Titolo: PIETRO GARIBALDI Inserito da: Admin - Aprile 12, 2008, 11:13:54 am 12/4/2008
La crisi tra banche e consumi PIETRO GARIBALDI La riunione del Fondo Monetario Internazionale da oggi a Washington non poteva avvenire in un momento più appropriato. Il Fondo Monetario, creato a Bretton Woods dopo la seconda guerra mondiale per favorire il coordinamento delle politiche economiche internazionali, sembrava in questi anni in grave crisi. Negli ambienti finanziari internazionali si parlava apertamente della morte del Fondo Monetario, un’istituzione troppo piccola per avere un ruolo in un’economia globale in continua espansione. La crisi mondiale del credito può invece permettere al Fondo Monetario di rinascere, perché in questi giorni è evidente che l’economia globale non riesce a fare a meno di grandi istituzioni multilaterali e di un attento coordinamento delle politiche economiche. La situazione più difficile è quella degli Stati Uniti. Dopo la fase di grandi svalutazioni bancarie e di difficoltà del credito, la crisi americana è ormai passata dai salotti finanziari di Wall Street al consumatore americano di Main Street. Il tasso di disoccupazione è cresciuto oltre il 5 per cento a marzo e il settore privato americano ha visto una contrazione di posti di lavoro per quattro mesi di fila. I prezzi delle case, spinti per quasi dieci anni da una spirale di credito facile e bassi tassi di interesse, sono già scesi di almeno il 10 per cento; nei prossimi mesi si rischia un’ondata di vendite forzate di case occupate da consumatori vicini alla bancarotta e con un mutuo da ripagare ben superiore al valore della stessa casa. La politica economica americana non è certamente stata immobile di fronte alla crisi. La Federal Reserve ha abbattuto i tassi d’interesse fino al 2 per cento e la crisi delle banche pare in parte superata grazie a un vero e proprio salvataggio pubblico. Con la decisione della Federal Reserve di scambiare mutui subprime e altri prodotti di credito strutturati ormai senza mercato con titoli di Stato americani, stiamo assistendo a un intervento diretto dell’autorità monetaria per ripulire i bilanci delle banche. Il Tesoro americano, a sua volta, sta discutendo di un nuovo stimolo fiscale e di un piano straordinario per le abitazioni, in modo da evitare la liquidazione forzata delle case occupate dai debitori non più in grado di pagare il mutuo. Tutto questo senza dimenticare il crollo del dollaro. Anche se è troppo presto per dire se queste misure permetteranno di superare la crisi, è evidente che le munizioni stanno finendo e al Tesoro e alla Federal Reserve non resta che cercare un attivo coordinamento con il resto dell’economia globale. Anche se in Europa non godiamo di buona salute, la situazione è meno drammatica. Nell’area dell’euro la crisi del credito non ha fatto vittime. Alla luce della recente crisi del credito, dobbiamo essere fieri di avere un sistema bancario certamente meno sofisticato di quello americano, ma in questo momento indubbiamente più solido. Il rallentamento dell’economia globale ha però colpito l’Europa, e per il 2008 si prevede un tasso di crescita di poco superiore all’1 per cento. Le difficoltà in Europa sono principalmente di natura strutturale e sono legate alla sua scarsa capacità innovativa e alla sua bassa crescita della produttività. Oltre alla bassa crescita, l’Europa deve però affrontare anche una crescente inflazione, trainata dai continui rialzi dei prezzi delle materie prime e dei beni alimentari. La banca centrale europea ha fino ad ora lasciato invariati i tassi d’interesse e non ha ancora usato le proprie munizioni. Il problema del governatore Trichet, che ben ha gestito la crisi di liquidità in questi mesi, appare essere il tradizionale dilemma dei banchieri centrali tra sostegno alla crescita con bassi tassi e lotta all’inflazione con tassi più elevati. In questa situazione, un coordinamento delle politiche economiche per la crescita sarebbe indubbiamente di grande beneficio per l’Europa. Il resto dell’economia mondiale e la Cina in particolare, nonostante l’impressionante crescita, non possono ignorare le difficoltà altrui. Dopotutto, l’impressionante crescita cinese dipende in larga misura dalle sue esportazioni verso l’Europa e gli Stati Uniti. Una prolungata recessione in Europa e Stati Uniti finirebbe per avere pesanti conseguenze anche in Cina e in India. Non a caso, al G7 di ieri a Washington hanno partecipato anche i rappresentanti dei Paesi Brics (Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa). La difficile situazione globale e la necessità di coordinamento globale possono paradossalmente finire per dare un nuovo ruolo all’Europa nell’economia finanziaria globale. Perché il sistema finanziario e bancario dell’area euro si è rivelato molto più forte di quanto si potesse immaginare e perché il Fondo Monetario rimane guidato dal direttore francese Strauss-Kahn, un tecnico con una grande esperienza politica alle spalle. Speriamo davvero che l’Europa riesca a essere all’altezza e a cogliere questa importante opportunità. Potrebbe essere l’ultima. da lastampa.it Titolo: PIETRO GARIBALDI. - Inserito da: Admin - Maggio 24, 2008, 01:00:13 am 23/5/2008
PIETRO GARIBALDI Nel primo discorso da presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia ha chiaramente sostenuto che il Paese, nonostante le difficoltà economiche, è di fronte a un nuovo e irripetibile scenario. Il neopresidente ha anche elogiato i primi provvedimenti governativi in materia fiscale. A sua volta, il ministro dello Sviluppo economico ha annunciato il ritorno dell’Italia al nucleare, rispondendo quasi immediatamente a una delle richieste degli industriali. Sembra proprio un nuovo fidanzamento tra governo e industriali, lontano anni luce dalle critiche e distanze di questi ultimi tempi. Anche nei rapporti tra industriali e sindacati potrebbe aprirsi una fase nuova. Nelle scorse settimane le tre confederazioni sindacali hanno presentato un documento comune per la riforma del sistema contrattuale. Il presidente della Confindustria ha messo tra i primi posti nell’agenda del suo mandato la riforma dei contratti. Si tratta di un’importante assunzione di responsabilità. Così come le riforme istituzionali spettano al Parlamento, la riforma del sistema contrattuale spetta alle parti sociali. Per far ripartire la crescita, obiettivo prioritario di governo e parti sociali, occorre aumentare la produttività. Un passo decisivo in questa direzione sarebbe un nuovo sistema di relazioni industriali, in modo da rafforzare il legame tra salari e produttività a livello di singola azienda. È un modo per attrarre lavoratori nelle imprese che hanno maggiori potenzialità di crescita e per permettere un migliore inserimento nel mondo del lavoro di donne, giovani e immigrati. Legare salario e produttività aiuterebbe anche a ridurre la disoccupazione nel Mezzogiorno, dovuta anche a salari più alti che al Centro-Nord in rapporto alla produttività e al costo della vita. Le parti sociali, nei mesi passati, hanno spesso chiesto un intervento fiscale che facilitasse il decentramento della contrattazione. Non deve quindi stupire il pubblico riconoscimento dato da Confindustria e da una parte del sindacato al governo per la detassazione sugli straordinari e sulla parte variabile del salario. In realtà, la detassazione introdotta è un intervento di modesta portata, sperimentale e largamente simbolico. Il governo ha infatti inserito diversi vincoli alla sua attuazione. La detassazione non si applicherà agli individui che hanno percepito nel 2007 un reddito superiore ai 30 mila euro e avrà comunque un limite massimo di 3000 euro per ciascun individuo. Certamente non si è approvato un provvedimento che va verso la semplificazione legislativa, uno dei problemi strutturali del Paese. Con l’approvazione del decreto fiscale, ora è il momento delle parti sociali. Perché nonostante gli importanti segnali, le distanze esistono e sono sostanziali. Innanzitutto perché i sindacati assegnano ancora un peso rilevante alla contrattazione nazionale. In aggiunta, i sindacati ritengono che l’apertura al decentramento debba avvenire attraverso un rilancio della contrattazione territoriale. Viceversa, i rappresentanti dei datori di lavoro considerano la contrattazione territoriale un sistema controproducente, in quanto rischia di introdurre un terzo livello di negoziazione, oltre a quello nazionale e a quello di impresa. Il vero nodo riguarda il mondo delle piccole imprese, dove non sono presenti i sindacati e dove la contrattazione aziendale non può avere luogo. Come si può garantire un contratto legato alla produttività anche ai dipendenti delle piccole imprese senza appesantire il sistema di un terzo livello di negoziazione? Non è impossibile. Basterebbe stabilire a livello nazionale, settore per settore, una regola che leghi il salario all’andamento della produttività aziendale. Per quanto una regola di questo tipo possa apparire rigida, rappresenterebbe comunque un compromesso tra due posizioni altrimenti inconciliabili. La vera sfida per le parti sociali è davvero la riforma delle relazioni industriali. Il negoziato, che deve ancora entrare nel vivo, sarà lungo e faticoso. Un buon rapporto tra governo e parti sociali, come quello di questi giorni, dovrebbe aiutare a raggiungere un vero accordo e a concludere un’importante riforma. In palio vi è il recupero di produttività e il rilancio del Paese. pietro.garibaldi@carloalberto.org lastampa.it Titolo: PIETRO GARIBALDI Per evitare una vera depressione Inserito da: Admin - Settembre 03, 2008, 12:20:42 pm 3/9/2008
Sindacati, la doppia partita d'autunno PIETRO GARIBALDI Per i sindacati italiani l’autunno che abbiamo davanti si appresta a essere caldo. In gioco non è solo qualche rivendicazione salariale o qualche minaccia di sciopero. In gioco è invece il ruolo stesso dei sindacati nella società italiana dei prossimi anni. In questi giorni i sindacati sono infatti impegnati in due trattative molto diverse e molto delicate. Da un lato il negoziato sugli esuberi della ex Alitalia. Molti commentatori definirono una Caporetto del sindacato il giorno in cui Air France abbandonò la trattativa per l’acquisto di Alitalia. Vedremo come si svilupperà la nuova trattativa. Per la produttività del Paese è però più importante il secondo tavolo su cui sono in questi giorni impegnati i sindacati. È il tavolo della riforma del sistema contrattuale. Il sindacato ha l’occasione per dimostrare al Paese di essere una grande forza riformatrice. L’aumento estivo dell’inflazione e il rallentamento della crescita economica hanno posto la difesa del potere d’acquisto dei salari al centro delle preoccupazioni di milioni di lavoratori. La ripresa del negoziato tra le parti sociali è quindi certo una buona notizia. I dati sugli aumenti salariali fino a luglio sono fortunatamente confortanti. Anche grazie al rinnovo di alcuni importanti contratti dei servizi, l’aumento medio è risultato pari al 4,3%, poco superiore all’inflazione di agosto, confermata al 4%. Alla luce di questi dati, la vera emergenza non è la perdita del potere d’acquisto dei salari, quanto piuttosto la bassa crescita reale dei salari e dell’intera economia. Per contribuire al rilancio della produttività, sindacati e Confindustria si sono formalmente impegnati a concludere la riforma delle relazioni industriali entro il 30 settembre. All’inizio dell’estate alcuni passi avanti nel negoziato sono stati fatti, ma i due nodi del negoziato stanno venendo al pettine. Innanzitutto vi è il problema di quale livello di inflazione si deve prendere come base di riferimento per negoziare i futuri aumenti contrattuali. L’inflazione programmata all’1,7 per cento stabilita dal governo a luglio in sede di programmazione economica è oggettivamente irrealistica alla luce di un’inflazione effettiva stabilmente vicina al 4 per cento. Per superare lo stallo occorre guardare all’Europa e prendere come àncora di riferimento l’obiettivo di inflazione della Banca Centrale Europea, fissato al 2 per cento nei regolamenti ufficiali. Il secondo nodo del negoziato riguarda il peso da dare alla contrattazione aziendale. La Confindustria vorrebbe spostare la determinazione dei salari a livello di impresa in modo da legare salario e produttività in ogni azienda. I sindacati sono in principio d’accordo, ma molto più cauti. Da un lato sono preoccupati di perdere un ruolo di primo piano in tutte le scelte importanti del Paese. Da un altro lato, e in modo molto più condivisibile, sono preoccupati di tutelare i lavoratori delle piccole imprese dove non esiste una rappresentanza formale dei lavoratori. Il negoziato non sarà quindi facile. Il governo, dal canto suo, dovrebbe lavorare per un mercato del lavoro in cui le regole valgono per tutti i lavoratori, indipendentemente dalla dimensione dell’azienda e dal settore di provenienza. L’esecutivo ha scelto a giugno di detassare in via provvisoria gli straordinari e i recuperi di produttività. Personalmente considero questo provvedimento discutibile, anche perché non semplifica la contabilità e l’amministrazione aziendale e non va incontro alla necessità di aumentare l’offerta di lavoro femminile. La detassazione degli straordinari ha però trovato il consenso di tutte le parti sociali e rappresenta comunque una riduzione di pressione fiscale. Anche per facilitare il negoziato sulla riforma del sistema contrattuale, è opportuno che con la prossima finanziaria il governo chiarisca in via definitiva il destino di questo provvedimento. Per quanto discutibile, la detassazione degli straordinari rimane infatti un provvedimento che riguarda l’intera economia e gli interessi di milioni di lavoratori di piccole e grandi aziende. Il rilancio del Paese richiede davvero uno scatto d’orgoglio delle parti sociali. L’insuccesso delle due trattative in corso rischierebbe di portare il sindacato, già oggi in uno stato di chiara difficoltà, verso un lento e inesorabile declino. Uno scenario che non vorremmo nemmeno considerare. pietro.garibaldi@carloalberto.org da lastampa.it Titolo: PIETRO GARIBALDI Per evitare una vera depressione Inserito da: Admin - Ottobre 28, 2008, 07:47:56 pm 28/10/2008
Tra cassa e precari PIETRO GARIBALDI Mentre la Borsa continua a crollare, le preoccupazioni di tecnici e politici si spostano sull’economia reale. Dai mercati finanziari la crisi è infatti destinata a colpire le decisioni di imprese, consumatori e lavoratori. I primi segnali di crisi sono già evidenti, come testimoniato dal calo della produzione industriale e della forte riduzione della fiducia dei consumatori. Il repentino aumento del numero di imprese che accedono alla cassa integrazione, denunciato in questi giorni anche dal sindacato, rappresenta un ulteriore e significativo campanello d’allarme. Tra qualche mese inizieranno a vedersi i primi licenziamenti. Una priorità quasi assoluta dovrebbe quindi essere quella di riordinare gli ammortizzatori sociali. Con l’arrivo dei licenziamenti, i primi a essere colpiti saranno i circa quattro milioni di lavoratori precari. È inevitabile. Quando un contratto è a tempo determinato, per interrompere un rapporto di lavoro non è necessario passare per il licenziamento. È sufficiente che un’impresa non rinnovi il contratto alla scadenza. Lo stesso discorso, addirittura amplificato, si applica ai lavoratori impiegati con un contratto a progetto. Paradossalmente, i lavoratori che saranno più colpiti dall’arrivo della crisi appartengono a quella crescente fascia di lavoratori che già oggi hanno una retribuzione inferiore alla media e che non hanno accesso a ferie pagate e a maternità. Tutelare questi lavoratori dovrebbe essere una priorità. I lavoratori a tempo indeterminato delle grandi imprese sono in larga parte coperti. In caso di crisi aziendale, da una grande impresa si accede alla cassa integrazione straordinaria e, nel caso di licenziamento, si accede alle liste di mobilità, con protezione al reddito fino a tre anni. I sette anni di sostegno al reddito promessi ai lavoratori in esubero di Alitalia sono ancora sotto gli occhi di tutti. Certamente le risorse a disposizione del governo sono poche. È comprensibile che il ministro Sacconi cerchi di rifinanziare la cassa integrazione straordinaria e i cosiddetti settori in deroga (quei settori industriali che il Ministero ritiene di dover proteggere). È anche comprensibile che il segretario della Cgil Guglielmo Epifani ricordi le poche risorse a disposizione della cassa integrazione (ma al tempo stesso non dovrebbe dimenticarsi dei lavoratori precari). Nel Paese circa 4 milioni di lavoratori rischiano di diventare dei disoccupati senza alcuna forma di sostegno, o con al più un sussidio di disoccupazione ordinario inferiore a sei mesi. Non possiamo affrontare la recessione in arrivo con disoccupati di serie A e disoccupati di serie B, dove soltanto ai primi è concesso il privilegio di un sostegno al reddito. Il riordino degli ammortizzatori sociali dovrebbe quindi essere al centro dell’azione del governo. Agendo ora si può arrivare preparati in primavera, quando inevitabilmente arriveranno i primi licenziamenti. La legge delega per riformare gli ammortizzatori sociali esiste già e potrebbe diventare esecutiva in tempi brevi. L’Italia ha urgente bisogno di introdurre un sussidio unico di disoccupazione a cui si accede indipendentemente dal tipo di contratto con cui si è stati impiegati. Questo nuovo istituto dovrebbe ovviamente essere finanziato dai contributi versati da tutti i tipi di contratto, inclusi quelli a tempo determinato e a progetto. Si dovrebbe poi introdurre anche un meccanismo di bonus-malus, in modo da aumentare i contributi al fondo di disoccupazione per quelle imprese che lo utilizzano maggiormente. Si potrebbe inoltre anche decidere di aumentare i contributi assicurativi alle imprese che utilizzano i contratti a termine, in modo da disincentivarne l’uso generalizzato. Battersi per riforme di questo tipo giustificherebbe manifestazioni e cortei. Se ne parla invece pochissimo, forse semplicemente perché i lavoratori precari sono poco organizzati e poco a contatto con Partiti politici e sindacati confederali. pietro.garibaldi@carloalberto.org da lastampa.it Titolo: PIETRO GARIBALDI Per evitare una vera depressione Inserito da: Admin - Novembre 04, 2008, 06:04:07 pm 4/11/2008
Per evitare una vera depressione PIETRO GARIBALDI Dopo il crollo dei mercati finanziari dello scorso ottobre, non si deve più guardare al 1929, ma al 1933. Il fallimento della Lehman Brothers e la caduta della Borsa del 20% in un solo mese, sono catastrofi finanziarie paragonabili al crollo di Wall Street dell’ottobre del 1929. La vera sfida è ora evitare di passare dalla crisi finanziaria alla grande depressione. Il punto di riferimento è il 1933, l’anno in cui la disoccupazione negli Stati Uniti raggiunse il 25% (era intorno al 5% nel 1929) e il prodotto interno lordo arrivò a perdere il 50% del valore che aveva quattro anni prima. Abbiamo ottime possibilità di evitare una vera depressione. Le previsioni economiche pubblicate ieri dalla Commissione europea non sono certamente buone, ma non hanno nulla a che fare con uno scenario da depressione. Per l’Italia si prevede una crescita zero sia nell’anno in corso che nel 2009, con una prima ripresa già nel 2010. Rispetto al resto dell’Europa dei 15, rimarremo tra le economie più deboli, insieme con Spagna e Irlanda. Non può ovviamente bastare la lettura delle previsioni della Commissione europea per scongiurare uno scenario di depressione. La vera differenza tra la situazione di oggi e quella d’inizio degli Anni 30 è nelle scelte di politica economica. In quegli anni le autorità monetarie accumularono una serie imperdonabile di errori. Dopo il crollo della Borsa del 1929 la politica monetaria negli Stati Uniti si fece più restrittiva, con aumenti dei tassi d’interesse e riduzione della quantità di moneta in circolazione. La corsa agli sportelli e i fallimenti di diverse banche furono la tragica conseguenza di quegli errori. A differenza di allora, la risposta delle autorità di politica economica è stata in queste settimane imponente. Negli Stati Uniti si è approvata una misura di sostegno al sistema finanziario per 700 miliardi di dollari e numerose istituzioni, sull’orlo del fallimento, sono state nazionalizzate. In quasi tutti i Paesi europei le banche sono state ricapitalizzate. Anche in Italia vi è stata una disponibilità immediata dello Stato a entrare nel capitale delle banche e in questi giorni è allo studio un nuovo provvedimento. Anche la politica monetaria si è mossa in senso opposto a quanto accadde negli Anni 30. La Federal Reserve americana ha nuovamente abbassato i tassi di interesse dello 0,5% la scorsa settimana; la Banca Centrale Europea ha già ridotto i tassi d’interesse e gli operatori si aspettano un’ulteriore riduzione per questa settimana. Sommando tutti questi provvedimenti, lo scenario di lieve recessione previsto dalla Commissione europea appare sia ragionevole che condivisibile. Data l'entità del crollo finanziario, se effettivamente nel 2010 avremo già la ripresa, possiamo interpretare le previsioni della Commissione europea come una buona notizia. Tuttavia, se continuiamo a paragonare la situazione dei giorni nostri con i tragici Anni 30, dobbiamo evidenziare un’importante differenza. Nel 1932, dopo la serie di errori sopra descritti, con l’elezione di Roosevelt alla Casa Bianca gli Stati Uniti diedero luogo a un immenso programma di spesa pubblica e una crescita massiccia dello Stato sociale. Un programma di quella portata, anche se domani dovesse vincere Barack Obama, non è più realizzabile per l’aumento del debito pubblico americano. Un grosso aumento di spesa pubblica non è certamente realizzabile nel nostro Paese. L’aumento del differenziale tra i tassi sul nostro debito pubblico e quello tedesco, un fenomeno osservato in questi giorni, è un campanello di allarme per ricordarci quanto la situazione dei nostri conti pubblici sia delicata e quanto irrealizzabile sia, nel nostro Paese, un grande aumento di spesa pubblica. Lo scontro di questi giorni tra il ministro dell’Economia, intento a difendere i conti pubblici, e i vari ministri della spesa non è un bello spettacolo. L’Italia ha una serie di problemi strutturali, nella pubblica amministrazione, nel sistema fiscale, nel mercato del lavoro, nel sistema educativo che tutti conoscono. Se in Europa si deciderà di permettere ai Paesi di sforare temporaneamente il 3% di disavanzo, è bene che in Italia lo si faccia solo ed esclusivamente per risolvere i problemi strutturali. Perché al di là della crisi i problemi strutturali dell’Italia ci sono e devono essere risolti. I più urgenti sono il riordino degli ammortizzatori sociali e una completa riforma della scuola. pietro.garibaldi@carloalberto.org da lastampa.it Titolo: PIETRO GARIBALDI Impossibile accontentare tutti Inserito da: Admin - Novembre 25, 2008, 12:34:23 pm 25/11/2008
Impossibile accontentare tutti PIETRO GARIBALDI Questa settimana il Consiglio dei ministri si appresta a varare un pacchetto di misure economiche per sostenere il Paese durante la recessione. L'insieme di interventi è stato ieri sera illustrato a Palazzo Chigi dal governo alle parti sociali. In momenti difficili e con poche risorse a disposizione, cercare di accontentare tutti è impossibile. Sarebbe forse meglio scegliere una o due priorità da portare avanti con determinazione. Dall'incontro di ieri sembra invece che il governo, nonostante l'enfasi sugli aiuti alle famiglie più povere, stia cercando di distribuire poche risorse tra tutte le parti sociali. È una strategia che rischia di rivelarsi inefficace. Il governo pare intenzionato a mettere a disposizione circa 4 miliardi di euro tra riduzione d’imposte e aumenti di spesa pubblica. Una cifra indubbiamente modesta, pari a meno di quanto produce il Paese in un giorno qualsiasi. Per le finanze pubbliche significa portare il disavanzo del 2009 leggermente sopra il 3%. Uno stimolo di queste dimensioni non potrà certamente invertire lo scenario macroeconomico italiano, che rimarrà quindi negativo per tutto il 2009 Dal punto di vista qualitativo, il governo sta cercando di aiutare sia i lavoratori che le imprese. Alle famiglie meno abbienti verranno destinati circa 1,2 miliardi di euro; alle imprese circa 2 miliardi di euro e alla riforma degli ammortizzatori fino a 1 miliardo. Più in dettaglio, le famiglie meno abbienti riceveranno immediatamente, e forse già prima di Natale, un assegno tra i 150 e gli 800 euro. Se effettivamente queste risorse saranno assegnate in contanti, si potranno trasformare immediatamente in consumi. Tuttavia sembra anche che gli aiuti saranno una tantum, nel senso che non verranno ripetuti in futuro. In una situazione di grande incertezza e in mezzo a una recessione, gli aumenti straordinari e non rinnovabili di reddito disponibile rischiano di trasformarsi in un aumento del risparmio, senza alcun beneficio sulla capacità di spesa degli italiani. Gli altri aiuti alle famiglie sono tutti di modesta entità. Guardando al mondo delle imprese, il governo pare invece intenzionato a prorogare il bonus sugli straordinari. In altre parole, intende prorogare per tutto il 2009 l’aliquota sostitutiva al 10% per gli straordinari e il premio di produttività. Questa misura era stata introdotta nella scorsa primavera con il plauso di tutte le parti sociali. La situazione economica è però totalmente cambiata. Innanzitutto, durante la recessione l’uso dello straordinario diminuisce in modo significativo. Inoltre, il provvedimento era in gran parte legato alla riforma del modello contrattuale da portare a termine dalle parti sociali stesse. Sappiamo bene che quella riforma è attualmente in mezzo al guado e non si vede quindi l’urgenza di confermare un sostegno a una riforma che non arriva. Tra le altre azioni in aiuto alle imprese spicca la riscossione dell’Iva per cassa, molto gradita alle piccole imprese e probabilmente appropriata in un momento di scarsa liquidità. Le aggiuntive risorse destinate alle infrastrutture corrispondono invece a semplici, ma importanti, smobilizzi di risorse già stanziate in passato. Con le poche risorse a disposizione, la vera priorità del Paese sarebbe stata quella di una vera e propria riforma degli ammortizzatori sociali. La Cgil ha in questi giorni stimato che circa mezzo milione di lavoratori perderanno il lavoro entro Natale. Con più di tre milioni e mezzo di lavoratori precari, si tratta di una stima ragionevole. Inoltre, è molto probabile che molti di questi contratti avranno una scadenza naturale associata alla fine dell’anno. La maggior parte dei lavoratori atipici, e in particolare i lavoratori a termine e quelli a progetto con un solo contratto, rischiano d’iniziare l’anno senza il rinnovo del loro contratto e senza alcuna forma di sostegno al reddito. Una situazione inaccettabile. I lavoratori più a rischio, con l’arrivo della recessione, sono proprio i precari. Sarebbe quindi necessario introdurre un sussidio unico di disoccupazione applicabile a tutti i tipi di contratto, includendo anche i lavoratori a progetto con un solo contratto e una sola fonte di reddito. Questo sussidio dovrebbe essere finanziato da un contributo fiscale applicabile su tutti i contratti. Sarebbe una riforma strutturale, cosa di cui l’Italia ha sempre bisogno, come ci ha ricordato in modo impietoso la classifica sulla competitività elaborata ieri dall’Economist. Rimarrebbe peraltro il problema di come finanziare il sussidio di disoccupazione da destinare al mezzo milione di potenziali nuovi disoccupati. I quattro miliardi di euro di cui abbiamo parlato basterebbero certamente. Per fare una riforma di questo tipo servirebbero però coraggio e capacità d’individuare priorità, qualità che non abbiamo visto ieri sera nell’incontro tra governo e parti sociali. pietro.garibaldi@carloalberto.org da lastampa.it Titolo: PIETRO GARIBALDI Manovra, primo passo Inserito da: Admin - Dicembre 03, 2008, 08:32:27 am 3/12/2008
Manovra, primo passo PIETRO GARIBALDI La politica economica europea è apparsa in questi giorni alquanto confusa. Al tradizionale incontro autunnale tra ministri delle Finanze, i principali Paesi europei si sono presentati in ordine sparso. Da un lato la Francia e l’Inghilterra spingevano per una politica economica europea di tagli fiscali e imponenti aumenti di spesa pubblica. Dall’altra parte la Germania ha invece confermato la sua tradizionale posizione rigorista, mostrandosi totalmente contraria a un massiccio rallentamento dei vincoli di Maastricht e a grandi iniziative fiscali su scala europea. Ciò che è uscito dall’incontro è quindi solo un mezzo tentativo di dar vita a una vera e propria politica economica europea e un’autorizzazione ai singoli Paesi a sforare, seppure temporaneamente, i vincoli di Maastricht. In questa confusione il governo italiano non ha trovato opposizioni al decreto anticrisi approvato dal nostro Consiglio dei ministri la scorsa settimana. Il provvedimento del governo porterà il disavanzo dell’Italia nel 2009 leggermente sopra il 3 per cento. Uno sforamento considerato accettabile in sede europea, nonostante il debito pubblico italiano continui a essere ben superiore al prodotto interno lordo. Mentre il ministro dell’Economia Tremonti è riuscito a difendere il quadro italiano di finanza pubblica, gli interventi proposti non saranno certamente sufficienti a contrastare una crisi galoppante. Come stimato in questi giorni su lavoce.info, entro il prossimo dicembre scadranno circa 300 mila contratti a termine e la maggior parte di questi lavoratori non avrà alcuna protezione, al di là dei simbolici 60 euro al mese approvati la scorsa settimana. In aggiunta, i quaranta euro mensili promessi dalla Social card sono troppo pochi e quasi certamente non andranno ai lavoratori precari. Il ministero dell’Economia ieri ha poi confermato che il blocco delle tariffe previsto dal decreto non riguarda gas, luce e autostrade, come erroneamente descritto da molti nei giorni passati. Gettando lo sguardo su un orizzonte più ampio, la Cisl sempre ieri ha stimato che nei prossimi 12 mesi quasi un milione di lavoratori rischierà di perdere il proprio lavoro. Con 4 milioni di lavoratori precari e la maggior parte delle grandi aziende in crisi, la stima del sindacato appare ragionevole. In un quadro che appare davvero difficile, un filo di speranza può venire a questo punto solo dalla politica monetaria. A novembre i prezzi al consumo sono addirittura diminuiti e il petrolio sta continuando la sua corsa al ribasso. Più che di inflazione, molti economisti in Europa iniziano a preoccuparsi di deflazione, una situazione in cui i prezzi al consumo diminuiscono in modo generalizzato. In queste condizioni, la Banca Centrale Europea non avrà più alibi per astenersi dal ridurre ulteriormente e in modo significativo i tassi d’interesse europei. La loro riduzione di un punto, già dall’incontro di giovedì prossimo, potrebbe rappresentare un importante stimolo al sistema economico europeo e italiano, stimolo che purtroppo non potrà venire dal pacchetto fiscale approvato lo scorso venerdì. Le munizioni a disposizione della politica economica sono purtroppo poche, ma lo spazio di manovra della Banca Centrale Europea ci lascia un filo di speranza. In un contesto economico chiaramente difficile, la speranza potrebbe generare fiducia, con possibili effetti positivi sulla capacità di spesa degli italiani. Se anche queste munizioni dovessero invece sparare a salve, i colpi in canna rimarrebbero davvero pochi. pietro.garibaldi@carloalberto.org da lastampa.it Titolo: PIETRO GARIBALDI Non è un paese per giovani Inserito da: Admin - Dicembre 12, 2008, 11:42:25 am 12/12/2008
Non è un paese per giovani PIETRO GARIBALDI Lo sciopero generale indetto oggi dalla Cgil riflette un’immagine vecchia del Paese. Sia ben chiaro, lo sciopero è e deve rimanere uno dei diritti fondamentali dei lavoratori, tutelato dalla stessa Carta Costituzionale. Ma le manifestazioni di stamane per rivendicare maggiori risorse ai pensionati, una nuova politica dei redditi e più infrastrutture daranno un’immagine del Paese da Anni Settanta. Serve di più al Paese uno sciopero generale indetto da uno solo dei sindacati o una grande iniziativa congiunta per risolvere davvero il problema del precariato? Io non ho dubbi. Invece di uno sciopero vecchio vorrei vedere una durissima, ma nuova, mobilitazione del Paese per dare davvero un ammortizzatore sociale a tutti i lavoratori precari e al tempo stesso introdurre un nuovo contratto di lavoro a tutela crescente. Le soluzioni tecniche ci sono e i sindacati lo sanno benissimo, ma evidentemente preferiscono utilizzare la logica del «più» e «subito». La mancanza di una mentalità da giovane la si trova non solo tra i sindacati, ma anche in alcune scelte governative. Imporre limiti più elevati e rigorosi alle emissioni inquinanti avrà certamente dei costi nel breve periodo. Questi costi saranno più alti per Italia e Germania, due Paesi con una quota di industrie inquinanti superiore alla media europea. Ma i benefici nel lungo periodo saranno certi. Si avrà un’aria più pulita e si potrà anche sprigionare la corsa a investire risorse e talenti in nuovi settori emergenti, quali quelli della diffusione delle fonti rinnovabili. La minaccia del governo italiano di porre il veto al vertice europeo sulle emissioni inquinanti riflette la paura e la mancanza di voglia di investire nel futuro. Anche nella stessa università, il luogo dove si formano i giovani e i cervelli di domani, sembra prevalere troppo spesso la mentalità dei meno giovani. Distribuire le risorse statali tra le università in base alla qualità della ricerca, invece che soltanto in base al numero degli studenti come avviene oggi, richiederebbe per molti atenei dei costi nel breve periodo. Tuttavia i benefici nel lungo periodo per il Paese, in termini di aumento della ricerca prodotta dalle nostre università, dovrebbero essere chiari a tutti. Eppure fino ad ora questa riforma non è stata fatta, anche se a parole sembrano tutti favorevoli. Il Paese è ormai in una vera e propria recessione. I dati diffusi ieri dall’Istat ci hanno confermato che nel terzo trimestre dell’anno la produzione in Italia si è ridotta dell’uno per cento. La recessione può anche essere il momento delle grandi ristrutturazioni, come ci ha insegnato Schumpeter. L’Italia ha spesso dimostrato che nei momenti peggiori riesce a fare le cose più impensabili. pietro.garibaldi@carloalberto.org da lastampa.it Titolo: PIETRO GARIBALDI La buona parità Inserito da: Admin - Dicembre 14, 2008, 12:21:35 pm 14/12/2008
La buona parità PIETRO GARIBALDI Gli interventi legislativi sul mercato del lavoro devono evitare discriminazioni basate sulle differenze di sesso. Nell’attuale sistema pensionistico l'età pensionabile si raggiunge per gli uomini circa cinque anni dopo le donne. L'obiettivo di ridurre queste disuguaglianze è condivisibile e si deve pertanto avere il coraggio di correggere queste differenze. Un intervento di questo tipo non può e non deve invece essere giustificato dalla necessità di fare cassa, ma deve essere inserito in un più ampio progetto di riforma. I difensori di un’età pensionabile inferiore per le donne ricordano che queste hanno quasi sempre una vita lavorativa discontinua, interrotta da lunghi periodi di maternità. Dunque è necessario compensare le donne. È un ragionamento sbagliato. Le interruzioni legate alla necessità di crescere i figli devono essere compensate con programmi di protezione. Gli interventi legislativi non devono avere nulla a che fare con una diversa età pensionabile. In Italia il sostegno alla maternità, sommando quella volontaria e quella obbligatoria, è quantitativamente adeguato. Il vero problema è un altro: i periodi di maternità sono goduti quasi sempre dalle madri e quasi mai dai padri. Una coppia moderna dovrebbe dividersi i periodi di assenza. Bisognerebbe uguagliare l’età pensionabile e incentivare gli uomini a prendere la paternità, non regalare alle donne 5 anni di pensione in più. La proposta di Brunetta dovrebbe essere accompagnata da un incentivo fiscale alla paternità, come da tempo suggerito da Boeri e Galasso. A favore dell’adeguamento dell’età vi è poi un fattore demografico. Le donne hanno una speranza di vita superiore: a parità di età pensionabile una donna godrà della pensione per più anni. Se dovessimo prendere seriamente questa differenza, sarebbe paradossalmente necessaria un’età pensionabile superiore per le donne. L’ostilità dei sindacati alla proposta Brunetta è esagerata. Sappiamo che quasi metà degli iscritti al sindacato sono pensionati, e che i sindacati difendono i loro iscritti. Sostengono che ogni cambiamento dell’età deve avvenire sulla base d’incentivi, non imposto per legge. Insomma, si dovrebbero offrire benefici alle donne che rimangono al lavoro oltre l’età pensionabile attuale. Gli incentivi sono già stati sperimentati dal governo di centrodestra a inizio decennio. Abbiamo imparato che rischiano spesso di trasformarsi in un regalo a chi avrebbe comunque continuato a lavorare. La tendenza all’uguaglianza tra uomini e donne è tra l’altro un fenomeno europeo. In Germania è già avvenuta, in Francia Sarkozy l’ha annunciata. È anche vero che quando la transizione verso il sistema a capitalizzazione sarà completata, ciascuno andrà in pensione quando vorrà. Ma la transizione durerà più di 15 anni. L’innalzamento dell’età pensionabile dovrebbe comunque essere graduale. L’uscita dal lavoro è una decisione molto delicata, e i cambiamenti richiedono un il giusto tempo di reazione. Un aumento di un anno nei prossimi cinque sarebbe già uno scalino ripido. Nello stesso tempo, si dovrebbe però introdurre l’incentivo alla paternità. Sarebbe un segnale credibile di voler davvero ridurre le disuguaglianze. pietro.garibaldi@carloalberto.org da lastampa.it Titolo: PIETRO GARIBALDI I conti in rosso Inserito da: Admin - Gennaio 04, 2009, 10:29:17 am 4/1/2009
I conti in rosso PIETRO GARIBALDI Il Fondo Monetario Internazionale, tradizionalmente visto come il paladino della finanza pubblica rigorosa, ha recentemente esortato in modo ufficiale i singoli paesi ad affrontare la recessione con una politica fiscale espansiva. In altre parole, ha chiesto ai singoli ministri delle Finanze di ridurre le tasse o di aumentare la spesa pubblica, in modo da contrastare gli effetti della recessione. Rispetto all’impostazione tradizionale del Fondo Monetario, si tratta indubbiamente di un’importante novità, probabilmente influenzata dalla visione del suo direttore francese. Ad ogni modo, l’esortazione del Fondo aiuta a comprendere quanto la crisi in atto sia seria e pericolosa. Da una prima lettura dei dati del fabbisogno di cassa del settore statale, si potrebbe pensare che in Italia sia oggi in atto una politica fiscale espansiva. Rispetto al 2007, il fabbisogno di cassa del tesoro ha quasi raggiunto i 53 miliardi di euro, un livello doppio rispetto al fabbisogno registrato nel 2007. Il peggioramento era in parte atteso, anche se per trovare un livello di fabbisogno simile si deve tornare al 2005, l’anno in cui l’Italia iniziava la procedura di infrazione con Bruxelles. Alla luce di questi primi dati di cassa, è molto probabile che già nel 2008 l’Italia finirà per registrare un disavanzo intorno al 3 per cento, anche se per avere il dato definitivo, quello che riguarda l’intera pubblica amministrazione e quindi rilevante ai fini dei parametri del patto di stabilità, occorrerà aspettare fino a marzo. Più che per scelte precise di politica economica, il peggioramento in atto è però frutto della crisi economica. I conti pubblici italiani e il gettito fiscale in particolare, sono molto sensibili all’andamento del ciclo economico. Tra il 2007 e il 2008 la crescita economica è passata dal 1,5 per cento a una probabile zero per cento, una diminuzione ben superiore alle aspettative. Con una struttura della spesa pubblica che è quasi indipendente dal ciclo economico, il disavanzo italiano peggiora sempre quando l’attività economica rallenta e le entrate diminuiscono. Rispetto al monito del Fondo monetario internazionale, è però difficile sostenere che l’Italia abbia davvero messo in atto una politica fiscale espansiva. Il ministro dell’Economia ha durante l’autunno più volte respinto le richieste dei ministri della spesa. Gli stessi interventi inseriti nel decreto fiscale sono stati indubbiamente di modesta entità. Guardando al 2009, il vero rischio è che l’Italia si trovi con una situazione dei conti pubblici delicata senza aver davvero messo in atto una politica fiscale espansiva. Certamente in Italia non è stato approvato un imponente stimolo fiscale, con significativi tagli di imposte e importanti decisioni in materia di infrastrutture, al di là della decisione di accelerare la messa in cantiere di opere pubbliche già approvate. Allo stesso tempo, tuttavia, non possiamo sostenere che in Italia vi sia stata una politica fiscale davvero rigorosa. I meccanismi principali della spesa non sono stati riformati, nonostante il governo abbia già approvato un quadro pluriennale di finanza pubblica. Il 2009 si presenta quindi come un anno non facile. La recessione è destinata a intensificare e conseguentemente l’andamento delle entrate fiscali peggiorerà ulteriormente. Inoltre, i provvedimenti di sostegno all’economia approvati a novembre del 2008 produrranno i loro effetti nel 2009, peggiorando ulteriormente il disavanzo pubblico. Infine, il differenziale tra gli interessi del nostro debito pubblico e quelli sul debito tedesco continua a essere superiore ai 100 punti base, un livello mai raggiunto negli anni passati. Questo differenziale nei tassi di interesse ci aiuta a ricordare quanto pericoloso e imponente sia davvero il nostro debito pubblico. Siamo così in mezzo al guado, con un peggioramento dei conti pubblici in corso senza aver messo in atto vere e proprie politiche espansive. Ci aspettiamo quindi che nei primi mesi dell’anno la rotta di politica economica italiana diventi più chiara, anche perché i problemi e le debolezze della nostra finanza pubblica sono ancora tutti da risolvere. pietro.garibaldi@carloalberto.org da lastampa.it Titolo: PIETRO GARIBALDI Al lavoro per punire l'azienda Inserito da: Admin - Febbraio 26, 2009, 03:34:10 pm 26/2/2009
Al lavoro per punire l'azienda PIETRO GARIBALDI L’ultimo sciopero dei dipendenti della vecchia Alitalia, nei giorni in cui l’azienda si trovava in amministrazione straordinaria e a un passo dalla bancarotta, aveva suscitato indignazione nell’opinione pubblica. Senza nemmeno i fondi per pagare i carburanti, la vecchia Alitalia perdeva di più quando gli aerei volavano rispetto a quando gli aerei restavano fermi. In quelle condizioni, è evidente che l’interruzione del servizio non reca alcun danno economico alla controparte aziendale, ma reca invece un ingente danno a tutta la collettività. L’indignazione dell’opinione pubblica era effettivamente giustificata. Questa situazione paradossale, in cui lo sciopero finisce per recare un beneficio economico a un’azienda in perdita, è purtroppo una realtà molto diffusa in tutti gli scioperi dei trasporti pubblici essenziali, siano essi aerei, treni e servizi pubblici locali. Queste aziende operano strutturalmente in perdita e i loro bilanci spesso finiscono per migliorare grazie a un giorno di sciopero. L’elemento paradossale dello sciopero dei trasporti pubblici è proprio legato al fatto che il danno associato alla scelta dei lavoratori finisce per essere subìto interamente dagli utenti e dai consumatori, soggetti che non hanno nulla a che fare con il tavolo delle trattative aziendali. A causa di queste anomalie, lo sciopero nei trasporti pubblici essenziali in Italia ha finito per essere uno dei più clamorosi esempi in cui il diritto di sciopero, che rimane un diritto fondamentale di ciascun lavoratore, ha perso in larga parte il significato originale, quello di causare un danno al datore di lavoro. Per mantenere il diritto di sciopero dei lavoratori, e al tempo stesso risolvere il paradosso, lo sciopero dovrebbe essere virtuale, nel senso che lo sciopero dovrebbe effettivamente essere proclamato, ma i lavoratori dovrebbero andare regolarmente a lavorare per garantire il servizio ai cittadini. In quest’ottica, è un fatto positivo che la bozza di disegno di legge delega sulla regolamentazione dei trasporti, che sarà presto esaminata dal Consiglio dei ministri, contenga un riferimento ben preciso allo sciopero virtuale. L’idea dello sciopero virtuale, lanciata alcuni anni fa da Pietro Ichino su lavoce.info, può davvero funzionare in modo semplice. I lavoratori in sciopero virtuale rinunciano effettivamente al loro stipendio e l’azienda, allo stesso tempo, paga il doppio o il triplo del costo del lavoro a un fondo per opere pubbliche. In questo modo l’azienda incorrerebbe davvero in un danno e i cittadini vedrebbero davvero garantito il loro servizio. Ci vorranno certamente mesi prima che in Italia si abbia uno sciopero virtuale e l’opposizione dei sindacati sarà probabilmente dura. Un secondo elemento paradossale dello sciopero dei trasporti pubblici è il fatto che molto spesso tali scioperi vengono proclamati da sindacati con pochissima rappresentatività in azienda. In queste condizioni, pochi lavoratori di un’azienda di trasporto locale possono bloccare un’intera città. Per evitare questi paradossi, la legge delega contiene un elemento importante, in quanto sostiene che per proclamare uno sciopero nei trasporti sarà necessario un referendum consultivo preventivo obbligatorio. L’unica eccezione è quella che si tratti di sindacati che hanno più del 50% di rappresentatività. È molto probabile che su questa norma vi sia il parere positivo della Cgil, il sindacato largamente più importante sul luogo di lavoro. Sia lo sciopero virtuale che il criterio di rappresentatività per la proclamazione dello sciopero rappresentano elementi essenziali per un sistema di relazioni industriali più moderno nel campo dei servizi pubblici. La strada da fare perché tutto ciò diventi legge dello Stato e che venga poi attuata regolarmente è però ancora lunga. Dalla bozza di legge delega alla fine di «aquila selvaggia» manca certamente molto tempo, ma un passo avanti importante è stato fatto. pietro.garibaldi@unito.it da lastampa.it Titolo: Pietro GARIBALDI. L'occasione di Epifani Inserito da: Admin - Aprile 05, 2009, 11:16:40 am 4/4/2009
L'occasione di Epifani La manifestazione di oggi della Cgil al circo Massimo non sarà come quella di un radioso sabato primaverile di sette anni fa, quando Sergio Cofferati riunì a Roma più di tre milioni di lavoratori in difesa dell’articolo 18 dello statuto dei lavoratori. Anche allora Berlusconi era presidente del Consiglio e la situazione economica, sei mesi dopo l’11 settembre, non era certamente favorevole. La situazione economica attuale è molto peggiore di quella del 2002. La manifestazione di oggi avviene però in un momento in cui il maggior sindacato italiano è in un angolo, isolato dal Governo e dagli altri sindacati confederali e con un ambiguo rapporto con il principale partito dell’opposizione. Guglielmo Epifani, nel suo discorso al Circo Massimo, dovrebbe avere la forza e il coraggio di uscire dall’angolo, di rilanciare un progetto riformista e di dare una vera svolta alla politica sindacale italiana. La situazione economica è oggettivamente difficile. Questa settimana alla riunione del G20 sul lavoro anche il presidente del Consiglio ha ammesso che nei prossimi mesi la situazione del mercato del lavoro potrebbe notevolmente peggiorare. In realtà, il tasso di disoccupazione ha tutto sommato tenuto, segnando un leggero aumento da 6,7 a 6,9 percento a fine del 2008. Nel primo trimestre del 2009 si è però registrato un grande aumento della cassa integrazione e per qualche mese ancora non conosceremo esattamente i dati relativi al primo trimestre dell’anno in corso, quando centinaia di migliaia di lavoratori precari potrebbero essere diventati disoccupati a causa di un contratto a termine scaduto a fine anno. Nonostante il contesto economico avverso, la situazione dei tre sindacati confederali non potrebbe essere più tesa. A gennaio il Governo ha firmato un protocollo sul nuovo modello contrattuale, destinato ad aumentare il peso della contrattazione di secondo livello, senza l’accordo della Cgil. Il rinnovo dei prossimi contratti rischia di avvenire in una situazione caotica, con la Cgil che negozia secondo la vecchia piattaforma mentre gli altri sindacati seguono il protocollo firmato a gennaio. L’isolamento della Cgil ha poi subito un ulteriore colpo la scorsa settimana. I lavoratori della Piaggio, attraverso un vero e proprio referendum sul posto di lavoro, hanno accettato a maggioranza la proposta di accordo integrativo, nonostante il parere contrario dei metalmeccanici della Cgil. Per determinare l’esito del referendum pare sia stato decisivo il voto dei lavoratori precari. Il risultato della Piaggio è davvero una Caporetto, perché la forza della Cgil si è sempre basata sulla presunzione di rappresentare la maggioranza dei lavoratori. Anche nel rapporto con l’opposizione, e con il partito democratico in particolare, la situazione del maggior sindacato è difficile. Insieme ai lavoratori sfileranno oggi alcuni degli ex democratici di sinistra, mentre non vi è un appoggio esplicito del partito democratico, anche se il segretario Dario Franceschini ha deciso all’ultimo di partecipare alla manifestazione. Molto probabilmente nel discorso di oggi Guglielmo Epifani chiederà più lavoro, più salari e più assistenza sociale. Un discorso e una rivendicazione di quel tipo non serviranno però a smuovere la Cgil dall’isolamento in cui si trova. Una strategia alternativa ci sarebbe. Questa settimana, il senatore Ichino, insieme a 30 senatori di maggioranza e opposizione, ha presentato un ampio progetto di riforma del mercato del lavoro che riguarda sia il meccanismo di entrata nel mercato che una riforma degli ammortizzatori sociali. L’ampio progetto di riforma incorpora, tra l’altro, l’idea del contratto unico a tutela progressiva per tutti i nuovi assunti, un’idea discussa e proposta su queste colonne e su lavoce.info da diversi anni. La Confindustria ha già appoggiato ufficialmente quella proposta. Il ministro Sacconi ha invece espressamente detto che, qualora ci fosse un’ampia convergenza delle parti sociali, sarebbe più che disposto a confrontarsi sul progetto di riforma. Se invece di chiedere solo lavoro e salari, Guglielmo Epifani mostrasse grande apertura verso il contratto unico, si potrebbe davvero aprire una nuova fase nel clima sociale del Paese. Sarebbe anche un segnale che, nei momenti di crisi, il Paese sa ancora compiere le riforme più difficili. Pietro.garibaldi@unito.it da lastampa.it Titolo: PIETRO GARIBALDI La grande occasione dell'euro Inserito da: Admin - Aprile 27, 2009, 11:36:59 am 27/4/2009
La grande occasione dell'euro PIETRO GARIBALDI Nonostante vi sia qualche primo e importante segnale di schiarita legato al rialzo delle borse, la riunione autunnale del Fondo monetario internazionale è avvenuta durante la «peggior recessione dell’economia mondiale», come esplicitamente riconosciuto dagli economisti di Washington. Fortunatamente, gli osservatori internazionali sono ormai convinti che quella che stiamo vivendo sarà ricordata come la grande recessione, ma non dovrebbe avere nulla a che fare con la grande depressione degli Anni Trenta. La ripresa dell’economia è prevista a partire dal 2010 e in Europa già dal quarto trimestre di quest’anno. Con l’arrivo della ripresa, il nuovo panorama finanziario internazionale sarà caratterizzato da una forte riduzione del peso del dollaro. La stabilità dell’euro rappresenta una grande opportunità per l’Europa e vi sono le condizioni affinché l’euro diventi la moneta di riferimento del sistema mondiale. In altre parole, l’Europa potrebbe uscire dalla crisi molto più forte di come vi è entrata. L’economia americana è afflitta da un eccesso di debito. Gli imponenti interventi del Tesoro degli Stati Uniti a difesa del sistema finanziario hanno certamente permesso alla banche americane di sopravvivere, ma vi è stato un trasferimento di vecchio debito privato in nuovo debito pubblico. Ciò nonostante, l’eccesso di debito Usa non è ancora stato eliminato. Se effettivamente l’economia mondiale riuscirà a superare lo spettro della grande depressione, molto lo si dovrà all’imponente azione di politica monetaria. Nei mesi passati le banche centrali di tutto il mondo hanno ridotto in modo aggressivo il costo del denaro. La Federal Reserve, la banca centrale americana, è arrivata addirittura a prestare denaro a costo zero, il limite più basso a cui si possa arrivare. Anche i tassi di interesse in Europa sono diminuiti in modo sostanziale, ma la Banca Centrale Europea ha per ora evitato di arrivare a prestare denaro a costo zero. Il tasso di riferimento in Europa è oggi pari a 1,25% e il Governatore Trichet ha escluso che in Europa vi sia la necessità di abbassare i tassi di interesse fino allo zero. Come ha anche suggerito questa settimana Martin Feldstein sulle colonne del Financial Times, la politica monetaria americana di denaro a costo zero avrà importanti conseguenze con l’arrivo della ripresa. La più ovvia si chiama inflazione. Una volta che la domanda riprenderà fiato, l’eccesso di moneta in circolazione non potrà che trasformarsi in inflazione. In aggiunta, attraverso l’aumento dei prezzi, l’economia americana riuscirà in parte anche a ridurre il problema dell’eccesso di debito. L’inflazione è un modo forse odioso ma comunque efficace per ridurre il valore reale del debito, dal momento che la restituzione del debito avviene con una moneta dal potere d’acquisto molto inferiore a quello che aveva nel momento in cui il debito stesso è stato contratto. Questa futura grande inflazione americana avrà conseguenze globali. Pensiamo innanzitutto alla Cina. La banca centrale cinese ha oggi circa duemila miliardi di dollari di riserve in valuta estera. Il 70% di queste sono denominate in dollari. Se effettivamente avremo in futuro una grande inflazione americana, le banche centrali asiatiche rischiano di subire ingenti perdite nel valore delle proprie riserve estere. Un’ovvia possibilità per le autorità monetarie cinesi sarebbe quella di sostituire le riserve denominate in dollari con titoli finanziari denominati in euro. È questa la grande occasione per l’Europa. La condizione necessaria affinché ciò avvenga è però la stabilità dell’euro. Bene quindi ha fatto in questi giorni il Governatore Trichet a escludere che l’Europa adotterà nei prossimi mesi una politica di zero tassi di interesse. Mantenendo una politica monetaria rigorosa, non vi sarà una grande inflazione europea. Ovviamente, anche in Europa la recessione è profonda e ulteriori interventi di politica economica potrebbero essere necessari. Se la crisi nei prossimi mesi dovesse peggiorare, meglio sarebbe che i governi europei si coordinassero per interventi di riduzioni di tasse o investimenti pubblici, piuttosto che ricorrere a una politica di zero tassi di interesse. L’occasione di vedere il vecchio continente al centro del sistema finanziario mondiale dei prossimi anni è troppo grande per lasciarsela scappare. È vero che questo favorevole scenario per l’Europa si apre più che altro per la debolezza americana. Ma la nascita dell’euro nel 1999 fu un miracolo di politica economica e la sua stabilità di oggi è una vera e propria virtù europea. pietro.garibaldi@unito.it da lastampa.it Titolo: PIETRO GARIBALDI Il fardello pensioni Inserito da: Admin - Maggio 17, 2009, 12:12:44 am 16/5/2009
Il fardello pensioni PIETRO GARIBALDI Dalle previsioni di recessione siamo passati alle statistiche ufficiali. L’Istat ha ieri certificato che il primo trimestre dell’anno in corso ha registrato una riduzione del prodotto interno lordo su base annua pari a quasi il 6%. A questo punto è molto probabile che il 2009 sarà ricordato come il peggior anno della storia repubblicana. Alcuni settori dell’economia stanno utilizzando la recessione per mettere in atto imponenti ristrutturazioni. L’industria automobilistica è forse il miglior esempio di come la recessione rappresenti il momento opportuno per mettere in atto grandi riforme. Il governo non sembra pensarla allo stesso modo, con l’eccezione del ministro Brunetta che sta cercando di far approvare un’importante riforma della pubblica amministrazione. Il ministro Sacconi, in particolare, ha dichiarato che la recessione non è il momento adatto per mettere in agenda una riforma delle pensioni e della disciplina dei licenziamenti, nonostante queste aree rappresentino importanti nodi strutturali del Paese. Come dimostrano le ultime stime di finanza pubblica del ministero dell’Economia, i diversi problemi strutturali del Paese sono però ben presenti anche nel mezzo della recessione. Durante il 2009 il totale della spesa pubblica aumenterà di ben tre punti percentuali, passando dal 49,3 al 52,2% del prodotto interno lordo. In altre parole, il Paese uscirà dalla recessione con più di metà del proprio reddito impiegato dalla pubblica amministrazione. Leggendo con attenzione la Relazione Unificata dell’Economia e delle Finanze, si capisce che la parte più importante di questo incremento di spesa pubblica sarà proprio legato alla spesa pensionistica. Come mostrato su lavoce.info, dei 20 miliardi di aumento di spesa pubblica del 2009, 10 miliardi saranno imputabili alla spesa per pensioni. Durante il periodo di peggior crescita della storia repubblicana, quando il reddito del Paese diminuirà di più del 4%, la spesa per pensioni aumenterà invece del 4%! La recessione determinerà quindi un ulteriore spostamento di risorse pubbliche verso la spesa pensionistica. Una politica immobilistica in materia previdenziale causa una redistribuzione di spesa perversa, poiché finisce per premiare proprio quelle aree che più di tutte le altre dovrebbero essere tenute sotto controllo. Certamente molti degli incrementi di queste spese non sono controllabili nel breve periodo, anche perché grossa parte dell’aumento di spesa previdenziale è legato alla dinamica della popolazione. Ma questa recessione deve farci riflettere seriamente sulla sostenibilità del regime attuale. Come riconosciuto dalla stessa Ragioneria Generale dello Stato, nei prossimi cinque anni solo una crescita del 2% sarà in grado di contrastare l’inarrestabile aumento della spesa pensionistica in proporzione al reddito a legislazione vigente. Procrastinare interventi inevitabili non serve. Lo stesso libro bianco, pubblicato da pochi giorni dal ministro del Welfare, parla esplicitamente di un innalzamento progressivo dell’età pensionabile, anche se non rilascia alcun dettaglio sui tempi e sulle modalità di una riforma. Il ministro Sacconi è uno dei padri e sostenitori della riforma Maroni del 2005, quella riforma poi in parte annullata dal governo Prodi con la sostituzione del famoso «scalone» con una serie di «scalini» più morbidi. È vero che lo scalone della riforma Maroni forse comportava un aumento dell’età pensionabile troppo brusco, ma la prudenza di oggi del ministro Sacconi appare poco giustificabile. Esistono diversi interventi legislativi in grado di controllare la crescita della spesa previdenziale dei prossimi anni senza introdurre grossi scossoni. Si potrebbe, ad esempio, indicizzare la spesa pensionistica all’andamento del monte salari, in modo da legare i redditi dei lavoratori pensionati alla dinamica dei redditi dei lavoratori attivi. Se il monte salario sale a un tasso inferiore a quello dell’inflazione, come probabilmente avverrà durante la recessione, non si vede perché i redditi dei pensionati debbano crescere più velocemente. Si potrebbe poi accelerare la transizione verso il sistema pensionistico a capitalizzazione, quello introdotto nel lontano 1995 dall’allora governo Dini e non ancora completamente a regime. In altre parole, affrontare i nodi strutturali del Paese è possibile, ma durante la recessione è un dovere. pietro.garibaldi@unito.it da lastampa.it Titolo: PIETRO GARIBALDI Retribuzioni basse sono lo specchio di un sistema in affanno Inserito da: Admin - Maggio 18, 2009, 05:02:04 pm 18/5/2009 - ANALISI
Le retribuzioni basse sono lo specchio di un sistema in affanno PIETRO GARIBALDI Le classifiche economiche non sono mai divertenti, ma diventano preoccupanti quando riguardano la retribuzioni. Confrontando lo stipendio medio, l’Italia appare ormai vicinissima alla zona retrocessione. La retribuzione di un lavoratore italiano senza carichi familiari non raggiunge i 1400 euro al mese, ed è inferiore non solo a quello di Germania Francia e Gran Bretagna, ma anche a quello di Grecia e Spagna. Questa volta non possiamo dare la colpa alla recessione, anche perché la crisi stessa colpisce con altrettanta intensità il resto dei paesi Ocse. Il basso livello delle retribuzioni è in realtà l’altra faccia della medaglia dei problemi strutturali del Paese. Come ricordato su queste colonne, i problemi strutturali sono visibili anche in recessione. Il dato sui salari lascia spazio a pochi dubbi e ci ricorda impietosamente che il primo problema strutturale dell’Italia si chiama bassa crescita. L’Italia dal 1995 è sempre cresciuta sotto la media europea. Questo differenziale si è lentamente trasformato in una più bassa crescita delle retribuzioni - la crescita di queste ultime può essere sostenuta nel medio periodo solo da quella della produttività -. Quest’ultima, a sua volta, dipende da una somma di fattori che messi uno sull’altro finiscono per determinare il declino relativo di un Paese. Un sistema scolastico e universitario poco competitivo, un continuo ritardo nell’adeguamento delle infrastrutture, una pubblica amministrazione in larga parte inefficiente, un mercato del lavoro che divide protetti e non protetti, un sistema finanziario che penalizza piccoli risparmiatori e piccole imprese. Un discorso a parte va fatto per la tassazione. In Italia la differenza tra il costo del lavoro sostenuto dalle imprese e il reddito netto dei lavoratori è tra le più alte al mondo. Questa differenza, chiamata cuneo fiscale, è infatti pari al 46,5 per cento. Se a un’impresa un lavoratore costa 100 euro, lo stesso lavoratore finisce per ottenere in busta paga soltanto 54,5 euro. Si tratta indubbiamente di una differenza impressionante, ma è bene ricordare che i lavoratori tedeschi hanno un cuneo fiscale decisamente superiore al 50 percento, ma percepiscono una retribuzione netta superiore. Un discorso simile vale per la Francia. Il confronto con Francia e Germania non significa che le tasse sul lavoro italiano non debbano essere ridotte, ma soltanto che il vero problema italiano è la bassa crescita e non solo le alte tasse. E poi c’è l’evasione fiscale. In Italia 2 lavoratori su dieci non pagano alcuna tassa. In un mercato di questo tipo opera quindi una concorrenza sleale che tende a comprimere verso il basso i salari delle imprese in regola. Una vera priorità per il Governo dovrebbe essere quella di ridurre questa concorrenza sleale. I più recenti dati sulle ispezioni suggeriscono invece che negli ultimi mesi vi è stato un’allentamento nei controlli fiscali sul posto di lavoro. Un dato preoccupante, anche perché tutti sappiamo che se si riducesse davvero il lavoro nero si potrebbe facilmente ridurre, nel medio periodo, anche la tassazione sul lavoro. La riforma del sistema contrattuale, in modo da legare maggiormente salari e produttività, potrebbe a sua volta facilitare un incremento dei salari medi. Legare maggiormente salari e produttività faciliterebbe la riallocazione dei lavoratori verso i posti di lavoro più produttivi e, al tempo stesso, permetterebbe a giovani e donne di entrare nel mondo del lavoro. Sappiamo bene che la situazione è in pieno stallo, poiché una proposta di riforma è stata approvata da Confindustria Cisl e Uil senza la Cgil. Quando le forze sociali chiedono al Governo interventi urgenti, sarà importante ricordare loro che una vera e completa riforma del sistema contrattuale è altrettanto urgente. Il ritorno alla crescita richiederà il contributo di tutti: imprese, parti sociali, Parlamento e soprattutto Governo. Sappiamo bene cosa è necessario fare. Se decidiamo di non farlo, non lamentiamoci se tra qualche anno le nostre retribuzioni scenderanno dal ventitreesimo al trentesimo posto. pietro.garibaldi@unito.it da lastampa.it Titolo: Pietro GARIBALDI. Riforme impopolari ma giuste Inserito da: Admin - Maggio 23, 2009, 03:46:43 pm 23/5/2009
Riforme impopolari ma giuste PIETRO GARIBALDI Più che all’andamento dei mercati finanziari e della produzione industriale, le preoccupazioni dei cittadini e delle famiglie italiane sono legate ai consumi e al posto di lavoro. È giusto ed è inevitabile che sia così. Nonostante i timidi segnali di ripresa, che devono comunque essere letti come una riduzione della velocità di caduta, quando guardiamo la situazione dal punto di vista di famiglie e lavoratori non possiamo affatto escludere che il picco della crisi debba ancora venire. L’occupazione della grande impresa continua a diminuire e l’utilizzo della cassa integrazione ha raggiunto i livelli del 1993, l’unico anno del dopoguerra in cui i consumi aggregati dei cittadini sono diminuiti. Nella prima metà del 2009 circa 350 mila lavoratori hanno fatto ricorso alla cassa integrazione e un’ondata di disoccupazione crescente potrebbe colpire il Paese nella prossima estate. L’Unione Europea prevede infatti una crescita della disoccupazione dal 7 per cento al 9 per cento entro il 2010. La cassa integrazione garantisce fortunatamente un sostegno al reddito, ma richiede comunque alle famiglie una riduzione delle proprie entrate. Le famiglie tendono spontaneamente e autonomamente a mantenere un profilo di consumo costante anche quando il livello di reddito diminuisce. Un comportamento di questo tipo è possibile grazie all’utilizzo dei propri risparmi. Ma quando i risparmi sono pochi o il reddito diminuisce in modo troppo rapido, diventa obbligatorio ridurre i consumi. Gli ultimi dati sulle vendite al dettaglio riflettono un calo del 5 per cento rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. È il dato peggiore dal 1997 ed è probabile che le famiglie italiane stiano davvero riducendo i propri consumi. I 350 mila cassaintegrati sono giustamente preoccupati per il loro futuro e devono accettare una drammatica riduzione del reddito. Gli stessi lavoratori cassaintegrati devono però riconoscere di vivere all’interno di uno Stato Sociale che garantisce loro un ammortizzatore sociale che gli permette di convivere e superare un periodo difficilissimo. I più di 4 milioni di lavoratori precari sono messi molto peggio. Non abbiamo ancora statistiche ufficiali e non le avremo fino al prossimo giugno, ma i primi segnali suggeriscono una situazione quasi drammatica. Con la scadenza del contratto a termine o del contratto a progetto, la maggior parte dei lavoratori precari non ha alcuna forma di sostegno al reddito, al di là del simbolico contributo una tantum di 1500 euro introdotto dal governo a fine 2008. Molti di questi lavoratori precari sono giovani e riescono a sopravvivere grazie alla rete sociale loro offerta dalla famiglia. Chi non ha una famiglia di riferimento, rischia invece la povertà. Lo Stato non può permettersi di abbandonare questi lavoratori. Il governo in carica gode di un vasto consenso. La necessità e l’importanza di aprire il capitolo delle riforme strutturali sembrano fortunatamente essere tornate di attualità, come riconosciuto dal ministro dell’Economia sulle colonne della Stampa. La riforma degli ammortizzatori sociali non può e non deve aspettare l’ondata di disoccupazione in arrivo. Introdurre un sussidio unico di disoccupazione a cui si ha accesso indipendentemente dal posto di lavoro si può e si deve. Rispetto alle risorse oggi stanziate per gli ammortizzatori sociali, servirebbero circa 8 miliardi aggiuntivi. Finita la recessione, il sussidio unico si potrebbe poi finanziare attraverso un contributo fiscale su tutti i posti di lavoro pari al tre per cento, poco più alto del 2,5 per cento oggi esistente. Il governo ha più volte sostenuto di aver già stanziato, con l’aiuto delle Regioni, una cifra non lontana dagli 8 miliardi necessari. Innanzitutto non è affatto chiaro che queste risorse arriveranno alle famiglie, anche perché necessitano di leggi regionali non ancora approvate. E in ogni caso queste risorse non arriveranno ai precari, poiché il governo ha deciso di destinarle in via discrezionale ai settori o alle imprese che di volta in volta ne avranno bisogno. Le riforme possono a volte essere impopolari. Riformare le pensioni è un processo molto difficile e dovrà necessariamente avvenire nell’interesse generale contro la volontà dei lavoratori vicino alla pensione. Riformare gli ammortizzatori sociali, per estenderli a tutti i lavoratori, non dovrebbe trovare resistenze. La domanda è sempre la stessa: se non si riforma nel mezzo della peggiore recessione del dopoguerra, allora quando? pietro.garibaldi@unito.it da lastampa.it Titolo: PIETRO GARIBALDI La riforma più urgente Inserito da: Admin - Giugno 20, 2009, 06:54:22 pm 20/6/2009
La riforma più urgente PIETRO GARIBALDI Quando centinaia di migliaia di posti di lavoro vanno distrutti, tutti capiscono che la grande recessione riguarda davvero la vita di tutti i giorni. I crolli della Borsa, simili a quelli dello scorso autunno, sono eventi drammatici e spettacolari, ma in realtà riguardano solo quella piccola parte di famiglie che investe in azioni. La caduta del prodotto interno lordo, un indicatore fondamentale per misurare la capacità produttiva del Paese, è un meccanismo troppo complicato perché una famiglia italiana ne possa direttamente sentire le conseguenze. Le perdite di posti di lavoro e l’aumento della disoccupazione sono invece fenomeni che arrivano al cuore delle famiglie italiane. L’Istat ha ieri comunicato che nel primo trimestre del 2009 l’occupazione del nostro Paese è diminuita di 200 mila posti rispetto allo stesso periodo del 2008. In termini relativi, significa che un posto di lavoro su cento è andato distrutto. È il dato peggiore degli ultimi 15 anni. Se non vi fosse stato un contributo molto positivo dai lavoratori immigrati, il dato sarebbe stato molto più negativo. La componente «italiana» dell’occupazione è infatti diminuita di 420 mila unità. Un vero e proprio tracollo. Su queste colonne si è spesso indicato il rischio che la recessione avrebbe finito per colpire soprattutto i lavoratori precari, quelli assunti con un contratto a termine, un contratto a progetto o altre figure contrattuali. Per questi lavoratori, quando le cose vanno male non si deve ricorrere al licenziamento, in quanto è sufficiente che l’impresa non rinnovi il contratto alla scadenza. I dati pubblicati ieri confermano pienamente questa previsione. In dodici mesi si sono persi 150 mila posti a termine, 100 mila collaborazioni (i cosiddetti lavoratori parasubordinati) e ben 160 mila posti da lavoratore autonomo, tra i quali vi sono parecchi lavoratori con partita Iva e formalmente autonomi, ma in realtà fornitori di un solo committente. In altre parole, un esercito di circa 400 mila lavoratori precari è andato distrutto. In controtendenza e in modo forse sorprendente, i lavoratori a tempo indeterminato sono addirittura aumentati. Questi numeri ci portano inevitabilmente a riflettere sul nostro sistema di protezione sociale. Dei circa 400 mila lavoratori precari che hanno perso il lavoro, nella migliore delle ipotesi solo uno su quattro ha accesso ai sussidi di disoccupazione. La cassa integrazione guadagni, uno strumento che ha certamente permesso la tenuta occupazionale dei lavoratori a tempo indeterminato, non riguarda i lavoratori precari. In queste settimane nei tavoli di concertazione sociale si è a lungo discusso sulla necessità di estendere la durata della cassa integrazione. A quei tavoli, dove oltre al governo si trovavano spesso sindacati e Confindustria, i lavoratori precari, quasi tutti giovani, non avevano modo di far sentire il loro estremo bisogno di protezione sociale. Non sorprende quindi che tra i giovani sotto i 25 anni la disoccupazione sia aumentata di ben 5 punti percentuali. Nei giorni scorsi, diffondendo le nuove stime sulla caduta del Pil, la Confindustria ha ricordato al Paese e al governo che per tornare a crescere in modo virtuoso dopo la grande recessione è necessario mettere mano a importanti riforme strutturali. La Confindustria ha insistito sulle liberalizzazioni, sulla riforma del sistema dell'istruzione e su quello universitario. Sono davvero riforme fondamentali. Ma alla luce dei dati di ieri sull'occupazione, la riforma più urgente è chiaramente quella degli ammortizzatori sociali, in modo da garantire una copertura a tutti i lavoratori indipendentemente dal tipo di contratto. Nonostante la riduzione registrata ieri, i lavoratori precari sono ancora più di 3 milioni e il peggio della crisi, in termini di riduzione di posti di lavoro, potrebbe arrivare dopo l'estate. Bisogna agire subito. Non aspettiamo i prossimi dati trimestrali per renderci conto che altre centinaia di migliaia di lavoratori precari hanno perso il posto di lavoro. da lastampa.it Titolo: PIETRO GARIBALDI Gli stessi problemi di sempre Inserito da: Admin - Luglio 16, 2009, 11:48:32 am 16/7/2009
Gli stessi problemi di sempre PIETRO GARIBALDI Delle previsioni non si può fare a meno. Così come per gestire una grande impresa si deve avere un piano strategico, anche la politica economica di un grande Paese può essere condotta soltanto attraverso un quadro macroeconomico ben definito. In fin dei conti, un governo e un ministro dell’Economia sono obbligati a fare previsioni. Con l’approvazione di ieri del Documento di Programmazione Economica e Finanziaria (Dpef), le previsioni ufficiali del governo confermano per il 2009 una riduzione del prodotto interno lordo superiore al cinque per cento, una stima molto simile a quelle prodotte dai principali organismi internazionali. Anche per il nostro governo stiamo quindi attraversando il peggior anno della storia repubblicana, nonostante negli ultimi mesi si siano osservati alcuni segnali positivi, che però rimangono legati a una riduzione della velocità di caduta. Di ripresa vera e propria si dovrebbe parlare nel prossimo anno, quando il governo prevede una crescita positiva di mezzo punto percentuale. Per tornare invece al livello di reddito del 2007, quello che avevamo prima della tempesta, dovremmo aspettare la fine del 2012. E’ uno scenario decisamente faticoso, ma comunque non catastrofico. Quella che sarà ricordata come la grande recessione potrebbe durare solo due anni e saremmo ormai vicini alla fine del secondo. Un aspetto fondamentale di ogni piano strategico riguarda la correzione di rotta impressa dal timoniere. Durante una tempesta, la correzione di rotta è particolarmente importante. La vera sorpresa del Dpef non è tanto nelle previsioni, che come abbiamo detto sono del tutto analoghe a quelle predisposte dai maggiori organismi internazionali, quanto piuttosto nello scoprire che il governo non intende dare vita ad alcuna correzione di rotta. Leggendo attentamente il quadro di finanza pubblica elaborato dal governo, si nota infatti come lo scenario a bocce ferme, tecnicamente definito scenario tendenziale, è del tutto analogo allo scenario programmatico, quello che risente degli interventi di politica economica che il governo intende predisporre. Ciò significa che il disavanzo pubblico del nostro Paese salirà al 5,3 per cento nel 2009 e rimarrà intorno al 5 per cento nel 2010, indipendentemente dalle azioni di politica economica. La vera scelta del Dpef è quindi quella di non toccare il timone della politica economica. E’ una scelta coraggiosa, ma con importanti conseguenze. La più importante conseguenza è forse dal lato della spesa pubblica. Per rendersene conto basta pensare che il totale delle spese pubbliche nel 2010 arriverà al 52 per cento del Pil, mentre nel 2008 era fermo al 49 per cento. Alla fine della grande recessione ci troveremo quindi con una presenza dello Stato nell’economia italiana ben più importante di quella che avevamo prima della recessione. La differenza non sarà dovuta a nuovi programmi infrastrutturali, ma bensì alla continua crescita della spesa sociale e più che altro alle pensioni, una voce di spesa che continua a galoppare anche durante la grande recessione. Scegliendo di non affrontare il nodo pensioni nei prossimi anni, il Dpef mostra con tutta la forza dei numeri quanto pesanti saranno i problemi strutturali alla fine della tempesta. La mini-stretta delle pensioni annunciata ieri nel decreto anticrisi in discussione alla Camera, che prevede un aumento dell’età pensionabile a partire dal 2015, è una goccia rispetto agli incrementi di incidenza delle pensioni evidenziati dal Dpef. L’aumento graduale dell’età pensionabile delle donne nella Pubblica Amministrazione, un atto dovuto nei confronti dell’Europa, non avrà in realtà quasi effetti sui conti dello Stato. L’altra imponente eredità della grande recessione sarà un debito pubblico in rapporto al Pil che ritornerà ai livelli di inizio degli Anni Novanta, prima che avesse inizio quell’opera di risanamento di finanza pubblica che ci portò poi nell’euro. Quando la spesa aumenta e il prodotto diminuisce, il debito pubblico diventa davvero ingestibile. Dalle stime del governo si evince comunque che dal 2013 il debito riprenderà a scendere, suggerendo quindi che la situazione del debito pubblico, per quanto drammatica, appare comunque sostenibile. Rimane però impressionante pensare che tra cinque anni ci troveremo con gli stessi livelli di debito in rapporto al Pil che avevamo venti anni prima. E’ un dato che fa riflettere su quanto i problemi strutturali del Paese alla fine siano sempre gli stessi, nonostante venti Dpef e venti piani strategici siano stati approvati da decine di governi. Il ministro Tremonti ha poi anche annunciato che quello approvato ieri sarà l’ultimo Dpef. Sarebbe stato molto più bello sentire che quello approvato ieri è l’ultimo Dpef in cui si trovano, tra le righe, gli stessi problemi di sempre: pensioni, debito pubblico e spesa pubblica in crescita. pietro.garibaldi@unito.it da lastampa.it Titolo: PIETRO GARIBALDI Inserito da: Admin - Settembre 01, 2009, 10:53:20 am 1/9/2009
L'estate senza Finanziaria PIETRO GARIBALDI Da almeno vent’anni, la ripresa della vita economica e politica dopo la pausa estiva è stata dominata dalla discussione collegata alla legge Finanziaria. Dal silenzio di fine estate su questi temi, sembra quasi che la Finanziaria del 2010 non si debba proprio fare. Certamente non rimpiangiamo il tradizionale martellamento di fine estate sulla dimensione della manovra, sui presunti tagli alla spesa pubblica, sugli imponenti programmi di sviluppo e sui minacciati inasprimenti fiscali. In effetti la qualità della discussione sulla Finanziaria, il principale strumento di politica economica del Paese, è sempre stato molto scadente. Inoltre, dopo mesi di martellamento estivo, la Finanziaria ha quasi sempre finito col determinare inasprimenti fiscali e aumenti di spesa pubblica. Nel 2009, la spesa pubblica arriverà quasi al 53% del Prodotto interno lordo e la pressione fiscale raggiungerà la cifra record del 43,4%, sempre in rapporto al Pil. La mancanza di dibattito sulla legge Finanziaria e sulla politica economica non è solo colpa dell’estate dei veleni e dell’attenzione dei media a temi che poco hanno a che fare con la politica economica. Con la presentazione a luglio del Documento di programmazione economica e finanziaria, il governo ha ufficialmente dichiarato che non intende portare alcuna correzione all’andamento tendenziale di finanza pubblica del 2010. Questo significa che nel 2010 il disavanzo pubblico dovrebbe essere intorno al 5 per cento del Pil, in lieve miglioramento rispetto al 5,3 per cento previsto per il 2009. Il miglioramento non sarà dovuto a nuove iniziative governative collegate alla Finanziaria, ma alla lieve ripresa prevista per il 2010 e al conseguente recupero delle entrate fiscali. Nel mezzo della peggiore crisi economica del dopoguerra, il governo ha deciso di lasciare operare il bilancio per inerzia, senza contrastare l’aumento della spesa (soprattutto quella pensionistica) e il crollo delle entrate fiscali, in larga parte dovuto al rallentamento della produzione. Per un Paese senza problemi strutturali e con una traiettoria di crescita ben definita, durante una recessione lasciare operare il bilancio pubblico attraverso i suoi stabilizzatori automatici (le variazioni di spesa e di entrate legate al ciclo economico) è una strategia che può essere condivisibile e viene anche suggerita dall’analisi economica. Il vero problema è però che l’Italia non ha una traiettoria di crescita ben definita ed è piena di problemi strutturali. Mentre l’economia europea cresceva sopra il 2,5 per cento, come avvenuto in media tra il 2006 e il 2007, l’Italia cresceva solo dell’1,8 per cento. Durante la recessione del 2009, l’Europa registrerà un calo del Pil intorno al 2,5 per cento, mentre l’Italia arriverà a perdere più del 5 per cento del Pil. In altre parole, facciamo peggio della media europea sia quando le cose vanno bene sia quando vanno male. Il motivo è appunto legato ai nostri problemi strutturali. Avendo deciso di lasciare operare il bilancio per inerzia, il governo in autunno avrebbe l’occasione di mettere mano ad alcune delle grandi riforme strutturali. Queste riforme non richiedono necessariamente risorse economiche, ma grande volontà politica. La riforma degli ammortizzatori sociali dovrebbe essere la prima. Il ministro Tremonti sostiene che in mezzo alla crisi l’urgenza non è quella di una riforma sociale, bensì quella di non lasciare indietro nessuno e trovare le risorse per rifinanziare la cassa integrazione. In questo modo non si rischia però di lasciare indietro i milioni di lavoratori precari che non hanno accesso alla cassa integrazione? Se davvero non si vuole lasciare indietro nessuno, non sarebbe necessario riordinare gli ammortizzatori e introdurre un sussidio unico indipendentemente dal tipo di contratto e dalla dimensione di impresa? Sempre per non lasciare indietro alcun lavoratore, il governo potrebbe poi introdurre un salario minimo nazionale. Sarebbe un modo di sostenere i lavoratori più poveri, e al tempo stesso facilitare il decentramento della contrattazione, un tema molto discusso durante l’estate e che ha anche ricevuto importanti aperture da tutti i sindacati. La compartecipazione dei lavoratori agli utili, un tema rilanciato in questi giorni, è senz’altro un tema affascinante, ma una priorità strutturale sarebbe facilitare la contrattazione aziendale e il legame tra salari e produttività. La crisi ci ha infine ricordato che il tema delle pensioni non può essere accantonato. Nel mese di agosto la commissione tecnica del ministero ha ricordato che soltanto con una crescita del Pil del 2 per cento la spesa pensionistica potrà essere controllata. Altrimenti sarà destinata a crescere in modo incontrollato. I nodi strutturali da affrontare non mancano, come purtroppo non sembrano mancare periodi in cui cresciamo sotto la media europea. I due problemi - la bassa crescita e i nodi strutturali - sono intrinsecamente legati e affrontando il primo si risolverà anche il secondo. La politica economica autunnale non può dimenticarsi del legame tra i due fenomeni. pietro.garibaldi@unito.it da lastampa.it Titolo: PIETRO GARIBALDI Non basta uno sportello Inserito da: Admin - Ottobre 16, 2009, 12:26:12 pm 16/10/2009
Non basta uno sportello PIETRO GARIBALDI Il governo ha deciso di creare una banca del Sud destinata a finanziare progetti. E’ una sfida non priva di rischi. Il più grande problema del Mezzogiorno è la mancanza di buoni investimenti. E non è affatto chiaro se una volta creata una banca meridionale avremmo davvero migliori investimenti nel Mezzogiorno. In aggiunta, si rischia di creare nuovo debito pubblico. Anche se il Mezzogiorno è forse la parte più bella del Paese, è una terra in cui il contesto generale poco si addice ad assumere rischi imprenditoriali. Innanzitutto vi è un ben noto problema di criminalità organizzata. Vi è poi una pubblica amministrazione largamente inefficiente e una cronica mancanza di infrastrutture. Questi tre elementi rendono l’attività imprenditoriale e gli investimenti nel Mezzogiorno più rischiosi rispetto al resto del Paese. Non a caso, questo specifico rischio meridionale si manifesta oggi in un costo del credito nel Mezzogiorno superiore a quello del Nord del Paese. Per cercare di risolvere la cronica mancanza di investimenti meridionali, il governo vuol creare una banca del Sud. Secondo le prime indicazioni, lo Stato dovrebbe essere soltanto promotore del progetto, con l’obiettivo di uscire completamente, dopo un primo periodo, dalla struttura proprietaria del nuovo istituto. Sembra poi che si utilizzerà la rete delle Banche locali di credito cooperativo e le quasi quattromila filiali delle Poste nel Mezzogiorno, anche se i dettagli del progetto sono ancora tutti da determinare. Dal punto di vista dei mercati finanziari, una nuova banca può essere un modo per aumentare la concorrenza nel sistema finanziario. Deve però trattarsi di una banca che effettivamente opera con gli stessi vincoli e gli stessi criteri applicati al resto del sistema bancario. Se la banca dovesse invece vivere grazie a sussidi dallo Stato, diventerebbe un elemento distorsivo alla concorrenza. Fortunatamente, i vincoli europei agli aiuti di Stato dovrebbero limitare questo rischio. Si deve poi evitare che la banca diventi un modo per trovare un posto di lavoro statale. In altre parole, non si vuole un nuovo carrozzone di Stato. Infine, per riuscire a finanziare investimenti nel Mezzogiorno a condizioni migliori di quanto fatto dal resto del sistema, la banca del Sud dovrà essere particolarmente efficiente nel selezionare i progetti che meritano credito. Ci vorrà quindi il meglio dell’imprenditoria italiana. Lo Stato ha anche deciso di creare obbligazioni di scopo destinate a finanziare progetti meridionali. Queste obbligazioni, che potranno essere sottoscritte da tutti i risparmiatori italiani, dovrebbero servire non solo a finanziare gli impieghi della nuova banca del Mezzogiorno, ma potranno essere emessi anche da altri intermediari finanziari. Se questi titoli saranno effettivamente garantiti dallo Stato, come sembra dalle prime indicazioni, saranno del tutto assimilati a debito pubblico. Anche da questo punto di vista, si tratta quindi di una decisione rischiosa, in quanto sappiamo bene che a causa della crisi il debito pubblico è tornato ai livelli del 1992 ed è una delle cause principali della procedura di infrazione che l’Europa ha iniziato nei confronti dell’Italia. Il benessere e il recupero di produttività del Mezzogiorno sono interesse di tutti gli italiani. La vera priorità dovrebbe essere quella di creare le condizioni affinché gli investimenti nel Mezzogiorno diventino più convenienti. Anche se la banca del Sud dovesse alla fine funzionare, e tutti quanti ce lo auguriamo, i problemi di criminalità organizzata e mal funzionamento della pubblica amministrazione rimarranno come i principali problemi del Mezzogiorno. E per risolvere quelli ci vuole ben più di una banca. pietro.garibaldi@unito.it da lastampa.it Titolo: PIETRO GARIBALDI La nuova febbre dell'oro Inserito da: Admin - Novembre 14, 2009, 11:02:53 am 14/11/2009
La nuova febbre dell'oro PIETRO GARIBALDI In questi mesi di leggera ripresa dell’economia reale, come testimoniato anche ieri dal dato Istat sulla crescita del pil italiano nel terzo trimestre, il mondo sta in realtà vivendo un’improvvisa e in parte schizofrenica febbre dell’oro. Nelle ultime settimane il prezzo dell’oro, il bene più infruttifero fra tutti i possibili investimenti, è salito di circa un terzo fino a 42 dollari al grammo. A fine agosto un grammo d’oro valeva poco più di 31 dollari mentre a novembre 2008, nel pieno della crisi finanziaria, veniva scambiato a soli 21 dollari. In altre parole, chi avesse comprato oro nel mezzo della tempesta finanziaria, oggi potrebbe tranquillamente rivenderlo avendo, nel frattempo, raddoppiato il proprio capitale. La crescita del prezzo dell’oro e di quello di diverse altre materie prime non legate al settore energetico suscita da più parti stupore e preoccupazione, anche perché sta avvenendo in modo talmente rapido da essere quasi impossibile da giustificare. E’ antipatico dirlo, ma sembra quasi che il mondo finanziario globale stia mettendo i germi di una nuova bolla speculativa. Le bolle finanziarie sono fenomeni economici difficilmente spiegabili dalla teoria economica, ma ben chiari all’immaginario collettivo nei loro drammatici effetti, specialmente nel momento in cui le bolle stesse si sgonfiano. Come ci insegna la grande crisi finanziaria del 2008, la fine di una bolla non avviene attraverso un processo lento e graduale, quanto piuttosto attraverso un crollo dei prezzi repentino e devastante per gli investitori in possesso dei titoli sottostanti. In realtà, come avviene in quasi tutte le bolle, la crescita del prezzo dell’oro di questi giorni si basa su un fondamento di razionalità economica. La politica economica e le principali banche centrali sono fortunatamente riuscite nei mesi passati, attraverso una straordinaria emissione di moneta, a evitare che la crisi finanziaria si trasformasse in una grande depressione dell’economia reale. L’immensa quantità di moneta e di liquidità oggi disponibile, tuttavia, dovrà a un certo punto essere tolta dal sistema. Il meccanismo attraverso il quale si riuscirà a ritirare dall’economia la massa monetaria immessa è parte essenziale della molto discussa exit strategy. Tuttavia, alle parole non seguono i fatti. Se la quantità di moneta immessa dovesse rimanere nel sistema, l’unica strategia d’uscita dalla crisi finanziaria rimarrebbe l’inflazione. E quando i prezzi dei beni sono destinati a crescere e la moneta di carta perde valore gli investitori corrono a proteggersi comprando oro o altri beni rifugio. Oltre al timore di inflazione negli anni a venire, vi sono altri fattori che spingono in alto il prezzo dell’oro. Vi sono gli acquisti di riserve d’oro da parte delle banche centrali asiatiche che cercano di convertire le immense riserve in dollari in riserve auree. Inoltre il mercato immobiliare e il mattone, un bene rifugio nell’immaginario collettivo, soffre ancora delle ferite della grande crisi del 2008. Infine, se la ripresa dovesse invece essere molto più debole del previsto, l’acquisto di oro rappresenta comunque una garanzia contro eventuali nuovi fallimenti. Al di là della possibilità di interpretare il rialzo dell’oro, il vero problema rimane il rischio che il mondo finanziario riprenda sulla strada dei vizi degli anni passati. Appare incredibile parlare di una possibile bolla speculativa dodici mesi dopo la grande crisi finanziaria del 2008. Si è parlato a lungo di nuove regole finanziarie, ma in realtà quasi nulla è stato davvero fatto. Nel 1929 la crisi finanziaria si trasformò in grande depressione, ma dopo quattro anni vennero poi introdotte nuove e importanti regole finanziarie, tra cui il famoso Glass-Seagal Act, che istituì l’assicurazione sui depositi negli Stati Uniti e impose una netta separazione tra banche di investimento e banche commerciali. Paradossalmente, con la crisi del 2009 siamo riusciti a evitare la grande depressione ma non siamo invece riusciti a introdurre nuove regole. E nel frattempo viviamo una nuova febbre dell’oro. Nella nuova corso all’oro forse il mondo dovrebbe cercare di imparare dai propri errori. pietro.garibaldi@carloalberto.org DA LASTAMPA.IT Titolo: PIETRO GARIBALDI Crescita all'italiana Inserito da: Admin - Dicembre 06, 2009, 11:13:13 am 2/12/2009
Crescita all'italiana PIETRO GARIBALDI Un anno dopo la crisi finanziaria, la battaglia tra debito e crescita è al centro dell’economia mondiale, con ovvi riflessi anche nel dibattito di politica economica in Italia. Nei prossimi mesi, le prospettive economiche mondiali dipenderanno in larga parte dalle scelte governative. Le più recenti previsioni di crescita per il 2010 del 9 per cento circa in Cina, del 6 per cento e più in India e del 3 per cento circa negli Stati Uniti fanno ben sperare. Suggeriscono come, in diverse parti del mondo, la crescita potrebbe avere la meglio sul debito. Rallegrandoci per queste previsioni, non dobbiamo però dimenticare che negli Stati Uniti, in Cina e in India il ritorno alla crescita è in larga parte alimentato da notevoli stimoli di politica economica messi in atto durante la fase più acuta della crisi. Inoltre, in tutti e tre i Paesi ricordati, gli aumenti di spesa pubblica e i tagli di imposta sono stati finanziati da imponenti aumenti di debito pubblico. Nel 2009, il disavanzo pubblico negli Stati raggiungerà la cifra monstre del 13 per cento del Pil e, come conseguenza, il debito pubblico federale supererà presto il Pil. Ma come ci insegna la storia economica dei grandi «rientri» dal debito pubblico, l’unico modo credibile per ripagare imponenti espansioni fiscali rimane quello della crescita. In quest’ottica, le robuste previsioni di Cina, India e Stati Uniti fanno sperare che, almeno da quelle parti del mondo, la crescita possa spuntarla sul debito. Negli stessi giorni in cui si elaboravano queste incoraggianti previsioni, una crisi di debito negli Emirati Arabi ci ha ricordato quanto fragile sia in realtà la situazione finanziaria mondiale. La richiesta di moratoria unilaterale dei 59 miliardi di debito emessi da Dubai World, un fondo sovrano degli emiri che pareva famoso per la sua solidità, ha scatenato il panico in tutti i mercati finanziari mondiali. Le banche occidentali, a parte forse quelle inglesi, paiono in realtà poco esposte verso il debitore degli emiri e i motivi di panico non sembrano totalmente giustificati. Tuttavia, le poche e opache informazioni finanziarie disponibili su queste istituzioni continuano a deprimere i listini di Borsa del Medio Oriente. La crisi di Dubai dovrebbe almeno servire per ricordare al mondo e alle autorità di politica economica che la battaglia sul debito potrà essere vinta soltanto se si metterà mano ad alcune regole di funzionamento dei mercati finanziari. Quando correvano i tempi peggiori della crisi, si è parlato per mesi e mesi di introdurre limiti più stringenti alla possibilità di indebitamento di varie istituzioni finanziarie. Nulla è stato ancora fatto. Speriamo che la tempesta degli emiri riporti davvero queste riforme all’ordine del giorno delle politiche economiche dei principali Paesi occidentali. A ben guardare, la difficile battaglia tra crescita e debito si sta giocando anche in casa nostra. Le previsioni di un modesto ritorno alla crescita per il 2010 sono certamente una buona notizia, ma non possiamo dimenticare che con una crescita dello 0,5 per cento annuo il Paese riuscirà a tornare al livello di reddito pre-crisi - quello che avevamo nel 2007 - soltanto tra più di dieci anni. Rispetto alla maggior parte degli altri Paesi, l’Italia negli ultimi due anni ha scelto di non approvare significativi stimoli di politica economica. La scelta, in parte obbligata, è più che altro legata all’imponenza del nostro debito pubblico che, non dimentichiamolo, con la crisi è tornato ai livelli più elevati di sempre in rapporto al prodotto interno lordo. La Finanziaria in discussione in questi giorni alla Camera non cambierà la linea di politica economica degli ultimi anni, nonostante vari ministri abbiano cercato di dare una scossa all’economia in chiave di «sviluppo», una parola che nel nostro gergo di politica economica significa quasi sempre maggiore spesa e quasi mai tagli di tasse. Proprio per questo motivo, tendo a diffidare dalle politiche di «sviluppo» all’italiana. Sono politiche che, da almeno vent’anni, finiscono per aumentare ulteriormente la spesa pubblica, che tra l’altro ha ormai ampiamente superato il 50 per cento del Pil, senza alcun effetto sulla nostra crescita potenziale. Tuttavia non credo che l’Italia possa accontentarsi di aspettare che la tempesta passi e che la crescita del resto del mondo ci tiri, in qualche modo, fuori dalla patologia della crescita zero virgola. Alla lunga, nel nostro Paese la battaglia tra crescita e debito si potrà vincere solo attraverso un efficace programma di riforme strutturali che dovranno inevitabilmente diminuire la spesa e cambiarne la composizione, oggi troppo sbilanciata verso le pensioni e altre spese improduttive. Anche in Italia, affinché la crescita possa vincere la battaglia sul debito, si dovrà a un certo punto combattere. pietro.garibaldi@carloalberto.org da lastampa.it Titolo: PIETRO GARIBALDI Generazione a rischio sconfitta Inserito da: Admin - Dicembre 18, 2009, 04:35:20 pm 18/12/2009
Generazione a rischio sconfitta PIETRO GARIBALDI Mentre i segnali di ripresa per il 2010 fortunatamente si intensificano, dal lato dell’occupazione l’onda lunga della recessione si sta abbattendo a piena forza sul mercato del lavoro. I dati sull’occupazione del terzo trimestre sono davvero brutti e mostrano chiaramente che le categorie più colpite dall’onda lunga della recessione sono i giovani e il resto dei lavoratori precari. Il vero rischio è che in Italia si stia per perdere un’intera generazione, come già avvenuto in Giappone durante la grande crisi degli Anni 90. In questi anni i giovani lavoratori italiani sono entrati sul mercato del lavoro con minori tutele, con più bassa probabilità di ricevere formazione professionale e con salari, a parità di istruzione e altre condizioni, più bassi. Ora che è arrivata la grande crisi, a pagarne le conseguenze sono ancora loro. A livello di intero Paese, un calo di mezzo milione di posti di lavoro in un anno non si vedeva dal 1992. In quel terribile anno l’Italia, nel mezzo di Tangentopoli e di drammatiche stragi, registrò per la prima volta dal dopoguerra un calo dei consumi aggregati. Il peggioramento rispetto a quel terribile anno è spiegabile. All’inizio degli Anni Novanta per ridurre l’occupazione era necessario licenziare, una pratica difficile e odiosa per tutti i datori di lavoro. Oggi, viceversa, è sufficiente non rinnovare alla scadenza un contratto a termine o a progetto. Non stupisce quindi che tra il mezzo milione di posti di lavoro persi, 220 mila siano concentrati tra i lavori a termine e altri 150 mila tra i lavoratori autonomi, dove si ritrovano i contratti a progetto, l’esempio più clamoroso di lavoratori precari. Tra l’altro, nelle inchieste dell’Istat, 40 lavoratori su cento dichiarano che nella sostanza il loro progetto non esiste e che svolgono semplicemente un lavoro subordinato. Non credo che si debba tornare alle rigidità del 1992 e che sia stato un errore introdurre varie forme di lavoro flessibile in Italia. L’incredibile crescita di posti di lavoro che abbiamo registrato tra l’inizio del decennio in corso e l’arrivo della recessione, è avvenuta proprio grazie a quella flessibilità e all’opportunità delle imprese di inserire in azienda giovani lavoratori in via sperimentale. Durante la grande recessione stiamo però scoprendo l’altra faccia della medaglia della flessibilità introdotta. Il vero problema è che a subire le conseguenze della grande recessione sull’occupazione sono principalmente i giovani. Il tasso di disoccupazione giovanile è passato dal 18 % del 2008 al 27 % degli ultimi mesi. Non è vero, come spesso si sente dire, che la disoccupazione giovanile ha pochi effetti sulla vita lavorativa. È invece vero che chi inizia male sul mercato del lavoro avrà per tutta la vita salari più bassi e minori opportunità occupazionali. Alcuni studi per diversi Paesi lo hanno chiaramente dimostrato. Uno studio inglese ha addirittura dimostrato che una prolungata disoccupazione giovanile può avere effetti sulle condizioni di salute di lungo periodo. Il Paese non può permettersi di perdere un’intera generazione. La risposta più strutturale al problema del dualismo italiano sarebbe forse quella di introdurre un contratto unico a tutele progressive e crescenti, in modo da dare ai giovani una prospettiva di lungo periodo, mantenendo al tempo stesso alle imprese la possibilità di sperimentare l’adeguatezza dei nuovi assunti. Sarebbe una riforma senza alcun costo per le casse dello Stato. Introdurre un salario minimo nazionale, che tra l’altro esiste nella maggior parte dei paesi avanzati, sarebbe una seconda coraggiosa riforma per ridurre la precarietà. Anche questa senza alcun impatto sulla spesa pubblica. Il sussidio di disoccupazione per i giovani, viceversa, avrebbe un costo per le casse dello Stato, ma sarebbe comunque una riforma doverosa. Di queste e altre idee di riforma si è in realtà parlato in questi giorni in commissione lavoro al Senato. Ma ai centinaia di migliaia di giovani che hanno perso il lavoro, e che fanno fatica a trovarne uno nuovo, una seria discussione politica non è sufficiente. Hanno diritto a risposte concrete. pietro.garibaldi@carloalberto.org da lastampa.it |