, lo fanno gli algerini." I trafficanti di hascisc sono da sempre tollerati. In fondo la loro droga non è aggressiva, li fa guadagnare bene ma non arricchirsi. L'economia marocchina si fonda soprattutto sull'hascisc. Senza hascisc, la borghesia commerciale non esisterebbe. La storia parte da lontano ed è sempre la stessa. I meccanismi dell'economia schiacciano le regole morali. E' sempre così. I boss di Cosa Nostra della vecchia generazione non volevano vendere eroina e furono massacrati dalle nuove generazioni di mafiosi che decisero di gettarsi in quell'affare. Le famiglie Casalesi non volevano entrare nel mercato del traffico dei rifiuti tossici che avrebbero distrutto gran parte del loro territorio. Ma si accorsero che rifiutando un business importante, diventi immediatamente fragile, perdente. E così, alla fine abbracciarono il mercato.
L'Africa è bianca. Bianca di coca. E anche i trafficanti di eroina iraniani e afgani vogliono l'Africa come snodo centrale dei loro commerci. E così all'andata si trasporta coca e al ritorno si trasporta eroina in Sudamerica e da lì in Usa, rotta che per ora non ha raggiunto ancora la mole del traffico di coca in Africa. L'Africa oggi è un continente in grado di risolvere le contraddizioni per i trafficanti di coca, di eroina e anche di rifiuti tossici. E questo fiume di droga sta pure facendo incredibilmente aumentare i tossicodipendenti africani. Drogati, tossici, cocainomani in un continente sempre associato alla miseria e alla fame, è un paradosso che dice molto. Diamanti, Avorio, Ebano, Coltan e ogni altra riscorsa tratta dalla terra d'Africa hanno generato soprattutto sangue e non ricchezza. Ma ora le sostanze importate, la coca e i rifiuti tossici, stanno trasformando l'Africa. Ora il suo enorme spazio diviene la sua ricchezza. Non più -o meglio- non soltanto la risorsa saccheggiata, il petrolio succhiato, i diamanti strappati, l'oro estirpato. Ogni foro diventa spazio per intombare rifiuti tossici e l'Africa intera una tomba a cielo aperto, visibile solo quando accadono tragedie. Il 19 agosto del 2006 ad Abdijan in Costa d'Avorio la nave Probo Koala attraccò nel porto autorizzata a scaricare 581 tonnellate di rifiuti tossici in un'unica discarica. Invece i barili di sostanze pericolose si moltiplicarono, finendo per debordare nei territori vicini. Restarono intossicate 85mila persone. Come è successo in Italia, i rifiuti tossici invadono le discariche. I veleni finiscono dove dovrebbero andare i rifiuti ordinari e i rifiuti ordinari finiscono nelle strade. Come è successo in Italia, però su scala infinitamente superiore, perché l'Africa non è una parte di una piccola nazione, ma un continente.
Per cominciare ad emergere, il continente nero ha puntato su una merce che non nasce nelle sue miniere, che non cresce nei suoi campi. Ecco perché l'Africa è divenuta bianca. Bianca di una sostanza che non le appartiene, di un potere che la divora, ancora una volta incapace di creare sviluppo, ma solo esponenziale ricchezza per la sua sempiterna classe dirigente corrotta. L'Africa è divenuta uno scalino, uno scalino bianco su cui far fare il salto finale alle sostanze illegali. La dannazione africana non sono più quindi le sue risorse ma anche - e questo suona ancora più terribile - la sua assenza di giustizia, la possibilità di comprare con pochi dollari anime corpi e ferocia dei suoi abitanti, e la sua terra, il suo corpo, i suoi spazi. Se esiste un cuore di tenebra, oggi, come quello di cui narrava Joseph Conrad, questo cuore potrebbe essere sepolto nelle profondità di un suolo avvelenato. Ma il suo colore, la sua sostanza, il suo sangue, sarebbe bianco.
 
© 2009 Roberto Saviano/pubblicato su licenza di Roberto Santachiara agenzia letteraria

da lastampa.it


Titolo: ROBERTO SAVIANO perché Pecorella infanga don Peppe Diana?
Inserito da: Admin - Agosto 01, 2009, 03:58:43 pm
LA POLEMICA

Saviano: perché Pecorella infanga don Peppe Diana?


di ROBERTO SAVIANO


MI è capitato nella vita di fare pochissimi giuramenti a me stesso. Uno di questi, che non riuscirei a tradire se non vergognandomi profondamente, è difendere la memoria di chi nella mia terra è morto per combattere i clan. Ho giurato a me stesso sulla tomba di Don Peppe Diana il giorno in cui alcuni cronisti locali, alcuni politici e diversa parte di quella che qualcuno chiama opinione pubblica iniziarono un lento e subdolo tentativo di delegittimarlo.

Il venticello classico di certe parti d'Italia che calunnia ogni cosa che la smaschera; il tentativo di salvare se stessi dalla scottante domanda "perché io non ho mai detto o fatto niente?". Ho letto in questi giorni sulla rivista Antimafia Duemila che due ragazzi, Dario Parazzoli e Alessandro Didoni, hanno chiesto durante una trasmissione Tv a Gaetano Pecorella come mai, quando era presidente della commissione giustizia, difendeva al contempo il boss casalese egemone in Spagna Nunzio De Falco, poi condannato come mandante dell'omicidio di Don Peppe Diana. Mi ha colpito e ferito sentire alcune dichiarazioni dell'Onorevole Pecorella in merito all'assassinio di Don Peppe Diana. In una intervista al giornalista Nello Trocchia per il sito Articolo 21, Pecorella dichiara: "Io dico che tra i moventi indicati, agli atti del processo, ce ne sono tra i più diversi. Nel processo qualcuno ha parlato di una vendetta per gelosia, altri hanno riferito che sarebbe stato ucciso perché si volevano deviare le indagini che erano in corso su un altro gruppo criminale. E altri hanno riferito anche il fatto che conservasse le armi del clan. Nessuno ha mai detto perché è avvenuto questo omicidio, visto che non c'erano precedenti per ricostruire i fatti. Se uno conosce le carte del processo, conosce che ci sono indicate da diverse fonti, diversi moventi".

Proprio leggendo le carte si evince chiaramente che non è così, Onorevole Pecorella. Perché dice questo? È vero esattamente il contrario. Dalle carte del processo emerge invece che è tutto chiaro. E pure la sentenza della Corte di Cassazione del 4 marzo 2004 conferma che Don Peppe è stato ucciso per il suo impegno antimafia e per nessun'altra ragione. Che De Falco (di cui lei, Onorevole, ha assunto la difesa) ha ordinato l'uccisione di Don Peppe per dimostrare, uccidendo un nemico in tonaca, un nemico senza armi, che il suo gruppo era più forte e coraggioso di quello di Sandokan. E anche per deviare la pressione dello Stato proprio sul clan Schiavone. Quelli che lei definisce più volte "moventi indicati" furono, come dimostrano le sentenze, delle calunnie che alcuni camorristi portarono per lungo tempo in sede processuale per discolparsi. Calunnie nate dal fatto che persino loro cercavano di lavarsi le mani, in buona o cattiva fede, del sangue innocente che avevano versato. Ne avevano vergogna. Questo è quel che dicono gli iter conclusi della giustizia italiana. Ed è per questo che la risposta che l'Onorevole Pecorella ha dato appena qualche giorno fa alla domanda se Don Diana, a suo avviso, non fosse stato ucciso per il suo impegno contro i clan lascia basiti.

L'onorevole dice: "Io non ho avvisi. Io riporto quello che è emerso nel processo e nulla più. Ci sono diversi moventi, c'è anche quello, che all'inizio non era emerso, che faceva attività anticamorra. Per la verità nel processo non è venuto fuori molto chiaro neanche questo come movente. È inutile che costruiamo delle fantasie sulle ipotesi. Quella dell'impegno anticamorra è tra le ipotesi. Ma nel processo non è emerso in modo clamoroso, non è mai venuta fuori un'attività di trascinamento, di gente in piazza. Non è che c'erano state manifestazioni pubbliche, documenti. Qualcuno ha detto anche questa ragione. Come vede ci sono tanti moventi. Certamente è stato ucciso dalla camorra. Chi viene ucciso dalla camorra è una vittima della camorra. Ora se è un martire bisogna capirlo dal movente che non è stato chiarito".

È stato chiarito. Lo Stato Italiano considera Don Peppe un martire della battaglia antimafia, migliaia di persone hanno sfilato in sua difesa. E i documenti che non ci sarebbero, ci sono eccome. Hanno non solo un nome, ma anche un titolo: "Per amore del mio popolo non tacerò". È il documento stilato da Don Peppe insieme ad altri preti della forania di Casal di Principe in cui viene annunciata una battaglia pacifica, ma priva di compromessi alle logiche dei clan, al loro predominio, alla loro mentalità, alla loro cultura, alla loro falsa aderenza alla fede cristiana. Persino Papa Giovanni Paolo II, dopo la morte di Don Peppino Diana, pronunciò nell'Angelus: "Voglia il signore far sì che il sacrificio di questo suo ministro [...] produca frutti [..]di solidarietà e di pace". Per Giovanni Paolo non ci furono dubbi, fu un martire. Per Lei, Onorevole Pecorella, invece ce ne sono. Perché, mi chiedo?

Le chiedo inoltre se considera legittimo rivestire il ruolo di Presidente della Commissione Giustizia del Parlamento Italiano e portare avanti la difesa del boss Nunzio De Falco? Lei immagino mi risponderà di sì, che anche il peggiore dei presunti criminali, ne ha il diritto. Ma questo principio di garanzia vale soltanto fino al verdetto finale. Tale verdetto di colpevolezza del suo mandante è stato emesso e confermato. Quindi la prego di non diffondere falsi dubbi sulla condanna a morte di Don Diana. Chi ha ucciso Don Peppe Diana è uno dei clan più potenti e feroci d'Italia che ha ancora due latitanti, Iovine e Zagaria, liberi di investire, costruire, e portare avanti i loro affari.

Oggi, Onorevole Pecorella, lei è presidente della commissione d'inchiesta sui rifiuti, e i Casalesi, come saprà, sono i maggiori affaristi nel traffico di rifiuti tossici e legali. Loro quindi dovrebbero essere i suoi maggiori nemici anche se in passato ha difeso in sedi processuali i loro capi. La prego di avere rispetto per Don Peppe e non dare nuovamente credito a calunnie che negli anni passati killer e mandanti hanno cercato di riversare su una loro vittima innocente. Questa mia domanda non è questione di destra o di sinistra. La legalità è la premessa del dibattito politico, o almeno dovrebbe esserlo. La premessa e non il risultato. Quando iniziai a trascrivere delle parole che Don Peppe aveva detto nel Casertano ho ricevuto lettere commosse da molti lettori conservatori, da cattolici di Comunione e Liberazione sino ai ragazzi della Comunità di Sant'Egidio, dalla comunità ebraica romana e da tante altre.

La battaglia alle organizzazioni criminali, l'ho vista fare da persone di ogni estrazione politica e sociale. Ho visto, quando ero bambino, manifestazioni nei paesi assediati dalla camorra in cui sfilavano insieme militanti missini, democristiani, comunisti e repubblicani. L'onestà non ha colore, spesso così come non ne ha l'illegalità. Per questo, il mio non è un appello che possa essere ascritto a una parte politica. Non permetterò mai a nessuno, e come dicevo me lo sono giurato, che la memoria di Don Peppe sia oltraggiata da accuse false, demolite dai Tribunali, che ebbero il solo scopo di screditare le sue parole, emettendo nel silenzio il ronzio malefico "quello che dice non è vero". Questo non lo permetterò. Lei mi dirà che questa mia è una battaglia troppo personale. Io le ribadirei che, sì, lo è, è vero. Tutto ciò che riguarda la mia terra, ormai riguarda la mia vita stessa e quindi non può che essere personale. Difendere la memoria di Don Peppe Diana è una questione personale anche per un'altra ragione: è una questione di onore. Onore è una parola che spesso hanno abusivamente monopolizzato le cosche facendola diventare sinonimo del loro codice mafioso. Ma è il tempo di sottrarla alle loro grammatiche. Onore è il sentire violata la propria dignità umana dinanzi a un'ingiustizia grave, è il seguire dei comportamenti indipendentemente dai vantaggi e dagli svantaggi, è agire per difendere ciò che merita di essere difeso. E io l'onore, l'ho imparato qui a Sud. Per meglio spiegarmi, mi sovvengono le parole di Faulkner: "Tu non puoi capirlo dovresti esserci nato. In realtà essere del Sud è una cosa complessa. Comporta un'eredità di grandezza e di miseria, di conflitti interiori e di fatalità, è un privilegio e una maledizione. Vi è il senso aristocratico dell'onore e dell'orgoglio". Mi piacerebbe poter mettere una parola definitiva su questo. Su quanto accaduto a don Peppe. Permettere di farlo riposare in pace. Riposare in pace significa non chiamarlo in causa laddove non può difendersi. A volte, come accade a molti miei compaesani per cui conserva il suo valore, mi viene di rivolgermi a lui. Don Peppe se è vero che tu hai visto la fine della guerra, perché, come dice Platone, solo i morti hanno visto la fine della guerra, sta a noi vivi il compito di continuare a combatterla. E non ci daremo pace.

(Published by arrangement with Roberto Santachiara Literary Agency)
 
(1 agosto 2009)


Titolo: L'Italia difenda don Diana. Scout, cattolici e tutti i partiti lo ricordino ...
Inserito da: Admin - Agosto 03, 2009, 03:33:47 pm
Lo scrittore dopo la polemica scatenata dal presidente della commissione ecomafie

"Sarebbe bello che il paese proteggesse la sua memoria senza divisioni "

Pecorella, l'appello di Saviano

"L'Italia difenda don Diana""Scout, cattolici e tutti i partiti lo ricordino come nemico dei clan"

di ALBERTO CUSTODERO


ROMA - "Sarebbe bello se il Paese difendesse la memoria di don Diana, senza divisioni". Lo scrittore Roberto Saviano lanciando un appello interviene nella polemica divampata dopo che Gaetano Pecorella, presidente della commissione Ecomafie (ed ex legale, 12 anni fa, di Nunzio De Falco, condannato in Appello come mandante dell'omicidio del sacerdote), aveva messo in dubbio che il prete ucciso dalla camorra fosse un "martire". "Prima - aveva detto il deputato Pdl - va chiarito il movente del suo delitto".

Il religioso, sostiene lo scrittore, "è stato ucciso per il suo impegno contro i clan. Ribadirlo significa ribadire che l'Italia è sulle figure come quella di Don Peppe che fonda la fiducia nella possibilità di cambiamento e nel sogno di giustizia. Sarebbe bello che da destra a sinistra tutti si sentissero orgogliosi di essere italiani perché lo era don Peppe. Il suo ricordo e difesa prescindono dalle divisioni politiche. Sarebbe bello se scout, associazioni, e tutti i presenti durante la sua vita ricordassero quanto ha fatto. E cancellassero per sempre ogni ombra che da anni la camorra staglia sulla sua memoria".

Mentre Pecorella ritiene di essere "caduto in un tranello studiato a tavolino" perché "dà fastidio che la Commissione Ecomafie abbia denunciato il pericolo che nei prossimi anni il Lazio resti ingovernabile sotto il profilo dello smaltimento dei rifiuti", ad attaccare l'ex avvocato di Silvio Berlusconi è Sonia Alfano, Idv, presidente dell'Associazione vittime di mafia. "Quelle di Pecorella - dice - sono dichiarazioni disgustose con lo scopo d'infangare la memoria del pastore che osò sfidare la camorra a viso aperto".

Per il capogruppo pd all'Antimafia, Laura Garavini, "diffondere insinuazioni è una sporca strategia che conosciamo troppo bene da parte di certi personaggi. Se tutti fossero come don Diana, l'Italia sarebbe un altro Paese". Raffaele Cantone, ex pm della Dda di Napoli (fece condannare De Falco per aver ordinato l'omicidio del killer del fratello), apprezza "la generosità con la quale Saviano difende la memoria di don Diana, martire per aver dato una svolta alla chiesa campana nella lotta alla camorra". Non crede "che si possa equiparare l'avvocato con il cliente che difende".

Ritiene, Cantone, che "si può porre il problema di opportunità per l'avvocato che difende posizioni particolari quando assume cariche pubbliche di rilevante imparzialità". Piergiorgio Morosini, della giunta Anm, invita "alla massima prudenza quando un personaggio pubblico commenta omicidi di mafia perché certe dichiarazioni potrebbero nel mondo criminale delegittimare chi ha preso il testimone di don Diana". Getta acqua sul fuoco, infine, il Procuratore nazionale antimafia, Pietro Grasso, per il quale la polemica Saviano-Pecorella su don Diana "è una tempesta in un bicchiere d'acqua".

(3 agosto 2009)
da repubblica.it


Titolo: ROBERTO SAVIANO pensa a Giuseppe Fava...
Inserito da: Admin - Agosto 12, 2009, 03:24:46 pm
SPETTACOLI & CULTURA     

Il racconto dell'autore in un articolo scritto per "The Times"

"Se vedo il libro in vetrina guardo da un'altra parte"

Saviano: "La verità è che ora odio gomorra"
 

di SIMONETTA FIORI

"I hate Gomorra, I abhor it". Odio Gomorra, lo detesto con tutto il cuore. Roberto Saviano ha scelto un giornale inglese per confessare una verità semplice, ma finora indicibile: lo scrittore odia il suo capolavoro, liquidato come "libro maledetto", "eterna spina nel fianco". Gomorra l'ha condannato all'esilio, a un'esistenza spezzata, spogliata di affetti e di libertà, della meravigliosa routine quotidiana, del mare e della neve, di una casa normale, di una pizza la sera con gli amici. Una "vita di merda", scrive Saviano. Un sentimento legittimo - quello espresso dallo scrittore da tre anni costretto a muoversi sotto scorta - ma finora sottaciuto per non deludere le pletore di adoratori, alla ricerca di martiri ed eroi. "Ora sono maturi i tempi", scrive sul Times, "e rivendico il diritto di rivelare il mio rimpianto, pensando con nostalgia a quando ero un uomo libero". Io odio Gomorra.

E' la prima volta che Saviano si lascia andare con tale amarezza su quel suo libro che gli ha procurato fama e successo (traduzioni in quaranta paesi), ma anche una esistenza d'inferno. I due milioni di copie vendute? "C'è poco da festeggiare". Sottile la descrizione della macchina mediatica, ansiosa nella ricerca di eroi, ma non sempre compatta nel difenderli.

E' anche per non deludere i suoi lettori, gli zelanti intervistatori che gli domandano "Ti sei pentito d'averlo scritto?", che Saviano finora se l'è cavata con una risposta ambivalente. "Mi sono pentito come uomo, non certo come scrittore", ama ripetere nei suoi incontri pubblici. "Rispondo in questo modo per dimostrare che mi è rimasto un brandello di responsabilità civile", ci spiega ora dalle colonne del Times. Ma la verità è un'altra. "Quando passo davanti a una libreria e vedo Gomorra in vetrina, mi volto da un'altra parte". Odio e basta.

Questo Saviano finora non l'ha potuto dire, per timore di un rifiuto, di "facce mortificate e colme di disappunto". Lo scrittore sentiva il dovere di difendere l'immagine del combattente granitico, capace di "sopportare il sacrificio in silenzio", pronto nonostante tutto a riscrivere mille volte quel suo "dannato" capolavoro. Invece la verità è più semplice, quella di un ragazzo non ancora trentenne che aspira a una vita normale, a guardare il mare o a provare l'ebbrezza di vagabondare senza meta. Ti sei pentito? La risposta è un secco sì. Se avesse saputo a cosa andava incontro, Saviano un libro come Gomorra non l'avrebbe mai scritto. "Ma rimane il fatto che l'ho scritto, e ora ne pago il prezzo per ogni giorno della mia vita".

Una vita in fuga, ogni minuto sotto sorveglianza, spesso in appartamenti bui, soffocanti, senza balconi né verande, il più delle volte relegati in periferia. Impensabile una collocazione in centro, con due automobili blindate e cinque uomini della scorta. "Da tre anni la mia casa è solo una valigia", scrive Saviano, "e una borsa con libri e computer". Unico sollievo, la solidarietà dei suoi lettori. E di scrittori perseguitati come Salman Rushdie, prodigo di suggerimenti su come difendersi dall'intolleranza di chi per paura non vuole condividere neppure un volo in aereo. "Chiama il giornale più importante di quella città e denuncia la compagnia aerea che ti respinge: subito saranno ai tuoi piedi". Consiglio seguito con successo.

Figlio di mamma meridionale, premurosa e soccorrevole come vuole tradizione, lo scrittore confessa i suoi esordi impacciati nelle faccende di casa, stiro e naturalmente cucina. Evoca con tenerezza una donna che a Napoli aveva preso l'abitudine di suonare alla sua porta per consegnargli pietanze prelibate, "del genere di quelle cucinate dalle madri per i figli soldati". Uova con parmigiano, costolette di agnello, talvolta mozzarella di bufala o dolci fatti in casa. "Soltanto guardare quei piatti mi faceva sentire a casa". Un incanto culinario bruscamente interrotto dall'ordine di partire per altra destinazione.

Severo è il giudizio sul paese in cui gli è toccato in sorte di nascere, "dove la verità ha cessato di esistere". Più della morte, Saviano teme la devastante attività di disinformazione promossa dai poteri criminali. In particolare dalla camorra, che è già all'opera per infangarne il nome, per insozzarne la credibilità e tutto quello per cui finora ha vissuto. Una campagna diffamatoria che ha già avuto le sue vittime in Peppino Diana, Federico Del Prete, Salvatore Nuvoletta. Una cascata di fango che rischia di ottundere anche gli organi di informazione. "Non appena la stampa nazionale ti mostra attenzione, cominciano a circolare sul tuo conto pettegolezzi e storie equivoche. Il fatto è che sei colpevole finché non dimostri il contrario. Allora i media si tirano indietro, come lumache nel loro guscio". Il suo incubo è questo, non una pallottola criminale: essere sporcato dalla camorra, non essere più capace di difendersi, "difendere soprattutto le mie parole".

(12 agosto 2009)
da repubblica.it


Titolo: ROBERTO SAVIANO ieri a Cinisi davanti alla tomba di Peppino Impastato
Inserito da: Admin - Agosto 27, 2009, 04:23:36 pm
 27/8/2009 (7:33)  - IN PELLEGRINAGGIO SUI LUOGHI DEI «CENTO PASSI»

Saviano, la memoria per battere le mafie

Roberto Saviano ieri a Cinisi davanti alla tomba di Peppino Impastato
   
Lo scrittore simbolo della resistenza alla camorra sulla tomba di Impastato, ucciso da Cosa nostra

FRANCESCO LA LICATA
CINISI (Palermo)


Immobile, in piedi davanti alle tombe di Peppino Impastato e della sua straordinaria madre, Felicia, Roberto Saviano guarda fisso la foto del «militante comunista» ucciso dalla mafia (per la verità le parole esatte scolpite sul marmo recitano: «mafia democristiana»). Guarda anche il sorriso di Felicia Bartolotta, morta a 88 anni, gran parte dei quali spesi a cercare la condanna per don Tano Badalamenti, il boss dei Centi passi. Tanta era la distanza che separava le abitazioni dei due grandi nemici: Peppino, appunto, e don Tano.

Sembra davvero conquistato, lo scrittore. Posa lo sguardo sui bigliettini lasciati dalle centinaia di giovani che ancora oggi, a più di trent’anni dall’assassinio, vengono a Cinisi e, prima di qualunque divagazione turistica, si fermano al cimitero per lasciare un pensiero dedicato al ragazzo che rifiutò, fino al sacrificio finale, la cultura mafiosa del padre. Avversato dall’intero paese, ma non dalla sua «madre coraggio» che lo protesse finché potè e, quando glielo strapparono con una bomba, non finì di battersi a fronte alta. Fino a quando, quattro anni fa, chiuse gli occhi appagata per aver sentito la Corte d’Assise pronunciare la formula di condanna per Badalamenti.

Si guarda intorno, Roberto Saviano. Nota che il cancelletto della «gentilizia» di famiglia è senza lucchetto e si rivolge a Giovanni, fratello di Peppino: «Sta sempre aperto, questo luogo?». «Sempre», è la risposta di Giovanni, «come “Casa Memoria” in paese, la casa dei Cento passi che Felicia ha voluto fosse trasformata in un luogo aperto a tutti. In una difesa perpetua del ricordo di Peppino, che avevano cercato di far passare per terrorista uccidendolo con una bomba». E Saviano: «È un messaggio importantissimo, perché oltre all’esercizio della memoria - che la mafia, tutte le mafie vorrebbero cancellare - si trasmette il senso del coraggio della verità. Chi combatte per una causa giusta può guardare dritto negli occhi gli avversari, non ha bisogno di celarsi dietro lucchetti e chiavistelli; sono loro, i mafiosi, a cercare il buio e il silenzio omertoso. E questo vale per la Sicilia come per la Campania e per tutto il nostro martoriato Sud».

È una presenza significativa, quella di Saviano a Cinisi. Lo scrittore che con il suo bestseller Gomorra è divenuto il simbolo della resistenza alla camorra campana ha accettato di venire a presentare il libro scritto da Giovanni Impastato con Franco Vassia (Resistere a Mafiopoli, ed. Stampa Alternativa). Ha accettato l’invito anche il Procuratore nazionale antimafia, Piero Grasso, felicissimo di contribuire a quella difesa della memoria, ormai patrimonio collettivo della resistenza alla mafia.

Sulla tutela dell’«onore» dei caduti nella lotta alle mafie Saviano non si è risparmiato. Lo ha fatto di recente, insorgendo in difesa della onorabilità di don Peppe Diana, che l’avv. Gaetano Pecorella - parlamentare presidente della commissione Ecomafie - stentava a riconoscere come vittima della camorra. «Quella della diffamazione delle vittime - chiarisce Saviano - è una delle peggiori ingiustizie che si possano subire. Più ancora della privazione della vita. La distruzione del ricordo di un uomo onesto serve a giustificare l’omicidio, a convincere i cittadini-spettatori che la mafia uccide solo “chi se lo merita”. È un messaggio culturalmente devastante, un metodo che ha contribuito al radicamento del vivere mafioso in gran parte del Sud Italia».

Si accalora, Saviano, quando tocca questi temi. Tanto da suscitare il sospetto di un coinvolgimento personale. Ancora la vicenda Pecorella? «Non ci penso più: le scuse fatte pervenire ai familiari di don Peppe mi rasserenano sul fatto che quella polemica andava sollevata, soprattutto in difesa di una “verità” che non è vero fosse ancora aperta, come sosteneva il parlamentare, ma era già codificata in più d’una sentenza».

Lo scrittore si concede una pausa, poi riprende: «No, non difendo una mia personale presa di posizione, sento semmai l’esigenza di non indietreggiare di fronte all’aggressione e al furto della memoria. Bisogna far sentire la propria presenza, devono sapere che noi ci siamo e restiamo vigili ad arginare i “venticelli” di una certa Italia e i giochi sporchi di politici, sedicenti cronisti e pseudo opinione pubblica, tutti pronti alla facile calunnia». E perché oggi a Cinisi? «Ho letto il libro di Giovanni, ho conosciuto la tenacia di Felicia: un esempio di dignità e di difesa dell’onore dei propri caduti. Sì, proprio onore: una parola che appartiene alla gente perbene e che, invece, è stata scippata e stravolta da questi maestri dell’inganno».

«Anche stamattina - prosegue - a Casa Memoria ho respirato l’aria buona di chi non si è arreso: i libri di Peppino, i testi di Pasolini, le foto, l’amore e il garbo con cui questi brandelli di memoria vengono conservati... Sono contento di essere stato qui». Ma non è che Saviano abbia già sentito attorno a sé lo spiffero di qualche “venticello”? «Non mancano le accuse di protagonismo, a Napoli mi gridano contro “ti sei fatto i soldi”, oppure “la scorta te la paghiamo noi, sai?”, o anche “perché non vai in tv a infangarci ancora?”». Ancora ironia sulla sovraesposizione mediatica. Ma a rasserenare Saviano ci pensa Giovanni Impastato: «Robbè, futtitinni che ti dicono che sei mediatico. Vai in tv, tieni alta la luce su di te».

da lastampa.it


Titolo: ROBERTO SAVIANO "Non si possono fermare le domande".
Inserito da: Admin - Settembre 07, 2009, 10:51:45 am
L'appello della scrittore. "Mi rivolgo anche a chi ha eletto democraticamente questo governo e ha una coscienza"

Saviano agli elettori del centrodestra: "Serve uno scatto di coscienza"

"Non si possono fermare le domande".

Solo chi le accetta aiuta a costruire la società in cui vogliamo vivere


dal nostro inviato WANDA VALLI


SARZANA (GENOVA) - "Non si possono fermare le domande", sono l'unico modo di una società civile, che crede nella legalità e nella giustizia, per ottenere risposte. Roberto Saviano, ieri a Sarzana, è accolto tra gli applausi al Festival della Mente. E si rivolge così agli elettori di centrodestra. A quelli, "che hanno eletto democraticamente questo governo", a quelli, aggiunge, e sono tantissimi "che hanno scritto per manifestarmi solidarietà". A loro rivolge un appello e confessa di avere un sogno.

"La parte sana di loro, che ha una coscienza, credo abbia molti dubbi su quanto sta accadendo oggi in Italia, perché sa che solo attraverso le domande puoi arrivare a uno scatto di coscienza". E, aggiunge, chi "accoglie le domande non fa altro che difendere, aiutare la società in cui vogliamo vivere". Riprende una frase dello scrittore Eduardo Galeano "peccato, ora che avevamo le risposte sono finite le domande", per ribadire che il cammino della civiltà è costruito su dubbi, dialogo, spiegazioni. E domande "che si possono porre o meno", ma che devono trovare una risposta da quelli a cui sono destinate. È il dialogo della democrazia, è il modo per "aiutare i giovani che credono nella legalità e nella giustizia", perché non perdano la speranza sul futuro. E poi cita di nuovo lo scrittore uruguaiano per sottolineare il suo appello. Lo applaudono i mille e duecento che hanno fatto la fila per ascoltarlo, per capire di che cosa parla il suo libro "La bellezza e l'infanzia" - che è venuto a presentare -, per sentire come vive un ragazzo di trent'anni che ha denunciato i riti di morte della mafia, della 'ndrangheta e della camorra. E da allora è prigioniero.

La forza delle sue parole, del suo racconto, con "Gomorra", é arrivato al cuore di tanta gente. Per questa ragione, solo per questa, dice Saviano, mi hanno condannato. Per questo, è come un prigioniero, sorvegliato a vista, tenuto lontano da tutti. Ammette di vivere una doppia dimensione: quella pubblica, fatta di gente che lo incoraggia, lo stima, accorre a sentirlo o solo a salutarlo, come è capitato ieri con il giudice Gherardo Colombo, e quella privata. Confessa di sentirsi a volte "sconfortato" come uomo, ma senza pentimenti "riscriverei Gomorra", sottolinea. E ai giovani, soprattutto ai giovani del Sud, si rivolge per esortarli "a non dire sempre sì, a non accettare imposizioni". Ora Saviano vuole togliere alla mafia l'uso di alcune parole-simbolo: onore, famiglia, amicizia. Le hanno strumentalizzate, spiega, le hanno umiliate, ma l'onore è "qualcosa di nobile per cui in molti sacrificano la loro vita". Ricorda Anna Politovskaja, uccisa per aver svelato le atrocità commesse sui ceceni, ma anche Miriam Makeba: "l'hanno tenuta per trent'anni lontana dal Sud Africa, per una canzone che si chiamava "pata pata". Era semplice, allegra, ma faceva capire come volevano vivere, e divertirsi". E Miriam è stata cacciata via, "è venuta a morire in Italia, in un concerto a Castelvolturno contro le camorra".

Il monologo di Saviano è un lungo elenco di battaglie combattute e da vincere. Di accuse, anche, che gli piombano addosso: "sarà tutto vero o fingerà?". Era successo anche a Giovanni Falcone, dopo l'attentato a casa sua all'Addaura: "e lui aveva dato la risposta alla sorella, ci penserà la mafia a difendermi, quando mi ucciderà". La gente applaude, Saviano saluta con un verso della poetessa, premio Nobel, Szymborska: "Ascolta come mi batte il tuo cuore". Un verso d'amore "perché l'amore porta alla felicità e la felicità dà la voglia di vivere".

(7 settembre 2009)
da repubblica.it


Titolo: ROBERTO SAVIANO Quel sangue del Sud versato per il Paese
Inserito da: Admin - Settembre 19, 2009, 10:56:19 am
IL RACCONTO.

Nel momento della tragedia non possiamo non chiederci perché a morire sono sempre, o quasi sempre, soldati del Meridione

Quel sangue del Sud versato per il Paese

di ROBERTO SAVIANO


Vengo da una terra di reduci e combattenti. E l'ennesima strage di soldati non l'accolgo con la sorpresa di chi, davanti a una notizia particolarmente dolorosa e grave, torna a includere una terra lontana come l'Afghanistan nella propria geografia mentale. Per me quel territorio ha sempre fatto parte della mia geografia, geografia di luoghi dove non c'è pace. Gli italiani partiti per laggiù e quelli che restano in Sicilia, in Calabria o in Campania per me fanno in qualche modo parte di una mappa unica, diversa da quella che abbraccia pure Firenze, Torino o Bolzano.

Dei ventun soldati italiani caduti in Afghanistan la parte maggiore sono meridionali. Meridionali arruolati nelle loro regioni d'origine, o trasferiti altrove o persino figli di meridionali emigrati. A chi in questi anni dal Nord Italia blaterava sul Sud come di un'appendice necrotizzata di cui liberarsi, oggi, nel silenzio che cade sulle città d'origine di questi uomini dilaniati dai Taliban, troverà quella risposta pesantissima che nessuna invocazione del valore nazionale è stato in grado di dargli. Oggi siamo dinanzi all'ennesimo tributo di sangue che le regioni meridionali, le regioni più povere d'Italia, versano all'intero paese.

Indipendentemente da dove abitiamo, indipendente da come la pensiamo sulle missioni e sulla guerra, nel momento della tragedia non possiamo non considerare l'origine di questi soldati, la loro storia, porci la domanda perché a morire sono sempre o quasi sempre soldati del Sud. L'esercito oggi è fatto in gran parte da questi ragazzi, ragazzi giovani, giovanissimi in molti casi. Anche stavolta è così. Non può che essere così. E a sgoccioli, coi loro nomi diramati dal ministro della Difesa ne arriva la conferma ufficiale. Antonio Fortunato, trentacinque anni, tenente, nato a Lagonegro in Basilicata. Roberto Valente, trentasette anni, sergente maggiore, di Napoli. Davide Ricchiuto, ventisei anni, primo caporalmaggiore, nato a Glarus in Svizzera, ma residente a Tiggiano, in provincia di Lecce. Giandomenico Pistonami, ventisei anni, primo caporalmaggiore, nato ad Orvieto, ma residente a Lubriano in provincia di Viterbo. Massimiliano Randino, trentadue anni, caporalmaggiore, di Pagani, provincia di Salerno. Matteo Mureddu, ventisei anni, caporalmaggiore, di Solarussa, un paesino in provincia di Oristano, figlio di un allevatore di pecore. Due giorni fa Roberto Valente stava ancora a casa sua vicino allo stadio San Paolo, a Piedigrotta, a godersi le ultime ore di licenza con sua moglie e il suo bambino, come pure Massimiliano Radino, sposato da cinque anni, non ancora padre.

Erano appena sbarcati a Kabul, appena saliti sulle auto blindate, quei grossi gipponi "Lince" che hanno fama di essere fra i più sicuri e resistenti, però non reggono alla combinazione di chi dispone di tanto danaro per imbottire un'auto di 150 chili di tritolo e di tanti uomini disposti a farsi esplodere. Andando addosso a un convoglio, aprendo un cratere lunare profondo un metro nella strada, sventrando case, macchine, accartocciando biciclette, uccidendo quindici civili afgani, ferendone un numero non ancora precisato di altri, una sessantina almeno, bambini e donne inclusi.

E dilaniando, bruciando vivi, cuocendo nel loro involucro di metallo inutilmente rafforzato i nostri sei paracadutisti, due dei quali appena arrivati. Partiti dalla mia terra, sbarcati, sventrati sulla strada dell'aeroporto di Kabul, all'altezza di una rotonda intitolata alla memoria del comandante Ahmad Shah Massoud, il leone del Panjshir, il grande nemico dell'ultimo esercito che provò ad occupare quell'impervia terra di montagne, sopravvissuto alla guerra sovietica, ma assassinato dai Taliban. Niente può dirla meglio, la strana geografia dei territori di guerra in cui oggi ci siamo svegliati tutti per la deflagrazione di un'autobomba più potente delle altre, ma che giorno dopo giorno, quando non ce ne accorgiamo, continua a disegnare i suoi confini incerti, mobili, slabbrati. Non è solo la scia di sangue che unisce la mia terra a un luogo che dalle mie parti si sente nominare storpiato in Affanìstan, Afgrànistan, Afgà. E' anche altro. Quell'altro che era arrivato prima che dai paesini della Campania partissero i soldati: l'afgano, l'hashish migliore in assoluto che qui passava in lingotti e riempiva i garage ed è stato per anni il vero richiamo che attirava chiunque nelle piazze di spaccio locali. L'hashish e prima ancora l'eroina e oggi di nuovo l'eroina afgana. Quella che permette ai Taliban di abbondare con l'esplosivo da lanciare contro ai nostri soldati coi loro detonatori umani.

E' anche questo che rende simili queste terre, che fa sembrare l'Afganistan una provincia dell'Italia meridionale. Qui come là i signori della guerra sono forti perché sono signori di altro, delle cose, della droga, del mercato che non conosce né confini né conflitti. Delle armi, del potere, delle vite che con quel che ne ricavano, riescono a comprare. L'eroina che gestiscono i Taliban è praticamente il 90% dell'eroina che si consuma nel mondo. I ragazzi che partono spesso da realtà devastate dai cartelli criminali hanno trovato la morte per mano di chi con quei cartelli criminali ci fa affari. L'eroina afgana inonda il mondo e finanzia la guerra dei Taliban. Questa è una delle verità che meno vengono dette in Italia. Le merci partono e arrivano, gli uomini invece partono sempre senza garanzia di tornare. Quegli uomini, quei ragazzi possono essere nati nella Svizzera tedesca o trasferiti in Toscana, ma il loro baricentro rimane al paese di cui sono originari. È a partire da quei paesini che matura la decisione di andarsene, di arruolarsi, di partire volontari. Per sfuggire alla noia delle serate sempre uguali, sempre le stesse facce, sempre lo stesso bar di cui conosci persino la seduta delle sedie usurate. Per avere uno stipendio decente con cui mettere su famiglia, sostenere un mutuo per la casa, pagarsi un matrimonio come si deve, come aveva già organizzato prima di essere dilaniato in un convoglio simile a quello odierno, Vincenzo Cardella, di San Prisco, pugile dilettante alla stessa palestra di Marcianise che ha appena ricevuto il titolo mondiale dei pesi leggeri grazie a Mirko Valentino. Anche lui uno dei ragazzi della mia terra arruolati: nella polizia, non nell'esercito. Arruolarsi, anche, per non dover partire verso il Nord, alla ricerca di un lavoro forse meno stabile, dove sono meno certe le licenze e quindi i ritorni a casa, dove la solitudine è maggiore che fra i compagni, ragazzi dello stesso paese, della stessa regione, della stessa parte d'Italia. E poi anche per il rifiuto di finire nell'altro esercito, quello della camorra e delle altre organizzazioni criminali, quello che si gonfia e si ingrossa dei ragazzi che non vogliono finire lontani.

E sembra strano, ma per questi ragazzi morti oggi come per molti di quelli caduti negli anni precedenti, fare il soldato sembra una decisione dettata al tempo stesso da un buon senso che rasenta la saggezza perché comunque il calcolo fra rischi e benefici sembra vantaggioso, e dalla voglia di misurarsi, di dimostrare il proprio valore e il proprio coraggio. Di dimostrare, loro cresciuti fra la noia e la guerra che passa o può passare davanti al loro bar abituale fra le strade dei loro paesini addormentati, che "un'altra guerra è possibile". Che combattere con una divisa per una guerra lontana può avere molta più dignità che lamentarsi della disoccupazione quasi fosse una sventura naturale e del mondo che non gira come dovrebbe, come di una condizione immutabile.

Sapendo che i molti italiani che li chiameranno invasori e assassini, ma pure gli altri che li chiameranno eroi, non hanno entrambi idea di che cosa significhi davvero fare il mestiere del soldato. E sapendo pure che, se entrambi non ne hanno idea e non avrebbero mai potuto intraprendere la stessa strada, è perché qualcuno gliene ne ha regalate di molto più comode, certo non al rischio di finire sventrati da un'autobomba. Infatti loro, le destinazioni per cui partono, non le chiamano "missione di pace".

Forse non lo sanno sino in fondo che nelle caserme dell'Afghanistan possono trovare la stessa noia o la stessa morte che a casa. Ma scelgono di arruolarsi nell'esercito che porta la bandiera di uno Stato, in una forza che non dispone della vita e della morte grazie al denaro dei signori della guerra e della droga. Per questo, mi augurerei che anche chi odia la guerra e ritiene ipocrita la sua ridefinizione in "missione di pace", possa fermarsi un attimo a ricordare questi ragazzi. A provare non solo dolore per degli uomini strappati alla vita in modo atroce, ma commemorarli come sarebbe piaciuto a loro. A onorarli come soldati e come uomini morti per il loro lavoro. Quando è arrivata la notizia dell'attentato, un amico pugliese mi ha chiamato immediatamente e mi ha detto: "Tutti i ragazzi morti sono nostri". Sono nostri è come per dire sono delle nostre zone. Come per Nassiriya, come per il Libano ora anche per Kabul. E che siano nostri lo dimostriamo non nella retorica delle condoglianze ma raccontando cosa significa nascere in certe terre, cosa significa partire per una missione militare, e che le loro morti non portino una sorta di pietra tombale sulla voglia di cambiare le cose. Come se sui loro cadaveri possa celebrarsi una presunta pacificazione nazionale nata dal cordoglio. No, al contrario, dobbiamo continuare a porre e porci domande, a capire perché si parte per la guerra, perché il paese decide di subire sempre tutto come se fosse indifferente a ogni dolore, assuefatto ad ogni tragedia.

Queste morti ci chiedono perché tutto in Italia è sempre valutato con cinismo, sospetto, indifferenza, e persino decine e decine di morti non svegliano nessun tipo di reazione, ma solo ancora una volta apatia, sofferenza passiva, tristezza inattiva, il solito "è sempre andata così". Questi uomini del Sud, questi soldati caduti urlano alle coscienze, se ancora ne abbiamo, che le cose in questo paese non vanno bene, dicono che non va più bene che ci si accorga del Sud e di cosa vive una parte del paese solo quando paga un alto tributo di sangue come hanno fatto oggi questi sei soldati. Perché a Sud si è in guerra. Sempre.

Published by arrangement with Roberto Santachiara Literary Agency

(18 settembre 2009)
da repubblica.it


Titolo: ROBERTO SAVIANO Lettera all'Italia infelice
Inserito da: Admin - Ottobre 15, 2009, 10:24:00 pm
Lettera all'Italia infelice

di Roberto Saviano

Ecco alcuni stralci del testo dello scrittore. L'intera lettera di Saviano è pubblicata su 'L'espresso' in edicola venerdì 16 ottobre
 

"Se la libertà è divenuto tema di dibattito continuo, quasi ossessivo in Italia vuole dire che qualcosa non funziona. Verità e potere non coincidono mai e quello che sta accadendo in questi giorni lo dimostra. Ci sono lezioni che non si imparano, disastri naturali che si ripetono come se la storia non ci avesse insegnato nulla e sacrifici di persone che hanno lottato per rendere questo Paese migliore che vengono dimenticati se non ignorati o peggio insultati. Qualcosa non funziona perché non si vuole capire quello che è accaduto e che quello che avviene tutti i giorni: non si racconta il presente, non si analizza il passato, tutto diventa polemica, dibattito sterile; tutto si avvita in un turbine di gelosie e di guerre tra bande. La folla di piazza del Popolo mi ha stupito, stordito, emozionato. Non sapevo cosa dire: quella che avevo davanti era una testimonianza incredibile, non ero più abituato a vedere tanti volti e tanto sole. Da quando tre anni fa sono stato messo sotto protezione e costretto a vivere con la scorta non avevo mai potuto sentire un vento di speranza così forte.

Alla gente in Italia non interessa la libertà di stampa, non si preoccupa per il fatto che sia stata offuscata e minacciata da quello che sta accadendo: la libertà di stampa non è importante perché non la si considera necessaria e utile al proprio quotidiano. Non capiscono quello che stanno rischiando, quanto possono perdere. Se ne accorgeranno solo quando riusciranno a vedere con occhi diversi e comprenderanno che oggi sulla maggioranza dei media la vita non viene raccontata ma rappresentata. Ricostruita secondo luci e dinamiche che la rendono finta. Verosimile ma lontana dal reale: come quelle foto ritoccate al computer per cancellare le imperfezioni, far sparire le rughe, il peso del tempo e gli acciacchi del divenire fino a rendere un'immagine diversa delle persone che così rinunciano persino a specchiarsi. Ci viene raccontata un'Italia allegra, il Paese del bel mangiare e delle belle donne. Ci viene imposto il modello di un Paese spensierato, in fila per partecipare alla fortuna milionaria delle lotterie e per vincere un posto in un reality show. Ma l'Italia oggi è profondamente infelice e triste. Vive nella cattiveria di una guerra per bande generalizzata, di un sistema animato dalle invidie. E la nostra percezione è così lontana dalla realtà da impedirci anche di renderci conto dell'infelicità. Ho sempre dentro il racconto di un immigrato africano che incontrai a Castel Volturno prima delle riprese del film "Gomorra": "La cosa che odio degli italiani è la loro gelosia, quell'invidia cattiva che hanno nei confronti di chiunque riesca ad ottenere qualcosa. Quando in Francia lavori molto, riesci a guadagnare e puoi comprarti una bella macchina, ti guardano riconoscendo il risultato. Dicono: "Quanto ha faticato per farcela". Invece quando in Italia ti vedono al volante della stessa auto senti subito che ti stanno dicendo "Stronzo bastardo". Non si pongono nemmeno la domanda su quanti sacrifici hai fatto, scatta subito una gelosia che si trasforma in odio. Questo accade solo nei paesi dove i diritti divengono privilegi, e quindi dove il nemico non è il meccanismo sociale che ha permesso questo, ma bensì chi riesce ad avere quel diritto. Una guerra tra vicini ignorando i responsabili del disastro. Questo si combatte solo raccontando quello che non va, perché solo raccontando la realtà di quest'Italia arida si potrà sconfiggere l'infelicità: la libertà di stampa è utile per essere felici".

"L'assenza di serenità ci porta a rinunciare alla libertà di stampa. Sapere che la replica al proprio "lavoro non sarà una critica, ma un'offesa o un attentato alla sfera privata spinge ad autocensurarsi, convince a non attaccare qualunque autorità, rende schiavi di ogni potere. Dopo l'editoriale di Augusto Minzolini sul Tg1 mi sono chiesto se si rendesse conto di quello che stava facendo. Avrei voluto dirgli che manifestare per la libertà di stampa significava manifestare anche per lui, anche per il suo futuro: un futuro in cui se si potrà ancora parlare del potere, se lo si potrà criticare è perché qualcuno ha lottato per renderlo possibile. Si è scesi in piazza anche per lui, perché lui domani possa continuare a dire quello che dice oggi anche se dovesse cambiare il potere che difende le sue parole".

"Fare il politico oggi nell'immaginario è fare il lavoro più semplice e comodo. Mi vengono alla mente le famiglie meridionali in cui il figlio più intelligente fa l'imprenditore e quello incapace il politico. Invece la politica dovrebbe essere una responsabilità pesante e difficile, un mestiere duro. Capisco il fastidio che può avere un politico a essere esaminato nella sua vita privata, ma questo è l'onere della sua missione, fa parte della democrazia. Oggi bisogna ricalibrare l'immaginario del politico, ritornare a una figura che fa una vita dura e poco divertente. La politica come servizio al Paese e ai cittadini, non come privilegio. La politica è vivere nella difficoltà. Penso al rigore morale di Enrico Berlinguer, Giorgio Almirante e Giorgio La Pira, restano figure di servizio alle istituzioni, nonostante i loro ideali e la loro fede religiosa.

Sono cresciuto al fianco di uomini di destra che non avrebbero mai sopportato questo clima di intimidazione e crudeltà, così come ormai la divisione e la rivalità sono così diffuse che impediscono alla sinistra ogni forma di aggregazione vera. Ogni possibilità di parlare al cuore delle persone. Oggi invece chi racconta cose scomode, chi descrive la realtà infelice dell'Italia viene accusato dalle massime autorità politiche di gettare discredito sul Paese agli occhi del mondo... Raccontare la realtà non significa infangare il proprio Paese: significa amarlo, significa credere nella libertà. Raccontare è l'unico dannato modo per iniziare a cambiare le cose".

Published by arrangement with Roberto Santachiara Literary Agency
(14 ottobre 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: ROBERTO SAVIANO Io, la mia scorta e il senso di solitudine
Inserito da: Admin - Ottobre 16, 2009, 12:31:41 pm
IL RACCONTO

Io, la mia scorta e il senso di solitudine

di ROBERTO SAVIANO


"LO VEDI, stanno iniziando ad abbandonarci. Lo sapevo". Così il mio caposcorta mi ha salutato ieri mattina. Il dolore per la protezione che cercano di farmi pesare, di farci pesare, era inevitabile. La sensazione di solitudine dei sette uomini che da tre anni mi proteggono mi ha commosso. Dopo le dichiarazioni del capo della mobile di Napoli che gettano discredito sul loro sacrificio, che mettono in dubbio le indagini della Dda di Napoli e dei Carabinieri, la sensazione che nella lotta ai clan si sia prodotta una frattura è forte.

Non credo sia salutare spaccare in due o in più parti un fronte che dovrebbe mostrarsi, e soprattutto sentirsi, coeso. Società civile, forze dell'ordine, magistratura. Ognuno con i suoi ruoli e compiti. Ma uniti. Purtroppo riscontro che non è così. So bene che non è lo Stato nel suo complesso, né le figure istituzionali che stanno al suo vertice a voler far mancare tale impegno unitario. Sono grato a chi mi ha difeso in questi anni: all'arma dei Carabinieri che in questi giorni ha mantenuto il silenzio per rispetto istituzionale ma mi ha fatto sentire un calore enorme dicendomi "noi ci saremo sempre".

Mi ha difeso l'Antimafia napoletana attraverso le dichiarazioni dei pm Federico Cafiero De Raho, Franco Roberti, Raffaele Cantone. Mi ha difeso il capo della Polizia Antonio Manganelli con le sue rassicurazioni e la netta smentita di ciò che era stato detto da un funzionario. Mi ha difeso il mio giornale. Mi hanno difeso i miei lettori.

Ma uno sgretolamento di questa compattezza è malgrado tutto avvenuto e un grande quotidiano se ne è fatto portavoce. Ciò che dico e scrivo è il risultato spesso di diversi soggetti, di cui le mie parole si fanno portavoce. Ma si cerca di rompere questa nostra alleanza, insinuando "tanti lavorano nell'ombra senza riconoscimento mentre tu invece...". Chi fa questo discorso ha un unico scopo, cercare di isolare, di interrompere il rapporto che ha permesso in questi anni di portare alla ribalta nazionale e internazionale molte inchieste e realtà costrette solo alla cronaca locale.

Sento di essere antipatico ad una parte di Napoli e ad una parte del Paese, per ciò che dico per come lo dico per lo spazio mediatico che cerco di ottenere. Sono fiero di essere antipatico a questa parte di campani, a questa parte di italiani e a molta parte dei loro politici di riferimento. Sono fiero di star antipatico a chi in questi giorni ha chiamato le radio, ha scritto sui social forum "finalmente qualcuno che sputa su questo buffone". Sono fiero di star antipatico a queste persone, sono fiero di sentire in loro bruciare lo stomaco quando mi vedono e ascoltano, quando si sentono messi in ombra. Non cercherò mai i loro favori, né la loro approvazione. Sono sempre stato fiero di essere antipatico a chi dice che la lotta alla criminalità è una storia che riguarda solo pochi gendarmi e qualche giudice, spesso lasciandoli soli.

Sono sempre stato fiero di essere antipatico a quella Napoli che si nasconde dietro i musei, i quadri, la musica in piazza, per far precipitare il decantato rinascimento napoletano in un medioevo napoletano saturo di monnezza e in mano alle imprenditorie criminali più spietate. Sono sempre stato antipatico a quella parte di Napoli che vota politici corrotti fingendo di credere che siano innocui simpaticoni che parlano in dialetto. Sono sempre stato fiero di risultare antipatico a chi dice: "Si uccidono tra di loro", perché contiamo troppe vittime innocenti per poter continuare a ripetere questa vuota cantilena.

Perché così permettiamo all'Italia e al resto del mondo di chiamarci razzisti e vigliacchi se non prestiamo soccorso a chi tragicamente intercetta proiettili non destinati a lui. Come è accaduto a Petru Birladeanu, il musicista ucciso il 26 maggio scorso nella stazione della metropolitana di Montesanto che non è stato soccorso non per vigliaccheria, ma per paura.
Sono sempre stato fiero di risultare antipatico a chi mal sopporta che vada in televisione o sulle copertine dei giornali, perché ho l'ambizione di credere che le mie parole possano cambiare le cose se arrivano a molti.

E serve l'attenzione per aggregare persone. Sarò sempre fiero di avere questo genere di avversari. I più disparati, uniti però dal desiderio che nulla cambi, che chi alza la testa e la voce resti isolato e venga spazzato via com'è successo già troppe volte. Che chi "opera" sulle vicende legate alla criminalità organizzata e all'illegalità in generale, continui a farlo, ma in silenzio, concedendo giusto quell'attenzione momentanea che sappia sempre un po' di folklore. E se percorriamo a ritroso gli ultimi trent'anni del nostro Paese, come non ricordare che Peppino Impastato, Giuseppe Fava e Giancarlo Siani - esposti molto più di me e che prima di me hanno detto verità ora alla portata di tutti - hanno pagato con la vita la loro solitudine. E la volontà di volerli ridurre, in vita, al silenzio.

Sono sempre stato fiero, invece, di essere stato vicino a un'altra parte di Napoli e del Sud. Quella che in questi anni ha approfittato della notorietà di qualcuno emerso dalle sue fila per dar voce al proprio malessere, al proprio impegno, alle proprie speranze. Molti di loro mi hanno accolto con diffidenza, una diffidenza che a volte ha lasciato il posto a stima, altre a critiche, ma leali e costruttive. Sono fiero che a starmi vicino siano stati i padri gesuiti che mi hanno accolto, le associazioni che operano sul territorio con cui abbiamo fatto fronte comune e tante, tantissime persone singole.

Sono fiero che a starmi vicino sia soprattutto chi, ferocemente deluso dal quindicennio bassoliniano, cerca risposte altrove, sapendo che dalla politica campana di entrambe le parti c'è poco da aspettarsi. Sono sempre stato fiero che vicino a me ci siano tutti quei campani che non ne possono più di morire di cancro e vedere che a governare siano arrivati politici che negli anni hanno sempre spartito i propri affari con le cosche. Facendo, loro sì, soldi e carriera con i rifiuti e col cemento, creando intorno a sé un consenso acquistato con biglietti da cento euro.

È stato doloroso vedere infrangersi un fronte unico, costruito in questi anni di costante impegno, che aveva permesso di mantenere alta l'attenzione sui fatti di camorra. È stato sconcertante vedere persone del tutto estranee alla mia vicenda esprimere giudizi sulla legittimità della mia scorta. La protezione si basa su notizie note e riservate che, deontologia vuole, non vengano rese pubbliche. Sono stato costretto a mostrare le ferite, a chiedere a chi ha indagato di poter rendere pubblico un documento in cui si parla esplicitamente di "condanna a morte". Cose che a un uomo non dovrebbero mai essere chieste.

Ho dovuto esibire le prove dell'inferno in cui vivo. Ho esibito, come richiesto, la giusta causa delle minacce. Sento profondamente incattivito il territorio, incarognito. Gli uni con gli altri pronti a ringhiarsi dietro le spalle. Molti hanno iniziato a esprimere la propria opinione non conoscendo fatti, non sapendo nulla. Vomitando bile, opinioni qualcuno addirittura ha detto "c'è una sentenza del Tribunale che si è espressa contro la scorta". I tribunali non decidono delle scorte, perché tante bugie, idiozie, falsità? Addirittura i sondaggi online che chiedevano se era giusto o meno darmi la scorta.

Quanto piacere hanno avuto i camorristi, il loro mondo, lì ad osservare questo sputare ognuno nel bicchiere dell'altro? Dal momento in cui mi è stata assegnata una protezione, della mia vita ha legittimamente e letteralmente deciso lo Stato Italiano. Non in mio nome, ma nel nome proprio: per difendere se stesso e i suoi principi fondamentali. Tutte le persone che lavorano con la parola e sono scortate in Italia, sono protette per difendere un principio costituzionale: la libertà di parola. Lo Stato impone la difesa a chi lotta quotidianamente in strada contro le organizzazioni criminali. Lo Stato impone la difesa a magistrati perché possano svolgere il loro lavoro sapendo che la loro incolumità fa una grande differenza.

Lo Stato impone la difesa a chi fa inchieste, a chi scrive, a chi racconta perché non può permettere che le organizzazioni criminali facciano censura. In questi anni, attaccarmi come diffamatore della mia terra, cercare di espormi sempre di più parlando della mia sicurezza, è un colpo inferto non a me, ma allo stato di salute della nostra democrazia e a tutte le persone che vivono la mia condizione. Sento questo odio silenzioso che monta intorno a me crea consenso in molte parti
Sta cercando il consenso di certa classe dirigente del Sud che con il solito cinismo bilioso considera qualunque tentativo di voler rendere se non migliore, almeno consapevole la propria terra, una strategia per fare soldi o carriera.

Ma mi viene chiesta anche l'adesione a un "codice deontologico", come ha detto il capo della Mobile di Napoli, il rispetto delle regole. Quali regole? Io non sono un poliziotto, né un carabiniere, né un magistrato. Le mie parole raccontano, non vogliono arrestare, semmai sognano di trasformare. E non avrò mai "bon ton" nei confronti delle organizzazioni criminali, non accetterò mai la vecchia logica del gioco delle parti fra guardie e ladri. I camorristi sanno che alcuni di loro verranno arrestati, le forze dell'ordine sanno in che modo gestire gli arresti che devono fare.

Lo hanno sempre detto a me, ora sono io a ribadirlo: a ognuno il suo ruolo. La battaglia che porto avanti come scrittore è un'altra. È fondata sul cambiamento culturale della percezione del fenomeno, non nel rubricarlo in qualche casellario giudiziario o considerarlo principalmente un problema di ordine pubblico.

Continuare a vivere in una situazione così è difficile, ma diviene impossibile se iniziano a frapporsi persone che tentano di indebolire ciò che sino a ieri era un'alleanza importante, giusta e necessaria. So che è molto difficile vivere la realtà campana, ma c'è qualcuno che ci riesce con tranquillità. Io non ho mai avuto detenuti che mi salutassero dalle celle, né me ne sarei mai vantato, anzi, pur facendo lo scrittore, ho ricevuto solo insulti. Qualcuno dice a Napoli che è riuscito a fare il poliziotto riuscendo a passeggiare liberamente con moglie e figli senza conseguenze. Buon per lui che ci sia riuscito. Io non sono riuscito a fare lo scrittore riuscendo a passeggiare liberamente con la mia famiglia. Un giorno ci riuscirò lo giuro.
© 2009 Roberto Saviano. Published by arrangement
with Roberto Santachiara Literary Agency

© Riproduzione riservata (16 ottobre 2009)
da repubblica.it


Titolo: ROBERTO SAVIANO La camorra alla conquista dei partiti in Campania
Inserito da: Admin - Novembre 10, 2009, 09:34:20 am
Quelle dichiarazioni dei pentiti su Nicola Cosentino, ex coordinatore provinciale Pdl, ora sottosegretario all'Economia

Unico sviluppo di questi territori è stato costruire enormi centri commerciali che andavano ad ingrassare gli affari dei boss

La camorra alla conquista dei partiti in Campania

Per i clan la sola differenza è tra uomini avvicinabili, uomini "loro", e i pochi politici che non lo sono

Se la politica non vuole essere una stampella di un'altra gestione del potere, deve correre ai ripari

ROBERTO SAVIANO


Quando un'organizzazione può decidere del destino di un partito controllandone le tessere, quando può pesare sulla presidenza di una Regione, quando può infiltrarsi con assoluta dimestichezza e altrettanta noncuranza in opposizione e maggioranza, quando può decidere le sorti di quasi sei milioni di cittadini, non ci troviamo di fronte a un'emergenza, a un'anomalia, a un "caso Campania". Ma al cospetto di una presa di potere già avvenuta della quale ora riusciamo semplicemente a mettere insieme alcuni segni e sintomi palesi.

Sembra persino riduttivo il ricorso alla tradizionale metafora del cancro: utile, forse, soprattutto per mostrare il meccanismo parassitario con cui avviene l'occupazione dello Stato democratico da parte di un sistema affaristico-politico-mafioso. Ora che le organizzazioni criminali decidono gli equilibri politici, è la politica ad essere chiamata a dare una risposta immediata e netta. Nicola Cosentino, attuale sottosegretario all'Economia e coordinatore del Pdl in Campania, fino a qualche giorno fa era l'indiscusso candidato alla presidenza della Regione. Nicola Cosentino, detto "o'mericano", è stato indicato da cinque pentiti come uomo organico agli interessi dei Casalesi: tra le deposizioni figurano quelle di Carmine Schiavone, cugino di Sandokan, nonché di Dario de Simone, altro ex capo ma soprattutto uno dei pentiti che si sono rivelati fra i più affidabili al processo Spartacus.

Per ora non ci sono cause pendenti sulla sua testa e le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia sono al vaglio della magistratura. Nicola Cosentino si difende affermando di non poter essere accusato della sua nascita a Casal di Principe, né dei legami stretti anni fa da alcuni suoi familiari con esponenti del clan. Però da parte sua sono sempre mancate inequivocabili prese di distanza e questo, in un territorio come quello casertano, sarebbe già stato sufficiente per tenere sotto stretta sorveglianza la sua carriera politica. Invece l'ascesa di Cosentino non ha trovato ostacoli: da coordinatore provinciale a coordinatore regionale, da candidato alla Provincia di Caserta a sottosegretario dell'attuale governo. E solo ora che aspira alla carica di Governatore, finalmente qualcuno si sveglia e si chiede: chi è Nicola Cosentino? Perché solo ora si accorgono che non è idoneo come presidente di regione?

Perché si è permesso che l'unico sviluppo di questi territori fosse costruire mastodontici centri commerciali (tra cui il Centro Campania, uno dei più grandi al mondo) che sistematicamente andavano ad ingrassare gli affari dei clan. Come ha dichiarato il capo dell'antimafia di Napoli Cafiero de Raho "è stato accertato che sarebbe stato imposto non solo il pagamento di tangenti per 450 mila euro (per ogni lavoro ndr) ma anche l'affidamento di subappalti in favore di ditte segnalate da Pasquale Zagaria". Lo stesso è accaduto con Ikea, che come denunciato al Senato nel 2004 è sorto su un terreno già confiscato al capocamorra Magliulo Vincenzo, e viene dallo Stato ceduto ad una azienda legata ai clan. Nulla può muoversi se il cemento dei clan non benedice ogni lavoro.

Secondo Gaetano Vassallo, il pentito dei rifiuti facente parte della fazione Bidognetti, Cosentino insieme a Luigi Cesaro, altro parlamentare Pdl assai potente, in zona controllava per il clan il consorzio Eco4, ossia la parte "semilegale" del business dell'immondizia che ha già chiesto il tributo di sangue di una vittima eccellente: Michele Orsi, uno dei fratelli che gestivano il consorzio, viene freddato a giugno dell'anno scorso in centro a Casal di Principe, poco prima che fosse chiamato a testimoniare a un processo. Il consorzio operava in tutto il basso casertano sino all'area di Mondragone dove sarebbe invece - sempre secondo il pentito Gaetano Vassallo - Cosimo Chianese, il fedelissimo di Mario Landolfi, ex uomo di An, a curare gli interessi del clan La Torre. Interessi che riguardano da un lato ciò che fa girare il danaro: tangenti e subappalti, nonché la prassi di sversare rifiuti tossici in discariche destinate a rifiuti urbani, finendo per rivestire di un osceno manto legale l'avvelenamento sistematico campano incominciato a partire dagli anni Novanta. Dall'altro lato assunzioni che garantiscono voti ossia stabilizzano il consenso e il potere politico.

Districare i piani è quasi impossibile, così come è impossibile trovare le differenze tra economia legale e economia criminale, distinguere il profilo di un costruttore legato ai clan ed un costruttore indipendente e pulito. Ed è impossibile distinguere fra destra e sinistra perché per i clan la sola differenza è quella che passa tra uomini avvicinabili, ovvero uomini "loro", e i pochi, troppo pochi e sempre troppo deboli esponenti politici che non lo sono. E, infine, è pura illusione pensare che possa esistere una gestione clientelare "vecchia maniera", ossia fondata certo su favori elargiti su larga scala, ma aliena dalla contaminazione con la camorra. Per quanto Clemente Mastella possa dichiarare: "Io non ho nessuna attinenza con i clan e vivo in una provincia dove questo fenomeno non c'è, o almeno non c'era fino a poco fa", sta di fatto che un filone dell'inchiesta sullo scandalo che ha investito lui, la sua famiglia e il suo partito sia ora al vaglio dell'Antimafia. I pubblici ministeri starebbero indagando sul business connesso alla tutela ambientale; si ipotizza il coinvolgimento oltre che degli stessi Casalesi anche del clan Belforte di Marcianise. Il tramite di queste operazioni sarebbe Nicola Ferraro, anch'egli nativo di Casal di Principe, consigliere regionale dell'Udeur, nonché segretario del partito in Campania. Di Ferraro, imprenditore nel settore dei rifiuti, va ricordato che alla sua azienda fu negato il certificato antimafia; ciò non gli ha impedito di fare carriera in politica. E questo è un fatto.

Di nuovo, non è l'aspetto folkloristico, la Porsche Cayenne comprata dal figlio di Mastella Pellegrino da un concessionario marcianisano attualmente detenuto al 416-bis, a dover attirare l'attenzione. L'aspetto più importante è vedere cos'è stato il sistema Mastella - un sistema che per trent'anni ha rappresentato la continuità della politica feudale meridionale - e che cosa è divenuto. Oggi, persino se le indagini giudiziarie dovessero dare esiti diversi, non si può fingere di non vedere che Ceppaloni confina con Casal di Principe o vi si sovrappone. E il nome di Casale qui non ha valenza solo simbolica, ma è richiamo preciso alla più potente, meglio organizzata e meglio diversificata organizzazione criminale della regione.

Per la camorra - abbiamo detto - destra e sinistra non esistono. Il Pd dovrebbe chiedersi, ad esempio, come è possibile che in un solo pomeriggio a Napoli aderiscano in seimila. Chi sono tutti quei nuovi iscritti, chi li ha raccolti, chi li ha mandati a fare incetta di tessere? Da chi è formata la base di un partito che a Napoli e provincia conta circa 60.000 tesserati, 10.000 in provincia di Caserta, 12.000 in quella di Salerno, 6.000 ciascuno nelle restanti province di Avellino e Benevento? Chiedersi se è normale che il solo casertano abbia più iscritti dell'intera Lombardia, se non sia curioso che in alcuni comuni alle recenti elezioni provinciali, i voti effettivamente espressi in favore del partito erano inferiori al numero delle tessere. Perché la dirigenza del Pd non è intervenuta subito su questo scandalo?

Che razza di militanti sono quelli che non vanno a votare, o meglio: vanno a votare solo laddove il loro voto serve? E quel che serve, probabilmente, è il voto alle primarie, soprattutto nella prima ipotesi che fosse accessibile solo ai membri tesserati. Questo è il sospetto sempre più forte, mentre altri fatti sono certezza. Come la morte di Gino Tommasino, consigliere comunale Pd di Castellammare di Stabia, ucciso nel febbraio dell'anno scorso da un commando di cui faceva parte anche un suo compagno di partito. O la presenza al matrimonio della nipote del ex boss Carmine Alfieri del sindaco di Pompei Claudio d'Alessio.

L'unica cosa da fare è azzerare tutto. Azzerare le dirigenze, interrompere i processi di selezione in corso, sia per la candidatura alla Regione che per le primarie del Pd, all'occorrenza invalidare i risultati. Non è più pensabile lasciare la politica in mano a chi la svende a interessi criminali o feudali. Non basta più affidare il risanamento di questa situazione all'azione del potere giudiziario. Non basterebbe neppure in un Paese in cui la magistratura non fosse al centro di polemiche e i tempi della giustizia non fossero lunghi come nel nostro. È la politica, solo la politica che deve assumersi la responsabilità dei danni che ha creato. Azzerare e non ricandidare più tutti quei politici divenuti potenti non sulle idee, non su carisma, non sui progetti ma sulle clientele, sul talento di riuscire a spartire posti e quindi ricevere voti.

Mentre la politica si disinteressava della mafia, la mafia si è interessata alla politica cooptandola sistematicamente. Ieri a Casapesenna, il paese di Michele Zagaria, è morto un uomo, un politico, il cui nome non è mai uscito dalle cronache locali. Si chiamava Antonio Cangiano, nel 1988 era vicesindaco e si rifiutò di far vincere un appalto a un'impresa legata al clan. Per questo gli tesero un agguato. Lo colpirono alla schiena, da dietro, in quattro, in piazza: non per ucciderlo ma solo per immobilizzarlo, paralizzarlo. Tonino Cangiano ha vissuto ventun'anni su una sedia a rotelle, ma non si è mai piegato. Non si è nemmeno perso d'animo quando tre anni fa coloro che riteneva responsabili di quel supplizio sono stati assolti per insufficienza di prove.

Se la politica, persino la peggiore, non vuole rassegnarsi ad essere mero simulacro, semplice stampella di un'altra gestione del potere, è ora che corra drasticamente ai ripari. Per mero istinto di sopravvivenza, ancora prima che per "questione morale". Non è impossibile. O testimonia l'immagine emblematica e reale di Tonino che negli anni aveva dovuto subire numerosi e dolorosi interventi terminati con l'amputazione delle gambe, un corpo dimezzato, ma il cui pensiero, la cui parola, la cui voglia di lottare continuava a prendersi ogni libertà di movimento. Un uomo senza gambe che cammina dritto e libero, questo è oggi il contrario di ciò che rappresentano il Sud e la Campania. È ciò da cui si dovrebbe finalmente ricominciare.
© 2009 Roberto Saviano. Published by arrangement with Roberto Santachiara Literary Agency

© Riproduzione riservata (24 ottobre 2009)
da repubblica.it


Titolo: ROBERTO SAVIANO risponde a Bondi "Ecco perché non possiamo tacere"
Inserito da: Admin - Novembre 23, 2009, 10:39:18 am
LA LETTERA

Saviano risponde a Bondi "Ecco perché non possiamo tacere"

Appello sulla giustizia: lo scrittore sulla lettera con cui il ministro della Cultura lo invita a non schierarsi

di ROBERTO SAVIANO


Caro ministro Sandro Bondi, la ringrazio per la sua lettera e per l'attenzione data al mio lavoro: ho apprezzato il suo tono rispettoso e dialogante non scontato di questi tempi e quindi con lo stesso tono e attitudine al dialogo le voglio rispondere. Come credo sappia, ho spesso ribadito che certe questioni non possono né devono essere considerate appannaggio di una parte politica. Ho anche sempre inteso la mia battaglia come qualcosa di diverso da una certa idea di militanza che si riconosce integralmente in uno schieramento.

Ho sempre creduto che debbano appartenere a tutti i principi che anche lei nomina - la libertà, la giustizia, la dignità dell'uomo e io aggiungo anche il diritto alla felicità in qualsiasi tipo di società si trovi a vivere. E per questo ho sempre odiato la prevaricazione del potere, che esso assuma la forma di un sistema totalitario di qualsiasi colore, o, come ho potuto sperimentare sin da adolescente, sotto la forma del sistema camorristico.

Anch'io auspico che in Italia possa tornare un clima più civile e ho più volte teso la mano oltre gli steccati politici perché sono convinto che una divisione da contrada per cui reciprocamente ci si denigra e delegittima a blocchi, sia qualcosa che faccia male.
Eppure oggi il clima in questo paese è di tensione perché ognuno sa che, a seconda della posizione che intende assumere nei confronti del governo, potrà vedere la propria vita diffamata, potrà vedere ogni tipo di denigrazione avvenire nei confronti dei propri cari, potrà vedere ostacolate le proprie possibilità lavorative.

Qualche giorno fa la Germania mi ha onorato del premio Scholl, alla memoria dei due studenti dell'organizzazione cristiana Rosa Bianca, fratello e sorella, giustiziati dai nazisti con la decapitazione per la loro opposizione pacifica, per aver solo scritto dei volantini e aver invitato i tedeschi a non farsi imbavagliare.

Tutte le persone che ho incontrato lì alla premiazione, all'Università di Monaco, erano preoccupate per quanto accade oggi in Italia nel campo della libertà di stampa e del diritto. Non era un premio di pericolosi sovversivi o di chissà quali cospiratori anti-italiani. Tutt'altro. Raccoglieva cristiani tedeschi bavaresi che commemorano i loro martiri. Tutti seriamente preoccupati quello che sta accadendo in Italia e tutti pronti a chiedermi come faccio a tenere alla libertà d'espressione eppure a continuare a lavorare in Italia.
Non è un buon segnale e, in quanto scrittore non posso che raccogliere l'imbarazzo di essere accolto come una sorta di intellettuale di un paese dove la libertà d'espressione subisce un'eccezione. Il programma da lei apprezzato ha mostrato, in prima serata, il terrore causato dal regime comunista russo, e persecuzioni castriste agli scrittori cubani e l'inferno nell'Iran di Ahmedinejad.

Tutto andato in onda in una trasmissione come "Che tempo che fa", su una rete come RaiTre, così spesso tacciata di essere faziosa, ideologizzata, asservita alla sinistra che persino un boss come Sandokan si compiaceva di chiamarla "Telekabul". Questo a dimostrare, Ministro, quanto siano spesso pretestuose e false le accuse che vengono fatte contro chi invece si prefigge il compito di raccontare per bisogno - o dovere - di verità.

Però sono altrettanto convinto che a volte, proprio per semplice senso civile, non si possa stare zitti. Che bisogna prendere posizione al costo di schierarsi. E schierarsi non significa ideologicamente. La paura che questa legge possa colpire il paese sia per i suoi effetti pratici, sia per l'ingiustizia che ratifica, in me è assolutamente reale e per niente pretestuosa.
In questi anni, ossia da quando vivo sotto scorta, ho avuto modo di poter approfondire cosa significhi, tradotto nel funzionamento di uno stato democratico, il concetto di giustizia. Ho potuto capire che non tocca solo la difesa della legalità, ma che ciò che più lo sostiene e lo rende funzionante è la salvaguardia del diritto e dello stato di diritto.

Ho deciso di pubblicare quell'appello perché la legge sul processo breve mi pare un attacco pesante - non il primo, ma quello che ritengo essere finora il più incisivo - ai danni di un bene fondamentale per tutti i cittadini italiani, di destra o di sinistra, come ho scritto e come credo veramente. E le assicuro che lo rifarei domani, senza timore di essere ascritto a una parte e di poterne pagare le conseguenze.
Non vi è nulla in quel gesto che non corrisponda a ogni altra cosa che ho fatto o detto. Le mie posizioni sono queste e del resto non potrei comportarmi diversamente. Ciò che mi spinge a raccontare, in prima serata, dei truci omicidi di due giovani donne, la cui colpa era stata unicamente l'aver manifestato in piazza, in maniera pacifica.

Ciò che mi spinge a raccontare dei crimini del comunismo in Russia e dei soprusi delle multinazionali in Africa non è un "farsi impadronire dal demone della politicizzazione e della partitizzazione della cultura" bensì un altro demone. Quello che ha lo scopo di raccontare le verità o almeno provarci. Un'informazione scomoda per chi la da e per chi l'ascolta, la osserva, la legge. In Italia la deriva che lo stato di diritto sta prendendo è pericolosa perché ha tutte le caratteristiche dell'irreversibilità. È per questo che agisco in questo modo, perché è l'unico modo che conosco per essere scrittore, è questo l'unico modo che conosco di essere uomo.
La saluto con cordialità

© 2009 Roberto Saviano. Published by arrangement with Roberto Santachiara Literary Agency

© Riproduzione riservata (23 novembre 2009) Tutti gli articoli di politica
da repubblica.it


Titolo: ROBERTO SAVIANO Giuseppe Fava ucciso due volte prima la mafia, poi le calunnie
Inserito da: Admin - Novembre 26, 2009, 03:57:53 pm
La storia del giornalista torna grazie ad un libro.

Dopo l'omicidio anche la delegittimazione

Si disse persino che era corrotto, in modo da nascondere i suoi testi, le sue parole

Giuseppe Fava ucciso due volte prima la mafia, poi le calunnie

di ROBERTO SAVIANO



Anticipiamo parte della prefazione di al romanzo di Giuseppe Fava, "Prima che vi uccidano" (Bompiani pagg. 406, euro 19)

GLI sparano cinque colpi alla testa. Tutti mirati alla nuca. Per ammazzarlo e per sfregiarlo. Chi nasce al Sud sa bene che non tutti i modi di ammazzare sono uguali.
Alle mafie non basta eliminare. Nella modalità della morte è siglata una precisa comunicazione. Giuseppe Fava, Pippo per chi lo conosceva, lo sfregiano sparandogli in testa quando si sta muovendo in una situazione che non c'entra nulla col suo lavoro. L'esecuzione di Pippo Fava gli uomini di Cosa Nostra la compiono il 5 gennaio 1984, mentre sta andando al Teatro Verga a prendere sua nipote che aveva appena recitato in Pensaci Giacomino!, l'inno pirandelliano al nostro eterno Stato incapace. Ma la morte di Pippo Fava non termina con quegli spari. Non si esaurisce con quel singolo atto di violenza. La si stava preparando da tempo e sarebbe continuata per molto tempo ancora.

Nei giorni tra Natale e Capodanno, poco prima di essere ucciso, Giuseppe Fava riceve in dono dal cavaliere Gaetano Graci ? uno dei proprietari del "Giornale del Sud", quotidiano che dirigeva prima di fondare "I Siciliani" e da cui era stato licenziato per, diciamo così, divergenze nella linea editoriale ? una quantità smisurata di ricotta e una cassa di bottiglie di champagne. Nella simbologia mafiosa questi due elementi sono molto chiari. Dicono: ti ridurremo in poltiglia e brinderemo sulla tua bara.

Ma fare questo, brindare alla sua eliminazione fisica, non è sufficiente. Pippo Fava sembra dar fastidio anche da morto. Si vuole evitare che diventi un simbolo.
Comincia così una vera e propria campagna di delegittimazione in cui si mescolano, con perizia, verità e menzogne.

Non c'è alcuna volontà di indagare sugli assassini e questo lo si capisce subito, il giorno stesso del funerale, quando il sindaco di Catania, in totale spregio di ciò che è accaduto, dichiara che: "Catania è una città che non ha la mafia. La mafia è a Palermo".
L'odio che da allora in poi il territorio di Catania riversa sulla memoria di Giuseppe Fava è paragonabile a un secondo omicidio. Poliziotti e politici, notabili e persone qualsiasi, tutti pronti a ripetere che non era un omicidio di mafia, tutti a insinuare la pista del delitto passionale. Tutti a dire "mannò, ma quale eroe?".
Tutti a insultarlo con la più degradante delle balle: misero in giro la voce che fosse un puppo, cioè un omosessuale pronto ad adescare ragazzini fuori dalle scuole.
Voci che vogliono creare intorno un'aura di sospetto, allontanare il peso infamante del sangue versato. A difenderlo resta solo quella parte di Catania per cui l'impegno contro la mafia è istinto di pancia più che vanto ideologico.

Negli anni successivi si battono le piste più improbabili per cancellare la realtà dei fatti. Furono indagati tutti i movimenti economici di Fava, i suoi conti correnti ridotti a poche lire dopo che per fondare "I Siciliani" aveva venduto tutti i suoi averi nella convinzione che in Sicilia l'unico modo per fare informazione fosse possedere un proprio giornale. Il conto di Pippo Fava fu sezionato. Fu ordinata una delle prime inchieste favorite dalla legge La Torre, legge creata per indagare sui patrimoni di mafia, e invece, ironia della sorte, a essere inquisiti furono i conti correnti dei giornalisti de "I Siciliani".

Soltanto dieci anni dopo, nel 1994, c'è una svolta nelle indagini. Un pentito, Maurizio Avola, comincia a parlare e si autaccusa dell'omicidio Fava. Racconta di aver fatto parte del gruppo di fuoco permettendo così di riaprire il caso. Da quel momento in poi la magistratura catanese inizia a ricostruire le tracce di ciò che era realmente accaduto. Dieci anni di accuse, di insulti, di sputi, a cui la famiglia e gli amici hanno dovuto resistere senza segnali di solidarietà e di speranza. Dieci anni in cui a infangare la sua memoria non era Cosa Nostra ma un territorio che non voleva saperne di vedere tracce di mafia nella propria imprenditoria. Un territorio dove chi invece a quel mondo dava un nome era come se mettesse le mani addosso alle anime e alle coscienze di ognuno. Meglio continuare a sfregiare la memoria di Pippo Fava con le più banali insinuazioni. Meglio nasconderlo all'opinione pubblica nazionale, nascondere i suoi libri, il suo operato.

Emerge che quando Nitto Santapaola decide che è tempo di uccidere Fava, pronuncerà semplici e inequivocabili parole di condanna: "Questo noi dobbiamo farlo non tanto o non soltanto per noi. Lo dobbiamo ai cavalieri del lavoro perché se questo continua a parlare come parla e a scrivere come scrive, per i cavalieri del lavoro è tutto finito.
Per loro e per noi".

Quindi prima minacce - Fava è preoccupato e compra una pistola, dice che potrebbero ucciderlo per cinquecentomila lire -, poi l'omicidio e la diffamazione.
E Pippo Fava sa benissimo che entrambe le cose non possono che andare insieme. Una condanna a morte non parte mai senza che si sappia come agire sulla memoria dell'assassinato. Prima della traiettoria delle pallottole, il percorso che dovrà avere la delegittimazione è già tracciato.

Per offuscare il peso politico che la sua morte avrebbe potuto avere, per istillare il dubbio sull'onestà delle sue parole, la strategia delle calunnie era iniziata già da tempo. E quelle voci le diffondevano non solo uomini vicini ai boss, ma, cosa più grave, anche chi non era corrotto dal danaro della mafia: cronisti biliosi, politici ostili, persone rispettabili e rispettate che si sentivano messe sotto accusa da Giuseppe Fava, ancor più dal momento in cui il suo sacrificio urlava al cielo il loro colpevole silenzio.

Roberto Saviano Agenzia Santachiara e Bompiani Editore

© Riproduzione riservata (26 novembre 2009)
da repubblica.it


Titolo: ROBERTO SAVIANO A bordo di un pullman partito dalla provincia nord di Napoli
Inserito da: Admin - Dicembre 07, 2009, 07:43:16 pm
A bordo di un pullman partito dalla provincia nord di Napoli

No B Day, in viaggio verso Roma "Speriamo di smuovere qualcosa"

Uomini di partito, sindacalisti e ragazzi alla prima manifestazione

Si discute dei temi dell'attualità politica ma soprattutto del movimento

di CARMINE SAVIANO


Centinaia di pullman, treni speciali, una nave dalla Sardegna e migliaia di automobili. E' in corso, sin dalle prime ore della giornata, il viaggio del popolo del No B Day. Un'onda viola che dopo due mesi di preparativi e discussioni si appresta a invadere pacificamente Roma. Con in testa l'ultimo messaggio lanciato su Facebook dal comitato organizzatore della manifestazione nazionale che oggi chiederà le dimissioni di Silvio Berlusconi: "Siamo qui perché non ne possiamo più, perché siamo stanchi di questa indolenza italiana che da quindici anni giustifica l'ingiustificabile".

Sul pullman partito alle 10 dalla provincia nord di Napoli si discute e si leggono giornali. Una platea intergenerazionale fatta di studenti e uomini di partito, sindacalisti e bambini. E di ragazzi che per la prima volta partecipano a un evento simile: "E' la forza della rete, l'unica forza che abbiamo contro l'impero mediatico di Berlusconi". Dopo cinque minuti già si affrontano i temi al centro dell'agenda politica. Dalle dichiarazioni del pentito Gaspare Spatuzza alla riforma della giustizia, dal rinnovato impegno in Afghanistan alla stabilità e alla tenuta della maggioranza di governo.

L'autobus in viaggio verso Roma è anche un pezzo di network in movimento. Netbook e smartphone per compilare in tempo reale il proprio diario di viaggio online. "Roma arriviamo", "speriamo di smuovere qualcosa", "vorrei che le televisioni dessero alla manifestazione lo spazio che merita". E per tenere i contatti con gli amici digitali incontrati in questi mesi. "Ho aggiunto tantissime persone su Facebook, vorrei conoscerne qualcuna". Quasi unanimi i pareri sul social network che ha permesso la realizzazione del No B Day. "E' un mezzo che permette a idee e messaggi di diffondersi in maniera esponenziale e veloce". Ma c'è anche chi è scettico: "E' solo un punto di partenza, bisogna organizzarsi. E Facebook non basta".

Poi, immancabili, le digressioni su teoria e prassi della manifestazione perfetta. Una "scienza esatta" per l'esperto sindacalista, il "momento in cui si realizza un'utopia" per il giovane studente. Scattano subito paragoni con le altre grandi manifestazioni di questo decennio. Da quella del marzo 2003 organizzata dalla Cgil in difesa dell'articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori a quella dell'ottobre 2008 tenuta dal Pd al Circo Massimo. Con i quadri di partito che rivendicano il proprio ruolo: "Senza la nostra macchina organizzativa non ci sarebbe stato nessun No B Day, si sarebbe trattato di un fenomeno del tutto virtuale".

Un viaggio che è anche un momento di incontro e di confronto. Due insegnanti discutono delle nuove forme di mobilitazione giovanile. E un laureando in scienze politiche riflette sullo stato dell'arte nella sinistra italiana: "Spero che oggi sia solo il punto di partenza per organizzare e rendere fruttuosa l'enorme disaffezione che c'è nella nostra gente". E puntuale la replica dalle retrovie: "Prima però dobbiamo risolvere quell'anomalia chiamata Berlusconi".

© Riproduzione riservata (5 dicembre 2009)
da repubblica.it


Titolo: Spartacus la madre di tutti i processi per i Casalesi arriva la paura della fine
Inserito da: Admin - Dicembre 14, 2009, 10:12:48 am
Tre giorni per decidere, dopo undici anni la sentenza in Cassazione se la Corte confermerà non si potrà più dire che non esiste la camorra


Spartacus, la madre di tutti i processi per i Casalesi arriva la paura della fine

di ROBERTO SAVIANO


NEI prossimi tre giorni si chiuderà dopo undici anni il terzo e ultimo grado del Processo Spartacus. È un evento epocale che rischia di passare inosservato, sotto silenzio. Come un normale ingranaggio giudiziario che volge al termine. Il processo Spartacus è il più grande processo di mafia della storia della criminalità organizzata in Europa, paragonabile solo al Maxi Processo contro Cosa Nostra istruito da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.

Un processo che ha visto complessivamente 1.300 indagati, seicentoventisei udienze complessive, 508 testimoni sentiti, più 24 collaboratori di giustizia, 90 faldoni di atti acquisiti. Una inchiesta-madre che ha generato decine di processi paralleli: omicidi, appalti, droga, truffe allo Stato. Questa sentenza che avverrà a Roma, alla Corte di Cassazione, potrebbe sancire un pezzo di storia non solo giudiziaria del sud ma dell'intero paese. Se la Corte dovesse confermare le condanne del secondo grado, sarebbe l'ultima parola: in terra casertana esiste un clan egemone, al tempo stesso feroce e imprenditoriale.

Un punto di non ritorno. Non si potrà più dire - come molti collegi difensivi dei clan hanno fatto negli ultimi anni - che non esiste la camorra. Che ci sono solo sottoculture della violenza, che i pentiti inventano storie per attaccare concorrenti politici o imprenditoriali. Il clan spera che possa essere annullata in Cassazione la sentenza di secondo grado. Se dovesse accadere, bisognerà rifare tutto da capo. Per un processo iniziato il primo luglio del 1998 e che arriva al terzo grado alla fine del 2009, significa rifare un lavoro enorme. I Casalesi sperano soprattutto nello scadere dei tempi di custodia cautelare. Qualora invece la Cassazione dovesse confermare, la leadership storica dei Casalesi avrebbe la sua condanna definitiva. Non ci sarebbero più istanze di remissione, cavilli, vizi di forma. È tutto lì. È storia.

Tre gradi di giudizio a sancire definitivamente con gli ergastoli qual è stato il modo in cui i Casalesi hanno assunto il potere e hanno interpretato il loro modo di dominare il territorio e il loro modo di fare impresa. Chiuso questo processo significherà potersi occupare del presente, e non più dei vent'anni scorsi di dominio camorrista. È solo l'inizio del contrasto, non la fine.
A partire da Francesco Schiavone. Il capo riconosciuto. Colui che in questi anni dal carcere ha atteso, gestito, controllato tutte le diatribe interne, avallato ogni decisione. Colui che ha cercato di non innescare guerre tra le diverse anime del clan, arrivando - nonostante il regime di carcere duro lo vieterebbe - persino a scrivere sulle prime pagine dei giornali locali dando indicazioni su come comportarsi. È lui che vedrebbe per sempre dietro le sbarre il suo destino. Francesco Schiavone detto Sandokan non avrebbe altra strada che collaborare con la giustizia. Ha cinquant'anni e non gli rimarrebbero che due alternative. Pentirsi o morire in galera. Il figlio Nicola si vede poco in paese, è sempre fuori, come si stesse preparando alla latitanza. Su di lui ancora non pendono mandati di cattura. Le informative lo indicano chiaramente come il reggente del clan, ma può ancora andare a parlare col padre, può ancora gestire gli affari. É lì, libero di farlo, nonostante le intercettazioni lo segnalino come colui che deve decidere al posto del padre.

Il clan ha gli occhi puntati sulla famiglia Schiavone. L'annuncio di Sandokan - pubblicato qualche mese fa e poi smentito - di voler allontanare i figli da Casal di Principe, era stato letto con ansia. Se il capofamiglia si pentisse, sarebbero i figli i primi a sparire. Quindi i fedelissimi di Sandokan guardano ogni loro allontanamento come possibile segno di tradimento del capo in carcere. Eppure se quello che in paese ormai tutti non chiamano più come l'eroe salgariano ma semplicemente "Ciccio o' barbonè " decidesse di collaborare, allora potrebbe non morire in galera. Allora potrebbe svelare decenni di storia imprenditoriale e politica italiana. I rapporti con le banche, i politici costruiti con i suoi voti, il ciclo del cemento in Emilia-Romagna e nel Lazio, gli appalti dell'alta velocità, la coca che alimenta le betoniere, i rifiuti tossici di mezzo paese dislocati dove sa solo lui. Sandokan pentito permetterebbe alla sua famiglia di poter vivere protetta e non sotto assedio come ora. Persino di andare incontro a un destino diverso, visto che i figli sembrano essere ormai sulla strada del padre: potere, galera e morte. Non solo Nicola Schiavone ma anche Emanuele, arrestato a Riccione per un panetto di hashish, usato per adescare le ragazzine. Lui, rampollo diciottenne di uno dei gruppi imprenditoriali più potenti d'Europa, capace addirittura di raggiungere, secondo le stime della Dda, un fatturato di trenta miliardi di euro, viene pizzicato come l'ultimo dei pusher in giro per le discoteche romagnole. Ai poliziotti che lo arrestano, dichiara: "Sono il figlio di Sandokan". Cerca di impaurirli e non ci riesce.

Questo episodio, secondo quanto si ascolta a Casal di Principe, ha innescato nelle famiglie di camorra del Casertano il commento che Giuseppina Nappa, la moglie di Sandokan, dovendosi occupare troppo degli affari giudiziari del marito, non ha educato bene i figli. Così le sono usciti "i figli drogati". L'immagine degli Schiavone continua a perdere credibilità presso le altre famiglie. Se venissero confermate le condanne, Nicola Schiavone, l'erede al trono, sarà sicuramente più debole. Sino ad ora ha avuto rispetto automatico, perché Sandokan era considerato re e poteva ancora uscire di galera. Ma dopo una condanna all'ergastolo definitiva, Francesco Schiavone finirà prima o poi per diventare un detenuto che porta lo stesso nome di tanti altri. Mentre chi è rimasto fuori e sino alla sentenza definitiva era viceré, ora vorrà essere re. E per divenire re, dovrà schiacciare i figli di Sandokan.
In attesa di questo verdetto solo una cosa è certa. Non calerà mai più il silenzio su quegli affari. O meglio: non lo faremo mai più calare. I boss di Casal di Principe hanno sperato che prima o poi l'attenzione tornasse confinata alla cronaca locale, alle pagine dei giornali di provincia. E quel che per loro è una speranza, per noi è un rischio sempre vivo.

Quel che ha fatto negli ultimi tempi il Ministro Maroni non si era mai visto negli anni precedenti e va riconosciuto. Il suo "Modello Caserta" è stato utile e necessario per segnalare per la prima volta la forte volontà dello Stato italiano di essere presente su quel territorio, di volerlo controllare, di volersene riappropriare. Questo è ancora più importante dei vari successi ottenuti dalle forze dell'ordine, dei singoli arresti effettuati. Ma la battaglia è lunghissima e ora si è davvero solo all'inizio. Non bisogna, infatti, farsi troppo fuorviare dagli arresti. Si tratta spesso degli scarti degli stessi clan, di frange isolate, persone che ormai hanno fatto quel che dovevano. É possibile farne a meno o rimpiazzarli con altri. O vecchi narcotrafficanti in pensione, o persino killer feroci ma strafatti come quelli del gruppo Setola, serviti in un certo momento per una strategia del terrore ma non rappresentativi di ciò che rimane ancora oggi la vera forza e l'anima del clan, che è l'anima economica; utile e più facile falciare ed arrestare il livello militare, molto più complicato fermare il livello economico e soprattutto svelare i nodi dove si intrecciano imprenditori legali e camorra.

Per il clan dei Casalesi sono lì ancora fuori a comandare Michele Zagaria e Antonio Iovine. Scorazzano da dodici anni tra l'Emilia Romagna, Roma, la Romania, gestiscono il business. É attraverso il business che il clan controlla il territorio casertano e arriva ovunque, sia in qualsiasi parte d'Italia e anche oltre, sia nelle sfere dell'economia che dovrebbe essere pulita, della finanza, della politica. È fondato sul business il suo dominio. Il ciclo del cemento, la gestione dei rifiuti, i centri commerciali, le sale bingo, gli alberghi e le fabbriche nell'est Europa. Tutto questo è ancora intatto.

Il nome di questo processo è Spartacus. Il nome dello schiavo che si ribellò a Roma. L'unico uomo che sia mai riuscito insieme a un manipolo di schiavi ad arrivare alle porte della capitale dell'impero, con il solo obiettivo di riacquistare la libertà. É cosa bizzarra per un processo, prendere il nome da un ribelle. Però a sud la vera ribellione è la legalità. La legalità contro l'impero, "la dittatura armata della camorra" come la chiamava don Peppino Diana.

Siamo convinti che oggi infrangere la pax casalese significhi preparare le condizioni perché ci possa essere maggiore libertà anche a Roma a Milano a Reggio Emilia. Addirittura a Bucarest o a Berlino. Per questo siamo sicuri di una cosa semplice: non ci sarà più quella che loro chiamavano pace, e che noi invece chiamiamo silenzio, non ci sarà più in paese quella che loro chiamavano serenità, e che noi invece chiamiamo omertà. Non permetteremo, fino a quando il meccanismo camorristico non sarà debellato, sconfitto, eliminato, che la luce si spenga su queste terre, che torni quell'ombra che copriva affari e dominio. E ascolteremo con indifferenza chi vorrà definire diffamante raccontare e scrivere libri sul potere criminale. Perché abbiamo invece la certezza che solo raccontando, analizzando, scrivendo, condividendo, si possa capire e far conoscere. E siamo oggi più che mai convinti che solo la conoscenza possa permettere un'azione davvero efficace. Fino a quando ci sarà sangue nelle vene e aria nei polmoni, noi andremo avanti. Qualunque sia il verdetto che verrà emesso e qualsiasi ne siano le conseguenze politiche e umane che raccontare di mafia oggi in Italia comporta.

© 2009 Roberto Saviano
Published by arrangement
with Roberto Santachiara Literary Agency

© Riproduzione riservata (14 dicembre 2009)
da repubblica.it


Titolo: ROBERTO SAVIANO La 'ndrangheta e la svolta del tritolo così l'altra mafia ha ...
Inserito da: Admin - Gennaio 05, 2010, 10:17:14 pm
IL CASO

La 'ndrangheta e la svolta del tritolo così l'altra mafia ha scelto la guerra


di ROBERTO SAVIANO


CHI parla di mafia diffama il Paese? Chi parla di mafia difende il Paese. Le organizzazioni criminali contano molto: solo con la coca i clan fatturano sessanta volte quanto fattura la Fiat. Calabria e Campania forniscono i più grandi mediatori mondiali per il traffico di cocaina. Si arriva a calcolare che 'ndrangheta e camorra trattano circa 600 tonnellate di coca l'anno, ed è una stima per difetto. La 'ndrangheta - come dimostrano le inchieste di Nicola Gratteri - compra coca a 2.400 euro al kilo e la rivende a 60 euro al grammo, guadagnando 60.000 euro. Quindi con meno di 2.400 euro di investimento iniziale, percepisce una entrata pulita di 57.600 euro. Basta moltiplicare questa cifra per le tonnellate di coca acquistate e distribuite da tutte le mafie italiane e diventa facile capire la quantità di denaro di cui dispongono, al netto di cemento ed estorsioni.

E raffrontarla con il peso industriale delle imprese leader - che hanno molti meno profitti - per comprendere il potere che oggi hanno realmente nel paese e in Europa le organizzazioni criminali.

Proprio dinanzi a fatti come l'attentato di Reggio Calabria diventa imperativa la necessità di capire. È la conoscenza che permette di capire cosa stia accadendo. E non raccontare questa azione come un episodio avvenuto in un altro mondo, in un altro paese. Un paese di quelli lontani dove una bomba o un morto rientrano nel quotidiano. Le organizzazioni criminali italiane quando agiscono e quando decidono di mandare un segnale, sanno perfettamente cosa fanno e dove vogliono arrivare. La bomba non è stata messa davanti a una caserma, né alla sede della Direzione Antimafia, ma alla Procura generale. Il messaggio, dunque, è rivolto alla Procura Generale. E forse - ma qui si è ancora nel territorio delle ipotesi - a Salvatore Di Landro, da poco più di un mese divenuto Procuratore generale. Da quando si è insediato, il clima non è più quello che le 'ndrine reggine conoscevano. Le cose stanno cambiando e le 'ndrine non apprezzano questo cambiamento. Preferirebbero magari che le difficoltà burocratiche e certe gestioni non proprio coraggiose del passato possano continuare. Le mafie sanno che la giustizia italiana è complicata e spesso così lenta che è come se un bambino rompesse un vaso a sei anni e la madre gli desse uno schiaffo quando ne ha compiuti trenta.

Se volessero, le cosche potrebbero far saltare in aria tutta Reggio Calabria. La 'ndrangheta possiede esplosivo c3 e c4. Decine di bazooka. Perché, allora, far esplodere una bomba artigianale davanti alla Procura, quasi fosse una lettera da imbucare? Evidentemente non volevano colpire duramente, ma lanciare un primo segnale, dare inizio a un "confronto militare". Anche l'operatività potrebbe essere stata di una sola famiglia, con una sorta di silenzio-assenso delle altre che in questo modo hanno reso il gesto collettivo.

Ora bisogna accendere una luce su ogni angolo della Procura generale, stare al fianco di chi sta attuando questo cambiamento. Capire se le 'ndrine vogliono che una corrente prevalga sull'altra. Capire, parlarne, dare visibilità alla Calabria, alle dinamiche che legano imprenditoria, criminalità, massoneria, politica in un intreccio che fattura miliardi di euro di cui nessuno viene investito in Calabria e tutti fuori. Da Montreal a Sidney. E alla solita idiozia che verrà ripetuta a chi scrive di questi temi, ossia di essere "professionisti dell'antimafia", occorre rispondere che il vero problema è che esistono troppi "dilettanti" dell'antimafia.

Le mafie stanno alzando il tiro. O almeno, si sente in diversi territori una forte tensione. Dovuta a diversi motivi, non ultima la chiusura di importanti processi, come il terzo grado del processo Spartacus di cui fra pochi giorni verrà pronunciata la sentenza. I Casalesi potrebbero agire militarmente dopo una condanna definitiva. Avevano nei loro referenti politici una sorta di garanzia che si sarebbero occupati dei loro processi. In caso di ergastoli, gli inquirenti temono risposte e l'attenzione mediatica dovrebbe essere massima, ma non lo è.

A Reggio Calabria l'arresto di Pasquale Condello, nel giugno dell'anno scorso, fatto dai Carabinieri comandati da una leggenda del contrasto alle 'ndrine, il colonnello Valerio Giardina, ha rotto gli equilibri di pace. Pasquale Condello detto "il supremo" era riuscito a mettere pace tra le 'ndrine di Reggio dopo una faida tra 1985 e il 1991 tra i De Stefano-Tegano e Condello-Imerti che aveva portato ad una mattanza di più di mille persone. Condello faceva affari ovunque: senza un suo si o un suo no nulla sarebbe potuto accadere a Reggio. Quindi è anche alla sua famiglia che bisogna guardare per capire da dove è partito l'ordine della bomba. La sua capacità di aprire verticalmente e orizzontalmente i propri affari era la garanzia di pace. All'inizio di ottobre, la famiglia Condello è persino riuscita ad ottenere la lettura delle parole di felicitazione di Benedetto XVI trasmesse nella cattedrale di Reggio Calabria da don Roberto Lodetti, parroco di Archi, agli sposi Caterina Condello e Daniele Ionetti: la prima, figlia di Pasquale; il secondo, il figlio di Alfredo Ionetti, ritenuto il tesoriere della cosca. "Increscioso e deplorevole" ha definito l'episodio il settimanale diocesano l'Avvenire di Calabria. La prassi vuole che quando gli sposi desiderano ricevere un telegramma o una pergamena del Papa, ne facciano richiesta al parroco o ad un prete di loro conoscenza, il quale trasmette la richiesta all'ufficio matrimoni della Curia. Non è il telegramma a destare scandalo quanto piuttosto il via libera dato dalla Curia reggina per le nozze in cattedrale di due rampolli di una potentissima 'ndrina calabrese. Difficile credere che non si sia prestata attenzione ai cognomi dei due sposi. Anche perché Caterina Condello e Daniele Ionetti sono cugini di primo grado e il diritto canonico (art. 1091) consente un matrimonio tra consanguinei solo con motivata dispensa richiesta dal parroco e sottoscritta dal vescovo.

Il clan Condello da oltre 25 anni ha comandato a Reggio. I matrimoni dovrebbero essere molto controllati e i preti dovrebbero davvero interessarsi alla motivazione delle unioni. Nel 2003 fu sequestrata una lettera a Cesena a casa di Alfredo Ionetti, lettera scritta dalla moglie del Supremo, Maria Morabito. In questa lettera spedita a un'amica si parlava dell'altra figlia femmina, Angela: "Cara Anna (...) mia figlia ha dovuto lasciare un bel ragazzo solamente perché, nel passato, alcuni suoi parenti erano nemici di mio marito (...) Non c'è stato niente da fare, hanno dovuto smettere (...) Avevo sperato in un futuro migliore per mia figlia, che sarebbero stati bene insieme. (...) Ma dobbiamo portare la nostra croce...".

Le famiglie di Reggio vivono di questi vincoli, e spesso le prime vittime sono i familiari. In questo contesto, rompere il ruolo del sacramento religioso come patto di sangue tra mafiosi è qualcosa che solo i sacerdoti coraggiosi - e per fortuna ce ne sono - possono fare.

È importante che le istituzioni diano una risposta forte dopo la vicenda dell'attentato in Calabria. Quindi è bene che Maroni visiti Reggio, ma dovrebbe farlo anche il Ministro della Giustizia. Ai messaggi mafiosi bisogna rispondere subito, duramente, e soprattutto comprendendoli e non lasciandoli passare come un generico assalto alle istituzioni. Le mafie sanno che la più grande tragedia e la più grande festa non durano per più di cinque giorni. Quindi l'attenzione si abbassa, il giunco si cala e passa la china. Oggi la situazione storica sembra pericolosamente somigliare a quella già passata in Sicilia. Non è questo un governo con la priorità antimafia, non è questa un'opposizione con una priorità antimafia. Nonostante gli sforzi degli arresti.

Ad esempio: la legge sulle intercettazioni. Nella lotta alla mafia sono uno strumento indispensabile. E ora diviene talmente difficile poterle fare e ancora più poterle far proseguire per un tempo adeguato per ottenere dei risultati, che la macchina della giustizia viene nuovamente oberata di burocrazia, rallentata. Si rischia di privare gli inquirenti dell'unico strumento capace di stare al passo con una criminalità che dispone di ogni mezzo moderno per continuare a fare i propri interessi. Se i magistrati si trovano davanti a grossissime limitazioni nell'uso delle intercettazioni, è come se dovessero tornare a combattere con lo schioppetto contro chi possiede nel proprio armamentario ogni sofisticato dispositivo tecnologico.
L'altro problema sta in ogni disegno che cerca di accorciare i tempi processuali. Abolito il patteggiamento in appello, resta in vigore il rito abbreviato. Per un mafioso è conveniente: così - fra vari sconti e discrezionalità della pena valutata dai giudici - va a finire che spesso un boss può cavarsela con cinque anni di galera. Per lui e il suo potere non sono nulla, anzi sono quasi un regalo. E questa situazione col disegno sul processo breve cambia, ma solo in peggio.

Per i reati di mafia bisogna fare il contrario: creare un sistema più certo e più serio delle pene, tale da rendere non conveniente essere mafiosi. La pena deve essere comminata in dibattimento, senza possibilità di abbreviazione del rito. Lo stato non può rinunciare a celebrare processi regolari contro chi si macchia di certi reati e, peggio ancora, inquina il suo stesso funzionamento. Non si tratta di giustizialismo, ma semplicemente dell'esigenza che una condanna equa scaturisca da un processo fatto come si deve.

Questo governo agisce soprattutto a livello di ordine pubblico. In primo luogo con gli arresti, che divengono l'unica prova dell'efficacia della lotta alla mafia. Ma l'esecutivo non ha approntato strumenti per colpire il punto nevralgico delle organizzazioni criminali: la loro forza economica. Sì certo, i sequestri di beni ci sono, ma i sequestri dei beni materiali sono il risultato di imprese che invece ancora proliferano e di un sistema economico che non è stato affatto aggredito. Sul piano legislativo sarebbe gravissimo reimmettere all'asta i beni dei mafiosi. Li acquisterebbero di nuovo. Lo scudo fiscale per le mafie è un favore. E questa è la valutazione di moltissimi investigatori antimafia. Bisogna fare invece altro. Intervenire sul piano legislativo altrove. Cominciare col mettere uno spartiacque tra i reati comuni e quelli della criminalità organizzata. Ma bisogna anche smettere una volta per tutte di definire "diffamatori" coloro che accendono una luce sui fenomeni di mafia. Anche perché non è purtroppo con l'episodio di Reggio che si chiude una vicenda. Questo è soltanto l'inizio.


© 2010 Roberto Saviano.
Published by arrangement with Roberto Santachiara Literary Agency

© Riproduzione riservata (5 gennaio 2010)
da corriere.it


Titolo: ROBERTO SAVIANO A Gomorra la rivincita della giustizia
Inserito da: Admin - Gennaio 16, 2010, 02:58:52 pm
Sipario sul processo ai Casalesi

Carcere a vita per Sandokan e gli altri boss

La Cassazione conferma 16 ergastoli

A Gomorra la rivincita della giustizia

di ROBERTO SAVIANO


SULL'ultimo foglio riposto in cima ai faldoni degli inquisiti che subiscono una condanna appare la seguente dicitura: Fine pena. E dopo due punti, l'anno in cui verranno scarcerati. Per i boss storici dei Casalesi, Francesco "Sandokan" Schiavone, Francesco Bidognetti ci sarà scritto: fine pena mai. La camorra non è imbattibile. La Corte di Cassazione ha confermato le condanne. Dopo 11 anni si è chiuso il più grande processo di mafia, paragonabile solo al maxiprocesso di Palermo istruito da Falcone e Borsellino negli anni '80. Per lo Stato italiano ora è definitivo: esiste il clan dei Casalesi, esistono i loro affari i boss. È una vittoria. Tre gradi di giudizio, la parola dei pentiti è confermata dalle indagini. Fino alla fine i boss e i loro collegi difensivi hanno sperato che la Cassazione annullasse il secondo grado, ma non è andata così.

Quando è arrivata la notizia, è come se vent'anni mi fossero d'immediato passati negli occhi. Nel corpo un'emozione strana, come di rabbia e di amaro sollievo al contempo. Il pensiero va a coloro che quando parlavi di camorra dicevano che esageravi. Agli imprenditori che hanno fatto affari con il clan. Ai politici che hanno acquisito caratura nazionale grazie al potere e ai favori del clan, ai giornalisti che flirtavano con le organizzazioni divenendone portavoce. Il pensiero va a quando pronunciare la parola camorra era impossibile, a quando nessuno voleva saperne della realtà mafiosa del casertano. Ma il pensiero va anche a tutti coloro che hanno resistito. Il pensiero va ai giudici che hanno lavorato contro i casalesi, dai pm Federico Cafiero De Raho a Franco Roberti, da Lucio Di Pietro, Francesco Greco, Carlo Visconti, Francesco Curcio e poi Raffaele Cantone, Raffaello Falcone, Antonello Ardituro e Lello Magi.

Ma soprattutto il pensiero va a tutti i morti innocenti che sono caduti per mano casalese. Non riesco a non pensare a don Peppe Diana ammazzato per essersi messo contro i clan per aver detto e scritto "per amore del mio popolo non tacerò". A Salvatore Nuvoletta, carabiniere ucciso per vendicare morte del nipote di Sandokan. A Federico Del Prete, ucciso per aver fondato un sindacato contro i clan. Ad Antonio Cangiano sparato alla spina dorsale perché si era opposto da vice sindaco a dare un appalto senza gara regolare. A tutti i morti per cancro, uccisi dai rifiuti tossici sotterrati nelle terre, nelle cave, tra le bufale e le coltivazioni di mele. Una storia lunga. Che i clan avevano mantenuto al buio, solo pochi coraggiosi cronisti locali in grado di raccontare e poi una enorme indifferenza. Il primo grado si era chiuso senza nemmeno un cenno sui giornali nazionali.

Questo processo riguarda vicende che vanno dalla morte del capo dei capi Antonio Bardellino sino al 1996. E ci sono voluti dieci anni quasi per accertare quei fatti, e per chiudere il primo grado di questo processo. Nel 2005 un processo con circa 1300 inquisiti avviata dalla Direzione distrettuale antimafia nel 1993, partendo dalle dichiarazioni di Carmine Schiavone. Un processo durato seicentoventisei udienze complessive, 508 testimoni sentiti oltre ai 24 collaboratori di giustizia, di cui 6 imputati. Acquisiti 90 faldoni di atti. Una inchiesta-madre che durante questi anni ha generato decine di processi paralleli: omicidi, appalti, droga, truffe allo Stato. Dopo quasi un anno dal blitz del 1995, nacque Spartacus 2, Regi Lagni, ossia il recupero dei canali borbonici che bonificarono nel diciottesimo secolo i territori casertani dalle paludi ma che dall'epoca di Carlo III non ricevevano ristrutturazione adeguata. Il recupero dei Regi Lagni fu per anni pilotato dai clan che generarono per loro appalti miliardari inutilizzati per ristrutturare le vecchie strutture borboniche ma a dislocare miliardi di lire negli anni '90 verso le loro imprese edili che sarebbero divenute vincenti in tutt'Italia gli anni successivi.

Per la prima volta furono sequestrate come beni della camorra anche due società di calcio: l'Albanova e il Casal di Principe. 21 gli ergastoli, oltre 750 anni di galera inflitti. Persino le carte processuali da trasmettere ai giudici d'appello, i 550 faldoni contenenti gli atti del procedimento nel novembre 2006, hanno avuto bisogno di un camion blindato e scortato dai carabinieri che portò i documenti da Santa Maria Capua Vetere a Napoli. Tutto questo era accaduto con una sostanziale indifferenza dei media nazionali ed internazionali. Questo secondo grado non sarà così. I nomi dei boss, delle loro aziende, i nomi dei loro delitti non passeranno solo sulla stampa locale, non avranno solo vita d'inchiostro nei documenti processuali. Verranno conosciuti, saranno resi noti.

Per chi viene dal casertano e ha sentito parlare di onore rivolti a questi personaggi leggendo le carte del processo capirà che non hanno nulla di onorevole, che sono in grado di non rispettare nessun patto. Antonio Bardellino aveva cresciuto Sandokan e tutti gli altri capi dell'organizzazione e i suoi delfini gli fingevano rispetto. Sandokan usò le spigolosità della diplomazia camorristica per raggiungere il suo scopo che avrebbe potuto realizzasi solo facendo scoppiare una guerra interna al sodalizio. Come racconta il pentito Carmine Schiavone, i due boss pressarono Antonio Bardellino per farlo ritornare in Italia e cercare di eliminare Mimì Iovine, fratello del boss Mario Iovine, che aveva un mobilificio ed era formalmente estraneo alle dinamiche di camorra, ma che secondo i due boss aveva per troppe volte svolto il ruolo di confidente dei carabinieri. Per convincere il boss gli avevano raccontato che persino Mario Iovine era disposto a sacrificare suo fratello pur di mantenere ben salto il potere del clan. Bardellino si lasciò convincere e fece ammazzare Mimì mentre stava andando a lavoro nel suo mobilificio. Immediatamente dopo l'agguato, Sandokan e i suoi fecero pressione su Mario Iovine per eliminare Bardellino dicendogli che aveva osato uccidere suo fratello per un pretesto, soltanto per una voce. Un doppio gioco che sarebbe riuscito a mettere contro Mario Iovine il più maturo tra i delfini del boss e il boss stesso, Antonio Bardellino.

I casalesi iniziarono ad organizzarsi. Schiavone avrebbe dato l'appoggio totale per l'eliminazione di ogni residuo bardelliniano. Erano tutti d'accordo i suoi delfini per eliminare il capo dei capi, l'uomo che più di tutti in Campania aveva creato un sistema di potere criminal-imprenditoriale. Il boss fu convinto a spostarsi da Santo Domingo nella villa brasiliana, gli raccontarono la balla che aveva l'Interpol alle costole. In Brasile lo andò a trovare Mario Iovine con il pretesto di mettere a punto i loro affari circa l'impresa di import-export di farina di pesce-coca. Un pomeriggio, Iovine non trovandosi più nei calzoni la pistola, prese una mazzuola, sfondò il cranio di don Antonio e seppellì il corpo in una buca scavata sulla spiaggia brasiliana. Il corpo però non fu mai ritrovato. Eseguita l'operazione, il boss telefonò immediatamente a Vincenzo De Falco per comunicare la notizia e dare inizio alla mattanza di tutti i bardelliniani. Paride Salzillo nipote di don Antonio Bardellino, venne invitato ad un summit tra tutti i dirigenti del cartello casalese.

Racconta sempre il pentito Carmine Schiavone che lo fecero sedere al tavolo e poi d'improvviso Sandokan gi disse: "Guarda tuo zio è morto in Brasile e mo' farai la stessa fine pure tu". Ammazzano persone solo perché hanno relazioni con personaggi collegabili ai clan: come Liliano Diana che si era fidanzato con una figlia di un boss, oppure Genovese Pagliuca che era fidanzato con una ragazza di cui si era innamorata in modo saffico una amante di Bidognetti. E hanno fatto vivere nel terrore questo territorio come in una guerra civile. In una telefonata presente nelle carte processuali è scritto: "Poi dicono che a Casale stanno facendo tutti le porte di ferro, pure le botteghelle, le bancarelle, stanno tutti a fare le porte di ferro, dicono che Pucci il fabbro ha fatto seicento milioni di ferro". In questi territori, gran parte di coloro che sono vicini agli affari dei clan non lo dichiara pubblicamente ma porta avanti la tesi che la camorra sono solo coloro che sparano, solo il segmento militare.

Restano fuori dal carcere Michele Zagaria e Antonio Iovine. I due capi. Anche loro condannati in via definitiva, ma ancora latitanti da oltre tredici anni. E' Michele Zagaria il capo che con Sandokan, ora condannato definitivamente, smetterà di essere vicerè e diventerà re, almeno fin quando resterà libero. L'uomo del cemento. Il clan Zagaria infatti - secondo le accuse - è riuscito persino a lavorare per il Patto Atlantico edificando la centrale radar posta nei pressi del Lago Patria, punto fondamentale per le attività militari Nato nel Mediterraneo. Michele Zagaria che non vuole sia sparso sangue nel suo paese natale di Casapesenna, che ha pagato le feste patronali riuscendo a far venire artisti di caratura nazionale, che gestisce il ciclo del cemento in molte zone d'Italia- dall'Emilia Romagna all'Umbria sino alla Toscana- ha fatto consegnare in galera in fratelli Pasquale, Carmine e Antonio. Hanno piccole pene da scontare, tutte sotto i dieci anni e una solida strategia: una volta scontata la pena comanderanno loro i Casalesi, facendo soprattutto affari legali e internazionali. E se nel frattempo qualcuno ucciderà o penserà di ostacolare Michele, i suoi fratelli in galera saranno la sua assicurazione sulla vita. Appena gli accadrà qualcosa, hanno l'ordine di pentirsi riuscendo a far immediatamente incarcerare i loro rivali.

Per evitare di essere beccato, Michele Zagaria non ha messo su famiglia, visto che i capi che lo hanno preceduto sono stati arrestati usando il punto debole di mogli e figli. Ha fatto la latitanza persino in una chiesa, un posto dove i poliziotti non andrebbero mai a controllare. Lo Stato cerca Zagaria e Iovine (o li dovrebbe cercare) da molto tempo. Eppure difficilmente i capi operativi possono stare troppo lontano dal loro territorio. Zagaria e Iovine continuano a vivere in una manciata di chilometri, nei loro paesi di non più di 20mila abitanti, con una rete di appoggio che rende impossibile che vengano arrestati. Antonio Iovine, detto o'Ninno per il suo viso da bambino e per essere divenuto capo già da ragazzino, è l'altro reggente, legato a doppio filo a Sandokan. Quindi il suo ruolo potrebbe essere messo in crisi dall'uscita degli Schiavone dal vertice del clan. Il Ninno è potente sulla piazza di Roma, è stato proprietario della discoteca più prestigiosa della capitale e inserito nel settore dell'edilizia e del turismo. Il suo clan aveva escogitato uno strumento infallibile per trasportare coca: usavano le macchine dei vigili urbani di San Cipriano d'Aversa e i vigili stessi come corrieri.

Il ruolo dei reggenti latitanti è fondamentale per il nuovo asse cemento, rifiuti, centri commerciali, investimenti all'estero e la loro libertà permette al clan di dimostrare un'impunità continuativa per le nuove generazioni di affiliati. La chiusura del processo è anche il successo autentico di quei magistrati e quegli uomini della polizia, dei carabinieri, della guardia di finanza che in uno dei territori più inquinati e infiltrati, sono riusciti a non farsi corrompere. Che hanno creduto nel loro dovere e mestiere fosse necessario in un contesto dove tutti sono amici di tutti, dove i parenti divengono il vincolo per fare qualsiasi cosa, per avere carriere spianate o distrutte, dove il sangue viene prima di ogni scelta e di ogni coscienza. Dove dalle farmacie ai centri commerciali, dalle squadre di pallone ai giornali, dalle cave ai ristoranti, la presenza dei clan è oppressiva. In situazioni simili, fare bene il proprio mestiere è qualcosa che sa di resistenza, non solo di deontologia.

Qui si va oltre le ore di lavoro, si sente che attraverso il proprio impegno si gioca il destino di un paese. Non bisogna mai dimenticare che non si tratta solo di imprenditori senza regole, furbi e di talento, ma soprattutto di uomini feroci e spietati. Spesso pensano di ammazzare per niente, come racconta il pentito Dario de Simone: "Walter Schiavone voleva ammazzare Zagaria perché avrebbe detto che Walter non sa sparare" oppure Di Bona, altro pentito: "Michele Zagaria con il kalashnikov aveva dato tanti di quei colpi alla testa di De Falco che schizzavano in alto e fuori dal finestrino dall'abitacolo della macchina pezzi del cuoio capelluto di De Falco".

Spartacus: un nome che non è stato scelto a caso ma si riferisce proprio a Spartaco, il gladiatore tracio che nel 73 avanti Cristo insorse con un pugno di uomini contro Roma, riuscendo, partendo dalla scuola gladiatoria di Capua, a raccogliere nella sua insurrezione schiavi, liberti, gladiatori d'ogni parte del meridione. Non era mai successo nella storia giudiziaria internazionale che un processo avesse il nome di un ribelle gladiatore, di un uomo che sfidò quella che nel mito del diritto mondiale è l'assoluta capitale e simbolo: Roma. Spartacus è stato chiamato questo processo, con l'idea che il diritto potesse liberare queste terre schiave del potere dei clan e dell'imprenditoria criminale. Con il sogno che un processo potesse divenire la sollevazione legale di un territorio laddove la vera insurrezione, la vera rivoluzione in questo territorio è la possibilità di agire legalmente, senza sotterfugi, alleanze, parenti, appalti truccati e aziende dopate dal mercato illegale. In questi momenti viene voglia di parlare, a rischio di esser presi per matti, romantici, o mistici, con chi è morto. Solo i morti, dice Platone, hanno visto la fine della guerra. Ma noi, che morti non siamo, non ci daremo pace, convinti che sia possibile combattere e sconfiggere l'economia criminale.

© 2009 Roberto Saviano
Published by arrangement with Roberto Santachiara Literary Agency

© Riproduzione riservata (16 gennaio 2010)
da repubblica.it


Titolo: ROBERTO SAVIANO Ribellarsi allo scandalo
Inserito da: Admin - Febbraio 25, 2010, 09:32:13 am
L'ANALISI

Ribellarsi allo scandalo


di ROBERTO SAVIANO

I giudici dicono che la 'ndrangheta è entrata in Parlamento. E' un'affermazione terribile: proviamo a fermarci un momento e cerchiamo di capire cosa vuol dire. Significa che il potere mafioso  ha messo piede direttamente nel luogo più importante, delicato dello Stato: quello dove il popolo si fa sovrano, dove la democrazia si realizza. E' questa la vera emergenza di cui dovremmo discutere. E' come un terremoto, una valanga, solo che la colpa non è del fato: non è stata una calamità.

Sapevamo tutto. La criminalità organizzata prima crea zone dove il diritto non entra, poi si espande, pervade l'economia, si appropria del Paese, e infine entra lei stessa nello Stato. Ci sono anni di inchieste, prove raccolte, fiumi di denaro che testimoniano l'immenso potere delle mafie d'Italia. Prima le cosche siciliane, poi le calabresi e campane hanno tolto al sud ogni possibilità di sviluppo e  avvelenano l'intera economia.

Ma la vera emergenza non è questa.

L'emergenza è che tutto questo passi come l'ennesimo scandalo silenzioso, al quale siamo rassegnati. L'emergenza è che tutto ciò non faccia sentire nel cuore, nello stomaco, nella mente di ogni italiano (qualsiasi sia il suo credo e la sua posizione politica) un'indignazione che lo porti a ribellarsi, a dire: "Ora basta".
 

© Riproduzione riservata (25 febbraio 2010)
da repubblica.it


Titolo: ROBERTO SAVIANO Per un voto onesto servirebbe l'Onu
Inserito da: Admin - Marzo 20, 2010, 09:58:15 am
IL COMMENTO

Per un voto onesto servirebbe l'Onu

di ROBERTO SAVIANO

"LA DISPERAZIONE più grave che possa impadronirsi di una società è il dubbio che vivere onestamente sia inutile. E questa disperazione avvolge il mio paese da molto tempo". È una riflessione che Corrado Alvaro, scrittore calabrese di San Luca, scrisse alla fine della sua vita. E io non ho paura a dirlo: è necessario che il nostro Paese chieda un aiuto. Lo dico e non temo che mi si punti il dito contro, per un'affermazione del genere. Chi pensa che questa sia un'esagerazione, sappia che l'Italia è un paese sotto assedio. In Calabria su 50 consiglieri regionali 35 sono stati inquisiti o condannati. E tutto accade nella più totale accondiscendenza. Nel silenzio. Quale altro paese lo ammetterebbe?

Quello che in altri Stati sarebbe considerato veleno, in Italia è pasto quotidiano: dai più piccoli Comuni sino alla gestione delle province e delle regioni, non c'è luogo in cui la corruzione non sia ritenuta cosa ovvia. L'ingiustizia ha ormai un sapore che non ci disgusta, non ci schifa, non ci stravolge lo stomaco, né l'orgoglio. Ma come è potuto accadere?
Il solo dubbio che ogni sforzo sia inutile, che esprimere il proprio voto e quindi la propria opinione sia vano, toglie forza agli onesti. Annega, strozza e seppellisce il diritto. Il diritto che fonda le regole del vivere civile, ma anche il diritto che lo trascende: il diritto alla felicità.

Il senso del "è tutto inutile" toglie speranza nel futuro, e ormai sono sempre di più coloro che abbandonano la propria terra per andare a vivere al Nord o in un altro paese. Lontano da questa vergogna.
Io non voglio arrendermi a un'Italia così, a un'Italia che costringe i propri giovani ad andar via per vergogna e mancanza di speranza. Non voglio vivere in un paese che dovrebbe chiedere all'Osce, all'Onu, alla Comunità europea di inviare osservatori nei territori più difficili, durante le fasi ultime della campagna elettorale per garantire la regolarità di tutte le fasi del voto. Ci vorrebbe un controllo che qui non si riesce più a esercitare.

Ciò che riusciamo a valutare, a occhio nudo, sono i ribaltoni, i voltafaccia, i casi eclatanti in cui per ridare dignità alla cosa pubblica un politico, magari, si dovrebbe fare da parte anche se per legge può rimanere dov'è. Ma non riusciamo a esercitare un controllo che costringa la politica italiana a guardarsi allo specchio veramente, perché lo specchio che usiamo riesce a riflettere solo gli strati più superficiali della realtà. Ci indigniamo per politici come l'imputata Sandra Lonardo Mastella che dall'esilio si ricicla per sostenere, questa volta, non più il Pd ma il candidato a governatore in Campania del Pdl, Stefano Caldoro. Per Fiorella Bilancio, che aveva tappezzato Napoli di manifesti del Pdl ma all'ultimo momento è stata cancellata dalla lista del partito e ha accettato la candidatura nell'Udc. Così sui manifesti c'è il simbolo di un partito ma lei si candida per un altro.

Ci indigniamo per la vicenda dell'ex consigliere regionale dei Verdi e della Margherita, Roberto Conte, candidatosi nuovamente nonostante una condanna in primo grado a due anni e otto mesi per associazione camorristica e per giunta questa volta nel Pdl. Ci indigniamo perché il sottosegretario all'economia Nicola Cosentino, su cui pende un mandato d'arresto, mantiene la propria posizione senza pensare di lasciare il suo incarico di sottosegretario e di coordinatore regionale del Pdl.

Ci indigniamo perché è possibile che un senatore possa essere eletto nella circoscrizione Estero con i voti della 'ndrangheta, com'è accaduto a Nicola Di Girolamo, coinvolto anche, secondo l'accusa, nella mega-truffa di Fastweb. Ci indigniamo, infine, perché alla criminalità organizzata è consentito gestire locali di lusso nel cuore della nostra capitale, come il Café de Paris a via Vittorio Veneto.
Ascoltiamo allibiti la commissione parlamentare antimafia che dichiara, riguardo queste ultime elezioni, che ci sono alcuni politici da attenzionare nelle liste del centrosinistra.

E ad oggi il centrosinistra non ha dato risposte. Si tratta di Ottavio Bruni candidato nel Pd a Vibo Valentia. Sua figlia fu trovata in casa con un latitante di 'ndrangheta. Si tratta di Nicola Adamo candidato Pd nel Cosentino, rinviato a giudizio nell'inchiesta Why not. Di Diego Tommasi candidato Pd anche lui nel Cosentino e coinvolto nell'inchiesta sulle pale eoliche. Luciano Racco candidato Pd nel Reggino, che non è indagato, ma il cui nome spunta fuori nell'ambito delle intercettazioni sui boss Costa di Siderno. Il boss Tommaso Costa ha fornito, per gli inquirenti, il proprio sostegno elettorale a Luciano Racco in occasione delle Europee del 2004 che vedevano Racco candidato nella lista "Socialisti Uniti" della circoscrizione meridionale. Tutte le intercettazioni sono depositate nel processo "Lettera Morta" contro il clan Costa ed in quelle per l'uccisione del giovane commerciante di Siderno Gianluca Congiusta.

A tutto questo non possiamo rimanere indifferenti e ci indigniamo perché facciamo delle valutazioni che vanno oltre il  -  o vengono prima del  -  diritto, valutazioni in merito all'opportunità politica e alla possibilità di votare per professionisti che non cambino bandiera a seconda di chi sta alla maggioranza e all'opposizione. Trasformarsi, riciclarsi, mantenere il proprio posto, l'antica prassi della politica italiana non è semplicemente una aberrazione. È ormai considerata un'abitudine, una specie di vizio, di eventualità che ogni elettore deve suo malgrado mettere in conto sperando di sbagliarsi. Sperando che questa volta non succeda. È un tradimento che quasi si perdona con un'alzata di spalle come quello d'un marito troppo spensierato che scivola nelle lenzuola di un'altra donna.

Ma si possono barattare le proprie attese e i propri sogni per la leggerezza e per il cinismo di qualcun altro?
Oramai si parte dal presupposto che la politica non abbia un percorso, non abbia idee e progetti. Eppure la gente continua ad aspettarsi altro, continua a chiedere altro.

Dov'è finito l'orgoglio della missione politica? La responsabilità di parlare a nome di un elettorato? Dov'è finita la consapevolezza che le parole e le promesse sono responsabilità che ci si assume? E la consapevolezza che un partito, un gruppo politico, senza una linea precisa, non è niente? Eppure proprio questo è diventata, nella maggioranza dei casi, la politica italiana: niente, spillette colorate da appuntarsi al bavero del doppiopetto. Senza più credibilità. Contenitori vuoti da riempire con parole e a volte nemmeno più con quelle. A volte si è divenuti addirittura incapaci si servirsi delle parole.

Quando la politica diviene questo, le mafie hanno già vinto. Poiché nessuno più di loro riesce a dare certezze  -  certezza di un lavoro, di uno stipendio, di una sistemazione. Certezze che si pagano, è ovvio, con l'obbedienza al clan. È terribile, ma si tratta di avere a che fare con chi una risposta la fornisce. Con chi ti paga la mesata, l'avvocato. Non è questo il tempo per moralismi, poco importa se ci si deve sporcare le mani.

Solo quando la politica smetterà di somigliare al potere mafioso  -  meno crudele, certo, ma meno forte e solido  -  solo quando cesserà di essere identificato con favori, scambi, acquisti di voti, baratto di morale, solo allora sarà possibile dare un'alternativa vera e vincente.
Anche nei paesi dominati dalle mafie è possibile essere un'alternativa.
Lo sono già i commercianti che non si piegano, lo sono già quelli che resistono, ogni giorno.

Del resto, quello che più d'ogni altra cosa dobbiamo comprendere è che le mafie sono un problema internazionale e internazionalmente vanno contrastate.
L'Italia non può farcela da sola. Le organizzazioni criminali stanno modificando le strutture politiche dei paesi di mezzo mondo. Negli Usa considerano i cartelli criminali italiani tra le prime cause di inquinamento del libero mercato mondiale. Sapendo che il Messico oramai è divenuto una narcodemocrazia la nostra rischia di essere, se non lo è già diventata una democrazia a capitale camorrista e ndranghetista.

Qui, invece, ancora si crede che la crisi sia esclusivamente un problema legato al lavoro, a un rallentamento della domanda e dell'offerta. Qui ancora non si è compreso davvero che uscire dalla crisi significa cercare alternative all'economia criminale. E non basta la militarizzazione del territorio. Non bastano le confische dei beni. Bisogna arginare la corruzione, le collusioni, gli accordi sottobanco. Bisogna porre un freno alla ricattabilità della politica, e come per un cancro cercare ovunque le sue proliferazioni.

Sarebbe triste che i cittadini, gli elettori italiani, dovessero rivolgersi all'Onu, all'Unione Europea, all'Osce per vedere garantito un diritto che ogni democrazia occidentale deve considerare normale : la pulizia e la regolarità delle elezioni.
Dovrebbe essere normale sapere, in questo Paese, che votare non è inutile, che il voto non si regala per 50 euro, per un corso di formazione o per delle bollette pagate. Che la politica non è solo uno scambio di favori, una strada furba per ottenere qualcosa che senza pagare il potere sarebbe impossibile raggiungere. Che restare in Italia, vivere e partecipare è necessario. Che la felicità non è un sogno da bambini ma un orizzonte di diritto.

©2010 Roberto Saviano/Agenzia Santachiara

© Riproduzione riservata (20 marzo 2010)
da repubblica.it


Titolo: ROBERTO SAVIANO torna con un libro dal titolo: La parola contro la camorra
Inserito da: Admin - Marzo 25, 2010, 10:15:54 pm
Roberto Saviano torna con un libro e un dvd dal titolo "La parola contro la camorra"

Ne anticipiamo un brano. Le organizzazioni criminali temono i libri, i discorsi e i pensieri

Così le parole cambiano il mondo

di ROBERTO SAVIANO


SPESSO mi si chiede come sia possibile che delle parole possano mettere in crisi organizzazioni criminali potenti, capaci di contare su centinaia di uomini armati e su capitali forti. E come è possibile - questa domanda mi viene ripetuta spessissimo, soprattutto all'estero - che uno scrittore possa mettere in crisi organizzazioni capaci di fatturare miliardi di euro l'anno e di dominare territori vastissimi?

È complicato dare una sola risposta e, in verità, l'unica risposta che mi viene in mente, la più plausibile è che sia proprio la diffusione della parola a mettere paura. Non è lo scrittore, l'autore, non è neanche il libro in sé, né la parola da sola, che riesce ad accendere riflettori e per questo a mettere paura. Quello che realmente spaventa è che si possa venire a conoscenza di determinati eventi e, soprattutto, che si possano finalmente intravedere i meccanismi che li hanno provocati. Quel che spaventa è che qualcuno possa d'improvviso avere la possibilità di capire come vanno le cose. Avere gli strumenti che svelino quel che sta dietro. E soprattutto avere la possibilità di percepire determinate storie come le proprie storie. Non più come storie lontane, non più come vicende geograficamente distanti, ma come facenti parte della propria vita. Allora ciò che più temono le organizzazioni criminali non è soltanto la luce continua che gli viene posta addosso, ma soprattutto che migliaia, forse milioni di persone in Italia e nel mondo, possano sentire le loro vicende e il loro destino come qualcosa che riguarda tutti.

Qualcuno può credere che questa sia una visione troppo mediatica e quindi distante dalla realtà. Ma non è così. Molti episodi dimostrano che l'attenzione, anche degli intellettuali e degli artisti, data alle organizzazioni criminali e a quello che accade intorno a loro ha realmente cambiato le cose e il destino di molte persone. La storia di Giuseppe Impastato, giornalista ucciso a Cinisi in Sicilia nel 1978, ne è un esempio. Quando Impastato fu ucciso, l'opinione pubblica venne inconsapevolmente condizionata dalle dichiarazioni che provenivano da Cosa Nostra. Che si fosse suicidato in una sottospecie di attentato kamikaze per far saltare in aria un binario. Questa era la versione ufficiale, data anche dalle forze dell'ordine. Poi, dopo più di vent'anni, esce un film, I cento passi, che non solo recupera la memoria di Giuseppe Impastato - ormai conservata solo dai pochi amici, dal fratello, dalla mamma - ma, addirittura, la rende a tutti, come un dono. Un dono allo stato di diritto e alla giustizia. Questa memoria recuperata arriva a far riaprire un processo che si chiuderà con la condanna di Tano Badalamenti, all'epoca detenuto negli Stati Uniti. Un film riapre un processo. Un film dà dignità storica a un ragazzo che invece era stato rubricato come una specie di matto suicida, un terrorista.


È successo per molte persone. Pippo Fava, giornalista de I Siciliani, una rivista che stava dando molto fastidio a Cosa Nostra, viene ucciso mentre sta andando a prendere la nipotina a teatro. Gli sparano in testa, lo sfregiano. Gli omicidi delle organizzazioni criminali hanno sempre una sintassi simbolica. Sparare in faccia, per esempio, ha un significato diverso rispetto a sparare al petto. A Pippo Fava lo sfregiano, gli sparano alla nuca e pochissime ore dopo iniziano a diffondere la notizia, che poi diventerà la versione ufficiale nella società civile catanese - o forse bisognerebbe definirla incivile - che era stato ucciso perché "puppo", ovvero omosessuale, come dicono in Sicilia. Perché aveva messo le mani addosso a dei ragazzini fuori dalla scuola. Si erano inventati questa balla per delegittimarlo, per suscitare fastidio al solo pronunciare il suo nome. Per suscitare quella sensazione di diffidenza nelle persone, che trova terreno fertile in simili circostanze.

Chiunque si occupi di mafie sente questa melma intorno a sé: la melma della diffidenza. Io ci convivo da anni; dal primo giorno. Va di pari passo con la mia quotidianità sentire diffidenza, soprattutto quella degli addetti ai lavori, infastiditi spesso per il solo fatto che sei arrivato a molte persone. Questo, soprattutto, a intellettuali e giornalisti non torna. "Come mai sei arrivato a tante persone?" In un Paese dove chi arriva a tanti spesso è sceso a patti con qualche potere o ha scelto di compromettere le proprie parole. "Dove hai tradito? Dove ti sei venduto? Con chi ti sei alleato?". Il cinismo degli addetti ai lavori è sempre questo: arrivare a un pubblico vasto di lettori, di ascoltatori, di osservatori, significa tutto sommato accettare i codici più bassi, più biechi della comunicazione.
Così le parole cambiano il mondo

Ebbene, le organizzazioni criminali non sono tanto diverse nel valutare e nel delegittimare i propri nemici. Le organizzazioni criminali hanno necessità di portare avanti un assioma: chi è contro di noi lo fa per interesse personale. Chi è contro di noi sta diffamando il territorio, perché noi non esistiamo come loro ci raccontano. Chi è contro di noi è pagato da qualcuno per essere contro di noi. E, nella migliore delle ipotesi, sta facendo carriera personale su di noi.

Le parole, quando arrivano a molte persone, quando raccontano di certi poteri, diventano assai pericolose. Assai pericolose perché il rischio è che a difenderle debba essere il tuo corpo, il tuo sangue, la tua stessa carne. È successo a moltissimi scrittori, a moltissimi giornalisti. L'Italia ha una caratteristica che in genere, quando raccontano di noi, non viene riportata: l'Italia è un Paese cattivo. Molto cattivo. Perché è un Paese dove è difficile realizzarsi, dove il diritto sembra un privilegio.

La storia dell'antimafia spesso è una storia di enormi cattiverie e quando me ne rendo conto non riesco a capire come sia possibile, di fronte a delle vicende tragiche e tutto sommato chiare. La morte di don Peppe Diana, per esempio. La morte di un uomo, un ragazzo, ammazzato poco più che trentenne, sul cui conto, per anni, si è detto di tutto. Che fosse stato ucciso per presunte relazioni con delle donne, che avesse collaborato con un clan. Che era morto perché anche lui colluso e non perché aveva scritto un documento, Per amore del mio popolo non tacerò, che aveva dato molto fastidio ai poteri criminali. In quel documento, don Diana, segnalava la strada che avrebbe seguito in quanto prete di Casal di Principe. Lì dichiarava quale fosse il compito di un prete in quelle terre, cioè raccontare, denunciare e, appunto, non tacere.

La morte, così, diventa la garanzia che ciò che hai detto e fatto è vero, o quantomeno che ci hai creduto sino in fondo. Questo mio è un ragionamento difficile da capire e mi rendo conto che chiedo uno sforzo enorme a chi mi sta leggendo. Però è uno sforzo che vale la pena fare per capire come funzioni il meccanismo della parola. Anna Politkovskaja, scrittrice e giornalista russa, viene uccisa e il giorno stesso della sua esecuzione il marito dichiara di provare, oltre a un profondo dolore, anche un sentimento di serenità, quasi di sollievo. Stupisce tutti. Perché serenità? Perché sollievo? Com'è possibile? "Perché so", spiega lui "che almeno con la morte non potrà più essere diffamata". Pochi giorni prima che Anna morisse, avevano tentato di sequestrarla, per narcotizzarla e farle delle foto erotiche da diffondere sui giornali di gossip. Di fronte a una delegittimazione del genere puoi invocare solo la morte. Chi lavora con le parole, con le parole che spaventano certi poteri, sa benissimo che quegli stessi poteri non possono consentire che tu abbia contemporaneamente autorevolezza e vita. O l'una o l'altra. Se hai la vita non hai l'autorevolezza, se hai l'autorevolezza non hai la vita.

Tantissimi scrittori e magistrati si sono trovati nella necessità di dover scegliere. Io stesso ho avuto a che fare, in questi anni, con molti magistrati che hanno affrontato la paura, il terrore di dover morire ma ancor più di essere delegittimati. Come si può salvare la parola da questa terribile doppia condanna? Facendo sì che non appartenga più a una singola persona. La parola, se smette di essere mia, di altri dieci, di altri quindici, di altri venti e diventa di migliaia di persone, non si può più delegittimare, perché anche se si delegittima me quelle parole sono già diventate di altri. E se anche si dovesse eliminare fisicamente la persona che per prima le ha pronunciate, sarebbe comunque troppo tardi.

So bene che si rischia di essere tacciati di eccessivo romanticismo se si pronunciano espressioni come "parola usata da molti", "parola contro il potere". Ma sono convinto che far diventare concreta una parola significhi innanzitutto consentirle una piena realizzazione nel quotidiano. E affinché la parola diventi realmente efficace contro le mafie non deve concedere tregua. Il grande sogno che hanno alcuni scrittori è quello che le loro parole possano mutare la realtà, che le loro parole, magari nel tempo, possano effettivamente indirizzare il percorso umano verso nuove strade. Certo mi rendo conto che nessuno può isolare il momento esatto in cui Dostoevskij o Tolstoj hanno modificato, indirizzato o semplicemente suggestionato il pensiero umano. Non è che un mese dopo l'uscita dei loro scritti qualcosa immediatamente sia cambiato. Nessuno può dire quale sia il peso reale della Metamorfosi di Kafka oppure delle parole di Ovidio. Nessuno può dire quanto abbiano reso migliori o peggiori o indifferenti gli esseri umani.

Ma chi ha la possibilità e lo strano e drammatico privilegio di vedere le proprie parole agire nella realtà, quando ancora è in vita, quando ancora il suo libro è caldo, allora questo scrittore può accorgersi di quanto effettivamente il peso specifico delle sue parole stia entrando nella quotidianità, contribuendo a modificare i comportamenti delle persone. Quando questo accade ti rendi conto che il potere reale che hanno le parole è davvero infinito, ancor di più perché è un potere anarchico. Un potere che si basa sulla condivisione e sulla persuasione non è più un potere e la parola, quando viene accolta, non suscita più diffidenza e paura. E quando questo accade, significa che qualcosa sta cambiando, che qualcosa è già cambiato, che nessuno può più permettersi di ignorare certi argomenti, di relazionarsi a certi territori e a certe logiche.

Io vengo da una terra complicata dove ogni cosa è gestita dai poteri criminali. Tutto è a loro sottoposto e tutto è loro espressione, dalla sessualità alla cronaca locale. Ed è proprio partendo dalla cronaca locale che ho voluto raccontare il mio territorio per mostrare che esiste un modo di raccontare giorno per giorno la cronaca, nelle edicole, sui giornali che poi arriveranno nei bar, che circoleranno nelle salumerie, dai barbieri, che aderisce completamente al linguaggio e alle logiche delle organizzazioni criminali.

Si dirà che sono giornali che hanno tirature molto basse e diffusione limitata a quelle zone. Ma è esattamente in quelle zone che loro devono circolare. È lì che devono comunicare, costruire opinioni e far aderire il lettore alle logiche di camorra. È lì che deve essere considerato normale che un pentito venga definito infame. Che chi muore combattendo le organizzazioni criminali venga immediatamente riportato alla sua dimensione mediocre di uomo come tutti.

Perché chi si oppone - secondo la loro ottica - non si sta opponendo al sistema di cose, si sta opponendo perché vuole guadagnare di più, perché vuole spazio maggiore. Si è pentito perché non è diventato capo. Ci sta denunciando perché non l'abbiamo fatto guadagnare, perché vuole prendere il nostro posto. Ne sta scrivendo perché non ha il fegato o le capacità per diventare uno di noi e allora fa l'anticamorrista.

L'elemento fondamentale per questi poteri è dimostrare che tutti abbiamo vizi, tutti siamo sporchi, tutti seguiamo due cose: il potere, e dunque fama e denaro, e le donne. O gli uomini, naturalmente. Segnalare che si possa non essere santi o eroi, ma uomini diversi, con tutte le contraddizioni del caso, questo, invece, dà fastidio, mette paura, perché sarebbe come ammettere che si può cambiare anche senza dover compromettere la propria vita o dover raggiungere chissà quali gradi di perfezione o sacrificio. Che non si può essere, non si deve essere soltanto marci, soltanto disposti ad accettare il compromesso.

Molti chiedono a chi si pone contro le organizzazioni criminali perché lo faccia. C'è un corridore, un atleta, un recordman dei cento metri, a cui hanno chiesto una volta perché avesse deciso di correre. E la sua risposta è la risposta che io do a me stesso e a chi ogni volta mi chiede perché mi occupi di certi temi e perché continui a vivere questa vita infernale. A questo corridore chiesero: "Ma perché corri?" E lui rispose: "Perché io corro? ... perché tu ti sei fermato?".

Anche a me piace rispondere così. Quando mi chiedono perché racconto, rispondo semplicemente: "... e perché tu non racconti?".

©2010 Roberto Saviano/Agenzia Santachiara

© Riproduzione riservata (25 marzo 2010)
da repubblica.it


Titolo: ROBERTO SAVIANO risponde a Berlusconi Io racconto la mafia, non diffamo l'Italia
Inserito da: Admin - Aprile 25, 2010, 05:54:13 pm
PERUGIA

Saviano, risponde a Berlusconi "Io racconto la mafia, non diffamo l'Italia"

Lo scrittore e Al Gore al Festival internazionale dell'informazione: "E' come accusare un oncolgo che scrive un libro sui tumori, di diffondere il cancro". E poi: "Non potrei entrare in politica"

di LEONARDO MALA'.

PERUGIA - "Io non diffamo l'Italia, io racconto, racconto la mafia". Nel teatro di Perugia, Roberto Saviano è durissimo e pacato, nello stesso tempo. Non cita neppure direttamente il premier, gli basta ricordare che c'è chi "incredibilmente ha detto che scrivere di mafia è un modo di diffamare il proprio paese". E gli basta ricordare a tutti il suo mestiere: "Io racconto e continuo a farlo. Perché bisogna parlare, raccontare, farsi
capire, solo così abbiamo una speranza di sconfiggere le mafie"

E' stato un happening pirotecnico, il clou del IV Festival del giornalismo, con l'autore italiano oggi più amato e il premio Nobel Al Gore, proprietario di Current tv e consapevole del traino che comporta avere al fianco un personaggio del genere. Cento metri di fila, fuori del teatro, gente arrivata quattro ore prima per prendere un posto, almeno trecento persone davanti al maxischermo, oltre alle 600 presenti in sala.

Protetto da due file di palchi deserte (almeno una trentina di uomini avevano bonificato il teatro nel pomeriggio), circondato dagli inseparabili sette uomini di scorta, Roberto Saviano ha ricevuto un'interminabile standing ovation da un pubblico sinceramente solidale.

E ha cominciato a parlare, come sa, della sua terra ancora profanata dal voto di scambio, svalutato ormai alla miseria di 25 euro. E ancora di quella infelice, infelicissima battuta berlusconiana. Lapidaria la sua risposta: "Quando un Sottosegretario allo Sviluppo viene arrestato per contiguità con la malavita organizzata, come si può pensare che 200 pagine stampate possono danneggiare un Paese? Come si può incolpare chi dà l'allarme per l'incendio, senza prendersela con chi l'incendio lo appicca? E' come accusare chi scrive un trattato di oncologia di procurare il cancro". Una storia vecchia come il mito di Cassandra, che annunciava saggiamente sventura di fronte alla scellerata belligeranza maschile e che il potere relegò a portatrice di disgrazie.

Come se non bastasse, sono poi echeggiate in teatro le parole di Paolo Borsellino in memoria di Falcone, sulla lotta alla mafia non come azione repressiva ma come movimento culturale. "La gente fa il tifo per noi", diceva eccitato Falcone. Forse siamo rimasti là.

Lo scrittore ha anche risposto a una domanda che ormai molti gli fanno. Entrerà in politica? "Non potrei entrare in politica, il mio mestiere è raccontare. La politica ha perso fascino e autorevolezza - ha detto Saviano - se qualcosa non cambia questo paese continuerà e riprodurre sempre gli stessi modelli. La sofferenza più grande è vedere questo deserto che rappresenta la politica solo come scambio e conflitto, quando dovrebbe invece essere uno strumento per arrivare alla felicità".

Maria Latella ha intervistato a lungo sia Saviano che Al Gore il quale ha molto sponsorizzato la sua Current tv, magnificandone l'indipendenza e la assolutà libertà. Ha parlato apertamente di sponsor e di business, in perfetto american style, ma il segnale che la depressione democratica italiana possa stimolare gli appetiti dei grossi network mondiali è sintomatico.

Roberto Saviano è rimasto ancora un po' per qualche autografo, quindi  i sette agenti si sono scambiati il segnale. Quando varca la soglia del teatro, la scorta comincia a spingere, a scrutare, a fendere. Se ne va, Roberto Saviano, verso una meta ignota e un destino incerto. Il destino di un uomo con sette ombre.


(24 aprile 2010) © Riproduzione riservata
da repubblica.it


Titolo: ROBERTO SAVIANO I veleni dell'Ecomafia che investe sulla crisi
Inserito da: Admin - Giugno 07, 2010, 06:00:37 pm
L'INCHIESTA

I veleni dell'Ecomafia che investe sulla crisi

Affari illegali per 20 miliardi. Non solo al Sud.

L'emergenza immondizia in Campania durata 15 anni è costata come un paio di leggi finanziarie

di ROBERTO SAVIANO


RACCONTANO che la crisi rifiuti è risolta. Che l'emergenza non c'è più. Gli elenchi dei soldati di camorra e 'ndrangheta arrestati dovrebbero rassicurare che la battaglia è vinta. O almeno, questa è la versione. Molto distante, però, da ciò che realmente accade.
Ogni anno Legambiente attraverso il suo Osservatorio ambiente e legalità produce storie e numeri: "Ecomafia".

Quello dei rifiuti è uno dei business più redditizi che negli anni ha foraggiato le altre economie. Come il narcotraffico, il fare affari con i rifiuti, sotterrare scorie tossiche, devastare intere aree, ha permesso alle organizzazioni criminali e a semplici consorterie imprenditoriali di accumulare capitali poi necessari per specializzarli in altri settori. Catene di negozi, imprese di trasporti, proprietà di interi condomini, investimenti nel settore sanitario, campagne elettorali. Sono tutte economie sostenute con i rifiuti.
Esempio lampante ne è l'economia campana e i suoi gangli politici che si sono strutturati intorno alla crisi rifiuti. Il mondo intero non si spiegava come fosse possibile che un territorio in Europa vivesse una piaga tanto purulenta. Come fosse possibile che le dolcissime mele annurche o le pregiate bufale campane, caratteristiche proprio di quelle zone, potessero trasformarsi improvvisamente in prodotti rischiosi per la salute. Possibile che convenga di più avvelenare che concimare e raccogliere?

Evidentemente sì, basta saperne leggere i vantaggi. L'emergenza rifiuti in Campania è costata 780 milioni di euro l'anno. Questa è la cifra quantificata dalla Commissione bicamerale sul ciclo dei rifiuti nella scorsa legislatura che, moltiplicata per tre lustri (tanto è durata la crisi), equivale a un paio di leggi finanziarie. Di fronte a cifre come questa è comprensibile che nessuno avesse convenienza a porre rimedio all'emergenza. Rapporti di consulenza politica, assunzioni, e persino specializzazione delle ditte nello smaltimento; oggi le imprese campane del settore rifiuti, grazie anche ai soldi dell'emergenza e alla pubblicità - sembra assurdo parlare di pubblicità, no? - che ne hanno ricavato, sono tra le più richieste in Europa.

Ma risolvere un'emergenza significa anche non averne più i benefici e gli utili. E in verità, nonostante i proclami, oggi si è risolto poco. Si è tolta la spazzatura dalle strade ma, come afferma chi lavora nel settore, è solo fumo negli occhi, perché sta per tornarci.
"Se non ci saranno altri impianti entro il 2011 la Campania, come molte regioni italiane, rischia una nuova crisi rifiuti".
Sono parole dell'amministratore delegato dell'Asia (l'azienda che fornisce servizi di igiene ambientale ai napoletani.) Come un tempo, quindi, la spazzatura sta di nuovo per essere accumulata. Resta quindi il problema di scongiurare una crisi da mancanza di discariche. Una crisi che sarebbe estremamente grave anche perché purtroppo in Italia sono ancora le discariche la valvola di sicurezza del sistema rifiuti. Come risulta dal rapporto di Enea e Federambiente queste continuano a ingoiare il 51,9 per cento del totale della spazzatura del nostro Paese e il 36,5 per cento senza nessun trattamento. Nel Sud le bonifiche delle terre avvelenate da decenni di sversamenti di veleni sono rare e lente. I rifiuti tossici hanno spalmato cancro prima nei terreni, poi nei frutti della terra, nelle falde acquifere, nell'aria. Poi addosso alla gente, nelle loro ossa e nei tessuti molli. Ogni ciclo di vita è stato compromesso.

La diossina, i metalli pesanti e le sostanze inquinanti vengono ingerite, respirate, assimilate come una qualunque altra sostanza.
La pelle di ogni cittadino delle zone ammorbate trasuda sudore e scorie. Il cancro ha raggiunto percentuali molto più alte che negli altri Paesi europei. Gli ultimi dati pubblicati dall'Organizzazione Mondiale della Sanità mostrano che la situazione campana è incredibile, parlano di un aumento vertiginoso delle patologie di cancro. Pancreas, polmoni, dotti biliari più del 12% rispetto alla media nazionale.
La rivista medica "The Lancet Oncology", già nel settembre 2004, parlava di un aumento del 24% dei tumori al fegato nei territori delle discariche e le donne sono le più colpite. Ma l'ecomafia non è un fenomeno che appartiene solo al Sud. Nel Sud assume caratteristiche totalizzanti e più evidenti: nelle strade si inscena il dramma dei cassonetti incendiati, il puzzo accompagna ogni movimento, e il silenzio copre ogni cava, ogni singolo luogo dove è possibile accumulare e nascondere. Ma è sempre più il nord Italia il centro del vero business.
E la novità di quest'anno, al di là del noto primato di Campania, Calabria, Puglia e Sicilia, è che il Lazio si posiziona al secondo posto tra le regioni con il più alto numero di reati ambientali. Tra le inchieste più rilevanti del settore, nel 2009, ce ne sono alcune con nomi fantasiosi, talvolta anche vagamente familiari. "Golden Rubbish", "Replay", "Matassa", "Ecoterra", "Serenissima", "Laguna de Cerdos", "Parking Waste". Alcune, già dal nome si riescono anche a localizzare geograficamente, e tutte quelle che ho citato sono inchieste che riguardano il nord Italia. È evidente che il Nord ce la sta mettendo davvero tutta per non essere secondo al Sud in questa gara all'autodistruzione.

La "Golden Rubbish" è un'inchiesta che vede coinvolta la provincia di Grosseto, ma ancora conserva legami con Napoli e la Campania perché ha preso le mosse da un'inchiesta che riguardava la movimentazione dei rifiuti prodotti dalla bonifica del sito industriale contaminato di Bagnoli. Si tratta di un traffico spaventoso: un milione di tonnellate di rifiuti e un sistema che ha coinvolto decine e decine di aziende di caratura nazionale. L'inchiesta "Replay" è tutta lombarda e l'organizzazione criminale sgominata operava tra Milano e Varese. Un affiliato al clan calabrese che fa capo a Giuseppe Onorato è finito in manette insieme a un manipolo di colletti bianchi, tra cui funzionari di banche. Lombarda è anche l'inchiesta denominata "Matassa".

È trentina, e precisamente della Valsugana, l'inchiesta "Ecoterra" che ha bloccato un traffico illecito di scorie di acciaierie che venivano riutilizzate, senza alcun trattamento, per coprire discariche o per bonifiche agrarie. Come dimenticare Porto Marghera, dove l'operazione "Serenissima" ha scoperto il traffico illecito di rifiuti diretti in Cina. Ma anche nelle Marche l'"Operazione Appennino" ha intercettato un flusso criminale di scarti derivanti dalle lavorazioni delle industrie agroalimentari e casearie.

È umbra, invece, nonostante il nome spagnoleggiante l'operazione "Laguna de Cerdos" un traffico illecito di rifiuti liquidi di origine suinicola per cui la regione e i singoli comuni si sono a lungo palleggiati le responsabilità. Friulana, invece è l'inchiesta "Parking Waste" che ha smascherato lo smaltimento illecito di medicinali scaduti. In tutte queste inchieste, l'aspetto che più colpisce è il legame strettissimo che si è creato tra gestori delle ditte di smaltimento, politici locali e istituti di credito presenti sul territorio.
Tra le altre cose, vale la pena ricordare che a marzo l'Italia è stata condannata dalla Corte di Giustizia dell'Unione Europea per come ha gestito l'emergenza rifiuti in Campania. È stata condannata per "non aver adottato tutte le misure necessarie per evitare di mettere in pericolo la salute umana e danneggiare l'ambiente". E nella sentenza si legge che l'Italia ha ammesso che "gli impianti esistenti e in funzione nella regione erano ben lontani dal soddisfare le sue esigenze reali".

Come non rimanere colpiti da questo dato: se i rifiuti illegali gestiti dai clan fossero accorpati, diverrebbero una montagna di 15.600 metri di altezza, con una base di tre ettari, quasi il doppio dell'Everest, alto 8850 metri.
Se un cittadino straniero conservava l'illusione delle colline toscane e del buon vino, delle belle donne e della pizza gustata osservando il Vesuvio da lontano mentre il mare luccica cristallino, qualcosa inesorabilmente cambia. Tutto assume una dimensione meno idilliaca e più sconcertante. La domanda più semplice che viene da porsi è come può un Paese che dovrebbe tutto al suo territorio, alla salvaguardia delle sue coste, al suo cielo, ai prodotti tipici, unici nelle loro caratteristiche, permettere uno scempio simile? La risposta è nel business: più di venti miliari di euro è il profitto annuo dell'Ecomafia, circa un quarto dell'intero fatturato delle mafie. Le mafie attraverso gli affari nel settore ambientale ricavano un profitto superiore al profitto annuo della Fiat, che è di circa 200 milioni di euro, e più del profitto annuo di Benetton, che è di circa 120 milioni di euro. Quindi in realtà usare il territorio italiano come un'eterna miniera nella quale nascondere rifiuti è più redditizio che coltivare quelle stesse terre. Tumulare in ogni spazio vuoto disponibile rifiuti di ogni genere costa meno tempo, meno sforzi, meno soldi. E dà profitti decisamente più alti. Bisogna guadagnare il più possibile e subito. Ogni progetto a lungo termine, ogni ipotesi che tenga conto di una declinazione del tempo al futuro viene vista come perdente. Un euro non guadagnato oggi è un euro perso domani. Questo è l'imperativo del nostro Paese che vede coincidere mentalità dell'imprenditoria legale e criminale. Per difendere il Paese, per continuare a respirare, è necessario comprendere che in molte parti del territorio il cancro non è una sventura ma è causato da una precisa scelta decretata dall'imprenditoria criminale e che molti, troppi, hanno interesse a perpetrare.
O quello delle ecomafie diventa il tema principale della gestione politica del Paese, o questo veleno ci toglierà tutto ciò che aveva permesso di riconoscere il nostro territorio. La speranza è che questo allarme venga ascoltato, e che non si aspetti di sentire la puzza che affiori dalla terra, che tutto perda di luce e bellezza, che il cancro continui a dilagare prima di decidersi a fare qualcosa. Perché a quel punto sarebbe davvero troppo tardi. E coloro che sono stati chiamati i grandi diffamatori del Paese sarebbero rimpianti come Cassandre colpevolmente inascoltate.

©2010 Roberto Saviano/Agenzia Santachiara

(Il testo pubblicato è la prefazione al volume  "Ecomafia" di Legambiente che sarà in libreria mercoledì 9 giugno)
 

(07 giugno 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/cronaca/2010/06/07/news/inchiesta_rifiuti-4626039/?ref=HREC1-1


Titolo: ROBERTO SAVIANO Ecco perché bisogna fermarla
Inserito da: Admin - Giugno 12, 2010, 05:43:32 pm
DDL INTERCETTAZIONI

Ecco perché bisogna fermarla

di ROBERTO SAVIANO

La Legge bavaglio non è una legge che difende la privacy del cittadino, al contrario, è una legge che difende la privacy del potere. Non intesa come privacy degli uomini di potere, ma dei loro affari, anzi malaffari. Quando si discute di intercettazioni bisogna sempre affidarsi ad una premessa naturale quanto necessaria. La privacy è sacra, è uno dei pilastri del diritto e della convivenza civile.
Ma qui non siamo di fronte a una legge che difende la riservatezza delle persone, i loro dialoghi, il loro intimo comunicare. Questa legge risponde al meccanismo mediatico che conosce come funziona l'informazione e soprattutto l'informazione in Italia. Pubblicare le intercettazioni soltanto quando c'è il rinvio a giudizio genera un enorme vuoto che riguarda proprio quel segmento di informazioni che non può essere reso di dominio pubblico. Questo sembra essere il vero obiettivo: impedire alla stampa, nell'immediato, di usare quei dati che poi, a distanza di tempo, non avrebbe più senso pubblicare. In questo modo le informazioni veicolate rimarranno sempre monche, smozzicate, incomprensibili. L'obiettivo è impedire il racconto di ciò che accade, mascherando questo con l'interesse di tutelare la privacy dei cittadini.

Chiunque ha una esperienza anche minima nei meccanismi di intercettazione nel mondo della criminalità organizzata sa che vengono registrati centinaia di dettagli, storie di tradimenti, inutili al fine dell'inchiesta e nulle per la pubblicazione. Il terrore che ha il potere politico e imprenditoriale è quello di vedere pubblicati invece elementi che in poche battute permettono di dimostrare come si costruisce il meccanismo del potere. Non solo come si configura un reato. Per esempio l'inchiesta del dicembre 2007 che portò alla famosa intercettazione di Berlusconi con Saccà ha visto una quantità infinita di intercettazioni di dettagli privati, di cui in molti erano a conoscenza ma nessuna di queste è stata pubblicata oltre quelle necessarie per definire il contesto di uno scambio di favori tra politica e Rai.

La stessa maggioranza che approva un decreto che tronca la libertà di informazione in nome della difesa della privacy decide attraverso la Vigilanza Rai di pubblicare nei titoli di coda il compenso degli ospiti e dei conduttori. Sembra un gesto cristallino. E' il contrario. E non solo perché in una economia di mercato il compenso è determinato dal mercato e non da un calcolo etico. In questo modo i concorrenti della Rai sapranno quanto la Rai paga, quindi il meccanismo avvantaggerà le tv non di Stato. Mediaset potrà conoscere i compensi e regolarsi di conseguenza. Ma la straordinaria notizia che viene a controbilanciare quella assai tragica dell'approvazione della legge sulle intercettazioni è che il lettore, lo spettatore, quando comprende cosa sta accadendo diviene cittadino, ossia pretende di essere informato. Migliaia di persone sono indignate e impegnate a mostrare il loro dissenso, la volontà e la speranza di poter impedire che questa legge mutili per sempre il rapporto che c'è tra i giornali e i suoi lettori: la voglia di capire, conoscere, farsi un'opinione. Non vogliamo essere privati di ciò. Mandare messaggi ai giornali, mostrarsi imbavagliati, non sono gesti facili, scontati. Non sono gesti che permettono di sentirsi impegnati. Sono la premessa dell'impegno. L'intento d'azione è spesso l'azione stessa. Il dichiararsi non solo contrari in nome della possibilità di critica ma preoccupati che quello che sta accadendo distrugga uno strumento fondamentale per conoscere i fatti. La legge che imbavaglia, viene contrastata da migliaia di voci. Voci che dimostrano che non tutto è concluso, non tutto è determinabile dal palinsesto che viene dato agli italiani quotidianamente. Ogni persona che in questo momento prende parte a questa battaglia civile, sta permettendo di salvare il racconto del paese, di dare possibilità al giornalismo - e non agli sciacalli del ricatto - di resistere. In una parola sta difendendo la democrazia.

©2010 Roberto Saviano/ Agenzia Santachiara

(12 giugno 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/06/12/news/saviano_intercettazioni-4778643/?ref=HREA-1


Titolo: ROBERTO SAVIANO "Mi accusano in nome dell'omertà"
Inserito da: Admin - Giugno 14, 2010, 03:46:39 pm
Cultura

14/06/2010 - L'INTERVENTO AD "ANTEPRIME" "Mi accusano in nome dell'omertà"

Saviano e Vargas Llosa a confronto sulla letteratura come impegno

MARIO BAUDINO

PIETRASANTA (Lucca)

Io continuerò a scrivere, dice Roberto Saviano al pubblico che affolla piazza del Duomo, perché è il vero modo di amare il proprio Paese. E, alla fine di un lungo dialogo con Mario Vargas Llosa, risponde ai suoi critici più recenti, dal calciatore Marco Borriello al senatore GaEteano Quagliariello, senza dimenticarE le accuse che gli sono venute da sinistra. «Mi ha molto spaventato essere confuso con quello che racconto; perché questo significa confondere me con quel che scrivo», ed è un modo per nascondere, ignorare, occultare la realtà di Gomorra, dell'illegalità. «Ma la legalità non è né di destra né di sinistra, non è ideologica. Ci sono persone per bene che votano a sinistra, e persone per bene che votano a destra. E naturalmente esiste anche il contrario. Io voglio parlare a tutti, non agli elettori Di questo o di quello; non si tratta di dividere il Paese, ma di parlare a tutte le persone per bene».

La lunga serata di Saviano in dialogo con il grande autore peruviano sui temi della letteratura e dell'impegno si conclude, dopo un sorta di excursus sui classici e il valore di testimonianza della grande letteratura, con una serie di risposte anche molto nette su temi che la polemica politica e culturale ha agitato con particolare virulenza. A Saviano interessano meno i «centravanti del calcio che all'improvviso si scoprono… qualcos'altro», o quelli che gli rimproverano di andare «contro l'interesse nazionale», gli preme ribadire che chi dà l'allarme per l'incendio non può essere scambiato con l'incendiario, e che, al fondo, queste accuse gli vengono gettate in faccia in nome dell'omertà, cioè «del non voler sapere, del non voler conoscere».

Certo, sottolinea con amarezza e sarcasmo, quando su giornali si leggono accuse simile a quella «dei camorristi», allora è dura. «Però, se fossi libero di muovermi come voglio, farei come i Testimoni di Geova: andrei porta dopo porta a parlare con tutti, a bussare da tutti». È un fiume in piena, mentre il pubblico, cinquemila persone, sottolinea le sue frasi con lunghi applausi. «Tutti i caduti dell'antimafia sono stati a un certo punto accusati di diffamare il proprio Paese». Ma, aggiunge, non si può far altro, o almeno lui non può far altro che continuare a raccontare. «Raccontare va oltre il mondo. Persino oltre quello che ti può accadere. Al di là di queste accuse, e dei silenzi che vogliono imporci, continuerò a scrivere pensando che sia il solo modo di agire possibile». Prima, sempre discutendo con Vargas Llosa, cui aveva dedicato un sorridente ricordo (quando seppe che lo aveva recensito sul quotidiano spagnolo El País fu, dice, come se uno dei suoi autori più amati fosse uscito dalla libreria e si fosse messo a parlare di lui), aveva evocato nomi molto importanti per la sua formazione, come Varlam Shalamov, il narratore del Gulag siberiano, o Reinaldo Arenas, incarcerato a Cuba perché omosessuale, o molto vicini alla sua esperienza, uno per tutto Anna Politkovskaja , la giornalista e scrittrice russa uccisa per i suoi reportage e i suoi libri sulla Cecenia.

Se l'autore peruviano aveva insistito sul fatto che la letteratura, la grande letteratura, è sempre stata invisa ai poteri autoritari, siano essi religiosi, economici o ideologici, Saviano si è chiesto: ma che paura poteva fare Shalamov al potere sovietico, o la Politkovskaja a quello russo? La risposta, già data altre volte e qui ribadita, è che le loro storie erano diventate storie di tutti, e non si potevano più fermare. La serata di ieri, però, meritava un corollario: questi «giusti» (nel senso dato alla parola dagli ebrei) più che «eroi» (eroe è un termine che piace a Saviano, implica qualcosa di eccezionale, isolato, in fondo lontano) avevano in mente, come obiettivo, come modello, come scopo la democrazia nel senso in cui la intendiamo noi, e di cui erano privi. «Se pensi a loro, capisci quanto sia sacra la libertà d'espressione, e che dobbiamo difenderla a tutti i costi».

Il pubblico capisce a sua volta il contesto in cui inserire la frase, applaude a lungo. E Saviano chiude imperioso sul senso ultimo delle sue risposte, sulla conclusione ovvia della sua idea di impegno civile, che vale oggi, qui, nel nostro mondo: «Non è pensabile che la democrazia si lasci lentamente compromettere».

http://www3.lastampa.it/cultura/sezioni/articolo/lstp/243642/


Titolo: ROBERTO SAVIANO Sandokan pentiti, il tuo potere è finito
Inserito da: Admin - Giugno 16, 2010, 02:37:20 pm
LA LETTERA

Sandokan pentiti, il tuo potere è finito

di ROBERTO SAVIANO


ORA che ti hanno arrestato anche il primo figlio, è giunto il tempo di collaborare con la giustizia, Francesco Schiavone. Sandokan ti chiama ormai la stampa, Cicciò o' barbone i paesani, Schiavone Francesco di Nicola, ti presentano i tuoi avvocati. E Nicola, come tuo padre, hai chiamato tuo figlio a cui hai dato lo stesso destino. Destino di killer. Accusato di aver ucciso tre persone, tre affiliati che avevano deciso di passare con l'altra famiglia, con i Bidognetti. Nessuno si sente sicuro nella tua famiglia, il tuo gruppo ormai non dà sicurezza. Non ti resta che pentirti. Questa mia lettera si apre così, non può iniziare diversamente, non può cominciare con un "caro". Perché caro non mi sei per nulla. Neanche riesco a porgertelo per formale cortesia, perché la cortesia rischia già di divenire una concessione che va oltre la forma. Scrivendo non userò né il "voi" che considereresti doveroso e di rispetto, né il "lei". Chi usa il "lei", lo so bene, per voi camorristi si difende dietro una forma perché non ha sostanza. Allora userò il tu, perché è soltanto a tu per tu che posso parlarti.

Sei in galera da più di dieci anni. Prima ti eri rinchiuso a Casal di Principe in una casa bunker sotterranea. È lì che ti hanno scovato e arrestato. Oggi hanno catturato tuo figlio in un buco analogo, solo più piccolo: stesso luogo, stessi arredi, simboli di un potere sterile  -  il televisore a cristalli liquidi  - , divenuti più dozzinali con il trascorrere degli anni.
 
Persino stessa passione per la pittura. Cos'hai pensato quando hai saputo che l'hanno stanato, quando ti hanno riferito che a guidare il blitz identico a quello che ha portato alla tua cattura c'era lo stesso uomo, Guido Longo, allora capo della Dia napoletana, oggi questore di Caserta? Cosa hai pensato quando hai visto l'antimafia di Napoli diretta dal Pm Cafiero de Raho combattere ancora lì, non indebolita nonostante le mille difficoltà? Che sensazione ti ha generato scoprire che "Nic'ò barbone" si è arreso con il tuo stesso gesto, l'identico modo di alzare le mani, quasi si trattasse di un tuo clone, non di tuo figlio? Cosa provi ora che la moglie di Nicola subirà le stesse pene che ha subito tua moglie? I tuoi nipoti vivranno come i tuoi figli senza padre, con i soldi mensili versati da qualche tuo vicario e il destino da camorrista già scritto perché intorno tutti vogliono così, perché tu vuoi così. Cosa provi? È a questo che è valsa la tua scalata alla testa dell'organizzazione, con tutti gli ordini di morte che hai impartito, con tutti gli uomini un tempo tuoi sodali che hai ucciso addirittura letteralmente con le tue stesse mani?

Ogni tuo amico ti è divenuto nemico, hai fatto ammazzare Vincenzo De Falco con cui eri cresciuto, hai fatto ammazzare i parenti di Antonio Bardellino, l'uomo che ti aveva dato fiducia, potere e persino amicizia. Vi tradite l'un l'altro e sapete dal primo momento che questo accadrà anche a voi stessi. Perché questa è la vostra vita, uccidere i vostri più cari amici, distruggere coloro con cui siete cresciuti per non essere distrutti. E sarete distrutti da coloro che oggi vi sono amici, che oggi stanno crescendo nei vostri affari. Come ti sei sentito Francesco Schiavone Sandokan quando in una relazione che hai fatto consegnare ai tuoi legali affermi di vedere fantasmi che ti vengono a trovare nella tua cella? Come ti senti quando piangi, quando ti senti impazzire, quando fai il finto pazzo pur di uscire dalla galera? Quando vieni a sapere che l'altro tuo figlio, Emanuele, è stato arrestato come un qualunque tossico che vende hashish per avere soldi? Lui figlio del capo dell'impero del cemento che si fa beccare come un tossico qualsiasi? Quando il tuo ordine era quello di non far spacciare in paese e invece tuo figlio finisce per farlo a Rimini, come ti senti? L'unica speranza che hai è quella di pentirti, non devi continuare a indossare la maschera della tigre feroce, mentre sei diventato un gatto rinchiuso e castrato.

Castrato come Francesco Bidognetti, tuo alleato e allo stesso tempo rivale, ormai sull'orlo del pentimento, che deve per forza mantenere la pace con uomini che gli hanno ucciso parenti e alleati. Che deve vedere le sue donne tradirlo una alla volta. Un uomo che del comando ormai conserva soltanto il ricordo. Oggi ha difficoltà a mantenere il suo gruppo, i sequestri di beni e gli arresti lo stanno divorando. Eppure i tuoi uomini, quelli che tuo figlio avrebbe ucciso, erano disposti a passare con lui pur di non stare sotto il comando del tuo erede. Hai sempre saputo quale fosse il tuo destino. Fatturate miliardi di euro all'anno, il patrimonio del tuo clan è simile a quello di una manovra finanziaria, ma il vostro non è un destino da uomini. È solo un destino da criminali, coloro che si credono re e si ritrovano prigionieri. Con il wc accanto al tavolo dove mangiate, con un secondino che vi ispeziona, con i vostri figli che hanno vergogna di dire chi siete, e un vetro che vi impedisce di toccare finanche le mani delle vostre mogli.

Come sopporti questa ripetizione di un copione che tu stesso hai scritto sulla pelle della tua discendenza, che a sua volta doveva inciderla nella carne altrui? Sei fiero che il tuo primogenito rischi di finire i suoi giorni in carcere? Costretti a vivere come topi. Per mesi, anni. Condannati, già prima di ogni sentenza, a nascondervi, a mentire, a camuffarvi, a pagare uomini dello Stato per aiutarvi, a comprare politici per difendervi, a mercanteggiare promesse e favori in cambio di protezione e sotterfugi. Ma anche a costringere dei poveri vostri compaesani ad accogliervi sotto minacce, mentre alle vostre famiglie tocca farsi svegliare dalla polizia nel cuore della notte o farsi pedinare per giorni e giorni. È questa la sostanza del vostro impero. Hai avuto e hai ancora molti politici in pugno, condizioni gli appalti di molta parte di questo Paese. Proprio perché stai in galera e porti il peso del tuo potere, ti consideri migliore rispetto a imprenditori e parlamentari vicini che valuti codardi. Eppure di questa superiorità cosa ti rimane? Loro stanno fuori e tu sei dentro. Perché continua a difenderli il tuo silenzio? Cosa mai potrà compensare il tuo ergastolo e la distruzione continua della tua famiglia? Non lo vedi? Francesco Schiavone, che cos'hai ottenuto? L'ergastolo e un futuro sepolto in galera. Non hai più alcuna speranza di uscirne fuori finché sei vivo. E allora, che cosa pensi, che ragioni ti dai della tua vita?

Credo, in realtà, di sapere a cosa stai pensando. Che adesso gli affari fuori sono buoni. La crisi economica aumenta il business del clan la tua galera passa in secondo piano. Pensi che hanno anche promulgato leggi favorevoli. La legge sulle intercettazioni sarà d'ora in avanti il vostro scudo, con questa legge non avrebbero mai potuto arrestare tuo figlio, la legge sul processo breve potrà tornarvi utile. Avete politici alleati nei posti chiave, e (se verrà confermato quanto dichiarano le accuse dell'antimafia di Napoli) il sottosegretario allo sviluppo Nicola Cosentino è in diretto rapporto con la tua famiglia. Non perché tuo parente ma perché in affari con te. Quindi pensi di avere un ministero importante dove passano soldi e favori nelle tue mani.

Ma tu sei e rimani in galera però. Ricordi quello che ha detto Domenico Bidognetti su Nicola Ferraro quando si è pentito? L'ha accusato non perché anche Nicola Ferraro sia tuo parente, ma per gli affari che fa con te e tramite te. Ricordi? Dovresti saperlo. Lui ha dichiarato che "Nicola Ferraro prelevava i rifiuti speciali delle officine meccaniche, anzi fingeva di prelevare i rifiuti ma in realtà faceva delle false certificazioni e venivano smaltiti illegalmente". Lui leader casertano dell'Udeur molto legato a Clemente Mastella è stato arrestato nella retata che azzerò il partito. "Era un imprenditore molto vicino al clan dei casalesi. Prima era più vicino alla famiglia Schiavone, poi deve essersi avvicinato a Antonio Iovine". E poi  -  continua Domenico Bidognetti che conosci bene e tu stesso l'hai in qualche modo allevato  -  "a testimonianza dei buoni rapporti fra il Ferraro ed il clan, un anno fa Cicciariello (Francesco Schiavone, cugino omonimo di Sandokan n. d. r.) mi disse che voleva mandare a dire a Ferraro di intercedere presso il suo 'comparè Clemente Mastella Ministro della Giustizia, per fare revocare, un po' per volta, i 41 bis applicati a noi casalesi. Non so dire se poi Cicciariello attuò questo proposito".

Ecco prima o poi, supponi, qualche politico amico attenuerà la tua pena e tornerai come quando eri giovane a vivere in carcere come in un hotel. Se non toccherà a te stesso, magari a Nicola, tuo figlio. Ti è stato consentito di incontrare un boss di Cosa Nostra, Giuseppe Graviano, mandante dell'uccisione di Don Puglisi, responsabile della morte di Falcone e Borsellino e delle stragi che nel '93 colpirono Firenze, Milano e Roma. Chissà cosa vi siete detti nei vostri colloqui durante l'ora d'aria al carcere di Opera, dove entrambi scontate il regime del 41 bis? Avete stretto alleanze, avete escogitato nuove strategie? Avete messo a punto degli strumenti per rivalervi su coloro che vi hanno punito, nel caso non fossero disposti a venire a patti? Avete vagheggiato di avere in mano, pur dal cortile di un carcere di massima sicurezza, il destino dell'Italia? Pensate che il vostro silenzio o una vostra mezza parola possa delegittimare i vertici del potere politico? Mettergli paura? Ingenuità, Schiavone. Non ti rendi conto che siete divenuti burattini pensando di essere burattinai. Ma non vedi quello che sta accadendo?

Ciclicamente appoggiate politici che vi fanno promesse, vi usano per ottenere ciò che gli torna utile, vi scaricano quando non servite più, quando intravedono delle alternative. Perché in questo Paese in cui il potere è sempre in mano a pochi e soliti, i soli di cui è certo che verranno prima o poi rimpiazzati da qualche rivale emergente siete voi.
La camorra è potente ma la sua forza si basa sul fatto che i camorristi continuamente cambiano, sono interscambiabili. I cimiteri sono pieni di camorristi indispensabili. Non stai vedendo che stanno eliminando il tuo gruppo? E quello di Bidognetti? E i fedeli Iovine e Zagaria? I due latitanti? Ancora liberi. Liberi di fare affari, di dirigerli. I tuoi reggenti diventati re nei fatti, perché non esiste nessuna incoronazione, mentre le detronizzazioni, quelle esistono, e prima o poi vengono scritte con il sangue, se non quello del sovrano decaduto, almeno quello dei suoi ultimi fedeli. È questo ciò che ti attende e lo sai. Loro ti tradiranno (se non lo stanno già facendo) proprio come tu hai tradito Antonio Bardellino e Mario Iovine.

Quattro anni fa feci un invito nella piazza di Casal di Principe. Lo feci alle persone, soprattutto ai ragazzi che erano lì presenti. Li invitai a cacciarvi dai nostri paesi, a disconoscervi la cittadinanza, a togliere il saluto alle vostre famiglie. "Michele Zagaria, Antonio Iovine, Francesco Schiavone, non valete niente". Urlai con lo stomaco e con la volontà di dimostrare che si potevano fare i vostri nomi, in quella piazza. Che non succede proprio nulla se si fanno. Che non sono impronunciabili, neanche quando si chiede non a una, due, o cinque persone, ma a molte, moltissime, di denunciarvi, di spingervi ad andarvene da Casal di Principe, San Cipriano d'Aversa, Casapesenna. A liberare queste terre. Tuo padre mi ha definito un buffone, non è l'unico a pensarla così. Tu stesso hai fatto scrivere dai tuoi avvocati che racconto menzogne. Sulle pareti di Casal di Principe mai è apparso un insulto a te, neanche dopo la strage di Casapesenna che avevi ordinato. Invece decine e decine le scritte contro di me, e appena si pronuncia il mio nome, i giovani delle mie zone mi riempiono di insulti. E quando vedono i tuoi figli, cosa fanno? Che cosa rappresentano questi ragazzi senza madre, senza padre, con gli occhi delle polizie sempre puntati addosso? Ti credi un uomo a far vivere così i tuoi figli? Tua moglie in prigione, i figli mollati ai parenti. È da uomo di onore, questo? Da uomo di rispetto?

Non è un uomo una persona che fa vivere così la propria famiglia. Questo lo sai nel profondo di te stesso. Una vecchia espressione napoletana identifica con un'espressione molto efficace un potere fatto solo di sbruffoneria: "guappi di cartone". Voi la usate per definire un uomo che parla e poi non agisce e ha paura. Io la uso per mostrare quanto sia codardo il vostro potere di morte, corrotto il vostro business, e che il vostro silenzio difende tutti quei colletti bianchi, imprenditori, editori, commercialisti, onorevoli, ingegneri che lavorando per voi pensando soltanto di lavorare per delle imprese di cui non vogliono conoscere l'origine. Guappo di cartone sei perché ordini esecuzioni di persone disarmate, fai sparare alle spalle a innocenti. Guappo di cartone perché temi ogni mossa che possa compromettere le tue entrate di danaro, perché sei disposto a perdere faccia e dignità per un versamento in euro. Guappo di cartone che costringi al silenzio della paura tutti i tuoi paesani se vogliono lavorare nelle tue imprese. Guappo di cartone perché non fai crescere nessuna impresa che con te e con i tuoi non faccia affari. Guappo di cartone perché avveleni la terra dove i tuoi avi avevano piantato le pesche, i meli, e ora la terra avvelenata non produce nulla se non cancro.

Può sembrarti assurdo ma siccome nessuno te lo chiede, te lo ripeto io un'altra volta. Collabora con la giustizia. Prima che tutti i tuoi figli finiscano in galera o ammazzati. Prima che le tue figlie siano costrette a matrimoni combinati per farti ancora contare qualcosa, prima che i tuoi nipoti debbano tutti legarsi attraverso matrimoni agli imprenditori locali per cercare di controllarli, sempre, ovunque, in ogni momento. Invita a pentirsi anche tuo fratello Walter. Fuori dal carcere si sentiva il protagonista di Scarface. Non c'era assessore, sindaco, segretario di partito o imprenditore che non volesse fare patti e affari con lui. E ora? Ora in galera lo divora una malattia, ha perso un figlio, è divenuto uno scheletro che cammina e implora ai giudici clemenza, lui che non l'ha mai data alla sua terra e ai suoi nemici. Per cosa taci ancora? Pensi che ti renda onore tutto questo? Pensi che ti rispettino coloro che il tuo silenzio difende? Tutti coloro che avete reso potenti, sensali con la coscienza pulita perché non sparavano, ma costruivano, smaltivano, votavano, governavano. Tutti questi non sono lì con voi. E andranno con chi comanda. Ieri eravate voi oggi sono altri, e domani altri ancora. Loro saranno amici di chi conta. Come sempre. E voi morirete in carcere.

Tu cosa vuoi, Francesco Schiavone? La tua morte? Rimpiangi di non essere finito ammazzato? Come tuo nipote Mario Schiavone "Menelik"? Facesti uccidere per vendicare la sua morte un carabiniere innocente Salvatore Nuvoletta, aveva vent'anni quando il clan dei casalesi chiese la sua testa, non fu lui ad uccidere in un conflitto a fuoco tuo nipote. E l'hai fatto ammazzare lo stesso. Tu e i tuoi uomini. Uccidendolo mentre era disarmato, mentre giocava con un bambino. Questo è onore?

Io sono cresciuto in terra di camorra e so come ragioni. Consideri smidollato chi ha paura di morire, chi ha paura del carcere. Sai che se vuoi davvero comandare sulla vita delle persone, devi pagarlo questo potere. Tu e i tuoi amici vincete perché sapete sacrificarvi mentre i politici e gli imprenditori di questo paese non sanno farlo. Quante volte ho sentito pronunciare queste parole dai miei conterranei. Ma non per tutti è così.

Prima o poi vi schiacceranno. Prima o poi tutti i vostri affari, il vostro cemento, i vostri voti, i vostri rifiuti tossici, tutto questo sarà destinato a finire. Non è la volontà che muta il destino delle cose, e tu, Schiavone, non sei che l'ennesimo di una catena infinita. Ma forse potresti fare un gesto, una scelta che compensi almeno in parte tutto quanto hai fatto. Mostra tutto. Sollevati dal tuo potere, dal potere dei tuoi affari, sottosegretari, sindaci, presidenti di provincia, sollevati dai veleni, dai morti, dalle dannate famiglie che credono di disporre di cose, persone, e animali come sovrani. Collabora con la giustizia, Schiavone. Invita a consegnarsi Antonio Iovine e Michele Zagaria. Sarebbe un gesto che ridarebbe a te e ai tuoi dignità di uomini. Provate ad essere uomini e non utili bestie feroci da business e accordi. Collabora con la giustizia, mostra che sei ancora un essere umano e non solo un agglomerato di cellule capace solo con rancore e avidità di strisciare di covo in covo, o di cella in cella.
©2010 Roberto Saviano/ Agenzia Santachiara

(16 giugno 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/cronaca/2010/06/16/news/sandokan_pentiti_il_tuo_potere_finito-4876131/?ref=HREC1-4


Titolo: ROBERTO SAVIANO LA MORTE DI TARICONE
Inserito da: Admin - Giugno 29, 2010, 07:02:19 pm
LA MORTE DI TARICONE

L'addio di Saviano, compagno di scuola al Diaz di Caserta: «Mi mancherai»

L'autore di Gomorra e l'attore hanno frequentato lo stesso liceo scientifico nella città campana

Roberto Saviano


CASERTA - Entrambi casertani, entrambi giovanissimi, entrambi travolti improvvisamente dal successo. Ad uno di loro due, però, il destino ha riservato una tragica fine. Roberto Saviano e Pietro Taricone hanno frequentato, negli stessi anni sebbene in classi diverse, il liceo scientifico Diaz di Caserta. Lo scrittore oggi dà commosso l'addio al compagno di scuola, reso famoso dal Grande Fratello, e ricorda «quando eravamo adolescenti, lui era rappresentante di istituto, un ragazzo carismatico, solare e un po' guascone. Nella Caserta di quegli anni la sua ribalta sconvolse tutti, si sentì aggredito da tanto successo, una luce che la nostra terra non è abituata a ricevere».

TRAVOLTI DAL SUCCESSO - Improvvisamente travolto dal successo, esattamente come, qualche anno più tardi, è capitato al giovane scrittore dopo l'uscita del suo «Gomorra». Ma di Taricone Saviano dice che «sulla soglia del circo mediatico seppe prendersi il suo tempo, scegliere il suo percorso, approfittare dell’opportunità avuta per studiare e migliorarsi. Non farsi ferire dalla bile o dalle accuse per il successo che in certe parti d’Italia è la colpa peggiore». E ancora, sullo sport che all'attore è costato la vita, lo scrittore aggiunge: «Amava volare, perché il cielo non tradisce come ogni paracadutista sa. A tradirlo è stato l’atterraggio, è stata la terra». Infine Saviano ricorda quando Taricone scese in campo al suo fianco: «Soffro per non essere riuscito a ringraziarlo, perchè all’indomani delle critiche rivoltemi da Berlusconi, mi difese pubblicamente, cosa non scontata per chi viene dalla nostra provincia. Mi mancherà riconoscere nei sui sguardi e nel suo atteggiamento l’inconfondibile matrice della mia terra, mi mancherà guardandolo ricordare la nostra adolescenza, le manifestazioni a scuola, le gite. Quella vita che lo attraversava e mi contagiava. Addio Pietro, addio guerriero».

Redazione online
29 giugno 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA


Titolo: ROBERTO SAVIANO Vi racconto Bono lontano dal palco
Inserito da: Admin - Agosto 13, 2010, 04:05:26 pm
IL PERSONAGGIO

Vi racconto Bono lontano dal palco

Dal rock all'impegno sociale, dal successo mondiale alla politica. E poi l'Africa, l'Italia così difficile da capire.

Il leader degli U2 parla di sé con lo scrittore e rivela il suo volto inedito

di ROBERTO SAVIANO


MI SVEGLIO e ricevo un messaggio. In genere sono guai, mi sollecitano per qualche scritto che ancora non ho consegnato, risultati di processi, inchieste, arresti. Ma questa volta si tratta di qualcosa di diverso: "Bono, il leader degli U2, è in Italia e vuole conoscerti". Chiedo spiegazioni. E dopo qualche secondo: "Sì, Bono ha letto il tuo libro le tue interviste, vuole conoscerti". Per qualche strana ragione pensi sempre che certe cose non abbiano carne e sangue ma siano come immateriali. Una di queste è la voce di Bono, la più bella voce maschile del rock mondiale. E quando quella voce ti dice "grazie per aver fatto tutti questi chilometri per me" la senti sovrapporsi all'urlo di "One" ("One love, One life") e hai come l'impressione di essere una groupie che perde ogni contegno dinanzi alla sua rockstar.

Bono mi accoglie in una villa presa in affitto. L'aria è davvero di casa, bambini che corrono ovunque, persino gli scoiattoli che zampettano in giardino, credo di non averne mai visto uno così vicino. Bono mi abbraccia e la sua è una gentilezza disarmante che mi dimostra quello di cui mi raccontavano, ossia la sua qualità di uomo rimasto uomo, senza divismi o posture. Anzi affamato di conoscere, capire, curioso del mondo e per nulla rinchiuso nella sua fortezza di note. Ha i soliti occhiali, ci sediamo a mangiare, e sembra avere una formula per me: "La prima anche se piccola vittoria contro le forze del male che ti circondano, è conservare il senso dell'umorismo. Quindi, devi combattere assolutamente, e lo fai essendo al di sopra di tutto, con il sorriso. Perché ridere - e ridi molto - è veramente la prova conclamata della libertà. Sai, quando ho pensato a questa cosa per la prima volta non ero affatto in pericolo, l'unico pericolo che avevo avvertito era quello di aver visto le mie chiappe nude pubblicate su un giornale. O di essere fotografato ubriaco all'uscita di un bar. Ecco ciò che ho capito, proprio all'inizio della mia popolarità, che questa sensazione di disagio, l'imbarazzo che provavo, poteva rendere brutto anche il viso più bello".

Bono mi racconta come sia fondamentale rimanere se stessi anche se intorno tutti cercano di prendere pezzi di te, di modificarti, di dannarti o esaltarti. Gli chiedo se gli manca vivere normalmente, campare come ogni essere umano occidentale. "Mi dispiace molto non riuscire a portare i miei bambini in giro. Una volta, era all'inizio della mia carriera, ho provato anche a camuffarmi: cappello e baffi da cowboy. Entro in un negozio, volevo comprare una chitarra e con un accento strano mi rivolsi al cassiere. Avevo pagato e stavo per uscire, quando questi si avvicina all'orecchio e mi dice: "Ok ok Bono ho capito, può bastare, tranquillo non lo dico a nessuno che sei tu..."".

Si alza gli occhiali, sorride. Gli occhi sono azzurrissimi e ha un po' di irlandesissime lentiggini. Un viso maturo, ma è proprio lui. Ora lo riconosco proprio come quando da ragazzino vedevo i suoi video in Vhs. Bono ha il profilo del ricercatore, studia il mondo, lo conosce. Fare musica per lui non è solo il più bel modo di stare al mondo, non è solo far divertire, ma il mezzo più straordinario per capire, comunicare, trasformare. "Voglio saperne di più, imparare di più sull'Italia. E questo perché ciò che sento e ciò che vedo non mi sembra combaciare. C'è uno squilibrio: vedo una cosa e ne provo invece un'altra".

A Bono come a molti stranieri è difficile comprendere le contraddizioni italiane; come se gli italiani tutti, di qualunque idea politica ed estrazione sociale, si accontentassero del peggio. I peggiori servizi, i peggiori politicanti, le peggiori istituzioni come se tutto fosse un sopportare. E mentre sopportano, agli italiani è solo dato intravedere grande talento, grandi capacità, ma sempre costretti, isolati, messi in difficoltà. "Ho proprio la sensazione che l'Italia sia come un luogo sacro, adoro i particolari italiani: la famiglia, l'aroma del caffè, il collo di una donna, ad esempio. Questi dettagli e il fuoco che c'è dentro la gente. So, sento che gli italiani potrebbero davvero assumersi un ruolo di preminenza, essere davvero grandi nel prestare aiuto ai poveri del mondo, nella lotta per la creazione di un nuovo capitalismo che sia "inclusivo" e non "esclusivo". Ma ora la politica non riesce a riflettere tutto ciò. Ed è cosi da molto tempo; anche quando c'era Prodi, che mi piaceva moltissimo. Nel 2005 i fondi erogati per gli aiuti umanitari erano lo 0,19% di quanto stabilito, nel 2009 lo 0,15%, quindi ancora meno. L'Inghilterra è passata dallo 0,7 allo 0,51, la Norvegia è all'1%, l'Irlanda allo 0,52%. Incredibile, no? Insomma c'è un vuoto da colmare tra ciò che provo e ciò che vedo. E sono certo che se riusciamo a spiegarlo, a spiegarlo meglio agli italiani, credo che saranno poi loro a dire ai loro leader che cosa fare. Forse non ce l'abbiamo fatta, finora, a spiegare queste cose in maniera chiara, allora c'è bisogno probabilmente di trovare gente che abbia la dote di saper veicolare queste informazioni. Ce la farà l'Italia ad avere un nuovo inizio?".

Difficile rispondere a una domanda così. Cerco di spiegare perché tutto è così ideologico, perché in Italia spesso sembra esserci una battaglia tra contrade, dove bisogna pensarla in serie, e quasi mai c'è un confronto sui fatti. La cappa delle ideologie anestetizza ogni dialogo come se compromettesse il futuro. "Il futuro, certo, quello deve ripartire e si deve ricominciare lasciandosi alle spalle il passato. Ma sembra fin troppo banale dire che c'è bisogno di una nuova politica in Italia, che inizi di nuovo a essere al servizio del Paese e non dell'ideologia. Mi piacerebbe tuttavia che ci fosse un'alternativa che non venisse da destra ma neppure da sinistra. Sono diventato sordo. Non ho più orecchie per la sinistra come non ne ho mai avute neppure per la destra. Ma per quest'ultima ho dovuto farmene crescere uno, però! Ho dovuto imparare ad accettare la compagnia di George Bush che ha fatto cose incredibili per l'Africa. E per questo, il mio giudizio su di lui non può essere completamente negativo. David Cameron, ad esempio, è stato colui che ha fatto i più grossi tagli di bilancio in Inghilterra, senza ridurre i fondi che erano stati devoluti agli aiuti umanitari. Si trovano amici anche nella destra; a volte non te lo aspetti e invece li trovi. Altre volte gente che credi amica non lo è. Prendi l'Africa. Il commercio e le sue regole, ad esempio. Gli africani non vogliono sentir parlare di restrizioni commerciali, vogliono giocare da battitori liberi. Non vogliono sentir parlare di embarghi con le norme delle politiche di aiuto dell'Unione Europea che si basano invece sul rispetto della politica agricola comune o su tariffe e dazi doganali imposti. A loro tutto questo non va giù. E se ne parli con la sinistra e spieghi come la pensano gli africani, ti dicono: "Ehi, ehi, vacci piano, stai calmino!". La sinistra va forte con l'Aids e gli aiuti. Allora, se stai morendo di Aids diamogli questi farmaci e finiamola li. Ma per il resto, nulla. Quindi, si finisce a pagare due dollari di sussidio al giorno per ogni mucca e non riusciamo a dare un dollaro al giorno a chi muore di Aids e ce ne sarebbero di dollari da dare. Ecco perché sono diventato sordo... Quindi via tutti e ripartiamo da capo. Voglio vedere politici in Parlamento che non siano più camuffati, senza più baffi e barbe finte".

Qui proprio non riesco che a rispondere sorridendo. La politica in Italia è una selva intricata, colma di dossier, veleni. Pensare alla politica come a un luogo dove poter trasformare le cose è difficile, quasi impossibile. Ma questo non sono capace di raccontarlo, forse mi fa male. Piuttosto chiedo a Bono della delegittimazione. Il suo impegno spesso viene deriso e attaccato, la rockstar milionaria che interviene a favore dei poveri, come una sorta di postura. Anche lui non è immune dalla macchina della delegittimazione, che i poteri usano sempre utilizzando l'esercito del risentimento, legioni di mediocri pronti ad eseguire l'ordine della maldicenza.

"Quando la gente si rende conto che non c'è via di scampo e che devono ascoltarti, allora devono o farti diventare un personaggio da prendere in giro, appiccicarti addosso favole irreali, farti diventare un personaggio appiattito, una caricatura, disegnata solo con pochi tratti. Senza tridimensionalità, questa è la delegittimazione. Tutti i nemici subiscono la delegittimazione. Lo si fa quando sei un nemico. In realtà penso questo: capisco benissimo il meccanismo e capisco benissimo che possa essere usato in modo offensivo e negativo. Ma pensa a qual era una delle più efficaci forme di protesta contro il nazismo negli anni '30, o contro il fascismo; erano i dadaisti, con il senso dell'umorismo. Che usavano come arma. Sai, i fascisti e i nazisti avevano tutte queste uniformi fantastiche, molto machiste. Come una sfilata di moda. Mentre i dadaisti è come se avessero levato loro i pantaloni e gli avessero messo il pisello all'aria. E mentre i nazisti combattevano tutti con manganelli, galera e repressione, non riuscivano a combattere lo humor. Impossibile, non c'è arma. Quindi alla delegittimazione rispondi con l'humor, ridi".

L'equilibrio che Bono è riuscito a costruire ha qualcosa di miracoloso. Parlare di grandi temi a milioni di persone, mentre saltano, cantano, si divertono. Entrare in una grande festa e cercare di far capire che quella felicità deve essere condivisa. Che combattere la povertà ti riguarda e non pretende che tu debba cadere nella miseria o nella rinuncia. Ma aumenta la tua felicità. È riuscito a coinvolgere milioni di ragazzi di diverse generazioni non temendo la retorica, non avendo paura di sbagliare. Se fai sbagli, meglio che non fare. Tutto questo cercando di essere concreto. Finanziando progetti. Capendo che c'è un modo sano di fare danaro e di usare il danaro. "Soldi significa corruzione e, quindi, se vuoi i soldi devi essere corrotto. Se tu invece dici: "Ok, voglio guadagnare, ma sono uno per bene, non ci credono". "A chi la dai a bere?", ti dicono. In Irlanda c'era in passato, per motivi diversi, lo stesso tipo di mentalità. Aver successo, significava essere colluso con il nemico. Che erano gli Inglesi. E anche dopo l'indipendenza, se avevi successo, significava essere colluso con il nemico. E quindi, c'era un rapporto davvero molto strano con il successo. Gli U2 hanno cercato di far ripartire l'orologio da questo punto di vista. E sono felice di poter affermare, che la maggior parte della gente in Irlanda, ora, ha cambiato idea su di noi. Per lo meno, il fatto che abbiamo avuto successo non è più visto negativamente. Per arrivare a ciò, però, hanno dovuto far ripartire il computer e "riaccendere" un nuovo modo di ragionare. Ed è estremamente positivo che si sia riusciti a far ciò, almeno per noi. Se tu dipingi la Cappella Sistina, il fatto che a qualcuno possa dar fastidio, non sminuisce ciò che hai fatto".

Bono poteva non impegnarsi e non occuparsi della questione africana. Aveva ottenuto tutto quello che un artista può ottenere. E impegnarsi gli ha creato anzi una gran quantità di guai. Ma anche una felicità che la sola carriera non può darti. "Conosci Desmond Tutu vero? Lui ti ha difeso molto... È lui il Capo, il mio Boss, se vieni al mio concerto, te lo presento. È stato lui, con Mandela, ma lui in particolare, a chiedermi di portare avanti il progetto della Cancellazione del debito estero, la Debt Cancellation, che i Paesi Poveri hanno nei confronti di quelli ricchi. Lui ha fondato questa organizzazione che si chiama Truth and Reconciliation (Verità e Riconciliazione) e per me ciò che la sua organizzazione significa rappresenta l'"idea" più importante degli ultimi venticinque anni!".

Passa Edge. Cappellino sulla testa, timido. Bono lo chiama. "Non volevo disturbare... ma grazie per essere venuto". Tutta questa gentilezza reale mi solleva da ogni ansia, ora mi sento tranquillo. Finiamo di mangiare, si è fatto tardi Bono viene ripreso dal suo ufficio stampa, deve andare a provare. Ci salutiamo, e facciamo un po' di foto sceme che promettiamo di tenere solo per noi, come quella mentre, giochiamo a braccio di ferro dove ognuno cerca di far vincere l'altro. È strano ma mi ci voleva il più singolare dei pomeriggi per vivere una giornata tranquilla all'aria aperta e con molte risate. Bono mi abbraccia e dice: "Sei invitato al concerto, mi raccomando". Magari, gli rispondo, la vedo difficile: "No ma non questo tu sei invitato anche ai prossimi". Quali? "Tutti i nostri prossimi concerti, per tutta la vita". Mi è sembrato un augurio bellissimo e non ho trovato altre parole che un semplice thanks. Torno in auto e la mia scorta la ritrovo in macchina a canticchiare "One", la mia preferita. "One Love, one blood, one life. You got to do what you should". E già, proprio così... un amore, un sangue, una vita, devi fare ciò che devi...

©2010 Roberto Saviano Agenzia Santachiara

(06 agosto 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/persone/2010/08/06/news/saviano_bono-6100114/


Titolo: ROBERTO SAVIANO Vi racconto Bono lontano dal palco
Inserito da: Admin - Agosto 16, 2010, 04:27:32 pm
IL PERSONAGGIO

Vi racconto Bono lontano dal palco

Dal rock all'impegno sociale, dal successo mondiale alla politica. E poi l'Africa, l'Italia così difficile da capire.

Il leader degli U2 parla di sé con lo scrittore e rivela il suo volto inedito

di ROBERTO SAVIANO


MI SVEGLIO e ricevo un messaggio. In genere sono guai, mi sollecitano per qualche scritto che ancora non ho consegnato, risultati di processi, inchieste, arresti. Ma questa volta si tratta di qualcosa di diverso: "Bono, il leader degli U2, è in Italia e vuole conoscerti". Chiedo spiegazioni. E dopo qualche secondo: "Sì, Bono ha letto il tuo libro le tue interviste, vuole conoscerti". Per qualche strana ragione pensi sempre che certe cose non abbiano carne e sangue ma siano come immateriali. Una di queste è la voce di Bono, la più bella voce maschile del rock mondiale. E quando quella voce ti dice "grazie per aver fatto tutti questi chilometri per me" la senti sovrapporsi all'urlo di "One" ("One love, One life") e hai come l'impressione di essere una groupie che perde ogni contegno dinanzi alla sua rockstar.

Bono mi accoglie in una villa presa in affitto. L'aria è davvero di casa, bambini che corrono ovunque, persino gli scoiattoli che zampettano in giardino, credo di non averne mai visto uno così vicino. Bono mi abbraccia e la sua è una gentilezza disarmante che mi dimostra quello di cui mi raccontavano, ossia la sua qualità di uomo rimasto uomo, senza divismi o posture. Anzi affamato di conoscere, capire, curioso del mondo e per nulla rinchiuso nella sua fortezza di note. Ha i soliti occhiali, ci sediamo a mangiare, e sembra avere una formula per me: "La prima anche se piccola vittoria contro le forze del male che ti circondano, è conservare il senso dell'umorismo. Quindi, devi combattere assolutamente, e lo fai essendo al di sopra di tutto, con il sorriso. Perché ridere - e ridi molto - è veramente la prova conclamata della libertà. Sai, quando ho pensato a questa cosa per la prima volta non ero affatto in pericolo, l'unico pericolo che avevo avvertito era quello di aver visto le mie chiappe nude pubblicate su un giornale. O di essere fotografato ubriaco all'uscita di un bar. Ecco ciò che ho capito, proprio all'inizio della mia popolarità, che questa sensazione di disagio, l'imbarazzo che provavo, poteva rendere brutto anche il viso più bello".

Bono mi racconta come sia fondamentale rimanere se stessi anche se intorno tutti cercano di prendere pezzi di te, di modificarti, di dannarti o esaltarti. Gli chiedo se gli manca vivere normalmente, campare come ogni essere umano occidentale. "Mi dispiace molto non riuscire a portare i miei bambini in giro. Una volta, era all'inizio della mia carriera, ho provato anche a camuffarmi: cappello e baffi da cowboy. Entro in un negozio, volevo comprare una chitarra e con un accento strano mi rivolsi al cassiere. Avevo pagato e stavo per uscire, quando questi si avvicina all'orecchio e mi dice: "Ok ok Bono ho capito, può bastare, tranquillo non lo dico a nessuno che sei tu..."".

Si alza gli occhiali, sorride. Gli occhi sono azzurrissimi e ha un po' di irlandesissime lentiggini. Un viso maturo, ma è proprio lui. Ora lo riconosco proprio come quando da ragazzino vedevo i suoi video in Vhs. Bono ha il profilo del ricercatore, studia il mondo, lo conosce. Fare musica per lui non è solo il più bel modo di stare al mondo, non è solo far divertire, ma il mezzo più straordinario per capire, comunicare, trasformare. "Voglio saperne di più, imparare di più sull'Italia. E questo perché ciò che sento e ciò che vedo non mi sembra combaciare. C'è uno squilibrio: vedo una cosa e ne provo invece un'altra".

A Bono come a molti stranieri è difficile comprendere le contraddizioni italiane; come se gli italiani tutti, di qualunque idea politica ed estrazione sociale, si accontentassero del peggio. I peggiori servizi, i peggiori politicanti, le peggiori istituzioni come se tutto fosse un sopportare. E mentre sopportano, agli italiani è solo dato intravedere grande talento, grandi capacità, ma sempre costretti, isolati, messi in difficoltà. "Ho proprio la sensazione che l'Italia sia come un luogo sacro, adoro i particolari italiani: la famiglia, l'aroma del caffè, il collo di una donna, ad esempio. Questi dettagli e il fuoco che c'è dentro la gente. So, sento che gli italiani potrebbero davvero assumersi un ruolo di preminenza, essere davvero grandi nel prestare aiuto ai poveri del mondo, nella lotta per la creazione di un nuovo capitalismo che sia "inclusivo" e non "esclusivo". Ma ora la politica non riesce a riflettere tutto ciò. Ed è cosi da molto tempo; anche quando c'era Prodi, che mi piaceva moltissimo. Nel 2005 i fondi erogati per gli aiuti umanitari erano lo 0,19% di quanto stabilito, nel 2009 lo 0,15%, quindi ancora meno. L'Inghilterra è passata dallo 0,7 allo 0,51, la Norvegia è all'1%, l'Irlanda allo 0,52%. Incredibile, no? Insomma c'è un vuoto da colmare tra ciò che provo e ciò che vedo. E sono certo che se riusciamo a spiegarlo, a spiegarlo meglio agli italiani, credo che saranno poi loro a dire ai loro leader che cosa fare. Forse non ce l'abbiamo fatta, finora, a spiegare queste cose in maniera chiara, allora c'è bisogno probabilmente di trovare gente che abbia la dote di saper veicolare queste informazioni. Ce la farà l'Italia ad avere un nuovo inizio?".

Difficile rispondere a una domanda così. Cerco di spiegare perché tutto è così ideologico, perché in Italia spesso sembra esserci una battaglia tra contrade, dove bisogna pensarla in serie, e quasi mai c'è un confronto sui fatti. La cappa delle ideologie anestetizza ogni dialogo come se compromettesse il futuro. "Il futuro, certo, quello deve ripartire e si deve ricominciare lasciandosi alle spalle il passato. Ma sembra fin troppo banale dire che c'è bisogno di una nuova politica in Italia, che inizi di nuovo a essere al servizio del Paese e non dell'ideologia. Mi piacerebbe tuttavia che ci fosse un'alternativa che non venisse da destra ma neppure da sinistra. Sono diventato sordo. Non ho più orecchie per la sinistra come non ne ho mai avute neppure per la destra. Ma per quest'ultima ho dovuto farmene crescere uno, però! Ho dovuto imparare ad accettare la compagnia di George Bush che ha fatto cose incredibili per l'Africa. E per questo, il mio giudizio su di lui non può essere completamente negativo. David Cameron, ad esempio, è stato colui che ha fatto i più grossi tagli di bilancio in Inghilterra, senza ridurre i fondi che erano stati devoluti agli aiuti umanitari. Si trovano amici anche nella destra; a volte non te lo aspetti e invece li trovi. Altre volte gente che credi amica non lo è. Prendi l'Africa. Il commercio e le sue regole, ad esempio. Gli africani non vogliono sentir parlare di restrizioni commerciali, vogliono giocare da battitori liberi. Non vogliono sentir parlare di embarghi con le norme delle politiche di aiuto dell'Unione Europea che si basano invece sul rispetto della politica agricola comune o su tariffe e dazi doganali imposti. A loro tutto questo non va giù. E se ne parli con la sinistra e spieghi come la pensano gli africani, ti dicono: "Ehi, ehi, vacci piano, stai calmino!". La sinistra va forte con l'Aids e gli aiuti. Allora, se stai morendo di Aids diamogli questi farmaci e finiamola li. Ma per il resto, nulla. Quindi, si finisce a pagare due dollari di sussidio al giorno per ogni mucca e non riusciamo a dare un dollaro al giorno a chi muore di Aids e ce ne sarebbero di dollari da dare. Ecco perché sono diventato sordo... Quindi via tutti e ripartiamo da capo. Voglio vedere politici in Parlamento che non siano più camuffati, senza più baffi e barbe finte".

Qui proprio non riesco che a rispondere sorridendo. La politica in Italia è una selva intricata, colma di dossier, veleni. Pensare alla politica come a un luogo dove poter trasformare le cose è difficile, quasi impossibile. Ma questo non sono capace di raccontarlo, forse mi fa male. Piuttosto chiedo a Bono della delegittimazione. Il suo impegno spesso viene deriso e attaccato, la rockstar milionaria che interviene a favore dei poveri, come una sorta di postura. Anche lui non è immune dalla macchina della delegittimazione, che i poteri usano sempre utilizzando l'esercito del risentimento, legioni di mediocri pronti ad eseguire l'ordine della maldicenza.

"Quando la gente si rende conto che non c'è via di scampo e che devono ascoltarti, allora devono o farti diventare un personaggio da prendere in giro, appiccicarti addosso favole irreali, farti diventare un personaggio appiattito, una caricatura, disegnata solo con pochi tratti. Senza tridimensionalità, questa è la delegittimazione. Tutti i nemici subiscono la delegittimazione. Lo si fa quando sei un nemico. In realtà penso questo: capisco benissimo il meccanismo e capisco benissimo che possa essere usato in modo offensivo e negativo. Ma pensa a qual era una delle più efficaci forme di protesta contro il nazismo negli anni '30, o contro il fascismo; erano i dadaisti, con il senso dell'umorismo. Che usavano come arma. Sai, i fascisti e i nazisti avevano tutte queste uniformi fantastiche, molto machiste. Come una sfilata di moda. Mentre i dadaisti è come se avessero levato loro i pantaloni e gli avessero messo il pisello all'aria. E mentre i nazisti combattevano tutti con manganelli, galera e repressione, non riuscivano a combattere lo humor. Impossibile, non c'è arma. Quindi alla delegittimazione rispondi con l'humor, ridi".

L'equilibrio che Bono è riuscito a costruire ha qualcosa di miracoloso. Parlare di grandi temi a milioni di persone, mentre saltano, cantano, si divertono. Entrare in una grande festa e cercare di far capire che quella felicità deve essere condivisa. Che combattere la povertà ti riguarda e non pretende che tu debba cadere nella miseria o nella rinuncia. Ma aumenta la tua felicità. È riuscito a coinvolgere milioni di ragazzi di diverse generazioni non temendo la retorica, non avendo paura di sbagliare. Se fai sbagli, meglio che non fare. Tutto questo cercando di essere concreto. Finanziando progetti. Capendo che c'è un modo sano di fare danaro e di usare il danaro. "Soldi significa corruzione e, quindi, se vuoi i soldi devi essere corrotto. Se tu invece dici: "Ok, voglio guadagnare, ma sono uno per bene, non ci credono". "A chi la dai a bere?", ti dicono. In Irlanda c'era in passato, per motivi diversi, lo stesso tipo di mentalità. Aver successo, significava essere colluso con il nemico. Che erano gli Inglesi. E anche dopo l'indipendenza, se avevi successo, significava essere colluso con il nemico. E quindi, c'era un rapporto davvero molto strano con il successo. Gli U2 hanno cercato di far ripartire l'orologio da questo punto di vista. E sono felice di poter affermare, che la maggior parte della gente in Irlanda, ora, ha cambiato idea su di noi. Per lo meno, il fatto che abbiamo avuto successo non è più visto negativamente. Per arrivare a ciò, però, hanno dovuto far ripartire il computer e "riaccendere" un nuovo modo di ragionare. Ed è estremamente positivo che si sia riusciti a far ciò, almeno per noi. Se tu dipingi la Cappella Sistina, il fatto che a qualcuno possa dar fastidio, non sminuisce ciò che hai fatto".

Bono poteva non impegnarsi e non occuparsi della questione africana. Aveva ottenuto tutto quello che un artista può ottenere. E impegnarsi gli ha creato anzi una gran quantità di guai. Ma anche una felicità che la sola carriera non può darti. "Conosci Desmond Tutu vero? Lui ti ha difeso molto... È lui il Capo, il mio Boss, se vieni al mio concerto, te lo presento. È stato lui, con Mandela, ma lui in particolare, a chiedermi di portare avanti il progetto della Cancellazione del debito estero, la Debt Cancellation, che i Paesi Poveri hanno nei confronti di quelli ricchi. Lui ha fondato questa organizzazione che si chiama Truth and Reconciliation (Verità e Riconciliazione) e per me ciò che la sua organizzazione significa rappresenta l'"idea" più importante degli ultimi venticinque anni!".

Passa Edge. Cappellino sulla testa, timido. Bono lo chiama. "Non volevo disturbare... ma grazie per essere venuto". Tutta questa gentilezza reale mi solleva da ogni ansia, ora mi sento tranquillo. Finiamo di mangiare, si è fatto tardi Bono viene ripreso dal suo ufficio stampa, deve andare a provare. Ci salutiamo, e facciamo un po' di foto sceme che promettiamo di tenere solo per noi, come quella mentre, giochiamo a braccio di ferro dove ognuno cerca di far vincere l'altro. È strano ma mi ci voleva il più singolare dei pomeriggi per vivere una giornata tranquilla all'aria aperta e con molte risate. Bono mi abbraccia e dice: "Sei invitato al concerto, mi raccomando". Magari, gli rispondo, la vedo difficile: "No ma non questo tu sei invitato anche ai prossimi". Quali? "Tutti i nostri prossimi concerti, per tutta la vita". Mi è sembrato un augurio bellissimo e non ho trovato altre parole che un semplice thanks. Torno in auto e la mia scorta la ritrovo in macchina a canticchiare "One", la mia preferita. "One Love, one blood, one life. You got to do what you should". E già, proprio così... un amore, un sangue, una vita, devi fare ciò che devi...

©2010 Roberto Saviano Agenzia Santachiara

(06 agosto 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/persone/2010/08/06/news/saviano_bono-6100114/


Titolo: ROBERTO SAVIANO Lo scandalo della democrazia
Inserito da: Admin - Settembre 12, 2010, 09:46:14 am
L'ANALISI

Lo scandalo della democrazia

di ROBERTO SAVIANO

DUE pistole che sparano, le pallottole che colpiscono al petto, un agguato che sembra essere anche un messaggio. Così uccidono i clan.
Così hanno ucciso Angelo Vassallo, sindaco di Pollica, in provincia di Salerno. Si muore quando si è soli, e lui - alla guida di una lista civica - si opponeva alle licenze edilizie, al cemento che in Cilento dilaga a scapito di una magnifica bellezza. Ma Angelo Vassallo rischia di morire per un giorno soltanto e di essere subito dimenticato.

Come se fosse normale, fisiologico per un sindaco del meridione essere vittima dei clan. E invece è uno scandalo della democrazia. Del resto - si dice - è così che va nel sud, accade da decenni. "Veniamo messi sulla cartina geografica solo quando sparano. O quando si deve scegliere dove andare in vacanza", mi dice un vecchio amico cilentano. In questo caso le cose coincidono. Terra di vacanze, terra di costruzioni, terra di business edilizio che "il sindaco-pescatore" voleva evitare a tutti i costi.

Questa estate è iniziata all'insegna degli slogan del governo sui risultati ottenuti nella lotta contro le mafie. Risultati sbandierati, urlati, commettendo il grave errore di contrapporre l'antimafia delle parole a quella dei fatti. Ma ci si deve rendere conto che non è possibile delegare tutto alle sole manette o al buio delle celle. Senza racconto dei fatti non c'è possibilità di mutare i fatti.

E anche questa storia meritava di essere raccontata assai prima del sangue. Forse il finale sarebbe stato diverso. Ma lo spazio e la luce dati alla terra dei clan sono sempre troppo pochi. I magistrati fanno quello che possono. I clan dell'agro-nocerino in questo momenti sono tutti sotto osservazione: quelli di Scafati capeggiati da Franchino Matrone detto "la belva", o gli uomini di Salvatore Di Paolo detto "il deserto", quelli di Pagani capeggiati da Gioacchino Petrosino detto "spara spara", il clan di Aniello Serino detto "il pope", il clan Viviano di Giffoni, i Mariniello di Nocera inferiore e Prudente di Nocera superiore, i Maiale di Eboli.

Il fatto è che il Cilento, terra magnifica, ha su di sé gli occhi e le mani delle organizzazioni criminali che, quasi fossero la nemesi della nostra classe politica, eternamente in lotta, si scambiano favori, si spartiscono competenze pur di trarre il massimo profitto da una terra che ha tutte le caratteristiche per poter essere definita terra di nessuno e quindi terra loro. I Casalesi sono da sempre interessati all'area portuale, così come i Fabbrocino dell'area vesuviana hanno molti interessi in zona. Giovanni Fabbrocino, nipote del boss Mario Fabbrocino, gestisce a Montecorvino Rovella, un paesino alle soglie del Cilento, la concessionaria della Algida nella provincia più estesa d'Italia, il Salernitano appunto. Il clan Fabbrocino è uno dei più potenti gruppi camorristici attualmente noti e intrattiene legami con i calabresi.

Oggi le 'ndrine nel Salernitano contano molto di più e hanno interessi che vanno oltre lo scambio di favori. Il porto di Salerno, su autorizzazione dei clan di camorra, è sempre stato usato dalle 'ndrine per il traffico di coca, soprattutto da quando il porto di Gioia Tauro è divenuto troppo pericoloso. Il potentissimo boss di Platì Giuseppe Barbaro, per esempio, è stato catturato a dicembre 2008 mentre faceva compere natalizie a Salerno. In tutto questo, il cordone ombelicale che ha legato camorra e 'ndrangheta porta un nome fin troppo evidente: A3, ovvero autostrada Salerno-Reggio Calabria. Nel Salernitano sono impegnate diverse ditte dalla reputazione tutt'altro che specchiata. La "Campania Appalti srl" di Casal di Principe avrebbe dovuto costruire le strade intorno al futuro termovalorizzatore di Cupa Siglia. L'impresa delle famiglie Bianco e Apicella è stata raggiunta da un'interdittiva antimafia dopo le indagini della sezione salernitana della Direzione Investigativa Antimafia. Secondo gli investigatori, l'impresa rientra nel giro economico del clan dei Casalesi ed è nelle mani di uomini vicini a Francesco Schiavone.

È così diverso oggi dagli anni '80 e '90? Di che territorio stiamo raccontando? Di una Regione dove per la gare d'appalto per la raccolta rifiuti bisogna chiamare una impresa ligure perché in Campania non se ne trova una che non abbia legami con la camorra. Nemmeno una. Se da un lato si arresta dall'altro lato non c'è affatto una politica che tenda a interrompere il rapporto con le organizzazioni criminali. L'attuale presidente della provincia di Napoli Luigi Cesaro, soprannominato "Gigino a' purpetta" (Luigino la polpetta), fu arrestato nel 1984 in un'operazione contro la Nuova Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo. Nel 1985 il Tribunale di Napoli condannò Cesaro a 5 anni di reclusione "per avere avuto rapporti di affari e amicizia con tutti i dirigenti della camorra napoletana fornendo mezzi, abitazioni per favorire la latitanza di alcuni membri, e dazioni di danaro". Nel 1986 in appello il verdetto fu ribaltato e Cesaro venne assolto per insufficienza di prove. La decisione fu poi confermata dalla Corte di Cassazione presieduta dal noto giudice ammazza sentenze Corrado Carnevale. Ma, come ha raccontato L'Espresso, nonostante Cesaro sia stato scagionato dalle accuse, gli stessi giudici che lo hanno assolto hanno stigmatizzato il preoccupante quadro probatorio a suo carico. Durante il processo, in aula, furono infatti confermati gli stretti rapporti che l'attuale presidente della provincia di Napoli intratteneva con i vertici della Nco (incluso don Raffaele Cutolo). Si parlava di una "raccomandazione" chiesta a Rosetta Cutolo, sorella di Raffaele, per far cessare le richieste estorsive di Pasquale Scotti, personaggio tuttora ricercato ed inserito nell'elenco dei trenta latitanti più pericolosi d'Italia. (Consiglio caldamente di fare una piccola ricerca su youtube per "Luigi Cesaro esilarante", ascolterete un monologo del presidente della provincia che sarà più eloquente delle mie parole).

Tutto questo non si può tacere. E chi lo tace è complice. Mi viene da chiedere a chi in questo momento sta leggendo queste righe se ha mai sentito parlare di Federico Del Prete, sindacalista ucciso nel 2002 a Casal di Principe. Se ha mai sentito parlare di Marcello Torre, sindaco di Pagani ucciso nel 1980 perché cercava di resistere a concedere alla camorra gli appalti per la ricostruzione post terremoto. E di Mimmo Beneventano vi ricordate? Consigliere comunale del Pci, trentadue anni, medico, fu ucciso nel 1980 a Ottaviano per ordine di Raffaele Cutolo perché ostacolava il suo dominio sulla città. E di Pasquale Cappuccio? È stato consigliere comunale del Psi, avvocato, ucciso nel 1978 sempre a Ottaviano. E Simonetta Lamberti, uccisa a Cava dei Tirreni nel 1982. Aveva dieci anni e la sua colpa era essere la figlia del giudice che andava punito. Le scariche del killer raggiunsero lei al posto del loro obiettivo. Qualcuno di questi nomi vi è noto? Temo solo ad addetti ai lavori o militanti di qualche organizzazione antimafia. Questi nomi sono dimenticati. Colpevolmente dimenticati. Come, temo, lo sarà presto quello di Angelo Vassallo. Ai funerali di Antonio Cangiano, vicesindaco di Casal di Principe gambizzato dalla camorra nel giugno 1988 e da allora costretto sulla sedia a rotelle, non c'era nessun dirigente della sinistra. Tutto sembra immobile in territori dove non riusciamo nemmeno a ottenere il minimo, l'anagrafe pubblica degli eletti per sapere esattamente chi ci governa.

Le indagini sull'omicidio di Angelo Vassallo vanno in tutte le direzioni, si sta scavando nel passato e nel presente del sindaco. Perché, come mi è capitato di dire altrove, in queste terre quando si muore si è sottoposti a una legge eterna: si è colpevoli sino a prova contraria. I criteri del diritto sono ribaltati. E quindi già iniziano a sentirsi voci di ogni genere, ma nulla tralascerà la Dda. L'aveva scritto Bruno Arpaia (non a caso nato a Ottaviano) nel suo bel libro Il passato davanti a noi, che mentre i militanti delle varie organizzazioni della sinistra extraparlamentare sognavano Parigi o Pechino per far la rivoluzione e scappavano a Milano a occupare università o fabbriche, non si accorgevano che al loro paese si moriva per un no dato ad un appalto, per aver impedito a un'impresa di camorra di fare strada.

È in quei posti invisibili, apparentemente marginali che si costruisce il percorso di un Paese. Tutto questo non si è visto in tempo e oggi si continua a ignorarlo. La scelta del sindaco in un comune del Sud determina l'equilibrio del nostro Paese più che un Consiglio dei ministri. Al Sud governare è difficile, complicato, rischioso. Amministratori perbene e imprenditori sani ci sono, ma sono pochi e vivono nel pericolo.

In queste ore a Venezia verrà proiettato sul grande schermo "Noi credevamo" di Mario Martone, una storia risorgimentale che parte proprio dal Cilento, dal sud Italia. Forse in queste ore di sgomento che seguono la tragedia del sindaco Angelo Vassallo vale la pena soffermarsi sull'unico risorgimento ancora possibile che è quello contro le organizzazioni criminali. Un risorgimento che non deve declinarsi come una conquista dei sani poteri del Nord verso i barbari meridionali: del resto è una storia che già abbiamo vissuto e che ancora non abbiamo metabolizzato. Ma al contrario deve investire sul Mezzogiorno capace di innovazione, ricerca, pulizia, che forse è nascosto ma esiste. Deve scommettere sulla possibilità che il Paese sappia imporre un cambiamento. E che da qui parta qualcosa che mostri all'intera Italia il percorso da prendere. È la nostra ultima speranza, la nostra sola risorsa. Noi ci crediamo.

©2010 Roberto Saviano/ Agenzia Santachiara
 

(07 settembre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/cronaca/2010/09/07/news/scandalo_della_democrazia-6817624/?ref=HREC1-3


Titolo: ROBERTO SAVIANO Il fuoco che smaschera il grande bluff del Cavaliere
Inserito da: Admin - Settembre 25, 2010, 05:23:20 pm
LA STORIA

Il fuoco che smaschera il grande bluff del Cavaliere

La monnezza in Campania stava tornando da mesi, ma parlarne era vietato quasi fosse una bestemmia. Ora si scopre che non si era risolto nulla, solamente tamponato: il più delle volte nascosto

di ROBERTO SAVIANO


"Perché gli abbiamo creduto a Berlusconi, e mo' come se ne uscirà?". "Lo sapevo che tornava la monnezza e che Berluscone non aveva risolto niente. Questa è la politica". Sono le prime due frasi che ascolto da una radio locale che lascia sfogare i napoletani, che qui chiamano il primo ministro rendendo al singolare il suo nome: Berluscone, che avevano considerato il risolutore dell'emergenza rifiuti.

Oggi tutto è tornato come prima, ad appena un anno dal decreto legge del 31 dicembre del 2009 che sanciva la fine dello stato di emergenza e del commissariamento straordinario.

In realtà da mesi stava lentamente tornando la spazzatura ovunque ma parlare di nuova emergenza rifiuti sembrava impossibile, era vietato come la peggiore delle bestemmie. Ma il centro di Napoli è tornato a puzzare come una discarica, la provincia di Caserta ha nuovamente le strade foderate di spazzatura, la popolazione è tornata a ribellarsi per l'apertura di nuove discariche, terrorizzata che queste raccolgano non solo i rifiuti leciti ma anche quelli illeciti, come sempre accaduto nelle discariche campane.

Non si era risolto nulla. Solo tamponato. Il più delle volte nascosto. In certi territori lontani dai riflettori, lontani dall'attenzione dei media, la spazzatura non è mai scomparsa dalle strade. Ora il grande bluff si è compiuto e mostra la sua essenza. Ed a pagarne il prezzo, come era prevedibile, è il territorio, la salute delle persone, l'immagine di Napoli nuovamente carica di spazzatura. Chi diffama Napoli, verrebbe da chiedere al primo ministro? Le foto, chi racconta lo scempio? O le strade sommerse di rifiuti? La città torna a sopportare la monnezza con i fazzoletti sui nasi quando l'odore è troppo acre perché il caldo fa marcire i sacchetti. I mercati rionali costruiscono le proprie bancarelle sulla spazzatura non raccolta del giorno prima, e le persone fanno la spesa camminando tra rifiuti. Per lo più le persone ormai fanno finta di niente. Sperano solo che le montagne non arrivino ai primi piani come successo l'ultima volta.

L'alba sul nascente governo Berlusconi si era levata liberando Napoli e la Campania dalle tonnellate di spazzatura; ora il tramonto cala su un governo meno coeso e che molti vedrebbero allo sbando, dietro le piramidi di spazzatura che tornano, identiche. L'emergenza rifiuti si fondava su un problema che sembrava insormontabile. Le discariche campane erano satolle e la magistratura, valutandole illegali, le chiudeva impedendo ulteriori conferimenti. Non c'era più spazio per i rifiuti, e le strade divenivano nuove discariche, che non avevano bisogno di approvazione e che non si poteva per decreto chiudere o riaprire. Le strade, tutte, dai quartieri più popolari del centro storico e delle periferie, a quelli collinari, costituivano le naturali valvole di sfogo. Si bruciava in campagna spazzatura per ridurla in cenere, cenere meno voluminosa e più comoda da smaltire, e così facendo si è avvelenata la terra. L'intervento del governo ha reso territorio militare le discariche: alla magistratura quindi è stato impedito di chiuderle e ai cittadini di avvicinarsi per controllare cosa accadesse a pochi metri dalle loro case. Questo provvedimento, accettato come un male inevitabile, doveva servire a dare ossigeno alle amministrazioni per costruire alternative che però non sono mai partite.

La raccolta differenziata è la vera vergogna della Campania e di Napoli. Non si riesce ad organizzarla al meglio nemmeno nei piccoli centri. Si pensi ai tanti comuni dell'Avellinese e del Beneventano che hanno le campagne invase dalla spazzatura, ma sono troppo periferici per fare notizia. Ad oggi Napoli ha solo poche aree in cui viene svolta la raccolta porta a porta, l'unica davvero efficace perché implica un controllo dal basso del cittadino sul cittadino. Raccolta che per legge avrebbe dovuto raggiungere già il 40% dei rifiuti conferiti mettendo in moto un circolo virtuoso che la città aspetta ormai che arrivi dal cielo, come fosse un miracolo. La stessa Asìa, in un volantino da poco distribuito nell'unico quartiere dove la differenziata porta a porta è attiva da due anni  -  i Colli Aminei  - , si è detta preoccupata perché il quantitativo di rifiuti indifferenziati negli ultimi mesi è aumentato, come se quel quartiere che doveva essere la testa d'ariete, la punta di diamante di un'area devastata, si fosse reso conto che i suoi sforzi e il suo virtuosismo valgono quanto una goccia in un mare di disservizi. E a quel punto a che serve differenziare.

Meglio buttare tutto nella solita montagna di monnezza. Si sa che i termovalorizzatori non sono mai realmente partiti. Non quello di Napoli, non quello di Salerno, non quello di Santa Maria la Fossa e quello di Acerra è partito solo in parte. Anche su questo piano quindi le cose non sono andate come il governo aveva promesso e il risultato è stato il totale fallimento di un processo che non poteva contare solo sul senso civico dei cittadini. Avevano promesso di non aprire più discariche ed invece ne stanno aprendo un'altra nel parco del Vesuvio, in un'area di interesse naturalistico rarissima. L'emergenza rifiuti è stata manna per la politica campana ed è stata utilizzata per costruire un meccanismo di consulenze e appalti emergenziali. Se hai intere provincie sommerse, devi necessariamente stanziare danaro straordinario. E quindi consulenti e imprese sui quali non può esserci controllo serrato.

L'equilibrio su cui si regge il ciclo dei rifiuti in Campania è estremamente fragile. Per mandare in tilt una macchina che è tutt'altro che oleata, basta bloccare il flusso di danaro che arriva nelle casse delle provincie e dei comuni. Basta far finire i soldi in un groviglio di appalti e subappalti. A Napoli l'Asìa, l'azienda che fornisce i servizi di igiene ambientale alla città, ha circa 3000 dipendenti e affida parte dei sevizi a Enerambiente, società veneta dedicata ai servizi ecologico-ambientali e alla gestione integrata dei rifiuti, che di dipendenti ne ha 470. A sua volta Enerambiente attinge per la gestione dei rifiuti alla cooperativa Davideco che ha 120 dipendenti e agli interinali che forniscono almeno altri 150 dipendenti. In questa catena infinita di appalti e subappalti lievitano i costi e le clientele e quest'anno trascorso dal decreto di fine emergenza non è servito a mettere in moto il circolo virtuoso di cui la città aveva bisogno, ma a oliare nuovamente la macchina dello spreco e del ricatto.

Dopo l'inchiesta che ha visto Nicola Cosentino accusato dall'Antimafia di Napoli di essere stato un riferimento politico della camorra attraverso il settore rifiuti, in queste ore, sembrerebbe realizzarsi di nuovo ciò di cui si è scritto: la centralità della monnezza in Campania che arriverebbe persino, attraverso Nicola Cosentino, a configurarsi come una pistola puntata alla tempia del governo. Ovvero, come tramite di ogni rapporto tra Berlusconi e il politico casalese ci sarebbe la gestione del ciclo dei rifiuti. Nel dibattito politico di questi ultimi mesi si è fatto riferimento a come Cosentino, leader indiscusso del Pdl in Campania, avesse dalla sua molti sindaci, i consorzi, la vicinanza di imprenditori e quindi potesse formalmente, se solo lo decidesse, bloccare il meccanismo di raccolta rifiuti. Il voto alla Camera, se si crede all'ipotesi di un Cosentino imperatore nel settore dei rifiuti, con il no all'utilizzo delle intercettazioni sembrerebbe essere un dono fattogli per cercare di riportare la nuova emergenza a una "normalità" di gestione consolidata. Ma questo può saperlo solo Cosentino stesso.

Quanto ai bassoliniani, che nel settore rifiuti hanno fatto incetta di voti e clientele, certamente non risulteranno in questa fase concilianti verso la situazione e anche dal loro versante ci sarà ostruzionismo e voglia di tornare ad avere prebende e potere attraverso la crisi. O si tratta con loro o tutto si ferma. Serve ricordare che l'emergenza rifiuti in Campania è costata 780 milioni di euro l'anno. Questa è la cifra quantificata dalla Commissione bicamerale sul ciclo dei rifiuti nella scorsa legislatura che, moltiplicata per tre lustri (tanto è durata la crisi), equivale a un paio di leggi finanziarie. In tutto questo la camorra naturalmente continua il suo guadagno che cresce ad ogni passaggio. Nei camion che serviranno alla nuova emergenza, nel silenzio caduto sul ciclo rifiuti perché i roghi nelle campagne continuano a gestirli i clan, bruciando rifiuti, sino al business dei terreni dove chissà per quanti decenni verranno depositate le ecoballe ormai mummificate il cui fitto viene pagato direttamente nelle loro mani.

Non mi stancherò mai di dirlo: se i rifiuti illegali gestiti dai clan fossero accorpati, diverrebbero una montagna di 15.600 metri di altezza, con una base di tre ettari, quasi il doppio dell'Everest, alto 8850 metri, quindi questo business ha ancora una lunga vita. Da Napoli parte un nuovo corso, quello che dimostra che per quanto si possa cercare di non mostrare, di negare, di nascondersi dietro proclami, la realtà che abbiamo sotto gli occhi questa volta è talmente schiacciante che nessuna forma di delegittimazione può renderla meno evidente. La spazzatura tornata nelle strade di Napoli sigla definitivamente il fallimento di un progetto, di un percorso, di una politica. Speriamo che queste verità, in grado di svelare definitivamente le tante menzogne spacciate come successi, possano innescare un percorso di cambiamento che se partisse dal Sud potrebbe davvero mutare il destino del paese.

© 2010 Roberto Saviano / Agenzia Santachiara


(25 settembre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/09/25/news/bluff_cavaliere-7409102/?ref=HRER2-1


Titolo: ROBERTO SAVIANO "Così funziona la macchina del fango"
Inserito da: Admin - Settembre 28, 2010, 11:57:48 am
LA DIRETTA

Saviano, videoforum a Repubblica tv "Così funziona la macchina del fango"

Lo scrittore con i lettori: quella linea che congiunge il caso Caldoro alle calunnie a Boffo, agli attacchi a Fini: "Vogliono dimostrare che tanto sono tutti uguali per coprire i veri scandali, farli passare per normalità. E chi dissente deve temere"


ROMA - Caldoro in Campania, il caso Boffo, e ora l'attacco a Fini. Ecco, la macchina del fango è in piena attività. Roberto Saviano riflette a Repubblica Tv sugli avvenimenti di questi giorni , in diretta con i lettori collegati in un forum, nella prima giornata di trasmissioni (sul web e sul digitale terrestre) nella fascia serale dell'emittente di Republica.

E il caso Fini viene usato dallo scrittore come un paradigma del meccanismo di minaccia e ricatto che rischia di paralizzare la società italiana. La macchina del fango va avanti a meraviglia. Roberto Saviano unisce tutti gli elementi e traccia la linea dello stesso Paese che racconta, ogni giorno, appena possibile. "La macchina del fango è un sistema di estorsione e costituisce ormai una minaccia per la democrazia perché ormai tutti hanno paura. Anch'io, che sento di vivere in un clima di grande ostilità. E' una macchina mortale".

Per lo scrittore è un meccanismo perfetto, funziona sempre, puntuale, è "un congegno fatto di giornali e cronisti che funziona così: tu scrivi o dici quello che vuoi ma poi la paghi. Le storie di Boffo e di Caldoro e Cosentino ne sono un'altra testimonianza", spiega.
E' un meccanismo che unisce dossier e intercettazioni, il lettore viene attratto, spinto, la sua attenzione deviata.

Solo il cittadino, solo il lettore ha l'antidoto per bloccare la macchina del fango: "Può interromperne la diffusione a macchia d'olio, riprendendo la propria capacità di giudizio".

"Studiando questa macchina, quando mi sono occupato del caso delle intercettazioni del sottosegretario Cosentino che tentava di screditare Caldoro, mi sono reso conto che ha un potere impressionante. Ci sono affinità tra quel caso e quanto accaduto a Boffo o a Fini. Dietro c'è un metodo. E un fine: quello di voler far credere che siamo tutti sporchi, tutti uguali a prescindere da quello che facciamo".

Intellettuali, politici, cittadini, "siamo tutti legati, dobbiamo avere lo sguardo basso perché siamo in un momento in cui a vincere è il più scaltro, la macchina del fango ci rende tutti attaccabili", ha continuato. "Nel caso di Fini io mi chiedo: se anche la casa fosse sua? Intanto è stata comunque pagata. Certo non è elegante, ma dove è l'enormità? In un governo dove c'è uno come Cosentino, si rischia di ingigantire un episodio che è nulla in confronto alle accuse mosse nei confronti del sottosegretario". Ecco, così, il meccanismo fango.

Lo stesso meccanismo che aiuta il tentativo di Berlusconi di non affrontare i suoi processi, di non far valere la legge nei suoi confronti. "Lo scudo serve al premier, altrimenti cade l'impero. Quella è la sua sola possibilità. Sono i polmoni che danno aria di speranza a a questo governo, altro che case a Montecarlo. I temi,  quelli veri, sono altri. Ma la legalità non può essere a senso unico e il pubblico, i cittadini, questo l'hanno capito", ha spiegato lo scrittore che sta per cominciare a scrivere il secondo libro. "Sì, la macchina del fango serve a questo, noi non dobbiamo rispondere 'siamo migliori' ma 'siamo diversi'. Tutti abbiamo le nostre debolezze, ma ci sono debolezze e debolezze. E alcune sono più tollerabili".

Intercettazioni, dossier, scandali, bavagli, puntini. "Le analisi dei fatti della politica italiana di questo momento non può che spaventare.  La politica ormai è una cosa buia. I movimenti delle persone creano fiducia e quando sento parlare di Grillo, di Popolo Viola, credo sia un bene. Tutto ciò che è partecipazione e analisi va bene, il profilo di Grillo va bene quando riesce a divulgare cose che altrimenti sarebbero sconosciute.  Il rischio è che i movimenti possano sembrare una specie di riserva in cui vivere ma senza poter parlare agli altri, agli elettori del Pdl o della Lega. Però restano una forza, perché ridanno fiducia alla gente", dice Saviano. I movimenti cercano di non affondare nel fango.

Come Napoli, la città in cui è nato nel '79, e che adesso è di nuovo sulle pagine dei giornali per l'immondizia di cui non riesce a liberarsi. Perché, come Saviano ha detto più volte, il sistema si è inceppato, e inceppandosi, si è riprodotto. Per lo scrittore è il sistema degli appalti che si blocca a riportare i rifiuti a Napoli. "Non si è mai risolto nulla. Non si può certo dire che Nicola Cosentino sia un politico impegnato in prima linea contro la criminalità organizzata, ma essendo l'imperatore del mondo dei rifiuti si potrebbe pensare che basterebbe una sua parola per far ripartire tutto, e uscire da questa situazione. Ma bisogna stare attenti, non è semplicemente l'intervento di una persona", racconta. "Potrebbe anche essere vero quello che si dice e cioè che ci sia stato uno scambio tra la politica e Nicola Cosentino: 'noi ti blocchiamo le intercettazioni e tu rimetti a posto la situazione dei rifiuti in Campania'. Quello che conta però è che i problemi non sono risolti".

E parla di inceneritori mai partiti, della nuova discarica all'interno del Parco del Vesuvio, e di una camorra che non c'è in questo caso, non in particolare, "perché la camorra è ovunque, sempre". "Nel comune di Terzigno la situazione è grave perché c'è un sacco di criminalità che lì ha sempre versato rifiuti tossici. La gente si ribella adesso, e spero che i media diano attenzione a questa cosa, perché una volta arrivati i camion non potrà fare più niente. Il problema è che la gente non sa cosa sarà versato nelle discariche. Ecco la differenza che c'è con le discariche del nord, dove in cambio danno incentivi, borse di studio. Qui la gente non sa cosa le metteranno sotto il naso.
Se può ribellarsi può farlo solo ora. Una volta che saranno arrivati i camion di rifiuti sarà troppo tardi".
 

(27 settembre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/09/27/news/saviano_repubblica_tv-7493316/


Titolo: ROBERTO SAVIANO La macchina della paura
Inserito da: Admin - Settembre 29, 2010, 11:42:14 am
IL COMMENTO

La macchina della paura

di ROBERTO SAVIANO


HO DETTO ieri, dialogando con i lettori e gli spettatori di Repubblica Tv, che ormai la politica in Italia è una cosa buia, che non appassiona più nessuno, né chi la fa, né chi la segue. Su questa affermazione mi hanno scritto in tanti, che credo abbiano condiviso con me questo sentimento di impotenza, avvertito talvolta come un impedimento, la denuncia di qualcosa che ostruisce la partecipazione, il normale rapporto che un cittadino deve avere con la vita pubblica del suo Paese. E insieme, c'è un altro sentimento in chi mi scrive: rabbia e ribellione per sentirsi espropriati dalla politica come strumento di impegno e di cambiamento, rifiuto di accettare che questa stagnazione prevalga.

Chi analizza fatti, episodi e metodi della politica italiana, in questo momento, non può che avere una reazione di spavento e pensare: non è per me. Ricatti, timori, intimidazioni. Tutti hanno paura. Anche io ho paura: non ho nulla da nascondere, con la vita ridotta e ipercontrollata cui sono costretto, ma sento questo clima di straordinaria ostilità, e vedo l'interesse a raccoglierlo, eccitarlo, utilizzarlo. Mi guardo intorno e penso: come deve sentirsi un giovane italiano che voglia usare in politica la sua passione civile, il suo talento? La politica di oggi lo incoraggia o lo spaventa?

E qual è il prezzo che tutti paghiamo per questa esclusione e per questa diffidenza? Qual è il costo sociale della paura? Chi fa già parte del sistema politico nel senso più largo del termine, o ha comunque una responsabilità pubblica e sociale, sa che oggi in Italia qualsiasi sua fragilità può essere scandagliata, esibita, denunciata ed enfatizzata. Non importa che non sia un reato, non importa quasi nemmeno che sia vera. Basta che faccia notizia, che abbia un costo, che faccia pagare un prezzo, e che dunque serva come arma di ammonimento preventivo, di minaccia permanente, di regolamento dei conti successivo. Ma la libertà politica, come la libertà di stampa, si fonda sulla possibilità di esprimere le proprie idee senza ritorsioni di tipo personale. Se sai che esprimendo quell'opinione, o scrivendola, tu pagherai con un dossier su qualche vicenda irrilevante penalmente, magari addirittura falsa, ma capace di rovinare la tua vita privata, allora sei condizionato, non sei più libero.
Siamo dunque davanti a un problema di libertà, o meglio di mancanza di libertà. Siamo davanti a uno strano congegno fatto di interessi precisi, di persone, di giornalisti, di mezzi, di strumenti mediatici, che tenta di costruire un vestito mediaticamente diffamatorio; ha i mezzi per farlo, ha l'egemonia culturale per imporlo, ha la cornice politica per utilizzarlo.

Nella società del gossip si viene colpiti uno per volta, e noi siamo spettatori spesso incapaci di decodificare gli interessi costituiti che stanno dietro l'operazione, i mandanti, il movente. Eppure la questione riguarda tutti, perché mentre la macchina infanga una persona denudandola in una sua debolezza e colpendola nel suo isolamento, parla agli altri, sussurrando il messaggio peggiore, antipolitico per eccellenza: siamo tutti uguali, dice questo messaggio, non alzare la testa, non cercare speranze, perché siamo tutti sporchi e tutti abbiamo qualcosa da nascondere. Dunque abbassa lo sguardo, ritraiti, rinuncia.

Come si può spezzare questo meccanismo infernale, pericoloso per la democrazia, e non solo per le singole persone coinvolte? L'antidoto è in noi, in noi lettori, spettatori e cittadini, se preserviamo la nostra autonomia culturale, se recuperiamo la nostra capacità di giudizio. L'antidoto è nel non recepire il pettegolezzo, nel non riproporlo, nel non reiterarlo. Nel capire che ci si sta servendo di noi, dei nostri occhi, delle nostre bocche come megafoni di pensieri che non sono i nostri. Nel non passare, come fanno molti addetti ai lavori, le loro giornate su siti di gossip che mentono a pagamento, che costruiscono con tono scherzoso la delegittimazione, che usano informazioni personali soltanto per metterti in difficoltà. È il metodo dei vecchi regimi comunisti, delle tirannie dei paesi socialisti che volevano far passare i dissidenti per viziosi, ladri, nullafacenti, gentaglia che si opponeva solo per basso interesse. Mai come nell'Italia di oggi si trova realizzato nuovamente, anche se con metodi differenti, quel meccanismo delegittimante.

Dobbiamo capire che siamo davanti a un metodo, che lega Fini a Boffo e a Caldoro nella campagna di screditamento. Dobbiamo ripeterci che in un Paese normale non si comperano deputati a blocchi, giurando intanto fedeltà al responso degli elettori. Dobbiamo sapere che la legge bavaglio non tutela la privacy ma limita la libertà di conoscere e di informare. Dobbiamo sapere che le norme del privilegio, gli scudi dal processo, le leggi ad personam sono i veri polmoni che danno aria a questo governo in affanno, perché altrimenti cade l'impero.

Dobbiamo semplicemente pretendere, come fanno migliaia di cittadini, che la legge sia uguale per tutti, un diritto costituzionale, che è anche un dovere per chi ha le più alte responsabilità. Non dobbiamo farci deviare da falsi scandali ingigantiti ad arte. Ogni essere umano fa errori ed ha debolezze. Ogni politica, ogni scelta ha in se delle contraddizioni. E si può sbagliare sempre. Ma oggi bisogna affermare con forza che se ogni essere umano sbaglia e ha debolezze non tutti gli errori e non tutte le debolezze sono uguali. Una cosa è l'errore, altro è il crimine. Una cosa è la debolezza umana, un'altra il vizio che diviene potere in mano ad estorsori. Comprendendo e smontando la diffamazione che viene costruita su chiunque decida di criticare o opporsi a questo potere, si può resistere, si può persino difendere la libertà, la giustizia, la legalità. Non dichiarandoci migliori, ma semplicemente diversi. Rifiutando l'omologazione al ribasso, per salvare invece le ragioni della politica e le sue speranze: salvarle dal buio in cui oggi affondano, con le nostre paure.

©2010Roberto Saviano/Agenzia Santachiara

(29 settembre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/09/29/news/saviano_macchina_paura-7530177/


Titolo: ROBERTO SAVIANO Mani mafiose sulla democrazia
Inserito da: Admin - Ottobre 13, 2010, 05:22:25 pm
LA POLEMICA

Mani mafiose sulla democrazia

di ROBERTO SAVIANO

Vi racconto una storia, una storia semplice, facile da capire. Una storia che dovrebbero conoscere tutti e che i pochi che la conoscono tengono per sé. Come si truccano i voti, come si controllano le elezioni, come fanno i clan criminali a gestire il voto. L'organizzazione si procura schede elettorali identiche a quelle che l'elettore trova ai seggi, tramite scrutatori amici e in alcuni casi dalle stamperie stesse. Le compila e le tiene lì. L'elettore che vuole vendere il suo voto va da referenti del clan e riceve la scheda elettorale già compilata. Si reca al seggio presenta il proprio documento di riconoscimento e riceve la scheda regolare. In cabina sostituisce la scheda data dal clan già compilata con la scheda che ha ricevuto al seggio, che si mette in tasca.

Esce dalla cabina elettorale e consegna al seggio la scheda ottenuta dal clan. Poi va via. Torna dagli uomini del clan, dà la scheda non votata e riceve i soldi. La scheda non votata e consegnata agli uomini del clan viene compilata, votata, e data all'elettore successivo che la prende e tornerà con una pulita. E avrà il suo obolo. Cinquanta euro, cento, centociquanta o un cellulare. O una piccola assunzione se è fortunato e il clan riesce a piazzare tutti i politici che vuole.

Ecco come funzionano le elezioni in alcune parti del Paese. Avevamo da queste colonne lanciato una provocazione durante le ultime elezioni amministrative. Avevamo chiesto all'Osce, all'Onu, all'Unione europea di poter monitorare le elezioni amministrative. Non nelle capitali, non nelle città più in vista dove spesso fanno studi e osservano. Ma nei posti di provincia dove il condizionamento è capillare e costante, dove i candidati sono direttamente imposti ai partiti dalle organizzazioni criminali. Il presidente della commissione antimafia Pisanu conferma che le amministrative hanno visto nelle liste candidati impresentabili, uomini e donne decisi direttamente dalle organizzazioni criminali. La richiesta di aiuto all'Onu era naturalmente una provocazione, un modo per sottolineare che da soli non ce la facciamo. Che le mafie sono un problema internazionale e quindi solo una forza internazionale può estirparle.

Quando un'organizzazione può decidere del destino di un partito controllandone le tessere, quando può pesare sul governo di una Regione, quando può infiltrarsi con assoluta dimestichezza e altrettanta noncuranza in opposizione e maggioranza, quando può decidere le sorti di quasi sei milioni di cittadini, non ci troviamo di fronte a un'emergenza, a un'anomalia, a un "caso Campania" o a un "caso Calabria": ci troviamo al cospetto di una presa di potere già avvenuta della quale ora riusciamo semplicemente a mettere insieme alcuni segni e sintomi palesi. Il Pdl in molte parti del Sud ha candidato colpevolmente personaggi condannati o indagati per mafia.

Tutti i proclami di contrasto alle organizzazioni criminali si sono vanificati al momento di scrivere le liste elettorali: persino quello che di buono era stato fatto nell'ambito repressivo è stato vanificato. Tutto compromesso perché bisogna dare la priorità ai voti e agli affari e quando dai priorità ai voti e agli affari, dai priorità alle mafie. Il centrosinistra ha cercato un maggiore controllo non sempre riuscendoci. Dalla svolta, che sembrava avvenuta con lo slogan "Mafiosi non votateci" alla deriva che arrivò con l'iscrizione al Pd in un solo pomeriggio a Napoli di seimila persone. Il tentativo di incidere sulle primarie aveva portato ambienti vicini ai clan ad entrare nel partito per condizionarne i leader.

Il codice etico elettorale viene sbandierato quando si è molto lontani dalle elezioni e poi dimenticato quando bisogna candidare chi ti porta voti. Conviene essere contro le organizzazioni, ma se questo significa perdere? Cosa fai? Compromesso o sconfitta? Tutti rispondono compromesso. E questo perché la politica sembra essersi ridotta a mero strumento che usi per ottenere quello che il diritto non ti dà. Se non hai un lavoro, cerchi di ottenerlo votando quel politico; se non hai un buon letto in ospedale, cerchi di votare il consigliere comunale che ti farà il favore di procurartelo. Ecco, questo sta diventando la politica, non più rispetto dei diritti fondamentali, ma semplice scambio. Quello che si fatica a comprendere, è che il politico che ti promette favori ti dà una cosa ma ti toglie tutto il resto. Ti dà il letto in ospedale per tua nonna, ti dà magari l'autorizzazione ad aprire un negozio di tabacchi, ti dà mezzo lavoro: ma ti sta togliendo tutto. Ti toglie le scuole che dovresti avere per diritto. Ti toglie la possibilità di respirare aria sana, ti toglie il lavoro che ti meriti se sei capace. Questa è diventata la politica italiana: se non ne prendiamo atto, si discute su un equivoco.

La macchina del fango, lo strumento che in certi ambienti del governo si utilizza per terrorizzare chiunque osi contrastare è mutuato direttamente dal comportamento delle mafie. Diffamazione, delegittimazione costante, è la criminalità che ci ha insegnato questo metodo che si sta dimostrando infallibile: far credere che tutto sia sporco, che non valga la pena più di credere in niente. Se fossimo un altro paese si invaliderebbero le elezioni, se fossimo un altro paese si chiederebbe aiuto agli organismi internazionali, se fossimo in un altro paese, un potere pubblico condizionato dalle organizzazioni criminali a destra come a sinistra sarebbe disconosciuto. Ma non siamo un altro paese. Ci resta solo la possibilità, che dobbiamo difendere con tutto quello che abbiamo, di raccontare, osservare, capire e dire come stanno le cose: che l'Italia è una democrazia, ma è anche una democrazia a voto mafioso.

©2010 Roberto Saviano/ Agenzia Santachiara


(13 ottobre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/10/13/news/mafia_democrazia-7993489/?ref=HREC1-9


Titolo: ROBERTO SAVIANO Così racconterò i segreti della macchina del fango
Inserito da: Admin - Novembre 08, 2010, 05:02:12 pm
LE IDEE

Saviano: "Così racconterò i segreti della macchina del fango"

Dalla censura alle bugie sui compensi, la sfida di "Vieni via con me".

Oggi in prima serata su RaiTre va in onda la prima puntata del programma con Fazio.

"Nella tv italiana il diritto a parlare lo conquisti con gli ascolti. E questo, soprattutto la tv pubblica, è ingiusto"

di ROBERTO SAVIANO


Io vorrei rivolgermi ai giovani, stasera, nella prima puntata di "Vieni via con me", per spiegare che la macchina del fango non è nata oggi, ma lavora da tempo. Quando si dà fastidio a chi comanda si attiva un meccanismo fatto di dossier, di giornalisti conniventi, di politici faccendieri che cercano attraverso media e ricatti di delegittimare i rivali.

Qualunque sia il tuo stile di vita, qualunque sia il tuo lavoro, qualunque sia il tuo pensiero, se ti poni contro certi poteri questi risponderanno sempre con un'unica strategia: delegittimare. Delegittimare il rivale agli occhi della pubblica opinione, cercare di renderlo nudo raccontando storie su di lui, descrivere comportamenti intimi per metterlo in difficoltà, così che le persone quando lo vedono comparire in pubblico possano tenere in mente le immagini raccontate e non considerarlo credibile.
Questa è disinformazione, più sottile della semplice calunnia che agisce soprattutto con i nemici. La disinformazione invece punta a distruggere le vittime nel campo degli amici, seminando quei dubbi e quei sospetti che proprio gli amici debbono temere.

La macchina del fango è il tema della prima puntata di "Vieni via con me", la trasmissione che per la prima volta mi ha messo alla prova come autore televisivo. Anche questa è una esperienza da raccontare. Lavorare ad un programma, costruirlo dal suo primo minuto all'ultimo ha qualcosa di irreale per uno che fa lo scrittore.

Sulla pagina tutto ciò che scrivi è spazio di immaginazione, tutto ciò che racconti può essere vissuto, pensato e rielaborato nella testa e nell'anima del lettore. Con la tv questo non lo puoi generare, le parole non sono scritte, le parole in tv si devono vedere. La narrazione è più efficace proprio quando non cerchi di riprodurre fedelmente la vita, ma quando con onestà la trasformi in un racconto. E nel racconto televisivo gli articoli sono le luci dello studio, gli aggettivi sono i filmati, i verbi sono i movimenti di scena, le frasi sono le inquadrature, la punteggiatura sono gli ospiti. In un tempo limitato deve entrare tutto: la volontà di raccontare uno spaccato significativo di esistenza e l'onestà di raccontarla come un punto di vista, non come verità assoluta. Capisci di essere un abusivo della tv, così come lo sono stato del teatro. In fondo tranne che sulla pagina ti senti straniero ovunque e forse questa è anche la magia di chi lavora con le parole, quella di doversi riconquistare ogni volta sul campo la legittimità a pronunciarle.

"Vieni via con me" era nata come una trasmissione che voleva raccontare il Paese con l'obiettivo di far bene le cose che crediamo di poter offrire al pubblico. Poi lentamente ci siamo accorti che iniziavamo a non essere graditi e arrivarono molti segnali in questo senso. Segnali che ci impedivano di continuare a lavorare. Poi siamo riusciti a riprenderci almeno in parte il nostro spazio di lavoro, a non farci cancellare. Il tanto rumore per nulla, di cui spesso si è accusati, quel pensiero latente di chi dice: "Avete visto, tanto gridare alla censura e poi la trasmissione la fate, e alle vostre condizioni".

Se fossimo stati in silenzio subendo le condizioni che la Rai di Masi ci stava dando, avremmo lavorato nella consapevolezza di stare costruendo qualcosa che non era nei patti e soprattutto non coincideva con le idee che avevo, con i racconti che avevo preparato. Nel caso della televisione italiana purtroppo il diritto a parlare lo conquisti con gli ascolti e con una comunità pronta a difenderti. Senza ascolti non si ha una seconda opportunità. E questo soprattutto per la tv pubblica è una dialettica ingiusta, bisognerebbe guardare alla qualità, alla necessità di un programma. Perché ti si giudichi per quello che sai fare e per quanto vali non è sufficiente fare bene il tuo lavoro, ma diventa necessario anche difenderlo e con molto rumore se la situazione lo richiede.

Questo è il nuovo meccanismo della censura, porre mille difficoltà alla realizzazione di un progetto, ma nell'ombra, in sedi il cui accesso è riservato a pochi, a persone coinvolte, che hanno tutto da perdere a mostrare i meccanismi e poco o nulla da guadagnare. E poi far parlare i fatti: "Andate male", "Non vi guarda nessuno", "Avete fatto ascolti da terza serata". Se l'unica protezione, oggi, alla televisione che non sia reality, che non sia leggero intrattenimento sono gli ascolti, l'unico modo per tagliare fuori chi ha proposte non migliori, non politicamente impegnate, ma semplicemente alternative, è dimostrare che quel tipo di racconto non ha mercato. Togliere i mezzi perché la qualità si affermi, ridurre luce perché resti in ombra il discorso: questo il nuovo modo per far morire in televisione tutto ciò che può essere cultura, racconto, libri, e facilmente dire "non funzionano", per poter investire su altro.

E così spesso hai la sensazione di lavorare non con il tuo editore ma contro di lui. E se da un progetto di quattro puntate si passa a due, e se poi le due puntate devono competere con partite di coppa a chi raccontiamo che gli ascolti sono stati bassi perché quelle erano le condizioni e non altre? A chi raccontiamo che non si tratta di dettagli ma di pilastri che quando si progetta una trasmissione contano quasi quanto i contenuti? A chi raccontiamo che non vale il "fate bene il vostro lavoro che poi raccoglierete i frutti".
E poi le balle sui compensi dette in un Paese come il nostro, irritato, esacerbato, esausto. Che campa con stipendi da fame. Nessuno, ma proprio nessuno che abbia detto cifre vere, perché lo scopo era innescare diffidenza, non dare informazioni. Del resto i compensi sono generati dal mercato e non da un'idea. Sono direttamente proporzionali a quanto fai guadagnare. E non ci sarebbe nulla di immorale a parlarne se non fossimo vittime del preconcetto secondo cui chi guadagna lo fa sempre senza merito alcuno. Che lavoro è il tuo: criticare a pagamento? Forse è inutile spiegare che si tratta di altro. Del resto, tutto questo ciarpame evapora di fronte al sorriso di Benigni. Di fronte al genio organizzativo di Fabio Fazio che è anche altro dal preciso conduttore che siamo abituati a vedere. E poi Claudio Abbado, un uomo raro, delicato ma che ruggisce ogni qual volta s'imbatte nella stupidità del potere, nella bruttezza dell'ignoranza. Un passerotto da combattimento per usare le parole di Faber. Di loro il nostro Paese ha bisogno come dell'aria.

In ultimo le prove durante le quali, per quanto blindate, cercano di ficcarsi persone pronte a riportare il minimo dettaglio. Il clima del Paese lo intuiscono tutti, ed è un clima di profonda diffidenza. E di più teme chi ha paura che lo si sveli. E quindi in molti a spiare e cercare di carpire. Ma lo sappiamo, e quindi durante le prove sappiamo anche cosa non dire: passaggi, considerazioni, racconti che in diretta soltanto si potranno ascoltare. In trasmissione giocheremo con gli elenchi invitando tutti, personaggi più o meno noti e gente comune, a dirci i motivi per cui vale la pena restare in Italia o per cui vale la pena andare via, emigrare, cercare realizzazione altrove. Abbiamo iniziato a raccogliere elenchi e commenti, ci aspettavamo una valanga di malanimo. Immaginavamo che le persone, anche coloro che sono emigrate, guardassero al nostro Paese, al loro Paese, come a una palude che ti impedisce qualunque tipo di realizzazione. E invece non è così. Ed è per questo che siamo qui, per provare a raccontare quella parte del Paese, che è la più grande, che ha voglia di ridisegnare questa terra, ha voglia di dire che non siamo tutti uguali, che la nostra diversità risiede nel saper sbagliare senza essere corrotti, nell'avere delle debolezze che non comportino ricatti ed estorsioni. E nel sognare, senza vergognarcene, di tornare a chiamare questa terra ora tanto infelice, patria.
 

(08 novembre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/11/08/news/saviano_macchina_fango-8866795/?ref=HREC1-9


Titolo: SAVIANO in apertura: «democrazia a rischio con la macchina del fango»
Inserito da: Admin - Novembre 09, 2010, 05:57:49 pm
Saviano in apertura: «democrazia a rischio con la macchina del fango»

Benigni: gag sul premier, Ruby e la Bindi

Il comico: «Silvio non ti dimettere, ci rovini»


MILANO - Una battuta dopo l'altra e come filo conduttore Berlusconi e il caso Ruby. La comicità di Roberto Benigni ha fatto irruzione (con successo, a giudicare dagli applausi in studio e dai dati di ascolto del giorno dopo: oltre 7,6 milioni di telespettatori hanno seguito la trasmissione) a Vieni via con me, il programma di Fabio Fazio e Roberto Saviano lunedì sera alla prima puntata su Raitre. «Premetto che i gossip sessuali sono spazzatura. Sono qui per parlare di politica», è stato l'incipit del lungo monologo del premio Oscar. «Se queste notizie venissero confermate, ma io non credo, figurati se è vero, dice che c'è un premier che è stato con una minorenne marocchina, ma per ragioni d'età non è stata resa nota l'identità del premier».

«SILVIO DIMETTITI» - Rivolgendosi direttamente al presidente del Consiglio, Benigni ha affondato a più riprese il dito nella piaga della sempre più vicina crisi di governo. «Silvio, non ti dimettere, non dare retta a Fini, perché altrimenti ci rovini, non si lavora più. Santoro, Fazio, l'Unità, Repubblica non lavorano più. E poi Ghedini che fa, torna a fare il solito film horror? Silvio, tieni duro, dai retta a me». Quindi il dietrofront, appena accennato: «Silvio dimettiti... Non ne possiamo più». E di nuovo Ruby: «Torniamo a parlare di politica. Dunque, Ruby... Berlusconi ha detto che la vicenda è stata una vendetta dalla mafia. La mafia una volta ti ammazzava, ora invece ti manda due escort in bagno... Io ho il terrore di questo». Per poi incalzare: «Voi mafiosi siete delle bestie, fate schifo. Vi fornisco l'indirizzo del mio albergo a Milano: vendicatevi di me».

MESSAGGIO ALLA BINDI - Quindi la frecciatina al Pd: «Berlusconi dice che i giudici sono di sinistra, la Corte costituzionale è di sinistra, i giornali sono di sinistra... Se pure il Pd fosse di sinistra sai che rabbia gli farebbe». Quindi l'appello lanciato direttamente alla Bindi. «Rosy, dai, tu gli garbi, sacrificati per il partito», dice sempre parlando di Berlusconi e delle feste di Arcore. «Rosy tu gli piaci, si vede, ti nomina sempre... Fa continui riferimenti a te. Fai così: dai una foto a Fede e così ti intrufoli ad Arcore. Vai là e digli che sei maggiorenne - urla il comico toscano - tutto regolare mi raccomando. E quando resti sola con lui... Digli chi sei! Rosy non devi temere niente perché se ti arrestano basta che dici che sei la suocera di Zapatero. O la nonna di Fidel Castro».

GAG SUL COMPENSO - Nel suo lungo monologo, il comico toscano non ha lesinato ironie sulle polemiche legate al compenso inizialmente indicato per la sua partecipazione al programma di Fazio e Saviano (ma il regista e attore toscano ha poi deciso di andare in tv a titolo gratuito): «Sono d'accordo a venir gratis, la Rai ha bisogno di soldi, però Masi non fare scherzi. A un semaforo quando ho abbassato il vetro un polacco mi ha riconosciuto e mi ha dato un euro...» ha detto. «Ringrazio la Rai, e anche Saviano e Fazio che mi hanno invitato: a voi do il 70 per cento del mio cachet di questa sera. Meglio gratis. Io ho portato lo champagne, Masi i bicchieri, i suoi personali, abbiamo brindato. Direttore generale siamo qua, ma chi c'è dietro, chi manovra?. Che fai mi cacci? Sarebbe il colmo».

SAVIANO E IL FANGO - La puntata di Vieni via con me si è aperta con l'editoriale di Roberto Saviano. «Da un po' di tempo - ha detto lo scrittore - vivo come una sorta di ossessione, che riguarda la macchina del fango, il meccanismo che arriva a diffamare una persona»: per questo «la democrazia è letteralmente in pericolo. Ed è a rischio - ha aggiunto l'autore di Gomorra - nella misura in cui se tu ti poni contro certo poteri, contro questo governo, quello che ti aspetta è un attacco della macchina del fango, che parte da fatti minuscoli della tua vita privata». «C'è differenza - ha detto ancora Saviano - tra inchiesta e diffamazione», perché «la diffamazione usa un solo elemento e lo costruisce contro la persona che decide di diffamare». Lo scopo del meccanismo è «poter dire: siamo tutti uguali» e invece «dobbiamo sottolineare le differenze». Lo scrittore ha poi citato «la storia della casa di Montecarlo di Fini, che è stato intimidito», poi la vicenda di Boffo, «direttore cattolico che inizia a criticare governo da un giornale cattolico (Avvenire, ndr). E la macchina del fango lo presenta come una specie di criminale perché omosessuale: impensabile, incredibile». E ancora la vicenda della «presunta omosessualità di Caldoro (governatore della Campania, ndr)» diventata «l'arma usata da un suo collega di partito, Cosentino». Lo scrittore si è poi rivolto direttamente ai giovani: «Mi piacerebbe raccontarvi di una persona che è riuscita a resistere a una macchina del fango gigantesca, Giovanni Falcone». Di qui un lungo excursus, scandito da brani di articoli di quotidiani - in parte letti anche dall'attrice Angela Finocchiaro - sulle accuse e sui tentativi di delegittimazione del giudice e dell'intero pool antimafia siciliano.

VENDOLA, SAVIANO E I GAY - Sul palco di Vieni via con me è salito anche il governatore pugliese Nichi Vendola. Da «invertito» a «buzzarone», da «pederasta» a «cripto-checca»: Vendola ha elencato tutti i modi per definire gli omosessuali. Subito gli ha fatto eco Saviano che ha messo in fila i comportamenti che «dalle sue parti» individuano i gay: dalla «birra con le fette di limone» alle «unghie pulite» alle «scarpette sugli scogli» al «fare la puntura da sdraiati». Commento ironico di Vendola: «Non so più qual è la mia natura sessuale». Poi però il tono si è fatto serio e Vendola ha letto l'elenco delle possibili espiazioni dell'omosessualità: da «evirato» a «deportato nei lager e nei gulag», da «confinato» a «ricoverato in manicomio» e «stuprato per punizione». E ancora le classificazioni dell'omosessualità nella vita pubblica: «crimine», «disordine», «pulsione di morte», «sporcizia», «peccato». Allora, ha concluso Fazio citando una recente battuta del premier Berlusconi, «si dice che è molto meglio guardare le belle ragazze che essere gay?». «È molto meglio essere felici», ha chiosato Vendola.

Redazione online
08 novembre 2010(ultima modifica: 09 novembre 2010)© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/politica/10_novembre_08/benigni-saviano-vieni-via-con-me_700436da-eb80-11df-bbbd-00144f02aabc.shtml


Titolo: La felice denuncia di SAVIANO
Inserito da: Admin - Novembre 10, 2010, 03:25:16 pm
La felice denuncia di Saviano

di Daniele Bellasio

Questo articolo è stato pubblicato il 10 novembre 2010 alle ore 08:05.
L'ultima modifica è del 10 novembre 2010 alle ore 06:39.

   
Vieni via con me è stato il programma più visto di Raitre degli ultimi dieci anni. D'accordo, c'era la curiosità per la prima. Com'è naturale, ci sono stati attimi di noia, ma alzi la mano chi non ha mai sbadigliato a teatro per poi sbellicarsi di applausi sul finale. Del resto, lo dicono loro: «Vado via perché preferisco i paesi dove ci si può annoiare».

E il finale, quel balletto su una versione sempre più veloce della canzone di Paolo Conte che dà il titolo al programma, quel balletto inquietante e frenetico stile Blade Runner o l'epilogo di Strange Days, con i volti dei grandi italiani sui pannelli dello sfondo, e quei ballerini strepitosi ma vestiti trasandati e danzanti su macerie, ballerini che sanno muovere a ritmo perfino gli addominali e le guance. Beh, quel balletto è stato uno dei momenti più belli della tv degli ultimi anni. Da rivedere su internet, sul sito della Rai si può. E già che ci siete, è da rivedere pure il botta e risposta tra Roberto Saviano e Fabio Fazio: in stile gaberiano, i due protagonisti sono riusciti a tenere assieme le luci e le ombre dell'Italia, il sacro e il faceto, compilando l'elenco, come fosse la sintesi a mo' di morale dello show, da Cassano ai carboidrati, passando per la criminalità organizzata, i bimbi rom, le case ad Antigua e quella crollata di Pompei, fino al «vado via perché dobbiamo sgomberare il palco per il finale», come farebbe il narratore in un'opera lirica o in una commedia latina.

A qualcuno può piacere di più il Saviano che risponde alle domande piuttosto che quello dei monologhi, ma che il talento dell'autore di Gomorra sbanchi è un dato di fatto e che sia garanzia di libertà d'espressione è una constatazione dolce e amara. Dolce perché dà speranza. Amara perché il talento se uno non ce l'ha non se lo può dare. Quel che a molti dà fastidio di Saviano è precisamente questo: il talento, il successo in libreria, gli ascolti record da condividere con l'erede di Enzo Tortora in materia di conduzione garbata, cioè Fazio. È un talento al servizio del racconto di ciò che non va giù di questa Italia che «vado via perché non se ne può più».

Saviano sa raccontare quelle cose, il romanzo criminale di mafie e culture mafiose, con lo stesso modo di muovere le mani, con quei gesti da timido che si accarezza la testa o con le due dita che strofinano la punta del naso, anche a un gruppo di persone incontrate per caso. È capitato qui al Sole 24 Ore. Anche se vive blindato e in pericolo, si prende il suo tempo per raccontare, quel giorno in redazione restò ore a parlare. Se i tempi non sono sempre televisivi non importa: è l'espressione massima del racconto letterario ma d'impegno civile che non accetta furbizie. È l'impegno del maestro Leonardo Sciascia. Come ha ricordato di recente lo scrittore Vincenzo Consolo, Sciascia, da liberale e radicale, aveva criticato il fatto che il Csm, per promuovere Paolo Borsellino, non avesse rispettato la forma della legge, che allora prevedeva l'anzianità prima del merito. In un paese come l'Italia e in una zona come la (sua) Sicilia, Sciascia chiedeva prima di tutto il rispetto delle regole per tutti, il rispetto dello stato di diritto. Giusta invece la critica a chi, come l'avvocato Alfredo Galasso, aveva attaccato Giovanni Falcone con il più trito degli argomenti delegittimanti: ma come? proprio tu sei passato dall'altra parte? Che poi era la parte dello stato.

Qui, sullo stato e la patria, Saviano, lunedì sera, ha compiuto il gesto inaudito: «Mi andava di poter tenere la bandiera italiana in mano...». Si prende la sua libertà per infondere ottimismo, perché «i più bravi – dice – arriveranno primi». Il paradossale capolavoro della trasmissione è stato quello di mettere assieme, con tinte caravaggesche, controscene studiate, come i microfoni anni 60 o le donne che sembrano cucire il tricolore, il cupo e il gioioso. Le mafie, la macchina del fango, la cultura senza fondi, ma poi tutti - Vendola, Benigni, Abbado e i due protagonisti – hanno citato la parola "felicità". Nell'Italia dei contrasti vince chi li mette e li tiene assieme, raccontandoli per risolverli, e non soltanto per vedere l'effetto che fa.

http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2010-11-10/felice-denuncia-saviano-063945.shtml?uuid=AYRWsTiC


Titolo: Daniele Bellasio. La felice denuncia di Saviano
Inserito da: Admin - Novembre 14, 2010, 08:59:28 am
La felice denuncia di Saviano

di Daniele Bellasio

Questo articolo è stato pubblicato il 10 novembre 2010 alle ore 08:05.
L'ultima modifica è del 10 novembre 2010 alle ore 06:39.

   
Vieni via con me è stato il programma più visto di Raitre degli ultimi dieci anni. D'accordo, c'era la curiosità per la prima. Com'è naturale, ci sono stati attimi di noia, ma alzi la mano chi non ha mai sbadigliato a teatro per poi sbellicarsi di applausi sul finale. Del resto, lo dicono loro: «Vado via perché preferisco i paesi dove ci si può annoiare».

E il finale, quel balletto su una versione sempre più veloce della canzone di Paolo Conte che dà il titolo al programma, quel balletto inquietante e frenetico stile Blade Runner o l'epilogo di Strange Days, con i volti dei grandi italiani sui pannelli dello sfondo, e quei ballerini strepitosi ma vestiti trasandati e danzanti su macerie, ballerini che sanno muovere a ritmo perfino gli addominali e le guance. Beh, quel balletto è stato uno dei momenti più belli della tv degli ultimi anni. Da rivedere su internet, sul sito della Rai si può. E già che ci siete, è da rivedere pure il botta e risposta tra Roberto Saviano e Fabio Fazio: in stile gaberiano, i due protagonisti sono riusciti a tenere assieme le luci e le ombre dell'Italia, il sacro e il faceto, compilando l'elenco, come fosse la sintesi a mo' di morale dello show, da Cassano ai carboidrati, passando per la criminalità organizzata, i bimbi rom, le case ad Antigua e quella crollata di Pompei, fino al «vado via perché dobbiamo sgomberare il palco per il finale», come farebbe il narratore in un'opera lirica o in una commedia latina.

A qualcuno può piacere di più il Saviano che risponde alle domande piuttosto che quello dei monologhi, ma che il talento dell'autore di Gomorra sbanchi è un dato di fatto e che sia garanzia di libertà d'espressione è una constatazione dolce e amara. Dolce perché dà speranza. Amara perché il talento se uno non ce l'ha non se lo può dare. Quel che a molti dà fastidio di Saviano è precisamente questo: il talento, il successo in libreria, gli ascolti record da condividere con l'erede di Enzo Tortora in materia di conduzione garbata, cioè Fazio. È un talento al servizio del racconto di ciò che non va giù di questa Italia che «vado via perché non se ne può più».

Saviano sa raccontare quelle cose, il romanzo criminale di mafie e culture mafiose, con lo stesso modo di muovere le mani, con quei gesti da timido che si accarezza la testa o con le due dita che strofinano la punta del naso, anche a un gruppo di persone incontrate per caso. È capitato qui al Sole 24 Ore. Anche se vive blindato e in pericolo, si prende il suo tempo per raccontare, quel giorno in redazione restò ore a parlare. Se i tempi non sono sempre televisivi non importa: è l'espressione massima del racconto letterario ma d'impegno civile che non accetta furbizie. È l'impegno del maestro Leonardo Sciascia. Come ha ricordato di recente lo scrittore Vincenzo Consolo, Sciascia, da liberale e radicale, aveva criticato il fatto che il Csm, per promuovere Paolo Borsellino, non avesse rispettato la forma della legge, che allora prevedeva l'anzianità prima del merito. In un paese come l'Italia e in una zona come la (sua) Sicilia, Sciascia chiedeva prima di tutto il rispetto delle regole per tutti, il rispetto dello stato di diritto. Giusta invece la critica a chi, come l'avvocato Alfredo Galasso, aveva attaccato Giovanni Falcone con il più trito degli argomenti delegittimanti: ma come? proprio tu sei passato dall'altra parte? Che poi era la parte dello stato.

Qui, sullo stato e la patria, Saviano, lunedì sera, ha compiuto il gesto inaudito: «Mi andava di poter tenere la bandiera italiana in mano...». Si prende la sua libertà per infondere ottimismo, perché «i più bravi – dice – arriveranno primi». Il paradossale capolavoro della trasmissione è stato quello di mettere assieme, con tinte caravaggesche, controscene studiate, come i microfoni anni 60 o le donne che sembrano cucire il tricolore, il cupo e il gioioso. Le mafie, la macchina del fango, la cultura senza fondi, ma poi tutti - Vendola, Benigni, Abbado e i due protagonisti – hanno citato la parola "felicità". Nell'Italia dei contrasti vince chi li mette e li tiene assieme, raccontandoli per risolverli, e non soltanto per vedere l'effetto che fa.

http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2010-11-10/felice-denuncia-saviano-063945.shtml?uuid=AYRWsTiC


Titolo: ROBERTO SAVIANO 'O Ninno, il boss bambino che studiava da manager
Inserito da: Admin - Novembre 18, 2010, 12:32:42 pm
IL PERSONAGGIO

'O Ninno, il boss bambino che studiava da manager

Ascesa e caduta di Antonio Iovine, il camorrista che voleva conquistare l'Italia.

Tutto ciò che è cemento suscitava il suo interesse e quello delle sue imprese.

È riuscito anche a fare accettare la droga, un tabù per i Casalesi

di ROBERTO SAVIANO


FINALMENTE è stato arrestato. Era il viceré. Ma ormai i viceré dopo dieci anni diventano quasi re. E infatti lui e l'altro latitante Michele Zagaria sono i due capi che, dopo l'arresto di Sandokan Schiavone, hanno diviso il clan in una sorta di diarchia.

'O Ninno, il bambino, perché con il suo viso da fanciullo era arrivato giovanissimo ai vertici del clan. Perché le organizzazioni criminali hanno un grande vantaggio rispetto all'economia legale italiana: sono meritocratiche. Un merito identificato nella severità d'azione, nella spietatezza, nel saper gestire gli imprenditori, comprare la politica e saper ammazzare. Iovine, uomo della borghesia camorristica, è stato potente sulla piazza di Roma. È stato proprietario della discoteca più prestigiosa della capitale e l'edilizia è sempre stato, come per ogni capo casalese, il suo ambito privilegiato. Investimenti nel settore immobiliare in ogni angolo d'Italia e in molta parte dell'est Europa, ma cantieri, movimento terre, subappalti, forniture di cemento, noli a caldo e noli a freddo, alta velocità, gallerie. Tutto ciò che è cemento aveva l'interesse di Antonio Iovine e delle sue imprese. La droga, un tabù per i boss casalesi, che potevano trattarla ma mai direttamente nei loro territori, 'o Ninno riesce a farla accettare, riesce a creare sacche di tolleranza. Il suo clan aveva escogitato uno strumento infallibile per trasportare coca: usavano le macchine dei vigili urbani e i vigili stessi come corrieri.

Antonio Iovine non ha affatto il profilo dei vecchi boss che lo hanno preceduto, come Antonio Bardellino o Francesco Bidognetti. Non si presenta come un bufalaro, che la ricchezza criminale ha reso potente signorotto. 'O Ninno ha imparato da Schiavone ad agire come un manager e ad uccidere come i casalesi sempre dicono, "per legittima difesa", ossia solo persone che si mettono contro i tuoi affari o "compari" di clan nemici o amici, ma comunque camorristi e quindi pronti a dare e perdere la vita. Iovine ha gestito il clan con prudenza e ha portato ovunque i suoi affari, spesso anche all'estero. I suoi parenti si sono trovati in posti chiave. Carmine Iovine, suo cugino, è stato direttore dell'Asl di Caserta. Riccardo Iovine, fratello di Carmine, è stato arrestato per aver dato ospitalità al killer in latitanza Giuseppe Setola.

La fortuna della sua famiglia è dipesa dalla sua inflessibilità, dal suo essere un capofamiglia severo, talvolta spietato. Come nei riguardi di sua cognata, Rosanna De Novellis, vedova di suo fratello Carmine ucciso per ritorsione contro di lui. Rosanna, dopo la morte del marito prende a frequentare altri uomini, ma non sono mai relazioni stabili. Questo la famiglia può tollerarlo (purché resti tutto in segreto), perché nessuno deve prendere il posto del defunto marito. Rosanna però si innamora e decide di sposarsi con un uomo lontano dal clan e dagli affari di famiglia, senza chiedere parere e approvazione. Ma soprattutto Rosanna pretende di mantenere gli agi e i lussi concessi alle vedove rispettose nonostante avesse perso ogni privilegio perché in casa faceva comandare un estraneo. Era questo che la famiglia pensava e per questo si decise di allontanarla definitivamente. Antonio Iovine con lei fu inflessibile, rispose una sola volta alla preghiera di sua cognata con una lettera lapidaria in cui le intimava di non cercarlo mai più e che a giudicarla sarebbero stati i suoi figli maschi. Rosanna De Novellis fu allontanata, per lei niente più stipendio mensile, niente più pagamento del mutuo e il divieto assoluto di poter portare persino un fiore sulla tomba del defunto marito.

Così si comanda un clan. Così si incute timore e si ottiene rispetto: essendo inflessibili prima di tutto con la propria famiglia. Non facendo sconti a nessuno. Così si ottiene la possibilità di poter trattare stupefacenti, contravvenendo a una legge non scritta ma da sempre rispettata. Iovine, che rappresenta le nuove generazioni camorriste, costruite nel ciclo dei rifiuti e riciclando in quello del cemento, è cresciuto nel periodo delle faide che causavano come quella tra bardelliniani e casalesi centinaia di morti all'anno.

L'arresto di Antonio Iovine è una vittoria, ma lo sarà davvero se non si lascerà che altri lo sostituiscano. È una vittoria ogni qual volta ci si rende conto di aver fatto un passo in avanti, ogni volta che la legalità ha sottratto terreno alla criminalità organizzata. E dell'arresto di Antonio Iovine anche il Nord deve gioire perché non è immune da queste dinamiche che sempre più ne regolano affari e geografie. Antonio Iovine è divenuto potentissimo proprio al Nord. Ha i suoi affari, che continuano ad essere floridi, in Emilia Romagna, in Lombardia, in Piemonte e in Liguria. Il risultato messo a segno dalla Squadra mobile di Napoli è fondamentale ed è stato possibile raggiungerlo grazie alle inchieste dei giovani pm da sempre in prima linea contro il clan. Antonello Ardituro e Alessandro Milita coordinati dal pm Federico Cafiero De Raho, simbolo della lotta al clan dei casalesi, l'uomo che ne è la memoria storica.

Ma se la battaglia finisce con le manette per i boss ci saranno i sorrisi, come quelli mostrati dal Ninno. Sorrisi come a dire, in carcere vado a comandare, tutto questo l'avevo già previsto. Vi ho fatto il regalo così vi sentite tutti più efficienti e buoni tanto fuori restano i miei capitali. È il Nord il centro degli investimenti mafiosi, casalesi come calabresi e siciliani. Un Nord troppo aperto a prenderne i capitali e a divenire cassaforte sicure del reinvestimento. Un Nord dove le mafie cercano di interloquire con chi comanda in politica, un Nord che si crede immune e invaso quando invece sempre più spesso è complice e connivente. Quello lanciato dalla Dia sul condizionamento della politica dell'economia e dei servizi da parte delle organizzazioni criminali in Lombardia dovrebbe essere un allarme prioritario per tutto il Paese. Ieri è stato un bel giorno, ma da non far tramontare. A Sud si nascondono in tuguri e case di campagna da cui cercare di scappare dalla finestra, al Nord costruiscono palazzi come nel centro di Milano in via Santa Lucia.

©2010 Roberto Saviano/ Agenzia Santachiara
 

(18 novembre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/cronaca/2010/11/18/news/_o_ninno_il_boss_bambino_che_studiava_da_manager-9229978/?ref=HREC1-4


Titolo: ROBERTO SAVIANO "Napoli pattumiera del nord la camorra guadagna 20 miliardi"
Inserito da: Admin - Novembre 23, 2010, 09:50:03 am
LA POLEMICA

"Napoli pattumiera del nord la camorra guadagna 20 miliardi"

Berlusconi ha detto 7 volte che l'emergenza era finita. Ma la Campania è invasa dalle ecoballe.

Ci vorranno 56 anni per smaltirle tutte. Problemi dal '94.

Un'incapacità pagata 780 milioni l'anno, 8 miliardi in 10 anni

di ROBERTO SAVIANO


IL MONTE più alto d'Europa è il Monte Bianco: 4810 metri. Il più alto del mondo è l'Everest, con i suoi 8848 metri. Ma se noi immaginassimo una montagna fatta con i rifiuti illegali supererebbe la somma dei due: qualcuno ha calcolato che avrebbe una base di tre ettari e sarebbe alta più di 15mila metri. Quest'immensa mole è una preziosa fonte di reddito per la criminalità organizzata.

Questo spiega perché in Campania la storia dell'immondizia lasciata a marcire per strada è, purtroppo, una storia infinita. Gli ispettori europei sono arrivati a Napoli e ci hanno detto quello che i napoletani sapevano già: e cioè che nulla è cambiato rispetto a due anni fa. In realtà è peggio. L'emergenza dura dal 1994. È moltissimo tempo. Vuol dire che un ragazzo che oggi ha 16 anni è cresciuto con l'idea che i sacchetti di plastica abbandonati sui marciapiedi sono la normalità, come lo è il caldo d'estate e il freddo d'inverno. I cassonetti regolarmente svuotati, invece, sono un'eccezione.

In questa terra la raccolta differenziata è un sogno. Tranne che in piccole isole felici, non viene fatta mai. Quella non differenziata dovrebbe essere - per legge - al massimo il 35%. Qui arriviamo all'84%. E pensare che erano stati per primi i Borbone a lanciare la diversificazione dei rifiuti. Sembra incredibile, ma così recita un editto di Ferdinando II: "Gli abitanti devono tenere pulita la strada davanti alla casa usando l'avvertenza di
ammonticchiarsi le immondezze al lato delle rispettive abitazioni e di separarne tutt'i frantumi di cristallo o di vetro che si troveranno riponendoli in un cumulo a parte".

Quello che i Borbone sapevano, le giunte di centrosinistra e di centrodestra, i commissari straordinari, da Rastrelli, a Bassolino, da Bertolaso a De Gennaro, non hanno più saputo. Tutti hanno provato a risolvere il problema, ma nessuno ci è riuscito. A Napoli sembra impossibile ciò che riesce a Milano, Bologna e Genova perché la regione è prigioniera di un gigantesco circolo vizioso. Il ciclo è basato sull'occupazione del territorio: si mettono i rifiuti in una discarica, la discarica si riempie, viene chiusa o sequestrata per versamenti di materiali tossici, i camion si fermano, si cerca l'ennesima discarica, la popolazione protesta, la spazzatura resta a terra e spesso viene addirittura bruciata, con pericoli serissimi per la salute. I clan pagavano 50 euro per ogni cumulo di immondizia messo al rogo.

Si è tentato di risolvere il problema con gli inceneritori, che dovrebbero per legge produrre energia, ma per funzionare al meglio devono essere alimentati da ecoballe che nascono dalla raccolta differenziata, in cui l'umido è eliminato. Non è così, naturalmente, e la Campania è invasa dalle ecoballe, che ne hanno addirittura modificato la geografia e che sono potenziali bombe ecologiche. Ci vorranno 56 anni per smaltirle tutte. Sempre che sia possibile.

Tutta questa incapacità è costata ai cittadini 780 milioni di euro all'anno, in emolumenti, consulenze, affitti degli immobili: circa 8 miliardi di euro in 10 anni, quasi una finanziaria. Tutti hanno perso, ma qualcuno ha guadagnato, e parecchio. Nel 2009 le ecomafie hanno fatturato oltre 20 miliardi di euro: un quarto dell'intero fatturato della criminalità organizzata.

Il grande business dei clan è quello dei rifiuti tossici: hanno trasformato la Campania nel secchio dell'immondizia delle imprese del Nord. (La monnezza di Napoli è la monnezza di tutta l'Italia. Ricordiamocelo, ogni volta che il Nord chiude le porte come se fosse un problema del Sud). Smaltire un rifiuto speciale costa moltissimo, fino a 62 centesimi al chilo, i clan sono capaci di offrire un prezzo di 9/10 centesimi. Un risparmio dell'80 per cento che mette a tacere la coscienza di tanti imprenditori. Il trucco è nella bolla di accompagnamento che viene falsificata, per cui il rifiuto come per magia non è più tossico, o nel miscelare i veleni ai rifiuti ordinari, in modo da diluirne la concentrazione tossica. Il meccanismo è talmente malato che a volte il composto viene trasformato in fertilizzante: così la malavita incassa i soldi due volte con lo stesso veleno.

Decine di inchieste giudiziarie testimoniano l'avvelenamento delle terre del Sud. Ne elenco alcune: nel 2003 si scopre che ogni settimana 40 Tir ricolmi di rifiuti sversano cadmio, zinco, scarto di vernici, fanghi da depuratori, plastiche varie, arsenico e piombo nel napoletano e nel casertano; nel 2006 la Procura di Santa Maria Capua Vetere accerta che tra Villa Literno, Castelvolturno e San Tammaro, vengono scaricati i toner delle stampanti d'ufficio della Toscana e della Lombardia. Il terreno è pieno di cromo esavalente. L'inchiesta "Eldorado" del 2003 ferma un traffico illecito di rifiuti pericolosi, che da Sud sono spediti in Lombardia per essere "miscelati" con terre di spazzatura delle strade milanesi e altri materiali, per passare poi come rifiuti non pericolosi smaltiti in una discarica pugliese. La Procura di Napoli ordina nel 2007 il sequestro di 5 aziende del Nord per traffico illecito di residui di lavorazioni siderurgiche.

Così il sottosuolo della bella, dolce, fertile Campania è diventato un fango nauseabondo e pericoloso: a Giugliano della Campania,, ci sono 590 mila tonnellate di fanghi e liquami contenenti amianto e tricloruro di etilene; a Pianura tra il 1988 e il 1991 sono stati sversati i seguenti rifiuti provenienti dall'Acna di Cengio: 1 miliardo e 300 milioni di metri cubi di fanghi; 300 mila metri cubi di sali sodici; 250 mila tonnellate di fanghi velenosi a base di cianuro; 3 milioni e mezzo di metri cubi di peci nocive contenti diossine, ammine, composti organici derivanti dall'ammoniaca e contenenti azoto; nelle campagne di Acerra tra il 1995-2004 sono stati nascosti 1 milione di tonnellate di fanghi industriali provenienti da Porto Marghera e 300 mila tonnellate di solventi clorurati.

E questo solo per citare alcuni esempi. Non c'è da meravigliarsi se l'agricoltura è crollata a picco, se i frutti spuntano malati, se le terre diventano infertili. Soprattutto non c'è da meravigliarsi se aumentano malattie e tumori. È quello che succede, nel silenzio generale. Il cancro, in Campania, non è una sventura, una tragedia ineliminabile, ma il frutto di una scelta sciagurata dell'imprenditoria criminale.

Le malattie legate alla presenza di rifiuti tossici sono una piaga silenziosa, difficile da monitorare ma assolutamente evidente. Una ricerca del 2008 dell'Istituto superiore di Sanità nelle province di Napoli e Caserta certifica un aumento della mortalità per tumore del polmone, fegato, stomaco, rene e vescica e di malformazioni congenite. Questi sono più numerosi vicino ai siti di smaltimento illegale. Anche l'Organizzazione Mondiale della Sanità parla di un aumento vertiginoso delle patologie di cancro in questa zona: la percentuale è più alta del 12% rispetto alla media nazionale.

Ecco, questo è lo stato in cui 16 anni di impotenza dello Stato e di potere criminale hanno ridotto la Campania. Eppure la fine dell'emergenza è stata annunciata per ben sette volte dal nostro capo del governo: era già risolta nel luglio di due anni fa.

Dopo decenni di crisi dei rifiuti, di napoletani identificati con la spazzatura, della perdita di ogni speranza di veder cambiare la propria città, mi viene in mente Eduardo che recitava: è cos'e niente. Ci siamo abituati a dire sempre è cos'e niente. Ci levano il diritto della vita, ci tolgono l'aria, e è cos'e niente". Temo che a forza di sentircelo dire rischiamo di diventare anche noi cose'e niente.

Il testo è una sintesi del monologo trasmesso a "Vieni via con me"
 

(23 novembre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/cronaca/2010/11/23/news/napoli_pattumiera_del_nord_la_camorra_guadagna_20_miliardi-9397379/?ref=HRER1-1


Titolo: ROBERTO SAVIANO: dopo «Vieni via con me» è tempo di ricostruirmi una vita
Inserito da: Admin - Novembre 29, 2010, 11:47:36 am
L'autore di Gomorra: la politica non è il mio mestiere

Saviano: ora mi fermo per un po'

«Maroni? Un errore arrabbiarsi»

Lo scrittore: dopo «Vieni via con me» è tempo di ricostruirmi una vita


MILANO - Roberto Saviano, e adesso?
«Cerco di finire il mio prossimo libro. A essere sinceri, il mio vero capolavoro non sarà fare un'altra Gomorra o una nuova trasmissione per milioni di persone ma cercare di ricostruirmi una vita. Ce la sto mettendo tutta, ma non so come andrà a finire».
Via Mecenate, studi della Rai di Milano. A metà del corridoio che porta allo studio di Vieni via con me. Lo scrittore più famoso e discusso d'Italia appoggiato a una parete di linoleum. Sulla faccia ancora qualche traccia del ragazzo che è stato, fino alla primavera del 2006. Quando uscì il libro di uno sconosciuto che collaborava con ogni possibile testata napoletana, uno che aveva la fissa della camorra. Appena quattro anni fa.

Vieni via con me è finito. Il suo bilancio?
«Un miracolo. Quando l'abbiamo scritto pensavamo a qualcosa di spurio, magari più adatto al teatro che alla televisione. Non ci aspettavamo questo successo. Quando un monologo ha un picco di 11 milioni di spettatori, più di una finale di Champions, è davvero una cosa incredibile».

Dicono che lei abbia fatto ombra a Fabio Fazio.
«Errore. Il merito del successo è suo. Un grande creatore di televisione. Con la sua esperienza, Fabio ha saputo creare l'alchimia giusta».

Prima di partire vi siete lamentati tanto della Rai, ma non sembra sia andata così male...
«Ah no? Abbiamo davvero fatto il programma contro l'editore. Non c'era un gran clima intorno a noi, e continua a non esserci. Il bello è che ce l'abbiamo fatta nonostante questa Rai. Nonostante questa politica».

Vieni via con me è televisione militante?
«A me piace una definizione che i più snob considerano fastidiosa: racconto civile. Il nostro è stato un programma trasversale. I dati dicono che ci hanno seguito tanti giovani tra i 14 e i 24 anni. E che il pubblico era diviso in maniera equa tra centro destra e centro sinistra».

E la faziosità, presunta o meno?
«Per superficialità oggi si definisce faziosa l'espressione di un punto di vista. Mi sembra incredibile: avere un'idea significa essere di parte. Non si può esprimere una posizione senza che immediatamente sia data la parola al suo contrario, perché possa annullarla».

Lo rifarà?
«E' stato bello, ma ora mi fermo. Esperienza durissima. Scrittura, prove serrate, memoria. E molta, troppa tensione che i dirigenti di Raitre ci aiutavano a sopportare. Non so se la ripeterò. Di sicuro non a queste condizioni. In una Rai come quella di oggi, mai più».

Maroni aveva ragione ad arrabbiarsi?
«Assolutamente no. Io ho raccontato le inchieste. Dire che non hanno portato all'arresto di politici leghisti, che ragionamento è? Un'inchiesta racconta un clima culturale, un modus operandi. La 'ndrangheta interloquisce con i poteri del Nord: dove c'è la Lega si rivolge alla Lega. Il problema principale del Nord non sono certo gli immigrati, come vogliono far credere, ma l'alleanza impresa-politica-criminalità. Il caso Desio lo dimostra. La Lega ha abbandonato la giunta dopo che un'inchiesta ha dimostrato che una parte di quella maggioranza faceva affari con la 'ndrangheta. E prima? Ignoravano? Il Nord Italia è sempre più infiltrato, piaccia o non piaccia alla Lega».

E poi Maroni cattura Antonio Iovine, il suo persecutore. Si è sentito in imbarazzo?
«Ma non scherziamo. Iovine non l'ha mica arrestato Maroni. Era 16 anni che lo cercavano. Il pm Federico Cafiero de Raho, dell'Antimafia di Napoli, uno degli eroi silenziosi di questo Paese, è la persona a cui deve andare il merito morale del contrasto ai boss casalesi».

Lo ammetta, ha pensato che quello di Iovine fosse un arresto a orologeria...
«In molti l'hanno fatto. Io non ci sto, detesto la dietrologia. Iovine era un capo, e adesso è in galera».

Perché Maroni sì e i pro life no?
«Perché raccontare una storia d'amore come quella tra Piero Welby e sua moglie Mina non significa affatto oscurare altre voci. Chi, dopo quarant'anni di sofferenza, ha chiesto di fermare la macchina a cui era attaccato non è affatto contro chi invece continua a sperare in quella macchina che lo tiene in vita. Il mio era un racconto d'amore, di sentimenti e di libere scelte. Non c'era nulla a cui replicare».

Il suo successo televisivo ha destato qualche invidia. Saviano in tivù fa venire le Gomorroidi, come dice Vauro?
«Lasciamo stare, dai. "Ma io già l'ho detto molto prima...", "Ma io l'ho scritto nell'89", "Ma è troppo lento, troppo veloce, troppo televisivo, troppo poco televisivo". Sono commenti che sento tutti i giorni. Un po' ne soffri, poi finisce che ne ridi. Veder nascere la bile perché grazie alla televisione arrivi a tante persone che in genere ignorano certi argomenti, in fondo, ti dà soddisfazione».

Pino Daniele è l'ultimo a dire che se lei fosse davvero "scomodo" l'avrebbero già ammazzata. Cosa ne pensa?
«Rispondo con le parole di Falcone: "Questo è il Paese felice dove per essere credibile bisogna essere uccisi". Io non me la prendo, perché credo si tratti di ignoranza, tipica di chi si accosta con superficialità a una persona e a un argomento che non conosce. Non so, mi verrebbe da dire: "Prima di parlare studiate di più"».

Fare televisione non è una dimostrazione di scarsa fiducia nelle sue possibilità di scrittore?
«Semmai il contrario. Anche raccontare storie in tivù è scrittura. Teatro, radio, cinema, televisione, fiction. Laddove si può comunicare io ci provo».

La grande speranza della sinistra?
«A volte questa cosa mi spaventa, a volte mi lusinga. Quando racconto delle gravi connivenze di questo governo con le organizzazioni criminali, quando intervengo per la libertà di stampa, dicono che sono di sinistra. Quando racconto dei dissidenti cubani, dei crimini del comunismo sovietico, sono di destra. Quando invito i migranti di Rosarno a non abbandonare l'Italia, torno di sinistra».

Scrivere è anche una attività privata. Saviano invece è ormai un personaggio pubblico, a stare bassi.
«Il Saviano privato? Mi fa sorridere questa espressione. Quando sei così esposto nessuno ti è a fianco, tutti ti sono addosso. Il Saviano privato deve nascondersi per difendere se stesso e non si fida di nessuno. Nessuno».

Si sente tirato per la giacca?
«Spesso. Quel che più mi colpisce è la paura dei politici. Molti di loro li ho visti terrorizzati all'idea che io scegliessi di servire il Paese, e non di scendere in campo, espressione orrenda che ha infettato la comunicazione politica, apparentando il Parlamento a uno stadio».

E Saviano, in che squadra giocherà?
«Destra e sinistra, tutti vorrebbero che urlassi le ragioni degli uni e i torti degli altri. Non è il mio mestiere, la politica. Io mi considero un narratore. Uno scrittore di 31 anni, ecco quel che sono».

Marco Imarisio

29 novembre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/politica/10_novembre_29/saviano-fazio-intervista_2b470c48-fb98-11df-bfbe-00144f02aabc.shtml


Titolo: ROBERTO SAVIANO Lettera ai ragazzi del movimento
Inserito da: Admin - Dicembre 16, 2010, 03:09:05 pm
L'INTERVENTO

Lettera ai ragazzi del movimento

di ROBERTO SAVIANO

CHI LA LANCIATO un sasso alla manifestazione di Roma lo ha lanciato contro i movimenti di donne e uomini che erano in piazza, chi ha assaltato un bancomat lo ha fatto contro coloro che stavano manifestando per dimostrare che vogliono un nuovo paese, una nuova classe politica, nuove idee.

Ogni gesto violento è stato un voto di fiducia in più dato al governo Berlusconi. I caschi, le mazze, i veicoli bruciati, le sciarpe a coprire i visi: tutto questo non appartiene a chi sta cercando in ogni modo di mostrare un'altra Italia.

I passamontagna, i sampietrini, le vetrine che vanno in frantumi, sono le solite, vecchie reazioni insopportabili che nulla hanno a che fare con la molteplicità dei movimenti che sfilavano a Roma e in tutta Italia martedì. Poliziotti che si accaniscono in manipolo, sfogando su chi è inciampato rabbia, frustrazione e paura: è una scena che non deve più accadere. Poliziotti isolati sbattuti a terra e pestati da manipoli di violenti: è una scena che non deve più accadere. Se tutto si riduce alla solita guerra in strada, questo governo ha vinto ancora una volta. Ridurre tutto a scontro vuol dire permettere che la complessità di quelle manifestazioni e così le idee, le scelte, i progetti che ci sono dietro vengano raccontate ancora una volta con manganelli, fiamme, pietre e lacrimogeni. Bisognerà organizzarsi, e non permettere mai più che poche centinaia di idioti egemonizzino un corteo di migliaia e migliaia di persone. Pregiudicandolo, rovinandolo.

Scrivo
questa lettera ai ragazzi, molti sono miei coetanei, che stanno occupando le università, che stanno manifestando nelle strade d'Italia. Alle persone che hanno in questi giorni fatto cortei pieni di vita, pacifici, democratici, pieni di vita. Mi si dirà: e la rabbia dove la metti? La rabbia di tutti i giorni dei precari, la rabbia di chi non arriva a fine mese e aspetta da vent'anni che qualcosa nella propria vita cambi, la rabbia di chi non vede un futuro. Beh quella rabbia, quella vera, è una caldaia piena che ti fa andare avanti, che ti tiene desto, che non ti fa fare stupidaggini ma ti spinge a fare cose serie, scelte importanti. Quei cinquanta o cento imbecilli che si sono tirati indietro altrettanti ingenui sfogando su un camioncino o con una sassaiola la loro rabbia, disperdono questa carica. La riducono a un calcio, al gioco per alcuni divertente di poter distruggere la città coperti da una sciarpa che li rende irriconoscibili e piagnucolando quando vengono fermati, implorando di chiamare a casa la madre e chiedendo subito scusa.

Così inizia la nuova strategia della tensione, che è sempre la stessa: com'è possibile non riconoscerla? Com'è possibile non riconoscerne le premesse, sempre uguali? Quegli incappucciati sono i primi nemici da isolare. Il "blocco nero" o come diavolo vengono chiamati questi ultrà del caos è il pompiere del movimento. Calzano il passamontagna, si sentono tanto il Subcomandante Marcos, terrorizzano gli altri studenti, che in piazza Venezia urlavano di smetterla, di fermarsi, e trasformano in uno scontro tra manganelli quello che invece è uno scontro tra idee, forze sociali, progetti le cui scintille non devono incendiare macchine ma coscienze, molto più pericolose di una torre di fumo che un estintore spegne in qualche secondo.

Questo governo in difficoltà cercherà con ogni mezzo di delegittimare chi scende in strada, cercherà di terrorizzare gli adolescenti e le loro famiglie col messaggio chiaro: mandateli in piazza e vi torneranno pesti di sangue e violenti. Ma agli imbecilli col casco e le mazze tutto questo non importa. Finito il videogame a casa, continuano a giocarci per strada. Ma non è affatto difficile bruciare una camionetta che poliziotti, carabinieri e finanzieri lasciano come esca su cui far sfogare chi si mostra duro e violento in strada, e delatore debole in caserma dove dopo dieci minuti svela i nomi di tutti i suoi compari. Gli infiltrati ci sono sempre, da quando il primo operaio ha deciso di sfilare. E da sempre possono avere gioco solo se hanno seguito. E' su questo che vorrei dare l'allarme. Non deve mai più accadere.

Adesso parte la caccia alle streghe; ci sarà la volontà di mostrare che chi sfila è violento. Ci sarà la precisa strategia di evitare che ci si possa riunire ed esprimere liberamente delle opinioni. E tutto sarà peggiore per un po', per poi tornare a com'era, a come è sempre stato. L'idea di un'Italia diversa, invece, ci appartiene e ci unisce. C'era allegria nei ragazzi che avevano avuto l'idea dei Book Block, i libri come difesa, che vogliono dire crescita, presa di coscienza. Vogliono dire che le parole sono lì a difenderci, che tutto parte dai libri, dalla scuola, dall'istruzione. I ragazzi delle università, le nuove generazioni di precari, nulla hanno a che vedere con i codardi incappucciati che credono che sfasciare un bancomat sia affrontare il capitalismo. Anche dalle istituzioni di polizia in piazza bisogna pretendere che non accadano mai più tragedie come a Genova. Ogni spezzone di corteo caricato senza motivazione genera simpatia verso chi con casco e mazze è lì per sfondare vetrine. Bisogna fare in modo che in piazza ci siamo uomini fidati che abbiano autorità sui gruppetti di poliziotti, che spesso in queste situazioni fanno le loro battaglie personali, sfogano frustrazioni e rabbia repressa. Cercare in tutti i modi di non innescare il gioco terribile e per troppi divertente della guerriglia urbana, delle due fazioni contrapposte, del ne resterà in piedi uno solo.

Noi, e mi ci metto anche io fosse solo per età e per  -  Dio solo sa la voglia di poter tornare a manifestare un giorno contro tutto quello che sta accadendo  -  abbiamo i nostri corpi, le nostre parole, i colori, le bandiere. Nuove: non i vecchi slogan, non i soliti camion con i vecchi militanti che urlano vecchi slogan, vecchie canzoni, vecchie direttive che ancora chiamano "parole d'ordine". Questa era la storia sconfitta degli autonomi, una storia passata per fortuna. Non bisogna più cadere in trappola. Bisognerà organizzarsi, allontanare i violenti. Bisognerebbe smettere di indossare caschi. La testa serve per pensare, non per fare l'ariete. I book block mi sembrano una risposta meravigliosa a chi in tuta nera si dice anarchico senza sapere cos'è l'anarchismo neanche lontanamente. Non copritevi, lasciatelo fare agli altri: sfilate con la luce in faccia e la schiena dritta. Si nasconde chi ha vergogna di quello che sta facendo, chi non è in grado di vedere il proprio futuro e non difende il proprio diritto allo studio, alla ricerca, al lavoro. Ma chi manifesta non si vergogna e non si nasconde, anzi fa l'esatto contrario. E se le camionette bloccano la strada prima del Parlamento? Ci si ferma lì, perché le parole stanno arrivando in tutto il mondo, perché si manifesta per mostrare al Paese, a chi magari è a casa, ai balconi, dietro le persiane che ci sono diritti da difendere, che c'è chi li difende anche per loro, che c'è chi garantisce che tutto si svolgerà in maniera civile, pacifica e democratica perché è questa l'Italia che si vuole costruire, perché è per questo che si sta manifestando. Non certo lanciare un uovo sulla porta del Parlamento muta le cose.
Tutto questo è molto più che bruciare una camionetta. Accende luci, luci su tutte le ombre di questo paese. Questa è l'unica battaglia che non possiamo perdere.

©2010 /Agenzia Santachiara

(16 dicembre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/scuola/2010/12/16/news/lettera_saviano-10251124/?ref=HRER3-1


Titolo: ROBERTO SAVIANO Così si muore in Calabria per la legge della terra
Inserito da: Admin - Dicembre 29, 2010, 06:36:37 pm
IL CASO

Così si muore in Calabria per la legge della terra

Cinque morti, quattro assassini.

A Vibo Valentia una storia di confini, di alberi tagliati, di rancori e violenza che fa dire ai magistrati: "Peggio della 'ndrangheta"

di ROBERTO SAVIANO


Gli animali che sconfinano e mangiano l'orto e rovinano la coltivazione. Alberi tagliati senza permesso compromettendo la frutta. I confini della terra continuamente manomessi, e poi in piazza non ci si saluta e si sentono gli sfottò arrivare dietro la schiena. Anzi, un giorno dopo una discussione prendersi uno schiaffo in pieno viso. Questo è sufficiente per far decidere a Filandari in provincia di Vibo Valentia di condannare a morte. Ercole Vangeli e - secondo quanto sta emergendo dalle indagini - alcuni suoi parenti, non vogliono più che i vicini gli freghino la terra, non vogliono più che li prendano in giro in paese dicendo a tutti che loro, i Fontana, fanno quello che vogliono e i vicini, i Vangeli, sono dei miserabili che devono obbedire. Non vogliono più vedere gli zoccoli delle bestie dei Fontana rovinare le loro colture. Né vogliono vedere i loro nocciòli e gli ulivi estirpati per allargare le coltivazioni dei Fontana. Vogliono vendicarsi.

Aspettano i vicini della loro masseria. Li attendono per strada. Tutti gli uomini della famiglia Fontana stanno entrando nel furgone quando Vangeli si piazza davanti al cofano e vuole ammazzarli proprio lì, tutti insieme, tutti in auto. Non hanno ancora chiuso le porte dell'auto quando si catapultano fuori, ma Vangeli inizia a sparare sul capofamiglia Domenico Fontana e su suo figlio Pietro 36 anni e Giovanni di 19 anni. Muoiono subito. Altri due figli, Pasquale di 37 anni e Emilio di 32, iniziano a correre e si nascondono nel capannone, ma i Vangeli li raggiungono
e li finiscono. Mirano sicuri, al petto alle gambe e alla faccia. Sparano con due pistole, una nove millimetri e una 7.65. Verranno rinvenuti più di trenta colpi. Hanno scaricato addosso ai Fontana tutti i caricatori che avevano portato. Una strage.

Può esser semplice e potrebbe anche essere sufficiente dire che è solo una ferocia barbarica generata da arretratezza medievale profonda ignoranza e assenza di Stato, ossia impossibilità di credere che con il diritto tu possa ottenere una qualche forma di giustizia. Ma tutto questo sarebbe solo uno sguardo superficiale che certo potrebbe esser sufficiente se si vuol presto liquidare questa storia. Ma questa non è una strage dettata semplicemente dal raptus di paesani che vivono in terre del Sud dove ci sono più pistole che forchette.

Non è così semplice. Sono stragi della regola. Barbarie certo, ma che si fondono su meccanismi assolutamente disciplinati dalle regole eterne di queste terre. Quando il procuratore di Vibo Valentia dichiara "non è una strage di mafia, è peggio", quel "peggio" sta a indicare che non siamo di fronte a dinamiche militari di due clan con regole di sangue. Sono dinamiche culturali, quella regola non è una regola di mafia, è una regola e basta. La regola appunto, qualcosa di diverso dalle stragi della depressione e dall'isteria del Nord. O quantomeno qualcosa che anche se nasce come raptus si alimenta di una prassi. Se tocchi la roba mia sei morto. Atavica, perenne, inamovibile, eterna. Una regola. Regole assunte come modi di vivere, come meccanismi per stare al mondo. E queste regole sono la forza di cui si alimentano le consorterie imprenditoriali più forti d'Italia ossia 'ndrangheta, camorra e Cosa nostra.
La regola esiste in paese, non in città. Il bandito Salvatore Giuliano diceva "in città scivolo". Come dire che sulla terra il piede è saldo, sull'asfalto delle città complesse che distraggono e dove non ci si conosce e ci si confonde, si rischia di sbagliare. E sbagliare significa vivere senza regola. L'Italia infatti è comandata dai paesi, non certo dalle città. È nei paesi che le regole vengono scritte e gestite. Platì, Casal di Principe, Africo, Corleone, Casapesenna, Natile di Careri e la lista dei paesi che dirigono gran parte dei capitali italiani è assai lunga. In questi luoghi cresci e ti formi, sia che tu prenda la strada della criminalità sia quella dura del lavoro in una terra senza lavoro, insomma, cresci con la certezza che il primo bene è la terra. Case, bestie, cemento, alberi. Il resto, le auto, i soldi investiti e le banche, non sono la radice delle cose. La roba è la roba che passerà al tuo sangue e che tu hai avuto dal tuo sangue. Il confine della terra è il confine del tuo corpo. Guardare negli occhi è già superare quel confine.

Quando ero ragazzino e mi presi il primo mazziatone di calci e pugni perché avevo guardato negli occhi tal Ciruzzo Romano, un ragazzino delle mie parti, perché "m'hai guardato" mi dissero subito con fare stupito: "Non guardare negli occhi, che gli occhi sono territorio, quindi pensaci bene se in quel territorio ci puoi entrare". Rubare un moggio di terra è come toccare un figlio, tagliare un albero è come rapire, venire a farti mangiare le coltivazioni dalle bestie è come sputarti in faccia. La regola è chiara. Non toccare la roba. Vivere per prendere roba. Vangeli, l'uomo della strage ha sua figlia iscritta all'Università che studia legge, una vita solita, e un'assoluta consapevolezza di quello che stava facendo. Del resto, nel 2008 e sempre in provincia di Vibo Valentia, in una frazione di Briatico, Vincenzo Grasso aveva ammazzato a pallettoni due suoi cugini perché secondo lui gli fregavano la terra trattandolo come un fesso. "Se vivo ti ammazzo, se muoio ti perdono", è un adagio che chi è cresciuto in questi paesi, dalla Locride alla Barbagia passando per l'Aversano, ha sentito decine di volte pronunciare durante le litigate per i confini o negli sgarri familiari. Il contesto non è affatto la miseria contadina, la solitudine e l'analfabetismo. Stiamo parlando di un episodio accaduto in provincia di Vibo Valentia, un territorio egemonizzato da un clan spietato, disciplinato, ricchissimo e internazionale. Il clan Mancuso. Giuseppe Lumia con molta chiarezza l'aveva definito la prima consorteria criminale per potenza economica d'Europa. Investe soprattutto in Lombardia, nel cemento, nella distribuzione di cibo e di benzina, nella gestione degli appalti, nel narcotraffico, nel condizionamento delle amministrazioni comunali e nel segmento sanitario di Monza, Novara e nei Comuni di Giussano, Seregno, Verano Brianza e Mariano Comense.

Nel paese della strage, Filandari. C'è una loro costola, la 'ndrina dei Soriano che egemonizza tutto quanto accade, impone dazi sui lavori alla Salerno-Reggio Calabria e su ogni camion che passa per il loro territorio. Leone Soriano, il boss di Filandari, voleva che gli fosse ceduta qualsiasi attività imprenditoriale di successo. Da proprietario diventavi dipendente. Le 'ndrine del territorio investono molto nella calabresella, la marijuana calabrese che è considerata la marijuana di maggior qualità sul piano internazionale, preziosa e più costosa rispetto alle altre ma molto più forte e molto più difficile da coltivare rispetto alla Skunk e alla White Widow (che ha vinto la Cannabis Cup, pur essendo di qualità inferiore alla calabresella) e il cui traffico è egemonizzato dalla 'ndrangheta. Due dei ragazzi Fontana ammazzati nella strage erano stati arrestati per estorsione e investivano in calabresella. E' un territorio, quindi, che grazie alla marijuana e al traffico di coca è diventato molto ricco. Ricchissimo. Anche Francesco Leonardo Brasca, sindaco negli anni '90 di Vibo Valentia ed insegnante, nel settembre scorso è stato arrestato dai carabinieri perché in un castagneto aveva una piantagione di calabresella. Quale arretratezza in un luogo dove, attraverso il narcotraffico, arrivano milioni e milioni di euro? Sta qui il nodo. Il massimo grado della tradizione della regola arcaica unito al massimo grado dell'evoluzione economica. Web, mercato, finanza, droga, ma solo se tutto questo viene governato dalle regole ataviche della roba, dello sguardo basso, dei matrimoni combinati, della verginità, delle regole di sangue. Il mondo lo comandi se sai vivere con queste regole anche quando le regole ti portano a svantaggi e alla galera per nequizie. E' la regola, se subisci hai perso, diventi nulla meno che nulla, nulla mischiato con niente, verme, bruco, topo, sottoterra.

Questa è la verità drammatica di questa strage che se viene ascritta solo ad un feroce raptus in terra barbarica non servirà nemmeno a far capire come una parte del paese vive ed egemonizza. Mi sono sempre chiesto com'era possibile che nei posti dove sono nato e in quelli dove il mio mestiere mi ha portato venisse ucciso un uomo come Antonio Magliulo solo perché aveva corteggiato una ragazzina e lui era un uomo sposato e la ragazzina la nipote di un boss. Come era possibile che il clan fosse disposto a prendersi ergastoli perché un boss uccideva un suo compaesano a Mondragone negli anni '90 solo perché non gli aveva regalato il maiale per Natale? Com'è possibile che una delle faide più feroci della storia italiana, quella a San Luca d'Aspromonte tra i Nirta-Strangio e i Pelle-Vottari. trovi come origine il 10 febbraio 1991 in un gesto all'apparenza futile? Quando un gruppo di ragazzi legati ai Nirta, detti "Versu", nei giorni di carnevale lanciarono uova contro il circolo ricreativo Arci gestito allora da Domenico Pelle, uno dei "Gambazza", sporcando anche l'auto di uno dei Vottari. E' possibile perché questi comportamenti rendono le loro regole inderogabili, le rafforzano proprio nella pratica quotidiana, proprio quando sembrano superflue. Le 'ndrine di Vibo Valentia hanno per prime creato un legame con le organizzazioni criminal-imprenditrici cinesi. A Monza le 'ndrine di Vibo vengono coinvolte nella storia del Multisala delle meraviglie, che avrebbe dovuto portare nel Parco del Grugnotorto 180mila metri quadrati di spazio verde con laghetto, piste ciclo-pedonali, piantumazione, 130 nuovi posti di lavoro, internet cafè, biblioteche multimediali, sale convegno, teatro. Il multisala, inaugurato nel 2005 da Cristina D'Avena, era rimasto vuoto ed era stato ceduto dopo pochi mesi a Song Zichai, per trasformarlo nel Cinamercato, il più grande centro commerciale di merce cinese del Nord Italia, con 280 mini negozi, scuola italo-cinese, palestra di kung fu, alloggi per le famiglie cinesi che ci avrebbero lavorato. Invece è stato dichiarato il fallimento e tutto si è fermato. Per realizzare l'acquisto dell'immobile, del valore di oltre 40 milioni di euro, sono stati presi contatti con esponenti della cosca Mancuso.

Com'è possibile che nel territorio dove avvengono patti internazionali e joint venture con i cinesi, dove passano capitali internazionali e da dove vengono gestite persino le province lombarde, ci si ammazzi per confini di terra, perché sono stati tagliati ulivi o le capre hanno calpestato i pomodori? La corazzata (im)morale delle mafie italiane si fonda su questa cultura. Cultura che ha portato alla strage di Filandari. Chi si avvicina a te sa che esiste una regola, chi affili sa che esiste una regola. E questa regola è la vendetta, la punizione. Semplice. Sai cosa puoi fare, sai cosa non puoi fare. Non c'è altra interpretazione. Chi comanda può dare altre regole, renderne alcune meno severe ma non può cambiarle. Al massimo aggiungerne. E sono la terra, gli ulivi, i noci, i limoni, le pecore, le capre e le vacche o le bufale, i cavalli e il grano, la masseria. L'elemento primo e sicuro. L'olio, il pane e i pomodori. I molti nipoti e le galline. La moglie che ti sposi vergine (le amanti poi le prendi al Nord o all'Est) e il fatto che al paese tutti ti salutano, al ristorante ti servono per primo anche se arrivi ultimo, il parcheggio ti viene lasciato se arrivi in una zona dove tutto è occupato. Perché tutti gli imperi di capitali finanziari, di banche e ristoranti, di coca e usura, di marjuana e racket, di politica e palazzi, tutto questo si regge sulla regola. E quella regola la confermi e difendi se al tuo paese esiste e vive. Perché se anche sei un boss ed investi a New York nella ricostruzione delle torri gemelle, tutto questo lo puoi fare proprio perché quando entri dal barbiere, qualsiasi cliente si alza e ti fa sedere. "L'impero sulla terra sta" sulla roba e sulla regola. Quei trenta colpi di pistola, purtroppo sono molto peggio di una barbarie, sono frutto di un meccanismo a cui obbedisce chi in questo momento investe, vince e gestisce gran parte di questo nostro bellissimo e dannato paese.

(29 dicembre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/cronaca/2010/12/29/news/saviano_calabria-10671062/?ref=HRER2-1


Titolo: ROBERTO SAVIANO Il vero "orrore" è isolare i magistrati
Inserito da: Admin - Gennaio 23, 2011, 10:57:10 am
LA POLEMICA

Il vero "orrore" è isolare i magistrati

di ROBERTO SAVIANO

Ho ricevuto la laurea honoris causa in Giurisprudenza, mi è stata conferita dall'Università di Genova; è stata una giornata per me indimenticabile. Credevo fosse fondamentale impostare la lezione, che viene chiesta ad ogni laureato, partendo proprio dall'importanza che il racconto della realtà ha nell'affermazione del diritto.

Soprattutto quando il racconto descrive i poteri criminali. Senza racconto non esiste diritto. Proprio per questo ho voluto dedicare la laurea honoris causa ai magistrati Boccassini, Forno e Sangermano del pool di Milano. Marina Berlusconi dichiara che le fa orrore che parlando di diritto si difenda un magistrato. Così facendo avrei rinnegato ciò per cui ho sempre proclamato di battermi. Così dice, ma forse Marina Berlusconi non conosce la storia della lotta alle mafie, perché difendere magistrati che da anni espongono loro stessi nel contrasto all'imprenditoria criminale del narcotraffico non vuol dire affatto rinnegare. Non c'è contraddizione nel dedicare una laurea in Giurisprudenza a chi attraverso il diritto cerca di trovare spiegazioni a ciò che sta accadendo nel nostro Paese. Mi avrebbe fatto piacere ascoltare nelle parole di un editore l'espressione "orrore" non verso di me, per una dedica di una laurea in Legge fatta ai magistrati. Mi avrebbe fatto piacere che la parola "orrore" fosse stata spesa per tutti quegli episodi di corruzione e di criminalità che da anni avvengono in questo paese, dalla strage di Castelvolturno sino alla conquista
della 'ndrine di molti affari in Lombardia. Ma verso questi episodi è stato scelto invece il silenzio.

Orrore mi fa chi sta colpevolmente e coscientemente cercando di delegittimare e isolare coloro che in questi anni hanno contrastato più di ogni altro le mafie. Ilda Boccassini, coordinatrice della Dda di Milano, ha chiuso le inchieste più importanti di sempre sulle mafie al Nord. Pietro Forno è un pm che ha affrontato la difficile inchiesta sulla P2 ed ha permesso un salto di qualità nelle indagini sugli abusi sessuali, abusi su minori. Antonio Sangermano, il più giovane, ha un'esperienza passata da magistrato a Messina, recentemente ha coordinato un'inchiesta, una delle prime in Italia, sulle "smart drugs", le nuove droghe. Accusarli, isolari, delegittimarli, minacciare punizioni significa inevitabilmente indebolire la forza della magistratura in Italia, vuol dire togliere terreno al diritto. Favorire le mafie. Ecco perché ho dedicato a loro la lezione di cui, qui di seguito, potete leggere un ampio stralcio.

* * *

È difficilissimo in questa fase storica italiana parlare al grande pubblico di come la parola possa contrastare un potere fatto di grandi capitali, di eversione, di forza militare, di grandi investimenti internazionali. Ogni volta che mi trovo a parlare nelle università piuttosto che in tv, c'è sempre dell'incredulità: come è possibile che lobby così potenti possano avere paura della parola?

In realtà forse la dinamica è un po' più complessa. Non è la parola in sé, scritta, pronunciata, dichiarata, ripresa, quella che fa paura. È la parola ascoltata, sono le persone che ascoltano e che fanno di quella parola le proprie parole. È questo che incute timore alle organizzazioni criminali. Paura che non riguarda semplicemente la repressione, loro la mettono in conto, come mettono in conto il carcere. Ma quasi mai mettono in conto l'attenzione nazionale e internazionale. Che poi significa semplicemente una cosa: significa dire che queste storie non riguardano solo gli addetti ai lavori, i politici locali, i magistrati, i cronisti, ma riguardano anche noi. Quelle storie sono le nostre storie, quel problema è il nostro problema, e va risolto perché è come risolvere la nostra stessa esistenza.

Raccontare è parte necessaria e fondamentale del diritto. Non raccontare è come mettere in discussione il diritto. Può sembrare un pensiero astratto ma quando si entra in conflitto con le organizzazioni, il loro potere, il loro modo di fare, allora si inizia a capire. E si capisce perché, non solo in Italia, c'è chi investe energie e interviene non sul racconto delle cose, ma su chi le racconta. Come se il narratore fosse responsabile dei fatti che sta narrando. Si invita per esempio a non raccontare l'emergenza rifiuti a Napoli per non delegittimare la città: quindi non sono i rifiuti che delegittimano la città ma chi li racconta. Se un problema non lo racconti, e soprattutto se non lo racconti in televisione, quel problema non esiste. È una sorta di teoria dell'immateriale, ma in realtà fa capire quanto sia fondamentale la necessità di raccontare.

Non è una particolarità italiana, dicevo. In Messico per esempio negli ultimi sei mesi sono stati ammazzati 59 giornalisti: ragazzi che avevano aperto dei blog, che avevano fondato delle radio, giornalisti delle testate più importanti. Caduti per mano del narcotraffico, che è oggi il più potente del mondo e che ha deciso di impedire la comunicazione di quello che sta succedendo in Messico con una scelta totalitaria, nell'eliminazione sistematica di chiunque tenti non solo di raccontare. Qualsiasi persona che inizi a raccontare diventa immediatamente un nemico, un pericolo perché accende la luce, anche piccola, ma che può interessare.
Ricordo una persona che ho molto stimato, e avevo conosciuto quando decise di esprimermi solidarietà nei momenti più difficili della mia vita: Christian Poveda. Aveva deciso di andare in Salvador a raccontare la Mara Salvatrucha, potentissime bande di strada che controllano lo spaccio della coca. Poveda li riprende con il loro consenso e ne fa un documentario dal titolo La vida loca, meravigliosamente tragico, forte perché anche lì c'è quel principio: queste storie diventano le storie di tutti. Ebbene Poveda con questo documentario comincia ad accendere luci ovunque, anche sui rapporti tra le Maras e la politica. Iniziano ad arrivare i giornalisti. E il 20 settembre del 2009 sparano in testa a Christian, che muore in totale silenzio, sia in Italia che in Europa, lasciando in qualche modo una sorta di ormai fisiologica accettazione: hai scritto di queste cose, o meglio hai ripreso questo cose, non puoi che essere condannato.

Spesso la morte non è neanche la cosa peggiore. Chi prende questa posizione, chi usa la parola per raccontare, per trasformare, paga un prezzo altissimo, nella delegittimazione, nell'isolamento e in quello che devono pagare i loro cari. La poetessa russa Anna Achmatova vive il periodo della rivoluzione bolscevica, il regime la considera una dissidente, una sorta di scarto della società del passato da modificare. Il suo ex marito che è un grandissimo poeta, viene fucilato, bisognava indebolirla in tutti i modi. Lei era già diventata una poetessa di fama soprattutto in Francia, quindi era difficile toccarla senza dare un'immagine repressiva della Russia sovietica. La prima cosa che fanno è cercare di spezzarle la schiena poetica: le arrestano il figlio. Lei è disposta a scambiare la vita del figlio con la sua. Non serve a molto, lui resta in carcere e lei racconta una scena bellissima: ogni mattina migliaia di donne si mettevano in fila davanti alle carceri sovietiche portando dei pacchi, spesso vuoti, soltanto per vedere l'espressione del secondino. Se il secondino accettava il pacco significava che la persona, marito, figlio, fratello, padre, era viva. Se non lo accettavano era stata fucilata. Quando lei si presenta il secondino la riconosce: "Ma lei è Anna Achmatova". Lei fa cenno di sì, e la persona che sta dietro: "Ma lei è una poetessa, quindi può raccontare tutto questo". Lì c'è una poetessa, piccola magra, devastata dai suoi drammi, che diventa all'improvviso la speranza. I versi diventano la speranza: può raccontare, può far esistere, cioè può trasformare.

Mi sono sempre chiesto come si fa a vivere così, come hanno fatto queste persone a sopportare decenni di delegittimazione, per aver scritto poesie o anche solo delle canzoni. Come è successo a Miriam Makeba, a cui il governo bianco sudafricano ha inflitto trent'anni di esilio per il disco "Pata pata", una canzone che racconta di una ragazza che vuole solo danzare, divertirsi, che vuole essere felice. Ma questo fa paura, voler vivere meglio fa paura, Miriam Makeba fa paura. E più canta nei teatri di tutto il mondo, più l'Africa intera si riconosce in quella canzone, che non parla di indipendenza, di lotta ai bianchi, ma di voglia di vivere e felicità. Fin quando non arriva il governo Mandela che la richiama in Sudafrica. È anche questa l'incredibile potenza della parola. Per questo sono convinto che il racconto sia parte del diritto, non può esistere il diritto senza racconto. Ma oggi, e non è solo la mia opinione, in Italia chi racconta ha paura. Certo, siamo in una democrazia, non abbiamo a che fare con un regime, con le carceri. Non siamo in Cina. Ma non si può negare che chiunque oggi decida di prendere in Italia una posizione critica contro il potere, contro il governo, rischia la delegittimazione, rischia di essere travolto dalla macchina del fango. Quando accende il computer per iniziare a scrivere sa già cosa gli può succedere. La formula è scientifica e collaudata: "Se tu racconti quello che dai magistrati è considerato un mio crimine, io racconto il tuo privato. Tutti hanno scheletri nell'armadio, quindi meglio che abbassiate lo sguardo e molliate la presa".

Ma per gli intellettuali raccontare è una necessità, comunque la si pensi. E in queste ore il loro compito è quello di dire che non siamo tutti uguali, non facciamo tutti le stesse cose. Certo, tutti abbiamo debolezze e contraddizioni, ma diverso è l'errore dal crimine, diversa è la corruzione dalla debolezza. Mentre si cerca di far passare il concetto che siamo tutti "storti" per coprire le storture di qualcuno. Oggi si parla molto di gossip e il gossip è rischioso, perché lo si usa per nascondere i fatti emersi dalle inchieste e per dimostrare che "fanno tutti schifo". E il compito, ancora una volta, delle persone che ascoltano, che scrivono e che poi parlano, è quello di discernere, di capire, ovunque esse siano, con i figli a tavola, nei bar, comunque la pensino.

C'è una bellissima preghiera di Tommaso Moro: Dio aiutami ad avere la forza di cambiare le cose che posso cambiare, di sopportare le cose che non posso cambiare ma soprattutto dammi l'intelligenza per capire la differenza. Questo è il momento in cui in noi possiamo trovare la forza di cambiare e comprendere finalmente che non dobbiamo credere che tutto quello che accade sia inevitabile e quindi soltanto sopportare.

Infine, dedico questa laurea e questa giornata, che ovviamente non dimenticherò per tutta la vita, a tre magistrati: alla Boccassini, a Forno e a Sangermano, che stanno vivendo, credo, giornate complicate solo per aver fatto il loro mestiere di giustizia.
 

(23 gennaio 2011) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2011/01/23/news/saviano_magistrati-11549178/?ref=HRER1-1


Titolo: ROBERTO SAVIANO La dedica ai pm? Coerente con ciò che scrivo.
Inserito da: Admin - Gennaio 27, 2011, 12:00:35 am
L'autore di «Gomorra»: dalla casa editrice tanta solidarietà solo da dirigenti ed editor

Saviano: «Mondadori, la proprietà non mi sopporta»

La dedica ai pm? Coerente con ciò che scrivo.

Felice che Feltrinelli pubblichi i monologhi di «Vieni via con me»

 
MILANO - Roberto Saviano, è davvero un addio?
«Mondadori ed Einaudi sono case editrici libere. Nel mio caso sento però che la proprietà non sopporta più la mia presenza. Si sta vivendo una contraddizione tra la proprietà che alza la voce assumendo toni autoritari e gli uomini che lavorano nella casa editrice, liberi e autonomi. Una cosa è la proprietà un'altra è l'editore. Ma nel mio caso questo equilibrio sembra rompersi. Anzi, si è rotto».

Come mai ha deciso di pubblicare con un altro editore?
«Semplice: sono felice che Feltrinelli mi abbia proposto di fare un libro con i monologhi di Vieni via con me. Si tratta di testi sofferti, che hanno avuto vita difficile fin dall'inizio. Mentre li preparavo, mentre raccoglievo il materiale, io e la redazione non sapevamo se sarebbero mai andati in onda».

Mondadori non le ha mai fatto una proposta per averli?
«Mai. Del resto, fuori dalla casa editrice, in tanti hanno cercato in ogni modo di fermarli, da quando ho proposto i temi di cui avrei voluto parlare. Li hanno contrastati con ogni polemica possibile e infine cercato di farli dimenticare il prima possibile. E ora sono davvero entusiasta di trovarmeli in libreria».

Con la sua dedica di una laurea honoris causa ai pubblici ministeri di Milano non ritiene di aver fatto una provocazione?
«No. Io l'ho vista in coerenza con ciò che scrivo, non certo come una provocazione».

Sono titolari di una certa inchiesta sul suo editore, non è un dettaglio da poco...
«Senta: Ilda Boccassini è il magistrato che in questi anni al Nord si è schierato come pochi altri contro la 'ndrangheta e il riciclaggio. Delegittimarla significa dare forza all'imprenditoria del narcotraffico».

E gli altri?
«A quel che mi risulta, Pietro Forno e Antonino Sangermano hanno sempre svolto il loro lavoro con serietà. Mi sono sentito in dovere di far riferimento alla loro situazione di minacce e isolamento solo per una scelta di giustizia. E ricordo a tutti che la dedica ai pubblici ministeri è avvenuta mentre ricevevo una laurea in legge».

Ogni laurea, un caso politico. Lo fa apposta?
«A essere sinceri, non è sempre stato così. Nel senso che la mia la prima laurea, avevo poco più di vent'anni, la dedicai a mio nonno, scampato ai campi di concentramento tedeschi, ma di quella dedica ne erano a conoscenza solo in pochi, ovviamente. La seconda laurea, honoris causa, la dedicai invece agli immigrati meridionali di Milano, i veri milanesi. E puntualmente un viceministro leghista, Roberto Castelli, mi mandò "a ciapà i ratt". Ma questa volta è diverso, molto diverso».

Dove nasce il cortocircuito con Mondadori?
«Dalla constatazione che Marina Berlusconi non è intervenuta contro le molteplici dichiarazioni che in questi giorni sono state fatte su suo padre, se non in maniera generica. Eppure ha sentito la necessità di intervenire sulle mie parole, in quanto mio editore e su una questione non di natura editoriale, ma politica».

Il fatto che si tratti di suo padre non è un'attenuante?
«La mia dedica ha generato "orrore" in Marina Berlusconi, alla quale però non mi risulta che in questi anni abbiano fatto orrore molte cose terribili avvenute in questo Paese».

Dalla casa editrice non ha ricevuto alcuna solidarietà?
«Tantissima, e proprio in queste ore, da dirigenti ed editor come Riccardo Cavallero, Massimo Turchetta, Severino Cesari, Edoardo Brugnatelli, Paolo Repetti, Antonio Franchini. Ma purtroppo non rappresentano la proprietà».

Si è chiesto la ragione del putiferio scatenato dalle sue parole?
«Credo che dedicare qualcosa a qualcuno, una laurea, un premio o un libro, sia un modo per sentirsi in continuità con delle azioni o delle persone. È come dire: io sono il risultato dell'impegno, delle speranze e delle loro sofferenze. Ecco perché dà così tanto fastidio».

E adesso?
«Si volta pagina. Negli ultimi anni ho avuto contatti con tanti editori, credo sia giunto il tempo di tornare a vivere e lavorare di parole. Spero che questo libro con Feltrinelli possa darmi ossigeno, e che questa nuova avventura mi possa anche far divertire. Ne ho bisogno».

Marco Imarisio

26 gennaio 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it


Titolo: ROBERTO SAVIANO Il diritto di sognare un'Italia pulita
Inserito da: Admin - Febbraio 05, 2011, 09:56:54 pm
L'APPELLO

Il diritto di sognare un'Italia pulita

Nel nostro Paese, certo, si può dissentire. Ma a che prezzo? Al prezzo di essere pronti a sottoporsi ai veleni della macchina del fango.

Don Milani diceva: "A che cosa sarà servito avere le mani pulite se le abbiamo tenute in tasca?"


di ROBERTO SAVIANO


L'ITALIA oggi non è un paese libero. Sia chiaro: non sto dicendo che la situazione italiana sia in qualche mondo comparabile con i totalitarismi del passato. Niente a che vedere con fascismo o comunismo, è ovvio. Ma ciò non ci deve impedire di dire che oggi chiunque attacchi il governo sa che subirà un'intimidazione, una forma di ritorsione. Sa che potrebbe essere colpito, lui, o i suoi cari, da una qualche veline infamante che cercherà di sporcarlo davanti all'opinione pubblica.

La libertà non può esistere solo come costruzione astratta o peggio come principio.

"La libertà politica - scriveva Salvemini - è sostanzialmente il diritto del cittadino di dissentire dal partito al potere. Da questo diritto di opporsi al potere nascono tutti gli altri diritti".

In Italia, certo, si può dissentire: ci mancherebbe altro. Ma a che prezzo? Al prezzo di essere pronti a sottoporsi ai veleni della macchina del fango. Lo abbiamo visto in passato con Boffo, con Fini, con il giudice Mesiano, ora con Ilda Boccassini. Lo vedremo ancora.

Parlo da trentenne. L'odio che senti vicino quando ti poni contro certi poteri mi ha stupito. Guicciardini aveva ragione quando definiva l'Italia un paese di contrade. Temo che se queste contrade non saranno dismesse non potremo andar lontano. Sembriamo condannati a dividerci su ogni cosa. Ci si può essere antipatici, ma in questo momento non c'è spazio per sottolineare le differenze, per misurare chi è più critico
e chi è più puro, chi ha la corona del miglior antagonista o dell'Italia migliore. Questo è il momento non dico dell'unità, ma almeno delle affinità. La purezza non serve più. Ricordo quel che diceva Don Milani: "A cosa sarà servito avere le mani pulite se le abbiamo tenute in tasca?". Sporcarsi le mani non ha nelle parole del parroco della scuola di Barbiana nessun significato di corruzione, è ovvio: vuol dire la necessità di fare, anche sbagliando, di realizzare cose che possano essere difficili, ma utili. Unirsi nelle diversità è cosa complicata ma ormai imperativa. Certi che da questa unità verrà del bene per tutti.

Monicelli poco prima di morire auspicava una rivoluzione. Oggi la parola rivoluzione in me non evoca banchetti di sangue né vendette, né palazzi d'inverno né Moncada. Ancor meno fucilazioni e "uomini nuovi". E' invece la parola che mi fa tornare alla mente la lezione di Piero Gobetti: oggi ho la sensazione che sia rivoluzionario non considerare gli elettori di un'area avversa come perduti. Che sia rivoluzionario sentirci tutti partecipi di uno stesso paese ed un unico destino. O si riparte da questo o non saprei proprio il motivo di impegnarci, intervenire, "sporcarsi le mani".

Sento di poter scrivere queste parole proprio perché vengo da una terra dove la legalità significa vita e libertà in maniera forse più chiara che qui a Milano. E perché non appartengo alla generazione che ha creduto nel socialismo reale. Non ho amato i rivoluzionari tramutati in dittatori. Non ho creduto in sogni di società perfette divenuti inferni in terra. Appartengo alla generazione che ha visto i caduti della sua resistenza morire per costruire un paese dove le opportunità, il talento, il diritto, fossero cose reali. Gianni Falcone, Rocco Chinnici, Rosario Livatino, Carlo Alberto Dalla Chiesa. non muoiono mentre stanno portando avanti la loro professione di magistrati a difesa del diritto e perseguendo i reati. Almeno, non solo per questo. Fanno molto di più.

Così come Giancarlo Siani, Pippo Fava, De Mauro non muoiono perché inciampano in verità indicibili. Ma perché scrivendo rendono pubbliche le verità che conoscono: e molti uomini e donne che hanno verità possono trasformare lo stato di cose. Per questo vengono condannati a morte. Per la loro parola.

In questa battaglia la mia generazione è cresciuta. In un Paese dove lo Stato non era un monolite tutto corrotto o tutto rivolto al bene. Ma dove una parte di Stato corrotto era affrontato quotidianamente dall'altra parte dello Stato. Vivere costruendo le possibilità di essere felici è una necessità dell'uomo, l'unica alternativa ad una rassegnata, cupa disperazione: un sogno che non può non farti combattere con tutto te stesso contro l'impossibilità di far affermare il merito, l'impegno, il talento. L'ingiustizia è di questo mondo. Ma sono di questo mondo anche gli strumenti per affrontarla. In questa fase in Italia non sembra possibile. Il governo e l'area culturale che lo sostiene non si difende mai dalle accuse - così evidenti, così manifeste - dicendo: non si fanno certe cose. Ma sostenendo l'autoassolutoria tesi del "così fan tutti". L'accusa maggiore a chi chiede un paese diverso è l'accusa di essere un ipocrita: "Berlusconi fa quel che tutti fanno o vorrebbero fare". Non è vero, non è così, dobbiamo ribellarci al ritratto di un Paese piegato e corrotto, accomunato in una specie di complicità collettiva. C'è un'Italia che ha il diritto e il dovere di venire alla luce e di prendere voce: un'Italia che crede nelle regole, nella legalità, che crede che non sia normale avere un premier che, preda di una senile ossessione sessuale, paga le minorenni, mente allo Stato per proteggerle e sfugge ai magistrati.

Albert Camus diceva che la sofferenza, come la morte, non si può sconfiggere: ma che il nostro dovere è di riparare nella creazione tutto ciò che può essere riparato. Io in questo credo: nella possibilità di ridurre aritmeticamente il dolore. Forse un mondo migliore non esiste, ma credo nella possibilità di migliorare il mondo. Per questo sento che è il tempo per tornare a sognare. Non sembri scontato e retorico e anche se lo fosse ben venga. Ma sognare un paese diverso non può che essere il carburante vivo e persino divertente del tentativo di cambiare le cose. Di cercare una felicità possibile. Una felicità semplice, fatta di un lavoro dignitoso, della possibilità dell'individuo di provare quanto vale. Di ricevere quanto merita. Non è il sogno di un paradiso inesistente ma di un luogo un po' diverso, dove l'ingiustizia, il favore, la raccomandazione del potente di turno per ottenere un lavoro o addirittura un posto in consiglio regionale o in parlamento, non esistano più. I valori che ci fanno in questo momento stare insieme sono sepolti con l'urgenza di identificare ciò che non siamo ciò che non vogliamo. Ora è il tempo di dire anche ciò che siamo e ciò che vogliamo.

(05 febbraio 2011) © Riproduzione riservata
da - repubblica.it/politica/2011/02/05


Titolo: ROBERTO SAVIANO Cinquantamila ragioni per vivere
Inserito da: Admin - Aprile 04, 2011, 11:11:38 am
L'INIZIATIVA

Cinquantamila ragioni per vivere

Tutti gli elenchi della felicità

Tra passioni e piccoli piaceri, che cosa dà realmente un senso all'esistenza? Roberto Saviano, dopo aver stilato al sua lista, aveva chiesto ai nostri lettori di fare altrettanto. E loro hanno risposto in tanti. Più di seimila persone hanno inviato la loro classifica.
Ecco il catalogo dei nostri piaceri più intimi

di ROBERTO SAVIANO


CINQUANTAMILA motivi per cui vale la pena vivere. Tutti giunti in pochi giorni. Un'incontenibile voglia di scrivere la carta costituente di se stessi. Elenchi di donne e uomini, di ogni generazione, di ogni parte d'Italia. Dai seimila elenchi che sono arrivati finora a Repubblica.it 1 (e molti altri continuano ad arrivare) emerge l'autoritratto collettivo di un paese, l'immagine di un'Italia che trova il suo fondamento in pochi cardini capaci di congiungere il passato al futuro, in beni comuni. Sentimenti antichi, desideri vivi, lampi di gioie quotidiane irrinunciabili.

... video su http://www.repubblica.it/spettacoli-e-cultura/2011/03/24/news/roberto_saviano-14025237/?ref=HREC2-5

Ci sono molte cose che ritornano in queste liste, sempre le stesse, sempre essenziali. L'amore, fare l'amore - ma farlo con la persona che si ama. Lo dicono le donne, però anche moltissimi uomini. Lo dicono di qualcuno che spesso è la moglie, il marito, il compagno o la compagna di una vita. O l'amore di un momento, il sogno d'un amore, il desiderio di amare. L'amore per i figli, da quelli non ancora nati e rappresentano la speranza del futuro a quelli già diventati adulti, che magari per lavoro sono lontani. L'amore di quelli che non ce l'hanno ancora, per cui una ragione di vivere diventa l'attesa del giorno in cui lo troveranno. L'amore per i genitori, anche malati, anche quando non ci sono più, ma continuano a vivere nel ricordo dei propri cari. Per i fratelli con cui si cerca di restare sempre in contatto.

C'è un senso fortissimo della famiglia in questi elenchi, ma il sentimento dei legami va oltre la cerchia del sangue.
Spesso si elencano gli amici, quelli veri, quelli con cui si è legati, annodati per sempre. O i gesti che ci mettono in comunicazione con gli altri: da un sorriso per strada ricambiato al trovarsi insieme per manifestare. C'è il piacere di ridere, a crepapelle, sino alle lacrime: risate terapeutiche capaci di contagiare e curare chi è triste. E il bisogno di piangere che spesso diviene un diritto conquistato con la consapevolezza di voler essere se stessi, sempre. Ci sono i viaggi, il mare, i paesaggi dei ritorni a casa, i cieli stellati, il profilo dei monti. E poi i sapori: la cioccolata, la pizza, nuotare nel Piave, il sole, i fiori. Inseriti negli elenchi smettono di essere cose trascurabili e divengono dettagli fondamentali.

Elenchi banali, diranno i cinici, pieni di ipocrisia e di falso buonismo, diranno i saccenti. Ma chiunque abbia ascolto sincero delle parole sa che sono loro a banalizzare, impauriti dalla semplicità quando diviene senso della vita e soprattutto punto fermo di felicità. Perché la ricerca della felicità, che si fa corpo in questi elenchi coincide anche con la necessità di un nuovo inizio, di un nuovo paese, di un nuovo orizzonte. Scrivono i loro decaloghi uomini e donne che non hanno perso la fiducia in se stessi e nei loro simili, ma hanno voglia di allargare lo sguardo e di scoprire. C'è tanta musica, cinema, libri, il gusto di leggerli in spiaggia o sotto le coperte. Le squadre del cuore. C'è spesso la fede in Dio, ma anche l'orgoglio di essere italiani. C'è molta voglia di un paese migliore, molto ricordo vivo di uomini come Falcone e Borsellino, Berlinguer e Pertini. Però è un'Italia che sta anche nel mondo, ricorda Gandhi e Martin Luther King, canta Springsteen e gli U2, ha un pensiero partecipe per il Nordafrica e il Giappone.

Avevo promesso di scegliere cinque elenchi nel mare di quelli che mi hanno mandato: impresa difficile, impossibile. Non ce ne sono, è ovvio, migliori o peggiori.

Alla fine quelli che ho scelto 6 sono solo cinque esempi di un coro immenso che dà voce a un'Italia diversa, diversissima da come ci viene rappresentata tutti i giorni. Un paese che ha sviluppato una propria bussola, non solo interna: perché la dimensione privata di molti messa insieme può divenire pubblica. È da qui che mi piace pensare l'inizio di una possibile e necessario percorso, un insieme di desideri di felicità che si uniscono. Non il paese incattivito, egoista, in fondo disperato in cui ciascuno bada solo ai fatti propri, dove tutti sono ugualmente sporchi, compromessi, piegati, e quindi tutti uguali nella meschinità. Dove non resta che tacere e far vincere il più furbo. Ma un'Italia integra, pulita, allegra e colma di rispetto in cui possiamo riconoscere la nostra speranza e la nostra forza - a partire dai punti fermi delle nostre vite che nulla riuscirà mai a scardinare.

Elenchi e ancora elenchi. Leggerli mi fa sentire bene, mi fa sentire parte di qualcosa che riconosco. Come se riuscissi a conoscere le vite delle persone che mi hanno scritto (e ringrazio tutti coloro che hanno voluto includermi nei loro elenchi). Come se vedessi una vita in dieci punti, come se tutto il bene e tutto il male - o meglio ogni ricerca del bene e ogni resistenza al male incontrato - recassero la loro traccia in queste poche parole. Elenchi che sommati l'uno all'altro formano un castello di parole e preannunciano la costruzione di un paese per cui vale ancora la pena di vivere.

(24 marzo 2011) © Riproduzione riservata
da - repubblica.it/spettacoli-e-cultura/2011/03/24/news/


Titolo: ROBERTO SAVIANO Quando il boss prende la valigia
Inserito da: Admin - Giugno 02, 2011, 04:57:36 pm
L'INCHIESTA

Quando il boss prende la valigia

Ecco i segreti della mafia al Nord

Le organizzazioni criminali hanno colonizzato il Nord. Moltiplicando i loro affari.

Un libro-inchiesta di Federico Varese spiega come ci sono riuscite: alla base del loro potere c'è un bisogno di protezione che lo Stato non riesce ad assolvere

di ROBERTO SAVIANO


Incontrai Federico Varese nel 2008, per la mia prima lezione ad Oxford. Ero terrorizzato. Mi accolse il suo sorriso insieme a quello di Davide Gambetta, due veri e propri esploratori del mondo delle mafie. Due maestri. Oxford mi sembrò un luogo che guardava spesso alle dinamiche mafiose del nostro paese e del mondo, con una urgenza più evidente rispetto a tanti altri atenei. Ora Federico Varese pubblica un libro in Italia dopo aver pubblicato molto in Gran Bretagna. Un saggio disciplinato, complesso, un'opera scientifica: Mafie in movimento (Einaudi). Si tratta di un'analisi profonda sul trapianto delle mafie fuori dai propri territori di origine. Fuori da quelli che vengono comunemente percepiti, con superficialità, come i loro confini "naturali". Nel luglio 2010 la maxi-operazione denominata Il Crimine, condotta da Polizia e Carabinieri all'interno dell'indagine coordinata dalle Procure di Milano e di Reggio Calabria, portò a 300 ordinanze di custodia cautelare contro boss riconosciuti e presunti affiliati della 'ndrangheta, di cui 160 in Lombardia.

E all'individuazione di almeno 15 "locali" lombardi. L'eccezionalità di quest'operazione non risiede solo nel numero di persone coinvolte nell'attività criminale, ma soprattutto dalle zone nelle quali molte di queste persone operavano. Non Platì, San Luca, Reggio Calabria, Marina di Gioiosa Ionica, nomi che siamo abituati a sentire quando si parla di 'ndrangheta. Ma Milano, Bollate, Cormano, Rho, Pioltello, Erba. Città e paesi di quel Nord che si è sempre sentito immune. Che ci hanno sempre fatto credere fosse immune.

Se in Calabria rimane il vertice direttivo, la Lombardia emerge come cuore economico dell'associazione: qui la 'ndrangheta è riuscita a ricreare una struttura parallela, dotata di un alto grado di autonomia d'azione. L'Operazione Il Crimine ha totalmente ribaltato l'assioma secondo cui la mafia è frutto della "cultura" del Meridione e che il trapianto mafioso fosse impossibile in zone con un alto tasso di civismo e di "capitale sociale". Ha dimostrato l'ingenuità della convinzione che il soggiorno obbligato sarebbe bastato a redimere i mafiosi.

Ma nessun territorio è immune dalle infiltrazioni, perché la mafia non è una malattia, è un sistema economico e non si eredita come una tara familiare e non si cura con aria di mare come una polmonite. Come spiegarsi altrimenti ciò che è accaduto a Bardonecchia, l'operoso comune piemontese, sciolto per mafia nel 1995?
Dati questi precedenti, e soprattutto adesso, nell'era della globalizzazione e della "società liquida" si sarebbe portati a pensare che anche per le organizzazioni criminali sia più facile espandersi e andare oltre i propri confini. In realtà, questa tesi, che vale certamente per un'impresa legale, non è così scontata quando si parla di imprese illegali. Anzi, gli studiosi di criminalità hanno sempre considerato le mafie stanziali, fortemente radicate nel territorio che governano. È Machiavelli a ricordare che il Principe deve risiedere fra la sua gente. E non dimenticherò mai quanto mi disse Maurizio Prestieri, boss della camorra attualmente collaboratore di giustizia.
"Io lo dico sempre: non dovevamo essere Vip, ma Vipl". Vipl? Chiedo. E cioè? "Sì la L sta per Local". Very Important Person, Local! L'importante è essere importanti solo nel recinto.

Per quanto un'organizzazione possa essere potente, infatti, il trapianto in un territorio altro sarà reso arduo dalla difficoltà del boss di controllare i suoi affiliati che operano lontano, dalla difficoltà di creare nel nuovo territorio una rete solida di complici e soprattutto dalla difficoltà per il mafioso di crearsi quella stessa "reputazione" che in patria gli permette di essere temuto e rispettato, di essere, appunto, un VIPL. Quindi la decisione di invadere mercati distanti molto spesso non avviene "a tavolino", ma è il risultato di pressioni esterne o interne al gruppo criminale. I mafiosi emigrano perché ricercati dalla giustizia, per salvarsi da faide, perché obbligati al soggiorno in un territorio lontano dal proprio. Le organizzazioni, penso ai casalesi in Emilia Romagna e Spagna o agli 'ndranghetisti in Portogallo, si spostano anche laddove il capitale li porta, ma la dinamica che osserva Varese ha diversa natura.

Fu il soggiorno obbligato che portò i calabresi del clan Mazzaferro, tra gli anni '50 e '70, a trasferirsi a Bardonecchia e a radicarsi qui con la propria organizzazione, arrivando non solo a controllare il settore edile, ma anche a infiltrarsi nella politica locale. E perché il trapianto avvenisse, però, fu determinante la presenza di un fattore fondamentale: la domanda di protezione criminale.

Negli anni '60, quando i boss arrivarono a Bardonecchia per il soggiorno obbligato, il settore edile era in espansione e c'era bisogno di forza lavoro maggiore. Alcune aziende della zona cominciarono quindi a rivolgersi a "faccendieri" che procuravano manodopera del Sud presente a Torino ma che non riusciva a essere assorbita negli stabilimenti Fiat. Questi lavoratori non specializzati e privi di ogni tutela sindacale, pur di guadagnare accettavano occupazioni in nero e mal pagate. I boss calabresi cominciarono così a gestire il cosiddetto "racket delle braccia", un sistema di reclutamento che favoriva sia gli operai immigrati non sindacalizzati, sia le imprese edili della zona. Non solo: trattandosi di lavoro nero, questa mafia era in grado di assicurare anche la soluzione a eventuali conflitti tra dipendenti e datori di lavoro. Un'indagine della Commissione parlamentare antimafia che visitò la zona nel 1974, stimò che l'80% della forza lavoro a Bardonecchia veniva reclutata attraverso canali illegali. Rocco Lo Presti, boss di spicco della 'ndrangheta, il primo ad essere mandato al soggiorno obbligato al Nord, era riuscito a diventare il principale fornitore abusivo di manodopera a buon mercato nella zona, e aveva attirato a Bardonecchia imprese di costruzione dalla Calabria, che presto riuscirono a sbaragliare la concorrenza delle ditte piemontesi. Il controllo sul territorio consentì al gruppo criminale di diversificare i propri interessi e di proteggere altre attività illegali, come il traffico d'armi e di droga e il riciclaggio di denaro. L'ultimo passo fu condizionare la politica e la reazione della società civile non fu sufficiente a impedirlo. Le mafie vincono quando tutti ci guadagnano.

A Verona, invece, il soggiorno obbligato non ha avuto gli stessi effetti. Con un'economia basata principalmente sull'esportazione di prodotti artigianali, c'era minore domanda di protezione criminale perché la mafia non può aiutare gli esportatori a penetrare mercati lontani. L'unico "servizio" che i calabresi potevano fornire agli imprenditori veronesi era quindi la semplice estorsione o il furto di camion carichi di mobili.

La 'ndrangheta cercò allora di prendere il controllo dell'unico mercato illegale di una certa rilevanza presente a Verona in quegli anni: il consumo e il traffico di eroina. Famosa in tutta Italia per la "veronese", la più economica e la più pura, la città veneta era diventata la "Bangkok d'Italia".

Il traffico era gestito da spacciatori locali non legati alla mafia, spesso imprenditori insospettabili, che avevano rapporti ormai consolidati con i fornitori e di fiducia con i clienti, ma soprattutto applicavano a questo mercato le medesime norme di correttezza commerciale che caratterizzavano i settori legali dell'economia. Non c'era quindi bisogno di affidarsi a terzi per far rispettare i patti. La droga la gestivano gli imprenditori veronesi e non c'era spazio per le colonie 'ndranghetiste a meno che non decidessero di intraprendere una guerra.

Ecco allora che la domanda di protezione diventa un fattore determinante per la riuscita del trapianto delle mafie. Domanda connaturata ai mercati illegali, ma spesso presente anche in quelli legali, dove lo Stato, per vari motivi, non è in grado di proteggere i propri cittadini, di risolvere le dispute economiche e commerciali e di far rispettare i patti. In questo caso le parti saranno più propense a rivolgersi a un'autorità "altra" che fornisca protezione alternativa a quella del diritto.

In altri casi la domanda di protezione può scaturire da politiche protezioniste, come accadde agli inizi del '900 a New York con le cosiddette "riforme Gaynor". Si tentò di bloccare la prostituzione, il gioco d'azzardo, il consumo notturno di alcolici e, successivamente, la produzione, la vendita e il trasporto di alcolici e ciò favorì la nascita di un mercato illegale milionario perché quei settori, estremamente redditizi, erano d'improvviso rimasti senza protezione. La mafia siciliana presente a New York fu pronta a intervenire, si espanse e cominciò ad affrancarsi anche dalla madrepatria siciliana.

In quello stesso periodo, alcuni conterranei in cerca della stessa fortuna e in fuga dalle stesse minacce, scelsero di emigrare in Argentina, a Rosario. Una città che, per il boom edilizio pareva rappresentare un'ottima opportunità di affari. Ma il mercato della manodopera a buon mercato era già gestito da impresari che procuravano operai alle aziende edili nel rispetto delle regole e quindi non si creò il bisogno di risolvere le dispute al di fuori della legge. Inoltre l'attivismo sindacale veniva represso con duri interventi degli apparati statali e ai mafiosi non veniva lasciato nemmeno il compito di punire i sindacalisti e gli scioperanti. In aggiunta, in città non esistevano mercati illegali significativi sui quali poter esercitare un controllo.

Dall'analisi di Federico Varese risulta che la sola presenza di mafiosi non è condizione sufficiente perché le organizzazioni criminali si possano radicare in luoghi diversi da quelli in cui sono nate. È essenziale perché questo avvenga che esista una domanda di protezione, è essenziale che lo Stato sia incapace di far rispettare i diritti dei propri cittadini.

Quindi fa danno enorme ritenere le mafie legate unicamente ai propri, marginali, paesi di origine. Fa danno al nord Italia e ai paesi europei considerarsi immuni. Fa danno porre l'attenzione sull'aspetto repressivo e non sulle riforme economiche e di sistema che renderebbero i mercati nazionali immuni ai capitali criminali.

Quando un territorio è minacciato dalla presenza mafiosa, quando ne è invaso, soprattutto se si tratta di paesi in fase di sviluppo, la politica diventa decisiva, al Sud come al Nord, ad Est come ad Ovest, ovunque. E conoscere i fattori che facilitano l'espansione delle mafie, liberarsi da pregiudizi e paraocchi, è un passo fondamentale per combatterle.
 

(02 giugno 2011) © Riproduzione riservata
da - repubblica.it/cronaca/2011/06/02/news/mafia_esportazione-17098776/?ref=HREC1-2


Titolo: ROBERTO SAVIANO "Ecco che cosa mi ha insegnato l'amicizia con Peppe D'Avanzo"
Inserito da: Admin - Agosto 01, 2011, 11:40:17 am
 
Il racconto

"Ecco che cosa mi ha insegnato l'amicizia con Peppe D'Avanzo"

Il ricordo del grande giornalista, scomparso sabato a 57 anni, dell'autore di Gomorra: "Aveva uno sguardo matematico sulle inchieste, quel rigore che ti permette di agire sempre con la lucidità e la sicurezza che solo la ricerca della verità può dare. E quei pranzi con antipasto a base di fragole..."

di ROBERTO SAVIANO


Non riesco ad abituarmi all'idea che non potrò più rivedere Peppe D'Avanzo. O sentirne il vocione al telefono. Quando una persona muore così all'improvviso, fai fatica a realizzare che sia successo davvero. Ti sembra impossibile.

L'ultimo suo messaggio mi era arrivato solo qualche giorno fa. Leggendo i ricordi dedicati a D'Avanzo si sente chiaramente l'affetto per l'uomo, la stima per il giornalista, la gratitudine per il maestro. Il vuoto che lascia D'Avanzo nel giornalismo italiano è enorme. Qualcosa in più della capacità di indignazione. La sua forza risiedeva nella rigorosa disciplina del dato e nella capacità narrativa di raccontare il meccanismo. In altre parole, fare il giornalista.

Peppe lo mostrava chiaramente che dar vita a un'inchiesta giornalistica non significa semplicemente andare a leggere il casellario giudiziario e sbattere la notizia in prima pagina, ma capire i meccanismi che stanno dietro alle vicende, analizzare i dati, collegare i fatti. Questo faceva con sapienza D'Avanzo. Ed era questo che gli permetteva di non accanirsi sulle persone, piuttosto sui loro sulle loro azioni. Sembra un dettaglio, questione di lana caprina, epistemologia per scuole di giornalismo. Tutt'altro.

E' ciò che fa la differenza tra la militanza e una inchiesta. D'Avanzo infatti detestava la superficialità che porta spesso a creare processi mediatici, che poi si sgonfiano senza nulla di fatto, lasciando dietro di sé solo vittime del cattivo giornalismo, per le quali una smentita non potrà mai cancellare l'onta della notizia. Lui aveva bisogno di fatti, di prove, di capire lui stesso prima di scrivere e far capire agli altri.

Sembrava infatti che mentre scriveva lui stesso stesse capendo sempre di più, non una lezione da ammannire al lettore, ma un percorso. Peppe era diffidente verso tutto ciò che non approfondiva. Lo era stato anche nei miei confronti quando la mia vicenda era apparsa sui giornali: voleva capirne di più. Fin quando iniziammo a vederci. Andai a casa sua discutere con D'Avanzo era piacevole. Anche quando non condivideva un'analisi o aveva dei dubbi su un passaggio dai lui giudicato troppo frettoloso, e chiosava con un "dai Robbè" che non lasciava scampo. Come a dire, questa cosa la devi dimostrare.

D'Avanzo aveva uno sguardo da matematico sulle inchieste: i passaggi possono essere semplificati solo quando ci sono fattori semplificabili e il tutto deve essere il risultato di una somma di passaggi. Questo rigore non ti assicura di metterti al riparo da errori o imprecisioni, tutt'altro, ma ti permette di agire sempre con la lucidità e la sicurezza che solo la ricerca della verità può dare. Questo faceva di D'Avanzo molto di più di un cronista d'indignazione, un analista. E questa la differenza.

Peppe cercava di mantenersi invisibile perché questo gli permetteva di fare meglio il suo lavoro di giornalista d'inchiesta, di muoversi più facilmente e liberamente: io dinanzi ai suoi occhi ero esattamente il contrario, perché cercavo e cerco di ottenere visibilità per arrivare al più alto numero di persone possibile. E temevo che questa diversità ci allontanasse, che Peppe fosse un giornalista della vecchia guardia, di quelli convinti che sia nobile avere una firma, non un volto televisivo, che sia importante scrivere libri, non venderli.

Ma mi sbagliavo. Con il passare del tempo ci legammo perché Peppe era incuriosito e ammirato soprattutto dalla diversità di metodo. Il racconto del potere ci univa, e io ricorrevo a lui quando proprio non riuscivo comprendere alcune dinamiche. Fu il primo a chiamarmi dopo il polverone partito con il mio racconto televisivo sulla ndrangheta al nord. Mi incoraggiò a mantenere il punto a non indietreggiare e anzi ad andare a fondo certo che il fastidio era giunto al governo dal troppo ascolto di quelle parole.... Quando una persona scompare ti restano nelle prime ore il ricordo di dettagli a cui non avevi mai pensato.

Almeno a me così accade. Ancor prima che all'intera vita lavorativa di una persona penso a piccole cose, mi tornano in mente per la prima volta. Quando ci incontravamo per pranzo Peppe mi faceva trovare la mozzarella, che io adoro. Mentre lui invece come antipasto mangiava le fragole. Non l'avevo mai visto fare. E a fine pasto c'era sempre mentre si accendeva il sigaro il momento in cui si parlava di Napoli. Sempre. Per nessuno tranne che per i meridionali è così. Se scrivi se canti se giochi, e vieni da napoli sarai sempre il giornalista napoletano, scrittore napoletano pittore napoletano. Quel napoletano non te lo toglierai mai.

La sua bravura e il suo metodo rigoroso spesso infallibile lo portavano ad essere un giornalista temuto. Peppe generava paura, paura nelle persone che finivano nelle sue inchieste, ma anche timore riverenziale in tutti coloro che si apprestavano a scrivere sugli stessi argomenti. Peppe sapeva essere duro, durissimo. Era umorale, sanguigno. Esigente con se stesso prima che con gli altri, non si tirava indietro nel ritrattare un giudizio su una persona o una vicenda. Il suo carattere e i suoi modi lasciavano intravedere una malinconia che ci aveva visti vicini.

Capitava spesso che dopo un forte impegno giornalistico, Peppe sparisse. Il giornale lo cercava, così come gli amici e i colleghi, ma lui si inabissava. Inutile cercarlo, inutile implorare risposta inutile chiamarlo. Peppe non c'era. Per i colleghi questo era un aspetto indecifrabile del suo carattere, a volte mal sopportato o persino visto come l'atteggiamento snob di chi vuole porre delle distanze. A me, invece, quest'aspetto di Peppe piaceva molto, perché lo vedevo come il suo modo di non essere inghiottito dal mondo difficile che aveva scelto. Il giornalismo, anche se hai un'anima forte e una morale rigorosa, è un territorio torbido.

Quando poi si fanno inchieste, tragedie, morti e crimini diventano parte della tua quotidianità: con il tempo e l'abitudine tendono inevitabilmente a diventare solo qualcosa da mettere in prima pagina. Perdono il loro pathos, il loro valore di coscienza. Dopo un po' ne vieni anestetizzato: una morte non ti spaventa più, un omicidio lo vedi solo come un titolo sul giornale, i rapporti diventano utili solo se convenienti a trovare notizie o ad avere contatti con un certo mondo. Peppe metteva sé al riparo da tutto questo ritirandosi dopo esserci stato in mezzo alle cose senza risparmiarsi. Come se il darsi troppo rischiasse di compromettere la sua anima. Quando chiudi una inchiesta ti resta l'amaro, il disgusto. "Questo davvero è lo schifo di mondo in cui viviamo", gli dicevo, e Peppe sentiva nelle mie parole tutta l'eco della strisciante depressione, se non trovi una via di sfogo, ne vieni inghiottito.

La depressione la malinconia è ciò a cui una persona che lavora con la sola fragile potenza delle parole si espone. Da fuori osservarlo era davvero un'esperienza. Peppe era geloso delle persone che amava. Una gelosia che era l'unico tratto quasi fanciullesco del suo vivere (a parte il tifo maniacale per il rugby), il suo legame con il direttore Ezio Mauro a vedersi era qualcosa di unico e indefinibile, rapporto giornalista direttore amicizia fratellanza simbiosi che non rinunciava a discussioni. Perché per Peppe convincerlo o convincere era la fine di un percorso di combattimento. Peppe voleva che le persone verso cui nutriva affetto vero lo curassero e voleva che queste si concedessero alle sue cure. Anche questo credo che mancherà soprattutto ai suoi colleghi e mancherà a me.

L'esclusività che richiedeva, il sentirsi di continuo necessario, voluto bene, tenuto in considerazione. Tutt'altro che insicurezza ma il ribadire il valore del legame. Se quel valore non lo difendi e coltivi soprattutto quando fai questo mestiere, sempre esposto, sempre criticato, sempre nel mirino, beh dicevo se non lo difendi quel valore tutto crolla.

Ero stato a casa sua diverse volte, ma ne ricordo una in particolare: il giorno in cui sentii che non ne potevo più di vivere così. Blindato eppure con i soliti commentini crudeli e sotto banco, "lo fa per soldi" "macché rischio non c'è nessun rischio" "tutta una messa in scena". Scappai a casa sua, lontano dagli schiamazzi salii di fretta le scale fino all'ultimo piano. Mi accolse con un bicchiere di vino in terrazza, ai nostri piedi sempre la dolcissima Noce, la sua cagnolina sempre presente.

Mi fece sfogare, annuendo o accompagnando le mie parole con un "mmm" cadenzato come a rassicurarmi che mi stava ascoltando con attenzione. E alla fine del mio lungo sfogo disse semplicemente ma con fermezza: "Robbè io la terrei la scorta, quelli te la danno resisterei, non fare cazzate". Quando nel 2009 fu messa in dubbio la necessità della scorta  -  affermazioni subito smentite dal capo della Polizia Antonio Manganelli  -  Peppe scrisse un articolo analitico, puntuale, come era nel suo stile in cui cercava le ragioni di queste dichiarazioni senza senso. Quando una persona interviene pubblicamente in tua difesa, non lo dimentichi. Mi disse anche di partire, di andare via. E il suo ultimo messaggio era di rimprovero perché non l'avevo salutato subito seguito da "ti raggiungo, contaci".

Il dispiacere che non si arresta in queste prime ore senza Peppe è aumentato dal pensiero che non è riuscito a vedere la fine del potere berlusconiano, un potere che aveva descritto e capito come pochi. Senza odio personale anzi, ma comprendendone le dinamiche che hanno minato, eroso lo scheletro e il midollo della democrazia italiana. Un potere che gli aveva reso anche la vita difficile. Il kaddish per Peppe lo reciterò il primo giorno della nuova Italia, perché quel giorno ormai vicino verrà anche grazie a Peppe.

(01 agosto 2011) © Riproduzione riservata
da - http://www.repubblica.it/cronaca/2011/08/01/news/saviano_d_avanzo-19857168/?ref=HRER2-1


Titolo: ROBERTO SAVIANO Il ventennio dell'arabesco
Inserito da: Admin - Novembre 16, 2011, 11:58:39 am
COMMENTO

Il ventennio dell'arabesco

di ROBERTO SAVIANO

ESISTE una parola che più di tutte descrive ciò che il governo Berlusconi è stato per l'Italia, ciò che lo ha davvero caratterizzato in senso politico ed economico, questa parola è immobilismo. Negli ultimi venti anni non è successo niente per il Paese. Non una delle riforme promesse nel 1994 e che avrebbero contribuito a scongiurare la crisi che ora l'Italia sta vivendo, è stata fatta. Ed è evidente che dove non sono riusciti gli elettori, dove non sono riuscite le opposizioni, dove non è riuscita la stampa, dove non sono riusciti gli intellettuali, è riuscito il mercato. Ironia della sorte, proprio Silvio Berlusconi, che si è sempre vantato di aver creato un impero dal nulla, di aver incarnato il sogno americano del self-made man, che si è sempre considerato campione di numeri e denaro, è stato sopraffatto dove si sentiva onnipotente, in quello che ha sempre detto essere il suo stesso elemento: dal mercato. È stato commissariato da un'economia che della sua gestione non poteva più fidarsi.

Ennio Flaiano diceva: in Italia la linea più breve tra due punti è l'arabesco. I vent'anni di governo Berlusconi sono stati un arabesco: la linea più lunga possibile tra il vecchio e il vecchio che si vestirà di nuovo. Quante bugie in questi venti anni, quante mistificazioni. Dalle false, umili origini, perché in lui l'italiano medio potesse identificarsi, alla menzogna più grande di tutte, passata di bocca in bocca e progressivamente svuotata di ogni significato, secondo cui un uomo che ha creato un impero, che è ricco e a capo di aziende floride  -  o che floride apparivano  -  non ha bisogno di rubare, di sottrarre denaro pubblico al Paese, come avevano fatto i partiti nella prima Repubblica. Un sogno fondato su menzogne ed equivoci perché, fatti fuori i padrini politici, occorreva che Berlusconi prendesse in mano la situazione. Del resto lui stesso ripeteva che il suo ingresso in politica avveniva per tutelare i suoi interessi. Suoi personali e delle sue aziende. Ed è esattamente quello a cui abbiamo assistito nei venti anni in cui è stato protagonista indiscusso della scena politica italiana. Gli incarichi istituzionali sono divenuti strumento di realizzazione di affari privati. Gli stessi capi di Stato stranieri, che negli ultimi anni gli sono stati più vicini, non sono altro che soci. Dal gas di Putin: gli affari energetici russi rappresentano il 70% delle esportazioni verso l'Italia e la stessa Hillary Clinton ha avanzato dubbi sulla natura affaristica delle convergenze politiche tra Berlusconi e Putin, all'imbarazzante amicizia con Gheddafi: dal giugno 2009 la Lafitrade della famiglia Gheddafi e la Fininvest, tramite la controllata lussemburghese Trefinance, sono i veri proprietari della Quinta Communications di Tarak Ben Ammar. L'affare con la società tunisina, in cui Lafitrade ha il 10% e Fininvest il 22%, ha aperto la strada al riciclo occidentale, a partire dall'Italia, di una massa voluminosissima di petroldollari di Gheddafi, valutata 65 miliardi di euro.

Nessuna legge per l'Italia, solo leggi per lui. E non che gli mancassero i numeri in Parlamento. Ha avuto, e per molto tempo, una maggioranza incredibilmente forte che gli avrebbe consentito di attuare le riforme promesse, che lo avevano consacrato  -  all'indomani della sbornia seguita al terremoto giudiziario che ha distrutto i vecchi partiti italiani all'inizio degli anni '90  -  l'uomo nuovo, il vento nuovo, il campione di quel riformismo liberale che lui contrapponeva alla stagnazione delle sinistre incapaci di trasformarsi. Non la riforma della giustizia, non quella delle pensioni, nessuna prospettiva per le nuove generazioni vittime, viceversa, di una nefasta deregolamentazione del mercato del lavoro che ha portato con sé una precarizzazione finalizzata solo a favorire le aziende, legittimate ad adottare un sistema di sfruttamento dei lavoratori, che non prevede alcuno spazio per la formazione. In Italia il settore pubblico è allo sfascio, la sanità non ha standard degni dell'Europa, la scuola e l'università arrancano. Le spese per la nomenclatura militare deliberate dal ministero della Difesa  -  presieduto in questi anni da un ex (ma non tanto, come ama ripetere) fascista, Ignazio La Russa  -  hanno umiliato, deriso, lo stato di abbandono nel quale versa la ricerca scientifica nel nostro Paese. Il Parlamento è stato per anni impegnato a discutere, emendare e votare leggi ad personam e leggi, come le abbiamo definite, ad aziendam. E il mondo nuovo che Berlusconi aveva promesso è diventato un mondo vecchio, più vecchio di quello che lo ha preceduto. Il sogno liberale è divenuto un incubo di "lacci e lacciuoli", quelli dai quali prometteva di liberare gli italiani e che invece ha solo contribuito a stringere più forte, come in una morsa. Il governo che verrà avrà l'arduo compito di attuare le riforme economiche che potevano essere pensate e discusse con le parti sociali nei passati venti anni e che invece strozzeranno l'Italia nei prossimi mesi, come un boccone troppo grande, da ingoiare comunque, poiché la necessità poco spazio lascia al contraddittorio politico.

L'Europa si fida di Mario Monti e ciò potrà dare ossigeno all'economia italiana. Ma se davvero toccherà a lui raccogliere il testimone, dovrà fare scelte difficili che, la storia italiana lo dimostra, non saranno premiate. Formare il nuovo governo sarà infinitamente più facile che farlo resistere, nelle insidie dei prossimi giorni, settimane, forse mesi. La lenta e ingiustificabile agonia inflitta nell'ultimo anno del berlusconismo, in uno con la pratica dell'"acquisto" di parlamentari dell'opposizione, nel tentativo disperato di puntellare una maggioranza politicamente inesistente, ha prodotto la paralisi del Parlamento e ha favorito la formazione di numerosi centri di potere all'interno del partito del padrone, il Pdl. Nella prima Repubblica si sarebbero chiamate correnti e, forse, non è un caso che uno degli uomini chiave del tracollo berlusconiano sia stato un esponente simbolo della corrente andreottiana, Paolo Cirino Pomicino, ministro delle Finanze in epoche scellerate, di vacche grasse e irresponsabilità diffusa. Tutti questi piccoli potentati non rispondono più al vecchio capo e il Pdl non è più un partito coeso, dato che lo stesso suo fondatore Berlusconi è pronto a disfarsene; uno scenario grottesco, nel quale ognuno pare essere pronto a sabotare il percorso del governo Monti, per guadagnare un posto al sole, una visibilità perversa. Il governo che dovrebbe nascere nelle prossime ore potrà morire da un momento all'altro. E ciò accadrà nonostante lo sforzo del presidente della Repubblica, che nel pieno rispetto delle sue prerogative costituzionali, ha condotto il Paese con spirito saldo.

Del resto, anche se l'uomo Berlusconi sembra finito, il berlusconismo non è ancora morto. Sta lì, paziente, aspettando di risorgere, pronto a dire "senza di me è stato peggio". I suoi protagonisti aspettano di speculare sui momenti difficili che l'Italia vivrà, fingendo di non esser stati anche loro a generarli. Già adesso, alcuni surreali ex neo-con e ora neo-keynesiani (alla bisogna) maître a' penser mistificano la realtà, difendendo l'indifendibile e reclamando libere elezioni, ovviamente senza spendere una sola parola sulla legge elettorale in vigore, dalla stessa uscente maggioranza introdotta e significativamente definita, dal suo medesimo estensore, porcellum. L'impressione è che, ancora una volta, ci sia spazio per tutto tranne che per il talento e per la volontà di ricostruire davvero un Paese che più ancora che economicamente è piegato nel morale, nella fiducia e nella speranza che si possa tornare a essere felici e realizzati senza dover andar via. In Italia ancora una volta il rischio è che si faccia piazza pulita perché si possa più agevolmente tornare indietro.

(14 novembre 2011) © Riproduzione riservata
da - http://www.repubblica.it/politica/2011/11/14/news/ventennio_arabesco-24969050/?ref=HREA-1


Titolo: ROBERTO SAVIANO Addio, partigiano Giorgio
Inserito da: Admin - Dicembre 25, 2011, 11:48:17 pm
Il ricordo

Addio, partigiano Giorgio

di Roberto Saviano

La sua Resistenza è iniziata sulle montagne del Piemonte.

Ed è continuata per i 66 anni successivi, con la penna e l'inchiostro al posto del fucile.

L'omaggio dello scrittore Roberto Saviano al grande giornalista scomparso

(25 dicembre 2011)

Ho capito una cosa, molto semplice ma forse decisiva: gran parte delle protezioni mafiose, dei privilegi mafiosi certamente pagati dai cittadini non sono altro che i loro elementari diritti. Assicuriamoglieli, togliamo questo potere alla mafia, facciamo dei suoi dipendenti i nostri alleati... Quelli che parlavano erano due piemontesi e discutevano delle radici profonde del male meridionale, loro lo avevano capito e l'analisi che si scambiavano come un testimone che l'uno affidava all'altro non era disprezzo colonialista verso un popolo schiavo che non aveva la forza di riscattare i suoi diritti. No, il loro era amore per il Sud, da italiani che sapevano di essere parte di quella stessa terra così lontana dai portici delle città sabaude, costruiti per proteggere da un clima europeo che il sole della Sicilia e della Campania non sa immaginare: un amore che andava oltre il senso del dovere o della professione e che per questo si trasformava in denuncia, nella metodica, sistematica analisi di quanto il male fosse profondo nella vita della gente che non sapeva, non voleva, non poteva ribellarsi.

Quel colloquio tra Carlo Alberto Dalla Chiesa e Giorgio Bocca è stato importante per me e per quelli della mia generazione che hanno sempre chiesto di capire. Noi che abbiamo cominciato a fare domande dopo la morte di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, per riscoprire così il sacrificio del carabiniere diventato prefetto che aveva rinunciato alle scorte e alle blindate per essere parte della vita di Palermo, l'altra capitale del Sud, e si era imposto di cominciare la sua missione proprio dalle scuole, dal consegnare ai giovani meridionali la speranza in un futuro di legalità.

Noi volevamo capire perché senza capire non si può cambiare; capire anche a costo di specchiarsi nell'orrore di una realtà che non poteva più restare nascosta dietro slogan logori e paesaggi da soap: guardarsi in faccia, scoprire il proprio volto a costo di rendersi conto di quanto fosse brutto.

Questo è quello che Giorgio Bocca mi ha insegnato, a raccontare senza avere scrupoli né sentirmi un traditore. Lo hanno accusato di essere razzista, antimeridionale, di odiare il Sud. Sono le stesse cose che hanno detto di me, contro di me, "il rinnegato". Ci hanno dato degli "avvoltoi" che si arricchiscono con il dolore altrui. Bocca invece ha fatto dell'essere "antitaliano" una virtù, il metodo per non arrendersi a luoghi comuni. Da lui ho capito che non bisognava mai lasciarsi ferire, né abbassare gli occhi: gli insulti sono spinte ad andare oltre, a entrare più in profondità nei problemi. La mia strada per l'inferno l'ha indicata lui, "Gomorra" si è nutrito della sua lezione: guardare le cose in faccia, respirarle, sbatterci contro fino a farsele entrare dentro e poi scrivere senza reticenze, smussature, compiacenze.

Bocca lo ha sempre fatto, da fuoriclasse, lo continua a fare oggi a novant'anni con la curiosità e la tenacia di un ventenne; sempre pronto a mettersi in discussione come quel ragazzo che nel 1943 salì in montagna superando il suo passato e scegliendo il suo futuro.

E quando lui e Dalla Chiesa parlavano di un popolo da liberare lo facevano con l'anima dei partigiani, di chi aveva combattuto lo stesso nemico in nome dello stesso popolo. Avevano rischiato la vita e ucciso anche per consegnare un domani diverso a chi accettava passivamente la dittatura fascista e la dominazione nazitedesca; sono stati partigiani anche per chi non aveva il coraggio, la forza, la volontà, la possibilità o la capacità di lottare per i propri diritti. La loro vittoria è stata la Costituzione, quel documento vivo che dovrebbe essere il pilastro della nostra democrazia, un monumento di libertà troppo spesso ignorato o bollato di vecchiaia. No, è un testo modernissimo, come ancora oggi lo sono gli interventi di Giorgio Bocca. Essere partigiano prima con il fucile e poi per altri 65 anni con l'inchiostro significa avere la misura della libertà, saperla riconoscere ovunque.

A sud di Roma è difficile ascoltare racconti partigiani. La guerra di liberazione è stata più a nord e anche questo ha contribuito a non risvegliare coscienze già rassegnate. Napoli con le sue quattro giornate è stata una fiammata d'eroismo, l'unica metropoli europea a cacciare i tedeschi, ma la sua levata d'orgoglio è bruciata in meno di una settimana. Sembrava quasi che ad animare i napoletani diventati guerriglieri ci fosse lo stesso sentimento del tassista che Bocca descrive nell'incipit del suo "Napoli siamo Noi": "Lui che è più intelligente del forestiero. La maledetta presunzione individualista per la quale un napoletano è pronto a dannarsi".

     
© Riproduzione riservata



Titolo: ROBERTO SAVIANO tra pubblico e privato
Inserito da: Admin - Maggio 11, 2012, 12:04:05 am
Saviano, tra pubblico e privato

Una lunga e intensa intervista rilasciata in esclusiva dallo scrittore al nostro giornalista Gianluca Di Feo.

Proposta da 'l'Espresso' in un dvd che accompagna il libro con tutti i suoi interventi a 'Vieni via con me'

(07 maggio 2012)

Capita, di tanto in tanto, nella scatola televisiva costipata di game show e reality, che un programma sfondi gli argini dei maxi ascolti grazie alla potenza della parola e della qualità.

E' successo, ad esempio, nel novembre 2010, quando Fabio Fazio e Roberto Saviano hanno oltrepassato con 'Vieni via con me' il 30 per cento di share e i nove milioni di spettatori. Ed è quanto mai probabile che il successo si ripeta il 14, 15 e 16 maggio prossimi, allorché su La7 riappariranno fianco a fianco il conduttore di 'Che tempo che fa' e l'autore di 'Gomorra' in un nuovo spazio titolato "Quello che (non) ho".

Il punto, però, è che 'Vieni via con me' non può essere semplicemente letto come un episodio di buona tv baciata dallo share. Al contrario, in piena deriva berlusconiana, ha segnato una tappa chiave nella realtà catodica di questo Paese, dando voce all'Italia esasperata dall'arroganza delle mafie, al Sud come al Nord, dalle inadeguatezze della politica, e dalla difficoltà di dialogare su questioni come l'eutanasia o il rispetto della carta costituzionale.

Temi che ora tornano alla pubblica attenzione con l'uscita del dvd 'Roberto Saviano racconta Vieni via con me': una lunga e intensa intervista rilasciata in esclusiva dallo scrittore campano al nostro giornalista Gianluca Di Feo, e proposta (sul prossimo numero, venerdì, al costo di 9,90 euro) da 'l'Espresso' in un cofanetto che include il volume 'Vieni via con me', dov'è possibile ripercorrere tutti gli interventi di Saviano durante la trasmissione della terza rete Rai.

«E' difficile», premette lo scrittore a Di Feo, «affrontare una vita in cui sei totalmente pubblico o pubblicamente nascosto». Ed è questo il filo narrativo attraverso cui Saviano sviscera per un'ora abbondante se stesso, partendo dall'esordio di 'Gomorra' («quando la magia letteraria ha oltrepassato la linea d'ombra») fino all'impatto con i grandi numeri della platea televisiva, ingombranti al punto da «impedirmi di entrare in un ristorante, perché i presenti si sentono comunque in dovere di abbracciarmi o magari sbuffarmi contro».

E' un continuo rimando, il Saviano di questo dvd, tra la sfera privata (in cui rimpiange «la possibilità di vivere a contatto diretto con le cose») e le riflessioni pubbliche: sul profondo significato del pattume napoletano, in primo luogo, simbolo pratico e filosofico dello «scoramento» partenopeo; ma anche sulle strategie della malavita al Sud, e sul suo sforzo di svicolare dai media nazionali.

Un avvilente affresco italiano che, non per niente, è tracimato un anno e mezzo fa nel caso di 'Vieni via con me': programma che - come testimonia Saviano stesso - i vertici di viale Mazzini avrebbero voluto contenere nel limite della nicchia, dell'offerta innocua per i soliti pochi ma buoni, e invece è esploso con ascolti record: «Abbiamo avuto l'editore contro», sottolinea l'autore di 'Gomorra' nel dvd de 'l'Espresso'. Senza tacere, in parallelo, come lo scontro attorno a "Vieni via con me" sia stata «una delle esperienze più difficili da vivere»: a tal punto dolorosa, da spingere Fazio e Saviano a trasferire il loro format sotto il tetto de La7.

«Vorrei scendere dal pulpito, anzi dallo sgabello», commenta non a caso Saviano spinto da fame di libertà e leggerezza. Ma alla vigilia di 'Quello che (non) ho', ribadisce anche qual è l'essenza della sua formula comunicativa: «Fare scorrere nello stesso letto il fiume della narrativa e quello della cronaca». Un'impresa non da tutti.

   © Riproduzione riservata

da - http://espresso.repubblica.it/dettaglio/saviano-tra-pubblico-e-privato/2180182/8


Titolo: ROBERTO SAVIANO Dalla carne alla mozzarella Camorra Food Spa serve a tavola
Inserito da: Admin - Luglio 31, 2012, 04:41:11 pm
IL CASO

Dalla carne alla mozzarella

Camorra Food Spa serve a tavola

Cibi avariati, frutta dai terreni pieni di rifiuti tossici, controllo dei grandi mercati alimentari: così il menù dei boss arriva sulle tavole


di ROBERTO SAVIANO

MOZZARELLE, zucchero, burro, caffè, pane, latte, carne, acqua minerale, biscotti, banane, pesce. Difficile ammettere che quando andiamo a fare la spesa rischiamo di finanziare le organizzazioni criminali. Eppure è così. Il paniere della camorra, di Cosa Nostra, della 'ndrangheta tocca la giornata tipo di un comune cittadino. Ogni gesto, dal primo che compiamo al mattino sino alla cena, può far arricchire i clan a nostra insaputa. Per comprendere come ogni passaggio possa esser dominato dai clan, basta descrivere una giornata.

Si inizia dal bar. Il caffè in molti territori è monopolio dei boss. A volte ne gestiscono la produzione, altre solo la distribuzione. Esempio: il clan Mallardo di Giugliano imponeva ai bar di comprare il caffè Seddio prodotto da una ditta intestata ai D'Alterio, nipoti del boss Feliciano Mallardo. L'operazione della Guardia di finanza "Caffè macchiato" del 2011 ha mostrato che l'imposizione del caffè Seddio era di tipo estorsivo, ma ha anche svelato l'esistenza di un vero e proprio accordo tra il clan Mallardo e i vertici dei Casalesi, che consentivano l'espansione degli interessi dei giuglianesi anche in aree tradizionalmente sotto il loro controllo, previo pagamento di una tangente che veniva versata al "gruppo Setola". Consumare una tazzina di caffè Seddio era molto più di una pausa dal lavoro, era molto più di un modo per trovare energie al mattino: era bere il frutto di un patto, di un'alleanza. Il clan Vollaro di Portici imponeva la marca di caffè "È cafè", prodotto da un cognato dei Vollaro, subconcessionario di El Brasil di Quarto. Spesso le organizzazioni riescono a trattare sui chicchi direttamente in Sudamerica, ne gestiscono la torrefazione e poi la distribuzione. Imponendo la marca di caffè ai bar, accade che iniziano in qualche modo a partecipare alla loro gestione: entrano nelle attività e appena sono in crisi ne rilevano la proprietà.

Sembra un'economia minore, ma garantisce un flusso continuo di denaro ed è un modo per conquistare nuovi territori, per stringere alleanze, per creare coperture. Giuseppe Setola costrinse gran parte dei bar e delle caffetterie dell'agro aversano e del litorale domizio ad acquistare una miscela di caffè di pessima qualità, il Caffè nobis, a un normale prezzo di mercato. Con i suoi fedelissimi aveva costituito un vero e proprio marchio, aperto partite Iva e creato società, per dare all'affare una parvenza di legalità. E poi c'è il Caffè Floriò, che fa capo a Cosa Nostra: imposto a decine di locali di Palermo.

Anche lo zucchero che mettiamo nella tazzina è un business enorme e può essere sospetto. Dante Passarelli, considerato l'imprenditore di riferimento della famiglia Schiavone, era riuscito a divenire il re dello zucchero con la sua società Ipam. Lo zucchero Ipam era ovunque. Eridania, il colosso italiano, denunciò un'espansione innaturale dei prodotti dello zuccherificio di Passarelli. La società fu sequestrata tra il 2001 e il 2002 dalla Dda, da allora il marchio è diventato Kerò. Dante Passarelli morì misteriosamente cadendo da un terrazzo
nel 2004 poco prima della sentenza Spartacus. Morendo, i beni congelati tornarono alla famiglia e quindi, presumibilmente, nella disponibilità del clan dei casalesi, di cui Passarelli era stato prestanome.
A Napoli, il caffè viene sempre servito con un bicchiere d'acqua minerale. Ma anche l'acqua può essere affare dei clan. Il boss

dei Polverino di Marano, Peppe o' Barone, aveva una rete distributiva gigantesca che comprendeva acqua minerale, uova, polli, bevande e, ovviamente, anche caffè. Storia antica questa dell'acqua minerale: la camorra negli anni 80 aveva iniziato a esportare l'acqua campana negli Stati Uniti. Poi d'improvviso le bottiglie smisero di partire da Napoli. Eppure il commercio d'acqua in America continuava. Cosa accadde lo ha raccontato il film di Giuseppe Tornatore "Il camorrista" (tratto dall'omonimo libro di Giuseppe Marrazzo pubblicato nel 1984 da Pironti): il boss o' Malacarne decise di spedire soltanto le etichette, che venivano incollate su bottiglie riempite con acqua di rubinetto di New York. Bastava il marchio, perché, come diceva o' Malacarne: "Che ne capiscono gli americani, tanto quelli bevono la Coca- Cola".

I clan, anche quelli che investono nei mercati finanziari di tutto il mondo, hanno i piedi ben radicati nei Paesi, nelle province, nella terra, nelle cose. E partono da bisogni primari. Dal cibo. Dal pane. Ma poiché sul pane il margine di guadagno è spesso bassissimo, le strategie cambiano. O il racket impone un vero e proprio monopolio nella vendita della farina ai panettieri della zona che, terrorizzati dalle continue minacce, comprano a un prezzo altissimo e completamente fuori mercato una farina scadente e di bassissima qualità (lo racconta l'operazione Doppio zero a Ercolano). Oppure i clan si trasformano in panificatori: hanno spesso forni clandestini che utilizzano per produrre tonnellate di pane da vendere la domenica mattina in strada. Pane clandestino ed esentasse. I forni venivano alimentati evitando di comprare legna costosa e bruciando vecchie bare trovate nei cimiteri, infissi marci, tronchi di alberi morti trattati con agenti chimici: tutto ciò che avrebbe dovuto essere smaltito perché rifiuto speciale, finiva nei forni per cuocere il pane.

E poi il latte. Nulla di male assoceremmo mai al latte: bianco, candido, ricordo d'infanzia. E invece il suo è uno dei mercati più ambiti dalle organizzazioni criminali che presero a proteggere anche quello, anche il latte Parmalat. Il clan dei casalesi e i Moccia avevano praticamente eliminato nelle province di Napoli e Caserta ogni residua concorrenza. Quando qualche ditta riusciva ad abbassare il prezzo del proprio latte, il racket bruciava i camion o imponeva un pizzo elevatissimo costringendo quindi ad aumentare il prezzo per non insidiare il mercato del latte Parmalat. Cirio e Parmalat agivano in regime di monopolio grazie a un obolo che ogni mese versavano ai clan. Era tale la gravità della situazione che a fine anni 90 l'Autorità garante per la concorrenza si trovò costretta a imporre alla Eurolat (acquisita da Parmalat nel 1999) la cessione di alcuni marchi per sanare la situazione.

Pane, latte e burro: un tempo la prima colazione si faceva così. Ma anche il burro per anni è stato al centro degli affari dei clan. Nel 1999, la Dda di Napoli scoprì una vera e propria holding mafiosa che coinvolgeva i maggiori produttori di burro a uso industriale dell'Italia meridionale insieme ad aziende di burro piemontesi e grandi aziende dolciarie francesi e belghe compiacenti. Protagonista la Italburro controllata dal clan Zagaria, che produceva un burro venefico, utilizzando sostanze tossiche, oli per la cosmesi, sintesi di idrocarburi e grassi animali.

Non poteva sfuggire il mercato della carne, da sempre settore con una forte influenza mafiosa, come già aveva denunciato Giancarlo Siani nel 1985 parlando del clan Gionta nell'articolo che probabilmente lo condannò a morte. Forse l'operazione più importante sul traffico illegale del mercato della carne è stata Meat Guarantor, un'inchiesta conclusasi nel 2002 e condotta dai carabinieri del Nas che ha descritto il coinvolgimento di rappresentanti di tutti i settori della filiera della carne: allevatori, macellatori, proprietari delle macellerie, amministratori pubblici conniventi. L'organizzazione sgominata aveva base a Napoli e in provincia di Salerno, ma si estendeva al nord Italia e in Germania; utilizzava veterinari che certificavano la buona salute di animali che invece erano stati sequestrati perché malati. Ad altri animali, privi di documentazione sanitaria e spesso malati, somministravano medicine perché rimanessero vivi e potessero essere macellati. Recentemente il collaboratore di giustizia Domenico Verde ha dichiarato ai pm: "Si vende esclusivamente la carne delle aziende di Giuseppe Polverino", dell'omonimo clan che già commercializzava acqua. Polverino, camorrista e imprenditore, arrestato pochi mesi fa in Spagna, aveva utilizzato lo spaccio di cocaina e hashish come apripista per le sue imprese nel settore alimentare. Aveva i piedi saldi a terra, saldi nella sua terra, e utilizzava l'attività criminale per sostenere l'impero dei generi alimentari.

E poi c'è la frutta: la camorra fa da tramite dall'Africa al mercato ortofrutticolo di Fondi e nei porti: senza pagare i clan, non si può scaricare la merce che rimane a marcire nei container. L'operazione della Dia Sud Pontino svelò un patto tra Cosa nostra e camorra per controllare ortofrutta e trasporti. Fondi, in provincia di Latina, era lo snodo centrale per controllare il mercato della frutta e della verdura al centro-sud e anche in alcune zone del nord. Il clan dei Casalesi, i Mallardo, i Licciardi, insieme alle famiglie mafiose siciliane dei Santapaola-Ercolano di Catania, imponevano il monopolio dei trasporti facendo fluttuare i prezzi. Non solo Fondi, anche la frutta e la verdura nel nord Italia hanno avuto un controllo mafioso. L'ortomercato alla periferia sud-est di Milano è stata una delle piazze in cui la 'ndrangheta ha compiuto molti dei suoi affari, controllando ampi settori della filiera agroalimentare. Non esisteva mela, pera o melanzana trasportata in tutta Italia che non portasse nel suo prezzo la traccia dell'affare mafioso.

Allearsi con le mafie spesso significa distribuire i propri prodotti a prezzi migliori, a condizioni vantaggiose. Non è raro che importanti marchi finiscano per essere rappresentati da agenti dei clan. Agli inizi degli anni Duemila, un affiliato del clan Nuvoletta, Giuseppe Gala detto Showman, aveva acquistato importanza nel clan proprio perché nel business alimentare sapeva muoversi. Era diventato agente della Bauli. I Nuvoletta tra l'altro imponevano il raddoppio del prezzo del panettone Bauli a Natale come "tassa" per sostenere le famiglie dei detenuti in carcere.

Infine c'è la mozzarella, prodotto campano d'eccellenza, nel mirino delle organizzazioni da sempre. I casalesi importavano latte proveniente dall'est Europa, dove avevano allevamenti di bufale, mozzarelle romene che venivano vendute come mozzarelle casertane. Poi hanno iniziato a importare a basso costo le bufale dalla Romania, per infettarle con sangue marcio di brucellosi e guadagnare dall'abbattimento. Inquinare con affari mafiosi la produzione di mozzarella significa compromettere una delle storie culturali ed economiche più preziose della Campania. E i clan lo fanno da decenni. Nella vicenda che ha portato all'arresto di Giuseppe Mandara e al sequestro dell'azienda è emerso che grazie al rapporto con i La Torre, l'imprenditore aveva tratto vantaggio dalla rete criminale messa a disposizione dal clan e dalla sua condotta mafiosa. Non solo ci sarebbe un rapporto economico, ma anche un appoggio strategico. Mandara, secondo le accuse, utilizza una prassi tipica della logica mafiosa: per abbassare i costi utilizza prodotti di scarsa qualità o mischia tipi di latte diverso. Nelle mozzarelle di bufala prodotte da Mandara era infatti presente anche del latte vaccino in percentuali considerevoli. Le mozzarelle di bufala venivano quindi messe in commercio con l'indicazione Dop anche se il procedimento non l'avrebbe affatto consentito.

Ultimo viene il dolce. I clan sono riusciti a infettare, secondo la Dda di Napoli, persino uno dei marchi di pasticceria industriale più famosi d'Europa: la Lazzaroni e i suoi amaretti. Secondo le accuse dell'antimafia, capitali criminali avrebbero risollevato aziende del Nord in crisi sanando i conti e facendo chiudere i bilanci in attivo. Un miracolo in tempo di crisi. È un salto di qualità: la trasformazione del crimine in un'imprenditoria ricca, forte, competitiva. Ma dalle fondamenta marce.

Ciò che dovrebbe far riflettere è che le mafie hanno solo anticipato quei meccanismi che spesso sono diventati prassi nel settore alimentare italiano, europeo e non solo. Essere competitivi, per molte imprese, significa abbassare a tal punto la qualità, da rendere talvolta ciò che si produce al limite dei criteri consentiti per la commercializzazione. Come per ogni settore, prima che arrivino forze dell'ordine e magistratura, i consorzi di categoria sono fondamentali. È fondamentale che chi fa prodotti di qualità pensi di unirsi e tutelare i consumatori, se stessi e il proprio mercato. L'alternativa è che il massimo ribasso non farà vincere la qualità, la bravura, i talenti, ma solo i prodotti più corrotti e le imprese più furbe. Triste destino per l'eccellenza italiana.
© RIPRODUZIONE RISERVATA

(23 luglio 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/cronaca/2012/07/23/news/camorra_cibi-39529644/?ref=HREC1-1


Titolo: ROBERTO SAVIANO approda da Feltrinelli con “000” che racconta il traffico ...
Inserito da: Admin - Dicembre 24, 2012, 06:58:44 pm
Cultura
24/12/2012 - I Libri del 2013

Saviano e i suoi fratelli quando il gioco si fa duro

Roberto Saviano approda da Feltrinelli con “000” che racconta il traffico mondiale della cocaina

In primavera il nuovo romanzo-saggio sulla cocaina, sette anni dopo “Gomorra”.

I titoli più attesi in dodici mesi che si annunciano difficili anche per l’editoria

Mario Baudino

Potrebbe essere il libro dell’anno, certamente è uno dei più attesi: per OOO di Roberto Saviano è cominciato il conto alla rovescia in casa Feltrinelli. La data d’uscita è ancora incerta, ma dovrebbe essere in primavera, e come ci dice il direttore editoriale Gianluca Foglia si sta ormai lavorando su «una prima versione quasi completa». Com’è noto il libro (nella forma del saggio narrativo, la stessa di Gomorra) racconta lo smisurato affare del traffico internazionale della cocaina, le cui dimensioni sono ormai una vera minaccia per l’economia planetaria. A sette anni dall’opera che gli ha segnato la vita, gli ha dato il successo mondiale e lo ha costretto, dopo le minacce della camorra, a un’esistenza blindata, lo scrittore si confronta con un’opera di vasto respiro e di grande impegno, non legata a un’occasione specifica come è per i libri pubblicati successivamente.

 

Di 000 già si parlava quando ancora Saviano era un autore Mondadori. Ora tutto è cambiato: non solo l’editore, ma anche l’agente letterario, dato che lo scrittore napoletano ha lasciato Roberto Santachiara per Andrew Wylie, l’agente globale dei big del mercato di qualità. Sarà quest’ultimo a occuparsi del lancio all’estero - Saviano ha contratti com’è ovvio in tutti i Paesi e in tutte le lingue -, che non è tuttavia previsto troppo presto. Prima, assicurano alla Feltrinelli, uscirà la versione originale in italiano.

 

Nuovi nati 

Alle porte di un anno che si annuncia difficile per l’editoria, con previsioni molto pessimistiche per i primi mesi aggravate dalle elezioni politiche di febbraio (la chiamata alle urne svuota da sempre e irrimediabilmente le librerie), la parola d’ordine è selezione «dura» fra i titoli, e poche avventure. Anche se c’è chi rilancia: Feltrinelli ripropone in nuova veste la Universale economica, e comincia con Saviano (il libro di Vieni via con me). Rcs libri ha appena «resuscitato» il marchio Fabbri, che proporrà una collana sull’alpinismo e le imprese estreme. Ma il direttore libri Massimo Turchetta non si è fermato qui. Prima dell’estate, ci dice, nasce un nuovo marchio editoriale autonomo, «Rizzoli controtempo», con vocazione generalista e stile non paludato. Debutterà con un libro di Serena Dandini, tratto da un suo spettacolo.

 

Il libro del Mister 

Nell’ambito di questa filosofia editoriale due le sorprese più ghiotte, ameno per una certa fascia di pubblico: in primavera un libro di Andrea Pirlo (per Mondadori) e più in là, forse nella seconda metà dell’anno, un altro del suo allenatore, Antonio Conte (Rizzoli). I due campioni si raccontano un po’ sul modello del fortunato e lodatissimo Open di Andre Agassi. Le occasioni per uscire in tandem con qualche bel trionfo della Juventus non dovrebbero mancare.

 

Duello al pianoforte 

Né mancheranno i duelli: per esempio, a gennaio esce sempre per Rizzoli un’esordiente di cui già si parla molto bene, Emanuela Ersilia Abbadessa, con Capo scirocco, storia ambientata nella Sicilia del secondo Ottocento, fra amore, passione, musica e ombre. Soprattutto ombre: per esempio quella di un pianoforte, «la più grande cosa nera» che il protagonista, orfano un po’ dickensiano molto dotato per la musica, abbia mai visto in vista sua, quando la scopre nel porto di Catania. E dall’Inghilterra arriva (postumo) Madame Sousatzka, di Bernice Rubens, scomparsa nel 2004 e ricordata anche perché agli esordi vinse il Booker Prize e vendette pochissime copie. Questo romanzo (pubblicato da Astoria) divenne anche un film con Shirley MacLaine: è la storia di un piccolo genio del pianoforte, e della sua insegnante; cattivissimo, un po’ alla Muriel Spark, e commovente. 

 

Le sorprese 

I lettori di Don De Lillo sono abituati ai romanzi fiume. Ebbene, questa volta saranno forse un po’ spiazzati. Uscirà infatti per Einaudi L’Angelo Esmeralda, una raccolta di short story, anzi più precisamente tutti i racconti scritti negli ultimi trent’anni; mentre forse sulle orme di Saramago - o del Papa? - J. M. Coetzee si misura con L’infanzia di Gesù: un ragazzino alla ricerca della madre che finisce in un Paese molto simile al Messico. Uscita prevista dallo Struzzo, l’autunno. 

 

E i ritorni 

Da Vendetta e sangue di Wilbur Smith (Longanesi) a Pietro Citati che rilegge il Don Chisciotte (Mondadori), dal Nobel Kenzaburo Oe che torna con Il bambino scambiato (Garzanti) a Susanna Tamaro che inaugura l’anno alla maniera di Rilke con Ogni angelo è tremendo (Bompiani), senza dimenticare il ritorno al romanzo di Simonetta Agnello Hornby con Il veleno dell’oleandro (Feltrinelli), e quello alla guerra civile spagnola di Javier Cercas (titolo originale La leyes de la frontera, uscirà per Guanda), o ancora una nuova avventura di Andrea Camilleri per Sellerio: contro le caligini della crisi si mobilita l’usato sicuro. Ma non senza speranze di bestseller, magari propiziato da qualche esordiente. Le Edizioni Nord credono fermamente in Valentina Giambanco, italiana che vive a Londra, e nel suo thriller Il dono del buio. Longanesi si attende molto in L’amore è un difetto meraviglioso dell’australiano Graeme Simsion, libro contesissimo all’ultima Buchmesse. Il titolo c’è, per il resto, buon anno.

da - http://lastampa.it/2012/12/24/cultura/saviano-e-i-suoi-fratelli-quando-il-gioco-si-fa-duro-bxdxjardSXNewoRsAu9ELP/pagina.html


Titolo: ROBERTO SAVIANO Perché inventai "salire in politica"
Inserito da: Admin - Gennaio 18, 2013, 11:36:20 pm
 Commenta

L'antitaliano

Perché inventai "salire in politica"

di Roberto Saviano

L'espressione 'scendere in politica' evoca la deresponsabilizzazione del berlusconismo.

Ora che il suo contrario è usato da Monti c'è da sperare che non sia solo un calco letterario (versione integrale)

(07 gennaio 2013)

Le ultime performance televisive di Silvio Berlusconi sono degne dei tempi andati. Eppure la nostra memoria fa scherzi e a volte cancella i momenti più bui. Negli anni del governo Berlusconi fare informazione in tv, parlare di 'ndrangheta al Nord, del terremoto dell'Aquila, di rifiuti in Campania, per una certa parte politica significava voler entrare sotto mentite spoglie in campagna elettorale. Chiunque facesse informazione, era visto come un candidato in cerca di consenso e voti. Tutti: direttori di giornali, reporter, scrittori. I soliti giornali di area berlusconiana annunciavano la mia candidatura. Poco importa che siano stati smentiti: questo tipo di stampa non cerca conferme, non chiede scusa. Ricordo che mi veniva sempre domandato se sarei "sceso in campo". Iniziai così a interrogarmi su quanto Silvio Berlusconi avesse condizionato anche nel linguaggio quotidiano l'approccio che noi italiani avevamo alla politica. Iniziai a pensare a quello "scendere in campo" che solo il presidente di una delle squadre di calcio più forti d'Italia poteva aver deciso di utilizzare come metafora politica. Quindi con "Forza Italia" - privandoci anche di una formula elementare che ciascun italiano utilizzava per la nazionale di calcio - il presidente del Milan aveva deciso di "scendere in campo" e di vincere in politica tutte le coppe esistenti, come facevano i suoi campioni rossoneri. Berlusconi ci avrebbe fatto sognare come Van Basten, Gullit, Maldini, Baresi.

BENIGNI RACCONTÒ a Enzo Biagi che nel linguaggio contadino "scendere in campo" era un modo per dire "vado al bagno"... in politica, pensai, non si scende, piuttosto si sale. La politica non è un gioco, non è uno sport. Ma a pensarci ora, magari lo fosse. Magari ci fosse in politica la lealtà richiesta a tutto lo sport, magari ci fosse l'affiatamento necessario per gli sport di squadra. La politica è il più alto degli impegni civili. O almeno dovrebbe esserlo. Che in politica non si scende, ma si entra, si sale, per la prima volta ricordo che lo dissi a Berlino, al Volksbühne, il teatro dove fu girato il film "Le vite degli altri" e dove, prima di raccontare quel che avevo preparato, fui costretto a fare una lunga premessa alla platea tedesca sulla situazione politica italiana. Salire in politica significa elevarsi a qualcosa di più alto. Scendere in politica, non è solo una metafora calcistica, ma anche un modo per deresponsabilizzarsi.

ORA CHE QUESTA ESPRESSIONE è stata usata dal professor Monti, mi aspetto che non sia solo un calco letterario. Molti mi chiamano illuso, ma se davvero in politica si sale, allora che non sia solo a parole, non sia solo una bella espressione letteraria sulla quale quotidiani e telegiornali hanno potuto sprecare fiumi di parole. E magari oltre a mutuare questa espressione, in campagna elettorale, sarebbe importante che Mario Monti si occupasse di giustizia ragionando su una riforma del sistema giudiziario allo sfascio, si occupasse di criminalità organizzata, di diritti civili. Soluzioni che già da un governo tecnico ci saremmo aspettati. La priorità delle riforme sociali è stata subordinata alla priorità delle scelte fiscali ed economiche. Che questo equilibrio possa capovolgersi. Leggendo l'Agenda Monti, l'argomento mafie è affrontato nelle righe finali. Si fa cenno alla possibilità di salvare le aziende sottratte alle mafie favorendo il loro reinserimento nell'economia legale. A velocizzare i tempi tra sequestro e confisca.
Ma manca la possibilità di monitorare e costruire nuove leggi per contrastare il riciclaggio nel sistema finanziario italiano. Le banche americane ed europee stanno attraversando una fase di analisi e approfondimento delle proprie attività perché è ormai chiaro che hanno avuto un ruolo attivo nel riciclaggio di danaro sporco. Ma davvero possiamo credere che le banche italiane facciano eccezione? Sarebbe cosa singolare se le organizzazioni criminali avessero scelto di non interfacciarsi con gli istituti italiani mentre lo facevano con le banche del resto del mondo... o manca piuttosto la volontà di scoprire i rapporti tra le banche italiane e le organizzazioni? Un'ultimissima cosa: scendere o salire in politica non dipende dal rango, come Berlusconi ora dice. Non si sale perché si è di rango inferiore e si scende perché si è di rango superiore. In politica "si serve" chi ti elegge, la politica non serve a salvare aziende, a evitare processi, ad accumulare beni.

© Riproduzione riservata

DA - http://espresso.repubblica.it/dettaglio/perche-inventai-salire-in-politica/2197518/18


Titolo: ROBERTO SAVIANO Se Berlusconi restasse senza platea
Inserito da: Admin - Gennaio 18, 2013, 11:51:10 pm
Se Berlusconi restasse senza platea


di ROBERTO SAVIANO

LA COSA sorprendente di questa campagna elettorale è che l'ex primo ministro, lo stesso che ha avuto a disposizione decenni di comunicazione televisiva e giornalistica, oggi torna a pretendere e ottenere un pulpito. E da esso conquisti anche larga audience. Accade poi che, grazie a quel pulpito, sembra guadagnare come decorazioni al merito, un'immagine nuova, diversa, svecchiata. Quella che doveva apparire come la più logora e stantia delle proposte politiche, d'improvviso sembra diventare, per un trucco mediatico, il nuovo che attrae. Lo si segue in televisione, si cliccano i video delle sue interviste, si resta lì, incollati allo schermo, ipnotizzati, invece di cambiare canale, per decenza.

Ci dovrebbe essere un unanime "ancora lui, basta" e invece no. E ciò che tutti un anno fa credevamo sarebbe stata l'unica reazione possibile alla incredibile ricomparsa sulla scena politica di Silvio Berlusconi non si sta verificando. Una certa indignazione  -  naturalmente  -  talvolta una presa di distanza, ma non rifiuto, non rigetto.

Quando Berlusconi va in tv sa esattamente cosa fare: la verità è l'ultimo dei suoi problemi, il giudizio sui suoi governi, il disastro economico, le leggi ad personam, i fatti  -  insomma  -  possono essere tranquillamente aggirati anche grazie all'inconsapevolezza dei suoi interlocutori. Il Cavaliere mette su sipari, sceneggiate, battutine. È smaliziato, non ha paura di dire fesserie,
non ha paura di essere insultato, di cadere in luoghi comuni, di ripetere storielle false sulle quali è già stato smascherato. Occupa la scena. E c'è chi cade nel tranello: questo trucco da prim'attore, incredibilmente, ancora una volta crea una sorta di strana empatia, di immedesimazione. C'è chi dice: sarà anche un buffone, ma meglio lui dei sedicenti buoni.

E allora sedie spolverate, segni delle manette, lavagnette in testa. Torna lui, lui che ci ha ridotti sul lastrico, lui che ha candidato chiunque, lui che ha detto tutto e il contrario di tutto ed è stato smentito mille volte. Eppure quei pulpiti diventano per lui nuove possibilità di partenza: chi vuole ostacolare questo processo già visto e già vissuto dovrebbe evitare di fare il suo gioco, di prestarsi al ruolo di spalla  -  come al teatro  -  dovrebbe impedirgli di montare e smontare sipari.
Più Berlusconi va in tv, più dileggia chi gli sta di fronte, più piace. Perché sa disinnescare chi lo intervista. Non ha paura, anzi sembra divertito dalla paura degli altri. Sente l'odore del sangue dei suoi avversari e attacca. In una competizione in genere vince chi non ha nulla da perdere e lui, screditato sul piano nazionale, internazionale, politico e personale; con processi pendenti che riguardano le sue aziende e le sue abitudini privatissime; con l'impero economico che cola a picco, è l'unico vero soggetto che da questa situazione non ha nulla da perdere e tutto da guadagnare. E se la sta giocando fino in fondo. Appunto, giocando. È divertito, esaltato.

Berlusconi non può più essere considerato un interlocutore, chi lo fa gli dà la possibilità di mentire laddove i fatti lo hanno già condannato. Fatti politici, ancor prima che giudiziari. Più lo si fa parlare, più lo si aiuta, più si asseconda la sua pretesa alla presenza perenne, all'onnipresenza televisiva come fosse un diritto da garantire a un candidato, cosa che non è. E tutto come se prima di questo momento non avesse mai avuto la possibilità di farci conoscere le sue idee e i suoi programmi. Come se non avesse avuto modo di esprimersi, da primo ministro, sui temi che oggi sta affrontando spacciandosi da outsider, da nuovo che avanza, da nuovo che sgomita e lotta per riconquistare lo spazio che gli è dovuto. Ha avuto una maggioranza che gli avrebbe consentito di poter modificare le leve e cambiare tutto. E non lo ha fatto. Ha solo legittimato quel "liberi tutti" fatto di evasione e deresponsabilizzazione che ha reso il nostro paese un paese povero. Povero di infrastrutture, povero di risorse, povero di speranza e invivibile per la maggior parte degli italiani. Anche per chi Berlusconi lo ha votato, anche per chi in lui si è riconosciuto.

E allora smettiamola di prenderlo sul serio, smettiamola di ridere alle sue battute per tremare poi all'idea che possa riconquistare terreno. Trattiamolo piuttosto per quello che è: un bambino di settantasei anni. Quando i bambini esagerano con le parolacce, con i capricci, i genitori li ignorano, fingono di non aver sentito. È l'unico modo perché il bambino perda il gusto della provocazione. La stessa cosa dovremmo fare con lui: farlo parlare, ma senza prestargli attenzione. Evitiamo i sorrisi alle sue battute stantie, perché non possa più ostentare sicurezza davanti ai suoi, perché non possa più spacciare la falsa tesi secondo cui i politici sono tutti uguali. Non sarò mai per la censura: Berlusconi ovviamente deve parlare in tv  -  certo dovrebbe farlo nelle regole sempre infrante della par condicio  -  come tutti i leader delle coalizioni. Siamo noi che dobbiamo smetterla di giocare con lui. Lasciamolo senza platea.

(18 gennaio 2013) © Riproduzione riservata

DA - http://www.repubblica.it/politica/2013/01/18/news/berlusconi_platea-50775973/?ref=HREA-1


Titolo: ROBERTO SAVIANO Quel voto di scambio che uccide la democrazia
Inserito da: Admin - Febbraio 11, 2013, 11:48:49 pm
Quel voto di scambio che uccide la democrazia

Riparte il mercato delle preferenze, ecco come si controlla. Schede ballerine e voti a 50 euro.

Così mafia e 'ndrangheta fanno eleggere i loro candidati

di ROBERTO SAVIANO

UNA parte consistente di Italia vota politici che poi disprezza. Una fetta consistente di voti viene direttamente controllata con un meccanismo scientifico e illegale. Il più importante e probabilmente il più difficile da analizzare, quello con cui i partiti evitano sistematicamente di fare i conti: il voto di scambio. A noi sembra di vivere in attesa di un perenne punto di svolta e in questo clima di incertezza siamo portati a pensare che il disagio creato dalla crisi economica, dalla corruzione politica, dalla cattiva gestione delle istituzioni, da venti anni di presenza di Berlusconi non potrà continuare ancora a lungo. Gli osservatori internazionali continuano ad augurarsi che gli italiani prenderanno finalmente coscienza di ciò che gli è accaduto, di tutto quello che hanno vissuto. E prenderanno le dovute misure. Che ne trarranno le giuste conseguenze. Che non cadranno negli stessi errori, nelle stesse semplificazioni. Ci si convince sempre di più di essere a un passo dal cambiamento perché le persone ovunque - in privato e negli spazi pubblici: dai bus ai treni, dai tram ai bar, dai ristoranti a chi viene intervistato in strada - appaiono stanche, disgustate. Vorrebbero fare piazza pulita, ma si trovano al cospetto di un sistema che ha tutti gli anticorpi per rimanere immutabile. Per restare sempre uguale a se stesso. Per autoconservarsi.

Esistono due tipi di voto di scambio. Un voto di scambio criminale ed un voto di scambio che definirei "acceleratore di diritti". In un paese dai meccanismi istituzionali
compromessi, la politica diventa una sorta di "acceleratore di diritti", un modo - a volte l'unico - per ottenere ciò che altrimenti sarebbe difficile, se non impossibile raggiungere. Per intenderci: ci si rivolge alla politica per chiedere, talvolta elemosinare favori. Per pietire ciò che bisognerebbe avere per diritto. Mentre altrove nel mondo si vota un politico piuttosto che il suo avversario per una visione, un progetto, perché si condividono i suoi orientamenti politici, perché si crede al suo piano di innovazione o conservazione, qui da noi - e questo è evidente soprattutto sul piano locale - non è così. In un contesto come il nostro, programmi e dibattiti, spesso servono a molto poco servono alle elite, alle avanguardie, ai militanti. A vincere, qui da noi, è piuttosto il voto utile a se stessi.

IL DISPREZZO PER LA POLITICA
In breve, una grossa fetta di Italia che nei sondaggi e nelle interviste si esprime contro vecchi e nuovi rappresentanti politici, spesso vota persone che disprezza, perché unici demiurghi tra loro e il diritto, tra loro e un favore. Li disprezza, ma alla fine li vota. Questo meccanismo falsa completamente la consultazione elettorale. Perché a causa della sfiducia nella politica, pur di ottenere almeno le briciole di un banchetto che si immagina lauto e al quale non si è invitati, si è pronti a dare il proprio voto a chi promette qualcosa o a chi ha già fatto a sé o alla propria famiglia un favore. I vecchi potentati politici anche se screditati oggi possono contare su centinaia di assunzioni pubbliche o private fatte grazie alla loro mediazione e da questi lavoratori avranno sempre un flusso di voti di scambio garantito. In questo senso è fondamentale votare politici di navigata presenza perché sono garanzia che quel diritto o quel favore promesso verrà dato. In questa campagna elettorale, come nelle scorse, non si è parlato davvero di come "funziona" il voto di scambio, di come l'Italia ne sia completamente permeata. La legge recentemente approvata in materia di contrasto alla corruzione, sul punto, è assolutamente insufficiente. L'elettore, promettendo il proprio voto, ha la sensazione di ricavare almeno qualcosa: cinquanta euro, cento euro, un cellulare. Poca roba, pochissima: in realtà perde tutto il resto. La politica dovrebbe garantire ben altro. La capacità effettiva di ripensare un territorio, non certo l'apertura di un circolo per anziani o un posto auto. In cambio di una sola cosa, il politico che voti ti toglie ciò che sarebbe tuo diritto avere.

Ma è ormai difficile far passare questo messaggio, anche tra gli elettori più giovani. Sembra tutto molto semplice, ma è difficile far comprendere a chi si sente depauperato e privato di ogni cosa che il modo migliore per recuperare brandelli di diritti non è svendere il proprio voto per un favore. È tanto più difficile perché spessissimo ciò che l'elettore si trova costretto a chiedere come fosse un favore, sarebbe invece un suo diritto, il cui adempimento non è impedito, ma è fortemente (e a volte artificiosamente) rallentato dal mal funzionamento delle Istituzioni. Qui non si sta parlando di persone che truffano o di comportamenti sleali, ma di chi ha difficoltà a vedersi riconosciuta una pensione di invalidità necessaria a sopravvivere, o l'assegnazione di un alloggio popolare piuttosto che un posto in ospedale cui avrebbe diritto. Il disincanto si impossessa delle vittime delle lentezze burocratiche, che presto comprendono che per velocizzare il riconoscimento di un diritto sacrosanto devono ricorrere al padrino politico, cui sottostare poi per un tempo lunghissimo, a volte per generazioni, come accadeva con i vecchi capi democristiani in Campania e nel Sud in generale. Lo stesso accade talvolta per l'ottenimento di una licenza commerciale o per poter ottenere i premessi necessari alla apertura di un cantiere. Diritti riconosciuti dalla legge il cui esercizio, da parte del cittadino, necessita di una previa mediazione politica. E la politica di questo si è nutrita. Di questo ricatto. Ribadisco: non sto parlando di chi non merita, di chi non ha i requisiti, di chi sta forzando il meccanismo legale per ottenere un vantaggio, ma di chi avrebbe un diritto e non è messo in condizione di goderne.

Questo muro di gomma ostacola qualunque volontà di rinnovamento, poiché a giovarne nell'urna sarà sempre e soltanto il vecchio politico e la vecchia politica, non il nuovo. Il vecchio che ha rapporti. Per comprendere i meccanismi di voto di scambio, la Campania è una regione fondamentale, insieme alla Sicilia e alla Calabria. Da sempre, dai tempi delle leggendarie campagne elettorali di Achille Lauro, che dava la scarpa sinistra prima del voto e quella destra dopo. Ma nel resto d'Italia non si può dire che le cose vadano diversamente. Insomma, il meccanismo è rodato, perfettamente rodato e si interrompe solo quando il proprio voto viene percepito come prezioso, come importante per il cambiamento, tanto che non te la senti di svenderlo anche per ottenere ciò che per diritto ti sarebbe dovuto. E ancora una volta, questa campagna elettorale, in pochissimi ambiti si sta declinando sulle idee, quanto piuttosto su un generico rinnovamento a cui il Paese non crede. Più spesso si risponde con rabbia: tutti a casa, siete tutti uguali. L'allarme consistente sul voto di scambio in queste ore è in Lombardia.

A SPESE DEGLI ELETTORI
Ma su chi accede alla politica distrattamente, fa leva il politico di vecchio corso, pronto a riceverti nella sua segreteria e a mantenere la promessa fatta a carica ottenuta. Il politico che non dimentica perché ha un apparato che vive a spese degli elettori, un apparato che è un orologio svizzero: unica cosa perfettamente funzionante in una democrazia claudicante. Ecco perché è sbagliato sottovalutare la capacità berlusconiana non di convincere, ma di riattivare e di rendere nuovamente legittima questa capacità clientelare. Berlusconi non va in tv convinto di poter di nuovo persuadere, ma ci va con la volontà di rinfrescare la memoria a quanti hanno dimenticato la sua capacità di ricatto. Ci va per procacciarsi i numeri sufficienti a garantire, ancora una volta, la totale ingovernabilità del Paese. Ci va perché sa che ingovernabilità significa poter di nuovo contrattare. Quindi ecco le solite promesse: elargirà pensioni, toglierà tasse e, se anche non ci riuscisse, chiuderà un occhio, strizzandolo, a chi non ne può più. Berlusconi va a ribadire che gli altri non promettono nulla di buono. A lui non serve convincere di essere la persona giusta. A lui basta convincere i telespettatori che gli altri sono l'eterno vecchio e lui l'eterno nuovo. Nel momento in cui, quindi, non esiste un'idea di voto che cambi il paese, riparte il meccanismo della clientela. Dall'altra parte, la sensazione è che si preferisca campare di rendita. I "buoni" votano a sinistra. E su questi buoni si sta facendo troppo affidamento. Della pazienza di questi buoni si sta forse abusando. Se, intercettando un diffuso malcontento, Berlusconi promette la restituzione dell'Imu e un condono tombale, dall'altra parte non si fanno i conti con una tassazione ai limiti della sopportazione. Da un lato menzogne, dall'altro nessuna speranza, silenzio. E i sondaggi rispecchiano questa situazione. Rispecchiano quella quantità abnorme di delusi che solo all'ultimo momento deciderà per chi votare e deciderà l'esito. E su molti delusi il voto di scambio inciderà negli ultimi giorni.

Ogni partito in queste elezioni, come nelle precedenti, ci ha tenuto a conservare i suoi rapporti clientelari. Ecco perché gli amministratori locali sono così importanti: sono loro quelli che possono distribuire immediatamente lavoro. È nel sottobosco che si decidono le partite vere, che si fanno largo i politici disinvolti, quelli che risolvono i problemi spinosi, permettendo a chi siede in Parlamento di evitare di sporcarsi. E qui si arriva al voto di scambio mafioso che segue però logiche diverse. Le organizzazioni, nel corso degli anni, hanno cambiato profondamente il meccanismo dello scambio elettorale. Il voto mafioso degli anni '70 e '80 era in chiave manifestamente anticomunista, tendeva a considerare il Pci come un rischio per l'attenzione che dava al contrasto alle mafie sul piano locale, ma soprattutto perché toglieva voti al partito di riferimento, che è a lungo stato la Dc. Lo scopo era cercare di convogliare la maggior parte dei voti sulla Democrazia cristiana, voti che il partito avrebbe ottenuto ugualmente - è importante sottolinearlo - ma il ruolo delle organizzazioni era fondamentale per il voto individuale. Diventavano dei mediatori imprescindibili. Carmine Alfieri e Pasquale Galasso, boss della Nuova Famiglia, raccontano di come negli anni '90 non c'era politico che non andasse da loro a chiedere sostegno perché quel determinato candidato potesse ottenere una quantità enorme di voti. La camorra anticipava i soldi della costosa campagna elettorale per manifesti, per acquistare elettori, soldi che il partito al candidato non dava. In cambio i clan sarebbero stato ripagati in appalti.

Mister 100 MILA VOTI
La storia di Alfredo Vito "Mister centomila voti", impiegato doroteo dell'Enel che prende negli anni '90 più voti di ministri come Cirino Pomicino e Scotti, applica una teoria che fa scuola al suo successo. "Do una mano a chi la chiede": ecco la sintesi della logica che condiziona la campagna elettorale. I veri mattatori delle elezioni non erano - e non sono - quasi mai nomi conosciuti sul piano nazionale, ma leader indiscussi sul piano locale. Questo dà esattamente la cifra di cosa poteva accadere, della capacità che le organizzazioni avevano di poter convogliare su un determinato candidato enormi quantità di voti. E non è la legge elettorale in sé a poter ostacolare gli esiti nefasti del voto di scambio, che è frutto evidentemente di arretratezza economica e quindi culturale. La dimostrazione di questa sostanziale ininfluenza è data dal fatto che, se da un lato la selezione operata dai partiti non consente al cittadino di poter scegliere i propri rappresentanti, favorendo viceversa il "riconoscimento di un premio" per chi si è sobbarcato il gioco sporco dello scambio elettorale a livello locale, dall'altro, la scelta diretta del candidato - in un sistema che rifugge la trasparenza quasi si trattasse di indiscrezione - trasforma la competizione elettorale in una mera questione di budget, nella quale la capacità di acquisto dei voti diviene determinante.

Oggi, la maggior parte delle organizzazioni criminali sostengono anche candidati non utili ai loro affari, semplici candidati che hanno difficoltà a essere eletti. Vendono un servizio. Vai da loro, paghi e mettono a tua disposizioni un certo numero di voti (emblematico il caso di Domenico Zambetti, che avrebbe pagato 200 mila euro per ottenere 4 mila voti alle elezioni del 2010). Questo significa che puoi anche non essere eletto le organizzazioni ti garantiscono solo un pacchetto di voti non tutto il loro impegno elettorale di cui sarebbero capaci. In alcuni casi candidano direttamente dei loro uomini in questo caso in cambio avranno accesso alle informazioni sugli appalti, avranno capacità di condizionare piani regolatori, spostare finanziamenti in settori a loro sensibili, far aprire cantieri, entrare nel circuito dei rifuti dalla raccolta alle bonifiche delle terre contaminate (da loro).

Con un pacco da cento di smartphone si ottengono 200 voti in genere. Quello della persona a cui va lo smartphone e quello di fidanzati o familiare.
Spese pagate ai supermercati per un due settimane/un mese. Sconti sulla benzina (fatti soprattutto dalle pompe di benzina bianche). Bollette luce, gas, telefono pagate. Ricariche telefonini. Migliaia di voti saranno raccolti con uno scambio di questo tipo.

Difficilissimo da dimostrare siccome chi promette è raramente in contatto con il politico. Quindi anche se il mediatore è scoperto questi dirà che era sua iniziativa personale per meglio comparire agli occhi del politico aiutato escludendolo quindi da ogni responsabilità nel voto di scambio. Nel periodo delle elezioni regionali 2010, la Direzione distrettuale antimafia di Napoli ha aperto un'indagine sulla compravendita di voti. In Campania i prezzi oscillerebbero da 20 a 50 euro, 25 subito e 25 al saldo, cioè dopo il voto. In alcuni casi i voti vengono venduti a pacchetti di mille. Praticamente c'è una specie di organizzatore che promette al politico 1000 voti in cambio di 20.000 o 50.000 euro. Questa persona poi ripartisce i soldi tra le persone che vanno a votare: pensionati, giovani disoccupati. In Campania un seggio in Regione può arrivare a costare fino a 60.000 euro. In Calabria te la cavi con 15.000. Con 1000 euro in genere un capo-palazzo campano procura 50 voti. Il capo-palazzo è un personaggio non criminale che riesce a convincere le persone che solitamente non vanno a votare a votare per un tal politico. E come prova del voto dato bisogna mostrare la foto della scheda fatta col telefonino. In Puglia un voto può arrivare a valere 50 euro, lo stesso prezzo a cui può arrivare anche in Sicilia. A Gela proposto pacchetti di 500 voti a 400 euro. 400 euro per 500 voti: 80 centesimi a voto!

IL MECCANISMO PRINCIPE
E poi c'è il il meccanismo principe con cui si controllano i voti e si paga ogni singolo voto lo si ottiene con il metodo della "scheda ballerina". L'elettore che vuole vendere il proprio voto va dal personaggio che paga i voti riceve la scheda elettorale già compilata (regolare fatta uscire dal seggio) se la mette in tasca poi va al seggio, presenta il proprio documento di riconoscimento e riceve la scheda regolare. In cabina sostituisce la scheda data già compilata con la scheda che ha ricevuto al seggio, che si mette in tasca. Esce dalla cabina elettorale e vota al seggio la scheda precompilata. Poi va via. Torna dà la scheda non votata e riceve i soldi. La scheda non votata e consegnata viene compilata, votata, e data all'elettore successivo, che la prende e torna con una pulita. E avrà il suo obolo. 50 euro, 100 euro, 150 o un cellulare. O una piccola assunzione se è fortunato. Così si controlla il voto. Nessuno ha parlato di questo meccanismo, la scheda ballerina non ha interessato il dibattito elettorale. Eppure è più determinante di una tassa, più incisiva di una riforma promessa, più necessaria di una manovra economica.
In questa campagna elettorale, come in tutte le precedenti, non si è fatto alcun riferimento al voto di scambio sia come "acceleratore di diritti" sia quello criminale. Avrebbero dovuto esserci spot continui, articoli diffusi, che sensibilizzassero gli elettori a non vendere il proprio voto, a non cedere alle promesse di scambio. Si sarebbero dovuti sensibilizzare gli elettori a non decidere gli ultimi giorni di voto in cambio di qualche favore. Ma se non lo si è fatto significa che in gioco ci sono interessi enormi che andrebbero analizzati caso per caso. Nel 2010 provocando da queste queste stesse pagine invocammo l'OSCE (l'organizzazione per la sicurezza in Europa, ndr) a controllo del voto regionale mostrando come il voto di scambio fosse tritolo sotto la democrazia. L'OSCE non recepì l'appello come una provocazione ma come un serio allarme e rispose di essere disponibile ad intervenire e controllare il voto. Ma doveva essere invitata a farlo dal governo. Cosa che non fu fatta.

Con queste premesse, chi può dire cosa accadrà tra qualche giorno? Il monitoraggio sarà come sempre blando, affidato a singole persone o a gruppi isolati che denunceranno irregolarità. Ma dove nessuno vorrà farsi garante di trasparenza, chi verrà a dirci come si saranno svolte le elezioni? E ad oggi nessuno schieramento ha affrontato il tema del voto di scambio. Terribile nemico o fenomenale alleato?

(11 febbraio 2013) © Riproduzione riservata

da - repubblica.it


Titolo: ROBERTO SAVIANO Roma e la tela di ragno della 'ndrangheta "Così la soubrette...
Inserito da: Admin - Giugno 23, 2013, 10:56:50 am
Roma e la tela di ragno della 'ndrangheta "Così la soubrette procurava gli appalti"

La racconta l'inchiesta Lybra della Dda di Catanzaro, portata avanti dal sostituto procuratore Pierpaolo Bruni e dal procuratore aggiunto Giuseppe Borrelli. È una sorta di manuale per identificare gli ingredienti per ottenere successo nel sistema "estrattivo", dove gli interessi politici si sposano a quelli affaristici e dove i mediatori più adatti sono quelli mafiosi.

E degli attori di una storia che - al di là degli appalti e degli affari effettivamente portati a termine - ci dice tutto del sottobosco che abita i palazzi del potere


di ROBERTO SAVIANO


RIUSCIRE a chiudere un importante affare a Roma, nel luogo da cui partono i grandi progetti e appalti, è la più sfiancante corsa a ostacoli che ci sia. Lo sa qualsiasi imprenditore. La burocrazia levantina, l'assenza di finanziamenti, gli appalti raggiungibili solo con linee d'accesso privilegiate rendono gli affari romani sempre più complicati e coperti da inquietanti ombre. Eppure qualcuno è ancora in grado di fare business: le imprese legate alle organizzazioni criminali. Chi vuol comprendere come si arriva a chiudere un importante affare a Roma e a vincere un milionario appalto legga questa storia.

La racconta l'inchiesta Lybra della Dda di Catanzaro, portata avanti dal sostituto procuratore Pierpaolo Bruni e dal procuratore aggiunto Giuseppe Borrelli. È una sorta di manuale per identificare gli ingredienti per ottenere successo nel sistema "estrattivo", dove gli interessi politici si sposano a quelli affaristici e dove i mediatori più adatti sono quelli mafiosi.

Basta compilare un semplice elenco dei comprimari (non indagati ma citati in questo incredibile puzzle di potere) per rendere subito tangibile questa dimensione esemplare. Ci sono l'ex assessore ai Lavori Pubblici della Regione Lazio, Vincenzo Maruccio (Idv), e Diego Zarneri, vicesegretario nazionale del Movimento per l'Italia di Daniela Santanché. Giulio Violati, manager nel settore cinematografico e marito di Maria Grazia Cucinotta, e una soubrette non molto nota ma ottimamente introdotta persino in ambienti vaticani, Michela Cerea. Non mancano nemmeno la proprietaria di un centro massaggi in zona Vaticano e un Gran Maestro di una loggia massonica. Politici, massoni, mafiosi, soubrette, imprenditori: attori di una storia che - al di là degli appalti e degli affari effettivamente portati a termine - ci dice tutto del sottobosco che abita i palazzi del potere.

Il mediatore delle cosche e i politici - Il protagonista principe è Francesco Comerci, titolare della ditta "Edil Sud", accusato dall'antimafia di essere al servizio dei Tripodi di Porto Salvo, cosca legata ai Mancuso di Limbadi, la più potente famiglia 'ndranghetista della provincia di Vibo Valentia e una delle più ricche d'Europa. Comerci ha fatto carriera gestendo la riscossione di danaro a usura per il clan Tripodi e nel 2008, assieme alla moglie, ha rilevato "La Dolce Vita", un bar-pasticceria in Viale Giulio Cesare a Roma a due passi dal Vaticano. A Roma diventa il principale mediatore, colui che deve procurare le giuste entrature alla cosca.

La prima mossa del mediatore di 'ndrangheta è tentare di agganciare l'assessore ai lavori pubblici, poi consigliere di minoranza con la giunta Polverini, Vincenzo Maruccio, lui stesso calabrese. A Roma, prima di tutto, contano i rapporti, le conoscenze. Per avvicinarlo, Comerci batte diverse strade, tra cui quelle di due figure femminili: la compagna di un avvocato impiegata alla Regione Lazio e una signora francese, Cecile Claire Toulet, che ha un centro massaggi in via Plauto e che conosce il politico. Comerci, intercettato al telefono, non esita a spiegare molto chiaramente alla francese quali sono le regole della sua terra: "lui (Maruccio, ndr) conosce lo ZIO e quindi deve scattare sugli attenti perché da loro in Calabria ci sono questi legami forti e dunque deve essere lui a chiamarlo e non io (Comerci, ndr) a cercarlo". L'indagine non è riuscita a dimostrare se c'è stato un incontro tra l'uomo di 'ndrangheta e il politico, ma il progetto era chiaro: voti in cambio di appalti.

Tramite la Edil Sud di Comerci, utilizzata anche per una vasta attività di riciclaggio, tentava di acquistare di immobili di prestigio. Ma il sistema poteva disporre anche di società in regola con tutte le certificazioni per partecipare a gare di appalto pubbliche (cosa di cui la Edil Sud non disponeva).

Alla ragnatela di Francesco Comerci e del suo commercialista, Nunziato Grasso, non poteva mancare la massoneria. Paolo Coraci non è un massone qualunque ma il Sovrano Gran Commendatore Gran Maestro della Massoneria Universale Grande Oriente Scozzese d'Italia Cavalieri di San Giorgio in Roma. A leggere la sua carica sembra un personaggio creato per un film di Fantozzi ma il suo potere non ha nulla di comico. La loggia, attraverso i convegni e gli incontri organizzati, mirava a guadagnare posizioni di vertice nei settori dell'alta amministrazione: tra i sogni di Coraci c'era quello di creare in Campania una "Cernobbio del Sud" entrando nell'agone politico con l'associazione "Liberi e Forti".

Il business immobiliare  - Ma che cosa lega il Gran Maestro Coraci, burattinaio delle alte sfere, con Francesco Comerci, testa di legno 'ndranghetista della cosca Tripodi? Affari. Coraci proponeva alla Edil Sud di acquistare immobili per svariati milioni di euro in contanti che in realtà erano forniti da persone che evidentemente non potevano figurare ufficialmente nell'acquisto; in cambio, Comerci e la cosca avrebbero ottenuto grossi guadagni più l'assegnazione dei lavori di ristrutturazione delle case e l'affidamento di altri lavori nel campo delle energie alternative. La Edil Sud stava per effettuare operazioni immobiliari fittizie di questo genere su un immobile del valore di 16 milioni di euro, in via Giulia 79, nel pieno centro di Roma, e un immobile in via Ostilia 15, alle spalle del Colosseo, del valore di 16 milioni e mezzo di euro.

L'inchiesta Lybra dimostra che la cosca Tripodi ha esteso i suoi affari ben oltre Porto Salvo, al Lazio, all'Emilia Romagna, al Veneto, alla Lombardia e ad altre regioni. Nel settore dell'edilizia e del movimento terra la famiglia Tripodi riesce a monopolizzare lavori pubblici e privati sul territorio attraverso una costellazione di imprese satellite nella maggior parte dei casi intestate a prestanome; e se non si aggiudica direttamente l'appalto, pretende dal vincitore una tangente pari al 5% dell'importo dell'appalto, come se esercitasse una specie di "diritto di servitù" sul territorio che considera appartenerle. Così la rimozione dei fanghi dopo l'alluvione di Bidona del 2006, i lavori sulla Strada del Mare Pizzo-Rosarno, la pulizia delle spiagge del litorale vibonese erano tutti appalti da controllare, se non direttamente, attraverso le estorsioni alle ditte che se li erano aggiudicati. "Devono lavorare i Tripodi!" era l'imperativo che tutti seguivano nella zona anche senza che ci fosse bisogno di sentirselo dire. Con il tipico metodo mafioso della minaccia e dell'intimidazione, il gruppo teneva sotto scacco anche un'azienda lombarda, la Medialink di Brescia, che si occupa di installazione di reti di telecomunicazione. Assunzioni vivamente "consigliate" di uomini legati alla 'ndrangheta e pagamento di fatture per prestazioni inesistenti erano solo alcuni dei soprusi che la società era costretta a subire per poter continuare a lavorare tranquillamente.

Il marito della Cucinotta -Quando l'associazione industriali di Roma pubblica una gara d'appalto per l'installazione di migliaia di telecamere a fibre ottiche, il responsabile della Medialink si sente in dovere di informare Comerci del bando. Comerci vuole che a vincere l'appalto sia la Medialink: si tratta di un lavoro da 600 milioni di euro, e una parte sarebbe senza dubbio finita nelle sue tasche. Per questo si attiva subito e organizza un incontro a Roma tra il responsabile di Medialink e un uomo che avrebbe potuto aiutarli a vincere l'appalto: Giulio Violati, manager nel settore cinematografico, noto soprattutto per il suo matrimonio con l'attrice Maria Grazia Cucinotta.

Violati è in ottimi rapporti con le alte sfere della politica, tanto che viene presentato agli uomini di 'ndrangheta come "onorevole", anche se in realtà non lo è. L'incontro avviene addirittura in un ufficio-articolazione della Camera dei Deputati a Palazzo Marini, in piazza San Silvestro.
Violati - secondo l'indagine - si rivela un contatto con ottime entrature: alza il telefono e fissa un appuntamento per il responsabile di Medialink con il Presidente di Unindustria Roma. Dopodiché si congeda elegantemente dal gruppo e invita tutti i presenti a continuare la conversazione nello studio di uno dei presenti, il loro comune amico Mario Festa, imprenditore di Rovigo ma residente a Gaeta. A quest'ultimo tocca il "lavoro sporco": è lui, infatti, a proporre al titolare di Medialink, come condizione per poter promuovere la sua azienda sul mercato degli appalti pubblici, di entrare a far parte di un club e di stipulare un contratto di consulenza per un importo iniziale di 50.000 euro a favore di una società non meglio precisata. Funzionava così il "sistema Festa": mazzette mascherate da un fittizio incarico di consulenza in cambio della promessa di appalti pubblici. Capendo subito che si trattava di corruzione, il responsabile di Medialink si defilò dalla proposta e l'incontro con il Presidente dell'Unione Industriali non avvenne mai.

Il segretario della Santanché -E qui entra in scena la soubrette: Michela Cerea, bergamasca con alle spalle un passato di tv minore. È lei che presenta Festa all'uomo della 'ndrangheta Comerci, ed è sempre lei che prospetta a Comerci la possibilità di ottenere ricchi appalti, in Italia e all'estero: opere per l'Expo 2015 di Milano, la costruzione di ospedali e case in Moldavia, Albania e Croazia, la ristrutturazione dello Stadio di Novara... Il tutto era possibile grazie al fornito giro di amicizie dell'ex soubrette, tra cui spiccava il vicesegretario nazionale del Movimento per l'Italia di Daniela Santanché.

È qui che emerge tutto il sistema-Italia. Leggere queste intercettazioni fa comprendere più di qualsiasi sentenza come funziona il meccanismo che lega gli affari, qualsiasi tipo di affari, alla politica.

Michela Cerea: "Perché adesso, tutti i giorni, sono entrata in contatto con il partito di Daniela Santanché... (...) e c'ho il suo vice, il segretario nazionale, tutti i giorni in ufficio perché è un ragazzo di 30 anni... (...) Che veramente... cioè è una cosa questa alla grande... neanche 10 giorni che lavoravo con lui ho beccato subito le pubbliche relazioni con tanto di contratto per il Palazzolo Calcio, che adesso è serie D però vogliono puntare a tornare in C. (...) poi è veramente una brava persona tutto, poi sai adesso fra l'altro Daniela entro la fine di settembre avrà anche un ministero".
E ancora.

Michela Cerea: "La prima volta che vieni a Milano tu dimmelo così ci vediamo...(...) Ti presento 'sta persona anche perché, tra l'altro, Daniela è la concessionaria di tutta la pubblicità di Libero, no? ... Quindi adesso, siccome tra l'altro lei c'ha un giro pazzesco, volevo entrare anche.... Tipo non so, là... a Buona Domenica nuova che la fa la sua amica lì, la Barbara D'Urso insomma..."

Michela Cerea e il segretario della Santanché, Diego Zarneri, portano avanti l'idea di una relazione con il premier moldavo per ottenere la ristrutturazione di alcuni ospedali in Moldavia ("non uno, addirittura 19", dice lei). L'ex soubrette dice che andranno in ambasciata a incontrare il portavoce del premier. La ditta di Comerci, promette la Cerea, verrà inserita nella lista di imprese per i lavori in Moldavia e - sempre assicura - di inserirla nel progetto di ristrutturazione dello Stadio di Novara. Le indagini che stanno procedendo scandagliano se è riuscita la Cerea nel suo intento e con quali imprese avrebbe fatto svolgere i lavori al suo amico accusato d'esser uomo di 'ndrangheta Francesco Comerci (che lei chiama affettuosamente "Pipicchio").

Michela Cerea: "Allora io, così ragionando con Diego, gli ho detto: "Allora scusami, se conosciamo il premier della Moldavia, ci sarà un cazzo di ospedale che deve essere rifatto, una cosa là in Moldavia, no?" (...) Visto che non conosciamo uno stronzo qualsiasi! E allora ha iniziato, gli ha buttato lì l'idea e adesso abbiamo un appuntamento mercoledì... quello che viene adesso... quello dopo ancora con il portavoce che torna dalla Moldavia e poi... logicamente bisognerà andar là no?"(...) dai Pipicchio che andiamo in Moldavia!!".

Il telefono intestato alla Selex -Come possa una ex soubrette poco nota ma ben inserita entrare in contatto con il governo moldavo e mediare per appalti milionari è uno di quei misteriosi miracoli romani che quest'inchiesta racconta. I pm non sanno se l'incontro tra Comerci e Zarneri sia effettivamente avvenuto: hanno svelato però fin dove si possono spingere le cosche. Chi teme che l'Expo 2015 diventi una miniera per chiunque voglia fare affari veloci e milionari trova qui una conferma. Forse è solo un caso, ma la Cerea ha un telefono intestato alla Selex (partecipata Finmeccanica), che è uno dei partner della Expo 2015 Spa, e Zarneri, a cui lei si rivolge, lavora anche nello staff dell'assessore alla provincia di Milano con delega all'Expo Silvia Garnero (nipote della Santanché). La provincia di Milano fa parte degli azionisti di Expo 2015. Al di là delle responsabilità penali, che solo i tribunali potranno accertare, conoscere i meccanismi con cui si fanno affari in Italia diventa prioritario. Ignorarli rende ogni ragionamento politico vano. Una democrazia così infettata difficilmente potrà riprendersi se non decide di partire tagliando il nodo inestricabile che lega tangenti, organizzazioni criminali, imprese, politica, immobili.

(23 giugno 2013) © Riproduzione riservata


da - http://www.repubblica.it/cronaca/2013/06/23/news/roma_e_la_tela_di_ragno_della_ndrangheta_cos_la_soubrette_procurava_gli_appalti-61676020/?ref=HRER1-1


Titolo: ROBERTO SAVIANO Anche il Brasile è in ostaggio delle mafie
Inserito da: Admin - Luglio 05, 2013, 04:43:11 pm
L'antitaliano

Anche il Brasile è in ostaggio delle mafie

di Roberto Saviano

Nel Paese sudamericano c'è una classe politica corrotta, un malavita organizzata ricchissima e potente, una nuova generazione che non ne può più: non vi ricorda qualcosa?

(27 giugno 2013)

Brasile-Italia non è solo una partita di calcio. Il Brasile, nei miei pensieri di bambino, di un bambino cresciuto nel sud Italia, nel territorio con più morti ammazzati d'Europa, ha a lungo significato calcio: Pelè, Falcao, Zico, Dunga e soprattutto Antonio Careca. Ma ha significato anche altro, ovvero Antonio Bardellino, il capo del clan dei casalesi, il capo dell'organizzazione criminale "padrona" del territorio dove sono nato e cresciuto. Bardellino faceva affari in Brasile, affari per il clan e lì è morto nel 1988 (anche se il corpo non è stato mai trovato e per tutti in paese lui è scappato rifacendosi un'altra vita).

Negli anni l'abitudine di mappare il mondo attraverso gli affari dei clan non l'ho persa, anzi forse è diventata un'ossessione ancora più forte, ma spesso a essere cambiati sono proprio i luoghi che permettono di sovrapporre ricordi a ricordi, vittorie a tragedie. Il Brasile negli ultimi anni ha vissuto una stagione straordinaria. Da ex colonia è diventata speranza per i paesi colonizzatori e per quelli colonizzati. Portogallo, Angola e Mozambico, tutto il mondo lusitano ha visto nel Brasile il nuovo investitore in grado di rilanciare risorse e lavoro. Ma l'accelerazione nello sviluppo economico non è andata di pari passo con il rispetto dei diritti dei brasiliani e con la lotta senza quartiere alla criminalità organizzata, che è ancora un freno e il Brasile - come l'Italia - paga un prezzo gigantesco al narcotraffico. Le grandi navi cariche di coca partono dal Brasile e questo equivale a dire che la borsa della coca è in Brasile, cioè il prezzo viene deciso spesso lì perché da lì partono le spedizioni. Ma una classe politica autoreferenziale e corrotta che ha a lungo creduto di non dover rendere conto del proprio lavoro, è inciampata sull'aumento del biglietto dei trasporti pubblici.

In questo modo è saltato un tappo e da quel momento il Brasile non è più lo stesso. Le foto dall'alto tolgono il fiato. Un milione di persone in piazza e in maggioranza giovanissimi. Una nuova generazione che non manifesta per sostituire la precedente, che non ha leader, non riferimenti politici univoci, né ideologici. Una nuova generazione, quella brasiliana che, come i coetanei turchi, non può più spostare in avanti l'asticella della sopportazione. E allora l'aumento dei biglietti del trasporto pubblico diventa il detonatore di una situazione che il potere ha spinto troppo oltre. Diventa occasione per mostrare la propria indignazione, tutta la sofferenza, la fisiologica incapacità di tollerare una classe politica corrotta e inefficiente che usa ogni pretesto per lucrare, per mentire, per sottrarre denaro pubblico. Erodendo ogni anno, mese, settimana, giorno, gli ultimi diritti - ormai ridotti a brandelli - rimasti ai cittadini. Così nel mirino ben presto ci sono anche le spese relative ai Mondiali che in Brasile si giocheranno nel 2014. Le menzogne raccontate sui costi, sui fondi per la ristrutturazione degli stadi, che dovevano provenire da investitori privati ma che hanno finito per gravare sulle casse pubbliche. Sulle infrastrutture che si sarebbero dovute costruire e che invece resteranno sulla carta. I Mondiali in Brasile costeranno ai cittadini quanto la somma dei tre Mondiali precedenti. Una cifra spaventosa, destinata a crescere.

Un colpo allo stomaco per un Paese che fa i conti con la scarsa qualità dei servizi pubblici, dei trasporti, con la sanità pubblica e l'istruzione che stanno subendo continui tagli, con una classe politica spaventosamente corrotta. "Brasile svegliati" e "Protestiamo perché il denaro investito negli stadi dovrebbe esserlo nell'educazione e nella sanità" sono le parole d'ordine di un movimento estremamente eterogeneo, che però sembra esprimere rivendicazioni condivise. La sensazione, qui come altrove, è che il vuoto della politica, un vuoto carico di tracotanza e cecità, sarà progressivamente colmato dal pieno dei movimenti. Mi hanno colpito le parole di Gilberto Carvalho, segretario generale di Dilma Rousseff: «Sarebbe falso affermare che abbiamo capito quello che sta succedendo. Ma se non ascoltiamo, finiremo per stare dalla parte sbagliata della storia». Ecco cosa accade quando una democrazia diventa strumento in mano ai potenti, inizia a stare dalla parte sbagliata della storia.

 
© Riproduzione riservata

da - http://espresso.repubblica.it/dettaglio/anche-il-brasile-e-in-ostaggio-delle-mafie/2210015/18


Titolo: ROBERTO SAVIANO I clan allargano il loro potere con i favori, non con i soldi.
Inserito da: Admin - Luglio 24, 2013, 11:24:44 am

Una riforma che solleva molti dubbi e potrebbe pure salvare Cosentino

La necessità di provare il procacciamento dei voti rende difficile incastrare i boss.

I clan allargano il loro potere con i favori, non con i soldi. E qui la norma non colpisce

di ROBERTO SAVIANO


Queste parole le scrivo per lanciare un allarme. La riforma della legge sul voto di scambio così com'è stata approvata alla Camera dei deputati non sembra affatto utile a disarticolare i rapporti tra mafia e politica: anzi rischia di essere solo poco più di una messa in scena. Bisogna andar per gradi e capire i motivi di questo allarme.

Nel 1992 -  sull'onda dell'indignazione per due stragi, quella di Capaci e via D'Amelio  -  venne introdotto nel codice penale l'articolo 416-ter che punisce chi ottiene la promessa di voti dalle associazioni mafiose in cambio di denaro. È la norma tuttora vigente in materia di scambio elettorale politico-mafioso, una norma che al suo interno conserva un gravissimo limite. Per essere punibile, infatti, il candidato che riceve la promessa di voti da parte dell'associazione mafiosa deve aver erogato in cambio del denaro, che è considerato il solo possibile oggetto di scambio. Ma questa è una situazione difficilmente riscontrabile; alle organizzazioni criminali non interessano i soldi dei politici, ma i soldi che i politici possono far guadagnare loro. La politica è soltanto un mezzo per velocizzare il profitto. Appalti, posti di lavoro, licenze, concessioni: è così che i clan guadagnano.

Le organizzazioni non si fanno pagare per ogni voto, sono lungimiranti: sanno che informazioni per una gara d'appalto possono essere molto più utili per far lavorare decine delle loro ditte per anni; un'agevolazione sul piano regolatore può trasformare terreni agricoli in migliaia di metri cubi di cemento; una firma su una licenza può far aprire ristoranti che altrimenti non esisterebbero. Favori, non soldi: è così che i clan organizzano il loro sviluppo. Da anni si attendeva che questa norma venisse resa davvero efficace, con le modifiche necessarie; per i governi di centrodestra e di centrosinistra, però, questo obiettivo non è mai stato una priorità.

Ora invece sembrava che fosse giunto il tempo di una reale riforma; la Camera dei deputati si è decisa a lavorarci ed ha approvato un testo con la quasi unanimità; esso è stato così riformulato: "Chiunque accetta consapevolmente il procacciamento di voti con le modalità previste dal terzo comma dell'articolo 416-bis in cambio dell'erogazione di denaro o di altra utilità è punito con la reclusione da quattro a dieci anni. La stessa pena si applica a chi procaccia voti con le modalità indicate al primo comma". All'apparenza potrebbe sembrare che i problemi sono risolti; non è più solo l'erogazione di denaro punibile come possibile oggetto di scambio, ma anche "altre utilità". Nella norma, però, si è cambiato anche molto altro; se prima bastava la mera promessa di voti da parte dell'organizzazione mafiosa perché il candidato fosse punibile, ora è necessario provare il procacciamento, cioè un'attività concreta di ricerca e raccolta voti per quel determinato candidato da parte dell'organizzazione criminale, utilizzando la sopraffazione tipica delle organizzazioni mafiose.

E questo punto della norma è quello che preoccupa di più. Le mafie sono avanguardia economica e hanno meccanismi d'operatività ben più complessi che la semplice intimidazione.

Il procacciamento di voti, del resto, è molto difficile da individuare, perché implica la necessità di cogliere il boss e i suoi affiliati mentre fanno "campagna elettorale" per il politico in questione, convincendo - con i loro mezzi tipici - i cittadini a vendere il loro voto. I loro mezzi tipici in campagna elettorale raramente sono violenti: sono piuttosto promesse di lavoro, di favori, appelli a rapporti familiari, insomma le dinamiche utilizzate anche dai partiti. La riforma della norma invece fa riferimento al "metodo mafioso" con cui procacciarsi voti.

I boss non fanno mai (tranne in rarissimi casi) campagna elettorale in prima persona, ed è quasi impossibile dimostrare che un elettore si è venduto il voto o ha votato sotto pressione. I clan sanno benissimo che dimostrare un voto comprato, condizionato, scambiato è impresa quasi impossibile per gli inquirenti, i quali invece, grazie alle intercettazioni e alle dichiarazioni dei pentiti, spesso riescono a provare che un patto è stato realmente stipulato tra boss e politico. E questo è il punto attorno a cui deve fondarsi una norma antimafia sullo scambio dei voti.

Ed è per questa ragione che la norma diventa solo un mero feticcio, un atto mediatico. O peggio. Viene infatti il dubbio che attraverso questa norma si possano mettere in forse alcuni importanti processi in corso sui rapporti mafia-politica; penso, ad esempio, al processo contro l'onorevole Cosentino. Se venisse approvata una riforma che regola in maniera complessiva il rapporto mafia politica, essa non rischierebbe forse di essere l'unico riferimento per sanzionare i comportamenti illeciti dei politici, anche quando sia stato contestato il concorso esterno in associazione mafiosa? Nell'inchiesta Cosentino, infatti, mentre è chiaramente raccontata la promessa-patto tra politica e camorra non v'è alcuna possibilità di dimostrare che il clan abbia effettivamente "procacciato" i voti. La riforma nasconde allora una trappola salva-Cosentino?

In questi giorni sono in molti che sollevano dubbi su questa disposizione e questi dubbi meritano di essere rilanciati e presi in considerazione dalla politica. Il testo del nuovo articolo 416-ter deve essere ancora votato dal Senato. Siamo ancora in tempo, quindi, per migliorarlo com'è necessario.

Il presidente Grasso ne auspica l'approvazione entro la pausa estiva. È un intento meritorio, ma deve sapere che questa riforma così com'è non realizza nessun reale obiettivo di contrasto. Tutt'altro. Rischia di essere un regalo ai clan magari fatto in maniera distratta, una riforma votata in alcuni casi perché non si conosce abbastanza il tema o per alcuni è stata votata senza leggerla.

Il voto di scambio è un sistema criminale che uccide la democrazia al suo più importante livello, nel suo luogo più importante: e cioè nella libertà del seggio elettorale. Abbiamo aspettato 20 anni per una legge efficace. Facciamo in modo di non sprecare questa occasione. In questi giorni, in occasione del triste anniversario della strage di via D'Amelio, è stata ricordata sui giornali una frase di Paolo Borsellino: "Politica e mafia sono due poteri che vivono sul controllo dello stesso territorio: o si fanno la guerra o si mettono d'accordo". Evitiamo che sia la legge ad aiutare a metterle d'accordo.

(24 luglio 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2013/07/24/news/proteggere_la_democrazia-63577458/?ref=HREA-1


Titolo: ROBERTO SAVIANO Perché l'Italia non va in piazza?
Inserito da: Admin - Luglio 28, 2013, 10:34:15 am
Provocazione

Perché l'Italia non va in piazza?

di Roberto Saviano

In tutto il mondo milioni di persone protestano per i propri diritti e contro la corruzione: da Rio de Janeiro a Istanbul, dal Cairo a Sofia. Ma nel nostro Paese, nonostante le ragioni non manchino, non succede nulla. Dite la vostra

(15 luglio 2013)

Volti, scritte, colori. Bocche aperte per le urla o chiuse, serrate, per evitare i gas. Braccia in alto in segno di pace, braccia in basso, sulla nuca, per difendersi dai calci e dalle manganellate. Dita che puntano il cielo, dita che puntano gli scudi dei poliziotti. Occhi, scuri, azzurri, verdi. Nerissimi. Teste rasate, totalmente, parzialmente, orecchini, tatuaggi, cravatte. Giacche, magliette, torsi nudi. Seni nudi o corpi totalmente coperti. Gonne e pantaloni. Lacrimogeni, getti d'acqua. Bolle sulla pelle, escoriazioni. Lacrime. Risate. Danze e rabbia. Corpi immobili o fermati in movimento.

E poi un viso che spunta ovunque, dall'America all'India. La maschera di Guy Fawkes indossata in V per Vendetta, il simbolo sorridente della rivolta al potere, sorpreso nel suo aspetto più dispotico e descritto nell'urgenza vitale di sovvertirlo. Milioni di persone stanno ribellandosi tornando a occupare strade e piazze. Dall'India al Cile, dall'Egitto al Brasile, alla Bulgaria. Milioni di persone manifestano mettendo in gioco la loro stessa vita. Milioni di persone chiedono, vogliono, pretendono una vita diversa.

Le piazze di Rio, di Istanbul, di Sofia, sono piazze in rivolta. Una rivolta non conclusa in un preciso programma di riscatto, assai meno decodificabile delle istanze degli Anni Settanta. E' questa la reale novità sancita definitivamente con Occupy Wall Street. Per tutti gli anni '80 e '90 era sembrato che ogni focolaio di rivolta, manifestazione, occupazione, dovesse utilizzare sintassi e grammatiche degli anni '60 e '70. Una musealizzazione di quegli anni e di quei concetti. Una sorta di riproposizione con partiture ed esecuzioni diverse degli spartiti scritti in quegli anni.

La singolarità di queste piazze è che non hanno un unico vettore, nella maggior parte dei casi non hanno leader e non hanno partiti di riferimento. Qualcuno continua a vederci le istanze della classe operaia pronta all'assalto al cielo. Altri vedono solo giovani, giovani che cercano spazi. Gezi park per la Turchia e i mondiali per il Brasile sono fatti contingenti e aggreganti: queste piazze in rivolta non sono la talpa che scava ed emerge quando le contraddizioni maturano per costruire la fine del capitale. Queste piazze costruiscono qualcosa di diverso rispetto alle rivolte degli anni Settanta perché aggregano diversi mondi, diversi modi di sentire, diverse generazioni e, soprattutto, intendono codificare e forgiare diritti.

Roberto Saviano Roberto Saviano Le manifestazioni in India contro le violenze sulle donne; quelle degli studenti in Cile che dal 2006 chiedono un'educazione gratuita, pubblica, laica e accessibile a tutti e una Costituzione nuova, senza l'ombra di Pinochet; quelle in Bulgaria contro la corruzione, che ha preso di mira il governo neo-eletto, contestando la nomina di una figura vicina ad ambienti criminali al vertice dei servizi segreti, tutte, hanno un denominatore comune: costruire diritti e combattere la corruzione. Non possono esserci diritti se c'è corruzione. Ogni diritto conquistato con il sangue o con il consenso, scritto nelle carte costituenti o nella Dichiarazione dei diritti dell'uomo è immediatamente annullato e reso solo formale dalla corruzione. Un diritto può esser lì, chiaro, apparentemente pronto, utile ai governi per definirsi democrazie, ma è svuotato e castrato dalla corruzione.

Queste piazze, infuocatesi per motivi e in contesti diversi, coltivano la stessa certezza. Un capitalismo criminale e una democrazia corrotta sono la distruzione di ogni diritto di fatto. Di ogni possibile realizzazione della felicità. Nelle foto che ci arrivano dal Brasile, dal Cile, dalla Turchia, dalla Bulgaria, dall'Egitto e dall'India è difficile trovare bandiere dello stesso colore. Spesso non ci sono affatto bandiere, ma striscioni colorati, striscioni sui cui è scritto quel che manca alla società perché sia rispettato chi ne fa parte, chi paga le tasse e non si sente compreso, rappresentato e ascoltato dalla politica. La politica è disprezzata in queste rivolte a ogni meridiano, perché divenuta scorciatoia per migliorare le vite di chi ha saputo farsi eleggere o magazzino che stipa interessi aziendali.  Non ci sono bandiere non perché si è dinanzi a orde di ignavi che corrono anonimi dietro a stracci amorfi. No. Non ci sono bandiere perché queste proteste hanno letteralmente cambiato la logica dello scendere in piazza.

Quello che i manifestanti vogliono non è solo un mondo definito, chiaro, che conoscono o che qualcuno ha loro figurato. Non è un unico mondo che hanno disegnato e vogliono realizzare, non c'è socialismo da edificare, lotta di classe da realizzare, proprietà da bruciare e assaltare. O meglio, ci sono anche istanze di questo tipo, ma non sono queste a guidare le rivolte. A guidarle non c'è una sola idea. Sono manifestazioni che vogliono ottenere la possibilità che il proprio mondo sperato e immaginato ne contenga tanti. Si vogliono ottenere maggiori diritti e quindi l'idea di ciò che è già noto non è sufficiente. Nessuno scenario ideale, ma più scenari, tutti terreni, tutti da sperimentare ancor prima che edificare.

E poi la protesta in Brasile, in India, in Turchia, in Egitto è donna, non per una volontà programmatica di ottenere parità tra i sessi, ma per una naturale presenza di donne in piazza che si sono rese protagoniste assolute di questi nuovi percorsi. Le piazze bulgare e turche chiedono una società non corrotta, una società che premi il talento e la bravura. Le donne da sempre sopportano la negazione del proprio talento e la costrizione della propria bravura. Non può esistere una società che lotta perché ci sia possibilità di concorrenza, che pretende che il talento sia premiato e, nello stesso tempo, vincoli la donna. Le militanti del movimento "Femen" hanno trovato il canale adatto a questi tempi per attirare attenzione contro la violenza sulle donne, il sessismo e le discriminazioni. Si mostrano a seno nudo: il loro corpo diventa terreno di battaglia. Sanno che il corpo nudo fa notizia, quindi ne capovolgono il senso: il messaggio da pruriginoso e scandalistico finisce per essere completamente diverso, opposto nel senso. Trucco semplice quanto efficace.

Piazza Tahrir, Il Cairo Piazza Tahrir, Il Cairo Ma l'immagine che non dimenticherò è quella del cordone di protezione attorno alle donne in piazza Tahrir. Protezione necessaria perché in Egitto, come era accaduto in Iran, esiste una precisa strategia, quella di stuprare donne e poi lasciarle andare perché raccontino alle altre, perché siano monito per chi, tra loro, ha intenzione di scendere in piazza. Prese a caso con la forza, quando sono isolate o addirittura strappate al gruppo con cui sono in piazza a manifestare. Ecco, quell'immagine dello spazio tra i manifestanti e le donne non è segregazione - per la prima volta non lo è - ma protezione. In quel modo nessuna donna poteva essere sottratta al gruppo. Su nessuna poteva essere usata violenza.

Ovunque, oltre che per chiedere diritti, si scende in piazza contro corruzione e autoritarismo e non si toglie fiducia alla legge, ma si dà piuttosto fiducia alla democrazia, entrambe divelte e modificate proprio da tangenti, familismo, mafie. Questo accade in territori ricchi di risorse e di energie. In Turchia, in Brasile, in India la corruzione diventa un vincolo alla felicità. Se c'è corruzione c'è meno lavoro, se c'è corruzione non ci sono idee migliori che vincono, ma solo idee protette che si impongono, e non c'è mercato vero. In Brasile si è manifestato non semplicemente perché è stato speso del denaro per i mondiali di calcio, ma perché si sono sprecate in maniera affatto trasparente risorse che potevano essere utilizzate altrove. Si è manifestato per spese fatte senza lungimiranza. Queste sono proteste di territori potenzialmente ricchissimi, dove esistono risorse che vengono dilapidate dalla cattiva gestione. La Bulgaria, tra i paesi balcanici, è quello che si trova in una fase di rinascimento economico potenziale, ed è saccheggiato dalle famiglie mafiose. Eppure in questi luoghi, nei luoghi delle manifestazioni, la corruzione è completamente diversa dalla corruzione in Europa e in Italia. Da noi è un vincolo di accesso: corrompi, puoi lavorare. Corrompi, ottieni un diritto per te. Un diritto che spetterebbe a tutti, lo ottieni solo corrompendo.

Nei paesi in cui si manifesta, eliminata la corruzione - posto che si riesca a farlo - c'è un'infinita ricchezza da gestire. Nel nostro paese, tolta la corruzione, il rischio è che non ci sia niente che possa sostituire quel sistema di mediazione. La corruzione qui da noi è avvertita, incredibilmente, come necessaria. Mentre altrove la lotta alla corruzione è una possibilità di trasformazione, in Italia si teme che debellando quella non resterà nessuna altra risorsa. Apparentemente tutti la detestano, ma in realtà diventa una sorta di scorciatoia per l'accesso al lavoro e al diritto negato. La corruzione mafiosa, per esempio, è ormai l'unica premessa per un'economia florida: con mazzette e percentuali si aprono cantieri, si avviano lavori, si assume. Senza questo, in molti casi, tutto sarebbe fermo. Ecco perché talvolta la domanda "ma se le cose vanno così male perché non scendiamo in piazza anche noi?" sembra più che altro un artificio retorico. Certo i sindacati, i lavoratori, gli studenti manifestano, ma lo fanno con linguaggi assai diversi dalle rivolte che qui stiamo raccontando e il messaggio che passa è che manifestino per sé, che manifestino escludendo, per difendere categorie, in alcuni casi rendite di posizione. Ecco perché guardiamo a queste piazze in rivolta con un senso di nostalgia, come fossero rappresentazione di qualcosa che qui da noi non potrà più accadere. Perché in fondo, questo è il sottinteso, "in Italia la ricchezza privata si mantiene sopra la soglia minima sopportabile, il welfare è ancora sostenibile, quindi di cosa ci lamentiamo".

A falsare tutto si aggiunge questo clima di apparente pacificazione, finalizzato unicamente alla conservazione dell'esistente. Non ci sono prospettive. Crediamo di vivere in uno Stato di Diritto ma a ben guardare questo Stato agisce con comportamenti criminali verso gli immigrati e verso le minoranze. Basta osservare giustizia e carceri per renderci conto che la nostra non può essere considerata una democrazia. Non si trova unione nemmeno nella protesta perché abbiamo gli animi avvelenati dal livore, dalla mancanza di prospettive. Chi ce la fa è corrotto, chi non ce la fa è puro. Il mercato è considerato male, il denaro è considerato male, il potere è male. Governare è male, meglio essere eternamente opposizione.

A tutto viene attribuita una categoria morale: fino che si ragionerà così, non ci saranno istanze di cambiamento perché non cambiare, in fondo, è bene. Gli italiani sono come gli anziani, preferiscono riflettere, pensare, interpretare il passato, rinchiudersi in un passato di glorie, perché temono che il loro futuro sia solo morte. Questa è la più grande delle disperazioni: vivere in un meccanismo che si regge sulla corruzione piuttosto che esserne ammorbato. Vedere la corruzione come un male contro cui urlare, ma da non risolvere e a cui piegarsi, quando necessità impone. Le piazze turche, bulgare, brasiliane, egiziane, nella loro diversità, mostrano la speranza del diritto e la convenienza dell'onestà. Da queste piazze - se riusciamo a scorgerla - la speranza.

© Riproduzione riservata

da - http://espresso.repubblica.it/dettaglio/perche-litalia-non-va-in-piazza/2211174//2


Titolo: ROBERTO SAVIANO Se scompaiono i fatti e le notizie
Inserito da: Admin - Novembre 23, 2013, 04:06:16 pm
Roberto Saviano
L'antitaliano

Se scompaiono i fatti e le notizie

Non c’è più la responsabilità della parola. Vincono il gossip volgare e i falsi retroscena che non verificano nulla. Ne risulta un racconto esposto agli inquinatori di pozzi di professione. Che genera nei lettori la perdita di punti fermi

Scrivere significa assumersi responsabilità. Scrivere è responsabilità. Ormai questo lo sperimenta anche chi non scrive per professione. Prima di scrivere un post su Facebook, ad esempio, che si tratti di un commento a un avvenimento politico o più banalmente all’ultima partita di calcio, si riflette quel tanto che basta per comprendere se il nostro commento sia davvero necessario. Necessario per chi lo leggerà e per noi stessi. Per la nostra storia sul Web, per quello che in quei luoghi virtuali sempre più tangibili rimane di noi. Per quello che, giorno dopo giorno, post dopo post, finisce per costruire una’identità parallela. Ho fatto questa premessa perché talvolta chi scrive per professione sembra dimenticare quanto fondamentale sia comprendere perché si sta scrivendo. E a chi è rivolta la scrittura.

Scrivere per me ha significato soprattutto misurarsi, condividere, conoscere. Strumento di mediazione tra me e il circostante. Se scrivo di Primo Levi o di Anna Politkovskaya, se parlo di Šalamov o di “No, i giorni dell’arcobaleno” in televisione, lo faccio perché questi argomenti sono me. Hanno contribuito e contribuiscono ad alimentare la mia vita e mi aiutano a comprendere ciò che vivo, che vedo, ciò che mi piace e ciò che mi disgusta.

In questo non credo di essere diverso dalla maggior parte delle persone. Quel che senza dubbio mi differenzia, è il privilegio di poter scrivere anche fuori dall’infinito spazio virtuale. Ed è proprio lo spazio che occupano e la diffusione che hanno a rendere pericolose, rischiose, le parole, anche se sono semplicemente recensioni di libri. Rischiose nella misura in cui verranno lette, commentate, riportate. Amate, odiate, condivise, criticate. Le mie parole, le parole di chiunque scriva oggi, devono fare i conti con un tempo in cui la scrittura - giornalistica e letteraria - godeva di una credibilità per noi invidiabile. I “canali di approvvigionamento” erano esigui, e quella esiguità rendeva tutto più autorevole. Negli spazi assai limitati di quotidiani e riviste, trovava posto quello che veniva percepito come necessario e pressoché immutabile. Oggi, invece, l’informazione è continuamente aggiornata e tutto perde il carattere dell’essenzialità, tutto può essere sostituito, contraddetto, smentito dopo poco.

La verifica delle fonti può essere omessa, perché in caso di errore la notizia viene immediatamente modificata, cancellata o ribaltata. Accade così che tra notizia e gossip delle indiscrezioni, del sentito dire, progressivamente finisce per non esserci più differenza. Vincono i retroscena - che spesso non sono altro che la feccia estorsiva del Web - che non devono verificare nulla, ma generare confusione. Il risultato di questo racconto della realtà esposto agli inquinatori di pozzi di professione, genera in chi legge la totale perdita di punti fermi. E su chi scrive? Se ciò che scriviamo sappiamo perdersi nel mare magnum degli scritti sfornati senza soluzione di continuità? Di certo ci convinceremo che le nostre parole non sono necessarie e che possiamo tutto sommato sollevarci da ogni responsabilità.

Si inizia, così, a non scrivere più per un pubblico di lettori eterogeneo e si spera il più vasto possibile, ma per parlare a una sola persona. Il giornalista che ci ha criticato la settimana scorsa, il giudice che ci ha condannato l’altro ieri. Ma queste sono pessime giustificazioni per metter mano alla penna o - più verosimilmente - alla tastiera. È importante che i nostri scritti non rispondano a necessità di vendetta, di rivalsa personale, che non siano grancassa di acidità, punture, ghigni e sfottò. Incapaci di argomentare o di ragionare si preferisce vomitare, sfottere, motteggiare, guardare le unghie sporche e tralasciare il corpo, sentire un accento e ignorare il discorso, far sentire il lettore parte di una società dove tutti sono in fondo schifosi narcisi. Chi ha ridotto a questo la sua scrittura, sottilmente si compiace di schizzare sterco sul mondo ma ignora che di quello sterco, inevitabilmente, finirà per far parte.

La responsabilità della parola, mai come in questa fase, sembra essere svanita perché tutto può essere modificato, persino graficamente, un attimo dopo essere divenuto di dominio pubblico. La sensazione è che anche le responsabilità - come le parole - siano perennemente modificabili, a seconda di chi governa, di chi decide, di chi comanda.
18 novembre 2013 © Riproduzione riservata

Da - http://espresso.repubblica.it/opinioni/l-antitaliano/2013/11/14/news/se-scompaiono-i-fatti-e-le-notizie-1.141111


Titolo: ROBERTO SAVIANO Il Padrino proibizionista
Inserito da: Admin - Gennaio 11, 2014, 04:13:24 pm
Il Padrino proibizionista

di ROBERTO SAVIANO
09 gennaio 2014
   
Ho sempre detestato droghe leggere e pesanti. Sono quasi astemio, un occasionale bevitore di alcolici. Ma sono, invece, profondamente antiproibizionista. Indipendentemente dal mio rapporto con qualunque tipo di sostanza, dal mio stile di vita, dalle mie passioni e dalle mie repulsioni. Si ritiene, sbagliando, che essere antiproibizionisti significhi tifare per le droghe. Sottovalutarne gli effetti, incentivarne il consumo. Niente di più falso. Spesso, in Italia, le discussioni sui temi più delicati sono travolte da un furore ideologico che oscura i fatti e impedisce un dibattito sereno. È successo con l'aborto, con l'eutanasia, succede con le droghe. E non è possibile che una parte dei cittadini, che la parte maggiore delle istituzioni religiose - con il peso che la Chiesa Cattolica ha in Italia - e che la politica tutta, tranne pochissime eccezioni, si rifiutino di affrontare seriamente e con responsabilità questo tema. Non è possibile che la risposta alla tossicodipendenza sia nella maggior parte dei casi il carcere, che tracima di spacciatori e consumatori, ultimi ingranaggi di un meccanismo che irrora di danaro l'intero nostro Paese.

Proprio dalle pagine di Repubblica un grande giornalista scomparso prematuramente, Carlo Rivolta, raccontava di come la prima generazione di tossicodipendenti veri in Italia, quella degli anni Ottanta, fosse stata abbandonata a se stessa da uno Stato patrigno e non padre. Da uno Stato che preferiva considerare quei ragazzi zombie, morti viventi, tossici colpevoli. Ai quali nessuna mano andava tesa, e dei quali si aspettava solo la morte. Erano causa del loro male. Ci si domanda cosa sia cambiato a distanza di trent'anni, se nemmeno nel dibattito pubblico questi temi hanno trovato posto.

So che la legalizzazione delle droghe è un tema complicato, difficile da proporre e da affrontare. So che pone molti problemi soprattutto di carattere morale, ma un Paese come il nostro, che ha le mafie più potenti del mondo, non può eluderlo. Con tutti i problemi che ha il paese dobbiamo pensare alle canne, ai tossici e ai fattoni? Nulla di più superficiale che questo commento.

Bisognerebbe partire da una semplice, elementare constatazione: tre sono le forze proibizioniste più forti, e sono camorra, 'ndrangheta e Cosa nostra. Del resto Maurizio Prestieri, boss di Secondigliano (rione Monterosa per la precisione) ora collaboratore di giustizia, mi disse una volta durante un'intervista: con tutto il fumo che i ragazzi "alternativi"  napoletani compravano da noi, sostenevamo le campagne elettorali di politici di centrodestra in provincia.

Il proibizionismo (degli alcolici) ha già condotto l'uomo e lo Stato nell'abisso cento anni fa: non ha senso ripetere errori già commessi. La legalizzazione non è un inno al consumo, anzi, è l'unico modo per sottrarre mercato ai narcotrafficanti che, da sempre, sostengono il proibizionismo. D'altronde, è grazie ai divieti che guidano l'azienda più florida al mondo con oltre 400 miliardi di dollari di fatturato annuo. Più della Shell, più della Samsung. Se esiste una merce che non resta invenduta è proprio la droga. L'unica che non conosce crisi, che nonostante sia illegale ha punti vendita ovunque. È la merce più reperibile del mondo disponibile a qualsiasi ora del giorno e della notte.

Nonostante questo, quando in Italia si arriva finalmente a discutere di antiproibizionismo, mancando la consuetudine, mancano finanche le informazioni basilari. I nostri ministri, sul narcotraffico, si limitano a fare encomi quando ci sono sequestri di droga, a elencare latitanti finiti in manette o ancora da arrestare. Eppure l'economia della droga è la prima economia: cemento, trasporti, negozi di ogni genere, grande distribuzione, appalti, camion, banche, compro oro, campagne elettorali - e l'elenco sarebbe interminabile - vengono alimentati dalle arterie del narcotraffico.

Gran parte della politica italiana (con poche eccezioni tra cui i Radicali da decenni impegnati nella lotta al proibizionismo) ritiene la questione legata esclusivamente alla repressione o alle dipendenze. Il dibattito si riduce a un problema di "drogati" o di "mafiosi" e in definitiva - questo è lo sbaglio maggiore - non si vede in che modo possa incidere nella vita quotidiana delle persone. Nulla di più falso.

La verità è che non abbiamo scelta: la situazione attuale impone un'analisi accurata del mercato delle droghe e l'attuazione di un programma che non sarà la soluzione definitiva e immediata, e che forse sarà un male minore, ma necessario. Lasciare il mercato delle droghe nelle mani delle organizzazioni criminali non renderà immacolate le coscienze di quanti ritengono che lo Stato non possa farsi carico di produrre e distribuire sostanze stupefacenti. È proprio questo il punto da affrontare e l'inganno da sfatare. Ad avere occhi per vedere.

Umberto Veronesi da anni si dichiara favorevole alla legalizzazione delle droghe leggere, pur nella consapevolezza di quanto queste possano essere dannose per gli organismi. Ma adduce ragioni di buon senso che condivido. La proibizione di qualsiasi sostanza crea mercato nero, quindi guadagni esponenziali per le mafie. Fa aumentare il costo delle sostanze stupefacenti, quindi chi ha dipendenza ma non i mezzi economici, finisce per rubare, prostituirsi o spacciare a sua volta. In ultimo le sostanze provenienti dal mercato nero non hanno alcun tipo di controllo e le morti spesso sono causate non da dosi eccessive, ma da sostanze letali usate per i tagli. All'altro capo del mondo, il magistrato brasiliano Maria Lucia Karam, membro del Leap (Law enforcement against prohibition), esprime, a favore della legalizzazione, le stesse motivazioni. Del resto, non dimenticherò mai quanto mi disse una assistente sociale del Nucleo Operativo Tossicodipendenze di Napoli riguardo ai danni che anche semplicemente l'assunzione prolungata di hashish e marijuana possono avere su individui sani. Mi disse che non si trattava semplicemente di capire che effetti avessero hashish e marijuana, ma un cocktail di sostanze incredibilmente varie spesso utilizzate per pompare i panetti di fumo o per rendere gli effetti dell'erba più pesanti. Plastica, cera per scarpe, grassi animali, pezzetti di vetro, ammoniaca. Esistono studi sugli effetti che le sostanze stupefacenti - allo stato puro - hanno sugli organismi; non esistono ovviamente studi per capire che effetti hanno sugli organismi la cera per scarpe o l'ammoniaca, se assunte regolarmente seppure in piccole dosi, ma per anni. E la risposta non può essere "che smettano di farsi se non vogliono essere avvelenati, se non vogliono morire".

Ad aprile del 2012 a Cartagena, in Colombia, si è tenuta la sesta "Cumbre de las Americas" (Vertice delle Americhe) e si è discusso anche di legalizzazione delle droghe. Gli Usa, al tavolo del confronto - come Onu e Ue -, si sono dichiarati contrari alla legalizzazione. Ma hanno però preso atto che le "wars on drugs" sono destinate a fallire. Del resto in alcuni stati federali, la distribuzione di marijuana a scopi terapeutici è stata legalizzata, e a Denver la vendita è stata permessa tout court.

Secondo molti paesi latinoamericani, direttamente interessati dal fenomeno, la strada del proibizionismo non è quella giusta: per comprendere le loro posizioni bisognerebbe studiare a fondo le loro economie e mappare il peso che produzione e distribuzione di sostanze stupefacenti hanno al loro interno.

La Colombia vive una fase di crescita economica inaspettata. Se da un lato ha certamente contato la diminuzione della corruzione delle istituzioni, dall'altro la pressione dei cartelli e della guerriglia è diminuita non per gli interventi del governo americano, ma dei cartelli messicani che oggi sono i padroni delle piantagioni in Colombia distruggendo di fatto i più potenti narcos colombiani. Il presidente uruguayano José Mujica è arrivato alla legalizzazione perché si è reso conto che l'invasione dei cartelli messicani già avvenuta in Colombia, Cile e in Argentina avrebbe compromesso la vita sociale in Uruguay, come sta accadendo al Guatemala, al Belize, all'Honduras, al Salvador, al Perù, dove le fragili democrazie sono totalmente compromesse dal potere dei narcos. La legalizzazione è stato il gesto del governo uruguayano più determinante nel senso della salvaguardia dei propri mercati.

Io credo che la legalizzazione, e non la liberalizzazione, sia l'unica strada. Due termini simili che spesso vengono confusi, ma che indicano due visioni completamente diverse. Legalizzare significa spostare tutto quanto riguarda la produzione, la distribuzione e la vendita di stupefacenti sotto il controllo dello Stato. Significa creare un tessuto di regole, diritti e doveri. Liberalizzazione è tutt'altro. È privare il commercio e l'uso di ogni significatività giuridica, lasciarlo senza vincoli, disinteressarsi del problema, zona franca. Invece legalizzare è l'unico modo per fermare quel silenzioso, smisurato, violento potere che oggi condiziona tutto il mondo: il narco-capitalismo.

© Riproduzione riservata 09 gennaio 201

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/01/09/news/padrino_proibizionista-75455346/?ref=HREC1-5


Titolo: ROBERTO SAVIANO Il gran menu della camorra e gli occhi chiusi dello Stato
Inserito da: Admin - Gennaio 26, 2014, 11:47:32 pm
Il gran menu della camorra e gli occhi chiusi dello Stato

Locali nel centro di Roma, in Toscana, in Campania. Bar, gelaterie, ristoranti: un elenco sterminato. I clan approfittano della crisi che costringe gli imprenditori a cedere il passo. E investono. Ma attenzione: qui non è semplice riciclaggio, è un vero sistema che assiste l'economia legale. Nascono catene di franchising dove i camerieri lavorano non conoscendo il loro vero padrone. La clientela mangia felice - spesso anche bene - ignara di quale business sta alimentando

di ROBERTO SAVIANO
   
IMMAGINATE di essere turisti a Roma, di andare in un bel ristorante, magari da "Zio Ciro", vicino piazza Navona. Un ristorante che ha una buona presentazione sul web e una buona reputazione culinaria. E poi immaginate nel pomeriggio di entrare in una gelateria, magari proprio da "Ciucculà", vicino al Pantheon. E infine, di andare a riposare prendendo in affitto una camera a Piazza di Spagna, nel cuore più prestigioso della capitale. Immaginate di andare proprio lì, al numero 33, e di usufruire dei servizi dalla società "Spagna Suite" (poi ceduta). Ecco, in ogni vostro singolo passaggio, avreste avuto a che fare con capitali di camorra. Non ve ne sareste accorti, perché le persone che avrete incontrato in tutte queste attività sono lavoratori perbene, e loro stessi (in molti casi) non immaginano chi siano i loro superiori.

Oppure il vostro percorso avrebbe potuto essere diverso. Potreste aver scelto una pizzeria, sempre della catena Zio Ciro, ma questa volta a Sant'Apollinare, magari proprio dopo aver visitato la chiesa. Oppure una vecchia osteria, "L'Osteria della vite" o il ristorante "Il pizzicotto" in via Gioacchino Belli. E dopo, un caffè al bar "Sweet" di piazza della Cancelleria. Anche questo secondo itinerario vi avrebbe portato, involontariamente, a entrare nell'economia del sistema camorra.

Ma l'elenco è sterminato e sterminate sono le combinazioni che testimoniano quanto la camorra sia entrata a far parte della nostra vita quotidiana, una vita fatta di gesti usuali (mangiare una pizza, bere un caffè, prendere in affitto una stanza) ai quali non prestiamo più attenzione. Gesti che consideri sicuri, che credi non potrebbero metterti in connessione con i più potenti poteri criminali. Locali in via Giulio Cesare, in via Fabio Massimo, in via Mameli, e poi in via Rasella, in via delle Quattro Fontane, in via della Pace, in via di Propaganda, in via del Boschetto. Pizzerie, bar, ristoranti, camere in affitto, e poi società sportive. È l'impero dei clan a Roma. O meglio, è la parte dell'impero dei clan che ora conosciamo. Ed è solo una piccola parte.

E Roma non è un punto d'arrivo: i recenti sequestri hanno interessato anche Viareggio  -  dove i clan avevano messo le mani su uno dei luoghi più noti della città, l'ex bar-pasticceria "Fappani"  -  e poi a Pisa, su "L'arciere" e "l'Antico Vicoletto". E poi ancora sul ristorante "Salustri" di San Giuliano Terme e "L'imbarcadero" di Marina di Pisa. E poi nelle Marche, a Gabicce Mare, il caffè "Vittoria". Tutti questi sono locali considerati dalle Dda di Roma e di Napoli, coordinate dalla Dna, "lavanderie" della camorra, frutto del riciclaggio. Ricchezza che proviene dalla cocaina, dall'hashish, dalle estorsioni, dalla contraffazione di capi d'abbigliamento griffati.

Non è semplice riciclaggio. Non è semplice lavanderia. Questo è un vero e proprio sistema che assiste l'economia legale. Il riciclaggio classico, quello che conosciamo, usa le attività commerciali più disparate, spesso sofferenti, per pulire danaro. Qui, invece, si tratta di marchi, di vero e proprio franchising. "Zio Ciro" e "Sugo", per esempio, secondo la Dna vengono assistiti dal capitale criminale. Laddove ci sono vuoti dovuti alla crisi o a insuccessi imprenditoriali, arrivano i capitali sporchi a sostenere le attività. È una nuova forma di investimento mafioso, una declinazione specifica del riciclaggio. È come se una società potesse godere di un livello "pulito", che si relaziona alla clientela e al mercato seguendo le leggi dello Stato in cui opera, e di un livello "ombra", che arriva in soccorso del primo quando bisogna rilanciare un prodotto, quando bisogna espandersi sul mercato o battere la concorrenza.

Quindi non solo più ripulitura, fatture false, scontrini fittizi. No. Investimenti veri e propri che rendono i clan le stampelle delle economie sofferenti, delle economie piegate dalla crisi. A questo nuovo tipo di riciclaggio non si è ancora pronti. L'Europa non è pronta. Sono moltissime le catene di ristorazione e di distribuzione che d'improvviso aprono filiali in decine di paesi nel mondo. Aprono senza che sia razionalmente possibile giustificare tali exploit, tanto è difficile cogliere e tracciare i loro movimenti sul mercato. E non ci sono leggi e regole che permettono di scoprire l'origine del danaro di questi grandi gruppi. Le loro società si perdono tra Andorra e Lussemburgo, tra Lichtenstein e le Cayman, ma anche a Londra e Berlino. I paesi dove aprono società le organizzazioni e versano i loro capitali sono sempre di più nel nord Europa. Scoprirle è divenuto quasi impossibile.

In questo caso specifico gli inquirenti sono riusciti a scoprire la borghesia criminale camorrista. Il ruolo del clan Contini, la base a Napoli, a San Carlo all'Arena un'organizzazione potente guidata dal boss Eduardo Contini "ò romano", ossessionato dall'eleganza ma anche da una gestione diplomatica degli affari. Interessato a un narcotraffico che non inficiasse troppo il territorio (nota la sua opposizione al kobret e la sua volontà di spostare tutta la vendita di droghe su Roma e nel Lazio) sopravvissuto a tutte le faide di camorra, era entrato nella dirigenza del cartello di Secondigliano per via matrimoniale. Le sorelle Aieta sposarono tre camorristi che divennero poi dirigenti dei cartelli dell'area Nord. Maria sposò Contini, Rita sposò Patrizio Bosti e Anna sposò Francesco Mallardo. Tre capi storici. Tre uomini di camorra interessati a Roma.

La famiglia che su Roma diventa interfaccia dei clan sono i Righi. Proprio monitorando le attività dei fratelli Righi  -  Salvatore, Luigi e Antonio, veri e propri sovrani della ristorazione  -  gli inquirenti sono riusciti nella difficilissima individuazione dei percorsi di riciclaggio. I fratelli Righi  -  secondo le accuse delle Procure Antimafia di Roma e Napoli  -  diventerebbero riferimento dei capitali del clan Contini, ma anche del clan Mazzarella e Amato-Pagano. Non avrebbero agito garantendo l'esclusiva a un unico "committente". I clan davano il danaro, e loro sapevano come farlo fruttare. E bene.

Quando i Righi rivogliono dal broker Luca Sprovieri i soldi liquidi che questi aveva ricevuto per investire nella finanza in Svizzera (e del quale, secondo gli stessi Righi, si era impossessato), si rivolgono a Oreste Fido. Un camorrista che  -  secondo le accuse  -  gli risolve tutti i problemi di questo genere. In cambio, i Righi assumono suo nipote in un ristorante, prendono parte a sue società. Grazie a questa alleanza con gli imprenditori principi di Roma, Fido vuole fare concorrenza al potere degli Scissionisti. I Righi garantiscono con le banche, gli fanno avere fideiussioni per consentirgli di ottenere finanziamenti volti ad avviare alcune attività commerciali nel settore delle calzature (dove a fianco a prodotti veri ci sono prodotti falsi, così da poter vendere scarpe note a prezzi bassissimi) e nel settore delle polizze assicurative Rc-auto. I Righi  -  esponendosi moltissimo  -  si legano ad un camorrista per avere vantaggi sul ritorno crediti e entrature dirette nei clan. Il loro errore è stato aver mischiato i livelli.

I cartelli criminali lo sanno. Chi crea danaro deve sporcarsi con la droga e fare morti. Vivere in latitanza e in carcere. Ma poi c'è il livello economico, ossia gli investitori che non c'entrano né con il sangue né con il narcotraffico. E poi c'è il livello politico, che più è lontano dal segmento militare più avrà garanzie. Ad ogni livello il suo compito. Ecco la difficoltà di ricostruire la filiera. Negli anni passati non era così. La vicinanza e promiscuità tra mafioso e commerciante erano assai più contorte.

Comunque, quando il broker Sprovieri deve spiegare a Luigi Severgnini chi sono i Righi, consigliandogli di non mettersi in affari con loro, ecco cosa dice:

"SPROVIERI Luca: io spero. .... spero anche che mi dia i documenti perché lui ha promesso di darmi..... di restituirmi i documenti.....

SEVERGNINI Luigi: no ascolta.... Luca ti posso dire una cosa..... non fanno i ladri di lavoro

SPROVIERI Luca: no, fanno peggio

SEVERGNINI Luigi: no, non fanno neanche peggio

SPROVIERI Luca: si fanno peggio

SEVERGNINI Luigi: è il finale, hai capito? È proprio il finale, cioè è il finale, di tutto! questo non me lo ha detto..... come si chiama.....

SPROVIERI Luca: no, no, fanno anche peggio

SEVERGNINI Luigi: Antonio Righi

SPROVIERI Luca: fanno anche peggio, fanno anche peggio

SEVERGNINI Luigi: questo non lo so, però mi han detto senti Luigi, questi non è che fanno i mariuoli, questi che sono qua a Napoli, questi sono il finale, raccolgono tutto ciò che fanno gli altri...... eh! Luca per favore....... ".

Non "mariuoli", ma sono "il finale". Ecco una nuova categoria che assumerà nel tempo un vero e proprio ruolo scientifico nell'analisi del riciclaggio. "Il finale". I Righi sono il finale.

Immaginate cosa può accadere, immaginate cosa di fatto accade nell'Italia della crisi. Si presentano broker, commercialisti, avvocati, offrono di diventare partner, offrono di diventare soci, portano soldi, enormi liquidità che significano sicurezza. E lentamente entrano, si insinuano, fino a impadronirsi di intere società. Le utilizzano per riciclare, ma poi sono abili ed economicamente forti e quindi sono anche buoni investimenti che nel tempo produrranno degli utili.

Così come è avvenuto in Veneto e in Lombardia, e come hanno dimostrato le inchieste Aspide e Crimine, sfruttano la disperazione di chi vede fallire il lavoro di una vita. Di chi immagina sul lastrico decine e decine di famiglie, quelle dei dipendenti che, se l'azienda fallisce, non avranno più di che vivere. Non è un'imposizione militare o un saccheggio estorsivo. Le porte le aprono  -  anzi, le spalancano  -  gli imprenditori che sperano di poter migliorare la loro condizione. Questo meccanismo è divenuto prassi.

La cosa più allarmante è che le nuove generazioni non negano l'esistenza della camorra, della 'ndrangheta, di Cosa Nostra. Non dicono più, fatti salvi alcuni casi rari e patetici, che è tutta un'invenzione dei giornali o della televisione. La nuova omertà è rispondere, a chi dice che la nostra quotidianità è ormai nelle mani dei clan: "E allora? Sappiamo che esistono, lo sanno tutti". La nuova omertà è considerare fisiologica l'esistenza del potere criminale, percepirla come elemento scontato. Ecco, questa è la nuova omertà.

E persino la linea delle nuove generazioni di affiliati si accorda al sentire comune: "Se vuoi fare business, devi necessariamente non seguire le regole". Regole che sono percepite come ingiuste, inique, una rete dalle cui maglie si prova costantemente a sfuggire: non si può essere ricchi e potenti senza fare scorrettezze, questo è quanto si vuole costantemente suggerire. Questo è il veleno che, a piccole gocce, è stato versato nelle orecchie degli italiani. E certo non ci si augura di essere miserabili e sconfitti. Questo l'adagio che si ascolta sempre più spesso. La confusione di considerare tutti corrotti e tutti ugualmente schifosi, genera una sorta di territorio franco per le attività criminali.

L'analisi del potere criminale è opera certosina e attenta: quel che risulta evidente è che loro stessi vogliono essere confusi con quei "tutti" corrotti e schifosi, che nel peggiore dei casi, sono meno corrotti, criminali e schifosi di loro. La nuova omertà è il "si sa", è il "tutto è stato detto, scritto, indagato". È la banalizzazione di questa che è la nostra tragedia. Una tragedia che ci sta uccidendo giorno dopo giorno e di cui non ci rendiamo più conto. Di cui non ci accorgiamo più.

Prima regola, dunque, è non considerare fisiologico tutto questo. E la politica del contrasto alle mafie, sul piano economico, non sta facendo nulla. Nulla di nulla. E poco, pochissimo, sta facendo rispetto all'emergenza economica vera e propria. La politica deve intervenire e non fare più una generica assistenza. Non può permettersi più di attaccare solo "moralmente" le organizzazioni e di esprimere solidarietà a chi è a rischio. Tutto questo è corretto, ma non è sufficiente. Nel dibattito politico è scomparso il contrasto all'economia criminale.

Adesso questi locali che fine faranno? Tempo fa parlammo con don Luigi Ciotti del progetto di sottoporre all'opinione pubblica la scelta di far vendere le aziende controllate dalla criminalità organizzata e sottoposte a sequestro. Le aziende non devono morire quando vengono commissariate. Devono tornare alla legalità. Lo Stato deve essere più forte, deve essere attento, deve monitorare affinché non le ricomprino le stesse organizzazioni criminali. I beni immobili devono essere dati alle associazioni, come in effetti avviene. Ma le aziende, i negozi, devono ritornare nel mercato e nella legalità. Non solo. Bisogna comprendere che in questo momento, sia in Italia che in Europa, la politica sta facendo troppo poco per evitare l'infiltrazione dei capitali criminali nell'economia reale. Per ogni imprenditore in crisi c'è un cartello pronto a rilevare la sua azienda. Per ogni evasore c'è un broker pronto a dargli possibilità di rivestimento di quel danaro. Per ogni azienda legale che assume regolarmente c'è una concorrente che vince utilizzando capitale narcotrafficante. E in tutto questo le banche (basta vedere i conti correnti dei Righi per averne conferma) sono spesso silenziose conniventi.

O la legalità diventa conveniente o assisteremo sempre più spesso al dramma di tanti imprenditori che, per continuare ad essere "sani", finiranno sconfitti. Questo è il macro-tema del momento. Chiediamo a questo governo e alle opposizioni di affrontarlo immediatamente. Non c'è più tempo. Non bastano più solidarietà e antimafia morale. Fatti, regole, leggi: c'è bisogno di mettere mano a tutto questo. Subito. O sarà tardi. Troppo tardi.

© Riproduzione riservata 24 gennaio 2014

Da - http://www.repubblica.it/cronaca/2014/01/24/news/il_gran_menu_della_camorra_e_gli_occhi_chiusi_dello_stato-76786763/?ref=HRER1-1


Titolo: Saviano a Renzi: "Prendo sul serio l'impegno anti-cosche".
Inserito da: Admin - Marzo 04, 2014, 07:28:16 pm
Saviano a Renzi: "Prendo sul serio l'impegno anti-cosche".
Da Civati piano sull'autoriciclaggio

L'autore di 'Gomorra' risponde su Facebook alla lettera del premier. Ma l'appello lanciato contro l'economia criminale imprime un'accelerata al dibattito: la Bindi sollecita il governo sui reati-spia mentre il deputato Pd porta in commissione un emendamento per contrastare il movimento di capitali illeciti

03 marzo 2014
ROMA - Una proposta sull'autoriciclaggio che Pippo Civati lancia all'indomani del dibattito sollevato dall'appello dello scrittore Roberto Saviano contro l'economia criminale. Un dibattito che ha subìto una imprevista accelerazione nel momento in cui il premier Matteo Renzi ha deciso di rispondere all'autore di Gomorra con una lettera pubblicata su Repubblica: vi si annunciano cinque mosse per sconfiggere la mafia e l'istituzione del commissario anti-corrotti. Alla lettera del capo del governo, Saviano risponde con un post su Facebook in cui gli dice che intende prendere sul serio l'impegno anti-cosche annunciato dal presidente del Consiglio.

A intervenire sulla questione è, poi, Rosy Bindi, che in qualità di presidente della commissione Antimafia sprona il governo a intervenire alla svelta per un decreto sui reati-spia.

Ma sempre in casa Pd è il deputato Civati, esponente della minoranza interna al partito, a presentare un emendamento pronto ad approdare in commissione Finanze della Camera. Si tratta di una proposta che il governo Letta aveva già approvato in consiglio dei ministri salvo poi stralciarla dal decreto legge sulla 'Voluntary disclosure' e inserirla nel pacchetto sicurezza che non ha mai visto la luce. Nelle intenzioni, la norma proposta intende contrastare il movimento di capitali illeciti.

© Riproduzione riservata 03 marzo 2014

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/03/02/news/saviano_renzi-80039078/?ref=HREC1-14


Titolo: ROBERTO SAVIANO Pugno duro sul voto di scambio e autoriciclaggio
Inserito da: Admin - Marzo 15, 2014, 08:42:51 am
Pugno duro sul voto di scambio e autoriciclaggio
Ecco un decalogo per combattere la corruzione
L’appello di Saviano per l’authority che verrà guidata da Raffaele Cantone

di ROBERTO SAVIANO
   
Pugno duro sul voto di scambio e autoriciclaggio Ecco un decalogo per combattere la corruzioneRaffaele Cantone (ansa)

NEGARLO sarebbe colpevolmente ingenuo: ciò che rende l’Italia un Paese in cui sembra non valere più la pena investire e da cui sembra sempre più necessario emigrare è soprattutto la corruzione. Una corruzione che non è il banale istinto a rubare, che razzismi minori imputano alla cultura di un Paese. Non si tratta di episodico malcostume, ma di meccanismi reali, fin troppo tangibili, concreti e diffusi ovunque: una macchina sommersa e infame che garantisce i complici del sistema e esclude gli onesti.

E spesso trasforma in complici gli onesti: costretti a piegarsi per vedere riconosciuti i loro diritti. Perché chi ne sta lontano vede chiudersi troppe porte. Chi la vuole evitare, vede ridursi la possibilità di accedere ad appalti, cariche, ruoli, affari. La corruzione sembra divenuta il metodo di selezione principale in un paese che non sa più premiare merito e concorrenza. Se non sai chi pagare e quanto pagare, spesso non avrai le autorizzazioni giuste, il documento che ti occorre, l’accesso a una informazione. Chi non paga non verrà eletto. Chi non sa innescare scambi di favori non riceverà scatti di carriera. Chi non entra in questi meccanismi e vuole fare impresa o politica — troppo spesso — si trova davanti muri insormontabili.

Non tutto il paese è così, naturalmente, ma l’Italia, agli occhi di chi ci osserva, è una Repubblica fondata sullo scambio di favori. Il resto del mondo non è certo il paradiso in terra, ma semplicemente molto spesso certe scelte altrove risultano più chiare e soprattutto trasparenti. Magari si conoscono i legami tra finanziatori e finanziati e questo rende più facile potersi orientare nella lettura delle scelte che vengono fatte. Ciò che spesso tendiamo a sottovalutare è che vivere in un paese in cui la corruzione è necessaria per qualunque cosa, anche per ottenere ciò che sarebbe dovuto significa vivere solo nominalmente in una democrazia.

Una democrazia corrotta non è democrazia, perché calpesta il primo diritto: quello dell’uguaglianza.

La scelta di un magistrato da sempre impegnato in prima linea come Raffaele Cantone alla guida dell’Autorità anticorruzione è una nomina importante, potrebbe fare la differenza ma alla sola condizione che anche l’Anticorruzione cambi. Raffaele Cantone deve essere messo nella condizione di poter lavorare, di poter lavorare serenamente, di poter lavorare davvero. Perché il compito è tremendo, l’impresa è difficile, e richiede un lavoro da certosino: costruire una squadra di persone competenti, e poi studiare, monitorare, e provare che ciò che si è ipotizzato corrisponda a realtà. Trovare soluzioni, proporle e fare in modo che vengano accettate da un governo che potrebbe mostrare contraddizioni, attriti e divisioni interne. Le cose da fare sono molte, moltissime, prioritarie e vitali. Ho provato a stilare un elenco di dieci punti, quelli che a me paiono più urgenti, sperando che su questo tema l’attenzione resti costante.

1) Oltre a Raffaele Cantone ci saranno altri quattro membri: è necessario che siano di alto profilo, perché il lavoro da fare dovrà essere senza attriti e contrasti superflui. Non dovranno essere scelti in quota politica, ma per le loro reali competenze e qualità. Questo punto è fondamentale, da qui parte tutto il lavoro.

2) Bisogna rivedere in via normativa i poteri del Commissariato per consentire di fare un controllo completo ed efficiente. Ad oggi il Commissariato non ha poteri di intervento immediato reali.

3) Il governo deve dare poteri sanzionatori per colpire quelle parti delle amministrazioni che non collaborano dando informazioni. I responsabili delle amministrazioni che non consentano i controlli dell'agenzia o che non adempiano agli obblighi previsti dalla legge devono essere sanzionati direttamente dall'agenzia a cui va riconosciuto un potere sanzionatorio analogo altre authority.

4) Devono essere ampliati i momenti di trasparenza in particolar modo per tutte le attività in cui girano soldi. Gare d’appalto, finanziamenti, grandi eventi, cantieri.

5) Bisogna allontanare dalle amministrazioni i dipendenti condannati.

6) È fondamentale prevedere incompatibilità fra cariche politiche e amministrative o di gestione.

7) Non bisogna attenuare le cause di incandidabilità.

8) Bisogna modificare i termini della prescrizione per i reati in materia di corruzione.

9) Introdurre il reato di autoriciclaggio e rendere più severe le pene per il falso in bilancio. Questo reato, infatti, è punito in modo ridotto e solo a certe condizioni. Vengono perseguiti solo enormi falsi molto difficili da individuare.

10) Modificare la legge contro il voto di scambio.

Tutto questo partendo da un assunto fondamentale: dal 2003, ovvero da quando “l’Alto commissario per la prevenzione e il contrasto della corruzione e delle altre forme di illecito all'interno della pubblica amministrazione” è nato, non è riuscito mai ad avere un vero ruolo. Il primo a ricoprire questo incarico fu il magistrato Gianfranco Tatozzi che lasciò la carica dopo poco, per la «scarsa sensibilità» dimostrata rispetto ai temi della corruzione dal governo Berlusconi. Poi arrivarono Bruno Ferrante, Achille Serra e Vincenzo Grimaldi, ma nessuno di loro è riuscito a dare un ruolo incisivo all’azione del Commissario, a monitorare ciò che accade in un paese dove le crisi di governo sono la priorità. Prioritarie anche e soprattutto rispetto alla credibilità del tessuto economico, che in questi anni è stato letteralmente distrutto dalle organizzazioni criminali.

Con Giulio Tremonti l’Alto commissario fu sospeso, per rinascere poi con un nuovo nome “Autorità nazionale anticorruzione e per la valutazione e la trasparenza delle amministrazioni pubbliche”.

Ma il nuovo nome dato non è servito a granché: la verità è che in poco più di 10 anni di vita l’istituzione non ha mai funzionato veramente. Il nuovo governo riuscirà a renderla efficiente? Una struttura del genere, questo deve essere chiaro, non solo all’esecutivo appena insediato ma a chiunque abbia a cuore il futuro dell’Italia, può risultare fondamentale per la capacità immediata di disarticolare i meccanismi corruttivi che regolano segretamente tanta parte della nostra economia. La scelta di Cantone è un gesto di buona volontà ma è solo il primo passo. Raffaele Cantone deve essere messo nelle condizioni di lavorare e con il potere necessario per non trovarsi in un guscio vuoto, alla guida dell’ennesimo ente inutile. Con le sue capacità e la sua storia professionale può davvero essere un valore aggiunto. C’è molto da fare: su questo si misurerà l’operato del governo e dello Stato. Attendiamo.

© Riproduzione riservata 12 marzo 2014

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/03/12/news/pugno_duro_sul_voto_di_scambio_e_autoriciclaggio_ecco_un_decalogo_per_combattere_la_corruzione-80786708/?ref=HRER2-1


Titolo: ROBERTO SAVIANO il Papa smaschera la grande menzogna sugli uomini d’onore
Inserito da: Admin - Giugno 22, 2014, 05:55:35 pm
I boss e il crocifisso: il Papa smaschera la grande menzogna sugli uomini d’onore
Da sempre i mafiosi hanno cercato di apparire devotissimi e cattolicissimi.
Dopo il gesto di ieri si potrà recidere ogni legame tra i clan e le parrocchie


Di ROBERTO SAVIANO
22 giugno 2014
   
 “GLI uomini della ‘ndrangheta non sono in comunione con Dio, sono scomunicati”. Le parole di papa Francesco fanno entrare la Chiesa in una nuova era.

Le ha pronunciato in Calabria non a Roma. Le ha pronunciate sapendo che sarebbero arrivate forti e chiare. È andato a confortare i parenti di Cocò il bambino di tre anni ucciso con un colpo in testa e bruciato a Cassano allo Ionio. Un bambino ucciso è la prova oggettiva e definitiva della menzogna “d’onore” dei mafiosi. Bergoglio, ricordando questo bambino massacrato, non ha avuto bisogno di dimostrare con altre parole la barbarie del potere criminale. Ha annullato con un gesto la menzogna con cui la ‘ndrangheta si autocelebra come società d’onore e di difesa di deboli, poveri, e come distributrice di giustizia, lavoro e pace sociale.

Qualcuno potrebbe credere che sia naturale e scontato per la Chiesa ricordare un bambino ammazzato e bruciato, e denunciare i colpevoli. Ma purtroppo non è così. Ecco cosa disse il parroco di Cassano, don Silvio Renne, qualche tempo fa in un’intervista a Niccolò Zancan: «Ancora Cocò? È una storia chiusa. Abbiamo fatto il funerale. Io non sono un investigatore. Non spetta a me dire chi è stato. E poi è ancora tutto da dimostrare se c’entra la droga o la ‘ndrangheta...».

Per Papa Francesco non è storia chiusa e non teme di dire che i colpevoli sono i mafiosi. Tenere fuori dalla cristianità gli affiliati, dichiararlo in Calabria è atto di coraggio, non è scelta retorica, non è disquisizione teologica. La scomunica è parola smarrita nel tempo, pena del diritto canonico che ha perduto il senso drammatico e spesso persecutorio che ha avuto dal IV secolo sino alla fine dello Stato della Chiesa. Ma oggi diventa invece il gesto più fortemente simbolico possibile per estromettere dalla cristianità le organizzazioni mafiose, per tagliare i legami che tante volte hanno stretto con le parrocchie locali. Le parole del Papa tuonano come dichiarazione finale, e denunciano senza scampo la menzogna dei mafiosi che si autoproclamano cattolici e fedelissimi alla Chiesa di Roma. Anche Giovanni Paolo II aveva pronunciato — il 9 maggio del 1993 ad Agrigento — un attacco durissimo alla mafia: «Convertitevi, verrà il giudizio di Dio». Due mesi dopo i corleonesi misero una bomba a San Giovanni in Laterano.

Ma poi l’impegno antimafia dei vertici ecclesiastici sembrò affievolirsi delegando tutto ai preti definiti di “frontiera” o di “strada” a seconda della moda giornalistica.

Ora, invece, se la Chiesa vuole essere conseguente e non ripetere gli errori del passato, deve far seguire a questa scomunica una serie di comportamenti fondamentali, come il rifiuto delle donazioni dei mafiosi; l’allontanamento dopo accertamenti e condanne dei preti considerati conniventi; la creazione di una commissione antimafia in seno alla Chiesa che possa vagliare indipendentemente dalle autorità di polizia il rapporto, l’estensione della scomunica ai politici, imprenditori che si considerano cattolici e che hanno relazioni con le organizzazioni criminali.

La scomunica è un’arma potente perché nella logica abnorme della narrazione mafiosa il legame con la religione è fondante: c’è tutta una ritualità distorta che regola la cultura delle cosche. L’affiliazione alla ‘ndrangheta avviene attraverso la «santina», l’effigie di un santo su carta, con una preghiera. San Michele Arcangelo è il santo che protegge le ‘ndrine: sulla sua figura si fa colare il sangue dell’affiliato nel rito dell’iniziazione. La dirigenza gerarchica massima della ndrangheta è definita “santa” al cui interno un grado superiore si chiama “vangelo”.

Il potere è considerato un ordine provvidenziale: anche uccidere diventa un atto giusto e necessario, che Dio perdonerà, se la vittima mette a rischio la tranquillità, la pace, la sicurezza della “famiglia”. La Madonna viene vista come la mediatrice tra l’uomo costretto al peccato e suo figlio Gesù che attraverso di lei comprende che quell’effrazione è stata fatta a fin di bene, in una mondo di peccati ed ingiustizie. I sacramenti stessi sono usati per consolidare i legami mafiosi. In passato, quando nasceva un maschio, il giorno del battesimo gli veniva messo accanto un coltello e una chiave: se il bambino toccava il coltello era destinato all’ “onore” se toccava la chiave a diventare sbirro. Ovviamente la chiave veniva sempre messa distante.

Tra i motivi che portarono alla morte di don Peppino Diana ci fu la sua acerrima lotta ai clan che volevano sfruttare i sacramenti come viatici alla cultura camorrista. La ‘ndrangheta è struttura completamente permeata dalla cultura cattolica. A Polsi il 2 settembre al santuario della Madonna in Aspromonte i capi si riunivano mischiandosi ai fedeli per dare nuove investiture e costruire alleanze, siglare patti. Non a caso l’” albero della scienza” metafora della struttura ndranghetista si trova proprio vicino al santuario.
Le storie di intreccio tra chiesa e ‘ndrangheta sono moltissime. Le chiese sono state usate come territorio di negoziato fra i clan: durante una messa nel 1987 la vedova del capo assoluto degli “arcoti” Paolo De Stefano, ammazzato dal “nano feroce” Antonino Imerti, chiese la fine di una delle faide più cruenti della storia criminale internazionale. Ci sono stati sacerdoti accusati di complicità: come Don Nuccio Cannizzaro, parroco di Condera accusato dall’antimafia di falsa testimonianza a difesa del sistema ndranghetista dei Crucitti e Lo Giudice. O don Salvatore Santaguida prete di Vibo Valentina accusato di concorso esterno in associazione mafiosa.

Nel 2009 la famiglia Condello è persino riuscita ad ottenere la lettura delle parole di felicitazione di Benedetto XVI trasmesse nella cattedrale di Reggio Calabria da don Roberto Lodetti, parroco di Archi, agli sposi Caterina Condello e Daniele Ionetti: la prima, figlia di Pasquale; il secondo, il figlio di Alfredo Ionetti, ritenuto il tesoriere della cosca. La prassi vuole che quando gli sposi desiderano ricevere un telegramma o una pergamena del Papa, ne facciano richiesta al parroco o ad un prete di loro conoscenza, il quale trasmette la richiesta all’ufficio matrimoni della Curia. Desta scandalo il via libera dato dalla Curia reggina per le nozze in cattedrale di due rampolli di una potentissima ‘ndrina calabrese. Difficile credere che non si sia prestata attenzione ai cognomi dei due sposi. Anche perché Caterina Condello e Daniele Ionetti sono cugini di primo grado e il diritto canonico (art. 1091) consente un matrimonio tra consanguinei solo con motivata dispensa richiesta dal parroco e sottoscritta dal vescovo.

La chiesa che ha portato il Papa a pronunciare queste parole non è solo la chiesa dei martiri, ma la chiesa di tutti quei preti che in territori difficilissimi e tormentati rappresentano l’unica via possibile al diritto, l’unica strada alla dignità laddove lo stato spesso è solo manette e sequestri di beni, dove non c’è alternativa tra emigrare o vivere nella totale disoccupazione. In Calabria don Giovanni Ladiana e don Giacomo Panizza sono tra gli esempi di chiesa che si fa prassi di resistenza, non semplice simbolo antimafia, ma creazione di una via possibile al diritto al conforto, alla condivisione, al futuro.

Questa scomunica è solo l’inizio di un percorso che potrà risultare epocale.

© Riproduzione riservata 22 giugno 2014

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/06/22/news/la_grande_menzogna_dei_boss-89682918/?ref=HRER1-1


Titolo: ROBERTO SAVIANO Ruby, un'inchiesta, due sentenze
Inserito da: Admin - Luglio 26, 2014, 11:05:19 am
Saviano: Ruby, un'inchiesta, due sentenze
Di ROBERTO SAVIANO
22 luglio 2014
   
Non è questione solo italiana quella di una sovrapposizione tra politica e giustizia. Ma è fuori discussione che il grado di maturità democratica può essere misurato tenendo conto di quante volte e quanto indebitamente i due piani si mischiano. Processare il primo ministro in carica per fatti gravi è possibile e una democrazia matura deve potersi permettere i contraccolpi che ne derivano. Senza berciare al colpo di Stato o senza richiedere l'istituzione di fantomatiche commissioni d'inchiesta, finalizzate non certo a comprendere quanto sotto gli occhi di tutti, ma evidentemente a riscrivere la storia.

Dopo la sentenza di assoluzione in appello per Silvio Berlusconi è partito un coro meschino di accuse a Ilda Boccassini, il magistrato che ha condotto l'inchiesta che ha dato origine al processo.

Le sentenze vanno accettate ma allo stesso tempo non si può cedere alla logica poco democratica, secondo la quale non potrebbero essere commentate. Come ogni azione umana, come ogni azione pubblica che produce effetti sulla vita di ciascuno, anche le sentenze possono essere commentate.

La magistratura è un ambito ben più complesso di ciò che si vede, di ciò che si vorrebbe mostrare e il berlusconismo, nei suoi effetti più nefasti, ha reso poco credibile ogni critica al suo operato, poiché ne ha cristallizzato l'idea su un piano di opposizione politica oggi ancor più insostenibile.

Ilda Boccassini ha gestito con rigore il suo lavoro, mentre il modus operandi di molti era quello di condividere atti di indagine, con l'obiettivo di ottenere in questo modo protezione mediatica. Non è mai stato il suo caso. In una democrazia sempre più marcia, Ilda Boccassini non ha mai occhieggiato alle facili praterie infuocate dell'antipolitica, nelle quali tutte le istituzioni sono schifose e solo la magistratura è sana. Non è necessario ricordare semplicemente la sua presenza a Palermo, la sua vicinanza a Falcone e l'infuocato j'accuse formulato all'indirizzo di colleghi imbelli e poco degni del proprio ruolo, poiché è nella storia recentissima il segno del suo operato, con i fondamentali risultati giudiziari di quella inchiesta "Infinito", che ha mostrato quanto capillare sia il potere della 'ndrangheta in Lombardia.

È per questa ragione che oggi non mi interessa aggiungere la mia voce a quella di chi ha voluto commentare gli esiti del processo Ruby, tra primo e secondo grado. Mi interessa piuttosto difendere un metodo investigativo che non ha mai cercato le luci della ribalta e che ha portato a quella sentenza di primo grado emessa da un Tribunale, da un collegio di magistrati e non certo dalla Procura della Repubblica. In questi anni ho letto atti relativi a decine, forse centinaia di inchieste, talvolta mediocri, talvolta superficiali, talvolta costruite sin dal principio contando sull'appoggio della stampa. Ilda Boccassini non è questo, poiché non è mai stata questa la tradizione cui si rifà.

L'interpretazione del diritto non è univoca, altrimenti non sarebbe interpretazione, e dunque il dibattito sul sovvertimento della decisione in secondo grado è legittimo e visto il soggetto coinvolto anche necessario. Detto ciò, voler leggere e contestualizzare politicamente questa sentenza, o peggio, voler giocare, come è sempre accaduto in questi anni, alla sfida tra giustizialisti e garantisti - laddove in Italia questi ultimi, quasi sempre, non sono altro che soggetti diversamente giustizialisti - oltre che inutile è dannoso. Poiché questa incultura allontana ancora di più una seria riforma della giustizia che tenga conto delle difficoltà del sistema, ma che non umili il patrimonio di conoscenza e metodo della magistratura.

E da questo punto di vista il metodo di lavoro di Ilda Boccassini, la sua capacità di stare alla larga da un rapporto anomalo con i media, tratto distintivo vero della incultura di questo Paese, è un punto di partenza. Un punto di partenza e si spera, nella sua sistematizzazione, un punto d'arrivo. Perché bisogna sempre partire dalle persone serie. Lasciando alla dimensione cabarettistica quei pagliacci, solerti servitori di un padrone ormai alla deriva, che a volte sembrano avere la testa solo per poter indossare parrucche dal colore sgargiante in quel momento di moda.

© Riproduzione riservata 22 luglio 2014

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/07/22/news/saviano_ruby_un_inchiesta_due_sentenze-92107080/?ref=HRER2-1


Titolo: ROBERTO SAVIANO Il Paese che vive nella Terra di mezzo
Inserito da: Admin - Dicembre 06, 2014, 05:17:21 pm

Il Paese che vive nella Terra di mezzo

Di ROBERTO SAVIANO
05 dicembre 2014
   
SU "Mafia capitale" sappiamo tutto, abbiamo letto le cronache dell'operazione condotta dai Ros del generale Parente e dalla Procura di Roma guidata da Giuseppe Pignatone, abbiamo letto l'ordinanza del gip Flavia Costantini, ma non so se è chiaro a tutti cosa sia accaduto a Roma.

E cosa molto probabilmente sta accadendo altrove in Italia. Succede alla politica italiana ciò che sta accadendo alla società civile che guarda alla politica con schifo, senza riuscire a percepire le proprie responsabilità. Accade che in politica ci si venda, si ipotechi la propria anima per pochi spiccioli (ci sono mazzette da 750 euro prese senza la reale percezione della gravità della situazione come una legittima e piccola regalia). Accade che la politica non abbia autorevolezza e idee proprie, accade che la politica venga percepita come una occasione di guadagno, un mestiere che arriva senza dover studiare, senza curriculum ed esperienza.

La domanda è: ma come fanno personaggi che definiremmo "dalla storia ambigua", come Salvatore Buzzi e Massimo Carminati, a diventare artefici, attori, protagonisti di vicende che assumono connotazioni grottesche? Un assassino e un ex terrorista, ex Nar, organico alla banda della Magliana. Il primo, Buzzi, aveva scontato la sua pena, il secondo Carminati era stato assolto, ma su di lui esistono pagine e pagine di informative e una stretta osservazione. Ebbene Buzzi e Carminati in qualsiasi altro Paese condurrebbero la loro vita lavorativa sotto una strettissima sorveglianza, dovrebbero avere un comportamento talmente ligio da provare che si può uscire diversi dal carcere, da dimostrare che le assoluzioni sono opportunità di reinserimento e non salvacondotti. E invece a Buzzi e Carminati la politica dà massima fiducia senza chiedere in cambio nessuna trasparenza. Ci si fida di loro, ciecamente. Vi siete chiesti come sia stata possibile una tale idiozia? In questi giorni il mantra è: colpevole è non solo chi è consapevole, ma anche chi non vuole vedere. E allora noi da che parte stiamo? Tra i colpevoli o tra quelli che non vogliono vedere? Dobbiamo scegliere, perché una terza via non esiste.

Come possono personaggi come Carminati e Buzzi apparire "affidabili"? Possono farlo perché siamo in Italia. Possono farlo perché in Italia ciò che si rifiuta e rifugge non è il rapporto con chi tutto sommato è peggio di noi, ma con chi è meglio. Con chi ha una immagine pulita si fa il tiro al bersaglio: il gioco è far cadere il simbolo positivo dal piedistallo. Ed ecco che chi si distingue per professionalità e rettitudine in una giunta comunale viene allontanato, con maggiore o minore clamore mediatico, a seconda delle circostanze, ma se intralci i giochi sei fuori. I politicanti utilizzano e si legano a personaggi che non sono figure da poter demolire e che non vogliono cambiare il sistema e che abitano quel "mondo di mezzo" che Carminati, ha preso in prestito da Tolkien. "Ci stanno i vivi sopra e i morti sotto e noi stiamo nel mezzo. E allora vuol dire che ci sta un mondo, un mondo in mezzo, in cui tutti si incontrano. Anche la persona che sta nel sovramondo ha interesse che qualcuno del sottomondo gli faccia delle cose che non le può fare nessuno. Questa è la cosa... e tutto si mischia". Non è da leggere come è stato fatto sino ad ora come una "cerniera" tra teppa criminale e colletti bianchi. Questa è una vera e propria sintesi di filosofica economica.

Si parla chiaramente di un luogo trasversale dove ci si affida a chi "sa fare le cose", chiunque egli sia. E qui arriva Salvatore Buzzi con le sue cooperative di disperati, di marginali, ex detenuti, immigrati che in un'Italia che non produce nulla, in un'Italia in cui le aziende muoiono, in un'Italia strangolata da un sistema fiscale irrazionale che in larga parte deve sopperire ai costi enormi e agli sprechi della politica, diventano una miniera d'oro.

In Italia è inevitabile che le emergenze diventino vere e proprie occasioni di profitto. La crisi dei rifiuti a Napoli ha irrorato la politica, la camorra e l'imprenditoria per oltre un decennio. Mare nostrum è stata una tragedia per tutti tranne che per Carminati e Buzzi. Per loro i barconi della speranza piuttosto che emergenza umanitaria, sono diventati un'enorme opportunità. "Ci fanno guadagnare più della droga", dicono. Quindi l'organizzazione mafiosa con a capo Carminati non guadagna con attività che tradizionalmente sono considerate criminali, ma con attività che invece godono di un'aura di nobiltà. Attività intoccabili, insospettabili. Ma di umanitario e ideologico non è rimasto proprio nulla: l'ideologia non c'entra, gli affari sui rom, sull'emergenza case, sugli immigrati, li fanno paradossalmente proprio gli uomini di Alemanno, coloro i quali hanno partecipato alla giunta che meno si è distinta per solidarietà verso gli ultimi, verso i bisognosi e i disperati. Non c'è più colore politico, ecco perché verso gli estremisti della prima e dell'ultima ora non posso fare a meno di provare pena; non c'è colore: basti pensare che Carminati che proviene dalla estrema destra, si sceglie Buzzi come braccio destro, un uomo che proviene dalla estrema sinistra.

E poi ancora: dal momento che a predisporre e coordinare l'emergenza migranti è il tavolo di coordinamento nazionale presieduto dal ministero degli Interni, lì deve sedere un uomo che sia al soldo del duo Carminati-Buzzi. Quest'uomo è Luca Odevaine, che ricorda Mister Wolf di Pulp Fiction, il problem solver. Luca Odevaine è stato vice capo di Gabinetto della giunta Veltroni, poi capo della Polizia provinciale, poi capo della protezione civile con Zingaretti e infine al tavolo di Coordinamento nazionale sull'accoglienza per i richiedenti asilo. È lui, per intenderci, che prende in gestione la capitale quando muore Giovanni Paolo II. La trasversalità del sistema si basa su una macchina oleata fatta di mazzette grandi e piccole. Odevaine, secondo l'accusa, avrebbe percepito una mazzetta da cinquemila euro al mese.

Ma la cosa più interessante è che leggendo le carte dell'inchiesta si ha la sensazione che nessuno abbia reale consapevolezza del proprio status di corrotto. Quello che molti hanno preconizzato, ovvero che Tangentopoli fosse solo il punto di partenza di un'apocalisse politica e sociale definitiva si sta avverando. Ora i corrotti non solo si sentono legittimati a commettere illeciti, ma non hanno neanche più la consapevolezza della gravità dei loro comportamenti.

In tutto questo Matteo Renzi arriva tardi a commissariare il Pd di Roma. Prima della magistratura, la politica dovrebbe avere occhi, orecchie, dovrebbe ascoltare ogni sussulto, ogni sospiro. I segnali c'erano. E invece Renzi, che aveva tutti gli strumenti per sapere e per azzerare il Pd romano prima di questo terremoto giudiziario, lo fa dopo. Dall'altra parte  -  o dalla stessa parte anche se sembra si facciano guerra  -  c'è una destra sempre più disinvolta nell'occupare posizioni per trarne vantaggio, per condizionare la democrazia, anche usando la stampa locale che si presta al gioco, come è successo con Il Tempo diretto da Chiocci, che è arrivato a incontrare Carminati.

Mafia capitale è solo l'inizio. Altre inchieste in altre città dimostreranno che Roma non è un caso isolato. In altri Paesi europei esiste la corruzione, ma la corruzione non arriva a compromettere l'istituzione stessa: il corrotto è espulso dall'istituzione che è percepita come sacra e va salvaguardata. In Italia l'istituzione invece è utilizzata, lordata e non viene difesa.

Ma perché questo accade? Perché ormai si è impadronita di chiunque una consapevolezza: senza brigare non si va da nessuna parte. Senza forzature non succede niente, non cambia niente. Quindi in fondo la posizione bipartisan sembra essere questa: è inutile fingere di essere al di fuori o al di sopra. Tutti dobbiamo compromettere una parte del nostro lavoro, della nostra integrità, per ottenere qualcosa. Questa è la logica che emerge da "Mafia capitale". Questa è la teoria del "Mondo di mezzo" di Carminati non portata alle estreme conseguenze, ma applicata a tutti noi.
Da questo meccanismo nessuno si senta escluso, le mazzette trovate nelle buste con il logo di Roma Capitale ci riguardano, perché Roma Capitale siamo noi.

In questo Paese che non è capace di difendere il talento e l'impegno, dove tutti odiano tutti, dove tutti detestano chi ce la fa, in questo Paese tra il mondo dei vivi che sta sopra e il mondo dei morti che sta sotto, in mezzo ci siamo noi.

In mezzo c'è l'intero Paese che non riesce a reagire.

© Riproduzione riservata 05 dicembre 2014

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/12/05/news/il_paese_che_vive_nella_terra_di_mezzo-102158368/?ref=HRER3-1


Titolo: ROBERTO SAVIANO Nessuna carica contro il corteo no-Expo: la scelta vincente...
Inserito da: Admin - Maggio 11, 2015, 10:27:42 am
Nessuna carica contro il corteo no-Expo: la scelta vincente che ha evitato il caos
Le forze dell'ordine hanno isolato i violenti. Così Milano non è stata un'altra Genova.
Ma l'intelligence non ha saputo prevedere e fermare l'arrivo dei black bloc


Di ROBERTO SAVIANO
03 maggio 2015
   
CHE cosa è successo davvero venerdì pomeriggio a Milano? Quale lezione dobbiamo trarre all'indomani della violenta devastazione che avrebbe voluto farci ripiombare nell'incubo da guerriglia urbana? Diciamo subito che a Milano in quell'incubo non siamo ripiombati. E proviamo a dare anche un nome a quella lezione: chiamiamola dunque la lezione della Diaz.

Sì, a 14 anni da Genova, il primo maggio di Milano ha segnato davvero un cambiamento radicale nella gestione dell'ordine pubblico. Chiariamo. Anche l'azione di questi violenti andrebbe definita col nome che merita: squadrista. Perché di squadrismo s'è trattato: il modo paramilitare in cui s'è sviluppata l'azione, l'utilizzo delle tute. Azione squadrista: perché i violenti si muovevano come squadre con obiettivi solo a loro noti -  e non al resto del corteo. Sembrava un'operazione vista molte volte e invece non lo era. Chi immaginava continuità con il movimento antagonista ispirato alla strategia da guerriglia urbana anni 70 è rimasto sorpreso. Il blocco nero è storia vecchia: ma a Milano ha agito con una capacità tutta militare (togliersi le tute per mimetizzarsi disperdendosi poi nei tronconi pacifici della manifestazione) rinunciando completamente a ogni simbologia politica. Cercare "l'affinità informale " ossia persone che non si conoscono tra loro ma che si ritrovano nello spazio del corteo unite nella volontà di attaccare obiettivi per poi tornare ad ignorarsi. Nessuna rivendicazione: in azione c'era solo la teppa.

Eppure non è stata questa l'unica vera mutazione a cui abbiamo assistito. La tattica dei violenti sembrava semplicissima: aggredire i poliziotti dopo aver costruito barricate e sfasciato tutto ciò che può esser sfasciato, per poi far caricare l'intero corteo, soprattutto la parte pacifica. La sequenza agghiacciante dell'assalto a bastonate del poliziotto dice tutto. Come avrebbero potuto reagire le forze dell'ordine? Con una carica generalizzata: che trascina inevitabilmente tutti negli scontri. È la vecchia strategia per stanare e "arruolare" i manifestanti -  anche i più prudenti: far partire le cariche costringendo perfino i pacifici a difendersi con la guerriglia. Questa volta, però, sia le forze di polizia che i manifestanti non ci sono cascati. E la scelta di non intervenire, di isolare i violenti e di non cadere nel trucco che gli squadristi-antagonisti avevano preparato si è rivelata vincente.

A riassumerla nel facile gioco delle pagelle, dalla battaglia di venerdì escono vincenti Tullio Del Sette, comandante generale dei Carabinieri, e Alessandro Pansa, il capo Polizia -  mentre certamente è sconfitta l'Intelligence, che non ha saputo prevedere i flussi e fermarli. Ed è proprio quando fallisce l'Intelligence, quando la politica non riesce a far fronte all'emergenza, che tutto viene riposto nell'ultimo anello di gestione: i celerini. Certo i reparti speciali come i GIS avrebbero potuti fermarli, ammanettarli e neutralizzarli in una manciata di minuti, questi militanti -  o presunti tali -  che imbrattavano muri con le bombolette e sfondavano negozi. Ma si sarebbe dovuto fare ricorso a un'azione militare seria con il rischio di avere costi tragici. Per questo la decisione di circoscrivere i violenti e dare libero sfogo è stata strategica. Ha fatto emergere la loro reale identità che - se la polizia avesse caricato -  pochi avrebbero riconosciuto. Un cambio di gestione della piazza che lascia ben sperare. La lezione della Diaz.

E adesso? Chi pagherà le auto bruciate? Chi le vetrine sfondate? Lo Stato dovrebbe rispondere subito a tutto questo e non in tempi infiniti riuscendo soprattutto ad ottenere risarcimenti arrestando i responsabili. Bisognerebbe aggiungere che l'unica vittoria dei nuovi squadristi è stata quella di oscurare le legittime critiche della manifestazione contro l'Expo: il regalo più grande che potevano fare agli organizzatori. In un attimo hanno messo sotto silenzio tutti i temi che con difficoltà nei giorni scorsi erano stati posti al centro dell'attenzione pubblica. Hanno ridotto tutto a uno scontro di vetrine rotte e immondizia. Sento già partire il coro dei cospirazionisti: le violenze l'hanno organizzate gli stessi poliziotti -  per questo i manifestanti non sono stati caricati! L'ingenuità di queste interpretazioni è smontata dalle dinamiche che raccontano purtroppo ben altro: la totale incapacità di infiltrazione delle forze di polizia e anzi l'inadeguatezza dei servizi segreti italiani in questa vicenda. La rabbia, il dolore, il disagio sono ben altro. E a rappresentarle non saranno certo questi gruppetti all'assalto di vetrine incustodite.

© Riproduzione riservata
03 maggio 2015

Da - http://www.repubblica.it/cronaca/2015/05/03/news/nessuna_carica_contro_il_corteo_la_scelta_vincente_che_ha_evitato_il_caos-113407304/?ref=HREA-1


Titolo: ROBERTO SAVIANO. Droga e machete, quel codice rosso sangue delle gang latine
Inserito da: Admin - Giugno 17, 2015, 05:06:00 pm
Droga e machete, quel codice rosso sangue delle gang latine
Violente e organizzate militarmente, puntano al monopolio dello spaccio. Sono le Maras salvadoregne, di cui fanno parte gli aggressori del ferroviere a Milano

Di ROBERTO SAVIANO
14 giugno 2015
   
IL machete è una sorta di ibrido tra un coltello e una spada, usato per tagliare la canna da zucchero, le noci di cocco e, nelle guerre in Sierra Leone o Ruanda, la spietata arma adoperata per tagliare mani, braccia, piedi.

Vedere usare con disinvoltura il machete in un treno di Villapizzone a Milano, tagliare il braccio a un giovane capotreno per la sola ragione di aver chiesto il biglietto fa credere a nuove invasioni di barbari, terrore che si insinua nella vita quotidiana dei pendolari. In realtà questo episodio c'entra poco con l'ordine pubblico ed è sbagliato paragonarlo alla follia omicida di Kabobo che uccise tre persone in zona Niguarda.

Questa vicenda riguarda il crimine organizzato. I tre ragazzi arrestati secondo le accuse fanno parte delle Maras, precisamente la Mara Salvatrucha: ricordatevi questo nome perché si tratta di una delle organizzazioni criminali più potentidel narcotraffico internazionale. L'FBI descrive Mara Salvatrucha la "gang più pericolosa al mondo" e per contrastarla ha costituito nel 2005 una task force dedicata.

Maroni invita a presidiare i treni con i poliziotti e se serve a sparare. Commento tipico di chi  -  come spesso accade nel suo caso  -  non conoscendo davvero le dinamiche, arriva a dare una valutazione superficiale. La crisi economica sta portando anche le catene dello spaccio dei grandi gruppi criminali italiani a rimodellarsi e queste gang diventano sempre più forti perché sono cinghie di trasmissione tra i piani mafiosi del narcotraffico e quelli dello spaccio porta a porta. In più, la qualità militare che i gruppi mafiosi italiani apprezzano delle Maras è la capacità di controllare i territori, cosa che i piccoli gruppi italiani non sanno più fare se non a stipendi alti.

Può sembrare difficile, vedendo le facce da ragazzini con l'espressione malriuscita da duri dei tre assalitori di Milano  -  Alexis Ernesto Garcia Rojas, 20 ann come Jackson Jahir Lopez Trivino e Josè Emilio Rosa Martinez, 19  -  pensarli parte di una così complessa organizzazione. Per capirlo bisogna approfondire la storia del gruppo di cui fanno parte e contro cui le procure italiane devono iniziare a fare i conti come se affrontassero gruppi mafiosi.


Dal Salvador, durante la guerra (1980 - 1992), sono scappati negli Stati Uniti migliaia di ragazzini senza famiglia, con genitori ammazzati o madri che li preferivano lontani dalla macelleria centroamericana. Tra loro ex guerriglieri del Fronte Farabundo Martì e giovanissimi disertori dell'esercito regolare: sono proprio questi che addestrano gruppi di ragazzini sbandati in bande. Cosi nascono le Maras, gang salvadoregne che prendono a modello quelle di Los Angeles (afroamericane, asiatiche e messicane). In origine, come bande di autodifesa dalle altre gang. Ma con il tempo questa organizzazione sconfigge le altre e inizia a egemonizzare le strade: hanno disciplina militare, violenza estrema, preghiere, patti. Il crimine con regole batte sempre il crimine senza regole.?

Le Maras arrivano a scindersi in due grandi famiglie rivali che si differenziano per il numero di " street " che occupano: Mara 13, meglio conosciuta come Mara Salvatrucha, e Mara 18, nata da una branca dissidente. Il numero delle strade si riferisce non al Salvador terra d'origine ma a Los Angeles. Accade però che arrivano gli accordi di pace di Chapultepec: guerriglia ed esercito fermano le armi. Il Salvador non è più un Paese attraversato dalla guerra civile ma è in miseria totale e gli affiliati alle Maras negli Usa non hanno molta voglia di ritornare in patria. A costringerli però interviene il governo americano che vuole liberarsi di queste organizzazioni come ci si libera delle zecche, strappandole dalla propria carne: tutti quelli che la polizia riesce a scovare vengono deportati in massa da Los Angeles al Salvador dove molti di loro erano solo nati. Ma come la leggenda narra che le zecche se le si strappa lasciando la testa ancorata sotto pelle il corpo ricresce, anche con le Maras questa operazione non fa altro che strappare solo il corpo che ben presto ricresce generando una diaspora che non rimuove il problema. Anzi lo diffonde.

Oggi le Maras hanno cellule presenti negli Stati Uniti, in Messico, in tutta l'America Centrale, Europa e Filippine. La Mara 18 è molto più grande perché ha deciso di federare nel proprio interno altre etnie di latinos .

In Italia anche la Mara Salvatrucha ha preso altri non salvadoregni come per esempio Trivino, uno degli assalitori del capotreno, ecuadoregno.

All'interno delle Maras tutto è codificato. I segni con le mani (che indicano il numero 18, il 13 o le corna del diavolo), i tatuaggi sul volto, la gerarchia, la musica hip hop. Tutto passa attraverso regole che strutturano e creano identità. Il risultato è un'organizzazione compatta in grado di muoversi velocemente. Elemento più interessante è che sono vere e proprie accademie del crimine, spesso composte da ragazzi tra i 13 e i 17 anni. Per entrare nella gang bisogna superare delle prove: 13 secondi di pugni, calci, schiaffi, sputi. Le ragazze entrano solo dopo aver subito uno stupro da parte dei vertici dell'organizzazione. E la prima regola delle Maras è che una volta dentro non se ne esce più. L'unico modo è la morte. Chi ha provato ad allontanarsi dalle organizzazioni è stato condannato alla pena capitale. Così, la frase che ripetono spesso è: "Vivi per Dio, per tua madre, muori per la gang".

Non bisogna quindi confondere un'organizzazione così potente con i semplici flussi di immigrazione, si cadrebbe altrimenti nel solito errore, per il quale tanti italiani hanno pagato il prezzo di venire considerati mafiosi negli Stati Uniti solo perché la mafia itolamericana lì è stata potentissima. L'esercito di bambini delle gang (gli affiliati più giovani possono avere anche solo dieci anni) commercia soprattutto in cocaina e marijuana sulla strada. Non gestiscono grandi forniture, non sono ricchi, non corrompono le istituzioni. In strada però sono forti e spietati come killer professionisti. Non sono ascrivibili a un'organizzazione mafiosa classica perché questa è per definizione segreta mentre le Maras sono visibilissime: vogliono esserlo. Si marchiano in volto, si ghettizzano, sono truppe sul campo pronte agli arresti.

Genova e Milano sono le città italiane dove si trova il numero più alto di affiliati alle Maras e alle altre gang di latinos . Dai Latin Kings (veterani in Italia) ai Netas (portoricani e dominicani), dai Trinitarios ai Vatos Locos. Fino, appunto a MS-13 e Mara 18. Sempre di più queste organizzazioni accolgono tra vle loro fila filippini, nordafricani e italiani. Sono realtà complesse di cui ci si accorge solo quando usano le lama, anzi la più inquietante delle lame: il machete. Ma prima di quello usato contro il capotreno a Milano ce ne sono stati altri. Il 13 luglio del 2008 nel centro sportivo Forza e Coraggio di via Gallura, durante uno scontro tra Maras, a Ricardo (20 anni) cavano un occhio e gli sfigurano il viso, con il machete. Il 21 novembre 2011 un membro della Mara Salvatrucha viene aggredito con una mannaia dai Netas vicino al Duomo.

Il mio suggerimento per comprendere il fenomeno è dedicare attenzione all'opera di Christian Poveda. Regista francese di origine spagnola, riuscito a entrare come nessun altro nella vita quotidiana delle Maras, con un bellissimo documentario ( La vida loca ) il cui successo negli Usa spinse i media a chiedere conto al governo salvadoregno. Dal docufilm emerge una storia di miseria e disperazione. Perché le Maras capitalizzano la disperazione e vengono utilizzate dai grandi gruppi di narcotrafficanti come se i loro associati fossero degli schiavi.

Poveda venne ucciso nel 2009 dagli stessi che lo avevano fatto entrare nel mondo "chiuso" delle Maras.

© Riproduzione riservata
14 giugno 2015

Da - http://www.repubblica.it/cronaca/2015/06/14/news/droga_e_machete_quel_codice_rosso_sangue_delle_gang_latine-116812131/?ref=HRER2-2


Titolo: Saviano al Guardian: "Capitalismo ha bisogno del narcotraffico"
Inserito da: Arlecchino - Dicembre 30, 2015, 05:55:00 pm
Saviano al Guardian: "Capitalismo ha bisogno del narcotraffico"
Il giornale inglese esalta "Zero zero zero", pubblicato anche in Gran Bretagna: "Il libro più importante dell'anno"

27 dicembre 2015
 
"Il libro più importante dell'anno e il più convincente mai scritto sul narcotraffico". Così il Guardian ha definito Zero Zero Zero di Roberto Saviano, pubblicato ora anche in Gran Bretagna, sottolineando come solo attraverso la lettura del libro si possa davvero comprendere fino in fondo l'universo del traffico di droga.

"Pablo Escobar (il 'Copernico' delle organizzazioni criminali) è stato il primo a capire che non è il mondo della cocaina che deve ruotare intorno al mercato, ma è il mercato che deve ruotare intorno alla cocaina", racconta Saviano nel corso dell'intervista con il celebre quotidiano britannico, "nessun business è così dinamico, così innovativo, così fedele allo spirito del libero mercato come quello della cocaina".

Il Guardian sottolinea la geniale eresia di Saviano nel raccontare il mondo del traffico della droga: "Il capitalismo ha bisogno delle organizzazioni criminali e del loro mercato...Questo è il concetto più difficile da comunicare. La gente - anche quelle persone che hanno il compito di osservare il mondo criminale - tende a trascurare questo aspetto, insistendo su una separazione tra il mercato nero e il mercato legale. E' la mentalità, molto europea e americana, che spinge a pensare che un mafioso finisce in galera in quanto gangster. Ma in realtà è un uomo d'affari e il suo business, il mercato nero, è diventato il più grande mercato del mondo".

Il Guardian sottolinea come il libro di Saviano dimostri che nessuno tra tutti coloro che hanno scritto finora di mafia sia riuscito ad essere efficace come lui, abbattendo sostanzialmente la divisione tra legale e illegale: la cocaina intesa come puro capitalismo.

"La cocaina è diventata un prodotto simile all'oro e al petrolio", dice Saviano, "ma economicamente è molto più potente. Se non possiedi miniere o pozzi, è dura entrare nel mercato. Con la cocaina, no. I terreni sono coltivati da contadini disperati e si possono accumulare enormi somme di denaro in pochissimo tempo senza certificazioni o licenze".

"La storia del narcotraffico", aggiunge Saviano, "non è qualcosa che accade lontano da noi. Alla gente piace pensare che questa disgustosa violenza sia qualcosa di distante, ma non è così. Tutta la nostra economia è impregnata di questi resoconti".
© Riproduzione riservata
27 dicembre 2015

Da - http://www.repubblica.it/cronaca/2015/12/27/news/saviano_sul_guardian-130218904/?ref=HRER2-2


Titolo: ROBERTO SAVIANO La vicenda di Quarto e i 5 Stelle.
Inserito da: Arlecchino - Gennaio 10, 2016, 04:18:49 pm
Saviano: quella sesta stella nera che rischia di diventare una macchia indelebile
La vicenda di Quarto e i 5 Stelle.
La delusione per l'incapacità di reggere una sfida come questa può condizionare il giudizio sul Movimento alle amministrative

Di ROBERTO SAVIANO
10 gennaio 2016

Il Consiglio comunale di Quarto va sciolto per infiltrazione camorristica. Non importa quanti siano i voti portati dal consigliere espulso Giovanni De Robbio: quanto accaduto rischia di diventare un punto di non ritorno per il Movimento 5 Stelle. Il balletto sulle dimissioni del sindaco Rosa Capuozzo rischia di diventare una macchia indelebile, la sesta stella, la blackstar che offusca tutte le altre. Quarto è la storia di un cortocircuito. La prassi di raccogliere dossier per poter screditare l'avversario politico (che abbiamo chiamato macchina del fango), ha finito per trovare una sinistra corrispondenza, anche se sottile e camuffata, nei processi sui blog o in televisione.

Quello che pare essere accaduto a Quarto è un caso di scuola. Da una parte la conferma della terribile regola che vede la camorra schierarsi sempre al fianco di chi vince o quanto meno attiva nello strumentalizzare quelle vittorie; dall'altro un sindaco che ora dopo ora si è mostrato sempre più inadeguato al ruolo, soprattutto in quella realtà così complessa, dove niente è come sembra. Ma la storia di Rosa Capuozzo ha una ricaduta ancora più drammatica poiché conferma che la politica in Italia è solo arte del ricatto; non si esce da questa logica, chiunque sia al governo. Del resto la purezza è un concetto non applicabile alla vita reale: tutti gli esseri umani commettono errori e hanno contraddizioni, che stranamente non vengono valutati se non quando si ha un ruolo istituzionale. E come un serpente che si morde la coda, quanto più in alto abbiamo posto l'asticella della "purezza&onestà", più grande sarà lo scandalo a prescindere dall'entità e dalla natura dell'errore, commesso o meno. Ma il nodo per comprendere questa situazione è la analisi della prassi delle espulsioni, che nei propri opachi contorni è sempre più vissuta dall'opinione pubblica come una pratica di epurazione. Del resto, cosa sono le espulsioni se non il mettere alla gogna chi non ha rispettato il programma, l'additare alla folla il reo? Rosa Capuozzo è colpevole, non eventualmente di abusivismo edilizio (di cui non conosciamo la portata e la natura), ma di essersi presentata come parte lesa invece che come amministratrice inadeguata; d'altro canto, lo scioglimento per infiltrazioni camorristiche del Consiglio comunale non farebbe giustizia alla storia di un Movimento, intrisa di ingenuità politica ma non di disonestà o peggio di connivenze con la camorra.

C'è una storia che riguarda Quarto che voglio raccontare. Come spesso accade, i clan investono in società di calcio per ottenere consenso sul territorio, ma anche per riciclare denaro e camuffare il racket con le sponsorizzazioni imposte ai commercianti e agli imprenditori locali. La "Quarto Calcio" apparteneva al clan Polverino - storica cosca attiva nell'area nord di Napoli e legata alla famiglia Nuvoletta, a sua volta in rapporto con la mafia di Corleone -, un clan potentissimo e particolarmente attivo nel traffico di stupefacenti, che ha da sempre avuto un ruolo di primo piano proprio per lo storico legame con Cosa Nostra. A febbraio 2011 la DDA di Napoli sequestra la squadra di calcio ai Polverino e la affida a "Sos Impresa", un ente antiracket. Il sostituto procuratore Antonello Ardituro, oggi al Csm, diventa il presidente onorario della "Nuova Quarto Calcio". Nel 2013 la squadra viene promossa in Eccellenza e sembra prendere corpo il mantra che a Quarto ci si ripeteva: "Con la legalità si vince sempre".

Ma il territorio non fa cerchio, gli atti di sabotaggio sono sempre più frequenti e prendono di mira anche lo stadio Giarrusso, quello stesso stadio tornato in gestione al comune sotto il sindaco pentastellato. L'anno scorso l'avventura della squadra della legalità si è conclusa a dimostrazione che la legalità non vince sempre, non vince se la società civile è distratta e impaurita. Non vince se la politica non comprende come queste esperienze siano un collante vero. Che Quarto non fosse un comune come un altro era evidente sin dal principio ed è per questo che la vittoria alle amministrative del Movimento 5 Stelle ha costituito un fatto per certi versi epocale, ma purtroppo per la cittadinanza, dopo sei mesi sembra già venuto il momento del bilancio finale, per un'amministrazione che esce del tutto delegittimata. Il piano politico è quello dunque più significativo oggi ed è bene dire, senza esitazioni, che la delusione per l'incapacità di reggere il confronto con una sfida davvero probante, non può che condizionare il giudizio sulla capacità strutturale del Movimento di proporsi credibilmente alle amministrative che si terranno quest'anno nelle tre più grandi città italiane. Se alle criticità il Movimento è in grado di opporre la sola prassi dell'espulsione, allora il futuro è tutt'altro che roseo e la provocatoria invocazione "onestà, onestà", risuonata nell'aula del consiglio comunale di Quarto, e proveniente dal pubblico di militanti del Partito Democratico, ha finito per essere un amaro contrappasso, una grottesca inversione di ruoli.

Ciò che è accaduto a Quarto, ma qualche giorno fa anche a Gela (mi si potrebbe obiettare che le giunte guidate dal Movimento sono 16 e che non è giusto citare solo i casi critici: rispondo che sono i casi critici a mostrare le potenzialità di un movimento politico), ci dice chiaramente che le espulsioni non servono a creare gli anticorpi necessari per amministrare realtà complesse. Mi domando, infatti, cosa accadrà se e quando il Movimento dovesse governare realtà metropolitane in cui politica è giocoforza compromissione, nel senso positivo del termine di dover condividere decisioni importanti anche con altre forze sociali e più in generale con il territorio. Di fronte alle accuse, che ci sono e che ci potrebbero essere, non si può rispondere: voi siete peggio di noi. Non funziona così, i conti non tornano: se il nuovo è solo sentirsi migliori di quello che c'era prima, non è detto che questo sentimento basti a creare le condizioni per essere in grado di amministrare. Io stesso, quando il Movimento 5 Stelle vinse a Quarto, pensai e parlai di un successo del voto di opinione, in un contesto storicamente condizionato dagli interessi della camorra. Invece oggi il caso Quarto rischia di confermare nel cittadino l'idea che la politica in Italia viva solo nelle possibilità di ricatto e che non si possa uscire da questa logica. Rischia di confermare l'idea che non esista davvero la possibilità di evitare di candidare soggetti che prima o poi potrebbero risultare impresentabili. Ma questo non è vero: la conoscenza del territorio, insieme a strutture interne democratiche di pesi e contrappesi, sono le uniche prassi sicure di selezione e metterebbero al riparo da procedimenti di espulsione tipici di una logica da imbonitore. Invece il caso Quarto, per mancanza di competenze e di conoscenza del territorio, finisce per confermare la convinzione distruttiva che viviamo in una democrazia strutturalmente corrotta e arretrata, dove nessuno può ergersi a moralizzatore, perché i giustizieri, prima o poi, finiscono giustiziati. Chi può escludere oggi che l'inconveniente verificatosi a Quarto non possa ripetersi a Roma, a Milano o a Napoli?

E se dovesse capitare di nuovo? Se altre criticità dovessero riguardare la figura del sindaco eletto o di un importante assessore - a oggi nulla sappiamo sulla identità dei potenziali candidati e anche questa è vecchia, cattiva politica - cosa ha da proporre come rimedio politico il Movimento, oltre all'espulsione? Che sarà anche catartica, ma che non risolve i problemi enormi di realtà complesse.

La fedina penale immacolata non è sufficiente a evitare futuri imbarazzi: il boss Zagaria ha utilizzato come suoi referenti persone che lo avevano denunciato per racket e che quindi indossavano abusivamente la maglia dei "giusti". Le mafie da anni cercano di utilizzare persone senza precedenti, cercano tra i parenti di vittime delle mafie, cercano insospettabili. Quindi come avere soltanto la garanzia della fedina penale? Bisogna munirsi di altri meccanismi di valutazione che non siano inquisitoriali ma semplicemente presenza sul territorio e approfondimento. Sono anni che diciamo quanto le mafie non siano più riconducibili allo stereotipo di coppola e lupara, e abbiano come elementi interni faccendieri dai curricula immacolati, il cui ruolo è proprio fare da collegamento tra l'imprenditoria legata ai clan e la politica. E allora è lecito chiedersi: se le mafie avvicinano il Movimento lo fanno perché è mafioso? Assolutamente no. Lo fanno perché con le sue logiche di reclutamento è facile infiltrarlo, perché sospettano che l'inesperienza di governo possa lasciare spiragli (come sarebbe accaduto a Quarto) per ottenere appalti, ricattare assessori, consiglieri comunali e sindaci. Le mafie stanno provando a infiltrare M5S perché dove la parola d'ordine è purezza e onestà, sanno benissimo come gettare ombre, come far cadere una persona, come bloccare un percorso politico. Se predichi onestà qualsiasi graffio ti farà cadere, mentre dall'altra parte resterà in sella chi il problema dell'onestà non se l'è mai nemmeno posto.

E se il Movimento non sarà in grado di imparare e trarre profitto dallo sbandamento di queste ore, il caso Quarto potrebbe pesare come un macigno sulle possibilità di offrire una credibile ed efficiente alternativa ai partiti tradizionali, nonostante i venti di tempesta giudiziaria che oramai soffiano sempre più impetuosi dalle parti di Palazzo Chigi. Eppure il meccanismo inquisitoriale che sottende la logica delle epurazioni, in continuità con la matrice puritana propria della tradizione comunista, è in contrasto con l'ammirazione che il Movimento 5 Stelle prova verso Sandro Pertini, riformista socialista che sull'esempio di Filippo Turati e Anna Kuliscioff, contrastò l'intransigenza bolscevica "o tutto si cambia o nulla serve", spingendo al contrario verso trasformazioni graduali per rafforzare i meccanismi di legalità e giustizia. Negli anni più bui furono loro che salvarono il sentire democratico e socialista dalle derive totalitarie.

Quando è il momento di governare e di assumersi responsabilità, il cortocircuito innescato dai processi sommari a mezzo blog a soggetti infedeli ti presenta il conto: oggi è fin troppo chiaro che non basta candidare incensurati per avere la certezza che non commettano reati nel corso del loro mandato. Ed è altrettanto chiaro che non basta espellere chi non rispetta le "regole" per preservare un percorso politico. Il rischio – non faccio ironia – è che ne resti uno solo, il più puro, che finirà per espellere tutti gli altri.

© Riproduzione riservata
10 gennaio 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/01/10/news/saviano_su_quarto-130936246/?ref=HREC1-5


Titolo: Il j'accuse di Saviano: "Napoli senza futuro, per il Pd è un buco nero e ...
Inserito da: Arlecchino - Febbraio 26, 2016, 11:50:04 am

Il j'accuse di Saviano: "Napoli senza futuro, per il Pd è un buco nero e De Magistris ha fallito"
L'intervista.
A pochi mesi dalle comunali lo scrittore denuncia la mancanza di rinnovamento della politica. Compresi i 5Stelle

Di CONCHITA SANNINO
26 febbraio 2016
   
ROMA. "Lo sa il Pd nazionale come tratta i posti difficili del sud? Come buchi neri. E difatti tende a lavarsene continuamente le mani". Roberto Saviano non ha smesso di scagliare le sue analisi indigeste. "Quello che accade a Napoli e in Campania è esemplare, basta osservare l'offerta politica, l'assenza di un autentico rinnovamento, proprio quando si decide il destino di una capitale del Mezzogiorno sempre più povera, e più preda del crimine". Ma ne ha anche per gli altri. "I Cinque Stelle sono un'estensione della volontà di Casaleggio. E il sindaco de Magistris ha fallito l'unica missione che aveva". Uno sguardo non addomesticato né dalla fama, né dalla (periodica) lontananza. Lo scrittore guarda dall'America al Mezzogiorno e alla sua Napoli, una delle metropoli che a giugno va al voto amministrativo in una sfida che non si annuncia semplice per il Pd di Matteo Renzi.

Saviano, cos'è cambiato cinque anni dopo la svolta arancione che accomunò Napoli a Milano, Genova e Cagliari? Con quale animo andrebbe a votare, se fosse rimasto in città?
"Io non voto a Napoli perché da dieci anni vivo sotto scorta. Forse bisognerebbe chiederlo a chi vive in una città dove si spara quotidianamente, dove è quasi impossibile trovare lavoro, dove non si investe più. Purtroppo, ciò che opprime la vita di tanti cittadini, o li costringe ad andare via, non è cambiato".

De Magistris si ricandida: si è paragonato al Che, poi a Zapata. Cosa salva e cosa boccia della sua "rivoluzione"?
"Il sindaco aveva una missione e l'ha fallita. A fine mandato non è importante isolare cosa va salvato e cosa no, ma quale città si è ereditata e quale città si lascia. L'evoluzione delle organizzazioni criminali a Napoli non ha vita propria, ma si innesta nel tessuto cittadino e in quello politico e imprenditoriale. Se fino a qualche anno fa era quasi solo la periferia a essere dilaniata da continui agguati di camorra, ora si spara in pieno centro. E si spara per le piazze di spaccio. Non una parola sulla genesi di agguati e ferimenti. Non una parola sul mercato della droga che in città muove capitali immensi. Fare politica a Napoli e in Campania dovrebbe voler dire essere l'avanguardia della politica in Italia, avere idee, proposte, e tenersi lontani il più possibile dalle logiche delle consorterie".

Sul Pd ha detto, a Ballaró, che la "più credibile è la vecchia generazione, che con Bassolino ha clientele". Ma lui, osteggiato dai renziani, può raccontarsi come nuovo.
"Lo ripeto. Io vedo che il Pd nazionale si lava continuamente le mani della Campania e di Napoli. Buchi neri, così percepisce le realtà tanto difficili da gestire. Ecco perché non c'è nessuna proposta nuova, nessun percorso alternativo, ma tutto è lasciato ad assetti già esistenti. Cosa c'è da spiegare? È tutto evidente".

Il Movimento 5 Stelle appare ancora segnato dal caso Quarto: da 20 giorni non riesce a indicare il candidato sindaco di Napoli e a sedare malumori.
"Il Movimento 5 Stelle, che sul Sud poteva fare la differenza, sconta un vizio di forma: essere sempre meno un partito e sempre più un'estensione della volontà di Casaleggio. Così il codice d'onore, la multe e - vedi Quarto - le espulsioni assumono un profilo pericoloso perché antidemocratico: quello della cessione di sovranità attraverso la negoziazione privata. Per logica dovrebbe essere: se vengo eletto, credo di poter amministrare secondo le specificità del territorio. Ma nel M5S non è così, perché basta invece prendere una decisione in disaccordo col direttorio per essere cacciato via. Mi domando se gli iscritti al Movimento questa cosa l'abbiano compresa, se la ritengano giusta o la subiscano. La mia sensazione è che anche per loro la politica ormai sia solo comunicazione".

Cosa serve di più al futuro sindaco di Napoli?
"Attenzione costante. E progetti veri: da Roma, dall'Europa. Nessun politico, nessun partito può farcela senza un progetto nazionale e internazionale che sostenga la riforma della città. Chiunque creda di potercela fare inganna se e gli elettori".

Nella città dove i killer sono sempre più "bambini", gli intellettuali si dividono sulla temporanea esposizione a Roma d'una splendida opera del Caravaggio. Ha vinto il no. Lo chiedo a lei che ha fondato una corrente narrativa: ma Gomorra si può esportare e i capolavori d'arte no?
"Capisco la provocazione: un Caravaggio esposto a Roma avrebbe agito ottimamente da marketing per il turismo. Se poi è vero quanto ho letto, e cioè che il prestito avrebbe garantito fondi per una casa rifugio al rione Sanità per donne e bambini, allora credo che certe polemiche non solo siano sterili, ma anche dannose. Il Pio Monte della Misericordia, dove si trova il Caravaggio, è in via dei Tribunali, a due passi da Forcella, dove a Capodanno è stato ucciso un innocente. Mi viene da sorridere quando oltre al vincolo di inamovibilità si fa appello alla comprensione dell'opera solo nel contesto che in cui è inserito. Perché quel contesto è terribile e difficile per chi ci vive e per chi resiste".

© Riproduzione riservata
26 febbraio 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/02/26/news/il_j_accuse_di_saviano_napoli_senza_futuro_per_il_pd_e_un_buco_nero_e_de_magistris_ha_fallito_-134258007/?ref=HRER1-1


Titolo: ROBERTO SAVIANO Modesta proposta per salvare il sud
Inserito da: Arlecchino - Marzo 10, 2016, 06:23:18 pm
Modesta proposta per salvare il sud
Quel che accade a Napoli presto potrebbe accadere anche altrove


Di ROBERTO SAVIANO
10 marzo 2016

MI ACCUSANO di non essere propositivo per Napoli: è vero, lo ammetto. Ci ho riflettuto a lungo e ho un consiglio. Un consiglio da dare ai napoletani e ai cittadini di altre realtà del Mezzogiorno. Organizzate un'inaugurazione.

Direi quasi: inventate un'inaugurazione. Il cantiere di una nuova stazione della metropolitana, una strada, un ponte, una mostra. Qualcosa che possa provare l'usurato assunto secondo cui l'Italia è ripartita. Fatelo anche se non è vero, magari allestite un palco, chiamate un cantautore a suonare, qualcuno che possa veicolare un messaggio positivo. Che non sia uno di quei rapper che raccontano di periferie desolate e straccione, no. Le note devono arrivare in alto ed essere melodiose. E poi invitate il presidente del Consiglio, nonché segretario del Partito democratico: vedrete che verrà, a lui piacciono le inaugurazioni, a lui piace tutto ciò che sa di ripartenza, di nuovo inizio. Lui ha sempre forbici in tasca pronte a tagliare nastri. Sono i problemi che lo turbano, che lo spingono sistematicamente a cambiare strada. È davanti ai problemi che tace e smarrisce la sua nota parlantina.

Ma non tendetegli tranelli, non parlate con lui di ciò che nel suo partito sta accadendo a Napoli: anzi, sta accadendo ovunque solo che a Napoli è più evidente che altrove. Lui che quel partito lo ha ereditato, lui che ne voleva rottamare i dirigenti, se ne laverà le mani. Meglio tagliare nastri e tenersi lontano dai disastri, anche quando si consumano in casa propria.

E così intervistato a Genova da Ezio Mauro nel 2015, dopo la sconfitta del Pd alle regionali liguri, non una parola sugli immigrati a cui era stato distribuito l'euro, ma una frase chiara sulle primarie: "Il Pd deve avere il coraggio di dire se le primarie sono lo strumento che va ancora bene o no". Un anno dopo la risposta non è ancora arrivata. Il Pd non è un'entità astratta, mi verrebbe di dire a Renzi, ma ha un segretario, ed è lui a doverci dire, una volta per tutte, se un istituto non prescritto da nessuno, che volontariamente è stato introdotto per scegliere democraticamente e dal basso i candidati, può ancora andare bene dopo i brogli di Napoli nel 2011, dopo i ricorsi di Genova nel 2015 e dopo gli "euro per le donazioni" a Napoli di domenica scorsa.

In questo momento è lui il Pd e non altri. È da lui che aspettiamo questa risposta. Lui, che ha conquistato il Pd proprio grazie alle primarie, non dovrebbe accettare che il suo partito le riduca a quella farsa di democrazia che abbiamo visto a Napoli.

Un euro. Un euro per la donazione. Si difenderanno dicendo: "Figuriamoci se possiamo comprare un voto con un euro!". Vero, non se ne fanno niente. Quell'euro serviva ad accedere al diritto di votare. A Napoli con un euro ci compri una pizzetta, una graffa (come chiamiamo le krapfen), dolce di cui i napoletani (ed io per primo) vanno pazzi. Ci compri mezza zeppola di san Giuseppe. Ma un voto no. Un voto lo compri facendo promesse. Promettendo una casa, un posto di lavoro, un posto auto. Promettendo ciò che non puoi dare perché non è in vendita. Un euro non rappresenta ovviamente il costo di un voto alle primarie, ma è la prova dell'esistenza di un'organizzazione rodata, di un sistema di potere e di controllo del voto di cui Antonio Bassolino ora vittima, fu un tempo creatore.

Questo vale un euro, nulla e insieme la consapevolezza che esistono pacchetti di voti che da destra a sinistra si muovono per inquinare le acque, per falsare il normale svolgimento di ogni cosa, elezioni e persino primarie.

A Napoli il Pd meriterà di perdere perché non ha più credibilità. E rischia di riconsegnare la città a De Magistris: un sindaco con il maggior numero di deleghe nella storia dei sindaci italiani. Un sindaco che si vanta di aver riempito la città di turisti, ma che avrebbe perso parte dei fondi stanziati dall'Unione Europea e dall'Unesco per la riqualificazione del centro storico per ritardi colossali nei lavori. Sito che rischia di perdere la tutela, nonostante la sua enorme bellezza, per lo stato di degrado in cui versa e che l'Unesco definisce oramai "sito a rischio". Un sindaco che non è un buon amministratore, ma che è senza dubbio una persona onesta e per questo (e forse unico motivo) potrebbe essere rieletto. Un sindaco che, dopo lo scempio di queste primarie, potrà poi contare sui voti di chi, ora deluso, era pronto per votare per il Pd.

Le polemiche di queste ore, i trucchi di domenica e il silenzio di Renzi scavano ferite profonde, in una città che drammaticamente va avanti, che sopravvive a ogni nuovo giorno. L'altro ieri un vigile urbano è stato ucciso a Ponticelli con modalità mafiose. Centrato da tre colpi d'arma da fuoco in un quartiere che solo nell'ultimo mese ha contato tre omicidi. Qualche giorno prima è stata sventata una tragedia nel centro sportivo di Marianella-Piscinola, in un campetto di calcio sorto su un terreno comunale sequestrato qualche anno fa alla camorra. Un ordigno rudimentale, il secondo attentato alla struttura, azionato quando sul campo c'erano 15 bambini. Ne avete avuto notizia? Pochi, pochissimi ne hanno parlato. Silenzio.

Scampia, Piscinola, ecco dove sono stati girati i video da Fanpage che documentavano il pagamento di un euro per il voto a Valeria Valente. Dove la camorra ci mette un attimo ad arruolare ragazzi pronti a tutto, tanta è la miseria. Dove da anni chiedo ai giornali nazionali di spostare le loro sedi perché possano raccontare cosa accade davvero in una delle città più importanti d'Italia. Dove da anni imploro la politica locale di spostare i suoi uffici, perché vi sia luce e perché diventino il cuore della città. Affinché si possa voltar pagina. Altrimenti Napoli rischia di diventare un'avanguardia del nostro Paese: quel che oggi accade qui, accadrà presto anche altrove. Per questo è impossibile accettare l'inerzia del segretario del Pd davanti a questo piccolo, grande, scandalo. Il silenzio di oggi genera la cattiva politica del futuro.

© Riproduzione riservata
10 marzo 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/03/10/news/modesta_proposta_per_salvare_il_sud-135143431/?ref=HRER2-1


Titolo: ROBERTO SAVIANO Una dose di Dante Virgili per renderci immuni all'odio
Inserito da: Arlecchino - Aprile 02, 2016, 10:47:26 am
Una dose di Dante Virgili per renderci immuni all'odio
Lo scrittore spiega perché rileggere il libro più controverso


Di ROBERTO SAVIANO
02 aprile 2016

Odio. Odio vivo, sanguinante, pulsante. Odio vero, non gioco di prestigio, sotterfugio letterario, pigro sfogo di penna. Odio, odio, odio. Scriverlo tre volte di seguito forse basterà nella somma a far intuire cosa ha scritto e chi è stato Dante Virgili. I francesi, in letteratura, sanno quando si parla d’odio vero, con che cosa si ha a che fare. Louis-Ferdinand Céline, che non abbisogna altro che d’esser citato, Blaise Cendrars e la sua mano mozza, artefice di pagine dove l’odio umano vibra in un incredibile meccanismo armonioso, e il padre assoluto degli odiatori, Charles Baudelaire, sono autori capaci d’usare la parola come arnese acuminato contro tutto ciò che si pone a portata d’affondo, di staffilata. L’odio totale non ha un obiettivo preciso, o un piano d’accusa, è un’irradiazione circolare che investe ogni elemento e soprattutto l’origine del proprio odio: se stessi. Nell’attività dell’odiatore letterario vi sono oggetti prediletti, preferenze di distruzione, precedenze di disprezzo ma non v’è una chiara gerarchia e ancor più non v’è una politica dell’odio, una possibilità di soluzione dialettica tra odiatore e odiato. È una scrittura fatta col martello!

Torna ora in libreria Dante Virgili, non me l’aspettavo, credevo ormai che non avrebbe mai più rivisto scaffale, che sarebbe rimasto nelle mani di chi già sprovvedutamente ne avesse preso rara copia. Detto ciò, prendete le pagine di Dante Virgili e schiacciatele con un pestello in un robusto mortaio di pietra viva, dopo pochissime pestate nel fondo del mortaio troverete un liquido bilioso, denso, simile a un bolo di catarro narrativo e rigagnoli di sangue, un pasticcio d’ossa umane e ali di falena. Non mi sovviene altra figura descrittiva per meglio rappresentare la scrittura di questo osceno narratore ritrovato. Il nome Dante Virgili è sconosciuto ai più. Anche gli addetti ai lavori non ricordano questo strano nome, anzi si arrovellano nel cercare di venire a capo di uno pseudonimo così assurdo da sembrare banale. Nessuno pseudonimo. Dante Virgili è il nome reale dell’unico scrittore “nazista” italiano, autore di un solo romanzo pubblicato (e con diversi pseudonimi autore di molti romanzi western e libri per ragazzi), personaggio solitario, ipocondriaco, di lui non esiste neanche una fotografia. Quando è morto nessun familiare ha voluto spendere un obolo per fargli il funerale, nessun amico ha sofferto, nessuna lacrima, nessuna presenza. Dante Virgili faceva schifo a tutti e tutti gli facevano schifo, o quasi.

Nel 1970 la Mondadori pubblica un romanzo, La distruzione, in copertina campeggia il volto di Adolf Hitler in una sua smorfia tipica, costruita con una molteplicità di colori a chiazze. Una grafica particolare per un testo davvero singolare. Il libro è provocatorio, dannatamente tormentato, un inno disperato al nazismo e al Führer come negazione assoluta di un presente decadente e decaduto. Il libro di Dante Virgili è una cassa di nitroglicerina pronta a esplodere. Sogna stroncature, si immagina fiaccolate contro di lui, raccolte di firme che lo indichino come bersaglio. Invece, il romanzo è ignorato. Gli ambienti politici non lo considerano, i cenacoli intellettuali non lo detestano, non lo stroncano. Virgili e La distruzione sono riassorbiti nell’oblio.

Il protagonista è un uomo brutto, che lavora come correttore di bozze in un giornale squallido, burocratizzato, circondato da mediocrità e stupidaggine. Sogna la fine dell’umanità, gode nell’immaginare la tragedia ultima di una guerra nucleare che possa far terminare «l’esperimento umano, come quello dei dinosauri». Il distruttore non ha famiglia, non ha moglie né figli, osserva la politica internazionale nella speranza che i tempi per il conflitto nucleare si velocizzino, che la catastrofe sia prossima. Il distruttore ha nostalgia del Reich, ammira la Germania di Hitler, adora le possenti armate tedesche, ha svolto il ruolo di traduttore per le Ss, durante l’occupazione tedesca in Italia, ha assistito estatico a Berlino a un discorso del Führer. Eppure Dante Virgili non sembra essere un intellettuale conservatore. Predilige il suono del cingolato, la marcia della Wermacht, la protervia del soldato; gli scenari di sangue che appaiono nella sua mente gli ricordano, nella melma della pigrizia, cosa può ancora significare essere uomo. «Ho evitato la mediocrità. Moglie scialba prole male allevata. Accettando la pura sopravvivenza non mi sono compromesso. Vivendo in attesa della vendetta non mi sono alienato. Sono ancora IO... In ultimo un conflitto nucleare mi salverà. È fatale che scoppi prima o poi. DEVE scoppiare. Si strazieranno a vicenda bruceranno vivi nel loro calderone di streghe. Si macereranno in un’orgia di fuoco».

La libidine e la Germania sono due cardini, due ossessioni che tempestano il romanzo. Il sadomasochismo, spinto sino ad aneliti pornografici, è una costante per Virgili che lo usa con un accento misogino. Il distruttore considera la donna null’altro che la vita trionfante che si manifesta in tutta la sua versatilità. Trionfo della vita, che nel tempo del capitalismo significa trionfo della merce, attrazione per il danaro, rapporti finalizzati all’accumulare finanze. Il distruttore vede nella possibilità di pagare le donne un mezzo per dominarle, per esperire il potere su quegli esseri che essendo lui squattrinato, brutto e trascurato, non si avvicinerebbero mai.

Nel suo libro Cronaca della fine Antonio Franchini racconta della vicenda umana e intellettuale di Dante Virgili, della complicatissima vicenda editoriale dei suoi scritti, delle sue manie di tormentare i funzionari della Mondadori. Molti funzionari si erano legati a Virgili, nonostante la sua insistenza, antipatia, spesso tracotanza. Insomma Virgili, pur avendo tutte le caratteristiche del solito aspirante scrittore, scocciatore e rompiballe, aveva lasciato traccia di sé nella casa editrice.

Il suo primo romanzo fu pubblicato quasi come tentativo provocatorio, l’altro testo fu bocciato, eppure quando Dante Virgili si presentava, fisicamente, alla Mondadori, un capannello di persone gli si raccoglieva d’intorno. Cosa vedevano questi funzionari nelle pagine e nella vita di Virgili? Solo curiosità per un mostro metropolitano, nascosto al terzo piano di un qualsiasi palazzo a imbrattare fogli? Giuseppe Genna, Michele Monina e Ferruccio Parazzoli scrissero un bel libro dal titolo I Demoni dove il personaggio Dante Virgili (modificato in Dante Virgilio) è mostrato in tutto il suo aspetto mitico, amalgamato agli spettri dostoevskijani di cui sembra essere figlio abortito. Proprio la magica impubblicabilità di Virgili, rende le sue pagine così importanti e necessarie, ma d’una necessità che trascende il piano d’un romanzo. Le parole di Virgili marchiate a fuoco su pagine bianche, potranno anche esser pubblicate, ma manterranno la loro labirintite scompaginata, l’accumulazione parossistica d’odio ed efferatezza, la tenerezza nascosta di un’umanità in letargo. Virgili non è da leggere ma da iniettare.

© Riproduzione riservata
02 aprile 2016

Da - http://www.repubblica.it/cultura/2016/04/02/news/una_dose_di_dante_virgili_per_renderci_immuni_all_odio-136727610/?ref=HRER2-2


Titolo: ROBERTO SAVIANO Quei pusher dell'Is arruolati come kamikaze
Inserito da: Arlecchino - Aprile 08, 2016, 08:44:12 pm
Quei pusher dell'Is arruolati come kamikaze
In comune i terroristi di Parigi e di Bruxelles non hanno solo il Jihad.
Prima di fare i kamikaze vivevano di criminalità. Ecco come hanno varcato quel confine

Di ROBERTO SAVIANO
03 aprile 2016
   
BRAHIM Abdeslam, il terrorista che la sera del 13 novembre si fece saltare in aria davanti alla brasserie di boulevard Voltaire a Parigi, era noto alle forze dell'ordine per furto e traffico di droga, reati per i quali era già stato processato. Suo fratello Salah, che era riuscito a scappare ed è stato arrestato quattro mesi dopo a Molenbeek, l'ormai famoso quartiere "arabo" di Bruxelles, nel 2010 era finito in prigione in Belgio per rapina insieme ad Abdelhamid Abaaoud, considerato la mente degli attentati nella capitale francese e rimasto ucciso durante l'operazione di polizia a Saint-Denis a novembre. I fratelli Abdeslam, nel 2013, a Molenbeek avevano preso in gestione un bar diventato la loro base per lo spaccio di hashish, e il locale era stato poi chiuso per traffico di droga. Anche i fratelli Khalid e Ibrahim El Bakraoui, due dei kamikaze degli attentati di Bruxelles, avevano precedenti per spaccio di droga e rapina. Ayoub El Khazzani, l'attentatore del treno Amsterdam-Parigi bloccato da alcuni passeggeri nell'agosto del 2015 prima di compiere una strage a colpi di kalashnikov, era stato invece condannato da un tribunale spagnolo: per traffico di droga. Chérif Kouachi, uno dei terroristi dell'attentato a Charlie Hebdo , aveva vissuto nella periferia nord-est di Parigi, dove droga e piccoli crimini erano la sua occupazione principale prima di diventare jihadista insieme al fratello Saïd.

I terroristi islamisti hanno quasi sempre un passato da pusher o da criminali comuni, eppure questo non diventa tema di dibattito. Sembra che la cosa sia una pura casualità. Passano da esperienze di criminalità organizzata a esperienze di prassi terroristica senza modificare i propri comportamenti, sfruttano l'esperienza criminale per continuare a spacciare e riciclare danaro allo scopo di sostenersi e per continuare ad approvvigionarsi di armi, prima usate nei conflitti tra bande, ora negli attentati. Tutto questo incredibilmente risulta secondario nel dibattito internazionale sulle stragi. Come mai? È difficile individuare la chiave giusta, perché forse neanche esiste, ma è doveroso sgombrare il campo dai travisamenti che hanno viziato il racconto degli attentati terroristici avvenuti in Belgio il 22 marzo 2016 e prima ancora in Francia il 13 novembre 2015, quelli per cui noi europei, utilizzando una metafora scacchistica, saremmo in una situazione di potenziale scacco al re. L'errore è quello di trattare i gruppi che progettano, preparano e compiono attentati esclusivamente come un'emanazione diretta del Califfato, come una sua declinazione, senza riflettere sullo specifico delle loro azioni. Lo sguardo di molti analisti si sofferma sulla dottrina fondamentalista, su come si diventa kamikaze; e anche quando si approfondisce, a contare è essenzialmente il dato militante, la pratica religiosa che diventa pratica terroristica e l'incidenza di tutti questi fattori nel contesto delle seconde generazioni di immigrati. Si stenta a comprendere che la strategia dell'Is nei territori occupati dal Califfato, e altrove, è ascrivibile a prassi che siamo di solito abituati ad analizzare e comprendere - e nei tribunali a processare - con riferimento alle organizzazioni criminali in senso stretto.
Generazione Is, dalle banlieue alla jihad. Saviano: "Criminali prima che terroristi"
L'arresto di Salah Abdeslam costituisce, questo sì, un punto di non ritorno, poiché ci aiuta a leggere diversamente la storia di questi giorni. Il quartiere di Molenbeek a Bruxelles, dove Salah si nascondeva - pur essendo un quartiere con tante anime, dunque non ascrivibile all'idea di ghetto in senso stretto - non lo trattava come un corpo estraneo. Anzi, al suo arresto ha vissuto una sorta di ribellione, come accade nelle periferie del mondo quando a essere arrestati sono giovani affiliati ai clan locali. Accade in Italia, in Serbia, in Messico e oggi, con forme e modalità diverse, in Belgio. Molenbeek è un quartiere vicinissimo al centro di Bruxelles, ci vivono moltissimi immigrati provenienti dal NordAfrica e dai paesi arabi, ospita ventidue moschee e il vicesindaco, Ahmed El Khannouss, ha dichiarato al Guardian che non è nei centri ufficiali che avviene il reclutamento, ma nei luoghi di preghiera clandestini. Ciononostante, il quartiere ha risposto con fastidio all'arresto di Salah Abdeslam, lanciando salsa di pomodoro verso i militari. Su questo vale la pena soffermarsi, perché quando in un quartiere capita che ci sia chi si mantiene con spaccio di droga e ricettazione, quando un quartiere è attraversato da immigrati, talvolta irregolari, ecco che un ricercato diventa un problema perché attira polizia e retate. Non è casuale che, negli anni Settanta, i brigatisti rossi, come i militanti di Action Directe o della Raf, spesso sparissero in quartieri borghesi, non solo perché loro luoghi di origine ma anche perché, se avessero cercato riparo in quartieri popolari che vivevano prevalentemente di criminalità e fossero stati identificati, sarebbero stati immediatamente "invitati" ad andar via. Al contrario, quando capitava che venissero accolti, accadeva per autorizzazione dell'organizzazione criminale egemone. Qui c'è qualcosa di diverso: un quartiere (una parte di esso) che sembra aver difeso e tutelato un ricercato considerandolo un pericolo ma non un corpo estraneo.

La pratica mafiosa è esattamente quella che utilizza l'Is nella protezione dei suoi militanti; i quartieri a maggioranza islamica stanno con loro pur non condividendone tattica e strategia di guerra, pur guardando con fastidio al loro universo di senso. E i militanti dell'Is, agli occhi dei ragazzi islamici - che non sono simpatizzanti del radicalismo, che non ucciderebbero mai per motivi religiosi, né si farebbero mai saltare in aria, o che magari neppure frequentano moschee - diventano amici sventurati che hanno superato una linea di demarcazione. Non c'è consenso, ma c'è empatia: sono compagni che sbagliano. "Questi giovani che si arruolano nell'Is sanno più di furti d'auto che di Corano", ha scritto lo scrittore belga David Van Reybrouck riferendosi ai terroristi. E allora cosa sta pagando l'Europa? E cosa stanno pagando Francia e Belgio? Il fallimento assoluto dell'aver considerato il crimine una sorta di male marginale, da tollerare fino a quando si fosse mantenuto dentro i confini della periferia: spacciano, si ammazzano tra di loro e vanno bloccati solo quando alzano il tiro, escono dal recinto e arrivano al centro delle città. È un fallimento che ha una radice anche negli errori commessi sul piano urbanistico negli anni Settanta, spesso ascrivibili non a governi di destra, bensì a esecutivi socialisti o socialdemocratici. Progetti teoricamente affascinanti, figli di idee progressiste, ma che da soli non potevano evitare che i nodi venissero al pettine.

Il fallimento si è realizzato quando le nuove generazioni cresciute ai margini dell'Europa hanno preso coscienza del disinteresse di fondo per i loro destini da parte delle società che li ospitavano. Perditi pure, purché tu lo faccia lontano dai miei occhi. Quando hanno finito per considerare le loro vite già perdute poiché insignificanti - con l'unica opzione di far denaro con il crimine comune - alcuni hanno reagito ritenendo di essere nel giusto a combattere per una causa comune: uno Stato Islamico Globale. Un'idea grande, un'utopia che condivisa diventa l'unica possibilità di riscatto. Questa logica aiuta a entrare in una dialettica con la morte assolutamente quotidiana, ecco perché il salto tra il crimine comune e il fondamentalismo islamista non è affatto così improvviso: la linea di demarcazione c'è, ma basta un passo per superarla.

La storia delle cellule fondamentaliste in Europa viene invece raccontata secondo l'interpretazione suggerita dallo stesso Califfato, che riesce agevolmente a farci credere quanto a esso funzionale. E se chi sposa la causa, la vita se la gioca come su una scacchiera per cercare emancipazione dal ghetto, per ribellarsi al ghetto, la scelta del fondamentalismo arriva in fondo come un salto quasi obbligato e non è diversa dalla scelta della pratica criminale. E se dai contrasti derivanti dalla lotta di classe l'Europa credeva di essersi liberata, eccoli che rientrano dalla porta principale, nelle manifestazioni prima di crimine organizzato e poi di fondamentalismo islamista, pratiche che in determinate realtà finiscono per coincidere.

Al di là degli addestramenti in Siria, chi si "arruola" sa esattamente come muoversi perché ha ben presente la pratica criminale: riconosce poliziotti in borghese, sa come gestire l'ansia, sa dove acquistare armi, come farle circolare, sa come muoversi sui mercati clandestini. E in ultimo, sa come sfruttare le maglie, fin troppo larghe, attraverso cui entrano i capitali che finanziano le cellule terroristiche. Sa riconoscere le incompetenze (e la corruzione) delle polizie in Francia e in Belgio, le misura da decenni attraverso la competizione che ha con loro nel controllo del territorio. Il Belgio paga una strategia di assoluta tolleranza del traffico criminale, lasciato proliferare entro i limiti della periferia, dove faide e conflitti venivano considerati utili per una sorta di autocontrollo, un "uccidersi tra loro" in cui la polizia interveniva a tagliar le cime troppo alte delle piante criminali ma mai a estirpare la radice. Traffico di droga e di armi da un lato, riciclaggio ed evasione dall'altro sono state le debolezze del Belgio più di qualsiasi altra cosa. Ma come può un narcotrafficante diventare terrorista? Domanda ingenua.

Dal Messico all'Ucraina passando per l'Italia, le organizzazioni mafiose vivono una sorta di semplicistica interpretazione da parte dell'opinione pubblica, ossia la convinzione che ammazzino solo coloro che rientrano nelle loro logiche rivali e di opposizione. Nulla di più falso: le mafie uccidono da sempre innocenti, per errore, per caso, o per terrorizzare. Quindi formano persone in grado di perpetrare violenza. Ma il tema non è questo, è l'esistenza di generazioni europee - così come africane, sudamericane e asiatiche - che vivono con l'idea che ogni miglioramento economico coincida con il rischio del carcere, con la prospettiva di una vita meno che mediocre ma protetta o una vita con possibilità di crescita economica e di responsabilità ma ottenuta uccidendo e mettendo in conto di poter essere uccisi. A Napoli come a Molenbeek il sogno di fare soldi significa giocarsi la vita. In molti quartieri europei non c'è per gran parte dei giovani altra strada di crescita che rischiare la vita, ammazzare, essere ammazzati o prendersi decenni di galera. E qui accade il cortocircuito. Quando si decide di morire e di non fare la fine dei propri compari in carcere. Quando si decide di morire non in una faida ma uccidendo e dandosi un senso maggiore, una fama maggiore, un riconoscimento. Quando si decide di morire per il Jihad. Ecco che, vista da questa prospettiva, la morte in un attentato suicida non è una scelta così distante dalle vite di una generazione che ha il proprio corpo come unico capitale e la violenza come moneta da spendere nel commercio quotidiano.

Dopo gli attentati di Parigi di novembre è apparso su Le Monde un editoriale a firma di Olivier Roy, politologo e profondo conoscitore dell'Islam, che ha fatto molto discutere. Riguardo agli attentatori kamikaze, Roy ha parlato di rivolta generazionale e nichilista - qualcuno potrebbe pensare a un ossimoro - che nasce non nel radicalismo religioso, ma come conseguenza degli aspetti più disumanizzanti della globalizzazione, tra cui la frustrazione e l'emarginazione che vivono i figli delle seconde generazioni di immigrati. Per Roy non ci troviamo di fronte a una rivolta dell'Islam o dei musulmani, ma a una rivolta di giovani che hanno in comune l'isolamento dalla società in cui sono cresciuti e la voglia di rivincita su questa. Che la loro battaglia abbia poco a che fare con l'ortodossia religiosa è opinione anche del professore belga Rik Coolsaet, che studiando i motivi che spingono i giovani occidentali a unirsi all'Is ha notato che il loro processo di reclutamento avviene molto velocemente e non richiede una vera e profonda radicalizzazione: a differenza degli estremisti e dei terroristi del passato, i foreign fighters che si arruolano oggi lo fanno spesso con una superficiale conoscenza sia della religione sia della politica, e hanno molta più conoscenza della vita sulla strada che di quella in moschea.

L'Europa è disunita su tutto, lo è stata e lo è pericolosamente ancora, ma oggi al pettine è venuto il nodo degli errori commessi nel contrasto a realtà criminali che sono divenute il brodo di coltura di un tentativo di eversione dei valori fondativi del secondo dopoguerra. La politica di molti governi, anche "progressisti", si è limitata ad attendere che i criminali si sterminassero tra loro, risolvendo problemi che si è sempre evitato di affrontare. Non ha funzionato, e la cronaca di questi mesi ha presentato un conto drammatico. La lotta europea all'Is sta fallendo anche sul piano della comunicazione. Intervistato dalla radio newyorchese Wnyc , Nicolas Henin, giornalista francese che nel 2013 venne rapito dall'Is e tenuto prigioniero per dieci mesi in Siria, ha spiegato che per combattere l'Is bisogna distruggere la sua narrazione, il mito che è riuscito a crearsi grazie a un'accurata opera di comunicazione. L'Is ha costruito una narrazione mitologica vincente che colpisce e cattura l'attenzione dei giovani musulmani occidentali, i quali decidono di arruolarsi nelle sue file prima di tutto perché vogliono diventare eroi, diventare famosi, diventare qualcuno in una società che non gli ha dato altre opportunità, proprio come la propaganda jihadista gli prospetta. Per questo, secondo Henin, l'unico modo per contrastare tale meccanismo è costruire altri eroi, un altro film, una narrazione vincente da contrapporre a quella dell'Is. Per contrastare i terroristi, più che usare le bombe l'Occidente deve costruire una propria narrazione che uccida la loro.

© Riproduzione riservata
03 aprile 2016

Da - http://www.repubblica.it/esteri/2016/04/03/news/dell_is-136788111/?ref=HREC1-10


Titolo: ROBERTO SAVIANO La politica della resa Il sud sta morendo. Il Sud è già morto.
Inserito da: Arlecchino - Aprile 28, 2016, 06:14:21 pm
La politica della resa
Il sud sta morendo. Il Sud è già morto.
Nell'agenda di questo governo, il Sud è stato affrontato con promesse politiche, con proclami, mentre nel mondo reale sono altre le forze che agiscono.
Per capire il Paese bisogna studiare le organizzazioni criminali approfonditamente

Di ROBERTO SAVIANO
28 aprile 2016

IL SUD sta morendo. Il Sud è già morto. Nell'agenda di questo governo, il Sud è stato affrontato con promesse politiche, con proclami, mentre nel mondo reale sono altre le forze che agiscono. Per capire il Paese bisogna studiare le organizzazioni criminali approfonditamente. Il loro assioma di partenza è semplice: sia che tu voglia fare politica, sia che tu voglia fare impresa, devi sporcarti. Se vuoi emergere, devi sporcarti. Se vuoi guadagnare, devi sporcarti. Se non vuoi essere nulla - zi' nisciun (zio nessuno), come si dice dalle mie parti - allora puoi essere immacolato e onesto. Un principio che deriva da una convinzione altrettanto chiara: nessuno è pulito, nessuno può esserlo, se vuole crescere economicamente. E questo è il motivo per cui il primo gesto davvero efficace contro le mafie sarebbe aiutare gli imprenditori onesti.

L'inchiesta su camorra e Pd in Campania ruota intorno a Alessandro Zagaria, l'uomo che, secondo le accuse della Dda di Napoli, gestisce il meccanismo di mazzette per ottenere l'appalto di ristrutturazione del palazzo Teti-Maffuccini a Santa Maria Capua Vetere, si interfaccia con la politica e con le aziende, cerca - secondo le accuse - un appoggio nel presidente del Pd campano, Stefano Graziano, che vuole trasformare nella sua testa di ponte con Roma. Graziano avrebbe sbloccato per esempio fondi per circa due milioni di euro per il restauro del palazzo e avrebbe ricevuto sostegno elettorale "con l'impegno di porsi come stabile punto di riferimento politico e amministrativo del clan dei casalesi". Così si legge nell'inchiesta della Dda di Napoli, coordinata da Giuseppe Borrelli. Ma come può un imprenditore così esposto avere credito? Essere frequentato e ascoltato da politici e imprenditori? Vincere gare d'appalto?

Nel 2008 il pentito Oreste Spagnuolo racconta (e le sue dichiarazioni furono ritenute attendibili) che Giuseppe Setola, il camorrista che stava portando avanti una strategia terroristica (sua la strage degli africani di Castel Volturno), voleva entrare nell'affare del grande porto. Per ingraziarsi il boss Michele "Capastorta" Zagaria gli regalò un cesto con prosciutti, champagne e una collana d'oro. Un gesto simbolico come richiesta di benevolenza. Per far arrivare il regalo a Zagaria, all'epoca latitante, Setola lo fece recapitare proprio al ristorante "Il Tempio", di Ciccio Zagaria, padre di Alessandro. Per la cronaca, il ristorante girò il pacco alla sorella del boss, ma Michele Zagaria rifiutò il dono, perché Setola aveva messo le zampe nella distribuzione latte e nei lavori del biogas, che erano suo monopolio: era quindi molto indispettito. E ancora, nel 2014 il pentito Massimiliano Caterino, ex uomo di Michele Zagaria, raccontò che lo stesso ristorante cucinava i pasti per il boss. Grazie a questa devozione, Alessandro Zagaria vinse appalti per mense scolastiche, bar universitari e egemonizzò il settore della ristorazione. Con precedenti e sospetti del genere, poteva la politica capire che non era il caso di avere un dialogo con Alessandro Zagaria? O doveva aspettare condanne in Cassazione?

La stessa cosa capitata a Roma con Salvatore Buzzi e Massimo Carminati. Se queste persone avessero fatto concorso per un posto da uscieri in una scuola sarebbero state bloccate, non avrebbero nemmeno potuto fare gli autisti: qualsiasi società avrebbe rischiato l'interdittiva antimafia. Come sono potuti diventare interlocutori della politica, gestire voti e appalti, intimidire e decidere?
Il presidente del pd campano, Stefano Graziano, è indagato per il reato di concorso esterno in associazione camorristica: pare abbia chiesto e ottenuto appoggi elettorali nelle ultime consultazioni per l'elezione del Consiglio regionale. Ora la giustizia farà il suo corso, bisognerà capire se Graziano era consapevole o ingenuo "utile idiota". Ma al di là di come finirà questa vicenda sul piano giudiziario, la questione è prima di tutto politica. Se venisse confermato che questi mondi criminali si sono organizzati per fare avere voti e sostegno, e che Graziano ha accettato l'appoggio pensando che non si trattasse di camorra, ma di normale logica provinciale di scambio di favori e protezioni, sul piano politico sarebbe ancora più grave.

La politica viene sostenuta dalle mafie a sua insaputa. È tollerabile? È credibile? La camorra così fa, è la sua astuzia più grande quella di far credere che non esiste, che è tutta un'esagerazione, che qui si tratta solo di normali affari e favori. La vicenda di Santa Maria Capua Vetere non ha nulla di straordinario, perché incarna un meccanismo tipico. La politica ha bisogno dell'impresa, l'impresa ha bisogno del danaro pubblico, il danaro pubblico si ottiene facilmente attraverso l'accesso al potere criminale, che può vantare capacità industriale, liquidità finanziaria, potenziale intimidatorio e controllo dei voti. Il potere criminale minaccia e ammazza senza temere ripercussioni, considera il business qualcosa per cui si può morire e uccidere; grazie a questo ha la capacità di ottenere velocizzazioni burocratiche e riesce quindi a snellire anche i processi. Appoggiarsi alla camorra significa avere il controllo di tutti i passaggi. La camorra lubrifica ogni singola parte dell'ingranaggio. A intervenire in questo meccanismo è anche Michele Zagaria, il boss-imprenditore dagli affari tentacolari (il cuore delle sue imprese è in Emilia Romagna, il fratello ha costruito un palazzo in centro a Milano), ma soprattutto l'uomo che ha intuito meglio di ogni altro un paradigma fondamentale: il miglior modo di fare impresa mafiosa è sostenere l'antimafia.

Storica dimostrazione di questa strategia si ha quando Zagaria permette a due imprenditori del suo giro di denunciare estorsioni da parte di due presunti camorristi. Questi vengono identificati e condannati grazie alla dichiarazione degli imprenditori, che assumono un'immagine antimafia, ma in realtà continuano a essere affiliati al clan. Analogo è il metodo utilizzato da tutte le mafie in questi anni: con il Pd, con i Cinque Stelle, con tutta quella politica che si dichiara contro la mafia e persino con le associazioni antimafia. Se avessero potuto - e la 'ndrangheta c'è riuscita - avrebbero lavorato sicuramente anche con giudici antimafia. Basti pensare che molte famiglie camorriste e mafiose oggi si fanno difendere da avvocati, spesso proprio ex magistrati, che provengono da un contesto antimafia.

Ma il caso di Santa Maria Capua Vetere evidenzia anche un altro problema: l'incapacità del governo di modificare i meccanismi criminali. Qualunque sarà il risultato giudiziario di questa inchiesta, è evidente che la politica non è in grado di fare autodiagnosi, non riesce più a capire quando diventa partner della camorra. Ma l'aspetto più tragico della vicenda è che la politica non riesce più a difendersi senza la magistratura: rimuove, o costringe alla sospensione, i propri dirigenti solo quando intervengono inchieste giudiziarie. Il potere politico è nudo, totalmente indifeso di fronte alle infiltrazioni mafiose, incapace di stanarle e, dunque, di combatterle. E anche il governo di Matteo Renzi ha perso l'occasione, in questi due anni, di cambiare davvero. È dal Sud che si cambia. E la questione che più sta inficiando la sua autorevolezza è proprio il fallimento della gestione del Meridione, che Renzi conosce pochissimo: non ha interlocutori affidabili e quindi non può valutare il problema nella sua portata reale. In questi anni la paura ha fatto rinchiudere il premier tra amici, nel cosiddetto "cerchio magico".

L'errore risiede non nell'avere tra i propri collaboratori persone di cui ci si fida, ma piuttosto nel posizionare in posti chiave persone del proprio giro. E questa è la sua più grande debolezza. Questa chiusura l'ha inevitabilmente condotto a ignorare la questione meridionale, a delegarla nel peggior modo, quello leghista: puntando sulla retorica del Sud lamentoso, che non vuole reagire ma pretende di essere aiutato da altri. Questa è un'accusa inconsistente, basta leggere i classici della letteratura meridionalista - da Guido Dorso a Tommaso Fiore - per rendersene conto. Questa presunta lamentosità è storicamente legata non a tutti i meridionali ma a quella parte di notabili che puntava ad aumentare lo spazio del proprio privilegio e per farlo chiedeva una prebenda, in cambio della quale smetteva di lamentarsi: pronti a rifarlo quando serviva di nuovo mungere lo Stato.

Finora il governo si è affidato ai proclami: prospettare, come ha fatto il Pd (anche se il premier ha dimostrato maggiore prudenza), assunzioni di sviluppatori Apple, quando invece si tratta di un banalissimo corso a pagamento; parlare di pioggia di milioni di euro che non saranno più sprecati riferendosi ai fondi europei, per i quali manca totalmente un piano di spesa costruttivo; sbandierare il rinnovamento per poi affidarsi a politici (dalla Calabria alla Campania e alla Sicilia) che hanno assai poco rappresentato una linea di rinnovamento reale. A Sud ci sono persone in politica, da esponenti Pd a Cinque Stelle a Sel, che non vedono l'ora di potersi prendere la responsabilità, di indicare un progetto nuovo: ma vengono lasciati al margine. Renzi conta sul suo più grande alleato: il commento finale. Il commento finale? Sì, proprio quello. Il commento che si fa alla fine di ogni dibattito su questo governo: "Ma l'alternativa quale sarebbe? Possiamo dare il Paese in mano a Grillo e Salvini?". Ecco: per quanto Renzi crede di poter godere di questa immunità politica del commento finale? A Palazzo Teti Maffuccini, a Santa Maria Capua Vetere, Garibaldi accolse il documento di resa delle truppe borboniche. Ora quel palazzo sembra accogliere la resa del Pd al meccanismo criminale.

© Riproduzione riservata
28 aprile 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/04/28/news/la_politica_della_resa-138616723/?ref=HRER2-1


Titolo: SAVIANO Appalti e camorra, Saviano risponde sui social: "Io, Renzi e il Sud"
Inserito da: Arlecchino - Aprile 30, 2016, 05:04:53 pm
Appalti e camorra, Saviano risponde sui social: "Io, Renzi e il Sud"

Lo scrittore reagisce alle polemiche su Facebook in seguito all'articolo pubblicato su Repubblica in cui accusa il governo per il caso delle infiltrazioni camorristiche nel Pd campano
29 aprile 2016

ROMA - Le critiche di Roberto Saviano al Pd e a Matteo Renzi lanciate ieri dalle colonne di Repubblica, dopo il caso delle infiltrazioni camorristiche nel Pd campano, hanno scatenato molte polemiche sui social. Nella valanga di commenti ricevuti su Facebook ci sono tanti apprezzamenti e incoraggiamenti ma anche duri attacchi. C'è chi sostiene che lo scrittore vive ormai lontano e non conoscere più nei dettagli le dinamiche territoriali. C'è anche chi lo accusa di infangare il Sud con discorsi negativi e privi di qualunque speranza di cambiamento.

E oggi l'autore di Gomorra risponde su Facebook con un nuovo post. "ll Pd in Campania sembra avere un nuovo nemico, non la camorra i cui voti fanno sempre comodo, ma Roberto Saviano -scrive -. Ma qualcuno del Pd sa spiegarmi perché al posto di Stefano Graziano non c'era (e non ci sarà) uno dei tanti giovani militanti in prima linea?". Per concludere: "Ma sì, sono io a essere lontano. E voi che siete vicini cosa siete capaci di pretendere dal segretario del vostro partito? (...) A me, da lontano, viene da dirvi che il vostro carezzare le belle esperienze per tenerle sempre da parte, in panchina, o peggio, in trincea a prendere le mazzate e a subire attentati, pare la conferma del vostro fallimento. E la vittoria della camorra".
Nel suo articolo su Repubblica Saviano ha criticato il governo, il premier e il Partito democratico per non aver posto un argine alla capacità criminale di permeare istituzioni e partito. "Il Sud sta morendo. Il Sud è già morto - ha scritto ieri - Nell'agenda di questo governo, il Sud è stato affrontato con promesse politiche, con proclami, mentre nel mondo reale sono altre le forze che agiscono. L’inchiesta su camorra e Pd in Campania evidenzia l'incapacità del governo di modificare i meccanismi criminali. Qualunque sarà il risultato giudiziario di questa inchiesta, è evidente che la politica non è in grado di fare autodiagnosi, non riesce più a capire quando diventa partner della camorra. Il potere politico è nudo, totalmente indifeso di fronte alle infiltrazioni mafiose, incapace di stanarle e, dunque, di combatterle. E anche il governo di Matteo Renzi ha perso l'occasione, in questi due anni, di cambiare davvero".
 
© Riproduzione riservata
29 aprile 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/04/29/news/camorra_e_sud_saviano_risponde_alle_critiche_dopo_l_attacco_a_renzi-138693097/?ref=HRER2-2


Titolo: ROBERTO SAVIANO Comunali, Napoli: l'errore del voto di scambio e gli zapatisti..
Inserito da: Arlecchino - Giugno 17, 2016, 07:49:53 am
Comunali, Napoli: l'errore del voto di scambio e gli zapatisti in salsa campana
L’analisi.
Ora il premier deve indicare i punti decisivi per cambiare il territorio e per selezionare una vera classe dirigente

Di ROBERTO SAVIANO
07 giugno 2016

Napoli. Il Pd che a Napoli non arriva al ballottaggio è un sintomo, certo, ma di un malessere ancora più grande, che non si può confinare soltanto qui. Intanto non è vero che altrove se la passi meglio: basta guardare la mappa del voto in Italia - da Torino a Milano fino a Roma. Lo specifico del Sud, però, è indicativo: perché dove ha vinto il Pd non lo ha fatto muovendo l'opinione ma legandosi alle clientele - manovrando pacchetti di voti. E allora che cosa è successo? Che Renzi e il governo, al Sud, hanno sbagliato tutto: ignorando e rubricando gli allarmi suonati in questi anni.

Durante le primarie, il Pd si era mostrato assolutamente incapace di capire il voto di scambio. Ha poi peggiorato la propria posizione presentandosi con Ala. Cioè alleandosi - con tanto di Verdini presente in campagna elettorale - alla peggiore formazione politica del territorio. Flirtando con ambienti ambigui, eredi del cascame berlusconiano, che peraltro in termini di consenso hanno fatto perdere più di quanto hanno apportato. Anche questa alleanza è sintomo della noncuranza del presidente per il Mezzogiorno d'Italia: Ala è utile a Roma e sull'altare di questa alleanza strategica si può ben sacrificare la terza città d'Italia.
Perché allora Renzi, a Napoli, non ha deciso di rinnovare il Pd? Si è invece nascosto dietro dichiarazioni di massima e promesse fragilissime. Pensando di recuperare il tempo perduto e gli sbagli fatti intensificando negli ultimi tempi la sua presenza: l'ennesima scorciatoia, l'ultimo tentativo di risolvere con un eccesso di immagine i deficit strutturali della sua segreteria, tanti pezzi di un puzzle da dare in pasto ai media ma che rispecchiano una realtà irrimediabilmente frammentata.

Ma non si tratta solo di questo: perché il voto meridionale è anche una ulteriore conferma della furbizia tattica (non strategica) di Matteo Renzi. In fondo - l'hanno già osservato in molti - sembra quasi che il premier volesse perdere. Voleva perdere perché non aveva altro modo di commissariare - come ha annunciato di voler fare solo ieri - il suo Pd. Il problema della impresentabilità non è nuovo: pensiamo alla vicenda di Stefano Graziano, il segretario regionale del Pd coinvolto in una inchiesta dell'antimafia che ipotizza suoi legami diretti con un soggetto ritenuto organico ai clan. E perché allora Renzi arriva a commissariare in tutta fretta soltanto ora? Perché non lo ha fatto quando la campagna elettorale è cominciata con la pantomima delle primarie che pochi volevano e hanno poi condotto a una frattura interna insanabile?

Lo fa adesso perché, come segretario del partito, implicitamente rompe le righe prima del ballottaggio. Se questo Pd finirà per sostenere Lettieri, in fondo la responsabilità non sarà imputabile a Renzi: il voto tracimerà "naturalmente" verso il centrodestra e per nascondere il flusso si dirà che ormai si tratta di un'emorragia di truppe. Saranno i capibastone, i traffichini dei voti comprati a poco prezzo a muoversi liberamente nella prateria aperta dal ballottaggio, ognuno provando a vendere il capitale accumulato al primo turno: pacchetti di preferenze neanche lontanamente sfiorati da quel voto di opinione che il Pd ha in tutti i modi, e coscientemente, scoraggiato. Così oggi Renzi commissaria il partito perché teme che Napoli e il Mezzogiorno possano diventare un serbatoio immenso di resistenza alla sua riforma costituzionale: sa bene che gente come de Magistris e Emiliano si sente ormai stretta nei propri avamposti.

Purtroppo per il Pd, la noncuranza del segretario nei confronti di questioni cruciali ha finito per presentargli il conto. Non regge più, alla prova delle urne, neanche lo spauracchio agitato nel corso degli ultimi due anni: se vai contro Renzi, se vai contro questo governo e questo Pd, dai spazio al populismo. È esattamente il contrario. Per come si sono messe le cose oggi, sono stati proprio il comportamento di Renzi e del suo governo a spianare la strada al populismo. Cosa pensava di ottenere il segretario del Pd candidando a Napoli una delle figure più incolori del centrosinistra finito ingloriosamente cinque anni fa? Valeria Valente ha accettato questa corsa a perdere in cambio della ricandidatura alle prossime politiche: altre ragioni non ci sono. Ma il segretario del Pd cosa pensava di ottenere? E cosa pensava di ottenere quando ha costretto la periferia ad ingoiare l'amaro boccone della alleanza con Ala? Sono questi gli errori che hanno aperto la strada al populismo.

De Magistris è adesso pronto a vincere un nuovo ballottaggio catalizzando forze che vanno dall'ex rettore democristiano dell'Università di Salerno, Raimondo Pasquino, alle avanguardie di Hamas a Napoli - sembra incredibile, ma un tema centrale della campagna elettorale napoletana è stata la questione israelo-palestinese. Forze che sembrano già pronte ad andare ciascuna per la propria strada non appena il sindaco, se rieletto, si concentrerà nella campagna elettorale per il no al referendum di ottobre. Il vero paradosso di questi anni è che de Magistris, quando subì la sospensione causa legge Severino, era in crisi piena di consenso: aveva perso per strada tutte le personalità autorevoli che aveva voluto nella sua prima giunta e le promesse mancate già cominciavano a pesare. Quel meccanismo imperfetto però ha finito per costituire la sua più grande fortuna. Gli ha indicato la strada a disposizione di ogni politico spregiudicato dei nostri giorni: essere al governo e all'opposizione allo stesso tempo. De Magistris ha così costruito la sua campagna elettorale praticamente contro se stesso: il sindaco rivoluzionario contro i poteri di lunga data - come a governare fino a ieri non fosse invece stato lui. Tutto ciò che di buono poteva attribuirsi - l'incremento del turismo - lo ha ascritto a sé. Tutto ciò che era opaco lo ha riferito a Roma. Nel suo comizio ha addirittura utilizzato l'immaginario preunitario: "Napoli capitale, Gran Ducato di Toscana dietro". A tutti è sembrata un'ingenuità. Invece de Magistris in questo modo ha parlato ai tifosi, agli ultrà, perché è questo che ha costruito intorno a sé: un appoggio strappato agli ultimi residuali centri sociali, sfruttati come cinghia di trasmissione per il consenso sui social e come perenne propaganda ideologica. Tra gli elettori, anche quelli più disincantati, è passato con una efficacia formidabile un unico messaggio: "Non ruba".

De Magistris non aspettava altro e ha meticolosamente programmato una campagna elettorale furba, populista, culmine di una prima sindacatura chiusa con una enorme quantità di deleghe personalmente detenute dal Sindaco, che davvero così delinea una situazione di stampo venezuelano. Per non parlare del consenso che gli arriva dalle associazioni: a Napoli c'è una tale miseria nel terzo settore che tanti, pur di avere un po' di prebende, cercano di avvicinarsi al sindaco "in fondo onesto", il sindaco che giura che governerà dalla strada, che realizzerà lo zapatismo in salsa napoletana: la sua "rivoluzione bolivarista"". Programma che genera inquietudine, ma anche tenerezza, nei giorni in cui il Venezuela degli ultimi bolivaristi affronta una delle crisi più severe della sua storia.

Eppure è così che de Magistris ha vinto al primo turno: doppiando gli avversari. E ha vinto a mani basse di fronte al suo avversario vero. E cioè quel Renzi terrorizzato dall'immischiarsi in vicende criminali e complesse, quel Renzi che ha relegato la rinascita politica del territorio alla sola battaglia morale - peraltro persa, poiché molto di facciata: il Pd a Caserta ha stravinto al primo turno ma guardate chi lo rappresenta.

Eppure i segnali, per il segretario democratico, erano arrivati da più parti. Gli erano stati più volte esposti gli errori madornali commessi dal Pd al Sud. Gli era stato spiegato come una classe dirigente incolta e inadatta rischiasse di far implodere il partito. Niente. Quando la lotta alla corruzione diventa una religione ecco che si sta apparecchiando la soluzione migliore perché tutto rimanga così come è.

E adesso? Lo confesso. Io non so darmi una risposta: non so che cosa si possa fare concretamente. Certo: sbandierare ideali da battaglia farebbe finalmente accorrere giovani, e meno giovani, risvegliando passioni sopite e grandi progetti. Ma non è questa la strada. Bisogna porsi domande autentiche perché alle domande autentiche non si può che rispondere con la verità. Bisogna iniziare a essere umili: realizzare che bisogna ripartire piano, un passo alla volta, con progetti concreti piuttosto che con grandi propagande. Senza grancassa. Non cedere a chi sostiene che raccontare le contraddizioni significhi diffamare. Bisogna ricostruire. Bisogna convogliare il meglio del Paese e non continuare a dividere il mondo tra "i propri uomini" e tutti gli altri.
Sì, il Sud è al collasso, tranne piccole felici eccezioni. È inutile fingere di non vedere. Il suo collasso si vede nella rabbia rivolta verso chiunque abbia un po' di visibilità. Ecco perché Renzi dovrebbe fare mea culpa sugli errori che sta commettendo al Sud. Basta con la politica dell'apparire: senza una trasformazione reale la bolla della "narrazione" tanto cara al premier finirà per scoppiare. E non ci si può nascondere dietro un dito sostenendo che il cambiamento è rallentato da tempi troppo lunghi.

Il segretario del Pd dica ai napoletani che adesso non si può votare per Lettieri. Dica che è stato un errore allearsi con Ala. Prenda posizione. Sappia indicare pochi e decisivi punti su cui cambiare il territorio. A cominciare dai criteri per la selezione di una vera classe dirigente e lasciando perdere le mogli, i figli e i fratelli di chi ha fallito. Lo faccia - e lo faccia presto. Sì, fate presto: se potete

© Riproduzione riservata
07 giugno 2016

Da - http://www.repubblica.it/speciali/politica/elezioni-comunali-edizione2016/2016/06/07/news/comunali_napoli_l_errore_del_voto_di_scambio_e_gli_zapatisti_in_salsa_campana-141458641/?ref=HRER2-1


Titolo: ROBERTO SAVIANO Saviano: "In fuga dalle bugie" (Diteglielo é sempre stato così)
Inserito da: Arlecchino - Giugno 26, 2016, 11:53:16 am
Saviano: "In fuga dalle bugie"
La mia generazione era costretta a spostarsi da sud a nord per studiare e lavorare.
Oggi l'unico tentativo possibile per migliorare la vita è andarsene, mentre il nostro governo canta vittorie effimere


Di ROBERTO SAVIANO
26 giugno 2016

Renzo piano le definisce "le città del futuro", ma le periferie sembrano essere, oggi, gli spazi meno compresi dal governo e, visto il risultato del referendum sulla Brexit, non solo dal nostro.

Non più solo quartieri ai margini della grande città, oggi sono definibili periferia interi paesi che si sviluppano ai margini delle città. Intere province diventano periferia dei capoluoghi, delle metropoli. Questa evoluzione postmoderna rende assai più complesso identificarle, parlarne, comprenderne le dinamiche. "Il governo perde in periferia": questa è stata l'analisi finale dell'ultimo voto amministrativo in Italia (e non solo dell'ultimo). E si può dire lo stesso valutando i risultati del referendum sulla Brexit, dal momento che a votare Leave sono state soprattutto città e paesi che spesso si considerano decentrati rispetto a quelli che vengono percepiti come centri nevralgici. L'Europa ha perso nelle periferie e le periferie sono di gran lunga più vaste dei centri.

Questo corto circuito è la naturale conseguenza di un errore che i governi spesso commettono senza nemmeno rendersene conto: credere che uno storytelling positivo possa essere di per sé sufficiente al mantenimento del potere e delle posizioni acquisite, quello stesso racconto di sé che ormai viene percepito come menzognero, niente altro è che insopportabile propaganda. Può sembrare strano che in un momento così complesso si stia qui a ragionare di parole e narrazione, ma il gravissimo errore del governo Renzi è stato proprio quello di ignorare le province, di ignorarle al punto tale da non comprendere che proprio da lì sarebbe arrivato il fallimento. Hannah Arendt diceva che la democrazia è il luogo dove è la parola che convince: non è più la lama a costringere o la punizione a obbligare, lo strumento di decisione è la parola. E, in un certo senso, la narrazione di un'Italia che si era ripresa, di miracolosi sforzi che in tempi brevissimi avevano già portato a miglioramenti epocali, ha costituito per le periferie un inganno insopportabile.

La mia generazione era costretta a spostarsi dalle periferie al centro, da sud a nord per studiare e per lavorare. Era un centro, quello, inteso anche come centro della vita. Oggi questo centro si è spostato e l'unico tentativo possibile per migliorare la propria vita è andare all'estero, mentre il nostro governo canta vittorie effimere a fronte di questa emorragia, e non spende una parola su quanto sia impossibile trovare lavoro in periferia, sugli sforzi titanici per portare a casa uno stipendio da fame e sullo sfruttamento cui spesso chi lavora è soggetto. Questo contrasto narrativo è aggravato dal fatto che le periferie sono consapevoli di essere la parte attiva del territorio. Da qui la rabbia e la rivolta. Sanno di essere il luogo di raccolta del denaro, pompato dalle periferie al centro. La periferia napoletana e quella romana pompano lavoro e denaro criminale al centro della città. Anche la periferia torinese pompa forza lavoro al centro della città. Ma la contrapposizione centro-periferia genera conflittualità che non possono essere considerate solo di ordine culturale. Il disagio sociale vero e proprio trae linfa dalla frustrazione creata dall'alto tasso di disoccupazione e da un cambiamento irreversibile del mercato del lavoro che a fronte di una flessibilità crescente non è riuscito ad assorbirne forza lavoro. La conseguenza più dolorosa è che il bacino di forza lavoro offerto dai migranti viene visto come uno spazio sottratto al lavoratore italiano destinato a restare disoccupato. Il corto circuito nasce proprio da questa contraddizione: la periferia ha la ricchezza del lavoro, dei figli, degli spazi, ma questo capitale non resta lì, non è lì che viene investito, viene calamitato dalla forza centripeta delle città. E così le periferie, da "città del futuro", sono di fatto diventati aborti.

Le periferie sono orrende, si dirà, eppure la bruttezza dei luoghi può diventar fascino attraverso la partecipazione e la cura. Ecco perché il progetto di Renzo Piano sulle periferie (da lui chiamato G124 dal numero della stanza che occupa in Senato) è fondamentale per il nostro paese e lo sarebbe per l'Europa tutta. Il progetto ha l'obiettivo di rendere i luoghi "deboli" spazi di sperimentazione e interesse. Ripartire dalla gradevolezza, da nuove ipotesi di bellezza. Provare a respingere la schifezza abitativa. È prassi reale come lo sono i sogni nutriti dall'ossessione della trasformazione. Ma non bisogna lasciare che sia solo un esperimento bello, un tentativo di rammendo. Deve diventare affare di stato. Centralità ossessiva delle pratica della poltica. Sino a ora invece al disastro delle periferie italiane si fa fronte con grandi operazioni di carità sociale, con il sostegno massiccio ad associazioni di vario genere, con roboanti operazioni di immagine (una su tutte la fallimentare idea di tenere le scuole aperte anche pomeriggio e sera: uno spazio fatiscente al mattino lo è anche nel resto della giornata).

Ma l'aspetto forse più allarmante di questo racconto forzatamente positivo è che innesca un meccanismo populista. Con "populista" — aggettivo abusatissimo che andrebbe utilizzato con immensa cautela — intendo tutte quelle soluzioni proposte con leggerezza pur sapendo che non si realizzeranno mai. È stata la forza, per esempio, di tutta la politica di Luigi de Magistris. In centro a Napoli si spara, è un dato di fatto, il controllo da parte delle organizzazioni criminali sul centro storico è ormai totale. Eppure soltanto la bellezza della città è da attribuire ai suoi amministratori, mentre le morti, la paura, la mancanza totale di sicurezza sono da imputare al sistema capitalista e alla miseria.

Come possa la politica sottrarsi a queste responsabilità è solo questione di comunicazione, di storytelling appunto, una narrazione alimentata da chi, cinicamente, ritenendo che nulla possa davvero cambiare sale sul carro del vincitore. Questo meccanismo si basa su una furbizia uguale e contraria a quella del governo: il racconto rovesciato nel quale la negatività viene mostrata, la contraddizione viene svelata, ma ci si sente perennemente non responsabili. Sindaci incaricati delle città si discolpano come se fossero capi rivoluzionari in balìa di poteri a loro esterni e loro nemici.

Il governo avrebbe dovuto evitare la grancassa del miglioramento e tematizzare i disastri e le difficoltà per affrontarli. La periferia non può essere luogo di approccio romantico: se hai talento, sarai più bravo del ragazzo o della ragazza privilegiata nati in centro perché avrai voglia di riscatto e quindi ce la farai. Fesserie. Queste sono le favole à la Saranno Famosi che non sono più sostenibili in un'Italia in cui la mobilità sociale è pressoché immobile, in cui la meritocrazia rimane utopia, in cui non esiste riciclo di potere.

Ecco perché la narrazione politica del "daremo l'università gratuita per tutti", del "distruggeremo i poteri forti", è in fondo il risultato di approcci sempre identici e ormai plurisecolari che non fanno i conti col principio di realtà. Risuona in loro il sempiterno contrasto tra massimalismo — idee meravigliose con realizzazioni impossibili e spesso derive autoritarie — e riformismo, ossia un modello di trasformazione graduale, senza romanticismo e fiammate di riscatto universale ma sostanzialmente inattuabile. Per questo motivo Turati è la lettura che consiglierei ai dirigenti del Partito democratico e del Movimento 5 Stelle che si riconoscono in una tradizione riformista. Turati diceva di non confondere il gradualismo con l'eccessiva prudenza, ma che gradualmente le cose vengono davvero cambiate: non prudentemente, per non pestare i piedi a opinione pubblica e aziende, ma con criterio e realismo.

In periferia il Pd muore perché ha utilizzato questi territori come luoghi di facile estrazione di voto di scambio. Un voto un favore. Eppure, i dati lo mostrano, i giovani sono sfuggiti a questa logica e hanno votato candidati che non avrebbero potuto (per ora) prometter loro nessun favore e non avevano alcuna clientela. Su questo M5S e de Magistris hanno puntato.

La centralità delle periferie non è nelle promesse né nelle opere "sociali", ma in una sfida che è vitale: rendere le periferie luoghi in cui si vuole rimanere, comprare casa, investire. Certo, il cambiamento, quello vero, richiede tempo, impegno, dedizione, pazienza e costanza. Ma è esattamente dalle periferie che può arrivare l'unica rinascita possibile del nostro paese.

© Riproduzione riservata
26 giugno 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/06/26/news/saviano_periferie_scontento_generazione_in_fuga-142828411/?ref=HREC1-3


Titolo: ROBERTO SAVIANO Il terremoto e l'informazione: il coraggio del rigore
Inserito da: Arlecchino - Settembre 02, 2016, 05:42:21 pm
Il terremoto e l'informazione: il coraggio del rigore
Basta con la falsa par condicio: non ci interessano tutte le opinioni, ci interessano le opinioni di chi sa di che cosa parla. Altrimenti, davvero, basta un click: ma stavolta per spegnere questo frastuono assordante di falsità

Di ROBERTO SAVIANO
30 agosto 2016

ORA che abbiamo capito che sul web, insieme alla stragrande maggioranza di normalissimi navigatori, ci sono anche "hater" e "webeti", odiatori e creduloni, possiamo iniziare a fare il nostro lavoro. Possiamo recuperare una regola aurea, poco cinica, quindi se volete poco in linea con i tempi, ma che io credo debba essere il nostro punto di partenza e il nostro fine: avere rispetto per il lettore, per il telespettatore, per il cittadino. E ora che abbiamo tutti riscoperto la correttezza sui social, quella netiquette che sembrava ormai naufragata e irrecuperabile, cerchiamo anche di applicarla dove veramente serve e dove può fare la differenza: la televisione, la carta stampata, i siti di informazione e il nostro modo di conoscere e interpretare il mondo.

I social, si sa, mostrano sempre reazioni schizofreniche quando commentano un avvenimento, perché non hanno un'anima sola. Sui social c'è chi la pensa esattamente come me e chi la pensa nel modo opposto. Sui social c'è chi legge e basta e chi non legge e commenta. C'è chi ha un atteggiamento conciliatorio e chi cerca lo scontro. Non è detto che sui social chi è combattivo e alza i toni lo faccia anche nella vita relazionale, come è vero che ciascuno di noi cambia tono, argomenti, comportamento a seconda della situazione in cui si trova, del contesto, degli interlocutori. E i social, con la loro empatia, la loro rabbia, il loro livore, la loro delicatezza e la loro violenza, si sono confrontati con le conseguenze del terremoto. Ma come? Raccogliendo e rilanciando di tutto e di più, com'è nella natura di questa "rete" senza rete: anche tante accuse, offese, notizie non provate. Ma si può dire, forse, che tutto ciò che è venuto prepotentemente fuori sui social dopo il terremoto possa essere letto, quasi fosse una cartina di tornasole, come il conto presentato all'informazione italiana, cioè al modo in cui ha trattato i suoi utenti, oltre che agli utenti stessi, che hanno abdicato alla loro funzione di controllo.

Sì, la realtà che il terremoto nel centro Italia ha portato alla luce è amara e tragica, e lo è ancora di più perché dopo la strage dell'Aquila (riesce qualcuno di voi ancora a chiamarlo semplicemente terremoto?) tutti sapevamo quali fossero i rischi, le probabilità che la strage si ripetesse, e nessuno, o quasi, ha fatto nulla. Certo, abbiamo avvertito i nostri lettori, spettatori e navigatori sui rischi della ricostruzione, abbiamo detto che si sarebbe dovuto mettere a norma gli edifici, almeno quelli pubblici, nei territori a rischio. Ma, poi, chi è andato davvero a controllare fino in fondo? Quanti di noi lo hanno fatto? Certo, un terremoto non si può prevedere: ma i danni si possono e si devono arginare, si possono prevedere i suoi effetti. E l'informazione ha avuto una progressione da manuale: il "rispettoso silenzio" - e sacrosanto - la netiquette, mentre ancora si estraevano i corpi dalle macerie, hanno lasciato il posto ai j'accuse soliti, sempre uguali. Alle interviste agli esperti, alle omelie dai pulpiti.

E nel momento della caccia alle streghe non c'è nessuno che sappia riconoscere la strega che alberga in se stesso. Ora tutti si affannano a dire che dopo L'Aquila (quindi dal 2009) i soldi c'erano ma che sono stati spesi male. Ma questo lo sapevamo già: lo immaginavamo. E lo sapevamo perché sapevamo che non c'è stato alcun serio controllo, sapevamo che i controllori hanno rapporti con i controllati, e che spesso hanno un tornaconto per cui quindi si chiude un occhio, e a volte due. Domanda: perché è dunque successo tutto questo? Che cosa non ha funzionato? Quali meccanismi sono scattati, o meglio non sono scattati, nel nostro sistema di difesa, che nel nostro caso si chiama anche sistema di informazione?

Intanto, le vittime di oggi forse sono anche vittime della crisi, perché solo in pochi hanno ammesso che la messa in sicurezza di Norcia è avvenuta in un'altra epoca. Ma continuando ad analizzare il rapporto tra social e informazione, è evidente che non possiamo affidare la correttezza della seconda ai primi: sarebbe come voler arginare il mare, in mare. È ovvio che in un Paese come l'Italia tutto deve ripartire necessariamente dall'autorevolezza dei media. Ora che abbiamo evidenziato il webetismo ("webete", termine coniato da Enrico Mentana) facciamo dunque un passo avanti, e smettiamo di dare voce (non è censura, non lo è affatto) ai disinformatori di professione, a chi non ha alcun talento se non quello di andare in televisione, fare polemica, alzare quel tanto che basta la curva degli ascolti facendo danni che spesso sono irreparabili. La televisione è un opinion maker importantissimo, imprescindibile nel nostro Paese: si assumano allora le reti pubbliche e private la responsabilità di dare voce a chi parla perché sa, a chi dà informazioni verificate e verificabili. E si smetta di dare credito a chi diffonde leggende metropolitane (Giorgia Meloni che invita alla donazione del jackpot del Superenalotto per ricostruire Amatrice), a chi semina odio (Matteo Salvini sui migranti e i loro falsi soggiorni in hotel a cinque stelle).

Mentre seppelliamo i morti di Amatrice, sta per iniziare una nuova stagione televisiva, un nuovo anno per l'informazione e l'intrattenimento. Il mio invito, che è spero anche la pretesa di chi mi legge, si chiama rigore: rigore nell'intrattenimento e rigore nell'informazione. Certo, anche nell'intrattenimento: perché leggerezza e evasione sono cose legittime, ma il rigore e la correttezza devono esserne sempre la cifra. Il mio invito, e la pretesa di chi ci legge, è quello di chiudere la porta alle leggende metropolitane in tv (vaccini che causano autismo, scie chimiche, Club Bilderberg), a quei discorsi infiniti, a ore e ore di parole che dette con leggerezza fanno danni incalcolabili. Il mio invito, e la pretesa di chi ci legge, è la richiesta di una informazione che davvero "serva": servizio privato e pubblico vero, orientato a un dibattito pubblico oltre i dettami di questo storytelling forzatamente positivo, da strapaese, e che tollera anche la fandonia, la falsa notizia, quella che fa più scalpore - e magari più click.

Se crollano interi paesi, è anche (sottolineo anche: stiamo parlando di un terremoto) perché nonostante i fondi stanziati i lavori non sono stati mai fatti, e non sono stati fatti a dovere, nel silenzio di chi avrebbe dovuto controllare (e raccontare). Basta con la falsa par condicio: non ci interessano tutte le opinioni, ci interessano le opinioni di chi sa di che cosa parla. Altrimenti, davvero, basta un click: ma stavolta per spegnere questo frastuono assordante di falsità.

© Riproduzione riservata 30 agosto 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/08/30/news/il_coraggio_del_rigore-146854684/?ref=HRER2-1


Titolo: ROBERTO SAVIANO: "I peggiori nemici di M5s sono dentro al movimento"
Inserito da: Arlecchino - Settembre 10, 2016, 10:32:30 pm
Roberto Saviano: "I peggiori nemici di M5s sono dentro al movimento"

L'Huffington Post | Di Redazione
Pubblicato: 09/09/2016 15:04 CEST Aggiornato: 2 ore fa

ROBERTO SAVIANO

"Oggi i peggiori nemici del M5S sono nel M5S e non è la stampa che ha esagerato o gli avversari politici che sull'affaire capitolino ci hanno marciato". Lo scrive su Facebook Roberto Saviano, spiegando di aver "osservato con attenzione quanto è accaduto a Roma nelle ultime settimane", e che le vicende legate alla giunta Raggi lo hanno portato "a fare alcune riflessioni".

Mi domando spesso, dice, "se in questo Paese sia realmente possibile entrare nel dibattito politico senza ricevere in risposta l'urlo da stadio. E allora si scende in campo e si tifa per una parte politica: se critichi Renzi sei dei 5Stelle, se critichi De Magistris sei renziano e così via".

"Mi domando spesso - prosegue - perché in questo Paese non posso dire, liberamente, senza essere additato come sostenitore dei poteri forti, che la responsabilità che ha il M5S è quella di aver spinto nel precipizio più profondo anche l'ultima briciola di fiducia che gli italiani ancora, gelosamente, conservavano nella politica. In quella politica che aveva tradito e rubato, insozzato e corrotto, ma che pure era ed è popolata da una folta schiera di onesti che non fanno notizia, che amministrano realtà difficili senza che nessuno si occupi di loro".

Per Saviano "la politica è prima di tutto patto di fiducia, non solo con il movimento o il partito, ma con il progetto e poi con la persona. Pensare che tutti siano intercambiabili e sostituibili mi restituisce il senso di una società che dovrebbe rattristarci. 'Uno vale uno' significa che nessuno di noi deve avere un ego potenziato, ma 'uno vale uno' spesso viene frainteso come 'se non mi vai bene tu, avanti un altro'. È questo il tenore dei commenti che leggo: 'Se Raggi non ci piace, poco importa, avanti il prossimo cittadino'. E poi ancora un altro. Questa non è democrazia, è confusione". "Ok: Saviano attacca il Movimento! Saviano è renziano! Saviano è con i poteri forti!", sottolinea lo scrittore che poi attacca: "Mettetela come vi pare, il punto è che per governare bisogna scendere a compromessi e il modo peggiore di condividere con i cittadini delle scelte che sanno di compromesso è attraverso mail private o messaggi telefonici fatti trapelare senza che ci fosse alcun accordo. Questa è la negazione della trasparenza e pone un problema enorme tutto interno al Movimento".

"Sarò fuori tempo - continua Saviano-, ma continuo a pensare che la politica sia altro e che non basta essere novità per essere realmente diversi". "Sarò fuori contesto - dice ancora -, ma continuo a pensare che per fare politica ci vogliano competenze (meglio ladro e corrotto o a digiuno di competenze ma onesto? Ma davvero credete che si debba per forza scegliere tra queste due categorie astratte? Chi ci ha fatto il lavaggio del cervello e convinto che non esistano politici per bene e competenti?)". "Continuo a credere che la politica sia una professione che richiede competenze specifiche e che non lascia spazio a improvvisazioni. Questo vale per il M5S, per gli altri partiti e per il Governo (basta vedere le continue boutade di Lorenzin e i continui 'non sapevo' di Alfano per capire che nessuno può tirarsi fuori e nessuno può puntare il dito). Se non la pensassi così, sarei sceso in campo anch'io", conclude.

Da - http://www.huffingtonpost.it/2016/09/09/roberto-saviano-m5s-nemici_n_11928666.html?1473426278&utm_hp_ref=italy


Titolo: ROBERTO SAVIANO Il Nobel per la Pace alla Colombia che sogna un domani senza ...
Inserito da: Arlecchino - Ottobre 08, 2016, 05:02:36 pm
Il Nobel per la Pace alla Colombia che sogna un domani senza cocaina
Il riconoscimento più ambito va al presidente Santos per la riconciliazione con le Farc.
Nonostante il referendum popolare che ha bocciato l’intesa


Di ROBERTO SAVIANO
08 ottobre 2016

Il premio Nobel per la Pace 2016 è andato all'uomo della riconciliazione tra Farc e governo, il presidente colombiano Juan Manuel Santos, 65 anni. "È un riconoscimento al suo impegno - è la motivazione - e un incoraggiamento a tutte le forze implicate perché vadano avanti". "Colombiani, questo premio è vostro - ha detto Santos - la pace è possibile malgrado la vittoria del "no" al referendum". Il leader delle Farc Timoleón Jiménez, ha twittato: "L'unico premio a cui aspiriamo è quello della pace con giustizia sociale". Felice Ingrid Bétancourt, ex prigioniera dei guerriglieri: "Ma il premio andava dato anche alle Farc ". E l'ex presidente Uribe, leader della destra: "Cambiamo questi accordi dannosi".

La Colombia sta vivendo una fase nuova. Dopo essere stata negli anni Ottanta e Novanta il centro del narcotraffico mondiale, pompando denaro e coca tra Nord America ed Europa, continua a essere tra i primi produttori di coca, ma nella distribuzione ha perso il suo ruolo a vantaggio del Messico. Inoltre non vive più la ricca stagione del monopolio poiché oggi producono coca in quantità competitive anche Perù e Bolivia. Per la Colombia coltivazione di coca e produzione di cocaina sono state a lungo l'asse fondamentale su cui tutto, nel Paese, ruotava. La monocoltura della coca ha infettato qualsiasi ambito dell'economia e della politica. Ma le cose oggi sono cambiate.

Se la storia del narcotraffico colombiano la sintetizzassimo in una fiction saremmo partecipi del destino dei cartelli di Medellìn e di Cali e sapremmo esattamente cosa piega un'organizzazione criminale dedita al narcotraffico. E non è la repressione armata, e non sono solo i processi nei tribunali, e non sono gli arresti e non è solo il contrasto culturale. Ma è tutto questo, unito al contrasto del segmento economico. I cartelli vanno in crisi e si disintegrano quando sono in crisi economica.

Il Nobel al Presidente colombiano Juan Manuel Santos segnala l'avvio di un percorso di fiducia verso una nuova pratica di pace. Verso un nuovo modo di intendere la storia e le cicatrici che ha lasciato, anche quelle che ancora non si sono rimarginate. Le Farc (Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia) gestivano un territorio più grande della Svizzera e sono la guerriglia, che si definisce comunista, più antica del mondo. Ma non era l'unica organizzazione di guerriglia in Colombia, segno evidente che il bottino da spartirsi era considerevole. C'erano anche le Auc (Autodifese Unite della Colombia), insieme di gruppi paramilitari che nel periodo in cui furono rette da Salvatore Mancuso ebbero rapporti strettissimi con la 'ndrangheta. Mancuso aveva il padre di origini italiane (era di Sapri) ma madre colombiana. Attualmente è in carcere e ha iniziato un percorso di collaborazione con la giustizia.

Ma le Auc e le Farc dovevano spartirsi la Colombia con l'Eln (Esercito di Liberazione Nazionale), che insieme alle prime due faceva operazioni militari avendo come fine l'occupazione di territori, usando per finanziarsi lo strumento del sequestro di persona e, soprattutto, il narcotraffico.

Ed eccoci giunti al punto nodale: le Farc hanno sempre gestito il traffico di coca in tutta la sua filiera, ma l'immagine che di loro nel mondo è a lungo passata, era quella delle guerriglia comunista. Guerriglia comunista pura, l'ultima grande guerriglia comunista, marxista, di matrice guevariana. La veste ideologica - quella stessa che è stata di Sendero Luminoso in Perù - ha generato un incredibile consenso, facendo passare la narco- guerriglia, per guerriglia socialista che aveva come fine una rivoluzione in Colombia: niente di più falso. Quello che le Farc facevano era difendere il loro territorio, gestire una sorta di Stato clandestino autonomo con le sue regole e le sue tasse.

È stato sfruttando povertà, contraddizioni ed equivoci che le Farc sono riuscite a costruire questa sorta di progetto politico che per me ha sempre avuto il sapore dell'impostura.

La bravura di Santos - e da qui la decisione di assegnare a lui il Premo Nobel per la Pace - è stata quella di aver percepito le difficoltà crescenti che stava affrontando la guerriglia in Colombia. E non è stata la repressione o la distruzione dei campi di coca, non sono state le conseguenze del Plan Colombia, iniziativa diplomatica e militare tra amministrazione colombiana e Usa a indebolire il narcotraffico. Tutto questo ha piuttosto avuto un effetto indesiderato e non calcolato: il potenziamento del segmento militare dei gruppi di insorti. Cioè se da un lato il Plan Colombia si poneva come obiettivo quello di rendere più difficile la coltivazione della coca e la presenza di laboratori di cocaina, dell'altro ha sostanzialmente aumentato la militarizzazione dei cartelli.

Santos capisce questo: con la fine del Cartello di Medellìn e la morte di Pablo Escobar (1993) e con la fine del Cartello di Cali (fine anni Novanta), la guerriglia è in difficoltà perché in difficoltà era il settore più redditizio: il narcotraffico. La parcellizzazione, la struttura pulviscolare che i cartelli avevano assunto aveva rafforzato il Messico spostando lì l'asse del narcotraffico mondiale. In questo nuovo scenario per reggere la concorrenza le Farc si sono trovate costrette ad abbassare il prezzo della coca, per rendere la propria merce concorrenziale: ma non sono riuscite più a reggersi come Stato autonomo, parallelo e clandestino. Il pericolo maggiore per le Farc dunque non è stata la repressione, ma la crisi economica generata dal loro principale indotto: il narcotraffico. E Santos su questo ha lavorato. Le Farc avevano una priorità: cercare nuove forme di guadagno e sottrarre campi di coca ai gruppi concorrenti. Santos ha deciso che era arrivato il momento di mettere da parte le ferite del conflitto e iniziare il dialogo.
Ma il 2 ottobre il popolo colombiano ha risposto "no". È stato "no", per una manciata di voti, alla negoziazione iniziata la scorsa estate a Cuba alla presenza del presidente cubano Raúl Castro e del Segretario generale dell'Onu Ban Ki-moon.

Perché Cuba? Il luogo in cui il processo di pace ha avuto inizio non è stato ovviamente scelto a caso: Cuba è da sempre luogo di passaggio della cocaina diretta negli Stati Uniti e in Europa. A Cuba ha sempre fatto scalo e da Cuba è poi sempre ripartita per la Florida, per il confine messicano, per il Canada. Anche se Fidel lo ha sempre negato, Cuba forniva logistica a Escobar in cambio di un indennizzo al regime.

Ma perché il popolo, seppur per pochissimi voti, boccia? Soprattutto perché ha paura, paura che le Farc come partito politico possano avvelenare il dibattito democratico, diventando una sorta di narcopartito. Anche se, nella trattativa di pace, l'obbligo ad abbandonare qualsiasi attività illegale è molto chiaro.

La verità è che il popolo colombiano è un popolo molto stanco. Molto simile a quello italiano anche nella totale sfiducia verso la classe politica. Non si fida più delle promesse ed è spossato da una immagine di sé sempre ridotta al Paese da cui la coca parte per raggiungere ogni angolo di mondo. La Colombia è come l'Italia. Un Paese dalla storia incredibile e dalla bellezza rara, inquinata da organizzazioni criminali che l'hanno resa campo di battaglia.

E l'Italia in questo dibattito non è entrata per nulla, sottovalutando il suo ruolo. I paesi dell'America Latina è all'Italia che guardano per il contrasto alle organizzazioni criminali e la politica italiana invece di rispondere e di prendere il ruolo che potrebbe avere Oltreoceano, resta sempre chiusa nel suo ghetto, incapace di capire quello che accade a un metro dal suo naso.

L'Italia perde l'occasione storica, l'ennesima, di essere partner non solo commerciale (intendo legalmente, non nel traffico di droga, dove i rapporti esistono da molto tempo e sono fiorenti) ma anche culturale dei Paesi latini. Il Nobel a Santos dimostra che la politica dell'incontro, anche quando non porta consenso, è l'unica strada per sradicare tumori che hanno infettato per decenni uno Stato.

Il prossimo passo in Colombia? Perseverare su questa strada di legalizzazione
e pace. E dovrebbe essere anche il prossimo passo da fare anche in Italia. Ma chi sa quali altre personalissime priorità ci impediranno di contrastare ciò che davvero blocca la nostra crescita: le economie criminali che, a differenza dell'economia legale, sono fortissime.

© Riproduzione riservata
08 ottobre 2016

Da - http://www.repubblica.it/esteri/2016/10/08/news/il_nobel_per_la_pace_alla_colombia_che_sogna_un_domani_senza_cocaina-149321104/?ref=HRER2-1


Titolo: Saviano sulla direzione del Pd: “Renzi rottamatore mancato, D’Alema assente ...
Inserito da: Arlecchino - Ottobre 14, 2016, 11:31:38 am
Saviano sulla direzione del Pd: “Renzi rottamatore mancato, D’Alema assente come il personaggio di Nanni Moretti”
Con un post sul suo profilo facebook, lo scrittore attacca Renzi e D’Alema: «La sinistra non si è mossa di un millimetro»


11/10/2016
Domenico di Sanzo
Roma

«Minoranza Pd inconcludente», «D’Alema assente come il personaggio di Nanni Moretti in Ecce Bombo» e Renzi «quel gran rottamatore che non è stato». Roberto Saviano, torna a parlare di politica. E attacca il Partito Democratico. Il post sul profilo facebook dello scrittore diventa subito virale e scatena commenti, condivisioni, “mi piace”. Il video pubblicato da Saviano a corredo del breve commento è quello di una delle scene più famose di Nanni Moretti, altra “coscienza critica” della sinistra italiana. «Mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo per niente», dice al telefono l’ex sessassontino Michele Apicella, impersonato da Moretti nel film del 1978. 

L’accusa rivolta da Saviano a Massimo D’Alema, in prima linea per il No al Referendum, è «l’assenza fisica» dalla direzione di lunedì. Un «aleggiare da lontano» che è simile all’indecisione, e forse anche allo snobismo del personaggio del film di Nanni Moretti. Il citazionismo di Saviano ricorda un altro film di Moretti. L’altrettanto celebre scena di Aprile, quando lo stesso Nanni Moretti, guardando un confronto televisivo tra D’Alema e Berlusconi esortava l’allora leader della sinistra a «dire qualcosa di sinistra». Quella sinistra che per Saviano «non si è mossa di un millimetro» a distanza di 38 anni «da quel film geniale». 

Ma lo scrittore punta dritto anche contro l’attuale leader del Pd, accusato di essere un rottamatore mancato. Intanto i like fioccano. 

Licenza Creative Commons
Alcuni diritti riservati.

Da - http://www.lastampa.it/2016/10/11/italia/politica/saviano-sulla-direzione-del-pd-renzi-rottamatore-mancato-d-alema-assente-come-il-personaggio-di-nanni-moretti-m52maMPQ15BNAFTCO4xAqK/pagina.html


Titolo: ROBERTO SAVIANO racconta i suoi 10 anni sotto scorta. "Sono ancora vivo"
Inserito da: Arlecchino - Ottobre 21, 2016, 12:39:29 pm
Roberto Saviano racconta i suoi 10 anni sotto scorta. "Sono ancora vivo"
Su Repubblica lo scrittore narra la sua esperienza, da quella telefonata che gli annunciò la protezione al grido diretto ai boss: "Non avete vinto"
Di ROBERTO SAVIANO
17 ottobre 2016

DIECI anni. Eppure, è come se fosse accaduto stamane. Ci sono cose a cui non ci si abitua. Mai. Una di queste è la scorta. Dieci anni fa ricevetti una telefonata dall'allora maggiore dei carabinieri Ciro La Volla. Non dimenticherò mai le sue parole. Cercava di non spaventarmi, cercava di dare una comunicazione tecnica, ma lui stesso aveva la voce preoccupata: mi avvertiva che sarei stato messo sotto protezione. Quando vennero a prendermi, chiesi: "Ma per quanto?". E un maresciallo rispose: "Credo pochi giorni ". Sono passati dieci anni. I motivi mi giunsero come una grandinata di situazioni che non conoscevo. Una detenuta che aveva svelato un piano contro di me, poi le dichiarazioni di Carmine Schiavone, poi informative su informative. Volevo tornare indietro e non scrivere più Gomorra, non scrivere più alcun articolo, rifugiarmi.

Fare una sintesi di questi anni è difficilissimo, le prime parole che mi sento di spendere sono tutte di gratitudine per i carabinieri che mi hanno scortato ogni giorno, così come per gli ufficiali che li hanno coordinati. Ho vissuto con i carabinieri gran parte del tempo.

Ho visto il loro impegno, i sacrifici, le attenzioni, che in questo momento vorrei omaggiare. Sono diventati per me una famiglia, spesso le loro caserme mi hanno accolto.

Il tempo dello sconforto arriva quando ti accorgi che tutto viene percepito come normale. Dopo il mio caso, in Italia è esplosa una quantità di richieste di protezione a giornalisti e attivisti, e tutto è sembrato normale, ordinario, scontato. La verità è che non avevo idea di ciò che mi aspettasse. Potevo immaginare una vendetta ma non le spire di un Paese talmente immerso in una cultura del ricatto che diventa consustanziale alla strategia dei clan.

Si dà per scontata la libertà d'espressione. In realtà è costantemente minacciata, ancor prima che dalle situazioni di minaccia militare, dall'isolamento, dalla diffamazione: chi è esposto pubblicamente, chi decide di affrontare questi temi sa che non avrà affatto una vita facile. Chi descrive le organizzazioni criminali, gli appalti, il riciclaggio sa che diventerà, in qualche modo, bersaglio. Perché non si discuterà solo del merito di ciò che scrive, ma si cercherà di distruggere la sua credibilità.

È come se chi scrive di mafia mettesse in difficoltà il lettore. È come se si innescasse un senso di colpa nel lettore che si chiede: e io dov'ero mentre accadeva questo? Io che faccio? Quasi un sentirsi complici. E quindi è più facile dire: l'hai scritto per interesse, è tutta una messinscena, è tutto esagerato. O l'altra accusa, la più comune di tutte: ma già si sapeva, già è stato detto, il tuo non è nient'altro che mettere insieme cose note. Ma a questo serve l'analisi: a mettere insieme le cose e dare loro un nuovo significato. È ciò che temono di più le organizzazioni.

Ma questi sono gli effetti collaterali della battaglia. Negli anni non ho dovuto subire solo la difficoltà di una vita sotto scorta, ma anche l'idiozia di chi parla senza conoscere nulla. La peggiore feccia politica ha sempre criticato la mia protezione come se fosse innanzitutto scelta da me (ribadisco ancora una volta che non ne ho mai fatto richiesta) e senza aver mai letto nessuna informazione al riguardo.

Sembrava che la mia vita dovesse spegnersi da un momento all'altro, nel modo più violento e bizzarro. E poi ci fu l'avvenimento più pesante di tutti: quando i boss Antonio Iovine e Francesco Bidognetti firmarono quella che l'Antimafia di Napoli ha considerato la minaccia più grave, fatta non solo a me ma ad altri che si erano esposti contro di loro. Si accordarono sull'utilizzo di un'istanza di rimessione per spostare il processo, che io avrei, secondo i boss e il loro avvocato, condizionato con i miei scritti.

Era il 13 marzo 2008 e si stava celebrando a Napoli il giudizio di appello del processo Spartacus. Bidognetti e Iovine (che al tempo era latitante), tramite il loro avvocato, Michele Santonastaso, tentarono un'ultima carta: la ricusazione del Collegio giudicante per legittima suspicione, come disciplinato dalla legge Cirami. Un'iniziativa legittima, ma che per le sue modalità suscitò sin da subito scalpore e preoccupazione.

Quell'istanza di diverse decine di pagine venne letta interamente in aula - un fatto senza precedenti sul piano processuale - fino a diventare un vero e proprio proclama, con il quale i capi del clan dei Casalesi, per bocca del loro avvocato di punta, "denunciavano " i condizionamenti che avrebbero influenzato la serenità di giudizio della Corte d'Assise d'Appello di Napoli e tutti i soggetti artefici degli stessi: scrittori, giornalisti e magistrati che a Napoli avrebbero lavorato in sintonia ai danni degli imputati. Mi si chiedeva di "fare bene" il mio lavoro, che dal punto di vista della criminalità significa smettere di farlo cercando di spiegare ciò che sta accadendo, raccontare con dovizia di particolari solo i fatti di cronaca evitando accuratamente analisi sistematiche di quanto succede sul territorio e la de- scrizione del contesto economico e politico nel quale i singoli eventi si inseriscono.


Già nell'immediatezza dei fatti la condanna dell'accaduto fu unanime: dall'allora procuratore generale della Repubblica Vincenzo Galgano fino all'ex procuratore nazionale antimafia Pier Luigi Vigna, chi conosceva le dinamiche del processo, e in particolare di quel tipo di processi, subito comprese le reali finalità di quella lettura coram populo. E fu unanime per un motivo preciso: non si parlava di stampa e magistratura in termini generali, no. Si facevano nomi e cognomi indicando agli affiliati possibili obiettivi.

Io all'epoca vivevo già da due anni sotto scorta e in quell'aula ero presente non da uomo libero, ma da scortato, da protetto da quelli che mi stavano di nuovo minacciando. Ero un topo in gabbia nonostante non avessi commesso alcun reato e quelle parole mettevano un carico da cento. La lettura dell'istanza di rimessione diede vita a un processo che si è concluso in primo grado nel novembre 2014: i boss sono stati assolti e a essere condannato, a un anno di reclusione per minaccia grave, è stato solo l'avvocato Santonastaso.
Le motivazioni della sentenza sono interessantissime.

L'assoluzione dei boss è conseguenza della difficoltà processuale di dimostrare il loro diretto coinvolgimento nella redazione dell'istanza, ma si stabilisce con nettezza che tra le finalità di Santonastaso vi era principalmente quella di agevolare il sodalizio guidato proprio dai due boss. Peraltro, successivamente, lo stesso Santonastaso è stato condannato dal Tribunale di Santa Maria Capua Vetere a 11 anni di reclusione per il reato di associazione per delinquere di stampo camorristico, favoreggiamento e falsa testimonianza aggravati, anche in quel caso, dall'aver agito per favorire un'associazione camorristica.

Ecco perché, come è scritto nella sentenza, "la prospettazione ( da parte di Santonastaso, ndr) di un male concretamente realizzabile per la profonda conoscenza del modo di pensare degli affiliati al clan dei Casalesi, in caso di mancato adeguamento del giornalista a un'idea di informazione più blanda e superficiale, costituisce una vera e propria minaccia". Santonastaso si è sempre difeso sostenendo che avrebbe agito all'insaputa dei suoi assistiti, nonostante in altri processi sia stato indicato come vero e proprio rappresentante all'esterno dei boss reclusi al 41bis.

Ecco di cosa stiamo parlando: avvocati, talvolta rappresentanti delle forze dell'ordine, faccendieri scaltri e arrivisti, che hanno talento e fame di potere. A loro il ruolo di difensori - fondamentali custodi del principio costituzionale di inviolabilità del diritto di difesa - sta stretto. È su queste persone che la camorra fa affidamento, sa che si possono comprare e che per questo potrà utilizzarle per qualunque scopo, anche per far sì che nei casi più delicati sia difficile ricondurre nei processi le responsabilità ai capi: se ci pensate è quello che a volte accade anche ai piani alti dell'economia capitalista.

"A mia insaputa" in Italia è ormai formula di rito. Ripetuta, calcolata, abusata. "A mia insaputa", così si difendono politici, imprenditori, faccendieri, chiunque non sappia giustificare una condotta sulla quale la magistratura sta indagando. "A mia insaputa" è anche la formula con cui i boss di camorra trovano il capro espiatorio che paghi sulla propria pelle la responsabilità di scelte odiose, con un'attenzione alla "rispettabilità" che solo in apparenza è valore di poco conto anche per un pluriergastolano. "Guappi di cartone" li ho definiti più volte. Codardi. Codardi che da dieci anni mi costringono a campare così.

Eppure, nonostante tutto, quello che oggi mi sentirei di gridare loro in faccia è: non ci siete riusciti! Non siete riusciti a ottenere quello che volevate. Non mi sono fermato, non mi sono piegato, anche se più volte mi sono spezzato. Ma se c'è una cosa che insegna questa lotta che ho intrapreso con l'arma più fragile e potente che esista, la parola, è che proprio quest'ultima può di volta in volta rimettere insieme ciò che è andato in frantumi. Esattamente come scrissi dieci anni fa in Gomorra: "Maledetti bastardi, sono ancora vivo!".

© Riproduzione riservata
17 ottobre 2016

Da - http://www.repubblica.it/cronaca/2016/10/17/news/roberto_saviano_dieci_anni_sotto_scorta-149940218/?ref=HREC1-7


Titolo: R. SAVIANO De Luca, le parole della violenza e la politica che perde il rispetto
Inserito da: Arlecchino - Novembre 20, 2016, 11:56:00 am
De Luca, le parole della violenza e la politica che perde il rispetto
Per me resta impresentabile, non alle elezioni ma davanti agli italiani, per la mancanza di consapevolezza del suo ruolo

Di ROBERTO SAVIANO
19 novembre 2016

COSA significa, in terra di camorra, in quella che era conosciuta come terra di lavoro e ora invece è terra di disoccupazione, la condanna a nove anni per concorso esterno in associazione mafiosa a Nicola Cosentino, ex sottosegretario all’economia e fedelissimo dell’allora presidente del Consiglio Silvio Berlusconi? Significa sancire una sconfitta, non certo una vittoria. La sconfitta di chi in questi lunghi anni ha raccontato i rapporti tra criminalità e politica e con la sentenza ha avuto ragione. La sconfitta di chi credeva di poter immaginare un percorso diverso dove l’imprenditoria che va avanti, quella che crea ricchezza e che cresce, può essere imprenditoria legale, che vince onestamente. La sconfitta di chi nella politica — sono rimasti in pochi — vede ancora possibilità di cambiamento. Di chi ancora crede che la politica debba indicare una direzione, essere visionaria, dare l’esempio.

E nelle ore in cui si ragionava su cosa significasse quella condanna — una condanna in primo grado arrivata dopo 141 udienze e oltre 200 testimoni ascoltati — ad abbassare il livello, a svilire ulteriormente il tenore del dibattito politico in un Paese che già crede che chi fa politica sia un ladro o un buffone, arrivano le pietre (pietre e non parole) che il governatore della Campania Vincenzo De Luca lancia a Rosy Bindi, presidente della Commissione parlamentare antimafia, colpevole, secondo De Luca, di averlo inserito nella lista degli impresentabili alla Regionali del 2015 per un procedimento penale legato alla vicenda del Sea Park mai realizzato a Salerno, processo all’esito del quale De Luca è stato, lo scorso settembre, assolto.

Per me De Luca impresentabile resta, non alle elezioni ma davanti ai suoi elettori, davanti agli italiani e ai cittadini campani, per la mancanza di consapevolezza del suo ruolo e l’incapacità di comprendere che il territorio su cui come governatore agisce, dà a termini come «infame» e a espressioni come «si dovrebbe ammazzare», significati precisi, che quotidianamente trovano una declinazione pratica.
E allora mi sono chiesto se Cosentino, condannato a nove anni per concorso esterno in associazione mafiosa, avrebbe mai potuto pronunciare le parole che De Luca si è fatto scappare a margine dell’intervista a “Matrix”. Me lo sono chiesto e mi sono riposto di no, perché Cosentino è nato e cresciuto in un territorio in guerra, quello dominato dal clan del casalesi; perché Cosentino sa e ha sempre saputo che dare dell’infame, esplicitare desideri di morte, hanno significati precisi.

Come lo sa chi vive in determinate realtà pur non essendo camorrista. Sono messaggi che le organizzazioni criminali mandano, ordini che comunicano. Sentenze che decretano. Da qui la consapevolezza di quanto De Luca, da governatore della Campania, sia in realtà completamente inconsapevole rispetto al suo ruolo e rispetto a cosa voglia dire essere Politica in Campania. Perché la Politica non deve solo fare, ma anche essere. Essere rispetto, essere esempio, essere visione.

Ma non voglio speculare sulle parole, perché in tutta onestà non credo che il governatore De Luca abbia mai avuto legami con la criminalità organizzata e spero di non essere mai smentito su questo, ma si è sempre presentato come un politico del fare e quindi mi sento legittimato nel domandargli dove sono le telecamere di videosorveglianza che dopo la morte di Gennaro Cesarano, avvenuta a settembre del 2015, aveva promesso come urgente priorità al Quartiere Sanità? Le telecamere sono state messe nelle zone turistiche, ma alla Sanità ha paura a camminarci chi ci vive, figuriamoci se ci vanno i turisti. È dal 6 settembre 2015 che gli abitanti della Sanità aspettano le 13 telecamere e i rilevatori di targa che ancora non ci sono e che avrebbero un effetto deterrente immediato. De Luca uomo del fare, De Luca fulmine di guerra, cosa sta aspettando?

E ancora più grave considero la vicenda che riguarda la chiusura dell’Ospedale San Gennaro di cui si sta meritoriamente occupando tra gli altri padre Alex Zanotelli. Alla Sanità un ospedale non è solo un luogo dove si va per farsi curare, ma un presidio di legalità. Il primo reparto a essere chiuso è stato il più importante di tutti, il reparto maternità. E il danno è stato enorme perché ostetrici e ginecologi sono medici particolari, entrano nelle famiglie e in quel quartiere prendevano in cura tutti, dando consigli sull’alimentazione, provando a far diminuire il consumo di sigarette, facendo prevenzione. Come è possibile non capire quali saranno le conseguenze del mancato rispetto degli accordi con il territorio? Come è possibile che anche chiudere l’ospedale San Gennaro alla Sanità avrà ripercussioni nefaste sul contrasto alla criminalità organizzata?

Ma poi mi domando quale sia la differenza tra il dare della cagna a una donna come ha fatto Trump e chiamare infame un’altra e dire «sarebbe da ammazzare». Nessuna: una violenza verbale premiata dall’elettorato che la ritiene garanzia di sincerità e quindi di onestà politica. Una violenza verbale calata in una realtà, quella che viviamo, in cui i ragazzini impugnano armi e altri si fanno saltare in aria. Quando capirà questa politica che le parole sono creazione di azioni? Che quando la politica parla male agisce male, quando parla violentemente agisce violentemente. Come dannazione non capirlo?

© Riproduzione riservata
19 novembre 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/11/19/news/de_luca_le_parole_della_violenza_e_la_politica_che_perde_il_rispetto-152309352/?ref=HRER1-1


Titolo: ROBERTO SAVIANO Dare discrezionalità al potere significa generare ingiustizie.
Inserito da: Arlecchino - Marzo 20, 2017, 10:33:56 am
Decreto sicurezza, in nome del decoro non si può criminalizzare anche chi sta ai margini Decreto sicurezza, in nome del decoro non si può criminalizzare anche chi sta ai margini
Dare discrezionalità al potere significa generare ingiustizie.
Il rischio di creare centri storici ripuliti da indesiderati e periferie ghetto. Un regalo a chi vuole raccogliere consensi cavalcando la paura

Di ROBERTO SAVIANO
18 marzo 2017

MA DAVVERO il Pd ha permesso che un decreto del genere potesse essere realizzato? La risposta è una sola: sì, il Pd l'ha permesso e promosso. Il decreto Minniti sulla sicurezza urbana, considerato da questo governo cosa di "straordinaria necessità e urgenza", ha toni razzisti e classisti.

Per descriverlo in breve: i sindaci, per ripulire i centri storici delle città, avranno il potere di allontanare chiunque venga considerato "indecoroso", non occorrerà che sia indagato o che abbia commesso un reato. Il sindaco potrà così chiedere che venga applicato a queste persone un "mini Daspo urbano". Daspo, perché in Italia tutto è calcio e tifo, anche la politica. Si usa l'espressione Daspo perché il tifoso può essere allontanato dallo stadio o costretto alla firma in questura il giorno della partita, in base anche a una segnalazione, non necessariamente è una condanna.

Stiamo assistendo alla criminalizzazione dell'uomo anche quando per fame rovista in un cassonetto della spazzatura per prendere ciò che altri hanno buttato via. Potrà essere allontanato in linea di principio chi non veste, a insindacabile giudizio del sindaco e dei vigili urbani, "decorosamente"? Le creste punk sono decorose o indecorose? La moralità di un comportamento da cosa sarà valutato? Se urlo ubriaco per strada commetto reato, quindi abbiamo strumenti di intervento. Se spaccio verrò arrestato. Se mi denudo ci sono già strumenti per intervenire. Se vendo merce contraffatta, commetto reato. Se occupo suolo pubblico, sarò multato. E allora?

Questo decreto che parla esplicitamente di sindaci che possono allontanare in nome del decoro, quiete pubblica e moralità a cosa si riferisce? Mi rispondo da solo, come mi risponderebbero i sostenitori di questa aberrazione: ma non essere demagogo, sarà il buon senso a determinare il grado di "indecorosità" a cui il sindaco farà fronte.

Davvero? Se divenisse sindaco Salvini, ci troveremmo a veder allontanata ogni sorta di umanità che al nostro serve per sfogare il bugiardo "prima gli italiani" o qualsiasi altra propaganda razzista. Dare discrezionalità al potere significa generare ingiustizie. Arrivare a questa scorciatoia perché la legge è troppo lenta significa dire meglio un'ingiustizia veloce che una giustizia lenta. La ragione dovrebbe invece continuare a pretendere una giustizia veloce. Maroni da ministro degli Interni aveva spinto per far nascere sindaci-sceriffi, ora Minniti arma questa possibilità con questo decreto. Dietro le parole - che pronunciate nel contesto del decreto risuonano vetustissime e da catechesi - di decoro e moralità si nasconde ben altro. Spogliamole della veste tecnica e sapete cosa rimane? Rimane un sottotesto che risuonerebbe così: è dato al sindaco la possibilità di allontanare immigrati e disperati nell'immediato cosi che possano massimizzare il consenso dall'operazione. Domandiamoci ora quale sarà il risultato di questo decreto vergognoso: centri storici magari ripuliti velocemente dai clochard e dagli immigrati e periferie ghetto.

Il provvedimento prevede che il questore, su segnalazione anche del sindaco, potrà allontanare dal centro gli indesiderati per un massimo di sei mesi. È un regalo che viene fatto ai primi cittadini per raccogliere consenso sull'odio e la paura. Sindaci che non hanno più strumenti economici e sociali per portare avanti progetti, che non hanno altri strumenti.

Allontanare non significa risolvere ma nascondere. Contrastare questo decreto non significa vedere il centro storico colmo di accattoni, accettare il barbonismo, invitare a riunioni di lavoratori ubriachi della domenica che occupano gli spazi della bellezza, significa obbligare ad affrontare le ragioni del disagio non a perseguitare il disagio. Significa non ammettere scuse e scorciatoie.

Abbiamo già gli strumenti per contrastare i reati, questo decreto a cosa serve? Questo decreto è solo una grande scusa per ramazzare di volta in volta chi si vuole, autorizzare ad un ingiustizia enorme i sindaci e trascurare l'origine dei problemi. Il sindaco Nardella di Firenze dichiara alla radio che il decreto Minniti va bene. È consapevole il sindaco Nardella che la strategia dei parcheggiatori abusivi è tutta completamente gestita dai clan? Se per gioco si camuffasse e cercasse di fare il parcheggiatore non troverebbe come nemico il nuovo sindaco sceriffo ma le famiglie che controllano quegli spazi. I venditori abusivi hanno aggredito nell'indignazione della rete l'inviato di Striscia la notizia Luca Abete: la loro merce è tutta gestita dai clan, i loro stipendi miserabili vengono dai clan, della loro merce devono rispondere ai clan. E come si risponde? Allontaniamo quelli non graditi ai sindaci. Velocemente, per massimizzare il loro consenso. Lavoro, integrazione, sviluppo sono energie in un paese al collasso e allora si occhieggia alla disperazione del più cupo razzismo.

Il Movimento 5 stelle cosa fa? Si è astenuto. Astenuto perché il decreto sarebbe "una scatola vuota senza fondi né risorse, e molto probabilmente rimarrà lettera morta". E se non rimanesse lettera morta? Non sarebbe stato più dignitoso un minoritario (230 favorevoli e 56 contrari) ma umano No? L'astensione e il silenzio hanno tutto il sapore della complicità. Con questo decreto il Pd si mette fuori la storia che lo voleva figlio del riformismo italiano. Cosa aveva reso la sinistra italiana di Kuliscioff e Turati, di Rosselli e Calamandrei un punto di riferimento internazionale? La capacità di coniugare riforma sociale con libertà, senso del reale con l'aspirazione di cambiamento. Non il povero ma la povertà era il problema, non il criminale ma il crimine, non il ricco ma privilegio erano il problema. Non di disagio allontanato ma di disagio affrontato. Non città fatte di centro pulito e mondezza spazzata

in periferia. Ma il contrario, il centro cuore di una città la cui periferia diventa sua espansione, avanguardia. Idee che non ci sono più e senza idee non c'è più vita ma solo un investimento sul capitale in queste ore più facile da raccogliere: la paura.

© Riproduzione riservata 18 marzo 2017

Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/03/18/news/decreto_sicurezza_in_nome_del_decoro_non_si_puo_criminalizzare_anche_chi_sta_ai_margini-160816529/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P1-S1.8-T2


Titolo: ROBERTO SAVIANO Ileana, ostetrica di guerra per scelta: "Vi racconto il lavoro..
Inserito da: Arlecchino - Aprile 30, 2017, 12:40:32 pm
Ileana, ostetrica di guerra per scelta: "Vi racconto il lavoro dei volontari “
Ha 28 anni e opera per Medici Senza Frontiere: "Se quelli che ci attaccano avessero visto come me mamme e bimbi in difficoltà non avrebbero più parole"

Di ROBERTO SAVIANO
29 aprile 2017

"Aiutiamoli a casa loro" è il mantra che viene ripetuto in questi anni, diventato una specie di scudo per chi vorrebbe impedire l'arrivo dei migranti. Come dire: "Io non voglio che arrivino nel mio Paese, ma non sono razzista eh, non dico di non aiutarli, ma di aiutarli a casa loro". È una frase che di per sé non sarebbe negativa, in fondo stiamo parlando di dare aiuto. Il problema è che nella stragrande maggioranza dei casi rimane una frase vuota, dietro a cui non c'è nulla. E si riduce solo a un "tenetemi lontano il problema". Aiutare significa collaborare, non allontanare; significa occuparsi della questione, non semplicemente non volerla sotto casa. Eppure le stesse persone che intonano il solito "aiutiamoli a casa loro" aggrediscono le Ong che, come Medici Senza Frontiere, nei territori di guerra sono unici luoghi di soccorso. Ho incontrato una persona che ha deciso concretamente di aiutare a casa loro. Si chiama Ileana Boneschi.

Perché una ragazza italiana, di 28 anni, con una formazione da ballerina decide di diventare ostetrica in zone di guerra? Slancio mistico? Voglia di farla finita con una vita ordinaria? Nulla di tutto questo, ma per saperlo ho dovuto incontrarla Ileana che ha un corpo da danzatrice e un viso rinascimentale, con spigolosità nobili del mento e degli zigomi. Ileana è un'ostetrica di Medici Senza Frontiere e fa nascere bambini in zone di guerra, dove esistono emergenze sanitarie che non riusciamo nemmeno a immaginare, dove ogni parto è un miracolo. "Non si parla mai delle donne incinte quando si pensa a una guerra", dice. Ed è proprio così. Ileana ha partecipato a due missioni in Sud Sudan dove è in atto una guerra etnica e ha assistito nel parto donne che quando non riescono a raggiungere gli ambulatori di Medici Senza Frontiere, partoriscono dove capita, in baracche, ma anche nelle paludi, se stanno scappando. "Ho visto clampare e tagliare i cordoni ombelicali con cose stranissime: fili di fieno, fili d'erba, piccoli pezzi di cotone per legarli; pezzi di vetro o di lamiera per tagliarlo, con il rischio consistente di infezione da tetano".

Come hai deciso di diventare un'ostetrica? Hai detto che studiavi danza... poi cos'è successo?
"Ho studiato danza da quando ero piccina, dai tempi dell'asilo. Ero uno scricciolo... Mi piaceva da morire, era bellissimo. Poi sono cresciuta e ho fatto il liceo artistico. Tra le cose più importanti che l'artistico mi ha dato c'è l'aver allenato la mia sensibilità a meravigliarsi del mondo. Ricordo che in quegli anni, che erano già gli anni Duemila, la mia attenzione cadeva su storie che arrivavano da mondi lontani. Storie di sofferenza e ingiustizia. Ed è lì che ho cominciato a percepire questo stato di debito che avevo nei confronti della vita: da una parte io, più che fortunata, dall'altra gente che non aveva niente, nemmeno mezza delle fortune che avevo io, ogni giorno. E quel debito lo soffrivo, come lo soffro ora e quindi l'unico modo che ho trovato per riuscire a gestirlo è stato chiedermi: cosa faccio per combatterlo?".

E cosa hai fatto?
"Sapevo che saldare quel debito era impossibile, però potevo fare qualcosa per bilanciare un po' la fortuna che mi accompagna da sempre".

La politica, l'impegno sociale...
"Grandi pensieri, massimi sistemi... fuffa ai miei occhi. Tutti possono avere idee ma poi ciò che cambia è l'azione. Io ero per l'azione, per fare una cosa pratica, che avesse un impatto immediato, tangibile".

E quindi...
"Pensai che diventare medico fosse il modo migliore per riuscire a fare questa cosa, e non un medico a caso, ma un chirurgo di guerra, proprio perché la chirurgia non è solo di testa ma è anche di mani, di pratica, e io sentivo il bisogno di fare qualcosa. Quando ho compiuto i 18 anni i miei genitori mi regalarono Pappagalli verdi di Gino Strada e nella dedica mi scrissero: 'Temiamo che ci stiamo facendo un autogol regalandoti questo libro'. Sapevano che mi avrebbe portato lontano da loro".

Autogol realizzato.
"Avevano capito esattamente verso cosa mi stavo muovendo ma non hanno contrastato la mia inclinazione, anzi hanno incoraggiato la mia formazione".

È l'unico modo per essere genitori liberi: non bloccare il talento dei figli ma impegnarsi per renderlo il più possibile consapevole. Ma non sei diventata chirurgo però.
"No! Feci il test per Medicina, ma non lo passai per un quarto di punto, un maledetto - o benedetto, chi lo sa? - quarto di punto. Però avevo provato anche l'ingresso al corso di laurea in Ostetricia, ed entrai. Avrei potuto ritentare il test per Medicina l'anno successivo, ma avevo troppa fretta di fare. Iniziai Ostetricia e presto mi appassionai perché è un lavoro meraviglioso. Durante il corso di studio avevo bisogno di dirmi: 'ho fatto questa scelta per poi lavorare là'".

Là dove?
"Là in Africa, dove c'è bisogno".

E sei andata in Africa.
"Alla fine del primo anno, d'estate, andai in Africa come volontaria. Facevo assistenza ad ex ragazzi di strada di Nairobi, una realtà molto pesante tuttora. Tornai dall'Africa ancora più carica. Quindi mi laureai in Ostetricia. Subito dopo la laurea partii per il Kenya come volontaria con altre due compagne di corso. Passammo 3-4 mesi in ospedali missionari".

Tutto lavoro volontario?
"Certo. Ai tempi nessuno ancora ci avrebbe pagato: eravamo alle prime armi".

Come andò?
"Non fu un'esperienza semplice, sia dal punto di vista professionale, perché eravamo appena laureate, sia dal punto di vista personale. Poi tornai in Italia, e per quanto volessi ripartire presto, sapevo che se avessi voluto fare l'ostetrica professionista in un mondo a basse risorse, avrei dovuto prima diventare un professionista e migliorare lavorando in Italia".

E quindi, lavorando in Italia, come ti sei formata sul campo? Quando trovavi il tempo?
"Durante le ferie".

Le ferie?
"Sì, proprio così. Quando avevo delle ferie cercavo di ripartire anche solo per qualche settimana, per dare una mano in piccoli ospedali perché il mio obiettivo era raggiungere i requisiti per fare l'application".

Per Medici senza frontiere?
"Sì! Era il Ferragosto del 2013. Scelsi Msf perché la sentivo assolutamente vicina alla mia idea di assistenza medica in certi contesti. Essendo un'associazione gigante non davo affatto per scontato che mi prendessero. Ma a ottobre 2013, mentre ero in reparto, mi arrivò una chiamata da Roma: ricordo la frase 'Benvenuta in Msf!', mi sciolsi".

Sai che alla tua età molte tue coetanee userebbero questa espressione "mi sciolsi" per descrivere altre situazioni? Magari un mutuo accettato, un lavoro a tempo indeterminato, tu ti sei sciolta appena hai saputo che saresti andata a lavorare in territori di guerra?
"Per me essere dentro Msf era la felicità massima. Ho frequentato un corso di preparazione pre-partenza che ti fa fare proprio Msf in cui ti danno delle nozioni su come gestire lo stress in missione, perché non siamo chiamati a fare solo lavoro di clinica, ma anche di selezione dello staff e di formazione. E nel frattempo da Roma cercano di matchare il tuo profilo con l'effettivo bisogno della missione".

Dove ti mandarono?
"Sarei dovuta partire per il Myanmar, principalmente per dare assistenza ai Rohingya ma poi per problemi di sicurezza la missione viene ridotta e non partii più". 

Prima missione subito fallita. Ci sei rimasta male?
"No, capisco subito che in Msf il primo requisito è la flessibilità perché come è naturale per territori dove c'è instabilità, i piani possono cambiare all'ultimo minuto. Poi però sono partita davvero".

Per dove?
"Per il Sud Sudan dove l'unico modo per spostarsi sono questi piccoli aerei caravan di Msf. Arrivo a Nasir, nell'Upper Nile State e inizio a capire come vanno le cose. Dopo quarantott'ore mi dicono che la linea del fronte si sta spostando verso l'ospedale - noi eravamo in zona ribelle - e quindi era il caso di ridurre il numero di espatriati (gli espatriati, nelle missioni, sono le persone dello staff internazionale ndr) del progetto. Ero l'ultima arrivata e mi chiedono se posso tornare a Juba. Rientro successivamente a Nasir e abbiamo informazioni che i soldati stanno avanzando molto velocemente verso la zona dove si trova l'ospedale, quindi tutto il nostro team deve mettere in pratica il piano di evacuazione attraverso il fiume Sobat, direzione Etiopia. È buio, prendiamo la barca e percorriamo per un pezzo il fiume. Sbarchiamo e dormiamo nel nulla; nella direzione opposta vediamo uomini e ragazzi ubriachissimi che sfrecciavano verso il fronte sparando a salve per gasarsi".

Che ne fu dell'ospedale a Nasir?
"Completamente distrutto. Le sacche di sangue strappate e il sangue versato ovunque. Un gesto barbaro per dire voglio ucciderti e voglio eliminare quei pochi strumenti che hai per curarti".

Hai avuto paura?
"Può sembrare strano, ma mai. Msf ha una gestione della sicurezza che secondo me è fenomenale ed è lo strumento essenziale per fare missioni in posti remoti mettendoti nelle condizioni di sentirti sicuro. Se non sei protetto, non hai la condizione fisica e mentale per poterti dedicare alle persone per cui sei lì. C'è gente che si occupa della tua sicurezza in modo che tu possa occuparti dei tuoi pazienti".

E qual è il tuo lavoro lì?
"Quando si fugge, quando la popolazione resta per settimane lontana dai villaggi la prima emergenza è la malnutrizione. Adulti e bambini sono tutti scheletri che camminano. In queste condizioni, per prima cosa bisogna farsi arrivare plumpynut, ovvero il cibo terapeutico che pesa moltissimo e per il quale servono molti voli, ma durante la stagione delle piogge le piste diventano un mare di fango e far arrivare ciò che serve è complicatissimo. Poi allestire una sala operatoria cosa fondamentale per salvare le donne, quando i tagli cesarei sono indispensabili. I trasferimenti all'ospedale di Bentiu a 130 km di distanza erano difficilissimi, questo vuol dire che le donne che non sono riuscita a trasferire le ho perse davanti ai miei occhi. E poi le trasfusioni: se c'è bisogno di una trasfusione trovare un donatore compatibile tra Hiv e malattie sessualmente trasmissibili è come vincere alla lotteria". 

Come non farsi dominare dallo sconforto?
"Imparo da loro. I sudsudanesi sono forti sin dalla nascita. Spesso arrivano bambini di uno o due giorni di vita con gravi infezioni in atto che con due dosi di antibiotico generico e un po' di ossigeno riescono a riprendersi. La notte la situazione sembrava persa, ma al mattino li trovavo attaccati al seno e dopo pochi giorni li dimettevamo. La loro forza è incredibile ai miei occhi".

Poi sei rientrata in Italia...
"Sì, ma poi di nuovo in Sud Sudan e questa volta a Bentiu dove c'è un campo rifugiati che ospita circa 110mila persone ed è sotto la protezione delle Nazioni Unite. Lì Msf ha un grande ospedale con una piccola sala operatoria".

Come gestite gli aiuti in situazioni di tale affollamento?
"Una cosa che ci tengo a dire è che lo staff di Msf si basa sugli espatriati internazionali, quindi su chi va e viene, ma lo staff è soprattutto locale, quindi persone che danno un contributo fondamentale, stanno vivendo sulla propria pelle le tragedie dei loro paesi, persone vulnerabili perché stanno soffrendo moltissimo. Eppure ogni mattina hanno la forza di presentarsi nel nostro ospedale e fare i loro turni. Questa cosa io la trovo eroica".
 
Come vedi la situazione in Sud Sudan?
"Drammatica. Se si pensa, ad esempio che la violenza sessuale è una realtà estremamente diffusa ed è usata come arma di guerra. Io avevo a che fare con vittime abusate da gruppi rivali ma il giorno dopo poteva accadere il contrario. Il Sud Sudan è un paese che vive di aiuti umanitari e la situazione non è in via di miglioramento quindi resterà dipendente dalle ong per molto tempo".
 
Qui non si fanno più figli, invece là se ne fanno moltissimi.
"La differenza credo risieda nella possibilità di poter fare delle scelte. Se non vedi alternative riproduci i modelli che hai. L'hai visto fare a tua nonna, a tua madre, a tua sorella... Non avere mezzi di comunicazione, l'essere nata e cresciuta nel bel mezzo del niente ti conduce a fare ciò che hai visto fare. Qui per quanto le donne spesso non siano libere di scegliere quello che vorrebbero fare in un determinato momento, almeno sono a conoscenza di come la questione di fare bambini si possa affrontare in modi diversi. Secondo me questa è la chiave. Se poi penso al Sud Sudan, in quel contesto le cose semplicemente succedono alle persone, soprattutto alle donne. A loro succede anche di partorire nelle paludi, un parto in acqua un po' diverso da come lo intendiamo noi".

Nelle paludi?
"Sì. Quando sono tornata in Sud Sudan, a Bentiu, ebbi modo di lavorare con lo stesso staff con cui avevo lavorato due anni prima, perché nel frattempo loro avevano dovuto lasciare Leer. Mi raccontarono quella che era stata la fuga della popolazione dai soldati. Per mesi uomini, donne, bambini e anziani si erano dovuti nascondere di notte nelle paludi. Le ostetriche mi raccontavano di parti che avevano assistito con grande ansia perché lì non avevano veramente nulla. Nulla con cui aiutare con le donne, non un paio di guanti, non un posto dove metterle al pulito, niente per scaldare il bambino dopo la nascita".

Ma la contraccezione?
"Anche chi conosce i metodi contraccettivi fa molti figli perché considerano i bambini sempre un dono e perché sanno che un'alta percentuale di loro non sopravvivrà. È difficile far passare il messaggio che se potessero distanziare un po' di più le gravidanze e investire più risorse sui piccoli che hanno potrebbero invece far sì che tutti i bimbi riescano ad arrivare all'età adulta".

Essere madre in Sudan, in Iraq, ed essere madre in Italia. Sembra che faccia più paura alle donne europee partorire che a quelle africane. 
"Noi in Italia, in linea di massima a 30 anni cominciamo a pensare di voler avere un bambino, e come esperienza, quando accade, ci si presenta come totalmente nuova, complicata, lontana persino estranea. Mentre se sei sudsudanese, un bambino che nasce e che cresce è così frequente nella tua vita che, nonostante le difficoltà, è molto più 'semplice' da affrontare. Per una madre italiana - lo vedo dalle donne che assisto - nonostante ci siano molti più mezzi per sostenere il figlio e proteggere il parto, tutto è molto più complicato. Le donne tutte le notti si nascondono nella palude, un parto in acqua un po' diverso. In Iraq i mariti noleggiano taxi per accompagnare le mogli in ospedale e la nostra difficoltà maggiore avviene quando, dopo il parto, non riusciamo a trattenere in ospedale sotto osservazione madre e figlio nemmeno per due ore, considerando che le linee guida impongono un'osservazione di almeno 24 ore. Vanno via, per ridurre i costi del noleggio delle auto e non c'è nulla che noi possiamo fare per impedirlo".

Qual è la differenza di mezzi disponibili tra una sala parto di un Paese a basse risorse e una sala parto di un Paese sviluppato?
"Msf è molto forte nel voler garantire degli standard alti, sopra la sufficienza: quando apre una maternità si assicura che tutti gli strumenti essenziali siano presenti. Ad esempio la sterilizzazione dei ferri, senza questo la maternità non apre. Ovviamente deve essere tutto manuale, nulla è elettrico, perché la nostra capacità elettrica nei vari progetti può essere molto varia, quindi dobbiamo essere sicuri del funzionamento dei macchinari anche in assenza di corrente".

Hai detto che, nonostante le difficoltà che queste mamme sono costrette a vivere in guerra, dopo il parto una volta superata la fatica fisica, la prima sensazione che senti in loro è la gioia.
"La prima espressione è sempre di stanchezza totale, il corpo ha sperimentato un dolore gigante. Però quando la mamma prende in braccio il bambino c'è tantissima gioia. Le donne sanno che il percorso di nascita presenta molti rischi quindi quando partoriscono e vedono che il bambino piange, è vivo e sta bene e che anche loro sono vive e stanno bene, sono meravigliate e felici".

Ileana in queste storie misura la resistenza delle donne.
"Ricordo il caso di una ragazza molto giovane in Sud Sudan, rimasta incinta dopo una violenza sessuale da parte di un soldato durante un attacco alla popolazione civile. Era al suo primo bambino, e venne al nostro presidio maternità accompagnata dal fratello (cosa strana perché di solito sono le donne a fare assistenza, gli uomini normalmente in sala parto non entrano): iniziò il suo travaglio, ma il bambino non aveva più battito, era morto in utero per una malformazione fetale. Tra l'altro il bambino era podalico, quindi un parto difficile... Lei è stata in travaglio tutta la notte senza emettere il minimo suono di lamento, con una forza incredibile, fino al momento del parto, senza nemmeno aver vicina una mamma o una sorella che le potesse dire una parola di conforto. È quella secondo me la forza, una forza che sembra dire: 'Nonostante ne abbia passate di tutti i colori adesso sono qui e lotto per liberarmi da questa situazione'".

Che ne pensi delle polemiche di questi giorni sulle ong? Ti sei fatta un'idea del perché siano partite e quale sia il loro scopo?
"Se tutti quelli che commentano e alimentano questa polemica avessero visto una mamma o un bambino in difficoltà, nessuno avrebbe più parole, ma tutti si metterebbero a fare".

Ileana è una delle moltissime anime di Msf che come altre Ong organizza la solidarietà non rendendola una parola vuota o sospetta. Ho voluto che si raccontasse perché il racconto è la migliore risposta, forse l'unica, alle insinuazioni di questi giorni. Persone come Ileana hanno trasformato l'aiutiamoli a casa loro nella più umana delle declinazioni: aiutiamoci.
 
© Riproduzione riservata 29 aprile 2017

Da - http://www.repubblica.it/cronaca/2017/04/29/news/ileana_ostetrica_di_guerra_per_scelta_vi_racconto_il_lavoro_dei_volontari_-164157486/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P6-S2.4-T1


Titolo: Saviano: ”Così il Pd diventa la peggior destra che fa leva su istinto ... (sic.)
Inserito da: Arlecchino - Maggio 06, 2017, 05:34:02 pm
Saviano: ”Così il Pd diventa la peggior destra che fa leva su istinto, ignoranza e luoghi comuni”
Lo scrittore su Facebook: la politica asseconda una percezione d’insicurezza generata dai media.
Quando il nuovo fascismo sarà alle porte ricordiamoci di chi gliele ha aperte

Pubblicato il 04/05/2017 - Ultima modifica il 04/05/2017 alle ore 16:19

«Non è consentendo alle persone di armarsi e di sparare che si tutela la sicurezza dei cittadini. È solo un’illusione e una mancia politica per ottenere consenso». È quanto scrive Roberto Saviano in un commento sulla sua pagina Facebook a proposito della proposta di legge sulla legittima difesa. 

«Con il decreto Minniti e la legge sulla legittima difesa, il Partito Democratico ha deciso definitivamente di essere un partito della peggior destra che fa leva su istinto, ignoranza e luoghi comuni. La politica decide di abbandonare la statistica (secondo cui per i reati predatori tra il 2015 e il 2016 c’è stato un calo del 16% e non un aumento) per assecondare la percezione del crimine e “invitare” i cittadini ad armarsi. La sicurezza si ottiene con politiche sociali, con l’aumento dei controlli, non delegando alla difesa personale, cosa che lascia una tale discrezionalità da rendere pericolosissima questa legge. Non è più ciò che realmente accade il criterio guida per stabilire come fare le leggi, ma la percezione che le persone hanno della realtà, una percezione indotta dai media che parlano di insicurezza con argomentazioni leghiste. Quando il nuovo fascismo sarà alle porte ricordiamoci di chi gliele avrà fatte trovare aperte».

Licenza Creative Commons
Alcuni diritti riservati.

Da - http://www.lastampa.it/2017/05/04/italia/politica/saviano-non-consentendo-alle-persone-di-armarsi-e-di-sparare-che-si-tutela-la-sicurezza-uAxQ4B5nPVRuBPIaLOgK7N/pagina.html


Titolo: ROBERTO SAVIANO, attacca Carmelo Zuccaro, facendo un errore che poteva evitare.
Inserito da: Arlecchino - Maggio 09, 2017, 05:48:21 pm
Quei sospetti che sabotano la missione di chi salva le vite

di ROBERTO SAVIANO
03 maggio 2017

POLITICANTI senza scrupoli hanno usato il paravento di ipotetici rapporti dei Servizi segreti per infangare le organizzazioni non governative che operano nel Mediterraneo. Oggi apprendiamo dagli stessi Servizi segreti che quei rapporti non esistono. Il Procuratore della Repubblica di Catania, Carmelo Zuccaro, chiarirà la sua posizione davanti alla commissione Difesa del Senato, mentre immagino che una forza politica che fa della trasparenza e della superiorità morale il proprio marchio di fabbrica non avrà problemi a fornire delucidazioni, con la massima urgenza, sulla natura delle fonti da cui i suoi esponenti più in vista - quelli che hanno trascorso gli ultimi giorni in tv a spargere fango e sospetti - hanno appreso dell'esistenza di rapporti dei Servizi italiani circa i fantomatici contatti tra Ong e scafisti. Non pensino di evadere la questione distogliendo l'attenzione dell'opinione pubblica con progetti di legge ad hoc, che hanno tutta l'aria di essere solo strategie di distrazione, tipiche della politica cialtrona che dicono di combattere.

Sulla pelle e sulla vita delle persone non si specula e se lo si è fatto - per una manciata di voti o per un po' di visibilità - se ne dovranno pagare le conseguenze, a tutti i livelli. Ma non dovremmo essere contenti se qualcuno vuol fare chiarezza sulle Ong? Quello che è accaduto non c'entra nulla con il fare chiarezza tutt'altro. È stato diffuso il sospetto, e anche in modo approssimativo, ribaltando qualsiasi metodo investigativo e di inchiesta. Eppure Medici senza frontiere ha salvato 60.390 persone sostenendo la propria azione esclusivamente attraverso donazioni private. Proprio l'audizione di Medici senza frontiere avvenuta ieri alla commissione Difesa del Senato ha riportato ragionevolezza in una polemica che l'aveva completamente persa. Lo ha fatto chiarendo una dinamica: "Ogni giorno migliaia di uomini, donne e bambini continuano a prendere il mare affidandosi a trafficanti senza scrupoli. Non lo fanno perché potrebbero esserci delle barche a salvarli al largo della Libia, ma perché non hanno altra scelta, e le politiche europee non offrono loro alcuna alternativa. Non sono le organizzazioni umanitarie, ma le politiche europee a favorire i trafficanti". Un discorso assolutamente logico, quello di Loris De Filippi, presidente di MSF Italia, ma che ha dovuto difendere dal discredito e dalle insinuazioni che negli ultimi giorni hanno infangato le Ong. Loris De Filippi ha anzi ribaltato con fermezza il punto di vista: "Non ci sentiamo affatto sul banco degli imputati, al contrario crediamo che a dover salire sul banco degli imputati siano innanzitutto le istituzioni e i governi europei che per troppo tempo hanno volutamente omesso di rispondere a questa chiamata d'aiuto, non fornendo un sistema europeo di soccorso, non offrendo nessuna alternativa a chi disperatamente chiedeva protezione nel continente europeo. La nostra presenza in mare come quella di altre Ong è il risultato del fallimento dell'Europa e dei suoi stati membri nel gestire in maniera umana ed efficace i flussi migratori".

Ma la cosa che più preoccupa, ha aggiunto il presidente di Msf, "non sono tanto le accuse alle Ong, ma il complessivo avvelenamento del clima in cui le stesse autorità italiane e le Ong lavorano. Oggi chi fa ricerca e soccorso in mare rischia di trovarsi circondato da un'ostilità che per il Paese rappresenta un enorme passo indietro(...) Continua una campagna di discredito che si basa su informazioni non suffragate per ora da chiare evidenze, anche da parte di soggetti che per ruolo istituzionale dovrebbero contribuire a fare chiarezza invece che cercare visibilità diffondendo a mezzo stampa insinuazioni e sospetti".

E allora tutte queste accuse che avrebbero dovuto essere pronunciate solo dopo raccolta di prove, e prove sufficienti non suggestioni, sapete a cosa ha portato? Ha portato come denuncia Sos Mediteranee Italia il vertiginoso diminuire delle donazioni alle Ong. Ecco cosa questi sospetti volevano generare, impedire alle Ong di salvare vite, null'altro. Danno ancor più grave se si pensa che la polemica di questi giorni avviene alla vigilia della dichiarazione dei redditi e quindi ostacola la raccolta del 5xmille che è una fonte di finanziamento fondamentale per chi salva le vite in mare.

© Riproduzione riservata 03 maggio 2017

Da - http://www.repubblica.it/cronaca/2017/05/03/news/quei_sospetti_che_sabotano_la_missione_di_chi_salva_le_vite-164486699/?ref=search


Titolo: ROBERTO SAVIANO Migranti e ladri in casa: se la politica offre solo il diritto..
Inserito da: Arlecchino - Maggio 16, 2017, 01:45:03 pm
Migranti e ladri in casa: se la politica offre solo il diritto alla vendetta
Alla paura delle rapine si risponde con una legge sulla legittima difesa.
Sull'immigrazione si assecondano i peggiori umori della piazza.
Caro Minniti, non c'è più un barlume di progressismo nel governo

Di ROBERTO SAVIANO
12 maggio 2017

Il Forum con il ministro dell'Interno Minniti nella redazione di Repubblica è un documento che offre spunti preziosi di riflessione oltre a sancire l'esaurirsi di ogni barlume progressista nella compagine di governo. "Il lavoro che ho cominciato quattro mesi fa al Viminale – dice Minniti – può piacere o meno. Ma è figlio di un metodo, di un disegno, e di una certezza. Che sulle questioni della nostra sicurezza, si chiamino emergenza migranti, terrorismo, reati predatori, incolumità e decoro urbano, legittima difesa, non si giocano le prossime elezioni politiche. Ma il futuro e la qualità della nostra democrazia".

Vero, è in gioco proprio questo: il futuro e la qualità della nostra democrazia, e l'impressione è che il metodo sia ormai non dire ciò che si vuol fare, per poi farlo davvero. Il linguaggio è la chiave di tutto e chi vuole oggi ridisegnare il mondo, deve iniziare a farlo modificando il significato delle parole.

E così le imbarcazioni delle ong che nel Mediterraneo portano in salvo vite (uomini, donne e bambini, perché "vite" è parola troppo generica) diventano "taxi" nelle parole del vicepresidente della Camera Luigi Di Maio, e così l'inchiesta della Procura di Trapani secondo cui "in qualche caso navi delle ong hanno effettuato operazioni di soccorso senza informare la centrale della Guardia costiera" e quindi "per la legislazione italiana si potrebbe dire che viene commesso il reato di favoreggiamento di immigrazione clandestina ma non è punibile perché commesso per salvare una vita umana", diventa: le ong hanno rapporti con gli scafisti.

I virgolettati appartengono al Procuratore della Repubblica di Trapani Ambrogio Cartosio, che quelle parole le ha pronunciate dinanzi alla commissione Difesa del Senato. Dunque personale delle ong è sotto inchiesta per un reato che non può essere punito e a dirlo è lo stesso titolare dell'indagine: non si capisce allora perché il suo Ufficio non abbia ancora chiesto l'archiviazione degli atti. Ma mettere in fila i fatti è inutile perché l'espressione "taxi del Mediterraneo" vi è rimasta dentro anche se è stata smentita in ogni luogo. Rimbomba nello stomaco e vi ricorda ogni volta che con la pensione che prendete non ce la fate a mantenere i due figli che ancora non hanno un lavoro dignitoso. E vi ricorda che è assurdo a 35 anni lavorare 12 ore al giorno, senza contratto, per portare a casa 700 euro al mese. E vi ricorda che avete dovuto lasciare l'Italia per andare a Londra, a Lipsia o in Australia, che soffrite come cani, perché avete un lavoro ma vi manca tutto il resto.

E allora i numeri, le statistiche, diventano offensive perché non tengono conto dei sacrifici, delle sofferenze, della lontananza, delle rinunce, dei sogni infranti. E allora se siamo 60 milioni e ogni anno arrivano in Italia 180mila migranti, che senso ha fare un calcolo, che senso ha dirci che la proporzione di 1 (migrante) a 333 (italiani) è gestibile e non rappresenterebbe un'emergenza? Nessun senso, perché io continuo a mantenere con una pensione di 1.800 euro al mese due figli che non trovano lavoro. E allora al diavolo i migranti e al diavolo anche le ong che ce li portano in Italia. E ancora, che senso ha citare le fonti del Viminale per dire che i reati predatori sono in diminuzione? Nessun senso se lo stesso ministro degli Interni racconta che nel 1999, parlando a Bologna con "un vecchio compagno", capì che "la sicurezza è un sentire", che "dove si ragiona con le statistiche non c'è sentimento". E fu a Bologna, nel 1999, che Minniti capì ciò che Steve Bannon, il consulente strategico di Trump, e Beppe Grillo, garante del M5S, avrebbero capito solo più tardi (molto più tardi) usando la massa di informazioni provenienti dai social e dal web: la statistica vera, quella dei tempi moderni, quella che serve alla politica, è la "scienza" che contempla solo lo stato d'animo delle persone, è quella che traccia gli umori dell'opinione pubblica, che come in un circolo vizioso può essere agevolmente creata diffondendo dati e notizie falsi o verosimili.

Quindi se l'opinione pubblica ti dice che si sente invasa, non puoi rispondere come sarebbe giusto, ovvio, razionale e persino conveniente: la soluzione è dare permessi di soggiorno e consentire che in Italia si arrivi legalmente, perché ampliare le fasce di illegalità è sempre una scelta criminogena. Non puoi farlo. La soluzione è dire -come fanno i 5 Stelle - che le ong vanno fermate, fa nulla che nel frattempo muoiano uomini, donne e bambini perché si è troppo distanti per prestare soccorso. La soluzione è promettere di intensificare e migliorare gli accordi con Turchia e Libia, perché pagare per risolvere problemi lontano dall'Italia è di gran lunga più conveniente (in termini elettorali, sia chiaro, non di salvaguardia della tenuta democratica dell'Italia) che gestire problemi "in casa". Che in Libia e Turchia i migranti siano stipati in lager, detenuti, torturati, violentati, sfruttati è abominevole, ma è un prezzo che siamo disposti a pagare, perché impedire i soccorsi in mare e bloccare i migranti a un passo dall'Europa è la risposta della politica agli umori della piazza. Su questo punto la posizione del centrosinistra non è per nulla cambiata rispetto ai tempi in cui – tolte poche eccezioni – assentì al trattato siglato da Berlusconi con Gheddafi.

Lo stesso vale per la legittima difesa: se l'opinione pubblica non si sente sicura, la soluzione è una legge ad hoc, che importa che sia chiaramente "inutile e confusa", che importa che "già esisteva un canone normativo e veniva interpretato in modo favorevole a chi vantava la difesa", serviva uno spot per questo governo che si è tradotto in un invito a prendere il porto d'armi e ad avere in casa una pistola. Ed è inutile che il segretario del Pd lamenti fantomatici errori: in questo agire c'è del metodo, poiché la matrice è lo stesso populismo penale che ha condotto all'introduzione dell'inutile reato di omicidio stradale. Si trova il tempo per discutere e votare leggi inutili (quando non dannose) e quelle di pubblica utilità, come l'introduzione del reato di tortura, restano ferme.

Sta accadendo questo: se ci si basa sui numeri per raccontare il mondo in cui viviamo si è accusati di fare propaganda e di farlo senza avere cuore, senza pensare che dietro i numeri ci siano persone. I numeri servono solo per avere misura delle dinamiche e non lasciarle all'istinto manipolatorio delle fazioni. Se ci si sforza di argomentare e utilizzare un metodo che abbia un minimo di attendibilità scientifica si rischia di fare la fine degli eretici bruciati sul fuoco dall'Inquisizione: sapere è una colpa e anche questo è un segno dei tempi. Dall'altra parte alla politica si chiede di limitarsi a raccontare ciò che sembra plausibile, anche se vero non è. Minniti potrà continuare a dire di non essere un esponente del populismo di destra, ma solo un vecchio compagno folgorato sulla via della voglia di sicurezza.

Oppure se ci piace possiamo chiamare le aspirazioni della piazza "oclocrazia", prendendo il termine in prestito da Polibio, ossia governo della plebe, una degenerazione della democrazia. Un termine che non sarà difficile far passare come una forma di governo tradizionale ma moderna: il governo delle masse. Ma "masse" suona parola antica, vecchia, consumata e allora meglio il governo dei cittadini, ecco, così suona meglio.

Eppure l'oclocrazia è una degenerazione e non perché da pochi si passi a molti, a tutti, ma perché – come riflette Marco Revelli - quando le persone sentono che si è smarrito il valore dell'uguaglianza, c'è solo una cosa a cui ambiscono più di ogni altra, e non è la trasformazione sociale, ma la vendetta. Il governo della vendetta: contro i politici, contro i ricchi, contro i famosi, contro i migranti, contro le ong, contro i ladri.

Dire che i dati non servono, dire che l'analisi non serve, dire "dove si ragiona con le statistiche non c'è sentimento" significa solo nutrire questa vendetta e rendere i cittadini consumatori di rabbia. Alla sfiducia dei cittadini, alla loro volontà di far saltare il banco, la politica in questo momento non sta dando alcuno strumento di trasformazione, ma il più atroce dei diritti (che si traduca in diritto a sparare o a sentirsi padrone della propria terra), un diritto che consuma chi ne fa uso, illudendolo di far qualcosa per lenire il malessere e lo smarrimento che prova: il diritto alla vendetta.

© Riproduzione riservata 12 maggio 2017

Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/05/12/news/migranti_e_ladri_in_casa_se_la_politica_offre_solo_il_diritto_alla_vendetta-165222592/?ref=RHPPBT-BH-I0-C8-P1-S2.5-T1


Titolo: ROBERTO SAVIANO Falcone voleva vivere e i suoi nemici non erano solo i mafiosi
Inserito da: Arlecchino - Maggio 26, 2017, 05:22:38 pm
Falcone voleva vivere e i suoi nemici non erano solo i mafiosi
Uno dei principali motori dell'ostilità contro il magistrato, che nella vita collezionò tante sconfitte, fu l'invidia. Contro di lui giochi di potere e strumentalizzazioni

Di ROBERTO SAVIANO
23 maggio 2017
 
«Per essere credibili bisogna essere ammazzati in questo Paese». Così Giovanni Falcone rispose in tv a una ragazza che gli chiedeva: «In Sicilia si muore perché si è lasciati soli. Giacché lei fortunatamente è ancora tra noi, chi la protegge?». Erano i giorni in cui girava voce che l’attentato all’Addaura (fu trovata una borsa di tritolo sulla scogliera davanti alla sua casa al mare) lo avesse organizzato da solo per fare carriera, perché la mafia non sbaglia, se vuole uccidere uccide.

A ogni commemorazione della strage di Capaci, non posso fare a meno di ricordare che allora come oggi la grammatica comunicativa è la stessa, se non peggiore: solo sui cadaveri gli italiani riescono a esprimere una solidarietà e un’empatia disinteressate. A chi si preoccupava perché fumasse troppo, Falcone rispondeva: «Non mi uccideranno le sigarette». Sembra un dettaglio futile, ma la storia di Giovanni Falcone dobbiamo raccontarla, per conoscerla davvero, seguendo percorsi laterali, unendo i puntini dei dettagli futili. E dettagli futili sono il veleno quotidiano e le accuse che a Falcone venivano rivolte da colleghi magistrati e da giornalisti per come lavorava e comunicava. Falcone innovatore del diritto, Falcone magistrato che dava una solidità tale alle sue inchieste da superare la più difficile delle prove, la verifica dibattimentale, possedeva doti preziose ma solo in astratto. Per queste doti — innovazione e rigore — Falcone in vita fu considerato magistrato poco ortodosso e insabbiatore. Odiato, ostacolato, disprezzato, esposto alla pubblica disapprovazione e isolato e non, come la storiografia ufficiale ci tramanda, apprezzato, rispettato, appoggiato. Questo è il torto più imperdonabile che si possa fare alla memoria di Falcone, perpetrare la menzogna di un talento riconosciuto, di un magistrato che ha lavorato con il sostegno dei colleghi e dell’opinione pubblica. Queste mie parole suoneranno odiose e vogliono esserlo perché per capire il Paese che siamo, dobbiamo sapere che Paese eravamo. E per capire che Paese eravamo dobbiamo studiare ciò che è stato fatto a Falcone in vita.

Potrebbe sembrare, a un giovane lettore, che Falcone sia stato l’uomo giusto, rappresentante dell’Italia perbene, ucciso dagli uomini ingiusti, rappresentanti dell’Italia corrotta. Non è così. La sintesi di ciò che Falcone ha dovuto subire l’ha fatta, a dieci anni da Capaci, Ilda Boccassini, il magistrato che forse più di tutti ha ereditato il suo metodo investigativo: «Non c’è stato uomo in Italia che abbia accumulato nella sua vita più sconfitte di Falcone. Non c’è stato uomo la cui fiducia e amicizia sia stata tradita con più determinazione e malignità». Bocciato come consigliere istruttore, come procuratore di Palermo, come candidato al Csm, e — continua Boccassini — sarebbe stato bocciato anche come procuratore nazionale antimafia, se non fosse stato ucciso.

Uno dei motori principali dell’ostilità continua verso Falcone è stato il meno citato in questi anni ed è il più abietto dei sentimenti: l’invidia. Non sembri un’esagerazione, non è una mia idea, perché questa parola — invidia — è nero su bianco in una sentenza della Corte di Cassazione nell’ambito del processo per l’attentato dell’Addaura: “Non vi è alcun dubbio che Giovanni Falcone fu oggetto di torbidi giochi di potere, di strumentalizzazioni a opera della partitocrazia, di meschini sentimenti di invidia e gelosia”. Ma come si poteva invidiare un uomo che era un obiettivo tanto esposto? Si poteva eccome, non riuscendo a eguagliare il suo rigore e il suo talento, si arrivava a detestarlo, a cercare di ostacolarlo. E soprattutto risultava insopportabile a una parte importante del giornalismo e della magistratura che lui avesse l’ambizione di raggiungere ruoli di vertice per trasformare la realtà. Meglio farlo passare per un ambizioso affamato di potere e di pubblicità. Sapete come lo attaccavano? Esattamente con le stesse parole con cui oggi gli haters riempirebbero i social. Falcon Crest, il giudice abbronzato, il guitto televisivo, l’amico dei socialisti, l’uomo che usa la mafia a favore delle telecamere. Sino alle insinuazioni “se è in vita è perché lo ha permesso Cosa Nostra” ai cui affiliati viene così attribuito potere assoluto di vita e di morte. Una sorta di omaggio, più o meno inconsapevole, alla mafia da chi credeva, diceva o fingeva di volerla combattere. E Falcone, che abbiamo visto rispondere in televisione, non riusciva fino in fondo a credere possibile di doversi scusare per essere ancora in vita.

Giovanni Bianconi, nel suo libro L’assedio, mette in fila tutte le vili accuse e le diffamazioni possibili di cui Falcone fu oggetto e parla di una vita passata a combattere la mafia e a difendersi da tutto il resto. Falcone aveva contro i mafiosi, chi non riusciva come lui a combattere i mafiosi, e chi stava a guardare come una corrida chi vincesse tra lui e la mafia. E Cosa Nostra era lì a osservare il progressivo isolamento, ad aspettare il momento giusto per colpire. Falcone viene ucciso da direttore degli Affari Penali, mentre lavora a Roma alla costruzione della Superprocura voluta da Martelli. Quando Cosa Nostra decide di eliminarlo, manda un commando nella Capitale che sarà definito simbolicamente la Supercosa, nata per contrastare la Superprocura. Ma Bianconi scrive che Falcone a Roma è tranquillo e all’inquietudine di un amico che si preoccupa per lui risponde: «Qui sono libero di fare quasi la vita che voglio, non rischio nulla. È in Sicilia che sono un morto che cammina».

Falcone prima e Borsellino poi sapevano di avere il destino segnato, eppure non si sottrassero alla morte. Ma dobbiamo leggere e interpretare il loro martirio sapendo che non era possibile fare marcia indietro dopo tutto il sangue versato. Erano morti colleghi magistrati, poliziotti, nascondersi non si poteva, cambiare vita era troppo tardi. E allo stesso tempo, pensare a Falcone e Borsellino come due uomini rassegnati alla morte significa non comprendere fino in fondo il valore del loro sacrificio. Giovanni Falcone voleva vivere. Paolo Borsellino voleva vivere. Nessuna vocazione da parte loro al martirio, tutt’altro.

Mi capita di paragonarli a Giordano Bruno perché anche Bruno voleva vivere e quindi credendo di potersi salvare decise di abiurare. Bruno abiura più d’una volta, ma all’inquisizione non basta che taccia, che ometta, che ragioni da filosofo. L’inquisizione vuole delegittimare quello che ha scritto, verità etiche che l’uomo non può negare perché se le negasse smetterebbero di esistere. Non si tratta di negare il moto della Terra che è un dato fisico e, per quanto lo si neghi, vero. Negare verità etiche significa cancellarle. Nel teatro dell’inquisizione Bruno ha creduto di poter recitare la parte di colui che si pente, fino a quando non capisce che la posta in gioco è troppo alta, molto più alta della sua stessa vita. Anche Falcone e Borsellino sono stati costretti a difendere la verità del loro lavoro con il sacrificio, un sacrificio che non poteva essere pubblicamente rivendicato perché adesso come venticinque anni fa la delegittimazione è percepita come autentica, più autentica di ogni legittima difesa. Buonisti li chiamerebbero oggi, di quelli che senza prove certe non lanciano dardi, nemmeno contro un nemico infame come la mafia.

Falcone e Borsellino insieme a pochi, pochissimi altri, hanno combattuto contro il può feroce dei nemici sapendo che a loro non era concessa alcuna scorciatoia; sapendo che per quanto il loro nemico fosse disonesto, scorretto e potente potevano contrastarlo con una sola arma: il diritto. Solo il diritto era garanzia, solo attraverso quello si sarebbe evitato di ledere i diritti di tutti. Una grande lezione per noi oggi, che vediamo quotidianamente farne strame da chi considera il fine superiore a qualunque mezzo e il diritto un ostacolo da spazzare via.

© Riproduzione riservata 23 maggio 2017

Da - http://www.repubblica.it/cronaca/2017/05/23/news/falcone_voleva_vivere_e_i_suoi_nemici_non_erano_solo_i_mafiosi-166149153/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P2-S2.4-T1


Titolo: ROBERTO SAVIANO Il j'accuse di Saviano: "La Sinistra che non difende i più ...
Inserito da: Arlecchino - Agosto 16, 2017, 08:48:52 am
MIGRANTI

Il j'accuse di Saviano: "La Sinistra che non difende i più deboli smarrisce se stessa"
Quello su immigrati e Ong è un dibattito assurdo che ignora dati, analisi e non vuole vedere la realtà per come è veramente. Un medico di MsF racconta: «In quegli occhi ho visto il terrore. Tutti dovremmo ascoltare le loro storie»

DI ROBERTO SAVIANO
14 agosto 2017

La disoccupazione devasta il sud Italia: chi sono i responsabili? Gli immigrati. La corruzione infiltra ogni appalto: di chi è la colpa? Immigrati. L’insicurezza in strada, la sporcizia cronica delle vie: certo, ci sono gli immigrati. Lo spaccio d’erba, di coca, di crack chi lo realizza? Gli immigrati. Stupri e furti in casa: sono sempre loro, gli immigrati. Nessuna di queste affermazioni è vera. E non esiste numero, statistica, analisi che la confermi. Solo un esempio: 27mila sono gli spacciatori italiani, poco più di duemila gli stranieri.

Eppure queste falsità sono diventate verità accettate. Come è possibile che d’improvviso i responsabili del disastro diventino i migranti, il male assoluto, il problema numero uno, su cui sfogare qualsiasi disagio, qualsiasi frustrazione, ogni tipo di abuso linguistico, balla informativa, aggressione verbale? Come è possibile che la campagna elettorale di partiti e movimenti diventi solo il tentativo di accaparrarsi il palio del contrasto ai migranti? Il linguaggio diventa la prova capitale di come si stia cercando di banalizzare il problema. Che nella declinazione più barbara di Salvini è “l’invasione”, in quella, più crudele di Di Maio “taxi del mare”, e nel gergo più tecnico del governo “ridurre gli sbarchi”. Ma soprattutto, come è possibile che dinanzi a migliaia di persone che scappano dalla guerra o dalla miseria i colpevoli diventino chi li salva in mare?

Tutto questo si è realizzato quando chi per cultura e tradizione storica (la sinistra) dovrebbe stare dalla parte dei più deboli, ha abdicato ai suoi valori. E rinunciato a mostrare le reali dinamiche, analizzare i numeri, raccontare cosa davvero accade in Africa e nel Mediterraneo preferendo focalizzarsi sul piccolo, microscopico segmento dei nostri confini.

Il soccorritore opera negli interstizi della legge, ispirandosi ai valori più alti. Regolare le organizzazioni non governative significa far svanire l'umanitarismo che le ispira

Ma noi siamo italiani, si dice, è dell’Italia che deve interessarci no? Proprio perché siamo italiani e proprio perché dovremmo interessarci dell’Italia le forze politiche dovrebbero guardare negli occhi la realtà e spiegare come stanno le cose ai loro elettori, a quel complesso congegno che è l’opinione pubblica.

La sinistra, in qualunque sua declinazione (con rarissime eccezioni) non ha battuto ciglio dinanzi al codice Minniti. Dove l’unica priorità è quella di impedire gli sbarchi: nessuna attenzione alla vita dei migranti, disinteresse per cosa farà di loro la guardia costiera libica (da sempre, ci sono le prove, in rapporti con la milizia Anas Dabbashi che monopolizza il traffico di esseri umani). Ma forse questo codice che impone la presenza di ufficiali di polizia armati sulle navi e rende impossibile il trasbordo ha una contropartita in un altro contesto? Cè un impegno italiano a non vendere armi nei territori di guerra? Ad aumentare la percentuale di Pil da dedicare ai paesi in via di sviluppo? Si vuole negoziare con la Libia sulla sorte dei migranti fermati? Si chiedono garanzie perché possano avere assistenza dignitosa e non essere arrestati e abbandonati in prigioni nel deserto? No, nulla di tutto questo.

La polemica sulle Ong, le critiche a Minniti. Il Pd cade nella trappola della destra che vuole trattare i profughi come un'emergenza. Mentre è il fenomeno globale su cui si gioca la sopravvivenza dei progressisti

Invece di accettarlo in silenzio dovremmo trovarci davanti alle ambasciate di ogni stato europeo a scandire: «Non ci costringerete a farli annegare». Dovremmo solidarizzare con chi salva le vite in mare. Al contrario, ci troviamo a mettere tutte le Ong sul banco degli imputati, strumentalizzando qualche errore o disinvoltura di troppo, che magari si sono anche commessi.

Non esistono risposte semplici ai flussi migratori, non c’è una soluzione immediata, forse è solo possibile di volta in volta di far fronte all’ emergenza. Proprio questo è quello che fa una Ong come Medici senza frontiere. Lavora su entrambi i fronti: nei luoghi da dove i migranti scappano, e in mare dove muoiono.

L’Europa crede di essere di fronte a un’invasione ma non conosce nulla di quello che sta accadendo in Africa, le grandi migrazioni avvengono lì, al suo interno, e sono cento volte più grandi delle centomila persone all’anno che sbarcano in Italia. Due milioni e settecentomila persone sono scappate dalla Nigeria per sfuggire a Boko Haram. In Uganda (34 milioni di abitanti) troviamo quasi un milione di rifugiati.

Medici senza frontiere si trova ad essere accusata per non aver firmato il codice Minniti. L’argomento è: «da che parte stai, con lo Stato o con i trafficanti?». È una falsificazione in cui si vuole incastrare Msf. Gabriele Eminente, che di Medici Senza Frontiere è il presidente, spiega: «Ong significa Organizzazione non governativa. Per definizione non può appartenere a nessuno, tantomeno a uno Stato. Non è corretto nemmeno attribuirle un’origine “geografica”. È una furbizia mediatica dire Ong spagnola, tedesca. È un modo per suggerire l’esistenza di una “cospirazione” straniera ai danni dell’Italia. Ci vogliono collegare - dice Eminente - a mondi che non ci appartengono. Ci descrivono come complici dei trafficanti, oppure pretendono che diventiamo collaboratori di indagini che non possiamo essere. Il nostro compito è invece essere laddove ci sono persone che muoiono e abbisognano di aiuto». Msf collabora rispettando le leggi internazionali e le leggi del mare, e poliziotti disarmati possono salire sulle navi in qualunque momento, perché non c’è niente da nascondere.

Il ragionamento di Eminente fa emergere chiaramente il tema. Fin quando in Italia non sarà possibile entrare in modo legale, non ci saranno visti per chi vuol venire a lavorare, non saranno gestiti i flussi, allora barconi e trafficanti resteranno l’unico canale di approdo. È la logica della chiusura, sono l’Italia e l’Europa, ad aver incentivato gli sbarchi.

Una proposta concreta per affrontare il problema esiste. Il 12 aprile è stata lanciata una campagna, “Ero Straniero” da Emma Bonino e i Radicali Italiani, e invito tutti i lettori a firmare. Chiamata diretta degli sponsor, permessi di lavoro, integrazione, regolarizzazione dei clandestini. E creazione di corridoi umanitari. Queste sono le proposte. Anche in questo caso la sinistra (con rare eccezioni) non ha colto la crucialità di questa campagna. Invoca il “principio di realtà” contro il “principio di umanità”. Chiaramente, la campagna elettorale permanente avvelena qualsiasi tipo di analisi e riflessione seria sulla questione.

Si ricorre all’argomento “principe”: se la maggioranza lo vuole, la maggioranza decide. Non è così. Alessandro Galante Garrone (quanto ci mancano oggi intellettuali come lui) citava Roger Williams, teologo padre della laicità dello Stato: il volere della maggioranza poteva valere only in civil things, solamente nelle cose civili. La regola democratica della maggioranza non poteva convertirsi in una sopraffazione dei diritti individuali e universali di libertà. Ignorare quello che accade in Africa, o semplicemente rispondere con i respingimenti, se è un volere della maggioranza, è un volere orrido e incivile. Bisogna avere il coraggio di opporsi, di restare minoranza, di apparire marginali per poter salvare se stessi e la giustizia.

Quello che sta accadendo in Africa e nel Mediterraneo è sconosciuto a gran parte dell’opinione pubblica italiana, e ci limitiamo a dire: non possiamo da soli risolvere problemi secolari.

Allora, la voce di chi ha visto in faccia quello di cui parliamo nelle sedi politiche, al bar o sui social, forse ci può aiutare a prestare attenzione almeno a un’eco della parola Umanità. Roberto Scaini, di Misano Adriatico, è uno dei molti medici che hanno lavorato da volontari sulle navi nel Mediterraneo, o nei luoghi di origine delle migrazioni.

«Quello che ho visto sulle navi va al di là di quanto immaginavo», racconta, «vedevo il terrore nei loro occhi, gli davo una pacca e dicevo “welcome on board”. Molti, anche solo sentendosi sfiorati si difendevano, altri non credevano fosse possibile avere un gesto amico. Venivano dall’inferno. Il barcone è solo l’ultimo dei rischi di una lunghissima catena. Paura di morire in mare? Certo che ce l’hanno; come ne hanno del deserto, degli stupri, di essere frustati, picchiati a sangue, lasciati senza acqua. Quella di morire in mare è quasi la morte meno violenta che si aspettano». Ecco una cosa che dovrebbe fare la sinistra: farli raccontare, ascoltare».

Non è quello che uno si aspetta. Nemmeno un medico come Scaini, che pure è stato in Siria, in Iraq, in Liberia e Sierra Leone colpite dall’epidemia di Ebola. «Per un medico che possano esserci morti per un’epidemia o guerre è terribile, ma razionalmente spiegabile. Quando vedi morti per malattie curabili, per denutrizione, per ingiustizia questo no. Non riesci a razionalizzarlo». «Bisogna sfatare un’altra bugia», prosegue Scaini, «pensare che la maggior parte viene in Europa perché si sta meglio è falso. Vengono in Europa perché dove sono non c’è la possibilità di vivere».

E inseguire una possibilità di vivere significa spesso morire. Gettati come una cosa, un rifiuto. «Un bambino, guardandomi negli occhi, mi ha raccontato di come sui camion per la Libia, quando un ragazzino o una ragazzina stavano male con febbre o dissenteria, li buttavano nel deserto lasciandoli alla morte». Il medico di Misano Adriatico, racconta con la voce rotta, quasi imbarazzato: «un medico non dovrebbe commuoversi... ma forse è importante, invece».

Roberto Scaini è uno dei moltissimi medici e operatori italiani - oltre 400 - che operano per Msf. Una comunità importante che sopperisce alle mancanze degli Stati, che dà lavoro. Pochi numeri, per dirlo: Medici senza frontiere conta oltre 34 mila operatori umanitari, dei quali 3 mila internazionali. Gli altri sono personale locale, tanto che in alcuni Paesi la Ong è il principale datore di lavoro. Nel 2016 le equipe di Msf sono state impegnate nei soccorsi in 67 Paesi, con il coinvolgimento di 402 operatori italiani.

E proprio in Italia Msf sta crescendo: lo scorso anno ha raccolto quasi 57 milioni di euro, con un aumento dell’8,5% rispetto all’anno precedente. La maggior parte dei fondi (94%) viene da privati, mentre il rimanente 6% da aziende e fondazioni.

Si è favoleggiato sui soldi alle Ong. Perché dovrebbero essere senza soldi? Perché si preferisce che i soldi siano nel calcio, nell’intrattenimento, nella moda, tutti mondi che riciclano sistematicamente o evadono, piuttosto che nell’impegno umanitario?

E i medici privilegiati? Un’altra grande menzogna. Il primo stipendio di un medico Msf è di 1.500 euro (a volte anche meno). Poi aumenta, ma rimanendo sempre inferiore allo stipendio di un ospedaliero. Mentire, mentire, mentire: è stato questo l’ordine sui social, nel dibattito politico.

«Ovvio che non si può pensare di salvare l’Africa trasferendola in Europa», conclude Scaini, «sarebbe stato come dire svuotare di persone il West Africa per guarire l’ebola. Ma si possono gradualmente portare avanti politiche di soccorso e politiche di riforma».

Nel 1893 ad Aigues Mortes, In Provenza, Francia meridionale ci fu un massacro di italiani compiuto da un gruppo di disoccupati francesi, caricati dall’odio verso quegli immigrati che rubavano il lavoro perché si accontentavano di salari da fame. A fermare la rabbia degli italiani contro francesi assassini di innocenti e dei francesi che consideravano gli italiani saccheggiatori di lavoro e che varcavano il confine per sporcare le loro strade e insidiare le loro donne, fu un socialista italiano, che mai come in questi anni risulta attuale piu che mai: Filippo Turati. Intervenne e mostrò che la soluzione cominciava con lo specchiarsi nelle miserie condivise. Invitò tutti i disperati in cerca di una nuova vita a provare ad avere «una sola testa e un solo cuore, una testa che conosca le cause della propria miseria e delle proprie divisioni e un cuore che lo spinga contro di esse. Allora finirà la baldoria dei patriottardi e le stragi fraterne fra lavoratori diverranno impossibili».

Tutto ciò che siamo, le nostre fragili democrazie, il diritto al voto, la libertà d’espressione, la libertà religiosa, la possibilità di leggere, ascoltare, manifestare, amare, tutto questo esiste perché i nostri diritti si fondando sulla libertà, sul rifiuto della guerra, sulle leggi. La storia della sinistra democratica nasce con il sogno concreto di liberare l’umanità dalla miseria e dall’ignoranza. Non può, in nome di una “concretezza”, tradire tutto ciò che è stata. Il silenzio della sinistra italiana è il suo requiem.

© Riproduzione riservata 14 agosto 2017

Da - http://espresso.repubblica.it/attualita/2017/08/10/news/j-accuse-roberto-saviano-1.307832?ref=HEF_RULLO


Titolo: Saviano: “L’Europa ha chiuso le frontiere e ci ha lasciato soli”
Inserito da: Arlecchino - Agosto 16, 2017, 08:50:14 am
Saviano: “L’Europa ha chiuso le frontiere e ci ha lasciato soli”
«Campagna di fango sulle Ong. Il codice del governo avrà drammatici costi umani»

Pubblicato il 15/08/2017 - Ultima modifica il 15/08/2017 alle ore 15:10

MASSIMO VINCENZI
Roberto Saviano, togliamo l’odiosa propaganda politica, ma facciamo chiarezza su un punto chiave: esistono Ong colluse con gli scafisti? 

«La risposta è categorica: no, contro di loro c’è una plateale caccia alle streghe. Non c’è nessuna sentenza definitiva e neanche di primo grado. Se parliamo poi del caso della Iuventa, bene, vediamo che cosa la magistratura dimostrerà, lasciamo fare il suo corso. Se dovesse riscontrare delle irregolarità sarà giusto andare a fondo, accertarne i motivi, ma va detto che la parola collusione significa interessi comuni, significa profittarne e nelle inchieste e nelle accuse di Trapani non c’è questo, non c’è l’accusa di aver preso soldi o di aver fatto attività a favore dei trafficanti, cioè per arrecarne un vantaggio. Le accuse sono tutte legate a sconfinamenti, disinvolture nell’opera comunque umanitaria. Se si guarda al mare emerge in modo sempre più inequivocabile, anche da rapporti indipendenti e dalla Corte penale internazionale, che ad essere collusa con i trafficanti, quindi un rapporto diretto, sarebbe piuttosto la guardia costiera libica, la stessa che l’Italia sta aiutando e supportando. Molte imbarcazioni partono dalla città libica di Zawiya a poco più di 40 km da Tripoli, lì è notizia pubblica e comune, il capo dei trafficanti è un ragazzotto, Abdurahman Al Milad Aka Bija, che tutti conoscono come Al Bija, nemmeno trentenne, spietato, ricchissimo, ebbene sapete cosa è diventato oggi? E’ il nuovo comandante della Guardia costiera della città. I giornali italiani raccontano poco la Libia, ma basta leggere i reportage della giornalista freelance, Nancy Porsia, per capire chi sia davvero alleato ai trafficanti, le Ong o la Guardia Costiera libica, che coincide con i trafficanti in molti casi. Ci siamo affidati ai trafficanti stessi, cosa l’Italia ha offerto ai trafficanti per non buttare più uomini in mare? Soldi, protezione, cosa? Questa caccia alle streghe è servita a questo, distrarre l’opinione pubblica, dando la colpa alle Ong che salvavano vite mentre la diplomazia italiana si accordava con trafficanti con la divisa della marina. A monte di tutto questo i veri alleati dei trafficanti sono le politiche europee. L’Europa ha chiuso tutte le frontiere e non ha lasciato un solo modo legale per trovare protezione». 
 
Ci sono buoni e cattivi tra i volontari? 
«Se sarà il caso sarà appunto la magistratura a fare questa mappa. In mare ci sono grandi Ong internazionali, con progetti in tutto il mondo, come piccole organizzazioni nate apposta appunto per salvare vite nel Mediterraneo. Tutte hanno operato sotto il coordinamento della Guardia costiera italiana, con l’obiettivo di salvare legalmente vite in mare. E tutte sono finite in qualche modo, a diverso titolo, sotto una grandinata di accuse, individuali o collettive, dai dibattiti politici ai bar, dai titoli dei giornali ovviamente ai social network, una girandola di fango chiaramente strumentale. Non c’è a oggi nessuna condanna su questo. Invece a oggi ci sono, come nel caso Msf, centinaia di prove giornaliere della loro attività in tutti i Paesi in difficoltà, in guerra. Spesso sono uniche presenze di assistenza. Su quello abbiamo la prova invece, sul resto ci sono solo ipotesi, spesso fumosissime». 
 
Qual è il criterio per giudicare il loro lavoro? 
«Le vite salvate. Molte hanno decine di anni di storia di presenze in territori in guerra, di rintracciabilità dei loro finanziamenti privati, non pubblici, quindi nessuna speculazione. Dei loro guadagni su cui si è favoleggiato: tutte balle. Ad esempio gli stipendi sono bassi: quelli di Medici senza frontiere guadagnerebbero molto di più lavorando in cliniche o anche in ospedali statali. Noi stiamo parlando di Ong che in questi anni hanno lavorato con la Guardia costiera italiana. Fondamentale ancor di più perché c’era completamente un’assenza degli assetti europei. Quindi noi abbiamo infangato Ong che lavoravano fino a ieri con lo Stato, in appoggio. In realtà queste carte girano da mesi, con stralci pubblicati, allusioni non confermate che hanno avuto l’unico obiettivo di scatenare un accanimento mediatico e popolare».
 
Perché alcune Ong aderiscono alle nuove regole del Viminale e altre no? 
«Il codice Minniti non è una legge per migliorare i soccorsi. C’erano già norme nazionali e internazionali che governavano il soccorso in mare sotto il coordinamento della Guardia costiera. E ribadisco: hanno consentito di salvare nella piena legalità migliaia di persone. Quindi non facciamo passare come stanno cercando di far passare tutti dalla Lega ai 5 Stelle al Pd, tutti, tranne rare eccezioni, che sino ad ora si è agito illegalmente. Sinora si è agito nel rispetto della legalità con la Guardia costiera italiana che si è avvalsa dell’aiuto delle navi delle Ong. Per cui le Ong hanno scelto nel nome della propria indipendenza di non voler diventare parte integrante di un sistema governativo. Anche perché, insomma, il codice non ha finalità puramente umanitarie. Rientra in un sistema più ampio che mira al controllo delle frontiere, contenimento delle persone in Libia. Quindi è un obiettivo politico-militare che, secondo le Ong, avrà drammatici costi umani».
 
Da attento studioso di organizzazioni mafiose: ci sono loro dietro questa nuova tratta degli schiavi? 
«Non abbiamo prove di un investimento delle mafie italiane in questo traffico. E’ ovvio che le organizzazioni criminali libiche sono ai vertici del traffico di esseri umani. Ricordo che la stessa veemenza che abbiamo sui migranti, non l’abbiamo sulla cocaina che arriva tutta dall’Africa a tonnellate a settimana. Quindi in realtà l’Europa non si blinda, non si chiude sul narcotraffico, si chiude su esseri umani. Le mafie non sfruttano le Ong, non hanno alcun interesse. Il trafficante libico mette sui gommoni questi disperati, fregandosene sia che questi vengano salvati o annegati, non gli importa nulla. E’ vero che invece le mafie guadagnano dai centri di accoglienza».
 
Cosa dovrebbe fare l’Italia? 
«Innanzitutto smetterla di attaccare le Ong che sono gli unici attori ad aver supportato il nostro Paese in un obbligo: l’obbligo di salvare vite. L’Europa ha lasciato tutto sulle nostre spalle, non istituendo un sistema di ricerca e soccorsi in mare, chiudendo tutte le frontiere, non condividendo le responsabilità dell’accoglienza. L’Unione è grande, i flussi sono stati ad ora gestibili: 362 mila arrivi nel continente nel 2016, 181 mila in Italia. Il problema vero è che non stiamo affrontando la questione in modo unitario. Per esempio, il regolamento di Dublino costringe l’Italia a doversi sobbarcare tutto da sola, portandoci a voler respingere i migranti a tutti i costi. In tutto questo il risultato? Che abbiamo trovato come unico interlocutore possibile la Libia». 
 
L’immigrazione è diventata un problema quasi esclusivamente di sicurezza, non servirebbe una politica culturale? 
«Per riparare a questi sei mesi di polemiche, haters e menzogne anti migranti ci vorranno purtroppo 10 anni di rieducazione. Dieci anni che dovranno essere accompagnati da azioni culturali importanti, per esempio raccontare nelle scuole fin dalle elementari che cosa è stato fatto all’Africa, cosa è oggi l’Africa, il Medio Oriente. Le classi italiane sono sempre più piene di figli di migranti: bambini italiani nati da genitori stranieri. Da lì partirà tutto questo: il cantante che quest’estate è stato più ascoltato in Italia è Gali figlio di madre e padre tunisini, nato a Baggio. Quasi tutti sentono che la pancia del Paese è contro i profughi e quindi si cavalca la paura, se prendi una posizione più complessa hai una risposta fredda e di diffidenza». 
 
C’è il rischio di infiltrazioni Isis sui barconi? 
«Questo è l’ennesimo spauracchio di questa manipolazione che stanno facendo, parlando di armi e droghe sulle navi dell’Ong: bugie. Non si può pensare che i miliziani dell’Isis vadano in battaglia rischiando la vita su un barcone. Anche solo a guardare le statistiche, che vedono migliaia di persone arrivate dal mare negli ultimi anni, si dovrebbe porre fine all’equazione che siano proprio loro a compiere operazioni terroriste anche semplicemente ideologiche, non solo militari».
 
Altro tema come già accennato è l’integrazione sul territorio. I Cie e simili sono un fallimento, perché? 
«Sono un limbo, lontani dai centri abitati, da qualunque contatto normale con la società: in questo modo è chiaro che crei la divisione e impedisci alle persone di integrarsi, lavorare iniziare, fare una vita normale. La costringi ad un isolamento alienante. Tra l’altro i posti dell’accoglienza ordinaria non bastano e quindi ci si aiuta o meglio ci si affida alla accoglienza straordinaria, bisognerebbe prendere professori che possano insegnare l’italiano, psicologi che possano sostenere i migranti: sono operazioni molto semplici da poter fare, che aiuterebbero moltissimo». 
 
Cosa accadrà adesso con il ritiro di alcune Ong dal Mediterraneo? 
«Senza navi di soccorso ci saranno più morti e soprattutto non ci saranno più testimoni indipendenti. L’obiettivo primo dell’attacco all’Ong è non avere testimoni lì. I testimoni sono scomodi. Certo se nel frattempo la disumana strategia di contenimento funzionerà, ci saranno anche meno persone da soccorrere in mare, perché saranno intrappolate nell’inferno dei centri di detenzione in Libia».
 
Per chiudere, una frase di speranza, è possibile arrivare ad essere una società multietnica? 
«Basta smetterla con le bugie. È necessario che tutte le persone imparino a rifiutare l’aggressività, che siano pronte a cambiare idea, che decidano di approfondire e che se non condividano non diffamino, non insultino o non usino toni di condanna di ciò che non sanno, ecco la speranza risiede in queste persone. Se esistono persone ancora disposte a non scegliere la soluzione più semplice o più brutale, se riusciremo a far rivivere questo spirito allora significa che non tutto è perduto».

 Licenza Creative Commons
Alcuni diritti riservati.

http://www.lastampa.it/2017/08/15/italia/cronache/saviano-leuropa-ha-chiuso-le-frontiere-e-ci-ha-lasciato-soli-R9ecZDqxsGLFb7yMlX4YwM/pagina.html
DA - http://www.lastampa.it/2017/08/15/italia/cronache/saviano-leuropa-ha-chiuso-le-frontiere-e-ci-ha-lasciato-soli-R9ecZDqxsGLFb7yMlX4YwM/pagina.html


Titolo: ROBERTO SAVIANO Il paese salvato dagli immigrati
Inserito da: Arlecchino - Febbraio 08, 2018, 06:22:09 pm
Roberto Saviano
L'antitaliano

Il paese salvato dagli immigrati

Petruro Irpino, duecento abitanti, decide di accogliere venti rifugiati. Per fermare il calo demografico. L’esperimento riesce
Diego Bianchi e Pierfrancesco Citriniti sono andati a Petruro Irpino, uno dei paesi più piccoli d’Italia, con una semplice telecamera e armati di curiosità umana per raccontarci una storia di inclusione. Oserei quasi dire per raccontarci una storia normale, se non fosse che storie come questa in genere non trovano facilmente spazio in televisione.

Un servizio andato in onda due venerdì fa su La7 a Propaganda Live, reperibile facilmente su YouTube e che vi consiglio di vedere. Un servizio il cui costo complessivo credo sia quantificabile in benzina e autostrada Roma-Petruro Irpino perché vitto e alloggio, a Diego e Pierfrancesco, sono stati offerti dagli abitanti del paese, 200 autoctoni e 20 immigrati. Ed è proprio questa la storia che ci raccontano, quella di 220 persone che vivono in un paesino da sempre demitiano, nel quale il sindaco, visto il drammatico calo demografico, decide di avviare un programma di accoglienza per provare a salvare la sua terra da morte certa. Eh sì, perché anche un luogo può morire, e precisamente muore quando non c’è più nessuno che crede nelle sue potenzialità, quando i giovani vanno a dormire pensando di stare sprecando gli anni migliori della loro vita e si alzano ogni mattina con la stessa domanda nella testa: «Ma che cosa ci faccio ancora qua?».

Quindi il sindaco, senza indire alcuna assemblea cittadina perché si sa, nel mucchio vincono le paure e perde il ragionamento, parla con gli abitanti del suo paese, uno a uno, e li convince che non c’è nulla da temere, ché gli immigrati non sono un pericolo per loro, ma una risorsa. Quanto è usurata - starete pensando - questa espressione: gli immigrati non sono un pericolo ma una risorsa, e quanta poca fiducia vi è rimasta ormai nella capacità di accogliere gli stranieri che ha l’Italia senza lucrare, senza sperperare, senza togliere a chi già ha poco. Ma se vi manca la fiducia non è colpa vostra; se vi manca la fiducia è solo perché a mancare è quel segmento di informazione necessario, direi anzi fondamentale, per completare un quadro meno cupo di quanto non si creda. Non concordo con chi dice: colpa vostra che non sapete, le informazioni esistono, dovete solo cercarle. Le informazioni esistono, certo, ma la funzione di chi le produce e di chi può raccontarle è renderle chiare anche a chi non ha dimestichezza, per esempio, con i new media. Saper fare un post su Facebook o su Instagram non significa saper valutare la veridicità di una notizia, e scorgo un certo malcelato classismo in chi dice: se stai sul web devi anche essere capace di orientarti.

Diego Bianchi e Pierfrancesco Citriniti (Zoro non ha bisogno di presentazioni, ma se non conoscete Pierfrancesco, vi perdete ragazzo corpulento e simpatico, un molisano giovane ma antico, che qualche mese fa durante un servizio a Grisciano, comune totalmente raso al suolo dal terremoto, si mise ad aggiustare caldaie in tutto il paese) ci danno quel segmento di informazione che mancava, quasi un frammento, ma fondamentale per capire noi italiani chi siamo. E che non lo sappiamo chi siamo? Certo che sì, ma non capita anche a voi di sentirvi descrivere come mai avreste immaginato? Timorosi, chiusi, sospettosi, razzisti. Ecco, razzisti. Ma voi davvero ce la fate a sentirvi descrivere come un popolo di razzisti? E allora, se non siamo razzisti, cosa siamo? Siamo i figli, i nipoti o i pronipoti di uomini e donne che hanno sofferto gli stenti delle guerre. Di uomini e donne che hanno perso genitori, fratelli e sorelle, che hanno perso le case, che si sono dovuti rifugiare in gallerie o sulle montagne, in ricoveri di fortuna per scampare ai bombardamenti. Noi questo siamo e non ce lo possiamo dimenticare: siamo eredi di questa sofferenza e quindi anche eredi di chi non può immaginare di abbandonare al proprio destino chi soffre ora, anche se questo dovesse significare condividere le nostre risorse. I 200 abitanti di Petruro Irpino, dal 2016, ospitano un progetto Sprar destinato a 20 richiedenti asilo, di cui 14 posti per nuclei familiari e 6 per nuclei familiari monoparentali. La vita del paese e dei suoi abitanti è cambiata in meglio. Ecco, è questo il segmento che solitamente manca e cioè la seconda parte della narrazione: come stai dopo che hai accolto? Come cambia la vita della tua comunità? La risposta è sempre la stessa: meglio.

05 febbraio 2018© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://espresso.repubblica.it/opinioni/l-antitaliano/2018/02/01/news/il-paese-salvato-dagli-immigrati-1.317818?ref=RHRR-BE


Titolo: ROBERTO SAVIANO Il Sud abbandonato e la scelta di abbracciare i partiti della...
Inserito da: Arlecchino - Marzo 09, 2018, 06:23:55 pm
Il Sud abbandonato e la scelta di abbracciare i partiti della rabbia

Oltre alle promesse di politiche assistenziali, sul voto meridionale ha pesato la sfiducia (giustificata) verso i potentati politici tradizionali

Di ROBERTO SAVIANO
08 marzo 2018

Chi ha vinto e chi ha perso le elezioni politiche in Italia? È fin troppo chiaro e le percentuali sono sotto gli occhi di tutti, quindi non partirei dai numeri per raccontare cosa questo voto significhi. Preferisco partire da quella parte di Italia dove spesso le cose si riescono a leggere in maniera più chiara, quella parte di Italia che meno è entrata in questa campagna elettorale e che meno entra in tutte le campagne elettorali ormai da moltissimo tempo. Quella parte di Italia dove le forze politiche amano dragare voti, ma che, finché possono, evitano come la peste. Partiamo dal Sud Italia che ci siamo abituati a considerare feudo di Berlusconi e, allo stesso tempo, sede di un forte consenso al Partito democratico retto da ras locali che per decenni hanno assicurato valanghe di voti.

E proprio Forza Italia e Pd, in queste politiche, hanno vissuto un'emorragia di elettori confluiti in Lega e M5S. Quest'ultimo, con la promessa del reddito di cittadinanza, ha avuto un consenso quasi plebiscitario proprio nelle regioni in cui, non esistendo un'economia competitiva, l'unica speranza è la politica dei sussidi.

E anche in questo caso - sono anni che ne scrivo! - il Sud Italia è una ferita attraverso cui si può guardare lontano. Accade che siano proprio le regioni del Sud, abbandonate dalla politica nazionale e tenute fuori dal dibattito pubblico, a condizionare la direzione che il Paese intero è destinato a prendere.

Ma oltre alle promesse di politiche assistenziali, sul voto al Sud, soprattutto in Campania, ha pesato la sfiducia (più che giustificata) verso i potentati politici tradizionali. Dal caso mediatico-giudiziario seguito all'inchiesta di Fanpage.it è emerso un quadro sconfortante di corruzione, malcostume, familismo e conflitto di interessi; è stata la conferma, per molti italiani, che i partiti che fino a questo momento hanno avuto in carico la gestione della cosa pubblica non sono altro che centri di potere marci e che da loro nulla di buono ci si può aspettare.

Naturalmente non concordo con questa generalizzazione; i partiti sono composti da persone e ciascuno risponde della propria onestà, del proprio lavoro e del proprio impegno, ma qui non si tratta di ciò che penso io, quanto piuttosto del sentimento che hanno provato gli italiani di fronte all'ennesima conferma dell'inadeguatezza dei partiti tradizionali. Le inchieste, gli scandali, le prassi disinvolte e spregiudicate hanno spinto molti elettori del Sud ad accorciare il proprio sguardo, a smetterla di puntare all'Europa per iniziare invece a occuparsi e preoccuparsi solo di ciò che accade a un metro da sé. Come si può pensare all'Europa se le cose qui non vanno bene? Lo scetticismo diffuso è stato una chiamata alle armi e il partito che più di tutti ha risposto al bisogno di essere coinvolti in prima persona è il M5S.

È evidente che la promessa di rottamazione di Matteo Renzi è stata rottamata da Renzi stesso e dall'unico modo che ha trovato in questi anni per occuparsi di Sud: la plateale promessa della costruzione del ponte sullo Stretto di Messina (cavallo di battaglia del più becero berlusconismo) e la Apple Developer Academy di Napoli, spacciata come il primo segnale di una ripresa economica sul territorio. Un corso per sviluppatori Apple, un unico corso e per giunta calato in un contesto economicamente depresso, avrebbe dovuto fruttare a Renzi il titolo di "amico del Sud". Una presa per i fondelli.

L'abbandono del Sud da parte dei partiti tradizionali ha portato a una necessità di partecipazione, talvolta spinta fino alle estreme conseguenze e incline a stravolgere prassi politiche e regole, pur di sentire che il proprio voto, che la propria preferenza ha avuto un effetto reale. Gli italiani, oggi, soprattutto gli italiani del Sud, vogliono sapere esattamente come il loro voto cambierà la loro quotidianità; e se le aziende continueranno a delocalizzare il lavoro, se il lavoro nel Sud Italia resterà una speranza frustrata, almeno vogliono la certezza che chi governerà si occuperà di loro, solo di loro, prima di loro.

E molti diranno: ecco che nasce il partito della rabbia, ma di che rabbia stiamo parlando? Ancora di una rabbia cieca? Ancora di un voto di ribellione? No. Il voto al M5S e alla Lega (ormai partito nazionale che aspira a rappresentare tutti) non è un voto esclusivamente di ribellione, ma è un voto ormai ragionato che, tra le altre cose, avrebbe il merito di aver asciugato (e molto) il voto di scambio. Questa volta l'elettorato è stato coeso nel dare consenso a due partiti che sono specchio fedele dei loro elettori. Il voto non è stato semplicemente un voto di protesta o di opinione, ma un voto di identità.

Lo storytelling renziano ha prodotto malanimo che a sua volta ha innescato una sorta di egoismo sociale. Ormai quello che mi interessa è che a stare bene sia io, quindi quella forza politica che promette attenzione a me che sono italiano è l'unica che posso ascoltare. Quella che mi promette il reddito di cittadinanza in un Sud dove non solo manca il lavoro, ma anche la speranza di lavoro, sta parlando proprio a me.

In Campania il M5S ha stravinto, e la sua vittoria si configura come un voto di liberazione dal presidente della Regione Vincenzo De Luca, che è espressione di quella politica che Renzi aveva promesso di rottamare. A Sud Renzi aveva due possibilità: un percorso lungo di riforma, che significava scelta di candidati nuovi, oppure affidarsi ai feudi elettorali - un voto un lavoro, un voto un favore - e ottenere velocemente vittoria sperando dall'alto di far cambiare rotta al Sud una volta preso il potere. Ha scelto la strada più semplice e, sul tema politico più importante, non è riuscito a impegnarsi su una strada di trasformazione.

Il ragionamento avvenuto al Sud è questo: se il Pd mi ha sempre proposto belle idee, apertura, giustizia, ma poi non è mai riuscito a darmi nulla di tutto questo o ad avvicinarsi, allora preferisco l'assenza di progetto morale, preferisco ragionare rispetto a ciò che mi conviene adesso e che può non convenirmi domani, preferisco un movimento che non è né di destra né di sinistra, che si definisce post-ideologico, che non si pone questioni morali, che rivendica con orgoglio la propria incoerenza: un giorno europeisti e un giorno antieuropeisti; un giorno provax e un giorno antivax. M5S e Lega non hanno preso in giro gli elettori, tutto era palese, tutto cambiava di giorno in giorno - un flusso continuo di notizie orecchiate, story di Instagram, post su Facebook e qualche Tweet - a seconda dei sondaggi.

Finanche i casi di cronaca nera (Macerata docet) sono stati utilizzati per fare comunicazione politica. E paradossalmente questo agli italiani è piaciuto, la possibilità di non avere obblighi morali, di poter essere liberamente incoerenti a seconda delle esigenze del momento.

Essere elettore di un partito progressista presuppone portare sulle proprie spalle valori che nemmeno il partito per cui voti segue più. E allora che senso ha? Perché vivere il dissidio tra una coerenza autoimposta, e per cui bisogna quotidianamente lottare, e la possibilità di essere egoisticamente liberi?

Il M5S agli elettori del Sud non ha dato alcuna soluzione su come far partire davvero l'economia, se non banali ricette di razionalizzazione delle spese e generiche promesse di lotta alla corruzione. Ha dato però una cosa ben più grande: bersagli da colpire. Ha capitalizzato la frustrazione, non chiedendo in cambio condotte di comportamento diverse, anzi, supportando sintassi da haters e impiantando una politica basata sulla percezione della realtà e non sulla realtà.

Ma alla rivendicazione della mancanza di coerenza, la Lega aggiunge un dettaglio che faremmo bene a non trascurare, ovvero la libertà di essere anche cattivi. Salvini, che senza distinzione di età, sesso e provenienza manderebbe via tutti gli immigrati, che ha sempre disprezzato il Meridione e che ora si presenta come leader di tutto il Paese, giurando sul Vangelo sembra aver detto: essere contrari all'accoglienza, utilizzare un eloquio violento e apertamente razzista non è in contraddizione con le radici cattoliche. La devozione di Salvini per il Vangelo è identica a quella che hanno i boss della mafia per la Madonna: si può essere cristiani parlando in quel modo di chi scappa dalla miseria e dalla guerra? No. Si può credere nel Vangelo e impedire a migliaia di bambini nati in Italia di avere la cittadinanza? No.

In Italia il 4 marzo ha vinto il malessere, non ha vinto la speranza e non ha vinto la voglia di un futuro migliore. Il 4 marzo ha vinto l'idea di Stato chiuso, di nazione con confini alti e invalicabili, invalicabili per gli esseri umani ma non per i capitali criminali (per loro le frontiere sono sempre aperte). Il 4 marzo ha vinto l'euroscetticismo, trainato dell'America di Trump e dalla Brexit, e ha perso l'idea di un'Europa unita e fiera dei suoi diritti, che l'avevano resa il posto migliore in cui vivere. Il 4 marzo ha vinto una strana forma di nichilismo che, proclamando la propria libertà da ogni coerenza, diventa libertà di essere cattivi.
Ma qual era l'alternativa? Questa volta non c'era. Lega e M5S hanno vinto perché dall'altra parte non c'era niente. Più niente.

© Riproduzione riservata 08 marzo 2018

Da - http://www.repubblica.it/speciali/politica/elezioni2018/2018/03/08/news/il_sud_abbandonato_e_la_scelta_di_abbracciare_i_partiti_della_rabbia-190731672/?ref=RHPPRB-BH-I0-C4-P1-S1.4-T1


Titolo: ROBERTO SAVIANO Il carcere che dimentica l'uomo e la politica senza coraggio
Inserito da: Arlecchino - Aprile 17, 2018, 08:57:09 pm
Il carcere che dimentica l'uomo e la politica senza coraggio
La riforma dell’ordinamento penitenziario, maltrattata dal pavido governo uscente e che con ogni probabilità verrà bloccata dal governo che verrà, era stata concepita proprio per ottenere una diminuzione della recidiva, un carcere più umano e una società più sicura

Di ROBERTO SAVIANO
13 aprile 2018

Vorrei fare un esperimento. Se vi dicessi che i detenuti che, dopo attenta osservazione e parere positivo dei magistrati di sorveglianza, quindi non scelti in maniera arbitraria, hanno accesso a misure alternative al carcere, che possono uscire per lavorare, che possono avere contatti con l’esterno, tornano a delinquere in percentuali molto al di sotto del 30%, cosa rispondereste? E se poi vi dicessi che, al contrario, chi sconta l’intera pena in carcere, senza la possibilità di accedere a pene alternative, torna a delinquere nel 70% dei casi?

Immagino pensereste che per il bene di chi sta dentro e anche di chi sta fuori sarebbe preferibile che il carcere fosse luogo di rieducazione e reinserimento e non un parcheggio o, peggio, una discarica sociale. E se vi dicessi che invece in Italia, tranne rarissime e sporadiche eccezioni, il carcere è proprio una discarica sociale? Se vi dicessi anche che il malfunzionamento delle strutture penitenziarie non è da addebitare a direttori e guardie carcerarie, ma a strategie politiche fallimentari, cosa rispondereste?

Chiunque, a vario titolo, abbia a che fare con il carcere, detenuti e loro familiari, giuristi, avvocati, associazioni che si occupano di diritti dei detenuti, educatori, direttori e personale che lavora nei luoghi di detenzione, tutti loro e anche noi, abbiamo oggi come unico avversario comune una politica priva di coraggio e spesso anche di competenze, sorda e cieca a ogni sollecitazione, a ogni richiamo e, finanche, a ogni richiesta d’aiuto. Oltre 10 mila detenuti hanno aderito nei mesi scorsi a un grande sciopero della fame, mettendo in atto una protesta nonviolenta insieme a Rita Bernardini, perché il governo uscente approvasse definitivamente i decreti attuativi della riforma dell’ordinamento penitenziario. Ma non è servito a nulla, come a nulla è servita la condanna dello Stato italiano da parte della Corte europea dei Diritti dell’Uomo per sistematici trattamenti inumani e degradanti nelle carceri del nostro Paese.

E se vi dicessi che la riforma dell’ordinamento penitenziario, maltrattata dal pavido governo uscente e che con ogni probabilità sarà bloccata dal governo che verrà, è stata concepita proprio per ottenere una diminuzione della recidiva, un carcere più umano e una società più sicura, cosa mi rispondereste? Sareste forse d’accordo con me nel considerare fondamentale una riforma delle carceri in tal senso. Ma se è così, perché la politica pensa che voi non siate d’accordo?

La politica rincorre il consenso e spesso lo ottiene, ma è un consenso effimero, destinato a crescere o a diminuire a seconda di avvenimenti che poco o nulla hanno a che fare con la reale capacità di amministrare o governare. Ormai si dà per scontato che dopo i fatti di Macerata la Lega abbia aumentato il suo consenso elettorale perché all’omicidio di Pamela Mastropietro ha risposto con una propaganda che al primo posto poneva la tolleranza zero verso tutti gli immigrati. Parole, e non fatti, che sono seguite a una tragedia utilizzata per fare campagna elettorale. Nessun merito politico: è ormai così che sempre più spesso i partiti guadagnano consenso, approfittando di eventi che esulano dal proprio lavoro e da effettive capacità.

E quindi anche una riforma che aggiunge civiltà viene comunicata come un «regalo ai mafiosi» e utilizzata come ulteriore terreno di scontro. Quello che è accaduto, in breve, è questo: il governo uscente, impegnato in questa riforma per anni, per paura del vostro parere contrario in vista delle elezioni, un parere emotivo e non basato sulla conoscenza, non ha avuto il coraggio di farla passare quando avrebbe potuto, tirando tutto per le lunghe e arrivando così a ridosso del 4 marzo. Ma perché, vi starete domandando, il governo uscente ha avuto paura del vostro giudizio? Perché vi immaginava sobillati da chi, ancora oggi, spaccia questa riforma di civiltà per un regalo ai criminali. E così agendo, ha abdicato al proprio compito provando solo e inutilmente ad arginare l’emorragia di voti dal Pd.

E ora M5S, Lega, Forza Italia e Fratelli d’Italia, nella riunione dei capigruppo alla Camera tenutasi martedì scorso, hanno negato l’accesso di questa riforma all’esame della Commissione speciale della Camera, facendo in modo che venga discussa non si sa quando dalle commissioni ordinarie. Ovviamente questa decisione è l’anticamera della disfatta totale, poco o nulla importa che in gioco ci siano le vite dei detenuti e che da questo fallimento non ci guadagnerà nessuno, anzi perderemo tutti.

Nel frattempo, dall’inizio dell’anno, ci sono già stati dieci casi accertati di suicidio nelle carceri italiane, 8 mila sono i detenuti di troppo e 70 i minori che scontano la detenzione insieme alle loro mamme. E il carcere continua a essere una scuola di crimine che nulla insegna, che non riabilita, ma finisce di rovinare chiunque ci entri.

Un mese fa sono stato in visita a Poggioreale insieme a Rita Bernardini e a Radio Radicale, una educatrice ci ha detto senza troppi giri di parole che il carcere ora è un luogo di radicalizzazione: si entra criminali alle prime armi, criminali per caso o anche per necessità e si esce criminali veri, con contatti seri, perché, non potendo fare altro, durante la detenzione si cerca di pianificare la propria vita fuori. Inoltre chi oggi entra in carcere in Italia uscirà marchiato a fuoco e nella vita non potrà fare altro che delinquere, perché nessuno sarà disposto a dargli una seconda possibilità.
E intanto la criminalità organizzata ringrazia la politica italiana che ancora una volta le ha fatto un dono prezioso: manovalanza e affiliati che noi trattiamo come feccia, ma che per le mafie sono “forza lavoro” indispensabile.

E io ringrazio il Pd per la sua mancanza di coraggio e M5S, Lega, Forza Italia e Fratelli d’Italia per l’incoscienza e il cinismo. Ma resta forse una flebile speranza a cui di nuovo ci aggrappiamo per vedere rispettati i diritti fondamentali di tutti gli individui; resta infatti, come ultima spiaggia, appellarsi ai presidenti di Camera e Senato perché riconsiderino la decisione della conferenza dei capigruppo di non assegnare il decreto legislativo di riforma del sistema penitenziario alla Commissione speciale.

Presidente Fico, mi rivolgo a lei: si dice che sia di sinistra, che abbia a cuore gli ultimi. Ebbene, in carcere ci sono gli ultimi tra gli ultimi. Onori, dunque, il Parlamento e la sua funzione e non consenta che un provvedimento necessario e già approvato non trovi attuazione. Presidente Casellati, non so come la pensi lei sugli ultimi, ma dimostri che non è vero che per Forza Italia i diritti dei detenuti sono importanti solo se si tratta di potenti caduti in disgrazia.

E un favore ho da chiederlo anche a voi che leggete: visitate un carcere qualsiasi, cogliete ogni occasione possibile di contatto con il mondo della detenzione, fatelo per voi stessi, fatelo per i vostri figli, fatelo perché per deliberare (ma anche più banalmente per scrivere un post) è fondamentale conoscere.

© Riproduzione riservata 13 aprile 2018

Da - http://www.repubblica.it/politica/2018/04/13/news/il_carcere_che_dimentica_l_uomo_e_la_politica_senza_coraggio-193801164/?ref=RHRS-BH-I0-C6-P2-S1.6-T1