Titolo: Stefano FOLLI. - Inserito da: Admin - Aprile 14, 2008, 04:55:26 pm di Stefano Folli
Al voto un Paese che cerca stabilità e futuro 13 aprile 2008 Fra i numerosi e spesso disincantati giudizi della stampa straniera sulle nostre elezioni, spicca quello del «Pais». Da martedì l'Italia, scrive il quotidiano spagnolo, avrà bisogno di «un governo forte». Semplice ma chiaro. Equivale a dire che la nuova stagione, di cui tanto si parla, sarà messa presto alla prova. Non basta invocare il bipolarismo e nemmeno è sufficiente crearne i presupposti, come pure è avvenuto in questa lunga campagna a opera di Veltroni, prima, e di Berlusconi, poi. È necessario che il bipolarismo, una volta consacrato nelle urne, dimostri di saper fornire al Paese le risposte attese. E la prima di queste risposte è un governo solido, coeso e determinato. Capace di trasmettere serenità, senza inutili tensioni istituzionali. Su questo punto è bene essere chiari. Né Berlusconi né Veltroni hanno saputo offrire fin qui un progetto davvero coerente, un'idea generale dello sviluppo, quella che si può definire una visione convincente del destino nazionale. Ognuno ha proposto le sue ricette acchiappa-voti, più o meno suggestive e tutte molto onerose. Tuttavia, essere leader all'interno di una condizione drammatica sul terreno economico e sociale imporrà a entrambi una prova di maturità assai dolorosa. È possibile, ma non sicuro, che da martedì chi prevarrà cominci a rivolgersi agli italiani con un linguaggio diverso, fatto di crude verità piuttosto che di rassicuranti promesse. Ma in quel caso sarà opportuno che non sia solo il vincitore (ammesso che domani sera ce ne sia uno) a mostrare un volto responsabile. Anche lo sconfitto dovrà compiere in fretta lo stesso percorso. Quello spirito di solidarietà nazionale da varie parti invocato dovrà manifestarsi in primo luogo su questo terreno. Anziché assistere alla solita corsa per accaparrarsi le cariche istituzionali e i posti di governo, ci piacerebbe che prendesse forma un nuovo stile, più austero e asciutto. Adatto agli anni incerti in cui viviamo e idoneo a descrivere le virtù del «nuovo» bipolarismo che nelle ultime settimane è stato issato sulle bandiere e annunciato nelle piazze. È assurdo immaginare un vincitore, magari di stretta misura, che si carica sulle spalle l'intero onere del governo e un perdente che si dedica a un'opposizione distruttiva, nel segno della peggiore demagogia parlamentare. Meglio sperare che il populismo morbido, nella doppia versione di destra e di sinistra, sia finito con la conclusione di una campagna elettorale francamente troppo lunga, confusa e superflua. Fra poche ore Berlusconi e Veltroni, nei ruoli che gli italiani avranno deciso di assegnare loro, dovranno dimostrare di aver voltato pagina. S'intende, non c'è da farsi troppe illusioni. Il «governo forte» di cui parla il "Pais" non può che essere il frutto di un sistema politico consolidato. Viceversa, qui siamo ai primi passi di una Seconda Repubblica ancora gracile, bisognosa di far dimenticare i danni e le contraddizioni in cui si sono consumati i lunghi anni della transizione post-Tangentopoli. Poche riforme, istituzioni ingessate, competitività del sistema insoddisfacente. Quel che è peggio, crescente diffidenza dei cittadini verso una classe politica avviluppata nei suoi privilegi. Non è un caso che si avverta il vento dell'anti-politica su queste elezioni: sia nel numero degli indecisi, sia nelle voci che vogliono la Lega di Bossi in grado di cogliere un risultato importante nel Nord. Se la campagna elettorale fosse stata breve e concisa, gli italiani avrebbero apprezzato. In fondo, è vissuta sulla novità politica dell'inizio: la rottura fra il Partito Democratico veltroniano e la sinistra comunista-ambientalista, cui ha fatto riscontro la nascita del Popolo della Libertà. Da settimane continuiamo a misurare questa doppia novità, che in effetti segna un cambiamento di scena rilevante. Ma nessuno può dire se da un'operazione di sofisticato «marketing» politico potrà mai nascere, da un giorno all'altro, il governo efficiente di cui il Paese ha urgente bisogno. Anche perché si dovranno contare con attenzione i seggi e valutare la situazione. Quelli della Camera dovrebbero dare una maggioranza stabile al Popolo della Libertà. Se così non fosse sarebbe una sorpresa clamorosa. Al contrario, quelli del Senato delineano, come è noto, una sfida aperta fra Pdl e Pd nelle singole regioni, in cui giocano da comprimari i partiti intermedi, Casini e Bertinotti. Ma senza una maggioranza chiara e visibile anche a Palazzo Madama avremo una sconfitta del bipolarismo, più che l'annuncio della nuova stagione. Ci sarà tempo in quel caso per capire quale strada conviene imboccare. Ma è evidente che oggi il bene del Paese coincide con una maggioranza solida, in grado di esprimere un governo credibile. Abbiamo vissuto troppi anni nel segno di coalizioni paralizzate. Ora la novità del 2008, cioè la nascita di un tendenziale bipartitismo, merita di essere giudicata alla prova dei fatti. Il che non significa sottovalutare la necessità di una concreta convergenza parlamentare sui grandi temi legati alle riforme. Legislatura costituente, si è detto. Molto bene. Purché si abbia il coraggio di non inseguire un facile consenso giorno dopo giorno e si riesca a lavorare insieme in Parlamento nell'interesse delle istituzioni, anche a costo dell'impopolarità. Quante volte negli anni abbiamo sentito esprimere queste buone intenzioni? Infinite. La differenza è che stavolta siamo giunti al limite estremo. L'Italia non è in grado di sopportare un'altra legislatura fallita. Un altro ritorno precoce alle urne. Un governo «forte» in quanto consapevole dei suoi doveri, fondato su di una chiara legittimità elettorale, è il senso del voto di oggi e domani. La posta in gioco è un Paese più moderno, capace di uscire dalla gabbia che lo imprigiona. da ilsole24ore.com Titolo: Stefano FOLLI. - Inserito da: Admin - Maggio 28, 2009, 09:41:50 am Il punto di Stefano Folli
Stefano Folli nasce a Roma da famiglia di origini milanesi. Laureato in lettere, muove i primi passi nel giornalismo alla "Voce Repubblicana", l'organo storico del Pri allora guidato da Ugo La Malfa. Nel 1981 viene nominato direttore responsabile della nuova edizione della "Voce". Collaboratore di Giovanni Spadolini, Folli ne è il portavoce a Palazzo Chigi durante l'esperienza del primo governo a guida laica, fra il 1981 e '82. Nel 1989 passa al "Tempo" come caporedattore politico. Dalla fine del '90 è al "Corriere della Sera", come notista politico e, più tardi, editorialista, fino ad assumerne la direzione tra il 2003 e il 2004. Dal 2005 è editorialista de "Il Sole 24 Ore". Folli ha anche fondato e diretto la rivista di affari internazionali "Nuovo Occidente". Ha vinto alcuni premi di giornalismo, tra i quali il St. Vincent, il premio Ischia e il Fregene. stefano.folli@ilsole24ore.com Nelle urne il difficile futuro del bipolarismo all'italiana 27 maggio 2009 La più brutta campagna elettorale degli anni recenti, è giunta al suo culmine. Tra dieci giorni si voterà per il Parlamento europeo, di cui per la verità sembra non interessare a nessuno, e per le amministrative. Quello che accadrà dopo, non è dato sapere. Ma l'impressione è che i fragili equilibri di quella complicata costruzione che chiamiamo bipolarismo saranno messi a dura prova. Gli indizi non mancano e questo spiega la straordinaria tensione che domina la scena politica, sia nel campo berlusconiano sia in quello dei suoi oppositori. Questi ultimi sono impegnati nello sterile gioco di rubarsi i consensi l'un l'altro. Fa eccezione Casini, convinto – forse a ragione – di poter trarre profitto dalla sua posizione assolutamente «centrista», nel segno del buon senso moderato. Viceversa, la guerra delle mozioni parlamentari fra Di Pietro e il Partito democratico trasmette un messaggio contraddittorio e confuso. Certo, non ha torto Dario Franceschini quando afferma che l'iniziativa dell'Italia dei valori, per un atto parlamentare di sfiducia al presidente del Consiglio, avrà il solo effetto di provocare un travolgente voto della maggioranza a sostegno del suo leader. Ma non maggiore fortuna toccherà alla mozione del Pd contro il «lodo Alfano». La verità è che i due partiti si «marcano» a vicenda, si direbbe in linguaggio calcistico. I democratici non sopportano di essere scavalcati dai dipietristi e magari obbligati a seguire il ritmo della musica suonata dall'ex magistrato. E quest'ultimo prosegue nella sua spregiudicata campagna, volta a rastrellare voti nel campo del centro-sinistra (o della sinistra radicale) in nome dell'intransigenza anti-berlusconiana. Vedremo quale sarà l'esito di queste manovre. Senza dubbio, però, il fatto che il Pd sia obbligato a difendersi di fronte all'offensiva quasi quotidiana di un personaggio che dovrebbe essere suo alleato, e che sul piano dei numeri rappresenta solo una frazione della forza elettorale dei democratici, la dice lunga sulle difficoltà del partito post-veltroniano. Quanto a Berlusconi, la teoria del complotto ai suoi danni, emersa nell'intervista di ieri a «Libero», è la spia di uno stato d'animo inquieto e irrequieto. Il premier teme una cospirazione, una trama, è convinto che prima delle elezioni i suoi nemici tenteranno altri colpi contro di lui. Per scalzarlo o comunque per indebolirlo. Per «intimidirlo», come dice Capezzone. La via d'uscita che gli sembra a portata di mano è il successo elettorale. Quella frase che gli è stata rimproverata («gli italiani sono con me») tradisce il suo vero pensiero. A parole Berlusconi afferma di non voler fare delle elezioni europee un plebiscito personale. In realtà vorrebbe proprio questo. Solo che non può dirlo, perché non è ancora sicuro che il caso Noemi o l'affare Mills saranno privi di conseguenze negative nelle urne o addirittura si tradurranno in un aumento del consenso (il «boomerang per la sinistra»). Sul piano ufficiale, questa è la tesi enunciata dai suoi collaboratori. Ma Berlusconi sa distinguere la propaganda dalla realtà. E sa bene che questa situazione alla lunga non lo favorisce. Nessuno pensa che il Pdl vada incontro a un insuccesso, ma la notte del 7 giugno occorrerà contare con attenzione i voti. Un'avanzata travolgente di Bossi, ad esempio, prevista da molti, avrebbe un chiaro significato: un segnale a Berlusconi, una minaccia alla leadership incontrastata da lui esercitata finora. © RIPRODUZIONE RISERVATA da ilsole24ore.com Titolo: Stefano FOLLI. - Il sofferto «sì» del Quirinale lascia ferite politiche e istitu Inserito da: Admin - Marzo 07, 2010, 06:51:14 pm Il sofferto «sì» del Quirinale lascia ferite politiche e istituzionali
di Stefano Folli Si può dire tutto del decreto del governo, tranne che sia «interpretativo»: cioè che si limiti a offrire una lettura chiarificatrice delle norme elettorali in vigore. In realtà il decreto innova. E non poco: addirittura retrodatando certe innovazioni, sempre che il testo diffuso sia quello definitivo. Risponde senza dubbio all'obiettivo che Silvio Berlusconi si era posto: permettere «l'esercizio del diritto di voto» ai cittadini della Lombardia e del Lazio, al di là dei «formalismi». Ossia, come è noto, dei disastri commessi dal Pdl all'atto della presentazione delle liste. Qualcuno dice: in fondo è il male minore. Lo fa capire anche il Quirinale, quando suggerisce che il decreto di ieri sera è diverso da quello prospettato a Napolitano ventiquattro ore prima. Quello sì, a quanto pare, molto più invasivo. Se è così, ci si muove sul filo del rasoio in una materia, quella elettorale, davvero incandescente. Il presidente della Repubblica è molto esposto ed è costretto a procedere lungo un sentiero che non è mai stato così stretto. Da un lato c'è il problema di garantire il voto a milioni di cittadini in due regioni di primo piano. Dall'altro, l'esigenza di rispettare una legge astrusa, forse anacronistica, ma pur sempre una legge. Il Partito democratico, che si oppone ovviamente al decreto, e anzi si prepara ad alzare il livello della polemica politica, evita di accrescere le difficoltà del capo dello stato. D'Alema «copre la corona», rilevando che non spetta al Quirinale valutare l'opportunità politica di un atto del governo, ma solo la sua palese incostituzionalità. Come dire: il decreto interpretativo non è una ferita plateale alla Costituzione e dunque la controfirma di Napolitano è possibile. Altri, nei ranghi dell'opposizione, non sono così prudenti. Di Pietro ha già lanciato una sorta di «chiamata alle armi» in difesa della Carta costituzionale; i radicali di Emma Bonino sono perentori; nello stesso Pd c'è chi (Rosy Bindi, Arturo Parisi) considera la scelta del governo alla stregua di un oltraggio. Ma è soprattutto la reazione dell'Italia dei valori ad avere un valore politico dirompente. Si capisce che tutta la campagna elettorale sarà giocata intorno al supposto «golpe». E il Pd sarà costretto a confrontarsi con Di Pietro su di un terreno assai scivoloso, perché finisce per tirare in ballo l'operato del capo dello stato. Come è evidente, il passaggio è molto delicato. Il decreto ha un'utilità immediata, a patto che sia pubblicato oggi dalla Gazzetta ufficiale dopo l'indispensabile firma del presidente. È uno strumento potente per premere sui tribunali amministrativi che devono decidere sui ricorsi tra oggi e lunedì. Si può dire che il decreto copre le spalle ai Tar e li aiuta a prendere una decisione che da giorni si presentava, sì, come giuridica, ma con un clamoroso impatto politico. In ogni caso gli avvenimenti delle ultime ore sono destinati a lasciare un'impronta sulle istituzioni. È facile capire con quale spirito il presidente della Repubblica si sia accinto alla firma. Se lo ha fatto, è perché ha ritenuto di dover evitare un grave scontro istituzionale. Senza dubbio un ruolo lo ha svolto nelle ore cruciali il presidente della Camera e questo dimostra che Fini, al di là delle polemiche, ha compiti preziosi di raccordo tra i palazzi romani. Certo, dopo questa vicenda è difficile immaginare che destra e sinistra tornino a discutere a breve di riforme. La verità è che Berlusconi ha ottenuto il suo scopo, ma le macerie stanno aumentando. 6 marzo 2010 da ilsole24ore.it Titolo: Stefano FOLLI. - Il buon senso si è smarrito nel labirinto buio delle risse Inserito da: Admin - Marzo 11, 2010, 04:12:02 pm CAMPAGNA ELETTORALE /
Il buon senso si è smarrito nel labirinto buio delle risse di Stefano Folli Siamo piombati nel pieno della campagna elettorale. S'intende, nel modo peggiore possibile. L'idea che nelle prossime settimane il confronto politico si svolga, con tutta l'asprezza possibile, interno al ridicolo "pasticcio" delle liste e alle sue conseguenze è piuttosto scorante. Si dirà che l'opposizione non ha dimostrato "fair play" verso le disavventure del centrodestra, ed è anche vero. Ma non si può negare che susciti qualche perplessità l'immagine di un presidente del Consiglio che scende in campo in prima persona contro i magistrati e l'ufficio elettorale di Roma per rivendicare un diritto compromesso non da oscuri complotti, ma da errori unilaterali (negati) ed evidenti inadempienze. Si era detto nei giorni scorsi che il "pasticcio" andava risolto facendo ricorso al buon senso. In fondo il Quirinale, nel momento in cui ha firmato, non senza sofferenza, un discutibile decreto interpretativo visto come il male minore, si è appellato proprio al buon senso. Sarebbe stato meglio, a quel punto, che anche il premier restasse fedele allo stesso principio. Tanto più che il caso realmente grave per i suoi effetti (il rigetto delle liste in Lombardia) era stato sanato grazie al decreto. Il caso del Lazio è minore, considerando che Renata Polverini è in grado di competere con la sua lista personale. Aver voluto scegliere proprio questo terreno per eccitare gli animi e avviare la campagna, è un'iniziativa di cui si capirà la logica solo la sera del 29 marzo, quando si conteranno i voti e si vedrà chi ha saputo parlare meglio al paese. Per il momento bisogna dire che lo spettacolo complessivo non è stato edificante. Dalla classe politica ci si aspetta qualcosa di più e di meglio. Dallo stesso presidente del Consiglio ci si attenderebbe qualcosa di meglio che una conferenza stampa all'insegna del vittimismo e dell'insofferenza, con tanto di battibecco con un "contestatore". E tutto per negare il pasticcio che peraltro è sotto gli occhi di tutti e che lo stesso Berlusconi aveva ammesso a caldo, parlando dei protagonisti della vicenda come di una «massa di deficienti». Ora invece siamo alle manifestazioni di piazza. È chiaro che il premier ha scelto questo terreno per avviare lo scontro elettorale. Nonostante il decreto, nonostante il gesto di Napolitano diretto, con ogni evidenza, a evitare l'inasprimento della tensione. Se la sinistra ha mancato di "fair play", il meno che si possa dire è che la maggioranza ha fatto di peggio. Una volta risolto il caso della Lombardia, il Lazio meritava ben altra sobrietà. Come sempre dovrebbe essere quando è in gioco il delicato capitolo delle regole. Ossia quel complesso di vincoli e condizionamenti che scandiscono la vita quotidiana del comune cittadino, spesso in misura eccessiva. L'enfasi con cui la classe politica si occupa delle proprie omissioni, per minimizzarle, è davvero uno sforzo degno di miglior causa. Anche per questo si avverte in giro un certo disorientamento, a seguito della "pochade" delle liste. E non stupisce che i sondaggi, a cominciare da quello Ipsos-Sole 24 Ore sul Lazio, indichino una parziale disaffezione, una scarsa motivazione da parte dell'opinione pubblica. Berlusconi ritiene di poter risollevare gli indici aumentando il tasso di aggressività della campagna. In altre occasioni ha avuto ragione. Ma stavolta, persino più che in passato, dovrà spogliarsi dei panni di capo del governo per indossare quelli di capo fazione. E non è detto che la fortuna sia sempre dalla sua parte. 11 Marzo 2010 © RIPRODUZIONE RISERVATA da ilsole24ore.com Titolo: Stefano FOLLI. - Se si rompe il tabù della legge elettorale meno alibi per Pdl e Inserito da: Admin - Aprile 09, 2010, 11:24:04 am Se si rompe il tabù della legge elettorale meno alibi per Pdl e Pd
Stefano Folli 9 aprile 2010 Non sappiamo se l'Italia diventerà presidenziale, semi-presidenziale, con un premier più forte o nulla di tutto questo. Al momento nel discorso sulle riforme prevale la nebbia più spessa. Bisogna tuttavia dare atto a Gianfranco Fini di aver rotto un tabù sul quale il centrodestra aveva sempre glissato. Il tabù della legge elettorale. Il presidente della Camera, parlando ieri in un seminario di «Farefuturo», ha detto una semplice verità: va bene discutere di una repubblica semi-presidenziale «alla francese», ma è ovvio che a un tale mutamento istituzionale deve accompagnarsi un modello elettorale adeguato. In Francia esiste l'uninominale maggioritario a doppio turno, il più idoneo a sostenere quell'assetto. Da noi viceversa è in vigore un sistema (ribattezzato ironicamente il «porcellum») che scontenta tutti tranne le segreterie dei partiti, visto che sono queste ultime a «nominare» i parlamentari grazie al meccanismo delle liste bloccate. È una contraddizione che va sciolta, sebbene la maggioranza abbia fin qui schivato il problema con l'argomento che la legge elettorale non è materia costituzionale, bensì ordinaria; e come tale sarà discussa solo al termine del lungo iter riformatore. Al contrario, Fini ha stabilito un nesso diretto fra il rinnovamento costituzionale e la legge elettorale. In questo modo ha ottenuto due risultati. In primo luogo, ha reso evidente che all'interno del centrodestra non è ancora maturato un chiaro indirizzo. Al di là dei risvolti mediatici e delle buone intenzioni, il rapporto di lealtà/rivalità fra Berlusconi e Bossi non ha fin qui sciolto i dubbi sul «che fare». E quindi, nel giorno in cui il presidente della Camera mette sul tavolo la questione del modello elettorale, tutti sono obbligati a definire meglio le posizioni. Non bisogna dimenticare, ad esempio, che ancora ieri un esponente autorevole del Pdl come il senatore Quagliariello spezzava una lancia a favore del «premierato forte». Ossia la tesi più gradita nel campo del centrosinistra, che ne ha fatto uno dei passaggi chiave della cosiddetta «bozza Violante». Con un po' di malizia si potrebbe dire che sono in molti, a destra, gli aspiranti architetti dell'ipotetico accordo con un Pd peraltro imperscrutabile e scettico. Diffidente verso la «grande riforma» quasi quanto Berlusconi che sembra credere poco agli sforzi in atto e semmai si prepara ad affrontare i temi economici (non a caso il premier parlerà a Parma al convegno della Confindustria). Del resto, la mossa di Fini - ed è il secondo punto - aiuta l'opposizione a rientrare in gioco. È vero che il partito di Bersani deve ancora decidere se e come partecipare alla partita in corso. Ma l'argomento della legge elettorale è un bel tema per sedersi al tavolo del negoziato. Purché non se ne voglia fare un uso solo strumentale e tattico, cioè di pura interdizione. Collegandola invece al riassetto dello Stato (semi-presidenzialismo, premierato forte), la bandiera della riforma elettorale permetterebbe al Pd di confrontarsi in campo aperto con il fronte Pdl-Lega. Anche per mettere a fuoco quali sono i giochi all'interno della maggioranza, quali i margini di equivoco. E fino a che punto Bossi è disposto a muoversi, se necessario, anche in autonomia da Berlusconi. Senza dubbio il Pd non può permettersi di restare inerte, ai margini di un processo che sta iniziando. Come ripete il capo dello Stato, la legislatura non può essere sprecata. Ciò che è realizzabile, va realizzato. © RIPRODUZIONE RISERVATA da ilsole24ore.com Titolo: Stefano FOLLI. - Una vittoria di Pirro per il premier Inserito da: Admin - Luglio 30, 2010, 12:18:04 pm Una vittoria di Pirro per il premier
di Stefano Folli La logica politica suggeriva un accordo o almeno un patto di convivenza che stabilisse le regole della reciproca sopportazione tra Berlusconi e Fini. All'opposto c'era l'ipotesi della scissione immediata e concordata dei due tronconi, Forza Italia e An, da cui era nato, fra eccessive contraddizioni, il Popolo della Libertà. Nella sostanza il vertice del partito berlusconiano ha scelto una terza via, come tale non priva di qualche ambiguità e di parecchi rischi. Nessuna espulsione, ma una sfida frontale al presidente della Camera, una totale delegittimazione dell'uomo che avrebbe creato un «partito nel partito» e avrebbe cessato di rappresentare un punto d'equilibrio istituzionale. Può darsi che questa scelta berlusconiana sia efficace per regolare i conti con un avversario interno ormai intollerabile, lo è molto meno per garantire all'esecutivo e alla legislatura un cammino sereno. Si potrebbe dire che il lungo, estenuante duello si conclude con la sconfitta di Fini, ma quella di Berlusconi è più che altro una vittoria di Pirro. È tutto da dimostrare infatti che ne verrà qualcosa di positivo per la stabilità e l'azione di governo. Aspettiamo, per capirlo, di vedere cosa accadrà nelle prossime ore. Una ricucitura a questo punto è davvero inverosimile. Ma quanti andranno a costituire il gruppo autonomo (di fatto una scissione obbligata), nel segno del presidente della Camera? È un punto cruciale. Se a Montecitorio saranno all'incirca quindici, essi costituiranno poco più di una spina nel fianco della coalizione, ridotta all'asse Berlusconi-Bossi. Se invece saranno una trentina, o magari trentacinque, allora l'ottimismo ostentato dal premier dovrà fare i conti con una realtà amara. Trenta o più dissidenti organizzati sono in grado di sottrarre al governo la maggioranza assoluta alla Camera. Con una serie di conseguenze che il presidente del Consiglio farà bene a non sottovalutare. In primo luogo, il gruppo finiano resterà nell'ambito della maggioranza (anzi, per il momento non si collocherà formalmente nemmeno fuori dai confini del Pdl). Il che significa che Berlusconi dovrà negoziare di continuo con Fini l'appoggio a questo o quel provvedimento governativo. Il federalismo fiscale, le questioni della giustizia e altre misure qualificanti, avranno bisogno di numeri certi. Una situazione da cui trae un evidente vantaggio Casini. Ma il rischio per il premier è di dover trattare ugualmente con Fini, specie se quest'ultimo resterà sulla poltrona di presidente della Camera, come è ben intenzionato a fare nonostante tutto. Certo, tutto dipenderà da quanti parlamentari si riconosceranno alla fine nella leadership finiana. E queste sono le ore in cui molti stanno mettendo sulla bilancia le proprie convenienze e ambizioni. Ma la raccolta preliminare di firme ha dato un risultato più che discreto per i ribelli e questo è un dato allarmante per il premier. In ogni caso, la frattura tra i due co-fondatori del Pdl è un evento che cambia lo scenario politico e rende il governo più debole, non più forte. Tanto è vero che lo stesso Berlusconi si era prodigato nelle settimane scorse per allargare l'area del consenso, non certo per restringerla. La ragion d'essere di una coalizione in buona salute tende all'allargamento, così da rappresentare una porzione via via più ampia e rappresentativa del paese. D'altra parte, i progetti di Berlusconi (la riforma istituzionale e quella della giustizia) richiedono una maggioranza compatta, sì, ma anche sicura dei suoi grandi numeri. Tutto il contrario di quello che sta accadendo. Senza i finiani e con Casini che non ha voglia di varcare il portone d'ingresso, la coalizione dovrà combattere per la sua sopravvivenza. Qual è allora il senso della rottura? Uno, senza dubbio: restituire a Berlusconi il pieno controllo del suo partito. Ma a quale fine, se poi occorrerà mercanteggiare lo stesso ogni punto del programma in Parlamento e con i gruppi autonomi? La vicenda delle intercettazioni è emblematica. Senza i finiani non è che l'epilogo di quella controversa battaglia sarebbe stato diverso, cioè più favorevole a Berlusconi. Sarebbe stato identico. E ancora: anche ammettendo che ora il clima nel Pdl sarà più sereno, è chiaro che la tensione si trasferirà alla Camera. Si dirà che Fini non può rimanere presidente dell'assemblea (Berlusconi lo ha già fatto capire) e quindi prenderà il via un ulteriore braccio di ferro. Da un lato serrati negoziati sulle leggi da approvare, dall'altro conflitti e tensioni intorno allo scranno presidenziale: non è il medesimo copione che il premier ha cercato di esorcizzare ieri sera? In definitiva la sfida alla minoranza interna ha un senso solo se il presidente del Consiglio pensa alle elezioni anticipate in tempi brevi. Non se vuole illudere se stesso che adesso comincia l'età dell'oro del governo, ma se prepara il terreno per il voto. Si dà il caso però che Bossi non abbia voglia di avventure elettorali perché guarda al suo scopo, il federalismo fiscale. E tanto meno avranno voglia di correre alle urne i sostenitori di Fini, bisognosi semmai di una diversa legge elettorale. Da oggi comincia una nuova partita e non è detto che ieri notte Berlusconi abbia giocato al meglio le sue carte. © RIPRODUZIONE RISERVATA http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2010-07-30/vittoria-pirro-premier-080531.shtml?uuid=AYU2GVCC Questo articolo è stato pubblicato il 30 luglio 2010 alle ore 08:20. L'ultima modifica è del 30 luglio 2010 alle ore 09:30. Titolo: Stefano FOLLI. - Tante incognite su governo e legislatura se si spacca il PdL Inserito da: Admin - Luglio 30, 2010, 12:21:16 pm Tante incognite su governo e legislatura se si spacca il Pdl
di Stefano Folli «Non è detto che si vada alle elezioni» spiega un Bossi alquanto dubbioso a chi gli domanda cosa accadrà se il gruppetto di Fini sarà messo fuori dal Pdl. Quell'espressione («non è detto...») rivela le inquietudini leghiste. Il vecchio leader conosce bene le regole della politica: non lo dice, ma l'idea di frantumare il Pdl per regolare i conti tra Berlusconi e Fini gli sembra una pazzia. Quello che poteva fare per favorire una ricomposizione fra i due, lo ha fatto. Oggi assiste scettico alla rissa incompiuta tra i co-fondatori e si mantiene fedele alla sua linea ufficiale: la maggioranza dispone di un margine di manovra anche senza i finiani e comunque la Lega, prima di sentir parlare di elezioni, vuole mandare in porto il federalismo fiscale. Niente di nuovo, se non un certo tono di scoramento. Bossi considera fallita di fatto la legislatura. Già oggi il governo è semi-paralizzato per una serie di gravi errori di gestione. Se davvero Berlusconi mettesse in atto il proposito di cacciare Fini e i suoi, la destabilizzazione del Pdl avrebbe buone probabilità di prender forma. A quel punto il federalismo fiscale non sarebbe di certo più vicino; al contrario, rischierebbe di restare intrappolato nelle convulsioni di fine legislatura. Bossi è quindi combattuto tra il desiderio di rafforzare il peso leghista nel governo e il timore di sprofondare nelle sabbie mobili insieme al resto della coalizione. Il buon senso dovrebbe a questo punto suggerire la ricerca di un patto di convivenza in extremis all'interno del partito di maggioranza. Nessuna pace, nessuna tregua, bensì un freddo accordo fondato sulla reciproca convivenza. Il presidente del Consiglio non può credere sul serio che a settembre, una volta consumata l'eventuale rottura con Fini, si aprano spazi inediti per la «grande riforma costituzionale», a cominciare dalla riforma della giustizia. Questo annuncio, dato con enfasi ieri alla conferenza degli ambasciatori, sembra più un manifesto elettorale che un programma concreto di governo. In realtà Bossi è più realista: la frattura nel Pdl ucciderebbe la legislatura, al massimo ci sarebbe tempo per approvare il federalismo (sperando che la fretta non complichi ancor più una matassa già ingarbugliata). In altre parole, è difficile credere che dalla crisi del centrodestra possa rinascere un governo vitale e creativo, in grado di riempire di riforme i prossimi tre anni. Così come è altrettanto difficile immaginare che l'espulsione del presidente della Camera e della corrente di minoranza del Pdl possa avvenire senza passaggi politici traumatici. D'altra parte, se l'obiettivo autentico del premier è arrivare al voto anticipato, si deve sapere che la strada per arrivarci sarebbe tortuosa. A parte i problemi economici e finanziari del paese, tutt'altro che secondari, c'è il tema – posto dall'opposizione – della legge elettorale. Non è pensabile ignorare questa richiesta nel momento in cui la maggioranza va in crisi, soprattutto nel caso in cui si consumasse la rottura del partito che ha vinto le elezioni nel 2008. Se il progetto di Berlusconi fosse quello di dimostrare che i «dissidenti» gli impediscono di governare, così da ottenere dal capo dello Stato un rapido scioglimento delle Camere e il mandato di gestire in prima persona il governo elettorale (magari lo stesso attuale governo), prepariamoci a una nuova stagione di conflitti istituzionali. http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2010-07-29/tante-incognite-governo-legislatura-080011.shtml?uuid=AYcNCCCC Questo articolo è stato pubblicato il 29 luglio 2010 alle ore 08:41. L'ultima modifica è del 29 luglio 2010 alle ore 08:00. Titolo: Stefano FOLLI. - Se le elezioni diventano più di una ipotesi Inserito da: Admin - Agosto 01, 2010, 07:14:04 pm Se le elezioni diventano più di una ipotesi
di Stefano Folli Questo articolo è stato pubblicato il 31 luglio 2010 alle ore 08:20. L'ultima modifica è del 31 luglio 2010 alle ore 08:38. Quarantotto ore dopo la spaccatura, le elezioni anticipate sono più di un'ipotesi. A molti sembrano lo sbocco naturale di un pasticcio politico creato da un calcolo precipitoso. Altro che governo rafforzato. Più che al rilancio di un esecutivo più saldo, pare di assistere alle convulsioni di fine regno. Il problema non è se la legislatura vedrà il 2013, ma il come e il quando si arriverà al voto. Un itinerario impervio in cui a decidere la rotta non è Palazzo Chigi, bensì il capo dello stato. D'altra parte, i sedici anni di storia del centrodestra, gli anni del bipolarismo, si sono giocati in buona misura sul rapporto tra Berlusconi e Fini. Ora che quel rapporto è andato in polvere comincia un'altra vicenda, non sappiamo se più o meno fortunata. Di certo la risposta del presidente della Camera al suo ex alleato equivale a una dichiarazione di guerra. Non stupisce, naturalmente, visto che stiamo assistendo a una scissione. Ma accusare il presidente del Consiglio di tendenze "illiberali" cos'è se non l'annuncio di un conflitto senza esclusione di colpi? L'espressione "illiberale" contiene in sintesi l'intero rosario di accuse e polemiche rivolte al premier nel corso del tempo: populista, poco rispettoso della Costituzione e del Parlamento, autoritario, aziendalista e padronale... Se Fini in questi anni ha cercato - non sempre riuscendovi - di definire l'identità della "sua" destra moderata in antitesi all'altra destra berlusconiana, ora è libero di accentuare i toni. Anzi, ha il dovere di farlo perché deve dimostrare in fretta di poter essere un'efficace alternativa al leader di Arcore. Non sarà un'impresa facile, ma è l'unico sentiero che il presidente della Camera è in grado di percorrere per rovesciare a suo favore una situazione scabrosa. Si conferma così quello che era chiaro fin dal primo momento. Per il governo diventa tutto più difficile. O meglio: sarà il presidente del Consiglio in prima persona a trovarsi sottoposto alle forche caudine del nuovo gruppo finiano. Che ne sarà, per esempio, del processo breve e di tutte quelle misure d'impatto giudiziario che per il premier sono essenziali, anche in vista della pronuncia della Corte costituzionale sul legittimo impedimento? Qui si dovrà misurare la forza parlamentare dalla nuova destra di "Futuro e Libertà", ma la sicurezza con cui ieri Fini ha parlato lascia intuire che egli ritiene di controllare agevolmente quei 30-34 deputati di cui si è detto. Destinati a essere decisivi. La lealtà di costoro verso il governo riguarda "l'interesse generale": ossia, interpretiamo, la politica economica e la politica estera o della difesa. Tutto ciò che configura la coesione nazionale cara a Giorgio Napolitano. Già sul federalismo fiscale niente è scontato, considerando la vocazione "patriottica" e quindi poco amichevole verso la Lega che il presidente della Camera in passato ha manifestato e che non ha certo motivo di correggere ora. Per il resto si entra in un terreno inesplorato: i continui richiami alla "legalità" suonano come altrettanti tentativi di delegittimare il premier nel suo tormentato rapporto con il potere giudiziario. Nulla di nuovo, ma ora tutto è più chiaro. A questo punto la permanenza di Fini sulla poltrona di presidente della Camera, cui egli ha diritto sul piano del diritto parlamentare, è destinata a innescare uno scontro politico permanente, ai limiti dell'ostruzionismo da parte del Pdl. Il che oggi costituisce la maggiore incognita della nuova situazione che si è creata. Non a caso il richiamo del capo dello Stato alla necessità di "preservare la continuità istituzionale" è un invito a tenere separate la sfera della politica da quella delle istituzioni. Se si arrivasse a mescolarle più di quanto già non sia, si creerebbe un pericoloso corto circuito. Una Camera bloccata, paralizzata dall'inedito conflitto tra il presidente dell'assemblea e la sua maggioranza di provenienza, sarebbe un rebus di difficile soluzione per chiunque. Anche per il Quirinale. Senza contare che proprio questa paralisi potrebbe costituire la "pistola fumante", ossia l'occasione cercata da chi vuole le elezioni anticipate per ottenere lo scioglimento del Parlamento. Non è un mistero che Berlusconi si tiene stretta la carta del voto. È nel suo stile guardare alle urne come via d'uscita all'eterna difficoltà di governare con efficacia. Il blocco di Montecitorio potrebbe costituire, al momento opportuno, un eccellente pretesto. Ma in quali condizioni politiche il premier e il suo governo arriveranno all'appuntamento? Quale sarà la posizione di Bossi che vede allontanarsi l'obiettivo strategico del federalismo fiscale? Sono tutte domande senza risposta. Peraltro il premier non può non sapere che non esiste una "clausola di dissolvenza" automatica delle Camere. Insomma, non è lui a decidere. Il presidente della Repubblica avrebbe il dovere costituzionale di verificare prima l'esistenza di altre maggioranze. E sotto questo aspetto la spaccatura del partito che ha vinto le elezioni del 2008 crea un fatto nuovo tutt'altro che trascurabile. La nota di ieri sera è il primo segnale che il Quirinale sta osservando la scena. Si torna quindi al gruppo finiano, alla sua consistenza, alla capacità o meno di svolgere con abilità un ruolo parlamentare. Magari di attrarre altri deputati desiderosi di rallentare la fine prematura della legislatura, in vista di una riforma della legge elettorale. Il come e il quando del voto anticipato sono ancora da definire. © RIPRODUZIONE RISERVATA http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2010-07-31/elezioni-diventano-ipotesi-080542.shtml?uuid=AYdHUuCC Titolo: Stefano FOLLI. - ... per il premier comincia l'autunno più difficile Inserito da: Admin - Agosto 05, 2010, 06:45:31 pm Caliendo resta sottosegretario ma per il premier comincia l'autunno più difficile
di Stefano Folli Questo articolo è stato pubblicato il 05 agosto 2010 alle ore 09:27. L'ultima modifica è del 05 agosto 2010 alle ore 09:46. Come era previsto, Giacomo Caliendo resta sottosegretario e il parlamento, insieme al governo, va in vacanza. Ma il voto di ieri ha sancito che almeno su un punto specifico - la mozione di sfiducia «ad personam» presentata da una parte dell'opposizione - il governo non raggiunge la soglia dei 316 voti, la maggioranza assoluta. Addirittura è restato sotto quota trecento, avendone raccolti 299. Esito piuttosto magro che contribuisce a descrivere un bilancio amaro per Silvio Berlusconi, l'uomo che due anni fa era entrato in parlamento a capo della più estesa maggioranza della storia repubblicana. Volendo sommare, con un'operazione un po' arbitraria, i «no» e gli astenuti si arriva alla cifra di 304, cinque voti in più di quelli raccolti dalla coalizione Pdl-Lega. In un certo senso, la maggioranza si è dissolta e rimetterla insieme sarà un'impresa complicata. Al momento il presidente del Consiglio farà buon viso a cattivo gioco. Dovrà accontentarsi dell'ovazione davvero fuori protocollo, e tollerata dal presidente della Camera, che i suoi sostenitori gli hanno rivolto in aula. E senza dubbio dovrà far sua la tesi anticipata dal capogruppo Fabrizio Cicchitto: il voto «ha sconfitto il giustizialismo». Per il resto, al di là degli attacchi ai «traditori» finiani, non c'è molto da fare, se non lasciare passare l'agosto. Ma l'atmosfera greve, elettrica in cui si è svolta la votazione a Montecitorio non promette nulla di buono. Si sono sentite urla, sono volati insulti, forse persino un paio di schiaffi, a conferma che le ferite politiche tra finiani e berlusconiani, e soprattutto tra ex An di opposte fazioni, non sono destinate a rimarginarsi. Nelle prossime settimane serviranno solo ad alimentare le polemiche estive. In settembre se ne riparlerà. È chiaro che in queste condizioni la maggioranza non ha davanti a sé un futuro incoraggiante. Berlusconi ha fatto capire di volersi sottrarre al logoramento. Un'intenzione del tutto logica, eppure nemmeno lui ha le idee chiare su come sfuggire a questo destino. Per cui il messaggio trasmesso fino all'altro ieri («siamo pronti alle elezioni») ha un valore mediatico, ma è troppo generico per indicare un programma d'azione. Lo stesso premier ora se ne rende conto. Alla vigilia del voto, più d'uno nel Pdl sosteneva che al di sotto della soglia di 316 voti il governo avrebbe dovuto dimettersi. Ma naturalmente non accadrà. In fondo, Caliendo resta al suo posto e il giustizialismo - secondo l'interpretazione ufficiale - ha perso la battaglia. In realtà una crisi adesso non avrebbe senso né giustificazione. Umberto Bossi, che sa essere saggio, ha subito detto: «Ora dobbiamo resistere, non votare». Il che significa accettare la guerra di posizione. Oppure tentare dopo le vacanze la strada più impervia: trattare un grande accordo politico con i finiani, in termini che per Berlusconi saranno di sicuro molto più onerosi di quanto sarebbero stati qualche tempo fa, prima della frattura. Si conferma così l'errore di fondo commesso dal premier e dai suoi consiglieri nel momento in cui i dissidenti sono stati messi alla porta. La verità è che le elezioni anticipate sarebbero plausibili, forse probabili in caso di crisi formale di governo. Ma chi scioglie le Camere è Napolitano, non Berlusconi. E non sarà ininfluente il «casus belli», ossia il come e il perché della caduta del governo. Dimostra di saperlo il premier, quando afferma che la rottura della maggioranza può avvenire «solo per ragioni politiche, non per un incidente di percorso». Vuol dire che se il centrodestra cadesse su un tema di interesse nazionale (politica economica o internazionale), lo scioglimento delle Camere sarebbe inevitabile e il presidente del Consiglio potrebbe rivendicare con buoni motivi la guida del governo elettorale. Ma questo scenario non si verificherà perché Fini non si è affacciato ieri alla politica. Cosa accadrebbe invece se l'esecutivo fosse messo in crisi in autunno sulle questioni giudiziarie, magari su una leggina di quelle che in passato Berlusconi ha considerato irrinunciabili? In questo caso lo scenario sarebbe diverso e i fili della crisi, compreso l'epilogo della legislatura, sarebbero saldamente nelle mani del capo dello Stato. Magari si arriverebbe lo stesso alle elezioni, ma il percorso sarebbe meno lineare. Non potremmo escludere qualche sorpresa. Soprattutto non avremmo alcuna garanzia che in quel caso, a guidare il governo nella stagione elettorale, sarebbe l'attuale premier. http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2010-08-05/adesso-premier-autunno-difficile-080624.shtml?uuid=AYEaZCEC Titolo: Stefano FOLLI. - Verso il 28 fra timori di «guerriglia» e rischi di logoramento Inserito da: Admin - Settembre 22, 2010, 05:06:45 pm Verso il 28 fra timori di «guerriglia» e rischi di logoramento
di Stefano Folli Questo articolo è stato pubblicato il 22 settembre 2010 alle ore 08:52. L'ultima modifica è del 22 settembre 2010 alle ore 07:59. Fabrizio Cicchitto, capogruppo del Pdl, paventa una sorta di guerriglia parlamentare permanente. Usa un'espressione aspra e polemica, ma nella sostanza ha ragione. Il suo bersaglio è il gruppo di «Futuro e Libertà», gli amici di Fini, da cui il partito berlusconiano non può attendersi nulla di buono nelle prossime settimane. Certo, l'espressione «guerriglia» è sgradevole e il drappello vicino al presidente della Camera preferisce parlare di vigilanza parlamentare e di senso delle istituzioni. O di difesa del principio di «legalità». Tuttavia la sostanza non cambia di molto. Cicchitto, come pure altri al vertice del Pdl, ha compreso che il passaggio del 28-29 settembre è significativo, ma non determinante per il futuro della legislatura e per il destino del governo. Berlusconi potrebbe ottenere i suoi 316 voti di fiducia al netto dei finiani, forse con l'apporto decisivo del Mpa di Raffaele Lombardo. Subito dopo si troverebbe nella difficoltà quotidiana di navigare al timone di una maggioranza malcerta. La vicenda Cosentino e le questioni legate alla Rai sono una spia interessante di come sarà il clima autunnale. Segnali, nulla più, come tali da non sopravvalutare: anche perché la coesione dei finiani è da verificare. Ma indizi utili a capire che l'autosufficienza assoluta di Berlusconi è una chimera. Fini non potrà rinunciare a costruire, una settimana dopo l'altra, il profilo del suo partito. Di questo si tratta. E l'identità di «Futuro e Libertà» si definisce - è chiaro da tempo - in opposizione al cosidetto «berlusconismo». O se si preferisce a quella che lo stesso Fini, già più di un anno fa, definiva la «deriva cesarista». Pur ammettendo che ci siano margini d'accordo su alcuni punti, ad esempio il Lodo Alfano costituzionale, è evidente che il gruppo dei 34 non intende rientrare nei ranghi. Al contrario, più si afferma l'impressione di una legislatura in bilico, più gli amici di Fini saranno indotti a caratterizzarsi sul piano politico. Il che non significa condividere ogni giorno il massimalismo di un Fabio Granata. Semmai proprio la spinta radicale di questo deputato permette ad altri dentro «Futuro e Libertà», in sintonia con il leader, di modulare la tattica, alternando momenti di conflitto e periodi di pausa. Di sicuro il presidente del Consiglio dovrà stare sempre sul chi vive, soprattutto dopo la fiducia del 29 settembre. Se l'obiettivo dei dissidenti è il progressivo logoramento di Palazzo Chigi, le occasioni per dar corpo a questa strategia non mancheranno. Del resto, proprio ieri Maroni, il ministro dell'Interno, ha ripetuto il tema leghista: o la maggioranza si dimostra salda e autorevole o è meglio «andare al voto» perché non è plausibile «cercare ogni giorno in Parlamento il voto di Tizio, Caio o Sempronio». Ciò che allo stato delle cose è più di una remota eventualità: è il probabile sbocco della ripresa d'autunno. Berlusconi farà del suo meglio per rendere credibile quella che i giornali definiscono «la fase 2 del governo». Userà senz'altro la leva del rimpasto per accontentare vecchi e nuovi alleati. Ma nessuno è in grado di garantire il premier (e la Lega) che il cammino parlamentare è spianato. Viceversa, tutto lascia intuire che sia destinato ad avverarsi il timore di Maroni: una maggioranza in affanno che cerca di volta in volta il consenso di Tizio e Caio. Fino al momento in cui, magari all'inizio del 2011, qualcuno alzerà bandiera bianca. http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2010-09-22/verso-timori-guerriglia-rischi-075953.shtml?uuid=AY1A6JSC Titolo: Stefano FOLLI. - La fiducia è una scelta chiara e opportuna, ma non una ... Inserito da: Admin - Settembre 29, 2010, 11:24:38 am La fiducia è una scelta chiara e opportuna, ma non una garanzia per il futuro
di Stefano Folli Questo articolo è stato pubblicato il 29 settembre 2010 alle ore 09:30. L'ultima modifica è del 29 settembre 2010 alle ore 09:26. La scelta di Berlusconi di chiedere la fiducia del Parlamento per il suo governo è arrivata all'ultimo minuto e ha il sapore di un colpo di scena. Ma è una scelta chiara e quindi opportuna, l'unica che può dare un senso al dibattito un po' surreale che ha scandito le ultime settimane. Senza la fiducia, come pareva fino a ieri, la verifica si sarebbe chiusa nel segno dell'ambiguità e delle lacerazioni non sanate con gli amici di Fini: la maggioranza sarebbe uscita dalle aule parlamentari più debole di come vi era entrata. Ora almeno ognuno dei soci della coalizione si assumerà le proprie responsabilità. E poi si vedrà. Sappiamo che questo era il copione originario previsto dal presidente del Consiglio. Intervento in aula a illustrare i cinque punti del rilancio programmatico e poi voto di fiducia per dare legittimità alla cosiddetta "fase due" del governo. Tuttavia la terribile estate politica, scandita da scambi di accuse infamanti, aveva mutato lo scenario di fondo. Il premier è andato per settimane alla ricerca dei famosi 316 voti al netto dei 35 finiani di "Futuro e libertà". Li ha trovati? Si sente sicuro dei numeri? Sappiamo che oggi riceverà il voto di alcuni parlamentari ex Udc ed ex rutelliani. Ma è difficile prevedere se i nuovi apporti basteranno a rendere ininfluenti i voti del gruppo finiano. Quel che sappiamo è che il presidente del Consiglio si è risolto a porre la questione di fiducia dopo che per giorni e giorni aveva lasciato capire di accontentarsi di un voto di indirizzo. Un'ipotesi debole soprattutto dopo che al caso Fini si era aggiunto il caso Bossi. All'indomani dell'infelice frase del ministro delle Riforme contro i romani, la mozione personale di sfiducia annunciata dalle opposizioni non avrebbe comunque ottenuto i voti necessari. Ma nel clima confuso in cui la maggioranza si stava aggrovigliando avrebbe avuto un significato da non sottovalutare. Sta di fatto che Berlusconi ha rotto gli indugi. Improvvisamente la questione dei numeri ha perso la sua importanza. Forse ci saranno i 316 voti senza i finiani o forse no: dipende da come avranno fatto bene i conti a Palazzo Chigi. E magari da qualche ulteriore colpo di teatro. Tuttavia è possibile che si resti al di sotto della soglia, rendendo così decisivi i consensi di "Futuro e libertà". Gli amici di Fini sono contenti perché in questo modo ottengono una sorta di riconoscimento parlamentare del loro ruolo. È quello che volevano, come tappa intermedia sulla via che li sta portando a costruire il loro partito. Si dirà che un voto di fiducia, nel clima bizantino in cui stiamo vivendo, non vuol dire poi molto. Niente impedisce al gruppo dissidente di mettersi di traverso lungo un sentiero parlamentare ricco di insidie (scudo giudiziario per il premier, legge sulle intercettazioni, riforma della giustizia). In ogni caso, se il presidente del Consiglio stasera otterrà la fiducia, come è prevedibile, avrà colto un successo. Sarà riuscito a mettere un grosso cerotto sui problemi della coalizione. E lo avrà fatto dopo un discorso che si prevede piuttosto impegnativo, in cui metterà in gioco la sua credibilità. Un discorso "di legislatura", anche se ci vuole molto ottimismo per immaginare che il governo potrà durare fino al 2013. Ma Berlusconi ha la possibilità di mostrare la sua buona volontà, evitando i temi controversi ed eliminando qualsiasi cenno polemico alla diatriba con il presidente della Camera che in aula lo osserverà dal suo scranno, a un metro di distanza. http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2010-09-29/scelta-chiara-opportuna-garanzia-080535.shtml?uuid=AYs3zjUC Titolo: Stefano FOLLI. - Un punto forte e due deboli nell'ipotesi del governo di transiz Inserito da: Admin - Ottobre 30, 2010, 12:29:15 am Un punto forte e due deboli nell'ipotesi del governo di transizione
di Stefano Folli Questo articolo è stato pubblicato il 28 ottobre 2010 alle ore 08:35. L'ultima modifica è del 28 ottobre 2010 alle ore 11:24. I fautori del governo di "transizione" o di passaggio hanno dalla loro un argomento forte, ma devono ammettere due punti deboli. L'argomento forte riguarda il disappunto che percorre ampi settori di opinione pubblica e di mondo produttivo di fronte alla prospettiva di elezioni a breve. Per gran parte degli italiani è irritante l'idea che una larga maggioranza parlamentare sia stata sperperata in due anni e che la classe politica non abbia altra risorsa se non rivolgersi di nuovo al corpo elettorale. Dunque, nell'eventualità di una crisi del governo Berlusconi un tentativo di frenare la corsa al voto sarebbe considerato opportuno. Questo non significa che gli italiani amino i "trasformismi" o i cosiddetti "ribaltoni". Vuol dire però che lunghi anni di "bipolarismo" accompagnato da una scarsa qualità di governo hanno fatto appassire le illusioni. Oggi la retorica del "premier eletto dal popolo" e del verdetto elettorale intangibile è meno convincente che in passato proprio per gli errori commessi dai politici. Del resto, Fini è uno dei vincitori del 2008 (anzi, è il cofondatore del Pdl), il che non gli impedisce di essere fautore di un governo diverso. E Berlusconi ha tratto dalla sua, per mantenere la fiducia delle Camere, alcuni deputati siciliani eletti con l'Udc, partito d'opposizione. A norma di Costituzione e alla luce degli sviluppi politici, un altro governo prima del voto, magari determinato ad arrivare al 2013, è del tutto legittimo. Tuttavia l'operazione presenta almeno due punti deboli. Il primo riguarda la ragion d'essere di tale esecutivo. In Parlamento le idee sono piuttosto confuse al riguardo. All'inizio i partiti dell'opposizione, specie quella di centrosinistra, pensavano a un governo "di scopo", votato a cambiare la legge elettorale per poi tornare alle urne. Ma l'operazione ha subito mostrato la corda. Nessun governo può limitarsi ad affrontare la riforma elettorale, tanto più che non esiste al momento un'intesa su come cambiarla. Senza dubbio il capo dello Stato non incoraggerebbe un esperimento al buio, ossia un esecutivo con una maggioranza fragile e molto eterogenea (almeno al Senato) che nasce per modificare il modello elettorale, ma non sa come. Ecco allora che Bersani e D'Alema, in questo sostenuti da Casini, parlano oggi di un governo di respiro più largo, volto ad affrontare l'emergenza economica e sociale. La svolta ha un significato. Ci si rende conto che un governo di breve termine (tre o sei mesi) non avrebbe senso. Soprattutto non sarebbe sufficiente a convincere quel manipolo di senatori del Pdl (forse una trentina) il cui apporto sarebbe indispensabile per varare una nuova maggioranza. Serve un orizzonte più largo, non legato alla sola legge elettorale. Ma qui è il secondo punto di debolezza. Un orizzonte lungo presuppone un accordo politico sul programma tra gruppi che hanno poco in comune tranne il desiderio di evitare le elezioni. E infatti il presidente della Puglia, Vendola, che invece le elezioni le vuole, ha già detto che non intende appoggiare riforme nate da un compromesso con le forze moderate. Il rischio è che l'esecutivo nasca sotto il pesante condizionamento dello stesso Vendola e di Di Pietro. Il che creerebbe non pochi problemi a qualcuno, ad esempio a Casini. Sullo sfondo c'è un altro pericolo: il governo di "transizione" sarebbe ovviamente sottoposto a un intenso bombardamento mediatico da parte dell'asse Pdl-Lega. Se dovesse cadere troppo presto, riaprendo la strada alle elezioni, offrirebbe uno straordinario vantaggio al centrodestra. © RIPRODUZIONE RISERVATA http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2010-10-28/punto-forte-deboli-ipotesi-063924.shtml?uuid=AY892seC Titolo: Stefano FOLLI. - La maggioranza è divisa e il paese non ha più guida Inserito da: Admin - Novembre 03, 2010, 09:59:40 pm La maggioranza è divisa e il paese non ha più guida
di Stefano Folli Questo articolo è stato pubblicato il 02 novembre 2010 alle ore 09:00. L'ultima modifica è del 02 novembre 2010 alle ore 08:56. Un punto è certo. Il governo Berlusconi è paralizzato. Virtualmente morto, si potrebbe dire, per la perdita di credibilità della sua guida. Funziona la garanzia dei conti pubblici affidata a Tremonti, ma per il resto nessuno si fa illusioni. Basti dire che la maggioranza alla Camera vive sul voto dei finiani, un gruppo il cui leader, appunto il presidente di Montecitorio, ha appena chiesto le dimissioni del premier, «se fossero vere le pressioni di Palazzo Chigi sulla Questura di Milano». Se fossero vere? Nel paese non si discute altro che di quella notte, con la triangolazione fra il presidente del Consiglio, la polizia di Stato e la procura dei minori. Il ministro degli Interni si preoccupa di proteggere il buon nome dei poliziotti e non spende una parola per difendere il capo di quel governo di cui è autorevole membro. Dettaglio significativo, date le circostanze. La condizione posta da Fini («se fossero vere...») è una foglia di fico. Di fatto, il gruppo che ha le chiavi della maggioranza ha reclamato per la prima volta le dimissioni di Berlusconi. Eppure la richiesta di Fini (presidente della Camera in carica) non è ancora un abbandono unilaterale della coalizione di governo nella quale «Futuro e Libertà» - ricordiamolo - dispone di ministri e sottosegretari. Al contrario, i finiani vogliono evitare questo passo definitivo che attirerebbe su di loro gli applausi dell'opposizione, ma finirebbe per restituire compattezza all'asse Pdl-Lega e renderebbe più difficile la ricerca di un esecutivo di transizione. Ricerca peraltro esoterica, perché questo governo «a tempo» è ancora privo di forza parlamentare e orizzonte programmatico.§ Siamo nel pieno di una partita politica dagli esiti indecifrabili. La mossa di Fini («il premier si dimetta») sarebbe stata deflagrante se anche la Lega avesse abbandonato la nave di Berlusconi. Ma non è ancora così. Bossi stavolta ha esitato all'inizio, incerto sulla via da imboccare. Nella Lega si sono vissute ore difficili e forse traumatiche, anche perché Maroni si è trovato invischiato suo malgrado nel «caso Ruby». Al dunque, ha prevalso un calcolo di convenienza. Alla Lega non serve un governo di larga coalizione figlio dello scandalo. Al punto in cui siamo, i danni sarebbe maggiori dei vantaggi. D'altra parte senza la Lega tale governo non avrebbe ali per volare e per la destra sarebbe facile gioco presentarlo come un mero «ribaltone», un atto di trasformismo parlamentare. È un vicolo cieco. La crisi personale del premier non si traduce in crisi politica. Non ancora. Si resta sospesi a mezz'aria, in attesa di un altro evento, di un nuovo choc. Forte del rifiuto della Lega ai governi tecnici, Berlusconi può arroccarsi e respingere l'ipotesi delle dimissioni. E infatti i suoi rispondono a Fini: se ci tiene, sia lui a togliere l'appoggio al governo e ad aprire la crisi. La posta in gioco è evidente. Se Berlusconi si dimettesse sotto il peso di questa vicenda, la strada sarebbe spianata, almeno sulla carta, verso un esecutivo con una diversa maggioranza e guidato da un «signor X» da individuare. Ma, come si è detto, tale ipotesi avrebbe un senso solo se la Lega entrasse in qualche modo a far parte della combinazione. Se ciò non accade e il premier resta asserragliato a Palazzo Chigi, si deve immaginare che l'unica via d'uscita sarà fra qualche mese il voto anticipato. Vale a dire l'obiettivo di Bossi. Non di Berlusconi, almeno fino all'altro ieri, ma le cose cambiano in fretta e l'uomo di Arcore sembra con le spalle al muro. Tuttavia, se avremo le elezioni, è bene che si sappia quale prezzo dovrà pagare il paese. Perché il ricorso alle urne avverrà in un clima drammatico e senza alcuna certezza per il dopo. La paralisi è sotto gli occhi di tutti. Il presidente della Camera, dopo aver posto in termini perentori il problema della permanenza di Berlusconi a Palazzo Chigi, dovrà decidere cosa fare. Se il premier gli risponde «picche», come è già accaduto, Fini ha tre scelte. Primo, aspettare qualche ulteriore scandalo che disintegri l'immagine del premier e lo obblighi a lasciare l'incarico. Secondo, ritirare dal governo la delegazione di «Futuro e Libertà» e provocare la crisi (c'è un surrogato di cui si parla in queste ore, il passaggio all'appoggio esterno, ma è poco credibile e il Pdl non lo accetterebbe). Terzo, dimettersi da presidente della Camera denunciando il degrado istituzionale: sarebbe un gesto a effetto e risolverebbe il paradosso di un presidente della Camera impegnato in una lotta all'ultimo sangue contro il presidente del Consiglio. Comunque sia, è necessario che tutte le decisioni siano prese in tempi celeri. L'Italia non può assistere ancora a lungo a questo suicidio della politica, sotto gli occhi, increduli, del mondo intero. http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2010-11-02/maggioranza-divisa-paese-guida-074215.shtml?uuid=AYwygPgC&fromSearch Titolo: Stefano FOLLI. La sfida di Fini: perché il gioco del cerino non è ancora finito Inserito da: Admin - Novembre 08, 2010, 12:32:41 pm La sfida di Fini: perché il gioco del cerino non è ancora finito
di Stefano Folli Questo articolo è stato pubblicato il 07 novembre 2010 alle ore 20:09. La metafora del cerino è abusata, ma rende bene l'idea di quello che sta accadendo nell'area dissestata del centrodestra. Il rischio è che, a forza di passarselo di mano in mano, tutti alla fine si brucino le dita con questo fiammifero. A Perugia abbiamo assistito al penultimo atto di uno psicodramma sempre più incomprensibile per il normale cittadino, ma ben in grado di descrivere il disfacimento della maggioranza e quindi del governo. Le elezioni anticipate sono via via più vicine, ma nessuno, neanche Fini, ha la volontà o il coraggio di pronunciare a viso aperto l'ultima parola. È un susseguirsi di penultime parole. Di solito un partito che vuole provocare la crisi ritira senz'altro i suoi ministri dal governo. Invece nel nostro caso siamo ancora un passo indietro rispetto a questa soluzione lineare. Fini ha intimato a Berlusconi di rassegnare le dimissioni e di dar vita al negoziato per un altro governo, aperto all'Udc. Un governo che dovrebbe mettere in un angolo la Lega, a vantaggio dell'asse "Futuro e Libertà" più Casini. Scenario suggestivo, ma politicamente poco verosimile. Logica vorrebbe che dopo la risposta negativa di Berlusconi (il quale, non dimentichiamolo, ha ricevuto la fiducia in Parlamento appena poche settimane fa) Fini facesse dimettere i suoi ministri già oggi, aprendo in via ufficiale la porta alla crisi dell'esecutivo. Tuttavia occorre attendere, perché il gioco del cerino continua. Come la fiducia di fine settembre aveva poco significato, così oggi lo scambio di ultimatum sembra poco convincente. L'unica verità è il logoramento inarrestabile di un centrodestra che due anni fa ha vinto le elezioni e che ha deluso molto in fretta tutte le attese. E' chiaro che così non si potrà andare avanti ancora a lungo. Ma lo spettacolo a cui abbiamo assistito oggi non è ancora l'epilogo. Ci saranno colpi (alcuni bassi) e contraccolpi. E la fine di questa legislatura, coincidente con l'ultimo atto della lunga stagione berlusconiana, non sarà indolore. Forse sarà drammatica. http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2010-11-07/sfida-fini-perche-gioco-195515.shtml?uuid=AYwf7uhC Titolo: Stefano FOLLI. - Un successo istituzionale del Quirinale, ma in un clima ... Inserito da: Admin - Novembre 17, 2010, 06:23:21 pm Un successo istituzionale del Quirinale, ma in un clima inasprito
di Stefano Folli Questo articolo è stato pubblicato il 17 novembre 2010 alle ore 08:26. L'ultima modifica è del 17 novembre 2010 alle ore 08:50. Ormai la crisi procede su due livelli. Il primo è istituzionale e sta assorbendo le energie di Giorgio Napolitano. Con i presidenti dei due rami del Parlamento il capo dello Stato ha colto un primo successo: è riuscito a delineare un percorso che non incrinerà quel minimo di stabilità a cui il paese non può rinunciare. La legge finanziaria manterrà quindi la precedenza sulle mozioni di sfiducia, ma si eviterà che i tempi del Senato si dilatino fino a interferire con le esigenze del chiarimento. Per cui entro il 10 dicembre la manovra sarà approvata e poi prenderà il via una rapida «verifica», con le comunicazioni del presidente del Consiglio. La novità emersa ieri è che Napolitano, attraverso la sua influenza personale, ha favorito una soluzione equilibrata a quella «guerra delle mozioni» tra Camera e Senato che rischiava d'essere distruttiva. Di fatto i diversi documenti, di sfiducia o di sostegno, saranno votati in parallelo nei due rami del Parlamento il giorno 14. Per coincidenza lo stesso giorno in cui la Consulta renderà nota la sua sentenza sul «legittimo impedimento», lo scudo giudiziario che tutela Berlusconi dai processi. Ovviamente l'eventuale sfiducia della Camera obbligherà il premier alle immediate dimissioni. Con il buon senso si supera così la disputa su quale delle due Camere dovesse esprimersi per prima: se il Senato più «amico» di Berlusconi o la Camera dove la maggioranza sulla carta non esiste più. Vedremo. Sullo sfondo, l'aggravarsi delle difficoltà economiche nell'area dell'euro potrebbe diventare un argomento politico contro le elezioni a breve termine. Ma anche, se è per questo, contro il voto di sfiducia e l'apertura della crisi. Allo stato delle cose, il secondo livello della crisi, quello appunto politico, parla a favore dello scioglimento delle Camere. Le posizioni sono rigide. Da un lato, Fini, Casini e il centrosinistra non vogliono niente di meno che un governo guidato da un nuovo leader. Dall'altro, Berlusconi ha saldato il rapporto con la Lega all'insegna dell'alternativa «o la fiducia o il voto». È evidente che Bossi non è entusiasta di precipitarsi alle urne. Forse ritiene il Berlusconi di oggi un candidato fragile, esposto al pericolo di altre rivelazioni sconvenienti. Peraltro il caso Ruby ha fatto il giro del mondo, tanto che il settimanale americano «Newsweek», in passato sostenitore del presidente del Consiglio, ha dedicato alla vicenda delle «ragazze» del premier quattro pagine molto aspre. Tuttavia la Lega resta salda a fianco del vecchio alleato, o almeno così sembra. E questo permette al premier di segnare qualche punto e di tenere sotto controllo la situazione. Se il quadro rimarrà bloccato anche dopo la sfiducia, non si vede come i sostenitori del «governo diverso» possano prevalere. E infatti le loro speranze sono legate a due ipotesi tutte da verificare. La prima riguarda uno sfaldamento del gruppo senatoriale del Pdl dopo che Berlusconi sarà salito al Quirinale. Ma dovrà trattarsi di uno sfaldamento molto consistente, una vera e propria scissione, per giustificare il fatto che il nuovo governo lascerebbe fuori le due forze (Pdl e Lega) vincitrici delle elezioni nel 2008 e tuttora titolari, in base ai sondaggi, della maggioranza relativa. L'altra ipotesi è il ritiro volontario da parte di Berlusconi. Per stanchezza o per nuovi colpi giudiziari. Ma questo sarebbe davvero un colpo di scena clamoroso, come tale non prevedibile. http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2010-11-17/successo-istituzionale-quirinale-clima-063624.shtml?uuid=AYJIyHkC Titolo: Stefano FOLLI. - Un quadro politico logorato e logorante Inserito da: Admin - Dicembre 07, 2010, 03:55:29 pm Le 317 firme?
Sono una forma di pressione sul premier perché si dimetta prima del 14 dicembre. di Stefano Folli Questo articolo è stato pubblicato il 03 dicembre 2010 alle ore 07:47. IL PUNTO Un quadro politico logorato e logorante «Abbiamo 317 firme» ha annunciato ieri il capogruppo di «Futuro e Libertà» alla Camera, l'uomo più vicino al presidente dell'assemblea, Fini. 317 firme equivalgono alla maggioranza assoluta di Montecitorio. Costituiscono sulla carta la base di un governo diverso e alternativo a quello in carica. Però solo sulla carta. Nella realtà parlamentare quelle 317 firme indicano per ora un progetto (sbarazzarsi di Berlusconi evitando le elezioni), ma non prefigurano una maggioranza politica né tantomeno un governo di ricambio. Forse tale maggioranza prenderà forma nelle prossime settimane, ma al momento non c'è. Casini ha sempre tenuto a distanza Di Pietro, Fini avrebbe qualche problema a governare con la sinistra (e viceversa). Un conto è votare la sfiducia al presidente del Consiglio, tutt'altro conto è ricostituire in questo Parlamento una coalizione in grado di gestire la legislatura. E non si parla di un «governo breve» con l'obiettivo minimale di riformare la legge elettorale: ipotesi che il Quirinale ha più volte fatto capire di ritenere irrealistica. Si parla di una maggioranza e di un governo in grado di affrontare la speculazione finanziaria europea. Un compito eccezionale in un'ora eccezionale. A ben vedere, l'unica ragione per evitare le elezioni anticipate come sbocco di una crisi «al buio», cioè priva di una soluzione predefinita, sarebbe un esecutivo di salute pubblica in grado un proporre un programma molto severo di risanamento economico, in vista dei sacrifici che l'Europa potrebbe chiedere. Un patto nazionale d'emergenza capace di riunire le maggiori forze politiche, dal Pdl al Pd, mettendo da parte la lista dei livori e dei veti reciproci. Ciascuno si assume la propria dose di responsablità politica e sociale. Niente di tutto questo s'intravede. Il cammino verso il 14 dicembre continua con l'annuncio di una sfiducia che non contiene in sé una clausola «costruttiva» (l'indicazione della nuova maggioranza) come dovrebbe essere se fossimo in Germania. E infatti le 317 firme per ora sono soprattutto uno strumento di pressione. Su Berlusconi, s'intende, affinchè vada a dimettersi prima del fatidico voto del Parlamento. Questa insistenza lascia pensare che in realtà non ci sia tutta questa sicurezza sui numeri. Quello che in realtà sperano i fautori della «sfiducia», appartengano essi al centrosinistra o al cosiddetto «terzo polo», è che il presidente del Consiglio alzi bandiera bianca prima del 14, schiacciato sotto il peso delle rivelazioni e dei sospetti. Nonostante le parole pragmatiche di Hillary Clinton, infatti, i veleni di Wikileaks continuano a dominare la scena. C'è di tutto: interessi personali nei rapporti con Putin, problemi di salute del premier. Arriveranno magari nuove confessioni di giovani ragazze. Non si può escludere nulla. Finora però questa gragnuola di proiettili mediatici non ha prodotto il cedimento di un Berlusconi peraltro piuttosto provato. Non ha causato lo sfaldamento del Pdl, anche se si allude sempre a un piccolo gruppo orientato da Pisanu a Palazzo Madama. Tantomeno ha provocato la spaccatura fra la Lega e lo stesso Berlusconi: anzi, il contrario. E' chiaro che le mancate dimissioni del premier prima del 14 renderanno necessario il voto in Parlamento. Lì si vedrà se i 317 deputati sono davvero determinati ad aprire la crisi. Che sarà senza dubbio «al buio», assegnando perciò una responsabilità molto gravosa al presidente Napolitano. ©RIPRODUZIONE RISERVATA http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2010-12-02/firme-sono-forma-pressione-222001.shtml?uuid=AYQrLboC Titolo: Stefano FOLLI. - Verso il 14 senza mediazioni e per ora senza un vincitore certo Inserito da: Admin - Dicembre 07, 2010, 03:56:29 pm Verso il 14 senza mediazioni e per ora senza un vincitore certo
di Stefano Folli Questo articolo è stato pubblicato il 07 dicembre 2010 alle ore 09:30. L'ultima modifica è del 07 dicembre 2010 alle ore 09:39. Ci vuole una dose di ottimismo quasi sconfinato per credere possibile un fatto nuovo, cioè l'apertura di un negoziato tra Berlusconi, Fini e Casini prima del 14 dicembre. La realtà dice l'esatto contrario: la politica romana è in una condizione di stallo, scandito qui e là da schermaglie sempre più aspre, talvolta al limite della volgarità. E il Parlamento chiuso è la fotografia amara che descrive lo stato delle cose. Sappiamo, d'altra parte, che nei giorni scorsi non sono mancati i tentativi di stabilire un contatto, se non proprio un avvio di dialogo, fra i contendenti. È noto che il tessitore più tenace è stato, al solito, Gianni Letta. Ma non ci sono margini e si capisce perché. La tensione che si è accumulata ha bisogno di sfogarsi. «Futuro e Libertà», il gruppo di Fini, è nato per riscattare il centrodestra dal «berlusconismo». Giusta o sbagliata, questa è la sua ragion d'essere: chiudere la stagione di Arcore. E infatti il presidente della Camera accentua i suoi attacchi al premier, imprimendo loro un profilo etico prima ancora che politico. Berlusconi, scandisce Fini, non solo non ha mantenuto le promesse fatte agli italiani, ma è anche privo di «onestà intellettuale». È vero che in politica tutto può cambiare in fretta, ma su queste premesse è impossibile immaginare che i finiani rinuncino a votare la sfiducia il 14. E in cambio di cosa, poi? Berlusconi non concede nulla perché è convinto di vincere tra una settimana il braccio di ferro parlamentare, prima al Senato e subito dopo a Montecitorio. Si tratta di un azzardo perché nessuno può essere certo di come si risolverà un voto sul filo del rasoio. Però è un azzardo tipico del personaggio, che non a caso ostenta sicurezza. Quanto all'uscita di Fini («non ci saranno ribaltoni») sembra soprattutto un modo per difendersi dall'accusa più insidiosa che il Pdl gli rovescia addesso: quella di essere diventato uno strumento della sinistra, pronto a qualsiasi avventura parlamentare. Perciò il presidente della Camera parla ai suoi e li rassicura. Obiettivo ovvio: tenere unito «Futuro e Libertà». Tuttavia, se non ci saranno «ribaltoni», vuol dire che la crisi dovrà aprirsi e risolversi risolversi nel perimetro del centrodestra allargato a Casini. Operazione complessa al limite della temerarietà, che richiede quelle dimissioni di Berlusconi prima del 14 che a Palazzo Chigi, lo sappiamo da tempo, non prendono in considerazione. E allora? Un nuovo governo Berlusconi, ma alle condizioni di Fini e Casini, non è realistico prima del voto parlamentare. Dopo il voto, si vedrà. Ma con due ipotesi sul campo molto diverse tra loro. Se Berlusconi sarà sfiduciato, le dimissioni apriranno una fase nuova e imprevedibile, la cui gestione graverà sulle spalle del capo dello Stato. Ma di sicuro il «bis» dell'attuale premier sarà allora l'ultima delle opzioni plausibili. Più realistico immaginare le elezioni anticipate se Berlusconi e Bossi resteranno uniti e sapranno impedire defezioni nel Pdl. La Lega sarà più che mai il partito cruciale per decidere le sorti della legislatura. La seconda ipotesi è che il presidente del Consiglio ottenga la fiducia sia al Senato sia alla Camera, magari per pochissimi voti. In quel caso il governo non sarebbe più forte, ma Berlusconi avrebbe ottenuto una vittoria netta contro i suoi avversari. Lo sconfitto sarebbe Fini molto più di Casini. Così come, nel caso opposto e con il governo caduto, sarebbe il presidente della Camera il vero vincitore del braccio di ferro. ©RIPRODUZIONE RISERVATA http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2010-12-06/verso-senza-mediazioni-senza-214439.shtml Titolo: Stefano FOLLI. - La divergenza ormai palese Berlusconi-Bossi sul voto anticipato Inserito da: Admin - Gennaio 01, 2011, 11:38:05 am La divergenza ormai palese Berlusconi-Bossi sul voto anticipato di Stefano Folli Questo articolo è stato pubblicato il 31 dicembre 2010 alle ore 08:17. L'ultima modifica è del 31 dicembre 2010 alle ore 07:34. Fino a oggi il patto politico e di convenienza fra Berlusconi e Bossi ha resistito a tutto e ha permesso al premier di rintuzzare l'attacco culminato nelle mozioni di sfiducia del 14 dicembre. In sostanza, ha salvato il governo. Ora però emerge una divergenza cruciale che segnerà l'avvio del nuovo anno e il destino della legislatura.... Da un lato, Berlusconi vorrebbe proseguire a oltranza, se possibile fino al 2013, convinto di raggranellare strada facendo i voti parlamentari indispensabili per tamponare la fragilità della maggioranza. In altri tempi si sarebbe detta la ricetta sicura del «tirare a campare», secondo la formula andreottiana: un esecutivo troppo debole per nutrire ambizioni, appunto un «governicchio», eppure determinato a resistere. ... Dall'altro lato, Bossi è in uno stato di crescente disagio e teme che la «palude romana» finisca per ingoiare la sua riforma federalista. Oppure, se vogliamo suggerire un'interpretazione meno benevola, ma forse più veritiera, teme che passi il momento magico e che gli italiani comincino a comprendere che la riforma avrà bisogno di tempi molto lunghi – sanando grandi contraddizioni, economiche e amministrative – prima di produrre risultati tangibili. ... In altri termini, la Lega vorrebbe votare in fretta, sventolando la sua bandiera federalista; Berlusconi, no. La Lega ha paura del tirare a campare, cioè di un «effetto palude» sui propri livelli di consenso elettorale, oggi molto alti; Berlusconi vede troppi rischi e non poche incognite nel ritorno ravvicinato alle urne. Non è ancora una frattura, ma certo è un'incrinatura strategica di non poco conto. ... Deriva anche dal fatto che il Carroccio e i suoi uomini, non solo Bossi ma Maroni, Calderoli e l'intero gruppo dirigente, pensano al loro futuro e intendono essere protagonisti del prossimo Parlamento. Il presidente del Consiglio sa invece che il suo potere personale ha raggiunto lo «zenit» in questa legislatura: nella prossima il suo ruolo sarà inevitabilmente diverso, per ragioni politiche e anagrafiche. Logico che preferisca attendere, visto che a Palazzo Chigi nessuno lo insidia e le opposizioni sono troppo frastornate per proporre un'alternativa credibile. ... Nella Prima Repubblica ci si sarebbe limitati al piccolo cabotaggio quotidiano, all'insegna del rinvio. Ora non è più possibile, a meno di non voler certificare il fallimento, peraltro palese, del bipolarismo fin qui sperimentato. Il vecchio sentiero non è praticabile perché esiste un partito territoriale come la Lega che obbedisce a una logica talvolta ambigua, ma sempre collegata a un obiettivo preciso. E fino a oggi Bossi è stato abile nell'arte di non farsi logorare. ... Berlusconi sa bene che la fiducia ottenuta a metà dicembre gli impone di governare. Ma questa volta c'è bisogno di un programma serio, si potrebbe dire di un progetto a medio termine che non sia solo annunciato. Un programma per cui al momento manca la cornice politica, perché è evidente che l'Udc di Casini non ha intenzione di farsi coinvolgere più di tanto (al di là di uno svogliato appoggio parlamentare a qualche provvedimento di legge) nell'epilogo della lunga stagione berlusconiana. Però il leader centrista non vuole nemmeno offrire all'asse Pdl-Lega il pretesto per chiedere lo scioglimento delle Camere. Questo è un nodo che Berlusconi e Bossi dovranno sciogliere fra di loro, trovando un'intesa o consumando il loro dissidio. E poi dovranno parlarne con il Quirinale. Berlusconi: al paese non servono elezioni anticipate. Ora riforme condivise ©RIPRODUZIONE RISERVATA http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2010-12-30/divergenza-ormai-palese-berlusconibossi-194322.shtml?uuid=AY8qYqvC Titolo: S. FOLLI. Il bivio del premier: equilibrio istituzionale o una rischiosa deriva Inserito da: Admin - Gennaio 29, 2011, 11:37:18 am Il bivio del premier: equilibrio istituzionale o una rischiosa deriva
di Stefano Folli Questo articolo è stato pubblicato il 29 gennaio 2011 alle ore 08:02. L'ultima modifica è del 29 gennaio 2011 alle ore 09:11. Portare in piazza la nevrosi istituzionale rischia di essere l'ultimo errore. Finirebbe per certificare una condizione non più solo di malessere, bensì di autentico sfascio generale. Eppure è quello che potrebbe accadere il prossimo 13 febbraio se davvero il Pdl, il partito del presidente del Consiglio, scendesse nelle strade di Milano con il proposito di manifestare contro la procura e contro le inchieste in corso. Soprattutto perchè la volontà di denunciare la «giustizia politica» e chi l'amministra è rivendicata ogni giorno dallo stesso premier in un crescendo inquietante. Berlusconi ha il diritto di sentirsi perseguitato; forse ha persino ragione nel lamentare l'accanimento nei suoi confronti e l'uso mediatico delle intercettazioni. Ma ha torto nel voler alimentare, da presidente del Consiglio in carica, uno scontro aspro e senza fine con l'ordine giudiziario. Come pure ha torto nel voler aizzare la contrapposizione permanente fra la legittimità popolare (il voto) e la sostanziale illegittimità di una magistratura «eversiva». L'idea che i seguaci del capo del governo vadano in piazza, con il suo pieno sostegno, a gridare la loro rabbia e la loro frustrazione contro i pubblici ministeri pone la polemica ai confini dello Stato di diritto. E infatti ieri Umberto Bossi è intervenuto di nuovo per frenare la deriva in corso. Non è la prima volta, come è noto. Nei giorni scorsi il capo della Lega aveva consigliato a Berlusconi di prendersi «un po' di riposo» e ora dice che «bisogna finirla con questa confusione». Non sembra che si tratti di un semplice auspicio. Bossi è il vero partner politico del presidente del Consiglio, da lui dipendono le sorti del governo. Quando consiglia di «abbassare i toni» conviene seguire il suggerimento, tanto più che l'uomo è stato ed è leale a Berlusconi e non ha alcuna intenzione di buttare a mare la coesione del centrodestra. A questo punto è augurabile che prevalga il buonsenso. Sappiamo che il premier ha da tempo deciso di non chiarire la vicenda di Arcore recandosi a parlare con i magistrati. Dobbiamo attenderci perciò il conflitto di attribuzione presso la Corte Costituzionale e il ricorso al tribunale dei ministri. Tutto questo mentre la procura di Milano insiste per stringere i tempi del processo. E' un incrocio pericoloso che va gestito con moderazione sul piano dei comportamenti politici. Bossi l'ha capito, Berlusconi è assai più incerto. Lo spirito del combattente gli fa dire che «le tempeste non mi spaventano»; ma al di là delle parole resta il dubbio su quali saranno le scelte dei prossimi giorni. Il premier è davanti a un bivio decisivo: dovrà decidere se assumere con convinzione un profilo istituzionale ovvero trasformarsi in un capo-popolo, con tutti i pericoli connessi. Il suo richiamo al Parlamento e alla maggioranza che più volte ha confermato la fiducia all'esecutivo è sacrosanto: ma naturalmente ne discendono dei doveri, non solo dei diritti. Va colto nella giornata di ieri anche il riferimento di Casini, a Todi, all'esigenza di dare a questa crisi uno sbocco politico e non giudiziario. Le lacerazioni derivanti da una rimozione di Berlusconi per via giudiziaria, anzichè attraverso un processo politico ed elettorale, sarebbero insondabili. Di sicuro molto gravi per l'equilibrio del paese. E' un punto su cui il ventaglio delle forze politiche d'opposizione non ha ancora espresso un'idea chiara. © RIPRODUZIONE RISERVATA http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2011-01-29/bivio-premier-equilibrio-istituzionale-081359.shtml?uuid=Aa7C8u3C Titolo: Stefano FOLLI. - Nessun margine per una riforma condivisa della giustizia Inserito da: Admin - Febbraio 22, 2011, 04:08:13 pm Nessun margine per una riforma condivisa della giustizia
di Stefano Folli Questo articolo è stato pubblicato il 22 febbraio 2011 alle ore 08:51. L'ultima modifica è del 22 febbraio 2011 alle ore 08:04. «La riforma della giustizia si farà» garantisce il ministro Alfano. E si farà - insiste - anche la riforma della Corte, adombrata nei giorni scorsi dal presidente del Consiglio, ma in termini punitivi verso i giudici della Consulta. S'intende che ci vuol altro per dissipare il generale scetticismo. Lo scenario in cui cadono queste e altre affermazioni non promette certo un clima propizio ad affrontare un tema così cruciale. Sono anni, peraltro, che la riforma viene proposta a parole, senza che mai seguano i fatti. Per essere concreti la si doveva avviare all'inizio della legislatura. Oggi, con i processi di Berlusconi alle porte e un aspro, permanente scontro politico-istituzionale, perché mai si dovrebbe essere ottimisti? In realtà Berlusconi e i suoi ministri non suggeriscono un percorso costituzionale realistico per realizzare davvero la riforma della giustizia. Quello che propongono è un progetto politico con tre obiettivi. Primo, garantire la compattezza di una maggioranza di centrodestra che in queste settimane ha dimostrato di esistere e che oggi ruota intorno ai 320 voti alla Camera. Non è proprio la soglia di sicurezza desiderata dal premier, ma quasi. Secondo, utilizzare il tema della giustizia come strumento privilegiato per mantenere alta la tensione nel paese. Si capisce infatti che l'attacco alla Consulta può avere un'utilità solo politica, mentre sarebbe controproducente se il traguardo fosse una riforma condivisa dell'istituto. In questo secondo caso, l'unica strada è quella che s'intravede nelle parole di Giorgio Napolitano: considerare la Costituzione e i suoi princìpi un essenziale «punto di riferimento». Solo così sarebbe possibile costruire nel tempo quell'ampia intesa necessaria per modificare qualche capitolo della Carta senza strappi pericolosi. Terzo obiettivo: esportare un po' di contraddizioni nel centrosinistra. L'appello ai «garantisti» del Pd perché escano dal loro riserbo e accettino un compromesso almeno sul ripristino dell'immunità parlamentare, ha un sapore strumentale. È vero che nell'opposizione la linea favorevole all'immunità ha molti sostenitori (da Violante all'Udc ad alcuni esponenti di «Futuro e Libertà»). Esiste anche un ddl costituzionale «bipartisan» che porta le firme di Franca Chiaromonte e Luigi Compagna. Ma in termini politici non esiste - per le ragioni qui riassunte - un clima idoneo a realizzare una convergenza destra-sinistra. Non adesso e non con Berlusconi gravato dalle imputazioni che conosciamo. Semmai dalla polemica in corso s'intuisce che esiste, sulla carta, uno spazio per interventi comuni sulla giustizia. Ma non all'interno di questa cornice politica. I cosiddetti «garantisti» dell'opposizione dovranno mordere il freno. E del resto è chiaro che Berlusconi preferisce appiattire il centro e il centrosinistra sulla linea intransigente di un Di Pietro. È una manovra ripetuta più volte negli anni, spesso con successo. Nel frattempo la crisi libica rischia di modificare l'agenda delle priorità. Dovrebbe essere il terreno della coesione nazionale, come ha suggerito Casini. Lo stesso Romano Prodi è apparso cauto e ha giustamente messo in rilievo che il problema è la disunione dell'Europa. Viceversa la polemica su Berlusconi amico di Gheddafi è fuorviante, visto che il trattato italo-libico è stato approvato in Parlamento quasi da tutti, poco più di un anno fa. Uniche eccezioni l'Udc e l'Idv. ©RIPRODUZIONE RISERVATA da - ilsole24ore.com/art/notizie Titolo: Stefano FOLLI. - Perché in questa fase la tensione istituzionale è inevitabile Inserito da: Admin - Marzo 01, 2011, 11:03:17 am Perché in questa fase la tensione istituzionale è inevitabile
di Stefano Folli Questo articolo è stato pubblicato il 01 marzo 2011 alle ore 09:42. L'ultima modifica è del 01 marzo 2011 alle ore 09:42. Una volta di più le teorie sul Berlusconi «moderato», sul presidente del Consiglio prudente e desideroso di non turbare gli equilibri istituzionali sono smentite dalla cronaca quotidiana. Una volta di più registriamo le critiche, o meglio gli attacchi berlusconiani al presidente della Repubblica (non solo allo «staff» del Quirinale, come si vorrebbe credere), alla Consulta e naturalmente alla magistratura. Si dirà che non c'è niente di nuovo in queste uscite e che non vanno prese troppo sul serio poiché fanno parte del personaggio Berlusconi. Ma la realtà è diversa. Perché, dopo un periodo di calma apparente, il premier sente il bisogno di alzare di nuovo la tensione con il capo dello Stato, definito troppo «puntiglioso» nel controllo delle leggi? Perché non passa quasi giorno senza che la Corte Costituzionale sia colpita con uno sberleffo o una sciabolata? La ragione riguarda lo stato di salute del governo. Finora Berlusconi ha avuto successo nel chiudere la sua maggioranza in un campo trincerato. Ha ottenuto l'assenso di Bossi a proseguire la legislatura e i numeri della coalizione alla Camera gli hanno dato ragione. Tuttavia adesso comincia il difficile. Le riforme più volte annunciate devono prendere forma, così da dare un senso al biennio che finirà nel 2013. Altrimenti si aprirebbe lo scenario peggiore: un premier barricato a Palazzo Chigi, impegnato a difendersi dai magistrati e di fatto non in grado di governare. Una simile ipotesi sarebbe incompatibile con la volontà di trascinare la maggioranza fino al termine naturale della legislatura. Per quale motivo, ad esempio, la Lega accetterebbe di puntellare il governo per ben due anni? Non potrebbe farlo solo in nome dell'ordinaria amministrazione. Fin qui Bossi e i suoi si sono concentrati sui decreti del federalismo fiscale che dovranno essere votati entro i primi di maggio. Oltre quella data il leader leghista ha chiesto al suo vecchio alleato due cose: numeri certi in Parlamento e un programma di riforme. Il primo punto sembra acquisito, sia pure con qualche residua incertezza. Il secondo è quanto mai nebuloso. La riforma costituzionale della giustizia, sulla carta da sempre al vertice delle priorità berlusconiane e peraltro mai realizzata, sconta un generale scetticismo. Cui va aggiunta la diffidenza della stessa Lega. Difficile credere che il premier abbia oggi la serenità e la credibilità necessarie per discutere davvero di una riforma così complessa. Questo spiega il ricorrente riemergere del malanimo contro le altre istituzioni: un Quirinale sentito come avversario, un Parlamento dove solo «50 o 60 lavorano», per non dire della Consulta. Sembra quasi che Berlusconi, dopo aver epurato la sua maggioranza da ogni elemento ostile, oggi cerchi altrove le ragioni della paralisi, ossia del «non governo». E naturalmente le trovi nella complessità dei meccanismi costituzionali. È una riscoperta della venatura «antipolitica» tipica del Berlusconi dell'esordio: il famoso '94 a cui tanti fanno riferimento. Ma diciassette anni dopo lo spirito è ben diverso. Gli attacchi ai vari livelli istituzionali rischiano di essere una prova di debolezza, oppure un alibi. O un pericolo. Un punto è certo. Avendo deciso di prolungare la legislatura, Berlusconi ha bisogno di qualche risultato concreto per tenere unita la maggioranza. In assenza di risultati non c'è che un tendenziale scontro istituzionale. da - ilsole24ore.com/art/notizie Titolo: Stefano FOLLI. - Irrompe la questione nucleare e può cambiare il destino del Pd Inserito da: Admin - Marzo 15, 2011, 04:53:55 pm Irrompe la questione nucleare e può cambiare il destino del Pd
di Stefano Folli Questo articolo è stato pubblicato il 15 marzo 2011 alle ore 09:00. L'ultima modifica è del 15 marzo 2011 alle ore 08:11. La questione nucleare intreccia di nuovo il suo destino con quello del centrosinistra. In forme che nessuno poteva prevedere fino a una settimana fa e che oggi rischiano di caricarsi di conseguenze politiche per nulla secondarie. Vediamo i fatti. Dei tre referendum che saranno votati alla metà di giugno, il più significativo sembrava essere quello sul «legittimo impedimento»: un'occasione di mobilitazione per tutti gli anti-Berlusconi e un'opportunità per Di Pietro di ritrovare una parte da primo attore nella commedia italiana. Ma la tragedia del Giappone rimette al centro il tema dell'energia nucleare. E così il secondo referendum voluto dall'Italia dei Valori, formulato per respingere la costruzione di nuovi impianti sul territorio nazionale, diventa cruciale (il terzo quesito, sull'acqua pubblica, resta sullo sfondo). Oggi sono in pochi a dirsi sicuri che i referendum non raggiungeranno comunque il «quorum». Una settimana fa la grande maggioranza dava per certo il fallimento dei quesiti. Il Giappone ha cambiato completamente la prospettiva. Ora che la Germania ha deciso la moratoria dei vecchi impianti e la Svizzera ha sospeso le procedure per le nuove installazioni, l'Italia è percorsa da una vigorosa ondata emotiva. Del resto, c'erano voluti anni e anni per riassorbire il trauma di Chernobyl, da noi molto più che altrove nell'Europa occidentale. È chiaro che l'allarme a Tokio, se non dovesse rientrare in pochi giorni (e non sembra proprio), determinerà un senso d'angoscia che andrà a scaricarsi sul quesito referendario. Per il momento la questione mette in difficoltà il governo Berlusconi e tutti i «nuclearisti» italiani. Ieri il ministro dell'Ambiente, Stefania Prestigiacomo, si è spinta a sostenere che «non cambierà nulla nel programma di rientro dell'Italia nel nucleare europeo». Ma è sembrata un'affermazione un po' troppo ottimista. Qualcosa cambierà: se non altro, nella migliore delle ipotesi, per quanto riguarda gli «standard» di sicurezza, i controlli tecnologici, la scelta dei siti. Tuttavia gli esiti di questa svolta anti-nucleare nell'opinione pubblica peseranno soprattutto sul profilo del centrosinistra. Se mai i tre referendum dovessero toccare il «quorum» sulla spinta psicologica del Giappone, quel giorno potrebbe costituire un nuovo inizio per il Partito democratico. Si capisce perché. Il quorum sul nucleare, e di conseguenza la vittoria dei referendari, porterebbe con sé, per effetto di trascinamento, il quorum e la vittoria sul «legittimo impedimento» (oltre che sull'acqua). Sarebbe una sorta di trionfo degli intransigenti, ben rappresentati dal duo Vendola e Di Pietro. L'estrema cautela che caratterizza Bersani e il gruppo dirigente del Pd dovrebbe fare i conti con la realtà. Non a caso un giovane come il lombardo Civati, membro della direzione e fino a qualche tempo fa stretto alleato di Matteo Renzi, ha già detto che il partito deve far sua a viso aperto la battaglia referendaria. Per non rischiare di regalare la svolta ai capi di due formazioni esterne al Pd, l'Italia dei Valori e Sinistra e Libertà. Di sicuro un nuovo «no» degli italiani al nucleare, raddoppiato dall'abolizione del «legittimo impedimento», cambierebbe il volto del centrosinistra. Renderebbe impossibile allentare il legame anche elettorale con Di Pietro e Vendola. Fin da adesso, peraltro, ci sono deboli margini per qualsiasi dialogo sulla riforma della giustizia tra il Pd e la maggioranza di governo. ©RIPRODUZIONE RISERVATA da - ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee Titolo: Stefano FOLLI La coerenza in politica estera oggi può garantirla il Quirinale Inserito da: Admin - Aprile 29, 2011, 06:42:18 pm La coerenza della politica estera oggi può garantirla il Quirinale
di Stefano Folli 28 aprile 2011 Se si esclude una battuta del ministro Calderoli («si va di male in peggio»), ieri la Lega non ha buttato altra benzina sul fuoco in cui arde la politica estera dell'Italia. Non è poco, pensando che proprio ieri i Tornado hanno volato per la prima volta con il loro carico di bombe nel cielo sopra Misurata. Quando un partito vuole dissociarsi e provocare la caduta del governo di cui fa parte, di solito insiste, alza il tono, non dà tregua. Viceversa, Bossi e i suoi, pur nella loro irritazione, hanno evitato di compiere altri passi verso la crisi e sembrano in attesa; mentre l'offensiva di carta è affidata alla "Padania", il foglio che riflette gli umori della base. Un altro dato: non è in vista, almeno fino a stamane, alcun autonomo documento leghista per la seduta di martedì alla Camera. Ci sono le mozioni delle diverse opposizioni, ma non c'è il testo che segnerebbe la vera, irrimediabile frattura fra il Carroccio e il governo Berlusconi. Questo non significa che il peggio sia passato. Al contrario, l'impressione è che il paese stia attraversando un momento di estrema confusione. Non dipende solo dall'avvicinarsi del voto amministrativo a Milano e altrove. Dipende dal progressivo sfilacciamento della relazione politica fra la Lega e il Pdl. È un logoramento i cui protagonisti si muovono con ovvia cautela, perché non si sa cosa ci sia dietro l'angolo e non conviene a nessuno passare per destabilizzatore. Ma in tanti sono scontenti: a cominciare da Maroni fino al gruppo (Calderoli) più vicino a Tremonti. Il quale a sua volta appare sotto tiro. In fondo, se Berlusconi ha ancora un amico, questi è Umberto Bossi. Ma anche il vecchio leader è deluso e dubbioso: sulla Libia e su molto altro. Non può ammettere - come ha detto con tono accorato a Napolitano - che la Lega sia ferita nella sua dignità. Ciò significa che l'incidente libico, peraltro gravissimo, potrà essere tamponato in tempo per il dibattito a Montecitorio. Ma l'impianto di fondo della coalizione Pdl-Lega come l'abbiamo conosciuta in questi anni si sta sgretolando. Berlusconi ha costruito la sua lunga stagione politica su di una salda ed efficiente leadership personale. Riconosciuta come tale anche dagli avversari. Ma ormai è evidente - e non da oggi - che il problema del governo risiede anche nella guida. È la debolezza del leader, il più delle volte, la fonte delle contraddizioni e degli incidenti di percorso. Lo si è visto nella gestione a zig-zag della questione libica. E se ne è avuta conferma nell'incontro bilaterale con Sarkozy. Ora il presidente del Consiglio ha una sola strada davanti a sé, come si è capito ieri sera con il colloquio al Quirinale: affidarsi senza riserve a Napolitano, nei termini ben riassunti dal ministro degli Esteri, Frattini. La cornice è quella offerta dalla risoluzione Onu, all'interno della quale il capo dello Stato ha agito fin dal primo istante. Napolitano è l'unico soggetto in grado di limare gli spigoli, anche rispetto a Bossi, con l'obiettivo di portare l'insieme delle forze politiche (escluse l'Italia dei Valori e la sinistra pacifista) a superare senza danni lo scoglio parlamentare. Se la Lega acconsente, l'impresa è tuttora possibile. Il risultato sarà che la coerenza della politica estera italiana è garantita dal Quirinale più che dal governo. Un'anomalia, certo, ma anche l'unica via per limitare i danni e sfuggire al discredito internazionale. Lo ha capito Berlusconi e nel complesso lo ha compreso il Pd che non a caso ha presentato una mozione di grande equilibrio. da - ilsole24ore.com/art/notizie/2011-04-28/ Titolo: Stefano FOLLI. - Evitata una crisi incomprensibile Inserito da: Admin - Maggio 02, 2011, 05:25:00 pm Evitata una crisi incomprensibile
di Stefano Folli Se non è proprio un lieto fine, almeno è una fine prevedibile. Il lungo valzer sull'orlo del vulcano si conclude senza passi falsi fatali. In questo Umberto Bossi, bisogna riconoscerlo, è maestro. Non ha mai avuto intenzione di far cadere il Governo, in cui convivono ancora troppi interessi leghisti. Tuttavia lo ha fatto credere. Ha illuso l'opposizione che le avrebbe tolto le castagne dal fuoco, rovesciando Berlusconi. E si è mosso con abilità in modo da soddisfare le inquietudini della sua base elettorale, giusto due settimane prima del voto amministrativo. Dietro le quinte, numerosi contatti e colloqui. Anche con il Quirinale che ha sempre tenuto stretto il bandolo della matassa. Alla fine questo lavorìo ha prodotto una mozione che nessuno potrà leggere come un annuncio di crisi. Al contrario, non c'è niente che con un po' di buona volontà, magari correggendo qualche capoverso, non possa essere sostenuto da una base parlamentare ampia. Se poi si riuscisse, martedì alla Camera, a evitare di votare sui vari documenti, in molti sarebbero contenti. Ma anche se così non fosse, anche se mancheranno le convergenze che in questo clima sono poco plausibili, lo scoglio sarà superato e il governo andrà avanti. Tanto più che le minacce rivolte ieri da Gheddafi all'Italia, per quanto poco verosimili, dovrebbero indurre a una maggiore compattezza sia il governo sia le forze parlamentari. E soprattutto dovrebbero consigliare di rafforzare, non di indebolire, l'impegno italiano nella crisi mediterranea. Le opposizioni diranno (lo stanno già dicendo) che Bossi ha fatto la voce grossa, ma poi ha dovuto piegarsi a Berlusconi. Non è esatto. Il vecchio leader è riuscito ad occupare per giorni le prime pagine dei giornali, ha rimesso al centro la Lega, ha evitato che il partito si divaricasse nel gioco delle fazioni interne. In più ha tenuto sulla griglia Berlusconi, ricordandogli che il governo si regge su un patto Pdl-Lega e che all'interno di tale patto il Carroccio rivendica pari dignità. E ancora: sarà difficile che dalla prossima settimana riprenda la guerriglia politico-mediatica contro Tremonti, dopo la difesa intransigente del ministro dell'Economia fatta da Bossi. Per il resto, si vedrà. Si dice che il Carroccio abbia avuto compensazioni su vari piani. E promesse per il futuro, relative agli assetti della giunta Moratti bis, se le elezioni vedranno la riconferma del sindaco. Quello che è abbastanza sicuro è che diminuiranno le eccessive attenzioni di Berlusconi verso il gruppo dei Responsabili, in procinto di ottenere un grappolo di poltrone governative. Alla Lega non è mai piaciuto che il baricentro del governo si spostasse verso questa pattuglia di trasformisti, o supposti tali: anche per il sapore di vecchia politica che i Responsabili portano con sé. Sarà un problema in più per Berlusconi, che ha promesso molto a troppi. Ora dovrà ricominciare da capo e «trovare la quadra», come dice Bossi. Non tanto sulla Libia, visto che ormai il dissidio volge all'epilogo, quanto sul mosaico disordinato di una maggioranza debole ma famelica. Riguardo alla crisi nel Mediterraneo, in Parlamento si parlerà d'iniziativa diplomatica dell'Italia, di escludere in modo tassativo l'intervento di terra, di un limite temporale alle azioni aeree (questo è poco verosimile, ma volendo si può trovare una formula). Quel che è certo è che con un po' d'ipocrisia si è evitata la disgregazione del governo sulla politica estera. da - ilsole24ore.com/art/notizie/2011-05-01/ Titolo: Stefano Folli. Se pure Pontida non è il giorno del giudizio il dopo resta oscuro Inserito da: Admin - Giugno 18, 2011, 11:05:21 pm Se pure Pontida non è il giorno del giudizio, il dopo resta oscuro
di Stefano Folli La verità di Pontida si annuncia cangiante, difficile da afferrare. Per certi aspetti ha ragione Berlusconi e i vertici del Pdl quando si dicono certi che la giornata di domani non segnerà la fine dell'alleanza. Bossi accenderà gli animi delle migliaia di militanti attesi sul pratone (nonostante le previsioni di pioggia), ma al dunque - si suppone - non pronuncerà parole definitive. Lo stesso attivismo leghista delle ultime ore, dai toni duri sulla Libia all'intransigenza contro gli immigrati clandestini, dimostra l'intenzione non di rompere, ma di avere argomenti per arginare il malcontento della base. È possibile che vada così. Con la conseguenza di rendere indolore il passaggio della «verifica» in Parlamento e di aprire la strada verso la pausa estiva, in un quadro di minori tensioni nella maggioranza. Ma questa è solo una parte della verità, figlia peraltro del rapporto tuttora solido fra Bossi e Berlusconi. L'altra parte riguarda le contraddizioni di fondo che logorano il governo in forme sempre più evidenti. Sono contraddizioni, diciamo così, di natura strategica: toccano in primo luogo un partito, il Carroccio, che ormai è a disagio in una cornice di alleanze che ha dato troppo poco rispetto alle attese alimentate negli anni. Lo stesso federalismo è ancora un oggetto misterioso e non si sa quando riuscirà a migliorare la qualità della vita nelle regioni settentrionali (le uniche che interessano alla Lega). E poi c'è il senso di angoscia indotto dai 40 miliardi di euro che l'Unione esige siano risparmiati entro il 2014. Tutti, sia pure confusamente, si rendono conto che il momento è drammatico. E che si sta aprendo un fossato fra la debolezza del premier e le esigenze del paese. Nella Lega in tanti sono convinti che l'attuale governo è, se non proprio morto, certo malato al punto da esser prigioniero della sua sostanziale paralisi. La stessa inchiesta che ha investito Palazzo Chigi come un'onda anomala viene vista come il segno che un'epoca si sta concludendo. E si conclude all'italiana, con i magistrati alla porta. Allora può essere che la domenica di Pontida non coincida con il giorno del giudizio. Ma la prospettiva a breve resta oscura. La manovra economica a cui il ministro Tremonti si accinge richiederebbe un quadro politico molto forte e determinato. Anche una leadership adeguata. Ma non c'è nulla di questo. E ci si balocca invece con un'idea di riforma fiscale per la quale evidentemente non ci sono le risorse e che accenderebbe i sospetti dell'Europa. Una riforma che sarebbe figlia solo del disperato bisogno di recuperare consensi da parte di Pdl e Lega. Non si vede perché il ministro dell'Economia dovrebbe percorrere un simile sentiero, considerando che la sua credibilità dipende dal rapporto con l'Europa piuttosto che dai compromessi romani. Conclusione. Se anche Berlusconi domani sopravvive agli strali di Pontida, ed è probabile che accada, la crisi resta virtualmente aperta. E l'autunno si annuncia gravido di rischi. I problemi richiederebbero una coesione staordinaria per essere affrontati. Ma nessuno la vede. Ecco perché il presidente della Repubblica ha ricordato ai partiti che si può e anzi si deve essere politicamente distinti. Ma che questo non dovrebbe impedire di «lavorare insieme» per il bene comune. Come dire: non c'è bisogno di un super-governo di larghe intese per affrontare con spirito concorde i nodi di fondo. Tutti li vedono, quei nodi. Ma dov'è il senso di responsabilità nazionale? da - ilsole24ore.com/art/notizie/2011-06-18/pure-pontida-giorno-giudizio-081502.shtml?uuid=AaHOurgD Titolo: Stefano FOLLI Berlusconi usa la verifica per garantirsi un'estate più tranquilla Inserito da: Admin - Giugno 27, 2011, 05:34:40 pm Berlusconi usa la verifica per garantirsi un'estate più tranquilla
il Punto di Stefano Folli 22 giugno 2011 Sarà anche una maggioranza «di carta», come dice Antonio Di Pietro, però si tratta di una carta assai resistente. Ieri alla Camera il centrodestra ha raccolto 317 voti sul decreto sviluppo. In merito all'approvazione della «fiducia» non c'erano dubbi, tuttavia il punteggio raggiunto è alto. Ad esso corrisponde il risultato deludente delle opposizioni, rimaste nel loro complesso al di sotto della somma potenziale: nove voti di meno, frutto delle assenze. È singolare questa disparità. La maggioranza Berlusconi-Bossi, nonostante le difficoltà che conosciamo, dimostra una notevole compattezza, di cui si è compiaciuto il neosegretario del Pdl Alfano. Al contrario le opposizioni non sembrano rendersi conto di un punto cruciale: è soprattutto nelle battaglie parlamentari, prima che nelle piazze, che occorre essere credibili. Anche quando, in base ai numeri, la sconfitta è certa. Sta di fatto che Berlusconi non ha perso l'occasione di agitare questo argomento nell'informativa del pomeriggio al Senato: opposizioni divise, incapaci di darsi una coerenza e una linea politica. Lo aveva già detto Bossi a Pontida e il presidente del Consiglio si è affrettato a ribadire il punto di vista. Dimostrare che non ci sono alternative all'attuale maggioranza, salvo il caos e la speculazione internazionale, aiuta a cementare il sostegno al governo. Al di là della freddezza della Lega e del suo desiderio malcelato di mettere fine prima o poi all'era berlusconiana. Sotto questo aspetto Berlusconi ha vissuto una giornata positiva. Se l'obiettivo è andare avanti oltre l'estate, resistendo ai colpi dell'avversa fortuna, non c'è dubbio che il premier possa dirsi soddisfatto. Le richieste della Lega, dai ministeri al Nord alla fine dell'intervento in Libia, si sono rivelate ben poco distruttive. Certo, «nulla è scontato», come dice Bossi. Ma l'ultimo che vuole creare veri problemi a Berlusconi è proprio il suo vecchio alleato. Poi è inevitabile che intervenga qualche giochetto procedurale figlio di «furbizie», come stigmatizza il presidente della Camera a proposito degli ordini del giorno contro il trasferimento dei ministeri: presentati dall'opposizione, ma accolti dal governo al fine di annacquarli. Vedremo oggi a Montecitorio. Ieri l'impressione era di un governo poco vitale, forse addirittura imbalsamato, eppure in grado di reggersi sulle sue gambe. I voti continuano a esserci, l'impalcatura della maggioranza regge. Il discorso di Berlusconi è apparso piuttosto di maniera, la copia di quello pronunciato a metà dicembre. E tuttavia era del tutto funzionale all'obiettivo di durare, scavalcando l'estate grazie alla generale assenza di alternative. Quanto alle riforme, al piano per il Sud, alle tre aliquote fiscali, alla revisione istituzionale, sono temi affastellati - e non certo per la prima volta - alquanto alla rinfusa. I famosi cinque punti del programma sono sulla griglia da tempo immemorabile. Stavolta la novità è che non si parla di giustizia, s'introduce il nodo della riforma tributaria, facendo attenzione a non urtare Tremonti (peraltro assente), e si accetta l'agenda del rigore europeista. La reale praticabilità delle riforme ancora una volta annunciate non interessa più di tanto Berlusconi. L'importante è aver saldato il cerchio della maggioranza, controllato gli umori del Carroccio e verificato la tenuta dei Responsabili. Poi, ogni giorno ha la sua pena. Ma il traguardo del 2013 è lontano, ancora troppo lontano. da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2011-06-21/berlusconi-verifica-garantirsi-estate-220307.shtml?uuid=AaW4bzhD Titolo: Stefano FOLLI Con l'effetto-Renzi, a sinistra primarie aperte più vicine Inserito da: Admin - Ottobre 31, 2011, 09:24:56 am Con l'effetto-Renzi, a sinistra primarie aperte più vicine
di Stefano Folli 30 ottobre 2011 Dopo il week-end fiorentino della Leopolda, il Partito democratico si risveglia un po' diverso. Le acque del centrosinistra sono ormai increspate e non solo per merito di Matteo Renzi. C'è una dinamica fra i volti nuovi del Pd che improvvisamente conquistano la scena e impongono i loro temi. Dal punto di vista mediatico è stata una buona idea la visita dell'altro giovane emergente, Civati, al convegno del sindaco fiorentino. E poi ci sono anche i giovani del Mezzogiorno riuniti con Bersani a Napoli. In generale si sta verificando un fenomeno ben noto in politica: quando si affermano protagonisti inediti, più freschi, percepiti con simpatia dall'opinione pubblica come interpreti della "modernità", il vecchio gruppo dirigente appare da un giorno all'altro ossificato. Ed è qui l'essenza del successo di Renzi. Perché di successo si deve parlare, se si ammette che da oggi l'identità del partito dovrà tener conto delle novità. Intendiamoci: per Renzi e i suoi amici il difficile comincia adesso. È facile raccogliere sorrisi e pacche sulle spalle quando si resta nel generico. Un buon comunicatore (e il sindaco di Firenze è più che buono, è ottimo) sa navigare nel mondo dei "media" come un pesce nell'acqua. Man mano che la corsa si fa dura vanno però precisati i fatidici "contenuti", le idee, le priorità. Occorre saper essere "moderni" restando però dentro una tradizione culturale che per Renzi coincide con l'incontro dei vari filoni riformisti che animarono le speranze poi deluse del primo Ulivo. Sotto questo aspetto il sindaco dovrà fare uno sforzo nel suo intervento conclusivo di oggi. Dovrà essere molto più concreto e propositivo di quanto non sia stato finora. Qualcosa sul modello e nello stile indicato da quel personaggio davvero pragmatico che è l'ex sindaco di Torino, Chiamparino, intervenuto ieri. Abbiamo capito che la partita si giocherà all'interno del Pd, senza fratture che nessuno si augura. Anche perché a questo punto della legislatura, con le elezioni in vista, eventuali punizioni inflitte ai «giovani che scalciano» (parole di Bersani non proprio ben scelte) sarebbero un suicidio. Al contrario, il risultato politico di questa tornata di convegni, e in particolare della Leopolda, riguarda il processo delle primarie. Vedremo come finirà, ma non c'è dubbio che il tema ha acquistato una forza ineludibile che prima non aveva. Primarie "aperte", alla francese. Non quelle ingessate, cosiddette «di coalizione», con il segretario Bersani come unico candidato del Pd. Date le circostanze, un ricorso alle primarie aperte sarebbe il vero «big bang» in grado di scuotere il centrosinistra e di presentarlo agli elettori sotto una luce realmente rinnovata. Bersani dovrebbe essere il primo a cavalcare la tigre, perché in fondo ha poco da temere dai «nuovisti» se la sfida è per la leadership. Il segretario è solido ed è in grado di reggere agli attacchi, mentre ha tutto da perdere se lascia ai giovani lo spazio mediatico e in più passa per uno che non li capisce e li snobba. Da oggi, in ogni caso, il Pd, inteso come gruppo dirigente, dovrà badare a scrollarsi di dosso l'etichetta di «conservatore» e «passatista» che gli è stata appiccicata addosso. Può riuscirci, ma ci vuole un supplemento di fantasia. Il che non farà male all'esangue centrosinistra che si prepara al voto. da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2011-10-30/effettorenzi-sinistra-primarie-aperte-081159.shtml?uuid=AauwQEHE Titolo: Stefano FOLLI. - Il Parlamento da coinvolgere Inserito da: Admin - Novembre 03, 2011, 05:03:31 pm Il Parlamento da coinvolgere
di Stefano Folli L'Italia non può presentarsi a mani vuote domani al vertice del G-20. Non potrebbe in ogni circostanza, ma in particolare non può farlo dopo le terribili giornate vissute dal Paese: gli "spread" arrivati oltre i 450 punti e la Borsa che si schianta senza paracadute nella peggiore seduta degli ultimi tre anni. «Le misure sono improrogabili» ha fatto sapere Giorgio Napolitano con una nota assolutamente perentoria, diffusa un attimo dopo che era stata resa nota la telefonata fra Silvio Berlusconi e Angela Merkel. Un colloquio, quest'ultimo, auspicato nelle ore precedenti dallo stesso Quirinale, in quanto necessario per ancorare il Governo al realismo, cioè alla linea del rigore e soprattutto della tempestività. Senza l'assenso o almeno la non ostilità del Governo di Berlino non c'è via d'uscita, tanto meno c'è un qualche recupero di credibilità. È la triste condizione di un esecutivo "commissariato", ma tant'è. Il Capo dello Stato, il Governo tedesco, i mercati finanziari: nelle ultime ore intorno al presidente del Consiglio la pressione è stata concentrica, determinando la convocazione urgente della riunione ristretta di ieri sera. Preparatoria, si deve immaginare, di un decisivo Consiglio dei ministri oggi. In ogni caso il presidente del Consiglio ha il dovere di assumersi le responsabilità del caso insieme ai suoi ministri, in particolare quello dell'Economia, e di essere convincente davanti agli italiani, davanti al Parlamento e domani di fronte ai partner. Dopo settimane di parole e di vaghe assicurazioni, è il tempo dei fatti. Sappiamo che la maggior parte dei provvedimenti fino a ieri sera o non era pronta o si era arenata. Ma l'impegno preso da Berlusconi con la Merkel, se ha un senso, è quello di superare di slancio gli ostacoli e di obbligare il governo ad approvare almeno un segmento significativo dell'agenda europea prima del G-20. Sarebbe anche consigliabile che il premier, prima della partenza alla volta del vertice, andasse a informare il Parlamento. È essenziale coinvolgere l'intero arco politico in una discussione su temi che investono ormai la salvezza nazionale. E qui veniamo al punto. Giorgio Napolitano non ha chiesto solo misure improrogabili e immediate. Ha chiesto anche «misure condivise» e ampie intese parlamentari. In sostanza ha consigliato al premier e alla maggioranza di cercare il consenso del l'opposizione su provvedimenti che riguardano il futuro del Paese e non si prestano ai conflitti di fazione. Un segnale di grande novità e di serietà sarebbe, ad esempio, un passo del presidente del Consiglio verso i leader dell'opposizione, da Bersani a Casini, prima o dopo il G-20. Un colloquio, uno scambio di idee, una mano tesa: sarebbe il modo migliore per dare all'opinione pubblica l'idea di una classe politica all'altezza della sfida comune. Nessuno rinuncerebbe alle proprie posizioni, ma si riconoscerebbe che l'Europa rappresenta il destino comune. In tal senso e in nome di questi principi il presidente della Repubblica si attende anche dal centrosinistra e dal "terzo polo" un po' di coraggio e di audacia. Il coraggio e l'audacia di condividere in tutto o in parte le misure dell'agenda europea. È già accaduto la scorsa estate. Perché non può accadere ancora? È comprensibile, anzi è ovvio che l'opposizione chieda a gran voce le dimissioni del Governo, tuttavia i provvedimenti per l'Europa, promessi nella famosa "lettera d'intenti", hanno una loro urgenza e corrono su di una sorta di corsia preferenziale. Salviamo l'Italia, sembra dire il capo dello Stato, e dopo sarà tutto più facile. Anche approdare a un equilibrio politico diverso dall'attuale, se così vorrà una maggioranza parlamentare. Dopo sarà possibile presentarsi ai partner con maggiore credibilità. Ma è evidente che questo potrà avvenire solo se oggi ognuno avrà fatto il proprio dovere verso l'Europa. A cominciare da un premier logorato e colpevole di molti errori, da cui è lecito attendersi un gesto di generosità, ossia il ritiro, dopo gli ultimi appuntamenti europei. Ma senza ignorare le responsabilità di un'opposizione spesso latitante e miope. Ecco perché la richiesta al Governo di venire in Parlamento può favorire la svolta. Viceversa, reclamare un esecutivo di emergenza senza voler contribuire prima ad approvare le misure in agenda rischia di essere solo un'astuzia tattica. © RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2011-11-02/parlamento-coinvolgere-063531.shtml?uuid=Aa8JPyHE Titolo: Stefano FOLLI. Sfiducia e incertezza: il dramma italiano e il peso del Quirinale Inserito da: Admin - Novembre 07, 2011, 09:03:44 am Sfiducia e incertezza: il dramma italiano e il peso del Quirinale
di Stefano Folli Al termine di una giornata drammatica ci si domandava ieri sera cosa deve ancora accadere nei prossimi giorni e settimane. Il presidente della Repubblica non si limita più a suggerire coesione. Le sue parole sono ormai un grido d'allarme rispetto a una minaccia urgente. Una minaccia di fronte alla quale rischiamo di essere impotenti, cioè «inadeguati», prigionieri di «debolezze strutturali» di cui paghiamo il prezzo al mercato dei titoli di Stato. Volano gli spread e con loro i tassi d'interesse: un nodo scorsoio che annienta ogni speranza di contenere il debito e liberare qualche risorsa per dare respiro all'economia reale. Ancora Napolitano: «Si avverte acuto il bisogno di più cultura delle istituzioni, di più senso delle istituzioni, di più attenzione all'esercizio delle funzioni dello Stato e alla condizione in cui versano le sue strutture portanti». Il termine «istituzioni» ricorre in forme insistite nelle parole del capo dello Stato. Si capisce che qui è il cuore del problema: istituzioni indebolite, non sorrette dalla necessaria forza politica e morale, come si nota anche nelle incongruenze del processo legislativo. Istituzioni, in sostanza, troppo fragili e impacciate di fronte alla sfida che l'Europa ci propone in termini perentori, persino brutali. Che altro deve dire il presidente della Repubblica per far intendere che il nocciolo della crisi riguarda la credibilità del governo sulla scena internazionale? È qui il nodo che non si riesce a sciogliere, con danni che si scontano ogni giorno, mentre i mercati finanziari guardano all'Italia con crescente diffidenza e la stessa opposizione rimane incapace di offrire un'alternativa concreta e plausibile, al di là delle formule retoriche e dei dissensi che la lacerano. Sì, una giornata drammatica. Nel corso della mattina Napolitano era presente all'incontro promosso dall'Abi in cui Giovanni Bazoli aveva chiesto con tono accorato «scelte in grado di migliorare il clima di fiducia». Scelte tutt'altro che indolori perché implicano «sacrifici per tutti, perdite di posizioni» ed esigono «disponibilità al cambiamento». Come dire che è indispensabile la rottura immediata di infinite incrostazioni e la correzione di ingiustizie accumulate negli anni. Perché senza riforme «l'Italia rischierebbe di compromettere il suo futuro nella democrazia». Frasi gravi e con ogni evidenza assai ponderate, in sintonia con i giudizi che di lì a poco avrebbe dato il capo dello Stato. Frasi che poi non hanno trovato un riscontro o un commento negli esponenti del Governo, come ci si poteva attendere. Tace Berlusconi e anche il ministro dell'Economia Tremonti, che in serata ha partecipato alla Festa della Zucca di Pecorara (Piacenza), non ha rilasciato dichiarazioni. Si può pensare che l'esecutivo voglia replicare con i fatti, mettendo a punto le misure per lo sviluppo e traducendo in atti concreti gli impegni promessi all'Europa con la recente lettera. Ci si augura che sia così, ma intanto lo «spread» oltre quota 400 è un indizio terribile che segnala l'incertezza del quadro generale. I tempi della politica sono troppo lenti rispetto al precipitare della crisi. E del resto all'orizzonte non s'intravede una soluzione. Montezemolo ha proposto in una lettera a "Repubblica" un «governo di salute pubblica» al posto di Berlusconi, indicando un'agenda di cose da fare. Ma la freddezza, a dir poco, del Pdl e del Pd, dimostra che un simile governo non troverebbe una maggioranza in Parlamento. E non si può caricare sulle spalle del presidente della Repubblica l'onere che spetta alla responsabilità delle forze politiche. Per cui oggi l'alternativa è fra una lenta agonia e le elezioni anticipate (meglio se in fretta). Clicca per Condividere Il Sole 24 ORE - Commenti e Idee (1 di 13 articoli) ©RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2011-10-31/sfiducia-incertezza-dramma-italiano-222502.shtml?uuid=AaEhufHE Titolo: Stefano FOLLI. - La paralisi che l'Italia non può permettersi Inserito da: Admin - Novembre 07, 2011, 09:04:59 am La paralisi che l'Italia non può permettersi
di Stefano Folli 06 novembre 2011 La fine politica di Silvio Berlusconi non è affare di ordinaria amministrazione. Niente di paragonabile al passaggio da Kohl alla Merkel in Germania o dalla Thatcher a Major nell'Inghilterra degli anni novanta. Berlusconi non è solo un politico di lungo corso che resiste sulla poltrona. È il personaggio che nel bene e nel male ha segnato un'epoca. Di più: è la figura dominante degli ultimi diciotto anni, leader ma di fatto proprietario, anche in senso patrimoniale, del centrodestra italiano. Ora è all'epilogo, ma non c'è da stupirsi che il suo tramonto equivalga a uno psicodramma. O che sia così difficile, nella crisi, intravedere una soluzione parlamentare che non passi attraverso le elezioni anticipate. Elezioni da augurarsi il prima possibile, se il rebus resterà tale anche nei prossimi decisivi giorni. Allo stato delle cose, ci sarebbe solo un modo per uscire dal vicolo cieco. Tutte le grandi forze politiche, di centrodestra come di centrosinistra, dovrebbero avere un colpo d'ala in nome di una comune visione dell'Europa. Che significa, in primo luogo, rispettare l'agenda che la stessa Europa ci ha dato. Un colpo d'ala capace di escludere gli interessi di parte, così da deporre le armi nelle mani del presidente della Repubblica, rimettendosi senza riserve mentali alle sue decisioni e garantendo in via preliminare l'appoggio in Parlamento a un esecutivo di buona volontà. Quante probabilità ci sono che una simile svolta si verifichi nelle prossime ore? Meglio non farsi illusioni: le probabilità sono esigue. E il primo a rendersene conto deve essere Giorgio Napolitano, se ancora ieri ha avvertito il bisogno di denunciare "il clima di guerra" che si respira nel Paese. In teoria il presidente del Consiglio potrebbe ancora sbloccare la paralisi se nelle prossime ore mettesse in pratica quel gesto di generosità unilaterale che tanti gli hanno suggerito nelle ultime settimane, in Italia e all'estero (talvolta con toni ruvidi e ultimativi abbastanza imbarazzanti, come nel caso del Financial Times). Potrebbe annunciare le misure concrete per l'Europa (la legge di stabilità e non solo: riforma delle pensioni e del lavoro e così via) chiedendo il voto delle Camere. E, magari, mettendo sul tavolo le dimissioni, in modo da autorizzare il Pdl a cercare un nuovo equilibrio e il governo, guidato da un altro esponente del centrodestra (Letta, Alfano, Schifani), potrebbe tentare l'allargamento della maggioranza all'Udc, in un'atmosfera meno avvelenata. Ma anche qui è bene non credere alle favole. Berlusconi non ha interesse a uscire di scena in modo indolore. Un po' per temperamento e un po' per calcolo, tenterà fino alla fine di restare in sella. Sforzandosi di far capire ai parlamentari che lo stanno abbandonando un concetto semplice: "Dopo di me il diluvio". Ossia, dopo Berlusconi ci sono solo le elezioni. È vero, è falso? Diciamo che ogni giorno che passa, l'ipotesi di una legislatura che continua con una guida diversa da Berlusconi perde consistenza. Sarebbe stata plausibile qualche mese fa: magari l'estate scorsa, nei giorni in cui veniva recapitata la lettera della Bce. Oggi il passaggio di mano all'interno del centrodestra sembra fuori tempo massimo. E peraltro il diretto interessato, Berlusconi, non lo sta affatto accreditando. Il presidente del Consiglio tenterà nei prossimi giorni l'ultimo arroccamento, prima sul rendiconto generale dello Stato, poi sulla legge di stabilità (Senato e Camera). Ovviamente l'esecutivo è appeso a un filo e comunque non avrebbe i numeri per la normale navigazione parlamentare. Eppure il premier giocherà le sue carte fino in fondo. L'argomento che si sente nel Pdl ("attenti, di questo passo rischiamo una terribile sconfitta elettorale") non lo suggestiona. Dopo quasi diciotto anni di monarchia assoluta, gli viene spontaneo replicare: seguitemi e la legislatura non sarà interrotta; votatemi contro e insieme al mio governo cadranno anche le vostre speranze di essere rieletti. Perché andremo al voto e sarò ancora una volta io a preparare le liste elettorali. Come si vede, il paradosso è completo. Da un lato c'è una maggioranza che si scioglie, ma che ha ancora la forza di combattere in Parlamento. Dall'altra parte non c'è un'alternativa pronta, con numeri saldi e coerenza d'intenti. In fondo tutti si preparano alle elezioni, anche senza dirlo. Casini e Fini chiedono un governo senza Berlusconi, ma in realtà guardano alle urne. Dove sperano di beneficiare del collasso del centrodestra e anche di trarre vantaggio da quella perdita di credibilità berlusconiana sulla scena internazionale che dovrebbe incoraggiare una forza moderata, legata al partito popolare europeo e capace di offrire un volto diverso dell'Italia. Allo stesso modo anche il Pd sta indossando il vestito elettorale. È il solo modo per tenere insieme quell'alleanza con Di Pietro e Vendola a cui Bersani ha dedicato in questi mesi molte energie. Ieri, nella cornice di Piazza San Giovanni stracolma di folla, il segretario ha fatto un discorso dai toni europeisti (con citazioni di Spinelli, De Gasperi e Romano Prodi), ma dall'evidente accento elettorale. L'attacco alle destre europee non lascia dubbi, benché Bersani abbia lasciato un vago spiraglio al governo tecnico, ossia a un'intesa di alto profilo che in questi termini sarebbe inaccettabile per il Pdl. E infatti Alfano propone, di rimando, un mero allargamento della maggioranza con Berlusconi a Palazzo Chigi. da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2011-11-06/paralisi-italia-permettersi-081028.shtml?uuid=Aa4zBAJE Titolo: Stefano FOLLI. - Le insidie dei partiti Inserito da: Admin - Novembre 13, 2011, 10:57:28 am Le insidie dei partiti
di Stefano Folli 11 novembre 2011 Il governo di Mario Monti deve ancora nascere, ma è già in luna di miele con l'opinione pubblica e con le cancellerie estere. Quello del neosenatore a vita è, o meglio sarà, il «governo del presidente» nel senso più puro del termine: voluto, sostenuto e tutelato a ogni passo dal capo dello Stato. E infatti ieri, mentre gli «spread» finalmente calavano un po', il presidente degli Stati Uniti manifestava a Napolitano la sua soddisfazione. Per la precisione, Obama esprimeva all'interlocutore italiano «fiducia nella sua leadership», confermando un rapporto di stima che è una delle chiavi di lettura per capire le vicende degli ultimi due anni. Al tempo stesso anche la cancelliera tedesca Angela Merkel si rallegrava: l'Italia sta riguadagnando credibilità. In altre parole, sembra che l'attesa per Monti sia quasi spasmodica. Vi si mescolano sentimenti diversi. C'è il sollievo per l'uscita di scena di un premier da tempo inviso ai nostri partner e la speranza che il nuovo governo, con tre o quattro mosse azzeccate, rientri nei binari dell'Unione, allontanandosi da ogni rischio greco. Ci si aspetta insomma che Monti recuperi il terreno perduto negli ultimi anni. Egli stesso si dichiara consapevole che «c'è un enorme lavoro da fare», a cominciare dall'attacco alla giungla dei «privilegi». Come dire che il programma dell'esecutivo è ormai in bozza e non è poco ambizioso. Del resto, oltre due ore di colloquio ieri sera al Quirinale dimostrano quanto sia concreto in questo passaggio ancora ufficioso l'impegno dei due uomini. Massima determinazione, massima coesione. Tutto bene, allora? Non proprio. La luna di miele in corso non riguarda la politica. Sotto l'omaggio dovuto al presidente e alla personalità da lui scelta, si nascondono frizioni e inquietudini da non sottovalutare. Certo, la maggioranza sarà vasta, abbraccerà quasi tutto il Parlamento salvo i dipietristi e la Lega (ma nelle ultime ore Bossi ha mitigato l'ostilità del Carroccio al governo tecnico). Persino Vendola, esterno al Parlamento, è cauto. Eppure proprio l'ampiezza dei numeri suscita qualche sospetto. Più che di larghe intese, si deve parlare di una convergenza senza veri accordi fra i partiti: un obbligo imposto dalle circostanze. E questo vale soprattutto per il Pdl, dove Berlusconi ammette a fatica: «non possiamo fare altro che sostenere Monti». Ma il Pdl è percorso da un profondo nervosismo. Chiede tutele e garanzie sui nomi dei ministri, parla come se Monti dovesse negoziare le poltrone. L'insidia è notevole: se il Pdl s'impunta sui nomi, anche il Pd dovrà fare lo stesso; perchè non è credibile che l'esecutivo possa nascere con una rappresentanza politica del centrodestra e solo tecnica del centrosinistra. Infatti Bersani sta dicendo che nessun nome del vecchio governo dovrebbe affiancarsi a Monti. E Casini, prudente, ha scelto di rimettersi al capo dello Stato per la scelta dei ministri, tecnici o politici che siano. In questa fase il rischio dei veti incrociati può essere fatale. Non a caso una vecchia regola della Prima Repubblica ammoniva che, nella tasca del presidente incaricato, la lista dei possibili ministri scotta: diventa infuocata man mano che passano le ore o i giorni. E dunque si tratta di sbrigarsi a far giurare i neoministri, prima che i partiti e le correnti rafforzino le loro linee di resistenza. Oggi il quadro è diverso, ma è bene non farsi troppe illusioni. Monti non tratterà con i partiti e la posta in gioco è troppo alta per contemplare il rischio di fallire. Però il governo, che avrà un profilo tecnico accentuato, non potrà ignorare un'esigenza di equilibrio politico generale. Il Sole 24 ORE - ©RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2011-11-10/insidie-partiti-224507.shtml Titolo: FOLLI. - Pdl non fermerà Monti: ma si propone di vincolarlo in Parlamento Inserito da: Admin - Novembre 13, 2011, 06:10:19 pm Il sì condizionato di Alfano e Pdl non fermerà Monti: ma si propone di vincolarlo in Parlamento
analisi di Stefano Folli all'interno articolo di Celestina Dominelli 13 novembre 2011 IL PUNTO/L'addio di Berlusconi, la rotta di Monti, la garanzia del Quirinale (di Stefano Folli) Il segretario del Pdl Alfano, intervistato a "In mezz'ora" non ha chiuso la porta al governo Monti, che appare sempre più ineluttabile. Ha solo fatto riferimento alle "condizioni" poste dal partito di Berlusconi. Condizioni che sembrano avere a che fare soprattutto con i temi programmatici (lettera alla Ue, patrimoniale, riforma del mercato del lavoro, pensioni), visto che sulla struttura del governo il Pdl ha subìto il veto del centrosinistra su Gianni Letta e nonostante ciò non ha cambiato idea sul nuovo governo. In fondo, Alfano chiede soprattutto rispetto per la sua parte politica, che fino a ieri esprimeva il premier. Rispetto che il quasi presidente incaricato avrà tutto l'interesse a garantire. Intanto le rapide consultazioni di Napolitano hanno confermato quello che già si sapeva: a sostegno di Monti c'è un ampio ventaglio di posizioni politiche. Tranne la Lega, che ha confermato il suo "no", pur lasciando uno spiraglio per il futuro, tutti gli altri, compreso Di Pietro, voteranno la fiducia al nuovo esecutivo. Tuttavia variano le sfumature e i toni che definiscono l'appoggio politico al governo tecnico. Si va dall'apprezzamento incondizionato di alcuni (personalità e gruppi di centrosinistra e di centro) fino ai distinguo di chi si sforza di delimitare l'orizzonte di Monti. Di Pietro non è il solo di usare l'argomento del "governo a tempo", con l'idea di fissare fin d'ora – cosa poco realistica – un termine di scadenza oltre il quale ci sarebbero le elezioni. Altri (Moffa) vogliono piantare paletti programmatici, ancorando l'esecutivo ai punti economici richiamati nella lettera di Berlusconi all'Unione. Ma ciò che davvero interessa è il sì condizionato di Alfano e del Pdl. Non fermerà Monti, lo abbiamo detto, ma si propone di vincolarlo in Parlamento. Considerando l'esecutivo come un "governo amico" da cui prendere le distanze quando serve. Quel che si può dire è che i tempi per il conferimento dell'incarico saranno quelli previsti: stasera, con probabile presentaszione della lista dei ministri domani, dopo che Monti a sua volta avrà sentito i dirigenti dei partiti. Ma senza esagerare, se non vuole infilarsi in un ginepraio. Del resto non ci sono dubbi sulla riuscita del tentativo, per le ragioni più volte ripetute: i mercati vogliono certezze ed è in gioco la salvezza dell'economia nazionale. Sullo sfondo si staglia con evidenza il ruolo di grande regista svolto da Giorgio Napolitano. Un ruolo che dovrà continuare, perché è evidente che la garanzia del presidente della Repubblica dovrà prolungarsi fino ad accompagnare, rafforzandoli, i primi passi dell'esecutivo Monti. Un governo che nella sua composizione tecnica vede il suo punto di forza e insieme il suo elemento di debolezza rispetto a un Parlamento percorso da profonde contraddizioni e, per quanto riguarda il Pdl, anche da pericolose convulsioni. Berlusconi è uscito di scena, in un modo triste e drammatico, ma non rinuncia per ora a giocare un ruolo politico. Lo testimonia la sua lettera di stamane a un convegno della Destra di Francesco Storace, la sua denuncia dei "piccoli ricatti" di cui si sente vittima. La frustrazione della maggioranza uscente può essere un fattore di rischio a breve scadenza. Si va dalla legittima richiesta di "rispetto reciproco" fino alle pulsioni anti-euro e anti-poteri forti che aleggiano negli ambienti e sui giornali più combattivi. Il governo Monti come emanazione di un oscuro potere tecnocratico che vuole "svendere" l'Italia: è un argomento che può lasciare il tempo che trova, rappresentando solo un'amarezza passeggera, oppure può essere il cardine di una linea politica populista o addirittura "poujadista" che potrebbe provocare nuove destabilizzazioni. Capiremo meglio nel momento in cui Monti avrà presentato la sua squadra. Sarebbe meglio che fosse presente un qualche legame, anche simbolico, con le forze politiche maggiori che dovranno sostenere il governo alle Camere. Clicca per Condividere Il Sole 24 ORE - Notizie (1 di 30 articoli) ©RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2011-11-13/condizionato-alfano-fermera-monti-172841.shtml?uuid=AafdAELE Titolo: Stefano FOLLI. - L'ampio ventaglio di appoggio a Monti e i distinguo ... Inserito da: Admin - Novembre 14, 2011, 07:36:35 pm L'ampio ventaglio di appoggio a Monti e i distinguo di chi vuole delimitare l'orizzonte del nuovo premier
Analisi di Stefano Folli 13 novembre 2011 L'avvio delle consultazioni al Quirinale sta confermando quello che già si sapeva: a sostegno di Monti c'è un ampio ventaglio di posizioni politiche. Tranne la Lega, che ha confermato il suo "no", tutti gli altri, compreso Di Pietro, voteranno la fiducia al nuovo esecutivo. Tuttavia variano le sfumature e i toni che definiscono l'appoggio politico al governo tecnico. Si va dall'apprezzamento incondizionato di alcuni (personalità e gruppi di centrosinistra e di centro) fino ai distinguo di chi si sforza di delimitare l'orizzonte di Monti. Di Pietro non è il solo di usare l'argomento del "governo a tempo", con l'idea di fissare fin d'ora – cosa poco realistica – un termine di scadenza oltre il quale ci sarebbero le elezioni. Altri (Moffa) vogliono piantare paletti programmatici, ancorando l'esecutivo ai punti economici richiamati nella lettera di Berlusconi all'Unione. Vedremo nel corso della giornata. Quel che si può dire per ora è che i tempi per il conferimento dell'incarico saranno quelli previsti: stasera o al più tardi domattina presto. Così come non ci sono dubbi sulla riuscita del tentativo, per le ragioni più volte ripetute: i mercati vogliono certezze ed è in gioco la salvezza dell'economia nazionale. Quel che appare di ora in ora più certo, è il ruolo di grande regista svolto da Giorgio Napolitano. Un ruolo che dovrà continuare, perché è evidente che la garanzia del presidente della Repubblica dovrà prolungarsi fino ad accompagnare, rafforzandoli, i primi passi dell'esecutivo Monti. Un governo che nella sua composizione tecnica vede il suo punto di forza e insieme il suo elemento di debolezza rispetto a un Parlamento percorso da profonde contraddizioni e, per quanto riguarda il Pdl, anche da pericolose convulsioni. Berlusconi è uscito di scena, in un modo triste e drammatico, ma non rinuncia per ora a giocare un ruolo politico. Lo testimonia la sua lettera di stamane a un convegno della Destra di Francesco Storace. La frustrazione della maggioranza uscente può essere un fattore di rischio a breve scadenza. Si va dalla legittima richiesta di "rispetto reciproco", avanzata da Cicchitto fino alle pulsioni anti-euro e anti-poteri forti che aleggiano negli ambienti e sui giornali più combattivi. Il governo Monti come emanazione di un oscuro potere tecnocratico che vuole "svendere" l'Italia: è un argomento che può lasciare il tempo che trova, rappresentando solo un'amarezza passeggera, oppure può essere il cardine di una linea politica populista o addirittura "poujadista" che potrebbe provocare nuove destabilizzazioni. Capiremo meglio nel momento in cui Monti avrà presentato la sua squadra. Sarebbe meglio che fosse presente un qualche legame, anche simbolico, con le forze politiche maggiori che dovranno sostenere il governo alle Camere. Il Sole 24 ORE - Notizie (1 di 39 articoli) ©RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2011-11-13/lampio-ventaglio-appoggio-monti-133322.shtml?uuid=AaMvuALE Titolo: Stefano FOLLI. - Monti ha bisogno di un sostegno più esplicito dei tre poli Inserito da: Admin - Dicembre 20, 2011, 06:36:49 pm Monti ha bisogno di un sostegno più esplicito dei tre poli
di Stefano Folli 20 dicembre 2011 Non è un paradosso osservare che la bizzarra idea leghista (obiezione di coscienza di massa contro l'Imu, la vecchia Ici) può rafforzare, piuttosto che indebolire, il governo Monti. In fondo, il presidente del Consiglio e i suoi ministri tecnici hanno da temere molto di più dalle opposizioni occulte e mascherate che si vanno manifestando in Parlamento. Gli oppositori espliciti, soprattutto quando sfidano il senso del ridicolo come i leghisti (non tutti) dello sciopero anti-tasse, costringono gli altri, tutti gli altri, a essere più coesi e coerenti. In una parola, più seri. Magari controvoglia. articoli correlati Ieri lo stesso Berlusconi non ha potuto fare a meno di notare che il comportamento della Lega è singolare, visto che l'Imu è stata concepita e realizzata proprio da Calderoli in chiave federalista. Come dire che il Carroccio sarebbe favorevole a scioperare contro se stesso e la propria idea d'imposizione fiscale. È probabile, naturalmente, che non se ne farà nulla. Siamo alle consuete stravaganze in chiave mediatica volte a restituire alla Lega una verginità politica da tempo perduta. Non è un caso se persino il sindaco di Verona, Tosi, abile esponente della nuova generazione leghista, si sia mostrato ben poco convinto della pensata, con l'argomento che «l'operazione finirebbe per pesare sui cittadini». I quali dovrebbero commettere delle illegalità e pagarne le conseguenze. Ora il problema non è se un eventuale sciopero fiscale, promosso da «bossiani» in cerca di visibilità, avrebbe successo. Senza dubbio non lo avrebbe. Il punto tuttavia è capire cosa vogliono fare gli altri, quelli che sostengono Monti in Parlamento. L'arcipelago della non-maggioranza convergente: Pdl, Pd, terzo polo. Man mano che passano le settimane è evidente che questi partiti devono decidersi. La prima ipotesi è un sostegno più esplicito e convinto al governo; la seconda è il piccolo cabotaggio pieno di diffidenza reciproca, fino alla paralisi indotta dalla mancanza di coraggio. Con leghisti e Di Pietro che avrebbero facile gioco a bombardare gli spalti governativi. La matassa è intricata: le liberalizzazioni frenate, il «no» aspro del sindacato e della sinistra alla riforma dell'articolo 18, la stessa questione irrisolta delle frequenze tv. Passare al «secondo tempo» del governo è difficile e ogni passaggio presenta un'insidia. Tanto più che l'esecutivo tecnico, come è giusto, non vuole limitarsi ai temi economici. Si sforza di guardare più in là: il sovraffollamento delle carceri, i concorsi nella scuola. È un tentativo di andare oltre l'emergenza degli «spread». Ma le contraddizioni emergono senza pietà. Il premier ha una sola strada davanti a sé: assumersi con decisione tutte le responsabilità e andare avanti con passo spedito. Chiedendo ai partiti che hanno votato la fiducia un appoggio più leale e trasparente. Qui hanno ragione Casini ed Enrico Letta che parlano di un «patto politico» da stipulare fra i tre partiti. Del resto sarebbe logico. L'agitarsi della Lega dimostra che gli oppositori stanno alzando il tiro. La non-maggioranza deve rispondere con un gesto uguale e contrario. Le mezze misure rischiano di essere fatali. Il rischio non è che qualcuno «stacchi la spina», come si dice. Non lo faranno né Berlusconi né Bersani. Il vero pericolo per Monti (e per l'Italia) è la palude: nessuno lo fa cadere, ma nessuno lo sostiene con convinzione. da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2011-12-19/monti-bisogno-sostegno-esplicito-213703.shtml?uuid=AakF8mVE Titolo: Stefano FOLLI. - Merkel-Napolitano: nessuno vuole aprire un caso Inserito da: Admin - Gennaio 02, 2012, 03:06:11 pm Merkel-Napolitano: nessuno vuole aprire un caso
di Stefano Folli 31 dicembre 2011 Ci sono almeno tre buone ragioni per cui le rivelazioni del «Wall Street Journal» sulla telefonata del 20 ottobre fra Angela Merkel e Giorgio Napolitano non hanno provocato, nonostante tutto, sconquassi degni di nota. La prima è che la telefonata era, in effetti, tutt'altro che segreta. Se ne parlò e scrisse a suo tempo in modo diffuso. Ed erano note le preoccupazioni, diciamo così, del governo di Berlino per la fragilità e la scarsa affidabilità del governo italiano e del suo massimo rappresentante. Qui c'è poco da scoprire di nuovo. Seconda ragione. Un'indiscrezione di questo tipo non regge se i diretti interessati, il presidente della Repubblica e la cancelliera tedesca, la smentiscono in forma netta. Come è subito avvenuto. Si dirà: non potevano che smentire. Può darsi, ma tutto l'articolo del quotidiano americano si regge sull'interpretazione di una telefonata e delle parole forse intercorse fra due personalità che hanno spiegato - e non da oggi - il senso del loro agire. E' un po' poco per destabilizzare un paio di governi. Terzo e più importante punto. Per rendere insidiosa la ricostruzione del Wsj ci vorrebbe qualcuno interessato a impugnarla in termini politici. L'unico che potrebbe coltivare tale interesse è ovviamente Silvio Berlusconi. Ma l'ex premier non si è mosso di un millimetro dalla sua linea attuale, rispettosa verso il Quirinale e di sostanziale sostegno a Monti. Se nemmeno lui dà credito alla ricostruzione (magari perchè non ritiene conveniente farlo), è chiaro che la vicenda è destinata a chiudersi in fretta. I problemi sono altri. Riguardano i mesi iniziali di un anno che si presenta carico d'incognite drammatiche. L'impressione è che gli italiani attendano ancora che gli si parli un linguaggio di verità, in grado di coinvolgerli nel percorso della ricostruzione, anzi della rifondazione del paese. Le grandi crisi del Novecento sono state superate in occidente anche in virtù di formule comunicative efficaci, talvolta straordinarie, che hanno scandito le varie epoche, toccando l'anima collettiva della nazione. Inutile citare i Roosevelt («non dobbiamo avere paura di nulla, se non della paura stessa») o i Churchill o i De Gasperi. In alcuni casi questi leader avevano alle spalle degli ottimi estensori dei loro discorsi; in altri sapevano intuire e dare voce ai sentimenti e alle inquietudini popolari. Ancora nel 1981 Giovanni Spadolini, arrivando a Palazzo Chigi come capo di un piccolo partito, il Pri (dunque un'"anomalia" per quei tempi), riuscì a entrare in sintonia con il paese coniando lo slogan delle «quattro emergenze». Oggi, con l'Europa in crisi e l'Italia affidata a un governo «tecnico» di salvezza nazionale, è necessario che gli uomini delle istituzioni adeguino alla nuova realtà la cifra della loro comunicazione pubblica. Questo non è ancora avvenuto in modo sufficiente, come è apparso chiaro nella conferenza stampa di fine anno del presidente del Consiglio. Ma nulla toglie che avvenga nelle prossime settimane, con l'aiuto dell'esperienza. Di certo un conto sono i contenuti dell'azione di governo e un altro sono gli strumenti per trasmetterli all'opinione pubblica. L'esigenza non è secondaria, vista la profondità della crisi. Anche per questo il messaggio di San Silvestro del capo dello Stato riveste quest'anno una particolare rilevanza. Napolitano è l'architetto della nuova fase, è impegnato in uno sforzo quotidiano per sostenere gli obiettivi del governo ed è consapevole che il dialogo con gli italiani è essenziale. Tutto questo espone il presidente della Repubblica come raramente è accaduto in passato. L'attacco volgare che ieri gli ha mosso Bossi ne è la prova. Ma come si dice: quando si è in ballo bisogna ballare. © RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2011-12-31/nessuno-vuole-aprire-caso-081059.shtml?uuid=AaPhzSZE Titolo: Stefano FOLLI. - Il Pdl e il rischio di «regalare» Monti al centro sinistra Inserito da: Admin - Gennaio 10, 2012, 10:24:12 am Il Pdl e il rischio di «regalare» Monti al centro sinistra
di Stefano Folli 10 gennaio 2012 Vedremo a cosa approderà il negoziato sul lavoro. In apparenza il clima non è troppo cattivo: la Cgil ha temuto d'essere scavalcata e isolata, ma il governo ha dato rassicurazioni in proposito e ieri Susanna Camusso è arrivata persino a elogiare il premier. Si cerca di evitare gli attriti discutendo, come dice Bonanni, "di ciò che unisce, non di ciò che divide". Poi, certo, arriverà il momento di scendere dal cielo dei principi al terreno delle scelte concrete, anche per dare un senso a quel nuovo "patto" che tutti a parole propugnano anche se ognuno lo interpreta in modo diverso. E allora sarà facile verificare chi, anche nelle grandi organizzazioni sindacali, intende condividere - con le dovute garanzie - uno sforzo di responsabilità nazionale. Quel che è sicuro, l'ostacolo immediato non è il lavoro, bensì il programma delle liberalizzazioni. Qui lo scontro con le corporazioni vuol dire, almeno sulla carta, conflitto con i loro referenti politici. Monti e Passera hanno però compreso che esiste solo un'ipotesi: andare avanti e rompere le incrostazioni a tutti i livelli, facendo attenzione ad allargare il ventaglio, così da non sembrare vessatori verso questa o quella categoria specifica. Magari le più deboli. Sotto l'aspetto tecnico, gli uffici sono al lavoro. Ma sotto il profilo politico la frattura che si è consumata ieri fra Lega e Pdl potrebbe, in via generale, aiutare Monti. Perché è chiaro che la decisione del Carroccio di votare a favore dell'arresto di Nicola Cosentino, proconsole berlusconiano in Campania, segna un "punto di non ritorno". È la prova decisiva che il partito di Bossi intende archiviare la lunga stagione dell'intesa personale e politica con Berlusconi. Il che determina una serie di conseguenze. In primo luogo accentua l'isolazionismo leghista: contro Monti in maniera spesso scomposta, ma anche contro gli ex alleati. E quindi, se c'è una logica, il Pdl dovrebbe essere spinto a sostenere con più decisione l'esecutivo "tecnico". Restare a metà del guado non conviene più a Berlusconi e Alfano. Conviene invece integrarsi con Casini e Bersani per riuscire a contare qualcosa nelle strategie del governo. È un'esigenza comune a cui il segretario del Pd ha dato voce ieri. Ma per il centrodestra è vitale non farsi trascinare in una deriva pericolosa, tanto più che la Lega naviga ormai per conto suo e non è recuperabile a breve termine. Ha ragione Rocco Buttiglione: «Il centrodestra non deve fare l'errore di regalare Monti alla sinistra». Non sarebbe la prima volta, basta ricordare il governo Dini. Ma questa volta è tutto molto più rischioso: la polemica sugli evasori e l'eventuale difesa a oltranza delle categorie "liberalizzate" rischiano di favorire, alla lunga, proprio questo esito. Già oggi Bersani, con lo slogan (efficace) "prima di tutto l'Italia", si propone come il baluardo numero uno del governo: forse intuendo che Monti non solo è l'ultima spiaggia, ma riesce pure a mantenere vivo un rapporto con l'opinione pubblica che i partiti possono solo invidiare. Di conseguenza il presidente del Consiglio procede per la sua strada e le forze politiche devono misurare i loro passi. Contrastare le liberalizzazioni, e offrire uno scudo alle corporazioni bellicose, può essere un autentico "boomerang". Così come è controproducente intimare al governo di non occuparsi della Rai, con l'argomento che un esecutivo "tecnico" non è titolato a riformare o magari privatizzare in parte l'azienda. Naturalmente non è così, visto che il Tesoro è il principale azionista di viale Mazzini e che i partiti esprimono di fatto gli equilibri del Consiglio d'amministrazione. In altre parole, Monti ha il pieno diritto di intervenire sulla "governance" della Rai. Se il Pdl gli mette i bastoni nelle ruote, commette un nuovo errore politico e dà un'altra spinta a modificare il delicato assetto su cui si regge l'esecutivo. Quasi un suicidio. Clicca per Condividere Il Sole 24 ORE - Commenti e Idee (4 di 13 articoli) ©RIPRODUZIONE RISERVATA Titolo: Stefano FOLLI. - Il Parlamento torna centrale Inserito da: Admin - Gennaio 11, 2012, 11:46:54 am Il Parlamento torna centrale
di Stefano Folli 11 gennaio 2012 Dall'epilogo del caso Malinconico si possono ricavare due lezioni. La prima è che non c'è bisogno di appartenere al mondo dei partiti per commettere gravi errori di comportamento: nel caso del sottosegretario la scorrettezza etica (non il reato, che nessuno ha contestato) era inaccettabile per il codice che il governo Monti si è dato. È un incidente di percorso, senza conseguenze per l'esecutivo, anche se lascia un po' di amaro in bocca: qualcosa, con ogni evidenza, non ha funzionato nei criteri con cui sono state fatte certe scelte «tecniche». E infatti non c'entra la politica, bensì l'alta burocrazia. La seconda lezione riguarda la rapidità con cui il presidente del Consiglio ha risolto la questione. Monti si è mosso con la velocità di riflessi di un politico consumato, rendendosi conto che qualsiasi esitazione avrebbe trasformato una vicenda personale in un disastro collettivo. Se c'è un fronte su cui il governo della lotta all'evasione fiscale non può permettersi alcun cedimento, è quello della moralità pubblica. Sotto questo aspetto, la capacità di leadership del premier ne esce rafforzata. È un buon auspicio per la compagine che ha nel rapporto con l'opinione pubblica il suo punto di forza. Detto questo, anche questo episodio conferma che il governo «tecnico» non ha altra strada se non quella di procedere con determinazione lungo la sua rotta. In Europa e in Italia. Le forze politiche al momento possono solo accompagnare il percorso dell'eseutivo, avanzando qualche richiesta. Che poi lo facciano in qualche caso di malavoglia o con sofferenza, è cosa che riguarda il loro rapporto con l'elettorato; o l'immagine che vogliono trasmettere al paese. Sappiamo, del resto, che sul Parlamento sta per abbattersi un macigno destinato a richiamare tutti i partiti al principio di realtà: perché l'imminente decisione della Corte Costituzionale sulla legge elettorale segnerà uno spartiacque. Come ha detto Giuliano Amato, «quella legge va cambiata in ogni caso, quale che sia il verdetto della Consulta». In altre parole, i partiti disoccupati hanno l'occasione di tornare a impegnarsi. Non solo sul modello elettorale, ma - se ne saranno capaci - sull'intera gamma delle riforme istituzionzali. Di sicuro il passaggio è delicato. Ci sono oltre un milione e duecentomila firme di cittadini che hanno sottoscritto il referendum contro il "Porcellum" di Calderoli perché si ritengono espropriati del diritto di eleggere i loro rappresentanti. La loro voce interpreta un sentimento molto diffuso nel paese. Tuttavia la Corte è dubbiosa sulla possibilità di ammettere il quesito referendario, che avrebbe l'effetto - secondo un punto di vista - di riesumare la legge precedente: il "Mattarellum" (abrogato dal Parlamento). Qualsiasi decisione è difficile. Non si può dare alla pubblica opinione l'impressione che quella montagna di firme sia stata ignorata o disattesa. Un'ipotesi, solo un'ipotesi al momento, è che la Corte respinga il quesito, ma al tempo stesso rivolga un forte appello alle Camere affinché cancellino il testo Calderoli e regalino all'Italia una legge elettorale degna di questo nome. Il che darebbe ai partiti qualcosa con cui riempire i prossimi mesi, immaginando il futuro. Le voci che si rincorrono sulle risorgenti tentazioni di elezioni anticipate sono per ora nient'altro che voci. Da non prendere sul serio. Prima c'è da ridefinire la geografia politica. I contenuti e le alleanze. E decisivo, con o senza il referendum, sarà il modello elettorale. Clicca per Condividere Il Sole 24 ORE - Commenti e Idee (1 di 13 articoli) ©RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2012-01-11/parlamento-torna-centrale-083052.shtml Titolo: Stefano FOLLI. - Assomiglia a una grande coalizione ma non si può dirlo Inserito da: Admin - Gennaio 17, 2012, 05:39:14 pm Assomiglia a una grande coalizione ma non si può dirlo
17 gennaio 2012 di Stefano Folli Dal lungo pranzo di lavoro fra il presidente del Consiglio e i rappresentanti dei partiti che sostengono il Governo (la «grande colazione» ha ironizzato qualcuno) si ricavano tre considerazioni. Primo. Si tratta di un passo avanti, non verso un Governo politico di unità nazionale, bensì verso una maggioranza più strutturata e quindi più solida. Difficile dar torto a Casini su questo punto. Forze politiche che fino a poco tempo fa si combattevano all'arma bianca, e che due mesi fa s'incontravano di nascosto, ora firmeranno insieme una mozione parlamentare sull'Europa. Una mozione di pieno sostegno alla politica di Monti in un momento di drammatica difficoltà e alla vigilia di un Consiglio europeo che si presenta come cruciale. Non è poco. Si può continuare a sostenere, come hanno fatto Alfano e Bersani fino a ieri, che la convergenza parlamentare intorno all'esecutivo 'tecnico' non equivale a una maggioranza; ma insistere su questa tesi dopo il documento comune sull'Europa sarà poco convincente. D'altra parte è comprensibile che i partiti, specie il Pdl e il Pd, abbiano dei problemi con il loro elettorato. Proprio per questo il passo avanti compiuto ieri ha un valore tutt'altro che irrilevante. Secondo. La mozione rafforzerà le posizioni ortodosse sulla politica europea e di conseguenza indebolirà le tentazioni di cavalcare le ondate populiste che puntano a mettere in discussione l'Unione e la moneta unica. Si tratta di sentimenti che lievitano nella «zona euro», o appena al di fuori di essa, vedi l'Ungheria, ma che sono ancora flebili in Italia. Li alimenta la Lega, eppure il Carroccio oggi ha ben altri problemi interni: fin quando non li avrà risolti, decidendo di fatto il «dopo Bossi», la posizione anti-europea in Italia sarà poca cosa. Certo non sarà Berlusconi a sollevare per ora questa bandiera, se è vero che l'ex premier ha dato il suo benestrare al documento comune. Qualche settimana fa Berlusconi aveva elogiato l'inglese Cameron e il suo «no» ai partner (in primo luogo Germania e Francia) sul trattato fiscale. Aveva garantito, un po' a buon mercato, che si sarebbe comportato allo stesso modo, se fosse stato ancora alla guida del governo. Ma ora il via libera al documento Alfano-Bersani-Casini indica che il Pdl sposa la linea opposta, che poi è quella di Monti. Un conto sono le parole, un altro gli atti concreti. Berlusconi non sembra avere alcuna voglia di inoltrarsi lungo la via tortuosa dell'anti-Europa. Il che offre una sponda preziosa al presidente del Consiglio. Terzo. Quali possono essere le conseguenze del patto a tre? Casini ne indica una fra le tante: la riforma elettorale (un «dovere morale» del Parlamento, secondo il giudizio di D'Alema). Più in generale l'interesse dei tre partiti dovrebbe essere quello di ripensare il sistema politico, sul piano degli equilibri e delle regole istituzionali. Un modo saggio per non sprecare il tempo guadagnato con la nascita del governo 'tecnico'. Di fatto si può negare l'esistenza di una «grande coalizione», sia pure leggera, se è ancora conveniente farlo. Ma quel che conta è lo spirito politico, insomma la volontà di fare. In realtà le intese sulla legge elettorale sono ancora in alto mare. I partiti sono spesso divisi al loro interno e poi c'è la netta opposizione di Di Pietro. La strada è lunga. Il Sole 24 ORE - Commenti e Idee (1 di 13 articoli) ©RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2012-01-16/assomiglia-grande-coalizione-dirlo-223244.shtml Titolo: FOLLI. - Il tempo stringe, per il governo «tecnico» la cruciale sfida ... Inserito da: Admin - Gennaio 25, 2012, 10:53:44 pm Esame di maturità.
Il tempo stringe, per il governo «tecnico» la cruciale sfida della legalità di Stefano Folli 25 gennaio 2012 Ora il tempo stringe. Per il Governo Monti la prova della legalità e dell'ordine pubblico non è meno importante della tenuta dei conti pubblici. È un esame di maturità, soprattutto dopo il tragico incidente di ieri, e l'opinione pubblica osserva. Dalla sua il presidente del Consiglio ha una carta preziosa: finora le forze politiche hanno isolato gli autotrasportatori. Unica eccezione, la Lega. Poi c'è qualche 'cane sciolto' del Pdl, personaggi non certo di primo piano. Il resto del Parlamento condanna la 'serrata' e i gravi disagi imposti alla popolazione. Oppure tace, in attesa degli eventi: soprattutto di vedere come se la caveranno i 'tecnici'. È una situazione sul filo del rasoio. Ma è chiaro che Monti e il suo ministro degli Interni hanno l'occasione di dimostrare fermezza e decisione, quello che in sostanza vuole la grande maggioranza degli italiani. La Sicilia ora si avvia a una normalità accettabile, come ha riferito la responsabile del Viminale in Parlamento, ma ci sono voluti giorni e giorni, oltre a uno strascico di polemiche. Difficile immaginare che nel resto d'Italia si sia disposti ad aspettare tanto. Se oggi il quadro generale non migliorerà in maniera sensibile, ci si attende che il governo prenda misure risolutive. E c'è da credere che una prova di severità, volta a garantire gli approvvigionamenti e la libera circolazione delle merci sul territorio nazionale - in base peraltro a una precisa e ben nota normativa dell'Unione - consoliderà la credibilità e il rispetto di cui gode il premier. Ma, appunto, il tempo stringe. La finestra di opportunità è tuttora aperta perché, come si è detto, i partiti non appoggiano la protesta, anche se alcuni di loro restano stranamente silenziosi. Ma la debolezza e l'incertezza sono due comportamenti che l'esecutivo 'tecnico' non può permettersi perché avrebbero un vecchio sapore che gli italiani non capirebbero e ancor meno gradirebbero. In ogni caso oggi potrebbe essere il giorno della svolta. Sarà anche il giorno in cui il presidente del Consiglio andrà alla Camera a parlare d'Europa e delle iniziative italiane nella cornice dell'Unione. Vedremo i partiti che sostengono l'esecutivo presentare una mozione unica, firmata da Pdl, Pd e terzo polo. Di tale documento si era già parlato nei giorni scorsi come di un passo avanti rilevante nell'appoggio offerto dalla non-coalizione tripartita al premier. Oggi potremo verificare in modo formale questo consolidamento della base parlamentare, secondo una linea piuttosto coerente che parte dall'Europa, ma tende ad abbracciare inevitabilmente anche il pacchetto delle liberalizzazioni. Le parole pronunciate dal segretario del Pdl, Alfano, sono state chiare al riguardo e collimano nella sostanza con le posizioni espresse da Bersani e Casini. Esistono alcuni distinguo e un po' di malumore nel partito di Berlusconi, ma la situazione sembra sotto controllo. In definitiva il terreno di gioco è diviso in due settori. Da un lato Monti continua a costruire il profilo della politica economica del governo, o se si vuole il profilo 'tout court' di un'Italia che vuole sentirsi pienamente europea tra gli europei. Una missione per la quale c'è un consenso politico e parlamentare ogni giorno più chiaro. Dall'altro lato questo stesso governo deve tenere a bada la piazza, usando all'occorrenza il pugno di ferro. Cosa che gli procurerà qualche critica, ma gli farà guadagnare anche molti consensi. Finora Monti e il ministro Cancellieri hanno agito con prudenza e forse hanno fatto bene. Ma fino a quando? Clicca per Condividere Il Sole 24 ORE - Economia (13 di 34 articoli) ©RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.ilsole24ore.com/art/economia/2012-01-24/esame-maturita-tempo-stringe-231356.shtml?uuid=AarvwBiE Titolo: FOLLI. - Dopo la svolta storica, fase cruciale per governo e forze politiche Inserito da: Admin - Gennaio 27, 2012, 03:49:51 pm Dopo la svolta storica, fase cruciale per governo e forze politiche
di Stefano Folli 20 gennaio 2012 La giornata di oggi è una delle più importanti negli ultimi venticinque anni. Un governo 'tecnico' in cui i partiti non sono rappresentati, ma che è sostenuto in Parlamento da un complesso di forze tali da disegnare quasi una grande coalizione «de facto», promuove un piano di liberalizzazioni senza precedenti. Qualcuno dirà che si poteva fare di più. Però si poteva anche fare molto meno. Per cui è legittimo attendersi che oggi l'Italia viva una giornata a suo modo storica. È un risultato che i 'tecnici' ottengono senza spezzare il fronte Pdl-Pdl-terzo polo che avrà la responsabilità di convertire i decreti legge. Ieri Berlusconi ha dato in sostanza il suo benestare al programma di liberalizzazioni e Alfano, confermando che «non è nostra intenzione creare difficoltà a Monti», si è solo riservato di presentare qualche emendamento. Analogo comportamento terranno, in caso di necessità, i democratici di Bersani e l'Udc di Casini. È il minimo da parte di una maggioranza che per ora dimostra di voler accompagnare l'esecutivo attraverso questa drammatica strettoia. Di più: lo stesso Di Pietro vede del buono nell'operazione in corso e almeno su questo punto si avvicina a Monti. Si tratta, in altre parole, di un risultato positivo al di là delle attese. Certo, bisogna mettere nel conto le reazioni delle categorie toccate nei loro interessi. La violenta rivolta dei taxisti romani (e non solo) contro i loro rappresentanti reduci dai colloqui di Palazzo Chigi, incoraggia presagi inquietanti. Lo stesso vale per la serrata minacciata dai benzinai. Come dire che per il governo Monti si avvicinano giorni e settimane cruciali. Il premier ha mostrato coraggio, ma ora ha bisogno che il sostegno del Parlamento sia solido e duraturo nel tempo. Sulla carta non dovrebbero manifestarsi problemi immediati. Le mosse di Alfano, Bersani e Casini sono tutte nel segno di una relativa coesione, benché non dichiarata. L'unico rischio è che la situazione precipiti per la rivolta delle categorie. Se così fosse, occorrerà verificare la tenuta, non tanto del governo, quanto dei singoli partiti, ognuno con le sue pulsioni. Finora nessuno dei nomi di primo piano si è speso a favore della piazza. È stato chiesto piuttosto, da parte del Pdl ma anche di centristi e democratici, di procedere con liberalizzazioni «a 360 gradi»: energia, reti, trasporti. Così da non accanirsi sui settori secondari (taxisti, eccetera). Ora che il governo ha recepito queste esigenze, il quadrato politico intorno a Monti dovrebbe resistere. È una condizione necessaria, ma non sufficiente per il cammino dell'esecutivo. Ora è indispensabile guardare anche all'altra faccia della medaglia. Se le forze politiche si limitano a fare il loro gioco sul governo, offrendo un appoggio condizionato, non si mettono al riparo dal rischio di un progressivo logoramento. È indispensabile invece che ritrovino uno spazio di manovra in Parlamento: una nuova legge elettorale e l'avvio di qualche riforma istituzionale sono obiettivi essenziali, come il Quirinale non si stanca di ricordare. La domanda è: chi vuole davvero cambiare la legge elettorale e chi invece lavora con astuzia per mantenere lo «status quo»? I conservatori sono più numerosi e insospettabili di quanto non si creda, se non altro perché le idee sulla riforma sono confuse. Certe roboanti dichiarazioni contro il 'Porcellum' vanno prese con le molle. Aspettiamoci quindi mesi complicati. Il Sole 24 ORE - Commenti e Idee (1 di 13 articoli) ©RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2012-01-19/dopo-svolta-storica-fase-214740.shtml Titolo: Stefano FOLLI. La maggioranza innovativa esiste, ma dov'è la spinta propulsiva? Inserito da: Admin - Gennaio 28, 2012, 06:30:55 pm La maggioranza «innovativa» esiste, ma dov'è la spinta propulsiva?
di Stefano Folli 28 gennaio 2012 Se è vero che «l'Italia dopo vent'anni è tornata sulla scena», come scrive il "Financial Times", il merito è solo di Monti, oltre che del presidente della Repubblica che ha creduto nella soluzione d'emergenza e l'ha sostenuta sfidando ogni polemica. I fatti cominciano a dargli ragione. Certo, le incognite sono sempre dietro l'angolo, a cominciare dall'incertezza del quadro economico e dai consueti dubbi sull'Europa. Ma il fatidico «spread» sembra in fase calante e le aste dei Bot stanno andando molto bene. Persino Fitch, nel momento in cui declassa il "rating" italiano - evento super-previsto - ha trovato il modo di elogiare il premier. Merito dell'asse Quirinale-Palazzo Chigi, dunque. Purtroppo però occorre un certo grado di ottimismo per estendere questi meriti anche ai partiti. È vero che la mozione a tre (Pdl, Pd e Terzo polo) sull'Europa è stata raccontata - anche da chi scrive - quasi come una prova generale di «grande coalizione». Una coalizione non ufficiale, ma nei fatti operativa (si veda la sollecitudine pro-Monti di Berlusconi, nonostante i diktat leghisti). Tutto questo, al momento, si esprime con un sostegno parlamentare al governo "tecnico". Ottima cosa, «maggioranza innovativa» la definisce Monti. Ma ancora non si vede la spinta propulsiva delle forze politiche, la loro volontà di riappropriarsi di un ruolo pubblico senza per questo destabilizzare l'esecutivo. Il voto triangolare dell'altro giorno è una semplice premessa, la fotografia di uno scenario parlamentare che al momento non permette ai partiti che contano di fare «strappi». Ma spetta a questi stessi partiti mettersi in gioco, dare un segno convinto di esistenza in vita, costruire un progetto di qui a un anno. Possono farlo in due modi, come si è detto più volte. Possono entrare in campo sui temi delle liberalizzazioni e sempificazioni: non per frenare o stravolgere il lavoro di Monti, bensì per estendere i provvedimenti e renderli più incisivi. Sarebbe un modo per agguantare un'iniziativa politica e non lasciare tutta la scena ai "tecnici". Ma naturalmente occorre che ci sia intesa esplicita tra le forze del triangolo, altrimenti non se ne fa nulla. C'è, almeno sulla carta, una tale intesa? Non si direbbe; anzi, nessuno o quasi si è posto il problema. Seconda ipotesi, anche questa ben nota, la preferita di Napolitano. I partiti cambiano pelle, si rinnovano sul piano istituzionale, disegnano fra di loro il profilo del "sistema Italia". Scelgono una legge elettorale adeguata al nuovo clima politico e ne discutono con equilibrio e volontà costruttiva. Finisce l'epoca del bipolarismo con il coltello fra i denti, ma non si torna al vecchio proporzionale. Si cerca un assetto che riconosca agli elettori il diritto di scegliersi gli eletti. Ora, se le riforme fossero decise, ad esempio, da Franceschini, Quagliariello e dal costituzionalista Ceccanti, il traguardo sarebbe a portata di mano. Nel clima attuale, la ragionevolezza è la loro cifra. Anche sul modello ispanico-tedesco, in apparenza un po' inquietante, si potrebbe trovare l'accordo, come sempre quando si usa il buon senso. Ma non è così. La legge elettorale è una cruciale partita politica che i leader non sanno o non vogliono giocare. Non ancora, almeno. Così il tempo passa e ci avviciniamo alla fine della legislatura. «Mai più al voto con il Porcellum» è il grido di battaglia del centrosinistra. Ma sarà così? © RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2012-01-28/maggioranza-innovativa-esiste-dove-081408.shtml?uuid=AaAZ9WjE Titolo: Stefano FOLLI. - Tempi lunghi per le riforme, in cerca del post-bipolarismo Inserito da: Admin - Febbraio 08, 2012, 11:51:47 am Tempi lunghi per le riforme, in cerca del post-bipolarismo
Il Punto di Stefano Folli - 8 febbraio 2012 Ora che la trattativa sulla legge elettorale ha preso forma, è bene non soffermarsi troppo sugli arabeschi tecnici (il modello «italo-ispanico-tedesco») e guardare invece ai sottintesi politici della fase che si apre. E qui, sul piano politico, ci sono alcuni aspetti da sottolineare. Il primo è che tutti, grosso modo, sono convinti della necessità di modificare l'attuale «porcellum». Tuttavia, un conto è ritoccarlo appena, come desidera la Lega, e un altro è riformarlo nel profondo come vorrebbe il Pd (almeno così dichiara). Fino a qualche tempo fa Berlusconi era sulla posizione di Bossi. Ora, in seguito alla crisi dell'alleanza, l'ex premier ha scoperto l'importanza dell'asse con il Pd, le due grandi forze bipolari. È un gioco in cui tattica e strategia, se vogliamo chiamarle così, si mescolano. Ricorda in parte l'attitudine di Berlusconi verso la Bicamerale presieduta da D'Alema, nel lontano 1997-'98. Anche allora il capo del centrodestra cercò in un primo tempo l'intesa a due con l'altro maggiore partito, ma questo non gli impedì di buttare all'aria il tavolo quando ne ebbe la convenienza, impedendo alla commissione di raggiungere qualsiasi risultato. Oggi Berlusconi sa bene quanto il percorso delle riforme istituzionali ed elettorali interessi al presidente della Repubblica. La sua apertura agli avversari di ieri ha perciò questo significato: non contraddire Napolitano, mostrarsi operoso e guadagnare tempo evitando che il suo partito, il Pdl, si logori più del necessario; anzi, se possibile, Berlusconi cercherà di logorare gli altri. In seguito, ci sarà sempre tempo per scegliere: un accordo generale con la sinistra e il "terzo polo", ovvero un'intesa parziale, oppure nessuna intesa. Dipenderà dalle circostanze. Ne deriva che in questo quadro è necessario tener d'occhio le prossime amministrative. Il loro risultato non sarà privo di riflessi sul negoziato in corso. I sondaggi al momento sono molto negativi per il partito berlusconiano. Ma occorrerà verificare se e come sopravviveranno le alleanze locali fra Pdl e Carroccio, poi contare i voti e studiare la mappa del potere quale emergerà dalle urne. A questo punto va messa sulla bilancia la riforma delle istituzioni. Riduzione dei parlamentari, fine del bicameralismo perfetto... Temi di notevole rilievo costituzionale su cui oggi non c'è l'ombra di un accordo. Ma se l'intesa sulla Costituzione è preliminare alla riforma elettorale, come sostiene Calderoli, è chiaro che la trattativa si complica e i tempi si allungano. In altre parole è necessario avere le idee chiare su quale sistema politico si vuole consolidare dopo le elezioni del 2013, quando il ruolo di Monti dovrebbe esaurirsi (e anche su questo non c'è unanimità). Emanuele Macaluso scrive sul "Riformista": «In ogni caso, il bipolarismo domestico e addomesticato non ha più senso». In effetti è il punto. Ma non significa che qualcuno sappia cosa c'è dietro l'angolo. Casini, ad esempio, parla di «una tipologia di governo di armistizio che deve durare 4 o 5 anni». Qualcosa che assomiglia alla grande coalizione, favorita senza dubbio da una legge proporzionale. Bersani ripropone invece su "Repubblica" il «patto di coalizione» perché «non possiamo andare in campagna elettorale proponendo governissimi». Quindi pensa tuttora ad alleanze con Vendola e Di Pietro. Due prospettive molto diverse. La sintesi è tutta da inventare. Clicca per Condividere Il Sole 24 ORE - Commenti e Idee (3 di 34 articoli) ©RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2012-02-07/tempi-lunghi-riforme-cerca-214339.shtml?uuid=AasUkaoE Titolo: Stefano FOLLI. - Più realismo che ottimismo sul cammino difficile delle riforme Inserito da: Admin - Febbraio 10, 2012, 12:07:49 am Più realismo che ottimismo sul cammino difficile delle riforme
di Stefano Folli 9 febbraio 2012 A proposito di riforme e di "dialogo" fra i partiti, gli ottimisti si sono già pronunciati e hanno speso ottimi argomenti per salutare il disgelo fra Pdl e Pd. In sostanza, però, l'enfasi è servita a salutare la scelta di un metodo (sempre meglio della non-comunicabilità precedente) e alcune intese di principio. Ad esempio, è chiaro che non si potrà tornare al voto con la pretesa delle segreterie di compilare la lista dei candidati destinati a sicura elezione: come nel 2006 e nel 2008. Né si potrà ignorare che il paese si attende un tentativo, almeno un serio tentativo, di ridurre il numero dei parlamentari: 630 deputati e 315 senatori oggi sono eccessivi per il sentimento collettivo. Ma che si riesca davvero a rimaneggiarli con legge costituzionale prima della fine della legislatura, è tutt'altra questione. Per crederlo ci vuole una dose supplementare di ottimismo. In ogni caso, per ora siamo a questo: accordi di principio per trasmettere all'opinione pubblica il senso di una classe politica desiderosa di recuperare credibilità e impegnata ad auto-riformarsi. Non c'è molto di più. Il resto del percorso - in Parlamento e fuori - non sarà più facile, ma assai più difficile. Il che, s'intende, non toglie valore all'obiettivo finale, il rinnovamento del sistema e dei suoi assetti. Ma è bene essere realisti. La prova l'abbiamo avuta ieri nella conferenza dei capigruppo al Senato. Dopo tanti buoni propositi, è bastato scendere sul terreno delle decisioni concrete per scoprire quanto sono numerose le riserve mentali. Il centrodestra vuole incardinare le riforme istituzionali (bicameralismo, numero dei parlamentari, eccetera) prima e non dopo la legge elettorale. Il centrosinistra e anche i centristi vogliono l'opposto. È un ostacolo insormontabile? In situazioni normali non lo sarebbe. Si tratta di schermaglie abbastanza normali che vengono superate se esiste una volontà politica forte e determinata. Dunque la vera domanda è: esiste questa volontà nel circuito Alfano-Bersani-Casini? E soprattutto, esiste in Silvio Berlusconi? Il quesito al momento non trova una risposta certa. Abbiamo assistito all'apertura di un dialogo, ma nessuno ha spiegato con chiarezza quale Italia si vuole costruire in vista delle elezioni del 2013. Un impianto politico più o meno bipolare di quello che oggi si è arreso al governo tecnico? Al momento si cerca di ottenere un doppio risultato, venato peraltro di notevoli contraddizioni: un modello che premia i due maggiori partiti, ma al tempo stesso non umilia e anzi concede un ragionevole spazio agli altri soggetti intermedi (Lega, terzo polo, area Vendola-Di Pietro). Un proporzionale corretto, reso più solido dall'indicazione del premier e dall'istituto della sfiducia costruttiva. Aspetto, quest'ultimo, che proietta il dibattito sul terreno scivoloso delle modifiche costituzionali. Tutto si può e anzi si deve fare, ma ci vuole una grande coesione politica. Che al momento è tutta da verificare. Se Pdl, Pd e terzo polo fossero davvero decisi, avrebbero i numeri e i mezzi per procedere di buona lena. Tuttavia dovrebbero disinteressarsi del destino della Lega, da un lato, e del binomio Vendola-Di Pietro, dall'altro. Prima di dare per scontato un tale esito, aspettiamo almeno la primavera. Il disgelo con la temperatura sotto zero non è garantito. Clicca per Condividere ©RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2012-02-08/realismo-ottimismo-cammino-difficile-210009.shtml?uuid=AaYZ20oE Titolo: Stefano FOLLI. - NoTav, nuova prova di maturità per il governo (e per i partiti) Inserito da: Admin - Marzo 02, 2012, 11:42:12 pm NoTav, nuova prova di maturità per il governo (e per i partiti)
di Stefano Folli 29 febbraio 2012 La Valsusa è la nuova prova di maturità per il Governo e per l'intero sistema politico. Non è una novità, naturalmente. Sono circa dodici anni che la realizzazione della ferrovia veloce equivale a un rebus irrisolto e irrisolvibile. Discussioni, confronti, infiniti negoziati e compromessi. Nel tempo si è tentato di tutto, eppure la logica del movimento No-Tav ha sempre prevalso. In assoluta sintonia fra loro, governi di centrosinistra e di centrodestra, da Prodi a Berlusconi, si sono persi nei boschi piemontesi. E oggi siamo all'incirca al punto di partenza, in uno scenario reso drammatico dall'incidente occorso al giovane manifestante Luca Abbà caduto dal traliccio. La differenza con il passato è che a Roma esiste un governo «tecnico» che per sua natura è votato a realizzare l'opera. E che non ha alcuna ragione politica per arrendersi all'ennesimo rinvio. In Parlamento questo governo è sostenuto da un arco di forze che non avrebbero, a loro volta, alcun interesse a favorire le tattiche dilatorie. È vero che negli anni ora l'uno ora l'altro di questi partiti, quando si sono trovati al governo, si sono rivelati incapaci di affrontare la questione. Tuttavia, oggi che a Palazzo Chigi siede Mario Monti, dovrebbe essere più facile per tutti, dal Pdl al Pd passando per il terzo polo, mostrarsi responsabili e aiutare l'esecutivo a procedere senza ritardi. Tutto questo sulla carta. In pratica le cose sono più complicate. La questione No-Tav è ormai diventata una grande questione di ordine pubblico. Una seria questione, con blocchi sulle autostrade e in almeno una stazione ferroviaria (Lecce). Il rischio che la protesta dilaghi in forme ancora più incontrollate è reale. E fino a ieri le forze politiche non si erano mostrate particolarmente sensibili al problema. Nel complesso apparivano distratte, forse preoccupate di assumere posizioni troppo impegnative. Ora però la disattenzione non è più possibile. Il Pd ha preso l'iniziativa di provocare un dibattito in Parlamento e i tempi dovranno essere stretti. Non solo. È opportuno che la discussione si concluda con una mozione o in ogni caso con un documento in grado di segnare un momento di larga unità e di riunire, se possibile, anche i partiti che sono all'opposizione. Ieri ad esempio Di Pietro ha rilasciato una dichiarazione molto ambigua («l'alta velocità va fatta, ma studiamo un altro percorso») che con qualche ottimismo potrebbe essere intesa come un tentativo di non perdere i contatti con la maggioranza. Peraltro è Bersani che ha bisogno più di tutti di esprimere un forte sostegno al progetto, per non lasciare spazio a tutti i gruppi alla sua sinistra che civettano con i manifestanti anti-Tav. Quanto al governo, da un lato si sentirebbe rincuorato da un esplicito appoggio del Parlamento; dall'altro, sa di non poter aspettare. Lo stato dell'ordine pubblico richiede una forte determinazione: capacità di gestire la piazza, ma senza mandare a monte i lavori che stanno cominciando. Finora i ministri hanno parlato con due voci. Passera ha detto: «Andiamo avanti». La responsabile dell'Interno ha invece affermato: «Ci vuole dialogo». Le due frasi possono essere complementari oppure del tutto contraddittorie. Molti No-Tav hanno inteso l'invito al «dialogo» come una possibilità di sospendere il progetto. Ovviamente non è questa l'intenzione del governo. Ma allora quale sarà l'obiettivo del confronto? Forse guadagnare tempo per svelenire la tensione fino a riassorbirla. Ma anche per questo ci vuole che i manifestanti si sentano isolati. E torniamo alla responsabilità del Parlamento. Sembra arrivato il tempo delle parole chiare. Il Sole 24 ORE - Commenti e Idee (4 di 31 articoli) ©RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2012-02-29/notav-nuova-prova-maturita-082628.shtml?uuid=Aa7pfXzE Titolo: Stefano FOLLI. - Da Vasto a Parigi il disagio del Pd Inserito da: Admin - Marzo 17, 2012, 12:10:26 pm Da Vasto a Parigi il disagio del Pd
di Stefano Folli La condizione di Pierluigi Bersani non è invidiabile. Non solo per il sentiero su cui il segretario del Pd è obbligato a camminare, nel sostegno leale a un governo «tecnico» che ha fatto del rigore il suo vessillo europeo mentre l'economia reale langue nella recessione. Non solo per le divisioni che lacerano il Pd un po' ovunque, come si è visto con lo spettacolo tragicomico delle primarie di Palermo. Ma ora c'è un'insidia ulteriore che tocca la collocazione del partito in Europa. Una questione inventata a tavolino, si potrebbe dire, per mettere Bersani di fronte a un "aut aut" al quale dare risposte è quasi impossibile. Un gruppo di cattolici del Pd – non Rosy Bindi ma i più moderati Fioroni e Follini – contesta l'appoggio offerto al candidato dei socialisti francesi, Hollande, e chiede che la preferenza dei democratici italiani si orienti invece sul centrista Bayrou. Tutto questo mentre Bersani arriva a Parigi dove oggi è prevista una grande kermesse dei socialisti europei a favore dell'uomo che contende a Sarkozy l'Eliseo. Sotto uno slogan che non pecca per eccesso di sobrietà («Nuovo rinascimento per l'Europa»), Bersani spezzerà la sua lancia per il candidato della sinistra. È strano? Non tanto, se si considera che Hollande, come è noto, è in testa nella maggior parte dei sondaggi e ha discrete probabilità di sconfiggere Sarkozy nel ballottaggio. Come dire che dopo anni di tribolazioni la sinistra europea potrebbe piantare la sua bandiera nel cuore di una delle più importanti capitali del continente. Ma a Bersani non è consentito nemmeno inseguire questa vittoria per interposta persona. Il gruppo centrista ed ex-democristiano del Pd gli chiede di preferire un candidato come Bayrou, che non ha alcuna possibilità di raggiungere il ballottaggio, ma che forse è un europeista più ortodosso di Hollande. In sostanza Bersani dovrebbe fare sulla Francia la stessa scelta di Casini. Il che francamente è pretendere troppo. In realtà, quello che vogliono i firmatari del "manifesto" centrista è mettere in luce le profonde e irrisolte fratture interne al Pd. Vogliono segnalare che il nuovo partito non è mai nato e che la fusione delle diverse culture politiche non è mai avvenuta. Gli ex-comunisti, si sottintende, rimangono tali e tendono a mescolarsi ai socialisti europei (a loro volta in crisi di prospettiva); gli ex-dc si sentono fuori posto e lo segnalano a ogni pie' sospinto. Quindi la lettera pro-Bayrou serve a indicare un disagio crescente. Che potrebbe anche, chissà, preludere al futuro distacco della costola cattolico-moderata dal Pd. Oppure a una richiesta di buone posizioni nelle liste di domani. Dipenderà molto dalla legge elettorale, se mai si riuscirà a riscriverla in senso proporzionale. E da altri fattori per ora imprecisati. Sta di fatto che il destino di Bersani è sempre quello di destreggiarsi tra una serie di foto simboliche. Ieri quella di Vasto con Vendola e Di Pietro. Oggi quella di Parigi con Hollande e gli altri socialisti. L'unica fotografia che i suoi critici accettano è quella di Palazzo Chigi, con Monti, Alfano e Casini. Un'allusione esplicita alla grande coalizione che il segretario del Pd può solo rifiutare in questa fase in cui si prende la rincorsa per le elezioni del 2013. Fino ad allora c'è da credere che Bersani non vorrà farsi scavalcare a sinistra da Vendola. Quindi spetta ai centristi prendere le loro decisioni. © RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2012-03-17/vasto-parigi-dietro-guerra-081424.shtml?uuid=Abae9a9E# Titolo: Stefano FOLLI. - La terza via del premier Inserito da: Admin - Marzo 22, 2012, 12:21:59 pm La terza via del premier
Stefano Folli 21 marzo 2012 Di fronte ai passaggi stretti di una storica trattativa sul mercato del lavoro, il Governo Monti poteva scegliere fra una linea dura e una, diciamo così, molto morbida. La linea dura si sarebbe riassunta così: mettere fine al negoziato con i sindacati presentando un testo del tipo "prendere o lasciare" per poi trasformarlo, con o senza la firma delle forze sociali, in un decreto legge sul quale il Parlamento avrebbe avuto sessanta giorni di tempo per deliberare. Magari sospinto da un voto di fiducia. Questa procedura avrebbe costituito una vera e propria sfida a tutto campo. In particolare nei confronti della Cgil, da un lato, e del Pd, dall'altro. E non occorre molta fantasia per immaginare gli effetti di una simile scelta. La linea morbida era l'opposto. Voleva dire proseguire nella trattativa fino all'estenuazione. Avere la Cgil come interlocutore privilegiato, subire in qualche caso i suoi veti e accettare via via le sue condizioni per un compromesso che avrebbe creato molti scontenti nel mondo delle imprese. Questa posizione sarebbe stata, è ovvio, gradita ai partiti della sinistra. Ma avrebbe determinato non poche fratture sul versante destro del Parlamento. Anche in questo caso, probabile instabilità nel tripartito della quasi-maggioranza. Sembra di capire che Monti abbia scelto una terza via. Vediamo in che termini. Si tiene ferma la scadenza prevista per il negoziato, in modo che non si dica che il governo ha menato il can per l'aia. Si presentano le linee di un testo concreto e ambizioso, anche sulla controversa riforma dell'articolo 18. È il testo che costituisce la proposta finale dell'esecutivo alle parti sociali. Con la Cisl di Bonanni che si dichiara d'accordo e la Cigl invece negativa; mentre la Uil è a favore chiedendo correttivi. Si mette l'accento su ciò che ha unito gli interlocutori seduti intorno al tavolo di Palazzo Chigi. E si tende a circoscrivere, pur rispettandolo, il dissenso della Cgil proprio sulle modifiche dell'articolo 18 (nodo peraltro cruciale). Quel che conta, non si chiedono le firme ai sindacati e alle altre parti sociali in calce a ipotetici «patti». Al contrario, si prende atto dei punti d'intesa e di quelli su cui è rimasto il disaccordo, riunendoli in una sorta di «verbale». E sulla base di questo racconto complessivo della trattativa, il governo Monti si prepara a rivolgersi al Parlamento. Chiamerà in causa le forze politiche, offrendo loro il risultato di una complessa mediazione, non del tutto riuscita. Spetterà al Parlamento recepire o no il lavoro del governo e calarlo nella cornice di una legge equilibrata che segnerà una svolta nelle relazioni di lavoro (in serata peraltro girava ancora l'ipotesi più drastica e perentoria di un decreto). Dopo le forze sociali, spetta dunque ai partiti rinunciare a qualcosa e contribuire alla soluzione del rebus. Il sentiero rimane stretto. Ma il risultato di ieri deve molto al passo compiuto lunedì da Giorgio Napolitano, con la richiesta a tutti i soggetti coinvolti nel negoziato di guardare soprattutto agli interessi generali del paese. Sta di fatto che Monti ha dimostrato di non aver paura di decidere. La concertazione c'è stata, ma – in ossequio alle promesse fatte – non si è rivelata paralizzante. Alla Cgil non è stato concesso di esercitare il potere di veto. E ora il coinvolgimento del Parlamento permette alle forze politiche di intervenire con la loro autonomia per correggere e integrare questo o quel punto del progetto governativo. È questa la via che Bersani intravede per togliersi da una difficoltà che senza dubbio esiste e non è trascurabile per un partito di sinistra. La pressione della Cgil, a sua volta incalzata dalla Fiom, non sarà irrilevante nelle prossime settimane. Ma ognuno dovrà fare la sua parte. La giornata di ieri dice che sulla riforma del lavoro non c'è stata l'intesa, ma nemmeno una frattura senza speranza. Si è verificato un dissidio ampio e profondo, ma suscettibile di essere gestito con senso di responsabilità, attraverso tempi politico-parlamentari che non saranno troppo brevi. da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2012-03-21/terza-premier-063621.shtml?uuid=AbzxzdBF Titolo: Stefano FOLLI. - Strappo politico da ricucire Inserito da: Admin - Marzo 23, 2012, 11:23:06 pm Strappo politico da ricucire
di Stefano FollI 23 marzo 2012 «Lo strappo di Monti» titolava ieri l'Unità, giornale del Pd. È un titolo polemico, ma soprattutto vuole esprimere il risentimento di chi si sente tradito. Il colpevole sarebbe Monti, colui che ha operato lo strappo; il Pd invece dipinge se stesso nella parte della vittima, di chi ha subìto una grave ingiustizia: è questo il tono scelto dal quotidiano di Bersani, anche nel commento del direttore Claudio Sardo. Ma concentrarsi sullo «strappo» del presidente del Consiglio ha un significato politico evidente. Equivale a darsi come obiettivo la ricomposizione della frattura, sfruttando fino in fondo il passaggio cruciale in Parlamento. Se c'è stato un malinteso o una forzatura, i margini per ricomporre l'incomprensione sono, o dovrebbero essere, a portata di mano. Ed è vero che il Pd è un partito in subbuglio come mai nella sua storia, pressato dai suoi elettori, dalla Cgil, dalle correnti della sinistra interna. Ma è altrettanto vero che il primo a desiderare la ricucitura è il segretario Bersani e con lui buona parte del vertice. Quale sarebbe l'alternativa? Una scissione nel segno della riforma del lavoro sarebbe il suicidio del Pd. Una fetta andrebbe a ingrossare le file del "terzo polo", un segmento forse lascerebbe la politica e una parte non piccola sarebbe calamitata da Vendola, avendo la Cgil come il sole intorno a cui orbitare. Sarebbe necessario un numero imprecisato di anni prima di ricostruire una forza riformista capace di attrarre anche gli elettori moderati. Ecco perché tutti nel partito, anche i critici di Bersani (a cominciare da Veltroni che si rivolge a Monti: «Non servono diktat») appaiono cauti e concentrati sulle modifiche parlamentari. D'altra parte, se il Pd non riesce ad accettare la riforma Monti-Fornero, sia pure emendata dalle Camere, la stabilità del Governo sarebbe scossa dalle fondamenta. Come è noto, l'equilibrio si regge sul tacito patto Pdl-terzo polo-Pd. Se l'assetto si rompe, ne deriva una crisi dell'esecutivo tecnico destinata a precipitare il Paese verso le elezioni anticipate in condizioni che dire drammatiche è poco. Non è strano che Vendola descriva questa prospettiva in termini positivi dal suo punto di vista; ma sarebbe molto strano se questa fosse la scelta finale di Bersani e del gruppo dirigente. In sostanza, la priorità è ricomporre lo strappo. Ridare un ruolo al Pd come principale partito del centrosinistra (e primo nei sondaggi a livello nazionale). Ridurre l'area delle tensioni sociali, fermo restando che la Cgil non rinuncerà alla sua linea ostile. Non dovrebbe essere impossibile raggiungere questi traguardi attraverso il lavoro del Parlamento, tanto più che lo strumento sarà la legge delega e non il decreto. Ci sono emendamenti che stravolgono una legge e altri che ne integrano e correggono questo o quell'aspetto. Monti ha interesse a mantenere il punto, in particolare a rendere chiaro che il potere di veto sindacale è stato sconfitto. Ma ovviamente non ha interesse a sfidare un pezzo della sua maggioranza fino al punto di far naufragare il Governo. Peraltro il premier è di sicuro consapevole che il problema sociale esiste, testimoniato anche dalle prese di posizione inusuali del mondo cattolico. Il centrosinistra, a sua volta, ha interesse a ottenere un risultato politico, perché la sua voce non può essere ignorata o mortificata. Ma non ha alcun interesse a spezzare il filo che tiene in piedi il Governo tecnico. Tanto più che, come ricorda Pietro Ichino, molti dei tasselli che compongono il testo complessivo della proposta governativa sono stati ricalcati dagli studi e dalle iniziative elaborati dallo stesso Pd negli ultimi anni. Quando c'è la convenienza politica a trovare un'intesa, è difficile che la situazione sfugga di mano. E in questo caso i margini di compromesso ci sono tutti. ©RIPRODUZIONE RISERVATA DA - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2012-03-22/strappo-politico-ricucire-230433.shtml?uuid=AbBJ5hCF Titolo: Stefano FOLLI. - Tre protagonisti: il premier, la Cgil, i partiti Inserito da: Admin - Marzo 25, 2012, 10:27:47 pm Ragioni e tattiche di tre protagonisti: il premier, la Cgil, i partiti di Stefano Folli 25 marzo 2012 Sulla riforma del lavoro tutti ormai hanno fissato le loro posizioni, il che non significa che resteranno immobili. Vediamo come. Il presidente del Consiglio Monti, in partenza per l'Estremo Oriente, ha ripetuto che per il Governo il testo della legge non deve essere modificato. È una linea che ha fatto guadagnare al premier il plauso dell'Europa e di quei giornali della comunità internazionale che sono letti dagli investitori. Il messaggio è arrivato a destinazione, c'è da presumere. Un po' come era accaduto qualche settimana fa con il decreto liberalizzazioni, che pure non è di sicuro rivoluzionario. Ora, nel caso del lavoro, il Governo non ha nemmeno fatto ricorso al decreto legge, bensì - come è noto - a un normale disegno di legge. Se avesse voluto avere maggiori garanzie che le norme sarebbero state toccate il meno possibile dal Parlamento, Monti sapeva che lo strumento più idoneo era il decreto. Il che significa una cosa: per il Governo la legge non deve mutare, ma le Camere sono sovrane. Quindi le parole del premier vanno forse interpretate nel senso che il testo della riforma non dovrà essere snaturato e stravolto dal passaggio parlamentare. Ma se le modifiche saranno compatibili con la filosofia del provvedimento (rendere più flessibile il lavoro in entrata e in uscita), il Governo le accetterà. Del resto, una posizione più blanda del presidente del Consiglio in questa fase avrebbe incoraggiato gli avversari della riforma. In questo si fissa almeno una cornice generale. Secondo punto, il sindacato e in particolare la Cgil. A Cernobbio, il clima fra Susanna Camusso e Monti era in apparenza più disteso di quanto fosse presumibile. Non significa nulla, naturalmente, ma l'impressione è che nemmeno la Cgil voglia soffiare sul fuoco, una volta fissata la propria linea alternativa a quella del Governo. La stessa segretaria generale sa che d'ora in poi la parola spetta ai partiti e al Parlamento. Il che le consente di modulare le azioni di protesta e di rinviarne molte a dopo le elezioni amministrative. Questo permetterà non tanto di riassorbire il dissenso del maggiore sindacato, quanto di studiare l'area degli emendamenti e di individuarne alcuni su cui il compromesso sarà possibile alle Camere senza perciò irritare Palazzo Chigi. Sarà un lavoro di mediazione che richiederà molta pazienza e cautela, ma la Cgil ha l'aria di voler restare alla finestra. Almeno per adesso. A maggior ragione, Cisl e Uil vorranno giocare la loro partita (eppure, come sappiamo, il presidente del Consiglio non ha voluto firmare alcun "patto separato" con due sindacati su tre e di sicuro non cambierà attitudine). I partiti, dal canto loro, sanno che ora viene il loro turno. Da un lato il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha indicato a tutti qual è il sentiero in cui possono muoversi se vogliono rendere un servigio all'interesse generale della collettività. Dall'altro, le esigenze della propaganda impongono di tenere alto il livello della polemica, almeno fin quando non si sarà votato per comuni e province. Un test troppo importante perché lo si possa prendere sotto gamba. Casini, che è sempre il più fedele sostenitore di Monti, si è precipitato a rimbrottare Alfano e Bersani, imputando loro la volontà di indebolire il premier senza rendersi conto di quale disastro sarebbe per l'Italia la caduta dell'esecutivo. Quanto ai leader di Pdl e Pd, le loro posizioni sono molto lontane sulla carta. Il primo vorrebbe una riforma più dura, il secondo chiede i reintegri economici dei licenziati. Posizioni quasi opposte. Ma se il dibattito prenderà in Parlamento la via di tempi medio-lunghi, certe tensioni potranno essere stemperate. Specie dopo il voto. Nel presupposto che la crisi di Monti non conviene a nessuno e che nessuno è pronto al salto nel buio. Certo, tutto questo non garantisce una buona ed efficace riforma del lavoro. Ma in ogni caso avremo un passo avanti rispetto al passato. I tabù della concertazione paralizzante sono stati abbattuti, come il premier ha fatto sapere al d là dei confini italiani. La riforma non avrà effetti taumaturgici, ma il primo passo è stato compiuto. E altri ne verranno, soprattutto se il Parlamento farà la sua parte ed eviterà d'insabbiare la legge. Clicca per Condividere Il Sole 24 ORE - Notizie (1 di 39 articoli) ©RIPRODUZIONE RISERVATA DA - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2012-03-25/ragioni-tattiche-protagonisti-premier-175134.shtml Titolo: Stefano FOLLI. - Un monito da non sottovalutare Inserito da: Admin - Marzo 27, 2012, 07:18:38 pm Un monito da non sottovalutare
di Stefano Folli 27 marzo 2012 Il premier voluto quattro mesi fa dal Quirinale con un'operazione politica quasi senza precedenti ha lanciato da Seul un avvertimento a dir poco significativo. Ha detto di non avere alcuna vocazione al «tirare a campare» di andreottiana memoria; e di voler restare a Palazzo Chigi solo per fare buone riforme. Se questo non sarà possibile perchè «il paese non è pronto» (leggi: se i partiti fanno resistenza passiva), allora abbandonerà il campo. E lascerà tutti, protagonisti e comprimari della partita politico-istituzionale, soli di fronte alle loro responsabilità. È un segnale esplicito nelle ore in cui sono più forti le polemiche sulla riforma del lavoro e in cui affiorano battute e ammiccamenti sul «governo indebolito». Bersani, che ieri ha tenuto unito il Pd nella prospettiva della discussione parlamentare, pensa che siano «parole da non sopravvalutare» in quanto, a suo dire, Monti si è già espresso così una dozzina di volte. Sopravvalutare? Il problema è che queste frasi non vanno sottovalutate. Questo è il rischio che oggi corrono i partiti. I quali hanno ovviamente il diritto di emendare la riforma del lavoro - tanto più che si tratta di un disegno di legge e non di un decreto -, ma al tempo stesso hanno il dovere di approvarla in tempi ragionevoli (entro luglio), senza stravolgerne i princìpi cardine (il pericolo delle «polpette» evocato da Elsa Fornero). Un dovere che riguarda tutte le maggiori forze, dal Pd al Pdl. Perché è chiaro che la riforma dovrà avere il consenso del tripartito (Pdl, Pd, terzo polo) che appoggia il governo. Non esiste un'ipotesi di maggioranza «a macchia di leopardo». Quindi il passaggio è stretto. Talmente stretto da giustificare l'avvertimento di Monti, visto che la riforma - compreso il famoso articolo 18 - costituisce un passaggio ineludibile nel percorso del governo tecnico. È chiaro che c'è una sofferenza dei partiti, di sinistra ma anche di destra, di fronte a una materia che tocca la disciplina dei licenziamenti. E c'è una sofferenza dei «tecnici» al governo perché per la prima volta in quattro mesi l'ostacolo da superare fa paura. Ma il governo Monti resta senza alternative che non siano elezioni anticipate in autunno, svolte in condizioni disastrose per il paese: con una sinistra risucchiata sulla linea più massimalista e una destra sospinta verso un estremo populismo. Ecco allora che Monti ha tolto alibi ai partiti. In altre parole, l'esecutivo non accetterà che la riforma Fornero sia insabbiata. Se qualcuno pensa al passaggio in Parlamento con questa riserva mentale, ha sbagiato i conti. E il monito non è rivolto solo al Pd: più che altro è indirizzato a tutti coloro che pensano di fare del dibattito sulla riforma un'occasione di scontro permanente e sterile. Sotto questo aspetto, Casini era stato il primo a segnalare la gravità di una crisi di governo provocata dalle liti sulle procedure di indennizzo e/o reintegro del lavoratore. Peraltro la soluzione di compromesso esiste ed è l'adozione del modello tedesco, su cui l'accordo Alfano-Bersani alle Camere è più che plausibile, purchè prevalga il buon senso. E in ogni caso i capi politici, nei prossimi tre mesi, dovranno fare attenzione a non commettere un errore di troppo. Da un lato la caduta di Monti sarebbe un atto di irresponsabilità; dall'altro i partiti sono lungi dall'aver riacquistato un sufficiente grado di credibilità. Di sicuro sbagliano se pensano d'esser tornati al centro della scena. Per cui l'immagine non troppo felice di Casini («nel 2013 Monti consegnerà le chiavi di Palazzo Chigi alla politica; poi si vedrà se la politica gliele vorrà riconsegnare»), fissa una fotografia poco realistica dell'Italia di oggi. E soprattutto di quella di domani. Il Sole 24 ORE - Commenti e Idee (4 di 34 articoli) ©RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2012-03-27/monito-sottovalutare-092401.shtml?uuid=AbBJfjEF Titolo: FOLLI. - I nuovi accordi di principio sulle riforme e il paradosso di Mark Twain Inserito da: Admin - Marzo 28, 2012, 02:44:47 pm I nuovi accordi di principio sulle riforme e il paradosso di Mark Twain
di Stefano Folli 28 marzo 2012 Sosteneva Mark Twain, il grande scrittore americano, che è facilissimo decidere di smettere di fumare: «Io per esempio lo faccio ogni mattina», concludeva. Sulle riforme istituzionali in Italia vale un po' la stessa regola: decidere di farle è semplice, basta un vertice di maggioranza. E infatti è la terza o quarta volta negli ultimi tempi che si annunciano accordi di principio per diminuire il numero dei parlamentari, ridefinire i poteri del premier e soprattutto avviare una riforma elettorale in grado di accantonare l'attuale «Porcellum». Se bastassero le intese generali, oltretutto fissate in esclusiva dai tre segretari della non-maggioranza che appoggia Monti, l'Italia sarebbe il paese più riformato del mondo. Sfortunatamente le leggi, costituzionali e ordinarie, devono passare al vaglio del Parlamento, e non c'è alcuna garanzia che i princìpi affermati nei vertici si trasformino poi in leggi dello Stato. Tutto è possibile, s'intende, anche che il «summit» di ieri segni un punto di svolta, ma finora l'esperienza è tutt'altro che incoraggiante. Come è ovvio, quello che conta in questi casi è il dato politico. Il fatto che la strana maggioranza, messa sotto accusa dal presidente del Consiglio («io non voglio tirare a campare»), percorsa da fermenti dissonanti e addirittura inseguita da voci di crisi, persino di elezioni anticipate in autunno, ebbene questa maggioranza-non-maggioranza ha voluto dimostrare di esistere. Come dice Casini, il più attivo nel favorire l'incontro di ieri con Alfano e Bersani: «Ci era stato chiesto di battere un colpo e noi l'abbiamo battuto». S'intende che il vertice avrebbe avuto ben altra efficacia se ne fosse scaturita un'intesa sulla riforma del lavoro. Ma era irrealistico: sul punto Bersani non avrebbe mai potuto impegnarsi, in attesa che si pronunci il Parlamento. Quindi i tre capi politici hanno tirato fuori dal cassetto i vari capitoli delle riforme istituzionali, in precedenza già definiti a grandi linee. Ed ecco la bozza Violante per la legge elettorale, con il ritorno al proporzionale corretto da una soglia di sbarramento. Accanto a un tema sempre-verde come il taglio di deputati e senatori. La novità sarebbe che le riforme costituzionali e la legge elettorale (che è di natura ordinaria) dovrebbero prendere il via in modo parallelo al Senato la prossima settimana. Si può quindi capire la soddisfazione del capo dello Stato che da tempo incoraggiava le forze parlamentari ad assumere un'iniziativa e a dare all'opinione pubblica un segnale di vitalità riformatrice. Peraltro un Parlamento che lavora sui grandi temi ha meno tempo e voglia di tagliare l'erba sotto i piedi al presidente del Consiglio. Detto questo, l'accordo non significa ancora molto. I ritocchi alla Costituzione restano un obiettivo remoto, visto che nel paese non si respira proprio un'aria «costituente» e quattro letture sono tante quando manca meno di un anno alla fine della legislatura. Sulla carta la riforma elettorale è invece più a portata di mano. Ma quanto è destinata a reggere l'intesa raggiunta ieri a Montecitorio? Una parte del Pd rimprovera già a Bersani di aver abbandonato il bipolarismo, ossia la posizione ufficiale del partito fino all'altro giorno. In effetti il venir meno del vincolo di coalizione, cioè la rinuncia alle alleanze dichiarate prima del voto, segna una svolta a U per i democratici e non si sa quanti accetteranno il «patto» siglato con Alfano e Casini (quest'ultimo è il vero beneficiario dell'accordo, ove mai dovesse reggere alla prova del Parlamento). Da notare, tra l'altro, che con la riforma l'indicazione del premier non avrà più senso, in quanto la candidatura a Palazzo Chigi scaturirà solo dalle alleanze post-elettorali. © RIPRODUZIONE RISERVATA DA - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2012-03-28/nuovi-accordi-principio-riforme-064308.shtml?uuid=Ab13z8EF Titolo: Stefano FOLLI. - Confessioni di un impolitico? O forse mossa di un politico ... Inserito da: Admin - Marzo 29, 2012, 05:18:18 pm Confessioni di un impolitico? O forse mossa di un politico nascente
di Stefano Folli 29 marzo 2012 È senz'altro vero che in Italia il governo Monti registra un ampio consenso nell'opinione pubblica, quel consenso che i partiti tradizionali hanno perso. Per meglio dire, l'esecutivo «tecnico» è percepito come credibile, anche quando perde qualche punto nei sondaggi: come sta avvenendo in questi giorni a causa della controversa riforma del lavoro. D'altra parte, gli elogi che il presidente del Consiglio va raccogliendo all'estero, da Obama alla Ue, dal leader cinese agli interlocutori giapponesi, testimoniano del personale credito che il premier si è guadagnato nei primi mesi del mandato. E lasciano capire che Monti è in questo momento l'interlocutore privilegiato, e diciamo pure insostituibile, di quel mondo globale che guarda all'Italia per investimenti e altro. Questa è la realtà. E quando il premier all'estero ricorda, con un po' di risentimento, che i partiti hanno perso credito e consenso, non fa che confermare di essere in sintonia con la comunità internazionale. Come dire: continuate ad avere fiducia nell'Italia perché il timone lo controllo io e non i vecchi partiti pasticcioni. Quello che Monti non dice, ma sottintende in forme trasparenti, è che i tatticismi delle forze politiche, il loro tortuoso ed estenuante modo di procedere, la tendenza a spaccare il capello in quattro, lo hanno parecchio irritato. Sentimento che deve essere più forte quando si guarda verso Roma da qualche migliaio di chilometri di distanza e tutto appare remoto e provinciale. Specie allorché c'è di mezzo una riforma, come quella del mercato del lavoro, studiata per favorire lo sviluppo e arenata sui veti politico-sindacali. Detto questo, l'uscita del premier si presta a una serie di critiche. In primo luogo, certi concetti non possono essere reiterati ogni giorno. Monti lo aveva appena detto («io non tiro a campare»): perché ripetersi, visto che non sono emerse particolari novità nelle ultime 48 ore? Tutta questa insistenza nel sottolineare i limiti dei politici tradisce una certa insofferenza che in apparenza è impolitica. E tra l'altro contraddice l'attitudine felpata e molto astuta del primo Monti, quello che tra novembre e gennaio ha messo in riga i partiti coprendoli di elogi o almeno di riferimenti rispettosi. In secondo luogo il premier tende a mescolare piani diversi. Il consenso al governo (e a chi lo guida) viene registrato dai sondaggi giorno dopo giorno. È sempre piuttosto alto, nonostante l'articolo 18. Tuttavia i partiti, screditati nei sondaggi, troveranno i loro voti nelle urne del 2013 e si sentiranno rilegittimati. Quale che sia il tasso di astensione, conteranno i simboli politici vecchi e nuovi. Se Monti vuole fotografare la perdita di credibilità dei partiti al di là dei rilevamenti demoscopici, non ha che un mezzo: presentare una sua lista la prossima primavera e provocare un serio smottamento degli equilibri parlamentari. Se lo facesse otterrebbe un prevedibile successo (significativo il sondaggio volante di Sky Tg 24 sulle parole del premier: gli dà ragione circa il 75 per cento). I partiti tradizionali, a destra come a sinistra, pagherebbero un duro scotto. Il sistema politico ne uscirebbe trasformato. È questo che vuole il presidente del Consiglio? Sembra di no, visto che non perde occasione di evocare il suo ritorno alla vita privata («il dopo Monti? Sarà fantastico. Per me», ha detto in Giappone). Eppure le frasi contro i partiti lasciano intendere che non tutto è chiaro nella storia dell'esperimento Monti, nel suo rapporto con la pubblica opinione e nella sua prospettiva politica. Il 2013 è lontano e molte cose devono ancora accadere. Clicca per Condividere Il Sole 24 ORE - Commenti e Idee (1 di 4 articoli) ©RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2012-03-29/confessioni-impolitico-forse-mossa-081837.shtml Titolo: Stefano FOLLI. Sul lavoro compromesso politico possibile ma Monti deve guidarlo Inserito da: Admin - Aprile 03, 2012, 05:30:33 pm Sul lavoro compromesso politico possibile, ma Monti deve guidarlo
di Stefano Folli 03 aprile 2012 C'è un interesse piuttosto evidente dei tre leader di maggioranza (Alfano, Bersani e Casini) a chiudere l'intesa sulla riforma del lavoro e sull'articolo 18 in tempi medi, se non proprio brevi. Per evitare, come dice Casini, che l'argomento avveleni per mesi il dibattito pubblico, condizionando la campagna elettorale: quella che oggi riguarda le amministrative, ma anche quella che dopo l'estate accompagnerà gli ultimi mesi della legislatura verso il cruciale voto politico del 2013. Non a caso il presidente del Senato, Schifani, pensa che siano necessari una quarantina di giorni per approvare la legge e salvaguardare il quadro politico. D'altra parte, il compromesso non è ancora pronto. Difficile quindi credere che il disegno di legge che il governo si accinge a presentare possa rispecchiare in modo compiuto quello che non c'è. Ne deriva che ci sarà un gran lavoro per il Parlamento, se si vogliono collocare tutti i tasselli al loro posto. Sulla carta, le posizioni di merito sono distanti. E il rischio paventato dalle imprese è che il desiderio di chiudere la partita sul terreno politico porti a un cattivo compromesso: cioè allo svuotamento della riforma e a più pesanti oneri per le aziende. Sarebbe la beffa dopo il danno. Però è vero che i nodi, come si dice, stanno arrivando al pettine. Davanti al governo Monti il bivio è chiaro. Da un lato il tripartito dà segni di voler cercare la sintesi. Soprattutto per ragioni di convenienza: nessuno può permettersi di mettere in crisi il governo «tecnico» senza sapere cosa accadrà dopo. E poi si tratta di una materia molto delicata. In tempi di recessione e di disoccupazione, neanche Alfano ha voglia di abbracciare una linea dura quando si parla di licenziamenti più o meno facili. E infatti cosa dice il giovane segretario del Pdl? Chiede che l'accordo eventuale non sia sottoscritto alle condizioni della Cgil, adombrando che il Pd di Bersani sia succube di Susanna Camusso. È un argomento utile quando si vuole mandare un messaggio al proprio elettorato, ma non rappresenta un ostacolo serio al negoziato. Nella sostanza Alfano ha raccolto la mano che gli ha teso Bersani nell'intervista a «Repubblica». Mentre Casini, è ovvio, resta il mediatore per eccellenza, il consueto smussatore di angoli. Dall'altro lato Monti non può rinunciare a una riforma autentica del mercato del lavoro, molto al di là delle pastoie dell'articolo 18. Ciò implica che il presidente del Consiglio sia in grado di sfruttare, sì, il disgelo tra le forze politiche, ma anche di guidare il negoziato, senza abbandonarlo alla forza d'inerzia dei partiti. Perché in tal caso il compromesso parlamentare rischierebbe di essere insoddisfacente e contraddittorio con le esigenze di una buona legge. In altre parole, è adesso che Monti deve dimostrare che l'apprendistato politico di questi mesi sta dando i suoi frutti. Lasciata a se stessa, la semi-maggioranza parlamentare è destinata con ragionevole certezza a individuare un accordo al ribasso. Ma il polso del premier (l'uomo che guida un governo «con un consenso più alto di quello dei partiti») può rovesciare la tendenza. E spingere i partiti a intese che non tradiscano lo spirito della riforma. Una parte rilevante del mondo sindacale è pronto a sostenere questo passaggio (si vedano le costanti dichiarazioni di Bonanni). La Cgil farà le sue valutazioni, ma Bersani ha già ribadito che il Pd è «autonomo» rispetto al sindacato. © RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2012-04-03/lavoro-compromesso-politico-possibile-064051.shtml?uuid=AbHMGDIF Titolo: Stefano FOLLI. - Il compromesso possibile Inserito da: Admin - Aprile 05, 2012, 10:36:08 am Il compromesso possibile
di Stefano Folli 05 aprile 2012 L'accordo sul lavoro non è fatto per piacere a tutti. Le imprese, in particolare, vorranno vederci chiaro in un reticolo di norme che rischiano, in qualche caso, di rendere più rigido e non più flessibile il sistema e di aumentarne i costi. Ma dal punto di vista politico Monti può essere contento del risultato. Aveva di fronte le sabbie mobili e ne è uscito senza nemmeno imbrattarsi i vestiti. Poteva rimettersi ai partiti e alle loro inquietudini, lasciando che fossero loro a trovare il bandolo della matassa in Parlamento, e invece ha guidato il negoziato che ha condotto al compromesso. Ha sfruttato le debolezze delle forze politiche, la loro ansia di rimuovere dal tavolo l'articolo 18, ma si è ben guardato dall'umiliarle. Al contrario, ha restituito un ruolo a Pdl, Pd e Udc, rendendo i tre capi-partito compartecipi di un'intesa che può avere un significato profondo nella storia dei rapporti di lavoro. Monti ha puntato sulla stabilità e ha compreso che anche i tre leader della semi-maggioranza parlamentare avevano lo stesso interesse convergente. Nessuno vuole correre pericoli, nessuno ha la forza e la volontà di imboccare una strada diversa da quella che conduce senza alternative verso l'approdo del 2013. Con questo Governo, questo premier e con lo stesso equilibrio parlamentare. Poi, nel merito della riforma, si vedrà alle Camere. Il dibattito, possiamo immaginarlo, non sarà privo di tensioni. Gli attacchi di Di Pietro al presidente del Consiglio sono violenti e scomposti, ma il «patto di sindacato» composto da Alfano, Bersani e Casini ha tutta l'aria di voler reggere alla prova, salvo qualche correttivo minore alla riforma. In realtà, se la Cgil, come sostiene il segretario del Pd, ha motivo di essere «soddisfatta», i margini di manovra delle forze alla sinistra di Bersani sono limitati. Quanto alla destra, la crisi devastante in cui è precipitata la Lega dimostra che la linea realistica e moderata del binomio Berlusconi-Alfano è l'unica praticabile. Monti non ha motivo di lamentarsi. Anche se è pericolosa la tentazione di Bersani di accreditarsi come il vincitore della partita: qualcosa su cui Casini può sorvolare, ma che Alfano non può accettare. In ogni caso la parola più appropriata è compromesso. Compromesso favorito da Palazzo Chigi in nome del realismo politico. Qualcuno dirà: eccesso di realismo. Si aprirà la discussione sul bicchiere che contieme la riforma: è mezzo pieno o mezzo vuoto? Difficile dirlo oggi. Ma per Monti quello che conta è andare avanti, consolidare l'assetto che regge l'esecutivo, riannodare il filo mai spezzato che lo lega ai partiti della semi-maggioranza. Una grande coalizione di fatto, ha detto il presidente del Consiglio in un'intervista alla Stampa. Una grande coalizione che dovrà durare fino al 2013, certo, ma anche oltre. Quando «io - aggiunge con una punta di civetteria - guarderò dal di fuori». Inutile domandarsi oggi quanto sia sincera questa affermazione, quanto sia autentico il desiderio del premier di assistere da semplice spettatore alle vicende della prossima legislatura. Molto dipenderà anche dall'eventuale riforma elettorale. Di sicuro è vero che sul mercato del lavoro, ma non solo, abbiamo avuto conferma che l'Italia è retta da un Governo tecnico-politico sostenuto in Parlamento da una larga coalizione non dichiarata, però effettiva. Il problema è capire cosa accadrà domani. Ammettiamo che la riforma del lavoro sia approvata dal Parlamento nei tempi medio-brevi evocati da Casini. E poi? Ieri il Financial Times e il Wall Street Journal, due quotidiani che hanno sempre applaudito le scelte di Monti, esprimevano dubbi sulla sostenibilità dell'austerità economica in assenza di crescita della produzione. Questa è la sfida di qui alle elezioni politiche, fra un anno. La grande coalizione è capace di affrontare il tema dello sviluppo? Monti è disposto a giocarsi su questo punto cruciale il credito riconquistato? Nessuno oggi conosce la risposta. Crescita e sviluppo non sono termini retorici. Hanno a che fare con la vita delle imprese, con i tagli alla spesa improduttiva, con il pagamento dei debiti contratti dalla pubblica amministrazione. Se si vuole fare sul serio, i prossimi nove-dieci mesi dovrebbero scuotere l'albero dei vizi italiani come mai è accaduto in passato. Ci si augura che Monti abbia voglia di rischiare. E che i partiti della grande coalizione mascherata non siano solo un freno, ma vogliano rendere un servigio al Paese. Del resto, il presidente del Consiglio ha detto pochi giorni fa di «non voler tirare a campare». Dopo il compromesso sul lavoro, ecco l'occasione di dimostrarlo. Con i tre partiti, se vorranno seguirlo. Oppure mettendoli di fronte alle loro responsabilità, se esiteranno. © RIPRODUZIONE RISERVATA DA - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2012-04-05/compromesso-possibile-063617.shtml?uuid=AbsnDHJF Titolo: Stefano FOLLI. - Il sovrano decapitato Inserito da: Admin - Aprile 10, 2012, 11:15:41 pm Il sovrano decapitato
di Stefano Folli 10 aprile 2012Commenti (1) L'uscita di scena del figlio di Bossi, il celebre "Trota", e quella imminente della vice-presidente del Senato, Rosy Mauro, ribadisce in maniera impietosa quello che è chiaro ormai da giorni: la Lega ha concluso il suo ciclo ed è ormai un rottame politico alla deriva. Può darsi, anzi è augurabile che un nuovo gruppo dirigente riesca a prendere in pochi mesi il controllo di quel che resta del movimento. Ma occorrerà verificare quanto sarà realmente «nuova» questa leadership: se fosse solo cosmesi, sarebbe difficile arrestare il disincanto dei militanti e la fuga nell'astensione (che in questo caso fa davvero rima con disillusione). In ogni caso l'incredibile scandalo che travolge la famiglia del leader storico e infrange il famoso «cerchio magico» equivale alla decapitazione del sovrano in uno Stato retto da una monarchia assoluta. Ed è escluso che l'assetto di potere interno possa reggere, essendo venuto meno il punto di equilibrio, anzi la fonte di ogni legittimità. La Lega di domani sceglierà probabilmente Maroni come nuovo capo: se non altro perchè l'ex ministro dell'Interno è stato il primo a reclamare «pulizia, pulizia, pulizia». Il primo, sì, ma senza affrettarsi troppo, visto che ha retto il Viminale per anni e i suoi nemici interni gli domandano come mai non si è mai accorto del malaffare. Mentre il Veneto, con Zaia, già avanza i suoi diritti. Tuttavia, se anche Maroni riuscisse a tenere unito il movimento e a soddisfare i militanti che reclamano moralità, ebbene anche in quel caso la Lega dovrà attendere anni per ritrovare un ruolo nazionale. Il fallimento si paga e la Lega di Bossi e Calderoli, in parte anche di Maroni, ha fallito a Roma. Non ha saputo per anni dare corpo ai suoi stessi programmi, a cominciare dal federalismo (come ha ben documentato Luca Ricolfi sulla «Stampa» di ieri). Il futuro leader farà dunque cosa saggia se proverà a rimettere in sesto il Carroccio partendo dalle amministrazioni locali. I Tosi, i Fontana e tanti altri svolgono con competenza il loro lavoro. È lì che la Lega dovrà tornare, senza farsi troppo ossessionare dal tema delle alleanze nazionali e della relativa visibilità. Di questi due punti si parlerà poi, in vista del voto del 2013 e alla luce di una legge elettorale che al momento è lungi dall'esser definita. Sappiamo, in ultima analisi, che Maroni è persona di buon senso. Sotto la sua guida il Carroccio potrà perdere qualche elemento radicale, e non sarà un male: però con il tempo potrebbe guadagnare in credibilità e tornare a dare voce, almeno in parte, al Nord che lavora e chiede ascolto. Ciò accadrà se la nuova Lega, chiamiamola così, riuscirà a essere un soggetto che spinge per le riforme economiche (nel campo della spesa e dei servizi), anziché un blocco conservatore corrotto dalla peggiore politica. In secondo luogo, Maroni e il nuovo gruppo dirigente dovranno rendersi conto che la questione del finanziamento ai partiti è un tema ineludibile del dibattito pubblico. Non solo per la necessità di regolare subito, anche con decreto legge, i flussi di denaro oggi privi di controlli. Ma anche per le ragioni espresse da Emma Bonino: la vicenda Lega deve essere l'occasione «per aprire i cassetti». Il che significa rivedere le norme «con cui si nominano i consigli d'amministrazione nelle municipalizzate e nelle grandi aziende di Stato». Qui è il lato oscuro del sistema. Il Sole 24 ORE - Commenti e Idee (1 di 5 articoli) ©RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2012-04-10/sovrano-decapitato-090530.shtml?uuid=AbGWsjLF Titolo: Stefano FOLLI. - Tre punti concreti per voltare pagina senza giochi di prestigio Inserito da: Admin - Aprile 11, 2012, 07:05:36 pm Tre punti concreti per voltare pagina senza giochi di prestigio
di Stefano Folli 11 aprile 2012 Se bastasse l'annuncio di un intervento d'urgenza sulle regole del finanziamento per restituire credito ai partiti, forse non esisterebbe la crisi in cui si dibatte il sistema politico. Purtroppo tale crisi esiste ed è drammatica. Le vicende Lusi e Belsito l'hanno portata all'attenzione della grande opinione pubblica, ma che l'albero fosse marcio dalle radici era purtroppo noto da tempo, senza che mai qualcuno avesse alzato un dito per correggere le storture. Dice Bersani: «Non tutti i partiti sono uguali, i bilanci del Pd sono certificati». Ma è un'affermazione debole, buona per rassicurare i quadri. Come insegnano le cronache, nessuno è al riparo dal rischio di scivolare: almeno fin quando i partiti, o almeno la maggior parte di loro, si comporteranno come altrettanti comitati d'affari. Questo è il vero punto da cui partire. I partiti si occupano di infinite materie che non riguardano l'attività politica in senso stretto. Fanno affari, appunto. Hanno tempo da dedicare agli investimenti, operano alla stregua di società finanziarie. I tesorieri di un tempo, da Citaristi a Balsamo a Greganti, finirono in terribili guai al tempo di Tangentopoli, ma erano uomini di un'altra epoca. Da non rimpiangere, certo, ma di un'altra epoca. Il loro compito era far tornare i conti: talvolta non ci riuscivano, altre volte facevano collimare entrate e uscite con sforzo. Raramente avevano dei surplus. Oggi il problema è come incrementare il patrimonio immobiliare o studiare i trasferimenti di denaro in luoghi esotici. Tutto questo da parte di organizzazioni che non hanno un profilo giuridico definito, nonostante che da decenni gli illusi chiedano sul punto l'attuazione pratica della Costituzione. Ora la gran fretta con cui i tre leader della maggioranza (Alfano, Bersani e Casini) dichiarano di voler riformare il finanziamento pubblico (talvolta ribattezzato con pudicizia 'rimborso elettorale') sarebbe lodevole se non fosse sospetta. C'è il pericolo di un gioco di prestigio mediatico per superare le difficoltà del momento, finché i partiti restano sulla graticola. Con il retropensiero di riprendere il vecchio sentiero non appena il clamore si sarà calmato. In effetti è troppo tardi illudersi di riacquistare credibilità grazie a un meccanismo di controlli più severo. S'intende, la Corte dei Conti è una soluzione più idonea di un'ennesima 'Authority' costituita ad hoc. Ma non è solo questo il punto. Si può voltare pagina se il Parlamento avrà il coraggio di affrontare in tempi molto brevi tre punti. Primo, la quantità di risorse che in ogni legislatura arriva ai partiti. Sono centinaia e centinaia di milioni di euro. Questa montagna di denaro va ridotta in modo sensibile, controlli o non controlli. Secondo, va ricostruito un canale diretto fra il partito e la base dei militanti o simpatizzanti. Il finanziamento deve arrivare in prevalenza da costoro, lo Stato può garantire solo un minimo di rimborso certificato. Oggi il 'Sole' presenta in modo chiaro la proposta concepita dal professor Pellegrino Capaldo. È un sistema per ridurre in modo progressivo, nell'arco di un quinquennio, il flusso delle risorse statali; favorendo al tempo stesso, attraverso un vantaggio fiscale, le donazioni dei privati. Si può contestare questa idea, a patto di produrne un'altra altrettanto efficace. Quello che non si può fare è lasciare scorrere inalterato il fiume dei finanziamenti, limitandosi a prevedere qualche controllo in più. Terzo punto. È opportuno che i partiti evitino di suscitare attese per poi deluderle. L'opinione pubblica potrebbe non essere più disposta a chiudere un occhio. Finora la politica degli 'annunci' è stata sfruttata nel caso delle riforme istituzionali e della legge elettorale. Sarebbe grave se si ricorresse alla stessa tecnica nel caso del finanziamento/rimborso. Dopo gli scandali la pazienza potrebbe essersi esaurita. Il Sole 24 ORE - Commenti e Idee (1 di 5 articoli) ©RIPRODUZIONE RISERVATA da ilsole24ore.com Titolo: Stefano FOLLI. - Tempi duri per le ali del sistema Inserito da: Admin - Aprile 13, 2012, 12:15:15 am Tempi duri per le ali del sistema
di Stefano Folli 12 aprile 2012 Tempi duri per le forze «anti-sistema» o che magari pretendono di esserlo: soprattutto alla vigilia delle elezioni. Prima il caos nella Lega, ora l'inchiesta che investe Nichi Vendola. E fa riflettere la notizia secondo cui il governatore della Puglia, e leader della nuova sinistra, è indagato per una questione legata alla sanità locale. Vecchia storia, a quanto sembra, maturata però proprio negli ultimi giorni. Qualcuno dotato di spirito malizioso noterà che nelle sabbie mobili si stanno dibattendo due partiti di opposizione, entrambi propensi a descrivere se stessi – con parecchia retorica – come avversari del sistema: il Carroccio, da un lato, e il Sel, dall'altro. Ma si tratta, appunto, solo di malizia. Come è evidente, non ci sono molti punti di contatto fra il disastro leghista e i guai vendoliani. E poi le teorie complottarde non convincono quasi mai, senza dubbio non in questa occasione. Quel che è certo, è che manca poco tempo alle elezioni amministrative e le inchieste giudiziarie possono fare male sia ai leghisti sia a Vendola. Si tratta, peraltro, di una probabile coincidenza temporale, per cui ha fatto bene il presidente della Puglia a dichiararsi «sereno», evitando offensive verbali contro i magistrati. Allo stesso modo, Maroni ha cominciato con il piede giusto decidendo di andare in procura, insieme al nuovo tesoriere, per fornire non pochi chiarimenti sul buco nero in cui è precipitata la Lega. S'intende che l'argomento con cui viene difeso il capo storico è deprimente («Bossi è stato raggirato»), ma è l'unico a disposizione. Maroni deve ancora dimostrare di avere capacità di leadership, ma intanto è abbastanza attento da evitare la contraddizione di cui non si sono accorti i militanti riuniti a Bergamo martedì sera: non si può allo stesso tempo invocare pulizia, agitando le scope, e denunciare presunti «complotti» anti-leghisti. Le due cose non possono stare insieme, eppure il vecchio leader si è sforzato - senza troppa convinzione - di accreditare la seconda ipotesi, mentre il nuovo reggente si muove con una certa coerenza sulla linea della pulizia interna. L'unica, tra l'altro, che gli può permettere di consolidare il potere appena agguantato. Ma egli stesso non è esente da contraddizioni. Ascoltare un ex ministro dell'Interno che arringa la folla al grido di «avanti per la Padania indipendente», fa un certo effetto. E' vero che Maroni pronunciava queste parole con un vago sorrisetto, come se nemmeno lui credesse davvero a quello che andava dicendo. Tuttavia è chiaro che la linea politica della Lega maroniana avrà bisogno di molteplici aggiustamenti: la «pulizia» invocata sul piano della legalità dovrà riguardare anche la paccottiglia della secessione, devoluzione, indipendenza e altri falsi miti degli ultimi quindici anni. A sua volta Vendola dovrà scrollarsi di dosso i sospetti, se vorrà avere un futuro nel mondo della sinistra radicale. Le ambizioni del governatore della Puglia sono molto alte: condizionare da sinistra il Pd e ispirarne le politiche sociali. Ma anche lui è arrivato allo snodo cruciale della sua carriera. In un sistema di partiti sfilacciati e screditati non è strano che anche le forze d'opposizione inciampino. Ma il problema della rigenerazione riguarda tutti. A destra come a sinistra, nella psudo-maggioranza come al di fuori di essa. © RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2012-04-12/tempi-duri-sistema-063708.shtml?uuid=Abyo9hMF Titolo: Stefano FOLLI. - Epuratore o rifondatore, ora Maroni Inserito da: Admin - Aprile 13, 2012, 10:45:29 pm Epuratore o rifondatore, ora Maroni
di Stefano Folli 13 aprile 2012 Rosi Mauro è un capro espiatorio? La domanda è abbastanza ovvia e tutti in queste ore se la pongono. Ma la risposta è intuitiva: sì, lo è. Lo è perché la sua espulsione, decisa con l'astensione di Bossi e un voto contrario (Reguzzoni), è servita a uno scopo politico: mostrare a tutti che il potere di Roberto Maroni si sta consolidando nel partito. Non c'entra il merito delle accuse che hanno colpito la vice-presidente del Senato, accuse per le quali la Mauro non è inquisita; e forse neanche il suo rifiuto di dimettersi dall'incarico istituzionale a Palazzo Madama (dimissioni che comunque sarebbero molto opportune). Era necessario dare al 'popolo' leghista la sensazione fisica che l'equilibrio interno è cambiato. Rosi Mauro era un po' il simbolo del famoso 'cerchio magico', il piccolo gruppo di cortigiani che faceva il bello e il cattivo tempo nel Carroccio, coprendosi dietro il volto sofferente del leader storico. La sua subitanea espulsione, in compagnia dell'improbabile ex tesoriere Belsito, rende chiaro che il cerchio è andato in frantumi. E non a caso quasi tutti si sono allineati in fretta al potere emergente, anche perché sono troppo deboli e frastornati per mettersi di traverso. Vedi il caso di Calderoli, uno dei triumviri provvisori ed ex uomo forte della stagione berlusconiana, sul quale la magistratura oggi sta indagando. Quindi la Mauro è senz'altro un capro espiatorio. La vera domanda è: e ora cosa succede? Maroni aveva promesso 'pulizia'. Se l'ex ministro dell'Interno usa questo argomento per ribaltare dalle radici la Lega, eliminare nel giro di pochi mesi il vecchio gruppo dirigente e indossare i panni del nuovo monarca, non potrà di certo fermarsi a Rosi Mauro e a Belsito. Potremmo dire allora che ha cominciato da questi due nomi, ma per andare molto oltre, in base alla retorica delle scope con il marchio del sole delle Alpi. Aspettiamoci quindi, se questa è l'ipotesi, che la scure maroniana si abbatta presto o tardi sul giovane Bossi, poi sul presidente del Consiglio regionale della Lombardia, Boni, poi sullo stesso Calderoli. E su altri ancora. In un partito come la Lega, abituato al ventennio del potere assoluto di Bossi, la logica della sopravvivenza richiede che il successore riesca a far sentire alla base un analogo pugno di ferro. La 'pulizia' diventa la fonte della legittimazione per Maroni, purché sia una cosa seria e serva a creare un nuovo gruppo dirigente. La decisione di ieri ha quindi un senso se la cacciata della Mauro è funzionale a un disegno di potere ambizioso, per il quale Maroni dovrà dimostrarsi all'altezza. Se invece si è trattato solo di dare in pasto ai militanti un paio di nomi per tacitare il malcontento, mantenendo intatto il resto dell'oligarchia, allora c'è da aspettarsi parecchia instabilità e qualche brutta sorpresa in fondo alle urne elettorali. Nella Cina comunista, alla morte di Mao, il corpo del 'grande timoniere' fu collocato in un mausoleo. Dopodiché l'epurazione colpì la 'banda dei quattro', una sorta di cerchio magico dell'epoca (non a caso la donna del quartetto era la moglie dello stesso Mao). Nessuno potrebbe definire quell'operazione un rinnovamento, bensì più precisamente una resa dei conti nel chiuso della Città Proibita. Ora Maroni dovrà decidere, se sarà in grado di farlo, cosa intende essere per la Lega di domani: solo un epuratore, uno che ha liquidato la 'banda dei quattro' leghista? Ovvero il rifondatore del movimento, anche sul piano del messaggio politico e magari del sistema delle alleanze? Oggi è presto per dirlo, ma la risposta non potrà tardare troppo. Il Sole 24 ORE - Commenti e Idee (1 di 5 articoli) ©RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2012-04-13/epuratore-rifondatore-maroni-080633.shtml?uuid=AbBnKGNF Titolo: Stefano FOLLI. Se al summit di Palazzo Chigi si sovrappone l'incontro Monti-Ber Inserito da: Admin - Aprile 18, 2012, 11:09:03 pm Se al summit di Palazzo Chigi si sovrappone l'incontro Monti-Berlusconi
di Stefano Folli 18 aprile 2012 Davvero singolare la sovrapposizione che si è creata a Palazzo Chigi. Due passaggi: ieri sera il vertice del tripartito Alfano-Bersani-Casini con il presidente del Consiglio, un lungo colloquio non privo di tensione e di passaggi concitati. E l'incontro a due fra Mario Monti e Silvio Berlusconi: un'occasione piuttosto rara d'incontro fra il premier in carica e il suo predecessore, ed è difficile credere che si tratti solo di una visita di cortesia. La coincidenza, sotto il profilo temporale e anche politico, è abbastanza sorprendente. Si pone una domanda: chi decide la linea politico-parlamentare del Pdl? Alfano nel summit dei tre partiti con il capo dell'esecutivo o Berlusconi nell'incontro di domani? Il quesito non è irrilevante perché i risultati del vertice coinvolgono anche Bersani e Casini e quindi definiscono l'equilibrio complessivo su cui si regge il governo in Parlamento. Tuttavia Berlusconi, per la sua personalità e la sua storia politica, difficilmente si accontenterà di una «photo opportunity» con il suo successore. Vorrà avere voce in capitolo sui punti controversi. Ad esempio sulle famose misure per la crescita, sulle tasse e magari su temi che stanno molto a cuore all'ex premier: dalla gara per le frequenze televisive al disegno di legge anti-corruzione appena messo a punto dal ministro Severino. È probabile che questa «ingerenza», se così si può dire, non sia plateale, forse nemmeno mediatica. Berlusconi ha una strategia e non sembra che intenda modificarla: sostenere Monti fino al termine della legislatura e usare lo schermo del governo tecnico per evitare la «diaspora» del centrodestra e anzi per cercare di puntellare l'area moderata. Ma la questione delle tv è dolorosa, anche perché inaspettata. Nella logica berlusconiana non può restare senza risposta: magari su un altro tavolo dell'agenda di governo. Sia come sia, non c'è dubbio che il peso di Berlusconi nella società politica è ancora abbastanza rilevante da oscurare, almeno in parte, il vertice di ieri notte. Questo pone un problema ai tre protagonisti del summit. Tutti ieri sera avevano bisogno di qualche risultato tangibile da spendere con il loro elettorato (in fondo le elezioni amministrative sono alle porte). In particolare Bersani sa di dover farsi carico delle inquietudini dei Comuni e delle angosce di quei ceti che soffrono l'asprezza della crisi. Alfano, a sua volta, tiene a che sia riconosciuto il ruolo del Pdl nel rimodellare – in qualche misura – la riforma del mercato del lavoro e nell'avviare un minimo alleggerimento del carico fiscale (ad esempio l'Iva). E Casini non vuol perdere la sua funzione di baricentro della maggioranza. Tutti e tre sono stati spiazzati dall'irrompere sulla scena della questione delle frequenze tv. Bersani di sicuro non aveva interesse a parlarne, a Palazzo Chigi, e viceversa il segretario del Pdl non poteva non dar voce alla frustrazione di Berlusconi e di quanti nel centrodestra ritengono che il ministro Passera non abbia rispettato gli accordi. Come si vede, la serata non è stata delle più serene. Ma il punto è che domani Berlusconi vedrà Monti. E si tratterà di capire come il premier gestirà questo incontro a poche ore dal vertice triangolare. Il Sole 24 ORE - Notizie (1 di 2 articoli) ©RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2012-04-17/summit-palazzo-chigi-sovrappone-220606.shtml Titolo: Stefano FOLLI. - Roma e le conseguenze delle presidenziali in Francia, ... Inserito da: Admin - Aprile 23, 2012, 05:42:03 pm Roma e le conseguenze delle presidenziali in Francia, il giardino del vicino non è così lontano
Il Punto di Stefano Folli 22 aprile 2012 Era da molti anni che un'elezione presidenziale in Francia non era seguita con tanta attenzione sul versante italiano delle Alpi. È un effetto dell'Europa: tutti hanno compreso, sia pure con ritardo, che quello che avviene a Parigi, a Berlino o a Madrid ha conseguenze immediate negli altri paesi dell'Unione. E la crisi economica ci rende tutti molto sensibili a quello che succede nel giardino del vicino. Detto questo, bisogna riconoscere che la parabola "italiana" di Sarkozy ha dell'inverosimile. Quando fu eletto, nel 2007, il successore di Chirac era visto con interesse e curiosità. Questo post-gollista moderno e dinamico aveva "charme". Sembrava in grado di rimescolare in patria gli schieramenti politici un po' troppo ingessati e soprattutto di immettere sangue fresco nel processo di costruzione dell'Europa, così burocratico e incapace di parlare ai cuori. In altre parole, Sarkozy aveva le caratteristiche della novità, non solo per la Francia ma per i popoli contigui. Del resto, la sua vittoria annunciava e quasi anticipava il ritorno al successo di Berlusconi, che infatti di lì a un anno, nella primavera del 2008, si sarebbe di nuovo installato a Palazzo Chigi al posto di Romano Prodi. All'epoca si rincorrevano i paragoni fra i due personaggi e per molti Nicolas era il "Berlusconi francese". In più aveva chiamato personalità indipendenti nel suo primo governo, e anche qualche ex socialista. Un rimescolamento di carte piuttosto interessante, a cui la "gauche" sapeva opporre solo la malinconica contemplazione della propria crisi. Cinque anni dopo lo scenario è del tutto cambiato. Da noi Sarkozy, incredibile ma vero, ha perso tutti i simpatizzanti della prima ora. La sinistra ovviamente lo combatte, tanto più che Hollande sembra vicino alla vittoria e Bersani si è già fatto vedere con il leader socialista nella capitale francese. Ma anche i berlusconiani hanno detto addio, e non senza rancore, al presidente uscente. Non hanno dimenticato i sorrisetti ironici fra lui e la Merkel nelle settimane immediatamente precedenti la caduta del presidente del Consiglio. E in effetti quello che un tempo era un grande amico di Berlusconi si era trasformato nel tempo in un suo tenace avversario, nel solco dell'antipatia manifestata dalla Cancelliera tedesca verso il premier di Roma. Sarkozy aveva puntato sull'asse di ferro fra Berlino e Parigi, nella speranza illusoria che l'alleanza stretta riuscisse a tenerlo al riparo dalla crisi: le intemperanze del capo del governo italiano gli sono sembrate intollerabili e controproducenti. Quindi rottura totale, peraltro bilaterale. E i moderati centristi? Anche loro hanno perso fiducia nell'interlocutore francese, soprattutto da quando l'ombra della sconfitta ha cominciato ad allungarsi su di lui. Qualcuno è diventato neutrale, altri si augurano in queste ore una buona affermazione di Bayrou, che non è destinato all'Eliseo ma è innocuo. Quello che appare evidente, è che tutti in modo più o meno esplicito guardano verso il candidato socialista. E tanti, anche a destra, si augurano – magari senza dirlo in pubblico – una sua vittoria. È il risultato della recessione e della mano tedesca sull'Europa. Il "mitterrandismo pallido" di Hollande sembra anticipare una revisione dei trattati, la messa in soffitta del patto fiscale, la prospettiva di un'Unione diversa, meno teutonica e più mediterranea. E sperare non costa nulla. O meglio, in questo caso rischia di costare molto: la speculazione finanziaria è pronta ad addentare l'osso e molti ritengono che un socialista all'Eliseo produrrà scompiglio in un'Europa già disastrata. Per lo meno fin quando il neo-presidente non avrà fatto i conti con la realtà. Le sue promesse elettorali sembrano a molti un miscuglio di demagogia e di ingenuità. Ma la sola ipotesi che Hollande sia in grado di parlare con la Merkel dando voce alle frustrazioni di tante capitali europee sembra un viatico sufficiente. Peraltro anche Mitterrand, quando giunse per la prima volta all'Eliseo, nel '74, provocò una gigantesca fuga di capitali. Ma all'epoca non esisteva l'euro e il contagio non era possibile. Oggi è tutto interconnesso e l'assenza di realismo – come scrive sul "Corriere della Sera" Alexandre Jardin – è un lusso che nessuno può più permettersi. ©RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2012-04-22/politica-italiana-guarda-presidenziali-160522.shtml Titolo: Stefano FOLLI. - Con il vento francese alle spalle, Bersani ritrova l'iniziativa Inserito da: Admin - Aprile 26, 2012, 03:37:41 pm Con il vento francese alle spalle, Bersani ritrova l'iniziativa
di Stefano Folli 25 aprile 2012 Sarà il vento allegro che arriva dalla Francia, ma Pierluigi Bersani nelle ultime ore ha fissato tre punti che avranno rilevanza nel dibattito politico. In primo luogo, ha smentito di nuovo e in modo chiaro qualsiasi intenzione di promuovere le elezioni anticipate. C'era stato qualche silenzio di troppo nei giorni scorsi, mentre il tema era evocato da Berlusconi. Ieri l'ex premier è tornato a battere sullo stesso chiodo: il Pd pensa di essere in vantaggio e vuole andare a votare, di conseguenza i moderati devono restare uniti. Al che Bersani ha ribadito che la legislatura si concluderà nel 2013 come previsto: c'è di mezzo la «lealtà» nei confronti del governo Monti. La posizione di Bersani è convincente. È vero che il Pd gode di un margine incoraggiante nei sondaggi, ma il rischio di chiudere anzitempo l'esperienza di Monti è troppo grande. La stabilità politica del paese rispetto all'Europa e ai mercati è un valore a cui il maggior partito del centrosinistra non vuole e non può rinunciare. Tanto più che i partiti presenterebbero agli italiani un bilancio semi-fallimentare, anche a causa delle riforme promesse e mai realizzate. Se mai il Pd fosse sfiorato da una tentazione, si può immaginare che il Quirinale avrebbe gli argomenti per dissuaderlo. L'insistenza di Berlusconi, peraltro, risponde a un'esigenza interna all'area cosiddetta «moderata»: tenere unito il Pdl, nonostante le tensioni che lo percorrono; conservarne la coesione in vista del voto amministrativo e oltre. E poi rendere difficile la vita a Casini e al suo progetto di allargare i confini del "terzo polo". Forse è il nodo di fondo. Berlusconi teme che una Udc rigenerata (se mai l'operazione riuscirà) diventi la novità che una parte dell'opinione pubblica di centrodestra attende con impazienza. Di qui lo sforzo di ridurre gli spazi di manovra dell'ex alleato centrista, mentre Alfano annuncia l'imminente nascita di un Pdl rinnovato e rinominato. Ma per tornare a Bersani, ci sono altri due punti significativi nelle sue iniziative delle ultime ore. Uno consiste nel sottolineare che il Pd vuole la ratifica parlamentare del «fiscal compact». In seguito - ma solo in seguito - il patto potrà essere modificato. Come dire che la simpatia per Hollande va conciliata con il sostegno al governo Monti. Se il Pd rigettasse gli accordi europei, il governo cadrebbe. Viceversa, un negoziato ad ampio raggio sulla crescita economica in Europa presuppone una stretta intesa preliminare con la Francia del "Mitterrand pallido". Bersani, è palese, lavora per questo obiettivo. Infine la mossa sul finanziamento dei partiti. Dopo l'immobilismo delle scorse settimane e dopo aver definito «un errore drammatico» la rinuncia ai denari pubblici, Bersani ora propone di dimezzare «entro l'estate» il flusso dei finanziamenti. Nei giorni scorsi Casini aveva abbracciato la proposta del professor Capaldo, mentre secondo Alfano il Pdl potrebbe rinunciare "in toto" al contributo pubblico. Come si vede, il panorama è confuso. Tranne che su un punto: i grandi partiti hanno forse compreso che il finanziamento statale, così come'è, risulta intollerabile agli occhi dei cittadini. Ciò non significa che la riforma sia imminente. Siamo ancora in una zona grigia, ma sembra che si affermi finalmente una maggiore consapevolezza. Purché non sia solo il desiderio di far calmare le acque. da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2012-04-25/vento-francese-spalle-bersani-064037.shtml?uuid=AbahPETF Titolo: Stefano FOLLI. - Un risultato che fa gioco alla politica Inserito da: Admin - Aprile 26, 2012, 03:38:49 pm Un risultato che fa gioco alla politica
di Stefano Folli 24 aprile 2012 In attesa di verificare se Hollande entrerà all'Eliseo fra due settimane (probabile ma non del tutto scontato), i mercati finanziari gli hanno dato ieri il benvenuto. Crollo generale delle Borse, assai vistoso in Italia e un rapido peggioramento degli spread. Niente d'imprevisto, a dire la verità: anzi, sarebbe giusto rilevare che il sussulto non è stato provocato solo da un candidato-presidente non ancora eletto, bensì da una condizione di malessere che attraversa l'intera Europa e tocca Paesi che si ritenevano immuni dal "virus" che divora le capitali indebitate. In Olanda si è dimesso il premier e si può credere che questa notizia abbia turbato gli operatori persino più del primo turno delle elezioni in Francia. In fondo gli olandesi sono tra i più fedeli alleati di Angela Merkel e del rigore tedesco condividono di solito fin le sfumature. Eppure anche loro sono in subbuglio. E a Roma? La soddisfazione per il successo di Hollande è palpabile. A sinistra, certo, ma non solo. L'idea diffusa è che dopo il 6 maggio il "Mitterrand pallido", una volta insediato, possa spezzare il vecchio patto di ferro con la Germania, indebolendo la posizione della cancelliera. È uno di quei casi in cui le differenze fra destra e sinistra si stemperano. Nessuno, s'intende, può rivaleggiare con Bersani, convinto che il vento di sinistra che soffia dalla Francia sia in grado di gonfiare le vele del Partito Democratico in Italia. Inutile obiettare che Hollande contesta proprio quelle linee di politica economica, ispirate alla Bce e all'ortodossia europea, che il Pd ha sostenuto fin qui votando i provvedimenti del governo Monti. Ma è legittimo: non tanto cambiare idea, quanto augurarsi che d'ora in poi qualcosa muterà; e che Hollande si rivelerà un così abile politico da riuscire a tessere la tela degli scontenti e da presentarsi poi alla Merkel per rinegoziare i vincoli di bilancio. Quale sarà il prezzo da pagare a questa svolta, se mai ci sarà? Non si sa ancora, ma le spinte speculative sono già in atto. Difficile credere che si fermeranno per incanto. Colpisce invece che anche a destra si guardi al nuovo possibile presidente con simpatia. Sarkozy aveva irritato tutto l'arco del centrodestra berlusconiano, lui che all'inizio sembrava in sintonia con quel mondo. Per cui la rottura si era consumata da tempo e adesso l'area Pdl e Lega non si rammarica di certo per l'eventuale uscita di scena dell'ex amico. Giulio Tremonti si è espresso per Hollande in modo esplicito, ma anche chi non arriva a tanto ammette a denti stretti che un presidente socialista apre nuovi spazi, allarga i margini di chi deve fare politica in Europa contenendo lo strapotere tedesco e richiamando l'attenzione dei vari governi nazionali sul problema della crescita economica. È un'opportunità di cui anche il presidente del Consiglio è consapevole, benché la linea dell'Esecutivo contempli la più assoluta lealtà agli impegni presi. Ma quello che accade a Parigi è troppo importante per non interessare da vicino Palazzo Chigi. Il punto semmai è un altro. È vero, la vittoria di Hollande è un sasso gettato nello stagno dell'Unione, sia pure a caro prezzo. Ma più che un successo del nebuloso programma socialista, il voto di domenica sembra una sconfitta di Sarkozy e della sua politica troppo filo-Markel. Diciamo meglio: il voto è un messaggio contro l'Europa della moneta unica. Il punteggio di Marine Le Pen, lo si è già detto, ha del clamoroso. La leader del FN si prepara a egemonizzare buona parte della destra francese, superando di slancio la vecchia frattura fra gollisti e "petainisti": temi che ai giovani d'oggi, che hanno votato in massa la figlia di Jean-Marie, non dicono granché. Eppure l'area che un tempo era berlusconiana e che oggi Alfano prova a rigenerare rischia di trovarsi stretta in una morsa. Hollande forse farà una politica populista che potrebbe trovare estimatori anche a destra, ma il vantaggio politico sarà del centrosinistra bersaniano. Per il buon motivo che finalmente il Pd avrà in Europa (un'Europa fino a ieri tutta di destra dopo la caduta di Zapatero a Madrid) una sponda ragguardevole. Viceversa la destra moderata dovrà maneggiare l'ingombrante presenza della Le Pen. La quale pronuncia parole di fuoco verso Bruxelles e Francoforte: proprio le parole che Berlusconi e i capi del Pdl, nel loro complesso, vorrebbero gridare anche loro. Ma non possono, non è la loro parte in commedia. E tuttavia la sofferenza è grande. Fra Hollande e Marine Le Pen la scomposizione politica in Francia rischia di essere travolgente. Tanto da far apparire le manovre dei partiti italiani quello che sono: piccoli giochi tattici al riparo del governo "tecnico". ©RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2012-04-24/risultato-gioco-politica-090308.shtml?uuid=AbqgMoSF Titolo: Stefano FOLLI. - Un'Italia più stabile può sfruttare la nuova centralità in Euro Inserito da: Admin - Aprile 26, 2012, 03:39:37 pm Un'Italia più stabile può sfruttare la nuova centralità in Europa
di Stefano Folli 26 aprile 2012 È stato un 25 aprile in cui i temi domestici si sono mescolati alla questione europea come mai in passato. Si sono udite tre voci, distinte nei loro ambiti istituzionali, ma convergenti sui punti essenziali: Giorgio Napolitano, il premier Monti e il presidente della Bce, Mario Draghi. Vediamo la sostanza delle cose dette. Il presidente della Repubblica ha richiamato i partiti all'esigenza di garantire la stabilità interna e al tempo stesso di impiegare il tempo di qui alla fine della legislatura, cioè meno di un anno, per rispondere in modo efficace al malessere del paese, attraverso il rinnovamento della proposta politica e, se possibile, le riforme. L'inquietudine del capo dello Stato per il dilagare degli istinti demagogici nel dibattito pubblico è evidente, ma la cosiddetta "anti-politica" si sconfigge solo con scelte convincenti. Con la tanto invocata "buona politica", di cui si sono viste scarse tracce negli ultimi mesi. A quanto sembra il Quirinale ritiene che i partiti tradizionali stiano perdendo tempo e che tali ritardi, nella condizione sociale ed economica in cui si dibatte l'Italia, aprano sentieri imprevedibili alle forze anti-sistema. Ne deriva che parlare di elezioni anticipate al solo scopo di favorire manovre tattiche è poco responsabile. Nessuno, peraltro, pensa seriamente che si voterà in autunno, tre o quattro mesi prima della scadenza naturale della legislatura. Ma Napolitano, infastidito dal cicaleccio, ha voluto, come suol dirsi, tagliare la testa al toro. La sua contrarietà al voto anticipato, manifestata senza ambiguità, dovrebbe chiudere la sterile discussione. In teoria, lo sappiamo, i partiti potrebbero ottenere lo scioglimento facendo cadere Monti. Ma il prezzo sarebbe troppo alto: vorrebbe dire, tra l'altro, regalare su un vassoio d'argento a Grillo una magnifica campagna elettorale. Si capisce invece che il successo del governo Monti e dell'Europa nel promuovere la crescita economica rappresenta la sfida cruciale dei prossimi mesi. Se si vedrà qualche risultato concreto, le elezioni del 2013 potranno rappresentare una vittoria del sistema, garantendone la coesione. In caso contrario, il voto del prossimo anno potrebbe provocare una drammatica lacerazione del tessuto civile nel paese. Ecco allora che la stabilità interna va spesa al più presto sul tavolo europeo. La probabile elezione di Hollande in Francia rafforzerà il fronte di chi chiede - con l'Italia in prima fila - sensibili novità nella politica economica. Una richiesta rivolta, è ovvio, alla Germania. E non è un caso che ieri il governo tedesco abbia risposto a Mario Draghi, dichiarandosi d'accordo con la sua analisi: dove l'accento è sullo sviluppo, da ottenere con molto coraggio e con "riforme strutturali". Proprio la prospettiva di un socialista all'Eliseo rafforza la posizione dell'Italia agli occhi di Angela Merkel. Il timore dell'isolamento a Berlino è secondo solo alla paura di ondate inflazionistiche nell'area della moneta unica. E l'attenzione con cui gli ambienti della cancelleria hanno commentato i giudizi di Napolitano circa gli sforzi insufficienti che l'Europa dedica alla crescita, la dice lunga sulla centralità italiana in questa fase. Mario Monti dispone quindi di un'ottima occasione per accelerare il passo del governo, anche nel rapporto con l'opinione pubblica. Si può discutere sul paragone storico un po' approssimativo fra la fase d'oggi e il biennio della Resistenza («dobbiamo essere uniti come ai tempi della Liberazione»): ma il richiamo alla determinazione collettiva nei prossimi mesi decisivi è da condividere. © RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2012-04-26/unitalia-stabile-sfruttare-nuova-064238.shtml?uuid=AburGhTF Titolo: Stefano FOLLI. - Elezioni e segni di nervosismo Inserito da: Admin - Maggio 03, 2012, 07:30:49 pm Elezioni e segni di nervosismo
Stefano Folli 03 maggio 2012 A essere maliziosi, si potrebbe pensare che la scivolata del Governo al Senato (battuto su un emendamento che riguarda le pensioni degli alti dirigenti) sia anche una risposta ai toni sferzanti usati dal presidente del Consiglio nella conferenza stampa di lunedì. È probabile che, come ha spiegato il sottosegretario Catricalà al Tg3 e poi ha confermato lo stesso premier, il bersaglio dello «sdegno» fosse Maroni, non Alfano. Fosse cioè un ex ministro degli Interni che incita i sindaci allo sciopero fiscale contro l'Imu o a forme di «disobbedienza civile». Un caso davvero singolare, a dir poco. Viceversa la posizione di Alfano è un'altra. Da lui non viene un invito alla rivolta fiscale, semmai la proposta di alleggerire o abrogare la tassa sulla prima casa. È faccenda ben diversa, come pure la proposta di «compensare» i crediti che le imprese vantano verso le amministrazioni con le somme dovute al fisco. Chiaro che il governo non può essere d'accordo e non è contento che il più grosso gruppo parlamentare voglia presentare un disegno di legge sull'argomento, ma la posizione del Pdl, così formulata, è legittima. Al contrario, le tesi della Lega contengono elementi eversivi. E i sindaci, come ricorda il successore di Maroni al Viminale,il prefetto Annamaria Cancellieri, portano la fascia tricolore. Sia come sia, i voti del Pdl ieri a Palazzo Madama si sono mescolati con quelli della Lega e dell'Italia dei Valori. Ne ha fatto le spese una norma complicata (e ignota al grande pubblico) che permetterebbe agli alti dirigenti dello Stato di andare in pensione senza vedersi ridotto l'assegno nonostante il taglia-stipendi in vigore. Il fatto in sé non è troppo grave, ma rappresenta la conferma che la navigazione di Monti non è e non sarà tranquilla nel prossimo futuro. Le amministrative alle porte sollecitano i partiti ad adottare forme di «guerriglia» politica che nei loro calcoli dovrebbero aiutarli a recuperare consenso. Una guerriglia che comincia ora, ma è destinata ad allungare la sua ombra sul residuo della legislatura, cioè almeno sette-otto mesi. Rispetto a questo scenario, il presidente del Consiglio ha voluto rinverdire la sua immagine originaria: il nemico delle corporazioni, l'uomo che non tratta coi partiti, che ascolta e poi decide in autonomia. In altri termini, il castigamatti che l'opinione pubblica predilige, delusa com'è dalle forze politiche tradizionali. Più volte sollecitato a ritrovare la grinta dei giorni migliori, Monti ha cercato di sfuggire alla tenaglia in cui si sente stretto. Ha capito che per migliorare gli indici di gradimento nei sondaggi occorre ricreare la magia di dicembre. Ed ecco gli aspri accenti di lunedì contro i lacci e lacciuoli di partiti e sindacati. Ecco la nomina di un super-commissario (Bondi) e due super-consulenti (Amato e Giavazzi). La scelta è stata salutata con favore, ma ha pure sollevato varie perplessità. Se l'incarico a Bondi era così indispensabile per gestire il risanamento della spesa pubblica perché non è stato affidato subito, appena insediato l'esecutivo «tecnico»? Il fatto che si siano aspettati cinque mesi per decidere non equivale a delegittimare, almeno in parte, alcuni ministri? È difficile stabilire oggi se questa nomina sia una prova di forza o di debolezza del premier. Tuttavia Monti sembra determinato a procedere lungo il suo sentiero, tornando a farsi apprezzare per le sue caratteristiche di uomo competente ed estraneo agli intrighi romani. Magari esibendo una squadra ristretta di collaboratori fidatissimi. È un'operazione ad alto rischio, ma è forse la sola che vale la pena tentare lungo il piano inclinato su cui siamo avviati. da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2012-05-03/elezioni-segni-nervosismo-063614.shtml?uuid=AbyoOtWF Titolo: Stefano FOLLI. - Messaggio chiaro alle forze politiche Inserito da: Admin - Maggio 08, 2012, 09:32:54 am Messaggio chiaro alle forze politiche
di Stefano Folli 08 maggio 2012 I risultati, per certi versi clamorosi, delle amministrative suggeriscono la domanda cruciale: quei dati, ossia la frammentazione delle liste, la grande avanzata dei "grillini", la sconfitta del Pdl, La Lega che si riduce a Tosi, sindaco anti-bossiano di Verona, la tenuta (non di più) del Pd, la modesta prestazione del "terzo polo", l'astensione diffusa, il fenomeno Orlando a Palermo; ebbene quei dati costituiscono nel loro insieme un messaggio rivolto a chi? Ai protagonisti e comprimari di un sistema politico malato e incapace di riformarsi? Una sorta di ultimo avviso ai naviganti? Oppure sono un segnale ostile per il governo Monti e le sue politiche di rigore? Un modo per sottolineare che esiste una «sofferenza sociale» insostenibile, come ieri sera dicevano, con accenti stranamente simili, esponenti del Pd e del Pdl? Il rebus è decisivo per capire quale destino ci attende. Se più simile alla Francia, per così dire; o invece malauguratamente più incline a emulare la Grecia. A Parigi i francesi hanno saputo attivare di nuovo il meccanismo dell'alternanza, in forme ordinate e garantite dall'eccellente legge elettorale a doppio turno. Ad Atene il disastro ha invece preso forma quando il governo "tecnico" prima si è insediato e poi si è affrettato a correre verso le elezioni anticipate, sulla base di un calcolo sbagliato. Ora anche l'Italia politica è al bivio. Chiaro che sul voto ha pesato la crisi economica e il malessere sociale. Ma si è trattato pur sempre di elezioni amministrative parziali, meno di dieci milioni di italiani coinvolti. Tanti, ma niente di paragonabile a un voto nazionale per rinnovare il Parlamento. E in fondo le situazioni locali, con le loro logiche talvolta contraddittorie, sembrano aver motivato gli elettori non meno delle considerazioni di ordine generale. In un caso come nell'altro, il voto equivale a una sentenza che misura la qualità dell'offerta politica. E ci vuole poca immaginazione per vedere ciò che è lampante: la sentenza è di condanna per chi ha perso credibilità e in più si porta dietro l'impronta della cattiva aministrazione. È il caso del Pdl, che paga una volta per tutte le disillusioni provocate dall'ultimo Berlusconi non meno che le pessime prove fornite da alcuni sindaci. Ma Bersani, l'Hollande italiano, non deve esagerare con l'auto-compiacimento. Il risultato del Pd, certo, non è negativo come quello del Pdl: ma la strada è ancora lunga prima che di definire una seria proposta per il governo del paese. È noto che l'idea del segretario del Pd è quella di mettere insieme Vendola e Casini, così come Hollande ha saputo avere i voti di Mélenchon, estrema sinistra, e Bayrou, moderato. Ma Roma non è Parigi, per mille ragioni, e il nostro sistema elettorale non è quello francese. E poi è tutto da dimostrare che Bersani riesca a tenersi Vendola ed escludere Di Pietro. Il che pone problemi nuovi, accentuati dal dilagare del movimento "5 stelle" e dalla sua prevedibile influenza sull'Italia dei Valori, nonché sulla sinistra radicale. In altre parole, il sistema politico italiano è agli inizi di una possibile eruzione. E da parte di qualcuno c'è la tentazione di scaricare tutto sul governo Monti, in nome del consenso elettorale da riguadagnare. Sarebbe l'ultimo errore, in grado davvero di spingere l'Italia verso una forma di ingovernabilità alla greca. È noto, in ogni caso, che a sinistra si sognano le elezioni anticipate. Ma solo se la destra fosse così ingenua da provocare essa stessa la caduta di Monti. Sarebbe quello sbocco "populista" che Alfano e lo stesso Berlusconi hanno fin qui evitato con decisione. Ma le pressioni interne ed esterne aumentano. Forse perché una campagna elettorale è più facile e meno onesta di un serio lavoro di auto-riforma che coinvolga l'intero sistema politico. Alfano, Bersani e Casini sono in ritardo su tutte le tabelle di marcia, riguardo al rinnovamento. Ma scaricare le inadempienze sul governo Monti vorrebbe dire accentuare l'irresponsabilità della politica. Alimentando, invece di contenere, nuovi successi dei "grillini", il bau-bau dei partiti. da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2012-05-08/messaggio-chiaro-forze-politiche-063551.shtml?uuid=Ab16DJZF Titolo: Stefano FOLLI. - Patto rinnovato con il Quirinale di un premier combattivo Inserito da: Admin - Maggio 11, 2012, 12:14:22 pm Patto rinnovato con il Quirinale di un premier combattivo
di Stefano Folli 11 maggio 2012 Sono solo frasi di circostanza, quelle indirizzate da Mario Monti al presidente della Repubblica in occasione del sesto anniversario dell'elezione al Quirinale? Senza dubbio no. Di solito i messaggi augurali si assomigliano un po' tutti. Ma questo è diverso, sia nel linguaggio sia in quello che dice o sottintende. Il premier afferma di voler portare a termine il mandato ricevuto con tutta la determinazione necessaria. Si riferisce soprattutto all'impegno e alla dedizione indispensabili in questa stagione drammatica, ma la sottolineatura è stata interpretata come la garanzia che la legislatura sarà completata. In ogni caso, il messaggio contiene una replica implicita ai ritratti apparsi sui giornali negli ultimi giorni, in cui il presidente del Consiglio è raffigurato come un uomo provato, inquieto e solo. Come è logico, il premier «tecnico» non può permettere che passi questa immagine sulla stampa. Tanto meno può consentire che un momento di stanchezza si trasformi in un «cliché» che lo danneggerebbe nei rapporti con i partiti, all'interno, e di sicuro anche con i partner, in Europa. Sarà anche vero che sei mesi a Palazzo Chigi valgono come dieci anni alla Commissione europea (sue parole), ma a questo punto Monti deve trovare in se stesso tutte le risorse e le energie fisiche e mentali per andare avanti. In fondo, le forze politiche – in particolare il Pdl, ma anche il Pd di Bersani per altri versi – abbaiono, ma non possono mordere. Berlusconi concede parecchio all'insofferenza e all'avventurismo del suo partito, ma al dunque si rende conto che rovesciare Monti equivale a consegnare l'Italia a un destino greco. Così come è consapevole che la partita politica si gioca soprattutto in Europa: il che impone di non destabilizzare il presidente del Consiglio, l'unico oggi in grado di negoziare con la Merkel e Hollande un risultato utile per il nostro paese. Di qui il richiamo berlusconiano alla necessità di cercare un accordo sulle riforme «con l'opposizione»: cioè con il Pd (che per la verità era all'opposizione del governo di centrodestra, ma oggi sostiene Monti insieme al Pdl e all'Udc). C'è da dubitare che questa affermazione avvicini di un passo le riforme istituzionali ed elettorali, più che mai avvolte nella nebbia. Ma il punto non è di merito, è politico: con le sue parole, sia pure annegate in un discorso pirotecnico, l'ex premier fa sapere di non avere intenzione di spaccare la larga non-maggioranza che tiene in piedi il governo (versione italiana e lacunosa di quella «grande coalizione» che qualcuno vedrebbe come l'unica soluzione seria, ma non realistica, per rispondere ai fattori di disgregazione). Del resto, «la tenuta sociale è a rischio» dice Corrado Passera. E se il pericolo cresce, la politica, se ancora ha un senso, è obbligata ad agire in modo responsabile. Ognuno quindi deve misurare i passi, da qui in avanti. Il presidente della Repubblica continuerà ad essere «un punto di riferimento sicuro» per l'esecutivo, scrive Monti. Ma Napolitano a sua volta ha bisogno di essere rassicurato sul fatto che a Palazzo Chigi c'è un uomo che non si lascia sopraffare dalle pressioni e dalla violenza delle polemiche. E che inoltre sa affrontare la crisi economica con la giusta dose di sensibilità sociale. La lettera è servita anche a questo: a rinsaldare il patto Quirinale-governo. da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2012-05-11/patto-rinnovato-quirinale-premier-064043.shtml?uuid=AbXaMsaF Titolo: Stefano FOLLI. - E sullo sfondo della Grecia i partiti pro-Monti attendono ... Inserito da: Admin - Maggio 16, 2012, 04:55:05 pm E sullo sfondo della Grecia i partiti pro-Monti attendono gli eventi
di Stefano Folli 16 maggio 2012 Sullo sfondo del disastro greco e con il Pil che va a picco, l'Italia politica continua a manifestare una singolare apatìa. Sul piano europeo ha delegato a Monti di negoziare con la Germania e gli altri partner qualche vantaggio per la nostra economia. Ma qual è il supporto che le forze politiche offrono al presidente del Consiglio? Nella sostanza è abbastanza generico, secondo il principio del minimo indispensabile. Certo, Pierluigi Bersani vorrebbe che il profilo dell'Unione fosse più politico, che la Banca centrale avesse un ruolo più incisivo, che i mercati finanziari fossero regolati. E Casini, a sua volta, si unisce al coro contro Moody's, l'agenzia di rating che ha colpito a sorpresa le banche italiane, declassandole di nuovo. Il leader dell'Udc ci legge la trama di «un disegno criminale» e auspica l'avvento di un'agenzia europea che sostituisca quelle anglosassoni. Ottima idea, tuttavia non proprio a portata di mano. Sono frasi di buon senso che chiunque potrebbe sottoscrivere, ma non aiutano più di tanto il presidente del Consiglio nel suo difficile cammino. In tempi di recessione, chi non è favorevole a riprendere la crescita? Forse più significativa è la colazione che oggi Monti offre a Berlusconi, accompagnato da Alfano e Gianni Letta. A cinque giorni dai ballottaggi e alla vigilia del G8 di Camp David, l'incontro ha un valore politico da non sottovalutare. È un gesto di riguardo verso il partito di maggioranza relativa (almeno nell'attuale Parlamento) e verso il predecessore di Monti: tanto più dopo i recenti equivoci. Ma l'incontro, se ha un senso, è quello di sottolineare l'appoggio del fronte berlusconiano al governo tecnico. Nei giorni scorsi, all'indomani del primo turno delle amministrative, si era levato un vento minaccioso di cui era prova l'aspra campagna del "Giornale" e di "Libero" a favore delle elezioni anticipate. Però Berlusconi ha imboccato la strada opposta a quella invocata dagli intransigenti e ha confermato il sostegno a Monti. Certo, con l'avvertimento che «non esistono cambiali in bianco», che le tasse sono troppo alte e che «voteremo solo le misure che ci convincono». Del resto i punti controversi non mancano, a cominciare dalla legge anti-corruzione e dalla Rai. Ma è evidente che al vertice del Pdl non hanno intenzione di affossare il governo, ben sapendo che siamo sull'orlo dell'abisso, senza alternative e con l'area moderata tutta da ricostruire. Il problema in ogni caso è il «che fare» dei prossimi mesi. I partiti della non-maggioranza si limiteranno a votare in modo svogliato il governo? O cominceranno a porre le fondamenta politiche della prossima legislatura? I fatti dicono che sulle riforme siamo in alto mare. Luigi Zanda parla di una data limite, il 28 maggio, per portare in aula al Senato il pacchetto costituzionale. Poi sarà troppo tardi (in tanti pensano che già lo sia). La riforma elettorale assomiglia sempre di più alla classica tela di Penelope. Ora è stato riesumato persino il doppio turno alla francese, modello eccellente ma che per anni era stato lasciato nel cassetto. La sensazione è che il "Porcellum" goda di ottima salute. Giorgio La Malfa sul "Foglio" vorrebbe un'iniziativa parlamentare comune di Pdl, Pd e terzo polo. Una sorta di prova generale della grande coalizione pro-Europa nella prossima legislatura. Ma per ora la tattica prevale di gran lunga sulla strategia. ©RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2012-05-16/sfondo-grecia-partiti-promonti-082747.shtml?uuid=AbshpHdF Titolo: Stefano FOLLI. Un'urgenza: doppio turno elettorale per la stabilità del sistema Inserito da: Admin - Maggio 24, 2012, 10:36:10 am Un'urgenza: doppio turno elettorale per la stabilità del sistema
di Stefano Folli 23 maggio 2012 Secondo giorno della nuova fase politica. Cosa c'è al di là di quel voto amministrativo definito da Anna Finocchiaro, presidente dei senatori del Pd, come l'evento che ha «archiviato il passato»? Nessuno lo sa con precisione. In Parlamento è già difficile accettare l'idea che sia stato posto uno spartiacque definitivo fra il recente passato e il futuro prossimo. Attendersi idee chiare sul «che fare» è pretendere troppo dai vertici dei partiti tradizionali. Il disorientamento è totale nel centrodestra, ma il compiacimento un po' troppo insistito con cui nel Pd si commenta il risultato elettorale la dice lunga sulle vere preoccupazioni che attanagliano anche il partito di Bersani. Serpeggia un non-detto: la paura che Parma non sia un episodio isolato, figlio di circostanze particolari, ma possa trasformarsi in un paradigma valido su scala nazionale, con la delegittimazione del vecchio personale politico. Sta di fatto che solo due punti sono chiari. Primo, il governo di Monti è più forte oggi di ieri. Sarà sempre esposto a qualche forma di pressione parlamentare, ma è evidente che i partiti della maggioranza "ABC" (Alfano-Bersani-Casini) non hanno proprio alternative. Dovranno garantire al premier un sostegno più convinto, così da far passare i provvedimenti che contano. Il disgelo in commissione alla Camera sulla legge anti-corruzione, con l'opposizione del solo Di Pietro, è un segnale in tal senso. Da parte sua il presidente del Consiglio sa di dover muovere passi decisi, come ha cominciato a fare, per contrastare la recessione. Secondo, i partiti hanno due strade davanti. Possono rotolare stancamente verso l'approdo del 2013, senza iniziative riformatrici al di là delle buone intenzioni di cui sono sempre prodighi. Se prevarranno i tatticismi, come è probabile, possiamo essere sicuri che avranno prevalso gli istinti conservatori. Oppure possono individuare tre iniziative su cui mettere a fuoco un messaggio chiaro agli elettori. La credibilità si ricostruisce sui fatti, non sulle generiche promesse. Dunque rivoluzione, più che riforma, del finanziamento pubblico, abbattimento dei costi della politica e nuova legge elettorale. Quest'ultima scelta non è solo un noioso aspetto tecnico volto a indispettire il cittadino alle prese con i problemi concreti del vivere. È un passaggio politico essenziale per impedire che il prossimo Parlamento sia ingovernabile. Se il rischio è la Grecia, meglio tentare di assomigliare alla Francia. Il sistema a doppio turno rappresenta l'ipotesi più idonea per dare un assetto stabile al sistema prima che sia troppo tardi. È o dovrebbe essere nell'interesse di tutti. Del Pd che non vuole rinunciare al suo vantaggio competitivo. Del Pdl (o come si chiamerà) desideroso di proporsi come forza post-berlusconiana. Della Lega che avrà una buona ragione per tornare, più mansueta, alle vecchie alleanze. Di Casini che dopo la delusione del "terzo polo" ha bisogno di cambiare spartito. E anche di Vendola-Di Pietro che restano legati al Pd, ma in uno schema che supera le stucchevoli diatribe sulla «foto di Vasto». C'era un tempo in cui Berlusconi non voleva sentir parlare di doppio turno. Ma tutto cambia. Spartiacque è anche superare le antiche idiosincrasie e trovare il coraggio di rimodellare tutto, correndo qualche rischio. Ma c'è da scommettere che non se ne farà nulla. da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2012-05-23/unurgenza-doppio-turno-elettorale-063926.shtml?uuid=AbOIvqgF Titolo: Stefano FOLLI. - Prevale la ragion di Stato: non alterare l'equilibrio tecnico.. Inserito da: Admin - Maggio 31, 2012, 04:29:16 pm Prevale la ragion di Stato: non alterare l'equilibrio tecnico-istituzionale
di Stefano Folli 29 maggio 2012 Non sorprende che il presidente del Consiglio abbia difeso il suo sottosegretario Catricalà con l'unico tono che era possibile usare in questa circostanza: fermo e definitivo. La "copertura" da parte di Monti è totale, un mantello protettivo che equivale alla conferma della fiducia. Del resto, al punto in cui erano giunte le cose in relazione alla polemica sul Csm, Catricalà non avrebbe avuto altra strada che le dimissioni, se il premier non avesse parlato. Ma Monti ha parlato, appunto, e allora le incomprensioni e gli equivoci dei giorni scorsi risultano cancellati. Ha prevalso la "ragion di Stato", perché una crisi nella struttura di vertice di Palazzo Chigi è qualcosa che non ci si può permettere in questo momento. I compiti assegnati a Catricalà sono troppo delicati per immaginare che una sua uscita di scena non avrebbe contraccolpi sul delicato equilibrio tecnico-istituzionale su cui si regge l'impianto del governo. Certo, le ferite ci metteranno un po' di tempo a rimarginarsi. Ma la strada scelta da Monti è la più realistica: qualsiasi altra avrebbe messo in luce i punti deboli del governo e ne avrebbe di fatto minacciato la stabilità. Quindi la scelta è stata di puntellare l'equilibrio, senza scossoni o colpi a effetto. In un governo di partiti probabilmente le cose sarebbero andate in modo diverso, ma questo è un esecutivo che risponde a logiche peculiari: i contrasti intestini non hanno uno sfogo sul piano politico e si risolvono in conflitti anche duri, ma sempre all'interno dei "palazzi". E diventa difficile spostare qualche tassello, soprattutto quando è rilevante, come nel caso del sottosegretario alla presidenza. È una situazione che vale oggi e varrà nei prossimi mesi, via via che ci avviciniamo alle elezioni politiche. Ci si dovrà muovere con crescente circospezione. E se è vero per il premier, a maggior ragione è vero per i partiti. Il clima da pre-campagna elettorale favorisce l'immobilismo e certo non incoraggia l'attività riformatrice. Correggere la Costituzione in questa atmosfera, quando non si è riusciti a farlo nei primi quattro anni della legislatura, sembra un'impresa un po' troppo ambiziosa. Sulla carta sarebbe ancora plausibile la riforma della legge elettorale nella chiave del doppio turno alla francese. Ma è singolare che gli sforzi dei due maggiori partiti vadano in tutt'altra direzione. Berlusconi, introducendo il diversivo del semi-presidenzialismo, dimostra di non guardare con interesse alla modifica dell'attuale "porcellum". E Bersani, dal canto suo, lasciando filtrare le indiscrezioni sull'ipotesi di una "lista civica" da affiancare alle liste ufficiali del Pd, lascia capire che si sta già attrezzando per andare a votare nel 2013 con l'attuale legge. Infatti la lista civica ha un senso, non tanto con l'eventuale doppio turno, quanto con il "porcellum", nel tentativo di drenare voti da Grillo, sì, ma anche dalla coppia Vendola-Di Pietro. Il che induce a dire che i due alleati tutti i torti non li hanno, dal loro punto di vista, nel chiedere chiarezza a Bersani. Stretti fra Grillo, da un lato, e la possibile lista civica, dall'altro, rischiano di subire un mezzo salasso elettorale. Bersani, senza darlo troppo a vedere, sta sfumando la famosa foto di Vasto. E lo fa riscoprendo una qualche forma di "vocazione maggioritaria" adeguata alle circostanze. La lista civica avrebbe in fondo l'obiettivo di rafforzare la centralità del Pd rispetto ai due partiti minori della coalizione. In fondo ancora una volta i maggiori partiti, Pdl e Pd, hanno interesse a mantenere lo "status quo". da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2012-05-29/prevale-ragion-stato-alterare-063905.shtml?uuid=AbtPh0jF Titolo: Stefano FOLLI. - Per avere un senso le primarie esigono la riforma elettorale Inserito da: Admin - Giugno 10, 2012, 11:21:19 pm Per avere un senso le primarie esigono la riforma elettorale
di Stefano Folli 09 giugno 2012 I critici diranno che ci vuol altro per restituire credibilità al sistema politico; e magari aggiungeranno che la partitocrazia è più che mai salda, come si è visto nelle nomine delle Autorità indipendenti. Eppure è difficile negare che ieri Bersani abbia avuto la sua giornata. Il lancio delle "primarie" aperte da tenere entro la fine dell'anno per scegliere il candidato premier costituisce senza dubbio una svolta. Comunque si voglia giudicarla, è un'iniziativa politica: il segnale che si può uscire dal ridotto della Valtellina dei partiti frustrati. E dal momento che a destra anche il Pdl abbraccia la prospettiva delle "primarie", rompendo il tabù che aveva dominato gli anni del berlusconismo trionfante, ecco che il quadro si è mosso su entrambi i versanti. Ma è il Partito Democratico ad aver conseguito un vantaggio. Primo, perché le "primarie" sono un'idea nata a sinistra. Secondo, perché il Pdl, dovendo dare uno sbocco ai suoi tormenti, è indotto ad adeguarsi in un processo d'imitazione. Sono gli effetti, sia pure tardivi, del crescente distacco, quasi incolmabile, fra la cosiddetta società civile e il ceto politico. Vedremo. Certo, con un po' di malizia si potrebbe pensare che le "primarie" collocate verso la fine dell'anno, quando il clima elettorale sarà già rovente, finiranno per svolgersi in un clima favorevole al segretario in carica più che a qualche "outsider" o magari a un esterno. Ma questo è un dato imposto dalla realtà che diventa normale tattica politica. Molto più interessante è capire in quale cornice si andrà al voto. Le "primarie" fatte senza aver modificato nel frattempo l'attuale legge elettorale sarebbero un grave errore. Nessuno capirebbe il messaggio di rinnovamento e l'effetto sarebbe a dir poco controproducente. Ne deriva che i capipartito hanno poche settimane per accordarsi sulla riforma. Poche settimane prima delle ferie estive per dare un senso al passo compiuto ieri. Sul tavolo ci sono due ipotesi. La prima resta il sistema a doppio turno francese, che il Pdl ha collegato a una riforma semi-presidenziale oggi impossibile. Il Pd ha lasciato aperto uno spiraglio, quando ha suggerito, con Violante, di far svolgere un referendum all'inizio della prossima legislatura per coinvolgere i cittadini nella scelta della forma di governo. Può bastare questo al Pdl? La riforma elettorale subito in cambio di quella «fase costituente» nel prossimo Parlamento su cui insiste Enrico Letta. Se c'è la volontà, potrebbe essere la soluzione del rebus. È chiaro che il doppio turno piace poco alle forze intermedie. Vendola e Di Pietro, ad esempio, preferiscono tornare al vecchio "Mattarellum", con il suo 25 per cento di proporzionale. È una riforma che si potrebbe fare in fretta ma sempre con un'intesa con il Pdl. La logica sarebbe molto diversa da quella del modello francese e i grandi partiti dovrebbero negoziare a fondo le candidature con i loro alleati. Doppio turno o "Mattarellum". O magari nulla. Non è una questione tecnica, ma tutta politica: dalla quale emergeranno gli assetti politici della prossima legislatura. E forse non è un caso che Romano Prodi abbia scelto proprio la giornata di ieri per sferrare un duro attacco al Pd e alle sue «tendenze suicide» (con riferimento alle recenti nomine). Un'uscita non proprio imprevedibile che ha raccolto il plauso di Di Pietro. © RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2012-06-09/avere-senso-primarie-esigono-081539.shtml?uuid=Abn5XepF Titolo: FOLLI. - Le nevrosi di un sistema alla paralisi si rovesciano sulle istituzioni Inserito da: Admin - Giugno 24, 2012, 09:12:46 am Le nevrosi di un sistema alla paralisi si rovesciano sulle istituzioni di Stefano Folli 22 giugno 2012 Il tasso di nevrosi serpeggiante nei palazzi romani è molto alto, troppo per garantire una vita serena al governo. Si guarda al quadrangolare europeo di oggi a Roma e soprattutto alla scadenza del vertice di fine giugno, fra una settimana, come ai due momenti della verità. Sottinteso: se Mario Monti non strappa all'Europa, ossia ad Angela Merkel, qualche minimo risultato, nessuno vorrà o saprà garantirgli di concludere in serenità la legislatura. Parole, si dirà: in fondo è più probabile che i partiti rotolino sull'abbrivio fino al prossimo gennaio, visto che nessuno avrà il coraggio di aprire la crisi. E tuttavia sono parole che pesano e danno corpo a quella speciale condizione di «né pace né guerra» in cui viviamo da tempo e che negli ultimi giorni si è accentuata. Il presidente del Consiglio sa di dover procedere lungo un sentiero angusto. Nei prossimi giorni otterrà – con la fiducia – il via libera parlamentare alla legge sul lavoro e poi andrà a Bruxelles. Ma al ritorno la corsa a ostacoli riprenderà con l'obiettivo di arrivare alla fine dell'anno, cioè al termine sostanziale del suo mandato. Ogni giorno sarà una conquista, se è vero che il predecessore di Monti a Palazzo Chigi, Silvio Berlusconi, lascia trapelare il malcelato desiderio di costruire un nuovo partito per le elezioni basato sul rifiuto della moneta unica. E se Bersani, a sua volta, sul versante del centrosinistra, è accreditato – senza prove, in verità – di coltivare il sogno segreto di un anticipo elettorale in autunno. Niente primarie, niente fastidi, e una vittoria che i sondaggi danno per sicura. La novità è che la nevrosi ha investito anche il Quirinale. Al tentativo piuttosto goffo di delegittimarlo, Napolitano ha replicato ieri con durezza, respingendo le insinuazioni «fondate sul nulla». Ora non è tanto significativa la risposta, prevista e inevitabile, del capo dello Stato ai suoi detrattori; quanto l'insistenza con cui si è costruito un caso davvero fragile, attraverso l'uso di intercettazioni che non si sono fermate nemmeno davanti al telefono del presidente della Repubblica. Intercettazioni «irrilevanti», si è fatto trapelare, con un gesto che assomiglia molto a un'intimidazione. Come dire: attento, anche tu sei sotto controllo. È un pessimo clima. Nelle prossime settimane il paese potrebbe aver bisogno di nuovo di un Quirinale arbitro dei destini politici degli italiani. È grave e pericoloso indebolire a colpi d'ariete questo punto d'equilibrio istituzionale. Lo abbiamo già scritto, ma il tema ritorna: con ogni evidenza c'è la volontà politica di tenere sotto pressione il Presidente della Repubblica. Ecco cosa s'intende per nevrosi. Un sistema politico incapace di autoriforma e giunto sul bordo dell'abisso tende a scaricare le proprie frustrazioni sul governo o addirittura sulla presidenza della Repubblica. La speranza nemmeno nascosta è di correre alle elezioni in autunno. Chi pensa di vincerle (il centrosinistra); chi preferisce giocare subito la partita perché è incalzato da Grillo (Di Pietro); chi ritiene di risalire la china con una linea esplosiva contro la Merkel (Berlusconi). Tutti temono che di rinvio in rinvio si arrivi al 2013 nella generale dissoluzione. Ma nessuno ha il coraggio di compiere la mossa decisiva e di rovesciare il tavolo. La miscela è oscura e carica di rischi. Per evitarli bisogna sperare in Monti e nella sua capacità di cogliere un risultato in Europa. da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2012-06-22/nevrosi-sistema-paralisi-rovesciano-063930.shtml?uuid=AbBLaHwF Titolo: Stefano FOLLI. - Il Cavaliere non cerca Palazzo Chigi ma una posizione da cui... Inserito da: Admin - Luglio 12, 2012, 05:08:04 pm Il Cavaliere non cerca Palazzo Chigi ma una posizione da cui negoziare
di Stefano Folli 12 luglio 2012Commenta Significa invece che oggi, metà di luglio 2012, questo è il messaggio che l'uomo forte del centrodestra vuol fare arrivare. A chi? A un pezzo di quell'opinione pubblica che un tempo lo votava e adesso è dispersa, divisa fra l'astensionismo e la tentazione di sostenere persino Beppe Grillo o altre liste di protesta; mentre un segmento non piccolo – è bene ricordarlo – guarda a Monti con crescente rispetto. Ma soprattutto il messaggio è rivolto ai suoi, ai rissosi protagonisti del tramonto del Pdl. In quel mondo e in quel circuito la voce del vecchio leader ha ancora un richiamo irresistibile, ha il sapore di un ricostituente quando tutto sembra perduto. E aiuta a reprimere i rancori domestici. Viceversa meglio non indagare troppo in queste ore sul pensiero di chi opera nel campo finanziario, i famosi mercati. O su quello che si mormora nelle cancellerie europee. C'è di buono che pochi credono alla serietà di questo ritorno in campo. I più ritengono, anche giustamente, che si tratti di una mossa tattica per riaggregare le forze: del resto alle elezioni c'è tempo e tutto può cambiare cento volte di qui ad allora. Quei pochi che prendono sul serio i segnali berlusconiani prevedono il volo dello «spread» e il crollo di quel tanto di credibilità recuperata con Monti. In realtà l'annuncio assomiglia a una mossa estrema, anche un po' disperata, di un uomo che non si rassegna a perdere l'enorme influenza esercitata per quasi due decenni. E che vede non solo la sua creatura politica disgregarsi, ma anche i suoi rilevanti interessi personali messi a rischio da nuovi e insondabili scenari. Quello che Berlusconi vuole non è certo tornare a Palazzo Chigi: il realismo non gli ha quasi mai fatto difetto. Desidera però non abbandonare il ruolo cruciale nelle vicende italiane che è sempre riuscito a giocare. Così da negoziare con i poteri di domani tutto quello che a suo avviso merita una trattativa: dalla magistratura agli assetti televisivi e oltre. E se c'è una speranza di farlo, essa passa dalla capacità di rinnovare il centrodestra, restituendogli qualche attrattiva agli occhi degli italiani. Per la verità il piano fa acqua da varie parti. È tutto da dimostrare che esistano sondaggi così favorevoli come quelli oggetto di indiscrezioni. E a parte lo «spread», è tutto da dimostrare che l'antico incantesimo sia ancora in grado di stregare una porzione significativa di elettorato. Certo, si è capito che il Pdl senza Berlusconi non ha una bussola. Ma il Pdl con il Berlusconi del 2013 (quasi 77 anni) sarà una storia assai diversa da quella vissuta con il Berlusconi del 1994 o del 2001 o del 2006. Una stagione è finita, l'area moderata è in via di trasformazione. Monti ne sta modificando il profilo, separando il populismo dall'europeismo. Esiste già nei fatti un «partito di Monti», anche se magari non si presenterà al voto. Berlusconi vede il pericolo e vorrebbe frenarne l'esito. Tenta di trattare quello che può, giocando al meglio le carte che gli rimangono. Non sono poche, ma nemmeno tali da permettergli di rovesciare il tavolo. Il resto si vedrà. Purché sia chiaro che oggi tutto (dal presidenzialismo alle suggestioni di una grande coalizione) è strumentale. Quello che conta è il timore di Berlusconi di vedersi sfilare per sempre, nella prossima legislatura, il potere di condizionare gli eventi. ©RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2012-07-12/cavaliere-cerca-palazzo-chigi-082629.shtml Titolo: Stefano FOLLI. - Oggi l'agenda Bersani, se esiste, dovrà uscire dal cassetto Inserito da: Admin - Luglio 14, 2012, 03:50:21 pm Oggi l'agenda Bersani, se esiste, dovrà uscire dal cassetto
di Stefano Folli 14 luglio 2012 È diritto del segretario del Partito Democratico anteporre una sorta di «agenda Bersani» alla più nota «agenda Monti». Ma è suo dovere precisare di cosa si tratta e quali sono i punti prioritari. In altre parole, l'assemblea del Pd che si tiene oggi a Roma non serve solo a dirsi arrivederci prima delle vacanze estive; al contrario, la riunione rappresenta un passaggio politico piuttosto serio e un'occasione che il maggior partito del centrosinistra non può sprecare. Bersani si è fatto precedere da un'intervista al «Financial Times», condotta in uno stile da presidente del Consiglio in pectore che vuole cominciare ad accreditarsi negli ambienti internazionali. Si parla del senso di responsabilità come caratteristica del centrosinistra di governo; e si accenna all'«eredità» di Monti che non dovrà andare dispersa. Tutto in forma alquanto generica, per cui è inevitabile attendersi che oggi il leader del Pd sia molto più preciso. L'«agenda Bersani» dovrà uscire dai cassetti. Non basta dire, come si sente spesso dalla bocca del segretario, che «noi abbiamo le nostre idee e al momento opportuno le metteremo sul tavolo». Tutto lascia presumere che quel momento sia arrivato. Sui tagli alla spesa pubblica, sui risparmi che toccano la vita dei cittadini, sui provvedimenti per lo sviluppo, Bersani dovrà spiegare cosa non lo ha convinto nelle scelte di Monti, ma soprattutto cosa farebbe il governo di centrosinistra chiamato a decidere in luogo dei «tecnici». Del resto, il segretario è il primo a sapere quanto sia difficile reggere una campagna elettorale che si annuncia assai lunga limitandosi a denunciare il «populismo delle destre». La formula assomiglia a un'ultima incarnazione della polemica anti-berlusconiana, mentre è evidente che il populismo è ben radicato anche a sinistra, persino in qualche frangia del Pd. E ora che il fantasma del vecchio avversario è tornato a palesarsi sulla scena, come in un'assurda macchina del tempo, c'è il rischio di essere risucchiati nell'ennesimo, inconcludente duello con il passato. Dunque Bersani ha bisogno di dare alcune risposte che siano degne di nota. Primo: l'agenda Bersani è in linea di continuità o di rottura con l'esperienza dell'attuale governo? Finora ha prevalso l'ambiguità, tanto è vero che quindici deputati del Pd hanno firmato a sostegno dell'agenda Monti, ossia di una chiara continuità, mentre il responsabile economico Fassina si colloca agli antipodi esatti di questa posizione. Il segretario dovrà trovare la quadra senza apparire un mero giocoliere delle parole. A questo si lega il secondo punto. Quanto il Pd vuole mettersi in gioco per conquistare l'elettorato di centro, i cosiddetti ceti moderati? Qualcuno ricorda in queste ore che i laburisti inglesi non hanno esitato a rivolgersi a Tony Blair, uno che sapeva bene come sottrarre voti ai conservatori. E in Italia? Bersani guarda con evidenza ai successi di Hollande in Francia, ma c'è il rischio che il centrosinistra non riesca a uscire dal tradizionale perimetro di consensi e di contraddizioni. Terzo. Occorrerà fare chiarezza su due aspetti cruciali. Come intende muoversi il Pd sulla legge elettorale? A Napolitano Bersani ha garantito il massimo impegno. Ma c'è il rischio che la paralisi continui e che il partito appaia privo di iniziativa. E infine, le primarie. Bersani dovrà dire una parola chiara in proposito. I candidati a quanto pare ci sono: Vendola, Tabacci, oltre a Matteo Renzi. È tutto il resto che manca. ©RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2012-07-13/oggi-agenda-bersani-esiste-230511.shtml Titolo: Stefano FOLLI. - Il ritorno di Berlusconi? Agghiacciante Inserito da: Admin - Luglio 14, 2012, 03:51:38 pm Bersani: primarie entro la fine del 2012. Il ritorno di Berlusconi? Agghiacciante
con il Punto di Stefano Folli Le primarie «non saranno il congresso del Pd». Lo sottolinea il segretario Pier Luigi Bersani, nel suo intervento all'assemblea nazionale del partito, che si tiene a Roma, nel Salone delle Fontane all'Eur. Bersani sottolinea che alle primarie «si parlerà di Italia e di governo del Paese». Indica una data: «si terranno com'é logico in una ragionevole distanza dalle elezioni e cioé entro la fine dell'anno». Aggiunge però che «non le faremo da soli e dunque i tempi e i modi non li possiamo decidere da soli». Quello di Berlusconi, osserva poi il leader dei democratici, è «un ritorno agghiacciante». Giù le tasse, con maggiore pressione su rendite grandi patrimoni Tra i punti punti programmatici del partito il segretario segnala «l'alleggerimento fiscale a carico di rendite di grandi patrimoni finanziari e immobiliari». Patto per governo snello, rinnovato e competente «Ci sono impegni, annuncia Bersani, che proporremo di sottoscrivere come quello di affidare alla responsabilità del candidato premier una composizione del governo snella, rinnovata, competente e credibile internazionalmente». Del patto fa parte anche l'intesa a «consentire una cessione di sovranità e cioè di sciogliere controversie su atti rilevanti attraverso votazioni a maggioranza dei gruppi parlamentari in tenuta congiunta». Non ci è facile sorreggere la transizione Il segretario del Pd parla anche della posizione del partito nei confronti del Governo Monti. «Non ci è facile sorreggere la transizione - ammette - e guai se, riaffermando la nostra lealtà, perdiamo il contatto con il disagio forte che c'è nel Paese e lo abbandoniamo a derive pericolose. Noi che ci stiamo caricando di responsabilità non nostre in nome della salvezza del Paese abbiamo non solo il diritto ma anche il dovere di dire sempre quel che faremmo davanti a misure del governo». Viviamo un tempo di grande responsabilità «Stiamo vivendo il tempo della grande crisi - osserva Bersani -, la più grande dal dopoguerra, che ci accompagnerà per un tempo non breve e secondo un percorso che nessuno oggi, in verità, é in grado di descrivere e prevedere. Un tempo non ordinario, un tempo di grande responsabilità». ©RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2012-07-14/bersani-primarie-entro-fine-094435.shtml?uuid=Abso9g7F Titolo: Stefano FOLLI. - Di Pietro attacca Napolitano per sfidare il Pd Inserito da: Admin - Luglio 18, 2012, 11:09:53 pm Di Pietro attacca Napolitano per sfidare il Pd
di Stefano Folli 18 luglio 2012 Com'era prevedibile, Di Pietro è stato lesto ad approfittare del conflitto fra Napolitano e la procura di Palermo per guadagnare visibilità e porsi al centro della scena. Non è la prima volta e non sarà l'ultima. Possiamo considerarla una conseguenza minore della vicenda. Ma non è proprio così. L'ennesima offensiva del leader dell'IdV contro il Quirinale obbedisce a una logica politica e peserà sul futuro del centrosinistra. In primo luogo è la conferma di un dato evidente. Qualcuno vuole una presidenza della Repubblica sempre più debole e lontana dagli incroci della politica. Un tempo era la destra, ma da qualche tempo, diciamo dall'avvento del governo "tecnico" di Monti, gli attacchi vengono da un altro fronte. È il mondo che va da Beppe Grillo a Di Pietro fino, per certi aspetti, a un Vendola riluttante a mescolarsi ai primi due, ma costretto dalle circostanze a schierarsi sulla stessa barricata. Ci sono sintonie, ma anche forti rivalità all'interno di questo arcipelago. Grillo ha offuscato da tempo Di Pietro: forse non gli ha sottratto voti (non ancora), ma di sicuro gli ha rubato la leadership dell'area protestataria, insofferente verso ogni istituzione, tentata dalla ribellione anti-sistema e perciò tifosa di una certa magistratura. Vendola, per cultura e storia personale, sarebbe lontano da una tale combinazione, ma anche lui avverte la pressione dei "grillini", benché al Sud il movimento Cinque Stelle sia ancora poco diffuso. Il punto è che sta nascendo un agglomerato intorno a Grillo e Di Pietro, per quanto poco calorose e diffidenti siano le relazioni fra i due. Tuttavia entrambi pescano nello stesso elettorato, entrambi sanno che destabilizzare le istituzioni rappresenta per loro il mezzo più veloce per guadagnare spazio e attenzione mediatica. Il Pd si sta costruendo, non senza fatica, il profilo di una forza di governo in grado di interloquire con i ceti moderati, a loro volta in cerca di una nuova prospettiva? Ed ecco che Grillo apre il fuoco (non certo da oggi) sul partito di Bersani con il giochetto "Pd = Pdl meno elle". Ed ecco Di Pietro che bombarda il Quirinale. È probabile che i due non si siano neanche parlati, ma l'interesse è convergente e finisce per assorbire anche Vendola. La stabilità istituzionale è essenziale per chi vuole costruire uno schieramento di governo, a sinistra come a destra. L'instabilità è invece il pane di chi intende ritagliarsi un ruolo decisivo nella prossima legislatura impedendo qualsiasi equilibrio nel segno della coesione nazionale. La difesa della Procura di Palermo, fatta da Di Pietro con toni di asprezza inusitata, va molto al di là del merito della questione: diventa un pretesto per attaccare Napolitano sul terreno politico e offenderlo sul piano personale. Quell'appello fuori contesto rivolto ai magistrati («resistere, resistere, resistere») riecheggia la famosa invocazione di Francesco Saverio Borrelli, ma qui non c'è una linea del Piave da difendere, a meno di non sostenere che è il presidente della Repubblica a minacciare lo Stato di diritto. Bersani dovrà fare attenzione. La costruzione di un asse di governo progressisti-moderati è ancora in alto mare e nessuno può garantire che sarà seducente agli occhi dell'elettorato. Viceversa, l'asse alternativo Grillo-Di Pietro (e in parte Vendola, volente o nolente) si muove già con assoluta spregiudicatezza a caccia di consensi. Ci sono voluti quasi due giorni prima che il segretario del Pd si decidesse a qualificare come «indecenti» gli attacchi al capo dello Stato. È la prova che stiamo assistendo a una corsa asimmetrica e piena di zone d'ombra. Quando invece sarebbe necessario che il Pd si attrezzasse per giocare la partita elettorale contro questo inedito e vigoroso agglomerato. La sfida del futuro governo passa di qui. ©RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2012-07-18/pietro-attacca-napolitano-sfidare-082205.shtml?uuid=Abpd2a9F Titolo: Stefano FOLLI. - Bilancio politico di mezza estate Inserito da: Admin - Agosto 09, 2012, 11:13:36 pm Bilancio politico di mezza estate
di Stefano Folli 09 agosto 2012 Bilancio di mezza estate nei palazzi romani. È la fotografia di un'Italia in bilico che si prepara a un autunno difficile, come dice il ministro Elsa Fornero, e poi a una primavera in cui avremo, sì, le elezioni, ma ben poche certezze sul dopo. La verità è che il dato positivo di questi mesi è solo uno: la relativa stabilità intorno al governo Monti, ciò che permette al premier una certa libertà di manovra in una fase d'emergenza tutt'altro che conclusa, con qualche risultato rilevante sul piano interno e soprattutto al tavolo europeo. I provvedimenti sulla revisione della spesa rappresentano il sigillo di serietà a un periodo drammatico, ma comportano alcune conseguenze. La prima è la frustrazione del Quirinale sulla questione dei decreti legge. Oggi non se ne può fare a meno, ha detto in sostanza Napolitano, anche perché il Parlamento (leggi i partiti) non ha saputo approvare nessuna delle riforme necessarie a dare funzionalità al sistema. Purtroppo è così. Il finale di legislatura coincide con un totale scoramento. Nulla o quasi di quello che era stato promesso è andato in porto. Le forze politiche (Pdl, Pd e Udc) si limitano a offrire un sostegno obbligato a Monti, consapevoli che qualsiasi alternativa sarebbe distruttiva per loro e per l'Italia. Ma non hanno saputo realizzare ciò che il buon senso suggeriva e l'opinione pubblica si attendeva. Forse avremo una mezza riforma elettorale prima di Natale: meglio di niente, ma troppo poco per essere ottimisti circa il domani. Nessun partito ha realmente conquistato il centro della scena, anche in termini di credibilità; nessuno sembra in grado di esercitare l'egemonia che ai tempi della prima Repubblica fu prerogativa della Dc al governo e del Pci all'opposizione. Si cerca, ma senza mai trovarlo, il baricentro del sistema. Ne deriva che il gioco delle alleanze è, sì, utile per immaginare gli equilibri futuri, ma da solo è insufficiente a garantire un modello politico realmente solido. Al momento sappiamo che Casini e Bersani (più Vendola) in prospettiva saranno disposti a governare insieme. Ma nessuno può dire quale sarà il peso di questo nuovo centro-sinistra che rischia di essere una versione minimalista di quelli degli anni Sessanta. Dipenderà dai voti, certo, ma anche dalla capacità di esprimere una visione del paese. Casini coglie un punto centrale quando afferma di voler raccogliere tutti coloro che credono nell'esperienza di Monti, ma anche lui sembra muoversi in ritardo e in modo un po' strumentale. Dov'è finito il "partito della nazione" più volte adombrato? È pericoloso confondere le strategie con il tatticismo. Quanto alla destra berlusconiana, Alfano ieri ha avuto l'accortezza di dichiarare chiusa la piccola polemica sullo "spread". Era logico che così fosse, ma è soprattutto opportuno che il segretario del Pdl abbia portato a Monti delle proposte concrete per il taglio del debito pubblico. I prossimi mesi saranno decisivi al riguardo e le forze politiche saranno giudicate da come sapranno affrontare un simile nodo. In un certo senso si potrebbe concludere che le future alleanze saranno determinate, più che da intese vecchio stile, dal modo in cui i partiti riusciranno a misurarsi con questa urgenza senza precedenti. Il che rende essenziale che nella prossima legislatura l'«area Monti» sia rappresentata in forme adeguate. da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2012-08-09/bilancio-politico-mezza-estate-063648.shtml?uuid=AbdshiLG Titolo: Stefano FOLLI. - Dietro lo psicodramma della legge elettorale i nodi politici.. Inserito da: Admin - Settembre 09, 2012, 10:09:35 am Dietro lo psicodramma della legge elettorale i nodi politici irrisolti
di Stefano Folli 06 settembre 2012 Dietro lo psicodramma della riforma elettorale, in cui si consuma da mesi quel che resta della politica italiana, c'è un nodo politico ben preciso. Riguarda il destino dei due maggiori partiti, il Pd e il Pdl. Se fosse una partita di calcio, si potrebbe dire che Bersani dispone di due risultati utili: può andargli bene lo stallo definitivo con la conferma dell'attuale "Porecellum" (magari con qualche ritocco minore); ovvero un accordo che recepisca lo schema che sembrava idoneo fino a poche settimane fa e che all'improvviso è evaporato. Viceversa il centrodestra deve stare attento a dove mette i piedi. La vecchia intesa tecnica Verdini-Migliavacca era un'ipotesi di soluzione che mancava di un contesto politico adeguato. In altre parole, Berlusconi non sa ancora dove pilotare il suo partito, quale abito confezionargli in vista delle elezioni, quale obiettivo porsi, se conservare il timone della leadership nelle sue mani o affidarlo a un nome nuovo, se possibile di forte richiamo. Tutte queste incertezze determinano infiniti ritardi. Se fosse chiara la prospettiva politica del centrodestra, si costruirebbe intorno ad essa una legge elettorale su misura e c'è da credere che in quel caso si troverebbe in fretta una convergenza con l'altro grande partito, il Pd. Ma la destra vive da tempo una crisi d'identità che le rende difficile qualsiasi scelta e questo spiega anche i lunghi silenzi di Berlusconi, a cui corrispondono gli interventi generici dei suoi collaboratori. A parte gli attacchi a Casini, è arduo cogliere di questi tempi un tema politico elaborato dalle parti del Pdl. È vero che il centrosinistra va sui giornali più che altro per le mine innescate da Renzi, con la lotta generazionale che ne deriva, nonchè per le incognite dell'alleanza con Vendola. Ma in questa fase dà l'impressione di avere le idee molto più chiare del centrodestra. In fondo Bersani ha confermato ieri che le primarie per la scelta del candidato saranno «aperte»: un gesto di coraggio, benchè atteso, e una garanzia offerta a Renzi. A Palazzo Grazioli, viceversa, si vive aspettando le intuizioni del capo carismatico. Il quale però è lungi dal ritrovare il «tocco magico» del passato. Così il palcoscenico è deserto e la commedia langue. La paralisi della legge elettorale nasce di qui. La settimana prossima, in assenza di accordo, si tornerà in commissione e poi si andrà in aula. Tutti contro tutti. Il rischio che alla fine si resti con il "Porcellum" un po' aggiustato è reale. Del resto anche il premier Monti, sulla scia di Napolitano, ha sollecitato i partiti a trovare l'intesa su «una buona legge». S'intende che non ci sono segnali circa un intervento diretto del governo in materia elettorale: intervento che sarebbe sulla carta possibile e del tutto legittimo, ma assai inopportuno in termini politici. Al dunque, si aspetta. Se certi nodi saranno sciolti, soprattutto a destra, la legge si farà, giusto in tempo per andare a votare tra febbraio e marzo. Altrimenti si voterà lo stesso, ma i partiti avranno perso un'altra occasione. Il vero pericolo è che il prossimo Parlamento nasca con gli stessi vizi e gli stessi squilibri del vecchio. Sarebbe un salto nell'ignoto quando invece l'Europa ci chiede certezze. Non a caso il tema della campagna elettorale dovrebbe essere la continuità del governo Monti, sia pure in una nuova cornice politica. Ma anche su questo siamo in alto mare. da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2012-09-06/dietro-psicodramma-legge-elettorale-064000.shtml?uuid=Abhw19YG Titolo: Stefano FOLLI. - Gli scandali quotidiani e l'Europa come garanzia di serietà Inserito da: Admin - Settembre 20, 2012, 04:54:53 pm Gli scandali quotidiani e l'Europa come garanzia di serietà
di Stefano Folli 19 settembre 2012Commenta Sembra che i politici italiani siano preda di un «cupio dissolvi» che ricorda il suicidio di massa dei piccoli "lemming" canadesi. Con la differenza che in quel caso sembra trattarsi di una leggenda, mentre le nostre vicende domestiche sono purtroppo tutte vere. L'opinione pubblica non si è ancora riavuta dopo aver respirato i miasmi che si sprigionano dalla regione Lazio ed ecco che la Camera riesce a darsi ancora la zappa sui piedi. È stupefacente il rifiuto opposto nella Giunta del regolamento alla proposta del presidente Fini di introdurre una forma di controllo "esterno" e indipendente sui bilanci dei gruppi parlamentari. L'argomento addotto riguarda l'autonomia del Parlamento, ma la verità è che a Montecitorio qualcuno ha perso un'altra occasione per dimostrare un po' di sensibilità istituzionale. Nonostante gli infiniti segnali di allarme, il muro fra i cittadini e i loro rappresentanti resta insuperabile. Tanto è vero che solo pochi o pochissimi fra i parlamentari si rendono conto di quanto sia urgente l'esigenza di maggiore trasparenza. Ci si fa scudo con un tema rispettabile (l'autonomia delle assemblee legislative) e lo si trasforma in un formalismo destinato a bloccare un'operazione verità sui conti dei partiti. Ogni commento è superfluo. Nel frattempo a Roma si attende con impazienza che la presidente Polverini dia seguito alle sue promesse di massimo rigore. L'impressione è che la riscossa arrivi comunque in grave ritardo rispetto alla corruzione conclamata e "sistemica". Tuttavia giunti a questo punto sarebbe imperdonabile se alle parole non seguissero fatti risolutivi e non si procedesse sul serio alla pulizia emblematica annunciata dalla governatrice del Lazio. Intanto, come si è detto, la marcia dei "lemming" procede. Capita sempre più spesso che la politica vada sui giornali quasi soltanto per notizie relative a scandali. Eppure il sistema è in via di trasformazione, sia pure in forme ancora imprevedibili. Il vincitore sarà ovviamente chi riuscirà a governare il cambiamento. Il successo mediatico di Renzi si spiega con la capacità d'interpretare una speranza. Ma la fatica di governare è incarnata da Monti. Il messaggio del premier non è meno efficace di quello di altri personaggi che si affacciano sulla scena. Con la differenza che Monti è a Palazzo Chigi, ma non è in campo. Se lo fosse, sarebbe senza dubbio il naturale federatore di un'Italia che oggi è ansiosa di cambiare, ma non si sente rappresentata. Berlusconi, in questa estrema stagione della sua vita politica, dimostra di aver compreso il punto anche se non sa sfuggire alle sue contraddizioni. Da un lato vorrebbe riunire i moderati, perché si rende conto che l'unica strada è quella di stare in Europa. E oggi in Italia il terreno europeo è delimitato meglio di altri dai Napolitano e dai Monti. Tuttavia dall'altro lato Berlusconi cerca come al solito facili applausi parlando contro l'Imu e il "fiscal compact" (votati dal Pdl). È chiaro che le due cose non stanno insieme e il capo dello Stato ieri lo ha ribadito senza mezze misure. Il partito europeo di domani può nascere se il Pdl - segmento italiano del partito popolare europeo - accetta la sfida della serietà e decide cosa vuole essere. Ma c'è da essere scettici. ©RIPRODUZIONE RISERVATA da - ilsole24ore Titolo: Stefano FOLLI. - C'è del metodo a sinistra: Vendola, le primarie, ... Inserito da: Admin - Settembre 26, 2012, 03:38:54 pm C'è del metodo a sinistra: Vendola, le primarie, il congresso Pd (in corso)
di Stefano Folli 22 settembre 2012 Non è strano che le primarie del Pd assomiglino a una sorta di congresso che si svolge in piazza, nei gazebo e in televisione. Era nella logica delle cose da quando Bersani, non senza coraggio, ha accettato di mettere in gioco la sua leadership, anzichè pretendere un plebiscito su decisioni prese altrove. Quindi, primarie uguale congresso. Tanto più che al momento i candidati sono tutti del Pd, con Vendola che ha molta voglia di restare fuori e Tabacci unico rappresentante esterno in campo. Peraltro, se è vero che il congresso è già cominciato, il giovane Renzi in un certo senso lo ha già vinto, almeno dal punto di vista mediatico. Ha dato una scossa all'albero del Pd come non si vedeva dai tempi della Bolognina, la «svolta» che fra la fine del 1989 e il febbraio del 1991 portò a un congresso (vero) e al cambio del nome del Pci. Sono bastate poche settimane per mettere in drammatica difficoltà il gruppo dirigente del partito, che si sente sfidato come mai in passato. D'altra parte Bersani è ancora in grado di controllare la situazione, specie se le regole delle primarie, tuttora misteriose, metteranno qualche paletto volto a favorire la partecipazione dei militanti del centrosinistra a scapito di quei «delusi da Berlusconi» (cioè voto d'opinione lontano dal Pd) a cui si è rivolto l'intraprendente sindaco fiorentino. In fondo ha ragione il manager Gori, che al quotidiano «Pubblico» ha detto: «Fra Bersani e Berlusconi, Renzi potrebbe battere più facilmente il secondo». Analisi corretta. Intanto però l'attualità accende le luci su Vendola, l'Amleto delle primarie che a Vasto si è ritrovato accanto a Di Pietro, insieme al quale ha appena chiesto il referendum sulla riforma del lavoro e ora reclama «il ribaltamento dell'agenda Monti» nonché il rifiuto di un'alleanza estesa a Casini. Si può sottovalutare la circostanza e concludere che si tratta solo di campagna elettorale. Ma non è così. La posizione vendoliana obbliga Bersani a un chiarimento. E infatti ieri sera il segretario del Pd ha difeso l'«agenda Monti», precisando che essa sarà «integrata» dopo le elezioni con misure sulla crescita economica. Se bastasse questo, non ci sarebbe da preoccuparsi. Ma la realtà dice che una coalizione da Casini a Vendola richiederà incredibili giochi di equilibrismo e si annuncia fin d'ora a rischio di paralisi. Vedremo. Certo è che il governatore della Puglia, se da un lato punta i piedi sullo scenario politico, dall'altro qualcosa concede. E non poco. La sua mancata partecipazione alle primarie, se sarà confermata, permetterà a Bersani di coprirsi sul lato sinistro, in modo da concentrarsi nello scontro con i renziani. Difatti il sindaco di Firenze è l'unico realmente danneggiato dal ritiro di Vendola. Diciamo che Bersani procede, elettori permettendo, secondo il suo schema preferito: inglobare il Sel vendoliano come ala sinistra dell'alleanza (e forse anche Di Pietro); tentare di vincere le elezioni, conquistando il premio di maggioranza; subito dopo rivolgersi al centrista Casini per stipulare un patto di governo. Ma quel giorno emergeranno tutte le contraddizioni nascoste sotto il tappeto durante la campagna elettorale. Il «filo della stabilità» su cui insiste Napolitano come patrimonio da preservare sarà a rischio. E con esso, inutile dirlo, anche la fatidica «agenda Monti». da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2012-09-22/metodo-sinistra-vendola-primarie-081420.shtml?uuid=Ab9erihG Titolo: Stefano FOLLI. - Ora i partiti facciano i conti con la realtà Inserito da: Admin - Ottobre 01, 2012, 02:55:28 pm Con l'ipotesi Monti-bis quadro politico più chiaro.
Ora i partiti facciano i conti con la realtà Il Punto di Stefano Folli 30 settembre 2012 Monti-bis, fattore di chiarezza Il dato positivo è che il solo parlare di un'ipotesi di Monti-bis all'inizio della prossima legislatura rappresenta un elemento di chiarezza. Di più: è una spinta alla concretezza di un dibattito che altrimenti sarebbe fatto solo di scandali e di polemiche intorno agli sprechi (o alle malversazioni) a livello regionale. Viceversa, misurarsi sull'idea di un nuovo esecutivo guidato da Monti obbliga i partiti – i favorevoli come i contrari – a fare i conti con la realtà. Perchè discutere di Monti significa discutere anche di Europa, di relazioni con le grandi cancellerie europee; vuol dire porsi il problema delle riforme (non solo in forma retorica e mediatica) e capire veramente quale sia il "che fare" nei prossimi mesi. Anche e soprattutto per ridare slancio all'economia e in prospettiva ridurre il carico fiscale. Pro e contro: a favore di Monti S'intravedono già i due schieramenti. A favore di Monti già oggi ci sono le forze del centro. Il partito di Casini, naturalmente, ma nella sua versione allargata: Fini, i partecipanti al recente convegno di Chianciano, imprenditori e professionisti, pezzi del mondo cattolico alcuni dei quali già presenti nell'attuale governo "tecnico". È una forza che ruota intorno al 9-10 per cento dei sondaggi, ma che può crescere. Soprattutto ora che l'enigma Montezemolo si è finalmente chiarito. Con poca sorpresa di quanti avevano già previsto da tempo l'epilogo. Il presidente della Ferrari non si candiderà in prima persona, ma userà la sua influenza e il peso della sua Fondazione per sostenere l'ipotesi Monti. In questo modo la rete si allarga e comincia a prendere la fisionomia di una novità politica. Non è solo l'Udc, il partito di Casini, a sostenere il Monti-bis. Per la prima volta la prospettiva di una grande lista civica nazionale che spezzi le barriere partitiche acquista una parvenza di verosimiglianza. Non solo un'operazione di palazzo o di semplice cosmesi, bensì uno sforzo per uscire dai vecchi confini e cominciare a parlare a quella larga fetta di opinione pubblica (il 40 e più per cento) che vede in Monti la persona giusta per il domani. Tuttavia, è bene dirlo, la lista civica richiede molta fatica e molto lavoro per essere credibile. Non bastano un convegno e un paio di interviste. Occorrerà darsi parecchio da fare per essere credibili, imparando a mettere in campo qualche faccia nuova. Per ora i sostenitori di Monti sono al punto di partenza. Chi sono i diffidenti o i nettamente contrari al Monti-bis? Lasciamo da parte gli oppositori dichiarati e quindi a loro modo coerenti: i Vendola, i Di Pietro, i Maroni, ovviamente i movimenti anti-sistema che peraltro entreranno nel prossimo Parlamento. La vera diffidenza e anzi contrarietà riguarda il Pd e il Pdl. Bersani vede il rischio che la sua vittoria politica sfumi negli ultimi metri. Vittoria politica, non elettorale. Perchè sul piano dei numeri il Pd vincerà le elezioni, ma se il leader non potrà varcare la soglia di Palazzo Chigi, la sconfitta sarà tutta politica e molto dolorosa. Tuttavia Bersani dovrebbe fare i conti con la realtà. Correre i prossimi mesi di campagna elettorale limitandosi a dire "no" a Monti finirebbe per essere logorante. Specie se si accompagnasse all'illusione che poi, per risolvere la grana, basterà dirottare Monti verso la presidenza della Repubblica. Non sarà così agevole. Comunque sia, limitarsi al "no" equivale a un non-argomento che schiaccerebbe sempre di più il partito democratico sulla sinistra sindacale o vendoliana, a seconda delle circostanze, e approfondirebbe il solco con il folto gruppo dei pro-Monti che sono nel partito. Parliamo dei centristi post-democristiani che potrebbero anche decidere di raggiungere la famosa "lista civica" di centro, se mai vedrà la luce e se sarà una cosa seria. Bersani sente il pericolo, ma il problema è che finora lo aveva sottovalutato. E inoltre dovrebbe sapere, il segretario del Pd, che l'ipotesi Monti non è una trappola dei "poteri forti" internazionali, come qualcuno mostra di credere, bensì la logica conseguenza della drammatica difficoltà in cui si trova l'Italia. Se da qui alla prossima primavera dovremo chiedere gli aiuti alla comunità internazionale, chi condurrebbe meglio la trattativa: Monti è un presidente del Consiglio "politico" ma senza esperienza? Pro e contro: il debole "no" del Pdl Molto fragile e poco convincente il "no" di Alfano che riflette i dubbi di Berlusconi. Cosa vuol dire che Monti per avere l'investitura si deve candidare? Il segretario del centrodestra dimentica che il premier è già in campo. È un senatore a vita che ha dato la sua disponibilità a guidare ancora il governo. E sta prendendo forma un'alleanza eterogenea che condivide tale scelta. Il vecchio centrodestra berlusconiano rischia di essere sorpassato dagli eventi propri sul fronte moderato. Sarà opportuno che Berlusconi e Alfano ci riflettano prima che sia troppo tardi. Per non ritrovarsi a scegliere fra due strade ugualmente scomode: o fare la campagna contro la moneta unica e contro l'Europa, inseguendo il populismo; oppure allinearsi agli altri nel sostegno dell'ultimora a Monti. Il tempo delle scelte e della serietà si avvicina per tutti. Anche perchè sia il Pdl sia il Pd possono mettere in campo le loro proposte programmatiche e dare un contributo serio alla ripresa del paese. Purchè abbiano sufficiente fantasia e umiltà per giocare questa che è la vera partita del 2013. da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2012-09-30/ipotesi-montibis-quadro-politico-170933.shtml?uuid=AbOWCEmG Titolo: Stefano FOLLI. - Luci e qualche ombra intorno al Monti-bis Inserito da: Admin - Ottobre 02, 2012, 11:14:08 pm Luci e qualche ombra intorno al Monti-bis
di Stefano Folli 2 ottobre 2012 Il dibattito intorno all'ipotesi di un nuovo governo guidato da Mario Monti dopo le elezioni ha preso il via da pochi giorni e già sta assumendo un tono vagamente surreale. Eppure non dovrebbe essere difficile fare chiarezza su alcuni passaggi cruciali. Ad esempio, è evidente che il prossimo esecutivo dovrà essere fondato su una maggioranza politica, su di un patto scaturito dal risultato del voto. Non avrebbe alcun senso dar vita a un'altra compagine «tecnica» dopo aver portato gli italiani alle urne. Qualcuno ritiene invece che richiamare Monti a Palazzo Chigi equivarrebbe a proseguire con i tecnici. Non è così. D'altra parte nulla esclude che Monti, peraltro già insignito della carica di senatore a vita, possa essere convocato per formare un governo politico se le circostanze parlamentari lo consiglieranno. Con quale maggioranza, si vedrà al momento: dipenderà, è ovvio, dalle forze politiche. Secondo aspetto. Il premier si è limitato a offrire la propria disponibilità, ma ha anche precisato che se altri vorranno formare il nuovo governo politico, questo sarebbe nella logica della democrazia. C'è forse un pizzico di malizia in queste affermazioni? Magari sì. È come se Monti dicesse ai partiti: se siete in grado di mettere in piedi un governo, accomodatevi; se siete capaci di essere presi sul serio dalle cancellerie internazionali, non esitate a prendere il mio posto. Quel che è certo, Monti non è e non vorrà essere nei prossimi mesi un uomo «di parte». Non lo vedremo alla testa di uno schieramento. Il che non significa che il premier non faccia politica attraverso gli atti e le parole: ad esempio con la simpatia ostentata verso il Partito popolare europeo o con le iniziative volte a contrastare il «populismo» nelle sue varie forme. Terzo. Se Monti resta in disparte rispetto alla competizione elettorale, è evidente che egli non può essere il candidato di Casini e Fini. Tuttavia si possono biasimare questi due politici di lungo corso per aver annunciato il loro appoggio al Monti-bis? Anche questo è un controsenso. Esiste una larga fetta di opinione pubblica che giudica in modo positivo l'operato del presidente del Consiglio ed è comprensibile che un partito, o anche un movimento come quello di Montezemolo, voglia interpretare questo sentimento. Obiezione: lo fanno per guadagnare voti, strumentalizzando il premier. Ma in politica questo è del tutto normale, tanto più che i centristi hanno fin qui sostenuto Monti con lealtà. Quarto punto. C'è un'altra obiezione più seria: il Monti-bis difficilmente prenderà forma se il gioco politico resta ingessato come è oggi. «Berlusconi, Casini e Bersani sono tutti e tre parte del sistema» scriveva ieri su queste colonne Luigi Zingales con estremo scetticismo. Ed è vero: se il sistema politico non cambia, avrebbe poco senso parlare di un nuovo esecutivo affidato al premier che sa interloquire con l'Europa. In altri termini, Monti non può essere altro che «super partes» rispetto ad aggregati politici che non riescono a cambiare passo e per i quali è quasi impossibile rivolgersi al paese in uno spirito di unità nazionale. In definitiva servirebbe un'autentica novità in grado di scuotere l'albero della politica. Il Monti-bis non può nascere da un'operazione di palazzo o da una pur legittima manovra elettorale. I maggiori partiti, dal Pd al Pdl (se non si disgrega), avrebbero facile gioco a mettersi di traverso. Forse occorre creare quello che i francesi chiamano un «rassemblement pour la République», qualcosa che prende forma fuori dei partiti e li obbliga a rifondersi. In Francia il tentativo riuscì e nacque la Quinta Repubblica. Da noi sarebbe sufficiente restituire una speranza e una rappresentanza politica agli italiani che credono nell'Europa. ©RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2012-10-02/luci-qualche-ombra-intorno-080936.shtml?uuid=AbhFuymG Titolo: Stefano FOLLI. - Renzi non è sconfitto, ma su di lui ora il cerchio si stringe Inserito da: Admin - Ottobre 07, 2012, 11:23:07 pm Renzi non è sconfitto, ma su di lui ora il cerchio si stringe
analisi di Stefano Folli 7 ottobre 2012 Chi ha vinto e chi ha perso nel Pd? Dopo l'assemblea di sabato, molti ritengono che Matteo Renzi sia stato sconfitto nella lunga partita a scacchi sul regolamento delle primarie che lo ha opposto alla nomenklatura del Pd ben guidata dal segretario Bersani (partita che forse non è ancora conclusa). Qualcuno pensa che lo spregiudicato sindaco fiorentino abbia esaurito le frecce al suo arco e che non abbia più speranze di prevalere nelle urne, specie al secondo turno dove si salderà la tenaglia Bersani-Vendola. E c'è chi arriva a considerare chiusa la parabola del "rottamatore" che ha tentato di rovesciare l'assetto di potere del Pd e alla fine ne è stato stritolato. Ma qual è l'alternativa che i critici di Renzi propongono? Essi vorrebbero (o avrebbero voluto) che il sindaco uscisse dal Pd sbattendo la porta e si decidesse a mettere in piedi un'alleanza trasversale sinistra/destra capace di sfidare a viso aperto il vecchio partito e magari l'intero sistema politico fatiscente, sì, ma non ancora sgominato. Agli occhi di questi critici Renzi ha deluso, ma essi sottovalutano il fatto che il giovane politico toscano si sarebbe ritrovato in completo isolamento nel giro di un paio di settimane. Se avesse seguito i suggerimenti di qualcuno più rottamatore di lui, avrebbe ottenuto grandi titoli sui giornali e alcuni giorni di sovraesposizione mediatica. Ma di sicuro non lo avrebbero seguito molti di coloro che adesso lo spingono a spezzare i legami. Certo non lo avrebbero aiutato i berlusconiani del Pdl e ancor meno i centristi che lo hanno sempre guardato con sospetto, Evitato l'errore del "dannunzianesimo". Il sindaco in realtà ha dimostrato di essere un realista. Non ha voluto essere il nuovo D'Annunzio della politica italiana, a costo di indispettire qualcuno dei suoi seguaci. Al "bel gesto" fine a se stesso e in ultima analisi impolitico, ha opposto la decisione di restare nel Pd nonostante le sirene che lo chiamavano fuori. E il messaggio che manda all'opinione pubblica non è di resa, ma certo abbraccia una prospettiva di medio-lungo termine. Il "veni, vidi, vici" delle prime settimane oggi è un ricordo. Nessuno può escludere che Renzi riesca ugualmente a vincere le primarie, ma è assai più probabile che egli abbia messo in conto una sconfitta onorevole suscettibile di rimandare la battaglia finale per il rinnovamento a un futuro indistinto: magari non lontano, ma oggi non prevedibile. Gli impazienti sono scontenti, eppure il sindaco ha mostrato con questa scelta di avere la stoffa dell'uomo politico, la cui prima virtù è saper aspettare il momento opportuno. Dalla sua ha l'età, le qualità di buon comunicatore, una notevole franchezza. Sull'altro piatto della bilancia c'è un leader (Bersani) che si prepara a vincere le elezioni senza una convincente coalizione dietro le spalle. Il suo vero, grande alleato è Vendola. E questo suscita più di un interrogativo nel paese e nel resto d'Europa. Gli attacchi da sinistra al sindaco di Firenze. A ben vedere, l'offensiva polemica contro Renzi che il governatore della Puglia ha scatenato in queste ore ha una sua logica, che non è solo quella di realizzare un buon punteggio alle primarie. Vendola attacca con l'argomento che il sindaco è un corpo estraneo. E' un "liberista" nelle parole del capo di Sel: quasi un insulto. È come se a sinistra del Pd fosse partito l'attacco finale per mettere alle corde il "rottamatore". Ma in questo modo tutto il centrosinistra scivola a sinistra, anzi su posizioni di una vecchia sinistra classista e ideologica. Cosa ne pensa Bersani? Probabilmente non dirà nulla, perchè non ha alcun interesse a difendere il suo competitore fiorentino. Ma una vittoria del segretario sull'onda di una campagna dominata sul piano culturale da Vendola sarebbe una grossa incognita per il Bersani candidato a Palazzo Chigi. Perchè di sicuro egli non può permettersi che si crei nell'opinione pubblica l'idea di una sua sudditanza anche solo psicologica nei confronti del governatore pugliese. Qui Renzi non c'entra, è fuori dai giochi. Quel che conta è che Bersani non può scivolare troppo a ridosso di Vendola. Ma la dura contesa di questi giorni contro il corpo estraneo "liberista" potrebbe avere questo esito fatale. E intorno a Renzi il cerchio si stringe. Detto tutto questo e fatto l'elogio del realismo renziano, resta un punto. Il momento magico del sindaco potrebbe essere passato e le prossime settimane potrebbero rivelarsi meno facili delle precedenti. La mossa di restare nel Pd e di giocare a più lunga scadenza, smentisce tutte le calunnie sul Renzi che voleva spaccare il Pd perchè "quinta colonna" di Berlusconi. Tuttavia ora il cerchio si stringe intorno a lui. Vendola, i pezzi di vecchia nomenklatura che si sono spaventati a morte, lo stesso Bersani in forme più morbide: la strada di Renzi ora è in salita e lo sarà ancor di più nel caso di un'affermazione del segretario alle primarie. Ma Renzi ha scelto di correre la maratona, non i cento metri, e ora dovrà essere conseguente. Il tempo è dalla sua, ma spetta a lui costruire – per ora all'interno del Pd – una seria prospettiva politica. ©RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2012-10-07/renzi-sconfitto-cerchio-stringe-175523.shtml?uuid=AbjMB1pG Titolo: Stefano FOLLI - Veltroni ha spiazzato tanti, ma forse Renzi persino più di altri Inserito da: Admin - Ottobre 17, 2012, 04:24:33 pm Veltroni ha spiazzato tanti, ma forse Renzi persino più di altri
di Stefano Folli 16 ottobre 2012 Matteo Renzi non resiste alla tentazione di attribuirsi in pubblico il merito della rinuncia di Veltroni a candidarsi. È comprensibile, s'intende, visto che è lui l'inventore del termine «rottamazione», peraltro orribile, ed è sempre lui ad avere impostato tutta la campagna delle primarie sull'esigenza di pensionare buona parte del gruppo dirigente del Pd. Tuttavia in cuor suo il sindaco di Firenze non deve essere altrettanto compiaciuto. Ai fini pratici, se l'obiettivo è la vittoria nel duello contro Bersani, gli avrebbe fatto più comodo un Partito Democratico chiuso a riccio, sordo a qualsiasi richiesta di rinnovare la classe dirigente. Una simile condizione avrebbe costituito il migliore «spot» per la campagna dissacrante dello sfidante. Ora invece la mossa di Veltroni spiazza un po' tutti: i nomi noti del vecchio gruppo di vertice, è logico, perché non sanno cosa fare; ma in fondo anche il giovane rottamatore fiorentino. Si dimostra che in un modo o nell'altro, attraverso vie imprevedibili, il «cambiamento» invocato da Bersani comincia a manifestarsi persino all'interno delle mura poco permeabili del partito. E in fondo il segretario-candidato si trova al crocevia giusto per ricavarne qualche vantaggio politico, più e meglio di Renzi. Certo, a quest'ultimo resta la palma del profeta. Senza di lui e senza il suo urticante messaggio non sarebbe successo niente: né Veltroni né altri avrebbero fatto il fatidico passo indietro. Tuttavia è noto che in politica con le soddisfazioni morali si va poco lontano. Nella vecchia Urss Boris Eltsin vince quando si dimostra che lo Stato sovietico è irriformabile e che Gorbaciov è un illuso. Se viceversa l'ultimo segretario del Pcus fosse riuscito ad avviare un programma di riforme e a rinnovare sul serio l'immagine della patria del socialismo, forse la storia sarebbe stata diversa. In fondo oggi Bersani può dimostrare che le riforme interne e il rinnovamento del partito non sono "slogan" vuoti. Per un verso anche lui è spiazzato dalla mossa veltroniana; ma per un altro è vero che da oggi i suoi spazi di manovra sono cresciuti. Purchè, sia chiaro, egli riesca a tenere in mano tutti i fili della matassa. In altre parole, se il ricambio del gruppo dirigente avverrà con calma, senza strappi e senza prendere il sapore dell'epurazione, Bersani potrà gestirlo a proprio totale favore. Proprio quando il sindaco di Firenze si troverà espropriato del suo principale cavallo di battaglia. Del resto i voti si catturano sull'attesa di un risultato, sulla speranza di combattere una battaglia vittoriosa. Se invece la battaglia si vince senza nemmeno bisogno di combatterla, c'è il forte rischio che la tensione venga meno e il popolo dei "fedeli" si distragga. È presto per dire come finirà, ma a Renzi converrebbe che nessuno o quasi seguisse l'esempio di Veltroni. Tutto quello che invece serve a promuovere il ricambio del gruppo dirigente in luogo della «rottamazione» pura e semplice, riduce lo spazio del sindaco. L'opposto di quello che può accadere - almeno sulla carta - a Bersani. Anche perché la campagna dello sfidante non può essere mono-tematica. L'inizio è stato sfolgorante, ma ora all'improvviso il tema dei pensionamenti eccellenti potrebbe non essere più così trainante. E al sindaco difettano altri argomenti di così sicuro impatto. © RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2012-10-16/veltroni-spiazzato-tanti-forse-064150.shtml?uuid=AbslfWtG Titolo: Stefano FOLLI. - Al congresso Ppe di Bucarest va in scena la paralisi ... Inserito da: Admin - Ottobre 19, 2012, 05:05:10 pm Al congresso Ppe di Bucarest va in scena la paralisi dell'area moderata
di Stefano Folli 18 ottobre 2012Commenta È una sfortuna che Silvio Berlusconi abbia l'influenza e quindi non possa prendere parte al congresso dei Popolari Europei a Bucarest. Avrebbe potuto, fra l'altro, incontrare la cancelliera Angela Merkel con la quale ancora di recente ha fatto sapere di aver avuto e di mantenere ottimi rapporti personali (con il sottinteso che certe interpretazioni malevole erano solo il frutto di una cattiva informazione). Eppure la realtà dice che proprio il rapporto tormentato e tutt'altro che positivo fra l'ex premier e la cancelliera tedesca descrive in modo chiaro e anche simbolico il dramma politico in cui si agita il centrodestra italiano. Angela Merkel è di fatto il capo dei Popolari Europei. Berlusconi è stato per anni il leader del Pdl, forza di maggioranza relativa in Italia, aderente al Ppe: anzi, uno dei partiti più consistenti della famiglia dei Popolari, almeno negli anni d'oro. Ebbene, è stata la Merkel a esercitare una pressione forse decisiva per sostituire il governo Berlusconi con l'esecutivo guidato da Monti. Ecco un caso in cui la comune adesione al Ppe non si traduce in un'armonia d'intenti. Se poi si guarda agli avvenimenti dell'ultimo anno, dalla caduta di Berlusconi in poi, alcuni indizi sono significativi. Il Pdl è in via di dissoluzione, nonostante gli sforzi del suo segretario Alfano. Berlusconi si trova in una sorta di limbo, attacco influenzale a parte: forse si è ritirato o è tentato di farlo; al tempo stesso però aspetta il risultato del voto in Sicilia e intanto osserva il collasso della giunta Formigoni in Lombardia, senza trascurare l'ipotesi di agganciare la Lega di Maroni in una nuova alleanza. E come è noto non ha accantonato l'idea di promuovere una lista personale, magari senza guidarla in modo diretto. Stando così le cose, quale valore hanno le richieste rivolte a Casini, a Bucarest, per stringere al più presto una nuova alleanza? Alfano e Frattini sono molto insistenti e dal loro punto di vista si capisce: sotto il profilo tattico è meglio giocare questa modesta carta piuttosto che condannarsi all'immobilismo più assoluto. Ma nella sostanza la proposta non significa molto e infatti non viene presa in considerazione dall'Udc. Il problema è che il Pdl non è credibile, dal momento in cui la sua forza politica risulta frammentata. Ma soprattutto è evidente che il suo leader storico sta mettendo in atto una serie di giochi tattici in cui tutto o quasi è intercambiabile. Ad esempio. La linea pro-Monti, favorevole a proseguire con l'attuale presidente del Consiglio anche dopo le elezioni, è ben rappresentata sia da Alfano sia da Frattini. Ma Berlusconi, l'uomo che la Merkel (e non solo) ha considerato del tutto inaffidabile per svolgere un ruolo in Europa, più di una volta ha ammiccato alle posizioni euro-scettiche perché in cuor suo vorrebbe riuscire ad assorbire anche questa fetta di opinione pubblica. Ne deriva che per mille ragioni a Bucarest risulta in modo palese la paralisi dell'area moderata italiana: quella che nel corso del dopoguerra è stata sempre maggioritaria sul terreno elettorale e che oggi sembra alla deriva. Al punto che una porzione consistente guarda con interesse all'esperimento di Matteo Renzi. Alfano e Frattini appartengono in forma ideale al «partito di Monti» (e a sua volta il premier parla sempre con rispetto del Ppe). Ma chi c'è dietro di loro? Solo una grande confusione. ©RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.ilsole24ore.com/ Titolo: Stefano FOLLI. - Sabbie mobili e partiti inconsapevoli Inserito da: Admin - Ottobre 30, 2012, 05:44:40 pm Sabbie mobili e partiti inconsapevoli
di Stefano Folli 30 ottobre 2012 Essere nelle sabbie mobili e non accorgersene: è un po' questa la condizione delle forze politiche tradizionali dopo il voto in Sicilia. Le reazioni sono singolari, soprattutto quelle di chi ritiene di aver vinto. Sono reazioni tipiche di un ceto politico troppo ripiegato su se stesso per riuscire a leggere la realtà. L'astensione al 53%, evento senza precedenti? Le liste anti-sistema di Grillo primo partito nell'isola in cui quasi non esistevano fino a due mesi fa? Domande irrilevanti a cui dedicare al massimo un commentino di maniera. Pierluigi Bersani, che pure è un realista, esprime tutta la sua gioia per «un risultato storico». Certo, il Pd, alleato con Casini, varca la soglia del Palazzo dei Normanni con il suo candidato Rosario Crocetta destinato a sedersi sulla poltrona di presidente. Ma è evidente che i voti sono troppo scarsi per governare e quindi occorrerà stringere nuovi patti di potere: ad esempio, con l'ex governatore Raffaele Lombardo e il suo partner Micciché. Il che cambia non poco l'equazione del «risultato storico» e rende assai più incerta la scommessa sulla governabilità. In una Sicilia frammentata fino all'inverosimile, si potrebbe dire balcanizzata, il Pd insieme alla lista apparentata pro-Crocetta raccoglie un risultato inferiore di circa due punti a quello delle precedenti regionali: il 20,1. Il che un poco offusca la portata storica della vittoria, tenendo conto del tasso straordinario di astensione e del contemporaneo crollo delle liste di centro-destra. Le quali si sono dilaniate pagando anche il prezzo delle convulsioni romane in cui il partito berlusconiano (forse ormai ex berlusconiano) sta sprofondando. E va riconosciuto al segretario Alfano di aver gestito la crisi con dignità, resistendo alle pressioni degli ultimi giorni: fino alla coraggiosa presa di posizione espressa ieri con la conferma del sostegno parlamentare al governo Monti. Nel centrodestra, tutti lo vedono, c'è un nesso inevitabile fra il risultato siciliano e quello che sta avvenendo a Roma. La disgregazione di un'area politica così rilevante, unita ai furori improvvisi di Berlusconi, rischia di avere un impatto destabilizzante tutt'altro che secondario. Ed è stato abile il presidente del Consiglio a Madrid a ostentare un algido distacco di fronte all'evocazione di un simile pericolo. Il problema è che il laboratorio della Sicilia offre molte suggestioni, ma poche soluzioni. Disegna uno scenario in cui le forze tradizionali vengono bastonate dagli elettori e di fatto indebolite, quasi delegittimate. Offre al contrario lo spettacolo del "grillismo" marciante, carico di indignazione contro le ruberie e gli scandali, ma anche di rancore verso l'Europa come supposta causa della recessione. E comunque voglioso di ritornare sul continente per cogliere un successo ancora più clamoroso nel voto politico di primavera. Magari misurandosi prima nelle regionali del Lazio e della Lombardia, terreni propizi al messaggio anti-sistema più di quanto sia stata la Sicilia (ed è tutto dire). È vero, l'isola oggi rappresenta lo specchio delle contraddizioni politiche nazionali. Ma proprio questo dato è inquietante alla luce dell'inerzia di cui danno prova i partiti e i loro leader. Il sistema sembra volersi suicidare, mentre appena fuori della porta si affollano i ribelli in numero sempre maggiore, prodotto dell'infinita serie di errori commessi da chi ha avuto il potere e lo ha mal gestito. Da dove può nascere la riscossa, visto che ci attendono ancora alcuni mesi di agonia prima delle elezioni? Mesi in cui Beppe Grillo e i suoi avranno facile gioco perchè non c'è nulla che chiami il successo come il successo medesimo: quello che gli americani chiamano effetto "band-wagon". Certo, la rivincita può nascere da un vero rinnovamento dei partiti: negli uomini e nei programmi. Ma è poco credibile, siamo quasi fuori tempo massimo. Può nascere dalla serietà di una campagna elettorale in cui i temi del Governo Monti (la serietà amministrativa, l'equilibrio dei conti pubblici, l'Europa) diventano motivo di coesione e non di polemica. Ed è complicato. Peraltro l'anticipo del voto per ora è un'ipotesi non contemplata, anche perché le forze politiche hanno fallito nella revisione della legge elettorale: obiettivo a cui li ha spronati negli ultimi mesi il presidente della Repubblica con un'insistenza che avrebbe dovuto insegnare qualcosa. Gli ottimisti pensano che nonostante tutto un punto politico importante sia emerso dal voto siciliano: la buona salute dell'asse Bersani-Casini che sosteneva Crocetta, accompagnato dal collasso delle liste "estremiste". Vendola e Di Pietro non riescono a entrare all'Assemblea di Palermo. E ci si chiede se non sarebbe possibile replicare questa alleanza "centrista" alle prossime politiche. Si può, certo, se Bersani avesse l'interesse e la determinazione a escludere Vendola e i suoi dall'intesa generale con il Pd. Non sembra che sia possibile, almeno nei prossimi tempi. E poi Casini dovrà essere molto persuasivo per ottenere dal Pd non solo belle parole, ma una serie di scelte politiche adeguate. Al momento non c'è da farsi molte illusioni sul fatto che nascerà in tempi brevi un centro-sinistra di tipo europeo. Siamo all'anno zero di una repubblica che ancora deve nascere. ©RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2012-10-30/sabbie-mobili-partiti-inconsapevoli-082056.shtml?uuid=AbGsVGyG Titolo: Stefano FOLLI. - Un punto per la politica Inserito da: Admin - Novembre 14, 2012, 05:22:20 pm Un punto per la politica
di Stefano Folli 13 novembre 2012 Bel colpo mediatico di Sky e tutto sommato bel colpo politico per il centrosinistra. In via del Nazareno sono stati i primi in Italia a organizzare delle primarie per la scelta dei candidati, i primi ad aver applicato il modello per individuare un candidato premier (in passato ci sono state primarie "plebiscitarie" che non erano certo la stessa cosa). È merito di Bersani e gliene va dato atto perché ha saputo correre non pochi rischi. A guardare la sostanza del dibattito, la sorpresa positiva è stato Bruno Tabacci: concreto, competente, moderno pur avendo un passato importante nell'Italia democristiana dell'altroieri (ma era la Dc di Marcora, interprete della Lombardia produttiva). In fondo ci si aspettava qualcosa di più da Matteo Renzi. Era la sua occasione per staccarsi dal gruppo e imporsi con quel linguaggio scanzonato che lo ha reso famoso, ma il sindaco lo ha usato solo a tratti, anche nei contrasti con Vendola. A qualcuno è apparso un po' sottotono, ma in realtà è stato preciso nel rispondere alle varie domande del conduttore. Il problema è che la sua campagna ha sollevato attese quasi miracolistiche. Messo a confronto con gli altri candidati, le sue ricette sono corrette ma assai meno dirompenti del primo e autentico tema che gli ha dato la celebrità: il rinnovamento della classe dirigente, volgarmente riassunto in quel termine tremendo, la "rottamazione". Bersani è apparso nei suoi panni: autorevole, concreto a sua volta, in grado di proporre qualche novità (sulle società partecipate), ma non si sa quanto capace di affascinare un'opinione pubblica esterna ai confini del Pd. Del resto, il segretario è molto attento a tenersi "coperto" a sinistra. Vendola ha incarnato il suo personaggio, sempre piuttosto verboso. Ma ha badato a essere fino in fondo l'ala sinistra di un mondo, il centrosinistra, nel quale peraltro risulta sempre più integrato. E Laura Puppato, dal canto suo, ha tenuto la scena con simpatia e passione. Nel complesso una rappresentazione interessante dentro una scenografia che si è sforzata di offrire un'immagine meno stantìa e ingessata del rapporto fra politica e cittadini. S'intende, ci vorrà del tempo prima che i nostri politici possano essere percepiti come "americani", ammesso che sia questo il traguardo da raggiungere. Anche perché l'America, lo ha dimostrato Obama, nel frattempo è andata avanti nell'uso dei nuovi strumenti, come il web e i "social network". La domanda da farsi è se sarebbe possibile immaginare la stessa messa in scena con le primarie del Pdl. Anche con lo stesso discreto livello del confronto. Forse si organizzerà qualcosa di simile in dicembre, ma è tutto da dimostrare che si otterrà lo stesso risultato. O magari sì, ma occorrerà che a destra lavorino molto sui problemi e sulle soluzioni. Oggi il centrosinistra ha segnato un punto nella prospettiva delle elezioni, mentre il Pdl è ancora alle prese con le proprie frustrazioni e con l'eredità del berlusconismo. C'è un altro punto che si preferisce mettere fra parentesi, ma che ha la sua rilevanza. Si dice che le primarie servono a scegliere il candidato alla presidenza del Consiglio, ma si dovrebbe precisare che con la riforma elettorale che si va delineando (l'unica possibile in questo momento) il premier sarà individuato dopo le elezioni in base alle alleanze che verranno stipulate. Il gioco delle primarie sotto questo aspetto rischia di essere a somma zero. E tuttavia è un messaggio positivo che si manda all'opinione pubblica. © RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2012-11-13/punto-politica-063629.shtml?uuid=Ab53nQ2G Titolo: Stefano FOLLI. - Pdl in bilico, il confine è sempre più fra chi guarda a Monti.. Inserito da: Admin - Novembre 23, 2012, 01:34:32 am Pdl in bilico, il confine è sempre più fra chi guarda a Monti e chi lo rifiuta
di Stefano Folli 22 novembre 2012 Nel Pdl che naviga alla cieca verso primarie talmente sovraffollate da apparire quasi grottesche, è sempre più chiaro che la vera discriminante riguarda il sì o il no al governo Monti post-elettorale. Governo fondato su una maggioranza politica, s'intende, ma pur sempre affidato con convinzione all'attuale premier, visto come l'unico leader possibile, in questa fase storica, del centrodestra. Accettare questa prospettiva o rifiutarla è il vero tema politico che s'intuisce al fondo di un contrasto sulle primarie altrimenti in buona misura incomprensibile. È chiaro che il partito che fu berlusconiano sta vivendo le premesse di una scissione. Magari si potrà evitarla strada facendo, ma le probabilità che invece si consumi sono alte. In un certo senso è già avvenuta, benchè non in modo ufficiale, e proprio sulla questione Monti. Nel Pdl c'è un largo spettro che ormai guarda a Palazzo Chigi per ritrovare un punto di riferimento e un orizzonte, se non proprio una guida. Certo, il segretario Alfano insiste nel dire che prima "Monti deve candidarsi", in vista di ottenere poi il consenso del centrodestra. Ma è lo scudo di un uomo che deve pur tenere insieme quel che resta del vecchio esercito. Alfano è convinto da tempo (e non è il solo) che l'unico futuro per i reduci moderati del berlusconismo sia nel Partito Popolare europeo: è lì che bisogna rifugiarsi per trovare riparo alla tempesta distruttiva in atto. Chi meglio di Monti può garantire una transizione credibile verso quell'approdo? S'intende, questo è l'interesse di tutti coloro che guardano al presidente del Consiglio come alla zattera della salvezza. Ma è tutto da verificare se Monti sia interessato a un ruolo di "federatore" che, almeno secondo un certo punto di vista, finisce per sovrapporsi a quello di salvatore di un ceto politico. Resta il fatto che di giorno in giorno aumenta il numero di coloro che vorrebbero il premier nelle vesti di "aggregatore" di un'ampia e ancora parecchio confusa area moderata. Le difficoltà di una simile impresa sono intuibili, ma qui è interessante vedere come si sta organizzando la corrente "montiana" del Pdl. La sua consistenza era già tutt'altro che irrisoria, ma adesso si sta ampliando, in parallelo con una lotta di potere senza quartiere. Berlusconi, avendo compreso che la sua stagione è finita, si comporta come un novello Saturno e tenta di mangiare i suoi figli. La sua battaglia contro le primarie ieri ha conosciuto un momento di stasi, ma c'è da credere che il sabotaggio continuerà. E questo perché Berlusconi ha compreso benissimo che la legittimazione di un nuovo gruppo dirigente porta in modo inevitabile a fare di Monti il personaggio di riferimento. A tale ipotesi in passato aveva pensato anche lui, Berlusconi, ma oggi è evidente che l'operazione non sarebbe gestita da Arcore. Le primarie, se appena dovessero avere un minimo di successo popolare (il che è tutto da vedere), segnerebbero l'esordio di una nuova leadership e di nuovi scenari. In ogni caso la linea del fronte è lì: fra chi è pro-Monti (Frattini, la Gelmini, persino alcuni ex An, numerosi parlamentari timorosi di non essere rieletti, in sostanza lo stesso Alfano) e chi è anti-Monti (molti di coloro che si sono candidati alle primarie contro il segretario, Brunetta, una buona porzione di ex An e ovviamente il fondatore Berlusconi). Le primarie sono il campo di battaglia, ma la posta in gioco è la ridefinizione del centrodestra nell'era post-berlusconiana. da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2012-11-22/bilico-confine-sempre-guarda-064017.shtml?uuid=Ab8gYH5G Titolo: Stefano FOLLI. - Con tatto ma decisione Napolitano sfiora il tema cruciale ... Inserito da: Admin - Novembre 23, 2012, 01:37:30 am Con tatto ma decisione Napolitano sfiora il tema cruciale del dopo-voto
di Stefano Folli 20 novembre 2012 Emerge con sempre maggiore evidenza il tema centrale delle prossime elezioni: le linee di fondo del governo Monti saranno o no confermate dalla maggioranza che si formerà nel nuovo Parlamento? È un tema molto delicato che si lega al rapporto fra l'Italia e i suoi partner internazionali e che ruota intorno alla figura fisica del presidente del Consiglio. La frase di Monti in Kuwait, poi corretta, suonava qualcosa come "non posso garantire per il futuro". Ne è nata una polemica pretestuosa, ma comprensibile nel clima elettorale. Del resto, il punto è proprio questo. Giorgio Napolitano se ne è reso conto e ha affrontato la questione con il tatto necessario. Le sue affermazioni di ieri sono un piccolo capolavoro per quello che dicono, ma soprattutto per quello che lasciano intendere: "sono convinto che si è segnato (con il governo Monti, n.d.r.) un cammino da cui l'Italia non potrà discostarsi. I partiti dicono che vogliono aggiungere qualcosa, non distruggere. Mi pare che questo sia un elemento che possa dare fiducia e tranquillità ai nostri amici per il futuro dell'Italia". Se in queste parole c'è una preoccupazione, è ben dissimulata. Il capo dello Stato ha scelto di puntare sulla virtù dei partiti e non sui loro vizi. Del resto nel suo ruolo istituzionale non potrebbe fare altrimenti: ha il dovere di rassicurare il mondo esterno sul senso di responsabilità dei suoi concittadini; peraltro egli si affretta a far sapere ai "nostri amici" d'oltre confine (la Merkel, Obama, eccetera) che le elezioni contengono sempre qualche elemento di rischio, ma che non esiste una ricetta migliore, visto che "non si può non votare". In altri termini il problema del "dopo" esiste, ma si pensa - o si vuole credere - che sia gestibile. E se Monti ha avuto un momento in cui le parole hanno forse tradito il suo pensiero più intimo, l'asse con il Quirinale è servito a rimettere le cose in ordine. Tutto a posto, quindi? Non proprio. Per due ragioni. La prima è che i "nostri amici", come li definisce Napolitano, non sono per nulla convinti che la strada sia spianata. La diffidenza verso un governo di partiti si taglia con il coltello. Ed è un po' vero quello che fa intendere fra le righe il presidente; e cioè che qualcuno all'estero gradirebbe, se appena non fosse assurdo, che l'Italia rinviasse le elezioni a data da destinarsi. Ma come è ovvio non si può, fa sapere garbatamente il capo dello Stato. La seconda ragione riguarda la vera e propria gestione del dopo-voto. Dice ancora Napolitano, parlando della fase successiva alle elezioni: "vedremo e cercheremo la soluzione più idonea per governare stabilmente il paese mettendo a frutto il lavoro del governo Monti". Questo è di sicuro quello che vogliono sentirsi dire le fatidiche cancellerie "amiche", dall'Europa agli Stati Uniti. Il punto è che al Quirinale non ci sarà più Napolitano, il cui mandato scade a maggio. E finora il presidente è stato fermo nel precisare che il governo post-elettorale sarà costituito sotto il controllo del suo successore, a cui spetterà di dare l'incarico al futuro presidente del Consiglio "in pectore". Tuttavia è anche vero che l'ipotesi di votare il 10 marzo cambia un po' il quadro: rappresenta un anticipo di circa un mese rispetto alla data a cui si era pensato in precedenza (il 7 aprile). Quattro settimane in più per evitare che il lavoro di Monti sia disperso da qualche coalizione avventurosa. "Vedremo" afferma Napolitano. E di più per ora non si può dire. da - http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2012-11-20/tatto-decisione-napolitano-sfiora-080452.shtml?uuid=Abyare4G Titolo: Stefano FOLLI. - Bersani avanti, Renzi protagonista, il Pd sta cambiando Inserito da: Admin - Novembre 26, 2012, 12:08:31 pm Bersani avanti, Renzi protagonista, il Pd sta cambiando
di Stefano Folli 25 novembre 2012. Alla fine è ballottaggio. Bersani è avanti, ma il risultato di Renzi è al di là di ogni aspettativa. Il sindaco di Firenze ha già vinto la sua battaglia, anche se perderà la guerra. E in ogni caso non sarà un secondo turno convenzionale: un Renzi oggi al 37% e fra una settimana al 40 per cento vuol dire che il Pd non potrà continuare a essere quello che è stato fino a oggi, dovrà aprirsi e ammodernarsi. Vuol dire anche che Bersani, pur vittorioso, si troverà a essere imbrigliato al ballottaggio dai voti di Vendola, di cui avrà bisogno. E questo rischia di dare un'impronta di estrema sinistra alla coalizione, l'opposto di quello di cui il segretario avrebbe necessità per rassicurare i partner internazionali e sedurre l'elettorato d'opinione in vista delle elezioni politiche. Per Renzi è una giornata quasi trionfale. Un perdente di successo, si potrebbe definirlo. E intanto si possono fissare alcuni punti. Primo: una giornata storica per il centrosinistra. Essere riuscito a costringere il segretario al ballottaggio, e con un punteggio di tutto riguardo, è un successo quasi clamoroso del Pd e di chi ha voluto le primarie. Ma all'interno di questa cornice Renzi è riuscito a incarnare il desiderio di tanti italiani, anche estranei ai riti di partito, o ex votanti della destra berlusconiana, di tornare a partecipare trovando punti di riferimento in partiti trasparenti e capaci di dar corpo a un'idea dello sviluppo, a una visione del paese. Secondo: Bersani prevale, ma il vincitore morale è Renzi. Il segretario è costretto a malincuore ad acconciarsi al secondo turno. Ci arriverà con una percentuale importante, ma inferiore alle attese, e nel ballottaggio non avrà problemi a raccogliere i consensi di un largo segmento dei tre esclusi: Vendola, in primo luogo, e poi Laura Puppato e forse anche qualche sostenitore di Tabacci. Ma il sentiero sembra tracciato: Bersani sarà candidato premier con un sostegno considerevole, avendo però alle spalle un partito diviso in cui l'impronta "renziana" è il vero fatto nuovo. Il sindaco di Firenze ottiene più di quello che voleva. Ora è lui il leader dell'area "modernizzante" del Pd, è lui che ne interpreterà, se sarà capace, l'istinto liberale. Renzi voleva essere il piccolo Tony Blair italiano e c'è riuscito. Dipenderà anche dalla sua abilità e dal suo equilibrio se avrà modo di contare nel domani del centrosinistra in proporzione a quello che è stato il suo relativo successo in queste primarie. Terzo: il futuro immediato del Pd. Per il partito bersaniano ora il problema sarà non disperdere il piccolo patrimonio di credibilità nell'opinione pubblica che questo tormentato processo ha costruito. Il vantaggio elettorale per il Pd ci sarà, come effetto trascinamento. Ma guai a credere che tutti i problemi siano risolti. I partiti - tutti i partiti, compreso il Pd - devono ancora scalare una montagna per tornare ad essere accettabili agli occhi degli italiani. E non è detto che ci riescano. Il tema adesso, in vista del secondo turno, è quale uso farà Bersani della vittoria, specie se non sarà un trionfo, ma dovrà tener conto delle percentuali renziane. Dal punto di vista del "dopo", colpisce l'apertura a Di Pietro, e ai reduci dell'Italia dei Valori. Dopo mesi di chiusure, questa improvvisa mano tesa che significato ha? Qualcuno vi ha letto un sintomo di debolezza e d'incertezza. È facile invece intuire che sia un messaggio di relativa forza. Bersani si sente abbastanza saldo da ricomporre l'area della sinistra allargata. Quarto: la tentazione dell'Unione prodiana. È la solita linea, quella che finisce per tornare alla vecchia Unione prodiana. Tanto più che passano i giorni e la legge elettorale attuale, il "Porcellum", è sempre lì: la tentazione per il Pd di andare alle urne con questo schema, pur a lungo esecrato, aumenta. Ma c'è anche il desiderio di non regalare a Grillo i voti dipietristi. D'altra parte, è vero che questa mossa allontana Bersani, almeno in parte, dal "centro" (Casini e altri) con cui occorrerà fare accordi dopo le elezioni. Quinto: anche Renzi di fronte al bivio. Il sindaco di Firenze ha vinto solo sotto il profilo morale, ma già così il suo successo induce la politica italiana a cambiare volto. Renzi dovrà decidere cosa fare in una vita politica che non si conclude oggi. La logica vorrebbe che tornasse a fare il sindaco di Firenze, possibilmente bene, e si mettesse in attesa. Di cosa? Delle prospettive della gestione Bersani. Ci sono le elezioni alle porte, subito dopo ci sarà da mettere in piedi un governo e forse guidarlo da Palazzo Chigi: un'agenda piena e persino drammatica per Bersani. Da come andranno le cose, si capirà se questa sinistra, la sinistra riformista bersaniana, ha un futuro in Italia. Renzi sarà tentato di starsene sulla riva del fiume a osservare quel che accade. Ma farebbe meglio a "compartecipare", cioè a farsi coinvolgere nel Pd di domani. Bersani lo ha un po' detto: «Renzi è un'energia per il partito». Anche questa è un'apertura, che andrebbe declinata in termini di idee nuove da far circolare, non solo di seggi da distribuire. Il "renzismo" è un oggetto un po' misterioso, ma contiene in sé l'idea di una sinistra moderna e liberale. Sarebbe grave se stasera i vincitori, i bersaniani, si chiudessero a riccio; ma sarebbe un errore se anche Renzi, sconfitto con onore, si ritirasse da tutto sperando nel peggio. Ultimo punto: comunque voltare pagina. È in ogni caso evidente che l'alleanza è troppo spostata a sinistra. Bersani pensa che sia facile ottenere alla fine un appoggio dai "centristi" (dopo il voto), ai quali si prepara a offrire una fetta di potere o di sottopotere. Eppure proprio il grande caos nel centrodestra, nel Pdl disastrato, dimostra che non tutto oggi è prevedibile. Meglio sarebbe per il Pd e per il governo del paese se il partito che si avvia a conquistare la maggioranza relativa facesse fin d'ora un po' di chiarezza su quello che vuole e su con chi lo vuole. Legge elettorale, programmi economici, rapporti con l'Europa.... Forse è il momento di uscire dagli slogan. Vincere le primarie può essere confortante, ma da domani si deve voltare pagina. ©RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2012-11-25/vincitore-145523.shtml Titolo: Stefano FOLLI. - Pdl, il dramma dei moderati Inserito da: Admin - Dicembre 07, 2012, 03:47:22 pm Pdl, il dramma dei moderati
di Stefano Folli 6 dicembre 2012 Ci sono in politica dei momenti cruciali in cui è necessario decidere. Se si esita e si rinvia, si ottiene solo di essere travolti dagli eventi. Lo psicodramma del Pdl è giunto a uno di questi passaggi cruciali. Il problema di decidere riguarda tutta la classe dirigente moderata di quel partito: il segretario Alfano, in primo luogo, ma via via tutti gli altri: gli Schifani, i Frattini, le Gelmini, i Quagliariello, i Cicchitto, i Sacconi e molti altri. Sono loro che rischiano di essere scompaginati dall'ultima carica berlusconiana. Ex democristiani, ex socialisti, qualche laico: erano gli esponenti di quel «pentapartito» ideale che Berlusconi aveva raccolto intorno a sé negli anni Novanta. Oggi sono davanti al bivio: o stanno con il vecchio leader e lo seguono a occhi chiusi o perdono tutto. Lo stallo del centrodestra infatti è solo apparente perché in realtà Berlusconi sembra avere le idee chiare su quale strada imboccare. È la stessa che da anni il suo temperamento gli suggerisce: nessun accordo sulla riforma elettorale; nessuna intesa con il governo sulle date delle elezioni (a meno che Monti non accetti il diktat: voto congiunto per le regionali e le politiche in febbraio o ai primi di marzo, ma in ogni caso accorpato); forte irritazione, a dir poco, sulla norma governativa che prevede i casi in cui non si è candidabili. In sostanza Berlusconi ripete lo schema del '98, quando buttò all'aria la commissione Bicamerale. E i suoi fedeli ripetono la parola d'ordine: «Lo spirito del '94 e di Forza Italia non è morto». E qui, in questa illusione di ricreare per magìa lo slancio di diciotto anni fa, c'è tutto l'equivoco in cui si sta consumando il Pdl. Quanto alla paralisi interna di cui si mormora, a margine degli incontri inconcludenti dell'ex premier con i maggiorenti, essa riguarda in realtà il vecchio stato maggiore del Pdl, capigruppo ed ex ministri. Sono loro che vedono esaurito ogni spazio di manoivra. E infatti la domanda è: dove andranno a collocarsi? Per anni hanno rappresentato il volto istituzionale del centrodestra di governo. Si sono ispirati al Partito Popolare europeo, in seguito hanno guardato con molta attenzione a Mario Monti, anche criticandolo, perché sentono una naturale affinità con il professore bocconiano, esponente della Milano europeista. Poi naturalmente si sono piegati a Berlusconi per necessità e opportunismo. Ma si capisce che da tempo si sentono estranei o quasi nella «casa della libertà». E allora? La prospettiva per loro è assai grigia. Sia che Berlusconi si candidi in prima persona, sia che incarichi un suo fiduciario o addirittura ritorni all'ipotesi Alfano, è evidente che la linea politica sarà dettata da Arcore, come si conviene alla personalità dell'ex premier e alla sua idea monarchica del partito. E non potrà non essere una linea anti-Monti e anti-europea (declinata in chiave anti-Merkel). Sarà una linea di destra populista nel vero senso del termine. Magari ammiccante ai nemici della moneta unica. Forse è legittimo per raccogliere voti, anche se non è proprio il ruolo adatto a un ex presidente del Consiglio che quando era in carica ha seguito, volente o nolente, la strada opposta. Potrebbe piacere a un Jean-Marie Le Pen, che però non è mai stato primo ministro nel suo paese. In ogni caso è la distruzione dell'area moderata come l'abbiamo conosciuta negli ultimi decenni, dalla Dc al primo Berlusconi. E sono in tanti, fra i dirigenti e gli elettori, che devono decidere in fretta cosa fare. Hanno la forza e il coraggio di andarsene per ricostruire altrove uno spazio politico? Ne sono capaci? Lo sapremo presto. ©RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2012-12-06/dramma-moderati-080517.shtml?uuid=AbhBTa9G Titolo: Stefano FOLLI. - Il peso politico di un atto, le risposte che attende il Paese Inserito da: Admin - Dicembre 10, 2012, 07:28:00 pm Il peso politico di un atto, le risposte che attende il Paese
di Stefano Folli 09 dicembre 2012 È la risposta di Mario Monti a Berlusconi. Alla sfida del Pdl il presidente del Consiglio ha replicato alzando un vessillo su cui c'è scritto: non mi faccio logorare. Quindi legge di stabilità, certo: ma da approvare al più presto, prima di Natale, senza temporeggiare e senza mercanteggiare. Ognuno in Parlamento dovrà assumersi le sue responsabilità, se si vuole evitare l'esercizio provvisorio. Subito dopo le dimissioni del governo, senza ulteriori attese di altri passaggi che non verranno. La legge elettorale è una chimera buona solo per allungare il brodo di una legislatura che ormai è finita. Ed è finita in questo modo poco glorioso soprattutto per gli scossoni provocati dal ritorno di Berlusconi. Il Quirinale ha tentato in ogni modo di individuare un sentiero non traumatico per congedare con dignità il Parlamento. E c'è riuscito dal punto di vista istituzionale. Tuttavia è ormai evidente una dinamica politica ed elettorale lacerante. Berlusconi dice di essere tornato «per vincere». Che creda o no alle sue stesse parole è irrilevante. Quel che conta è che l'ultima crociata berlusconiana si traduce in un elemento di forte destabilizzazione del quadro politico. Non è tanto Berlusconi a far paura ai suoi avversari, quanto la minaccia di una campagna tutta costruita contro l'Europa, la Germania, l'austerità economica e quant'altro. Tre mesi di questa medicina rischiano di essere troppo per un sistema comunque fragile e per la nostra stessa capacità di stare nell'Unione in modo credibile, con le finanze pubbliche a posto. Ora, è chiaro che le dimissioni annunciate da Monti avranno l'effetto di accelerare i tempi della crisi e probabilmente dello scioglimento. Deciderà, s'intende, il capo dello Stato. Tuttavia da ieri sera c'è un fatto nuovo di cui tener conto. L'ipotesi che le elezioni siano anticipate di qualche settimana, rispetto all'ipotesi del 10 marzo, diventa assai realistica. La nuova ipotesi parla del 10 febbraio. Il gesto del premier, peraltro, non ha solo conseguenze istituzionali. Ne ha alcune politiche e ben delineate. Contro i tre mesi di logoramento si era pronunciato il Pd, pur rispettoso del sentiero tracciato dal Quirinale. Tre mesi in cui i democratici avrebbero dovuto consumarsi nel difendere Palazzo Chigi dalla prevedibile offensiva di Berlusconi (posizione obbligata, ma scomoda sul piano elettorale). E la convergenza di interessi era inevitabile, dal momento che il diretto interessato, il premier, non intendeva a sua volta farsi logorare. Del resto, l'attacco a tutto campo di Berlusconi ha cambiato il quadro. La campagna elettorale si delinea come uno scontro pro o contro l'Europa. Fra chi crede nel futuro delle politiche europeiste, nonostante i sacrifici che queste comportano, e nella prospettiva dell'integrazione non solo economica, ma anche politica. E chi ne diffida e non crede nell'Unione e forse nemmeno nella moneta comune. Ieri Monti aveva replicato a Berlusconi, senza nominarlo ma in modo trasparente. Aveva accusato il "populismo" e chi lo agita considerandolo una "scorciatoia" verso il consenso. Era una risposta politica a un'offensiva politica. L'Europa contro l'anti-Europa. In serata l'annuncio delle dimissioni sono state quindi un altro passaggio politico. Si potrebbe dire che il presidente del Consiglio "tecnico" è uscito di scena ed è nato il Monti uomo politico. Perché quel gesto, per il modo in cui è stato formalizzato e per il contesto in cui è maturato, è senza dubbio carico di significati politici. Consolida il centrosinistra, si è detto, contro il pericolo di logorarsi davanti al berlusconismo "lepenista". Ma crea anche le condizioni perché Monti resti sulla scena a interpretare, forse anche a guidare, l'area moderata che Berlusconi ha abbandonato seguendo la propria deriva estremista. È l'area che fa riferimento al Partito Popolare europeo e che oggi appare in cerca d'autore, ossia di una leadership. I nomi si conoscono: Casini, Montezemolo, Fini, Riccardi, i dissidenti europeisti del Pdl (Frattini e gli altri). Un mondo variegato, con una forte componente cattolica, che cerca una proiezione politica perché avverte il vuoto. Per cui fra il "populismo" berlusconiano e un centrosinistra in cui Bersani deve faticare non poco per assorbire le posizioni di Vendola, ben sapendo della diffidenza internazionale nei suoi confronti, esiste sulla carta un largo spazio. Si tratta di individuarlo, riempirlo e dargli un senso politico. Monti ne sarà capace? Lo vedremo nelle prossime settimane. Per ora sappiamo che l'unica leadership possibile in quest'area è la sua. Se riuscirà in una forma o nell'altra a darle voce e rappresentanza, può darsi che il presidente del Consiglio oggi dimissionario possa ritagliarsi un ruolo nella prossima legislatura, i cui equilibri dovranno comunque fondarsi su un forte mandato popolare. Di certo si può dire che le dimissioni annunciate ieri sera e da collocare all'indomani della legge di stabilità sono un gesto di dignità che fa bene alla politica e che servono a ripulire il terreno di gioco da tante scorie. da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2012-12-09/peso-politico-atto-risposte-081050.shtml Titolo: Stefano FOLLI. - Il labirinto di Berlusconi Inserito da: Admin - Dicembre 12, 2012, 05:37:10 pm Il labirinto di Berlusconi
di Stefano Folli 12 dicembre 2012 Con la campagna elettorale appena cominciata il bilancio di Silvio Berlusconi è già molto negativo, per non dire disastroso. L'isolamento dell'ex premier è totale in Europa, in forme mai sperimentate in passato. Non ci sono solo i toni sferzanti della stampa e l'ostilità unanime delle cancellerie: c'è soprattutto la condanna arrivata dal Partito Popolare Europeo, la formazione sovranazionale di cui Berlusconi un tempo era un socio autorevole e che oggi di fatto lo ha disconosciuto. Ancora. Il Pdl è frantumato e sull'orlo della scissione, non solo in Italia ma soprattutto al Parlamento di Bruxelles, dopo l'addio del capogruppo Mauro. A loro volta la Chiesa e il mondo cattolico hanno assunto una posizione di totale chiusura verso questo bizzarro «ritorno in campo»: lo confermano al di là di ogni dubbio le dichiarazioni del presidente della Cei, Bagnasco, e i commenti di «Avvenire». Ma anche gli ambienti di Comunione e Liberazione, un tempo alfieri del berlusconismo, oggi sono spietati. Come ha detto il direttore di «Tempi», Amicone, il solo nome dell'ex premier evoca «delusione e rabbia» in tutti coloro che un tempo avevano creduto in lui. La frattura non potrebbe essere più profonda. Si potrebbe continuare. L'intesa con la Lega, asso nella manica berlusconiana, è in alto mare. Maroni non ha voglia di farsi ingabbiare in un patto di Arcore se il candidato premier fosse davvero lui, il vecchio leader che sogna un altro, irrealistico 1994. Il capo leghista è pronto ad allearsi di nuovo con il Pdl, in Lombardia e altrove, ma chiede un volto nuovo per Palazzo Chigi. E dunque: l'Europa, il Ppe, gli scissionisti del Pdl, la Lega. Non c'è un solo fronte che sia favorevole a Berlusconi. Come se non bastasse, la sua strategia in vista delle elezioni fa acqua da tutte le parti. Per sfuggire al peso dell'isolamento, è indotto a scivolare sempre di più lungo la china di un populismo deteriore. La frase sullo "spread" («ma cosa ce ne importa?») non è una battuta sbagliata: è un'uscita obbligata dalle circostanze perché solo così Berlusconi può trovare il consenso di un certo tipo di elettorato. Lo stesso che in Francia può votare Marine Le Pen o in Gran Bretagna il nazionalista Nigel Farage. Entrambi esponenti di correnti minoritarie e, peraltro, nessuno dei due gravato dai conflitti d'interesse che il loro omologo italiano si porta dietro. La domanda è se Berlusconi è in grado di reggere il ruolo che egli stesso si è scelto nella campagna. Certo, il suo obiettivo non è vincere, è ovvio, bensì garantirsi un potere contrattuale nella prossima legislatura. Ma a quale prezzo? Man mano che Monti occupa il centro della scena e interpreta la posizione europeista, Berlusconi sarà costretto ad andare a destra, assumendo toni sempre più nettamente contrari all'Europa. Siamo già al complotto tedesco ai danni dell'Italia e magari alla denuncia dei poteri forti finanziari che tramano contro il leader carismatico pronto a smascherarli. La risposta molto dura che il governo di Berlino ha riservato ieri a Berlusconi dimostra che per lui non esiste più una via di ritorno. L'Europa ha cancellato l'ex premier italiano, lo vede solo come un elemento di disturbo e d'inquinamento. In altri tempi Berlusconi avrebbe tratto vantaggio, in termini elettorali, dall'essere attaccato con tanta virulenza dai governi stranieri. Ma oggi non è più così. Sulla scena c'è solo un uomo isolato e disperato. La logica e il buonsenso dovrebbero suggerirgli di ritirarsi, passare la mano e ricollocare il suo partito nel solco del Ppe. Non è ancora troppo tardi per un gesto realistico e risolutivo. da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2012-12-12/labirinto-berlusconi-063601.shtml?uuid=AbJxcEBH Titolo: Stefano FOLLI. - La «lista Monti» tiene in ansia destra e sinistra Inserito da: Admin - Dicembre 12, 2012, 05:59:38 pm La «lista Monti» tiene in ansia destra e sinistra
di Stefano Folli 11 dicembre 2012 Non desta meraviglia che Bersani sia irritato per l'ipotesi di un Monti impegnato nella campagna elettorale. Glielo ha fatto sapere con una certa chiarezza: «si tenga fuori dalla contesa». Se lo farà, ha aggiunto a mo' di consolazione, «si potrà collaborare insieme nel nome dell'Italia». Frase generica nella quale si può leggere di tutto, anche la promessa del Quirinale. Così in poche ore il premier dimissionario ha potuto misurare tutta la diffidenza che lo circonda: da un Berlusconi furioso contro le capitali europee che lo irridono a un Bersani che vede scricchiolare la sua architettura elettorale. Tutto questo serve a valutare la difficoltà del compito che è davanti al presidente del Consiglio se davvero prenderà parte alla battaglia politica. I duellanti principali, Berlusconi e Bersani, sono uniti su un punto: non vogliono il terzo incomodo. Soprattutto se si chiama Monti, con il profilo di un uomo di governo credibile all'estero e stimato in Italia quale che sia la durezza della politica economica (il sondaggio de La7 gli dava ieri sera un 45 per cento d'indice di popolarità). Se andrà avanti per la sua strada, Monti dovrà prepararsi a subire attacchi e anche colpi bassi. Del resto, con la sola mossa delle dimissioni ha spinto a destra Berlusconi, imprigionandolo nelle sue contraddizioni populiste e rendendo ancora più anacronistica la reiterata candidatura; ma ha messo in ansia anche il centrosinistra, dove soprattutto i più "centristi" temono di essere schiacciati sulle posizioni di Vendola e di un certo sindacalismo. In altre parole, ci vuole coraggio e molta fiducia in se stessi per sfidare insieme il centrodestra e il centrosinistra. Tanto più che il tempo per organizzarsi è poco (meno di dieci settimane) e una decisione definitiva dovrà essere presa da Monti in fretta, comunque prima di Natale e subito dopo le dimissioni formali da Palazzo Chigi. Altrimenti si trasmetterà un messaggio ambiguo all'opinione pubblica. E si darà agli schieramenti politici che sono già in campagna elettorale un'idea di debolezza, anzichè di forza e determinazione come è stato nelle ultime ore. Senza dubbio il premier è consapevole di queste difficoltà. Per adesso si muove con cautela e astuzia, lasciando parlare i fatti. Non a caso i mercati ieri hanno lanciato l'allarme instabilità per l'Italia. La responsabilità è stata attribuita tutta al ritorno in campo di Berlusconi, con ciò dimostrando che si è aperto un grande spazio vuoto nell'area moderata ed europeista. Quella che un tempo era la tipica area democristiana e liberaldemocratica e che oggi è sottorappresentata. Ma il problema del premier uscente non è solo organizzativo. C'è anche il tema decisivo del rapporto con partiti e movimenti del cosiddetto «terzo polo» (che non ha mai visto la luce): da Casini a Fini, da Montezemolo ai delusi del Pdl. Monti può diventare - e in parte lo è già - il punto di riferimento di costoro, può lasciare che essi usino il suo nome per dare senso a una proposta elettorale. Ma il risultato non sarebbe clamoroso. Ridarebbe slancio, è vero, a formazioni che rischiavano un declino irreparabile. Ma forse non basterebbe a cambiare in modo drastico l'equilibrio delle forze nel prossimo Parlamento. Caso diverso sarebbe se Monti, una volta sciolto il Parlamento, si rivolgesse direttamente agli italiani. Un appello esplicito in nome dell'Europa e della necessità di non disperdere il lavoro fatto nell'ultimo anno. Parole chiare in grado di colpire la mente e il cuore degli italiani. In tale ipotesi i partiti sarebbero costretti ad accodarsi, dovendo accontentarsi di gestire le candidature (e nemmeno tutte). Sarebbe la nascita di una vera leadership, votata a proseguire nel governo del paese. Ma per farlo occorre saper comunicare con l'abilità e la limpidezza dei grandi statisti del passato: Roosevelt per un verso, De Gaulle per un altro. La sfida sarebbe molto alta, ma anche i risultati potrebbero esserlo. da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2012-12-11/lista-monti-tiene-ansia-063536.shtml?uuid=AbYL0vAH Titolo: Stefano FOLLI. - Ora Monti guida il Ppe in Italia. Con un ruolo politico ed elet Inserito da: Admin - Dicembre 14, 2012, 10:20:41 pm Ora Monti guida il Ppe in Italia. Con un ruolo politico ed elettorale
di Stefano Folli 14 dicembre 2012 La partecipazione di Mario Monti al vertice del Partito Popolare europeo a Bruxelles è uno di quei dettagli suscettibili di cambiare la storia politica di una nazione. In fondo Monti non è titolare (non ancora) di un partito o di un raggruppamento aderente alla famiglia dei popolari. In passato ha manifestato la sua simpatia verso il Ppe, ma fino a ieri il suo profilo è stato quello che sappiamo: un "tecnico" autorevole, molto stimato in Europa, che governa da un anno su chiamata del capo dello Stato in una situazione di grave emergenza. Non una figura politica nel senso classico del termine. Ora il quadro è mutato e ci sono due momenti che scandiscono tale mutamento. Il primo è l'annuncio delle dimissioni del governo, presentate da Monti al Quirinale dopo la sfiducia subita da Alfano su mandato di Berlusconi. È lì che prende forma il "nuovo" Monti come soggetto politico definito: un leader moderato, ancorché senza partito, che si qualifica lungo una linea di rottura con il berlusconismo morente, ma all'interno della cornice dei popolari europei. Il secondo momento è appunto l'invito rivolto al premier italiano dal presidente Martens a partecipare al summit. Invito con uno scopo preciso: dimostrare a tutti che in Italia i popolari europei hanno un punto di riferimento che ovviamente non è Berlusconi, personaggio ormai messo ai margini. Il riferimento che colma il vuoto si chiama Monti ed è a lui che il più grande partito trasversale presente nel Parlamento di Bruxelles e Strasburgo chiede di fare del suo meglio per governare l'Italia anche in futuro. Con il consenso degli elettori, è ovvio. S'intende che questa mossa non sarebbe stata possibile senza il beneplacito, o meglio la spinta propulsiva della Germania di Angela Merkel. Perché il Ppe non sarebbe quel potente gruppo politico che oggi è se la sua spina dorsale non fosse costituita dai popolari tedeschi. Così il cerchio si chiude. In una settimana scarsa Berlusconi ha messo in crisi il governo, ha accusato Monti di essere l'emissario dell'Europa "germanocentrica", ha tentato di sollevare un'ondata di euroscetticismo. E poi, in rapida successione, ha candidato Monti a leader dei moderati e si è presentato ieri a Bruxelles per essere mortificato dai popolari, lui che ha fondato uno dei partiti più forti del Ppe, nonchè per assistere al trionfo dell'uomo che si avvia a essere il capo dell'area moderata in Italia. In sostanza Berlusconi ha dovuto accettare e sottoscrivere la propria stessa uscita di scena. Negli stessi giorni si è compiuta anche la trasformazione di Monti da "tecnico", si fa per dire, a politico a tutto tondo. Da ieri sera insignito del compito di rapprresentare in Italia le istanze del popolarismo europeo. Come dire che il dibattito sul futuro ruolo politico del professore è superato dai fatti. L'Europa, o almeno l'Europa che si è riunita a Bruxelles, vuole che in Italia si crei e si consolidi un'area ispirata ai valori del popolarismo. Un'area così in sintonia con il Ppe da noi non è mai esistita. Monti ora dovrà darle un'anima in tempi molto stretti, visto che le elezioni sono il 17 febbraio: per riuscirci dovrà volare alto, sopra i limiti e i vincoli dei partiti centristi esistenti. È chiaro in ogni caso che i popolari di Angela Merkel vogliono che il vuoto sia colmato. In nome della stabilità, certo; e sprattutto perché non desiderano che tutto il gioco in Italia sia determinato dalle sinistre di Bersani. Clicca per Condividere ©RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2012-12-14/monti-guida-italia-ruolo-081738.shtml?uuid=Aba9qwBH Titolo: Stefano FOLLI. - Il dramma di Pannella è nella sordità di un sistema politico... Inserito da: Admin - Dicembre 19, 2012, 05:39:02 pm Il dramma di Pannella è nella sordità di un sistema politico ormai inerte
di Stefano Folli 19 dicembre 2012 Marco Pannella si sta spegnendo in una clinica romana, combattendo con gli strumenti di sempre, in modo irriducibile, la sua battaglia civile. E gli strumenti sono la tortura inflitta al suo corpo, simbolo in questo caso delle torture carcerarie e più in generale della richiesta di giustizia per la quale il leader radicale, a 82 anni, non cessa di fare udire una voce sempre più debole. È una tragedia che si avvicina al suo esito fatale. Ieri i medici curanti hanno parlato di «danni renali irreversibili». L'impressione è che manchi davvero poco prima che accada quello che la ragione si rifiuta di accettare. Può un uomo politico nel senso più fiero del termine, un protagonista di cinquant'anni di storia civile del Paese, concludere la sua esistenza nell'Italia del 2012 con uno sciopero della fame e della sete quasi fosse un militante indipendentista nell'India coloniale? O un irredentista di Dublino nel pieno di una guerra civile? C'è qualcosa di assurdo e di terribile in questa vicenda. È chiaro che Pannella considera la consunzione alla quale ha condannato il suo corpo una sorta di metafora della condizione di illegalità - e di sordità di fronte all'ingiustizia - in cui egli vede sprofondata l'Italia di oggi, dove la politica ha cessato di corrispondere a un ideale. Il lento, inesorabile suicidio del vecchio combattente diventa quindi una severa condanna della democrazia malata in uno dei suoi snodi cruciali: il rispetto dei diritti umani. Rispetto a questa tragedia personale, il silenzio del mondo politico e in buona misura della stampa è quanto meno una prova di cattiva coscienza. Nel corso degli anni troppi hanno fatto della mediocre ironia sugli scioperi della fame di Pannella. Troppi si sono risentiti per gli attacchi, certo aspri, ricevuti da lui. Ma questo sarebbe il momento di dare un segno non retorico e non furbesco che la «grande ragione» di Pannella, come l'ha definita Furio Colombo, viene fatta propria da un sistema politico sfilacciato, sì, ma ancora capace di una scossa, di un moto di riscatto. Ieri Mario Monti ha compiuto un gesto simbolico importante recandosi a far visita all'infermo. Qualche ora prima il ministro della Giustizia, Paola Severino, aveva auspicato che «la legislatura si concludesse con l'approvazione del provvedimento sulle pene alternative». Peccato che si tratti di un disegno di legge, anziché di un decreto, il che offre ulteriori alibi al disinteresse del Parlamento ormai in procinto di correre la campagna elettorale. L'altra sera al Quirinale, nel salone affollato per la cerimonia degli auguri, un applauso a scena aperta ha salutato le parole di Napolitano sulla gravità della condizione carceraria. Il capo dello Stato non ha citato Pannella, ma quell'applauso voleva essere un tributo al leader radicale. Purtroppo assomigliava un po' troppo all'omaggio che il vizio rende alla virtù, secondo un vecchio detto piuttosto calzante. A questo punto è indispensabile un segno da parte delle forze politiche. Magari non risolutivo, ma emblematico. Se il dramma di Pannella è la morte fisica incombente, il dramma del sistema è l'inerzia. La stessa per la quale le riforme sono sempre impossibili, mentre si accetta l'idea che una macchina carceraria indegna sia la normalità. Tanto che il tema non costituisce nemmeno un paragrafo del dibattito elettorale. da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2012-12-19/dramma-pannella-sordita-sistema-064109.shtml?uuid=AbtSbTDH Titolo: Stefano FOLLI. - Monti è disponibile, ma tocca alle forze politiche ... Inserito da: Admin - Dicembre 25, 2012, 07:10:28 pm Monti è disponibile, ma tocca alle forze politiche guadagnarsi la sua leadership
analisi di Stefano Folli 23 dicembre 2012 Mario Monti ha fatto di tutto per convincere i giornalisti che il tema della sua candidatura a Palazzo Chigi non è così centrale come molta stampa ritiene. E infatti è sempre lì, un po' sullo sfondo. Lo era prima della conferenza stampa di fine anno e continua a esserlo dopo, mentre ci si avvia alla campagna elettorale. Certo, Monti si considera (ed è) un soggetto politico: lo è dall'inizio del suo incarico "tecnico" e a maggior ragione lo è oggi. Certo, egli accetterebbe di tornare a guidare il governo del paese, se i numeri lo consentissero e il programma proposto fosse per lui convincente. Perché non dovrebbe? L'intera vicenda italiana negli ultimi mesi va in questa direzione. Ma qui le certezze si fermano. Il resto lo devono fare le forze politiche. È questo il vero messaggio emerso stamane. Tocca a loro farsi carico dell'"agenda Monti", cioè dei punti del manifesto europeo che vuole anche essere una solida piafforma riformatrice. Tocca a loro dimostrarsi all'altezza, potremmo dire, del candidato premier a cui si rivolgono; anche nella composizione delle liste che dovranno essere trasparenti e innovative nelle persone (si chiamano "garanzie di credibilità" nel linguaggio montiano). Se queste condizioni ci saranno, il professore accetterà forse la candidatura a premier, senza che questo comporti in alcun modo una partecipazione attiva e dinamica, di tipo classico, alla campagna elettorale: manterrà il suo relativo riserbo come si conviene a un premier istituzionale che non rinuncia al suo profilo extra-partitico; un premier che rimane tuttora a Palazzo Chigi per gli "affari correnti" e che ha recepito i suggerimenti di Giorgio Napolitano al riguardo. Dopo il voto saranno valutati gli equilibri e i rapporti di forza e si vedrà in che modo prenderà forma l'impegno di Monti. Il quale senza dubbio intende continuare a essere il garante europeo della prossima legislatura e delle scelte dei governi politici che verranno. Non c'è di più e non c'è di meno. La candidatura di Monti è nei fatti e sarà proposta dalla coalizione centrista Casini-Montezemolo-Riccardi, se appena essa riuscirà a presentarsi non solo come un segmento del passato, bensì come un'interprete della fase nuova che il paese sta attraversando. Se pure Monti dirà di sì (e lo dirà quasi certamente), egli preciserà che il suo messaggio è rivolto a tutti, a sinistra e anche a destra (al di là del populismo berlusconiano). E farà in modo che l'uso politico del suo nome non sia lacerante, non diventi un fattore di frammentazione in vista del dopo. Ma questo non risolve ancora i problemi. Che si presenteranno in gran numero la sera del 25 febbraio, quando si conteranno i voti del Pd di Bersani, alleato con Vendola. Quel centrosinistra costituirà con ogni probabilità la maggioranza relativa, ma dovrà trovare un baricentro programmatico. Le contraddizioni non mancano e il caso Ichino, ad esempio, dimostra che ci sono parecchi problemi nel partito bersaniano proprio in relazione all'"agenda Monti". Del resto è proprio il presidente del Consiglio a indicare i limiti delle posizioni di Vendola, ma anche di Fassina. Quindi sarà utile, forse essenziale per Bersani una convergenza con la piattaforma centrista. Ma il tasso di europeismo e anche di slancio riformatore di questa convergenza sarà determinato dai "pesi" parlamentari. E dunque dal risultato elettorale non solo dei centristi, bensì di tutti coloro che, magari sparpagliati nei vari settori dello schieramento, s'ispirano alla linea Monti. Il che richiederebbe non solo l'indicazione di una serie di punti programmatici, ma anche una battaglia politica per affermarli nello scontro politico. Come fece a suo tempo, con tremendo sforzo personale, il De Gasperi più volte citato dal premier nella sua conferenza stampa. Monti è molto chiaro quando parla delle sue idee ed è ovviamente estremamente autorevole quando fa riferimento all'Europa. Tuttavia il suo progetto richiede una vera e propria scomposizione del vecchio bipolarismo. Con la nascita conseguente di un nuovo soggetto capace di rovesciare la politica tradizionale. Monti parla a questa Italia che cerca una nuova rappresentanza. Ma è da capire se egli vorrà o potrà o saprà creare le condizioni politico-elettorali per dare una scossa decisiva al sistema. Se la preoccupazione è di muoversi senza strappi e lacerazioni, si rischia di non riuscire a risolvere in modo conclusivo le contraddizioni dei partiti. Sotto questo aspetto le attese per i passi politici di Monti non sono ancora soddisfatte dalle sue risposte. È chiaro che il grande nemico del montismo europeo è proprio Berlusconi in questa sua ultima incarnazione populista. Ma non basta accusare l'ex premier per spostare una massa di voti sufficiente ad accreditare il nuovo polo moderato. Si possono spostare singoli nomi: Mauro, Frattini, Pecorella, Pisanu, Cazzola, eccetera. Ma der cambiare l'Italia occorre fare di più, cioè una battaglia politica vera e propria, anche molto aspra. Con forze concrete in campo. Vedremo nei prossimi giorni perché non tutto è perfettamente chiaro nel percorso politico di Monti. Benchè egli abbia ben descritto l'approdo finale: una "grande coalizione" in stile tedesco, costituita in nome dell'Europa fra un centrosinistra capace di sottrarsi al conservatorismo politico e sociale di Vendola e della Cgil; e un centrodestra che si riconosce, appunto, nelle posizioni montiane e si distacca in forme perentorie dal populismo un po' "lepenista" dell'ultimo Berlusconi. Sarà questo il tema della campagna elettorale. ©RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2012-12-23/candidatura-monti-chiede-garanzie-152922.shtml?uuid=AbeZshEH&p=2 Titolo: Stefano FOLLI. - Il rebus dell'«agenda»: c'è il tema (l'Europa), non il partito Inserito da: Admin - Dicembre 28, 2012, 11:50:40 pm Il rebus dell'«agenda»: c'è il tema (l'Europa), non ancora il partito
di Stefano Folli 28 dicembre 2012 Si può discutere sulla sostanza della fatidica "agenda", ma di sicuro Mario Monti un risultato politico lo ha già ottenuto: ha messo se stesso e il suo manifesto al centro del dibattito pre-elettorale. Ai suoi tempi Ugo La Malfa seguiva un sentiero abbastanza simile quando predicava con tenacia: «Prima i contenuti, poi gli schieramenti». Il che non voleva dire sottovalutare il tema delle alleanze, bensì metterlo tra parentesi, nasconderlo ad amici e avversari fin quando non diventava conveniente parlarne; nel frattempo l'opinione pubblica doveva concentrarsi sui "contenuti", cioè sul programma. Gli addetti ai lavori sapevano bene che tali "contenuti" sarebbero poi stati adattati, entro certi limiti, ai rapporti politici emersi dalle elezioni. Così, nella Prima Repubblica, il piccolo partito repubblicano riusciva a contare molto nel gioco delle alleanze. Oggi che l'Italia è cambiata, Monti sembra seguire quell'esempio, sia pure rimodellato sul profilo della nascente, almeno si spera, Terza Repubblica. S'intende che le differenze non mancano e anche i protagonisti non sono quelli di un tempo. Resta il fatto che l'insistenza sull'"agenda" equivale a una carta politica giocata con abilità, il cui primo effetto consiste nel mettere gli altri sulla difensiva. Non parliamo di Berlusconi, costretto a radicalizzare sempre più i toni, trascinando il Pdl ai margini delle posizioni espresse dal Partito popolare europeo, come ha rilevato al momento del congedo il suo ex ministro degli Esteri, Frattini. Ma chi soprattutto è in difficoltà è Bersani, cioè il possibile, probabile partner di governo del Monti post-elettorale. Si potrebbe dire: oggi avversari, domani alleati. Ma il percorso non è semplice né banale. I due mesi da qui al 24 febbraio saranno ricchi di insidie: soprattutto perché il leader del Pd non può permettersi di perdere il voto dell'opinione pubblica più europeista, consapevole che la necessità dell'Unione implica una strada obbligata, fatta anche di sacrifici. Questo voto Bersani se lo sarebbe aggiudicato con facilità in assenza di una "lista Monti". Oggi invece torna in ballo, obbligando il segretario a destreggiarsi fra posizioni non coerenti. In fondo, senza Monti in campo sarebbe possibile sfumare le differenze fra, ad esempio, un Enrico Letta e un Fassina. Con Monti sulla scena, e con Ichino che lo segue, gli alibi vengono meno e la via è in salita. È vero, come ricorda D'Alema, che i sondaggi danno il Pd saldamente in testa, spesso oltre il 30 per cento dei consensi. Ma non è vero che l'opzione Monti sia irrilevante, quasi una distrazione della politica. Al contrario, essa può diventare molto dolorosa per il Pd. A patto, si capisce, che si sciolgano i nodi irrisolti intorno al premier. Il quale non potrà rinunciare a una lista di riferimento che sia realmente innovativa nelle persone e nel messaggio: una lista magari federata ai centristi tradizionali, ma capace di interpretare la novità. Si potrebbe dire che Monti ha afferrato il tema (l'Europa), ma non ha ancora dietro di sé un partito adeguato a sorreggere un'ambizione politica molto alta. E poi, naturalmente, egli stesso deve trovare le forme comunicative più adatte a farsi capire dalla grande massa degli elettori. Non sarà semplice, però il terreno della sfida è delineato. E non è un caso che Bersani cerchi spazio su altri versanti. Ad esempio candidando il procuratore anti-mafia, Grasso. Il che per la verità suscita più polemiche che consensi. Un altro segnale di quanto la campagna sarà complessa. Clicca per Condividere ©RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2012-12-28/rebus-agenda-tema-europa-074249.shtml?uuid=AbwsleFH Titolo: Stefano FOLLI. - Tra amarezza e speranza Inserito da: Admin - Gennaio 03, 2013, 12:45:50 am Tra amarezza e speranza
di Stefano Folli 02 gennaio 2013 L'ultimo messaggio di Capodanno del presidente della Repubblica va letto su piani diversi. Non è ancora un congedo dagli italiani, ma è già un bilancio del settennato. È un intervento pieno di speranza per l'Italia di domani, l'Italia dei giovani; ma è anche percorso da un'evidente amarezza per la decadenza della politica e le debolezze di un sistema che non ha saputo rinnovarsi. Si può immaginare che il capo dello Stato, sei anni dopo il primo messaggio del 2006, avrebbe preferito rivolgersi a un'Italia diversa. Non a un paese in recessione in cui la "questione sociale" è tornata d'attualità in forme drammatiche. E in cui le classi dirigenti hanno fallito nel tentativo di rilegittimarsi attraverso le riforme che non hanno saputo realizzare. Il 15 maggio Giorgio Napolitano lascerà il Quirinale e lo farà con la coscienza di chi ha ben meritato dalle istituzioni. La sua interpretazione del ruolo presidenziale è stata molto dinamica, soprattutto negli ultimi due-tre anni, e la sua difesa della Costituzione non è apparsa mai statica, meramente difensiva. "Garante", sì, ma non in panchina ai bordi del campo: Napolitano è stato un garante che non si è mai tirato indietro, a costo di esporsi a polemiche e veleni. Aver voluto Mario Monti a Palazzo Chigi, nel novembre del 2011, rimane un atto di coraggio che ha salvato l'Italia dal disastro finanziario, ma per il quale Napolitano ha pagato un prezzo anche personale. Non è un caso se fra i protagonisti e i comprimari di questa stagione elettorale ci sono diversi personaggi che si sono ritagliati una visibilità proprio attaccando il Quirinale con un'asprezza inusitata: da Di Pietro a Grillo a Ingroia, senza trascurare Berlusconi che addirittura vagheggia una commissione d'inchiesta. Questo spiega un certo tono disilluso del presidente che quasi sollecita l'indignazione dei giovani e certo non fa molto per nascondere quanto lo preoccupi l'eterno scontro fra una cattiva politica e una pericolosa anti-politica. Non c'è stato ovviamente alcun sostegno indiretto alla "lista Monti", come tentano di dire i leghisti e Di Pietro. Al contrario, Napolitano è sembrato molto attento nel pesare le parole quando ha sottolineato che Monti aveva il diritto di compiere una scelta politica (pur senza una candidatura al Parlamento), ma lasciando intendere che il senatore a vita si è assunto una responsabilità che non lo esime dal mantenere il suo profilo quale presidente del Consiglio in carica per l'ordinaria amministrazione durante la fase delle elezioni. In fondo il capo dello Stato si è sempre sforzato di collocare la crisi italiana dentro una cornice di sicurezza: le istituzioni, il richiamo alla coesione nazionale e all'unità, l'Europa. Ma le cornici tendono a sfilacciarsi e vanno di continuo ripensate. La vicenda delle intercettazioni, su cui si è poi pronunciata la Corte Costituzionale, era in modo palese un tentativo di delegittimare il presidente della Repubblica. E peraltro i rischi d'instabilità non mancano, specie se il risultato del voto non sarà chiaro. Napolitano ha ricordato tra le righe che sarà lui a conferire l'incarico al nuovo premier; e che nel nostro ordinamento non esiste l'elezione diretta. Ma la vera cornice, quella da cui non si può e non si deve fuoriuscire, è quella dell'Europa. Su questo sfondo saranno giudicate le proposte politiche e dovrà essere individuato il nuovo presidente della Repubblica. Le cui responsabilità non saranno inferiori a quelle a cui ha dovuto far fronte Napolitano, nei chiaroscuri di una Seconda Repubblica mai nata. La citazione finale di Benedetto Croce, il filosofo della libertà, è il miglior suggello di un settennato a cui le istituzioni devono molto. E che non è ancora terminato. da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2013-01-02/amarezza-speranza-063612.shtml?uuid=AbLgvhGH Titolo: Stefano FOLLI. - A Berlusconi resta il passo indietro per salvare l'asse con ... Inserito da: Admin - Gennaio 03, 2013, 06:16:08 pm A Berlusconi resta il passo indietro per salvare l'asse con la Lega di Stefano Folli 03 gennaio 2013 Tutto si tiene, in una campagna elettorale che ha preso il via in forme molto aggressive. Ognuno gioca le sue carte in un sistema che pretende ancora di essere bipolare, ma che nella sostanza sta diventando quadripolare: al centrosinistra e alla vecchia area Pdl-Lega (oggi in frantumi), si aggiunge il terzo polo di Monti e il vasto spazio dell'antagonismo, da Grillo a Ingroia. Ognuno ha problemi da risolvere in fretta perché si avvicina il momento di presentare i simboli e poi le liste dei candidati. La maggiore urgenza è senz'altro quella di Berlusconi. Il vecchio leader ha pochissimi giorni per salvare l'alleanza con la Lega maroniana. E se questo obiettivo è per lui irrinunciabile, come tutto lascia credere, non c'è che un passo da compiere. La mossa del cavallo, come si dice in gergo: rinunciare alla candidatura a premier e presentarsi alle elezioni solo come capo politico della coalizione. In fondo Berlusconi ha cominciato a preparare il terreno ieri, quando ha detto: «potrei anche non tornare a Palazzo Chigi». Affermazione che difficilmente basterà al Carroccio, o meglio a una base leghista che oggi non ha alcuna voglia di fare la campagna elettorale avvinta all'antico e ormai inviso alleato. Ma il patto con Maroni si può salvare se Berlusconi mette un freno al suo orgoglio, accetta il veto e manda avanti una figura terza come candidato premier. Alfano lo ha quasi ammesso, affermando che quel che conta è la leadership politica e non la «formalità» di una candidatura a Palazzo Chigi che non ha rilievo costituzionale ed è imposta da un articolo della legge elettorale. È probabile che questa sarà la conclusione della storia, benché sul nome del "terzo uomo" ci sia ancora da discutere. Poco probabile il ritorno ad Alfano stesso, problematica l'indicazione di Tremonti (gradito ai leghisti, ma non altrettanto a una parte del Pdl). Si vedrà. Di certo l'alleanza con la Lega è indispensabile per tenere la Lombardia. Non tanto per conquistare la regione, considerando la presenza in campo di un altro terzo uomo, Albertini, sostenuto in modo esplicito da Monti. Quanto per bloccare i seggi senatoriali che potrebbero decidere gli equilibri a Palazzo Madama e con essi il profilo del prossimo governo. Casini lo ha detto in un'intervista ad "Avvenire" con indubbia franchezza: se Bersani non avrà la maggioranza anche al Senato, potrà scordarsi di fare il presidente del Consiglio. Quindi è intorno alla Camera alta che si combatte la battaglia delle Ardenne. Sui due fronti su cui è impegnato senza mezzi termini il presidente del Consiglio. Anche lui usa argomenti piuttosto netti: «destra e sinistra sono superate. Esiste chi vuole le riforme e chi vuole conservare». La tesi è riferita all'Italia e sembra fatta su misura per accendere gli animi, soprattutto nel campo di Bersani, ma obbedisce a una logica. Scuotendo l'albero, Monti, più che abolire il bipolarismo, vuole sconfiggere il centrodestra berlusconiano e ridimensionare il Pd. Ne deriverebbe un nuovo assetto del sistema, in cui sarà possibile sia negoziare con i democratici un patto di governo, sia contrapporsi a essi e dipingerli come vincolati al carro di Vendola e Fassina. Si deciderà in base ai rapporti di forza emersi dalle urne. Per questo è cruciale la contesa per il Senato. Ed è indispensabile anche prendere un voto più di Berlusconi (o di chi per lui) su scala nazionale. © RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2013-01-03/berlusconi-resta-passo-indietro-063920.shtml?uuid=AbeUcwGH Titolo: Stefano FOLLI. - L'antipolitica lascia il segno ma non per tutti Inserito da: Admin - Gennaio 07, 2013, 07:09:57 pm L'antipolitica lascia il segno ma non per tutti
di Stefano Folli 07 gennaio 2013 Anche quest'anno il sondaggio di Ipr Marketing sul consenso ai sindaci e ai presidenti di regione insegna qualcosa. Forse più di altre volte perché la crisi economica ha colpito duro gli enti locali, ha messo in discussione antichi equilibri, ha obbligato a riconsiderare numerosi criteri amministrativi. Come se non bastasse, il vento degli scandali ha investito le regioni e ha scoperchiato parecchi tabernacoli. Due amministrazioni sono state travolte, nel Lazio e in Lombardia, una terza (il Molise) dovrà tornare alle urne. Una classe dirigente territoriale è sotto pressione, come se non più dei politici che agiscono a livello nazionale. E allora ecco le cifre che devono confermare o smentire giudizi e pregiudizi su come vengono ammministrate le nostre città e le nostre regioni. Al solito, la domanda del sondaggio è semplice e diretta: votereste di nuovo questo sindaco e/o questo presidente di regione? Il paragone è con il punteggio realizzato il giorno dell'elezione. Si può restare ai piani alti della graduatoria anche se si è perso qualche punto nel favore della popolazione, ma solo se si era stati eletti con una percentuale rilevante. Ebbene, cominciando dalle regioni, un'occhiata ai tabelloni ci dice che la crisi di credibilità successiva agli scandali non ha delegittimato né il personale politico né l'istituto in se stesso. È chiaro che la tempesta ha lasciato il segno e l'intero impianto del decentramento regionale andrà rivisto nella prossima legislatura: non già per annichilirlo e ritornare a un brutale centralismo, bensì per renderlo più vicino alcittadino e più in grado di erogare servizi a un costo contenuto, cancellando la vergogna degli sprechi palesi e occulti. E tuttavia l'istituto regge, così come la fiducia in una buona parte degli eletti. Il sondaggio dice che a metà circa della legislatura regionale otto presidenti godono ancora di una soglia di fiducia che garantirebbe loro la rielezione, se si votasse oggi. Sono i "governatori" di Toscana, Veneto, Emilia Romagna, Marche, Liguria, Basilicata, Umbria, Campania e Puglia. Il consenso maggiore va al toscano Rossi, che mantiene (salvo una lieve limatura) il 59% di gradimento realizzato nel voto del 201o. Al secondo posto c'è un leghista pragmatico come il veneto Zaia, che ottiene il 58% e perde poco rispetto al 60,2 dell'elezione. Chiude questo ventaglio degli otto rieleggibili il pugliese Vendola, che agguanta un utile 50%, incrementando il 48,7 del 2010. Nel complesso sei presidenti di centrosinistra e due di centrodestra (oltre a Zaia, fra i primi otto c'è il campano Caldoro). Sotto la soglia critica del 50% ci sono Calabria, Friuli V.G., Piemonte, Abruzzo e Sardegna: tutte regioni amministrate dal centrodestra. Nel complesso possiamo dedurne che gli italiani vogliono che le regioni continuino a esistere, purchè sappiano innovarsi e anche correggere i propri gravi errori. Non è più tempo di un federalismo retorico e mal costruito, utile più a consolidare centri di potere antagonisti che a corrispondere alle esigenze dei cittadini. Speriamo che questo pro-memoria, ora che siamo alla vigilia delle elezioni politiche, giunga ad orecchie attente. Quanto agli amministratori comunali, i risultati sono ovviamente dettati da fatti, persone e circostanze che variano da luogo a luogo. In linea generale si può dire che chi, pur essendo al secondo mandato, riesce a mantenere un livello di consenso alto, merita una particolare menzione. È il caso del primo classificato, il salernitano De Luca, che realizza ben il 72 per cento. Ma non è da meno Flavio Tosi, sindaco di Verona, che al secondo mandato incrementa di un 8,7% (!) il dato del giorno in cui è stato rieletto nel 2012. Sono cifre rilevanti che testimoniano una verità: viene premiato chi è affezionato alla sua città, chi se ne occupa attraverso un duro lavoro sul territorio. Questa sembra anche la situazione di Giuliano Pisapia, peraltro al suo primo mandato, che a Milano risulta più popolare oggi del giorno in cui i suoi concittadini lo hanno eletto: più 4,9 per cento. Mentre Graziano Delrio, secondo mandato a Reggio Emilia, sale al 54,5 nonostante le fatiche del suo contemporaneo incarico come presidente dell'Anci, l'associazione dei Comuni. Ci sono anche esempi contrari che acquistano un valore politico che non si può non sottolineare. A Parma, ad esempio, impressiona la caduta di Pizzarotti, il sindaco eletto a sorpresa nel 2012 nella lista di Beppe Grillo. Tante attese, tante promesse di un nuovo modo di governare e oggi meno 7,2 nel consenso dei cittadini. Pizzarotti è ancora al 53%, ma l'impatto con la realtà è stato devastante. E poi c'è il caso di Palazzo Vecchio. Come è noto, uno dei nomi nuovi della politica italiana, il fiorentino Matteo Renzi, si è ritagliato un posto nel cuore dei "media" grazie ai brillanti risultati del duello con Bersani alle primarie del Pd: sconfitto con onore al secondo turno dopo un successo smagliante al primo. Eppure Renzi come sindaco di Firenze è stato retrocesso: dal 59,5% il giorno del voto all'attuale 52. Abbastanza per essere virtualmente rieletto, ma ben 7,5 punti persi per strada. Come mai? Molti sospettano che le ambizioni nazionali abbiano distratto - a dir poco - Renzi dagli impegni come amministratore comunale. Per lui è un campanello d'allarme da non sottovalutare. Al contrario il romano Alemanno, da tanti considerato sconfitto in partenza se si presenterà di nuovo per il Campidoglio, riesce a conquistare un 50% (meno 3,7) che non è poi male dopo le tragicomiche vicende della nevicata, lo scorso inverno. da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2013-01-07/lantipolitica-lascia-segno-tutti-064630.shtml?uuid=Ab6sysHH Titolo: Stefano FOLLI La questione carceri irrompe nella campagna e impegna la politica Inserito da: Admin - Gennaio 10, 2013, 07:47:18 pm La questione carceri irrompe nella campagna e impegna la politica
di Stefano Folli 9 gennaio 2013 La questione della condizione carceraria in Italia irrompe nella campagna elettorale, ma con quali esiti concreti nessuno può dirlo. Certo, la dura condanna espressa dalla Corte di Strasburgo per i diritti umani non stupisce nessuno. Lo stesso ministro della Giustizia Paola Severino, che si dichiara «avvilita», se l'aspettava. È una macchia per il nostro paese e le parole di Napolitano sono fra le più dure pronunciate dal capo dello Stato in questi ultimi anni: la sentenza «è una mortificante conferma della incapacità del nostro Stato a garantire i diritti elementari dei reclusi in attesa di giudizio e in esecuzione di pena». Una frase drammatica se a pronunciarla è il presidente della Repubblica. Il quale peraltro ha le carte in regola perché più volte nel corso del suo mandato che si avvia a conclusione ha richiamato il tema e lo ha sottoposto all'attenzione distratta delle forze politiche. Ma un verdetto così aspro da parte della Corte europea toglie qualsiasi alibi e mette in evidenza l'inconcludenza retorica del sistema. Qualcuno obietterà che la condizione dei carcerati non è una priorità; in realtà lo è, come testimoniano le battaglie civili di coloro che in questi anni non si sono stancati di impegnarsi per cambiare le cose, a cominciare dai radicali di Pannella (il comitato Calamandrei ha assistito tre dei sette detenuti che hanno provocato il pronunciamento di Strasburgo). In ogni caso la priorità della questione carceraria è imposta dalla nostra appartenenza all'Unione europea che prescrive precisi standard in tema di diritti umani. Non è un problema di "lassismo" bensì di civiltà giuridica. E adesso che i ritardi e le inadempienze non sono più ammessi, al punto che l'Italia ha solo un anno di tempo per correggere la situazione, l'aspetto politico diventa centrale. Si può immaginare che il nodo delle carceri diventi qualcosa di più di un breve paragrafo nei programmi dei partiti? Dopo il commento del capo dello Stato, così dovrebbe essere. C'è il rischio invece che l'intera vicenda si esaurisca in un bengala polemico acceso nella notte e che subito dopo si torni all'ordinaria paralisi. Un anno tuttavia fa presto a passare e una condanna così drastica e perentoria, che accumuna l'Italia a paesi come la Russia, l'Ucraina, la Moldova, la Bulgaria e altri, non potrà non interpellare la responsabilità del prossimo governo politico. La riforma che prevede in molti casi pene alternative al carcere, nonché nuovi fondi per l'edilizia penitenziaria, non potrà restare nel cassetto. Quale che sia la maggioranza parlamentare che s'insedierà dopo il 24 febbrario. Anche sotto questo aspetto c'è da augurarsi che nelle nuove Camere siano rappresentati deputati e senatori di ogni schieramento sensibili ai diritti civili. Se è vero che l'Europa non può essere solo "spread" e vincoli di bilancio, è altrettanto vero che bisogna dimostrare con lo slancio politico e con l'iniziativa legislativa che esiste nell'Unione uno spazio comune fatto di diritti e di sensibilità civile di cui l'Italia fa parte e non alla retroguardia. In fondo l'avviso ricevuto dalla Corte giunge alla fine di una legislatura sfortunata, ma anche alla vigilia di una svolta politica. Una magnifica occasione per le forze politiche vecchie e nuove che vogliono dimostrarsi all'altezza della sfida. ©RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2013-01-09/questione-carceri-irrompe-campagna-074315.shtml?uuid=Ab6ZlXIH Titolo: Stefano FOLLI Nella partita a tre del 24 febbraio le carte sono ormai in tavola Inserito da: Admin - Gennaio 16, 2013, 04:22:55 pm Nella partita a tre del 24 febbraio le carte sono ormai in tavola
di Stefano Folli 15 gennaio 2013 A quaranta giorni dalle elezioni i temi centrali sono tre e s'intrecciano in modi imprevedibili. Primo tema, il più intrigante soprattutto per gli osservatori stranieri. Berlusconi è davvero in grado di portare a termine una mirabolante rimonta, fino a insidiare la vittoria del centrosinistra? I sondaggi dicono che no, non è possibile. La prova è che dopo lo "show" da Santoro il capo politico del centrodestra ha riguadagnato due, massimo tre punti. E sono punti piuttosto friabili, legati al clamore suscitato dall'esibizione televisiva. Ieri sera alla Sette Mentana spiegava, dati alla mano, che la forbice fra le due coalizioni maggiori resta ragguardevole, appena sotto i dieci punti. Ciò significa che, per raggiungere Bersani, Berlusconi dovrebbe recuperare circa due punti alla settimana di qui al 24 febbraio. Difficile. Del resto, c'è un elemento extra-politico che incombe ed è il processo Ruby a Milano. In prossimità del voto potremmo trovarci con una drammatica condanna per sfruttamento della prostituzione minorile inflitta a un ex premier. Eventualità destinata ad avvelenare la campagna, è ovvio, ma anche a rendere impraticabile l'ultima battaglia del vecchio combattente. Secondo tema, il ruolo e lo spazio di Mario Monti. Il leader della terza forza si è reso conto che qualcosa nella sua campagna e nella sua cifra comunicativa meritava di essere registrato meglio; altrimenti il gioco, come è inevitabile, favorisce i due poli maggiori che tendono a soffocare i partiti intermedi. Monti usa adesso un linguaggio piuttosto ruvido e diretto - lo si è visto ieri sera a "Porta a Porta" - e sceglie con cura i suoi bersagli. Nei giorni scorsi si era contrapposto a Bersani, più con i fatti (la candidatura Albertini in Lombardia) che con le parole. Ora è tornato ad attaccare Berlusconi, il «pifferaio magico». Si capisce perché. È lì, nel profondo serbatoio del centrodestra, che il "montismo" può mettere radici: fra i delusi vecchi e nuovi o gli scettici dell'ultimora. Sul piano strategico Monti deve impedire che il centrodestra, pur ridimensionato, esca dalle urne ancora in grado di condizionare il Parlamento. L'opposto esatto di quello che vuole Berlusconi. A sinistra invece il premier si distingue da Bersani, sì, eppure è evidente che l'«incontro dei riformisti», cioè il patto con il Pd, è plausibile, anzi probabile. A quali condizioni non si sa ancora. Si è capito che Monti non vorrebbe una nuova tassa sul patrimonio o un'altra manovra. Terzo tema, la prospettiva di Bersani. Il segretario del Pd deve rassicurare l'opinione internazionale e le cancellerie. Lo fa con l'argomento della "stabilità". L'ipotesi di un'intesa con il Centro affiora negli interventi sui grandi giornali esteri. Ma è chiaro che Bersani vuole, certo, coinvolgere Monti, però desidera pagare il prezzo meno oneroso possibile al patto di governo. Ecco allora la battuta acida sulla «polvere sotto il tappeto», conseguenza di certe scelte dell'esecutivo tecnico. Ed ecco l'attenzione al voto nelle regioni. Lombardia, Sicilia, Campania: è lì che il centrosinistra può perdere la partita. Bersani vorrebbe recuperare i voti di Ingroia, che lo disturbano sul fianco sinistro: magari attraverso un complicato accordo di "desistenza". Ma in particolare vorrebbe che Monti non si presentasse la sera del 25 febbraio con la "golden share" del prossimo governo in tasca. DA - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2013-01-15/nella-partita-febbraio-carte-063905.shtml?uuid=AbzQ8PKH Titolo: Stefano FOLLI. - Grillo è tornato e vuole contendere l'elettorato a Berlusconi Inserito da: Admin - Gennaio 19, 2013, 04:25:27 pm Grillo è tornato e vuole contendere l'elettorato a Berlusconi
Stefano Folli 19 gennaio 2013 Una mossa a effetto di Beppe Grillo era attesa come inevitabile ormai da qualche settimana. Da quando le cinque stelle dell'ex comico si erano alquanto appannate. Colpa di un certo numero di problemi interni al movimento, ma soprattutto del clima elettorale che tende a riportare l'attenzione del pubblico sui partiti tradizionali o comunque sulle forze con "vocazione" di governo. In altre parole, Grillo aveva avuto tutto il palcoscenico a sua disposizione nei mesi scorsi, quando eravamo lontani dalle elezioni e i partiti avevano toccato il picco negativo del discredito. Ora il quadro è cambiato e le forze politiche sono in grado di mettere in moto le loro macchine propagandistiche. Di conseguenza Grillo stava scivolando, se non proprio nell'amgolo, certo un po' in disparte. Non solo. Sul terreno che si definisce in modo approssimativo dell'«antipolitica», il capo del M5S trova dei concorrenti agguerriti. Ora infatti deve condividere il palcoscenico con un Ingroia il cui seguito sembra più cospicuo di quanto si potesse prevedere. E poi naturalmente c'è la Lega in cerca di resurrezione: la proposta di mantenere al Nord il 75 per cento delle entrate fiscali è un'astuzia suscettibile di riguadagnare alla causa del Carroccio il consenso di quei militanti, tanti o pochi, tentati dal "grillismo". Ma c'è di più. Il vero problema di Grillo si chiama Berlusconi. Quanto più il vecchio leader del centrodestra, battendosi senza risparmio, riesce a riportare a casa una fetta dei suoi voti andati dispersi, tanto più l'ex comico vede accorciarsi la coperta. C'è un rapporto inversamente proporzionale fra i due serbatoi elettorali: se Grillo guadagna, Berlusconi perde. E viceversa. Ecco allora la riscossa grillina. I colpi di ieri sono studiati con cura per colpire la fantasia dell'elettorato di centrodestra. In realtà non è la prima volta che Grillo attacca i sindacati come l'altra faccia della «casta» parassitaria, ma non c'è dubbio che in campagna elettorale l'effetto di certe frasi è dirompente. E il risultato scontato: da oggi il grande populista genovese è di nuovo sulle pagine dei giornali, avendo creato scandalo. Lui solo contro tutti. Ha offerto un miscuglio destra/sinistra in cui ci sono suggestioni a 360 gradi: i sindacati da «eliminare», certo, ma anche l'auspicio di uno Stato forte; e poi una «banca di Stato» a difesa dei più deboli. Sono idee che non vanno valutate nel merito (chi pensa che in una democrazia occidentale si possano liquidare le forze sindacali?), ma che servono a mettere nuovo carburante nel motore elettorale del movimento. Grillo fa sapere di essere tornato e di volersi giocare la partita. Le sue reti pescano in ogni direzione. Si intuisce la preoccupazione per l'espansione della «rivoluzione civile» di Ingroia, ma soprattutto la volontà di contenere la rimonta di Berlusconi. È come se egli dicesse ai simpatizzanti berlusconiani che hanno guardato a lui con interesse: attenti, non tornate a casa, restate con me che vi darò pane per i vostri denti. E così, nel giorno in cui il governatore della Banca d'Italia adombra nuovi interventi sui conti pubblici e chiede alla politica il massimo di responsabilità, Grillo si ripropone come il re dei populisti. In evidente e serrata competizione con l'altro sovrano della materia. © RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2013-01-19/grillo-tornato-vuole-contendere-093840.shtml?uuid=AbtrwrLH Titolo: S. FOLLI. - l timore di Bersani: che Monti riesca a essere l'ago della bilancia Inserito da: Admin - Gennaio 29, 2013, 11:00:02 pm Il timore di Bersani: che Monti riesca a essere l'ago della bilancia
di Stefano Folli 29 gennaio 2013Commenti (3) Che cosa irrita in modo così palese Bersani a proposito della campagna elettorale di Monti? L'improvvisa promessa di ridurre le tasse dopo i mesi del rigore? Le battute sulla vicenda del Monte dei Paschi e sugli intrecci fra politica (leggi Pd) e banche? Forse sì, ma non è solo quello. E non è nemmeno la "querelle" sull'eventuale, nuova manovra economica. La verità è che come sempre la campagna elettorale non è il momento migliore per entrare nel merito dei problemi. Anche chi lamenta l'assenza di «temi concreti», è consapevole che le priorità sono altre. Questa campagna non fa eccezione ed è improbabile che un politico esperto come Bersani si sia risentito solo per il crescente attivismo di Monti, per quel tono non più tanto austero con cui il premier uscente annuncia di voler ridurre l'Imu o l'Irpef. L'irritazione di Bersani non riguarda solo il merito delle cose dette. Anche perché, ad esempio, è impossibile stabilire oggi se il futuro governo dovrà mettere mano entro giugno a una manovra economica integrativa e di quale entità. Dipenderà da molti fattori tecnici e non solo da chi vincerà le elezioni, come ha lasciato intendere il presidente del Consiglio. In altri termini, le schermaglie in periodo elettorale costituiscono il pane quotidiano e non sorprendono nessuno. Ma ci sono altre questioni su cui i politici sono molto sensibili. In questo caso ciò che realmente disturba il segretario del Pd è il timore che la coalizione di Monti abbia in mano la «golden share» della maggioranza. Che sia il premier, magari con un 14-15 per cento dei voti, l'uomo in grado di condizionare gli equilibri e i programmi del nuovo esecutivo. Ora, è vero che proprio ieri il sondaggio Tecné per Sky indicava, un po' a sorpresa, che al Senato il centrosinistra è appena un seggio sotto la soglia utile per essere autosufficiente. Ma altri istituti sono meno ottimisti e di sicuro Bersani li studia tutti. Ai suoi occhi - e a quelli di altri dirigenti del Pd - la colpa imperdonabile del leader centrista è quella di voler «impedire» ai democratici una piena vittoria anche a Palazzo Madama. Vittoria che li metterebbe al riparo da qualsiasi condizionamento. Si avverte nelle parole del segretario del Pd la sorpresa per un "centro" meno rassegnato e statico di altre volte; nonché la strenua volontà di riaffermare la logica di un bipolarismo che negli anni non ha dato molto al paese, ma ha garantito ampie rendite di posizione ai due maggiori schieramenti. Il che spiega molte cose, a cominciare dal fatto che si è tornati a votare con il "Porcellum", grazie alla convergenza di fatto fra Pd e Pdl nel dire "no" a qualsiasi riforma. Il timore di Bersani, come egli stesso dichiara, è che Monti si ritrovi la sera del 25 febbraio a essere «l'ago della bilancia». Né più né meno. Un soggetto in grado di negoziare da posizioni di forza l'appoggio e l'eventuale partecipazione al nuovo governo. Capace persino di rendere credibile e gestire un'ipotesi di grande coalizione, sia pure in forma tattica. Incalzato com'è da sinistra, dalla lista di Ingroia e dal movimento trasversale di Beppe Grillo, il Pd fatica ad accettare una sfida al centro. Una sfida che tende a delegittimarlo come forza riformista. Ma è vero un punto: se l'operazione Monti riesce, i democratici dovranno scendere a patti su tutto. Clicca per Condividere ©RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2013-01-29/timore-bersani-monti-riesca-082448.shtml?uuid=AbwNv8OH Titolo: Stefano FOLLI. - Nell'Europa integrata non ha senso indignarsi per le ingerenze Inserito da: Admin - Gennaio 30, 2013, 11:31:54 pm Nell'Europa integrata non ha senso indignarsi per le ingerenze elettorali
di Stefano Folli 30 gennaio 2013 Il vice-presidente della Commissione europea, Olli Rehn, si è affrettato a precisare nella serata di ieri che non era sua intenzione interferire con la nostra campagna elettorale. Segno che qualcosa del costume italico ha varcato le Alpi. Questo dire e poi smentire è tipico della politica romana, ma di solito non attenua il messaggio: serve in genere a salvare le forme. È quello che ha fatto Rehn: pur salvando la forma, ha fatto capire con chiarezza qual è il risultato delle elezioni più gradito in Europa. Dovrà essere un esito in grado di tenere Berlusconi lontano dall'area del governo, visto che all'ex premier l'esponente della Commissione fa carico di aver tradito gli impegni presi nel 2011 con l'Unione, esponendo di conseguenza l'Italia al rischio del collasso finanziario. S'intende che nel partito di Berlusconi ci si è indignati. Brunetta ha chiesto le dimissioni di Rehn e Berlusconi, forse non a caso, ha scelto la giornata di ieri per affermare che lui cerca «il consenso degli italiani, non quello della signora Merkel». Aggiungendo che, in caso di vittoria del centrodestra, «la musica cambierà». Come dire che l'Italia inaugurerà una sua politica autonoma dall'influenza di Berlino. Cosa significhi in concreto non è chiaro, visto che i vincoli di bilancio varranno, nel caso, anche per Berlusconi. È vero però che le parole di Rehn hanno gettato un grosso sasso nelle acque già agitate del dibattito elettorale. Hanno eccitato un vago sentimento nazionalista che Berlusconi a tratti incoraggia. E in effetti nel centrodestra si sono stracciati le vesti in tanti, come testimonia la reazione di Alfano e di altri: tutti indignati per l'«ingerenza» della Commissione. Eppure l'intervento del vice-presidente può essere inopportuno sul piano politico, ma non è certo illegittimo. Nell'Europa senza più frontiere della moneta unica e del «fiscal compact» non circolano liberamente solo le persone, ma anche le opinioni. Comprese quella dei commissari-guardiani dell'Ue, la cui attività non a caso scandisce la vita economica dei Paesi membri in ogni stagione dell'anno. Che queste voci debbano tacere in campagna elettorale è una tesi a cui nessuno crede, ma che si preferisce sostenere con una certa dose di ipocrisia quando è conveniente farlo. In realtà quello che accade in Francia e in Germania interessa agli italiani come mai in passato; per contro a Parigi e a Berlino si guarda con attenzione alle scelte del nostro Paese. E non potrebbe essere altrimenti. Certo, non si può dar torto a Mario Mauro, storico parlamentare europeo, prima con il Pdl e oggi candidato con la lista Monti. Dice Mauro di avvertire un senso di fastidio quando sente «parlare male dell'Italia in Europa e dell'Europa in Italia». Sotto questo profilo si può persino dubitare che l'intervento di Rehn ottenga il risultato auspicato. Potrebbe addirittura innescare un moto di irritazione verso l'Europa e le sue ricette impopolari. C'è da augurarsi che non sia l'inizio di qualcosa di peggio, come farebbero pensare le frasi berlusconiane contro l'Europa tedesca e la necessità di suonare un'altra musica. In ogni caso Rehn fa capire che a Bruxelles e nelle maggiori capitali si farà di tutto per tenere l'Italia agganciata a una cornice di stabilità politica. E sappiamo, del resto, che il Ppe ha già compiuto da tempo la sua scelta pro-Monti. © RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2013-01-30/nelleuropa-integrata-senso-indignarsi-064007.shtml?uuid=Abp9YRPH Titolo: Stefano FOLLI. - L'obiettivo della stabilità Inserito da: Admin - Febbraio 28, 2013, 11:55:31 pm L'obiettivo della stabilità
di Stefano Folli 28 febbraio 2013 La crisi italiana si svolge su due livelli. Quello politico fotografa la stasi e l'incertezza e autorizza tutti i timori sul prossimo futuro. Quello istituzionale segnala invece la determinazione di cui ha voluto dar prova il presidente della Repubblica in Germania, quando ha chiuso in faccia al socialdemocratico Steinbrück, reo di aver mancato di rispetto all'Italia. Il gesto di Napolitano ha un valore sostanziale ma anche simbolico. Sostanziale perché il capo dello Stato ha difeso senza esitazioni la dignità nazionale di fronte a un personaggio non secondario del palcoscenico tedesco, candidato socialdemocratico alla Cancelleria. Simbolico perché il messaggio di Napolitano è chiaro: l'Italia si fa rispettare. Ed è rivolto al partner tedesco, certo, ma anche ai protagonisti della scena politica interna. Il Quirinale fa sapere in definitiva che intende svolgere con decisione, financo con durezza, il proprio ruolo nella soluzione della crisi. Non esistono "clown" nella politica italiana, bensì soggetti tutti egualmente legittimati che devono dar prova di senso di responsabilità, concorrendo al governo del paese. È quindi opportuno che i partiti «riflettano» in queste ore, ma poi è necessario che si presentino davanti al capo dello Stato con le idee chiare su come intendono garantire la stabilità politica. Questo è il valore ineludibile su cui non si può transigere: il rischio di un vuoto prolungato di potere è infatti altissimo. A questo punto sappiamo che Napolitano non si tirerà indietro e gestirà la crisi post-elettorale come se egli fosse all'inizio e non alla conclusione del suo settennato. Tuttavia, se ci inoltriamo nei territori della politica, ci rendiamo subito conto del groviglio ancora inestricabile in cui si aggirano vincitori e sconfitti del 25 febbraio. Le "tre grandi minoranze impotenti" di cui ha parlato Michele Ainis per ora restano tali. L'idea, accarezzata da Bersani e da altri nel Pd, che fosse possibile aprire un negoziato con Grillo e magari arrivare a un accordo in tempi brevi, è durata poche ore. Come era prevedibile, il leader dei Cinque Stelle non ha alcun interesse a farsi fagocitare in una logica tradizionale a pochi giorni dalle elezioni. Tanto meno a votare la fiducia a un governo altrui. Al massimo sarà disponibile a sostenere i provvedimenti che gli piacciono, scelti fior da fiore. E allora? Nei prossimi giorni il Pd, se vuole mantenere l'iniziativa, dovrà essere molto più realista e coraggioso. Realista perché non può intestardirsi nella ricerca di un'intesa esclusiva con i grillini, in base alla considerazione – espressa da Vendola – che i Cinque Stelle costituiscono in fondo una costola della sinistra. Peraltro la sola ipotesi di un rapido ritorno alle urne sarebbe drammatica. Coraggioso perché una sintesi politica oggi non può ignorare il centrodestra. Bersani ha già detto no alla «grande coalizione», ma si tratta d'intendersi sui termini. Un accordo in Parlamento su poche riforme essenziali (compresa la modifica della legge elettorale) avrebbe un significato circoscritto nel tempo (un anno?). Ci vuole coraggio, appunto. Ma la «strana maggioranza» con Berlusconi e il "centro" è già esistita, solo che non ha dato risultati sul piano del rinnovamento della politica e delle istituzioni. C'è la capacità oggi di ripetere quell'esperienza, riempiendola però dei contenuti che nel recente passato sono mancati? Lo vedremo presto. È vero, nulla è facile. Né possono essere ignorate le istanze di moralità imposte dal movimento di Grillo. Ma l'esigenza prioritaria, quella su cui il Quirinale è impegnato, consiste nel ricostruire un quadro di stabilità. La sola ipotesi di un rapido ritorno alle urne sarebbe drammatica. ©RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2013-02-28/lobiettivo-stabilita-072730.shtml?uuid=AbAexAZH Titolo: Stefano FOLLI. - Il timore di un «piazzale Loreto» berlusconiano produce ... Inserito da: Admin - Marzo 12, 2013, 06:37:38 pm Il timore di un «piazzale Loreto» berlusconiano produce forte instabilità
di Stefano Folli 12 marzo 2013 È ormai lo stesso Berlusconi, a quanto pare, a temere per sé una riedizione (aggiornata ai tempi) di piazzale Loreto. Forse non ha torto: la tenaglia giudiziaria si sta stringendo intorno a lui come mai in passato, da Milano a Napoli, e la prospettiva che sta prendendo corpo prevede anche il carcere, almeno sulla carta. Quanto meno il risultato finale potrà essere l'espulsione del leader del centrodestra dal dibattito politico, con la non inverosimile interdizione dai pubblici uffici. Una lunga, drammatica storia sta quindi arrivando al capolinea. E le implicazioni sono enormi, la maggior parte delle quali ancora inesplorate. Intanto bisogna misurare le reazioni a breve termine. Che sono confuse e contraddittorie, specchio fedele del dramma psicologico in cui si trova l'uomo ricoverato, almeno fino a stamane, in una "suite" del San Raffaele. Non c'è una linea chiara. Falchi e colombe si fronteggiano e talvolta si mischiano. Si diceva che i seguaci di Berlusconi avessero rinunciato a manifestare davanti al Palazzo di Giustizia e invece i parlamentari del Pdl hanno addirittura invaso l'edificio, sia pure alla spicciolata, e si sono appellati a Napolitano in nome di «un'emergenza democratica». Qualcuno poi adombra che venerdì deputati e senatori non si presenteranno all'apertura del Parlamento: e sarebbe un gesto clamoroso di sfida alle istituzioni. Berlusconi, come è noto, sa essere un populista di razza durante le campagne elettorali, fino a promettere di rimborsare l'Imu di tasca propria. Ma poi, a urne chiuse, ha sempre preferito indossare abiti più composti, evitando errori grossolani, specie all'inizio della legislatura. Ma ora il quadro è cambiato: la preda si sente chiusa in un angolo e non si può prevedere quale sarà la sua reazione finale. D'altra parte, lo scenario per lui non potrebbe essere peggiore. Questo Parlamento produce una maggioranza d'aula che non esiterebbe a concedere l'autorizzazione a procedere. Ieri i Cinque Stelle lo hanno detto senza mezzi termini e il Pd, salvo eccezioni, finirebbe per comportarsi allo stesso modo. Bersani e Grillo, divisi su molte cose, su Berlusconi trovano l'intesa. Soprattutto lungo la rotta che porta a nuove elezioni. Quanto agli appelli rivolti al capo dello Stato, non si capisce (e non da oggi) quale possa essere il ruolo di Napolitano di fronte allo svolgersi delle inchieste giudiziarie. Non ci sono salvacondotti o zone franche possibili. È vero peraltro che l'attacco finale a Berlusconi ha forti risvolti politici. Non riguardano il Quirinale, quanto il complesso delle forze presenti in Parlamento. Stiamo parlando del Pdl, terzo partito italiano, e di una coalizione di centrodestra che nel suo insieme sfiora il 30 per cento. È illusorio pensare che l'uscita di scena obbligata del leader, ammesso che ci si arrivi, comporti una dissoluzione di quest'area. Per ora, anzi, è scattato il meccanismo della solidarietà al padre-fondatore, l'uomo a cui tanti devono tutto. Se qualcuno tace e attende nell'ombra, è comunque difficile che si palesi a breve scadenza. Come dire che se l'aspra tensione si protrarrà nei prossimi giorni, non ci sarà possibilità di dialogo nemmeno sulle cariche istituzionali: le presidenze delle Camere e il nodo del Colle. Il capitolo è ancora tutto da scrivere, ma la destabilizzazione del centrodestra introduce una variante senza precedenti. ©RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2013-03-12/timore-piazzale-loreto-berlusconiano-072203.shtml?uuid=AblD2AdH Titolo: Stefano FOLLI. - In attesa di un futuro piano B, Bersani e il Pd evitano ... Inserito da: Admin - Marzo 13, 2013, 05:34:30 pm In attesa di un futuro piano B, Bersani e il Pd evitano gli ultimatum
di Stefano Folli 07 marzo 2013 Il dato politico, a ben vedere l'unico emerso dalla direzione del Partito Democratico, è l'accantonamento definitivo dell'alternativa secca "governo Bersani o elezioni anticipate". Può apparire poco e invece è molto. Si tratta del massimo del realismo che si può chiedere in questo momento a un gruppo dirigente sotto stress, il cui obiettivo prioritario è quello di tenere unito il partito ed evitare errori vistosi dalle conseguenze imprevedibili. In fondo la stessa frase di Bersani («non abbiamo un piano B») va intesa alla lettera: oggi non abbiamo un piano B perché non ci abbiamo ancora pensato. E in ogni caso – ecco il sottinteso – il piano B dovrà essere definito con il presidente della Repubblica. Così, alla fine di un lungo giro, il Pd riconosce al capo dello Stato il margine di manovra indispensabile per gestire la più drammatica crisi degli ultimi anni. Si dirà che era inevitabile, oltre che ovviamente corretto dal punto di vista costituzionale. Ma nulla era scontato, date le premesse dei giorni scorsi. La strategia degli Otto Punti, se portata alle estreme conseguenze, conduceva diritta al governo di minoranza destinato a essere battuto in Parlamento. Ovvero a una formidabile tensione con Napolitano se questi (come era lampante) si fosse rifiutato di assecondare l'operazione. Ora lo scenario è mutato e certe contraddizioni interne ai "democratici" sono state messe da parte. Verrà presto il giorno in cui si dovrà affrontare il piano B, ma intanto la giornata si chiude senza morti e feriti. Certo, gli Otto Punti di Bersani, una volta capito che non costituiscono più il grimaldello per tornare alle urne, appaiono per quello che sono: un manifesto di buone intenzioni anche piuttosto vago e generico. Non proprio il carburante di un governo super-riformatore. Ma tant'è. Quel che conta, non ci sono "ultimatum" da parte del segretario del Pd. E c'è la volontà, almeno per ora, di procedere senza strappi. Chiaro che molto resta ancora da fare, specie nel rapporto con il Quirinale. Il Pd non si è ancora davvero affidato a Napolitano, ha soltanto evitato di mettersi di traverso giusto ai primi passi della legislatura. Il resto si vedrà poi, quando i tentativi di restituire un governo al paese entreranno nel vivo. Si vedrà allora quanto sarà costruttivo il contributo del centrosinistra e degli altri sulla via del cosiddetto «governo del presidente». È chiaro che il compito di Bersani non è invidiabile. Da un lato, deve tenere alta una bandiera un po' sfilacciata dal risultato del voto; dall'altro, deve guidare il partito lungo il passaggio più insidioso degli ultimi trent'anni, mentre Renzi rimane sullo sfondo come l'alternativa interna più convincente (ma non in tempi brevi). E verrà il giorno in cui si porrà il tema di votare o no con il centrodestra un programma di riforme. Quello sarà il momento della verità. Certo, potrebbe anche non arrivare mai. Grillo per ora se ne sta sulla riva del fiume in attesa di veder passare i cadaveri dei suoi nemici. E da Berlusconi-Alfano non sono giunte finora parole significative. Il centrodestra potrebbe restare prigioniero del tatticismo e dei rancori. Ovvero potrebbe spiazzare i competitori, da Bersani a Monti, proponendo alcuni punti concreti su cui realizzare l'eventuale maggioranza «di scopo». Berlusconi rimarrebbe un alleato impossibile, ma il problema politico sarebbe sul tavolo. Lo vedremo. D'Alema, ad esempio, sta ragionando su questa e altre eventualità: perché l'unità nazionale – al netto dell'ingombro berlusconiano – non può essere sempre sacrificata ai tabù irrazionali. In ogni caso ora si pongono le scadenze istituzionali, l'elezione dei presidenti di Camera e Senato. Non si capisce come intende regolarsi il Pd. C'è da augurarsi che anche qui prevalga il realismo. da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2013-03-07/guarda-napolitano-063615.shtml?uuid=AbvD8ebH Titolo: Stefano FOLLI. - Un Parlamento in bianco Inserito da: Admin - Marzo 15, 2013, 06:36:45 pm Un Parlamento in bianco
di Stefano Folli 15 marzo 2013 Quando stamane un diluvio di schede bianche – da sinistra e destra – finirà nelle urne della Camera e del Senato destinate a esprimere i presidenti delle assemblee, avremo la sensazione plastica del disastro che incombe sulla legislatura. In teoria il ricorso all'astensione di massa è un'astuzia per favorire successive intese sui nomi: una tattica che vanta più di un precedente. Ma nella sostanza, in questo Parlamento che presenta la novità assoluta dei tre blocchi inconciliabili, rischia di trasmettere all'esterno la drammatica immagine di un palazzo paralizzato e incapace di decidere. Due assemblee avvolte in un grande lenzuolo bianco. Tuttavia un gruppo ci sarà, pronto a votare i suoi candidati. E si tratterà, nemmeno a dirlo, del movimento Cinque Stelle. Non sarà facile poi spiegare all'opinione pubblica che chi vota scheda bianca difende le istituzioni, mentre chi sostiene un volto preciso, con un nome e un cognome, gioca allo sfascio... E in ogni caso, qual è la strategia degli astenuti? Allo stato delle cose è buio assoluto. Bersani ha provato fino all'ultimo a sedurre i grillini, li ha seguiti persino nell'ipotesi di appoggiare l'arresto di Berlusconi; ma non sembra che abbia ottenuto molto. Grillo è persino irridente nei suoi confronti. Ha tirato fuori tutte le riserve sull'euro, argomento ovviamente inaccettabile per il Pd. E come se non bastasse insiste nel tormentone del finanziamento pubblico da abolire: tema di immediata presa nell'Italia di oggi, tale però da provocare sussulti dolorosi del partito bersaniano (quando in realtà non sarebbe difficile affrontarlo con spirito innovativo e capacità comunicativa, magari sulla base della proposta di Pellegrino Capaldo). Si capisce dunque, per restare al Parlamento, che al momento la scheda bianca è un ponte verso il nulla. Nei confronti del Pdl i democratici hanno chiuso la porta e semmai sono gli emissari di Mario Monti a tenere in piedi una vaga prospettiva di mediazione. I centristi del premier manifestano in effetti in queste ore un'inedita attenzione verso la destra, ma c'è da dubitare che si spingeranno a votare con i berlusconiani un candidato alla presidenza del Senato. Quale, poi? L'unico candidato a cui Monti potrebbe pensare è se stesso, ma il repentino passaggio da Palazzo Chigi a Palazzo Madama, due cariche lievemente incompatibili, sarebbe un po' azzardato nella condizione attuale del paese. Non bisogna dimenticare, a questo proposito, che l'incertezza italiana comincia a pesare. È stata avvertita nel Consiglio europeo, se n'è fatto testimone il presidente dell'Europarlamento, Shulz, ed è affiorata sulle pagine del settimanale "Spiegel", dove Beppe Grillo è definito senz'altro «l'uomo più pericoloso d'Europa». Sembra di capire che il tempo comincia a scarseggiare, visto che le presidenze di Camera e Senato sono appena l'antipasto di una serie di passaggi oscuri, destinati a culminare con la battaglia per il Quirinale: il grande scontro nel quale il Pdl vuole a tutti i costi essere coinvolto, ma in cui tutti hanno interessi, ambizioni e personali strategie. Per adesso siamo al Parlamento in bianco. S'intende che due presidenti entro domani dovranno comunque essere eletti. E forse ha ragione Calderoli, esponente di quella Lega che sta cercando a sua volta un margine di movimento e di autonomia: la soluzione migliore sarebbe un esponente del Pdl alla Camera e uno del Pd (Anna Finocchiaro) al Senato. Razionale ma complicato. Mentre l'ipotesi che alla fine le due presidenze finiscano tutte e due al partito di Bersani è irrazionale, ma più probabile. ©RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2013-03-15/parlamento-bianco-084133.shtml?uuid=Ab9r3HeH Titolo: Stefano FOLLI. - Pd e Pdl, interesse convergente al voto anticipato Inserito da: Admin - Marzo 17, 2013, 11:26:01 pm Pd e Pdl, interesse convergente al voto anticipato
analisi di Stefano Folli 17 marzo 2013 La replica di Grillo? Molto debole. Se è vero che Bersani ha ottenuto un buon risultato tattico con i due presidenti delle Camere scelti al di fuori del partito, è anche vero che il giorno dopo la replica dello sconfitto, Beppe Grillo, è molto debole. Nel momento in cui tutto l'impianto retorico dei Cinque Stelle si disarticola e il leader tuona contro i dissidenti che hanno appoggiato Grasso, senza rendersi conto che così attacca una buona fetta dei suoi stessi elettori, ebbene in quel preciso momento l'argomento di Grillo è che Bersani ha fatto un'operazione di "maquillage", la stessa che lo ha portato a scegliere Doria a Genova e Ambrosoli in Lombardia. Li chiama con sprezzo "foglie di fico". E con questo? Certo che è così: è un ammiccamento all'anti-politica fatto da un segretario di partito. Alquanto spregiudicato. Ma è esattamente a questa strategia che i Cinque Stelle non sanno cosa replicare, se non frantumandosi come a Palazzo Madama. Figure extra partito e l'auto-appannamento della politica Grillo amerebbe che gli avversari stessero fermi, prigionieri dello schemino in cui l'ex comico li ha ingabbiati (il Pd come "pdmenoelle", sempre proteso ad accordi inconfessabili con i berlusconiani). Ma la realtà è sempre più complicata. Bersani ha scelto i presidenti delle Camere esattamente nella stessa logica individuata da Grillo: figure extra-partito, mediatiche, provenienti idealmente da "Ballarò" o da "Servizio Pubblico". Chi guarda allo sviluppo di una politica riformatrice, legata a una visione coerente delle istituzioni, ha diritto di essere molto perplesso di fronte a questo voluto auto-appannamento della politica, a questa evidente rinuncia ad esprimere un'identità. Tuttavia, l'operazione si sta rivelando la più adatta a mettere nell'angolo Grillo. Il quale non dovrebbe reagire prendendosela con i suoi senatori, o magari con i suoi elettori, bensì interrogarsi sui limiti di una protesta anti-sistema che non riesce a reggere 24 ore alla prova dei fatti e delle sfide parlamentari. E che nello stesso lasso di tempo ha seppellito la propria retorica: tutti uguali, "uno vale uno", trasparenza via web, eccetera. Il rebus del Quirinale Su due punti il leader del M5S mostra di essere lucido. Primo, nell'aver individuato che l'elezione del prossimo presidente della Repubblica è la madre di tutte le battaglie, lo snodo intorno a cui passano le scelte decisive del prossimo futuro. Secondo, nella previsione che questa legislatura sarà breve. Ma questa lucidità non lo porta a conclusioni convincenti. Nell'estremo tentativo di riesumare la "teoria dell'inciucio" - che è la più confortante per lui, quella che gli garantirebbe una straordinaria rendita di posizione politica ed elettorale - egli elabora intorno all'ipotesi di D'Alema al Quirinale, eletto dal solito patto fra Berlusconi e il "Pdmenoelle". Paventa (ma sotto sotto si augura) "sette anni di compromessi" stipulati dai suoi avversari. In realtà, proprio la vicenda di Camera e Senato dimostra che Bersani si sta muovendo lungo un altro piano. Magari non riuscirà, ma è chiaro che il candidato ideale dei bersaniani per il Colle non è D'Alema, quanto un "mister X" che rispecchia piuttosto le caratteristiche dell'"uomo nuovo" Pietro Grasso o un altro personaggio con caratteri simili. Bersani vuole al Quirinale una persona su cui contare, ma sa di sicuro che non può essere un'espressione diretta del vecchio Pd, allo stesso modo per cui non ha voluto Anna Finocchiaro a Palazzo Madama o Franceschini a Montecitorio. Per Grillo questa non è una buona notizia. È pessima, perché vuol dire che in via del Nazareno qualcuno continua a lavorare per ridurre lo spazio dei Cinque Stelle, non certo per allargarlo. Ritorno al voto molto probabile Viceversa, è giusto dire che le probabilità di un rapido ritorno al voto sono molto alte. Ed è qui il vero fattore di convergenza (non chiamiamolo "inciucio") fra Pd e Pdl. È a questo che i "grillini" dovrebbero porre mente. Bersani è giocoforza proiettato verso le urne, quando risulterà chiaro che non c'è una maggioranza a supporto del governo suo o guidato da una figura da lui indicata. E il Pdl ha già fatto la stessa scelta, basta sentire ieri le parole di Berlusconi e oggi il commento di Alfano. Entrambi hanno capito che il Pd sta facendo il pieno dei consensi a sinistra e sta rinsaldando il rapporto con settori importanti della magistratura. Il fatto che la presidente della Camera Laura Boldrini sia «di estrema sinistra», come dice Alfano, è la prova di un percorso in atto. Quelle posizioni non saranno utili per governare l'Italia di oggi, o per rispettare i vincoli europei, ma possono essere utilissime per tentare di vincere le elezioni: recuperando parte del voto andato disperso con la lista Ingroia e risucchiando un po' dei consensi "in libera uscita" dalle parti di Grillo. Se la legislatura sarà breve, lo sarà perché c'è un interesse comune di Pd e Pdl a renderla così corta. Il richiamo di Napolitano In tutto questo il capo dello Stato lancia un estremo appello alle forze politiche (tutte, dal Pd al Pdl alle nuove formazioni) perché abbiano il coraggio di affrontare la riforma delle istituzioni. Alla vigilia delle consultazioni, è come se Napolitano dicesse: fermiamoci, non corriamo verso nuove elezioni (con il Parlamento che dovrebbe essere sciolto dal nuovo presidente), proviamo a dare all'Italia un governo di alto profilo, fondato su un patto istituzionale. Quante probabilità ci sono che un simile appello sarà accolto? Purtroppo poche, se non c'è la volontà di marciare in questa direzione. E non sembra proprio che ci sia. Bersani, per non lasciare dubbi, dice che «il compito di Napolitano è difficilissimo». Né lui né Berlusconi stanno facendo molto per facilitarlo. E intanto l'Italia resta senza governo, con immensi problemi concreti che nessuno sta affrontando. In Europa cresce il timore per la vittoria finale delle "forze euroscettiche", il che avrebbe conseguenze a cascata negli altri paesi dell'Unione. Ma questa drammatica preoccupazione, la stessa che spinge Napolitano a intervenire con tono accorato, non sembra interessare i partiti. Obiettivo "governo efficiente" ancora lontano L'operazione Camera-Senato è stata brillante dal punto di vista della tattica parlamentare, ma non ha avvicinato di un passo la formazione di un governo efficiente, di taglio europeo. Al contrario, il Pd si prepara realmente a giocare le sue carte in una chiave molto di sinistra. Quanto a Grillo, cercherà di uscire dalle difficoltà accentuando il tasso di populismo. E i berlusconiani, guidati o no dal loro leader storico, tenderanno anch'essi a radicalizzarsi perché non sanno far politica altrimenti. Quanto a Monti, che doveva rappresentare in Italia lo spirito del Partito Popolare europeo, può solo riflettere sugli errori commessi, che almeno in questa fase lo hanno emarginato. Resta Matteo Renzi, l'uomo nuovo, la promessa della politica. Non è uscito bene nemmeno lui dalle ultime vicende. Costretto ad applaudire la Boldrini, ottima persona ma di sicuro assai distante da quelle idee liberaldemocratiche e moderate a cui s'ispira il sindaco di Firenze. Forse il rinnovamento del Pd è in atto, ma lungo un sentiero assai diverso da quello a cui alludeva Renzi. Bersani sembra aver preso gli argomenti dei renziani, ma per girarli tutti a suo vantaggio. E anche questo deve suggerire quale considerazione, non solo al giovane sindaco. ©RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2013-03-17/interesse-convergente-voto-anticipato-155908.shtml?uuid=Ab8cuyeH&p=2 Titolo: Stefano FOLLI. - Crescono i dubbi di Bersani sull'incarico ma il Quirinale ... Inserito da: Admin - Marzo 21, 2013, 04:34:31 pm Crescono i dubbi di Bersani sull'incarico ma il Quirinale chiede chiarezza
di Stefano Folli 21 marzo 2013 Lo scenario è in evoluzione. Fino a tre giorni fa Bersani era determinato a procedere lungo la via del «governo del cambiamento»: in modo più che legittimo, vedeva se stesso come il leader del partito di maggioranza relativa, quindi il più titolato a raccogliere intorno alla sua proposta un sufficiente consenso parlamentare. È la tesi che ancora ieri Nichi Vendola rilanciava. La realtà però si sta rivelando assai più complessa. E per motivi non sempre lineari. Diciamo che Bersani ha in mano delle carte troppo deboli per organizzare al Senato una qualsiasi maggioranza intorno a sé: inconsistente il filo con la Lega, illusoria la sponda dei "grillini" dissidenti. Al tempo stesso, dal Pdl a Monti si allarga il fronte che sarebbe favorevole, almeno sulla carta, a un esecutivo delle «larghe intese». Berlusconi lo chiama «governissimo», ma potrebbe trattarsi di un'ipotesi più blanda: magari solo il primo passo verso quell'esecutivo cosiddetto istituzionale che i giornali chiamano anche governo «del presidente». Di fronte a questo groviglio in apparenza inestricabile, Bersani ha messo parecchia acqua nel suo vino. Non dice più «o il mio governo o niente». Affiora invece una tentazione a guadagnare tempo. Detto con una frase cortese e un po' ambigua, ad «affidarsi al capo dello Stato». Traducendo, significa che se Napolitano fra un paio di giorni decidesse di affidare un mandato esplorativo a una personalità istituzionale (e ovviamente il pensiero corre al presidente del Senato Grasso, l'uomo che sta bruciando tutte le tappe della carriera interna al palazzo), Bersani potrebbe trarre un sospiro di sollievo. Naturalmente il segretario del Pd negherà di essersi sottratto al mandato che in precedenza aveva rivendicato con foga. Dirà che si tratta di una scelta del presidente della Repubblica, come accadde con Franco Marini nel 2008. Tuttavia a questo punto la questione è duplice. Primo, nel colloquio che avrà oggi con Bersani, il capo dello Stato avrà tutto il diritto di esigere chiarezza sulle intenzioni politiche del leader di maggioranza. Secondo, ci si deve domandare se perdere tempo servirebbe a qualcosa. Oggi proprio i due presidenti delle Camere hanno detto che è «urgente dare un governo al paese». Questa è la priorità e i due neoeletti riflettevano alla perfezione il pensiero di Napolitano. Ne deriva che, se Bersani non si ritiene in grado di assumere l'incarico, il percorso immaginato dal Quirinale potrebbe volgersi subito verso l'ipotesi di un governo istituzionale. Affidato a una figura neutra, forse in grado di formare un esecutivo – garantito dal capo dello Stato – fondato su pochi, essenziali punti programmatici (il governo «di scopo»). È questo che il Pd è disposto ad accettare? Al momento non si direbbe, almeno non al prezzo di una sconfitta politica. Ed è qui che la matassa s'ingarbuglia. Nel partito di Bersani c'è una pericolosa, benché minoritaria, tendenza a scaricare sul Quirinale la tensione indotta da un rebus irrisolvibile, che forse era stato sottovalutato. Si ritiene che il problema sia Napolitano e non il sostanziale isolamento del partito. Si vuol credere che la soluzione sia quella di affrettare i tempi della successione presidenziale (ma non si può, salvo dimissioni dell'interessato). E si disegna l'identikit del prossimo presidente, nella segreta speranza che sia più conciliante dell'attuale. Soprattutto meno propenso a immaginare esecutivi istituzionali o di «larghe intese». Se questa è la strada, il Pd rischia di trovarsi chiuso in un vicolo cieco. Sarà difficile dire «no» a un governo del presidente che nasca prima della metà di aprile. O dare l'impressione di boicottarlo quando l'Italia ha bisogno di scelte chiare. Ma sarà ancora più spiacevole far uscire allo scoperto la frizione con il presidente uscente. © RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2013-03-21/governo-dubbi-bersani-063624.shtml Titolo: Stefano FOLLI. - Alla ricerca della coesione nazionale Inserito da: Admin - Marzo 24, 2013, 05:14:00 pm Alla ricerca della coesione nazionale
di Stefano Folli 23 marzo 2013 Un passaggio politico fra i più oscuri ha trovato ieri sera un Napolitano che ne ha illuminato gli angoli con un puntiglio di cui ci sono pochi precedenti nelle cronache quirinalesche. Dopo giorni abbastanza confusi, tutti hanno potuto capire con dovizia di dettagli quali sono i limiti e il profilo dell'incarico (o meglio pre-incarico) affidato al segretario del Pd in quanto leader della coalizione di maggioranza relativa. Un leader che arriva provato, ma non rassegnato, alla meta. Forse perché i numeri elettorali sono deludenti: abbastanza buoni per rivendicare il diritto di provare, non sufficienti però a garantirgli il successo. I governi nascono con il voto di fiducia in Parlamento, ha spiegato con fare pedagogico il presidente della Repubblica. E per la verità Bersani oggi non sembra avere molte frecce al suo arco. La maggioranza certa richiesta dal Quirinale è piuttosto una chimera. Ne è consapevole, il segretario del Pd? Non è facile dirlo. In ogni caso si è conquistato l'autorizzazione a guardare le carte e tirare le somme. Certo, il proposito di cominciare le consultazioni con le parti sociali è un segnale ambivalente. Nel senso che da sindacati e imprenditori il presidente pre-incaricato apprenderà quello che senza dubbio già conosce: e cioè che la situazione economica del paese è drammatica. E che all'Italia serve un governo in grado di attuare misure straordinarie per il lavoro e le imprese. Il problema è che per dare forma a questo governo bisogna sciogliere senza perdere tempo nodi politici in apparenza irrisolvibili. Se ha un'idea in proposito, Bersani dovrà presto metterla sul tavolo: perché il tempo a sua disposizione non è illimitato, come Napolitano gli ha fatto intendere senza mezzi termini. Diciamo che entro la metà della prossima settimana, e comunque prima di Pasqua, il pre-incaricato dovrà tornare al Quirinale con una risposta in tasca. E dunque quello che davvero interessa, a partire da oggi o domani, saranno i contatti e i colloqui con i vari soggetti politici. Specie quelli di confine, da cui in teoria potrebbe venire qualche consenso (la Lega, i gruppi minori, tutti coloro che sentono il richiamo alla «responsabilità»). Ma si corre sul filo dello scetticismo. È come se Bersani avesse cominciato una gara il cui risultato è già scritto sul tabellone. Può ribaltare la realtà avversa, ma gli occorre una novità, una moneta di scambio. Uno soffio di vento per uscire dalle secche e veleggiare in mare aperto. Per essere chiari, la condizione del pre-incaricato si può riassumere così. Il suo interlocutore privilegiato, il movimento Cinque Stelle, non sembra avere alcuna intenzione di dargli una mano. Grillo si considera un avversario storico di Bersani e i suoi seguaci insistono nel porre la questione dei rimborsi elettorali come premessa di qualsiasi negoziato (peraltro da trasmettere in diretta "streaming"). Poi c'è Monti, il cui appoggio è nell'ordine delle cose prevedibili. E infine ci sono Berlusconi e il Pdl. Il presidente della Repubblica ha lasciato capire in una forma esplicita che la grande coalizione sarebbe la soluzione più idonea per affrontare l'emergenza e anche per mettere in cantiere le riforme istituzionali urgenti (costi della politica, snellimento operativo, tagli, nuova legge elettorale). Ma poiché tale soluzione non è a portata di mano, occorre agire come se ci si trovasse nonostante tutto in quella condizione e con analogo spirito. All'interno di una cornice di coesione nazionale che vuol dire condivisione dei provvedimenti riformatori e grande equilibrio complessivo. Su questo terreno Bersani sembra voler procedere con cautela, ma senza troppe esitazioni. Il suo problema è non precipitare nella trappola berlusconiana (il «governissimo») che il Partito Democratico non accetterebbe: e invece fermarsi in una stazione intermedia, immaginabile come una ragnatela di misure condivise alle quali corrisponderebbe un minimo di appoggio parlamentare da parte del centrodestra, magari grazie ai leghisti di Maroni. Per Bersani questo scenario idilliaco rappresenta l'unica speranza. Anzi, data la situazione sarebbe un successo eccezionale: la differenza fra il fallimento dell'incarico e la nascita del governo Bersani. Niente larghe intese dichiarate, ma una tortuosa piattaforma a metà del guado. Qualcosa che ricorda la «strana maggioranza» che ha sostenuto Monti per più di un anno. In questa ipotesi Bersani riuscirebbe a tenere unito il partito; e financo a riceverne l'applauso. Viceversa un insuccesso al termine del pre-incarico darebbe la stura a tutto il malcontento che nel Pd oggi cova sotto la cenere. In ogni caso è chiaro che Napolitano andrà avanti, ben deciso a giocare la partita istituzionale fino all'ultimo giorno utile. Se Bersani uscirà di scena, rinunciando saggiamente ad alimentare qualsiasi tensione con il Quirinale, il tema delle larghe intese rimarrà sul tavolo. Declinato però nella forma più neutra del «governo del presidente». Pochi punti programmatici chiari e una missione: evitare il rapido ritorno alle elezioni. da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2013-03-23/alla-ricerca-coesione-nazionale-081034.shtml?uuid=Aba2JrgH Titolo: Stefano FOLLI. - Le ultime carte sul tavolo, prima del «governo del Presidente» Inserito da: Admin - Marzo 28, 2013, 06:37:46 pm Le ultime carte sul tavolo, prima del «governo del Presidente»
di Stefano Folli 28 marzo 2013 Ora che Bersani si appresta a salire al Quirinale, ci si interroga sulla "convenzione" per le riforme, vale a dire la forma concreta di quel doppio binario o doppio registro parlamentare in cui fin dall'inizio si è cercato di vedere una delle chiavi risolutive della crisi. È l'unica proposta emersa nel corso delle consultazioni, l'unica a cui agganciare un'ipotesi di accordo a largo spettro. Che potrebbe, chissà, anche comprendere il nome del successore di Napolitano. «Convenzione» è termine che allude a esperienze del passato, per la verità poco positive: la Bicamerale degli anni Novanta era a suo modo una "convenzione", ma sappiamo come è finita. Più volte si è parlato dell'opportunità di affiancare alla normale attività parlamentare un'assemblea costituente, incaricata di redigere in tempi stretti una bozza di riforma costituzionale. L'organismo suggerito da Bersani, aperto anche a «personalità esterne», è parente stretto delle bicamerali del passato: destinato a mettere a punto in un anno un progetto riformatore che il Parlamento voterebbe in base al principio "prendere o lasciare". Ignorando i precedenti poco incoraggianti, lo schema sembra oggi l'unica carta ragionevole per tentar di sbloccare la paralisi. Fermo restando che a ieri sera il presidente pre-incaricato non disponeva di numeri affidabili per andare alle Camere. In apparenza quindi il suo tentativo parrebbe non avere sbocchi. Tuttavia il filo sottile della "convenzione" costituisce uno spicchio di novità. Soprattutto perché Maroni vi si è riconosciuto con una certa decisione. E la Lega è pur sempre la principale speranza di Bersani, dopo il fallimento del lungo sforzo di seduzione dei Cinque Stelle. Maroni, che non vuole altri esecutivi tecnici, è un obiettivo alleato del segretario del Pd nella lotta contro il tempo per evitare il «governo del presidente», cioè lo scenario non politico ma istituzionale. Ma basta questo per trovare i fatidici numeri? O siamo in presenza di un andirivieni di corto respiro in cui manca la voce del principale giocatore, Berlusconi? Lo sapremo presto, anche perché la "convenzione" ha bisogno di precise condizioni per essere credibile. La prima: deve essere una strada per "legittimare" i vari gruppi parlamentari. L'assenso di Berlusconi è senza dubbio subordinato a questa prospettiva di legittimazione finale di se stesso. Senza un tale impegno non è verosimile che la convenzione possa lavorare in serenità e che le sue proposte siano recepite dalle Camere. Ma è plausibile oggi questo salto verso la «coesione nazionale» tante volte chiesta dal capo dello Stato? Non è chiaro. Certo, Bersani è disposto a offrire tutte le assicurazioni del mondo pur di essere mandato in Parlamento da Napolitano. Ma forse occorrerebbe un più solenne e trasversale consenso intorno alla convenzione. Una solennità che dovrebbe fornire la cifra dell'operazione ed esprimere un primo gesto di riconciliazione. Per ora siamo lontani. In secondo luogo, l'intesa dovrebbe portare con sé una stretta di mano fra le maggiori forze sul nome del presidente della Repubblica. Non è verosimile che da un lato si crei una mini-assemblea costituente e dall'altra ci si dilani sull'elezione del capo dello Stato. Ed è ovvio che l'accordo dovrebbe riguardare una figura con le stesse qualità di equilibrio e di sensibilità mostrate negli anni da Napolitano. Una figura da eleggere alla prima votazione. Anche qui finora molte parole e pochi fatti. Terzo, una dichiarazione esplicita dovrebbe venire anche da quei gruppi (Lega o altri) che vogliono orientarsi all'astensione o all'appoggio esterno per consentire la nascita del governo Bersani. La soluzione è ardita e comunque debole, non può passare come un sotterfugio opaco. Non sarebbe il modo migliore per garantire la compattezza del Pd. Clicca per Condividere ©RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2013-03-28/ultime-carte-tavolo-prima-073218.shtml?uuid=AbMPQHiH Titolo: Stefano FOLLI. - Elezioni più lontane, una cornice per il successore Inserito da: Admin - Marzo 30, 2013, 11:27:24 pm Elezioni più lontane, una cornice per il successore
di Stefano Folli 30 marzo 2013 Non è la fuoriuscita dallo stallo, bensì un colpo di fantasia all'interno di una condizione di stallo. Un modo per giocare al meglio le poche carte rimaste in mano nel tentativo di non arrendersi a una paralisi distruttiva. Il comunicato letto dal presidente della Repubblica sembra avere due destinatari, all'estero e in patria. All'estero il messaggio di Napolitano vuole essere rassicurante, in vista della riapertura dei mercati martedì. In primo luogo, non ci sono le dimissioni del presidente della Repubblica, ventilate stamane da tutti gli organi di stampa come conseguenza del vicolo cieco. Ma un tale gesto avrebbe avuto l'effetto di gettare benzina sul fuoco, trasmettendo l'idea di un paese allo sbando. Napolitano lo ha evitato e ha messo in chiaro che resterà al suo posto "fino all'ultimo giorno del mandato". E' quello che tutti gli operatori economici si auguravano. In secondo luogo, il capo dello Stato ha voluto rammentare che un governo in carica esiste ed è quello di Monti. Ha sorvolato sul fatto che tale esecutivo, a norma di Costituzione, si occupa solo dell'ordinaria amministrazione e ha invece sottolineato che si appresta a prendere importanti provvedimenti economici. C'è l'evidente volontà di valorizzare l'esperienza e la credibilità internazionale di Monti per far sapere al mondo che l'Italia non è esattamente senza governo. Uno c'è ed è in grado di operare. È un'interpretazione innovativa della prassi, ma siamo in emergenza e Napolitano non si tira indietro. Verso l'interno il messaggio è più complesso. Da un lato, si coglie un notevole rispetto verso il Movimento Cinque Stelle, nel momento in cui il presidente ha riconosciuto di fatto che il Parlamento entro certi limiti può operare da subito, anche prima che siano definiti i ruoli di maggioranza e di opposizione, con tutte le conseguenze istituzionali che ne derivano. Ma il nocciolo della questione è un altro. I due comitati di "saggi" servono a creare una cornice condivisa sui temi programmatici. In sostanza è come se Napolitano dicesse: non avete voluto un governo di coesione nazionale, nemmeno nella versione "soft" del cosiddetto governo del presidente, E sta bene. Ma io non posso rinunciare a consegnare al Parlamento e anche al mio successore un equilibrio politico-istituzionale. Che è fatto di cose essenziali. Primo, due grandi partiti, Pdl e Pd, che si parlano fra loro e, pur non condividendo l'esecutivo (ma votando insieme le misure del superstite esecutivo Monti), tuttavia cercano e trovano punti di convergenza programmatica Secondo, una scaletta di interventi riformatori plausibili e condivisi, in ordine al rinnovamento istituzionale e al risanamento economico (compreso il punto cruciale della legge elettorale). Terzo, un'indicazione precisa su quali sono gli uomini e le donne in grado di rappresentare al meglio questo equilibrio. E infatti nei due gruppi di saggi si può presumere di trovare l'identikit del prossimo primo ministro e soprattutto del prossimo presidente della Repubblica. Se la cornice tiene e se nessuno dei maggiori partiti la spezza, è chiaro che il doppio comitato diventa il substrato su cui ricostruire l'assetto istituzionale del paese. Non un governo di larghe intese, ma un nuovo clima politico. Nel frattempo le elezioni anticipate sono rinviate in avanti, forse di parecchio. Sarebbero state probabili, e in un'atmosfera stile Weimar, se si fosse creato oggi un totale vuoto di potere. In tal modo, invece, il successore di Napolitano potrà ripartire dal lavoro dei saggi (lui stesso con ogni probabilità sarà uno di questi) e in ogni caso non ci saranno più i tempi per votare a giugno. Questo è il punto politico più stringente della mossa del capo dello Stato. Ma il più rilevante è proprio la volontà di creare un'architettura solida, partendo dai poveri materiali a disposizione, in grado di mettere sulla strada giusta il Parlamento e di non disperdere il patrimonio di equilibrio costituito in questi anni dall'istituto di garanzia del Quirinale. All'ombra di tale scenario, i partiti potranno riflettere sui loro errori. Tutti, a partire dal Partito Democratico. ©RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2013-03-30/elezioni-lontane-cornice-successore-152126.shtml Titolo: Stefano FOLLI. - Nuovo governo: lo stallo conviene a tutti, anche a Grillo Inserito da: Admin - Aprile 01, 2013, 06:12:19 pm Sei in: Il Fatto Quotidiano > Blog di Stefano Feltri >
Nuovo governo: lo stallo conviene a tutti, anche a Grillo di Stefano Feltri | 30 marzo 2013 Sorpresa: il nuovo governo non ci sarà. E quello di Mario Monti, ormai un esecutivo-zombie, un po’ morto ma non del tutto, durerà almeno fino a maggio. Ma più probabilmente fino a luglio, o addirittura a ottobre, chissà. Il 15 aprile si comincia a scegliere il nuovo capo dello Stato. Che dovrebbe insediarsi dal 15 maggio. A quel punto il mister (o Mrs) X che sarà al Quirinale, riceverà Monti. Il premier rimetterà il mandato – di nuovo – e il capo dello Stato dovrà decidere che fare. Potrà nominare un “governo del Presidente” che abbia come programma quello minimo elaborato – si spera – dai saggi che Giorgio Napolitano ha indicato oggi. Oppure dovrà rassegnarsi a sciogliere le Camere. E i tecnici di Monti rimarranno nel frattempo ancora in carica per gli affari correnti, attraversando così tre legislature. Sembra un disastro? In realtà questo scenario va bene a tutti. Vediamo perché. Silvio Berlusconi. Si presenta come uomo di Stato, è lui il vero “responsabile” che è pronto a far nascere ogni governo, era disposto a votare perfino Bersani. Nel caos attuale, può presentarsi come l’usato sicuro, deludente, certo, ma sempre meglio dei pasticcioni apparsi in seguito alla sua dipartita (tanto gli italiani hanno memoria breve, non si ricordano già più il Bunga Bunga e il default imminente). In questa fase di negoziato permanente, il Cavaliere sa di essere un interlocutore per tutti, uno dei pochi punti fermi. E quindi, spera, le Procure non oseranno chiedere il suo arresto, i giudici saranno più miti, il Pd abbandonerà ogni intransigenza e archivierà sia il proposito di renderlo ineleggibile che quello di fare una vera legge sul conflitto di interessi. Beppe Grillo. La sua è stata una profezia che si è auto-avverata: alla fine ci sarà la grande coalizione, o almeno questo è il tentativo, tra Pd e Pdl. Non per colpa della malasorte o per un disegno preciso del Pd, quanto per esclusiva responsabilità di Grillo. Il leader del Movimento a 5 stelle ha boicottato sia l’ipotesi di un accordo politico con i democratici perché, legittimamente, non poteva accordarsi con un avversario politico diretto come Pier Luigi Bersani. Ma ha affossato anche l’ipotesi del “governo dei migliori”, quello che sarebbe stato guidato da un Rodotà o Zagrebelsky e che avrebbe realizzato una buona parte del programma a Cinque Stelle. Ora Grillo è nella condizione che sperava: opposizione pura, anti-sistema, contro tutti, senza sfumature. Da lì spera di aumentare ancora i consensi, sempre che le gaffe e l’inadeguatezza manifestata finora dai suoi parlamentari, a cominciare dai capigruppo, non portino a una rapida disillusione degli elettori. Adesso il Movimento è sicuro che praticamente tutto il suo programma rimarrà su carta e che non si verificheranno più situazioni tipo quella che ha spinto alcuni deputati grillini a votare Pietro Grasso alla presidenza della Camera. Una vittoria tattica, al prezzo di una sconfitta strategica. Mario Monti. Il premier in carica non ha più niente da perdere. Non si ricandiderà mai, il suo partito è nato morto, dopo un risultato elettorale pessimo. Al momento è fuori dalla corsa per il Quirinale. Quindi a lui va benissimo rimanere in carica e gestire il complesso avvio del “semestre europeo”, cioè definire di raccordo con Bruxelles il bilancio dell’Italia per il 2014. Rimane in carica, ri-legittimato dal Quirinale dopo che il ministro degli Esteri Giulio Terzi, probabilmente per ambizioni personali, si è dimesso per il caso marò creando un danno di immagine notevole. Il Professore è anche ministro degli Esteri ad interim, cosa che gli assicura il massimo della visibilità internazionale in questa fase. Può recuperare il suo ruolo di garante della politica italiana davanti a mercati e partner internazionali. Potrebbe guadagnarsi una riconferma nel prossimo governo, magari guidare lui un eventuale esecutivo del presidente (scelto dal prossimo capo dello Stato) o avere la presidenza del Consiglio europeo nel 2014. Pier Luigi Bersani. Politicamente è morto. Ma poteva andare perfino peggio. Se Napolitano avesse provato subito con un governo del presidente, magari con un nome interessante, il Pd avrebbe potuto spaccarsi. Una parte a sostegno del governo, un’altra col segretario. Adesso Bersani guadagna tempo: può cercare di gestire la successione alla segreteria del Pd, tutelando il suo gruppo dirigente di fedelissimi (da sempre una priorità per Bersani). Ha anche la possibilità di accompagnare Renzi alla candidatura a premier o alla segreteria, evitando lacerazioni nel partito. Cosa che aiuterà il Pd a restare compatto ma ridurrà di molto l’appeal del rottamatore. Formalmente è ancora il premier incaricato, ma le probabilità che al termine del lavoro dei saggi e dopo il voto al Colle riesca davvero a diventare presidente del Consiglio sono molto vicine allo zero. Matteo Renzi. Il sindaco di Firenze temeva di bruciarsi in questa fase di transizione. Si è solo un po’ strinato, il suo nome è circolato troppo. Comunque sia, ora è considerato il salvatore (del Pd, del Paese, della democrazia…). E non solo dagli elettori del Pd. Potrebbe vincere per acclamazione, anche oltre i suoi meriti. Il protrarsi del vuoto di potere è la condizione ideale per rafforzare la presa sul partito e chiarirsi le idee sulla strategia da seguire per arrivare a palazzo Chigi senza ripetere gli stessi errori di Grillo (squadra non all’altezza, difficoltà di comunicazione, programma vago ecc.). da - http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/03/30/nuovo-governo-stallo-conviene-a-tutti-anche-a-grillo/547519/ Titolo: Stefano FOLLI. - Un quadro per il governo del presidente (futuro) Inserito da: Admin - Aprile 01, 2013, 06:29:08 pm Un quadro per il governo del presidente (futuro)
di Stefano Folli 31 marzo 2013 Anche chi guarda con qualche scetticismo all'idea dei due gruppi di studio sulle riforme - soprattutto per i risultati pratici che ne possono derivare - ammette che Giorgio Napolitano ha dato prova una volta di più di fantasia politica. Lo stallo in cui siamo immersi rimane tale, ma lo sforzo del Quirinale è un messaggio di ottimismo da parte di chi non si arrende alla paralisi. Un messaggio che vale soprattutto per quello che sottintende. Del resto, non dimentichiamo che la giornata era cominciata in un'atmosfera cupa. La sola ipotesi che il presidente pensasse a dimettersi (fa poca differenza se per scoramento o desiderio di esercitare pressione sulle forze politiche) aveva messo in agitazione il mondo dell'economia, agghiacciato al pensiero di cosa sarebbe successo martedì alla riapertura dei mercati. Quando si è capito, dalle battute iniziali del comunicato letto in prima persona dal capo dello Stato, che il rischio era svanito, tutti hanno tratto un sospiro di sollievo. E quando Napolitano ha richiamato in vita il governo Monti (in fondo «mai sfiduciato dalle Camere») si è capito che stava mandando un segnale positivo all'Europa, sempre con l'intenzione di rabbonire a breve le Borse. Certo, non è una prova di forza del nostro sistema: nessuno poteva e può crederlo. Ma all'interno di una grave debolezza, cioè di uno stallo, Napolitano ha giocato fino in fondo le carte di cui disponeva. Non potendo formare un nuovo governo con un nuovo premier, causa il groviglio dei veti incrociati, ha evitato altri traumi e ha fatto ricorso alla fantasia istituzionale. A quel punto dal cilindro presidenziale sono usciti i «saggi». Tutti uomini e nessuna donna, probabilmente per una svista che ci voleva poco a evitare. Saggi la cui funzione va misurata in termini politici più che di merito. Nel senso che non è troppo difficile fare l'elenco delle riforme urgenti (a cominciare da quella elettorale), mentre è pressoché impossibile individuare la cornice politica per trasformare quelle riforme in leggi. Difficile credere che, avendo fallito la ricerca di una maggioranza - politica o istituzionale -, i partiti accetterebbero di buon grado il lavoro dei saggi. Tuttavia i due comitati potrebbero giocarsi la loro partita sui tempi medi: nel giro di qualche mese potrebbero favorire un certo qual disgelo fra destra e sinistra. Per cui ciò che è stato impossibile all'ultimo Napolitano (restituire un governo al paese fondato su un progetto condiviso), potrebbe riuscire al suo successore. È chiaro allora che l'idea del doppio comitato va decifrata sullo sfondo della battaglia per il Quirinale. In questi anni Napolitano ha svolto quel ruolo di equilibrio e di garanzia che gli viene largamente riconosciuto. Oggi il suo ultimo impegno consiste, come è evidente, nel salvare le condizioni affinché il prossimo inquilino del Colle possa muoversi in una linea di sostanziale continuità con il settennato che ora si conclude. Il piano dei due gruppi di studio, quasi una mini-bicamerale costruita in tutta fretta sotto l'ombrello presidenziale, prevede, sì, un lavoro che sarà consegnato al Parlamento e al prossimo capo dello Stato. Ma è soprattutto il tentativo di puntellare un quadro politico-costituzionale fondato sulla speranza di un confronto rispettoso fra centrosinistra e centrodestra. È in quel quadro che sarà più facile (non scontato, ma più facile) individuare il volto del successore di Napolitano. E magari eleggerlo con una maggioranza più larga di quella da cui scaturì l'attuale presidente della Repubblica. Era prevedibile che saremmo arrivati a questo: a mettere la scelta del capo dello Stato avanti a tutto, vero nodo politico preliminare a tutto. Il gioco è ancora in una fase tattica, eppure mai come stavolta l'elezione del presidente avrà effetti che si prolungheranno nel tempo e daranno l'impronta ai rapporti politici. ©RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2013-03-31/quadro-governo-presidente-futuro-115131.shtml?uuid=Ablo8AjH Titolo: Stefano FOLLI. - Dietro le inutili polemiche sui «saggi» si prepara la battaglia Inserito da: Admin - Aprile 04, 2013, 11:47:48 pm Dietro le inutili polemiche sui «saggi» si prepara la battaglia del Quirinale
di Stefano Folli 2 aprile 2013 Per quanto possa sembrare paradossale, la polemica sui cosiddetti "saggi" prosegue ed è ormai diventata la metafora del cortocircuito permanente in cui si avvita l'Italia politica. Peraltro la crisi, come è ovvio, stinge sulle istituzioni, amareggia le ultime settimane di Napolitano e rischia di rendere ancora più complicata per il Parlamento la scelta del successore. Sui "saggi" (in realtà figure con specifiche competenze, come è stato chiarito dal Quirinale) si sono scaricate tensioni che hanno cause politiche precise. Esse nascono dallo stallo in cui ci troviamo, visto che al presidente non è stato permesso di superare la giostra dei veti provenienti da Pdl e Pd (e a suo modo, naturalmente, anche dal movimento di Grillo). I dieci saggi sono solo un modo, non sappiamo quanto efficace, per guardare al domani. O meglio, come si detto, per creare un ponte offerto al prossimo presidente e fondato su punti di programma condivisi. Ma naturalmente questo non basta alla vigilia della seduta comune del Parlamento che dovrà eleggere il nuovo capo dello Stato. Non basta perché ad alcuni, a Berlusconi in primo luogo, sembra un'iniziativa al tempo stesso insufficiente e pericolosa. Insufficiente perché il leader del Pdl è ancorato alla sua alternativa secca "o grande coalizione o voto anticipato". E proprio in omaggio a tale aut-aut ha fatto saltare l'ipotesi più realistica che si era affacciata nei giorni scorsi: quel "governo del presidente" che non era un altro esecutivo "tecnico", bensì una soluzione a forte caratura istituzionale che avrebbe permesso un'alleanza morbida, priva di un vero e proprio patto politico, fra centrosinistra e centrodestra. Il Pd alla fine si era piegato, una volta smaltita la delusione per il fallito tentativo di Bersani. Invece Berlusconi si è impuntato, senza dubbio perché la tentazione di un ritorno alle urne è in lui sempre più forte. Nonostante che i sondaggi, a dire il vero, non gli garantiscano affatto la ragionevole certezza di un successo in entrambe le Camere. Insomma, è alta la probabilità che ci si trovi poi nella stessa ingovernabilità di oggi. Uno scenario che comincia ad assomigliare in forme inquietanti a quello che accadde nella repubblica tedesca di Weimar. Quando si votava e si rivotava, e intanto si sprofondava nella palude dell'impotenza. In ogni caso a Berlusconi e Alfano la mossa di Napolitano appare anche pericolosa, perché vi leggono un tentativo di guadagnare tempo, di allontanare le elezioni e magari di staccare la Lega dal partito berlusconiano. Quella Lega di cui è espressione Giorgetti, citato dal capo dello Stato come ispiratore - in parte - del doppio comitato di studio. Del resto, è facile immaginare che i leghisti di Maroni non siano affatto entusiasti dell'idea di precipitarsi di nuovo alle urne, in un eterno duello stile Ok Corral. Alfano afferma che «la casa brucia» e quindi Napolitano dovrebbe riprendere le consultazioni. Tuttavia egli stesso, insieme alla controparte, ha dato il suo contributo affinché la crisi non trovasse alcuna soluzione. Oggi è facile prendersela con i saggi, ma il vero nodo è la sfida per la presidenza della Repubblica. Le attuali sono solo scaramucce in vista della battaglia che comincerà subito dopo il 15 aprile. E il rischio è che il Parlamento non riesca a scegliere. O a scegliere bene. Il ruolo di equilibrio del Quirinale nel cortocircuito italiano è troppo prezioso per comprometterlo con miopia politica. ©RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2013-04-02/dietro-inutili-polemiche-saggi-071621.shtml?uuid=AbHF6WjH Titolo: Stefano FOLLI. - Le impazienze di Renzi, i nodi di Grillo all'ombra della ... Inserito da: Admin - Aprile 04, 2013, 11:54:11 pm Le impazienze di Renzi, i nodi di Grillo all'ombra della sfida per il Quirinale
il Punto di Stefano Folli 4 aprile 2013Commenta Come è ovvio, la semi-paralisi dei due partiti maggiori offre il palcoscenico ad altri protagonisti. Non c'è dubbio che lo stallo determini una condizione favorevole a chi vuole usare il grimaldello (o l'apriscatole). Benché poi nella realtà ognuno di questi nuovi protagonisti deve a sua volta decidere quale parte recitare nella commedia. Nemmeno Grillo sfugge alla regola. È evidente che la sua perorazione contro qualsiasi accordo di governo con il Pd di Bersani è lo specchio di una crescente difficoltà interna. Se il leader ha bisogno di alzare i toni e di minacciare in modo implicito i dissidenti pro-Pd, vuol dire che le incertezze fra i Cinque Stelle sono sempre più diffuse. La questione non si pone oggi, ma si porrà di sicuro all'indomani dell'elezione del nuovo capo dello Stato, quando si dovrà affrontare il destino della legislatura. È chiaro infatti che Grillo non sta parlando del Quirinale. Il suo anatema riguarda il piano del governo. Il capo carismatico vuole evitare che una buona fetta dei suoi parlamentari, specie a Palazzo Madama, corrano domani in soccorso al leader del Pd che non ha dismesso il piano di presentarsi in Parlamento, appena le circostanze lo favoriranno, in cerca di un voto di fiducia. È a quell'appuntamento insidioso che guarda Grillo. Invece sul versante del Quirinale la partita è un'altra e i Cinque Stelle, se appena conservano un po' di razionalità, hanno tutto l'interesse a farsi coinvolgere nella scelta del presidente della Repubblica. Tanto più che essi hanno la possibilità di essere decisivi dalla quarta votazione in poi. Tuttavia è pur vero (e forse Grillo pensava anche a questo aspetto) che una cosa porta all'altra: far eleggere un capo dello Stato in "tandem" con Bersani crea le condizioni oggettive perché subito dopo si ponga il problema di votare insieme per il governo. Certo, si può dire «no» tenendo separate le due questioni, come vorrebbe il leader dei Cinque Stelle. Ma la questione in effetti si pone e non è di facile soluzione. Proprio perché tende ad approfondire tutte le divergenze dentro il movimento. L'altro protagonista che sta rialzando la testa è Matteo Renzi. La sua analisi sulla politica che «perde tempo» non è nuovissima, ma oggi sembra inedita perché ha il sapore di una risposta alle inquietudini che serpeggiano nel Pd dopo la mezza delusione elettorale e il mancato successo di Bersani pre-incaricato. Peraltro Renzi tradisce anche un'ansia personale: forse è lui che teme di perdere tempo, o addirittura di perdere il treno del cambiamento. Da tutti invocato come il salvatore del centrosinistra, nessuno sa in realtà come dovrebbe avvenire la sua scalata al vertice del partito. Bersani non pare avere molta voglia di agevolarlo e il percorso delle future "primarie" è disseminato di mille ostacoli. Come l'altra volta. Di sicuro anche il sindaco di Firenze terrà gli occhi aperti sulla sfida del Quirinale. È essenziale per lui capire con quale formula sarà eletto il capo dello Stato: perché da lì si capirà quante carte avrà ancora in mano Bersani. E non c'è da attendere molto, visto che il Parlamento voterà fra due settimane. Non a caso l'uscita della Carfagna, portavoce del Pdl alla Camera, a favore della candidatura di Emma Bonino ha tutta l'aria di un «ballon d'essai» con cui il centrodestra tenta di uscire dall'angolo. È un nome, quello dell'ex commissario europeo, su cui il Pd è costretto a riflettere con attenzione. ©RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2013-04-04/nodi-grillo-impazienze-renzi-074148.shtml?uuid=Ab4fw7jH Titolo: Stefano FOLLI. - Tra Bersani e Berlusconi un filo sottile Inserito da: Admin - Aprile 10, 2013, 06:46:09 pm Tra Bersani e Berlusconi un filo sottile
di Stefano Folli con un articolo di Emilia Patta 10 aprile 2013 Il discorso sul metodo. Non quello di Cartesio, bensì quello di Bersani. Molto meno limpido del primo per l'opinione pubblica che vede trascorrere mestamente i giorni: senza governo e finora senza un nome certo per il Quirinale. Sotto questo aspetto il fatidico colloquio con Berlusconi non ha dato risultati definiti. È stato appunto interlocutorio e non poteva essere altrimenti. Un'analisi circa il metodo utile a eleggere in modo condiviso il capo dello Stato. Qualcosa su cui è difficile non essere d'accordo, ma poi servono i fatti. I fatti per adesso sono che Bersani ha ripreso una parvenza d'iniziativa. Appariva chiuso in un angolo. Alle prese con un malessere interno al Pd che senza dubbio esiste, ma la cui unica cura consiste nel muoversi con dinamismo e una certa lungimiranza lungo la rotta del Quirinale. A un mese e mezzo dal risultato del voto è dura per il comune cittadino, per l'imprenditore e il lavoratore accettare come ineluttabile la mancanza di un esecutivo e persino di un'idea chiara sul capo dello Stato. Inutile a questo punto caricare di significati eccessivi un colloquio che appartiene alle normali procedure istituzionali. E la cui lettura «politica» dipende dall'interesse di ciascuna parte. A Bersani serviva soprattutto rompere il ghiaccio, mostrarsi come colui che tesse il filo del negoziato (vero o apparente) in qualità di leader di maggioranza e naturalmente escludere il nesso diretto fra elezione del capo dello Stato e successiva formazione di una maggioranza parlamentare. E infatti dopo aver visto Berlusconi si è affrettato a precisare: «No al governissimo». Che nessuno coltivi strane idee nel centrosinistra: incontrare l'avversario storico non vuol dire prepararsi a condividere una piattaforma di governo. Quanto a Berlusconi, l'incontro gli è servito più che altro per dimostrarsi razionale e conciliante. La linea "istituzionale" inaugurata da qualche settimana passa anche di qui. Del resto Berlusconi è il fautore della «grande coalizione» in stile tedesco e poco importa se pochi credono, forse nemmeno lui, alla reale praticabilità di un simile patto. La rotta politica del centrodestra sull'asse Quirinale-governo è chiara. E in fondo il consiglio venuto da Napolitano, quando ha evocato il «coraggio» di Dc e Pci nel 1976, può essere utile in questa fase più a Berlusconi che a Bersani. Perché suggerisce il modo per dare un governo al paese senza tradire lo spirito delle «larghe intese», ma senza legarsi le mani invocando il famoso «governissimo» che risulta irrealistico. Il problema è cosa ottiene Berlusconi da un eventuale patto con il Pd. Vediamo. In primo luogo l'ex premier può ottenere di eleggere in condominio un presidente della Repubblica «garantista» nei suoi confronti come lo è stato Napolitano. Non è poco. Da questi non potrebbe attendersi, come è ovvio, alcuna forzatura costituzionale, ma si sentirebbe tutelato da una figura di equilibrio. In secondo luogo, Berlusconi sarebbe coinvolto nel processo di rinnovamento costituzionale che tutti si augurano possibile. Bersani è prodigo di promesse al riguardo. Ma qui c'è un nodo da sciogliere. Il «cambiamento» più volte citato da Bersani non può consistere in un gioco di parole. O magari in un governo malfermo sulle gambe, benché guidato dal leader del Pd. La garanzia sarebbe data invece da un vero patto sulle riforme. Con il Pdl e con tutte le forze parlamentari che vi si riconoscono. E il cambiamento deve comportare una riforma della legge elettorale, certo, accompagnata però da una revisione della Costituzione tale da rinforzare i poteri del capo dello Stato, fino a consentirne l'elezione popolare diretta. I tempi sono maturi, anche perché sarebbe questa la strada più lineare per avere il doppio turno elettorale come in Francia. ©RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2013-04-10/discorso-metodo-072537.shtml?uuid=AbvpaolH Titolo: Stefano FOLLI. - Quirinale, manca una settimana all'ora della verità e il Pd ... Inserito da: Admin - Aprile 11, 2013, 11:47:38 am Quirinale, manca una settimana all'ora della verità e il Pd tende a lacerarsi
di Stefano Folli. Con un articolo di Emilia Patta 11 aprile 2013 Ha ragione Romano Prodi: nella gara del Quirinale vince chi subisce meno veti. Non conta tanto l'ampiezza del consenso, quanto la capacità di ridurre l'area dei dissensi e delle inimicizie. È un punto cruciale e rappresenta un ulteriore fattore d'incertezza, oltre a quelli legati alla bonaccia generale in cui annaspiamo. Emma Bonino, ad esempio, è un nome stimato, il suo profilo istituzionale è ineccepibile. Nei sondaggi dei giornali è sempre al primo posto, come dire che sul piano mediatico non ha rivali. Eppure, o forse proprio per questo, i partiti sono molto diffidenti nei suoi confronti: talvolta il nome affiora e resta nell'aria per qualche ora, poi svanisce. Viceversa resta ben saldo nell'opinione pubblica. Esempio significativo dello scollamento fra politica e senso comune, come corollario allo stallo delle decisioni. Si dice: ma una trattativa sta correndo sotto traccia, non è poi vero che le distanze fra i due maggiori schieramenti, Pd e Pdl, siano tanto ampie. Sarà pure, ma l'impressione è desolante. Manca una settimana all'inizio delle votazioni e la questione di fondo si può riassumere così. Un paese che da un mese e mezzo è senza governo (salvo l'ordinaria amministrazione affidata a Monti) è in grado di affrontare il disordine parlamentare che potrebbe prolungarsi per giorni e che sarebbe inevitabile se si arrivasse al 18 aprile senza un'intesa? Probabilmente no. Del resto, tale intesa non può riguardare solo i criteri complessivi dell'elezione e magari il generico identikit del candidato ideale. Entro il 18 un eventuale accordo deve per forza comprendere anche il nome e il volto della persona (donna o uomo) che si vuole portare al Quirinale. Perché il senso di questa lunga fase preparatoria, che in verità assomiglia a una stasi estenuante, contiene una secca alternativa: o il capo dello Stato viene eletto entro le prime tre votazioni con la maggioranza dei due terzi (quindi sulla base di un patto leale fra Pd e Pdl), ovvero si entra in un tunnel dove può accadere di tutto. Ora la domanda è: un Partito Democratico profondamente lacerato, come dimostra l'esplosione del contrasto fra Renzi e il vertice bersaniano, è in grado di onorare un accordo con il centrodestra senza frantumarsi? Sotto questo aspetto l'esclusione del sindaco di Firenze dal terzetto dei grandi elettori della regione Toscana, è peggio che un errore. È una dimostrazione di miopia che può avere serie conseguenze in una situazione già arroventata. A sua volta Berlusconi vorrà sedersi sulla riva del fiume e attendere? Ma il rischio è che si finisca nella "roulette" della quarta votazione (e successive), quando basterà la maggioranza assoluta. Nei primi tre scrutini il leader del centrodestra è in grado di eleggere un candidato di equilibrio a lui gradito, purché non insista troppo sulla richiesta di un governo di grande coalizione. In seguito il quadro cambia e i Cinque Stelle entreranno in campo per ribaltare i giochi e forse diventare decisivi nella scelta di un presidente "innovativo". Il che contribuirebbe senza dubbio a spaccare il Pd. Per farla breve, manca ancora una settimana. L'abilità consiste nel trovare un candidato che non abbia un numero esagerato di nemici e non sia sommerso dai veti. Se poi sarà una donna (Bonino, Severino, Cancellieri, Finocchiaro), diventerà "ipso facto" l'emblema del cambiamento. ©RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2013-04-11/battaglia-veti-074910.shtml?uuid=AbSKv9lH Titolo: Stefano FOLLI. - Grillo ha una strategia ma Pd e Pdl possono chiudere la partita Inserito da: Admin - Aprile 17, 2013, 11:50:21 am Grillo ha una strategia ma Pd e Pdl possono chiudere la partita (se riescono)
di Stefano Folli 17 aprile 2013 Siamo arrivati al nocciolo della questione. Un sistema malandato, che Giorgio Napolitano ha tenuto in linea di galleggiamento solo grazie alla sua personalità e al suo prestigio, cerca un punto di equilibrio immaginando un "nuovo" Napolitano, qualcuno capace d'interpretare il medesimo ruolo svolto per sette anni dal capo dello Stato uscente. Nel frattempo la crisi è precipitata, le istituzioni sono sfibrate e tutto è molto più difficile che nel 2006. Non a caso è fiorito il fenomeno anti-sistema di Beppe Grillo, il quale ora sta giocando le sue carte con una certa abilità e con l'obiettivo di scompaginare quel che resta di un vecchio assetto politico-istituzionale. L'idea di puntare su Milena Gabanelli, eccellente giornalista televisiva d'inchiesta, facendo di lei la "bandiera" dei Cinque Stelle (anche se è persona estranea al movimento), contiene in sé un paio di evidenti significati. Il primo è che Grillo vuole marcare la distanza fra sé e l'asse del compromesso Pd-Pdl. Lui è l'unico puro rispetto alle sordide manovre dei politici. Lui presenta un nome fresco e innovativo rispetto ai personaggi "del passato", quali Amato, Marini o altri. Siamo alla ripresa in grande stile della campagna anti-casta e contro qualsiasi intesa che si proponga di gestire gli equilibri istituzionali. La potremmo definire la seconda fase della "rivoluzione" grillina, anche se nessuno sa bene cosa ci sia dietro l'angolo. Secondo, la Gabanelli resta pur sempre un nome simbolico. All'occorrenza, magari dopo le prime votazioni, può lasciare il posto a un volto più adatto al Quirinale, assai meglio attrezzato dal punto di vista giuridico e dunque più capace di sedurre la vasta platea parlamentare del centrosinistra. In una parola, un nome eleggibile. Del resto, Stefano Rodotà è terzo nella peculiare graduatoria web dei Cinque Stelle. E Rodotà è un nome che può incunearsi con una certa facilità nelle contraddizioni interne del Partito Democratico. Può dividerlo facendo intravedere che "un altro Quirinale è possibile", che non è obbligatorio scegliere il capo dello Stato attraverso un accordo più o meno misterioso con Berlusconi. S'intende, questo messaggio è distruttivo per il Pd di Bersani. Difficile prevedere nel dettaglio quali sarebbero le conseguenze di una strategia grillina vittoriosa, ma c'è da aspettarsi che siano clamorose e destabilizzanti. Se Grillo vuole scardinare il centrosinistra, ha imboccato la strada giusta. Può offrire prima o poi ai "grandi elettori" un nome alternativo e confidare sulla scarsa compattezza dei gruppi parlamentari. Come si reagisce a questo disegno? Intanto prendendo nota di quello che ha detto ieri Napolitano commentando la strage di Boston: l'Italia non può isolarsi, non può rinchiudersi in se stessa e nelle proprie inquietudini. Come dire che il sistema, se vuole sopravvivere, deve avere la forza di auto-riformarsi, di aggiornare la Costituzione, di emendarsi dai propri errori. Ma senza smarrire la rotta rispetto al mondo circostante. In secondo luogo, chi ha la responsabilità di eleggere un nome condiviso e autorevole attraverso un'intesa fra Pd e Pdl (Giuliano Amato?) deve dimostrarsi capace di farlo. Ci vuole tempra, volontà politica e capacità di mantenere la disciplina nei gruppi parlamentari. Ci vuole in particolare tempismo: la finestra di opportunità è molto breve. Dalla quarta o quinta votazione lo scenario cambierà e la tattica potrebbe favorire le spinte anti-sistema. da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2013-04-17/grillo-strategia-possono-chiudere-064102.shtml?uuid=AbNbEznH Titolo: Stefano FOLLI. - I tre fattori a favore di Letta Inserito da: Admin - Aprile 27, 2013, 05:40:59 pm I tre fattori a favore di Letta
di Stefano Folli 26 aprile 2013 Ci sono ancora difficoltà, certo. Ci sono persino colpi di avvertimento, come la dichiarazione sferzante del ministro tedesco Schauble su quanto sia «sciocco» criticare la Germania a proposito della mancata crescita. Ma in definitiva Enrico Letta è vicino a formare il suo governo fondato sull'accordo Pd-Pdl-Scelta Civica. Non proprio un esecutivo di unità nazionale, ma qualcosa che gli si avvicina molto. Di suo l'incaricato ci sta mettendo un grande impegno e in particolare un tratto giovane ed efficace, un modo di affrontare i problemi con franchezza, senza ricorrere agli stereotipi del gergo politico. Un approccio che ha colpito persino gli arcigni ambasciatori di Beppe Grillo, i due capigruppo dei Cinque Stelle. S'intende che non basta la simpatia umana e la buona volontà. Se Letta riesce a scalare la montagna entro sabato sera o domenica mattina, lo deve a tre fattori. Il primo, ovviamente, è il fattore Quirinale. Napolitano ha aperto il suo ombrello protettivo sul giovane Enrico e non lo chiuderà più. Date le circostanze, è ciò che davvero conta. Secondo viene il fattore Pd. Salvo alcune voci minoritarie, il partito che era di Bersani ha capito dov'è la sua convenienza e per ora appoggia il presidente incaricato con discreta compattezza. Può darsi che al momento della fiducia mancherà qualche voto, ma non sarà un fenomeno rilevante (e i dissidenti sono già stati ammoniti: chi non vota, è fuori dal Pd). Terzo fattore, Silvio Berlusconi. Il quale sta ottenendo in queste ore un apprezzabile risultato: una vera e propria rilegittimazione pubblica attesa per anni. È il primo frutto delle larghe intese e di quel «realismo politico» a cui Napolitano ha costretto i vari attori politici. Per Berlusconi tale esito non dipende solo dall'esser stato decisivo nella rielezione del presidente della Repubblica, avendo rinunciato a calcare la mano sulla crisi del centrosinistra. E nemmeno dal fatto che proprio in queste ore egli è tornato sulla scena internazionale grazie al suo vecchio amico George W. Bush che lo ha invitato a Dallas. Il vero segno della rilegittimazione è nella puntualità con cui l'ex premier tiene fede al suo patto con Napolitano, senza creare veri ostacoli al tentativo Letta. La sua dichiarazione di ieri dal Texas era quasi un modello di ineccepibile buon senso: «Non importa chi guida l'esecutivo, l'importante è dare subito un governo al paese perché l'economia soffre». Niente veti, niente richieste ultimative. Anche sui punti economici c'è la volontà di chiudere: la questione dell'Imu, che per il centrodestra è dirimente, può trovare soluzione all'interno di un'intesa programmatica. In altre parole, il capo del centrodestra è tornato a indossare i panni dello statista, come gli accade ciclicamente. E vale la pena sottolineare una coincidenza. Ieri era il 25 aprile. Lo stesso giorno in cui, sette anni fa, il premier in carica Berlusconi pronunciò a Onna, la cittadina abruzzese devastata dal terremoto, un discorso di conciliazione che viene ancora rimpianto perché rimase un fiore nel deserto. Pochi giorni dopo cominciò la discesa agli inferi con le vicende boccaccesche in cui erano coinvolti stuoli di ragazze (la prima fu Noemi Letizia). Ora Berlusconi ripropone gli stessi accenti di allora: rispetto degli avversari, ricerca di soluzioni condivise, attenzione ai problemi dell'economia reale. Ci si domanda quanto potrà durare questa nuova attitudine. Dopo Onna, sette anni fa, durò poco anche perché cominciò l'offensiva della magistratura. Adesso si tratta di capire fino a che punto Enrico Letta riuscirà a mediare, ma anche a volare alto con il suo governo. Peraltro, come si è visto, dietro Letta c'è Napolitano. E Berlusconi lo sa. da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2013-04-26/fattori-favore-letta-063815.shtml?uuid=Ab35HfqH Titolo: Stefano FOLLI. - Governo politico ma presidenziale Inserito da: Admin - Aprile 30, 2013, 11:58:44 am Governo politico ma presidenziale
di Stefano Folli 28 aprile 2013 Il meno che si possa dire, di primo acchito, è che si tratta di un governo ottimista. Ottimista nelle scelte dei vari ministri, con quei volti nuovi e quel numero senza precedenti di donne. In sintonia con lo spirito dei tempi. Ma l'ottimismo si respira anche nella visibile soddisfazione di Giorgio Napolitano, felice di aver chiuso con successo una delle partite più complesse della nostra storia politica. E un certo ottimismo, come è giusto che sia, s'intuisce anche nello slancio del neopresidente Letta che domani dovrà dimostrarsi capace di trasmettere questo sentimento al Parlamento. Perché il senso delle scelte compiute si comprende solo se si ammette che questo esecutivo di larga coalizione rappresenta il primo, vero tentativo di un sistema malato e ingessato di passare alla riscossa e di sconfiggere i movimenti di contestazione. Se i Cinque Stelle continuano a puntare sul fallimento definitivo (in autunno, prevede cupamente il loro leader) e sulla notte della Repubblica, si apre uno spazio non irrilevante per ridimensionarli attraverso un programma riformista semplice e concreto. Senza squilli di tromba, ma scandito dall'istinto di sopravvivenza. La sfida di fronte a Enrico Letta è tutta qui. Sebbene il suo governo non abbia il passo dell'esecutivo di legislatura, esso gode tuttavia di una condizione privilegiata. Nato quando si era vicini al collasso istituzionale, può ben rappresentare la rivincita della volontà sulla paralisi permanente. Senza dubbio Napolitano, garante dell'equilibrio possibile, ne sarà il tutore ancora a lungo. Anche l'irrompere fisico del capo dello Stato nel salone in cui era in corso l'incontro del neopremier con la stampa ha testimoniato questa verità. E si capisce il desiderio di smentire le definizioni correnti. Ad esempio quella di «governo del presidente», visto che si tratta di un esecutivo tutto politico e parlamentare. Ineccepibile. Ma bisogna ammettere che l'impronta del Quirinale si avverte parecchio dietro il lavoro di Letta ed è bene che sia così: si deve sentire il graffio di quel tanto di presidenzialismo che ha preso forma con il recente discorso del capo dello Stato in Parlamento. Non a caso alcune intuizioni sui ministri sono ovviamente riconducibili a Napolitano. A cominciare dall'eccellente idea di affidare la Farnesina a Emma Bonino, donna di spessore internazionale, nonché di notevole esperienza politica. C'è una riflessione da fare sulle ragioni di tale scelta, competenza a parte: in fondo un governo fondato sul patto politico Pd-Pdl (più i centristi) si dà come ministro degli Esteri una personalità estranea alla logica di grande coalizione, espressione del piccolo e laico partito radicale che si è sempre battuto per allargare e non ridurre i margini di libertà. È un dettaglio di non poco conto che dovrebbe far meditare molti avversari del governo Letta. Coloro che come Vendola sentono odore di «stalinismo». Ognuno fa le sue campagne politiche, ma la nomina della Bonino è destinata a smuovere le acque. Lei che era nella lista votata dai "grillini" come possibile candidata al Quirinale. Ovvio che non tutti i problemi sono risolvibili con la carta dell'ottimismo. O con i colpi d'ala del presidente-Lord protettore che è riuscito a consolidare il profilo europeo dell'esecutivo anche con un'altra nomina di grande qualità, quella di Fabrizio Saccomanni all'Economia. Ad esempio, un conto sono i volti nuovi del centrosinistra e un altro è l'assenza di tutti i capi storici del Pd. Di solito quando un partito lascia fuori dal governo i suoi personaggi forti, il risultato è una maggiore debolezza. Stavolta si può obiettare che l'attuale Pd è del tutto privo di un vertice e di una gerarchia. E se i vecchi personaggi non sono più rappresentativi, a suo modo il governo Letta anticipa il rinnovamento. Non a caso uno dei più entusiasti è Matteo Renzi, il futuro ineluttabile. Vedremo. Il Pd lacerato resta un'incognita. E viceversa il Pdl berlusconiano, molto impegnato nel governo e compensato con ministeri "pesanti", ha in mano una pistola carica. Ma bisogna essere, appunto, ottimisti. Ottenere qualche risultato in economia e nel campo istituzionale è interesse di tutti. Di Berlusconi come dell'incerto Pd. E soprattutto di Napolitano. da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2013-04-28/politico-presidenziale-081040.shtml Titolo: Stefano FOLLI. - La carta europea rafforza la coalizione, l'Imu la divide... Inserito da: Admin - Maggio 02, 2013, 05:12:58 pm La carta europea rafforza la coalizione, l'Imu (caso simbolico) la divide
di Stefano Folli 01 maggio 2013 Da Renato Brunetta, capogruppo del Pdl alla Camera, viene un'affermazione che contiene un nocciolo di verità: «Enrico Letta è paradossalmente più forte in Europa che in Italia». Il perché lo si è capito ieri dopo l'incontro del neopremier con Angela Merkel. La cancelliera ha elogiato la «grande coalizione» italiana («un ottimo messaggio»), interpretandola come una prova di coesione e di volontà riformatrice. Ma il giovane Letta ha tenuto il punto e ha svolto una perorazione a favore di un'Unione europea che non può essere percepita dai popoli come il regno della stagnazione economica e della disoccupazione. Difficile dire quale sia stato il risultato concreto dell'incontro o addirittura se ci sia stato un risultato. Ma si capisce che l'ospite italiano ha messo le carte in tavola, riproponendo l'obiettivo da tempo dismesso dell'Europa politica. Ora la cancelliera sa che in Italia il tono della musica è cambiato e che l'obiettivo della nuova maggioranza è quello di riappropriarsi dell'ideale europeista in una chiave di sviluppo economico, pur senza abbandonare i criteri del risanamento e anzi mantenendo gli impegni assunti dal precedente esecutivo. Il sentiero è stretto, certo, ma questo è un punto di fondo che lega centrosinistra e centrodestra e costituisce il sostrato politico delle larghe intese. In altri termini, la grande coalizione che entusiasma la signora Merkel, forse perché richiama analoghe esperienze tedesche, non può limitarsi a replicare l'agenda Monti. Deve trasmettere un segnale dinamico all'opinione pubblica, visto che la mera austerità – lo ha ricordato Letta – ha contribuito a gonfiare il fenomeno delle liste anti-europee. Il 25 per cento a Grillo è una campana che non suona solo per gli italiani: anche a Berlino, se non sono sordi, l'hanno intesa. Come dire che la minaccia del populismo disgregatore dell'Europa riguarda tutti. E va contrastata anche ricostruendo l'antico, tradizionale asse italo-tedesco. Del resto, l'Italia è uno dei paesi fondatori della comunità europea ed è bene rammentarlo. È stata quindi una buona idea il viaggio a Berlino e poi a Parigi del premier che aveva appena ricevuto la fiducia parlamentare. Un modo per sottolineare una presenza più politica dell'Italia sulla scena continentale. Ma anche la via più sicura per consolidarsi rispetto alle frizioni domestiche. Le quali ruotano tutte o quasi intorno alla questione dell'Imu e al suo ormai evidente valore simbolico. Se si resta alla lettera della polemica, è chiaro che il governo appena nato sarebbe già a rischio, visto che la richiesta del Pdl (abolizione della tassa sulla prima casa e restituzione ai contribuenti di quanto versato nel 2012) non è ricevibile in questi termini perentori e ultimativi. Letta per la verità aveva trovato una formula di compromesso, attraverso il «congelamento» della rata di giugno e la promessa di rivedere tutta la fiscalità sulle abitazioni. Poi nella giornata di ieri il ministro Franceschini ha usato parole sbagliate per dire cose vere e la miccia si è accesa. Ma si tratta, appunto, di un simbolo. Impossibile credere che Berlusconi abbia davvero intenzione di buttare all'aria un assetto da lui perseguito con tenacia. Quello che in realtà vuole è far capire a tutti, anche all'opinione pubblica più distratta, che è lui il primo azionista dell'esecutivo. E che la sua parola conta. A quanto pare ci sta riuscendo. © RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2013-05-01/carta-europea-rafforza-coalizione-063735.shtml?uuid=AbVaY2rH Titolo: Stefano FOLLI. - La mini guerriglia quotidiana anti-larghe intese su cui Letta.. Inserito da: Admin - Maggio 18, 2013, 04:42:30 pm La mini guerriglia quotidiana anti-larghe intese su cui Letta deve vigilare
di Stefano Folli 17 maggio 2013 È singolare che ogni giorno qualcuno accenda una piccola miccia lungo il percorso già scomodo di Enrico Letta. Nessuna è in grado di far deflagrare la Santa Barbara delle larghe intese, ma tutte concorrono ad alimentare una tensione che s'indovina appena sottotraccia. Due giorni fa un esponente del Pdl ha pensato bene di riproporre la legge sulle intercettazioni telefoniche, uno dei temi più invisi a sinistra. Ieri è stata la volta di un uomo d'equilibrio, quale di solito è il capogruppo del Pd al Senato, Luigi Zanda. In una lunga intervista ad «Avvenire» Zanda dice molte cose, la maggior parte ispirate a razionalità, ma poi lascia cadere giudizi piuttosto pesanti che riguardano l'ineleggibilità di Silvio Berlusconi in Parlamento. E fa capire di considerare senz'altro non eleggibile il capo della coalizione avversaria, in quanto titolare di concessioni televisive. Si tratta, è logico, di un terreno minato. Anche se nel pomeriggio, di fronte al vespaio, le dichiarazioni sono state derubricate a «opinioni personali», così da non coinvolgere un Pd imbarazzato. Per la verità Zanda esprime anche tutta la sua contrarietà all'ipotesi (peraltro assai remota) che lo stesso Berlusconi possa un giorno essere onorato dal capo dello Stato con la nomina a senatore a vita. Un punto di vista più che legittimo e largamente condiviso in Italia. S'intende che qualche esponente del centrodestra ha preferito confondere le acque e si è scandalizzato mescolando questioni diverse (l'ineleggibilità e il senatorato a vita) come se fossero due facce della stessa medaglia. Viceversa, il vero punto evocato da Zanda riguarda l'idea che Berlusconi possa essere estromesso dal Parlamento e di fatto dalla vita pubblica attraverso un pronunciamento dei suoi avversari politici. Ci si domanda: a che serve evocare uno scenario di questo genere, comunque non realizzabile se non al prezzo di una crisi verticale e della fine immediata del Governo Pd-Pdl? Serve a quella parte del centrosinistra che è in sostanza scettica sulle larghe intese e soprattutto teme che il Pd si stia vendendo l'anima. Certe affermazioni sono lo specchio di un malessere destinato a protrarsi nei prossimi mesi. Un conflitto fra l'essere e il dover essere, si potrebbe dire. Di sicuro qualcosa che può solo indebolire Letta, se episodi del genere dovessero ripetersi con cadenza ricorrente. Non a caso, i Cinque Stelle si sono precipitati a dire al Pd: benissimo, votiamo insieme l'ineleggibilità di Berlusconi. Ed è chiaro che l'alleanza fra Pd e Grillo, inseguita senza successo da Bersani, sarebbe cosa fatta se essa prendesse forma sullo sfondo di un fatto così clamoroso e dirompente quale l'espulsione dal Parlamento (dopo diciannove anni...) di uno storico leader politico. Che peraltro già nel 1994 era titolare di concessioni televisive. Siamo, come si vede, nel campo delle bizzarrie. Non accadrà nulla. È evidente invece che l'attuale governo «di necessità» ha bisogno, non di una retorica ed equivoca «pacificazione», bensì di nervi distesi da parte dei vari soggetti in campo. Sotto questo aspetto Napolitano ha ottenuto almeno un risultato a breve: convincere Berlusconi a non tornare in piazza, dopo la brutta giornata di Brescia. È un passo avanti. Ma nelle prossime settimane sarà necessario che i falchi dei due schieramenti si prendano un po' di riposo. da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2013-05-17/mini-guerriglia-quotidiana-antilarghe-064005.shtml?uuid=Ab5ZXdwH Titolo: Stefano FOLLI. - Qualche vantaggio solo per Letta Inserito da: Admin - Giugno 11, 2013, 05:29:54 pm Qualche vantaggio solo per Letta
di Stefano Folli 11 giugno 2013 Meglio sfuggire alla tentazione di sopravvalutare il risultato di queste amministrative. Il "trionfo" del Partito Democratico è tale solo se si ammette che l'ondata dell'astensionismo ha travolto soprattutto gli altri, il Pdl e la Lega. Il centrosinistra è riuscito a difendersi meglio dalle urne vuote, grazie alla sua buona rete organizzativa e alla capacità di scegliere candidati non entusiasmanti, ma comunque migliori dei competitori. Detto questo, ci vorranno ben altre prove prima di stabilire se il Pd è sulla via della ripresa. I sondaggi sono lì a ricordarci che per ora, in caso di voto politico, è sempre l'eterno Berlusconi a guidare la danza. Il centrosinistra è indietro e cerca la rimonta. Ne deriva che il risultato di ieri sera rappresenta un mezzo ricostituente per il Pd in cerca di nuove identità. Ma niente di più. Semmai è la conferma, dopo il 25 febbraio, che gli italiani sono sempre più diffidenti verso i politici. Tant'è che i partiti hanno dovuto nascondersi o mimetizzarsi attravero un profluvio di liste più o meno "civiche", utili per far dimenticare le vecchie nomenklature. Vero è che Berlusconi aveva intuito lo sfacelo e si era limitato a fare il minimo indispensabile, ma proprio il minimo, in favore dei suoi candidati. A cominciare dal povero Alemanno. Il quale è andato incontro a una sconfitta politica e anche personale che la dice lunga su come è stata amministrata Roma in questi anni. Si considerino i dati romani: astensionismo alle stelle, ben oltre il 50 per cento, nessun ruolo conquistato dai "grillini", una tradizione locale che ha sempre visto la destra in ruoli incisivi. Niente di tutto questo è servito ad Alemanno. E l'astensione a Roma, ma non solo a Roma, ha punito soprattutto le liste del centrodestra. Per cui possiamo riassumere così. Il Pd esce bene dalle urne, ma è lungi dal rappresentare oggi una proposta politica conclusiva e seducente per la grande massa degli elettori. In compenso il centrodestra sarà pure in testa nei sondaggi nazionali, ma il colpo assorbito ieri sera dovrà suggerire profonde riflessioni ai gruppi dirigenti. Non si potrà andare avanti ancora a lungo fidando solo nei giochi di prestrigio di Berlusconi e nella sua voglia di competere alle elezioni politiche (di solito con successo, come è noto). In ogni caso vale la la pena sottolineare che, quando pure Grillo non è in campo, i voti non tornano più di tanto alle vecchie formazioni. Le persone guardano con sconcerto e delusione alle risse fra i Cinque Stelle, ma si guardano bene dal rientrare nei ranghi. Sarà interessante poi capire se la Lega intende cambiare strada oppure no. Lo sforzo per portare Maroni alla presidenza della Lombardia, sembra aver lasciato il vecchio partito barricadero svuotato e senza idee. Ma la verità è che una fase storica si è chiusa. Adesso o la Lega dimostra di sapersi radicare di nuovo nel cosiddetto territorio (come Tosi a Verona, ad esempio), oppure il destino sarà molto amaro per gli uccisori del padre, cioè di Bossi. Detto questo, c'è anche chi ha motivo di rallegrarsi davvero: si chiama Enrico Letta. Il risultato taglia le unghie agli iper-critici del governo e rassicura tutto il fronte del centrosinistra. Governare non sempre è penalizzante, sembrano dire i sostenitori del Pd. Sono segnali, naturalmente, e valgono quello che valgono. Ma un passo dopo l'altro l'esecutivo delle larghe intese si consolida. Se il quadro generale non subirà strappi troppo vistosi, il governo potrebbe durare persino più del previsto. E comunque non saranno queste amministrative a determinare esiti imprevedibili. da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2013-06-11/qualche-vantaggio-solo-letta-063636.shtml?uuid=AbLaFv3H Titolo: Stefano FOLLI. - Alla crisi interna Grillo non oppone l'anti-politica bensì ... Inserito da: Admin - Giugno 15, 2013, 11:11:58 am Alla crisi interna Grillo non oppone l'anti-politica bensì solo la non-politica
di Stefano Folli 12 giugno 2013 Da giorni la crisi verticale dei Cinque Stelle rimbalza su giornali e televisioni, ma ciò che sorprende non è tanto l'ampiezza dei contrasti interni quanto l'inerzia del leader Beppe Grillo. Che almeno fino a ieri sembrava non avere la più lontana idea su come gestire in termini politici il problema che sta dilaniando il suo movimento. Anche ieri, dopo che i dati della Sicilia avevano confermato la portata dell'insuccesso su scala nazionale, Grillo ha fatto ricorso al solito repertorio: espulsione di una senatrice dissidente, accuse alla "politica oscena" di Pd e Pdl (uniti come fossero la stessa cosa), chiamata a raccolta dei militanti in vista di un'ipotetica battaglia finale contro la partitocrazia. La novità, se così si può dire, è il lancio di una sorta di referendum, naturalmente "online", su se stesso. Il quesito ("sono io il problema?") equivale a chiedere al solito popolo del web: siete con me o contro di me? In altri termini, è un appello plebiscitario per riaffermare una leadership che come tale resta priva di alternative. Nessuno pensa che il M5S possa sopravvivere come forza più o meno organizzata senza il suo fondatore e "guru". Il che naturalmente non risolve le questioni di fondo. È ovvio che Grillo sarà pienamente rilegittimato dai suoi, per così dire. Tuttavia è anche vero che su internet si leggono oggi una quantità di riserve sull'operato del capo, qualcosa che un paio di mesi fa sarebbe stato impensabile. Se ne deducono due punti. Il primo è che il plebiscito, peraltro privo di riscontri e di controlli, andrà come è ovvio a favore di Grillo: il quale però ha già visto incrinarsi il suo carisma. Piccole crepe destinate ad allargarsi in futuro. Secondo aspetto, si tratta pur sempre di una risposta non-politica alla crisi interna. Si badi: dire "non politica" è altra cosa dal dire "anti-politica". Quest'ultima equivale a un un modo alternativo di fare politica, mentre nel caso di Grillo si tratta di una replica che si limita a coprire un vuoto e tradisce l'assoluta mancanza di iniziative che non siano la generica riproposizione di un'opposizione globale al sistema. Ed è così, dimostrando di non saper guidare una forza del 25 per cento dei voti attraverso la complessità della vita istituzionale, che Grillo si infila in altri guai. È sorprendente la mancanza d'immaginazione e flessibilità. Un politico, sia pure trasgressivo, si definisce abile quando sa essere duttile; quando sa conservare e magari accrescere le sue forze esercitando, appunto, una leadership e dimostrando che certe astuzie tattiche, compreso qualche compromesso, fanno parte di una strategia di lungo periodo. Viceversa Grillo è come un carro armato che possiede solo la marcia avanti. Sa arringare le folle e alimentare il "blog". Ma non sa come tenere insieme la sua truppa un po' raccogliticcia (e in molti casi meno idealista di come si pretende), a meno che all'orizzonte non si profili il dissesto finale dello Stato e l'avvio della "rivoluzione". Il leader sfoggia un'anima sempre più massimalista perché non sa cos'altro fare per obbligare i suoi ad allinearsi. È la scelta che spesso condanna a morte i movimenti populisti. Oggi un gran numero di osservatori punta sulla disgregazione dei Cinque Stelle. È probabile che abbiano ragione, anche se Grillo ha gli strumenti per rallentare la fine del M5S. Ma la scomposizione dei gruppi parlamentari è vicina. Meraviglia che non avvenga grazie a una rivincita dei partiti, bensì per la perdita vertiginosa di credibilità del movimento che doveva rigenerare la politica. Ma senza sapere né come né con chi. da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2013-06-12/alla-crisi-interna-grillo-064131.shtml?uuid=AbdFkE4H Titolo: Stefano FOLLI. - La scommessa di Letta Inserito da: Admin - Giugno 16, 2013, 09:07:14 am La scommessa di Letta
di Stefano Folli 15 giugno 2013 Comunque vada a finire la diatriba sull'Iva e l'Imu, l'importante è che il governo Letta dimostri di avere una propria idea strategica su come affrontare i nodi economici e sociali. La cosa peggiore sarebbe restare prigionieri della guerriglia fra i due maggiori partner della coalizione. Ma Enrico Letta è in grado di sventare il pericolo, almeno sulla carta. Dietro di lui, Giorgio Napolitano non perde occasione di far capire quello che pensa dei "calcoli meschini" dei partiti. Semmai il problema è che non si intravede ancora quale sia lo "shock" benefico per l'economia invocato ancora l'altro giorno dal segretario della Cisl, Bonanni, ossia non proprio il capo di un sindacato rivoluzionario. Il premier si è dichiarato d'accordo al cento per cento con le sue parole e gli altri sindacati non hanno fatto obiezioni. Quindi, se le cose hanno un senso, il governo sta preparando iniziative non ordinarie e l'apparente lentezza dei passi avanti è dovuta solo all'esigenza di calibrare bene le iniziative. Del resto, dire "shock" significa non lasciare margini alla solita tendenza al compromesso, ai vecchi accordi al ribasso. Equivale invece a comunicare che la forza d'urto della grande coalizione fra poco si manifesterà senza reticenze. Nel campo del lavoro, del fisco e ovunque si voglia stimolare la ripresa della capacità produttiva. Sarà davvero così? Molti ne dubitano, al di là della buona volontà di Letta e della serietà di Saccomanni. Si teme che le intenzioni siano ottime, ma poi vengano avvilite nella debolezza delle intese politiche. Che sono, sì, larghe, ma è un largo non troppo convinto. In fondo è vero. Non si è mai vista una "grande coalizione", cioè una formula del tutto eccezionale, che si muove in modo così svogliato. Fatto salvo l'impegno personale di Letta e Alfano, i due capifila dei maggiori partiti, non si avverte quella tensione politica e civile, quella operosità febbrile che dovrebbe costituire la caratteristica di una fase fuori dell'ordinario. Il "Financial Times", impietoso, ha già parlato di "letargo" del governo. Ma senza andare lontano, gli scettici sono numerosi anche in casa nostra. C'è chi guarda alla Corte Costituzionale e poi alla Cassazione per capire quando Berlusconi rovescerà il tavolo. E magari il pericolo non è così vicino come molti prevedono o sperano, ma il solo fatto che si aspetti solo quel momento lascia intendere che c'è poca fiducia nel futuro dell'alleanza destra-sinistra. Naturalmente molti osservano il travaglio interno del Pd e immaginano che Letta sia solo un uomo della transizione, destinato a uscire di scena non appena il centrosinistra avrà rinnovato la leadership. Tutto può essere, ma il primo a non curarsene deve essere il presidente del Consiglio. Letta ha interesse ad agire come se il suo fosse un governo di legislatura (ha fatto bene a dirlo di recente). Il che non significa puntare alla sopravvivenza, a una mera permanenza in carica, bensì agire con la determinazione di chi pensa che i partiti, per una ragione o l'altra, non siano in grado o non abbiano convenienza a cambiare il quadro politico. Ora che la luna di miele sta finendo - ed è inevitabile - Letta deve stampare la sua impronta sull'azione di governo senza esitazioni. Si deve sperare in pochi annunci e molti fatti concreti. Profilo basso sul piano mediatico, ma scelte inconsuete e coraggiose. Qualcosa che colpisca l'opinione pubblica, evitando però la nefasta tendenza all'enfasi tipica dei governi passati. In altri termini, il valore della stabilità è fondamentale, ma il nostro giovane premier è il primo a sapere che esso da solo non basta. Per cui non potrà dare l'impressione che lo slancio riformatore sia tiepido e che in realtà il governo italiano sta aspettando qualcosa. Magari le elezioni tedesche di settembre, nella speranza che producano un ammorbidimento delle politiche di austerità. Sperare è legittimo, ma da un esecutivo di grande coalizione ci si attende qualcosa di più di un'occhiata in casa d'altri. Clicca per Condividere ©RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2013-06-15/scommessa-letta-094341.shtml?uuid=AbMRSD5H Titolo: Stefano FOLLI. - Adesso nulla sarà più come prima Inserito da: Admin - Giugno 26, 2013, 12:10:50 am Adesso nulla sarà più come prima
di Stefano Folli 25 giugno 2013 Adesso nulla sarà più come prima Ora nulla sarà più come prima. Non lo sarà per Berlusconi, per il futuro del centrodestra, per gli equilibri complessivi della nostra politica come li abbiamo conosciuti negli ultimi due decenni. Il governo Letta non cadrà, ma non rimarrà estraneo alla burrasca. Perché la sentenza di Milano, nella sua durezza straordinaria e in questo senso persino imprevista, segna una discriminante: c'è un prima e ci sarà un dopo. Né vale troppo affermare che si tratta solo di un primo grado e che bisogna aspettare l'appello e poi la Cassazione: l'argomento è valido da un punto di vista giuridico, ma poi esiste la dimensione politica dei problemi. Una dimensione d'un tratto prevalente e la cui gestione si presenta assai difficile per un vecchio combattente che alle elezioni di febbraio ha raccolto ancora quasi il 30% dei consensi e che ha investito questo patrimonio elettorale nelle larghe intese. Se la questione era l'auto-tutela dai guai giudiziari, non si può dire che quell'investimento sia stato redditizio. Se invece era un atto generoso e disinteressato per il buongoverno del paese, adesso è il momento di dimostrarlo. Qui infatti c'è il primo passaggio cruciale. Non sarebbe conveniente per Berlusconi buttare all'aria la grande coalizione. Su questo punto Letta non ha torto quando mantiene i nervi saldi, come dopo la sentenza Mediaset e anzi di più. Ma è logico pensare che Berlusconi e i suoi non si limiteranno a rinnovare il giuramento di fedeltà all'esecutivo in carica. Dopo il micidiale uno-due subito dalla magistratura (undici anni di reclusione virtuale se si sommano i casi Mediaset e Ruby), è illusorio credere che il Pdl si affiderà fiducioso alle mediazioni del presidente del Consiglio. Che giusto ieri, sia detto per inciso ma la coincidenza è significativa, ha fatto dimettere il suo ministro Josefa Idem. È plausibile che la pressione politica del centrodestra sull'esecutivo si accentuerà intorno ai punti programmatici che costituiscono i cavalli di battaglia del Pdl: a cominciare da Iva e Imu, oltre alla politica fiscale ed europea. Più Berlusconi subisce i colpi dei giudici e non può fare altro per il momento che restare nella gabbia delle larghe intese, più cercherà di presentarsi come una sorta di "difensore civico" del popolo, proprio per questo ingiustamente perseguitato. È una carta da giocare, una delle poche che gli sono rimaste. La natura populista del centrodestra tenderà quindi ad accentuarsi: all'inizio in misura non dirompente, ma alla lunga la corda potrebbe spezzarsi. Specie se la Cassazione, che si pronuncerà sull'affare Mediaset entro la fine dell'anno, dovesse dar torto alla difesa. Vedremo. Quel che è certo, Berlusconi è ancora un uomo che, come si è detto all'inizio, vale ancora quasi il 30% di elettorato. Eliminarlo per via giudiziaria, attraverso l'"interdizione dai pubblici uffici", o per via politica, con quel giudizio di "ineleggibilità" che dovrebbe essere pronunciato dai suoi avversari in Parlamento (ma al quale il Pd non intende affiancarsi), avrebbe effetti destabilizzanti per la democrazia. Ma anche le convulsioni di una grande forza che si stringe sgomenta e in preda al panico intorno al leader pluri-condannato, è in sé un fattore di destabilizzazione. Nessuno al momento sa come uscire dalla contraddizione. L'unica idea è tener ferma la maggioranza, come un'isola intorno alla quale ribolle il mare. Ma la destra italiana da oggi deve porsi il nodo politico del dopo-Berlusconi. Almeno cominciare a pensarci. In fondo - ed è un'altra singolare coincidenza - è quello che suggeriva Romano Prodi ieri nella sua lettera al "Corriere".© da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2013-06-25/adesso-nulla-sara-come-063739.shtml Titolo: Stefano FOLLI. - Rete di protezione dal Quirinale Inserito da: Admin - Giugno 27, 2013, 04:00:51 pm Rete di protezione dal Quirinale
di Stefano Folli 26 giugno 2013 Ora si può cominciare a misurare quanto pesano le sentenze della magistratura sulla solidità del governo Letta. S'intende, è troppo presto per arrivare a una conclusione definitiva. Ma i tasselli si comporranno giorno dopo giorno e presto si capirà se le larghe intese hanno un futuro e quale. Per ora sappiamo che nel colloquio di ieri sera a Palazzo Chigi Berlusconi ha tracciato il quadro prevedibile: lui, una vittima dei pm e dei giudici, ma anche un uomo con senso delle istituzioni che mai farà pagare al paese il prezzo delle sue sventure giudiziarie. Si capisce che nel leader del centrodestra prevale oggi la preoccupazione di non deragliare, o far deragliare l'esecutivo, prima del giudizio della Cassazione sull'affare Mediaset. Gesti clamorosi compiuti prima di quella scadenza (prevista fra l'autunno e l'inverno) sarebbero puro autolesionismo. Quindi si resta nella cornice della grande coalizione, come era ovvio, benché tutto lasci pensare che il Pdl ci starà a modo suo, cioè dando segni della sua crescente frustrazione. Il colpo al leader storico è troppo forte perché i suoi possano resistere alla tentazione di battere qualche pugno al tavolo del programma. E se Berlusconi dà garanzie al premier che l'equilibrio generale per il momento non si tocca, egli stesso è molto meno rassicurante sui singoli temi, dove anzi ritiene doveroso far sentire la voce del centrodestra. Il che induce Guglielmo Epifani, reduce a sua volta da un incontro con Letta, a sottolineare l'"irresponsabilità" di chi vorrebbe far dipendere la solidità del governo dall'andamento dei processi in corso. In fondo è anche un modo per dire che, per quanto riguarda il Pd, la coalizione può proseguire, pur con un Berlusconi condannato. Nessuno ne dubitava, ma è bene che il rappresentante del centrosinistra lo dica con chiarezza in una giornata difficile: così da lasciare al suo "alleato" del centrodestra il compito di cavarsi da solo le castagne dal fuoco. In ogni caso, la soglia di guardia non è stata superata e non lo sarà nel corso dell'estate. Gli incontri di Palazzo Chigi hanno detto questo, nonostante i passaggi non facili del colloquio Letta-Berlusconi. Ci sono provvedimenti in corso sul lavoro, c'è il Consiglio Europeo dietro l'angolo, ci sono le solite polemiche sul rinvio dell'Iva. Ma non c'è alcun annuncio che un partner delle larghe intese intende ritirare il proprio appoggio. Tanto meno dopo la sentenza di Milano, che anzi indurrà il Pdl a misurare bene i passi. Il problema non è la crisi del governo, bensì il giorno per giorno. La quotidianità. È qui il brodo di cultura dei piccoli e grandi litigi, dei colpi bassi in cui si esprime la vita della grande coalizione meno convinta della storia. Come se i suoi contraenti non sapessero che non ci sono alternative, oggi come oggi, a un'alleanza tanto poco naturale quanto imposta dalle circostanze. E non meraviglia che Giorgio Napolitano abbia chiesto, con parole forse un po' inusuali, la "continuità" dell'azione di governo e la fine delle "fibrillazioni". Inusuali perché l'esecutivo ha pochi mesi di vita e già qualcuno evoca, ha detto a chiare lettere il capo dello Stato, ipotesi di crisi "incombente o imminente". La crisi non ci sarà, ma il pericolo è che il governo non riesca a dispiegare le ali. Quando invece c'è bisogno di un lungo volo. da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2013-06-26/rete-protezione-quirinale-063827.shtml?uuid=AbdogW8H Titolo: Stefano FOLLI. - L'ora dei cattivi presagi Inserito da: Admin - Luglio 11, 2013, 10:42:48 am L'ora dei cattivi presagi
di Stefano Folli 10 luglio 2013 Qualunque cosa si voglia pensare dei verdetti di Standard&Poor's e delle altre agenzie di "rating", non c'è dubbio che la bastonata è autentica ed è una brutta notizia. Se non altro perché tende a esporre l'Italia, indebolita, alle solite operazioni speculative sui mercati. Per cui «il paese resta un vigilato speciale». La frase è del presidente del Consiglio ed è davvero il minimo che si possa dire, condita di parecchia amarezza. Vigilati speciali... Non è molto incoraggiante. Anche se la frase di Letta è pur sempre un modo per tentare di girare a proprio favore un evento negativo: proprio perché l'Italia è ancora sotto sorveglianza, guai a intaccare quel tanto di stabilità che il governo delle larghe intese riesce a garantire. Tuttavia il problema, a proposito di stabilità, è che il declassamento non è l'unica cattiva notizia di ieri. Ce n'è una assai peggiore e riguarda, come tutti ormai sanno, Berlusconi e il processo Mediaset. Sul piano virtuale, la scelta della Corte di Cassazione di accelerare i tempi e di decidere il 30 luglio sul ricorso dei difensori dell'ex premier, equivale all'accensione di una miccia a combustione neanche troppo lenta. Berlusconi per il momento tiene i nervi saldi, sia a pure con crescente fatica. Ma si sente giocato, teme di essere finito in una trappola inesorabile. È chiaro che l'anticipo giudiziario («qualcosa che in quarant'anni non avevo mai visto» ha detto Franco Coppi, il noto penalista che rappresenta il leader del centrodestra) non potrà non avere, alla lunga, un impatto straordinario sulla maggioranza. D'altra parte, la logica suggerisce che dal Pdl, o meglio da Palazzo Grazioli, non ci saranno colpi di testa prima dell'"ora X" o in prossimità di essa. A questo punto, la rissa o addirittura la crisi di governo sarebbe un errore fatale. La ragione è una sola. Non è affatto certo che tempi più brevi vogliano dire sicura conferma delle condanne. Significano, questo è vero, un disagio per la difesa costretta a lavorare in spazi più angusti. Ma le questioni di diritto sono le stesse in luglio come in ottobre. Per cui la tendenza al panico che si registra in certi ambienti del Pdl è forse esagerata e di sicuro controproducente. Gridare oggi al complotto e accusare come di consueto la "giustizia politica" è una dimostrazione di debolezza, non certo di forza. Ci sarà tempo, nel caso, per dare la stura al repertorio del vittimismo. Adesso è il momento di misurare bene i passi. Ovvio che non si potranno tenere distinti, come se niente fosse, il piano politico e quello giudiziario. Questo è un auspicio che Enrico Letta ha l'obbligo di far suo, ostentando fiducia. Ma chissà quanto egli stesso crede alle sue parole. È altrettanto vero, peraltro, che Berlusconi ha tutto l'interesse a concentrarsi oggi sulla Cassazione. Scaricare le tensioni sul governo sarebbe un gesto impulsivo per nulla in grado di avvicinare di un metro la soluzione del tema processuale. Quello che sappiamo è che da ieri il cammino delle larghe intese è ancora più difficile. Prima la relativa forza di Letta era la mancanza di un'alternativa. Ora l'alternativa continua a latitare, ma la precarietà di Berlusconi determina una potenziale e drammatica novità. Certo, anche in caso di condanna definitiva il leader del centrodestra, sia pure interdetto, dovrà pensare a tutelare la rete di interessi di cui egli è ancora il punto d'equilibrio. Non è detto che il modo migliore per farlo sia buttare tutto all'aria. Il punto però è che nell'ipotesi peggiore la galassia del Pdl non riuscirà a reggere la pressione. Saranno allora le circostanze a decidere il futuro della destra e dunque anche della grande coalizione. da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2013-07-10/lora-cattivi-presagi-063747.shtml?uuid=Ab7AYtCI Titolo: Stefano FOLLI. - Larghe intese di fronte al bivio cruciale Inserito da: Admin - Luglio 11, 2013, 11:59:39 pm Larghe intese di fronte al bivio cruciale
di Stefano Folli 11 luglio 2013 La crisi italiana è ormai un gioco di specchi in cui si mescolano la realtà e l'illusione, i dati autentici e la rappresentazione teatrale. Il governo Letta, che pure si muove con realismo lungo un sentiero molto stretto, deve fare attenzione a non restare prigioniero di questo singolare viluppo. Nel quale si rischia di perdere la logica stessa di quella grande coalizione di cui ancora si attende il decollo. Un dato certo è, ad esempio, l'inesorabile impoverimento nazionale denunciato ieri dal neopresidente dell'Abi, Patuelli. Impoverimento che sta incrinando la fibra del sistema produttivo e soprattutto uccide la fiducia nel futuro. Viceversa è puro teatro la minaccia di una crisi di governo adombrata da alcuni esponenti del Pdl dopo le notizie sulla Cassazione che anticipa i tempi del suo verdetto su Berlusconi. Ed è un brutto spettacolo teatrale il caos visto in Parlamento, con la sospensione per un giorno dei lavori. Un caso di "fair-play" da parte del Pd verso le inquietudini del centrodestra, subito pagato con le accuse dell'estrema sinistra e dei "grillini". Ma il nocciolo, a ben vedere, resta l'interdizione di Berlusconi e in senso lato l'ombra della sua ineleggibilità: una doppia questione che implica l'espulsione dal Parlamento del leader del centrodestra per via giudiziaria o politico-giudiziaria. Si è capito che il Pd, sia pure con sofferenza, non intende subìre questo scenario molto pericoloso che equivarrebbe a consegnare ad altri la leaderhip politica e persino culturale, per così dire, dell'area del centrosinistra. Ne deriva che si procede a fatica, un passo dopo l'altro. Il caso Berlusconi resta una mina accesa sotto la precaria stabilità delle larghe intese. Eppure è evidente che il diretto interessato non ha cambiato strategia né potrebbe cambiarla: ostenta sicurezza e addirittura ha smentito di sentirsi "in trappola". Fino alla sentenza di fine luglio o inizio agosto vivremo allora questo sdoppiamento: tensioni quotidiane che rischiano di incidere sul programma dell'esecutivo, ma nessun vero chiarimento, nessun "aventino", nessuna archiviazione di una formula politica che resta senza alternative. A meno di non pensare davvero a nuove elezioni, tema su cui ha messo il cappello Beppe Grillo con i suoi toni definitivi e beffardi, ma anche con una prontezza di riflessi di cui gli va dato atto. Raymond Aron riteneva che nell'era contemporanea non fossero più possibili né le guerre totali né una vera pace globale. Lo stesso può dirsi della coalizione guidata da Enrico Letta. Non si configura come un patto politico determinato ma nemmeno si autodistrugge di fronte alle difficoltà. Procede grazie a un paio di fattori positivi. In primo luogo, i ministri di una parte e dell'altra vogliono restare dove sono e intendono collaborare fra loro, se possibile ancora a lungo. Si è creato in altre parole il consueto partito governativo trasversale. In secondo luogo, non c'è crisi all'orizzonte perché al momento ai capi dei maggiori partiti non conviene. Si è detto di Berlusconi inquieto e concentrato solo sulla Cassazione. Ma a sua volta il Partito Democratico di Epifani pensa più che altro a come risolvere il rebus del congresso e del connesso caso Renzi. Prima della sentenza, il quadro è destinato a restare più o meno immobile. Teso, carico di fermenti e di sospetti reciproci, ma senza sbocchi. Né pace né guerra, appunto. E allora tocca a Enrico Letta maneggiare questa realtà poliedrica e sfuggente. Tocca a lui distingere la realtà dalla fantasia e trasformare una fragilità in un elemento di forza. La grande coalizione ha un senso se affronta i problemi con spirito innovativo e con un pizzico di fantasia. Inutile fare l'elenco delle cose che il paese attende: ognuno è in grado di stilare una propria, convincente agenda delle priorità. Quello di cui c'è bisogno è maggiore coraggio. In ogni caso. Se il governo è destinato a cadere nelle prossime settimane o mesi a causa di un Pdl destabilizzato dalla magistratura, questo è un argomento per spingere il premier a gettare subito il cuore oltre l'ostacolo, senza ulteriori esitazioni. Se invece Berlusconi alla fine si salverà dalla condanna penale, ecco un'ottima ragione per accendere fin da subito i motori dell'esecutivo. Comunque sia, l'autentico nemico del governo è l'ordinaria amministrazione. Perché una grande coalizione si realizza proprio quando l'ordinaria ammnistrazione non è sufficiente. Ci vuole una leadership forte per parlare all'opinione pubblica e andare oltre le tensioni che si vanno accumulando. Per dominare la sensazione di essere entrati in una fase senza precedenti. E forse non è un caso se Grillo ha ripreso a parlare di fucili e di moltitudini rivoluzionarie che solo lui saprebbe tenere a bada. Non va preso alla lettera, il capo dei Cinque Stelle, ma va notato il suo ritorno in campo. Segno che il quadro generale della maggioranza e del governo, anzi dello stesso Parlamento, rischia di deteriorarsi. Un punto che senza dubbio preoccupa il Quirinale. da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2013-07-11/larghe-intese-fronte-bivio-063639.shtml?uuid=AbdvgDDI Titolo: Stefano FOLLI. - L'assoluzione di Mori indebolisce il teorema della ... Inserito da: Admin - Luglio 19, 2013, 11:53:04 am L'assoluzione di Mori indebolisce il teorema della trattativa Stato-mafia
di Stefano Folli 18 luglio 2013 Due sono i fatti della giornata di ieri i cui riflessi politici diretti o indiretti sono evidenti. Il primo è l'assoluzione a Palermo del generale dei carabinieri Mario Mori. Il secondo è la sfida di Enrico Letta al «partito della crisi», chiamiamolo così: il premier difende a spada tratta il suo ministro Alfano e venerdì sarà in aula al Senato quando si voterà la sfiducia individuale. Nessun nesso fra i due eventi, salvo uno: entrambi hanno a che fare con la salute delle istituzioni. E quindi con la credibilità complessiva del sistema. Nel primo caso (Mori) la sentenza fa bene alle istituzioni perché restituisce pienamente l'onore a un fedele servitore dello Stato. Il tormentato processo è finito con la sconfessione della tesi accusatoria: l'allora comandante dei Ros non favorì il capo-mafia Bernardo Provenzano. Non ci furono collusioni mafiose e i fatti contestati «non costituiscono reato». Ma la vicenda non finisce qui. Il processo Mori era ed è connesso a un altro procedimento: quello che riguarda la cosiddetta trattativa Stato-mafia. Si ricorderà che intorno a questa ipotesi, peraltro assai fumosa, si creò a un certo punto un cortocircuito che arrivò a sfiorare il Quirinale, attraverso l'intercettazione abusiva delle telefonate di Napolitano. In altre parole, si rischiò di destabilizzare la presidenza della Repubblica. Ora l'assoluzione di Mori è un colpo molto duro, forse mortale, alla leggenda della trattativa. Formalmente il teorema resta in piedi, ma pochi scommettono che le tesi dei pubblici ministeri possano essere accettate dopo che ne è stata smontata la premessa, o se si preferisce l'architrave: appunto la responsabilità di Mori che di quella «trattativa» doveva essere il primo esecutore. Anche l'altro capitolo di giornata (Alfano) tocca da vicino le istituzioni, ma qui si naviga nella nebbia. Certo, Letta ha fatto l'unico passo utile per un presidente del Consiglio che vuole salvare il suo governo: si è schierato senza mezze misure a fianco del ministro dell'Interno. Ha preso di petto tutti coloro che lavorano per indebolire l'esecutivo o addirittura provocarne la caduta in piena estate. Si dirà che l'affare kazako è di tale gravità che la difesa d'ufficio del ministro alla fine potrebbe non bastare. Può darsi, ma ciò non toglie che Letta ha agito da uomo politico. C'è una relazione (del capo della polizia) e c'è un'esigenza generale: evitare un collasso senza alternative. Letta con il suo intervento ha fatto da sponda a quanti nel Pd vogliono comunque difendere la stabilità, per quanto sia amaro il calice da cui oggi bisogna bere. Che il partito sia diviso, non c'è dubbio: basta ascoltare le parole di Anna Finocchiaro e di Cuperlo. Ma se il presidente del Consiglio parla con la determinazione dimostrata da Letta, la vicenda si può tenere sotto controllo. Senza dubbio l'incredibile autolesionismo di Casal Palocco ha fatto molto male alle istituzioni e non ha rafforzato il governo. Ma adesso si tratta di reggere l'impatto dell'onda di marea. Può essere discutibile, ma questa è politica. Tanto più che il premier continua a godere dell'appoggio di Napolitano, il quale prenderà oggi la parola nella cerimonia del "ventaglio" e non potrà evitare di affrontare i temi d'attualità, in un modo o nell'altro. Se il Pd tiene e Letta non si scoraggia, il caso Alfano potrebbe chiudersi. Renzi sembra averlo capito e non a caso ieri sera ha rassicurato tutti: non è sua intenzione far cadere il governo. da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2013-07-18/lassoluzione-mori-indebolisce-teorema-064241.shtml?uuid=AbW8iDFI Titolo: Stefano FOLLI. - Due storie, lo stesso discredito Inserito da: Admin - Luglio 22, 2013, 06:14:45 pm Due storie, lo stesso discredito
di Stefano Folli 16 luglio 2013 Il caso Calderoli-Kyenge e l'affare Kazakistan. Due brutte storie del tutto diverse fra loro eppure intrecciate in modo inestricabile. Con una sola certezza: entrambe irrisolte, hanno provocato un gravissimo danno all'immagine internazionale del nostro paese. Verranno i chiarimenti, forse, ma il danno rimarrà. Non solo. Purtroppo il danno è molteplice, come i tasselli di uno scadente mosaico nel quale si riconosce alla fine la fotografia dell'Italia di oggi. Pasticciona, incompetente e anche indifferente alle ragioni della civiltà e dei diritti delle persone. Al tempo stesso ignorante e volgare, persino fiera di esserlo. Tuttavia le due storie hanno un'origine e un andamento differenti. E anche la conclusione non potrà essere la stessa. Da un lato c'è un vicepresidente leghista del Senato, Calderoli, che pochi giorni fa, nell'aula di Palazzo Madama, ha ottenuto un pubblico riconoscimento dal capo dei senatori del Pd per come sa gestire i lavori dell'assemblea. Un bel gesto di "fair play" istituzionale. Nemmeno ventiquattro ore dopo lo stesso Calderoli, avendo lasciato i panni del dr. Jekill e indossato quelli di mr. Hide, ha coperto di insulti razzisti la ministra dell'Integrazione. In condizioni normali una simile "gaffe" produrrebbe le immediate dimissioni del colpevole. Ma non è così, almeno non per adesso. Calderoli, come è noto, è un esponente della Lega che è fuori dal circuito della maggioranza. Nessuno può obbligarlo a lasciare se non Maroni, il segretario del suo partito. Ma Maroni non può o non vuole. Anzi, le orrende battute di Calderoli – per le quali sono giunte delle tardive scuse – possono persino apparire un modo astuto e ben calcolato in vista di restituire visibilità e popolarità a un Carroccio sulla via del disarmo. E allora ecco che siamo già alla paralisi. Le dure parole di Letta che ha chiamato in causa proprio Maroni non hanno prodotto fin qui alcun risultato. Il che è certo motivo di amarezza per il premier. Quel che è peggio, all'estero passa l'idea che una rilevante figura istituzionale può esprimersi con un gergo razzista e restare al suo posto, cosa che non avverrebbe in alcun altro paese europeo di prima grandezza. Le conseguenze di questo stallo sono imprevedibili, ma è chiaro che Calderoli è ormai delegittimato come vicepresidente del Senato. Sarebbe davvero singolare che egli, oltre a restare in carica, fosse "perdonato" dagli stessi che hanno chiesto a gran voce le sue dimissioni. Ne deriva in ogni caso un ulteriore sfilacciamento dei rapporti istituzionali. E possiamo mettere nel conto anche il tono offensivo con cui un altro leghista, Salvini, si è rivolto a Napolitano. Anche in questo caso sono arrivate le scuse (sia pure a metà), poi accettate dal Quirinale. Ma si resta in uno strano limbo, premessa presto o tardi di ulteriori incidenti. Vero è che la Lega è all'opposizione: quello che accadrà con Calderoli riguarda la civiltà politica, ma non mina in modo diretto la stabilità dell'esecutivo. Viceversa la vicenda kazaka è un'altra storia oscura che ha già proiettato il suo veleno su scala europea, ma i cui esiti toccano gli assetti del governo. Si capisce allora che tutti siano molto prudenti, anche il Pd. Le eventuali dimissioni del ministro dell'Interno Alfano produrrebbero effetti a catena tali da piegare le gambe al governo. Il premier lo sa e infatti si è accanito su Calderoli, sperando di offrire la sua testa a un'opinione pubblica sempre più sconcertata. Ora però l'"impasse" al Senato rende ancora più urgente conoscere come sono andate davvero le cose con la madre kazaka e la sua bambina. Occorrerà che il governo sia molto convincente: i margini per le ambiguità sono esauriti. da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2013-07-16/storie-stesso-discredito-063718.shtml?uuid=AbVcPaEI Titolo: Stefano FOLLI. - Gesti dimostrativi e colpi di coda del Pdl in un clima che ... Inserito da: Admin - Agosto 04, 2013, 09:14:13 am Gesti dimostrativi e colpi di coda del Pdl in un clima che si fa più pesante
di Stefano Folli 03 agosto 2013 Lo scenario che si apre è abbastanza chiaro e tutt'altro che rassicurante. Il logoramento è talmente rapido da rendere difficile anche la cronaca degli eventi. Il paradosso è che la stagione post-berlusconiana è cominciata, ma lui, Berlusconi, è ancora lì. Fra poco abbandonerà il Parlamento o ne verrà espulso, poi dovrà cominciare a espiare la sua pena: agli arresti domiciliari ovvero (meno probabile) ai servizi sociali. Ma intanto, com'era prevedibile, parla, attacca, scuote l'albero delle istituzioni. L a trovata mediatica, ma non per questo meno insidiosa, è quella di convolgere Napolitano con una richiesta di grazia che i suoi seguaci vorrebbero sottoporgli senza averne titolo. Una pretesa vagamente assurda e dal sapore alquanto ricattatorio. Certo, stiamo parlando di un uomo ferito, chiuso nel suo cortocircuito psicologico. Un uomo che verbalmente non risparmia le parole, evoca elezioni politiche «al più presto», ma reclama anche la riforma della giustizia. Offre ai gruppi parlamentari tutto il repertorio che essi vogliono ascoltare, a cominciare dall'attacco alla magistratura definita «un cancro» (e non è una novità). Cosa resta di quel tanto di «prudenza e saggezza istituzionale» a cui lo invitava Giuliano Ferrara dalle colonne del "Foglio"? Resta la necessità di distinguere l'aspetto emotivo della reazione, tipica del "giorno dopo", e il profilo concreto delle scelte compiute dal Pdl in difesa del capo. In definitiva, cosa c'è di concreto? La richiesta di grazia non può nemmeno essere accettata dal Quirinale, per mille ragioni. Il centrodestra deve accontentarsi di affermare un punto politico, ma sul piano giuridico è in un vicolo cieco. Quanto alle dimissioni dei parlamentari e dei ministri, si tratta più che altro di un gesto dimostrativo. Hanno offerto la «disponibilità» a lasciare il campo. Niente di definitivo. Così come Berlusconi non ha ritirato la fiducia al governo. Si potrebbe persino pensare che tutte queste mosse a effetto servono a coprire la realtà: e cioè che il partito berlusconiano, pur colpito e accecato dall'ira, non intende venir meno al patto governativo. E che il vecchio leader si muove come al solito su due piani: da un lato eccita la risposta emotiva, dall'altro tiene fermi i ministri al loro posto. Si capisce perchè: far parte della maggioranza rappresenta ancora una straordinaria carta da giocare all'occorrenza. Una carta di scambio. Perchè rinunciarvi? Non sappiamo fino a quando l'intero centrodestra, che comprende al suo interno importanti componenti moderate, seguirà le suggestioni del suo leader storico, al di là delle ovazioni e degli applausi dovuti. In quel 30 per cento di italiani che Berlusconi è ancora convinto di rappresentare, quanti sono gli elettori disposti a condividere un ricatto alle istituzioni, un tentativo di mettere alle strette il capo dello Stato e di correre l'avventura delle elezioni? Non molti. I più chiedono una politica di responsabilità e riforme serie. Berlusconi lo sa, come sa che i mercati sono stati stranamente tranquilli: segno che non considerano più il personaggio in grado di modificare il corso della storia, causa mancanza di credibilità. Tutto vero. Ma questi colpi di coda sono estremamente pericolosi. Innescano controspinte distruttive, logorano un assetto già fragile. E fortuna che il Pd si mantiene talmente compassato da apparire sonnolento. Meglio così, in un certo senso. Purtroppo però abbiamo superato la soglia di guardia. I Cinque Stelle hanno ritrovato i loro spazi, anche Vendola è molto attivo. La tendenza ricattatoria a cui sta cedendo Berlusconi non otterrà risultati, diciamo così, istituzionali (la grazia, la restituzione della dignità perduta). Ma è la prova che il sasso sta rotolando giù dalla montagna. Converrebbe a tutti, in primis a Berlusconi, fermarne la corsa. da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2013-08-03/gesti-dimostrativi-colpi-coda-082359.shtml?uuid=AbjuVxJI Titolo: La sfida della stabilità, la responsabilità di Berlusconi, le carte di Letta. Inserito da: Admin - Agosto 08, 2013, 04:50:32 pm La sfida della stabilità, la responsabilità di Berlusconi, le carte di Letta
di Stefano Folli 08 agosto 2013 Alla vigilia delle ferie del Parlamento (quattro settimane e non un giorno di meno), si respira un pessimismo di maniera molto diffuso. Le larghe intese – così si ragiona – sono ormai agli sgoccioli e non potranno resistere alle micidiali tensioni provocate dalla condanna di Silvio Berlusconi. Pdl e Pd sono entrati in un vortice e presto le voci più intransigenti avranno il sopravvento sui settori più moderati della maggioranza. È possibile che questo accada, forse è persino probabile, ma l'esito a tutt'oggi non è così scontato. I difensori della stabilità sono più numerosi di quanto si creda e hanno ancora dalla loro dei buoni argomenti. Certo, si cammina senza rete su un filo sottile. Vediamo perché. Punto primo. Non c'è dubbio che il governo Letta è destinato alla rovina se l'unico tema sarà anche nei prossimi tempi il sì o il no al «salvacondotto» per Berlusconi. Se l'ex premier pretende davvero – e non solo per ragioni di orgoglio e di propaganda – che le istituzioni, dal Quirinale al Parlamento, trovino il modo di sterilizzare le conseguenze politiche della sua condanna, sarà difficile immaginare un esito che non sia il collasso dell'esecutivo. Anche perché su questo punto il Pd non sembra in condizione di sostenere un compromesso che suoni come una mezza vittoria del condannato. Non a caso il segretario Epifani ha detto al «Corriere della Sera», con toni certo poco concilianti, che Berlusconi deve accettare la realtà e lasciare il campo. Parole non diverse da quelle pronunciate nel pomeriggio da Renzi («le sentenze vanno rispettate»). Ora, è vero che il Pd deve convivere con complicati problemi interni e con una pressione di opinione pubblica non indifferente, ma a maggior ragione non si può pensare che compia un suicidio politico. Per cui si capisce che un po' tutti, da Epifani a Renzi, da Bersani a D'Alema, divisi sul futuro del partito e sulle famose regole congressuali, sono invece uniti nel chiudere la porta a Berlusconi. In altre parole, se Pdl e Pd restano sullo loro attuali posizioni, il pessimismo è inevitabile. Se viceversa Berlusconi facesse un ulteriore passo avanti sulla via del realismo e riconoscesse che la sua stagione si è conclusa, le ragioni della stabilità finirebbero per prevalere. Il che aiuterebbe l'affermazione a destra di un nuovo gruppo dirigente. Del resto nel Pdl sono in molti a muoversi in tale logica, da Alfano a Quagliariello a Lupi e altri. Per il vecchio leader non sarebbe un'altra sconfitta, piuttosto un modo per evitare più gravi disastri. Punto secondo. Enrico Letta ha la possibilità di sfruttare a suo vantaggio quel minimo di ripresa economica che qualcuno intravede, ma deve trasformare il mese di settembre in un vero trampolino per il rilancio del governo. Su questo c'è poco da discutere. Matteo Renzi è convinto che il suo amico-avversario di Palazzo Chigi non ce la farà e quindi bisogna prepararsi alle elezioni e a prendere i voti del centrodestra. Ma Letta è in grado di smentirlo, a patto che il caso Berlusconi non lo faccia inciampare. Lo si vedrà entro poche settimane. Se Berlusconi, anziché dimettersi volontariamente dal Parlamento, attenderà il voto di esplusione in aula, prepariamoci al peggio. Se invece saranno accolti i consigli del Quirinale e la coalizione troverà in sé la forza di fare le riforme, la storia potrà essere diversa. da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2013-08-08/sfida-stabilita-responsabilita-berlusconi-064357.shtml?uuid=AbekDLLI Titolo: Stefano FOLLI. - L'unico percorso possibile Inserito da: Admin - Agosto 14, 2013, 11:15:43 pm Commenti&Inchieste Italia L'unico percorso possibile di Stefano Folli 14 agosto 2013 Fin dall'inizio era chiaro che la grazia presidenziale non ci sarebbe stata. Nell'idea di certi personaggi vicini a Berlusconi, doveva essere una specie di sconfessione della magistratura da parte del Quirinale. Ma il solo chiederlo era del tutto insensato e infatti nessuno ha avuto questo coraggio, al di là dei furori mediatici. Le sentenze divenute definitive si applicano, dice Giorgio Napolitano. Magari si dissente da quello che la Cassazione ha deciso e anche questo è legittimo; e tuttavia non si butta all'aria il Governo, non si fa pagare al Paese un prezzo inaccettabile. Si accetta il verdetto con rispetto e senso delle istituzioni. Il presidente della Repubblica è molto chiaro nella sua nota: la più attesa, la più politica, quella da cui può dipendere il futuro di una legislatura cominciata da pochi mesi. Ma egli non si limita a sottolineare che Berlusconi oggi può solo scontare la sua pena, sentendosi emarginato dalla dialettica democratica. In realtà il capo dello Stato risponde alla domanda di fondo che è arrivata dal Pdl: come consentire a Berlusconi un certo grado di "agibilità politica", espressione oscura che significa permettere al leader di restare in qualche forma nell'agone politico. Qui la risposta di Napolitano, che si è trovato a interpretare in solitudine quasi un quarto grado di giudizio, è complessa nella forma, ma molto esplicita nella sostanza. Si riconosce a Berlusconi di essere stato un protagonista innegabile della scena nazionale e di essere ancora il capo incontrastato di una forza "importante", tanto importante che da essa discende la stabilità del Governo. Quindi il leader del Pdl ha nelle mani un grande responsabilità, al di là dei casi che riguardano la sua persona: egli resterà alla guida del suo partito nelle forme che saranno possibili e opportune. Continuerà a svolgere un ruolo politico, ma commetterebbe un errore imperdonabile se distruggesse l'equilibrio attuale, quello che si riassume nel Governo Letta e che egli stesso ha contribuito a costruire. Non solo. Fra le righe il presidente sembra suggerire a Berlusconi di accettare l'affidamento ai servizi sociali. Per meglio dire, gli suggerisce di avere fiducia e di avviarsi lungo un percorso virtuoso di riabilitazione per il periodo, circa un anno, in cui dovrà scontare la pena. È l'opposto esatto della linea, pressoché eversiva, di chi ha consigliato all'ex premier condannato di correre l'avventura delle elezioni anticipate. Eppure la storia di Berlusconi è fatta di mosse d'azzardo, ma anche di gesti di forte realismo. Tutto lascia pensare che stavolta, giunto al momento più difficile della sua vita pubblica, egli sceglierà ancora una volta il realismo. Del resto, la nota solenne di Napolitano è il frutto di un lavoro preparatorio e non è certo destinata a cadere nel vuoto delle polemiche. Serve a chiudere la vicenda, per quanto è possibile, salvando il Governo e l'assetto delle larghe intese faticosamente messo in piedi. Non è un caso se il punto politico - la preoccupazione per la sorte del Governo - apre e chiude la nota scritta di suo pugno dal capo dello Stato. Quanto a Berlusconi, egli può persino vedere la luce in fondo al suo personale tunnel. Non quella che avrebbe desiderato in base a una bizzarra concezione dello Stato di diritto e dei poteri del Quirinale. Ma la luce di un sentiero che potrebbe portarlo in futuro anche alla grazia. Purché, sia chiaro, si seguano tutte le procedure, si lasci al presidente il compito costituzionale di valutare e soprattutto, nel frattempo, si proceda con l'espiazione della pena. Poi, se le circostanze saranno propizie e soprattutto se nessuno avrà scassato l'equilibrio politico per vendetta o ritorsione, si vedrà. Senza alcuna forzatura istituzionale. Questo significa che il leader del Pdl è in grado di costruirsi la propria "agibilità politica". Immediata per quanto riguarda il destino del Pdl o di Forza Italia, come di nuovo si chiamerà: formazioni di cui egli continuerà a essere il capo. Ma c'è un'agibilità più sostanziale, più idonea a un uomo che è stato per tanti anni presidente del Consiglio di questo Paese: ed è quella che discende dal pagare per i propri errori accettando il verdetto della magistratura, garantendo al tempo stesso la necessaria stabilità. da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2013-08-14/lunico-percorso-possibile-063619.shtml Titolo: Stefano FOLLI. - Come Papa Francesco colma il vuoto della politica. Inserito da: Admin - Settembre 17, 2013, 11:10:54 pm Come Papa Francesco colma il vuoto della politica.
Il Punto di Folli E' impressionante come in queste settimane, mentre la politica italiana è ridotta all'ossessivo braccio di ferro intorno a Berlusconi, le sue condanne e la sua uscita dal Parlamento, quasi tutti gli altri spazi siano stati occupati dal Papa Francesco e dalle sue iniziative. La nostra politica rotola in un tunnel sempre più cieco, la politica del pontefice allarga i suoi orizzonti e conquista le prime pagine dei giornali del mondo. Non è solo un fatto mediatico, ma di sostanza. La posizione sulla Siria, sugli immigrati, i cambiamenti al vertice della Chiesa e infine la lettera a Eugenio Scalfari che tende a impostare in modo nuovo il rapporto con il mondo laico, tra fede e ragione. In modo sempre più deciso il nuovo Papa occupa nelle coscienze il vuoto lasciato da una politica fallita. Con un rispetto speciale, ed è la novità, verso la posizione dei laici. Non è più un'ingerenza, è una semplice sostituzione. Una presa di possesso degli edifici sguarniti. Le conseguenze a lungo termine saranno profonde. da - http://www.radio24.ilsole24ore.com/programma/punto/2013-09-13/come-papa-francesco-colma-155404.php?idpuntata=gSLAYOZOV&date=2013-09-13 Titolo: Stefano FOLLI. - Berlusconi: l'epilogo più tormentato Inserito da: Admin - Settembre 20, 2013, 04:52:00 pm Berlusconi: l'epilogo più tormentato
di Stefano Folli 18 settembre 2013 La domanda che correva ieri sera nei giornali e nei palazzi politici era quasi ovvia: quanto influirà l'ultimo atto della questione Mondadori sulle mosse di Berlusconi? Quanto peseranno quei 494 milioni su un uomo già molto stressato? La risposta è: in termini politici assai poco. È difficile immaginare che il super-indennizzo a Carlo De Benedetti possa modificare la decisione sofferta e obbligata di non aprire la crisi. Vorrebbe dire che Berlusconi ha ancora la possibilità di fare delle scelte e di rovesciare il tavolo. In passato accadeva, certo, ma allora il capo della destra era nella sua età dell'oro. Oggi è un uomo provato e schiacciato dalle avversità che scandiscono il suo tramonto. Se alla caduta del governo preferisce un discorso su nastro registrato non è per generosità, ma per il buon motivo che non può fare altro. Mostrare senso di responsabilità o addirittura senso delle istituzioni è l'unica carta seria che gli resta da giocare. Guai a sprecarla per compiacere gli stati d'animo in ebollizione. Peraltro è abbastanza evidente. Rancore, rabbia, frustrazione sono i sentimenti tutt'altro che mascherati che si agitano nel suo animo. Ma la faccenda Mondadori può esasperarlo solo sul piano psicologico. È irrealistico che Berlusconi, giunto all'ultimo passaggio della sua storia parlamentare, possa fare altro che aggiungere un paragrafo al discorso registrato. Sarà un'occasione in più per attaccare la magistratura e presentarsi come vittima designata di una supposta persecuzione che si accanisce contro di lui anche per mezzo di una tenace e peculiare tempistica. Quasi una tenaglia. La verità è che il leader del centrodestra è ormai consapevole che il suo futuro è fuori del Parlamento. L'epilogo è già scritto e ci si arriverà in un modo o nell'altro entro due, tre settimane. Attraverso una serie di traumi e di colpi all'"ego" berlusconiano, i primi dei quali arriveranno già domani sera con il voto della Giunta di Palazzo Madama. Un voto il cui esito sembra talmente scontato da non suscitare alcuna "suspence". La vera questione quindi è un'altra: Berlusconi accetterà questa lunga e definitiva mortificazione - a meno di colpi di scena davvero poco prevedibili - o preferirà tagliar corto e dimettersi dal Senato prima di subire il voto finale dell'aula? Il buonsenso suggerisce dimissioni anticipate e poi via con i nove mesi ai servizi sociali o in alternativa agli arresti domiciliari. Per il resto sentiremo cosa dirà nell'arringa televisiva. Non dovrebbe essere un testamento politico, cosa di cui l'uomo non sente il bisogno. Semmai sarà un tentativo di rilancio al di fuori del Parlamento: una promessa ai suoi che un nuovo '94 è ancora possibile. Non è vero, naturalmente. Il tempo è passato in modo inesorabile e ricominciare oggi daccapo, con una nuova Forza Italia, rischia di essere un'impresa temeraria. D'altra parte oggi la forza di Berlusconi è ancora in grado di destabilizzare qualsiasi scenario politico. Almeno sulla carta. Ma abbiamo detto che l'uomo non ha tale convenienza, anche per non rischiare di essere smentito da una fetta dei suoi seguaci. Ci sarà l'appoggio al governo Letta, ma sarà avaro e ambiguo, carico di rabbia repressa a fatica. Nella prima Repubblica si parlava di «governo amico» quando un partito sosteneva l'esecutivo ma da lontano, senza impegnarsi più di tanto. Forse accadrà lo stesso. Un «governo amico», quello di Enrico Letta. E mai espressione è apparsa intrisa di così sottile ipocrisia. Spetterà al premier riuscire ad allargare un sentiero che si è fatto stretto e infido. da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2013-09-18/lepilogo-tormentato-064357.shtml?uuid=AbLEuvXI Titolo: Stefano FOLLI. - L'errore di Berlusconi e l'urgenza di ripartire dal Parlamento Inserito da: Admin - Settembre 29, 2013, 11:10:03 am L'errore di Berlusconi e l'urgenza di ripartire dal Parlamento
di Stefano Folli 29 settembre 2013 L'errore di Berlusconi e l'urgenza di ripartire dal Parlamento Ora che il filo si è spezzato, non serve farsi prendere dal panico. Che la situazione sia pessima è evidente a tutti e non da oggi. Per questo chi ha un po' di buonsenso ha il dovere di metterlo sul tavolo. Il pericolo incombente è che la crisi di governo sia solo il segmento di un dramma più profondo che investe il quadro istituzionale e lo sconvolge. Non a caso il Quirinale era da giorni sotto attacco da parte del centrodestra. L'accusa rivolta a Napolitano, in modo più o meno subdolo, è di non aver voluto salvare Berlusconi dalle forche caudine giudiziarie. Il che tradisce una visione deformata dei rapporti costituzionali, ma al tempo stesso espone il capo dello Stato a una guerriglia assai insidiosa. Sono pochi gli italiani, anche fra i seguaci del Pdl, che credono ciecamente alla tesi di una crisi aperta per protestare contro il blocco del decreto sull'Iva. Tutti sanno bene che l'Iva in questo caso vale molto meno della pistola di Sarajevo da cui ebbe origine la prima guerra mondiale. La vera causa è la questione della decadenza dal Senato, l'impossibilità per Berlusconi di accettare le norme della legge Severino (peraltro votata da tutti i parlamentari del Pdl, gli stessi che oggi fingono di dimettersi per protesta contro quelle norme), la volontà di proseguire in ogni modo la guerra contro i magistrati, quali che siano i danni che ne derivano. C'è in questo modo schizofrenico di procedere, ormai privo di razionalità, una spinta auto-distruttiva. Un uomo che sente di essere giunto al termine della sua parabola pubblica, si ribella alla realtà e alla perdita del vecchio smalto. E tenta di cancellare tutto (gli ostacoli, le sconfitte patite, il tempo trascorso) con un gran colpo di dadi. In passato il gioco gli riuscì - si pensi alla Bicamerale buttata all'aria nel 1998 - ma adesso la mossa risulta incomprensibile, per un verso, e parecchio auto-lesionista, dall'altro. Un errore che potrebbe segnare l'epilogo ventennale di Forza Italia nelle sue varie incarnazioni. A meno di un repentino cambio di rotta, con i ministri che ritirano le dimissioni (e niente ieri sera lo lasciava presagire), Berlusconi porterà il suo partito all'opposizione, con tutti i rischi connessi. A lui convengono le elezioni, da giocare a questo punto su una piattaforma massimalista e populista. Ma nessuno crede che Napolitano gliele concederà come se si trattasse di un bicchier d'acqua. Più facile immaginare un governo "del presidente" per fare due o tre cose prima del voto (la legge di stabilità, in primo luogo, ma anche uno sforzo in vista della riforma elettorale). Quale sarà allora il vantaggio di Berlusconi? Si ritroverà isolato e privo delle leve di governo e potrebbe finire per rimpiangere le larghe intese di cui era uno dei maggiori azionisti, certo il più capace di farsi valere. D'altra parte, le mosse di Enrico Letta sono obbligate dalle circostanze. In primo luogo la crisi va portata in Parlamento. Proprio perché non si tratta di una crisi tradizionale, ma c'è in essa un elemento torbido e devastante in grado di minacciare l'assetto istituzionale, è opportuno che lo psicodramma si compia lì dove lo sfortunato governo di "grande coalizione" aveva avuto origine pochi mesi fa fra Camera e Senato. Sarà in quelle aule che Letta dovrà spiegare in modo molto chiaro, rivolgendosi agli italiani e anche agli europei, quale grave responsabilità si assume chi apre questa finestra sull'ignoto. Magari dirà anche se era proprio necessario - pur in presenza di uno smottamento del quadro politico - bloccare il decreto sull'Iva. Qualcuno pensa che non sia stata una mossa felice, se non altro per l'occasione offerta a Berlusconi. In ogni caso, bisogna ripartire dal Parlamento. Proprio perché si coglie il sottinteso istituzionale di questa brutta vicenda, sarà opportuno tessere il nuovo filo partendo dall'istituzione parlamentare. Per la formula politica si vedrà. Ma fin da ora vien da chiedersi se esiste davvero la famosa ala moderata e dialogante del Pdl. Se non sono un'invenzione, questo è il momento in cui le fatidiche colombe dovrebbero prendere il volo. ©RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2013-09-29/lerrore-berlusconi-urgenza-ripartire-091703.shtml Titolo: Stefano FOLLI. - Sulla giustizia rotto il tabù della sinistra Inserito da: Admin - Ottobre 28, 2013, 10:37:02 am Renzi, Sulla giustizia rotto il tabù della sinistra (di S.Folli)
Analisi di Stefano Folli, con un articolo da Firenze di Emilia Patta 27 ottobre 2013 La novità più interessante uscita dalla Leopolda non riguarda la legge elettorale, bensì la proposta di affrontare la riforma della giustizia. Qui Renzi ha davvero infranto un tabù della sinistra. Ufficialmente il tema non è mai stato affrontato perché dall'altra parte c'era Berlusconi, con il quale – in base al generale convincimento – non si voleva e non si poteva affrontare il tema nemmeno alla lontana. In realtà l'impressione è sempre stata un'altra: la questione giustizia è rimasta fuori dall'agenda dei vari governi di centrosinistra perché la corporazione dei magistrati è sempre stata più forte delle volontà politiche. Oggi invece Renzi, cioè il prossimo, anzi imminente segretario del Pd, spezza l'incantesimo. E promettendo che la riforma della giustizia sarà prioritaria egli rende un omaggio indiretto anche al presidente della Repubblica che ha sempre propugnato tale riforma, anche a costo di attirarsi gli strali degli ambienti cosiddetti "giustizialisti". Non solo. Rompendo il tabù, Renzi getta un ponte verso il centrodestra, sia nella versione Alfano sia in quella berlusconian-oltranzista. Infatti non sembra realistico che una riforma di questa portata, se mai sarà definita, possa essere approvata da una sola parte politica. Fra l'altro, non ci sarebbero i numeri, almeno nell'attuale Parlamento. Vedremo comunque se adesso il giovane sindaco di Firenze saprà tener testa all'offensiva di cui sarà il bersaglio. Se resterà impavido a prendersi le contumelie del partito anti-riforma, egli avrà fatto un passo avanti rilevante. E quel che più conta, lo avrà fatto fare alla coscienza di sé di cui il centrosinistra deve dar prova. La frase "a effetto" più efficace è forse quella in cui Renzi ha attaccato il conservatorismo: «Una sinistra che non cambia mai diventa una destra». Semplice ma convincente per suggerire maggiore coraggio e un po' di voglia di rischiare. Del resto, sembra proprio che il sindaco abbia capito che le elezioni non sono dietro l'angolo. Berlusconi farà quello che vuole con il suo "giocattolo", cioè la nuova Forza Italia, ma è chiaro che in Parlamento esiste una corrente governativa del Pdl in grado di sostenere il governo Letta e ben determinato a farlo. Renzi perciò deve cambiare qualcosa nella sua strategia se non vuole passare lui per l'affondatore dell'esecutivo. E un conto è non amare le "larghe intese", come il fiorentino ripete a ogni pié sospinto, e un altro è affossare subito gli assetti politici per far correre al paese un'avventura elettorale. Forse Renzi ha capito che in un primo tempo la sua missione consiste nel ricostruire il centrosinistra, nel dargli una rotta e una visione, e solo in un secondo tempo guidarlo nello scontro elettorale. Che ci sia tanto da fare lo dimostra anche l'intervento di Epifani, riflesso di un'idea troppo timida e difensiva del centrosinistra. Quella di Renzi è all'opposto un'idea fin troppo temeraria, ma oggi serve anche questo, oltre a una certa dose di ottimismo. Adesso però tocca a lui, a Renzi, dimostrare qualcosa. Cioè di essere capace di rinnovare il gruppo dirigente del partito, per non presentarsi sempre e in ogni caso come l'"uomo solo al comando". C'è tanto da fare e Renzi dovrà cominciare subito. Resta il punto della legge elettorale. La richiesta di un maggioritario che permetta di individuare subito una maggioranza sicura e stabile è sacrosanta. Ma anche qui bisogna essere realisti. Per il doppio turno francese non esiste una maggioranza in Parlamento, nemmeno con l'apporto dei "ministeriali" del centrodestra (in questo caso Alfano e gli altri non hanno interesse a sostenere una legge che li schiaccerebbe, togliendo loro il ruolo). Sulla carta è vero che il modello dei comuni, quello che elegge i sindaci, ha dimostrato di funzionare, ma la realtà nazionale è un'altra, resa vischiosa dalle mille paure dei parlamentari e dalla logica dei palazzi romani. L'ideale sarebbe legare la riforma in senso maggioritario alla più generale riforma delle istituzioni. Ma i tempi sono sfalsati. L'imminente pronuncia della Consulta obbliga le Camere a intervenire ed è vero che oggi i proporzionalisti appaiono più agguerriti. Renzi dovrà affrontare questo difficile passaggio riuscendo a coniugare le sue opinioni con la complessità del quadro politico. Questo fa un leader politico, a meno che non voglia solo affermare "un principio identitario", come ha scritto Panebianco sul Corriere per inquadrare la battaglia pro-maggioritario del sindaco. Non si tratta di ammainare quella bandiera, ma di conciliarla oggi con i dati della realtà. Proprio per non perdere la guerra. ©RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2013-10-27/sulla-giustizia-rotto-tabu-sinistra-174855.shtml?uuid=ABd4egZ Titolo: Stefano FOLLI. - Il rischio dei vecchi rituali Inserito da: Admin - Gennaio 08, 2014, 10:28:50 pm Il rischio dei vecchi rituali
di Stefano Folli 8 gennaio 2014 Non sarebbe giusto far torto all'intelligenza politica di Renzi accreditando l'idea che egli voglia correre alle urne in modo frettoloso e disordinato. Il neosegretario del Pd è irruento e persino spregiudicato, ma finora ha sempre dimostrato un istinto sicuro nelle scelte di fondo. Gli piace coltivare la sua immagine che non è quella del «grigio burocrate», come ripete spesso. Adora scuotere l'albero della vecchia politica e raccogliere consensi come l'uomo nuovo che in effetti egli è. Tuttavia ci sono i sogni e c'è la realtà. Per meglio dire, ci sono le parole e i fatti. Le prime riguardano la propaganda, o se si vuole la costruzione di un'originale identità (si spera non solo televisiva) per il Pd rinnovato. Opera faticosa e non istantanea, il cui risultato ultimo è tutt'altro che scontato. I secondi, i fatti, toccano l'agire quotidiano, le scelte concrete e in definitiva il rapporto con il governo Letta. Che tale rapporto sia intriso di ambiguità, lo hanno capito tutti da un pezzo. Ma che Renzi pensi sul serio di sbarazzarsene da un giorno all'altro, magari con l'aiuto di Berlusconi e Grillo, è un'approssimazione che viaggia sul web e su qualche foglio cartaceo, priva però di credibilità. Certo, la situazione potrebbe sempre sfuggire di mano e dar luogo a un corto circuito istituzionale. Ma sarebbe, appunto, un esito involontario anziché l'obiettivo di una lucida strategia. S'intende che la partita fra i due, Letta e Renzi, è appena agli inizi, mentre la tensione è destinata a crescere. Il fatto che il sindaco di Firenze sia nella sostanza più prudente di quanto appaia ai suoi sostenitori, non deve tranquillizzare il presidente del Consiglio: anzi, dovrebbe semmai stimolarlo ad accelerare il profilo riformatore del governo. Ora si attende che entro dieci giorni il «patto di coalizione» sia al centro di incontri fra i capi della maggioranza. Ma è senza dubbio un errore ripetere lo schema dei vecchi «vertici» stile Prima Repubblica. Se si vuole «ingabbiare» Renzi intorno a un tavolo, per trasmettere l'idea che si tratta di un partner come gli altri, al pari di Alfano e del segretario di Scelta Civica, si rischia di ottenere l'effetto opposto. Il sindaco di Firenze è abbastanza astuto da sottrarsi in fretta a queste trappole e peraltro egli è portatore di una novità politica che non può essere mortificata in uno stanco rituale. Sarebbe un atto di autolesionismo da parte dell'intera classe politica. In ogni caso la mossa di Enrico Letta, volta ad aprire senza altre esitazioni la trattativa sul governo, sembra più che opportuna. Ma a condizione di trasmettere all'opinione pubblica il senso di un effettivo dinamismo. Proprio per questo la riscrittura del patto di maggioranza non può assomigliare a una riedizione delle «verifiche» che un tempo scandivano, più che il rilancio, il declino delle coalizioni. Il pericolo maggiore è che alla fine non emerga né un nuovo patto di medio termine né un'esplicita rottura, preliminare alle elezioni anticipate. Sarebbe la soluzione peggiore, capace di produrre solo un crescente logoramento: sia del governo sia dell'innovatore Renzi. Soprattutto se la matassa della riforma elettorale tornasse ad ingarbugliarsi. Perchè non basta certo l'asse preferenziale fra Renzi e Berlusconi per delineare un modello in grado di fotografare la complessità del quadro italiano. ©RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2014-01-08/il-rischio-vecchi-rituali-082436.shtml?uuid=ABVLcHo Titolo: Stefano FOLLI. - Le istituzioni come poker Inserito da: Admin - Febbraio 01, 2014, 10:47:20 am Le istituzioni come poker
di Stefano Folli 31 gennaio 2014 I grandi leader populisti adorano la solitudine, essere unici contro tutti gli altri. A maggior ragione quelli che disprezzano le istituzioni nelle quali, per una contingenza storica, si sono trovati a operare. O quelli che ignorano il significato del termine mediazione. Per anni in Francia Jean-Marie Le Pen, nostalgico di Vichy e nemico della Repubblica gollista, usò il proprio isolamento come straordinaria arma politica, al pari del suo mentore Poujade. Più gli altri erano coalizzati contro di lui, più il messaggio del suo Fronte Nazionale arrivava nitido ai militanti e agli elettori. Di solito questo non bastava per andare oltre una certa soglia (fino a quasi il 18 per cento nel secondo turno dell'elezione presidenziale del 2002), ma era più che sufficiente per garantire a un abile politicante un ruolo pubblico di primo piano. Ovviamente Le Pen non si sognò mai di mettere sotto accusa il presidente della Repubblica, che a Parigi è anche il capo dell'esecutivo. Un conto era la polemica politica feroce, un altro il sostanziale rispetto per le istituzioni. Beppe Grillo invece ha scalato di corsa tutti i gradini di un conflitto senza respiro in cui la politica e le istituzioni si miscelano senza una logica che non sia l'affermazione perentoria, brutale, di una supposta diversità integrale dei parlamentari Cinque Stelle e del loro leader indiscusso. Si dirà che non è la prima volta che le aule parlamentari sono teatro di scontri violenti, anche fisici, tra le fazioni. Lo stesso Quirinale in passato è stato tirato nell'arena, basti pensare al caso Leone negli anni Settanta. Ma era un'altra Italia e un altro mondo. Oggi il Parlamento è svuotato e immiserito, la politica è debole, la stabilità è una pianta preziosa che richiede molte cure e la presidenza della Repubblica costituisce il baricentro di un equilibrio e di un sistema di garanzie al momento irrinunciabili. Ovviamente Grillo non è Le Pen (padre o figlia) e non è nemmeno Poujade, i quali si sono mossi nel solco di una certa idea della Francia. La cultura dei Cinque Stelle è l'eterno presente del "web" e il loro modo di stare nelle istituzioni riflette la violenza dei "blog". Per loro fare ostruzionismo alla Camera e mettere sotto accusa Napolitano sono iniziative intercambiabili, due facce della stessa medaglia. Non credono nelle istituzioni di cui pure sono parte, non concepiscono il compromesso, il passo indietro. L'isolamento è la loro fede e quando si è soli bisogna puntare sempre verso l'alto perchè ogni incertezza è una sconfitta. La domanda é: ora che Grillo ha aperto il fuoco contro il capo dello Stato, pur senza alcuna prospettiva di vedere approvato l'"impeachment" dal Parlamento, cos'altro può fare? Ha usato l'arma letale, ma quello che ottiene è solo una grande copertura di stampa. Dopodiché il salto in alto diventa salto nel vuoto. In ogni caso si capisce quale sia la logica. L'accordo sulla riforma elettorale ha spaventato Grillo, gli ha fatto capire che il suo spazio potrebbe rapidamente restringersi. Renzi punta a inglobare almeno una parte dei consensi "stellati" e il leader populista se ne preoccupa. Nel suo schema il Pd e Forza Italia possono e anzi devono accordarsi (il famoso "PdmenoElle"), ma a patto che non escano mai dall'immobilismo. La sola ipotesi che le riforme facciano un passo avanti lo mette in allarme. Così ha dato fuoco alle polveri. Caos in Parlamento (aiutato dagli errori della maggioranza e della presidenza di Montecitorio), attacco frontale al Quirinale. La scelta del momento è cinica, connessa alle novità sul fronte riformatore. E all'apertura della campagna per il voto europeo. Da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2014-01-31/le-istituzioni-come-poker-064349.shtml?uuid=ABlj6Ut Titolo: Stefano FOLLI. - L'ultimo atto di Letta è uno schiaffo a Renzi Inserito da: Admin - Febbraio 14, 2014, 06:33:17 pm L'ultimo atto di Letta è uno schiaffo a Renzi
di Stefano Folli 13 febbraio 2014 Se Enrico Letta ha voluto rivendicare la propria dignità e difendere la bontà del lavoro svolto, non si può che rispettare la sua scelta. Se ha voluto far capire quanto si senta tradito da Renzi e dal Pd, anche questo è comprensibile. Ma se ha voluto aprire una sfida per restare a Palazzo Chigi, questo sarebbe irrealistico. E infatti non sembra proprio che il presidente del Consiglio abbia gettato il guanto nel campo dei renziani. Per quanto ferito e irritato, il suo tono è sempre stato misurato. Si è definito più volte «uomo delle istituzioni» e ha reso omaggio a Napolitano, del cui consiglio non ha mai fatto a meno in questi nove mesi di governo. Ha ricordato che un governo è tale fin quando ha una maggioranza parlamentare, ma è sembrato soprattutto in attesa di quello che deciderà oggi la Direzione del suo partito. Non c'è alcuna volontà di usare le istituzioni per una resa dei conti personale (peraltro il Quirinale non lo permetterebbe). C'è invece il desiderio di mostrare il lato oscuro della scalata di Matteo Renzi, descritto fra le righe quasi come un giocatore di poker costretto ad alzare sempre la posta nella speranza che nessuno veda il bluff. Il sottinteso è evidente. È come se Letta dicesse: vedete, io sono serio e prudente, ma realizzo quello che prometto, procedendo senza inutili «protagonismi»; altri invece vogliono accantonare il mio governo per condurvi sul terreno dell'avventura con tutti i rischi connessi. È fuori della realtà che questa uscita possa cambiare il corso delle cose e convincere la maggioranza del Pd. In termini tecnici l'iniziativa di Letta, le proposte e i punti programmatici di "Impegno 2014" arrivano fuori tempo massimo, fra l'altro quando le agenzie hanno appena diffuso un'aspra dichiarazione di Alfano, il fedele centrista, che sancisce il passaggio dell'Ncd nell'accampamento di Renzi (dichiarazione smentita pro-forma due ore dopo). Tuttavia il presidente del Consiglio qualcosa ha ottenuto con la sua conferenza stampa. Ha complicato la vita del suo competitore. Ha, come si dice, alzato l'asticella oltre la quale Renzi deve saltare. Lo ha sfidato – in questo senso, sì – a dire chiaro e tondo quali sono le sue intenzioni. A sfiduciarlo a viso aperto nella Direzione di oggi. Perché un capo di governo non si dimette in base alle «dicerie» e ai «mormorii». Soluzione, quest'ultima, che forse sarebbe gradita a Renzi perché eviterebbe ulteriori lacerazioni in un partito che sta offrendo il consueto spettacolo paradossale, dilaniato com'è dalla rivalità interna. Letta insomma si è preso i titoli dei giornali di stamane. E oggi pomeriggio Renzi, l'uomo nuovo, non potrà non affondare il colpo fratricida sotto l'occhio delle telecamere. Dovrà farlo in base alle stesse attese da lui alimentate nei giorni scorsi. Ed è bene che tutto si chiuda entro stasera, pena un grave, forse irrimediabile appannamento dell'immagine renziana. Ma non basta. Il segretario del Pd dovrà motivare in modo articolato una decisione certo non di ordinaria amministrazione. Il vero argomento a sua disposizione riguarda l'orizzonte del nuovo esecutivo. Un orizzonte di legislatura, l'unico in grado di garantire quegli interventi strutturali sull'economia e le istituzioni di cui il paese ha urgenza. Ma un tale impegno non potrà ridursi a una tattica, un gioco di prestigio che sfocia nelle elezioni anticipate alla prima difficoltà. Se Renzi va a Palazzo Chigi, dovrà essere per cominciare un serio cammino riformatore. In fondo, con la sua uscita di scena Letta ha gettato qualche mina sul percorso del suo successore, ma gli permette anche di dimostrare di quale stoffa è fatto. Da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2014-02-13/l-ultimo-atto-letta-e-schiaffo-renzi-064056.shtml?uuid=ABH5sFw&cmpid=nl_7%2Boggi_sole24ore_com Titolo: Stefano FOLLI. - Governo di legislatura? C'è molto scetticismo Inserito da: Admin - Febbraio 15, 2014, 11:49:40 am Governo di legislatura? C'è molto scetticismo
di Stefano Folli 15 febbraio 2014 Nel suo inarrestabile incedere verso Palazzo Chigi Renzi è giunto ormai a pochi passi dal traguardo, ma finora non è riuscito a unire il Paese dietro di sé. È riuscito a unire, più o meno, la Direzione del Pd ma non l'opinione pubblica che ha bisogno di capire meglio cosa succede. Si avverte in giro una sottile diffidenza, tipica di quando c'è nell'aria l'odore dell'operazione di palazzo. Viceversa, il sindaco ha unito i mercati: Borsa gagliarda e operatori finanziari contenti del cambio, da cui si aspettano vigore, "sprint" e soprattutto tempi fulminei quando ci sarà da prendere decisioni. Questo doppio registro (dubbi a livello popolare, soddisfazione fra gli investitori) è la fotografia dell'ambiguità in cui nasce il nuovo governo. Ma su questo, e del colpo di pugnale inferto a Enrico Letta, si è già scritto tutto. La solitudine del presidente del Consiglio, mentre saliva ieri al Quirinale per dimettersi, non ha bisogno di commenti. Il caso vuole che Letta esca di scena proprio quando torna il segno "più", sia pure assai risicato, accanto alle cifre della produzione industriale; e addirittura l'agenzia Moody's decide di migliorare la prospettiva dell'Italia. Pura coincidenza, certo. Ma l'amarezza dell'uscente è giustificata. Del resto, Napoleone diceva di volere al suo fianco generali che fossero non solo bravi, ma soprattutto fortunati. E Renzi sta dimostrando di essere un generale fortunato, come dimostra l'esempio di Moody's. Un generale fortunato che spera di guadagnarsi i galloni del nuovo Napoleone, visto che l'ambizione non manca. Per il momento sappiamo che il sindaco non perde un secondo né lo fa perdere all'Italia. Quando Napolitano avrà concluso le rapide consultazioni cominciate ieri e gli darà l'incarico (forse già stasera oppure domattina), c'è da scommettere che Renzi vorrà battere tutti i record nella presentazione dei ministri. Su quel terreno sarà giudicato per la prima volta: cioè sul valore e il profilo della squadra ministeriale. Subito dopo sarà valutato per la qualità del programma e degli impegni riformatori che esporrà davanti al Parlamento: perché non si è ancora capito con chiarezza se il premier che viene da Firenze sarà l'uomo della grande concretezza ovvero il re delle promesse generiche. Questo aspetto va chiarito al più presto perché di giudici ce ne sono anche e soprattutto al di là dei confini. L'Unione europea guarda con simpatia all'uomo nuovo, benché rimpianga la competenza e la serietà di Letta. Ma il dinamismo renziano, un po' ruspante, incuriosisce e l'idea che l'Italia esca dal suo torpore è stimolante per tutti. In fondo anche Angela Merkel si è limitata ad auspicare che Roma chiuda in fretta la sua crisi di governo. Non proprio un'interferenza, come qualcuno ha voluto subito vedere. In sostanza, c'è solo da attendere, ben sapendo che i tempi saranno brevi. Il clima politico in cui nasce il governo Renzi non è disteso né tanto meno sereno, come si è capito quando la Lega (dopo il M5S) ha deciso di non salire al Quirinale e ha mancato di rispetto al capo dello Stato. Peraltro un minimo di negoziato con i soci della coalizione, a cominciare dal gruppo di Alfano, il premier incaricato dovrà svolgerlo. E poi dovrà fare del suo meglio per dissipare la sottile e diffusa patina di diffidenza di cui si è detto. La verità è che pochi, nel palazzo e nell'opinione pubblica, credono alla super-promessa fatta dal leader alla direzione del Pd e destinata a essere reiterata in Parlamento: l'impegno cioè a concludere la legislatura allargando l'orizzonte dell'esecutivo fino al 2018. È quello che tanti vogliono sentirsi dire e Renzi li ha accontentati. Ma queste promesse richiedono tali e tante circostanze favorevoli da non essere molto credibili. In fondo Renzi non è riuscito a essere coerente con quello che egli stesso diceva del governo Letta appena dieci giorni fa. Difficile credergli a scatola chiusa quando garantisce un governo di quattro anni. © RIPRODUZIONE RISERVATA DA - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2014-02-15/governo-legislatura-c-e-molto-scetticismo-081601.shtml?uuid=ABAmnlw Titolo: Stefano FOLLI. - Il paradosso italiano nel ritorno di Berlusconi al Quirinale Inserito da: Admin - Febbraio 16, 2014, 11:05:48 pm Il paradosso italiano nel ritorno di Berlusconi al Quirinale
di Stefano Folli 16 febbraio 2014 Il paradosso italiano è anche questo. Nei giorni in cui prende forma il governo dell'uomo nuovo, il "pié veloce" Renzi, al Quirinale si presenta per le consultazioni il simbolo del ventennio passato. Berlusconi non solo è un condannato in attesa di scontare i nove mesi della pena, ma è stato anche espulso dal Senato. Eppure egli è e resta il leader di Forza Italia, dimostra di sapere ancora come si raccoglie il consenso e da poco è diventato l'interlocutore privilegiato di Renzi sulle riforme istituzionali e la legge elettorale. Perciò guidava la delegazione del suo partito ed era legittimato a esser lì. Se non si coglie il paradosso, non si capisce il mistero italiano. Passato e presente s'intrecciano in forme insondabili. Il nuovo deve farsi strada scavando un tunnel nella complessità del sistema e le istituzioni sono un caleidoscopio che riflette questa "realtà romanzesca". Chi ha mancato di rispetto al capo dello Stato non salendo al Quirinale e chi è salito per mostrare al mondo di essere ancora in sella. Un tempo le consultazioni servivano a offrire aiuto e sostegno al Presidente della Repubblica. Oggi servono ad altro. ©RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2014-02-16/il-paradosso-italiano-ritorno-berlusconi-quirinale--092407.shtml?uuid=ABejcvw Titolo: Stefano FOLLI. - La partenza e i dubbi. Quattro nodi da chiarire Inserito da: Admin - Febbraio 17, 2014, 07:21:11 pm La partenza e i dubbi. Quattro nodi da chiarire
di Stefano Folli17 febbraio 2014 Stamane comincia dunque l'era di Matteo Renzi. Se sarà lunga o effimera, destinata a cambiare l'Italia o a risolversi in un mero gioco di potere, non lo sappiamo. Quel che sappiamo è che Giorgio Napolitano non metterà vincoli temporali al giovane incaricato, non gli chiederà di affrettarsi per essere fedele al suo personaggio "veni, vidi, vici". Gli chiederà semmai di lavorare intorno a pochi ma essenziali punti di programma, in modo da costruirvi intorno una cornice politica credibile, senza farsi risucchiare nella famosa palude. Quella palude che Renzi vede come pericolo, ma che ora è costretto ad attraversare. In ogni caso non ci sono ostacoli insuperabili sulla via del sindaco, tali da bloccare la sua ascesa; però ce ne sono abbastanza per determinare il profilo del governo e il suo spessore politico. Perché quando l'incaricato tornerà al Quirinale con la lista dei ministri, forse tra mercoledì e giovedì, non è detto che sarà riuscito a sciogliere tutti i nodi. Alcuni potrebbero essere stati solo accantonati o aggirati, con quel tanto di ambiguità che finora è l'impronta della fase politica in cui stiamo entrando. Proviamo a riassumere i punti in attesa di chiarimento. 1) Il primo riguarda, come è ormai noto, il rapporto con Alfano e il suo partito di centro. È questione tipica di ogni trattativa. Il governo è fondato su una coalizione, la stessa a cui si era affidato Enrico Letta. Renzi talvolta ragiona come se si preparasse a guidare un monocolore, un governo a forte «vocazione maggioritaria». Ma non è così e quindi non ha molto senso gridare «nessuno mi metterà le briglie...». Se il Nuovo Centrodestra sarà decisivo a Palazzo Madama, dato il sistema bicamerale che non è stato ancora riformato, difficile rispondere «no» alle richieste di Alfano, specie se riguarderanno tre ministeri di peso. 2) C'è tuttavia un "non detto" nella posizione di Alfano, testimoniata dal duro scambio polemico fra lui e Berlusconi nelle ultime ore. È come se i centristi temessero un legame di potere sotterraneo ma tenace fra Renzi e il capo di Forza Italia. Un legame di cui si conosce la punta (l'accordo sulla legge elettorale e sul "pacchetto" delle riforme costituzionali), ma non il resto. E che potrebbe anche contenere qualche risvolto scomodo: per esempio la volontà di dare una mano a Renzi in Parlamento, in vista di rendere meno cruciale o addirittura ininfluente la posizione degli alfaniani. Se n'è scritto e sono arrivate le smentite. Se qualcuno ci ha pensato, è arduo credere che il progetto sia oggi in grado di andare in porto. È vero tuttavia che esiste una zona grigia. Da un lato la "maggioranza per le riforme" sottoscritta da Renzi con Berlusconi; dall'altro la "maggioranza per il governo" che esclude Berlusconi e ha in Renzi il nuovo punto di riferimento. I due piani tendono a incrociarsi e l'esito non è del tutto prevedibile. 3) La legge elettorale. È essenziale per dare senso al rinnovamento, ma si lega al complesso delle riforme, fra cui quella molto importante che ridefinisce i compiti del Senato. Per Renzi il modello maggioritario equivale ad avere alla cintura una pistola carica, perché potrebbe minacciare lo scioglimento delle Camere di fronte alle difficoltà quotidiane. Viceversa oggi la pistola è scarica perché elezioni fatte con il proporzionale imposto dalla Corte Costituzionale sarebbero un fallimento proprio del progetto Renzi. 4) Le priorità. È evidente che il governo Renzi dovrà darsi come obiettivo prioritario la ripresa della crescita economica. Ma dovrà collocarla, almeno in partenza, nel quadro europeo e nei vincoli che ne derivano. Riuscire a conciliare i due aspetti sarà la prova di maturità del nuovo premier e il segno del suo governo. Della legge elettorale potrà occuparsi il Parlamento, ma sulla politica economica dovrà impegnarsi il presidente del Consiglio senza intermediari. Ecco perché la scelta del responsabile di via XX Settembre è la più qualificante. ©RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2014-02-17/la-partenza-e-dubbi-quattro-nodi-chiarire-085115.shtml?uuid=ABN9X4w Titolo: Stefano FOLLI. - Svolta nuovista, più interrogativi che certezze Inserito da: Admin - Febbraio 24, 2014, 07:09:58 pm Svolta nuovista, più interrogativi che certezze
di Stefano Folli 22 febbraio 2014 Il nuovo presidente del Consiglio voleva dare la sua impronta al governo, chiara e netta. Ci è riuscito, nonostante che qualcuno ieri sera parlasse di «eccesso di continuità», di compromesso al ribasso e di "renzismo" annacquato. Non sembra che sia così. La spinta nuovista è evidente e va proprio nel senso auspicato dal sindaco-premier: molti giovani, molte donne, una lista di ministri fatta per colpire la fantasia degli elettori e partecipare con successo a qualche "talk show" televisivo. Certo, il nuovo gabinetto deve tener conto degli equilibri nella maggioranza e ancor più della frastagliata realtà del Partito Democratico, nel quale non tutti sono renziani, come è noto, specie nei gruppi parlamentari. Ma nel complesso il leader ha ottenuto quello che voleva, come si conviene a un giovane molto determinato che non arretra facilmente davanti agli ostacoli. Quel lungo colloquio con il presidente della Repubblica di sicuro non è stato facile, ma alla fine è servito a sottolineare un dato di fondo: il destino ha cambiato cavallo, come scriveva Longanesi al tempo di un altro passaggio epocale. Renzi si è assunto la responsabilità delle sue scelte e in termini politici aveva il diritto di farlo, nonché la spregiudicatezza che in certe situazioni è sempre utile, come ha sperimentato sulla sua pelle Enrico Letta. A proposito: il premier poteva risparmiarsi quelle parole di stima fuori tempo massimo spese per il suo predecessore. Ronald Reagan diceva che non è importante essere sinceri, ma è essenziale sembrarlo: una piccola lezione che Renzi dovrebbe meditare. In conclusione, ieri sera non è nato un Letta-bis, come "twittavano" i soliti buontemponi, bensì un esecutivo di impianto radicalmente diverso, al di là della conferma dei tre "alfaniani" e di un paio di altri rappresentanti centristi (ma stranamente nessun Popolare per l'Italia, gruppo piuttosto nutrito). Una compagine che riflette nel suo complesso, salvo poche eccezioni, l'investimento totale che il neo premier ha fatto su se stesso. Alcuni ministri e ministre sembrano chiamati solo a fare da corona al leader, a dimostrarne la modernità, a testimoniare l'avvenuto salto generazionale. Ed è qui che nascono le maggiori perplessità. In apparenza c'è un deficit di esperienza e di solidità nel concerto renziano. Nulla che non possa essere smentito nei fatti e nella fatica quotidiana del governo. Eppure al momento i dubbi restano. La scelta migliore è senza dubbio quella di Padoan, scelta che per fortuna il premier ha avuto la saggezza di condividere dopo le iniziali perplessità. Padoan è un tecnico con riconosciuta sensibilità politica, apprezzato e stimato in Europa e nei fori internazionali. A lui viene affidata quasi interamente la credibilità italiana, rappresentando insieme la novità del governo Renzi, ma anche la continuità delle cose che contano. Viceversa, l'errore più grave sembra l'allontanamento di Emma Bonino dagli Affari Esteri. Nel pieno della crisi ucraina, proprio quando l'Europa è chiamata a dare un segno di vita, e con la vicenda dei marò ancora irrisolta, la Farnesina viene trattata alla stregua di un dicastero minore, anziché di uno dei luoghi privilegiati in cui si costruisce l'immagine dell'Italia nel mondo. Fra l'altro la Bonino figurava costantemente in testa nei vari sondaggi dedicati al gradimento dei ministri del governo uscente. Si è voluto rimarcare che una pagina è stata voltata, ma forse era meglio riflettere sul costo di questo colpo a effetto. Tanto più che è scomparso anche il ministero delle Politiche Comunitarie, affidato a un eccellente esperto quale è Moavero. Cancellare con un colpo di spugna la sua competenza non sembra essere un'ottima idea, giusto alla vigilia del semestre italiano di presidenza dell'Unione. Sta di fatto che tutti hanno capito l'urgenza per Renzi di presentarsi alla testa della giovane generazione. La fotografia di un'Italia nuova che si afferma nel solco di un premier di appena 39 anni. Il problema è che tutta questa freschezza non può bastare a rispondere a tutti gli interrogativi che certe scelte sollecitano. Il presidente del Consiglio insiste nel dire che questo governo è nato con un po' di sforzo perché la sua prospettiva è quella di durare l'intera legislatura. Senza dubbio è nei suoi auspici, ma il "mantra" è poco convincente. L'impressione è che il Renzi Uno sia soprattutto un esecutivo fatto per piacere, grazie soprattutto ai volti di alcuni ministri (o ministre), pronto però a trasformarsi in uno strumento elettorale alla prima difficoltà. Del resto, Berlusconi - interlocutore non secondario del nuovo governo - non fa mistero di volersi preparare alle elezioni entro un anno, forse meno. E Renzi ha il piglio di uno che è in campagna elettorale permanente. Vedremo. Di certo lunedì il governo sarà giudicato sull'agenda del programma. Gli italiani si attendono riforme e non solo bei sorrisi. Da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2014-02-22/svolta-nuovista-piu-interrogativi-che-certezze-081556.shtml?uuid=ABSljLy Titolo: Stefano FOLLI. - Più sindaco che premier (meglio di un leader "moscio"). Inserito da: Admin - Febbraio 25, 2014, 05:17:42 pm Più sindaco che premier
di Stefano Folli 25 febbraio 2014 Giunto quasi al termine del suo lungo discorso pronunciato quasi tutto a braccio, Matteo Renzi si è assunto le sue responsabilità. Se non riesco, ha detto in sostanza, la colpa sarà solo mia e lascerò il campo. Frase da non sottovalutare, in linea con il personaggio e il suo spirito un po' guascone. In ogni caso, frase credibile perché l'intera avventura cominciata ieri è all'insegna del più classico "o la va o la spacca". Si può apprezzare o no il premier-segretario-sindaco. Si può dare un giudizio scettico sul suo intervento a Palazzo Madama ovvero valutarne il profilo innovativo, la capacità di rivolgersi ai cittadini-elettori piuttosto che ai senatori che lo ascoltavano senza particolare trasporto (e si capisce, visto che sono destinati tutti all'estinzione, come il presidente del Consiglio ha ricordato loro senza mezzi termini). Si può in altri termini esprimere delusione oppure mantenere inalterata la fiducia nell'uomo nuovo della politica italiana. Un punto tuttavia va riconosciuto. Ieri a prendere la parola era Renzi, il personaggio insieme spregiudicato e sognatore che abbiamo imparato a conoscere in questi mesi con i suoi pregi e i suoi difetti. Non ha parlato un premier ormai calato nel suo ruolo istituzionale e capace di descrivere un convincente orizzonte programmatico a sostegno della sua ambizione. Un orizzonte fatto di annunci, sì, ma soprattutto di soluzioni. Niente politica estera, ad esempio: una mancanza piuttosto grave. Coerente con se stesso, Renzi lo è. Non ci sono dubbi al riguardo. Ma anche rimasto idealmente a Palazzo Vecchio. Da sindaco di Firenze a sindaco d'Italia. Molti sostengono che questa è la sua forza: l'attitudine a rivolgersi ai mercati rionali invece che ai mercati finanziari (frase più volte ripetuta dall'interessato, nel segno di quel populismo "morbido" che è un po' la sua cifra, o se si preferisce il grimaldello con cui spera di entrare nel fortino dei Cinque Stelle e recuperare parecchi voti). Il fatto è che ci si aspettava qualcosa di più da lui. Magari meno narcisismo, meno ammiccamenti e più concretezza. Meno fuochi mediatici e qualche cifra solida. Quanto costano le riforme annunciate e gli interventi promessi? Qui Renzi aveva il dovere di essere chiaro proprio per rivelarsi credibile. Viceversa è apparso evasivo. Un sito, l'Huffington Post, calcolava in cento miliardi di euro il costo di tutte le promesse contenute nel discorso programmatico. Magari non è il calcolo giusto, eppure sarebbe stato auspicabile che il premier fosse meno vago sul nodo delle risorse e dei conseguenti tagli alla spesa. Anche per non dare l'impressione che la nuova Italia annunciata sarà tutta a costo zero. Una rivoluzione indolore che non incide sul consenso elettorale, non provoca aree di scontento, non divide il paese. In fondo ieri il giovane presidente era chiamato a dare l'esatta misura di se stesso. Si trattava per lui di affrontare il discorso più importante della sua breve ma tumultuosa vita politica. Il discorso che lo avrebbe consacrato da segretario di partito a uomo delle istituzioni. Invece il tentativo è rimasto a mezz'aria. O forse Renzi stesso, l'eterno sindaco, non ha compreso l'importanza della posta in gioco. Ha parlato a Palazzo Madama quasi fosse l'ospite di una trasmissione televisiva. Uno stile giustificabile se fossimo alla vigilia delle elezioni politiche. Invece no, anche se la durata di questa legislatura, che Renzi promette lunga, è legata a fattori oggi imprevedibili. Oggi e domani il nuovo governo otterrà la fiducia senza la minima inquietudine. Subito dopo il sentiero è destinato a inerpicarsi. Si vedrà quanto peseranno gli annunci di queste ore. E si capirà se il premier-sindaco predilige girare l'Italia in un permanente "tour" elettorale, come ha adombrato. Oppure se intende rimboccarsi le maniche a Palazzo Chigi. © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2014-02-25/piu-sindaco-che-premier-064127.shtml?uuid=ABSF2xy Titolo: Stefano FOLLI. - Patti ambigui verso il 2015 Inserito da: Admin - Marzo 03, 2014, 05:26:03 pm Patti ambigui verso il 2015
di Stefano Folli 02 marzo 2014 Il punto di ambiguità su cui è nato del governo Renzi resta tale. Si riassume così: è più forte il sodalizio fra il premier e la sua maggioranza, compresi Alfano e la minoranza del Pd; oppure il vero asse strategico è quello che lega sotto traccia Renzi e Berlusconi, quest'ultimo solo in apparenza capo dell'opposizione? A seconda della risposta avremo anche la chiave dell'altro quesito: questa legislatura finisce in pochi mesi o durerà due o tre anni? Il neo premier è stato molto bravo finora a tenere coperte le sue carte. Nessuno può rivendicare, allo stato delle cose, di conoscere il suo pensiero recondito. Per cui l'astuto fiorentino sta con ogni probabilità giocando su due tavoli. Da un lato tenta di strumentalizzare Berlusconi (sarebbe il primo a riuscirci...) con l'idea di mandare avanti la legislatura e il piano di riforme anche costituzionali (Senato, titolo V, eccetera). Dall'altro invece finge di rassicurare Alfano, ma è pronto ad andare alle elezioni il più presto possibile, con il pieno accordo di Forza Italia, non appena ottenuta la riforma elettorale. Inutile spremersi troppo le meningi. Una prospettiva certa ancora non c'è e il giovane presidente del Consiglio non ha deciso in modo definitivo quale strada imboccare. Per la verità Renzi ha l'aria di uno che ha dato affidamenti contraddittori un po' a tutti, dai centristi ai berlusconiani, essendo il prezzo da pagare per entrare a Palazzo Chigi. Poi vedremo. Dipenderà dalle circostanze, dallo stato dell'economia, dal grado di popolarità che il leader sarà riuscito a mantenere nei prossimi non facili mesi. E anche dalla congiuntura internazionale: la crisi in Ucraina, nella sua imprevedibile drammaticità, potrebbe diventare uno di quei "cigni neri" che talvolta appaiono all'orizzonte, del tutto imprevisti, e cambiano in radice gli scenari. Aspettiamo, allora. Senza sottovalutare gli indizi che si presentano. Ieri Ugo Magri, sulla "Stampa", accreditava l'idea del patto segreto fra il leader del Pd e il partito di Berlusconi e lasciava intendere che "i fuochi artificiali di settembre", adombrati in ambienti di Forza Italia ma non specificati, potrebbero coincidere con la corsa alle elezioni. In fondo anche ieri Berlusconi è tornato sul tema e ha parlato di votare nel 2015. Difficile credere che il premier sia insensibile a questa sirena. Tuttavia il problema di Renzi, l'hanno scritto molti osservatori, riguarda la riforma elettorale. Senza avere in mano la pistola carica di una legge iper-maggioritaria (e, aggiungiamo, senza la ragionevole certezza che nessuno dei suoi competitori raggiungerà la soglia del 37 per cento al primo turno, permettendogli così di giocare le sue carte al ballottaggio) l'uomo del "veni, vidi, vici" non ha interesse a bruciare le tappe. O meglio: questo è quello che dice ad Alfano, per il quale una lunga legislatura e il castello governativo nel quale si è rifugiato sono la vera garanzia di sopravvivenza. C'è un modo sicuro per capire dove risiede la verità. Verificare l'iter della riforma elettorale, i tempi, ma soprattutto gli accordi per modificare questo o quel punto dell'impianto già approvato senza entusiasmo in commissione. I centristi delle varie confessioni sono sul sentiero di guerra e si preparano a un conflitto parlamentare per ottenere significative modifiche della legge. Renzi non li sconfessa, ma chiede che la riforma sia approvata in tempi certi e brevi. Lo scontro sarà duro e senza dubbio decisivo per capire se voteremo fra un anno oppure se questa legislatura ha un futuro. Berlusconi attende sulla riva del fiume. E il giovane, brillante toscano dovrà decidere presto da che parte stare. Altrimenti avranno ragione quanti si dichiarano certi che l'ipotesi A è quella giusta. Quindi riforma elettorale e poi di corsa al voto, al limite anche in autunno, cioè prima del 2015, facendo leva sulle prime, inevitabili difficoltà del governo. © RIPRODUZIONE RISERVATA DA - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2014-03-02/patti-ambigui-il-2015-081614.shtml?uuid=AB4zYC0 Titolo: Stefano FOLLI. - Sulla riforma Renzi imbrigliato dai centristi e «salvato» da... Inserito da: Admin - Marzo 06, 2014, 12:08:13 pm Sulla riforma Renzi imbrigliato dai centristi e «salvato» da Berlusconi
di Stefano Folli 05 marzo 2014 Non è la prima volta che Berlusconi si diverte a cambiare le carte in tavola in modo imprevisto (soprattutto dai suoi collaboratori). Ai primi di ottobre Sandro Bondi fu mandato a pronunciare un veemente discorso in Senato contro Alfano e soci, dal quale discendeva il voto di sfiducia al governo Letta. Cinque minuti dopo si alzò Berlusconi: pochi secondi per annunciare il contrario, cioè la conferma della fiducia. Ieri lo schema si è ripetuto alla lettera. Su "Repubblica" è apparsa un'intervista al consigliere politico Toti in cui si ammoniva Renzi: «Se salta l'accordo sulla legge elettorale per Silvio cambia tutto». Poche ore ed ecco di nuovo Berlusconi in campo. Pronto a far proprio il nuovo scenario: ossia riforma elettorale valida solo per la Camera, secondo l'emendamento D'Attorre. Il Senato congelato in attesa che sia approvata la riforma costituzionale che dovrà modificarne le funzioni; e fino ad allora per i senatori resta valido il modello elettorale disegnato dalla Corte Costituzionale. Bisogna riconoscere che Berlusconi non si cura delle contraddizioni. Anche perché egli segue il filo coerente dei suoi interessi. Non solo politici. In ottobre riteneva che continuare a far parte della maggioranza delle "larghe intese" fosse per lui essenziale in vista dell'epilogo giudiziario su cui di lì a poco sarebbe intervenuta la Consulta. Poi le cose sono andate male, come è noto. Adesso Berlusconi è all'opposizione, ma ci si trova a disagio. La nuova linea è all'insegna del «senso di responsabilità». Vuol dire che il capo di Forza Italia non intende perdere il contatto con Matteo Renzi. Non tanto con il centrosinistra nel suo complesso, è ovvio: proprio con Renzi. Da lui, dal giovane fiorentino, Berlusconi si sente garantito. Oggi e domani. E per mantenere viva la garanzia è disposto a dargli una mano a costo di sconcertare i suoi e apparire sconfitto da Alfano. Sulla riforma elettorale, al punto a cui eravamo arrivati, la mediazione era quasi impossibile. Delle due, l'una. O si approvava subito il nuovo testo iper-maggioritario sganciato dalle riforme istituzionali; e in quel caso il premier non sarebbe stato in grado di tenere in piedi la sua maggioranza. Lo sbocco? Probabile voto anticipato e collasso dell'investimento sul presidente del Consiglio "amico". Seconda ipotesi: si accettava il legame fra legge elettorale e revisione costituzionale del Senato, regalando ai centristi "traditori" un successo e allungando di parecchio la vita della legislatura. L'unico che poteva salvare Renzi, sottraendolo in parte alla trappola in cui si era cacciato per aver giocato su due tavoli, era Berlusconi. E Berlusconi si è mosso, consapevole di dover pagare anch'egli un prezzo, visto che l'originario patto a due si è sbriciolato. Si dimostra così che il vero interesse berlusconiano consiste nel conservare Renzi a Palazzo Chigi il più a lungo possibile, proteggendolo dai suoi stessi errori. Conclusione. Avremo fra poco due differenti sistemi elettorali per Camera e Senato. Il che non è certo di buon auspicio nel caso in cui, nonostante tutto, le due assemblee dovessero essere sciolte. Sul piano politico Renzi ha dovuto piegarsi ai centristi e ora deve essere grato a Berlusconi che gli ha gettato una ciambella di salvataggio. Quanto alla riforma costituzionale del Senato, essa è nelle mani del Parlamento. Dove i conservatori, si sa, sono molto numerosi. Da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2014-03-05/sulla-riforma-renzi-imbrigliato-centristi-e-salvato-berlusconi-064123.shtml?uuid=AB3HDr0 Titolo: Stefano FOLLI. - Il premier alla verifica della Merkel con l'esigenza ... Inserito da: Admin - Marzo 15, 2014, 08:09:27 am Il premier alla verifica della Merkel con l'esigenza di un'altra Europa
di Stefano Folli 14 marzo 2014 È superfluo notare che l'attesa è ora per l'imminente incontro a Berlino fra Renzi e la cancelliera Merkel. Preceduto, va ricordato, da un colloquio a Parigi con Hollande da non sottovalutare. Perché il nostro premier, se vuole essere credibile nel ruolo che si è scelto (l'uomo che corregge e forse scardina l'austerità tedesca) ha bisogno quantomeno di alleati. Ne ha bisogno, ma è poco plausibile che li trovi da un giorno all'altro. Per ragioni storiche e politiche. Se non altro, il neo premier italiano dovrà prima dimostrare di saper rilanciare l'economica in casa propria. Dovrà, per così dire, conquistare l'Europa con la bontà delle sue ricette che un noto esponente della vecchia sinistra, Fausto Bertinotti, definisce "social-liberiste" (e pazienza per la sfortunata assonanza con i "social-fascisti" contro cui si scagliava Stalin, ossia i socialdemocratici che non si piegavano a Mosca: di Bertinotti non si può certo dire che abbia nostalgie staliniste). In altre parole, al di là di qualche frase di circostanza a Parigi, Renzi sa di doversi presentare alla Merkel armato solo della propria simpatia. In termini politici la svolta italiana può suscitare attenzione e persino qualche applauso di incoraggiamento; ma non fino al punto di fare del nostro presidente del Consiglio, da un giorno all'altro, il leader dell'Europa mediterranea contrapposta all'Europa nordica. Il solo pensarlo sarebbe ingenuo. Purtroppo tale impossibilità rende ancora più fragile la posizione di Roma: quella che un editoriale del Financial Times elogia parlando di un premier che «inizia a invertire la rotta delle politiche dell'austerity». Questa sembra la linea anche oltreoceano. Tutto ciò che contribuisce ad alzare il coperchio della strana scatola in cui è custodito lo spirito dell'Unione secondo l'ottica della Merkel, è benvenuto. L'opposto di quello che hanno pensato e pensano, almeno fino a oggi, i tedeschi. Ecco perché il viaggio di Renzi a Berlino assume un particolare significato. I due precedenti premier italiani nella fase post-berlusconiana, Monti ed Enrico Letta, non incontrarono certo la Merkel con l'idea di contestarne i princìpi, forse perché si sentivano interpreti di un'idea classica del rapporto con l'Europa. Con Renzi tutto cambia, se vogliamo dar credito a quello che vediamo e sentiamo. Renzi ha spezzato una lancia a favore degli Stati Uniti d'Europa, la vecchia posizione federalista che riconduce ad Altiero Spinelli ed è stata per anni la bandiera italiana nella Comunità, prima di essere abbandonata in nome del realismo. Oggi Renzi torna a utilizzarla per distinguersi dall'Europa a guida tedesca. Il che getta nuova luce sul piano anti-crisi esposto mercoledì a Palazzo Chigi. Perché quel progetto, per essere credibile, ha bisogno di un'Europa diversa, non più legata all'ideologia dell'austerità e non più succube del dogma dei parametri (a cominciare, si capisce, dal 3 per cento in rapporto al deficit). Renzi vorrebbe uscire dalla gabbia teutonica, ma ovviamente non può: nel senso che in solitudine non è in grado di fare quasi nulla. Non può nemmeno rischiare di apparire velleitario; o peggio di essere punito dall'Unione per aver violato i trattati. Certo, l'idea di Europa che Renzi ha in mente piacerebbe agli americani come piace agli inglesi; ma la tradizione della nostra politica europea (interrotta in parte solo da Berlusconi) va proprio nel senso opposto, tende all'intesa stretta con la Germania e con la Francia. Vedremo lunedì a Berlino cosa farà il premier. Se si limiterà a spiegare alla Merkel le misure economiche, sperando di ottenerne la benevolenza. Ovvero se metterà sul tavolo, con il coraggio un po' incosciente che non gli manca, la prospettiva di un'Europa che percorre un'altra strada, più solidale e volta all'integrazione politica. ©RIPRODUZIONE RISERVATA DA - http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2014-03-14/il-premier-verifica-europea-071452.shtml?uuid=AB5Uaz2 Titolo: Stefano FOLLI. I tagli alla politica: la priorità di Renzi non è l'Europa ma... Inserito da: Admin - Marzo 24, 2014, 05:15:15 pm I tagli alla politica: la priorità di Renzi non è l'Europa ma il fronte interno
Di Stefano Folli 22 marzo 2014 Non è del tutto chiaro cosa voglia dire in concreto la nuova frase-slogan che riassume il nostro rapporto con l'Europa: «né conflitti né sudditanza». Ricorda un po' il «non aderire né sabotare» del partito socialista alla vigilia della prima guerra mondiale, di cui ricorre appunto il centenario. Come è noto, non fu un'espressone fortunata nella sua ambiguità. Venne spazzata via nel grande incendio continentale e l'alternativa che si pose fu molto secca: o aderire, combattendo la guerra fino ai limiti estremi, o sabotarla come faranno i bolscevichi. L'Europa di oggi non è forse alle soglie di un incendio, quanto meno non ancora, tuttavia Matteo Renzi dovrà presto decidere quale strada imboccare. Restare al «né né» rischia di essere alla lunga controproducente e di consegnare l'Italia all'irrilevanza. Almeno fino a quando non saranno realizzate le grandi riforme economiche e istituzionali alle quali il presidente del Consiglio si è impegnato anche in Europa. A breve invece il problema non è così grave. In fondo a Bruxelles il premier ha badato a proseguire la sua campagna elettorale contro le forze anti-europee in vista del voto di maggio. Nelle conferenze stampa aveva necessità di tenere i toni alti per intercettare il malcontento euroscettico in patria: e quindi niente «sudditanza». Poi nei colloqui a porte chiuse con i vertici dell'Unione, al di là di qualche inevitabile screzio, è prevalso il realismo: e dunque niente conflitti. Di tutto il resto si parlerà dopo il 25 maggio con un nuovo Parlamento e, appena possibile, una nuova Commissione. Fermo restando che il peso italiano è limitato fino al varo delle famose riforme; e che il futuro dell'Europa è saldamente nelle mani della Germania e dei suoi stretti alleati. In altri termini, la priorità di Renzi oggi non è l'Europa, da cui c'è poco da cavare, bensì il fronte interno. Qui la battaglia è appena agli inizi: come si capisce anche dall'incrinatura consumata con Cottarelli. La frattura viene motivata dal premier con l'intenzione di non avallare il taglio alle pensioni, ma la sostanza sembra essere un'altra. È molto difficile dare una piena copertura politica all'analisi tecnica del commissario. Ed è ancora più difficile tradurre in pratica i risparmi di spesa prospettati. Infatti già si afferma che le cifre da recuperare nel triennio, così come Cottarelli le ha messe in fila, sono eccessive. Per meglio dire, sono cifre «pre-politiche» che logicamente non tengono conto del sentiero stretto lungo cui si muovono il governo, il Parlamento e, perché no, i sindacati. D'altra parte, era uno scenario prevedibile fin dall'inizio. Ora Renzi dovrà mostrare la sua qualità politica individuando una sintesi originale fra le contraddizioni nelle quali è costretto a navigare. Il suo gradimento personale nei sondaggi è sempre alto, ma è legato all'idea che di lui si è formata l'opinione pubblica: un grande risolutore dei problemi aperti, dotato quasi di un tocco magico. Non è un caso se i suoi avversari, assai più dei suoi amici, lo attendono al varco per vedere quali promesse il premier fiorentino riuscirà a mantenere. Peraltro l'uomo è fortunato. Anche nei paradossi. La ribellione dell'amministratore delle ferrovie, Moretti, al taglio del suo stipendio di grande manager finisce per favorire Renzi. Incrocia il suo ostentato populismo "compassionevole", lo aiuta in campagna elettorale. Poi si vedrà. Da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2014-03-22/i-tagli-politica-priorita-renzi-non-e-europa-ma-fronte-interno-081704.shtml?uuid=ABLG1r4 Titolo: Stefano FOLLI. - Epilogo scontato, male minore Inserito da: Admin - Aprile 11, 2014, 11:18:20 pm Epilogo scontato, male minore
Di Stefano Folli 11 aprile 2014 Sarà anche una «giornata infausta per la democrazia», come dice Maria Stella Gelmini, ma in fin dei conti Berlusconi ha limitato i danni. L'affidamento ai servizi sociali, soluzione per la quale manca solo il suggello definitivo del tribunale, significa in pratica che il leader di Forza Italia presterà la sua opera per circa dieci mesi, in maniera molto blanda e comoda, presso un centro anziani vicino a Milano. Tutto secondo le previsioni. S'intende che Berlusconi sfrutterà, per quanto è possibile, l'eco delle sue disavventure giudiziarie nell'imminente campagna elettorale. Campagna alla quale egli potrà partecipare in misura limitata, a meno che non ottenga qualche deroga "su misura". Peraltro i margini di libertà personale garantiti dai servizi sociali sono piuttosto rilevanti se paragonati al nulla assoluto degli arresti domiciliari. Non siamo alla famosa "agibilità politica" che il condannato Berlusconi ha reclamato a gran voce quasi fosse un suo diritto, ma certo egli viene trattato con un occhio di riguardo. Dopo anni di processi, sentenze appellate, condanne confermate fino alla Cassazione, ecco che all'improvviso la pena si ammorbidisce e diventa quasi una formalità. Di fatto si è riconosciuto all'ex presidente del Consiglio una sorta di "status" particolare derivante dal suo essere un uomo pubblico, anzi un protagonista per vent'anni della scena nazionale. Nei limiti concessi dal codice e dalle consuetudini, non si è voluto infierire su un uomo già molto provato. Che egli si lamenti e si consideri vittima di una sovrana ingiustizia, è comprensibile. Che il capogruppo Brunetta lo paragoni alla dissidente birmana Aung San Suu Kyi, premio Nobel per la pace, è già più singolare. Di sicuro l'epilogo della vicenda era ormai scontato e tutti adesso sembrano recitare un po' una parte in cui non credono realmente. Del resto la notizia è stata accolta con una certa indifferenza dell'opinione pubblica. Altri fatti premono e i riflettori oggi sono accesi sul nuovo astro Renzi, o magari sul duello fra lui e il solito Grillo. Questo vuol dire che, esclusa una cerchia piuttosto estesa di fedeli, seguaci e militanti intransigenti, nella percezione della gente il personaggio Berlusconi appartiene al passato. Alle elezioni può ancora raccogliere voti (non lui direttamente bensì il partito, se riuscirà a non frantumarsi), ma l'onda della sua storia si esaurisce qui. Ed il primo a rendersene conto è proprio lui, anche se non sopporta di sentirselo dire. Quindi la domanda da porsi riguarda, ma non da oggi, le conseguenze a breve termine del nuovo scenario sugli equilibri di governo e sugli assetti generali della politica. La risposta è: scarse conseguenze. Il patto Renzi-Forza Italia era già alquanto sfilacciato e tale resterà. Ma nessuno lo spezzerà e dunque il cammino delle riforme proseguirà, sia pure fra ostacoli che sono manifesti e che non riguardano solo le convulsioni del centrodestra, bensì anche il malessere dentro il Pd. Niente di irrisolvibile, ma non c'è da illudersi circa un percorso trionfale in Parlamento. Si andrà avanti a fatica, ma si andrà avanti: magari con qualche compromesso sul Senato e sulla legge elettorale. Sulla politica economica invece il centrodestra cercherà di distinguersi e di non lasciare tutto lo spazio a Renzi. Aspettiamoci crescenti polemiche sul Def. Per quanto riguarda gli assetti di Forza Italia, invece, siamo all'anno zero. Può esistere un berlusconismo senza Berlusconi che non sia solo piatta nostalgia senza prospettive? No, con ogni probabilità. E le incognite nascono proprio dalla mancata creazione di un vero gruppo dirigente. Così, nel terrore di perdere ogni identità, i più si aggrappano al vecchio leader, al nome nel simbolo, "al suo DNA che è dentro Forza Italia", come dice Toti. Ma è un po' poco per guardare all'avvenire. ©RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2014-04-11/epilogo-scontato-male-minore--080917.shtml?uuid=ABIt089 Titolo: Stefano FOLLI. - Se questo è un leader Inserito da: Admin - Aprile 16, 2014, 06:02:38 pm Se questo è un leader
di Stefano Folli 15 aprile 2014 Se è vero che per un attore, soprattutto un attore comico, i "tempi" in scena sono tutto, non si può dire che stavolta Beppe Grillo sia stato professionale. L'urgenza di cavalcare l'onda della campagna elettorale lo ha indotto a inoltrarsi lungo un sentiero molto pericoloso. Si capisce perché. Usare i temi dell'Olocausto come piedistallo per attaccare il presidente della Repubblica, il capo del governo e in genere i partiti avversari, è già un azzardo incomprensibile. Ma farlo nel giorno in cui la comunità ebraica italiana piange una figura storica come Emanuele Pacifici, è peggio di una sciocchezza: è un errore. Vuol dire aver mancato i "tempi" in misura clamorosa. S'intende che a Grillo tali osservazioni non interessano. Quel che gli preme è occupare il palcoscenico mediatico e creare scandalo nel giorno in cui sospetta, non a torto, che l'attenzione sarà tutta per Renzi grazie alle nomine nei grandi enti. Quindi avanti senza risparmio con la spregiudicatezza. La domanda è: c'è dell'antisemitismo sotto traccia, magari inconscio, in questa incapacità di rispettare la sensibilità altrui su un territorio immenso e sconvolgente come la "shoah"? Forse sì, ma c'è prima di tutto una discreta confusione mentale. Grillo è l'uomo che più volte ha condiviso alcuni spunti "negazionisti", volti a sminuire o addirittura smentire l'esistenza storica dell'Olocausto ebraico. Sembra che anni fa fosse molto attento agli argomenti dell'ex presidente iraniano Ahmadinejad, nonché alle ragioni della sua politica verso Israele. Era stato il suocero iraniano ad avvicinarlo a queste tematiche. La sostanza è che il leader dei Cinque Stelle non si ferma davanti a nulla quando c'è da rincorrere l'opinione pubblica. E nel suo messaggio, inutile negarlo, l'eco degli antichi complotti pluto-giudaico-massonici è tutt'altro che spenta, sebbene declinata in forma moderna. Del resto, Marine Le Pen si avvia a conquistare un eccezionale risultato elettorale in Francia proprio rendendo più attuale e quindi accettabile l'armamentario ideologico della vecchia destra francese legata agli stereotipi di Vichy. E in Inghilterra un certo Nigel Farage, come è noto, sta mettendo in crisi i conservatori rispolverando l'orgoglio insulare e autoreferenziale delle isole britanniche. Grillo non va per il sottile se si tratta di coinvolgere tutti gli scettici che il 25 maggio potrebbero fare la differenza. Scettici non solo verso la moneta unica europea: anche contro i governi, le istituzioni, i patti politici visti come altrettanti inganni. Il messaggio grillino si scaglia contro qualsiasi tentativo di salvare il sistema, razionalizzarlo, riformarlo. Renzi è il principale bersaglio polemico, persino più di Napolitano, perché è da lì che viene oggi la vera minaccia all'espansione a cinque stelle. E allora ecco che i toni s'inaspriscono sempre più e si cerca la trasgressione verbale, l'uscita scandalosa e intollerante che provoca polemiche. È "fascismo", tutto questo, come molti obiettano? È il riemergere di pulsioni anti-ebraiche? Probabilmente è tutto e il contrario di tutto, in una generale caduta dei freni inibitori. Grillo sfrutta temi laicamente sacri, come la "shoah", riscrive Primo Levi e ritocca le foto di Auschwitz così come pochi giorni fa irrideva ai valori dell'unità d'Italia e di fatto inneggiava alla secessione. Quel giorno pensava di fare lo sgambetto alla Lega, ieri di imporsi fra quanti disprezzano sempre e comunque la democrazia. Vuol dire che la partita del 25 maggio è aperta. A quanto pare, per rimontare i punti che lo dividono da Renzi (una decina) e per sedurre gli elettori che abbandonano Berlusconi, ogni arma per Grillo è lecita. Da - ILSOLE24ORE Titolo: Stefano FOLLI. - La fiducia copre i dissensi ma rivela i limiti dell'intesa... Inserito da: Admin - Aprile 28, 2014, 12:03:47 pm La fiducia copre i dissensi ma rivela i limiti dell'intesa fra Renzi e i centristi
di Stefano Folli 23 aprile 2014 La fiducia posta dal governo Renzi sul decreto lavoro non è una buona notizia per la maggioranza. Indica che la coesione interna lascia a desiderare, al punto che il presidente del Consiglio deve ricorrere all'arma assoluta: il voto di fiducia, appunto, che da un lato spazza via dal tavolo i distinguo; ma dall'altro rivela le fragilità politiche della coalizione. Si dirà che le cose non sono così drammatiche. Come ha detto il ministro dell'Economia, i ritocchi apportati al provvedimento non sono tali da stravolgerne l'impianto e del resto tutti sono in campagna elettorale, anche il Nuovo centrodestra di Alfano. In altri termini, sta accadendo quello che era facile prevedere. Nelle prime settimane di governo i centristi erano fin troppo appiattiti sulle posizioni di Renzi e oggi vogliono rimediare. Peraltro il premier ha rivelato un'eccezionale capacità di far propri idee e spunti in grado di accreditarlo presso i ceti più moderati. Questo ha messo in difficoltà gli amici di Alfano. Ma perché stupirsi? Renzi vuole essere il Tony Blair italiano ed è logico che intenda acquisire i consensi del centro o del centrodestra allo stesso modo in cui il suo modello inglese ereditò i voti della Thatcher. Nella logica renziana lo spazio politico ed elettorale di Alfano è destinato a esaurirsi e solo le esigenze di coalizione inducono il premier a un certo rispetto verso l'alleato. Ora però l'Ncd ha trovato la sua piccola rivincita, dal momento che sul lavoro Palazzo Chigi ha dovuto pagare qualche prezzo all'ala sinistra del Pd e al sindacato. Come detto, niente di realmente clamoroso. Non ci sono rischi di crisi, eppure il voto di fiducia testimonia se non altro il venire meno di una mediazione all'interno della maggioranza. Oggi il problema è il lavoro, domani potrà essere un altro tema all'ordine del giorno. In fondo è comprensibile. Quello fra Renzi e i centristi è davvero un matrimonio di interesse e nulla più. Ognuno dei due contraenti persegue una strategia diversa, anzi opposta. Il Blair di Firenze sta costruendo un potere a "vocazione maggioritaria", come direbbe Veltroni: un Pd in grado di conquistarsi abbastanza voti per governare da solo (grazie al nuovo premio di maggioranza previsto dall'Italicum in un sistema monocamerale). Viceversa gli alfaniani sono al governo alleati con il centrosinistra, ma si preparano a rientrare un giorno nel centrodestra post-Berlusconi: un salto mortale non privo di rischi che presuppone, per cominciare, un discreto risultato nelle europee di maggio. In ogni caso non sarà facile per l'Ncd abbandonare, magari l'anno prossimo, l'alleanza con il Pd e giocarsi una futura campagna elettorale nelle liste della coalizione avversaria. Un ritorno nell'alveo più congeniale che richiede però molta cura per non apparire mero trasformismo. Sotto questo aspetto il dissenso sul lavoro, benché ricomposto nel voto di fiducia, può essere interpretato come il primo passo verso un progressivo, lento distacco dal "renzismo" che tende a fagocitare tutti gli spazi. Vedremo chi ha più filo da tessere. Oggi questa nota si conclude con un pensiero rivolto a Marco Pannella. Il grande combattente è impegnato in una battaglia per la salute e la vita. Non è la prima volta e la tempra dell'uomo è straordinaria. Ma è uno di quei momenti in cui la povertà della politica quotidiana lascia il passo a una riflessione più alta, a un omaggio non retorico a chi ha saputo sempre mettere in gioco se stesso per servire i suoi ideali. Da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2014-04-23/la-fiducia-copre-dissensi-ma-rivela-limiti-intesa-renzi-e-centristi-063652.shtml?uuid=ABNTJ6CB Titolo: Stefano FOLLI. - Una campagna avvelenata Inserito da: Admin - Aprile 30, 2014, 11:21:33 pm Una campagna avvelenata
di Stefano Folli 30 aprile 2014 Fra le contraddizioni minori ma emblematiche dell'eterna campagna elettorale italiana, c'è anche questa. Silvio Berlusconi è un condannato a titolo definitivo per frode fiscale in attesa di scontare la sua pena, anch'essa molto simbolica, come servizio sociale a Cesano Boscone. Ma Berlusconi è anche il leader di Forza Italia che ieri è intervenuto via telefono al congresso del Sap, il sindacato autonomo della polizia. Parole applaudite che sono servite all'ex premier per rivendicare i meriti dei suoi governi a sostegno delle forze dell'ordine. Bisogna ammettere che la situazione è bizzarra, probabilmente senza precedenti. Un condannato che parla a un congresso di poliziotti forse non si era mai visto (fra l'altro - episodio inquietante - gli stessi congressisti hanno dedicato un applauso di cinque minuti ai tre loro colleghi giudicati colpevoli di avere provocato la morte del giovane Federico Aldovrandi nel 2005). La contraddizione è l'inevitabile conseguenza del compromesso all'italiana che ha chiuso per ora la vicenda. Berlusconi è entrato in una zona grigia che non gli permette di essere del tutto libero, ma gli consente di fare tutto quello che vuole in campagna elettorale tranne candidarsi. In effetti si tratta di un ex presidente del Consiglio e tuttora leader politico, sia pure sul viale del tramonto: si è deciso che la cosiddetta «agibilità politica» non gli poteva essere negata. Ma ciò non toglie che la soluzione individuata sia un pasticcio foriero di guai. Difatti il Berlusconi di oggi è un personaggio indotto dalle circostanze e dai suoi rancori a imboccare una strada senza ritorno, in un'offensiva sempre più aspra contro le istituzioni e l'Europa mescolate insieme come due facce della stessa medaglia. Basta vedere l'attacco al capo dello Stato che non avrebbe avvertito il «dovere morale» di concedergli la grazia «motu proprio», cioè di sua iniziativa. Chiederla, infatti, avrebbe costituito da parte di Berlusconi «un'ammissione di colpevolezza». Si capisce che su questi presupposti dobbiamo attenderci una campagna elettorale violenta ed estremista, giocata sul registro anti-europeo e in cui il capo dello Stato diventa una sorta di bersaglio fisso, in quanto fattore di equilibrio del sistema. Berlusconi, che oggi è parecchio sotto il 20 per cento, vuole recuperare a tutti i costi i voti del centrodestra tentati da Grillo. A sua volta quest'ultimo si batte come fosse la partita della vita perché vede la concreta possibilità d'insediarsi come secondo polo a non grande distanza dal Pd. E poi ci sono la Lega e Fratelli d'Italia, decisamente euro-scettici. Il voto di protesta rischia di essere quasi il 50 per cento dell'elettorato, forse più. Un dato su cui riflettere. E benché le elezioni di maggio siano più che altro un grande sondaggio sull'Unione e la moneta unica, non c'è dubbio che gli esiti riguarderanno la politica interna. Specie se la campagna si svolgerà secondo le peggiori previsioni, in un crescendo di demagogia e con toni quasi eversivi. Questo dovrebbe obbligare Renzi e i suoi a una convincente controffensiva, senza assecondare più di tanto il populismo degli avversari (cosa che accade spesso). Ora che il primo voto sulle riforme è stato rinviato al 10 giugno, il premier dovrebbe stare attento ad adombrare le sue dimissioni. Non è il messaggio giusto da mandare agli elettori a poche settimane dal voto. DA - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2014-04-30/si-annuncia-campagna-avvelenata-contro-europa-e-istituzioni-063955.shtml?uuid=AB7chkEB Titolo: Stefano FOLLI. - Verità e limiti della minaccia elettorale che aleggia sulla... Inserito da: Admin - Luglio 27, 2014, 11:30:18 pm Verità e limiti della minaccia elettorale che aleggia sulla politica riottosa
Di Stefano Folli 26 luglio 2014 «Colpi di Stato» contro «colpi di sole»... Per quanto possa sembrare incredibile, la polemica quotidiana tende a scendere ancora di livello. L'ossessione di Grillo per i complotti in atto (si è perso il conto di quanti ne ha denunciati finora) è il riflesso dell'imbuto in cui il capo dei Cinque Stelle si è infilato, incapace di gestire con qualità politica la fase che il paese sta vivendo. Quindi torna di moda anche la P2, come marchio d'infamia appiccicato all'asse Renzi-Berlusconi: e pazienza se nessuno riesce a spiegare come e quando la loggia massonica avrebbe preso il sopravvento. Certo, nemmeno la replica di Renzi brilla per originalità. Ma il presidente del Consiglio ama ingaggiarsi in scontri verbali con Grillo, riservando invece qualche ammiccamento all'elettorato del M5S. C'è una logica in questo ed è come sempre di tipo elettorale. I Cinque Stelle restano uno straordinario serbatoio dal quale l'unico in grado di attingere è proprio Renzi. Le polemiche quotidiane sono parte di un lento lavoro ai fianchi che prosegue a margine della rissa in Senato. Del resto, quasi tutto quello che il premier fa contiene un messaggio elettorale, più o meno esplicito. Gli italiani vengono coltivati con cura, giorno dopo giorno. Il quadro economico generale è drammatico? Il presidente del Consiglio punta tutto sulla fiducia nel domani: chiede agli elettori di seguirlo, se possibile a occhi chiusi. La riforma del Senato è impantanata? La colpa è di chi dice sempre "no". E naturalmente i grillini si sono trasformati da anti-casta in difensori dei privilegi istituzionali. C'è del vero in queste frustate, ma c'è soprattutto una superiore capacità propagandistica: un talento che Renzi ha dimostrato di possedere in sommo grado. Il tutto al servizio di una strategia piuttosto semplice: riassorbire il dissenso grillino, da un lato, e stabilizzare Berlusconi, dall'altro, facendo del centrodestra un secondo polo consistente ma per nulla minaccioso sul terreno politico. Ne deriva che il premier, un passo per volta, prepara il terreno per il successo elettorale prossimo venturo. Purtroppo per lui, i dati della realtà non lo favoriscono. La trasformazione del Senato non è ancora una battaglia vinta e in ogni caso il percorso costituzionale è lungo. La ripresa è inesistente e in autunno, con la legge di stabilità, si prevedono altri provvedimenti impopolari. In Europa il "renzismo" ha creato più che altro sconcerto e irritazione, fallendo l'obiettivo della maggiore flessibilità sui conti e forse creando qualche imbarazzo anche alla Bce di Draghi. Le altre riforme sono ancora in cantiere. Ecco allora che quando il premier minaccia le elezioni anticipate in caso di insabbiamento della riforma del Senato, egli rivela il suo vero animo. Le elezioni sono il modo più semplice per tagliare il nodo gordiano prima che la morsa dell'economia stritoli le illusioni della propaganda. Ma le elezioni prima della fine dell'anno, in pieno semestre europeo, sono assai improbabili. Per convincere il capo dello Stato servirebbe uno "shock": magari una bocciatura esplicita della riforma, non un semplice rinvio. Senza contare che in quel caso si andrebbe a votare con la legge elettorale introdotta dalla Consulta, non certo con l'Italicum (e nemmeno con il Mattarellum evocato da Giachetti). Un'ipotesi che Renzi ha sempre visto con timore. Non solo: si dovrebbe votare per il Senato come è ora, essendo la riforma in alto mare. La minaccia dello scioglimento non è da sottovalutare, ma oggi è soprattutto uno strumento di pressione sui parlamentari. © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2014-07-26/verita-e-limiti-minaccia-elettorale-che-aleggia-politica-riottosa-081302.shtml Titolo: S. FOLLI. - Verità e limiti della minaccia elettorale che aleggia sulla... Inserito da: Admin - Agosto 02, 2014, 10:41:08 am Verità e limiti della minaccia elettorale che aleggia sulla politica riottosa
Di Stefano Folli 26 luglio 2014 «Colpi di Stato» contro «colpi di sole»... Per quanto possa sembrare incredibile, la polemica quotidiana tende a scendere ancora di livello. L'ossessione di Grillo per i complotti in atto (si è perso il conto di quanti ne ha denunciati finora) è il riflesso dell'imbuto in cui il capo dei Cinque Stelle si è infilato, incapace di gestire con qualità politica la fase che il paese sta vivendo. Quindi torna di moda anche la P2, come marchio d'infamia appiccicato all'asse Renzi-Berlusconi: e pazienza se nessuno riesce a spiegare come e quando la loggia massonica avrebbe preso il sopravvento. Certo, nemmeno la replica di Renzi brilla per originalità. Ma il presidente del Consiglio ama ingaggiarsi in scontri verbali con Grillo, riservando invece qualche ammiccamento all'elettorato del M5S. C'è una logica in questo ed è come sempre di tipo elettorale. I Cinque Stelle restano uno straordinario serbatoio dal quale l'unico in grado di attingere è proprio Renzi. Le polemiche quotidiane sono parte di un lento lavoro ai fianchi che prosegue a margine della rissa in Senato. Del resto, quasi tutto quello che il premier fa contiene un messaggio elettorale, più o meno esplicito. Gli italiani vengono coltivati con cura, giorno dopo giorno. Il quadro economico generale è drammatico? Il presidente del Consiglio punta tutto sulla fiducia nel domani: chiede agli elettori di seguirlo, se possibile a occhi chiusi. La riforma del Senato è impantanata? La colpa è di chi dice sempre "no". E naturalmente i grillini si sono trasformati da anti-casta in difensori dei privilegi istituzionali. C'è del vero in queste frustate, ma c'è soprattutto una superiore capacità propagandistica: un talento che Renzi ha dimostrato di possedere in sommo grado. Il tutto al servizio di una strategia piuttosto semplice: riassorbire il dissenso grillino, da un lato, e stabilizzare Berlusconi, dall'altro, facendo del centrodestra un secondo polo consistente ma per nulla minaccioso sul terreno politico. Ne deriva che il premier, un passo per volta, prepara il terreno per il successo elettorale prossimo venturo. Purtroppo per lui, i dati della realtà non lo favoriscono. La trasformazione del Senato non è ancora una battaglia vinta e in ogni caso il percorso costituzionale è lungo. La ripresa è inesistente e in autunno, con la legge di stabilità, si prevedono altri provvedimenti impopolari. In Europa il "renzismo" ha creato più che altro sconcerto e irritazione, fallendo l'obiettivo della maggiore flessibilità sui conti e forse creando qualche imbarazzo anche alla Bce di Draghi. Le altre riforme sono ancora in cantiere. Ecco allora che quando il premier minaccia le elezioni anticipate in caso di insabbiamento della riforma del Senato, egli rivela il suo vero animo. Le elezioni sono il modo più semplice per tagliare il nodo gordiano prima che la morsa dell'economia stritoli le illusioni della propaganda. Ma le elezioni prima della fine dell'anno, in pieno semestre europeo, sono assai improbabili. Per convincere il capo dello Stato servirebbe uno "shock": magari una bocciatura esplicita della riforma, non un semplice rinvio. Senza contare che in quel caso si andrebbe a votare con la legge elettorale introdotta dalla Consulta, non certo con l'Italicum (e nemmeno con il Mattarellum evocato da Giachetti). Un'ipotesi che Renzi ha sempre visto con timore. Non solo: si dovrebbe votare per il Senato come è ora, essendo la riforma in alto mare. La minaccia dello scioglimento non è da sottovalutare, ma oggi è soprattutto uno strumento di pressione sui parlamentari. © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2014-07-26/verita-e-limiti-minaccia-elettorale-che-aleggia-politica-riottosa-081302.shtml Titolo: Stefano FOLLI. - Una vittoria simbolica e i suoi risvolti Inserito da: Admin - Agosto 09, 2014, 05:34:19 pm Una vittoria simbolica e i suoi risvolti
Di Stefano Folli 09 agosto 2014 È giusto che il presidente del Consiglio si goda la sua vittoria insieme alla tenace Maria Elena Boschi e ai 183 senatori della maggioranza trasversale che hanno votato "sì" alla riforma. Molti altri si sono astenuti, anche nel Pd e Forza Italia, così da rendere il traguardo dei due terzi dell'assemblea un miraggio remoto. Tuttavia di vittoria si tratta, perseguita con determinazione da Renzi fin dal primo giorno a Palazzo Chigi. Qualcuno dice: una determinazione degna di miglior causa. In ogni caso ci sarà tempo per valutare pregi e difetti di questa controversa e cruciale riforma costituzionale che istituisce una sorta di Camera delle autonomie non elettiva. Siamo solo alla prima lettura, ne mancano altre tre fra Montecitorio e di nuovo Palazzo Madama: se il nuovo assetto presenta i sintomi di qualche stortura, ci sarà tempo per provvedere. Almeno questa è la speranza degli scettici. Che sono numerosi e non tutti meritano di essere qualificati come irriducibili conservatori attaccati alla poltrona. Alcuni hanno presentato emendamenti migliorativi che sono stati accolti in misura molto avara; il che è stato un errore che potrebbe comportare conseguenze. In ogni caso per Renzi è un giorno di sole da segnare sul calendario dopo tanta pioggia. Inutile sottolineare adesso, per l'ennesima volta, la centralità delle riforme economiche - e potremmo aggiungere la giustizia - rispetto a questi interventi istituzionali che forse appassionano noi italiani ma lasciano indifferenti gli osservatori appena passate le Alpi. È un argomento molto serio ma ormai assai dibattuto, dopo le cifre crudeli della recessione e le parole di Draghi. Meglio afferrare il senso profondo del voto di ieri: la riforma ha un valore simbolico che non può essere sottovalutato. Renzi la considera una spinta decisiva verso il mitico "cambiamento". Il premier concede che ci possano essere "intoppi" lungo la strada, ma è chiaro che nella sua idea spettacolare della politica contano soprattutto i simboli. E il risultato del voto senza dubbio contiene una carica innovativa. Naturalmente l'aspetto simbolico è importante, ma non è tutto. Serve a creare uno stato d'animo nell'opinione pubblica, e tuttavia l'effetto sarebbe stato assai maggiore se le cifre dell'economia non fossero quelle che sappiamo. Ragion per cui il presidente del Consiglio non dovrà attendersi un tappeto di fiori. Gli si chiederà - anzi, già tutti glielo chiedono - di non accontentarsi dei simboli e di procedere sulla via dei fatti. Con o senza Senato, la luna di miele con gli italiani è finita, come riconosce anche la stampa internazionale. E quei 183 senatori in festa, quegli abbracci fra i ministri renziani e gli esponenti di Forza Italia, non possono far dimenticare che esiste un'area di disagio calcolata in quasi cinquanta voti mancanti. Per cui il referendum finale non sarà una concessione del governo per andare incontro al popolo, come parrebbe a sentire certe affermazioni, bensì un obbligo costituzionale imposto dal venir meno della maggioranza dei due terzi. Comunque sia, è consigliabile vedere il bicchiere mezzo pieno. La trasformazione del Senato inaugura, almeno questo è l'auspicio, una stagione di riforme rilevanti. Ora si attendono quelle che riguardano il mercato del lavoro, la pubblica amministrazione, la spesa pubblica, la giustizia. A voler essere ottimisti, il voto simbolico di ieri dovrebbe equivalere al colpo di pistola dello "starter". Un'iniezione di fiducia, un messaggio corroborante. Ma è bene che Renzi e i suoi non esagerino con i festeggiamenti. In definitiva, al di fuori della cittadella della politica, non c'è quasi nessuno che ha voglia di condividere tanto entusiasmo. Da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2014-08-09/una-vittoria-simbolica-e-suoi-risvolti-081144.shtml?uuid=ABe65miB Titolo: Stefano FOLLI. - Più La Malfa che Thatcher nel piano Renzi Inserito da: Admin - Settembre 22, 2014, 04:05:12 pm Più La Malfa che Thatcher nel piano Renzi
Di Stefano Folli 21 settembre 2014 Circa quarant'anni fa, in un'Italia molto diversa da oggi, Ugo La Malfa aveva posto un problema centrale alla politica del suo tempo, descrivendo la cittadella fortificata in cui si erano rinchiusi i privilegiati, ossia coloro che avevano un lavoro, e dalla quale erano invece esclusi i disoccupati. La sfida era piuttosto esplicita e così la intesero coloro ai quali era rivolta: il mondo comunista e socialista e i sindacati. Questi ultimi in particolare, con Luciano Lama, seppero raccogliere il messaggio e il confronto che ne seguì diede un contributo non trascurabile all'evoluzione della sinistra. Questo per dire che non c'è bisogno di scomodare Blair o Schroeder, e tanto meno di tirare in ballo la Thatcher, per spiegare le iniziative di Renzi sulla riforma del lavoro. Nell'Italia smemorata dei nostri tempi tutto appare nuovo e mai sentito prima, per cui ogni presa di posizione che increspa lo stagno deve essere per forza importata dall'estero. Ed è vero, senza dubbio, che è urgente un rinnovamento culturale in grado di restituire un senso alla politica e anche di modellare nuove relazioni con il sindacato: purché quest'ultimo decida di vivere nel nostro tempo. In ogni caso, quello che risulta essere - e in effetti è - un grave ritardo nell'aggiornare gli schemi e i codici del dibattito politico, è anche figlio della pigrizia degli ultimi vent'anni. Ossia il periodo in cui la sinistra, dietro l'alibi della lotta mortale a Berlusconi, ha rinunciato a muoversi con passo rapido e si è chiusa nel fortilizio da cui troppi sono stati tenuti fuori: i disoccupati, certo, ma anche coloro che via via hanno perduto fiducia nel sistema. Eppure sarebbe bastato ritrovare gli autentici spunti riformatori del dopoguerra, sviluppandoli nella cornice del Duemila, per colmare il vuoto. Sulla questione del lavoro, è stato notato da molti osservatori, Renzi ha ragione. Come ha ragione nel colpire le incrostazioni ideologiche dure a morire, specchio di un'Italia che in quei termini non esiste più. Si chiedeva al premier di essere concreto, di passare ai fatti dopo tante parole, e non si può adesso rimproverargli di essere fedele a se stesso. Anche perché l'attuale sinistra - che militi nel Pd, in altre formazioni o nel sindacato - dovrebbe avere tutto l'interesse a incoraggiare il riformismo di Palazzo Chigi. Magari per correggerlo e integrarlo nel corso del dibattito parlamentare, ma senza dare l'impressione di un «no» pregiudiziale e quindi ideologico: il che vale per la Cgil, naturalmente, ma anche per la minoranza del Pd (non tutta per la verità, basta leggere le parole di buon senso pronunciate dal presidente democratico, Orfini). Su questo punto ha ancora ragione il presidente del Consiglio quando ironizza su coloro che vorrebbero riportare il Pd al 25 per cento. In effetti solo chi non ha una precisa percezione dell'Italia ingessata nella camicia di forza dell'immobilismo politico, sindacale, amministrativo, può ritenere che paragonare l'avversario alla Thatcher sia un insulto. Sarebbe meglio riconoscere che la "signora di ferro" ha avuto ben pochi continuatori in Italia, uno dei Paesi più refrattari del mondo alle sue ricette. Di sicuro non c'è stato alcun "thatcheriano" di rilievo a destra, nella stagione di Berlusconi. Quanto a Renzi, il suo discorso nello stile "pensiamo prima ai disoccupati" riecheggia, magari in modo inconsapevole, antiche suggestioni domestiche, benché minoritarie, e non ha niente a che vedere con il liberismo estremo degli anni Ottanta. Qual è allora la principale differenza fra l'appello di Ugo La Malfa e la strategia renziana quarant'anni dopo? Sono assai diversi i protagonisti, ovviamente, ma è molto diverso soprattutto lo scenario. L'Italia di allora era ancora piuttosto ricca e poteva ridistribuire le risorse. L'Italia di oggi è in recessione ed è sollecitata dall'Europa, dal Fondo monetario, dalla stessa Banca centrale. È una condizione scomoda e scivolosa. Ma c'è anche un'altra differenza, forse la maggiore. La riforma del lavoro – come tutti hanno capito, anche chi la avversa – è il tema cruciale dell'autunno. È la riforma che può aprire un varco nell'ingessatura del sistema. Ma può essere all'occorrenza un punto di frattura, se si vuole dividere l'opinione pubblica e cacciare nell'angolo i conservatori di sinistra accanto a quelli di destra. Il rischio è proprio questo: che si tratti di una pedina di un gioco tutto politico con risvolti elettorali. Una sfida vissuta sul filo delle dichiarazioni "spot" e delle polemiche solo mediatiche. Un tempo discutere di occupati e disoccupati voleva dire trovare elementi di sintesi per far progredire il Paese e dare risposta a una sofferenza sociale. C'è da augurarsi che sia così anche oggi, benché la società del web e della tv obblighi a cercare il colpo a effetto, come in un duello all'OK Corral. Forse sul lavoro si può ancora individuare il terreno di un rapido confronto che eviti la solita contrapposizione del palazzo contro la piazza. Non perché il palazzo, in questo caso il Parlamento, non abbia tutti gli strumenti per affermare la propria decisione, ma per evitare agli italiani nuove nevrosi e al limite ulteriori ritardi. Stavolta Renzi ha imboccato la strada giusta, purché sappia portare fino in fondo l'iniziativa riformatrice e sappia collocarla nella cornice di un impegno che dovrà essere più ampio e convincente di quello che riguarda l'articolo 18. Sarebbe invece pericoloso, nelle attuali circostanze, se qualcuno pensasse di suscitare tanto clamore con il retro-pensiero di aprire un sentiero verso le elezioni anticipate. Non è il caso di Renzi, probabilmente. Almeno non ancora. Da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2014-09-21/piu-malfa-che-thatcher-piano-renzi-081104.shtml?uuid=ABQN3lvB&p=2 Titolo: Stefano FOLLI. - Il momento delle scelte Inserito da: Admin - Ottobre 07, 2014, 11:34:49 am Il momento delle scelte
Di Stefano Folli 07 ottobre 2014 Chiedere la fiducia al Parlamento su una legge delega non è affare di tutti i giorni. Si potrebbe senz'altro definirla una forzatura, dettata dal desiderio del presidente del Consiglio di presentarsi davanti ai partner europei, domani a Milano, potendo sbandierare la riforma del lavoro come un successo del governo. E d è quello che accadrà. In altre parole. Renzi non ha più motivo di aspettare. Può essere che alla fine il testo su cui si voterà la fiducia recepirà qualcosa delle obiezioni provenienti dalla minoranza del Pd, ma ormai l'aspetto è quasi secondario. La battaglia dell'articolo 18 si conclude con l'umiliazione della sinistra del partito, che è stata prima contenuta e poi disgregata. Renzi ha fatto il suo gioco, forte di un consenso di opinione pubblica di cui si coglie il riflesso nei sondaggi. La minoranza di D'Alema e Bersani, peraltro tutt'altro che concordi fra loro, esce male dal braccio di ferro: non solo ha perso – e questo era forse inevitabile – ma si è frammentata, dando l'idea di non avere alcuna strategia per il futuro. Lo stesso può dirsi per la Cgil. Vedremo stamane come andrà il breve incontro a Palazzo Chigi con i sindacati, ma tutto lascia pensare che Susanna Camusso seguirà la sorte del Pd anti-renziano e sarà indotta ad accettare una decisione governativa che vorrebbe contrastare senza però averne più la forza. Quindi Renzi potrà presentarsi a Milano non proprio a mani vuote, così da rintuzzare la critica che ha preso piede anche in Europa: ossia che il premier italiano parla molto e costruisce poco. Stavolta non è del tutto esatto. La riforma del lavoro e la questione dell'art. 18, quali che siano i giudizi su questo punto specifico, segnano una svolta: a Roma qualcuno ha cominciato a parlare il linguaggio della concretezza e i fatti sono lì a dimostrarlo. Anche se il prezzo è un Pd diviso come mai in passato; un Pd delle cui fratture il segretario-premier non si cura affatto, ma nel quale quasi nessuno, Stefano Fassina a parte, ha voglia di innescare una crisi politica e magari di governo. Sarebbe un inspiegabile atto di autolesionismo. Le conseguenze economiche e sociali della riforma sono naturalmente tutte da verificare. Può darsi che nell'immediato non ce ne siano di positive e sarebbe una pessima notizia per quanti sperano di risalire la china della recessione anche grazie all'abolizione dell'art. 18. In ogni caso il valore politico e mediatico dell'operazione è ben chiaro al presidente del Consiglio che saprà sfruttarlo a dovere, a cominciare dall'incontro europeo di Milano. Il problema è che i vari partner arrivano a questo appuntamento, privo peraltro dell'ufficialità di un vertice, in una condizione di grave lacerazione. Francia e Germania sembrano oggi agli antipodi, entrambe a causa della politica interna. Da un lato Parigi che sfora volontariamente il tetto del deficit per tagliare un po' d'erba sotto i piedi della Le Pen che sembra davvero a due passi dall'Eliseo. Dall'altro Angela Merkel che deve rintuzzare la crescita del partito anti-euro, ormai al 10 per cento in qualche Land: il che rende assai problematica qualche concessione della Cancelliera ai paesi indebitati del Sud. È una storia intricata, quasi certamente senza lieto fine. Ogni capitale misura il senso e la portata delle sue scelte pensando alle ricadute sull'opinione pubblica interna. Lo fanno i francesi, lo fanno i tedeschi. E gli italiani a modo loro non sono da meno. La cautela della politica economica, gli 80 euro e il Tfr, i precari della scuola stabilizzati: sono tutti gesti di chi si preoccupa delle conseguenze sociali ed elettorali di certi atti. E quindi anche l'Italia raggiunge Francia e Germania nel club di chi pensa prima alle elezioni è solo dopo al futuro dell'Europa unita. Da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2014-10-07/il-momento-scelte-063618.shtml?uuid=AB74ck0B Titolo: Stefano FOLLI. - A Roma per esistere ancora, a Firenze per andare oltre il Pd Inserito da: Admin - Ottobre 26, 2014, 08:11:45 am A Roma per esistere ancora, a Firenze per andare oltre il Pd
Di Stefano Folli 25 ottobre 2014 Forse è fin troppo ovvia l'immagine dei due Pd: uno in piazza a Roma con la Cgil e l'altro a Firenze con il premier Renzi che è anche segretario dell'intero partito. I giornali stanno già ricamando intorno al dualismo e ancor più lo faranno domattina, dopo aver contato quanti esponenti della minoranza dei democratici avranno manifestato insieme a Susanna Camusso e viceversa quanto innovativi saranno i toni dei renziani in riva all'Arno. Sono due mondi, è logico. Due mondi che tendono a essere sempre meno conciliabili. Ma una scissione a sinistra del Pd non è affatto verosimile. Non s'intravedono spazi politici per una simile, temeraria operazione. Tanto meno si possono immaginare spazi elettorali. E' vero quello che dicono Bersani e i suoi amici: in piazza con il sindacato ci sarà un pezzo dell'elettorato che ha concorso al 40,8 per cento del voto europeo. Tuttavia è chiaro che questo argomento non abbia alcuna presa sugli stati d'animo del presidente del Consiglio. Un po' si capisce. Una volta stabilito che la minoranza non ha interesse oggi alla scissione (i casi isolati sono un'altra cosa), che motivo c'è di preoccuparsi? Renzi si limita a esprimere formale "rispetto" verso i manifestanti e a tirare diritto. Del resto, se si fermasse perchè intimorito dalla Cigl, la sua parabola sarebbe conclusa e nulla di ciò che è stato fatto fin qui, nel bene o nel male, avrebbe senso. Infatti il "renzismo" coincide in ultima analisi con la volontà di superare il potere di veto di questo o quel gruppo organizzato: l'autentico grande potere che ha contribuito a tenere in stallo l'Italia. E' una lettura semplificata del fenomeno politico del momento, ma piuttosto realistica. Il pensiero nemmeno recondito del premier è che le manifestazioni sindacali, quando sono volte a restaurare quel potere di veto, suscitano oggi il disappunto della maggioranza degli elettori e quindi portano acqua al mulino del premier. Basti ricordare la frase beffarda rivolta a D'Alema: «ogni volta che parla, io guadagno tot voti». A maggior ragione, ogni volta che la Camusso va in piazza e minaccia lo sciopero generale (uno sciopero che sarebbe oltremodo politico), il presidente del Consiglio si frega le mani e pensa di raccogliere nuovi consensi in quell'ampia "zona grigia" dove si vincono le elezioni. Troppo facile, peraltro, sottolineare che il suo commento al raduno sindacal-politico ricalca alla perfezione quello fatto a suo tempo da Berlusconi premier a proposito di una manifestazione oceanica promossa da Cofferati: «Se loro mobilitano tre milioni di persone, noi ci rivolgiamo agli altri 57 che sono restati a casa». Oggi che è arrivata la stagione delle disillusioni, Renzi cita un milione di persone contro 60 a casa. Non c'è nulla di strano. Il "partito della nazione" di Renzi, riunito alla Leopolda per il quinto anno consecutivo, cercherà i suoi voti ovunque: a sinistra non meno che a destra. Se vincerà, non dovrà più soggiacere ai veti, avendo la forza per respingerli. Ma di qui ad allora basta poco per mettere un piede in fallo. Un eccesso di sicurezza potrebbe essere pericoloso anche per un tipo spavaldo. Il quale a Bruxelles ha accettato un compromesso che costerà all'Italia fra i 4 e i 5 miliardi di euro. Ma a Firenze la presenta come una vittoria, l'inizio della fine dell'Europa tedesca. Può darsi persino che abbia ragione. La fantasia al potere. Da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2014-10-25/a-roma-esistere-ancora-firenze-andare-oltre-pd-081350.shtml?uuid=ABPceg6B Titolo: Stefano FOLLI. - La legge elettorale e l'incognita del Quirinale Inserito da: Admin - Novembre 09, 2014, 11:28:52 am La legge elettorale e l'incognita del Quirinale
Di STEFANO FOLLI 04 novembre 2014 Un passo dopo l'altro, ci si avvicina ai passaggi cruciali che decideranno il futuro della legislatura e le prospettive del governo Renzi. Le scadenze si affollano nell'agenda di fine anno, dalla riforma del lavoro alla legge di stabilità, ma la vera incognita resta ancora la legge elettorale. Sulla quale l'incertezza è ovviamente aumentata dopo che il presidente del Consiglio ha rimescolato le carte e ha avanzato la proposta di assegnare il premio di maggioranza non più alla coalizione vincitrice, bensì alla lista, cioè al partito. Questo significa che quando il Senato l'avrà votata, nella migliore delle ipotesi non prima di gennaio inoltrato, la legge tornerà alla Camera per una seconda lettura non solo formale. I tempi insomma si allungano, anche perché gli accordi in Parlamento attendono di essere definiti. Nessuno mette in discussione il "patto del Nazareno"; ma i fatti dimostrano che l'intesa con Berlusconi, pur solida, non è una camicia di forza in grado di coprire tutte le contraddizioni. Prova ne sia l'infinita altalena sui candidati alla Corte Costituzionale. In altri termini, Renzi va per la sua strada, ma gli ostacoli potrebbero essere più insidiosi del previsto. Il suo tallone d'Achille - egli stesso ne è ben consapevole - è l'economia, o meglio il rischio concreto che le misure già in atto o in preparazione non riescano a imprimere uno stimolo significativo al sistema produttivo. A maggior ragione il premier deve consolidare in fretta il suo "blocco sociale" e di conseguenza un sistema di potere ancora imperfetto. Anche nel discorso di ieri agli industriali di Brescia è emersa questa determinazione, nel segno del dinamismo innovatore, ma si è avvertita fra le righe l'inquietudine di chi teme che non tutti i tasselli del mosaico vadano al loro posto in tempo utile. Sotto il profilo politico-istituzionale, le carte migliori in mano a Renzi sono due. La prima è la condizione di grave prostrazione in cui versa la minoranza del Pd, incapace di costituire una minaccia alla stabilità del governo e tanto meno di prefigurare una scissione credibile, che non sia cioè l'uscita alla spicciolata dal Pd di tre o quattro irriducibili oppositori del "renzismo". La seconda è invece l'appoggio fermo e costante garantito al premier dal presidente della Repubblica. La capacità di Napolitano di influenzare le decisioni di Renzi si è vista ancora la settimana scorsa, in occasione della scelta di Paolo Gentiloni come ministro degli Esteri. Al tempo stesso abbiamo avuto conferma della disponibilità del presidente del Consiglio ad accettare i consigli del Quirinale, ricercando il compromesso. Questa è la falsariga che segnerà i rapporti istituzionali anche nel prossimo futuro. Fino al momento in cui Napolitano deciderà di lasciare il Quirinale. Il presidente ha superato di recente la prova più dura, anche sotto il profilo psicologico: la testimonianza resa davanti ai magistrati di Palermo. Ne è uscito rinfrancato, avendo rintuzzato quella che poteva diventare una prova di forza contro gli equilibri costituzionali del paese. Ciò nonostante, egli non fa mistero della sua intenzione di voler mettere fine al suo secondo mandato in ragione dell'età e della salute. È ragionevole pensare che questo non accadrà prima della fine del semestre europeo dell'Italia, ma nemmeno troppo più in là. Ne deriva un intreccio molto delicato. È impensabile che quel giorno, quando sarà, il governo abbia completato il percorso delle riforme, anzi con ogni probabilità non avremo nemmeno la nuova legge elettorale. Il rischio è allora che i due piani s'intreccino e che sul cammino della legge elettorale si scarichino tutte le tensioni e gli inevitabili veleni della contesa per il Quirinale. © Riproduzione riservata 04 novembre 2014 Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/11/04/news/la_legge_elettorale_e_l_incognita_del_quirinale-99696982/?ref=HRER2-1 Titolo: Stefano FOLLI. - Perché Napolitano lascerà il Quirinale alla fine dell'anno Inserito da: Admin - Novembre 09, 2014, 12:10:11 pm Perché Napolitano lascerà il Quirinale alla fine dell'anno
Di STEFANO FOLLI 08 novembre 2014 Il presidente della Repubblica non fa mistero della sua intenzione di concludere in tempi brevi il suo secondo mandato. La data nella sua mente è già ben definita: la fine dell'anno, allo spirare del semestre italiano di presidenza dell'Unione europea. È un percorso di cui si mormora da tempo nei palazzi della politica romana e adesso c'è anche la certezza che la decisione del presidente è presa. Tuttavia lo stato d'animo del presidente non è quello con cui, fino a qualche mese fa, egli guardava alla conclusione del suo incarico. Aveva sperato a lungo di legare questa scadenza al successo delle riforme istituzionali e della legge elettorale. CON gli amici che vanno a trovarlo o gli parlano al telefono Giorgio Napolitano lascia trasparire in questi giorni un duplice sentimento. Da un lato è soddisfatto per l'energia e la determinazione messe in mostra dal presidente del Consiglio, Renzi. Gli sembra che il dinamismo e la volontà di affrontare i problemi siano i fattori politici di cui il Paese ha bisogno in questa fase drammatica. La legislatura ha bisogno di un motore e Renzi dimostra di possedere il temperamento adatto a incarnare lo spirito dei tempi. Dall'altro lato il presidente della Repubblica non fa mistero della sua intenzione di concludere in tempi brevi il suo secondo mandato. La data nella sua mente è già ben definita: la fine dell'anno, allo spirare del semestre italiano di presidenza dell'Unione europea. Le ragioni sono legate alla fatica del compito, sempre più estenuante per un uomo che nel prossimo mese di giugno festeggerà i novant'anni. NAPOLITANO è stanco e ritiene di aver diritto di esserlo. Rispetta gli impegni con puntualità, quelli interni e quelli internazionali, ma sta diradando l'agenda, se si tratta di allontanarsi dal Quirinale. Fra qualche giorno, il 17, sarà all'Università Bocconi per assistere al ricordo di Giovanni Spadolini a vent'anni dalla morte. Poi un paio di appuntamenti europei, di cui uno a Torino, utili a ricordare che il destino italiano si compie in Europa e non altrove. Infine il messaggio di Capodanno agli italiani, l'ultimo dei nove pronunciati a partire dal 31 dicembre 2006. È un percorso di cui si mormora da tempo nei palazzi della politica romana e adesso c'è anche la certezza che la decisione del presidente è presa. Nel 2015 Napolitano seguirà le vicende italiane dallo studio di Palazzo Giustiniani che è già pronto ad accoglierlo quale presidente emerito. Tuttavia lo stato d'animo del presidente non è quello con cui, fino a qualche mese fa, egli guardava alla conclusione del suo incarico. Aveva sperato a lungo di legare questa scadenza al successo delle riforme istituzionali e della legge elettorale. Soprattutto quest'ultima, che non richiede, come è noto, una revisione della Costituzione, gli è sempre parsa la più adatta a chiudere un'epoca e ad aprirne un'altra: proprio perché, nella condizione del Paese, si tratta di una legge di sistema, destinata a garantire l'assetto generale delle istituzioni. Dunque una legge sfrondata dagli elementi di incostituzionalità che avevano provocato il naufragio della precedente norma a opera della Consulta. E al tempo stesso un modello in grado di rassicurare l'opinione pubblica circa il fatto che il confronto politico si sviluppa entro argini ben definiti e se possibile tra forze che tendono a riconoscersi l'un l'altra come pienamente legittimate, in grado cioè di scambiarsi i ruoli di governo e opposizione in un quadro di stabilità. In fondo era solo su questa base che Napolitano aveva accettato il secondo mandato. E chi ricorda il discorso d'insediamento davanti alle Camere riunite, il 22 aprile 2013, rammenta anche il tono aspro, quasi sferzante con cui il capo dello Stato appena rieletto aveva richiamato i parlamentari alle loro responsabilità. Era in gioco allora come oggi la corretta funzionalità delle istituzioni e una prospettiva politica capace di rendere salde le radici europee della dialettica interna. Nel mosaico immaginato da Napolitano c'era molto di più: il riassetto del sistema bicamerale, la riforma della pubblica amministrazione, della giustizia e altro. Ma la nuova legge elettorale appariva quasi un pegno urgente da offrire agli italiani per convincerli che la stagione dell'eterna transizione era davvero alle spalle. Come chiunque può notare, oggi lo scenario non è quello sperato e Napolitano non nasconde la sua delusione. È chiaro che alla fine dell'anno non avremo la riforma del voto, ma è altrettanto certo che il presidente della Repubblica non aspetterà i tempi dei partiti. Non intende farsi condizionare dai ritardi e della solita pratica del rinvio. Su tale passaggio si mostra molto deciso con i suoi interlocutori. Quindi viene meno il nesso tra riforme e dimissioni. E non ci sarà l'inaugurazione di Expo 2015, come vorrebbe il premier Renzi. L'uscita dal Quirinale sarà il compimento di una missione personale, il cui bilancio sarà dato dalla gran mole di atti compiuti in oltre otto anni e mezzo. Ma se le forze politiche non sono state in grado di dare forma conclusa a un nuovo capitolo della storia repubblicana, il presidente le lascia alle loro responsabilità. Non le asseconderà al solo scopo di coprire lacune e debolezze di un sistema rinnovato solo in piccola parte. Ora prevalgono le ragioni di salute, per cui ogni giorno trascorso nel palazzo costa un sacrificio di cui non tutti sono consapevoli. Napolitano è sicuro di aver superato in modo brillante la prova più dura sul piano psicologico, la testimonianza davanti ai magistrati e agli avvocati del processo di Palermo. Ma l'intera vicenda, come è noto, lo ha ferito. Ripete spesso due punti che gli stanno a cuore. Primo, non intende trovarsi a gestire una nuova crisi politica e di governo, non se la sente più di reggere gli sforzi fisici e mentali già sopportati nel recente passato. A maggior ragione - ed è il secondo aspetto sottolineato - egli non porterebbe mai il paese a nuove elezioni anticipate. Non ci sarà più uno scioglimento delle Camere da lui firmato. Toccherà eventualmente al successore decidere in merito. E il presidente ritiene che in democrazia il Parlamento deve essere pronto e capace in ogni momento di eleggere un'altra figura al vertice istituzionale. Questo è il sentiero prefigurato al Quirinale. I partiti hanno quindi poco tempo per affrontare il problema ed evitare che la scelta del successore di Napolitano, di qui a poche settimane, si trasformi in un altro episodio di logoramento istituzionale. Tuttavia il copione non è stato ancora scritto. Non esiste un'ipotesi reale di accordo su un nuovo nome. Ci sono in campo tre soggetti maggiori, il Pd, Forza Italia e i Cinque Stelle. Più altri soggetti minori suscettibili di giocare una loro partita, come i leghisti. Se e come i fili saranno annodati, attraverso quali intese trasparenti o sotterranee, per ora non è dato sapere. Ma tutti sanno che il tempo stringe. Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/11/08/news/perch_napolitano_lascer_il_quirinale_alla_fine_dellanno-100044655/?ref=HREA-1 Titolo: Stefano FOLLI. - Quirinale, Italicum e guerra nel Pd. Renzi ora deve scoprire... Inserito da: Admin - Dicembre 14, 2014, 11:02:11 pm Quirinale, Italicum e guerra nel Pd. Renzi ora deve scoprire le carte
Il nodo è se il premier è in grado o no di far passare il suo candidato al Colle senza una trattativa interna Di STEFANO FOLLI 14 dicembre 2014 POCHI credono che l'assemblea di oggi risolverà qualche problema all'interno del Partito Democratico. Le divisioni interne ci sono e continueranno a esistere anche domani. Del resto, nonostante Civati che si è preso i titoli della vigilia, la prospettiva non è una scissione in grande stile, ma un calcolo di convenienza la cui posta in gioco è Renzi: la sua leadership, la sua filosofia politica. La possibilità di condizionarlo quando si sceglierà il prossimo presidente della Repubblica. Non sarà quindi una rituale occasione di partito, con la passerella degli oratori dai tempi contingentati, a ratificare la frattura. Non siamo a Livorno nel '21 e Civati non è Bordiga, così come senza dubbio Renzi non è Turati. Più che nel fuoco di un grande scontro ideologico, il Pd si consuma in un gioco tattico abbastanza estenuante, dove contano di più i successi o i passi falsi in Parlamento dei discorsi nelle assemblee interne. Questo non significa che la riunione odierna sia poco significativa. Al contrario, è un passaggio carico di tensione e in effetti Civati ha buttato altra benzina nel camino acceso. Ma un punto è chiaro: oggi all'orizzonte non c'è una scissione, quanto meno non una scissione in tempi brevi. Non è il luogo né il momento. Prima vengono altri nodi assai insidiosi per il presidente del Consiglio: la fronda sulla legge elettorale, sulla riforma del Senato e soprattutto sull'elezione del capo dello Stato. La minoranza non dispone di numeri notevoli, però è in grado di mettersi di traverso, facendo saltare qualsiasi strategia renziana. E poiché l'accordo del premier con Berlusconi non è di ferro, come tutti hanno ormai compreso, il risultato è che si naviga al buio in un mare pieno di scogli. A cosa può servire allora l'assemblea di Villa Borghese? Forse a rispondere all'interrogativo che da tempo aleggia sulla Roma politica: Renzi intende umiliare la minoranza interna fino alle estreme conseguenze o al contrario è pronto a sancire un compromesso? Ben sapendo che tale compromesso, per essere credibile, non può essere una semplice tregua, ma deve comportare un'intesa sul nome del capo dello Stato e sulla riforma elettorale (in questo ordine). Finora il premier ha evitato di prendere posizione in merito. Ma il tempo passa e ci si avvicina alle scadenze decisive. Al netto delle feste di fine anno, manca circa un mese al momento in cui il Parlamento si riunirà in seduta comune, quindici giorni dopo le formali dimissioni di Napolitano. Forse converrebbe a Renzi diradare la nebbia che avvolge le sue intenzioni. Un punto a suo vantaggio è che la minoranza è suddivisa in almeno tre segmenti. Ci sono gli irriducibili come Civati, appunto, e Fassina, testimoni di una linea dura e massimalista che può persino far comodo al premier. Poi c'è D'Alema che mette sul piatto il peso di una storia, ma il cui presente è segnato da una relativa debolezza. E infine viene Bersani, in fondo il più dialogante e al tempo stesso il più rappresentativo: Renzi fino ad ora ha esitato ad assumerlo come interlocutore, rinunciando quindi a dividere il fronte avversario più di quanto già non sia. Potrebbe tuttavia essere giunto il momento di mettere le carte in tavola, in modo che sia chiaro cosa si vuole a Palazzo Chigi. Se il premier si sente in grado di far passare il suo candidato al Quirinale senza una vera trattativa interna, imponendolo quindi alla minoranza, allora ci si può aspettare oggi un discorso perentorio e al limite sprezzante, di quelli a cui Renzi ha abituato i giornali e i Tg. Se invece questa certezza non c'è (e oggi un certo pessimismo è d'obbligo), allora il presidente del Consiglio potrebbe cogliere l'occasione dell'assemblea per trasmettere qualche segnale di disponibilità. Probabilmente troverà qualcuno all'ascolto. © Riproduzione riservata 14 dicembre 2014 Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/12/14/news/quirinale_italicum_e_guerra_nel_pd_renzi_ora_deve_scoprire_le_carte-102843582/?ref=HREA-1 Titolo: Stefano FOLLI. - Il caso Roma e i rischi del governo. A Renzi ora serve una ... Inserito da: Admin - Dicembre 14, 2014, 11:12:58 pm Il caso Roma e i rischi del governo. A Renzi ora serve una fase due
Il premier si è accorto di dover imprimere un cambio di passo nella lotta alla corruzione Di STEFANO FOLLI 10 dicembre 2014 AFFACCIATO sul precipizio di Roma, città del malaffare trasversale, Renzi si è reso conto di dover dare un segnale chiaro e forte. Fino a ieri le iniziative erano un po' all'acqua di rose: il commissariamento del Pd cittadino, la promessa che "i ladri saranno cacciati". Giusto ma insufficiente, come qualcuno gli aveva fatto notare. A Roma non è in corso una bega di potere locale e l'intreccio politica-malaffare non riguarda la cronaca minore. In gioco c'è anche la credibilità di un esperimento politico complesso quale è il "renzismo". Ha poco senso stabilire una graduatoria fra lo scandalo del Mose a Venezia e le imprese della "mafia all'amatriciana" a Roma: già questa definizione, che pure è stata usata, tende a derubricare la vicenda, a farne un episodio su cui si può anche sorridere. Non è così e il premier, dopo qualche esitazione, sembra aver compreso che non è un episodio e soprattutto che non c'è niente da ridere. Nel momento in cui si prepara a una nuova tappa del lungo confronto con Angela Merkel, è evidente che il presidente del Consiglio non può lasciare dietro di sé nemmeno il sospetto di debolezza verso la corruzione all'ombra del Campidoglio. In un certo senso l'iniziativa politica contro la mafia romana (non solo contro "i ladri", genericamente intesi) diventa la priorità assoluta, prima ancora delle riforme istituzionali. O meglio, le riforme sono il segno di uno Stato che vuole rinascere dalle sue ceneri e intende ricostruire se stesso dalle fondamenta. Ma un tale obiettivo, pur essenziale, ha tempi lunghi. Prima che i cittadini tornino ad aver fiducia nelle istituzioni, altri scandali potranno verificarsi in quella sorta di terra di nessuno in cui la malavita si sovrappone alla pessima politica. Ne deriva che il richiamo alle riforme da solo non basta. Non a caso Renzi ha posto l'accento sul momento repressivo, sulla volontà di sradicare la pianta velenosa. Si dirà che annunciare pene molto severe non è un grande deterrente in un paese dove la giustizia funziona poco e male. Qualcuno potrebbe leggervi, più che l'inizio della riscossa, una mossa quasi disperata. Eppure era quello che in questo momento andava fatto per mandare un messaggio positivo all'opinione pubblica. È chiaro che non può bastare, ma è un primo passo indispensabile. Prima che prenda piede l'idea assai pericolosa, ma non infondata, che nulla è cambiato rispetto ai tempi di Tangentopoli. Renzi è ancora percepito come una figura non compromessa e non corrotta dal potere. È bene che sfrutti questa condizione che non durerà in eterno, come i sondaggi cominciano a testimoniare. Del resto, non è un mistero che il governo è avviluppato in una serie di nodi irrisolti. La condizione economica è sempre più difficile e i margini di manovra, soprattutto a livello europeo, sono esigui. Le riforme, ancora loro, sono quasi ferme in Parlamento. Prima che la gente avverta il cambiamento, passerà troppo tempo. Su un tale sfondo, il buco nero di Roma rischia di essere il detonatore di un fallimento insostenibile della politica. È probabile che il presidente del Consiglio avverta l'esigenza di un colpo d'ala che, partendo dalla capitale, abbracci un campo più vasto, ossia l'intera attività del governo. Forse non siamo alla "fase due" del renzismo, ma certo lo slancio dei primi mesi è in via di esaurimento. Sotto questo aspetto, lo scandalo romano costituisce un drammatico allarme. Al tempo stesso rappresenta la più classica delle opportunità per un giovane politico dinamico e spregiudicato. Quindi il colpo d'ala è realmente urgente, a patto di non sbagliare le mosse. Ma in fondo è qui, sul piano di una moralità non solo declamata e retorica, che il premier può dimostrare in concreto qualcosa a una pubblica opinione stanca di parole e tentata da soluzioni insondabili. © Riproduzione riservata 10 dicembre 2014 Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/12/10/news/il_caso_roma_e_i_rischi_del_governo_a_renzi_ora_serve_una_fase_due-102526533/?ref=HRER2-1 Titolo: Stefano FOLLI. - La partita del Colle ora si complica e il leader è più debole Inserito da: Admin - Gennaio 08, 2015, 05:23:18 pm La partita del Colle ora si complica e il leader è più debole
L'intesa Renzi-Berlusconi sembra adesso fragile e lo scenario politico è totalmente cambiato Di STEFANO FOLLI 06 gennaio 2015 Lo scenario politico è cambiato in fretta a cavallo di Capodanno. Tanto in fretta che adesso le incognite superano le certezze. Fino all'altro giorno l'accordo Renzi-Berlusconi appariva abbastanza solido, una cornice in grado di reggere alla duplice, imminente prova: prima la riforma elettorale al Senato e subito dopo, alla fine del mese, l'elezione del capo dello Stato. Franchi tiratori nei due campi erano messi nel conto, certo, ma gli ottimisti, pallottoliere alla mano, dimostravano che il premier aveva in mano i numeri giusti e che il suo alleato di Palazzo Grazioli gli sarebbe rimasto al fianco con lealtà. All'improvviso oggi prevale un'idea di fragilità. Peggio: i contorni del patto del Nazareno diventano opachi e certe contiguità politiche sembrano solo lo schermo per scambi inconfessabili, benché maldestri, e giochi di potere poco limpidi. Può sembrare incredibile, ma la vicenda tragicomica del decreto fiscale e del tetto al 3 per cento per salvare Berlusconi, potrebbe essere davvero il frutto di un gran pasticcio all'italiana e non il parto di due cospiratori. Ma ai fini pratici non cambia nulla. Né cambia qualcosa che il presidente del Consiglio si sia assunto la responsabilità di aver inserito la norma contestata nel decreto dopo aver dichiarato di non saperne nulla (ma in precedenza aveva anche detto di aver dedicato tutto il tempo necessario alla lettura puntigliosa, paragrafo per paragrafo, del provvedimento fiscale). A questo punto diventa meno importante conoscere chi, materialmente, ha scritto il famigerato passaggio. Conta di più capire quali saranno le conseguenze politiche e parlamentari del grave errore. Il fatto che Renzi se lo sia caricato sulle spalle, nel tentativo di alleggerire la pressione mediatica, e abbia ritirato il testo (almeno fino a dopo il voto sul capo dello Stato), non risolve la questione di fondo. Semmai certifica che il colpo ricevuto ha messo il premier in una difficoltà senza precedenti. In un attimo ha ripreso vita la minoranza del Pd, che Renzi non aveva esitato a umiliare nei mesi scorsi; e lo stesso Grillo sembra uscito all'improvviso dal suo letargo. La partita del Quirinale si fa più incerta e per i candidati vicini al premier la strada è in salita. Non è un buon risultato per l'uomo che si vanta, non a torto, di aver quasi cancellato il movimento dei Cinque Stelle e di aver cambiato la fisionomia della vecchia sinistra. Ma Renzi impara a sue spese che basta sbagliare una mossa per ritrovarsi ai piedi della montagna. E in questo caso le mosse sbagliate sono due. Quella sul fisco, le cui ricadute vanno molto al di là del caso Berlusconi perché si toglie rilevanza penale a un numero eccessivo di reati tributari, dando l'impressione (magari solo l'impressione) di voler inseguire qualche tornaconto elettorale. E quella che riguarda il volo per Courmayeur. Qui il premier si è esposto alla polemica capziosa dei "grillini". I quali hanno torto nel merito, perché un capo di governo ha diritto di spostarsi con i mezzi dello Stato, salvo che non vi rinunci per ragioni di opportunità (come fece a suo tempo Enrico Letta). Tuttavia hanno ragione su un punto: l'attacco ai privilegi della "casta" fu un argomento forte del Renzi prima maniera, quando voleva vincere le primarie nel Pd e frenare l'espansione dei Cinque Stelle. C'è quindi una certa contraddizione nei comportamenti, non grave e tuttavia insidiosa se qualcuno, come è accaduto, la fa rilevare. La sfortuna del presidente del Consiglio è che questi episodi negativi, figli di un eccesso di sicurezza o di errori di valutazione, avvengono alla vigilia dei due passaggi cruciali della legislatura. Il patto del Nazareno si è indebolito nel momento sbagliato. A conferma che spesso le scelte politiche sono condizionate da stati emotivi e psicologici. Il "renzismo" fino a oggi ha goduto di circostanze molto favorevoli nella psicologia di massa. Vedremo se saprà reagire a questi non irrilevanti incidenti di percorso. © Riproduzione riservata 06 gennaio 2015 Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/01/06/news/la_partita_del_colle_ora_si_complica_e_il_leader_pi_debole-104355423/?ref=HRER1-1 Titolo: Stefano FOLLI. - Tutti i rischi della strategia del plebiscito Inserito da: Admin - Febbraio 20, 2015, 04:47:27 pm Tutti i rischi della strategia del plebiscito
Il referendum confermativo è diventato per Renzi un'arma politica: ma a doppio taglio Di STEFANO FOLLI 14 febbraio 2015 RIFORMARE la Costituzione come se si trattasse di convertire un decreto legge entro 60 giorni. Si può fare, non è illegittimo: ma le conseguenze politiche rischiano di essere pesanti. Si può anche sostenere che alla seduta fiume non c'era alternativa e che l'ostruzionismo non mira a correggere in qualche punto la riforma, ma solo a insabbiarla. C'è del vero anche in questo argomento, ma non si sfugge alla sensazione che a Montecitorio sia mancata una regìa lungimirante. Forse la regìa è mancata del tutto. Qualcuno ha sottovalutato il carico di tensioni che la vicenda del Quirinale aveva accumulato nelle aule parlamentari. Misconoscere il peso della psicologia nei comportamenti politici non è mai una scelta felice. Il partito berlusconiano, come è noto, si è sentito raggirato e ha imboccato la strada della vendetta, contraddicendo se stesso e tutte le sue opzioni precedenti. Forse occorreva da parte del governo renziano una maggiore capacità di smussare gli angoli, prendendo atto della realtà. In fondo il patto del Nazareno, al di là della fantapolitica, ha rappresentato una tregua politica durata circa un anno; una tregua da cui il presidente del Consiglio ha tratto significativi benefici. Certo, nel momento in cui il castello di carte crolla, il danno peggiore è per Berlusconi, trascinato dalla corrente su posizioni poco condivise in passato, mentre il palcoscenico è occupato dalla strana alleanza fra l'intransigente Brunetta, il leghista Salvini e persino il Sel vendoliano. Tuttavia sulla carta c'è un danno anche per Renzi. L'aver ridotto la riforma della Costituzione a una questione meramente numerica, gli darà la vittoria alla Camera e forse anche al Senato, nonostante i seggi più esigui. Eppure un Parlamento lacerato e in qualche misura mortificato rappresenta un segnale non positivo per un governo che si propone, almeno a parole, un orizzonte di legislatura. La minoranza del Pd, salvo le solite eccezioni, si adegua per mancanza di alternative, ma è destinata a diventare sempre più un corpo estraneo carico di risentimento. Di questo il premier Renzi è consapevole e tuttavia non sembra curarsene. La sua filosofia è tutta in quella frase: "non mi sono fatto ricattare da Berlusconi sul Quirinale e non mi faccio ricattare da altri sulla riforma". Gli altri sono soprattutto i Cinque Stelle, è ovvio, ma il sottinteso riguarda senza dubbio la minoranza del suo stesso partito. Alla quale non ha motivo di fare concessioni, se proprio non vi è costretto. In fondo il renzismo è come un'auto che possiede soltanto la quarta marcia con freni poco efficienti: può solo correre. E un Parlamento frantumato fa meno paura, se si ritiene di avere dietro un ampio segmento di opinione pubblica. C'è un'altra frase chiave del premier che spiega bene le sue intenzioni: "alla fine la riforma sarà sottoposta a referendum e lì si vedrà". Ecco il punto: nella strategia renziana il referendum confermativo previsto dalla Costituzione si trasforma in un'arma da usare sul piano politico. Le risse in Parlamento verranno cancellate dal ricorso al popolo. E sarà lui, il presidente del Consiglio in questo caso discepolo di De Gaulle, che ne ricaverà il dividendo. Nessuno crede infatti che la riforma del Senato o del Titolo V possano essere bocciate. Saranno approvate con una soglia per forza di cose superiore al 50 per cento dei votanti. Dal 40,8 delle regionali al 55-60 prevedibile del referendum... È un'operazione plebiscitaria che può essere interrotta dalle elezioni anticipate. Difficile che Renzi gradisca sul serio - al di là delle minacce - un'ipotesi che al momento obbligherebbe a votare con la legge proporzionale scritta dalla Consulta. Ma all'occorrenza saprebbe gestire la campagna con la stessa foga di chi cerca comunque un referendum su se stesso. In altri tempi queste spinte al plebiscito fuori del Parlamento avrebbero incontrato la feroce opposizione della sinistra cattolica e degli ex comunisti all'interno del Pd. Ma i tempi sono cambiati e molti pensano a recuperare un posto in lista per tornare in Parlamento. © Riproduzione riservata 14 febbraio 2015 Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/02/14/news/tutti_i_rischi_della_strategia_del_plebiscito-107279971/?ref=HRER2-1 Titolo: Stefano FOLLI. - Pd, così le roccaforti diventano forche caudine Inserito da: Admin - Giugno 02, 2015, 12:05:59 pm Pd, così le roccaforti diventano forche caudine
In Liguria la più grave battuta d'arresto politica per Matteo Renzi. Ma anche in altre Regioni la magia del rottamatore sembra appannata Di STEFANO FOLLI 01 giugno 2015 Sotto la Lanterna si consuma la prima sconfitta politica di Matteo Renzi. Perde la sua candidata, perde il Pd diviso, vincono i Cinque Stelle come quasi ovunque nel resto d'Italia. La Liguria era la regione chiave per decidere il verso delle elezioni regionali. La risposta delle urne è impietosa. Il 41 per cento del voto europeo è lontano, la magia del premier rottamatore si è appannata. E il peggio è che questo non accade solo in Liguria. Anche un'altra regione "rossa", l'Umbria, è rimasta in bilico fino all'ultimo voto. Ovviamente insieme alla conferma del leghista Zaia in Veneto, ma questa era prevista. Il quadro che emerge è dunque molto negativo per il premier-segretario del Pd. L'ondata delle liste anti-sistema, dai grillini a Salvini, è significativa, condiziona e modifica i vecchi equilibri. Il Pd sconta l'attacco del populismo, un po' come è accaduto giorni fa in Spagna con l'avanzata di Podemos. Ma non riesce a reggere il colpo anche perché l'astensione è vicina al 50 per cento: circa un italiano su due è rimasto a casa, segno che il messaggio riformatore non ha fatto breccia, mentre le divisioni nel centrosinistra - è plausibile - hanno provocato delusione e scetticismo nell'elettorato. Da oggi Renzi dovrà rivedere qualcosa nella sua strategia politica. Tre fronti aperti sono troppi anche per lui. E le regionali hanno dimostrato che i fronti sono proprio tre. Il primo è la persistenza delle liste anti-sistema. La scommessa del renzismo consisteva nel recupero del voto populista, da prosciugare dopo l'exploit del 2013. Ma i Cinque Stelle e la Lega sono da collocare fra i veri vincitori di ieri e quindi il quadro cambia profondamente. Secondo punto. Si attendeva che il partito di Renzi avrebbe visto la luce in tempi brevi, cambiando la fisionomia del vecchio Pd. Oggi questo percorso dovrà essere rivisto e il premio dovrà negoziare qualcosa con i suoi avversari. Il che urta con la sua personalità e il suo carattere. Ma non ci sono altre soluzioni, se Renzi vuole salvare il suo governo e il cammino di medio termine verso le elezioni politiche del 2018. Di sicuro verificheremo la duttilità del premier, se esiste: tutti i grandi statisti sono diventati tali dopo una sconfitta, reagendo a un passo falso. Finora Renzi è passato di vittoria in vittoria, ora deve ridefinire la sua identità e il suo rapporto politico con il resto del centrosinistra. Terzo punto. L'astensione poteva essere persino un vantaggio per il premier in carica, leader del partito di maggioranza relativa. Cessa di esserlo nel momento in cui i movimenti anti-sistema confermano la loro forza e si pongono come una minaccia per le forze di governo. Quindi anche l'astensione diventa ostile, segno di un elettorato fragile e incerto che marca il proprio distacco dalle istituzioni. C'è anche un altro motivo di riflessione da sviluppare nelle prossime ore. I candidati vicini a Renzi, la Paita in Liguria, la Moretti in Veneto e forse la Marini in Umbria hanno incontrato forti difficoltà. Chi vince sono due figure non vicine al presidente del Consiglio. Emiliano in Puglia, sicuro vincitore contro un centrodestra spezzettato, ha una sua storia personale che c'entra poco con Renzi. E De Luca in Campania è il controverso protagonista di una campagna vittoriosa, sì, ma macchiata dalla polemica sugli impresentabili. E soprattutto non in grado di governare, in base alla legge Severino. La sensazione è che il pronunciamento della presidente dell'Antimafia non abbia danneggiato più di tanto De Luca in Campania (forse lo ha persino favorito), ma abbia appannato di molto l'immagine di Renzi al Nord. E il Nord è essenziale per il successo del l'esperimento politico renziano. Al punto che non si può escludere un messaggio a Berlusconi, uscito a sua volta sconfitto dal voto, ma forte per i numeri di cui dispone in questo Parlamento. © Riproduzione riservata 01 giugno 20 Da - http://www.repubblica.it/speciali/politica/elezioni-regionali-edizione2015/2015/06/01/news/pd_cosi_le_roccaforti_diventano_forche_caudine-115776575/?ref=HRER2-1 Titolo: Stefano FOLLI. - La bandiera strappata della sinistra europea Inserito da: Admin - Luglio 19, 2015, 06:20:12 pm La bandiera strappata della sinistra europea
C'è un rischio da cui Renzi, ma non solo lui, deve guardarsi. La disfatta di Tsipras - e di tutto l'arcipelago della sinistra che ha creduto in lui - ha aperto una nuova dimensione per la destra più dura Di STEFANO FOLLI 14 luglio 2015 POCHI giorni fa Tsipras era l'eroe dell’Oxi, il "no" all'austerità tedesca. Oggi è il traditore delle illusioni coltivate all'unisono dalla sinistra europea in cerca di una bandiera e dalla destra nazionalista vogliosa di rivincita. Questo fronte ha perso in modo drammatico la battaglia di Bruxelles. Se l'avesse vinta, l'onda sarebbe dilagata ben oltre la Grecia. In Spagna Podemos non nasconde l'ambizione di vincere le prossime elezioni politiche. In Italia la somma degli euro- scettici e anti-euro, pur eterogenea (Cinque Stelle, Lega, sinistra radicale, FdI, una parte di Forza Italia), sfiora il 50 per cento dell'elettorato, forse più. Anche altrove, dalla Francia ai paesi del Nord, i movimenti anti- establishment sono forti e insidiosi. Se Tsipras avesse tenuto duro sulla linea che oggi viene ribadita da Varoufakis, il ministro incendiario e dimissionario, l'Unione si sarebbe frantumata e gli assetti politici nelle varie capitali sarebbero saltati uno dopo l'altro. Così invece è l'esperimento di Tsipras che si disintegra sugli scogli di un'austerità ancora più arcigna, trascinando nel naufragio le speranze e le velleità nate nella domenica del referendum. Syriza aveva schiacciato il vecchio Pasok, ma la sua stagione è durata poco e si appanna nell'isolamento. I socialdemocratici tedeschi, alleati di Angela Merkel, hanno addirittura ipotizzato fra i primi la possibilità della "Grexit", la fuoriuscita dalla zona euro. Il socialista Hollande ha cercato di accreditare una vaga mediazione francese, ma i risultati, esaminati con attenzione, non autorizzano il compiacimento di Parigi, salvo su un punto fondamentale: l'Europa non si è spaccata e questo era nell'interesse della Merkel, di Hollande e naturalmente di Matteo Renzi. Il premier che è rimasto ai margini, nell'ombra della Francia, e forse ha fatto la scelta giusta perché non avrebbe avuto spazio per muoversi altrimenti, dato il peso del debito pubblico che si porta sulla schiena. L'Italia aveva tutto da perdere se la Grecia fosse stata espulsa dall'euro e ha tutto da guadagnare da una ritrovata stabilità ad Atene. Si potrebbe dire di più: la sconfitta della sinistra radicale, ben rappresentata anche nella minoranza del Pd, e quelle bandiere rinfoderate sotto il Partenone costituiscono un considerevole vantaggio per il presidente del Consiglio, che da un trionfo prolungato di Tsipras sarebbe stato messo in difficoltà sul piano interno. Avrebbe assistito alla crescita di un fronte frastagliato e aggressivo in grado di metterlo alle corde con l'accusa di essere subalterno alla Merkel e alla logica dell'Eurogruppo. Tale pericolo è evitato, benché l'Europa di oggi, quella vittoriosa nel vertice notturno, sia lungi dal garantire l'Italia. Che prospettive ci sono, ad esempio, che siano ascoltate nel prossimo futuro le richieste italiane per una gestione più solidale dell'immigrazione nel Mediterraneo? Nessuna, c'è da temere. La scogliera di Ventimiglia è lì come un monumento all'incomprensione. Roma e Parigi, due governi di centrosinistra, due partiti membri dell'Internazionale socialista, due leader che vorrebbero essere riconosciuti come "pontieri" nell'affare greco... In realtà sono divisi dall'interesse nazionale. In fondo l'Europa del Nord, cementata dalla diffidenza verso i paesi meridionali, dimostra di essere più solida e determinata di quanto sia l'Europa del Sud, desiderosa di esprimere una diversa visione del futuro dell'Unione, ma nella pratica incapace a sua volta di superare gli egoismi. C'è infatti un altro rischio da cui Renzi, ma non solo lui, deve guardarsi. La disfatta di Tsipras - e di tutto l'arcipelago della sinistra che ha creduto in lui - ha aperto una nuova dimensione per la destra più dura. Il nazionalismo, una volta evocato, non si sbaraglia facilmente. Né ad Atene né altrove. Potrebbe essere questo lo sbocco della crisi greca. Bastava sentire Marine Le Pen pochi giorni fa al Parlamento europeo per rendersene conto. E in Italia la destra nazionalista ormai è Salvini, più qualcosa di Grillo © Riproduzione riservata 14 luglio 2015 Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/07/14/news/la_bandiera_strappata_della_sinistra_europea-119021214/?ref=nrct-5 Titolo: Stefano FOLLI. - Rai, il format di Palazzo Chigi Inserito da: Arlecchino - Ottobre 08, 2015, 11:48:34 am Rai, il format di Palazzo Chigi
Di STEFANO FOLLI 30 settembre 2015 LE STRATEGIE politiche non si riflettono solo nelle grandi scelte, tipo la riforma del Senato e il conseguente referendum finale, concepito già oggi come momento di consacrazione del leader e del suo partito. Anche gli episodi minori sono significativi e talvolta assai rivelatori. È il caso del duro attacco mosso sul "Corriere della Sera" da un parlamentare del Pd, Anzaldi, alla terza rete della Rai e al Tg3. L'accusa è di non essersi accorti che a Palazzo Chigi tutto è cambiato e che Renzi è diverso dai suoi predecessori figli della tradizione comunista o post-comunista. Un tempo si diceva TeleKabul, oggi il tono non è meno aspro. La differenza è che una volta il maggiore partito della sinistra difendeva TeleKabul, mentre oggi l'offensiva viene da ambienti vicini al presidente del Consiglio che è anche segretario del Pd. Al punto che un altro parlamentare, questa volta anonimo, parla della necessità di usare "il lanciafiamme" per abbattere le resistenze di quei conservatori di Saxa Rubra. Qualcuno aggiunge che i programmi della terza rete spesso sono brutti e non si può abolire il diritto di critica, nemmeno se viene esercitato dai parlamentari. Il che è un argomento sbagliato alla radice. E non si può ignorare che poche ore prima il governatore della Campania, De Luca, si era lanciato in un'arringa verso le stesse trasmissioni con un linguaggio ben più violento di Anzaldi, senza suscitare particolare indignazione. Giorni fa, come è noto, lo stesso presidente del Consiglio non aveva lesinato giudizi pesanti su certi "talk show" a suo dire troppo spostati a sinistra e come tali in perdita di ascolti. Peccato che non sia compito suo o dei sui collaboratori valutare i programmi televisivi e nemmeno reclamare una linea più o meno ottimista, più o meno comprensiva verso il governo. La verità è che la relazione fra stampa e potere è come sempre lo snodo cruciale per capire un passaggio politico. In questo caso la progressiva trasformazione del Pd nel partito di un leader risoluto e poco propenso alle mezze misure. Sia che si tratti di riforme costituzionali sia che il tema coinvolga l'informazione del servizio pubblico. Sul quale peraltro governo e maggioranza si sono garantiti un sicuro controllo istituzionale, senza che sia indispensabile ricorrere alle invettive peroniste. Il faro resta l'opinione pubblica, che Renzi è certo di conoscere e interpretare come nessun altro. E l'opinione pubblica, si ritiene a Palazzo Chigi, è favorevole ai metodi sbrigativi quando c'è da smantellare vecchie trincee e consolidate rendite di posizione. Perché è evidente che Renzi giudica la minoranza del Pd e tutto quello che ne deriva, compreso — a torto o a ragione — il mondo del Tg3, un residuo del passato senza veri legami con la società italiana di oggi. Per cui la frase rivolta ai sindacati dopo lo sciopero degli impiegati del Colosseo («la musica è cambiata») resta emblematica di un modo di rivolgersi al Paese. Le mediazioni, semmai, riguardano altri terreni: la politica economica, le pensioni, le tasse. Ma nel fondo il messaggio è esplicito: il Pd così com'è non serve più; e non servono nemmeno le sue storiche propaggini nell'informazione di Stato. Ne deriva che la prospettiva può essere solo plebiscitaria: la vittoria personale del leader coincide con il trionfo del "partito della nazione". Che è tale proprio perché rispecchia fino in fondo il leader. I poli sono destinati a «disaggregarsi per poi riaggregarsi in forme nuove», dice il nuovo alleato Verdini, riecheggiando in modo inconsapevole una celebre frase di Moro. Ma Verdini pensa alla disgregazione di Forza Italia da ricomporre nel partito egemone di Renzi. E la sinistra? Nella concezione renziana o si converte o è, appunto, residuale. Tuttavia non è spinta verso la scissione, a meno che per scissione non si intenda la fuoriuscita alla spicciolata, inoffensiva, dei Fassina e dei Civati. Sullo sfondo la Rai è come sempre lo specchio privilegiato di una certa concezione del potere. Oggi la si vuole funzionale a un cambio di stagione politica, quasi come accadde ai tempi di Berlusconi. Quando invece Renzi prometteva di essere alternativo, nel merito e nel metodo, al suo predecessore. © Riproduzione riservata 30 settembre 2015 Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/09/30/news/rai_il_format_di_palazzo_chigi_che_assomiglia_a_telekabul-123964541/?ref=fbpr Titolo: Stefano FOLLI. - Primarie centrosinistra, i numeri dell'apparato Inserito da: Arlecchino - Marzo 07, 2016, 04:52:55 pm Primarie centrosinistra, i numeri dell'apparato
Spoglio dei voti per le primarie centrosinistra a Napoli Di STEFANO FOLLI 07 marzo 2016 A questo punto l'errore più grave sarebbe gonfiare le cifre per abbellire la verità. Un po' come il conto dei manifestanti a piazza San Giovanni o al Circo Massimo. Il rispetto verso i romani e anche verso se stessi impone invece ai dirigenti del Pd di accettare i dati reali delle primarie per quello che sono: l'evidenza di un sostanziale fallimento. Ha vinto Giachetti con una percentuale netta, ma non c'è granché da esultare. Calcoli non definitivi descrivono un'affluenza di circa il 50-60 per cento inferiore a quella di tre anni, quando il vincitore fu Ignazio Marino. Oggi siamo fra i 40 e i 50mila voti contro i 100mila ufficiali di allora (poi scesi a circa 94mila). In mezzo ci sono le spiegazioni del disastro: l'inchiesta sulla criminalità mafiosa, gli arresti, la rete del malaffare, la progressiva delegittimazione della giunta fino alla caduta del sindaco, il ricorso obbligato al commissario. Una città snervata e da troppo tempo priva di un'amministrazione efficiente, sullo sfondo di un centrosinistra che sulla carta rivendica la maggioranza relativa ma è roso dai suoi errori e dalla crisi come un albero aggredito dalle termiti. Con tali premesse sarebbe davvero paradossale se i cittadini si fossero affrettati alle urne per scegliere un nome e un volto peraltro abbastanza sconosciuti. Qui è un'altra bizzarria del caso romano. Le primarie sono per eccellenza lo strumento che "personalizza" il messaggio politico e stabilisce un rapporto diretto, nel bene e nel male, fra l'elettore e il candidato. Occorrono personaggi solidi, capaci di comunicare in modo moderno e di conquistare l'attenzione dell'opinione pubblica. Viceversa a Roma non abbiamo avuto né i grandi comunicatori né i brillanti candidati e tanto meno l'opinione pubblica. Quei 40-50mila voti - che potrebbero essere anche meno dopo le verifiche - hanno il sapore dell'apparato, di un mondo comunque legato al partito e pronto a rispondere alle sue esigenze. Il voto di opinione, in grado di testimoniare della vitalità di una proposta politica, a Roma è rimasto in larga misura a casa. Un segnale che è negativo in assoluto, ma lo è in modo particolare perché il test del Campidoglio coinvolge Renzi in prima persona. Vale a dire il premier-segretario che deve tutto alle primarie e che ha costruito le sue fortune sul rapporto diretto con gli elettori, al di là e al di sopra degli apparati. A Roma invece per cavarsi d'impaccio egli e i suoi hanno avuto bisogno proprio di quel poco di struttura partitica che ancora esiste, mentre l'opinione "renziana" è rimasta abbastanza indifferente al rito ormai logoro dei gazebo. S'intende che non hanno torto Orfini e lo stesso Giachetti quando rivendicano i dati dell'affluenza, per quanto deludenti siano, contrapponendoli alle poche migliaia di "clic" elettronici con cui i Cinque Stelle scelgono i loro candidati. Eppure l'argomento, che pure ha una sua forza polemica da spendere in campagna elettorale, non basta a mascherare l'insuccesso. È meglio riconoscerlo con umiltà, senza pasticciare con le cifre, ammettendo che forse non si poteva fare di più dopo i peggiori tre anni nella storia della sinistra romana. Ciò non toglie che la mediocrità dello spettacolo offerto è stata al di sotto delle attese. Nel momento in cui si trattava di recuperare la credibilità perduta ed era urgente trasmettere un messaggio chiaro, in grado di suggestionare e coinvolgere il sentimento collettivo intorno a un'idea della Capitale e della sua resurrezione, si è scelto di andare alle primarie nel segno del basso, anzi bassissimo profilo. Candidati che la gente conosceva poco e male, privi di vero fascino. Uomini di qualche esperienza amministrativa, anche positiva, e tuttavia incapaci di trasmettere una visione della città, privi di un programma che non si esaurisse in un elenco abbastanza ovvio di buone intenzioni. Come se non fosse in ballo il destino di una delle metropoli più importanti del pianeta. La pochezza del dibattito emerso in queste settimane è l'anticipo, si può temere, di una contesa per il Campidoglio che rischia di essere altrettanto monotona, grigia e retorica. Giocata tra forze talmente poco convinte di sé - compresa l'alternativa grillina - da autorizzare i sospetti che in realtà nessuno o quasi voglia veramente vincere la disfida. Ma, se così fosse, la politica avrebbe abdicato ancora una volta e in modo clamoroso, diciamo senza precedenti, alle sue responsabilità. Sotto gli occhi del mondo. Perché quello che accade a Roma sembra interessare a tutti tranne che ai romani. © Riproduzione riservata 07 marzo 2016 Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/03/07/news/i_numeri_dell_apparato-134922087/?ref=HRER2-1 Titolo: Stefano FOLLI. Un messaggio per Palazzo Chigi Comunali 2016, l'analisi del voto Inserito da: Admin - Giugno 09, 2016, 11:39:05 am Un messaggio per Palazzo Chigi
Comunali 2016, l'analisi del voto Di STEFANO FOLLI 06 giugno 2016 INUTILE attendersi conseguenze immediate e clamorose da questo voto nelle città. Chi pensa che il risultato negativo al di là delle previsioni del Pd renziano possa innescare gravi sussulti nella maggioranza o addirittura avviare la messa in discussione del governo, è fuori strada. Tuttavia non accadrà nemmeno il contrario. Non si verificherà l'ipotesi minimalista tanto cara a Palazzo Chigi: un'alzata di spalle e avanti come se nulla fosse accaduto. Se la vedano i cittadini di Roma, Milano e altrove con i loro sindaci. Questa forma di rimozione della realtà è poco plausibile: è stata travolta dai dati trasmessi la notte scorsa e si rivela un abbaglio. La verità è che il voto nei Comuni, anche quelli di grandi dimensioni o addirittura nella Capitale, non è assimilabile a un'elezione generale. Il fatto che fossero interessate oltre 13 milioni di persone e che l'affluenza sia stata discreta con eccezioni negative (62 per cento nazionale, male a Milano), non cambia il quadro. Nella scelta degli italiani hanno pesato fattori diversi, come sempre quando si vota per il governo locale, e sarebbe poco sensato trasformare la giornata di ieri nel solito referendum pro o contro Renzi. La maturità politica di un Paese si misura anche da come riesce a distinguere i piani politici ed evita di farsi catturare da forme di frenesia collettiva: il che riguarda soprattutto chi governa e chi interpreta l'opposizione. Questo è il primo aspetto del voto per i sindaci. Tuttavia ce n'è un secondo che sarebbe grave sottovalutare. Pur con i limiti e le peculiarità di cui si è detto, gli italiani hanno mandato alla classe politica un messaggio netto e poco rassicurante. Il Pd deve accettare una sconfitta a Napoli, dove la sua candidata resta esclusa dal ballottaggio, e a Roma, dove Giachetti e la Meloni si sono contesi all'ultimo voto il passaggio al secondo turno, peraltro molto lontani dalla candidata dei Cinque Stelle, il cui dato è eccezionalmente alto. Salvo un colpo di scena imprevedibile al ballottaggio, la Capitale avrà un sindaco grillino. Per Renzi ci sarebbe l'esempio austriaco a cui aggrapparsi, ma è poco verosimile che Giachetti o Giorgia Meloni riescano a costruire una sorta di union sacrée contro Virginia Raggi come hanno realizzato gli austriaci ai danni di un personaggio controverso quale il leader dell'estrema destra. In sostanza a Roma si realizza la vendetta di un'opinione pubblica esasperata contro anni di malgoverno. È qui lo scoglio che non si può aggirare e dal quale invece si deve ripartire. Quanto al resto, Milano resta una partita in bilico: senza un vincitore e con Sala in leggero vantaggio su Parisi. Può succedere di tutto. Invece a Torino Fassino vede materializzarsi il suo fastidioso incubo: è in testa, è forte, ma non ha saputo assestare il colpo del ko; mentre la grillina Appendino è indietro, ma non così indietro da permettere una previsione certa fra due settimane. Che cosa si ricava da tutto questo? Gli elettori hanno punito il Pd a Roma, ma si sono anche guardati dal premiarlo altrove. Il "partito di Renzi" dovrà rinviare il suo esordio e del resto non era questa l'occasione. In ogni caso è chiaro che nelle grandi città il Pd fatica e soffre. A Roma, senza dubbio. Ma anche in altre zone di antico insediamento al Nord e al Sud. Quel tanto di ottimismo e di speranza nel futuro che è indispensabile per scegliere il partito di governo, si è rivelato un sentimento troppo esile. È questo che deve preoccupare il presidente del Consiglio in vista delle scadenze dei prossimi mesi. Il voto anti-sistema, o comunque contrario a chi governa, si nutre di incertezze economiche e sociali, di disoccupazione che non cala, di ripresa stentata, di paure collettive quali l'immigrazione o l'insicurezza. Ogni città ci aggiunge del suo, ma sarebbe poco saggio ignorare il disagio diffuso. Che potrebbe riflettersi anche sul referendum costituzionale: quello sì, come ormai tutti sanno, decisivo per le sorti del premier e del suo progetto. Un tema buttato sul tavolo da Renzi troppo presto, quasi a fare un dispetto agli elettori delle comunali. Da oggi i Cinque Stelle si caricano sulle spalle una responsabilità pesante. La vittoria a Roma avrà un'eco internazionale. Di sicuro, se sarà confermata fra quindici giorni, cambierà il volto e la fisionomia del movimento che diventa il principale avversario di Renzi. Il gioco a tre (centrosinistra, centrodestra, grillini) tende a diventare un duello. Renzi contro Grillo, o meglio contro il nuovo gruppo dirigente, visto che la Raggi sta vincendo, anzi trionfando, a Roma senza l'appoggio asfissiante e quotidiano del leader. E Berlusconi? Lo smacco di Marchini è soprattutto il segno della decadenza dell'ex monarca di Arcore che non è riuscito a impedire le divisioni del suo campo, pur sapendo che al centrodestra unito non sarebbe sfuggito il secondo turno. Però a Napoli l'uomo di Forza Italia conquista il ballottaggio, sia pure senza prospettive di vittoria. E c'è Milano. Il capoluogo lombardo è per ora un grande alambicco che contiene ingredienti sconosciuti. Bisogna aspettare il ballottaggio di Parisi, quanto meno. Consapevoli che anche a Milano sarà sempre più difficile per Berlusconi farsi ubbidire da Salvini (e dalla stessa Meloni su scala nazionale). Aprire il laboratorio del nuovo centrodestra è indispensabile, ma chi ne sarà il protagonista e quali saranno i comprimari è tutto da verificare. © Riproduzione riservata 06 giugno 2016 Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/06/06/news/un_messaggio_per_palazzo_chigi-141382678/?ref=HRER2-1 Titolo: Stefano FOLLI. - Il rischio Weimar e il ruolo del Quirinale Inserito da: Arlecchino - Marzo 07, 2017, 10:42:30 am Il rischio Weimar e il ruolo del Quirinale
L’inconcludenza politica di oggi potrebbe trasformarsi domani nel collasso del sistema Di STEFANO FOLLI 06 marzo 2017 ASCOLTARE il presidente della Repubblica che denuncia “l’inconcludenza rissosa dei partiti”, come è avvenuto pochi giorni fa al Quirinale, aiuta a comprendere a quale livello sia arrivata la crisi italiana. Sono parole pronunciate da una figura istituzionale che ha fatto della prudenza la sua cifra comunicativa, nella perenne preoccupazione di non apparire invasivo. Ma il rischio è che non siano parole sufficienti a correggere la rotta e ad evitare prospettive oscure. Il limaccioso intreccio politico-giudiziario che ruota intorno all’ex premier Renzi tra fughe di notizie e colpi bassi, senza che siano chiari i torti, le ragioni e le responsabilità, costituisce un brutale cambio di paradigma del confronto pubblico. Si dimostra che una stagione si sta esaurendo e ancora una volta ciò avviene in forme drammatiche, aprendo ferite che poi sarà molto difficile rimarginare. Per cui l’inconcludenza politica di oggi potrebbe trasformarsi domani nel collasso del sistema. È probabile che a questo pensasse Sergio Mattarella: a un domani coincidente con l’avvento della nuova legislatura, dopo elezioni che si terranno alla scadenza naturale, ossia all’inizio del 2018. Nell'attuale legislatura una maggioranza bene o male esiste intorno al governo Gentiloni, ma la prossima potrebbe nascere nel segno della totale ingovernabilità. Le due leggi elettorali di Camera e Senato, ritagliate entrambe dalle sentenze della Consulta, non sembrano infatti in grado di assicurare un minimo di stabilità ai governi a venire. Si presume anzi che nessuna formula al momento prevedibile abbia i voti necessari in Parlamento, nemmeno la grande coalizione centrosinistra/centrodestra sul modello tedesco. Si capisce perché: in Germania vige un’ottima legge elettorale, come pure in Francia, sia pure di natura del tutto diversa. Né a Berlino né a Parigi c’è pericolo di restare senza un governo: esistono i problemi politici, ma anche gli strumenti per affrontarli. In Italia invece si sono persi due anni a inseguire il cosiddetto “Italicum”, uno schema farraginoso e ingiusto alla fine dichiarato incostituzionale. E adesso le Camere sembrano non avere l’energia e forse nemmeno la volontà per affrontare la questione in tempo utile. È in corso un grande conto alla rovescia al termine del quale potremmo ritrovarci al buio e pochi dimostrano di averne consapevolezza. Lo scenario che prende forma si chiama Weimar, la Repubblica tedesca che si dissolse nell’inconcludenza rissosa — è il caso di dirlo — fra gli anni Venti e i primi Trenta. L’esito è noto. Rispetto ad allora non siamo devastati da una super-inflazione, ma in compenso abbiamo una serie di conti finanziari in sospeso con l’Europa. Weimar è notoriamente il simbolo stesso del suicidio di una democrazia. Non è quindi azzardato il paragone con il declino italiano di oggi, se questo fosse portato alle estreme conseguenze da un Parlamento paralizzato e incapace di offrire un governo efficiente al paese. Sappiamo peraltro che nei momenti di crisi politica il Quirinale torna al centro della scena, rappresentando il punto di equilibrio istituzionale e anche morale a cui gli italiani guardano. Siamo ormai entrati in uno di quei momenti, certo uno dei più inquietanti della storia repubblicana, senza sapere quanto potrà durare e quali saranno le incognite che si presenteranno. Gli indizi sono tutt’altro che incoraggianti e non è invidiabile la responsabilità che si va caricando sulle spalle del presidente Mattarella. Per fortuna ci sono ancora alcuni mesi prima della fine della legislatura, mesi che sarebbe da irresponsabili spendere in una sorta di campagna elettorale anticipata di tutti contro tutti. Senza dubbio il presidente del Consiglio, Gentiloni, sa quello che deve fare per convincere gli italiani che a Palazzo Chigi non ci si limita all’ordinaria amministrazione nel pieno della tempesta. Tuttavia la chiave per evitare Weimar rimane la legge elettorale. Ci si deve augurare che il Pd, o quel che ne rimane, ritrovi al più presto un assetto interno. Che sia Renzi a prevalere o il suo competitore Orlando, la nevrosi degli ultimi tempi dovrà lasciare il campo a una politica di riconciliazione con il mondo del centrosinistra allargato. Altrimenti sarà arduo immaginare una legge elettorale che sia altro da un puro meccanismo proporzionale, senza alcun incentivo alle coalizioni o alla lista, con l’elettorato diviso in modo equanime e nessuna maggioranza possibile sul piano politico e forse persino numerico. È lecito quindi auspicare che il presidente Mattarella consideri l’opportunità di un suo intervento più incisivo, nelle forme che egli deciderà, per spingere le forze politiche a trovare un accordo. Il sistema senza baricentro, traballante per la crisi del renzismo e del Pd post-scissione, ha bisogno del capo dello Stato. Gli offre anzi l’opportunità di far pesare il suo prestigio e la sua influenza sul Parlamento e nell’opinione pubblica come mai dall’inizio del mandato. In fondo gli italiani si aspettano questo dal loro primo cittadino: che rimedi nei modi possibili agli errori delle forze politiche prima del dissesto finale. © Riproduzione riservata 06 marzo 2017 Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/03/06/news/il_rischio_weimar_e_il_ruolo_del_quirinale-159860283/?ref=nrct-19 Titolo: Stefano FOLLI. - Pd, l'incognita alleanze e il sogno maggioritario di Renzi. Inserito da: Arlecchino - Marzo 16, 2017, 04:59:39 pm Pd, l'incognita alleanze e il sogno maggioritario di Renzi.
Il Lingotto conferma che si andrà alle elezioni solo dopo i provvedimenti economici del governo. Ma resta per i dem il nodo delle partnership, da Alfano a Pisapia: l'ex premier non ne parla. Forse perché prevede un Parlamento bloccato Di STEFANO FOLLI 13 marzo 2017 È senz'altro una buona notizia che le giornate del Lingotto si siano chiuse con il netto sostegno del Pd al governo Gentiloni. Peraltro non è una notizia inaspettata: avendo finalmente riconosciuto la realtà, ossia che non esisteva lo spazio e nemmeno la convenienza per anticipare le elezioni, il supporto all’esecutivo era l’unica opzione rimasta al gruppo dirigente. S’intende che a questo punto alle parole dovranno seguire i fatti: sostenere Gentiloni e Padoan vuol dire per il partito di maggioranza farsi carico delle scelte che il governo dovrà compiere in politica economica di qui alla fine dell’anno, scelte che si prevedono impopolari, forse molto impopolari. Saranno discusse prima di ogni decisione, è ovvio, e il leader del Pd farà valere il suo peso. Ma difficilmente le misure potranno essere edulcorate o stravolte per ragioni elettorali. Si andrà alle elezioni dopo il varo di questi provvedimenti e non prima, il che dovrebbe significare una campagna all'insegna del realismo, un'obbligata "operazione verità". Non è detto che gli italiani reagiscano male. Può darsi, al contrario, che reagiscano molto bene, come è accaduto altre volte nella storia recente del Paese. In fondo, meglio la verità che essere trattati come bambini immaturi. C'è un secondo punto, meno chiaro e convincente del primo. Nessuno, tanto meno il segretario, ha spiegato se il nuovo Pd avrà una politica delle alleanze e in quale direzione. Si è solo capito, ma lo si sapeva già, che Franceschini avrebbe voluto, e forse vorrebbe ancora, collocare il partito al centro di intese comprendenti la sinistra, da un lato, e i moderati di Alfano e Casini, dall'altro. E viceversa che i Martina e gli Orfini privilegiano l'attenzione verso i progressisti di Pisapia. Ma nessuno sembra avere realmente a cuore il problema, salvo il ministro dei Beni Culturali a cui però manca la forza politica per imporre una soluzione - le alleanze aperte a sinistra e a destra - che il resto del Pd non vuole. Quanto a Renzi, l'unico da cui ci si attendeva un'indicazione netta, ha preferito volare al di sopra delle questioni pratiche. Ma il suo tentativo tattico - che pure c'è stato - di allargare l'orizzonte del partito verso sinistra e di dargli un respiro nuovo, meno ripiegato sull'egocentrismo del leader, non può sottrarsi al tema delle alleanze. Si obietta: Renzi non parla di alleanze perché non ha perduto la sua "vocazione maggioritaria". Vale a dire che ragiona ancora come se avessimo una legge elettorale maggioritaria, l'Italicum. Al massimo lascia ai suoi collaboratori più vicini di lanciare una passerella verso Pisapia, l'ex sindaco di Milano con il quale i renziani sperano di sostituire gli scissionisti dalemian-bersaniani. Ma a questo punto la contraddizione si è già aggrovigliata oltre il punto di non-ritorno. Non è un caso che i contendenti di Renzi, vale a dire Orlando ed Emiliano, si propongano ognuno a suo modo come coloro che metteranno fine alla guerra fra le varie sinistre, ricomponendo il tessuto lacerato. Hanno un progetto, certo discutibile, orientato in senso socialdemocratico. E accettano che il sistema sia tornato proporzionale, al punto da rendere indispensabili le intese. Prima e dopo le elezioni. A maggior ragione se il Parlamento non riuscirà, come sembra, a rimetter mano alle sentenze della Corte se non per aspetti marginali. Invece Renzi, come si è detto, vive tuttora dentro l'illusione maggioritaria. Del resto, è consapevole che gli scissionisti ("quelli che volevano distruggere il Pd", secondo le sue parole) non farebbero mai accordi con lui. E forse prevede - come tanti, del resto - che il prossimo Parlamento sarà del tutto paralizzato, senza vinti né vincitori, e allora servirà rifare la legge elettorale prima di tornare di nuovo alle urne. In ogni caso, è pericoloso non vedere la realtà, magari perché si è convinti di raggiungere da soli la maggioranza, ossia la mitica soglia del 40 per cento. Così come è azzardato dare per scontata l'alleanza con Pisapia, il quale ha l'ambizione di federare un mondo disperso, quasi un altro Ulivo, e non gradisce essere descritto come la stampella di Renzi. Finora ha dimostrato di non esserlo affatto. © Riproduzione riservata 13 marzo 2017 Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/03/13/news/pd_l_incognita_alleanze_e_il_sogno_maggioritario_di_renzi-160416095/?ref=RHPPRB-BH-I0-C4-P1-S1.4-T1 Titolo: Stefano FOLLI. - Il populismo paga i suoi tanti errori Inserito da: Arlecchino - Giugno 13, 2017, 05:34:52 pm Il populismo paga i suoi tanti errori
È del tutto prematuro dedurre da questi dati che è cominciato il declino del M5S. Del resto, per i Cinque Stelle non c’è quasi mai omogeneità fra voto amministrativo e voto politico Di STEFANO FOLLI 12 giugno 2017 Nel vuoto di quel che resta dei partiti, mai come questa volta svogliati e distratti, la tornata delle elezioni comunali era l’inevitabile specchio di una politica sfilacciata, senza idee. Eppure dal voto negletto sono emerse rilevanti indicazioni. Non tanto il ritorno del bipolarismo centrodestra/centrosinistra, perché servono ben altre conferme prima di poterlo affermare. Quanto la grave sconfitta del Movimento Cinque Stelle, la prima seria battuta d’arresto registrata da un Grillo che forse presagiva la disfatta per come nelle ultime ore appariva scontroso e infastidito nelle strade della sua Genova. Essere esclusi da tutti i ballottaggi che contano è un pessimo presagio, tanto più che le percentuali raccolte da nord a sud sono scarse per una forza che si è proposta in questi anni come alternativa al sistema. È del tutto prematuro dedurre da questi dati che è cominciato il declino del M5S. Del resto, non c’è quasi mai omogeneità fra voto amministrativo e voto politico. I Cinque Stelle, nella loro storia breve e turbolenta, hanno dimostrato di essere a loro agio sul terreno delle elezioni legislative, mentre le vittorie nei comuni maggiori (Parma, Livorno, Roma e ora persino Torino) non hanno portato loro granché fortuna. Quel che è certo, un movimento radicale e populista ha bisogno di continui rilanci nel favore popolare. Un partito tradizionale, che vive di gestione del potere, può anche permettersi delle pause e dei passaggi a vuoto. Viceversa, per un movimento carismatico come quello che Grillo ha avuto l’ambizione di costruire, la crescita non può essere che continua. Quasi sempre la prima sconfitta segnala, se non altro, la fine della fase ascendente e la difficoltà di ripartire come se nulla fosse. Accadde così per l’Uomo Qualunque nell’immediato dopoguerra e per Poujade nella Francia degli anni Cinquanta. Grillo paga per la prima volta i suoi errori. L’ultimo è recentissimo: aver dato la sua copertura al patto Renzi-Berlusconi sul falso modello tedesco. Un piccolo pasticcio parlamentare all’italiana da cui i Cinque Stelle sono usciti frastornati. E si capisce. Se si pretende la purezza, non si entra in certe combinazioni che hanno il sapore della “casta”, secondo l’ambigua terminologia grillina. Ma ci sono stati molti altri sbagli. La gestione Raggi a Roma prima o poi avrebbe presentato il conto. E l’infortunio di Chiara Appendino a Torino, con il disastro di piazza San Carlo, è accaduto troppo a ridosso del voto per non avere conseguenze. Si potrebbe continuare. I litigi continui sul piano locale hanno lasciato il segno. A Parma Pizzarotti, personaggio emblematico, va al ballottaggio dopo essere stato espulso a suo tempo dal movimento e nessuno ha capito ancora bene perché. A Genova, come è noto, è stata cacciata da Grillo la candidata prescelta dai cittadini con il metodo delle primarie “via web”. Lo spettacolo di un partito che non rispetta le sue stesse regole, enunciate con tutta l’enfasi possibile, non è il miglior viatico per conquistare nuovi consensi. Quel tanto di campagna che il leader si è caricato sulle spalle non ha prodotto grandi risultati, come si è visto ad esempio a Taranto. O a Palermo. Sul piano nazionale, il tentativo del movimento di trasformarsi in forza affidabile, persino moderata, sembra un po’ goffo. Si veda Di Maio che cerca di costruirsi un profilo europeista ed elogia francesi e tedeschi. Un’evoluzione è sempre possibile, non c’è dubbio, ma ha bisogno di tempo per essere credibile. Altrimenti ha il sapore di un espediente. E le operazioni fatte a metà, con eccesso di astuzia, finiscono per scontentare tutti. In questo caso, gli elettori. Sta di fatto che la sconfitta grillina arriva nello stesso giorno in cui la Francia offre al presidente Macron la più squillante delle vittorie, in virtù di un sistema maggioritario fondato sui collegi che non ha niente, ma proprio niente in comune con l’Italicum, come pretenderebbero i nostalgici del sistema bocciato dalla Corte Costituzionale. In Francia sono sconfitti i nazional-populisti di Marine Le Pen. Ed è curioso come anche la leader del Fronte Nazionale avesse tentato nelle ultime settimane una cauta conversione, abbandonando i temi più aspramente anti-europei e ostili alla moneta unica. Chissà se anche gli elettori francesi sono rimasti sconcertati da questo zig-zagare, al pari degli elettori italiani dei Cinque Stelle. In ogni caso, è evidente che il populismo ha conosciuto una serie di brucianti sconfitte in giro per l’Europa. Pochi mesi fa, dopo la Brexit e la vittoria di Trump, sembrava in procinto di conquistare l’Occidente. Oggi è del tutto ridimensionato. Vedremo quel che accadrà nel prossimo futuro, in Italia e altrove in Europa. © Riproduzione riservata 12 giugno 2017 Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/06/12/news/il_populismo_paga_i_suoi_tanti_errori-167876938/?ref=RHPPTP-BL-I0-C12-P1-S3.3-T1 Titolo: Stefano FOLLI. - Una sinistra sorda mediti sugli errori Inserito da: Arlecchino - Giugno 27, 2017, 11:27:01 am Una sinistra sorda mediti sugli errori
A oltre sei mesi dal referendum perso il 4 dicembre, la sconfitta in queste comunali è grave proprio perché capillare. Difficile pensare di cavarsela affermando che si tratta di “fatti locali” di STEFANO FOLLI 26 giugno 2017 IN FONDO alle urne di un secondo turno desertificato dall'astensionismo, c’è la vittoria del centrodestra. Vittoria netta e indiscutibile, a cominciare da Genova, città simbolo di queste elezioni comunali. Era una storica roccaforte della sinistra, da oggi avrà un’amministrazione di destra, sull'asse Forza Italia-Lega- Fratelli d’Italia che già governa la regione con Toti. Ma le liste berlusconiane e leghiste si affermano un po’ ovunque, da Nord a Sud. Berlusconi dimostra di essere politicamente immortale: un moderno “Rieccolo” come ha detto qualcuno ricordando la definizione che Montanelli aveva coniato per Amintore Fanfani. Ma è un Berlusconi che nel settentrione deve molto alla Lega e anche all’afflusso degli elettori Cinque Stelle (quelli che si sono scomodati per andare a votare, s’intende). L’esclusione del partito di Grillo da quasi tutti i ballottaggi — tranne Asti e Carrara — ha avuto l’effetto di rinforzare i candidati del centrodestra a scapito degli avversari strategici del M5S, vale a dire le liste del Pd. Certo, è una magra consolazione per il movimento anti-sistema, le cui ambizioni erano più alte e che si è ritrovato di fatto a spalleggiare uno dei protagonisti del sistema contro l’altro. Annoverando per se stesso solo la vittoria a Carrara. Per il centrosinistra invece è una sconfitta cocente e molto dolorosa. A parte Genova, anche altrove i dati sono sconfortanti. Si è molto detto circa la pretesa di Renzi di essere autosufficiente, cioè non condizionato dai gruppi alla sua sinistra. Ma queste amministrative dimostrano che anche laddove il Pd si presenta come centrosinistra allargato, comprendendo quindi la sinistra radicale, il risultato è ugualmente negativo. Si veda il capoluogo ligure, appunto, ma non solo. La sconfitta — con l’eccezione di Padova — riguarda un ventaglio di centri troppo ampio per non suggerire urgenti riflessioni al vertice del partito renziano. Ci sono tutte le città che contano. C’è persino L’Aquila, che alla vigilia veniva data per acquisita alla sinistra come emblema di un ritrovato rapporto con l’opinione pubblica dopo gli anni travagliati del dopo-terremoto. A questo punto il Pd deve considerare i suoi errori. A livello locale ma soprattutto nazionale. Sarebbe miope individuare qualche capro espiatorio o peggio denunciare inesistenti complotti. È evidente che il partito ha perso credibilità e non riesce più ad afferrare il bandolo della matassa. A oltre sei mesi dal referendum perso il 4 dicembre, la sconfitta in queste comunali è grave proprio perché capillare. Difficile pensare di cavarsela affermando che si tratta di “fatti locali”. Quando gli aspetti, diciamo così, locali esprimono lo sfilacciarsi di un tessuto politico e sociale tale da abbracciare una porzione così significativa del territorio, significa che la rotta è sbagliata. E non si tratta solo di alchimie, di alleanze da cercare a tavolino o di un ceto politico da riconnettere. A questo punto c’è una relazione con il proprio elettorato che va ripensata prima che sia troppo tardi. Ammesso che già non sia tardi. In verità il segnale del 4 dicembre è stato ignorato e oggi il partito di Renzi paga le conseguenze di questa sordità. Senza peraltro che altri abbiano in tasca la soluzione della crisi. Quanto al centrodestra vincitore, il limite è che si tratta di elezioni locali. Nel senso che Berlusconi e forse anche Salvini sono i primi a sapere che l’alleanza vincente a livello locale non può essere riproposta tale quale a livello nazionale. Soprattutto se il sistema elettorale sarà proporzionale, con ciò incentivando la presentazione di liste separate. E non è solo questo. La linea di Salvini verso l’Europa non è conciliabile con quella dell’ultimo Berlusconi, di nuovo vicino al Partito Popolare e ad Angela Merkel. Prima di immaginare una lista unica del centrodestra alle politiche, qualcuno dovrà cambiare idee e posizioni in modo netto. Forse è più facile prevedere che ognuno vada per conto suo a raccogliere voti per poi discutere nel nuovo Parlamento. Un Parlamento che a questo punto potrebbe anche avere una maggioranza di centrodestra. Chissà se è lo scenario preferito da Berlusconi. Forse no: l’idea di governare insieme a un Salvini trionfante non è proprio in cima ai desideri del “Rieccolo” di Arcore. © Riproduzione riservata 26 giugno 2017 da - http://www.repubblica.it/politica/2017/06/26/news/una_sinistra_sorda_mediti_sugli_errori-169132464/?ref=RHPPTP-BH-I0-C12-P1-S3.4-T1 Titolo: Stefano FOLLI. - Governo, a chi rimane il cerino Inserito da: Arlecchino - Maggio 10, 2018, 09:01:35 pm Governo, a chi rimane il cerino
06 MAGGIO 2018 DI STEFANO FOLLI Se la crisi politica fosse una gara di ciclismo, si direbbe che l’ultimo approccio fra Di Maio e Salvini è arrivato fuori tempo massimo. Ma naturalmente nel triangolo fra Quirinale, Palazzo Chigi e Montecitorio non hanno valore le regole sportive: quel che conta è il risultato. Se oggi Mattarella ottenesse un segnale di disponibilità dal centrodestra, si può esser certi che andrebbe a verificare il fatto nuovo. Ma tutto lascia pensare che non accadrà nulla di tutto ciò. Pur guardandosi in cagnesco, i Salvini, i Berlusconi, le Meloni non hanno convenienza a rompere. Invece hanno interesse a stare insieme in questo passaggio cruciale della crisi. Tanto più se gli avvenimenti di questi giorni fossero l’anticamera dello scioglimento delle Camere appena elette: al voto andrebbe la stessa coalizione di centrodestra che si è presentata il 4 marzo, solo con un baricentro ancora più spostato verso la Lega. In fondo, nelle ultime ore abbiamo assistito al classico gioco del cerino. Consapevoli che la crisi non ha forse alcuno sbocco, tutti — a cominciare da un Di Maio abbastanza disperato — hanno tentato di mettere sul tavolo le ultime carte. Con l’idea di lasciare ad altri la responsabilità di un rifiuto. E così è: chi fra oggi e domani resterà con il cerino in mano, vale a dire chi pronuncerà l’ultimo, fatidico “no”, sarà anche additato come il responsabile delle probabili elezioni anticipate in autunno. Una stagione in cui potrebbe essere troppo tardi per scansare la trappola dell’esercizio provvisorio e soprattutto per neutralizzare l’aumento delle aliquote Iva. Ecco allora il “passo indietro” di Di Maio, il balletto intorno all’ultima versione del progetto fumoso di un governo affidato a un nome terzo, ma fondato sulla garanzia parallela del capo leghista e dello stesso pentastellato. Senza Berlusconi messo nell’angolo. Un piano di corto respiro rispetto al punto in cui era giunta la crisi. E infatti la fine prematura della legislatura è nell’aria da giorni e non invoglia a compiere azzardi o acrobazie politiche. Il fatto è che il fallimento dell’iniziativa di Di Maio è stato in qualche misura provocato o aggravato dal modo scomposto in cui il giovane leader si è avventurato in oscure insinuazioni. Era il momento di avanzare proposte con spirito costruttivo, visto che si trattava di aprire un sentiero fra mille ostacoli. Al contrario, si è avvertito un clima vagamente minaccioso che inquieta e al tempo stesso fotografa la condizione di straordinario affanno in cui si muove il gruppo dirigente dei Cinque Stelle. Tirare in ballo da Lucia Annunziata la «democrazia rappresentativa» che non funziona se il movimento fondato da Grillo non ottiene, con le buone o con le cattive, quello che vuole, significa fare affermazioni inaccettabili. Reiterare che «dovremo inventarci qualcosa» al posto di questa democrazia parlamentare non è rassicurante. Forse stamane il capo dello Stato chiederà conto al giovane leaderino di queste frasi, arricchite da altre perle: ad esempio il referendum sull’euro che viene annunciato o negato a seconda delle opportunità del momento, senza che lui, Di Maio, abbia nulla da eccepire nel merito. Probabilmente in queste ore è tramontato l’ultimo tentativo di dare un indirizzo politico alla crisi, a meno che Mattarella non decida — ma è molto improbabile — di prendere in considerazione l’ipotesi di un pre-incarico a Salvini per un governo di centrodestra aperto a vari contributi in Parlamento. Nel frattempo nel grande rogo sembra bruciato anche il governo “del presidente” o di tregua. Perché di tregua non c’è traccia. Da - https://rep.repubblica.it/pwa/commento/2018/05/06/news/governo_a_chi_rimane_il_cerino-195697694/ Titolo: Stefano FOLLI. - Governo, a chi parla davvero il premier Inserito da: Admin - Maggio 26, 2020, 05:32:00 pm Commento Fase 2 Coronavirus
Governo, a chi parla davvero il premier 21 MAGGIO 2020 L'appello di Giuseppe Conte non va inteso come rivolto a tutta l'opposizione, bensì a quel segmento che potrebbe essere disponibile a condividere il dividendo europeista DI STEFANO FOLLI La rissa sfiorata giovedì mattina alla Camera è in un certo senso la prima risposta all'intervista di Conte al quotidiano Il Foglio, in cui il presidente del Consiglio riproponeva la sua apparente mano tesa all'opposizione. Apparente perché l'offerta rimane, come in precedenti occasioni, piuttosto generica: si evoca una terza fase dedicata alla semplificazione burocratica, alla riforma della giustizia, al rilancio del modello economico. Tutti temi condivisibili, anzi prioritari, ma non si capisce in che termini dovrebbe prendere forma la collaborazione - parlamentare, s'intende - con il centrodestra. Sotto questo aspetto, non c'è una proposta concreta, un itinerario possibile per scendere dal cielo dei principi al terreno delle iniziative. In ogni caso, a Montecitorio qualcuno tra i Cinque Stelle ha voluto creare un piccolo incidente utile a comprendere quali potrebbero essere i margini della cooperazione sinistra/destra: allo stato delle cose, si tratta di margini inesistenti. Se infatti anche i morti per il Covid in Lombardia diventano occasione, o meglio pretesto, per uno scambio di contumelie volgari con la Lega, si capisce che siamo all'anno zero, altro che "fase tre". Tuttavia il premier ha dimostrato fin qui di essere un uomo astuto. Difficile pensare che non sia consapevole di un dato politico: semmai fosse realistica - e oggi non lo è - una qualche forma di intesa parlamentare allargata tra maggioranza e opposizione, non sarebbe lui a gestirla. Vorrebbe dire che lo scenario è cambiato in modo radicale, per cui i firmatari dell'accordo chiederebbero ovviamente un altro premier, diverso da quello che ha governato prima con Lega e 5S e poi con 5S e Pd. Perché allora Conte ripropone uno schema che già nel recente passato ha avuto poca fortuna? Probabilmente perché non gli costa nulla e forse gli permette di guadagnare tempo. In fondo, l'appello a ridurre le tensioni e a collaborare sul piano parlamentare è tipico delle fasi di crisi. Lo stesso presidente Mattarella lo ha rivolto a più riprese alle forze politiche. Ma Conte non è il presidente della Repubblica: è un personaggio atipico che guida una maggioranza precaria dal futuro incerto. Da un lato, egli ritiene che questa maggioranza non possa dare molto più di quello che ha già dato; dall'altro, si sforza di creare qualche contraddizione nel centrodestra. Di sicuro Conte vede i sintomi di debolezza che solcano lo schieramento Salvini-Meloni-Berlusconi. E qui non si può dargli torto. Se fosse vero che l'Europa riverserà in tempi utili consistenti risorse finanziarie sul nostro Paese, si può immaginare che almeno Forza Italia sosterrà l'operazione. Per cui l'appello del premier non va inteso come rivolto a tutta l'opposizione, bensì a quel segmento che potrebbe essere disponibile a condividere il dividendo europeista. Sempre che i finanziamenti ci siano e non arrivino fuori tempo massimo. Esiste peraltro un secondo aspetto in grado di confondere il quadro. In settembre o comunque ai primi di ottobre si andrà a votare per le regionali e le comunali rinviate, nonché per il referendum sul taglio dei parlamentari. Questo vuol dire che, nonostante il virus e l'estate, l'Italia sta per entrare in una nuova, peculiare campagna elettorale. Certo, il momento meno propizio per avviare esperimenti politici dai contorni poco definiti. Da - https://rep.repubblica.it/pwa/commento/2020/05/21/news/governo_a_chi_parla_davvero_il_premier_giuseppe_conte-257305408/ Titolo: Stefano FOLLI. - La fantasia al potere Inserito da: Arlecchino - Maggio 29, 2020, 02:07:33 pm Commento Governo
La fantasia al potere 25 MAGGIO 2020 Assistenti civici: l'aspetto singolare della vicenda è che invece di concentrarsi su iniziative innovative volte a promuovere la ripresa economica e a rassicurare un Paese smarrito, l'immaginazione si applica a tutto ciò che prevede forme di controllo vagamente asfissianti Tra i sussulti della decadenza politica in cui il Paese si agita, la vicenda delle guardie civiche (qualificate con pudore "assistenti") resterà agli atti come un caso limite di idea cervellotica ma emblematica di un certo modo d'intendere il rapporto con l'opinione pubblica. È chiaro che l'esercito dei sessantamila controllori non prenderà mai servizio: in poche ore ha suscitato la diffidenza o l'ostilità trasversale di un buon numero di forze politiche, di gran parte degli scienziati e infine del ministero dell'Interno che non è stato nemmeno consultato. Di conseguenza, come di solito accade, la proposta si è scoperta in un attimo senza padri né padrini. Tranne uno: il ministro degli Affari regionali, Boccia, che l'ha concepita e messa sul tavolo in buonafede, ottenendo tuttavia il solo effetto di esasperare il nervosismo che si avverte nell'aria e di far perdere altro tempo a un governo che ne ha perso già parecchio. L'aspetto singolare è che invece di concentrarsi su iniziative magari innovative volte a promuovere la ripresa economica e a rassicurare un Paese smarrito, la fantasia del potere si applica a tutto ciò che prevede forme di controllo vagamente asfissianti. Anziché credere al senso di responsabilità dei cittadini, che nel complesso si sono ben comportati nelle strettoie dell'emergenza sanitaria, si preferisce inventare nuovi strumenti sicuramente inefficaci - oltre che costosi per un erario esausto - ma dal sapore poliziesco. Oltretutto all'insaputa di chi - il Viminale - ha il dovere istituzionale di gestire le forze dell'ordine. Chi non ricorda la storia tragicomica delle "ronde padane" propugnate un tempo dalla Lega, ma respinte dagli spiriti liberali con l'argomento che deve essere lo Stato con i suoi organismi a provvedere alla sicurezza collettiva? Ne deriva che le nuove ronde anti-assembramento sono proprio quello che non serve a una società piegata da oltre due mesi di isolamento e bisognosa di risentirsi viva. Con ogni cautela, ovvio, ma senza la sensazione di vagare per l'eternità dentro un mediocre film di fantascienza. In ogni caso, come è possibile che tali bizzarrie prendano forma con una certa regolarità? Certo, esiste una crescente debolezza della politica, di cui è sempre più evidente la carenza di visione e l'incapacità di trasmettere messaggi coerenti. Il Pd, si dice, ha normalizzato il M5S: purtroppo sembra averne assorbito i lati peggiori, a cominciare dalla sub-ideologia illiberale. Per cui si cerca il colpo a effetto, il titolo del giorno dopo, il talk show serale. Ma tutti tendono a vivere alla giornata. E per qualcuno la pandemia è l'occasione per esercitare una vigilanza coercitiva sull'insieme dei comportamenti sociali che diventa il surrogato della politica forte e credibile che manca. A proposito di credibilità, chiunque può rendersi conto che la faida all'interno della magistratura, o meglio tra le correnti e le fazioni del Consiglio Superiore, ha molto a che fare con la politica debole. I conflitti di potere fuori controllo offrono un'immagine distorta e purtroppo degenerata della funzione giudiziaria. È un'altra prova del declino in atto a tutti i livelli. Ed è legittimo domandarsi: quanto può valere una riforma del Csm annunciata quando è tardi, per di più affidata a un ministro come Bonafede appena scampato per il rotto della cuffia alla sfiducia parlamentare? Da - https://rep.repubblica.it/pwa/commento/2020/05/25/news/la_fantasia_al_potere-257617797/?ref=nl-rep-a-bgr Titolo: Stefano FOLLI. - Caso Open Arms, l’avviso di Renzi al premier Inserito da: Arlecchino - Maggio 29, 2020, 02:20:24 pm Caso Open Arms, l’avviso di Renzi al premier
26 Maggio 2020 Il segnale più significativo riguarda Giuseppe Conte, al quale Italia Viva riserva un'insinuazione destinata a pesare Di STEFANO FOLLI È facile perdersi nel labirinto procedurale attraverso cui il Parlamento decide se mandare o no sotto processo uno dei suoi. E negli angoli bui del labirinto si fanno tanti giochi politici, troppi: colpevolisti e innocentisti lasciano vibrare la campana della propaganda con l'intensità delle grandi occasioni. Il caso Salvini non ha fatto eccezione. Si può dubitare che gli italiani oggi, in pieno trauma da Covid e vicini a una drammatica recessione, siano memori della nave spagnola Open Arms, soccorritrice di migranti, alla quale per alcuni giorni fu interdetto l'approdo in un porto italiano, impedendo con ciò lo sbarco dei profughi. Qui non è tanto importante il risultato dello scrutinio in Commissione - dove il gruppo di Renzi ha salvato l'ex ministro dell'Interno - dal momento che la parola passerà tra qualche settimana all'aula del Senato e lì i giochi ricominceranno. Peraltro, nonostante l'esito, nemmeno il voto di Italia Viva è al sicuro nella tasca di Salvini. È la procedura, dove il merito dell'accusa è l'ultima cosa che interessa ai contendenti. Cosa rimane quindi della vicenda? Restano i segnali politici. Salvini canta vittoria e finge di dimenticare che siamo solo all'inizio del sentiero parlamentare. Ma il leader della Lega, come è noto, vive una fase di difficoltà nei sondaggi e sfrutta ogni circostanza. Per cui anche il messaggio di congratulazioni di Orbán diventa meritevole di un rilancio via web. Tuttavia è assai improbabile che la ripresa del Carroccio passi dal caso Open Arms: al limite potrà smuovere un po' le acque stagnanti. Ma i tempi in cui il contrasto ai migranti era tutta la politica leghista, fino a oscurare il resto, sono passati e probabilmente non torneranno. I segnali, allora. Il primo s'incrocia con la Regione Lombardia. Sarà una coincidenza, ma è curioso che il voto renziano pro-Salvini si sia combinato con l'elezione a sorpresa a Milano di un'esponente renziana alla presidenza della commissione d'inchiesta regionale sulla tragedia del virus. In secondo luogo, sembra verosimile che Renzi abbia colto il momento di confusione nella magistratura, dal pasticcio Palamara alle ricadute delle lotte correntizie a margine del Csm, per affermare una linea più garantista. Vale a dire la stessa tenuta fino a un certo punto contro il ministro Bonafede e poi modificata per ragioni politiche al momento di votare la sfiducia individuale in Parlamento. Come dire che il senatore di Scandicci ha voluto distinguersi rispetto a una certa tradizione presente nel Pd e ancor più nei Cinque Stelle. Il tentativo si ripete da anni in forme diverse: provare a espandersi verso il centrodestra, in particolare verso Forza Italia e il suo elettorato, ripudiando le tendenze "giustizialiste". Ma il segnale più significativo riguarda Giuseppe Conte, al quale Italia Viva riserva un'insinuazione destinata a pesare. Con linguaggio involuto, un comunicato informa che il disimpegno renziano nasce da un punto preciso: nella documentazione "non sembra emergere l'esclusiva riferibilità all'ex ministro dell'Interno dei fatti contestati". In parole povere: il premier non poteva non essere informato e quindi era consenziente, dal momento che Salvini, nei giorni della Open Arms, non è stato smentito da Palazzo Chigi. Sul piano politico questo passaggio può avere sviluppi imbarazzanti per il vertice del governo. Da - https://rep.repubblica.it/pwa/commento/2020/05/26/news/open_arms_matteo_salvini_governo_giuseppe_conte_italia_viva_matteo_renzi-257691319/?ref=nl-rep-a-out Titolo: STEFANO FOLLI Giustizia Il bivio di Renzi oltre Bonafede È evidente che ... Inserito da: Arlecchino - Luglio 20, 2020, 09:27:05 pm Commento Giustizia
Il bivio di Renzi oltre Bonafede 18 MAGGIO 2020 È evidente che se il Guardasigilli cadrà in Parlamento sotto il fuoco incrociato delle mozioni di destra e della Bonino, la ferita inferta al governo Conte sarà quasi certamente definitiva e fatale DI STEFANO FOLLI È evidente che se il ministro della Giustizia cadrà in Parlamento sotto il fuoco incrociato delle mozioni "giustizialista" della destra e "garantista" di Emma Bonino, la ferita inferta al governo Conte sarà quasi certamente definitiva e fatale. Ma è altrettanto chiaro che Bonafede ha discrete probabilità di attraversare indenne le forche caudine. Anzi, per come si sono messe le cose, la caduta del ministro equivarrebbe a un colpo di scena alquanto clamoroso. Il problema riguarda, come è ormai noto, il gruppo di Matteo Renzi: il quale dispone dei numeri determinanti per far pendere la bilancia verso le dimissioni dell'imputato e soprattutto ha tutti gli argomenti per colpirlo. Renzi nei giorni scorsi è stato il più perentorio dei pubblici ministeri: ha elencato tutte le responsabilità vicine e lontane di Bonafede, dal nodo della prescrizione al caso Di Matteo fino al pasticcio dei mafiosi mandati agli arresti domiciliari. Si possono avere varie opinioni sul ministro "grillino", personaggio cardine del M5S nel governo Conte, ma di sicuro Renzi ha sostenuto con foga la più sfavorevole, dipingendolo come il peggior Guardasigilli che abbia mai abitato le stanze di via Arenula. Ora, sulla base delle premesse che egli stesso ha indicato, non si vede come Renzi possa esimersi dal votare la sfiducia. Soprattutto in seguito alla recente novità, ossia la mozione "garantista" di Emma Bonino e Benedetto Della Vedova che ha cambiato lo scenario. Prima si trattava di legarsi all'iniziativa della destra, il che era effettivamente difficile per Italia Viva: si sarebbe trovata a lavorare per il re di Prussia, come si usa dire, e avrebbe innescato una crisi di governo sul terreno prescelto da Lega e FdI (mai divisi come ora, nella sostanza, e riuniti solo dall'operazione Bonafede). Nella logica renziana, una mossa poco lungimirante. Peraltro l'ingresso in campo dell'opzione europeista ha cambiato il quadro generale e il senatore toscano non può non tenerne conto. La sfiducia al ministro assume un diverso profilo politico e nasce all'interno di quell'area liberal-democratica in cui si muovono sia i renziani, sia gli amici di Emma Bonino, sia un Calenda molto attivo in queste ore nelle sue polemiche con il rivale di Scandicci. Detto questo, la previsione è che Italia Viva eviterà di far cadere Bonafede, travolgendo con lui il presidente del Consiglio. Non lo farà nonostante la contraddizione che diventa palese fra le critiche rivolte al ministro e la rinuncia a giungere fino alle estreme conseguenze. Ma si capisce che Renzi non giudica ancora matura la crisi di governo. Continua a muoversi lungo un sentiero stretto, un po' da equilibrista. Di recente ha ottenuto da Conte una sorta di "riconoscimento politico", qualunque cosa voglia dire questa espressione lievemente ambigua (in concreto il premier accetta di considerare Italia Viva un interlocutore al pari degli altri partiti della maggioranza, con tutti i vantaggi che tale condiziona comporta). Complice il virus e la faticosa ripresa, la resa dei conti è dunque spostata in avanti. Salvo colpi di scena, Bonafede ottiene l'amnistia parlamentare. E il presidente del Consiglio viene restituito al logoramento quotidiano a cui ormai è abituato, tra astuzie e gaffe che in altri tempi avrebbero fatto incespicare personaggi ben più strutturati. Da - https://rep.repubblica.it/pwa/commento/2020/05/18/news/governo_italia_viva_parlamento_giustizia_il_bivio_di_renzi_oltre_bonafede-257037804/?ref=nl-rep-a-out Titolo: Stefano FOLLI. - Il disegno politico del voto di Renzi Inserito da: Arlecchino - Agosto 10, 2020, 10:04:17 pm Il disegno politico del voto di Renzi
30 LUGLIO 2020 Aver allargato il tema alla magistratura significa porsi come referente di settori comprendenti Forza Italia. Così da impedire, in caso di sviluppi politici o di crisi del governo, che il mondo berlusconiano e il centrosinistra aprano un negoziato diretto, invece di rivolgersi a lui DI STEFANO FOLLI Chi immaginava che Renzi - il garantista Renzi - avrebbe salvato il capo della Lega non aveva messo in conto che stavolta l'interesse del senatore di Scandicci era opposto a quello di Salvini. Sarebbe bastata un'astensione, coerente peraltro con la linea dei senatori di Italia Viva nella commissione per le autorizzazioni, invece è arrivato il "no" alla relazione Gasparri. Un "no" molto politico, mimetizzato nella tesi già sostenuta in modo efficace da Emma Bonino: le mosse di Salvini non erano dettate da una difesa "dell'interesse pubblico", bensì da un calcolo di opportunità partitica. E infatti l'intervento renziano è stato un abile gioco di prestigio verbale dai molteplici obiettivi. Il primo era appunto il "salvinismo", la filosofia politica dell'ex ministro dell'Interno. Mandare questi a processo significa, almeno nelle intenzioni, contestare l'assetto radicale dell'attuale centrodestra e magari aprire qualche inedito spazio a una forza che voglia definirsi moderata e riformista. S'intende che Renzi e altri che ragionano come lui non sono interessati a rientrare nel Pd in qualità di nuovi "cespugli". L'ambizione è più grande, forse troppo per un piccolo partito personale che i sondaggi si ostinano a vedere intorno al 3 per cento. Ma non a caso ieri in Senato i duellanti erano i due Matteo: il Pd sembrava svanito sullo sfondo, indebolito dalle proprie incertezze, prima fra tutte non aver saputo cambiare in un anno i decreti sicurezza di Salvini. Certo, anche la posizione di Renzi risulta tutt'altro che coerente. In commissione l'astensione di Italia Viva era fondata sul principio per cui la responsabilità del ministro "non era esclusiva": vale a dire che era condivisa con il presidente del Consiglio Conte (e in subordine con l'allora responsabile dei Trasporti, Toninelli). Anche ieri Renzi ha dovuto ammettere che "nella prima parte della vicenda" Conte ha avallato la linea Salvini. Tuttavia, ha aggiunto, adesso è sul leghista che dobbiamo pronunciarci. S'intuisce un salto logico. Dove però l'intervento renziano ha assunto rilievo politico è nell'aver richiamato in forma esplicita il rapporto tra politica e magistratura. Il che si è risolto in un attacco a una certa parte della magistratura e all'incongruenza, tra l'altro, del sistema di intercettazione fondato sull'uso del "trojan", il software che s'installa nel telefono cellulare. Questo "trojan", ha detto Renzi, si presta ad abusi di vario tipo: serve a incastrare qualche personaggio pubblico, magari alcuni politici, ma ha la caratteristica di disattivarsi quando si parla di qualcuno che non si vuole coinvolgere nelle indagini. Qui il messaggio anti-magistrati aveva molti destinatari, in primo luogo Berlusconi, molto sensibile al tema. Ma prima o poi "la campana suona per tutti", ha insistito Renzi. Ad esempio per chi gestisce o trae vantaggio da quel ponte verso l'attività politica che sono le fondazioni e le associazioni. Riferimento indiretto ma chiaro anche a Casaleggio nel momento in cui i 5S sono più che mai ai ferri corti tra loro. Aver allargato il tema alla magistratura significa porsi come referente di settori comprendenti Forza Italia. Così da impedire, in caso di sviluppi politici o di crisi del governo, che il mondo berlusconiano e il centrosinistra aprano un negoziato diretto. Renzi, con la sua ambizione centrista, ha segnalato che a quel crocevia vorrà esserci lui, il fustigatore di Salvini. Da - https://rep.repubblica.it/pwa/commento/2020/07/30/news/il_disegno_politico_del_voto_di_renzi-263314232/?ref=nl-rep-a-out Titolo: Stefano FOLLI. - Diseguaglianze, quanti sono i nostri Sud 30 LUGLIO 2020 Inserito da: Arlecchino - Agosto 10, 2020, 10:07:34 pm Diseguaglianze, quanti sono i nostri Sud
30 LUGLIO 2020 Sono i luoghi dove, in tutte le aree del Paese, la condizione di vita e di opportunità non è uguale. Questo genera sfiducia nel sistema e risentimento verso chi lo governa o ne trae vantaggio. Non si dovrebbe tornare ad essere come prima DI NADIA URBINATI Il mantra del "tutto tornerà come prima" ci ha accompagnato in questi mesi difficili. Si tratta di un'affermazione vuota ma carica di emotività e che dovrebbe infondere fiducia. I mutamenti che le nostre vite stanno registrando sono notevoli e nessun visionario ci può rassicurare sul futuro. In questo mare di incertezza dovremmo saper fare bene almeno una cosa: individuare le coordinate che ci facciano prendere una direzione di marcia e tenere la barra diritta. Tra queste, una soprattutto: l'eguaglianza di condizione e di opportunità. Non si tratta di un principio metafisico né moralistico; la sua radice non sta in un'utopica città futura, ma nella promessa democratica scritta nella nostra Costituzione. Il Recovery Fund e altri eventuali dispositivi dovranno essere piegati a questo principio innestato nelle nostre radici. Farlo non sarà facile, non solo perché gli interessi particolari in campo sono agguerriti e ben organizzati. Se non proprio lotta di classe, non è impossibile che si abbia una decisa contrapposizione tra modi di intendere l'eguaglianza: se in termini minimi o solo legalistici o invece anche sociali, come indica il secondo comma dell'articolo 3 della nostra Carta. Destra e sinistra si distingueranno su questo crinale. Entrambe dovranno comunque saper leggere il Paese per mettere in campo proposte non fallimentari. Vi è una condizione che si staglia per gravità e complessità: quella identificata con "il Sud". Sud e Nord sono più che mai termini che designano contrapposizioni socio-economiche, ma in una maniera complessa e articolata. "Il Sud" sta oggi a significare l'insieme dei fattori che sono a tutti gli effetti indicativi di un livello preoccupante di diseguaglianza, con condizioni di svantaggio accumulate nel tempo che rendono irrealistico il decantato principio della libera scelta: polarizzazione socio-economica; dislivello culturale tra i ceti; diseguale orizzonte di possibilità per i cittadini in base non al loro impegno, ma a quel che sono per appartenenza cetuale, genere ed età e a dove vivono. Il fatto ancor più dirompente è che questo Sud non è né identificato con una zona geografica specifica, né è omogeneo al suo interno. Ci sono "diversi Sud" più che "il Sud". E sono distribuiti su tutto il territorio nazionale. Pier Giorgio Ardeni nel suo recente libro Le radici del populismo (Laterza), incrociando i dati sulla distribuzione del reddito con quelli demografici e con la dislocazione territoriale dei Comuni per tipologie centro-periferia, ottiene una mappa a macchia di leopardo dei vari Sud che compongono il Bel paese. Si tratta di una demografia che fotografa un'Italia spezzettata e dispersa, nella quale i riflettori delle eccellenze e della buona vita sono puntati su alcuni centri metropolitani, lasciando in ombra e spesso al buio tutto il resto, quel che oggi si chiama con un termine neutro "territori". I territori sono i Sud. Sono i luoghi dove, in tutte le aree del Paese, la condizione di vita e di opportunità non è per niente uguale; questo genera sfiducia nel sistema e risentimento verso chi lo governa o ne trae vantaggio. Questi mutamenti sono andati di pari passo con la regionalizzazione amministrativa, che ha legato ancora di più le opportunità dei cittadini nei settori nevralgici (scuola, lavoro e salute) ai luoghi, facendo dei beni primari un mercato che attira clienti dai vari Sud e sedimenta le diseguaglianze. Vi sarebbe almeno un modo per iniziare a riequilibrare questo sistema: invertire il processo di declino dell'amministrazione pubblica nazionale. La quale fu dall'unità d'Italia il tessuto connettivo di raccordo tra il "locale" e il "nazionale". La sua erosione in questi anni di regionalismo competitivo è lo specchio del degrado della vita nei luoghi altri da quelli d'eccellenza, il segno dei numerosi Sud che sono sorti in questi ultimi decenni. Non si dovrebbe tornare ad essere come prima. Da - https://rep.repubblica.it/pwa/commento/2020/07/30/news/crisi_economica_coronavirus_recovery_fund_la_mappa_della_diseguaglianza_quanti_sono_i_nostri_sud-263301168/?ref=nl-rep-a-out Titolo: Stefano FOLLI. - Tre carte contro la paura Inserito da: Admin - Settembre 08, 2020, 05:28:33 pm Tre carte contro la paura | Rep
Posta in arrivo x ggiannig <ggianni41@gmail.com> a me https://rep.repubblica.it/pwa/commento/2020/09/07/news/tre_carte_contro_la_paura-266527909/ Titolo: Stefano FOLLI. - La foresta, l’ascia e la legge elettorale Inserito da: Admin - Settembre 27, 2020, 05:05:22 pm La foresta, l’ascia e la legge elettorale | Rep
Posta in arrivo Arlecchino Euristico ven 25 set, 18:51 (2 giorni fa) a me https://rep.repubblica.it/pwa/commento/2020/09/24/news/la_foresta_l_ascia_e_la_legge_elettorale-268426498/ Inviato da Posta per Windows 10 Titolo: Stefano FOLLI. - Maggioranza, le anomalie e i cortocircuiti Inserito da: Admin - Ottobre 07, 2020, 12:11:35 pm Maggioranza, le anomalie e i cortocircuiti | Rep Posta in arrivo Arlecchino Euristico 12:07 (2 minuti fa) a me https://rep.repubblica.it/pwa/commento/2020/10/06/news/le_anomalie_e_i_cortocircuiti-269694564/ Inviato da Posta per Windows 10 Titolo: Stefano FOLLI. - L’autunno oscuro dal Covid a Nizza Inserito da: Admin - Novembre 16, 2020, 07:17:08 pm CommentoEuropa
L’autunno oscuro dal Covid a Nizza 29 OTTOBRE 2020 L'incrocio tra le misure eccezionali di confinamento e il ritorno del terrorismo è una miscela senza precedenti destinata a suscitare ulteriore smarrimento. Ma offre anche un'opportunità alla classe dirigente europea per legittimarsi e consolidarsi DI STEFANO FOLLI Può essere casuale o forse no; sta di fatto che una delle maggiori nazioni d'Europa, la Francia, subisce ripetuti attacchi del fondamentalismo islamico proprio nei giorni in cui la pandemia la obbliga a chiudersi in se stessa, come del resto buona parte del continente. In altre parole, nel momento in cui la nazione è più debole, si ripropone lo scontro tra laicità e fondamentalismo islamico, tra la civiltà della tolleranza e una minaccia fatale che la insidia. Per qualche ora almeno non è il Covid il padrone dei notiziari, bensì la tragedia francese che in realtà - è il meno che si possa dire - riguarda tutti gli europei. A maggior ragione dopo che è stato confermato l'approdo a Lampedusa, in settembre, dell'attentatore di Nizza. Questo incrocio tra le misure eccezionali di confinamento (lockdown) e il ritorno del terrorismo è una sorta di miscela senza precedenti destinata a suscitare ulteriore, diffuso smarrimento. È ciò che rende l'autunno che stiamo vivendo un percorso inesplorato. Ma offre anche un'opportunità storica alla classe dirigente europea per legittimarsi e consolidarsi. L'idea di una risposta comune di fronte al virus è logica, ancor più se diventa una linea condivisa ed efficace contro il fondamentalismo assassino. Il che implica un livello superiore d'intesa tra i Paesi dell'Unione circa gli strumenti di polizia e di intelligence, ma prima di tutto nelle scelte di politica estera, finora del tutto divergenti. Per adesso sembra un'utopia. La priorità del presidente del Consiglio per ora rimane la solidarietà europea contro il Covid. In pratica, Conte vuole che il mal comune dei confinamenti si traduca in un più rapido accesso ai fondi del Recovery. Non si può dargli torto, visto che queste risorse, più volte annunciate come in arrivo, sono invece lontane e anzi non ancora ratificate dalle varie capitali. È un tema cruciale perché il malessere sociale, legato al collasso delle attività economiche, è il terzo protagonista del nostro autunno. Qui si dovrà misurare, è ovvio, la maturità di una classe di governo. Carlo Galli ha scritto su questo giornale che la politica deve saper esercitare in questi frangenti "una leadership democratica". Il che significa dimostrare credibilità e capacità di guida. La popolarità del leader del momento non è l'indice più adatto per valutare entrambe: quindi per Conte non sarebbe negativa la caduta del suo vasto ma effimero gradimento di primavera, se ciò lo aiutasse a guadagnare in autorevolezza. Tuttavia probabilmente per lui è tardi, a giudicare dal nervosismo crescente del Pd. Che peraltro non sembra avere le idee chiare: qualcuno (il capogruppo al Senato, Marcucci, ex renziano) ha chiesto di cambiare qualche ministro, come se il dramma che stiamo vivendo fosse risolvibile con gli strumenti antichi della "verifica" e del "rimpasto". Il suo partito lo ha smentito, ma s'intuisce che quel pensiero ha attraversato la mente di molti. E in ogni caso resta aperto il tema di come rafforzare un governo per vari aspetti inadeguato. Si chiede inoltre all'opposizione di esibire un profilo istituzionale. Legittimo se si tratta di non giustificare o strumentalizzare le violenze di piazza. Altrettanto se si vuole ottenere chiarezza su punti essenziali. Per esempio, non si capisce ancora quale sia la linea di Salvini sul lockdown prossimo venturo. L'impressione è che si resti nell'ambiguità per non perdere voti. Comunque sia, è poi arrivata la notizia di Lampedusa con la sua carica lacerante che investe il Viminale in un dibattito pubblico estenuato. |