Titolo: Rinaldo GIANOLA Inserito da: Admin - Luglio 05, 2007, 07:03:17 pm La spallata di Confindustria
Rinaldo Gianola Il tono è deciso. Le parole inequivocabili. «Meglio un taglio netto, ma limpido, cioè una crisi di governo, che una crisi politica opaca e strisciante» scrive il Sole-24 Ore nell’editoriale di ieri in prima pagina. La voglia di dare una spallata a Romano Prodi deve essere ben forte e motivata in Confindustria. Dopo le dure esternazioni di Luca di Montezemolo, anche il giornale degli industriali, di solito così misurato ed elegante, spara bordate contro il governo chiedendogli di andare a casa. Sarà forse anche un segno dei tempi se l’attacco è firmato da Guido Gentili, già direttore del Sole-24 Ore nell’epoca oscura della presidenza di Antonio D’Amato, come se nel firmamento confindustriale si volessero ricomporre tutte le divisioni, ritrovare tutte le anime per colpire uniti, e possibilmente affondare, l’esecutivo sostenuto dal centrosinistra. Le critiche sono già note e ripetute, riguardano in particolare la scarsa propensione «riformista» che Prodi avrebbe messo in campo nella partita delle pensioni e, di più, il giornale della Confindustria (con il riverbero degli altri potenti giornali delle confraternite bancarie e industriali che su pensioni, mercato del lavoro e contratti sono ormai al pensiero unico) rimprovera ai «veri riformisti» di non impegnarsi abbastanza per difendere lo scalone di Maroni e il taglio dei coefficienti. Quello che sorprende, abituati alla dialettica spesso così sopita e sonnolenta della Confindustria, è il crescendo dei toni e degli attacchi al governo, come se Prodi e i suoi alleati, che certo soddisfano poco anche i loro più fedeli elettori, in un anno di governo non avessero fatto nulla, anzi avessero addirittura peggiorato le condizioni finanziarie, sociali ed economiche del Paese. Eppure sui conti pubblici qualche progresso sostanziale s’è visto, c’è stata la «lenzuolata» di Bersani sulle liberalizzazioni, l’economia è in ripresa e ci sono segni positivi anche sul fronte dell’occupazione. Mettiamoci anche, e per noi non guasta, che c’è stata una lotta serrata all’evasione che ha avuto benefici effetti sulle entrate e soprattutto ha rotto la spirale eticamente devastante di condoni e sanatorie di Berlusconi e Tremonti. In più le imprese hanno portato a casa circa 5 miliardi di euro con la riduzione del cuneo fiscale. Forse non sarà molto, ma è pur sempre un bel gruzzolo. Non per far paragoni, sempre antipatici in questi casi, ma ai lavoratori dipendenti e ai pensionati è andata peggio. Ma, evidentemente, agli industriali tutto questo non basta. Per gli imprenditori la centralità dell’impresa sconfina nell’esclusività dell’impresa, i loro interessi sono quelli che contano. Gli altri possono aspettare. Siamo in un’altra dimensione. Non si tratta più di criticare e di stimolare, come si conviene a un’organizzazione importante com’è quella degli imprenditori, l’esecutivo e la sua azione, qui si va oltre. C’è qualche cosa di più e di più preoccupante, che potrebbe essere anche una naturale conseguenza dei recenti interventi «politici» di Montezemolo, contro il governo, i partiti, il «sindacato dei fannulloni». Si parte dall’attacco all’esecutivo, si tracima nell’antipolitica perchè destra e sinistra «sono tutti uguali», fino ad arrivare a chiedere la crisi di governo, come se Confindustria fosse un partito dell’opposizione, perchè la riforma delle pensioni non è gradita. Nella latitanza della politica, nel vuoto lasciato dai partiti si infilano gli imprenditori ad occupare ruoli e spazi che a loro, tuttavia, non competono. Qualcuno, anche nel governo, dovrebbe garbatamente ricordarlo agli industriali. Pubblicato il: 05.07.07 Modificato il: 05.07.07 alle ore 8.40 © l'Unità. Titolo: Rinaldo Gianola - Il destino degli operai Inserito da: Admin - Gennaio 19, 2008, 11:14:16 pm Il destino degli operai
Rinaldo Gianola Non è vero che gli operai non fanno più notizia. Continuano a morire come ieri è accaduto a Porto Marghera a Paolo Ferrara e Denis Zanon. Altri lavoratori, nelle ultime ore, hanno perso la vita nel Padovano e ad Andria. A Marghera pare che la bombola di ossigeno che poteva salvare i due portuali fosse vuota. Come gli estintori difettosi della ThyssenKrupp a Torino. Non cambia nulla. Tra pochi giorni i morti saranno solo un numero e basta. Gli operai sono sui giornali e in tv. Muoiono, scioperano, qualcuno pure s’arrabbia e blocca stazioni e autostrade perché magari gli imprenditori, che sono pure loro dei “lavoratori” anche se diversi dai poveri Ferrara e Zanon che certo non godevano di stock option o benefit di varia natura, non vogliono rinnovare il contratto e concedere 117 miserabili euro. Certe categorie di lavoratori devono stare attente: chi muore nel periodo di vacanza contrattuale non incassa nè gli aumenti a regime, nè le una tantum o le altre mance che gli industriali potrebbero garantire in futuro. E’ davvero un peccato. Ma, d’altra parte, gli operai sono dei rompiballe: continuano a morire nei momenti meno opportuni. I sette della ThyssenKrupp sono arsi vivi proprio prima di Natale, quasi a volerci rovinare le feste. I portuali di Marghera sono asfissiati mentre si prepara il Carnevale veneziano. Se almeno morissero in silenzio e i loro colleghi non facessero tutta quella baraonda di scioperi, cortei, proteste, vuoi mettere come il Paese sarebbe più moderno, più tranquillo, più sereno, più collaborativo. Sarebbe tutto più facile anche per il Partito democratico che ha bisogno di smussare gli angoli, evitare conflitti, usare toni soft che fa anche rima col mitico loft. Lo sappiamo: a questo punto qualcuno potrebbe alzare il ditino in segno di protesta e chiederci che cosa c’entrano gli «omicidi bianchi» con i rinnovi dei contratti. Perché fare della facile demagogia e mischiare la tragedia della morte con quattro soldi in busta paga, perché legare la sicurezza sui luoghi di lavoro con i metalmeccanici che bloccano le autostrade. Perché, cari signori e cari professori, tutto si tiene. La rabbia e le lacrime che avete visto ai funerali di Torino sono le stesse che trovate oggi a Marghera e nei porti italiani. I problemi di chi non arriva alla fine del mese perché deve pagare il mutuo, le bollette, la scuola sono gli stessi di milioni di famiglie, ed è per questo che vedete gli operai incavolati e offesi per la morte dei loro colleghi e frustrati e rabbiosi perché non gli rinnovano il contratto. È tutto uguale. È un sentimento che si vive dentro, bisogna conoscerlo, ma ha una concretezza palpabile. Basta guardarli, basta parlare con quei lavoratori, ai funerali o alle manifestazioni. Sono testimoni della difficoltà di vivere, di tirare avanti, di emanciparsi, di alzarsi in piedi e camminare spediti, di dare un futuro di speranza ai propri figli senza costringerli a dover elemosinare poche decine di euro per campare al padrone di turno. La storia è sempre la stessa: ogni volta che uno cerca di andare avanti, di fare un balzo, una forza oscura agisce per tirarti indietro, ti obbliga a restare lì, a non muoverti. La sicurezza sul luogo di lavoro, il salario dignitoso, la possibilità di veder riconosciuti i propri diritti anche economici non sono obiettivi scindibili, sono la stessa cosa. Gli operai di Torino e di Marghera chiedono dignità e rispetto, rispetto per le loro vite e dignità per i loro salari, le loro famiglie, il loro futuro. Rispetto e dignità vuol dire anche che non si possono prendere gli operai per fame, ritardando i rinnovi contrattuali per mesi e per anni, fino alla beffa di leggere sui giornali di lorsignori che i sindacati hanno rifiutato una proposta di aumento superiore alle stesse richieste dei lavoratori. Ma non vi vergognate a raccontare queste balle? Così come ci sarebbe da chiedere a Montezemolo se è davvero moderno minacciare elargizioni unilaterali ai propri dipendenti per tirare uno schiaffo ai sindacati, per fregarsene di mediazioni ministeriali, contratti e firme. Ma, alla fine di una giornata triste, quello che rimane non è nemmeno la voglia di polemizzare e di litigare, anche se ne vale la pena e non abbiamo alcun timore a farlo. Quello che resta, in verità, è solo il lutto, il dolore, il silenzio per quelli che non ci sono più e una grande, profonda solidarietà per le loro famiglie e per gli operai di Marghera. Pubblicato il: 19.01.08 Modificato il: 19.01.08 alle ore 10.25 © l'Unità. Titolo: Rinaldo Gianola Due secoli in Borsa Inserito da: Admin - Febbraio 15, 2008, 09:17:28 pm Due secoli in Borsa
Rinaldo Gianola Gli anniversari vanno festeggiati con brindisi e cotillon, a maggior ragione quando i protagonisti sono importanti istituzioni come la Borsa che oggi, presente il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, compie duecento anni. Questo non vuol dire, tuttavia, nascondere i ritardi, i guai e anche i pasticci. Il napoleonico Palazzo Mezzanotte continua a ospitare il mercato azionario che, nel bene e nel male, rappresenta la nostra economia, il capitalismo nazionale in tutte le sue espressioni, le migliori e le peggiori. Se usassimo il metro della Storia si potrebbe dire che Rivoluzione e Congresso di Vienna si sono spesso alternati in piazza Affari. Eppure, è sempre stato arduo, quasi impossibile, distinguere gli autentici innovatori dai restauratori. Certi protagonisti ti apparivano a prima vista illuminati e coraggiosi, campioni senza macchia e senza paura, ma poi, appena ti illudevi, si palesavano come mascalzoni o peggio. Un vecchio cronista di Borsa, Emilio Moar, cresciuto dai Martinitt, di fronte a inspiegabili successi di certi personaggi commentava in milanese: «Ma se la se gira...», cioè se l’aria cambia vedrete come finiranno i nostri eroi. È una filosofia ancora giusta come dimostrano le cronache di casa nostra e le storie di recenti scandali in America, in Inghilterra, in Francia La Borsa è come il capitalismo tricolore. Capace di grandi imprese, a volte geniale, ma ristretto, oligarchico, spesso familiare o peggio familista, un capitalismo di relazione tra pochi eletti che si ritrovano in circoli esclusivi dove si entra per cooptazione e non per merito. Anche per questo, nonostante il matrimonio con Londra che ci fa partecipare ai grandi giochi, il listino italiano è ancora poca cosa per rappresentare una delle potenze economiche del mondo (ammesso che questo G7 abbia ancora un senso, di fronte a giganti come India e Cina). Le società quotate superano di poco il numero di 300, la capitalizzazione (cioè il valore complessivo di tutte le aziende quotate) sfiora a malapena il 50% del prodotto interno lordo mentre altri paesi a noi vicini raggiungono livelli molto più elevati. In più dobbiamo considerare lo scarso “pluralismo” del nostro mercato azionario. Ci sono pochissimi grandi gruppi, e ci sono poche piccole e medie aziende quotate. Insomma ci manca un pò di tutto. La concentrazione del listino è fortissima: appena sette imprese (Eni, Unicredit, IntesaSanPaolo, Enel, Generali, Telecom, Fiat) coprono oltre il 50% dell’intera capitalizzazione. Interessante è verificare che di queste società solo due (Generali e Fiat) sono di origine esclusivamente privata, mentre alcune sono di Stato (Eni ed Enel) e altre vengono anche dalla sfera pubblica (la privatizzata Telecom, Unicredit che contiene le ex bin Credito Italiano e Banca di Roma, IntesaSanPaolo che ingloba la gloriosa Commerciale). Da anni economisti, politici, imprenditori si interrogano sul motivo per cui la Borsa sia così ristretta, seppur con una lenta tendenza a crescere, e gli inviti e le sollecitazioni alla quotazione sono continui anche se restano privi di risultati apprezzabili. Spesso gli studi di Mediobanca o di Confindustria ci hanno spiegato che sono migliaia le piccole e medie aziende che potrebbero accedere al listino, raccogliere capitali per il loro sviluppo, rafforzare le loro strutture patrimoniali. In realtà la Borsa è vista ancora, e non solo dalle imprese, come qualcosa di lontano, un veicolo interessante ma pericoloso, col quale ci si può anche far male. Gli italiani sono, o forse erano, un popolo di risparmiatori ma piazza Affari non li ha mai convinti del tutto. Negli anni Ottanta ci fu il boom legato alla nascita dei fondi di investimento e i Bot people si aprirono a nuove opportunità. Per la cronaca va segnalato che proprio nel mese di gennaio appena terminato il sistema del risparmio gestito ha registrato il peggior risultato della sua storia. Poi venne la stagione dei “condottieri” come Carlo De Benedetti, forse il primo industriale italiano capace di usare la Borsa in modo moderno, oppure Raul Gardini che voleva fare la «chimica mondiale» ma finì suicida nella sua abitazione milanese, mentre Silvio Berlusconi, unico grande imprenditore cresciuto lontano dall’ombrello protettore della Mediobanca di Enrico Cuccia, non ha mai amato la Borsa: ha ceduto solo quando per salvare se stesso e il suo gruppo decise di quotare, e con successo, Mediaset. A ben vedere la storia di piazza Affari è piena di reazionari e di ben pochi “rivoluzionari”. Chi minaccia l’ordine costituito di solito finisce male. Una certa simpatia la ispirò Mario Schimberni che, a metà degli anni Ottanta, sfidò i suoi stessi padroni. Schimberni guidava la Montedison e scalò la Bi Invest della storica famiglia Bonomi che venne disarcionata in una torrida giornata d’estate. Non contento Schimberni si mise poi a scalare la Fondiaria sfidando l’ira di Cuccia e di Gianni Agnelli che sentenziò: «Bi Invest umanum, Fondiaria diabolicum».D’altra parte la Borsa è stata spesso teatro di battaglie e di vere e proprie guerre. Purtroppo quasi sempre combattute in assenza di regole o di arbitri credibili, per cui anche semplici contrasti facevano scappare i risparmiatori. Anche se può apparire un pregiudizio la nostra Borsa è sempre stata in ritardo, sia negli assetti istituzionali sia per le regole che spesso mancavano. Un paio di esempi non guastano. La prima offerta pubblica di acquisto, la leggendaria Opa Bastogi, venne proposta da Michele Sindona che, diciamolo, non era proprio un galantuomo. Per far entrare davvero in funzione la Consob, l’Autorità di controllo delle società e la Borsa, ci volle il crac del Banco Ambrosiano di Roberto Calvi, all’inizio degli anni Ottanta. Solo con il biennio 1992-’93, dopo l’esplosione di Mani Pulite che fece emergere la commistione indebita tra politica e affari, le società, in particolare i grandi gruppi, fecero pulizia al loro interno, cancellando fondi neri, conti truccati, tesoretti vari, contributi ai partiti che erano autentiche forme di corruzione. In quegli anni la crisi di Montedison-Ferruzzi, dell’Eni, della Fiat furono la cartina di tornasole non solo di una recessione che colpiva l’Italia, ma la fine di una stagione. U na nuova epoca, in effetti, venne inaugurata nel 1992 con una politica coerente di privatizzazioni, come ha ricordato il governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi, protagonista di quel periodo in veste di direttore generale del Tesoro, prima di trasferirsi alla Goldman Sachs.Le vendite di aziende di Stato hanno certamente favorito la lotta al debito pubblico, la crescita del mercato azionario, anche importanti processi di aggregazione in particolare nel settore bancario. Ma, a ben vedere, non è stato raggiunto l’obiettivo di rendere più aperto, pluralista e potremmo dire democratico, rischiando l’ossimoro, il capitalismo. Le privatizzazioni, a volte, si sono risolte nel semplice trasferimento di rendite di Stato o di settori “tariffati” dal pubblico al privato, come nel caso delle Autostrade (perchè mai devono stare nella mani dei Benetton?) o di Telecom, la cui vendita ha rappresentato il maggior fallimento del capitalismo tricolore anche se ci ha regalato l’Opa lanciata dall’Olivetti, una delle poche vere operazioni di mercato realizzate in questo Paese. In conclusione l’unica consolazione per la Borsa e anche per l’intero Paese è che tutti, ma proprio tutti, siamo stati salvati dall’Europa. Meno male che ci siamo dentro, altrimenti chissà che guai in piazza Affari e fuori. Pubblicato il: 15.02.08 Modificato il: 15.02.08 alle ore 14.43 © l'Unità. Titolo: Rinaldo Gianola. Telecom Italia confidential Inserito da: Admin - Giugno 30, 2008, 09:34:22 pm Telecom Italia confidential
Rinaldo Gianola Se la limatura del contratto di qualche anchorman de La7 ho mobilitato fior di commentatori, se la paura di perdere le interviste della Bignardi tiene alcuni in ansia, se la linea editoriale di Giovanni Stella, in arte “er canaro” neo capo della tv di Telecom Italia, ha fatto gridare allo scandalo perché così poco elegante, allora c’è da chiedersi cosa succederà nei prossimi giorni quando si dovrà discutere dei 5000 esuberi annunciati dal gruppo di telecomunicazioni. Qui non si tratta di rimpiangere le Markette di Chiambretti, ma di sapere come mai Telecom voglia allontanare qualche migliaio di dipendenti per «recuperare efficienza». Questa notizia degli esuberi, di cui pochi si sono occupati anche se ovviamente è più importante delle sorti di Crozza e Ferrara, rappresenta un passaggio importante per capire dove sta andando uno dei grandi gruppi industriali che, dalla fine dello scorso anno, è guidato da Gabriele Galateri di Genola e Franco Bernabè e conta su un nuovo pool di controllo dove la novità è la spagnola Telefonica. Ora se il tremendo Stella fa quello che può e che deve per tentare di salvare una società che perde un terzo di quanto ricava, e quindi in un’altra dimensione aziendale sarebbe già defunta, la ristrutturazione di Bernabè suscita qualche interrogativo e più di una perplessità. Tanto che i sindacati non hanno affatto gradito le migliaia di esuberi e per venerdì prossimo hanno deciso uno sciopero generale del gruppo. Dove sta andando Telecom? Il ritorno di Bernabè alla guida dell’ex monopolista, dopo il veloce passaggio del 1999 quando venne esautorato dalla scalata dell’Olivetti, non è stato finora molto fortunato, diciamo così. Se si prendesse in considerazione il mercato, che anche per lady Emma Marcegaglia è il supremo giudice, il bilancio provvisorio non potrebbe essere confortante: negli ultimi sei mesi il titolo Telecom ha perso oltre il 40% del valore. Ma non ci si può legare solo a questo indicatore, che pur ha un rilevante impatto sugli investitori, i risparmiatori e anche sulle stock options dei manager, per giudicare l’operato della nuova compagine di azionisti e dei nuovi vertici. Ci vuole tempo, prima di fare bilanci. Soprattutto solo il tempo dirà se Telecom continuerà ad esistere come entità autonoma o sarà costretta a una fusione magari proprio con l’aggressiva Telefonica. Bernabè ha iniziato la sue seconda stagione in Telecom con uno stile da partito democratico: buonista, cercando il dialogo e di fare la pace con tutti. Innanzitutto ha avviato un chiarimento con l’Autorità del settore, con la quale la passata gestione di Marco Tronchetti Provera aveva avuto più di un conflitto, e ha stabilito, almeno sembra, rapporti più sereni anche con i più forti competitori presenti sul mercato domestico. Ha detto che non abbandonerà ma anzi rafforzerà la presenza in Brasile, mercato ad alto tasso di sviluppo, vuole investire nei servizi più avanzati, avvierà un discorso con Tiscali (di proprietà del neo editore de l'Unità, Renato Soru), vuole portare la banda larga ovunque (anche il governo, pare, gli sta dando una mano), riducendo l’indebitamento e premiando comunque gli azionisti. Il titolo, però, continua a scendere. Come mai? Qui non c’entrano solo la crisi finanziaria, i subprime e la recessione. Le telecomunicazioni hanno perso quella valenza forse esagerata che avevano verso la fine degli anni Novanta, sull’onda del successo della New Economy quando le compagnie di telecomunicazioni venivano valorizzate in misura abnorme dal mercato e dai consumatori. Oggi l’interesse è minore. Le telecomunicazioni e tutto quello che le lega a internet, alla tv, alla multimedialità sono ancora molto importanti ma vengono percepite come una merce, una “commodity” o poco più: le compagnie si comprano un pezzo di banda larga in un paese, un po’ di telefonia mobile in un altro, sperimentano una tv in un altro ancora. Non c’è più il tocco magico e nemmeno quell’euforia irrazionale che spingeva tutto al rialzo. Allora bisogna lavorare sui servizi, le tariffe, la competizione. La scelta di ridurre di 5000 unità la forza lavoro non è una brillante idea manageriale: non c’è bisogno di aver studiato ad Harvard per cacciare qualche migliaio di persone sperando di ridurre i costi e guadagnare qualche euro in più nell’ultima riga del conto economico. In più questi esuberi non sono ben motivati e c’è la spiacevole sensazione che si voglia far pagare ai lavoratori, che certamente saranno tutelati nella loro eventuale uscita, un conto che altri non hanno pagato. Bernabè ha sempre beneficiato di un’immagine di manager progressista, fin dai tempi in cui scampò allo scandalo Enimont e riuscì poi a spingere fuori dall’Eni i partiti delle tangenti. Per questo ci saremmo aspettati da un uomo cui non difetta il coraggio (fummo testimoni addirittura di un suo rock and roll scatenato in coppia con Lilli Gruber a Wall Street nel gennaio 2002...) e anche una sicura abilità dialettica una spiegazione convincente al momento dell’annuncio delle migliaia di esuberi. Perché nelle vicende Telecom degli ultimi tempi sono ancora aperte partite (com’è governata oggi le Security? Che eredità ha lasciato la passata gestione?) che meritano di essere chiarite. Soprattutto da chi si pone come un campione di un presunto capitalismo leale e trasparente, sempre ammesso che non sia un ossimoro. Facciamo un esempio che può aiutare. A pagina 144 della relazione del bilancio consolidato Telecom del 2007, nel capitolo sulle Risorse Umane, in maiuscolo ovviamente, si legge: «Le società del gruppo riconoscono la centralità delle Risorse Umane, nella convinzione che il principale fattore di successo di ogni impresa sia costituito dal contributo professionale delle persone che vi operano, in un quadro di lealtà e di fiducia reciproca. Le società del gruppo tutelano la sicurezza e la salute nei luoghi di lavoro e ritengono fondamentale il rispetto dei diritti dei lavoratori». Bene, allora perchè cacciate 5000 persone? Ma poi qualcuno potrebbe anche incavolarsi, e di brutto, passando alle pagine 176-177 dove si parla «delle indennità degli amministratori in caso di dimissioni, licenziamento o cessazione del rapporto a seguito di un’offerta pubblica di acquisto». Da queste note apprendiamo, a proposito di «efficienza», che l’ex vicepresidente esecutivo Carlo Buora, uscito nel dicembre 2007, è stato corrisposto «un importo pari ad euro 4.400.000». Ma non basta. «Con lui è stato altresì stipulato un patto di non concorrenza di durata biennale, relativo ai business del gruppo e per il territorio europeo, con corrispettivo di euro lordi 4.000.000 da liquidarsi in quattro rate semestrali posticipate a partire dalla chiusura del rapporto». Non è finita, c’è anche la liquidazione dell’ex amministratore delegato Riccardo Ruggiero al quale è stato corrisposto «un c.d. “incentivo all’esodo” di euro 9.915.000». C’è di più. Scrive il consiglio di amministrazione che «la considerazione poi delle particolari circostanze che hanno caratterizzato la vita aziendale dello scorso esercizio e dell’evidenza che di esse è stata ripetutamente data dai media ha suggerito altresì di stipulare con il dott. Ruggiero una c.d. “transazione tombale” mediante la quale Telecom Italia ha ottenuto, a fronte di una corresponsione di una somma di 2 milioni di euro (poco più di una annualità di compensi fissi), la rinuncia a qualsiasi rivendicazione retributiva (...) nonchè la rinuncia a qualsiasi rivendicazione per danni di qualsivoglia natura, anche di immagine». Che spettacolo! Ci sarebbe anche da raccontare il caso di Antonio Campo Dall’Orto, il genio della “tv dei fighetti” con percentuali di audience da prefisso telefonico difeso da Aldo Grasso sul Corrie della Sera, che grazie a una clausola contrattuale che regolava le dimissioni in seguito alle eventuali modifiche dell’assetto azionario, ha portato a casa un vero e propro tesoretto. Forse Bernabè, che ha dedicato una-riga-una ai 5000 esuberi nell’intervista concessa a Giovanni Pons su Repubblica nei giorni scorsi, potrebbe illustrare almeno che relazione esiste tra certe liquidazioni miliardarie e gli obiettivi di «efficienza» aziendale che spingono a tagliare migliaia di posti di lavoro. Pubblicato il: 30.06.08 Modificato il: 30.06.08 alle ore 9.04 © l'Unità Titolo: Rinaldo Gianola. LA CRISI DI PROFUMO Inserito da: Admin - Ottobre 06, 2008, 12:09:14 am 2008-10-05 21:33
UNICREDIT, PIANO DA 6,6 MLD. MERKEL, GARANZIE SU DEPOSITI MILANO - Il consiglio di amministrazione di Unicredit ha approvato un piano anti-crisi da 6,6 miliardi di euro per rafforzare la patrimonializzazione del gruppo per raggiungere un Core Tier 1 ratio del 6,7%. Lo si apprende da una nota diffusa dopo una seduta straordinaria del cda, riunita per oltre 5 ore nella sede di Piazza Cordusio. "Il sostegno convinto dato dai nostri principali azionisti al piano di rafforzamento del capitale è un chiaro messaggio di fiducia nel gruppo, nel suo modello di business diversificato e nella sua solidità finanziaria". "Il consiglio di amministrazione ha voluto sottolineare il suo forte sostegno e la sua completa fiducia nel management". Questo il messaggio del presidente di Unicredit Dieter Rampl al termine del Cda. "Questa operazione - ha proseguito Rampl - fa di Unicredit uno dei gruppi con il più elevato livello di patrimonializzazione in Italia". Rampl si è poi detto convinto che "la performance commerciale e un'ancora più solida base patrimoniale continueranno a rappresentare gli elementi chiave per la creazione di valore di Unicredit a beneficio dei suoi azionisti, dei suoi clienti e dei suoi dipendenti". MERKEL: GARANZIE SUI DEPOSITI - Ampliate le garanzie sui depositi e trattative a tutto capo per salvare Hypo Re, al fine di rassicurare il sistema ed evitare che una crisi sul mercato finanziario tedesco possa ripercuotersi sulla maggiore economia europea. La cancelliera Angela Merkel, all'indomani del G4 di Parigi, assicura che il governo tedesco non lascerà fallire nessuna società: "Non permetteremo che le difficoltà di un'istituzione finanziaria mettano in pericolo l'intero sistema. Per questo motivo stiamo lavorando duramente per proteggere e rendere stabile Hypo Real Estate". La seconda banca tedesca specializzata in mutui immobiliari ha visto svanire in poche ore il piano di salvataggio da 35 miliardi di euro, il maggiore della storia tedesca. Approvato anche dalla Commissione Europea, il progetto avrebbe dovuto coprire i bisogni di cassa di Hypo fino ad aprile. Il consorzio di banche che avrebbe dovuto fornire le linee di liquidità si é però tirato indietro, lasciando così Hypo sull'orlo della bancarotta. L'operazione consisteva in un apporto immediato di liquidità dalle banche e dalla banca centrale con una garanzia fornita dallo stato tedesco per 26,5 miliardi dei 35 complessivi. Per evitare il fallimento della banca, il governo tedesco sta lavorando - spiega il ministro delle finanze tedesco Peer Steinbrueck - a una "soluzione specifica" per l'istituto. "Abbiamo dovuto ripartire da zero: alla fine della scorsa settimana pensavano di aver trovato una soluzione", spiega Steinbrueck, precisando che Hypo Re accusa mancanza di liquidità per miliardi euro. Una soluzione dovrebbe essere trovata prima dell'apertura dei mercati lunedì. Nel piano allo studio rientra anche l'impegno a punire chi abbia assunto decisioni di mercato sconsiderate, di cui dovrà rispondere, ma anche la garanzia per tutti i depositi. L'estensione delle garanzie riguarderà tutti i conti privati ed è simile alla misura adottata dall'Irlanda nei giorni scorsi: i dettagli della decisione saranno formalizzati nei prossimi giorni ma l'annuncio odierno mira a smorzare le eventuali preoccupazioni dei tedeschi: "Vogliamo inviare un messaggio, e cioé che nessuno deve avere timori di perdere neanche un euro dalla crisi". Attualmente il limite di assicurazione dei depositi in Germania é fissato al 90% per tutti risparmi privati fino a 20.000 euro. Si tratta del limite più basso in Europa. da ansa.it Titolo: Rinaldo Gianola. LA CRISI DI PROFUMO Inserito da: Admin - Ottobre 06, 2008, 06:27:59 pm La crisi di Profumo
Rinaldo Gianola Quando il capo di una delle più potenti banche europee entra a sorpresa nelle case degli italiani presentandosi al tg delle 20, nell’ora di massimo ascolto, vuol dire che vive nel terrore. Se un banchiere come Alessandro Profumo, amministratore delegato di Unicredit, sceglie, come ha fatto pochi giorni fa, di farsi intervistare da Gianni Riotta per tranquillizzare dipendenti e azionisti commette un errore madornale che può essere giustificato solo da due fatti: o Profumo ha un’enorme stima di se stesso tale da fargli perdere di vista le reali dimensioni del problema, o è stato mal consigliato. L’apparizione televisiva di Profumo, banchiere abituato alla riservatezza e al controllo delle parole, ha confermato immediatamente, qualora qualcuno avesse sottovalutato il caso Unicredit, le difficoltà in cui è precipitato uno dei maggiori istituti di credito italiani ed europei. Vittima della speculazione ribassista oppure di un misterioso gangster londinese che ha osato vendere “allo scoperto” i titoli della banca di piazza Cordusio, Profumo si troverebbe in queste difficoltà, secondo la versione corrente sui grandi giornali, perchè indebitamente attaccato da forze oscure che agiscono sul mercato. Sono giustificazioni parziali che hanno un loro valore in questa congiuntura di Borsa, ma che non riescono affatto a spiegare, tanto per fare un semplice esempio, come mai la capitalizzazione di Borsa di Unicredit sia più che dimezzata in meno di due anni, passando da 100miliardi di euro agli attuali 39 miliardi. Colpa delle vendite “allo scoperto”? Non è una scusa credibile. Nemmeno quella del complotto. Perchè un banchiere così bravo e famoso, passato dalla Bocconi alla McKinsey fino a diventare per la stampa internazionale «Kaiser Alessandro», avrà certamente appreso come alcuni ritengono la speculazione un po’ il sale dei mercati, che si può soffrire quando è al ribasso, ma non risulta che qualcuno si sia mai allarmato quando il rialzo portava il titolo Unicredit a livelli siderali. C’è qualche cosa di più profondo da ricercare, dunque, se si vuole davvero spiegare la drammatica caduta di Unicredit. Se la banca è finita sotto attacco, e probabilmente qualcuno ha anche pensato a un take over ostile in questa situazione, è perchè il mercato ha percepito la debolezza della banca in questo frangente, una debolezza che deve essere stata segnalata anche dal Governatore Draghi se il consiglio di amministrazione ha deciso di correre ai ripari con un’operazione monstre destinata a rafforzare i coefficienti patrimoniali. Certi operatori di Borsa sono come i cani da caccia: “sentono” la preda, la stanano fino ad azzannarla. Unicredit si è dimostata, fino a ieri, una preda debole. Vedremo se si rafforzerà con la cura decisa ieri sera. La parabola discendente di Unicredit e del suo leader Profumo, che speriamo sia finita perchè la banca è troppo importante per l’Italia e l’Europa, non è un fatto episodico, momentaneo. Già da più di un anno la banca sembrava aver perso lo smalto, la brillantezza di un tempo. Nei mesi scorsi si era parlato con insistenza di una eccessiva dimestichezza della banca con i derivati - rammentiamo persino una polemica tra il Sole24 Ore e Unicredit -, altri avevano denunciato l’esposizione delle controllate dell’Est europeo verso i prodotti finanziari tossici, in più non è una novità che tra l’amministratore delegato Profumo e le Fondazioni azioniste (Verona, Torino, Carimonte) siano sorte, a più riprese, tensioni su vari temi, compresa la gestione delle ricche partecipazioni finanziarie. Ma c’è un momento in cui la stella di Profumo cessa di brillare. C’è un attimo in cui il mercato e la stampa internazionale hanno preso a guardarlo con altri occhi, molto più severi. Il momento della caduta di Profumo inizia quando Unicredit acquista Capitalia. Se si supera la retorica della grande operazione nazionale, dei laudatores dell’integrazione tra due gruppi creditizi che rafforza l’Italia nel mondo, si vede come proprio quando Unicredit tocca livelli record di capitalizzazione e si posiziona tra i primi nella classifica del credito in Europa, inizia in realtà a indebolirsi. Come mai? Non ci sono risposte certe e conclusive. Ma qualche solida ipotesi si può avanzare. Molti hanno pensato, e agito di conseguenza sul mercato, che l’abbraccio tra Profumo e Cesare Geronzi cementasse un affare di potere più che una fusione bancaria. Molti hanno ritenuto che la filosofia di Profumo della “creazione del valore”, di una politica tutta proiettata alla tutela dello shareholder value, sparissero all’improvviso dietro un patto di potere. A Profumo tutto l’impero bancario di Unicredit più le rissose province di Capitalia; a Geronzi la guida di Mediobanca, il santuario della finanza tricolore, con vista privilegiata sulle Assicurazioni Generali. Sarà forse un caso ma da quell’abbraccio Profumo ha perso il tocco magico. Pur ricercato, spesso inutilmente, dai salotti delle sciure milanesi, pur apprezzato da giornaliste di costume che ne decantano la coraggiosa scelta del tabarro anzichè del cappotto dei comuni mortali, pur godendo della fama di banchiere progressista (con la moglie, la signora Sabina Ratti già in gara alle primarie dei democrats, frazione Rosy Bindi), Profumo non è più lo stesso, sembra aver perso lo smalto del fuoriclasse. E alcuni ultimi episodi testimoniano di una timidezza sorprendente davanti a partite decisive. Quando Geronzi decide che il sistema di governance duale non va più bene in Mediobanca perchè lui vuole contare di più, Profumo fa filtrare la sua apparente contrarietà, salvo poi ripetere il mantra dell’importante «è creare valore» e infine accettare con pochi ritocchi la restaurazione geronziana. Inoltre l’assenza di Unicredit da una sfida improba come quella di Alitalia, mentre i concorrenti di Intesa SanPaolo ispirati dal «capitalismo temperato» di Bazoli si buttavano a capofitto non senza rischi, è apparsa come un’abdicazione a un salvataggio che interessava il Paese e migliaia di lavoratori. Ma Profumo deve aver ritenuto che Alitalia non era un’occasione per creare valore. Sabato scorso, parlando agli studenti del Collegio di Milano, Profumo ha promesso che lascerà il suo incarico a sessant’anni, oggi ne ha cinquantuno. È un segno di ottimismo incoraggiante in questo momento. Bisognerà vedere, però, se i suoi azionisti sono d’accordo. Pubblicato il: 06.10.08 Modificato il: 06.10.08 alle ore 11.46 © l'Unità. Titolo: Rinaldo GIANOLA. Marina nel cda, Berlusconi scala Mediobanca Inserito da: Admin - Ottobre 27, 2008, 03:11:12 pm Marina nel cda, Berlusconi scala Mediobanca
Rinaldo Gianola L'ingresso di Marina Berlusconi nel consiglio di amministrazione di Mediobanca, atteso all'assemblea degli azionisti di domani, segna un passaggio importante negli assetti e negli equilibri del potere economico italiano. Sarebbe, infatti, un errore considerare la nomina della figlia del premier, che già ricopre importanti ruoli come la presidenza della Mondadori, come una semplice promozione ai vertici della maggior banca d'affari, da sempre stanza di compensazione del capitalismo tricolore. La novità, invece, segna la definitiva presa di Berlusconi sui gangli vitali della finanza e dell'economia, attraverso la presenza diretta della Fininvest nell'azionariato dell'Istituto e da domani anche con l'esordio della figlia in consiglio. Un Berlusconi in Mediobanca è davvero una grossa novità, sia per la storia del gruppo Fininvest-Mediaset, sia perchè coincide con la svolta bonapartista imposta da Cesare Geronzi che ha ottenuto la cancellazione del sistema di governance duale (con la separazione tra azionisti e manager, solo un anno fa era soluzione presentata come una rivoluzione...) per tornare a quello tradizionale del solo consiglio di amministrazione di cui proprio Geronzi, «l'unico banchiere non di sinistra» secondo una definizione del premier, sarà presidente. Anche Berlusconi è cambiato. Vent'anni fa, all'epoca della privatizzazione di Mediobanca con la parziale uscita delle ex banche di interesse nazionale (Comit, Credit e Banca di Roma) il tycoon di Arcore rifiutò di partecipare: «Dovrei spendere 40 miliardi per non contare nulla...» disse, con il solito senso degli affari. Ma quelli erano altri tempi: Enrico Cuccia e Vincenzo Maranghi guidavano la banca con il loro ascetismo calvinista, Gianni Agnelli e Leopoldo Pirelli erano la faccia nobile del capitalismo. Il potere si esercitava in poche mani e i neofiti, come Berlusconi, venivano trattati con distacco dall'aristocrazia imprenditoriale. Ma i tempi cambiano e il premier-imprenditore comprende oggi l'importanza di stare in Mediobanca in prima fila, assieme agli amici Geronzi, Ennio Doris, Tarak Ben Ammar, Vincent Bollorè e Salvatore Ligresti (quest'ultimo rappresentato dalla figlia Jonella) con il quale divideva appalti e affari nell'indimenticabile Milano di Craxi. L'avanzata di Berlusconi e dei suoi alleati in Mediobanca è spedita, ben più forte del semplice possesso di azioni. Non ci sono più i vecchi leoni, De Benedetti addirittura è impegnato a scrivere libri per la Mondadori (Ingegnere, ma non poteva scegliere un'altra casa editrice?), non si trovano oppositori. Alessandro Profumo, capo di Unicredit, uno dei pochi che avrebbe potuto esercitare il suo ruolo di grande azionista e contrastare l'avanzata delle truppe berlusconiane, sconta errori e presunzione ed è costretto ad accettare le garanzie della Mediobanca di Geronzi per la ricapitalizzazione di 6 miliardi di euro della sua banca. Facile immaginare, dunque, che non solo dal governo ma anche dal santuario di piazzetta Cuccia, Berlusconi eserciterà la sua moral suasion sulle imprese. Da Mediobanca si domina sulle Generali, su Telecom, sul Corriere della Sera e mille altre province. La signora Marina, c'è da scommetterci, farà bene il suo lavoro. Negli ultimi tempi non si è accontentata di apparire nella classifica di Forbes delle imprenditrici più potenti. Ha attaccato Veltroni in un'intervista sul Corriere della Sera e ha polemizzato con Barbara Spinelli che aveva osato criticare il papà sulla Stampa. Inizia una nuova epoca: piccoli Berlusconi crescono, si moltiplicano e comandano. Pubblicato il: 27.10.08 Modificato il: 27.10.08 alle ore 8.57 © l'Unità. Titolo: Rinaldo GIANOLA Veronica e il rifugio in Svizzera Inserito da: Admin - Agosto 20, 2009, 05:25:12 pm Veronica e il rifugio in Svizzera
di Rinaldo Gianola Berlusconi e Agnelli, il premier e il più potente gruppo industriale privato. L’eredità, il divorzio, lo scontro. La moglie contro il marito. La figlia contro la madre. Veronica e Margherita. E la Svizzera. Il capitalismo italiano anima l’estate 2009 con vicende familiari che minacciano di incrinare un sistema di potere consolidato, di turbare l’immagine di grandi capitani d’industria col sospetto, e anche qualche cosa di più, che fossero pure dei grandi evasori oltre che inflessibili condottieri di stampo sabaudo. Separazioni e litigi che dalla dimensione personale e di portafoglio tracimano nella politica, arrivano, come nel caso della famiglia Berlusconi, alla presidenza del Consiglio, al governo, agli interessi privati e anche di mercato di un imprenditore prestato alla politica. Poi c’è la Svizzera, patria dei conti correnti e dei caveau, rifugio sicuro (almeno una volta, oggi un po’ meno anche se non abbiamo ancora visto miliardari in fuga come gli anarchici cantando “Addio Lugano bella...”) per chi vuol farsi dimenticare e vivere in silenzio, coi propri segreti e coi propri quattrini. Dal Lago di Ginevra Margherita Agnelli ha lanciato accuse alla sua famiglia e ai fedeli collaboratori di suo padre che minacciano di destabilizzare l’intero gruppo Fiat, di portare gli eredi Agnelli sul banco degli imputati come beneficiari di un patrimonio creato con l’evasione fiscale e l’esportazione di capitali. Tutto si tiene e nulla cambia: ai tempi di Mani Pulite la Fiat aveva in Svizzera un tesoretto che usava per pagare tangenti. Adesso Margherita chiede alla mamma di rivelare dov’è finito un tesoro di circa 2 miliardi di euro. È un pasticcio che richiama l’attenzione dell’Agenzia delle Entrate. Un capitolo esemplare del capitalismo familiare. Forse andrà a vivere in Svizzera anche Veronica Lario, nome d’arte di Miriam Raffaella Bartolini, 53 anni, moglie di Silvio Berlusconi. Magari è solo una voce che alimenta la torrida estate milanese, ma c’è qualche cosa di fondato e di credibile in questa indiscrezione che spinge la moglie del premier a cercare riparo, rifugio, lontano delle battaglie e dai veleni che la stampa e gli avvocati del marito spargono a piene mani. La mamma di Veronica starebbe ristrutturando una casa acquistata in Svizzera: forse la utilizzerà anche la figlia. Altri dicono che Veronica, che ha un certo fiuto per gli investimenti immobiliari, potrebbe prendere casa al confine, magari nei pressi di Lugano scelta dalla figlia Barbara per far nascere i suoi due figli con la garanzia del pieno rispetto della privacy. Si vedrà. Per evitare il peggio hanno tessuto la loro opera silenziosa i vecchi amici di Silvio e di Veronica. Hanno speso parole di saggezza Fedele Confalonieri e Gianni Letta, anche Don Verzè ha fatto il suo. Ma la rottura non si può ricomporre, per ora trattano gli avvocati. C’è da tutelare i diritti dei cinque figli Berlusconi: Marina e Piersilvio del primo matrimonio, Barbara, Eleonora, Luigi dall’unione con Veronica. I primi sono già attivi nella conduzione delle società del gruppo. Gli ultimi tre scalpitano. Barbara dice a "Vanity Fair" che non si saranno problemi se suo padre «sarà equo», che sarà forse una battuta ingenua ma risulta una pugnalata. Bisogna trovare posti e spazio: se Piersilvio ha potuto dare un ruolo a un ex compagno di scuola in Mediaset, possibile che Barbara non possa andare alla Mondadori, come vorrebbe? Sono vicende che possono creare tensioni, anche quando non si vuole. Ci vorrebbe pazienza e collaborazione, ma quando ci sono di mezzi i sentimenti, la rabbia di una separazione, tanti soldi e potere, tutto diventa più difficile. Da una parte c’è Silvio Berlusconi che, sotto la Fininvest, ha messo insieme un gruppo che vale oltre 6 miliardi di euro, più oltre un miliardo di liquidità che sta nella cassaforte della capogruppo (Carlo De Benedetti ha chiesto alla holding di Berlusconi un risarcimento danni proprio di un miliardo per la sentenza comprata del caso Mondadori). Bisogna inoltre verificare se esistono altre attività e interessi all’estero. Dall’altra parte c’è Veronica Lario, la moglie. Anche Veronica si è costituita, in trent’anni di vita con Berlusconi, un tesoretto. Miriam Bartolini,cioè Veronica Lario, possiede la totalità del capitale della Finanziaria Il Poggio, società a responsabilità limitata che concentra i suoi interessi negli immobili. Il portafoglio immobiliare rende circa il 4% annuo ed è iscritto nel bilancio 2008 per un valore di 20,44 milioni di euro. La società possiede tre appartamenti (Bologna, città natale della moglie di Berlusconi, Olbia e Londra), due immobili per uffici a Milano e Segrate che rendono 1,13 milioni di canone d’affitto. Nell’ultima relazione, curata dall’amministratore unico Giuseppe Scabini, emerge che la signora Bartolini ha proceduto a un impegnativo investimento nei primi mesi del 2009: ha acquistato Palazzo Canova, nel centro direzionale di Milano 2 a Segrate, la prima cittadella creata dal marito quando faceva il costruttore. Interessante il meccanismo di finanziamento dell’operazione: a fronte di un costo di 27 milioni di euro, l’acquisizione è stata coperta da un altro finanziamento a tasso zero da parte del socio (cioè Veronica) per 7 milioni più un mutuo ipotecario ventennale. L’indebitamento verso soci della Finanziaria Il Poggio è pari a 23,75 milioni, mentre quello verso le banche è sceso da 3,12 a 1,82 milioni di euro. I debiti sono tutti verso il Monte Paschi di Siena, banca “rossa” già assiduamente frequentata da Berlusconi in passato. La finanziaria della signora Lario ha chiuso il bilancio con una perdita modesta (11.565 euro) che si confronta con un utile di 78.735 dell’anno precedente. Ma non è finita. Alla Finanziaria fanno capo anche la Orchidea Realty di New York e un contratto di leasing immobiliare con la Palace Gate Mansions a Londra. Tra le partecipazioni più significative detenute direttamente da Veronica Lario c’è la quota del 38% del Foglio Edizioni, società editrice del quotidiano di Giuliano Ferrara. Tra un anno vedremo se il divorzio da Berlusconi avrà modificato il patrimonio della signora Lario. 19 agosto 2009 da unita.it Titolo: Rinaldo Gianola. Berlusconi ha scelto Formigoni Sarà lui il prossimo governatore Inserito da: Admin - Settembre 09, 2009, 11:38:05 am Berlusconi ha scelto Formigoni: "Sarà lui il prossimo governatore lombardo"
di Rinaldo Gianola Nel suo Ipod nano color antracite Roberto Formigoni alterna il rock duro dei Metallica e dei Foo Fighters con il romanticismo dei Beatles e di Battisti. Questo eclettismo musicale, tuttavia, non coincide con la sua lineare e dura azione politica che negli ultimi trent’anni lo ha portato dal Movimento popolare fino alla presidenza della Regione Lombardia, passando per lo scardinamento della vecchia Dc e l’uso del braccio affaristico di Cl, la Compagnia delle opere. Formigoni è stato ieri investito pubblicamente da Berlusconi come il candidato del centrodestra alle elezioni regionali del 2010, facendo così piazza pulita delle aspirazioni leghiste, comprese quelle di Roberto Castelli, ex compagno di liceo del governatore a Lecco. Formigoni, piaccia o no, rappresenta un record politico. È diventato presidente della Lombardia nel 1995 sconfiggendo Diego Masi, ha trionfato nel 2000 su Mino Martinazzoli, si è confermato del 2005 battendo Riccardo Sarfatti. Se l’anno prossimo gli elettori gli confermeranno il loro consenso, Formigoni potrà arrivare a governare la Lombardia per quattro mandati di seguito, vent’anni. Avrà fatto meglio di Franz Joseph Strauss, il leader dei cristiano sociale tedeschi, spesso citato come esempio dai governatori del centro destra del Nord, che guidò la Baviera per dieci anni fino alla sua scomparsa nel 1988. Governare la Lombardia significa esercitare un potere enorme. Questa è la regione con il maggior numero di abitanti (circa 9 milioni) e di elettori, produce il 20% del Pil nazionale, il reddito pro-capite è il più alto d’Italia con 22.500 euro a testa. Qui ci sono più ipermercati, più depositi bancari, più dirigenti d’azienda donne rispetto a qualsiasi altra regione italiana. La sola Milano è di gran lunga la città dove si vendono più libri in Italia. Forse questi pochi dati spiegano perchè Formigoni, nonostante i suoi successi elettorali, ha sempre preferito restare al Pirellone piuttosto che conquistarsi un posto nel governo a Roma. Come un autentico uomo di potere, che abbina l’immagine del sacrificio personale con le notti passate nel convitto seminariale con la realtà più sbarazzina di barche in Sardegna, auto potenti e amiche inquietanti, Formigoni ha compreso che la sua presidenza conta molto di più che non la poltrona di un importante ministero. Forse è sempre stato lontano da Roma anche perchè ne teme le tentazioni e le trame della politica, mentre lui in Lombardia è protetto e governa felice il suo blocco sociale e di potere. Formigoni è come certi sciur brambilla brianzoli che non hanno paura di andare a Bagdad se ritengono giusta la loro missione, ma si sentirebbero insicuri e fuori luogo in qualche salotto. Culturalmente, anche politicamente, Formigoni può apparire un uomo distante dal berlusconismo populista e irresponsabile. Ma tra i due c’è un evidente coincidenza di interessi: Berlusconi riconosce che Formigoni è un gran portatore di voti, il governatore può far pesare questo ruolo nella divisione della torta. Quello che conta. Il governatore ha costruito la sua fama miscelando un pò di solidarismo cattolico che non guasta mai con l’immagine del manager efficiente. La sanità, l’istruzione, le opere pubbliche sono i suoi cavalli di battaglia, con le truppe fidate dei ciellini piazzati ovunque. Siamo arrivati al punto che il suo amico antiabortista Cesana è diventato presidente della clinica Mangiagalli. E magari, sopita la guerra che ha spinto alle dimissioni Dino Boffo, vedremo un uomo di Formigoni alla guida dell’Avvenire. Il governatore si vanta che la nuova sede della regione, che batte in altezza il grattacielo Pirelli, procede con puntualità svizzera. È vero. Ma anche lui non fa miracoli: la Malpensa non va, è stato un fallimento politico l’incapacità di Formigoni e compagnia di difendere gli interessi dello scalo milanese dall’invenzione della cordata patriottica per Alitalia di Berlusconi. L’inquinamento avvelena Milano, la cassa integrazione cresce del 400% e l’Expo 2015 è solo una scommessa. Formigoni, però, ci mette la faccia. Lo faceva già quando si picchiava davanti alla Cattolica, lo fa anche ora. Da anni, invece, questa regione è stata trascurata dal centro sinistra, in tutte le sue declinazioni. Sarà dura battere Formigoni. Ci vuole un peso massimo. E senza paura. 09 settembre 2009 da unita.it Titolo: GIANOLA Sobrietà e consumismo, così i cattolici cercano l'alternativa alla crisi Inserito da: Admin - Novembre 14, 2009, 04:43:05 pm Sobrietà e consumismo, così i cattolici cercano l'alternativa alla crisi
di Rinaldo Gianola In Italia ogni persona consuma in media 196 litri di acqua minerale all’anno. Circolano 36 milioni di autovetture, 752 auto ogni mille abitanti, la più alta densità europea. Ogni cento persone sono attivi 122 contratti di telefonia cellulare. In più ogni italiano butta tra i rifiuti 27 chilogrammi di cibo commestibile all’anno. Crisi o non crisi siamo un “bel” popolo di consumatori, anzi di consumisti: spinti dalla pubblicità, dalla comunicazione, da un malinteso senso del benessere, tendiamo a costruirci un mondo opulento dove crogiolarci felici mentre il Titanic affonda, senza rispetto per le risorse di tutti e senza solidarietà verso le ingiustizie patite da molti. Di questo passo non andremo molto lontano: magari ci sarà la ripresa, ci consoleremo con qualche rimbalzino del Pil e alla fine torneremo di nuovo indietro, vittime e ostaggi del nostro modo di vivere. Ma, complice anche la crisi devastante dell’ultimo biennio, è arrivata l’ora di pensare un nuovo modello di sviluppo, un aggiustamento (se proprio non si può sopprimere...) dell’economia di mercato e un diverso stile di vita. Una forte e apprezzabile dialettica emerge dal mondo cattolico dove più soggetti, a vari livelli di responsabilità e di elaborazione, si interrogano sullo stato di “questa” economia e sulla urgente necessità di cambiarla, cambiando anche noi stessi. Nei giorni scorsi a Milano la Caritas ha promosso un seminario dal titolo «Sobrietà, Solidarietà, Stili di vita» in cui si è dibattuto a fondo sulla liberazione dal consumismo, così come inteso e praticato oggi, e sull’innovazione delle pratiche sociali ed economiche. L’impegno, che appare evidente nel ruolo della Caritas sul territorio, negli interventi pubblici di alcuni vescovi, nella creazione dei fondi di solidarietà, è finalizzato non solo a essere presenti dove gli effetti della crisi sono socialmente più forti, ma anche a definire un nuovo «modello culturale» di vita e di sviluppo. Una strada che, visti i ritardi, potrebbe essere percorsa anche da quelle forze politiche progressiste, come il pd, che dovrebbero sentirsi motivate a creare un “modello culturale” alternativo a quello berlusconiano. Il recente libro del cardinale Dionigi Tettamanzi «Non c’è futuro senza solidarietà» indica come «uscire dall’attuale crisi è questione non solo di nuove regole per l’economia, ma anche e innanzitutto di stili di vita: di una vita plasmata dalla sobrietà e dalla solidarietà (...), una serie di atteggiamenti profondi da acquisire specialmente mediante i processi educativi in grado di originare modelli di vita rinnovati». Don Roberto Davanzo, 52 anni, direttore della Caritas Ambrosiana, spiega che «oggi stiamo riprendendo le fila di un dibattito e di un progetto che avevano caratterizzato il percorso di preparazione al Giubileo del 2000 quando, grazie al messaggio della "Centesimus Annus" di Giovanni Paolo II, la chiesa aveva posto con forza la questione irrisolta dell’ingiustizia dello sviluppo economico e si era battuta, ad esempio, affinchè fosse cancellato il debito estero dei Paesi poveri. Purtroppo quella speranza, quell’aspirazione all’apertura di una nuova fase, vennero spazzate via dagli attentati dell’11 settembre 2001». E perchè oggi si riparte? «La crisi - sostiene Davanzo - costringe tutti a riflettere sulla necessità di un nuovo modello economico e di diversi stili di vita. Ripartire dalla sobrietà e dalla solidarietà non vuol dire proporre una società neo-pauperista, chiediamo un’economia giusta e libera. Questa può apparire una provocazione, ma le famiglie non possono accontentarsi di quelli che vanno in tv a dire che il peggio è passato e il futuro sarà rosa. La realtà è che il sistema economico è infartuato, non può continuare a funzionare come è accaduto fino a oggi». In questa battaglia sociale e culturale le esperienze di base del mondo cattolico offrono qualche traccia su cui lavorare. Si tratta di esempi minoritari ma che possiedono la forza e l’ambizione di evocare cambiamenti più profondi e ampi. Don Gianni Fazzini, 72 anni, si definisce «parroco-operaio in pensione», ha lavorato per molti anni in un’impresa di pulizie, è responsabile dell’Ufficio stili di vita della diocesi di Venezia. Racconta:«Liberare le famiglie dalle scelte in economia, nei consumi, negli stili di vita è un fatto eversivo in questo mondo. Dobbiamo riappropriarci del piacere di scegliere e di vivere. Che senso ha consumare tutta quell’acqua minerale? Non è una follia continuare a girare per le nostre città intasate a bordo di un’auto? Qual è la gioia di un bambino che alla festa del suo compleanno riceve venti regali tutti insieme? Nella mia esperienza di base, con i lavoratori e le loro famiglie, mi è apparso chiaro il limite dell’azione della chiesa: abbiamo sempre privilegiato la solidarietà, la carità, ma invece dobbiamo riscoprire il senso di giustizia, l’elemento più forte nel messaggio di Gesù». Don Fazzini racconta il valore di esperienze come «Bilanci di giustizia»: «Questa iniziativa raccoglie ormai 1200 famiglie, collegate su internet, che provano a superare il consumismo, a riappropriarsi del piacere di vivere attraverso scelte consapevoli e condivise, che cercano di recuperare tempo di vita, di liberare la loro mente dalle imposizioni e dalle costrizioni». Così ci si scambia la ricetta per fare il pane o la pizza in casa, si pratica il silenzio tv, si pianifica la spesa di prodotti biologici, si risparmia sull’energia, si scelgono investimenti etici, si usa la bicicletta in sostituzione dell’auto. E si fanno i bilanci familiari con entrate e uscite, verificando i risparmi indotti da queste scelte. Sarebbe un errore pensare che si tratta solo di un’iniziativa isolata,folkloristica di qualche prete un po’ mattacchione. L’Istituto Wuppertal, un centro di ricerche tedesco, verifica l’evoluzione del grado di benessere delle famiglie coinvolte nel progetto. In più, forse, siamo in una fase della storia dove il pendolo del cambiamento si sta muovendo dall’individualismo verso la collettività. Mauro Magatti, preside della facoltà di Sociologia dell’Università Cattolica di Milano, argomenta:«La necessità di modificare gli stili di vita non è una “menata” dei cattolici, è una questione che interessa tutta la società. Questo è il momento in cui è possibile il cambiamento, ci sono dei segnali forti. Ad esempio il varo della riforma sanitaria di Obama negli Stati Uniti è un fatto epocale, siamo lontani dagli anni dell’individualismo di Reagan e della Thatcher per i quali la società non esisteva. Oggi, anche sotto la spinta della crisi, comprendiamo i limiti di questa società tecno-nichilista, ci accorgiamo che lo sviluppo economico non può essere illimitato, riscopriamo la centralità dell’uomo e dell’ambiente. Queste tendenze emergono nella società, anche in Italia ci sono segnali di comportamento diversi, più riflessivi da parte dei consumatori». Forse il pendolo si muoverà anche da noi. 13 novembre 2009 da unita.it Titolo: Rinaldo GIANOLA Il mago Scaglia, la banda larga non è solo per Internet Inserito da: Admin - Marzo 03, 2010, 11:16:57 am Il mago Scaglia, la banda larga non è solo per Internet
di Rinaldo Gianola Alla fine, uno fa fatica a crederci. Com’è possibile che un manager intelligente, abile, tanto ricco da apparire tra i mille miliardari più miliardari del mondo nel sito di Forbes.com si metta in un giro di fatture false per riciclare denaro sporco a favore della ‘ndrangheta? Com’è possibile che il “mago” dei telefonini e della banda larga sia finito in un giro sporco, pericoloso, portandosi dietro aziende famose e altri manager importanti? Il mandato di arresto per Silvio Scaglia, già fondatore e proprietario di Fastweb, è un fatto clamoroso, che suscita interrogativi inquietanti su certi successi imprenditoriali e sulla formazione di alcuni patrimoni personali. Scaglia è all’estero e, forse, potrà chiarire tutto davanti ai magistrati. Ma con lui sono indagati personaggi come Stefano Parisi, amministratore delegato di Fastweb, già direttore generale della Confindustria nella stagione oscura di Antonio Amato, e Riccardo Ruggiero ex enfant prodige delle telecomunicazioni, ex amministratore delegato di Telecom Italia. I vertici di Fastweb e Telecom Italia, secondo i magistrati di Roma, portano la responsabilità di non aver vigilato adeguatamente sulle loro attività, e pare di rileggere alcune motivazioni dei giudici di Milano in merito agli spioni di Tavaroli e i suoi sodali. Anche se ne abbiamo viste di tutti i colori, oggi c’è da chiedersi com’è possibile che Scaglia e soci abbiano in qualche modo partecipato «alla più colossale frode di sempre», secondo le parole del gip. La sorpresa dell’inchiesta nasce dal fatto che Scaglia non è un personaggio comune. Chiunque lo abbia conosciuto nel suo lavoro lo ricorda come un manager di altissimo profilo, uno capace, che non ha paura di nulla. Il suo comportamento e il suo look non è quello del finanziere predatore e senza scrupoli in gessati volgari da Al Capone, appare più con l’aria paciosa di un parroco di campagna ma con una motivazione, una capacità di perseguire gli obiettivi fuori dal comune. Sposato, tre figli, cinquantadue anni, ingegnere elettronico, inizia come consulente alla Bain Cuneo, poi alla Mc Kinsey, alla Andersen Consulting, un passaggio anche alla Piaggio. La sua stella brilla negli anni Novanta. Fa parte del gruppo di “cervelloni” chiamati da Carlo De Benedetti per lanciare Omnitel, la più bella azienda italiana creata nell’ultimo quarto di secolo. Lo ricordiamo in una palazzina anonima a Ivrea, staccata dallo storico Palazzo Uffici, che lavorava con Francesco Caio di cui prende presto il posto. A Ivrea c’era un pacchetto di mischia da far paura, l’Ingegnere stava perdendo l’Olivetti ma aveva messo insieme un gruppo imbattibile: oltre a Scaglia c’erano Vittorio Colao (oggi capo mondiale di Vodafone), Barbara Poggiali, Pietro Guindani e girava un manager di origine indiana Arun Sarin che diventerà uno degli oracoli più ascoltati delle telecomunicazioni. Uscito di scena De Benedetti, Scaglia si trova a lavorare con Roberto Colaninno mentre Omnitel macina milioni di abbonati e diventa il simbolo di una bella stagione industriale. Quando Colaninno pensa a scalare Telecom Italia, il primo a saperlo è Scaglia che sonda l’operazione con la banca d’affari americana Donaldson Lufkin and Jenrette. Ma prima che venga realizzata l’Opa del secolo, Scaglia se ne va e con una vecchia volpe della finanza come Francesco Micheli lancia eBiscom, che senza una lira di fatturato diventa un caso clamoroso della febbre della new economy in Italia. Grazie ad accordi con il comune di Milano, di cui è direttore proprio quello Stefano Parisi oggi indagato in qualità di amministratore delegato di Fastweb, eBiscom si lancia nella banda larga e nella diffusione di servizi telefonici e internet. Scaglia lancia un giornale on line «Il Nuovo», anticipando l’imminente scomparsa dei giornali tradizionali. Ma si sbaglia, almeno in questo caso, e «Il Nuovo» finisce male. A metà degli anni duemila, eBiscom si fonde con la controllata Fastweb, dove è concentrata la parte industriale più appetibile, la famiglia Micheli vende e rimane solo Scaglia che, alla fine, cede a Swisscom incassando una cifra spropositata. Per divertirsi lancia una web tv. Ieri il mandato di arresto, Scaglia anche questa volta ci ha visto giusto: è all’estero. 23 febbraio 2010 da unita.it Titolo: Rinaldo GIANOLA Nell'urna la secessione dei produttoRI DEL NORD Inserito da: Admin - Aprile 01, 2010, 07:33:37 am Operai, artigiani, imprese. Nell'urna la secessione dei produttori del Nord
di Rinaldo Gianola «Questo voto assomiglia a una secessione economica...». Giuseppe Berta, storico dell’industria, docente all’Università Bocconi di Milano ha appena finito di commentare i risultati elettorali con un suo collega. Le cartine del voto pubblicate dai giornali indicano il monocolore della destra, in larga parte leghista, dal Piemonte al Veneto passando per la Lombardia. Di cosa stiamo parlando? In sintesi di oltre 19 milioni di abitanti, oltre il 30% del prodotto interno lordo, almeno un terzo dell’export e degli occupati, la più alta concentrazione industriale e di servizi avanzati. «Queste regioni sono qualche cosa a parte dal resto del Paese e se vado al Sud la distanza è violenta, ci troviamo in un altro paese: c’è una diversa regolazione sociale, un diverso circuito economico, una diversa misura della ricchezza» commenta Berta il quale ricorda «quando nel 1992-93 guardavamo al successo della Lega sull’onda di Tangentopoli con un misto di sbigottito stupore e di divertimento snobistico, mentre Bossi oggi detta l’agenda politica e pone le condizioni del vincitore, vuole fare il sindaco di Milano perchè cerca il potere vero, nelle banche, nelle istituzioni e non per ripetere l’esperienza un po’ folkloristica di Formentini». Da Cuneo, la “Provincia Granda”, fino a Treviso, dagli allevatori e agricoltori alle piccole imprese, agli artigiani, fino agli operai delle fabbriche bergamasche, oggi la politica fa i conti con un bastione solido, un blocco sociale che si fa sentire e decide nell’area più ricca del Paese. E che inizia ad avere una presenza importante anche nelle provincie dell’Emilia Romagna. La Lega misura la sua credibilità sul territorio, non solo alimentando vergognose campagne xenofobe, ma proponendosi come interlocutore politico del disagio, della paura, della protesta sociale, offrendo agli elettori anche un ceto di amministratori capaci. Massimo Calearo, industriale di Vicenza, parlamentare eletto nel pd passato poi con il frazionista Rutelli, assicura di averlo sempre detto: «Gli operai e le piccole imprese, gli artigiani hanno votato Lega e lo faranno fino a quando non ci sarà un interlocutore credibile. Avevano ragione Cacciari e Chiamparino a insistere sul pd federato, un partito con una forte leadership al Nord e calibrato regione per regione, ma nessuno li ha ascoltati, a Roma pensano sempre di essere più bravi e così si perde». L’industriale osserva: «I veneti sono più moderati della Lega, non hanno intenzione di seguire l’estremismo dei longobardi, ma nessuno gli ha presentato una scelta alternativa. Gli operai e gli imprenditori hanno votato Lega per paura: paura di perdere il posto, di perdere l’azienda, paura della crisi. Il pd ha sbagliato tutto, ha proposto come candidato una figura minore, il direttore del centro studi degli artigiani di Mestre. Doveva puntare su un personaggio forte come Laura Puppato di Montebelluna». Il pd al Nord aveva sperato di poter raccogliere il malcoltento, la delusione di lavoratori e imprese colpiti drammaticamente dalla crisi, senza interventi adeguati da parte del governo sostenuto da Bossi e sodali. Ma operai e piccole imprese si sono ritrovati nel voto perchè si sentono sulla stessa barca. E poi, al Nord, i temi della sicurezza, dello straniero, della paura sono stati ancora dominanti. A Coccaglio, il comune tristemente famoso per l’iniziativa leghista White Chrystmas, la Lega ha superato il 40%; a Rovato, un centro del bresciano dove un marocchino aveva violentato una ragazza, Bossi ha toccato il 42%. Damiano Galletti, operaio della Beretta in Val Trompia, è il segretario della Camera del lavoro di Brescia (110mila iscritti), ecco la sua analisi:«Il risultato della Lega non è una grande sorpresa qui, anche se ci aspettavamo che gli effetti della crisi e la delusione per l’azione insufficiente della destra potessero dare più ossigeno al centrosinistra. Ma la Lega ha giocato molto sulla questione sicurezza e di fronte alle fabbriche spesso portava la sua solidarietà come se non fosse al governo. A Brescia la crisi ha colpito duro: 100mila lavoratori sono interessati alla Cig su 350mila addetti dell’industria. Il 12 marzo lo sciopero generale della Cgil ha avuto un grande successo, c’erano anche gli operai leghisti in piazza, ma non hanno cambiato voto». Come mai? «Il pd ha battuto qualche colpo, ma ci vuole tempo e impegno dopo anni di assenza. I lavoratori sono pronti a cambiare. Dopo il successo della sinistra in Francia gli operai dell’Iveco hanno scritto un documento in cui chiedevano di unificare tutte le forze di sinistra su un programma di governo». La realtà, per la sinistra e anche per il sindacato, è dura e impegnativa. L’analisi di Gianpiero Cantoni, milanese, senatore pdl, ex presidente della Bnl, è dolorosa: «Le regioni trainanti dell’economia, le più avanzate, le più industrializzate sono saldamente in mano al centro destra». 30 marzo 2010 da unita.it Titolo: Rinaldo GIANOLA L’avanzata del boiardo padano: da Enimont e ... Inserito da: Admin - Aprile 15, 2010, 10:57:19 pm L’avanzata del boiardo padano: da Enimont e Credieuronord al potere della grande finanza
di Rinaldo Gianola A pensarci bene, adesso è più chiaro perchè gli azionisti di Mediobanca hanno deciso proprio alla vigilia delle elezioni regionali di scegliere Cesare Geronzi come prossimo presidente delle Assicurazioni Generali di Trieste. Magari anche sulla scelta del vertice della perla più limpida del potere finanziario italiano Umberto Bossi avrebbe voluto dire la sua, forte del successo elettorale. Probabilmente avrebbe mostrato qualche perplessità per la scelta di un uomo simbolo del potere romano, inaffondabile e capace di qualsiasi metamorfosi, o magari si sarebbe accontentato delle garanzie di Silvio Berlusconi. Non è un’ipotesi campata in aria visto che ieri il leader leghista si è dato come obiettivo quello di «prendere le grandi banche del Nord, perchè ce lo chiede il popolo». E allora si può anche sospettare che, dopo un pressing asfissiante iniziato già prima delle elezioni da parte dei neo-governatori Cota e Zaia , l’Unicredit di Alessandro Profumo abbia acconsentito alla nomina di un country manager per l’Italia, il signor Gabriele Piccini, affinchè la banca possa stare più vicino al territorio, alle migliaia di piccole imprese del nord produttivo e, in larga parte, leghista. Il trionfo elettorale alimenta appetiti furiosi e chi, come Bossi, una volta sognava ingenuamente di raccogliere i risparmi padani nella fallimentare Credieuronord e prima ancora nel progetto di Finanzaria Padana o Lombarda che negli anni Novanta era stata ipotizzata da Giancarlo Pagliarini, oggi può invece puntare più in alto, alle fondazioni bancarie, straordinario centro di potere e di quattrini dell’Italia democristiana, quindi a influenzare banche come Intesa SanPaolo e Unicredit, alla rete delle Popolari e, infine, alle imprese di Stato. Sarebbe un errore pensare che quella di Bossi è una battuta figlia dell’euforia elettorale, c’è qualche cosa di più e di più concreto e pericoloso. In questi anni la Lega ha maturato non solo un ceto credibile di amministratori locali. Da tempo ha infilato i suoi uomini anche nel mondo delle ex Partecipazioni statali, ha iniziato a pensare in grande per incidere sul potere economico, grazie anche alla vicinanza e ai consigli di un uomo come Giulio Tremonti e alla tela tessuta da Giancarlo Giorgetti, il parlamentare leghista di Cazzago Brabbia, presidente della comissione Bilancio e Tesoro della Camera. Le dolci paroline riservate dalla presidente di Confindustria Emma Marcegaglia a Parma al successo della Lega testimoniano che il mondo delle imprese è sensibile alla vandea nordista, è disposto a chiudere un occhio sui vizi razzisti dei sodali di Bossi se si tratta di tutelare i supremi interessi dell’azienda. Quello che sta accadendo è una novità rilevante. Nel mondo degli affari i leghisti, infatti, hanno spesso fatto la figura dei “pirla”. La definizione non è nostra, anche se possiamo condividerla, ma di Umberto Bossi che la usò per illustrare il caso di Alessandro Patelli, ex amministratore della Lega, quando incassò 200 milioni come modesto contributo della tangente Enimont. Pare che la busta di denaro fosse transitata dai manager Ferruzzi al povero “pirla” della Lega al Bar Doney di via Veneto, luogo culto della “Roma ladrona” secondo il verbo leghista. Per questo incidente Bossi è stato condannato in via definitiva a otto mesi per violazione della legge sul finanziamento dei partiti, ma siede sereno in parlamento, come altri. Ìn questi ultimi anni i principi della Lega in campo economico e bancario sono stati molto edulcorati, la vicinanza con le stanze dei bottoni e il profumo del potere hanno fatto miracoli. La rigidità ideale di un tempo è un ricordo, oggi il pragmatismo e le poltrone, come praticavano un Cirino Pomicino o un De Michelis nella prima repubblica, fanno premio su tutto. Qualcuno ricorderà, ad esempio, che la Lega aveva criticato severamente l’azione dell’ex governatore della Banca d’Italia, Antonio Fazio, prima di cambiare repentinamente linea e prendere le sue difese, in nome dell’italianità. La svolta avvenne quando la Popolare di Lodi del raider Gianpiero Fiorani, che si vantava di essere protetto da Fazio, si prese cura della malmessa Credieuronord, la banca leghista prossima al disastro dopo aver dilapidato i risparmi dei sottoscrittori padani. Il tremendo Fiorani, ritemprato al sole della Sardegna in casa dell’impresario Lele Mora, è arrivato al punto di affermare al processo Antonveneta di aver erogato dei contributi al ministro Calderoli. Così vanno a braccetto la politica e gli affari, anche tra i duri e puri della Lega. Ma ora sono finiti i tempi della banca fatta in casa o di altre “pirlate” leghiste come la Bingonet o la costruzione di un villaggio turistico in Istria. Tutto fallito. Bossi punta oggi al bersaglio grosso, alle banche e alle grandi imprese di Stato. Il suo fedelissimo economista Dario Fruscio è stato sei anni nel consiglio di amministrazione dell’Eni e si vanta di aver salvato la petrolchimica (provi a dirlo agli operai di Marghera o di Porto Torres...), nel consiglio dell’Enel la Lega è presente con il consigliere Gianfranco Tosi, ex sindaco di Busto Arsizio, in Finmeccanica tocca al varesino Dario Galli sventolare il fazzoletto verde. Ma siamo solo all’inizio. La Lega avvia la scalata alle fondazioni socie di Intesa SanPaolo e Unicredit e ha due obiettivi nel breve-medio periodo: sostituire Lucio Stanca alla guida dell’Expo 2015, occupare la carica di amministratore delegato alle Poste con il padano Danilo Poggi al posto di Massimo Sarmi. Con un presidente della Cisl e un leghista amministratore delegato le Poste potrebbero trasformarsi in un ente bilaterale, con la soddisfazione di Bonanni e Sacconi. 15 aprile 2010 da unita.it Titolo: Rinaldo GIANOLA Un giro di valzer per Emma «la padana» Ora punta su Bossi Inserito da: Admin - Aprile 15, 2010, 10:58:09 pm Un giro di valzer per Emma «la padana» Ora punta su Bossi
di Rinaldo Gianola La realtà è questa: Silvio non scalda più i cuori come una volta. Anche lui non riesce più a fare troppe promesse, a raccontare troppe balle, sa che nemmeno i suoi più fedeli aficionados seduti nella grande platea alla Fiera di Parma possono reggere più il gioco. L’unica certezza è che il premier ha preparato il libro «Il governo del fare» che vuole distribuire agli associati di Confindustria. Sono passati i bei tempi del 2001 e del 2002, quando Berlusconi trionfava nelle Assise confindustriali di Parma, quando Calisto Tanzi pagava e invitava imprenditori e banchieri nella sua bella villa di Collecchio a mangiare e bere, con i Kandinskij e i De Nittis appesi ai muri. Perchè uno sarà pur un bancarottiere, ma con la cultura non si scherza. Nessuno, però, si ricorda del grande elargitore, nemmeno la Gazzetta di Parma , la Pra vda locale degli industriali. Ma questa non è giornata per i ricordi, alè si cambia aria. Emma Marcegaglia lancia la svolta e con le sue truppe si prepara a fronteggiare una crisi ancora lunga che, tra il 2008 e il 2009, ha determinato un calo del 6% del pil e la scomparsa di un milione di posti di lavoro. Per la prima volta in due anni la leader di Confindustria ha fatto un discorso che segna un cambio di passo, apre forse un’altra stagione comunque densa di incognite. Accantonato il fastidioso birignano confindustriale, Marcegaglia ha deciso che, a metà del suo mandato finora certo non memorabile, è ora di sparigliare le carte anche con l’azionista di riferimento Berlusconi. La presidente degli industriali non fa una piega ed è pronta a cambiare cavallo politico: se Berlusconi non riesce nelle sue riforme e insiste solo sulle sue personali questioni giudiziarie, allora si può tentare con Bossi e i suoi leghisti. D’altra parte il risultato elettorale delle regionali non lascia dubbi: la Lega ha vinto al Nord, da Torino a Treviso, dove pulsa l’industria manifatturiera, dove la “fabbrica diffusa” sancisce il patto, o forse solo una momentanea alleanza, dei produttori, operai e piccoli imprenditori il cui destino appare strettamente legato. Come sia possibile per la politica leghista soddisfare le imprese, gli artigiani, i commercianti e il “popolo”, cioè i lavoratori dipendenti è una sfida ancora tutta da vedere. La Confindustria, sempre attenta ai risparmi e all’efficienza, è pronta addirittura a sposare il federalismo leghista dopo che per anni aveva messo le mani avanti, denunciando il rischio evidente di nuovi sprechi anzichè di una maggiore efficienza nella gestione delle amministrazioni locali e nella distribuzione equa delle risorse. Ora la presidente Marcegaglia è pronta a cavalcare la tigre padana, senza prendere le distanze pubblicamente nemmeno dai suoi chiari istinti xenofobi, perchè le imprese non vivono di promesse, ma di quattrini e affari. E qualcuno, dopo due anni di crisi drammatica, deve portare nuove occasioni proprio per moltiplicare quattrini e affari. E se Bossi è meno elegante di Berlusconi ma più efficace, allora va bene pure lui. La svolta leghista della Confindustria dovrà essere misurata nelle prossime settimane, ma già ora si può dire che la scelta di Emma da Mantova non è stata un’invenzione dell’ultimo momento, non è stata ispirata da una necessità mediatica. Nelle ultime settimane le piccole e medie imprese hanno fatto capire a Marcegaglia che dopo due anni di allineamento con il governo Berlusconi il bilancio era largamente in deficit. La Confindustria ha portato a casa poco, quasi nulla, certo non i punti elencati ieri come obiettivi prioritari per il rilancio dell’economia e del paese. In più la presidente è uscita, per ora, vincente da un gioco di potere tutto confindustriale, in contrasto con Luca di Montezemolo e soci, e ha rintuzzato le critiche, mai sopite, per la gestione deludente e in passivo di quella macchina da soldi che era una volta Il Sole-24 Ore. Ma, davanti a una crisi ancora faticosa e in assenza di forti e organici interventi del governo, la fronda confindustriale potrebbe riprendere fiato. In questo giro di valzer di Marcegaglia l’aspetto che appare più preoccupante è la totale rimozione dei meriti, pochi ma ci sono, delle politiche dei governi di centrosinistra, dei Prodi e dei Bersani. La presidente parla delle liberalizzazioni ma si dimentica di ricordare che le lanciò il segretario del pd e oggi il centrodestra le vuole picconare. Cita la necessità di togliere il costo del lavoro dall’Irap, ma evita di ricordare che è la proposta fatta da Epifani. L’opposizione, il centro sinistra, anche il più grande sindacato italiano scompaiono almeno oggi dall’orizzonte della Confindustria che gioca le sue carte tutte nel recinto del centrodestra. Niente di male, basta saperlo e ricordarsene in futuro. Marcegaglia, in più, non sembra cogliere la negatività dell’asse Sacconi-Bonanni che punta esclusivamente a escludere la Cgil dal confronto sindacale e industriale, come è avvenuto con il blitz sull’avviso comune dell’arbitrato. Comunque vada la Confindustria di Bossi o di Silvio, per i lavoratori saranno guai. 11 aprile 2010 da unita.it Titolo: Rinaldo GIANOLA A sorpresa Montezemolo lascia il vertice Fiat Inserito da: Admin - Aprile 21, 2010, 11:31:08 pm A sorpresa Montezemolo lascia il vertice Fiat
di Rinaldo Gianola A sorpresa, alla vigilia della presentazione del nuovo piano strategico che cambierà gli assetti industriali, finanziari e probabilmente azionari della Fiat, Luca di Montezemolo annuncia le dimissioni dalla presidenza del gruppo. Dopo sei anni di presenza al Lingotto, Montezemolo lascia perchè ritiene di aver terminato la sua funzione di «traghettatore» che aveva assunto nel 2004, dopo la scomparsa di Umberto Agnelli. Al vertice della Fiat sale John Elkann, nipote dell’avvocato Gianni Agnelli e figlio di Margherita che ancora contesta la congruità dell’eredità, il quale raccoglie il testimone del potere della più lunga e contrastata dinastia industriale italiana. John Elkann sarà oggi presidente della Fiat, è presidente della finanziaria Exor degli Agnelli e guiderà pure l’accomandita di famiglia. L’annuncio ufficiale è arrivato ieri con una conferenza stampa in una sala del Lingotto con Montezemolo affiancato da Elkann e da Sergio Marchionne. Sorrisi e abbracci per le tv.La Borsa è felice: il titolo Fiata guadagana il 9%. Un passaggio delicato Il trasferimento dei poteri in casa Fiat, tuttavia, avviene in un momento delicato, con passagi non proprio sereni e lineari ma assai complessi che hanno interessato sia i componenti della famiglia, che si trova ad affronate una prova storica dell’evoluzione internazionale del gruppo, sia i vertici della holding. Le testimonianze di «affetto» e di «amicizia» espresse ieri da tutti i protagonisti forse non dicono tutto della complessità delle relazioni, della visione strategica, della gestione del potere al Lingotto e dintorni. Probabilmente le dimissioni di Montezemolo e l’ascesa del rappresentante principale della famiglia (e poi c’è sempre Andrea Agnelli, figlio di Umberto, che scalpita) sono due fatti legati strattamente all’operazione Chrysler in America. È ipotizzabile che, dopo la fase iniziale del salvataggio, oggi l’amministrazione Usa, il sistema finanziario e gli stessi lavoratori americani chiedano un impegno diretto della famiglia Agnelli in vista della possibile, e probabile, presa del controllo della Chrysler da parte del Lingotto entro i prossimi 24 mesi. È una fase di transizione e di metamorfosi del gruppo torinese. Oggi con il piano strategico Marchionne spiegherà la Fiat da qui a cinque anni e la stessa presidenza di Elkann sarà probabilmente diversa solo della Fiat holding mentre la Fiat Auto, destinata ad essere scissa, sarà guidata da Marchionne, che allarga il suo potere e il suo ruolo di capo azienda. Grazie anche agli operai Montezemolo ha usato poche parole per comunicare la sua scelta: «Oggi Fiat è un'azienda sana e competitiva. È cresciuta a tutti i livelli e in tutti i settori, grazie al lavoro di Marchionne e di tutti gli uomini e le donne che lavorano in Fiat». Ha ricordato i gravi problemi in cui versava sei anni fa: la scomparsa prima di Gianni e poi di Umberto Agnelli, e poi l’incertezza derivante dall’esposizione debitoria verso le banche ( il “convertendo”) e dal patto con General Motors. Ora la situazione è più tranquilla, anche se il mantenimento del controllo da parte della famiglia ha lasciato qualche problema aperto con la giustizia. Montezemolo resterà nel consiglio Fiat, manterrà la presidenza della Ferrari e si dedicherà alle sue attività di imprenditore con la Poltrona Frau e i treni privati con Diego Della Valle. «Non entrerò in politica, ma potrò esprimermi più apertamente» assicura, anche se Marchionne lo prende in giro: «Quando presenterai il tuo programma?». Dopo l’addio di Montezemolo, oggi si vedrà la nuova Fiat di Elkann e Marchionne. Questo è il capitolo che più conta. 21 aprile 2010 da unita.it Titolo: GIANOLA Scalfaro: Difendiamo l'unità e la Costituzione, i baluardi dell'Italia Inserito da: Admin - Maggio 07, 2010, 03:48:12 pm Scalfaro: «Difendiamo l'unità e la Costituzione, i baluardi dell'Italia»
di Rinaldo Gianola Oscar Luigi Scalfaro si ferma per abbracciare Guglielmo Epifani che ha appena terminato la sua relazione al congresso nazionale della Cgil. Ne approfittiamo per salutarlo e per rivolgergli qualche domanda sulle celebrazioni dell’Unità d’Italia e la salute della nostra Costituzione. Presidente, parteciperà alle celebrazioni per l’Unità d’Italia l’anno prossimo? «Se Domine Dio mi terrà ancora qui, certamente festeggerò come si deve l’Unità del nostro Paese. Ci mancherebbe… Ho 91 anni, vado per i 92 e ci arriverò». Ha sentito le polemiche dei ministri leghisti contro il presidente Napolitano per le celebrazioni? Pare che alcuni ministri delle Lega andranno al mare invece di festeggiare. «Purtroppo sono un segno di quanto siamo caduti in basso, di quanto è precipitata una certa politica italiana che non riconosce nemmeno i valori condivisi, la nostra storia». Per rafforzare il pensiero il presidente Scalfaro si abbassa leggermente, accompagnando il gesto con la mano, come a voler dimostrare fino a quale infimo livello siamo arrivati. Epifani, a fianco, annuisce. In effetti l’attacco della Lega all’Unità d’Italia, le ripetute dichiarazioni di governatori e ministri contro le celebrazioni sono il segno, uno dei tanti, di un evidente attacco ai principi costitutivi del Paese. Così Scalfaro, che presiede il comitato “Salviamo la costituzione”, non gioca con le parole quando parla ai delegati del congresso che si sono appena commossi guardando il filmato con uno storico discorso di Pietro Calamandrei sulla Costituzione degli italiani». Qual è oggi il ruolo della Costituzione? «Questa è l’ultima difesa della libertà e delle democrazia, l’ultimo baluardo. Questa è la Costituzione della Repubblica italiana fondata sul lavoro. Capisco che a qualcuno possa dare fastidio e voglia cambiarla, sottoponendo il Parlamento alla volontà del presidente del Consiglio, ma questa è una realtà che va difesa e tutelata». Il presidente emerito commenta con sorpresa il fatto che quest’anno il presidente del Consiglio «si è ricordato del 25 aprile, non si era mai occupato della Festa della Liberazione, lui parlava il 24 o il 26 di aprile, mai il 25. Invece questa volta ha fatto un discorso in tv che alcuni giornalisti con una spina dorsale evidentemente di cemento armato hanno definito un discorso da statista….». E le riforme? «Il presidente del Consiglio dice di volerle fare insieme, ma lui pensa ad avere più potere, pensa di averne poco. De Gasperi governò per sette anni in una situazione ben più grave di questa e non chiese mai più potere». Scalfaro, infine, commenta le dimissioni del ministro Claudio Scajola legandole proprio alla dimensione di statista di Silvio Berlusconi. «Un ministro importante si è dimesso, era già successo in un’altra occasione ci sono stati passaggi di assegni che non si capiscono, ma alla fine il presidente del Consiglio ha avuto un’intuizione, ha trovato il punto dolente e ha detto che in Italia c’è troppa libertà di stampa». Il congresso Cgil saluta il presidente con una grande ovazione. 06 maggio 2010 http://www.unita.it/news/italia/98314/scalfaro_difendiamo_lunit_e_la_costituzione_i_baluardi_dellitalia Titolo: Rinaldo GIANOLA I golpisti del mercato Inserito da: Admin - Maggio 09, 2010, 06:07:32 pm I golpisti del mercato
di Rinaldo Gianola Il problema, dunque, non è solo la Grecia. La crisi non è riconducibile esclusivamente ai conti fuori controllo dei greci ai quali i giornali tedeschi suggeriscono di vendere l’Acropoli per rispettare i sacri parametri di Maastricht. Nel giro di tre giorni l’Europa è passata dalle difficoltà «circoscritte» di un singolo paese, il più debole sotto il profilo finanziario, a una «crisi sistemica», parole del presidente della Bce Trichet, che mette in discussione non solo gli eredi della dracma ma l’intera costruzione dell’Unione e della moneta unica. In poche ore le fiamme e le tragiche violenze di Atene sono passate quasi in secondo piano rispetto alla destabilizzazione che dai mercati è salita fino alle cancellerie che, solo dopo l’intervento preoccupato del presidente Obama su Angela Merkel, hanno deciso di ritrovarsi per il week end a Bruxelles per decidere un piano straordinario di interventi. Non sappiamo se le misure decise stroncheranno l’attacco della speculazione dei mercati ai governi, all’Unione e all’Euro. È certo, tuttavia, che anche questo maxi piano dell’Europa non risolverà i problemi di fondo, non disinnescherà la bomba che due anni fa è esplosa negli Stati Uniti provocando la prima grande crisi dell’economia globale e che oggi si presenta con la miccia accesa nella vecchia Europa. Nel settembre 2008, quando Wall street visse il dramma storico del fallimento della Lehman Brothers, tutti, ma proprio tutti si impegnarono a limitare le invasioni della finanza, il suo dominio incontrastato sull’economia reale, sull’industria, l’occupazione. Governi e leader politici giurarono, allora, di voler invertire la rotta, di bloccare il gigantesco trasferimento di ricchezza dal profitto, dal lavoro alla rendita finanziaria. La distorsione dell’economia, emersa in modo drammatico due anni fa, avrebbe dovuto essere affrontata con un riequilibrio profondo tra risparmio e investimenti e soprattutto le autorità di governo e quelle che vigilano sui mercati e sulla concorrenza avrebbero dovuto intervenire con provvedimenti rigorosi e coerenti per smontare i giochi perversi della finanza. Ma poco è stato fatto su questo fronte perchè fortissime sono le resistenze del mondo finanziario e spesso deboli e miopi sono le azioni politiche. Obama, che rappresenta per molta parte del mondo ancora una speranza di cambiamento, ha implorato le lobby delle banche e delle assicurazioni a non ostacolare la sua riforma dei mercati e della finanza. Ma nemmeno Obama è riuscito a sfondare in un sistema, come quello Usa, dove uno può fare il ministro del Tesoro e poi guidare serenamente la Goldman Sachs e viceversa. Quello che viviamo oggi in Europa e che preoccupa la Casa Bianca non è solo la speculazione contro governi o monete deboli, d’altra parte la speculazione - lo insegnano persino nelle università - è parte integrante dei mercati e del loro funzionamento. C’è una patologia di fondo che sta nel Dna del sistema, per cui il denaro serve solo a creare altro denaro. I golpisti della finanza attaccano gli stati grazie alle armi che gli stessi stati hanno messo loro a disposizione. Per fronteggiare la crisi del 2008 i governi erano intervenuti per salvare banche, assicurazioni, intermediari, immettendo nel sistema cifre iperboliche. Almeno 3000 miliardi di dollari, denaro pubblico, sarebbero stati spesi per evitare il tracollo del sistema creditizio, ma anche della Chrysler di Sergio Marchionne, trasferendo così le perdite dal sistema privato a quello pubblico. La strada è stata seguita anche in Europa e i mercati finanziari che, fino al 2008, avrebbero speculato contro questa o quella banca o impresa considerata debole oggi si accaniscono contro gli stati e lo loro valute, partono dalla Grecia ma allargano facilmente l’orizzonte e mettono nel mirino l’intera costruzione della moneta unica europea. Ma gli stati, la politica sono deboli, frammentati, gelosi dei loro poteri e interessi. Si muovono in ritardo, come è avvenuto in questi giorni in Europa dove la signora Merkel (che non è Khol) era preoccupata per l’impatto degli aiuti alla Grecia sul voto regionale in Germania. Mentre l’Europa balbetta, sull’altro fronte invece c’è una corporation planetaria formata da potenti banche d’affari, proprietari e promotori di hedge funds e di strumenti derivati che non rispondono a nessuno, se non ai propri azionisti, il cui unico obiettivo è quello di produrre soldi dopo altri soldi, di alimentare senza ritegno la corsa delle stock options dei propri managers. Quante volte, negli ultimi anni, il mondo si è dovuto confrontare con queste crisi, con il fenomeno della “speculazione” che sarebbe la parte più cattiva, deviante, di un sistema che ai più sembra ancora buono? Ci sono stati gli scandali dell’epoca Bush, come la Enron e la WorldCom. Poi i subprime, la caduta delle grandi banche e di conseguenza la recessione, il crollo dell’economia, la perdita di milioni di posti di lavoro. Ma, dopo le tragiche esperienze del passato, poco è cambiato visto che ancora oggi gli strumenti della speculazione valgono 4 o 5 volte l’intero Pil mondiale. Il presidente Obama è intervenuto con forza sull’Europa affinchè si muovesse con provvedimenrti straordinari perchè la Casa Bianca non vuole ripetere il dramma del 2008 e l’attacco alla Grecia e poi all’Europa ricalca lo stesso schema, minacciando la possibile ripresa internazionale. In aprile negli Statio Uniti sono stati creati 290mila nuovi posti di lavoro, da quattro mesi c’è un leggero miglioramento che Obama non vuole assolutamente pregiudicare con un’altra crisi finanziaria. Dal 2008 ad oggi gli Stati Uniti hanno perso circa otto milioni di occupati. ci vorranno anni per recuperarli. La preoccupazione di Obama è giustificata. Un timore che dovrebbe essere prioritario per tutta l’Europa e, in particolare, per l’Italia. Il prevalere degli interessi finanziari, o chiamamola pure della speculazione, rispetto alla tutela degli investimenti, della produzione, del lavoro è l’elemento costante di questi anni e anche di questa crisi. La finanza domina i mercati, ricatta i governi e impone una ristrutturazione delle attività industriali da cui raccogliere altri profitti: un processo politico globale che colpisce soprattutto il mondo del lavoro, i sindacati e si potrebbe aggiungere anche la sinistra. Dopo due anni di crisi, dopo la caduta di simboli storici del capitalismo, dopo le copertine dei settimanali americani che invitano a leggere Carlo Marx, non è cambiato nulla. Siamo ancora qui a registrare il trionfo della finanza e la sconfitta della politica e del lavoro. Questa è la realtà. 09 maggio 2010 http://www.unita.it/news/italia/98447/i_golpisti_del_mercato Titolo: Rinaldo GIANOLA. Armando Spataro: «Il potere politico attacca informazione ... Inserito da: Admin - Giugno 13, 2010, 12:04:49 pm Armando Spataro: «Il potere politico attacca informazione e giudici perché garanti della legalità»
di Rinaldo Gianola La magistratura e l’informazione sono sotto il tiro del potere politico perchè rappresentano la tutela della legalità e la trasparenza, sono i poteri di bilanciamento di una democrazia. È un brutto periodo per chi ha a cuore la democrazia in Italia, ma sono fiducioso: passerà anche questo». L’appuntamento con Armando Spataro, procuratore aggiunto a Milano, è a casa sua. Prepara il caffè. Bisognerebbe parlare del suo libro, «Ne valeva la pena» editore Laterza, bisognerebbe chiedere a Spataro, protagonista di 34 anni di vita della Procura di Milano, di svelare se ancora ci sono dei buchi oscuri nella storia del terrorismo rosso o perchè governi di sinistra e di destra si sono comportati allo stesso modo quando si è trattato di bloccare l’inchiesta sul rapimento di Abu Omar. Ma si finisce per parlare dell’aggressione di Berlusconi alla giustizia, all’informazione, alla Carta costituzionale. Spataro, i rapporti tra potere politico e magistratura sono mai scesi così in basso? «No, mai. Lo testimoniano anche i fatti di questi giorni. Francesco Saverio Borrelli diceva che il controllo della legalità esercitato dalla magistratura in modo autonomo non può essere gradito al potere politico, qualunque sia il colore della maggioranza di turno. Il potere della magistratura è infatti eccentrico rispetto ai programmi ed agli interessi di chi governa, ed è la Costituzione che ha scelto questo modello di magistratura: noi siamo sottoposti solo alla legge ». Quando è iniziato questo processo di deterioramento? «Edmondo Bruti Liberati, nuovo procuratore capo a Milano, ha ben ricostruito la storia di questa crisi. Il peggioramento dei rapporti è iniziato negli anni Novanta con le inchieste della magistratura sulla corruzione, sulla commistione indebita tra politica ed economia, con Mani Pulite. In quegli anni è emersa l’estraneità della magistratura rispetto agli interessi della politica, quello è stato il punto di svolta. Da almeno 15-16 anni il potere politico si è messo di traverso, cercando di ostacolare o condizionare l’attività della magistratura». Le parole di Berlusconi? «Lo ha detto anche il CSM. Non si tratta di esercizio del diritto di critica, ma di “espressioni denigratorie che incidono sull’indipendente esercizio delle funzioni dei magistrati e ne delegittimano l’operato”. Avevo pensato di rinviare la pubblicazione del libro e di aggiornarlo con le aggressioni sistematiche alla magistratura, ma attacco dopo attacco non avrei mai finito». Cosa si aspetta, ora? «Gli attacchi hanno passato il segno da tempo e messo in crisi il principio della separazione dei poteri. Meriterebbero, forse, una risposta istituzionale adeguata al più alto livello». Perchè si è messo a scrivere, perchè ci consegna questo “verbale” da 600 pagine? «Ho iniziato a scrivere di slancio, all’improvviso, spinto dall’amarezza e dalla delusione provate dopo che due governi, di diverso orientamento politico, avevano dato la stessa risposta su un caso importante come l’inchiesta Abu Omar. Opporre il segreto di stato in un caso drammatico di violazione dei diritti umani è stata una decisione politica che mi ha ferito. Ho scritto perchè avevo voglia di buttare fuori tutto quello che avevo dentro, una scelta forse autoterapeutica. E, forse con presunzione, ho pensato che il racconto di quanto ho visto nei miei oltre trent’anni di lavoro in magistratura potesse essere utile anche ad altri». Quello del magistrato è un lavoro o una missione? «Il mio è un lavoro non una missione. Ma ho sempre ben presente la lettera che il mio collega e amico Guido Galli, assassinato dai terroristi, scrisse al padre per spiegare la sua scelta della magistratura, per fare qualche cosa per gli altri, per il paese, per le istituzioni. Ho sempre fatto il magistrato cercando di svolgere il mio lavoro al meglio delle mie capacità e competenze. Non mi è mai piaciuto, invece, l’approccio del magistrato come moralizzatore della società». Perchè è stato grave usare il segreto di stato nell’inchiesta Abu Omar? «Perchè con questa inchiesta l’Italia avrebbe potuto dare l’esempio, assumere un ruolo trainante in campo internazionale nella tutela dei diritti umani. Avrebbe potuto guidare quel cambiamento che solo oggi, grazie a Obama, inizia faticosamente a prendere corpo. Il caso Abu Omar ha invece segnato uno spartiacque: da quel momento il segreto di stato, la cui opposizione non può che essere un fatto eccezionale, è entrato in tanti altri processi. Opposto nel processo Telecom di Milano dall’imputato Mancini, nel processo di Perugia da Pollari e Pompa accusati di peculato, è comparso persino in un processo per diffamazione a carico di Magdi Allam. E sempre il Presidente del Consiglio ne ha confermato la sussistenza». Lei ha fatto tutta la sua carriera a Milano, cos’è la Procura di Milano? «È casa mia. La Procura di Milano ha un’anima, forte e radicata nei magistrati che ci lavorano. Qui hanno lavorato e hanno lasciato il segno dell’impegno per la difesa della democrazia e delle istituzioni i miei amici Emilio Alessandrini e Guido Galli. Quando il potere politico attacca la Procura di Milano, ogni cittadino dovrebbe ricordarsi di questi uomini. Mi considero fortunato di aver fatto questa esperienza, di aver incontrato tanti valorosi colleghi. Milano, per me, è stata fondamentale, mi accolse che non avevo nemmeno trent’anni. C’era il terrorismo, ma era una città vivacissima piena di fermenti culturali e politici. A 28 anni mi trovai immerso nelle inchieste sulle Brigate rosse, gli omicidi. Sono cose che non si dimenticano». Lei è un personaggio pubblico, un magistrato molto noto, per i suoi critici “troppo potente”. Qual è la giusta dimensione della presenza pubblica di un magistrato, nel suo rapporto con i media? Non le pare che alcuni suoi colleghi esagerino? «Il giudice vive e lavora da solo. Questa è la condizione generale. L’esposizione mediatica del giudice, la sua presenza pubblica, secondo un politico sensibile come Virginio Rognoni, è spesso la conseguenza del rilievo sociale del suo lavoro. Ovviamente diversa, e non la condivido, è la ricerca narcisistica dell’esposizione mediatica per la creazione del personaggio, una strada che porta alla demagogia e al populismo». Cos’è la riforma della giustizia? «E chi lo sa? Una cosa che trovo insopportabile è la retorica delle riforme condivise. Questa formula, molto usata negli ultimi tempi nel mondo politico, nasconde solo la debolezza e la frammentazione di quella politica che nelle riforme condivise trova la mediazione delle proprie divisioni a scapito dei principi. Dal 1989 ad oggi sono state approvate 83 riforme del codice, e oggi siamo ancora qui a discutere di riforme condivise. E quali sarebbero? Il processo breve, la separazione delle carriere o la separazione della sezione disciplinare dal Csm dallo stesso consiglio come chiede Luciano Violante? Volete ridurre il numero delle sedi giudiziarie come dicono da decenni a destra e a sinistra? Bene fatelo. In Piemonte ci sono 16 tribunali, eredità del passato sabaudo. Tagliate questi sprechi. E invece non succede nulla, salvo voler condizionare, per non dire di peggio, le inchieste della magistratura». Anche il pd chiede la riforma della giustizia. Cosa ne dice? «Ho letto le proposte di Andrea Orlando, responsabile giustizia del pd: sono una serie di enunciazioni perfette in nome proprio delle “riforme condivise”, anche se non capisco cosa ci guadagnerà la giustizia». In conclusione, valeva la pena scegliere la magistratura? «Sì, ne valeva la pena. Anche se viviamo anni difficili, le cose cambieranno, non possono non cambiare.Dobbiamo avere fiducia». 12 giugno 2010 http://www.unita.it/news/italia/99899/armando_spataro_il_potere_politico_attacca_informazione_e_giudici_perch_garanti_della_legalit Titolo: Rinaldo GIANOLA Il vero piano-casa di Berlusconi: «Milano 4» ad Arcore Inserito da: Admin - Luglio 07, 2010, 05:13:10 pm Il vero piano-casa di Berlusconi: «Milano 4» ad Arcore
di Rinaldo Gianola L’unico che davvero ci spera è il sindaco di Arcore, l’avvocato Marco Rocchini, 70 anni:«Non c’è un centesimo in cassa, noi sindaci siamo costretti a scalare vetri insaponati. Personalmente non ho dubbi, sono favorevole all’investimento immobiliare di Berlusconi nel nostro comune, sarebbe un grande aiuto. Ma, purtroppo, ogni volta che c’è di mezzo Berlusconi si scatena la bagarre». Il primo cittadino di Arcore, targato pdl, si trova nelle condizioni di molti amministratori italiani costretti a guidare le loro comunità con risorse sempre più misere a causa dei tagli del governo. Ma Rocchini potrebbe contare su un generoso piano di investimenti immobiliari che il concittadino Silvio Berlusconi ha in mente di realizzare nel territorio confinante con la sua residenza. Il piano dell’Immobiliare Idra, società del gruppo Fininvest della famiglia Berlusconi, prevede investimenti per circa 200 milioni di euro, per costruire villette-palazzine che verrebbero date in affitto a giovani coppie. Il territorio interessato parte da Villa San Martino, residenza del premier acquisita negli anni Ottanta grazie alle mediazione dell’avvocato Cesare Previti e dove trovò rifugio e lavoro lo stalliere Vittorio Mangano l’”eroe” di Marcello Dell’Utri, e si estende fino al fiume Lambro e oltre, se fossero concesse le deroghe e i permessi necessari. Perché quella che è stata battezzata la “Milano 4” di Arcore è un’iniziativa imprenditoriale che è destinata a realizzarsi, se davvero si farà, su un’area di 250.000 metri quadri all’interno del Parco del Lambro, alla quale sono interessate tre province (Monza e Brianza, Lecco, Como). Sulle prime indiscrezioni del progetto ci sono state polemiche e battaglie, apprezzamenti e dichiarazioni di guerra. Come stanno le cose? Il sindaco Rocchini spiega:«Non è vero che io o il comune abbiamo autorizzato il piano. Il progetto non è stato nemmeno protocollato. Un paio di mesi fa gli amministratori di Idra si sono presentati da me e mi hanno illustrato il piano di investimento. Ho ascoltato e le dico che personalmente sono favorevole perché questa iniziativa cambierebbe il futuro di Arcore e della zona intorno, potremmo ottenere 20 milioni di oneri di urbanizzazione e Idra si è impegnata a restaurare Villa Borromeo d’Adda, a creare una casa di riposo per anziani, a realizzare due sottopassi per la ferrovia, piste ciclabili e altre opere. Insomma, tutti progetti che il comune oggi non è in grado di sostenere. Sarebbe utile per tutti poter discutere pacatamente di questa proposta, valutare gli aspetti positivi e quelli negativi e poi decidere. Ma quando c’è di mezzo Berlusconi diventa difficile, era già successo quando presentò il piano di allargamento della sua residenza...». Fausto Perego, ex assessore all’Urbanistica e oggi consigliere pd ad Arcore, è uno di quelli che si è battuto contro l’estensione della Villa del premier e oggi è contrario al piano “Milano 4”. Argomenta: «Il comune non ha nemmeno il Piano Generale del Territorio e ora dovremmo consentire a Berlusconi di gettare una colata di cemento compromettendo il Parco e il futuro dell’area sulla cui tutela tutti, destra e sinistra, ci eravamo impegnati. Le contropartite offerte da Idra sono importanti per la città, ma non possiamo farci prendere perché abbiamo fame. Il territorio va salvaguardato, è il nostro patrimonio principale». La proposta di Berlusconi. comunque, è una di quelle che fa discutere e divide non solo perché c’è di mezzo il premier e i suoi enormi interessi. La notizia di un investimento così importante in un’area ricca ma duramente colpita dalla crisi economica sembra fatta apposta per mantenere l’attenzione politica e mediatica, come se ce ne fosse ancora bisogno, sempre su Berlusconi. Nei mesi scorsi, proprio attorno ad Arcore e alle tre ville di proprietà del premier in Brianza, si sono consumate tragedie sociali come il licenziamento degli operai della Yamaha, la ristrutturazione della Dalmine, i tagli della Celestica e ancora la vertenza della Carlo Colombo con gli operai sul tetto a protestare. Berlusconi entrava e usciva con la sua Audi blindata da Villa San Martino, passava davanti ai picchetti operai, ma poi in tv negava la crisi e invitava all’ottimismo. Oggi come un mecenate generoso offre al suo comune l’opportunità di un ricco investimento, sempre giocato, però, sulla deroga dalle regole: costruisco le case, porto lavoro e soldi, ma voi fatemi usare il Parco. La partita di “Milano 4” non è naturalmente solo una questione economica, assume, come teme il sindaco di Arcore, una forte connotazione politica proprio perché c’è di mezzo Berlusconi. Il premier nuota in Brianza e in Lombardia in piena libertà e con grandi appoggi. La sua rete è talmente articolata e solida che non ci si sorprende più di nulla. Ad esempio il vicepresidente della provincia di Monza, Antonino Brambilla, riveste tranquillamente il ruolo di consulente della Immobiliare Idra, mentre il presidente del Parco valle del Lambro è Emiliano Ronzoni, fedelissimo di Formigoni, che dovrebbe decidere sui permessi. Non resta altro che attendere la decisione di Arcore dove la prossima primavera si andrà al voto e c’è aria di ribaltone. Il sindaco Rocchini è stanco e ha già fatto la sua scelta:«Io non mi candido più». 07 luglio 2010 http://www.unita.it/news/italia/100890/il_vero_pianocasa_di_berlusconi_milano_ad_arcore Titolo: Rinaldo GIANOLA Formigoni sotto tiro E lui sospetta Tremonti Inserito da: Admin - Luglio 18, 2010, 11:00:07 am Formigoni sotto tiro E lui sospetta Tremonti
di Rinaldo Gianola A pensar male si fa peccato, ma ogni tanto ci si piglia. Roberto Formigoni deve aver pensato in questi giorni difficili a quella famosa citazione di Giulio Andreotti almeno per consolarsi, o per trovare un indizio, se non una piena giustificazione agli scandali e alle inchieste che come un temporale estivo investono il suo regno lombardo. Davvero il governatore ha delegato quei galantuomini della P3 affinché facessero pressioni sui giudici per riammettere la sua lista elettorale «Per la Lombardia» dopo il pasticcio della irregolare presentazione? L’incompatibilità ambientale per cui è stato trasferito il presidente della Corte d’Appello, Alfonso Marra, ha qualche relazione con il pressing di Formigoni? E, su altro versante ancora più grave, come fa il governatore a tenersi accanto il consigliere del Pdl Massimo Ponzoni il cui nome è direttamente collegato con l’inchiesta sulla ’ndrangheta in Lombardia? «Notizie false» Formigoni ieri ha parlato, ha negato nettamente qualsiasi coinvolgimento con la banda della P3, ha precisato che si tratta di «notizie false e infondate», ha aggiunto di aver dato mandato solo ai suoi legali per ottenere la riammissione della lista e ha evitato di rispondere alla domanda se avesse mai telefonato ad Arcangelo Martino, uno degli arrestati. Ma ci vuole altro per chiudere un partita giudiziaria e politica, con mille risvolti e collegamenti. Formigoni non è un politico qualsiasi: è un uomo di potere che per il quarto mandato consecutivo ha ottenuto un largo consenso dagli elettori per guidare la regione italiana che da sola produce oltre il 20% del pil. Il governatore passerà alla storia. Nemmeno Franz Joseph Strauss riuscì a resistere così a lungo nella sua Baviera. Formigoni ha una rete di potere consolidata, tra politica, affari e solidarietà, si parte dalla Compagnia delle opere e si finisce alla finanza, con ospedali, scuole, formazione, autostrade e infine l’Expo 2015, per la cui organizzazione ci ha messo la faccia e sta litigando con il sindaco Moratti e il presidente della provincia Podestà. Lo scontro con Tremonti Formigoni, da politico di lungo corso e con la sospettosa cultura che gli deriva dalle sue origini democristiane, si è chiesto se ci sia un motivo particolare, se esista una ragione prevalente per spiegare tutta questa bagarre scatenatasi nei giorni scorsi. Il governatore è troppo abile per annunciare di voler mettere taglie per trovare i responsabili di questo disegno, ma qualche idea se l’è fatta. Formigoni ritiene che questa baraonda, che lo porterà nei prossimi giorni ad essere sentito dai magistrati come persona informata dei fatti, possa essere stata strumentalizzata, enfatizzata, a causa della sua opposizione alla manovra correttiva di Tremonti. Il presidente della Lombardia, in effetti, è stato molto duro nei suoi giudizi sugli interventi, sui tagli del ministro dell’Economia col quale, anche su altre questioni ( come il finanziamento dell’Expo), non ci sono rapporti sereni. «Se uno tocca Tremonti rischia di farsi male» avrebbe commentato il governatore in questi giorni e i suoi collaboratori non hanno fatto fatica a mettere in fila gli episodi, importanti e marginali, di contrasto tra Formigoni e Tremonti. Non è un mistero che l’asse tra il fiscalista di Sondrio e la Lega di Bossi puntava a sostituire Formigoni al Pirellone, né che tra il governatore e il ministro dell’Economia sia partita da tempo una corsa senza esclusione di colpi per conquistare la leadership del centrodestra dopo Berlusconi che, comunque, vuole resistere almeno fino a 120 anni... Lo scontro più duro è quello maturato nelle ultime settimane, attorno alla manovra correttiva dei conti pubblici con i tagli imposti da Tremonti alle Regioni. Formigoni, che si vanta di aver conti in ordine e una gestione oculata delle risorse, si è messo di traverso, ha affondato le critiche al ministro e ha ventilato le pericolose conseguenze politiche che deriverebbero dai tagli ai treni dei pendolari, alla sanità regionale, alle scuole, ai fondi per le aziende e per la cassa integrazione in deroga. Forse i sospetti di Formigoni sono eccessivi, ma certo qualche fondamento ce l’hanno. Tocca a lui chiarire le sue responsabilità e se davvero esiste una trama del ministro Tremonti che mira a colpirlo. La sola certezza oggi è che l’inchiesta sulla P3, dopo la rissa tra fininiani e premier sulle intercettazioni, sta trasformando il popolo delle libertà in un verminaio ingovernabile. 17 luglio 2010 http://www.unita.it/news/italia/101318/formigoni_sotto_tiro_e_lui_sospetta_tremonti Titolo: Rinaldo GIANOLA Un autunno triste Inserito da: Admin - Luglio 20, 2010, 10:23:22 am Un autunno triste
di Rinaldo Gianola Il presidente Obama dice che negli Stati Uniti per ogni posto di lavoro disponibile ci sono cinque disoccupati in coda. Nonostante i segnali di risveglio dell’economia americana, ben più sostenuti di quelli europei e italiani, il dato diffuso dalla Casa Bianca testimonia che è ben fondato il timore di quanti prevedono una ripresa senza occupazione. A maggior ragione questa preoccupazione dovrebbe investire governo e imprese del nostro Paese perchè è evidente che l’autunno non ci porterà la fine della crisi che ormai dura dal 2008, ma un periodo di nuove difficoltà soprattutto sul fronte sociale. Le recenti valutazioni del governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi, e le stesse stime di Confindustria condividono la prospettiva che per l’occupazione il peggio deve ancora venire, anche se il Pil mostra finalmente un segno positivo. La disoccupazione reale è attorno al 10%, forse di più, giovani e donne sono i più colpiti, non ci sono segni che possano far immaginare una netta inversione di tendenza. La creazione di nuovi posti di lavoro ha bisogno di una forte ripresa dell’economia e non sarà sufficiente l’1 per cento, più o meno, che riusciremo a conquistare. In più oggi bisogna consideare l’impatto della manovra correttiva dei conti pubblici. per la quale è atteso il voto di fiducia della Camera, che potrebbe non garantire il raggiungimento degli auspicati obiettivi sul bilancio dello Stato con la conseguente necessità di un’altra stangata, e potrebbe frenare o pregiudicare i segnali di ripresa. Ecco perchè i prossimi mesi, dopo l’estate, saranno di grande incertezza per la nostra economia e di forte difficoltà per la tenuta del tessuto sociale, già indebolito dalla lunga crisi. L’autunno si presenterà agli italiani con un’economia ancora debole, una pressione fiscale da record perchè Berlusconi ha aumentato le tasse, servizi locali tagliati dalla manovra e redditi ancora in caduta con una conseguente stagnazione dei consumi. Oggi, inoltre, al di là della congiuntura economica, è necessario aggiungere una valutazione sul comportamento di grandi gruppi e di nomi prestigiosi dell’industria che stanno maturando scelte che potrebbero avere conseguenze gravi sull’occupazione. Telecomunicazioni, siderurgia, auto, elettrodomestici, chimica, tessile, i settori principali della nostra industria sono coinvolti in piani di ristrutturazione e di riorganizzazione che lasciano a casa migliaia di lavoratori. Il processo è iniziato da molti mesi, ha accompagnato l’evoluzione della crisi, e proprio in questo periodo si sta accentuando quasi si volesse posticipare ancora la fine dell’emergenza. C’è da chiedersi, almeno, se tutti questi sacrifici sul fronte occupazionale siano davvero necessari per superare la crisi e rilanciare l’industria, o se, invece, il semplice taglio dei dipendenti, magari accompagnato da chiusure di fabbriche e da delocalizzazioni produttive, non sia una scorciatoia per recuperare margini di profitto. Davanti a ogni crisi il capitalismo ne esce con profonde ristrutturazioni e con tagli occupazionali, ma anche in questo momento ci sarebbe spazio per un intervento pubblico, una regia del governo in grado di orientare le scelte industriali, gli investimenti, per verificare se davvero chiusure e licenziamenti non abbiano alternative. Sarebbe necessaria, insomma, una coerente politica industriale, come fanno altri paesi europei, ad esempio Germania e Francia. Da noi, invece, Berlusconi e Sacconi si limitano a fare il tifo per la Fiat a Pomigliano e guai a chi non ci sta. A proposito di auto e diritti.... La storica fabbrica Volkswagen di Wolfsburg, dove gli operai guadagnano quasi il doppio di quelli italiani, ha prodotto oltre 700mila vetture nel 2009. Nessuno ha chiesto agli operai di rinunciare a tutele e diritti 20 luglio 2010 http://www.unita.it/news/analisi/101437/un_autunno_triste Titolo: Rinaldo GIANOLA Landini: «Fabbrica Italia così non è credibile». (e la FIOM?). Inserito da: Admin - Luglio 23, 2010, 11:50:13 pm Landini: «Fabbrica Italia così non è credibile»
di Rinaldo Gianola Marchionne sposta in Serbia investimenti e produzioni previsti a Mirafiori perché dopo il caso Pomigliano non si fida dei sindacati, non vuole sorprese. Landini, tutta colpa della Fiom? «Non scherziamo, cerchiamo di essere seri. La Fiat cambia il suo piano strategico da un giorno all’altro, con una semplice comunicazione, non lo discute con nessuno. Il piano in Italia è nebuloso, questo è il punto vero. La Fiat è in difficoltà sul mercato, soprattutto in Europa, i prodotti sono vecchi e poco competitivi e si cerca di creare una cortina fumogena dando la colpa ai sindacati e ai lavoratori». Maurizio Landini, 48 anni, iscritto alla Fiom da quando aveva 16 anni ed era apprendista saldatore, è il segretario dei metalmeccanici della Cgil da pochi mesi. Si è trovato subito in mezzo alla questione Fiat, alle polemiche, alle accuse, e anche alle incomprensioni con la sua confederazione. Oggi, nel bene o nel male, è il sindacalista più esposto sul fronte della crisi italiana. Per molti è il simbolo di un vecchio sindacalismo anni 70, per altri è un argine al trionfo del pensiero unico aziendalista. Landini, il taglio dell'investimento a Mirafiori lo avevate previsto dopo il mancato plebiscito a Pomigliano? Siete voi i responsabili? «Assolutamente no. Bisogna leggere bene le posizioni di Marchionne di questi ultimi mesi per capire dove va e cosa ha in mente la Fiat. La scelta della Serbia oggi non è casuale: quella era una fabbrica distrutta dai bombardamenti, ricostruita con i soldi del governo, esente da tasse per dieci anni e l’azienda incassa un contributo di 10mila euro per ogni dipendente assunto. Un operaio guadagna 400 euro al mese. È un’altra America per Marchionne. Negli Usa la Chrysler era alla bancarotta è stata salvata da Obama, con i soldi pubblici e i fondi dei lavoratori. La logica della Fiat è questa: prende i soldi pubblici, con questi finanzia gli investimenti, e l’azionista non ci mette niente. Per la verità è una logica applicata anche da noi». Cosa vuol dire? Marchionne ha promesso 20 miliardi di euro... «Io vedo che quest’anno in Italia si produrranno meno di 600mila vetture della fascia medio-bassa, che Termini Imerese chiude con nessuna opposizione, che i dipendenti Fiat perdono tra i due e tre mesi di reddito con la cassa integrazione e in più Marchionne non paga il premio di risultato mentre distribuisce il dividendo. Una parte degli investimenti è certamente pagata dal lavoro, non c’è dubbio». Il problema è che perdiamo industria e lavoro, Marchionne chiede garanzie di governabilità nelle fabbriche e nessuno dice niente tranne la Fiom che viene vista come l’irresponsabile. «La Fiat sta procedendo a scelte profonde, il governo è assente mentre in Europa i governi francese e tedesco sono intervenuti per dare una mano all’industria dell’auto chiedendo in cambio nuovi investimenti, prodotti innovativi, ricerca, tutela delle fabbriche e dell’occupazione. In Italia, invece, non si fa nulla. Così la Fiat avvia la separazione dell’auto e dalla Cnh e all’Iveco, aprendo la strada a una fusione con la Chrylser. La testa e i grandi interessi della Fiat si stanno spostando in America, altro che Fabbrica Italia. Pomigliano è stata una prova per soggiogare i lavoratori e i sindacati, imponendo la violazione del contratto nazionale, della legge e la deroga alla Costituzione. Ma, nonostante tutto, larga parte dei lavoratori non ha accettato quelle condizioni. Non sono solo gli iscritti alla Fiom a dire no a questo disegno autoritario, che si manifesta anche con i licenziamenti, ma come dimostrano le manifestazioni di questi giorni sono migliaia di lavoratori del gruppo che non ci stanno». Ma non teme che la vostra legittima opposizione privi l’Italia di investimenti e lavoro? Senza fabbriche non ci sarà più bisogno né del sindacato né tantomeno della Fiom. «Noi siamo i primi a volere una Fiat forte, capace di competere sui mercati con prodotti nuovi. Ma il caso Pomigliano e poi Mirafiori dovrebbe far riflettere tutti sulle condizioni che Marchionne vuole imporre, sull’abbassamento dei salari, sui ritmi, sulla violazione delle leggi e dei contratti. Nelle fabbriche Fiat c’è preoccupazione e malcontento, non solo tra i nostri iscritti. Possibile che gli altri sindacati e la politica non riescano a vedere cosa sta succedendo, non dico che devono condividere le nostre opinioni, ma almeno guardate cosa avviene negli stabilimenti. Se Fabbrica Italia significa che i salari italiani devono competere con quelli polacchi o serbi, e magari cinesi, allora la partita è persa, perché ci sarà sempre nel mondo qualcuno che costa un euro meno di noi». Molte imprese di Federmeccanica avrebbero chiesto di applicare il modello Pomigliano. Bonanni e Angeletti sono disponibili. Cosa ne pensa? «Penso che sia un’illusione, penso che se gli imprenditori ritengono di poter gestire le loro fabbriche complesse e delicate senza il consenso e la partecipazione dei loro dipendenti allora hanno smarrito la ragione. Nessuno può illudersi di governare la produzione violando le regole e i contratti, applicando magari ricette autoritarie. Non funziona, e gli industriali intelligenti lo sanno». Probabilmente la posizione della Fiom godrebbe di maggior credibilità se la sua organizzazione fosse più in sintonia con la Cgil, non crede? «Tra Fiom e Cgil c’è una lunga storia di confronto, di dialettica. Fa parte della nostra vita democratica. Penso che i problemi nascano da una discussione congressuale non compiuta fino in fondo, abbiamo chiuso il congresso dicendo che c’erano le condizioni per riprendere una processo sindacale unitario e poi abbiamo visto cosa è successo. La Fiom mantiene la sua lealtà verso la confederazione e i suoi iscritti, l’obiettivo di tutti è difendere il lavoro, i diritti, senza cedere ai ricatti. Noi facciamo solo il nostro mestiere». Nella segreteria Fiom c’è stato uno strappo: la minoranza, che è la maggioranza nella Cgil, non è rappresentata. Perché? «Fausto Durante, dopo una discussione, ha scelto di non entrare in segreteria. Mi dispiace e penso che abbia fatto un errore. Spero che questa ferita possa rimarginarsi al più presto. Aggiungo che la nostra segreteria ha sempre preso le decisioni all’unanimità anche su Fiat, anche con il voto della minoranza». Landini, non vi sentite un po’ belli e isolati... «Non siamo per niente isolati, basta guardare in giro quello che succede. Le nostre lotte hanno successo, raccolgono consensi ben più ampi dei nostri iscritti. Sulla Fiat lotteremo per ottenere un confronto vero sulle scelte industriali. C’è tempo ancora un anno. La nostra unica condizione è il rispetto del contratto nazionale e della Costituzione, non mi pare una richiesta eversiva». E poi, cosa succede? «Abbiamo convocato per il 16 ottobre una grande manifestazione a Roma, aperta a tutte le forze sociali, sindacali, politiche. Vogliamo difendere il lavoro, combattere la precarietà, estendere la democrazia. Se c’è qualcuno che pensa che sul lavoro si possa costruire qualcosa di nuovo per il nostro paese noi siamo disponibili». Landini, sicuro di non aver sbagliato su Pomigliano? «No, non abbiamo sbagliato». 23 luglio 2010 Vedi tutti gli articoli della sezione "Economia" http://www.unita.it/news/economia/101580/landini_fabbrica_italia_cos_non_credibile Titolo: Rinaldo GIANOLA Epifani: «Operazione pericolosa contro Confindustria e contro... Inserito da: Admin - Luglio 29, 2010, 11:47:04 am Epifani: «Operazione pericolosa contro Confindustria e contro il sindacato»
di Rinaldo Gianola Nessun passo avanti, nessuna apertura. Guglielmo Epifani, segretario generale della Cgil, è molto deluso dall'incontro con Sergio Marchionne: «Ha ribadito le sue posizioni, al limite del ricatto. Se non fate quello che dico io me ne vado altrove perché la Fiat è un gruppo mondiale e posso scegliere dove fabbricare. Non ci sono cambiamenti nel suo diktat, né oggi, bisogna sottolinearlo, ci sono certezze sui volumi produttivi e sugli investimenti del gruppo in Italia. Resta tutto avvolto nell'incertezza ma la strada scelta dal Lingotto non conviene a nessuno, nemmeno all'azienda». Epifani, la Cgil non condivide il piano Marchionne e così i nuovi modelli vengono spostati in Serbia. «Non è così. Lo stesso Marchionne ha detto che il trasferimento in Serbia è stato deciso per una questione di tempi, perché Mirafiori non sarebbe stata pronta. La verità è che Marchionne continua a promettere investimenti che restano confusi, chiede una nuova organizzazione del lavoro, nuovi ritmi, deroghe alle leggi e al contratto nazionale ma poi non c'è la certezza di cosa produrranno le fabbriche italiane. L'incontro è stato deludente, non capisco l'ottimismo del governo, di Cisl e Uil. Il futuro degli stabilimenti italiani oggi è in dubbio. Né il governo né la Regione Piemonte sono riusciti a convincere Marchionne a fare un passo in avanti». Fabbrica Italia, dice Marchionne, è un progetto aziendale, non un piano condiviso. Quindi: ci state o no? «Se Fabbrica Italia è una proposta aziendale perché non farla diventare un progetto condiviso dai lavoratori, dai sindacati, dalle istituzioni, perché non renderla più forte con il consenso e la partecipazione di tutti? Ci sono le condizioni, se la Fiat vuole, di riaprire il negoziato e trovare un accordo ampio, su produzioni, organizzazione del lavoro, saturazione degli impianti. L'obiettivo principale della Cgil e della Fiom è di mantenere e di rafforzare l'industria dell'auto in Italia, di consentire alla Fiat di realizzare in sicurezza i suoi investimenti, di rendere più efficienti le fabbriche, di garantire i posti di lavoro. Noi ci stiamo e siamo disposti a dare il nostro importante contributo, nel rispetto della Costituzione, delle leggi dello Stato, dei contratti». Ma Marchionne non ne vuole sapere di contratti e di tutto il resto. La Cgil si ostina su questi argomenti mentre Marchionne vuole uscire da Federmeccanica e denunciare il contratto nazionale di lavoro. Lui è già nel futuro, è “inarrivabile” come dice il Corriere della Sera... «Marchionne sta compiendo un'operazione molto pericolosa che danneggia l'intero sistema delle relazione industriali. Uscire da Federmeccanica e derogare dal contratto vuol dire, prima di tutto, dare uno schiaffo alla Confindustria e alla signora Marcegaglia. Se la Confindustria non è in grado di far rispettare gli accordi ai suoi associati quale credibilità potrà avere con le controparti? Marchionne vuole davvero passare sopra tutto, distruggere anni di storia di relazioni industriali, vuole farla finita con i corpi intermedi di rappresentanza? È un rischio molto grave, soprattutto in un paese colpito da una crisi profonda, dove la tenuta del tessuto sociale è in forte pericolo». Forse Marchionne, alla pari di Berlusconi, si accontenta di tenere la Cgil fuori dalla porta. Non le pare? «Non voglio pensare che un gruppo importante come la Fiat possa ricercare la sistematica esclusione del più grande sindacato italiano. Sarebbe un gravissimo errore, perché fabbriche con migliaia di dipendenti e produzioni molto complesse non si governano trasformandole in caserme. La Cgil e la Fiom restano in campo con la piena disponibilità a negoziare e a trovare un accordo nell'interesse di tutti. Se, invece, la Fiat sceglierà un'altra strada ne prenderemo atto». Il sindaco Chiamparino ha detto che il sindacato, e si riferiva alla Cgil e alla Fiom, non è stato all'altezza della sfida Fiat, che Mirafiori non può pagare per Pomigliano... «Il giudizio di Chiamparino è sbagliato. Che cosa vuol dire, che cosa c'entra Pomigliano con Mirafiori? Il sindaco non ha capito che, comunque, la produzione di Torino sarebbe stata trasferita in Serbia, come ha detto lo stesso Marchionne? E poi bisogna chiarire una volta per tutte: se la politica, anche la sinistra, ritiene che un sindacato moderno sia quello che accoglie tutte le richieste delle imprese a partire dalla Fiat senza fare obiezioni, allora è bene ribadire che questo non è il modello di sindacato che appartiene alla Cgil. Forse il sindaco di Torino ritiene che la Cgil e la Fiom non siano abbastanza responsabili davanti a una sfida come quella della Fiat? Bene, invito lui e la Fiat a metterci alla prova». La verità, comunque, è che di fronte a Fabbrica Italia la capacità di analisi e di risposta del sindacato e della politica, in particolare delle forze progressiste, sono state insufficienti, è stato impiegato un armamentario vecchio mentre Marchionne fa la parte del modernizzatore in maglioncino. «Non c'è dubbio che ci siano difficoltà perché l'operazione Fabbrica Italia è ambiziosa e impegnativa per tutti. Ma vorrei aggiungere che la difficoltà più grande è quella di trovarsi di fronte non a disegno industriale, condivisibile o meno, ma a una filosofia del ricatto che ispira le trattative, o meglio: le comunicazioni ai sindacati, e sostanzialmente si basa su un solo principio». Quale sarebbe questo principio? «L'azienda è al centro di tutto, vado a produrre dove mi conviene e tutto il resto non conta. Vado dove gli operai costano meno e posso sfruttarli di più, dove i governi mi danno soldi e non mi fanno pagare le tasse. Marchionne, forse, è un po' troppo americano, per questo rischia di compiere gravi errori». Se questo è il principio che ispira Marchionne, allora la Fiat in Italia durerà poco? Che idea si è fatto della strategia di Marchionne, dove sta andando? «Il suo primo, principale fronte è l'America. Non ci sono dubbi. Deve riportare in Borsa la Chrysler, rimborsare il maxi-prestito e cercare di sfruttare la congiuntura positiva del mercato. Poi nel medio termine è possibile la fusione tra Fiat e Chrysler, speriamo che ci sia ancora spazio per l'Italia e per l'Europa. Per questo è importante oggi difendere e sviluppare una forte industria dell'auto in Italia». Non teme che la linea dura di Marchionne possa far presa su altre imprese che affrontano pesanti ristrutturazioni? «Penso che le imprese italiane non seguiranno questa strada che porterebbe dritti dritti alla balcanizzazione delle relazioni industriali dove comanda il più forte. Mi chiedo e chiedo alle aziende intelligenti: conviene buttare a mare un grande patrimonio di relazioni industriali per colpire momentaneamente lavoratori e sindacati, per fare la faccia dura? No, non credo che seguiranno Marchionne perché già oggi nel nostro paese grandi imprese italiane e multinazionali nella chimica, nel tessile, nell'industria degli occhiali, si accordano con il sindacato per ristrutturare le attività produttive al fine di restare in Italia e difendere l'occupazione». Cosa succede adesso? «Attendiamo di conoscere le scelte ufficiali di Marchionne, se esce da Confindustria, se denuncia il contratto, come e se manterrà gli impegni per le fabbriche Fiat in Italia. La Cgil e la Fiom sono pronte a riprendere il confronto per garantire all'azienda di raggiungere gli obiettivi ambiziosi che si è data. Se il governo non si limitasse, come ho detto, a fare il notaio ma mettesse in campo qualche idea di politica industriale darebbe un bel contributo. D'altra parte ricordo che tutta la partita Fiat iniziò a Palazzo Chigi, lì dovrebbe tornare». 29 luglio 2010 http://www.unita.it/news/economia/101834/epifani_operazione_pericolosa_contro_confindustria_e_contro_il_sindacato Titolo: Rinaldo GIANOLA Autunno: l’economia si muove, il lavoro no Inserito da: Admin - Agosto 11, 2010, 10:37:23 am Autunno: l’economia si muove, il lavoro no
di Rinaldo Gianola Il problema più grave sono le donne e i giovani. La maggior parte di loro si sta spostando nella categoria degli “inattivi”, cioè di coloro che sono così scoraggiati da non cercare più attivamente un posto di lavoro. Ma la dinamica del mercato del lavoro italiano negli ultimi due anni ha proposto una nuova figura ormai classica del lavoratore che perde il posto, dalla Brianza al Veneto: è operaio, uomo, spesso immigrato e con un contratto a termine. Stiamo parlando di categorie di lavoratori che escluse dal ciclo produttivo faranno una grande fatica a ritrovare un’occupazione nel breve-medio periodo perchè i positivi segnali di ripresa dell’economia, che finalmente si vedono, non producono effetti diretti e immediati sul lavoro. La crescita del pil e lo strappo della produzione industriale sono accompagnate da notizie per nulla favorevoli sul fronte dell’occupazione e questo fenomeno - ripresa dell’economia e gelo sul mercato del lavoro - non riguarda solo noi, ma anche l’Europa e gli Stati Uniti. Il presidente Barack Obama ha sottolineato proprio in questi giorni la sua preoccupazione per la lentezza con cui si creano nuove occasioni di lavoro, dopo che l’America ha perso otto milioni di occupati da quando è iniziata la crisi. «Per ogni nuovo posto disponibile ci sono cinque disoccupati in fila» ha semplificato la situazione il presidente americano. In Italia, forse stiamo uscendo dal periodo peggiore per l’economia, ma certo non è ancora arrivato il sereno sul fronte sociale. Anzi, man mano che giungono notizie favorevoli sul fronte dell’economia si innestano nuove situazioni di crisi o di ristrutturazione di imprese che hanno come prima conseguenza l’espulsione di migliaia di lavoratori. La settimana appena conclusa è esemplare: mentre il governo e gli imprenditori si compiacciono per i dati del pil e della produzione industriale, grandi gruppi come Unicredit e Telecom Italia annunciano migliaia di esuberi che vanno a sommarsi a quella multitudine già lasciata a casa negli ultimi mesi. In questa ultima parte dell’anno, se le notizie che emergono in questi giorni saranno confermate, ci sarà un’ondata di riorganizzazioni produttive e aziendali, dall’industria al credito ai servizi, che determinerà probabilmente ulteriori tagli. Fiat, Telecom Italia, Unicredit, Eutelia, Indesit, la chimica, la siderurgia, l’editoria e perfino la finanza legata alla Borsa sono i campi aperti di profondi cambiamenti. 08 agosto 2010 http://www.unita.it/news/economia/102188/autunno_leconomia_si_muove_il_lavoro_no Titolo: Rinaldo GIANOLA Pd, iniziamo da Melfi? Inserito da: Admin - Agosto 11, 2010, 05:40:49 pm Pd, iniziamo da Melfi?
di Rinaldo Gianola Le sentenze della magistratura si rispettano e non si discutono. Ieri un giudice del lavoro ha deciso il reintegro degli operai Barozzino, Pignatelli (due delegati Fiom) e Lamorte nello stabilimento Fiat-Sata di Melfi licenziati per «sabotaggio alla produzione». I tre operai erano accusati di aver ostacolato un carrello automatico, durante una protesta in fabbrica, che aveva determinato il blocco della produzione. Il giudice ha riscontrato nella scelta della Fiat un «comportamento antisindacale». Per noi è una bella notizia. Non abbiamo mai avuto dubbi, e lo avevamo scritto chiaramente, sulla correttezza dei lavoratori di Melfi e sappiamo benissimo che la protesta operaia, pur nelle sue espressioni più radicali, non è paragonabile a un atto eversivo. Ora ci auguriamo che anche l’impiegato Capozzi di Mirafiori, delegato Fiom e simpatizzante Pd, licenziato perché aveva usato la mail aziendale per un volantino possa presto tornare al lavoro. Nella stagione del bipolarismo bisogna fare scelte chiare: gli operai di Melfi sono i nostri preferiti, Marchionne anche quando cita Karl Popper non ci ha mai pienamente convinto. Ma, forse, ci sbagliamo. La Fiat non commenta, attende di leggere le motivazioni della sentenza. Nessun commento è arrivato da Emma Marcegaglia, leader di Confindustria, che aveva giustificato il licenziamento dei tre operai perché protagonisti di «iniziative di sabotaggio». In silenzio anche il ministro del Welfare Maurizio Sacconi che aveva spalleggiato la Fiat di «fronte a gravi episodi di interruzione dell’attività produttiva, che ci riportano agli anni Settanta». Bisognerebbe segnalare, ma è meglio lasciar perdere, l’imbarazzo di Cisl e Uil che, in altri tempi, davanti al licenziamento ingiustificato di operai e delegati non avrebbero fatto mancare la loro solidarietà. Ma oggi proprio non ce la fanno. Questo caso dei licenziamenti alla Fiat, tuttavia, non può essere archiviato con un giudizio in un verso o nell’altro della magistratura. Il progetto «Fabbrica Italia» annunciato in aprile da Sergio Marchionne porta con sé una sfida non solo industriale, ma culturale e politica al mondo del lavoro, sindacale, al governo. Marchionne dice e conferma con le sue azioni che vuole superare il sistema di relazioni industriali, farsi un contratto di lavoro su misura, derogare da impegni e adesioni confindustriali e soprattutto costituzionali. Oggi, di fronte alla sentenza di Melfi, Marchionne “l’inarrivabile”, come lo definisce il Corriere della Sera, potrebbe avere qualche dubbio sul successo del suo progetto. È ipotizzabile che i lavoratori di Pomigliano si facciano licenziare e poi riassumere in una newco sempre controllata dalla Fiat con un contratto che deroga dai patti sottoscritti tra le parti, dai principi costituzionali, dal contratto nazionale di lavoro, senza che nessuno osi protestare e ricorrere alla magistratura? Siamo sicuri che i modelli produttivi di Tychy in Polonia o della Chrysler siano indispensabili per convincere Marchionne a mantenere le fabbriche italiane in attività? A nessuno viene il dubbio che la linea del Lingotto sia stata finora caratterizzata da un’ambiguità che non ha mai chiarito quali saranno i veri investimenti e le reali produzioni destinate all’Italia? In questa situazione difficile converrebbe anche alla Fiat negoziare con tutti, trovare una base più ampia di consenso, nel rispetto dei patti. Sarebbe un successo per Torino, i sindacati, i lavoratori, le istituzioni se «Fabbrica Italia» diventasse un progetto aziendale condiviso da tutti. Ma per ora non ci sono segnali distensivi dal Lingotto, quasi che si volesse cercare un ulteriore scontro, una nuova fase di tensione per ripensare le proprie scelte in Italia. Può darsi che la strada di Marchionne sia quella vincente, indispensabile allo sviluppo dell’industria dell’auto e alla nuova competizione internazionale. Se ha ragione gli faremo un monumento. Ma davanti a questa sfida è necessario che la sinistra, il Pd parlino chiaro e forte al paese. Soprattutto è bene che tra le forze progressiste siano chiare le responsabilità di una multinazionale com’è oggi la Fiat, del governo e delle forze sociali. Attribuire, come hanno fatto alcuni esponenti di primo piano del Pd, ai lavoratori di Pomigliano responsabilità dell’inefficienza produttiva, dell’assenteismo ingiustificato, non appare una posizione corretta. A Pomigliano c’è l’«assenteismo» determinato dal fatto che da due anni la fabbrica opera tre giorni al mese e sarà così per un altro anno, ammesso che Marchionne voglia mantenere le promesse. A Pomigliano tra i precari buttati fuori c’erano giovani premiati dal direttore di stabilimento per le loro proposte di miglioramento dell’organizzazione in fabbrica. Questa è la realtà. Oggi la sinistra, il Pd hanno di fronte sfide importanti. Devono dire da che parte stanno e quali scelte condividono. Perché, come sostiene il presidente della Toscana Ernesto Rossi allergico ai leader fighetti, «l’idea che un partito laburista non debba avere un blocco sociale di riferimento viene da Tony Blair, considero il blairismo una malattia mortale della sinistra». Chi c’è nel blocco sociale del Pd? Iniziamo da Melfi e Pomigliano o no? 11 agosto 2010 http://www.unita.it/news/commenti/102276/pd_iniziamo_da_melfi_di_rinaldo_gianola Titolo: Rinaldo GIANOLA Finmeccanica scarica il contratto delle tute blu Inserito da: Admin - Settembre 12, 2010, 09:08:06 am Il pugno del padrone.
Finmeccanica scarica il contratto delle tute blu di Rinaldo Gianola Sotto il tallone di Sergio Marchionne si strappa la tela delle relazioni industriali improntate alle regole e al rispetto dei contratti. In nome di una malintesa modernità, da mesi in Italia si fanno a pezzi i diritti consolidati del lavoro, una lunga storia di rapporti duri e però costruttivi tra imprese e sindacati e, in conclusione, si altera la dialettica democratica. La disdetta del contratto dei metalmeccanici del 2008 che scade all’inizio del 2012, l’ultimo firmato anche dalla Fiom, da parte di Federmeccanica è un ulteriore passo di un processo chiaro e coerente ispirato dal governo e finalizzato a destrutturare il sistema dei diritti e delle regole che hanno finora governato il mondo del lavoro. Federmeccanica si è adeguata al diktat della Fiat e fa davvero sorridere il maldestro tentativo del leader degli industriali meccanici Pierluigi Ceccardi di difendere un simulacro di autonomia sostenendo di non aver ricevuto pressioni dal Lingotto. Dalla prossima settimana Federmeccanica assieme a due sindacati minoritari (il numero di iscritti di Fim-Cisl e Uilm complessivamente è inferiore a quello della Fiom) discuterà le deroghe da apportare al contratto nazionale dei metalmeccanici, in particolare il confronto inizierà dal settore dell’auto come richiesto da Marchionne. Ma non ci sarà nulla da discutere, il contratto dell’auto c’è già: è il «modello Pomigliano» che sarà imposto a tutte le fabbriche della Fiat e poi esteso all’indotto. Le deroghe sono già scritte, non c’è nulla da inventarsi, tantomeno da discutere. I sindacati, quelli che ci stanno, saranno chiamati a sottoscrivere il documento imposto da Marchionne per Pomigliano dove sarà la Fiat a decidere se e quando pagare la malattia o quando sarà possibile scioperare. Il nuovo clima, quello ispirato dalla filosofia di Marchionne, si respirà già a Melfi e a Mirafiori con i licenziamenti punitivi e il rifiuto del Lingotto di rispettare le sentenze della magistratura e persino di accogliere gli appelli del Quirinale e del cardinale Bertone. La Fiat e Federmeccanica ritengono di poter evitare con questa mossa le battaglie legali della Fiom, ma probabilmente la valutazione è sbagliata. Certo le aziende meccaniche, e poi presumibilmente anche quelle di altri settori rappresentate in Confindustria che vorranno chiedere deroghe (perchè la Fiat sì e gli altri no? Mica sono scemi), pensano di poter ridisegnare i rapporti con i sindacati e i lavoratori usando lo strappo prodotto da Marchionne. Ma, se questa sarà la strada, se non ci sarà un tentativo responsabile di rimettere assieme i cocci e di ricomporre attorno al tavolo la plurale rappresentatività dei sindacati, compreso il maggior sindacato italiano, allora Marchionne e i suoi fans raccoglieranno ancora qualche agiografia sulla grande stampa, magari eviteranno qualche causa in tribunale ma saranno i responsabili di una stagione di conflitti e di tensioni sui luoghi di lavoro. Certo questo paese è strano: per una settimana tutti elogiano e invidiano il modello tedesco dove i lavoratori sono dentro i centri decisionali delle imprese, poi Marchionne e soci denunciano il contratto dei metalmeccanici per fare quello che vogliono e passare sopra tutto e tutti 07 settembre 2010 http://www.unita.it/news/italia/103258/il_pugno_del_padrone_finmeccanica_scarica_il_contratto_delle_tute_blu Titolo: Rinaldo GIANOLA Lega, libici e poteri cosa c'è dietro la bufera Inserito da: Admin - Settembre 23, 2010, 10:15:29 am Lega, libici e poteri cosa c'è dietro la bufera
di Rinaldo Gianola Con una drammatizzazione improvvisa il caso Unicredit esplode e rischia di destabilizzare uno dei più grandi gruppi bancari italiani ed europei. Una riunione straordinaria del consiglio di amministrazione è stata convocata per questo pomeriggio dal presidente Dieter Rampl che, dopo un’ultima serie di telefonate con i grandi soci del gruppo, ha deciso nella tarda mattina di ieri di accelerare la svolta. Oggi l’amministratore delegato Alessandro Profumo, uno dei più potenti e influenti banchieri e il protagonista della crescita vertiginosa dell’ex Credito Italiano dopo la privatizzazione, potrebbe presentarsi dimissionario davanti al consiglio di amministrazione. Anche se da settimane si parlava di crescenti tensioni tra Profumo, il vero capo della banca, e i soci maggiori, in particolare le fondazioni bancarie di Torino e Verona sempre più influenzate dalle pressioni politiche della Lega, era difficile immaginare che si arrivasse così presto a uno showdown che mette in evidenza non solo le incomprensioni già note, ma una vera e propria frattura al vertice di uno dei grandi istituti bancari italiani, una frattura che minaccia la stabilità della banca, la sua strategia e la sua gestione. Ma perché si arriva a questa resa dei conti? Le fondazioni e anche i soci tedeschi accusano la gestione Profumo di non aver prodotto i risultati attesi e di non essere riuscito a far riprendere quota al titolo in Borsa. Critiche che hanno certo un loro peso e un loro valore, anche se bisognerebbe tener presente che proprio in questi mesi Unicredit ha preparato un nuovo piano di riorganizzazione e in questi giorni è stato avviato il negoziato con i sindacati per una riduzione di personale di 4700 unità in seguito alla creazione della Banca Unica. Ma, probabilmente, questa non è la sola o la vera causa del clamoroso divorzio. Profumo paga la sua indipendenza, spesso esibita nella sua lunga gestione , e soprattutto paga la crisi finanziaria degli ultimi due anni, gli attacchi della Lega e l’ingresso nel capitale degli interessi libici. Questo, probabilmente, è il vero punto. Proprio ieri è stato confermato dalla Consob che la Banca centrale libica e il fondo Libyan Investment authority, riconducibili allo stesso soggetto economico, possiedono complessivamente oltre il 7,5% del capitale sociale di Unicredit e Gheddafi, dunque, è il primo singolo azionista della banca. Anche se lo stesso Profumo aveva precisato all’inizio di settembre di non aver chiamato o sollecitato l’intervento dei soci libici, sia le fondazioni, sia i soci tedeschi rappresentati da Rampl hanno maturato il sospetto che questo pesante intervento azionario fosse stato ispirato o comunque governato da Profumo. I libici hanno assunto una posizione tale da sospettarli di voler scalare la banca, come hanno ipotizzato alcuni ambienti politici. Se Gheddafi va a braccetto di Berlusconi, se Italia e Libia stringono affari miliardari, come escludere che Unicredit possa essere diventato oggetto di scambio a livello politico? La partita è molto delicata. I libici hanno il 7,5% del capitale di Unicredit, suddiviso in due soggetti, ma lo statuto di Unicredit impedisce di esercitare il diritto di voto al di sopra della soglia del 5%. Come la mettiamo? La Banca centrale libica e il fondo sovrano sono lo stesso soggetto, come è lecito immaginare, oppure no? Cosa dirà la Banca d’Italia a questo proposito? Come si concluderà l’indagine che lo stesso presidente di Unicredit Rampl sta conducendo? I libici hanno fatto sapere ieri di essere molto soddisfatti del loro investimento di lunga durata in Unicredit e, naturalmente, il governo e gli amici arabi di Berlusconi, come Tarak Ben Ammar, nessuno sospetta che la Libia possa scalare Unicredit. In ogni caso Profumo, che abbia o meno qualche responsabilità in questa apertura ai libici, è vittima di interessi contrastanti, ad esempio la Lega che non vuole i libici, ma che alla fine si concentrano sulla figura dell’amministratore delegato come figura da colpire. Certo in banca qualche frattura rilevante deve esserci stata se il tedesco Rampl, presidente di Unicredit fin dai tempi della maxi fusione di piazza Cordusio con Hypovereinbank, ha reso esplicite per la prima volta le sue critiche all’operato di Profumo. Davanti a questo crescente fuoco di sbarramento, davanti a questa ostilità sempre più diffusa, dopo due anni di crisi e di difficile gestione della banca, probabilmente Profumo ha deciso di tagliare il cordone, di anticipare le decisioni del consiglio di amministrazione, di non pregiudicare la sua autonomia, arrivando fino alle dimissioni. L’uscita di Profumo, se davvero ci sarà, non risolverà i problemi di rapporti tra azionisti, né l’ingombrante presenza dei capitali di Gheddafi. Ieri sera mentre il banchiere lasciava in silenzio piazza Cordusio già circolavano i nomi dei possibili successori, probabilmente da scegliere tra i vice di Profumo. In pole position c’è Roberto Nicastro. Ma la partita è aperta. 21 settembre 2010 http://www.unita.it/news/economia/103710/lega_libici_e_poteri_cosa_c_dietro_la_bufera Titolo: Rinaldo Gianola Il «mito dei bocconiani»: opportunità e qualche rischio... Inserito da: Admin - Novembre 20, 2011, 04:57:10 pm Il «mito dei bocconiani»: opportunità e qualche rischio...
di Rinaldo Gianola Un segno dei tempi: su Facebook il gruppo dei “bocconiani” avverte che il primo provvedimento del Governo Monti sarà l’imposizione al Paese del “Codice d’onore” dell’Università Bocconi. Sarà pure uno scherzo, ma certo l’orgoglio e la soddisfazione che tracimano da questa importante istituzione di cultura, ricerca e formazione per l’esecutivo guidato dal presidente dell’Università milanese Mario Monti hanno l’effetto di contagiare docenti, studenti e sostenitori dell’ateneo che sperano, come molti italiani, che questa strada tortuosa porti al risanamento e al rilancio del Paese. L’esercizio della responsabilità, la difesa del pluralismo, l’etica delle scelte e dei comportamenti sono i principi che ispirano la Bocconi fin dalla nascita e non si dovrebbe dimenticare in queste ore che il fondatore, il milanese Ferdinando Bocconi, fu non solo un promotore di cultura con l’università dedicata alla memoria del figlio Luigi disperso nella battaglia di Adua, ma anche un imprenditore, anticipatore della grande distribuzione, creatore de La Rinascente. C’è in questa lunga storia non solo la crescita e il successo di un centro di studi, ma anche un’esperienza concreta di collaborazione, di vicinanza tra il mondo dei tecnici e il nostro capitalismo. Da molto tempo, ormai, gli uomini della Bocconi hanno rinunciato all’esclusività del ruolo di intellettuali, sono usciti dalla loro torre d’avorio per mischiarsi alla società: scrivono sui giornali, orientano l’opinione pubblica, entrano nei consigli di amministrazione di importanti aziende, costruiscono e rafforzano il rapporto, non privo di problemi e di ambiguità, tra lo studio e l’impresa. La prevalenza dell’economia, la valorizzazione dei tecnici in ruoli che di solito sono deputati ai politici, non sono fenomeni nuovi. La “tecnocrazia”, intesa come predominio dei tecnici nella direzione della vita politica e sociale, è nel dna della Bocconi come di altre università italiane e straniere. L’uso della competenza, della conoscenza dei problemi, «che non guasta in certi momenti» ha detto con un filo d’ironia Mario Monti nei giorni scorsi, fa premio almeno oggi sulla dialettica e la debolezza dei partiti. Monti, il tecnico, diventa premier perchè cooptato per le sue qualità, per la sua esperienza, per la sua credibilità in un momento in cui il governo eletto dai cittadini mostra l’incapacità ad assumersi le responsabilità necessarie. E proprio nel momento in cui i tecnici, i “bocconiani”, ma anche i docenti della Cattolica o del Politecnico, emergono come i protagonisti del salvataggio del Paese, è bene che vengano chiarite, pubblicizzate e separate le responsabilità accademiche, i ruoli nelle aziende private e quelli, eventuali, di governo. Perchè possiamo credere al banchiere bocconiano Claudio Costamagna quando esclude che Mario Monti sia mai stato partner della banca d’affari Goldman Sachs e denuncia che in Italia siamo vittime “di troppi complotti”, ma siccome siamo uomini di mondo Costamagna non può raccontarci che Goldman Sachs è un collegio di arrendevoli fanciulle. Anche la Trilateral e il gruppo Bilderberg sono innocui? Possibile. Attendiamo altre interviste chiarificatrici da parte dei portatori di borracce. Quello che importa oggi, proprio mentre Monti diventa premier, è sapere che la Bocconi esercita un potere che le deriva non solo dalla sua eccellenza accademica, ma dalla estesa rete di professori che finiscono nei consigli di amministrazione di aziende quotate, che esercitano altri ruoli nelle imprese, docenti che sono anche candidati a rivestire ruoli di governo. Non c’è niente di male, basta saperlo ed eventualmente fare un passo indietro. Ci limitiamo a qualche esempio dei nomi più famosi. Il rettore Guido Tabellini, di cui si è molto parlato in questi giorni per un ruolo di governo, ha fatto un scelta bipartisan: siede nei consigli di amministrazione di Fiat Industrial e della Cir di Carlo De Benedetti. L’ex rettore Carlo Secchi, già parlamentare del Partito popolare, è consigliere di amministrazione dui grandi imprese come Mediaset, Pirelli, Italcementi. Il professor Andrea Beltratti è stato nominato presidente del consiglio di sorveglianza di Banca IntesaSanPaolo perchè doveva difendere la torinesità e prendere il posto del leggendario Enrico Salza. Il professore Severino Salvemini ha un ruolo delicato, è presidente di Ti Media, la società di Telecom Italia che detiene «La7». L’ex rettore Roberto Ruozi è presidente di Mediolanum (gruppo Berlusconi), Palladio Finanziaria, Axa Assicurazioni e del collegio sindacale di Borsa Italiana. Il suo nome finì nell’inchiesta sulla scalata di Gianpiero Fiorani all’Antonveneta. Il professor Francesco Giavazzi ha ricoperto in passato importanti responsabilità pubbliche, come direttore del Tesoro e consigliere di Ina, Assitalia, Banco di Napoli. Scrive sul Corriere della Sera, come Monti, e nell’ultimo periodo offre le sue proposte assieme ad Alberto Alesina che insegna in America. Giavazzi è consigliere di amministrazione di Autogrill e non ce l’ha fatta a entrare nel consiglio di Mediobanca, gli azionisti di minoranza gli hanno preferito Roversi Monaco. Si potrebbe aggiungere il nome di Tito Boeri, direttore della fondazione Rodolfo De Benedetti, editorialista di Repubblica, di Marco Onado ex commissario Consob e consigliere del Cnel e di tanti altri. Insomma molti protagonisti della Bocconi hanno un ruolo importante nella vita economica, culturale e oggi anche politica del Paese. L’Università non è un corpo estraneo, nel bene e nel male. Ieri la Guardia di Finanza di Milano si è presentata negli uffici della Bocconi per un’inchiesta che coinvolge un ex ricercatore, Alberto Micalizzi, sospeso dall’ateneo. L’indagine, condotta dal Pm Alfredo Robledo, riguarda una presunta truffa su due fondi d’investimento lanciati e gestiti da Micalizzi e poi messi in liquidazione da una corte delle isole Caiman. 16 novembre 2011 da - http://www.unita.it/italia/il-mito-dei-bocconiani-br-tante-opportunita-e-qualche-rischio-1.352993 Titolo: Rinaldo GIANOLA. Pisapia: «Evitiamo divisioni la sinistra sia unita» Inserito da: Admin - Gennaio 09, 2012, 05:45:03 pm Pisapia: «Evitiamo divisioni la sinistra sia unita»
Di Rinaldo Gianola 8 gennaio 2012 Sostenere il governo Monti è stata una scelta generosa, responsabile. Il Pd ha fatto bene, anche se penso che avrebbe vinto facilmente le elezioni. Non potevamo far affogare il Paese con conseguenze drammatiche soprattutto per i ceti più deboli. Ma oggi bisogna anche evitare che ad annegare sia il centrosinistra. Dobbiamo porci l’obiettivo delle elezioni per uscire dalla crisi con una svolta progressista, di cambiamento profondo della politica e delle scelte sociali ed economiche». Giuliano Pisapia guarda al futuro del Paese iniziando il nuovo anno sul fronte dell’”Area C”, cioè la zona del centro di Milano dove dal 16 gennaio le auto potranno circolare solo a pagamento. È un provvedimento forte, europeo, che alimenta polemiche e divisioni, ma per il sindaco di Milano questa battaglia segna il passaggio dalla fase dell’emergenza allo sviluppo, al cambiamento anche culturale della città. È un esperimento importante, assieme ad altri progetti, perchè misura la credibilità di un’amministrazione di dare risposte ai cittadini, con la consultazione, la trasparenza delle decisioni giuste o sbagliate che siano, la determinazione nel difendere gli interessi prevalenti della comunità. Di Milano «che può ripartire nel 2012» e della crisi che «ci lascerà ben diversi dal passato» il sindaco parla con l’Unità. Sindaco Pisapia, qual è il suo giudizio sul governo Monti e la sua prima manovra? «Monti è una necessità, anzi è un imperativo nella situazione in cui ci aveva trascinato Berlusconi. Penso che solo un governo come questo sia in grado di decidere velocemente i provvedimenti indispensabili a salvare il Paese, provvedimenti tanto impopolari quanto è grave la nostra situazione. La credibilità e la capacità, anche tecnica, del governo Monti sono oggi i fattori su cui deve fare affidamento anche la politica per evitare che il Paese affondi». In altri tempi avremmo definito Monti e la sua manovra semplicemente di “destra”. È l’emergenza che fa cambiare i giudizi? «Questa crisi ci sta cambiando e ci lascerà profondamente diversi dal passato. Non mi sfugge che i provvedimenti di Monti sono pesanti e colpiscono chi già fa il suo dovere. Per questo mi aspetto al più presto una correzione, proposte finalizzate a una maggiore equità e giustizia sociale, sostegni alla ripresa e per i ceti sociali più deboli. Monti ha deciso misure straordinarie perché questo momento è straordinario nella sua gravità, ma la stagione dell’emergenza deve avere un limite. È necessario, anche per confermare le nostre basi democratiche, che siano gli elettori a scegliere i governi». Le ipotesi di riforma del mercato del lavoro hanno riproposto la modifica dello Statuto dei lavoratori e il superamento dell’art.18. Cosa ne pensa? «Penso che il governo tecnico non possa ripercorrere una strada dove hanno già fallito politicamente Berlusconi e Sacconi. Spero che il governo abbia capito che oggi non c’ è bisogno di creare e alimentare altre tensioni sociali. È poi il problema non è certo l’articolo 18, non è questo che frena lo sviluppo e la creazione di posti di lavoro. Lo sanno tutti, compresi gli imprenditori, almeno quelli che non sognano vendette ideologiche». Non teme che il centrosinistra possa uscire logorato da un lungo sostegno al governo tecnico? «Questo è il momento della responsabilità. Ma il centrosinistra deve prepararsi a una nuova stagione politica, deve essere pronto per la prova elettorale, con un programma, un disegno politico preciso e credibile, aperto alla società e alle associazioni. Sostenere Monti e pensare al voto non è una contraddizione, serve anche a evitare lacerazioni nel centrosinistra. Questa crisi e dico anche le dure scelte di Monti approvate dal Pd devono servire per costruire una proposta nuova, seria, credibile per il futuro del Paese. Possiamo farcela se ripartiamo dal basso, se evitiamo divisioni e polemiche inutili, se ci poniamo l’ambizione di uscire a “sinistra” dalla crisi. Dobbiamo puntare su un allargamento delle alleanze, su un centrosinistra ampio e coeso». Lei è sindaco di Milano da sei mesi. In che punto si trova? «Penso di essere uscito dalla drammatica emergenza in cui la mia amministrazione si è trovata nei primi mesi a causa delle scelte realizzate dalle giunte di destra. Abbiamo riavviato il progetto Expo 2015, abbiamo sistemato i conti e rispettato il Patto di stabilità e ora penso che, malgrado la crisi del Paese, Milano possa ripartire nel 2012. Dico che Milano riparte perchè vedo in città una grande partecipazione e disponibilità da parte di tanti soggetti, dal mondo del lavoro alle imprese, dalla società alle associazioni». Come sta incidendo la crisi economica sul tessuto sociale? «In città ci sono sacche di povertà, anche di nuove povertà, preoccupanti. C’è chi ha perso il lavoro, lavoratori in cassa integrazione che non ce la fanno, famiglie in difficoltà. L’obiettivo prioritario dall’amministrazione è fronteggiare queste situazioni, mobilitando tutte le risorse possibili e chiedendo la partecipazione di tutte le forze sociali. Oltre alla Fondazione Welfare che ha iniziato ad operare, in questi giorni abbiano recuperato 5 milioni di euro nelle pieghe del bilancio da utilizzare in aiuto dei precari». Lei ha deciso di vendere una quota della Sea (la società che gestisce gli scali di Linate e Malpensa) per rispettare il Patto di stabilità. Altri suoi colleghi, invece, pensano di violarlo.... «Penso che il Patto vada cambiato, ma Milano ha deciso di rispettarlo e vogliamo restare un comune virtuoso. Abbiamo venduto la quota Sea, di cui manteniamo comunque il 51%, anche per pagare le centinaia di aziende che attendevano i soldi all’amministrazione, abbiamo dato una mano all’economia. Le precedenti giunte di Milano abbellivano i bilanci grazie al fatto che non pagavano le fatture. Oggi siamo nelle condizioni di far ripartire gli investimenti, di realizzare progetti e tutti i giorni ricevo sollecitazioni, offerte da parte di governi e imprese, soprattutto delle economie emergenti, interessati a investire a Milano». Come conseguenza del riassetto azionario della Edison si è aperta una discussione sul futuro di A2A, la società di cui il Comune di Milano assieme a Brescia ha una ricca partecipazione. La venderete? «Il dibattito di questi giorni è surreale. La giunta non ha affrontato il tema, lo discuteremo insieme al bilancio 2012. A titolo personale mi pare che A2A, oltre a generare dividendi che servono sempre, possa essere il perno di un grande progetto industriale che potrebbe coinvolgere le altre ex municipalizzate del Nord. È possibile pensare che Milano, Brescia, Bologna, Torino lavorino insieme alla creazione di un forte operatore industriale, a controllo pubblico? Questo mi sembra la sfida dei prossimi mesi». I poteri economici e finanziari di Milano stanno cambiando. Berlusconi non è più al governo, Ligresti è in gravi difficoltà, il San Raffaele ha perso il suo leader Don Verzè e avrà presto una nuova proprietà. C’ è un filo che lega questi fatti? «Non entro nel merito di singole vicende imprenditoriali. Ogni azienda ha la sua storia e i suoi problemi. Quello che posso dire, in linea generale, è che c’ è un cambiamento profondo in città nei rapporti tra i poteri dell’economia, della finanza e la politica. La mia amministrazione non dipenderà mai da quei poteri, da quegli interessi che, in passato, hanno sempre fatto quello che volevano». da - http://www.unita.it/italia/pisapia-sinistra-unita-per-uscire-dalla-crisi-1.369395 Titolo: Rinaldo GIANOLA. Rotelli, che sorpresa: primo azionista del Corsera Inserito da: Admin - Aprile 08, 2012, 04:54:18 pm Rotelli, che sorpresa: primo azionista del Corsera
Di Rinaldo Gianola 7 aprile 2012 Nell’uovo di Pasqua del potere finanziario ed editoriale italiano non c’è lo strappo di Diego Della Valle con Fiat e Mediobanca per la gestione del Corriere della Sera. La vera sorpresa è arrivata ieri da Giuseppe Rotelli che si candida a diventare il nuovo padrone di Milano. L’industriale della sanità ha annunciato di aver acquistato la quota pari al 5,2% del capitale di Rcs in mano alla famiglia Toti, pagando 53,7 milioni di euro, diventando così il primo azionista del gruppo con il 16,5%, ben sopra Mediobanca e Fiat. La novità deflagra in un momento particolarmente delicato per gli assetti proprietari e la conduzione manageriale della società editrice del Corriere della Sera e della Gazzetta dello Sport: i conti sono in “rosso”, gli azionisti del patto di sindacato hanno deciso di cambiare il consiglio di amministrazione e i vertici, lasciando fuori gli azionisti e suscitando lo strappo di Della Valle. Proprio mentre nelle sale degli analisti e degli investitori del “miglio quadrato” di piazza Affari ci si stava interrogando sulle conseguenze della rottura clamorosa del patron della Tod’s con gli altri potenti azionisti della Rcs, sulla possibilità di uno scontro, addirittura di una scalata, la mossa di Rotelli spiazza un po’ tutti e apre uno scenario nuovo. Rotelli non è la ruota di scorta di nessuno, tanto meno di Della Valle le cui ambizioni riformatrici del Corriere non potevano essere certamente credibili se concretizzate con la proposta di portare Luca di Montezemolo o Paolo Mieli alla presidenza di Rcs Mediagroup. L’imprenditore della sanità, proprietario del gruppo San Donato e da gennaio anche del San Raffaele (acquistato per 405 milioni, oltre a 320 milioni di debiti), è da tempo azionista del Corriere dopo aver rilevato azioni e diritti Rcs dalla ex popolare di Lodi di Giampiero Fiorani. Pur avendo in mano circa l’11% del capitale è sempre rimasto fuori dal patto di sindacato, anche per il timore degli altri partecipanti al salotto che un socio così forte avrebbe potuto modificare gli equilibri. Rotelli ha aspettato con pazienza, poi è entrato nel consiglio di amministrazione (e si ricandida per la prossima assemblea di maggio con una lista di minoranza) e ha continuato a interessarsi al gruppo editoriale. Perchè tutto questo interesse? Dove vuole arrivare? L’obiettivo di Rotelli è diventare l’editore dello storico gruppo di via Solferino, non sta facendo un investimento finanziario, speculativo, di breve durata. Ha sempre detto di nutrire una vera passione, e probabilmente anche un certo interesse economico e di potere, per l’editoria, di esser disposto a investire, di voler valorizzare la società. E in questa veste di azionista e di consigliere ha certamente delle idee contrastanti con quanto maturato dai vertici del gruppo per aggiustare il bilancio colpito dalla crisi economica ma anche da investimenti poco remunerativi, come quelli realizzati in Spagna. Rotelli è contrario all’ipotesi di vendita di una parte della storica sede nel centro di Milano, tra via San Marco e via Solferino, alla quale sarebbero stati interessati Dolce & Gabbana e il gruppo iberico Zara. È inoltre contrario al trasferimento delle redazioni nel palazzo Rcs di Crescenzago e, a quanto risulta, avrebbe espresso la sua opposizione alla cessione della controllata francese Flammarion e della divisione periodici Rcs. L’imprenditore pavese, che ha creato il suo successo imprenditoriale a Milano dopo esser stato anche un dirigente agli albori della Regione Lombardia, è convinto che Rcs Mediagroup, con i suoi quotidiani, libri e periodici, possa dare buoni risultati con una giusta strategia e una saggia gestione manageriale. Ora la Borsa, gli altri azionisti, i poteri di Milano si interrogano su come si muoverà Rotelli nelle prossime settimane. Quali saranno le sue scelte? Dopo esser stato per un lungo periodo un azionista silenzioso ed educato, dopo aver anche sopportato una svalutazione della sua quota in Rcs attorno ai 170 milioni di euro, le ultime mosse creano naturalmente un’attenzione diversa su Rotelli e i suoi interessi nel Corriere della Sera. L’imprenditore, senza debiti e che paga con la propria liquidità, cercherà di acquistare le quote azionarie di Benetton e di Della Valle, complessivamente oltre il 10%, che sono fuori dal patto di sindacato e quindi libere? Oppure manterrà la sua linea di collaborazione e attenderà la scadenza naturale del patto, nel 2014, per manifestare le sue eventuali intenzioni di assumere una posizione ancora più rilevante? Altre sorprese sono in arrivo. da - http://www.unita.it/italia/rotelli-che-sorpresa-primo-azionista-br-del-corriere-della-sera-1.399373?page=2 Titolo: Rinaldo GIANOLA. Scontro al Corsera, Della Valle se ne va Inserito da: Admin - Aprile 08, 2012, 04:55:13 pm Scontro al Corsera, Della Valle se ne va
Di Rinaldo Gianola 5 aprile 2012 Alla fine sono volati i piatti nel salotto del Corriere della Sera, con Diego Della Valle che sbatte la porta ed esce dal patto degli azionisti accusando la Fiat e Mediobanca. Sarà l’effetto del governo tecnico, oppure delle debolezze e gelosie del povero capitalismo italiano, o magari del silenzioso dispiegarsi di nuove alleanze tra poteri e interessi finanziari e industriali, sta di fatto che gli azionisti di comando di Rcs Mediagroup, società che edita il Corriere e la Gazzetta dello Sport, hanno passato una giornata turbolenta, tra litigi, contrasti e pare anche qualche imprecazione. I soci del patto, che vincola il 67% del capitale della società, dovevano risolvere un paio di questioni: sistemare la governance e designare il nuovo consiglio di amministrazione da sottoporre all’assemblea degli azionisti chiamata ad approvare un bilancio certo non brillante. Un asse formato da Fiat, Mediobanca, con l’appoggio del saggio Giovanni Bazoli, presente al Corriere fin dai tempi in cui lo salvò dal crac dell’Ambrosiano e della vecchia Rizzoli, ha fatto passare tra i soci la proposta di ridurre a 12 il numero dei consiglieri con la presenza di manager e tecnici e l’esclusione degli azionisti che finora erano rappresentati direttamente. Apriti cielo! A questo punto Diego Della Valle, che ha sempre sognato di crescere e di diventare forse l’editore del giornalone di via Solferino, ha dato seguito all’opposizione già espressa nei giorni scorsi, ha litigato con Elkann, e ha annunciato la sua uscita dal patto, un divorzio approvato da tutti gli altri azionisti. Ma perchè? Come mai l’industriale che fece la guerra a Cesare Geronzi, che lo spinse a dimettersi dalle Generali, che era pronto a crescere in Mediobanca e al Corriere, ora viene emarginato? «Sono convinto che il Corriere della Sera debba rimanere assolutamente indipendente e rispondere solo ai lettori e non a qualche azionista. Se Elkann e Pagliaro hanno idee diverse, farebbero meglio a mettersi il cuore in pace e rendersi conto che i tempi sono cambiati» ha detto il patron della Tod’s. «Su mia richiesta il sindacato Rcs ha accettato all’unanimità di farmi recedere dal patto. Il comportamento maldestro e pretestuoso di alcuni dei suoi membri in questi ultimi giorni mi ha spinto con determinazione a richiedere di liberare il mio pacchetto azionario da ogni vincolo». «Bisogna realisticamente prendere atto - aggiunge - che nella composizione del patto Rcs ci sono due anime: quella di azionisti che, come imprenditori, a casa loro, sono abituati a competere nei mercati cercando di ottenere sempre i risultati migliori per le loro aziende e quella di altri che vivono lontani dalla cultura dell’impresa e preferiscono ottiche di tipo corporativo di vecchia scuola, senza rendersi conto che il mondo del lavoro e dell’impresa va avanti nella direzione opposta». Accidenti che accuse alla Fiat di Elkann e alla Mediobanca di Pagliaro. Chissà se Della Valle lancerà un’opa per vendicarsi e magari metterà Carlo Rossella a fare il direttore del Corriere come aveva proposto anni fa? La lista dei consiglieri, comunque, è composta da: Umberto Ambrosoli, Roland Berger, Andrea Campanini Bonomi, Fulvio Conti, Luca Garavoglia, Piergaetano Marchetti, Paolo Merloni, Carlo Pesenti, Angelo Provasoli, Giuseppe Vita, Graziano Molinari, Laura Mengoni Bottani. Il bocconiano Provasoli diventerà presidente al posto del notaio Marchetti che resterà in consiglio come indipendente, perpetuando una tipica ipocrisia del nostro capitalismo che consente a un amministratore prima di essere presidente di tutti i soci e poi diventare indipendente. L’amministratore delegato Perricone, un protetto di Montezemolo, che firma un bilancio gravato da maxi svalutazioni degli investimenti in Spagna, se ne va, non senza aver incassato bonus e liquidazioni. Chi sarà il successore? Ieri è circolata pure l’ipotesi di spostare il direttore Ferruccio de Bortoli al posto di Perricone. Si aprirebbe un vuoto al vertice del quotidiano. Ma in via Solferino può succedere di tutto. da . http://www.unita.it/italia/scontro-al-corsera-br-della-valle-se-ne-va-1.398651 |